Un anno per crescere

di Laylath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione: quel piccolo angolo di mondo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Country boys ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Il ragazzo che amava sognare. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Il magico lettore dello stagno. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Dinamiche familiari. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Piccoli avvenimenti che sbloccano le situazioni. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6. Turbamenti. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. Conseguenze. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. Vittima e carnefice. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. Nodi al pettine. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10. Duello tra indipendenti. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. Speciale. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. Legami. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. Questioni di antropologia ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14. Gesti d'amicizia. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15. Cose da non dire. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16. Limiti. ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17. Promesse. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18. Invito per il 1 dicembre. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19. Festa nel capannone. Prima parte ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20. Festa nel capannone. Seconda parte. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21. Sfumature dell'amore. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22. Iniziative. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23. Rivelazioni sul passato. Prima parte. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24. Rivelazioni sul passato. Seconda parte. ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25. Senso di protezione. ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26. Pensieri natalizi. ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27. Cose tra maschi: caccia al fantasma. ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28. Fiducia tra padri e figli. ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29. Spaccature. ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30. I fantasmi che esistono. ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31. Giornate di pioggia. Prima parte: fratelli maggiori. ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32. Giornate di pioggia. Seconda parte: madri e figli. ***
Capitolo 34: *** Capitolo 33. Piena del fiume ***
Capitolo 35: *** Capitolo 34. Stesse mani. ***
Capitolo 36: *** Capitolo 35. Esigenze di cambiare. ***
Capitolo 37: *** Capitolo 36. Affrontare il passato. ***
Capitolo 38: *** Capitolo 37. Interludio di inizio primavera. ***
Capitolo 39: *** Capitolo 38. Tra due fuochi. ***
Capitolo 40: *** Capitolo 39. Punto critico. ***
Capitolo 41: *** Capitolo 40. La penna di Kain. ***
Capitolo 42: *** Capitolo 41. Non stare a guardare. ***
Capitolo 43: *** Capitolo 42. Perché il silenzio fa più male? ***
Capitolo 44: *** Capitolo 43. Il cerchio spezzato. ***
Capitolo 45: *** Capitolo 44. Quello che è giusto... secondo me. ***
Capitolo 46: *** Capitolo 45. L'amicizia è... ***
Capitolo 47: *** Capitolo 46. Linee d'amore. ***
Capitolo 48: *** Capitolo 47. Per tornare a camminare. ***
Capitolo 49: *** Capitolo 48. Reato di clandestinità. ***
Capitolo 50: *** Capitolo 49. Rapporto teso. ***
Capitolo 51: *** Capitolo 50. La zia Daisy. ***
Capitolo 52: *** Capitolo 51. Questioni di madri. ***
Capitolo 53: *** Capitolo 52. Un ritorno. ***
Capitolo 54: *** Capitolo 53. Ovvi squilibri. ***
Capitolo 55: *** Capitolo 54. Per un'amicizia importante. ***
Capitolo 56: *** Capitolo 55. Capire il punto di vista. ***
Capitolo 57: *** Capitolo 56. Come recuperare un'amicizia. Prima parte: pressioni esterne. ***
Capitolo 58: *** Capitolo 57. Come recuperare un'amicizia. Seconda parte: il vero problema. ***
Capitolo 59: *** Capitolo 58. Crisi di coppia. ***
Capitolo 60: *** Capitolo 59. Madre. ***
Capitolo 61: *** Capitolo 60. Operazione salvataggio. ***
Capitolo 62: *** Capitolo 61. Egoismo. ***
Capitolo 63: *** Capitolo 62. Adattamento. ***
Capitolo 64: *** Capitolo 63. Imbarazzi fisici. ***
Capitolo 65: *** Capitolo 64. La leggenda del cavaliere. ***
Capitolo 66: *** Capitolo 65. Ritorno agli studi. ***
Capitolo 67: *** Capitolo 66. Percorsi di vita. ***
Capitolo 68: *** Capitolo 67. Tortini ripieni. ***
Capitolo 69: *** Capitolo 68. Un anno per crescere. ***
Capitolo 70: *** Epilogo. Vent'anni dopo. ***



Capitolo 1
*** Introduzione: quel piccolo angolo di mondo. ***


Introduzione: quel piccolo angolo di mondo.



Settembre era arrivato anche quell’anno, dolce e caldo come sapeva essere nelle campagne dell’Est.
Solo la data nel calendario annunciava che l’estate era ormai agli sgoccioli e presto l’autunno sarebbe arrivato, ma per il resto il ronzio delle cicale nei prati ancora la faceva da padrone, le camicie e gli abiti indossati erano ancora a maniche corte, i tuffi nello stagno erano un refrigerante diversivo e le risate nei campi indicavano che i ragazzi avevano tutta l’intenzione di godersi fino all’ultimo gli attimi di libertà prima della ripresa della scuola.
Perché in quel piccolo angolo di Amestris si viveva così, con le stagioni che si succedevano placide e tranquille, portando con loro ricorrenze, festività, e pochissime novità a turbare la vita di quelle persone. La vita era scandita dal lavoro nei campi, dalle chiacchiere nei negozi del piccolo centro cittadino, dalle feste nel grande capannone al di fuori dell’abitato; tutti si conoscevano in quella comunità isolata e protetta: la grande Central City, le guerre, erano solo un miraggio lontano a cui nessuno aspirava veramente. Un mondo distante il cui unico collegamento era dato dalla piccola stazione ferroviaria, dove il treno passava una volta ogni tre giorni.
Quel piccolo mondo stava lì, con la sua gente che amava vivere nella piccola e tranquilla realtà, lontana dai grandi problemi e dai grandi discorsi: gli argomenti da affrontare erano quelli della famiglia da crescere, del lavoro onesto e duro, della solidarietà tra tutti quanti.
La maggior parte dei ragazzi non si staccava da questa linea di pensiero: le loro famiglie li avevano cresciuti in un posto bucolico e idilliaco, senza pericoli di sorta, un vero e proprio angolo di paradiso in confronto con quanto succedeva nel resto del paese. Ogni tanto qualcuno andava via, a volte tornando, richiamato dall’amore per quella vita, altre no… e allora piano piano la comunità si dimenticava di lui.
Raramente c’erano visitatori sconosciuti: si era completamente autosufficienti e non c’era bisogno di contatti con realtà differenti. Ma questo non significava che eventuali nuovi arrivati non fossero accolti con benevolenza, per via di quell’innato spirito di solidarietà che da sempre caratterizzava quel posto.
 
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Perché, stranamente, anche in un piccolo e protetto angolo di mondo come era quel paesino dell’Est, era possibile vivere grandi avventure.
E l’anno scolastico che stava iniziando li avrebbe legati per sempre.







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Nota dell'autrice per spiegare meglio il concetto di questa storia.
Dato che ieri stavo letteralmente sbattendo la testa contro il muro per la one shot che teoricamente avrei dovuto completare prima di questa, l'ho allegramente messa da parte per iniziare ad introdurvi quella che sicuramente sarà la mia fic più strana.
Tutto nasce dal mio incontro (fortunato e allo stesso tempo degenerato) con Mary_ che ha come grande dote quella di disegnare in un modo che adoro: tra le sue varie opere vi era quella dei militari di Full Metal Alchemist in versione baby. Mi è piaciuta così tanto la cosa che lei ha prodotto anche altre opere di questo genere... e mi ha ispirato così tanto che ho iniziato a scriverci sopra (e lei continua a disegnarci sopra... è proprio un circolo vizioso).
Da qui nasce questo Alternative Universe di cui vado a trattare.

Ambientazione
Siamo sempre ad Amestris e dunque diamo per scontata l'alchimia, MA non ci sono nè homunculus nè pericoli all'orizzonte. Siamo in un periodo, non ulteriormente precisato, dove il paese è in relativa pace. Il posto dove si svolge la storia è un ipotetico paesino dell'est: prendete Resembool e aggiungeteci qualche paesaggio in più stile Anna dai Capelli Rossi (va bene se non scappate già a questo punto è un buon segno).
E' AU, a parer mio, perché in fondo sto alterando la trama originaria: i nostri protagonisti qui sono ragazzi... nello specifico Fury ha 11 anni, Riza 13, Havoc e Breda 14, Roy 15 e Falman 16 (li ho avvicinati di più rispetto a quelle che sono le loro vere differenze d'età), ed entrano in contatto tra di loro con lo svilupparsi della trama (alla fine è qualcosa di simile a una fic di ambientazione scolastica).
Questi OC all'improvviso...
Fatto da tenere in considerazione: entrano in gioco anche le loro famiglie: solo di Riza e Roy sappiamo specificatamente qualcosa ed infatti per quello non cambierò molto, ma per gli altri ho ripreso le famiglie delle fic che avevo scritto su di loro... queste povere anime avranno pur un origine del resto. Quindi figure come Janet (sorellina di Havoc) ed Henry (fratello di Breda) non sono del tutto nuovi... anche se qui hanno ruoli e ovviamente destini diversi da quelli delle fic dove li ho fatti comparire.
Stesso discorso va fatto per Elisa, un mio OC lei è la ragazza di Falman che avevo inserito in The Memory Man... per chi ha visto l'anime brotherhood, nelle foto finali si vede Falman con 2 marmocchi palesemente suoi...esisterà una madre, no? Anyway, Elisa mi piace così tanto che non ho potuto fare a meno di rimetterla anche qui.
Questione OOC:
per quanto riprenderò il più possibile i loro tratti peculiari, questi restano comunque ragazzi che non hanno sulle spalle Ishval o simili... le loro problematiche sono ben differenti. E' dunque probabile che Riza sia molto meno marziale, tutt'altro e così via.

In conclusione, sappiate che tutto questo nasce da uno sclero mio che non avevo nemmeno intenzione di postare (hai presente quelle cose che scrivi solo per te stessa... e anche per la tua fomentatrice con tutti quei disegni che, per la cronaca, inseirirò a partire dal primo capitolo). Però man mano che scrivevo ne stavano uscendo fuori cose molto interessanti... e così.... :P

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Country boys ***


Capitolo 1: Country boys. 

 

La famiglia Havoc, padre, madre e due figli, aveva un grande emporio a circa due chilometri dalla città, dove tutta la comunità agricola andava a rifornirsi di materiale per il lavoro nei campi, quello edilizio e quanto altro. James Havoc mandava avanti quell’attività da quasi dieci anni, ossia da quando era morto il padre, assieme alla moglie Angela. Era un uomo alto e biondo, con la risata sempre pronta e un innato senso di solidarietà verso gli altri: se succedeva qualche disastro, come un incidente, una tempesta violenta o qualcosa di simile, lui era sempre tra i primi ad intervenire mettendo a disposizione oltre che tutte le sue merci, anche il suo fisico robusto e allenato. Era una persona semplice, convinta sostenitrice di determinati valori, amata da tutta la comunità. Sua moglie Angela era altrettanto benvoluta per il carattere gioviale e generoso: oltre che del negozio, si occupava anche di mandare avanti la sua adorata famiglia, la cui casa era proprio dietro l’emporio.
 
Jean Havoc, dall’alto dei suoi quasi quattordici anni, riteneva che una delle cose più belle dell’estate fosse oziare a letto fino alle nove.
Il fatto di essere primogenito di una famiglia con una vita molto attiva non gli consentiva di dormire troppo: per lui alzarsi a quell’ora era un vero e proprio lusso che si concedeva durante tutta la bella stagione. Alla sua età era ovvio che si pretendesse che aiutasse in casa ed in negozio e lui non se ne lamentava mai, anzi lo faceva con piacere… ma l’estate era l’estate e lui riteneva doveroso concedersi dei privilegi dopo l’estenuante anno scolastico.
Tuttavia, con settembre, la pacchia finiva sempre e dunque era meglio godersi fino all’ultimo quelle preziose e rilassanti ore di sonno in più che gli erano concesse e…
“Fratellone! – esclamò una vocetta acuta, facendo irruzione nella sua camera ancora silenziosa – Avanti, fratellone, in piedi!”
“Oh, sparisci!” protestò Jean, tirandosi il lenzuolo sopra la testa e tenendo ancora gli occhi chiusi, come se questi gesti potessero cacciare via la seccante proprietaria di quella voce.
“Sono le sette e mezza e la mamma ha detto che è ora di alzarsi!” con quelle parole Janet prevenne qualsiasi altra protesta e afferrato un lembo del lenzuolo con le sue manine, lo tirò via dalla sagoma sonnecchiante del fratello maggiore. Poi, con un agile balzo, si portò sopra il letto, atterrando su di lui e sistemandosi comodamente a cavalcioni sul suo stomaco
“Ti do cinque secondi per scendere da me! – sbottò il ragazzo, aprendo gli occhi azzurri e puntandoli su quelli del medesimo colore della sorellina – Poi le prendi.”
“E io lo dico a mamma! - rispose sfacciatamente lei, per nulla intimidita, mentre il giovane si metteva a sedere nel letto, cacciandola malamente da sopra la sua pancia – Ah, lo vedi che ti sei alzato!?”
“Insomma, si può sapere che vuoi?” sospirò Jean, chiedendosi per la milionesima volta che cosa avesse fatto di male per meritare una seccatura simile.
“Ti devi alzare: oggi comincia la scuola!”
“Vorrai dire domani – protestò lui – oggi è domenica!”
“No, - ridacchiò Janet, sdraiandosi con sommo divertimento sul cuscino – oggi è lunedì.”
Il ragazzo sgranò gli occhi rendendosi conto che effettivamente era proprio l’inizio della nuova settimana;  poi si passò una mano tra gli arruffati capelli biondi, emettendo un profondo lamento e lasciandosi cadere all’indietro nel letto con il pericolo di travolgere la sorellina: ecco, era giunto di nuovo il fatidico momento. Per altri nove mesi ogni maledetta mattina sarebbe stato imprigionato in quei dannati banchi a fondersi il cervello sui libri… ma perché non c’erano tre mesi di scuola e nove di vacanza?
“Janet, Jean! – chiamò la voce della madre, dal piano di sotto – La colazione è quasi pronta.”
“Arriviamo, mamma! – esclamò la piccola saltando giù dal letto, con le trecce bionde come il grano che seguivano i movimenti irrequieti della testa – Forza fratellone, cambiati! Oggi la mamma ha preparato anche le frittelle con lo sciroppo.”
Jean Havoc si alzò senza troppo entusiasmo: sua madre faceva sempre così.
Le frittelle erano solo un modo di addolcire il tragico rientro a scuola.
Secondo anno delle superiori: ancora più compiti, ancora più libri… ma perché l’estate finisce sempre così presto?
 
Dalla casa degli Havoc si doveva percorrere un sentiero in mezzo ai campi che poi andava a collegarsi ad un bivio a circa quindici minuti dalla scuola: una passeggiata di circa mezz’ora che Jean stava affrontando con passo svogliato, mentre Janet, al contrario, era più vispa del previsto, eccitata all’idea di andare a scuola per la prima volta.
“Sì, sì, fai pure l’allegra adesso, – borbottò mentre la bambina saltellava felice davanti a lui – ma aspetta di andare oltre le prime classi elementari e poi ne riparliamo.”
Ma i suoi cupi pensieri sulla tragicità del nuovo anno scolastico che stava per iniziare vennero interrotti da un richiamo lanciato dalla bambina.
“Ciao Heymans!”
Jean alzò lo sguardo e vide che la vocetta squillante di Janet aveva fatto girare di scatto il robusto ragazzo dalla chioma fulva che attendeva appoggiato pesantemente ad una staccionata di legno che delimitava un campo incolto. In contemporanea al saluto, la bambina aveva iniziato una corsa sfrenata che terminò tra le braccia del ragazzo i cui occhi grigi si sgranarono per la sorpresa.
Heymans Breda posò le mani sulle spalle esili di Janet, per bloccare l’ondata di entusiasmo, e volse lo sguardo verso Jean che li stava raggiungendo con passo strascicato.
“Oggi inizia le elementari, – spiegò il biondo con aria di seccata scusa – e ovviamente mia madre ha preteso che la portassi con me. Ha paura che si perda per strada… idiozie: non si può sbagliare strada.”
“Inizio del nuovo anno scolastico col botto, non c’è che dire. – commentò il rosso, con un sorriso sarcastico, iniziando ad avviarsi – Coraggio, Jean, nell’arco di un paio di settimane pretenderà di andare con le sue amichette piuttosto che con noi… anche con Henry è stato così.”
Però intanto la bambina si era messa in mezzo ai due amici e aveva preso le mani ad entrambi, orgogliosissima nel suo nuovo vestitino azzurro e con la tracolla color panna.
“Heymans, anche quest’anno verrai a casa da noi per aiutare Jean a fare i compiti?”
“Non mi aiuta! – protestò Jean – Non più… il fatto che a volte studiamo insieme è per finire prima.”
Il ragazzo rosso ridacchiò sommessamente: certo, non aiutava più il suo amico come era successo anni prima, ma se avesse smesso di studiare assieme a lui, molto probabilmente Jean avrebbe visto un drastico abbassamento dei suoi voti.
A dire il vero la loro amicizia era nata proprio grazie alla tanto detestata scuola. Jean Havoc non era quello che si poteva definire uno studente brillante, tutt’altro: era svogliato, annoiato dalla maggior parte delle materie, propenso a marinare le lezioni… insomma si era trascinato fino alle medie grazie alla buona volontà degli insegnanti, restii a lasciare indietro un solo bambino. Però a quel punto la situazione era cambiata: già dalla prima media le materie più approfondite e complicate, a cui si aggiungevano notevoli lacune, l’avevano messo in difficoltà tali che era impossibile un salvataggio come quello degli anni precedenti… e c’era stato il concreto rischio di una bocciatura.
Proprio per lo stesso spirito di non lasciare indietro nessuno, gli insegnanti avevano deciso di affiancargli Heymans, sicuramente uno degli studenti più svegli del suo anno: nonostante si conoscessero sin dalle elementari (il numero dei ragazzi della comunità era tale che c’era una sola classe per ogni anno), i due non si erano mai considerati, tanto diametralmente erano opposti di carattere.
Jean aveva l’argento vivo addosso ed era impensabile che piacesse ad uno responsabile e selettivo come Heymans. Fino a quel momento i loro rapporti erano stati di fredda conoscenza, ma dopo quella richiesta da parte degli insegnanti i due erano stati costretti a conoscersi meglio. 
Jean si era dovuto arrendere all’idea di farsi aiutare: suo padre non avrebbe mai tollerato che il suo primogenito venisse bocciato… e la minaccia di numerosi incontri tra il suo fondoschiena e la cintura paterna, l’aveva portato a più miti consigli.
“Se non sbaglio quest’anno tuo fratello inizia le scuole medie.” commentò il biondo, ricordandosi che era stato proprio in quell’anno che erano diventati amici.
“Sì, – ammise Heymans senza troppo entusiasmo – spero che non combini troppi disastri come l’anno scorso: a undici anni mi aspetto più maturità da parte sua.”
“La storia della sospensione è acqua passata, ormai. Perché te la prendi tanto? Capita a tutti di fare cavolate nella vita: pensa a me.”
“Sì, ma in quinta elementare mica ti è venuto in mente di rubare la bandiera della scuola… l’ha definita una prova di coraggio tra lui ed i suoi amici, ma poco ci credo.”
Jean sospirò, sinceramente dispiaciuto che il suo migliore amico non avesse molta stima del proprio fratello minore. Per quanto considerasse Janet una seccatura, il biondo era veramente fiero e orgoglioso della sorellina e si chiedeva spesso perché tra Heymans e suo fratello non potesse essere lo stesso.
Henry in fondo era solo particolarmente vivace… certo, una vivacità che la maggior parte delle volte lo metteva nei guai.
Forse il fatto che fosse maschio e che tra loro ci fossero solo tre anni di differenza, contro gli otto che c’erano tra lui e Janet, rendeva le cose molto diverse. Ma anche se fosse stato così, una delle cose che aveva sempre lasciato spiacevolmente perplesso Jean era che, mai una volta, aveva sentito Heymans prendere le difese del fratello minore.
Se fossero stupide ragazzate, lo farei, ma… che senso ha che prenda io la sua parte quando a casa c’è chi lo sostiene ad occhi chiusi a prescindere da quello che ha fatto?
Erano parole che il rosso aveva detto quell’estate, mentre oziavano in un campo abbandonato, sdraiati uno accanto all’altro: era stata l’unica volta in cui Jean aveva sentito il suo amico dire qualcosa di esplicito a proposito dei suoi genitori. A dire il vero Jean non sapeva molto della famiglia Breda: nonostante la forte e sincera amicizia lui non ne parlava quasi mai: vedeva la madre qualche volta all’emporio e gli era sembrata una brava persona, forse un po’ riservata mentre il padre non l’aveva intravisto che qualche volta di sfuggita in paese ed Henry… beh, lui lo vedeva a scuola.
Un fatto altrettanto curioso: non era mai andato a casa dell’amico a studiare, veniva sempre lui nella grande casa dietro l’emporio tanto che i suoi genitori erano arrivati a considerarlo come un terzo figlio e anche Janet gli si era affezionata tantissimo. Di questo Jean era molto felice: ormai considerava lui stesso Heymans come un vero fratello, ma proprio per questo gli dispiaceva capire che la sua vita familiare non doveva essere molto idilliaca.
“Sono sicuro che le cose miglioreranno.” dichiarò Jean con sincera speranza, cercando di compensare il pessimismo che Heymans mostrava sempre in queste circostanze.
Poi, girando lo sguardo di lato, la sua vista acuta colse qualcosa che sicuramente avrebbe smorzato il fastidioso silenzio che si era appena creato. Mollando la mano di Janet,  scavalcò agilmente la staccionata che delimitava quei campi di erba alta.
“Non fare cavolate, Jean! – lo richiamò Heymans, tenendo la bambina per mano – Non vorrai fare tardi il primo giorno!”
“Mi è sembrato di vedere una tana di conigli! – esclamò lui, avanzando nel campo – Infatti! Dai, venite a vedere: Janet ci sono tre cuccioli!”
“I coniglietti!” esclamò estasiata la bambina, tirando la mano del rosso.
Con un sospiro ad Heymans non restò che aiutarla a scavalcare ed unirsi ai due fratelli in quella piccola scoperta tipica della campagna: ne avevano viste decine e decine di tane di animali, ma ogni volta l’entusiasmo era tantissimo.
E vedendo Jean che metteva tra le braccia di Janet un tremante animaletto, raccomandandole di fare piano per non spaventarlo troppo, Heymans si chiese per la millesima volta perché le cose non fossero andate così anche per la sua famiglia.
 
Il grande cortile risuonava delle risate e delle chiacchiere dei ragazzi.
Si erano tutti visti durante le vacanze estive, eppure ritornare a scuola dava loro la sensazione di essere stati lontani per troppo tempo. Ragazze che si abbracciavano, ragazzi che si davano pacche sulle spalle… la piccola comunità di circa poco meno di centocinquanta giovani era lì: dai sei ai diciassette anni.
“Allora, Janet, i bambini di prima elementare devono stare qui. – spiegò Jean lasciando la mano della sorella – Vedi quella signora? E’ la tua maestra… tra poco vi farà mettere tutti in riga e il direttore farà un discorso di benvenuto.”
“E voi non restate con me?” chiese Janet, timorosa, capendo che il fratello ed Heymans si stavano per allontanare.
“Noi siamo in seconda superiore, stupidina: dobbiamo andare dall’altra parte del cortile.”
“Ma io…” balbettò lei, aggrappandosi ai suoi pantaloni.
Jean alzò gli occhi al cielo, imbarazzato ed esasperato da quello che immaginava perfettamente che sarebbe successo: mettere Janet in un ambiente nuovo voleva dire renderla insicura e timorosa, in barba al comportamento sfrontato che aveva avuto sino al minuto precedente.
Ma prima che potesse dire o fare qualcosa, intervenne l’amico.
“E dai, Janet, vedrai che andrà tutto bene. – la consolò Heymans, inginocchiandosi e accarezzandole una delle trecce – Quando ci sarà l’intervallo veniamo a trovarti, promesso. E tra nemmeno cinque ore saremo sulla strada di casa… e se non piangi e fai la bambina forte, sono sicuro che Jean ti porterà in spalla, vero?”
“Promesso?” chiese la piccola, guardando supplicante il fratello.
“Promesso, sorellina.” le strizzò l’occhio lui, con un sorriso.
“Vedrai che non è così brutto come sembra: guarda… sono bambine come te, non hai nulla da temere. Vedrai che diventeranno tue amiche, però ti devi presentare, non credi?” le suggerì ancora Heymans dandole una lieve spinta verso le altre bambine della prima elementare.
E con passo esitante Janet si avvicinò a loro, con sommo sollievo di Jean che si poté in questo modo allontanare assieme ad Heymans senza avere troppi sensi di colpa.
“Grazie.” mormorò, dando una pacca sulle robuste spalle dell’amico.
“Oh, figurati… tanto vedrai che tra un paio di minuti si sarà già dimenticata di noi.”
Annuendo, Jean si guardò intorno, cercando di riconoscere i loro compagni di classe in quel caos che era il cortile colmo di ragazzi vocianti. Ogni tanto alzava la mano in gesto di saluto o rispondeva a qualche battuta assieme all’amico… in fondo il primo giorno non era male: anche l’insegnante era in genere propenso a non essere troppo seccante.
I suoi occhi azzurri individuarono di sfuggita i capelli rosso fuoco di Henry, il fratello di Heymans: era ulteriormente cresciuto quell’estate… le sue scorribande all’aria aperta dovevano averlo aiutato ad aumentare d’altezza: ma nonostante l’aria di famiglia era molto diverso da Heymans per quanto concerneva lineamenti e stazza.
Nonostante tutti i suoi buoni propositi su quel ragazzino, Jean non poté far a meno di notare con disappunto che era sempre con la sua cerchia di amici non proprio raccomandabili, anche di qualche anno più grandi di lui. Lanciò un’occhiata di sbieco ad Heymans e notò che se anche aveva visto il fratello, questi aveva fatto finta di niente.
Però non gli piaceva pensare a queste cose e così riprese a parlare:
“Credi che quest’anno il programma di storia sarà noioso come l’anno scorso?”
“Tu e la storia! – rise il rosso – Due mondi destinati a non incontrarsi.”
“Se riesco ad andare bene al compito di ripasso generale giuro che… Fermo! – i suoi occhi lampeggiarono di malizia – Aspetta, aspetta, aspetta! Ecco il mio piccolo secchione preferito!” e con rapidi passi raggiunse un ragazzino molto più basso di lui che, appena l’aveva visto, aveva cercato di defilarsi.
“Kain Fury! – salutò Jean, afferrandolo per il colletto della camicia – Ma come, non sei felice di rivedermi? Eppure sono tre mesi che non ti tormento un po’.”
“Ciao Jean… - sorrise timidamente il ragazzino che, palesemente, voleva essere ovunque tranne che in quel posto – è… è andata bene l’estate?”
“Non credo che ti riguardi, nanetto. Allora, prima media, eh?”
“Sì…” annuì il piccolo, con un paio di occhiali spessi, neri come i suoi capelli dritti: sembrava più un bambino delle elementari, con i libri stretti al petto e quell’espressione spaventata e timorosa.
“Bene, sono sicuro che ti farai valere…”
“Jean…” sospirò Heymans, scuotendo la testa con indulgenza.

“… ma stai attento ai libri!” esclamò il biondo, afferrandone uno con uno scatto rapidissimo.
“Oh no! – protestò Kain, facendo cadere tutti gli altri, tra le risate divertite dei ragazzi che stavano lì vicino e conoscevano le dinamiche di quella storia che andava avanti ormai da due anni – Per favore, Jean, ridammelo!”
“Prova a prenderlo! – lo prese in girò il ragazzo, sollevando il braccio e portando il libro decisamente fuori dalla sua portata – Andiamo! Voglio vedere come salti, ranocchietta!”
“Possibile che anche quest’anno debba fare lo stupido con lui?” chiese una voce irritata.
“Ciao, Riza, – salutò Heymans – tutto bene?”
“Oooh, uffa! Ecco che arriva la paladina dei secchioni: – protestò Jean, restituendo il libro a Kain – Riza Hawkeye, sei una vera guastafeste.”
“Perché non metti un minimo di sale in quella testa bionda e non cresci?”
“Stavo solo salutando il mio secchione preferito – spiegò Jean con aria sfacciata, posando il gomito sulla testa bruna di Kain, manco fosse un tavolino – vero, nano?”
“Ahia!” protestò lui, spinto in basso da quel peso, mentre anche quel libro salvato gli cadeva a terra.
“Ti ho detto di smetterla!” ribadì Riza, afferrando il bambino per la spalla e sottraendolo bruscamente dalle grinfie di Jean.
Proprio questi sbuffò: quella ragazza che gli aveva appena rovinato uno dei suoi migliori diversivi alla monotonia scolastica gli dava davvero sui nervi.
“Sparisci nanetto, o potrei cambiare idea sul tuo libro!” disse rivolto a Kain, ma continuando a squadrare Riza con aria irata.
Con un guaito il ragazzino raccolse il resto del suo materiale scolastico e corse via, confondendosi tra i compagni.
Heymans lo guardò sgusciare tra i vari ragazzi con una velocità disarmante, favorita dalla sua esilità; poi spostò l’attenzione sulla ragazzina bionda che reggeva senza alcun timore lo sguardo irato di Jean: con quella maglietta bianca e la gonna marrone chiaro che le arrivava al ginocchio, Riza esprimeva tutta la sua disapprovazione.
“Se io sono una guastafeste, tu sei uno scemo! – dichiarò, mentre alcuni ciuffi dei corti capelli biondi le cadevano sulla fronte - Te la prendi sempre con quel ragazzino.”
“E’ solo per giocare un po’.” si difese Jean scrollando le spalle con aria sfastidiata.
“Gli fa vivere qualche emozione.” gli fece da spalla Heymans, che tutto sommato sapeva che quelle attenzioni non avevano niente di particolarmente nocivo per il giovane Kain: Jean non avrebbe mai alzato un dito su di lui per fargli davvero male.
“E poi che arie ti dai, Riza? – continuò Jean, mettendosi le mani sui fianchi in gesto di sfida – Tu sei in prima superiore e noi in seconda: rispetto per i più grandi, prima di tutto.”
“Oh, è una sfida?” replicò lei, assumendo la medesima posa.
“Finitela, voi due – li riscosse Heymans – il direttore sta arrivando: dobbiamo formare le classi.”
E con un’ultima occhiataccia i due contendenti si separarono, con la giovane che si dirigeva verso i suoi compagni.
“Ma quanto può essere antipatica…” borbottò Jean, sistemandosi in fila dietro all’amico.
“Chissà, magari crescendo Janet diventerà come lei.” lo stuzzicò Heymans
“Assolutamente no!”
Il nuovo anno scolastico era iniziato….

 

 

 




(aggiunto il primo capitolo perché l'introduzione mi pareva davvero una presa in giro -.-'')
I bellissimi disegni sono opera di Mary_ ^___^

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Il ragazzo che amava sognare. ***


Capitolo 2: Il ragazzo che amava sognare.



Il primo giorno di scuola terminò ed i ragazzi si dispersero nelle strade che li avrebbero riportati a casa: l’allegro schiamazzo finalmente tornava a risuonare dopo che, per tre mesi, quella piccola zona del paese era rimasta stranamente silenziosa.
Riza, avviandosi nel cortile, pensò che tutto sommato il rientro dalle vacanze non era andato male: rivedere i suoi compagni di classe era stato piacevole e, nonostante il solito Jean che dava fastidio a quel ragazzino, tutto era filato liscio. Si era persino scoperta piacevolmente in forma a livello mentale, ma era anche vero che aveva passato diversa parte dell’estate con i libri come unica compagnia.
Decisamente era felice che fosse riniziata la scuola: avere sei mattinate alla settimana impegnate era una gran cosa…
“Eccoti, Riza – esclamò una voce cospiratoria ed immediatamente una ragazza dai folti e mossi capelli neri raccolti indietro si accostò a lei e la prese per un braccio – Forza, vieni, non c’è molto tempo!”
“Rebecca?” si sorprese la biondina, seguendo l’amica oltre il cortile della scuola.
Tagliarono per alcuni campi fino ad arrivare a una macchia di cespugli che costeggiava il sentiero. Lì Rebecca indusse Riza a rimanere chinata e le fece segno di stare zitta ed attendere. Fissando la sua amica palesemente trepidante, si chiese cosa potesse esserci di così particolare che…
“Arrivo al bivio prima di voi! E poi da lì mi prendi in spalla come promesso!” esclamò una voce infantile.
Guardando con curiosità oltre il cespuglio, facendo attenzione a non essere scoperta, Riza vide una bimbetta con le trecce bionde che correva a più non posso nel sentiero.
“Accidenti, se lo ricorda!” disse una seconda voce.
“E dai, che ti costa portarla in spalla… è così leggera.”
“Portala tu, allora.”
“Al bivio ci separiamo; e poi sei tu suo fratello, mica io. E decisamente è più divertente stare in spalla ad uno alto come te.”
“Ed è solo il primo giorno, ma almeno si è divertita. Meglio così, non avevo voglia di sentirla piangere.”
Nel frattempo anche Rebecca si era sporta per guardare e così Jean ed Heymans passarono davanti alle due ragazze, continuando a chiacchierare tranquillamente.
“Rebecca…” sospirò Riza, con disappunto, capendo che era quello lo scopo per cui era stata trascinata fino a lì.
Aspettarono che i due ragazzi si allontanassero abbastanza e poi uscirono da quel nascondiglio, con Riza profondamente irritata dall’essere stata coinvolta in quell’assurdo pedinamento. Ma Rebecca, al contrario, sembrava enormemente soddisfatta.
“Non credi che diventi ogni anno più carino?” chiese Rebecca.
“Chi?” chiese con ironia.
“Come chi? Jean Havoc… è ancora più alto dell’anno scorso!”
“Sì, ma non è per niente maturo: – ribatté Riza, incredula davanti a quella passione, mentre si riavviavano per tornare indietro, verso il paese – non hai visto come si comporta con quel ragazzino delle scuole medie?”
“Chi? Ah, quello con gli occhiali. – ridacchiò Rebecca – Beh, non è l’unico a prendersela con lui: sai di chi stiamo parlando?”
“No, a dire il vero lo conosco solo di sfuggita e non ho mai scambiato parole che vadano oltre il saluto.” ammise.
“Sei proprio strana, amica mia: lo difendi e non sai nemmeno chi è. Comunque ti svelo l’arcano: si chiama Kain Fury; hai presente quella casa oltre la pineta ad est? Abita lì.”
“Fury, eh? Ah, ma allora è il figlio dell’ingegnere che si sta occupando del lavoro all’argine del fiume.”
“Esattamente. Pare che sia un vero prodigio a scuola, ma si sa che fine fanno i secchioni, no?”
“Non la penserai come quell’immaturo di Jean, spero.”
“Certo che no, mia cara, stai tranquilla. Però certo che te la prendi tanto per questa storia. Chissà, forse quel ragazzino ti sta simpatico perché è fuori dal comune come te.”
“Io fuori dal comune? Rebecca ma che dici?” protestò Riza, mentre arrivavano al punto in cui le loro strade si dividevano.
“Eh, mia cara: non sono mica io la figlia di Berthold Hawkeye, che ha iniziato a venire a scuola solo in prima media e che prima stava chiusa in casa… tanto che in paese si pensava addirittura che non esistessi.”
“Non è questo che…” iniziò Riza, arrossendo.
“E soprattutto, non sono io quella che ha stretto amicizia con Roy Mustang, il ragazzo allevato da sua zia nel locale un po’ particolare del paese.”
“Se ti danno così fastidio questi dettagli allora perché ti ostini ad essere mia amica?”
Rebecca mise le mani dietro la schiena e fissò Riza con malizia.
“Perché mi piaci: non sei come le altre ragazze e questo è un notevole punto a tuo favore. Non mi dirai che ce l’hai con me per quello che ho detto.”
“No, ma quando mai… - sospirò Riza, certa della sincera amicizia che le dava la bruna e conoscendola abbastanza bene per sapere che le frecciatine facevano parte del suo carattere – però ogni tanto parli troppo, Rebecca Catalina!”
“Sarà! Si vede che compenso la tua scarsa loquacità. Ma in ogni caso ho ragione io: Jean Havoc è ancora più carino dell’anno scorso!” e con questa dichiarazione, la moretta spiccò la corsa verso casa propria, lasciando una sorridente Riza scuotere la testa davanti a quell’irruenza.
Chissà, forse con la testardaggine che si ritrovava, un giorno sarebbe riuscita a conquistare quel ragazzo.
In ogni caso abbiamo tredici anni, non c’è motivo di correre così.
 
La casa della famiglia Hawkeye si trovava a un centinaio di metri dal paese, isolata in un piccolo boschetto di salici. Era un vecchio villino a due piani che avrebbe potuto essere molto decoroso se il proprietario ci avesse dedicato maggior cura. Ma Berthold Hawkeye non era quel genere di uomo: si era trasferito in quel posto con la moglie incinta circa tredici anni prima, forse in fuga dai grandi trambusti cittadini, anche se voci mai confermate parlarono di liti con le famiglie di entrambi per un matrimonio sgradito.
L’edificio c’era già ed era proprietà della sua famiglia e quindi nessuno aveva fatto troppe domande al nuovo arrivato: sempre di un Hawkeye si trattava e questo aiutava a convincersi che la novità non era troppa. Ma Berthold era un uomo troppo particolare per non spiccare nella semplice comunità: non si vedeva quasi mai in giro e si diceva che era sempre rintanato in una stanza della villa immerso nei suoi studi, di che cosa non lo sapeva nessuno.
Qualche mese dopo l’arrivo dei coniugi era nata l’unica figlia di quella strana coppia.
Il parto non era stato facile ed aveva provato in maniera gravosa quella giovane già fragile di suo. La levatrice e le donne che l’avevano aiutata avevano dichiarato che, nonostante le ore di travaglio, nemmeno una volta Berthold Hawkeye era comparso per chiedere notizie della moglie e del nascituro.
Comunque, dopo otto ore circa, era venuta al mondo la piccola Riza, perfettamente sana e robusta, al contrario della povera Elisabeth.
Col passare degli anni la salute della donna si era ulteriormente aggravata fino a che, quando Riza aveva circa nove anni, aveva ceduto alla morte, lasciando quella bambina con la sola compagnia del padre tetro e misterioso.
Sì, come aveva detto Rebecca, Riza aveva iniziato a frequentare la scuola a partire dalla prima media: prima aveva studiato a casa, con la madre che amava trascorrere il tempo con lei, insegnandole a leggere e a scrivere.
Era per questo ed altri motivi che Riza sapeva molte più cose di tutti i suoi compagni, decisamente troppe.
Arrivata davanti al cancelletto di ferro che introduceva nel breve vialetto, quasi totalmente ricoperto d’erba, la ragazzina sospirò, preparandosi mentalmente a tornare la creatura silenziosa che doveva essere in casa.
Le sembrava quasi di vivere una doppia vita: da quando era morta sua madre era apparso chiaro che il padre non aveva intenzione di tralasciare i suoi studi per occuparsi di lei. Insomma, Riza più silenziosa era meglio andava… non che Berthold l’avesse mai sgridata in merito, al contrario. Tra padre e figlia non c’era quasi nessun rapporto: era come se fossero due estranei che condividevano lo stesso tetto. Finché c’era stata la madre, Riza non si era quasi mai preoccupata di quel terzo coinquilino della casa… lo chiamava papà, aveva provato ad instaurare un rapporto con lui, ma era stata la stessa Elisabeth ad indurla ad ignorarlo, facendole bastare il suo amore ed il suo affetto.
Aprendo la porta di casa, Riza non ebbe bisogno di annunciare il suo arrivo: non avrebbe avuto senso; si diresse al piano di sopra, nella sua camera, e posò la tracolla con i libri di scuola.
Poi scese in cucina e provvide a preparare il pranzo. Mentre attendeva che lo stufato riscaldasse, prese dalla dispensa la bottiglia di latte e se ne versò un bicchiere per andarlo a sorseggiare davanti alla finestra che dava sul piccolo boschetto di salici. Le piaceva quella visuale: la protezione che offriva alla sua casa e alla sua solitudine era confortante. In questo modo il mondo non l’avrebbe disturbata e sarebbe stata lei a scegliere come e quando uscire fuori.
Con un sospiro abbandonò quei pensieri e apparecchiò per una persona, lei stessa. Poi prese un altro piatto, lo riempì di stufato e si avviò nel corridoio che portava alla zona più interna della casa.
Arrivata davanti a quella porta bussò con discrezione, prima di aprire un poco, giusto il necessario per sgusciare dentro.
“Ciao papà, - mormorò – ti ho portato il pranzo.”
Berthold Hawkeye stava chino sulla scrivania, dando le spalle alla ragazzina: se anche si accorse della sua presenza e del motivo per cui si trovava lì, non fece nulla.
Oggi è riniziata la scuola, papà – pensò silenziosamente la ragazzina, mentre si immaginava di dire a voce alta quelle cose – e ho rivisto tutti i miei compagni. Rebecca è la stessa: ha sempre la cotta per Jean… sai, quello biondo e grosso che tratta sempre male quel bambino con gli occhiali. Pensa che mi ha persino coinvolto in un pedinamento. Ah, a proposito del bambino con gli occhiali: ho finalmente scoperto che si chiama Kain Fury, il figlio dell’ingegnere che si occupa dell’argine del fiume… hai presente che in autunno c’è rischio d’esondazione e bisogna sistemare le cose per tempo, no?
Ah, senti, tra poco esco per fare una passeggiata, va bene? Ma stai tranquillo che torno in tempo per la cena. E non preoccuparti: non ho ancora compiti da fare… dubito che in questi primi giorni ce ne diano.
Mentre faceva quel rapido discorso con un padre immaginario, la ragazzina posò il piatto all’estremità del tavolo dove quello reale stava lavorando, in un punto lasciato vuoto dai libri e silenziosamente come era arrivata, uscì.
Sì, decisamente per Riza Hawkeye era stato un vero toccasana andare a scuola con gli altri bambini, altrimenti la solitudine l’avrebbe uccisa.
 
Quel pomeriggio uscì come si era ripromessa e aveva anche una meta precisa dove andare.
Tutti i ragazzi avevano un qualche rifugio segreto da condividere con gli amici più stretti: la grande campagna disseminata di boschetti e colline rendeva facile trovare questi luoghi privati.
Lei e Roy si erano conosciuti proprio perché avevano scelto lo stesso posto, circa due anni fa.
Non avevano litigato in merito a chi dovesse stare in mezzo a quella piccola radura tra le betulle: si erano squadrati, si erano messi ciascuno in un angolo definito e la cosa era andata avanti per giorni.
Lei leggeva, mentre lui molto spesso armeggiava con un coltellino, intagliando dei pezzi di legno.
Un giorno Riza si era incuriosita a tal punto da andare vicino a lui ed osservare il suo operato: l’improvvisato intagliatore non si era lasciato distrarre da quel pubblico e aveva proseguito.
Era bello Roy Mustang, una bellezza molto diversa da quella di Jean Havoc o gli altri ragazzi della scuola: si capiva chiaramente che non era il classico ragazzo di campagna, così come non lo era lei. I tratti erano leggermente affilati, i capelli neri e setosi e gli occhi scuri sottili e taglienti. Aveva due anni più di lei, anche se non era eccezionalmente alto, ma la corporatura snella e l’atteggiamento sicuro davano l’impressione che fosse anche più grande.
Era molto famoso a scuola, specie tra le ragazze, anche se nessuna aveva il coraggio di avvicinarsi: perché Roy Mustang era stato cresciuto da Chris Mustang, la proprietaria della casa di appuntamenti del paese… e non era certo una compagnia decorsa per le brave ragazze di campagna.
E sembrava che Roy preferisse stare isolato, come se sentisse la sua diversità rispetto ai suoi compagni, impegnati con il lavoro nei campi o ad aiutare le famiglie. Però era inevitabile che tutti si chiedessero come potesse vivere in quel posto… e la maggior parte dei ragazzi si era immaginata che avesse già notevoli esperienze con le donne.
“Ciao Roy, oggi non ti ho visto a scuola.” salutò Riza, entrando nel loro rifugio segreto.
“Ah, iniziava oggi? – chiese lui, senza alzare lo sguardo dal legnetto che stava intagliando, senza dargli forma specifica, giusto per il gusto di maneggiare il taglierino – Me ne sono scordato. Pazienza, verrò da domani.”
“Dovresti fare più attenzione a queste cose: – scosse il capo la biondina, avvicinandosi a lui – è importante andare a scuola.”
“Tanto il primo giorno non succede mai nulla – scrollò le spalle il moro, alzandosi in piedi e stiracchiandosi – e non è che durante il resto dell’anno sia molto diverso. O c’è qualche novità?”
“Niente di particolare: – ammise lei – sempre le solite facce; sempre il solito Jean Havoc che fa il prepotente con i piccoli.”
Roy ridacchiò.
“Il piccolo quattrocchi? – chiese, come se conoscesse già la risposta – Non mi dire che già dal primo giorno è andato su di lui: si vede che è proprio affezionato.”
“Spero che prima o poi Heymans gli metta un po’ di buon senso in quella testaccia bionda.”
“Fidati, Riza, – sorrise furbescamente Roy, lanciando con abilità il coltellino su un tronco d’albero – sono altri i veri tormenti: in tutti questi anni Jean non ha mai alzato davvero un dito su di lui… per quanto, effettivamente, non lo tratti proprio con gentilezza.”
Riza lo guardò pensierosa andare a recuperare la sua arma.
Sì, era vero… c’era ben altro che essere tormentati a scuola: c’era il silenzio di un genitore che manco si accorge che sei uscita. C’era il silenzio di una casa vecchia e malconcia…
C’è l’essere evitati dalla maggior parte dei ragazzi perché si abita con una zia considerata una poco di buono.
“Che hai? Ti vedo pensierosa.”
“Kain Fury, è così che si chiama quel bambino con gli occhiali: me l’ha detto Rebecca.”
“Va bene, d’ora in poi lo chiamerò per nome, dato che ci tieni tanto.”
Sì, Riza ci teneva: nemmeno lei aveva molti amici, se doveva essere sincera. Aiutare quel ragazzino a sopportare le angherie degli altri in qualche modo la faceva sentire meglio… la faceva sentire utile.
A conti fatti aveva con Kain un rapporto molto più intenso rispetto a quello che aveva con il suo genitore.
“Allora, tuo padre sta sempre studiando l’alchimia?” chiese improvvisamente Roy.
Riza si irrigidì a sentire pronunciare quella parola: l’alchimia era la bestia nera che aveva allontanato Berthold Hawkeye dalla sua famiglia. Sentirla pronunciare dal suo migliore amico le diede notevolmente fastidio.
Vuoi portarmi via anche lui?
“Certo, che altro vuoi che faccia?” chiese con leggera irritazione.
Roy si girò a guardarla con lieve sorpresa e poi si avvicinò a lei.
“Ehi, ragazzina, perché metti il broncio? A tredici anni ormai non ti si addice.”
“E tu perché a quindici anni vuoi fare già l’adulto?”
“Perché un giorno, il prima possibile, me ne andrò da questo posto: – dichiarò Roy, senza alcuna esitazione – voglio andare a Central e scoprire il mondo. Diventare qualcuno di importante. Non credi che fuori da queste campagne ci debbano essere milioni di avventure da vivere?”
“Ti disturba tanto la monotonia di questo posto?” chiese lei a cui quella campagna in fondo non dispiaceva.
“Non è che mi disturba, ma me la sento stretta… se la cosa più emozionante che hai da raccontare è che Jean ha fatto qualche dispetto al ragazzo con gli occhiali.”
“Si chiama Kain.”
“Giusto, Kain. E dimmi, Riza, vuoi davvero passare la tua vita a difenderlo? Prima o poi la scuola finisce anche per lui, sai…”
Ecco Roy Mustang: il ragazzo con aspirazioni più grandi del posto dove stava. Gli occhi neri gli brillavano quando si immaginava le meraviglie che stavano lontano dalle campagne, nella grande città. Perché a quindici anni lui voleva cambiare il mondo, vivere avventure, essere il capo di qualcosa di meraviglioso.
E a Riza, nonostante scuotesse la testa con disappunto, piaceva credere che un giorno questi sogni potessero realizzarsi… e che anche lei ne fosse coinvolta.
Ma una parte di lei non poteva fare a meno di restare legata a quella tranquilla vita quotidiana di quel posto, ai dispetti di Jean su Kain e a quel piccolo mondo che in fondo li proteggeva.
“Chissà, Roy, magari troverai qualche incredibile avventura anche qui.” mormorò con un sorriso.
 
 





Come sempre i bellissimi disegni sono opera di Mary_ 
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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Il magico lettore dello stagno. ***


Capitolo 3: Il magico lettore dello stagno.



Spesso Riza aveva provato ad immaginare che tipo di vita potesse condurre un ragazzino apparentemente isolato come Kain Fury. A dire il vero era stata più volte tentata di offrirgli la sua amicizia, ma non ne aveva mai avuto occasione: un po’ perché lei era abbastanza reticente a concedere confidenza, ma soprattutto perché una delle doti di quel bambino dai dritti capelli neri era di sparire immediatamente dopo la fine delle lezioni, senza darle il tempo di avvicinarlo. Anche durante l’intervallo tendeva a stare lontano da tutti gli altri ed in quelle occasioni Riza era comunque impegnata con Rebecca o con Roy.
Insomma per un motivo o per un altro questo passo avanti non era mai stato fatto… tuttavia, ora che sapeva il suo nome, dove viveva e chi era suo padre, aveva avuto qualche ulteriore indizio per pensare a lui in maniera più definita: adesso era più facile immaginare a come dovesse essere vivere in una casa così tranquilla ed immersa nel verde, lontana dal paese… ma in fondo un po’ simile alla sua, escludendo ovviamente lo stato di trascuratezza. Quella casa in cima alla collinetta, dalle imposte blu scuro che si intravedevano tra gli alberi della pineta, aveva un non so che di quieto e riposante.
Chissà che persone erano i genitori di Kain…
 
“Kain, pulcino, la merenda è pronta!” la voce arrivò dal piano di sotto, distogliendo il ragazzino dai pezzetti di metallo sparsi sulla scrivania.
“Arrivo, mamma!” rispose lui, mettendo il tutto in una scatolina e riponendola nel cassetto.
Erano le quattro e mezza del pomeriggio e lui aveva già finito i compiti da tempo: li faceva sempre dopo pranzo e ci impiegava poco perché aveva una mente particolarmente elastica e vivace, specie nelle materie come matematica dove si dimostrava particolarmente abile, con somma soddisfazione dei suoi insegnanti.
Il fatto di essere così intelligente e di impiegare relativamente poco tempo negli impegni scolastici, gli lasciava molte ore libere al giorno, una cosa che molti studenti gli avrebbero notevolmente invidiato… ma probabilmente immaginavano che lui stesse tutto il giorno chino sui libri.
In realtà per la maggior parte del tempo, Kain Fury si dedicava al suo grande amore: l’elettronica. Era iniziato tutto per caso quando aveva sei anni: la vecchia radio del padre si era rotta e stava per essere buttata, tuttavia il bambino aveva chiesto al genitore se la poteva tenere per giocarci. E così aveva scoperto che levando il coperchio, c’era un meraviglioso mondo di cavi, rondelle e pezzetti affascinanti e misteriosi.
Già all’epoca Kain mostrava difficoltà di inserimento con i suo coetanei ed i suoi genitori erano rimasti sollevati quando avevano visto la sua attenzione focalizzarsi su qualcosa che lo appassionasse e gli facesse in qualche modo scordare questo suo problema.
Certo, avevano sperato che quella difficoltà di socializzazione fosse solo una fase, dovuta alla grande timidezza, ma invece la questione aveva continuato a trascinarsi nel corso degli anni.
In realtà Kain aveva fatto diversi tentativi di avvicinare i suoi compagni, ma i loro interessi erano troppo diversi: come scoprivano che a lui piacevano le cose elettroniche, l’astio già latente per il suo essere “cocco dei professori” si scatenava. Per lo più erano prese in giro e rifiuto di stare con lui, ma altre volte si era arrivati anche a scherzi e dispetti che, più cresceva, più diventavano pesanti.
Tuttavia, per quanto le ore scolastiche fossero abbastanza travagliate, a Kain bastava andare via da quel posto per ritrovare l’atteggiamento sereno che aveva di natura: aveva scoperto che gli bastavano i suoi genitori, i suoi interessi; per quanto a scuola apparisse un bambino molto triste, in realtà non lo era affatto.
“Ho una fame da lupo!” sorrise sedendosi a tavola.
“E allora divora pure il tuo panino con la marmellata, lupacchiotto – rise Ellie, mettendogli davanti il piatto – e bevi il tuo latte.”
Vedendolo mangiare con tanto entusiasmo, Ellie Fury non poté far a meno di abbracciarlo e dargli un bacio sulla guancia. Era estremamente legata al suo unico bambino, nato quando era appena diciannovenne: aveva rischiato di perderlo più volte durante la gravidanza e anche i primi anni non erano stati facili; Kain era nato molto debole e il medico non gli aveva dato molte speranze di vita, ma lei non aveva ceduto: aveva protetto con tutta se stessa quel minuscolo fagottino che quasi non aveva la forza di piangere. Ogni giorno, ogni ora si era dedicata a lui con una devozione incredibile, decisa a farlo vivere.
E ce l’aveva fatta: verso i quattro anni, i problemi di salute che l’avevano tenuto chiuso in casa erano piano piano spariti, lasciando il posto ad un bimbo sano ed intelligente.
Quella che ora finiva con entusiasmo il panino, lasciandosi tracce di marmellata sul mento, era una persona completamente diversa dal neonato che riusciva a malapena ad attaccarsi al suo seno.
“Mamma! – rise il bambino con la bocca piena, mentre la donna, dopo avergli pulito lo sporco col grembiule, lo stringeva a se – Mamma, mi stai spettinando tutti i capelli.”
“Spettinare questa chioma ribelle? – chiese lei, accarezzando la testa bruna – Ma se è impossibile da pettinare, come potrei mai spettinarla? Domanda inutile, ma te la faccio lo stesso: finiti i compiti?”
“Certo, mamma. Posso uscire?”
Ellie si staccò da lui e lo guardò, un dolce riflesso di se stessa: avevano gli stessi occhi, grandi e scuri, la stessa delicatezza di lineamenti, gli stessi capelli neri e ribelli.
Se doveva essere sincera avrebbe preferito tenerlo a casa, con lei, al sicuro…
Ellie, lascialo andare… sta bene, è sanissimo: se vuole uscire è la cosa migliore del mondo.
Ricordando quello che il marito le diceva spesso, la donna ricacciò indietro la sua ansia materna: ormai Kain aveva undici anni ed era molto responsabile per la sua età. Non aveva alcun motivo di preoccuparsi e non era giusto tarpargli le ali per le sue paure.
“Sì, caro, ma fai attenzione, va bene?”
“Certo, mamma, stai tranquilla: – disse lui con serietà, intuendo di doverla rassicurare – voglio solo fare un giro. Voglio andare a trovare papà al cantiere sul fiume.”
“E sia, ma non fare troppo tardi.” acconsenti dandogli un ultimo bacio sulla guancia.
“Sarò a casa prima di cena, promesso.” annuì alzandosi dal tavolo e avviandosi verso la porta della cucina che dava sul cortile sul retro.
 
Appena fu sicuro di essere fuori dalla portata dell’occhio materno, iniziò a correre a più non posso sul sentiero che portava al fiume. Prendendo velocità, grazie anche alla strada in discesa, emise un’esclamazione entusiasta e allargò le braccia ad imitazione del volo degli uccelli, assaporando la gioia del vento contro la sua figura, degli odori della campagna che gli penetravano nelle narici, del sole sul suo viso.
Adorava correre, lo faceva sentire vivo in una maniera incredibile: per i primi quattro anni della sua vita era stato un lusso che non si era mai potuto permettere, considerato che gli bastava poco per ammalarsi. Ma da quando era guarito da quell’esilità fisica che l’aveva tormentato per tanto tempo, ed aveva scoperto che correre gli faceva bene, non perdeva occasione per farlo. Sentiva incredibili scariche di energia in ogni fibra del suo essere, proprio come i circuiti delle radio che adorava smontare e rimontare.
Vederlo all’aria aperta, da solo, era come vedere un bambino completamente diverso da quello che era a scuola.
“Papà! – esclamò, arrivando al piccolo cantiere che c’era nell’ansa del fiume – Papà!”
“Ehilà, figliolo – lo salutò Andrew, alzando lo sguardo dai fogli che stava studiando nel piccolo tavolo di legno – hai corso da casa fino a qui? Sei tutto rosso in viso.”
“Ho il fiatone!” sorrise Kain, cercando di riprendere fiato e accostandosi al padre che gli diede un buffetto affettuoso sulla guancia. Si somigliavano nei tratti, anche se il bimbo aveva la delicatezza della madre ad addolcirli e a renderli più infantili dell’età effettiva.
“Tutta salute, ragazzo mio, e ti fa venire un bell’appetito: sono certo che a cena divorerai ogni cosa, con somma gioia di tua madre. Allora, oggi come è andata a scuola?”
A quella domanda Kain si irrigidì leggermente: Jean gli aveva fatto i soliti dispetti e lì non c’era nessuna novità, ma anche nella sua stessa classe non era andata bene. Alcuni suo compagni quell’anno avevano iniziato ad essere più prepotenti del solito con lui… una sgradita sorpresa che ormai andava avanti da una decina di giorni.
“E’ andato tutto bene, papà.” rispose tuttavia, scrollando le spalle ed elargendo il migliore dei suoi sorrisi.
Sapeva benissimo che i suoi genitori si preoccupavano molto per il suo non avere amici… e non voleva che sapessero che aveva anche così tanti tormentatori. Se doveva essere sincero avrebbe tanto voluto studiare a casa, come si era prospettato quando ancora era fragile e cagionevole: sua madre aveva studiato da insegnante prima di restate incinta e dunque non ci sarebbero stati problemi.
Non avrebbe mai pensato che i suoi coetanei potessero essere così… cattivi.
“Sicuro?”
“Certo, papà” annuì con sicurezza.
Più che mai voleva dimostrarsi forte con suo padre: era lui che lo spronava sempre a reagire alle avversità e comportarsi da vero “ometto”, mentre sua madre tendeva maggiormente a tenerlo nel suo bozzolo protettivo. Lui avrebbe voluto, sul serio: sarebbe stato il primo a voler uscire da quella situazione così tormentata; ma era molto facile dirlo a parole… il problema si presentava invariabilmente quando a scuola sbatteva contro la realtà dei fatti, impersonata in particolar modo da Jean Havoc.
E dunque era meglio tenere un silenzio che forse faceva comodo ad entrambi: Andrew era per Kain la figura maschile di riferimento e l’ultima cosa che voleva era che anche lui gli fosse in qualche modo ostile. Suo padre non era un uomo molto robusto o alto, eppure aveva sempre ottenuto il rispetto di tutti quanti… e per il bambino niente era più importante di rendere fiero di lui il suo meraviglioso genitore.
Andrew era quello che lo spronava a crescere, magari più in fretta del previsto, Ellie invece tendeva a considerarlo molto spesso come un bimbetto fragile e bisognoso di lei. Insomma Kain si trovava a dover gestire un delicato equilibrio tra i suoi due amati genitori e, nonostante tutto, ci riusciva bene.
 “Bravo ometto – mormorò intanto Andrew, arruffandogli i capelli – dai, adesso vai pure a giocare. Qui c’è parecchio da lavorare e più facciamo entro oggi, meglio è. Ci vediamo stasera a cena, va bene?”
“Va bene; – sorrise Kain, arrossendo di piacere per quel gesto – a dopo papà. Buon lavoro.”
 
A dire il vero Kain non aveva intenzione di andare a giocare.
Per lui stare fuori significava esplorare la campagna, osservare gli animali: i giochi in genere presumevano la presenza di altri ragazzi e questo rendeva la cosa totalmente fuori discussione.
Però aveva una meta ben precisa dove andare e sperava con tutto il cuore di trovarci una persona.
A dire il vero lo considerava il suo piccolo grande segreto, tanto che non ne aveva parlato nemmeno con sua madre, alla quale in genere confidava ogni cosa. Ma… in questo caso era come se avesse paura di spezzare un magico incantesimo che si era creato quell’estate.
Arrestando la sua corsa, finalmente intravvide il suo luogo segreto.
Si trattava di un piccolo stagno, poco più di una pozza ad essere sinceri, tanto che sicuramente la maggior parte delle persone ne ignorava l’esistenza, coperto com’era dal canneto. Era uno di quegli angoli perennemente tranquilli, con giusto qualche uccellino e qualche ranocchietta a farla da padrone: troppo piccolo anche per le solite papere selvatiche.
Kain l’aveva scoperto quell’estate in uno dei suoi vagabondaggi per la campagna e da allora ci andava ogni volta che poteva. Ma non era lo stagno ad attirarlo in maniera particolare… quanto il fatto che molto spesso vi andava un ragazzo.
C’era una piccola banchina di legno nella sponda più larga e lui si sedeva lì.
Kain era certo che fosse uno dei ragazzi degli ultimi anni, anche se a scuola non l’aveva mai visto: aveva i capelli curiosamente bicolori, bianchi sopra e neri sotto, ed era alto e magro, gli zigomi del viso particolarmente evidenti.
La prima volta che l’aveva visto arrivare, il bambino si era nascosto, pensando che si potesse trattare di qualcuno pronto a prendersela con lui anche al di fuori del contesto scolastico. Sbirciando tra le canne, pronto a sgattaiolare via il più silenziosamente possibile alla prima occasione, aveva invece visto quel curioso ragazzo che si sedeva nella banchina di legno e si levava una tracolla. Era davvero impensabile che volesse pescare in quella pozza dove al massimo c’erano dei girini e, infatti, con somma sorpresa dell’osservatore nascosto, aveva tirato fuori un libro e aveva cominciato a leggerlo…
A quel punto Kain sarebbe potuto scappare via, tanto era l’intensità con cui quel ragazzo stava immerso nella lettura, ma si era scoperto letteralmente imprigionato da quella scena. E così, invece di gattonare tra le canne, si era accovacciato meglio nel suo nascondiglio ed aveva iniziato a fantasticare.
Il magico lettore dello stagno… così l’aveva denominato in uno di questi suoi eccessi di fantasia.
Aveva scoperto che gli piaceva stare lì ad osservarlo leggere: era una figura così calma e pacifica da infondergli serenità al solo vederlo. I suoi occhi scuri avevano più volte provato a leggere i titoli dei libri: fiabe, romanzi… non ne conosceva la maggior parte. Si era più volte chiesto di cosa parlassero quelle pagine che, sfogliate da quelle mani snelle, sembravano racchiudere storie meravigliose e fantastiche. A volte, stando nascosto nella sua nicchia, il bimbo si immaginava di vedere creature magiche uscire dal libro e dialogare con il lettore, quasi fosse un potente mago che sa parlare con gli spiriti.
Dunque come arrivò in prossimità dello stagno, Kain rallentò il passo e si fece silenzioso e discreto. Chinandosi a terra iniziò a gattonare fino alla sua nicchia… che a dire il vero diventava sempre più vicina al ragazzo sconosciuto.
Trattenendo il fiato vide che anche quel pomeriggio era venuto e gli occhi si illuminarono di gioia.
Fratelli Grimm… - le sue labbra sillabarono il titolo del libro, un grosso volume dalle pagine ingiallite.
Favole? Oh che meraviglia! Ma perché non leggeva mai a voce alta? Gli sarebbe tanto piaciuto ascoltare una di quelle storie… ma ormai era troppo grande per chiedere alla mamma di farlo come quando aveva sei anni…
Chissà se lui mi racconterebbe quelle meravigliose storie che legge. Io…
Una libellula gli saettò davanti agli occhiali, distogliendolo dalle sue fantasie e facendogli lanciare una lieve esclamazione di sorpresa. Immediatamente si portò le mani alla bocca, terrorizzato all’idea di aver spezzato irrimediabilmente l’incantesimo…
Effettivamente il ragazzo distolse lo sguardo dal libro e si voltò verso il punto dove stava nascosto.
“Puoi uscire da quel canneto.” disse la sua voce, incredibilmente tranquilla e calma.
A Kain non restò che sollevarsi dal suo nascondiglio, rosso in viso per l’imbarazzo: non sapeva cosa fare. A rigor di logica sarebbe dovuto scappare a casa e non uscire per tutto il resto del mese. Ma una parte di lui era troppo affascinata da quel giovane così appassionato di libri… che lo fissava con quegli occhi dal taglio allungato.
Per favore… ti prego… non cacciarmi pure tu.
Fu quasi una preghiera quella che invase i pensieri del bruno, mentre restava immobile tra le canne. Si accorse di non aver mai voluto così disperatamente essere accettato da qualcuno… la tensione era tale che il labbro inferiore iniziò a tremargli.
“Come ti chiami?” chiese con gentilezza lo sconosciuto.
“K… Kain.”
“Ciao, Kain. Io sono Vato.”
Rimasero a guardarsi, evidentemente indecisi su quello da farsi. Poi Kain fece una cosa che non tentava da tempo: prese l’iniziativa.
“E’… è un libro di favole?” chiese con vocetta timida.
Vato spostò lo sguardo sul libro che teneva in mano e con un sorriso accarezzò amorevolmente la copertina marrone: le lettere del titolo sembravano risplendere dopo che le sue dita le avevano sfiorate.
“Favole – annuì – e molto di più. Sai chi sono i fratelli Grimm?”
“Gli autori delle favole, no?” rispose Kain, inclinando lievemente la testa di lato e mettendo le mani dietro la schiena.
“Non proprio; questi racconti sono molto più vecchi: sono le leggende della tradizione popolare tedesca e loro le hanno raccolte perché non andassero perdute. Sono storie antiche, e le loro origini si perdono nel tempo…”
Kain ascoltava affascinato quel ragazzo parlare, l’aura di magia attorno a lui che sembrava aumentare, invece di sparire come aveva temuto quando era stato scoperto. Si trovò ad avvicinarsi timidamente fino ad arrivare all’estremità della piccola banchina.
“Posso restare qui con te?” sussurrò.
“Lo fai molto spesso, mi sembra; – sorrise Vato – ma forse, ora che ci siamo presentati, non mi pare il caso che tu rimanga accovacciato nel canneto, non credi?”
Il ragazzino arrossì colpevolmente: dunque la sua presenza non era passata per niente inosservata. Che in qualche modo Vato sapesse usare la magia? Ma questo pensiero fu subito sostituito da un altro, molto più importante
Non mi ha cacciato via…
Con timidezza fece un passo avanti, entrando nel legno della banchina e, automaticamente, Vato si fece leggermente di lato per lasciargli posto.
“Sei più piccolo del previsto, visto da vicino. – dichiarò, guardandolo sedersi accanto a lui – Quanti anni hai?”
“Ne ho compiuto undici il nove di questo mese. Sono in prima media.”
“Io in quarta superiore.”
“Non ti ho mai visto a scuola.”confessò Kain.
“Perché sto sempre in classe, anche durante l’intervallo. E’ il posto più tranquillo per leggere, dopo questo stagno naturalmente.”
“Oh…”
Lo sguardo del ragazzino tornò sul libro di storie tra le mani di Vato.
Forse… forse era troppo chiedergli di leggergli una di quelle storie, al massimo avrebbe potuto chiedere il libro in prestito però…
“Quale storia stavi leggendo?”
I Musicanti di Brema, la conosci?”
“No.”
Vato riaprì il libro, mostrando la pagina dalla bella scrittura, con di lato un’immagine di quattro animali: un cane, un gatto un asino ed un gallo. Kain ne fu così affascinato da sporgersi ulteriormente.
E senza che glielo chiedesse, il ragazzo grande incominciò:
“Un uomo aveva un asino che l’aveva servito assiduamente per molti anni…”
E per la prima volta in vita sua, Kain Fury ebbe la certezza di avere un amico.







I bellissimi disegni sono opera di Mary_
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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Dinamiche familiari. ***


Capitolo 4: Dinamiche familiari

 

Negli ultimi due anni Jean Havoc era cresciuto davvero tanto e si era irrobustito parecchio: la cosa gli aveva fatto enormemente piacere non solo per una mera questione di vanteria, ma anche perché così aveva occasione di rendersi maggiormente utile all’emporio.
“Sei sicuro di volerle prendere tutte assieme?” chiese James con un sorriso, passando una pila di cassette al figlio e assicurandosi che fossero ben in equilibrio.
“Nessun problema, papà: – annuì Jean, con la faccia concentrata, mentre le braccia si irrigidivano per lo sforzo, mostrando tuttavia una buona muscolatura – le porto dentro da solo.”
Consapevole che suo padre teneva lo sguardo su di lui, il ragazzo ci mise particolare impegno per non piegarsi sotto il gravoso peso di tutte quelle casse che aveva preteso di portare assieme. Erano piccole sfide che gli piaceva fare per mettere alla prova se stesso, ma anche perché si sentiva estremamente felice quando suo padre si congratulava con lui e gli dava orgogliose pacche sulle spalle.
“Ah, ragazzo mio – disse appunto l’uomo, raggiungendolo dentro il magazzino ed arruffandogli il ciuffo biondo – sei un gran lavoratore, sono fiero di te. Sei di grande aiuto al tuo vecchio.”
“Oh, ma figurati papà! – sorrise Jean, stiracchiandosi per dare sollievo alle braccia e alla schiena date le numerose operazioni di carico e scarico che avevano fatto nelle giornate dato il rinnovo del magazzino dell’emporio – Non è stato nulla.”
“Sono le sette del mattino – si scusò l’uomo, mentre uscivano e si godevano il primo tiepido sole della giornata – ti ho fatto perdere ore di sonno e tra poco dovrai andare a scuola.”
“Naah, non ti preoccupare – scrollò le spalle il ragazzo, accorgendosi con piacere che ora arrivava quasi alla spalla del genitore – è giusto che ti dia una mano con tutto questo lavoro che hai da fare. Certo non è roba da far fare a Janet.”
“Tu lasciala crescere e vedrai che anche la ragazza diventerà bella forte.”
“Sì, ma per ora ti devi accontentare dell’aiuto che ti do io, e che ti da Heymans quando può!” rise Jean, al pensiero della sua piccola sorellina che cercava di sollevare anche una sola di quelle pesanti cassette che aveva trasportato poco fa.
“Anche lui è proprio un bravo ragazzo – commentò James, come se stesse parlando di un terzo figlio – sono davvero felice che tu e lui abbiate un ottimo rapporto. E mi fa piacere sapere che anche Janet fa molto affidamento su di lui.”
Jean annuì, guardando il sole che iniziava a diventare più alto, e assaporandone il tepore sulle braccia scoperte per via della camicia arrotolata. Adorava questi momenti passati con suo padre, quando potevano parlare da uomo a uomo.
“Papà – chiese, spinto proprio dalla confidenza che aveva col genitore – sai, Heymans non parla mai della sua famiglia, specie di suo padre…”
“Mh, – sospirò l’uomo, passandosi la mano sui capelli biondi e corti, con qualche filo argento – non te ne parla perché non è una situazione molto facile. Gregor non è proprio un modello come padre e marito, questo lo sanno tutti… povera Laura, è sempre stata una brava ragazza, ma è rimasta intrappolata in un matrimonio infelice.”
“A volte mi chiedo cosa potrei fare per lui…” ammise Jean, sentendosi in colpa perché quello era un frangente in cui non sapeva come comportarsi.
“Heymans sa che può contare su di te e su tutta la nostra famiglia – disse James – e credimi che questo vuol dire tanto per lui. Fidati, ragazzo, se e quando il tuo amico vorrà parlarne sa che di te si può fidare. Dai, adesso vai a lavarti e a fare colazione: l’ora di andare a scuola si avvicina.”
“E già…” mormorò Jean, mettendosi le mani in tasca e restando da solo a guardare la campagna che iniziava una nuova giornata. Uno dei vantaggi dell’alzarsi presto per lavorare: godere di simili momenti.
 
Proprio mentre il biondo si apprestava a rientrare in casa, Heymans finiva di vestirsi ed usciva silenziosamente dalla sua camera, portandosi già dietro la tracolla e facendo attenzione a non svegliare il resto della casa addormentata.
In realtà viveva abbastanza vicino alla scuola e avrebbe potuto permettersi di uscire molto più tardi: tuttavia meno stava in casa più si sentiva sereno. Alle sette e un quarto del mattino gli unici svegli in casa erano lui e sua madre e scendendo in cucina, il ragazzo sorrise nel trovarla intenta a preparare la tavola per la colazione.
“Buongiorno, caro – lo salutò Laura, mentre sistemava una tazza davanti al posto dove Heymans si stava sedendo – dormito bene?”
“Ciao, mamma, – sorrise lui – sì grazie.”
“Ho messo a scaldare il pane: tra qualche minuto e pronto.”
Il ragazzo annuì e si mise a braccia conserte, godendo di quel momento di tranquillità che si poteva concedere con sua madre che mai, durante il resto della giornata, appariva così serena e felice.
Questo particolare momento era nato da quando aveva conosciuto Jean e aveva preso l’abitudine di andarlo ad aspettare all’incrocio delle strade con grandissimo anticipo. Sua madre da allora si svegliava prima del previsto per potergli preparare la colazione: lui aveva protestato, dicendo che non era necessario che lei si strapazzasse in questo modo e che poteva benissimo arrangiarsi qualcosa da solo. Ma poi si era accorto che anche la donna traeva notevole serenità da quei momenti trascorsi assieme.
Vedendola levare il pane dal forno per metterlo in un piatto e portarlo al tavolo, il ragazzo sorrise.
A volte vorrei che ci fossimo solo noi due, mamma… è così tranquillo quando siamo soli.
“Mangi con me?” chiese, come faceva ogni mattina.
“Sarebbe un peccato rinunciare a questo pane così caldo e morbido. – annuì lei, dando sempre la medesima risposta e sedendosi vicino al figlio – Allora, anche oggi vai ad attendere il tuo amico?”
“Sì, mamma. Ti ho raccontato cosa ha combinato durante l’ora di matematica?”
“No, dimmi pure.” sorrise lei con complicità.
Ed Heymans iniziò a raccontare delle ultime disavventure di Jean a scuola: teneva un tono deliberatamente basso, quasi avesse paura di svegliare il padre ed il fratello, ma soprattutto perché in questo modo gli sembrava che quel momento fosse ancora di più suo e di sua madre.
Com’era diversa da quella di Jean, sempre così allegra e vivace… Laura Breda al contrario era una donna silenziosa e riservata, ma Heymans, per quella forma di maturità che aveva di carattere, ma che era stata anche alimentata dalla sua situazione familiare, sapeva che c’era molto dietro. La loro condizione non era proprio felice: suo padre non era mai stato un uomo molto responsabile… a volte il ragazzo si chiedeva come avesse potuto una donna buona come sua madre sposare uno come lui. Ma la risposta la conosceva bene e gli faceva dolorosamente male: sua madre era ancora molto giovane ed ingenua quando quell’uomo era arrivato in paese… ed era rimasta incinta.
La consapevolezza di essere il responsabile dell’infelicità di sua madre era difficile da mandare giù.  
Perché, nonostante sua madre lo negasse anche a se stessa, lei non era felice in quella casa: dopo che si erano sposati, Greg l’aveva costretta a lasciare il suo sogno di diventare sarta, dicendo che una donna doveva dedicarsi solo alla famiglia… e con la nascita dei figli, nell’arco di tre anni, lei si era trovata del tutto imprigionata in un circolo vizioso di remissione ed amore materno.
Lui ed Henry erano diventati quasi una sorta di ricatto emotivo.
Se doveva essere sincero Heymans, crescendo e rendendosi conto della situazione, aveva in qualche modo cercato di porvi rimedio.
Mamma, perché non riprendi a cucire? Tanto io ed Henry siamo abbastanza grandi: non devi più starci dietro come quando eravamo piccoli.
E negli occhi grigi di sua madre aveva letto il desiderio di uscire da quella vita… ma quella stessa notte, si era svegliato all’improvviso sentendo grida dalla camera da letto dei suoi. Ed il giorno dopo aveva visto sua madre con gli occhi gonfi per il pianto.
Non era stata picchiata, no. L’unica cosa che Gregor aveva di positivo era che non alzava le mani… almeno fino a quel momento. Ma il cappio psicologico che teneva addosso alla moglie era qualcosa di tremendo.
E da quel momento Heymans si era sentito talmente in colpa da non provare più a spezzare quell’equilibrio malsano che teneva unita la sua famiglia.
Ma se poteva regalare a sua madre momenti di serenità come quelli mattutini, ne era davvero felice.
“Allora, anche oggi vai a scuola con Jean e sua sorella?”
“Sì, mamma.”
“La prossima volta che passo all’emporio devo ringraziare la loro madre. Sono molto gentili con te.”
“Oh, stai tranquilla, mamma, non ti preoccupare.”
“E’ che… sei così spesso da loro.”
Heymans annuì: si era vero… ogni volta che poteva stava da loro. Perché gli Havoc erano il tipo di famiglia che lui avrebbe davvero voluto: sereni, uniti, compatti; com’era diversa l’atmosfera in quella casa.
E forse loro avevano capito quanto lui cercasse con disperazione un simile ambiente: la signora era sempre gentile con lui ed anche il padre di Jean spesso lo coinvolgeva in qualche lavoretto all’emporio. Lo facevano sentire a casa, amato e benvoluto: un terzo figlio.
E anche quello era un brutto senso di colpa da mandare giù: preferire una famiglia alla propria.
Ma è inutile negare la realtà… se non fosse per mamma e per Henry..
Il nome del fratello gli procurò uno strano groviglio allo stomaco ed automaticamente si trovò a parlare di Jean
“Oh, beh… sai, è che Jean mi trascina sempre da lui, per non parlare di sua sorella. E poi, spesso aiutiamo suo padre all’emporio. Però… un giorno lo invito a casa, va bene?”
“Sarebbe bello. Vi potrei fare una torta” sorrise lei.
Ad Heymans sarebbe piaciuto, tantissimo… ma se per sua madre avrebbe portato il suo miglior amico a casa, la presenza perenne di suo padre lo spingeva a non farlo.
Però a volte madre e figlio sentivano l’esigenza di mentirsi in questo modo.
 
Circa venti minuti dopo il rosso era nel solito punto d’incontro, tentando di scrollarsi quella brutta sensazione che gli aveva lasciato il dialogo con la madre. Il senso di colpa per preferire la famiglia di Jean alla propria proprio non lo lasciava… ma era così sbagliato desiderare un ambiente così sereno? Dove tornando a casa da scuola non vedevi tua madre silenziosa per il timore di scatenare il marito. E dove il fratello minore non prometteva di diventare un delinquentello a soli undici anni?
Avrei preferito di gran lunga un fratello minore come Kain Fury.
Henry era… cattivo?
Era una parola che voleva dire tutto o niente, eppure Heymans non poteva fare a meno di accostarla al fratello. Aveva cercato tante volte un dialogo con lui, ma… suo padre.
Preferisce nettamente Henry. E qualsiasi cosa dica o faccia per lui, la rivolta contro di me. E’ come se non volesse che Henry andasse d’accordo col proprio fratello…
Perché Heymans aveva una mente molto sveglia e arrivava alle conclusioni in fretta, per quanto potessero essere sgradite. Sì, suo fratello minore molto spesso era indotto a disprezzarlo: il padre, invece di riprenderlo, lo incitava a compiere danni, in nome di una presunta dimostrazione di forza… e tutte le volte che Heymans aveva cercato di porre fine a quella deviazione di carattere, si era trovato contro gli altri due maschi della famiglia.
E con mamma troppo spaventata per poter dire qualcosa… eppure anche lei non è felice della via che ha preso Henry.
La verità era che lui era stato l’unico ad opporsi al giogo psicologico di Gregor: aveva un carattere forte ed indipendente, non era tipo da cedere a ricatti emotivi… ed era per questo che il padre l’aveva piano piano allontanato da se, rivolgendo l’attenzione al minore, sicuramente più debole caratterialmente.
Non era certo una situazione che…
“Heymans! Heymans!” lo interruppe una voce squillante
Il rosso si girò appena in tempo per accogliere Janet tra le braccia: ormai, in quelle settimane che la scuola era iniziata, ci si era abituato. Il bolide dalle trecce bionde giunse ad altissima velocità, spinto dalla strada in discesa, e lui fu bravo a pararlo prima che cadesse per lo slancio della corsa.
“Ciao Janet – sorrise, rimettendola dritta – come stai?”
“Io sto bene, e tu?” sorrise lei, con le guance rosse come due mele.
“Anche io… e tuo fratello? Ah eccolo: con calma, Jean, mi raccomando!”
“Perché? - chiese il biondo con faccia funerea – Sei impaziente di fare il compito di matematica?”
“Abbiamo ripassato in questi giorni: – dichiarò Heymans, mentre Janet si metteva come sempre tra loro due prendendo la mano ad entrambi – sei pronto, fidati.”
“Dici? E allora perché mi sento la testa svuotata da qualsiasi regola?”
“Se vuoi lo faccio io il compito, fratellone! Ho imparato a scrivere i numeri fino a dieci! E la maestra ha detto che sono stata brava.”
“Certo, perché nel compito che devo fare proprio mi chiederanno di scrivere i numeri… sei una tonta, Janet!”
“E tu uno stupido!” sbottò lei, profondamente offesa, levando la mano da quella del fratello.
“Visto che ti senti così grande allora perché non vai e torni da scuola da sola?”
“E dai, Jean…” sospirò Heymans.
Ma Janet scosse il capo e disse:
“No, semmai sei tu che devi andare da solo… io ci vado col mio fidanzatino!”
I due ragazzi si fermarono di colpo, con Heymans che si irrigidiva.
“Con chi, scusa?” chiese Jean, iniziando a ridacchiare.
“Hai proprio capito bene! – dichiarò la bambina, abbracciando Heymans e guardando con sfida il fratello – Heymans è il mio fidanzatino! Voglio solo lui!”
Fu troppo per Jean: scoppiò a ridere così forte che fu costretto a sedersi sul sentiero. Da parte sua Heymans era troppo sconvolto da quella situazione: abbassando lo sguardo vide che Janet lo guardava col visino illuminato e gli occhioni azzurri pieni di aspettativa. Le guance avevano assunto un nuovo rossore, ma non dovuto alla corsa di poco prima…
“Che hai?” gli chiese con innocenza.
“Ecco io…” mormorò il rosso, fortemente in difficoltà. Adorava quella bambina, l’ultima cosa che voleva era vederla piangere, però…
“Andiamo Heymans! – lo prese in giro Jean, alzandosi col fiato corto – Non ho niente in contrario con questo fidanzamento, ma penso che tu debba prima chiedere a mio padre! Io… io… oddio non ce la posso fare!” e riprese a ridere come un ossesso.
“Janet io… - iniziò il rosso prendendola in braccio – ecco… forse sono troppo grande per te, non credi?”
“Oh, è questo il problema? – chiese lei, con entusiasmo – Non ti preoccupare! Per i bacini che si danno i ragazzi grandi aspetto di essere almeno in quinta elementare, va bene? Per ora basta che mi tieni per mano quando andiamo a scuola!”
“Non è questo il punto – cercò di spiegare – è che…”
“Non… non ti piaccio?” chiese la bimba con dolorosa sorpresa.
“No! Tu mi piaci Janet, non piangere! – esclamò lui, vedendola incupirsi – E’ che…”
“Hai già la fidanzatina?”
“Che? No, ma che dici… il fatto è che…”
“E’ allora dove sta il problema?” chiese ancora, esasperata, ovviamente convinta della sua logica infantile dove i problemi ed i sentimenti erano tutti o bianchi o neri, senza alcuna sfumatura.
“Ah, sei in un bel guaio, amico mio: – ridacchio Jean, finalmente calmo – nessuno è più testardo di una ragazza che ha appena deciso quale sarà l’uomo della sua vita. E la testardaggine è ulteriormente raddoppiata dal fatto che stai parlando di una Havoc.”
“Finiscila di fare il saccente. – lo rimproverò Heymans, mettendo a terra la bambina – Senti, Janet, facciamo così… per me non c’è nessun problema a tenerti per mano, va bene? Ma è troppo presto per definirci fidanzatini.”
“Oh, ho capito: – bisbigliò la bimba con fare complice – non vuoi che si sappia in giro.”
“Ecco… sì, esatto. Potrebbero ingelosirsi nel sapere che tu hai già scelto me.”
“Va bene, Allora sarà il nostro segreto! Però aspetta, voglio darti una cosa…” e si mise a frugare nella tracolla per estrarre un braccialetto di perline rosa.
“Ehi, ma quello è il braccialetto che hai fatto ieri, vero?” chiese Jean, avvicinandosi per guardare.
“E’ la prima volta che mi esce così bene, mi ci sono impegnata tanto: – annuì lei con orgoglio – anche la mamma ha detto che sono stata brava. E’ il mio pugno d’amore!”
“Pegno, sciocchina!” la corresse Jean, ovviamente divertito da tutta la faccenda.
“Pegno! – annuì lei – Così avrai sempre qualcosa di mio, sei contento Heymans?”
C’era una così sincera aspettativa nell’espressione di Janet che il rosso non se la sentì di deluderla.
“Va bene… allora lo tengo sempre con me.” annuì, prendendo il braccialetto e mettendoselo in borsa.
Mentre la bambina lo abbracciava con entusiasmo, lanciò un’occhiata mortale a Jean, come ad avvisarlo di tenere la bocca chiusa su tutta la faccenda.
Che tutto resti tra di noi, Jean Havoc, altrimenti ti ammazzerò con le mie stesse mani.
Ma conosceva abbastanza il suo amico per sapere che avrebbe tenuto il riserbo.
 
Mentre stavano per arrivare alla scuola, Janet, presa da uno dei suoi momenti di spensieratezza, iniziò a correre e a ridere. Si girò all’improvviso verso suo fratello ed Heymans per incitarli a raggiungerla, e così facendo andò a sbattere contro un ragazzo.
“Oh, scusa tanto!” esclamò, girandosi verso di lui.
“Guarda dove vai, nana! – esclamò il giovane, dandole una spinta e facendola cadere all’indietro – Levati dalla mia strada.”
La piccola restò interdetta a guardare quel bambino più grande di lei, dai folti capelli rosso scuro e dagli occhi grigi che la fissavano con astio. Rimase perplessa riconoscendo la somiglianza con Heymans, ma non poté dire altro che proprio quest’ultimo arrivò, frapponendosi tra lei e lo sconosciuto.
“Smettila di fare il prepotente, Henry.” disse, mentre anche Jean arrivava e risollevava la sorellina, portandola maggiormente indietro rispetto ai due contendenti.
“Fatta male?” le chiese, controllando che non ci fossero danni.
“No… ma chi è?” mormorò lei, sentendo l’improvvisa esigenza di nascondersi tra le rassicuranti braccia del fratello maggiore.
“E’ Henry, il fratello di Heymans. - le bisbigliò lui di rimando, prendendola in braccio. E dopo una lieve esitazione, per quanto fossero parole che gli lasciavano l’amaro in bocca, aggiunse - Janet, promettimi di stare lontana da lui, va bene?”
“Mh” annuì lei, nascondendo il viso nella sua spalla.
“Heymans…” disse intanto Henry, irrigidendosi, mentre alcuni suoi amici andavano a fargli da spalla.
“Hai bisogno di una mano, Hen?” gli chiese un ragazzo palesemente più grande.
“E’ solo mio fratello con il suo amichetto e la sorellina… a Heymans piacciono determinati tipi di compagnia.” e scoppiò a ridere, inducendo anche gli altri a fare altrettanto. Ma non tutti ridevano con la medesima convinzione.
“Vuoi che gli diamo una lezione?” chiese uno dei altri.
“Io…” iniziò Henry con un sorriso.
“Vediamo, – lo interruppe Heymans con un sorriso molto simile – siete in cinque… e il più grande di voi è massimo in terza media. Nell’ultimo litigio, tra me e Jean ne abbiamo messi fuori combattimento sei, tutti delle superiori, alcuni addirittura di quarta: vogliamo proprio vedere chi dà una lezione a chi?” e fece scrocchiare le dita in un messaggio molto chiaro.
Era un rischio, lo sapeva bene: per quanto quelli fossero dei novellini che, in occasioni normali non avrebbero creato problemi, la presenza di Janet rendeva tutto più difficile. Ma Heymans sapeva gestire ottimamente i giochi psicologici ed era sicuro che non ci sarebbe stato bisogno di venire alle mani: difatti dopo qualche secondo i suoi avversari iniziarono ad esitare, fino a quando uno smosse la situazione.
“Andiamo via, ragazzi, non abbiamo tempo da perdere.”
“Sì, salvate la vostra stupida dignità, idioti...”mormorò il rosso, socchiudendo gli occhi grigi.
Mentre si girava per seguire il resto del gruppo, Henry lanciò al fratello maggiore un’occhiata enormemente sfastidiata a cui Heymans rispose con il medesimo cipiglio: no, non era un bel modo di augurare il buongiorno al proprio fratello.
In ogni caso, come si furono allontanati, si girò e raggiunse Jean che ancora teneva in braccio la sorellina.
“Va tutto bene, piccola – le disse, accarezzandole i capelli biondi – quei ragazzini non ti daranno fastidio, puoi starne certa. Ci siamo io e tuo fratello a difenderti, mh?”
Ma in verità non gli piaceva per nulla che Henry fosse entrato in qualche modo in contatto con Janet. Proprio no.


 





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Capitolo 6
*** Capitolo 5: Piccoli avvenimenti che sbloccano le situazioni. ***


Capitolo 5: Piccoli avvenimenti che sbloccano le situazioni.



 
Mentre si allontanava con i suoi amici, Henry Breda pensò che era appena stata violata una delle tacite regole che lui e suo fratello si erano imposti: evitare il più possibile i rapporti a scuola. La cosa gli dava enormemente fastidio anche perché era chiaro che tra i due il più forte non era lui, nemmeno con i suoi compagni a spalleggiarlo.
“Ehi, Hen, - disse proprio uno di loro – che ne dici, diamo una lezione a quei due appena ci capita?”
Henry avrebbe tanto voluto dirgli di sì: sarebbe stato il primo a voler umiliare suo fratello, ma non si sentiva ancora pronto per un passo del genere. Fisicamente sapeva che il confronto era impietoso: per quanto l’altezza stesse iniziando a farsi valere anche nel suo corpo da undicenne, a livello muscolare c’era ancora troppa differenza. E poi sapeva benissimo che suo fratello e il suo amico Jean erano tra i migliori combattenti della scuola, a prescindere dal fisico.
“No, per ora no: abbiamo già problemi con le altre bande, non è il caso di aprire contesa anche con gli indipendenti.”
Il suo compagno annuì: gli indipendenti erano personaggi che pochi osavano provocare.
Per quanto fosse una scuola di una realtà relativamente tranquilla, quella piccola società a sé stante che erano i ragazzi aveva nel corso del tempo visto la formazione di alcune bande. I componenti erano di età variabile, in genere amici, fratelli, cugini che si schieravano contro un nemico di uno di loro: gruppi di solidarietà che però erano poi sfociati in vere e proprie bande che avevano scoperto come l’unione faceva davvero la forza. Generalmente non si trattava di ragazzi davvero pericolosi: alla fine qualche rissa, qualche dispetto, qualche brutto tiro erano tollerati, soprattutto perché tendevano a restare entro precisi confini protetti da una strana forma di omertà e di rispetto.
Gli indipendenti si distaccavano completamente da questa situazione: erano ragazzi che le bande avrebbero voluto avere nei loro ranghi, considerata la loro forza, ma che non avevano acconsentito ad unirsi. Nella scuola se ne contavano solo tre: Jean Havoc, Heymans Breda e Roy Mustang… i primi due facevano coppia a se stante e se qualche volta venivano coinvolti in qualche rissa ne erano sempre usciti vincitori. Alcuni ritenevano che, se non fosse stato per Heymans, Jean prima o poi avrebbe ceduto alle lusinghe di qualche gruppo, ma si sbagliavano completamente: il biondo primogenito degli Havoc era certamente una testa calda, ma aveva uno spirito abbastanza indipendente per farsi coinvolgere in quelli che, chiaramente, non erano affari suoi.
Roy Mustang era un discorso ulteriormente differente: molti l’avrebbero visto come leader indiscusso di tutte le bande della scuola, anche per la sua particolare situazione familiare che contribuiva ad accrescere l’aura di mistero, ma se c’era uno superiore era proprio lui. Correva voce che l’anno precedente il capo di una delle bande più forti gli avesse offerto la leadership del gruppo, un onore mai sentito prima, ma lui si era limitato a fare una risata sprezzante e ad andarsene con le mani in tasca.
Ma nonostante questa manifesta arroganza nessuno aveva il coraggio di fargliela pagare: Roy era in primis una preda difficilissima da catturare ed i suoi occhi scuri facevano intendere che poi le conseguenze sarebbero state nefaste. Per questo lui e la sua silenziosa amica Riza erano praticamente inattaccabili.
Insomma gli indipendenti era meglio lasciarli stare… ed Henry preferiva che le cose andassero avanti così, almeno per il momento: si era fatto una discreta fama nella sua banda, anche tra i ragazzi delle superiori che ne costituivano lo stato maggiore. Il suo furto della bandiera della scuola, l’anno prima, gli era valso il rispetto di parecchie persone e l’ultima cosa che voleva era l’intromissione di suo fratello.
Perché nel momento in cui sarebbe entrato in gioco Heymans, lui avrebbe smesso di eccellere.
E questa era una verità che gli dava enormemente fastidio: aveva un tremendo complesso di inferiorità nei confronti di suo fratello, gli invidiava profondamente la sua indipendenza ed il carattere forte che lo facevano emergere con facilità sugli altri ragazzi. Henry voleva superarlo, essere migliore di lui… e l’unico modo in cui potesse farlo era di andare in quei campi che il fratello non frequentava, per esempio le bande.
Ormai gli altri si guardavano bene dal chiedergli se poteva convincere Heymans ad entrare nel gruppo: lo sguardo arrabbiato che aveva lanciato a quegli incauti li aveva messi a tacere; se lui stava in una banda lo faceva come Henry e non come fratello di Heymans.
Sì, si era guadagnato con fatica rispetto e fama tra quei ragazzi, una cosa di cui era veramente fiero: aveva dimostrato di essere un vero duro proprio come desiderava suo padre. Gregor era l’unico che capisse davvero il suo grande valore e lo spronava sempre ad andare avanti… dove Heymans voleva farlo cadere, con le sue prediche su quanto fosse sbagliato quello che faceva, il padre invece lo sosteneva e lo incoraggiava. Ed Henry non aveva mai avuto dubbi su quale delle due campane ascoltare.
E credimi, Heymans, prima o poi farò vedere a tutti chi è il migliore tra noi.
“Ehi, Hen, guarda lì, – disse uno dei suoi compagni, distogliendolo dai suoi pensieri – quel microbo di Fury è arrivato. Gli combiniamo qualche scherzetto?”
Henry sorrise, pensando che forse rivalersi su quel secchioncello poteva rischiarargli la giornata, ma proprio in quel momento un primo embrione di idea gli balenò in mente.
Kain Fury… quasi una proprietà privata di Jean Havoc, il grande amico di mio fratello…
Gli occhi grigi, tendenti all’azzurro, si strinsero pericolosamente mentre seguivano le mosse del ragazzino occhialuto che guadagnava l’ingresso dell’edificio. Avevano già stabilito da inizio anno che, forse, era il caso di far evolvere gli ordinari dispetti rivolti a lui… del resto ormai erano alle scuole medie.
Ma se a questo si poteva aggiungere anche una piccola vendetta nei confronti di suo fratello?
Kain era in qualche modo legato a Jean Havoc e di conseguenza ad Heymans… in quanto tale meritava decisamente qualcosa di più delle solite prese in giro. Henry l’aveva appena promosso come sua vittima per qualcosa di speciale: appena avesse trovato l’occasione buona, avrebbe organizzato una cosa in grande stile che gli sarebbe valsa il rispetto di tutti.
Non posso permettermi di toccare la sorella di Havoc… ma il suo secchione preferito non gode della medesima immunità.
“Lasciamolo stare per ora, Mike… il nostro Kain merita qualcosa di meglio di qualche scherzetto improvvisato.” mormorò con un sorriso.
 
Kain, ignaro di quello che si stava preparando alle sue spalle, quel giorno era particolarmente intimidito da quanto stava per fare: durante l’intervallo, invece di restare nella tranquillità della sua classe vuota, aveva deciso di uscire per andare nelle classi superiori.
Così, quando tutti i suoi compagni si catapultarono fuori dopo le prime ore di lezione, lui prese dalla sua tracolla il libro dei fratelli Grimm e tenendolo stretto tra le braccia, come se fosse il tesoro più prezioso del mondo, si incamminò per i corridoi.
Vato era stato davvero gentile a prestarglielo il giorno stesso del loro incontro. Erano rimasti così tanto a parlare; anzi era più corretto dire che era stato Vato a parlare mentre lui ascoltava rapito tutte le meraviglie che gli raccontava. Quel ragazzo sapeva tantissime storie e leggende e non solo: gli aveva parlato degli animali e delle piante che stavano in quella piccola pozza d’acqua che, con le sue parole, si era trasformata in un posto meraviglioso ed incantato, pieno di vita e di magia.
Si è fatto tardi e devo tornare a casa… e anche tu, mi sa. Però tieni, ti presto il libro: ci sono un sacco di storie che ti piaceranno. Sai, nei prossimi giorni non credo di venire, devo aiutare una mia amica a studiare… puoi tenerlo quanto vuoi.
E con quelle parole gli aveva messo il grande libro tra le mani: Kain si era sentito al settimo cielo per quel gesto di amicizia e fiducia. In un paio di giorni aveva letto tutte quelle storie, sfogliando le pagine con religiosa attenzione e nascondendo il volume in un cassetto della scrivania.
Se doveva essere sincero aveva paura di dire ai suoi genitori che aveva trovato un amico più grande di lui di ben cinque anni: temeva che gli dicessero di frequentare ragazzi della sua stessa età e che gli proibissero di continuare ad andare nel piccolo stagno… e così per la prima volta in vita sua aveva raccontato una piccola bugia a sua madre che gli chiedeva come era andato il suo pomeriggio fuori.
Man mano che si avviava nella parte delle classi superiori si accorse che tutti quelli che incontrava lo guardavano: era davvero insolito che ci fosse una simile invasione di territorio. Sentì le sue guance diventare rosse ed ebbe persino paura che qualcuno lo fermasse e gli chiedesse che cosa ci faceva in quel posto, magari cacciandolo via e prendendogli il libro. Il suo viso si abbassò automaticamente verso il pavimento, concentrandosi sulle travi di legno che lo componevano: sperava che non guardando in faccia nessuno sarebbe passato più inosservato e…
E ovviamente se fissi con troppa intensità il pavimento andrai a sbattere contro qualcuno.
“Io… io… - balbettò – scusa! Davvero… non volevo…”
“Se tieni lo sguardo basso sbatterai sempre contro qualcuno, non credi?” gli disse la voce della persona contro cui aveva impattato.
Si accorse che intorno tutto taceva, tutti i ragazzi avevano smesso di parlare e avevano volto la loro attenzione sulla scena; con il cuore che batteva a mille, Kain sentì una forza invisibile che lo obbligava ad alzare il viso, centimetro dopo centimetro. Vide prima delle scarpe nere, poi dei pantaloni azzurri, le mani dentro le tasche, una camicia bianca… e quando arrivò al viso quasi cadde a terra.
Occhi neri e sottili lo fissavano, sfiorati da ciocche di capelli ancora più scuri.
Qualsiasi sfumatura di colore sparì dal volto di Kain Fury quando capì di trovarsi in presenza di Roy Mustang.
“Beh, Kain, ti chiami così, vero? – disse ancora Roy, tirando fuori le mani dalle tasche e mettendosi a braccia conserte – Hai capito quello che ti ho detto?”
“Io… io…” mormorò il ragazzino con le lacrime agli occhi, sconvolto nel sentire il suo nome pronunciato da quello che era il ragazzo più pericoloso della scuola. Per poco il libro non gli scivolò dalle mani, ma in un involontario spasmo riuscì a tenere la presa
“Tu…?” lo incitò Roy.
“Ehi, nano, cosa ci fai qui?”
La voce di Jean fece quasi resuscitare Kain: il suo biondo tormentatore era qualcosa di più umano e facilmente affrontabile in confronto a Roy Mustang.
“Ma dai, è davvero Kain: – esclamò Heymans avvicinandosi col suo amico – che ci fai qui, ragazzino? Lo sai che qui stanno le classi superiori, no?” 
Kain ora si trovava tra due fuochi: Roy da una parte e Jean ed Heymans dall’altra. Non poteva né proseguire né tornare indietro e tutti e tre lo fissavano. Ma perché gli era venuta in mente l’assurda idea di uscire fuori dalla sua classe?
Se fosse stato più attento avrebbe notato che i tre paia di occhi, azzurri, neri e grigi, non mancavano anche di lanciarsi reciproche occhiate di strano interesse… come se quell’incontro causale si fosse trasformato in un momento di studio tra quei tre indipendenti. Ma Kain non aveva la minima idea del significato di quel tacito scambio di sguardi: pensava solo che stessero decidendo chi avrebbe avuto l’onore di ucciderlo per primo.
Io… io volevo solo… riportare il libro!
“E’ il libro di Vato, vero?” chiese una voce gentile, dietro di Roy.
Sentendo pronunciare il nome del suo amico, Kain alzò gli occhi e vide che a parlare era stata una ragazza che, con disinvoltura, superò Roy e si portò davanti a lui, sorridendogli dolcemente.
“Sì…” mormorò Kain, stringendo ancora di più il libro.
“Vieni, ti accompagno nella sua classe; – disse, mettendogli una mano sulla spalla – intanto piacere, io mi chiamo Elisa e sono una sua compagna.”
 
Roy diede solo una rapida occhiata ai due che si allontanavano, poi tornò a fissare Jean ed Heymans che ancora stavano davanti a lui. Non si erano mai parlati a dire il vero, ma nutriva per loro una sincera e curiosa forma di rispetto, già solo per il fatto che non facevano parte di nessuna banda.
Più che altro sentiva parlare di loro da Riza ed i principali argomenti erano i dispetti che il biondo faceva al giovane Kain. Ma Roy, per quello che aveva avuto occasione di osservare, non vedeva in Jean una reale minaccia per quel ragazzino occhialuto.
“Chi era quella?” chiese proprio il biondo, con una leggera nota di fastidio nella voce.
“Una di quarta superiore, mi pare: – rispose Heymans – non credevo che Kain conoscesse ragazzi così grandi.”
“Geloso Havoc?” chiese Roy, non potendo fare a meno di lanciare quella frecciatina: non voleva assolutamente che quell’incontro casuale finisse con un nulla di fatto.
“Che vorresti dire, Mustang?” ritorse lui socchiudendo gli occhi azzurri.
“Niente, – scrollò le spalle – ma forse il ragazzino ha altri amici oltre te… amici che non lo tormentano.”
“Non credo che i miei affari ti riguardino, Roy. Che c’è? Lo vorresti tu quel moccioso?”
Botta e risposta. Non c’era che dire: Jean non si faceva remore davanti a lui, un gesto genuino che Roy non mancò di apprezzare. Notò anche che Heymans se ne stava a braccia conserte ma con uno strano bagliore negli occhi grigi, segno che anche lui era abbastanza interessato a quell’incontro e…
“Che sta succedendo qui?” chiese Riza, avvicinandosi, leggermente sorpresa nel vedere quei tre interagire tra di loro.
“Abbiamo appena scoperto che il caro Kain ha amicizie in quarta superiore e Jean sembrava quasi geloso.”
“Finiscila, Mustang: diventi noioso dopo un po’. Vieni Heymans, andiamo via.” esclamò Jean girando sui tacchi.
Roy li guardò allontanarsi con quello che si poteva definire un sorriso soddisfatto, un fatto che Riza non mancò di notare: erano poche le cose che non annoiassero il suo amico e scoprire che si trattava di Jean e Heymans fu abbastanza sconcertante.
“Non vi siete mai considerati per tutti questi anni e adesso iniziate anche a parlare?” gli chiese.
“Non ne ho mai avuto occasione – scrollò le spalle Roy, facendole cenno di seguirlo verso il cortile – ma non posso dire che mi dispiacciano quei due. Fidati, Riza, non è da Jean che il tuo prezioso Kain deve temere qualcosa…”
“E la storia dell’amicizia con i ragazzi più grandi?”
“Hai presente quella ragazza di quarta sempre insieme a quello alto coi capelli bicolore?”
“Sì, credo di aver capito di chi parli. Vuoi dire che la conosce?” chiese Riza sorpresa, fermandosi nel mezzo del corridoio.
“No, credo che conosca lui: il tuo piccolo amico ha parecchi lati nascosti a quanto pare.” dichiarò Roy, facendole cenno di raggiungerlo.
“A quanto pare…” ripeté Riza in tono sommesso, riprendendo a seguirlo. Ma automaticamente si strinse le braccia al corpo, quasi a protezione contro qualcosa: non poteva fare a meno di provare una strana delusione dentro di sé.
 
Kain nel frattempo camminava accanto a quella ragazza sconosciuta e così gentile: le arrivava poco sotto la spalla e per diverso tempo non osò alzare lo sguardo su di lei. Ma quando iniziò a parlare fu costretto a prendere contatto visivo.
“Vato mi ha parlato spesso di te in questi giorni; – disse Elisa – e così finalmente conosco pure io il piccolo osservatore dello stagno.”
“Oh, ti ha parlato di me?” arrossì Kain.
Aveva un bel viso quella ragazza e l’aria gentile gli ricordava in qualche modo quella di sua madre. I folti capelli castani le arrivavano poco sotto le spalle con ciocche ribelli che sfioravano gli occhi di un verde intenso, come le foglie del bosco. Indossava una camicetta rosa e una gonna marrone chiaro che faceva intuire un corpo che già stava lasciando l’adolescenza… forse furono tutti questi colori che richiamavano quelli del bosco, o forse fu l’associazione a Vato e ai suoi racconti meravigliosi, ma Kain si trovò a paragonare quella ragazza ad una sorta di fata. Un magico messaggero che il suo amico aveva mandato in suo soccorso.
“Certo che mi ha parlato di te; - sorrise lei, con voce musicale e piacevole –  anzi, credo di doverti delle scuse: è per aiutarmi con alcune materie che in questi giorni non è potuto andare allo stagno. Sono certa che sarà felice di questa tua visita a sorpresa. Eccoci arrivati: ehi, Vato! C’è qualcuno che ti vuole vedere.”
Entrando nella classe vuota, Kain vide il ragazzo dai capelli bicolore che alzava lo sguardo dal libro che stava leggendo, seduto al proprio banco, accanto alla finestra, e sorrideva nel vedere i nuovi arrivati.
“Ciao, Vato, – salutò il bambino, correndo fino al suo banco e sentendosi finalmente al sicuro tra quei due studenti più grandi – ti ho riportato il libro. Grazie mille per avermelo prestato.”
“Oh, non dovevi prenderti il disturbo; – dichiarò lui, prendendo il grosso volume  – potevi ridarmelo nei prossimi giorni…”
Ma si fermò capendo che, con molta probabilità, Kain era anche ansioso di rivederlo.
Se doveva essere sincero quel ragazzino gli piaceva: era più intelligente del previsto e anche molto sveglio; aveva una gran voglia di ascoltare, cosa che era difficilmente riscontrabile negli altri, e poneva sempre domante acute e adeguate.
Quando aveva scoperto l’identità di questo misterioso osservatore era rimasto un po’ perplesso dai cinque anni di differenza, ma non aveva potuto fare a meno di offrirgli la sua amicizia: un gesto insolito per lui, ma era stata una di quelle cose che si sentono giuste per istinto.
Nella sua realtà personale, infatti, Vato Falman aveva poche persone che definiva amici, essendo per natura una persona abbastanza selettiva. L’unica persona che godesse della sua totale confidenza era Elisa… che era anche l’unica a cui avesse parlato di Kain.
La loro amicizia risaliva ai tempi delle elementari e si era fatta di anno in anno più stretta.
Sapeva che in giro c’erano parecchi pettegolezzi su loro due e, anche se entrambi non ci facevano caso, sempre più spesso Vato pensava che non erano del tutto infondati: la ragazza era effettivamente la sua miglior amica, la persona con cui amava passare il tempo… stavano sempre insieme.
Ma riteneva che fosse difficile capire determinate cose ed in ogni caso nessuno dei due ne aveva mai parlato ed il loro rapporto continuava senza alcun problema; che poi Elisa, al contrario delle sue compagne, non cercasse la compagnia di altri ragazzi, era una cosa che gli faceva intimamente piacere.
“Ho letto tutte le storie – dichiarò Kain, mettendo le mani dietro la schiena – mi sono piaciute tantissimo, tutte quante!”
“Ne sono felice. Oggi abbiamo fatto la verifica di scienze e dunque potremmo rivederci, se ti va.”
“Oh, mi piacerebbe tantissimo! – arrossì il ragazzino – Mi sei mancato in questi giorni.”
“A proposito, Kain, – fece Elisa – non pensavo conoscessi Roy Mustang.”
“Oh, lui? No, non lo conosco a dire il vero… ci ho sbattuto addosso per errore.”
“E quegli altri due chi erano?”
“Heymans e Jean? Ecco, loro sono… uhm… in seconda superiore.” spiegò a voce bassa.
… e lui è il mio peggior aguzzino…
Ma non disse altro e gli altri furono abbastanza accorti da rispettare quel silenzio.
“Senti un po’, – disse all’improvviso Elisa – oggi ho portato diverse fette della torta che ho fatto ieri a casa: ne vuoi assaggiare una?”
“Ma io non vorrei…” mormorò Kain.
“Oh andiamo: Vato è sempre così magro che non mi dà mai soddisfazione, anche se mangia sempre tutto quello che gli porto. Avere anche il tuo parere mi farà molto piacere.”
E incoraggiato da quella frase e dal sorriso che anche Vato gli aveva rivolto, Kain accettò quell’offerta.
 
“Credo che siano fidanzati o almeno è la voce che circola… non che lui sia tutta questa bellezza, anzi con quei capelli bicolore. Ma lei è molto carina.” disse Rebecca a Riza, mentre a fine lezione uscivano dalla classe.
“Ti avevo solo chiesto se sapevi chi era, mica di raccontarmi i pettegolezzi che circolano”
“Sono la parte più divertente, che ci posso fare? Vogliamo parlare di quelli che circolano su te e Roy?” chiese la bruna con malizia.
“Spero che non sarai così sciocca da crederci!” si indignò Riza.
“Mh, saresti così crudele da nascondermi il fatto che state insieme, vero?”
“Rebecca…” gli occhi castani della bionda si socchiusero
“In ogni caso a me va benissimo così: – strizzò l’occhio l’amica – il mio Jean è ancora disponibilissimo. Mh, ma che hai?”
L’occhio attento di Riza aveva appena intravisto Kain che, rapido come sempre, guadagnava l’uscita dal cortile. Fu il tempo di un battito di cuore, ma le gambe della ragazza iniziarono a muoversi da sole.
“Senti, ci vediamo domani…” mormorò, iniziando a correre verso quella direzione e lasciando l’amica sorpresa
Non sapeva nemmeno lei perché aveva iniziato a seguire le tracce di Kain, ma si rese subito conto di una cosa: era parecchio veloce. Nel tempo che lei aveva impiegato per superare gli altri ragazzi che uscivano dal cortile e girare l’angolo verso la strada che portava in campagna era sparito. Ma Riza aveva un vantaggio: ora sapeva dove stava casa sua e dunque sapeva che direzione doveva imboccare, senza rischiare di perdersi.
Iniziò a correre disperatamente, sperando che prima o poi lui decidesse di rallentare il passo e dunque la distanza tra di loro diminuisse. Non si fermò ad ammirare i bellissimi alberi le cui foglie iniziavano ad ingiallire, né si accorse dei rumori di uccellini ed insetti, così forti come mai le era successo di ascoltare. Sentiva solo il suo respiro sempre più ansante, eppure era decisa a non mollare.
Finalmente, dopo un cinque minuti di corsa, il sentiero uscì fuori dal boschetto per proseguire su un piccolo ponte di legno sopra un canale. E Kain stava per attraversarlo.
“Kain Fury!” chiamò, decidendo che era il momento di smetterla con quell’andatura.
Le piccole spalle del bambino si irrigidirono, mentre la sua corsa si arrestava bruscamente a metà del ponte. Avvicinandosi, Riza vide con sollievo che si era fermato ad attenderla, le mani che tormentavano la cinghia della tracolla.
Raggiunse il ponte e per la prima volta fissò bene il ragazzino che aveva sempre difeso per istinto: ora non c’erano Jean ed Heymans ad occupare parte della sua attenzione. Fuori dalla scuola, in mezzo a quella tranquilla campagna che sembrava il suo ambiente naturale, le guance arrossate per la corsa, pareva un bambino completamente diverso. Gli occhi neri gli brillavano e non c’era il solito timore che li invadeva in presenza di Jean; la fissava con quella che si poteva definire profonda e timida curiosità, estremamente indeciso su cosa fare. Ma alla fine fu proprio lui a parlare per primo:
“Ciao, Riza.” salutò.
“Ti ricordi il mio nome.” si sorprese lei, appoggiandosi al corrimano di legno.
“E come potrei dimenticarlo? – sorrise lui, timidamente – Anche se Jean ti chiama paladina dei secchioni o guastafeste, qualche volta dice il tuo nome, ed anche Heymans ti saluta sempre.”
Riza rispose a quel sorriso e le fece enormemente piacere sapere che quel ragazzino fosse così attento a quei particolari: la faceva sentire in qualche modo importante; avanzò di qualche passo, con una strana esitazione, quasi avesse paura di vederlo scappare come un animaletto selvatico, fino a raggiungerlo e rimasero a guardarsi negli occhi.
Kain inclinò la testa di lato con il sorriso gentile che continuava ad aleggiargli sulle labbra. Era davvero strano vederlo così sereno e tranquillo… poi si girò e si poggiò al corrimano di legno vecchio, spostando la sua attenzione al canale.
“Riza…”
“Si?”
“Grazie per difendermi contro Jean. – mormorò, guardando le pietre che si intravedevano nel fondo – Sai, avrei sempre voluto dirtelo, sin da quando l’hai fatto la prima volta due anni fa, ma avevo paura di… di darti fastidio. Sai, non è che piaccia molto agli altri ragazzi…”
Era un’affermazione semplice e spontanea, eppure così triste che a Riza si strinse il cuore.

Per un attimo arrivò ad associare la solitudine di Kain a quella di Roy… e alla sua.
E’ per questo che provo affetto per te?
“Oh, non devi porti problemi di questo tipo. – disse d’impulso – Sul serio, mi fa piacere se parli con me e mi saluti: non devi aver paura. Perché non dovresti piacermi?”
“Davvero?” chiese lui con sorpresa, girandosi a guardarla.
“Ma certo!”
“Oh, grazie, Riza. – arrossì lui – Per me vuol dire davvero tanto, sul serio!”
La ragazza sorrise, sentendosi felice nell’aver provocato una simile gioia in quel bambino, solo per avergli offerto la sua amicizia.
“Ma perché sei venuta sino a qui? – chiese all’improvviso Kain – Stavi correndo per raggiungermi: avevi bisogno di qualcosa?”
Riza si irrigidì: in verità era tutto successo così in fretta che nemmeno lei sapeva il reale motivo per cui aveva deciso di seguirlo fino a quel posto, quando avrebbe potuto tranquillamente cercarlo il giorno successivo a scuola. Ma, se doveva essere sincera…
“Ho saputo che oggi ti sei incontrato con Roy.” disse girandosi a guardare quel placido canale.
“Oh sì, spero che non si sia arrabbiato con me.” una leggera tensione comparve nella voce del bambino.
“No, stai tranquillo.” lo rassicurò
“Meno male! – sospirò Kain, appoggiandosi con sincero sollievo al parapetto – Avevo paura che anche lui ora iniziasse a farmi passare guai come Jean… e devo dire che Roy fa molta più paura, anche se Jean è più grosso.”
“A parte Jean va tutto bene?” chiese Riza.
“Mh?”
“Mi hanno detto che conosci alcuni ragazzi di quarta… non lo sapevo. Ti vedo sempre solo.”
“Ah, Vato ed Elisa? Lei l’ho conosciuta solo oggi; a dire il vero anche Vato lo conosco da poco, ma è stato molto gentile con me: volevo ridargli un libro che mi aveva prestato, ecco perché sono andato nella parte delle classi superiori.”
“Dovevi ridargli un libro…” mormorò la ragazza, capendo finalmente la situazione.
Però, ora che aveva parlato con Kain non si sentiva più minacciata dalla presenza di quei nuovi ragazzi. Intuiva di avere un posto ben speciale nel suo cuore.
“Adesso devo proprio andare. – dichiarò il bambino – Mia mamma si preoccuperà se tardo per il pranzo… anche a casa tua ti aspetteranno, no?”
Riza si irrigidì, ma si riprese subito: no, Kain non poteva sapere.
“Buon pranzo, allora – annuì – ci vediamo domani a scuola.”
“A domani, Riza!” salutò lui correndo dall’altra parte del ponte.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6. Turbamenti. ***


Capitolo 6. Turbamenti.


 
“Mi piace, lo trovo molto dolce e simpatico: – dichiarò Elisa tutto ad un tratto – sono davvero felice che tu abbia fatto amicizia con lui.”
A quella dichiarazione così improvvisa, mentre camminavano tranquillamente per tornare a casa, Vato si fermò in mezzo alla strada.
“Perché dici una cosa simile?”
“Perché sono sorpresa: - rispose lei, incitandolo a raggiungerla – non è che tu cerchi molto la compagnia di altri ragazzi. Quando mi hai raccontato di lui la prima volta stentavo a credere che gli avessi anche prestato uno dei tuoi preziosi libri… per te è un gesto di fiducia molto grande.”
Vato arrossì, rendendosi conto per la centesima volta di quanto Elisa lo conoscesse bene: non poteva darle torto sull’analisi che aveva fatto. E se doveva essere sincero era anche lui molto sorpreso dalle proprie azioni: in genere non agiva così d’istinto. Girandosi verso la sua amica e incontrando i suoi occhi verdi ed incuriositi, provò a spiegarsi:
“Beh, la prima volta sarebbe stato scortese dirgli di andare via, specie quando ho visto che era così giovane. Mi ha fatto molta simpatia… però, sai, mi sono accorto che è davvero un ragazzino intelligente: ho trovato la sua compagnia stimolante e mi è venuto quasi spontaneo prestargli il libro. Sono felice di constatare che la mia fiducia sia stata ben riposta.”
“Mi è sembrato un bambino molto solo – commentò Elisa, salendo con agilità sopra un basso muretto, come faceva sin da quando era bambina e, automaticamente, Vato si accostò a lei pronto a fornirle sostegno; una cosa inutile dato il buon senso dell’equilibrio dell’amica, ma lui non ne poteva fare a meno – hai visto come è rimasto silenzioso quando gli ho chiesto di quei ragazzi?”
“Sì – mormorò lui, incupendosi – beh, l’hai visto pure tu: è un soggetto facile da prendere di mira.”
“Però  a te non hanno mai preso di mira, nonostante fossi un… secchione” constatò Elisa appoggiandosi alla sua spalla per scendere con un piccolo balzo dal muretto.
Vato si fermò ancora, la mano di Elisa ancora sulla sua spalla: gli piaceva quando la sua amica gli concedeva quel contatto fisico… e sapeva altrettanto bene che erano i momenti in cui potevano confidarsi l’uno con l’altra.
“E’ diverso, Eli: – scosse il capo, facendo muovere i ciuffi bianchi sulla fronte – sono sempre stato alto per la mia età e forse questo ha messo un freno a quelli che potevano darmi fastidio. E’ vero, non ho mai avuto amici, eccetto te, ma… è stata una mia deliberata scelta: non sono stati gli altri ad escludermi, come invece è successo con Kain, ci scommetto.”
“Però a me non hai escluso.” esclamò lei, con un sorriso soddisfatto, puntandogli l’indice sul naso.
“E come avrei potuto? – sorrise lui – Se anche ti avessi voluto escludere tu non  mi avresti dato tregua…”
“Certo, se volevi continuare a frequentare la libreria di mio nonno dovevi essere mio amico: - borbottò lei, facendo la finta offesa – grazie mille, credevo che la nostra amicizia fosse disinteressata.”
“Che? Ma no, Eli, non volevo dire questo! – protestò subito lui, arrossendo – Non avrei mai… eh, ma tu stai ridendo!”
Elisa si portò la mano alla bocca per contenere la risata, ma poi non ce la fece e la sua voce cristallina risuonò felice nella strada di campagna.
“Scusami, Vato – sorrise infine, asciugandosi una lacrima all’angolo dell’occhio – ma sei irresistibile quando cadi ancora in questo scherzo.”
“Divertente…” sospirò lui, imbronciato, rendendosi conto che c’era cascato ancora.
Ma subito Elisa si accostò a lui e gli prese la mano.
“Non mi dire che ti sei offeso.” mormorò, sorridendogli in quel modo così speciale di cui Vato sapeva di avere l’esclusiva. No, come poteva sentirsi offeso se lei gli sorrideva in quel modo?
“No, Eli, non potrei mai con te…” rispose.
Rimasero per qualche interminabile secondo in quella posizione, come succedeva ormai da mesi, aspettando che succedesse quello che entrambi sapevano che prima o poi sarebbe successo. Ma anche questa volta non ci fu niente: con un sospiro imbarazzato Vato si trovò a girare la testa di lato, lanciandole un’occhiata quasi a chiederle scusa. Lei scosse le spalle con noncuranza, come per dire che non faceva niente… si vedeva che non era ancora il momento.
Il pensiero del giovane Kain era completamente sparito dalla mente di Vato: continuava a chiedersi perché quello che sembrava così naturale nei libri e nei romanzi non poteva accadere anche a lui ed Elisa.
Passare da amici a fidanzati non era così scontato come poteva sembrare… ed un primo bacio era davvero una faccenda difficile da gestire.
Ripresero a camminare in silenzio, fino a quando arrivarono nel mezzo del centro abitato.
“Oh, guarda, c’è mio padre: – disse Vato – chissà cosa sta succedendo…”
Si avvicinarono con curiosità a quel piccolo gruppo di persone: il giovane conosceva solo suo padre, con la sua uniforme da poliziotto, gli altri sebbene magari li avesse visti in giro, non sapeva chi erano.
“Ciao papà, – salutò il ragazzo – che succede?”
“Buongiorno, signor Falman” salutò educatamente Elisa.
“Ciao ragazzi, - rispose l’uomo, praticamente la versione adulta di Vato, se non fosse stato per i capelli completamente scuri, senza quello strano bicolore – oh, niente di particolare. C’è stato un nuovo crollo alla vecchia miniera: sarebbe proprio il caso di fare qualcosa.”
“La vecchia miniera di carbone oltre il fiume? – chiese incuriosito Vato – Ma non ci lavora più nessuno da almeno quindici anni.”
“E’ vero, ragazzo – annuì uno degli altri uomini – ma ogni tanto ci sono ancora dei crolli al suo interno. Ne abbiamo sentito uno proprio mentre passavamo lì vicino: dovremmo provvedere a sigillarla per sempre. Non è bene lasciare l’ingresso così accessibile.”
“Già, - annuì Vincent Falman – il problema è che quella miniera era gestita direttamente dal governo centrale: purtroppo non possiamo agire di nostra iniziativa… ma provvederò domani stesso ad inviare una richiesta a chi di dovere. Anzi, se trovassi qualcuno in grado di fare una perizia, sarebbe un buon supporto da allegare al documento.”
“Potrebbe farla il padre di Kain, - commentò Elisa, d’impulso – lui è un ingegnere.”
“Chi?”
“E’ un nostro amico a scuola. – spiegò Vato, trovando l’idea della sua amica ottima – Kain Fury: suo padre si sta occupando dei lavori all’argine del fiume.”
“Ah, certo! – annuì un uomo, sorridendo – Possiamo fidarci di lui, è molto competente.”
“Molto bene, allora provvederò a parlargli domani stesso.”
Rassicurato da quella notizia, il capannello di persone si sciolse e Vincent rimase solo con i due ragazzi.
“Beh, io ora vado, mi aspettano per pranzo. Arrivederci” si congedò Elisa con un sorriso.
“Ciao Elisa, – salutò Vincent – vieni a trovarci quando vuoi a casa.”
“Non mancherò signore. Ciao Vato, a domani!”
“Ciao…” mormorò Vato.
Padre e figlio si incamminarono verso casa, in silenzio come spesso succedeva.
“Non sapevo che avessi un nuovo amico, parlo del figlio dell’ingegnere”
“Oh, lo conosco da poco a dire il vero, - spiegò Vato, arrossendo per il fatto che tutti fossero incuriositi da questa sua nuova improvvisa amicizia – e mi ha fatto una buona impressione: piace anche ad Elisa.”
“E’ in classe con te?”
“A dire il vero ha undici anni…” confessò Vato, sperando che il padre non facesse problemi per quell’amicizia così strana data la differenza d’età.
“Vuoi dire che è in prima media?” si sorprese Vincent.
“Sì, però è molto più intelligente di tutti i suoi coetanei, ne sono certo – Vato scrollò le spalle, iniziando a chiedersi perché dovesse rendere giustificazioni per quella sua scelta. Non c’era niente di male nell’avere come amico quel ragazzino – Ci siamo conosciuti ad inizio anno scolastico e mi ha fatto una bella impressione.”
“Mi pare strano che con cinque anni di differenza abbiate gli stessi interessi…”
“Gli piacciono molto i libri che leggo io e ne parliamo. –  disse sbrigativamente. Poi decise di cambiare argomento – Credi che ci vorrà molto per far chiudere quella miniera?”
“Dipende da quanto Central ci impiegherà a prestare attenzione alla questione; in ogni caso avviseremo tutti quanti del nuovo crollo, così non ci sarà il rischio che qualcuno si avventuri in quel posto.”
Vato annuì, orgoglioso di quanto suo padre fosse un poliziotto bravo ed efficiente. A dire il vero il posto dove vivevano era molto tranquillo e Vincent Falman con la sua squadra di sei uomini non aveva mai grandi compiti a cui adempiere. Tuttavia erano delle figure rassicuranti per la piccola comunità, in grado di essere presenti nella realtà quotidiana con discrezione e concretezza.
Nel frattempo erano giunti a casa.
“Vato, sei tu?” chiamò la madre dalla cucina.
“Sì, mamma, siamo io e papà!” rispose lui.
“Oh, ottimo! Dieci minuti ed il pranzo è pronto, va bene?”
“Va bene, – annuì il ragazzo, mentre il padre gli dava un’arruffata ai capelli bicolore – quando è pronto chiamatemi. Io sono in camera.”
Come la porta si fu chiusa alle sue spalle, Vato guardò con sommo orgoglio la grande libreria che occupava un’intera parete e che era colma di libri di ogni tipo. Prese il volume dei fratelli Grimm dalla tracolla e lo ripose nello spazio vuoto destinato a lui: adesso non c’erano più lacune e tutto era in perfetto ordine, proprio come voleva. Non che gli fosse dispiaciuto prestare il libro a Kain, tutt’altro, ma era abbastanza maniacale per certe cose, specie per i suoi libri. Sistemando meglio il libro in modo che fosse perfettamente allineato con gli altri, la sua mano sfiorò uno dei suoi romanzi polizieschi preferiti e pensò a suo padre.
Certo, nei libri che leggeva Vato i poliziotti facevano ben altro: indagini incredibili contro grandi criminali che venivano puntualmente consegnati alla giustizia, ma crescendo si era reso perfettamente conto che la parola scritta, per quanto bella, non rispecchiava la realtà dei fatti… non nella maggior parte dei casi.
Un po’ come per la questione del primo bacio: a volte gli era capitato di leggere scene simili (ma solo perché inserite in trame ben differenti) dove tutto sembrava estremamente facile.
Già, facile dare un bacio in cinque righe… nessuno di quei personaggi prova la tremenda voglia di sbattere la testa contro il muro per la propria sciocca indecisione.
Con un sospirò abbandonò la libreria e si diresse alla scrivania: aprì un cassetto e da un quaderno tirò fuori una fotografia: sedendosi la osservò con un sorriso malinconico. Era stata scattata quell’estate in occasione di una festa campestre… una delle tante che si organizzano quasi per caso quando ci sono giornate particolarmente belle ed il lavoro consente di fare una pausa. Elisa l’aveva praticamente trascinato, sostenendo che aveva preparato un sacco di roba da mangiare e non aveva alcuna intenzione di darla ad altri (anche se a dire il vero il cibo era tutto in grandi tavolate messe a disposizione di tutti quanti i partecipanti)… aveva anche provato a convincerlo a ballare, ma proprio lui non se l’era sentita.
Oggettivamente non era stato un buon accompagnatore a quella festa, anche perché non gli piacevano le occhiate maliziose che tutti avevano lanciato nella loro direzione: mentre Elisa sembrava non farci caso, lui invece le sentiva addosso come tante frecce acuminate.
Però quella foto, scattata per caso dal cugino di Elisa, gli piaceva veramente tanto: lei si era aggrappata al suo braccio, in un gesto d’intimità che fino a quel momento non gli aveva mai concesso e la cosa l’aveva enormemente sorpreso e reso felice… effettivamente nella foto anche lui aveva un sorriso più che soddisfatto.
Proprio non riusciva a capire perché determinate cose fossero spontanee, mentre altre…
“Vato, vai a lavarti le mani che è pronto!”
“Arrivo, mamma!” esclamò, rimettendo a posto la foto dentro il cassetto.
Alzandosi dalla sedia scrollò la testa bicolore e decise di abbandonare quei pensieri improduttivi: l’ultima cosa che voleva era che sua madre si accorgesse di questo suo turbamento ed iniziasse a fare domande su lui ed Elisa.
Decisamente non era il caso.
 
Se Vato voleva nascondere i suoi turbamenti a sua madre, Kain si trovava nella situazione opposta.
Si sentiva terribilmente in colpa a non aver ancora detto ai suoi genitori della sua amicizia con quel ragazzo più grande… e ora si erano aggiunte anche Elisa e Riza nella lista. Tutte persone più grandi di lui.
“Kain? – lo chiamò sua madre, mettendogli un dito sulla punta del naso – Che hai? Sembri perso in un mondo tutto tuo. Ti ho chiesto se, per favore, apparecchiavi.”
“Che? Oh, certo, mamma, scusa!” arrossì lui, alzandosi dal divano dove si era seduto appena tornato da scuola, sprofondando nei suoi pensieri. Seguì la donna in cucina e prese le stoviglie che lei gli porgeva, andando a disporle nel tavolo… solo allora si rese conto che quel giorno avrebbero mangiato in due.
“Come, papà non torna?”
“No, caro, devono terminare una cosa giù al fiume e non possono interrompere: torna direttamente stasera.”
“Oh…” mormorò lui, dispiaciuto.
Però, se suo padre era assente… con sua madre aveva molta più facilità di dialogo e non si sarebbe sentito troppo a disagio nel confidargli quelle cose. Il fatto era che le sue problematiche relazionali erano quasi un argomento proibito a casa: le volte che se ne era parlato l’aveva finita in camera sua, silenziosissimo, a smontare e rimontare sempre la stessa radio. Erano forse le uniche volte in cui si era lievemente offeso con suo padre, non che lui l’avesse sgridato.
Reagire da grande… è questo che dice sempre. Ma come si fa quando ad incombere su di te è Jean Havoc?
Ovviamente Kain si era tenuto questo pensiero per se, senza dire niente al genitore. Alla fine si era abituato alla sua situazione di vittima e aveva imparato a non mostrare il broncio davanti a nessuno: gli dispiaceva essere considerato così debole… insomma, già aveva fatto preoccupare così tanto i suoi genitori quando era piccolo, che aggiungere anche questo problema gli sembrava davvero ingrato.
“Mamma…”
“Sì?”
“Ho fatto amicizia con dei ragazzi a scuola.” disse tutto d’un fiato, senza alzare gli occhi su di lei, continuando a fissare il piatto che teneva in mano. Il silenzio che regnò in cucina fu tale che fu certo di sentire il rumore dell’aria che si muoveva impercettibilmente.
Ellie si accostò al figlio e gli prese il piatto di mano, mettendolo nel tavolo; poi si inginocchiò accanto a lui e gli mise una mano sulla guancia.
“E’ una bellissima notizia: che cosa c’è che ti turba, amore mio?”
“E’ che… - mormorò il bambino alzando gli occhi su di lei, incoraggiato da quel gesto – loro sono più grandi di me… e ho paura che tu e papà non vogliate che parli con loro.”
Ellie accarezzò i capelli arruffati, guardandolo con gentile curiosità: a volte suo figlio si ingarbugliava in ragionamenti davvero strani, creandosi paure che non avevano motivo di esistere. Si teneva tutto dentro, in un piccolo universo di dubbi su se stesso e sulle sue difficoltà, sminuendosi in maniera incredibile.
Per quanto a casa fosse un bambino sereno, la donna sapeva benissimo cosa circolava nella testa di quel suo unico figlio: se da una parte ne era preoccupata, dall’altra ne era in qualche modo affascinata ed intenerita.
“Beh, se hai fatto amicizia con queste persone, devono essere davvero speciali; – sorrise, aiutandolo a superare queste fantomatiche paure – mi vuoi parlare di loro?”
A quelle parole il viso del bambino si illuminò e, profondamente incoraggiato, iniziò a raccontare dei suoi nuovi amici: le ansie che aveva avuto fino a qualche momento prima svanirono, nella certezza di aver, come sempre, trovato in sua madre una persona profondamente comprensiva. E così, Vato ed Elisa vennero introdotti ad Ellie grazie alle descrizioni del figlio: un po’ strane a dire il vero dato che c’era sicuramente una grande componente fantastica, specie nel primo incontro nello stagno, ma Ellie adorava sentirlo parlare con quell’entusiasmo, mischiando realtà e ingenua fantasia.
“E poi Elisa ha fatto una torta buonissima…” dichiarò, mentre la donna era girata ai fornelli per controllare il pranzo.
“Ah!” esclamò, con aria leggermente offesa.
“Eh? Ma no, mamma! – si corresse subito Kain, scendendo dalla sedia e abbracciandole la vita – Le tue sono una cosa completamente diversa: per me sono le migliori del mondo.”
“Stai dicendo così solo perché sai che questo pomeriggio ne devo fare una, vero?”
Il bambino sorrise, intercettando la strizzata d’occhio della madre ed entrando pure lui nell’atmosfera dello scherzo. Si sentiva così rilassato che decise anche di parlare di Riza.
“Mamma, c’è anche un’altra ragazza che è… mia amica. Però forse lei la conosci, almeno di nome…”
E chi non conosceva la figlia dello strano studioso?
“Ah sì?”
“E’ Riza Hawkeye…”
Ecco, forse su di lei Kain aveva qualche dubbio a parlarne: non che in Riza ci fosse qualcosa che non andava, ma quelle storie che si raccontavano su suo padre non erano proprio incoraggianti. E infatti vide che il viso di sua madre assumeva un’espressione pensosa, il cucchiaio che mescolava in maniera del tutto automatica… tanto che Kain prese coraggio e per difendere la sua nuova amica decise di dire qualcosa anche sulle problematiche con gli altri ragazzi.
“Lei… lei mi difende sempre contro un ragazzo che se la prende con me…” mormorò con voce flebile, le punte dei suoi capelli dritti che sembravano afflosciarsi per aver introdotto l’argomento proibito.
Perché se ci fosse stato suo padre non avrebbe mai osato dire una simile frase; e la tensione si impadronì di lui come sempre succedeva.
“Mamma… - aggiunse subito – per favore, non dirlo a papà… lui non…” si accorse che una lacrima gli stava pizzicando l’occhio destro.
Lui vorrebbe che risolvessi la questione da solo…
“Kain…” sospirò Ellie, accarezzandogli i capelli corvini.
“Riza non ha niente di sbagliato…” mormorò lui.
“No, tesoro, sicuramente non ha niente di sbagliato quella ragazza. E se tu sei felice di averla come amica a me va benissimo, tranquillo.”
Non aggiunse che non avrebbe detto niente ad Andrew, ma sapeva che il bambino l’avrebbe capito.
Non che Andrew non adorasse il proprio figlio, tutt’altro, ma tendeva a pretendere da lui degli atteggiamenti che non erano nella sua natura. Ellie non era affatto sorpresa che queste prime amicizie fossero con dei ragazzi più grandi di lui… le prese in giro, i dispetti venivano in primis dai suoi coetanei.
E se Kain si trovava bene con quelle persone, lei non avrebbe avuto problemi ad accettarli.
 
“Jean, aspettami, vai troppo veloce!” protestò Janet, cercando di tenere il passo con le falcate del fratello.
“Muoviti, non ho voglia di stare ad aspettarti.” esclamò il biondo, rallentando lievemente l’andatura.
Janet gli corse accanto e gli prese la mano, giusto per evitare di essere lasciata indietro per l’ennesima volta: il passo rapido e nervoso che aveva tenuto il fratello per tutta la strada del ritorno l’aveva fatta stancare più del previsto, anche perché casa loro era abbastanza distante.
Sentì che il fratello non ricambiava la stretta e alzando lo sguardo verso il suo viso, la bambina capì che gli doveva essere successo qualcosa che l’aveva fatto arrabbiare.
“Hai preso un brutto voto?” gli chiese, cercando contemporaneamente di tenere il passo.
“No.” borbottò lui.
“Hai litigato con Heymans? Eppure sembrava tranquillo quando ci siamo salutati.”
“No.”
“Hai…”
“No!” esclamò Jean, interrompendo quella serie di domande infantili e irritanti.
“Antipatico!” si arrabbiò la bambina, mollando la presa sulla sua mano. Gli fece una linguaccia e poi corse in avanti nel sentiero, lasciandolo da solo.
“Mocciosa…” borbottò Jean, socchiudendo gli occhi azzurri nel vederla scomparire nel sentiero: casa loro si vedeva in lontananza… di certo non correva il rischio di perdersi. Sperava solo che non avesse il cattivo gusto di lamentarsi con la loro madre: la giornata aveva preso una brutta piega e non aveva voglia di sorbirsi l’ennesima predica sull’essere più gentile con sua sorella.
Era arrabbiato, certamente, e aveva la lucidità di capirne il motivo: Roy Mustang. In tutti i suoi anni di litigi ed eventuali scontri con altri ragazzi, Jean l’aveva sempre evitato e Roy aveva fatto altrettanto. Non erano sciocchi: sapevano di essere i più “pericolosi” della scuola, anche rispetto a quelli delle classi superiori; per una sorta di tacito accordo non avevano mai sentito l’esigenza di venire a contatto, una cosa che, inevitabilmente, avrebbe portato allo scontro.
Jean non lo temeva, assolutamente: quel ragazzo bruno e silenzioso poteva essere anche più grande di lui di un anno, ma fisicamente non poteva competere. E anche se Mustang aveva notevoli doti che andavano oltre la mera forza fisica e dunque era tutto meno che da sottovalutare, il biondo non si sarebbe tirato indietro, assolutamente. In cuor suo aspettava questo momento da tempo.
Tuttavia…
Geloso, Havoc?
Ecco dove stava il vero problema: quella dannatissima domanda continuava a bruciare nell’orgoglio del quattordicenne. Se c’era una cosa che non tollerava erano le prese in giro: solo Heymans se le poteva permettere e sempre quando erano solo loro due. Una simile domanda ironica posta da Mustang, in pieno corridoio, davanti a tanti altri ragazzi, equivaleva quasi ad una dichiarazione di guerra: l’aveva apertamente insultato e la cosa non poteva essere dimenticata.
“E la colpa di chi è? – sbottò, dando un calcio ad un ciottolo che stava sulla strada – Di quel dannatissimo secchione! Ma giuro che gliela faccio pagare! Geloso, eh?! Ti insegno io a stare al tuo posto, Kain Fury!”
E questa volta non ci sarebbe stata nessuna Riza Hawkeye che tenesse. 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7. Conseguenze. ***


Capitolo 7. Conseguenze.

 

“Ehilà, Roy-boy, come andiamo oggi?”
“Come al solito Madame Christmas – scrollò le spalle il ragazzo, mentre terminava di scendere le scale e si avvicinava al bancone – pronto ad un’altra eccitante giornata a scuola.”
“Quindici anni e acido come una zitella di sessanta! – rise la grassa donna – Guarda che il tuo bel faccino da solo non basta per fare strada, caro mio. Alle ragazze piace anche essere trattate con garbo.”
“Con te credo di potermi permettere di essere sincero.” sorrise Roy, mentre sua zia gli serviva una tazza di caffellatte e del pane tostato.
“Ahah, se i clienti vedessero un ragazzino come te fare colazione al bancone dove di solito servo gli alcolici forse non si farebbero più vedere. Meno male che a quest’ora le ragazze sono ancora a dormire: la mattina non è il loro momento.”
Roy rispose al sorriso della zia e pensò che effettivamente vedere quel locale così silenzioso e tranquillo la mattina era una vera e propria stranezza. Madame Christmas gestiva l’unico locale un po’ particolare della piccola comunità che dunque era proprio autosufficiente in tutto. Nonostante la maggior parte della gente fosse perbene e persino un po’ conservatrice, un locale dove c’era la compagnia di belle signorine era sempre richiesto. Roy le conosceva tutte, una per una, e le trovava molto simpatiche: spesso riteneva che quelle ragazze fossero molto più sincere e genuine di molte persone che conosceva… avevano le loro storie alle spalle, certo, ma la loro anima non era contaminata.
La maggior parte della gente era rimasta scioccata quando Madame Christmas, otto anni prima, aveva accolto nel suo locale quel bambino, figlio del suo defunto fratello. Sicuramente era l’ultimo posto adatto a farlo crescere; ma lei era l’unica parente rimasta a quell’orfanello e aveva tutti i diritti legali per prendersi cura di lui. E così Roy era cresciuto con la sua camera al piano di sopra di quel locale particolare addormentandosi ogni sera con le risate e la musica che proveniva dal piano di sotto.
Nonostante questa particolare infanzia, Roy non aveva subito nessun trauma, come invece potevano pensare in molti. Sua madre se la ricordava appena, dato che era morta che lui aveva appena tre anni, e anche suo padre era così assente da casa che non ne aveva sentito molto la mancanza quando era deceduto. Quella zia così particolare e le ragazze del locale erano state una famiglia alternativa più che sufficiente.
“Beh, io vado, Madame – salutò il ragazzo, scendendo dall’alta sedia e sistemandosi la tracolla – ci vediamo dopo.”
“Fatti valere, Roy – boy.”
“Perché mi devi sempre chiamare così? – chiese lui con un sorriso rassegnato – A quindici anni non sono più così piccolo.”
“Chissà, dato che tutte le mie ragazze hanno un nomignolo, mi sembrava divertente darlo anche a te.”
Decisamente sua zia era una delle pochissime persone che gli sapesse rispondere a tono e la cosa lo faceva enormemente divertire. Era anche una delle poche persone che trovasse degne di nota in quel paese che stava iniziando a diventargli stretto, ogni giorno che passava. Sentiva che quei ragazzi, quella scuola, quella gente, non erano fatti per lui. Avrebbe voluto fare qualcosa di grande nella vita, ma in quel posto così chiuso in se stesso non ci sarebbe mai riuscito.
Roy Mustang era uno di quei ragazzi definiti piccioni viaggiatori: quelli che prima o poi sarebbero andati via dal paese e chissà se mai sarebbero tornati. E Roy per ora trovava ben pochi motivi per starci e per eventualmente tornarci: aveva bisogno di stimoli, non poteva continuare a trascorrere le sue giornate così e…
“Buongiorno, Roy.”
“Ciao, Riza, è molto che aspetti?” domandò alla sua amica, mentre si incamminavano verso scuola.
“Un dieci minuti, ma oggi sono uscita un po’ prima…”
Roy annuì ma non disse niente: quell’uscita anticipata voleva dire che il vecchio Hawkeye non era nel suo studio ma in giro per la casa… e niente turbava Riza più di questo.
L’alchimia: quella sì che era una cosa che lo affascinava tantissimo: gli sarebbe piaciuto accostarsi a quella materia così strana e misteriosa e Berthold Hawkeye poteva essere il maestro che cercava.
Certo era una persona molto stramba e solitaria e al ragazzo dispiaceva sinceramente che Riza si trovasse ad essere praticamente sola…
Ma chissà cosa tutto si può fare con quella meravigliosa scienza: con quella potrei davvero compiere qualcosa di grande e andare lontano da qui.
“Roy…”
“Dimmi pure.” si riscosse lui, girandosi a guardare Riza.
“Oggi ti posso presentare Kain?”
Quella richiesta lo lasciò sinceramente sorpreso: l’argomento Fury era davvero particolare e quell’anno scolastico sembrava che saltasse fuori più spesso del previsto.
“Perché dovresti presentarmelo?” domandò con curiosità.
“Ieri l’hai spaventato molto e aveva paura che ti fossi arrabbiato perché ha sbattuto contro di te.”
“Ah, allora ci hai parlato.”
“L’ho seguito dopo la scuola a dire il vero – confessò Riza scrollando le spalle – e gli ho offerto la mia amicizia.”
“Riza… –  sospirò Roy, fermandosi e girandosi a guardarla. L’aveva sempre trovata interessante così fragile e al tempo stesso forte, a volte un libro aperto, altre volte un mistero da svelare, come in questo caso – che ha di speciale quel bambino?”
La ragazza esitò per qualche secondo, ma resse lo sguardo di quegli occhi neri: forse l’unica che ci riuscisse.
“Ha di speciale che ora è mio amico, - disse infine con il lieve sorriso che indicava come lui dovesse semplicemente accettare quel fatto – e mi piacerebbe che fossi tu stesso a dirgli che non sei arrabbiato con lui.”
“Sei gelosa del fatto che abbia stretto amicizia con quei due di quarta superiore?” azzardò Roy, cercando di trovare una risposta a quella strana decisione della sua amica.
Ma lei scosse il capo, e le corte ciocche bionde si spettinarono leggermente: no, gelosa non era il termine giusto.  La semplice verità era che Riza era una ragazza estremamente sola se non fosse stato per Roy e Rebecca: Kain era una figura da proteggere, un qualcuno che aveva bisogno di lei, al contrario di suo padre… ed il giorno prima aveva avuto paura di perderlo.
Le parole che le aveva rivolto quel bambino, in quel ponte sopra il piccolo canale, l’avevano fatta sentire così bene… sapere di essere importanti per qualcuno…
Sì, aveva avuto paura che, trovando Vato ed Elisa, Kain avesse improvvisamente smesso di avere bisogno di lei.
“No, non sono gelosa. Non ti devi sentire obbligato, davvero…” disse lei, riprendendo a cammninare.
Roy sospirò e riflettè su quel ragazzino occhialuto: non aveva niente contro di lui. Non aveva mai passato la fase di prendersela con i secchioni… fase in cui invece Jean Havoc ancora sguazzava; riteneva Kain Fury un semplice bambino di prima media, troppo timido e impaurito, peggio di un coniglietto: per poco non sveniva quando l’aveva riconosciuto.
Dovrebbe imparare a tenere lo sguardo alto… non capisce che così sarà sempre vittima?
Però era anche vero che poteva essere quel tipo di bambino che suscitava tenerezza nelle ragazze: di sicuro l’aveva suscitata in Riza. E Riza era la sua unica amica e se per lei era così importante…
“Va bene, presentamelo pure: sperando che non se la faccia addosso.” disse con aria annoiata.
Ricambiando il sorriso felice che Riza gli aveva appena rivolto, Roy sentì che tutto sommato aveva appena colto due piccioni con una fava: principalmente aveva fatto felice la sua amica, ma una piccola parte di lui sapeva che quell’incontro poteva porre fine allo strano equilibrio che aveva tacitamente raggiunto con Jean Havoc… e la cosa non gli dispiaceva più di tanto.
Perché la maggior parte dei ragazzi della scuola annoiava Roy Mustang, ma Jean Havoc ed Heymans Breda erano una coppia per cui poteva valer la pena approfondire la conoscenza. Anche se aveva la netta impressione che il primo impatto con il biondo di seconda superiore non sarebbe stato amichevole, ma la cosa non lo spaventava, anzi, lo elettrizzava.
Vediamo quanto fegato hai, Havoc… sono proprio curioso.
 
 “Kain – chiamò Riza, affacciandosi nella sua classe durante l’intervallo – puoi venire?”
“Ciao Riza, - salutò il bambino, alzandosi dal suo banco e andando incontro alla ragazza – come stai?”
“Bene; non ti ho visto stamattina all’entrata.”
“Oh, sono arrivato in anticipo, tutto qui: quindi quando sei arrivata tu dovevo essere già dentro la classe. – spiegò lui, mentre si incamminavano per i corridoi ed uscivano in cortile – Ti posso aiutare in qualche modo?”
“No, – scosse il capo lei, mentre superavano i soliti gruppi di ragazzi e si dirigevano verso un angolo dove stavano alcuni alberi – a dire il vero volevo presentarti qualcuno. Anche se in qualche modo lo conosci già dato che ieri ci hai sbattuto contro.”
A quelle parole il viso di Kain si fece pallido e si fermò esitante.
“Roy?”
“Andiamo, – sorrise incoraggiante Riza, mettendogli una mano sulla spalla e incitandolo a proseguire – vuole solo conoscerti meglio. Non è arrabbiato con te, tranquillo.”
Annuendo con estremo timore, il ragazzino si fece condurre in quel posto che sembrava che gli altri studenti evitassero di proposito, territorio incontrastato di quella personalità così importante. Come era sua abitudine, abbassò lo sguardo a terra mentre si avvicinavano all’albero dove stava poggiato Roy e così tutto quello che vide furono le sue scarpe nere.
“Non ti avevo dato un suggerimento a proposito del tenere lo sguardo a terra?” disse una voce che fece sussultare interiormente Kain, per quanto non ci fosse nessuna minaccia nella frase che gli aveva appena rivolto. Se non fosse stato per la mano di Riza sulla sua spalla sarebbe scappato via senza pensarci due volte.
Comunque in quella frase era praticamente implicito un ordine e così Kain si ritrovò ad alzare lentamente lo sguardo, proprio come era successo l’altra volta, fino ad incontrare gli occhi scuri di Roy Mustang. Il ragazzo di terza superiore era posato pigramente al tronco dell’albero, le braccia conserte, e la camicia bianca arrotolata fino ai gomiti: guardandolo bene Kain notò che era parecchio più basso rispetto a Jean, tuttavia aveva un magnetismo incredibile, cosa che al suo biondo aguzzino mancava.
“Bene, così va meglio: – disse la voce annoiata di Roy, anche se un sorriso soddisfatto gli apparve sul viso – mi piace guardare negli occhi la gente con cui parlo. E’ indice d’onesta, lo sapevi?”
“Ma io lo sono.” dichiarò Kain, impulsivamente, credendo che gli fosse stata appena rivolta l’accusa di non essere un ragazzo onesto per il semplice fatto che spesso teneva lo sguardo basso.
“Ah, ma allora riesci anche a parlare senza balbettare: sei una vera fonte di sorpresa Kain Fury. Hai visto quante cose si ottengono a tenere lo sguardo alto?”
“Roy, dai…” mormorò Riza, con un sorriso indulgente.
“Intanto non ha ancora abbassato gli occhi da me: – ritorse lui, scostandosi dall’albero e avvicinandosi al ragazzino – niente affatto male, direi. Lo sai che ci sono studenti delle superiori che non riuscirebbero a farlo?”
“Dici sul serio?” chiese Kain, meravigliato, mentre nei suoi occhi scuri iniziava a comparire un qualcosa chiaramente interpretabile come adorazione.
“Sicuro, ma a quanto pare tu sei davvero speciale, gnometto. – sorrise Roy, allungando una mano e arruffandogli i capelli neri – Bisogna solo spronarti un pochino, vero?”
E mentre vedeva quel ragazzino sorridere timidamente, se ne sentì stranamente attratto. Una volta che gli si levava la paura ed il timore, quegli occhi scuri dietro le lenti erano decisamente gentili e sinceri. In fondo Kain Fury piaceva a Riza… e Roy ben sapeva quanto la ragazza fosse restia a dimostrare così apertamente simpatia verso qualcuno.
“Allora posso contare che quando mi vedi non abbasserai lo sguardo?” chiese ancora, andando oltre quanto si era preposto di dire a quel bambino quando Riza gli aveva chiesto di conoscerlo.
“Ti posso anche salutare?” chiese Kain con aspettativa.
“Beh, si presume… non ci siamo presentati per niente, no? Anzi, posso stringerti la mano, Kain Fury? In genere quando ci si presenta si fa così.”
E vide che il bambino si faceva stringere la mano senza timore, anzi sorrideva persino. Davvero strano: sembrava uno pronto a svenire da un momento all’altro, eppure gli bastava pochissimo per cambiare completamente atteggiamento.
Intuisce abbastanza in fretta quando si può fidare di una persona. Non è dote da tutti, Kain, forse non ne sei consapevole.
In fondo non era per niente dispiaciuto di aver concesso una prima forma d’amicizia a quel bambino.
 
“Eccolo là, lo sapevo: – sibilò Jean, vedendo quella scena da lontano – furbo il nostro Fury; adesso si mette sotto la protezione dei più grandi.”
“La vuoi smettere di pensare a lui? – sbottò Heymans, alzando gli occhi al cielo – Del resto hai avuto l’esclusiva di quel marmocchio per ben due anni: se ora lo lasci un po’ in pace mica crolla il mondo.”
“Gli faccio pelo e contropelo a quel moccioso, parola mia.”
“Ehi, – il rosso lo afferrò per un braccio – calcola bene le conseguenze, Jean Havoc. Siamo davvero sicuri che sia arrivato il momento di confrontarci con Roy Mustang?”
“Se ne vuoi stare fuori fai pure! – sbottò Jean, liberandosi da quella presa – Ma quel secchioncello mi appartiene: non tollero questi moti d’indipendenza. Finchè si trattava di Riza che seccava, mi stava anche bene, ma ora le cose cambiano.”
Heymans scosse il capo davanti a quell’ostinazione: se Jean sperava di vedersela contro Mustang in quello stato di furia cieca, aveva già perso in partenza. Aveva avuto il presentimento che le cose si stessero evolvendo già dal giorno prima, quando Kain si era avventurato nella parte della scuola riservata alle classi superiori e Roy ne aveva approfittato per lanciare apertamente una frecciatina a Jean.
“Kain è solo una scusa, amico mio. Mustang stava solo iniziando a sondare il terreno, capisci?”
“Se vuole sfidarmi che venga a dirmelo in faccia…”
“Quello? – sogghignò l’amico – Non credo proprio che lo farà… non è impulsivo come te: è molto bravo ad aspettare i tempi giusti. Lui non è un bullo qualsiasi, Jean: Roy merita rispetto e lo dico da indipendente.”
“Non mi dire che ora lo ammiri!”
“L’ho sempre fatto, non è un mistero. Effettivamente mi ero chiesto più volte quando ci sarebbe stato un primo avvicinamento verso di noi. Se Maes Hughes fosse ancora qui, magari non si sarebbe arrivati a questo; ma ora è solo e non…”
“Scontro alla pari: uno contro uno… tu potrai restare a guardare e a tenermi fermo il nano per quando gli dedicherò le mie attenzioni.” sibilò Jean.
Heymans scosse il capo con rassegnazione: no, in quel momento il suo miglior amico non era in grado di capire quello che voleva dire. Aveva sinceramente sperato che non accadesse, ma sembrava inevitabile che Jean si dovesse scontrare fisicamente con Roy, prima di capire che non era un suo rivale.
No, Roy in realtà ci sta osservando da tempo anche se forse nemmeno lui se ne è reso conto.
Un brivido d’aspettativa attraversò la spina dorsale del robusto quattordicenne: niente vietava agli indipendenti di unirsi…
Sempre che Jean sbollisca… Mi dispiace per Kain, non gli avrei mai augurato di diventare il pomo della discordia; spero che non ne venga coinvolto più del previsto.
Lanciò un’occhiata in tralice a Jean e vide il suo volto furente e per un attimo ne fu turbato. Ma poi si costrinse a ricredersi: in quegli anni che aveva scelto Kain come bersaglio, Jean si era limitato a fargli dispetti e al massimo a qualche lieve spintone o schiaffetto amichevole. Non l’aveva mai attaccato fisicamente anche perché era veramente da vigliacchi considerata la differenza di stazza: Kain Fury era ancora un bambino… e Jean non picchiava quelli così piccoli.
 
Una delle caratteristiche di Jean Havoc era che se decideva una cosa la doveva fare il prima possibile: non era il tipo da rimandare, specie se era carico di rabbia.
E questa volta lo era davvero tanto: l’aver visto Kain fare amicizia con quello che teoricamente era il suo rivale l’aveva fatto sentire in qualche modo tradito. Gli dava enormemente fastidio provare una simile gelosia nei confronti di quel ragazzino e questo contribuiva a farlo arrabbiare maggiormente… quel secchione gli stava causando solo problemi.
“Allora, andiamo?” chiese Janet, raggiungendo lui ed Heymans all’uscita di scuola.
Ma il biondo non la ascoltò nemmeno: aveva appena visto la sua preda che saettava fra i vari ragazzi, guadagnando la via di fuga verso casa sua.
Non credere di passarla liscia, nano.
“Voi iniziate ad andare al bivio – disse, levandosi la tracolla e dandola alla sorella – io vi raggiungo lì tra un quarto d’ora.”
“No, Jean… “ iniziò Heymans, ma l’amico era già scattato verso la direzione presa da Kain. Stava per corrergli dietro, avendo un brutto presentimento di quanto stava per accadere, ma Janet gli afferrò il braccio con aria preoccupata.
“Heymans, dove sta andando?”
“Niente, Janet – si costrinse a dire per non allarmarla ancora di più. Avrebbe voluto seguire Jean per trattenerlo almeno in parte, ma se si muoveva Janet l’avrebbe seguito e l’ultima cosa che voleva era che la bambina vedesse il suo amato fratellone prendersela con un bambino. – Iniziamo ad andare, va bene?”
Ma in cuor suo si trovò a dire:
Merda, Jean… non farlo, per favore.
 
Kain percorreva con tranquillità il sentiero che l’avrebbe condotto a casa: aveva corso fino a quando non era arrivato a distanza di sicurezza dalla scuola… ossia quando i boschetti di campagna non l’avevano fatta da padrone. Adesso il ragazzino era nel suo territorio, tranquillo in quella calma natura che aveva imparato a conoscere.
Si sentiva particolarmente lieto quel giorno: l’aver scoperto che il grande Roy Mustang non ce l’aveva con lui, anzi gli aveva offerto la sua amicizia, lo faceva sentire veramente speciale. Roy era una persona che non aveva mai osato guardare, nemmeno da lontano: una sorta di divinità leggendaria di cui tutta la scuola parlava. Scoprire che questa persona in realtà era anche simpatica era stato qualcosa di incredibile.
Roy Mustang che gli stringeva la mano a lui.
Appena si sarebbe presentata l’occasione l’avrebbe detto anche a Vato ed Elisa e…
“Bene, bene… eccoci qua!” esclamò una voce e Kain si paralizzò in mezzo al sentiero.
I suoi occhi scuri si dilatarono quando da una macchia di alberi sbucò fuori Jean Havoc, con un sorriso cattivo sul volto. Aveva il respiro leggermente ansante e si capiva che aveva corso per raggiungerlo: e se si era scomodato a correre voleva dire che la situazione era davvero grave.
Il bambino fece un passo indietro, ma capiva di essere in trappola: un’eventuale corsa sarebbe stata vinta in partenza da Jean e le conseguenze del tentativo di fuga sarebbero state ancora più disastrose. Perché questa volta gli occhi azzurri non erano divertiti o maliziosi, ma profondamente arrabbiati.
“Jean…”
“Oggi non ci siamo salutati, nano… - sorrise il biondo avvicinandosi a lui – ci siamo dimenticati dei vecchi amici in favore di nuovi?”
“Io… - balbettò Kain, cercando di tenere lo sguardo alzato, memore di quanto gli aveva detto Roy quella mattina – p…per favore. Devo… devo tornare a casa…”
Il fatto che non ci fosse Heymans lo terrorizzava ancora di più.
“Ma sentitelo il marmocchio… deve tornare a casa da mammina. Perché invece non vai da Roy o da Riza? – sibilò Jean prendendolo per il colletto della camicia e sollevandolo da terra, i loro visi a pochi centimetri l’uno dall’altro – Loro sono i tuoi nuovi amichetti, vero? Sul serio pensavi di liberarti di me così facilmente? Ti facevo più intelligente, nanetto.”
“Non… non volevo fare niente di male…” le lacrime iniziarono ad uscire dagli occhi scuri.
“Oh, povero nano, – fece il broncio Jean, rimettendolo a terra – tu non fai mai nulla di male, eh? Peccato che non sappia stare al tuo posto!”
E prima che Kain se ne potesse rendere conto gli arrivò una forte sberla sulla parte posteriore del collo. L’impatto fu così forte da farlo cadere in avanti, la tracolla che si apriva e tutto il suo contenuto che si sparpagliava nel sentiero; scoppiò a piangere e si portò una mano sulla parte lesa, sentendo la pelle bruciante per quel colpo così violento.
“Vediamo un po’ – mormorò Jean, chinandosi accanto a lui e scostandogli con strana gentilezza la mano dal collo – quanti amici ci siamo fatti in questi giorni? Uno è Roy e l’hai pagato. Poi vediamo, abbiamo quei due ragazzi di quarta superiore… e anche Riza, suvvia, sarebbe un peccato escluderla. Quanto fa due più uno?”
“Mi hai fatto male!” pianse il ragazzino.
“Non credo che questo lamento sia la risposta! Avanti, nano! – e lo prese per i ciuffi neri – Due più uno lo sa fare anche mia sorella che sta in prima elementare.”
“Tre! – singhiozzò Kain – Fa tre!”
“Che bravo che sei… sì esatto, fa tre. Ossia il numero di sberle che ti sto per dare!”
“No! No!” supplicò il bambino raggomitolandosi a terra, terrorizzato all’idea di ricevere altri colpi.
Jean alzò la mano pronto a colpire di nuovo il retro del collo…
“Fratellone!” una voce in lontananza lo bloccò.
Guardandosi attorno sgranò gli occhi azzurri, come se si stesse appena svegliando da una sorta di trance. Temette che Janet avesse visto la scena, ma subito capì che la bambina non aveva ancora raggiunto quel punto del sentiero e una curva provvidenziale li nascondeva ancora.
“Rialzati, idiota – sibilò – e se provi a dire qualcosa davanti a mia sorella ti anniento. Io ti ho solo aiutato perché eri caduto, chiaro?” e afferrando Kain per la camicia lo obbligò a rialzarsi proprio mentre Janet ed Heymans comparivano nel suo campo visivo..
“Fratellone! – esclamò Janet, correndo verso di lui – Ma perché sei andato via? Dobbiamo tornare a casa per pranzo!”
Jean lanciò un’occhiata irata ad Heymans, ma questi scrollò le spalle con fare noncurante.
“Era preoccupata e così mi sono offerto di accompagnarla da te.” si limitò a dire.
Grazie, amico.”
Figurati, amico.”
“Fratellone, chi è questo bambino? E perché piange?” chiese Janet, accostandosi a Kain che cercava pateticamente di asciugarsi le lacrime: impresa abbastanza difficile dato che continuavano a colargli dagli occhi, tanto che le lenti degli occhiali erano un vero e proprio disastro.
“Lui è il mio amico Kain: – spiegò Jean con disinvoltura – dovevo dirgli una cosa e mentre parlavamo è caduto e si è fatto male.”
“No, poverino! – simpatizzò subito Janet, mettendosi a frugare nella sua piccola tracolla e prendendo un fazzolettino – Tieni, asciugati le lacrime con questo.”
Kain era troppo paralizzato dal terrore e dalla sorpresa per accettare, ma una spinta di Jean gli fece allungare la mano tremante.
“Gra… grazie…” singhiozzò.
“Oh, guarda – notò la bambina – la tua roba di scuola è tutta a terra. Aspetta te la raccolgo io.”
E con un sorriso volenteroso iniziò a raccogliere i quaderni sparsi a terra, mettendoli poi a posto nella tracolla, anch’essa caduta. Nel frattempo Heymans raggiunse Kain e notò il retro del collo rosso per il colpo che aveva ricevuto… ed inaspettatamente gratificò il suo migliore amico di un’occhiata gelida.
“Che dici, Kain – mormorò – forse dovresi aiutare Janet, no?”
Annuendo, il ragazzino andò ad inginocchiarsi accanto alla bambina per aiutarla.
“Mi hai deluso, Jean Havoc – sibilò il rosso, guardando impassibile la scena – oggi non ti sei dimostrato migliore di mio fratello.”
Quella frase fece molto male al biondo, ma nulla trasparì dal suo volto, mentre pure lui osservava sua sorella e Kain che finivano di raccogliere i libri. Tutto il suo orgoglio ferito di quattordicenne gli impediva di dire qualsiasi cosa.
 “Allora, Janet, andiamo?” chiamò.
“Arrivo, fratellone! - esclamò la bimba rialzandosi in piedi e correndo verso i due amici – Allora ciao, Kain, buon pranzo!”
“Anche a te…” mormorò automaticamente il bambino, senza alzare lo sguardo da terra, limitandosi a sentire i passi che si allontanavano fino a scomparire del tutto, lasciando solo gli insetti e gli uccelli a farla da padrone.
Non era facile… non era per niente facile tenere lo sguardo alto come gli aveva suggerito Roy.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8. Vittima e carnefice. ***


Capitolo 8. Vittima e carnefice.




Dopo che Jean, Heymans e la bambina si furono allontanati, Kain rimase parecchio tempo inginocchiato a terra, fissando mestamente la propria tracolla sporca e con il materiale scolastico sistemato in modo disordinato.
Quello scontro con Jean l’aveva letteralmente scosso: mai fino a quel momento era stato aggredito in maniera così violenta dal suo aguzzino; la pelle dietro il collo continuava a pizzicare e bruciare in maniera violenta e non ci voleva molto per capire che il rossore sarebbe durato per diverse ore, restando tremendamente visibile.
Con che coraggio poteva presentarsi a casa in quel modo, con i vestiti pieni di terra e quel segno così evidente?
Tuttavia a un certo punto le sue gambe si mossero automaticamente e si alzò in piedi. Raccolse mestamente la tracolla, senza preoccuparsi di farla passare intorno alla testa e si diresse con passività verso casa: in qualche modo una parte di lui voleva tornare al sicuro dentro quelle pareti che, a quanto sembrava, erano il suo unico vero rifugio, il suo nido protetto. I suoi tormentatori potevano attaccarlo anche al di fuori della scuola: un’evoluzione che non gli era mai passata per la mente.
Mentre questi sgradevoli pensieri continuavano a vorticargli nella testa, arrivò nel cortile del retro che dava sulla cucina la cui finestra, considerata la bella giornata, era aperta.
“Oh, vedrai che starà arrivando: – disse la voce di suo padre – sarà questione di minuti.”
A quella frase Kain perse qualsiasi forma di coraggio e non ce la fece ad entrare. Cercando di trattenere le lacrime, che avevano improvvisamente fatto la loro ricomparsa, andò a sedersi contro il muro esterno, raggomitolandosi su se stesso, sperando che il mondo attorno a lui scomparisse e che i suoi genitori, specie suo padre, si dimenticassero di avere un simile figlio.
Rimase in quella posizione per diversi minuti prima che la voce della madre gli facesse alzare di colpo la testa.
“Kain! Pulcino, allora sei qui. Ma che hai?”
Immediatamente la donna lo fece alzare con gentilezza, prendendogli il viso tra le mani e notando l’espressione sconvolta. Quasi automaticamente le sue braccia morbide e profumate lo strinsero in un cerchio di protezione e d’amore, una cosa che da un lato fu di estremo conforto al bambino, ma dall’altro lo fece sentire profondamente triste.
“Amore mio, - disse ancora, scostandosi leggermente da lui e guardandolo - fai vedere… sei tutto sporco. Non vuoi dirmi che cosa ti è accaduto?”
“Mamma…” balbettò lui, sentendosi pericolosamente prossimo alle lacrime.
“Ehi, figliolo, che è successo?”
La voce del padre lo fece trasalire e cercò di ricacciare indietro la disperazione. Senza alzare lo sguardo sentì la mano di Andrew che gli sfiorava i capelli e poi scendeva con delicatezza sul collo, dove il colpo di Jean bruciava ancora. Questo lo fece sentire profondamente a disagio: non c’era bisogno di un grande intuito per capire che per la centesima volta non era riuscito a farsi valere.
“Non è successo nulla…” mormorò con tutta la forza di volontà che gli restava.
“Nulla…” il disappunto nella voce di suo padre fu fin troppo udibile.
“Nulla!” scoppiò a piangere, divincolandosi con violenza dalle braccia materne per scappare dentro la cucina e poi correre su per le scale, fino alla sua stanza. Entrò e sbatté la porta con tutta la forza disperata dei suoi undici anni per poi buttarsi nel letto a singhiozzare. Non seppe per quanto rimase da solo con la sua disperazione, ma all’improvviso sentì la porta aprirsi anche se rifiutò di girarsi per guardare chi era.
“Non è stato bello divincolarti in quel modo da tua madre, Kain; – disse la voce calma di Andrew – e se pensi che sbattendo la porta di camera tua risolverai qualche problema stai completamente sbagliando.”
Il bambino non si mosse, restando ostinatamente prono nel letto con la faccia nascosta nel cuscino. Suo padre non era tipo da picchiarlo, nessuno dei suoi genitori lo era, ma quella voce così calma spesso faceva più male di un’eventuale sculacciata o schiaffo… perché gli chiedeva una reazione che lui era incapace di dare.
Possibile che non capisse? Possibile che ogni volta doveva saltare fuori questo discorso? Perché tutti gli dicevano di tenere lo sguardo alto, se nel momento in cui l’aveva fatto era stato buttato a terra da quella sberla di Jean?
Era facile parlare se ti chiamavi Roy Mustang, o se eri una persona amata e rispettata dagli altri…
Sapeva che suo padre era in piedi accanto al letto, aspettando una sua risposta, ma lui non aveva nessuna intenzione di dargliela, come sempre del resto: era un copione che ben conoscevano.
“Come preferisci; – disse ancora la voce di Andrew, dopo qualche minuto di teso silenzio – ma mi auguro che quando deciderai di scendere giù, avrai il buon gusto di chiedere scusa a tua madre. Presumo che non abbia nemmeno voglia di pranzare, vero?”
Non ci fu alcuna risposta: persino i singhiozzi erano diminuiti in quel momento di ostinata sfida. Forse quell’accenno a saltare il pranzo andava considerato come una sorta di punizione, ma Kain non ci fece nemmeno caso: non sarebbe sceso di sotto per nessun motivo.
I passi si allontanarono dal letto e la porta si chiuse con discrezione, lasciando il bambino solo nel suo circolo vizioso di disperazione e auto compassione.

Per tutto il tragitto che avevano fatto assieme, Heymans e Jean non si erano scambiati una sola parola, un fatto che non era mai successo in tutti quegli anni di amicizia.
Il primo era profondamente turbato per quanto era successo: mai avrebbe voluto assistere ad una scena simile; e la consapevolezza che se non fosse intervenuto lui, Jean sarebbe anche andato oltre con le botte che aveva intenzione di dare al bambino gli faceva ancora più male.
Il secondo si sentiva pieno di rabbia, pronto ad esplodere da un momento all’altro: ce l’aveva a morte con il suo miglior amico per averlo interrotto in quella che era una questione strettamente personale tra lui e Kain, mettendo in mezzo anche sua sorella. Ma era soprattutto quella frase con cui l’aveva paragonato ad Henry che bruciava malamente nella sua anima, anche se preferì non ammetterlo nemmeno a se stesso.
Arrivarono al solito crocevia che ormai la tensione era altissima e solo la presenza di Janet li obbligava a tenere un’espressione relativamente calma. Ma era chiaro che la bambina intuiva che qualcosa non andava e che Jean era arrabbiato come mai l’aveva visto prima.
Tanto che, come Heymans le lasciò la mano, alzò gli occhi azzurri e imploranti su di lui quasi avesse paura di essere lasciata sola con quella versione così sconosciuta di suo fratello
“Heymans…” mormorò.
Il rosso la guardo con rassegnazione, restio pure lui a lasciarla in una situazione così ostile. Ma si costrinse ad accarezzarle la testolina bionda e a farle un lieve sorriso rassicurante.
“Dovete andare a casa, Janet, vi aspettano per pranzo.”
“Domani ci sei ad aspettarci per andare a scuola, vero?” chiese supplicante.
“Andiamo, Janet! – ordinò Jean, tirandola bruscamente per la mano – Siamo già in ritardo!”
La bambina non aveva mai sentito la voce di suo fratello così arrabbiata e non osò obbiettare, facendosi trascinare via senza protestare. Si voltò lievemente per guardare il rosso che le rivolgeva un lieve cenno di saluto e, quasi contemporaneamente, la sua manina smise di stringere quella del fratello, rimanendo inerme nella morsa di lui.
Quando arrivarono in prossimità di casa loro, il giovane la lasciò andare, quasi spintonandola in avanti.
“Fratellone…”
“Che c’è?” chiese lui, senza nemmeno guardarla, andando verso la pompa che c’era nel mezzo del cortile.
“Heymans… Heymans domani viene, vero?” osò domandare la bambina.
“Non dire mai più quel nome!” sbottò gettando a terra la tracolla e mettendosi a pompare con forza l’acqua fino a quando non ne uscì un fiotto violento: mise la testa sotto quel getto gelido, trattenendo un’esclamazione di sorpresa per quel contatto così improvviso. In quel momento era l’unica cosa che potesse aiutarlo a sbollire.
Odiava Kain Fury, odiava Roy Mustang… odiava Heymans Breda.
Il rumore dell’acqua si confuse con quello dei singhiozzi disperati di Janet.

Erano le tre passate quando Kain si svegliò.
Girò il viso di lato, scoprendo di avere gli occhiali fastidiosamente appannati ed il cuscino sotto di lui zuppo di lacrime; si sentiva incredibilmente svuotato e rintronato mentre ricostruiva i pezzi di quella giornata iniziata così bene e poi proseguita in modo disastroso.
Aveva una tremenda fame e sentiva la necessità di levarsi quei vestiti e farsi un bagno caldo. Come si mise a sedere nel letto si accorse che qualcosa gli scivolava sulla spalla per poi cadere sulla coperta: era una pezza di lino, ancora leggermente umida e non ci impiegò molto a collegarla al leggero senso di fresco sollievo che sentiva dietro il collo, proprio dove prima c’era il dolore bruciante dello schiaffo.
Sua madre doveva essere entrata in camera mentre dormiva e gli aveva messo quel piccolo medicamento.
… avrai il buon gusto di chiedere scusa a tua madre.
Ma mentre le parole del padre risuonavano nella sua mente stordita, si alzò dal letto e automaticamente si sedette sul pavimento, prendendo una scatola da sotto la scrivania. Fili elettronici e rondelle iniziarono a passare per le sue mani, diventando un circuito, ma questa volta Kain non cercava il funzionamento: quando si sentiva depresso smontava e rimontava in maniera completamente passiva, fissando il vuoto e facendosi cullare da quei gesti abituali che gli facevano perdere la cognizione del tempo.
Fu sua madre a richiamarlo gentilmente alla realtà: si accorse di lei quando gli si sedette accanto nel pavimento di legno; era stata così discreta nell’entrare e lui era così assorto in quell’automatismo difensivo che la sua voce quasi lo fece sobbalzare.
“Cavi verdi e azzurri: li ho sempre trovati dei bellissimi colori.”
“Il verde è per un uso generale non confondibile, – spiegò Kain con voce piatta, abbassandosi a guardare i fili e ripetendo le definizioni che aveva letto nel suo libro di elettronica – il blu è per un conduttore neutro.”
“Quante cose che sai, pulcino mio.” sorrise Ellie, allungando la mano per accarezzargli i capelli.
Il bambino ripose il circuito nella scatola e rimase ad accettare quelle carezze, riprendendo contatto con la realtà e chiedendosi da che parte iniziare a scusarsi. Non perché gliel’aveva detto suo padre, ma perché la donna che gli stava accanto era la persona al mondo che meno meritava di essere trattata in quel modo così sgarbato.
“Mamma… - mormorò infine, alzando lo sguardo su di lei – scusami per… per aver fatto un disastro coi vestiti e le lenzuola. Ho riempito tutto di terra…” c’era molto di più in quella frase, ovviamente, ma per quella piccola forma di vergogna che spesso hanno i bambini, la vera motivazione veniva nascosta dietro altre cose meno importanti. Ma Kain sapeva anche che sua madre sapeva rispettare ed interpretare le sue parole.
“Eh sì, un bel disastro, - sorrise infatti Ellie, alzandosi e tendendogli la mano per indurlo a fare altrettanto – bisogna decisamente cambiare tutto. Che dici, mi dai una mano?”
“Certo.” sorrise timidamente lui, aiutandola a disfare il letto ed ammucchiare tutto il bucato da fare.
“Poi che ne dici di farti un bagno e di scendere giù a mangiare qualcosa?” gli propose con gentilezza.
“Papà è in casa?” chiese lui, leggermente timoroso.
“No, amore, è andato a parlare con delle persone in paese per un nuovo lavoro da fare; torna stasera a cena.”
“Era… era molto deluso di me?” osò domandare il bambino.
Ellie posò a terra il mucchio di lenzuola e coperte sporchi: si inginocchio e prese il figlio tra le braccia, stringendolo a se.
“Kain, non pensare nemmeno per un secondo che tuo padre sia deluso da te. Lo so che nella tua testolina ci sono tante e tante paure, ma lui non deve essere una di queste. Papà ti adora, così come me: sei il nostro unico amato bambino, il nostro preziosissimo pulcino… non pensare di essere una delusione per noi, mai e poi mai.”
“E’ che stamane…”
“Non confondere preoccupazione con delusione, amore mio.” gli suggerì la donna, baciandolo sulla guancia ancora recante i segni di lacrime e sporco.
“E tu sei preoccupata?” chiese Kain, fissandola con attenzione.
“Preoccupata? Beh, considerato il disastro che hai combinato con questa biancheria… forse dovresti esserlo più tu!” e con un’improvvisa e accurata spinta lo fece sprofondare in quel groviglio di coperte e lenzuola.
“Mamma!” scoppiò a ridere lui, cercando di districarsi.
“Forse potrei risparmiare tempo e mettere a lavare tutto insieme, te compreso… che dici? – sorrise Ellie, inginocchiandosi davanti a lui e bloccandolo in quella posizione sdraiata – Ti va di odorare di bucato?”
“E allora devi lavarti anche tu mamma: – ribatté con spavalderia il bambino – perché ti ho sporcato tutti i vestiti con quell’abbraccio!”
Ellie si guardò con sorpresa l’abito ed il grembiule con inequivocabili macchie di terriccio e scoppiò a ridere, seguita a ruota dal figlio che, come sempre, in sua compagnia, riusciva a ritrovare la serenità.
Jean poteva essere ampiamente dimenticato.

Proprio il biondo aveva momentaneamente sbollito parte della rabbia che fremeva nel suo corpo di adolescente.
A dire il vero il rientro a casa era iniziato in modo abbastanza teso, con Janet che piangeva e lui che entrava in cucina praticamente fradicio dalla cintola in su. Sua sorella, anche dopo che si era calmata, aveva tenuto un atteggiamento mogio per buona parte del tempo e non gli aveva rivolto la parola. Non che lui avesse intenzione di risponderle.
Sua madre aveva cercato di capire che cosa non andasse, pensando che si trattasse di uno dei soliti litigi tra fratelli, magari particolarmente brutto. Ma quando per caso venne tirato fuori il nome di Heymans, Janet si rimise a piangere e Jean si alzò dal tavolo, uscendo con ancora metà del piatto pieno.
Al contrario di quanto aveva fatto Kain poco prima, non era andato in camera sua, sbattendosi la porta alle spalle: non era quel tipo di persona.
Aveva bisogno di uno sfogo fisico e così era entrato nel magazzino dell’emporio dove aveva iniziato a lavorare come un ossesso, spostando pesanti sacchi o altro materiale, in uno sforzo che non aveva mai compiuto.
Suo padre lo raggiunse che questa prova fisica era iniziata da una quindicina di minuti ed rimase ad osservarlo, con gli occhi azzurri che sembravano trafiggerlo. Non gli disse niente, né si mise ad aiutarlo: si sedette su una cassa ed aspettò che le energie si esaurissero da sole; infatti, per quanto Jean fosse estremamente alto e robusto per la sua età, dopo più di mezz’ora di intenso e continuo sforzo fisico dovette cedere alla stanchezza.
Così, dopo aver posato pesantemente l’ultima cassetta, si lasciò cadere a terra, chiudendo gli occhi e respirando affannosamente, mentre i muscoli delle braccia e delle gambe protestavano.
“Direi che adesso possiamo parlare.” disse suo padre, andando a sedersi accanto a lui nel pavimento.
Fino a quel momento Jean si era reso conto solo marginalmente della sua presenza. Fino a quando era rimasto a tavola, James non aveva detto una parola, assistendo a quelle scene di pianto e mutismo da parte dei propri figli.
Jean sapeva per esperienza che quando suo padre voleva parlare con lui in determinate situazioni spesso si trovava con il fondoschiena livido. Ma in questo caso non aveva nessuna voglia di pensare alle conseguenze: il suo litigio con Heymans era troppo doloroso per fermarsi a riflettere su quanto dire al genitore e che tono usare.
“E di cosa dobbiamo parlare?” chiese, dopo aver ripreso fiato, guardando il soffitto con aria assente.
“Di molte cose… per esempio del perché tua sorella sta piangendo, o del perché il nome Heymans ti dà improvvisamente così fastidio, tanto da alzarti e lasciare a metà il pranzo.” scrollò le spalle James con noncuranza, come se stesse parlando del più e del meno.
Colpito in pieno, Jean si alzò di scatto e fece per andarsene.
“Non assumere certi atteggiamenti infantili con me, giovanotto! – lo avvisò l’uomo, alzandosi in piedi a sua volta – Non mi costa niente metterti sulle mie ginocchia e farti assaggiare la cintura, lo sai bene.”
A quelle parole il ragazzo fu costretto a fermarsi, bloccato da anni e anni di esperienza dei castighi paterni; si girò verso il genitore con aria di offesa sfida: sembrava che il mondo, quel particolare giorno, avesse deciso di mettersi contro di lui con continue provocazioni. La rabbia gli risalì di colpo, come se tutto lo sfogo fisico non fosse mai esistito.
“Non siamo più amici, va bene?! – esclamò con stizza, vedendo che l’uomo si avvicinava – E se quella stupida di Janet piange non me ne importa assolutamente nulla! Se lo vede a scuola il suo preziosissimo Heymans! Non ho intenzione di…”
Lo schiaffo del padre lo ridusse a silenzio.
Non era stato nemmeno troppo forte, era una di quelle classiche sberle di ammonimento che servivano più che altro a far male all’orgoglio. Ma per la sua profonda ostinazione, Jean tenne lo sguardo alto sull’uomo, sebbene avesse gli occhi luccicanti per le lacrime e la guancia fastidiosamente bruciante.
Non si portò nemmeno la mano sulla parte lesa.
“Prendi un paio di respiri profondi, Jean, – gli consigliò James, impassibile, mettendogli le mani sulle spalle – e conta fino a dieci prima di dire determinate cose. Non si butta via un’amicizia come quella tra te ed Heymans per qualche stupidata.”
“Non sono stato io a buttarla via…” scosse il capo Jean, con tristezza.
“Mi pare molto strano, conoscendo Heymans: – lo contraddisse l’uomo – forse, ora che hai sbollito abbastanza, in tutti i sensi, puoi andare in camera tua e riflettere su quanto è successo.”
“Stai prendendo le sue parti e non le mie?”
“Non mi pare il momento di fare l’orgoglioso, Jean. E comunque più che le sue sto prendendo le tue… perché finché non rifletti su cosa ha provocato questa fantomatica rottura e capisci dove avete sbagliato entrambi, rimarrai con questo senso di rabbia dentro che non ti porta da nessuna parte. E io non voglio vedere mio figlio, anzi i miei figli dato che anche Janet ne risente, ridotti in un simile stato.”
“Lui è solo… uno stupido! – sbottò il ragazzo, dando una testata al petto del padre e serrando le braccia attorno a lui, prima di scoppiare a piangere – Io non sono per niente come quell’altro!”
James non chiese il significato di quell’ultima frase, non ne aveva bisogno. Strinse a se il figlio e lo fece sfogare, sapendo bene che l’idea di perdere l’amicizia di Heymans era la cosa peggiore a cui il ragazzo potesse pensare. Ma sapeva altrettanto bene che sicuramente, dopo questo sfogo, Jean sarebbe stato abbastanza lucido da riflettere e cercare di raddrizzare le cose: niente avrebbe potuto spezzare quell’amicizia così solida.

Una delle cose che spesso succedeva quando Kain e suo padre “litigavano” è che dopo facevano finta di niente, come se entrambi preferissero non affrontare un discorso che poteva degenerare. Ellie conosceva bene quelle sere cariche di tensione, ma non faceva niente per sbrogliarle perché sapeva che era una cosa che padre e figlio dovevano risolvere da soli.
Se non fosse stato per la massiccia dose di insofferenza che mostravano entrambi, la donna sarebbe anche scoppiata a ridere perché quei due molto spesso si somigliavano più del previsto.
Andrew amava tantissimo il proprio figlio e quando si rendeva conto che i suoi rimproveri paterni non avevano la reazione sperata tendeva alla stessa ostinata indifferenza che assumeva, sebbene in vesti più infantili, Kain. Forse proprio come il bambino si sentiva un fallimento come figlio, lui si sentiva carente come padre… e questo provocava notevoli difficoltà a venirsi incontro.
E questa loro similitudine rendeva problematico il loro rapporto in determinate situazioni.
Anche questa volta erano profondamente turbati entrambi: lo dimostrava il fatto che dopo cena Andrew era andato nel suo studio a lavorare e Kain si era rifugiato in camera sua, quando in genere preferiva restare con la madre fino al momento di andare a letto.
Ma per quanto Ellie fosse apprensiva nei confronti del mondo esterno, non lo era per niente nel rapporto tra padre e figlio: lasciava sempre che le cose si svolgessero secondo le giuste tempistiche, perché tanto uno dei due, molto spesso Kain, prima o poi cedeva all’esigenza di dialogo.
Anche questa volta fu il bambino a cercare il padre, per un semplice motivo: non aveva ancora avuto la forza di chiedere scusa per il suo comportamento di quel pomeriggio. Sotto questo punto di vista Kain era molto ansioso: per quanto il suo carattere docile e tranquillo lo portasse ad essere sgridato o castigato molto di rado, l’idea di uno dei suoi genitori arrabbiato con lui lo faceva stare davvero male.
E così, quando Ellie dalla cucina, dove preparava l’impasto per una pietanza che aveva intenzione di fare il giorno dopo, vide la figura del bambino già in pigiama che si dirigeva verso lo studio del padre, fece finta di nulla.

A Kain piaceva tantissimo guardare suo padre lavorare nel proprio studio: vedendolo in mezzo a tutti quei disegni e quei progetti, si sentiva molto vicino al genitore, sebbene la stessa grande passione in lui si fosse rivolta all’elettronica. E poi adorava stare in quel posto per un altro motivo: quando lavorava ai disegni di precisione che richiedevano determinati progetti, suo padre indossava gli occhiali; non sapeva perché, ma questo dettaglio gli piaceva tantissimo, come quando lo vedeva stringere sua madre e darle un bacio sulla punta del naso o fare qualche altro gesto d’affetto. Forse perché, quando a quattro anni era stato costretto a mettere gli occhiali, Andrew l’aveva consolato facendogli vedere che anche lui li usava… e spiegandogli che vedendoci bene si potevano fare molte più cose.
Avvicinandosi a piedi scalzi al tavolo da disegno dove stava lavorando Andrew, Kain fissò la figura paterna con profonda ammirazione: gli piaceva vedere il volto impegnato, eppure sereno, la mano che si muoveva rapida e precisa con le squadre e le righe…
“Papà.” mormorò.
“Dammi cinque secondi, Kain.” sussurrò l’uomo, tracciando con perfetta maestria delle linee.
Poi annuì soddisfatto e il suo viso si rilassò sensibilmente.
“Che cos’è?” chiese il bambino, facendo un ulteriore passo avanti e accostandosi allo sgabello dove stava seduto l’uomo
“La piccola deviazione che dovremo far fare all’argine del fiume. – spiegò Andrew, senza smettere di tracciare cifre e segni sul foglio – Dovevo finire queste modifiche entro oggi, considerato che nei prossimi giorni potrei essere impegnato su più fronti.”
“Si? E dove?”
“Pare che dovrò andare ad esaminare la vecchia miniera per aiutare la polizia a stendere una perizia che confermi la necessità di chiuderla del tutto. Ma domani a scuola potrai chiedere maggiori dettagli al tuo amico, dato che il capo della polizia è suo padre.”
“Oh, certo Vato… - annuì Kain, ma poi impallidì nel capire il sottinteso – e… e tu come lo sai?”
“Questo pomeriggio sono andato a casa di Vincent Falman per parlare della questione della miniera e c’era anche Vato, tutto qui. – spiegò l’uomo aggiustandosi gli occhiali sul dorso del naso, in un gesto identico a quello che compiva il figlio – Non mi avevi ancora parlato delle tue nuove amicizie, Kain.”
“E’ che lui è più grande di me e pensavo che non ti andasse bene che lo frequentassi.”
“Tua madre lo sa?”
“Sì…” annuì mestamente il bambino, dispiaciuto nel mostrare così palesemente la differenza di confidenza che c’era con i due genitori.
“Bene, – sospirò Andrew, osservando l’operato sul grande foglio – direi che può andare.”
“Papà… - la voce di Kain iniziò a farsi flebile come al solito – mi dispiace.”
“E di che?”
“Di non avertelo detto.”
“Hai parlato a tua madre quello che ti è successo oggi?”
“No, ma penso che non ci voglia molto per capirlo.”
“Vieni, – mormorò Andrew, prendendolo in braccio e sistemandolo a cavalcioni sulle sue gambe – non ti fa bene restare scalzo, anche se non fa ancora così freddo.”
“Papà… - sussurrò Kain a testa bassa – mi dispiace di essere così debole.”
Fu un gesto del tutto inaspettato per il bambino, ma improvvisamente l’uomo lo strinse a sé, facendogli posare la testa bruna sulla sua spalla.
“Debole… Mi ricordo che lo disse il dottore quando eri appena nato: che eri così debole che non saresti vissuto a lungo. Eppure io ti ho visto continuare a respirare, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Ti ho visto affrontare quattro anni di salute cagionevole, dove sembrava che anche la più banale influenza dovesse portarti via da noi… eppure non hai smesso di lottare, fino a superare tutto quanto. Dov’è la debolezza in tutto questo, Kain?” c’era una strana forma di orgoglio nella voce di Andrew e a Kain sembrò che suo padre fosse pronto a difenderlo da qualsiasi minaccia al mondo. Gli tornarono in mente le parole della madre a proposito di quanto fosse prezioso per loro due e per la prima volta si sentì perfettamente accettato e al sicuro in quell’abbraccio. Non che prima non lo fosse mai stato, ma non se ne era reso pienamente conto, preso com’era dalle sue paranoie di essere un fallimento come figlio.
“Lui è più grande di me, – riuscì a confessare, il viso nascosto nella camicia paterna – ed io vorrei davvero riuscire ad essere forte…”
“Per poterlo picchiare?”
“No, per poter ottenere… rispetto.”
A quella sincera dichiarazione, sentì la mano di Andrew che gli accarezzava i capelli e lo induceva poi a scostare il viso il tanto che bastava per potersi guardare negli occhi.
“Allora sei già più forte di lui, Kain. Parli di rispetto e non di vendetta: c’è una bella differenza.”
“Come quella che c’è fra delusione e preoccupazione?” chiese il bambino d’impulso.
“Sì; perché?”
“Niente di importante. Papà… lo sai che ti voglio bene?”
“Anche io, ragazzo mio, non devi mai metterlo in dubbio.”
“Non… non dovevo sbattere la porta in quel modo, questo pomeriggio. E… e avrei dovuto risponderti quando sei venuto a parlarmi in camera. Perdonami.”
Lo disse incontrando gli occhi castani di Andrew, senza rifugiarsi dietro altre banali scuse come invece aveva fatto precedentemente con la madre.Questa era una forma di maturità che si sentiva di affrontare con suo padre..
“Scuse accettate, ometto: – annuì l’uomo, dandogli un buffetto sulla guancia – non pensarci più. Forza, vieni, ti riporto a letto prima che tu prenda un raffreddore.”
E alzandosi dallo sgabello lo tenne in braccio, dirigendosi verso la porta.
“Papà, – mormorò Kain, mentre l’uomo metteva mano alla maniglia - stanotte posso dormire con te e la mamma?”
“Kain…” sospirò Andrew.
“E dai! – supplicò lui, alzando il viso per fissarlo col broncio – Per favore!”
No, questa non era proprio una forma di maturità, anzi era qualcosa di estremamente infantile.
Ma Kain non si vergognava assolutamente di queste richieste: a volte sentiva la necessità di avere la vicinanza fisica di entrambi i suoi genitori. Era una cosa che si portava dietro da quando era debole e spesso malato: stare nel lettone tra i due adulti in qualche modo lo faceva sentire maggiormente protetto nei confronti di quelle febbri e quei dolori che potevano ucciderlo.
“Che non diventi un vizio, va bene?” sospirò Andrew, arruffandogli i capelli neri.
“Va bene.” annuì lui, lieto di quella concessione.
No, non sarebbe diventato mai un vero e proprio vizio: era semplicemente il modo migliore di concludere quella giornata così particolare.







i bellissimi disegni sono opera di Mary_

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Capitolo 10
*** Capitolo 9. Nodi al pettine. ***


Capitolo 9. Nodi al pettine.

 

Heymans quella notte aveva dormito poco e male: aveva passato buona parte del tempo a guardare il soffitto di camera sua o rigirarsi nel letto. Non era la prima volta che gli capitavano nottate simili e quando succedeva era perché qualcosa lo turbava profondamente. E questa volta il problema, stranamente, non era all’interno della sua famiglia, ma riguardava il suo miglior amico… se ancora poteva definirlo tale.
Quando sentì che era arrivata l’ora di alzarsi non scostò immediatamente le coperte come era solito fare, ma indugiò nel letto ancora per qualche minuto. Aveva già deciso di non andare al crocevia ad aspettare i due fratelli: non aveva la minima idea di che umore sarebbe stato Jean e l’ultima cosa che voleva era una scenataccia davanti a Janet.
Si sentiva in colpa per quanto era successo perché in buona parte la situazione l’aveva provocata lui: si era pentito immediatamente di aver detto quella frase con cui aveva accusato Jean di non essere dissimile da Henry; non c’era realtà più lontana. Tuttavia in lui era scattato uno strano ed involontario meccanismo che non era riuscito a controllare e che forse aveva terribilmente compromesso la sua amicizia col primogenito degli Havoc.
Rimuginando su queste cose scese a fare colazione.
 
Laura notò in fretta che il figlio era più silenzioso del previsto, poco propenso a raccontare qualche episodio della sua vita scolastica: era molto strano che avesse un simile atteggiamento e così rimase ad osservarlo con gentilezza, mentre rigirava passivamente il suo caffelatte con il cucchiaio.
“Se è diventato troppo freddo lo riscaldo di nuovo, caro.” disse dopo qualche minuto.
“Che? – si sorprese Heymans. Si mise in bocca una cucchiaiata e si accorse che effettivamente la sua colazione era diventata fastidiosamente tiepida – Scusa mamma. Se me lo riscaldi mi fai davvero un favore…”
“Oggi non esci prima?” gli chiese Laura, capendo che non c’era la solita smania di uscire presto.
“No, oggi no.” rispose con aria distratta.
Fortunatamente sua madre sapeva essere discreta e non fece troppe domande in merito.
Così, dopo che ebbe finito la colazione, rimase nel tavolo in silenzio aspettando che si facesse un’ora più decente per uscire. L’unico sorriso lo tirò fuori quando sua madre, avvicinandosi per ritirare le stoviglie sporche, lo abbracciò e posò la guancia sulla sua chioma rossiccia. In genere non avevano un rapporto molto fisico, ma sembrava che Laura sapesse perfettamente quando quei gesti così semplici e confortevoli erano necessari e non andavano ad offendere un ragazzo ormai quattordicenne.
“Mamma… - mormorò lui quasi inconsapevolmente chiudendo gli occhi – che ne dici se un giorno ti prendo e andiamo via, lontano da qui, mh?”
“Vuoi fare il principe delle favole, Heymans?” ridacchiò Laura.
“Sarebbe così male come idea? - sospirò stancamente lui, posandosi al suo petto e sentendosi molto più vecchio dei quattordici anni compiuti quell’estate; adesso che non sapeva come si sarebbe evoluto il suo rapporto con Jean era come se il peso della sua difficile situazione familiare si facesse sentire ancora di più – Anche se ammetto di non essere un granché come principe…”
“Come mio principe sei perfetto, amore: – dichiarò la donna, prendendogli il viso tra le mani e baciandolo in fronte – tu non hai idea di quante volte mi hai salvato…”
Salvato? E come? La situazione a casa è sempre la stessa e ora sono riuscito a rovinare anche l’amicizia con il ragazzo che considero un vero fratello. Non sono proprio un granché come salvatore, anzi…
Queste riflessioni furono interrotte da dei passi sulle scale.
 “Ciao, mamma, è pronta la col… Heymans.” la voce sorpresa di Henry fece girare il robusto ragazzo.
I due fratelli si squadrarono, Henry con un’aria molto sospettosa dato che non si aspettava di vedere il fratello ancora a casa.
“Ciao, Hen, - scrollò le spalle Heymans, mentre Laura scioglieva l’abbraccio da lui e andava a prendere il necessario per far mangiare anche il secondo dei suoi figli – tutto bene?”
“Sì, direi di sì.” annuì lui, sedendosi al suo posto, proprio accanto al fratello.
Ci fu un momento di imbarazzante silenzio: era strano fare colazione insieme dopo tanto tempo, abituati com’erano ad orari diversi. Durante gli altri pasti la presenza del padre li obbligava ad un maggiore riserbo tra loro due, ma come sempre, quando non c’era Gregor, Henry si mostrava più disponibile, forse spinto anche dalla presenza materna.
“Che strano vedervi seduti assieme a fare colazione – sorrise Laura, mettendo davanti ad Henry la tazza di caffelatte – però è veramente bello.”
“Ah sì?” chiese Henry con imbarazzo.
“Certo, caro. A proposito, oggi hai l’interrogazione di geografia, vero?”
“Il professor Atla?” chiese Heymans distrattamente.
“Mh.” annuì il ragazzino, mettendosi in bocca una fetta di pane con burro e marmellata.
“Se avete già studiato tutti i distretti, stai certo che ti chiederà quello di Central.” fu un informazione detta quasi per caso: Heymans sentiva che il rapporto con il suo fratello era in un momento buono e dunque era abbastanza tranquillo nel parlare con lui.
“Davvero? – chiese Henry, puntando gli occhi grigi su di lui con sincera aspettativa e gratitudine – Buono a sapersi… e che altro?”
“Punta sulla geografia economica più che su quella fisica: se gli parli dei rapporti commerciali va in brodo di giuggiole.” continuò a suggerire il maggiore, strizzando l’occhio al fratello, in un gesto d’intimità che non gli concedeva da tantissimo tempo.
“Ottimo, allora le ripasso durante la lezione di scienze che abbiamo prima di lui.”
“Henry non dovresti comportarti così. – lo rimproverò Laura, piacevolmente sorpresa da quel dialogo tra fratelli – Dovresti prestare attenzione a tutte le lezioni.”
“Naaah! – sogghignò Heymans, trovandosi per una volta d’accordo col fratello minore – Il professore di scienze è davvero noioso e tanto ripete per decine e decine di volte la stessa cosa!”
“Allora ragazzi, oggi parleremo del ciclo delle piante…” scimmiottò Henry.
“E della fotosintesi clorofilliana! – gli fece eco l’altro, ridacchiando nel ricordarsi l’assurdità del suo vecchio docente alle scuole medie – Si esalta ancora quando parla delle fasi?”
“Come no! – scoppiò a ridere Henry, alzandosi poi in piedi nella sedia e chiudendo gli occhi con aria estremamente assorta – Fase luminosa e fase di fissazione del carbonio… ah ragazzi, che poesia in queste parole: fissazione del carbonio!”
Heymans rise di gusto a quella perfetta imitazione e diede una lieve pacca sulla spalla del fratello come questi si rimise seduto. Anche la loro madre era estremamente divertita da quell’improvvisa scena e allungò la mano per arruffare la chioma rossiccia del bambino.
“Che cos’è tutto questo chiasso di primo mattino?” esclamò una voce dal piano di sopra e all’improvviso l’atmosfera rilassata e divertita che c’era in cucina si spezzò. Il silenzio calò mentre Henry si rimetteva in ordine i capelli, l’aria divertita e sbarazzina che lasciava il posto al solito cipiglio seccato.
Heymans lanciò un’occhiata alla madre e vide che si era alzata e si era messa ad armeggiare per preparare la colazione al marito, mentre una leggera e rassegnata ansia compariva nel suo viso, facendole perdere la freschezza che aveva avuto fino a pochi istanti prima.
Mentre sentiva la presenza dell’uomo entrare nella stanza, Heymans avvertì improvvisamente il solito grande istinto di andare via da casa.
“Ah, sei ancora qui – disse piatta la voce di suo padre, mentre dava una pacca sulle spalle ad Henry per poi andare a sedersi davanti a lui. Ma gli occhi scuri si puntarono su Heymans, che non ebbe timore di ricambiare lo sguardo – In genere a quest’ora sei già uscito.”
“Oggi c’è stato un cambiamento di programma.” spiegò il ragazzo.
Non gli piaceva per niente quando suo padre gli parlava: c’era sempre un sottofondo di accusa o di rimprovero. Heymans non aveva mai preteso di essere il favorito o qualcosa di simile, riteneva anzi che simili preferenze non dovessero esistere all’interno di una vera famiglia; ma l’aperta ostilità che era emersa negli ultimi due anni gli lasciava l’amaro in bocca… Ad essere onesti era arrivato a non provare affetto per quella figura e spesso detestava il fatto di essere così somigliante al genitore: stazza robusta e lineamenti del viso erano gli stessi, così come il colorito della pelle. Era Henry che assomigliava alla madre in corporatura e colori, persino nella spruzzata delicata di efelidi nelle guance e nel naso. Da lei Heymans aveva preso solo il colore degli occhi e dei capelli… che però erano sfumati in un grigio più scialbo i primi ed in un rosso con riflessi arancioni il secondo.
All’improvviso il ragazzo si accorse di un madornale errore di considerazione che aveva fatto il giorno prima: nella frase rabbiosa che aveva rivolto a Jean c’era un tremendo sbaglio… in quel momento non gli era sembrato simile ad Henry, ma a suo padre. Quella malsana idea di possesso della persona, secondo cui Kain non aveva alcun diritto di stringere amicizia con gli altri ragazzi, gli aveva ricordato il cappio psicologico che Gregor teneva addosso a sua moglie e in minor misura addosso ad Henry.
Fu una scoperta così sconvolgente e brutta che scosse il capo con decisione: adesso capiva perfettamente perché si era sentito così sconvolto.
Fortunatamente, Gregor aveva già dedicato la propria attenzione ad Henry e non vide quella reazione.
“Allora, Hen, oggi avete intenzione di dare una lezione a quegli idioti dell’altra banda?”
“Certamente papà!” sogghignò il ragazzino dopo una lieve esitazione.
Ed Heymans con amarezza capì che quel raro momento di complicità con suo fratello era finito.
“Io vado – disse a voce bassa, alzandosi dal tavolo e prendendo la tracolla che stava nello schienale della sedia – ci vediamo a pranzo.”
“A dopo, caro.” salutò Laura, lanciandogli una dolce e triste occhiata.
“Ciao.” disse laconicamente Henry. 
Suo padre nemmeno alzò lo sguardo.
Davvero un principe originale, Heymans… a quanto pare sei bravo solo a scappare.
 
“Non mi vuole più bene…” piagnucolò Janet per la centesima volta da quando avevano lasciato il crocevia.
“Ancora?” sospirò Jean, tenendola per mano.
Non c’era niente di peggio che quando sua sorella entrava nella fase di disperazione: prima piangeva e poi, una volta smesso, teneva il broncio tutto il tempo con i lucciconi agli occhi ed i singhiozzi pronti a ripresentarsi al primo stimolo. E per Jean fare il tragitto con quella bomba che ad intervalli irregolari riesplodeva era stata una vera e propria odissea.
Per lo meno erano riusciti a fare pace o, per meglio dire, Janet aveva smesso di tenere il broncio nei confronti del fratello. Quando aveva visto che Jean aveva smesso l’espressione arrabbiata si era immediatamente riavvicinata a lui: del resto, essendoci otto anni di differenza, il ragazzo costituiva comunque il punto di riferimento fondamentale per la bambina.
Tuttavia se c’era la certezza praticamente matematica che suo fratello ci sarebbe sempre stato, lo stesso non poteva dire per Heymans e così, quando aveva visto che non era venuto ad aspettarli, era entrata in uno stato di paranoia totale.
Jean invece non era rimasto sorpreso da quell’assenza, ma si era rifiutato di mostrarsi deluso o triste. Per quanto il giorno prima avesse avuto quello sfogo con suo padre, non voleva assolutamente ammettere che l’errore era stato suo… non del tutto. A conti fatti avrebbe potuto anche accettare che Heymans bloccasse la sua lezione a Kain e poteva anche passare sopra al fatto che aveva usato Janet per farlo.
Ma quella frase se la poteva benissimo evitare!
Mentre la scuola compariva davanti a loro, il ragazzo decise di procedere come si era prefissato. La questione con Heymans sarebbe stata eventualmente chiarita in un secondo momento, quando non avrebbe avuto altro a cui pensare. Una piccola e lontana parte di lui, in realtà, avrebbe voluto correre a cercare il rosso e chiedergli scusa per quel mutismo offeso che gli aveva rivolto il giorno prima, nella sincera convinzione che una volta iniziato a parlare poi anche l’altro si sarebbe lasciato andare. Ma l’orgoglio continuava a farla da padrone ed inoltre… c’erano altre questioni che andavano risolte e forse era meglio farlo senza il suo amico: considerata la sua reazione alla lezione che aveva inflitto a Kain, avrebbe potuto dimostrarsi in disaccordo anche con quanto stava per fare.
Come vide l’oggetto del suo interesse qualsiasi dubbio svanì dalla sua mente.
“Beh, siamo arrivati, no? – disse distrattamente, lasciando la mano della sorella – Ci vediamo all’uscita: fai la brava.”
Non stette nemmeno a sentire le lamentele di Janet che in quel frangente avrebbe voluto stare con lui il più possibile; si diresse a grandi passi verso il ragazzo moro che procedeva tranquillamente nel cortile, senza nessuno accanto.
“Noi due dobbiamo parlare.” dichiarò, una volta che gli arrivò dietro, mettendo una mano sulla spalla snella del rivale, un gesto temerario che nessuno aveva mai fatto. La sua presa era forte e così sentì i muscoli dell’altro che si irrigidivano leggermente. 
“Che ti serve, Jean? – chiese Roy, girandosi e guardandolo con attenzione e una lieve minaccia che non passò inosservata – E dov’è Heymans?”
“La cosa non ti riguarda. – sibilò il biondo, reggendo senza problemi quello sguardo tagliente – Hai qualche lezione importante stamattina? Nel caso cerca di rimandarla.”
“Oh, – sogghignò Roy dopo qualche secondo, mentre una grande soddisfazione compariva nei suoi lineamenti – ci siamo decisi finalmente, Jean Havoc.”
“Sapevamo entrambi che questo momento sarebbe arrivato, Roy Mustang – annuì lui, restituendo il sorriso – e non ho intenzione di sprecarlo nei dieci minuti che precedono l’inizio delle lezioni: lascio a te l’onore di scegliere ora e posto. Ma gradirei che la cosa venisse fatta entro stamattina.”
“Il campo dietro la collina; – rispose subito il moro – tra venti minuti esatti: portati dietro un testimone come da regolamento… Heymans, presumo, ma hai libertà di scegliere chi vuoi.”
“E tu portati pure dietro Riza, ora che non hai più Maes a pararti le chiappe.” annuì Jean, restituendogli in pieno la frecciatina che lui gli aveva lanciato il giorno prima a proposito dell’essere geloso di Kain. Ebbe la somma soddisfazione di vedere che aveva colpito nel segno perché gli occhi scuri si strinsero con rabbia: adesso erano alla pari.
“Ci vediamo lì, Jean.” si limitò a dire il moro.
“Non tarderò, stai tranquillo.”
Senza aspettare altra risposta il biondo si girò e si allontanò con calma, le mani in tasca: sentiva su di sé gli occhi roventi di Roy, ma non ne aveva minimamente paura.
Quel duello tra indipendenti era stato rimandato per troppo tempo.
 
“Davvero i tuoi genitori non ti hanno fatto problemi?” chiese Riza con un sorriso.
“Davvero! – arrossì Kain con lieve imbarazzo – Forse ha ragione la mamma quando dice che tante mie paure non hanno motivo di esistere. Però ci tenevo così tanto di farle sapere di te e degli altri.”
“Sono felice che tutto si sia concluso bene.”
E anche Kain era felice: aveva incontrato Riza nel cortile della scuola ed avevano iniziato a chiacchierare allegramente, come se si conoscessero da anni (cosa che effettivamente era vera, anche se non si erano mai parlati). Il bambino aveva preferito non dire a nessuno della sua disavventura con Jean, ma aveva anche preso un’altra importante decisione: non avrebbe rinunciato alle sue amicizie per colpa del suo tormentatore. Forse questa sua scelta gli avrebbe procurato altri guai, ma Kain era quel tipo di persona che se mette una cosa al primo posto farà di tutto per proteggerla… e al suo personalissimo primo posto stavano quelle quattro persone che l’avevano accettato come amico.
Forse è meglio dire tre… insomma, non so se Roy vuole proprio definirsi mio amico.
“Guarda, arriva Roy.” sorrise Riza.
“Ciao Roy.” esclamò Kain con entusiasmo, ricordandosi le parole del giorno prima a proposito del salutarlo quando lo vedeva.
“Ciao, gnomo; – rispose distrattamente Roy, arruffandogli i capelli – scusa, ma devo parlare con Riza.”
“Oh, va bene. – annuì il bambino, leggermente perplesso – Allora io vado; ci vediamo.”
Roy annuì con approvazione e lo guardò allontanarsi tra gli altri studenti; in ogni caso preferì non parlare in quel punto così affollato e così fece cenno all’amica di seguirlo, fino al suo personale rifugio in quel piccolo gruppo di alberi nell’estremità del cortile.
“E’ successo qualcosa?” chiese lei, notando che il ragazzo in genere così noncurante ed annoiato mostrava segni di interesse più che palesi.
“Oggi salti la scuola con me – dichiarò il moro dopo qualche secondo di silenzio – e non ci sono obiezioni da fare.”
“Che? Roy, ma che ti prende? – chiese Riza, perplessa – Perché mai dovremmo marinare la scuola?”
“Io e Jean ci battiamo.”
“Vi battete? – sgranò gli occhi lei con preoccupazione – Ma perché? Che cosa è successo?”
“E’ successo quello che aspettavo da tempo: finalmente le cose si sono smosse con quello là. Penso di dover ringraziare Kain per tutto questo, ma la cosa non ha importanza. Quello che conta è che allo scontro è necessario che sia presente un’altra persona per parte ed io ho scelto te.”
Però gli occhi di Riza nel frattempo si erano incupiti e la sua espressione era diventata fredda.
“Che hai?” le chiese Roy.
“L’hai usato.” mormorò.
Roy la fissò con un sospiro, capendo a cosa si riferisse. Era vero, in qualche modo aveva usato Kain perché sapeva sin da principio che parlare con lui significava stuzzicare Jean… il fatto che poi avesse trovato quel ragazzino degno d’attenzione era stata una piacevole conseguenza a cui non aveva pensato.
“Mi avevi chiesto tu di parlare con lui – le disse con sincerità – e l’ho fatto per farti un piacere…”
“Ma sapevi cosa sarebbe successo con Jean!”
“E che dovevo fare? Dirti di no? – le ritorse contro – Per te era importante e l’ho fatto: se poi come conseguenza ho ottenuto anche una cosa che volevo io, ancora meglio.”
“Non è…”
“Senti, quel ragazzino mi piace, davvero. – sospirò Roy, cercando di convincerla – Non me l’aspettavo ed è stata una sorpresa per me, va bene? Il fatto che ora mi scontrerò con Jean non significa che poi smetterò di salutarlo o di parlargli… è una cosa che ormai va oltre Havoc e Breda, capisci?”
Riza scosse ancora il capo con aria scontenta. Per quanto le parole di Roy fossero sincere non riusciva a mandare giù il fatto che la sua intenzione iniziale era stata manipolata così freddamente.
“Riza – mormorò ancora Roy, prendendole la mano – Tra nemmeno un quarto d’ora io devo essere in quel campo ed ho bisogno che tu sia lì con me… per favore.”
E a Riza non restò che annuire.
 
Nel frattempo Kain voleva fare una cosa molto particolare prima dell’inizio delle lezioni: abbastanza rischiosa a dire il vero, ma gli premeva. Dalla sua tracolla tirò fuori un fazzoletto lavato e stirato e si diresse verso la parte del cortile dove stavano i piccoli delle prime classi elementari.
Forse era paragonabile al suicidio avvicinarsi alla sorella di Jean, ma del resto quel fazzolettino era suo ed era giusto restituirglielo. Dopo aver cercato per qualche secondo tra i bambini, intravide la testolina dalle trecce bionde come il grano leggermente in disparte e sorrise: fortunatamente non c’era suo fratello in vista e l’incontro sarebbe stato più facile.
“Ciao, - salutò, andandole accanto. – ti ricordi di me? Volevo ridarti il fazzoletto che… eh, ma che hai?” con imbarazzo vide che la bambina aveva i lucciconi agli occhi e si torceva la tracolla tra le piccole dita. Decisamente le serviva il fazzoletto e Kain si trovò inginocchiato accanto a lei ad asciugarle le lacrime.
“Heymans non mi vuole più bene.” confessò la bambina.
“Heymans? – si irrigidì Kain, timoroso di veder comparire la parte rossa della coppia. La piega che stava prendendo la situazione proprio non gli piaceva – Beh, non credo che sia così: vedrai che ti sbagli.”
“Non è venuto ad aspettarci!” pianse lei, aggrappandosi alla maglietta azzurra del ragazzino.
Kain si guardò attorno con ansia, cercando di capire cosa fare: non capiva assolutamente quello di cui parlava la bambina e una parte di lui avrebbe voluto scappare via, fino alla sua classe.
Ma come poteva ora che la sorella del suo aguzzino era stretta a lui e singhiozzava disperatamente?
“Eh… beh, senti… vuoi… vuoi che andiamo a cercarlo?” si trovò a dire.
Janet alzò su di lui gli occhioni azzurri e lo guardò speranzosa. Annuì con enfasi e gli prese la mano, incitandolo a camminare.
“Oh, sì, sì! Ti prego! Da sola ho paura!”
Kain con un sospiro pregò con tutto il cuore che il rosso fosse solo: avrebbe avuto maggiori possibilità di uscirne vivo.  Così, si avventurò con la bambina nella parte del cortile dove in genere stavano quelli delle superiori e dopo qualche minuto di ricerca vide Heymans, effettivamente solo, posato contro un muretto.
“Guarda…” sorrise, facendo cenno alla sua compagna.
“Heymans! Heymans!” Janet scoppiò a piangere come lo vide e gli corse incontro, buttandosi tra le sue braccia.
“Ehi, Janet! – sorrise il rosso, inginocchiandosi e abbracciandola – Tutto bene?”
“Perché non sei venuto oggi? – singhiozzò lei – Ho avuto tanta paura che non mi volessi più bene!”
“Non volerti più bene? Ma no, stupidina, come potrei non volerti bene?”
Mentre cercava di calmare la bambina, Heymans si sentì profondamente in colpa. Non aveva pensato a quanto ci potesse restare male nel vedere questo raffreddamento dei rapporti tra lui e Jean; scostandosi da lei per guardarla meglio si accorse che doveva aver pianto parecchio dal giorno prima. In quel momento decise che, per amore di quella bambina, in qualche modo avrebbe dovuto fare il primo passo per riappacificarsi con l’amico.
“Scusami…” mormorò con sincerità, accarezzandole la guancia per asciugarle una lacrima.
Una mano gli porse un fazzoletto ormai bagnato e voltandosi vide con sorpresa che si trattava di Kain.
“E’ suo.” disse con semplicità il bambino, accennando a Janet.
“L’hai portata tu qui?” chiese Heymans rialzandosi in piedi e tornando a guardare Kain da un’altezza maggiore.
“Era preoccupata che non le volessi più bene e non smetteva di piangere. – spiegò l’altro – Io volevo solo ridarle il fazzoletto che mi ha dato ieri.”
“Capisco – annuì il rosso, abbassando lo sguardo sulla bambina attaccata a lui – grazie mille, sei stato gentile. Adesso a lei penso io, va bene?”
“Certo.” mormorò lui, capendo di essere stato congedato.
“Kain…”
“Sì?”
“Come va il collo?”
“Uh… beh, è tutto a posto, – arrossì lui – sul serio.”
“Meglio così.” commentò Heymans.
 
Mentre Heymans si preoccupava di tranquillizzare Janet e riportarla verso la sua classe, Jean si trovava a dover affrontare un problema che, nella foga di sfidare Roy, non aveva considerato: avendo litigato con Heymans non aveva uno straccio di testimone.
Non poteva presentarsi da solo all’appuntamento; erano regole che esistevano da anni, persino quando suo padre era ancora uno studente, e non poteva fare di testa sua: determinati codici d’onore andavano rispettati.
Aveva meno di cinque minuti di tempo, considerato il percorso necessario per arrivare al luogo dello scontro, e dunque doveva risolvere il problema il più in fretta possibile. Pensò ai suoi compagni di classe, ma nessuno di loro gli piaceva veramente: non che fossero cattivi o stupidi, ma non li considerava buoni per portarli ad un evento come quello. Era una cosa che semplicemente non li riguardava.
Oh, ma a lui riguarda eccome… è tutta colpa sua.
Assumendo un’espressione decisa, Jean si diresse a grandi passi verso la persona che stava camminando verso l’ingresso della scuola. Del resto un testimone doveva solo guardare, non aveva nessun compito da svolgere e non doveva essere per forza amico dello sfidante.
Tu – mormorò gelidamente, arrivando dietro la sua vittima e mettendogli una mano sulla spalla per bloccarlo, proprio come aveva fatto prima con Roy – oggi non vai a lezione.”
Kain si irrigidì a quel contatto e a quella voce: aveva sperato con tutto il cuore che Jean si sentisse soddisfatto per quello che gli aveva fatto ieri e dunque lo lasciasse tranquillo per i prossimi giorni. Mentre si girava con disperazione verso il suo aguzzino, ripassò mentalmente tutti i buoni propositi che aveva fatto la sera prima mentre si addormentava tra i suoi genitori: essere forte, ottenere rispetto… guardare in faccia il proprio avversario.
Ma quando gli facevano paura quegli occhi azzurri, così uguali e allo stesso tempo così diversi da quelli della bambina che aveva consolato poco prima.
“Che… che succede?” si costrinse a dire, con voce più calma che poteva.
“Ho detto che oggi non vai a lezione: – ripeté Jean, passandogli il braccio intorno alle spalle come se fosse un vecchio amico e inducendolo a camminare verso l’uscita del cortile – andiamo a fare una cosa molto divertente con Roy.”
“Ma i professori…”
“Smettila di farti problemi, secchione! – lo sgridò Jean, mentre lo conduceva per il sentiero – Marinare la scuola per una mattinata ti farà più che bene!”
E a Kain non rimase che seguirlo, pregando con tutto il cuore che Jean non avesse intenzione di portarlo in un posto isolato per picchiarlo di nuovo.
 
“Ehi, Heymans! – chiamò una voce, mentre il rosso stava per entrare nell’edificio – Aspetta!”
Girandosi l’interessato vide che una ragazza dai capelli neri si affannava per raggiungerlo: facendo mente locale la riconobbe come l’amica di Riza.
“Rebecca, vero? – chiese, fermandosi ad aspettarla – Che succede?”
“Dovrei chiederlo io a te. – disse la ragazzina – Ma dov’è Jean?”
“Non lo so, - scosse il capo lui – ma deve essere qui a scuola considerato che sua sorella è già in classe. Perché?”
“E’ che ho visto Riza e Roy che si allontanavano dalla scuola… e alcuni dicono che prima Jean ha parlato con Roy, e sembrava una cosa tutt’altro che amichevole. Tu sai che sta succedendo?”
Heymans non ebbe difficoltà a capirlo e si sentì estremamente preoccupato: quell’idiota non aveva perso tempo e aveva sfidato Roy Mustang… senza chiedergli il minimo parere o appoggio. Fu come se un meccanismo saltato si rimettesse improvvisamente a posto: qualsiasi pensiero negativo che aveva avuto fino a qualche minuto prima sparì davanti all’esigenza di andare a stare accanto al suo amico in quella circostanza.
“Da che parte sono andati?” chiese, prendendo la ragazza per le spalle.
“Verso la campagna, il sentiero a destra della scuola, ma non saprei dirti di preciso… Ehi! Dove vai?”
“Tu vai in classe!” ordinò Heymans girandosi appena, prima di mettersi a correre verso la direzione che gli aveva detto.
Rebecca lo guardò scomparire nella medesima strada che avevano preso Roy e Riza. Per un attimo fu tentata di seguirlo, dato che la cosa prometteva di essere interessante e magari riguardava anche il suo adorato Jean. Tuttavia gli occhi di Heymans ed il tono della sua voce erano stati parecchio decisi e forse era il caso di dargli retta: del resto qualcuna doveva pur coprire l’assenza di Riza.
“Accidenti – sospirò, entrando dentro l’edificio – e pensare che tra le due sono io quella più brava a fare i resoconti. Speriamo che sia un minimo esaustiva quando le chiederò i dettagli di questa storia.”

 


il bellissimo disegno è di Mary_
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Capitolo 11
*** Capitolo 10. Duello tra indipendenti. ***


Capitolo 10. Duello tra indipendenti.


 
Nei libri che amava tanto leggere Vato, un duello si sarebbe svolto in una vallata deserta o in qualche altro posto suggestivo, durante l’alba o nel mezzo di una forte tempesta con tutta l’attenzione focalizzata sui due protagonisti. Questi avrebbero utilizzato le loro armi migliori, magari portate da uno scudiero o un paggio e, sicuramente, prima di iniziare a combattere sino alla morte di uno dei due, si sarebbero scambiati frasi emblematiche, cariche di significato profondo.
Non c’era niente di tutto questo nel campo abbandonato dove Roy e Riza attendevano l’arrivo di Jean. L’erba alta profumava piacevolmente ed i fiori selvatici erano mossi da una leggera brezza particolarmente calda nonostante fosse autunno. Il duellante dai capelli neri non aveva nessuna arma, considerato che il suo taglierino era al sicuro dentro la tracolla e non veniva usato certo per questi motivi; inoltre non indossava armatura o mantello, ma semplici pantaloni e camicia a maniche arrotolate.
Anche la sua testimone non rispecchiava proprio il canone dei libri con la sua gonna al ginocchio, il maglioncino a collo alto, la sua posizione seduta e contrariata… ed il fatto che avesse tredici anni.
Decisamente un lettore sarebbe rimasto molto sorpreso da questo particolare duello, più simile ad una lite tra due adolescenti, se non fosse stato per l’innegabile determinazione presente negli occhi del ragazzo.
Proprio questi si strinsero pericolosamente quando vide il suo rivale arrivare.
Jean abbandonò il sentiero a grandi passi per entrare nel campo dello scontro, trascinandosi dietro un bambino che chiaramente voleva essere ovunque meno che in quel posto.
“Ma quello è Kain!” esclamò Riza, alzandosi in piedi e affiancandosi a Roy.
“A che gioco sta giocando?” si chiese il ragazzo, mentre i due si avvicinavano.
“Eccoci qua.” dichiarò Jean, fermandosi a pochi metri da loro.
“Lascialo andare! – esclamò subito Riza, facendosi avanti a prendendo Kain per un braccio – Perché l’hai portato qui?”
“Serviva un testimone per parte, no?” rispose con noncuranza il biondo, mollando la sua presa sul bambino e permettendogli di allontanarsi di qualche metro assieme a Riza.
“Mi ha praticamente trascinato via da scuola.” spiegò Kain mortificato, ma anche sollevato da quel salvataggio, volgendo lo sguardo da lei a Roy.
“Non mi sembra un testimone volontario…” commentò quest’ultimo.
“Non è mica lui che deve combattere. – scrollò le spalle Jean, ritenendo questo dettaglio ormai risolto – Che c’è, Roy? Ti vuoi nascondere dietro questi particolari?”
“Non ci penso nemmeno! – sibilò il moro – Ma pensavo che fossi più maturo da evitare di coinvolgerlo anche in questa storia. Il duello si fa in ogni caso, non temere, ma lui non lo accetto come testimone!”
“Certo! – disse una voce – Il testimone sono io!” 
Girandosi di scatto Jean si illuminò in viso nel vedere Heymans che scavalcava agilmente la staccionata ed entrava nel campo. Il rosso sorrise furbescamente mentre si accostava all’amico e gli diede un lieve pugno sulla spalla: potevano anche aver litigato, ma in questi momenti di necessità la coppia sapeva riunirsi e superare quanto li aveva tenuti separati. Il fatto che Heymans fosse venuto voleva dire che per lui l’amicizia con Jean era veramente  importante e questo al biondo bastò per spazzare via qualsiasi nube di offeso orgoglio dal suo cuore.
Adesso che il suo migliore amico era tornato non aveva dubbi su chi avrebbe vinto quell’incontro: con il sostegno morale di Heymans poteva fare tutto.
“Contento, Roy?” chiese in tono beffardo, tornando a rivolgersi al suo avversario.
“Meglio così; Kain, tu stai con Riza.”
“E’ un duello? – mormorò il bambino rivolgendosi alla ragazza che lo stava facendo allontanare ulteriormente – Davvero vogliono picchiarsi?”
“A quanto pare. – annuì lei, senza troppa approvazione, tenendogli le mani sulle spalle in un gesto protettivo – Se ci tengono così tanto che lo facciano pure.”
“Roy lo sta facendo per colpa mia?”
“Eh? Perché mi chiedi una cosa simile?”
“Non volevo dirtelo, – esitò lui con voce triste – ma… ieri Jean mi ha picchiato perché avevo parlato con Roy… non è che Roy ha preso le mie difese?”
Riza lo strinse d’impulso a sé, sentendo di detestare profondamente quei due stupidi carichi d’orgoglio che ora si guardavano in cagnesco, preparandosi a cominciare. Non se la sentiva dirgli che in qualche modo lui era stato usato come scusa per quel duello.
“Non ci pensare, – disse con severità – sono questioni tra indipendenti: tu sei troppo giovane e troppo maturo per queste cose.”
Accorgendosi che la sua amica sembrava parecchio contrariata da tutta quella situazione, Kain preferì tacere e spostò la sua attenzione sul terzetto a poca distanza da loro.
Heymans si portò tra i due contendenti, improvvisandosi giudice della gara. Lanciò un’occhiata interrogativa a Roy, come a chiedergli se accettasse questo suo ruolo ed il moro annuì.
“Vi ricordo le regole degli scontri tra indipendenti: – disse con voce chiara, squadrando i due avversari – niente armi, nemmeno raccolte da terra come sassi, rami o simili; ed i testimoni non vanno coinvolti fisicamente… ed in questo specifico caso la cosa si estende anche a Kain. Dovete stare entro i confini del campo, ma non c’è  limite di tempo: si termina quando uno dei due si arrende o è chiaramente impossibilitato a continuare… c’è qualche richiesta che volete fare in caso di vittoria?”
“Se vinco – disse subito Jean – dovrai presentarti a scuola e dire a tutti da chi sei stato battuto. Ed inoltre non ti dovrai frapporre tra me e Kain. Accetti?”
“Accetto solo perché so che ti batterò, Jean: – rispose Roy – altrimenti ti impedirei di rompere le scatole a quel ragazzino. Se queste sono le tue condizioni, allora le mie sono che se vinco tu lo lascerai definitivamente in pace.”
“Andata!” annuì lui.
“… ed inoltre, – aggiunse, includendo anche Heymans nel suo sguardo – voi due mi accetterete come vostro capo indiscusso.”
“Eh? – esclamò Jean – Ma come ti salta in mente?”
“La faccia tosta non ti manca, Roy.” mormorò Heymans con un sorriso furbo.
“La cosa ti crea problemi, Heymans? Hai paura che il tuo amico biondo perda? Se Jean ritira la parte su Kain allora io ritiro la mia su voi due.”
“Scordatelo! – sbottò Jean, in un moto d’orgoglio – Accetto tutte le condizioni!”
“Va bene anche per me. – annuì il rosso, facendosi indietro di qualche passo – Potete cominciare.”
 
Heymans sapeva che questo era lo scontro per eccellenza dove i contendenti avevano le stesse possibilità: per la prima volta in vita sua non dava per nulla scontata la vittoria di Jean.
Mentre i due avversari iniziavano a studiarsi, si accosto a Riza e Kain e li fece indietreggiare ulteriormente, verso la staccionata che delimitava il campo.
“Indietro ragazzi, – consigliò – questi ci andranno giù pesante.”
“Si faranno male! – disse Kain con preoccupazione – Heymans, dovremmo fermarli.”
“Stai buono, piccoletto. E’ uno scontro che non poteva essere rimandato a lungo, lo sapevamo da tempo. Mi dispiace solo che tu sia qui a vederlo dato che mi pari l’ultima persona che può capire queste cose: cerca di non impressionarti troppo.”
Il bambino scosse il capo: come aveva detto Heymans, lui proprio non riusciva a capire questa forma di competizione; le botte facevano male, che senso poteva avere un duello? Non si poteva risolvere la questione in un altro modo?
Tuttavia, se da una parte pensava questo, dall’altra non  poteva fare a meno di restare ad osservare con un perverso fascino quei due ragazzi che si fronteggiavano a poca distanza da lui.
 
Jean Havoc era certamente un ragazzo impulsivo, ma una delle doti che l’avevano portato a vincere tanti duelli, oltre all’indiscussa forza fisica, era la capacità di saper ragionare e valutare l’avversario, senza lanciarsi immediatamente in attacchi dettati dalla foga.
Roy Mustang aveva fatto meno combattimenti, essendo uno che preferiva stare maggiormente sulle sue, ma in tutti aveva dimostrato una grande forma di furbizia e freddezza, riuscendo a prevalere anche su chi era più grande di lui. Era molto rapido nei movimenti e in genere tendeva a chiudere l’incontro in pochi minuti colpendo determinati punti che facevano crollare l’avversario.
Pur non essendosi mai scontrati tra di loro entrambi avevano una vaga idea del tipo di avversario che si trovavano ad affrontare; ma la loro iniziale esitazione era anche dovuta all’importanza fondamentale che questo duello era andato ad assumere: gli equilibri tra gli indipendenti erano appesi alle sorti di quel combattimento.
A spezzare l’attesa fu Roy, con un gesto così rapido e improvviso che quasi colse di sorpresa Jean.
Con uno scatto in avanti sferrò un pugno verso il costato del biondo e fu solo per i riflessi pronti di quest’ultimo che il colpo venne parato bruscamente dal braccio. Nonostante fosse stato costretto a questa difesa improvvisa e dolorosa, Jean riuscì anche a rispondere all’attacco e a dare un calcio alla coscia destra di Roy, sbilanciandolo leggermente e costringendolo ad arretrare.
I due si scostarono, guardandosi in cagnesco, con Jean che aveva una lieve soddisfazione dipinta sul viso per essere riuscito a mandare a segno il primo attacco. Ma sapeva benissimo che non voleva dire assolutamente nulla: Roy infatti si limitò a massaggiarsi lievemente la parte lesa, ma tornò immediatamente in posizione da combattimento.
I primi minuti di quello scontro passarono così, in relativo silenzio, con attacchi fulminei e studiati senza che nessuno dei due subisse qualche danno grave: si capiva perfettamente che volevano rendersi conto ciascuno delle possibilità dell’altro e la loro esperienza li spingeva a prendersi tutto il tempo possibile per portare avanti quest’analisi.
 
Heymans, poggiato pesantemente alla staccionata, fissava con grande interesse tutta la scena: per quanto fosse fondamentale a livello di future gerarchie, non poteva far a meno di studiare con attenzione quei due combattenti d’eccezione, apprezzando le qualità di entrambi e riconoscendo che, questa volta, Jean si trovava davanti ad un avversario perfettamente al suo livello.
Accanto al rosso Riza continuava a tenere Kain stretto a sé.
“Chi credi vincerà?” chiese all’improvviso.
“Non te lo so proprio dire: – scrollò le spalle Heymans – è un incontro perfettamente equilibrato.”
“E non sei minimamente preoccupato per il tuo amico?” lo sguardo di Riza era pieno di rimprovero. Proprio non riusciva a capire determinati atteggiamenti: per quanto lei fosse stata arrabbiata con Roy fino a qualche minuto prima, ora si sentiva in grande apprensione per lui, considerata la stazza fisica dell’avversario. Invece sembrava che Heymans avesse tranquillamente accettato il fatto che il suo miglior amico potesse uscire malconcio da quello scontro.
“Jean non è nuovo alle botte… - disse proprio il rosso, rispondendo alla sua domanda – e se ne esce ammaccato non sarà nulla di nuovo. E anche per Roy è così: tranquilla, bambina, quei due hanno una bella resistenza. E per ora si stanno solo riscaldando.”
“Ma si sono dati colpi così forti!” esclamò Kain, profondamente turbato. In confronto la sberla che gli aveva dato Jean il giorno prima sembrava una carezza…
“Forti? Kain, tu non hai mai visto…”
“Adesso basta giocare!”
L’esclamazione di sfida lanciata da Jean riportò l’attenzione del terzetto verso lo scontro. Fecero in tempo a vedere il biondo che si scagliava contro Roy a testa bassa. La testata colpì il moro in piena pancia tanto da mozzargli il fiato: finirono entrambi a terra e a quel punto i pugni ed i calci iniziarono ad essere scambiati con molta più forza e foga.
La fase di studio era finita.
“Roy!” esclamò Riza d’impulso, lasciando Kain e muovendosi in avanti per andare in soccorso del ragazzo.
Ma prima che potesse muovere un altro passo Heymans la prese per il braccio e la tenne ferma.
“Niente intromissioni, Riza: se lo fai lui non te lo perdonerebbe mai.”
La ragazza scosse il capo con angoscia: era la prima volta che vedeva Roy combattere veramente contro un avversario difficile; vederlo con il fiato mozzato per quella testata l’aveva fatta sussultare interiormente come mai le era successo. Vedere come il volto avvenente avesse perso tutta la solita arroganza per diventare teso, impegnato e sofferente la sconvolse più del previsto.
Jean era una vera e propria furia ed i suoi colpi erano andati a segno più volte. Ora che la fase di studio era finita stava dando sfogo a tutta la rabbia repressa che aveva: se Roy Mustang sarebbe diventato il suo capo, avrebbe pagato a caro prezzo un simile onore… ed in ogni caso, lui era pronto a fare di tutto per impedirglielo.
Heymans, continuando a tenere la mano stretta attorno al braccio di Riza, guardava lo scontro con grande ammirazione: avevano due modi di combattere estremamente differenti e non riusciva a fare pronostici su chi avrebbe ceduto per primo.
Roy aveva uno stile che cercava di dare colpi ben mirati che facessero profondamente male; Jean invece non cercava simili perfezionismi, ma andava più sulla quantità e sulla forza. Questa differenza si ritorceva su entrambi: Roy prima di poter sferrare un colpo ne subiva molti di più da Jean, il quale, tuttavia, una volta colpito accusava maggiormente il dolore.
 
“Ti faccio ingoiare tutta la tua arroganza, maledetto!” sibilò Jean, mettendo Roy al tappeto e afferrandogli la chioma corvina sporca di terra ed erba.
“Non così in fretta, Havoc!” mormorò lui, riuscendo a dargli una forte sberla e a liberarsi della presa. Del sangue uscì dal labbro del suo avversario e gli macchiò la camicia bianca e sporca di terra: fu un avvenimento che li bloccò entrambi per qualche secondo.
“Primo sangue, eh? – constatò Jean, passandosi un braccio sul taglio come se niente fosse – Peccato che quello che conti sia l’ultimo!”
“E anche quello sarà mio!” esclamò Roy riuscendo a rotolare via dalla sua presa e a ribaltarlo a terra. Sembrava una situazione favorevole, ma in realtà fu una mossa che favorì l’avversario: sfruttando la maggior forza fisica Jean non ebbe difficoltà a sbalzarlo a un paio di metri da lui, facendogli battere pesantemente la schiena a terra.
“Tappati la bocca, maledetto!” gridò furente.
La fatica ed il dolore non impedivano ai due di insultarsi.
 
Dopo diverso tempo, Jean si mise a quattro zampe scosso da conati per il forte colpo che aveva ricevuto allo stomaco. Il suo avversario non stava meglio, considerato che si lasciò crollare seduto a terra, ansimando faticosamente.
“Ti stai arrendendo?” mormorò Jean, lanciandogli un’occhiata dolorante ma carica di sfida.
“Piuttosto preferisco morire! – ansimò Roy – Sei tu che devi arrenderti: guardati, stai per vomitarci tutto!”
“Vomitare non è considerata sconfitta! – dichiarò il biondo, prima di avere un sussulto e rigettare violentemente sul prato – Vai… vai al diavolo… Roy Mustang!”
“Basta così! – dichiarò Heymans, facendosi avanti – Nessuno dei due è in grado di battersi ancora.”
“Non sono io quello che sta annegando nel proprio vomito!” protestò Roy.
“No, hai ragione: tu sei quello che non riesce nemmeno ad alzarsi in piedi per le vertigini; – sogghignò il rosso – riesci ancora a vederci con entrambi gli occhi neri?”
“Roy, resta seduto! – lo bloccò Riza, accostandosi a lui – Sei pallidissimo!”
“E stai buono anche tu, Jean; – consigliò Heymans, battendogli alcune pacche sulla schiena – aspetta che la nausea passi.”
“Chi ha vinto?” chiese l’amico.
“Vinto? Beh, direi che è patta.”
“Non esistono i pareggi!” disse Roy, scuotendo lievemente il capo con il concreto risultato di sbiancare ancora di più.
“Credo che da oggi ne esista uno, fatevene una ragione entrambi. Questo è il mio parere di giudice e testimone; Riza, tu che sei la testimone di Roy, confermi il mio verdetto?”
“Sì, confermo! Basta che la smettano!” esclamò lei con urgenza, spaventata dall’estremo pallore dell’amico.
“Ma che dici?” brontolò Roy, gemendo leggermente quando la ragazza gli posò la mano sulla fronte.
“Per favore… - mormorò Kain avvicinandosi a lui, con gli occhi pieni di lacrime – per favore smettetela. Vi siete fatti troppo male…”
“Pareggio, eh? – borbottò Jean, gattonando lontano da quanto aveva rigettato e lasciandosi cadere a terra – Direi che ci può stare… per adesso!”
“Sì, per adesso!” sospirò il suo avversario, imitandolo nel lasciarsi cadere pesantemente sdraiato.
Entrambi rimasero a respirare profondamente ad occhi chiusi, mentre i tre spettatori si guardavano tra di loro, chiedendosi cosa fare.
“Dovremmo riportarli a casa.” propose Riza.
“Non credo ci sia altra scelta.” ammise Heymans.
“Ma non sono in grado di camminare!” constatò Kain.
“No, non da soli. – Heymans guardò pensoso i due duellanti allo stremo delle forze e valutò il problema – Va bene, c’è una sola soluzione. Riza, passami la tracolla di Roy e aiutami a sollevarlo: lo riportiamo a casa… il paese è molto più vicino rispetto a casa di Jean e non ci dovremmo impiegare molto. Faremo una piccola deviazione per evitare di passare davanti scuola, va bene?”
“Certo! – annuì lei, sollevata che qualcuno avesse preso in mano la situazione – Coraggio, Roy, passa il braccio sulle mie spalle.”
Con qualche difficoltà i due riuscirono a mettere in piedi il bruno che era mezzo incosciente ora che la scarica di adrenalina era passata.
“Kain, - chiamò ancora Heymans – io torno qui appena riaccompagniamo Roy. Tu stai assieme a Jean, va bene?”
“Io? – sbiancò il bambino – Ma…”
“In queste condizioni dubito che ti possa picchiare, no?” sogghignò il rosso, lanciando un’occhiata maliziosa all’amico steso a terra e poi al bambino. E senza aspettare risposta iniziò ad avviarsi assieme a Riza.
 
A Kain non rimase che guardare quelle tre figure che si allontanavano lentamente: con quell’andatura ci avrebbero impiegato più tempo del previsto, ma era chiaro che non potevano fare altrimenti.
Quando furono spariti dal suo campo visivo, il bambino si costrinse ad abbassare lo sguardo verso Jean che ancora stava a terra ad occhi chiusi e con la bocca semiaperta per il respiro difficoltoso.
Era strano vedere il suo aguzzino in condizioni tali che lui avrebbe potuto tranquillamente prendersi qualche piccola vendetta. Ma se mai quel pensiero passò nella testa di Kain, se ne andò prima che lui potesse prenderne davvero coscienza.
“Jean…” mormorò accovacciandosi accanto a lui. Si arrischiò persino ad allungare l’indice e toccargli la fronte.
“Che vuoi…?” ansimò lui all’improvviso, tenendo gli occhi chiusi.
Kain ebbe un sussulto e cadde seduto all’indietro.
“Ecco... – disse dopo una lieve esitazione – vuoi bere un po’ d’acqua? Ho… ho la mia borraccia e forse sciacquarti la bocca ti aiuta a far passare la nausea.”
“Ma fottiti!”
“Q… quando stavo male mi aiutava molto. Perché non ci provi?” si trovò ad insistere.
Jean non rispose, sfinito com’era e Kain, interpretando la regola del chi tace acconsente, frugò nella sua tracolla fino a tirare fuori la piccola borraccia; levò il tappo e la avvicinò timoroso al viso del biondo.
La mano gli tremava così tanto che un po’ di liquido cadde sulle labbra del ragazzo.
“Ohi! Scusa!” esclamò.
“Dammi quella borraccia!” ordinò Jean, aprendo gli occhi e leccandosi le labbra.
“Tieni… ma fai piano, mi raccomando.”
Vide con ansia il ragazzo che prendeva il contenitore e se lo accostava alla bocca: i primi sorsi vennero sputati a terra, con l’acqua leggermente rossastra per qualche traccia di sangue, ma gli altri vennero mandati giù, fortunatamente senza scatenare alcun conato.
Dopo essere riuscito a levarsi dalla bocca parte del sapore di vomito, Jean riuscì a respirare meglio e si mise in posizione più comoda.
“Se non fosse stato per quel cavolo di calcio che mi ha fatto vomitare, avrei vinto... quel maledetto stava cedendo.”
“Vi siete picchiati così forte…” mormorò il bambino, richiudendo la borraccia quasi vuota e rimettendola nella propria tracolla.
“Ci sa fare, glielo concedo. Pareggio… ancora non ci posso credere!”
“E cosa succede quando si pareggia?” chiese Kain perplesso.
“Non lo so… ora sta zitto: ho la testa che mi scoppia e la tua voce è l’ultima cosa che voglio sentire.”
“Scusa.” mormorò il piccolo, sistemandosi a gambe incrociate accanto a Jean e predisponendosi ad attendere il ritorno di Heymans: si rendeva perfettamente conto che avrebbe potuto scappare via, senza che nessuno potesse rimproverarlo di una simile decisione.
Ma non lo fece: non poteva lasciare solo il suo aguzzino.
 
“Che succede in caso di pareggio?” chiese Riza, mentre lei ed Heymans trasportavano di peso Roy.
“Bella domanda. Non ne ho la minima idea: ci dovremo inventare qualcosa non appena si riprendono.”
“Non vorranno scontrarsi di nuovo, spero!”
“Non per i prossimi giorni, considerate le loro condizioni. Eccoci arrivati… sei mai entrata in questo posto?” chiese con una leggera esitazione negli occhi grigi, guardando l’ingresso di quel locale particolare.
“No, mai… io e Roy non siamo mai stati l’uno a casa dell’altra.” scosse il capo lei, effettivamente timorosa della fama che aveva quel posto.
“Dovremmo bussare od entrare direttamente?”
“Io non lo so… – ammise Riza perplessa e intimorita – ma del resto non è proprio una casa, no? In un locale non si bussa, o forse in questo caso è diverso?”
Heymans guardò Roy che era praticamente incosciente tra di loro e, pregando di non vedere niente di equivoco lì dentro, si fece coraggio e spinse con la mano libera la porta.
Di mattina il locale era silenzioso e quieto, con le sedie messe sopra i tavoli ed il pavimento appena lavato: sembrava un comunissimo bar o ristorante. Non c’era nessuno nella grande sala o dietro il bancone e così, con un misto di sollievo e timore, i ragazzi portarono dentro Roy senza che nessuno li vedesse.
“Metti giù una delle sedie, - consigliò Heymans, caricandosi maggiormente il peso del giovane – così lo possiamo mettere comodo.”
Annuendo Riza si accostò ad uno dei tavoli e fece quanto le era stato detto.
Fecero sedere il ferito che respirava con grande difficoltà, le braccia abbandonate sui fianchi.
“Dovremmo fargli bere acqua, mettergli dei tamponi freddi sugli occhi… - constatò il rosso guardando con attenzione il viso pallido e segnato – Hai la vaga idea di dove si possano trovare queste cose?”
“No.”
“Ehi, Roy! – lo scosse leggermente Heymans – Dai, riprendi i sensi! Non è che possiamo muoverci liberamente in questo posto e…”
“Non ti sembra di essere troppo giovane per un simile locale, carotino?”
Quella voce tagliente e beffarda fece saltare il cuore in gola ad Heymans e anche Riza si catapultò dietro di lui, aggrappandosi alla sua maglietta. Facendosi coraggio e girandosi il rosso vide un donnone scendere dalle scale che stavano dietro il bancone: indossava una pesante vestaglia ed il viso era impassibile, con gli occhi scuri che lo guardavano attentamente. Tra le labbra aveva un bocchino d’oro con una sigaretta accesa; i capelli neri erano tirati indietro per ricadere in una stretta coda sulle ampie spalle.
“Ecco… io… io… - si trovò a balbettare Heymans alla presenza di Madame Christmas – non sono qui per…”
“Mh? Ehi, Roy – boy! Che diamine hai combinato per ridurti così?” chiese la donna con divertimento, accostandosi al nipote e prendendogli il mento tra le mani.
“Non gli faccia male!” disse Riza d’impulso per essere immediatamente trafitta da quegli occhi penetranti.
“Che hai, colombina? Sei preoccupata per il ragazzo? Ha la pellaccia dura questo qui… era da parecchio che non lo vedevo tornare a casa pesto per qualche rissa. Ma qui c’è andato giù pesante.”
E senza attendere risposta andò verso il bancone: trafficò con una bottiglia ed un panno pulito e poi tornò davanti al nipote, passandogli il tampone sul labbro spaccato.
“Aaahii! Piano!” protestò Roy, aprendo gli occhi.
“Oh, vedi che ti riprendi, ragazzo? – ridacchiò la donna, pulendogli la ferita – Fidati, il liquore brucia, ma è il miglior disinfettante!”
“Liquore!?” sgranò gli occhi Heymans.
“Che c’è, carotino? Ne vuoi bere qualche sorso?”
“No, ma…”
“Lascia stare, Heymans, – borbottò Roy, ormai cosciente – ci sa fare.”
“Andiamo, irresponsabile, – dichiarò Madame, prendendolo in braccio come un fuscello – sdraiato a letto andrà meglio. Vuoi venire anche tu, colombina? Considerata l’età di questo furfante vai meglio tu come infermierina… anche perché le ragazze sono tutte nel mondo dei sogni a quest’ora. E non fare quella faccia: le bambine come te mica le mangio!”
Riza esitò e lanciò un’occhiata disperata ad Heymans, alla cui maglietta si teneva ancora aggrappata, quasi a pregarlo di non lasciarla sola in quel posto.
“Resterei, Riza, ma devo tornare al campo: – scosse il capo lui, sciogliendosi gentilmente da quella presa e levandosi la tracolla di Roy dalle spalle per dargliela – ci sono Jean e Kain da soli.”
La ragazza sospirò e poi annuì debolmente; girandosi vide che Madame Christmas aveva già iniziato a salire le scale e così si affrettò a raggiungerla.
 
Kain fissava perplesso Jean che stava sdraiato a terra e sembrava dormisse. Non osava dire una parola dopo la sgridata che gli era stata rivolta, ma era molto preoccupato per il pallore nel viso del biondo: un grosso livido spiccava sotto l’occhio destro ed un taglio profondo gli spaccava il labbro inferiore… a ciò andava aggiunto un vasto assortimento di contusioni in tutto il corpo.
La mamma saprebbe come comportarsi, ma io non ho la minima idea di come agire…
Perché nonostante quel ragazzone l’avesse sempre bistrattato, anche in maniera violenta, Kain non poteva fare a meno di essere preoccupato per le sue condizioni: se c’era un ricordo che la sua prima infanzia gli aveva lasciato era la pessima sensazione che si aveva nello stare male; di conseguenza aveva una forte empatia per chiunque fosse malato o ferito e gli veniva istintivo aiutare come poteva.
Avrebbe voluto bagnare un fazzoletto con l’acqua residua della borraccia e metterlo sulla fronte di Jean, ma era un azzardo troppo forte e la paura lo bloccava. Dunque si limitava a stare lì seduto, aspettando con impazienza il ritorno di Heymans.
“Eccomi, Kain!” esclamò dopo un po’ di tempo il rosso, scavalcando la staccionata e correndo affianco a loro.
“Oh Heymans, finalmente! – sorrise con sollievo il bambino alzandosi in piedi – Ci hai messo così tanto! Come sta Roy?”
“Sua zia e Riza si stanno occupando di lui. Ehi, ehi… Jean, come va?” scosse leggermente l’amico che gemette debolmente.
“Sono stato meglio…”
“Coraggio, adesso ti porto a casa.”
“Così mia madre finisce di uccidermi?” sorrise beffardamente con gli occhi ancora chiusi.
“Può darsi… ma non puoi stare qui. Forza, cerca di alzarti; Kain, tu prendi le nostre tracolle, per favore.”
“Certo.”
“Che ore sono…?” chiese Jean, gemendo mentre si rimetteva in piedi con qualche difficoltà, sostenendosi pesantemente all’amico.
“E’ quasi ora di tornare a casa: – disse Kain, guardando il sole – la mattinata di scuola è praticamente finita; credo che tra poco sentiremo la campana di fine lezione.”
“Oh cavolo! – rifletté Jean, mentre iniziavano a muoversi lentamente verso l’uscita del campo – Devo recuperare Janet.”
“In queste condizioni? – chiese Heymans – Scordatelo, non puoi presentarti a scuola così…”
“Non posso certo lasciarla a scuola, ti pare?”
“Beh, potrebbe andare lui.” propose il rosso accennando a Kain che avanzava qualche passo dietro di loro.
“Mi stai chiedendo di far affidamento su quel piccolo secch…” iniziò a chiedere il biondo con sospetto.
“Sì, te lo sto chiedendo perché so che mi posso fidare di lui. – lo bloccò Heymans con uno sguardo di sbieco – Si è preoccupato di tua sorella stamattina, dopo che l’avevi praticamente lasciata in lacrime all’ingresso: l’ha portata da me, nonostante fosse chiaramente terrorizzato all’idea che tu potessi di nuovo prendertela con lui. Mi sa proprio che gli devi un favore, Jean.”
“Due se la riporta a casa…” commentò seccato il biondo squadrando Kain che si stava accostando a loro.
“Vedi di deciderti in fretta.” gli consigliò l’amico, mentre la campana della scuola iniziava a risuonare.
“Mi restasse altro da fare. – protestò il ferito. Poi si rivolse a Kain – Ascolta nano, vai all’uscita di scuola e spieghi a mia sorella che io non  mi sono sentito molto bene ed Heymans mi ha riaccompagnato a casa.”
“Che? Oh, certo!” annuì il bambino dopo una lieve esitazione.
“E poi la porti a casa, va bene? Presumo che tu sappia dove sta l’emporio dei miei, no?”
“E’ distante… - mormorò Kain, riflettendo su quanto avrebbe dovuto allungare la strada; un fatto che l'avrebbe fatto tardare tantissimo, facendo preoccupare i suoi… per il secondo giorno di fila. Però che altro poteva fare? – Va bene, ci penso io.”
“Grazie Kain; - sorrise Heymans – dai, passami la mia tracolla e quella di Jean, le porto io.”
“Figurati. Allora io vado a prendere Janet… cercherò di fare il prima possibile!” assicurò, girandosi per andare verso la scuola.
“Bene – annuì Heymans, mentre si avviavano – cerchiamo di allungare il passo: cerchiamo di evitare di farci raggiungere da Kain e Janet; così tua sorella non si preoccuperà troppo nel vederti camminare così.”
“Nnnhg.” borbottò Jean mentre prendevano un’andatura più spedita.
E mentre si avviavano, Heymans vide con grande soddisfazione che le labbra tumefatte dell’amico sillabavano un grazie, sicuramente diretto a Kain.
Tutto sommato, anche se la questione con Roy era solo rimandata, questo duello non era andato così male.



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Capitolo 12
*** Capitolo 11. Speciale. ***


Capitolo 11. Speciale.

 

Lo scontro tra Roy e Jean aveva avuto conseguenze tali che per il resto della settimana i due contendenti furono costretti a letto a causa dei danni ricevuti, nonostante nessuna delle ferite subite fosse effettivamente grave.
Considerata la situazione “di emergenza”, ogni giorno Heymans si metteva in moto prima del previsto e andava a prendere Janet direttamente a casa, dato che la bambina non era ancora in grado di fare il percorso fino al crocevia da sola. La cosa non gli dispiaceva assolutamente: voleva dire che le cose stavano tornando alla tranquilla normalità dopo quel giorno di tensione che sembrava dover sconvolgere tanto la sua amicizia con Jean. Era come se la tempesta fosse passata naturalmente, senza bisogno che qualcuno dei due tirasse fuori l’argomento: tuttavia, se da una parte c’era stata una gradita conferma di quanto fosse forte la loro amicizia, dall’altra Heymans iniziava a sentirsi leggermente in colpa per non aver mai parlato a Jean della sua famiglia, per lo meno non in maniera approfondita.
Era come se sentisse che forse era arrivato il momento di concedere una nuova e strana forma di fiducia al suo amico e…
“Mamma è ancora molto arrabbiata con Jean: – disse Janet, interrompendo i suoi pensieri – ieri ha detto che era un bene che stava così male, altrimenti le avrebbe prese.”
“Non c’è niente da fare – ridacchiò Heymans – tuo fratello è un vero danno. E tuo padre che dice?”
“Papà non credo sia arrabbiato con lui, dice che finalmente ha risolto la questione… ma non so di che cosa parla e non me l’hanno detto né lui né Jean. A casa non mi dice mai niente nessuno!” protestò con aria offesa.
“Lascia stare, Janet, sono cose che a te non interesserebbero nemmeno, fidati.”
“Se lo dici tu! Beh, se loro non dicono le cose a me, allora io non dirò che sei il mio fidanzatino. Così imparano!”
“Quello è un segreto solo per noi. – le ricordò il rosso, strizzandole l’occhio – Ehi, hai visto che c’è Kain?”
“Oh sì! Buongiorno Kain!” salutò con entusiasmo la bambina.
“Ciao! –  sorrise il moro fermandosi per aspettarli all’ingresso del cortile della scuola – Come sta Jean? Nemmeno oggi è tornato a scuola… eppure è già il quarto giorno.”
“Nah, il ritorno sarà direttamente la settimana prossima. – spiegò Heymans – Quei due folli si sono riempiti di botte fino a un punto simile.”
“Anche Riza ha detto che Roy rientrerà direttamente lunedì prossimo, - ammise  il bambino – ma credi che faranno pace?”
“Pace! Mica hanno litigato, Kain; – sogghignò Heymans, mentre Janet vedeva le sue compagnette e correva  verso di loro – però effettivamente bisognerà chiarire come stanno le cose. Con un pareggio le richieste che hanno fatto non possono essere esaudite, anche perché erano in parte contrastanti.”
“Non mi piace essere parte di quelle richieste. – confessò il bambino, guardando davanti a sé – Avrò undici anni e sarò più piccolo… ma credo di meritare rispetto e non essere trattato come un oggetto.”
Heymans annuì e non poté che dargli pienamente ragione. In quegli ultimi giorni, considerata anche la simpatia che Janet provava per Kain, aveva iniziato a conoscere meglio la vittima di Jean ed aveva scoperto che gli piaceva più del previsto. Prima provava per lui sono una forma di pietosa simpatia e spesso faceva in modo che il suo amico non esagerasse con gli scherzi, ma adesso che aveva avuto occasione di parlaci, aveva scoperto che c’era una bella mente dietro quell’aria timida. E anche una strana maturità che non avrebbe fatto male al primogenito degli Havoc… e ad Henry.
“A proposito, – disse, per cambiare argomento – non ti ho ancora chiesto se i tuoi si sono arrabbiati il giorno in cui ti abbiamo praticamente obbligato a riportare Janet a casa.”
“Arrabbiati no, - scosse il capo lui – certo erano molto preoccupati… anche se ho corso come un matto dopo che ho riportato Janet, ho fatto più di mezz’ora di ritardo. Però quello stesso pomeriggio è venuta la mamma di Jean a casa e si è scusata per l’imprevisto e non ha fatto altro che ringraziarmi. Ero anche imbarazzato quando mi ha abbracciato e si è quasi messa a piangere! Però i miei genitori sono stati molto fieri di me, quindi tutto si è concluso bene.” un timido e soddisfatto sorriso gli apparve nel volto al ricordo di suo padre che gli metteva le mani sulle spalle in un gesto carico d’orgoglio.
“La signora Havoc è così! – sorrise Heymans – E’ molto espansiva per certe cose: in questo Janet le somiglia molto.”
“Mia mamma non credo farebbe così: – ridacchiò Kain – lei è molto più tranquilla. E la tua?”
“Anche la mia è molto più riservata rispetto alla mamma di Jean, su questo non ci sono dubbi. Oh, ciao Riza, come sta il nostro malato?”
“Ciao ragazzi. – salutò la biondina, affiancandosi a loro – Beh, come al solito: dice che stare a letto è più eccitante di venire a scuola, anche se si annoia a non fare niente. Sembra un panda con quegli occhi neri, ma almeno ora li tiene aperti senza troppo fastidio; certo che Jean poteva risparmiarsi i colpi in viso.”
“Anche lui ha diversi lividi in faccia ed un labbro spaccato, Riza. Lascia stare queste recriminazioni: nel momento in cui hanno deciso di battersi sapevano benissimo a cosa andavano incontro.”
“Guarda! – esclamò Kain – Ci sono Vato ed Elisa! Io vado a salutarli: devo chiedere a Vato un sacco di cose che mi sono venute in mente ieri… ci vediamo dopo!”
Come il bambino si fu allontanato, Heymans squadrò Riza e si fece serio.
“Quando quei due torneranno a scuola ci sarà la resa dei conti.”
“Eri tu il giudice di quella gara: dovranno accettare il tuo verdetto di pareggio.” scosse il capo, la ragazza.
“Non è tanto la questione di Kain a preoccuparmi: per come si sono evolute le cose mi pare che Jean stia iniziando a considerare l’idea di avere più rispetto per lui; anche perché sotto questo punto di vista ci penserò pure io ad agire in favore del ragazzino.”
“Rimane in sospeso la questione dell’accettare Roy come capo, vero?”
“Già; non frainterdemi, Riza, non ho niente contro di lui e penso che sarebbe un buon capo; ma lo stesso posso dire di Jean, per quanto a volte possa risultare immaturo. Il pareggio non ha fatto che rimandare di qualche giorno la questione, niente di più.”
Riza abbassò lo sguardo a terra, riflettendo attentamente.
“Roy e Jean si sono battuti ed hanno pareggiato; perché non ti proponi tu? Potresti essere un buon compromesso, non credi?”
Heymans le lanciò uno sguardo penetrante con gli occhi grigi: Riza non era per niente sciocca, tutt’altro. Ma poi scosse le robuste spalle con un sorriso di scusa.
“Io sono il meno indicato ad essere leader.”
“Non hai una buona considerazione di te stesso, – constatò lei – perché mai? Eppure sei molto maturo per quello che mi è dato di capire.”
Se fossi davvero maturo e con doti da leader non scapperei da casa ogni volta che vedo mio padre, non permetterei che Henry sia così succube di lui… non gli permetterei di far piangere mia madre così spesso.
“Heymans…?” la voce di Riza lo riscosse dai suoi pensieri cupi.
“Un conto è essere parte di una coppia, – disse evasivamente – ma per essere leader di un gruppo ci vuole altro: siamo ufficialmente in tre, ma indirettamente ci sei pure tu… ed in qualche modo c’è dentro anche Kain. Io posso dare consigli, aiutare a ragionare, se ci sono costretto sì, prendo l’iniziativa, ma in genere osservo più che agire. Credimi io non… lascia stare, sono una persona complicata. Guarda, c’è la tua amica Rebecca che sta arrivando: scommetto che non vede l’ora di sentire i pettegolezzi.”
“La questione dei patti dello scontro sta rimanendo tra le persone coinvolte. – disse Riza con decisione, quasi a voler dichiarare che di lei ci si poteva fidare – Non ho intenzione di dirla nemmeno a lei.”
“Non avevo dubbi in merito, Riza Hawkeye.” sorrise il rosso con sincerità.
 
“La settimana prossima mio padre andrà a fare il sopralluogo alla vecchia miniera: – annunciò Kain, durante l’intervallo, mentre stava seduto tra Vato ed Elisa – ha detto che è riuscito a procurarsi le vecchie piantine e altra documentazione.”
“Davvero? Mi piacerebbe darci un’occhiata: – ammise Vato – sono cose che risalgono ad almeno trent’anni prima; se c’è l’atto fondativo forse ha più di settant’anni: che meraviglia!”
“Se vuoi posso chiedergli se ci fa dare un’occhiata, non credo che ci siano problemi. – propose il ragazzino –  Un pomeriggio puoi venire a casa e vederli. Ovviamente anche tu, Elisa, se ti fa piacere; così vi faccio conoscere anche la mia mamma.”
“Sarebbe fantastico; – annuì l’altro con entusiasmo – adoro poter accedere a questo tipo di documentazione! Quando mio padre mi consente di aiutarlo in ufficio scopro un sacco di cose interessanti.”
“Da grande diventerai anche tu un poliziotto?” chiese Kain con curiosità.
“Molto probabilmente; anche se piuttosto che con l’azione preferisco lavorare con la mia testa.” e con un sorriso soddisfatto si toccò la fronte.
“E’ quasi barare; – sbottò Elisa – ti basta leggere una volta il capitolo di storia e già lo sai a memoria. Non è giusto nei confronti di chi ci impiega tutta una sera per prepararsi all’interrogazione.”
“E dai, Eli, non te la prendere! – disse Vato con aria contrita – Non è colpa mia se ho questa dote da quando sono nato; e poi ti aiuto ogni volta che vuoi, lo sai benissimo.”
“Lo so, lo so. – ridacchiò lei, strizzandogli l’occhio con malizia – Comunque va bene, Kain: se vuoi un pomeriggio passiamo a casa tua per conoscere tua madre; ne sarei davvero felice.”
“Sul serio? – sorrise il bambino – Che bello! Quasi quasi lo dico anche a Riza!”
“La figlia del vecchio Hawkeye?” chiese Vato.
“Sì, - annuì serenamente Kain – è veramente una brava ragazza; è sempre stata buona con me, anche se siamo diventati amici relativamente da poco.”
“Mi chiedo che vita faccia in quella casa: suo padre non si è mai visto in giro… i miei dicono che lei assomiglia molto a sua madre. Io della signora proprio non mi ricordo: anche perché negli ultimi anni stava così male che usciva pochissimo di casa.”
“Nemmeno io mi ricordo di lei. – ammise Vato con aria pensosa – Però erano di certo una famiglia molto strana: dicono che il nonno materno di Riza sia una persona importante, ma nessuno sa niente di più.”
“Mia mamma andò al funerale di lei, circa quattro anni fa: mi raccontò che nella lapide lui aveva fatto incidere Elisabeth Hawkeye, senza mettere il nome della sua famiglia d’origine, come invece si è soliti fare; pare ci fossero molti disaccordi sul loro matrimonio.”
Kain aveva abbassato lo sguardo, turbato nel conoscere quei dettagli così particolari sulla famiglia di Riza: non gli piacevano i pettegolezzi nei suoi confronti perché gli sembrava che la giudicassero senza conoscerla minimamente; così si alzò in piedi per interrompere quella conversazione e disse:
“Oh beh, suo padre può anche essere strano e si possono dire tante cose su di lui. Ma a me non importa niente! Riza è speciale ed è questo che conta.”
“Nessuno di noi due aveva intenzione di offenderla – disse Elisa con tranquillità, mettendogli la mano sulla spalla e inducendolo a risedersi tra di loro – anzi, sai cosa ti dico? Spero proprio che venga, perché vorrei davvero conoscerla. Se ti piace così tanto deve essere davvero speciale, no?”
Kain fissò la ragazza per qualche secondo e poi si rasserenò, accorgendosi che aveva parlato con sincerità e non c’era nessuna malizia o cattiveria nelle cose che aveva riferito prima. Anche Vato annuì, a confermare che la pensava come la sua amica e dunque il bambino considerò la questione definitivamente chiusa.
Appena avrebbe visto Riza, l’avrebbe invitata.
 
“Adesso sei ancora più speciale! – esclamò Rebecca estasiata, all’uscita di scuola – Tu non sai quante voci girano su di te: andare a casa di Roy! All’interno di quel locale particolare. Riza Hawkeye, ti comunico che sei ufficialmente la ragazza più famosa della scuola!”
“Dovresti finirla con tutti questi pettegolezzi! – la rimproverò l’amica con esasperazione – Se non ti conoscessi bene direi che sei tu la prima ad alimentarli.”
“Non potrei mai! Io mi limito solo ad ascoltare e riferire. Ah, che invidia! Tu vai a fare l’infermiera al tuo Roy… non sai cosa darei per andare a fare da infermiera a Jean!”
“Rebecca!”
“Finiscila di fare l’offesa! E poi sei stata così avida di particolari su quel fantomatico giorno del duello che in qualche modo mi devo vendicare, antipatica di un’amica.”
“Che?”
Ma prima che potesse aggiungere altro, Rebecca le fece una linguaccia divertita e scappò via. Per un secondo la bionda fu tentata di inseguirla, ma una voce che chiamava il suo nome la fece voltare, distogliendola dai suoi propositi di vendetta contro l’amica.
“Dimmi, Kain; – sorrise, lieta di vedere l’incarnazione della discrezione dopo che era stata costretta a sorbirsi l’amica in una delle sue giornate peggiori – cosa posso fare per te?”
“Volevo chiederti se uno di questi pomeriggi ti va di venire a casa mia.” disse il bambino.
“A casa tua?” sgranò gli occhi lei, sorpresa da questo invito.
“Sì; mio papà si è procurato dei documenti sulla vecchia miniera che Vato vorrebbe vedere… non so se a te possano interessare, ma in ogni caso vorrei farti conoscere la mia mamma. Oh, e viene anche Elisa, naturalmente.”
“Naturalmente?” sorrise lei con malizia.
“Beh, credo che lei e Vato si vogliano molto bene, – disse con tutta innocenza Kain – si vede che sono grandi amici; un po’ come te e Roy, no?”
A quell’affermazione la ragazza rimase interdetta e sentì un lieve calore sulle guance.
“Adesso devo andare, Kain, ma accetto molto volentieri il tuo invito.”
“Sul serio? – sorrise lui felice – Oh grandioso, Riza! Vedrai, sono sicuro che a mia mamma piacerai tantissimo!”
 
Dopo aver pranzato come sempre da sola nella grande cucina, Riza prese la sua tracolla ed uscì di casa. Come sempre non si preoccupò di avvisare suo padre, ma negli ultimi giorni ci teneva particolarmente a non dirgli niente. La parte di lei che ancora desiderava avere un dialogo col genitore rispondeva a quella regola fanciullesca per cui alcune cose si preferisce tenerle nascoste; e così, anche se non c’era assolutamente bisogno, usciva con aria circospetta, come se avesse il timore di essere scoperta.
Percorrendo le strade del paese, rifletté sul fatto che lei e Roy abitavano a cinque minuti di distanza l’uno dall’altro; tuttavia fino a quel momento non ci aveva mai fatto caso, forse perché era loro abitudine vedersi altrove rispetto alle loro case.
Arrivò davanti all’ingresso del locale di Madame Christmas ed aprì la porta con discrezione, come aveva imparato a fare. A quell’ora il posto era ancora vuoto, dato che i preparativi per le serate iniziavano solo verso le sette e mezza di sera, e dunque Riza aveva libero accesso, senza rischiare di disturbare.
Tuttavia la faceva sentire a disagio stare in quella sala e così si affrettò ad andare dietro al bancone e salire le scale che conducevano al piano di sopra. La prima volta che c’era stata, quattro giorni prima, aveva scoperto che c’era una netta divisione tra la parte dove stavano la stanza di Roy e quella di Madame e quella dove invece stavano le stanze delle signorine del locale. Era rimasta piacevolmente sorpresa da questa divisione, costituita da un pianerottolo di disimpegno e da una porta nel corridoio… in qualche modo le sembrava che Roy fosse maggiormente preservato dalle attività notturne di quel luogo.
Ormai aveva libero accesso, come le aveva detto Madame, ma fece comunque tutto in grande silenzio per non disturbare.
“Roy, – bussò delicatamente, quando arrivò davanti alla sua camera – sono Riza.”
“Vieni pure.” disse la voce dall’interno.
E la ragazza, schiuse la porta il giusto necessario per sgusciare con discrezione all’interno.
La camera di Roy era incredibilmente normale, anche se Riza si era rimproverata sin dal primo giorno: che cosa si era mai aspettata? Era una stanza abbastanza grande, sicuramente ricavata da un ambiente che prima aveva un’altra destinazione: il letto si trovava nella parete di destra, mentre dall’altra parte vi era una grande libreria; oltre ai libri, a dire il vero non tanti, c’erano tantissimi e curiosi oggetti che Roy le aveva detto essere appartenuti a suo padre e che dunque gli spettavano per eredità.
Non era mai a casa, impegnato com’era nell’esercito. Però il suo studio era pieno di queste cose… e sono riuscito a portarle con me dopo la sua morte.
“Ehilà, Riza, - salutò il malato seduto alla scrivana che dava verso la finestra sulla parete di fondo – arrivi presto come sempre.”
“Stavi ancora mangiando?” chiese lei, notando il vassoio sopra la scrivania.
“Ho terminato qualche minuto fa; fortunatamente oggi Madame ha consentito a farmi mangiare qualcosa di più decente rispetto al brodo di pollo… Forse si è resa conto che sono solo leggermente ammaccato ed il mio stomaco sta benissimo.”
“Quando si sta male bisogna mangiare leggeri. – lo rimproverò Riza, guardandolo alzarsi e andare verso il letto sfatto: non zoppicava più come il primo giorno e tutti i movimenti in generale erano più sciolti. – E con le botte che hai preso in testa dovresti evitare di alzarti: dato che hai il vassoio potresti anche mangiare a letto.”
“E dai, Riza! – sospirò lui – Quando Madame dice che sei l’infermierina lo fa per prenderti in giro, mica perché lo devi fare davvero.”
“Scusa tanto se mi preoccupo, – disse impassibile lei, prendendo dalla sua tracolla alcuni fogli e mettendoli sopra la scrivania, accanto al vassoio – considerato che io ed Heymans ti abbiamo dovuto trasportare di peso. Comunque qui ci sono i compiti: ho chiesto al tuo professore di darmeli.”
“Beh, per quelli farò finta di stare davvero male.” sghignazzò, sedendosi a gambe incrociate sul materasso
“Roy!”
“Che seccatura che sei, Riza – ridacchiò lui, strizzandole l’occhio… un effetto non proprio felice considerato che era ancora livido – ci godi a torturarmi così? E dimmi, si hanno notizie di Jean?”
“Tornerete entrambi a scuola lunedì prossimo, così mi ha detto Heymans stamane.”
“Bene.” commentò lui, mentre il suo sguardo si faceva remoto: chiaramente stava pensando a quello che sarebbe successo quando si sarebbero rivisti e alle questioni in sospeso da risolvere. Nonostante il viso pallido e tumefatto, la determinazione di quel ragazzo era estremamente tangibile.
“Perché ci tieni tanto a diventare il capo di quei due?” chiese sommessamente Riza, sedendosi accanto a lui nel letto.
“E chi lo sa…” ammise lui, continuando a fissare la libreria davanti a se, concentrando la sua attenzione su una scacchiera con i pezzi già pronti per giocare.
Riza seguì il suo sguardo, ma lo spostò quasi subito su una fotografia posata contro dei libri accanto alla scacchiera: forse aveva trovato la risposta.
Stai semplicemente cercando di colmare il vuoto che la partenza di Maes ti ha lasciato?
Lei sapeva ben poco di quel ragazzo, il miglior amico di Roy, trasferitosi a Central più di tre anni fa. Quando aveva visto quella foto, quattro giorni prima, si era vagamente ricordata di quel giovane a scuola, quando lei era appena in prima media e ancora non aveva stretto amicizia con Roy, ma nulla di più. Maes Hughes le era più che altro conosciuto dai racconti che facevano gli altri, soprattutto Rebecca: lui e Roy erano stati una coppia inseparabile, proprio come lo erano Heymans e Jean… e, proprio come loro, sembrava che lui e Roy non avessero fatto amicizia da subito, ma una volta che si erano conosciuti meglio erano diventati grandi amici.
Certamente deve essere stato un duro colpo quando lui si è trasferito… è anche per questo che vuoi andare via da questo posto, Roy?
“Sai che Kain mi ha invitato a casa sua uno di questi giorni? – disse per cambiare argomento – Dice che sarebbe molto felice di farmi conoscere sua madre.”
“Come sta lo gnometto? – chiese Roy con un mezzo sorriso – Spero che non sia ancora sconvolto dallo scontro: mi dispiace che abbia visto me e Jean picchiarci in quel modo.”
“Sta bene; credo che Heymans stia iniziando ad apprezzarlo: forse è la volta buona che verrà lasciato in pace definitivamente.”
“Avanti dillo.”
“Che cosa dovrei dire?”
“Che sei arrabbiata perché io e Jean l’abbiamo messo in mezzo con le nostre richieste. Ma sappi che l’ho fatto solo per difenderlo.”
“Lo so, Roy, lo so bene.  – sorrise con indulgenza lei – A dire il vero credo che le cose per Kain stiano davvero migliorando e ne sono felice.”
“Lo vedi che eri sciocca a preoccuparti. – le fece Roy, toccandole la guancia con l’indice – Per gnometto sei importante, colombina, e continuerai ad esserlo anche ora che non ci sarà più bisogno di difenderlo contro Jean. Lui non è il tipo da cercare amicizie per convenienza, tutt’altro.”
Riza si voltò a guardarlo: riusciva ad essere affascinante anche con il viso ridotto in quelle condizioni, con il pigiama azzurro chiaro tutto sgualcito.
…un po’ come te e Roy, no?
L’innocente domanda di Kain le ritornò alla mente, assieme ai maliziosi sottintesi di Rebecca. Non bisognava essere delle cime per capire che Vato ed Elisa erano fidanzati, anche se non c’era nulla di ufficiale.
E io sono seduta nel letto di Roy, con lui accanto in pigiama… e, per quanto se ne dica, lui non ha mai permesso a nessuna ragazza di avvicinarlo oltre a me. Basta Riza! Smettila di correre con la fantasia: lui è solo il tuo migliore amico, come Maes e….
Quell’improvviso accostamento le fece venire un tremendo dubbio. Era anche lei una sostituzione del grande amico che era andato via? Questo pensiero non le piaceva per niente e si trovò ad abbassare lo sguardo, interrompendo il contatto fisico.
“Roy – si trovò a dire con decisione, fissando il pavimento – scusa per quello che ti sto per dire, ma voglio essere chiara su una cosa. Semmai diventerai il loro capo o qualcosa di simile… ricordati che loro non sono Maes. Non sono sostituzioni, come non lo sono io.”
Non lo guardò, ma lo sentì irrigidirsi nel letto: era la prima volta che pronunciava il nome proibito e non aveva idea della reazione che Roy avrebbe avuto. Ma era giusto mettere in chiaro le cose.
“E’ questo che pensi? – chiese lui in tono di secca accusa dopo qualche secondo – Che io ti abbia concesso la mia amicizia solo perché avevo bisogno di colmare il vuoto che ha lasciato la sua partenza?” le prese il braccio e la scrollò leggermente per indurlo a guardalo
“No, ma…” si difese lei, incontrando quegli occhi scuri che, nonostante il livido intorno erano perfettamente espressivi ed irati.
“Perché devi aver paura di valere così poco? Perché credi di non essere degna di un’amicizia, Riza? Possibile che l’ombra di tuo padre debba condizionarti in questo modo?”
Fu una domanda così improvvisa che a Riza sembrò di aver ricevuto uno schiaffo. Mai fino a quel momento Roy aveva tirato fuori l’argomento di suo padre in maniera così violenta… e veritiera, dimostrando di conoscerla meglio del previsto.
“Ti ho concesso la mia amicizia perché ritengo che tu sia una persona speciale; - proseguì lui, continuando a scrollarla – e se mi sto avvicinando ad Heymans, Jean e Kain è perché li ritengo altrettanto speciali. Voi e Maes siete cose completamente diverse, ma non c’è una gerarchia d’importanza, chiaro? Sei una ragazza fantastica, Riza, possibile che non te ne rendi conto?”
“Se sono così speciale perché il mio stesso padre allora mi considera praticamente un’estranea?” chiese lei con disperazione.
“Se non ti considera allora è uno stupido! Ma tu sei speciale, Riza… lo sei per Rebecca, lo sei per Kain, in qualche modo scommetto che lo sei anche per Heymans e Jean, lo sei soprattutto per me.”
Riza non rispose a quell’affermazione che le imponeva di uscire fuori da quel momento di auto compassione. Ma Roy non le dette tregua e proseguì:
“Tutti abbiamo problemi, piccoli o grandi che siano: nessuno ha una vita perfetta. Credi di essere l’unica ad avere difficoltà col proprio padre? Adesso ti dico una cosa su Heymans: suo padre viene in questo posto spessissimo ed è un uomo pessimo che beve e tradisce quella povera moglie… in paese lo sanno tutti che si sono sposati perché lei era incinta di Heymans, che infatti è nato solo dopo cinque mesi di matrimonio. Ma anche se so questo, e so che suo fratello minore è sulla buona strada per diventare un delinquente, so altrettanto che lui è una persona che merita rispetto… così come lo sa Jean e tutta la sua famiglia e molte altre persone, compresa te.”
…lascia stare, sono una persona complicata.
 “Non lo sapevo.” ammise lei.
“E’ bello e tranquillo questo piccolo angolo di mondo, vero colombina? – chiese con un sorriso sarcastico il moro – Ma non credere che per questo sia esente da cose brutte. Tu non sei l’unica ad avere problemi: qui sono semplicemente più bravi a fare finta di niente o voltare le spalle. Sai perché mi sono avvicinato a te e mi sto avvicinando a Kain e agli altri? Perché voi non siete persone che fanno finta di niente.”
La stretta sul braccio della ragazza si era fatta più intensa a quelle ultime dichiarazioni. Solo quando ebbe terminato di parlare Roy se ne accorse e la allentò, massaggiando delicatamente quel punto.
“Scusa…” mormorò.
“Scusa tu.” fu tutto quello che riuscì a dire Riza.
Lui non smise di accarezzarle il braccio e lei non oppose nessuna resistenza. A tredici e quindici anni in fondo il mondo poteva fare male e questi gesti erano di estremo conforto.
“Non ti sta male…” sorrise debolmente Roy dopo qualche secondo.
“Cosa?”
“Colombina… non ti sta affatto male come nomignolo. Ti secca molto se qualche volta ti chiamo così?”
“Va bene – annuì lei, restituendo il sorriso – in fondo… non dispiace nemmeno a me.”
E una lontana parte della sua mente non poté far a meno di pensare che suo padre non sapeva nemmeno che Roy esisteva, così come tutti gli altri.
Ed era meglio così.


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Capitolo 13
*** Capitolo 12. Legami. ***


Capitolo 12. Legami.

 

“Ahiaaaa! Accidenti, mamma, fai piano! Sembra quasi che tu voglia farmi male piuttosto che curarmi!”
“Finiscila di lamentarti, Jean! – disse Angela Havoc, mettendo nuovi impacchi sui lividi nella schiena del figlio – Hai quattordici anni suonati e piagnucoli come un bambino… non che dimostri una maturità maggiore! Tornare a casa in questo stato! Lasciando tua sorella a scuola!”
“Te l’ho detto mille volte! – protestò Jean, stringendo i denti: sua madre in genere era una brava infermiera, ma quando era arrabbiata il ragazzo era sicuro che fosse deliberatamente di mano pesante – Era una questione che andava risolta! E lo vedi pure tu che anche papà non è arrabbiato con me!”
“Oh, ma certo, – annuì sarcastica lei, abbassandogli la casacca del pigiama e facendolo girare supino. Gli prese il viso tra le mani e controllò il livido sotto l’occhio che ormai stava iniziando a sbiadire – le classiche questioni tra uomini, vero? Tanto poi tocca sempre a noi donne raccogliere i cocci e provvedere alle vostre ferite d’onore. Se penso che ancora qualche centimetro e ti spaccava lo zigomo… oh, Jean!”
“Mamma… - sospirò il ragazzo, mentre la fase arrabbiatura passava per lasciare il posto a quella di emotiva preoccupazione materna – e dai! Lo vedi benissimo che sta guarendo… E poi papà lo racconta sempre che pure lui a volte tornava a casa pesto per qualche scontro! E all’epoca tu e lui eravate già fidanzati!”
“Quell’irresponsabile era il mio fidanzato e ora è mio marito… tu sei mio figlio, è molto diverso. Bambino mio, proprio non capisci come mi sono sentita quando tuo padre ti ha preso in braccio praticamente privo di sensi e ti ha portato a letto? La paura che ho provato nel vederti così pallido, con quel respiro affannoso e….”
“No, dai, mamma non piangere, ti prego!” si imbarazzò Jean, cercando di bloccare la cascata in arrivo.
Ma Angela Havoc era una donna espansiva in tutte le sue manifestazioni e dunque, se qualche giorno prima non si era fatta alcun problema ad abbracciare Kain Fury per ringraziarlo di aver riportato a casa Janet, si pose ancor meno dubbi per stringere il figlio maggiore.
“Cacchio, mamma! – protestò il ragazzo dopo una decina di secondi stretto in quella presa – Mi stai stritolando! Stai premendo sui lividi!!”
“Che cosa hai detto? – il tono della voce si fece pericolosamente minaccioso, mentre la donna si scostava da lui e gli prendeva di nuovo il mento tra le mani – non ho capito bene la prima parola, signorino.”
“Oh, quella! – disse Jean a metà tra l’esasperato ed il preoccupato – Scusa, mi è scappata! Ahia!”
“Scusa tanto, è scappato pure a me questo schiaffo! Ti ho detto mille volte che non voglio sentire parolacce in casa mia, chiaro? Ti paiono cose da dire? E se tua sorella inizia a ripeterle?”
“Ma se ora è a scuola e ci siamo solo io e te in casa!”
“Non tirare fuori giustificazioni, altrimenti te ne arriva anche un altro! Ah, e prima che me ne scordi: dato che ormai ti alzi senza problemi da letto, domani mi fai un grande favore.”
“Che cosa?” chiese lui col broncio, sperando che quel supplizio finisse e potesse finalmente essere lasciato in pace.
“Vai a casa di quel ragazzo, Kain, e chiedi personalmente scusa a lui e ai suoi genitori per quanto è successo. E già che ci sei lo ringrazi anche per aver riportato a casa Janet… preparerò un dolce che porterai in regalo.”
Ma Jean non sentì nemmeno l’ultima parte della frase: la richiesta di andare a casa di quel dannato secchione, scusarsi e ringraziarlo era l’ultima cosa che voleva fare in vita sua. Piuttosto meglio morire!
“Spero che tu stia scherzando!” disse con foga.
“Non sono mai stata così seria in vita mia, Jean Havoc! E non voglio sentire alcuna obiezione in merito, sono stata chiara?”
Fin troppo chiara: quando gli occhi castani di Angela Havoc si stringevano in quel modo, Jean sapeva benissimo di non aver via di scampo. Sua madre sapeva essere molto persuasiva.
Dannate femmine…
 
E così, il giorno dopo, di pomeriggio, Jean fu costretto a mettersi in cammino, ancora leggermente dolorante, per andare a casa della sua vittima. Janet gli faceva da scorta d’onore e anche Heymans era con lui, praticamente obbligato a partecipare a questa sortita.
Non puoi lasciarmi solo in questo momento difficile! Non darò mai la soddisfazione a quel marmocchio di vedermi scusare da solo… con te e Janet la cosa verrà leggermente nascosta.
Heymans aveva protestato, dicendo che il problema non lo riguardava, ma alla fine, ovviamente, aveva acconsentito ad assistere il suo dolorante amico anche in questa situazione, per certi versi più difficile rispetto al duello che aveva avuto con Roy Mustang.
“Senti, Janet – disse il biondo all’improvviso, quando ormai stavano per arrivare – perché non vai solo tu? Noi ti aspettiamo, va bene?”
“Mamma ha detto che tu devi chiedere scusa: – rispose la bambina, fissandolo con aria maliziosa – e io le ho promesso che ti avrei controllato!”
“Fantastico, ho anche una piccola spia in famiglia! Traditrice! Non dovresti fare una cosa simile al tuo fratellone! Chiedimi di nuovo di prenderti sulle spalle e vedrai…”
Heymans scoppiò a ridere: a volte le donne della famiglia Havoc riuscivano proprio a mettere in riga il suo migliore amico. Tutto sommato era sinceramente convinto che questa prova di umiltà avrebbe giovato all’esuberante biondo: l’incontro tra lui e Roy si avvicinava ed era meglio che la questione di Kain venisse chiarita definitivamente… si trattava solo di far capire a Jean che poteva anche finirla con la sua fase di odio nei confronti di quel ragazzino.
“Ecco, quella è casa sua; – annunciò, mentre uscivano da un boschetto – un respiro profondo, Jean, e possiamo andare.”
“Credi che lo sappiano?” mormorò il biondo girandosi a guardarlo.
“Cosa?”
“Sua madre e suo padre… credi che sappiano che io per tutto questo tempo l’ho…”
“No, non credo. – scosse il capo Heymans, accorgendosi che una prima nota di pentimento aveva iniziato a comparire nella voce del suo amico – In questi giorni l’ho conosciuto meglio e mi sono fatto l’idea che Kain sia molto discreto per determinate cose.”
“Kain! Kain! – chiamò intanto Janet, mentre arrivavano nel cortile – Sei in casa?”
“Janet, non urlare in questo modo! – la rimproverò il fratello, raggiungendola – Una brava bambina non…”
“Cercate mio figlio?”
La voce fece girare il terzetto ed Ellie fece la sua comparsa dal lato del cortile, con in mano un cesto di biancheria appena ritirata. Era bella, di quella bellezza eternamente giovane difficilmente riscontrabile nelle persone: Heymans e Jean ne rimasero affascinati e per qualche secondo si chiesero come fosse possibile che quella ragazza fosse sposata ed avesse un figlio di undici anni.
“Ciao, signora, io sono Janet Havoc, – salutò la bimba accostandosi a lei, conquistata da quella figura così tranquillizzante – c’è Kain?”
“Ciao Janet, - sorrise lei, spostando con abilità il cesto su una sola mano e accarezzandole la testolina bionda – sono felice di conoscerti. Sai, Kain parla spesso di te; in questo momento non è in casa, ma tornerà a breve: è andato in paese a prendere alcuni suoi amici. Perché nel frattempo non entrate?”
“Veramente noi… - iniziò Jean con imbarazzo – noi saremmo qui per…”
“Tu devi essere Jean, vero?”
“Sì…” annuì lui, arrossendo.
“Tu e tua sorella vi assomigliate tanto: siete davvero adorabili. E tu invece devi essere Heymans, vero?”
“Kain le ha parlato anche di me?”
“Certo, ma ti riconoscerei in ogni caso: i tuoi capelli ed il bellissimo grigio dei tuoi occhi, per quanto leggermente differenti, li hai presi dalla tua mamma.”
E con quelle parole Heymans Breda fu letteralmente conquistato da Ellie Fury: era la prima volta che qualcuno gli faceva i complimenti per il colore di occhi e capelli, facendo esplicito riferimento a sua madre. In genere le persone lo riconoscevano immediatamente come il figlio di Gregor per via della stazza e dei lineamenti, ma Ellie non aveva fatto alcun riferimento all’uomo. Se gli era apparsa adorabile a primo impatto, adesso quella donna aveva meritato un posto d’onore nel suo cuore.
“Allora, vogliamo entrare in casa? Dato che ho preparato la merenda per gli ospiti di questo pomeriggio, sono sicura che a Kain farà piacere se vi unite pure voi.”
“Davvero!? Oh sì che bello!” esultò Janet, iniziando a saltellare intorno alla donna.
“Ecco… - disse Jean, all’improvviso, profondamente imbarazzato – veramente io sono qui solo perché… mia mamma le manda una torta e…”
“Davvero? Che gentile, non doveva! Ma considerato che anche voi vi unite alla merenda farà proprio comodo. Venite, ragazzi, passiamo dal giardino sul retro, così poggio questo cesto in cucina.”
 
“Sul serio, Kain, – disse Elisa, seduta sopra un muretto –  non era necessario che venissi a prenderci in paese.”
“Oh, ma figurati. L’ho fatto con piacere… ah ecco Riza! Ciao Riza!”
“Ciao a tutti, scusate il ritardo!” disse la ragazza arrivando di corsa al luogo dell’incontro.
“Fa nulla, tanto sono solo un paio di minuti che aspettiamo. Allora, lui è Vato e lei è Elisa – presentò Kain con entusiasmo – mentre lei è Riza.”
I tre si guardarono con curiosità mentre si scambiavano le canoniche strette di mano: da una parte Vato ed Elisa studiavano quella ragazza così famosa per via della sua eccentrica famiglia; dall’altra Riza si poneva per la prima volta a confronto con le persone che Kain aveva scelto come suoi primissimi amici… in particolare fu quasi istintivo paragonarsi a quella ragazza più grande di lei di tre anni che stava già iniziando a sbocciare in donna. In genere non era tipo da lanciarsi in confronti simili, ma questa volta non poté far a meno di pensare come tre anni in più potessero fare la differenza sotto molti aspetti.
“Eri da Roy? – chiese Kain, distogliendola dai suoi pensieri femminili – Come sta?”
“Molto meglio: finalmente i lividi stanno iniziando a sgonfiarsi e la sua faccia sta tornando ad avere un aspetto decente.”
“Per stare a casa così tanto la rissa tra lui e Jean Havoc dev’essere stata davvero pesante.” commentò Vato.
“Non si sono risparmiati; – ammise lei, mentre si avviavano – tutta la scuola ne parla, vero?”
“Direi; due indipendenti che si scontrano non sono un evento da niente.” disse Elisa.
Riza non seppe che rispondere, ma quando Kain le si affiancò e le rivolse un sorriso si sentì maggiormente a suo agio; sentiva che il bambino aveva una particolare predilezione per lei e questo la poneva in una posizione di vantaggio che la faceva sentire più sicura. Alla luce di questo si trovò a considerare i due ragazzi di quarta in una luce più positiva. Guardandoli camminare uno accanto all’altra, le mani che ogni tanto si sfioravano, si chiese se quanto le aveva raccontato Rebecca, cioè che fossero fidanzati, fosse vero: era innegabile un certo affiatamento tra di loro però… sembrava che mancasse quel qualcosa in più che rendesse sicura la cosa.
Mi pare che lui sia parecchio timido sotto questo punto di vista…
Sembrava una cosa così strana da pensare per un ragazzo di sedici anni, specie per chi come Riza era abituata alla sicurezza sfrontata di Roy.
Ma era innegabile che tra i due quella maggiormente spontanea fosse Elisa.
“Mio padre arriverà verso le cinque e mezza, – spiegò nel frattempo Kain, - ma intanto potremmo fare merenda tutti assieme. Mia madre è un’ottima cuoca e quando sono uscito stava preparando un sacco di cose.”
“Allora le chiederò di certo qualche consiglio! – disse Elisa – Con i dolci ho ancora qualche difficoltà: ieri non mi è uscita granché la torta di mele. E tu, Riza, come te la cavi in cucina?”
“Io? Beh, in casa cucino io… ma non mi cimento molto spesso nei dolci, a dire il vero praticamente mai.”
Non credo che mio padre noterebbe la differenza.
“Secondo me dovresti provare, – suggerì Kain – e poi li assaggio io. Per i dolci mi offro sempre volontario… specie se sono con il cioccolato!”
“Non ti conviene esagerare, Kain, – lo mise in guardia Vato – poi diventi grasso.”
“Magari ti decidessi a mettere qualche chilo tu, Vato! – sospirò Elisa – Se non ti vedessi mangiare regolarmente direi che stai a digiuno… anche con i miei dolci.”
“E’ costituzione, non ci posso fare niente. E’ come per i miei capelli: sono bicolore e così restano.”
“Ah, questi maschi, sono davvero difficili da gestire – sbuffò la compagna, andando verso Riza e prendendola a braccetto – vieni, lasciamoli alle loro discussioni!”
E la bionda si trovò trascinata indietro, mentre Vato scuoteva il capo e si affiancava ad un perplesso Kain. Ben presto i due iniziarono a parlare del lavoro dei rispettivi genitori, mentre tra le ragazze il silenzio durò per qualche secondo in più.
“Che buon profumo!” esclamò Riza all’improvviso.
“Oh allora qualcuno se ne accorge, meno male! – si illuminò lei – Non è proprio profumo ma essenza di ortensia: mia madre l’ha fatta qualche giorno fa; sei la prima che dice qualcosa in merito.”
E Riza si accorse che gli occhi verdi si puntavano con rassegnazione sul ragazzo che procedeva a un cinque metri davanti a loro.
“Non se ne è ancora accorto?” chiese con solidarietà femminile.
“No, per certe cose è il ragazzo più acuto e sveglio del mondo, ma per altre, magari più banali, è davvero un disastro… un adorabile disastro, lo ammetto.”
C’era così tanto amore in quella dichiarazione che Riza ne fu conquistata: Elisa iniziava a piacerle. Era una versione più matura e discreta di Rebecca e delle sue chiacchiere femminili. Strano a dirsi ma le ispirava fiducia immediata, come una sorta di sorella maggiore a cui si possono confidare i propri segreti e che rende partecipi di misteri intriganti di cui si è ancora troppo giovani per arrivarci da sole.
“Elisa… ma tu e lui… uhm, insomma a scuola circolano delle voci su voi due…” si trovò a chiedere, in un improvviso impeto di curiosità. E vide con sorpresa che le guance di lei arrossivano con grazia.
“No, non lo siamo. – disse con sincerità – O per lo meno non ancora… insomma, ci manca quel passo avanti che…”
“Il classico più che amici meno che fidanzati?”
“Già. Lui ha i suoi tempi, e non mi va di forzarlo… è uno dei motivi per cui mi piace tanto: è completamente diverso dagli altri ragazzi. E tu e Roy Mustang?”
“Come?” si sorprese lei.
“Beh, anche su di voi girano parecchie voci; anche se mi pare strano: tu sei in prima superiore e dunque hai tredici anni… e non mi pari ancora interessata a determinate cose, no?”
“No, io e Roy siamo solo amici…” disse lei con tutta la tranquillità possibile, cercando di dimenticare i pensieri che l’avevano colta qualche giorno prima.
“Mh, lo immaginavo… sai, il fatto è che è strano vedere un ragazzo come lui che ha come migliore amica una ragazza.”
“Strano come essere migliori amici senza arrivare al fidanzati?” ritorse lei con un sorriso divertito e complice.
Elisa scoppiò a ridere e Riza la seguì; non le era mai capitato di trovare i discorsi sugli uomini così divertenti.
 
Jean nel frattempo si trovava in una situazione notevolmente imbarazzante: stare nella cucina della casa di Kain a far finta di essere un suo amico non era proprio una bella cosa, specie davanti a quella donna così dolce e premurosa. Si sentiva tremendamente in colpa, anche perché Janet ne era completamente conquistata e ora la stava aiutando a decorare dei biscotti con grande entusiasmo.
“Ha gli stessi occhi di Kain, vero?” gli mormorò Heymans, dandogli una gomitata e guardandolo con una strana malizia.
“Lei è molto più bella, mi pare ovvio – sbuffò il biondo con lo stesso tono basso, non capendo cosa volesse intendere il suo amico – e non ha l’espressione da cane bastonato di quel nano maledetto.”
“Signora lei è molto più giovane della mia mamma, vero?” chiese Janet all’improvviso.
“Ma che domande fai!?” accorse subito Jean mettendole una mano sulla bocca. Non sapeva il motivo, ma le donne erano in genere suscettibili sulla loro età e dunque non bisognava fare domande in merito.
Ma Ellie sembrava non essere per niente sconvolta da quella domanda e scoppiò a ridere.
“Beh, credo di essere abbastanza giovane rispetto al resto delle mamme: ho trent’anni.”
A quell’affermazione per poco Jean non fece sbattere Janet contro il tavolo e anche Heymans rischiò di far cadere il bicchiere di succo di frutta che teneva in mano.
“Vuol… vuol dire che… che ha avuto Kain a…. a diciannove anni?” sbiancò.
Ellie arrossì in un modo al dir poco fanciullesco e annuì.
“Proprio così: mi sono sposata a diciotto anni e Kain è nato dopo circa sedici mesi.”
Jean scosse il capo incredulo: quella donna si era sposata che aveva quattro anni in più di lui; gli sembrava una cosa così assurda… a diciotto anni non si era ancora completamente adulti, non secondo il suo modo di vedere. Insomma, era un’età per avere una fidanzata o uscire con le ragazze, ma da qui a sposarsi e avere un figlio poco dopo.
“Vuol dire che ha trovato subito il suo principe azzurro? – chiese Janet estasiata – Proprio come nelle favole?”
“Beh, sì, direi che ho trovato il mio personalissimo principe azzurro… ma a dire il vero lo conoscevo da quando andavamo a scuola. Era un compagno di classe di tua madre, Heymans.”
“Davvero?” si sorprese il rosso.
A pensarci era ovvio che gioco forza i loro genitori si conoscessero in qualche modo sin da quando erano giovani; certo quelli di Janet e Jean erano più grandi di circa una decina d’anni, ma sicuramente avevano frequentato la scuola nello stesso periodo, per quanto in classi differenti.
Mentre la donna distoglieva i due fratelli Havoc da quei pensieri, chiedendo loro di assaggiare i biscotti, Heymans pensò a quanto poteva essere strana la vita. Lui era nato che sua madre aveva vent’anni, Kain aveva fatto ancora meglio, nascendo che la sua ne aveva appena diciannove. Eppure l’età giovane non contava nulla: si vedeva che Ellie Fury era una donna pienamente felice della sua vita, con un matrimonio tranquillo e sereno, nonostante fosse avvenuto forse troppo presto.
Mio dio… quando sono nato lei andava ancora a scuola…
“Mamma! Siamo arrivati!” esclamò la voce di Kain dal cortile, distogliendolo da quelle  rivelazioni assurde. Immediatamente si premurò di lanciare un’occhiata significativa a Jean per avvisarlo di fare buon viso a cattivo gioco e si preparò a dirigere quei primi cruciali momenti di commedia.
“Vieni, tesoro, sono in cucina coi tuoi amici.” chiamò Ellie.
“Amici?” chiese il bambino entrando. Ed immediatamente il suo viso sbiancò nel riconoscere Jean che lo fissava impassibile con ancora il viso leggermente pesto dalla rissa.
“Ciao, Kain! – salutò Heymans facendosi avanti e prendendolo per le spalle – Io e Janet abbiamo accompagnato Jean a trovarti: sai, ti voleva ringraziare di persona per aver accompagnato sua sorella a casa qualche giorno fa.”
“Oh…” mormorò Kain, spinto verso il suo aguzzino, mentre anche Riza, Vato ed Elisa entravano nella cucina e assistevano increduli a quella scena. Ma un’occhiata calcolata di Heymans li avvisava di tenere il gioco e così se ne stettero in silenzio, senza sporgere obiezioni.
“Certamente: – disse Jean con un sorriso a denti stretti, cercando di mantenere l’aria più sciolta possibile – grazie mille Kain.” ma contemporaneamente i suoi occhi azzurri lo trafissero come per dire che stava facendo tutto questo non di sua spontanea volontà.
“Datevi la mano, avanti!” incitò Janet, inconsapevole di quanto stava chiedendo ad entrambi.
A quella richiesta Kain rinculò contro Heymans, mentre la mano di Jean si serrava a pugno, in preda a una violenta tensione. Fortunatamente il biondo dava le spalle alla madre di Kain e dunque evitò che lei vedesse l’aria omicida con cui osservava il ragazzino.
“Su, coraggio, – disse Heymans, inclinando lievemente la testa con un gesto significativo – del resto sei venuto qui per questo motivo, no? Capisco che davanti a tutta questa gente sia imbarazzante, del resto a scuola non ci si lascia andare a questi spettacoli, no? Ma la situazione lo richiede, certamente sei d’accordo con me, Jean.”
A quelle parole il biondo non poté più tirarsi indietro e tese la mano verso la sua vittima che, a sua volta e con grande esitazione, allungò tremante la propria. Jean la prese nella sua e la strinse con particolare forza, ma non il tanto da farlo lamentare: troppi testimoni in giro.
“Che bravi! – sorrise Heymans soddisfatto, tirando indietro Kain e liberandolo dalla presa – Non ho mai visto una stretta di mano così sincera.”
 
Paradossalmente quello che era iniziato come un incontro estremamente forzato si trasformò in una merenda abbastanza piacevole. Eccetto Jean, Kain non aveva nessun problema di interazione con le altre persone presenti e dunque riusciva a reggere il gioco in maniera abbastanza disinvolta: se non fosse stato per il biondo, il bambino sarebbe stato profondamente felice della presenza di Heymans e Janet.
Per fortuna sia Riza che Vato ed Elisa erano stati rapidi ad afferrare la situazione e avevano aiutato a portare avanti la commedia in quei primi imbarazzati minuti: alla fine si erano tutti frapposti tra vittima e carnefice e la situazione era diventata sicuramente più rilassata.
E così quando circa un’ora dopo, Andrew tornò a casa, trovò un’allegra compagnia di ragazzi ad invadere la cucina e a divorare con entusiasmo notevoli quantità di cibo, con somma soddisfazione di Ellie.
“Ti prego – mormorò Jean, dando una gomitata ad Heymans dopo che l’uomo si fu presentato – non dirmi che anche lui ha trent’anni.”
“No, andava a scuola con mia madre, quindi ne ha trentaquattro.”
“Oh, meno male!”
“Ti sconvolge così tanto l’idea che lei avesse solo diciannove anni? Guarda che mia madre ne aveva solo uno in più quando sono nato io.”
“Sconvolgere… beh, scusa non lo trovi strano? A quell’età si è troppo giovani! I miei si sono sposati che avevano ventiquattro e ventitre anni! Quella inizia ad essere l’età giusta a parer mio… prima non si è abbastanza maturi.”
“Non fare il moralista: a me sembra che loro due siano perfettamente felici della loro scelta.” il rosso scrollò le spalle con noncuranza mentre uscivano dalla cucina per andare in cortile. Vato, Kain e il padre stavano andando a vedere i progetti, mentre Elisa, Riza e Janet stavano allegramente chiacchierando con Ellie, mentre la aiutavano a rimettere a posto la cucina.
“Posso farti una domanda a proposito dei tuoi?” chiese Jean dopo aver riflettuto a lungo.
“Chiedi pure.” annuì Heymans.
“Quanti anni avevano quando si sono sposati?”
“Mamma quasi venti, mio padre trenta.”
Jean emise un fischio di sorpresa nell’apprendere quella grande differenza d’età.
“Non sono certo una coppia ben assortita – commentò il rosso, interpretando quel fischio – tutt’altro. Forse la differenza d’età è l’ultimo dei loro problemi.”
“Se lo dici tu… - Jean aveva colto il lieve cambiamento nel tono di voce e non aggiunse altro: fece qualche passo avanti nel cortile e si mise a fissare distrattamente il paesaggio – in ogni caso il mio dovere verso il nano l’ho fatto. Spero che mia madre sia soddisfatta! Ehi, a proposito, quei due di quarta superiore non sono male… anche se lui dovrebbe smetterla di parlare come un libro.”
Heymans capì al volo il tentativo di cambiare argomento e fu profondamente grato all’amico per la sensibilità che dimostrava in determinati frangenti. Si affiancò a lui e mettendosi a guardare nella stessa direzione disse:
“La settimana scorsa, quando hai aggredito Kain, ti paragonai a mio fratello: non c’è niente di più falso, Jean. Scusami… sei l’ultima persona che merita simili parole.”
“Acqua passata.” dichiarò il biondo con semplicità, anche se in cuor suo esultava per quel chiarimento.
“Senti, Jean, so che non parlo mai della mia famiglia. – disse ancora il rosso, con lieve imbarazzo – Non lo faccio per colpa tua, vorrei chiarire questo punto… è che le cose non vanno bene a casa e preferisco evitare l’argomento.”
“E’… è strano sentirti dire questo. In genere sei tu tra i due quello che affronta le cose… guarda cosa si sono dovuti inventare per farmi dare la mano a Kain e chiedergli scusa.”
“Una dimostrazione di come le persone a volte siano diverse da come pensiamo. E a tal proposito, vorrei che tu lasciassi in pace il ragazzino: non ti chiedo di diventare un suo grande amico, assolutamente, ma… credo che due anni e passa di tormenti possano bastare, no?”
“Kain ti piace, vero?”
“Sì, perché negarlo?”
“Sai che cosa mi dà fastidio di lui? Quell’aria eterna da cucciolo impaurito e bastonato… ogni volta che lo vedo mi viene voglia di scrollarlo. E’ un debole!”
“Fisicamente te lo concedo, specie se si confronta con te; – ammise Heymans – ma ha un bel cervellino il nostro secchione e una bella dose di determinazione e ostinazione. L’ho conosciuto meglio in questi giorni in cui tu mancavi e credo di capire perché piaccia anche a Roy.”
“Piace anche a Roy? A me sembrava che lui fosse solo una scusa per attaccare briga con me.”
“L’ho pensavo anche io, ma se anche la cosa è iniziata così ora si è evoluta. Ti posso chiedere il favore di concedergli qualche possibilità?”
“A Janet quel marmocchio piace, ormai non credo di potermela più prendere con lui, non ti pare?” sospirò Jean, ma dietro quella scusa la risposta alla richiesta dell’amico era affermativa.
“Eh già; tua sorella è quella che taglia definitivamente la testa al toro.”
“La tua futura mogliettina!” sghignazzò Jean.
“Non sei divertente.”
“No, sul serio: quando vi sposerete? Cerca almeno di aspettare che lei abbia vent’anni perché non credo che…”
La frase venne troncata da Heymans che gli saltò addosso, facendolo cadere a terra. Il rosso si mise a cavalcioni sul ventre dell’amico e iniziò a dargli lievi pugni che l’altro era abile a parare.
“Ma quanto puoi essere idiota, Jean!” disse tra un pugno e l’altro, mentre il biondo se la rideva di gusto.
“Avanti, dillo! Chi è il miglior amico che potresti mai avere sulla faccia della terra? L’unico che ti concederebbe anche sua sorella in sposa!”
“Finiscila!” rise di gusto Heymans afferrandogli i capelli biondi.
“Aspetto un nome, dai! – lo stuzzicò lui, approfittando della distrazione data dalle risate per sgusciare via dalla sua presa e gettarlo a terra a sua volta – Dillo! Dillo! Dillo!”
“Vai al diavolo, Jean Havoc, sei tu! – sghignazzò riprendendolo per il ciuffo e dandogli una lieve testata – E giuro che lo sarai per sempre.”
“Per il mio miglior amico sono persino disposto a lasciare in pace il nanetto, per adesso.”
“E fai bene, - sospirò Heymans, mettendosi seduto a gambe incrociate e fissandolo con aria furba – Roy Mustang è alle porte, amico mio: sei disposto ad accettarlo come capo?”
Jean prese una margherita che stava nel prato e la strappò, mettendosi il lungo stelo in bocca e ciucciandolo distrattamente. Si concesse diversi minuti per pensare e alla fine disse.
“Non ne sono ancora convinto, ma di una cosa sono certo: se mai diventerà nostro capo o comunque ci uniremo in gruppo, quello che siamo noi due avrà sempre la priorità. Janet ed Henry sono nostri fratelli per legame di sangue, ma noi lo siamo in maniera diversa, vero?”
“Perché? Hai mai avuto dubbi in merito?”
“No, ma dopo quattro anni era giusto ribadire il concetto a parole. Ti va di fare il giuramento di sangue?”
Quest’ultima frase venne detta con noncuranza, ma si capiva che per Jean era un qualcosa di davvero importante.
Heymans lo fissò profondamente e poi annuì: si frugò nella tasca fino a quando non trovò una limetta che usava per affilare le matite e si fece un taglietto nel palmo della mano. Nel frattempo Jean, che proprio nel palmo della propria aveva una delle tante ferite, si levò la sottile crosta, riaprendola.
I due amici si strinsero le mani in una salda presa e le ferite entrarono in contatto.
“Jean Havoc, sei il mio miglior amico, il mio fratello di sangue acquisito. Quando avrai bisogno di me, io ci sarò sempre e so che anche per te sarà così” recitò il rosso.
“Heymans Breda, sei il mio miglior amico, il mio fratello di sangue acquisito. Quando avrai bisogno di me, io ci sarò sempre e so che anche per te sarà così” ripeté Jean con un sorriso.
Niente e nessuno li avrebbe mai potuti separare.





il bellissimo disegno è di Mary_
^^

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Capitolo 14
*** Capitolo 13. Questioni di antropologia ***


Capitolo 13. Questioni di antropologia



 
Quando il lunedì successivo Jean e Roy si squadrarono nel cortile della scuola, entrambi portavano ancora evidenti tracce dello scontro della settimana precedente: in particolare i lividi nel viso, per quanto ormai sgonfi, continuavano a risaltare sulla carnagione chiara dei ragazzi.
 A quell’incontro erano presenti ovviamente anche Riza ed Heymans e Roy aveva fatto cenno a Kain di avvicinarsi non appena l’aveva visto arrivare.
“Non mi va di parlare davanti a tutta questa gente: – disse il moro quando furono tutti presenti – andiamo.”
E senza aspettare risposta si diresse verso il suo angolo di cortile personale con tutto il resto della scuola che li guardava senza osare superare la distanza di sicurezza che era il caso di mantenere.
Quando arrivò nel suo regno, Roy posò la schiena contro il tronco del solito albero, mettendosi a braccia conserte nella posa abituale: un re che squadra i suoi sottoposti. Ma se la cosa poteva andare bene sia a Riza che a Kain, Heymans e Jean non erano pronti ad accettare una simile esibizione di supremazia, non quando i ruoli non erano ancora definiti.
“Direi che possiamo discutere sull’esito dello scontro: – disse Heymans, rubando a Roy il diritto di iniziare il discorso e non mancando di squadrarlo con i suoi penetranti occhi grigi – ero il giudice e ho dichiarato la parità che è stata confermata anche da Riza. Alla luce di quanto è successo è il caso di rivedere le condizioni che vi eravate posti: spetta a voi decidere se ritirarle, fare un altro scontro, o quanto altro…”
“La parte sul nano la ritiro: – disse prontamente Jean, lanciando una rapida occhiata a Kain e poi tornando a fissare Roy – è libero di fare quello che vuole, non lo considero mia proprietà. Ma è una scelta mia e non dettata dall’esito dello scontro: per quanto mi riguarda questa mia condizione di vittoria è cancellata.”
“Ritiro anche la mia riguardante Kain, allora… del resto era solo il contraltare della tua.” scrollò le spalle Roy.
Ma non era quello il problema principale e tutti lo sapevano: la vicenda di Kain aveva solo avuto la sua naturale conclusione.
“Bene, – disse Roy dopo qualche minuto di silenzio – visto che nessuno parla lo faccio io: avevo proposto che voi due mi accettaste come vostro capo. A prescindere dall’esito del duello la mia richiesta rimane valida.”
I suoi occhi scuri e sottili squadrarono con attenzione i due amici. Sembrava che sia Heymans che Jean si aspettassero una cosa simili perché le loro facce non furono per niente sorprese.
“In separata sede dissi sia a Jean che a Riza che non ho nessun problema ad accettarti come capo, – disse Heymans con voce calma – tuttavia lo stesso posso dire anche di Jean: per me siete entrambi buoni come leader.”
“E tu, Jean? Che dici?” chiese il moro, annuendo alla risposta data dal rosso.
“Lo scontro è finito in parità, senza sancire la supremazia di nessuno dei due. Non mi basta a riconoscerti come capo, Roy. Non mi rappresenti nulla.”
“Capisco… e voi, Riza e Kain? Che ne pensate?”
“Eh? Ma che c’entriamo noi?” chiese il bambino
Ma Riza si ricordò quanto aveva detto Heymans a proposito dell’ipotetico gruppo che comprendeva anche loro due: dunque anche Roy la pensava a questo modo.
“A me vai bene tu, come capo, Roy… ma non posso negare che le parole di Jean abbiano un fondamento.” disse con lieve riluttanza.
“Nano?” chiamò Jean, puntando gli occhi azzurri su Kain.
“Ecco… ecco io, non lo so. Potete fare a turno?” propose con timidezza.
“Che idiozia!” sbuffò Jean, scuotendo il capo.
“Però potreste chiedere a Vato!” si illuminò il bambino, cercando di correggere il tiro.
“Il ragazzo di quarta? – si sorprese Heymans – E che c’entra lui?”
“Vato conosce un sacco di cose – spiegò Kain prendendo coraggio – e sicuramente ha letto qualche libro che potrà fare al caso nostro!”
“Ma guarda che è una questione tra indipendenti!” lo sgridò Jean, andandogli davanti e dandogli un lieve colpetto sulla fronte.
“Ohi! – protestò lui – Io ho fatto solo una proposta!”
E alla fine sembrava che fosse l’unica proposta plausibile. La situazione era davvero complicata: i tre indipendenti non volevano rinunciare a quel primo contatto che avevano avuto, ma altrettanto non volevano che il rispettivo rivale prendesse così facilmente il predominio.
Prolungare la vicenda, anche con l’intervento di un esterno, avrebbe aiutato a riflettere meglio.
 
Fu così che durante l’intervallo, Vato vide entrare nella sua classe il gruppo di ragazzi.
Eccetto Roy li aveva conosciuti qualche giorno prima a casa di Kain e gli erano sembrati abbastanza tranquilli; per quanto riguardava il moro lo guardò con attenzione, curioso di incontrare per la prima volta da vicino il ragazzo più famoso della scuola. Come gli occhi neri di Roy ricambiarono quello sguardo, il ragazzo di quarta si rese conto del notevole magnetismo che emanavano e se ne sentì intrappolato. Era come se Roy Mustang fosse in grado di esercitare un grande potere d’attrazione sulla sua persona.
“Dov’è Elisa?” chiese Kain, attirando la sua attenzione e liberandolo dalla presa invisibile di Roy.
“Oggi non è venuta: – spiegò – doveva aiutare sua madre a casa per un pranzo importante. E invece… uhm… come mai siete tutti qui?”
“Kain dice che tu sai un sacco di cose – spiegò Roy, squadrandolo – e ci serve il tuo parere.”
“Oh…” Vato annuì leggermente imbarazzato.
“Vorremmo sapere come si decide un capo.” annuì Kain, certo che avrebbe trovato una soluzione.
“Un capo?” il ragazzo si grattò la nuca con perplessità, non riuscendo a capire dove volessero andare a parare con tutta quella storia.
“Sì. – disse Jean, esasperato – Il fatto è che non riusciamo a decidere chi tra me e Roy deve essere il capo.”
“E possibilmente non ci deve essere nessun altro duello da fare!” si affrettò ad aggiungere Riza.
Mentre sentiva quelle richieste che venivano continuamente interrotte dai diversi membri del gruppo, Vato iniziò a scuotere leggermente la testa. Quello che gli stavano chiedendo, da quanto gli risultava capire, era di decidere la modalità con cui doveva essere scelto il leader.
“Elezioni?” propose alla fine, quando tutti tacquero per guardarlo con aspettativa.
“Non vale! – protestò subito Jean – Roy ha Riza e Kain dalla sua parte ed io solo Heymans. Non è corretto!”
“Kain poteva essere dalla tua se non lo trattavi male.” gli fece notare Roy con un sorriso malizioso: ovviamente l’idea delle elezioni gli piaceva, considerata la vittoria praticamente scontata.
“Beh, il concetto delle elezioni si basa appunto sulla maggioranza, – ammise Vato – ma forse, considerato che siete solo in cinque, non è molto corretto. Scusate, partiamo da principio: che cosa dovrebbe fare il capo? Insomma quali sono le doti che deve avere? Che scopo avete come gruppo? Nel senso, avete un obbiettivo specifico oppure è un progetto a lungo termine che non prevede decisioni nell’immediato?”
“Ma di che cavolo stai parlando? – lo bloccò Jean, guardandolo stranito e mettendosi a braccia conserte – Ci stai per caso prendendo in giro?”
“Assolutamente no!” disse il ragazzo con serietà.
Però anche tutti gli altri sembravano abbastanza perplessi dalla sequela di osservazioni che aveva fatto ed iniziavano a guardarsi tra di loro come a pensare che forse non era stata una buona idea cercare il suo consiglio. Questa intuizione fece sentire Vato profondamente imbarazzato, ma non totalmente sorpreso: non era la prima volta che altri ragazzi rimanessero perplessi davanti alla sua razionalità nell’affrontare le situazioni. Effettivamente solo Elisa era l’unica a non restare impressionata dal suo modo di fare.
“Non pensavo che fare un gruppo fosse così complicato.” ammise Kain, spezzando il silenzio.
“Non è complicato! – corresse Jean – E’ lui che sta dicendo cose totalmente assurde! Progetto a lungo termine.. e che diamine sarebbe? Una lezione di economia?”
“Ma scusate, voi siete un gruppo o aspirate a diventarlo?”
“Noi…” iniziò Roy, ma poi si bloccò e guardò pensieroso tutti gli altri presenti.
No, non erano un gruppo, ecco dove stava il problema principale. Ed effettivamente cercare di essere il capo di qualcosa che non esisteva non aveva molto senso. Vato Falman aveva involontariamente posto l’accento sul problema fondamentale e questo nuovo imprevisto diede parecchio fastidio al moro.
Forse l’idea di un secondo duello tra lui e Jean non era da scartare del tutto e…
“E come si diventa un gruppo?” chiese Kain, incuriosito.
“Beh, nei libri di antropologia, la definizione di gruppo è…”
“E finiscila di parlare come un libro stampato! – sbottò Jean – Mi bastano le lezioni che devo sorbirmi dai professori; mi ci manchi solo tu… per quanto mi riguarda non ho nessuna voglia di sprecare il resto dell’intervallo a seguire le lezioni di antropofagia!”
“Antropologia…” corresse Heymans.
“Quello che è! Comunque, io vado fuori a prendere una boccata d’aria: stare in classe durante l’intervallo è una vera e propria follia.”
E così dicendo Jean girò sui tacchi e uscì a grandi passi dalla stanza. Heymans rivolse uno sguardo di scusa a Vato e poi si affrettò a raggiungere l’amico, per evitare che iniziasse a farsi strane idee da solo.
“Mi dispiace che ti abbia detto quelle cose, – mormorò Kain, rivolgendosi a Vato, sentendosi in colpa per quel comportamento – ma a me interessa sapere cosa è un gruppo in quella materia che hai detto, davvero!”
“Oh, lascia stare, Kain, non è come parlarti di animali o di leggende. – sorrise il ragazzo grande, mettendogli la mano sulla spalla – E’ qualcosa di più complesso e ti annoierebbe.”
“Però è strano, - ammise il bambino – sai, io credevo che per fare un gruppo ci volessero degli amici, tutto qui. Invece pare davvero difficile… forse è per questo che non ho mai fatto parte di alcun gruppo.”
Riza, che fino a quel momento era rimasta ad osservare, sorrise dolcemente e accarezzò i capelli corvini.
“Facciamo così, Kain, fino a quando non si deciderà cosa fare, noi ci limitiamo ad essere amici, va bene? E se poi si diventa un gruppo ancora meglio, ma l’amicizia non ce la tocca nessuno.”
“Pare un buon compromesso per ora. – sospirò Roy, guardando Vato con aria rassegnata – Il tuo libro di antropochenesò prevede anche questo?”
“L’amicizia non ha bisogno di molte definizioni, non credi? – disse il ragazzo, scrollando le spalle – Più che altro io mi chiedo come si possa essere capo di qualcosa che non ha solide basi, Roy Mustang.”
“Dici che sto sbagliando?” chiese Roy, rivolgendogli tutta la sua attenzione.
“Dico solo che da quanto ho visto mi sembrava una forzatura bella e buona.”
Roy non rispose, ma rifletté a lungo su quanto gli aveva detto Vato Falman.
 
“Antropo… oh, quella cosa lì… progetto a lungo termine… ma chi diamine crede di essere quello là?” sbottò Jean in cortile, mentre Heymans gli stava appresso.
“E datti una calmata, Jean, in fondo lui voleva solo essere utile.”
“Ecco cosa succede a seguire le idee del nano! Ci abbiamo perso buona parte dell’intervallo e non abbiamo risolto niente!” Jean scosse il capo e si sedette a gambe incrociate sul basso muretto che delimitava il cortile della scuola. Il suo viso esprimeva notevole disapprovazione per quanto era successo, ma Heymans notò anche una lieve sfumatura di delusione.
“Ehi, io avrei votato per te…” gli disse per consolarlo.
“Lo spero proprio! – annuì Jean con un sogghigno. Poi però assunse di nuovo un’espressione contrariata e disse – Senti, secondo me è una fregatura bella e buona: si vede che noi e Roy non siamo destinati a fare un gruppo… siamo troppo diversi. La cosa migliore è restare noi due e basta, come al solito.”
Heymans stava per ribattere, ma poi si accorse che l’osservazione di Jean non era del tutto priva di fondamento: effettivamente non potevano definirsi un gruppo e l’imposizione di un capo avrebbe solo generato dissapori in rapporti già non proprio idilliaci. Conoscendo Jean e avendo una vaga idea del carattere di Roy, capiva benissimo che bastava un niente per scatenare inutili discussioni.
“Forse hai ragione…” ammise.
“Facciamo così allora… ce ne stiamo per i fatti nostri e se il nano vuole parlare con te o Janet non mi faccio problemi, va bene?”
Heymans annuì: probabilmente Jean aveva dato la soluzione migliore al problema… alla faccia dell’antropologia.
 
Mentre stavano tornando a casa, Riza si accorse che Roy era più pensieroso del solito.
La questione con Heymans e Jean non si era risolta nel modo sperato, tutt’altro: per come si erano messe le cose sembrava che tra i tre indipendenti fosse davvero improbabile che nascesse qualcosa di concreto. Da una parte la cosa era abbastanza normale: del resto si trattava di personalità molto forti che difficilmente accettavano qualcuno di eventualmente superiore.
La situazione si poteva riassumere in una sola parola: orgoglio.
Riza aveva abbastanza chiara la situazione ed era sicura che anche Roy stava, a malincuore, arrivando alle medesime conclusioni: non si poteva creare un gruppo basandosi su questioni di mero orgoglio. Ma purtroppo, a quindici e quattordici anni esso è una componente quasi fondamentale in caratteri forti ed indipendenti. Né Jean né Roy sarebbero mai stati disposti a fare un passo indietro… che poi sarebbe stato un passo in avanti per la creazione dell’eventuale gruppo.
“Roy…” mormorò ad un certo punto, trovando davvero insopportabile quel silenzio.
“Beh, dai, non è andata così male – dichiarò lui, continuando a guardare davanti a sé – in fondo adesso siamo in tre, no? Io, te e Kain… è già un inizio di gruppo.”
“Siamo amici.” corresse il tiro lei.
“Non ho nemmeno chiesto se a te eventualmente andava bene essere parte di un gruppo. – sorrise con rammarico lui – E nemmeno a Kain. E non mi sono nemmeno preoccupato del fatto che stavo mettendo insieme il ragazzino con Jean, dopo che per anni quel bestione l’ha tormentato.”
“Oh, dai, sappiamo bene che l’avresti difeso. E poi sembra che le cose tra loro due inizino a…”
“C’è qualcosa che non torna in tutto questo, Riza.”
“Che intendi?”
“Devo rifletterci sopra; - scosse il capo il moro con decisione – davvero… senti, tu sei arrivata. Ci vediamo domani a scuola, va bene?”
E senza attendere risposta si avviò di corsa verso il locale di Madame Christmas, lasciando Riza sola davanti al giardino di casa sua. La ragazzina rimase molto turbata da quel saluto così frettoloso: non gli era mai capitato di vedere Roy così deluso da qualcosa.
Con un sospiro entrò in casa e si diresse verso la cucina, senza nemmeno andare a posare la tracolla in camera sua. Avrebbe dovuto mettersi a preparare il pranzo per lei e per suo padre, ma si accorse di non averne nessunissima voglia.
Come si poteva forzare la nascita di un’amicizia?
 
“Papà, possiamo parlare?” chiese Vato, quando ebbero finito di mangiare e sua madre si era messa a lavare i piatti.
“Certamente, - annuì Vincent, notando come l’espressione del figlio fosse leggermente turbata. Così posò la tazzina di caffè sul tavolo e rivolse la sua attenzione al ragazzo – di che si tratta?”
“Credo… credo di aver combinato un bel guaio.” ammise lui, abbassando gli occhi dal taglio allungato.
Sembrava assurdo, ma quanto era successo quella mattina a scuola l’aveva turbato più del previsto. Si sentiva come un giudice che aveva appena disatteso le speranze di tutti quanti nel dare un verdetto che andasse bene. Nella sua testa continuava ad arrovellarsi per trovare una soluzione alternativa a quanto aveva detto e proposto, ma non riusciva a venirne a capo.
Eppure non poteva fare a meno di ripetersi che se Jean ed Heymans si erano allontanati in questo modo da Roy e gli altri era in parte colpa sua.
“Che genere di guaio?” chiese Vincent.
“Forse con le mie parole ho messo in difficoltà delle persone: mi avevano chiesto un parere, ma alla fine due di loro se ne sono andati più scontenti che mai… e anche gli altri non sono rimasti proprio felici. Mi sembra di aver disatteso la loro fiducia nei miei confronti.”
Vincent fissò il proprio figlio tormentarsi lievemente la manica del maglione verde che indossava.
Spesso si preoccupava per lui: non tendeva a socializzare molto, trovando maggior appagamento nei libri piuttosto che con le persone. Aveva una spiccata intelligenza e memoria, ma era un ragazzo che troppo spesso aveva la testa tra le nuvole, o meglio tra le pagine, e si estraniava dalla realtà quotidiana. Vincent era rimasto molto contento quando aveva stretto amicizia con Elisa: era una ragazza con la testa sulle spalle che aveva aiutato Vato a restare un minimo con i piedi per terra. Si era quasi rassegnato al fatto che lei fosse l’unica vera amicizia che suo figlio stringesse, ma poi era arrivata la sorpresa di Kain Fury e di questo sia lui che Rosie ne erano stati profondamente felici.
Ma adesso, probabilmente, stava emergendo un problema derivato da questo isolamento che si era in parte spezzato: Vato era per natura profondamente sensibile e sicuramente si stava addossando una responsabilità che si era in parte creato da solo.
Così, l’uomo stette ad ascoltare il resoconto del figlio e, se non fosse stato per il serio turbamento dimostrato dal ragazzo, sarebbe anche scoppiato a ridere.
“Vato, - disse alla fine, spostandosi nella sedia accanto a lui e circondandogli le spalle con affetto – tu ci potevi fare ben poco, fidati. Non c’è niente di più difficile dell’orgoglio adolescenziale.”
“Forse potevano diventare amici – scosse il capo lui – e probabilmente è una cosa che volevano fare… ma io ho rovinato tutto. Quando ho parlato di antropologia per poco Jean non mi rideva in faccia.”
“Antropologia? – sospirò Vincent, scuotendo il capo e arruffando i capelli bicolore del ragazzo – Oh no, Vato, non devi tirare fuori cose così complesse. Specie per una situazione che in realtà è più semplice del previsto. L’hai detto tu stesso che l’amicizia non ha bisogno di molte definizioni.”
“Sono proprio senza speranza…”
“No, non è vero. Dovresti fare semplicemente più attenzione e adattarti alla situazione in cui ti trovi. Per il resto trovo davvero encomiabile che tu ti stia preoccupando così tanto per il tuo amico Kain.”
“E anche per Riza… - aggiunse lui – sai, credo che Elisa la trovi molto simpatica. E poi, a casa di Kain ho conosciuto meglio anche Heymans e Jean e mi sono piaciuti. E’ che…”
Scosse il capo ma non aggiunse altro.
“Fidati che tutto si risolve, figliolo: – lo consolò Vincent – sono sicuro che, al momento giusto, tu saprai cosa fare.”
Vato annuì, confortato da quelle rassicurazioni: probabilmente suo padre aveva ragione ed era lui che stava vedendo la cosa da un lato troppo negativo. Come sempre quando qualcosa andava oltre quello che dicevano i libri entrava nel panico.
Come la questione del primo bacio… beh, visto che ci siamo…
“Senti papà…” si trovò a dire all’improvviso.
“Sì?”
“Supponiamo che una persona abbia un’amica…”
“Hm.” Vincent nascose un lieve sorriso, intravedendo il lieve rossore nelle guance pallide del figlio.
“Un’amica speciale che conosce da sempre… Ah, ovviamente è soltanto un ipotetico esempio, non  è che io mi riferisca a persone realmente esistenti!”
“Ma certo, Vato, continua pure.”
“Dicevo, grandi amici da sempre… però poi, insomma, questa persona si accorge che c’è qualcosa di più. E anche lei lo sa… insomma pare che lo sappiano tutti. Solo che non riesco a darle… cioè, non riesce a darle il primo bacio. E la cosa lo sta iniziando a mettere a disagio…”
“Ahi ahi, ragazzo mio – sogghignò l’uomo, arruffandogli i capelli con fare complice – ancora una volta i tuoi preziosi libri non ti aiutano in questo, eh?”
“Non sto parlando di me ed Elisa! – esclamò Vato arrossendo fino alla radice dei capelli – Era solo una pura e semplice divagazione ipotetica! Un esempio di antropologia, ecco!”
Fai almeno finta di credermi, papà, ti prego!
“Certo, e mi dispiace per la tua antropologia, ma non c’è niente di più naturale che un primo bacio, in barba a tutte le definizioni che ti può dare.”
“Naturale…” il ragazzo disse quella parola con incredula rassegnazione: dopo settimane di tentativi falliti la cosa gli sembrava tutto meno che naturale.
“Che cosa sarebbe naturale?” chiese Rosie all’improvviso, raggiungendoli al tavolo.
A Vato si fermò il cuore per due tremendi secondi: se sua madre sentiva qualcosa a proposito di Elisa avrebbe iniziato con i commenti e gli sguardi maliziosi. Il problema era che Rosie ci aveva visto giusto già da quando erano alle scuole medie e se veniva a sapere che davvero lui stava tentando di fidanzarsi con Elisa, sarebbe stata la fine della sua tranquillità nell’ambito delle mura domestiche.
“Niente! – esclamò, alzandosi dal tavolo – Cioè… volevo dire… è naturale che adesso vada a fare una passeggiata. E’ una così bella giornata! Comunque grazie per la chiacchierata, papà… io… io torno per cena!”
E senza dare tempo a sua madre di fare ulteriori domande, corse in camera sua a prendere la giacca e uscì di casa.
“Ma che ha?” chiese la donna, scuotendo il capo con rassegnazione.
“Oh, oscure materie… come l’antropologia.” disse Vincent, riprendendo in mano la tazzina di caffè ormai freddo.
“Antropologia? – sorrise Rosie – Solo Vato poteva tirare fuori una cosa simile. Spero proprio che non parli di queste cose anche ad Elisa… non è il massimo del romanticismo. Dammi pure quella tazzina, caro, ormai il caffè è freddo, te ne faccio un altro.”
“Grazie. Lo sai che sei, antropologicamente parlando, una moglie fantastica?”
Lo sguardo ironico che gli lanciò Rosie fu abbastanza eloquente: no, decisamente l’antropologia non era il massimo del romanticismo.  
 
Uscire di primo pomeriggio non era stata una grande idea: a quell’ora non c’era nessuno in giro e anche la libreria era chiusa. A Vato non restò che vagare senza meta per le vie del paese: aveva pensato di andare a chiamare Elisa, ma la sua famiglia aveva dei parenti a pranzo e dunque la cosa sarebbe andata avanti per le lunghe.
Sono uscito così di corsa che non mi sono nemmeno portato un libro dietro. Grosso errore…
Stava iniziando a valutare l’idea di andare a casa di Kain: magari avrebbe potuto dare un’altra occhiata alla documentazione relativa alla vecchia miniera…
“Ehi…” disse una voce, attirando la sua attenzione.
Girandosi verso quella direzione, Vato non vide nessuno, ma poi alzò lo sguardo e vide che da una finestra al primo piano di una strada laterale c’era Roy affacciato.
“Ehi…” rispose al saluto, con perplessità.
“Che ci fai in giro a quest’ora?”
“Niente di che… passeggiavo.”
Il moro lo guardò con attenzione per qualche secondo, come se stesse valutando che fare, e poi disse:
“Ti va di salire?”
Vato Falman non aveva mai avuto a che fare con Roy Mustang fino a quella mattina. A pensarci bene non avevano niente in comune sia per carattere che per interessi. E poi gli aveva appena proposto di entrare in quello che era un locale che, per quanto legale, non era proprio ben visto e lui in quanto figlio del capo della polizia non avrebbe mai dovuto…
“Va bene…” annuì, con sua stessa sorpresa.
“Inizia ad entrare, tanto è aperto. Vengo giù a prenderti.” sorrise con grande soddisfazione Roy.
 
Che cosa facevano due ragazzi quando si trovavano a casa di uno di loro?
Vato a volte se l’era chiesto e aveva trovato la risposta in un indefinito e oscuro verbo giocare che poteva voler dire tutto o niente. Del resto era un problema che non si era mai presentato, dato che quando era a casa di Elisa o viceversa in genere studiavano e chiaccheravano. Per cui, quando Roy lo fece entrare in camera sua e gli chiese che cosa voleva fare, lui rimase abbastanza spiazzato.
Leggere? Beh, quella era una cosa che in genere si faceva da soli, quindi era da scartare a priori, anche se i suoi occhi individuarono subito i volumi sulla libreria nella parete di lato.
“Non saprei…” ammise.
Roy rimase abbastanza perplesso davanti a quell’idecisione: l’invito che aveva fatto a quel ragazzo era stato così improvviso che non aveva nemmeno pensato a qualcosa da proporgli. La verità era che Vato Falman aveva attirato la sua attenzione, quella mattina, anche se non sapeva riconoscerne il motivo. Era completamente diverso da Kain e sembrava che le sue conoscenze fossero davvero vaste: uno che a sedici anni ti tira fuori una materia difficile come l’antropologia di certo doveva essere molto intelligente. Ma oltre a quello aveva fatto anche alcune osservazioni interessanti e, smaltita la delusione, Roy si era reso conto che quel ragazzo così particolare l’aveva portato a ragionare in una maniera del tutto nuova.
“Sai giocare a scacchi?” chiese infine, indicando la scacchiera.
“Sì – annuì Vato, con immenso sollievo: era un gioco che gli piaceva parecchio e conosceva tutte le regole a memoria – accidenti, che bella!”
“Era di mio padre – spiegò Roy, prendendola e portandola nel tavolo che stava al centro della stanza – l’hanno fatta a Central City.”
“Grandioso! I pezzi hanno anche lo stemma di Amestris e quello di Drachma!” commentò lui, prendendo in mano un alfiere ed ammirandolo controluce.
“Io Amestris e tu Drachma?” propose Roy.
“Va bene.”
Era da quando Maes era partito che Roy non rimetteva mano su quel gioco e la cosa gli fece enormemente piacere. Giocare a scacchi era veramente stimolante e quando si accorse che Vato si dimostrava un buon avversario, sebbene abbastanza intrappolato negli schemi, ne fu molto felice.
“Mi dispiace di averti coinvolto, stamattina – disse ad un certo punto – forse era una faccenda che dovevamo tenere tra di noi.”
“Oh, non fa nulla – scosse il capo Vato – anzi, mi dispiace di aver complicato le cose più che risolverle.”
“No, a dire il vero mi hai aiutato a riflettere e ti devo ringraziare.”
“Ah sì?”
“Stavo facendo un errore fondamentale – ammise Roy, posandosi allo schienale della propria sedia e stiracchiandosi – stavo imponendo una cosa agli altri senza preoccuparmi se loro la volessero o meno.”
Vato sembrava concentrato sulla mossa da fare, ma dopo qualche secondo rispose:
“Un buon leader è quello che si preoccupa di chi sta sotto di lui.”
“Jean ed Heymans non vorranno mai stare sotto di me: – scosse il capo con amarezza – non saremo mai un gruppo.”
A quelle parole, cariche di delusione, Vato alzò lo sguardo su di lui e si ricordò le parole di suo padre a proposito dell’orgoglio adolescenziale.
“Perché allora non prendi in considerazione un’altra idea di gruppo?” disse d’istinto.
“Mh?”
“Guarda Heymans e Jean – annuì Vato con un sorriso, mentre un’idea gli balenava in mente – sono una coppia ma non c’è nessuno dei due che prevalga. E se nel tuo gruppo non ci fosse un leader? Almeno non per i primi tempi.”
“Amici…” Roy quasi assaporò quella parola… così semplice eppure difficile da pronunciare. Ma era questo che lui cercava in Heymans e Jean, no?
“Del resto l’amicizia mi pare un’ottima base da cui iniziare, non credi? – disse Vato con entusiasmo – Potrebbe essere la soluzione giusta, mh?”
“Bellissima idea, Vato Falman! – esclamò Roy con un ampio sorriso sporgendosi per mettergli una mano sulla spalla – E tu ormai fai parte di questo progetto! Sei appena diventato il membro di pensiero del mio nuovo ideale di gruppo!”
“Che?” si sorprese Vato, facendo cadere il suo alfiere.
“E questo vuol dire che da questo momento io e te siamo amici!” dichiarò Roy con decisione.
Vato rimase incredulo davanti a quelle parole e a quel contatto fisico. Perché stava tutto succedendo così in fretta? Non era questo il modo corretto di…
“V… va bene.” annuì, sorridendo timidamente.
Da quando agiva d’istinto in maniera così sconsiderata?


 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14. Gesti d'amicizia. ***


Capitolo 14. Gesti d’amicizia.

 

Mentre Roy e Vato stringevano amicizia in quel modo particolare, Riza, nella cucina di casa sua, si dava da fare come mai le era capitato. Cucinare per lei era sempre stata una cosa ovvia e scontata, ma non si era mai cimentata in qualcosa che andasse oltre i canonici piatti preparati per pranzo e cena.
Tuttavia, ad un certo punto aveva alzato lo sguardo sopra una mensola ed aveva notato un vecchio libro di ricette di sua madre. Non capiva ancora cosa le fosse passato per la mente, ma due secondi dopo stava levando la polvere da quel volume e lo stava sfogliando, cercando qualche dolce da preparare.
Sì, un dolce: nonostante non ne avesse mai cucinato uno in vita sua, adesso sentiva che era il momento buono per provare. Forse cimentarsi in questa nuova sfida le avrebbe dato modo di non pensare al disastro che era successo quella mattina e poi, se doveva essere sincera, era rimasta talmente impressionata dalla bravura della madre di Kain che in qualche modo voleva provare pure lei.
Per quanto in cucina non se la cavasse male, si accorse subito che la realtà dei dolci era molto più complicata rispetto a quella dei comuni stufati, minestre e quanto altro.
Le dosi indicate erano precise, il procedimento molto rigoroso eppure, per quanto lei lo seguisse diligentemente, l’impasto per la torta che aveva deciso di fare non era per niente simile all’immagine proposta dal libro. Quando poi passò a preparare la crema per farcirla, il disastro fu ancora peggiore: il pentolino sul fuoco iniziò a ribollire in maniera strana e, poco dopo, la ragazza si ritrovò con il preparato quasi del tutto attaccato al fondo.
“Ma perché! – esclamò esasperata, rimestando quella poltiglia nella speranza di salvare qualcosa – Perché non va bene niente?”
Alla fine, dopo svariate imprecazioni, il risultato che ottenne fu una torta non proprio bellissima farcita con una crema altrettanto imperfetta; tuttavia, almeno al palato era qualcosa di gradevole da mangiare.
Alla luce di questa piccola vittoria, Riza pensò che tutto sommato era naturale che la prima volta non le uscisse tutto perfetto come i dolci della madre di Kain.
Del resto la mamma non cucinava i dolci, se non in rarissime occasioni…
Quel pensiero la sorprese: era da parecchio che non si concedeva qualche ricordo di sua madre. In genere la cosa la intristiva molto perché la faceva rimuginare sulla felicità che aveva vissuto assieme a quella donna, prima che la sua vita diventasse cupa e vuota, sola in casa con suo padre.
Ma non era più così, ad essere sinceri… adesso aveva anche altre persone che tenevano a lei, che la consideravano speciale. Non era quello che le aveva detto Roy qualche giorno prima?
Secondo me dovresti provare e poi li assaggio io. Per i dolci mi offro sempre volontario… specie se sono con il cioccolato.
Le parole di Kain ritornarono alla memoria, mentre finiva di decorare la torta con lo zucchero a velo.
“Ma sì – si disse, fissando il suo operato finale – anche se non è al cioccolato, quasi quasi vado a casa sua e gliela faccio assaggiare.”
Dopo averlo tagliato a cubetti, impacchettò quel dolce, di cui iniziava a sentirsi estremamente fiera, e si avviò verso casa del bambino, uscendo fuori dal paese. Sulle prime le era venuta anche l’idea di portarne un po’ a Roy, ma poi aveva scosso il capo: lo conosceva abbastanza bene per capire che era una di quelle giornate in cui voleva stare solo e riflettere. L’ultima cosa che gli serviva era fare da cavia per una cuoca dilettante come lei.
Dopo aver oltrepassato la scuola, poco prima di prendere la biforcazione che portava verso casa di Kain, intravide una figura scendere dall’altra parte del sentiero. Sulle prime non ci fece caso, ma poi socchiuse gli occhi e riconobbe Jean.
Quasi d’istinto si fermò e lo attese.
“Ciao…” salutò come arrivò vicino.
“Ciao.” rispose lui squadrandola con attenzione, quasi avesse il sospetto che Roy comparisse all’improvviso.
“Dove vai?”
“In paese a fare una commissione per mia madre. – rispose lui, laconico, con uno sguardo annoiato, mettendosi le mani nelle tasche – E tu?”
“Stavo andando a casa di Kain.”
“Ah, allora salutamelo.”
Considerando quella conversazione chiusa, Jean le rivolse un lieve cenno con il capo e fece per proseguire. Ma dopo qualche passo Riza lo chiamò di nuovo.
“Ti va… ti va di assaggiare la mia torta?” chiese d’impulso.
Jean si fissò a guardarla con estrema sorpresa e Riza notò che gli occhi erano davvero di un bellissimo  azzurro, specie quando non avevano l’espressione annoiata o maliziosamente perfida. Ora che lo vedeva senza Heymans a fare da spalla si accorse che era davvero alto per la sua età e che era completamente diverso da Roy: c’era una forza più sfacciata nella sua figura, nei suoi lineamenti, un qualcosa di perfettamente tangibile come il sole estivo.
“Scusa?” fece Jean.
“Non è uscita molto bella a vedersi, a dire il vero, – ammise lei, arrossendo lievemente, e iniziando a svolgere il pacco – ma è buona, te lo assicuro.”
Il ragazzo si avvicinò e squadrò quei cubetti all’interno del contenitore; ne prese uno con cautela e se lo mise in bocca in un sol boccone. Riza lo osservò con apprensione masticare attentamente, con l’espressione concentrata come se fosse un insegnate che valuta il lavoro di un allievo.
“Non male.” dichiarò infine, annuendo.
“Dici davvero?” chiese, sollevata.
“Sì – annuì lui – è solo un po’ bruciatella sul fondo, ma per il resto è buona. Non sapevo che ti cimentassi con i dolci.”
“E’ la prima volta, a dire il vero.”
“Oh, vedrai che il nano ti coprirà di complimenti: anche se gli servissi una torta di fango, stravede così tanto per te che direbbe che è ottima.”
“Jean… mi dispiace per quanto è successo oggi.” si trovò a dire Riza dopo qualche secondo di silenzio.
“Eh? Oh no, dai, non abbassare lo sguardo in questo modo. – disse lui, impanicandosi lievemente – Possibile che voi femmine dovete essere così maledettamente complicate?”
“Proprio tu e Roy non potete venirvi incontro?”
Jean la guardò sempre più confuso: era strano parlare di queste cose al di fuori della scuola con una persona che non fosse Heymans. Riza gli sembrava completamente diversa da quella ragazzina scontrosa sempre pronta a difendere Kain e a rimproverarlo: adesso la vedeva molto più fragile emotivamente, con quell’espressione così preoccupata e triste.
“E’ complesso, lo sai bene, – cercò di spiegarle con estrema pazienza – ma cerca di capire anche le mie ragioni: lui non può venire da me e pretendere di essere il mio capo.”
“Ma Heymans ha detto che sarebbe disposto…”
“Heymans è più accomodante ed è per il compromesso. Ma, onestamente, Riza, che cosa mi rappresenta Roy Mustang? Se Heymans deve rendere conto a qualcuno, anche se già questa idea mi dà molto fastidio, preferisco essere io, non quel ragazzo di cui non so niente… se non che è bravo a battersi.”
“Non lo conosci nemmeno!” protestò lei.
“Appunto! – disse lui – Non lo conosco e scusami tanto se preferisco dare la priorità a me ed Heymans. Ho accettato la sua condizione al duello perché ero sicuro di batterlo… e se poi mi sono proposto come capo al posto suo è stato per oppormi a quella sua strafottenza. Non è un dio sceso in terra, assolutamente.”
C’è qualcosa che non torna in tutto questo, Riza.
I dubbi di Roy qualche ora prima trovavano conferma nelle parole di Jean: a conti fatti si era voluto mettere in una posizione di superiorità che non gli spettava di diritto… e le conseguenze si erano viste.
“Lo disprezzi?”
“Disprezzo… è una parola grossa, Riza. – sospirò Jean – Diciamo che per ora preferisco non avere a che fare con lui. Non è con un duello che una persona mi dimostra quanto vale.”
Riza alzò gli occhi castani su Jean e, per la prima volta, si accorse della strana forma di saggezza che caratterizzava quel ragazzo. Una sicurezza in determinati principi solida come la campagna dove vivevano, un giudicare le persone che aveva regole molto precise. Adesso iniziava a capire perché Heymans lo ritenesse un candidato leader più che valido: non era solo un gesto d’amicizia.
“Ed io quanto valgo?” si trovò a chiedere, curiosa di essere valutata secondo quel metro di giudizio.
Jean riflettè per qualche istante e poi si fece più vicino, posandole un dito in fronte e sorridendole: non nel solito modo sfacciato o cattivo, ma con una naturalezza disarmante.
“Tu sei stata una bella guastafeste per tutti questi anni, Riza Hawkeye, paladina dei secchioni. Ma hai difeso Kain sempre e comunque perché tieni a lui e, da quanto mi racconta Heymans, anche il ragazzino è sempre pronto a difenderti. Questo ai miei occhi vale molto, perché indica che sei una bella persona.”
“Possiamo essere amici?” propose lei, tendendo la mano libera dal pacco della torta.
“Proprio a me vieni a fare una simile richiesta? – la prese bonariamente in giro lui – Forse prima dovevi passare per Heymans.”
Ma mentre diceva queste frasi, prese la mano tra le sue e la strinse lievemente.
Riza si accorse che la sua mano era davvero piccola in quella presa così sincera e franca: le mani di Jean erano così diverse da quelle di Roy. Erano calde e poteva sentire tutto il duro lavoro che erano abituate a fare, al contrario di quelle del moro che invece erano snelle, eleganti e fresche.
“Se ci tieni così tanto, ragazzina… allora sì, siamo amici.” dichiarò Jean.
“Perché ti comporti così diversamente quando sei a scuola? Puoi essere così gentile, se ti va.” sorrise Riza, lieta di quella stretta.
Un sogghigno sfacciato apparve sul volto di Jean e gli occhi azzurri si illuminarono della solita malizia.
“Perché evidentemente non mi va. E anche se siamo amici non pensare che non giochi ancora qualche tiro al nanetto.”
“Jean Havoc!” esclamò lei, arrabbiandosi e ritirando la mano.
“Ahahah! Eccoti qua, paladina dei secchioni, iniziavi a mancarmi. Adesso scusami, ma devo proprio andare, altrimenti la commissione per mia madre non la farò mai.” e le diede una lieve tirata ad una delle ciocche bionde, in un gesto identico a quello che compiva con le trecce di Janet.
Riza rimase completamente spiazzata da quell’azione, tanto che per qualche secondo non riuscì a reagire.
Ma poi sentì l’esigenza di ricambiare in qualche modo il gesto e senza pensarci due volte prese uno dei cubetti di torta e lo lanciò a quella figura che stava già correndo verso il paese.
Fu un tiro preciso e mirato che teneva perfettamente conto della distanza che aumentava: la torta colpì la nuca di Jean, spiaccicandosi sui capelli biondi.
“Adesso che siamo amici, – gli gridò, mentre lui si girava stupefatto e si metteva una mano sul danno che aveva nella capigliatura – non pensare che la smetta di darti una lezione ogni volta che lo meriti.”
“Femmine! – sbottò Jean – Siete veramente fuori di testa! E tu lo sei più di tutte le altre, Riza Hawkeye!”
“Ci vediamo domani a scuola. – sorrise lei, riprendendo la sua strada – Ciao ciao!”
Certo, aveva due cubetti di torta in meno da portare a Kain, ma li aveva spesi in modo davvero produttivo.
 
“Ma tu guarda che schifo! – sbottò Jean con disgusto, mentre si rendeva conto dell’entità del disastro dietro la sua nuca: la mano poteva fare ben poco contro quella crema e quei rimasugli di torta che iniziavano a scivolare anche sul collo – Stupida ragazzina! E chi pensava che avesse una mira simile!”
Arrivò all’ingresso del paese e si guardò attorno con notevole disagio: non voleva assolutamente che qualcuno lo vedesse in quelle condizioni, ma del resto non poteva fare a meno di compiere quella commissione per sua madre.
Femmine! Sempre e comunque colpa loro!
Procedendo per le strade si chiese con che coraggio potesse mai entrare nel negozio dove doveva andare, ma poi intravide la sua salvezza in una via laterale. Con un rapido balzò si levò dal corso principale e sfrecciò verso il suo miglior amico.
“Heymans!” lo chiamò urgentemente.
“Jean? – si sorprese il rosso, seduto sui gradini del portone di casa, alzando la testa dal libro che stava leggendo – Che ci fai q… ma che hai fatto ai capelli?”
“Un gesto d’amicizia da parte di Riza; – spiegò lui, con sguardo irato – non posso andare in giro in queste condizioni, devi darmi una mano! Da solo non se ne va!”
Heymans squadrò l’amico con aria preoccupata: l’unica soluzione era farlo entrare in casa e fargli lavare la testa. Ma se non aveva mai fatto venire il suo miglior amico a casa sua, c’era un buon motivo…
Però Henry ora è fuori… e lui sta dormendo ubriaco in camera…
“Va bene – sospirò chiudendo il libro e alzandosi in piedi – vieni, ma giurami che farai il più piano possibile.”
“Che succede?” chiese Jean con curiosità, vedendo l’amico così teso.
“Mio padre dorme, va bene? – spiegò il rosso, aprendo lentamente la porta e facendogli cenno di entrare – E non voglio che si svegli.”
Jean annuì e seguì l’amico dentro casa.
La prima cosa che lo colpì fu la piccola dimensione degli ambienti: sapeva bene di venire da un’abitazione parecchio grande, ma la casa del suo amico gli sembrava stretta oltremisura. Il mobilio, per quanto pulito e non era certamente di prima qualità e tutta la casa emanava uno strano senso di silenziosa tensione. All’improvviso Jean iniziò a capire l’esigenza di Heymans di stare così tanto tempo via da casa sua.
Tuttavia, quando entrarono nella piccola cucina, l’atmosfera cambiò: c’era un bel profumo di pulito, evidentemente il pavimento era stato lavato da pochissimo. Anche le stoviglie ed il piano di cottura erano perfettamente in ordine e dalla finestra un bel sole illuminava la stanza.
Al tavolo era seduta una giovane donna, intenta a rammendare alcune camicie con particolare perizia.
Jean aveva visto alcune volte la madre di Heymans e gli era sempre sembrata carina, ma triste; tuttavia in quel momento pareva particolarmente serena e faceva intravedere una bellezza tutta nuova.
Gli occhi grigi si alzarono dal lavoro quando i due ragazzi entrarono e subito un sorriso comparve nel suo volto. Poi si mise una mano davanti alla bocca e le sue spalle sussultarono lievemente.
“Si vede così tanto?” chiese Jean, con tristezza.
“Abbastanza, caro, – sorrise la donna, facendogli cenno di avvicinarsi e constatando il danno – e direi che ci hai passato le mani più volte, peggiorando la situazione.”
“Mamma, lui è il mio amico Jean. – sorrise Heymans, contagiato dall’ilarità della madre – E a quanto pare ha avuto una leggera disavventura con una torta alla crema.”
“E’ un piacere conoscerla, signora, – disse imbarazzato il ragazzo – anche se non è proprio un bel modo di presentarsi a casa sua.”
“Oh, figurati; – rispose Laura, alzandosi dalla sedia – forza, vieni al lavandino: vediamo di sistemare un po’ questo disastro. Heymans, per favore, andresti in bagno a prendere un asciugamano?”
“Certo, mamma.”
“Faccio io…” iniziò Jean, quando la donna aprì il rubinetto.
“Lascia, non ti puoi vedere: – lo bloccò lei, aspettando che l’acqua diventasse abbastanza calda, prima di accompagnare la testa bionda sotto il getto – fai fare a me.”
E a Jean non rimase che stare fermo, mentre le mani di quella donna gli massaggiavano la nuca, levando i residui del proiettile di Riza. Quanto era passato da quando sua madre gli aveva lavato i capelli per l’ultima volta? Otto anni di sicuro… e adesso si trovava in questa condizione assurda. Ma nonostante tutto non poté far a meno di accorgersi della gentilezza di quelle dita e si sorprese a chiudere gli occhi e crogiolarsi in quel tocco.
“Va bene, direi che abbiamo eliminato tutto – dichiarò Laura poco dopo, chiudendo il rubinetto – ah, eccoti caro, dai passami l’asciugamano.”
Con gentilezza avvolse la stoffa attorno alla testa di Jean e gli permise di riprendere una posizione eretta. Poi lo fece accomodare in una sedia e iniziò a frizionargli la chioma bionda. Nel frattempo Heymans gli si sedette davanti.
“Mi vuoi spiegare perché Riza ti ha lanciato una fetta di torta addosso?”
“Per amicizia…” rispose laconicamente lui.
“Strana dimostrazione d’amicizia. Spero che non pretenderai lo stesso da me, dato che la torta preferisco mangiarla…” commentò causticamente il rosso.
“Prima che si dimostrasse la solita indemoniata abbiamo parlato – spiegò Jean – e credo che ci sia rimasta molto male per quello che è successo stamane… così mi ha chiesto se potevamo essere amici. Forse era preoccupata che siccome era andato tutto a rotoli non le avremmo più parlato, ma è strano perché non è che avessimo questo grande dialogo, tutt’altro.”
“E’ una vostra compagna di classe?” chiese Laura che aveva ascoltato con attenzione.
“No, - scosse il capo Heymans – è un anno più piccola; più che altro non perdeva occasione di battibeccare con Jean.”
“Anche quello è un dialogo, dopotutto. – sorrise la donna – Tu hai una sorellina, Jean: scommetto che spesso e volentieri litigate, vero?”
“E’ diverso!” protestò il ragazzo, mentre si scrollava i capelli finalmente asciutti ed i ciuffi biondi in fronte tornavano ad essere dritti e ribelli.
“Forse per Riza è importante anche un rapporto di questo tipo: – commentò Heymans, facendosi pensoso – non credo che abbia molti amici e suo padre, da quello che si dice, sta sempre chiuso in casa e la calcola veramente poco.”
Jean abbassò il capo: gli dispiaceva sempre sentire di realtà familiari non proprio felici e la cosa lo faceva sentire profondamente a disagio… anche perché stava parlando con una persona che di difficoltà col padre ne sapeva qualcosa.
Se dunque la sua amicizia era così importante per Riza, allora era ben felice di avergliela data, su questo non aveva dubbi. Era stato sincero quando le aveva detto che la considerava una bella persona.
“Beh, in ogni caso ora è mia amica e agirò di conseguenza. – disse, come se quel dato di fatto chiudesse la questione – Adesso però devo proprio andare: la commissione che devo fare per mia madre è stata rimandata di troppo.”
“Ti accompagno; – propose Heymans, alzandosi dalla sedia – torno tra poco, mamma, va bene?”
“Certamente, caro: lascia pure l’asciugamano, ci penso io a rimettere in ordine. E’ stato davvero un piacere conoscerti di persona, Jean: tu non hai idea di quanto sia felice che mio figlio abbia un amico come te… e sono così grata alla tua famiglia per tutto quello che fate per lui.”
“Oh, non si preoccupi, signora: – arrossì Jean mentre le stringeva la mano – è il mio miglior amico, tutto qui e anche a casa gli vogliono  molto bene. E comunque sono felice di averla conosciuta… e grazie per i capelli.”
“Di niente. Forza, adesso andate.”
“Arrivederci, signora.”
“A dopo, mamma.”
Come uscirono in strada il biondo diede una gomitata all’amico.
“Sai che ti dico? In fondo devo ringraziare Riza per quella torta: ho finalmente avuto occasione di conoscere tua madre e di venire a casa tua.”
“E che ne pensi?”
Jean stette un attimo in silenzio, preferendo tacere la brutta sensazione che gli aveva dato il primo impatto con quell’ambiente. Preferì soffermarsi su Laura.
“Penso che tu abbia una bella mamma, proprio come la mia, sebbene in modo diverso.”
“Sì. – sorrise Heymans – su questo non posso che darti ragione.”
 
“Kain, è la quarta volta che ne mangi! – disse Ellie, squadrando il figlio – Poi ti verrà il mal di pancia!”
Il bambino finì di masticare il boccone con aria colpevole e poi mise le mani in grembo.
“Va bene, ho finito. – dichiarò, leccandosi le labbra per assaporare gli ultimi residui di crema – Ma non mi viene mal di pancia! Erano pezzi piccoli, hai visto pure tu. E comunque era davvero buonissima, Riza!”
A quei sinceri complimenti, la ragazza sorrise deliziata, sentendosi profondamente orgogliosa.
“E’ vero, Riza, - annuì Ellie, versandole di nuovo del succo di frutta – ti è uscita davvero bene per essere la prima volta. Se vuoi ti do qualche consiglio così al prossimo tentativo correggi quei piccoli errori in cui sei caduta, specie per tenere a bada la crema mentre è sul pentolino.”
“Davvero, signora? Grazie, sarebbe davvero un pensiero gentile!”
“Anzi, uno di questi pomeriggi puoi venire qui, così la facciamo insieme.”
“Non vorrei essere di disturbo…” protestò lei.
“Ma che dici? – sorrise la donna – In ogni caso i dolci li preparo lo stesso e cucinare in due è decisamente più piacevole, non credi?”
“Sarebbe bellissimo.”
“Oh, dai Riza! Non farti pregare!” supplicò Kain.
Quant’era piacevole stare in quella cucina calda e luminosa: Riza se n’era accorta già il giorno che era stata lì assieme a tutti gli altri. Ma adesso, con solo tre persone e non tutto il caos creato da tanti ragazzi, era qualcosa di più intimo e confortevole. A dire il vero tutto in quella casa emanava ospitalità, a partire dalle persone che ci vivevano:la madre di Kain l’aveva accolta con un ampio sorriso, quando era andata ad aprirle la porta, ricordandosi perfettamente di lei e facendola accomodare.
Kain, poi, era quasi caduto dalla foga di scendere le scale e le si era catapultato addosso, stringendole la vita in un abbraccio entusiasta.
Ed era stato incredibile come quelle due persone l’avessero fatta sentire a casa.
In qualche modo Ellie le ricordava sua madre, sempre intenta a raccontarle qualcosa sia che fosse di cucina o di qualsiasi altro argomento… era il tono di voce, capì la ragazza dopo un po’: aveva lo stesso tono di voce calmo e rassicurante.
“L’avevo detto io che ti dovevi cimentare nei dolci! – disse Kain, con l’aria di chi la sa lunga – E se ne cucini un altro lo fai al cioccolato?”
“Tu e il tuo prezioso cioccolato!” lo prese in giro Ellie, stuzzicandogli la pancia con l’indice.
“Mamma, mi fai il solletico!” rise lui, cercando di sottrarsi a quella presa.
“Vuoi che la smetta? – lo bloccò la donna – E allora dammi un bacio… e forse ti lascio andare!”
Riza guardò divertita la scena, constatando che Kain non aveva il classico imbarazzo dei maschi nel farsi coccolare dalle proprie madri. Quel bambino le piaceva sempre di più: aveva la capacità di farla sentire accettata in una maniera del tutto particolare, così innocente, pura… e assoluta.
“Libero! – esclamò lui con una risata, scendendo dalla sedia e correndo al fianco di Riza. – Vuoi salire in camera mia? Ti voglio far vedere una cosa!”
“Va bene.” annuì lei, alzandosi in piedi.
Seguì Kain su per le scale ed entrò nella sua camera per restare a bocca aperta.
Non somigliava per niente alla stanza di Roy, così grande, ordinata e piena di cose eleganti ed importanti: Kain aveva personalizzato il suo piccolo mondo con decine e decine di oggetti che richiamavano le sue passioni: l’elettronica e la natura. Sulla libreria e sulla scrivania c’erano tanti contenitori di vetro con sassolini colorati, piantine, foglie, radici… in una scatoletta di cartone stava addirittura un vecchio nido di rondini. E a queste testimonianze naturalistiche si affiancavano, con una strana armonia, pezzi elettronici e piccoli strumenti quali cacciaviti, lampadine, cavi, rondelle.
“Sembra la camera di uno stregone…” commentò affascinata Riza, accostandosi alla libreria e prendendo in mano un barattolino di vetro con bellissimi petali bianchi e azzurri e diverse pietre di fiume.
“Ti piace? – chiese lui con un sorriso – Sei la prima persona che vede la mia stanza, eccetto mamma e papà, ovviamente. Quelle pietre le ho raccolte vicino al ponte dove ci siamo parlati per la prima volta: hai visto come sono belle? La corrente le ha lavorate per anni ed anni prima di ottenere quelle forme così morbide… aspetta, guarda, questa non ti sembra una mezzaluna?”
“E’ vero! E qui invece che c’è?”
“Questi invece sono dei minerali: alcuni me li ha procurati mio papà… hanno dei nomi così difficili, però me li sono tutti scritti: vedi, ogni pietra ha una targhetta accanto. Ho messo sia il nome comune che quello in latino: in questo libro ho trovato persino quelli.”
“Ed in questa scatoletta chiusa?” fece Riza, aprendo il piccolo coperchio di cartone.
“No! Quello no!”
“Aaah! Che schifo! Sono scarafaggi!” esclamò lei, facendo cadere la scatola a terra e facendo dei passi indietro.
“Ma no! – corresse il bambino, inginocchiandosi a terra e prendendo con delicatezza gli insetti che si dimenavano dopo la caduta – Sono delle cicale: le ho raccolte stamane tornando a casa.”
“Perché le hai raccolte? – chiese lei, inorridita osservandolo tenerle nei palmi delle mani – Non farle volare qui!”
“Volevo solo osservarle da vicino… e poi erano un po’ stordite perché ormai non fa più così caldo. – spiegò lui, chiudendo i due insetti fra i palmi delle mani, quasi fossero dentro uno scrigno – Aspetta: adesso apro la finestra e le libero, va bene?”
“Per favore!” annuì lei.
“Scusami tanto, non volevo spaventarti. – mormorò il bambino, mentre le due bestiole saltavano via dal suo palmo per riprendersi la libertà – Lo so che magari non sono molto belle a vedersi… anche mia mamma a volte urla se scappa qualche insetto che ho portato in camera. Ma sono animali innocui, te lo giuro.”
“Ne hai altri in camera?” chiese Riza guardandosi attorno con sospetto.
“Ho loro…” sorrise il bambino, frugando tra i barattoli e mostrandone uno, fortunatamente chiuso con un tappo forato. Riza osservò con sospetto le foglie sul fondo, ma poi sospirò di sollievo quando vide delle innocue coccinelle.
“Sai – spiegò Kain, rimettendole al loro posto – i miei non vogliono animali in casa, mentre a me piacerebbero tanto. E così mi sono dovuto ingegnare. A dire il vero cerco sempre di avvicinare uccellini o scoiattoli, ma non sono animali molto propensi a fare amicizia… almeno gli insetti si catturano abbastanza facilmente e non si offendono se li osservo per qualche ora prima di liberarli. Anzi, a volte sono anche felici se do loro qualcosa di buono da mangiare.”
“Che animale ti piacerebbe avere?” chiese lei con un sorriso.
“Un cagnolino, senza ombra di dubbio! Però adesso vorrei mostrarti quello per cui ti ho fatto salire in camera mia: è proprio davanti a te, nella scrivania.
“Ma… ma che cosa è?” chiese Riza, fissando perplessa l’oggetto in questione.
“E’ il circuito base di una radio: ne sto costruendo una!” disse con orgoglio lui, andandole accanto.
Riza fissò affascinata quei fili e quei meccanismi che si intrecciavano tra di loro in quello strano pannello quadrato. Era incredibile: Kain aveva appena undici anni eppure già si cimentava con simili cose. Vide le mani snelle prendere in mano dei pezzi così piccoli e fragili da far paura e inserirli senza difficoltà in mezzo a quel circuito.
“Davvero la stai costruendo da solo? Non pensavo che fossi così bravo.”
“Ce l’hai una radio a casa?” chiese lui, fissandola con malizia.
“No.”
“Allora come finisco te la regalo, sei felice?”
“Cosa? Ma no! – protestò lei, rendendosi conto di tutte le ore che costava un lavoro simile – Dovresti tenerla per te…”
“Oh, stai tranquilla, la mia personale è quella che sta sulla libreria, la vedi? Era di mio padre e l’ho riparata tutta da solo quando avevo sette anni: non me ne separerei per nulla al mondo. Ma questa vorrei regalarla a te, davvero… sei sempre così buona e gentile con me. E’ un gesto d’amicizia, no? Come la torta che mi hai portato.”
“O come un pezzo di torta lanciato in testa a Jean…” sorrise lei.
“Eh?”
“Niente, davvero. Comunque grazie, Kain: sei davvero un amico speciale, te lo posso assicurare.”
 
“Posso sedermi oppure hai intenzione di sfruttarmi biecamente per qualche altro lavoro?” sospirò Jean, sedendosi pesantemente al tavolo della cucina.
“Perché quando aiuti tuo padre in magazzino non ti lamenti mai, mentre se ti chiedo di fare qualcosa io sembra quasi che pretenda che tu sollevi una montagna da solo?” chiese Angela con aria irritata.
“Jean vai in paese e prendi questo, Jean spacca la legna per il fuoco, Jean accompagna tua sorella a scuola, Jean metti a posto qui, fai questo e fai quest’altro…” scimmiottò lui.
“Senti un po’, ragazzino capriccioso, – disse la madre, andandogli dietro e tirandogli lievemente i capelli – ti voglio ricordare che sono tua madre e finché sei sotto questo tetto ci sono delle cose che devi fare… eh? Hai i capelli lievemente umidi.”
“Oh, davvero? Vabbè, tanto si asciugano… Ma che…?” mormorò quando sentì la mano di sua madre che si soffermava ad accarezzarli.
“Fermo che hai alcuni nodi… E poi che c’è? – sussurrò la donna – Non posso nemmeno accarezzarti i capelli? Eppure ti piaceva tanto quando eri piccolo…”
Jean non rispose, ma chiuse gli occhi e la lasciò fare. Chissà perché, dopo aver sentito le mani della madre di Heymans che gli sfregavano la nuca, era più propenso a quelle attenzioni non proprio virili.
Ma sì, ogni tanto è giusto concederle cose di questo tipo e…. oddio! Sì, sì, sì… lì dietro l’orecchio. Oh mamma… io ti amo! Ti amo tantissimo! Ti prego continua…ecco, ecco! Sei fantastica!
No, non c’era niente di virile in tutto questo, ma la piacevole catalessi che provocavano quelle carezze era qualcosa di cui si era completamente dimenticato. Come poteva essere così stupido da lasciare a sua sorella l’esclusiva di quelle coccole?
Inarcò il collo come un gatto e andò quasi ad impattare sul petto della donna.
“Jean! – esclamò lei ridendo – Ma guardati! Ancora un po’ e inizi a fare le fusa!”
“Se vuoi le faccio… basta che continui, mamma. Sei fantastica…” mormorò lui.
“Ma sentilo, il mio raggio di sole. Che dici? Te la senti anche di abbracciare tua madre?”
“Tutto quello che vuoi – sospirò Jean, girandosi verso di lei, ancora seduto, e abbracciandola per poter immergere la testa nel sul petto – sono completamente tuo… ecco lì, sul collo! Mamma, io ti adoro!”
Quanto rimase a farsi accarezzare come un gatto? Non lo seppe quantificare.
Ma a un certo punto sentì un significativo schiarirsi di gola e aprendo gli occhi vide che suo padre era davanti a loro a braccia conserte e con un sorriso divertito sul viso.
“Che… che c’è?” chiese Jean, mentre l’incantesimo si spezzava e si alzava in piedi di scatto.
“Niente. – commentò James – Solo che erano anni che non ti vedevo così mammone, figliolo.”
“E’… è stata lei a cominciare… ed io le ho concesso di farlo, ecco tutto. Del resto è mia madre e devo accontentarla, no? Lo dici sempre anche tu!”
“Certo, certo! – rise James, avvicinandosi e dandogli una pacca sulle spalle – Però la prossima volta che la accontenti cerca di tenere il contatto con la realtà. Sembravi completamente sotto sedativi.”
“Lascia in pace il mio bambino! – esclamò Angela, rinchiudendo Jean in una stretta possessiva – Se lui vuole essere coccolato, non c’è nulla di male!”
“Mamma!” arrossì Jean.
Perché dovevano succedere sempre cose così imbarazzanti con le femmine?

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15. Cose da non dire. ***


Capitolo 15. Cose da non dire.

 

“Ieri il pranzo con i miei parenti non finiva più! Ci siamo alzati dal tavolo che era praticamente pomeriggio inoltrato.” sospirò Elisa, stiracchiandosi vistosamente.
“Era il compleanno di tuo nonno, del resto: – sorrise Vato – è ovvio che la famiglia si sia tutta riunita. Quanti eravate?”
“Fra i fratelli di mio padre e cugini vari dodici persone, ma sembravano un esercito per quanto hanno mangiato. Per fortuna la mattina io, mia madre e mia zia ci siamo date da fare.”
“Non ho dubbi che quello che hai cucinato sarà stato buonissimo.”
“Saresti potuto venire anche tu, lo sai benissimo. – lo rimproverò lei, sistemandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli castani – Mio nonno ti conosce da sempre: vede più te in libreria che me, ancora un po’. Proprio non capisco perché non hai accettato il mio invito.”
“Era un pranzo di famiglia.” spiegò lui, arrossendo lievemente.
“E allora? Mio cugino Mickey è venuto con la sua fidanz…” la frase si interruppe a metà.
Vato girò la testa dall’altra parte, fissando con ostinazione il sentiero e sentendo un intenso calore salirgli sul collo e sulle guance. Sì, lo sapeva bene che era stato invitato anche lui e non aveva niente in contrario a festeggiare il nonno di Elisa, ma c’era quel tremendo dettaglio che complicava tutto. Andare a quel pranzo avrebbe significato sbandierare il fatto che loro due stavano insieme, quando invece non era così… per lo meno non ancora.
E’ una cosa naturale! E’ una cosa naturale… è solo un primo dannato bacio!
“Vato, va tutto bene? Hai una faccia…” la voce di lei sembrava provenire da molto lontano.
Scuotendo con decisione la testa bicolore, Vato si girò improvvisamente e le mise le mani sulle spalle, l’espressione tesa e concentrata come raramente succedeva: basta indugi! Era il momento di buttarsi e porre fine a tutta quell’indecisione.
“E…Elisa – iniziò con voce contratta e tesa – v… vuoi… vuoi…”
… tu esserle fedele nella gioia e nei dolori, in ricchezza e povertà, in salute e nella malattia…
Queste parole risuonarono improvvisamente nella sua testa come una campana d’allarme.
“No! Non questo!” esclamò, mollando la presa.
“Che?”
“Cioè, non ancora! E’ troppo presto!”
“Troppo presto per cosa? – chiese lei, fissandolo con preoccupazione – Vato Falman, ti giuro che oggi sei davvero strano. Fai un respiro profondo e riordina le idee: che cosa volevi chiedermi?”
“Se… se volevi che ti  prestassi gli appunti delle lezioni di ieri!” disse lui tutto d’un fiato, recuperando il controllo.
“Sì, ti ringrazio…” rispose lei con perplessità.
“Scusami, sono il solito stupido – sospirò il ragazzo, riprendendo a camminare – non farci caso…”
“Ehi, stupido – lo richiamò Elisa con un sorriso, accostandosi a lui e sollevandosi sulla punta dei piedi per dargli un bacio sulla guancia – lo sai benissimo che mi piaci così.”
Parole che potevano essere intese in diverso modo, ovviamente, ma Vato intuì che, ancora una volta, Elisa gli comunicava che tutto andava bene e che non doveva esserci nessuna fretta per arrivare a quello. Inaspettatamente la ragazza lo prese per mano e lo incitò a camminare: era la prima volta che si esponevano in un gesto così palese, ma per qualche strano motivo, dopo tutto il disastro che era successo nemmeno un minuto prima, a Vato sembrò un qualcosa di estremamente rassicurante e piacevole.
“E’… è ortensia quel profumo che ti stai mettendo da qualche giorno?” chiese all’improvviso.
“Oh! – esclamò lei, sorridendo – Ce ne siamo accorti, allora. Sì, è ortensia.”
“Ti sta molto bene, davvero…”
“Grazie.”
Rimasero in silenzio a camminare, lui di nuovo a corto di argomenti: una cosa assai rara per chi ha tantissime letture, ma, per la solita questione antropologica, molto spesso la memoria vasta veniva annullata dall’imbarazzo e della timidezza.
“Io e Roy Mustang siamo amici.” disse all’improvviso.
“Tu e Roy Mustang?” questa volta fu Elisa a fermarsi e a guardarlo con incredulità
“Proprio ieri che non sei venuta è successo un mezzo disastro con Roy e gli altri.”
Per lo meno raccontare di quella particolare giornata non fu difficile, anzi, permise a Vato di tornare a questioni più terrene come il fatto che tra poco avrebbe incontrato il suo nuovo amico a scuola. Se doveva essere sincero, quella notte aveva riflettuto su quello che implicava essere amico di Roy Mustang: sicuramente a Kain avrebbe fatto molto piacere e anche a Riza… e fin qui, niente di male, anzi, magari Elisa sarebbe stata felice che quella ragazza bionda si avvicinasse maggiormente a lei. Ma dall’altra non poteva dimenticare che c’erano dei conti in sospeso tra Roy e Jean e questo voleva dire che adesso, in qualche modo, anche lui ne era coinvolto.
Poi c’era anche il piccolo dettaglio del posto dove viveva Roy e dove lui stesso era entrato senza preavviso. Forse era un qualcosa che avrebbe creato qualche disagio a suo padre, dato che quel locale non era proprio il massimo della rispettabilità…
Ma io sono stato in camera di Roy e ho semplicemente giocato a scacchi con lui… non ho fatto nulla di compromettente.
Solo che non aveva detto niente ai suoi genitori.
“L’hai detto ai tuoi?” gli chiese Elisa, quasi giungendo alle sue stesse conclusioni.
“No, non ancora; –ammise – a dire il vero con mio padre avevo già avuto una chiacchierata particolare e non mi andava di mettere altra carne al fuoco.”
“Dovresti farlo, non tanto per Roy in sé, quanto per il fatto che potresti tornare di nuovo in quel posto; ed è meglio che tuo padre non lo scopra da solo.”
“Già…” sospirò lui, sentendosi improvvisamente colpevole.
“Comunque, a proposito del tuo nuovo amico, eccolo là, assieme a Riza. Ehi! Buongiorno, Riza!”
“Ciao Elisa!” sorrise la bionda, mentre le due coppie si raggiungevano a vicenda.
“Ciao Vato.” salutò Roy.
“Ciao Roy… uh, ecco, lei è la mia amica Elisa.”
Con suo sommo sollievo, i due si strinsero la mano senza alcuna problematica: sembrava che Elisa avesse accettato la situazione meglio del previsto.
Ma sì, sicuramente sono io che mi sto facendo i soliti voli pindarici… solo che non pensavo di stringere così tante amicizie nell’arco di poco tempo.
 
“Avanti, tirale fuori: sto morendo di fame!” esclamò Jean, durante l’intervallo.
“Va bene, fratellone – sorrise Janet, armeggiando col piccolo paniere che si era portata dietro da casa – Heymans spero che ti piacciano! Le ha fatte la mia mamma, ma l’ho aiutata tanto pure io.”
“Sono sicuro che saranno buonissime.” annuì il rosso, mentre si sedeva a gambe incrociate a terra.
Finalmente la bambina tirò fuori una prima tovaglietta e la svolse nel prato, mostrando numerose pastine con glassa bianca sopra.
“Dio benedica le pastine alla marmellata di mia madre – sospirò Jean, prendendone una e annusandola – ieri stavo impazzendo con quell’odore di pastafrolla per tutta la casa.”
“Ti ho mai detto che devo fare un monumento a quella santa donna? – gli fece eco Heymans, con la faccia in estasi dopo il primo morso – La sua marmellata è la cosa più buona del mondo…”
“Oh, guarda, c’è Kain! – esclamò Janet, alzandosi in piedi – Ehi Kain, vieni! Vieni qui!”
A Jean quasi andò di traverso la pastina che stava mangiando quando sentì quel nome e vide che il bambino si stava avvicinando.
Non avrà intenzione di…
“Kain, ne vuoi una? Le abbiamo fatte io e la mia mamma!” disse Janet con entusiasmo.
“Pastine? – indovinò lui, deliziato, dimenticandosi persino della presenza di Jean – Davvero posso? Grazie mille!”
A Jean non rimase che guardare con malinconia quella pastina che veniva data a quel piccolo secchione, senza che lui potesse in qualche modo recuperarla. Una gomitata ben assestata da parte di Heymans gli ricordò come sempre di fare buon viso a cattivo gioco, per via della presenza di Janet.
Ma dopo un iniziale ritorno dell’antica ostilità, si accorse che tutto sommato la presenza di Kain gli riusciva più accettabile del previsto. Probabilmente dipendeva anche da quanto era successo con Riza il giorno prima: del resto l’aveva considerata una bella persona proprio perché aveva sempre difeso quel nano… e Jean riconosceva che anche Kain era disposto a fare di tutto per Riza.
Cavolo… ora che ci penso, adesso abbiamo un’amica in comune. E come se non bastasse sta facendo comunella con mia sorella.
Infatti Janet era particolarmente felice della presenza di Kain, tanto che gli stava offrendo anche una seconda pastina. Ed il ragazzino aveva finalmente smesso l’aria da cucciolo impaurito e sorrideva felice alle attenzioni della bambina.
Fra la torta di Riza e le pastine gli sta andando proprio di lusso…
A proposito di torta…
“Kain, - chiese, alzandosi in piedi, con ancora una pastina in bocca – hai visto…”
“Non si parla con la bocca piena, fratellone.” disse Janet.
“Certo! – sospirò lui, dopo aver ingoiato il boccone – Dicevo, hai visto Riza?”
“Mh, – annuì il bambino, leggermente intimorito, ma reggendo il suo sguardo – è nel retro della scuola con la sua amica dai capelli neri.”
“Molto bene – sorrise il biondo, prendendo in mano un’altra pastina – io torno tra poco!”
“Ma che gli è preso?” chiese Kain, mentre lo osservava allontanarsi con foga verso la direzione che gli aveva detto.
“Proprio non te lo so dire. –  ammise Heymans. Ma poi notò il dettaglio della pastina ancora tenuta in mano e ridacchiò: forse aveva intuito – Oh, pazienza. Dai, Kain, siediti e mangia ancora con noi!”   
Il bambino accettò di buon grado quell’invito e si sedette accanto a Janet che, finalmente, gustava pure lei una delle pastine. Aveva iniziato ad apprezzare la compagnia di Heymans: l’aveva sempre visto come spalla del suo aguzzino e di conseguenza era spontaneo associarlo a faccende non proprio piacevoli. Ma sembrava che quell’anno scolastico i rapporti iniziassero a subire un brusco cambiamento di rotta: Heymans senza Jean si dimostrava un ragazzo maturo e gentile, una persona completamente diversa da quella che sogghignava con indulgenza mentre lui subiva le angherie del biondo.
Sarebbe meraviglioso se anche suo fratello si rivelasse una persona migliore…
Il pensiero gli venne quasi spontaneo: ora che Jean era in una fase relativamente tranquilla nei suoi confronti, il suo problema principale era l’attenzione che gli dedicava Henry con la sua banda. Niente di grave: spintoni, libri che sparivano, prese in giro… ma la frequenza con cui questo accadeva era aumentata in maniera preoccupante.
“Heymans – chiese all’improvviso, per iniziare a sondare il terreno – sai… sai come mai oggi tuo fratello non è venuto a scuola?”
“Non è venuto?” chiese il rosso, alzando gli occhi su di lui e fissandolo con attenzione.
“No – scosse il capo il bambino – non c’è dalla prima ora…”
La mente di Heymans iniziò a lavorare con frenesia, cercando di ricordare gli spezzoni di discorsi che aveva sentito a casa tra il fratello ed il padre. Se non ricordava male, Henry negli ultimi giorni si era mostrato particolarmente compiaciuto per un tiro giocato ad alcuni ragazzi di una banda rivale.
“I suoi amici erano in classe?” chiese.
“Sì, mancava solo lui e un altro bambino… ma Jim ha l’influenza e manca da due giorni.”
“Heymans, va tutto bene?” chiese Janet, mentre vedeva il ragazzo alzarsi in piedi.
“Sì, piccola, stai tranquilla – si costrinse a sorridere, accarezzandole i capelli – senti, mi sono ricordato che devo fare una cosa molto urgente. Facciamo così: tu resti qui assieme a Kain e continuate a fare merenda, tanto sono sicuro che Jean torna fra qualche minuto, va bene? La controlli tu, Kain?”
“Certamente.” annuì il ragazzino, fissandolo perplesso.
“Grazie mille; allora fate i bravi, mi raccomando.”
E senza aspettare risposta si avviò verso l’uscita del cortile: si era ricordato anche i nomi dei ragazzi della banda rivale e aveva un tremendo sospetto.
 
“E quindi pare una cosa davvero sicura! – esclamò Rebecca con aria estasiata – mia cugina Molly e Jess si devono sposare l’anno prossimo: che cosa meravigliosa.”
“Rebecca…” mormorò Riza, come sempre sconcertata davanti alla grande capacità di pettegolezzo della sua migliore amica.
“E’ fantastico, come fai a non capirlo! Aaaaah, come vorrei trovare anche io un bel ragazzo e fidanzarmi con lui!”
“Abbiamo tredici anni – le ricordò la bionda – perché vuoi anticipare così i tempi? Tua cugina Molly ne ha ventuno: ben otto più di te!”
“Oh, senti, a me piace fare piani per il futuro! – ridacchiò Rebecca, passandosi con disinvoltura una mano sui bei capelli ricci che cadevano sulla schiena – Non c’è nulla di male in tutto questo.”
“A me sa tanto di ossessione.”
“Dovresti darti una svegliata tu, mia cara. – la prese in giro, l’amica – Diamine, se avessi a disposizione il ragazzo più intrigante della scuola, come te, avrei già…”
“Quante volte te lo devo dire? Io e Roy non siamo…”
“Riza Hawkeye!” esclamò una voce ben nota.
Girandosi, le due amiche videro Jean che si avvicinava a loro ad ampie falcate.
“Oh mio dio… oh mio dio! – sussurrò Rebecca, mettendosi le mani sulle gote – E’ lui! Riza ti prego, presentami!”
“Finiscila! – sibilò Riza, prima che il ragazzo arrivasse a portata d’udito. Poi riprese un tono normale – Che cosa succede Jean? Posso…”
Ma prima che potesse dire altro, il giovane la raggiunse ed immediatamente le spiaccicò una pastina alla marmellata sulla bocca.
“Volevo semplicemente ricambiare il favore di ieri, – sghignazzò Jean, provvedendo a spalmare l’impasto anche sul mento e sul naso – spero che ti piaccia! La marmellata è di more… ed è particolarmente appiccicosa.”
“Ehi! – esclamò Rebecca, mentre Riza cercava in parte di ingoiare ed in parte di sputare quella pastina – Non si tratta così una ragazza!”
“E tu chi saresti?” chiese Jean, per niente intimorito.
“Io sono Rebecca! Rebecca Catalina… e tu hai appena spiaccicato una pastina alla marmellata in faccia alla mia migliore amica.”
“Io sono Jean Havoc – rispose il biondo, assumendo lo stesso tono scontroso – e ieri la tua migliore amica mi ha lanciato un pezzo di torta alla crema in testa. Ho solo ricambiato il suo gesto d’amicizia.”
“E lo chiami gesto d’amicizia?”
“Ascoltami bene, brunetta, quello che faccio con la mia amica Riza, è affar mio!”
“Oh, dai, finitela! – cercò di calmarli Riza che, con l’aiuto di un fazzoletto, era riuscita a migliorare la situazione del suo viso – Rebecca, lascia stare, davvero.”
“Che? Ma non starai parlando sul serio? E’ tuo amico?”
“Sì – ammise Riza, prendendo Jean per un braccio e allontanandolo dalla ragazza – ma è una situazione particolare, per cui non farci caso… vieni con me, genio, dobbiamo parlare!”
E mentre Riza si allontanava trascinando via il biondo, questi si girò per fare una linguaccia a Rebecca che fu rapida a ricambiare il gesto. Ma come si furono allontanati abbastanza, un sorriso malizioso le apparve nel viso.
“Accidenti! Da vicino è anche più carino!”
E cosa aveva appena detto Riza? Che era anche suo amico? La situazione stava diventando davvero interessante: era così felice che era persino disposta a perdonare il fatto che la bionda non le avesse ancora accennato nulla in merito.
Un passo in avanti verso la conquista di Jean Havoc era stato fatto: adesso sapeva anche il suo nome!
 
Tra tutte le cose che Riza si poteva aspettare, l’ultima era quella che Jean le restituisse quello scherzetto in maniera così palese e davanti a metà scuola. E questo voleva dire che c’erano molte possibilità che nell’arco di pochi minuti la notizia sarebbe arrivata anche a Roy.
“Si può sapere dove stiamo andando?” chiese Jean, opponendo lieve resistenza alla sua presa.
“Oh, ti prego stai zitto e seguimi!” replicò lei, trascinandolo fuori dal cortile della scuola, lungo il sentiero che andava verso la campagna. Deviarono per i campi, fino ad arrivare ad una piccola pozza d’acqua, abbastanza distante dall’edificio scolastico.
Solo quando giunsero davanti al bordo dell’acqua si fermò con un sospiro e lasciò il braccio del biondo.
“Che hai?” le chiese ancora lui.
“Ti sembrava il caso di farlo davanti a tutti?” disse lei, fissandolo irata con i grandi occhi castani.
“C’era solo la tua amica! E poi che cos’è questa storia? Tu puoi lanciarmi una fetta di torta quando vuoi, mentre io devo chiederti il permesso?”
“Non è questo!”
“E allora? Diamine, voi femmine siete le creature più complicate del mondo!” sospirò Jean, passandosi una mano tra i capelli biondi, in un gesto di esasperazione.
Riza non rispose alla provocazione; adesso che si erano allontanati abbastanza dai loro compagni le sembrava che il pericolo fosse in qualche modo passato e si sentiva leggermente sciocca per quella fuga rocambolesca: forse aveva fatto più scalpore così che se fossero rimasti nel cortile.
Pettegolezzi…
Sì, era stata davvero una sconsiderata. Con un gemito si accovacciò sui talloni e si mise a fissare lo specchio d’acqua stagnante. Si accorse solo in parte di Jean che si chinava a raccogliere un sassolino e lo lanciava con abilità nella pozza: fece tre rimbalzi prima di sparire nel fondo.
“Avanti, prova.” la invitò con voce calma, porgendole una pietra.
“Mh?”
“Hai buona mira e scommetto che puoi fare dei bei tiri.”
Riza si alzò in piedi e prese in mano quel sassolino piatto, fissandolo con aria perplessa.
“Tienilo così, pollice in alto – le spiegò Jean, sistemandoglielo in mano – deve andare orizzontale: guarda, il movimento è questo e poi lavori di polso. Prova.”
Incuriosita da quelle istruzioni, la ragazza provò ad eseguire un primo lancio, ma il risultato non fu molto felice e il ciottolo fu ingoiato dalle acque.
“Piega di più il braccio… tieni, prendi questo. Devono essere piatti per ottenere il rimbalzo.”
Ci vollero tre tentativi prima che riuscisse ad ottenere un risultato discreto: due rimbalzi.
Riza ne fu così entusiasta che provò ancora e ancora fino a quando non prese una certa confidenza con quella tecnica; anche Jean sembrava abbastanza felice di quel passatempo e si cimentò di nuovo anche lui in quei tiri così particolari.
“E’ che non ho detto a nessuno che abbiamo fatto amicizia.” disse infine lei, prendendo in mano un altro sasso e rigirandolo con un gesto distratto.
“Con quel nessuno intendi Roy, vero?” chiese Jean, girandosi a guardarla.
“Sì e nemmeno Kain lo sa – ammise lei – mi ero ripromessa di…”
“Scusa, Riza, ma perché ti poni questi problemi?”
“Come?”
“Non è che devi chiedere il permesso a Roy se vuoi stringere amicizia con qualcuno, eh! Si presume che tu sia abbastanza grande da prendere determinate decisioni da sola.”
“Ma non è come fare amicizia con Kain – scosse il capo Riza – tu sei…”
“Il suo rivale?” sorrise sarcasticamente lui.
“Beh, non è proprio bello da dire…”
“Ho detto ad Heymans che siamo amici il pomeriggio stesso che mi hai lanciato quel pezzo di torta addosso.”
“E allora?”
“Gliel’ho detto, – alzò le spalle lui – mica gli ho chiesto se potevo farlo o meno. Non c’è nulla di male nell’essere amici, Riza. E se Roy è intelligente la pensa come me e non ti farà problemi… e nel caso ne facesse, allora se la vede con me.”
“Non un altro duello, – sospirò la ragazza – ti prego, Jean.”
“Niente duello, – promise lui – ma se tu ti senti di essere mia amica, non devi rinunciare per lui. E se poi un giorno ti dicesse di non frequentare più il nano? Gli dirai di sì anche in quell’occasione.”
“Ma che dici! Roy non farebbe mai una cosa simile! E poi Kain è anche suo amico!”
“Allora ti crea problemi che venga a sapere di me e te?”
“No! – disse lei con decisione, ma poi abbassò le spalle – Solo che… gliel’avrei dovuto dire, tutto qui. Lui mi ha detto che ieri ha stretto amicizia con Vato.”
“E allora vai e diglielo, non vedo dove stia il problema.”
Riza fissò il sorriso di Jean e non poté far a meno di ricambiarlo: riusciva a rendere le cose più facili e semplici. Era come se avesse la capacità di sbrogliare tutti i problemi della realtà che li circondava: non sembrava mai un enigma da risolvere come invece a volte poteva essere Roy.
“Dici di non capire le ragazze, – ammise Riza – ma ti sbagli…”
“Mh, no. Con te è facile.”
“Ah sì? Perché?”
“Perché mi sembra di avere a che fare con mia sorellina quando si complica l’esistenza con qualcosa che invece è molto semplice. A risolvere questo tipo di problemi ci arrivo anche io… ecco, invece la tua amica penso sia davvero complicata!”
“Oh, Rebecca! Poverina, l’abbiamo lasciata da sola!”
“Rebecca? Un bel caratterino, eh.”
“Oh tu non ne hai idea!” sorrise enigmatica Riza, pensando che in fondo un primo approccio tra quei due era stato fatto in maniera del tutto inaspettata.
“Ecco vedi, – disse Jean, mentre si riavviavano – il sorriso che hai appena fatto è tipicamente femminile e dunque completamente al di fuori della mia comprensione.”
Fu una confessione così sincera e desolata che Riza non poté far a meno di scoppiare a ridere.
Sì, c’erano molti sottintesi in quel sorriso, ma lei non aveva alcuna intenzione di svelarli.
 
Henry si era trovato altre volte in situazioni pericolose per via delle rivalità con altre bande: sapeva benissimo che i rischi erano sempre dietro l’angolo ed era disposto ad accettarli. Del resto, in genere, i conti si regolavano in gruppo e dunque si aveva la certezza che in qualche modo le proprie spalle erano coperte.
Ma era anche vero che a volte si usciva fuori dagli schemi, anche la sua banda l’aveva fatto ogni tanto.
Solo che… non immaginavo di trovarmi in una simile situazione.
 Terza e prima superiore, quindici e tredici anni… in balia di due ragazzi a cui qualche giorno prima aveva giocato un brutto tiro non era molto bello.
Era accaduto tutto così in fretta che nemmeno lui se ne era reso conto: era quasi arrivato a scuola quando delle mani l’avevano afferrato per le spalle e l’avevano trascinato via, fino ad una macchia di alberi poco lontana. Nella piccola radura l’avevano spintonato a terra e solo allora si era potuto girare e riconoscere i suoi aggressori.
Punizioni esemplari, in genere era così che venivano denominati questi pestaggi singoli. Un avvertimento o, come in questo caso, un conto personale con una determinata persona.
Henry lo capiva benissimo: si era esposto troppo nel momento in cui aveva rubato i quaderni di quei ragazzi. Ma era una prova di coraggio e gli serviva per salire di grado nella banda… e quando fai simili prove, i tuoi compagni ti lasciano solo quando subisci eventuali rappresaglie.
Vigliacchi!
Anche se lui era stato il primo a lasciare solo dei suoi amici quando era capitata loro la medesima sorte.
Ma faceva davvero paura subire le angherie quei due ragazzi più grandi… non era mai stato picchiato così forte e senza possibilità di reazione: quando uno molto più grande di te ti tiene fermo, chi ti picchia ha gioco molto facile… ed i suoi aguzzini si erano scambiato il turno già diverse volte.
“Ma guardalo – lo prese in giro il più grande, mentre lo spintonava contro un albero – singhiozza il moccioso! Senza gli altri a pararti il culo è difficile fare il gradasso, eh?”
Henry avrebbe voluto smettere di piangere, ci aveva provato in tutti i modi: le lacrime lo facevano sentire maledettamente debole, come quel dannato Kain Fury. Ma era impossibile fermarle, assieme ai singhiozzi: dolore, paura, ansia... troppi fattori ad alimentarle.
Smettetela, vi prego! Ma per quanto avete intenzione di continuare? Fa così male… fa male!
Una forte sberla lo fece cadere a terra e sentì il sapore del sangue invadergli la bocca. Il suo lamento sembrò provenire da lontano, ma per intuizione capì di essere stato proprio lui ad emetterlo. Così infantile, manco stesse cercando la mamma.
“Pensi che abbiamo finito, Henry? – chiese l’altro prendendolo per i capelli e incitandolo a rialzarsi – Dato che abbiamo saltato la scuola per te ce la godiamo fino alla campana finale, non credi?”
“No, io credo che invece la finiate qui!”
Heymans?
“Che cosa vuoi, Heymans?” chiese uno dei giovani, le loro voci ormai si confondevano nella mente annebbiata di Henry.
“Avete fatto abbastanza, Denny, – disse la voce, mentre dei passi si avvicinavano – direi che la vostra vigliaccata può terminare.”
“Sono questioni tra bande… tu non ti intromettere, indipendente!”
“Tra bande? Qui vedo sono un due contro uno veramente sleale… facile picchiarlo, vero? Adesso fatemi il favore di smammare e lasciare in pace mio fratello, va bene?”
“Cosa?”
“Hai capito bene, Ron, oppure volete mettervi contro di me? Forza, provate: non c’è nemmeno Jean, è un due contro uno, no?”
Nessuna risposta.
Henry teneva lo sguardo basso a terra, ancora nella posizione rannicchiata: sentiva il cuore gonfio di vergogna ma anche di sollievo.
Niente più botte…
“Va bene – disse infine uno dei suoi tormentatori – direi che può bastare. Ma che tuo fratello non osi più tirare la corda in questo modo…”
“Vai al diavolo con le tue minacce, Ron.” si limitò a dire Heymans.
Rumore di passi che si allontanavano da quel posto… solo allora Henry sentì la presenza di suo fratello accanto a lui.
“Ehi, Hen – lo chiamò con calma, accarezzandogli i capelli – va tutto bene?”
Perché!? Perché sei intervenuto!? Mi hai umiliato davanti a tutti!
Nessuna di queste accuse uscì dalla sua bocca, mentre si metteva seduto, aiutato dal fratello.
Finalmente si decise a guardarlo in faccia e vide che la sua espressione era carica di preoccupazione, ma anche di rimprovero.
“Potevo fare da solo…” mormorò, accorgendosi che il labbro inferiore faceva davvero male.
“Contro quei due? Certo, come no: ti sei andato a mettere contro due dei più bastardi… posso sapere che hai combinato per farli arrabbiare così?”
Nel frattempo aveva recuperato la tracolla del bambino, abbandonata di lato, e aveva tirato fuori la borraccia d’acqua. Prese un fazzoletto e lo bagnò per poi pulire il labbro spaccato.
“Smettila!”
“Smettila tu di fare l’idiota, Hen! Pensi che la mamma sarà felice di vederti tornare in questo stato?”
“Era… era una prova di coraggio – si difese lui, cercando di non pensare a quello che avrebbe detto sua madre – dovevo sbrigarmela da solo.”
“Fai vedere l’occhio… ti si sta gonfiando parecchio.”
“Non è niente.”
“Risparmia simili cavolate con me, – sospirò Heymans dopo qualche secondo – ho provato anche io simili colpi e so che fa parecchio male.”
Persino le lacrime sembravano dar retta a suo fratello: iniziarono a scorrere più veloci, segno di debolezza e umiliazione.
Quanto si odiava…
“Sto bene!” singhiozzò.
“Allora facciamo che queste lacrime le sfoghi adesso, va bene? – la mano di Heymans gli accarezzò la chioma rossa in gesto di conforto – Così come torniamo a casa sei più tranquillo, mh? Fidati, se le trattieni poi escono tutte in una volta appena vedi la mamma.”
“Non sono un debole!” pianse lui.
“Cacchio, Henry, ho pianto anche io alla tua età!”
“Bugiardo! Solo i deboli piangono… lo dice sempre papà.”
“Ma perché lo devi sempre ascoltare!?”
Henry non rispose e fissò con ostinazione il terreno. A quella chiusura a riccio il fratello sospirò e riprese a pulirgli il viso: almeno in questo non opponeva resistenza.
“Ora sarò bollato come debole…” mormorò dopo qualche secondo.
“Se io e Jean pestavamo quei due ti assicuro che piangevano come fontane, fidati! E di certo non li consideri deboli.”
“Diranno tutti che mi sono fatto difendere da mio fratello! – si sfogò lui – E quando lo saprà papà…”
Già… e quando l’avrebbe saputo suo padre? Che avrebbe detto? Si sarebbe arrabbiato nel constatare la sua debolezza? E quando si arrabbiava sua madre finiva spesso in lacrime…
Heymans lo fissò con quella che si poteva definire comprensione e una piccola parte della mente di Henry iniziò a sperare che il fratello in qualche modo lo aiutasse a risolvere questo problema.
“A papà non diciamo nulla di quanto è successo, va bene? – disse infine – E credimi che quei due idioti non diranno niente in merito perché sanno che se la dovranno vedere con me se aprono bocca.”
“E come… come giustifico tutto questo?” chiese Henry, mostrando le braccia piene di sporco e lividi.
“Ti sei azzuffato con loro, ma io non sono mai stato presente… tanto a quest’ora papà dorme e quindi non dovrebbe vederci tornare a casa assieme. Raccontiamo le cose alla mamma e poi…”
E poi riniziava la solita recita: lo pensarono entrambi, sicuramente, anche se nessuno completò la frase.
“Funzionerà?” chiese Henry con disperazione.
“Fidati di me.” annuì, l’altro con un sorriso.
Quell’ultima affermazione fu detta con tale sicurezza che Henry si sentì sollevato di un grandissimo peso: ora che l’angoscia spariva, restava posto solo per il dolore fisico e per lo spavento che aveva provato in quelle tremende ore. Si appoggiò al petto del fratello maggiore, stringendogli le braccia al collo e sfogò tutte le sue lacrime residue.
“Va tutto bene, fratellino – continuava a ripetere Heymans, accarezzandogli i capelli – va tutto bene…”





Aggiunti i disegni al capitolo 8 "Vittima e carnefice"
andate a vederli perché sono troppo belli *__*

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Capitolo 17
*** Capitolo 16. Limiti. ***


Capitolo 16. Limiti.

 

“Amici, eh?”
“Mi sembrava corretto dirtelo prima che venissi a saperlo da qualcun altro, tutto qui.”
Il silenziò gravò tra Riza e Roy dopo che lei disse quell’ultima frase: sembravano due statue di sale tanto rimasero immobili a guardarsi negli occhi.
Roy era rimasto abbastanza interdetto da quanto gli aveva appena detto Riza: erano girate strane voci, poco prima, a proposito di uno scontro tra lei e Jean, ma le versioni erano così confuse che non ci aveva fatto nemmeno caso. Aveva pensato di chiederle qualcosa mentre tornavano a casa, ma lei aveva l’aveva anticipato rivelandogli di quella strana amicizia sbocciata il giorno prima.
Era una situazione strana, sicuramente più di quando Riza aveva stretto amicizia con Kain.
Sono geloso?
Fu una domanda che gli sorse quasi spontanea perché non riusciva a dare un nome al lieve fastidio che provava in fondo alla sua anima. Ma quest’ipotesi andò via in un secondo: gelosia voleva dire iniziare a riflettere sui sentimenti che poteva provare per Riza e la cosa gli sembrava molto prematura.
“E allora?” chiese lei.
“E allora cosa? – si trovò a rispondere – Non mi pare che tu abbia bisogno del mio permesso per stringere amicizia con qualcuno. Sono solo sorpreso: Jean è il tormentatore numero uno del tuo prezioso Kain.”
Aveva riassunto il solito tono disinvolto, il momento di incertezza finito: no, Jean Havoc non costituiva nessuna minaccia in quel particolare senso. Non era minimamente interessato alle ragazze, non ancora, ed era chiaro che quella che aveva offerto a Riza era solo amicizia.
Un gruppo basato sull’amicizia, eh? Vato ha detto una cosa simile… forse Riza mi ha fatto un favore.
“Non più, almeno non come una volta – scosse il capo Riza, con ostinazione – credo che si sia finalmente reso conto di quali siano determinati limiti. E poi Kain piace sia ad Heymans che alla sorella minore di Jean: la regolata se la deve dare volente e nolente.”
“E con te?”
“In che senso?”
“La vostra amicizia andrà avanti a furia di dolci spiaccicati in testa od in faccia?”
C’era una nota di lieve presa in giro nelle parole di Roy e Riza si sentì in dovere di rispondere.
“E la tua con Vato andrà avanti a furia di partite a scacchi?”
“Toccato… – ammise Roy, con un sorriso, constatando ancora una volta quanto la sua amica avesse sempre la risposta pronta per queste provocazioni: una dote che aveva sempre apprezzato – Scherzi a parte, gli scacchi sono certamente un’interessante attività con cui passare il tempo assieme a lui: una volta messo a suo agio è in grado di fare bei discorsi. Per esempio, conosce un sacco di particolari sull’esercito di Drachma ed Amestris. Me li ha raccontati mentre giocavamo.”
“Con tutto quello che legge mi pare anche normale. Lui e Kain sono davvero particolari.”
“E che ha di particolare Kain?”
“Mi sta costruendo una radio tutto da solo… è qualcosa di incredibile.” ammise Riza, ricordando la meraviglia con cui aveva osservato il suo piccolo amico lavorare a quei circuiti.
“Scherzi? – Roy si girò a guardarla con incredulità – Non è possibile: ha undici anni!”
“E’ possibile, invece! – sorrise la ragazza, lieta che ci fosse qualcosa che poteva sorprendere il suo scettico amico – E una volta finita me la regalerà.”
“La prossima sorpresa quale sarà? – si chiese il ragazzo, ridacchiando, mentre si riavviavano dentro la scuola – Scopriremo che Heymans è un bravissimo musicista?”
“E chi lo sa! – rise Riza di rimando – Ma devo dire che ci stiamo circondando di persone davvero particolari e la cosa non mi dispiace affatto.”
 
“Oh no! E’ vero che stamane mamma doveva andare all’emporio per delle compere! – si ricordò Heymans con un sospiro, mentre faceva sedere Henry al tavolo di cucina – E sono appena le undici!”
“Heymans… - mormorò questi: dopo lo sfogo iniziava a sentire la debolezza dovuta al calo di tensione – mi fa male la testa... ed ho i capogiri.”
“Non cercare di tenere aperto l’occhio. – suggerì il maggiore – La cosa migliore è andare di sopra e metterti a letto.”
“Se si sveglia papà…” iniziò il bambino, guardando timoroso in direzione delle scale che portavano al piano di sopra. Heymans seguì il la medesima direzione con gli occhi grigi e scoprì di essere abbastanza spaventato all’idea che il loro genitore si alzasse prematuramente e li scoprisse… non tanto per la condizione di Henry, tanto per il vederli assieme.
Ma deve assolutamente sdraiarsi…
“Vieni – sussurrò, incitandolo ad alzarsi e reggendolo contro di sé – facciamo il più piano possibile.”
Erano solo dodici gradini, ma ad Heymans sembrarono dodicimila, con ciascuno di essi che sembrava scricchiolare tantissimo sotto il loro peso. E sembrava che tutta la casa fosse un’enorme cassa di risonanza per ogni rumore che producevano.
Perché… perché dobbiamo avere così paura di lui? Eppure non ha mai alzato un dito su di noi.
Ma la risposta la sapeva benissimo: quando Gregor non si alzava per la colazione, voleva dire che la sera prima c’era andato giù pesante con il bere ed era meglio non stuzzicarlo. Nonostante non fosse mai stato aggressivo, era come se tutti loro sapessero che era solo questione di tempo.
In ogni caso, riuscirono ad arrivare in camera di Henry senza alcun problema, ma fu solo dopo che la porta si chiuse alle loro spalle che osarono respirare con più calma.
“Va bene, sdraiati nel letto… piano, non di botto, sennò il capogiro aumenta. Senti anche nausea?”
“No… dovrei?” chiese Henry con preoccupazione.
“No, è un buon segno. Adesso scendo in cucina e preparo un impacco di acqua fredda per l’occhio. Tu stai tranquillo qui e non muoverti.”
Uscì dalla stanza con tutta la discrezione che poteva e solo quando fu in cucina si sentì relativamente al sicuro: ripresa in mano la situazione iniziò a preparare gli impacchi d’acqua fredda, come aveva visto diverse volte fare a sua madre e…
“Heymans, non dovresti essere a scuola?” chiese Laura, entrando con diversi pacchi e guardando con sorpresa il figlio.
“Oh mamma! – sospirò di sollievo il ragazzo, andando ad aiutarla – Meno male che sei tornata! Henry sta male ed ha assolutamente bisogno di te.”
“Sta male? – si preoccupò lei – Che è successo?”
Heymans esitò per un millesimo di secondo su quale versione raccontare alla donna, ma poi senza altro indugio si attenne agli avvenimenti reali notando come sua madre, mentre ascoltava la storia, procedeva a terminare gli impacchi medicinali.
“L’occhio sinistro si sta gonfiando molto: l’ho fatto sdraiare a letto e gli ho detto di tenerlo chiuso. Prima, quando eravamo fuori l’ho bagnato con fazzoletto, ma ha bisogno degli impacchi.”
“Adesso vado da lui – lo rassicurò Laura, tenendo tra le mani la bacinella con tutto il necessario – tu, per favore, metti a posto la roba che ho comprato.”
Vedendola salire le scale senza preoccuparsi minimamente di svegliare Gregor, Heymans si chiese come poteva sua madre avere un coraggio simile. Quando suo padre dormiva era come se la casa fosse sotto il sortilegio di un mostro, per il quale erano tutti costretti a fare silenzio per evitare nefaste conseguenze. Heymans aveva paura di lui in simili momenti: quando era sobrio era facile provare sentimenti di disprezzo nei suoi confronti, ma quando era ubriaco entrava in gioco una paura irrazionale, come quella che aveva nei confronti dei cani.
Sarebbe stato infinite volte meglio avere un padre come James Havoc: anche se a volte puniva Jean non l’aveva mai fatto di sproposito ed in preda alla rabbia. Il fatto che Gregor non avesse mai picchiato lui od Henry era solo un lato positivo di un genitore per il resto completamente dannoso.
E anche Henry ne ha paura, in realtà… anzi, forse la sua situazione di favorito lo mette maggiormente in difficoltà perché ha il terrore di deluderlo.
Finito di sistemare quanto aveva comprato la madre, si sedette al tavolo meditando sulla sua incapacità di reagire veramente a quella difficile situazione familiare che lo attanagliava. Una piccola parte di lui gli suggerì che, magari, poteva anche iniziare ad avviare il pranzo dato che, ormai, la giornata di scuola era persa.
Ho anche lasciato la roba a scuola… oh, beh, o la recupera Jean o la prendo direttamente domani.
Rifletté con un briciolo di rimpianto che aveva lasciato soli Kain e Janet, ma era altresì sicuro che Jean li avrebbe raggiunti presto… e poi Kain aveva undici anni e dunque era in grado di badare alla bambina.
“Heymans…” lo chiamò Laura, rientrando in cucina e posando la bacinella sul tavolo.
“Sta meglio?”
“Si è addormentato – spiegò lei – in buona parte era solo spavento… e l’occhio dovrebbe guarire in qualche giorno. Sei stato davvero bravo a soccorrerlo e portarlo a casa, caro.”
“A papà non dobbiamo dire che l’ho aiutato io.” mormorò lui fissando una venatura del legno del tavolo.
Il silenzio assenso tra di loro fu più che sufficiente, ma dopo qualche secondo Laura gli fu accanto e lo abbracciò.
“Mamma… - mormorò ancora il ragazzo – tu… tu lo ami?”
Non aveva mai osato chiedere una cosa simile: a volte dava per scontato che un matrimonio riparatore come il loro non poteva avere dei sentimenti solidi alla base, ma era anche vero che nemmeno tre anni dopo era nato Henry.
“Perché me lo chiedi?” fece Laura, abbassando lo sguardo su di lui.
“Perché… perché io non capisco come una persona come te debba sopportare uno come lui!” si sfogò il ragazzo.
Non ci fu nessuna risposta irata o qualche richiamo ad avere maggior rispetto per il proprio padre. Laura si limitò a tenerlo stretto e ad accarezzargli i capelli rossi.
“Mi ha dato voi…” sospirò infine la donna.
“Allora non lo ami… non più?” chiese Heymans.
“I sentimenti degli adulti sono cose abbastanza difficili da capire.”
“Non credo di averti mai visto baciare papà…”
“Scusa, amore mio, – disse la donna in tono triste – non sai quanto soffra all’idea di non avervi dato una famiglia felice…”
“Mamma, tu sei la prima a starci male. – ammise Heymans – Ti confesso che… che a volte preferirei non essere nato: non ti saresti mai trovata in una situazione simile se non fosse stato per me.”
La sua voce era scossa da un lieve tremito: non gli era mai capitato di lasciarsi andare in questo modo con sua madre. Cercava di essere forte per entrambi, ma la verità era che la situazione lo stava opprimendo tantissimo e l’aver visto la paura anche negli occhi di suo fratello, gli aveva fatto capire che in realtà lui non stava facendo niente per loro.
Anzi… tutto è iniziato per colpa mia.
“Questa è una cosa che non devi mai dire. – gli disse la donna stringendolo con una foga che non aveva mai dimostrato – Dio mio, Heymans, tu sei la principale ragione per cui sono andata avanti. Tu ed Henry siete le mie ragioni di vita e non me ne importa nulla se per vostro padre non provo niente… ho voi due e su di voi non deve pesare assolutamente nessuna colpa di quanto è successo.”
“Potremmo stare benissimo noi tre da soli – supplicò il ragazzo con frenesia, credendo di aver intravisto uno spiraglio di luce – senza di lui… hai visto pure tu che quando Henry è con noi due è completamente diverso. Io… fra tre anni finisco la scuola e potrò benissimo prendermi cura di voi: mi trovo un lavoretto già da adesso, tanto sono forte, e non dovrai più dipendere da quanto ti danno i nonni.”
“Heymans… Heymans, per l’amor del cielo, calmati! – lo scrollò lievemente la madre – Stai piangendo… amore, sei così scosso, ma che ti succede?”
“Scusa… - singhiozzò lui, cercando di recuperare una calma che in realtà proprio non trovava – adesso la smetto. E’ meglio… è meglio che torni a scuola a riprendere la mia roba!”
E con gentilezza si liberò della presa materna per correre in soggiorno e poi finalmente fuori da quella casa.
In genere tra i due, era Jean quello che aveva bisogno di sfoghi fisici quando aveva qualche difficoltà, ma questa volta il rosso sentì l’esigenza di continuare la sua corsa, fino a quando le forze glielo consentivano.
Non si diresse verso la scuola, ma uscì dal paese e continuò alla cieca lungo i sentieri che dividevano i campi coltivati.
“Lo odio! Lo odio! E’ tutta colpa sua!” esclamò a un certo punto, arrivando ad un bivio e fermandosi a riprendere fiato. Nonostante fossero a fine ottobre ed il tempo non fosse più così caldo, gocce di sudore gli colarono dal viso, miste a più salate lacrime.
Sentì un’improvvisa nausea salirgli e fece in tempo ad andare al margine del sentiero prima di rimettere quanto aveva mangiato fino a quel momento. Il nervosismo fu tale che i conati continuarono fino a quando non vomitò anche della bruciante bile.
Si sentiva malissimo, mai aveva avuto una reazione fisica simile: era come se un pesante cerchio gli cingesse la fronte e sentiva un forte rombo in entrambe le orecchie.
“Ehi, ehi… figliolo, va tutto bene?” chiamò una voce, mentre ancora stava a carponi scosso dagli ultimi conati. Delle mani gli accarezzarono i capelli sudati, tirandoli indietro per evitare che si appiccicassero nella fronte.
Questa voce…
“Heymans, ragazzo… – le mani lo incitarono a sollevarsi in ginocchio, allontanandolo da quanto aveva rigettato – che cosa è successo?”
“Signor Fury…” mormorò il rosso, fissando passivamente davanti a sé: adesso che aveva riguadagnato una posizione eretta riusciva a respirare con più facilità e piano piano sentì che la nausea ed il cerchio alla testa stavano passando.
Ora che lo sfogo era avvenuto in tutti i sensi si sentiva completamente distrutto e svuotato.
“Dovresti essere a scuola a quest’ora…” non c’era rimprovero in quella voce, ma solo gentile curiosità e comprensione. Finalmente si girò a fissare il viso dell’ingegnere e scoprì quando fosse somigliante a Kain quando faceva i suoi sorrisi più sinceri.
“Non è nulla.” scosse il capo, rimettendosi debolmente in piedi.
Un lieve capogiro lo colse, ma l’uomo fu pronto a sostenerlo.
“Forza, vieni: hai bisogno di sciacquarti la bocca e lavarti il viso. Il cantiere sul fiume è a un centinaio di metri da qui… andiamo.”
 
Heymans aveva conosciuto il padre di Kain solo di sfuggita, quando era stato a casa sua per accompagnare Jean. Aveva notato la somiglianza con il figlio e gli era sembrata una brava persona, ma la cosa era terminata lì: se doveva essere sincero era rimasto molto più affascinato da Ellie.
Non era molto alto e nemmeno robusto, come invece era James Havoc, eppure c’era una tranquilla aura di maturità che veniva emanata dalla sua persona. Il ragazzo scoprì che avere il suo braccio attorno alle spalle gli dava una notevole sensazione di conforto.
Una volta arrivati al cantiere, l’uomo lo condusse ad un piccolo tavolo da lavoro e gli offrì un bicchiere d’acqua.
“Avanti, sciacquati la bocca e poi vai a sputare nel fiume.” gli suggerì.
Una volta davanti al corso d’acqua, con la bocca libera dal sapore acido del vomito, Heymans non ci pensò due volte a chinarsi e tuffare la testa in quelle correnti fredde. Fu un impatto molto forte, ma finalmente sentì che riusciva a cacciare via anche gli ultimi residui di quel malessere.
Quando tornò al tavolo dove stava Andrew era di nuovo padrone di se stesso.
“Asciugati con questo – gli disse l’uomo, passandogli un asciugamano – se ti becchi un raffreddore tua madre si preoccupa.”
“Grazie…” annuì il rosso, prendendo il pezzo di stoffa e iniziando a frizionarsi la chioma.
“Adesso, mi vuoi dire che cosa ti è successo? Kain mi ha raccontato diverse cose di te e mi pari un ragazzo abbastanza responsabile… per ridurti in simili condizioni deve essere accaduto qualcosa di spiacevole.”
“Niente, signore, davvero…” mormorò lui, cercando di tenere lo sguardo sull’uomo.
“Sai perché non ti credo? – sorrise con gentilezza Andrew – Perché il grigio dei tuoi occhi si è incupito, proprio come succede a Laura quando è turbata.”
Quella rivelazione sorprese il ragazzo in un modo del tutto nuovo. Sapeva che quell’uomo e sua madre erano stati compagni di classe, ma per conoscere un dettaglio così particolare voleva dire che non erano solo semplici conoscenti… dubitava che Jean si fosse mai accorto di questo dettaglio dei suoi occhi, anche se erano migliori amici da anni.
“Conosce bene mia madre?” chiese in un impeto di curiosità.
“Sì, - ammise lui senza problemi – eravamo molto amici ai tempi della scuola. Le assomigli più di quanto tu creda, Heymans.”
E dove eri quando lei aveva bisogno di sostegno? Dato che eri un suo grande amico…
Quella rabbiosa domanda gli sorse spontanea: egoisticamente adesso cercava di dare la colpa a qualcun altro. Del resto, la maggior parte delle persone, compresa la famiglia materna, non aveva praticamente ripudiato sua madre per quanto era successo?
“Mamma non ha mai detto niente di lei, signore…” si limitò a dire con voce piatta. Ma poi si rese conto che sicuramente sua madre gli teneva nascosta la maggior parte della vicenda del suo matrimonio e dei primi anni della sua vita.
“A volte non dire niente è un modo per proteggere i propri figli – scosse il capo Andrew – e Laura in questo è sempre stata fin troppo brava.”
“Non so cosa fare: – confessò Heymans, intuendo che in fondo anche questo comportamento di sua madre costituiva una strana forma di ostacolo al suo progetto di una famiglia felice – mi dico sempre che devo cambiare le cose, ma tutto quello che riesco a fare è scappare…”
“E che vorresti fare a quattordici anni? Non è una cosa che dovresti prendere in mano tu.”
“E chi allora? Mia madre? Mio fratello piccolo? – il ragazzo si sfogò: era chiaro che Andrew Fury conosceva bene la situazione della sua famiglia. Poterne parlare finalmente con un adulto era di estremo conforto – Io… io vorrei essere più forte per liberarci di lui una volta per tutte!”
“Adesso calmati, Heymans.”
“Come posso calmarmi? – continuò lui scuotendo la testa con vigore –  Tutto quello che mia madre mi ha detto è di non sentirmi in colpa per quanto è successo… come può chiedermi una cosa del genere? L’ho imprigionata io in questa situazione!”
“Non giudicare le cose così in fretta! – disse Andrew alzandosi in piedi e mettendogli le mani sulle spalle – Tu sei stata l’unica ragione per cui tua madre non si è buttata nel fiume quando sembrava che il mondo le stesse crollando addosso.”
…Dio mio, Heymans, tu sei la principale ragione per cui sono andata avanti.
“No…” scosse il capo Heymans incredulo davanti a quelle parole.
“Credimi, è così – insistette Andrew, accentuando la stretta – tu e tuo fratello siete le sue ragioni di vita. E se lei ha preso determinate decisioni, c’è un motivo.”
“E quale?”
“Di questo ne dovrai parlare con lei, quando sarete pronti entrambi. Cerca di capire che lei tenendoti all’oscuro di molte cose ha cercato solo di proteggerti.”
“Ho bisogno… ho bisogno di sapere a questo punto – esclamò lui afferrando la camicia dell’uomo e fissandolo con disperazione. Il non sapere tutto quanto lo faceva sentire tremendamente impotente: non poteva aiutare sua madre se prima non andava fino in fondo con la verità – la prego, signore, mi dica quello che è davvero successo.”
“Non posso.”
“Perché!?”
“Perché non potrei mai tradire la fiducia di Laura in questo modo… Heymans, ascoltami, sei un ragazzo responsabile e maturo e credimi, quando Kain ha stretto i rapporti con te ne sono stato più che felice perché so che mio figlio avrà una grande figura di riferimento in te. Ma non cercare di forzare le cose… è una situazione molto delicata e tu lo sai bene.”
Quelle parole richiamarono il ragazzo all’ordine, spazzando via il panico e la disperazione. C’era una grande sincerità nelle parole di quell’uomo ed Heymans capì che era coinvolto nelle sue tristi vicende familiari più del previsto.
“E’… è dura stare a guardare…”
“Tu non stai solo guardando, Heymans: credimi che sei per Laura il più grande sostegno del mondo… e non sono parole mie, ma sue.”
“Mia madre pensa davvero questo di me?” sorrise debolmente lui.
“Certo – Andrew rispose a quel sorriso – e ogni volta che ti incontro ne ho la conferma. Adesso va meglio?”
“Sì, signore.”
“Bravo ragazzo. Vuoi che ti riaccompagni a scuola?”
“No, grazie – scosse il capo, alzandosi – vado da solo. Signore… sul serio, lei non immagina quello che abbia significato per me parlare con lei.”
“E non hai idea di quanto abbia significato per me, Heymans – annuì Andrew stringendogli la mano con affetto – Sono veramente fiero di te.”
E il ragazzo dai capelli rossi si sentì profondamente felice di quell’ultima frase, come se gliel’avesse detta un vero padre.
 
Arrivò a scuola che mancava poco alla campana di fine lezioni e così attese pazientemente, seduto poco lontano dall’edificio. Aspettò l’uscita dei ragazzi e si avvicinò solo quando vide Jean e Janet uscire nel sentiero.
“Ehi!” salutò, facendosi avanti.
“Ehi – rispose Jean, con un sorriso di sollievo, restituendogli la tracolla – che c’è? Volevi passarti per l’interrogazione di geografia? Ha chiamato me al tuo posto, lo sai?”
“Ma dalla tua faccia intuisco che è andata meglio del previsto.”
“Sette e mezza – sogghignò il biondo soddisfatto – e ora sono a posto per un bel po’: ha tutto il resto della classe da interrogare, te compreso. Comunque ho detto che non ti eri sentito molto bene ed eri andato via.”
“Grazie per la copertura, ti devo un favore.” sorrise Heymans dandogli un lieve pugno sulla spalla.
“Heymans, dove sei stato?” chiese Janet.
“Oh, niente. C’era una cosa urgente che mi sono ricordato di dover fare… anzi, a proposito, se non vi dispiace oggi non vi accompagno fino al bivio: devo tornare a casa.”
“Tutto bene?” chiese Jean con uno sguardo significativo.
“In un certo senso meglio del previsto – scrollò le spalle il rosso, rimettendosi la tracolla – Ah, e fra te e Riza?”
“Siamo pari.”
“Allora presumo che vada tutto bene. Ci vediamo domani, allora.”
“Va bene; a domani, andiamo Janet.”
Preso congedo dai due fratelli, Heymans si diresse verso il paese: ormai era totalmente calmo ed era perfettamente in grado di tornare a casa ed affrontare sua madre.
Oggettivamente avevo bisogno di uno sfogo simile: mi sento decisamente meglio.
“Ehilà, Heymans.” lo salutò una voce dietro di lui.
“Ciao Roy… Riza…” fece un cenno del capo, mentre si fermava per attenderli.
“Come mai non accompagni Jean e sua sorella?” chiese la ragazza.
“Ho promesso a mia madre che sarei tornato prima a casa.”
Roy gli lanciò un’occhiata di sbieco ed Heymans fu rapido ad intercettarla e fare un rapido cenno di conferma. I componenti delle bande e gli indipendenti venivano inevitabilmente a sapere delle spedizioni punitive e Roy era in classe con uno dei due aguzzini di Henry. Sicuramente il moro aveva capito che qualche cosa era andata in modo diverso dal solito e aveva voluto avere conferma dal rosso.
Ma tutto finì con quel rapido scambio di occhiate: Riza non se ne rese nemmeno conto.
“La madre di Jean fa ottime pastine alla marmellata, vero Riza?” chiese Heymans all’improvviso, per spezzare quel silenzio.
“Troppo appiccicose – rispose lei, offesa, suscitando le risate dei due maschi – e poi la marmellata di more non è tra le mie preferite.”
“Da te che gesto d’amicizia ci dovremmo aspettare, Heymans?” chiese Roy.
“Bella domanda, Roy – rispose prontamente il rosso, capendo il sottinteso – vediamo se arriverai a scoprirlo. Bene, io sono arrivato: ci vediamo.”
Rispose al lieve cenno di saluto che gli facevano i due e si diresse nella strada laterale dove stava casa sua.
Salì i gradini con calma e aprì la porta: prima di salire in camera era meglio andare da sua madre per rassicurarla e…
“Sei tornato…”
Heymans si irrigidì nel sentire quella voce, ma poi assunse la solita aria impassibile e percorse il soggiorno, degnando suo padre di un’occhiata appena.
“Senti un po’ – Gregor lo bloccò ancora: la voce che recava ancora il tono impastato tipico di chi ha bevuto. Ma Heymans intuiva che era abbastanza vigile e desto – lo sai che tuo fratello è a letto con un occhio nero e vari lividi?”
“Ah sì? Beh, succede se si fa parte di una banda.” rispose il ragazzo.
“Tu non ne sai nulla, vero?”
“Scusa?” Heymans stava mettendo mano alla porta della cucina, ma si girò stupefatto nel sentire quella domanda.
“So chi frequenti… quel piccolo figlio di buona donna che vive sopra il bordello.”
“Roy Mustang? No, mi dispiace deluderti, ma non rientra nel mio giro di amicizie strette. E anche se fosse, vorrei proprio sapere cosa c’entra con quanto è successo ad Henry.”
“Ah, allora sai che cosa è successo!” disse l’uomo con un ghigno trionfante.
Non assomiglio minimamente a lui… minimamente.
Fu un pensiero, ma anche una supplica… di non diventare mai come quella persona.
“Me l’hai detto tu stesso che cosa è successo, nemmeno due minuti fa. E se credi che Roy Mustang c’entri qualcosa, sei completamente fuori strada: pensa invece alle persone a cui Henry ha giocato brutti tiri, vantandosene ampiamente… forse loro avevano qualche motivetto in più per prendersela con lui.”
“Vive in un bordello… solo un bastardello di quel tipo potrebbe prendersela con un ragazzino da solo.”
“Ci vai quasi ogni sera in quel bordello…” sibilò Heymans.
Gregor era rimasto seduto al tavolo per tutto quel tempo, ma all’ultima frase del figlio si alzò in piedi. Non era eccezionalmente alto, ma faceva davvero impressione per la stazza: non erano muscoli, ma qualcosa di estremamente massiccio. Ma era soprattutto il viso a fare impressione al ragazzo: era carico di quella perversa convinzione di essere nel giusto a prescindere. Se aveva deciso che era Roy ad aver picchiato Henry, allora era così.
“Piano con le frasi, ragazzino.” disse a voce bassa quando fu davanti al figlio.
“E’ vero che ci vai… - mormorò Heymans reggendo lo sguardo degli occhi castani e appannati. Non gli importava se questa sarebbe stata la volta decisiva in cui suo padre avrebbe alzato le mani su di lui: non era disposto a dare retta alle sue menzogne da ubriacone – e ti ubriachi ogni volta… e poi passi quasi tutta la giornata a letto! Ed è mamma a dover tirare avanti…”
“Ti avviso…”
“…dato che se trovi un lavoro vieni licenziato dopo una settimana al massimo.”
Fu solo un secondo, ma Heymans fu sicuro di vedere la mano di suo padre pronta a scattare in avanti.
“Heymans, sei tornato! – la voce di sua madre interruppe quella discussione ed immediatamente le braccia della donna furono sulle spalle del ragazzo – Dai, vieni a darmi una mano in cucina… Gregor, non è ancora pronto: vai pure a metterti sul divano: ci vogliono ancora una ventina di minuti.”
E senza attendere risposta, Laura  trascinò il figlio in cucina, chiudendo la porta alle sue spalle.
“Mamma…” protestò Heymans, tirando contemporaneamente un sospiro di sollievo.
“Giuramelo! – sussurrò la donna inginocchiandosi e abbracciandolo – Giuramelo: non provocarlo mai più in un modo simile.”
“Perché? – chiese lui, mentre l’esasperazione tornava – Adesso inizia ad accusarmi…”
“Chi vuoi che gli creda! – scosse il capo lei – Ma se perde il controllo…”
Non terminò la frase, ma il ragazzo vide gli occhi grigi della madre incupirsi.
E capì:
Se perde il controllo non avrà nessuna remore a prendersela con me…
E che vorresti fare a quattordici anni?
Le parole di Andrew Fury avevano più che un fondamento.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17. Promesse. ***


Capitolo 17. Promesse.

 

Erano passati circa dieci giorni da quell’episodio e le vite dei ragazzi avevano ripreso a scorrere in relativa tranquillità. Henry era rientrato a scuola ed in casa Breda sembrava che nessuno volesse più accennare a quanto era successo quella tragica mattinata: persino Gregor aveva dimostrato un briciolo di buon senso e non aveva più lanciato maligni sottintesi contro il figlio maggiore.
Heymans ci rifletteva proprio in quel momento mentre, come sempre, attendeva i due fratelli Havoc al bivio. Si levò le mani dalle tasche del cappotto e ci soffiò sopra per riscaldarle: novembre non era ancora a metà eppure il freddo era diventato davvero pungente, specie di prima mattina quando ancora il sole non riusciva a riscaldare l’aria.
Molto probabile che quest’anno nevichi con una certa abbondanza…
Neve… l’idea non gli dispiaceva affatto. A volte la scuola chiudeva, ma quello era una conseguenza che rendeva maggiormente felice Jean… però voleva dire anche battaglie con le palle di neve, slittino e un’atmosfera tutta magica che la campagna ed i boschetti andavano ad assumere.
E poi, ogni volta che andava a casa del suo amico, la signora Havoc preparava sempre la cioccolata calda.
Oh sì, e ci mette anche il bastoncino di cannella…
Quasi evocati da quel pensiero riguardante la loro madre, i due fratelli fecero la loro comparsa nel sentiero.
Jean era sempre il solito con il suo cappotto marrone ed un berretto azzurro a coprire in parte la capigliatura bionda, ma Janet faceva davvero ridere perché sembrava una caramella con il suo cappotto rosa e la sciarpa che la imbacuccavano fino al nasino.
“Troppo difficile correre con questo ingombro, vero Janet?” ridacchiò il rosso, quando la bambina si aggrappò a lui, rischiando quasi di cadere per ovvie questioni di bilanciamento.
“Ah, oggi è offesa – spiegò Jean con un sospiro – mamma e papà ieri l’hanno sgridata e le ha anche prese e dunque sta tenendo il broncio.”
“Le ha prese lei e non tu? – chiese Heymans con sincera sorpresa – Che è questa novità? Oh no, dai Janet, che sono adesso questi lacrimoni?”
“Ancora? E diamine, stupidina, te l’ho detto già dieci volte da quando siamo usciti! Vedrai che come torniamo a casa mamma e papà non saranno più arrabbiati… e con me allora che avrebbero dovuto fare? Cacciarmi di casa direttamente?”
“Ma sì, piccoletta, – Heymans la prese in braccio e subito lei si appallottolò contro la sua spalla –  vedrai che sicuramente ti hanno già perdonato. Ma che hai combinato?”
“Voleva giocare alla piccola scalatrice nel magazzino dell’emporio e non so che cosa tutto abbia fatto cadere, compresa se stessa, mi sa.”
“E’ proprio tua sorella, eh?” rise il rosso, ricordando che anche Jean era solito fare simili bravate.
“Ma infatti io mica le ho detto qualcosa: giusto le posso rimproverare il fatto di aver scelto degli appigli sbagliati. Io alla fine arrivavo in cima alle pile di cassette senza problemi… ma è anche vero che lei è alle prime armi. Ci sono ampi margini di miglioramento, sempre che la smetta di offendersi ogni volta che viene sgridata o messa in punizione.”
“Bell’esempio, complimenti: invece di farle capire che ha sbagliato la incoraggi.”
“Dai, dammela: in questo momento ha bisogno di solidarietà da parte di chi ha provato decine e decine di volte quelle scalate… forza nana, vieni, ti porto in braccio fino a scuola, sei contenta?”
“Mutismo totale…” commentò il rosso passando la bambina all’amico.
“Come direbbe Vato, è questione di antr… artonpo… quella cosa lì, no?”
“Antropologia? Forse… a proposito di lui: lo sai che qualche giorno fa è andato da Roy? Ero fuori per una commissione e li ho visti beatamente assieme.”
“Allora sono amici: – commentò con aria pensosa Jean, per nulla disturbato dal camminare con l’ingombro della sorella addosso – quello che abbiamo visto a scuola negli ultimi giorni è vero.”
“Già… non ti sembra una strana manovra di accerchiamento?”
“Dici che sta passando tramite Vato per arrivare a noi? Non vedo alcun legame in merito… nel caso ci azzecca maggiormente il fatto che io sia amico di Riza.”
“Lei non ti ha detto nulla?”
“No, ma non è che ci parliamo molto: nell’intervallo stiamo sempre per conto nostro. E guai ad avvicinarla se è con quella sua amica!”
“Chi, Rebecca?”
“Già: quella è proprio una tipica ragazza! Scontrosa e imprevedibile: almeno Riza se la prendeva solo se davo fastidio al nanetto, ma per il resto è tranquillissima. E comunque, per tornare al discorso principale, dubito che si farebbe coinvolgere da Roy in un gioco di questo tipo: è contraria a simili cose per principio. E non posso darle che ragione.”
“Mi trovi perfettamente d’accordo…ehi, signorina, fatti tornare il sorriso: c’è Kain e sicuramente se ti vede col broncio si intristisce.”
“Non sorride al suo fidanzatino e lo farà per il nano?” chiese Jean, mettendo tuttavia la sorellina a terra e dandole una lieve spinta verso il bambino che stava spuntando da un sentiero pochi metri davanti a loro.
“Ciao!” sorrise Kain, aspettando che lo raggiungessero.
“Ehilà, Kain, – salutò Heymans – come andiamo oggi?”
“Bene, grazie. Ciao Janet, uh, ma che hai?” chiese, vedendo che la bambina andava ad impattare contro di lui e non spiaccicava parola.
“Oggi è giù di morale… chissà, magari riesci a farla sorridere un po’.” propose Jean, volendo mettere alla prova quando aveva detto Heymans.
Il bambino rimase a riflettere per qualche secondo e poi si mise a frugare nella propria tracolla. Sotto gli occhi incuriositi dei due ragazzi più grandi, tirò fuori una cordicella rossa ed un sassolino bianco dai contorni arrotondati: con una destrezza incredibile avvolse la prima intorno al secondo con il risultato che la pietra sembrava incastonata. Infine fece cenno alla bambina di porgerle il polso le legò quell’improvvisata opera.
“Ti piace come braccialetto?” chiese.
“E’ per me davvero? – chiese estasiata Janet che aveva seguito con silenziosa meraviglia la creazione di quel piccolo gioiello – Posso tenerlo?”
“Ma certo! L’ho fatto per te, no?”
“Grazie!” esclamò saltandogli addosso e abbracciandolo.
“Visto? Il ragazzino ci sa fare con le bambine.” sghignazzò Heymans, dando una gomitata all’amico.
“Attento che ti frega la fidanzata.” gli rispose a tono Jean.
Non provava più alcun fastidio nel vedere che Kain faceva amicizia con la sua sorellina.
Alla fine il processo che si erano augurati Heymans e Riza era giunto a termine in quanto il ragazzone biondo aveva accettato la presenza del bambino. Sicuramente molto dipendeva dal fatto che, nelle ultime settimane, Kain aveva acquisito maggiore sicurezza in se stesso, date le svariate amicizie che aveva stretto, e aveva abbandonato la perenne aria timorosa che tanto infastidiva Jean.
Ma Heymans era sicuro che una notevole spinta in avanti era stata data dall’amicizia tra il suo amico e Riza: per quanto avesse dichiarato che gli scherzi nei confronti del bambino sarebbero continuati, in realtà Jean aveva finalmente dichiarato la fine di quell’ostilità.
E la tranquillità con cui Kain si comportava anche il sua presenza, confermava ampiamente il cambiamento.
“Bel botto, nano – commentò ancora il biondo andando avanti e dandogli uno scappellotto amichevole sulla testa – mi hai fatto davvero un favore. Quando è col broncio è insopportabile.”
 
C’era una persona che stava osservando quella scena da poco distante.
Roy si passò una mano tra i capelli neri, riflettendo su come gli intrecci di amicizie che si stavano venendo a creare fossero davvero strani. Era come se ciascuno di loro scegliesse deliberatamente di non stringere il rapporto con alcuni a favore di altri, senza per questo intaccare i precedenti legami.
Sicuramente era una situazione complessa e la cosa da una parte lo irritava, ma dall’altra lo stimolava. L’amicizia era una cosa completamente diversa dalla leadership di un gruppo e purtroppo lui aveva fatto un grosso errore iniziale a cui ora era difficile porre rimedio. Aveva fatto i conti con se stesso ed aveva capito che, effettivamente, quello che cercava in Heymans ed Jean non era tanto un gruppo da comandare quanto l’amicizia di due ragazzi che riteneva degni… il fatto di essere molto selettivo era una caratteristica che era il primo a riconoscere.
Ed era anche molto orgoglioso e questo era un altro dato di fatto che gli creava seri problemi: Riza gli aveva raccontato delle motivazioni di Jean sul proporsi come capo al posto suo e lui non aveva potuto fare altro che ammettere la loro validità.
Certo… che motivo avrebbero di accettarmi come capo se non sanno nulla di me?
In genere una volta che si riconosce il problema si cerca la soluzione, ma in questo caso Roy non la trovava o, per meglio dire, non aveva ancora voglia di piegare il proprio orgoglio e fare il primo passo in avanti.
“Roy, che hai?” gli chiese Vato, arrivando affianco a lui.
“Riflettevo.”
“Su cosa?”
“Sul fatto che Kain è l’unico che abbia stretto legami con tutti noi, nessuno escluso.”
Vato assunse la solita aria riflessiva e poi annuì.
“Forse perché non ha mai avuto amici e dunque non si pone determinati problemi come invece fai tu.”
“Un po’ lo invidio.”
“Siamo tutti diversi, Roy – ammise il ragazzo dalla chioma bicolore – e ciascuno di noi ha i propri tempi. Piuttosto, cambiamo argomento: volevo chiederti se oggi ti va di venire a casa mia.”
“A casa tua?” chiese il moro, girandosi di sorpresa. L’ultima volta che era stato a casa di qualcuno era stato più di tre anni fa.
“Sì: così conosci anche i miei genitori… ieri mentre aiutavo mia madre a rimettere a posto il ripostiglio ho trovato alcuni giochi di strategia di mio padre, tra cui il Risiko. Mi chiedevo se ti andava di provarli: mio padre è a casa questo pomeriggio e ci può spiegare bene come funzionano.”
“Forte, mi piace come idea. Verrà anche Elisa?”
“No, ha da fare: stanno iniziando i preparativi per la festa del primo dicembre e la sua famiglia fa parte del comitato organizzativo.”
“Ah, quella al grande capannone?”
“Già, pensi di andarci?”
“Non lo so ancora, non è che partecipi a queste cose.”
“Oh, dai. Ci va praticamente tutto il paese.”
“Ci penserò, promesso. Allora, stasera a che ora vengo da te?”
“Alle tre andrà benissimo.”
“Mi devo preoccupare per l’incontro con i tuoi?” chiese Roy con un lieve sogghigno.
“Perché?”
“Perché quando hai conosciuto mia zia, la settimana scorsa, ancora un po’ e svenivi.”
“E’ entrata di sorpresa in camera tua! – protestò il ragazzo che, effettivamente, era rimasto leggermente traumatizzato nel vedere quel donnone apparire all’improvviso – E in quel momento ero concentrato sulla mossa da fare.”
“Mia zia ti ha ribattezzato fiocco di neve… ogni volta che ci penso muoio dal ridere!”
“Fiocco di neve… ma che è questa storia? Si è messa in combutta con mia madre?”
“Ah, anche lei ti chiama così?”
“Non più, per fortuna, – arrossì lui – e ti prego di non dirle niente, altrimenti sarebbe capace di riprendere quel nomignolo e rendermi la vita impossibile.”
“Pensa se lo venisse a sapere Elisa…”
“Appunto. E’ una cosa che non deve succedere.”
“Terrò la bocca chiusa, te lo prometto.”
 
Quel pomeriggio, nonostante fosse difficile ammetterlo, Roy era abbastanza teso nel trovarsi davanti alla casa di Vato. Non era molto abituato a trattare con dei genitori e aveva leggermente paura che fossero prevenuti nei suoi confronti, per via del locale di sua zia: in genere la cosa non gli importava, ma se fosse successo con i parenti di qualche suo amico ne sarebbe rimasto profondamente dispiaciuto.
Busso alla porta e attese, sfregandosi le mani tra di loro per via del freddo che faceva e domandandosi se fosse il caso di dire anche il suo cognome quando si fosse presentato.
Fortunatamente ad aprirgli venne lo stesso Vato e dunque non ci fu quell’imbarazzante decisione da prendere: ci avrebbe pensato lui a presentarlo.
“Ciao, Roy, entra dentro che si gela.”
“Si è messo un vento davvero pungente.” ammise il moro, entrando con piacere nella casa calda e accogliente. Mentre si levava il cappotto e lo dava al suo amico, si guardò attorno: era abbastanza strano per lui trovarsi in una casa normale, essendo abituato al locale di sua zia dove gli ambienti erano ben separati tra di loro e non c’erano veri e propri spazi in comune. L’idea di soggiorno, per esempio, gli era davvero estranea, ne aveva solo un vago ricordo quando era piccolo e stava ancora a Central City… ma era un luogo riservato ai grandi e non a lui.
“Mamma, papà, questo è Roy.” disse nel frattempo Vato, distogliendolo dalle sue riflessioni.
Si girò per incontrare i genitori del suo amico e fu con sollievo che vide che nessuno di loro due lo guardava con ostilità: se doveva essere sincero, Vincent Falman lo conosceva perché qualche volta andava al locale di sua zia, ma lo faceva sempre di mattina e certo non per usufruire di determinati servizi. Come capo della polizia, semplicemente, sapeva che le persone che potevano provocare guai in genere frequentavano il locale e lui e sua zia spesso collaboravano per mantenere la tranquillità e prevenire disturbi.
“Ci si presenta, finalmente: – salutò l’uomo, stringendogli la mano in una presa salda – ti ho sempre visto di sfuggita al locale di tua zia.”
“E’ un piacere, capitano Falman.” rispose lui, mantenendo il suo atteggiamento da adulto.
“Lei invece è mia madre…” disse Vato.
I pochi ricordi che Roy aveva di sua madre erano principalmente legati alle poche foto del matrimonio tra lei e suo padre. Per il resto era abituato a sua zia e alle altre ragazze del locale che, di certo, non si vestivano in modo casalingo. Per cui, vedere quella signora così tranquilla in quel semplice e caldo abito verde chiaro, con il grembiule legato in vita, fu abbastanza strano. Ma non perché non sapesse che la maggior parte delle madri fosse così, semplicemente non era abituato ad averci a che fare.
“Signora, la ringrazio per avermi permesso di venire a casa sua.”
“Figurati, Roy, mi fa piacere vedere che Vato finalmente stringe delle amicizie. Siediti pure al tavolo: io torno in cucina… vi sto preparando qualcosa per merenda. Ti piace la torta margherita?”
“Sì, ma non si deve disturbare, davvero…”
“Oh, tranquillo, è un piacere: tra un’oretta sarà pronta assieme alla cioccolata calda.”
“Grazie…” mormorò.
“Tua zia sta bene come sempre?”chiese Vincent mentre si sedevano e Vato metteva in tavola la scatola del Risiko.
“Certo, signore.” annuì Roy.
“Per lei dev’essere una novità vederti portare a casa degli amici, eh?”
“Effettivamente, – ammise, accorgendosi di non aver mai pensato a questo aspetto – però credo che lo trovi divertente. Di certo Vato le è piaciuto molto.”
“Mi ha detto che devo mettere su almeno una decina di chili…” commentò il ragazzo, con aria offesa, tirando fuori le pedine dalla scatola.
Vincent scoppiò a ridere, arruffando i capelli del figlio.
“Beh, Madame è una che non ha peli sulla lingua: dice sempre quello che pensa. Forza, adesso pensiamo a vedere questo gioco: facciamo un breve ripasso delle regole e poi un giro di prova, va bene?”
 
Roy aveva sempre ritenuto di essere un tipo adatto alla solitudine, specie nelle sere fredde quando uscire non era proprio consigliato. Aveva imparato a starsene nella sua camera a fantasticare sul mondo che stava oltre quel piccolo paese, immaginandosi luoghi fantastici e misteriosi che gli sarebbe piaciuto vedere. A volte prendeva uno dei grandi volumi di suo padre, dove c’erano grandi mappe di Amestris, e con la mente disegnava un sacco di itinerari per tutti i viaggi che avrebbe voluto fare.
Quasi sempre il suo pensiero era di andare a Central City, fulcro del paese, dove avrebbe potuto diventare qualcuno, magari entrando nell’esercito… come suo padre.
Insomma, si era assolutamente convinto che quell’isolamento era solo conseguenza del fatto che lui non era adatto a stare in una realtà così limitata.
Eppure…
Perché si sentiva così bene a stare seduto accanto al caminetto assieme a Vato mentre Vincent, inginocchiato accanto a loro, mostrava un libro dove erano rappresentati i vari gradi dell’esercito e della polizia di Amestris? Perché il sapore della cioccolata che aveva bevuto da poco si combinava in modo così speciale con quello della torta margherita?
Osservando Vato indicare con un dito affusolato una particolare decorazione e vedendo che suo padre gli rispondeva, arruffandogli i capelli, si sentì improvvisamente spaesato. Perché quei gesti venivano così naturali tra padre e figlio?
Per lui era stato così diverso… forse sua madre si sarebbe soffermata di più a dargli attenzioni, ma era morta troppo presto perché lui se ne ricordasse.
E mio padre… beh, se lo vedevo ogni due settimane era tanto. E non è che mi desse molte attenzioni.
“Mio padre era tenente colonnello a Central City…” mormorò, indicando quel grado sul libro.
“Davvero? Forte! – commentò Vato, fissando estasiato la decorazione – Qui membri dell’esercito non se ne vedono quasi mai e di certo non dei gradi così alti.”
“L’ultima volta che sono venuti dei militari è stato un due anni fa, quando hanno fatto rifornimento prima di andare verso sud.” ricordò Roy che, ovviamente, aveva marinato la scuola ed era andato ad osservare tutte quelle operazioni alla piccola stazione ferroviaria.
“Papà, credi che verranno per la questione della vecchia miniera?” chiese Vato.
“Io ed il padre di Kain abbiamo mandato a chi di dovere la documentazione – scrollò le spalle Vincent – ma dubito che avremo una risposta a breve. E’ un tipo di pratica che spesso tende a restare nelle scrivanie per diverso tempo. Ed è anche probabile che una volta che diano il consenso a sigillarla, lascino la cosa completamente in mano nostra.”
“Avresti potuto chiedere a tuo padre, vero Roy?”
“Se fossi un soldato avrei provveduto io stesso, la vedo molto più semplice così.”
“Pensi di diventarlo?” gli chiese Vincent squadrandolo con attenzione.
Roy rimase in silenzio e fissò di nuovo la decorazione di tenente colonnello.
“Perché no, – disse infine – potrebbe essere il modo giusto di vedere il mondo, finalmente.”
“Vuoi andare via da qui?” chiese Vato con sincera sorpresa.
“Forse, non lo so… non ho più alcun legame con Central City.” scrollò le spalle con finta noncuranza.
“Ma a Central c’è Maes Hughes, vero? Se non ricordo male la sua famiglia si è trasferita proprio lì.”
“E’ vero, ma nel caso voglio farcela da solo.”
 
Quando Vato accompagnò Roy fino alla fine della strada dove abitava, gli prese un braccio.
“Senti, Roy, ti ha dato molto fastidio che abbiamo parlato di tuo padre e di Maes?”
“No, – scosse il capo lui – davvero, non farti problemi.”
“Non è stato molto delicato, me ne rendo conto.”
“Figurati… e poi con Maes ci scambiamo delle lettere. Non è che ho perso i contatti con lui; anzi, forse in primavera farà un salto qui con i suoi.”
“Capisco…”
“Per allora conto di aver terminato il mio progetto.”
“Quale progetto?”
“Il mio gruppo basato sull’amicizia. Riuscirò a far capitolare Heymans e Jean, in un modo o nell’altro!”
“L’hai presa proprio come sfida, eh? – sorrise Vato – Certo che fare amicizia con loro non è semplice come farla con me o Kain.”
“L’hai detto tu stesso che ognuno ha tempistiche differenti. Come per te ed Elisa, no?”
“Che vuoi dire?!” chiese, arrossendo.
“Si vede che ti piace, e tu piaci a lei: avete sedici anni, che ne dici di chiederle di diventare la tua ragazza?”
“Non… non è semplice.” ammise lui, stringendosi nel cappotto.
“Le ragazze del locale di mia zia sono simpatiche con me e spesso chiacchieriamo quando non lavorano… – iniziò Roy – non fare quella faccia: hanno avuto dei problemi con la vita, certo, ma sono delle bravissime persone… comunque, dicevo, diverse di loro mi hanno detto che niente è più bello del primo bacio, ovviamente se si è innamorati. E tu ed Elisa lo siete: che cosa aspettate?”
“Ma lo so che non ci deve essere niente di più bello! Anche i libri non fanno che descriverlo come una cosa meravigliosa… solo che…”
“Solo che…?”
“Non ci riesco. Ogni volta che ci provo è come se qualcosa mi bloccasse!” ammise il giovane con aria estremamente sconsolata.
Roy si mise a braccia conserte e cercò un modo per confortare il suo amico: non riusciva a capire da dove venisse fuori tutta questa indecisione, ma forse apparteneva tutto allo strano e misterioso mondo dell’amore vero… e dell’antropologia.
Ma forse è solo questione di porsi una scadenza precisa.
“Entro primavera!” dichiarò infine, puntandogli il dito contro.
“Eh?”
“Entro primavera noi diventeremo tutti un gruppo e tu darai il primo bacio ad Elisa, ho deciso.”
“Deciso? Che cosa vorresti dire con deciso?”
“Semplice: siccome sei mio amico ti darò tutto il sostegno possibile per questa spinosa faccenda dell’amore e del primo bacio. In un gruppo funziona così: ci si aiuta a vicenda.”
“Roy… ti prego! Niente di eclatante… è già abbastanza difficile!” supplicò Vato.
“E allora datti una mossa! Buona cena!” esclamò con allegria spiccando la corsa verso il locale di sua zia.
“Sì… buona cena…” mormorò Vato.
Non che mettesse in dubbio le buone intenzioni di Roy… ma aveva una tremenda paura che queste iniziative fossero più dannose che altro.
 
Se la cena di Vato fu profondamente disturbata dal pensiero di eventuali disastri sul rapporto tra lui ed Elisa, a casa Fury i due adulti fissavano con aria perplessa il loro figlio che sembrava totalmente assorto in pensieri profondi… tanto che ad un certo punto furono sicuri di sentire gli ingranaggi del suo cervello che cigolavano pesantemente e freneticamente.
“Kain, tesoro, c’è qualche problema con quei piselli?” chiese infine Ellie, guardando il bambino che divideva meticolosamente le piccole sfere verdi disponendole agli angoli del piatto.
“Che? Oh no, mamma, sono buonissimi come sempre.” rispose, riportato bruscamente alla realtà.
“E allora perché li stai… selezionando?”
“Oh, no non li sto selezionando! – arrossì Kain, accorgendosi di quanto stava combinando – Stavo solo pensando ad un circuito della radio che sto costruendo per Riza e stavo schematizzando la cosa.”
“Con i piselli?” chiese Andrew, nascondendo un sorriso davanti a quel modo veramente originale di mettere in pratica le proprie teorie.
“Intuizione improvvisa…” spiegò il bambino, ammucchiando il suo operato e riprendendo diligentemente a mangiare.
“Ci stai davvero mettendo un grande impegno per questo tuo progetto: – commentò Ellie, passando al figlio il pane – dev’essere una bella sfida per te costruire tutto da zero.”
“Mi sono voluto mettere alla prova.”
“E come sta venendo la tua prova?”
“Non male, papà, anche se devo ammettere che ogni tanto ho qualche problema. Ma conto di finire la radio entro una decina di giorni.”
“E poi libera camera tua da tutti quei fogli sparsi, mi raccomando. Non oso buttare niente o muovere qualcosa, ma ormai è impossibile entrare lì dentro.”
“Scusa, mamma, come finisco giuro che metterò tutto in ordine.” promise il bambino.
Ma non ci poteva fare niente: aveva bisogno di far avanzare il suo progetto anche con una parte teorica e dunque scribacchiava schemi o idee ovunque gli capitasse. Effettivamente aveva ragione sua madre a dire che camera sua era diventata un vero caos: lui stesso doveva far attenzione a come muoversi quando si metteva a letto o si alzava la mattina.
Dopo aver aiutato sua madre a sparecchiare, fece per salire le scale e tornare a rimuginare sulla sua opera, ma Andrew lo chiamo e gli fece cenno di seguirlo nel suo studio.
Kain obbedì con aria perplessa, chiedendosi cosa potesse volere suo padre che, negli ultimi giorni, era molto impegnato: per un attimo fu attanagliato dal sospetto di aver fatto qualcosa di grave, ma non gli venne in mente nulla che fosse meritevole di una sgridata.
Almeno, non credo che il disordine in camera lo indispettisca così tanto… e poi non sembra arrabbiato.
“E così, ragazzo mio, hai scoperto la gioia di cimentarti in qualcosa di esclusivamente tuo, eh?” disse l’uomo con un sorriso enigmatico, andando verso la libreria che stava sulla parete e dove c’erano tantissimi volumi di ingegneria e architettura. Kain ne aveva sfogliato qualcuno ogni tanto e li aveva trovati incredibilmente belli… ma complessi.
Capendo che non aveva nulla da temere, il bambino si avvicinò al genitore e sfiorò con reverenza uno di quei pregiati tomi: di certo non se ne trovavano di simili nella piccola libreria del paese… questi provenivano direttamente dalla capitale del distretto dell’Est.
“Papà, hai dovuto studiare molto per diventare ingegnere, vero?”
“Sono stato tre anni ad East City per frequentare l’Università – disse Andrew iniziando a frugare tra i libri del ripiano più alto, dove il bambino non poteva arrivare – e ogni giorno stavo chino sui libri e sui miei progetti.”
“Però ne è valsa la pena: sei diventato così bravo! – esclamò il bambino con estremo orgoglio – E poi, non credo che molti qui siano andati all’Università…”
“E’ stato un mio grande desiderio, fin da quando ho iniziato la scuola. Ho avuto questa grande occasione e, fortunatamente, anche i tuoi nonni mi hanno appoggiato.”
“Credi che un giorno ci potrò andare pure io, all’Università intendo.”
“Se lo desideri io e tua madre ti appoggeremo, su questo puoi stare tranquillo. Ma il motivo per cui ti ho chiesto di venire qui è un altro: volevo farti vedere una cosa.”
 Sfilò dai vari libri quello che sembrava un vecchio quaderno e lo passò al figlio.
Kain lo osservò con perplessità, non mancando di notare la bella copertina rigida e l’elastico rosso che la  teneva chiusa: lo aprì ed iniziò a sfogliare le pagine leggermente ingiallite con crescente meraviglia: erano piene di schizzi, appunti, disegni, commenti… tutto con la grafia pulita ed ordinata del genitore.
“Che bello! – esclamò – Papà questi schizzi sono meravigliosi! Che cos’è questo edificio?”
“Il palazzo municipale di East City – spiegò Andrew, inginocchiandosi accanto al figlio ed indicando col dito il disegno – mentre questo qui è il ponte che sta sul fiume. Grandi esempi di architettura ed ingegneria: mi sono ispirato molto a quelle opere… in questo quaderno ci sono tutti i miei primi progetti, quando ero ancora uno studente del primo anno. Scrivere e disegnare tutte queste cose mi aiutava tantissimo.”
“Che bravo che sei…” mormorò il bambino chiudendo il quaderno.
“Tienilo pure, magari ti sarà d’ispirazione.”
“Sul serio? Oh, grazie, papà! Lo custodirò come il più prezioso dei tesori, lo giuro!” sorrise Kain, stringendoselo al petto.
Andrew gli arruffò i capelli e poi si diresse alla sua scrivania e da un cassetto tirò fuori un grosso quaderno molto simile, sebbene chiaramente più nuovo.
“E dato che la tua testa è un vulcano di idee, questo quaderno è per te: – dichiarò, tornando vicino al figlio e porgendoglielo – scrivici ogni fase del tuo lavoro, disegna ogni cosa che ti viene in mente, anche se non c’entra nulla; sono sicuro che diventerà un grande aiuto.”
“Oh papà, ma questo è un quaderno così bello… ha anche la copertina rigida e l’elastico come il tuo…”
“Beh, è un quaderno per le cose importanti, come lo è il tuo grande progetto e come lo saranno quelli futuri”
Il bambino lo prese con mano tremante e se lo strinse al petto, assieme all’altro quaderno.
“E poi vediamo, – continuò l’uomo – per scrivere in un quaderno importante ci vuole una penna importante, no?” e prese dal taschino della propria camicia una penna nera e lucida con la clip argentata.
“Ma papà, – sgranò gli occhi il bambino – è… è la penna che ti ha regalato il nonno quando sei diventato ingegnere e sei tornato qui. Me l’hai raccontato tante volte…”
E Kain aveva sognato altrettante volte di poter usare almeno una volta quella penna così bella e precisa.
“E adesso io la regalo al mio unico figlio, – disse Andrew con serietà inginocchiandosi e mettendo le mani sulle spalle del bambino – perché, nonostante abbia solo undici anni, mi sta dimostrando di essere diventato davvero maturo e responsabile. Ed inoltre è davvero un bravissimo esperto di elettronica.”
“Papà…” sussurrò Kain, mentre lacrime di commozione gli rotolavano sulle guance.
“Non vedo l’ora che tu finisca la tua radio, figlio mio, – disse Andrew abbracciandolo – sarò estremamente fiero di vederti concludere il tuo primo grande progetto.”
“Anche se è per Riza, tu sarai il primo a vederla, promesso!” singhiozzò il bambino, affondando il viso nella sua spalla.
“Ci conto, ragazzo mio.”
Kain rimase così, a crogiolarsi in quell’abbraccio così sincero e affettuoso: era incredibile come ultimamente il rapporto tra lui e suo padre si fosse evoluto in positivo. Quel gesto così bello, quel passaggio di consegne, lo rendevano estremamente orgoglioso e carico di entusiasmo: adesso era ancora più determinato a finire quella radio.
“Se un giorno avrò un figlio – dichiarò staccandosi da lui – giuro che gli darò il mio quaderno ed il tuo! E anche la penna del nonno!”
“Se lo farai sarà sicuramente un bellissimo gesto che potrai fare nei confronti di tuo figlio, credimi. Ma mi pare un po’ prematuro pensare a queste cose: quello che ora mi importa è sapere che tu metterai sempre tutto l’impegno possibile per raggiungere i tuoi obiettivi. Io e la mamma saremo sempre pronti a sostenerti, ma la buona volontà è una cosa che ci devi mettere tu.”
“Lo farò, papà, te lo giuro: in ogni cosa.”


 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18. Invito per il 1 dicembre. ***


Capitolo 18. Invito per il 1 dicembre.

 

Forse furono le parole ed i gesti di Andrew, ma da quella sera Kain si buttò ancora di più anima e corpo sul suo progetto. Per prima cosa passò un’intera giornata a recuperare tutti i fogli e gli appunti sparsi in giro per la camera e li riportò con diligenza sul quaderno che gli era stato regalato. Per il bambino fu una grandissima emozione aprire la prima pagina, passare le dita su quella carta così bella e vedere con che facilità quella penna scriveva con un tratto così sicuro di inchiostro nero… dopo una prima esitazione gli sembrò veramente facile iniziare a riportare tutte le varie fasi del progetto in quei fogli, con tanti disegni e schemi spesso fatti sul momento stesso, andando ad aggiungere ulteriori dettagli a quella sua prima grande opera di elettronica.
Ogni notte, prima di addormentarsi, sfogliava con meraviglia e reverenza le pagine che aveva scritto e poi prendeva il quaderno di suo padre per confrontare quegli appunti e quei progetti, accorgendosi con una punta di orgoglio che, qualche volta, le loro calligrafie avevano dei tratti in comune. Certo, era ancora prematuro confrontare una scrittura da undicenne con  quella di una persona all’epoca diciottenne, ma Kain, nella sua piccola e frenetica mente infantile, credeva che tutto fosse possibile data la magia speciale di quei due quaderni e di quella penna.
E a confermare che c’era qualcosa di particolare in tutto questo, anche la radio iniziò a creare meno problemi. In realtà, semplicemente, rimettendo in ordine le proprie teorie e rivedendo gli schemi, si erano corrette alcune sviste e dunque, su basi solide, era più facile procedere. Ma ovviamente Kain aveva una fantasia troppo sfrenata per potersi agganciare a fatti così banali.
E così, dopo un’altra decina di giorni, un primo pomeriggio, finalmente diede il fatidico ultimo giro di vite e allontanò la sedia dalla scrivania e per osservare compiaciuto la sua opera: certo, a metterla a confronto con la bella radio che era stata di suo padre, non era proprio eccezionale, essendo anche più piccola, ma per tutto il tempo e l’impegno che ci aveva messo, gli sembrava la cosa più bella del mondo.
“Papà! – chiamò, uscendo dalla stanza e correndo giù per le scale fino allo studio del genitore – Papà, l’ho finita! Vieni! Vieni a vederla!”
“Oh bene, – annuì Andrew, alzando gli occhi dal suo lavoro – e l’hai collaudata?”
“No, per quello vorrei che ci fossi tu! E’ importante.”
“E allora andiamo a vedere la tua grande opera, ragazzo mio.”
Kain era così emozionato che prese il padre per il braccio e lo incitò a salire le scale più in fretta che poteva.
“Che succede?” chiese Ellie affacciandosi dalla cucina, incuriosita da quel chiasso.
“Una promessa tra me e papà.” spiegò Kain, sentendosi estremamente importante nel dire una cosa simile. In fondo era una promessa fatta tra due persone responsabili e mature… no?
Arrivati in camera indicò a suo padre la sua opera che stava trionfante sopra la scrivania.
Andrew si sedette sulla sedia e la prese tra le mani, rigirandola con attenzione, consapevole dello sguardo ansioso del figlio che si contorceva le mani in attesa del verdetto.
“Come ben sai non è che me ne intenda molto di radio, – iniziò, dopo qualche minuto di silenzio – ma devo dire che mi sembra proprio un buon lavoro.”
“Se pensi che sia più piccola rispetto a quella che mi hai dato tu, l’ho fatto di proposito… è più semplice.”
“A volte la semplicità è la chiave di lettura migliore: inoltre credo che alla tua amica Riza non serva una radio molto complicata, no? Allora, vogliamo provare a girare la manopola?”
Kain serrò le mani tra di loro, emozionato e teso per quel collaudo e poi annuì con decisione.
La manopola venne girata con un leggero click e la voce si sparse nitida per la stanza:
“… e adesso ci colleghiamo con l’Auditorium di Central City per il concerto sinfonico diretto da…”
“Mi pare funzioni benissimo – commentò Andrew, provando ad alzare ed abbassare il volume con successo – Allora, direi proprio che mi posso congratulare con te, mio piccolo genio dell’elettronica.”
Non poté aggiungere altro che il bambino gli era già saltato addosso e lo abbracciava ridendo per la gioia… e ne aveva ben donde di essere così felice. Aveva un bellissimo regalo per Riza, era riuscito a terminare un progetto tutto da solo e, soprattutto, aveva reso suo padre estremamente orgoglioso di lui.
“Adesso credo che dovresti dirlo anche a tua madre.”
Annuendo appena, il bambino corse via dalla stanza ed iniziò a chiamare Ellie, riempiendo la casa con le sue esclamazioni vittoriose come mai era successo in undici anni.
 
 Una cosa di cui Kain si rese conto abbastanza in fretta era che le radio, per quanto piccole, pesavano parecchio, specie se si doveva percorrere una strada abbastanza lunga ed un pesante cappotto rendeva impacciata la tua presa sull’apparecchio.
Prima di arrivare in paese si dovette concedere almeno tre soste di diversi minuti ciascuna ma, nonostante queste pause, l’apparecchio diventava sempre più pesante tra le sue braccia, i muscoli che protestavano per quell’insolito sforzo.
Quando finalmente giunse all’ingresso del paese si sedette su un muretto, posando la radio accanto a lui, per riprendere fiato, provvedendo a massaggiandosi con fastidio le braccia indolenzite.
“Oh mamma, – sospirò – e chi pensava che cinque chili di radio fossero così pesanti… spero solo che casa di Riza non sia troppo distante da qui e…”
Sgranò gli occhi, mentre si rendeva conto di un importante dettaglio che, nella foga di consegnare la sua opera, non aveva minimamente considerato: non aveva la pallida idea di dove fosse la casa della sua amica. Infatti, per quanto il paese non fosse molto grande, c’erano comunque numerose strade secondarie e lui non si era mai allontanato dal corso principale dove stavano tutti i negozi e gli esercizi pubblici.
E come se non bastasse a quell’ora, e per via del freddo, non c’era quasi nessuno in giro e dunque non sapeva nemmeno a chi chiedere.
E ora che faccio?
Tornare a casa o avventurarsi da solo in quelle strade? Certo la seconda prospettiva non era molto alettante, ma la prima era quasi da escludere: era stanco morto e non ce l’avrebbe mai fatta a riportare la radio indietro.
 “Ciao gnomo!” lo salutò una voce e subito Kain si girò con un sorriso: solo una persona lo chiamava così.
“Ciao Roy!” rispose, vedendo il ragazzo avvicinarsi con la solita aria sicura.
“Che ci fai qui in paese… ehi, ma quella è una radio!”
“Oh sì! – sorrise il bambino con orgoglio – La devo portare a Riza: è un regalo per lei.”
“Ah, la famosa radio che le dovevi costruire. Accidenti, è davvero bella!”
“Ti piace? Solo che non so proprio dove sta casa di Riza.” ammise il bambino.
“Dai, la porto io – si fece avanti Roy, prendendo la radio con grande facilità – mi sembri stanco e questo affare non è proprio leggerissimo. Casa di Riza è verso la fine del paese, ma dall’ingresso principale non si vede: seguimi.”
“Meno male che ti ho incontrato, Roy, sei davvero gentile.”
“Figurati: per il piccolo gnomo questo e altro.”
I due si avviarono per le strade secondarie, chiacchierando allegramente, fino ad arrivare al villino degli Hawkeye, leggermente distaccato dal resto delle case al confine del paese. Come giunsero al cancelletto di ferro che introduceva nel cortile, Kain fissò con perplessità quel posto a lui sconosciuto.
“Abita davvero qui?” sussurrò.
“Sì, – annuì Roy – vogliamo andare?”
“Ci sei mai stato?”
“No, mai… meglio essere in due ad affrontare la cosa, no?”
“Mh” annuì con enfasi il bambino, aprendo il cancelletto per far passare Roy. Mentre percorrevano il piccolo sentiero in mezzo all’erba alta, notò affascinato la vegetazione così rigogliosa e selvaggia che circondava quell’abitazione che sembrava così decadente e abbandonata. Da una parte pensò che fosse in qualche modo magico vivere in quel posto che ricordava in qualche modo le descrizioni dei libri di favole di Vato, ma dall’altra… c’era quell’onda di malinconia e decadenza che faceva stringere il cuore. E sapere che lì stava una persona che amava gli faceva venire uno strano magone.
“Avanti, bussa.” lo incitò Roy.
“E… e se apre suo padre?” esitò lui, ricordandosi le strane dicerie sul Berthold Hawkeye.
“Beh, gli chiediamo se c’è Riza, no? Funziona così…”
“Roy… se… se apre lui… parli tu, per favore?”
“Va bene, dai, bussa: ho le mani impegnate con la tua radio.”
Con un sospiro, Kain si fece forza e batté delicatamente le nocche sulla porta.
Non uscirà alcun mostro… non uscirà alcun mostro. Fatti forza, Kain.
 
Riza era in cucina e terminava di lavare i piatti dopo aver tentato un altro dolce che ora cuoceva nel forno. Per un attimo credette di essersi immaginata quel lieve bussare alla porta: forse il rumore dell’acqua sulle stoviglie l’aveva tratta in inganno.
Ma le parve una cosa molto strana, abituata com’era a tutti i minimi rumori della casa: quello che aveva sentito non rientrava nella gamma di suoni quotidiani.
“Qualcuno ha bussato alla porta…” mormorò con sorpresa.
Senza perdere tempo ad asciugarsi le mani, corse verso l’ingresso per evitare che il suono si ripetesse e disturbasse suo padre: dubitava che gli ospiti fossero per lui e dunque era decisamente meglio tenerlo fuori da qualsiasi questione.
“Riza!” esclamò Kain, come la ragazza aprì la porta.
“Consegna speciale per la signorina Riza Hawkeye.” sorrise con spavalderia Roy.
“Voi…?” si sorprese la ragazza.
“Ho finito la radio – dichiarò Kain con orgoglio – e te l’ho portata a casa.”
“La radio… ma certo! – sorrise lei, capendo la situazione. Esitò per un millesimo di secondo prima di farsi da parte ed incitarli ad entrare – Forza, venite in cucina: così la proviamo.”
La cucina era al lato opposto della casa rispetto allo studio di suo padre e dunque era sicura che non avrebbe arrecato nessun fastidio. Potevano accendere la radio senza alcun problema.
Mentre percorrevano il corridoio scarsamente illuminato, i due maschi si sentirono leggermente a disagio, ma l’atmosfera cambiò completamente quando Riza li fece entrare nella cucina: qui la luce del primo pomeriggio entrava dalla finestra e c’era un’atmosfera più distesa e casalinga.
“Odore di cioccolato!” sospirò Kain, estasiato.
“La torta è in forno – gli strizzò l’occhio lei – scommetto che la vuoi assaggiare, vero?”
“Certo!”
“E tu, Roy, ne vuoi?”
“Perché no…” annuì lui, posando la radio sul tavolo.
Mentre aspettavano che il dolce finisse di cuocere, Kain mostrò deliziato il suo operato e spiegò a Riza come funzionava. Proprio in quel momento la radio trasmetteva uno sceneggiato tratto da un vecchio libro d’avventure che tutti e tre conoscevano e dunque rimasero estasiati ad ascoltare le voci dei vari lettori che recitavano le battute di quella vicenda.
“Grandioso, Kain – sospirò Riza quando la trasmissione terminò – sai, la terrò qui in cucina, così la ascolterò ogni volta che voglio. In inverno, questa è la stanza più calda e ci passo molto tempo.”
“Per qualsiasi problema o dubbio fammi sapere, verrò subito a controllare.”
“Ma come farei senza di te, piccolo mio…” mormorò la ragazza.
E prima che Kain potesse dire qualcosa si trovò stretto nel suo abbraccio e senza preavviso ricevette anche un bacio su entrambe le guance.
 “Sei diventato tutto rosso, gnometto – ridacchiò Roy, prendendolo in giro – fra Riza e la sorellina di Jean direi che fai proprio impazzire le bionde, eh?”
“Oh, finiscila di prenderlo in giro. – lo rimproverò Riza – Adesso levo la torta dal forno e vediamo come è venuta.”
 
Per evitare che facesse troppo buio durante il ritorno a casa, Kain se ne andò via dopo circa un’oretta. Roy invece, su proposta di Riza, rimase ancora a farle compagnia.
Quando lei rientrò nella cucina, dopo aver accompagnato il bambino fino al cancelletto del cortile, trovò il suo amico seduto a passare distrattamente il dito su una manopola della radio. Era strano il silenzio che regnava in quel momento: a Riza sembrava che in qualche modo la voce allegra di Kain risuonasse ancora in quel posto, risvegliando anche qualche eco di quella di sua madre. Si accorse che Roy sedeva proprio dove era solita stare lei.
Il ragazzo si girò a guardarla e per un secondo ci fu uno strano imbarazzo che tra i due non si era mai creato.
“E così, questa è casa tua…” disse Roy per spezzare quella situazione.
“E già. – annuì lei, tornando a sedersi e posando le mani sul tavolo – Alla fine hai ricambiato le visite che ti facevo quando stavi male.”
“Non è che abbiamo disturbato venendo qui senza preavviso?”
“Parli di mio padre? – chiese la ragazza, puntando su di lui gli occhi castani – E’ nel suo studio e non credo che l’abbiamo disturbato: è dalla parte opposta della casa ed in ogni caso non abbiamo alzato troppo la voce.”
E anche se avessimo urlato, forse non ci avrebbe sentito, preso com’è dai suoi studi.
“Capisco…” mormorò il moro, percependo il lieve cambiamento di tono di voce.
“Ti sta mettendo a disagio?”
“Cosa?”
“La mia casa… ti mette a disagio? Sono la prima a dire che non è molto accogliente, specie in alcuni ambienti: forse la cucina, assieme a camera mia, è lo spazio più decente.”
“Oh, non farti problemi, davvero. Cosa dovrei dire io di casa mia, allora?”
“Sai, – confessò Riza, fissando la sedia dove prima stava Kain – a volte odio questo posto. Me ne sento imprigionata e tutto quello che vorrei è demolirlo… però, contemporaneamente, lo sento anche come un rifugio dove posso stare in pace. Forse perché in queste stanze, fino a quando era viva mia madre, ho passato dei bei momenti.”
Roy rimase in silenzio davanti a quella confessione così personale. Ma in fondo in parte capiva quello che doveva provare la sua amica e così si sentì in dovere di restituire la confidenza.
“Sai, io sono nato ad East City, quando mio padre era di stanza lì… però ci trasferimmo a Central che avevo nemmeno un anno e dunque i miei ricordi sono solo della casa nella capitale.”
“Era una bella casa?” chiese Riza, incuriosita.
“Sì, direi di sì: aveva molte stanze e anche begli arredi, a quello ci pensava mia madre finché era in vita. Ma dopo la sua morte era estremamente vuota e spesso vagavo per quei corridoi desiderando solo di poter aprire la porta e scappare via. A volte le prigioni possono essere molto belle, ma non cambia il senso.”
“Casa di Kain è così diversa – ammise Riza – non ti senti in prigione od oppressa. Tutto trasuda serenità e familiarità… ti senti accettato.”
“… eppure allo stesso tempo ti sembra così strano?”
“Già.”
“Ti capisco: a casa di Vato ho provato le medesime cose – sorrise con amarezza Roy – forse siamo davvero troppo diversi da loro.”
“Però nonostante tutto ci accettano per quello che siamo. –  dichiarò Riza con convinzione – E non esitano a coinvolgerci nella loro vita, senza porsi troppe domande su di noi. Sei stato proprio tu a dirmi che persone come Kain sono speciali per questo… che senso ha allora starci a crogiolare nella consapevolezza di avere un passato diverso e doloroso?”
“Scusa, colpa mia – disse Roy – hai ragione, a volte mi lascio condizionare troppo dal mio passato.”
“Dovremmo guardare solo il presente, invece: un mio amico mi ha appena regalato un radio e tu e lui siete venuti a trovarmi a casa. E’ la prima volta che avevo ospiti ed è stato bellissimo.”
Il sorriso che fece fu così sincero e felice che Roy ne fu conquistato e decise che forse era giusto continuare su quella scia e godersi quanto aveva da offrire il presente. C’era qualcosa di incredibilmente speciale nella quotidianità che i loro amici accettavano di condividere con loro, facendoli interagire con le proprie famiglie, ed era un enorme spreco non approfittarne appieno.
Di colpo gli tornarono in mente le parole che aveva scambiato con Vato diversi giorni prima, a proposito di andare alla festa al capannone il primo di dicembre.
“Sei mai andata alla festa del primo dicembre?” chiese con noncuranza.
“Quella al capannone? No, mai…” scosse il capo lei, abbastanza sorpresa dall’argomento.
“Prima hai detto che dovresti guardare solo il presente, ma ti andrebbe di fare un progetto a brevissimo termine… per il primo dicembre?”
“Che intendi dire?”
“Vato mi ha chiesto se andavo alla festa… perché non ci andiamo insieme io e te? Da quello che ho capito si mangia, si balla, si sta insieme: sicuramente ci saranno tutti i nostri amici.”
Riza rimase interdetta a quella proposta, ma poi le tornarono in mente tutte le descrizioni che le aveva sempre fatto Rebecca il giorni successivi a quell’avvenimento. Anche lei le aveva detto diverse volte di andare, ma Riza non aveva mai accettato. In genere poneva come scusa il fatto che suo padre non le avrebbe mai dato il permesso, dato che in genere la festa durava anche dopo la mezzanotte, ma in realtà aveva sempre avuto paura di sentirsi spaesata in mezzo a tutte quelle persone a lei sconosciute che, magari, l’avrebbero additata come la figlia del signore strano.
Però questa volta la cosa si prospettava in modo differente: la consapevolezza che ci sarebbero stati anche degli adulti a cui eventualmente appoggiarsi rendeva la cosa più allettante.
“Perché no? – sorrise, ma poi si incupì lievemente – Però… dovrò chiedere il permesso a mio padre.”
“Beh, non faremo molto tardi…” iniziò Roy, sicuro che sua zia non gli avrebbe fatto problemi.
“Lo so, ma non è come uscire il pomeriggio… senti, facciamo che ti do una risposta nei prossimi giorni.”
“Va bene, però spero davvero che tu venga.”
 
La mattina successiva per poco Rebecca non si strozzò con il tramezzino che stava mangiando durante l’intervallo. Riza la osservò perplessa mentre cercava di riprendere fiato e si puliva il mento dalle briciole.
“Ma ti rendi conto di quello che mi hai appena detto?” chiese la mora, afferrando l’amica per le braccia.
“Forse andrò alla festa del primo dicembre.”
“No, non quello, Riza! Andiamo, come puoi essere così stupida da non capire! Te l’ha chiesto Roy?”
“Sì.”
“Nel senso… non è che l’avete deciso insieme. E’ stato proprio lui a chiederti di andare , vero?”
“Sì, proprio così. Che cosa dovrei capire, scusa?”
Rebecca fece un sorriso malizioso e mise l’indice sulla fronte di Riza.
“Tu e Roy avete un appuntamento!”
Quella parola piombò addosso a Riza come una valanga e per due secondi il suo cuore smise di battere.
No, non l’aveva proprio considerata sotto quel punto di vista: era scontato che lei e Roy facessero delle cose insieme, era sempre stato così.
“No, non è così!”
“Verrà a prenderti a casa?” incalzò Rebecca.
“Probabile, ma devo ancora chiedere a mio…”
“Dettagli, nel caso esci di nascosto perché una cosa del genere non te la puoi lasciar scappare!”
“Rebecca!”
“Dicevo… viene a prenderti a casa e starà con te durante la festa, no?”
“Ma si starà tutti insieme!” protestò Riza, esasperata.
“Ma se ballerai lo farai con lui e non con altri!”
“Ma la finisci? A parte il fatto che non ho nessuna intenzione di ballare… e nemmeno lui, sicuramente!”
“Oddio! Amica mia! Sono così emozionata per te! – sospirò Rebecca con aria sognante, ignorando completamente le obiezioni della bionda – E mi raccomando, fatti carina! Devi metterti un bel vestito: tutte le ragazze aspettano le feste al capannone per mettersi bei vestiti. Io me lo sono già comprato da due settimane… chissà se Jean lo noterà…”
“A proposito di Jean – disse Riza, per cambiare argomento – mi vuoi spiegare perché litighi con lui ogni volta che lo vedi?”
“Tattica femminile, tesoro… dovresti imparare.”
“A me pare solo che ti renda antipatica ai suoi occhi.”
“Sciocchezze! E te lo dimostrerò: ti giuro che alla festa ballerò con lui!”
“Non è tipo che balla.”
“Te l’ha detto lui?”
“No, ma…”
“Fidati! Ballerò con lui, a costo di trascinarlo in mezzo alla pista! Ma ora torniamo a te: come hai intenzione di vestirti?”
“Ti ho detto che devo prima chiedere a mio padre!” esclamò esasperata Riza.
E senza aspettare replica uscì dall’aula per evitare che quell’inutile e dannosa discussione proseguisse. Mentre andava in cortile per cercare Roy, per caso si imbatté in Heymans e Jean.
“Ciao, Riza…”
“Alla festa del capannone hai per caso intenzione di ballare?” chiese a bruciapelo Riza.
“Che? Ma quando mai!” inorridì il biondo.
“Era giusto per sapere. Ci vediamo dopo.”
 
Per tutto il resto della mattinata scolastica rimase tesa e nervosa, rendendosi conto che le parole di Rebecca avevano più che un fondamento. Era un appuntamento, non poteva scappare da questa realtà: restava da capire se fosse stata una cosa intenzionale o meno perché, conoscendo Roy, era anche probabile che desse per scontata la loro amicizia a tal punto da permettersi una domanda che in un altro frangente avrebbe assunto tutt’altro sottinteso.
La cosa che la turbava di più era il sentirsi appunto turbata dalla questione: voleva dire che le premeva più del previsto. Ma era anche consapevole che a tredici anni non si aveva ancora la maturità di considerare determinate cose. Anche la questione di Rebecca e Jean… per quanto la sua amica avesse grandi mire sul biondo, Riza era assolutamente convinta che non c’era la consapevolezza che avevano Vato ed Elisa. Trovava molto più normale la loro esitazione a diventare fidanzati piuttosto che una forzatura come quella, per quanto ci fossero solo tre anni di differenza.
Tuttavia, tralasciando i maliziosi sottintesi di Rebecca, non poteva fare a meno di essere felice che lei e Roy, nonostante le loro problematiche, stessero davvero iniziando a godere della presenza di amici sinceri. Se a quella festa c’erano davvero tutti, sarebbe stato bello poterli incontrare… un po’ come quando si erano riuniti a casa di Kain.
E così fu quasi con sua stessa sorpresa che si trovò a casa, che ormai era ora di pranzo.
Cercò di rimandare la questione per quanto poteva, mettendosi a preparare qualcosa che richiedesse parecchio tempo e, nel frattempo, cercava di trovare le parole ed il coraggio per spezzare quel silenzio che durava da tanto tempo. Non era proprio bello cercare un dialogo col proprio genitore per chiedergli di andare ad una festa… ma in fondo Berthold qualcosa le doveva. Era un padre assente, ma almeno non le impedisse di vivere.
Così entrò nello studio dell’uomo, trovandolo chino come sempre sui suoi libri. Con le solite mosse discrete gli posò il vassoio con il pranzo accanto e fece un passo indietro. Il rituale prevedeva che ne facesse ancora un altro e poi si girasse verso la porta…
“P… papà…” la sua voce le sembrò un pigolio che, tuttavia, riecheggiò in quella stanza in maniera assordante.
Nessuna risposta venne da quell’uomo: per un attimo Riza sperò che quel movimento indicasse che la stava ascoltando, ma poi si rese conto che aveva solo preso una penna per scrivere delle cose su un libro.
“Papà… è solo per un secondo. Posso chiederti una cosa?” domandò con voce leggermente più decisa.
“Dimmi.”
Riza sussultò: era questa la voce di suo padre… da quanto tempo non la sentiva? Una parola di senso compiuto e non i soliti mugugni o sbuffi che indicavano un’eventuale richiesta di qualcosa. Però non doveva lasciarsi prendere dal panico: l’occasione era quella giusta.
“Fra otto giorni – iniziò – c’è una festa nel capannone appena fuori città. Ci vanno tutti i miei amici… e vorrei… vorrei il permesso di andarci. Dato che… che inizia di sera e prosegue fino a tardi mi sembrava corretto chiedertelo.”
Sperava di addolcirlo con quell’ultima frase: in fondo chiedere il permesso era una forma di rispetto.
Ma perché faccio questo? Se uscissi senza dirgli niente manco si accorgerebbe della cosa! Sono una stupida! Gli potrei lasciare benissimo la cena un’ora prima ed andare tranquillamente… perché mi sono voluta mettere in difficoltà da sola?
Il padre alzò gli occhi su di lei e Riza dovette fare uno sforzo per non indietreggiare: così azzurri, così febbrili… la mente della ragazzina cercò involontariamente l’azzurro più rassicurante degli occhi di Jean.
“Ci… ci saranno anche i genitori degli altri… - proseguì cercando di tenere il tono di voce calmo – e… e quindi non ci saranno problemi. Per favore… posso?”
“Comportati bene e non fare tardi. Adesso vai, devo fare cose importanti.”
“G… grazie.” mormorò Riza, incredula davanti alla semplicità con cui aveva ottenuto il permesso.
Ma questo vuol anche dire che non gliene importa nulla: probabilmente si sta chiedendo perché l’ho disturbato per una cosa simile…
Ma come uscì dalla stanza e chiuse discretamente la porta alle sue spalle, si sentì leggera come mai le era successo prima. Poteva andare a quella festa!
 
Libera dai problemi più pesanti, adesso si poteva sentire una semplice tredicenne e dedicarsi a questioni frivole, ma allo stesso tempo fondamentali. Corse in camera sua e aprì di con frenesia il suo armadio: frugò in ogni cassetto, scostò ogni attaccapanni, buttò tutti i suoi indumenti nel letto e li fissò con disperazione.
“Non ho niente da mettermi!” si lamentò.
Ed effettivamente era vero, non si trattava del classico eccesso di vanità femminile: per il tipo di vita che aveva condotto aveva sempre indossato gonne, magliette, maglioni a collo alto… di vestiti nemmeno l’ombra: gli unici che avesse mai messo erano quelli che le faceva sua madre, ma erano per bambine piccole e non le entravano più.
“Andiamo! Non è che chieda chissà cosa!” protestò, guardando gli indumenti che conosceva a memoria.
La sua mente iniziò a lavorare con frenesia: andare a comprarsene uno nuovo? No, fuori discussione: chissà quanto costava e poi lei non aveva la minima idea di che tipo di vestito prendere. Chiedere a Rebecca? Un suicidio bello e buono… per quanto fosse una carissima amica in questo frangente sicuramente avrebbe fatto disastri a fin di bene.
“Vorrei proprio sapere perché…” iniziò, e nella foga le cadde un maglioncino a terra. Si chinò per raccoglierlo e si accorse che c’era qualcosa che non andava. C’era una macchietta rossa sul pavimento, proprio sotto di lei… una seconda… e ora una terza. Sentì qualcosa che le scivolava lungo l’interno gamba.
“Oh… no – si impanicò, capendo che cos’era, ma non sapendo minimamente che fare – non adesso! Io… come… come funziona?!”
In genere avere le proprie cose per la prima volta è un’esperienza abbastanza traumatizzante e niente è più gradito di una madre che spieghi bene come agire davanti a quell’imprevisto mensile. Ma quando abiti da sola con tuo padre che, probabilmente, ha esaurito la sua scorta di parole per i prossimi dieci anni e la tua defunta madre non ti ha mai detto nulla in merito, entri nel panico… anche se in genere sei razionale e tranquilla.
Non ci fu dunque nulla di ragionato nella corsa che Riza spiccò fuori di casa, pregando con tutta l’anima che il fazzoletto con cui aveva cercato di arginare l’emergenza funzionasse a qualcosa. Probabilmente non corse mai così velocemente lungo il sentiero di campagna, cercando di ignorare il sentirsi completamente priva di qualsiasi controllo sul proprio corpo che… stava sanguinando senza alcuna apparente intenzione di fermarsi.
Quando arrivò al cortile di casa Fury, si fermò di colpo, rendendosi conto che era una follia bella e buona quella che aveva fatto. Insomma… va bene che la madre di Kain era sempre gentile con lei, ma da qui a chiederle una mano per una cosa così imbarazzante. E poi se le apriva Kain o il signor Fury?
“No, no, fermati!” esclamò accorgendosi che il disastro continuava.
Freneticamente andò sul retro, sapendo che la cucina aveva una porta che dava sull’esterno, pregando che la donna fosse lì da sola. E dopo tanta sfortuna, finalmente qualcosa andò per il verso giusto ed incontrò Ellie che in quel momento scuoteva una tovaglia.
“Oh, ciao Riza! – salutò con il solito sorriso – Come mai sei qui? E’ appena passata l’ora di pranzo e Kain non mi aveva detto che saresti venuta! Mh? Ma che hai?”
“Come funziona questa cosa?” chiese Riza con disperazione correndole accanto e aggrappandosi a lei.
“Che cosa? Oh… ohi cara, è la tua prima volta, vero?”
“Non so come fermarlo! – singhiozzò la ragazzina, lieta finalmente di potersi sfogare con una donna – E’… è cominciato all’improvviso e non so come fare! So che cos’è… ma… ma non bene! E continua ad uscire!”
“Sssh, da brava – la abbracciò con comprensione Ellie – va tutto bene. E’ normale essere un po’ spaventate, ma non è niente di grave. Vieni dentro, cerchiamo di sistemare un po’ le cose…”
“Mi scusi… mi scusi tanto se la disturbo – si vergognò Riza, mentre entravano in casa – ma non sapevo proprio a chi chiedere.”
“Stai tranquilla, tesoro. Nessun disturbo… dovevo pensarci che forse tua madre non ha fatto in tempo a parlarti di queste cose.”
Come passarono in salotto per salire al piano di sopra dove stava il bagno, incontrarono Kain ed Andrew che stavano seduti sul divano.
“Ciao Riza! – sorrise il bambino – Sono sorp… ma perché piangi?”
“No, no! Occhi chiusi, maschietti – disse subito Ellie con voce severa – Queste sono cose tra femminucce e voi dovete starne fuori.”
“Ma io…” protestò Kain non capendo, ma Andrew gli prese la testa e lo fece girare.
“Lascia stare, figliolo. Sono cose di donne che tu ancora non puoi capire.”
 
“Sono mortificata…” mormorò Riza, quando l’emergenza fu rientrata.
“Oh, stai tranquilla – sorrise Ellie, sedendosi accanto a lei nel grande letto della stanza matrimoniale – ho lavato la tua roba e l’ho messa vicino alla stufa in cucina. Tra qualche ora sarà asciugata, ma per il momento dovrai tenere questa mia vecchia gonna: ti sta larghina ma è un’emergenza.”
“Non doveva prendersi questo disturbo: la potevo riportare a casa e lavarla io.”
“Basta con queste storie – scosse il capo la donna, passandole un braccio attorno alle spalle – allora, va meglio? Adesso che sai come funziona non fa più così paura, vero?”
“No… quindi… quindi per la festa del primo dicembre sarà tutto finito, vero?”
“Fra otto giorni? Beh, direi proprio di sì, cara. Quindi andrai alla festa? Ne sono felice: ovviamente ci andremo tutti noi.”
“Quando è iniziato tutto questo caos stavo svuotando l’armadio nella ricerca di qualcosa da mettere.” ammise la ragazzina, non riuscendo proprio a capire come si fosse fatta prendere dal panico per cose simili.
“Ah, ti capisco benissimo: quando ero un ragazzina pure io era sempre un disastro ogni volta. Rimanevo indecisa fino all’ultimo secondo su cosa mettermi.”
“Non ho nemmeno un vestito! Letteralmente parlando…” la depressione fu tale che si lasciò cadere all’indietro sulla morbida coperta del letto.
“Tutto qui il problema? Risolviamo in fretta… sapevo che prima o poi i miei vecchi vestiti sarebbero serviti a qualcosa! Alcuni sono davvero belli! Mi dispiace persino di essere cresciuta e non poterli più mettere.”
“Ma sta scherzando!? – sgranò gli occhi Riza, riprendendo la posizione seduta – Non posso accettare!”
“Starai scherzando tu, Riza Hawkeye! E’ la tua prima festa nel capannone e devi essere bellissima… ora, sicuramente ci saranno delle modifiche da fare al vestito che sceglieremo, ma per fortuna abbiamo una sarta d’eccezione che farà un vero capolavoro.”
“Ah sì?”
“Esatto, mia cara… e adesso vieni: i miei vecchi vestiti sono in quella cassapanca. Ho bisogno di vederteli addosso per capire quale colore ti si adatta meglio.”
E Riza capì cosa voleva dire avere una madre emozionata quanto te per la festa.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19. Festa nel capannone. Prima parte ***


Capitolo 19. Festa nel capannone. Prima parte.


 
Il primo di dicembre, alle sei di sera, Laura chiamò il figlio maggiore.
“Dovresti farmi un grande favore – gli disse, consegnandogli un pacco morbido avvolto in una leggera carta bianca e con una cordicella a chiuderlo – dovresti consegnare questo da parte mia.”
“Va bene, mamma. E’ un lavoro di sartoria? – fece questa domanda con un sorriso, felice di sapere che sua madre si era cimentata nella sua grande passione – E’ morbido… c’è stoffa dentro.”
“Sì, è un vestito, ma non stringerlo troppo altrimenti si stropiccia.”
“Scommetto che è bellissimo: tu sei così brava!”
“A dire il vero ho fatto delle modifiche e basta, ma adesso vai. Devi consegnarlo alla tua amica Riza.”
“A Riza? – si sorprese Heymans – E’ per lei?”
“Purtroppo non c’è stato il tempo per l’ultima prova, ma andrà benissimo. Stasera alla festa potrai vederla con il vestito nuovo.”
“Perché non vieni anche tu, mamma? Così la vedi di persona – propose subito Heymans – Tanto papà sarà al locale e a te farebbe piacere, ci scommetto.”
Laura sospirò dolcemente e lo baciò sulla guancia: stava per rifiutare, ma poi si accorse della sincera aspettativa negli occhi grigi e sorrise. Quanto poteva crescere un ragazzo in venti giorni? Era una cosa incredibile, ma dopo quel brutto episodio le sembrava che Heymans fosse di colpo maturato tantissimo. Non era un cambiamento fisico, ma era una nuova consapevolezza nello sguardo, nel modo in cui le parlava… non stava più scappando. Era come se avesse accettato la situazione familiare, facendosene carico sulle sue giovani spalle.
“Beh, sarebbe un peccato non vederla di persona col vestito addosso… magari faccio un salto.”
“Grandioso! Allora, vado a portarglielo.”
Prese il cappotto che stava posato sullo schienale della sedia e dopo averlo indossato uscì di casa, dirigendosi verso la fine del paese dove sapeva essere la villetta degli Hawkeye. Non avrebbe mai immaginato che sua madre avesse fatto qualcosa per la ragazza, ma era proprio curioso di ammirare il risultato. Riza era una brava persona e meritava di indossare qualcosa di bello per quella festa: qualche giorno prima, parlando con Kain, aveva scoperto che la sua amica era parecchio emozionata all’idea di partecipare per la prima volta ad un evento simile.
Arrivò al cancelletto di ferro ed entrò nel cortile: a quanto sembrava Riza lo stava aspettando perché aprì la porta che lui era ancora a metà vialetto.
“Da parte di mia madre.”
“Grazie!” sorrise lei, stringendosi il pacco al petto.
“Stasera devi essere la più bella.” disse il rosso senza esitazione o imbarazzo.
“Cosa?”
“Mia madre ci ha messo l’anima in questo abito e potrebbe venire per vedertelo addosso. Devi essere la più bella! Ci vediamo lì, va bene?”
“Va bene.”
 
“Perché sorridi in questo modo? E’ da quando ti sono venuto a prendere che non la smetti.” disse Roy mentre si dirigevano verso il capannone illuminato.
Erano le sette di sera, ma non faceva il freddo pungente dei giorni precedenti: il vento era finalmente calato e dunque era più piacevole uscire di casa. Non erano gli unici a dirigersi verso il luogo della festa: altre persone camminava lungo la strada costeggiata da festoni e fiaccole e già le prime note della piccola orchestra che avrebbe suonato si facevano sentire.
Riza non diceva nulla, ma era innegabile che continuasse a sorridere: indossava un lungo cappotto che nascondeva l’abito e le piaceva l’idea di sorprendere Roy, in quanto non gli aveva accennato nulla del frenetico lavoro che era stato fatto in quegli ultimi giorni. Quando aveva indossato l’indumento era rimasta diversi minuti a contemplarsi allo specchio: era quello che le era piaciuto di più tra quelli che la signora Fury le aveva fatto provare… era stato così entusiasmate decidere le modifiche, fare uno schizzo del modello, prendere le misure. Un piccolo mondo magico che la ragazza ignorava completamente. Non avrebbe mai immaginato che la “sarta d’eccezione” fosse la madre di Heymans… a dire il vero l’aveva incontrata solo una volta per prendere bene le misure e poi non le era rimasto che attendere.
Oh, ma ne è valsa la pena!
“Bene, eccoci qua – disse Roy, quando entrarono nel capannone illuminato e accogliente – non è che ci sia ancora molta gente, ma sono sicuro che presto arriveranno anche gli altri. Ah, ecco, i cappotti si poggiano qui… dai passami il tuo e…” si dovette bloccare quando Riza si levò il cappotto e glielo porse.
L’abito era di un delicato azzurro chiaro, con una corta giacchetta di lana bianca a spezzare il colore. Non aveva particolari decorazioni, solo un bottone color perla nel colletto e una delicata fascia di una tonalità leggermente più scura di azzurro che cingeva la vita. La gonna arrivava appena sotto il ginocchio e morbidi stivaletti bianchi riprendevano la giacca.
“Mi sta bene?” chiese Riza.
“Altroché! – ammise Roy, riprendendo fiato e accorgendosi che la sua amica era davvero bella quella particolare sera – Ti sta benissimo!”
“Che c’è? Ti stai accorgendo che forse questa vita campagnola non è niente male?” lo prese in giro lei.
“Sicuramente stasera non lo sarà… dai, andiamo a vedere se ci sono gli altri.”
 
Il capannone era un’eredità dell’esercito del periodo in cui era attiva la vecchia miniera. Si trattava di due grandi strutture di legno che erano destinate a magazzino per il materiale estratto in attesa del trasporto tramite ferrovia. Quando la miniera aveva cessato l’attività ed i due ambienti erano stati svuotati, il paese si era trovato a decidere cosa fare di quelle strutture. Dopo alcune riunioni del consiglio cittadino, si era deciso di unire definitivamente i due ambienti eliminando la parete in comune e lasciando la statica a dei grossi pilastri di legno.
E così il posto era diventato di uso comune a seconda della necessità, ma fondamentalmente veniva utilizzato per le feste come quella del primo dicembre dato che, con la sua ampiezza, poteva ospitare almeno cinquecento persone senza problemi di sovraffollamento.
Le feste erano a volte spontanee a volte con date precise, come quella del primo dicembre. In questo caso c’era un comitato che si occupava dell’organizzazione, ma tutta la comunità contribuiva: per esempio quasi tutti i partecipanti portavano qualcosa da mangiare, preparata nei giorni precedenti. Spesso diverse donne si riunivano per cucinare grandi quantitativi di determinate pietanze. Altri invece contribuivano con tavoli e sedie, festoni, luci, fiaccole… era un bellissimo esempio di organizzazione collettiva e spontanea.
Quell’anno si era deciso di fare le cose in grande ed erano previsti anche dei fuochi d’artificio.
“Sul serio?” chiese Heymans, sorpreso.
“Sì, me l’ha detto mio padre! – annuì Jean, mentre stavano davanti al tavolo e si riempivano il piatto di cibo – Sarà fantastico: li hanno fatti venire da East City! Stavolta il comitato organizzativo si è superato.”
“Fratellone! Ho fame pure io!” disse Janet, tirandogli il maglione.
“Perché non vai da mamma e papà?”
“Perché voglio stare con te ed Heymans!” protestò lei.
“Se vai da loro – disse Jean con aria cospiratoria – prometto che ti sveglierò per i fuochi d’artificio.”
“Davvero?” chiese lei estasiata. Ovviamente avendo solo sei anni tendeva ad addormentarsi abbastanza presto e spesso si perdeva gli avvenimenti più belli, come appunto i fuochi d’artificio.
“Davvero! Adesso vai da loro.” le ordinò Jean, mettendole in bocca un pezzo di torta di piselli.
“Sei un pessimo fratello maggiore. “ sogghignò Heymans mentre osservavano la bambina trotterellare via.
“Voglio solo godermi la festa senza dover fare da balia a lei, tutto qui. Ma che guardi?”
“Guardo Riza, lì, in fondo a destra – sorrise il rosso con grande soddisfazione – e dimmi se non è bella con quell’abito azzurro.”
Jean si girò nella direzione e rimase a bocca aperta nel vedere la sua amica chiacchierare allegramente con Roy, Elisa e Vato: sì, era vero, con quell’abito azzurro era davvero bella, sembrava fatto apposta per lei.
“Come può cambiare la nostra paladina dei secchioni, eh?”
“Spero che mia madre venga. Sai, l’abito l’ha sistemato lei e sarebbe davvero felice di vederlo indossato.”
“Dai, sono sicuro che verrà!” sorrise Jean.
 
“Allora, ragazzi, vi state divertendo?” chiese Andrew, posando le mani sulle spalle di Vato.
“Oh, signor Fury! Siete arrivati finalmente!” sorrise Riza.
“Un po’ in ritardo, ma ci siamo – annuì l’uomo – Ellie non vede l’ora di vederti, Riza: e devo dire che con questo abito sei meravigliosa. E anche tu, piccola Elisa, sei davvero raggiante stasera: questi due giovanotti sono davvero fortunati.”
A quelle parole Vato e Roy si sentirono leggermente imbarazzati, mentre le due ragazze ridacchiarono tra di loro, come solo due femmine potevano farlo: in quel modo carico di tremendi sottintesi.
“Noi non ci conosciamo ancora, mi pare. Sono Andrew Fury, il padre di Kain.”
“Roy Mustang.” rispose il giovane, stringendo la mano che gli veniva offerta.
“Io vado un attimo a salutare la signora.” annunciò Riza.
“Recupera anche Kain, visto che ci sei.” suggerì Roy, in modo che la sua presenza spezzasse quel gioco di coppie fin troppo evidente.
Annuendo la ragazza si incamminò per la sala e quando vide Heymans e Jean si avvicinò a loro.
“Beh?” chiese ad Heymans, sistemandosi la gonna.
 “Direi che ci siamo.” annuì il rosso con orgoglio.
“Non finirò mai di ringraziare tua madre.”
“No, sono io che ringrazio te. Ma adesso vai a goderti la festa, ragazzina – le disse ancora, dandole un buffetto sulla guancia – quest’anno è la tua serata.”
“E tu non dici niente, Jean? Ti devo lanciare qualcosa in testa per ridarti la parola?”
“Non conviene: poi te lo dovrei restituire e rovinerei il vestito.” scherzò lui.
“Prenderò questa delicatezza come un complimento! – rise Riza – Adesso vado a salutare Kain e sua madre. Ci vediamo dopo, va bene?”
“A dopo, biondina.” salutò Jean, strizzandole l’occhio.
Sorridendo la ragazza raggiunse finalmente l’altra parte del capannone dove c’erano Kain e sua madre.
“Ciao Riza! – corse ad abbracciarla il bambino – Come sei bella!”
“Tesoro, ti sta davvero benissimo! – esclamò Ellie, mettendole le mani sulle spalle – Sei raggiante… e questo azzurro si intona così bene con i capelli biondi e la tua pelle chiara.”
“Signora, non finirò mai di ringraziarla per quest’abito!”
“Basta con questi ringraziamenti: scommetto che tutti i tuoi amici sono già qui ed è giusto che i giovani si divertano. Vai pure con lei, caro, tanto papà sta già tornando qui.”
“Va bene, mamma. Ci vediamo dopo!”
 
Dopo un’ora e mezza la festa era ormai nel suo vivo: praticamente erano arrivati tutti quanti e la parte centrale dello spazio era occupata da coppie che ballavano seguendo la musica dell’orchestrina che stava sopra un palco montato per l’occasione. Gli improvvisati ballerini erano osservati dagli altri compaesani, seduti lungo le pareti oppure ai grandi tavoli: in particolare tutti erano curiosi di vedere se si sarebbe formata qualche nuova coppia, magari da parte dei giovani e così, quando qualcuno prendeva coraggio ed invitava una ragazza a ballare, la sala si riempiva di applausi e di fischi.
E a volte succedeva che fosse la femmina a prendere l’iniziativa…
“Heymans! Heymans, balli con me!?” esclamò gioiosa Janet, quando il rosso con Jean si avvicinò al resto della famiglia Havoc, seduto in una panca.
Jean ovviamente scoppiò a ridere, mentre la bambina, decisa a ballare con il suo fidanzatino si alzava in piedi ed andava ad afferrargli la mano. Ovviamente Heymans era imbarazzatissimo dalla situazione, ma come sempre non poteva dire di no a Janet… ma sembrava che questa volta nessuno potesse salvarlo: anche i signori Havoc ridacchiavano, sorpresi dell’intraprendenza della loro secondogenita.
“Janet… - mormorò, cercando di ignorare le manine di lei che lo incitavano a muoversi in un’infantile girotondo – Janet… perché non…”
Cavolo, Heymans, pensa in fretta, sennò è la fine…
“… perché non chiedi a Kain di ballare? Io… io sono troppo alto per te, per adesso – si affrettò ad aggiungere – e poi credo che Kain ne sarebbe felice.”
“Ma lui non è il mio fidanzatino…” disse la bambina perplessa.
“Ma non fa niente! – esclamò il rosso prendendola per mano e avviandosi verso la panca dove stava seduto Kain assieme ai suoi genitori – Ti prometto che non mi ingelosisco… e poi ti ricordi? Nessuno deve saperlo che siamo fidanzatini. Inoltre Kain è sempre gentile con te, scommetto che sarebbe davvero felice di vedere che vuoi ballare con lui.”
“Va bene!”
“Ciao, Janet.” salutò Ellie, accarezzando la chioma della bambina che era subito corsa ad abbracciarla.
“Ciao signora mamma di Kain! Ti piace il mio vestitino? E’ per la festa!”
“Oh che bello! Scommetto che l’ha fatto la tua mamma!”
“Sì! E a te piace, Kain?”
“Certo.” sorrise lui.
“Vieni a ballare?” chiese, prendendogli la mano.
“Che? – arrossì lui – Ma io non so…”
“Heymans ha detto che eri felice di ballare con me! Dai, andiamo!”
“Papà?” chiese Kain impanicato, cercando aiuto nel genitore.
“Non si rifiuta la richiesta di una così bella signorina, figliolo. – sentenziò Andrew, scuotendo la testa e dandogli una pacca sulla schiena per incitarlo ad alzarsi – Vai in pista e fatti onore.”
“Credo che questa festa se la ricorderà per tutta la vita!” rise Ellie mentre osservava Janet che trascinava il bambino nella pista e gli prendeva le mani iniziando a saltellare come un folletto. Kain si guardava intorno impanicato, mentre gli adulti ridevano con sommo divertimento per quella strana coppia che si era andata ad unire a loro, ma alla fine fu costretto ad assecondare un minimo i movimenti della sua dama.
“Janet è una grande trascinatrice – ammise Heymans, sperando che Kain gliela potesse perdonare – e lo trova molto simpatico.”
“Che dici, Andrew? Andiamo a dare una mano al nostro ragazzo? Forse vedere i suoi che ballano lo metterà più a suo agio.”
“Perché no… ma ricordati, Heymans Breda, un giorno Janet pretenderà un ballo da te e non glielo potrai rifiutare.” e con una pacca sulle spalle robuste del ragazzo si avviò con la moglie verso le coppie danzanti.
 
Non si può rifiutare… forse…
“Che fine ha fatto il tuo amico?” chiese una voce squillante che per poco non fece sputare a Jean il bicchiere d’acqua che stava bevendo.
Si girò con aria irritata ed ebbe conferma che si trattava proprio di Rebecca. L’amica di Riza lo guardava con divertiti occhi scuri: indossava un abito color crema con una collanina che le pendeva orgogliosamente nel petto. I folti capelli neri erano tenuti indietro come sempre, ma questa volta era stato aggiunto un nastro del colore del vestito.
“Heymans? Boh, sarà in giro da qualche parte.”
“Quindi sei solo…” disse lei, mettendo l’indice nel tavolo e facendo dei piccoli ed immaginari ghirigori.
“Per il momento… e di certo non mi va la tua compagnia.”
Ovviamente quella frase fece socchiudere gli occhi a Rebecca e la mano sbatté sul tavolo.
“Non dovresti parlare in questo modo ad una signorina!”
“Signorina? E dove? – sogghignò Jean, posando il bicchiere e mettendosi nella solita posa baldanzosa a braccia conserte – Qui non vedo nessuna signorina… solo una mocciosa di prima superiore!”
“Hai solo un anno in più, stupido gradasso!”
“E poi una signorina di certo non è maleducata come te, arpia!” rispose a tono lui.
Rebecca sembrava sul punto di esplodere e Jean non vedeva l’ora, pronto a rispondere colpo su colpo: gli mancava un bel confronto da quando aveva stretto i rapporti con Riza e dunque non c’era più la lotta contro la paladina dei secchioni. E Rebecca era anche più focosa… sarebbe stato divertente.
Ma la reazione attesa non ci fu: con sospetto Jean la vide prendere alcuni profondi respiri, mettendosi la mano sul petto, e chiudere gli occhi. Quando li riaprì, c’era una nuova luce… molto più pericolosa.
“Avanti – disse impassibile – adesso andiamo a ballare!” e tese la mano con una decisione che non ammetteva repliche.
“Fossi matto! – esclamò Jean, facendo un passo indietro con irato terrore – Io non ballo e anche se lo facessi tu saresti l’ultima persona a cui lo chiederei!”
“Non me ne importa nulla se me lo chiederesti o meno! Ora balli con me!” e gli prese il braccio
“Ma anche no! Tieni giù gli artigli, Rebecca Catalina!”
“Che succede?” chiese Heymans raggiungendoli.
“Questa rompiscatole…”
“Jean ha appena detto che balla con me!” sorrise Rebecca, con un malizioso occhiolino.
“No! Non ho mai detto… Heymans… non osare!”
“Mi dispiace per te, – rise il rosso, deciso a prendersi la sua vendetta per tutte le volte che Jean lo aveva preso in giro per Janet – ma questo ballo non te lo leva nessuno!”
“Questo è… tradimento!” protestò Jean, trascinato da Rebecca e spintonato da Heymans.
E ovviamente, gli adulti lì presenti, vedendo l’esitazione del ragazzo, furono ben pronti a dare opportuni aiuti alla dama perché il reticente cavaliere finisse in pista: adoravano questi siparietti da parte dei più giovani.
“Che…? – balbettò il biondo, impallidendo, accorgendosi che ora tutti applaudivano e ridacchiavano nei loro confronti. – No… no… io…”
“Sei tutto mio! – rise Rebecca, abbracciandolo con foga – Oh, è la più bella festa di sempre!”
“Vai così, Jean! L’hai accalappiata!” esclamò la voce di suo padre… e girandosi sgranò gli occhi nel vedere James che scuoteva il pugno in segno di vittoria e sua madre che applaudiva.
“Ma che cavolo dici!? – sibilò a denti stretti – E’ questa matta che ha preso me!”
“Jean… - una voce impanicata gli fece abbassare lo sguardo e vide che Kain gli si era accostato con Janet abbracciata in una maniera pericolosamente simile a quella di Rebecca – come si fa? Non… non si stacca più!”
Come si fa?! – ripeté con rabbia – Quando scopri come liberarci dalla presa di queste due, avvisami! Giuro che diventi il mio eroe… e tu smettila di stringere così!”
“Ah, tesoro, sei così carino quando vuoi fare lo scontroso!” sospirò lei, strofinando la guancia sul suo collo, dato che gli arrivava a quell’altezza.
Tesoro? Ma… ma che dici!” arrossì Jean, ormai intrappolato nella tremenda realtà della follia femminile.
 
“Ce l’ha fatta davvero, non ci posso credere!” scoppiò a ridere Riza, guardando la scena.
“Non credo di aver mai visto Jean con uno sguardo così impanicato!” sogghignò Roy, godendosi appieno lo spettacolo del biondo che cercava di liberarsi dalla morsa di Rebecca.
“Che carini Janet e Kain – commentò Elisa – mi piacerebbe ballare…” e lasciò la frase a metà.
Vato ovviamente colse il sottinteso e arrossì: lui ed il ballo erano due mondi diametralmente opposti e poi con tutta quella gente che non aspettava altro che vederli… No, era assolutamente fuori discussione.
“Io… io credo che andrò a prendere qualcosa da mangiare.” dichiarò a voce bassa, affrettandosi ad allontanarsi.
“Ahm… Riza, perché tu ed Elisa non chiacchierate un po’ per conto vostro?” fece Roy con aria distratta.
E senza aspettare risposta da parte delle due ragazze, sgusciò tra le varie persone fino a raggiungere il tavolo dove Vato si era fermato.
“Vorrei proprio sapere che ti salta in mente! – gli disse prendendolo per un braccio – Ti stava chiaramente dicendo che voleva ballare con te!”
“Credi che non l’abbia capito? – rispose lui esasperato – Io non riesco a combinare nulla quando siamo da soli… immagina con tutti questi che ci guardano e non aspettano altro.”
“Proprio non ti capisco…”
“Ehi, ragazzi, che succede?” chiese Vincent, avvicinandosi e notando le espressioni tese.
“Niente…” iniziò Vato.
“Non vuole ballare con Elisa – disse Roy, spiazzando l’amico – e io non capisco proprio il perché! Che te ne deve importare se gli altri guardano? A te importa di lei, no?”
“Non capisci che è tremendamente difficile per me?”
“Ehi, dai figlioli, calma – disse il capitano, mettendo una mano sulla spalla di ciascuno – Roy non puoi obbligare una persona a fare qualcosa che non si sente di fare…”
“Voglio solo aiutarlo: non farà mai passi avanti con Elisa. Prima o poi lei ci resterà davvero male!”
“No che non lo farà!”
“Ci tiene a ballare, lo si legge a chiare lettere nel suo viso…”
“E allora invitala tu a ballare!”
Roy rimase interdetto a quell’affermazione, sicuramente frutto della situazione di stress. Ma poi decise che era arrivato il momento di dare una scrollata a quel ragazzo.
“Va bene, la invito io a ballare.” e senza aspettare risposta si girò per tornare dalle due ragazze.
“Cosa? – impallidì Vato – Elisa è la mia rag…” ma si bloccò.
No, non era vero: Elisa era la sua migliore amica con un grande qualcosa in più. Ma non era la sua fidanzata e dunque non poteva permettersi di dire determinate cose.
“Papà io mi sento… mi sento un completo idiota.”
“Non mi dire che sei geloso: spero che le motivazioni di Roy ti siano chiare…”
“Sì…” annuì lui, guardando con tristezza Elisa che accettava la proposta di Roy ed andava a ballare. Quel gesto gli fece più male del previsto: aveva sperato che la ragazza rifiutasse.
“Vuoi lasciare quella signorina bionda tutta da sola?” gli disse Vincent, dandogli una lieve spinta.
“No, non posso… vado da lei.”
“Vato.”
“Sì, papà?”
“Lezione di vita che la tua antropologia non ti darà mai: lasciati andare e non tirare troppo la corda. Rischi solo di restarci male… riflettici su.”
 
Riza osservava con perplessità Elisa che ballava con Roy: doveva essere successo qualcosa perché Vato non era ancora tornato e la foga con cui Elisa era stata trascinata in pista era inusuale. Certo non era bello essere stata lasciata da sola, ma forse c’era qualche motivo.
“Oh, ti sta davvero bene l’abito!” disse una voce dietro di lei.
Girandosi la ragazzina sorrise nel riconoscere la madre di Heymans e si affrettò a stringerle la mano.
“E’ bellissimo, signora! E’ la cosa più meravigliosa che abbia mai indossato!”
“Certo che adattare un abito di una diciassettenne al tuo corpo da tredicenne è stata una bella sfida, considerati i tempi stretti ed il fatto che ti abbia preso le misure solo una volta, senza fare altre prove.”
“Signora, se me l’avesse chiesto sarei venuta a casa sua.”
“Oh, lascia stare, l’importante è il risultato: anche la giacchina ti sta benissimo… è stata un’ottima aggiunta.” sorrise, sistemandole con mano esperta il colletto e dando dei piccoli aggiustamenti che fecero sentire Riza ancora più bella, tanto che fece una deliziata giravolta.
“Hai visto Heymans, mia cara?”
“Dovrebbe essere qui in giro: l’ho visto prima dall’altra parte del capannone ma ora non so proprio dirle dove sia. Vuole che le dia una mano a cercarlo?”
“Lascia stare, tanto prima o poi ci incontreremo: succede sempre così a queste feste.”
“Allora non ti sembrerà strano incontrare me.” dichiarò Andrew, andando accanto a loro.
“Mi sarei sorpresa del contrario – sorrise Laura – ciao Andrew, ti trovo molto bene.”
“Anche tu sei in forma, Laura. Allora, hai visto che bella la nostra piccola Riza?”
“Le stavo giusto facendo i complimenti. Ed Ellie dov’è?”
“Sta parlando con alcune sue amiche dall’altra parte…”
“Eccomi Riza, - disse Vato, sopraggiungendo – scusa se ti ho fatto aspettare…”
“Mh? Ma sbaglio o c’è un cambio di coppie?” chiese Andrew.
“No – scosse il capo il ragazzo – solo a me non andava di ballare…”
“Capisco. Beh, vieni Laura, andiamo a prendere una boccata d’aria, ti va?”
“Volentieri… allora ciao Riza, divertiti, mi raccomando.”
“E’ successo qualcosa?” chiese la ragazzina quando rimase sola con Vato.
“Niente – rispose lui – una lezione di vita che a quanto pare devo imparare…”
 
Heymans si stava beatamente godendo lo spettacolo di Jean e Kain intrappolati da due femmine davvero tenaci, quando notò Roy che ballava con Elisa. Si chiese cosa potesse essere accaduto dato che sapeva del rapporto che intercorreva tra la ragazza e Vato. Inquadrò anche Riza da sola e leggermente spaesata e non capì che fine potesse aver fatto il ragazzo dai capelli bicolore.
Stava per andare a fare compagnia alla sua amica bionda, quando vide sua madre che la raggiungeva.
Il ragazzo fu profondamente felice nel vedere che era venuta, rompendo l’isolamento che le era in parte imposto per questi eventi: si vedeva che a quell’abito ci teneva parecchio.
E forse le è stata a cuore anche la questione di Riza…
Adesso c’era una motivazione in più per andare in quella direzione: magari le avrebbe proposto di mangiare qualcosa dato che quell’anno il banchetto era davvero ricco e delizioso e forse l’avrebbe convita a restare più del previsto, ma le sue buone intenzioni si bloccarono a metà strada quando notò che Andrew Fury si avvicinava a lei e la salutava.
Con curiosità il ragazzo si guardò intorno e notò che Ellie stava parlando con altre donne e, anche se aveva visto l’incontro tra il marito e Laura, non sembrava minimamente turbata.
Riportando lo sguardo su sua madre, vide che lei e l’uomo si dirigevano verso l’uscita e, senza volerlo, li seguì senza farsi notare: ormai gli era chiaro che i due si conoscevano bene e la cosa lo incuriosiva tantissimo. Non aveva ancora chiesto niente a sua madre, anzi… non le aveva nemmeno accennato a quel confronto che aveva avuto con il padre di Kain, ma adesso era desideroso di sapere ulteriori dettagli sul passato che gli era stato nascosto.
 
Andrew e Laura si allontanarono dal capannone, andando dall’altra parte dello spiazzo dove c’erano alcune fiaccole che ardevano per delimitare lo spazio dove si sarebbe radunata la folla per i fuochi d’artificio. Non si accorsero dell’ombra silenziosa e discreta di Heymans che li seguiva poco lontano, facendo attenzione a stare nelle zone d’ombra tra una fiaccola e l’altra: quando si fermarono, il ragazzo trovò rifugio dietro un mucchio di travi di legno che erano avanzate dopo aver costruito il palco della banda musicale e che sarebbero state rimosse solo il giorno successivo.
“Sei uscito senza cappotto – disse Laura, stringendosi nel pesante scialle di lana – prenderai freddo.”
“Oh, figurati, oggi si sta bene rispetto agli altri giorni… allora Laura, era da parecchio che non ti vedevo alla festa del primo dicembre. E’ stata una vera sorpresa per me ed Ellie.”
“Volevo vedere il vestito che ho fatto per la piccola Riza e poi Heymans ci teneva che facessi un salto. Dopo andrò a salutarlo… a proposito, come sta crescendo il tuo Kain: adesso invita anche le bambine a ballare.”
“Diciamo che è stato un po’ forzato.” ridacchiò Andrew.
“Ed Ellie è sempre il solito tesoro, mi ha fatto piacere rivederla in questi giorni per via del vestito.”
“Anche i tuoi figli crescono, specie Heymans.”
Il silenzio che si propagò tra i due adulti fece sussultare il ragazzo: perché il suo nome provocava una simile reazione?
“E’ così cambiato in questi giorni – sospirò Laura – mi accorgo che ora è lui a voler proteggere me…”
“Ultimamente l’ho visto spesso: è più maturo di quello che credi e di quello che crede lui.”
“Mi stai suggerendo di raccontargli tutta la storia?”
“E’ una decisione che spetta a te, mia cara, – scrollò le spalle Andrew – io ti posso dare solo tutto il mio sostegno, come ho sempre fatto.”
“Tu ed Henry siete stati gli unici a starmi accanto.”
Henry? Di certo non sta parlando di mio fratello…
“Mi dispiace solo di non aver potuto fare di più…”
“Quella vecchia faccenda? – sorrise Laura – Oh, Andrew, come si poteva? Tu amavi Ellie, eri pazzo di lei nonostante non avesse ancora finito la scuola… sarebbe stata una cosa che avrebbe reso infelici tutti quanti: quando ha fatto quella proposta, mio fratello non sapeva quello che diceva.”
Fratello? – sgranò gli occhi Heymans – Perché non mi ha mai detto di avere un fratello?
“… e poi se le cose fossero andate in quel modo, non ci sarebbero Kain ed Henry, no?”
“Già… non ci sarebbero. Lo sai che Kain ha costruito una radio tutta da solo?”
“Davvero? E’ un genio come suo padre, allora! Ma mi basta guardarlo per vedere che ha la tua stessa intelligenza: sono certa che andrà all’università come te.”
Il silenzio si fece di nuovo presente ed Heymans si chiese se fosse il caso di andare via, ma poi la voce di Andrew riprese ed era abbastanza tesa.
“Dimmi la verità, Laura, quel bastardo ha alzato le mani su di te o sui ragazzi?”
“No, non ancora, almeno. Perché me lo chiedi?” chiese lei con sorpresa.
“Ho incontrato Heymans una quindicina di giorni fa… era sconvolto. Mi chiedevo se…”
“No, alla fine niente di… di fisico. Ma sta iniziando a pretendere risposte e la ribellione contro il padre si fa sempre più forte. E questo mi terrorizza: Gregor non esiterà ad alzare le mani su di lui.”
“Ci deve solo provare! Laura, appena noti qualcosa di simile non esitare a dirmelo, giuramelo. Quel bastardo non è degno di avere un figlio come Heymans… non posso dimenticare che quando è nato sono stato io a prenderlo in braccio per primo, mentre lui era al locale di Madame Christmas. E quei maledetti dei tuoi genitori nemmeno si sono premurati di venire ad assisterti.”
A quelle parole Heymans impallidì e desiderò con tutto il cuore di sparire per sempre dalla faccia della terra. Non aveva mai conosciuto i suoi nonni: sapeva solo che non abitavano più in paese e che erano loro che, mensilmente, passavano una rendita a sua madre.
“Non me l’hanno mai perdonata, tutto qui. Loro… semplicemente sono molto all’antica ed un figlio concepito prima del matrimonio è un qualcosa di altamente disonorevole.”
“Quando se ne sono andati via dal paese è stata una benedizione, credimi.”
“Ormai alla loro indifferenza mi ci sono abituata – scrollò le spalle lei, la voce stranamente fredda – dopo quanto è successo non ho nessuna intenzione di cercare di riappacificarmi con loro. Sai benissimo quello che mi disse mia madre quando le dissi che il parto era andato alla perfezione ed Heymans stava bene. Lì hanno definitivamente chiuso qualsiasi rapporto con me… ti confesso che non so nemmeno se sono vivi o morti, ma la cosa non mi importa.”
Heymans non aveva mai sentito una rabbia simile nella voce di sua madre, un rancore così vivo e pungente. Capì che c’era qualcosa di totalmente sbagliato nella storia che lui conosceva.
Che cosa ha detto la nonna quando sono nato?
“Sei diversa da quei due, Laura, così come lo era tuo fratello. E così come Heymans ed Henry lo sono da Gregor.”
“Andrew – mormorò la donna con voce rotta – ho paura che la situazione mi stia lentamente sfuggendo di mano. Guardando Heymans crescere così rapidamente mi chiedo quando e cosa raccontargli: mi sento un mostro all’idea di non poterlo più proteggere, ma ho paura che se non gli parlo io, inizierà a cercare risposte altrove, magari arrivando a pungolare Gregor.”
“Adesso calmanti, Laura, asciugati queste lacrime. Ne hai versate anche troppe in tutti questi anni, non credi? – Andrew le mise le mani sulle spalle – Ascolta, non hai nulla da temere da tuo figlio: ti ama tantissimo e giustamente vuole proteggerti, proprio come Kain se vedesse Ellie turbata farebbe di tutto per aiutarla, anche se ha solo undici anni. La verità non cambierà l’amore che ha per te, come potrebbe?”
“Gli sto chiedendo troppo! Andrew, ha solo quattordici anni!”
“Ha quattordici anni ed è abbastanza grande per sapere le cose come stanno, se è questo che vuole. E’ intelligente e sta capendo che c’è qualcosa che non torna… sta cercando un modo per spezzare il circolo vizioso che vi imprigiona, lo capisci?”
“E lo spezzerà venendo a sapere che ho tentato il suicidio? Che sua nonna ha detto che era meglio se fosse nato morto? Andrew… rischio di distruggere mio figlio!”
“No, Laura! – la scrollò lui – Tu non lo distruggi, non potresti mai farlo… non ti sei buttata nel fiume perché sapevi che avresti ucciso anche lui! Tu hai pianto di gioia nel prenderlo in braccio per la prima volta… hai dato tutto l’amore del mondo a lui e ad Henry, ma soprattutto a lui. L’hai protetto in una maniera encomiabile e questo lui lo sa benissimo! In tutto questo mare di menzogne c’è un’unica grande verità: che tu l’hai amato come solo una madre può amare un figlio e su di questo non gli hai mai mentito. E questa è una base solidissima su cui lui può sempre fare affidamento.”
“Andrew…”
“Laura – la voce dell’uomo era incredibilmente dolce – non aver paura, da brava. E’ tuo figlio… ti ama alla follia. Dentro di te sai benissimo che è pronto per sapere le cose, anche se è dura dirlo per un ragazzo di quattordici anni; ma non saresti così spaventata se non intuissi che è quasi il momento. Proprio come Ellie si è resa conto che era giusto che Kain uscisse fuori, cadesse, si sbucciasse le ginocchia… a volte crescere non è rose e fiori, ma deve succedere. E anche se per Heymans sarà più dura rispetto ad altri, ce la farà… fidati di lui.”
“Ti chiedo solo un favore – disse sua madre dopo un minuto di silenzio – se e quando parlerò con lui… potresti esserci anche tu? Assieme ad Henry sei stata l’unica persona che mi è stata davvero accanto e voglio che lo sia ancora.”
“Certamente, amica mia, non ti lascerò sola in un momento simile.”
“Grazie… beh, adesso inizio a sentire un po’ di freddo. Ed immagino che tu senza cappotto ne senta ancora di più, ma non hai più sedici anni Andrew Fury.”
“Non siamo così vecchi, Laura Hevans – rise lui – ma forse è meglio rientrare dentro. Hai detto che volevi salutare tuo figlio, no? Ti andrebbe di conoscere anche il mio Kain?”
“A questo punto… tanto da quello che ho capito ormai sono grandi amici.”
Sentendo i passi che si allontanavano, Heymans uscì dal suo nascondiglio.
Non sentiva freddo, no… sentiva un tremendo gelo dentro il suo cuore e la sua anima. Sarebbe stato meglio restare dentro, continuare a guardare Jean che lottava contro Rebecca, capire perché Roy aveva lasciato Riza da sola per ballare con Elisa. Avrebbe dovuto accettare di ballare con Janet.
Perché tutta quella realtà che gli era caduta addosso in maniera così improvvisa lo faceva sentire ancora un pulcino appena uscito dall’uovo, assolutamente incapace di accogliere un simile cambiamento.
Pronto? Come posso essere pronto?
La pare fanciullesca di lui era pronta a spiccare la corsa verso qualsiasi altro posto che non fosse quel capannone. Ma, nonostante tutto, una nuova parte che finalmente usciva fuori, si costrinse a tirare alcuni profondi sospiri, recuperare il controllo e avviarsi verso la festa.
Doveva fare buon viso a cattivo gioco: sua madre ci teneva a salutarlo.



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il bellissimo (e geniale) disegno è di Mary_
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Capitolo 21
*** Capitolo 20. Festa nel capannone. Seconda parte. ***


Capitolo 20. Festa nel capannone. Seconda parte.

 

Kain non si era mai trovato in una situazione così imbarazzante: non era tanto il fatto di stare in mezzo alla gente, quando l’avere Janet stretta a lui in una morsa che credeva impossibile per una bambina di sei anni. Non capiva proprio cosa fosse successo dato che il loro ballo era iniziato in maniera tranquilla ed infantile con lei che saltellava felice e più che altro gli faceva fare dei girotondi; ci stava prendendo gusto lui stesso a dire il vero ma poi, forse lei si era stancata, e si era aggrappata alla sua vita affondando la testa bionda sul suo maglione. Aveva preso a ciondolare ma, a dispetto di quella che sembrava stanchezza, la sua presa continuava ad essere salda… e a Kain non restava che sostenerla e assecondare quel lento e soporifero dondolio, mentre attorno a loro si ballava una più allegra danza.
“Uh… Janet – provò a chiamare a un certo punto – che hai?”
“Mmmh…” mormorò lei ad occhi chiusi.
“Si sta addormentando, tutto qui. – disse Jean, suo compagno di sventura, imprigionato nella morsa di Rebecca, ma ostinato nel restare rigido ed il più immobile possibile – Ehi, tu! Che ne dici di lasciarmi? Mia sorella si sta addormentando e la devo portare via da qui.”
“Oh, sono sicura che ci può pensare Kain, – sorrise furbescamente Rebecca, serrando ancora di più le braccia attorno a lui – non vorrai lasciarmi sola in mezzo alla pista, spero.”
“Sarebbe un sogno! Ti ho concesso anche troppo, stupida ragazzina! E’ da almeno cinque danze che mi tieni così: direi che questa follia può anche finire! Ci siamo resi abbastanza ridicoli.”
“Sta iniziando a scivolare – disse Kain, cercando di rialzare la bambina – non riuscirò a tenerla a lungo.”
“Oh, va bene – ridacchiò lei, mollando la presa sul biondo – direi che per adesso può bastare.”
“Alla buon ora! – sbottò Jean lisciandosi le maniche del maglione e accostandosi a Kain per liberarlo dalla sorella – Guarda quest’altra scema: si è addormentata in piedi…”
Ma a dispetto del tono seccato, fu estremamente delicato nel sciogliere l’abbraccio di Janet dalla vita di Kain. Con una rapida ed esperta torsione prese la bambina in braccio e fece cenno al bambino di seguirlo.
“Oggi Heymans si è proprio divertito – ringhiò, mentre si allontanavano dalla pista da ballo – prima affibbia a te Janet e poi aiuta quell’arpia ad intrappolarmi… ma giuro che me la pagherà! Appena consegno questa seccatura a mia madre vado a cercarlo.”
“Non è che sta male? – si preoccupò Kain – E’ rimasta tanto a ciondoloni…”
“Ma no, mia sorella ha solo l’incredibile capacità di addormentarsi in qualunque posizione, basta che abbia un appoggio. Non si sveglia prima di domani mattina, fidati.”
Effettivamente, tra le più comode e familiari braccia fraterne, Janet rinunciò a qualsiasi proposito di stare sveglia. Beatamente si mise il pollice in bocca e si aggrappò con l’altra mano al maglione caldo di Jean.
“Non pensare di sequestrarmi così, Janet – bofonchiò il biondo, intravedendo i genitori e andando verso di loro – ci pensa la mamma a te. Ehi, mamma, prendila tu.”
“Mi stavo giusto chiedendo se fosse crollata.” rise Angela, quando i due arrivarono dai genitori di Jean.
“Sono le dieci e mezza passate, ci credo che è già nel mondo dei sogni.” sbuffò il ragazzo, consegnando la sorella alla madre.
“Hai fatto colpo, eh figliolo? Quella moretta è proprio cotta di te.” disse James con aria cospiratoria, dando una gomitata allo stomaco del figlio.
“E’ una ragazzina scontrosa, maleducata e prepotente – protestò Jean con tutta la sua dignità di quattordicenne a cui il mondo femminile fa ancora ribrezzo salvo rare e lodevoli eccezioni – meglio perderla che trovarla.”
“Oh, fidati di me, Jean. Ancora un anno o due e non vedrai l’ora di ricevere simili attenzioni.”
“Dici?” il tono era veramente dubbioso e seccato.
“In ogni caso, per imprigionare uno come te quella ragazzina è davvero un bel tipino.”
“Certo, come no… Andiamo, Kain, vediamo di trovare gli altri!”
“Uh! Arrivo Jean.”
 
La situazione era abbastanza tesa e Riza era abbastanza accorta da stare in silenzio per evitare di scatenare qualche sgradita reazione. Era tutto cominciato quando Roy ed Elisa erano tornati dopo aver ballato per almeno due volte: era chiaro che lei si era molto divertita, evidentemente ballare le piaceva parecchio e anche Roy si era dimostrato un ottimo accompagnatore. Tuttavia l’espressione di desolata rabbia mostrata da Vato aveva smorzato l’entusiasmo dei due ballerini: Elisa era rimasta in silenzio e Roy non mancava di ricambiare lo sguardo scontroso del ragazzo più grande.
La bionda ed Elisa si scambiarono un’occhiata: era palese che i due maschi non avevano intenzione di iniziare a dare spiegazioni e forse la cosa migliore era separarli. In particolare Riza ci teneva parecchio che Vato si riappacificasse con la sua amica: erano così dolci insieme ed era chiaro che Elisa ci stava restando molto male per questo inaspettato broncio.
“Roy, ti va di far ballare anche me? – chiese all’improvviso, arrossendo lievemente e tendendo la mano all’amico – Non ho mai provato, ma sembra divertente…”
Roy la fissò con aria interrogativa per qualche secondo, ma poi le prese la mano ed annuì.
“Va bene, andiamo. Tanto qui non si conclude niente.”
“Certo, come no…” sibilò Vato, senza però farsi sentire.
Come i due si furono allontanati, Elisa squadrò con lieve esitazione il suo migliore amico.
“Vato…”
“Mh?”
“Ne vogliamo parlare?”
“Non capisco di che cosa si debba parlare…” disse lui in tono profondamente offeso.
“Dei due balli che ho fatto con Roy. Non pensavo che… ti ingelosisse.”
“Figurati.” mormorò il ragazzo, mettendosi le mani in tasca e rifiutandosi di guardarla.
“Senti, perché non andiamo a prendere una boccata d’aria?” la voce di Elisa era abbastanza preoccupata.
“Se ci tieni tanto perché non lo chiedi a Roy? – ribatté, ma immediatamente divenne profondamente desolato. Vide l’espressione ferita della ragazza e si sentì un mostro – Scusami… sono una persona pessima.” e senza aspettare risposta si diresse verso l’uscita del capannone.
 
Fortunatamente in quel momento l’orchestra non suonava niente di complicato e le coppie si limitavano a lenti e tranquilli giri: un qualcosa di discretamente romantico, ma senza gli eccessi di un vero e proprio lento.
Da oltre le spalle di Roy, Riza vide Vato che si allontanava con passo rapido ed Elisa che restava a guardare quella fuga con aria sconsolata.
“Oh no! E’ andato via…” mormorò.
“Razza di stupido.” fu la risposta di Roy.
“Ma perché l’hai provocato in un simile modo? Si capisce chiaramente che è davvero timido.”
“Con la sua timidezza provoca dispiaceri ad Elisa. Sei ad un ballo e non fai divertire la tua ragazza… complimenti, davvero un bel comportamento.”
“Non sono fidanzati, non ancora.”
“Non capisco cosa aspetti: da quanto mi ha raccontato è da parecchio che entrambi lo sanno che si piacciono a vicenda.”
“E di parlare con Elisa ti sei premurato? – chiese Riza, alzando lo sguardo su di lui: aveva scoperto che seguire il ritmo della danza era abbastanza facile e naturale – Durante il ballo le hai detto qualcosa?”
“Le ho detto che, magari, lui si sarebbe dato una mossa per il prossimo ballo.”
“E lei?”
Roy esitò per un secondo e quasi si fermò in mezzo alla pista. Scosse il capo e riprese a muoversi.
“Ha detto che attendere uno o cento balli per lei non faceva differenza.”
“E ci sei rimasto male, vero?” sorrise Riza.
“Lo ammetto. Speravo che mi desse ragione: insomma, avrebbe tutto il diritto di essere stanca di questa indecisione e…”
“E invece a lei va bene così… Roy, io credo che il loro amore sia una cosa bellissima e fuori dal comune. Elisa mi ha detto che uno dei motivi per cui le piace tanto è che è un ragazzo completamente diverso dagli altri e credo che lei sia l’unica ad avere voce in capitolo, no?”
“Mi stai dicendo che ho sbagliato?” gli occhi scuri di Roy la guardarono intensamente.
“Dico che, probabilmente, a volte sei così ansioso di fare le cose a modo tuo che non ti preoccupi di quello che magari possano pensare gli altri. Tu volevi aiutare Vato… ma a modo tuo e non a modo suo.”
“Heymans, Jean… e ora Vato – sospirò Roy – invece di avvicinarli li sto allontanando. C’è qualcosa che non va in me? Onestamente Riza… perché tu li capisci senza problemi mentre io ogni mossa che faccio combino disastri?”
La ragazza lo guardò con sincero dispiacere: era triste, profondamente infelice, e per una volta tanto non cercava di nasconderlo. Purtroppo Roy si stava scontrando con la sua personalità forte e carismatica che pretendeva di avere ragione su ogni cosa. Era questa la grande differenza con Riza: lei non aveva alcun problema a riconoscere i propri limiti, ad accettare i caratteri degli altri e ad agire di conseguenza. Roy era l’esatto opposto: riteneva che fossero gli altri a doversi adattare a lui.
“Sono sicura che Vato non è davvero arrabbiato con te.” lo rassicurò.
“Volevo solo che riuscisse a ballare con Elisa…”
“E chissà che non ci riesca.”
“Dopo gli chiederò scusa. Ma adesso non voglio fare torto anche a te: non è bello che il cavaliere sia distratto da altre cose e non pensi al ballo con la sua dama.”
“Poi mi spieghi dove hai imparato a ballare così bene!” rise la ragazza, mentre la musica cambiava e Roy la conduceva in un ballo più allegro.
“Tu non hai idea delle cose che si imparano a vivere in un locale particolare come quello di mia zia.” le rispose, facendole l’occhiolino e ritrovando in parte l’allegria.
 
Complimenti, Vato, davvero complimenti… se questa volta ti manda al diavolo in maniera definitiva avrà tutte le ragioni di questo mondo.
Il sedicenne scosse il capo con tristezza e si lasciò cadere seduto nel divano di casa.
Non ce l’aveva proprio fatta a restare alla festa: come era uscito dal capannone si era diretto istintivamente verso casa con la mente annebbiata da tutti quegli avvenimenti sconvolgenti che erano successi in maniera troppo rapida. Tutta quella gente che rideva, ballava e chiacchierava aveva il potere di turbarlo profondamente: la calma ed il silenzio della casa vuota erano un vero toccasana.
Si sdraiò, posando la testa bicolore su uno dei morbidi cuscini che accompagnavano il rivestimento di velluto. Si sentiva completamente distrutto: tutto quello che aveva faticosamente costruito con Elisa si era sgretolato nell’arco di nemmeno venti minuti.
Non dava nemmeno la colpa a Roy: era lui stesso il problema, con la sua timidezza, la sua indecisione perenne. Qualsiasi altra persona si sarebbe fidanzata con Elisa da mesi. Ed invece lui aveva continuato a trascinare la cosa, beandosi della certezza matematica che comunque c’era sempre un domani dove fare un altro tentativo.
Ed invece ho esaurito la mia scorta di domani... sono un fallimento.
Qualcuno bussò alla porta, ma lui fece finta di niente: non aveva nessuna intenzione di aprire a chicchessia. Anche se era Roy, non era proprio il momento di discutere sul disastroso esito di quella serata.
“Vato – chiamò una voce da fuori – sono io…”
“Eli..?” alzò la testa dal cuscino con aria sorpresa.
Si diresse alla porta e l’aprì per trovarsi la ragazza che lo fissava con preoccupazione.
“Sei scappato via così in fretta… ti ho cercato per tutto lo spiazzo prima di pensare di venire qui.”
“Scusami…”
“Mi… mi sono dimenticata il cappotto alla festa.” mormorò, massaggiandosi le braccia. Il vestito che indossava aveva le maniche che arrivavano poco sopra il polso e non era molto pesante.
“Oh! – arrossì – Perdonami, entra!”
La condusse in cucina ed accese la stufa in modo che l’ambiente si riscaldasse in maniera abbastanza rapida: ora che ci pensava anche lui iniziava a sentire un po’ di freddo.
“Allora, come va?” chiese lei con voce discreta.
Vato rimase con un pezzo di legna in mano e poi sospirò, mettendolo assieme agli altri: fissò impassibile le fiamme che iniziavano a scoppiettare allegre.
“Balla bene?”
“Se la cava.”
“E’… è ad ogni festa che mi chiedi di ballare, ma io ti dico sempre di no. Mi dispiace…”
“Non fa niente, davvero.”
“C’è voluto Roy per farti divertire un minimo…”
“Ma che dici…”
“Sono solo uno scemo.”
“Vato… ti giri e mi guardi in faccia, per favore?”
Il ragazzo annuì, capendo che era veramente scorretto rifugiarsi davanti ad una stufa per evitare un contatto visivo che invece doveva a quella persona. E gli fece male, perché l’espressione di lei era profondamente triste e desolata.
“Eli…” iniziò, sentendosi profondamente in colpa.
“E’ stata una cosa così improvvisa, ma avrei dovuto rifiutare – lo interruppe lei – perdonami… avrei dovuto pensarci che potevi restarci così male.”
“Forse restarci male è solo una lezione di vita, come ha detto papà.”
Lei rimase in silenzio per qualche secondo, come se stesse ponderando qualcosa.
“Vato… giurami che non scappi o interrompi quanto ho da dirti, va bene?” disse infine.
Lui si irrigidì, capendo che era arrivato il momento fatidico: lei gli avrebbe detto che era stanca di aspettare che era il punto di non ritorno…
E io non riuscirò a dire niente come sempre… e la perderò.
“Ascoltami – iniziò Elisa, facendosi avanti e porgendo le sue mani… e lui si sentì costretto a prenderle – non me ne importa assolutamente nulla di Roy Mustang o del ballo, va bene? Per me la cosa importante è stare assieme a te…”
“Oh, Eli…” mormorò lui, sorpreso e commosso da queste parole e sentendosi pieno d’amore per quella ragazza meravigliosa che gli stava accanto nonostante tutte le sue follie. Si chiese come aveva potuto anche solo per qualche secondo dubitare di lei e pensare ad un tremendo ultimatum: Elisa non gliel’avrebbe mai fatto.
“… l’intenzione di Roy era spronarti a fare… uhm il passo avanti con me. Ma io gli ho detto che non mi importava se avessi dovuto aspettare ancora cento balli. Vato, tu hai i tuoi tempi, l’ultima cosa che voglio è forzarti. Non… non devi preoccuparti, io ti aspetto… come sempre, va bene?”
“Tu mi aspetti sempre…” mormorò lui.
 Spinto da un enorme desiderio di ricambiare in qualche modo quella dimostrazione di fedeltà e amore, lasciò le sue mani e le cinse delicatamente la vita, inducendola ad avvicinarsi.
Non erano mai stati così attaccati di loro spontanea iniziativa ed era così bello e rassicurante: tutto il malessere che aveva provato prima finalmente era sparito. Tuttavia Vato sentiva anche il suo cuore battere all’impazzata: era sempre Elisa la ragazza davanti a lui, eppure… perché in quel momento era così bella, soprattutto le sue labbra?
Le mani di lei, ormai libere, si alzarono leggermente e lentamente: la destra si posò sulla sua spalla in un contatto delicato ma incredibilmente tangibile, mentre la sinistra si alzò ancora a sfiorare il collo… il pollice che arrivava a toccare la mascella di lui.
“Ehi…” mormorò con un sorriso.
“Ehi.” sussurrò lui, abbassando delicatamente la testa per avvicinarla a quella di lei.
Le loro labbra erano a pochi millimetri una dalle altre, e fu elettrizzante rimanere così per qualche secondo, chiedendosi se prendere o no quella fatidica decisione, sentendo il respiro leggermente spaventato l’uno dell’altra. Ma alla fine Vato si mosse e quel piccolo spazio venne annullato dal primo e dolce bacio, tanto atteso e tanto temuto.
E davvero non c’era parola scritta, lezione di antropologia o qualunque altra materia che potesse valere una simile esperienza di vita.
 
“Ah, Kain, eccoti qua – lo chiamò Andrew – vieni, ti voglio presentare una persona.”
Il bambino sentì la voce del padre e si avvicinò, seguito da Jean.
“Ciao Jean, come stai?” sorrise Laura, mettendo una mano sulla guancia del ragazzo.
“Salve signora, tutto bene… signor Fury.”
“Allora, figliolo – disse l’uomo  rivolgendosi al bambino – lei è Laura Breda, la madre del tuo amico Heymans e mia grande amica: era mia compagna di scuola.”
“E’ un piacere conoscerla, signora.” sorrise Kain, dando la mano con estrema educazione come gli aveva insegnato sua madre.
“Ma guardati, sei davvero adorabile: hai gli stessi occhi di tua madre, ma assomigli tantissimo anche ad Andrew… e sei cresciuto così tanto. Adesso quanti anni hai?”
“Undici, signora.”
“Che stavate combinando?” chiese Andrew, rivolgendosi a Jean.
“Stavamo cercando Heymans – disse il giovane – vorremmo ringraziarlo per averci incastrato in due balli non proprio graditi… Kain con mia sorella ed io con una matta furiosa.”
“Ah, quindi non l’avete visto?” chiese Laura con un briciolo di preoccupazione.
“Sarà qui in giro – scrollò le spalle Jean – con tutta questa gente è difficile…”
“Oh eccovi qua! – disse proprio Heymans, comparendo all’improvviso – Mi chiedevo giusto che fine aveste fatto. La pista da ballo piange la vostra assenza.”
“Spiritoso!” sbottò il biondo mettendosi a braccia conserte e facendo un seccato broncio.
“Signor Fury – salutò Heymans, stringendo la mano all’uomo – è un piacere rivederla.”
“Ciao Heymans, ti trovo in splendida forma.”
“Grazie… Ehi, mamma, sono felice che tu alla fine sia venuta. Hai visto Riza?”
“Sì, l’ho vista – sorrise Laura – e sta davvero bene con quel vestito.”
“Sapevo che avresti fatto un ottimo lavoro.”
Jean lanciò una rapida occhiata ad Heymans e sentì che qualcosa non andava. C’era qualcosa di forzato in quella spontaneità, in quell’arruffare i capelli di Kain: era solo una sensazione, ma il primogenito degli Havoc si disse che qualcosa stava profondamente turbando il suo amico. Senza capirne il motivo sentì che era urgente portarlo via da quel posto.
“Vieni con me! – disse, con aria seccata, prendendolo per una manica – Ti devo ringraziare per quel ballo con Rebecca, anzi… per quei cinque balli.”
“Eh? Dove vorresti andare?” chiese lui, sorpreso.
“Ovunque quell’arpia non mi possa raggiungere. Kain, tu resta qui, va bene? Tanto Janet dorme e non corri rischi.”
“Va bene, Jean…” rispose il bambino.
“Kain, – chiese Andrew, guardando i due amici allontanarsi – è successo qualcosa?”
“Non credo, papà. Perché?”
“Niente, – scosse il capo l’uomo, prendendolo in braccio – allora, hai fame?”
“Parecchia: i primi balli con Janet sono stati abbastanza movimentati. Credi che ci sia ancora la torta al cioccolato? E’ davvero buonissima, signora Breda, perché non viene ad assaggiarla anche lei?”
“Che ne dici se prima recuperiamo tua madre?” sorrise Laura.
“Va bene!” sorrise il piccolo stringendosi con gioia al padre.
E così facendo non notò lo sguardo significativo che i due adulti si scambiavano: nella sua innocenza Kain era stato l’unico a non capire che c’era qualcosa che non andava in Heymans.
 
Adesso che si era allontanato da sua madre e da Andrew Fury, Heymans iniziava a respirare con maggiore facilità e smise del tutto la maschera di spensieratezza che si era forzato a mostrare in presenza dei due adulti. Sentiva Jean che lo trascinava ma non opponeva alcuna resistenza: più lo portava lontano da quel posto meglio era.
E così si ritrovarono fuori dal capannone.
Jean si guardò attorno e poi lo condusse su una panca che stava lungo la parete di legno.
“Che succede?” gli chiese quando si furono seduti.
“Niente.”
“No, non è vero. E’ successo qualcosa… e anche parecchio grave.”
Heymans scosse il capo: come poteva dire al suo migliore amico quanto aveva appena scoperto? Che tutta la storia che conosceva era una menzogna bella e buona…
“Si tratta di Henry?”
“Quale dei due?” chiese con cattivo sarcasmo.
“Eh?”
Il rosso si prese la testa tra le mani, sentendo come una forte emicrania.
“Jean…”
“Che c’è?”
“Perché i tuoi genitori hanno chiamato te e tua sorella così?”
“E’… è il nome di mio nonno, – rispose lui con esitazione – mentre Janet si chiama così perché faceva assonanza con il mio. Perché me lo chiedi?”
“Niente… è che all’improvviso mi è venuta la curiosità di sapere perché mi chiamo così.”
Henry era mio zio… mai io? Perché mi ha chiamato in questo modo? Porto il nome di una persona che voleva nascessi morto?
Erano pensieri veramente folli… eppure sentiva di aver bisogno di una base da cui ripartire.
“Non ti piace il tuo nome?”
“Non lo so più…”
“Senti, vuoi che vada a chiamare tua madre? Forse non stai bene…”
“No! Non chiamarla! Resta qui… per favore… ma non chiedermi niente, non adesso.”
“V… va bene.”
E Jean rimase in silenzio accanto all’amico, non riuscendo proprio a capire cosa fosse successo. Ma una cosa gli era chiara: aveva assolutamente bisogno di lui. E non gli importava di Rebecca e dei balli che aveva dovuto subire anche per colpa di Heymans.
Il mio migliore amico ha bisogno che io gli stia accanto, punto e basta.
 
La fiamma scoppiettò in maniera abbastanza energica e un ciocco bruciato a metà cadde provocando una marea di scintille. Forse il fuoco della stufa aveva bisogno di essere sistemato, ma la cosa aveva ben poca importanza per i due sedicenni che stavano scoprendo le delizie dei primi baci.
Perché naturalmente al primo era seguito il secondo e poi il terzo… e tanti altri, così belli, così attesi.
Vato aveva scoperto di essere più audace del solito: era stato lui a prendere l’iniziativa e a cercare di più rispetto al bacio a stampo che aveva iniziato tutto quanto. Aveva stretto a sé la sua ragazza, mordicchiandole le labbra, assaporandone il sapore del succo di frutta che aveva bevuto alla festa, gustandone l’incredibile morbidezza. E lei aveva ricambiato senza esitazione.
“Uh… uao… - mormorò Elisa quando si staccarono dopo diversi minuti che andavano avanti così – ehi… ehi, da quando sei così carico di iniziativa?”
“Oh, Eli… - sospirò Vato, abbracciandola – Eli…Elisa…”
“Che c’è?” chiese lei, dolcemente, ricambiando il suo abbraccio.
“E’ il più bel momento della mia vita… io… io…”
“Lo dici? – chiese lei, con dolcezza, inducendolo a guardarla meglio occhi – o è ancora così difficile?”
“Ti amo.” sussurrò lui, portando il viso a pochi centimetri dal suo, i ciuffi bianchi che si mischiavano con quelli castani. Perché quelle parole erano solo per lei, nemmeno per il resto della cucina o per la stufa.
Solo per Elisa.
“Te lo posso dire anche io?” disse lei, col medesimo tono di voce.
“Sì.”
“Ti amo… ti amo… ti am…” e il bacio non fece terminare la parola.
Rimasero così ancora per diverso tempo, prima che uno dei due parlasse di nuovo.
“Credi… - disse lei ad un certo punto – che dovremmo tornare al capannone?”
“Vuoi?”
“No… voglio stare con il mio ragazzo.”
“Ehi, è vero. Adesso siamo fidanzati, no?” sorrise lui. E gli sembrava così stupido aver aspettato così tanto.
“Eh già…” ricambiò il sorriso Elisa, prima di cercare di nuovo le sue labbra.
 
A mezzanotte iniziò lo spettacolo dei fuochi d’artificio e tutte le persone si radunarono nello spazio fuori al capannone per vederlo.
Janet, beatamente sprofondata nel mondo dei sogni, stava appellicciata alla madre con il braccio di James che le cingeva entrambe in un gesto di protezione.
Vincent e Rosie Falman si chiesero che fine avesse fatto il loro figlio, ma dopo che ebbero notato che anche Elisa era assente, si scambiarono un sorriso complice e si godettero i fuochi d’artificio. Non era giusto disturbare due ragazzi che finalmente decidevano di fare un fatidico passo in avanti: le lezioni di vita, specie quelle belle e meravigliose, andavano godute con calma e serenità.
Kain, a cavalcioni sulle spalle di Andrew, guardava estasiato quei giochi pirotecnici e si domandava quale meravigliosa scienza ci fosse dietro: perché lui in quel momento era così entusiasta della vita che aveva deciso di voler scoprire tutto del mondo, scrivendo ogni cosa nel suo quaderno e con la sua preziosa penna.
Ellie sorrideva vedendo suo figlio così vitale e felice, finalmente pieno di amici e privo di quei complessi che l’avevano turbato per tanto tempo. Anche Andrew intuiva che Kain era particolarmente lieto quella sera e dunque cercava di godersi appieno la sua famiglia… ma non poteva fare a meno di pensare a quell’aria così strana da parte di Heymans. Quando Laura aveva preso congedo da loro, decidendo di tornare a casa, avevano capito che presto sarebbe stato necessario parlare con quel ragazzo e la cosa non poteva fare a meno di preoccuparlo.
Proprio Heymans stava seduto in quella panca, assieme a Jean, ma non guardava i fuochi d’artificio. Fissava il terreno, cogliendo i bagliori di vari colori che a momenti alterni lo illuminavano. E continuava a ripetersi quella domanda a cui si era aggrappato con disperazione, nonostante fosse chiaro che era solo un minimo dettaglio di una storia molto più triste e occultata.
Perché mi chiamo così?
 Accanto a lui, Jean fissava i fuochi d’artificio con la testa bionda posata alla parete. Riteneva che a volte la vita fosse ingiusta: quella festa se la sarebbe voluta ricordare per i fuochi d’artificio, per il vestito di Riza, il suo sorriso, per le risate di quando Janet voleva ballare con Heymans… perfino per quella stupida di Rebecca. Non voleva ricordarsela per il suo migliore amico che soffriva in silenzio, senza riuscire a confessare che cosa lo turbasse tanto.
A poca distanza da loro, anche se non si erano visti, Roy e Riza guardavano affascinati lo spettacolo: un bellissimo legame di amicizia e fiducia che nessuno dei due si preoccupava di indagare oltre. Forse Rebecca aveva insinuato ad un appuntamento, ma non era così: semplicemente i due outsider si godevano la semplice gioia di sentirsi accettati e parte di un qualcosa di banale, ma non per questo meno importante. Con accanto quell’amica fidata, Roy era sicuro di poter superare le proprie difficoltà ed era convinto di riuscire a riappacificarsi con Vato nell’arco di pochi giorni.
E Vato ed Elisa… beh, loro avrebbero sempre ricordato quella festa del primo dicembre, ma non per i fuochi d’artificio.
A dire il vero quelli non li videro nemmeno di sfuggita.






il bellissimo disegno è opera di Mary_
^_^

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Capitolo 22
*** Capitolo 21. Sfumature dell'amore. ***


Capitolo 21. Sfumature dell'amore.

 

Il giorno successivo era domenica: un vero toccasana per tutti i ragazzi che, certamente, dopo la festa nel capannone, avevano ben poca voglia di riprendere le lezioni. Quel giorno di riposo sarebbe stato veramente gradito per smaltire i postumi della serata e riordinare le idee per i pettegolezzi che inevitabilmente si sarebbero fatti a scuola.
“Vato, svegliati – qualcosa di umido gli venne passato sulla tempia – tesoro, sono le dieci passate.”
“Mh?” mormorò il ragazzo aprendo gli occhi.
“Buongiorno dormiglione – sorrise Rosie, passandogli ancora la spugnetta tiepida, questa volta sulle palpebre assonnate – hai dormito bene.”
“Direi di sì – rispose al sorriso Vato, mettendosi a sedere nel letto – oh… sono ancora vestito.”
“Ieri come siamo tornati a casa, io e papà ti abbiamo trovato beatamente addormentato sul divano. Non ti abbiamo voluto svegliare e così ti abbiamo portato in camera e ti abbiamo messo a letto.”
Vato annuì, mentre i ricordi tornavano freschi nella sua mente: quando avevano capito che la festa stava terminando aveva riaccompagnato Elisa a casa, tenendola stretta a se. Poi era così inebriato e felice che come era rientrato nel salotto si era buttato nel divano ridendo e probabilmente si era addormentato senza nemmeno rendersene conto.
“E allora? – gli chiese la madre, con un sorriso malizioso che questa volta non diede nessun fastidio al ragazzo – Che è questo sorriso felice, mh?”
Per tutta risposta si trovò stretta nell’abbraccio entusiasta del ragazzo che iniziò a ridere di gioia, scoprendo che quella mattinata era la più bella della sua vita.
“Senti un po’, giovane innamorato, in salotto c’è Roy che ti aspetta. E’ venuto poco fa dicendo che voleva parlare con te: adesso fila a lavarti e cambiarti così io ti preparo la colazione.”
“Roy? E’ venuto qui?” si sorprese lui, staccandosi dalla madre.
“Sì, caro. Dai, alzati che metto ad arieggiare la stanza.”
La presenza dell’amico spinse Vato a prepararsi nella maniera più rapida che poteva tanto che quando entrò in salotto stava ancora finendo di infilarsi il maglione pulito. Non ce l’aveva con lui, in quel particolare giorno non poteva avercela con nessuno: forse, se non fosse stato per la gelosia che il gesto dell’amico aveva scatenato in lui, non si sarebbe concluso niente con Elisa. Sotto un certo punto di vista, Vato avrebbe dovuto ringraziarlo.
In ogni caso non poteva certo definirsi arrabbiato.
Roy si alzò dal divano e lo squadrò con aria interrogativa.
“Ciao.” lo salutò.
“Ciao, Roy.”
“Senti, – iniziò il moro con una lieve esitazione – volevo chiarire riguardo ieri. Non è stato molto bello quello che ho fatto e…”
“Elisa è la mia ragazza.” lo bloccò il più grande
“Lo so e credimi non ti forzerò più a fare il primo pas… aspetta, che hai detto?” sgranò gli occhi Roy.
“Elisa è la mia ragazza!” ripeté Vato arrossendo, mentre il sorriso felice ricompariva nel suo volto.
“Ieri sera?”
“Sì!”
I due stettero in silenzio per qualche secondo e poi scoppiarono a ridere con Roy che si accostò all’amico per dargli delle pacche sulle spalle. Si sentiva così felice e sollevato per questo grande traguardo di Vato: temeva che quanto era successo il giorno prima avesse in qualche modo rovinato le cose ed invece aveva inaspettatamente dato la spinta propulsiva nella direzione giusta.
A prescindere da quello che gli aveva detto Riza, agire a modo suo non si era rivelato sbagliato.
 
“Tu sei un fratellone cattivo!” esclamò per la centesima volta Janet.
“E smettila! – sbuffò Jean, mettendo una mano sulla testa della sorellina e tenendola lontana mentre lei cercava di dargli dei colpi – Oggi sei più noiosa del solito.”
“Non mi hai svegliato per i fuochi d’artificio! Me l’avevi promesso.”
“Avevo ben altro da fare che pensare a te! Senza contare che non ti saresti svegliata in ogni caso.”
“Jean – chiamò la voce del padre – vieni a darmi una mano in magazzino.”
“Arrivo, papà! – rispose lui, afferrando la sorella e portandola in cucina dalla madre – Mamma, tienila buona, io sto andando da papà. E tu finiscila di tenere il broncio, stupida!”
“Cattivo!”
“Irritante bambina, le femmine sono una peggio dell’altra! – dichiarò, mentre entrava nel magazzino e si accostava al padre – Starà tutto il giorno a lamentarsi, lo so.”
James scoppiò a ridere e gli diede una pacca sulla spalla.
“Ah, Janet è proprio come sua madre: anche lei teneva il broncio per giorni interi se qualcosa non le andava bene… e ringrazia che si tratta di tua sorella e non della tua fidanzata.”
“Non vedo che grande convenienza ci sia nel doverla sopportare da quando è nata.”
“E lei sopporta te: è reciproca la cosa, mio caro.”
“Io non sono irritante come lei!” protestò Jean, profondamente offeso dal paragone.
“Irritante? No, ti definirei piuttosto scalmanato ed impegnativo da gestire e Janet sebbene in modo diverso è proprio come te, solo che aggiunge una bella dose di caratterino materno. Aspetta che diventi adolescente e rimpiangerai questi capricci infantili.”
“Di bene in meglio… le adolescenti sono la razza peggiore.”
“Ci vogliamo riferire a qualcuna in particolare?” chiese con malizia James.
Jean non rispose direttamente alla domanda, ma non cercò di evitare l’argomento:
“Papà, perché la gente crede che se uno balla con una ragazza allora è per forza fidanzato con lei?”
“Ti riferisci alla signorina che ieri ti ha imprigionato?”
“Esattamente: domani a scuola sarà un vero disastro. Tutti diranno che siamo fidanzati, ma non è vero! Io quella proprio non la sopporto.”
“Mi dispiace per te, ragazzo mio, ma quella brunetta è nell’età in cui se ha deciso qualcosa la ottiene.”
“Che? Ma io mica la voglio sposare!” inorridì Jean, immaginandosi già scenari catastrofici di lui trascinato a forza all’altare.
“Rilassati, Jean – lo prese in giro il padre, mentre gli passava alcune cassette di conserve – hai quattordici anni: non farti venire pensieri assurdi.”
“Secondo me l’amore è qualcosa di complicato.” dichiarò il ragazzo dopo qualche minuto di silenzio.
James annuì e si sedette su una panca, facendogli cenno di raggiungerlo: sapeva che quando il figlio assumeva quel tono serio voleva dire che era profondamente perplesso. Sicuramente nell’arco di uno o due anni avrebbe visto le cose in maniera totalmente diversa, ma per ora i suoi primi approcci con il mondo femminile non l’avevano lasciato molto entusiasta.
“L’amore o le ragazze?”
“Entrambi, ma penso siano collegati tra di loro, no?”
“Probabilmente.”
“Con Riza non ho problemi – confessò Jean, fissando il soffitto – prima litigavamo, certo, ma poi siamo diventati amici e ora sto bene con lei. Mi piace come persona, ma anche se è una femmina sento che con lei mi posso confidare come farei con Heymans, certo, a livelli differenti. E’ un misto tra lui e Janet…”
“Questa è un’amicizia molto bella – annuì il padre compiaciuto – e dunque non ti crea nessun turbamento. Ed invece quell’altra?”
“Quella è la sua migliore amica, Rebecca. Un’arpia, prepotente ed irritante! A scuola, da quando l’ho incontrata, non perdiamo occasione per litigare…”
“Ma…?”
“Ma poi alla festa di ieri, invece di comportarsi come al solito, mi intrappola e comincia a chiamarmi tesoro o altre idiozie simili. Perché?”
Gli occhi azzurri di Jean si fissarono sul padre con profonda e desolata curiosità: era chiaro che questo cambio d’atteggiamento così repentino ed immotivato l’aveva colto impreparato.
“Beh, vedi figliolo… credo che tu le piaccia. Solo che alla sua età c’è modo e modo di dimostrarlo: litiga per attirare la tua attenzione e poi si lascia andare a quei gesti.”
“E che devo fare con lei?”
“Ti piace?”
“Ma che ne so! No… non credo. Cioè litigare con lei mi piace, ma in quell’altro modo no.”
“E’ solo che non sei abituato a simili situazioni.”
“Come mi devo comportare domani? Non so nemmeno se vorrà litigare o fare la smorfiosa…”
“Ah, figliolo, – sospirò James, arruffandogli i capelli – benvenuto nel mondo dell’amore. Però stai tranquillo: siete ancora molto giovani e non hai nessun obbligo nei suoi confronti, spero che questo ti sia chiaro.”
“E come si dice di no ad una ragazza senza farla soffrire? Se domani continua in quel modo vorrei dirle chiaro e tondo che non voglio avere a che fare con lei in quel senso… ma mi dispiace.”
“Non è proprio come litigare, vero?”
“Qualche giorno fa una mia compagna di classe è stata rifiutata da uno di terza e si è messa a piangere. Io non voglio far piangere quella ragazza, non nel modo in cui ha pianto Sara. Senza contare che ora tutte le altre della mia classe odiano quell’altro ragazzo.”
“Solidarietà femminile.” dichiarò James con l’aria di chi la sa lunga.
“Mi sono sembrate un branco di arpie pronte a scannare la preda.” confessò il ragazzo con un brivido lungo la schiena.
“Mh…”
“E se faccio piangere Rebecca… Riza è la sua migliore amica.”
“Paura che si comporti da arpia?”
“No, con Riza no – sospirò Jean – ma ho paura che ci resti male anche lei e lo consideri un tradimento della nostra amicizia.”
“Prima hai detto che quella ragazza ti è sembrata una brava persona, vero?”
“Sì, su questo ne sono sicuro.”
“Allora stai tranquillo che saprà separare le cose.”
“Speriamo. Stupida Rebecca! Ma guarda quanti problemi mi sta creando! E probabilmente in questo momento starà gongolando con estrema soddisfazione…” bofonchiò il ragazzo.
 
“Rebecca?” esclamò sorpresa Riza quando, uscendo dal cortile di casa, si trovò davanti l’amica.
“Ce ne hai impiegato di tempo per uscire! E’ un’ora che aspetto!”
“Un’ora? Mica sapevo che eri qui fuori. Potevi anche bussare, no?”
“Con tuo padre in casa? – scosse il capo la mora con aria infastidita – E se apriva lui?”
“Avrei aperto io… tienilo a mente la prossima volta. Ma che hai?”
Rebecca la fissò e perse tutta la sua espressione contrariata. Il viso affilato si intristì e dei lucciconi apparirono negli occhi scuri. Nell’arco di un secondo si aggrappò disperatamente all’amica.
“Riza! Ma che cosa ho fatto!? Perché non mi hai fermata ieri sera?”
“Che?” balbettò la bionda, irrigidendosi in quella stretta e capendo in parte cosa aveva dovuto sopportare Jean durante il ballo.
“Non capisci? – esclamò lei con disperazione – Domani sarà furente e non vorrà più saperne di me! Non ho chiuso occhio stanotte!”
“Ma come? Hai detto che l’avresti convinto a ballare e ce l’hai fatta…”
“Mi odia, ne sono sicura…”
“Oh no, dai non piangere così. Sono sicura che Jean, anche se magari sarà un po’ arrabbiato, non ti odia.”
“Sono stata una stupida… anche quando l’ho chiamato tesoro lui ha continuato a protestare.”
“…Becca…”
“Stai andando da qualche parte?” chiese la moretta, staccandosi dall’amica.
“A casa di Kain: ci siamo dati appuntamento per la merenda questo pomeriggio.”
“Capito… torno a casa e mi chiudo in camera. Se mamma mi vede piangere inizierà a stressare.”
“Finiscila – sospirò Riza, prendendole la mano – avanti, vieni pure tu. La mamma di Kain è una persona buona e paziente e sicuramente non si arrabbierà se porto anche te.”
“Grazie!” singhiozzò lei, aggrappandosi alla manica del cappotto.
Per tutto il tragitto cercò di consolare l’amica in modo che non si presentasse in maniera troppo disastrata a casa di Kain. Forse il suo piccolo amico si sarebbe sentito un po’ in imbarazzo dal vedere questo nuovo “incomodo” che conosceva a malapena, ma Rebecca era la sua prima e più grande amica, l’unica che l’avesse accettata senza problemi quando aveva iniziato a frequentare la scuola. In genere era una ragazza estremamente indipendente e vivace, poco restia a scene di questo tipo, ma quando succedeva Riza capiva che aveva estremamente bisogno di lei e dunque non la poteva lasciare. E considerato che la motivazione di questa tristezza era da ricercarsi nell’amore e nei ragazzi, forse era il caso di interpellare una persona adulta. Ovviamente la madre di Rebecca era da escludere… Riza l’aveva conosciuta e la riteneva troppo pettegola e per la tipologia di rapporto che aveva instaurato con la figlia era più per chiacchierare piuttosto che per capire le tempistiche di determinati problemi. Anche perché la ragazza era tutt’altro che disposta a mostrare simili debolezze nell’ambito familiare.
Così, quando Kain aprì la porta con entusiasmo, rimase sorpreso nel trovare due ospiti invece che una.
“Ciao Kain, ti ricordi di Rebecca?” disse Riza con lieve imbarazzo.
“Sì, ciao Rebecca…” salutò lui, ricordandosi perfettamente di colei che aveva tenuto imprigionato Jean per tutta la serata di ieri. Però sembrava così diversa rispetto alla festa: era tutta rannicchiata nel proprio cappotto e aveva le guance rigate di lacrime.
“Ciao… scusa… scusa se ci sono anche io…”
“Oh, ma piange! – esclamò il bambino facendole entrare – Si è fatta male?”
“Non proprio…” sospirò Riza.
“Ma che ha? Dai, passami i vostri cappotti, li appendo.”
“Grazie; era triste per una cosa e non mi andava di lasciarla sola.”
“Sei triste? Mi dispiace… eppure sembravi così felice ieri con Jean e…”
“No! Non dire quel nom…”
Troppo tardi: Rebecca scoppiò di nuovo a piangere e abbracciò il bambino con disperazione. Riza non aveva fatto in tempo ad avvisarlo che il nome del primogenito degli Havoc provocava una simile reazione.
“Ciao Riza – salutò Ellie, comparendo dalla cucina col vassoio della merenda – ti aspettavamo…uh?”
“Mamma!” chiamò Kain, impanicato in quell’abbraccio, non sapendo come consolarla.
“Mi scusi tanto…” disse la bionda rispondendo all’occhiata interrogativa di Ellie.
“Le fa male il nome Jean.” spiegò il bambino.
 
Mentre Ellie veniva messa al corrente del motivo per cui il nome di Jean suscitasse simili reazioni in Rebecca, il migliore amico del biondo usciva dalla sua camera e scendeva discretamente al piano di sotto.
La sera prima Gregor ci era andato giù pesante al locale della zia di Roy e non si era alzato nemmeno per pranzo e, probabilmente, sarebbe stato un bel risultato se per cena si sarebbe palesato. Ma questa volta Heymans stava facendo discretamente soprattutto per un altro motivo: voleva evitare il più possibile qualsiasi contatto con la madre.
I discorsi che aveva sentito la sera prima l’avevano fatto entrare in una fase di profonda confusione e si era accorto di non saper reggere la facciata di spensieratezza davanti alla donna. Già a colazione era stata difficile e durante il pranzo era stata la presenza di Henry a salvarlo da un profondo ed imbarazzato mutismo. Da una parte c’erano decine e decine di domande che voleva porre alla donna, in primis quella del suo nome, ma dall’altra aveva una tremenda paura di scoprire la verità sulla sua nascita. Senza contare che avrebbe fatto riaprire a sua madre vecchie ferite che facevano ancora male: ieri quando aveva parlato con il padre di Kain ad un certo punto aveva anche pianto… con che coraggio poteva farle domande che l’avrebbero fatta soffrire?
Mamma, scusa, lo so che forse la cosa migliore sarebbe parlare… ma adesso proprio non ce la posso fare.
Fu questo il suo pensiero mentre usciva da casa.
Laura ed Andrew si erano ripromessi di affrontare l’argomento con lui, ma la verità era che Heymans non si sentiva ancora pronto ad una cosa simile. O meglio, non lo era più ora che aveva scoperto che le cose erano profondamente diverse dalla realtà che, per quanto sgradita, era abituato a conoscere.
Tuttavia la sua naturale curiosità lo stava spingendo a cercare delle piccole risposte per conto proprio. In particolare voleva sapere di più dello zio di cui aveva appena scoperto l’esistenza. Ci aveva riflettuto quella notte ed era arrivato alla conclusione che, se si era preoccupato così per sua madre, allora di certo non era andato via dal paese… dunque era morto. Così, il ragazzo dalla chioma fulva si recò al cimitero che si trovava poco fuori il centro abitato: un piccolo recinto di legno delimitava una collinetta dove sorgevano in ordine sparso diverse lapidi. Non aveva paura, i cimiteri di campagna sono così tranquilli e placidi che ispirano pace e tranquillità… curiosi prati dove spuntano le lapidi invece che i fiori.
Non essendo una realtà molto grande i controlli potevano esser fatti con relativa rapidità: per esempio la parte più lontana ospitava tombe più vecchie e dunque non interessavano il ragazzo. La zona della sua indagine quindi si ridusse al resto del cimitero e gli ci volle solo una mezzoretta per effettuarla… si fermò davanti a qualche tomba conosciuta, come quella del vecchio sindaco che era morto quattro anni prima. Una particolare curiosità lo spinse ad osservare la lapide del nonno di Jean, che proprio come gli era stato detto, portava il medesimo nome. Passando oltre, poco distante, trovò anche la lapide della madre di Riza, Elizabeth Hawkeye e anche lì si fermò: forse erano persone per le quali provava un minimo di rispetto anche se non le aveva mai conosciute.
Ma con il nome Hevans ci sono solo pochissime lapidi e tutte di persone morte da almeno cinquant’anni. 
Forse prozii o parenti alla lontana, gente che comunque non aveva alcun legame con quello che interessava a lui. Il dato di fatto era che la tomba di Henry Hevans non esisteva ed Heymans fu costretto ad ammettere di essere di nuovo ad un punto morto.
Tornò davanti alla tomba del nonno di Jean e si sedette davanti ad essa.
“Forse… forse il mio è solo un nome che piaceva a mia madre, senza bisogno di strane spiegazioni – disse rivolgendosi a quel nome inciso – A dire il vero non so nemmeno come si chiamano i miei nonni, ma mi pare strano che mia madre mi abbia chiamato come uno di loro.”
Nessuna risposta: quel Jean non poteva essergli di conforto.
“E’… è strano. Insomma, che io sia figlio di Gregor e di mia madre non è nemmeno da discutere… e so benissimo di essere stato concepito prima del matrimonio ed è normale che i miei nonni non fossero felici. Le linee base della storia le so, che cosa mi dovrebbe importare di altri dettagli?”
Ancora nessuna risposta, ma forse in questo momento faceva comodo: non c’era niente che potesse obbiettare con le false convinzioni che stava cercando di imporsi.
Si alzò in piedi e serrò i pugni.
“Sai che c’è? – chiese rivolgendosi alla lapide – La situazione non cambia! Mio padre è sempre un ubriacone che influenza mio fratello e rende triste mia madre… ed io voglio con tutto il cuore allontanarlo da loro e da me, perché senza di lui stiamo meglio! Voglio proteggere la mia famiglia, tutto qui… non ho assolutamente bisogno di sapere chi è Henry Hevans o di sapere da dove viene il mio nome! Io sono Heymans Breda, punto e basta!”
Si girò di colpo e a passo convinto si diresse verso l’uscita del cimitero.
Tanto non sarà la storia di quattordici anni fa ad aiutarmi con quanto devo fare.
 
Non che Kain avesse qualche preconcetto nei confronti delle femmine, tutt’altro: era cresciuto con una madre assolutamente adorabile ed aveva trovato in Riza una persona meravigliosa che considerava ormai come una sorella maggiore. Elisa poi era una ragazza estremamente dolce e disponibile e anche Janet gli piaceva molto, sebbene la sera prima gli si fosse addormentata addosso.
Però c’erano femmine che andavano oltre qualsiasi forma di comprensione e l’amica di Riza rientrava proprio in questa categoria. Era rimasta a casa sua per circa un’ora, passando la maggior parte del tempo a piangere e raccontando di tutti i suoi dubbi su Jean. A dire il vero Kain era molto confuso in merito: la sera prima era tutta felice, anche se Jean le diceva brutte cose, e invece ora se ne disperava profondamente.
“Riza…” disse, quando la brunetta andò via, essendosi ricordata di avere l’interrogazione di storia il giorno dopo e non aver ancora ripassato gli ultimi capitoli.
“Dimmi, Kain.” fece lei, mentre si accomodavano nel divano davanti al caminetto, godendosi finalmente la quiete dopo la tempesta.
“C’è una cosa che non credo di aver capito… perché la tua amica oggi era così disperata per come si è comportato Jean ieri? Insomma ero accanto a loro da quando hanno iniziato a ballare… e Jean ha passato tutto il tempo a dirle un sacco di cose non proprio gentili. Ma lei sembrava proprio non farci caso, anzi era felice e diceva qualcosa tipo mi piace quando fai lo scontroso. Credo che a un certo punto l’abbia chiamato anche tesoro.”
“Posso darti un consiglio? Non fare mai caso al comportamento di Rebecca: è qualcosa di estremamente complicato e ci perderesti la testa.”
“Capisco. Beh, però sembrava stesse meglio dopo che ha parlato con te e la mamma: si è persino mangiata tre fette di torta e bevuta una tazza di cioccolata.”
“Doveva solo sfogarsi, tutto qui. Piuttosto, scusami ancora per averla portata a casa tua senza preavviso: ho abusato della vostra ospitalità.”
“Oh, ma non ti preoccupare, Riza – sorrise Kain, mettendosi a gambe incrociate sul divano: si stava così bene in quella casa che lui era privo di scarpe con solo i calzini addosso – per te questo e altro. E se abbiamo potuto aiutare Rebecca tanto meglio, no? E’ tua amica ed è normale che le voglia stare accanto, io farei lo stesso per te.”
“Davvero, Riza, non ti preoccupare – gli fece eco Ellie che sparecchiava il tavolo dove i ragazzi avevano consumato la merenda – è stato un piacere per me poter aiutare la tua amica a sfogarsi. L’importante era farle capire che non deve fare un dramma di certe cose… in fondo ha solo tredici anni ed è giusto guardare la situazione da un corretto punto di vista.”
La ragazza sorrise, accoccolandosi meglio tra i cuscini: adesso che l’emergenza era passata stava iniziando a godersi la pace e la tranquillità di quell’ambiente che aveva imparato ad amare.
“Spero che ti sia divertita ieri alla festa.” disse Kain all’improvviso.
“Tantissimo: non immaginavo che potesse essere così divertente.”
“Sai, è la prima volta che mi diverto tanto pure io. – confessò lui – In genere stavo sempre con mamma e papà, ma questa volta avevo anche tutti voi con cui parlare. E poi mi sono divertito anche a ballare con Janet… è proprio simpatica quella bambina. All’inizio non ci potevo pensare che fosse la sorella di Jean.”
“Secondo me le piaci molto.” sorrise Riza con divertita malizia.
“Le sto simpatico.” annuì Kain con innocenza, non cogliendo il sottinteso.
Riza non se la sentiva assolutamente di stuzzicarlo, ne aveva abbastanza con le questioni di cuore.
Alzando lo sguardo sopra il caminetto, vide una foto che prima non aveva notato.
“Oh che bella, sono i tuoi genitori?”
“Sì – sorrise Kain, osservandola alzarsi e la prenderla in mano – è stata fatta al pranzo per festeggiare la fine delle scuole della mamma. Sai, papà le ha chiesto di sposarlo il giorno stesso che lei ha terminato le superiori.”
“Davvero?” esclamò la ragazza sorpresa ma allo stesso tempo estasiata: queste sì che erano cose che le piacevano. Sua madre non le aveva mai raccontato dell’incontro tra lei e suo padre, ma per il tipo di rapporto che aveva con Berthold, la ragazzina preferiva non sapere ulteriori dettagli. Ma i genitori di Kain erano così dolci, disponibili e affiatati, che Riza intuiva che dietro non ci poteva essere che una bella storia d’amore.
“Però hanno dovuto aspettare l’anno dopo, perché mamma non aveva ancora la maggiore età.”
“Ma fosse dipeso da me, – dichiarò Ellie dalla cucina – l’avrei sposato il giorno stesso.”
“Vi conoscevate da molto, signora?” chiese Riza con grande curiosità.
La donna ricomparve, asciugandosi le mani con il grembiule e si sedette in mezzo a loro due, prendendo in mano la foto e fissandola con un pizzico di nostalgia.
“Vediamo, a scuola l’avevo visto altre volte, ma credo iniziai a notarlo quando avevo tredici anni come te, Riza, del resto è più o meno a quell’età che noi ragazze iniziamo a guardaci intorno, no?”
“Beh, sicuramente Rebecca lo fa.” ridacchiò lei.
“Sapevo il suo nome ovviamente, ma nelle mie fantasie era il meraviglioso ragazzo dei libri. Durante l’intervallo ne aveva sempre uno in mano…sai, studiava per prepararsi all’esame di ammissione. Però, ahimè, proprio l’anno che mi accorgevo di provare interesse, Andrew terminava la scuola: è più grande di me di quattro anni. E come se non bastasse nell’arco di pochi mesi sarebbe partito ad East City per l’Università.”
Riza rimase interdetta a quella rivelazione e si avvicinò ancora di più ad Ellie, curiosa di sapere come fosse possibile colmare quelle distanze così grandi e quella differenza d’età che da ragazzi vuol dire davvero tanto.
“Ma come ha fatto? Se lei aveva solo tredici anni…”
“Oh, – arrossì Ellie – ero solo una sciocca sognatrice… come partì per East City cercai di convincermi che non c’era niente da fare: io ero appena al secondo anno di liceo e figuriamoci se lui non avrebbe trovato una fidanzata della sua età ad East City o in paese. Però…”
“Però?” la incitò Riza.
“Beh, non chiedermi come o perché, ma ogni volta che tornava a casa, ogni due mesi circa, io ero sempre alla stazione ferroviaria: fortunatamente un mio zio lavorava lì e dunque avevo la scusa. E chissà perché ci trovavamo sempre a fare la strada verso il paese assieme.”
“Oh, che meraviglia, allora è stata lei a prendere l’iniziativa!”
“A dire il vero fu Andrew il primo a rivolgermi la parola: per le prime volte facevamo la strada assieme senza che nessuno dicesse niente, come se fosse una cosa puramente casuale. O almeno, questo è quello di cui ero convinta io… adesso so che dopo le prime due volte Andrew doveva aver capito qualcosa e penso che anche il mio atteggiamento troppo indifferente e la mia faccia fossero abbastanza eloquenti.”
“Mamma arrossisce sempre quando papà le dice qualcosa di romantico.” ridacchiò Kain.
“Spiritoso, davvero spiritoso.” lo rimproverò Ellie con finta aria offesa, arruffandogli i capelli.
“E come si è smossa la situazione?” chiese Riza, impaziente di sapere.
“Me lo ricorderò sempre, era la primavera del 1880: io avevo appena compiuto quattordici anni e mi sentivo così grande con i capelli  raccolti in una treccia e non più in due, come si fa da bambine. In ogni caso, iniziò la nostra solita silenziosa passeggiata verso il paese e, come sempre, mi domandavo se mai mi avrebbe notata. Poi a un certo punto lui si ferma, mi guarda e mi chiede…”
“Ellie Lyod, come si chiama il tuo amico invisibile che viaggia in treno proprio gli stessi giorni in cui torno in paese? Sarei proprio curioso di conoscerlo… altrimenti mi viene da pensare che tu venga per me.”
Fu Kain a dire queste parole, imitando il tono di voce paterno in una maniera così buffa che Ellie e Riza scoppiarono a ridere.
“E’ vero, disse proprio così: – ammise la donna, quando si ripresero – Kain conosce la storia a memoria, da piccolo gliela raccontavo sempre. Ti giuro che io rimasi veramente interdetta: non solo conosceva il mio nome, ma ovviamente aveva capito tutto… per dieci secondi mi sentii veramente umiliata e temetti che mi avrebbe respinto, del resto ero così piccola rispetto a lui che ormai era un uomo.”
“Non avrebbe mai potuto, si vede che siete fatti l’uno per l’altra.”
“In effetti non lo fece. – rise la donna accarezzando i capelli di Kain – Io presi coraggio e gli chiesi se la cosa gli creava tanti problemi… e lui mi sorrise e mi disse di no. Ti giuro, Riza, spero tanto che un giorno il tuo cuore possa battere all’impazzata come fece il mio quel giorno. Ovviamente all’epoca lui non pensava a me in termini d’amore, mi trovava simpatica, tutto qui, ma io avevo appena deciso che era l’uomo della mia vita. Sai come vanno le cose quando si rompe il ghiaccio, no? Iniziammo a parlare di East City, di quello che era successo in paese mentre lui era via… e così, ogni due mesi io lo aspettavo alla stazione ferroviaria e gli facevo da scorta fino a casa. Quando ebbi quindici anni gli chiesi se potevo anche scrivergli qualche lettera…sai, ero una grande grafomane all’epoca, ed iniziammo anche a scriverci: una lettera alla settimana, era questo il nostro patto. Le ho ancora tutte conservate.”
“E quando si è innamorato davvero di lei?”
“L’anno che terminò l’Università: io non ne avevo ancora sedici, lui ne aveva diciannove… ci vedevamo spesso, ormai, anche se non parlavamo ancora d’amore. Ma poi, alla festa del primo dicembre, lui mi chiese di ballare, una cosa che non aveva mai fatto con nessuna: fu la dichiarazione più bella del mondo…”
L’espressione di Ellie era totalmente estatica e romantica e all’improvviso Riza capì da chi Kain aveva preso la sua grande fantasia e tendenza ad idealizzare le cose. Ma era anche vero che quella storia sembrava uscita da un romanzo e sembrava che la realtà avesse cucito questa piccola favola romantica apposta per Ellie e suo marito.
 Quasi automaticamente pensò alla questione del ballo tra Roy ed Elisa e la conseguente gelosia di Vato. Sapeva che quella mattina Roy era andato a parlare con lui, ma non aveva ancora saputo l’esito della discussione. Sperava solo che le cose si fossero aggiustate, specie per la povera Elisa.
 
“Ciao.” salutò Elisa, uscendo di casa e sfregandosi le mani per far fronte al freddo.
“Ciao – rispose al saluto Vato – conviene che ti metti i guanti. Credo che tra poco nevicherà.”
“Mh, è quello che dice anche mio padre – annuì lei, frugandosi nelle tasche del cappotto e tirando fuori i caldi guanti di lana – E tu stai bene solo con quel maglione grigio, guanti e sciarpa?”
“Non credere: sotto sono ben riempito… è che il cappotto si è sporcato e mia madre l’ha messo a lavare. Mi sono dovuto arrangiare, tutto qui.”
“Allora, che vogliamo fare?” chiese lei, con le mani intrecciate dietro la schiena ed il naso che iniziava ad arrossarsi per l’aria fredda.
“Una passeggiata prima che faccia buio, ti va?” propose Vato.
“Va bene.” annuì Elisa, sistemandosi meglio la sciarpa.
Iniziarono a camminare, mano nella mano, come se tutti i mesi di imbarazzo ed indecisione non fossero mai esistiti. A Vato sembrava di essere nato per tenere Elisa così vicina a sé e gli sembrava così innaturale che fino al giorno prima ci fosse stata una strana ed invisibile barriera tra di loro.
Ma adesso…
“Lunedì a scuola come vuoi comportarti?” chiese ad un certo punto lei con uno sguardo significativo.
“Perché? Cosa dovrebb… oh già…”
E’ vero: a scuola inevitabilmente sarebbero state confermate le voci su lui ed Elisa e sicuramente i pettegolezzi l’avrebbero fatta da padrone almeno fino alle vacanze natalizie. La cosa lo fece sentire profondamente a disagio: purtroppo non poteva fare a meno di percepire tutti gli sguardi, i bisbigli e le risatine maliziose che sarebbero state fatte al suo indirizzo.
Un po’ come in prima elementare quando aveva scoperto che i suoi capelli bicolore non erano proprio normali per gli altri bambini: i suoi genitori non ne avevano mai fatto accenno e lui dava per scontato che anche gli altri accettassero la cosa come un dato di fatto. L’avevano fatto, certo, ma solo dopo diverse settimane di bisbigli e sguardi incuriositi.
Ora, la cosa era anche giustificabile: erano bambini di sei anni, con la naturale curiosità e mancanza di tatto.
Ma da parte dei più grandi mi aspetterei maggiore discrezione… suvvia!
“Allora?”
“Beh, è chiaro che ci saranno voci su di noi – disse infine, cercando di apparire il più calmo possibile – ma non importa, ci faremo l’abitudine, no?”
“Se vuoi facciamo finta di niente.”
“No – scosse il capo lui – non mi va di nasconderti… l’abbiamo fatto per troppo tempo, non credi?”
“Sono felice di sentirti dire queste parole.” sorrise lei abbracciandolo.
“Oh, davvero? – disse lui arrossendo e ricambiando l’abbraccio – Beh, sì… insomma… sei la mia ragazza…è… è più che normale, no?”
“Mh mh!” annuì Elisa.
Un primo fiocco cadde sui capelli castani di lei, seguito da un altro e un altro ancora. Nell’arco di un minuto una prima dolce nevicata dicembrina iniziò a scendere dal cielo, sopra i due ragazzi.
“Neve del due dicembre: sarà un inverno freddo, ma finirà prima del previsto.” annunciò lui.
Come i pettegolezzi.
 
Jean non era quello che si poteva definire un fratello affettuoso.
A seconda dell’umore considerava la sorellina una seccatura o un divertimento, più la prima che la seconda ad essere sinceri. Le volte che l’abbracciava o la prendeva in braccio era quasi sempre per evitare una situazione più complicata come lacrime o proteste.
Ora, quello che stava per fare era dettato dalla volontà di evitare il suo broncio per il resto della giornata e anche per i giorni successivi. Non c’entrava minimamente l’inevitabile forma di affetto che era stato obbligato a provare per lei… su imposizione dei genitori, ovviamente.
Entrò nella stanza della sorellina e la trovò che giocava con alcune bambole, comodamente seduta sul pavimento di legno. Come si accorse della presenza fraterna, la bambina assunse la sua espressione più imbronciata e fece finta di niente.
“Ciao…”
“Vattene!”
“Ancora arrabbiata?”
“Mh!”
“Senti – sospirò Jean, accovacciandosi accanto a lei – mi dispiace di non averti svegliato per i fuochi artificiali, davvero.”
“L’avevi promesso. Sei cattivo con me.” disse la bambina.
“Se vuoi mi faccio perdonare.”
“Non voglio perdonarti.”
“E se volessi farti una sorpresa?” chiese lui, cercando di assumere un’aria cospiratoria. In cuor suo detestava queste sceneggiate esclusivamente per creare l’atmosfera, ma a Janet piacevano. Infatti gli occhioni azzurri della bambina si puntarono subito su di lui.
“Una sorpresa?”
“Però devi venire in braccio e tenere gli occhi chiusi finché non te lo dico io.”
“Va bene – annuì lei, dopo una lieve esitazione, alzandosi in piedi e facendosi prendere in braccio – ma se è uno scherzo mi arrabbio davvero.”
“Certo, certo… come no…” sospirò Jean, portandola giù dalle scale. Aprì la porta ed uscì fuori in cortile, godendo dei fiocchi di neve che cadevano sul suo viso e sulla sua chioma dorata.
“Allora?” chiese Janet, che ancora non si rendeva conto di cosa stava succedendo.
“Va bene se per farmi perdonare faccio scendere la neve?” le disse con un sorriso, alzandole il mento verso l’alto in modo che i fiocchi le cadessero nel viso e non nei capelli dove non li sentiva.
“Neve? – esclamò lei aprendo gli occhi e fissando incantata lo spettacolo – Neve! Neve! Fratellone, sta nevicando!”
“Ferma, non scalciare! Ecco, ti faccio scendere… no! No aspetta! Janet, non correre così! Devi andare a metterti il cappotto!”
“Ahah! Mi dispiace per te ma non si ferma – rise James, uscito per aver sentito le grida entusiaste della bimba – Aveva tre anni l’ultima volta che ha nevicato, per lei è una vera meraviglia.”
“Aveva le tende tirate in camera e non se ne era accorta… le ho fatto una sorpresa.”
“Riappacificati?” chiese l’uomo.
“Sì, direi di sì.”
“Non avrei mai pensato che avresti fatto una cosa simile per lei: ci stavi ringhiando contro fino a dieci minuti fa.”
Jean sospirò e poi sorrise mentre un fiocco di neve gli cadeva sul naso.
“E’ che con tutti questi problemi di femmine e di amore, trovo che una sorella di sei anni sia la cosa più facile da gestire. Almeno con lei so come farle passare il broncio. Ehi! Buona! Che ti aggrappi così!?”
“Fratellone! Sei il migliore! Il migliore! Papà hai visto? Jean ha fatto nevicare per me!”
“Certo, bambina mia, certo…” sghignazzò James, dando una pacca sulle spalle del figlio.
Almeno quella sfumatura dell’amore era facile da gestire.
 




I bellissimi disegni sono di Mary
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Capitolo 23
*** Capitolo 22. Iniziative. ***


Capitolo 22. Iniziative.

 

La presenza di Janet rendeva impossibile parlare, ma Jean aveva chiaramente capito che quello che turbava Heymans non era svanito con il giorno in cui non si erano visti. Lo si capiva dalla sua espressione pensierosa e dalle distratte risposte che dava alla bambina quando veniva interpellato: era come se nella sua mente, in genere così acuta e pronta, ci fosse un problema di cui non era ancora riuscito a trovare la soluzione. E per Jean, vedere l’amico in una simile situazione era veramente inconcepibile.
La giornata scolastica non presentò occasioni per un dialogo aperto: avevano un compito in classe di scienze alle prime ore e interrogazione dopo la pausa. Proprio l’intervallo poteva essere un buon momento, ma la presenza di Janet e anche di Kain rese di nuovo impossibile qualsiasi avvicinamento.
Guardandolo sorridere ai due bambini, Jean si chiese come fosse possibile che non notassero quanto quell’allegria fosse solo di facciata: per lui era una cosa limpida e palese che quella persona non fosse il solito Heymans.
E così, dopo l’intervallo, considerato che in geografia era già stato interrogato, si preoccupò di osservare con attenzione il suo miglior amico che, come sempre, si faceva valere davanti alle domande dell’insegnante.
Non c’è esitazione nelle sue risposte, al solito… eppure è assente. Come se la sua mente fosse impegnata in ben altre faccende.
Non gli piacevano molto i cambiamenti d’atteggiamento nelle persone e quanto era successo con Rebecca ne era un esempio lampante. Tuttavia in questo caso era differente: c’era una problematica molto più pesante dietro quella disinvoltura, un muro che Heymans stava costruendo per difendersi da qualcosa.
Un qualcosa di cui non vuole parlare nemmeno al suo migliore amico.
“Stasera che devi fare?” chiese con noncuranza il biondo, quando le lezioni finirono ed iniziarono ad avviarsi verso il solito bivio.
“Niente di particolare, – rispose Heymans laconico – forse inizio a riordinare gli appunti di storia: credo che prima di natale ci sarà un compito sugli ultimi cinque capitoli.”
“Capisco. Senti, ti andrebbe di…”
“Jean! – chiamò una voce interrompendolo – Jean, aspetta!”
“Riza ti chiama.” fece il rosso, girandosi a guardare la loro amica che faceva ampi cenni.
“Vuole che vada da lei a quanto pare. Aspettatemi qui, faccio in fretta.”
Con agilità iniziò a ripercorrere in senso inverso il sentiero innevato, lasciando altre impronte sulla superficie bianca: aveva nevicato tutta la notte e certamente il candore sarebbe durato per diversi giorni.
“Dimmi, biondina.”
Riza sembrava profondamente imbarazzata e si torceva leggermente la tracolla, come se quanto stesse per dirgli la mettesse in difficoltà.
“Jean, senti, c’è Rebecca dietro quell’albero che vorrebbe parlarti.”
“Rebecca, eh? – sospirò Jean: si era completamente dimenticato di quel particolare. Nessuno a scuola aveva fatto commenti o risatine o, per lo meno, lui non se ne era reso conto. Ma se doveva essere sincero gli sembrava una cosa così stupida in confronto a quello che doveva preoccupare Heymans… perché ormai il biondo era arrivato alla conclusione che riguardava la sua famiglia, e dunque era grave. – E perché ha mandato avanti te?”
“Perché aveva paura che tu non le avresti nemmeno rivolto la parola. Sono stata io a convincerla a venire qui… ieri ha pianto tanto.”
“Pianto? E perché doveva farlo? Era così felice di stritolarmi al ballo.”
“Sì, ma si è resa conto che a te non ha fatto piacere ed è dispiaciuta. Te lo chiedo da amica, Jean, la potresti perdonare? Lei ci tiene tanto.”
“E se non lo facessi? Tu saresti sempre mia amica?” le chiese con serietà.
Riza lo guardò con perplessità e ci rifletté per qualche secondo, una cosa che il biondo approvò: non erano risposte da dare a cuor leggero.
“Sì, lo sarei ancora. Lei ha sbagliato, tutto sommato, e non posso prendere decisioni per te. Non te lo sto imponendo, te lo sto chiedendo perché è la mia migliore amica e mi dispiace vederla soffrire.”
“Non mi deludi, Riza Hawkeye, brava. – sorrise con sincerità il ragazzo, sistemandole una ciocca di capelli che le sfuggiva dal berretto di lana – Dai, chiamala pure. Vediamo di risolvere la questione.”
 Riza annuì e girandosi fece un segnale verso un paio di alberi dalle chiome innevate. Da dietro di essi spuntò fuori il cappotto giallo di Rebecca che, con passo esitante si avvicinò a loro. Teneva lo sguardo basso e, proprio come aveva fatto Riza poco prima, si tormentava la tracolla con le mani guantate.
“Mi si dice che volevi parlarmi.” fece Jean, vedendo che lei non prendeva l’iniziativa. Come poteva essere diversa senza il solito atteggiamento spavaldo.
“Ti… ti volevo chiedere scusa – balbettò la mora dopo qualche secondo – non… non volevo che ce l’avessi con me per il ballo.”
“Eppure le proteste le hai sentite da subito.”
“E’ che ci tenevo… a ballare con te.”
Era una dichiarazione ovviamente, ma Jean non la capì. Anzi, per essere corretti, non volle capirla perché non se la sentiva assolutamente di iniziare con una ragazza qualcosa che andasse oltre l’amicizia o il litigio occasionale. Per quella strana e semplice forma di maturità che chi lo conosceva apprezzava tantissimo, sentiva che sarebbe stato profondamente scorretto cominciare a pensare a qualcosa per cui lui non era pronto e, probabilmente, nemmeno lei.
“Senti, – dichiarò, mettendosi le mani nelle tasche – non sono arrabbiato, va bene? Solo, la prossima volta cerca di comportarti meglio.”
Gli occhi scuri di lei si rischiararono, come se un grande peso le fosse stato levato dal cuore. Un cambio repentino d’umore come solo una tredicenne caratterialmente decisa come Rebecca poteva fare.
“Davvero? Grazie! Grazie!”
Jean la fissò con aria leggermente dubbiosa, trovandola ancora una volta un essere di natura sconosciuta e pericolosa. Comunque riteneva la questione definitivamente chiusa e si girò per raggiungere Heymans e Janet, ma non mancò di fare un lieve sorriso a Riza, la quale contraccambiò con sincera gratitudine.
Come tornò da Heymans e da sua sorella, il rosso sorrise.
“Ti stava prenotando per i prossimi balli?”
“Spiritoso, davvero. No, a quanto pare voleva solo chiedermi scusa: altra conferma di quanto le ragazze siano complicate.”
“Io non lo sono!” disse Janet, con estrema convinzione.
“No che non lo sei – annuì Heymans, accarezzandole la guancia e prendendola per mano – tu sei una delle cose più chiare e semplici del mondo, Janet. E non sai quanto questo sia importante per me.”
Quelle parole lasciarono molto perplesso Jean.
Decisamente c’è qualcosa che non va.
 
“Una questione importante?” chiese Elisa.
“Sì, è quello che ha detto – annuì Roy – Oggi non sarebbe tornata a casa assieme a noi perché doveva risolvere una questione importante. Credo c’entri la sua amica Rebecca: oggi durante l’intervallo le ho viste e lei mi sembrava parecchio giù di morale.”
“Chissà, forse riguarda quel ballo un po’ forzato con Jean alla festa – propose la ragazza con notevole lungimiranza – si vedeva chiaramente che lui non era felice e forse lei c’è rimasta male.”
“Mah, secondo me Rebecca è un po’ strana – commentò Roy, scrollando le spalle – ma è anche vero che è una buona amica di Riza.”
“Certo che si è andata proprio a cercare un ragazzo difficile: – ammise Vato, intromettendosi nella discussione – Jean non mi pare molto propenso a queste cose.”
“Lui ed Heymans sono molto per le loro.”
“Dici, Roy? Eppure Riza e Kain non hanno molti problemi a relazionarsi con quei due.”
“Non pensare che abbia dimenticato il mio ambizioso progetto, Vato – sorrise il moro, guardando in tralice l’amico – La primavera inizia a marzo e ora siamo a dicembre. Devo solo capire la tattica giusta da adottare con loro, tutto qui.”
“Di che ambizioso progetto parli?” chiese Elisa con aria confusa.
“Della mia personalissima squadra o gruppo che dir si voglia. Bene, io sono arrivato… vi lascio tubare assieme per l’ultimo tratto di strada.”
“Roy!” arrossì malamente Vato che, tutto sommato, riteneva che i pettegolezzi a scuola fossero stati meno del previsto. Tuttavia non mancò di notare come Elisa ridacchiasse con aria smaliziata.
“E non dimenticare – esclamò il moro, aprendo la porta del locale di sua zia – se non fosse stato per i miei due balli con Elisa, sareste ancora allo stesso punto morto!”
Non si girò a vedere la reazione dell’amico: si limitò a ridacchiare tra se e se mentre percorreva la sala dal pavimento lucido e le sedie ancora sopra i tavoli. Tuttavia si accorse di non essere solo: al bancone c’era sua zia che parlava con Vincent Falman, il berretto della divisa posato sul piano di legno.
“Capitano.” salutò il ragazzo, avvicinandosi ai due adulti.
“Ciao, Roy.”
“Ehilà, Roy – boy. Tutto bene a scuola.”
“Certo, Madame.”
Sarebbe stato davvero curioso di conoscere l’argomento di cui stavano parlando prima che lui entrasse, ma sapeva bene che non era qualcosa che lo riguardava: la discrezione era la prima regola nel rapporto tra questi due personaggi. Di sicuro si trattava di qualche persona non proprio raccomandabile, ma Roy ritenne che non era il caso di prolungare la sua presenza lì.
“Io vado in cucina a mangiare qualcosa.” annunciò.
“Ah, tieni questa – gli disse la donna, prendendo una lettera dalla tasca del suo vestito – è arrivata stamattina per te.”
Il ragazzo prese la busta di carta ed un lieto sorriso gli apparve nei bei lineamenti: solo una persona gli spediva delle lettere e come lesse il mittente ed il luogo di provenienza non ebbe alcun dubbio. Del resto erano passati più di due mesi dall’ultima volta che Maes gli aveva fatto avere sue notizie.
Andò in cucina e posò la busta sul grande tavolo dove il cuoco si dava da fare ogni sera. Decise di prepararsi un paio di panini giusto per mettere a tacere lo stomaco e si prese tutta la calma possibile: voleva godersi la lettera del suo amico senza alcun impedimento, come qualche ingrediente da aggiungere all’ultimo.
Comunque nell’arco di cinque minuti era comodamente seduto e, con la bocca piena di companatico, apriva la busta, compiacendosi nel vedere che c’erano diversi fogli scritti con la grafia leggermente disordinata del suo amico. Leggere le lettere di Maes era sempre un vero piacere per Roy: era sempre stata la parte allegra della coppia, a volte troppo tanto da irritare l’altro, e le sue lettere rispecchiavano in pieno questa sua caratteristica. La descrizione delle sue giornate nella capitale con la scuola, la vita a casa e le novità di quel posto era vivida e carica di dettagli arguti e interessanti. Sembrava che vivesse in quel posto da sempre e non che si fosse trasferito solo qualche anno prima.
Roy, questa volta, notò un particolare che nelle altre lettere aveva sempre fatto passare in secondo piano: Maes parlava spesso dei suoi nuovi compagni di scuola e sembrava che avesse trovato un buon gruppo in cui inserirsi. Del resto era un ragazzo così aperto che era scontato che non avesse problemi a farsi degli amici.
Questo fece riflettere profondamente Roy: nello stesso arco di tempo lui aveva stretto i rapporti solo con Riza e, in misura minore, con Kain, Vato ed Elisa. Erano persone completamente diverse dal suo grande amico e si chiese se anche per Maes era stato naturale stringere amicizia con persone che erano differenti da lui. Non che fosse invidioso di questa differenza numerica di amicizie, era un fervido sostenitore del detto pochi ma buoni, tuttavia gli venne spontaneo chiedersi quanto la sua attitudine ad essere leader giocasse a suo favore in un simile posto. Forse a Central non avrebbe avuto problemi a trovare un gruppo in pochissimo tempo.
No, aspetta, che stai dicendo? Anche qui hai avuto la possibilità di essere il capo di una banda, te ne sei già dimenticato? Ma non hai voluto… e come potevi, considerati gli idioti che la componevano?
Lui aveva bisogno di stimoli, non di ragazzotti che pendevano dalle sue parole come ebeti. Riza, Vato, Kain avevano la capacità di farlo ragionare su se stesso: avevano delle personalità così differenti che erano in grado di volta in volta di fargli scoprire sempre nuove sfaccettature del suo ego. E lo stesso valeva anche per Heymans e Jean: per quanto avesse un pareggio in sospeso con Jean, Roy si rendeva perfettamente conto di desiderare la stima di quel ragazzo così grosso e biondo. Gli riconosceva oltre alla prestanza fisica una solidità di principi davvero formidabile che non riusciva a riscontrare negli altri.
Prima o poi riuscirò a guadagnarmi il tuo rispetto e la tua stima, Jean Havoc, te lo giuro.
In ogni caso era molto contento: quel pomeriggio avrebbe scritto una lettera di risposta al suo grande amico e certamente aveva tante cose da raccontare. Come spesso diceva Riza, quel piccolo angolo di mondo si poteva rivelare un posto davvero interessante.
 
“Ciao, mamma.” salutò Heymans rientrando a casa.
“Ciao, tesoro, tra qualche minuto è pronto in tavola.”
“Siamo solo in due?” si sorprese il ragazzo, vedendo il tavolo apparecchiato solo per loro.
“Sì, Henry ha detto che pranzava con dei suoi amici, tuo padre invece non si sente molto bene.”
Heymans annuì e non fece commenti in merito: era solo un modo gentile per dire che Gregor era a letto. Il rosso si preoccupò leggermente: era già il secondo giorno di fila che l’ubriacatura lo stendeva per così tante ore.
Anche se per andare a bere la forza di alzarsi la trova sempre.
“Heymans?”
“Sì?”
“Ti ho chiesto se è andato tutto bene a scuola.”
“Oh, sì. Sono stato interrogato in geografia e ho preso otto e mezza.”
“Davvero? Che bravo che sei, tesoro, sono veramente fiera del tuo rendimento a scuola.”
“Grazie…”
Ancora quel silenzio imbarazzante: Heymans sapeva di doverlo spezzare per non destare troppi sospetti, ma si sentiva completamente bloccato. Gli sembrava che la minima parola avrebbe irrimediabilmente portato a quella particolare resa dei conti che voleva evitare il più possibile.
I suoi pensieri furono interrotti da dei rumori provenienti dal piano di sopra.
Credette che Gregor stesse per scendere, ma ad un certo punto lo sentì chiamare sua madre.
“Mamma…” mormorò alzandosi in piedi, mentre un brivido gli percorreva la schiena. Non gli piaceva per niente la sfumatura di furiosa impazienza che aveva quella voce impastata che, nonostante fosse attutita dalla porta chiusa della camera, risuonava in tutta la casa.
“Heymans – sussurrò Laura, alzandosi a sua volta – fai il bravo e vai fuori…”
“Sei pazza! – fece lui andandole accanto e prendendola per il braccio – Mamma, non andare da lui… lo senti? E’ ubriaco, non è in sé.”
“Se non vado diventerà di pessimo umore.”
“Vado io allora!”
“Heymans – sibilò Laura, prendendolo per le spalle – ricordati quello che mi hai promesso. Non provocarlo mai! La posso gestire, non è la prima volta che succede.”
Laura!
La voce dal piano di sopra fece sussultare entrambi e Laura strinse d’impulso il figlio a sé. Heymans la sentì tremare e si rifiutò di lasciarla andare, ma le mani di lei furono estremamente decise nello sciogliersi dalla sua presa.
“Mamma, ti prego…” balbettò, paralizzato dalla paura primordiale che stava suscitando in lui quella situazione in cui non si era mai trovato. Evidentemente le altre volte che era successo lui non era in casa.
Scappavo… scappavo via e la lasciavo sola ad affrontare tutto questo!
“Ssssh, andrà tutto bene, amore mio. Tu fai il bravo – sussurrò Laura, baciandolo sulla fronte prima di avviarsi verso le scale – e stai tranquillo.”
Per quanto tempo sua madre rimase nella stanza da letto? Heymans non seppe quantificarlo: rimase lì in piedi a fissare le scale, incapace di distinguere le voci ed i rumori per il forte rombo che sentiva in entrambe le orecchie. Fu un tempo eternamente lungo durante il quale il suo stomaco era attorcigliato per l’angoscia e tutto il suo corpo voleva scappare via da lì. Ma nonostante tutto non ci riusciva: restava fermo come un cucciolo impaurito che attende la madre che nel frattempo lotta contro il predatore per difenderlo.
Più volte si disse che la cosa migliore era andare a cercare aiuto… chiamare Andrew Fury.
Ha detto che, se papà alza le mani, lui interverrà… ci aiuterà, deve farlo.
Inconsapevolmente si affidò a quell’uomo più di quanto sarebbe stato disposto a fare in condizioni di lucidità mentale. Arrivò addirittura a pregare che comparisse all’improvviso dalla porta e andasse a salvare sua madre, portandola via dal pericolo.
Alla fine, tuttavia, Laura scese dalla scale con aria stanca e sfinita, ma apparentemente illesa.
“Mamma!” la chiamò, riuscendo finalmente a muoversi e correndole incontro.
“Ssssh, fa piano – consigliò lei con voce esausta, arrancando fino al tavolo di cucina e sedendosi – si è calmato… è andato tutto bene.”
“Ti ha picchiato? Ti ha fatto qualcosa?” ansimò il ragazzo, prendendole le mani.
“No… no, amore mio – delle lacrime dovute alla tensione iniziarono a scendere dagli occhi grigi di lei – scusa… scusami tanto, non avrei mai voluto spaventarti così.”
Madre e figlio si abbracciarono: un contatto fisico brusco e forte ma necessario per far fronte alla paura e all’angoscia che attanagliava entrambi. Heymans sentiva il corpo della madre, così fragile eppure così forte, scosso da sommessi singhiozzi.
Era così che doveva sempre finire? Con lacrime che quella donna non avrebbe mai smesso di versare?
“Mamma, – mormorò – sto bene, te lo giuro. Non… non sono spaventato.”
“Non riesco più a proteggerti, Heymans – confessò Laura, alzando gli occhi su di lui e riuscendo a fare un pallido sorriso – più passano i giorni e più mi sento impotente. Amore, amore mio, sei così forte, così maturo… che prezzo ti sto facendo pagare?”
“Ma che dici? Mamma, non devi pensare niente di simile…”
“Avrei voluto dare a te e ad Henry una famiglia migliore… un padre…”
“… come Andrew Fury?” chiese il ragazzo senza pensarci.
Gli occhi di Laura si dilatarono per la sorpresa, ma Heymans tenne lo sguardo su di lei. La situazione era andata a rotoli a tal punto che tanto valeva tirare fuori quel nome.
“Perché dici così?”
Il ragazzo non disse nulla, ma era chiara la risposta. Il suo strano comportamento dal giorno prima, quell’esitazione a parlare ed ora questo riferimento ad Andrew, indicavano che aveva ascoltato quella conversazione avvenuta durante la festa del primo dicembre.
“Lo so, non avrei dovuto, – disse infine, dopo una lieve esitazione – ma come ti ho visto andare via con il padre di Kain non ho potuto fare a meno di seguirvi e di ascoltare…”
“Cielo, Heymans… - sussurrò Laura, prendendogli il viso tra le mani e posando la fronte sulla sua – piccolo mio… mi dispiace, mi dispiace tanto.”
“Mamma… tu… tu non hai più tentato il suicidio, vero?” chiese il ragazzo con la voce rotta.
“No, amore! – lo abbracciò lei, cullandolo appena – Come potrei lasciarvi soli? Come potrei separarmi da te e da tuo fratello?”
Heymans a quelle parole sentì qualcosa che si spezzava dentro di lui: una diga che aveva eretto a protezione sua e degli altri, dove arginare tutte le lacrime che potevano turbare sua madre. Le prime iniziarono a scendere sulle sue guance e si strinse ancora di più a Laura, scoprendo di avere un tremendo bisogno di lei e del suo amore.
“Dimmi solo… solo che non volevi che nascessi morto!” singhiozzò nella disperata consapevolezza di essere stato odiato dalle persone che avrebbero dovuto amarlo. Perché anche se erano fatti successi quattordici anni prima e avevano coinvolto gente che lui non aveva mai conosciuto, adesso Heymans capiva benissimo che non poteva fare niente per sua madre se prima non trovava la pace con se stesso e con quanto era accaduto.
 
“Oggi Heymans non viene a studiare a casa?” chiese Angela.
“No – scosse il capo Jean, seduto al tavolo di cucina intento a fare i compiti di geometria – non era dell’umore giusto.”
“Avete litigato?”
“No, fra noi va tutto bene.” rispose lui mettendosi la penna in bocca e rinunciando a concentrarsi su quell’ipotenusa che proprio non voleva tornare. A dire il vero doveva svolgere ben quattro problemi di quella materia, ma era fermo sul primo da almeno mezz’ora: non perché in geometria andasse male, ma aveva la testa decisamente altrove e la mancanza di concentrazione era la cosa che l’aveva sempre messo in difficoltà. Heymans l’aveva aiutato soprattutto in questo: stare attento e riflettere.
“Mamma, è normale che un’amica prenda un’iniziativa per aiutarne un’altra?”
“In che senso?”
“Ti è mai capitato di vedere una tua amica in difficoltà e convincerla a smuoversi? Addirittura andando tu a parlare con chi le interessa?”
“Ovvio – sorrise Angela, mettendo a posto l’ultimo piatto lavato e asciugandosi le mani – è molto comune tra le ragazze aiutarsi in questo senso, specie tra grandi amiche. Perché? E’ successa una cosa simile?”
“Sì, è andata così.”
“Però…? Oh, dai, si vede che vuoi chiedere altro?”
Jean abbassò lo sguardo sul libro dove i triangoli sembravano farsi beffe di lui. Perché oggi qualsiasi cosa gli pareva priva d’importanza? Aveva quasi voglia di mollare la geometria per sempre, tanto a che gli sarebbe servita? Quell’ipotenusa mancante non aiutava di certo Heymans.
“Mamma, io credo che Heymans abbia qualche problema con la sua famiglia, – disse preoccupato, alzando lo sguardo sulla donna che si era seduta accanto a lui – ed è qualcosa di nuovo e grave di cui non riesce nemmeno a parlare.”
Angela si fece seria e triste in volto e accarezzò la guancia del figlio.
“Ovviamente ti rendi conto che è una cosa ben diversa rispetto alla solidarietà tra ragazze di cui parlavamo prima, vero?”
“Abbiamo fatto un giuramento: – ammise Jean dopo qualche secondo – ci siamo promessi di essere sempre fratelli e che quando uno ne avrebbe avuto bisogno, l’altro ci sarebbe stato. Io sento che ha bisogno di me… ma lui non vuole dirmi niente. E’ giusto che io prenda l’iniziativa se lui non vuole?”
Angela rifletté qualche minuto prima di dare una risposta: Jean si accorse che era come se stesse soppesando su quanto dire.
“La storia di quella famiglia è abbastanza complessa, come ben sai. Ti voglio confessare una cosa, Jean – sorrise, nel prendergli le mani – quando in prima media i tuoi insegnanti decisero di affiancarti ad Heymans, ero leggermente preoccupata. Le circostanze della sua nascita hanno fatto in modo che molta gente in paese non veda di buon occhio lui e Laura… e avevo timore che questa situazione di disagio in qualche modo coinvolgesse anche te: e tu eri così impanicato perché ti stavi rendendo conto delle oggettive difficoltà che avevi nello studio.”
“Perché parli solo di Heymans e sua madre? Henry non lo metti in mezzo?”
“Vedi, bambino mio, a volte… ci si scontra con una parte delle persone molto sgradevole: l’ipocrisia. Henry è nato che Gregor e Laura erano già sposati da tre anni, capisci? E’ stato concepito all’interno del matrimonio, ma Heymans no: è una differenza che per la gente vuol dire tanto.”
“Trovo che sia una cosa molto stupida.” disse Jean senza alcuna esitazione.
“Questo perché io e tuo padre abbiamo dato a te e a Janet determinati principi. E sono stata davvero felice quando ho visto che non solo non ti creava problemi frequentare Heymans, ma anzi stringevi amicizia con lui… sai, Laura più di una volta mi ha ringraziato tantissimo perché permettevo a te e Janet di frequentarlo.”
“Ma Heymans non ha mai avuto problemi di socializzazione a scuola…” scosse il capo Jean con ostinazione.
“Hai mai visto Heymans andare a casa di altri vostri compagni? Anche alle elementari… pensaci bene. A te capitava abbastanza spesso che venissi invitato per merenda o qualche festa, no?”
“No – c’era una prima forma di tristezza negli occhi azzurri del ragazzo, ma Angela sapeva che era abbastanza grande per capire fino in fondo la situazione – non possono essere così bastardi, mamma. Non… non alle elementari…”
Per una volta tanto la donna non si arrabbiò per quel termine maleducato usato dal figlio.
“Io ammiro Laura per come è riuscita a proteggere suo figlio e a farlo crescere in un modo così bello e buono. E’ un ragazzo splendido che amo come se fosse fratello tuo e di Janet… e da madre ti dico che i sacrifici fatti da quella donna non sono una cosa che molti sarebbero in grado di fare.”
“Deve essere successo qualcosa con sua madre! – esclamò Jean, alzandosi in piedi – E’ così: tutto è iniziato alla festa nel capannone e c’era lei, l’ho vista! Quando gli ho chiesto cosa non andava e ho proposto di chiamarla lui me l’ha proibito… come sono stato idiota a non capirlo subito!”
“Jean, calmati! – lo ammonì Angela – L’abbiamo detto prima: è una questione complessa.”
“Proprio perché è complessa lui ha bisogno di me! – disse il ragazzo, chiudendo il libro ed il quaderno – I compiti li finisco dopo cena, adesso devo andare da lui, è molto più importante.”
Senza aspettare risposta dalla madre corse all’ingresso e afferrò il cappotto senza nemmeno preoccuparsi di indossarlo. Iniziò a correre per il sentiero a tutta la velocità che gli consentiva la neve ancora fresca: rischiò più volte di cadere o scivolare, specie mentre cercava di mettersi l’indumento addosso e alla fine lo fece con una malagrazia tale che era tutto storto.
Si sentiva un completo idiota, il peggior amico del mondo. Possibile che la sua lentezza mentale fosse tale da avergli impedito di cogliere da solo tutti quei dettagli che in quel momento gli apparivano così naturali? Perché per quanto Heymans fosse davvero una persona selettiva, come dimostrava il rispetto che gli altri ragazzi avevano nei suoi confronti senza che lui però concedesse l’amicizia, alle elementari doveva aver subito una tremenda ostracizzazione senza nemmeno rendersene conto pienamente.
E io che facevo? Perché non l’ho mai considerato? Dannazione a me!
Probabilmente mandò in frantumi tutti i record di velocità di corsa sulla neve: arrivò in paese che aveva le gambe doloranti per lo sforzo che aveva richiesto ai muscoli. I polmoni sembravano pronti ad esplodere e solo la sua forza di volontà lo obbligò a non stramazzare a terra, ma imboccare la strada laterale che aveva imparato a conoscere.
“Avanti apri! – esclamò bussando alla porta. Non gli importava assolutamente se gli apriva il padre: l’avrebbe preso a testate se osava dirgli qualcosa – Forza Heymans! Aprimi, dai!”
“Jean?” il rosso si sorprese aprendo. Era chiaro che aveva pianto da poco, il viso pallido e leggermente tirato.
“Di male in peggio, eh?”
“Perché hai il cappotto messo così male? E hai corso… sei rosso in viso ed hai il fiatone… senti, c’è mio padre che dorme e…”
“Finiscila! – disse rabbiosamente Jean, afferrandolo per il colletto del maglione e tirandolo fuori di casa – Vuoi smetterla di far finta di niente?”
“Cosa?”
Gli prese con rabbia la mano dove si era fatto il taglio del giuramento e la strinse nella sua dove aveva fatto altrettanto. Obbligò l’amico ad alzare il braccio in modo che quella stretta fosse all’altezza dei loro visi.
“Quando avrai bisogno di me io ci sarò! E’ questo che ci siamo giurati, Heymans Breda! E tu adesso hai bisogno di me, ma sei così stupido da non volermelo dire!”
“Jean…” iniziò Heymans, capendo a cosa fosse dovuta quella sfuriata.
“Non sarò una cima nello studio e probabilmente sono stato così idiota da non capire tante cose di te finché qualcun altro non me le ha sbattute in faccia… ma, cazzo, Heymans, sono il tuo migliore amico – la sua voce si ruppe dalla commozione – non puoi chiedermi di stare a guardare mentre tu soffri per qualcosa di grave. E’ a questo che servono i giuramenti… che senso… che senso ha se non ti fidi di me?”
“Stupido…”
“Lo so, sono uno…”
“No, lo sono io – mormorò Heymans, alzando gli occhi grigi su di lui – scusami… sono il miglior amico più stupido del mondo. Ultimamente mi sono accorto di essere particolarmente bravo a fare le scelte sbagliate… anche con te.”
“Che è successo con tua madre? Perché si tratta di lei, vero?”
“Resterà tra me e te? – chiese lui dopo qualche secondo – E’ importante, Jean.”
La stretta di mano del biondo si fece più salda.
“Sono qui per questo.”
“Va bene, aspetta che prendo il cappotto… meglio parlarne fuori.”
Mentre andava in stanza a prendere l’indumento per proteggersi dal freddo, Heymans si asciugò una singola lacrima che gli colava dalla guancia. Ma al contrario di quelle disperate che aveva versato nemmeno un paio di ore prima, questa era di sincera gratitudine nei confronti del suo miglior amico. Era giusto renderlo partecipe di quanto stava succedendo.
Il passato del quale avrebbe ricevuto delle spiegazioni il prima possibile non poteva cancellare quello che si era venuto a creare nel presente: Jean sarebbe sempre rimasto al suo fianco.
Ed è un grandissimo punto di riferimento…
 
“Papà, posso guardare uno dei tuoi libri di ingegneria edile?” chiese Kain che gironzolava da qualche minuto nello studio del genitore.
“Va bene, ma in silenzio, Kain. Devo finire questi progetti.”
“Mi prendi uno di quelli in alto nella libreria? – supplicò il bambino – Non ci arrivo mai da solo.”
Andrew si avvicinò al mobile e distrattamente prese uno dei grandi volumi, passandolo poi al figlio che si sdraiò con soddisfazione sul tappeto iniziando a sfogliarlo. Non era la prima volta che Kain passava un pomeriggio in questo modo: Andrew sapeva che adorava guardare le figure e le piante di quelle costruzioni e riteneva che fosse abbastanza sveglio per iniziare ad intuire e capire anche le descrizioni complicate che le accompagnavano. Senza rendersene conto la sua mente andava ad assorbire ed assimilare dei metodi di studio e applicazione che probabilmente gli sarebbero stati utili in futuro se davvero sarebbe andato all’università.
E come potrebbe non andarci? – rifletté l’uomo, mentre ricontrollava alcune misure – Questo bambino riesce già ad assemblare una radio da solo. Anzi, forse è il caso che gli procuri qualche libro specifico per quella materia…
Già, incredibilmente Kain era un completo autodidatta… una bella differenza rispetto a fare piccole costruzioni con i rami di legno e porsi domande sulla statica, come faceva lui alla sua età.
Per qualche secondo Andrew tornò con la mente al passato, quando tutto quello che desiderava era che quel neonato sopravvivesse anche il giorno successivo: università, intelligenza, genialità… cose da niente in confronto al miracolo che regalava ogni ora di vita di quell’esserino minuscolo e fragile che a malapena riusciva a stringere la manina sul dito di Ellie.
… non ci sarebbero stati né Kain né Henry.
Le parole di Laura non potevano essere più vere e guardando suo figlio col dito sulla pagina a tenere il segno della spiegazione, mentre gli occhi scuri andavano a controllare il disegno accanto, Andrew si disse per la milionesima volta che non sarebbe potuta andare altrimenti.
Non poteva immaginare un altro figlio al di fuori di Kain.
“Papà?”
“Dimmi.”
“Hai studiato parecchio da questo libro: è tutto sottolineato e pieno di appunti. Si vede che questo signore che ha costruito tante cose ti piaceva parecchio.”
“Probabile.”
“Che buffa coincidenza – sorrise il bambino –  si chiama Heymans, proprio come il mio amico. Hai presente, no? Quello con i capelli rossi.”
La matita professionale dell’uomo si fermò in mezzo alla cifra che stava scrivendo. L’innocenza nella voce infantile era quasi surreale e per qualche secondo Andrew fu paralizzato dall’idea che il bambino con quell’osservazione avesse tirato fuori parte di quella verità che presto avrebbe dovuto raccontare al figlio di Laura.
Heymans può davvero spezzare questo cerchio di dolore, ne sono certo. Deve solo scoprire come.
“Si, Kain, che coincidenza, vero?” si costrinse a dire.
Ma la cifra che aveva scritto nel foglio aveva un tratto molto insicuro e tremante e dovette respirare profondamente alcune volte prima di cancellarla e riscriverla con il solito modo preciso ed accurato.

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23. Rivelazioni sul passato. Prima parte. ***


Capitolo 23. Rivelazioni sul passato. Prima parte.

 

Tutte le volte che aveva incontrato Heymans, Andrew non si era potuto permettere di osservarlo con attenzione: l’aveva fatto per tutta una serie di motivi, primo tra i quali rispettare la volontà di Laura di tenere nascosta al figlio la dura realtà che aveva circondato la sua nascita.
E in quanto genitore non aveva potuto che darle ragione.
Adesso, tuttavia, non c’erano più motivi per evitare quell’analisi: quasi le parole di Kain a proposito del nome Heymans fossero state profetiche, non erano passati nemmeno dieci giorni che era arrivato il momento di fare quel tanto atteso confronto.
 
Più lo guardava più si convinceva che aveva tantissimo dello zio materno.
Non ci aveva mai fatto caso: aveva sempre ritenuto che il ragazzo avesse la stazza di Gregor, ma per il resto somigliasse alla madre. Ma adesso, osservandolo seduto davanti a lui, con le mani posate nel tavolo, l’espressione troppo calma, gli parve di avere davanti Henry Hevans, la persona che lui considerava tuttora il suo migliore amico.
“Perché fai una domanda simile?” chiese con attenzione, senza distogliere gli occhi castani da quelli grigi del ragazzo. Perché anche se aveva quattordici anni, in quell’occasione andava trattato da adulto e lui era pronto a farlo.
“Mio fratello si chiama così per via di mio zio, vero? – disse Heymans con calma – Voglio sapere perché ho questo nome: mi serve un punto di partenza.”
Andrew lanciò un’occhiata a Laura, seduta accanto a lui, come a chiederle conferma.
La donna annuì e serrò le mani sul tavolo: quella conversazione le stava costando davvero tanto. Ma Andrew la conosceva bene e colse immediatamente anche la profonda determinazione che pervadeva la sua persona.
“Heymans Corel è un famoso ingegnere del secolo scorso: – disse dopo qualche secondo – ha costruito diversi edifici di East City, tra i più belli, e le sue opere di canalizzazione e contenimento dei fiumi hanno rivoluzionato la storia dell’ingegneria. E’ stata la personalità a cui mi sono ispirato durante l’università… ecco da chi hai preso il nome.”
“Un ingegnere?” chiese Heymans, fissando stordito l’uomo.
Mi chiamo così in onore di un… un ingegnere del secolo scorso?
“E Kain chi è? Un architetto?” non poté fare a meno di fare quel commento sarcastico.
Quella discussione stava partendo in un modo davvero inverosimile.
“No, è semplicemente il nome che mia moglie ha scelto quando portava il bambino in grembo, e anche a me piaceva molto.” fu la risposta gentile e garbata di quell’uomo.
“Mi scusi.”
“Lascia stare, – scrollò le spalle lui – può lasciare interdetti sapere che il nome l’ha scelto quello che per te è poco più di uno sconosciuto.”
“E a te piaceva?” chiese il ragazzo rivolgendosi alla madre.
“Certamente, – sorrise Laura – e a te piace?”
“Devo ancora capirlo…” ammise il rosso, squadrando con aria dubbiosa quella strana coppia.
E doveva ancora capire che sensazione gli provocava stare nel tavolo di cucina di casa Fury, con quei due adulti seduti davanti a lui, pronti a raccontargli avvenimenti del passato e a sciogliere tutti i dubbi che gli tormentavano la mente e l’anima da quando aveva ascoltato di nascosto quella conversazione.
“Heymans, ascolta – disse Andrew, passandosi una mano sui capelli castani, in un gesto molto simile a quello che faceva Kain – vorrei che tu capissi il motivo per cui prima di adesso non ti abbiamo detto nulla. E’ stata una scelta di Laura e io sono stato d’accordo con lei… ed è anche il motivo per cui è stato meglio che io non avessi contatti diretti con voi.”
“Mio padre?”
“Esatto… se hai sentito la discussione che abbiamo avuto la notte della festa, allora saprai che non nutro tanta simpatia per Gregor, tutt’altro. E la cosa è reciproca. Poco dopo la tua nascita la situazione sembrava stabilizzarsi e credemmo che fosse meglio che io uscissi di scena per non indisporre tuo padre… adesso sei grande, ma pensa se il mio nome ti sfuggiva quando eri bambino o se magari iniziavi a provare affetto per me e a cercarmi di conseguenza.”
“Certo, capisco…” annuì Heymans, comprendendo quale bomba sarebbe potuta esplodere dall’ingenuità di un bambino piccolo. Suo padre aveva una perversa gelosia nei confronti di sua madre: la voleva tenere segregata dal mondo, figuriamoci quanto poteva disturbarlo la presenza di un altro uomo.
“E poi la situazione era già abbastanza difficile: tua madre non voleva caricarti con i dettagli più tristi della storia, preferiva tenerli in disparte. Eri comunque un bambino nato cinque mesi dopo il matrimonio e la gente non avrebbe mai smesso di mormorare, bastava quello.”
Heymans ripensò a quanto gli aveva detto Jean nella discussione che avevano avuto la settimana precedente. Lui non aveva risentito di niente quando era piccolo: la protezione di sua madre aveva funzionato meglio del previsto. Ma a rifletterci col senno di poi, era tutto vero.
“Sua moglie lo sapeva?” chiese.
“Ellie all’epoca della tua nascita aveva sedici anni ed era da poco diventata la mia fidanzata. Lei e tua madre erano amiche e sapeva benissimo che io e lei eravamo in rapporti molto stretti e dunque non rimase sorpresa che io vivessi da vicino tutta la storia. Diamine, se penso a tutto quello che è accaduto in quei mesi, mi pare un miracolo che ora sia mia moglie…” disse quell’ultima frase con sincera e colpevole sorpresa. Era davvero strano poter parlare per la prima volta liberamente di tutta quella storia, senza dover nascondere dettagli o particolari, anzi con il preciso obbiettivo di dire tutto il possibile. E se la cosa suscitava difficoltà in lui, per Laura doveva essere ancora peggio.
“Coraggio, amica mia – disse, sfiorando la spalla della donna con mano gentile – credo che farà bene a tutti, persino a te… anzi, forse soprattutto a te.”
 “Va bene – sospirò Laura, alzando lo sguardo su Heymans e cercando di riordinare le idee – forse la prima cosa da dirti è chi era Henry Hevans. Era mio fratello maggiore, quattro anni più grande di me… lui ed Andrew erano grandi amici. Gli assomigli, sai? La sfumatura arancione dei tuoi capelli è identica alla sua così come il colore degli occhi… ma soprattutto hai molto del suo carattere, a volte è davvero sorprendente quanto gli assomigli. Persino la tua voce sta iniziando a diventare come la sua.”
“E dov’è adesso?”
“E’ morto nel fronte contro Aerugo circa due mesi dopo che sei nato tu: era un sergente dell’esercito.” fu una dichiarazione fatta con un tono di voce piatto, ma per questo incredibilmente pesante, come una lapide.
“Non c’è alcuna tomba al cimitero.”
“Heymans, – spiegò con gentilezza Andrew – le granate possono… distruggere il corpo di una persona. L’esercito provvide solo a restituire le piastrine di metallo con il suo nome ed il suo codice di identificazione.”
Ed era assurdo quanto parlare di quelle cose potesse riportare alla memoria le scene vissute anni prima.
 
“Laura? Laura che cosa è successo? Perché sei venuta qui con questa pioggia…col bambino poi! Gregor ti ha fatto qualcosa?”
“Mio fratello! Mio fratello… Andrew, ommiodio, mio fratello!” singhiozzò la donna, stringendo tra le mani un foglio di carta.
Non la ascoltò nemmeno, intento com’era a farla entrare e a prendere il neonato, avvolto in una copertina, e posarlo con gentilezza sopra il divano. Dormiva serenamente, una piccola manina stretta a pugno proprio davanti alla bocca.
“Laura, calmati! Sei fradicia… ma che è successo?”
“E’ arrivata poco fa…ommiodio, perché?”
Una lettera stropicciata per la pioggia e la stretta convulsa… condoglianze formali dell’esercito per il decesso in battaglia del sergente Henry Hevans… in data dieci settembre 18… Considerate le circostanze… impossibilità di restituire il corpo alla famiglia.
“No… no! Laura, Laura, ti prego, stai calma… Henry non vorrebbe… lui non… Dannazione!”
 
“Mamma, se vuoi che smettiamo dillo…” disse Heymans, vedendo come il volto di Laura si faceva pallido e gli occhi si inumidivano per le lacrime.
“No, va tutto bene. Semplicemente non è facile riparlarne dopo tanto tempo.”
“Ti… ti fa male che io ti ricordi tanto mio zio?”
“No, non sai quanto la cosa mi renda felice: – il sorriso fu sincero – lui sarebbe veramente fiero di avere un nipote come te. Mi dispiace solo che non ti abbia potuto nemmeno conoscere: venne chiamato al fronte che mancavano una quindicina di giorni alla tua nascita.”
“Che tipo era?” chiese Heymans, incuriosito da questa figura.
“Un grande uomo ed un amico fantastico – disse Andrew senza alcuna esitazione – sai, fu uno dei migliori in Accademia. In paese erano tutti molto fieri di lui perché è raro che qualcuno entri nell’esercito. Ma a prescindere da questo era una delle persone più gentili che io abbia mai conosciuto: guardando te arruffare i capelli a Kain mi sembra di rivedere noi due alla vostra età. E poi adorava tua madre – e sorrise in direzione di Laura – avrebbe fatto di tutto per la sua amata sorellina. Alla fine era naturale per noi tre stare sempre assieme.”
Heymans annuì e per un attimo si ritrovo a pensare che tutto sommato, non era una situazione molto dissimile al terzetto che formavano lui, Jean e la sorella e…
Heymans, tu sei il mio fidanzatino…
“Oh… oh cavolo… cavolo, mamma! Ma voi due eravate… insomma a te piaceva lui?” balbettò senza nemmeno rendersene conto. Ma si morse subito la lingua: che razza di domande andava a fare?
“Che? – Laura lo guardò perplessa ma poi scoppiò a ridere – Oh no, amore. Io ed Andrew non siamo mai stati fidanzati: per me è sempre stato come un secondo fratello, tutto qui.”
“Non ti nego che Henry qualche volta aveva accennato ad… incoraggiaci in quel senso – ammise Andrew – ma non avrei mai potuto…”
“Lui era già cotto di Ellie – e Laura sembrava una ragazzina smaliziata mentre diceva quelle parole che facevano arrossire l’altro – sin da quando lei aveva quattordici anni.”
Heymans non poté far a meno di lasciarsi coinvolgere da quell’imbarazzata allegria che quel piccolo malinteso aveva creato. E sembrava così assurdo che una situazione di partenza così idilliaca si potesse trasformare in una storia triste.
 
“Quella ragazzina che ti viene a prendere alla stazione? Ah, Ellie, vero? Abbiamo fatto colpo, eh?”
“Laura, smettila…”
“Andrew Fury è innamorato,
come una pera dall’albero è cascato…”
“Non è divertente, smettila di cantare quella canzoncina da bambini. Lei ha quattordici anni, diamine.”
“Oh, finiscila: se viene a prenderti alla stazione un motivo ci sarà, no? E tu ne sembri particolarmente felice! Che carini!”
“Sto iniziando a pentirmi di averti raccontato queste cose…”
 
“Forse è un particolare che potrei tacere – continuò Laura – ma… io incontrai tuo padre il giorno stesso che Andrew per la prima volta chiese ad Ellie di ballare con lui, alla festa del primo dicembre.”
Heymans annuì: non lo sorprendeva che a quella festa si potessero alternare momenti felici ad altri non proprio sereni. Ed il riferimento a Gregor bastò a far tornare di nuovo cupa l’atmosfera: adesso la storia lasciava la spensieratezza dell’adolescenza per entrare nella tormentata parte dell’età adulta.
Laura sospirò e si guardò le mani, con aria rassegnata.
“Avevo diciannove anni e… ed oggettivamente ero una stupida. Indossavo un vestito che mi ero fatta completamente da sola e che tutte mi invidiavano e… ed ero così al centro dell’attenzione che… non… non mi era mai capitato che i ragazzi fossero così attratti da me.”
Heymans annuì e pensò a quanto Riza si sentisse speciale con quell’abito nuovo.
Ma lei non… non potrebbe mai…
“All’epoca in paese c’era una squadra di operai venuti da fuori: si stavano occupando di alcuni lavori alla linea ferroviaria che sarebbero durati per alcune settimane. Alloggiavano in paese ed era normale che partecipassero alla festa: tuo padre era uno di loro…”
Heymans con la coda dell’occhio notò che Andrew si era incupito e teneva lo sguardo sul tavolo.
“Beh, quando sei una sciocca ragazzina vanitosa e ti senti così grande da bere anche qualche bicchiere di vino per dimostrare a tutti quanto sei adulta… ti dici anche che i soliti ragazzi non vanno più bene, no?”
Andrew a quel punto mise una mano sulla spalla di Laura.
“Direi che il resto il ragazzo lo può capire da solo. Questa parte della storia è solo tua, Laura…”
Heymans abbassò lo sguardo con tristezza: certo che capiva cosa era successo e l’idea di sua madre così… sciocca e sconsiderata gli dava enormemente fastidio. Era come pensare ad una persona completamente diversa, un’altra Laura di cui aveva sempre ignorato l’esistenza.
“E… e quando l’hai scoperto che è successo?” chiese con esitazione.
“Fu… fu quasi due mesi dopo. Mio dio, fu una cosa così… così…”
 
“Incinta? Incinta?!”
Lo schiaffo riecheggiò nella stanza ed Henry si mise immediatamente davanti a lei per evitare che loro padre andasse oltre. Perché ovviamente l’aveva detto prima a suo fratello che ai genitori.
“Svergognata! Come hai potuto!? E chi è quel maledetto che ti ha messo in questo guaio? Andrew?”
“No… no, mamma…” proprio non riusciva a fermare le lacrime.
Già era stato devastante scoprirlo… come poteva confessare chi era il padre?
“Avanti, disgraziata! Parla!
“Si… si chiama Gregor…”
“Gregor? E chi sarebbe?”
“Mamma, papà, per l’amor del cielo, calmatevi. Non vedete che è stravolta?”
“Smettila di difenderla, Henry… avanti, ragazzina, parla. Chi è questo poco di buono?”
“Uno… uno degli operai… che lavorano…”
“Ma sei impazzita? Mia figlia! Una Hevans che si concede a uno di quei forestieri? Sei una sgualdrina!”
 
“I tuoi nonni… erano persone molto all’antica. Non furono per niente contenti quando lo vennero a sapere.”
“Che ti hanno fatto?” Heymans puntò gli occhi grigi su di lei e Laura si rese conto di avere davanti Henry che le chiedeva chi l’avesse messa in questo guaio: nessuna accusa, solo l’esigenza di proteggerla.
“Fisicamente niente, eccetto uno schiaffo iniziale – la voce di Laura si fece esitante, mentre il ricordo di quei tremendi momenti di paura la attanagliava – ma… ma a parole fecero tanto. Se non fosse stato per mio fratello credo che fosse loro intenzione buttarmi fuori di casa.”
C’è un solo posto in città per quelle come te, puttanella! Da questo momento io ho un solo figlio.
“Non lo fecero… vero?”
“No. – scosse il capo lei – Henry disse chiaro e tondo che se mi disconoscevano allora potevano scordarsi di avere anche un altro figlio. Loro… loro adoravano Henry, era l’orgoglio della famiglia e mia madre non avrebbe mai sopportato di perderlo. Dovettero piegarsi a quel ricatto emotivo… ma io venni confinata in camera mia: dovevo nascondere al paese la mia vergogna.”
“Dopo quelle urla? – commentò sarcasticamente Andrew – Lo vennero a sapere tutti nell’arco di poche ore. Tuo padre è proprio un bel personaggio… non che tua madre lo sia meno.”
“Ma sono vivi?” chiese Heymans.
“Non lo so, ma è una parte che arriva dopo… è meglio proseguire con ordine.”
“Va bene, scusa mamma.” annuì il ragazzo: si stava rendendo conto che quello sfogo stava diventando una necessità per la donna. Era come se ricordare ogni singola tappa la liberasse di un peso.
“Non dicemmo niente a tuo padre, non ancora. Ad Henry non piaceva per niente e… e si era imposto di cercare la soluzione migliore a quella faccenda. Che abortissi era fuori discussione, non osò nemmeno chiedermelo e mai l’avrebbe fatto. Quando i miei, dopo qualche giorno di mutismo, misero l’aborto come condizione per restare a casa, lui divenne una furia… ed il discorso non venne mai più accennato.”
“E come… come pensava di risolverla?” chiese Heymans, anche se aveva già intuito.
Laura si girò verso Andrew e lo fissò in silenzio.
 
“Cosa?”
“Sì, sposarla, hai capito bene!”
“Henry, ma io…”
“Le vuoi bene, tantissimo bene: so che non è amore, Andrew… ma sono sicuro che saresti un ottimo marito per lei. Ti darebbe tanto fastidio crescere un figlio non tuo?”
“Sai bene che non sono il tipo da prendermela un bambino innocente, specie se è figlio di Laura, ma…”
“E allora? Sarebbe perfetto! State bene insieme, non lo capisci? E questo bambino avrà il tuo cognome, senza che Laura debba finire in mano a quel maledetto…”
Andrew deglutì nervosamente: voleva bene a Laura e tutto quello che desiderava era aiutarla in quella maledetta situazione in cui si era cacciata. Sposarla poteva davvero essere la soluzione migliore: i suoi non erano così chiusi di mente e di certo avrebbero accolto con benevolenza sia la madre che il bambino. E anche se non l’amava lui avrebbe potuto essere un buon marito e un buon padre per il nascituro… era figlio di Laura del resto e lui gli voleva già bene, come avrebbe potuto essere il contrario?
Ma c’era Ellie…
“Henry… no, non puoi chiedergli questo.”
“Laura, ma che dici?”
“C’è già Ellie nel suo cuore… non può pagare per un errore mio.”
“Ellie capirà, andiamo! E’ una ragazzina di appena sedici anni! Qui stiamo parlando di dare una famiglia decente a questo bambino e a te!”
 
“Heymans, ti chiedo scusa; – disse Andrew con tristezza – credimi, se non ci fosse stata Ellie non ci avrei pensato due volte ad accettare la proposta di Henry. In tutti questi anni il mio rimpianto è stato di non esser stato un marito per lei ed un padre per te: avrei reso le cose più semplici per tutti voi…”
“Ma c’era Ellie e lei non meritava tutto questo e nemmeno tu – disse Laura – e poi è nato Kain, ed io ho avuto Henry. Davvero sarebbe stato giusto sacrificare loro due?”
“Non lo so – scosse il capo l’uomo – forse in quell’occasione nessuna decisione fu veramente giusta.”
“In ogni caso – continuò Laura – a quel punto fu necessario dirlo a Gregor, anche se probabilmente qualche voce l’aveva già raggiunto. Io ed Andrew non sappiamo cosa successe esattamente: fu Henry a voler parlare con lui e non volle mai dire niente in merito. Ricordo solo che quando tornò a casa era veramente furioso, ma mi disse che aveva acconsentito a sposarmi.”
 
“Bene, complimenti Laura… uno splendido matrimonio. Ancora non ci posso credere, che vergogna!”
“Mamma, finiscila.”
“Mi chiedi di finirla? Con tua sorella che sposa uno sconosciuto? Chi è questo Gregor Breda? Non sappiamo niente della sua famiglia: per quanto mi riguarda potrebbe essere un brigante vagabondo e considerato quello che ha fatto a questa sciagurata penso di essermi avvicinata alla verità.”
“Il bambino nascerà all’interno di un matrimonio: avrà un cognome, non sarà un bastardo.”
“Come se contasse qualcosa… sappiamo tutti che nascerà molto in anticipo rispetto alle nozze. La rispettabilità di Laura e della famiglia ormai è andata. Contenta ragazzina? Goditi il tuo nuovo marito… spero che ti riempia di botte come meriti.”
“Mamma, ti ho detto di smetterla!”
“Oh, Henry, figlio mio, ma perché devi prenderti tanto tormento per lei? Dopo il guaio in cui ci ha messo?”
 
“Le nozze sarebbero state celebrate due settimane dopo: era l’inizio di marzo ed io avevo appena cominciato il quarto mese di gestazione… ed è stato allora che ho tentato il suicidio.”
Heymans annuì e allungò la mano per afferrare quella della madre: la stretta fu convulsa e disperata. Sicuramente era la parte peggiore della storia.
“Mamma, io sono qui…”
“Lo so, grazie al cielo ci sei… e in qualche modo ci sei stato anche in quel momento.”
 
Le piogge di quei mesi avevano fatto ingrossare il fiume. Non si ricordava di averlo mai visto così pericoloso in vita sua… ma che poteva fare? Non voleva sposarlo, non voleva una vita con una persona che conosceva appena. Henry l’aveva convinto senza dirle niente, ma del resto l’alternativa era di finire al locale di prostitute con un bambino bastardo.
Ma quella persona…che padre sarebbe stato uno che sicuramente non voleva avere figli?
Qualunque cosa succedesse era condannata: la sua vita era finita.
La disperazione l’aveva portata alla scelta di quel gesto estremo: dato che stava creando tutti questi problemi tanto valeva farla finita…
Il fiume rombava e la pioggia quella notte sembrava più violenta del solito.
In lontananza iniziava a sentire la voce di Henry: ovvio che aveva scoperto la sua fuga.
Si trattava solo di qualche passo su quel pontile… il fiume avrebbe fatto il resto.
“Coraggio…”
Si toccò inconsapevolmente il ventre: iniziava a gonfiarsi, adesso poteva cominciare a sentirlo. Era troppo presto, ma…che era quella minima sensazione di movimento? Durò nemmeno un battito di cuore, ma bastò per renderla per la prima volta perfettamente consapevole che dentro di lei c’era una nuova vita…
“Non posso! Non posso! Cielo… cielo, piccolo mio, perdonami!”
“Laura! Laura, che diamine fai? – le braccia di Henry che la stringevano – Che ti salta in mente?”
“Non posso! E’ il mio bambino! E’ mio figlio!”
 
“Henry mi riportò a casa, senza dire niente ai miei genitori: nei giorni successivi stetti parecchio male per il freddo che avevo preso e lui rimase vicino a me quasi sempre, vezzeggiandomi come una bambina. Non disse mai la parola suicidio, non mi chiese spiegazioni: forse aveva capito che non avrei mai più tentato un gesto simile. In ogni caso, io e Gregor ci sposammo il giorno stabilito, il 15 marzo del 1882: fu una cosa molto rapida e discreta, ovviamente. Ci trasferimmo nella casa dove viviamo attualmente: era di alcuni nostri parenti ormai morti i cui figli erano andati a vivere ad East City e che furono felici di liberarsene… ”
“Come è stato vivere con papà? – chiese Heymans – Era… era diverso da come è adesso?”
Anche se proprio non riusciva ad immaginarlo.
“Heymans, tuo padre non è una persona malvagia…”
“No?” chiese Andrew con sarcasmo, una cosa davvero insolita.
“No, Andrew – scosse il capo lei – considera la sua situazione: trovarsi obbligato a sposare una perfetta sconosciuta che durante una festa si è concessa a lui. Scoprire di avere un figlio in arrivo e di dover stare in un paese dove ovviamente avrai l’ostilità di tutti. Aveva tutte le ragioni del mondo per non essere felice…”
“Non sei rimasta incinta da sola, Laura. Se avesse avuto maggiore maturità, e dato che ha dieci anni più di te me lo sarei aspettato, non ti avrebbe mai sfiorata alla festa.”
“In ogni caso non fu facile: eravamo due estranei sotto lo stesso tetto, per giunta con l’ombra di Henry che gravava sopra di noi, pronto ad intervenire alla minima problematica. Era oggettivamente una situazione di continua pressione… e sai bene come tuo padre tende a sfogare queste cose.”
“Già…”
“Ora che vivevo con mio marito, i miei genitori avevano smesso qualsiasi contatto con me e anche tutto il paese faceva finta che non esistessi, eccetto poche eccezioni come Andrew… ero praticamente chiusa in casa, specie quando la gravidanza divenne davvero evidente. E la cosa continuò così fino a quando, il 5 luglio, tuo zio venne richiamato dall’esercito: si era da poco riaperto il fronte contro Aerugo e il suo plotone venne riformato per andare in guerra.”
 
“Mi dispiace di non essere qui per quando nascerà il piccolo. Promettimi che farai da brava, sorellina, mh?”
“Scrivimi, mi raccomando…”
“Ehi, abbracciarti con questo pancione è davvero difficile. Non vedo l’ora di sapere di mio nipote.”
“Henry, non hai idea di quanto mi mancherai.”
“Sarà solo per qualche mese, massimo sei… poi ci sarà il ricambio delle truppe, come al solito.”
“A presto, amico mio.”
“Te la affido, Andrew Fury… prenditi cura di lei.”
“Lo farò, stai tranquillo.”
“Andrew… perdonami per quando ti ho chiesto di sposarla. So che poi sono stato abbastanza freddo con te per diverso tempo. Per tutto quello che hai fatto e ancora fai per me e Laura… non credo di aver avuto mai amico migliore.”
“Oh, Henry, non devi scusarti per delle cose simili, sul serio.”
“Facciamo così, per farmi perdonare, quando tu ed Ellie vi sposerete, e non penso che dovremo aspettare tanto, ti faccio da testimone.”
“Affare fatto!”
“Adesso vado, il treno sta per partire… se lo perdo dovrei aspettare altri due giorni e l’esercito non ne sarebbe felice.”
 
“Nel momento in cui Henry andò via, mi presi la responsabilità di tua madre e di te, che stavi per nascere. Non volevo che i tuoi nonni o Gregor approfittassero della sua assenza per infierire in qualche modo… anche se oramai la situazione era più o meno stabile e definita.”
“E che è successo quando sono nato? Quella storia che mia nonna…” Heymans non proseguì e scosse il capo. Forse era quella la parte che lo sconvolgeva di più: poteva capire l’indifferenza o i pregiudizi degli estranei, ma l’odio da parte dei suoi stessi nonni, no. Paradossalmente gli veniva più facile accettare un eventuale odio di suo padre.
“Sono entrata in travaglio che erano le otto di sera – spiegò Laura – tuo padre non c’era ed io ero sola in casa. Ma Andrew passava ogni giorno verso quell’ora per vedere se andava tutto bene…”
“Corsi immediatamente a chiamare il medico e poi andai a chiamare tuo padre… maledetto, era così ubriaco che nemmeno capiva quello che gli dicevo…”
 
Non doveva esserci lui fuori da quella stanza dove Laura stava urlando come una disperata.
Doveva esserci suo marito, i suoi genitori, suo fratello… tutti meno che lui.
“C’è la madre della ragazza? Servirebbe una mano qua dentro…” fece il medico uscendo fuori.
“No, non c’è…”
Per poco non gli avevano sbattuto la porta in faccia quei due maledetti: non gli importava niente se la loro figlia stava affrontando il parto tutta da sola. Si ripromise di non diventare mai come loro… mai un suo eventuale figlio si sarebbe trovato la porta chiusa in quel modo, nemmeno se avesse compiuto il peggior reato del mondo.
Un nuovo grido di Laura, ancora più straziante.
“Va bene… va bene! Ellie, scusami… ti giuro che non guarderò niente! Ma non posso lasciarla sola.”
Tenne lo sguardo alla parete fino a quando non fu accanto a Laura: le prese la mano e la guardò in faccia… non avrebbe abbassato lo sguardo oltre il viso di lei. Per rispetto a Laura e soprattutto ad Ellie…
“Non ce la faccio! Andrew!”
“Andiamo Laura! Ci sono io con te, coraggio! Andrà tutto alla perfezione!”
“Dio… dio fa così male…”
“Fatti forza… tra poco terrai tra le braccia il tuo bambino, ci pensi?”
E comunque la stretta di una donna in preda al travaglio faceva davvero male. Ma strinse i denti, nonostante quelle unghie conficcate nel suo polso. Continuò a sostenerla ed incitarla… fino a quando…
Un urlo di protesta si unì a quello che Laura lanciò nell’ultima disperata contrazione.
“E’ un maschio! Complimenti, signora!”
“Mio figlio… mio figlio…”
C’erano nuove lacrime nel viso di Laura, ma erano di gioia: il medico le mise sul petto il neonato ancora urlante e sporco di sangue e Andrew vide finalmente il volto dell’amica distendersi in un sorriso estatico mentre abbracciava il piccolo.
“Sei perfetto… amore mio, sei qui… sei qui…”
Ed era incredibile come la voce di una madre potesse calmare un bambino.
 
“Andrew è stato in quella stanza per tutto quel tempo, credo che il suo polso abbia avuto un bel livido per qualche giorno.” Laura guardò l’uomo con sincero affetto e gratitudine.
Heymans non sapeva come commentare: non poteva pensare che quell’uomo, quell’estraneo, fosse stato così vicino a sua madre… e avesse assistito alla sua nascita. Ma un pensiero gli attraversò la mente:
Sì, avrei voluto che fossi tu mio padre…
“E senza nemmeno sapere come mi sono trovato a doverti dare un nome…” proseguì Andrew.
 
Quanto poteva essere incredibile tenere in braccio quella nuova vita?
Lo guardava affascinato: era nato da una decina di minuti eppure già gli occhi chiari lo fissavano con estrema curiosità. I ciuffi sulla testolina erano rossicci, chiara eredità materna.
“Ehi… finalmente ci conosciamo. Tre chili e mezza, siamo belli grandi…”
“E’ in ottima salute, così come la madre: non è stata una passeggiata ma è andato tutto a meraviglia.”
“Grazie dottore, sul serio…”
“Tornerò domani a visitarla, signora. Adesso pensi a riposarsi.”
“Ehi… Laura… Laura, è bellissimo. Quando Henry lo saprà ne sarà felicissimo! Come vuoi chiamarlo?”
“Vorrei che gli dessi tu il nome.”
“Che? Ma no! Non posso; non l’avevi già deciso? E’ una cosa importante, spetta a te…non posso levarti questo privilegio.”
“Andrew Fury, non so cosa avrei fatto senza di te. Assieme ad Henry sei l’unica persona che mai mi ha abbandonato… e stasera hai ancora una volta dato dimostrazione di che meraviglioso amico sei. Dagli un nome, ti prego, ci terrei davvero che il mio piccolino avesse un simile regalo da te.”
Il bambino, avvolto nella copertina, prese a ciangottare dolcemente, agitando il pugnetto contro di lui. Non poteva fare a meno di restare incantato da quell’espressione così innocente e vispa.
“Heymans ti piace? E’ stato un ingegnere importante, sai? Chissà, magari farai grandi cose come lui. Di sicuro per me è stato di grande ispirazione… e se poi crescendo vuoi fare di tutto meno che l’ingegnere fa niente, non penso sia un problema.”
“Heymans? Mi piace…”
“Proviamo: ehi, Heymans? Ah, vedi? Mi guarda… allora affare fatto, ragazzo mio. Adesso però credo che sia giusto che tu torni tra le braccia di tua madre.”
 
I due adulti si sorrisero e Laura prese la mano di Andrew baciandola con gratitudine: un gesto privo di qualsiasi doppio senso, indicante solo una cara e sincera amicizia. Heymans si accorse di non provare nessun fastidio: la figura di quell’uomo stava entrando piano piano nella sua vita, senza turbarlo minimamente. Un po’ come era successo con Kain.
Era incredibile, ma nonostante fosse una storia davvero difficile, era come se questi momenti di serenità riuscissero a farsi spazio concedendo ai protagonisti, e anche a lui, attimi di tregua. L’emozione con cui sua madre e quell’uomo gli avevano raccontato della sua nascita lo fece sentire incredibilmente amato, come mai era successo. A questo punto dei suoi nonni gli importava davvero poco.
Ma non dimenticare perché siete qui: dovete arrivare fino in fondo.
Aveva iniziato a capire a cosa fosse dovuto l’atteggiamento di suo padre: questi nuovi elementi di cui era venuto a conoscenza stavano iniziando a trovare la spiegazione ad un rompicapo contro cui stava combattendo da tempo.
“E poi? Che è successo?” chiese con serietà.

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Capitolo 25
*** Capitolo 24. Rivelazioni sul passato. Seconda parte. ***


Capitolo 24. Rivelazioni sul passato. Seconda parte.

 
 
Laura sospirò e di nuovo l’atmosfera lieta che era stata creata al ricordo della sua nascita scomparve. Heymans ancora non si capacitava di come potessero essere repentine queste alterazioni tra felicità e tristezza: averle vissute di persona doveva esser stato davvero destabilizzante.
Povera mamma… non è giusto, non è per niente giusto.
La voce della donna lo ridestò da quei pensieri.
“Andrew rimase con me fino a quando Gregor tornò a casa: non ero in condizioni di essere lasciata da sola, ovviamente. Ma era chiaro che tuo padre non poteva offrirmi l’assistenza di cui avevo bisogno: sai anche tu come si riduce quando ci va giù davvero pesante… è inutile che fai quella faccia, Andrew, purtroppo è successo la sera che è nato Heymans. Ma credimi, è una cosa talmente frequente che puoi star certo che non lo fece intenzionalmente per non essere presente al parto.”
“Posso starne certo? Sicuro, ma permettimi di esserne disgustato… scusa, Heymans, lo so che ti posso sembrare molto duro nei confronti di tuo padre, ma oggettivamente io non riesco a perdonarlo. Mi sono più volte messo nei suoi panni ma arrivavo sempre alla conclusione che comunque avrei fatto di tutto per un mio figlio e anche per mia moglie, a prescindere dalle circostanze. Si chiama responsabilità ed è un valore su cui sono particolarmente intransigente… specie per situazioni importanti come queste.”
Heymans non trovò niente da ridire sul quelle parole: il tono era stato duro, certamente, ma esprimevano ciò che pensava anche lui. Un padre ed un marito non poteva lasciare la propria famiglia allo sbaraglio per andare a bere.
“Per continuare – riprese Laura, lanciando un’ultima occhiata di lieve rimprovero all’amico – la madre di Andrew fu tanto gentile da venire a casa e aiutarmi in quella prima difficile notte dopo il parto. Ero comunque stremata e serviva un’altra donna per assistermi.”
“I nonni non vennero? Nemmeno dopo che avevano saputo che avevi partorito?”
“Vennero a farmi visita la mattina dopo e non so nemmeno perché lo fecero. Forse si volevano dimostrare persone compassionevoli davanti al resto del paese, in fondo voci negative sul loro comportamento troppo duro nei miei confronti non erano mancate… la gente è davvero strana: finché mi evitavano loro andava bene, ma se erano i miei a farlo allora si sentivano in diritto di criticare. Ma per come andò a finire quella visita…  – la voce di Laura si fece gelida, proprio come era successo quando aveva parlato di quel fatto fuori dal capannone – fu l’ultima volta che rivolsi una parola a mia madre. Io mi illudevo che vedendoti… insomma speravo che si aggiustassero le cose tra di noi: eri un neonato… nessuna persona degna di chiamarsi madre può dire una simile cosa.”
“Che era meglio se fossi nato morto?”
 
“Stai bene?”
“Sì, mamma…lo vuoi vedere il piccolino?”
Iniziò a scostare la copertina che avvolgeva Heymans: era stato così buono durante la notte, si era svegliato solo poche volte per mangiare. Meno male che la madre di Andrew l’aveva aiutata: la prima volta aveva avuto difficoltà ad attaccarselo al seno…
“No.”
“No?”
“Come puoi essere così felice?”
“E’ mio figlio: è nato e sta bene… come puoi farmi una domanda simile? Certo che sono felice…”
“Non capisci che sarebbe stato molto meglio se fosse nato morto?”
“Cosa?”
Un senso di disgusto e di pericolo la invase: inconsapevolmente prese il bambino e se lo strinse al petto. Questo brusco movimento bastò a svegliarlo e a farlo iniziare a piangere: il pianto di un neonato perfettamente sano.
“Se fosse nato morto avresti potuto ricominciare una vita relativamente normale… per quanto ormai sposata con quello là. Ma questa storia del figlio partorito cinque mesi dopo il matrimonio…”
“Se è questo tutto quello che hai da dire, allora vattene via e non osare mai posare gli occhi sul mio bambino.”
 
“Capisci, Heymans? Fino a quel momento era stata la presenza di Henry a tenerli relativamente buoni. Ma ormai non esisteva alcun motivo per tenere quella facciata di… di non so nemmeno io che cosa – la voce di Andrew era molto dura – io a volte cerco di mettermi nei loro panni, ma giungo sempre alla conclusione che erano delle persone malvagie, racchiuse nel loro nido di pregiudizi che non erano disposti ad abbandonare nemmeno per la loro figlia. Augurare la morte di un neonato… non credo ci sia un gesto più vigliacco.”
Heymans scosse il capo. Perché fino a quel momento si era preoccupato così tanto dell’odio dei suoi nonni? La storia aveva dimostrato che erano persone che nemmeno valeva la pena conoscere.
Se fossero ancora in paese magari avrebbero fatto di tutto per rendere la mia vita e quella di mamma un inferno…
“Fu un distacco brusco, ma in fondo era già iniziato con la scoperta della mia gravidanza. Però… oggettivamente mi fece male solo per pochi minuti: dentro di me sapevo benissimo che era una spaccatura insanabile. E poi avevo te, mi bastava averti tra le braccia per essere la donna più felice del mondo.”
“E papà come la prese? – chiese il ragazzo per tornare ad un argomento che conosceva bene – Ovviamente una volta che si rese conto che ero nato…”
Andrew inarcò leggermente il sopracciglio a quel sarcasmo.
“Tutto suo zio…” commentò prima di ricevere una gomitata da Laura che continuò come se niente fosse.
“Relativamente bene, tutto sommato. Alla fine era arrivato ad accettare l’idea di avere un figlio, ma… ma credo che ti abbia sempre considerato come figlio mio e non suo, non veramente. Non era per cattiveria: in circostanze differenti ti avrebbe amato tantissimo, ne sono certa.”
 
“L’ho chiamato Heymans… ti piace?”
Perché continuava a fissare il bambino senza dire niente? Andrew non aveva fatto altro che cullarlo, vezzeggiarlo… perché lui che era il padre non faceva e non diceva niente?
“Se…se gli tocchi la manina non lo svegli. E’ tranquillo… ha appena mangiato…”
“State bene entrambi?”
“Sì…”
“Meglio così…”
E uscì dalla stanza senza dire altro. Non aveva nemmeno sfiorato suo figlio.
 
Heymans annuì e non mostrò molta sofferenza a quelle parole: aveva avuto un processo di distaccamento nei confronti del padre… era durato anni, ma era giunto al termine da parecchio, ormai.
Ho cercato un rapporto con lui, ma da quanto sto sentendo è chiaro che era una cosa destinata a fallire.
“Poi a settembre ci fu la tragica notizia della morte di tuo zio: – sospirò Laura – i miei genitori quasi impazzirono per il dolore e nell’arco di un paio di settimane se ne andarono dal paese. Non mi lasciarono né un indirizzo né altro: vendettero la casa e andarono via. Non aveva senso restare per un figlio che non sarebbe mai più tornato… fu quasi inverosimile per la velocità con cui quei fatti si susseguirono. In ogni caso io meno ne sapevo meglio era.”
“Ma allora, i soldi che ricevi ogni mese?”
“Per il primi tempi non ci furono molti problemi: all’epoca tuo padre era più… tranquillo e aveva trovato un lavoro. Mi dispiace dirlo, ma la morte di Henry e la conseguente partenza dei miei avevano in qualche modo rasserenato il nostro rapporto: non c’era più l’ombra minacciosa di mio fratello che lo teneva d’occhio. Povero Gregor, non doveva essere piacevole trovarsi sotto pressione in quel modo… comunque, lui cercò di essere un buon marito, davvero. Me ne resi conto subito: mentre con te non riusciva ad instaurare un minimo di rapporto, sembrava che con me volesse tentare di costruire qualcosa. Se non l’idea di padre, era arrivato ad accettare quella di marito.”
“Fu per questo motivo che tua madre ed io decidemmo di ridurre drasticamente i nostri rapporti: il  matrimonio sembrava iniziare a macinare bene e forse non tutto era perduto. Ovviamente fisicamente non ero minaccioso come Henry, ma potevo essere sempre una figura fastidiosa per Gregor e così mi misi in disparte… giustamente. Anche se mi feci promettere da tua madre che alla prima avvisaglia di qualcosa che non andava doveva dirmelo immediatamente… non riuscivo a fidarmi completamente di lui, lo ammetto.”
“E poi – riprese Laura – dopo quasi un anno, arrivò una lettera dall’esercito: devi sapere che è prevista una sorta di rendita per le famiglie dei soldati morti in guerra… non una grande somma a dire il vero, ma dura per circa cinque anni. Ed Henry aveva fatto in modo che fosse destinata a me: aveva provveduto a mettere tutto per iscritto prima di partire per il fronte. E anche quanto aveva messo da parte quando era ancora in vita venne destinato completamente a me, tramite Andrew ovviamente: è lui l’esecutore testamentario di mio fratello.”
“In casi simili è automatico che l’esecutore sia il capofamiglia, – spiegò Andrew – ma Henry non ha voluto che fosse Gregor e nemmeno tuo nonno. Il suo testamento aveva delle disposizioni molto chiare: i tuoi nonni e tuo padre non vennero nemmeno a saperlo.”
“Adesso capisco…”
“Per quanto riguarda la rendita, finché tuo padre lavorava la mettevo da parte, e quando passarono i cinque anni iniziai ad usare i soldi dell’eredità, facendoli però passare come una rendita dei miei.”
“Ma ti basta quest’eredità?” chiese Heymans, pronto a rimboccarsi le maniche e a trovare qualche modo di mettere da parte dei soldi.
“Tranquillo, ragazzo – annuì Andrew – ho in mano io l’amministrazione di questo piccolo patrimonio. Con Laura siamo rimasti d’accordo che la cosa migliore sia effettivamente prelevare la stessa cifra ogni mese, anche per non insospettire Gregor. Comunque per quei primi anni, come ti ha detto tua madre, la situazione sembrava tranquilla.”
Laura annuì:
“Io… io credo che per quel periodo siamo stati relativamente felici: non ci amavamo davvero, ma sembrava che potessimo andare avanti. Anche il paese stava iniziando ad accettare la situazione e non c’era più quell’indifferenza nei miei confronti: almeno adesso mi rivolgevano la parola quando andavo a comprare qualcosa.”
“E quindi voi due non vi siete più rivisti?”
“Adesso non esagerare, tesoro – sorrise Laura – il paese è piccolo, ovvio che ci vedevamo. E comunque Andrew continuava a passare, fintanto che eri piccolo. Bastava fare attenzione: Gregor non lo proibiva esplicitamente e di certo Andrew è sempre stato più discreto di Henry… bisognava solo avere l’accortezza che venisse a trovarmi quando Gregor non c’era.”
 
“Heymans? Piccolino?...Ciao! Amore, quanto sei dolce!”
“Ehi, che sorriso. Gli piaci davvero tanto.”
Non aveva mai visto suo figlio così felice in braccio ad un’estranea, ma quando aveva visto Ellie era stata passione a prima vista. Quella ragazza diciassettenne che aveva appena terminato la scuola aveva letteralmente fatto impazzire il bambino di un anno che, con il suo balbettio infantile, faceva le feste.
“Tienilo pure il braccio, Ellie. No… no, Heymans, non si tirano i capelli.”
“Oh, gli piace la mia treccia! Tranquilla, Laura, non la sta tirando, ci sta solo giocando. Allora, leoncino, perché con questa chioma rossa sei proprio un leoncino… mi fai vedere i tuoi giochi?”
“Hanno stretto amicizia, eh?”
“Oh, Ellie adora i bambini. Dice che ne vuole almeno tre…” un lieve rossore comparve sulle guance di Andrew.
“Sa del parto di Heymans?”
“Sì, le ho detto tutto… non potevo tenerle nascosto niente, non era corretto.”
“E che ha detto?”
“Che aveva capito da subito che ero l’uomo della sua vita e che quanto ho fatto per te è una conferma di quanto sia meraviglioso. Non so ancora che ho fatto per meritarmela.”
“Credo che sarà un’ottima madre, anche se adesso sembra più una sorella maggiore. I suoi hanno fatto problemi?”
“No, sono felici: certo, erano un po’ esitanti per via della sua giovane età. Ma ad aprile compie diciotto anni: il matrimonio sarà qualche giorno dopo. Verrai?”
“Oh, Andrew, mi piacerebbe tantissimo…”
“Ma non è il caso di stuzzicare troppo Gregor, vero?”
“Mi dispiace… doveva esserci Henry a farti da testimone ed è morto. E dopo che hai fatto tutto questo per me non… Sei l’ultima persona che lo merita.”
“Dai, non fare quella faccia. L’importante è che stia andando bene con lui: Heymans è un bambino vivace e sano e anche tu sei serena, di certo più di quanto lo sia stata negli ultimi tempi.”
“Vanno bene le cose… sono sorpresa di poterlo dire.”
“E allora questo è il miglior regalo di matrimonio che potessi farmi.”
 
“A fine aprile 1884 io ed Ellie ci sposammo: tu avevi quasi due anni e stavi iniziando a distinguere le persone, a dire le prime parole… insomma non fu più il caso di vederti. L’ultima cosa che volevo era che ti scappasse il mio nome davanti a tuo padre: avevamo capito che era meglio tenerlo buono.”
Laura annuì e si fissò di nuovo le mani: lo faceva sempre quando qualcosa la innervosiva.
“A marzo dell’anno dopo è nato tuo fratello: gli diedi il nome Henry e Gregor non protestò in merito.”
“Lui era il figlio per cui era pronto, vero mamma?” capì Heymans. E intuì anche che la cosa che la innervosiva era la palese differenza d’attenzione che suo padre aveva tra lui e suo fratello. A quanto sembrava era stata una cosa nata assieme ad Henry e non sviluppatasi negli anni.
Non sono io che ho sbagliato…
“Sì, perché negarlo. Tanto hai capito abbastanza bene il legame differente che ha tuo padre con te e tuo fratello. La colpa forse è stata di tuo zio: è stato così presente durante la gravidanza che… alla fine Gregor è arrivato a considerarti più come figlio di Henry che come figlio suo. Lo so che è pesante dire determinate cose su un padre, ma è così… è stato quello il suo ragionamento. Henry era suo figlio, tu eri il mio.”
 
Non aveva mai visto Gregor così felice in tutti quegli anni.
Teneva tra le braccia quel neonato come se fosse la cosa più bella del mondo e continuava a ripetere che era suo figlio, il suo perfetto figlio.
Anche questo parto l’aveva sfinita, nonostante fosse andato tutto bene: si sedette con difficoltà nel letto e vide che anche Heymans era sgusciato nella stanza, incuriosito dal pianto del suo nuovo fratellino.
“Papà!” chiamò con vocetta infantile, aggrappandosi alla gamba di Gregor, ansioso di essere reso partecipe di quell’eccitante novità.
“Non seccare, Heymans… dai, vai via.” Non ci fu cattiveria nella voce, no.
Però…
“Heymans, amore, vieni a dare un bacio alla mamma, da bravo.”
“Mamma!” il bambino sorrise a quel richiamo e trotterellò accanto al suo letto. Iniziò la solita difficile scalata, tendendo le manine per farsi aiutare e alla fine si acciambellò felice tra le sue braccia.
“Piano, tesoro, la mamma è stanca. Lo sai? Adesso hai un fratellino: devi essere molto responsabile con lui.”
“Fratellino…” disse il piccolo con convinzione, orgoglioso di saper finalmente dire quella parola lunga e difficile senza problemi.
“Bravo, il tuo fratellino…”
“Mio figlio.” disse ancora la voce di Gregor, dall’altra parte della stanza.
 
“Sembrava che la nascita di Henry dovesse sigillare per sempre questa storia iniziata così male. Lo sperammo tutti… ma non fu così: Gregor dopo un anno perse il lavoro e riprese ad alternare periodi buoni a periodi cattivi. Era semplicemente fatto così: non riusciva a cambiare.”
A quelle parole della donna, Andrew scosse il capo con rassegnazione.
“Avresti dovuto dirmelo che c’era ricaduto: non è successo niente grazie al cielo, ma non oso pensare a te coi due bambini piccoli in preda dell’umore instabile di quell’uomo.”
“Avevi già i tuoi problemi, Andrew, – disse Laura con gentilezza – questa volta dovevi pensare alla tua famiglia: avevano un disperato bisogno di te.”
“Che è successo?” chiese Heymans, non riuscendo a capire che cosa potesse andare male in una famiglia perfetta come quella di Kain.
L’uomo abbassò lo sguardo e accarezzò distrattamente la vera che portava all’anulare.
“Kain è nato il 9 settembre dello stesso anno di Henry, ma in realtà sarebbe dovuto nascere a novembre. Tu lo conosci sano e senza problemi, ma non è stata una gravidanza facile: Ellie ha rischiato di perderlo più volte… e quando è nato il medico gli aveva dato poche ore di vita.”
“No, – Heymans scosse il capo sconvolto – non può essere…”
 
“Mi dispiace, figliolo, mi dispiace tanto…”
“Oh, papà… perché? Perché proprio ad Ellie? Lei… lei diceva sempre di volere una nidiata di figli. Perché doveva capitare proprio a noi?”
L’abbraccio di suo padre non riusciva a dargli conforto: come poteva? Ellie non avrebbe potuto avere altri bambini dopo quel parto disastroso che l’aveva quasi uccisa e quell’unico neonato era più morto che vivo.
“Devi farti, forza… vai da lei, vai dal tuo piccolo. Stai loro vicino, figlio mio.”
Quella stanza con quell’odore di sangue… di dolore. Ellie faceva paura per quanto era pallida e distrutta, così piccola e minuta in quel grande letto. Dov’era l’espressione sfinita ma estatica che aveva visto in Laura? Perché per la sua amata moglie non poteva essere lo stesso?
Sua madre e sua suocera li lasciarono soli: sentì solo di sfuggita la carezza di sua madre sulla sua guancia.
“Andrew…”
“Ellie, amore mio… - baciò la fronte dove i capelli sudati erano ancora appiccicati – amore mio…”
“E’… è così piccolo…”
Abbassò lo sguardo su quel cosino avvolto nella copertina che Ellie teneva tra le braccia. Pesava meno di un chilo, era così minuscolo che stava nelle sue mani… e non si muoveva.
 Nemmeno un’ora di vita? Nemmeno questo era concesso al suo unico figlio?
“Kain… – la voce di Ellie fu un sussurro, ma ci fu un lieve movimento della testolina in risposta – Kain, pulcino mio, non aver paura. Mamma e papà sono qui con te, va tutto bene… va tutto bene.”
“Figlio mio…” quella manina era così minuscola e fragile, a sfiorarla si aveva paura di romperla. Gli occhietti cercarono di aprirsi, ma fu solo per qualche istante: era uno sforzo troppo grande.
Un flebilissimo vagito e subito i due adulti cinsero quello scricciolo in un nido di protezione ed amore.
Lui ed Ellie avrebbero fatto di tutto per proteggere quella piccola, delicata vita. Non gli importava nulla se era nato prematuro di più di un mese, se questo avrebbe provocato problemi nel suo sviluppo: era suo figlio. Era la sua vita.
 
“Non fu per niente facile… nelle prime settimane il bambino sembrava dover morire da un momento all’altro: solo dopo il secondo mese iniziò a mettere su peso con una certa regolarità, ma sempre con estrema lentezza – la voce era spezzata. E come poteva essere altrimenti nel ricordare il calvario che aveva sopportato Kain? – Ma era debole, estremamente debole… si ammalava spessissimo e ogni volta sembrava che fosse quella decisiva. A nemmeno due anni iniziò a soffrire di febbri reumatiche… era…era una sofferenza estrema.”
Fu Laura questa volta a dare il conforto all’amico, mettendogli la mano sulla spalla.
 
“Si è addormentato… cielo, grazie, un minimo di tregua. Pulcino mio…”
La voce di Ellie continuava a cullare il bambino sdraiato in mezzo a loro nel letto matrimoniale.
Lui cercò ancora una volta conforto nel guardare sua moglie: ogni giorno, ogni ora, accudiva Kain con una tenerezza ed un amore instancabili, senza mai lasciarsi prendere dallo sconforto.
Sistemando meglio la coperta sopra il piccolo, notò i lievi spasmi delle manine che indicavano come la febbre non avesse alcuna intenzione di lasciarlo; il visino pallido e sudato non riusciva ad abbandonare l’espressione dolorosa. Ma almeno qualche ora di sonno gli era concessa… qualche ora di tregua davanti all’impotenza di vedere tuo figlio che piange e ti cerca con lo sguardo, supplicandoti di far passare quei dolori atroci.
E tu non puoi far altro che accarezzargli i capelli sudati e dirgli che sarebbe passato presto…
Passò l’indice sulla fronte del piccolo, dove sottili vene azzurre spiccavano sulla pelle chiara.
“Se esiste un dio… che conceda una grazia a questo innocente…”
 
“Ma adesso sta bene, vero? – chiese Heymans con angoscia. Avrebbe dovuto saperlo, avrebbe fatto in modo che Jean non lo tormentasse per tutti quegli anni: se solo avesse saputo quello che aveva fatto Andrew per lui e sua madre, avrebbe preso Kain sotto la sua ala protettiva da subito – Non ha conseguenze di quelle malattie, giusto?”
“No, – scosse il capo Andrew – non so nemmeno per quale miracolo. Verso i quattro anni e mezza le febbri iniziarono a presentarsi con meno frequenza e con minor violenza. Nell’arco di un anno era come se quel calvario fosse stato solo un brutto sogno: stava incredibilmente bene… sta incredibilmente bene.”
“Però capisci come in quei quattro anni non potevi che stare accanto ad Ellie e al bambino – disse Laura con dolcezza – avevano estrema necessità del tuo sostegno. Ed era giusto così: sono loro la tua famiglia, Andrew.”
Ci fu una lunga pausa di silenzio durante la quale i tre si guardarono con un certo imbarazzo: non c’era altro da dire.
 “Heymans – mormorò Laura, infine – questa è la storia che per tempo ti abbiamo tenuta nascosta. Te ne abbiamo spiegato le ragioni e spero che tu le possa comprendere e perdonarci.”
“Mamma… cavolo mamma, ma che c’è da perdonare?” chiese il ragazzo, alzandosi dalla sedia e andando ad abbracciarla. Adesso ai suoi occhi sua madre appariva ancora più splendida, forte, meravigliosa: non aveva mai immaginato tutto quello che aveva passato.
“Non lo so, amore mio – sussurrò lei – non lo so nemmeno io, ma vorrei davvero che le cose fossero andate diversamente.”
Sì, questo poteva capirlo: anche lui avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente, a partire dal padre che aveva avuto. E questo pensiero gli fece alzare lo sguardo su Andrew Fury: si staccò con gentilezza dalla madre e tese la mano verso quell’uomo.
“Grazie, – disse con sincerità – sul serio, per tutto quello che ha fatto per me e per mia madre… io… io sarei stato davvero felice di avere un padre come lei. Ma sono altrettanto felice che lei sia il padre di Kain: giuro che mi prenderò sempre cura di lui, come se fosse mio fratello. Potrà sempre contare su di me.”
“Ti dirò, temevo il tuo verdetto, ragazzo – ammise Andrew, stringendo quella mano – non sai che sollievo mi danno queste tue parole. Allora, alla luce di tutto questo, ti piace il tuo nome?”
“Adesso sì, – sogghignò lui – non ne vorrei un altro per niente al mondo.”
“Ottimo.” annuì l’uomo e d’impulso lo strinse a se, dandogli quell’abbraccio che avrebbe potuto concedergli ogni giorno se il destino avesse deciso diversamente per loro. Ed Heymans scoprì che l’abbraccio di un padre era una cosa completamente diversa da quello della madre…
L’avrei voluto… certo che l’avrei voluto. Avrei dato chissà cosa perché fossi tu mio padre.
Ma era semplicemente andata così: non potevano farci più niente.
 
“Papà! Siamo tornati!”
La voce allegra di Kain interruppe quel momento ed Heymans si tirò indietro, andando affianco a sua madre e circondandole le spalle con un braccio. Qualche istante dopo il bambino entrò in cucina.
“Papà, sei qu… ciao, Heymans!”
“Ehilà, Kain – sorrise il ragazzo, arruffandogli i capelli – come va?”
“Benone: ero con la mamma a fare spese in paese e siamo anche andati a trovare i nonni.”
“Kain, non credi che dovresti salutare anche Laura?” disse Andrew.
“Ma certo! Mi scusi, signora. Sono felice di rivederla.”
“Ciao, Kain – sorrise Laura, accarezzandogli la guancia – ti sei divertito in paese?”
“Ho convinto la mamma a prepararmi i biscotti al cioccolato.” sorrise lui con estrema soddisfazione.
“Tu e il tuo cioccolato – fece Ellie entrando con una busta di carta tra le braccia – proprio non ne puoi fare a meno. Ciao Laura, come stai? Ciao Heymans.”
“Ciao Ellie – salutò Laura, alzandosi dalla sedia e andando incontro all’amica – tutto bene.”
Le due si scambiarono un cenno d’intesa ed Heymans intuì che Ellie era uscita con Kain di proposito per permettere quell’incontro a tre.
Però ci sono ancora alcune cose di cui vorrei parlare…
Lanciò un’occhiata ad Andrew che parve capire.
“Perché non preparate adesso i biscotti? Così Laura ed Heymans ne portano a casa un po’…”
“Va bene – annuì Ellie – e tu, piccolo furfante, dato che è stata una tua iniziativa mi darai una mano, sono stata chiara?”
“Certo!” sorrise il bambino, pregustando già di mangiare anche un po’ del delizioso impasto.
“Mamma, perché non li aiuti anche tu? Così poi li rifai anche a casa, mi piacerebbe molto…”
“Va bene, tesoro.”
“Heymans ci aiuti pure tu?” chiese Kain, salendo sopra una sedia ed iniziando a tirare fuori la spesa dalla busta.
“Magari dopo, Kain. Devo far vedere ad Heymans alcune cose…”
“Va bene, papà.” annuì il bambino.
Andrew fece cenno ad Heymans di seguirlo e lo condusse fino al suo studio. Chiuse la porta dietro di loro e si diresse al suo tavolo da disegno, sedendosi nell’alto sgabello e indicando al ragazzo di sedersi pure sulla sedia che stava davanti alla scrivania
“Allora, – iniziò – adesso sai come sono andati i fatti. C’è qualche cosa che vuoi chiedermi, ma ti sei trattenuto per la presenza di tua madre?”
“I miei nonni sono vivi o morti?”
“Non lo so, sinceramente. Non lasciarono detto dove si sarebbero trasferiti e il problema non si presentò nemmeno per l’eredità di Henry: il testamento era pianificato alla perfezione, non c’era bisogno di interpellarli. Posso darti un consiglio? Lasciali stare…”
“Volevano mandare mia madre in un bordello! Come posso lasciare stare?”
“Perché non ne vale la pena… se vuoi ti faccio capire che tipo di persone sono: la questione poteva essere risolta anche senza alcun matrimonio. Né con Gregor, né con me.”
“Cosa?” sbiancò Heymans.
“Potevano darti il cognome Hevans, riconoscerti: è una pratica non molto usata, in paese non è registrato alcun caso simile, ma è assolutamente legale. Mio padre è un notaio: fu lui a trovare questa soluzione e a proporla ad Henry, quando ancora si cercava un modo di tirare fuori Laura dai guai. In quanto capofamiglia e padre di Laura che era ancora nubile, tuo nonno poteva farlo… ma non lo fecero, nemmeno su richiesta di Henry.”
“Mamma lo sa?”
“No, non credo sia al corrente di una simile procedura legale. E a questo punto è meglio che non lo sappia… non avrebbe senso darle un’ulteriore conferma di quanto siano stati pessimi.”
“Vorrei andare da loro e fargli vedere che sono cresciuto, alla faccia di quanto mi avevano augurato. Vorrei sbattergli in faccia il fatto che sono delle persone orribili…”
“E poi? – lo bloccò Andrew, con un sorriso – Loro ti guarderebbero dall’alto della torre dei loro preconcetti e si direbbero che da una relazione maledetta come quella dei tuoi genitori non poteva che nascere uno maleducato come te. Non ti prendo in giro, non fare quella faccia… tu non li hai conosciuti, io sì.”
“Se penso che avrei sempre voluto conoscerli per la famosa rendita che davano a mamma… mi dicevo sempre che appena crescevo avrei lavorato per ripagare questo favore.”
Scosse il capo, vergognandosi profondamente e sentendosi umiliato nel vedere tutti i suoi buoni propositi sbriciolati in questo modo.
“Sei un bravo ragazzo, Heymans – la mano di Andrew si posò sulla sua spalla e la strinse in un gesto di conforto – sono fiero di te come se fossi mio figlio. Quelle persone non ti meritano, fidati. E non pensare più a problemi finanziari, non ce ne sono.”
“Ma sono passati tanti anni! – protestò Heymans – L’eredità di mio zio non può durare così tanto…”
“Fidati di me. – Andrew sorrise e andò alla scrivania. Aprì un cassetto e tirò fuori una grossa cartella – In quanto esecutore testamentario, ho avuto anche la delega di amministrare il patrimonio che tuo zio aveva lasciato: sai, ho alcuni amici ad East City, ex compagni di università, che hanno una società edile… la quota rende una buona somma ogni anno. Ovviamente ho investito in quell’impresa una cifra piccola, in modo che se le cose fossero andate male, avrei potuto rimetterla nel vostro fondo di tasca mia. Ma quei ragazzi sono davvero in gamba: potete vivere in modo dignitoso anche se vostro padre non lavora.”
Al ragazzo girava la testa mentre osservava quei fogli indicanti le varie cifre e le somme. Non ci capiva molto, ma era come avere uno stipendio mensile di un onesto lavoratore.
“Laura preferisce che gestisca io questo piccolo patrimonio e fra me e mio padre non c’è alcun problema. Fra quattro anni diventerai maggiorenne e  potrai accedere alla tua parte di eredità: c’è un fondo che Laura mi ha chiesto di creare apposta per te… e uno per tuo fratello.”
Heymans annuì con serietà: dopo un primo momento di sorpresa si era reso conto che la situazione era più rosea del previsto. Effettivamente, ora che ci pensava, per quanto la loro casa fosse modesta, a lui ed Henry non era mai mancato niente per quanto concerneva cibo, vestiario, materiale scolastico.
“Mio padre non può metterci mano, vero? – chiese – Non può toccare niente di quello che spetta alla mamma?”
“No, Heymans, stai tranquillo: non lo verrà nemmeno a sapere.”
Il ragazzo sospirò di sollievo e dovette posare i gomiti sulla scrivania per tenersi la testa tra le mani. Gli sembrava un miracolo, era come se Andrew Fury fosse arrivato e gli avesse gettato un’ancora di salvezza in mezzo alla tempesta. Sentì la mano dell’uomo che gli accarezzava la schiena con gentile comprensione.
“Sei un figlio eccezionale, Heymans – gli disse con serietà – Gregor è stato un idiota a non capirlo. Mi dispiace che tu abbia dovuto soffrire per l’assenza di un padre…”
“Tiene mamma ed Henry in una presa psicologica tremenda… a volte mi sembra di essere un estraneo che guarda con impotenza questi legami perversi.”
“Heymans, guardami – la voce di Andrew era sommessa – in tutta sincerità… quella bestia ha mai alzato le mani su Laura o su voi ragazzi?”
“No – scosse il capo lui – io… io credo che non sia una persona propensa alla violenza. Ma… ma quando beve molto a volte si arrabbia. Mamma riesce a calmarlo, ma io ho paura che non andrà sempre così. C’è qualcosa che sta… sta cambiando.”
Andrew sospirò e gli passò una mano tra i capelli rossi.
“Laura non l’ha ancora capito del tutto, ma io non ho difficoltà ad intuire quello che sta succedendo… Heymans, semplicemente Gregor sta iniziando a vedere in te un nuovo Henry.”
“Gli assomiglio così tanto?”
“Ci sono state un paio di volte, durante la discussione che abbiamo avuto prima, in cui faceva paura la somiglianza con tuo zio. Fisicamente sei figlio di tuo padre, ma in quei momenti la cosa passava nettamente in secondo piano. Ed il fatto che tu sia indipendente dalla presa psicologica di quell’uomo la dice lunga.”
“Mamma non è una debole… ”
“Debole? No, Laura non è debole… ma ha un tipo di forza diversa dalla tua e da quella di suo fratello. Lei è disposta ad accettare Gregor, forse è arrivata a considerarlo una strana forma di quotidianità, anche se sofferta… in parte penso dipenda anche da tuo fratello.”
“Henry ha paura di papà – scosse il capo Heymans – l’ho capito solo da poco. Lo ammira e allo stesso tempo lo teme: non mi ascolta mai, preferendo sentire solo quello che dice lui… ma in fondo ha paura della sua reazione. E papà vuole evitare assolutamente che io abbia qualche influenza… adesso capisco perché.”
“Heymans – mormorò Andrew, prendendolo per le spalle e accostando il viso al suo, tanto che le fronti si sfiorarono – sono sicuro che tu hai tutte le carte in regola per sistemare le cose, anche se hai quattordici anni. Ma, per l’amor del cielo, non fare sciocchezze… niente gesti impulsivi, va bene?”
“Promesso.” annuì lui.
“E ricordati che puoi sempre contare su di me. Ho promesso ad Henry che mi sarei preso sempre cura di te e di Laura ed intendo farlo.”
Heymans annuì, affidandosi completamente a quell’uomo: era lui la chiave di volta che aspettava, l’aiuto esterno che lo aiutasse a capire in modo ragionato la situazione in cui viveva.
No, papà, non ti permetterò di distruggere la mia famiglia…

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 25. Senso di protezione. ***


Capitolo 25. Senso di protezione.


 
Una delle prime conseguenze che ebbe quella discussione fu che Heymans iniziò a guardare Kain con un’attenzione del tutto nuova: era una cosa assolutamente involontaria, ma ogni volta si trovava a cercare qualche residuo delle malattie che l’avevano tormentato da piccolo. Non ne capiva nemmeno lui il motivo, ma era in qualche modo spaventato dall’idea che quel bambino in realtà non fosse guarito del tutto.
Probabilmente in parte dipendeva da uno strano senso di colpa che era cresciuto dentro di lui: se Kain fosse stato suo fratello non avrebbe mai permesso a Jean di comportarsi in maniera cattiva contro di lui per quasi due anni; invece aveva quasi sempre assecondato quel lato tormentatore del suo migliore amico, giustificando il tutto con la necessità di far vivere qualche emozione alla piccola vittima.
Ovviamente non aveva detto niente a Jean riguardo quella scoperta sul passato di Kain: all’amico aveva raccontato la storia per sommi capi, preferendo tenere per sé, sua madre ed Andrew Fury la maggior parte dei dettagli. Non per mancanza di fiducia, ma perché si era rivelato un quadro complicato e personale che coinvolgeva troppe persone.
In ogni caso mi sento davvero in colpa per Kain. Se solo avessi saputo… eppure lo conosco da quando ha iniziato le elementari e so benissimo che è sempre stato isolato e bistrattato dagli altri. Ma perché? Perché dovevo scoprirlo solo adesso?
Erano questi i pensieri che lo attanagliavano mentre faceva una passeggiata per i campi, approfittando di una giornata particolarmente bella di quel dicembre innevato. Aveva scoperto che l’aria frizzante lo aiutava a pensare con maggiore lucidità e stare all’aperto gli liberava la mente dall’inevitabile senso di oppressione che provava a casa sua.
Forse preferiva risolvere la questione “secondaria” di Kain, prima di sentirsi davvero pronto ad affrontare suo padre e la spinosa situazione familiare in cui viveva.
Senza ovviamente compiere gesti impulsivi, sia chiaro. E’ una promessa che voglio mantenere.
Aveva infatti scoperto che gli importava più del previsto di ciò che Andrew Fury pensava di lui. Nella sua mente era arrivato a considerarlo come una vera e propria figura paterna più in fretta del previsto. La cosa era risultata abbastanza strana: a conti fatti la figura a cui avrebbe dovuto fare riferimento sarebbe dovuta essere quella di James Havoc. Lo conosceva decisamente meglio e da molto più tempo, arrivando a provare per lui una sincera forma di affetto…
Tuttavia…
Tuttavia James non aveva alcun legame con sua madre, non l’aveva preso in braccio appena nato, non gli aveva dato il nome, non aveva cercato di proteggerlo in tutti i modi possibili, arrivando addirittura ad accettare una lontananza. Andrew Fury sì e questo bastava per porlo su un piedistallo del tutto particolare.
I suoi pensieri a ruota libera vennero interrotti da un lieve movimento sul campo accanto al quale stava passando.
Aguzzando la vista notò una figura accovacciata tra i cespugli innevati e con curiosità si avvicinò.
Per un naturale istinto i ragazzi sono portati ad avvertire quando è il caso di fare il maggior silenzio possibile: avendo visto Kain immobile e con lo sguardo puntato in avanti, Heymans non aveva avuto difficoltà a capire che ci doveva essere qualche animale lì vicino.
“Ehi, Kain – sussurrò quando gli fu accanto – che hai visto?”
“Accanto al tronco, vicino a quella radice – sussurrò l’altro di rimando – sta mangiando i pezzetti di biscotto che gli ho lasciato.”
Heymans guardò nella direzione che gli era stata indicata e vide un piccolo scoiattolo che banchettava con alcune briciole. Abbassando gli occhi sul bambino, il rosso notò che stava lavorando freneticamente con una penna per fare un disegno abbastanza preciso dell’animale su un quaderno.
Lo scoiattolo fu un modello diligente e rimase composto fino a quando l’improvvisato disegnatore non ebbe terminato. Con un sorriso soddisfatto Kain si alzò dalla posizione accovacciata e quel movimento bastò a far scappare la timida bestiola che, a onor del vero, aveva praticamente terminato l’inaspettato banchetto.
“Grazie per non averlo spaventato.”
“Figurati; – rispose il rosso, scrollando le spalle e recuperando pure lui la posizione eretta – sei bravo a disegnare. Posso vedere il tuo quaderno?”
“Va bene, ma non ci sono solo disegni – avvisò il bambino, passandoglielo – è il mio quaderno dei grandi progetti: me l’ha regalato il mio papà.”
“E cosa c’entra uno scoiattolo con i grandi progetti?”
“Non lo so, ma mi andava di disegnarlo: papà mi ha suggerito di scriverci o disegnarci qualsiasi cosa mi passi per la testa…e ho scoperto che è davvero bello farlo. Riguardando le pagine mi accorgo di tantissimi dettagli che magari mi sarebbero passati dalla mente.”
Il ragazzo più grande intanto sfogliava con sincera meraviglia quel quaderno, rendendosi conto per la prima volta di quanto fosse estremamente attiva la mente di Kain. Il bambino una volta gli aveva accennato che gli interessava l’elettronica, ma non pensava che i livelli fossero tali. Ma la cosa più affascinante era che accanto a quei progetti di indubbio valore tecnico, c’erano sprazzi di ingenuità infantile come disegni di animali, piante, frasi prese da qualche libro di favole.
E’ come poter accedere ad una piccola parte di lui…
“Poi tua mamma li ha rifatti i biscotti al cioccolato?” chiese il bambino quando Heymans gli restituì il quaderno.
“Non ancora, ma presto li farà – rispose, osservandolo sistemarlo dentro la tracolla che portava sopra il cappotto – adesso torni a casa?”
“Mh, ho promesso alla mamma di non fare troppo tardi: a volte si preoccupa… specie quando fa molto freddo. Ma oggi è una bella giornata.”
“Beh, è comprensibile che si preoccupi così, considerando quello che hai passato.”
Non fu una frase buttata lì per caso: Heymans fissò con attenzione la reazione del bambino a quella rivelazione. Vide gli occhi scuri continuare a fissare davanti, verso il sentiero, ma per un secondo l’espressione spensierata scomparve, diventando stranamente… matura? Sofferente? Heymans non era in grado di decifrarlo, ma capì una cosa importante.
Le malattie possono lasciare conseguenze non solo fisiche.
“Sai che sono stato male?” la voce del bambino pareva normale, eppure Heymans colse una strana sfumatura di… timore?
“Sì.”
Cadde uno strano silenzio mentre proseguivano lungo la strada.
Il rosso continuava a guardare Kain, temendo di aver fatto una mossa sbagliata: a ripensarci, se quel bambino non voleva parlare delle malattie che l’avevano tormentato da piccolo aveva tutte le ragioni del mondo.
“Te l’ha detto la tua mamma? Papà mi ha raccontato che sono molto amici.”
“In un certo senso sì, l’ho saputo grazie a lei…”
“Non ne ho mai parlato con nessuno – iniziò, ma poi si fermò con aria abbastanza sorpresa – beh, a dire il vero con chi ne potevo parlare? Sino a quando ho fatto amicizia con Vato e poi con voi non parlavo con nessuno eccetto che con la ma famiglia.”
“Scusami, – disse Heymans, allungano la mano per arruffargli i capelli: oramai era un gesto che gli veniva istintivo con Kain e sembrava che a lui piacesse parecchio – non avrei dovuto…”
“Oh, non ti preoccupare. Sai, a volte ci ripenso anche io, specie quando prendo l’influenza o mi raffreddo e mamma mi fa restare a letto per qualche giorno.”
“Presumo che sia una cosa molto differente.”
“Sì, direi di sì – si fermò come se stesse riflettendo su che parole dire – è un tipo di dolore diverso… non ti spaventa come l’altro. Sai che è normale e che passerà presto. E poi è decisamente molto meno forte.”
“Deve essere stata dura affrontare tutto questo a pochi anni d’età.”
“Mh – annuì lui, serio in volto – ricordo che la mamma stava sempre con me: non poteva fare molto per il dolore, quello andava via solo quando finiva la febbre, e così mi raccontava tante storie, mi cantava canzoncine per farmi addormentare ma non… non passava. Erano soprattutto le mani a farmi male.”
Quasi istintivamente se le fissò e poi le strinse al petto, quasi avesse paura che il dolore potesse tornare a ripresentarsi solo per averne parlato. Heymans fu rapido ad intuire che dare voce a quei ricordi non era facile e così tornò a mettergli la mano sulla chioma corvina, ma questa volta invece di arruffarla la accarezzò con dolcezza, proprio come aveva fatto con Henry per consolarlo dopo la brutta avventura che aveva avuto.
“Kain, non torna quel dolore, stai tranquillo.”
“Non torna…” balbettò lui, cercando di convincersene.
“Sei solo spaventato, è normale. A volte succede quando si parla per la prima volta di cose che si sono tenute dentro per tanto tempo: è successo anche a me, fidati. Fai un paio di respiri profondi, da bravo.”
Il bambino obbedì e parve calmarsi leggermente, così Heymans decise di continuare a parlare.
“Sai, i nostri genitori sono davvero grandi amici… vorrei che tu ti fidassi di me, davvero. Se ha bisogno di parlare di qualcosa io ci sono, va bene? Mi dispiace che per tutti questi anni io sia rimasto a guardare Jean che ti tormentava.”
Kain scosse il capo.
“Non fa niente. Adesso Jean è buono con me e anche tu… è come per il dolore, no? Non ritorna.”
“No, – lo rassicurò Heymans con un sorriso – non ritorna. Con me e Jean dalla tua parte nemmeno la più stupida febbre reumatica oserebbe darti fastidio.”
Fu una frase così assurda che Kain scoppiò a ridere, sfogando finalmente tutta l’ansia residua.
Anche Heymans non poté fare a meno di unirsi a quell’ilarità così liberatoria e i due rimasero per qualche minuto in quelle condizioni, prima che Kain, con un gesto del tutto inaspettato, gli cingesse le braccia attorno alla vita.
“Grazie, Heymans, sei stato fantastico. – esclamò – Mi hai fatto passare la paura.”
“E di che, ragazzino? E ricorda che puoi sempre far affidamento su di me, capito?”
“Come un fratello maggiore? Grandioso, Heymans: sai, considero Riza come una sorella maggiore, ma penso che un fratello sia una cosa differente… a volte ci sono cose da donne che non riesco a capire.”
“Sì, decisamente hai bisogno di un fratello maggiore – decise il grande: del resto tra maschi bisognava sempre darsi una mano – Adesso però vai, altrimenti tua madre si preoccupa.”
“Va bene, ci vediamo domani a scuola.”
Mentre osservava il bambino che si allontanava per riprendere la strada di casa, Heymans si sorprese a chiedersi se questa fosse l’ennesima fuga che faceva dalla sua situazione familiare. Ma poi scosse la testa: no, né Jean né Kain erano delle compensazioni al suo difficile rapporto con Henry. Erano delle cose completamente diverse.
E se anche la situazione a casa cambierà, li considererò per sempre come dei fratelli.
 
“Ellie, sei qui? Hai per caso visto…” Andrew bloccò la frase a metà quando, entrando nella stanza da letto, vide la moglie inginocchiata davanti alla cassapanca dei suoi vecchi vestiti. Lei si bloccò con aria colpevole e si strinse al petto un abito di lana grigio perla.
“Che cosa ti serve, Andrew?” chiese con innocenza.
“Niente, – scosse il capo, avvicinandosi e sedendosi accanto a lei – adesso credo sia più importante sapere cosa frulla nella testa di mia moglie.”
“Nulla, davvero – sorrise Ellie – solo stupidaggini femminili, tutto qui.”
Andrew inclinò il capo con curiosità: proprio come Kain, sua moglie era incapace di mentire, specie quando era turbata da qualcosa. Con gentilezza le prese il vestito dalle mani e disse.
“Vediamo un po’: ero veramente teso quella sera d’inverno. Aspettavo che la mia fidanzata uscisse di casa per fare una cosa molto importante: le avevo chiesto di sposarmi a giugno di quell’anno e ancora non le avevo dato un anello di fidanzamento. Avrei tanto voluto regalarglielo alla cerimonia di fine scuola, ma allora ancora non avevo iniziato a lavorare.”
“Andrew…” iniziò Ellie, sorridendo, ma anche arrossendo.
“Alla fine ero riuscito a comprarne uno e continuavo a rigirarmelo in tasca, sperando di aver scelto bene: stupidamente mi ero reso conto che la mia ragazza non portava gioielli, chissà se le sarebbe piaciuto…. Poi ho alzato lo sguardo e l’ho vista: l’avevo chiamata così all’improvviso che non si era nemmeno messa il cappotto… indossava un abito di lana grigio chiara che metteva in risalto i suoi bellissimi capelli neri e gli occhi scuri. Ed io come sempre mi sono perso a guardarla, dimenticandomi completamente del perché ero lì…”
“Solo per pochi secondi – lo prese in giro lei, abbracciandolo – non mi hai nemmeno salutato: ti sei messo in ginocchio e hai tirato fuori l’anello.”
“So che ti ho già chiesto di sposarmi, ma sono talmente innamorato di te che lo rifarei mille volte… vuoi sposarmi? Dissi una cosa del genere, vero?”
“Dicesti proprio così, Andrew Fury, e mi hai reso la donna più felice del mondo.”
“E che ha la mia donna più felice del mondo? – chiese lui con gentilezza cingendole le braccia alla vita e avvicinandola ancora di più – Sei triste, Ellie, e non da oggi…”
“Te l’ho detto sono solo sciocchezze.”
“No, non lo sono, altrimenti non ci staresti così male.”
Lei rimase per qualche secondo in silenzio, scrutando gli occhi castani del marito e mordendosi lievemente il labbro inferiore, indecisa su quanto dire.
“Heymans fa molto affidamento su di te, vero? Sono felice che finalmente gli abbiate raccontato tutto… è un così bravo ragazzo: spero davvero che riesca a risolvere la questione con suo padre.”
“Sì, sono sicuro che ce la farà, si tratta di procedere per gradi. Ma cosa c’entra con te?”
“Per te è come un figlio, vero? E non pensare che sia gelosa, sai benissimo che non è così.”
“E’ il figlio di Laura e sai che legame ho con lei… e non ne sei mai stata gelosa. Gli voglio bene, certamente e se Kain fa affidamento su di lui come un frat… oh, Ellie, allora è questo, mh?”
“Scusami, te l’ho detto che era solo una stupidaggine.”
Si alzò all’improvviso liberandosi dal suo abbraccio e si girò in tempo per asciugarsi una lacrima.
Era tutto iniziato da quando Andrew le aveva fatto il resoconto di quanto era accaduto in quella discussione a tre con Laura ed Heymans, ma a dire il vero un primo seme era stato piantato il giorno in cui Riza era venuta a casa disperata per il suo primo ciclo.
Succedeva sempre così: non ci pensava per molto tempo, magari per anni, ma poi ogni tanto la cosa rispuntava fuori e lei non poteva fare a meno di sentirsi profondamente triste. E questa volta era peggio delle altre.
“Non è una stupidaggine, amore mio.” sospirò Andrew, tornando ad abbracciarla. E questa volta lei non scappò.
“Sai… Kain qualche giorno fa mi ha detto che considera Riza come una sorella maggiore. Ne è così felice, la adora. E lei è davvero una ragazzina stupenda e… e quando l’ho aiutata col vestito per la festa mi sono sentita così eccitata per lei. Prima che ci sposassimo mi dicevo sempre che se avessi avuto una figlia le avrei…” un singhiozzò interruppe la frase.
Quella figlia non era mai arrivata, così come non era arrivato nessun altro fratello per Kain.
Lei segretamente ci aveva sperato: si era illusa che per un qualche miracolo il medico si fosse sbagliato e fosse ancora in grado di portare in grembo un nuovo figlio. Ma non era andata così.
Ringraziava il cielo ogni giorno che Kain fosse cresciuto, superando le malattie che l’avevano portato così vicino alla morte. Ogni sera, quando andava a controllare che dormisse, rimaneva ad osservarlo per qualche minuto, beandosi della sua presenza.
Eppure non era mai riuscita a superare quella delusione di non poter avere altri figli.
“Mi aspettavo che la presenza di Riza potesse suscitare simili pensieri in te: – sospirò Andrew – ti sei davvero affezionata a quella bambina… ed il fatto che lei non abbia più la madre e abbia iniziato a fare affidamento su di te rende tutto più difficile, vero?”
“Sono così stupida… invece di essere felice che Kain sia così bello e sano…”
“Amore, tu volevi tantissimi cuccioli, perché sei nata per essere mamma. Mi dispiace, mi dispiace tremendamente per quello che è successo: credimi Ellie, anche io avrei voluto avere degli altri bambini.”
“E’ che mi sento così in colpa: la madre di Riza non c’è più ed io la sto usando come compensazione per la sorellina che non ho mai potuto dare a Kain.”
Andrew la strinse maggiormente e la baciò in fronte.
“Adesso sì che ti stai comportando da sciocchina, Ellie, – sorrise – sei tale e quale a tuo figlio quando inizia a fare voli pindarici assurdi. Non stai usando nessuno: tu e Riza semplicemente vi siete trovate, tutto qui. Sai, mi sono affezionato anche io a lei e sono felice che abbiate instaurato un così bel rapporto: si vede lontano un miglio che assieme siete davvero contente.”
Ellie riuscì a rispondere a quel sorriso e si sentì estremamente sollevata. Non c’era niente di peggio che sentirsi in colpa per provare dei sentimenti nei confronti di qualcuno: Riza l’aveva fatta riflettere profondamente sotto questo punto di vista, ma non poteva fare a meno di volerle bene. Di iniziare a considerarla come una seconda figlia.
“Non è colpa tua se i bambini ti adorano, Ellie…” la prese in giro Andrew.
“Chiedimelo di nuovo – disse d’impulso lei, mentre le guance arrossivano vistosamente – chiedimi di nuovo di sposarti, ti prego.”
“Ellie Lyod, anche se condividiamo la vita da oltre dodici anni, ti andrebbe di risposarmi? Ora ed infinite volte… e dimmi di sì, ti prego: non posso resistere davanti ai tuoi bellissimi occhi, alle tue guance arrossate…”
E anche se la cosa era detta per scherzo, la passione nello sguardo di Andrew era reale.
“Sì, lo voglio, Andrew Fury… ora ed infinite volte.”
“E dato che un anello te l’ho già regalato, che ne dici se dopo natale ti porto ad East City per qualche giorno, mh? Ti voglio viziare come non ho mai fatto.”
Ad Ellie brillarono gli occhi: non era mai stata in una grande città come East City e l’idea di visitare quel posto meraviglioso la elettrizzava. Andrew le aveva sempre raccontato delle bellezze di quella città, così grande rispetto al loro paesino: quando era all’università lei passava ore ed ore a rileggere quelle lettere ed immaginandosi di essere con lui a passeggiare per quelle belle strade lastricate, a guardare gli imponenti edifici, il ponte sul fiume…
“Mamma, papà, sono tornato.” la voce di Kain la ridestò da quel sogno ad occhi aperti.
“Abbiamo un cucciolo a cui pensare…” mormorò con aria di scusa.
“Può stare dai nonni – sussurrò lui, sfiorandole le labbra con un bacio – ti prego, dimmi di sì…”
Ed Ellie non poté fare a meno di annuire e di mettersi a saltellare, deliziata come una quindicenne.
 
“Ottimo lavoro, Jean – si congratulò James, dando una pacca sulle spalle del figlio – vai a riposarti.”
Il ragazzo si limitò ad ansimare e a dirigersi verso l’uscita del magazzino: voleva sol buttarsi nel letto e morire seduta stante.
“Ehi, figliolo.” lo richiamò il padre, mentre metteva la mano sulla maniglia.
Ti prego non altre cose da spostare… non oggi…
“Sì, papà?”
“Chiedi ad Heymans se ci vuole dare una mano durante questo finesettimana: così finiamo prima con queste merci da sistemare.”
“Va bene, glielo chiedo domani a scuola.”
A passo lento salì le scale e si diresse in camera sua.
Gli seccava molto ammetterlo, ma a questo giro lavorare nel magazzino l’aveva letteralmente annientato: le nuove merci, arrivate prima del periodo natalizio, erano tantissime e lui e suo padre avevano passato tutto il pomeriggio e spostare casse, sacchi e quanto altro per fare dello spazio.
“Chiamatemi solo se la casa sta crollando…” sospirò buttandosi primo nel letto e affondando il viso sul cuscino. Avrebbe dovuto farsi un bagno e poi mettersi a studiare…
Dopo… adesso voglio solo morire qui.
Ma la calma durò solo per cinque minuti.
“Cavalluccio!” esclamò una ben nota voce e Jean ebbe solo il tempo di alzare la testa che i venti chili della sorella gli si catapultarono nella schiena dolorante dopo ore e ore di sollevamento pesi.
“Janet, no!” protestò.
“Dai, gioca con me – supplicò la bambina, afferrandogli i capelli e tirandoli indietro come se fossero la criniera di un cavallo – è da due giorni che non giochiamo perché aiuti papà.”
“Scendi dalla mia schiena, assassina – sbottò Jean, usando le forze residue per alzarsi il tanto che bastava a scrollarsela di dosso – sono stanco, capisci? Vai a giocare con la mamma.”
“Mamma sta preparando la cena.” spiegò Janet, sedendosi a gambe incrociate nel letto.
“Vai da papà.”
“Sta finendo di lavorare in magazzino.”
“Vai in camera tua.”
“Da sola mi annoio.”
“Smettila di rispondere ad ogni cosa che ti dico.”
“Posso restare assieme a te?”
“Ma che ho fatto di male? – sospirò il ragazzo, girandosi supino e mettendosi la mano sopra gli occhi – Janet, sono stanco morto, da brava. Abbi pietà di me.”
“Fratellone?” chiamò lei, dopo qualche minuto di quiete che aveva fatto illudere il giovane che la sorella fosse andata via.
“Che c’è?”
“Lo sai che oggi un bambino della mia classe voleva darmi un bacio?”
“Che cosa?!” Jean  si mise seduto con uno scatto che gli fece dolere tutta la schiena. Ma la notizia era così sconvolgente che le proteste dei suoi muscoli passarono immediatamente in secondo piano: afferrò la sorellina per le spalle e la fissò.
“Chi è stato? Chi? – le chiese – Chi è quel poco di buono che osa chiederti una cosa simile?”
“Un mio compagno di classe: si chiama Teddy – rispose lei con semplicità – Sai, lui ha già baciato tutte le mie compagnette.”
“Che? – inorridì Jean – A sei anni? A sei anni? E tu che hai detto? Non gli avrai mica permesso una simile cosa, spero!”
“Io gli ho detto che avevo già il fidanzatino.” scrollò le spalle lei.
“Oh – sospirò di sollievo il giovane – sia ringraziato Heymans.”
“Ma lui non mi ha creduto perché non mi ha mai visto con un altro bambino – ammise la piccola ad occhi bassi – però Heymans ha detto che la cosa deve restare segreta.”
“E quindi? Intendo, quel marmocchio ti vuole ancora baciare?”
“Sì: dice che solo se gli presento il mio fidanzatino non mi darà più fastidio. E non posso dirlo alla maestra altrimenti sarò una spiona…”
“Ma è naturale che domani Heymans si presenterà a quel bast… bambino, Janet. E ci sarò anche io: vedrai che non ti darà più fastidio.”
“Dici davvero, fratellone? – chiese lei con entusiasmo – Avevo paura di chiederlo ad Heymans, pensavo che non mi avrebbe mai detto di sì.”
“Fidati che questa volta lo dirà.”
Baciarsi a sei anni? Ma stava crollando il mondo? Decisamente quel marmocchio aveva bisogno di essere rimesso a posto: sua sorella non andava sfiorata.
 
Il giorno dopo Jean decise di utilizzare una tattica molto particolare: non disse nulla ad Heymans fino al momento fatidico, confidando nel classico effetto sorpresa. Tuttavia non andò tutto liscio come aveva sperato:
“Fammi capire: dovrei andare da un marmocchio di prima elementare e dirgli di lasciare in pace Janet perché è la mia fidanzata?”
L’espressione profondamente contrariata di Heymans fece capire a Jean che non sarebbe stato facile convincerlo: quando si metteva a braccia conserte in quel modo voleva dire che non era assolutamente d’accordo con quanto gli veniva proposto.
“Ma ti rendi conto che quel piccolo bastardo vuole baciare mia sorella?” sibilò
“Jean, a sei anni i baci si danno sulle guance… non sanno nemmeno cosa sono i baci da grandi.”
“Janet lo sa, non ti aveva detto che per quelli aspettava la quinta elementare?”
“Avrà visto i tuoi baciarsi decine di volte, suvvia. Sa benissimo che sono cose da grandi.”
“Non me ne frega niente: adesso e sulla guancia, ma poi? Se iniziano già in prima elementare che succederà alle medie? Senza contare che quel novello dongiovanni ha già baciato tutte le altre bambine di prepotenza… maledetto maniaco. Se non avesse solo sei anni lo farei nero.”
“Appunto: non ci sarà nessun pestaggio… - Heymans sospirò e cercò un modo alternativo di sistemare la questione. Effettivamente anche a lui non piaceva che qualcuno desse fastidio a Janet – Senti, perché non ci limitiamo ad andare da lui e dirgli di lasciarla in pace? E’ un marmocchietto di prima elementare: appena ci vede quello se la fa sotto, te lo dico io.”
“No, altrimenti mia sorella passa per bugiarda – scosse il capo Jean – e lei crede davvero che siete fidanzati: è tutta colpa tua che l’hai illusa.”
Illusa? Ma ti rendi conto che stai parlando di una bambina?”
“Le potevi dire di no.”
“Si sarebbe messa a piangere e… ma diamine, Jean, di che cavolo stiamo parlando? – il rosso fissò sconcertato l’amico: non l’aveva mai visto così serio in vita sua – E’ una situazione assurda, te ne rendi conto? Perché non mi lasci finire l’intervallo in pace?”
“Perché ho promesso a Janet che proprio durante l’intervallo avremo risolto la questione… lei ci sta aspettando. Vuoi davvero lasciarla da sola?”
“Infame, la metti sul ricatto emotivo. – sbuffò Heymans, alzandosi in piedi e finendo di mangiare il panino – Voi Havoc non fate altro che creare problemi. Andiamo a salvare la principessa in pericolo…”
 
Aveva i capelli castani e spettinati, lo sguardo prepotente ed un sorrisino che Janet aveva detestato sin dal primo giorno che l’aveva incontrato. Teddy proprio non le piaceva: passava il suo tempo a fare dispetti alle bambine e più di una volta aveva tormentato anche lei.
Adesso se ne stava lì, le mani contro i fianchi, a fissarla con un ghigno di soddisfazione.
“L’intervallo è quasi finito, Janet Havoc: tu non hai nessun fidanzatino… sei solo una bugiarda!”
“Non è vero! – esclamò la bambina con rabbia, supportata da alcune compagnette – Sei solo un prepotente Teddy, ma vedrai che il mio fidanzatino viene.”
“Bugiarda! Janet Havoc è una bugiarda, solo una bugiarda…”
Questa nuova canzoncina di scherno fece arrabbiare davvero la bambina che rimase a fissarlo mentre gli occhi azzurri le si riempivano di lacrime: era quasi la fine dell’intervallo, perché Jean non veniva come le aveva promesso?
“Oh, e adesso piange anche: sei una frignona, ecco cosa sei.”
“E tu sei un marmocchio che se la fa ancora addosso.” disse una voce minacciosa.
Ci furono effettivamente serie possibilità che Teddy se la facesse addosso quando vide Heymans e Jean che comparivano affianco a Janet e iniziavano a fissarlo con aria decisamente cattiva. Per un bambino di sei anni i ragazzi delle superiori sono davvero grandi e vedere due esemplari particolarmente robusti come i due amici fu un’esperienza terrificante.
“Senti un po’, microbo – disse Jean, facendo un passo verso di lui – sbaglio o stavi per far piangere mia sorella? Sappi che se succede una cosa del genere ti faccio fuori!”
“Jean…” iniziò Heymans, cercando di bloccare l’eccessivo ardore dell’amico.
“Bravo, fratellone, diglielo! – lo incitò invece Janet – Hai visto, stupido? Te l’avevo detto che mio fratello ed il mio fidanzatino sarebbero venuti: non sono una bugiarda!”
“Ti ha detto che sei una bugiarda?” chiese il fratello, divertendosi un mondo a fare la faccia cattiva: forse si doveva trovare una nuova vittima a cui fare i dispetti… quel lato di Kain cominciava a mancargli.
“Sì! – esclamò Janet – Mi ha detto che sono una bugiarda frignona… Heymans, diglielo che sei il mio fidanzatino!”
A quella richiesta il rosso si sentì svenire: doveva davvero dire una cosa simile davanti ad un gruppo di mocciosi di prima elementare? Diamine, aveva una dignità da difendere.
Janet si aggrappò al suo braccio e lo fissò con aspettativa… troppa. Come se dalla frase che stava per dire dipendesse tutta la sua felicità.
Trova una soluzione, Heymans… in fretta… in fretta!
“Come si chiama quel tipo?” chiese a Janet.
“Teddy.”
“Bene… stammi a sentire, Teddy – iniziò, facendosi avanti e portandosi a pochi centimetri dal bambino, arrivando addirittura a scostare Jean – se tu provi di nuovo a dire che Janet è una bugiarda ti anniento, chiaro? Lei non ha mai detto nessuna bugia, mi sono spiegato bene? Se lei dice che ha il fidanzatino allora ce l’ha!”
Sì, era un modo come un altro per evitare di dirlo esplicitamente, ma in fondo erano bambini delle elementari e poteva giocarsela con queste astuzie.
“Non lo farò più!” pianse il bambino, terrorizzato.
“E scordati questa storia di baciarla, anzi, dato che ci sei, smettila di dare fastidio alle bambine, capito?”
“Capito!” singhiozzò Teddy, non osando muoversi.
“E adesso sparisci, microbo!” concluse Jean, dandogli un colpetto sulla fronte.
Fu come se facesse scattare una molla: il bambino corse via ad una velocità impressionante, seguito da alcuni suoi amichetti.
“Pretendere di baciare a sei anni – sbottò il biondo – ma guarda questo…”
“Credimi che l’ha capita.” lo rassicurò Heymans e contemporaneamente si congratulò con se stesso: era riuscito a cavarsela egregiamente e…
“Ah, Janet che bello! – esclamò una bambina dietro di lui – Il tuo fidanzatino è davvero coraggioso, adesso Teddy smetterà di farci i dispetti!”
“Vero che è fantastico? Sai, ci teniamo per mano tutte le mattine. Però è timido e non vuole che gli altri lo sappiano… ma quando sono in difficoltà viene sempre.”
“Come ti invidio. Voglio anche io un fidanzatino come lui.” disse estasiata un’altra.
“Pensi che tuo fratello voglia diventare il mio fidanzatino? Anche lui è così bello e alto!”
“Non lo so – ammise Janet con semplicità – sai, forse lui ha già una fidanzatina: ha ballato con lei alla festa del primo dicembre. Ma credo che sia timido pure lui e non voglia che si sappia… e lei è una bambina grande, sicuramente è alle superiori.”
“Che fortunata! Non vedo l’ora di essere alle superiori!”
“E il tuo fidanzatino ti ha già dato un bacino?”
“No, per quello dobbiamo aspettare: ma la trovo una cosa molto romantica!”
E tutte scoppiarono a ridere in un modo incredibilmente complice e malizioso.
“Jean…” balbettò Heymans, mentre senza girarsi a guardare l’amico, paralizzato com’era davanti a quella scena.
“Si?” anche il biondo era sconvolto da quanto stava sentendo.
“Hanno… hanno sei anni, vero? Perché sono già così… tremendamente smaliziate?”
“Credo che dipenda dal fatto che siano femmine – sospirò Jean, ricordandosi le parole del padre – andiamo, fidanzatino, altrimenti queste ci sequestrano.”
“Inizio a provare simpatia per Teddy e gli altri maschietti della classe…”
 
Mentre Jean ed Heymans scoprivano che anche a sei anni le femmine possono essere incomprensibili, Kain raccontava a Vato ed Elisa le novità che gli avevano annunciato i suoi genitori la sera prima
“Ad East City?” chiese Vato estasiato.
“Sì – annuì il bambino – e papà ha detto che la prossima volta, se mi comporto bene, porterà anche me. Però mi hanno promesso di portarmi un bel regalo già questa volta.”
“Accidenti, mi piacerebbe tanto vedere quella città: ci devono essere biblioteche e librerie ovunque: scommetto che troverei un sacco di cose di cui ignoro l’esistenza.”
“Adesso non esagerare – lo prese in giro Elisa – librerie ovunque direi di no. E dimmi, Kain, tu con chi starai nel frattempo?”
“Probabilmente dai nonni.”
“Perché invece non vieni a stare da me?” propose Vato dopo qualche secondo
“Che? Oh, sarebbe meraviglioso! Non ho mai dormito a casa di un amico.”
“Posso chiedere ai miei genitori: mi farebbe piacere, davvero. E poi spesso viene a trovarmi Roy: possiamo passare dei bei pomeriggi assieme.”
Kain iniziò a saltellare felice, proprio come aveva fatto sua madre il giorno prima. L’idea di passare dei giorni a casa di Vato era qualcosa di incredibilmente bello. Col tempo aveva stretto amicizia con tante persone, certo, ma quel ragazzo di quarta superiore aveva sempre un posto speciale nel suo cuore: era il suo primo vero amico, il magico lettore dello stagno che aveva fatto una bellissima magia per lui; Kain aveva l’assoluta certezza che tutto era iniziato a muoversi nella direzione giusta dopo l’incontro con quel meraviglioso ragazzo.
“Che è questa allegria, gnomo? – chiese Roy avvicinandosi al gruppetto – Che cosa ti è successo?”
“Oh Roy, sapessi che bello! Forse starò a qualche giorno a casa di Vato: spero davvero che i miei genitori ed i suoi ci diano il permesso.”
“Davvero? Allora ti avremo in paese e non in quella casa così lontana.”
“Sono solo venti minuti, sempre che tu corra.”
“In ogni caso dovremmo cogliere l’occasione al volo: perché non organizziamo qualche cosa?” propose Roy.
“Tipo?”
“Che so… una festa, una serata passata a giocare tutti assieme.”
“Buona idea, direi che potremmo anche dirlo a Riza.” propose Elisa.
“Ovvio – annuì Roy, ma poi si rivolse agli altri due con aria cospiratoria – ma poi possiamo fare delle cose tra maschi, che ne dite?”
“Che cosa sono le cose da maschi?” chiese Kain perplesso.
“Ce le inventeremo, gnomo, fidati – sogghignò Roy, mettendogli le mani sulle spalle – ma vedrai che sarà divertente.”

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 26. Pensieri natalizi. ***


Capitolo 26. Pensieri natalizi.


 
Quando finalmente l’ultima cassetta fu sistemata e l’ultima voce dell’elenco venne spuntata, Jean ed Heymans si lasciarono andare a esclamazioni di esultanza: era stato un lavoro duro che li aveva impegnati per quattro pomeriggi di fila, ma alla fine erano riusciti a venire a patti con la riorganizzazione del magazzino dell’emporio Havoc.
“Ottimo lavoro, ragazzi – annuì compiaciuto James, avvicinandosi e mettendo una mano sulla spalla di entrambi – sono davvero fiero di voi: abbiamo finito con due giorni d’anticipo rispetto a quanto ci eravamo ripromessi.”
“Ormai non sentivo più le braccia, – sospirò Heymans – ma a guardare il risultato direi che ne è valsa la pena: siamo stati davvero in gamba, Jean.”
“Perché tu non l’hai visto i primi giorni: era un vero macello. Che meraviglia! Fino all’arrivo della primavera non ci sarà bisogno di fare tutto questo lavoro: almeno tre mesi di relativo riposo.”
James sorrise mentre si avviava con i due giovani verso l’uscita del magazzino: avevano fatto una faticaccia, ma non avevano emesso un lamento. Non li aveva mai visti lavorare con tanto entusiasmo e buona volontà.
Decisamente a questo giro meritavano un premio.
“Angela, dai un succo di frutta a questi due lavoratori – disse, come arrivarono alla cucina – sono stati davvero eccezionali: abbiamo finto tutto quanto.”
“Davvero? Oh, ragazzi dovete essere distrutti. Sedetevi e aspettate, vi preparo dei panini: avete bisogno di riprendere le forze.”
A quelle parole Heymans sorrise e si godette quei momenti di tranquilla stanchezza. Era da parecchio che non aiutava Jean ed il padre nel magazzino ed era stato davvero piacevole ritrovare quel senso di lavoro di squadra che tanto gli piaceva. Erano come un meccanismo perfettamente oliato: se trasportavano una cosa in due sapevano alla perfezione i tempi e le movenze dell’altro ed agivano di conseguenza, aiutandosi invece che intralciarsi. Con questa tipologia di lavoro si creava tra di loro un feeling del tutto particolare, fatto di sguardi e cenni d’intesa che, tuttavia, confermava il loro grande affiatamento.
“Heymans, – disse James, ritornando nella stanza e mettendogli davanti una busta – tieni, questa è per te.”
Il rosso la fissò con perplessità e, sotto lo sguardo incuriosito di Jean, la aprì.
“Oh no, signore, non posso…” esclamò imbarazzato.
“Accidenti, è una bella cifra! Sono almeno due mesi di paghetta settimanale.” commento Jean.
“Sciocchezze, Heymans – dichiarò James con serietà – hai fatto un grandissimo lavoro in questi giorni.”
“Ma l’ho fatto con piacere: siete sempre così gentili con me… sul serio, signore, io non…”
“Te li sei guadagnati, fidati di me. E poi natale sta per arrivare: questo piccolo premio è sempre utile per qualche regalo, no?”
“Ricordati del tuo migliore amico, allora.” scherzò Jean, passandogli il braccio sulle spalle.
Ma Heymans non fece quasi caso a quella battuta: fissava incredulo quei soldi, ovviamente nessuna cifra esorbitante, ma avevano un significato del tutto particolare.
Me li sono guadagnati…
 
Quella novità lo lasciò piacevolmente sconvolto tanto che, come andò via da casa di Jean, sentì l’improvvisa esigenza di doverla condividere con qualcuno. Inizialmente pensò di correre a casa e dirlo a sua madre, ma poi rifletté che con quei soldi avrebbe potuto anche farle una sorpresa per natale e dunque era il caso di mantenere il segreto.
E se magari non fosse d’accordo? Forse non avrebbe voluto che li accettassi.
Fu un pensiero strano quanto spiacevole: ora, lui non pensava assolutamente che fosse un gesto di carità nei suoi confronti anche perché, in realtà, di problemi economici non ne aveva. Ma questo lo sapevano solo lui, sua madre ed Andrew Fury.
“Cavolo, – mormorò, toccandosi la tasca del cappotto dove stava la busta – non credevo che la cosa mi creasse così tanti problemi.”
Era uno strano problema etico a cui non aveva mai pensato: aveva sempre parlato di lavorare in modo da poter aiutare in famiglia, ma adesso che aveva guadagnato dei soldi non sapeva se la cosa sarebbe stata gradita o meno.
Fu quindi istintivo per lui andare verso il cantiere dove sapeva che Andrew Fury stava lavorando.
 
Proprio mentre Heymans deviava dal solito percorso, Roy bussava a casa dei Fury.
Come Ellie gli aprì, il giovane fece uno smagliante sorriso: non aveva ancora conosciuto di persona la madre di Kain e non si aspettava che fosse così carina. In genere le coetanee gli stavano abbastanza indifferenti, ma le donne adulte avevano un fascino del tutto particolare.
“Buonasera, signora, sono Roy Mustang, un amico di Kain.”
“Ciao, Roy – sorrise Ellie – vieni dentro, te lo chiamo subito.”
“Mi scusi tanto se la disturbo.”
“Tranquillo, nessun disturbo. Ti posso offrire qualcosa?”
“No, si figuri. A dire il vero vorrei rubarle suo figlio per qualche ora: ho un problema con una radio e serve qualcuno che ci capisca qualcosa.”
“Capisco. Kain, pulcino! Scendi che c’è Roy! – chiamò Ellie – Non sapevo avessi una radio.”
“E’ quella del locale di mia zia.”
Ellie iniziò ad annuire e poi, come un lampo, focalizzò di che cosa si stava parlando. Ora, non aveva nessun pregiudizio in merito a questo ragazzo dai capelli ed occhi scuri, ma… stava per portare suo figlio in un locale di donne dai facili costumi? Fu con notevole forza di volontà che mantenne il sorriso.
“Eccomi, mamma. Ciao Roy!” sorrise Kain, scendendo dalle scale.
“Ciao, gnomo – salutò il ragazzo, arruffandogli i capelli – ti posso chiedere una mano? La radio di mia zia si è rotta e bisognerebbe ripararla entro stasera.”
“Davvero? Beh, posso dare un’occhiata: – annuì il bambino con tranquillità – nel caso avete degli attrezzi per lavorare lì?”
“Non lo so, meglio che vai a prendere i tuoi.”
“Va bene: torno tra due minuti.”
Questo scambio di battute era stato così rapido e spontaneo che Ellie non era riuscita ad intromettersi. Solo dopo che Kain fu sparito per andare a prendere i suoi piccoli attrezzi, riuscì a squadrare Roy. Il ragazzo fece un sorriso disarmante, come se avesse capito perfettamente cosa stava passando nella testa della donna.
“Non potrei mai far torto a una bella mamma come lei, signora.” disse con notevole galanteria.
“Scusa?” fece Ellie, non potendo fare a meno di arrossire lievemente.
“Le prometto che farò in modo che suo figlio non veda niente di compromettente: l’ultima cosa che voglio è vederla arrabbiata, signora.”
Ellie rimase interdetta quando Roy le prese la mano e la strinse con una delicatezza disarmante. Kain gli aveva raccontato diverse cose su quel ragazzo, ma non che fosse così sfacciatamente galante. Però dopo un secondo si rese conto di avere davanti un quindicenne e dunque riprese la visione giusta delle cose.
“Senti un po’, galantuomo, – disse mettendogli l’indice sulla fronte – per non far arrabbiare questa mamma mantieni fede a quanto detto. Le parole dolci riservale per qualcuna di molto speciale, altrimenti nel momento in cui ti innamori potresti avere difficoltà a farla credere alle tue buone intenzioni. Sai, noi donne a volte siamo gelose.”
Roy rimase lievemente offeso per quella lieve presa in giro, ma non fece in tempo a ribattere che Kain scese con addosso il cappotto e una tracolla.
“Torno presto, mamma.” annunciò portandosi diligentemente davanti ad Ellie.
“Fai il bravo, mi raccomando – annuì lei, sistemandogli meglio il cappotto – e non prendere freddo.”
“Tranquilla.”
Come accompagnò i ragazzi fuori dalla porta, Kain mise un’esclamazione di sorpresa.
“Una bici? Roy, tu hai una bici? Non me l’avevi mai detto! E’ bellissima!”
“Ti piace, gnomo? – sorrise Roy – Non è che la uso molto, considerando quanto è piccolo il paese, ma per venire a casa tua è utile. Allora, io la tengo ferma, tu sali e sistemati sul sellino.”
“Aspetta, volete andare in bici?” chiese Ellie, immaginandosi già qualche catastrofica caduta.
“Certamente, signora.”
“Ma Kain non è mai stato su una bici… potreste perdere l’equilibrio.”
“Ma no, stia tranquilla: sono bravo.”
“Oh dai, mamma – supplicò Kain, mentre si sistemava sul sellino – non dire di no, ti prego.”
Perché una bicicletta era davvero una rarità in un posto come quello dove la gente si muoveva a piedi o perlopiù con i carri trainati da cavalli. Roy se l’era portata dietro da Central City: in realtà era stata di suo padre, ma era uno di quelle cose che aveva pensato bene di tenere per sé.
Ellie fissò con aria dubbiosa Kain che stava seduto in quel sellino, mentre Roy si sistemava con agilità davanti a lui e gli faceva cenno di aggrapparsi alla sua vita.
“Le ho promesso che glielo riporto sano e salvo, signora Fury. Si fidi di me!” esclamò Roy, facendo leva sul pedale sinistro e iniziando a far muovere la bici. E ad Ellie non restò che guardare quei due che si allontanavano a grande velocità.
 
“Ehilà, ciao Heymans, – salutò Andrew, andando incontro al ragazzo e dandogli un’affettuosa pacca sulla spalla – cosa ti porta da queste parti?”
“Problemi di natura strana, signore – ammise il rosso, constatando con piacere che non aveva nessuna remore a parlare con lui – e volevo chiederle il suo parere, per me è importante. Ma forse, la sto disturbando…”
“Oh, stai tranquillo – scrollò le spalle l’uomo, mentre prendeva con disinvoltura alcune misure con uno strano macchinario posto su un cavalletto e le riportava in un foglio – come vedi qui si procede spediti. E poi per te ho sempre del tempo a disposizione: vieni, andiamo vicino al tavolo, così non disturbiamo gli altri. Un cantiere non è proprio un posto adatto a un ragazzino…”
“Vengo da casa di Jean dove ho aiutato lui e suo padre a sistemare il magazzino: è un po’ un cantiere anche quello, no?” sghignazzò Heymans.
“Toccato – ridacchiò Andrew, ammettendo la sconfitta – allora, che problema ti affligge?”
“Ecco, supponiamo che Kain aiutasse un amico per una radio da riparare: lo fa con piacere perché vuole bene a quella persona e alla sua famiglia… però gli danno dei soldi perché in fondo ha fatto un lavoro. E’giusto accettarli?”
“Sono sicuro che James Havoc ti ha dato quei soldi con grande piacere. – dichiarò Andrew, capendo subito quale era il problema del ragazzo – E’ un uomo onesto ed ha sicuramente apprezzato l’aiuto che gli hai dato.”
“Lo so, ma ho paura che mamma possa restare contrariata. Insomma, forse lo prenderebbe come un gesto di carità nei miei confronti, ma non è così, ne sono certo.”
“E’ questo che ti preoccupa?”
“Sì – ammise lui – ed inoltre non vorrei si sentisse in qualche modo in colpa. A volte le dicevo che appena potevo sarei andato a lavorare per guadagnare un po’ ed essere più tranquilli, quando ancora credevo che ci fosse la rendita dei nonni… volevo aiutarla, fare qualcosa per lei. E adesso che finalmente ho guadagnato qualcosa, ho paura di farle un regalo per natale. Non vorrei che si sentisse offesa.”
Andrew gli arruffò i capelli con un sorriso comprensivo.
“E’ normale che tu sia confuso, considerate le scoperte che hai fatto nemmeno due settimane fa, ma voglio tranquillizzarti. Laura ha un’ottima opinione degli Havoc e sa benissimo che questi soldi te li sei guadagnati con onesta fatica: sarà fiera di te, fidati.”
“Io e Jean non abbiamo avuto un attimo di tregua, ma siamo così soddisfatti.” ammise Heymans con orgoglio, tirando fuori la busta e mostrandola all’uomo. Andrew diede una rapida occhiata al contenuto ed annuì.
“Sono veramente orgoglioso di te, figliolo – disse restituendogliela – sono certo che li spenderai con molta responsabilità. Ma ti posso dare un consiglio? Concediti qualcosa per te: lo meriti tantissimo, davvero.”
Heymans annuì con un sorriso: non poteva che dargli ragione.
 
Kain fece un’esclamazione deliziata quando Roy imboccò con abilità l’ultima curva ed entrò in paese ad alta velocità. Non aveva mai immaginato che un viaggio in bici potesse essere così elettrizzante: era stato meraviglioso vedere il paesaggio schizzare via in maniera così rapida, sentire l’aria fresca sui capelli e sul viso. Se correre era fantastico, andare in bici lo era ancora di più.
“Eccoci arrivati, gnomo – annunciò Roy, fermando la bici proprio davanti al locale – allora, hai avuto paura?”
“Assolutamente no, Roy! – esclamò il bambino scendendo dal sellino con un agile balzo – è stato fantastico! Ti prego, mi puoi portare altre volte a fare un giro in bici?”
“Ti riporto a casa come finirai con la radio – gli promise il moro – e visto che ti piace così tanto ti farò sicuramente fare altri giretti. Magari come diventi un po’ più grande e arrivi bene ai pedali ti insegno anche ad andarci da solo, ti va come idea?”
“Se mi va? Sarebbe meraviglioso! – Kain saltò letteralmente addosso all’amico, abbracciandolo con entusiasmo – Grazie, Roy, sei fantastico.”
“Per il mio gnomo questo e altro – sogghignò lui, sollevandolo di peso ed entrando nel locale – adesso ti presento mia zia e ti faccio vedere la radio.”
A differenza di quanto era successo ad Heymans, Riza e Vato che avevano visto il locale sempre vuoto, quando Roy entrò assieme a Kain c’erano quasi tutte le ragazze che vi lavoravano. Nessuna di loro era ancora vestita e truccata in modo provocante, ma certamente i leggeri abitini che si intravedevano dalle vestaglie che indossavano non erano proprio quello a cui Kain era abituato. In ogni caso, la sua presenza scatenò l’attenzione generale.
“Ehi, ragazze, abbiamo un cliente speciale oggi: guardate che bocconcino.”
“Roy, avevi detto che avresti portato qualcuno per la radio, non avevi parlato di un topolino come lui.”
“Non ti preoccupare, Vanessa. Questo topolino è in grado di riparare il nostro vecchio apparecchio.”
“Buonasera signorine.” sorrise Kain con tutta la sua educazione, ovviamente ignorando che tipo di locale fosse quello e che lavoro facessero quelle donne.
“Oh, ma è semplicemente adorabile – esclamò deliziata una delle più giovani – come ti chiami, tesoro?”
“Kain, signorina. E lei?”
“Mi chiamo Lola, piccolo caro… ma guardati, hai le guance rosse rosse.”
“Fuori fa fresco e Roy mi ha portato in bici – spiegò il bambino, arrossendo anche per tutte quelle gentilezze. Ma iniziava a trovare molto simpatiche quelle signorine: erano tutte molto carine con lui – è comunque un piacere conoscerla signorina Lola.”
“Che è tutto questo baccano, branco di oche giulive?” disse un vocione che fece voltare Kain con terrorizzata sorpresa. Se la comparsa di Madame aveva spaventato persino Heymans, il bambino non ci pensò due volte a correre da Roy e stringersi a lui.
“Madame – sogghignò il ragazzo grande – se lo spaventi così la radio non la ripara.”
“Signora, ha visto che ha portato Roy? E’ tremendamente adorabile.”
“Sarebbe questo passerotto appena caduto dal nido il tecnico di cui parlavi?” chiese la donna, avvicinandosi e squadrando Kain che le lanciava timorose occhiate.
“Le apparenze ingannano – Roy arruffò i capelli corvini dell’amico – è piccolo ma ha già costruito una radio tutta da solo.”
“Davvero? Vieni piumino, vediamo se riesci a risolvere il problema con il nostro vecchio apparecchio.”
Senza aspettare risposta, Madame allungò la mano e lo prese sottobraccio per portarlo davanti al bancone. Qui, senza troppe cerimonie e con una notevole forza fisica, lo mise sopra il piano di legno dove stata una vecchia radio aperta e con vari pezzetti sparsi attorno.
“Oh no, ma che è successo?” chiese Kain, raccogliendo con ansia quei fragili meccanismi e dimenticandosi della paura che suscitava in lui quella donna.
“Una di queste ochette l’ha fatta cadere, ma anche prima dava dei problemi.”
“Ci sono tutti i pezzi?”
“Abbiamo scopato il pavimento per recuperarli tutti, proprio come ci ha chiesto Roy - disse Lola, accostandosi a lui e aiutando a togliersi il cappotto – pensi di poter fare qualcosa, zuccherino? Senza la musica proprio non posso vivere.”
“Ma certo signorina Lola – sorrise Kain, aprendo la sua tracolla e prendendo gli attrezzi – stia tranquilla che farò di tutto per riparare la radio.”
“Che tesoro!”
 
Mentre Kain, con sommo divertimento di Roy, si destreggiava tra radio ed insolite ammiratrici, Vato scopriva che avere una fidanzata poteva comportare anche dei problemi.
“Che cosa si regala alla propria ragazza per natale?” disse questa frase a voce alta, posandosi con disperazione allo schienale della sedia.
Gioielli? No, decisamente troppo presto, senza contare che lui non aveva tutte queste grandi risorse finanziarie. Libri? Sì, certo.. e sarebbe andato a comprarli nella libreria di suo nonno, magari proprio quando c’era lei a dare una mano alla cassa. Fiori? Banale, troppo banale e poi era natale, mica un appuntamento qualsiasi.
Quel nuovo problema era davvero sconvolgente: tutti gli anni precedenti se l’era sempre cavata con un dolce che sua madre faceva per Elisa e tutta la sua famiglia, cosa che veniva ricambiata allo stesso modo. Ma questa volta era diverso: si presupponeva che oltre al dolce per i genitori di lei, facesse anche un regalo personale alla ragazza.
E ovviamente Elisa aveva già pensato al proprio regalo.
“Certo che so già cosa regalarti, Vato. Sono sicura che ti piacerà tantissimo!”
“Nnnngh! Ma perché, nemmeno questa volta i libri servono a qualcosa!”
“Vato, perché parli da solo?” chiese sua madre entrando in camera.
“Niente di particolare! – esclamò lui, alzandosi dalla scrivania. Aveva anche pensato di chiedere a sua madre qualche consiglio, ma per una strana e nuova forma di orgoglio voleva pensare da solo a qualcosa da regalare alla sua ragazza – Io esco: devo andare a comprare un regalo per natale.”
Fu quasi una fuga, ma a posteriori era meglio rifletterci con i negozi a portata di mano piuttosto che stando seduto alla scrivania, senza niente che potesse dargli dei suggerimenti. Così iniziò a camminare distrattamente per la via principale del paese, dove diverse persone provvedevano agli acquisti natalizi, quando una lieve pacca sulla spalla lo fece voltare.
“Ciao Heymans.”
“Ciao, Vato, acquisti di natale?”
“Già e anche difficoltosi: hai idea di cosa si regali ad una ragazza?”
“Elisa? – Heymans scosse il capo – No, mi dispiace: mi sono da poco reso conto che le femmine sono complicate da capire, eccetto rare e lodevoli eccezioni. Ma se ti può consolare anche io sono in difficoltà: devo fare un regalo a mia madre, ma non so proprio che cosa.”
“Beh, mia madre è facile: ogni anno le regalo un’agenda nuova. Fra organizzazione di pranzi, spesa, casa e quanto altro la finisce sempre e così ho il compito facilitato.”
Heymans annuì con distrazione: Vato non poteva sapere che la situazione a casa sua era leggermente diversa. Non si era mai presentata l’occasione di comprare un regalo a sua madre: sentirlo parlare con tanta semplicità di un simile argomento lo faceva sentire veramente depresso.
“Fra mia madre ed Elisa siamo proprio messi male, eh?” commentò, sistemandosi meglio la sciarpa.
“Già… dicono sempre che è il pensiero che conta, ma non è vero. Ci tengo a farle un regalo che le piaccia veramente.”
Heymans scosse il capo con rabbia. Possibile che dovevano avere simili difficoltà? Insomma, stavano cercando un regalo per delle persone che conoscevano bene, come potevano fallire?
“Va bene, andiamo con ordine: vediamo di focalizzare i nostri obbiettivi.”
“Obbiettivi?” chiese Vato perplesso: aveva pensato tutto di Elisa, ma mai che fosse un obbiettivo.
“Sì, partiamo con il tuo… allora, chiudi gli occhi ed immagina Elisa che apre un pacco di natale. Che cosa c’è dentro quel pacco?”
Vato rimase ad occhi chiusi e braccia conserte, profondamente concentrato, tanto che Heymans fu sicuro di vedere la proiezione della scena che si stava immaginando. Ma dopo un minuto buono scosse la testa bicolore e fece un sospiro.
“In quel pacco c’è il nulla! Dannazione! Provaci tu, magari con te funziona.”
Heymans annuì e provò a seguire quel particolare metodo di convincimento, ma non ebbe migliore fortuna.
Era come se quelle due donne, così importanti per loro, fossero estremamente sfuggenti.
“Va bene, niente panico – cercò di consolarsi il rosso mentre riprendevano a camminare – mancano ancora cinque giorni a natale, no? Abbiamo tutto il tempo che ci serve.”
“Quattro, ricorda che c’è una domenica di mezzo… anzi tre e mezza dato che la sera della vigilia saranno chiusi.”
“Accidenti, Vato Falman, ma perché sei così pessimista?”
“Non sono pessimista, sono realista: quando gioco a Risiko con Roy calcolo sempre bene ogni dettaglio.”
“Risiko? – Heymans si girò a guardarlo – Ma dai, che bello… è quel gioco di strategia, vero?”
“Sì – sorrise Vato – mio padre aveva parecchi giochi di questo tipo: io e Roy ci giochiamo molto spesso.”
Sarebbe andato anche oltre, ma vide l’espressione emozionata negli occhi grigi di Heymans: di colpo intuì che simili giochi dovevano piacere parecchio anche a lui.
Vuoi vedere che…
“Perché la prossima volta che organizziamo una serata di gioco non vieni pure tu? Scommetto che con un giocatore di più è ancora più bello.”
“Mi piacerebbe.” ammise il rosso senza problemi.
“Ti piace la strategia militare?”
“Parecchio, peccato che nei libri di scuola non venga detto praticamente niente… solo chi ha vinto e chi ha perso. Potrebbero dilungarsi di più nella spiegazione delle battaglie.”
“Ah, allora devi proprio venire con me – sorrise Vato, prendendolo per il braccio – ti devo far vedere una cosa.”
E senza volerlo Heymans si trovò trascinato da quel ragazzo, in genere era così riservato, ma che in quel momento dimostrava un entusiasmo senza pari. Con disinvoltura lo condusse nella libreria del paese dove vennero salutati da Elisa che stava mettendo a posto alcuni libri.
“Ciao Vato – salutò – oh, ciao Heymans.”
“Ciao Elisa – fece in tempo a salutarla lui, prima che Vato lo spingesse verso un preciso scaffale – ma insomma, si può sapere che hai? Sei letteralmente esagitato.”
“Guarda! – esclamò il ragazzo, mollando la presa e prendendo con orgoglio un grosso libro in mano – Guarda che meraviglia!”
Le strategie degli eserciti nel corso dei secoli: tutte le battaglie di Amestris.
Come lessero quel titolo gli occhi grigi di Heymans presero a brillare.
“Oh, quello – commentò Elisa, raggiungendoli – non mi dire che ti interessa. Credevo che cose simili piacessero solo a Vato…”
Ma Heymans nemmeno la ascoltava: rigirava quel libro tra le mani, dando un’occhiata al prezzo e notando che era perfettamente alla sua portata, lasciando anche ampio margine per il regalo di sua madre e per tenere qualcosa da parte. Del resto Andrew Fury non gli aveva detto di comprare qualcosa per se stesso?
“Lo prendo.”
“Eh? Davvero? Va bene, vieni che te lo incarto.”
Heymans e Vato si scambiarono un sorriso soddisfatto: all’improvviso avevano scoperto di avere una grande passione in comune.
“Te lo presto come lo finisco.”
“A casa mia ne ho anche altri, te li passo volentieri.”
“Affare fatto.”
“Ma guardatevi – sospirò Elisa, mentre Heymans le passava i soldi – siete bambini davanti ad un nuovo giocattolo.”
E in quel momento Vato si fermò imbambolato a guardarla. Aveva appena notato come la ragazza soffiasse per allontanare dei ciuffi dei lunghi capelli castani e gli venne in mente che era un gesto che faceva spesso. Ora, era assolutamente fuori discussione che si tagliasse i capelli: lui li adorava così lunghi e ribelli, ma certo che con un nastro…
“Vato? Vato, sei diventato tutto rosso… che hai?”
“Eh? No, niente! Allora avete fatto?”
“Sì, – annuì Elisa, passando la busta ad Heymans – oh, fai attenzione Heymans, il bottone del tuo cappotto si sta per staccare.”
“Che? Ah, è vero: grazie Elisa: stasera lo faccio sistemare da mia madre.”
“A proposito, falle tanti complimenti: ho adorato il vestito di Riza alla festa e ho saputo che l’ha sistemato lei: è proprio una bravissima sarta.”
“Lo farò, stanne certa – sorrise lui – le farà davvero piacere e…”
E anche lui fu colto da un’epifania: ripensò alla scatola di cucito che sua madre era solita usare… con gli anni molti aghi si erano rovinati o erano andati perduti e anche le altre strane cose che usava erano logore.
“Ti intendi di cucito, Elisa?”
“Beh, abbastanza, perché?”
“Se ti chiedessi di darmi una mano a comprare una nuova scatola di cucito, saresti in grado di consigliarmi?”
Elisa lo guardò stranita con i suoi grandi occhi verdi e poi sorrise.
“Nonno! – esclamò – Io sto uscendo con Vato ed un amico: torno tra un’oretta, va bene? Aspettatemi qui, vado a prendere il cappotto.”
I due ragazzi si sorrisero mentre la vedevano andare sul retro.
“Heymans – sussurrò Vato con aria complice – se io compro il necessario, tua madre potrebbe fare dei nastri per capelli per Elisa?”
“Certo che sì. Siamo troppo forti, abbiamo risolto il problema dei regali di natale!”
“Amico mio, le nostre menti sono le migliori dell’universo.”
 
Le menti migliori dell’universo si stavano congratulando tra di loro, mentre una ragazza del locale di Madame osservava Kain destreggiarsi con abilità con i componenti della radio che, piano piano, stavano ritrovando la loro giusta collocazione.
“Ci sai davvero fare con le mani, zuccherino.” ridacchiò Lola.
“Grazie.” sorrise Kain.
“E detto da una che sa davvero lavorare bene di mani…” commentò un’altra ragazza.
“Sasha, sei simpatica come una mer… meravigliosa giornata di pioggia.”
“Fa anche lei lavori di precisione con le mani, signorina Lola?” chiese Kain, girandosi a guardarla.
“Una specie, tesoro – strizzò l’occhio lei – ma diverso da quello che fai tu. Allora, ce l’hai una fidanzatina?”
“No.” arrossì Kain.
“Ah, ma Kain fa colpo sulle ragazze – lo prese in giro Roy che stava seduto poco distante a giocare a carte con altre ragazze – alla festa del primo dicembre una dolce biondina di prima elementare ha ballato con lui.”
“Che tenero!”
“E’ che le sto simpatico – disse il ragazzino – e lei, signorina Lola, non ha il fidanzato? E’ così carina e gentile… un po’ mi ricorda la mia mamma.”
“No, zuccherino – sospirò Lola, accarezzandogli i capelli – non ce l’ho un fidanzato. Una volta l’avevo, ma non è stato molto carino con me. Ma sono sicura che quando tu avrai una fidanzatina la tratterai bene, come merita.”
“Lo merita anche lei, signorina: sono sicuro che prima o poi arriva quello giusto.” sorrise Kain con ottimismo
“Se mai arriva spero che sia proprio come te, – rispose al sorriso Lola, dandogli un bacio sulla guancia – allora, hai finito?”
Kain annuì, mentre chiudeva la scatola della radio. La ricollegò alla corrente e poi girò la manopola e la musica aleggiò nella sala, con somma gioia delle ragazze.
“Oh, ce l’ha fatta allora! – esclamò Madame, spuntando fuori dalla cucina – Niente male, piumino, davvero niente male.”
“Che ne dice, Madame – sorrise Lola – il nostro piccolo zuccherino non merita una ricompensa?”
“Direi di sì.”
 
Il mio pulcino in un bordello… il mio pulcino in un bordello… è quasi ora di cena…Ellie, calmati, calmati.
Ecco un altro problema di essere una madre troppo apprensiva: quel ritardo le stava davvero facendo fermare il cuore.
“Ellie, vuoi calmarti? Vedrai che sta per tornare.” disse Andrew, seduto al tavolo di cucina.
“Oddio Andrew, come fai a stare così tranquillo? – sbottò lei, andando verso il marito – Il nostro innocente pulcino in quel posto… e se vede cose che non… ah, non ci voglio pensare!”
“Dubito che Roy abbia intenzione di sfidare la tua ira e dubito che quelle ragazze siano interessate a Kain in quel senso.”
Ellie arrossì colpevolmente, ricordando che anche Laura aveva rischiato seriamente una fine simile.
“Sono una donna pessima.”
“No, sei semplicemente troppo apprensiva – scosse il capo Andrew – eppure ti fidi di nostro figlio, no?”
“Sì che mi fido di lui. Ma ci sono cose che non credo sia ancora in grado di capire…”
“Ovvio, e infatti mica è andato da solo in quel posto. E’ andato a dare un’occhiata alla radio, Ellie: non ha visto niente di sconveniente, tranquilla.”
“Mamma, papà, sono tornato!” la voce di Kain interruppe quella discussione ed Andrew non fece in tempo ad alzarsi che Ellie si era già catapultata all’ingresso.
“Amore, pulcino della mamma – sospirò, abbracciando il bambino con foga – è così tardi…”
“Scusa, mamma, ci ho impiegato più del previsto. Ma non è ancora ora di cena, no?”
“No, non ancora.”
“Ah, meno male. Sai, Roy è stato molto gentile a riaccompagnarmi in bici: così non ho fatto la strada da solo al buio. Ciao, papà.”
“Ciao, Kain, allora la radio ha ripreso a funzionare?”
“Sì, le signorine erano tutte molto felici: a loro piace tanto la musica. Sono state davvero gentili: non sapevo che Roy vivesse con così tante persone.”
“Le signorine gentili? – sorrise Ellie, cercando di controllare la sua ansia – Erano con te mentre lavoravi alla radio?”
“Sì, con la signorina Lola ho parlato tanto: a quanto pare pure lei lavora di precisione con le mani, ma non sono riuscito a capire che cosa fa di specifico…”
A quelle parole Ellie si girò per lanciare un’occhiataccia ad Andrew come per dire hai visto?
“… ma è stata davvero carina. Ed è così gentile e premurosa, mi ricorda tanto te, mamma: ha persino una treccia come la tua, anche se lei ha i capelli castani.”
“Davvero? – disse Andrew, intromettendosi per far allontanare Ellie e permettere al bambino a levarsi il cappotto – E che altro ti ha detto?”
“Che spera di trovare un fidanzato carino e buono, pare che il primo non sia stato gentile con lei. Ma sono sicuro che lo troverà: scommetto che molti ragazzi vorranno stare con lei, è così buona! Mamma, ma perché mi abbracci così? Qualcosa non va?”
“Niente, amore mio, niente… mi sono solo resa conto che a volte sono davvero stupida.”
“Che? Ma no, mamma, tu sei meravigliosa: ho parlato tanto di te alla signorina Lola. Un giorno te la posso presentare?”
“Ma certo, Kain… mh, ma che hai nella tracolla?”
“Ah, dimenticavo: sai la zia di Roy mi ha voluto ricompensare per il lavoro che ho fatto.”
E con estremo orgoglio tirò fuori una grossa bottiglia di liquido scuro e schiumoso che passò ad Andrew.
“Accidenti che bottiglione: sono due litri buoni.”
“Già, meno male che Roy mi ha dato un passaggio in bici: pesa tanto. Sai, le ragazze del locale lo bevono spessissimo e ne ho bevuto due bicchieri pure io: non avevo mai assaggiato niente di così buono.”
Ellie si girò di nuovo verso Andrew, fissandolo con aria supplicante.
Dimmi che non è vino…
Andrew sorrise e stappò la bottiglia, annusandone il contenuto.
“Si trattano bene, eh? Succo di more di prima qualità, vogliamo berne un bicchiere tutti assieme?”
“Oh sì, brindiamo a qualsiasi cosa tu voglia, papà!” esclamò Kain, felice.
“Che ne dici di brindare alla madre più apprensiva del mondo? Vai a preparare i bicchieri.”
“Va bene.” annuì lui, correndo in cucina.
“Sono un mostro…” mormorò Ellie abbattuta.
“Sei solo adorabilmente apprensiva, tutto qui.”

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Capitolo 28
*** Capitolo 27. Cose tra maschi: caccia al fantasma. ***


Capitolo 27. Cose tra maschi: caccia al fantasma.


 
Le vacanze di natale arrivarono e passarono con tranquillità, con i ragazzi che approfittarono di quelle giornate così belle e serene per dedicarsi ai giochi sulla neve, a mangiare notevoli quantità di dolci, a scambiarsi regali, insomma a sfogare tutte le loro energie.
Le due menti migliori dell’universo erano riuscite nei loro intenti e sia Elisa che Laura avevano ricevuto i loro graditissimi regali. Da quell’insolita collaborazione era iniziato ad evolversi il rapporto tra Vato ed Heymans: sulle prime i due non si erano mai considerati molto, soprattutto per la presenza di Jean che impediva di fare discorsi abbastanza articolati come quelli di strategia. Tuttavia, la mente di Heymans era molto sveglia e attenta per determinate cose e potersi mettere a confronto con la grande memoria di Vato era stato molto stimolante.
Aveva iniziato pure lui a partecipare alle partite a Risiko o altri giochi di strategia a casa di Vato: Vincent e Rosie avevano accolto con piacere anche quel nuovo membro delle serate tra amici del loro figlio. Da parte sua, Heymans non aveva avuto problemi ad accettare la presenza di Roy: la vecchia storia delle pretese di leadership sembrava dimenticata e dunque poteva giocare con lui senza alcun problema.
Anche Roy era stato contento di questo nuovo rapporto: il rosso tendeva a stare maggiormente sulle sue e non gli aveva ancora dato la confidenza che invece aveva raggiunto con Vato, ma già il fatto che giocassero e ridessero assieme come se niente fosse successo un paio di mesi prima, gli faceva ben sperare che non tutto fosse perduto per quanto riguardava il suo grande progetto.
 
Fu in questo clima rilassato che, cinque giorni prima che riniziassero le scuole, Andrew ed Ellie si concessero la loro sospirata vacanza ad East City, affidando Kain alle cure dei Falman.
“Allora, pulcino, fai il bravo, mi raccomando.” disse Ellie dando un ultimo bacio sulla guancia al bambino.
 “Grazie ancora, capitano – salutò Andrew, dando la mano a Vincent – è stato davvero gentile.”
“Nessun problema – sorrise Vincent – sono sicuro che i ragazzi si divertiranno un mondo.”
Così, Kain, Vato, Vincent e Rosie restarono ad osservare il treno che si allontanava lentamente dalla piccola stazione ferroviaria. Il bambino, come l’ultimo vagone sparì, si sentì leggermente spaesato e percepì che qualcosa gli pizzicava fastidiosamente l’occhio destro: era felice di passare cinque giorni con Vato, certo, ma era anche la prima volta che stava per tanto tempo lontano dai suoi genitori e da casa sua.
“Fidati, Kain – sorrise Rosie, mettendogli una mano sulla spalla in un gesto di conforto – si divertiranno e ti porteranno un bel regalo. Sono cinque giorni: li riabbraccerai presto.”
“Oh dai, ci divertiremo un mondo – lo consolò Vato – ci sono un sacco di libri che ti piaceranno e poi verranno a trovarci anche Heymans e Roy. E possiamo anche uscire con Riza ed Elisa. Vedrai sarà grandioso: tu non ci sei mai in paese… e ora che abbiamo le giornate libere ce le possiamo godere appieno.”
 
La mattina successiva a quel primo giorno, quando Rosie entrò in camera per svegliare i ragazzi, trovò il letto che avevano sistemato per Kain vuoto. Guardandosi attorno perplessa si chiese che fine avesse potuto fare il bambino, ma poi notò uno strano rigonfiamento nelle coperte accanto al figlio.
“Vato, amore…” bisbigliò accarezzando la chioma bicolore.
“Che c’è, mamma? – sbadigliò lui, girandosi di lato e affondando il viso nel cuscino – Ho sonno…”
“Sai di avere un ospite nel letto?”
“Non riusciva a dormire e gli ho raccontato delle favole… ed è salito sul mio letto…” spiegò lui con voce assonnata.
Quasi a confermare la sua presenza, Kain con un mugugno riemerse dalle coperte e si appellicciò alla schiena di Vato, sorridendo lievemente nell’aver trovato quella nuova fonte di calore.
“Vi lascio dormire ancora per una mezz’oretta?” sorrise Rosie, accarezzando anche i capelli corvini del più piccolo.
“Sì, sì… a dopo.” disse per tutta risposta il figlio.
Ora, in genere Vato non era molto propenso ad avere contatto fisico con le persone, ma per tutte le notti che Kain rimase a casa sua non riuscì ad opporsi al fatto di ritrovarselo sempre nel suo letto. Sulle prime aveva pensato che non era molto dignitoso e aveva riflettuto sulla possibilità di prenderlo in braccio appena si addormentava e riportarlo nel giaciglio preparato per lui. Tuttavia Kain aveva la tendenza ad appellicciarsi alle persone, proprio come un bambino piccolo e dunque Vato trovava difficile sciogliere quell’abbraccio con il quale veniva circondato ogni notte.
Per lo meno non è uno che si agita nel sonno….
Era questa l’unica consolazione che si concedeva mentre si rassegnava a condividere il suo giaciglio con quell’improvvisato compagno. E poi come si faceva a rimproverarlo? Quando gli chiedeva di raccontargli qualcosa per addormentarsi lo faceva con una vocina tale che era difficile dirgli di no.
Almeno aveva il buonsenso di non dire niente agli altri.
Per il resto Kain si era dimostrato un ospite adorabile: Rosie si era innamorata di lui e anche Vincent lo trovava molto simpatico ed intelligente. Per Vato fu stranamente piacevole avere quella sorta di fratellino che girovagava per la casa: Kain non aveva per niente perso la sua dote di restare affascinato da qualsiasi cosa l’amico gli raccontasse e questo provocava un grande compiacimento nel sedicenne che, spesso, non trovava mai un pubblico disponibile per le sue dimostrazioni di saggezza.
Kain, dal canto suo, nonostante questa piccola debolezza notturna, si stava davvero divertendo un mondo a stare in compagnia dei suoi amici: gli avevano insegnato a giocare a Risiko e, anche se perdeva spesso, era così felice di stare assieme a loro che non gli importava niente. Si era inoltre affezionato tantissimo ai genitori di Vato, cosa abbastanza ovvia considerata la sua natura fiduciosa nei confronti degli adulti.
Insomma sembrava che quei cinque giorni di vacanza stessero procedendo alla grande.
Fino a quando arrivò l’ultimo giorno.
 
Roy non aveva minimamente abbandonato la sua idea di fare qualcosa “tra maschi” mentre Kain era ancora ospite a casa di Vato e aveva deciso di aspettare l’ultimo giorno, in un momento in cui non erano presenti né Riza né Elisa.
“Avete sentito di quella storia del fantasma?” chiese con noncuranza, mentre stava seduto su un muretto con i due amici vicino a lui.
“Storia del fantasma?” chiese Kain impaurito.
“Quella del fantasma al commissariato di polizia? Mio padre dice che sono solo sciocchezze.”
Roy scosse il capo, come se Vato non avesse pronunciato l’ultima frase, e continuò:
“Dicono che di notte si sentano dei rumori strani, alcuni vociferano dello spirito di un vecchio poliziotto assassinato lì un secolo fa: proprio in questi giorni ricorre il centenario della sua morte… per essere precisi stanotte.”
“E’ vero che oggi è il centenario della morte di quell’uomo, ma…”
“Chiediamolo anche a loro – fece Roy, vedendo Heymans e Jean che camminavano tranquillamente poco distante. Questa loro improvvisa comparsa capitava proprio a fagiolo: per queste cose più si era meglio era, senza contare che era un nuovo modo per avvicinarli – Ehi, voi due, venite un attimo qui.”
“Io ho paura dei fantasmi.” ammise Kain, per nulla felice dell’argomento che si stava affrontando.
“Dei fantasmi? – chiese Jean incuriosito: la novità era tale che era persino disposto a mettere da parte la sua ostilità per Roy – Ma di che state parlando?”
“Del fantasma del poliziotto alla stazione di polizia.”
“Ah, quello? Dicono che ormai da diverse notti si sentano degli strani rumori.” fece Heymans.
“Io continuo a propendere per una soluzione più razionale.”
“E se fosse un fantasma? Che ne dite di scoprirlo?” propose Roy, capendo che il pubblico era carico.
“Per me sei tutto matto.” sogghignò Jean, mettendosi a braccia conserte.
“O forse hai solo paura, Jean Havoc.”
“Ripetilo se hai il coraggio, Mustang.” sibilò il biondo.
“Allora perché stanotte non si organizza una caccia ai fantasmi? – disse Roy, cogliendo la palla al balzo e sapendo di aver praticamente in pugno Jean – Andiamo alla stazione di polizia e scopriamo chi ha paura.”
“Io ho paura – disse subito Kain, con espressione preoccupata – e non voglio venire.”
“Invece tu vieni: devi vincere queste tue paure.”
Roy gli mise una mano sull’esile spalla e Jean fece altrettanto.
“Prova di coraggio, mi piace…” annuì
E a Vato ed Heymans non rimase che scuotere la testa: a quanto sembrava quei due non avevano ancora sepolto l’ascia di guerra e Kain, con la sua paura dei fantasmi, era ancora una volta il pomo della discordia.
 
“Kain dai, svegliati… è ora.” il bisbiglio di Vato fece destare il bambino che, in cuor suo, aveva sperato fino all’ultimo che quella follia non si facesse.
Ma non aveva fatto i conti con la determinazione di Roy e con la sua grande capacità organizzativa. Nell’arco di un paio d’ore aveva fatto un piano incredibile: aveva deciso che Jean avrebbe dormito da lui, quella notte, in modo che potessero uscire senza alcun problema.
E’ arrivato persino a questo… non ci posso credere!
Il commento di Heymans risuonava ancora nella mente del bambino, nonostante l’annebbiamento dovuto al sonno: era mezzanotte e mezza. Avrebbe tanto voluto restare al calduccio sotto le coperte.
“Dobbiamo proprio andare? – mormorò, mentre Vato lo aiutava a vestirsi nonostante il buio della stanza – E se poi tuo papà si arrabbia? Secondo me ci stiamo mettendo nei guai…”
Sì, anche Vato aveva la medesima impressione, ma si era trovato intrappolato nella rete di carisma di Roy, come spesso succedeva. Senza contare che quello che stava per fare era davvero una prova di estremo coraggio: prendere la chiave del commissariato dalla divisa di suo padre, andare lì ed aprirlo. C’erano gli estremi per una denuncia bella e buona.
Questa è la volta buona che papà mi uccide…
Però c’era anche la storia di dover scoprire il misterioso fantasma: se avesse dimostrato che non c’era niente di sovrannaturale sarebbe stata una grandissima soddisfazione, alla faccia di tutte le loro assurde congetture. I fantasmi non esistevano.
“Adesso fai più piano che puoi.” sussurrò, prendendo il bambino per mano e aprendo la porta della camera. Gli fece cenno di attendere in salotto mentre lui andava a compiere la parte più pericolosa di quella missione. Camminò nel corridoio il più silenziosamente possibile e arrivò davanti alla stanza dei suoi genitori.
Tirò il fiato e premette la maniglia verso il basso, pregando con tutto il cuore che i cardini della porta non cigolassero: non era mai successo, ma a volte la sfortuna poteva essere davvero imprevista.
Ma questa volta andò liscia: la porta si aprì senza rumore e il ragazzo, con gli occhi ormai abituati al buio, vide che i suoi genitori dormivano profondamente, la madre con il capo posato sulla spalla di Vincent.
Le chiavi sono nella tasca della giacca della divisa…
Il ragazzo ripeté tutte le mosse da fare, mentre lentamente si voltava verso la sedia dove suo padre sistemava la divisa. Per prudenza non si era ancora infilato le scarpe, così i suoi piedi non fecero il minimo rumore: con tutta la cautela del mondo mise la mano dentro la tasca, sperando che le chiavi non tintinnassero.
Tlink!
Quel rumore parve rimbombare in tutta la stanza ed il cuore di Vato si fermò per tre orrendi secondi. Ma né suo padre né sua madre si mossero, i respiri sempre lenti e regolari.
Trattenendo il fiato, consolidò la presa su quel mazzo di chiavi e lo strinse nel palmo, onde evitare altri incidenti. Poi, sperando che la goccia di sudore che gli colava sul collo non facesse rumore, si diresse verso la porta e fu con estremo sollievo che la chiuse con delicatezza alle sue spalle.
Va bene… va bene, Vato, hai semplicemente rubato le chiavi di tuo padre e ora stai per uscire in piena notte senza dire niente ai tuoi. Stai praticamente commettendo un suicidio…
“Vato?” lo chiamò la vocina di Kain, come raggiunse il salotto.
“Andiamo.” sospirò lui, afferrando le scarpe che aveva affidato al bambino e aprendo la porta.
Non si poteva più tornare indietro.
 
“Cavolo di freddo – sospirò Jean, soffiandosi sulle mani – ma quanto ci impiegano?”
“Arriveranno, – disse Roy con convinzione – fidati.”
“L’atropol..ologo riuscirà a prendere le chiavi? Ho seri dubbi in merito…”
“Se hai paura puoi sempre tornare a casa, Jean.”
“Finiscila.”
Era tutta la sera che questo batti e ribatti andava avanti: dato che non potevano picchiarsi allora erano passati a schermaglie verbali con Roy che non perdeva occasione di stuzzicarlo. Era stato davvero inverosimile a partire da quando il moro era entrato al locale di Madame con Jean dietro, annunciando che stasera avrebbe dormito con lui.
Ovviamente le ragazze erano scoppiate a ridere e la cosa aveva fatto ulteriormente infuriare il biondo ospite che, non solo era dovuto correre a casa ad annunciare che avrebbe dormito da un amico, ma si era dovuto sorbire anche i commenti di Madame e compagnia.
Una volta in camera di Roy, la situazione non era di certo diventata più rilassata.
“Se vuoi puoi dormire qualche ora nel mio letto.”
“Scordatelo, piuttosto resto in piedi… fai pure la nanna, Roy.”
“Scordatelo…”
Insomma a mezzanotte e un quarto erano usciti dal retro senza aver messo testa sul cuscino, ma non sentivano per niente l’esigenza di dormire: la caccia al fantasma avrebbe regolato i conti tra di loro. Infatti ciascuno era convinto che l’altro si sarebbe spaventato per primo.
“La prossima volta che date la caccia ai fantasmi lo farete senza di me, – sospirò Heymans, arrivando e stropicciandosi gli occhi – o almeno fatelo in una sera meno fredda. Accidenti a voi.”
“Problemi ad uscire di casa?” chiese Jean.
“No, e spero nemmeno a tornare senza essere scoperto da mia madre…” disse Heymans, per nulla contento di quella storia. Era Henry quello che commetteva follie simili, non lui: più volte durante le ore di attesa si era ripetuto che era stato davvero uno sciocco a non insistere per evitare questa follia. Ma non poteva lasciare soli Jean e Kain, soprattutto il piccolo.
“Ed ecco Kain e Vato – sorrise Roy, vedendo i due che si avvicinavano a passo furtivo – Buonasera miei giovani detective del mistero, siamo pronti per la nostra eccitante caccia al fantasma?”
“Roy, io ho paura – si lamentò il bambino – e poi ho sonno e freddo… dobbiamo proprio?”
“Che c’è, nano, stiamo tornando ai vecchi piagnistei? – chiese Jean andandogli accanto – Ti serve una nuova scrollata da parte mia?”
“Finiscila, Jean – sospirò Heymans, mettendo la mano sulla spalla del bambino – non ha bisogno di nessuna scrollata: sta solo esprimendo il suo disappunto per questa storia… e non posso che dargli ragione.”
“Un obbiettivo di questa missione è fargli passare la paura dei fantasmi – dichiarò Roy – coraggio, gnomo, vedrai che sarà divertente!”
Ma questa rivelazione non fece per niente felice Kain.
Insomma, adorava passare il suo tempo con quelle persone, ma aveva la crescente sensazione di una catastrofe incombente.
 
La storia era la seguente: proprio un secolo prima un poliziotto che stava di stanza al commissariato era stato ucciso da un criminale tenuto in custodia in attesa che l’esercito venisse a prenderlo per trasferirlo a Central City. L’assassino scappò e non venne mai trovato…
“…per cui si dice che ogni tanto l’anima del poliziotto torni e si disperi per non aver ancora ricevuto giustizia.”
La voce di Roy si spense con soddisfazione, mentre il suo pubblico lo ascoltava attonito.
“E che cosa può fare un’anima disperata?” chiese Kain.
“Succhiarti l’anima…” gli sibilò Jean da dietro, con voce cattiva.
“Voglio tornare a casa! Vato, ti prego!”
“E no, gnomo! – Roy lo afferrò per una spalla – Tu ora vieni con noi: andiamo a guardare in faccia il nostro fantasma. Vato, apri la porta ed entriamo.”
Vato annuì e prese il mazzo di chiavi di suo padre: la cosa gli fece per un attimo pensare alla tragedia che sarebbe successa non appena il delitto sarebbe stato scoperto, ma come infilò la chiave nella serratura si sentì profondamente determinato ad andare avanti: a questo punto la prova di coraggio andava fatta.
“Allora, dopo l’ingresso c’è una sala per ricevere le persone, poi l’ufficio di mio padre e altri tre per il resto del personale… il tutto lungo un corridoio. In fondo c’è l’armeria e poi, scendendo alcuni scalini si accede al locale delle prigioni…”
“C’è qualcuno in prigione?” chiese Heymans.
“No, che io sappia no… spero…”
“Come… speri? – chiese Jean – Ma sei matto?”
“Paura, Jean?”
“Finiscila, non ho per niente paura! Vieni,nano, andiamo subito alle prigioni così ci leviamo il pensiero!”
Prese la torcia elettrica che Roy stava tenendo in mano e, afferrato Kain per il bavero della giacca, iniziò a trascinarlo nel corridoio.
“Che? No! No! Non voglio venire! E se c’è un assassino che ci uccide! Magari c’è proprio il fantasma dell’assassino… ho paura!” singhiozzò.
“Il fantasma è del poliziotto, cretino! – sbottò il biondo arrivando agli scalini che portavano ad una porta – Vato, lanciami quelle chiavi!”
“Pazzi…” sospirò Vato, avvicinandosi ed obbedendo.
“E adesso – mormorò Jean, prendendo la chiave giusta ed inserendola nella toppa – andiamo a fare i conti con questi idioti di fantasmi!”
E con un brusco spintone aprì la porta buttandoci dentro Kain senza troppe cerimonie.
Con uno strillo il bambino si trovò sdraiato sul pavimento freddo di quel corridoio buio dove stavano tre celle: non c’era nessuno, ma la paura fu tale che si immaginò tremendi criminali con altrettanti fantasmi che lo chiamavano e venivano a prenderlo, passando tra le sbarre.
“Ma sei cretino?” disse la voce di Heymans e due secondi dopo una mano lo prese e lo fece rialzare.
Fu un momento prossimo all’infarto perché Kain non si era assolutamente reso conto che fosse l’amico e lanciò un urlo da far rabbrividire tutti quanti.
“Smettila, Kain, sono io!” lo sgridò il rosso, stringendolo e portandolo fuori da quel corridoio.
“Mamma! Voglio la mia mamma!” pianse.
“Bravo, complimenti, l’hai fatto piangere – disse Roy – adesso chi lo calma?”
“Ti tiri indietro, Roy? Ti sfido a venire dentro quel cavolo di corridoio e a guardare in ogni singola cella!”
“Andiamo pure!”
Fu solo per fare estremo dispetto all’altro che i due riuscirono ad arrivare in fondo al corridoio, scrutando in ogni cella: effettivamente anche se non c’era nessuno era tutto molto inquietante ed il fascio di luce della torcia non contribuiva a rendere rassicurante l’ambiente.
Insomma era solo una prigione di un piccolo centro abitato, ma di notte faceva davvero paura a chi non ne aveva mai visto una da vicino.
Quindi, quando i due rivali tornarono al pianerottolo dove gli altri li attendevano avevano l’espressione leggermente sconvolta e tremavano leggermente, come dimostrava il fascio di luce della torcia non più fermo.
“V… visto Jean? Non ho avuto per niente paura.”
“Paura… uh, n… nemmeno io, se è per questo.”
“Comunque… nelle… nelle celle non c’è nulla: Vato, puoi chiudere questa porta.”
E fu con estremo sollievo di tutti che la chiave girò nella serratura.
 
Dopo una mezz’ora avevano controllato tutti gli uffici da cima a fondo, ma del fantasma nessuna traccia. L’unico ambiente che Vato si era rifiutato categoricamente di aprire era stato quello dell’armeria: c’erano limiti che non osava superare, nemmeno per una prova di coraggio.
“Beh, sembra proprio che questo fantasma abbia paura di noi…” mormorò Roy alla fine.
“O semplicemente non esiste.” propose Vato, caustico.
“Abbiamo davvero controllato tutti gli ambienti?” chiese Kain, intravedendo la fine di quella storia.
“Effettivamente manca l’archivio…”
“C’è un archivio e tu non ci dici niente?” chiese Jean.
“Siete partiti velocissimi verso le celle – protestò lui – forza venite, è dall’altra parte del corridoio.”
“Dobbiamo proprio?”
“Vieni Kain – sospirò Heymans, prendendolo per mano – è l’ultimo ambiente, te lo prometto.”
O il fantasma era lì oppure la caccia si poteva considerare fallita.
 
Non era un ambiente molto grande, ma era stipato fino all’inverosimile di fascicoli e cartelle: gli scaffali ormai avevano terminato il loro spazio e dunque molta documentazione era posata lungo le pareti, assieme ad alcune casse di legno.
“Pare che qui sia tutto in ordine – dichiarò Roy, facendosi avanti e illuminando l’ambiente con la torcia – non vedo niente di strano.”
Ma comunque tutti loro entrarono dentro e chiusero la porta alle loro spalle per vedere anche dietro di essa.
Kain stava già sospirando di sollievo, beandosi della prospettiva di tornare a casa, quando…
“Sei stato tu?” chiese ad Heymans.
“A far cosa?”
Intanto anche gli altri si erano girati, incuriositi da quelle parole.
“Non lo sentite?”
Si fece silenzio, mentre tutti aguzzavano le orecchie e all’improvviso il suono riprese… era uno strano raschiare a cui si aggiungevano dei lamenti.
“Oddio… oddio…” iniziò ad ansimare Kain.
“Ma no! Dai sono sicuro… sono sicuro che non…è niente!” fece Roy, mentre lui e Jean inconsapevolmente si afferravano per un braccio.
“Allora c’è davvero! – sbiancò Vato – E’… è proprio qui che l’hanno trovato morto!”
“E’ lo dici solo adesso?” protestò Jean.
“Andiamo via! Per favore!”
“Oh no… oh no! Ditemi che la porta l’avete solo appoggiata senza chiuderla!”
“Perché?” chiese Heymans con ansia.
“Le chiavi sono nella serratura di fuori e la porta si apre solo da fuori!”
“Che cosa?!” esclamò Roy, mentre la torcia gli cadeva e si spegneva.
I minuti di panico che seguirono furono tali che certamente se ci fosse stato un fantasma si sarebbe spaventato lo stesso.
“Prendi quella cazzo di torcia!”
“Non la trovo più!”
“Ma perché avete chiuso la porta!”
“Smettila di lamentarti e dacci una mano, cret…ahia! E non sbattere la testa sulla mia!”
“Scusa tanto se sto cercando la torcia…”
“Heymans voglio tornare a casa!”
“Sta… sta calmo. Niente pani…iiiih!”
“Che c’è?”
“Qualcosa mi ha… mi ha toccato la guancia… è bagnato e freddo…”
Il fantasma!
Il lamento riprese e si fece anche più forte: a questo si accompagnarono immediatamente le urla dei ragazzi. Fu solo dopo interminabili secondi di follia che Jean riuscì a trovare a tastoni la torcia e riattivare l’interruttore… perché nel panico a nessuno di loro era venuto in mente di accendere la luce della stanza.
“Dov’è?”
“Vicino a me! Fai qualcosa!”
La luce della torcia scivolò verso la voce tremante di Heymans.
Il rosso fissava davanti a sé, troppo impaurito per girarsi di lato dove stava il fantasma: Jean pregò con tutto il cuore che appena avesse visto la luce lo spettro sparisse. Non succedeva così nelle storie?
Come il fascio di luce gli si puntò addosso, Heymans fu costretto a girare lo sguardo e…
“Ca… ca…ca…”
“Oh, ma è un cagnolino!” esclamò Kain.
Il cucciolo bianco e nero stava sopra una pila di cassette, proprio all’altezza del viso di Heymans. Come il ragazzo si girò, abbaiò gioiosamente e gli leccò la guancia.
“AAAAAAAHHH!” gridò Heymans scaraventandosi all’indietro e travolgendo Kain, in preda all’attacco più pesante di cinofobia che avesse mai avuto in vita sua.
Questo bastò a far di nuovo a far scoppiare il panico con urla isteriche e quanto altro: nessuno si aspettava una reazione simile.
 “Prendete quel cane!”
“No, fermo Heymans! Mi fai cadere la torc… cazzo!”
“No,non di nuovo il buio!”
“Tenetelo lontano da me!!”
“Attenti agli scaff… troppo tardi!”
Il rumore di qualcosa che cadeva avvisò Vato che il danno era fatto.
“Voglio andare via da qui!” esclamò Kain.
E quasi a sentire la sua supplica, la porta si aprì e la luce venne accesa.
“Vato Falman! – esclamò Vincent – Spero che tu abbia una spiegazione per tutto questo.”
“E’ un cane!” esclamò Heymans impanicato, correndo dietro l’adulto.
 
Alla fine il tanto temuto fantasma si rivelò essere un cucciolo bianco e nero che era entrato da chissà dove ed era rimasto imprigionato nell’archivio.
Vato avrebbe anche potuto esultare, considerato che la spiegazione razionale aveva avuto il sopravvento…
Ma stare seduto con gli altri in una panca dell’ufficio di suo padre ad attendere l’arrivo del resto dei loro genitori non era molto confortante.
L’unico beatamente inconsapevole di quanto era successo era il cucciolo che stava tra le braccia di Kain.
“Violazione di ufficio pubblico, danni all’archivio, fuga di casa a notte fonda – iniziò Vincent, fissando a turno quei ragazzi – un bel risultato per questa fantomatica caccia agli spettri.”
“Scusa papà…”
“Con te facciamo i conti a casa, Vato – lo bloccò Vincent con un’occhiataccia che preannunciava guai – stanno per arrivare i vostri genitori… anche tuo padre, Kain: proprio una bella cosa scoprire tutto questo appena tornato a casa.”
Il bambino abbassò lo sguardo… che colpa ne aveva se era stato trascinato in quella follia?
“Non avrà avvisato anche mio padre, signore…” supplicò Heymans, al lato opposto rispetto a dove stava seduto Kain con il cane. Fortunatamente Vincent era riuscito a calmarlo il minimo indispensabile perché i battiti del suo cuore tornassero relativamente regolari.
“No – scosse il capo Vincent, perfettamente consapevole della situazione familiare del ragazzo – a te ci pensa Andrew Fury.”
“Fantastico…” sospirò. Bella figura che ci faceva: alla faccia della presunta maturità.
 
James, Andrew e Madame Christmas stavano fuori dall’ufficio ad ascoltare quanto Vincent diceva loro. Ma per tutto il tempo non poterono far a meno di sentire quanto stava accadendo all’interno.
“Prova di coraggio… ma che cazzo! Roy sei uno scemo!”
“Tu eri d’accordo quanto me, Jean! Che c’è hai paura?”
“Tanto la cintura di mio padre me la becco io… tu che avrai per punizione? Niente!”
“Oh, povera stella, la cintura di papà fa tanta paura.”
“E assaggiala tu, visto che sei tanto coraggioso!
“Pensi che mi tirerei indietro? Sei proprio un’idiota!”
“Ripetilo!”
“Idiota!”
“Finitela voi due… no! Che cavolo fate? Vato, ferma Roy! Andiamo, Jean, calmati!”
“E’ la volta buona che lo ammazzo!”
“Non litigate, vi prego!”
“Stai lontano con quel cane!”

Madame Christmas fu costretta a mettersi una mano in bocca per trattenere le risate, mentre Andrew e Vincent scuotevano il capo con rassegnazione. James dal canto suo si passava una mano tra i capelli biondi trattenendo a stento la rabbia: non credeva possibile che il figlio si fosse cacciato in un simile guaio e che, nonostante tutto, si comportasse in quel modo.
“Ovviamente è solo una ragazzata – disse Vincent riportando su di sé l’attenzione degli altri adulti – e non ci sono ripercussioni legali su di loro… il castigo di ciascuno sarà a discrezione dei rispettivi parenti.”
“Caccia al fantasma, non ci volevo credere quanto mi ha chiamato, capitano.” ridacchiò Madame Christmas.
“Quei due continuano a litigare, proprio non vanno d’accordo.” constatò James, sentendo dei nuovi rumori.
“Allora, se lei è d’accordo, diamogli qualcosa per accomunarli…” propose la donna.
 
Il battibecco tra i due contendenti terminò come gli adulti fecero il loro ingresso nella stanza: le loro espressioni, non proprio rassicuranti, fecero capire che era giunto il momento di fare i conti con le conseguenze di quanto avevano combinato.
“Papà!” fece Kain alzandosi dalla sedia col cucciolo in braccio: avrebbe voluto correre da lui, singhiozzare tutta la paura che aveva avuto quella notte, dirgli quanto era felice che finalmente fosse tornato a casa…
“Dopo, Kain…” disse Andrew facendogli cenno di tacere.
“Ecco i due focosi combattenti.” fece James prendendo per l’orecchio Jean e anche Roy.
“Ahu! Papà, mi fai male!”
“Capitano Falman, potrei chiedere la cortesia di usare il suo ufficio per i prossimi dieci minuti?”
“Certamente. Vato, tu vai a casa e racconta un po’ a tua madre quanto è successo… con me parli appena torno: prepara il tuo fondoschiena, figliolo, a quanto pare ci sarà una lezione da imparare.”
“Sì papà…” sospirò il ragazzo, incitato ad uscire da una lieve spinta che Vincent gli diede.
“Kain, Heymans, voi venite con me. Direi che non è il caso che assistiate.” fece Andrew, mettendo una mano sulla spalla di entrambi.
“Assistere a cosa?” chiese il bambino perplesso.
“A quanto stanno per ricevere questi due, piumino; – fece Madame Christmans, arruffando i capelli neri di Roy che ancora era tenuto fermo da James – allora, Roy-boy ho sentito che non avevi paura di affrontare la medesima punizione del biondino: il signor Havoc sarà così gentile da riservarti lo stesso trattamento.”
“Che?” sgranò gli occhi il moro.
“Ahah, beccati questa, Roy! Ahuuu! Papà, non tirare l’orecchio così!”
“Piegati sulla scrivania entrambi, – ordinò James, mollando la presa ed iniziando a sfilarsi la cintura – e calzoni e boxer scesi.”
“Che cosa? – protestò Roy, mentre Jean eseguiva l’ordine senza protestare – Ma zia… non puoi!”
“Paura, Roy?” sghignazzò Jean, chinandosi sulla scrivania e beandosi di quella piccola consolazione.
“Ma sta zitto!” fece lui in tono di sfida, iniziando a calarsi i calzoni.
“Intanto tu sei il primo a prenderle, Jean – lo ammoni James, piegando in due la cintura – quindi risparmia il fiato per strillare.”
 
“Con la cintura?” mormorò Kain, stringendo a sé il cucciolo, mentre con il padre ed Heymans proseguiva per le strade del paese. Solo l’idea gli fece dolere il sedere e pregò con tutto il cuore di non provare mai una simile esperienza.
“Il padre di Jean e la zia di Roy ritengono sia giusto così.” sentenziò Andrew.
“Mi dispiace – sospirò Heymans – l’ho delusa, signore. Ho fatto qualcosa di così stupido che… forse non sono migliore di mio fratello.”
“Ragazzo – lo consolò Andrew, cingendoli le spalle in un gesto di conforto e capendo che si trovava in uno stato mentale molto confuso, considerato anche l’attacco di cinofobia – adesso non dare giudizi troppo affrettati e cerca di vedere le cose dal giusto punto di vista: è stata una ragazzata senza alcuna intenzione cattiva. Andrà punita, tutto qui… non dimenticare quanti anni avete.”
Heymans annuì, ma ovviamente era difficile quell’altalena di atteggiamenti da adulto e da ragazzo. Ancora non riusciva a trovare il giusto compromesso: sperava solo che la fiducia che Andrew e sua madre riponevano in lui non venisse in qualche modo meno per colpa di quella storia
“Heymans, sei stato buono a consolarmi quando ho pianto per la paura.” fece Kain, vedendo l’espressione abbattuta dell’amico.
“Grazie, nano.” sorrise mestamente l’altro.
“Siamo arrivati… vieni Heymans, andiamo a parlare con Laura. Tanto non credo che tuo padre sia in condizioni di intervenire.”
“Va bene.” sospirò il rosso, sapendo benissimo che sua madre non sarebbe stata molto felice di sentire quanto era successo.
“Kain, tu inizia a liberare quel cucciolo: sai bene che non puoi tenere animali.”
“Ma papà!” protestò il bambino che si era già innamorato dell’animaletto.
“Niente ma: non peggiorare la tua situazione, altrimenti le sculacciate che riceverai saranno molte di più di quante abbia intenzione di dartene. Io torno tra dieci minuti.”
Il tono di suo padre era quello classico che preannunciava una punizione davvero severa e questo fece deglutire rumorosamente il bambino. Il cucciolo gli leccò il mento e lui abbassò lo sguardo su quegli occhietti scuri e curiosi.
“Che posso fare con te? Non posso abbandonarti per strada, sei ancora piccolo…”
Poi un’idea gli balenò in mente e senza perdere tempo iniziò a correre verso casa di Riza: la sua amica aveva un giardino e dunque non avrebbe avuto problemi a tenere il cagnolino. Fortuna volle che la trovasse mentre stava rientrando a casa con una piccola busta della spesa in mano.
“Ciao Kain, – salutò – allora come è andata l’ultima notte da Vato? Oh, ma quel cucciolo da dove viene?”
“E’ una storia lunga, te la racconterò domani a scuola… puoi tenerlo?” chiese lui con foga.
“Che?”
“Sei l’unica come me che abbia un cortile e ti ho già detto che i miei non vogliono animali. Ti prego… ti prego! Sto per ricevere la più brutta punizione che mio padre mi abbia mai dato in undici anni… vuoi esaudire il mio ultimo desiderio?”
“Punizione? Ma che è successo?”
“Dimmi solo che puoi!”
Riza sospirò e guardò l’espressione supplicante di Kain che le tendeva il cucciolo. Proprio questi la fissava con estrema simpatia, agitando le zampette e mostrando la linguetta rosa. Non aveva la minima idea se suo padre avrebbe gradito un cane in casa…
Ma sì… a tenerlo in cortile non succede niente. Gli preparo una cuccia ed è fatta.
“Va bene.”
“Grazie!” esclamò Kain, passandoglielo.
Almeno il fantomatico fantasma aveva trovato una casa confortevole: l’unica nota positiva di quella mattinata.
 
“Una caccia al fantasma… certo che i maschi sono strani.” commentò Elisa il giorno dopo, durante l’intervallo, mentre assieme a Riza divideva un pacchetto di caramelle alla frutta.
“Già. E a quanto pare è finita davvero male.”
“Non credo di aver visto Vato così imbarazzato in vita sua – ridacchiò Elisa, mentre una ciocca di capelli le sfuggiva da uno dei nastri che il fidanzato le aveva regalato – credo che non le prendesse più da almeno quattro anni.”
“Ma guardali, continuano ancora a litigare…”
“Ma almeno lo stanno facendo tutti assieme, no? Credi siano un gruppo?”
“Forse ancora no, ma si stanno avvicinando.”
 
“Accidenti a tuo padre, – sbottò Roy – ho il sedere a strisce!”
“Ed io no? E poi si sentiva chiaramente che le ha suonate più forti a me: con te ci è andato piano.”
“Piano? Vorrei proprio vedere! Se tu poi reggi meno il dolore e strilli al minimo colpo sono problemi tuoi!”
“Finiscila, tu eri una fontana di lacrime già dopo la prima cinghiata. Tua zia ti doveva tenere fermo!”
“Ma se eri tu che scalciavi come un ossesso!”
Kain scosse il capo davanti a quell’infinito battibecco e spostò la sua attenzione a Vato che sedeva depresso per terra.
“E a te come è andata?”
“Sedici anni buttati al vento, ecco come è andata. Le ho prese da mio padre come un bambinetto… che umiliazione!”
“Cintura come loro due?”
“Cucchiaio di legno e mi ero completamente dimenticato di quanto facesse male. Ed inoltre non posso comprare libri per i prossimi due mesi. La prossima caccia al fantasma la farete senza di me!” esclamò rivolto a Roy e Jean che non gli prestarono la minima attenzione.
“E tu Heymans?” chiese il bambino, sperando che al suo amico rosso fosse andata meglio: del resto la signora Laura sembrava tanto buona… ed effettivamente lui ed Heymans, assieme a Vato, non è che erano molto entusiasti di quanto era successo.
“Tua madre ha una spazzola in camera?” chiese il rosso guardandolo di sbieco.
“Sì, certo.”
“Bene, prega di non provarla mai sul tuo sedere.”
“Oh cavolo…” mormorò il bambino portandosi istintivamente le mani al fondoschiena ancora leggermente dolorante, ma niente a confronto con quello che dovevano passare gli altri.
E lui che pensava che le sculacciate ricevute da suo padre fossero state una punizione severissima.
“No, mai più caccia al fantasma. Sicuramente ci sono cose tra maschi meno pericolose.”




il bellissimo (e geniale) disegno è di Mary_
^_^

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Capitolo 29
*** Capitolo 28. Fiducia tra padri e figli. ***


Capitolo 28. Fiducia tra padri e figli.

 

“Black Hayate vuol dire uragano nero – spiegò Riza, accarezzando l’orecchio del cucciolo – perché è piombato nella mia vita in seguito all’uragano della vostra caccia al fantasma.”
“Insomma sarà un eterno ricordo di quell’imbarazzante storia? – chiese Roy per niente soddisfatto di quanto aveva appena sentito – Non sei un granché con i nomi.”
“A me piace.” annunciò Kain, chiamando il cagnolino che subito corse verso di lui.
Erano passata una settimana da quella fantomatica nottata ed i tre amici erano seduti nella cucina di Riza a godersi un pomeriggio insieme. Il cucciolo si era ripreso davvero bene: quando l’avevano trovato aveva l’aria parecchio trascurata ed era notevolmente magro, ma le cure amorevoli di Riza l’avevano rimesso in sesto con notevole rapidità. In quel momento si stava godendo le attenzioni dei due ospiti che la sua padroncina aveva fatto entrare in casa.
“Tuo padre ha fatto problemi?” chiese Roy.
“No, non credo se ne sia nemmeno accorto: Hayate dorme in camera mia la notte e quando sono fuori mi preoccupo sempre di legarlo in cortile, così non disturba.”
“Oh poverino, ma così sente freddo: è fine gennaio.”
“Tranquillo, gli ho preparato una cuccia calda con una vecchia coperta in un angolo riparato vicino alla cucina. E poi si tratta solo della mattina o per qualche altra occasione. Per il resto sta in casa: è davvero un cucciolo ben educato… vorrei proprio sapere come c’è finito in quel posto.”
“E’ piccolo, sarà sgusciato dentro e nessuno se ne sarà accorto, magari cercava un rifugio per la notte.”
“Che fantasma curioso, eh?” ridacchiò Kain, a cui ora quell’evento faceva sorridere.
“A proposito, l’orgoglio di voi tutti è guarito o ci sono ancora problemi?” chiese Riza con malizia.
“Credo che Vato sia ancora offeso – ammise Roy –  tutto quello che è successo deve averlo umiliato parecchio.”
A quelle parole Kain fece finta di niente, ma si sentì profondamente dispiaciuto perché anche lui aveva notato che il suo amico più grande non era per niente di buon umore e tendeva ad evitare tutti loro.
E se doveva essere sincero c’era anche un’altra cosa che lo lasciava turbato: aveva iniziato a capire che sua mamma non aveva molta simpatia per Roy; quando aveva scoperto che il promotore di tutta la storia del fantasma era stato lui, aveva fatto un’occhiataccia che non avrebbe mai dimenticato. E da quel momento aveva avuto paura di nominare l’amico in sua presenza.
“Kain, i tuoi ti hanno perdonato, vero?” chiese Riza, distogliendolo da quei pensieri.
“Mamma mi ha proibito di mangiare dolci per una settimana, ma eccetto quello e gli sculaccioni che mi ha dato papà è tutto perdonato. Dovresti venire a casa, è tanto che non passi… perché domani non vieni a fare i compiti da me? Così festeggiamo anche la fine della mia punizione con qualche dolce al cioccolato.”
“Va bene, ci vengo con piacere. Mh, Roy a che stai pensando?”
“Sto pensando che tra quattro giorni è il compleanno di Vato – disse lui, inginocchiandosi e giocherellando con la coda del cagnolino che si mise subito a pancia all’aria – e vorrei cercare di fare pace con lui. Ma è difficile: praticamente, eccetto Elisa, non vuole parlare con nessuno.”
“Roy, cerca di capirlo – sospirò Riza che ormai con la fidanzata dell’amico aveva una notevole confidenza e dunque sapeva determinate cose – è sempre stato un ragazzo molto diligente: non gli è mai successo di finire in guai simili, specie a sedici anni. Capisci che è un conto è prenderle a undici come Kain, ma a sedici anni…”
“Io ne ho quindici e Jean quattordici, non vedo che differenza ci sia.”
“E’ un diverso tipo di dignità ferita, secondo me.”
“Sarà, ma io non ci vedo tutto questo problema.”
 
Invece Vato ce lo vedeva eccome il problema, perché quanto era successo l’aveva portato a riflettere con attenzione sul suo rapporto con Roy e con se stesso.
Sapeva benissimo di non essere mai stato una personalità carismatica come il quindicenne, ma il fatto di restare intrappolato nelle sue trame ogni volta gli lasciava un senso d’amaro in bocca.
Eppure lui era più maturo sotto molti punti di vista: conoscenze, età, saggezza, rapporto con le ragazze, anzi con Elisa… c’erano tutti i presupposti per cui fosse lui quello che Roy doveva ascoltare. Ma questo succedeva solo quando al ragazzo faceva comodo; invece, in altre occasioni, come appunto la caccia al fantasma, la sua opposizione era stata annullata, davanti a tutti gli altri, anzi nemmeno considerata.
Senza contare che la presenza di Roy lo stava portando a diversi cambiamenti: prima era sempre chino sui libri, dividendo la sua attenzione tra loro ed Elisa. L’arrivo di Kain non aveva minimamente smussato questo equilibrio, in quanto il bambino si era inserito con estrema delicatezza nei perfetti meccanismi della sua quotidianità.
Ma Roy…
No, Roy non aveva avuto la medesima gentilezza: era arrivato come un uragano, con il suo magnetismo, la sua voglia di essere leader in ogni caso, la sua esigenza di imporsi sugli altri. Fosse stato più grande di lui avrebbe potuto accettarlo con maggiore facilità, ma così…
“Vato, non vieni a fare merenda?” disse Rosie entrando in camera.
“Non ho fame.”
“Anche oggi? Ma che hai?”
Che ho? Secondo te come mi sento dopo che, nemmeno sei giorni fa papà me le ha suonate di santa ragione manco avessi dodici anni?
A quel pensiero un forte rossore gli colorò le guance e lui affondò la testa sul cuscino.
Altro pensiero negativo da aggiungere alla lista: credeva di essere maturo anche per i genitori, ma i fatti avevano dimostrato il contrario. Era da rivedere completamente anche il rapporto con loro… insomma, si era aspettato che suo padre non lo picchiasse, che parlassero come si fa tra persone adulte.
Dopo che ho fatto un’impresa di quel tipo? Da perfetto immaturo?
Sentì la mano della madre che gli accarezzava la nuca, ma non si girò, troppo offeso con il mondo e con se stesso: era dura stare nel delicato limbo tra maturità ed adolescenza.
 
“Ci rivolge a stento la parola, mangia poco, è sempre buttato nel letto senza nemmeno toccare libro – sospirò Rosie sedendo al tavolo di cucina e guardando con tristezza la merenda integra destinata al figlio – proprio non vuole uscire da questa fase.”
“Orgoglio ferito, eh? – commentò Vincent impassibile, levandosi la giacca della divisa e sedendosi accanto a lei – E’ una brutta cosa da affrontare alla sua età, ma lo farà riflettere.”
“Forse non dovevi punirlo in quel modo: non ha più undici anni.”
“Se si è comportato da undicenne discolo non poteva pretendere un trattamento diverso – scosse il capo l’uomo – ha ancora molto da imparare sulla maturità.”
Rosie guardò con tristezza in direzione della camera del figlio, profondamente turbata dal vederlo così. Non era mai successo che tenesse così tanto il broncio dopo una punizione, arrivando persino a snobbare i suoi amati libri.
“Forse dovresti parlare con lui.”
“E congratularmi ancora per quello che ha fatto? Non ci volevo credere… rubare le chiavi del commissariato: non lo pensavo capace di una cosa simile.”
Sì, era ancora arrabbiato con suo figlio, inutile negarlo. Era sempre stato così tranquillo e diligente, anche troppo a volte, ed un simile colpo di testa proprio non se lo aspettava.
“Se non fosse stato con gli altri non l’avrebbe mai fatto.”
“Già, parliamo degli altri: parliamo di Kain che era sotto la nostra responsabilità. E’ un posto tranquillo questo, Rosie, ma se a quel bambino succedeva qualcosa con che coraggio andavamo a dirlo ad Andrew Fury e a sua moglie?”
“Non è successo nulla: non hanno fatto niente di pericoloso se ci pensi.”
“Ah sì? Beh, ringraziando il cielo la pistola che tengo nel cassetto della scrivania l’avevo levata proprio quel giorno perché aveva bisogno di alcune riparazioni. Immagina se uno di quei ragazzi la prendeva anche solo per gioco… l’unica cosa che ha avuto il buonsenso di evitare è stata aprire l’armeria.”
“Non l’avrei mai aperta!” esclamò Vato, dal corridoio con la mano ancora sulla maniglia della porta di camera sua.
“Non usare quel tono con me, – disse Vincent alzandosi – altrimenti finisci di nuovo nei guai.”
Rosie si alzò in piedi, mettendosi tra i due contendenti: il viso di Vato era rigato di lacrime di rabbia e umiliazione e la smorfia di disappunto era identica a quella del padre.
“Adesso calmatevi tutti e due. Vato, tesoro, perché non ci sediamo a parlarne, mh?”
“Che cosa c’è da parlarne? – chiese lui, scostandosi dalla madre – Tanto,a quanto pare, non sono maturo per certe cose… forse non lo sono per niente dato che non ho mai voce in capitolo, figuriamoci per parlarne!”
“Vato…” lo richiamò il padre.
“Che c’è? Una nuova, preziosa, lezione di vita? Scusa tanto, ma questa volta non ho proprio voglia di ascoltarti.”
Ed ignorando il pericolo che correva dopo una simile sfida a suo padre, guadagnò la porta di casa uscendo senza nemmeno mettersi il cappotto.
Non si preoccupò di dove stava andando: voleva solo allontanarsi da casa e da suo padre, da quella bruciante umiliazione che lo stava consumando come mai era successo. Perché lui che era il più grande si trovava ad essere messo da parte e ad essere trattato come un bambino dai suoi? Dov’erano finiti tutti gli anni in cui aveva dimostrato di meritare la fiducia degli adulti? Dove?
“Ehi, Vato – lo chiamò Heymans, quasi sbattendo contro di lui – stavo per venire da te e…”
“Adesso proprio no…” si scusò brevemente, continuando a proseguire per la sua strada.
Arrivò fino all’uscita del paese, al muretto dove spesso Elisa si metteva in equilibrio, e si accasciò seduto, ignorando il freddo che gli pizzicava il collo dove il maglione terminava.
“Ehi, – fece Heymans, raggiungendolo – ma che hai?”
“Niente… dimostro la mia grande maturità scappando di casa.”
Heymans lo fissò con sorpresa, trovando quell’atteggiamento veramente inconsueto per uno come Vato. Dopo qualche secondo si levò la sciarpa e la mise addosso all’amico, andando poi a sedersi accanto a lui.
“Scappare di casa e perché mai?” chiese.
“Maturità, te l’ho detto…”
“Hai litigato con i tuoi? Eppure mi sono sembrati così tranquilli; non mi dire che sono ancora arrabbiati per quella storia del fantasma.”
“Mio padre sì, se ti può interessare – confessò Vato, trovando un acido conforto nel poter finalmente parlare con qualcuno che l’avrebbe capito – non si fida per niente di me. Accidenti al mio carattere debole, dovevo oppormi subito a quella stupida caccia al fantasma!”
“Roy l’avrebbe fatta lo stesso, lo sai.”
“No, senza chiavi non poteva fare niente… ed io come uno scemo ad aprirgli il commissariato. E Kain… era sotto la mia responsabilità, sotto quella dei miei, e alla fine hai pensato più tu a lui che io.”
Si passò una manica per asciugare le prime fastidiose lacrime: suo padre aveva perfettamente ragione. Non era successo niente, era stata una ragazzata, certo, ma solo per pura fortuna.
No, non importava se lui era il più grande, a quanto sembrava era l’ultima ruota del carro.
“E dai, non fare così. Il fatto che io abbia pensato a Kain è per dei particolari motivi che…”
“Era tutto perfetto, Heymans, capisci? – sospirò Vato – Non avevo molti amici, certo, ma… avevo la fiducia dei miei, Elisa al mio fianco, la stima dei docenti. Adesso non mi riconosco più: il Vato di prima non avrebbe mai commesso una cosa simile.”
“E’ bravo Roy a spingerci a queste cose, vero? Su te e Kain, poi, esercita un carisma tale che proprio ne siete trascinati dentro.” commentò il rosso, abituato com’era ad osservare le cose con imparzialità, persino, anzi soprattutto, all’interno della sua famiglia.
Farlo in quel gruppo di ragazzi era fin troppo semplice.
“Su di te no?” gli chiese Vato in parte invidioso.
“Diciamo che non sono facilmente influenzabile: pare che in questo assomigli molto a mio zio.”
“Io invece da mio padre non ho preso proprio niente: a quanto pare sono un debole, influenzabile persino da chi è più piccolo di me.”
“E dai, adesso non abbatterti: sono sicuro che tuo padre non pensa questo di te.”
“Non hai visto com’era arrabbiato.”
“E tu non hai visto mia madre, allora. La adoro, per carità, ma mi ha fatto vedere le stelle per dieci minuti buoni… ma poi si fa pace, è normale.”
“Non è normale… io non ho mai visto mio padre così.”
“Capisco che magari ce l’abbia con te perché in fondo siamo andati alla stazione di polizia, ma…”
“Ho rubato le sue chiavi, ho fatto entrare dei ragazzi in quel posto, con tutti i pericoli del caso. E sai la cosa peggiore? Per tutto il tempo io ero consapevole che stavo facendo un errore, ma non riuscivo a fermarmi.”
“Non puoi pretendere di essere perfetto… guarda me, anche io dicevo che era sbagliato, ma c’erano gli altri: non potevo lasciarli soli, mi riferisco a Jean e Kain.”
“Heymans, la verità è che non mi riconosco più da un po’ di tempo a questa parte… e non sono sicuro di esserne pienamente soddisfatto. Mi sembra di regredire invece di andare avanti.”
“Perché giochi con noi invece di leggere o studiare?”
“Anche per questo, lo ammetto. Un paio di mesi fa non mi sarebbe mai passato per la testa di reagire così contro mio padre e di scappare di casa.”
“E che è successo un paio di mesi fa?”
“Ho stretto amicizia con Roy.” fu la laconica risposta.
Heymans annuì con un sospiro.
“Ti riaccompagno a casa?”
“No – scosse il capo – ti dispiace se resto solo? Sul serio, non è per te, ma ho bisogno di pensare.”
“Va bene – annuì Heymans, alzandosi e capendo il suo stato d’animo – la sciarpa me la puoi ridare domani a scuola. Solo, promettimi che torni a casa, va bene?”
“Va bene.”
 
“E dai, ragazzino, come mai non riesci ad avvicinarti di più?” rise James, tenendo lontano il figlio con una mano, mentre questi cercava di colpirlo: un gesto identico a quello che Jean faceva con la sorella.
“Non vale!” rise il ragazzo, cercando di aggirare l’ostacolo, ma la mano del padre sulla fronte continuava a tenerlo lontano dal bersaglio.
Decisamente Jean, al contrario di Vato, non aveva problemi con suo padre: quella storia era ormai vecchia di una settimana ed era stata archiviata tra le innumerevoli follie che aveva commesso nel corso degli anni. Sotto questo punto di vista padre e figlio non erano tipi da serbare rancore ed il fatto che ora stessero improvvisando una lotta nel salone di casa ne era un’ampia dimostrazione.
Con una rapida rotazione, Jean riuscì finalmente a liberarsi e scattò all’indietro con una risata.
“Ah, ci stiamo facendo furbi.”
“E adesso? Come la mettiamo?” chiese il ragazzo, rimettendosi in posizione di combattimento.
“Va bene, figliolo – James si mise in posizione per pararlo – attacca pure!”
“Attacco al gigante!” gridò Jean buttandosi a capofitto contro di lui.
Finirono entrambi a terra, il giovane tra le braccia del genitore il quale continuò a parare quei giocosi pugni sullo stomaco e sul torace. Alla fine, con un ultima risata esausta, Jean si abbandonò sul petto paterno, beandosi della mano che gli arruffava i capelli dorati.
“Non so chi di voi è il più infantile.” commentò Angela entrando nella stanza seguita da Janet.
“Stavo solo facendo fare un po’ di sano allenamento a questo demonio –  spiegò James, senza abbandonare quella posizione – e tu vieni qui a darmi un bacio, bellissima paperotta bionda.”
 Janet trotterellò immediatamente accanto a loro e si chinò per dare il bacio sulle labbra dell’uomo.
“Allora, splendore, – le strizzò l’occhio – secondo te chi ha vinto?”
“Jean, perché tu sei a terra e lui è sopra di te.” sentenziò la bambina senza alcun dubbio.
“Sembra così, vero? Ma ora guarda che succede!”
E con una mossa rapida si rimise eretto e rovesciò Jean sulla schiena.
“Non vale! Non ero pronto! Non ero pron… no, il solletico no!”
“Intanto sei al tappeto, visto Janet? Papà vince sempre.”
“Janet, da brava vieni – la richiamò Angela – non volevi aiutarmi a preparare la verdura per i minestrone di stasera?”
“Arrivo mamma.”
“E allora, piccolo furfante – constatò James come rimase solo col figlio – vedo che ci siamo ripresi completamente dalla bravata della settimana scorsa… mi fai faticare a tenerti a bada” non c’era alcuna componente di rimprovero nella voce dell’uomo.
“Se ti riferisci al sedere a strisce, scommetto che a Roy ancora fa male!”
“Bel furfante anche quello là. Non sapevo fosse tuo amico.”
“Mh, è una specie di amico, tutto qui.” disse Jean guardando con aria distratta una trave del soffitto.
“Ci litigavi così bene che mi sa che ti piace parecchio, eh?”
A quelle parole Jean rimase a riflette e con un leggero fastidio notò che suo padre aveva ragione. Dopo quella sera disastrosa lui e Roy non si erano più evitati a scuola ed avevano iniziato ad instaurare uno strano rapporto fatto di botta e risposta. Era come se il moro avesse completamente abbandonato quell’aria di presunta superiorità per dimostrarsi finalmente il ragazzo normale che era: una cosa che Jean non aveva potuto fare a meno di apprezzare.
“Diciamo che sta iniziando a scendere dal suo piedistallo.”
“Siete un bel gruppetto di scavezzacollo, non c’è che dire… ovviamente portali a casa quando vuoi.”
“Sempre che Roy non abbia paura di te – sogghignò Jean – credo che il ricordo della tua cintura ancora lo faccia sudare freddo.”
 
Freddo.
Iniziava a fare troppo freddo, o meglio, iniziava a sentirlo dentro le ossa.
Vato alzò leggermente lo sguardo, interrompendo la posizione rannicchiata che aveva assunto da quando Heymans l’aveva lasciato. Vide che ormai era diventato buio e dunque era ovvio che sentisse tanto gelo.
Era caduto in uno stato di torpore tale che non si ricordava nemmeno cosa aveva pensato durante tutto quel tempo: sentiva solo una disperata esigenza di tornare a casa.
Casa voleva dire calore, l’abbraccio di sua madre, qualcosa per far passare quel freddo intenso che nemmeno la sciarpa di Heymans riusciva a tenere lontano.
Si alzò in piedi e fu costretto a sostenersi al muretto: il fatto di aver mangiato poco a pranzo, aggiunto al freddo che aveva certamente preso, gli aveva provocato un forte senso di vertigine. Fortunatamente dopo qualche secondo riuscì a muoversi senza troppe conseguenze, anche se sentiva tutto il suo corpo estremamente irrigidito e freddo…
Proprio quella sensazione non riusciva a passare.
Principio di congelamento? Non lo sapeva… ma era strano, in fondo non stava nemmeno nevicando.
E allora perché?... perché sto tremando…?
Per quanto non avesse percorso una grande distanza da casa sua, arrivarci fu un’impresa davvero stancante. Anche come giunse davanti alla porta e mise la mano sulla maniglia si sentì incredibilmente debole e per un attimo pensò di non avere le energie necessarie per tirarla giù ed entrare.
“Mamma…” chiamò con esitazione quando riuscì a fare qualche passo all’interno della casa.
“Vato? – chiamò Rosie arrivando di corsa dalla cucina – Vato! Tesoro… oddio, amore mio, sei gelato.”
Come la donna si accostò a lui, il ragazzo la strinse in una morsa di ferro: mamma, calore, protezione, sicurezza… tutti concetti che gli passavano per la mente impazzita.
Mamma… mamma, ti prego… fai andare via questo freddo.
“Piccolo mio… piccolo mio, ma che ti succede? – mormorò la donna accarezzandogli i capelli – Eravamo così preoccupati, sei stato via per ore, senza coprirti poi. Tuo padre è andato a cercarti…”
Proprio in quel momento la porta si aprì di nuovo e Vincent entrò.
“E’ tornato? Vato… figlio mio.”
“E’ freddissimo.”
Il ragazzo non capì molto di quello che stava succedendo: sentiva solo i suoi genitori che continuavano a chiamarlo, accarezzandogli i capelli, levandogli i vestiti ormai freddi, sistemandogli una coperta sulle spalle.
Fu solo in minima parte che si accorse di venire sistemato sul divano, davanti al fuoco, ma come quel calore iniziò a farsi sentire, il suo corpo reagì con un forte tremito, tanto che sua madre dovette aiutarlo per fargli bere una tazza di brodo bollente.
“Ho freddo – riuscì a mormorare – freddo…”
“Piccolo genio, certo che hai freddo – sussurrò Vincent, avvolgendolo meglio nelle coperte e frizionandogli le braccia – cosa pensi che succeda a stare fuori con questo tempo senza coprirti bene? Se ti viene l’influenza sarà più che normale…”
“No – scosse il capo lui – non deve… non sono influenzabile.”
“Rosie vai a prendere un’altra coperta, coraggio. Ehi, figliolo, che è questa storia dell’essere influenzabile?”
“E avevo ragione… non esistono! Non esistono i fantasmi!”
“Sei in pieno delirio, eh?” constatò Vincent mettendogli una mano sulla fronte.
“Papà… papà, ti giuro che torno ad essere quello di sempre… non levarmi la tua fiducia.”
“Ma quando mai ti ho levato la fiducia? Non piangere adesso, stai tranquillo…”
Come poteva stare tranquillo se il mondo gli stava crollando addosso? Letteralmente, perché non era normale che le pareti della casa si muovessero in modo così strano. Forse era meglio chiudere gli occhi, non pensarci più: sarebbe stato sicuramente meno stancante di… di una caccia al fantasma.
 
“Davvero Vato ha la febbre alta? – chiese Ellie il giorno dopo – Poverino, ma succede in questa stagione.”
“Elisa mi ha detto che ieri ha preso molto freddo: a quanto pare è uscito senza coprirsi.” annuì Riza.
“Che imprudente. Mi auguro che tu ti sia coperta bene per venire qui.”
“Stia tranquilla, signora.” sorrise la ragazza, perfettamente al caldo nel suo maglione pesante e con la gonna di lana.
Lei e Kain stavano facendo i compiti in salotto: nonostante avessero programmi completamente diversi trovavano molto piacevole la reciproca compagnia in questi momenti. Quando c’era l’amica, Kain la aspettava per fare i compiti che altrimenti avrebbe svolto di primo pomeriggio: trovava che studiare assieme a Riza avesse un gusto del tutto particolare. Non che avesse bisogno d’aiuto, ma gli faceva enormemente piacere poterle annunciare che aveva terminato qualche problema o esercizio: era una strana forma di appagamento emotivo vedere il suo sorriso orgoglioso e sentire la sua voce che si complimentava con lui.
Aveva scoperto che anche la sua amica se la cavava nello studio, anche se non era eccezionale come lui: purtroppo però, se incontrava qualche difficoltà non poteva aiutarla perché non era ancora arrivato ai suoi programmi.
“Non ti torna il problema?” chiese, vedendola assumere un’espressione contrariata.
“No, ed è la quarta volta che ci provo.”
“Fai vedere – e si sporse sul tavolo per dare una sbirciata al libro – eh? Ma che cosa sarebbe?”
“Trigonometria. Si inizia alle superiori, tu ancora non la fai.”
“Cavolo, pare difficilissima… seno, coseno... non ho mai sentito queste cose in vita mia.”
“Ah, proprio non riesco a venire a patti con questa materia, eppure con la geometria piana non me la cavo male: se domani mi chiama alla lavagna per correggere questi problemi saranno guai.”
Kain la fissò con tristezza per qualche secondo, non sapendo come aiutarla, ma poi gli venne una brillante idea:
“Possiamo chiedere a papà di darci una mano. Lui è ingegnere e queste cose le capisce benissimo.”
E senza darle tempo di ribattere prese il suo quaderno e il suo libro e saltò giù dalla sedia.
“Ma sta lavorando.” protestò Riza, seguendolo con timore verso lo studio di Andrew.
“Oh, tranquilla, vedrai che ti aiuterà volentieri.” la rassicurò il bambino, bussando discretamente prima di entrare.
Quella sicurezza di Kain spiazzò completamente la ragazza.
Non era mai stata nello studio di Andrew ed entrarci con una simile facilità la destabilizzò: una cosa simile con suo padre non se la sarebbe mai permessa. Con apprensione guardò il signor Fury che stava lavorando al tavolo da disegno e sussultò interiormente nel constatare che la concentrazione non era molto dissimile a quella mostrata da suo padre.
“Papa?” chiamò Kain, accostandosi a lui.
E Riza temette inconsapevolmente che il bambino ricevesse un’occhiataccia o che gli venisse intimato di andare via.
“Puoi aspettare due minuti, Kain?” chiese Andrew, facendogli un cenno con la matita.
“Certamente.” sorrise con tranquillità il bambino, facendo cenno a Riza di raggiungerlo per osservare il lavoro dell’uomo.
La ragazza si accostò timidamente al tavolo da disegno, avendo cura di mettersi in una posizione dove non disturbasse e iniziò a fissare affascinata la maestria con cui quel progetto, dalle strane forme geometriche, veniva modificato da semplici tratti di matita. Aveva sempre immaginato che quei lavori di precisione fossero altamente noiosi, ma c’era una strana bellezza nell’osservare la sicurezza di quella mano che tracciava le linee, destreggiandosi abilmente con le squadrette.
Andrew non mostrò di essere disturbato dalla presenza di quel piccolo pubblico, ma allo stesso tempo non li escludeva. Era come se desse loro la possibilità di vedere come procedeva il lavoro, spostando ogni tanto il braccio per permettere di osservare meglio quanto era stato appena disegnato.
Fu quasi con dispiacere che Riza si accorse che aveva terminato.
“Allora, che cosa succede?” chiese Andrew con un sorriso, girando lo sgabello verso i due ragazzi.
“Non volevo disturbarla…” iniziò lei che, con quell’uomo aveva minor confidenza rispetto che con Ellie. Ed il paragone con suo padre la rendeva ancora più timorosa.
“Riza ha qualche problema con questi esercizi – la interruppe Kain con disinvoltura – e si chiedeva se potessi darle una mano.”
“Non si deve disturbare se…”
“Fai vedere: trigonometria, eh? Che cosa non capisci, signorina?”
Il cenno ad avvicinarsi fu così spontaneo e gentile che Riza non poté fare a meno di andare accanto a quell’uomo e indicargli con timidezza cosa non tornava.
“La cosa migliore per fartelo capire è mostrartelo – e con esperte mosse staccò il progetto cui stava lavorando dal tavolo da disegno e lo passò al figlio – Kain, posalo sulla scrivania, per favore. Noi adesso prendiamo un altro foglio bianco e ci disegniamo un cerchio… prendi la matita, piccola Riza, disegnalo tu e poi inizia a dividerlo in quattro, va bene?”
A quella richiesta Riza si sentì impazzire… e se sbagliava? Stava parlando con un ingegnere che magari pretendeva assoluta precisione per queste cose, più di quel bisbetico del suo insegnante.
“Beh, che è quest’esitazione? Hai paura che ti sgridi se sbagli? – le chiese Andrew, vedendola così esitante. Sorrise e le sistemò una ciocca di capelli biondi prima di avvicinarla a sé e prenderle la mano con cui teneva la matita – Coraggio, facciamolo insieme… dai, un po’ più ampio, ne abbiamo di spazio con questo foglio, e chiudiamolo, perfetto.”
A Riza non era mai successo di avere un contatto così ravvicinato con un maschio grande, meno che mai con suo padre. Si sorprese a sbirciare il viso tranquillo di Andrew Fury, intravedendovi la grande somiglianza che c’era con Kain, specie ora che indossava gli occhiali. Forse perché lo vedeva di meno rispetto ad Ellie e al figlio, forse perché lei un padre ce l’aveva, ma non aveva mai instaurato la stessa confidenza che aveva con il resto della famiglia…
Eppure il contatto con quella mano era così rassicurante, la guidava nella scrittura delle formule senza forzarla, solo accompagnandola con estrema gentilezza.
“Vedi che le sai le cose? Le stai scrivendo tu le formule, mica io… facciamo un passo avanti e prova a dirle.”
“Raggio è uguale alla distanza da O a C – iniziò con esitazione, indicando con la matita i due punti in questione – seno è la distanza da B a C…”
“Che stanno facendo?” chiese Ellie entrando e accostandosi a Kain.
“Lezione di trigonometria.”
La donna fissò con attenzione le due figure che le davano le spalle, notando la lieve timidezza della ragazzina che si abbinava perfettamente al sorriso tranquillizzante di Andrew, mentre la incoraggiava a dire la nuova formula.
Ancora una volta si sentì stringere il cuore: adorava quella bambina, vederla così assieme ad Andrew le fece desiderare ancora di più che fosse sua figlia… loro figlia.
Perché un simile tesoro deve avere un padre che non la considera nemmeno?
 
“Trentanove e mezza, mi sa che questo compleanno lo passi a letto, fiocco di neve.”
“Trentanove e mezza…” sospirò il ragazzo riadagiandosi nei cuscini e sentendo ogni singolo grado di quella febbre da cavallo. Gli sembrava impossibile aver provato freddo meno di un giorno prima: adesso si sentiva esplodere dal caldo, tanto che scostò di colpo le coperte.
“No, non prendere freddo – scosse il capo Rosie, rimettendogliele addosso – adesso ti porto un bicchiere di acqua zuccherata, va bene?”
“Dammi la medicina, non ce la faccio più!” protestò lui.
"La puoi prendere solo dopo che avrai mangiato: manca ancora mezz’ora buona al pranzo.”
“Ho perso un intero giorno di scuola… accidenti.”
“Contane anche altri quattro: per il resto della settimana scordati di alzarti di mettere il naso fuori da camera tua senza il mio permesso.”
“Ma fra tre giorni è il mio compleanno.”
“Se la febbre ti cala tra domani e dopodomani i tuoi amici potranno venire a casa, va bene? – concesse lei, accarezzandogli la fronte per poi deporvi un bacio – Il mio bellissimo fiocco di neve… diciassette anni, non mi sembra vero. E’ davvero passato così tanto da quando ti cullavo per farti addormentare?”
“E dai, mamma, non lasciarti andare alla nostalgia.” arrossì lui.
“No? – sospirò lei, prendendogli il viso tra le mani e constatando quanto fosse uguale a Vincent – eppure non ne posso fare a meno, piccolo mio. Uh, bussano alla porta: torno subito.”
Vato sospirò e si passò una mano sui capelli sudati: fra tre giorni compiva diciassette anni ed era a letto trattato come un bambino in preda alla febbre. Acqua zuccherata, medicine, sua madre che aveva ripreso a chiamarlo fiocco di neve e che lo vezzeggiava come se avesse cinque anni… chissà, magari alla porta era Elisa che gli diceva che era meglio se tornavano solo amici.
“Solo un paio di minuti, signora, promesso…” disse una voce, prima che la porta si aprisse.
“Ciao Heymans.” si sorprese.
“Ciao – sorrise il rosso accostandosi al letto – che faccia…”
“Trentanove e mezza di febbre: a stare al freddo come uno scemo ci si becca l’influenza. A proposito, ti devo ancora ridare la sciarpa: è lì sopra la sedia. Mamma l’ha anche lavata.”
“Fatta pace con i tuoi?” chiese lui, laconico, mentre riprendeva l’indumento.
“Sì, direi di sì. Forse ho fatto davvero pietà a mio padre quando sono letteralmente crollato sul divano.”
“Parlo sul serio.”
“Pace fatta, te lo assicuro, diciamo che stamattina abbiamo avuto occasione di parlare parecchio sulla questione della maturità e della fiducia. Gli ho promesso di dimostrarmi degno di lui.”
“Ottima cosa, – annuì Heymans – comunque sono venuto anche a portarti questo. E’ il libro di strategia che ti dovevo prestare da tempo.”
“Grandioso, almeno avrò qualcosa da leggere quando la testa me lo consentirà.”
“E su Roy che mi dici?”
Il volto di Vato si fece leggermente teso.
“Non lo so, non ci ho ancora parlato…”
“Sei ancora convinto che questi drastici cambiamenti siano dovuti a lui?”
“In parte sì, ma con questa febbre non è che rifletta con lucidità. Per ora… per ora la cosa importante è aver chiarito con i miei, soprattutto con papà.”
“Capisco. Beh, risolverete non appena guarisci; adesso vado, mi attendono a casa ed è meglio che tu non ti stanchi troppo.”
“Heymans…”
“Sì?”
“Tra te e Jean sei tu quello calmo… come si fa a gestire una persona che è caratterialmente più forte di te?”
“Non prendere me e Jean come esempio – scosse il capo lui – siamo qualcosa di completamente differente per parlare di uno col carattere più forte dell’altro ed inoltre abbiamo un legame troppo profondo. Però per rispondere alla domanda che mi hai fatto… credo che la cosa migliore sia far capire a Roy che l’amicizia consiste anche nell’ascoltare l’altro, non agire sempre per i propri comodi.”
“E lo capirà? A volte le cose che noi diamo per scontate a lui non interessano nemmeno.”
“Se ci tiene a te direi di sì. Ci vediamo presto…”
“Tra tre giorni è il mio compleanno – gli ricordò Vato – mia madre ha detto che se sto meglio potrò invitare gli amici a casa… se tu e Jean volete passare sarò felice di vedervi, tanto Elisa vi terrà aggiornati sulle mie condizioni.”
“Riferirò.”

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Capitolo 30
*** Capitolo 29. Spaccature. ***


Capitolo 29. Spaccature.


 
Quel pomeriggio Vato si sentiva decisamente meglio, tanto che ottenne il permesso di poter finalmente uscire dalla sua stanza e spostarsi nel salotto per qualche ora, sebbene con l’ordine di stare semisdraiato nel divano e con una coperta addosso. La febbre gli era quasi del tutto scesa, ma la madre aveva preso qualsiasi precauzione per evitare eventuali ricadute: tuttavia il ragazzo fu abbastanza accorto da capire che, dietro a tutto questo, c’era anche il forte spavento che le aveva fatto prendere tornando a casa in quelle condizioni.
“Tipico di mamma – mormorò, sistemandosi meglio contro il cuscino e prendendo il libro di strategia che finalmente era in grado di leggere – magari non lo dice, ma si capisce benissimo.”
“Stai tranquillo, le passerà entro due giorni: se domani ti ha consentito di festeggiare il tuo compleanno vuol dire che va molto meglio.”
Vato annuì mentre spostava lo sguardo verso suo padre che finiva di abbottonarsi la giacca della divisa, pronto per andare al commissariato dopo la pausa pranzo.
“Papà, non te l’ho ancora chiesto… i danni all’archivio?”
“Sistemati già da tre giorni, tranquillo – rispose l’uomo sistemandosi il colletto – era caduta diversa roba e un ripiano ha quasi ceduto, ma era già vecchio di suo. Forse quello che avete combinato voi ragazzi ci darà la spinta giusta per dare una sistemata a tutto quel materiale. Che ne dici, ci vorrai dare una mano non appena guarisci?”
“Sul serio, posso? – si illuminò lui – Conta su di me… è anche giusto che faccia la mia parte, considerata la mia responsabilità in tutto questo.”
Vincent scoppiò a ridere e si accostò al figlio per spettinargli i capelli.
“In genere una dichiarazione del genere si fa con voce contrita, ma tu non vedi l’ora di sguazzare in tutti quei documenti, vero piccolo librofilo? In ogni caso ai ragazzi della squadra farà piacere che tu dia loro una mano dato che non amano questo tipo di lavoro.”
Vato ridacchiò imbarazzato, ma si godette appieno quel momento di complicità col genitore: in qualche modo era riuscito a riguadagnare la sua fiducia. Sembrava che suo padre fosse pronto a dargli una seconda possibilità e questa volta non l’avrebbe deluso.
Anche se forse sarò costretto a decisioni drastiche…
“Oh, la porta, forse è Elisa…”
“Vado io, tanto sto uscendo e tua madre torna tra poco. Ci vediamo stasera.”
“A stasera, papà.”
Mentre il padre scompariva nel breve corridoio che portava all’ingresso, Vato si passò una mano per ravviarsi i capelli, sperando che Elisa non facesse troppo caso a quella sua tenuta casalinga. Certo non era proprio il massimo presentarsi alla propria fidanzata in pigiama, per giunta spiegazzato, ma gli ordini di sua madre erano categorici.
“Ehilà, Vato, come va?”
Il giovane sgranò gli occhi quando vide che al posto di Elisa compariva Roy.
Il moro si sbottonò il cappotto con disinvoltura e dalla tracolla che portava prese una cartelletta.
“Da parte di Elisa: sono i compiti ed il programma svolto in questi giorni. Mi ha chiesto la cortesia di consegnarteli dato che lei doveva fare alcune compere urgenti e aveva paura di non trovare più quello che cercava. Ha detto che da te passa più tardi, prima di cena.”
“Oh, capisco – annuì sommessamente Vato, mentre osservava l’amico che andava a posare la cartelletta sopra il tavolo – già… grazie per esserti preso il disturbo.”
“Figurati – scrollò le spalle lui – allora, come va?”
“Abbastanza bene, ormai non ho più la febbre.”
“Giusto in tempo per il tuo compleanno.”
“Già…”
“Che ne dici se come guarisci del tutto organizziamo qualche altra cosa tra di noi? Però questa volta il commissariato di tuo padre lo lasciamo stare, promesso.” finì la frase con una risata.
“Ci mancherebbe altro.” mormorò Vato in tono lievemente acido.
“Mh? – Roy lo guardò con aria stranita – Non mi dire che ce l’hai ancora per quella storia? E dai, persino il mio sedere non ha più i segni delle cinghiate del padre di Jean.”
“Senti Roy, vorrei parlarti a proposito di una cosa…” Vato abbassò lo sguardo e inconsapevolmente strinse la coperta con una mano: non poteva rimandare oltre, era necessario chiarire la cosa.
“Dimmi.”
“Perché non hai nemmeno preso in considerazione la mia obiezione a quella caccia al fantasma? Eppure… eppure sapevi che mio padre non ne sarebbe stato per niente felice.”
“Che? – gli occhi neri di Roy si sgranarono per la sorpresa – Oh, andiamo, non stavamo facendo niente di cattivo: hai solo preso in prestito quelle chiavi…”
“Rubate.”
“… parti già colpevolizzandoti? Bella mossa, complimenti. Se continui così è ovvio che non otterrai mai niente: non sai rischiare nemmeno un po’.”
“Potevamo finire in guai seri e anche farci male.”
“Ma finiscila: non c’era nessuna arma… e l’unico male che ci siamo fatti è stato per la punizione che abbiamo ricevuto. E sotto questo punto di vista siamo io e Jean che l’abbiamo pagata di più, fidati.”
“Non è questo quello che volevo dire."
“Aspetta, ho capito – lo bloccò Roy, con aria seccata – è perché le hai prese come tutti noi? Cos’è? Avere quasi diciassette anni ti vieta di fare finalmente qualche cavolata come si deve con amici che non siano fatti di parola scritta?”
“Io non le prendevo da quando avevo dieci anni! – sbottò Vato, mettendosi una mano sul petto con orgoglio – E anche prima non ho mai avuto simili problemi che…”
“Vuoi un applauso? Quanto sei compassato Vato, goditi questa maledetta vita… vuoi esitare ancora? Come hai fatto con Elisa che ci è voluto il mio intervento per farti dare questa benedetta mossa con lei?”
“Ma porca miseria, possibile che vuoi sempre avere l’ultima parola? – chiese esasperato Vato, alzandosi in piedi dopo aver scostato la coperta – Non prendi in considerazione nemmeno per un secondo il mio punto di vista! Ho detto che i fantasmi non esistono e nemmeno mi hai ascoltato… abbiamo dovuto beccarci quella punizione e nemmeno ti sei degnato di dirmi oh, a proposito, Vato, avevi ragione tu: non era un fantasma…
“Oh, a proposito Vato, avevi ragione tu: non era un fantasma… sei felice adesso?”
“Fai anche lo spiritoso? Non hai la minima idea di quello che ho passato in questi giorni.”
“Avanti dimmelo, che proprio non ce l’ho questa idea… che ha di tanto prezioso il tuo sedere rispetto ai nostri? La tua punizione non è diversa dalla mia, da quella di Kain o da quella di Heymans e Jean: loro non fanno certo tante storie.”
“Ho litigato con mio padre come mai mi era successo – disse Vato con voce grave – la sua fiducia nei miei confronti è stata messa a dura prova…”
“Ma finiscila, stai solo dicendo un mucchio di cavolate! Di che fiducia andrai mai parlando… manco fossi il suo vice alla stazione di polizia.”
“Vuoi avere l’ultima parola anche in questo? – adesso il ragazzo non ci vedeva più dalla rabbia: Roy aveva osato addentrarsi nel terreno assolutamente privato del rapporto con suo padre – Proprio tu che non hai la minima idea di cosa voglia dire avere un padr…”
Si morse la lingua e osservò il viso di Roy che si era indurito, l’espressione impenetrabile: la rabbia gli sparì come neve al sole, lasciando il posto alla vergogna.
“Continua…”
“Non volevo…”
“No, dai finisci la frase – lo incitò lui, impassibile – dicevi che volevo sempre l’ultima parola: non è vero. Termina pure la frase che hai detto… io non ho la minima idea di cosa voglia dire avere un…?”
“Mi sono lasciato prendere, non…”
“Dì quella cazzo di parola, Vato Falman… io non ho la minima idea di cosa voglia dire avere un…
“… un padre…”
Quella parola cadde pesante come un macigno e si fece silenzio, un silenzio carico di tensione come mai era successo tra di loro. Vato si sentiva davvero un mostro, ma una piccola parte di lui non poteva fare a meno di ripetersi:
Lo vedi? Di nuovo… ti sta manipolando, portando la conversazione a suo favore, senza nemmeno darti la possibilità di spiegarti.
“Ti senti migliore di me adesso? Perché per me è stata chiamata mia zia e la punizione me l’ha data il padre di Jean?” fece Roy dopo qualche secondo di pausa.
“Roy, davvero, smettila… non ce la faccio. Perché devi sempre portare il discorso dove vuoi tu?” Vato si risedette nel divano, sentendo un lieve capogiro.
“Perché evidentemente è la direzione dove deve andare, mi pare chiaro.”
“No, non è vero – Vato scosse il capo, profondamente dispiaciuto da quanto stava per dire, ma non ne poteva fare a meno – è la direzione che fa comodo a te, ogni dannata volta. E quello che ho da dire passa sempre in secondo piano, anche se è un consiglio, un opposizione… anche se ti ho chiesto scusa appena ho capito di aver detto una cosa stupida. A che gioco stai giocando con me?”
“Finiscila di fare la vittima.” disse con disgusto il moro.
“Adesso sono io la vittima? Sei stato tu a farmi terminare quella frase, quando io ti avevo già chiesto scusa; se tutto quello che desideri da me è importi su qualunque cosa dica… io non vedo i presupposti per continuare la nostra amicizia. Te lo dico con sincerità: tu non hai idea di quanto ci sto male per questa cosa.”
Aveva lo sguardo sul pavimento e dunque non vide come Roy si irrigidì e come lo sguardo, per un attimo, perdesse l’impassibilità per mostrarsi dolorosamente dispiaciuto.
“Beh, se ti fa così male – mormorò – forse non è il caso che ci frequentiamo ancora. Non pensavo di crearti tanti problemi…”
“Scusami.”
“Ma di che, scusami tu…” e senza attendere risposta si avviò verso l’uscita.
Come sentì la porta che si chiudeva, Vato alzò lo sguardo e capì di essere solo in casa.
Come si sentiva? Aveva finalmente detto le cose in faccia a Roy, gli aveva fatto capire tutto il suo disagio, le sue incertezze, la sua frustrazione per quell’amicizia che non aveva solide basi, dato che andava in un unico senso. A rigor di logica la fine di quel rapporto era una liberazione: adesso si sarebbe sentito decisamente meglio.
E allora che è questo senso di nausea?
Sapeva benissimo che non era per colpa della febbre.
 
Roy non amava essere contrariato, assolutamente.
Pretendeva che le cose andassero per il verso giusto, il suo verso.
Era una cosa che Riza gli aveva spesso rimproverato, soprattutto da quando avevano iniziato a stringere legami con gli altri ragazzi: il suo pretendere che si adattassero a lui e non viceversa.
A volte ci aveva riflettuto, ma aveva sempre archiviato la cosa con una scrollata di spalle: nessuno dei suoi amici sembrava avere problemi a seguire la sua direzione, quindi perché cambiare?
Non gli era mai capitato di sbattere la faccia così violentemente su questa sua caratteristica, non aveva mai pensato che avrebbe portato ad una conseguenza simile. Considerava la sua amicizia con Vato qualcosa di così solido e scontato che non si era nemmeno preoccupato del suo palese disagio per la fine disastrosa di quella caccia al fantasma.
Ed invece? Ed invece?! Poteva dirmelo prima…dannazione a lui! E’ un dannato vigliacco.
Sì, vigliacco: era la definizione giusta per Vato Falman.
Del resto come si poteva definire una persona che aveva sempre avuto paura di affrontare la vita, rifugiandosi nel mondo dei libri e dello studio? Era riuscito a trasformare in tragedia quella che era stata un’esperienza tra amici… persino Kain, che era quello che si era spaventato di più, arrivando a piangere e a strillare, adesso ci rideva sopra.
Invece Mister maturità e fiducia col padre aveva solo tenuto il broncio e dato qualsiasi colpa a lui.
“Che faccia pure l’asociale, allora – sbottò, entrando nel locale di sua zia – non ho bisogno di lui. Adesso lo elimino dai miei pensieri ed il gioco è fatto.”
“Ehilà, Roy – boy, non saluti nemmeno?”
“Ciao, zia…” disse distrattamente, senza nemmeno alzare lo sguardo.
“Ciao, Roy. Credevo restassi di più con Vato.” salutò Vincent.
Il ragazzo si irrigidì: come poteva smette di pensare a Vato se ora incontrava anche il padre?
“Ho fatto prima del previsto – mentì – e non l’ho voluto stancare troppo. Credo che avesse ancora un po’ di mal di testa.”
“Quel mal di testa deve aver colpito anche te, ragazzo mio – fece Madame – hai una faccia…”
“Forse… beh, allora la cosa migliore è che vada a sdraiarmi un po’.”
E senza attendere eventuali reazioni, guadagnò le scale e poi finalmente la sua stanza che provvide a chiudere a chiave. Si levò la tracolla ed il cappotto, lasciandoli cadere sul pavimento e si tuffò prono nel letto, cercando di allontanare quel senso di amaro che gli tormentava il palato.
Stupido! Stupido! Vato Falman, sei la persona più odiosa che conosca!
 
Nemmeno mezz’ora dopo Vincent sedeva nel suo ufficio alla stazione di polizia e controllava alcuni documenti arrivati proprio quel giorno: uno in particolare attrasse la sua attenzione e fu quasi inverosimile che, proprio in quel momento, Andrew Fury bussasse alla porta aperta.
“Capitano Falman.”
“Ingegnere, prego, si accomodi – salutò il poliziotto, alzandosi in piedi e stringendogli la mano con calore – ho giusto letto una comunicazione che la riguarda da vicino.”
“La vecchia miniera?”
“Sì a quanto pare ci sarà ancora da attendere: sembra che abbiano diversi problemi sull’ufficio di competenza di un caso simile; tutta colpa del riordino amministrativo di qualche anno fa. Insomma, ci pregano di aspettare ulteriori disposizioni.”
“Allora ci vorrà ancora qualche mese – sospirò Andrew, incrociando le braccia – e la cosa non mi fa piacere. Uno dei miei operai mi ha detto di aver da poco sentito dei nuovi crolli all’interno: bisognerebbe far saltare l’ingresso con delle cariche al più presto. E’ un posto da sigillare.”
“In ogni caso la popolazione è stata avvisata e non credo che nessuno abbia voglia di andare in quel posto. Dipendesse da me avrei già provveduto, ma le procedure sono lunghe: deve venire qualcuno dell’esercito, dare l’autorizzazione definitiva… insomma le solite cose. Tornando a noi, le volevo chiedere un favore particolare.”
“Certamente.”
“Ampliare la stanza dell’archivio: quello che hanno combinato i ragazzi mi ha fatto propendere per far fare dei lavori a questa stazione. L’archivio non basta più e sarebbe il caso di rendere più grande quel posto: tanto si affaccia su un terreno vuoto facente parte della stazione stessa.”
“Si può fare senza problemi: darò un’occhiata e metterò giù un progetto nelle prossime settimane. Ma guarda, allora quella ragazzata ha anche risvolti positivi, eh?”
“Già – sghignazzò Vincent – ma non mi pare il caso di dirlo a quel gruppo di furfanti: si sentirebbero autorizzati a fare altri danni… mi riferisco in particolare a Roy e Jean. Ho il vago sospetto che si siano già ampiamente dimenticati di quanto hanno passato in questo stesso ufficio una decina di giorni fa.”
“Argento vivo: Kain mi dice che sono di nuovo in splendida forma. A scuola non fanno altro che litigare.”
 “Non avrei mai pensato di vedere Vato coinvolto in una cosa simile.” dopo qualche secondo di silenzio.
“E cosa dovrei dire io con Kain? Anche se in fondo non sono stato molto severo nel punirlo, era palese che sia stato trascinato dagli altri.”
“Mi dispiace che mio figlio sia stato così irresponsabile da coinvolgere il bambino in una cosa simile: parte della punizione che ha ricevuto è stata anche per quello.”
“Credo che la maggior parte del merito dell’impresa sia da dare a Roy Mustang – scrollò le spalle Andrew a quelle parole di scusa – ha parecchio carisma quel ragazzino. E parlando di Vato, come sta? Mi ha detto Kain che si è preso l’influenza.”
“Meglio, decisamente meglio…”
Vincent stava per aggiungere altro ma si bloccò e si alzò in piedi, andando a guardare alla finestra.
L’influenza era solo la conclusione di un grande cambiamento che stava vedendo in suo figlio e la cosa lo sconvolgeva parecchio perché non era il tipo di evoluzione che si era aspettato.
“Signore, mi dica – mormorò con voce sommessa – ha notato qualche cambiamento in Kain da quando ha iniziato a frequentare gli altri ragazzi?”
“Sì – annuì senza esitazioni l’uomo, guardandosi le mani e sorridendo con dolcezza – è molto più sicuro di sé, propenso a parlare: il nostro livello di confidenza è molto aumentato. Mi sono accorto che forse prima pretendevo da lui una maturità che non era in grado di darmi… il fatto che sia molto bravo a scuola ed obbediente non vuol dire essere maturi, non sotto determinati aspetti.”
Vincent annuì.
“Kain e Vato in qualche modo si assomigliano: erano solitari, chini sui loro interessi, in parte estraniati dal mondo. Quando hanno stretto amicizia non sono rimasto molto sorpreso, nonostante la differenza d’età… è quello che è arrivato dopo che mi ha fatto capire che forse mio figlio non è la persona che credevo di conoscere.”
“Che intende dire?”
“Vato si è ammalato perché è scappato di casa – ammise Vincent dopo qualche secondo d’esitazione – alla fine si è trattato solo di qualche ora, niente di grave, ma… era totalmente fuori controllo. Non l’ho mai visto arrabbiato e pronto a sfidarmi in un simile modo. E la cosa peggiore è che non si riconosce più nemmeno lui e questo lo spaventa più di quanto voglia farmi intendere.”
“Ha sedici anni, a quell’età i cambiamenti sono spesso rapidi e possono lasciare confusi.” propose Andrew.
“Prima lei ha detto che forse pretendeva da Kain una maturità che non poteva dare: adesso mi sta venendo il grosso dilemma di aver fatto lo stesso con Vato, forse in modo anche più serrato.”
“Non mi pare un ragazzo così rigido: con Kain è sempre stato molto disponibile e gentile.”
“Non è tanto per questo… è che gli ho sempre dato una visione di responsabilità molto marcata e forse l’ho condizionato troppo. Essere il figlio del capo della polizia non è facile: gli ho caricato addosso una tensione tale che non si è concesso cose che gli altri ragazzi fanno con normalità. E quando è successo tutto questo lui si è in parte trovato spiazzato.”
Mentre diceva queste cose gli tornarono in mente le suppliche deliranti di Vato la sera della fuga.
Non levarmi la tua fiducia, ti giuro che non ti deluderò più… tornerò me stesso… tornerò quello di sempre!
“… tornerò quello di sempre, è questo che ha detto. E’ come se si volesse annullare, rifiutando il cambiamento: non l’ho mai visto così spaventato.”
“Posso darle del tu, capitano?”
Vincent si girò e vide che Andrew si era alzato in piedi e lo stava raggiungendo.
“Non vedo perché no, Andrew Fury.”
“Quello che sta succedendo a Vato non è dissimile a quanto è successo a Kain la prima volta che in cortile ha provato a salire sopra un muretto: ha fatto un capitombolo tale, poverino, aveva solo quattro anni ed era una delle prime volte che usciva di casa per via della sua salute cagionevole… me lo ricordo ancora lo strillo ed il pianto: niente di grave, ovviamente, una bella sbucciatura su entrambe le ginocchia. Però… la cosa che mi lasciò impressionato fu che non volle più andare in cortile. Per i giorni successivi volle stare dentro casa: troppo impaurito da quella cosa nuova che l’aveva fatto divertire, ma allo stesso tempo gli aveva fatto male.”
Andrew sorrise nel ricordare le parole del bambino, mentre si aggrappava ad Ellie:
No… no… cortile cattivo, fa la bua a Kain.
“Vato si è fatto male con la scoperta di essere un ragazzo come tutti gli altri?” chiese Vincent.
“Più che altro credo che il problema di Vato sia capire se essere come tutti gli altri è una cosa che dispiace a suo padre.”
“Ma che sciocchezze – scosse il capo il poliziotto – è mio figlio, non potrei mai…”
Però gli tornarono a mente le cose brucianti che aveva detto quel giorno e anche quando l’aveva punito per quell’avventura.
Credevo che tu fossi più responsabile ed invece mi hai dimostrato di essere solo un immaturo. Non avrei mai immaginato di doverti dare una lezione di questo tipo, ragazzo, non alla tua età.
Lo sguardo comprensivo di Andrew gli diede conferma di quanto pensava.
“Sì, Vincent – annuì – spesso non ci rendiamo conto di quanto i nostri figli assorbano e interpretino a modo loro quanto gli diciamo. Io stesso spesso ho spinto Kain verso una maturità che non poteva darmi e lui arrivava ad interpretare questo come una sua mancanza come figlio…”
“Ci dovrò parlare ancora con lui – ammise Vincent, sentendosi profondamente a disagio – credo che stia interpretando le cose in modo sbagliato ed in parte è per colpa mia. Accidenti, devo dire che Roy Mustang ha dato un bel giro di vite ai nostri figli, eh?”
“Roy, Heymans, Jean… tutti loro stanno dando un giro di vite agli altri, mi sa. E sono tutti dei bravi ragazzi, non potevo chiedere di meglio per Kain.”
“E lo stesso per Vato.”
 
“Hai fatto cosa?” chiese Elisa, alzandosi dal divano con sgomento.
“Ho fatto la cosa giusta – dichiarò Vato con convinzione – adesso tornerà tutto come prima, fidati.”
“Vato Falman, tu sei… sei… sei… il più grande idiota dell’universo!”
“Che? – arrossì lui – ma che cosa dici, Eli? Non è per niente vero.”
“No? Ma se mi hai appena detto di aver rotto la tua amicizia con Roy? Che cosa ti salta per la testa?”
Vato scosse il capo con esasperazione: possibile che la sua ragazza non capisse? Era stato necessario: non poteva continuare a sentirsi a disagio per colpa di quel ragazzo, senza contare che ora non sarebbe stato più coinvolto in cose che l’avrebbero messo in cattiva luce agli occhi di suo padre.
“Non mi ha mai ascoltato, non mi ha mai dato ragione… gli serviva solo qualcuno per compiacere il suo ego, tutto qui. E a me non va di essere quel qualcuno.”
“Compiacere il suo ego? Secondo te quando mi ha invitato a ballare l’ha fatto per compiacere il suo ego?”
“Non in quell’occasione, ma…”
“Voleva aiutarti, desiderava davvero che tu facessi il passo avanti con me… ci teneva perché sapeva che tu lo volevi tanto.”
“Poteva rispettare i miei tempi… come ti sentiresti se Riza venisse da te all’improvviso e iniziasse a dire quello che devi e non devi fare?”
“Ammetto che non è molto delicato in questo, – sospirò la ragazza – ma ci tiene a te, davvero. Vato, come fai a non capirlo?”
“Visto che sai tutto di lui, allora parlami della caccia al fantasma, dai! Sono proprio curioso di sapere quale spiegazione troverai a quella storia.”
E incrociò le braccia al petto in gesto di sfida: dannazione a lei, quanto poteva essere testarda… adorabilmente testarda con le guance arrossate in quel modo.
“La vuoi smettere di arrossire?”
“Scusa… dicevi?”
“Non ti ricordi cosa ha detto? Che voleva fare una cosa tra maschi… voleva fare qualcosa assieme a voi. Perché siete i suoi amici e voleva che fosse un momento speciale.”
“E mi è costato il suo momento speciale! Mio padre ancora un po’ mi levava tutta la fiducia guadagnata in questi anni… non sai quanto la cosa mi abbia fatto stare male.”
Disse quelle parole con sincera partecipazione tanto che la rabbia di Elisa in buona parte andò via.
Sapeva bene che Vato adorava suo padre e desiderava sempre che andasse fiero di lui: ma non poteva immaginare che quella disavventura avesse messo a repentaglio il loro rapporto e…
“Ciao Vato, sono tornato…” la voce di Vincent fece sussultare entrambi.
“Signore, buonasera…”
“Ciao, Elisa, come va?”
“Bene. Però, adesso è meglio che torni a casa: tra poco è ora di cena.”
“Eli…”
“Domani è il tuo compleanno, Vato. Ci vediamo per la festa… mi raccomando riposati.”
Il ragazzo la fissò con dolorosa rassegnazione mentre recuperava il suo cappotto e scappava via. Fu quasi certo di intravedere un lieve luccichio in uno degli occhi verdi.
Anche le lacrime? Oh no…
“Eli…” chiamò, come la porta si chiuse, alzandosi in piedi.
“Problemi tra fidanzati?” chiese Vincent levandosi il cappotto.
“Cielo… cielo, non ci capisco più nulla.” sospirò Vato, rimettendosi seduto e prendendosi la testa tra le mani.
“Già – annuì Vincent, sedendosi accanto a lui e circondandogli le spalle con un braccio – forse è così ed in parte è colpa mia.”
“Papà, non ti devi preoccupare. Ti ho già detto che farò in modo che tu dimentichi quel comportamento così sbagliato che ho avuto e…”
“Vato – lo interruppe Vincent – non impostare le tue azioni su di me, per favore.”
“Ma… ma, papà.”
“Io sarò sempre dalla tua parte: non mi devi dimostrare una maturità così forzata solo per compiacermi; la mia fiducia l’hai in ogni caso. Sei il mio unico figlio, non potrei mai…”
Dovette trattenersi nell’incontrare il viso di Vato, così sorpreso e commosso.
D’improvviso gli tornò in mente una visione di suo figlio a cinque anni, con il berretto della divisa in testa, così grande e buffo su di lui.
“Papà, da grande io divento come te, vero?”
“Guarda che per diventare come me devi essere molto maturo e responsabile, piccolo mio.”
“Re… reponabile…”
“Responsabile, ometto… e cioè devi sempre essere buono e obbediente e non fare mai le cose sbagliate.”
“Io buono papà! Io obbedisco a mamma e a te, sempre.”
“Bravo, ragazzino: mi rendi fiero di te.”
“Vato è repos…responsabile!”
Gli salì un groppo in gola nel ricordare il tono d’urgenza con cui il bambino diceva quelle cose, stringendosi a lui. D’impulso abbracciò il figlio, posando un bacio sulla chioma bicolore.
“Papà…?” mormorò il ragazzo.
“Non sai che bello è per me poterti vedere ridere e scherzare con i tuoi amici… e se fate qualche cavolata va bene così, sul serio.”
“Ma se eri furioso.”
“Va bene, questa è stata grave, te lo concedo. E non rinnego assolutamente il castigo che ti ho dato…”
“Lo vedi allora?”
“Fammi finire, ragazzino – Vincent lo strinse a se, come non era solito fare da anni ormai – non sei maturo, Vato, e va benissimo così. Hai tutto il mondo da scoprire, esperienze da vivere, amici con cui condividere tutte queste cose: non devi assolutamente privartene… e se qualche volta ci sbatti la faccia, pazienza. Io e tua madre siamo qui per te.”
“Ma come posso fare, papà? – sospirò il ragazzo, stringendosi maggiormente in quell’abbraccio e scoprendo che era particolarmente rassicurante – Se sto tornando indietro invece di andare avanti.”
“No, non è vero, fidati di me. Tu stai facendo grandi passi avanti confrontandoti con tutti i tuoi amici.”
A quelle parole Vato si irrigidì… confronto…
“Confronto…”
“E’ la cosa che ti fa maturare di più, credimi. Perdonami figlio mio, forse ti ho condizionato troppo… ma non sentirti imprigionato dalla mia persona: io e tua madre ti amiamo per quello che sei.”
Ma la mente di Vato era ferma ad un altro pensiero:
Confronto…da confrontare:in un dibattito fra due o più oppositori, metterle a confronto per rilevare somiglianze e divergenze, per saggiarne la validità, con il proposito di giungere a un accordo, a una soluzione, o comunque a un risultato positivo.
“Vato… Vato, figliolo, che c’è? – chiese Vincent con preoccupazione – Perché adesso piangi?”
“Sono un idiota!” singhiozzò lui, stringendosi ancora di più al padre.
“Ma che dici? Va tutto bene, da bravo…”
“Ho sbagliato! Ho sbagliato tutto…”
Non aveva cercato il confronto con Roy: l’aveva semplicemente eliminato dalla sua vita, tagliando i ponti con lui… evitando di affrontare il problema. Perché era la soluzione più comoda, perché forse Roy gli aveva sbattuto il faccia la realtà che lui aveva paura di affrontare.
…Cos’è? Avere quasi diciassette anni ti vieta di fare finalmente qualche cavolata come si deve con amici che non siano fatti di parola scritta?
“Adesso non esagerare, non…”
“L’ho perso… ho perso il mio miglior amico!”
 
Proprio in quel momento Roy si alzò dal letto dove aveva passato tutto il pomeriggio facendo finta di dormire, anche se non c’era nessuno in stanza a cui doverlo dimostrare.
Aveva cercato di annullare i suoi pensieri negativi, di dimenticarsi completamente di Vato, ma non ce l’aveva fatta. Aveva riflettuto ed aveva capito che forse era in parte colpa sua e dei suoi atteggiamenti…
“Ma questo non ti autorizza a spezzare la nostra amicizia, Vato Falman! – esclamò, andando verso la scacchiera che stava sul tavolo – Tu sei mio amico e io non butterò via il nostro rapporto solo perché il sedere ti brucia ancora per la punizione che hai ricevuto!”
Il suo pugno sbatté con rabbia vicino al gioco e diversi pezzi si rovesciarono, l’alfiere bianco addirittura cadde a terra.
L’amicizia con me ti crea dei problemi? Benissimo allora vedremo di risolverli.
“Domani è il tuo compleanno, mister maturità… fidati che non lo dimenticherai!”
Raccolse l’alfiere e lo osservò con attenzione: aveva meno di ventiquattro ore per formulare un piano.
Non avrebbe rinunciato a lui per niente al mondo.




___________________
Sono lieta di annunciarvi che ieri sono stati aggiunti dei disegni di Mary_ a diversi capitoli:
Al capitolo 9 ci sono Jean e Roy che si preparano al duello.
Al capitolo 12 potete ammirare Elisa e Riza che si tengono a braccetto.
Al capitolo 19 c'è un non proprio felice Jean imprigionato da Rebecca al ballo xD
Al capitolo 21, oltre che al già vecchio disegno di Vato ed Elisa, abbiamo Jean che fa scoprire la neve a Janet.
Infine al capitolo 27 abbiamo Roy e Jean, impavidi cuor di leone durante la caccia al fantasma.
Vi consiglio di andare a vederli perché sono troppo carini ^__^

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 30. I fantasmi che esistono. ***


Capitolo 30. I fantasmi che esistono.

 

Senza che se ne rendesse conto, la discussione con Vato aveva rievocato un fantasma che Roy credeva sepolto ormai da tanti anni: arrivò discretamente durante la notte, infilandosi nei suoi sogni già inquieti e lo costrinse a rigirarsi nel letto più volte, senza riuscire a svegliarsi del tutto.
Erano immagini fugaci del passato che andavano a mischiarsi con quelle del presente e dei suoi amici: in particolare andavano a sovrapporsi a quelle di Vincent Falman per via della divisa… ma questa volta non era quella scura della polizia, ma una blu. E non c’erano gli occhi dal taglio sottile del capitano Falman ad osservarlo con rimprovero, ma quelli scuri uguali ai suoi.
Ti è costata cara questa caccia al fantasma… un incidente ferroviario.
Finisci la frase: tu non hai la minima idea di cosa voglia dire avere un…?
Il signor Havoc, sarà così gentile da riservarti lo stesso trattamento.
Fu quindi normale che si svegliasse più stanco che riposato, con un fastidioso sudore che gli aveva impregnato tutto il pigiama.
Con un sospiro si alzò dal letto per andare in bagno a lavarsi e decise che quel giorno non sarebbe andato a scuola, tanto sua zia non faceva molti problemi se ogni tanto si prendeva queste pause. Probabilmente capiva che non lo faceva mai per vera e propria pigrizia, ma perché aveva bisogno di riflettere su qualcosa.
Non fece nemmeno colazione, preferì prendere alcune fette di pane imburrato, chiuderle a panino, avvolgerle in un fazzoletto e mettersele nella tasca del cappotto: il suo stomaco non era pronto ad accettare il cibo.
“Ci vediamo dopo, zia. Io oggi non vado a scuola.”
“Il tuo fantomatico mal di testa ancora ti tormenta?”
“Più o meno: torno per pranzo.”
“Va bene, cerca di schiarirti le idee: quel broncio non è molto affascinante, lo sai.”
Questa volta non riuscì a rispondere con il solito ghigno di scherno, ma si limitò a fare un distratto cenno di saluto quando ormai aveva la mano sulla maniglia.
L’aria fresca del mattino presto lo fece rabbrividire e gli mosse i capelli neri: senza rendersene conto era proprio l’ora di andare a scuola, certo le abitudini erano dure a morire anche in questi momenti. Ma questa volta non sarebbe andato all’appuntamento con Riza: non era la prima volta che lo faceva e la sua amica sapeva bene che dopo un dieci minuti d’attesa doveva andare a scuola senza di lui.
“Ciao, Roy.”
“Ciao, Elisa – salutò con lieve esitazione vedendo che la ragazza si stava alzando dai gradini del locale, chiaramente in attesa di lui – che cosa ci fai qui?”
“Ti aspettavo. Oggi non vieni a scuola? Non hai la tracolla…”
“No, oggi no. Anzi, se andando avanti vedi Riza avvisala pure, così evita di attendermi.”
“Perché non vieni?”
Roy la squadrò attentamente: il viso grazioso era triste e preoccupato e gli occhi verdi non avevano la solita espressione gaia. Chissà perché l’aveva sempre considerata la ragazza perfetta per Vato: spensierata al punto giusto, eppure così premurosa, disposta ad accettare tutte le stranezze del fidanzato…
“Oggi non ti sei messa uno dei nastri che ti ha regalato.”
“Già – ammise lei ad occhi bassi – me ne sono dimenticata ed ormai ero già fuori di casa, pazienza.”
“Peccato, ti stanno davvero bene…”
Ci fu un imbarazzato silenzio perché era chiaro che entrambi sapevano benissimo cosa non andava. Roy non aveva nessun dubbio che Elisa fosse venuta a sapere del litigio di ieri sera.
“E’ fatto così – disse infine lei – a volte si comporta in modo drastico, credendo di aver trovato la soluzione migliore. Ma non lo fa apposta e non è quello che lui pensa davvero.”
“Suo padre si è davvero arrabbiato così tanto con lui?”
Fu una domanda a bruciapelo ed il fatto che Elisa esitasse confermò quanto aveva sospettato. Era vero, lui non sapeva molto del rapporto padre – figlio e forse, se Vato era così preoccupato, quello con il capitano Falman doveva aver subito una brusca incrinatura.
Forse per i militari ed i poliziotti è diverso…
“Vato ci tiene molto che suo padre sia fiero di lui… e il capitano Falman a volte è un po’ rigido, è vero.” mormorò Elisa infine.
“Capisco…” senza attendere risposta scese gli ultimi scalini.
“Stasera vieni alla festa, te ne prego – disse Elisa alle sue spalle – lui ci tiene a te, Roy. Se non venissi ci resterebbe molto male, ne sono sicura: è stato un brutto litigio, non fatelo pesare più del dovuto.”
“Verrò, promesso – annuì lui – adesso vai, si sta facendo tardi.”
 
Il rifugio personale suo e di Riza era sempre lo stesso, sebbene ci fossero ancora alcune tracce di neve qua e là; certo, le betulle ora erano come degli scheletri che si stagliavano verso il cielo pulito e non c’era la morbida erbetta di primavera.
Era tanto che non veniva in quel posto: da quando lui e Riza avevano iniziato a stringere amicizia con gli altri non avevano più sentito la necessità di quel luogo così appartato. Ma sembrava che fosse sempre pronto ad accoglierli, specie quando il passato triste si ripresentava così all’improvviso.
Si frugò nella tasca del cappotto, ma al posto del temperino tirò fuori una cosa che aveva preso da un cassetto poco prima di uscire. Non sapeva nemmeno lui perché l’aveva fatto, forse in alcuni momenti si sentiva particolarmente propenso all’autolesionismo.
La stoffa azzurra era ancora morbida e nonostante ai bordi ci fosse qualche filo pendente non c’era rischio di cuciture. Le decorazioni delle spalline della divisa di suo padre: chissà quante volte le aveva prese in mano nei primi mesi che si era trasferito in questo posto.
Il suo pollice corse ad una delle due stelline di metallo dorato e premette al centro fino a sentire un piccolo fastidio: tenente colonnello dell’esercito Christopher Mustang. Quando era morto in seguito ad un incidente ferroviario, lui aveva circa sette anni: ricordava ancora quando la sua governante gli aveva dato la notizia fra le lacrime. Non era rimasto molto impressionato, era come se gli avesse annunciato che per l’ennesima volta suo padre non sarebbe tornato a casa… solo che questa volta era per sempre.
Del resto che legame aveva lui con quel soldato? Nessuno.
Non aveva mai indagato sulla vita familiare dei suoi, non aveva senso, ma non si sarebbe sorpreso di scoprire che la sua nascita non era stata programmata: sapeva che sua madre aveva una vita sociale molto intensa, mentre suo padre era assistente di un generale molto importante. Un figlio per quella coppia così affaccendata non era proprio il massimo. Se si sforzava riusciva a ricordare qualche volta che sua madre aveva giocato con lui, ne era certo. C’era anche una foto, nascosta dentro un libro, dove lo teneva in braccio e sorrideva felice…
Ma è ovvio che per una madre è diverso… una madre ti porta in grembo per nove mesi, ha un legame più forte con te.
Ma suo padre? Quante volte l’aveva chiamato per stare con lui quando tornava a casa?
Qualche volta, quando per caso si incrociavano nei corridoi, lui gli dava una carezza distratta sulla guancia, ma era qualcosa di assolutamente impersonale. Come se sentisse l’essere padre un dovere al pari dell’essere soldato e dunque dovesse per forza fare simili gesti.
Gli stavo indifferente, tutto qui… nemmeno mi odiava, era proprio indifferenza.
E lui c’era rimasto male, certamente: a sette anni il suo mondo si riduceva alla casa, alla governante, al suo insegnante privato… a quella figura che tornava e lo affascinava così tanto in quella divisa blu.
Vorrei che si accorgesse di me…
I suoi pensieri di bambino piccolo tornarono di prepotenza e scosse il capo.
Ma era difficile, tremendamente difficile: si era appena accorto di capire il turbamento di Vato meglio del previsto. Perché anche lui avrebbe voluto rendere suo padre fiero di lui, in modo che si accorgesse della sua presenza, lo rendesse partecipe della sua vita. Forse avrebbe fatto molto più male sapere della sua improvvisa morte, ma il vuoto non sarebbe stato così fastidioso. Perché per sua madre non provava un buco allo stomaco simile.
“E se per Vato è così importante avere la fiducia di suo padre, che sia! Andiamo a ricucire questo maledetto rapporto spezzato.”
 
“Mi raccomando porti gli auguri di tutti noi a suo figlio, capitano.” esclamò uno degli uomini della squadra, affacciandosi all’ufficio.
“Va bene, Steve, buona ronda. Ci vediamo direttamente domani.”
Vincent tornò a dedicare la sua attenzione alla pistola che stava rimontando dopo averla pulita accuratamente: anche quella mattina stava filando tutto liscio come al solito e aveva deciso di restare in ufficio per dare la possibilità agli uomini della sua squadra di fare un giro. In genere era una cosa che preferiva fare lui, ma ogni tanto era giusto restare di guardia e lasciare l’azione agli altri.
Tanto quel pomeriggio era previsto parecchio movimento considerato che come sarebbe tornato a casa avrebbe trovato quel branco di scalmanati: sperava solo che questo aiutasse Vato a riprendersi un pochino da quello sfogo che aveva avuto la sera prima. Da quello che aveva capito c’era stato un litigio con Roy e sembrava che la cosa fosse abbastanza drastica, senza possibilità di risoluzione. Tuttavia Vincent sospettava che, come spesso accadeva, il figlio avesse esagerato una cosa normale e…
“Capitano Falman.”
“In questo momento dovresti essere in classe, Roy Mustang, – disse con voce ferma, alzandosi in piedi, mentre il ragazzo entrava nell’ufficio – tua zia sa che hai marinato la scuola?”
“Può darsi.”
Era un atteggiamento abbastanza strafottente e Roy lo sapeva bene, ma certe volte non poteva fare a meno di sfidare gli adulti, specie quando assumevano con lui dei toni di rimprovero. Oppure quando erano particolarmente protettivi come la madre di Kain… quella sì che era da stuzzicare.
Ma non era quello il momento di pensare a determinate cose.
Dall’altra parte della scrivania, Vincent osservava quel ragazzo, vedendo per la prima volta il lato ribelle di lui: finché era venuto a casa sua si era sempre comportato in maniera rispettosa, a volte persino timida.
Ed invece adesso si presentava con tutta la sua sfrontatezza per la quale era famoso.
Eccolo qua il leader… il motore della bravata.
Adesso capiva perché a volte la personalità più quieta di Vato stridesse con la sua.
“Lo sai? Il mio dovere di poliziotto mi imporrebbe di prenderti per l’orecchio e portarti immediatamente a scuola. Dammi una motivazione valida per non farlo.”
“Vato non vuole più essere mio amico, è un motivo valido?”
Il tono aveva perso la nota di sfida ed una sincera preoccupazione era comparsa nei lineamenti adolescenziali. Era chiaro che ci teneva particolarmente a questa amicizia se arrivava ad un simile gesto.
Vincent annuì e si rimise a sedere facendogli cenno di fare altrettanto nella sedia davanti alla scrivania.
“Dimmi tutto.”
Roy fece un sospiro e iniziò.
“A quanto pare quello che abbiamo combinato ha messo Vato in difficoltà con lei. Mi assumo tutta la responsabilità di quella storia, sono disposto anche a subire la punizione che ha avuto da lei e da sua moglie, ma non levi la fiducia a suo figlio. Ha tentato più volte di farmi desistere dall’impresa ed io l’ho volutamente ignorato.”
Vincent si posò allo schienale, incrociando le braccia al petto.
“Quante cinghiate hai preso da James Havoc?”
“Venti, signore.”
“Hai idea di quante ne abbia date io a mio figlio? Non con la cinta, ma col cucchiaio di legno, e ti assicuro che può essere parecchio doloroso anche quello.”
“Sono disposto anche a quel castigo, non importa.”
“Gesto dimostrativo, insomma.”
“Sì, proprio così.”
“Perché lo fai?”
“Perché è mio amico e ci tengo che risolva le cose con lei, signore. Forse non so molto del rapporto padre e figlio, ma capisco che per Vato è importante avere la sua fiducia.”
“Capisco, – Vincent abbandonò la sedia ed oltrepassò la scrivania per portarsi davanti a Roy che istintivamente si alzò in piedi – Vato mi ha raccontato della vostra discussione di ieri e anche di quella frase che si sarebbe voluto immediatamente rimangiare, quella riguardo al rapporto padre e figlio.”
“Beh, in fondo ha detto solo la verità – scrollò le spalle Roy – non ho la minima idea di cosa voglia dire la fiducia di un genitore: era già tanto se vedevo mio padre un paio di volte al mese.”
Non c’era vittimismo in quella frase, solo un briciolo di rimpianto. Per il resto il tono rimase neutrale, come se la conversazione non avesse mai preso quella piega. Fu per questo motivo che Vincent decise di essere delicato e non proseguire con qualcosa che il ragazzo preferiva tenere privato.
“Diciamo semplicemente che la situazione vi è sfuggita di mano come spesso succede litigando tra ragazzi. Sia ben chiaro, Roy, quella che avete commesso è stata la peggiore ragazzata che poteste mai fare e spero che le prossime siano di minore portata; sarò sincero, Vato ha ingigantito molto la faccenda, ma c’erano alcune incomprensioni di fondo che andavano chiarite.”
“Ha detto che la mia amicizia lo fa star male…”
“Quella è una questione che dovete regolare tra di voi: è chiaro che avete caratteri molto diversi e dovete trovare un equilibrio, ma spetta solo a voi due farlo. Da parte mia ti posso garantire che mio figlio non pensa davvero le cose che ti ha detto ed è sinceramente pentito da come è finita la cosa. Penso che se non avesse gli ultimi residui della febbre ti avrebbe già cercato per fare pace.”
“Lui che prende l’iniziativa? – sorrise Roy – Non ce lo vedo proprio…”
“Ti potrebbe sorprendere, fidati di me, Roy.”
“Grazie, signore – tese la mano verso il capitano – sul serio, lei non sa quanto sia importante quest’amicizia per me.”
“Figurati, ragazzino. Siete un bel gruppo di furfanti, ma dovete ancora trovare un equilibrio interno.”
“Sono ottimista.”
“Perfetto. Adesso, per la seconda volta in una giornata, verrò meno al mio dovere di poliziotto e ti lascerò andare senza alcuna ramanzina… ma che non si ripeta più nulla di simile.”
“La prossima volta eviterò accuratamente il commissariato, stia tranquillo.”
Spavaldo, il ragazzo, non c’era che dire.
Ma Vincent non poté far a meno di arruffargli i capelli con aria divertita.
 
Roy attendeva con ansia che la campanella di fine scuola suonasse: sembrava che il tempo non dovesse scorrere mai ed era stressante dover restare tra quella macchia di cespugli. Adesso che aveva risolto la questione con il capitano Falman non gli restava che recuperare l’amicizia con Vato.
Quello che gli era venuto in mente non era molto dignitoso, a dire il vero, ma forse la cosa migliore in quel momento era evitare la serietà, ce n’era stata anche troppa ieri pomeriggio. Uno dei problemi di Vato era che prendeva tutto troppo sul serio e dunque era necessario fargli fare un po’ di sano divertimento.
Non ci posso credere… io, Roy Mustang, che sto per chiedere agli altri di fare tutta questa follia.
Era davvero incredibile a cosa potesse spingere l’amicizia.
Sperava solo che gli altri, specie Jean ed Heymans, non facessero troppe opposizioni.
Era così preoccupato che non si rendeva nemmeno conto che stavano per agire come un gruppo compatto per aiutare uno di loro.
Finalmente la campana di fine lezione suonò ed il ragazzo si acquattò maggiormente tra i cespugli, per evitare di essere visto da qualche insegnante. Allo stesso tempo il suo piano richiedeva davvero grande sincrono e prontezza perché le persone con cui doveva parlare prendevano direzioni diametralmente opposte appena uscite dal cortile.
Ma questa volta la fortuna fu dalla sua parte, perché tutti e quattro uscirono contemporaneamente.
“E ringrazia ancora tuo padre da parte mia – disse Riza rivolta a Kain – quell’otto e mezza in trigonometria è tutto merito suo.”
“Va bene, Riza, ne sarà molto felice.”
“Io in trigonometria mi accontento anche di un sei, fidati.”
“La tua ultima interrogazione è stata uno spettacolo. Il professore stava per ammazzarti quando hai sbagliato la formula.”
“Certo che tu potevi anche suggerire…”
“Non avrei potuto, anche perché mi teneva d’occhio: sa bene che sono il tuo suggeritore. Comunque ci vediamo stasera alle tre e mezza? Così scegliamo il regalo e poi andiamo da Vato.”
“Va bene, davanti a casa di Riza…”
“Ehi – esclamò Roy, uscendo dal suo nascondiglio approfittando di quel momento d’insieme – fermi tutti quanti ho bisogno di voi.”
“Roy! Ma che ti salta in mente? – esclamò Riza andandogli incontro – Se ti vedono i tuoi insegnanti sei nei guai.”
“Appunto… venite tutti e quattro con me, dietro i cespugli, vi devo parlare.”
“E di cosa?” chiese Heymans.
“A proposito di Vato e della sua festa di compleanno.”
“Ah, allora vieni – disse felice Riza – hai fatto pace con Vato? Elisa mi ha raccontato del litigio.”
“Diciamo che mi servite proprio per fare pace con lui. Forza, venite.”
“E io che faccio?” chiese Janet, capendo di non essere stata inclusa.
Roy la fissò: non si era minimamente accorto che c’era anche lei, ma un’idea gli venne in mente.
“Vieni anche tu, mi servi.”
 
“Ti prego, mamma, non potevi pretendere che restassi in pigiama.”
“Al minimo segno di stanchezza però avvisami, va bene?” disse Rosie, sistemandogli il colletto che usciva dal maglione.
“E’ da due giorni ormai che non ho febbre, tranquilla.”
“Va bene, va bene… scusa tanto se mi preoccupo. Piccolo diciassettenne.”
Vato arrossì a quell’ultima canzonatura e sperò che non venisse ritirata fuori troppo spesso durante la festa: era tutta la mattina che sua madre lo coccolava in questo modo.
“Fiocco di neve, non mi sembra vero che la mattina di diciassette anni fa ti prendevo tra le braccia… eri così piccolo e dolce. E guardati adesso…”
 Per levarsi questi pensieri imbarazzanti, andò al tavolo del salotto e guardò con curiosità il rinfresco per i suoi amici e si sorprese a pensare che era la prima volta che invitava altri ragazzi a casa per il suo compleanno. Scoprì di essere parecchio emozionato e ansioso di vederli arrivare, anche se una piccola parte di lui aveva paura che non venissero: sicuramente avevano saputo del suo litigio con Roy e forse, per solidarietà nei suoi confronti, avevano deciso di dargli una simile lezione.
Oh dai, no… per lo meno non Kain. Dannazione a me, perché sono stato così rigido?
Quella mattina sarebbe addirittura voluto andare a scuola per chiarire con Roy, ma sua madre era stata categorica nel proibirgli l’uscita.
Come bussarono alla porta guardò l’orologio sulla pendola: le quattro meno un quarto.
Oh beh, almeno lei è venuta. Per un attimo ho pensato che fosse arrabbiata a tal punto…
“Questa è Elisa, mamma, vado io.”
Sì, doveva andare per forza lui: voleva chiarire immediatamente quel litigio che avevano avuto la sera prima. Aprì la porta e la vide con il cappotto semiaperto che faceva intravedere l’abito verde chiaro che indossava, in perfetto tono con uno dei nastri che le aveva regalato.
“Ehi, festeggiato – sorrise lei, tenendo tra le mani un grosso pacco – qui c’è una torta salata fatta da me e mia madre, mi aiuti?”
“Dammi pure – annuì prendendo l’ingombro – entra, dai… aspetta qui che lo porto in cucina, così ci pensa mia mamma.”
Come tornò, vide che la ragazza si era levata il cappotto e si stava sistemando meglio i morbidi capelli castani.
“Ho posato il tuo regalo sul tavolo, è in quella bus…mh!”
La frase fu interrotta dal bacio che Vato le diede, mentre l’abbracciava con foga.
“Ehi, festeggiato – mormorò, dopo qualche secondo – che hai?”
“Ieri ti ho fatta piangere, vero?”
“Non era nulla, suvvia.” sorrise lei, ma si capiva che era felice di quel chiarimento.
“Avevi ragione nel dire che sono il più grande idiota dell’universo…”
“Ti amo, idiota, lo sai?”
Oh, se lo sapeva. Ed era così meraviglioso baciarla e sentire che si abbandonava a lui, ricambiando l’abbraccio. Le sue mani erano fantastiche nell’accarezzargli i capelli ed il suo profumo così inebriante che…
“Ragazzi, capisco che finché stava male Vato avete evitato simili effusioni, ma suvvia…”
“Mamma!” arrossì lui, staccandosi.
“Buonasera, signora.” salutò Elisa, con una risatina imbarazzata.
“Ciao, Elisa. Che dici, mi dai una mano con le ultime cose in cucina?”
“Molto volentieri. E tu, festeggiato, apri il tuo regalo e poi dimmi se ti piace.”
Con un sospiro, mentre vedeva la sua ragazza scomparire in cucina, intrappolata da sua madre, Vato prese il pacco e lo scartò con curiosità; almeno con Elisa la pace era fatta: che dolce, gli aveva fatto anche un regalo, anche se per il suo comportamento degli ultimi giorni non se lo sarebbe meritato e…
Quando capì che cos’era gli si mozzò il fiato:
“Eli! – corse in cucina tenendo quella meraviglia tra le mani – l’edizione completa della storia di Amestris… quella con le appendici!”
“E’ arrivata proprio ieri con il treno: avevo timore che non ce l’avrebbe fatta nonostante avessi chiesto a mio nonno di ordinarla più di due settimane fa. Eh, hai visto la tua ragazza che si ricorda di quanto ci sospiravi per quelle appendici mancanti?”
“Eli, sei meravigliosa – esclamò posando quei due grossi volumi sul tavolo e prendendo la ragazza tra le braccia – sei la ragazza migliore che potessi mai desiderare e… scusa mamma, noi torniamo in salone, eh?”
“Va bene, tanto qui abbiamo praticamente fatto.” rise Rosie, vedendo l’entusiasmo del figlio e lieta di vederlo finalmente sorridere di nuovo.
Però il proposito di ringraziamento che Vato aveva intenzione di proseguire fu interrotto dal campanello che suonava. Si scambiò un’occhiata con Elisa e si mosse verso la porta.
Allora qualcuno di loro è venuto.
Come l’uscio si aprì fu sorpreso nel trovarsi davanti Roy.
“Roy! Ecco io…”
“Zitto! – esclamò il ragazzo spintonandolo all’indietro – adesso tu ti siedi e mi ascolti per bene.”
E con un ultima spinta lo fece cadere sopra il divano, mettendosi poi davanti a lui a braccia conserte.
“Il mio amico Vato Falman – iniziò – crede che io non lo ascolti mai e non gli dia importanza, ma in questa sede io, Roy Mustang, intendo dimostrare che non è assolutamente vero: lo conosco meglio di quanto pensi. Si accomodi pure, signorina Elisa, lei sarà gradita testimone di tutto questo.”
“Ma che hai in mente?” rise la ragazza, capendo che Roy aveva tutta l’intenzione di dare spettacolo.
“Sai di che parla?” le chiese Vato.
“Assolutamente no.”
“La prima volta che Vato Falman mi ha concesso l’onore della parola è stato per illuminare me ed altri poveri sventurati su come formare un gruppo… la prima testimonianza può entrare.”
E dopo qualche secondo arrivò Jean che, senza salutare nemmeno, si mise seduto al tavolo e guardando Elisa e Vato iniziò.
“Beh, sapete, per fare un gruppo è necessario un progetto a lungo termine… come dice il grande antropallogo TaldeiTali, è ovvio che grazie alla mia grande sapienza tutti voi scoprirete la bellezza delle materie sconosciute, non sia mai… oh, Jean Havoc, ma perché non vuoi capire? Eppure è tutto scritto nei libri!”
“Ma non è vero! – scoppiò a ridere Vato – Non ho mai fatto quella faccia! E si dice antropologo.”
“Chi sei tu? Orrida copia di me stesso! Cosa credi che non mi accorga che sei solo un falso? Lasciami parlare delle mie grandi materie… bla bla bla!”
“Dopo questo primo illuminante incontro – continuò Roy, recuperando l’attenzione dei due fidanzati, mentre anche Rosie entrava in salotto e si fermava ad osservare quello strano spettacolo – il mio grande uomo di pensiero mi ha fatto l’onore di invitarmi nel suo regno a farmi scoprire le meraviglie dei giochi di strategia… e credetemi, signori, conosce tutte le regole a memoria.”
Strizzò l’occhio ad Elisa e proprio in quel momento entrò Heymans con un grosso foglio di carta arrotolato sotto il braccio. Si portò davanti al divano e lo svolse nel pavimento, mostrando una mappa del Risiko disegnata frettolosamente con le matite colorate.
“Devo spiegare a tutti voi, poveri ignoranti, la regola scritta in piccolo piccolo piccolo nell’ultima pagina delle istruzioni… capite bene, è chiaro che non si può mettere il segnalino in un posto dove c’è già un altro avversario.”
“No, non è vero! – protestò ancora Vato – Abbiamo visto che quella regola non vale perché contraddice le altre… ma come fate a ricordarvi una cosa simile! E’ successo più di un mese fa!”
“Tu, eretico, come osi sostenere che le regole non valgono? Pensi che io, Vato Falman, non abbia passato tutta la notte a leggere le istruzioni del gioco?”
“L’ha fatto davvero: l’ha confessato.” fece Roy, rivolto ad Elisa.
“Sì è vero, ma non ho detto così… Heymans, sei uno scemo. E smettila di imitarmi in quel modo.”
“Ah, questa copia di me stesso. Come può ridere così!”
“Rideresti anche tu se ti vedessi.”
Ad Elisa uscivano le lacrime dagli occhi per le risate.
“Ma aspetta, mia dolce Elisa – fece Roy – sappiamo tutti che desideri ballare con lui… e sappiamo che nonostante la timidezza è un provetto ballerino… è che noi non ce ne siamo accorti, ma al ballo del primo dicembre avete fatto faville tu e lui.”
“Oh, Vato, guarda che bello: tutte queste persone che danzano! – fece Riza, entrando con aria emozionata – ti prego, balliamo pure noi!”
“Arrivo Riza! – esclamò Kain, seguendola – Cioè, Elisa! Ehm, mi concedi l’onore di questo ballo?”
E nonostante il cavaliere avesse le guance rosse e se la ridesse della grossa, cinse le braccia attorno alla vita della sua dama, a dire il vero più alta di lui e insieme iniziarono a girare attorno al tavolo.
“Ah, Ri…Elisa, sei la più bella. Ballerò sempre con te, guarda quanto sono bravo!”
“Oh sì, Vato, sei fantastico… altro che quell’idiota di Roy Mustang. Sempre a voler fare di testa sua.”
“Roy…” mormorò Vato sentendo quell’ultima frase.
“Aspetta – fece lui, mettendogli la mano sulla spalla – c’è un ultima cosa che dobbiamo scoprire di Vato Falman. Però miei signori, e qui vorrei la vostra attenzione, per una volta tanto il nostro eroe si sbagliava. La sua razionalità, la sua scienza, la sua grande mente geniale si dovettero arrendere ad una grande evidenza… e lo scoprì un nefasto giorno, quando venne chiamato ad investigare con i suoi fedeli amici alla stazione di polizia dove uno spettro malefico tormentava la gente.”
“Oh no, cavolo! Il fantasma ci divorerà tutti!” esclamò Kain, spaventato correndo affianco a Roy.
“Recitate le vostre preghiere, è la fine, lo so!” disse Jean in tono melodrammatico mettendosi in ginocchio, mentre Riza gli correva accanto e lo abbracciava con aria terrorizzata.
“E non è un cane! Questa volta è il fantasma!” fece Heymans.
“I fantasmi non esistono!” esclamò Vato, alzandosi in piedi.
“Ah no? – fece Roy con aria cospiratoria – E allora perché siamo tutti qui, comprese le ragazze, e tremiamo di paura? E la porta è ancora aperta…. Ehi, fantasma! Ti prego, mostrati a noi, non tenerci sulle spine!”
Uhhhh uuhhh!
Con quel verso, un fantasma con tanto di sudario bianco entrò nella stanza.
Era effettivamente strano per essere uno spettro: in primis era davvero piccolo di statura e poi sembrava sbandare ed inciampare sul suo stesso lenzuolo.
“Vedi che esiste? E si presenta anche alle quattro di pomeriggio! E’ proprio potente se può fare anche questo… e poi, eh… aspetta fantasma, stai per sbattere contro la poltr…”
“Ahia! Fratellone! Fratellone non ci vedo niente con questa cosa addosso… e poi soffoco!”
Il fantasma era caduto a terra e ora il suo terribile lenzuolo bianco si agitava furiosamente.
“L’avevo detto che non era affidabile come fantasma…” sospirò Jean, andando ad aiutare il particolarissimo spettro, liberandolo dal lenzuolo.
“Non ci vedevo niente!” protestò Janet, scollando la testa come un cucciolo.
“Beh, tralasciando questo piccolo imprevisto – fece Roy con imbarazzo – sappiate tutti che Vato Falman, ma qui mi riferisco a quello vero, è uno dei migliori amici che abbia e anche se i nostri caratteri sono così diversi, e a volte lui è estremamente rigido e compassato, a me importa tantissimo della nostra amicizia. Non è vero che non ti ascolto, Vato, è che ogni tanto non mi rendo conto che dovrei essere meno… stupido ed impulsivo. Allora, amici?”
Tese la mano e Vato la guardò con esitazione, accorgendosi che tutti aspettavano con ansia.
“E dai, Vato! – sospirò Roy con esasperazione – Mi sono reso ridicolo con tutta questa storia, coinvolgendo anche questi poveretti pur di farti tornare il buonumore… dammi almeno la giusta conclusione.”
“Roy Mustang, sei proprio folle.” esclamò Vato alzandosi in piedi e stringendo la mano con calore.
“Dimenticata quella storia?”
“No, è comunque una lezione. E’stata per la maggior parte colpa mia: ti ho caricato di colpe che nemmeno esistevano. Hai ragione nel dire che a volte sono troppo rigido…”
“Oh beh – arrossì lievemente Roy – direi che abbiamo dato abbastanza spettacolo, non credi?”
“Direi proprio di sì – sbuffò Jean – Allora, finita la fase idiota, adesso che ne pensate di festeggiare davvero? Altrimenti giuro che me ne vado per salvare la mia dignità residua.”
“Ma quale dignità – sogghignò Heymans – non ne hai mai avuta.”
“Ah, già – sospirò Roy – scusami ma mi sono permesso di invitare un fantasmino alla festa, ma non credo mangi troppo. Ehi, Janet, ti ricordi di Vato?”
“Auguri di buon compleanno!” sorrise la bambina andando vicino al festeggiato con un pacco in mano.
“Grazie, Janet.” sorrise Vato prendendo il regalo.
“Che fantasma adorabile – disse Elisa, prendendola in braccio – allora, Janet, vogliamo vedere che c’è in tavola?”
“Volentieri, tu sei Elisa, vero?”
Osservando le due che si allontanavano, i due litiganti del giorno prima si osservarono con calma.
“Sei folle, Roy Mustang, lo sapevi?” chiese Vato iniziando a scartare il regalo.
“Compenso te, amico mio, sei troppo razionale. Posso contare su di te per le prossime avventure?”
“Beh, direi proprio di sì, ma non al commissariato di polizia.”
“Promesso… quello che stai scartando è un regalo da parte di tutti noi. Spero che ti piaccia: è un libro un po’ particolare.”
“Non dovevate e…”
Roy nascose un sogghigno quando vide la faccia di Vato che aveva appena finito di scartare il pacco.
Storie di fantasmi? Roy, sei uno scemo!” scoppiò a ridere.

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Capitolo 32
*** Capitolo 31. Giornate di pioggia. Prima parte: fratelli maggiori. ***


Capitolo 31. Giornate di pioggia. Prima parte: fratelli maggiori.

 

Al contrario del clima tra Vato e Roy che si era notevolmente rischiarato, il tempo meteorologico era invece di pessimo umore e qualche giorno dopo si scatenò un forte temporale che annunciava l’arrivo in notevole anticipo delle piogge tipiche di quella stagione.
 
Janet era riuscita da poco a superare la sua paura dei temporali, o per lo meno era riuscita a venirci discretamente a patti. Se era già a letto e veniva svegliata dal tuono si raggomitolava sotto le coperte e serrava gli occhi, convinta che in quel nido sicuro quel rumore così brutto e forte sarebbe stato attutito: ed in genere la cosa funzionava.
Così, quando quella notte si svegliò per i primi tuoni, provvide immediatamente a mettersi completamente sotto le coperte.
E’ solo un temporale… non può farmi niente!
Sì ripeté mentalmente quelle parole, cercando di convincersi che finché stava lì non aveva niente da temere, ma all’improvviso si accorse che qualcosa non andava.
“Devo fare pipì…” mormorò, con sorpresa.
Questo sì che era un tremendo dilemma: il bagno si trovava in fondo al corridoio e questo voleva dire uscire dal suo nido protettivo, andare fuori dalla sua camera e percorrere tutto quel lungo tragitto in piena balia del temporale. E, paradossalmente, più pensava alle difficoltà di quel percorso, più l’urgenza si faceva sentire, quasi a farsi beffe di lei.
Alla fine, dopo alcuni minuti di indecisione, accorgendosi che i tuoni non erano più così forti e frequenti, si convinse a tentare la grande impresa e si arrischiò ad uscire dal suo letto. I suoi piedini scalzi toccarono il pavimento di legno e rabbrividì, immergendosi ancora di più nel suo pigiamino rosa.
A tentoni cercò la porta ed uscì dalla stanza, arrivando nel temuto corridoio che di notte faceva davvero paura.
“Non ci sono i fantasmi… non ci sono i fantasmi…”
Iniziò a ripetere quelle frasi quasi fossero un incantesimo per cacciare via eventuali spettri, ma il suo viso tradiva tutta la paura che provava. E sfortuna volle che, proprio in quel momento, i tuoni ed i fulmini tornassero a farsi sentire con prepotenza, manco fossero proprio dentro casa.
Con un singhiozzo si appiattì contro la parete, troppo terrorizzata per proseguire la sua andata verso il bagno. Tastando con la manina si accorse che era arrivata all’altezza della porta della stanza di Jean e con un sospiro di sollievo entrò.
Nel buio quasi inciampò contro qualcosa che suo fratello aveva lasciato per terra, ma riuscì a raggiungere il letto senza troppi danni. Mise le mani avanti cercando di individuare la sagoma di Jean, ma anche lui dormiva completamente immerso nelle coperte e dunque non si capiva molto della massa informe che andava a toccare.
“Fratellone…” chiamò, senza però ottenere risposta.
Dovette stringere le gambe perché proprio non riusciva più a trattenere.
“Jean, devo fare la pipì… per favore, mi accompagni?”
Le coperte si mossero lievemente e per un secondo Janet esultò, ma un mugugno appena udibile fece chiaramente capire che Jean non aveva nessuna intenzione di svegliarsi.
Proprio in quel momento ci fu un nuovo tuono e con un singhiozzo terrorizzato saltò sopra il letto, cercando affannosamente l’ingresso di quel rifugio di coperte ed entrandovi con disperazione. Una volta dentro si aggrappò al corpo di Jean e serrò gli occhi, sperando che il temporale andasse via.
D’istinto suo fratello, che le dava la schiena, si girò e la strinse a sé, come se fosse un pupazzo.
Quel contatto era così bello e rassicurante: ora Janet poteva sentire il suo respiro caldo sulla sua testa, le braccia che la stringevano… non si sarebbe mossa di lì per niente al mondo.
“Fratellone…” sorrise, appellicciandosi maggiormente a lui, mentre il sonno tornava a ripresentarsi.
Era così rilassata che nemmeno si accorse di aver smesso di trattenere.
 
Un forte tuono fece svegliare Jean nemmeno un’ora dopo.
Uh, temporale…
Non si degnò nemmeno di aprire del tutto gli occhi: prese coscienza del fatto e si apprestò a girarsi dall’altra parte e riprendere a dormire. Tuttavia si rese conto che c’era qualcosa di attaccato al suo petto e tastando meglio riconobbe i capelli morbidi e sciolti, la guancia paffuta, il braccio stretto a lui.
Oh, è venuta nel mio letto…
Non aveva voglia di pensarci: poteva tollerare la presenza di Janet nelle notti invernali. Sua sorella aveva la pregevole dote di diventare una piacevole palla calda ed inoltre tendeva a restare tranquilla nella medesima posizione, senza occupare tutto il materasso.
Con un sospiro soddisfatto, Jean decise giusto di spostarle leggermente la gamba in modo da potersi mettere più comodo. Per farlo fece scivolare delicatamente la mano verso il basso in modo da accompagnare il movimento e non disturbarla troppo e…
Che…? Che cos’è quest’umido?
Se prima aveva appena semiaperto gli occhi, in quel momento li spalancò di colpo mentre un tremendo sospetto si impossessava di lui. Scostò di colpo le coperte e con mosse affannose scavalcò il corpo della sorella, sentendo la parte inferiore della casacca e buona parte del davanti dei pantaloni del pigiama fradici.
“No… no – supplicò accendendo la luce – non dirmi che… Janet! Maledetta piscialletto!”
A quelle parole dette in tono decisamente alto, la bambina mormorò qualcosa e si girò supina, mostrando pienamente il disastro che aveva combinato.
“Io ti ammazzo, maledetta pulce! Svegliati!”
Iniziò a scrollarla con forza fino a quando la fece destare.
“Uh… fra…fratellone?”
“Guarda che hai fatto, razza di stupida!” la sgridò lui, non potendo credere che fosse successa una tragedia simile proprio nel suo letto. Perché non andava a bagnare quello dei loro genitori? Sempre da lui doveva venire a combinare disastri.
“Mi… mi dispiace – balbettò la bambina, sedendosi e rendendosi conto di quanto era successo – avevo paura ad andare a fare pipì da sola… e tu… tu non ti svegliavi… e poi… poi c’è stato il tuono forte!”
“Te lo do io il tuono, maledetta poppante!” e le diede uno schiaffo sulla nuca, facendola scoppiare a piangere all’istante.
“Sei cattivo!” singhiozzò portandosi i pugni agli occhi.
Ma Jean era fuori di sé dalla rabbia: il suo letto, il suo pigiama… fradici per colpa di quella stupida. Se gli altri lo venivano a sapere era la fine.
“Jean, che cosa succede?” chiese Angela entrando in camicia da notte.
“Che succede? Che succede? Quella stupida ha bagnato il mio letto ed il mio pigiama.”
“Mamma!” tese le braccia la bambina, sicura che la donna l’avrebbe presa in braccio senza sgridarla. Ed infatti Angela non si preoccupò minimamente del pigiama bagnato o del disastro che c’era nel letto e fu pronta a sollevarla e confortarla.
“Oh no, cucciola mia, che cosa è successo? Non è niente di grave, tesoro, non piangere…”
“Niente di grave? Ma mi vedi, mamma? Sono fradicio del suo piscio!”
Pipì, vero Jean? Volevi dire pipì… e non è il caso di farne un dramma. Prendi l’altro pigiama che hai nel cassetto e vai in bagno a lavarti e cambiarti. E sbrigati che poi devo pensare a tua sorella.”
Scuotendo il capo con incredula rassegnazione il ragazzo aprì con rabbia il cassetto e prese l’indumento.
“Domanda: – fece, quando aprì la porta – e dove dormo, dato che sua maestà mi ha bagnato tutto il letto?”
“Vai in camera nostra, va bene? Ci penso domani a sistemare tutto qui… è tardi.”
“Dormire con voi nel lettone? Ma siete matti? Ho quattordici anni, mica quattro!” inorridì lui.
“Il letto di Janet è troppo piccolo per te – sospirò Angela, camminando avanti e indietro nella stanza per cullare la bambina – da bravo, Jean, è notte fonda. Non creare problemi…”
“Io, eh?” sospirò lui, arrendendosi a quella soluzione.
Stupida sorella minore.
 
Una decina di ore dopo, Henry alzò per la sesta volta lo sguardo alla finestra e vide che la pioggia proprio non aveva intenzione di smettere: sapeva che era sciocco sperare una cosa simile, era chiaro che quel tempo sarebbe proseguito per diversi giorni, ma era davvero un peccato sprecare una domenica chiuso in casa.
Con un sospiro abbassò lo sguardo sul libro che aveva iniziato a leggere la sera prima: gli piaceva davvero tanto, ma era così depresso per il tempo che non riusciva a leggere tre righe di fila e stava ormai da tempo sulla stessa pagina.
Il suo udito acuto colse un rumore proveniente dal corridoio e sorrise: forse suo padre si era alzato ed era in una delle sue giornate buone. Magari sarebbe stato felice di passare del tempo con lui, era da almeno una settimana che non succedeva ed Henry sentiva la mancanza di qualcuno con cui poter condividere i suoi racconti: alla mamma non era il caso di dire determinate cose.
Aprì la porta e corse alle scale, in tempo per vedere suo padre che si metteva il cappotto.
Ma come? Esce con questo tempo… e di mattina?
Sua madre arrivò dalla cucina e sembrò che i due si scambiassero qualche parola, prima che lui, con un gesto seccato uscisse dalla porta, il rumore della pioggia che diventava per qualche secondo più forte prima di tornare attutito dalle pareti domestiche.
“Mamma – domandò, scendendo le scale – dov’è andato papà?”
“A quanto pare in paese sono arrivati alcuni suoi amici – disse la donna, portandosi indietro una ciocca di capelli rossi che era sfuggita dal fermaglio  dietro la nuca – e va a trovarli per qualche tempo.”
“Vuoi dire che non torna a casa?” chiese con ansia il ragazzino, accostandosi a lei e notando che gli occhi grigi erano volti a terra. A quella domanda Laura  sospirò e sorrise, inginocchiandosi accanto a lui.
“Ma no che torna, tesoro, non ti preoccupare.”
“Non devo?” mormorò, sentendo che c’era qualcosa che non andava.
“No, Henry, non devi. Tuo padre torna presto, fidati di me.”
Cercò di sorridere, di dimostrare a sua madre che era forte come lo poteva essere Heymans, ma scoprì che non era bravo quanto il fratello a reggere il gioco in quel modo. Così preferì svincolarsi dalla mano materna che gli accarezzava i capelli e salire di nuovo le scale, senza girarsi a guardarla.
Detestava quando in casa c’era quel clima depresso: avrebbe preferito di gran lunga uscire e correre sotto la pioggia piuttosto che stare in quel limbo, cercando di capire se suo padre sarebbe tornato o meno e se la prossima volta che lo vedeva sarebbe stato disposto a chiacchierare con lui o no.
Si appoggiò alla parete del corridoio, le mani dietro la schiena, e rimase a riflettere.
Sentiva che la situazione a casa stava cambiano e non riusciva a capire in che modo. Sapeva che suo padre alternava periodi buoni ad altri cattivi dove lui ne aveva paura, ma si era abituato a quei cambiamenti e tendeva a godersi i momenti positivi, preferendo dimenticare gli altri.
Ma adesso…
Era da qualche tempo che aveva questo sentore: era come se in casa ci fosse un nuovo tipo di tensione, qualcosa che aveva turbato il precario equilibrio a cui si erano più o meno abituati.
“Che ci fai qui fermo nel corridoio?” chiese Heymans uscendo da camera sua e notandolo.
“Papà è uscito.”
“Ah sì? Di mattina e con questo tempo? – la fronte del ragazzo si corrugò per la perplessità – E dov’è andato?”
“Mamma ha detto che ci sono alcuni suoi amici qui in paese e dunque starà con loro per un po’.”
Suo fratello stava sospirando di sollievo? Henry non lo seppe dire con certezza, ma se era così una parte di lui lo seguì in quel sentimento, anche se detestava ammetterlo.
“Heymans…”
“Che c’è?”
“Mamma è preoccupata, da diverso tempo è così. Tu parli di più con lei… che sta succedendo?”
Quelle parole fecero sussultare interiormente il maggiore: lui sapeva che stava succedendo? Forse quello che Andrew Fury aveva detto settimane prima: Gregor stava iniziando a vedere in lui un nuovo Henry e questo stava alterando i rapporti.
E forse mamma se ne sta rendendo conto ed è preoccupata…
Abbassò lo sguardo sul fratello minore: sfrontato, arrogante, ma dove finiva tutto questo quando si trovava imprigionato in una situazione troppo difficile da capire? L’aria era desolata, un po’ gli ricordava Vato quando gli aveva parlato dei suoi dubbi nell’amicizia con Roy e nel rapporto con suo padre.
“E’ preoccupata perché… – si fece forza prima di pronunciare quelle parole – pensa ancora al disastro che ho combinato a inizio gennaio con gli altri. Tu eri a dormire dai tuoi amici e non te l’ha detto: me le ha anche date con la spazzola.”
Ebbe la soddisfazione di vedere il viso del fratello che perdeva l’aria sconsolata e lo guardava con sorpresa. E come poteva essere il contrario? Lui era quello responsabile, anche troppo, quello che era sempre pronto a riprenderlo per qualsiasi cosa facesse… quella rivelazione era davvero fuori dall’ordinario.
“… non dimenticare quanti anni avete.” era questo che aveva detto Andrew Fury, del resto.
Tu le hai prese da mamma? – chiese Henry sbalordito – Con la spazzola? Che cosa diavolo hai combinato per meritare una cosa simile.”
“Una caccia al fantasma in piena notte alla stazione di polizia – disse il rosso mettendosi a braccia conserte e assumendo un’aria di offeso orgoglio – finita nel modo peggiore possibile.”
“Alla stazione di polizia? Una caccia al fantasma? – Henry si staccò dalla parete e lo guardò con occhi del tutto nuovo, come a dire ma allora anche tu sei umano – Per quella storia del poliziotto ucciso cento anni fa?”
“Sì, ma non era proprio…”
“Tu hai un sacco di cose da dirmi – esclamò Henry, afferrandolo per il braccio, gli occhi grigi che brillavano – come hai potuto tenermi nascosta una cosa simile? Dev’essere stato fantastico! Raccontami tutto, fino all’ultimo dettaglio, ti prego!”
“Ehi – sbottò Heymans liberandosi dalla presa e mettendogli l’indice in fronte – te lo racconto ma tu non ci devi nemmeno provare a fare una cosa simile. Chiaro?”
“Agli ordini, non ho certo voglia di prenderle con la spazzola. Forza, andiamo in camera tua: voglio sapere assolutamente come è fatta la stazione di polizia… e poi di notte! Non ti credevo capace di cose simili, davvero.”
“Nemmeno io…” sospirò Heymans.
Ma almeno adesso non sta più pensando a papà e a mamma.
 
Jean sapeva che nell’arco di un paio di giorni si sarebbe abituato a quel clima piovoso, ma sapeva anche che quel primo pomeriggio sarebbe dovuto venire a patti con la noia di non poter uscire di casa.
Così si era messo sdraiato supino sul tappeto di camera sua, osservando il mondo alla rovescia, in particolare la finestra con le gocce di pioggia che invece di scivolare verso il basso salivano. Era una cosa quasi ipnotica dopo un po’: c’era sempre qualche goccia più grossa che si faceva largo nei medesimi punti e…
“Fratellone…”
“Che vuoi?” chiese in tono annoiato, senza cambiare posizione. Ma non si sorprese quando Janet gli salì sulla pancia, usandolo come materasso.
“Oggi c’è tanta pioggia, mamma dice che non possiamo andare nemmeno in cortile. Dura tanto?”
“Sì, durerà tanto – ammise lui, prendendole una treccia e giocandoci distrattamente – dovresti saperlo ormai che ogni anno succede così tra febbraio e marzo.”
“Mi annoio, vuoi fare qualcosa con me?”
“Non ho voglia di fare niente, Janet – sbuffò lui, in piena apatia – questo tempo mi deprime.”
“Sei ancora arrabbiato perché ho bagnato il letto?” mormorò lei.
Il ragazzo non rispose immediatamente. Beh, aveva dovuto dormire nel lettone dei suoi con accanto Janet e si era svegliato stretto nell’abbraccio della sorella e in quello della madre, con sommo divertimento di suo padre. Fortunatamente adesso la sua camera era di nuovo agibile e lenzuola e pigiama sporchi erano finiti a mollo per cancellare quell’onta tremenda che aveva subito.
“Chiamami più forte la prossima volta: preferisco essere svegliato piuttosto che ritrovarmi simili sorprese.”
“Va bene… dai, adesso gioca con me. Ti va?”
“Se non gioco con te non la smetterai di seccare, vero? – sospirò lui, mettendosi a sedere, con Janet che abilmente seguiva i suoi movimenti e si spostava a cavalcioni sulle sue ginocchia – Allora, che vuoi fare? E non provare a proporre di giocare con le bambole.”
Janet ci rifletté a lungo: non si era aspettata che suo fratello si arrendesse così in fretta e che le concedesse di scegliere il gioco. Doveva proporre qualcosa di bello, in modo che lui fosse felice di partecipare: ora che non aveva compiti da fare e non usciva con Heymans aveva l’occasione di stare con lui per tanto tempo
“Mi insegni ad arrampicarmi sui mobili?” chiese infine con gli occhi che si illuminavano dall’aspettativa.
“Ma se l’altra volta sei caduta dagli scaffali del magazzino e sei piombata sui sacchi di zucchero…” sbuffò lui.
“Appunto, insegnami tu, fratellone… tu sei bravo a farlo, me lo racconti sempre.”
Il ragazzo la fissò dubbioso, chiedendosi se quello scricciolo avrebbe mai potuto raggiungere i suoi livelli di bravura. Non è che avesse le gambe forti come le sue e l’equilibrio lasciava un po’ a desiderare…
Però è pur sempre mia sorella, un minimo di predisposizione ce l’ha.
“Papà è in magazzino, vero?” chiese Jean con aria dubbiosa: quello sarebbe stato il luogo ideale per farla allenare e mostrarle le tecniche giuste. Ma ovviamente era una cosa che andava fatta totalmente di nascosto dai loro genitori.
“Sì…” ammise lei mogia, vedendo scomparire le sue speranze.
“Ma in camera tua c’è il mobile con i ripiani – fece lui con aria furba – andiamo, nana, vedrai che con i miei consigli arriverai sino in cima!”
Sì, ormai aveva deciso: sarebbe stato il suo passatempo della serata insegnare a Janet a fare un’arrampicata decente. Anzi a ben pensarci, era suo dovere di fratello maggiore farle da maestro in questa meravigliosa arte.
“Ecco qua, nana: ci sono cinque ripiani da scalare, forza e coraggio: il segreto dell’arrampicata perfetta è trovare il percorso giusto, ossia dove ci sono meno oggetti che ti possono dare fastidio. Col tempo si può aggiungere anche questo livello di difficoltà per dare più gusto alla sfida, ma dato che sei alle prime armi, direi che conviene che ti piazzi qui – e la portò davanti alla parte del mobile dove stavano meno oggetti – Pronta? Datti la spinta con le gambe e con le braccia e dimostrami cosa sei capace di fare.”
“Va bene!” esclamò lei con foga, rimboccandosi le maniche del maglione e posando le mani sul primo ripiano.
Jean si scostò da lei, arretrando di qualche passo e mettendosi a braccia conserte proprio come farebbe un istruttore militare davanti all’addestramento delle reclute.
“Continua così, coraggio – iniziò ad incitarla – evita di urtare gli oggetti con il piede: trova lo spazio giusto.”
Non se la cavava male, doveva ammetterlo, non per niente era sua sorella. Certo era ancora traballante e a volte sembrava esitare, ma aveva tutte le carte in regola per arrivare in cima.
“E’ alto…” mormorò lei arrivata al terzo ripiano.
“Forza, non guardare in basso. Non vorrai mollare proprio adesso, spero.”
Spronata da quelle parole la bambina tornò a guardare il ripiano successivo e allungò il braccio.
“Brava, continua così… sei in cima ormai, come arrivi vai a gattoni che lì non c’è niente che puoi urtare.”
“Jean… ho paura.”
“Che?”
“E’ alto, ho paura – si impanicò lei – vieni a prendermi.”
“Venire a prenderti? Ma come fai ad aver paura se è niente in confronto ai ripiani del magazzino. Sei proprio un caso disperato.”
“Non ce la faccio – balbettò la bambina affacciandosi dall’ultimo piano – vieni, ti prego.”
“Non posso: non regge il mio peso quella cosa, non più. No, no, no… non piangere che se arriva mamma sono guai seri sia per me che per te.”
“Voglio scendere…” le prime lacrime iniziarono a colare.
“Oh cazzo – sibilò Jean – va bene, facciamo così, lanciati che ti prendo al volo.”
“Eh? Da qui? No… no… Mamma!” iniziò a chiamare.
“Ssssh, cretina! – sibilò lui – se arriva mamma pensi che non te le suonerà per esserti arrampicata? Avanti, non aver paura: ti prendo io, fidati.”
“No, dai… provo a scendere – iniziò lei, girandosi e facendo sporgere la gambetta dal mobile – ma tu stai lì ad aiutarmi, eh?”
“Fidati – annuì il biondo tendendo le mani – avanti, inizia… sporgi di più che sei quasi arrivata al ripiano.”
Forse c’erano possibilità di farcela senza troppi drammi e senza che i loro genitori lo venissero a scoprire…
“Janet, tesoro – fece la voce di sua madre, mentre la porta si apriva – ti ho riportato il pigiamin… Janet!”
Quel richiamo fece perdere la presa alla bambina che con un urlo cadde. Con prontezza Jean la afferrò,ma il risultato concreto fu che entrambi caddero a terra, con il ragazzo a fare da materasso alla sorella.
“Ohi, ohi… che botta! – si lamentò, rimettendosi seduto – Ci sono danni?”
“No – ammise lei, scrollando la testolina – tutto bene… uh, dai, però è stato divertente!”
“Vero che è grandioso?” sorrise Jean.
“Divertente, eh? – esclamò Angela, chiudendo la porta alle sue spalle – Adesso sentiamo le risate mentre vi faccio il sedere bollente!”
“Che? – protestò il ragazzo, mentre la sorella si aggrappava a lui con aria terrorizzata – Janet oggi non fai altro che combinare disastri che coinvolgono anche me! Stupida poppante!”
 
Avere un fratello che continua a guardarti con occhi adoranti era qualcosa che Heymans non aveva mai sperimentato fino a quella mattina e non sapeva se esserne felice o meno. Il fatto che Henry fosse estasiato da quella bravata non era proprio un buon segnale e c’era da sperare che mantenesse fede alla promessa di non tentare alcuna emulazione in quel senso.
Però c’era un’innegabile soddisfazione nel vedere che per una volta tanto pendeva dalle sue labbra e non da quelle del padre. Probabilmente se gli avesse chiesto di saltellare con una gamba sola sul posto l’avrebbe fatto.
Eppure se mi avessero raccontato una bravata simile a me sarebbero cascate le braccia. Come può ammirarmi in questo modo sapendo che in realtà era un cagnolino e che è finita con quella punizione? Ci sono tutti i presupposti per prendermi in giro non per adorarmi.
Era forse questo uno dei grandi muri nel rapporto tra Heymans ed Henry: il primo era troppo imparziale nel giudicare le cose, persino per se stesso. Henry invece aveva un indole pronta a riconoscere il fascino di un’impresa, anche se era destinata a finire male. Sotto questo punto di vista assomigliava un po’ a Jean, con la sua esuberanza, anche se tendeva ad estremizzare questa caratteristica.
E dunque si era creato un divario abbastanza difficile da colmare: Henry diverse volte aveva cercato di vedere in Heymans qualcosa di spericolato a cui aggrapparsi, ma il maggiore non aveva mai offerto simili appigli, per lo meno in sua presenza.
Questo proprio perché Heymans se mai si concedeva strappi alla regola preferiva farlo lontano da Henry, in modo da fornirgli un buon esempio, al contrario del padre, e non influenzarlo negativamente.
E così se Jean non aveva problemi ad incoraggiare Janet ad arrampicarsi sugli scaffali, Heymans era invece pronto a fare l’esatto contrario.
Ma la rivelazione di quella folle notte alla stazione di polizia aveva smosso qualcosa nel minore dei Breda.
In situazioni normali avrebbe passato quella serata piovosa in camera sua a leggere, ma questa volta si sentiva così sovreccitato da voler stuzzicare il fratello per fargli fare qualcosa non da lui.
E a conti fatti era anche un’esigenza dettata dal non voler pensare troppo all’assenza del padre.
“Heymans…” iniziò entrando in camera del fratello e notando con soddisfazione che era chino alla scrivania.
“Mh?”
“Ti piace il blu?” chiese trattenendo una risata e portandosi dietro di lui.
“Il blu? Perc… no, ma cosa fai!?” esclamò mentre Henry gli rovesciava sulla testa una boccetta di inchiostro blu. Il rosso, anche se adesso i suoi capelli erano parzialmente colorati, si alzò dalla sedia e si portò una mano sulla testa, sentendo il liquido che gli colava sul collo e sulla fronte.
La sua espressione era così stupefatta che Henry non trattenne più le risate e rotolò sul pavimento, trattenendosi la pancia e scalciando.
“Pezzo di cretino! Adesso ti insegno io…”
“E prova a prendermi!” esclamò il ragazzino rialzandosi con grande rapidità e sgusciando fuori dalla portata del fratello maggiore.
“Oh, se ti prendo… se ti prendo!”
Fu questione di pochi istanti ed iniziò una spericolata gara tra i due, con Henry che se la rideva deliziato correndo ovunque in casa ed un furioso Heymans che lo inseguiva, lasciando gocce d’inchiostro blu dietro di lui, una curiosa variante della pista lasciata da Pollicino.
Ad un certo punto irruppero in cucina dove Laura stava preparano l’impasto per i famosi biscotti al cioccolato.
“Ehi! – esclamò sorpresa – Ragazzi che… Heymans ma che hai in testa?”
“Chiedilo a questo scemo!” sbottò lui, portandosi davanti al tavolo mentre Henry se ne stava beatamente dall’altra parte. Arrivò persino a fargli la linguaccia, sicuro di potersela cavare e si stava divertendo un mondo: era incredibile che Heymans si rivelasse un ottimo compagno di gioco.
“Dai ragazzi, non mi pare il caso di…” ma prima che Laura potesse proseguire la situazione di stallo si spezzò con Heymans che quasi saltò sopra il tavolo. Henry ne approfittò per fare il giro e correre in salotto.
Non seppe nemmeno lui per quanto corsero tra i mobili, ma alla fine cadde sul divano, mentre uno sfinito Heymans finalmente lo raggiungeva.
“Stupido ragazzino! – esclamò con il fiatone, andandogli addosso – ti piace il blu? Pitturati anche tu la faccia, allora!” e passandosi le mani sui capelli, le mise sulle guance e sulla fronte di Henry, lasciando notevoli tracce di pittura.
Si fermò a guardare compiaciuto quella piccola vendetta, ma dopo qualche secondo iniziò a ridere.
“Che hai?” gli chiese Henry.
“Dovresti guardarti allo specchio!”
“Perché tu no? Sembri un pappagallo con quei capelli rossi e blu.”
“E tu un indiano.”
Si guardarono per un istante in completo silenzio e poi scoppiarono a ridere come mai era successo.
Heymans si lasciò completamente andare a quel gioco con il fratello, dimenticandosi della maturità, del padre, di tutti i problemi: si godette pienamente, forse per la prima volta, la compagnia esuberante di Henry. Non importava se si stavano impiastricciando entrambi con le mani sporche d’inchiostro, ridendo come degli stupidi, era un qualcosa che lo faceva sentire bene in un modo nuovo ed incredibile.
Laura dalla cucina sentì tutta quell’ilarità e riuscì a rasserenarsi: non le sembrava vero che la casa risuonasse in quel modo delle risate di entrambi i suoi figli. L’uscita di Gregor, quella mattina, l’aveva messa in notevole difficoltà: vederlo andare via senza sapere quando sarebbe tornato aveva fatto vacillare l’equilibrio che aveva creato con quel marito così particolare.
Sì, aveva paura che le cose stessero per cambiare, che tutto quello che era riuscita a costruire in anni ed anni di sacrifici stesse per essere messo a dura prova. E la cosa più spaventosa era che i ragazzi sarebbero stati travolti in pieno da quei cambiamenti, sebbene in modo diverso: era Henry quello che la preoccupava maggiormente, perché sapeva che era lui il figlio di Gregor.
Ma forse, se riesce a trovare un equilibrio con Heymans ce la potrà fare anche lui. Henry, fratello mio, ti prego in qualche modo cerca di vegliare su di loro…
 
Jean finì di mettersi il pigiama e si buttò nel letto (dopo aver controllato che non ci fosse più nessun odore): finalmente quella giornata iniziata male e finita peggio era agli ultimi atti. Grazie al cielo era andata meglio del previsto per lui: sua madre si era arrabbiata di più con Janet, fatto strano ma possibile nell’assurda realtà di casa sua. E per fortuna suo padre non aveva agito in merito a quella questione, anzi ci aveva persino riso sopra a cena.
“Stupida nana, a volte è davvero un inferno averla in mezzo alle scatole.”
Si mise sotto le coperte, sentendo come il temporale non accennasse a diminuire: pazienza, non avrebbe avuto problemi ad addormentarsi. Sperava solo che il giorno successivo la pioggia concedesse un minimo di tregua per prendere una boccata d’aria in cortile.
Confidando in quella piccola grazia chiuse gli occhi, ma al contrario delle altre volte non si addormentò immediatamente: continuò a rigirarsi alla ricerca della posizione giusta, ma non c’era niente da fare.
Oh, andiamo… non vorrai scendere a questi livelli, Jean Havoc.
Rimase per qualche minuto a ripetersi che non era assolutamente il caso di fare una cosa simile. Ma quando mai doveva?
Però sembrava che il non riuscire a dormire fosse un chiaro segnale.
Con un sospirò si alzò dal letto e arruffandosi i capelli uscì dalla stanza per andare in quella della sorella.
“Ehi, nana, stai dormendo?” chiese accendendo la luce e sedendosi accanto al cumulo di coperte.
Gli rispose un movimento che, ad interpretarlo bene, assomigliava ad un “no”.
“E dai, mamma ti ha sculacciato è vero, ma è successo ore fa… perché devi essere così scema da tenere sempre il broncio, eh?”
Il cumulo di coperte si mosse e rinculò contro l’angolo opposto del letto.
Jean sospirò: forse avrebbe potuto difenderla maggiormente, in fondo lui aveva approvato a piene mani l’idea dell’arrampicata… anche se a dirlo a posteriori era sempre facile.
“Va bene, vediamo che possiamo fare – afferrò il cumulo informe ed iniziò a cercare il bandolo – che ne dici di uscire fuori da qui?”
Finalmente Janet spuntò fuori da quelle coperte, il viso chino in parte nascosto dai lunghi capelli sciolti. Non era offesa con lui, solo con il mondo in generale.
“Senti, perché non…”
La frase fu interrotta da un tuono e in men che non si dica si trovò la sorella catapultata sul suo petto.
“E’ solo un tuono, stupida: ha piovuto tutto il giorno, perché solo di notte ne hai paura?”
“Perché sì!” disse lei, parlando per la prima volta.
“Vuoi dormire nel mio letto?” propose, accarezzandole i capelli.
Finalmente lei alzò il viso e lo guardò con occhi supplicanti.
“Posso?”
“Andiamo.” sorrise Jean, prendendola in braccio e avviandosi fuori dalla stanza.
“Non voglio nessun altro fratellone – dichiarò lei abbracciandolo – voglio solo te. E tu, Jean? Vorrai sempre me come sorellina?”
“Ma che domande fai? – sbottò lui – Dopo che ti ho insegnato ad arrampicarti decentemente pensi che butterei via così un simile risultato? Certo che mi tengo te come sorellina, immagina il fastidio di dover riniziare tutto daccapo.”
Mise la mano sulla maniglia quando gli vene un orrendo dubbio esistenziale.
“Sei andata in bagno, vero?”
Perché per le sorelle si era disposti a tutto, doveva ammetterlo, ma c’erano determinati limiti.

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Capitolo 33
*** Capitolo 32. Giornate di pioggia. Seconda parte: madri e figli. ***


Capitolo 32. Giornate di pioggia. Seconda parte: madri e figli.

 

Kain venne svegliato da alcuni rumori al piano di sotto. Per qualche secondo pensò che sua madre lo stesse per chiamare per la colazione, ma aprendo gli occhi scoprì che la stanza era ancora buia, senza quel piccolo chiarore che annunciava che fuori era giorno.
E’ anche vero che con questo cielo coperto a volte il buio dura più del previsto.
Non poteva nemmeno fare affidamento su se stesso perché era da ormai dieci giorni che la scuola era chiusa per quel tempo e dunque aveva perso in parte l’abitudine di svegliarsi alla stessa ora. Sentendo di nuovo rumori e la voce dei suoi genitori, allungò una mano fuori dalle coperte e cercò a tentoni gli occhiali che stavano sulla sedia accanto al letto.
Si stropicciò gli occhi prima di indossarli e con uno sbadiglio uscì fuori dalle coperte: sicuramente era quasi ora di alzarsi e dunque tanto valeva iniziare a scendere. Rabbrividì a quell’aria fresca e desiderò andare immediatamente giù a raggomitolarsi nel divano davanti al fuoco, aspettando che la mamma finisse di riscaldare il latte.
Uscì nel corridoio arruffandosi i capelli e rifletté su come avrebbe potuto impiegare il tempo quel giorno, ma quando arrivò al pianerottolo sentì i suoi genitori parlare:
“Allora io vado: potrei fare tardi, quindi non aspettarmi alzata.”
“Mi raccomando, Andrew, fai attenzione, promettimelo.”
“Ehi, Ellie, torno, stai tranquilla: è solo un sopralluogo più a monte. Non c’è niente di pericoloso, fidati.”
“Con tutta questa pioggia…”
“Ssssh, amore mio…”
Il tono agitato di sua madre ebbe il potere di destarlo del tutto e si affrettò a scendere le scale.
“Papà, dove vai con questo tempo?”
Andrew ed Ellie erano davanti alla porta, lui con addosso un impermeabile ed una sacca sulle spalle. Sua madre invece indossava il solito caldo vestito azzurro, ma la sua mano tormentava uno dei legacci dell’indumento del marito. Come videro il bambino Ellie tirò un profondo respiro, come per farsi forza, mentre Andrew lo prese in braccio.
“Vieni, ragazzino, sei scalzo e prendi freddo. Allora, devo andare a fare dei controlli con altre persone per preparaci meglio alla piena: quest’anno arriverà con anticipo considerata l’intensità della pioggia.”
“Oh, – il bambino intercettò lo sguardo preoccupato della madre e capì che il posto dove stava andando non era molto sicuro – ma farai attenzione, vero papà?”
“Ma sì, Kain – sorrise Andrew – faccio attenzione, promesso. E poi nel gruppo c’è anche il capitano Falman, non credi che sia in una botte di ferro con uno in gamba come lui? Nel frattempo ti affido un compito molto importante: prenditi cura della mamma, lo vedi come è preoccupata?”
“Mh, ci penso io a lei – promise il bambino solennemente – fidati di me.”
“Bravo, piccolo mio. Ehi, meraviglia – sorrise rivolgendosi ad Ellie – lo sai che torno sempre da te, no? Ci vediamo dopo.”
“Va bene – annuì lei, facendosi abbracciare con Kain che stava in mezzo a loro – a dopo, amore mio.”
“Dai, piccolo, adesso passa in braccio a tua madre. E prenditi cura di lei.”
Vedendo il padre che si allontanava da casa con quel brutto tempo, Kain si sentì particolarmente stranito: persino la scuola era chiusa per quella situazione meteorologica e non gli piaceva che se ne andasse in posti pericolosi. Ma era anche vero che era stato lui a progettare il rinforzo dell’argine del fiume e dunque era necessario che si rendesse conto della situazione: era sempre stato molto professionale e preciso, attento anche a questi particolari.
Mentre pensava queste cose, sua madre se lo sistemò meglio tra le braccia.
“Scusa se ti abbiamo svegliato, pulcino: perché non torni a dormire? E’ presto, tanto presto… albeggia appena.”
Ma Kain era completamente desto considerata la situazione che si era venuta a creare.
“Ho promesso a papà che mi sarei preso cura di te, mamma – dichiarò – se torno a letto non lo posso fare. Non ti preoccupare, andrà tutto bene e lui torna presto, l’ha promesso.”
Ellie sorrise con dolcezza baciandogli i capelli arruffati.
“Hai ragione, amore mio, papà l’ha promesso.”
Sentendo con che urgenza la madre lo stringeva, Kain capì che quella giornata doveva assolutamente darsi da fare per lei.
Tranquilla mamma, penso io a te.
 
“Bene, l’appuntamento con la squadra è tra dieci minuti – fece Vincent – sarà meglio che vada.”
“Cerca di non prendere troppo freddo è non correre rischi.”
“Ma quando mai.” sorrise il capitano, mentre Rosie gli sistemava l’impermeabile.
Vato spuntò con la matita l’ultima voce dall’elenco e annuì soddisfatto, chiudendo lo zaino.
“C’è tutto, papà, ho controllato personalmente.”
“E’ da ieri pomeriggio che fai quella lista, tesoro – sospirò Rosie – potevi lasciarla nel tavolo e ci avremmo pensato io e tuo padre senza che tu ti alzassi così presto.”
“Che? Scherzi, mamma? – fece lui, profondamente offeso – Devo sovrintendere a queste cose personalmente: e se all’improvviso mi veniva in mente qualcosa che mancava ed era di fondamentale importanza?”
“Tuo padre torna in serata, mica sta andando a scalare i monti di Briggs.”
“Meglio essere prudenti.”
Vincent sorrise nel vedere l’impegno messo dal figlio per quell’incarico che si era assunto di sua spontanea iniziativa. Era chiaro che si sarebbe voluto unire pure lui alla spedizione, ma non l’aveva nemmeno chiesto, perfettamente consapevole che non era una scampagnata. Tuttavia aveva deciso che per quanto possibile si sarebbe resto utile e Vincent aveva voluto assecondarlo, capendo quanto fosse importante per lui.
“Allora ci vediamo più tardi – annuì, baciando la moglie sulla guancia e arruffando i capelli del figlio – non preoccupatevi.”
“Tranquillo papà, alla mamma ci penso io.”
“Proprio quello che volevo sentire.”
Come la porta si chiuse Vato sentì che per quella giornata tutta la responsabilità della casa e di sua madre sarebbe gravata sulle sue spalle: non era come quando suo padre era assente per il solito lavoro. Questa volta stava andando più lontano del previsto e in condizioni non proprio facili: ovviamente si sentiva preoccupato, ma era sicuro che se la sarebbe cavata e avrebbe protetto anche il padre di Kain.
E se io sono un po’ in ansia, figuriamoci la mamma…ma a lei ci penso io.
“Tranquilla, mamma, – fece, voltandosi verso di lei – puoi fare completo affidamento su di me per oggi.”
“Non vuoi tornare a letto? – chiese Rosie sorpresa – Guarda che sono appena le sei e un quarto.”
“No, stai tranquilla – scosse il capo, anche se effettivamente l’idea di stare sotto le coperte considerato il freddo era allettante: ma per lei si sarebbe sacrificato – non ho sonno.”
“Sei sicuro? Io un’altra oretta me la concederei volentieri…”
“Che?” si sbalordì il ragazzo.
Come puoi rimetterti a dormire sapendo che papà sta andando in una spedizione così pericolosa?
Il suo pensiero doveva essere palesato nel viso, perché Rosie si sistemò meglio la pesante vestaglia ridacchiando lievemente.
“Tesoro, – gli disse, accarezzandogli i capelli – papà ha tutto sotto controllo, fidati. E poi prima di due ore non saranno in posti pericolosi. Stai tranquillo, non è il caso di prepararti alla guerra, va bene?”
“Se lo dici tu. Però io non credo che…”
“Lo dico io, Vato Falman – dichiarò Rosie, mettendogli l’indice sulla punta del naso – e ti conviene seguire il mio consiglio e tornare a letto: tanto io prima di un’ora non ho intenzione di preparare la colazione, capito? Buon riposo, tesoro.” lo salutò, avviandosi verso la camera matrimoniale.
E Vato rimase a guardare incredulo la porta che si chiudeva con tanta insensibilità.
Aveva promesso a suo padre che avrebbe pensato a tutto lui, ma non si era aspettato un inizio simile.
“Primo punto per te, mamma – sospirò, rassegnandosi a tornare a letto – ma la giornata è lunga e a te ci penserò io, che ti piaccia o meno!”
 
Una quindicina di minuti dopo, mentre il resto del paese cominciava a svegliarsi, la squadra di cinque persone iniziò a muoversi per andare verso la parte alta del fiume. Considerate le condizioni non proprio favorevoli avrebbero proceduto con relativa lentezza e dunque quello che in occasioni normali si sarebbe fatto in quattro ore, qui ne avrebbe richiesto come minimo il doppio.
“Torneremo fradici in ogni caso – commentò Vincent, sistemandosi meglio l’impermeabile – adesso piove poco, ma a breve peggiorerà.”
“Concordo – fece Andrew, camminando affianco a lui – e questo mi preoccupa: è ormai da sette giorni di fila che concede solo poche ore di tregua: sarò sincero, quest’anno credo che oltre alla piena ci saranno anche delle frane a monte e questo potrebbe creare davvero parecchi problemi.”
“Se è così dobbiamo assolutamente andare a controllare fino al passo ad ovest: ci accorgeremo subito di possibili cedimenti… se cade lì va dritto nel fiume.”
“Sì, non possiamo fare a meno di controllare – ammise Andrew preoccupato: non c’era stato tempo di consolidare così tanto la sicurezza del fiume. Un conto era una piena normale, ma la massa di detriti portati da una frana costituiva un carico molto maggiore – in ogni caso bisogna provvedere già da domani a rafforzare tutto con sacchi di sabbia.”
“Ho già dato ordine ad uno dei miei uomini di iniziare a predisporre già da oggi: tutta la popolazione sarà allertata. Prepariamoci Andrew, ho paura che a questo giro saremo messi a dura prova.”
“Probabile. Beh, almeno mia moglie e mio figlio sono a casa al caldo e al sicuro.”
“Capisco bene cosa intendi, anche se da me erano entrambi preoccupati.”
“Anche Ellie e Kain, ma sono sicuro che il bambino sarà in grado di confortare la madre.”
“Da me sarà tutto da vedere.” sorrise enigmatico Vincent, conoscendo bene i suoi polli.
 
Andrew non aveva avuto alcuna esitazione nel sostenere che la parte del conforto sarebbe toccata maggiormente a Kain. Ellie era una donna fantastica che aveva dimostrato una volontà incredibile in tantissime occasioni, tuttavia accanto a questa forza conviveva una grande apprensione: un po’ paradossale come concetto, ma Andrew era convinto che niente in sua moglie fosse ordinario.
Ellie era semplicemente così: poteva lottare per quattro anni per tenere in vita il figlio e poi cadere nel panico più totale se Kain andava in bici con Roy. E dunque era normale che entrasse in crisi sapendo che quel giorno lui avrebbe fatto qualcosa fuori dall’ordinario lavoro al cantiere.
Anche Kain era in parte consapevole di questa caratteristica di sua madre e dunque aveva deciso di improntare la sua giornata su di lei, annullando completamente la sua preoccupazione per il padre.
“Tieni, pulcino, bevi il tuo latte.”
“Grazie, mamma.” sorrise, prendendo la tazza e soffiandoci sopra prima di bere i primi sorsi.
Ellie gli si sedette accanto, ma non mise mano alla colazione che aveva davanti: continuava a tormentarsi il grembiule e a tenere lo sguardo basso.
“Mamma…”
“Sì?”
Il bambino prese il pentolino di latte ancora caldo che stava sopra un sostegno nel tavolo e ne versò sulla tazza ancora vuota della donna. Poi afferrò il barattolo di miele e ne mise alcuni cucchiai nel liquido caldo, provvedendo a mischiare con cura.
“Colazione per te – sorrise con orgoglio passandole la tazza – mi prepari sempre tutto quanto, mi sembrava carino per una volta pensarci io. Ti va di berlo?”
Ovviamente davanti ad un gesto del genere da parte del figlio, Ellie si smosse da quell’ansia che la tormentava e lo accontentò bevendo tutto il contenuto della tazza. Vedendo che era un momento buono il bambino provvide anche a prepararle alcune fette di pane imburrato e si assicurò che le mangiasse.
“Ehi, pulcino – mormorò Ellie, quando si alzarono entrambi dal tavolo – pensi che non abbia capito che oggi vuoi fare l’ometto di casa?”
“Perché, ti dispiace?”
“No, tutto sommato direi di no. E dimmi, che grandi progetti hai in mente?”
“Di aiutarti in tutto e per tutto: chiedi e io farò, mamma. Oggi non esistono le radio, esisti solo tu.”
“Oh, quale grande onore. Allora che ne dici, cavalier servente, ti va di aiutarmi a sparecchiare?”
“Certamente, mamma… e dopo ti aiuto anche a rifare le stanze.”
“Sono emozionata, allora potremmo anche rimettere bene in ordine la tua questo pomeriggio, che ne dici?” colse al volo l’occasione.
Kain sbiancò a quella richiesta: questo voleva dire che sua madre aveva intenzioni bellicose di buttare qualcosa che magari lui considerava preziosissima, senza contare che aveva alcuni amici del mondo degli insetti tenuti al caldo in una scatoletta… e quell’altro…
“Sì, va bene – acconsentì – ma forse conviene che determinate cose le faccia io.”
“Lombrichi come l’altra volta?” chiese Ellie sospettosa.
“No – fece lui con imbarazzo, ricordandosi l’urlo di sua madre quando per errore aveva urtato la scatoletta sulla scrivania – non lombrichi… altri tipi di, uh, animale…”
“Kain Fury…” iniziò Ellie.
“Mh… ecco, li conosci bene e non sono pericolosi. Di notte sono anche simpatici con il loro canto, se ci pensi bene e…”
Grilli? – inorridì la donna, sgranando gli occhi scuri – Hai portato degli schifosissimi grilli in camera?”
“Poverini, con questo tempo avevano freddo…”
“Finiamo di lavare queste stoviglie, rifacciamo il letto matrimoniale e poi andiamo immediatamente a liberare la tua stanza dall’invasione di insetti, sono stata chiara?”
“Va bene…” annuì lui.
Non aveva ancora avuto il coraggio di dirle del suo amico Arturo…
Speriamo che non le faccia troppo schifo.
 
“Ma porc… ahia! Brucia! Brucia!”
Vato quasi fece cadere il pentolino che aveva afferrato con tutto il suo strano contenuto. Corse al lavandino e aprì l’acqua, mettendovi immediatamente la mano e sospirando di sollievo.
“Vato, che è questo rumore? Oh, oh cavolo!”
Rosie restò interdetta quando, entrata in cucina, trovò i fornelli ridotti ad un disastro e metà tavolo coperto di strani impasti. Per non parlare del figlio che stava con la mano sotto l’acqua con una faccia chiaramente dolorante e a poca distanza da lui un pentolino che ribolliva e schiumava.
“Ti stavo preparando la colazione…” disse lui guardandosi la mano.
“O stavi tentando di far esplodere casa? – chiese Rosie andando a spegnere il fornello sotto il pentolino – Accidenti a me che ho dormito più del previsto: sono quasi le nove. Uh, e nei tuoi progetti che doveva essere questo ammasso giallastro?”
“Crema… ho seguito tutte le istruzioni del tuo ricettario, ma non è andata.”
“Siamo ambiziosi, eh? E’ completamente impazzita, non c’è nulla da fare… fai vedere quella mano.”
“Non è niente – arrossì il ragazzo, porgendo la parte lesa – è solo una scottatura.”
Rosie si mise una mano in fronte: aveva capito che la giornata sarebbe stata veramente difficile. Vato era sempre stato molto tranquillo, ma sembrava che a quel giro fosse determinato a fare tutto lui e per un ragazzo che di lavori domestici non ci capiva niente non era proprio facile.
“Vado a prendere una crema lenitiva, torno subito…” sospirò.
“Mh…”
Il ragazzo abbassò il capo: i suoi ambiziosi progetti stavano andando decisamente male. Non solo non era riuscito a preparare uno straccio di colazione per sua madre (va bene, forse aveva esagerato nel voler fare tutti i suoi piatti preferiti, quando si sarebbe potuto limitare al solito caffellatte con pane burro e marmellata), ma aveva appena fatto la figura dell’inetto.
Cavolo come pulsa questa maledetta bruciatura.
“Tesoro – fece Rosie, tornando e sedendosi su una sedia – che cosa hai mente di fare?”
“Volevo solo preparati la colazione – ripeté lui, mentre le dita della donna gli mettevano il medicamento sul palmo della mano – non volevo che ti preoccupassi per queste cose, almeno per oggi.”
“Per via dell’assenza di tuo padre?”
“E’ così stupido da parte mia volermi prendere cura di te? Capisco la follia di pretendere una cosa simile a cinque anni, ma a diciassette dovrei esserne in grado, non credi?”
Quella confessione detta in tono triste fece commuovere Rosie.
“No, non è stupido, fiocco di neve. Ma tu ti prendi già cura di me, lo sai bene, anche senza cimentarti in queste grandi imprese culinarie. Non sono sola ad aspettare tuo padre, mi basta questo… mi basta vederti seduto davanti al fuoco a leggere come fai sempre, capisci? Non servono grandi dimostrazioni.”
“Mi sento inutile – ammise lui – sarei voluto andare con papà, ma non era nemmeno il caso di chiederlo. Volevo almeno dimostrargli che sapevo badare a te…”
“Beh, la buona volontà non ti manca – constatò Rosie guardando la cucina disastrata – ma decisamente ti manca un briciolo di esperienza per preparare una crema decente. Come va la mano?”
“Meglio, grazie.”
“Allora rimetti a posto questo disastro mentre io vado a cambiarmi – ordinò lei alzandosi – come torno vediamo di cucinare una colazione come si deve. Iniziamo a renderti autosufficiente per queste cose: altrimenti quando ti sposi, Elisa si lamenterà che non sai fare niente.”
“Va ben… che? Mamma ma che stai dicendo? Non ho mai parlato di matrimonio… e non mi pare che…”
“Sbrigati, altrimenti arriviamo direttamente all’ora di pranzo!”
Vato sospirò osservando il disastro che gli toccava pulire: prima non gli era sembrato di proporzioni così mastodontiche. Ma per lo meno aveva raggiunto il suo scopo: aveva distratto sua madre dall’assenza di suo padre e per le prossime ore sarebbe stata impegnata.
Beh, dai, una bruciatura alla mano: me la sono cavata con poco… però, a conti fatti mi sembra che sia lei a prendersi cura di me e non viceversa.
 
“Ma quello è un rospo!”
“Che? Oh no! E’ uscito dalla scatola… mamma, non ti spaventare, non…”
“Kain Fury tu hai portato a casa un rospo!” Ellie rinculò fino all’angolo mentre l’anfibio sembrava averla presa in simpatia e saltava allegramente verso di lei. Ma prima che potesse fare gli ultimi metri, le mani del bambino lo presero da dietro e lo sollevarono.
“Mamma lui è Arturo, non lo trovi simpatico?” chiese, mentre il rospo gracidava in segno di saluto.
“Arturo? Gli hai anche dato un nome! Ma con che coraggio lo porti a casa?”
“Ma no, dai, è carino… lo vuoi vedere da vicino?”
“Tienilo lontano da me!”
Kain sospirò: no, nemmeno i rospi rientravano nelle categorie di animali che sua madre tollerava. Eppure Arturo era un esemplare particolarmente simpatico: si poteva dire che avevano fatto amicizia. Con attenzione lo riadagiò sulla scatola che chiuse con il coperchio traforato: sapeva benissimo come sarebbe andata a finire, ossia che avrebbe dovuto liberare il rospo nel cortile non appena smetteva un poco di piovere.
Quest’idea di fare le pulizie per assecondarla non è stata proprio buona.
“Suvvia, mamma – tentò di rabbonirla – lo sai cosa succede nelle favole, no? La principessa bacia il ranocchio e questo si trasforma in un principe.”
“Una variante interessante della favola è che il principino prenderà una bella sculacciata dalla principessa se non la smette con questi ospiti a sorpresa – disse Ellie, seccata, recuperando un po’ di dignità – altri animali di cui devo venire a conoscenza?”
“No, solo i grilli e Arturo.”
“Bene, allora adesso ti metti l’impermeabile: esci in cortile e liberi questa fauna, mi sono spiegata?” disse in tono arrabbiato, tanto che Kain fece una faccia davvero mogia.
“Va bene, mamma…”
Come il bambino uscì per compiere il suo dovere, Ellie si guardò intorno con preoccupazione, aspettando di veder comparire all’improvviso altre bestie. Si sedette nel letto cercando di controllare i battiti del cuore che aumentavano a dismisura ogni volta che trovava qualche ospite in camera del figlio.
Man mano che si calmava si rendeva conto che forse aveva sbagliato ad essere così dura nei suoi confronti: non era proprio la giornata giusta per simili rimproveri, senza considerate che anche lui doveva essere molto preoccupato per Andrew, nonostante facesse di tutto per nasconderlo.
Con un sospiro si alzò dal letto e andò alla scrivania, prendendo distrattamente in mano un quaderno: quando lo aprì fu sorpresa di riconoscere la scrittura di suo marito e si ricordò di quel particolare regalo che Andrew aveva fatto al figlio.
“Ecco fatto, mamma – annunciò Kain, tornando nella camera e levandosi l’impermeabile gocciolante – li ho liberati tutti quanti fuori dal cortile, come mi hai chiesto. Oh… quello è il quaderno di papà.”
“Adoravo sfogliarlo, sai? – sorrise lei – Quando tornava dall’Università a volte ci sedevamo in un prato e passavo un sacco di tempo a guardare questi disegni: mi immaginavo sempre di essere con lui a vedere questi edifici così belli. Ed in cambio facevo leggere a lui i miei quaderni di racconti.”
“Quelli che mi raccontavi quando ero piccolo? Erano fantastici, mamma, non credo di aver mai letto favole più belle in qualche libro.”
“Oh, erano l’orgoglio e la vergogna della mia adolescenza: solo Andrew e una mia amica li avevano letti. Anzi, la mia amica qualcuno, ma tuo padre li volle leggere tutti.”
Kain la vide sospirare con una leggera malinconia e capì che la situazione gli stava sfuggendo di mano: la sua mente iniziò a lavorare freneticamente per trovare un modo di distrarla. Ricollegandosi a quelle storie meravigliose, si portò accanto a lei e le tirò una manica.
“Mamma, guarda – sorrise, mettendosi le mani sopra la testa e muovendole come se fossero delle orecchie – sono il coniglietto Oscar! Ti ricordi? Quello che viveva nel prato con i fiori arcobaleno ed un giorno decise di andare in città.”
A quella buffa imitazione, identica a quella che faceva a quattro anni, Ellie scoppiò a ridere e si ritrovò ad abbracciarlo.
“Oh, il mio bellissimo coniglietto – mormorò dandogli un bacio sul naso – era da tanto che non lo facevi.”
“Dai, mamma, lasciamo stare la mia camera – propose Kain – perché invece non mi racconti le tue favole, eh? Magari recuperiamo anche i tuoi quaderni, scommetto che alcune non me le ricordo: ti chiedevo sempre di raccontare le stesse. Oppure ne inventiamo qualcuna nuova, mh?”
“E va bene, mio piccolo coniglietto – cedette la donna, prendendolo in braccio – vediamo di ritirare fuori dal cassetto tutti i nostri personaggi preferiti e di inventarcene di nuovi.”
Con un sorriso soddisfatto il bambino si strinse al collo della madre: aveva ottenuto un ottimo risultato in quanto non solo aveva trovato il modo di prendersi cura di lei, ma ci guadagnava pure.
Favole… io amo le favole!
 
“Beh, l’aspetto non è dei migliori, ma non farti scoraggiare, suvvia.”
“No, non va bene: ho seguito tutte le indicazioni, con te a controllare ogni mia mossa, ma il risultato non è assolutamente buono. Insomma, guarda la figura nel ricettario: è totalmente diversa.”
“Vato, non cercare il confronto con quella figura: così non ti esce manco fra mille anni.”
“Grazie per la fiducia…”
“Tesoro, non sei proprio tagliato per fare il cuoco, mi sa. Però questa torta non ucciderà nessuno, fidati.”
Vato fissò dubbioso quella torta bruciacchiata e piena di imperfezioni.
Il risultato di quella serata passata con la madre era stato un’impietosa lezione di cucina in cui si era reso conto dei sui grossi limiti come cuoco. L’unica cosa che probabilmente avrebbe preparato senza troppi problemi sarebbe sempre e solo stato il panino con affettati o con la marmellata. Per il resto, decisamente non c’era speranza e, come aveva commentato sua madre, era un bene che Elisa se la cavasse egregiamente ai fornelli.
“Dici che sarà commestibile?”
“Perché non vai da Elisa e non gliela fai assaggiare? – propose Rosie, guardando alla finestra – C’è finalmente un po’ di tregua con questa pioggia ed è da almeno tre giorni che non vi vedete. Scommetto che quest’improvvisata le farà piacere.”
“Forse è meglio che vada senza torta…”
“Ma smettila. Vatti a mettere il cappotto, io intanto la sistemo in un contenitore.”
E così, nell’arco di cinque minuti, Vato si ritrovò a bussare alla porta di casa di Elisa, i capelli leggermente umidi per le minuscole goccioline di pioggia che non smettevano di scendere nemmeno in quel momento tranquillo. Fu proprio lei ad aprire la porta.
“Ciao!” salutò, provvedendo subito a dargli un bacio entusiasta.
“Ciao Eli – sorrise lui, quando si staccarono – ti ho portato una cosa, ma non sei obbligata a mangiarla.”
“Davvero? – chiese la ragazza mentre lo faceva entrare e gli prendeva il cappotto – Strano, tua madre cucina sempre bene.”
“A dire il vero l’ho fatta io: se non si capisce è una torta.”
“Tu che cucini? Che è questa novità?”
“Lasciamo stare…” sospirò lui con imbarazzo.
“No, davvero, adesso mi hai incuriosita. – sorrise lei, prendendo un pezzo di torta e assaggiandolo, ma subito fece una faccia strana – Uhm è un po’ pesantina come impasto… scusa, ma ho bisogno di un bicchiere d’acqua o non va giù.”
“Oh cavolo – arrossì Vato, non credendo che il risultato fosse così disastroso – avrei dovuto assaggiarla.”
E così, anche per farsi perdonare quel tentato omicidio per soffocamento, si ritrovò a raccontare alla fidanzata la sua disastrosa giornata tra i fornelli.
“Una torta che fa schifo, una bruciatura alla mano, non so quanti ingredienti sprecati ed un mucchio di stoviglie da lavare – sospirò infine – più che prendermi cura di mia madre le ho solo rovinato la giornata.”
“Ma dai, non dire così – sorrise Elisa, prendendo un fazzoletto e legandolo con cura attorno alla bruciatura – sei stato davvero dolce a stare con lei tutto il tempo.”
“Davvero? In realtà mi aveva detto che anche se stavo come sempre a leggere sarebbe andato bene lo stesso: invece le ho fatto dannare l’anima in cucina.”
“Le hai fatto passare l’intera giornata senza pensare troppo a tuo padre, non capisci?”
“Tra i due credo di essere più preoccupato io.”
“Dici? Guarda che noi donne spesso nascondiamo le cose meglio di quanto creda… riflettici su mentre torni a casa. Ti conviene andare perché sta riprendendo a tuonare.”
Mentre percorreva la strada all’inverso, Vato ripensò alle parole che gli aveva detto Elisa: proprio non riusciva a trovare una spiegazione razionale. Per tutta la giornata sua madre aveva fatto finta di niente, come se suo padre fosse uscito per una normale giornata di lavoro: ora, lui non dubitava minimamente dell’amore che univa i suoi genitori, ma a volte Rosie Falman risultava completamente sfuggente al suo modo di pensare.
“Sono tornato – disse entrando a casa – sai la torta non era proprio velenosa ma un suo pericolo lo… mamma.”
“Oh, sei già rientrato – fece Rosie, alzandosi dal divano e cercando di asciugarsi una lacrima – non pensavo facessi così presto. Ma è vero che ha ripreso a piovere e…”
“Mamma, tu stavi piangendo – si accostò lui, sfiorandole la guancia con la mano fasciata – ma…”
E si sentì completamente idiota per non aver capito tutto sin da quella mattina presto: sua madre non era tornata a dormire, era rimasta chiaramente a letto a pensare a tutti i pericoli a cui stava andando incontro Vincent. E quando si era mostrata così normale era solo per farlo sentire a suo agio e non impensierirlo troppo con le sue ansie.
“Sai, sono quasi le otto e sono più di dodici ore che sono via. Lo so che tuo padre ha detto che avrebbe fatto sicuramente tardi, ma non posso fare a meno di essere preoccupata…”
Il ragazzo si sedette accanto a lei e la abbracciò, nascondendo il viso sulla sua spalla.
“Sono sicuro che torna presto, tranquilla – mormorò – oh, mamma… mi dispiace di non aver capito come stavi.”
“Ma no, tesoro, sei stato fantastico a tenermi occupata per tutto questo tempo: ti sei persino prestato alle mie lezioni di cucina. Ti sei preso cura di me, come avevi promesso a Vincent.”
A quel punto a Vato non restò che sospirare: in realtà si erano presi cura uno dell’altro, cercando di non far trasparire i propri timori e le proprie apprensioni.
Davvero madre e figlio, non c’è che dire.
“Coraggio, mamma, vedrai che manca davvero poco. Che dici preparo un paio di panini per cena e ce li mangiamo davanti al fuoco? Ti giuro che non ho proprio voglia di vedere piatti e stoviglie per oggi.”
“Va bene, grande cuoco, mi fido di te.”
 
Erano quasi le undici e mezza di notte quando Andrew aprì la porta di casa completamente zuppo, esausto e con l’esigenza assoluta di farsi un bagno caldo, mangiare qualcosa ed infilarsi sotto le coperte.
Notando che tutta la casa era buia e silenziosa capì che anche Ellie stava sicuramente dormendo, una cosa che gli fece piacere perché voleva dire che non si era lasciata prendere troppo dall’ansia. Posò delicatamente lo zaino a terra e lo stesso fece con l’impermeabile, poi, arruffandosi i capelli, salì le scale ed entrò in camera con estrema cautela per non correre il rischio di svegliarla. Voleva solo prendere il pigiama ed il cambio prima di andare a lavarsi e…
Oh beh, non avevo molti dubbi in merito.
Non riuscì a trattenere un sorriso quando, accendendo la luce, vide Ellie profondamente addormentata con Kain abbracciato a lei. Notò che il bambino indossava ancora gli occhiali e allungò la mano per levarglieli.
“Mh… papà?” mormorò lui nel sonno.
“Sssh, dormi Kain – sussurrò accarezzandogli i capelli – abbraccia la mamma e dormi, da bravo. Papà si prepara e poi vi raggiunge.”
“Mi sono preso cura di mamma – continuò lui – io… e il coniglietto Oscar.”
“Sì? Che bravi, ma non avevo dubbi. Ecco… così, copriti meglio e dormi.”
Il bambino non provò più a cercare di svegliarsi e si arrese al sonno anche perché Ellie d’istinto lo strinse ancora di più a se. Del resto aveva bisogno di riposare dopo aver compiuto quella grande impresa di non far preoccupare troppo sua madre.
 
“Non pensavo di trovarvi addormentati nel divano…” commentò Vincent mentre moglie e figlio si affaccendavano attorno a lui.
“Non ce ne siamo accorti – ammise Vato – e poi come potevamo andare a letto senza sapere quando tornavi? Allora, è andato tutto bene?”
“Nel senso che siamo tornati solo fradici e affamati? Sì sotto quel punto di vista sì, per il resto la situazione non è molto confortante: è quasi certo che ci saranno smottamenti e frane su a monte e questo si ripercuoterà sulla piena, poco ma sicuro. Da domani all’alba dovrò mobilitare tutti gli uomini possibili.”
“Ma sei esausto, caro – sospirò Rosie, stringendosi a lui, ignorando completamente gli indumenti bagnati – dovresti stare a riposare almeno per domani mattina.”
“Vorrei, certamente, ma non si può – ammise lui, accarezzandole i capelli neri – Puoi iniziare a riempire la vasca di acqua calda? Ti giuro che ho davvero bisogno di levarmi questo freddo di dosso.”
Mentre Rosie scompariva in bagno, Vato si accostò al genitore, ricevendo una gentile arruffata di capelli.
“Domani potrò aiutarvi pure io?”
“Sì, direi che ci sarà sicuramente qualcosa che potrai fare: più siamo meglio è. Allora, ti sei preso cura di tua madre?”
“In qualche modo, ma anche lei si è presa cura di me – ammise – eravamo così attenti a non far trasparire le nostre ansie che non l’ho capito fino all’ultimo quanto fosse preoccupata…”
“Tua madre è così: sempre tranquilla e magari pronta a stuzzicarti… non vuole caricare gli altri delle sue paure, specie te, perché sa che sei ansioso di tuo. Ero davvero curioso di vedere se alla fine vi sareste compresi a vicenda e mi pare proprio di sì. Mh? Ma che hai fatto alla mano?”
“Esperimenti in cucina: ho scoperto di non essere un bravo cuoco, tutt’altro.”
“Ti sei preso cura di tua madre cucinando?
“Sì, ma è meglio non dilungarsi in spiegazioni… Sono davvero felice che tu sia di nuovo qui, papà.”
“Anche io, ragazzo mio, anche io.”

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Capitolo 34
*** Capitolo 33. Piena del fiume ***


Capitolo 33. Piena del fiume.

 

“E’ la problematica di posti come questo – dichiarò Vincent – bastano piogge più intense e può accadere una catastrofe. E ovviamente siamo isolati: fin quando c’era una miniera al governo importava qualcosa del paese, ma adesso dobbiamo risolvere tutto da soli.”
“Non dubito che nelle sue mani andrà tutto bene, capitano – fece Madame Christmas – e stia tranquillo, io e le ragazze andremo al capannone come ci ha chiesto: ci sarà bisogno di una mano tra feriti, affamati e quanto altro.”
“Se vi creano problemi…”
“Non lo faranno, stia tranquillo. Sarà anche un paese di gente chiusa, ma non avranno il coraggio di rifiutare il nostro aiuto. Ehi, Roy – boy, hai sentito? Preparati che andiamo al capannone.”
“Capitano Falman, io voglio venire ad aiutare con gli altri uomini – esclamò il ragazzo, finendo di scendere le scale e allacciandosi l’impermeabile – sono grande e posso fare la mia parte.”
Vincent e Madame lo fissarono con perplessità, ma dopo qualche istante il capitano annuì.
“Vieni pure con me, ma non ti azzardare a prendere iniziative, sono stato chiaro?”
“Sicuro, capitano?” chiese la donna.
“Sì; andiamo Roy, devo organizzare ancora un sacco di cose e mancano poche ore alla piena.”
Il ragazzo sorrise soddisfatto e si affrettò a seguire il capitano fuori dal locale, cercando di non fare caso alla pioggia battente e alle persone che sciamavano nella strada principale. Ovviamente voleva tenere una facciata di sicurezza davanti al poliziotto, ma in cuor suo provava una sincera paura per quanto sarebbe successo nelle prossime ore. Tuttavia non aveva nessuna intenzione di restare nel capannone con donne e bambini: avrebbe fatto la sua parte.
“Papà, è arrivato l’ingegner Fury con sua moglie e Kain – avvisò Vato, raggiungendoli – tutte le famiglie che abitano fuori paese sono riunite nel capannone: ho controllato personalmente dall’elenco che mi hai dato.”
“Ottimo: allora vado a parlare subito con lui. Roy, tu e Vato andate verso la seconda linea di argine che si sta preparando, vi raggiungo tra poco.”
“Signorsì!” esclamarono in coro i ragazzi, scattando sull’attenti.
Come l’uomo si allontanò si scambiarono un’occhiata eloquente e iniziarono a correre verso la loro destinazione: a questo giro erano dalla parte degli adulti.
 
“Allora, tu e Kain state al sicuro qui – disse Andrew – prendetevi cura uno dell’altro e state tranquilli.”
“Papà…” il bambino balbettò, aggrappandosi a lui, impaurito di trovarsi in una situazione simile: non si ricordava un’emergenza tale da anni e vedere tutta quella gente che si muoveva con ansia nel capannone gli faceva capire che c’era il rischio che molti si facessero male o peggio.
Adesso non era disposto a lasciar andare il padre: voleva che restasse con loro, al sicuro.
“Ehi, piccolo ometto – sussurrò Andrew abbracciandolo – fatti forza. Andrà tutto bene e…”
“Kain! – esclamò una vocetta e dopo qualche secondo Janet si aggrappò al bambino – Kain, allora ci sei anche tu! Che bello! Avevo paura che io e la mamma restassimo sole qui… papà e Jean sono andati ad aiutare ed io mi stavo spaventando.”
“Janet! Janet non scappare via in questo modo – disse Angela raggiungendola – oh, ecco perché. Aveva visto voi, che sollievo sapere che siete qui.”
“Splendido – annuì Andrew, felice di sapere la sua famiglia insieme a qualcun altro – adesso va decisamente meglio. Ecco il capitano Falman: io vado… tranquilla Ellie, fidati di me. Kain, mi raccomando, fai il bravo.”
Mentre Janet si aggrappava a Kain ed Ellie aiutava Angela a sistemare la roba che aveva portato con sé, Andrew iniziò ad incamminarsi verso Vincent che gli aveva già fatto ampi gesti di raggiungerlo.
“Come procede?” chiese.
“Tra ieri e stamattina abbiamo fatto una prima linea di sacchi di sabbia lunga almeno un chilometro: la stiamo tutt’ora rinforzando in modo che regga il più possibile l’impatto. Ne stiamo facendo anche una seconda, ma ho i miei dubbi che la finiremo prima della piena. Confidiamo tutti nei tuoi lavori fatti in questi mesi, Andrew: se contengono parte dell’ondata sarà già una grande cosa.”
A quelle parole che tradivano una certa preoccupazione, Andrew sentì tutta la responsabilità che gravava su di lui: fu una sensazione tremendamente spiacevole. Non si sarebbe mai aspettato che il paese un giorno potesse dipendere così tanto da quei lavori.
In genere per una piena la preoccupazione è salvare i campi: che arrivasse a minacciare direttamente il paese non l’avrei mai pensato.
Tuttavia cacciò immediatamente indietro quelle paure: conosceva ogni centimetro dell’opera che aveva costruito in tutto quel tempo. Ripensò a quei calcoli, quelle ore passate chino sui progetti… non poteva aver sbagliato, ne era certo.
Devo farcela… devo assolutamente arginare quella maledetta piena.
 
“Forza, Jean, scendi dal carro ed iniziamo a scaricare i sacchi.” esclamò James, come arrivarono alla linea del secondo argine.
Il ragazzo annuì, scostandosi il cappuccio dell’impermeabile e scendendo con un agile balzo dal carro. Era la prima volta che partecipava attivamente a simili emergenze ed era deciso a dare il meglio di sé: non aveva avuto alcuna esitazione nel salire di nuovo nel carro, dopo che aveva aiutato sua madre e Janet e scendere davanti al capannone e James non aveva obiettato.
Cerca solo di tornare intero per non far preoccupare troppo tua madre.
Era stato questo l’unico commento che aveva fatto l’uomo e Jean era pronto a seguire quel consiglio.
Lanciò un’occhiata al fiume a solo una ventina di metri da lui e si accorse di provare un timore reverenziale per quella dimostrazione di forza da parte della natura. Quella corrente, quella massa d’acqua così scura e rombante il cui rumore sovrastava persino i tuoni, avrebbe ucciso una persona nell’arco di pochi secondi. Sapere che tutto quello che separava il paese da quel pericolo mortale era meno di un chilometro e due linee di sacchi di sabbia non lo rassicurava per niente.
“Ehi, Jean!” esclamarono Vato e Roy raggiungendolo.
Vedendoli, sorrise di sollievo: sapere che anche loro erano lì gli diede una nuova e strana forma di coraggio.
“Datemi una mano, forza – disse loro, porgendo il primo sacco – più ne sistemiamo più abbiamo possibilità di farcela.”
Roy e Vato lo afferrarono e subito le loro braccia si tesero per quanto era pesante, senza contare che la pioggia insistente aveva inzuppato la sabbia rendendola ancora più greve: erano almeno venticinque chili.
Una smorfia di dolore apparve sul viso scavato di Vato quando la recente bruciatura venne schiacciata da quel peso, ma non emise lamento e cercò con lo sguardo il suo compagno:
“Al mio tre si solleva – disse Roy a denti stretti, facendo un cenno d’intesa – uno… due…tre!”
Jean vide con soddisfazione il sacco che si alzava da terra, mentre i due iniziavano a trasportarlo verso il gruppo di persone che li stava disponendo: certo, l’andatura era un po’ barcollante, ma per esperienza sapeva che in poco tempo si trovava il ritmo giusto.
Un altro piccolo mattone… anche questo può fare la differenza.
“E adesso tocca a me!” esclamò prendendone uno da solo e caricandoselo sulle spalle.
Non avrebbe ceduto fino alla fine di quella maledetta piena.
 
“Mamma, prendi Henry e vai al capannone – disse Heymans – io raggiungo il capitano Falman e gli altri: c’è bisogno di tutto l’aiuto possibile.”
A quella dichiarazione così improvvisa e decisa, Gregor alzò lo sguardo sul suo primogenito e lo squadrò con attenzione. Se ne stava lì, finendo di sistemarsi l’impermeabile, con il viso risoluto e nessuna paura.
“Amore, sei sicuro di voler andare? E’ pericoloso.” fece Laura, andandogli incontro e posandogli le mani sulle spalle con preoccupazione.
“Tranquilla: ho parlato con Vato, questa mattina, e anche lui e gli altri sono lì ad aiutare. C’è bisogno di tutta la gente possibile per quei sacchi di sabbia che formeranno le linee di protezione.”
“E l’opinione di tuo padre non la chiedi nemmeno?” fece Gregor intromettendosi in quella discussione.
Non gli piaceva assolutamente l’atteggiamento che stava assumendo Heymans da qualche tempo a questa parte: stava iniziando ad alzare troppo la cresta e ad avere un’influenza troppo forte su Laura, proprio come l’aveva avuta quel maledetto di suo zio.
Il ragazzo spostò gli occhi grigi su di lui e lo fissò con un misto di rabbia e freddezza.
“Gli uomini devono andare al fiume ad aiutare, così è stato detto: – disse – che altro c’è da chiedere?”
“Il fiume non esonderà, e anche se fosse ieri è stata già fatta una prima linea di sacchi: resta a casa, ragazzino. Nel caso andrò io a dare un’occhiata.”
“C’è tutto il paese mobilitato – sibilò Heymans, sentendo una grande rabbia dentro di lui di fronte a quest’indifferenza – ci sono i miei amici, le persone a cui voglio bene. Non volterò loro le spalle… mamma, sul serio, vorrei che andassi al capannone. Lì potrebbero aver bisogno di una mano e poi sicuramente ci sarà anche la madre di Jean: tu ed Henry starete bene.”
Laura fissò con dolcezza il primogenito, rendendosi conto di quanto fosse uguale ad Henry: anche se aveva quattordici anni non si stava tirando indietro. La cosa migliore da fare sarebbe stato proibirgli una simile impresa, ma si accorse che non l’avrebbe mai potuto fermare.
E poi non sarà da solo: sicuramente ci sarà anche Andrew e di sicuro lo proteggerà lui in caso di pericolo.
Così, gli baciò la fronte e annuì.
“Fai attenzione, amore mio: io ed Henry andremo al capannone per sicurezza, va bene?”
“Grazie, mamma, mi sento molto più tranquillo adesso.” sorrise lui, con lieve sorpresa per aver ottenuto così facilmente la sua approvazione.
“Laura…” iniziò Gregor con voce irata, quando la porta si fu chiusa alle spalle del ragazzo.
“Gregor, adesso no – sospirò la donna, evitando il suo sguardo – quanto ha detto Heymans è la cosa migliore da fare. Conosco quel fiume e anche se sembra che non debba succedere mai, diverse volte è arrivato in paese: andare al capannone è la cosa più sicura perché si trova dall’altra parte rispetto alla sponda. Se vuoi venire…”
“No – scosse il capo lui – vado a dare una mano con quei cazzo di sacchi. Dato che ti piace così tanto che tuo figlio faccia l’eroe per niente…”
E senza nemmeno prendere l’impermeabile uscì da casa: non avrebbe permesso ad un moccioso di quattordici anni di fare l’eroe in quel modo.
 
“Riza!” esclamò Roy all’improvviso, lasciando cadere il sacco.
“Che?” chiese Vato, vacillando sotto quel cedimento.
“Devo sincerarmi che lei stia bene: le devo dire di andare al capannone…”
“Tutta la popolazione è stata avvisata – obiettò lui, approfittando di quel momento per scostarsi alcune ciocche bagnate dalla fronte – anche suo padre lo sa, ne sono certo.”
“Suo padre… ma sì, suo padre! – si illuminò il moro – Potrebbe darci una mano! Tu continua qui,Vato: io torno tra un quarto d’ora al massimo!”
Senza aspettare una risposta dall’amico, iniziò a correre in direzione del paese: ma certo, come aveva fatto a non pensarci prima? Berthold Hawkeye era un alchimista: avrebbe potuto aiutarli tantissimo con la sua arte. Una volta aveva sentito di come l’alchimia era in grado di creare muri e barriere, manipolare gli elementi per poter far loro quello che si voleva.
Può creare una barriera senza nessuna difficoltà! Può rinforzare l’argine come vuole!
Ansante per la corsa e per la fatica dei precedenti sforzi, arrivò a casa dell’amica e non perse nemmeno tempo a bussare: aprì la porta e chiamò.
“Riza!”
Subito un abbaiare lo accolse e Black Hayate arrivò prontamente saltellando allegro attorno alle sue gambe.
“Roy!” esclamò la ragazza, apparendo il fondo al corridoio.
“Eccoti qua – sorrise lui – andiamo, portami da tuo padre, dobbiamo fare in fretta.”
“Mio padre? – sbiancò lei – ma che dici? Non possiamo…”
“Ma sì, la sua alchimia aiuterà il paese con questa piena. E poi tu dovresti andare al capannone con tutti gli altri, non è bene che resti sola a casa – continuò lui, tirandola per la manica – la vuoi smettere di esitare in questo modo? Ma che hai?”
“Roy, dubito che mio padre voglia andare ad aiutare…” mormorò lei, ansiosa mentre arrivavano davanti alla porta dello studio dell’uomo.
“Che? – la guardò lui, stranito – Ma è un’emergenza. Se hai paura di lui, stai tranquilla… resta qui. Entro dentro io.”
E senza attendere risposta, senza nemmeno bussare, aprì la porta dello studio di Berthold Hawkeye.
La prima impressione fu di trovarsi in una bolla senza tempo: come se il temporale che imperversava fuori evitasse di colpire quella particolare stanza. Tutti quei libri, quella polvere, quella penombra lo avvolsero come mai era successo: adesso capiva che cosa era veramente in tono con la villetta. Riza aveva solo salvato un angolino per sé e la sua vita, il resto era tutto sotto il dominio di Berthold Hawkeye… che in quel momento si girava a fissarlo con gli occhi azzurri infossati sul viso scavato.
“Chi saresti?” chiese con voce pesante.
“Sono un amico di sua figlia – disse Roy con esitazione, iniziando a capire il disagio di Riza davanti a quella figura paterna – e volevo chiederle di venire a dare una mano…”
“Non vedo perché dovrei.” dichiarò semplicemente lui, tornando a fissare i suoi fogli.
“Come? – chiese il ragazzo, mentre una piccola pozzanghera iniziava a formarsi sotto di lui – c’è il rischio di un’esondazione del fiume. La sua alchimia potrebbe salvare le persone e…”
“La mia alchimia, eh? – gli occhi azzurri tornarono a fissarsi su di lui – No, ragazzo, davanti a questo tipo di eventi la mia alchimia non serve a niente: l’acqua vince sul fuoco. E non sono pratico di quella solita così tanto… le mie energie si spendono tutte in questa ricerca. Semplicemente, davanti a certe cose l’uomo è destinato a cedere.”
“Ma di che sta parlando? – scosse il capo il ragazzo incredulo al vaneggio di quell’uomo – Cedere? Ci sono delle persone là fuori che non stanno cedendo, anche se non sono alchimisti. Ci stiamo ammazzando di fatica per salvare il paese… che senso ha l’alchimia se non si usa per aiutare le persone?”
“Aiutare le persone? Ah, come sei idealista, ragazzo, – la risata fece rabbrividire Roy – i tuoi occhi non hanno ancora visto gli orrori di questa vita. No, non funziona come credi tu: aiuta il mondo ed esso ti sbatterà la porta in faccia quando avrai bisogno di lui. Non fidarti delle persone, non ne vale la pena.”
“E’ una bugia!” esclamò con rabbia Roy, pensando a Jean e Vato che si stavano ammazzando di fatica sotto quella pioggia torrenziale.
“Lo credi davvero? – gli sorrise lui gelidamente – Allora non hai bisogno dell’alchimia per dare il tuo aiuto alle persone. Ma quando sbatterai il viso contro la dura crudeltà del mondo non lamentarti, ricordati questo mio avviso.”
Fu uno strano congedo, ma Roy sentì l’ira montargli dentro. Era dunque questa l’alchimia? Qualcosa che restava imprigionata nell’egoismo delle ricerche di chi l’aveva creata? Senza nessuna possibilità di aiutare la gente?
No, è soltanto lui che è un emerito bastardo che pensa solo a se stesso!
Sbatté con furia la porta alle sue spalle e vide che Riza stava poggiata alla parete del corridoio, con lo sguardo basso ed il cagnolino accovacciato ai suoi piedi. Adesso che si soffermava a guardarla con attenzione, si accorse che questi giorni da sola in casa con quell’uomo l’avevano provata davvero tanto: invece di ricevere conforto si era ritrovata senza nessuno con cui sfogare la paura.
“Scusami – mormorò lei, mentre una lacrima le colava sulla guancia pallida – lui è così, non c’è niente da fare. Ho provato a parlarci pure io, ma niente. Prima mi ha detto che se proprio volevo andare al capannone di farlo da sola… mi sento così inutile.”
Roy scosse il capo, capendo benissimo quale senso di impotenza doveva attanagliarla: adesso che aveva conosciuto di persona quell’uomo tutto quello che voleva fare era portare l’amica via di lì per sempre. Aveva tredici anni ed era spaventata da quella furia della natura, eppure il padre non aveva pensato minimamente a lei: persino Black Hayate era stato di maggiore conforto.
“Riza – mormorò, abbracciandola dolcemente – ascolta me, adesso. Lascialo stare: prendi Hayate e vai al capannone, tanto la strada  è ancora sicura. Non aver paura: lì ci sono Kain e sua madre, non sarai da sola: andrà tutto bene.”
Lei si aggrappò disperatamente a quell’abbraccio, continuando a mormorare che le dispiaceva tantissimo, che aveva cercato di convincerlo. Ed era vero: in quelle ultime ventiquattro ore, Riza aveva preso tutto il coraggio possibile per fare più tentativi nei confronti di suo padre, mettendo alla prova tutte le sue difficoltà emotive, ma non era servito a niente. Lei non contava…
“Adesso io devo tornare dagli altri…”
“Roy…” mormorò alzando lo sguardo su di lui.
Per favore, non lasciarmi da sola contro tutto questo.
“Fai quanto ti ho detto: voglio saperti al sicuro, colombina.” sorrise il ragazzo, prima di lasciare delicatamente la presa e correre fuori.
E lei rimase a fissare quel punto completamente stranita: era di nuovo sola.
“… io devo tornare dagli altri…”
 Era così: i suoi amici, tutti quanti stavano lottando contro quel dramma che si stava avvicinando.
Si sentiva un mostro a stare al sicuro dopo che suo padre si era comportato in quel modo.
 
Andrew prese il binocolo che Vincent gli stava porgendo e osservò i monti poco lontani.
“Sta per cedere, non ci sono dubbi – constatò – dannazione…”
Vincent lo fissò con preoccupazione capendo il sottinteso: stava per arrivare la piena.
“Va bene, del resto sapevamo che era questione di poco. – disse cupamente. Poi non perse altro tempo e iniziò a raggiungere gli uomini che stavano lavorando a poca distanza dalla piccola altura dove si erano apportati – Tutti a rinforzare la prima linea di sacchi! Lasciate perdere la seconda! Ci siamo quasi.”
Quella voce raggiunse appena l’ingegnere che restava a fissare la montagna: la sua mente lavorava freneticamente cercando di calcolare la massa di rocce e detriti che sarebbe scesa a rapida velocità verso il fiume. Avrebbe scatenato il doppio, anche il triplo dell’ondata prevista.
Dubitava altamente che quella linea di protezione avrebbe potuto qualcosa: forse era meglio dire a Vincent di richiamare tutti indietro e sperare che non arrivasse al paese. Ma anche questa mossa poteva essere un suicidio: possibile che fossero condannati?
Però potrei provare a… ma no! E’ pura follia…
Quello sì che sarebbe stato un azzardo perché era una modifica che lui aveva fatto nel progetto originario per tutt’altro scopo. Ed era una cosa puramente teorica che non sapeva nemmeno se avrebbe funzionato: figuriamoci in una situazione di emergenza con condizioni critiche come quelle.
“No, è da pazzi solo pensare che funzioni…” mormorò in preda al dubbio: non gli veniva in mente altro… ma era una cosa così rischiosa e senza alcuna garanzia.
“Signor Fury, signore!” esclamò una voce, richiamandolo alla realtà.
“Heymans! – si sorprese, quando il ragazzo lo raggiunse con un sorriso esausta ma furbo – Come mai non sei al capannone? E’ pericoloso stare qui e…”
“Aiuto come tutti gli altri, signore – scosse il capo lui – ma mi sono assicurato che mamma ed Henry ci andassero, stia tranquillo. Mi sono preso cura di loro e adesso cerco di salvarli dando una mano qui.”
A quelle parole Andrew si sentì veramente fiero di lui e gli accarezzò i capelli bagnati proprio come avrebbe fatto con Kain.
“Tua madre sarà molto contenta della maturità che hai mostrato.”
E adesso dovrei fare la cosa giusta e dirti di andare a raggiungerla: qui è troppo pericoloso, dovrei dare una speranza almeno a te.
“Sono sicuro che le sue opere al fiume ci salveranno tutti, vero signore? – chiese il ragazzo, speranzoso – Lei è veramente bravo e ho grandissima fiducia nei lavori che ha fatto: volevo lo sapesse.”
“Ti fidi veramente delle mie opere?” sorrise l’uomo.
“Certamente!”
E ci fu una tale sicurezza in quell’ultima affermazione, la medesima che avrebbe avuto Kain: forse fu questo a fargli prendere quella folle decisione.
“E’ un bell’azzardo quello che sto per fare – ammise, mettendogli le mani sulle spalle – ma davanti a questa grande fiducia che nutri per me, mi sento in dovere di fare il tutto per tutto.”
“Cioè?” chiese Heymans perplesso.
“Niente, fidati di me e basta… adesso torna ad aiutare gli altri. Io vado a parlare con il capitano Falman.”
Senza aspettare risposta, diede una lieve spinta al ragazzo e poi scese dalla piccola altura: aveva ancora tempo per tentare quella mossa che, se funzionava, poteva risolvere buona parte del problema.
Girò lo sguardo verso il fiume e cercò di individuare quello che gli serviva, ma quando lo trovò si morse la lingua nel vedere quanto fosse vicino all’acqua che scorreva rombante.
Dannazione, è già esondato fino a lì… ma c’è ancora lo spazio per arrivarci.
“Io devio il fiume – annunciò, prendendo il braccio del capitano che in quel momento parlava con James Havoc – allagherò i campi dall’altra parte, ma se tutto va bene non ci saranno conseguenze per il paese.”
“Che? – si sorprese Vincent – Ma di che parli?”
“Da questo lato ci sono alcune pompe idrauliche che sono state disposte durante i lavori: se azionate dovrebbero far sollevare una barriera che bloccherà il fiume… avevo pensato che poteva essere utile per eventuali progetti futuri di canalizzazione. Ma quello che conta adesso è che da questa sponda c’è l’argine e dunque l’acqua troverà più facile riversarsi dall’altra parte che invece non ha alcun ostacolo… capite quello che voglio dire? Quando arriva la piena non si abbatterà con la medesima violenza perché il fiume avrà già trovato un’altra via! ”
Erano parole confuse, quasi vaneggi, non si aspettava nemmeno che i due lo capissero: ma dentro di sé sapeva che era possibile e che c’erano persone come Heymans che avevano grande fiducia in lui.
“E come funziona questa cosa?” chiese James, guardandolo dubbioso: una persona mingherlina come Andrew Fury gli sembrava poco credibile in un posto come quello.
“Devo andare ad attivare il meccanismo – disse in tono febbrile – voi continuate a rinforzare la prima linea: l’acqua deve trovare tutta la resistenza possibile da questo lato.”
Non aspettò risposta e girò loro le spalle, iniziando ad andare verso la fine della prima linea dei sacchi di sabbia: tutto stava nell’andare ad azionare le pompe tramite le leve che stavano vicino all’argine.
Dipendeva tutto da lui.
 
Era già da due ore che lavorava ed i muscoli protestavano come non mai, ma Jean non era mai stato il tipo da lamentarsi. Era veramente fiero di quello che stavano facendo lui ed i suoi amici: avevano formato una vera e propria catena di montaggio raggiungendo una notevole rapidità nel portare i sacchi di sabbia dove serviva.
“Ragazzi – disse ad un certo punto, mentre era sopra il carro per prendere un nuovo sacco – stanno facendo dei cenni più avanti: servono rinforzi lì. Andate voi, io resto qui per terminare questa parte, tanto ce la faccio anche da solo.”
“Sicuro? – fece Heymans, accostandosi assieme a Vato e Roy – possiamo fare due e due.”
“No, lì pare urgente: dai andate.”
Vide con soddisfazione che seguivano il suo consiglio e si preparò mentalmente a sollevare l’ennesimo sacco da solo: avrebbe dovuto fare a meno di Heymans, ma non avrebbe esitato e…
“Riza?” esclamò con sorpresa vedendo la ragazzina che saliva sul carro e afferrava un lembo del sacco.
“Lascia che ti aiuti…”
“Sono pesantissimi: torna al capannone! Sei anche senza impermeabile e…”
“No! – esclamò lei – Voglio aiutare.”
“Ma che dici? – si arrabbiò lui prendendola per un braccio – Sei una stupida che…”
“Mio padre non aiuterà, va bene? – disse lei con le lacrime che si confondevano con la pioggia – Ma questo è il posto dove sono nata, dove ci siete voi… non posso restare a guardare. Non voglio… essere senza nessun peso… importanza…”
“Ma no che sei importante – mormorò Jean, non riuscendo a capire cosa fosse successo e perché la sua amica dicesse delle simili parole – non devi… oh, va bene, non c’è tempo per queste cose. Prendi quest’estremità e fai attenzione: è pesante, ma tra me e te ce la facciamo.”
Vide le mani candide di Riza afferrare il lembo del sacco e sospirò: non era adatta a fare un lavoro così pesante, nell’arco di pochi trasporti sarebbero comparse le prime, dolorose, piaghe.
Eppure sentì la pressante esigenza da parte di lei di prendere parte a quel lavoro, di rendersi utile: in fondo poteva capirla.
Si caricò la maggior parte del peso, cercando di sistemare l’equilibrio con quella compagna così minuta ed iniziò a muoversi verso la linea di sacchi.
 
Ellie sospirò, guardando per la millesima volta fuori dal capannone: la pioggia non smetteva di cadere e tutto faceva pensare che presto sarebbe arrivato il momento critico. Aveva una paura folle per Andrew perché sapeva benissimo che sarebbe stato in prima linea per quell’evento: non avrebbe lasciato la responsabilità dell’argine a nessun altro.
Dietro di lei sentiva l’agitata confusione delle centinaia di persone all’interno del locale: erano stati allestiti una cucina da campo, un’infermeria, per fortuna senza nessun ferito grave, eccetto qualcuno che magari era caduto per la pioggia o si era fatto male durante i lavori… persino per i bambini c’era una zona specifica con le maestre della scuola che avevano recuperato le classi elementari per distrarli un po’.
Madame Christmas la faceva da padrona in quel caos organizzato: lei e le sue ragazze erano davvero instancabili nel correre dove c’era bisogno di loro, anche per calmare qualche moglie in ansia per il marito.
Vorrei davvero avere una crisi pure io… forse essere calmata a furia di schiaffi riuscirebbe a farmi passare quest’angoscia.
Perché se a volte l’ansia si presentava malamente, altre poteva essere solo un forte peso al cuore che ti lasciava immobile a fissare il vuoto: forse era la versione peggiore.
“Sta bene, ne sono certa – disse Laura accostandosi a lei e mettendole la mano sul braccio – ti ha promesso che tornerà, no?”
“Non avevo nemmeno notato che eri arrivata – sospirò lei con un sorriso tirato. Poi tornò a fissare la pioggia che cadeva – L’ha promesso, certo, ma stare qui ad aspettare non è facile…”
“Non ce lo vedi proprio a fare l’eroe, eh?” sorrise la donna dai capelli rossi.
“Andrew è sempre stato… la certezza – confessò Ellie, accarezzandosi la treccia – quello a cui aggrapparmi, sicura che mi avrebbe sempre protetto e confortato. Lui è così tranquillo, così sereno…”
“Lui e mio fratello sono sempre stati i miei eroi, ma in modo totalmente diverso. Henry arrivava come un uragano, pronto a rovesciare il mondo per me: lui è sempre stato l’eroe dai gesti eclatanti, non c’è che dire. Ma Andrew… beh, Andrew è un altro tipo di eroe: magari non te ne rendi conto per tanto tempo, ma poi capisci che rimane accanto a te nei momenti più difficili, senza grandi parole o grandi imprese. Lui è semplicemente lì, in modo discreto e silenzioso eppure così forte.”
Ellie sospirò e sorrise.
“E’ un bene che al mondo ci sia questo tipo di eroe, no? Noi abbiamo la fortuna di averne uno.”
Sperava solo che riuscisse nell’impresa e  tornasse da lei.
 
Come aveva detto Laura, Andrew non era tipo da gesti eroici.
Dunque trovarsi tra la linea dei sacchi di sabbia e l’argine del fiume in piena non era proprio una cosa da lui.
Era bagnato fradicio sia per la pioggia che per gli spruzzi dell’acqua: era già caduto più volte per via del terreno scivolo e in un’occasione aveva rischiato seriamente di finire sul fiume.
Ma devo arrivare a quelle maledette leve.
Le vedeva, anche se sembravano sempre alla stessa distanza: sembravano farsi beffe di lui, ma capiva che era colpa del terreno che lo obbligava a procedere con disarmante lentezza. Anche se il tempo era l’ultima cosa che poteva sprecare.
Si aggrappò alla parete scivolosa dell’argine e saltò un tronco che il fiume aveva portato lì negli ultimi giorni: tutto il suo corpo doleva per l’immenso sforzo del sopralluogo del giorno prima, considerato che non aveva avuto il tempo di riposarsi decentemente, ma non poteva mollare.
Gli parve un’eternità, ma finalmente arrivò alle leve.
Paiono prive di danni, per fortuna.
Si mise a cavalcioni del tubo dove stavano montate ed provò a tirare la prima, ma evidentemente qualcosa non andava perché era veramente dura. Doveva aver ceduto qualche bullone ed era rimasta bloccata.
O forse sono io che non ci riesco? Del resto sono così massicce… Cavolo! Cavolo!
Serrò gli occhi e tirò con tutte le sue forze la leva contro il suo corpo: la protezione era in parte rovinata e quasi subito sentì una fitta alla mano, ma non cedette, anche se il metallo gli stava penetrando nella carne.
“Andiamo, maledetta!”
Sentì che qualcosa iniziava a cedere, mentre i primi meccanismi delle pompe si attivavano: certo, era ben diverso azionarli con un fiume in piena, incontrando una simile resistenza. Ma con immenso sforzo riuscì a portare a termine il funzionamento della prima pompa: sentì il tubo sotto di lui che iniziava a tremare per l’acqua che iniziava a passare e contemporaneamente vide il fiume iniziare a ribollire in un determinato punto.
“Sta funzionando! – ansimò, sentendo la mano pulsare terribilmente per la carne lacerata – Altre due, coraggio… coraggio!”
Ignorò una vertigine dovuta alla tensione e mise la mano insanguinata sulla seconda leva.
“Accidenti a te, ingegnere dei miei stivali – esclamò una voce – cosa cavolo pretendi di fare? Sei pelle ed ossa e vuoi attivare queste cose? Lascia fare a me!”
“Che…?” balbettò sorpreso, mentre James Havoc compariva davanti a lui e prendeva la seconda leva tra le mani.
“Spero per te che funzioni!” dichiarò l’uomo iniziando a tirarla e ottenendo in fretta il risultato richiesto.
“Sì che funzionerà! – disse Andrew, stringendo al petto la mano ferita – Guarda, la deviazione si sta alzando e… oh, merda! Sta per cadere la frana dalla montagna!”
“Avete finito qui? – chiese Vincent, arrivando di corsa – Non so se avete visto quanto sta succedendo a monte. Andrew, sei ferito?”
“E’ solo un taglio – scosse il capo lui, osservando la barriera che finiva di innalzarsi: poteva solo sperare che resistesse a quella forza inusuale della corrente e che quanto aveva ideato funzionasse – Metti quelle sicure o le leve potrebbero tornare alla posizione originaria… no, no, devi girarle in senso contrario! Ecco, così!”
“Bene, è fatta? – chiese James, risollevandosi in posizione eretta - Allora adesso conviene levarci subito da questo posto.”
Andrew annuì e cercò di scavalcare le leve, ora non restava che…
Un dolore lancinante lo colpì in fronte e immediatamente vide solo tanta nebbia attorno a sé.
“Andrew! – sentì da molto lontano – Accidenti un detrito lanciato dal fiume l’ha colpito.”
“Fai fare me, per fortuna è mingherlino e facile da trasportare… razza debole questi ingegneri.”
 
Non sono stanca, non sono stanca, non sono stanca…
Riza continuava a ripetersi questa frase, cercando di ignorare il dolore alle mani, alle braccia e alle gambe. La pioggia la inzuppava dalla testa ai piedi ormai ed ogni passo era una sofferenza, ma non voleva mollare.
La presenza di Jean le dava una grandissima forza: sapeva bene che il ragazzo stava in parte rallentando per permetterle di stare al passo, ma nonostante tutto non la rimproverava o mandava via.
No, lei non era come suo padre: non avrebbe voltato le spalle al mondo, abbandonando le persone che amava e che si prendevano cura di lei.
“E’ messo anche questo, Riza, dai andiamo a prenderne un altro.”
“Un altro… certo, andiamo.”
Lo seguì zoppicante: non si era nemmeno messa le scarpe adatte e sicuramente i suoi piedi avevano diverse ferite. Eppure c’era l’esigenza di non mollare, di resistere.
Prese il lembo del nuovo sacco, la stoffa grezza che continuava a spellarle le mani: non credeva di sbagliare nell’identificare quelle macchie scure come sangue.
Ancora un altro sacco… un altro… forza…
Aveva perso il conto, ormai.
 
“Ma… ma il fiume sta deviando!”
Una voce fece riscuotere Roy, Heymans e Vato dal loro lavoro.
I loro occhi si sbarrarono per la sorpresa quando videro che dal fiume era emersa una strana barriera di metallo che stava obbligando l’acqua ad andare nella sponda opposta.
“Allora era questo! – esclamò Heymans con un sorriso – E’ fantastico! Ehi, ragazzi, questa è opera del padre di Kain… grandioso: adesso la piena diminuirà di potenza!”
“Fantastico…” mormorò Vato, davanti a quel prodigio della meccanica.
“Non perdete tempo! – esclamò Vincent, mentre tornava di corsa in mezzo agli uomini – adesso bisogna rinforzare al massimo la prima linea, coraggio. La frana sta per scendere dalla montagna.”
A quelle parole i ragazzi si lanciarono insieme a tutti gli altri uomini verso la prima linea di sacchi, iniziando a creare un ulteriore strato più rapidamente che potevano.
Heymans si era lanciato di buona lena anche in quel lavoro, nonostante fosse esausto come tutti gli altri: nella sua mente ormai non esisteva altro che il meccanismo sollevare – trasportare – posare. Si era persino dimenticato di aver visto suo padre poco distante che lavorava con altri uomini: qualsiasi pensiero su di lui, negativo o positivo, non gli importava.
Ma mentre finiva di sistemare un sacco di sabbia e si girava per andare a prenderne un altro, la sua attenzione fu attratta da una persona che avanzava verso di loro sostendone un’altra.
“Signor Fury!” esclamò, riconoscendo l’uomo che perdeva sangue dalla testa.
Sentì il suo cuore che smetteva di battere mentre vedeva James Havoc che faceva sedere l’ingegnere usando alcuni sacchi come sostegno per la schiena. Immediatamente accorse in preda al panico, inginocchiandosi accanto a lui e afferrandogli la mano.
“E’ ferito alla testa! No… no, signore non può farmi questo. Per favore, non muoia.”
“Heymans, va tutto bene – lo scrollò lievemente James – è solo leggermente intontito per la botta presa in testa: l’ha colpito un detrito del fiume. Stai con lui, io vado ad aiutare gli altri.”
Rimasto solo, mentre sentiva tutto il caos attorno a lui, con la gente che rischiava di inciampare su di loro, il ragazzo cercò di pulire il sangue che colava sull’occhio chiuso dell’uomo, usando un lembo del suo maglione fradico.
“Per favore – ansimò – ti prego non lasciarmi solo…”
“Ehi…” sospirò Andrew aprendo gli occhi.
“Signore – mormorò, mentre iniziava a piangere: non si era reso conto fino a che punto fosse legato a lui – cielo, che paura…”
“Va tutto bene, Heymans – lo rassicurò lui con voce debole, raddrizzandosi leggermente – tranquillo… sssh, buono. E’ stata solo una botta, niente di grave.”
Il ragazzo annuì debolmente; sapeva che avrebbe dovuto prendersi cura di lui, consigliargli di stare sdraiato e riposarsi. Ma non ce la fece a reggere quella tensione e si strinse al suo petto, singhiozzando istericamente: non avrebbe mai sopportato di perdere quel sostegno così fondamentale della sua vita. Gli voleva bene, lo amava come un padre ormai: e non gli importava se era una cosa che aveva maturato in un mese o poco più.
L’importante era che ci fosse anche per lui.
Andrew lo abbracciò debolmente, accarezzandogli la schiena: non aveva mai pensato che si potesse spaventare in questo modo per lui. Nonostante avesse la mente annebbiata per quel colpo, sentì di odiare profondamente Gregor perché aveva privato quel ragazzo dell’amore paterno di cui aveva un disperato bisogno…perché aveva rovinato la vita di Laura.
E se ho bloccato quel maledetto fiume, in qualche modo blocco anche te…
Sentì solo indistintamente le grida degli altri che annunciavano l’arrivo dell’ondata provocata dalla frana: non importava, sapeva che l’argine e quel rinforzo avrebbero retto, ne era certo. Vide distrattamente che Vincent si accostava a Vato e Roy e li trascinava indietro, mentre James Havoc aiutava alcuni uomini a sistemare gli ultimi sacchi.
Ma per lui la cosa fondamentale era tenere stretto Heymans a sé, per il resto ci sarebbe stato tutto il tempo.

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Capitolo 35
*** Capitolo 34. Stesse mani. ***


Capitolo 34. Stesse mani.


 
Nonostante un primo periodo di smarrimento, Kain era riuscito a trovare una sua dimensione personale in quel capannone affollato: sulle prime era stato con sua madre, la signora Havoc e Janet, ma poi, come era successo un po’ a tutti, si era reso conto che quelle la dentro erano le solite persone che si conoscevano da sempre e dunque aveva iniziato a girovagare.
Janet l’aveva seguito per un po’ ma, come alcune maestre avevano richiamato i bambini delle prime classi elementari, si era separata da lui, lasciandolo a camminare da solo in quel piccolo sistema autonomo che era diventato il capannone. Aveva scambiato qualche parola con diverse persone, per esempio Elisa ed i suoi genitori, aveva salutato con piacere la madre di Vato ed aveva persino rincontrato la signorina Lola e le altre gentili ragazze del locale dove viveva Roy.
Se non fosse stato per l’ansia che provava per suo padre ed i suoi amici, sarebbe stato anche incuriosito da quel particolare campeggio che si era andato a creare. Ma la tensione non accennava a diminuire e più le ore passavano più capiva che il peggio si stava avvicinando.
Pensò di riavvicinarsi a sua madre, ma vide che stava parlando con la signora Laura: era preoccupata, lo si leggeva a chiare lettere nel suo viso, e questa volta Kain non aveva argomenti per tranquillizzarla.
“Che hai, zuccherino?” gli chiese Lola, vedendo che era imbambolato proprio vicino al tavolo dove lei stava arrotolando alcune garze per eventuali medicazioni.
“Signorina Lola, come si fa a non aver paura?” chiese all’improvviso.
“Spaventato per questa situazione? – sorrise lei, passandogli una garza e invitandolo a sedersi – Beh, è normale: a volte la paura è inevitabile.”
“Vorrei essere forte come i miei amici e come il mio papà: loro sono fuori… ma io avrei troppa paura e non credo che sarei di grande aiuto.”
“Dici? Secondo me ti sottovaluti: sai, sono sicura che tutte le persone che sono fuori, compreso tuo padre, hanno paura. Paura che succeda qualcosa alle persone che amano, come te e tua madre: è per questo che lavorano così tanto. Quanto all’aiuto che puoi dare, non stai dando una mano a me con queste garze?”
Kain sorrise per quella consolazione: sapeva benissimo che quel piccolo lavoro non era niente in confronto a quello che stavano facendo gli altri sotto la pioggia, ma in fondo lo aiutava a stare meglio. Magari se qualcuno si feriva malamente, una garza sistemata bene poteva essere di grande beneficio.
Così, grazie a quell’attività, riuscì a far scorrere il tempo abbastanza serenamente, mentre Lola gli raccontava delle buffe storielle e lo faceva sorridere.
Ma all’improvviso iniziò a sentirsi un forte brusio eccitato e qualcuno gridò che la piena stava arrivando.
“Papà!” esclamò Kain, saltando in piedi e lasciando cadere la garza.
“Vai da tua mamma, svelto – lo incitò la ragazza – adesso ha bisogno che tu stia con lei.”
Il bambino non se lo fece ripetere due volte ed iniziò a sgusciare tra le persone che, a quello strano segnale, avevano iniziato a ricercarsi una con l’altra. Nonostante quel caos, raggiunse Ellie e le cinse le braccia attorno alla vita, nascondendo il viso nel suo grembo.
“Va tutto bene, pulcino – disse lei, prendendolo in braccio – la mamma è qui e papà sta bene… deve stare bene. Da bravo, non ti preoccupare.” ma la stretta con cui cinse il bambino diceva il contrario.
Laura scambiò un’occhiata con lei e poi andò via a cercare Henry, trovandolo poco dopo in un angolino.
“Tesoro, – sussurrò abbracciandolo – va tutto bene.”
“Papà ed Heymans tornano, vero?” sussurrò lui, fissandola con i grandi occhi grigi che, in quel momento, tendevano all’azzurro ad indicare la paura che lo attanagliava.
“Certo, Henry, stai tranquillo. Tornano presto…”
Non voleva sentire niente: strinse Henry e cercò di escludere tutte quelle voci che facevano rimbalzare notizie ogni volta differenti. Pregò con tutto il cuore che Gregor, Heymans ed Andrew fossero sani e salvi, che quella tremenda storia finisse.
Nella sua mente tornarono impietose le immagini del fiume la notte in cui aveva tentato il suicidio: fu una sensazione così sgradevole che serrò gli occhi, emettendo un lieve lamento. Solo le braccia di Henry che la stringevano riuscirono a darle un minimo di conforto e a tenerla ancorata alla realtà.
No, non me li porterai via, maledetto fiume, non puoi… non devi.
Continuò a pregare in questo modo anche quando si sentì distintamente il rombo della piena che si scagliava con tutta la sua ferocia nella parte del fiume più vicina al paese, dove stavano gli uomini. I gemiti ed i pianti delle altre persone la fecero quasi impazzire: era un’angoscia così tremenda e tangibile che quasi la spingeva contro la parete.
“Mamma!” singhiozzò il bambino.
Ma questa volta non ebbe parole di conforto, solo quell’abbraccio convulso che durò anche quando quel rombo assordante passò, dopo un tempo che non riuscì a calcolare.
Fu solo quando sentì quel “ce l’hanno fatta” che continuava ad essere detto, con sempre più frequenza e convinzione che si concesse di tirare un sospiro di sollievo e piangere lacrime di gioia.
 
Circa un’ora dopo quegli eroi sfiniti iniziarono a tornare al capannone.
Fu un piccolo, strano, esodo: piano piano, quasi fossero increduli di essersela cavata così bene, gli uomini rientravano alla spicciolata. Ogni tanto si sentiva qualche esclamazione entusiasta quando una moglie correva ad abbracciare il marito  o qualche famiglia si riuniva. E così tutti aspettavano impazienti, ansiosi di rivedere il propri cari ricomparire fradici, ma illesi.
A un certo punto Henry si staccò da sua madre e corse verso l’ultimo gruppetto di uomini che era entrato.
“Papà!” esclamò aggrappandosi alla robusta figura di Gregor.
“Che ti avevo detto? Non c’è stato nessun pericolo – sbuffò l’uomo, lievemente seccato da quella dimostrazione fanciullesca – e adesso cerca di non piangere come una femminuccia.”
“Va bene.” annuì il bambino, cercando di asciugarsi quelle lacrime di gioia.
“Greg – sorrise Laura, andandogli incontro – caro, stai bene?”
“Ovviamente – annuì, rispondendo all’abbraccio della moglie con una lieve pacca sulle sue esili spalle – di che dovevi preoccuparti?”
“Dov’è Heymans?” chiese lei, alzando il viso dalla sua spalla.
A quella domanda l’espressione di Gregor si indurì: qualsiasi forma di piacere per essere stato accolto da sua moglie ed Henry sparì. Il grande eroe di casa, quello stupido marmocchio che incantava Laura proprio come aveva fatto suo fratello. E ovviamente se Henry Hevans non poteva più creargli problemi, doveva ritornare in scena il suo cagnolino personale… non aveva mancato di notare con quanta confidenza stringeva Heymans a sé durante la piena.
Ma sia lui che quel ragazzino impareranno a stare al loro posto: è mio figlio.
“Chiedilo al tuo grande amico, donna.” si limitò a dire con voce piatta, fissando Laura con sguardo seccato.
“Eh?”  sgranò gli occhi lei.
“Ne riparleremo al momento giusto. Vieni, Henry, stare in questo posto mi dà la nausea. Torniamo a casa…”
“Sì, papà – acconsentì il bambino, fissandolo con adorazione: era così agitato che non si era accorto di quello scambio di battute tra i genitori – mamma, andiamo?”
“Andate pure, io aspetto tuo fratello e poi arrivo.” lo rassicurò lei, accarezzandogli la guancia.
Ma il sorriso le scomparve non appena i due si allontanarono.
Cielo, l’ha visto assieme ad Andrew. Sapevo che prima o poi… e adesso? Che cosa posso fare?
Ma i suoi cupi pensieri vennero interrotti qualche minuto dopo da un’esclamazione.
“Ecco gli eroi del paese! Andrew Fury e James Havoc!”
Oh, Andrew, ma tu non sei quel tipo di eroe…
Fu incredibile non poter far a meno di sorridere.
 
Il capitano Vincent aveva detto quella frase senza che lui se lo aspettasse ed un secondo dopo gli aveva sollevato il braccio in gesto di vittoria.
Andrew arrossì profondamente e si passò una mano sui capelli fradici, mentre la fasciatura improvvisata che aveva sulla testa continuava a gocciolare.
“Non… non mi pare il caso di…”
“Finiscila, ingegnere – lo fermò James Havoc, dandogli una pacca sulla spalla – siamo salvi grazie al tuo incredibile sistema di pompe o qualunque cosa fosse.”
“Ma è stato lei a tirarle e a portarmi via… io la devo ringraziare…” balbettò, cercando di ignorare tutte quelle persone che applaudivano nella loro direzione.
“Smettila, Andrew – sorrise Vincent – è vero quello che ha detto. Sei un eroe.”
“Papà!” esclamò una voce e a quel punto ad Andrew non importò più di nulla.
Kain riuscì a sgusciare in mezzo a quel mucchio di persone e si fiondò su di lui, ridendo e piangendo. Ellie si fece largo pochi secondi dopo, e lo raggiunse baciandolo con una foga incredibile. Si ritrovò a stringerla come mai era successo, consapevole di farle probabilmente male, ma in quel momento andava bene così.
Sono tornato, amore mio, sono tornato! Tornato! Quel maledetto fiume non mi ha portato via da te e da nostro figlio.
“Papà! – pianse il bambino aggrappato alla sua gamba – Per favore… prendimi in braccio.”
“Kain… Kain – rise, sollevandolo e baciandolo: era la cosa più bella del mondo – piccolo mio, figlio mio.”
“Ho avuto paura che non tornassi più…” mormorò lui con disperazione, nascondendo il viso sulla sua spalla.
“Sono qui… sono qui – mormorò stringendo lui ed Ellie – siamo di nuovo insieme…”
Perché fino a quel momento non aveva realizzato che aveva rischiato di non vederli mai più.
 
“Papà, papà! – esclamò Janet, comparendo assieme ad Angela – è vero che sei un eroe?”
“Certo che sì, principessa – sorrise James, prendendola in braccio – ehi, Angela, che è quella faccia?”
“James Havoc sei… sei il marito più folle che conosca! – esclamò la donna saltandogli al collo – Adesso diventare persino un eroe.”
Mentre l’uomo si godeva le moine delle due donne della famiglia e anche Rosie raggiungeva Vincent per stringersi a lui con le lacrime che colavano senza parere, i ragazzi si affacciarono stancamente nel capannone: avevano deciso di restare indietro per non levare la scena a chi davvero lo meritava.
In particolare Heymans, guardò con estremo orgoglio Andrew che si stringeva alla famiglia: ancora non poteva credere di come l’avesse tenuto stretto, facendogli sfogare tutto il terrore che aveva provato nel vederlo ferito in quel modo.
Ma poi spostò vide sua madre e non ci pensò due volte a correre da lei.
“Mamma – sorrise esausto, abbracciandola – sono tornato, va tutto bene.”
“Heymans, piccolo mio – mormorò Laura stringendolo – grazie al cielo…”
“Oh mamma, lui… lui è il mio eroe – ammise il ragazzo, girandosi a guardare Andrew – è stato incredibile: ha rischiato la sua vita per salvare il paese. Ho avuto tanta paura quando l’ho visto ferito, ma ora sta bene… lui è fantastico. Lui e anche il padre di Jean e quello di Vato.”
Laura chiuse gli occhi a quelle parole e si sentì crollare il mondo addosso: lei ed Andrew non si erano più frequentati per evitare proprio che Heymans si affezionasse a lui.
E adesso è finita… è bastato nemmeno un mese, e ora che succederà?
“Mamma?”
“Certo, tesoro, lui è stato fantastico, ma non avevo bisogno di conferme. Oh, ma guardati, sei fradicio, sporco di fango e queste povere mani? Sono piene di vesciche…”
“Come quelle di tutti, stai tranquilla fanno solo un po’ male – mentì - Ma dov’è Henry?”
“E’ già tornato a casa con tuo padre. – sospirò lei, non potendogli tenere nascosto quanto successo – Heymans, tesoro, ascolta: Gregor ti ha visto con Andrew…”
A quelle parole gli occhi grigi di Heymans si sgranarono leggermente, ma poi si incupirono.
“E anche se fosse? – protestò – Devo evitare di essere fiero di una persona che per me vuol dire tanto?… e anche per te…”
“Non sto dicendo questo – scosse il capo lei – però sai che la situazione è complicata…”
“Non è vero, è tutto molto semplice – dovette trattenere le lacrime: perché adesso gli doveva anche vietare di voler bene ad una persona? Non gli bastava avergli rovinato la vita? – Non mi ha mai amato veramente, l’hai detto tu stessa… perché? Perché non posso nemmeno ammirare lui? Perché mi deve impedire di… di trovare finalmente qualcuno che…”
Ma poi vide il viso teso di sua madre e non terminò la frase: non poteva mettere davanti i suoi sentimenti. C’erano lei ed Henry di mezzo: ancora una volta sarebbe stato costretto a restare in silenzio, nell’attesa che la situazione si sbloccasse.
Si girò a guardare con malinconia Andrew con Kain sulle spalle ed Ellie stretta al petto: avrebbe voluto prendere per mano sua madre e condurla da lui, avrebbe voluto dirgli ancora una volta di quanto lo ammirava e gli voleva bene.
Ti vorrei dire che ormai sei come un padre…
“Vieni, mamma – fu tutto quello che gli uscì dalla bocca – torniamo a casa. Ti prometto che non reagirò alle provocazioni di papà: oggi non è proprio il caso…”
 
“Accidenti, adesso sono fidanzata con un eroe – sorrise Elisa, andando incontro a Vato – mi sento davvero emozionata.”
“E dai, non prendermi in giro – arrossì Vato con un sorriso: era già stato ampiamente coccolato da sua madre, ma sembrava che anche Elisa volesse la sua parte – gli eroi sono il padre di Kain e quello di Jean, e anche il mio. Ma io direi proprio di no: ero con tutti gli altri a spostare decine e decine di sacchi. Credo che domani non riuscirò a sollevare nemmeno una penna.”
“Oh, suvvia, non essere così severo con te stesso – mormorò lei, invitandolo a sedersi in una coperta – fai vedere quelle mani, sono un disastro, senza contare che avevi anche la bruciatura del giorno prima.”
“Non è niente.” mentì lui, preferendo ignorare il dolore lancinante di quelle ferite.
“Vanno pulite bene: aspetta, vado a prendere dell’acqua pulita e delle garze. A te ci penso io…”
“Eli, non devi – iniziò a chiamarla, ma lei si era già dileguata – non è il caso…”
Guardò in direzione di suo padre che veniva assistito da Rosie con tutte le premure del caso: adesso che erano tutti rientrati, ciascuno pensava ai propri feriti. Vincent intercettò la sua occhiata e gli fece un sorriso, come a dirgli che in quel momento le loro donne avevano il pieno diritto di prendersi cura di loro.
Dopo tutta l’ansia che hanno passato nell’attenderci è anche giusto.
“Allora – disse Elisa, tornando con una bacinella di acqua tiepida e un asciugamano – adesso fai vedere quei palmi e non osare lamentarti: sono molto delicata nel curare le ferite. Quasi quasi da grande faccio l’infermiera.”
“Per me puoi fare quello che vuoi – sorrise lui, ma subito dovette trattenere il fiato per l’intenso bruciore che provò – cavolo… scusa, scusa non sei tu. E’ che fanno un male tremendo.”
“Tu non sei abituato a determinati lavori, Vato, guarda che disastro… oh, amore, quanto sei stato bravo a sacrificarti così.”
“Amore? – arrossì lui – non… non mi avevi mai chiamato così. Uh!” esclamò come si ritrovò la ragazza attaccata al collo. Si irrigidì nel pensare che tutti li potevano vedere, ma dopo qualche secondo si accorse che non gli importava.
La sua fidanzata si stava prendendo cura di lui anche così.
 
“Riza… Riza, dai, rispondimi – mormorò Roy, scuotendo leggermente l’amica – come va?”
La ragazza alzò lo sguardo su di lui con tremenda apatia: era distrutta e non capiva se sentiva più freddo o dolore alle mani e a tutto il corpo in generale. Ricordava solo che quell’infinito trasporto di sacchi di sabbia era stata la cosa peggiore che avesse mai fatto in vita sua. Non si era nemmeno resa conto di quando l’emergenza era finita: era stato Jean a levarle a forza le mani dall’ultimo sacco che stavano trascinando, altrimenti lei avrebbe continuato fino allo svenimento.
Poi qualcuno, forse Roy o forse lo stesso Jean, l’aveva sostenuta per un braccio, incitandola verso il capannone. Qui l’avevano fatta sedere e l’avevano avvolta in una coperta.
E’ finita?
“Dai, brava, guardami. Coraggio è tutto finito – sorrise il ragazzo – la piena è passata ed il paese è salvo. Ma tu sei stata una stupida: dovevi venire qui da subito, come ti avevo detto.”
“Sono stata utile?” riuscì a mormorare.
“Ma certo: Jean mi ha detto che l’hai aiutato a trasportare tantissimi sacchi. Però adesso devi pensare alle tue mani e a te stessa. Aspettami, vado a prendere qualcosa di caldo: sei venuta ad aiutarci vestita così, senza nemmeno l’impermeabile…”
Non riuscì a dire niente mentre Roy si allontanava, ma quelle parole le avevano dato un minimo di conforto: non era come suo padre, lei non…
“Chi è questa ragazzina?” chiese una voce vicino a lei e d’istinto alzò debolmente lo sguardo.
Non conosceva quelle donne, non le aveva mai viste in vita sua… che volevano?
“Non c’è la sua famiglia?”
“Ah, aspettate – fece una di loro – è la figlia di Hawkeye, quello strambo.”
“Lui? Beh, ha un bel coraggio a stare qui con noi… suo padre non ha contribuito per niente a dare una mano al paese in quest’emergenza.”
A quelle parole Riza sentì il suo cuore smettere di battere: voleva dire qualcosa, supplicare quelle donne di guardarla bene e capire che anche lei aveva aiutato.
Non sono come lui… per favore… per favore…
Ma tutto quello che riusciva a fare era guardarle con stanca incredulità.
“Sentito, ragazzina? Perché non la smetti di fare la finta tonta e non torni a casa? Qui ci sono le persone che hanno aiutato il…”
“Andatevene al diavolo, stupide!” esclamò una voce e una sagoma gocciolante si frappose tra lei e le donne. Non era Roy, no…
“Jean…” sussurrò.
“Ehi, che hai da dire, giovanotto?”
“Il fatto che il paese sia salvo lo dovete anche a lei – sibilò Jean, il volto indurito dalla rabbia e dal disgusto – non lo vedete che è fradicia e piena di sporco? E lo sapete perché? Era tutto il tempo a spostare quei maledetti sacchi di sabbia assieme a noi altri!”
Si girò e prese Riza per il braccio, costringendola ad alzarsi.
“Guardate le sue mani, avanti! Stanno sanguinando per tutto il lavoro che ha fatto! Ma si è sempre bravi a giudicare le persone vero? – adesso si sentiva davvero furioso, ricordando anche quello che aveva passato Heymans con sua madre per colpa della mentalità chiusa di quella gente – Ipocriti, ecco cosa siete!”
“Ti rendi conto che suo padre…”
Lei non è suo padre!” e questa volta fu la voce di Roy a parlare.
Riza trovò la forza di alzare lo sguardo su di lui, mentre un violento tremore la percorreva: attraverso la vista annebbiata capì che era furioso, lo sguardo pronto ad uccidere.
“Non provate mai più a darle fastidio, capito?”
“E' il ragazzo che vive in quel posto: non mi sarei aspettata altro da lui…”
“Brutte st…”
“Basta così – disse una voce calma e Andrew si portò stancamente vicino a quel gruppo di persone – non mi pare il caso di continuare con queste idiozie. Roy, Jean, lasciate stare: siete sfiniti dopo tutto il lavoro che avete fatto… andate a mettervi una coperta sulle spalle e a riposare.”
Nel sentire la voce di quell’uomo così gentile, Riza non riuscì più a trattenere le lacrime che scesero silenziose: era troppo esausta anche per singhiozzare.
“Vieni, piccola Riza, – mormorò Andrew, prendendola in braccio – hai bisogno di stare tranquilla.”
“Mi dispiace… mi dispiace… ho fatto tutto quello che potevo…” riuscì a sussurrare, cercando disperatamente di spiegare tutta l’angoscia che provava.
“Sssh, va tutto bene: adesso hai solo bisogno di stare al caldo e riposare. Chiudi gli occhi, mia coraggiosa bimba, adesso è tutto finito.”
“Tu non sei come lui, Riza – disse la voce di Roy, prima che l’oblio la circondasse – nemmeno un po’.”
 
Dopo quell’istante a Riza sembrò che il tempo scorresse in modo davvero strano: a volte sembrava velocissimo, altre un secondo durava un’eternità. Eppure in tutto questo non riusciva a riaprire gli occhi: solo ogni tanto sentiva delle voci vicino a lei che dicevano frasi senza senso che le rimbombavano nella mente.
“E’ crollata, povera piccola…”
“Riza! No, Riza! Ma che ha?”
“Portiamola immediatamente a casa di mio padre…”
“…polmonite…”
“Va tutto bene, bambina mia, sta tranquilla…”
Quell’ultima frase continuava ad essere ripetuta più volte e questo la convinse che sua madre era tornata: stava male, questo era chiaro, e dunque la sua mamma si stava prendendo cura di lei.
“Riza, da brava, apri gli occhi…”
La ragazzina obbedì, sentendo che un panno piacevolmente fresco le veniva passato sulla fronte accaldata.
“Mamma…” chiamò debolmente, non riuscendo ad identificare quel soffitto, quel letto.
“Cara, sono io… Ellie.”
“Oh – mormorò lei, mettendo a fuoco la figura della donna che, con gentilezza le puliva il viso con un panno umido – e dov’è la mamma?”
“Piccola, hai ancora la febbre alta. Non ricordi? Sei svenuta dopo tutto lo sforzo che hai fatto.”
Sforzo? Che sforzo?
“Riza? – la chiamò una voce, accanto a lei e girandosi vide Kain – Non ti ricordi la piena del fiume? Hai lavorato tanto con Jean e gli altri e poi ti sei sentita male…”
Quelle parole la fecero piombare la realtà addosso: ecco perché si sentiva così debole. Aveva ammazzato il suo corpo sotto quella pioggia, trasportando quei sacchi. Si accorse di avere le mani bendate e anche i suoi piedi erano avvolti in qualcosa.
“Dove sono?” mormorò.
“Sei a casa dei miei nonni: ti abbiamo portato qui perché dovevi essere visitata dal dottore – spiegò il bambino – sei rimasta più di un giorno senza svegliarti, sai ho avuto paura e…”
“Sssh, Kain – lo bloccò Ellie con gentilezza – è stanca, da bravo.”
“Come andiamo? – chiese Andrew, entrando – Ehi, piccola Riza, ci siamo svegliate finalmente…”
“Lo so che è difficile, tesoro – fece la donna, aiutandola a mettersi seduta sul letto – ma devi assolutamente mettere qualcosa nello stomaco. Vediamo di farti bere un po’ di brodo caldo.”
Per la ragazzina era completamente nuovo essere accudita così amorevolmente da due adulti. In occasioni normali avrebbe protestato per tanta premura, ma era così debole da aver disperato bisogno di quel sostegno, di quelle parole gentili, di quelle carezze sui capelli umidi.
Non era il momento di opporsi.
 
Per quattro giorni rimase confinata in quella stanza da letto con l’unica compagnia di Ellie e Kain. Il signor Fury veniva a trovarla mattina e sera, ma per il resto era completamente assorbito dal lavoro.
Quando la febbre finalmente iniziò a scemare, fu in grado di ricostruire tutti i pezzi mancanti della vicenda, anche grazie al racconto di Kain. Era svenuta tra le braccia di Andrew e nell’arco di poche ore le era salita una forte febbre: l’avevano immediatamente portata a casa dei nonni paterni di Kain, dove il dottore aveva diagnosticato una polmonite, e per un giorno intero non aveva ripreso conoscenza.
Nel frattempo la situazione in paese si era leggermente stabilizzata: passato il pericolo della piena, la maggior parte delle famiglie era tornata alle proprie case, il capannone ormai svuotato, e ora tutti si stavano adoperando per i danni che inevitabilmente si erano avuti nell’altra sponda del fiume.
Insomma tutto il paese era ancora mobilitato, ma almeno la pioggia aveva smesso di scendere ed un primo timido sole faceva la sua comparsa tra le nuvole da almeno due giorni.
“Comunque io mamma e papà restiamo qui dai nonni ancora per una settimana – disse Kain, saltando abilmente sopra il letto e sistemandosi accanto a lei – papà sta sovrintendendo ai lavori assieme al padre di Vato e anche quello di Jean. Sai, bisogna levare tutta l’acqua dai campi, dr…drenare il fiume, mi pare che si dica così, fare l’elenco dei danni. Insomma tante cose: papà ogni sera torna a casa sfinito.”
“Mi dispiace – sospirò Riza – siete già così pieni di impegni e vi state prendendo cura di me…”
“Oh, ma che dici? – sorrise il bambino, abbracciandola – Noi ti vogliamo bene, Riza, non ti potremmo mai lasciare da sola. Ah, e non ti devi preoccupare per Hayate: Roy va tutti i giorni a controllare che stia bene e gli dà la pappa.”
“E mio padre?” chiese lei con voce piatta.
“Non lo so – ammise Kain – ma sicuramente per lui non ci sono problemi che tu stia qui: del resto non era prudente che ti muovessi se stavi così male. Ma so che il mio papà è andato a parlare con lui per dirle che eri con noi e… uh, ho detto qualcosa che non va?”
Alla rivelazione che c’era stato quell’incontro a Riza venne un groppo al cuore. E se suo padre aveva trattato in malo modo anche quella persona meravigliosa?
Fu quasi con terrore che quella sera attese il ritorno di Andrew.
“Ehi, giovanotto – sorrise l’uomo, quando Kain saltò come sempre giù dal letto per correre ad abbracciarlo – perché non scendi un attimo giù in salotto? Mamma ti deve far vedere una cosa.”
Come il bambino trotterellò fuori dalla porta, Andrew andò accanto al letto di Riza e le tastò la fronte.
“Mi sembra che la febbre ormai sia del tutto scesa, signorina. Direi che domani possiamo anche pensare di lasciare questo letto e stare qualche ora in salone, che ne pensi?”
“Spero di non aver disturbato troppo, signore – sospirò lei  – i suoi genitori sono così gentili a tenermi qui, ma forse è il caso che torni a casa mia.”
“Non se ne parla nemmeno – scosse il capo lui ­– sei ancora molto debole: il dottore ha detto che almeno per altri quattro giorni è fuori discussione che tu metta naso fuori. E non pensare nemmeno di essere un disturbo, capito? Dopo tutto quello che hai fatto è il minimo prenderci cura di te.”
Riza avrebbe voluto lanciarsi contro quell’uomo e abbracciarlo: quelle parole erano così calde e gentili che le laceravano il cuore. Guardandolo si capiva bene che era esausto dall’ennesima giornata di lavoro ininterrotto, eppure trovava il tempo di pensare anche a lei.
“Ho… ho saputo che è andato da mio padre.” mormorò.
“Sì. Mi sono premurato di informarlo di quanto era successo e gli ho subito detto che avremmo pensato io ed Ellie a te.”
“Mi… mi dispiace – arrossì lei – posso immaginare che non le abbia fatto una bella impressione. Lui non… io, mi scuso profondamente se l’ha trattata male.”
Andrew sospirò: a quanto sembrava era suo destino incontrare dei ragazzi che non avevano un bel rapporto con il proprio padre. Prima Heymans, e solo il cielo sapeva come sarebbe andata a finire quella storia alla luce degli ultimi eventi, e adesso Riza. Sapeva che Berthold Hawkeye non era una persona come tutte le altre, ma non si era mai aspettato un tipo del genere… una domanda sulle condizioni della bambina? No, era stato lui a continuare a parlare dicendogli dove l’avevano portata, quanto aveva detto il medico…
“Posso sapere dov’è la camera di Riza? Così le prendo almeno il pigiama e qualche cambio…”
Era stata quella l’unica domanda a cui aveva risposto. Per il resto era come se della figlia gli importasse veramente poco o niente: per un istante gli era sembrato di riconoscersi in quella concentrazione sullo studio, ma poi aveva scosso il capo. No, se qualcuno gli avesse detto che Kain stava male avrebbe mollato anche il libro più interessante per correre da lui… quella di Berthold Hawkeye era una bruciante ossessione che in qualche modo aveva scottato anche Riza.
Adesso capiva le parole di Roy: no, quella bambina non aveva niente del padre.
“Lascia stare, l’importante è che tu sia qui e ti stia riprendendo – si costrinse a sorridere, accarezzandole i capelli – Piuttosto, ti senti abbastanza in forma per delle visite?”
“Visite? – sgranò gli occhi lei – Per me?”
“Volevano venire già dal primo giorno, ma era meglio che riposassi – ridacchiò, andando verso la porta – ma sappi che ogni mattina, appena mi vedevano, ancora prima di salutarmi chiedevano di te. Allora, truppa, volete entrare?”
A Riza vennero le lacrime agli occhi come vide i suoi amici entrare nella stanza ed accostarsi al letto.
Roy, Jean, Vato, Heymans, Kain… c’erano proprio tutti.
“Finalmente, ragazzina – sorrise Jean – ci hai fatto stare in pensiero.”
“Meno male che ti sei ripresa.”
“Ne siamo davvero felici. Anche Elisa ti manda i tuoi saluti: verrà a trovarti presto, mi ha detto di riferirtelo.”
“Ehi, colombina – sorrise Roy, accarezzandole la guancia con una mano fasciata – che spavento quando ti ho visto chiudere gli occhi in quel modo.”
“Roy – mormorò lei, arrossendo e ricordando la difesa spietata che lui e Jean avevano fatto – grazie… grazie per avermi difesa. E anche a te Jean, siete stati così buoni con me…”
“Oh, smettila – disse il biondo con serietà – sono solo delle stupide galline starnazzanti che non hanno meglio da fare. Non ti conoscono nemmeno… non sanno niente di te. Non fare caso a loro.”
“No, hanno avuto ragione su mio padre – sospirò lei, abbassando gli occhi sulle coperte – mi dispiace… lui proprio non ha voluto fare niente, mentre molti altri si sono messi in prima fila per salvare il paese…”
“Ma tu non sei tuo padre! – esclamò Roy – Quante volte te lo dovrò ripetere? Tu sei venuta ad aiutarci perché per te era importante… tu sei speciale, Riza, ancora non lo capisci? Tuo padre non è parte del paese, magari, ma tu sì… tu sei parte di noi.”
“Riza – la chiamò Heymans – noi non siamo i nostri genitori, fidati.”
Lo disse con sincera convinzione e fu proprio quel tono a spingere la ragazza ad incontrare lo sguardo di quegli occhi grigi.
“Noi abbiamo le stesse mani.” sorrise il rosso, mostrando le proprie, fasciate per le ferite e le vesciche provocate da quel massacrante lavoro.
A quel segnale anche Jean, Vato e Roy porsero le proprie, nelle medesime condizioni: mani che forse avevano lavorato altre volte, o forse no, ma non si erano risparmiate per aiutare. E ora ne portavano i segni con orgoglio, come un riconoscimento tra di loro.
Riza allungò le proprie: adesso non le facevano più così male, anche se avrebbe dovuto tenere quelle bende ancora per qualche giorno.
“Mh, però io ero troppo piccolo per lavorare con voi…”
“Tranquillo, nano – lo prese in giro Jean – dopo tutto quello che ha fatto tuo padre, direi che sei a pieno diritto nel gruppo. Che? Oh no, dai Riza adesso non piangere… non… dannazione!”
La ragazza venne immediatamente abbracciata da Kain e da Roy che la strinsero in un cerchio protettivo. Ma anche gli altri si accostarono e provvidero a confortarla, arruffandole con gentilezza i capelli, mormorandole di quanto fosse importante per loro.
“E poi sei un’eroina anche tu, lo sapevi?” le chiese Vato
“Ma che dici? – riuscì a ridere lei, asciugandosi le lacrime dopo quel momento di commozione – sono tuo padre e gli altri gli eroi.”
“Davvero?” sorrise il ragazzo, girandosi verso la porta.
Come vide Andrew entrare insieme al padre di Vato, Riza arrossì e si accorse per la prima volta di essere in pigiama davanti a tutte quelle persone.
“Buongiorno Riza – la salutò il capitano con un sorriso – sono felice di sapere che sei in piena ripresa.”
“La ringrazio, signore.”
“Mi hanno detto che sei abbastanza timida e dunque era meglio non fare cerimonie pubbliche, ma ci tenevo a darti questo.” e le consegnò un plico, stretto da un nastro rosso.
“Per me?” si sorprese lei, prendendolo con mano tremante.
“Dai, perché non lo apri? – chiese Kain con curiosità – Vediamo che cosa c’è scritto.”
“E’ solo un piccolo riconoscimento – spiegò Vincent, mentre la ragazzina svolgeva il foglio e leggeva con occhi increduli quelle parole scritte in bella calligrafia, come per i documenti importanti – alla più giovane eroina del nostro paese. Quello che hai fatto è stato un bellissimo gesto e volevo che tu lo sapessi: sono orgoglioso di te…”
“Ma anche tutti loro hanno fatto quanto me… anzi, decisamente più di me. Andrebbe a loro un simile riconoscimento.” protestò Riza, asciugandosi le nuove lacrime.
“Bambina mia – sorrise Andrew, toccandosi leggermente il grosso cerotto che portava ancora sulla parte destra della fronte, proprio all’attaccatura dei capelli – quello che hai fatto tu è stato davvero speciale per tutti loro e anche per me. E non importa se hai portato meno sacchi di Jean o di Roy, o sei crollata svenuta: hai dimostrato di essere una persona meravigliosa pronta a sacrificarsi per le persone a cui vuole bene.”
“E se qualcuno dice cose brutte su di te, non dargli retta – aggiunse Heymans – conta quello che diciamo noi, perché siamo noi quelli che ti conosciamo meglio.”
“Anche più di tuo padre.” dichiarò Roy con decisione.
“Riza – sorrise Kain, abbracciandola di nuovo – per me sei una sorella e sono fierissimo di te, sul serio. Tu sei speciale.”
“Grazie… grazie – sussurrò lei, rispondendo a quell’abbraccio – non… non ne dubiterò mai più.”
Non l’avrebbe mai più fatto, come avrebbe potuto dopo tutto quello che era successo?
Forse quelle voci avrebbero sempre continuato ad esserci su di lei, ma adesso non le avrebbero fatto più male perché sapeva che i suoi eroi l’avrebbero sempre protetta.
Perché loro avevano le stesse mani.





il bellissimo disegno è di Mary_
^_^

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Capitolo 36
*** Capitolo 35. Esigenze di cambiare. ***


Capitolo 35. Esigenze di cambiare.

 

Sentendo alcuni rumori che provenivano dal corridoio, Laura aprì gli occhi e si accorse che era mattina. Si girò nel letto, ricordando pigramente che oggi riprendevano le scuole, dopo la pausa forzata per le piogge, e dunque Heymans doveva essersi già alzato.
Si preparò mentalmente a lasciare il caldo delle coperte e riprendere il ritmo quotidiano, quando si soffermò a guardare la figura che dormiva accanto a lei. Allungò una mano per toccare quei capelli castani, ma si fermò a pochi centimetri da essi: non era il caso di svegliarlo, era meglio tenerlo buono il maggior tempo possibile.
Le ultime due settimane erano state davvero dure: Gregor non aveva detto una parola a proposito di Andrew, ma quel silenzio era forse peggiore perché la faceva sentire in attesa di una tragedia inevitabile. Guardando quel viso dai lineamenti così simili ad Heymans, si chiese come fosse possibile che la tenesse in una prigione psicologica simile: più di una volta avrebbe voluto liberarsi di lui, dei suoi sbalzi d’umore, del disagio che provocava in misura diversa sui ragazzi. Ma bastava un suo sguardo, una sua sfuriata e lei tornava obbediente al suo posto… del resto senza di lui che cosa avrebbe fatto? Avrebbe trascinato i figli in una nuova spirale di ostracismo da parte del paese: una donna separata, figuriamoci. E questa volta Heymans ed Henry erano troppo grandi per essere messi sotto una campana di vetro.
Onestamente, Laura, tu lo ami ancora?
Una domanda che spesso si poneva nel cuore della notte, quando stava rannicchiata dalla sua parte del letto. Era da ormai tanto tempo che non c’era più intimità tra di loro ed era arrivata alla triste certezza di essere stata tradita più volte con le ragazze del locale di Madame Christmas. Ci aveva provato, in tutti i modi possibili, ma lui non si era voluto far amare… le aveva concesso un’illusione di quel sentimento nei primi anni, ma poi era scivolato in una stanca abitudine dove lei era sempre più la causa della sua infelicità invece che una moglie.
No, non c’era mai stato amore, nemmeno da parte sua… perché continuare a fingere? Gregor era la quotidianità che le era stata imposta, il padre dei ragazzi, legalmente suo marito. Ma non c’era amore tra di loro: sarebbe stata troppo bella come conclusione di quella storia iniziata quindici anni prima.
Si trovò a pensare che quella notte aveva sognato di quando suo fratello aveva chiesto ad Andrew di sposarla: si chiese come sarebbe stato svegliarsi la mattina e trovarlo accanto a sé. Amico, fratello, probabilmente non sarebbero mai arrivati ad amarsi se le cose fossero andate diversamente: anche senza Ellie, il loro rapporto era troppo definito per avere simili evoluzioni. Ma sarebbe stato bello potersi accoccolare a lui sapendo di trovare comunque delle braccia gentili che non esitavano a stringerla, sarebbe stato meraviglioso vederlo parlare tranquillamente con Heymans senza che gli pesasse il fatto che non fosse suo figlio. E chissà, come aveva avuto Henry da Gregor, magari da Andrew sarebbe nato un bambino adorabile come lui e…
Finiscila Laura, l’idea di avere quel tipo di rapporto con lui è praticamente incestuosa.
Però la serenità e la protezione che avrebbe avuto dal suo amico erano delle cose difficili da non rimpiangere…
Si decise ad uscire silenziosamente dalla stanza, stringendosi nella vestaglia di lana, e a scendere.
“Ciao tesoro – salutò, vedendo Heymans che si stava preparando da solo la colazione – scusa se mi sono alzata solo adesso. Da domani faccio io, non ti preoccupare.
“Oh, tranquilla, mamma – sorrise lui, accettando con piacere il bacio sulla guancia – siediti pure, ho quasi finito di scaldare il latte e il pane.”
Seguendo quell’invito, Laura si accomodò nel tavolo, notando come avesse diligentemente apparecchiato per tutti quanti. Non si era mai accorta di come suo figlio si sapesse destreggiare in cucina, ma non aveva dubbi che quell’abilità derivasse dal suo acuto spirito d’osservazione. Poteva sempre sentire i suoi occhi che la guardavano con attenzione quando stava ai fornelli: lui era come una spugna, continuava ad assorbire decine e decine d’informazioni.
“E così oggi riprendete la scuola – commentò, mentre lui portava in tavola il contenitore del latte ed un piatto di fette di pane caldo – eccitato?”
“No, direi di no, ma sarà piacevole tornare alla normalità.”
“Tu e gli altri vi siete dati tanto da fare in questi giorni, come vanno oggi le mani?”
“Tranquilla, – sorrise lui, mostrando come maneggiava il cucchiaio senza problemi, nonostante le lievi fasciature – come vedi le vesciche sono sparite quasi del tutto, ma terrò queste bende ancora per qualche giorno: voglio evitare che il freddo possa  rallentare la completa guarigione.”
“Continua a spalmare l’unguento anche dopo che saranno guarite, almeno per due giorni.”
“Certo: Elisa e sua madre sono state davvero gentili a darne una boccetta a ciascuno di noi, è davvero portentoso.”
“Già, mi piacerebbe sapere come lo fa.”
“Se vuoi lo chiedo ad Elisa, non penso ci siano problemi a farti avere la ricetta.”
La conversazione rimase su quel tono per qualche minuto, senza affrontare argomenti troppo difficili. Tuttavia Heymans, ad un certo punto, buttò una frase quasi in tono disinteressato.
“Oggi rivedrò anche Kain a scuola, spero che suo padre si sia leggermente ripreso da questo periodo di lavoro ininterrotto.”
“Ormai la situazione è sotto controllo.”
“Sì, ma lui ed il padre di Vato quasi tutti i giorni stavano nel luogo dei lavori senza concedersi una pausa: mentre gli altri facevano dei turni, loro erano sempre lì. Quando due giorni fa Kain e la sua famiglia sono tornati alla loro casa ho tirato un sospiro di sollievo, vuol dire che si potrà concedere qualche ora di riposo in più… spesso avevo paura di vederlo crollare per la stanchezza: non si è nemmeno preoccupato per la ferita alla testa. Anche se non era grave era comunque una bella botta che avrebbe richiesto del riposo.”
“Andrew è fatto così – sorrise Laura, scoprendo che in quel frangente non le faceva paura pronunciare quel nome – quando si tratta di aiutare gli altri non si concede un attimo di tregua: non credo che avrebbe permesso a qualcun altro di prendere il suo posto, oppure di accudire la vostra amica Riza. Lei sta bene?”
“Sì, ormai è del tutto guarita – annuì il ragazzo – è tornata con suo padre già da cinque giorni e sembra stia bene anche per fare le solite faccende domestiche o studiare. In questo periodo l’abbiamo davvero coccolata, ma se lo merita: è una ragazza eccezionale.”
“Mi dispiace per quello che mi hai raccontato su suo padre…”
“Beh, succede – esitò lui: aveva scoperto di capire Riza molto meglio del previsto, ma non voleva affrontare l’argomento con sua madre – ma l’importante è che lei sappia di poter contare su di noi…”
Ci fu un silenzio carico di tensione e fu come se la presenza di Gregor aleggiasse su quel tavolo: si girarono entrambi a guardare il suo posto vuoto.
“Mamma, non… non ha ancora tirato fuori l’argomento di me e del signor Fury, vero?”
“No, non ancora.”
“Non capisco che cosa aspetta – mormorò il ragazzo – è come se ci volesse tenere sulle spine per tutto questo tempo. Farmi sentire colpevole… ti giuro che ci sono momenti in cui vorrei andare da lui e chiedergli che cosa vuole ottenere con questo silenzio.”
Laura scosse il capo: nemmeno lei capiva molto del comportamento di Gregor. Ma non dubitava che quanto era successo prima o poi sarebbe stato ritirato fuori: il tono con cui le aveva parlato al capannone era stato tremendamente pericoloso.
Incrociò lo sguardo di Heymans.
Ho paura? Certo che sì… temo sempre che arrivi il momento in cui alzi le mani su di me. Ma, giuro su tutto quello che ho più caro a questo mondo, che se si azzarda a toccare Heymans o Henry non lo perdonerò mai.
Un freddo gelo si impossessò di lei, simile a quello che aveva nei confronti dei suoi genitori: l’esigenza di proteggere i suoi figli aveva la priorità su tutto.
“Vedrai che andrà tutto bene, tesoro. Adesso credo che tu debba andare: non ti devi incontrare con il tuo amico Jean?”
 
“Buongiorno, colombina – salutò Roy con il più sfacciato dei suoi sorrisi – consegna speciale per te: ottimo stufato da parte del locale di mia zia, dovrai solo riscaldarlo quando torni da scuola.”
“Roy…” sospirò Riza, facendolo entrare. Da quando era tornata a casa non passava mattina che lui non venisse a trovarla, sempre portandole qualcosa: non si voleva proprio capacitare che ormai si era ripresa del tutto.
“Oh, suvvia non fare storie – la rimproverò lui, seguendola in cucina e posando la pentola sul fornello – devi ancora rimetterti del tutto.”
“Veramente mi sono rimessa del tutto…”
“Permettimi di dubitarne… ehilà, botolo, come andiamo oggi?”
Hayate rispose con uno sbadiglio e tornò a sonnecchiare davanti alla stufa.
“Sul serio, non trattarmi come una bambola di porcellana – ribadì lei, prendendo il cappotto dalla sedia ed iniziando ad indossarlo – ci hanno già pensato Kain ed i suoi a coccolarmi in questi giorni. Adesso sono di nuovo a pieno regime, su garanzia medica vorrei specificare.”
“Ti dà così fastidio che mi prenda cura di te?” chiese il ragazzo, mentre uscivano di casa.
Riza non rispose: da una parte provava un lieve fastidio per quel considerarla un’invalida, ma dall’altra trovarsi Roy a casa ogni giorno le faceva un innegabile piacere. Dopo quella discussione che aveva avuto con suo padre, il giorno della piena, a rigor di logica aveva tutte le ragioni del mondo per non tornare a casa sua.
Invece viene lo stesso… quasi volesse proteggermi da mio padre e dal suo mondo.
Sì, quello era un tipo d’attenzione che le faceva piacere avere: per quanto fosse arrivata a considerare il padre di Kain come qualcosa di ideale, Roy era maggiormente tangibile e non andava a sovrapporsi a quell’adulto che comunque aveva dei legami di sangue con lei.
“Le piaghe che avevi ai piedi sono guarite del tutto?”
“Sì: stare a letto per tutti quei giorni è stato un bene – ammise lei, anche se per prudenza metteva sempre leggere fasciature prima di infilarsi le calze e le scarpe – e anche le mani sono guarite. Non pensavo di potermi ridurre in un simile modo. E tu? Anche oggi andrai ad aiutare nei lavori?”
“Mi piacerebbe, ma il capitano Falman è stato categorico – disse lui con una smorfia di disappunto – ha detto che ora che riprendeva la scuola noi ragazzi non dovevamo pensare ad altro che allo studio: pensa che ha anche minacciato di portarmi in casa per l’orecchio se osavo contraddire il suo ordine. Diamine, quell’uomo è proprio rigido…”
Riza scoppiò a ridere: era divertente scoprire che finalmente qualcuno metteva in riga il grande Roy Mustang. Di certo Vincent Falman non si faceva molti problemi ad imporgli un po’ di disciplina, ma andava bene così.
“Tu ti prendi le sgridate del padre di Vato – lo prese in giro – io invece mi prendo le premure del padre di Kain: fatti una domanda e datti una risposta.”
“Molto spiritosa, davvero – mise il broncio lui – è che sei una femmina, tutto qui. Si è sempre più carini con le femmine, è risaputo.”
“Certo, certo: intanto cerca di studiare. Oh, ecco Vato ed Elisa. Buongiorno, ragazzi.”
Si salutarono con gioia: c’era una nuova eccitazione nell’aria. Sapere di tornare a scuola, alla normalità, alle solite chiacchiere, dava un senso di sollievo. Era come se finalmente avessero la conferma che davvero l’emergenza era finita: Roy e Vato fissavano le ragazze prendersi a braccetto e ridere con spensieratezza, promettendosi di vedersi il prima possibile al di fuori della scuola.
“Sai una cosa, Roy? – fece il ragazzo con un sorriso – Siamo stati degli eroi in qualche modo, certo, ma questa normalità per me vale molto di più.”
Roy stava per ribattere a quell’affermazione: come poteva dire una cosa simile? Avevano fatto qualcosa di eccezionale, dimostrando di essere adulti ed in grado di grandi imprese…
Ti avviso che sono pronto a prenderti per l’orecchio e trascinarti a studiare.
La minaccia del capitano Falman risuonò nella sua testa e si sentì lievemente imbarazzato: no, forse non era proprio un eroe se gli venivano ancora dette tali cose. Diciamo che però era sulla buona strada per diventarlo, suvvia.
 
“Ti pare giusto? Avanti, dimmelo! – sbottò Jean, durante l’intervallo e andando con Heymans verso il solito gruppo di alberi dove ormai si incontravano con gli altri – Ritorni a scuola dopo tutto quello che è successo e quel maledetto del docente di storia che fa? Annuncia un compito per la settimana prossima! Per dare un ripasso generale del programma degli ultimi mesi… ma vai al diavolo! Altro che ripasso: se prendo un brutto voto la ripassata me lo dà mio padre.”
“Mi mancavano questi tuoi comizi contro i docenti – rise Heymans – forza e coraggio, grande eroe della piena, ti prometto che ripassiamo insieme.”
“Preferirei di gran lunga stare ad aiutare mio padre e gli altri – sbuffò – vero Roy? Perché ci imprigionano qui, quando abbiamo dimostrato di essere una risorsa preziosa?”
“Sono d’accordo – annuì lui – potevano dare una giustificazione speciale a noi ragazzi per andare ad aiutare ai cantieri.”
“Secondo me la state facendo troppo lunga – li rimproverò Riza, mentre Heymans si affiancava a lei e annuiva con convinzione – vi siete esaltati troppo: tornate con i piedi per terra, avete quindici e quattordici anni. Quella era una situazione d’emergenza e basta.”
“Spero che ti ricordi delle parole che ti ha detto ieri mio padre, Roy – sospirò Vato – e ti assicuro che quando usa quel tono non scherza mai.”
Il moro sbuffò a quella minaccia, tuttavia era abbastanza accorto da non stuzzicare troppo il capitano di polizia: aveva il vago sentore che lui e sua zia se la intendessero abbastanza bene e che quindi avesse notevoli libertà nei suoi confronti.
Ma mentre si ripeteva queste cose e guardava i suoi amici che si reinserivano senza problemi nella vita quotidiana (del resto si capiva che Jean voleva solo evitare l’odiato studio il più possibile), lui avvertiva una nota di insoddisfazione sempre più forte: era felice per loro, certamente, ma sentiva che dopo quanto era successo lui non poteva riprendere a fare lo studente e basta. Aveva assaporato qualcosa di particolare che andava oltre le occupazioni dell’adolescenza: l’aver aiutato in modo così tangibile, essersi reso utile, aver fatto qualcosa di importante… erano queste le cose che contavano, non compiti di scuola.
E anche Vincent Falman sarebbe dovuto venire a patti con questo, volente o nolente.
 
“Tra due giorni anche il collegamento ferroviario tornerà normale – annunciò Vincent qualche ora dopo mentre con Andrew avanzava sulla passerella di legno posta sul percorso fangoso – così potremo finalmente rifornirci del materiale che ci serve: abbiamo già fatto un primo elenco, anche se la stima dei danni è ancora tutta da ricontrollare.”
“Finché le pompe non levano tutta l’acqua dai campi non possiamo definire le stime – scosse il capo Andrew – per il ritmo a cui stiamo lavorando ci vogliono ancora cinque giorni ad essere ottimisti. Non possiamo spremerci più di tanto o gli uomini crolleranno: sono comunque dei turni massacranti e non ci siamo concessi nemmeno un giorno di tregua.”
“Non oso tornare a casa se non di sera: se mi sedessi sul divano dopo pranzo non mi alzerei più… almeno di notte posso concedermi un sei ore di sonno continuate: ormai Rosie mi vede più addormentato che sveglio.”
“Stessa cosa per Ellie, almeno con Kain riesco a fare qualche chiacchierata mentre scendiamo insieme da casa: ha persino preso la decisione di restare a studiare dai nonni a giorni alterni per poter fare la strada del ritorno con me. Si è davvero spaventato molto per la ferita che avevo in testa e trovo giusto assecondarlo in questo piccolo modo di sentirsi utile.”
“E’ proprio un bravo ragazzo e…”
La frase si bloccò a metà e Andrew si girò a guardare il capitano di polizia, notando come la sua espressione si fosse indurita. Poi seguì la direzione del suo sguardo e non riuscì a trattenere un lieve sorriso: dentro di sé sapeva che sarebbe successa una cosa simile.
“Hai davvero intenzione di prenderlo per l’orecchio e portarlo da sua zia?”
“Pensavo di avergli dato delle disposizioni ben precise: testardo il ragazzino…”
“Ingegnere – chiamò in quel momento un uomo poco distante – dovrebbe venire a dare un’occhiata: forse la pompa ha dei problemi.”
“Arrivo subito. Beh, Vincent, credo che lo dovrai affrontare da solo: anche perché ha tutta l’intenzione di venire verso di te e sfidarti apertamente.”
Con un lieve colpetto sulla spalla del capitano, Andrew andò verso la direzione dove era richiesta la sua presenza. Come si fu allontanato, Vincent si mise a braccia conserte e osservò Roy che avanzava a passi lenti e controllati sulla passerella di legno, guardando nella sua direzione senza alcun timore.
“Che cosa devo fare con te?” gli chiese con voce seria.
“Permettermi di aiutare.” rispose Roy senza nessuna esitazione, fissandolo con decisione.
“Ti avevo detto chiaramente qual’era il tuo dovere: tornare ad essere un semplice studente, come è giusto a quindici anni.”
“Non ne ho nessuna intenzione.” scosse il capo lui, mettendosi a braccia conserte ad imitazione della posa di Vincent. Però si era dimenticato che il capitano non aveva il medesimo senso dell’umorismo di sua zia per questi atteggiamenti e così, in un millesimo di secondo, si trovò preso per l’orecchio.
“Tu devi ringraziare di non essere mio figlio: avresti perennemente mangiato in piedi perché te le avrei date di santa ragione dalla mattina alla sera.”
“Allora può stare tranquillo, non lo sono.” mormorò Roy, cercando di tenere il tono di sfida, nonostante il dolore per quell’orecchio tenuto in una presa davvero forte.
“Adesso fila a casa: studia, gioca, ma smettila di…”
“No! Intendo stare qui ed aiutare, in quante lingue lo devo ripetere? Ahia!”
“Un grande aiuto un marmocchio che piagnucola perché gli tiro l’orecchio, non c’è che dire… testardo di un ragazzo. Perché diamine non ascolti mai quello che ti dicono gli adulti?”
“Se avessi ascoltato sempre quello che mi dicono gli adulti, a quest’ora sarei un emarginato, non crede? Lei sa benissimo che cosa si dice su di me e su mia zia… ma per mia fortuna ho sempre deciso chi ascoltare.”
Vincent gli lasciò l’orecchio con malagrazia e lo osservò massaggiarsi lievemente la parte arrossata. Nonostante quel gesto davvero infantile, il volto manteneva l’espressione decisa.
No, non era come parlare a Vato o a qualche altro ragazzo: Roy aveva un passato difficile alle spalle e questo l’aveva fatto crescere troppo in fretta, andando a fargli assumere atteggiamenti ribelli. Non gli andava bene essere come gli altri ragazzi, pretendeva un trattamento diverso da parte degli adulti.
Specie da parte di quelli a cui attribuiva un determinato valore.
“Vieni con me – gli girò le spalle il capitano con voce impassibile – non mi pare il caso di dare spettacolo con le tue scenate.”
“Sissignore – annuì prontamente Roy, affiancandosi a lui – non ho intenzione di essere di alcun disturbo, glielo garantisco.”
Camminarono in silenzio per diversi minuti, tanto che Roy si chiese se prima o poi l’uomo decidesse davvero di fargli fare qualcosa di produttivo. Alla fine la passerella di legno finì e si ritrovarono vicinissimi al fiume: i sacchi di sabbia dall’altra parte erano ancora ammucchiati, in attesa che ci fosse tempo per recuperarli e smaltirli.
Così tanti… ne siamo riusciti a mettere così tanti… mi fanno ancora male le mani. Eppure c’è voluto l’ingegno del padre di Kain per salvarci tutti: senza di lui non avrebbero fatto molto perché l’acqua sarebbe stata troppo forte.
“Valiamo così poco?” si trovò a chiedere.
“Chi?”
“Noi… noi che non abbiamo nessuna dote particolare. Siamo così deboli di fronte alla natura.”
“Siamo tutti vivi ed il paese è salvo – disse Vincent – i danni sono relativamente limitati. Non è debolezza, tutt’altro.”
“Il padre di Riza avrebbe potuto creare una barriera con la sua alchimia, ne sono certo. Ma non ha voluto, non gli importava niente… ed invece il padre di Kain ha usato tutta la sua conoscenza per salvare il paese. E’ sempre così – ammise, prendendo un sasso da terra e lanciandolo sul corso d’acqua ora tranquillo e placido – ci sono eroi ed egoisti. Persone che non pensano a quello che dicono e altre che invece mettono a repentaglio la propria vita per gli altri.”
“E’ il mondo, Roy – scrollò le spalle l’uomo – ne hai avuto esperienza, ma hai anche imparato a stare in piedi, no? All’improvviso la cosa ti turba così’ tanto?”
Il ragazzo non rispose, ma cercò un altro sasso da lanciare: era così difficile da far capire quello che lui provava dentro?
“Voglio essere importante – ammise – differenziarmi dagli altri, da quelli che voltano le spalle al mondo. Voglio dimostrare che sono qualcuno…”
“Perché lo vieni a dire a me, quando sai benissimo che io ti considero già qualcuno?” chiese Vincent con una certa gentilezza, prendendo un sasso e progendoglielo.
“Non ne sono molto convinto se tutto quello che mi ordina è andare a studiare.”
“Sei davvero divertente, Roy, e non guardarmi con quell’aria offesa. Ti atteggi ad adulto, ma poi te la prendi se mostro preoccupazione per te, come farei con Vato. E lui è mio figlio, quindi non puoi negare che gli dia grande importanza.”
Roy arrossì, sentendosi enormemente preso in giro. Ma prima che potesse aprire bocca, Vincent lo fermò mettendogli una mano sulla spalla.
“C’è un bel guazzabuglio dentro di te, ragazzo mio. Mi viene da pensare alla tua amica Riza: lei ha voluto dimostrare di essere diversa da suo padre, certo, ma prima di tutto ha fatto quello che ha fatto perché ci teneva a tutti voi e voleva aiutare come poteva. Tu sei partito da questo secondo concetto, ma adesso stai lottando contro te stesso… hai preso l’egoismo di Berthold Hawkeye come spunto, ma non è lui il vero problema, mi sa.”
Il ragazzo scosse il capo con ostinazione, rifiutandosi di dare soddisfazione a quelle parole, anche se sicuramente contenevano un fondo di verità. Non era l’atteggiamento da adulto che si era prefissato di tenere, ma quell’uomo l’aveva messo alle strette con la sua parte ancora orgogliosamente adolescenziale.
Adesso come minimo mi dirà che studiare è importante perché è così che divento qualcuno… la solita minestra riscaldata in modo diverso. Certo, tanto è sempre la stes…
“Ouch! – protestò, quando lo schiaffo sulla nuca interruppe di colpo i suoi pensieri – E’ questo per che cosa sarebbe?”
“Per aver disobbedito al mio ordine – rispose Vincent senza alcun rimorso – e se succederà di nuovo te ne arriverà un altro, stanne certo. Forza, vieni, vuoi aiutare? Va bene… ma fammi il favore di finirla con queste idiozie che ti metti in testa da solo.”
“Idiozie? – sibilò Roy, affrettandosi a raggiungerlo e massaggiandosi la parte lesa: non pensava che potesse colpire così forte – Non sono…”
“Sono idiozie belle e buone e forse renderti utile ti aiuterà a farle passare: a queste condizioni la tua presenza mi sta bene, ma decido io quello che farai.”
“Insomma! Mi sembra di essere un bambino se vengo trattato in questo modo e…”
“Senti un po’ – lo bloccò per il colletto Vincent – sei poco più di un bambino, capito? Hai aiutato come gli altri quando c’è stata l’alluvione e questo dimostra che sei una bella persona su cui i tuoi amici potranno sempre contare. Sei importante e non perché hai fatto l’eroe, ma perché ci sono persone che tengono a te: se un giorno diventerai un poliziotto o un soldato o chissà che cosa io sarò il primo ad esserne felice. Ma anche se diventerai una persona normale, ma soddisfatta e con gli stessi ideali che vedo adesso in te, ne sarò orgoglioso lo stesso… smettila di voler salire su un piedistallo per cui non sei minimamente pronto, capito?”
“Non è così: le persone non sempre si accorgono…”
“E sono quelle le persone che contano?” lo bloccò Vincent.
“Se è tuo padre forse sì, qualcosa conta.” disse tutto d’un fiato il ragazzo, lasciando uscire quel peso dall’anima. In fondo tutto partiva da quello, no? Bastava essere onesti con se stessi: aveva tanto rinfacciato a Riza il fatto di avere poca stima di se stessa, ma anche lui stava dimostrando di non esserle da meno…
“Il padre di Riza è degno di lei?”
“No – scosse il capo con decisione – nemmeno un po’!”
“Perfetto, non ho conosciuto tuo padre, ma se non ti considerava allora per te vale il medesimo discorso.”
“Non si permetta! Lui era solo impegnato e…”
“Vedila come vuoi, ma dai tuoi atteggiamenti mi pare di capire che qualcosa non andava e te la stai trascinando dietro. Io ho dovuto rivedere il mio rapporto con Vato e sai perché? Perché non sono infallibile come genitore e commetto degli errori… così come il padre di Kain. E se poi parliamo del padre di Riza andiamo di male in peggio. Anche tuo padre era fallibile, Roy, non per cattiveria, ma perché semplicemente è impossibile essere perfetti.”
Fece male quell’ultima frase, perché includeva anche lui: non poteva essere perfetto come sperava…
“Se hai finito di pensare a queste cose vieni qui: ecco quello che puoi fare.”
Roy si accostò, lieto che finalmente si arrivasse al dunque e si terminasse con tutti questi discorsi che lo facevano sentire davvero insicuro, una cosa che detestava.
“Che cosa sono?” 
“Le piante di questi campi allagati…ehi, Andrew, prima mi stavi raccontando di come si facevano i conti per vedere le superfici. Roy si è offerto volontario per fare questi calcoli matematici, tanto sono cose che dovrebbe aver già fatto.”
“Matematica?” sgranò gli occhi lui.
“Davvero? – fece Andrew, accostandosi e dando una pacca sulle spalle del ragazzo – Bravo, figliolo, mi complimento con te… allora ti do un po’ di lavoro da fare a casa: non ti preoccupare, sarà come svolgere dei problemi di geometria e fisica.”
Roy lanciò un’occhiata furente a Vincent: l’aveva rigirato come voleva. Praticamente gli stava dando dei compiti supplementari… ma non aveva nessun’intenzione di far vedere quanto fosse insoddisfatto: gli stavano dando quel lavoro da fare? E lui l’avrebbe fatto, a costo di restare in piedi tutta la notte.
 
“Ciao nonna, allora ci vediamo dopodomani.” sorrise Kain.
“Mi raccomando, fate attenzione: è già buio.”
“Tranquilla, mamma, e grazie ancora per aver tenuto Kain.”
“Figurati, è sempre un piacere. A dopodomani, piccolino, ti farò la torta come promesso.”
“Evviva! Grazie nonna!”
Come si avviarono per tornare verso casa, Andrew arruffò i capelli dritti del bambino che ancora sorrideva per il dolce che avrebbe mangiato la prossima volta che andava a trovare i nonni.
“Sei senza vergogna quando si tratta di dolci.”
“L’ha proposto lei – disse il bambino – e io le ho detto di sì. Si sarebbe offesa… Hai lavorato tanto anche oggi, papà? La testa come va?”
“Va bene, tranquillo – sorrise Andrew – avanti, vieni a cavalcioni, così ti dimostro che sto bene una volta per tutte.”
Il piccolo esitò: da una parte non voleva sforzare suo padre che forse non era ancora guarito del tutto, del resto c’era ancora un lieve taglio sulla sua fronte, ma dall’altra l’idea di andare a cavalcioni…
“Solo per un tratto però.” acconsentì, ridendo deliziato quando Andrew con una torsione se lo caricò sulle spalle. Le sue mani affondarono sulla chioma castana, afferrando alcune ciocche e una volta che fu sicuro di quella presa, alzò il viso per poter guardare il cielo.
“Alla fine Roy ce l’ha fatta?” chiese.
“A far cosa?”
“Oggi a scuola ha detto che aveva intenzione di andare dal capitano Falman e di obbligarlo a farlo lavorare al vostro cantiere. Ha detto che l’avrebbe convinto in tutti i modi.”
“Sì, ce l’ha fatta.”
“Davvero? Oh, dovevo immaginarlo: sai, Roy è molto bravo a convincere le persone… è un vero grande!”
Andrew dovette trattenere una risata ripensando a quanto era successo: il grande eroe di suo figlio in realtà era chiuso in casa a risolvere problemi di geometria che poi lui avrebbe corretto il giorno dopo.
“E già, è davvero un grande…” annuì.
“Però sai – ammise il bambino, con tono leggermente preoccupato – ho paura che a mamma non piaccia molto…”
Andrew tornò serio a quell’affermazione: anche lui aveva avuto questo sentore.
“E’ un po’ diverso dagli altri ragazzi, tutto qui…”
“Forse è per la storia di quella caccia al fantasma, ma non capisco perché non gliel’abbia ancora perdonata. In fondo siamo stati tutti puniti e non mi pare che lei sia arrabbiata allo stesso modo con Vato, Heymans e Jean. E poi Roy è molto amico di Riza e a mamma lei piace tanto…”
“Può darsi che la storia della caccia al fantasma c’entri qualcosa. Forse dovresti cercare di obbedire di più a tua madre e dimostrarle che non c’è niente da preoccuparsi…”
“Le obbedisco sempre, lo sai – scosse il capo il bambino – le ho anche promesso che non porto più animaletti in camera.”
Andrew non seppe che altro rispondere e si limitò a dare una pacca sulla coscia del bambino, in un gesto di conforto. Ma la sua mente aveva iniziato a recuperare tutte le volte che suo figlio parlava di Roy e si era accorto che c’era una strana sfumatura di adorazione che non appariva minimamente quando parlava di Heymans o Riza…
Roy aveva carisma da vendere, magari con gli adulti era ancora titubante, ma per un bambino docile e timido come Kain era un vasetto di miele che attira l’ape. Ma mentre Heymans e Riza avevano un’influenza positiva sul bambino…
L’ha trascinato fuori di casa, in piena notte, portandolo in un posto simile… adesso Kain ci ride sopra, ma mi ha raccontato di tutta la paura che ha provato: ha avuto anche gli incubi per due notti di fila.
“Papà…”
“Sì?”
“Ti ricordi di quel ragazzo che mi dava fastidio? Quello più grande di me che mi aveva dato quel colpo?”
“Certo, ma mi pare che non ti abbia più tormentato, no?”
“Era Jean…”
Andrew annuì lievemente.
“Sei… sei arrabbiato con lui?”
“Beh, non sono certo felice di sapere che per anni è stato il tuo aguzzino. Ti ha chiesto scusa?”
“No, non è da lui. Però adesso siamo amici e mi vuole bene: è davvero bravo e poi devi vedere come è premuroso con Janet.”
“Perché mi hai confidato una cosa simile?”
“Perché pensavo… se ho cambiato idea su di lui, è possibile che mamma la cambi su Roy?”
“Spero proprio di sì, Kain: forse sarà solo questione di conoscerlo meglio.”
E di farle capire che non è un pericolo per te…
“Senti, non dire a mamma di Jean, va bene? Per me è tutta acqua passata e mi piacerebbe che lei gli continuasse a  voler bene.”
“Come preferisci, ragazzino: adesso scendi che siamo quasi arrivati.”
“Che? Oh no, mi ero ripromesso di stare a cavalcioni solo per un pezzo! Scusa papà, ti ho stancato molto?”
“Ma smettila con questa storia – disse Andrew esasperato – guarda come sono stanco!”
E senza dargli il tempo di scappare lo afferrò per la vita e facendogli fare un completo giro lo capovolse a testa in giù.
“Papà! – esclamò il bambino ridendo – No dai! Così non vale!”
“Oh, suvvia, all’eroe si può concedere questo e altro. Andiamo a sentire le risate di tua madre quando ti vede tornare appeso a me come un pipistrello.”

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Capitolo 37
*** Capitolo 36. Affrontare il passato. ***


Capitolo 36. Affrontare il passato.

 
“Henry, questo pomeriggio abbiamo intenzione di andare a fare un giro: ti unisci a noi?”
“No – disse distrattamente il ragazzo, senza nemmeno alzare gli occhi dai compiti di grammatica che stava controllando durante l’intervallo – fate senza di me.”
“Ma che hai da un po’ di tempo a questa parte? – chiese uno dei suoi compagni di classe e di banda – Sei assente e non fai niente con noi: c’è qualche problema?”
“No, nessun problema. Semplicemente ho voglia di stare da solo.”
Non aggiunse altro, non li degnò nemmeno di uno sguardo tanto che dopo qualche secondo venne lasciato solo. Sentendo il silenzio attorno a lui, si passò una mano tra i capelli rossicci e fissò la finestra dove si vedeva il cortile che brulicava di ragazzi che giocavano o chiacchieravano tra di loro.
Qualche settimana prima non avrebbe perso tempo ad uscire durante l’intervallo, ma si era accorto che preferiva stare da solo: la compagnia dei suoi amici, che un tempo lo divertiva tanto, adesso gli dava fastidio e spesso si chiedeva come avesse potuto frequentarli e godere di quelle bravate.
Quei giochi, quegli scherzi… gli sembravano così distanti e carichi di nostalgia, ma era come se la sua mente non fosse più in grado di concepirli.
“Non è niente, amore, mi è solo entrato qualcosa nell’occhio…”
“No, non è vero, stava piangendo.” mormorò, pensando a quanto gli aveva detto sua madre quella mattina: quel sorriso così falsamente spensierato sul viso tirato, la voce leggermente tremante. Possibile che credesse di ingannarlo quando era così evidente?
Cosa era successo questa volta? Non aveva sentito suo padre gridare o dirle qualcosa di brutto, ma c’era stato quello sguardo così cattivo. Eppure era sicuro che mamma non avesse fatto niente di male.
Era dal giorno della piena che in casa aleggiava qualcosa di strano, una nuova tensione che aveva il potere di metterlo a disagio più del previsto.
Papà è furioso per qualcosa, ma non dice o fa niente.
Persino con lui aveva cambiato atteggiamento: in genere, anche se era arrabbiato con la mamma o con Heymans, non si faceva molti problemi a parlare con lui. Henry amava quei momenti, certo, ma sapeva anche che erano un modo per attirare l’attenzione su altro e in qualche modo far dimenticare a Gregor il motivo per cui ce l’aveva con il resto della famiglia.
Forse ogni tanto era riuscito ad evitare che la mamma piangesse.
Il fatto che questa volta la crisi stesse durando più del previsto lo spaventava tantissimo.
Un rumore lo destò dai suoi pensieri e si girò verso la porta: Kain lo fissava con un certo timore, ma con un piccolo cenno del capo, andò al suo banco e dopo aver preso un qualcosa dalla sua tracolla, scappò via.
Già, Kain Fury, se non ricordava male una volta aveva grandi progetti su di lui, ma ora non ne aveva nemmeno voglia di pensarci… era solo una di quelle stupide cose senza importanza.
 
“Incredibile ma vero ce la caveremo meglio del previsto – ammise Andrew, guardando assieme a Roy e Vincent quell’elenco – i danni sono stati davvero limitati, anche ora che abbiamo le stime definitive.”
A quelle parole Roy sorrise, sentendosi in qualche modo responsabile di quel risultato: quella mattina la sua classe era uscita un’ora prima per l’assenza di un docente e lui era andato alla stazione di polizia dove aveva trovato oltre al capitano anche il padre di Kain.
E così, ad un mese esatto dalla piena, finalmente le cose erano tornate alla normalità, il sole di fine marzo che sembrava quasi festeggiare quella vittoria del paese: meno danni del previsto e i lavori nei campi già iniziati. E in quel risultato c’erano anche tutti i calcoli ed i problemi di aree e conti che lui aveva svolto senza tregua ogni maledetta sera. Anche se era iniziato come un compito che sembrava scolastico, l’aveva aiutato a capire maggiormente la realtà della vita contadina, di quei confini tra campi da ridisegnare, quei raccolti… no, non era per niente scontato come immaginava ed il suo rispetto per quella gente era aumentato di giorno in giorno.
“E ora come funziona?” chiese, rivolgendosi a Vincent.
“Manderemo una relazione al governo, assieme a questo elenco e cercheremo di ottenere dei fondi per aiutare la ripresa. Ma per fortuna siamo in grado di iniziare da soli: James Havoc ha dato la disponibilità di tutte le merci del suo emporio… attrezzi, sementi e quanto altro.”
“Bene, in ogni caso direi che possiamo dichiarare l’emergenza ufficialmente chiusa – ammise Andrew con un sospiro di sollievo – ottimo lavoro a tutti, davvero. Anche a te, Roy.”
A quelle parole il ragazzo arrossì e anche Vincent gli arruffò i capelli neri con orgoglio: sicuramente il capitano era rimasto sorpreso quando aveva visto con che determinazione Roy si applicava al lavoro che gli era stato assegnato.
“Adesso vado da mio padre – annunciò – gli voglio chiedere alcuni consulti relativi agli aiuti del governo.”
Così, con l’animo finalmente rilassato si diresse verso casa dei suoi: anche suo padre sarebbe stato felice di quella notizia e sicuramente avrebbe voluto festeggiare. Forse era il caso di fare una cena tutti assieme, l’occasione lo richiedeva.
Entrò in casa con un ampio sorriso.
“Mamma, ci sei?”
“Oh, Andy, sei tu – disse il padre, andandogli incontro – ti stavo venendo a cercare. Vieni con me nello studio, devo mostrarti una cosa molto importante.”
C’era qualcosa nel tono della voce del genitore che non gli piaceva. Mentre lo seguiva nell’elegante studio che stava oltre il salotto, si rese conto che l’aveva chiamato con il nomignolo di quanto era piccolo e questo ormai accadeva raramente.
“Che succede, papà? – chiese, vedendolo andare alla scrivania – Sembri turbato.”
“Mi è appena arrivata questa lettera da parte di un avvocato di New Optain.”
“New Optain? Non sapevo avessi delle conoscenze in quella città.”
“Non lo conosco infatti, ma credo che dovresti leggere perché riguarda… oh, insomma tieni.”
Prese la lettera che l’uomo gli porgeva, chiedendosi cosa diamine potesse volere da lui un avvocato di New Optain, posto dove non era mai stato. Forse uno dei suoi ex colleghi di Università? Ma non gli sembrava che ci fosse qualcuno di quelle parti…
Ma i sospetti gli svanirono come lesse le prime righe: si dovette girare di schiena e posarsi alla scrivania mentre le mani gli tremavano per la rabbia. Trasse un profondo respiro per evitare di accartocciare quella lettera e gettarla nel caminetto dove la fiamma ardeva…
Bruciare, purificare… quanto lo vorrei in questo momento. Come può essere così… così…
“Glielo devi dire.” fece suo padre, accostandosi a lui e mettendogli una mano sulla spalla.
“No, non voglio riaprire quella ferita… a che pro? Ha già fatto abbastanza quattordici anni fa, non le permetterò di infierire ancora su Laura.”
“Spetta a lei decidere – scosse il capo Andrew senior, arruffando i capelli del figlio con comprensione, come quando era piccolo – è sua madre del resto. Anche… sì, persino se mi guardi così, ragazzo, anche dopo quello che ha fatto e detto: deve decidere Laura.”
“Papà…”
“Lo so che vuoi proteggerla, ma ha il diritto di saperlo.”
 
Venti minuti dopo, il tempo necessario a calmarsi, stava davanti a casa di Laura: solo dopo che bussò si rese conto che poteva esserci anche Gregor, ma questa volta non gli importava niente di lui.
“Andrew? – fece la donna aprendogli e fissandolo con grande sorpresa – Ma che ci fai qui?”
“Ti devo parlare…” iniziò lui.
“Vieni dentro, dai, tanto Gregor non c’è; ma che hai? Dovresti vedere la tua faccia.”
Lo condusse in cucina e lo fece sedere al tavolo: guardandola Andrew si accorse del viso tirato.
“Anche tu hai una faccia… – fece un profondo sospiro – che cosa ti ha fatto?”
Lei scosse il capo, come a voler negare la realtà dei fatti: finché non c’era aggressione fisica le andava bene. Il fatto che le avesse dato della puttana non le importava, anche se ci voleva un bel coraggio a dire una cosa simile, proprio lui che a puttane ci andava.
“Laura…”
“In preda ai fumi dell’alcool non sa nemmeno quello che dice, tranquillo.”
Anche se probabilmente mi dà della puttana perché è in qualche modo geloso di te, è chiaro. Se avesse un minimo di buonsenso non… oh, ma che voglio pretendere, tanto è chiaro che la situazione mi sta sfuggendo di mano.
“Dai, dimmi cosa succede, ho bisogno di pensare ad altro…”
“Forse preferiresti non saperlo – scosse il capo Andrew con aria cupa – ma ha ragione mio padre nel dire che è un tuo diritto venirne a conoscenza e decidere che fare.”
Le passò la lettera, senza dirle niente.
“Ciao mamma – salutò Henry entrando in quel momento – sono torn…”
“Henry, amore – rispose Laura con un sorriso – tu non conosci questo signore, è un mio caro amico: Andrew Fury. Tu e suo figlio siete compagni di classe.”
“Ah sì.” annuì il ragazzino guardando di sbieco l’uomo e riconoscendo la somiglianza con Kain. Era la prima volta che veniva qualcuno a trovare sua madre e la cosa lo sorprese non poco.
“Ciao Henry – salutò Andrew tendendo la mano con un sorriso – come stai?”
“Bene grazie… beh, io vado in camera. Scendo quando è pronto il pranzo.”
Come il bambino chiuse la porta della cucina i due adulti si guardarono con profonda preoccupazione: Henry non sapeva niente di Andrew ed invece adesso li aveva visti assieme.
“Sono stato uno scemo a venire all’ora di fine scuola.”
“Oh, cercherò di…” iniziò Laura, ma poi la sua attenzione fu assorbita dalla lettera che aveva cominciato a leggere. Andrew vide i suoi occhi grigi diventare freddi ed anche i lineamenti del viso abbandonarono la preoccupazione per indurirsi.
“Ciao mamma – salutò Heymans arrivando – oh, signor Fury, sono…”
Il sorriso spontaneo che aveva fatto sparì quando si accorse di sua madre: non l’aveva mai vista con un’espressione così gelida. Notò che stava leggendo una lettera e si accostò ad Andrew.
“Mamma?” chiese, guardando la donna.
“Posso dirglielo?” domandò Andrew.
Laura fece solo un breve cenno d’assenso e poi piegò con mano tremante la lettera.
“Dirmi cosa?”
“E’ una lettera da un avvocato di New Optain, Heymans: tuo nonno è morto la settimana scorsa e a quanto pare tua nonna vorrebbe rivedere Laura. L’avvocato scrive che pure lei è molto malata e non le resta molto da vivere.”
“Se ci sono questioni legali posso contare su te e tuo padre?” chiese Laura con voce flebile, mettendosi la mano in fronte.
“Certamente, non c’è nemmeno da chiedere, ma…”
“Benissimo. Non ho la minima intenzione di andare da lei: se serve la lettera tienila, altrimenti la butto nel fuoco immediatamente.”
“Laura…”
“No, Andrew – lo bloccò lei con un gesto della mano – no… ha augurato la morte di mio figlio appena nato. Con quello ha chiuso definitivamente con me. Se davvero c’è da andare a New Optain, ti chiedo l’enorme favore di andare tu o tuo padre, ma io non…”
“Andrò io con loro.” disse Heymans all’improvviso.
“Che?”
“No.” disse Laura in un tono che non ammetteva repliche.
“Invece sì, mamma – continuò il ragazzo andandole accanto – voglio guardare in faccia quella persona che ti ha fatto soffrire così tanto.”
“Non permetterò che ti faccia soffrire, Heymans – scosse il capo lei, prendendolo per le spalle – non si è degnata di posare lo sguardo su di te, ti ha augurato di morire. Tu non devi vederla.”
“Non può farmi niente, mamma. Guardami, sono cresciuto: quello che ha detto non ha potere su di me… posso capire che tu non voglia vederla, e sono d’accordo con te. Ma concedimi di affrontare almeno questo fantasma.”
“Andrew…” mormorò Laura, cercando l’aiuto dell’amico, ma lui si limitò a sospirare.
“Se è questa la sua decisione, forse è giusto; onestamente non me la sento di dirgli cosa fare.”
E a quelle parole, Heymans capì di aver ottenuto quel permesso.
 
Se non fosse stato per il senso di confusione che gli attanagliava lo stomaco, si sarebbe goduto pienamente la grandissima avventura del viaggio in treno. Era la prima volta che si allontanava così tanto dal paese, addirittura verso una grande città come New Optain: a guardare una cartina non si poteva immaginare quanto potesse essere vasto il mondo, eppure quella era solo una parte di Amestris.
Era seduto in uno scompartimento accanto ad Andrew, mentre davanti a loro stava il nonno di Kain che si sarebbe occupato di risolvere eventuali questioni con l’avvocato: del resto la lettera era così vaga che ci si poteva aspettare di tutto.
“Se guardi tra quelle montagne c’è un fiume – gli fece notare Andrew ad un certo punto – è lo stesso che più a sud attraversa East City. Un giorno mi piacerebbe portare voi ragazzi a vederla, sono sicuro che rimarreste a bocca aperta.”
“E’ più grande di New Optain?”
“E’ la città maggiore del distretto Est: gli edifici sono veramente pregevoli.”
Ad Heymans piaceva sentirlo parlare, lo aiutava a distrarsi dall’idea di incontrare per la prima volta sua nonna. E gli faceva anche dimenticare la reazione di Gregor quando aveva scoperto che lui sarebbe stato via per tre giorni: non potevano nascondergli dove e con chi andava.
“Si tratta dei miei genitori, Gregor, ed è una decisione ormai presa.”
“Senza dirmi niente, ovviamente… che cosa speri di ottenere, ragazzino?”
“Voglio solo incontrare mia nonna, tutto qui: penso che sia un mio diritto.”
“E perché dovrebbe andare con te quell’uomo?”
“Si chiama Andr…”
“Perché suo padre è un notaio e se ci sono delle questioni legali è meglio che se ne occupi lui.”
“Per via della rendita, dici? Beh, suo figlio non c’entra niente.”
“Lui va per via di mio fratello, va bene?”
“Fratello? Mamma, non sapevo che avessi un fratello.”
“E’ morto, tesoro, un giorno te ne parlerò. Portava il tuo stesso nome.”
“E per fortuna che hai preso solo quello da lui… ora c’è il suo cagnolino a rompere le scatole, eh?”
“Non dire sim…”
“Basta è deciso: è necessario che si risolvano delle questioni legali e riguardano anche Andrew. Se poi Heymans  vuole incontrare sua nonna, che sia… sono solo tre giorni.”
“… in albergo stanotte e domani andremo a trovare tua nonna.”
“Certamente.”
“Hai idea di cosa aspettarti? Te lo chiedo perché vorrei che fossi preparato a quest’incontro.”
“Non lo so e francamente non ci voglio pensare: valuterò sul momento, tutto qui. Ma di certo non posso dimenticare quanto mi avete raccontato… sono sempre stati così? A volte me lo sono chiesto.”
“Sempre così non direi proprio: finché non è successo il fatto non erano mai stati così… crudeli. C’era una netta preferenza per Henry, non lo nego, ma anche Laura era la prima ad idolatrare il fratello e quindi non ha mai sofferto in questo senso, almeno fino a quando lui non è andato in Accademia e si è trovata a stare sola con loro. In tre capiva maggiormente in fatto di non essere al livello di Henry.”
“Mamma non fa preferenze tra me e mio fratello.”
“Certo che no, come è giusto che sia: magari con te ha un rapporto leggermente più stretto per via di quanto è successo, ma non ha mai fatto mancare a uno l’amore in favore dell’altro. Non potrebbe mai.”
“Crede che mia nonna volesse riappacificarsi con mia madre?”
“Non lo so, sono passati quattordici anni e c’è anche la morte di Henry in mezzo. Non ho la minima idea di cosa attendermi.”
“Li ha perdonati, signore?” chiese dopo qualche secondo.
“No… non potrei mai. Non sfogherò la mia rabbia su una donna di settant’anni che sta per morire, ma se dovrò dire quello che penso lo farò. Heymans, qualunque cosa ti dica, specie se sgradevole, ricorda che lei non ha nessun potere su di te, va bene? Non può farti del male, assolutamente.”
Istintivamente gli passò un braccio attorno alle spalle e lo strinse a sé: cercava di convincersi in tutti i modi che Susanna Hevans non aveva davvero nessun potere per far del male a Laura o a suo figlio. Eppure ricordando tutto quello che era successo non poteva far a meno di sentirsi estremamente preoccupato.
“E’ l’inizio…” mormorò Heymans, posandosi contro il suo fianco.
“L’inizio di cosa?”
“Del cambiamento.”
 
“Il signor Emil è morto una decina di giorni fa – disse l’avvocato, un uomo sulla cinquantina dai capelli radi e dai modi molto pratici – negli ultimi anni il suo fisico aveva ceduto molto ed una febbre particolarmente violenta gli è stata fatale: nell’arco di una settimana era tutto finito.”
“Per quanto riguarda la sepoltura?” chiese il padre di Andrew.
“Tutto fatto, secondo le volontà della signora: è stato seppellito nel cimitero della città ed è desiderio della moglie essere posta accanto a lui quando sarà il momento.”
“Lei come sta?” fu Andrew a porre quella domanda, mentre arrivavano davanti al piccolo villino nella periferia della città. Attraversarono il giardino dall’erba ben tagliata e dai cespugli di rose curati e l’uomo bussò alla porta.
“I dolori alle ossa l’hanno tormentata molto negli ultimi due anni e raramente si alza dal letto o dal divano. E’ fisicamente provata e la morte del marito è stata un duro colpo: vi prego di tenere un tono di voce basso in sua presenza. Ah, buongiorno Marie – salutò una timida donna di servizio che fece un leggero inchino – come andiamo oggi?”
“E’ voluta andare in salotto e sedersi accanto al fuoco, signore. Da questa parte.”
Heymans sentì la mano di Andrew che si posava sulla sua spalla, incoraggiandolo mentre percorrevano quel corridoi sconosciuti. Non aveva mai immaginato che la famiglia di sua madre fosse così benestante: la villetta era ben arredata e molto spaziosa, specie se andava a confrontarla con la casa dove viveva lui. L’idea che avessero abbandonato la loro figlia in una condizione simile gli fece montare la rabbia: avevano tutte le carte in regola per risolvere la situazione e…
“La signora è qui dentro; – disse l’avvocato – signor Fury, vuole venire con me nello studio del signor Hevans? Le mostro le disposizioni di cui le parlavo.”
Heymans non ebbe tempo di rendersi conto che il gruppo si stava dividendo: la cameriera aprì la porta e li fece entrare in un confortevole salottino con una calda carta da parati rossa. Un fuoco ardeva nell’elegante caminetto, rendendo l’ambiente caldo e accogliente e donando al divano, al tavolino con un servizio da the sopra, alle poltrone e agli altri arredi, delle sfumature davvero piacevoli.
E’ questo l’antro della strega che mi ero immaginato?
Un miagolio attrasse la sua attenzione e subito un grosso gatto mielato andò incontro a lui, la folta coda dritta quasi fosse una bandiera, e si strusciò contro le sue gambe. Istintivamente si chinò ad accarezzarlo e lo prese in braccio, sentendo le fusa e traendo uno strano conforto da esse.
“Signora Hevans.” salutò intanto Andrew che si era portato accanto ad una poltrona piazzata davanti al caminetto. Lo schienale era così alto ed ampio che il ragazzo non vedeva niente; si era ripromesso di non avere esitazioni, eppure scoprì di aver timore di conoscere sua nonna. Si chiese se quel vestito buono che indossava sarebbe stato adatto, se avrebbe visto in lui qualcosa di suo zio o se invece si sarebbe limitata alla somiglianza con suo padre.
Perché? Perché mi deve importare così tanto di quello che pensa di me?
“Andrew Fury… quasi non ti riconoscevo.” la voce era debole e vellutata. Perché non riusciva a percepire la crudeltà che gli avrebbe dato la spinta per andare avanti?
“Sono passati quasi quindici anni, signora.”
“Laura è con te?”
Heymans vide una lieve esitazione sul volto dell’uomo, come se si chiedesse quale fosse il modo più delicato per dire ad una persona anziana e malata che la figlia non era andata al suo capezzale.
“No, signora, non è venuta. Ma c’è un’altra persona con me – si girò verso il ragazzo – Heymans, coraggio, vieni qui.”
Stringendo lievemente in gatto, come per farsi forza, si avvicinò a quella poltrona, lo sguardo fisso sul fuoco per evitare fino all’ultimo il contatto visivo con sua nonna. Ma quando fu accanto ad Andrew e alzò gli occhi su di lui per ricevere suggerimenti, l’uomo gli mise una mano sulle spalle e lo indusse a guardare la persona che fino a quel momento aveva evitato.
Lei era… era bella.
E fu sconvolgente perché se ti aspetti di affrontare un nemico fa oggettivamente più comodo che sia brutto e non che assomigli in maniera così evidente a tua madre. Susanna Hevans aveva settant’anni e problemi di salute, ma era innegabile la sua bellezza: i capelli, ancora folti, erano bianchi come la neve e raccolti morbidamente dietro la testa. In qualche punto si intravedeva ancora qualche ricordo del rosso che li aveva caratterizzati in gioventù, perché Heymans non aveva dubbi: erano gli stessi di sua madre, così come gli occhi grigi, quelle lievi lentiggini sul naso… sua nonna era solo la versione vecchia di sua madre.
Che qualcuno mi dia la forza!
Il gatto probabilmente percepì la sua tensione e si divincolò per scendere, il campanellino che portava al collo tintinnò come toccò terra. Un rumore acuto che si sparse nella stanza ed ebbe il potere di spezzare quell’incantesimo.
Guardala, le assomiglia così tanto. Ma c’è qualcosa di diverso nei suoi occhi…
Il ragazzo…” fu un soffio quello che uscì dalle labbra dell’anziana signora, le mani sul grembo che ebbero un sussulto.
“Sì, signora – annuì Andrew – lui è Heymans. Adesso ha quasi quindici anni.”
Gli occhi della donna si puntarono su Heymans, fissandolo come se fosse un fantasma proveniente da un passato che si era scordata. Come si salutava una donna che lo stava studiando in quel modo?
Mi sta levando la pelle con quegli occhi!
Rinculò contro Andrew senza nemmeno rendersene conto.
“Nonna…” riuscì a mormorare.
“Dio mio, perché? – sospirò lei, girando il viso dall’altra parte – La voce di Henry, ha la stessa voce; quale… quale perverso scherzo del destino è questo, Andrew Fury? Mi si leva un figlio per ridarmi un bastardo.”
“Non è un bastardo, signora – le mani di Andrew strinsero le spalle di Heymans – è il figlio di Laura ed ha un cognome, così come suo fratello minore.”
“E’ sempre di quell’uomo?”
“Certo, è suo marito. L’altro bambino si chiama Henry, proprio come suo figlio.”
“Per sporcare la memoria di Henry, certo. Laura non finirà mai di sorprendermi: è stato un bene che non sia venuta.”
La stessa voce gelida di sua madre. Identica.
Heymans dovette scuotere con violenza la testa per convincersi che non c’era paragone tra le due donne.
“Non ha sporcato la memoria di mio zio – si ritrovò a dire a voce tesa – ha chiamato così mio fratello perché amava Henry.”
“Non sai nemmeno di cosa stai parlando – continuò la donna, rifiutandosi di guardarlo – tu non puoi capire quanto la tua esistenza abbia rovinato mia figlia e tutta la mia famiglia. Mi chiedo ancora con che coraggio tua madre ti abbia preso in braccio appena nato; sei praticamente frutto di una violenza ad una sciocca ragazzina.”
“No! – scosse il capo lui – Mamma non la pensa in questo modo.”
“Perché è la solita sciocca: poteva abortire, poteva salvare un minimo di dignità e la sua stessa vita. Invece no, ha fatto di testa sua, con Henry a spalleggiarla invece di metterle un po’ di sale in testa.”
“Adesso basta – si intromise Andrew – vedo che la situazione non è cambiata in tutti questi anni. E’ inutile, lei è sempre stata troppo diversa dai suoi figli, signora.”
“Quel sentimentale di Emil voleva anche perdonarla negli ultimi giorni – sospirò lei, guardando la finestra – e mi ha supplicato di scriverle per sapere come stava, se aveva bisogno di qualcosa. E’ incredibile cosa porti a fare la paura della morte. Ma era stanco, molto stanco: in realtà lui voleva rivedere Henry, come lo capisco.”
Il suo viso si spostò, questa volta verso la mensola del caminetto dove c’era una foto di un giovane in divisa.
Era la prima volta che Heymans vedeva una foto di suo zio.
“Non me l’hanno mai restituito il mio bambino – sussurrò mentre una lacrima le scendeva sulla guancia piena di morbide rughe – mai… eppure ho pregato tanto. Ora non ho più nessuno.”
Avresti me – gridò Heymans dentro il suo cuore – avresti mia madre, mio fratello! Ma non vuoi, proprio non ci riesci. Io…
“… io voglio andare via – sussurrò, alzando lo sguardo su Andrew – per favore.”
“Ma certo, ragazzo – annuì lui, abbracciandolo – vieni, direi che non c’è altro da dire.”
Non salutarono nemmeno quella donna: il suo sguardo era fisso in quella foto del figlio, come se sperasse che all’improvviso iniziasse a parlare. Prima che la porta si richiudesse alle sue spalle, tutto quello che Heymans sentì fu il campanellino del gatto mielato.
 
La porta della sua stanza venne aperta con discrezione ed Andrew entrò.
Nel vederlo Heymans si sedette nel letto, ma non disse una parola.
Fra un paio di ore avrebbero ripreso il treno che li avrebbe portati a casa, lontano da quel posto, da quella donna. Dopo quel fatidico incontro, era come se tutto gli fosse passato accanto senza che lui non se ne rendesse conto: erano andati a visitare la tomba di suo nonno, nel grande cimitero del paese e poi, mentre il padre di Andrew svolgeva alcune formalità, Andrew l’aveva portato in giro, come se fosse una normale gita turistica.
Ma invece di illustrargli i monumenti, gli edifici, le indubbie bellezze di quel posto, l’uomo si era limitato a farlo passeggiare senza una meta precisa.
Anche il cibo del ristorante non aveva nessun sapore, così come tutto il resto.
Per non parlare della notte: non aveva chiuso occhio ed era rimasto a fissare il lieve chiarore che entrava dalla finestra per le luci della strada.
“Tra due ore lasciamo l’albergo, hai fatto i bagagli?”
“Sì.”
“Bravo – annuì Andrew, fissandolo con imbarazzo – meglio essere pronti. Tua madre sarà sorpresa di vederci tornare in anticipo, ma sarà felicissima: scommetto che le sei mancato tanto.”
“Sì, probabile.”
Non disse altro, nemmeno quando l’uomo si sedette accanto a lui.
“Perché le devi dare questa soddisfazione? – gli chiese, circondandogli le spalle con un braccio, come ormai era solito fare – Sapevi bene che poteva andare a finire così, non devi dare peso alle sue parole.”
“E’ mia nonna…”
“E’ anche la madre di Laura: l’ha cresciuta per diciannove anni per poi ripudiarla in quel modo. Che cosa pretendevi da lei? Onestamente, Heymans, credevi che finisse in un commovente abbraccio tra nonna e nipote?”
“No! – esclamò lui, riuscendo finalmente ad uscire dall’apatia – Non mi aspettavo niente di diverso: ero pronto a vomitarle addosso tutto quello che pensavo di lei! Eppure… non ce l’ho fatta: sono rimasto lì come un vigliacco, riuscendo a malapena a dire qualcosa e a supplicare lei di portarmi via da quel salotto maledetto. Che cosa c’è di sbagliato in me? Dannazione, come posso pretendere di cambiare le cose se nemmeno per mia nonna sono stato capace di…”
Non terminò la frase e scosse il capo con violenza.
Si detestava, era sempre così: si riprometteva grandi cose, eppure al momento decisivo si trovava paralizzato da quella paura, da quell’esitazione.
“Non hanno potere su di te, ragazzo mio – lo consolò Andrew – devi solo rendertene veramente conto.”
“E’ così simile alla mamma…”
“Solo fisicamente: Laura non potrebbe mai parlare in un tono così gelido…”
“No, quando mamma parla di lei ha il medesimo tono. Non lo voglio mai sentire su di me…”
“Ma quando mai pensi che Laura farebbe una cosa simile per te?”
“Non lo so, non so più a cosa credere. Però ho davvero rovinato una famiglia…”
“Non dirlo manco per scherzo: stai facendo solo il gioco di tua nonna in questo modo. Henry e Laura non hanno mai smesso di essere fratelli, chiaro? Io non ho mai smesso di essere loro amico, va bene? Sono stati quei due bigotti a fare quella scelta: non devi guardare la parte malata e disdegnare quella buona. Sarebbe solo autocommiserazione e non è da te, né da tua madre, né da tuo zio.”
“Mi scusi, lo so… lo so che è così. Ma in questo momento è così difficile.”
“Forse ho un modo di tirarti su il morale – disse Andrew dopo qualche secondo – a dire il vero è il motivo per cui sono venuto da te. Le questioni legali sono state risolte, in fondo si trattava solo di confermare che l’eredità andrà a Laura, ma questa è una cosa che tuo nonno voleva che avessi io. Ma, considerato come stanno le cose, preferisco darla a te.”
Prese dalla tasca una vecchia busta per le lettere e la porse al ragazzo.
Heymans la prese e la rigirò tra le mani, notando che era abbastanza pesante: era chiaro che dentro non c’erano dei fogli: la aprì e iniziò a tirare fuori delle vecchie foto.
“Vediamo se riconosci questo trio di ragazzi: ammetto che due di loro sono un po’ invecchiati, ma in fondo la somiglianza c’è ancora.”
“Siete voi?”
“Sì – sorrise Andrew – durante una festa campestre: qui tua madre ed io abbiamo diciotto anni. In questa invece ci sono lei ed Henry, l’ho scattata io, ricordo bene: tua madre si era appena fatta quel fiocco azzurro per i capelli ed Henry non faceva altro che prenderla in giro per la sua vanità. Questo invece è tuo zio appena terminata l’Accademia…”
E rimase per tanto tempo a raccontargli di quelle foto, degli avvenimenti dell’infanzia e dell’adolescenza, quando tutto era bello e colorato e credevano che la vita non fosse altro che una meravigliosa avventura che avrebbero vissuto tutti e tre assieme, inseparabili come solo loro potevano esserlo.
Ad Heymans sembrava incredibile vedere sua madre così felice e sorridente, senza pensieri o preoccupazioni: era una persona completamente diversa da quella che conosceva, come se quelle foto provenissero da un altro mondo.
“Siete così diversi… “
“Beh, più di quindici anni fa: matrimoni, figli, felicità, dolori… ne è passata di acqua sotto i ponti. Forse per te è strano, ma io lo vedo ancora quel sorriso negli occhi di tua madre: è forse più maturo, più dolce, meno spensierato, ma c’è. E tu e tuo fratello ne siete la causa principale.”
Heymans arrossì a quelle parole e fece per rimettere le foto nella busta, quando si accorse che sul fondo c’era qualcos’altro. Rovesciò il contenuto sul palmo della sua mano e vide che era un braccialetto di metallo con delle targhette.
Henry Hevans – G2946
“Ti avevo detto che l’esercito provvide a restituire le piastrine con il nome ed il codice d’identificazione di tuo zio… eccole. Non so per quale motivo, ma tuo nonno ha voluto darle a me invece che a Laura.”
Com’era leggero eppure pesante quel braccialetto: Heymans passò più volte le dita sul nome inciso nel metallo, quasi ad imprimerselo nella memoria.
E’ tutto qui? Possibile che di lui resti solo questo?
“Forse non voleva che mamma lo vedesse.”
“Probabile. Non lo so, Heymans, forse tuo nonno negli ultimi anni della sua vita ha cambiato qualcosa nel suo modo di pensare, non mi viene in mente altro. Ma anche se così fosse, non ha avuto il coraggio fino all’ultimo di incontrare Laura.”
“E a lui sei disposto a perdonare?”
Non gli diede del lei, non sapeva nemmeno il perché.
Andrew notò questa confidenza che gli veniva per la prima volta concessa e si permise di essere sincero.
“Poteva risolvere tutto, forse sarebbe arrivato ad accettarti, ma non l’ha fatto. Non li perdonerò mai per quello che hanno fatto a Laura: Susanna è stata divorata dal suo orgoglio, Emil dall’orgoglio prima e dalla vigliaccheria poi. Forse è leggermente migliore della moglie, ma non mi basta.”
“Sì – ammise Heymans dopo un po’, riprendendo in mano la foto dove stavano tutti e tre assieme – la mamma è completamente diversa dalla nonna.”
“Beh, siamo riusciti a riportarti tra coloro che pensano, Heymans Breda. Allora, sei pronto a partire?”
“Sì… signore, sul serio vuole che le tenga io?”
“Sì, è un mio desiderio.”
“Grazie. Però, preferisco che la tenga lei: a casa sarebbe pericoloso, almeno per il momento.”
“Capisco ed approvo. Comunque, quando vuoi, a casa ho un po’ di lettere che ti farebbe piacere leggere: un’intera corrispondenza tra soldato, sorella e migliore amico… credo che in diverse si parli anche di te.”
“Sul serio? Sarò davvero felice di leggerle, grazie signore!”
“Possiamo andare via di qui senza nessun rimpianto?”
“Sì, direi di sì… mi dispiace solo per quel povero gatto: era simpatico, stare con quella donna non dev’essere facile.” sogghignò.
Andrew scoppiò a ridere e gli arruffò i capelli.
“Dovevi fare una battuta del genere a tua nonna, sai. Il sarcasmo è proprio quello di Henry.”
“Morirà presto, vero?” non c’era cattiveria o aspettativa in quella domanda.
“Il medico dice che è questione di qualche settimana, ormai. Tua nonna ha detto solo una cosa che corrisponde alla realtà: è sola, non ha più nessuno. Ma è stata una sua scelta.”
“Credo che fosse sincero anche il dolore per Henry.” ammise lui.
“Sì, anche questo è vero. Ma l’ha distorto trasformandolo in astio verso te e Laura.”
Heymans annuì, e pensò che di distorsioni dei sentimenti ne aveva viste fin troppe nella sua vita: tutto quello che voleva era mettere le cose nel verso giusto.
“Voglio che mamma si separi da papà.”
“Non è facile, te ne rendi conto?”
“Lo so, ma sarebbe peggio continuare a trascinare questa cosa che sta massacrando lei e mio fratello. Papà sta cambiando atteggiamento anche con lui e questo non mi piace: è come se la piena e tutto quello che è successo quel giorno abbiano portato alla luce qualcosa di nuovo.”
“Heymans, promettimi una cosa: non fare mosse azzardate. Gregor non è tua nonna che poteva farti male solo con le parole, capisci cosa intendo?”
“Certo, signore, farò attenzione. Quello che vorrei sapere è se mamma può chiedere la separazione da lui.”
“Sì, può farlo – annuì Andrew con un sospiro – ma non cercare di accelerare le cose: ricordati che Gregor è il capofamiglia ed ha dei diritti su te ed Henry più forti di quanto tu creda.”
“Ma se tradisce mia madre! Che diritti potrebbe mai pretendere di avere su di…”
“E’ vostro padre – lo bloccò Andrew – e per la legge ha più diritti su di voi, specie perché non siete così piccoli. Ha mai picchiato te ed Henry?”
“No, ma non è questo che…”
“Rispondimi: ha mai fatto qualcosa che concretamente  vi ha danneggiato? E non parlo di indifferenza o diversità di trattamento… parlo di cose fisiche e materiali, perché sono queste che hanno maggior peso nella separazione.”
“No, non ci ha mai danneggiato. Ma non ha lavoro, è sempre ubriaco, tradisce mia madre… che altro vogliamo aggiungere?”
“Per me ce n’è d’avanzo, lo sai bene – Andrew notò quanto fosse sconvolto e lo abbracciò, accarezzandogli i capelli rossicci – non è facile, Heymans, il cognome che portate tu e tuo fratello è una catena che vi lega strettamente a lui. Anche se è ubriaco, non ha lavoro, non c’è prova che lui sia un cattivo padre… un cattivo marito sì, perché c’è il tradimento. Ma riguarda Laura e non te ed Henry: non è per niente scontato che la vostra custodia vada a lei.”
“E cosa deve succedere perché si dimostri un cattivo padre?”
“Niente. Non deve succedere niente perché non voglio assolutamente che accada qualcosa a te e tuo fratello. Ecco perché mi devi giurare che non farai cavolate, chiaro? E guardami mentre me lo giuri, Heymans, è troppo importante.”
“Lo giuro…” mormorò lui, dopo qualche secondo, fissandolo con esitazione.
Ma in cuor suo era pronto a rischiare la propria incolumità per ottenere quello che voleva.




Il bellissimo disegno è di Mary_
^_^

se volete vederlo nella versione "a colori" (qui ho messo quella "seppia"), guardate qui
http://it.tinypic.com/r/2dul8j6/8

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Capitolo 38
*** Capitolo 37. Interludio di inizio primavera. ***


Capitolo 37. Interludio di inizio primavera.

 

Quasi a farsi perdonare dei disastri provocati dall’intensa pioggia del mese prima, il tempo decise di regalare un clima decisamente primaverile già a fine marzo. Ormai da diversi giorni il sole batteva dolcemente sulla terra, sui campi e sulle teste dei ragazzi che parvero risvegliarsi dal torpore in cui erano caduti nelle lunghe serate invernali, quando il freddo li obbligava a stare dentro casa.
In momenti come questi si sente l’esigenza di festeggiare una simile rinascita e dunque nessuno rimase sorpreso quando, un lunedì, Elisa chiamò tutti a raccolta e propose di organizzare un picnic all’aperto.
“Senza nessun motivo particolare – spiegò – giusto perché non abbiamo mai fatto niente tutti assieme con le nostre famiglie: sarebbe una bella idea, non credete? Potremmo farlo di domenica così possiamo stare tutto il giorno a divertirci.”
“Che bello, una festa! – esclamò Janet, battendo le mani con entusiasmo ed iniziando a saltellare – Non vedo l’ora.”
“Mah, non mi sembra chissà che cosa…” iniziò Roy, non essendo abituato a cose simili e ritenendole poco dignitose per uno come lui.
“Per rendere la cosa più interessante possiamo anche organizzare dei giochi: – fece la ragazza, senza perdersi d’animo – l’anno scorso c’è stata la gara di corsa, quella di freccette e tante altre: così anche voi ragazzi avrete modo di farvi valere.”
Ovviamente era un’esca troppo appetitosa per non far abboccare chi, come Jean e Roy, non vedeva l’ora di cimentarsi in simili prove e così rimasero tutti d’accordo che quella domenica avrebbero organizzato la festa nel grande cortile che stava dietro la casa degli Havoc.
Come succede per queste cose, i ragazzi furono subito catapultati in un clima di grande eccitazione: chi pensava a cosa cucinare, chi a quali giochi fare, al materiale che serviva: sembravano un gruppo di api che ronzano operose attorno all’alveare.
Ovviamente non ci furono problemi a convincere le rispettive famiglie: per cose simili c’era sempre un grandissimo spirito d’iniziativa e nell’arco di una sera anche gli adulti vennero coinvolti.
Avevano deciso di fare di quella festa un evento indimenticabile.
 
“Ferma così, mi raccomando – mormorò Laura, prendendo uno spillo – non voglio pungerti.”
Riza obbedì e rimase immobile mentre la donna bloccava il punto esatto dove doveva tagliare.
“Anche questo le andrà a meraviglia: – sorrise Ellie – non avrei mai pensato che i colori che usavo io stessero bene anche a lei che ha capelli biondi e occhi castani.”
“La carnagione è chiara in entrambe – constatò Laura, girando attorno alla ragazzina – e queste tinte delicate vanno benissimo nonostante i capelli differenti. Bene, signorina, adesso alza delicatamente le braccia che ti aiuto a sfilarlo.”
Trattenendo il fiato per evitare di smuovere qualche spillo, Riza eseguì l’ordine chiudendo gli occhi e sentendo l’abito di lino che le scivolava via, lasciandola in biancheria intima.
“Scusa, Laura, ti chiedo sempre di fare cose all’ultimo minuto.”
“Ah, tranquilla Ellie, tanto questo è molto più facile da adattare a lei e lo faccio in due giorni: e mi sa tanto che lo faccio in modo che possa usarlo anche per gli anni successivi. Ti ridò la stoffa in eccesso, così quando sarà il momento buono lo sistemiamo.”
Riza finì di rimettersi la gonna e si accostò alle due donne che parlavano: anche per quest’occasione la madre di Kain aveva insistito perché indossasse un abito nuovo. La cosa le faceva tanto piacere: aveva imparato ad amare quei momenti esclusivamente tra di loro, mentre le faceva provare tutti quei bei vestiti. Alla fine la scelta era caduta su un abitino verde chiaro da mettere sopra una camicia bianca: era così semplice eppure allo stesso tempo così bello e delicato: era davvero incredibile come la valorizzava.
Ellie le mise con affetto la mano sulla spalla mentre continuava a parlare dell’organizzazione della festa.
“Se penserete voi ad Heymans ne sarò davvero felice.”
“Dovresti venire anche tu, Laura, sul serio – scosse il capo Ellie, mentre la osservava raccogliere il suo materiale da sarta – ti farebbe bene. Tanto lo sai che stai assieme a noi tutti e non ci sono problemi, e poi questa volta siamo davvero in pochi…”
“No, meglio di no. Ma sarò felicissima che Heymans ci vada: da quando è tornato dal viaggio a New Optain lo vedo molto chiuso in se stesso. Gli farà bene sfogarsi con tutti i giochi che hanno intenzione di organizzare.”
Riza seguì in silenzio quella conversazione, mentre Laura andava via dalla casa dei Fury. Aveva visto giusto: Heymans in quell’ultimo periodo era diverso. Non sapeva per quale motivo fosse andato a New Optain, ma le sembrava strano che non avesse detto una parola su un qualcosa di eccitante come un viaggio in treno. Solo Jean era l’unico con cui avesse parlato, ma non era trapelato nulla: sicuramente riguardava la sua famiglia e non era niente di gradevole.
“Mi dispiace che le cose vadano male per la signora Laura – mormorò quando rientrò con Ellie in cucina, dove dovevano preparare diverse cose per la festa – è così buona con me.”
“Vedrai che si risolverà, tesoro – la consolò la donna, accarezzandole i capelli – è solo questione di tempo. Allora, vediamo un po’ questa lista di cose da preparare: ne abbiamo di lavoro. Adesso ti insegno a fare l’impasto per la torta salata: vieni qua e mettiti il grembiule.”
E senza nemmeno rendersene conto, Riza si trovò immersa in quella meravigliosa lezione di cucina: con la mamma di Kain era qualcosa di totalmente diverso rispetto al preparare da sola. Era così bello seguire i suoi consigli, cercare di imitare i suoi movimenti, sentire quelle mani che la guidavano nella difficile impresa di stendere uniformemente l’impasto.
Quelle ore volarono via senza che lei nemmeno se ne accorgesse.
“Ho fame! – annunciò Kain, entrando in cucina e mettendosi tra loro due – Non c’è la merenda?”
“Ah, scusa, amore, non avevo visto l’ora. Abbi pazienza, se lascio quest’impasto a metà si rovina.”
“Va bene.” sospirò lui, mettendo la mano sopra la farina sparsa per il tavolo e lasciando la sua impronta. Poi guardò la polvere bianca sulla sua pelle e senza pensarci sollevò il braccio per lasciare delle ditate sulla guancia di Riza.
“Ehi! – protestò lei, sentendosi offesa nella sua dignità di cuoca – non si fa!”
“Ma dai che ti sta bene – ridacchiò Kain, dimostrandosi veramente rapido nel lasciarle una nuova ditata, questa volta sul mento – non credi che… oh no!”
“Beccati questo – sorrise la ragazzina, restituendo il favore – ora hai la guancia bianca anche tu e…”
Kain immerse le mani nella farina e si buttò contro la sua amica.
Succede spesso così: un attimo prima sei una brava cuoca tredicenne e poi subito dopo sei a terra a rotolarti con il tuo piccolo amico tra risate e proteste, riempiendo di farina te stessa e il pavimento attorno. In genere Riza non si lasciava andare a queste cose, ma Kain aveva il potere di renderla incredibilmente spontanea e giocosa, proprio come un cucciolo.
“No, no ragazzi – cercò di richiamarli all’ordine Ellie, impossibilitata a mollare quell’impasto – state facendo un disastro, per favore.”
Ma come facevi a dare retta a quella voce se proprio in quel momento Kain ti stava mettendo la farina nel collo? Era più importante capovolgerlo a terra ed iniziare a fargli il solletico.
“Diamine – sospirò la donna, impegnandosi a terminare e a mettere al sicuro l’impasto nella terrina – Va bene, adesso basta: rialzatevi e… Kain!” esclamò quando la farina arrivò addosso a lei.
“Ma è stata Riza – protestò il bambino – io non ho…”
“Non essere bugiardo, sei stato tu! Io non ho lanciato niente.”
“Non mi importa chi è stato – disse impassibile Ellie, cercando di riportare l’ordine in quella cucina – adesso basta con questo disastro: guardate i vostri vestiti ed i vostri capelli. Siete pieni di farina, così come il pavimento. Ora vi alzate e andate a lavarvi.”
“Ma mamma…”
“E non voglio sentire storie, altrimenti un paio di sculacciate a testa non ve le leva nessuno. Sì, signorina, persino a te: forza, a lavarvi.”
Dovette fare un notevole sforzo per mantenere l’aria seria mentre i due contendenti uscivano con il broncio; fu solo dopo qualche secondo che si concesse di scoppiare a ridere, tanto che fu costretta ad asciugarsi le lacrime con il grembiule.
“Ho appena visto due fantasmi salire le scale – fece Andrew, entrando con curiosità in cucina – sembravano nostro figlio e Riza, ma erano così bianchi che non li ho distinti. Ma che cosa è successo qui?”
“Si stavano azzuffando con la farina: erano uno spettacolo, dovevi vederli.”
“Riza? Mi pare assurdo.”
“Oh, proprio lei: stavano ridendo come non mai. Mi è quasi dispiaciuto doverli sgridare, ma stavano facendo un disastro: ormai sono proprio come due fratelli, si lasciano completamente andare tra di loro.”
“Torna con i piedi per terra, amore mio – sorrise Andrew, abbracciandola nonostante la farina e baciandola sul naso – lo so benissimo che vorresti tenerla qui con noi, ma non si può.”
“Tu non lo vorresti?” sospirò lei.
“Certo che lo vorrei, lo sai che adoro pure io la nostra piccola Riza. Ma ha già un padre, Ellie… dopo Gregor è l’ultima persona che augurerei come genitore, ma c’è lui.”
“Già, c’è lui… Scusami, Andrew, sei già preoccupato per la situazione di Laura e ora mi ci metto pure io.”
“Come ti è sembrata?”
“Strana, credo che la morte di suo padre l’abbia turbata più del previsto: è stato come fare un tuffo nel passato che si vorrebbe dimenticare. E poi è preoccupata per Heymans ed Henry, insomma sembra che stia andando tutto a rotoli.”
“E’una situazione di stallo veramente logorante…”
“Perché non se ne va? – chiese Ellie fissando il tavolo da cucina pieno di farina e di ingredienti sparsi – Non la ama e sono sicura che per i ragazzi non nutre vero interesse…”
“No, è una strana e perversa forma di possesso quella che lo spinge a restare. E’ un qualcosa di così malsano che non riesco nemmeno a concepirla del tutto. Ma quello che mi preoccupa è Heymans: ha qualcosa in mente e non me lo vuole dire.”
“Ha quattordici anni, non credo che possa fare qualcosa di pericoloso.”
Andrew scosse il capo e cercò di convincersi pure lui di quelle parole, ma qualcosa gli diceva che il ragazzo aveva tutta l’intenzione di spezzare quello stallo non appena si fosse presentata l’occasione giusta.
Gliel’ho detto in tutti i modi che quell’uomo è pericoloso, lo sa meglio di me. Ma non riesco a dimenticare i suoi occhi mentre mi prometteva di non fare mosse azzardate: è una promessa che romperà non appena lo riterrà opportuno, lo sento.
 
“Non lo so, non ne sono molto convinto.” ammise Jean, mentre con Heymans finiva di portare un tavolo di legno in cortile.
“Non ti chiedo di esserne convinto – scosse il capo il rosso, una volta che lo posarono accanto agli altri – solo di non dire niente a nessuno. Ti ho raccontato tutte queste cose perché sei il mio miglior amico e so che posso fidarmi di te.”
“Fratellone, Heymans – chiamò Janet – mi aiutate a mettere le tovaglie?”
Il discorso venne interrotto dall’arrivo della bambina ed Heymans, come se niente fosse, sorrise e si mise ad aiutarla, ma Jean preferì tornare dentro casa.
Aveva sempre ritenuto che tra loro due fosse Heymans il più accorto ed intelligente, ma sentiva che questo suo piano faceva acqua da tutte le parti: provocare un adulto era sempre un gioco davvero pericoloso, specie se le conseguenze non erano delle semplici punizioni. Gli sembrava che il suo amico stesse giocando con un fuoco troppo grande per lui e più che scottarsi rischiava di bruciarsi malamente.
“Se avessi altre scelte… ma la situazione in casa non può più andare avanti così. Se lui non si smuove allora tocca a me iniziare.”
Da una parte Jean cercava di immedesimarsi in Heymans e capiva il suo disagio: da quando era tornato da New Optain e gli aveva raccontato di quell’incontro assurdo con sua nonna materna… insomma, lui aveva un ottimo ricordo della sua, anche se era morta che lui aveva sei anni.
“… e poi anche con Henry sta cambiando atteggiamento: è come se all’improvviso si fosse accorto che quel nome gli dà ancora fastidio e lo tratta di conseguenza. Mio fratello è diverso dal solito: è silenzioso, chiuso in se stesso, è come un cagnolino che si domanda perché all’improvviso viene preso a calci… lo sta distruggendo con questi suoi sbalzi d’umore. Per non parlare di mamma; capisci che sono l’unico che può fare qualcosa?”
“Sì, però non credo che…” iniziò a mormorare.
“Jean – chiamò Angela – sono arrivati i primi ospiti, vai tu per favore? Io sto levando roba dal forno.”
“Va bene, mamma – esclamò, cercando di dimenticarsi di quei pensieri almeno per quella domenica: in fondo Heymans oggi sembrava disposto a godersi la giornata e sarebbe stato un bene per tutti loro – Ehi, ciao Riza, come stai?”
“Ciao, Jean – salutò lei, mentre passava al giovane i pacchi che teneva tra le braccia – ti ho portato una sorpresa.”
“Ah sì?”
“Ciao, Jean.” Rebecca, tutta sorridente nell’abito blu, fece la sua comparsa da dietro l’amica.
Vedendola il biondo sentì un brivido di pericolo attraversargli la schiena: da quel fatidico ballo del primo dicembre i rapporti tra loro due si erano ridotti al minimo e l’aveva vista solo poche volte, sempre in compagnia di Riza. Adesso, quasi a testimonianza che la primavera fa rifiorire, era di nuovo in splendida forma, senza più tristezza o preoccupazione nel viso.
“A questa festa non si balla – disse lui, cercando di mettere le carte in tavola: la vedeva pericolosamente vispa, come se la lezione dell’altra volta fosse stata dimenticata – spero che Riza te l’abbia detto.”
“Oh, stai tranquillo – rise lei – e non ti preoccupare, ho dato il mio contributo: ho preparato degli ottimi tramezzini per tutti.”
“Spero siano commestibili.” sbuffò, facendo strada alle due ragazze.
“Fidati, Jean – lo consolò Riza – i tramezzini di Rebecca sono i migliori che abbia mai mangiato: provare per credere.”
“Vedremo…” concesse lui, cercando di ignorare quegli occhi neri fissi sulla sua persona.
“Ehi, Jean – commentò James, uscendo proprio in quel momento dal magazzino – non sapevo che ti vedessi ancora con quest’affascinante signorina.”
“Per favore non iniziamo, eh!”
 
Nonostante l’umore inizialmente preoccupato di alcuni partecipanti, quella piccola festa partì col piede giusto e si rivelò un vero successo: in particolare i ragazzi erano particolarmente scatenati e avevano l’esigenza di sfogare tutte le loro energie in corse a perdifiato, giochi con la palla, dimostrazioni di forza e qualunque cosa richiedesse movimento fisico.
“Numeri tre!” esclamò Elisa, tenendo il fazzoletto davanti a sé.
Immediatamente Roy e Jean corsero accanto a lei e si squadrarono con aria furba, cercando di anticipare l’altro nel prendere la bandierina.
“Dai fratellone, prendi il punto!” tifò Janet.
Fu questione di un secondo, ma i due contendenti si mossero contemporaneamente e si trovarono a strattonare il fazzoletto tra le risate di tutti quanti. Alla fine fu Jean a spuntarla, in quanto aveva in mano una parte maggiore di stoffa, e tornò ridendo tra la sua squadra.
“Quattro a tre!” esclamò.
“Ehi, voi, giocatori – chiamò Angela dai tavoli – il pranzo è pronto e… piano!”
Una torma di ragazzi dai sei ai diciassette anni si riversò nei tavoli con un appetito pronto a mettere a dura prova tutto quello che stava venendo portato in tavola. Avevano passato l’intera mattina a giocare e adesso pretendevano di rinnovare le loro energie.
“Insomma, ragazzi! Fermi! – gridò la donna – Seduti composti o non servo niente a nessuno, chiaro?”
Fu incredibile come quella minaccia riportò l’ordine, tra le risate degli adulti: al posto del branco scatenato ora c’erano degli agnellini che guardavano speranzosi in attesa che il proprio piatto venisse riempito.
“Beata gioventù – commentò Vincent a capotavola, guardando Roy e gli altri mangiare con tanto entusiasmo – finalmente si sono dimenticati del tutto della storia della piena e si godono la loro età.”
“Già – sorrise Andrew, notando come anche Heymans fosse sereno e partecipe – una giornata come questa era proprio necessaria: hanno avuto davvero una bella idea ad organizzare questa festa.”
“Andiamo, assaggiali – disse Rebecca, attirando l’attenzione di tutti – ti sfido a dire che non sono buoni.”
Jean arrossì e la fissò con odio, mentre prendeva con malagrazia uno dei tramezzini che lei gli porgeva. Lo rigirò tra le mani per qualche secondo, con fare dubbioso, e poi diede un morso come se fosse convinto di aver appena ingurgitato veleno. Tutta la tavolata si fermò ad osservare, in attesa del fatidico verdetto, mentre la ragazzina non levava gli occhi dalla sua cavia.
“Sì, sono buoni – ammise lui quando ebbe ingoiato il boccone – del resto sono tramezzini, non vedo che cosa ci voglia a preparali e…”
“Beh, allora ne voglio uno pure io.” interruppe Roy, prendendone uno.
“Anche io, dai passa.” fece Heymans.
E in quel momento Jean si sentì profondamente oltraggiato, come se gli stessero portando via qualcosa che considerava suo, mentre Rebecca sorrideva estasiata vedendo il successo della sua pietanza.
Venduta al miglior offerente: stupida femmina.
 
Dopo quel pranzo di notevole portata, sia adulti che ragazzi si concessero un’oretta di pausa prima di riprendere i vari divertimenti che si erano organizzati.
Elisa si alzò dal tavolo e disse che aveva intenzione di fare una passeggiata e, ovviamente, Vato si alzò per scortarla, ignorando le occhiate maliziose di tutti. Prese per mano la fidanzata e si incamminarono per la campagna che stava lì attorno.
“Ah, che meraviglia la primavera – sospirò lei, stiracchiandosi – non vedevo l’ora che tornasse questo bel tempo: il sole mi dà tantissima energia.”
“Già – arrossì lui, cercando di dimenticarsi quello che la stiracchiata aveva messo in evidenza – ci voleva proprio.”
“Hai visto il grande e maturo Roy? Mentre si azzuffava con Jean per la bandierina non sembrava proprio quello che ha voluto fare l’adulto a tutti i costi.”
“Oh, dai, non parliamo di lui.”
“Di che vuoi parlare, allora? – sorrise lei con malizia, chinandosi a raccogliere un fiore – Di te? Lo sai che eri davvero bello mentre facevate la gara di corsa? Con il viso arrossato ed il fiatone hai un fascino del tutto diverso da quando stai concentrato su un libro, anche se è lì che sei maggiormente se stesso.”
“Perché mi devi sempre prendere in giro?”
“Non ti prendevo in giro, per me sei davvero bello – ammise lei, uscendo dal sentiero e andando a posarsi di schiena contro un albero – ed io? Mi trovi bella?”
“Bella – mormorò il ragazzo raggiungendola – certo che sei bella… bellissima.”
Lo faceva impazzire quando socchiudeva gli occhi in quel modo e schiudeva appena le labbra in attesa di un bacio: si chinò su di lei, cercando la sua bocca e abbracciandola. Possibile che la primavera fosse capace di rendere un bacio del tutto diverso? Era così inebriante, così carico di desiderio…
“Eli…” sussurrò, accarezzandole il collo.
“Vato, perché… perché i baci che ci siamo dati fino ad ora mi sembrano così…”
Infantili?
Voleva risponderle, ma i loro corpi in qualche modo cedettero e si trovarono inginocchiati a terra, la schiena di lei contro quel tronco, completamente imprigionata e senza possibilità di fuga. Le braccia candide, finalmente visibili per l’abito a metà manica, erano abbandonate sui fianchi.
Vato cercò di nuovo le sue labbra, sentendosi impazzire per quella nuova versione così sensuale della sua fidanzata: gli sembrava di essere perso in un folle mondo di luce e calore dove non c’era via d’uscita e tutto era…
… morbido?
Abbassò lo sguardo e vide che la sua mano era scesa davvero troppo.
“S… scusa! Scusa! Scusa! – fece alzandosi in piedi – Sono un mostro!”
Lei continuava a fissarlo, ancora in ginocchio: ebbe solo la forza di portarsi la mano al seno che le aveva appena toccato. Ed era così rossa in viso, così bella e desiderabile.
Come? Come è possibile che nemmeno un’ora fa stavamo giocando a bandierina?
“Vato…”
“Non volevo, te lo giuro – cercò di spiegarsi – è scesa da sola, non me ne sono nemmeno reso conto.”
“Non sono arrabbiata – scosse il capo lei, riprendendo un minimo di autocontrollo e riuscendo a spezzare l’incantesimo di desiderio che li aveva circondati – è… è stato piacevole. Però… non… non ancora, va bene?”
“Certo! Scusami, amore, scusami tanto – la aiutò ad alzarsi – non so che mi è preso. Posso abbracciarti? Ti giuro che non accadrà più.”
Si abbracciarono sentendosi estremamente sollevati di essere usciti da quel momento di pura follia che li aveva attanagliati. Non credevano che i loro corpi già da adesso potessero iniziare a desiderarsi in una maniera decisamente più adulta.
“Tienimi stretta, per favore – mormorò la ragazza – non lasciarmi andare.”
“Va bene, Eli, tranquilla. Non ti lascio per niente al mondo.”
Doveva solo far passare gli ultimi residui di quell’ubriacatura d’amore primaverile.
 
“Quanto li invidio – sospirò romanticamente Rebecca, mentre lei e Riza sistemavano i piatti e andavano a portarli in cucina – mano nella mano a passeggiare.”
“Io li trovo perfetti – annuì la bionda, seguendo il percorso che aveva indicato loro Angela – stanno così bene assieme. Ah, ecco: ha detto di posarli pure sopra il tavolo e ora prendiamo i bicchieri puliti… ma qui non ci sono.”
“No? Eppure aveva detto che erano sopra il piano da lavoro.”
“Forse si è sbagliata o li ha spostati – scrollò le spalle Riza – aspetta qui, vado a chiedere.”
Rebecca annuì e iniziò a canticchiare, mentre girava attorno al tavolo: era davvero contenta che i suoi tramezzini avessero avuto un così grande successo. Non ne era rimasto nemmeno uno e se doveva essere sincera non le era dispiaciuto quando Jean aveva fatto quell’occhiata offesa nel vedere che li prendevano anche gli altri.
“Che ci fai qui?” chiese proprio l’interessato, entrando e posando con fastidio un vassoio vuoto.
“Aspetto Riza: è andata a chiedere a tua madre dove stanno i bicchieri puliti.”
“Sono qui – le fece vedere lui, aprendo un’anta della credenza – evidentemente li ha rimessi dentro perché le serviva spazio per cucinare. Mettili in quel vassoio.”
“Oh, grazie.” annuì, mentre prendeva in mano i primi due che le venivano passati.
Mentre proseguivano con quella piccola catena di montaggio, la ragazza osservò la schiena e le spalle del ragazzo, trovandole incredibilmente belle e robuste per la sua età. Forse alla festa del primo dicembre aveva giocato male le sue carte, ma questa volta era decisa a non sbagliare: non aveva minimamente intenzione di lasciar perdere.
“Hai presente il tuo compagno Norbert?”
“Sì, perché?”
“Lui e Lili si sono baciati la settimana scorsa, per sfida.”
“Non ci credo – disse Jean fissandola con incredulità – Norbert è solo uno stupido, non avrebbe il coraggio di fare certe cose. Figuriamoci baciare.”
“Già, è una cosa troppo da grandi, vero? Eppure lui è il primo della vostra classe… che vergogna, Jean Havoc, sei stato superato da un tonto come lui.”
Con somma soddisfazione vide che Jean stava reagendo a quella provocazione: l’orgoglio di un quattordicenne si feriva abbastanza in fretta.
“Non sarà stato niente di speciale, di certo non è come i baci che si danno i veri fidanzati come Vato ed Elisa. Per un bacio come quello sono bravi tutti.”
“Bene, dimostralo.”
“Eh? – gli occhi azzurri si sgranarono – Ma io…”
“Ti sfido a darmi un bacio, dato che sono bravi tutti a farlo. Ma se non ci riesci, allora vuol dire che sei solo un vigliacco ed un pallone gonfiato.”
Jean la fissò con astio, rendendosi conto di essere appena stato messo alle strette, senza nessuna possibilità di uscirne; Rebecca aveva tirato in ballo l’orgoglio, trascinandolo in quella trappola mortale: adesso doveva baciarla o sarebbe stato considerato un vigliacco.
Maledetto Norbert! Lo ammazzo!
“Uno solo, sia chiaro!” arrossì, prendendola per le spalle.
“Va bene – annuì lei – un bacio, è semplice, no? Persino Norbert e Lili ci riescono.”
Chiuse gli occhi e protese il viso, lasciando che fosse Jean a fare tutto quanto, come era giusto che fosse.
Così facendo non vide come il ragazzo avesse il volto incredibilmente teso, mentre lentamente diminuiva la distanza tra i loro visi.
Andiamo, era facilissimo, non poteva dimostrarsi da meno di quell’idiota di Norbert. Si trattava solo di poggiare per qualche secondo le sue labbra su quelle di Rebecca, tutto qui: era come dare un bacio alla mamma, o come quando Janet a volte gli dava un bacio sulle labbra. Era un gioco da ragazzi…
Sì, va bene… e allora fallo, idiota!
Trasse un profondo respiro e poi posò le sue labbra su quelle di Rebecca, contò mentalmente fino a tre e poi la lasciò andare. Era stato più semplice del previsto e per fortuna nemmeno troppo fastidioso eccetto quella sensazione di umidiccio, evidentemente Rebecca si era leccata le labbra poco prima.
“Beh, sei contenta? Vedi che era una cosa davvero ridicola da fare? E che non esca di qui che… ma che hai?”
“Oh, Jean – arrossì lei con un sorriso estatico – il mio primo bacio… il primo. Te ne rendi conto?”
“E allora? – alzò le spalle lui, non riuscendo a capire – anche per me era il primo ma non…”
“E’ stato così romantico! Certo, diverso da come me l’ero immaginato: nei miei sogni tu in realtà mi dicevi un sacco di cose carine prima di abbracciarmi e baciarmi, ma sei stato così meraviglioso.”
“Ho solo posato le labbra sulle tue per tre secondi, finiscila. E comunque ti ho dimostrato che Norbert non vale niente, questo è quello che conta.”
Ma era chiaro che Rebecca non lo stava nemmeno ascoltando: le femmine erano proprio strane.
L’importante è che non faccia uscire la cosa da questa cucina.
 
“Andiamo, ragazzino – sorrise furbescamente James, chiudendo meglio la mano su quella di Heymans – sono sicuro che puoi fare di meglio.”
Il giovane serrò gli occhi, cercando di resistere a quella sfida a braccio di ferro palesemente impari: il padre di Jean stava chiaramente giocando con lui, l’avrebbe messo a tappeto in pochi secondi.
“Forza Heymans!” esclamò Roy, mettendo la mano sopra la sua e iniziando a dare manforte.
“Pensi che non riesca a tenervi a bada in due?” James tese meglio i muscoli per far fronte a quella nuova spinta. Ma proprio quando stava per dare il colpo decisivo si dovette fermare perché anche le manine di sua figlia si erano messe ad aiutare Roy ed Heymans.
“Dai, Heymans, vi aiuto pure io! – esclamò con convinzione – Vedrai che battiamo papà!”
Ovviamente non ci avrebbe impiegato niente a far volare a terra anche lei, ma sarebbe stato difficile considerando che era letteralmente sopra il tavolo con metà del suo corpo sopra le braccia dei ragazzi.
Così, per amore della figlioletta, mise da parte l’idea di vincere facile e si fece mettere a tappeto, con un’esclamazione di rabbiosa sorpresa.
“Evviva! – esultò Janet, scavalcando Roy per andare ad abbracciare Heymans – hai visto, Heymans? Ti ho aiutato a vincere!”
“Grazie, Janet – sorrise lui ricambiando quella stretta – senza di te proprio non ce l’avremmo fatta.”
“Oh, del resto tu sei il mio fidanzatino, no? E’ normale che ti aiuti.”
A quelle parole Heymans sbiancò: tutta la tavolata aveva sentito la parola fidanzatino ed il segreto che aveva cercato di tener nascosto per mesi era alla fine saltato fuori.
“Fidanzatino?” chiese incredulo Roy, iniziando a ridacchiare.
“Sì, fidanzatino – annuì Janet, con convinzione – anche se è timido e non vuole che si sappia.”
“Non è come… – iniziò a balbettare il rosso, spostando lo sguardo su tutti gli adulti presenti, in particolare su James ed Angela – è che non potevo dirle che… noi non…”
“Non ti preoccupare, Heymans – lo consolò la bambina strusciando la testolina contro di lui – mamma e papà ti vogliono bene e sicuramente sono felici che sei il mio fidanzatino. Vero, papà?”
“Certo, tesoro – disse James cercando di tenere l’aria seria – papà è tranquillo nel sapere che il tuo fidanzatino è Heymans, sei davvero in buone mani.”
A quelle parole il ragazzo si sentì svenire: perché dovevano dare corda a questa storia? Che qualcuno spostasse l’attenzione da qualche altra parte, altrimenti…
“Ferma, dove vai?” la voce preoccupata di Jean giunse con perfetto tempismo.
Tutti si girarono verso la grande casa per vedere Rebecca che usciva di corsa, seguita dal preoccupatissimo primogenito degli Havoc.
“Riza! Riza! – esclamò la ragazzina, raggiungendo la sua migliore amica – Mi ha dato un bacio! Capisci? Il mio primo bacio…”
“Sul serio?” sgranò gli occhi lei, girandosi come tutti a guardare Jean.
“No, non è proprio così! Insomma, lei mi ha detto che Norbert e Lili…”
“Ahah, ragazzo, lo sapevo che questa brunetta aveva fatto colpo su di te!” esclamò James, battendo il pugno sul tavolo con grande soddisfazione.
“Congratulazioni, Jean – lo prese in giro Roy – adesso sei anche tu un fidanzatino!”
“Finiscila! Senti, Rebecca, credevo di averti detto che non volevo che si sapesse… e poi era solo…”
“Oh, Jean, sei stato meraviglioso – lo interruppe lei, prendendogli le mani – dopo quel disastro del primo dicembre credevo che non volessi più saperne di me… ed invece! Non mi avresti dato un bacio così meraviglioso.”
“Ma se sono stati solo tre secondi contati – scosse il capo lui – e poi mi hai preso in trappola e…”
“Lo so, vuoi fare la parte del duro, ma sei stato così tenero: sei il ragazzo più bello ed eccezionale che esista al mondo. Ti preparerò tutti i tramezzini che vorrai, per tutta la vita.”
“Come tutta la vita?” sbiancò lui, mentre i capelli gli si rizzavano.
“Ah! Beccati questa Jean! Adesso anche tu sei un fidanzatino – esclamò Heymans, trovando tutto questo estremamente divertente – Vai, Rebecca, è solo timido.”
“Come te, Heymans.” disse Janet, appellicciandosi ancora di più a lui.
“Comunque siamo troppo giovani – cercò di salvarsi Jean – tu hai appena tredici anni e…”
“Sai, Jean – fece Kain con un sorriso innocente – la mia mamma ha deciso che papà era l’uomo della sua vita a tredici anni.”
“Scherzi, vero?” mormorò lui, sentendosi condannato a morte.
“E poi non ne ho più tredici – specificò Rebecca – due settimane fa ne ho compiuto quattordici.”
“Che cosa romantica – esclamò Rosie, appoggiandosi al marito, mentre Ellie ed Andrew si scambiavano un bacio, entrambi rossi in viso come due ragazzini – la primavera è proprio il tempo dell’amore.”


 

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Capitolo 39
*** Capitolo 38. Tra due fuochi. ***


Capitolo 38. Tra due fuochi.

 

Una delle conseguenze più soddisfacenti della festa, a parere degli adulti, fu che i ragazzi si dimostrarono felici e spensierati come era giusto che fossero alla loro età. In particolare Andrew aveva visto Heymans di nuovo propenso al gioco e allo scherzo e si era augurato con tutto il cuore che fosse l’inizio di un periodo di relativa calma che lo aiutasse a sbollire. Un altro genitore molto soddisfatto era Vincent, anche se in questo caso il suo sollievo era per Roy: finalmente aveva superato l’esigenza di rendersi utile a tutti i costi e si dedicava a cose tipiche di un quindicenne.
A fare un’attenta analisi, Roy era quello che era maggiormente cambiato negli ultimi mesi: una volta Jean aveva detto a suo padre che finalmente stava iniziando a scendere dal piedistallo, ed era vero. Non si preoccupava più di tenere un atteggiamento di superiorità nei confronti di quelli che ormai erano i suoi amici, il suo gruppo: la sua leadership era venuta fuori naturalmente, senza che dovesse imporla. Probabilmente non si era nemmeno accorto che, almeno di fatto, era il capo di quella strana ed eterogenea combriccola, ma se avesse fatto più attenzione, avrebbe notato che gli altri si riunivano dove c’era lui e non viceversa.
Ma quando si tratta dei tuoi amici smetti di far caso a queste cose e ti preoccupi di più per loro.
E fu questa nuova pretesa a creare il disastro.
 
Era passata una settimana dalla festa e il ragazzo era intento ad osservare Kain che, durante l’intervallo, stava mangiando un tramezzino che Rebecca gli aveva appena offerto (la ragazza si era dimostrata di parola e ormai ogni giorno portava le sue opere culinarie, sebbene oltre a Jean ne approfittassero anche loro).
Studiò con attenzione il viso infantile, il sorriso dolce e timido, gli occhi scuri e pieni d’ingenuità…
Ora, lui era particolarmente affezionato a quel piccolo gnomo dall’intelligenza fuori dal comune: certo, era forse troppo titubante e indeciso e aveva delle notevoli paure, ma Roy era convinto che, con un determinato addestramento, si potesse superare tutto quanto.
La problematica di Kain era che veniva troppo coccolato, non tanto da Riza (se c’era un rapporto dove Roy non voleva mettere il naso era quello tra la sua amica ed il bambino), ma da sua madre. Aveva già avuto il sentore che il bambino fosse estremamente attaccato alle sottane di Ellie sin da quando era andato a casa sua per la prima volta, ma alla festa ne aveva avuto la conferma.
Insomma, come fai ad abbracciare tua madre in quel modo ad undici anni? Io me ne vergognerei a morte! Quella donna è decisamente la causa di tutti i suoi problemi, mi aspetto solo che lo vesta da femminuccia e l’opera sarà completata… perché non scodellava una bambina se aveva tanta voglia di vezzeggiare qualcuno? A undici anni quel ragazzino si deve dare una svegliata.
“Che guardi?” fece Riza, accostandosi a lui.
“Niente di particolare – scosse il capo – senti, Riza, com’è la madre di Kain?”
“La signora Fury? Oh, è adorabile: è sempre così gentile e premurosa con me; hai presente il vestito della festa? Era suo e ha voluto che la mamma di Heymans lo adattasse a me. E poi mi ha insegnato un sacco di cose in cucina e anche…”
“No, non intendevo questo. Parlavo del suo rapporto con Kain.”
“Beh, mi pare tutto normale – ammise lei con un’alzata di spalle – si vogliono molto bene.”
“Si… uhm… coccolano?”
“Intendi dire baci, abbracci e carezze? Sì, naturalmente: Kain non è per niente timido per queste cose, ma anche con me è molto affettuoso; scusa, dove vorresti arrivare?”
“Niente di particolare, è che alla festa mi è sembrato così obbediente nei confronti dei genitori.”
“Lui è obbediente – corresse Riza – e non ci vedo niente di male.”
“Ehi, Riza, vieni ad assaggiare anche tu.” la chiamò Rebecca.
Forse, se avesse indagato oltre, si sarebbe accorta di cosa frullava nella mente di Roy e avrebbe fatto di tutto per evitarlo, ma era una cosa veramente inconcepibile… un po’ come lo era stata la caccia al fantasma.
Il problema era che Roy Mustang non lo riteneva per niente inconcepibile, anzi aveva appena deciso che era il caso di staccare Kain da sua madre con un po’ di sana disobbedienza maschile.
 
Roy era il grande eroe di Kain: da sempre era stato il ragazzo più inarrivabile della scuola e ad inizio anno scolastico era impensabile che si potesse accorgere di lui, figuriamoci parlargli e diventare suo amico. Il fatto che fosse successo non aveva minimamente intaccato l’aura di sacralità di cui il bambino aveva circondato il ragazzo e di conseguenza continuava a pendere dalle sue labbra come un cagnolino.
Dunque non ci pensò due volte ad uscire di casa quel pomeriggio, quando Roy venne inaspettatamente a chiamarlo, anzi ne fu veramente estasiato.
“Stai uscendo, pulcino? – fece Ellie dalla cucina – Dove vai?”
“A fare un giro, mamma, sono con… con Roy.”
Al ragazzo grande non sfuggì quell’esitazione e la interpretò come un punto a suo favore: era chiaro che Ellie Fury stava soffocando lo spirito ribelle di suo figlio e dunque era necessario intervenire.
“Oh, Roy, hai portato la bicicletta!” esclamò con gioia.
“Sali in fretta, dai: prima che tua madre inizi a farne un dramma.”
Il bambino annuì e salì agilmente sul sellino, lasciandosi andare all’ebbrezza dell’alta velocità.
Non sospettava minimamente che Roy avesse intenzione di fargli compiere il suo primo atto di disobbedienza. A dire il vero era una cosa molto leggera: aveva semplicemente intenzione di fargli fare più tardi del previsto: distrarlo con la bicicletta era un buon modo e passò il pomeriggio a girovagare per le campagne, insegnandogli anche i primi rudimenti per andare da solo (un po’ difficile, considerato che era troppo basso per arrivare ai pedali).
“Roy – mormorò Kain ad un certo punto – io devo tornare a casa, si sta facendo tardi.”
“Tardi? Che cosa vuoi che sia: a undici anni non è che devi presentarti sempre puntuale a casa, no?”
“Ma la mamma si preoccupa.” scosse il capo lui, ben consapevole dei preconcetti che Ellie aveva nei confronti del suo amico. E poi, oggettivamente, non gli piaceva far preoccupare sua madre.
“E’ una femmina – spiegò Roy, con l’aria di chi la sa lunga – è normale che si preoccupi: tra dieci minuti andiamo, va bene?”
Kain annuì con aria mogia, sperando che la cosa non indispettisse troppo sua madre, ma del resto Roy gli aveva garantito che erano solo dieci minuti: era una soglia di tolleranza accettabile.
Alla fine, tuttavia, il ritardo accumulato fu di quasi venti minuti e quando Kain entrò a casa aveva l’aria molto colpevole.
“Kain, tesoro – arrivò immediatamente Ellie – si stava facendo tardi.”
“Oh, mamma, scusa – mormorò il bambino abbracciandola – non me ne sono reso conto… non si ripeterà più, promesso.”
Ellie in quei giorni era di buon umore e si era anche ripromessa di essere più accondiscendente con l’amico di suo figlio: alla festa, del resto, si era comportato bene, senza fare niente di pericoloso. Ed inoltre era giusto diminuire piano piano la sua ansia per il figlio. Dunque non le passò per la mente di sgridarlo: del resto Kain era molto obbediente e dunque non c’era da preoccuparsi se qualche volta non si accorgeva del tempo che scorreva.
“Va bene, caro: scommetto che eravate impegnati a giocare, vero? – sorrise, arruffandogli i capelli – Adesso vai a lavarti le mani, da bravo, è quasi pronto in tavola.”
 
Quell’incidente sarebbe passato nel dimenticatoio senza troppi problemi, ma nell’arco di due settimane si ripeté con notevole frequenza: ogni volta Kain cercava di tornare a casa in orario, ma Roy si dimostrava irremovibile nel farlo tardare.
“Finiscila di lamentarti come una femminuccia e dimostra di essere un vero maschio: devi piantarla di preoccuparti se fai un po’ tardi.”
Ma al decimo ritardo Ellie perse la pazienza e mise il bambino in punizione e di conseguenza, quando Roy il giorno dopo si presentò, trovò Kain che lo attendeva affacciato alla finestra della sua camera.
“Roy!” chiamò, controllando che la madre non fosse in cortile.
“Ehilà, gnomo – salutò lui – scendi?”
“Non posso – sospirò il bambino – sono in punizione: mamma si è arrabbiata per i continui ritardi e mi ha detto che non posso uscire per tutto il finesettimana che sta iniziando.”
“Tutto qui? – sorrise Roy, intuendo che il momento era buono per fare un ulteriore passo avanti – Beh, non c’è problema, esci di nascosto.”
“Che? Ma sei impazzito? – scosse il capo l’altro, impanicandosi alla sola idea – Mamma questa non me la perdonerebbe mai.”
“Te l’ho detto, deve smetterla di essere così rompiscatole: e anche tu devi piantarla di essere così obbediente. Sei sempre attaccato a lei, vuoi deciderti a crescere?”
“Ma Roy…”
Il ragazzo nemmeno lo ascoltava, aveva notato che c’era un albero i cui rami si sporgevano nella tettoia davanti alla finestra della camera di Kain. Con un’agilità degna di nota, impiegò solo pochi secondi ad arrampicarsi e a saltare sopra il piano di tegole blu scuro.
“Fai attenzione – ansimò il bambino, sorpreso davanti ad una simile prodezza – è pericoloso!”
“Ma finiscila, non è pericoloso per niente – dichiarò Roy, mettendosi comodamente a sedere sul davanzale – fammi capire, non sei mai evaso da camera tua? Nonostante questa perfetta via di fuga?”
“Ma io sono in punizione, non posso… e poi è pericoloso.”
“Gnomo, tu sei decisamente troppo pauroso, ma è il momento di finirla. Avanti: scavalca questo davanzale.”
“Che? – indietreggiò lui – Ma io…”
“Forza – tese la mano Roy – ti aiuto io la prima volta. Ti fidi?”
Il bambino valutò quella mano che gli veniva offerta e tutti i rischi annessi a quella pericolosa evasione. Tuttavia, come aveva ben intuito Andrew, il magnetismo che Roy esercitava su di lui era troppo forte e l’ultima cosa che voleva era che il suo amico si facesse una cattiva opinione di lui. Di conseguenza il suo corpo si mosse quasi involontariamente verso quella pericolosa prova.
“Bravo, gnomo – sorrise l’altro, estremamente orgoglioso di quella vittoria – adesso scavalca e vieni con me: la tettoia è praticamente piatta e non rischi di cadere.”
“Mh… però mia mamma se viene e non mi trova…”
“Un po’ di sana disobbedienza da parte tua la aiuterà a diventare meno ansiosa; forza… il ramo è questo: usa quell’altro per tenerti con le mani.”
“Va bene – annuì il bambino con voce tremante, volendo con tutto il cuore tornare dentro la sua sicura cameretta – mi tieni, vero Roy?”
“Certo tranquillo: anzi, aspetta che vado avanti io, così ti aiuto. Bravo, gnomo, mi stai rendendo davvero fiero di te.”
“Davvero?” riuscì a sorridere.
“Certamente, sei proprio…”
“Kain!” la voce di Ellie interruppe quel momento.
Abbassando lo sguardo i due ragazzi videro la donna che aveva fatto cadere a terra un cesto di biancheria pulita e si era portata le mani sul viso in un gesto d’angoscia.
“Mamma – chiamò il piccolo, impanicandosi – aspetta, non spaventarti, scendo subito.”
“No, tu non scendi!” lo bloccò Roy.
“Piccolo mio, fai attenzione – ansimò Ellie, sapendo bene che suo figlio mai si era cimentato in simili imprese – è così alto.”
“Roy, fammi scendere – protestò Kain – la mia mamma è preoccupata!”
“Roy Mustang, fallo scendere!” esclamò Ellie.
“Devo scendere!”
“Mamma mia, quanto siete uguali, voi due – si esasperò Roy, ma prese Kain per la maglietta e abbassò il tono di voce – sai che c’è? Come scendi e quella si calma finirai nei guai…”
“Sono già nei guai, non lo capisci? Peggioro solo le cose.”
“Possiamo tentare di fuggire e…”
“Dai, Roy – supplicò Kain – lascia stare, per favore.”
E al grande non restò che fissare quegli occhi neri così ansiosi ed annuire.
“Va bene, se vuoi continuare a fare il frignone, vai pure a beccarti la tua punizione.”
“Come io vado da lei, tu prendi la bici e vai via.”
“Che c’è? Hai paura che metta pure me in castigo?” fece con sarcasmo.
“No – sospirò Kain, mettendo il piede su un ramo – vorrei evitare che iniziasse a punirmi davanti a te.”
Almeno quel minimo di dignità voleva salvarlo, specie davanti al suo eroe.
 
La mattina seguente, domenica, una Riza totalmente ignara di quanto era successo decise di fare un’improvvisata a casa Fury.
Passò dal cortile sul retro, trovando la porta della cucina aperta e così si affacciò.
“Buongiorno, signora – sorrise, vedendo Ellie intenta a scrivere sul libro di ricette – come sta?”
“Ciao, tesoro – salutò la donna, posando la penna – vieni pure.”
“C’è Kain?”
“E’ in camera sua in punizione, ci resterà per tutta la prossima settimana: uscirà solo per andare a scuola e per i pasti.”
Riza si sorprese: non aveva mai sentito il tono della donna così severo nei confronti del figlio e anche una punizione così pesante non era da lei.
“Ma che è successo?”
“E’ successo che ha disobbedito una volta di troppo – dichiarò Ellie, fissando con severità davanti a sé – l’avevo detto che Roy non era una buona compagnia per lui ed ecco il risultato.”
“Roy? – si sorprese la ragazzina, iniziando a ricordare che nelle ultime due settimane i due si erano visti molto spesso – Non pensavo che avesse combinato qualche guaio. Posso… posso parlare con Kain?”
“Sarebbe in punizione…”
“Per favore, solo dieci minuti – supplicò Riza, prendendole le mani – è importante.”
“Va bene – acconsentì Ellie – ma solo dieci minuti.”
Annuendo Riza si catapultò su per le scale, bussando alla porta della camera di Kain.
“Ehi, Kain, sono Riza: sto entrando, va bene?”
“Mamma lo sa o sei venuta di nascosto?” chiese il bambino con tono preoccupato.
Era sdraiato prono sul letto a sfogliare il suo quaderno: forse aveva dormito fino a poco prima perché il lenzuolo era tirato a coprirlo fino a metà schiena.
“Certo che lo sa – disse, andando a sedersi accanto a lui – stavi riposando?”
“Per il lenzuolo dici? – arrossì lui – No è che… fa troppo male per tenere calzoni e boxer alzati, ma un minimo lo devo coprire.”
“Scusa?”
“Non me ne parlare – sospirò, affondando la testa nel cuscino – e ogni sera per tutta la durata della punizione, prima di andare a letto, mamma me le suonerà. Non l’ho mai vista così furiosa…”
“Posso sapere che ha combinato Roy?”
“Ha tentato di farmi evadere dalla finestra e adesso credo che mi consideri un debole… Riza, devo aver fatto un disastro: adesso non c’è proprio possibilità che mamma accetti Roy, ed è tutta colpa mia.”
“No, dai non piangere – lo consolò lei, inducendolo a posare la testa nel suo grembo ed accarezzandogli i capelli – quanto a tua madre, sono sicura che ti perdonerà, stai tranquillo.”
“Non è assolutamente bello andare a letto con un suo sguardo irato invece che col bacio della buonanotte.”
“Suvvia, le passerà: adesso pensa a stare buono e a non disobbedire più, almeno durante il resto della punizione; ma si può sapere che cosa voleva che facessi Roy?”
“Ha detto che dovevo smetterla di essere così attaccato a mia madre, perché un vero maschio non si comporta in questo modo – ammise lui – io… io non so se ha ragione, ma non capisco perché devo farla preoccupare così tanto.”
E così raccontò a Riza di quelle sventurate due settimane passate in balia dei capricci di Roy, inconsapevole della gara che aveva ingaggiato con sua madre. La ragazza iniziò a capire come fossero andate le cose e sentì una grande rabbia montarle dentro: tra tutte le cose che poteva fare Roy questa era stata la più sconsiderata.
“C’è tuo padre? – chiese alla fine – Vorrei vederlo.”
“Sì, è nel suo studio.”
“E con lui come è andata?”
“Beh, ieri mi ha sculacciato di santa ragione anche lui, ma a questo giro è più arrabbiata mamma: lui si è limitato a dirmi di non osare mai più farla preoccupare in questo modo. Riza… me lo fai un favore?”
“Certo – annuì lei, mentre si alzava per uscire dalla stanza – dimmi pure.”
“Cerca di convincere mia madre a non essere più così arrabbiata con me: a te sicuramente ascolta.”
“Non ti prometto niente, ma ci proverò. Ci vediamo domani a scuola, va bene?”
“Va bene.”
Come uscì dalla stanza, chiudendo con delicatezza la porta, dovette fare alcuni profondi respiri prima di andare verso le scale: si sentiva in dovere di risolvere quella crisi familiare. L’idea che Ellie fosse così furiosa con Kain per colpa di Roy la faceva sentire profondamente a disagio.
Così, facendosi forza, bussò discretamente alla porta dello studio di Andrew ed entrò.
“Riza? – si sorprese lui, alzando la testa dal libro che stava consultando davanti alla libreria – Non sapevo fossi qui, piccola mia.”
“Signore – si avvicinò lei – sono venuta a sapere del disastro che ha combinato Roy. Ho parlato con Kain ed è così disperato: vorrei garantirle che il mio amico non è pericoloso, sul serio! E’ che a volte… ha idee un po’ strane, ma forse dipende dal fatto che è molto indipendente e…”
“Ehi, signorina – la bloccò lui, posando il libro e mettendole una mano sulla spalla – prendi fiato e riordina le idee. Anche se penso di aver già capito la situazione.”
“Per favore, non sia arrabbiato con Kain.”
“Non lo sono, infatti, ma – la bloccò, vedendo che stava per ribattere – sono perfettamente d’accordo con la punizione che Ellie gli sta infliggendo. Ha commesso una disobbedienza molto grave: era in castigo e ha tentato di fuggire in un modo estremamente pericoloso.”
“E’ pentito, ne sono certa.”
“Sta tranquilla, piccola Riza, non c’è niente di grave in quello che sta succedendo tra lui ed Ellie. Vedrai che già da stasera o domani le cose andranno meglio, fidati di me.”
“E per Roy?”
“Lui è un altro discorso…Ellie non l’ha mai visto di buon occhio come compagno di Kain. Fra voi ragazzi è certamente lui quello che tende a mettersi maggiormente nei guai, vero?”
“Si riferisce alla storia della caccia al fantasma?”
“A quella e a tante altre piccole cose che dai racconti di Kain ho intuito.”
“Non è cattivo, lo dovrebbe sapere.”
“Certo che lo so: lo conosco abbastanza bene ed è un bravo ragazzo, ma a volte tende ad avere degli sprazzi troppo vivaci per metterla in tono gentile. E decisamente metterci in mezzo Kain non è stata una buona idea: Ellie ora non si fida minimamente di lui.”
“Senza possibilità di cambiare idea?”
“Diciamo che Roy, senza volerlo, è andato a toccare un rapporto madre – figlio molto particolare. Ci vorrà molto tempo prima che mia moglie si dimentichi di questa storia. Sai qual è il difetto di Roy?”
“E’ troppo indipendente?”
“Anche, ma più che altro a volte crede che, siccome lui non ha più i genitori e dunque è maggiormente libero da quelle che considera costrizioni, allora anche gli altri debbano esserlo. E dato che Kain è particolarmente docile e legato ad Ellie ha deciso di sfidarla.”
“Non l’ha fatto con cattiveria…”
“No, nel suo modo di pensare lui credeva di fare un favore a Kain, proprio come quando dice a te di lasciar perdere tuo padre… ma se nel tuo caso posso essere d’accordo, per quanto riguarda mio figlio direi di no.”
“Io potrei fare tutto quello che voglio senza dire niente a mio padre – ammise Riza, abbassando lo sguardo – non se ne accorgerebbe nemmeno. A volte mi chiedo cosa mi impedisce di stare tutta la notte fuori o di non tornare a casa per i pasti.”
“Perché sei responsabile, Riza – le spiegò Andrew con gentilezza, prendendola in braccio – evidentemente tua madre è stata davvero presente negli anni passati assieme a te. Ecco perché Ellie si fida tanto di te: ti considera la sorella perfetta per Kain, e anche io.”
“Le importa che io non stia fuori la notte, vero?” si trovò a chiedere lei, arrossendo leggermente.
“Certo che mi importa, sarei preoccupatissimo e così Ellie. Mi prometti che non lo farai mai?”
“Va bene.” e come poteva dire di no a quell’uomo così meraviglioso?
Dannazione, perché non sei tu mio padre?
“Brava, piccola mia, mi sento molto più tranquillo adesso.”
“Parlerò con Roy, domani stesso… gli dirò di non far più cose simili, promesso.”
“Beh, non ti posso impedire di tentare, ma la questione tra lui ed Ellie si dovrà risolvere da sola. Adesso vai da lei, sono sicuro che sarà felice di prepararti qualcosa per merenda.”
 
“Va bene, va bene, andiamo a mangiare i tuoi tramezzini.” sbuffò Jean.
“Li ho fatti con le uova strapazzate – sorrise Rebecca, prendendolo per mano – spero che ti piacciano.”
“Uova strapazzate? Beh, almeno ti ricordi i miei gusti.” annuì il biondo, senza evitare quel contatto.
“Io non ci voglio credere – scosse il capo Heymans, con un sorriso incredulo – vuoi vedere che ce l’ha davvero fatta a farlo diventare il suo fidanzato?”
“Rebecca ha un gran potere persuasivo.” ridacchiò Riza, restando sola con il rosso.
“Lei o i suoi tramezzini?” strizzò l’occhio Heymans.
E così si ritrovarono soli a incamminarsi verso i soliti alberi dove stavano gli altri.
“Ti vedo un po’ arrabbiata, è successo qualcosa?”
“E’ che Kain è nei guai per colpa di Roy… credo che oggi resterà in classe.”
“Sì? – si bloccò Heymans, preoccupato per il suo piccolo amico – Che è successo?”
Riza esitò qualche istante, ma poi ritenne che confidare anche a lui il fattaccio potesse essere una buona idea: poteva servirgli una spalla per far mettere giudizio a Roy e decisamente Heymans era il più indicato.
E così gli raccontò la vicenda a sommi capi.
“Oh, cavolo – sospirò alla fine il rosso che, chiaramente, aveva una visione più completa della situazione e poteva immaginare le difficoltà di Kain ad opporsi al carisma dell’amico – non doveva farlo: l’ultima persona che Kain vuol far stare in pensiero è sua madre. Non doveva spingerlo a questo… dannazione, adesso il nano sarà in piena crisi. Vado da lui.”
“Aspetta! – lo bloccò Riza, prendendolo per la manica – Tu sai qualcosa che io non so, si capisce: ti prego dimmela, se riguarda Kain è importante, lo sai.”
“Rimanga tra di noi, va bene? Nemmeno a Roy, giuramelo.”
Riza annuì.
“E’ che Kain è nato molto debole e per i primi quattro anni ha rischiato spesso di morire ed era sempre malato. Ecco vedi, sua madre… non può avere altri figli e considerato quanto ha passato è molto legata a lui. E allo stesso modo Kain non vuole più farla preoccupare, capisci?”
“Io… io non lo sapevo che fosse stato così male…”
“Febbri reumatiche mi pare che si chiamino, mi ha raccontato che erano davvero dolorose e che sua madre stava sempre a vegliare su di lui. Senti, adesso vado a parlargli.”
“Sì, va bene – annuì Riza – Heymans, grazie per avermelo confidato.”
“Gli vuoi bene, ragazzina, e quella famiglia sta diventando molto importante anche per te – scrollò le spalle lui – era giusto che sapessi.”
Come il rosso si fu allontanato, Riza corse verso il cortile: adesso era davvero furente con Roy. Non aveva tenuto conto di niente, né dei sentimenti di Kain, né di quelli di Ellie.
“Ehilà, Riza – la salutò lui – oggi siamo soli, non vedo gli altri in giro”
“Perché diamine dovevi obbligare Kain a disobbedire a sua madre?”
“Eh?”
“Andiamo, rispondimi!”
“Hai parlato con lui? Era solo per smuoverlo un po’ – scrollò le spalle – dopo gli chiedo scusa, credo sia stato punito da quella donna. Tanto carina quanto irritante… lo lasciasse in pace e…”
Lo schiaffo di Riza troncò la frase.
“Tu sei solo un’idiota! – pianse la ragazza – Non hai la minima idea di che persona splendida sia… del suo rapporto con Kain… perché non ti fermi mai a pensare a queste cose?”
“Non… non volevo farti piangere.” balbettò lui, spiazzato da quella reazione e da quelle lacrime.
“Lascia in pace Kain e sua madre, capito? E ora scusa tanto, ma vado da lui.”
E con queste parole, qualsiasi proposito di cercare di risolvere la questione svanì dalla sua mente: adesso le premeva solo stare vicino al suo piccolo amico.
Come può? Come può? Io darei l’anima per far parte di quella famiglia e lui cerca di rovinare i rapporti in questo modo!
 
“E’ bruttissimo – ammise Kain – in genere è papà quello severo, mentre mamma mi perdona già la sera stessa. Vederla arrabbiata con me per così tanto tempo è… è tremendo. Ho combinato un disastro: avrei dovuto essere più insistente e non dare retta a Roy.”
“Coraggio, Kain – lo consolò Heymans – sono certo che tua madre già da stasera sarà meno arrabbiata.”
“Non l’avevo mai fatta infuriare così, capisci? L’ho delusa e ho deluso anche Roy. Ora mi considererà un vigliacco.”
“Finiscila, non devi colpevolizzarti.”
“Non devo più stare con Roy: è quello che mi ha detto – confessò il bambino, alzando gli occhi su Heymans in cerca d’aiuto – non posso disobbedirle su una cosa simile dopo quanto è successo. Che cosa devo fare?”
“Obbedire a tua madre – rispose lui senza indugi – almeno fino a quando la situazione non si calma. E sono sicuro che Roy capirà la situazione, ci pensiamo io e Riza a parlare con lui.”
“Sono mortificato…”
“Vedi tutto nero perché tua madre è furiosa, ma passerà, vedrai. Lei ti adora, nanetto: sei solo spaventato perché l’hai fatta arrabbiare più del previsto. Fidati che già stasera andrà meglio.”
Lo disse con una strana forma di sollievo, sentiva che almeno per quella questione non ci sarebbero stati problemi: il rapporto tra il bambino e sua madre non rischiava di subire scossoni per via di Roy, era chiaro. Avrebbe voluto che le cose si potessero risolvere così facilmente anche per lui, ma purtroppo non era possibile: di conseguenza consigliare e confortare il figlio di Andrew gli diede un minimo di soddisfazione.
 
“Quella strega dice che non deve più frequentarmi e dovrei darle anche retta?” chiese Roy con incredulità, credendo che Heymans lo stesse prendendo in giro.
“Non è una strega, in primis, e poi dovresti lasciare che le acque sbolliscano: hai già messo Kain nei guai, perché devi peggiorare la situazione?”
“Ma che ha di tanto speciale questa Ellie Fury? – il moro assunse un tono esasperato: odiava quella donna per il potere che aveva sui suoi amici – E’ solo una madre eccessivamente apprensiva.”
“Perché ti dà tanto fastidio che Kain sia così legato a lei? Che diamine ci guadagni a spingerlo a disobbedire? Non dimenticare che ha undici anni, è più piccolo di noi.”
“Tuo fratello ha undici anni lo stesso, ma almeno ha più spirito d’iniziativa, si capisce che tua madre non è apprensiva come quell’altra e…”
“Non metterti a parlare di cose che non conosci – lo bloccò Heymans con voce gelida – né per me né per Kain, capito?”
“Benissimo, dato che siete tutti dalla parte di miss mamma dell’anno, tenetevela stretta.”
E con quelle parole, Roy girò le spalle e andò via dal cortile della scuola: non gli importava niente se erano in pieno intervallo e ci fosse ancora metà mattinata da passare tra i banchi. Odiava quella donna e tutto il magnetismo che esercitava su Kain, Riza ed Heymans… possibile che non si rendessero conto di quanto in realtà fosse una vera e propria arpia?
Che se la tengano stretta, allora. Col cavolo che andrò a parlare con lei… rimani pure un frignone, Kain. La tua preziosa mammina continuerà a dartele anche a vent’anni.
Ellie Fury era la sua nemica numero uno.

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Capitolo 40
*** Capitolo 39. Punto critico. ***


Capitolo 39. Punto critico.

 

Stava facendo dei brutti sogni e dunque fu quasi un sollievo quando l’esigenza di andare a bere lo fece destare. Henry scostò le coperte con fastidio, forse era il caso di mettere qualcosa di più leggero dalla prossima notte, del resto si era a fine aprile.
Aprendo la porta con discrezione si passò una mano tra i capelli arruffati: si sentiva stanco e nervoso, erano diverse notti che i brutti sogni gli davano tormento impedendogli di riposare veramente. Forse era questa mancanza di sonno che gli provocava degli sgradevoli mal di testa… insomma era tutto un disastro.
Sperava che un bicchiere d’acqua fresca lo aiutasse a riprendere sonno, ma forse era meglio del latte a questo punto, o una tisana.
Decise di optare per quest’ultima scelta ed invece di scendere le scale proseguì nel corridoio verso la camera dei genitori: avrebbe svegliato la mamma e le avrebbe chiesto questo favore. Forse era il caso di dirle che da qualche tempo non stava molto bene: magari aveva l’influenza e non se ne era accorto e dunque lei…
“Tra tutte le cose, questa è la più assurda.”
La voce di sua madre lo bloccò mentre posava la mano sulla maniglia.
Litigano a notte fonda?
“Assurda, certo, come se non vi conoscessi bene… puttanella, quante volte ti sei concessa a lui?”
“Smettila di parlare in questo modo, Gregor, sei ancora ubriaco e non ti rendi conto di quello che dici.”
“Te lo potevi sposare il tuo prezioso Andrew, mi viene anche da pensare che non siano davvero figli miei.”
“Sei pazzo? Ma se Heymans è identico a te nei tratti… fra tutte le cose che potevi tirare fuori…”
“Già, quello è davvero mio figlio, purtroppo… ma per Henry come la mettiamo? Gli hai anche messo il nome del tuo prezioso fratello, ma non mi assomiglia per niente.”
Quelle parole fecero balzare il cuore di Henry alla gola.
“Come puoi dire cose simili di tuo figlio? – la voce di Laura era carica di rabbia – Negli ultimi tempi lo stai trattando malissimo: invece di comportarti da padre…”
“Andiamo, confessalo, lui è figlio di Andrew.”
“Andrew ed io non siamo mai stati amanti, chiaro? Lui è sposato e ha un figlio! Sei tu che mi tradisci con le ragazze del locale, credi che non lo sappia?”
“Loro almeno non scodellano bastardi.”
“Finiamola qui che è meglio, ma ti dico solo una cosa: Andrew è per me come un fratello, pensare a lui come amante mi pare paragonabile all’incesto. Ma ti giuro… Gregor Breda ti giuro che ci sono momenti in cui vorrei davvero che fosse lui il padre dei ragazzi, almeno avrebbero una vita più facile e…”
Il rumore dello schiaffo fece sussultare il bambino.
“Piano con le parole, donna, sei mia moglie e con te faccio quello che voglio, chiaro?”
Ci fu un lungo silenzio… ancora ed ancora. Henry si accorse di piangere, ma non riuscì ad aprire quella porta e fare qualcosa: iniziò a tremare, sentendo improvvisamente freddo e l’esigenza di allontanarsi da lì. Corse in camera di Heymans e si infilò nel letto con lui, serrando gli occhi per cercare di cacciare dalla mente tutto quello che aveva sentito, anche se era impossibile.
“Henry? – chiamò il fratello – Che c’è?”
“Uno… uno stupido incubo – spiegò con un sussurro – scusa, ma non credo di stare bene. Non… non chiedermi niente, per favore. Non dire niente a mamma, va bene? Solo… solo per stanotte.”
“Va bene – annuì Heymans con perplessità, non riuscendo a distinguere il fratello nel buio, ma sentendo come si stesse sistemando contro la sua schiena, premendosi contro di lui – se stai male posso andare a…”
“E’ solo il brutto ricordo dell’incubo – supplicò lui – adesso mi riaddormento… buonanotte.”
“Buonanotte.” mormorò Heymans, capendo che non era meglio insistere. Ma prima di riaddormentarsi, attese di sentire il respiro regolare del fratello.
Dev’essere stato il nervosismo degli ultimi giorni – rifletté, chiudendo gli occhi – devo darmi una mossa a risolvere la questione.
 
“Fra due giorni è il compleanno di mia mamma – disse Kain, durante l’intervallo – e ha detto che le farebbe molto piacere se tu venissi a pranzo da noi.”
“Sarebbe bellissimo – annuì Riza – verrò molto volentieri, diglielo pure. Accidenti, devo pensare ad un regalo per lei: dammi qualche suggerimento, coraggio.”
“Perché non prepari una torta al cioccolato da sola? Magari ci scrivi tanti auguri con la panna.”
“Quello sarebbe un regalo per te, ingordo – lo rimproverò Riza, arruffandogli i capelli – tua madre preferisce la torta alla crema, lo sai.”
“Oh, beh, non mi lamento lo stesso – sorrise il bambino – e se proprio lo vuoi sapere, lei adora i fiori di campo, fra me e te che ne dici di farle un mazzo davvero speciale?”
“Non li regalerà tuo padre i fiori?”
“Oh no – scosse il capo Kain, con l’aria di chi la sa lunga – papà deve regalarle degli orecchini con una goccia d’ambra, me l’ha confidato ieri: sono bellissimi, me li ha fatti vedere… mamma sverrà dalla contentezza.”
“Che cosa romantica, certo che tuo padre sa proprio come trattare le donne.”
Quell’ultima frase fece bloccare Henry alla porta. Era andato in bagno e non si aspettava che Kain fosse ancora in classe al suo ritorno.
Erano passati quattro giorni da quella conversazione sentita per caso: la mattina seguente sua madre aveva una faccia tremenda e lui aveva anche intravisto un lieve rossore sulla guancia destra. Possibile che sua madre si vedesse con un altro?
Ora che ci pensava anche Heymans parlava di lui in toni veramente estatici e la cosa non faceva altro che far innervosire suo padre. Che fosse quell’uomo la causa per cui suo padre non gli voleva più bene? La causa per cui aveva picchiato sua madre?
Scosse con decisione il capo, mentre il ricordo del rumore dello schiaffo tornava con prepotenza nella sua mente, seguito da quel tremendo silenzio… perché gli faceva più impressione? Era solo silenzio.
Doveva immediatamente andare a prendere una boccata d’aria.
 
Quel pomeriggio Kain si era messo a scrivere sul suo quaderno: era da tanto che non lo faceva, anche perché negli ultimi tempi aveva avuto così tanto da fare che non si era dedicato alle sue amate radio. Però adesso aveva un paio di ore libere e così si era messo a disegnare lo schema di un circuito, come se fosse una sorta di piacevole ripasso.
Un cinguettio lo distrasse e sorrise nel vedere un passerotto che si posava sul davanzale per mangiare le briciole che lui aveva lasciato poco prima: automaticamente la penna si spostò sul lato della pagina ed iniziò a disegnare l’uccellino.
“Ma che…” mormorò, quando si accorse che la punta faceva difficoltà a scrivere.
Man mano che provava il tratto non veniva più e per qualche tremendo istante pensò di aver in qualche modo rotto la sua preziosissima penna. Ma si disse che molto probabilmente era solo finito l’inchiostro: del resto era una penna diversa dalle solite e dunque aveva sicuramente delle cartucce di riserva.
Così scese nello studio di suo padre.
“Papà, – andò subito alla scrivania – la penna non scrive più, credo sia finito l’inchiostro.”
Osservò con ansia il genitore che la prendeva e la smontava, pregando con tutto il cuore che fosse quello il problema: perdere o rompere quella penna era il suo incubo peggiore, significava troppo per lui.
“Allora?” chiese, come un parente che chiede al dottore le condizioni dell’ammalato.
“Confermo, non c’è più inchiostro – sentenziò Andrew, mostrandogli la piccola cartuccia ormai vuota – fammi controllare nel cassetto, ma credo di aver finito le ricariche.”
“Oh no – sospirò il bambino – proprio non ne hai più?”
“Forza e coraggio, Kain – lo prese in giro il padre, rimontando la penna e ridandogliela – ti svelo il magico segreto: il negozio dove vedi sempre questi articoli vende anche le cartucce di riserva. Basta che la fai vedere e ti daranno quello che ti serve.”
“Costano tanto? – chiese preoccupato il bambino: non aveva la minima idea del costo di quella penna così pregiata e pensava che le sue piccole finanze non fossero all’altezza della situazione. Anche perché, oltre ai fiori, voleva regalare alla mamma qualcos’altro – Perché non so se posso…”
“Di certo costano più di una comune penna – spiegò Andrew, frugandosi nella tasca – ma per questo tipo di spesa ci penso io, del resto è stata un mio regalo per te. Tieni questi dovrebbero bastare: le ricariche si comprano in scatolette da dieci; e tieniti il resto, va bene, furfante? Così il tuo regalo per la mamma sarà davvero speciale.”
“Davvero? – gli occhi scuri si illuminarono di gioia – grazie, papà! Sei fantastico.”
“Dai, corri pure in paese, ragazzino – rise Andrew, rispondendo all’entusiastico abbraccio del figlio – vai a ricaricare la tua preziosa penna. Avviso io tua madre che stai uscendo.”
“Volo!”
E senza attendere altro il bambino corse fuori di casa, sentendosi felice come non mai. Quelle bellissime giornate, l’avvicinarsi del compleanno di sua madre e della conseguente festa, lo facevano stare al settimo cielo.
Erano passate due settimane da quel fattaccio che aveva portato a quella brutta punizione e i rapporti con sua madre erano tornati sereni. Come l’avevano più volte tranquillizzato Riza ed Heymans, nell’arco di una sera Ellie era tornata ad essere più dolce nei suoi confronti e, anche se la punizione era davvero durata una dolorosa settimana, Kain era del parere che una passata di sculacciate ogni sera fosse stato un prezzo equo da pagare perché sua madre lo perdonasse del tutto.
Certo c’è il fatto che non posso più parlare con Roy, almeno per il momento…
Questo pensiero fece rallentare la sua spensierata corsa verso il paese: ecco, quello era l’unico dettaglio che proprio non si poteva mettere a posto. Gli dispiaceva tantissimo non poter parlare con il suo amico, ma per diverso tempo a venire non era proprio il caso di disobbedire su questo a sua madre.
Per evitare di creare problemi, persino a scuola evitava di andare da lui: certo, questo aveva avuto come conseguenza il dover stare in classe o non presso quegli alberi che ormai erano il loro ritrovo, ma tutti i suoi amici sembravano aver capito la situazione e a turno stavano assieme a lui.
Sperava solo che Roy lo potesse perdonare un giorno e…
“Ciao, gnomo.”
Proprio all’ingresso del paese si imbatté nel ragazzo.
“Roy – mormorò il bambino, temendo che in qualche strano modo sua madre potesse vederlo, tuttavia non era educato non rispondere ad un saluto, almeno per quello non si sarebbe arrabbiata – ciao, come stai?”
“Bene, grazie. E tu? Ti vedo in forma.”
“Davvero? Oh beh, è che sto andando a comprare le ricariche per la penna che mi ha regalato papà.”
“Ah, la tua famosa penna – sorrise Roy, avvicinandosi a lui – sempre a scrivere nel tuo quaderno, vero?”
“Sì, in effetti…”
Rimasero in silenzio per qualche secondo e poi Roy allungò la mano per arruffargli i capelli.
“Ho saputo che con tua madre hai risolto.”
“Sì – annuì lui, arrossendo – ora va tutto bene. Sai, tra due giorni è il suo compleanno e dobbiamo fare un pranzo per festeggiare, verrà pure Riza.”
“Che bello. Senti, gnomo…”
“Mamma non vuole che parli con te – disse Kain – ma spero che con il passare del tempo cambi idea. Però non posso disobbedirle, capiscimi… lei si è arrabbiata così tanto. Io vorrei davvero che fossimo ancora amici, Roy, anche se forse tu mi consideri un vigliacco.”
“Ma no, gnomo, non ti considero un vigliacco – sospirò il moro – non capisco tua madre, tutto qui. Ma noi siamo sempre amici, stai tranquillo.”
“Sul serio?” chiese lui, speranzoso.
“Sul serio – sorrise Roy, arruffandogli i capelli – e per questo rispetterò la tua decisione di obbedire a tua madre, per adesso. Tanto sono sicuro che in qualche modo la risolviamo, fidati di me.”
“Niente follie, va bene? Non questa volta.”
“Promesso, Kain, non ti preoccupare. Dai, adesso vai pure a fare la tua commissione: abbiamo già rotto il divieto per diversi minuti e può bastare.”
“Ti voglio bene, Roy – lo abbracciò il bambino – sul serio.”
“Anche io, ragazzino.” arrossì lievemente lui, davanti a quella sincera manifestazione d’affetto.
Quel piccolo incontro con Kain l’aveva fatto sentire meglio del previsto.
 
Ancora quel senso di nausea, proprio non gli voleva passare.
Eppure non era febbre, ne era certo, non si sentiva per niente caldo.
“Mamma – mormorò Henry, entrando nella stanza matrimoniale – posso stare qui con te?”
“Vieni, piccolo – annuì Laura, sdraiata nel letto – certo che puoi stare con me.”
Il bambino si sdraiò accanto a lei, posando la testa sulla sua spalla e cercando di rilassarsi: la mano materna iniziò ad accarezzargli i capelli e finalmente si sentì meglio. Un momento di rassicurante quiete era quello di cui aveva bisogno.
“Mamma, andrà tutto bene, vero?” si trovò a chiedere.
“Certo, Henry, stai tranquillo.”
Per ora bastava quella dichiarazione, non aveva bisogno d’altro: per almeno dieci minuti voleva illudersi che davvero tutto si sarebbe sistemato, nel senso che sarebbe tornato tutto a posto e che il padre non avrebbe più detto quelle cose… quel nome che sembrava distruggere tutto quanto.
“Ragazzino, non stare attaccato a tua madre come un poppante.”
La voce di Gregor giunse come uno schiaffo ed Henry aprì immediatamente gli occhi staccandosi da Laura.
Quel minimo di tranquillità sparì all’improvviso ed il malessere tornò a ripresentarsi.
“Henry…” mormorò Laura, mettendosi a sedere nel letto.
“Quel piccolo bastardo di Heymans è uscito, sarà andato dal suo grande eroe?”
“Doveva andare a studiare a casa di un suo amico – rispose la donna, massaggiandosi la tempia con aria stanca – domani ha compito in classe e dovevano ripassare assieme.”
“Certo, il grande studente… e tu, Henry? Come va a scuola?” c’era così tanto sarcasmo in quella voce.
“B… bene… ho preso sette e mezza nell’interrogazione di matematica ieri…”
“Andrew Fury sarà davvero fiero di te, allora!” la mano di Gregor si posò sulla sua testa e gli arruffò i capelli con estrema cattiveria.
“Lascialo stare immediatamente – il braccio di Laura scattò in avanti per interrompere quel contatto – Henry, da bravo, vai a fare un giro fuori. Oggi papà non sta molto bene…”
“Sei davvero sicura che sia mio figlio?”
Quelle parole accompagnarono Henry fuori dalla porta, dato che aveva sentito l’ansia di sua madre nel dargli quell’ordine. Doveva uscire, doveva andare fuori come gli aveva detto…
“Io non ce la faccio più!” esclamò tra le lacrime, aprendo la porta con violenza e catapultandosi in strada.
Iniziò a correre come un disperato, senza nemmeno guardare dove andava, voleva solo che quella nausea finisse e quel nome maledetto non venisse mai più pronunciato.
Di conseguenza, quando impattò contro una persona la forza fu tale che caddero entrambi a terra.
Aprendo gli occhi scoprì che si trattava di Kain Fury.
“Ahia – mormorò il bambino occhialuto, rimettendosi a sedere – scusami non ti avevo visto… oh, Henry…”
“Correvo pure io – ansimò lui, pronto a rialzarsi in piedi e riprendere la sua corsa – non fa nien…”
“Andrew Fury sarà davvero fiero di te, allora!”
“Andiamo, confessalo, lui è figlio di Andrew”
“Tuo padre…” sibilò, mettendosi in ginocchio.
“Uh? Che hai detto… piuttosto, hai visto la penna? Mi è caduta di mano e, oh eccola!”
Ma prima che potesse allungarsi, Henry la raccolse.
“Non è una di quelle che usiamo a scuola…” mormorò cercando di allontanare i suoi maledetti pensieri.
“No – spiegò Kain, tendendo la mano speranzoso – me l’ha regalata mio padre e…”
Andrew Fury…”
“Sì.” ammise con preoccupazione il bambino bruno, osservandolo rialzarsi in piedi.
“Maledetto lui, quanto lo odio!” esclamò.
La sua mano si strinse su quella penna, facendosi male con la clip del tappo. Ma non gli importava, riprese a correre come un disperato, ignorando le grida di Kain che lo inseguiva.
Quanto continuò quella folle corsa per i campi? Non lo sapeva, non guardava nemmeno dove stava andando. Capiva solo che la sua famiglia era distrutta, che suo padre lo odiava e nemmeno lo considerava più suo figlio… non c’era speranza, nessuna speranza.
Ed era tutta colpa di quell’uomo, dell’eroe del paese.
Alla fine dovette fermarsi: le gambe gli cedettero e inciampò pesantemente su una pietra.
Dove sono? Dove?
Si guardò intorno, cercando di recuperare il contatto con la realtà: era una sorta di piccola vallata con l’erbetta rada che cresceva in alcuni punti. Osservando con attenzione il punto dove era caduto, si accorse che non aveva inciampato su una pietra, ma su…
… una rotaia?
Era l’ingresso della vecchia miniera di carbone che doveva essere sigillata a breve. Rialzandosi in piedi guardò la poco distante cava, la cui soglia era in parte ostruita da alcune travi di legno poste a protezione.
Era lì che portavano i binari… quasi d’istinto si incamminò fino ad arrivare a pochi passi dall’ingresso.
“Henry! – arrivò in quel momento Kain, il fiato al limite – Ti prego, ridammi la penna! E’ troppo importante per me…”
“La penna? – solo allora si ricordò dell’oggetto che serrava in mano – oh, certo, questa.”
Il rumore dello schiaffo e poi quel silenzio ancora più pesante dalla camera dei suoi genitori.
Andrew Fury…
“Che possa marcire per sempre in questa miniera!” gridò con tutta la sua disperazione, lanciandola dentro.
“No!” esclamò Kain, aggrappandosi ad una delle travi che fungevano da blocco e guardando l’interno buio di quel tunnel scavato nella roccia.
“Mi ha rovinato… ha rovinato tutto…” scoppiò a piangere Henry.
E a questo punto non gli importava più niente: lasciò Kain in quel posto ed andò via, non gli importava dove… tanto sapeva bene che sarebbe tornato a casa, da sua madre.
 
“Ehilà, botolo – sorrise Roy, passando davanti a casa di Riza e vedendo che Hayate correva al cancello per salutarlo – come va? Se sei fuori in cortile vuol dire che la tua padroncina è fuori, vero? E già che doveva andare a trovare Elisa.”
Il cane si alzò su due zampe, supplicando qualche attenzione e così, Roy aprì il cancelletto ed entrò nel cortile per accarezzarlo. Hayate apprezzò moltissimo tutta quella considerazione e si mise a pancia all’aria, desideroso di essere coccolato.
“Dannazione a te quanto sei cresciuto – sogghignò il ragazzo, accontentandolo – sei praticamente raddoppiato da quando ti abbiamo trovato, eh? Quattro mesi passano in fretta…”
Sebbene non avesse ancora raggiunto il massimo sviluppo, Hayate era ormai un cane di piccola-media taglia, dal pelo lucido e gli occhi intelligenti. Roy gli sistemò meglio il collare rosso, un regalo di Kain.
“Lo sai, amico mio? Oggi ho parlato di nuovo con il tuo compagno di giochi… ne sono felice e spero che si possa rimediare a quello che è successo. Un po’ come con Riza che adesso mi parla di nuovo e sembra tranquilla.”
Forse aveva capito che stava parlando di Kain, perché le orecchie si rizzarono di colpo.
“Ehi? Ma che c’è?”
L’animale si era teso e si era alzato in piedi, fiutando l’aria.
Qualche gatto?
Ma prima che Roy potesse capire, il cane scattò in avanti e uscì dal cancello ancora aperto.
“No, Hayate! – esclamò rincorrendolo – Torna qui!”
L’animale si fermò e tornò indietro, girando attorno a lui e uggiolando con urgenza.
“Ma che hai? – chiese Roy, perplesso – Si può sapere… ehi, non tirare la manica coi denti, la rompi! Che succede? Non ti sei mai comportato così…”
Il cane continuava a correre in avanti e poi tornare indietro per girargli attorno… c’era una strana urgenza nel suo comportamento.
“Va bene, ti seguo…” cedette il ragazzo alla fine.
Era abbastanza palese che il cane avesse sentito qualcosa.
 
Kain rimase diversi minuti affacciato a quel tunnel così buio, con la luce dell’esterno che riusciva ad arrivare solo a due metri dall’ingresso. Aveva le lacrime agli occhi, mentre la disperazione prendeva possesso di lui di secondo in secondo.
La sua preziosissima penna era lì dentro, come poteva fare?
Sapeva bene di che posto si trattava e sapeva altrettanto bene che era pericoloso: suo padre gli aveva detto più volte che non vedeva l’ora che la sigillassero per sempre a causa dei continui crolli.
Ma se la sigillano io non potrò più riprendere la penna.
No, non poteva tollerare una cosa simile: era l’oggetto a cui teneva di più al mondo, simbolo di quel legame fantastico e profondo che si era venuto a creare con suo padre. Non prendersi cura di quella penna voleva dire tradire la grande fiducia che lui nutriva nei suoi confronti.
Non può… non può averla lanciata troppo lontano.
Cercò di ripercorrere mentalmente la scena, provando a ricordare se aveva sentito il rumore della caduta sul terreno, in modo da potersi fare un’idea della distanza. Ma purtroppo non gli venne in mente niente.
Certo che quel posto era così buio…
“Ma io non posso lasciarla lì…” mormorò, sollevando la gamba per scavalcare quella trave di legno.
Osservò la sua ombra stagliarsi in quella piccola nicchia di luce appena all’ingresso: ovviamente sarebbe stato troppo bello che la penna fosse caduta lì. No, decisamente era più avanti.
Si accostò alla parete di roccia e vi posò la mano, decidendo di usarla come guida.
Era disperato, non aveva la minima idea di come fare: come poteva vedere dove era andata a finire in una galleria che era larga almeno cinque metri? Aveva bisogno di luce.
“La mia penna – pianse, mentre proseguiva a tentoni, ormai dentro la zona buia: la sua voce gli faceva paura, era come se quel posto la amplificasse e la privasse di umanità – ti prego… dove è andata…”
Una piccola parte di lui sapeva bene che in quel posto si erano verificati dei crolli, anche di recente e avrebbe voluto tanto scappare via, ma come poteva? Come?
Si girò a guardare la luce dell’ingresso che gli sembrava così lontana.
Non vide la buca davanti a lui, a onor del vero non l’avrebbe vista nemmeno se avesse avuto lo sguardo in avanti: c’era oggettivamente troppo buio.
Forse era stata fatta per metterci del materiale o per altri oscuri motivi… o forse un cedimento del terreno.
Kain cadde rovinosamente in quella buca profonda due metri: era stato il piede destro a muoversi nel vuoto e forse fu per questo motivo che nel rapido volo che fece si trovò girato di lato e fu quella parte del suo corpo a colpire quanto stava nel fondo.
Fu tremendo, un dolore lancinante che gli mozzò il grido che stava per uscire.
Qualcosa di appuntito gli penetrò per tutta la lunghezza della coscia… fu impressionante come riuscì a sentire ogni millesimo di secondo in cui la carne gli veniva lacerata in maniera straziante. Il dolore gli risalì in tutto il corpo ed esplose nel cervello in centinaia di schegge appuntite.
Per tre tremendi secondi non respirò e davanti ai suoi occhi vide solo una forte luce colorata.
Poi arrivò la consapevolezza del dolore al braccio e alla guancia, perché nel primo impatto il suo cervello aveva dato priorità alla ferita peggiore. Ma adesso poteva sentire come il suo arto superiore pulsasse malamente e come fosse in un angolazione sbagliata… e poi la guancia, la tempia… bruciavano, tantissimo.
Sangue? C’era del sangue? Gli colava sulla guancia, nel labbro inferiore… nella gamba.
“Papà! – pianse debolmente – Mamma!”
 
Henry aprì la porta di casa e salì di corsa le scale.
Arrivò in bagno e si chinò nel gabinetto per vomitare.
“Henry! – esclamò Heymans che era rientrato pochi minuti prima di lui – Che hai?”
“Non lo so – ammise tra un conato e l’altro, sentendosi impazzire – fai smettere quel silenzio… ti prego… le sta facendo male, lo so. Perché lei non dice mai niente!”
“Fratellino… fratellino, tu stai male.” si accostò lui, sostenendolo.
“Deve finire… è colpa di quello lì… e del silenzio, è di quello che devi aver paura!”
“Merda, sei fradicio di sudore… mamma! Mamma!”
Ed Henry non capì più nulla, ma forse andava meglio così.
 
Hayate abbaiò furiosamente, sollevandosi su due zampe davanti all’ingresso della miniera.
“Perché diavolo mi hai portato qui?” chiese Roy, raggiungendolo con un leggero fiatone.
Si appoggiò alle travi che chiudevano quel tunnel e vi guardò all’interno: non ci vedeva niente di strano, ma il cane sembrava smentire tutto quello, raspando come un disperato.
“Che hai? Si può sapere?”
Ma indietreggiò di colpo quando sentì un lamento provenire da quel luogo così buio.
Impallidì, ma poi trovò la forza di affacciarsi di nuovo e tendere l’orecchio.
Qualcuno si sta lamentando…
Per dieci tremendi secondi pensò a qualche fantasma di minatore, ma poi l’ex fantasma della stazione di polizia gli tirò i pantaloni con i denti, riportandolo alla realtà.
No, i fantasmi hanno una spiegazione logica… non è vento. E’ proprio qualcuno che si sta lamentando.
“Ehi! – provò a chiamare – C’è nessuno?”
Ancora quel lamento…
“Cazzo, e va bene!” si fece coraggio e scavalcò quelle travi.
Guardò nel ridotto cerchio di luce, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo ad illuminare oltre. Purtroppo non c’era nulla, ma non si scoraggiò e girandosi iniziò a spostare e scardinare quelle travi mezzo marce che ostruivano parte dell’ingresso e dunque della luce.
La cosa richiese qualche minuto durante il quale il lamento continuava a farsi sentire, ma una volta che ebbe levato con un calcio l’ultima trave, riuscì ad ottenere una zona di luce più accettabile ed una penombra percepibile per diversi metri avanti.
“Bene – annuì, andando a posarsi contro la medesima parete che aveva usato Kain come appiglio – ora vediamo fino a dove possiamo spingerci.”
Ma Hayate era già corso avanti e proprio al limite della zona di penombra si fermò ed iniziò ad abbaiare furiosamente, i suoi latrati amplificati dal tunnel.
“Sssh, ma che hai?” chiese Roy, raggiungendolo e notando che c’era… una buca?
Il lamento si rifece sentire: veniva proprio da lì dentro e…
“Oh merda! Oh merda! Kain!”
Nella poca luce disponibile riuscì ad identificare il suo piccolo amico e si accorse immediatamente che era ferito. Non rispondeva ai suoi richiami e ogni tanto dalla bocca semiaperta usciva il flebile lamento che aveva sentito anche all’ingresso.
Stava per buttarsi dentro quella fossa, ma poi si rese conto che non avrebbe potuto risalire senza niente da usare come rialzo: erano almeno due metri di profondità. Si guardò attorno affannosamente e individuò una vecchia cassetta di legno: andava più che bene. La prese, ignorando eventuali schegge e si calò in quella trappola, cercando di non franare addosso al bambino.
“Kain – lo chiamò scuotendolo con delicatezza – ti prego, rispondimi.”
Purtroppo all’interno della buca la luce era davvero poca e non riusciva a capire quanto fosse ferito. Riuscì a vedere le brutte escoriazioni sul viso, la cui parte destra era tumefatta, una lente degli occhiali graffiata, per il resto si mise a tastare con frenesia, ma si dovette bloccare quando gli toccò il braccio.
Il lamento del bambino fu straziante.
“Ahia, questo è come minimo fratturato – scosse il capo – cazzo, piccolo amico mio, ma che hai fatto? Perché sei entrato qui e…”
Si fermò, perché era arrivato alla gamba.
C’era qualcosa di tremendamente freddo e appuntito che sporgeva… no che penetrava dentro la carne.
Roy dovette trattenere un conato mentre cercava di mettere a fuoco quel.. quel pezzo di lamiera.
“Cazzo – singhiozzò – Cazzo! Come faccio… come faccio?!”
“Papà… la penna…” chiamò flebilmente il bambino.
“Ti porto fuori da qui – cercò di rassicurarlo Roy, levandosi la giacchetta e mettendola sotto la testa del piccolo – ti… ti libero da questa cosa, eh?”
Mise la mano sulla parte di lamiera che penetrava nella coscia di Kain e iniziò a percorrerla verso il terreno, cercandone l’inizio. Ad un certo puntò a una decina di centimetri, sentì che c’era una giuntura con delle viti che si muovevano.
Se stacco questa posso muoverlo… il resto glielo deve levare un medico.
“Kain, scusa – iniziò, facendosi forza e iniziando a forzare quella parte. Subito il bambino iniziò ad emettere strazianti lamenti – lo so… lo so, ma cazzo! Deve staccarsi questa maledetta!”
Mio dio, sembra che lo sto scannando vivo! Ti prego… cedi! Cedi, cazzo! Non vedi che lo sto uccidendo dal dolore?
Quando finalmente la giuntura cedette gli sembrò passata un’eternità.
“Scusami, scusami – disse con le lacrime che scendevano senza parere… le sue mani erano piene di sangue, come era possibile che un bambino ne perdesse così tanto? – Adesso ti porto via, promesso.”
Fu una cosa estremamente faticosa e dolorosa: sollevò il bambino tra le braccia e si mise sopra la cassetta, pregando che non cedesse: erano comunque più di trenta chili che doveva sollevare da solo, ma riuscì a tendere le braccia il tanto che bastava per farlo rotolare nel bordo della buca… purtroppo era inevitabile che le ferite venissero sballottate.
Stava per darsi la spinta e uscire anche lui dalla buca, quando si dovette piegare per vomitare… ora che la luce colpiva maggiormente il bambino aveva visto con maggior chiarezza la ferita alla gamba. Non aveva capito quanto fosse grave.
“Va bene – ansimò, asciugandosi la bocca con un braccio – non è il momento… non ora.”
Controllò il forte tremito alle gambe e uscì da quella buca maledetta.
Mise la giacca sopra il busto di Kain e lo prese in braccio, mentre Hayate gli gironzolava intorno uggiolando.
“Kain… Kain, parlami, ti prego – mormorò mentre usciva da quel posto – chiama di nuovo i tuoi… non… non restare così immobile, dai.”
Lo scosse, era troppo vederlo praticamente cadavere: il lamento che ottenne gli diede nuova forza.
“Ti porto a casa, coraggio… non temere… non temere… devi farti forza!”
E iniziò a camminare, con le lacrime che gli offuscavano la vista.

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Capitolo 41
*** Capitolo 40. La penna di Kain. ***


Capitolo 40. La penna di Kain.

 

Arrivare fino a casa di Kain fu un vero e proprio calvario: il bambino pesava relativamente poco, ma a Roy sembrava di portare un macigno. Quel viso pallido e tumefatto, la bocca semi aperta che respirava debolmente con ogni tanto qualche lamento, il braccio posato sul petto, e soprattutto quella gamba che lui teneva con attenzione, cercando di farle subire meno scossoni possibili.
E continuava a sanguinare, il pezzo di lamiera che fuoriusciva ormai rosso cupo: ad un certo punto Roy si era persino strappato un pezzo di stoffa dalla maglietta e aveva provato a fasciarla dove il metallo non arrivava, ma non era servito a molto.
Non aveva mai visto delle ferite simili e scoprirle per la prima volta sul corpo del suo piccolo amico gli procurava una sensazione di nausea tale che più volte dovette chiudere gli occhi e respirare profondamente per non rimettere di nuovo.
“Coraggio – continuava a ripetersi, mentre le sue braccia si facevano sempre più pesanti – ancora poco e ci siamo, Kain. Vedrai che i tuoi genitori ti cureranno.”
Non gli importava di dover affrontare quella donna, la cosa primaria era prestare soccorso al bambino.
Fu così che, dopo un tempo che gli parve infinito, anche se in realtà furono circa venti minuti, arrivò a casa dei Fury.
“Signor Andrew! – chiamò con disperazione, già a pochi metri dalla porta – Signora, per favore! E’ ferito!”
Dopo qualche secondo, mentre cercava un modo di bussare alla porta senza far cadere Kain, questa venne aperta da Andrew.
“Kain! – esclamò l’uomo, impallidendo – Piccolo mio!”
“Il sangue non si ferma – pianse Roy, mentre l’uomo prendeva con dolcezza il bambino dalle sue braccia e lo portava dentro – nella gamba… nella gamba!”
“Kain, da bravo, rispondimi – continuava a chiamarlo Andrew, portandolo nel salotto e posandolo sul divano – sono papà, piccolo mio… ti prego apri gli occhi.”
Per tutta risposta il bambino emise un singhiozzo e mosse debolmente la testa.
Roy stava accanto a lui, pregando che la voce dell’uomo lo inducesse a svegliarsi, a fare qualcosa… a rassicurarlo che sarebbe andato tutto bene.
“Dimmi che è successo – disse Andrew, girandosi verso di lui – come si è fatto male?”
“Nella vecchia miniera – mormorò lui, scosso più di quanto credesse – è caduto in una buca e c’era quella cosa che gli ha preso la gamba… ho provato a fasciarla, ma… avevo paura di muoverla ancora… e lui si lamentava come se lo stessi spellando vivo!”
“Che cosa succede? – chiese Ellie arrivando in quel momento. Roy alzò lo sguardo su di lei in tempo per vederla perdere qualsiasi colore nel viso – Kain! Cielo, Kain! Ma che ha? Andrew, che ha nostro figlio?”
“Mamma mia, – mormorò l’uomo, sfiorando la guancia tumefatta del piccolo e levandogli gli occhiali – non c’è tempo da perdere: dobbiamo portarlo dal dottore. Questa cosa va levata il più presto possibile.”
“Amore… amore, piccolo pulcino mio – singhiozzò Ellie, rendendosi conto delle ferite – c’è la mamma con te, non aver paura…”
Andrew si alzò, prendendo in mano la situazione e fece cenno a Roy di seguirlo al piano di sopra.
“Che ci facevate nella vecchia miniera?” chiese mentre salivano le scale.
“Non lo so perché è entrato lì: il cane di Riza ha iniziato a incitarmi verso quel posto e quando sono arrivato l’ho sentito piangere e così sono entrato…”
“Era già privo di sensi? – entrarono nella camera di Kain ed Andrew prese la coperta – La gamba…”
“Si lamentava, ma non ha aperto gli occhi, nemmeno quando l’ho chiamato – si disperò Roy – e la lamiera… ho dovuto tirare per staccarla dalla parte attaccata al terreno. Ho paura di aver peggiorato… ma come potevo…”
“Tranquillo ora – l’uomo trasse un profondo respiro, come a farsi forza – adesso lo portiamo dal medico.”
Scesero di nuovo al piano di sotto dove Ellie continuava a chiamare il bambino e gli accarezzava i capelli.
“Andrew… – supplicò, alzando gli occhi pieni di lacrime sul marito – la sua gamba.”
“Deve vederla il dottore… tieni la coperta che lo sollevo. Ecco, piano, la gamba non deve ricevere scossoni: lasciala scoperta. Bene, adesso vieni, piccolino, andiamo a farti curare.”
E sistemandosi il bambino tra le braccia si diresse verso la porta, con Ellie che lo tallonava. Roy fece per seguirli, ma non poté fare a meno di dare un’ultima occhiata a quel divano.
Solo pochi minuti e si era riempito di sangue.
 
“Ellie, esci.” disse Andrew, andando a lavarsi le mani.
“No – scosse il capo lei – non puoi chiedermi di uscire fuori quando mio figlio è in queste condizioni.”
“Signora, per favore esca – consigliò il medico – adesso dobbiamo levargli quel pezzo di metallo ed è meglio che non sia presente.”
La donna fissò il bambino che giaceva nudo ed esanime nel letto dell’ambulatorio: il medico aveva tagliato tutti i vestiti con le forbici per controllare che il corpo non avesse subito altri danni con la caduta. La parte destra del fianco presentava delle escoriazioni e diversi lividi, ma era la gamba… quello squarcio che prendeva quasi tutta la coscia.
“Ellie – sussurrò Andrew accostando la fronte alla sua – per l’amor del cielo, esci. Non devi vedere, ti prego. Resto io con lui, da brava… ti prometto che andrà tutto bene, te lo giuro. Farò di tutto per il nostro bambino, meraviglia mia, fatti forza.”
A quelle parole la donna fu costretta ad annuire e ad indietreggiare verso la porta.
Come la richiuse alle sue spalle, si lasciò scivolare contro di essa, iniziando a singhiozzare.
Roy, che era rimasto fuori da quella stanza ad attendere, si accostò a lei ansioso di avere notizie.
Ellie si accorse della sua presenza e si girò a guardarlo, notando la maglietta strappata e sporca di terra e sangue… il sangue di Kain che adesso stava in quella stanza con la gamba terribilmente ferita.
“Ti senti soddisfatto adesso?” chiese, fissandolo con gli occhi identici a quelli del bambino, ma carichi di un dolore cieco ed impotente.
“Io…” mormorò il ragazzo, sentendo un impatto fisico per quella disperazione, tanto da farlo indietreggiare.
“Era così difficile accettare che fosse un bambino obbediente che non faceva mai cose avventate? Dovevi spingerlo a queste prove assurde di coraggio?”
“Non è come pensa, signora, io non…” balbettò lui.
“Mio figlio è in quella stanza con la gamba distrutta! – esclamò la donna, serrando gli occhi – Ti prego… ti prego, non di nuovo… non voglio rischiare di perderlo ancora una volta.”
Roy non capì il senso di quell’ultima supplica, gli erano bastate le prime frasi chiaramente rivolte contro di lui. Era davvero colpa sua se Kain aveva tentato una cosa simile? L’aveva spinto lui ad essere così spericolato?
“Non… non volevo…” mormorò, abbassando la testa e restando accanto a lei.
E non si dissero altro per tutto il tempo in cui quella porta rimase chiusa.
 
Dopo più di un’ora il medico finì di tastare con delicatezza la testa del bambino e provvide a coprirlo con un lenzuolo.
“Non c’è nessun trauma alla testa – dichiarò – solo delle escoriazioni superficiali. Può far entrare sua moglie,ingegnere, vi esporrò il quadro clinico del bambino.”
Andrew annuì stancamente: si era lavato con cura le mani e le braccia, ma se le sentiva ancora sporche del sangue di Kain. Il suo sguardo corse automaticamente a quel contenitore di stagno dove, tra le garze arrossate, giaceva quella lama di metallo arrugginito lunga almeno dieci centimetri: quando il medico l’aveva estratta gli era sembrato di sentire il rumore di quel corpo estraneo che dilaniava i muscoli, la carne, le ossa.
Forza, Andrew Fury, non puoi cedere adesso.
Aprì con delicatezza la porta, quasi intuendo che Ellie fosse lì.
Immediatamente la donna si alzò in piedi e lo fissò con timore misto a speranza.
“Andrew…”
“Vieni, il dottore vuole parlarci.”
Ellie annuì debolmente ed entrò nella stanza, andando accanto al letto dove giaceva il bambino, ancora privo di sensi.
“E’ sotto sedativi, signora – disse il dottore – dormirà per diverse ore.”
Andrew socchiuse la porta, completamente dimentico di Roy che stava ancora nel corridoio.
Così non si accorse di come il ragazzo si accostasse per sentire pure lui quanto si stava per dire.
“Allora?” chiese, andando vicino alla moglie ed abbracciandola.
“La testa non ha subito danni gravi, quelle escoriazioni e quel gonfiore non sono niente di preoccupante; anche nel torso le ferite non sono gravi, certo, c’è quella brutta frattura al braccio… ma è la gamba a preoccuparmi davvero.”
“Che cosa intende?” chiese Ellie con ansia.
“Ho estratto il pezzo di lamiera, ma parte di essa era vecchia ed arrugginita e non posso garantire che tutti i frammenti siano levati, c’è la possibilità che alcuni si siano sbriciolati in parti davvero minuscole. – sospirò – Ho dato al bimbo una prima massiccia dose di antibiotici, che dovrete continuare a somministrargli, per contrastare l’inizio d’infezione  e speriamo facciano effetto.”
Infezione.
Quella parola cadde pesante nel cuore di tutti, compreso quello di Roy che sentiva tutto appoggiato al muro, appena accanto alla porta. Gli occhi scuri si dilatarono, ma non ebbe tempo di pensare perché le voci all’interno proseguirono… e lei stava piangendo.
“E se non si riesce a bloccarla?” la voce del padre di Kain era tremante.
“In caso estremo, per evitare che si diffonda al resto del corpo, mettendo a rischio la vita del bambino, mi troverò costretto a procedere all’amputazione. Mi dispiace.”
A Roy sembrò che il mondo iniziasse a vorticare vertiginosamente attorno a lui.
Sentiva il pianto disperato della donna, la voce del marito e del medico che cercavano di calmarla.
Dovevi spingerlo a queste prove assurde di coraggio?
“No – balbettò, riprendendo a piangere – no… non è colpa mia, non volevo! Non volevo!”
Battendo un violento pugno contro il muro, scappò via da quell’ambulatorio, come se la vicinanza di Kain ridotto in quelle condizioni fosse un marchio di colpevolezza. Cercava di ripetersi che tutte le volte che l’aveva spinto a fare prove di coraggio non gli aveva mai messo in testa follie simili.
Eppure lo sguardo accusatorio di Ellie Fury continuava a tormentarlo.
Non è colpa mia… non volevo! Non volevo che accadesse questo! Mai! Mai!
Aveva un disperato bisogno di scappare, di rifugiarsi da qualcuno che avrebbe potuto lavare via quella tremenda colpa che lo stava attanagliando. La sua folle corsa lo portò al commissariato di polizia; superò le persone che incontrava, liberandosi anche da un poliziotto che cercava di bloccarlo, sorpreso dal suo improvviso arrivo.
Aprì la porta dell’ufficio di Vincent con tutta la disperazione che aveva in corpo.
“Roy?” esclamò l’uomo, alzandosi dalla scrivania.
“Non volevo che accadesse! – pianse correndo verso di lui e abbracciandolo – Non volevo…”
“Ma di che parli? – chiese Vincent, accarezzandogli i capelli corvini e facendo cenno agli altri poliziotti che erano entrati di uscire e chiudere la porta – Da bravo, che è successo?”
“Rischia di perdere la gamba – singhiozzò – ed è tutta colpa mia…”
“La gamba? – scosse il capo l’uomo non capendo. Scrollò lievemente il ragazzo per farlo calmare e si chinò per posare la fronte contro la sua – Adesso calmati, figliolo, e raccontami quanto è successo.”
 
Nell’arco di poche ore la notizia di quel grave incidente si sparse per tutto il piccolo paese.
Riza entrò nell’ambulatorio, librandosi dalla stretta di Elisa, e senza pensare ad altro corse verso la porta della stanza dove stava Kain. Proprio in quel momento stava uscendo Andrew che fu rapido a bloccarla.
“No, no, piccola mia, non devi vederlo in queste condizioni.”
“Sta male! – pianse lei, dimenandosi persino nella sua stretta – Come posso non andare da lui?”
“Sssh, ti prego…”
“Ma è vero che rischia di perdere la gamba?”
Andrew si inginocchiò nel pavimento e la strinse ancora più forte: cercava parole per confortarla, ma proprio non ci riusciva. Voleva trovare una nuova forza dentro di sé, ma tutta la sua anima continuava a gridare che non era disposto a sopportare un nuovo calvario come quello di sette anni prima.
Le parole dei suoi genitori, di Vincent degli amici, gli suonavano vuote e prive di significato davanti a quella nuova tragedia.
Era uscito fuori da quella stanza perché la vista di Ellie china su quel letto di dolore gli aveva fatto piombare sul cuore dei tremendi ricordi, quando ogni ora, ogni minuto poteva essere l’ultimo.
Le braccia di Riza si strinsero al suo collo, sentì la testa bionda che si strofinava contro la sua in cerca di sostegno e rassicurazione. Si costrinse a farsi forza, trovando in quella fiducia così assoluta la stessa spinta che gli aveva dato quella di Heymans durante la piena.
“Andrà tutto bene – riuscì a dire – deve andare tutto bene… deve…”
Sentì un nuovo abbraccio sulle sue spalle e aprendo gli occhi vide la chioma rossa di Heymans contro la sua spalla.
“Certo che andrà tutto bene – pianse il ragazzo – è forte… è in grado di farcela… sono solo cazzate quelle dell’amputazione… Kain non…”
“Heymans – sospirò, includendo anche lui nell’abbraccio – da bravo…”
Il rosso scosse il capo: doveva andare tutto bene, non poteva sopportare una simile tragedia.
Come Vato era corso a casa sua per dirgli la notizia, era uscito di corsa, lasciando sua madre al capezzale di Henry che ancora ansimava per quella brutta crisi nervosa. Ma se sapeva che suo fratello si sarebbe ripreso, quello che stava accadendo a Kain era molto più grave.
Non deve succedere proprio a lui… non a Kain…
 
“E’ stata tutta colpa mia – disse per la centesima volta Roy – se non l’avessi spinto a quelle disobbedienze lui non avrebbe mai fatto una follia simile…”
“Non dire questo Roy – boy, – lo consolò Madame, dandogli una pacca sulle spalle – il tuo amico piumino se la caverà vedrai. I medici sono sempre pessimisti.”
“Devo tornare in ambulatorio – scosse il capo il ragazzo, alzandosi dal letto – non posso lasciarlo solo.”
“No, devi stare tranquillo e riposare un po’ – lo ammonì Vincent, spingendolo sul cuscino – hai fatto uno sforzo fisico e mentale molto forte e devi concederti un minimo di tregua. Hai avuto una brutta crisi di pianto, Roy, se torni in quel posto si riscatena e metterai in difficoltà tutti quanti… i genitori di Kain in primis, lo capisci?”
“Vado a preparati una camomilla, ragazzino: ne hai proprio bisogno.”
Rimasto solo col ragazzo, Vincent si sedette sul bordo del letto e iniziò ad accarezzargli i capelli neri e sudati, accorgendosi che quel gesto aveva un effetto calmante.
“La madre di Kain mi odia, crede che sia stato io…” mormorò lui.
“Te l’ha detto esplicitamente? Ti ha detto che sei stato tu a far cadere il bambino in quel fosso?”
“No, ma ha detto che se non avessi spinto Kain ad essere così disobbediente lui non avrebbe mai fatto una cosa simile.”
“Roy, lei è solo molto preoccupata per le condizioni di suo figlio, non le pensa davvero queste cose.”
“Sì invece… e forse ha ragione.”
“Non essere sciocco – lo rimproverò l’uomo, scuotendo il capo – Kain è un ragazzino molto giudizioso che non fa mai una cosa senza un motivo particolare. Non è stata pura e semplice avventatezza, sono pronto a scommetterlo… se ci rifletti sono sicuro che anche tu arrivi alla mia stessa conclusione.”
“E allora che cosa è successo?” chiese Roy, con disperazione.
“Non lo so, figliolo, per quello dobbiamo aspettare che il tuo piccolo amico si risvegli e ci dica come è andata. Adesso però – disse, vedendo che Madame Christmas stava tornando con una tazza fumante – l’unica cosa a cui devi pensare è bere questa camomilla e concederti un paio di ore di sonno.”
E nonostante tutti i suoi sforzi, Roy non riuscì ad opporsi a quelle mani gentili ma ferme che lo costringevano a bere e a riadagiarsi nei cuscini. Protestò debolmente ancora per qualche minuto, ma poi quelle carezze ai capelli e quel tono rassicurante lo fecero sprofondare in un sonno tormentato da visioni di sangue e lamiere, dove l’unico suono che sentiva era il lamento di Kain.
 
Andrew adagiò il bambino sul letto matrimoniale, sistemandogli con delicatezza la gamba ed il braccio. Subito Ellie provvide a coprirlo e a sedersi accanto a lui.
Il fatto che il medico avesse concesso loro di portarlo a casa era sicuramente un bene. Andrew notava che la moglie era nettamente più tranquilla e aveva smesso di piangere. Vedendola china ad accarezzare con estrema delicatezza la guancia sana del bambino, assistette ad una meravigliosa metamorfosi: eccolo di nuovo accanto a lui quell’angelo che aveva accudito Kain nei primi quattro anni. Si era in parte dimenticato di quella strana forma di bellezza che Ellie assumeva quando vegliava il bambino malato, quel tangibile effetto consolatorio che spesso aveva fatto da balsamo per tutte le sue paure.
“Ellie…” mormorò, andandole accanto e baciandole i capelli.
“Sono le nove, tra sei ore dobbiamo fargli un’iniezione di antibiotico – disse lei con voce dolce e calma – puoi controllare che ci sia tutto nel pacco che ci ha preparato il medico? Tra poco preparo un impacco di arnica per il suo povero faccino, così si sgonfierà prima…”
Ma il messaggio nel suo sguardo era chiaro:
Non dire nemmeno per errore la parola amputazione.
“Vado subito, amore mio – annuì Andrew, sentendosi di nuovo pronto ad affrontare i problemi di salute di Kain – andrà tutto bene, ne sono sicuro. Vero, piccolo?”
“Tranquillo, pulcino, – mormorò Ellie baciando la fronte del figlio – mamma e papà penseranno a te, guarirai presto.”
Per chissà quale miracolo, Andrew fu sicuro di vedere il viso del bambino che riusciva a rilassarsi leggermente, come se avesse sentito quelle rassicurazioni, quell’amore attorno a lui.
Piccolo mio, tu mi hai abituato a degli incredibili miracoli in tutti i tuoi undici anni di vita… te ne chiedo ancora uno, per favore.
“Papà…” fu solo un sussurro, ma lo sentì chiaramente.
Kain mosse a fatica la testa, emettendo un lamento.
“L’effetto dei sedativi sta iniziando a passare, come ha detto il dottore – capì, accostandosi al letto – ehi, Kain, piccolo mio, sta tranquillo. Va tutto bene.”
“Fa male…” ansimò lui, serrando gli occhi ed iniziando ad agitarsi debolmente.
“Sssh, amore, lo so – lo bloccò con gentilezza Ellie – ma non devi muoverti. Ci sono io con te, pulcino mio, passerà il dolore, te lo prometto.”
“Penna… la penna…”
“Penna? Amore, adesso non puoi scrivere.”
“La penna? – sussurrò Andrew, ricollegando il motivo dell’uscita di Kain – Tranquillo, vado a prendertela.”
Scese al piano di sotto dove avevano posato il pacco che tra le altre cose conteneva anche i vestiti strappati che il bambino indossava: frugò in ogni tasca, in ogni piega della stoffa, ma niente.
Tornò al divano insanguinato e controllò anche lì vicino, ipotizzando che magari fosse caduta mentre lo posava lì dopo che Roy l’aveva portato a casa.
Nemmeno qui… maledizione, deve essere caduta da qualche altra parte.
“Andrew – chiamò Ellie da sopra – vieni, per favore, gli sta salendo la febbre…”
“La febbre? No… no, pessimo segnale… te la troverò poi la penna, Kain, promesso.”
 
Papà… la penna…
Roy si svegliò ansimando, mentre la voce straziante di Kain lo tormentava per la centesima volta.
Quella notte era destinato a non dormire, ne era sicuro.
Preferisco stare sveglio piuttosto che affrontare ancora questi incubi.
Si alzò dal letto e accese la luce della stanza: nonostante tutto alcune ore di riposo fisico l’avevano aiutato a superare quel momento di debolezza, ma gli avevano anche sfasato i tempi. Da sotto sentiva le risate, la musica e le chiacchiere degli avventori del locale: era notte inoltrata, come testimoniava anche la luna che si vedeva dalla finestra.
Si sedette alla scrivania, cercando di distogliere i pensieri dal suo piccolo amico.
Madame gli aveva detto che l’avevano riportato a casa, sarebbe stata una sistemazione certamente più confortevole per lui ed i genitori. Ma la diagnosi non era cambiata: si trattava di vedere se la lotta veniva vinta dagli antibiotici o dall’infezione.
“Non possono amputarti la gamba – mormorò a testa china – come pretendi che ti insegni ad andare in bici se hai una gamba sola?”
Si ricordò dell’esistenza degli automail, ma la sola idea di uno di quegli aggeggi montato sul corpicino di Kain gli diede un forte senso di nausea. No, Kain aveva le sue gambe, perfette e pronte a correre per i campi, ad arrivare ai pedali della bici, a scalare gli alberi…
“Devo fare qualcosa per lui – sussurrò, mentre nuove lacrime scorrevano nel suo viso – ma cosa…?”
Una goccia cadde su uno dei fogli bianchi che aveva davanti a sé e con un gesto seccato cercò di asciugarla. Così facendo urtò una penna che giaceva lì vicino.
Papà… la penna…
… è che sto andando a comprare le ricariche per la penna che mi ha regalato papà.
L’immagine di Kain, tutto sorridente, mentre annunciava quella commissione che doveva compiere gli tornarono di prepotenza alla mente.
“Lui non farebbe mai niente di avventato senza un motivo… vuoi vedere che…?”
Fu questione di pochi secondi e si era già alzato dalla sedia. Si levò il pigiama ed iniziò a vestirsi: doveva andare alla miniera e levarsi quel dubbio. Se la penna era in quel posto doveva assolutamente recuperarla e riportarla al bambino: era troppo importante per lui.
Mettendosi la giacca, corse al cassetto della scrivania e prese la torcia: non l’aveva più usata dai tempi della fatidica caccia al fantasma…
“Ma a questo giro non ci sarà fantasma che mi fermerà.”
Stava uscendo che era notte fonda per andare in una miniera abbandonata a cercare un oggetto minuscolo come una penna.
Ma non gli importava di nient’altro.
 
“Ellie, amore, sdraiati un poco – sussurrò Andrew, accarezzandole la guancia – sono le tre e mezza passate e non ti sei concessa un attimo di tregua.”
“Tranquillo, sto bene.” scosse il capo lei.
No, non si sarebbe addormentata per nessun motivo al mondo, lo sapeva bene. Conosceva quella placida determinazione, così impressionante in una donna così minuta e dall’aspetto infantile, l’aveva vista all’opera altre volte.
Si avvicinò per tastare la fronte del bambino: la febbre era arrivata un cinque ore prima e non l’aveva ancora lasciato. Il dottore non aveva detto quanto margine di tempo si prendeva per decidere se amputare la gamba o meno, ma Andrew sapeva che era qualcosa che andava fatto nell’arco di pochi giorni.
No, non ci devo pensare… non ci devo pensare.
“Papà – ansimò il bambino – papà, dove sei?”
“Sono qui, piccolo mio – rispose accarezzandogli i capelli sudati – stai tranquillo, sei a casa con me e la mamma, va tutto bene.”
“E la penna?”
“La penna… è in… in camera tua – mentì – però adesso è notte e devi riposare, non pensare alla penna, bambino mio, è al sicuro.”
“Andrew, perché non vai a prendergliela? – suggerì Ellie – gliela mettiamo in mano così è più tranquillo.”
Lui scosse il capo e le fece cenno di alzarsi, la condusse lontano da letto, per evitare che Kain sentisse e mormorò.
“Non la trovo da nessuna parte, deve averla persa in quel posto o chissà dove.”
“La penna… papà! – pianse il bambino, dimenandosi ora che non c’era più nessuno a tenerlo – La penna!”
Subito Ellie corse di nuovo al suo capezzale, bloccando quei movimenti che potevano peggiorare le ferite.
Andrew scosse il capo e per un allucinante momento fu tentato dall’idea di andare a cercare quella maledetta penna all’interno della miniera.
Ma il suo folle piano, perché era da folle pensare di abbandonare moglie e figlio in quel frangente, venne spezzato da un forte bussare alla porta.
Girandosi a guardare, notò che Ellie era ancora impegnata a calmare Kain e probabilmente non se ne era nemmeno resa conto. Così scese al piano di sotto ed andò ad aprire, chiedendosi chi mai potesse essere a quell’ora e…
“Roy?”
“La penna – esclamò il ragazzino, mostrando l’oggetto nella mano tremante– ho ritrovato la sua penna.”
 
“Sei andato in quel posto in piena notte mettendoti a cercare la penna con il solo aiuto di quella piccola torcia?” chiese Andrew, mettendogli una coperta sulle spalle e facendolo sedere nel letto di Kain.
“La stava cercando – spiegò Roy con voce tremante, profondamente scosso da quella tremenda ora passata a perlustrare ogni centimetro di quel posto, sussultando per ogni minimo rumore, anche per il suo stesso battito del cuore. Era quasi scoppiato a piangere quando finalmente l’aveva individuata molto più lontano di quanto avesse mai pensato – è per quello che è entrato nella miniera, ne sono certo.”
“Potevi farti seriamente male, così al buio, con tutti i pericoli che ci sono in quel posto.”
“Non ci metterò mai più piede – giurò lui – ma… che altro potevo fare?”
“Aspettare domattina e chiedere a me o a Vincent di andare a prenderla.”
“No, troppo tardi, Kain la cercava… lui… lui non perderà la gamba, vero?”
“Non pensare a queste cose e sdraiati a riposare: sei gelato e terrorizzato.”
“Sono stufo che mi diciate quello che devo fare, voglio andare da Kain e…”
La frase venne interrotta da Ellie che entrò nella stanza.
“Andrew, vai a darmi un po’ il cambio, per favore?”
“Certo, tesoro.”
Come la porta si chiusa Roy alzò gli occhi sulla sua nemica numero uno, la donna che odiava perché aveva un’ascendente sui suoi amici che lui non poteva scalfire. Gli tornarono in mente le parole che gli aveva detto all’ambulatorio e, per un perverso gioco, il suo cervello le collegò alle accuse che quelle maledette donne avevano lanciato a Riza il giorno della piena.
“Va meglio?” chiese Ellie, sedendosi accanto a lui.
“Per il freddo dice? Sì, va meglio.” rispose laconicamente lui, spostando lo sguardo davanti a sé e concentrandosi su un minerale azzurrino che stava nella libreria dall’altra parte della stanza.
“Sei andato in quel posto per recuperare la penna, è così?”
“Sì, signora.” mormorò, pronto a sentire le nuove accuse nei suoi confronti: tanto era per quello che si era disturbata a lasciare il capezzale di Kain.
“Grazie.”
No, non era questo ciò che Roy si era aspettato e si girò a fissare quella donna, restando profondamente sorpreso per la sincera gratitudine e preoccupazione che leggeva nei suoi occhi.
“Però – aggiunse Ellie – non fare mai più niente di così pericoloso, va bene?”
La mano che gli accarezzò i capelli fu gentilissima, come solo quella di una madre poteva esserlo. Un tocco che riusciva a sciogliere tutte le paure ed i traumi di quella notte di terrore.
Perché sei così diversa?
“Non… non sono stato io a portare Kain lì…” si trovò a dire.
“Lo so – sussurrò lei, abbracciandolo – tu l’hai solo salvato ed io non avrei mai dovuto dirti delle simili parole, ti chiedo scusa.”
Roy sgranò gli occhi nel sentire quelle braccia che lo cingevano: nonostante fosse esausta e preoccupata, quella donna emanava un senso d’amore tale che finalmente gli fece capire cosa portava Riza ad adorarla in una maniera simile.
E si accorse che non riusciva ad odiarla, forse non l’aveva mai fatto.
“Volevo che Kain fosse più… sono stato solo uno stupido.” le lacrime gli uscirono da sole quando iniziò a rendersi conto dell’assurdità di quanto aveva fatto.
“E’ acqua passata – lo consolò la donna, continuando ad accarezzargli i capelli – l’hai salvato, Roy, se non fosse stato per te sarebbe morto in quel posto. Sei un ragazzo coraggioso, sul serio.”
Il ragazzo si strinse ancora di più a lei: com’era consolatore quell’abbraccio, quella voce… con che coraggio aveva preteso di staccare Kain da quella donna meravigliosa?
“Signora – mormorò ad un certo punto – mi scusi, la sto trattenendo, lei ora dovrebbe andare da Kain che ha tanto bisogno di…”
“Calmo – lo bloccò lei – c’è Andrew con lui: io resterò con te fino a quando non ti sarai addormentato.”
“Ma…”
“Coraggio, parlami di quella miniera.”
“No – scosse il capo Roy, accorgendosi di averne davvero paura anche solo a ricordare – non posso…”
“Sì che puoi – lo consolò Ellie – funziona così: una volta che ne parli fa meno paura… tu non hai idea di come conosca bene i dettagli della vostra avventura al commissariato di polizia.”
Il ragazzo fissò incredulo quel timido sorriso sul volto infantile di lei.
E le parole iniziarono ad uscire da sole, come un veleno che viene estratto da una ferita.

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Capitolo 42
*** Capitolo 41. Non stare a guardare. ***


Capitolo 41. Non stare a guardare.

 

“Che cosa? – esclamò Jean – E me lo dici solo adesso?”
“Non potevo farlo con Janet presente – scosse il capo Heymans, mentre si fermavano nel cortile della scuola – si sarebbe spaventata.”
“Ma come si sente? Si sa qualcosa?” gli occhi azzurri del biondo erano dilatati dalla preoccupazione.
“No, so solo che ieri sera il medico ha permesso che venisse portato a casa. Ecco… – esitò –  ha parlato di amputazione se le cose si mettono male.”
“No, non andrà cosi, vero Heymans? Vero?”
“No, non deve andare così, però…”
“Ciao, ragazzi – salutò Vato, avvicinandosi con Elisa e Riza – avete visto Roy?”
“No, ma siamo appena arrivati – spiegò Heymans – avete notizie?”
“Niente di nuovo – scosse il capo Riza, estremamente pallida e col volto teso – non so che fare…”
“Dai, Riza – la consolò Elisa, passandole un braccio attorno alle spalle – vedrai che si sistema tutto.”
Ma nessuno ebbe il coraggio di dire altro: il silenzio aleggiava tra di loro, incapaci di accettare una cosa così terribile come quella che stava capitando al più piccolo del gruppo.
“Ciao ragazzi.” salutò Roy, affacciandosi al muretto della scuola.
“Roy, perché sei vestito così e non hai la tracolla?” chiese Riza avvicinandosi a lui.
“Oggi non vengo a scuola, ero a casa di Kain fino a una mezz’ora fa…” iniziò, ma subito venne sommerso da decine e decine di domande impazienti.
Lui scosse il capo, aveva solo voglia di tornare a casa e farsi un bagno caldo per poi infilarsi di nuovo il pigiama e mettersi sotto le coperte. A casa dei Fury aveva dormito solo due orette, per il resto era rimasto anche lui a vegliare Kain.
Per favore, signora, lasci restare anche me. Le giuro che non sarò di nessun impiccio.
“Allora, dicci qualcosa!” lo spronò Jean.
“Beh, lui ha la febbre parecchio alta e pare che questo sia dovuto all’infezione – disse con esitazione – ma il fatto che l’abbia adesso non significa che durerà ancora: gli stanno dando antibiotici e dovrebbero aiutarlo a guarire.”
“Perché usi il condizionale?” chiese ancora il biondo.
“Perché le infezioni non sono come le normali influenze – spiegò Vato, passandosi una mano tra i capelli – dipende da quanto grave è la situazione della sua ferita: gli antibiotici possono farcela o no, ci sono molti fattori in ballo.”
“E i signori Fury come ti sono sembrati?” chiese Riza.
“Ecco loro… sicuramente sono molto in pensiero, ma si stanno prendendo cura di lui in maniera fantastica, sul serio. Sua madre non lascia un momento il suo capezzale e così suo padre.”
Non raccontò loro della questione della penna, non disse che Kain adesso la teneva stretta nella mano sana e questo sembrava averlo calmato leggermente. Riteneva quella questione ancora aperta, ma da rimandare non appena il bambino fosse stato meglio.
Perché quella penna nella miniera non è finita da sola e non ce l’ha portata di certo Kain.
“Bene, mamma sarà contenta di avere queste novità – disse Heymans, distogliendolo da quei pensieri – ieri sarebbe voluta andare all’ambulatorio, ma Henry stava così male che non poteva lasciarlo.”
“Ah sì? Che è successo?”
“Mah, un crollo nervoso o qualcosa di simile, ma forse è anche influenza dato che gli è salita un po’ di febbre. Ma già stamattina sembrava più tranquillo, l’ho lasciato che dormiva.”
 
Per Kain fu difficilissimo aprire gli occhi e rispondere a quelle voci che lo chiamavano.
Sentiva la testa dolergli in maniera impressionante, in particolare la parte destra.
E’ proprio necessario, mamma? Non posso dormire ancora un pochino?
Cercò di dire quelle cose, mentre la sua mente stordita cercava di capire cosa stesse accadendo e che forse c’entrava qualcosa un compito da fare in classe con la penna o qualcos’altro di importante per il regalo di sua madre. La sua testa non riusciva a connettere i pensieri, anche se le voci continuavano a chiamarlo.
Alla fine riuscì ad aprire debolmente gli occhi, ma quello destro si richiuse quasi subito per il senso di pesantezza che lo opprimeva.
“Pulcino – lo chiamò Ellie – amore mio, come stai?”
“Mamma…” mormorò con le labbra secche che gli diedero enorme fastidio.
Ma come sempre sua madre era prontissima per queste evenienze e subito un panno umido gli fu passato sulla bocca. Il contatto con la parte destra gli fece malissimo.
“Piano, tesoro – gli consigliò la donna – hai la parte destra del viso gonfia.”
Quelle parole si accompagnarono al corpo che, piano piano, tornava cosciente e consapevole e dunque arrivò la scarica di dolore, soprattutto dalla gamba che iniziò a pulsare e a bruciare. Cercò di muoverla ma fu come se una lama la trafiggesse e questo lo fece gemere di dolore.
“Kain – la voce di suo padre fu l’ultima cosa che sentì – fatti forza, figliolo.”
Ma la sua mano sinistra si strinse e trovò il contatto rassicurante con la penna.
Non era andata perduta come aveva creduto.
 
Hayate mangiava dalla sua ciotola, facendo ben attenzione a non farsi sfuggire nemmeno il più piccolo pezzetto di carne che la sua padrona gli aveva tagliuzzato. Ogni tanto i suoi occhietti scuri e vispi lanciavano occhiate amorevoli alla ragazzina che stava accovacciata accanto a lui e lo fissava con aria pensosa.
L’ora di pranzo era già passata da un pezzo, ma Riza non aveva toccato cibo: aveva preparato uno stufato e ne aveva portato una porzione a suo padre, ma il suo piatto giaceva intatto nel tavolo.
Era molto preoccupata per quello che stava succedendo a Kain e non potergli stare vicino, aiutare i suoi genitori, la faceva sentire estremamente impotente. Continuava a pensare a quanto erano stati premurosi con lei quando si era ammalata, a tutte le attenzioni che le avevano dato con un amore così tangibile e sincero da lasciarla senza parole.
E adesso era successo questo.
Kain, il suo piccolo adorato amico, il fratellino che amava con tutta se stessa: era per merito di quel bambino che tutti loro si erano uniti, inconsapevole palla di neve che era diventata una valanga di rapporti tra persone che prima non si consideravano. Solo lei se ne rendeva conto? Nessun’altro capiva quanto quel bambino fosse stato fondamentale per tutti loro?
“Ciao, colombina – fece Roy, affacciandosi alla finestra della cucina – hai pranzato?”
“No.”
“Non dovresti saltare i pasti.” salì agilmente sul davanzale e con un balzo fu dentro la cucina. Hayate fece un lieve scatto nel vedere quel movimento improvviso, ma poi riconobbe Roy e riprese a mangiare.
“Ho lo stomaco chiuso, magari provo a mangiare dopo.”
Nel frattempo il giovane si portò accanto a lei e la imitò nella posa, iniziando a fissare pure lui il cane che terminava di mangiare.
“La parte destra della faccia è tutta raschiata e tumefatta, fa molta impressione vederla, anche se il dottore dice che non è niente di grave; – spiegò dopo qualche secondo di silenzio – adesso ha una maglietta a maniche corte, ma anche nel torso ci sono alcune escoriazioni… e poi c’è il braccio ingessato. La gamba non l’ho vista, era coperta dal lenzuolo e da quello che ho capito ha una leggera fasciatura perché la ferita va controllata almeno due volte al giorno.”
Riza annuì e allungò la mano per accarezzare il dorso del cane.
“La mamma di Kain mi ha perdonato – mormorò Roy, abbassando lo sguardo – lei è fantastica nel prendersi cura del figlio, non credo di aver mai visto tanta gentilezza ed amore in una persona. Inizio a capire perché ti piaccia tanto.”
“Kain è tutta la sua vita – sospirò Riza – ha già rischiato di perderlo quando era molto piccolo e questa tragedia la sta sicuramente distruggendo. Non posso restare a guardare, Roy, non posso… mi sto dicendo da ore che non sono cose in cui mi devo immischiare, ma non è così. Per me loro sono una vera famiglia, come posso non fare qualcosa?”
“Io devo solo scoprire cosa è successo in quella miniera: – dichiarò Roy – Kain non c’è andato da solo, questo è chiaro. Chiunque sia stato se la vedrà con me.”
“Questo non lo aiuterà a guarire – scosse il capo lei, alzandosi in piedi – adesso quello che conta è ben altro, non credi?”
“Scusami, è che… fa veramente male vederlo in quel letto, così piccolo ed indifeso.”
Riza annuì, ma non disse altro: in cuor suo aveva appena preso un’importante decisione.
 
Erano le nove di sera quando mise in atto il suo piano: la sacca con la sua roba era pronta e così la tracolla con il materiale scolastico. Non aveva intenzione di lasciare nulla al caso, non poteva permettersi errori in quella che era una mossa veramente azzardata e fuori dal suo modo di pensare.
Sistemando tutta la roba all’ingresso, tornò in cucina e prese il vassoio con la cena per suo padre.
Entrò nel suo studio con la solita discrezione e lo posò nella scrivania.
“Papà – disse, senza guardarlo negli occhi – per i prossimi giorni io non sarò a casa: vado a stare con un mio amico che non si sente molto bene. Non ti preoccupare, mi porto la roba di scuola e studio senza problemi da lui: in cucina ci sono diverse cose e dunque puoi preparati tutto quello che desideri.”
Gli occhi azzurri di Berthold si volsero su di lei: Riza indietreggiò di un passo ma resse lo sguardo.
Sì, non gli aveva chiesto il permesso, gli aveva semplicemente detto un dato di fatto.
Ma del resto cosa pretendi? Quando sono stata male non sei nemmeno venuto a vedere come stavo…
“Passo a casa qualche volta con della spesa… e torno tra una settimana, massimo una decina di giorni. I genitori del mio amico si prenderanno cura di me.”
“Fai come preferisci, vedi di non arrecare disturbo.”
“Certamente.” annuì lei, dirigendosi verso la porta.
Non si sentì troppo scossa per quel breve scambio di battute: aveva ben altro a cui pensare.
Andò all’ingresso e si sistemò la tracolla e la sacca, quindi uscì nel cortile dove stava Hayate che scodinzolava con curiosità nella sua direzione.
“Adesso andiamo a casa di Kain – gli disse la ragazza, mettendogli il guinzaglio – tu starai nel cortile e farai il bravo: niente abbaiare o fare buche o altro, va bene? Kain sta male e ha bisogno di silenzio e tranquillità.”
Senza perdere altro tempo iniziò la sua camminata verso casa dei Fury.
Le giornate si erano certamente allungate, ma a quell’ora era già buio: fu un bene che ci fosse il cane a farle compagnia perché quello che di giorno era un normale sentiero, di notte, con la scarsa visibilità consentita dal cielo stellato, faceva davvero paura.
Tant’è vero che come vide le luci della casa di Kain, dopo quella che le sembrò un’eternità, tirò un sospiro di sollievo e affrettò il passo.
Andò nel cortile sul retro e levò il guinzaglio al cane, prese dalla sacca una copertina e la mise per terra, proprio accanto al muro.
“Questa è la tua cuccia per questi giorni, va bene? – sussurrò, accarezzandolo ed inducendolo a sdraiarsi – Fai il bravo come ti ho detto: domani mattina vengo a vedere come stai.”
Risolta quell’incombenza e vedendo che la luce della cucina era accesa, tirò un profondo respiro e si preparò ad affrontare i due adulti.
Entrò e vide che c’era Andrew intento a sistemare alcuni piatti nel lavandino.
“Riza?” sgranò gli occhi, vedendola farsi avanti e chiudere la porta.
“Lo so, probabilmente mi prenderà per matta – ammise lei, lasciando cadere a terra la sacca e la tracolla – ma non posso stare a guardare mentre voi siete in difficoltà e Kain sta così male. Mi permetta di restare qui, signore, la prego: voglio rendermi utile.”
“Oh no, piccola mia – sospirò Andrew, capendo la situazione – non mi dire che sei scappata di casa…”
“No, assolutamente – scosse il capo – ho detto a mio padre che andavo a stare a casa di un amico malato e lui non ha fatto obiezioni. Ascolti, sono brava a cucinare, posso preparare i pasti per tutti, lavare i piatti, insomma fare tutto io in modo che voi possiate dedicarvi a Kain senza pensare a queste cose…”
“Tesoro, – la prese per le spalle lui – non è questo che…”
“Mi sono portata anche il materiale di scuola – continuò ostinatamente – studio da sola, senza problemi e non occupo molto spazio: mi va bene anche dormire nel divano. E il cane non farà rumore è bravo e sa stare fuori in cortile senza danneggiare niente.”
“Il cane?”
“Non… non volevo lasciarlo da solo con mio padre… ora è qui fuori, ma sicuramente si addormenterà subito. E per il suo mangiare ci penso io… insomma voi non dovete pensare che…”
Le lacrime iniziarono a colare sulle guance.
“Piccola mia – mormorò Andrew, abbracciandola – che cosa ho fatto per meritare un tesoro come te?”
“Voi mi avete trattato come una figlia, sempre… non potete chiedermi di stare a guardare mentre Kain soffre così tanto.”
“Andrew – fece Ellie entrando in cucina – vai da Kain mentre preparo l’impacco… Riza?”
La ragazzina volse lo sguardo su quella donna che ormai considerava come una madre: vederla così stanca e provata le straziò il cuore e corse immediatamente ad abbracciarla. Sentendo quelle braccia gentili che ricambiavano la stretta si sentì ancora più in dovere di fare qualcosa.
“Signora – disse con decisione, alzando il viso – mi dica cosa devo fare e l’aiuto io con l’impacco che deve preparare.”
“Eh? Ma che cosa succede? Tesoro, dovresti essere a casa: è notte, ormai.”
“Non posso tornare adesso… voi sareste preoccupati se io stessi fuori la notte.”
A quelle parole Andrew sorrise, complimentandosi mentalmente con quella bambina intelligente che gliele stava rivoltando contro. Guardando come Ellie la stringeva, traendo conforto dalla sua presenza, rifletté che molto probabilmente era la cosa migliore da fare, almeno per quella sera.
“Puoi dormire in camera di Kain, signorina – disse, andando da lei e mettendole una mano sulla spalla – ma le condizioni per stare qui sono che obbedirai a tutto quello che ti diciamo noi, chiaro?”
“Chiarissimo.”
“Bene, allora aiuta pure Ellie a preparare l’impacco: io vado da Kain.”
“Grazie, signore – sorrise sollevata la ragazzina – davvero.”
“Grazie a te, piccola mia.” le sorrise di rimando l’uomo.
 
Mentre Riza prendeva in mano la situazione e decideva di fare del suo meglio per Kain, anche gli altri ragazzi a modo loro pensavano al bambino.
Vato sedeva nella sua scrivania, leggendo un libro veramente difficile di medicina: cercava di capire come funzionasse veramente quella storia delle infezioni.
“Ehi, Vato – chiamò Vincent, entrando nella sua stanza – non fare troppo tardi con le letture, va bene? Eh? Ma quello è un libro di medicina…”
“Sto studiando le infezioni – spiegò il ragazzo, tenendo il capo chino su quelle pagine: non aveva mai pensato potesse essere una cosa così complicata – se riesco a capirla bene , forse… forse al dottore è sfuggito qualcosa d’importante e…”
“Per Kain?”
Vato annuì ed il suo indice, bloccato tra delle pagini precedenti, si mosse per aprire il libro in un altro punto.
Vincent si sporse e lesse il titolo di quel paragrafo: amputazione degli arti.
“Non deve succedere – mormorò Vato con voce tremante – non voglio… non voglio…”
“Coraggio, ragazzo mio – sussurrò l’uomo abbracciandolo ed accarezzandogli i capelli – vedrai che andrà tutto bene.”
 
“Ma Kain torna presto a scuola, vero?” chiese Janet, mettendosi controvoglia sotto le coperte.
“Certo, tesoro – annuì Angela, senza però guardarla negli occhi – adesso cerca di dormire, da brava.”
“Janet – fece Jean, entrando già in pigiama – vieni, stanotte dormi con me.”
La bambina annuì sollevata e si alzò immediatamente in piedi nel letto per farsi prendere in braccio. Angela non chiese spiegazioni, gli bastava lo sguardo provato del figlio maggiore per capire che proprio non ce la faceva a restare solo in una simile occasione. Lui e Janet si sarebbero confortati a vicenda.
Arrivato in camera il ragazzo mise la sorella a letto e dopo aver spento la luce si sdraiò accanto a lei abbracciandola.
“Kain sta molto male, vero fratellone?” chiese lei con voce timorosa.
“Sì, Janet, è così.”
A quella risposta la bambina si strinse a lui, ricambiando l’abbraccio.
“Le stelle cadenti fanno avverare i desideri, vero?”
“Sì.”
“Se… se il desiderio è importante va bene anche se non vedo una stella cadente? Poi quando ne vedrò una non chiederò niente, promesso.”
“Si può provare… forse se lo chiediamo insieme il desiderio si avvera.”
Il loro abbraccio si sciolse e le loro mani si congiunsero.
“Voglio tanto che Kain guarisca presto e torni a scuola con noi.” disse la bambina, stringendo la sua presa come a dare maggior forza a quel desiderio così importante.
“Che Kain guarisca presto…” mormorò Jean.
E rimasero a ripeterlo fino a quando il sonno non avvolse la bambina.
Ma Jean passò ancora molto tempo a pregare per quel miracolo.
 
“Povero Andrew – pianse Laura in cucina – e povera Ellie. Posso solo immaginare quello che stanno passando… santo cielo che tragedia.”
Heymans le prese la mano e la accarezzò con dolcezza.
Finalmente Henry sembrava essere in ripresa e dormiva profondamente, senza alcun incubo a tormentarlo. Era una piccola consolazione, ma la cosa migliore era evitargli del tutto i contatti con Gregor: dai racconti confusi e deliranti del fratello, Heymans aveva capito che c’entravano alcune frasi dell’uomo a proposito del non essere suo figlio o qualcosa di simile.
E poi quel delirio sul silenzio… ancora non riusciva a sbrogliare quella matassa. E ogni volta che ci provava aveva paura perché intuiva che non era per niente gradevole.
Perché il silenzio fa più male?
E adesso la tragedia di Kain…
“Mamma, lui è forte, vero? E’… è guarito da tutto quello che ha avuto quando era ancora piccolo… ed il medico non gli dava che poche ore di vita…”
“Tesoro – lo abbracciò Laura – certo che è forte… è il figlio di Andrew ed Ellie.”
“Voglio solo che si salvi – mormorò lui, serrando gli occhi – che vada tutto bene, almeno questa volta… almeno per lui.”
 
Nella sua stanza Roy stava inginocchiato davanti alla finestra con le mani giunte.
Pregava un dio che non sapeva se esisteva o meno, il mondo e la vita in generale… qualunque cosa che avesse un minimo di potere divino per salvare la gamba di Kain.
“Per favore, gnomo – disse alla fine, trovando molto più senso nel pregare direttamente l’interessato – hai la tua preziosa penna, te l’ho riportata. Tu non sei vigliacco, per niente! Ti prego… guarisci, sei troppo importante per tutti noi.”
 
E Kain, sdraiato nel letto matrimoniale, con Andrew a vegliarlo, stringeva nella mano sana la sua preziosa penna, come se fosse l’incantesimo che l’avrebbe salvato da quella febbre che lo stava consumando.
Tutti gli stavano chiedendo un miracolo.
Ancora una volta, dopo tanti anni.
 
Quando Riza si svegliò, la mattina dopo, dovette fare uno sforzo per riconoscere la camera di Kain e ricordarsi che ora non era a casa sua.
Quel pensiero la fece balzare in piedi: non poteva permettersi di stare a poltrire.
Aprì immediatamente la finestra, accorgendosi che era mattina presto, e respirò a pieni polmoni quell’aria così frizzante, cercando di darsi la carica giusta per affrontare la giornata.
Con discrezione, per evitare di svegliare i due adulti, aprì la porta e corse in cucina.
Iniziò ad armeggiare tra i fornelli, decisa a preparare la miglior colazione del mondo.
All’improvviso sentì raspare ed uggiolare alla porta e si ricordò del cane.
“Oh cavolo – bisbigliò, andando ad aprire – scusami, Hayate, adesso ti porto qualcosa.”
Prese un piattino e vi versò del latte, mettendovi poi dei pezzetti di pane: lo mise sotto il tavolo e osservò il cane mangiare, sperando che non venisse nessuno proprio in quei minuti. Le dispiaceva che nemmeno per i pasti gli fosse consentito stare dentro casa… si sentiva solo.
Nel frattempo terminò i preparativi per la colazione, un invitante profumo di frittelle con miele che si spargeva per tutta la casa: si era davvero superata.
“Hai finito? – chiese al cane, recuperando il piattino – allora esci fuori… sì, lo so, non è come a casa e mi dispiace, ma qui dobbiamo rispettare delle regole diverse.”
“Per la colazione puoi farlo entrare – disse Andrew, dietro di lei – vedo che si comporta bene. E poi è anche merito suo se Kain è stato ritrovato.”
“Oh, buongiorno signore… si sieda, la prego, porto subito in tavola.”
“Tesoro, non siamo al ristorante, stai tranquilla. Faccio da solo… ehi, che grandi progressi che abbiamo fatto in cucina, c’è un profumo meraviglioso.”
“La signora non scende? Per lei posso tenere in caldo.”
“Siediti e mangia, Riza – la invitò Andrew – Ellie sta dormendo accanto a Kain. Finalmente si è concessa un minimo di riposo.”
“Oh, capisco – annuì lei, mettendosi a mangiare accanto a lui, una scena incredibilmente casalinga, considerato che era in pigiama e aveva ancora i capelli arruffati – come è andata la notte? Mi sono addormentata senza chiedere se serviva una mano per qualcosa e…”
“La mano ce l’hai data venendo qui, Riza – sospirò Andrew – non dovrei dire queste cose, perché come genitore dovrei farti tornare a casa… ma sul serio, ieri notte Ellie si è sollevata così tanto nel saperti qui, e anche io. Sei una presenza importante in questa casa, piccola mia.”
“Signore… siete una famiglia per me.”
“Non avevi ancora capito di farne parte, Riza? – la abbracciò lui – Eppure era chiaro, mi sa.”
“Posso vederlo? Solo per qualche minuto. Roy… Roy mi ha detto che il suo viso nel lato destro è ferito malamente, ma non mi impressionerò, promesso.”
“Ha ancora la febbre, ma non come ieri sera – rifletté Andrew – va bene, vieni, ma fai silenzio. Non voglio svegliare né lui né Ellie.”
“Certo.”
“E non camminare più scalza – la avvisò, prendendola in braccio senza preavviso – mi manca solo che ti raffreddi, ragazzina.”
Andrew la condusse su per le scale e quando arrivarono davanti alla porta della stanza matrimoniale, si mise l’indice della mano libera davanti alla bocca. Poi aprì con delicatezza la porta ed entrò nell’ambiente ancora in penombra per le tende tirate.
L’odore di disinfettante, malattia e di sangue la colpì immediatamente, ma cercò di non farci caso. Spostò la sua attenzione sul letto dove, nel lato sinistro, giaceva Ellie profondamente addormentata, la treccia nera mezzo sciolta che le cadeva sul petto. Era girata di fianco, la coperta fino alla vita, la mano che sfiorava appena il braccio di Kain, sdraiato supino accanto a lei, nel centro del letto.
Andrew si avvicinò e depose con delicatezza Riza sulla parte libera.
La ragazzina gattonò a fianco di Kain osservando la parte sana del viso, leggermente tesa per la febbre che ancora lo tormentava. Allungò con lentezza la mano e gli sfiorò la fronte e questo bastò a fargli girare la testa di lato. Vedendo la parte livida e tumefatta le si strinse i cuore, ma non ritirò la mano.
Anzi, salì ad accarezzare i capelli neri.
“Mh…” mormorò debolmente Kain, aprendo gli occhi, o per lo meno, il sinistro.
“Ciao – sussurrò lei – come stai?”
“Riza? – la chiamò – Sei qui?”
La voce era debole e roca e anche la pronuncia era disturbata dal gonfiore laterale, ma sembrava che fosse lucido abbastanza per riconoscerla.
“Certo che sono qui – sorrise, trattenendo le lacrime – vi siete presi cura di me, è giusto che lo faccia pure io, no? Tu ora devi pensare a guarire da questa febbre…”
“Mh…” annuì debolmente il bambino, richiudendo gli occhi e leccandosi le labbra.
“Andiamo decisamente meglio – dichiarò Andrew, posando una mano sulla fronte accaldata – è scesa di parecchio: la seconda dose di antibiotici ha dato un po’ di tregua.”
“E la gamba?” chiese Riza.
“Stamane verrà il medico a controllare.”
“Posso restare?” chiese, mentre Andrew la riprendeva in braccio e usciva dalla stanza.
“Ricordati la tua promessa, Riza – le disse, mentre la portava in camera di Kain – obbedire agli ordini: tu sarai a scuola stamattina, come una brava studentessa deve fare… devi anche dire ai tuoi amici che la febbre di Kain è scesa, no? Stai facendo da portavoce, un ruolo davvero importante.”
“Guarirà, ne sono certa.”
“Adesso lavati e cambiati – sorrise Andrew, mettendola a terra – da qui ci impieghi di più per andare a scuola, non so se ci hai pensato: se non esci entro venti minuti rischi di fare tardi.”
“Cosa? – sbiancò lei – Oh cavolo!”
E Andrew non poté far a meno di ridacchiare come chiuse la porta alle sue spalle.

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Capitolo 43
*** Capitolo 42. Perché il silenzio fa più male? ***


Capitolo 42. Perché il silenzio fa più male?


 
La febbre andò a fasi alterne per circa quattro giorni: gli antibiotici la facevano calare per diverse ore, ma poi si ripresentava con picchi anche violenti.
Mentre questo faceva preoccupare i ragazzi, che non sapevano come interpretare questa altalenanza, Ellie fu più accorta e si premurò di tenere sotto stretto controllo la ferita alla gamba. Almeno due volte al giorno la puliva e cambiava la fasciatura: la ispezionava meticolosamente, pronta a cogliere il minimo cambiamento di colore o di peggioramento. Il medico aveva preferito non mettere dei punti di sutura che potevano rendere difficoltoso intervenire se l’infezione dilagava e così quel tremendo taglio si trovava a dover guarire da solo.
Nel frattempo Kain aveva ripreso coscienza in maniera definitiva, trovandosi ad affrontare un dolore del tutto nuovo ed inaspettato: non gli era mai capitato di avere il braccio ingessato e dolente e anche le ferite nel viso gli davano un grande fastidio, sulla gamba non era nemmeno il caso di pronunciarsi.
Era diverso da un’influenza o un raffreddore… era una forma di sofferenza fisica che non aveva mai conosciuto in maniera così pesante. Meno si muoveva meglio era, ma era veramente difficile quando la febbre saliva a tormentarlo e sentiva l’esigenza di cambiare posizione.
“Lo so, lo so – mormorò Ellie, mettendogli l’impacco sulla guancia – ma devi avere pazienza, pulcino.”
Almeno il viso si era sgonfiato in maniera sensibile e ora parlare non gli creava più tanti problemi.
Ricordava bene cosa fosse successo alla miniera, ma non disse nulla in merito, né i suoi genitori gli chiesero qualcosa: in quel momento c’era ben altro a cui pensare.
“Non riesco ancora ad aprire bene l’occhio – ammise – e senza occhiali ci vedo sfocato e mi dà fastidio.”
“Gli occhiali li potrai mettere quando queste escoriazioni guariranno meglio: adesso l’asticella ti farebbe male… e non sforzare l’occhio. Sta andando benissimo, ma ha bisogno ancora di diversi giorni per guarire.”
“E la gamba ed il braccio?”
“Anche per quelli ci vuole tempo, tesoro.”
Ovviamente la parola “amputazione” era bandita da quella casa: Kain non doveva assolutamente sapere cosa stava ancora rischiando, in quanto il medico non si sentiva ancora sicuro nel sciogliere quella prognosi.
Era solo un brutto taglio che doveva essere curato bene perché comunque era molto profondo.
Solo quando il pericolo fosse passato del tutto ci si sarebbe preoccupati di constatare eventuali danni ai muscoli e ai legamenti.
 
Per tutto quel tempo Riza fece da perfetta infermiera e donna di casa, non concedendosi un momento di tregua: si alzava la mattina presto e andava a letto la sera tardi, spesso portata in braccio dallo stesso Andrew che la trovava addormentata al capezzale di Kain. Ma non sembrava subire troppi disagi da quel tipo di vita: dormiva profondamente tutta la notte e il giorno dopo era carica come una molla.
I suoi amici la aspettavano con impazienza ogni mattina per sapere il bollettino medico: era un appuntamento fisso quello di ritrovarsi alle otto precise davanti all’ingresso della scuola e discutere sull’andamento del loro malato.
“Ieri la febbre è risalita, ma non così tanto come l’altra volta: trentanove, mezzo grado di meno, ma la sua ferita non pare aver subito delle alterazioni. Questo vuol dire, a detta del medico, che il suo corpo sta reagendo nel modo giusto: se tutto procede bene tra un’altra settimana la febbre dovrebbe sparire del tutto.”
“Davvero? – sorrise Elisa, mentre Vato la abbracciava con gioia – Meno male, è un sollievo sapere che ogni giorno ci sono dei piccoli miglioramenti. Ovviamente se c’è bisogno di qualsiasi cosa, facci sapere. Anzi, se posso vorrei darti dell’arnica fresca per gli impacchi: mia madre l’ha raccolta proprio ieri.”
“Sì, quella ci sarebbe molto utile: il viso gli sta tornando normale e sarà una grande cosa quando finalmente si libererà di quel tremendo mal di testa, anche perché senza occhiali deve sforzasi molto per guardare e non gli fa bene.”
“E i suoi genitori come stanno?” chiese Heymans.
“Stanchi, ovviamente, ma adesso che la febbre concede delle tregue possono avere delle ore di sonno in più. E vedere che le cose procedono bene li fa sentire molto più sollevati.”
“Quando potremo andare a trovarlo?” chiese Jean.
“Non lo so, per ora di certo è impossibile dato che è davvero debole anche quando non ha la febbre; direi che dovrà passare un’altra settimana almeno.”
 
“… però la situazione è notevolmente migliorata e siamo cautamente ottimisti.” concluse Andrew quel pomeriggio, mentre Vincent lo accompagnava per le strade del paese.
Si era concesso un attimo di tregua per scendere per fare alcune spese tra cui i medicinali per il figlio e ne aveva approfittato per salutare il capitano di polizia.
“Sono andato con i miei uomini alla miniera in questi giorni – spiegò Vincent – e abbiamo provveduto a chiudere l’ingresso in maniera più sicura in attesa di quella dannata autorizzazione. Nemmeno un bambino può entrarci, questo è poco ma sicuro… stupido me, avrei dovuto pensarci prima a prendere una precauzione simile.”
“E’ stato un incidente – disse Andrew, in qualche modo sollevato nel sapere che quel posto era chiuso – Kain ancora non ne vuole parlare, ma non è questo quello che conta.”
“Ho visto la buca dove è caduto…” l’uomo non proseguì. Non era il caso di parlare delle numerose tracce di sangue e di quella parte di lamiera che ancora stava nel terreno. Vide che le mani dell’ingegnere si stringevano leggermente nel pacco che portava tra le mani: certo, quello che contava era la salute di Kain, ma anche lui voleva sapere chi aveva portato il bambino in un luogo simile.
“Signor Fury!” chiamò Roy, correndo verso di loro.
“Tu se non spunti fuori non sei contento, vero Roy?” sorrise Vincent, arruffandogli i capelli neri.
“Certamente, devo sempre tenere d’occhio tutto quanto – annuì Roy, stando al gioco – ecco, mi domandavo se potevo passare a trovare Kain… solo un paio di minuti.”
“Con te ho un debito del tutto particolare – sorrise Andrew con aria rassegnata – va bene, vieni pure con me: Kain oggi sta abbastanza bene e scommetto che sarà felice di vederti… e di scoprire che tu ed Ellie andate d’accordo.”
“Sicuro che non crea problemi?” chiese Vincent, pronto a bloccare il ragazzo.
“Sicurissimo: dai, aiutami con questa roba, piccolo furfante, andiamo a fare una sorpresa.”
 
In realtà quell’improvvisata per trovare Kain aveva un duplice scopo e Roy l’aveva progettata accuratamente: principalmente c’era la voglia di rivedere il suo piccolo amico e di sincerarsi delle sue condizioni di salute, del resto era stato lui a salvarlo e a ritrovare la sua preziosa penna e dunque sentiva di avere questo particolare diritto. Ma dall’altra voleva anche riuscire a scoprire cosa fosse veramente successo quel disgraziato pomeriggio: i suoi propositi di vendetta contro l’autore di quel pessimo gesto non erano per niente diminuiti, anzi.
Aveva già escluso che si trattasse di qualche adulto: non aveva alcun senso perché le ferite di Kain erano chiaramente dovute alla caduta e non a maltrattamenti. E poi c’era la questione della penna: stava diversi metri lontana da quella buca e quindi era chiaro che qualcuno l’aveva lanciata; non era possibile che fosse caduta a Kain durante il suo volo di due metri.
Inoltre Kain non aveva alcun motivo per trovarsi in quel posto, dubito che ci sia mai andato in vita sua.
No, la dinamica era chiara: qualcuno aveva portato il bambino lì e aveva lanciato la sua penna nella miniera lasciandolo poi solo a recuperarla o fuggendo non appena aveva visto che si era fatto male.
Non si trattava di un adulto, ma di un ragazzo.
Tuttavia, come fu introdotto nella camera del bambino, la sua preoccupazione si riversò tutta su di lui.
“Ciao, gnometto – salutò andandogli accanto e accarezzandogli i capelli – è bello vederti cosciente.”
“Ciao Roy – sorrise debolmente il bambino – sono felice che tu sia qui.”
“Ehi, ti do una bella notizia: lo sai che io e tua madre abbiamo fatto pace? Adesso possiamo parlarci quando vogliamo: te l’avevo detto che tutto si risolveva.”
“Sul serio?”
“Certamente, altrimenti pensi che mi avrebbe permesso di venire qui?”
“Vero, pulcino – sorrise Ellie – adesso vado a prepararti la medicina. Roy, resti tu con lui? Senza stancarlo troppo però, va bene?”
“Stia tranquilla signora – annuì lui, sedendosi nel letto, ovviamente dalla parte sana del bambino – ci penso io a lui.”
Come uscì Kain fece una leggera smorfia di disappunto.
“Iniezione – confidò – odio gli aghi…”
“Oh, ma tu sei coraggioso.”
“Papà mi deve tenere fermo e piango tanto ogni volta…”
“Succede anche ai migliori. Tieni stretta la tua penna, vedrai che sarà meno doloroso.”
“Mh, proverò…”
“Ehi – sussurrò Roy, accovacciandosi i modo che i loro visi fossero vicinissimi – mi vuoi raccontare che è successo in quel brutto posto? Ti ho trovato in quella buca con queste ferite…”
Vide gli occhi scuri, il destro ancora incapace di aprirsi bene, farsi leggermente remoti.
“Volevo trovare la penna…” mormorò il bambino, cercando con la mano sana l’oggetto vicino a lui.
“Lo so – annuì Roy, mettendogliela nel palmo – perché per te è importante e tu non la lanceresti mai in un posto simile. Kain… chi ha lanciato la penna?”
Per quanto fosse debole e stordito dalle ferite e dalla febbre il bambino fece delle strane ma essenziali associazioni mentali. Aveva confidato a suo padre che il suo aguzzino per diversi anni era stato Jean, ma solo perché era sicuro che adesso non c’erano più rischi in merito. Per Henry il quadro era ancora differente: era il fratello minore di Heymans e per lui il ragazzo dai capelli rossi era una figura di riferimento fondamentale. E sapeva che anche suo padre era legatissimo a lui…
Chi Kain voleva difendere era Heymans, non Henry… perché se avessero scoperto che era stato lui sarebbe finto nei guai ed Heymans magari ne sarebbe stato coinvolto o comunque avrebbe litigato con Roy.
“Se lo dico… tu ti arrabbierai con questa persona.” mormorò.
“Vorrei solo scambiarci quattro chiacchiere.”
“No, ti arrabbierai con lui.” ribatté il bambino con voce flebile ma sicura.
“E non dovrei? – chiese Roy con esasperazione – Ma lo vedi come ti sei ridotto per colpa del suo stupido scherzo?”
Ma non poteva capire la diversa mentalità di Kain che, persino all’apice del bullismo di Jean, aveva desiderato rispetto e non vendetta. Inoltre il bambino ricordava bene come Henry non gli avesse fatto una cattiveria gratuita, quelle non le faceva più da parecchio tempo… no, quel pomeriggio era strano e chissà per quale curioso motivo c’entrava suo padre.
Andrew Fury…
Sì, aveva proprio detto il nome di suo padre.
“No – scosse debolmente il capo – scusa, ma non mi ricordo…”
Il ritorno di Ellie e la faccia di Kain non fecero insistere il ragazzo più del dovuto, ma tutto questo lo lasciò estremamente perplesso.
Chi cavolo sta cercando di proteggere?
 
“Mi raccomando, se ti viene mal di testa dimmelo che smettiamo di studiare.” disse Heymans mentre lui ed Henry si sistemavano a fare i compiti nel tavolo di cucina.
“Va bene – sospirò lui, preparandosi mentalmente ad affrontare tutte le cose che aveva in arretrato per i diversi giorni di assenza – sul serio, grazie per l’aiuto che mi stai dando. L’idea che ci siano due compiti in classe in arrivo e che io sia così indietro non è per niente confortante.”
“Sei sempre stato bravo nello studio – scrollò le spalle il maggiore – vedrai che con il mio aiuto recuperi tutto in tempo; dai, iniziamo con geografia: mi pare che sia quella la materia dove abbiamo di più da fare.”
Henry era intelligente, su questo non c’era niente da dire: al contrario di molti altri ragazzini che facevano parte di qualche banda, lui amava imparare e dunque non era mai stato necessario spronarlo o riprenderlo per il suo andamento scolastico. Per Heymans era molto più facile far da insegnante a lui che a Jean: il suo miglior amico si intestardiva molto spesso sull’inutilità di diverse materie, invece Henry aveva molta logica e soprattutto interesse. Anche se non era il migliore, stava certamente tra i primi della sua classe.
“New Optain – mormorò il ragazzino, indicandolo nella cartina del libro – è dove sei stato tu quando sei partito, vero? Dove vive la nostra nonna.”
“Sì – annuì lui – è una città carina, ma non ho avuto occasione di vederla bene.”
“Mamma non parla mai dei nonni e nemmeno del suo fratello… non avevo idea di portare il suo nome.”
“E’ perché lei non voleva renderti triste dicendoti che era morto – cercò di spiegare Heymans con imbarazzo – sai non è che…”
“Dava fastidio a papà, vero?”
Heymans scrutò il fratello minore: faceva paura l’espressione remota che aveva appena assunto. In quel momento avrebbe dato chissà che cosa per vedere il solito sogghigno divertito, gli occhi brillanti all’idea di qualche nuova bravata da fare.
“Conosci papà e…”
“Sul serio lo conosco?” chiese lui, girandosi a fissarlo.
Heymans chiuse il suo vecchio quaderno di geografia e si mise a braccia conserte sul tavolo.
“Che cosa vorresti dire?”
“Lui ha detto che… non sono suo…”
Gli occhi divennero lucidi quando le prime lacrime si fecero inevitabilmente avanti.
“Non è vero, certo che sei suo figlio.”
“E allora perché dopo undici anni è come se mi vedesse per la prima volta e mi odiasse?” fu un sussurro, ma l’universo di dolore e disperazione dentro quella domanda era tangibilissimo. Heymans d’istinto si alzò dalla sedia e andò accanto a lui, abbracciandolo e cercando di proteggerlo da quanto stava succedendo.
“Lo conosci – cercò di spiegare – quando beve a volte non sa quello che dice…”
“Non sembrava ubriaco, e poi su me non ha mai detto cose simili. Ed è da settimane che mi tratta diversamente… Heymans, tu che sei bravo a vedere queste cose, ho fatto qualcosa che non va?”
“Assolutamente no, Henry – lo scrollò lui con urgenza – tu non c’entri niente.”
“E allora cosa sta succedendo alla nostra famiglia? – sospirò il minore, rifugiandosi in quell’abbraccio come mai aveva fatto – Heymans, ci sta crollando tutto addosso, lo so.”
“Vedrai che si risolve, fratellino. Un po’ come Kain che sta guarendo, anche noi ci riprenderemo… è solo un brutto momento.”
Non sentì che al nome del bambino Henry si irrigidiva leggermente.
“Henry – proseguì – per quanto riguarda la mamma, c’è qualcosa che vorresti dirmi?”
“Lei e papà non si amano, vero?”
“E’… è una situazione complicata, ma non devi dubitare che lei ci voglia bene, vorrei che ti fosse chiaro.”
“Heymans, mamma non è una… una puttana, vero?”
“Che? – Heymans lo staccò da se e lo prese per le spalle, fissandolo con rabbia – Non dovresti dire una cosa simile di lei, mai e poi mai! Dove hai sentito una cosa simile? Dove?”
“Non arrabbiarti – mormorò il bambino – l’ha detto papà… a lei.”
“E che altro ha detto?”
“Che non siamo figli suoi, ma la mamma ha detto che tu gli assomigli tanto… su di te non ci sono dubbi.”
“Ma su di te…?” lo incitò Heymans.
Henry lo fissò con occhi supplicanti, come se dire quelle parole significasse farle diventare tremenda realtà. Era quello il dubbio che lo attanagliava: lui non assomiglia per niente a suo padre. Questo non gli aveva creato problemi per undici anni, del resto aveva preso tutto da sua madre e non c’era niente di eccezionale…
Ma possibile che Heymans somigli così tanto a papà e io no?
“Henry – lo scosse il fratello, riportandolo alla realtà – su di te che ha detto?”
“Andrew Fury…”
“Che cosa? – Heymans sgranò gli occhi iniziando a capire molte cose – Ha detto che tu sei il figlio di Andrew Fury? Oh no, Henry, non è vero: non devi credere a queste cose.”
“Quell’uomo e la mamma sono molto amici, no?”
“Sì, è vero, ma c’è dietro una storia molto più complicata di quanto tu creda. Quello che conta è che tu sei figlio di papà, proprio come me: siamo fratelli non fratellastri, capito?”
“E allora perché papà dice delle cose simili?”
“Perché lui è…”
Un emerito figlio di puttana.
“… è una persona di cui non ci si può fidare, Henry – mormorò, abbassando lo sguardo – e credimi, odio dover dire queste cose. E’ nostro padre, avrebbe dovuto comportarsi… non avrebbe mai dovuto… mi dispiace, fratellino, te lo giuro.”
“Heymans – Henry cercò di nuovo la sua spalla, il suo abbraccio – non… non si dovrebbe mai picchiare la propria moglie, vero?”
“Certo che no, quando mai si dov…” impallidì, stringendo a sé il fratello.
Lo sentì piangere in maniera così isterica che preferì non andare oltre.
Ma gli bastava: adesso iniziava a ricollegare i pezzi.
E così ha alzato le mani su mamma… questa è guerra.
 
“Comunque anche stasera il padre di Kain scenderà in paese – disse Riza, mentre lei ed Elisa camminavano a braccetto, seguite da Roy e Vato – gli dirò di passare a prendere l’arnica da voi.”
“Perfetto.”
Roy seguiva a malapena quella discussione.
La sua mente aveva iniziato a lavorare freneticamente da quando aveva messo piede a scuola: guardava tutti i ragazzi presenti, nella convinzione che tra di loro ci fosse l’autore di quel pessimo scherzo che era potuto costare la vita a Kain.
C’era rimasto molto male quando il bambino si era rifiutato di parlare, quando era chiaro che ricordava perfettamente quanto era successo. Ma era arrivato alla conclusione che Kain era troppo buono ed incline al perdono, anche per simili cose.
Ma io no… devo solo trovare il vigliacco che ha osato fare una cosa simile.
I volti di tutti quei ragazzi continuavano ad accavallarsi nella sua mente tanto che a un certo punto scosse il capo con violenza. No, una ricerca così casuale non andava bene: doveva procedere con maggior giudizio.
“Kain non aveva altri amici prima di noi, vero?” mormorò rivolgendosi a Vato.
“No – scosse il capo lui – da quanto ho capito io sono stato il primo, persino rispetto a Riza.”
“Mh.”
Questo era un punto su cui riflettere: poteva ricostruire il percorso di amicizie di Kain senza alcun problema e il gruppo si riduceva alle medesime persone che frequentava lui.
E noi siamo da escludere… allora chi? Non proteggerebbe in questo modo uno sconosciuto o una persona con cui ha poca confidenza.
“Ciao, ragazzi – salutò Rebecca – avete visto Jean?”
“No – scosse il capo Riza – forse è con Heymans.”
“Capisco… uffa, gli avevo portato un pezzo di torta.”
“Vedrai che ricompare.”
“A dire il vero ne ho fatto un po’ anche per la sua sorellina… dai, vado da lei. Ci vediamo dopo.”
A quelle parole, osservando la brunetta che si allontanava, Roy si riscosse e sgranò gli occhi.
E se non stesse proteggendo proprio il colpevole… Janet è da escludere, ma ce ne sono due nel gruppo a non essere figli unici.
“Ci vediamo dopo, devo andare a parlare con una persona…”
 
“Vuoi un consiglio? Dillo ad Andrew Fury e non fare cazzate da solo.” Jean arrivò ad afferrare il braccio dell’amico per tentare di dissuaderlo da quel piano folle.
“No, come potrei farlo? Deve pensare a Kain, non lo voglio caricare assolutamente di una cosa simile.”
“Senti, capisco che tu sia furioso, ma non…”
“Ha alzato le mani su mia madre, lo capisci? – sbottò Heymans liberandosi da quella stretta – Non ho nessuna intenzione di aspettare oltre: questo pomeriggio lo affronto.”
“Posso chiedere a mio padre… o al padre di Vato dato che è un poliziotto, ma non…”
“Ho detto di no! E’ una questione che devo risolvere io: è mia madre… se non sono capace di difenderla io, chi potrà mai farlo? Non me ne sono accorto, Jean, capisci? L’ha picchiata e io non me ne sono reso conto… lasciando che fosse Henry a portarsi dietro questo peso… l’ho convinto a venire a scuola per fargli cambiare un minimo d’aria, ma sta malissimo.”
“Non lo so – scosse il capo Jean – non so cosa dirti… ma lui è un adulto, Heymans. Fisicamente ti fa dieci a zero.”
“Me la gestisco con la furbizia: tra me e te non è nemmeno il caso di dirlo chi sia quello furbo.”
“In questo caso, scusa tanto, ma non sembri tu…”
“Non ti rispondo nemmeno perché… uh? Ma che succede?”
Heymans non ebbe il tempo di dire altro che, dall’altra parte del cortile, vide Roy scaraventare Henry per terra con tutta la forza dei suoi quindici anni.
 
“Andiamo, maledetto – sibilò Roy, incitandolo a rialzarsi in piedi – alzati e parliamo di una certa penna… e della vecchia miniera.”
Henry ancora scosso per quell’attacco improvviso, guardò quel ragazzo praticamente intoccabile con il terrore nel cuore. Sapeva che Roy Mustang era amico di Kain Fury, ma non poteva immaginare che arrivasse a lui… a quel gesto che aveva compiuto in quel folle pomeriggio.
“Io non…” iniziò, ma venne bloccato da un violento calcio alla coscia destra che lo costrinse a raggomitolarsi in posizione fetale per il dolore.
“Ti dovrei infilzare con un pezzo di metallo, piccolo teppista – Roy si inginocchiò e lo strattonò violentemente per i capelli rossi – facile prendersela con chi è debole. Adesso te lo faccio provare sulla tua pelle… mi rifiuto di credere che tu sia davvero fratello di Heymans. Non sei nemmeno degno di essere figlio di quel maledetto di tuo padre da quanto mi fai schifo.”
“Basta, Roy!” esclamò Heymans, frapponendosi tra i due contendenti e interrompendo quella stretta.
“Lo vuoi difendere? Non hai capito che è stato lui?”
“Calmati – mormorò lui, rimettendo in piedi il fratello – che cosa ha fatto? Certo che dargli un calcio simile… Henry, fratellino, tutto bene?”
“Lo dice anche lui – Henry iniziò a tremare e quasi cadde, non riuscendo a tenere il peso sulla gamba colpita – non sono degno di… essere figlio di nessuno…”
“Ma no, dai, ne abbiamo parlato ieri e…”
“Invece di squittire come un topo – disse Roy, trattenuto da Jean e da Vato che l’avevano raggiunto, mentre tutta la scuola li osservava – dì a tutti chi ha buttato la penna di Kain nella miniera, avanti! Mostrami un minimo di coraggio, stronzo! E voi due lasciatemi andare!”
“Finiscila, Roy, non sei in te!” disse Vato.
“E come potrei esserlo? E’ colpa sua se Kain si è fatto male! L’hai portato tu in quel posto!”
“Che?” a quelle parole Heymans sgranò gli occhi e si girò a guardare Henry che piangeva senza parere.
“E’ vero?” chiese Jean, con un’occhiata omicida.
“Henry! – il rosso lo scosse – Henry… ti prego, dimmi che si sbaglia…”
“Mi dispiace – balbettò lui, impotente – non volevo si facesse male…”
“Ma perché cazzo hai fatto una cosa simile? Rispondimi!”
“Quella penna…”
“Sì, quella che gli ha regalato suo padre!” sbottò Roy.
Ed Heymans capì.
Dovette controllare il tremito alla mano e la voglia di riempire di schiaffi suo fratello.
Ma si ricordò di come quella sera fosse tornato a casa sentendosi così male per quella crisi nervosa procurata dall’ennesimo litigio a cui aveva assistito e che si andava a sommare a quella violenza sulla loro madre… ai dubbi di essere un bastardo, di essere figlio di Andrew Fury.
“Henry, vieni – gli circondò le spalle tremanti con il braccio – andiamo a casa.”
“Heymans! Come puoi proteggerlo in questo modo? – la voce di Roy era furiosa – Non pensi a Kain che ha rischiato l’amputazione della gamba? Non pensi che dovrà stare a letto per settimane? A tutto il dolore che sta provando?”
“Smettila, Roy…”
“Ti dico solo una cosa: proteggilo e diventi mio nemico, hai capito? La nostra amicizia può terminare qui se non levi il braccio dalle spalle di quel rifiuto umano!”
“E’ mio fratello!” esclamò Heymans, trafiggendolo con lo sguardo.
Poi consolidò la stretta su Henry, che era nel pieno di una nuova crisi nervosa e si avviò verso l’uscita del cortile. Le urla furiose di Roy furono il sottofondo peggiore che avesse mai sentito, ma soprattutto fu per tutto il tempo consapevole dello sguardo incredulo di Jean.
 
“Non ci posso credere – sbottò Roy, quando riuscirono a calmarlo – non può aver difeso davvero quel bastardo…”
“E’ comunque suo fratello.” mormorò Elisa, cercando di riportare la calma.
“Anche se fosse mio fratello non lo difenderei così… e tu che mi dici? Sei il suo miglior amico.”
“E’ una brutta situazione, Roy – disse Jean, con le mani in tasca e lo sguardo fisso a terra – ci sono diverse cose che non sai ed è più complicato di quanto creda.”
“Non c’è niente di complicato. Tu non l’avresti ammazzato al posto mio? E se al posto di Kain ci fosse stata tua sorella?”
“Smettila!” serrò gli occhi lui.
“Non ci posso credere che sia andato anche a chiedere come stava Kain quando era in ambulatorio – la voce di Roy era spietata – bella faccia tosta… sicuramente lo stava già coprendo quel maledetto!”
“Aspetta, ti prego – disse Riza – Heymans non ha una situazione facile a casa, non dovresti dare giudizi affettati e…”
“Non me ne frega niente di lui! Per quanto mi riguarda suo padre può anche riempire di botte sua moglie, ma questo non…”
Jean gli fu addosso e non gli lasciò terminare la frase.
In genere tra i due quello calmo e razionale era il moro, ma in questo caso la rabbia del primogenito degli Havoc era fredda… gelida.
“Sì, quel maledetto alza le mani su sua moglie… e allora?”
Si fece silenzio, mentre Jean si rialzava in piedi e si passava la mano sui capelli biondi con aria preoccupata.
“Riza – mormorò, andandole vicino e prendendole il braccio – credo che Heymans stia per fare qualcosa di veramente stupido… vai e chiama Andrew Fury, ti prego… lo so che Kain sta male e che…”
“Corro subito a casa loro.” lo bloccò lei, ricordandosi dei troppi discorsi tra Ellie e Laura.
“Grazie…” e si incamminò con lei verso l’uscita del cortile.
Papà oggi è in un’azienda poco distante dal paese… possiamo ancora bloccare questa follia.
 
Mentre Riza e Jean correvano ad avvisare gli adulti di quanto stava per accadere, Heymans entrava a casa assieme al piangente Henry e lo faceva sedere al tavolo di cucina. Laura non era in casa, mentre il loro padre era di sopra…
Sì, stai pure ubriaco, maledetto…
“Henry – scosse il ragazzino – coraggio, guardami…”
“Ti giuro che non volevo che si facesse male – pianse lui – volevo solo… quella penna… era di quell’uomo, non ci ho visto più! Papà chiama mamma puttana e la picchia per colpa sua…”
“Non sono amanti, come te lo devo dire?”
“E allora perché continua? – la voce di Henry era un sussurro disperato – Perché la picchia se non è vero? E poi…” si fermò serrando gli occhi.
Heymans si irrigidì, mentre la fatidica domanda tornava con prepotenza.
Perché il silenzio fa più male?
“Henry… la sera che sei venuto a dormire da me hai sentito mamma e papà litigare, vero?”
Lui annuì.
“E papà ha dato uno schiaffo a mamma, vero?”
Ancora un lieve cenno affermativo.
“E poi…ha detto o fatto qualcosa?”
“… sei mia moglie e con te faccio quello che voglio… e poi quel silenzio…”
Gli occhi grigi di Henry subirono un enorme cambiamento di colore, diventando quasi argentei per l’angoscia e la liberazione nel dire quella frase.
E a sentirla non fu solo Heymans, ma anche Laura che era rientrata in quel momento e aveva appena aperto la porta della cucina.
Henry non resistette più e cadde sul pavimento iniziando a vomitare, somatizzando per l’ennesima volta quella follia che aveva recepito pur non capendola del tutto.
Questo riscosse madre e figlio maggiore che subito si accostarono a lui per aiutarlo.
“Henry, amore mio – sussurrò Laura, baciandogli i capelli – tesoro, mi dispiace… mi dispiace tanto…”
Heymans pulì la bocca del fratello con un fazzoletto e poi lo aiutò ad accoccolarsi alla donna.
“Ti ha preso con la forza…” mormorò puntando i suoi occhi grigi su quelli di Laura.
“Heymans, ti prego…” cercò di bloccarlo lei con disperazione.
“Perché tu non dici mai niente – continuò lui, ripetendo le parole di Henry e attribuendo loro il vero significato – per proteggere noi ti fai anche ammazzare da quell’uomo. Mamma… basta distruggerci a vicenda con questa follia… te ne prego… deve finire!”
“Heymans, per l’amor del cielo…” la donna si sentiva completamente impotente e stanca di lottare contro tutto questo. Che senso aveva avuto tutto quel silenzio negli ultimi tempi se i suoi figli avevano subito così tanto? Non li aveva protetti per niente.
Riuscì solo a stringere Henry a sé, iniziando a piangere sommessamente.
“Deve finire – sussurrò Heymans, sentendo i passi che scendevano dalle scale – oggi stesso…”


 

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Capitolo 44
*** Capitolo 43. Il cerchio spezzato. ***


Capitolo 43. Il cerchio spezzato.


 
“Signor Fury! – chiamò Riza entrando in casa con il fiato corto – Signore, la prego!”
Stava per iniziare a correre su per le scale quando Andrew comparve in cima ad esse.
“Riza? Che ci fai già qui?” chiese con sorpresa, andandole incontro.
“Signore – ansimò lei, prendendolo per il braccio – deve subito andare a casa di Heymans! Jean ha detto che sta per fare qualcosa di estremamente stupido, è successo un disastro…e sembra che la signora Laura sia stata picchiata dal marito ed io…io…”
“Riza, vai da Ellie – disse Andrew avendo capito quel che bastava, soprattutto l’ultima frase relativa a Laura – e stai assieme a lei, io torno dopo.”
Uscì di casa ed iniziò a correre verso il paese, pregando di fare in tempo per evitare che venisse consumata l’ennesima tragedia.
Lo dovevo prevedere! Lo dovevo prevedere che avrebbe rotto la sua promessa!
 
“Vuol fare qualcosa di folle, lo so – esclamò Jean, mentre James usciva di corsa con lui dall’azienda dove era andato per alcune consulenze su prodotti da ordinare – quello lo ammazza…”
“Non preoccuparti, Jean, vedrai che arriveremo in tempo!”
Il ragazzo saltò sul carro proprio mentre il padre segnalava al cavallo di partire.
Si aggrappò al braccio di James cercando un disperato conforto per quel senso di tragedia incombente che proprio non lo voleva lasciare: immagini del suo amico in una lotta impari contro quel bestione del padre lo facevano impazzire.
“Avrei dovuto fermarlo in qualche modo – mormorò – avrei dovuto… ma che cazzo di amico sono?”
“Sei il migliore che gli potesse capitare, Jean – disse James incitando il cavallo – su questo non devi avere mai dei dubbi."
“Amico mio… amico mio, scusami se sono rimasto fermo stamattina.”
“Che cosa è successo per scatenare tutto questo?”
“Il peggio del peggio.”
Ma non  ebbe la forza di dire altro.
 
“Apri quella porta, ragazzino.”
La voce calma di Gregor risvegliava in lui un istinto primordiale di pericolo: dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non scappare via. Ma questa volta non poteva, c’era solo una porta a separare sua madre e suo fratello da quell’uomo: non dovevano mai più avere a che fare con lui.
“Scordatelo.” sibilò.
“Sei molto vicino ad oltrepassare il limite, ti avviso.”
Gli occhi castani erano più simili a quelli di un animale che a quelli di un uomo: occhi malati di perverso possesso nei confronti della propria famiglia e che ora si puntavano sull’unica persona che si opponeva a questo suo dominio assoluto.
“E tu quante volte l’hai oltrepassato con mamma?”
Era follia pura sfidarlo in questo modo e per ogni parola che diceva si malediceva, sapendo benissimo che era un passo più vicino ad aizzarlo contro la sua stessa persona. E allora cosa avrebbe fatto? Non aveva nessun mezzo per combatterlo.
Ma non posso permettergli di far loro del male… non più.
“Non sai nemmeno di che parli, Heymans.”
“Invece lo so bene… sei un folle, picchi ed insulti la mamma… la violenti. Ti odio con tutte le mie forze!”
E mentre diceva queste cose si rendeva conto che l’attenzione di Gregor era ormai puntata su di lui, la porta della cucina da dove provenivano i singhiozzi di Henry e di sua madre ormai dimenticata. Così iniziò a spostarsi lateralmente, allontanandosi da quel bersaglio che andava preservato.
“Come ho potuto mettere al mondo uno come te? Ti avrei dovuto affogare come si fa con i bastardi delle cagne, mi sarei liberato di una bella seccatura!”
“Dovevi pensarci due volte prima di toccare la mamma, allora.”
“Quella puttana ed Andrew non sanno proprio stare zitti, eh? La povera ed innocente Laura… l’avessi vista quella notte cambieresti idea su di lei.”
“Finiscila!”
“Lei ed il suo cagnolino… a quello lo ammazzo se lo rivedo gironzolare intorno a mia moglie.”
“Vigliacco, non osavi parlare così quando c’era mio zio, vero?”
Lo sguardo omicida negli occhi di suo padre gli fece capire che aveva appena superato il limite.
Ma in fondo era quello che aveva progettato: non c’era altra soluzione anche se si trattava di sacrificare se stesso
Avanti, colpiscimi! E poi sfido qualunque giudice ad affidarti la custodia mia e di Henry.
Sperava solo che… non facesse troppo male.
 
Come sentì i primi rumori di lotta da oltre la porta, Laura non ce la fece più.
Posò il singhiozzante Henry contro il muro e si precipitò nell’altra stanza, pronta a difendere suo figlio con le unghie e con i denti. Il momento di sfinimento sparì davanti all’esigenza di proteggere Heymans dalla violenza di Gregor.
 
Andrew arrivò in paese con pochissimo fiato ma, nonostante tutto, riuscì a catapultarsi a casa di Laura.
Quasi sfondò la porta nella foga di entrare e si dovette bloccare davanti alla scena tremenda che gli si era presentata davanti.
“Prova ancora a toccare uno di loro e ti ammazzo.” ansimò, andando a frapporsi tra Heymans e l’uomo.
“Figuriamoci se non arrivavi…” commentò Gregor, brandendo l’attizzatoio del camino.
“Laura… Laura, ce la fai ad alzarti?”
La donna annuì lievemente, la guancia livida per la sberla che l’aveva gettata a terra quando aveva aggredito il marito. Tentò di muoversi verso Andrew ed Heymans, ma notò che Gregor non era disposto a lasciarla avvicinare.
“Dov’è Henry?” le chiese Andrew, non spostando lo sguardo dal suo avversario.
“In cucina… Andrew… l’ha colpito più volte con quella cosa… Heymans! Heymans, rispondimi, ti prego…”
Il ragazzo gemette debolmente dall’angolo dove era rannicchiato e serrò gli occhi.
“Laura – scosse il capo Andrew – vai da Henry e stai con lui, forza.”
“Come posso…”
Vai!”
Il tono era stato così urgente che Laura si trovò costretta ad obbedire: singhiozzando indietreggiò fino alla cucina, dove Henry si rifugiò immediatamente tra le sue braccia, rifiutandosi di lasciarla andare, tirando fuori almeno lei da quel disastro.
Come Andrew si fu sincerato che, almeno per il momento, l’amica era al sicuro osò rivolgere lo sguardo verso Heymans: giaceva nell’angolo tra il caminetto e la parete, l’aria veramente sofferente e stordita.
“Heymans – lo chiamò, senza però levare troppo l’attenzione da Gregor – ragazzo, rispondimi, cosa c’è?”
“Levati di mezzo, Andrew Fury, è una questione di disciplina tra me e mio figlio.”
“Tu non lo tocchi, maledetto! – sibilò Andrew, incurante di quell’arma che l’avversario teneva in mano – Hai finito di rovinare la loro vita.”
“No, sei tu che ora la smetterai di intrometterti nella mia!”
Andrew era tutto meno che un uomo d’azione e non era un eroe, per quanto il paese lo considerasse tale. Il colpo arrivò senza che lui avesse la capacità di bloccarlo: un minimo d’istinto gli fece piegare il braccio a protezione del corpo, ma non servì a molto.
Il dolore si riversò sulla spalla sinistra e l’impatto fu tale che cadde in ginocchio.
“No! – si riscosse in qualche modo Heymans – No… non farlo!”
“Maledizione… Heymans, fermo!” lo bloccò Andrew, serrando gli occhi per il dolore.
Doveva continuare a frapporsi tra lui e Gregor.
“Andiamo, dimmelo, quante volte sei andato a letto con quella sgualdrina di mia moglie?”
“Sei completamente folle… e prova a dire ancora che Laura è una sgualdrina e giuro che…”
“Che cosa? Eroe! Sei solo il cagnolino di Henry… ed io i cani li caccio via a calci.”
“Prova a farlo con me, maledetto!” esclamò James, entrando dalla porta aperta.
Gli bastò qualche secondo per valutare la situazione: Andrew ed Heymans a terra, l’attizzatoio nella mano di Gregor… fin troppo chiaro. E mentre Andrew non era certo uno da fare a botte, James lo era stato in gioventù e non aveva perso per niente lo smalto.
Fu questione di un attimo prima che si scagliasse contro Gregor e afferrasse quell’arma impropria.
Rimasero a girare in uno strano e furioso cerchio, in quanto nessuno dei due aveva intenzione di cedere e di forza fisica ne avevano da vendere: anche se Gregor non aveva il fisico allenato di James, aveva una stazza ed una potenza davvero invidiabili.
Andrew indietreggiò ulteriormente, riuscendo a raggiungere il ragazzo.
“Dove ti ha colpito? Dove?”
Heymans, gli occhi dilatati dallo shock, si toccò il fianco sinistro e subito Andrew gli alzò la maglietta per verificare i danni, sibilando una maledizione quando vide i segni lasciati da quell’arnese.
“Adesso basta! Fermi tutti! – la voce di Vincent giunse come una benedizione – Signor Havoc si allontani; quanto a te, Gregor Breda, ti tengo sotto tiro: lascia cadere quell’attizzatoio sul pavimento e non muoverti.”
“Heymans!” chiamò Jean, entrando nella stanza, tallonato da Vato.
“Fermi, voi due – la voce di Vincent non ammetteva repliche – dietro di me, chiaro?”
“Sì, papà.” mormorò Vato, prendendo Jean per il braccio e obbligandolo ad indietreggiare.
Proprio in quel momento entrarono altri due poliziotti.
“Ragazzi, ammanettate quell’uomo – ordinò Vincent, senza abbassare la pistola – ci sono diverse accuse di cui dovrà rispondere.”
 
“Accidenti a te, ingegnere – sospirò James, con una pacca sulla spalla sana di Andrew – possibile che ogni volta devo venire io a rimetterti in piedi.”
“Le devo sempre dei ringraziamenti, signor Havoc.”
“Lascia stare, chiamami James: se devo continuare a raccoglierti tanto vale che ci diamo del tu.”
“Tanto vale – ammise Andrew, provando a fare dei movimenti rotatori con il braccio e scoprendo che, nonostante il dolore ci riusciva senza troppi problemi – E’ finita, maledetto lui: quindici anni di incubi finalmente conclusi. Bastardo…”
Stavano entrambi nell’ufficio di Vincent: ovviamente in quanto coinvolti in quell’arresto dovevano dare la loro testimonianza. La porta si aprì ed il capitano fece il suo ingresso con Laura.
“Andrew!” esclamò la donna, correndo verso di lui.
“Amica mia – sospirò abbracciandola con tutte le sue forze – è finita… finita! Oh, Laura, Laura! Ma perché non me l’hai detto prima che stava arrivando a questo? Sei una piccola stupida…”
“Mi dispiace – pianse lei – ti giuro… ho cercato in tutti i modi, ma non ce l’ho fatta. Non sono riuscita a difendere i miei figli.”
“Non dire questo: li hai difesi più di quanto potessi fare. Come stanno?”
“Sono molto scossi – disse Vincent – adesso si sta occupando mia moglie di loro e le ferite di Heymans non sono gravi per fortuna: il vostro intervento ha impedito che quella bestia infierisse troppo su di lui.”
“E tu? – Andrew prese il mento di Laura e le controllò la guancia – Guarda che ti ha fatto quel maledetto.”
“Va tutto bene, tranquillo: non è niente in confronto a quello che ha fatto ad Heymans. Oh, Andrew, come posso chiederti scusa? Con Kain in quelle condizioni sei venuto da me e…”
“Sssh, zitta! Non dire più una parola su di questo, va bene?”
“La cosa migliore da fare è stendere un verbale di quanto è successo – li riscosse Vincent andando alla scrivania – Heymans ed Henry sono minorenni e dunque le loro testimonianze vanno sentite da parte e comunque avranno un diverso peso: le faremo con calma quando saranno più tranquilli entrambi.”
Laura si sedette tra James ed Andrew e bloccò la mano di Vincent che aveva iniziato a scrivere la data nel foglio bianco.
“Voglio separarmi da lui – disse con voce sommessa – non deve più toccare me e i ragazzi per nessuna ragione al mondo. Mi dica che si può fare.”
Vincent annuì.
“Ci sono tutti i motivi che vogliamo per bandirlo dal paese e non avrà alcun diritto né su di lei né sui bambini, glielo posso garantire. Provvederò io personalmente a caricarlo sul primo treno e mandarlo via da questo posto e da voi… e lo farò con enorme piacere.”
 
“Tieni, piccolo – disse Rosie con voce gentile, offrendo una tazza di camomilla ad Henry – cerca di riposare adesso, va tutto bene.”
Il bambino con apatia iniziò a sorseggiare quella tisana: le mani gli tremavano così tanto che la donna dovette aiutarlo. Non aveva detto una parola da quando sua madre l’aveva preso in braccio e portato via da casa: aveva sentito tutto, ovviamente, ma aveva tenuto gli occhi serrati per evitare almeno in parte l’orrore.
“Ehi, fratellino – sospirò Heymans, seduto accanto a lui – coraggio, è finita coraggio.”
“Forse conviene che ti sdrai, sei così pallido – mormorò Rosie, prendendolo in braccio – Vato, lo porto in camera tua, va bene?”
“Certo, mamma.”
Come la donna andò via con Henry, Jean si staccò dalla parete dove stava poggiato da quando erano arrivati e si avvicinò al suo miglior amico.
“Sei un’emerita testa di cazzo!” esclamò dandogli una sberla sul collo.
“Lo so.” ammise Heymans.
“Maledizione! Se io, Riza e Vato non andavamo a chiamare i grandi quello ti ammazzava!”
“Lo so…”
“Non fare mai più stronzate simili! Mai più!”
“Tranquillo e… e scusami tanto.” rispose ancora il rosso con troppa calma.
“Non c’è nemmeno gusto a stare arrabbiati se sei in queste condizioni – sospirò Jean, con le lacrime agli occhi, sedendosi accanto a lui – sei veramente un’idiota anche in questo!”
“Lo so.” annuì ancora Heymans, posando la testa sulla sua spalla.
Vato si sedette dall’altra parte e rimasero così, in attesa di sapere cosa sarebbe successo.
“Vato… grazie per essere andato a chiamare tuo padre.”
“Figurati, Heymans.”
 
C’era un’estrema freddezza nel modo in cui Heymans rendeva la sua testimonianza.
Andrew se ne accorse subito e gli fece veramente male: quei particolari, quelle parole che avrebbero dovuto fargli tremare la voce, uscivano dalla sua bocca come se stesse semplicemente ripetendo una lezione studiata bene.
Era quasi surreale e anche Laura e Vincent, che stavano in quell’ufficio ne erano turbati.
Il ragazzo aveva insistito per testimoniare nemmeno due ore dopo l’accaduto, nonostante le insistenze di Laura di riposare e riprendersi dallo shock.
“Tesoro…” mormorò la donna, quando ebbe finito.
“Va tutto bene, mamma – mormorò lui – devo dire altro, signore?”
“No – scosse il capo Vincent – a posto così. Per Henry direi di aspettare e…”
“E’ stato Henry.” aggiunse all’improvviso Heymans.
“Cosa?”
Il ragazzo volse lo sguardo verso Andrew.
“E’ stato lui a lanciare la penna di Kain dentro la miniera: giuro che appena si riprende le chiederà scusa, a lei e a sua moglie… e soprattutto a Kain. Ma, per favore non ci deve essere alcuna punizione per lui.”
“Cielo – sospirò Andrew, mettendosi la mano sulla fronte e chiudendo gli occhi di fronte a quella rivelazione – ma perché… perché?”
“Perché nostro padre aveva iniziato a dire che era figlio suo, signore – confessò Heymans – e a lui sembrava che la nostra famiglia stesse andando in frantumi per colpa sua… mi dispiace, l’abbiamo tenuto all’oscuro di tante cose e così lui sentiva solo la campana di mio padre. Stava male, vedeva tutto questo disagio e questa tensione e non riusciva ad uscirne e quella penna… ci ha visto tutti i suoi problemi e voleva… voleva solo buttarli via.”
“Te l’ha detto lui?” mormorò Laura, incredula.
“Sì, ma ti giuro, mamma, è colpa mia che non mi sono mai preso la briga di dirgli qualcosa.”
“Andrew – disse Vincent, volgendosi verso l’amico che ancora scuoteva il capo – spetta a te e tua moglie decidere se sporgere qualche denuncia…”
“Lascia stare, ha undici anni, proprio come Kain, e considerato quello che è successo… Basta, vi prego, adesso voglio solo che mio figlio guarisca.”
“Ti capisco, amico mio, bene… venga signora, accompagno lei ed Heymans a casa mia: faremo visitare il bambino dal medico, considerato il trauma che ha subito.”
“Grazie, capitano… Andrew, io per l’incidente…”
“Vai da lui, Laura, da brava. Heymans, tu resta qui… con te voglio parlare da solo.”
A quelle parole, il ragazzo che si era alzato in piedi annuì con lieve timore, come se avesse in parte intuito il cambiamento d’atteggiamento dell’uomo. Come la porta si chiuse dietro Vincent e Laura, si portò davanti a lui.
Andrew trasse un profondo sospiro, tralasciando momentaneamente quanto gli era stato appena rivelato e la sua espressione si indurì.
Lo schiaffo che arrivò sulla guancia destra di Heymans e fu doloroso e rovente.
“Non fare mai più, e ripeto, mai più delle follie simili! – lo sgridò, prendendolo per le spalle e scuotendolo – Sei stato un irresponsabile bello e buono! Dovevi venire a chiamarmi, come mi avevi promesso! E’ andato tutto bene, grazie al cielo, ma non ti rendi conto di quanto hai rischiato, stupido bambino immaturo?”
“Ma io…”
“Non ci sono ma che tengano, Heymans: sei stato un folle! Hai messo in pericolo la tua vita e quella di tua madre e di tuo fratello: hai visto quanto poco ci ha impiegato quel maledetto a diventare violento?”
“Come potevo stare fermo dopo quello che ha fatto a mia madre!” protestò lui, iniziando ad assumere un tono di voce più partecipe, uscendo da quella strana e gelida forma di apatia.
“Nessuno ti ha detto di stare fermo, ma dovevi chiamare me…o Vincent, o James… un dannato adulto! Ringrazia il cielo che ci sono stati Jean, Riza e Vato!”
E arrivò anche lo schiaffo alla guancia sinistra.
“Mi dispiace – mormorò lui, portandosi la mano alla nuova parte lesa – mi… mi dispiace…”
“Secondo te che cosa avrei fatto se non fossi arrivato in tempo? – sussurrò Andrew, chinandosi per posare la fronte sulla sua – Credi che me lo sarei mai perdonato? Come credi che mi sia sentito quando sono entrato e ti ho visto in quelle condizioni? Quando ti ho alzato la maglietta e ho visto quei segni…”
Fu come se quelle parole richiamassero il dolore e la paura che aveva tenuto dentro per quei tremendi minuti in cui si era imposto di reggere la situazione che in parte aveva creato lui stesso.
La consapevolezza di aver sfidato quella bestia che una volta chiamava padre… la paura disperata per quella violenza a cui non si era saputo sottrarre… la vista di quel colpo a sua madre, il dolore fisico
Fu un grido di estrema sofferenza quello che gli uscì, mentre le lacrime iniziavano a scendere sulle guance arrossate per quelle due sberle.
“Maledizione, Heymans – sussurrò Andrew, abbracciandolo e accarezzandogli i capelli – sapevo che avresti spezzato il cerchio, ma non che lo facessi in maniera così stupida… va tutto bene adesso, da bravo. Ti sei spaventato molto, vero?”
“Sì – singhiozzò lui – credevo… credevo che mi ammazzasse…”
“Non ti toccherà più, tranquillo: ci sono io con te. Queste lacrime vanno più che bene… coraggio. Sfoga tutto adesso: non devi più tenerti le cose dentro, almeno questo promettimelo.”
Ed Heymans lo promise con tutto se stesso.
 
Quasi tutti i ragazzi erano usciti da scuola quando Roy ed Elisa si incontrarono al portone dell’edificio.
“Nessuno di loro è tornato, vero?” chiese lei, con aria preoccupata.
“No – ammise con aria seccata, non avendo intenzione di giustificare o perdonare i due fratelli Breda per quanto era successo – nessuno di loro.”
“Iniziamo ad avviarci? A questo punto dubito che tornino.”
“Va bene.”
Proprio all’uscita del cortile videro Janet che stava seduta contro il muro con aria preoccupata. Si guardava intorno, notando come ormai non ci fossero che poche persone e iniziando a capire di essere sola. Quando intravide i due ragazzi grandi corse verso di loro con sollievo.
“Elisa, dov’è il mio fratellone? Ed Heymans?”
A quel nome il viso di Roy si indurì ed Elisa lo vide serrare le labbra per ingoiare una risposta rovente che non era il caso di dare davanti alla bambina.
“Sono usciti prima, Janet – spiegò, prendendola per mano – senti, se vuoi ti riaccompagno a casa io.”
“Oh, davvero? – mormorò lei – Però non so se… Ah, ma quello è il mio papà! Papà!”
E corse verso James che veniva dal paese: lui la prese immediatamente in braccio, baciandole la guancia e stringendola a sé. Immediatamente anche Elisa si accostò a lui, seguita di malagrazia da Roy.
“Signor Havoc…”
“Venite, ragazzi, vi accompagno in paese.”
“E Jean ed Heymans? Elisa mi diceva che sono andati via prima.”
“Tuo fratello è con me, torniamo a casa tutti e tre assieme con il carro, piccola mia.”
“Ed Heymans?”
“Lui… lui è a casa, tesoro. Dai, adesso racconta a papà cosa hai fatto a scuola.”
Ma la vocina allegra della bambina strideva completamente con la tensione che c’era nell’aria: non ci voleva molto per capire che era successo qualcosa di brutto.
 
“Allora?” chiese Andrew, come Laura uscì dal dottore con Henry addormentato tra le braccia.
“Crollo nervoso – sospirò lei – gli ha dato dei calmanti: per i prossimi tempi deve stare tranquillo e assorbire bene il colpo. Non… non ha detto una parola da quando l’abbiamo portato via da casa.”
“Mi dispiace – mormorò l’uomo, accarezzando i capelli rossi del bambino: vedendo l’espressione così sofferente non riuscì ad avercela con lui per l’incidente a Kain. Henry era una vittima della follia di Gregor, quello con meno difese contro la tragedia che aveva colpito la sua famiglia – vedrai che piano piano si riprenderà e capirà che è tutto finito.”
“Speriamo… e tu, Heymans, va tutto bene?”
“Sì – annuì lui, sbattendo ancora lievemente gli occhi per le lacrime versate in precedenza – va tutto bene mamma, tranquilla. Signore, adesso lei dovrebbe tornare a casa: sua moglie sarà in pensiero.”
“Posso lasciarvi? – chiese Andrew mettendo una mano sulla guancia livida di Laura – Ce la fate a tornare in quella casa?”
“Sì – annuì lei con gli occhi grigi stanchi ma determinati – è casa nostra del resto e ora è libera dalla presenza di Gregor. Andrew, per quello che ha fatto Henry… io non so come chiederti scusa: mi sembra così inverosimile. I nostri figli… possibile che tutto questo li abbia travolti in un modo così orribile?”
“Non pensarci, Laura… è tutta colpa di quell’uomo e della prigione in cui vi teneva. Dai, adesso andate, ma per qualunque cosa chiedete al capitano Falman o venite da me, sono stato chiaro?”
“Certamente.”
A quella promessa Andrew sospirò e si diresse verso l’uscita del paese, sperando di trovare le parole giuste per spiegare ad Ellie quanto era successo senza preoccuparla troppo. Mentre stava per giungere al limite dell’abitato vide che James stava arrivando con la figlioletta in braccio e Roy ed Elisa dietro di lui.
“Io torno a casa – disse sommessamente, dando una lieve arruffata alla testolina di Janet – per il resto si deciderà domani. Grazie ancora per tutto, James.”
“Grazie a te per quello che hai fatto per il ragazzo, Andrew. Spero che il tuo piccolo guarisca presto.”
Annuendo l’ingegnere proseguì per la sua strada: Roy stava per fermarlo e dirgli qualcosa, ma Elisa gli mise una mano sul braccio. Non era il momento buono, assolutamente.
 
“Mamma, tu inizia ad andare avanti – disse Heymans, vedendo Jean che aspettava vicino al carro – arrivo tra dieci minuti.”
Si diresse verso l’amico e senza lasciargli il tempo di dire qualcosa lo abbracciò con tutte le sue forze.
Jean si irrigidì leggermente a quella stretta, ma poi ricambiò con la medesima intensità.
“Grazie… grazie – sussurrò il rosso, finalmente nelle condizioni mentali giuste per rendersi conto di quanto doveva a Jean – sei il miglior amico che potessi mai desiderare.”
“Al diavolo, Heymans, dopo tutto quello che fai per me, questo è il minimo… ce lo siamo promessi del resto: quando uno avrà bisogno, l’altro ci sarà sempre. Allora, che hanno deciso?”
“Adesso lui è in prigione – ammise, staccandosi da quella stretta e fissandolo con gli occhi grigi lievemente cupi – il capitano Falman dice che entro domani farà il decreto di espulsione dal paese e mamma si separerà da lui.”
“E tu ed Henry?”
“Con quello che è successo non ci dovrebbero essere molti problemi che mamma ottenga la nostra custodia. Lui non dovrà vederci mai più. Cacchio… non mi sembra vero che sia finita.”
“Ehi – Jean gli mise entrambe le mani sulle spalle – sì che è finita. Quello non vi tocca più, capisci? Andrà tutto bene d’ora in avanti.”
“Senti, per i prossimi giorni non vengo a scuola. Mamma ed Henry hanno bisogno di me ed il medico ha detto che lui deve stare ad assoluto riposo per parecchio tempo… mi dispiace, per quello che ha fatto a Kain, ma ti giuro… per una volta riesco a giustificarlo… non ce l’aveva con lui, non era sua intenzione che si facesse male.”
“Se lo giustifichi allora ci sono delle spiegazioni più che valide – ammise Jean – non mi è mai stato simpatico, ma capisco che le cose a casa vostra stavano andando davvero male.”
“Ho chiesto scusa in tutti i modi al padre di Kain… e appena posso andrò anche dalla signora e da lui per…”
“Per dire quanto ti dispiace? Non ti permetterò di avvicinarti a loro!”
La voce di Roy giunse come un colpo di frusta, spezzando quella conversazione.
I due si girarono e lo videro a pochi metri da loro che fissava Heymans con estremo disgusto. Elisa accanto a lui cercò di fermarlo, ma la bloccò con un secco gesto del braccio.
“Ti ho detto di finirla con questa storia.” Jean si fece avanti, frapponendosi tra Heymans e Roy.
“Perché continui a giustificarlo? Proprio non ti capisco! – continuò il moro – Eppure hai visto anche tu che è chiaramente colpevole… e lui si ostina a difenderlo. E che cosa mai sarà successo per far intervenire il padre di Kain? Come se non avesse altro a cui pensare… chi diavolo credi di essere?”
“Per favore, Roy, smettila…” mormorò Heymans.
“No, dai! Pretendo di saperlo a questo punto: che ha di speciale la tua famiglia perché abbia la priorità su tutto? – Roy non si controllava più e continuava ad infierire, non rendendosi conto di andare su un terreno davvero delicato – Se tuo padre è un bastardo risolviteli da solo i problemi! Non coinvolgere chi per colpa di quel maledetto di tuo fratello sta soffrendo! Stai lì con l’aria di chi ha appena vissuto chissà che cosa, ma scommetto che non era che un’enorme cazzata!”
“Ora esageri!” disse Jean, ma qualsiasi suo movimento fu preceduto da Heymans.
Il rosso si portò davanti a Roy e si alzò la maglietta sul fianco sinistro, mostrando i solchi lividi sul fianco.
“Ti piacciono, grande eroe? – sibilò – Me li ha fatti mio padre con l’attizzatoio del camino nemmeno due ore fa; vuoi sapere altro?”
“Io…” Roy esitò vedendo quei segni che sicuramente dovevano fare un gran male.
“No, aspetta, continuiamo che è davvero divertente: ti voglio raccontare di quanto è felice la mia famiglia! Di quanto non sia importante quello che è appena successo! – afferrò il braccio di Roy con rabbia – Mio padre è appena stato arrestato perché ha picchiato sia me che mia madre… se vuoi saperlo lei ha la guancia livida, il segno le durerà per giorni, e come è caduta ha evitato per un pelo di sbattere sullo spigolo del tavolo, ammazzandosi. Fermo! Non ti dimenare… non ti ho ancora detto di come è felice nell’essere stata presa con la forza da lui! E per Kain mi dispiace… eccome se mi dispiace, ma le scuse le faccio a chi ritengo giusto io, mica a te che non sai un emerito cazzo di quanto è successo!”
“Heymans, controllati.” Jean si accostò a lui e gli passò una mano attorno alle spalle.
“Lasciami, Jean! – lo scostò con rabbia – Sai, Roy, venti minuti fa ho finito di dare la mia dannata testimonianza a quanto è successo, perché mio padre verrà bandito dal paese e un’ordinanza gli impedirà di rivedere me, mia madre e mio fratello… dovrebbe testimoniare anche Henry, ma non potrà per parecchio tempo, e sai perché? Perché non riesce più a parlare per tutta la violenza che ha visto a casa, con mio padre che cambiava atteggiamento con lui come gli pareva e piaceva… gli ha persino messo in testa di essere un bastardo, che bello, vero? E’ proprio piacevole sentire il tuo caro padre che nella notte chiama tua madre puttana, la picchia e la violenta e dice che tu sei figlio di Andrew Fury, eh? Una persona che per lui è praticamente uno sconosciuto!”
“Non sapevo… calmati…” Roy dilatò gli occhi davanti a quella furia.
Ma Heymans aveva superato lo stato dell’apatia e dello sfogo: adesso restava solo la rabbia.
“Dai fastidio a mio fratello e te la faccio pagare, Roy Mustang: lui ha già dato abbastanza in tutta questa cazzo di storia.”
Lasciò la presa sul suo braccio con disgusto e gli voltò le spalle.
“Scusa, Elisa, se hai assistito a questa scena… il tuo fidanzato è stato un grande, ha chiamato suo padre e lui ha messo la parola fine a questa storia.”
“Heymans, mi dispiace tanto, sul serio.”
“Sì – annuì lui, svuotato, posandosi contro il carro – ti credo, amica mia, a te credo senza problemi.”
“Sta arrivando mio padre con Janet.” avviso Jean.
“Allora io vado, non voglio che tua sorella mi veda così: ci vediamo presto amico mio, ancora grazie di tutto, sul serio… a te e a tuo padre. Appena posso passerò da voi, promesso.”
E senza attendere risposta si allontanò dal carro, andando verso casa sua.
E prima che James e Janet fossero a portata d’orecchio, Jean  si avvicinò a Roy e disse:
“Tu ed io abbiamo chiuso… hai fatto l’unica cosa che non dovevi fare con me: toccare il mio miglior amico.”
E salì sul carro non lasciando il tempo a Roy di reagire.
 
“Allora, adesso fai il bravo ed apri la bocca…”
Kain eseguì l’ordine e masticò il boccone che Riza gli aveva appena dato.
Ellie li osservò con estrema tenerezza: la ragazzina stava seduta nel letto e teneva con cura in mano un piatto di mele cotte che faceva mangiare a Kain. Con il braccio destro ingessato e la debolezza erano costretti ad imboccarlo, ma sembrava che lui non fosse troppo dispiaciuto di quel trattamento. Bastava vedere lo stanco sorriso che faceva a Riza.
“Mi raccomando, pulcino, almeno metà porzione – disse – lo so che mangiare è difficile, ma devi riprendere le forze. Riza, ricorda che cosa ti ho detto: bocconi piccoli e aspetta che mastichi bene.”
“Certo signora.”
“Allora io vado in cucina a terminare di mangiare, va bene?”
La ragazzina annuì e così lei uscì dalla stanza per andare in cucina a terminare il pasto.
Stava per sedersi al tavolo quando con un sospiro si diresse invece in cortile, controllando se Andrew si decidesse a tornare: era molto preoccupata per le parole confuse che aveva detto Riza, ma aveva capito che la situazione per Laura era giunta ad un punto critico.
Proprio in quel momento vide il marito comparire dal sentiero e con un gridolino di gioia gli corse incontro.
“Andrew! – sospirò, abbracciandolo – Amore mio, ero così preoccupata…”
“Oh, Ellie – la strinse lui, accorgendosi di avere estremo bisogno di quel conforto emotivo – è finita, finalmente. Quella bestia non toccherà più Laura ed i ragazzi…”
“Cosa? – sgranò gli occhi lei – ma che è successo? E loro come stanno?”
“E’ una storia un po’ lunga e anche brutta… e in qualche modo riguarda anche Kain. Vieni, sediamoci e parliamone, ma rimani stretta a me, amore mio. Tu non sai di quanto abbia bisogno di te e di farti sentire amata.”
 
Vincent tornò a casa e si sedette nel divano con aria sfinita: quella storia l’aveva turbato più del previsto e sentiva un leggero senso di nausea.
“Come sta il bambino?” chiese Rosie accostandosi a lui.
“Non bene, il medico ha parlato di crollo nervoso: poveraccio era ridotto malissimo.”
“Speriamo che si riprenda.”
“Ce la dovrebbe fare, adesso la situazione non può che migliorare.”
“Ti va di mangiare qualcosa, caro? Sei così provato…”
“No – scosse il capo lui prendendola gentilmente per il polso e facendola sedere sulle sue ginocchia – ho solo bisogno di averti qui con me.”
“Vincent – mormorò la donna, mentre il marito le baciava la guancia con estrema tenerezza – che succede?”
“Ti amo, Rosie, sei tutta la mia vita: mi sento l’uomo più fortunato del mondo a svegliarmi con te abbracciata, mi hai regalato un figlio meraviglioso… io non so cosa farei senza di te.”
“Ti amo, Vincent – rispose lei, baciandogli la fronte – come il primo giorno.”
“L’idea che un marito possa fare una cosa del genere alla propria moglie – scosse il capo ripensando alla guancia di Laura e a tutto il resto. La sua voce divenne un sussurro – Rosie, come si può…”
“Non lo so – ammise lei, cercando le sue labbra – ma so che tu sei un marito e padre stupendo e mi fai sentire amata e protetta come non mai, sempre.”
Il rumore della porta di camera di Vato che si apriva fece loro sciogliere quella posizione, non prima di essersi scambiati un sorriso complice.
Mentre Rosie spariva in cucina, Vato si sedette accanto a Vincent e senza dire niente lo abbracciò.
“Ehi, figliolo – mormorò il capitano stringendolo – molto spaventato? Quella brutta scena te l’avrei voluta evitare.”
“Dovevo fermare Jean che era entrato di prepotenza. Papà… tu non farai mai del male a me e alla mamma, vero?”
“Ma che dici? Certo che non lo farò mai… che c’è?”
“Niente, è che volevo solo sentirtelo dire… papà, tu sei il mio eroe.”
“Sono tuo padre, questo mi basta e avanza.”
“Non metterà più piede in questo posto, vero?”
“No – scosse il capo Vincent – non tornerà più, tranquillo. Entro due giorni lo spedisco via con il primo treno: non lo posso tenere in cella, ma preferisco allontanarlo piuttosto che saperlo vicino a quella povera donna e ai ragazzi.”
 
E così accadde due giorni dopo, in un caldo pomeriggio di inizio maggio.
Alla stazione c’erano Vincent e due poliziotti che facevano da scorta a Gregor.
“Ecco il treno – annunciò il capitano – prendilo e sparisci da questo posto: c’è un decreto di espulsione contro di te, prova a violarlo e non ti andrà così bene.”
“Crede davvero che voglia tornare? Sono stato prigioniero per troppo tempo in questo paese maledetto.” Gregor sbuffò, massaggiandosi i polsi che poco prima erano ammanettati.
“Devi solo ringraziare che indosso la divisa e ho un’etica da rispettare, altrimenti te la farei pagare cara per tutto quello che hai fatto passare a tua moglie e ai tuoi figli.”
“Quella cagna…”
“No, sei tu il cane, credimi. Pussa via… proprio come un cane, maledetto.”
Non disse altro, si limitò a guardarlo con disgusto mentre saliva sul treno, con la sacca sulle spalle.
Fu solo quando l’ultimo vagone sparì in lontananza che iniziò a respirare con più facilità.
 
Heymans era su una piccola altura, poco lontano dalla ferrovia.
I suoi occhi grigi fissarono quel treno fermarsi per pochi minuti e poi ripartire, portando via per sempre  suo padre.
Non versò una lacrima, non provò rabbia… solo una strana forma di vuoto sollievo.
“Hai idea di dove andrà?” chiese Jean accanto a lui.
“No – scosse il capo – e non mi interessa.”
Non si dissero altro, limitandosi a guardare quel treno che si allontanava sempre di più fino a sparire.
La mano destra del rosso stringeva un braccialetto di metallo con una piastrina di riconoscimento di un soldato morto quasi quindici anni fa nel fronte contro Aerugo.
Alla fine il cerchio era stato spezzato.

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Capitolo 45
*** Capitolo 44. Quello che è giusto... secondo me. ***


Capitolo 44. Quello che è giusto... secondo me.


 
Jean avanzava verso il paese con lo zaino sulle spalle: lo sentiva pesante ma questo invece di infastidirlo lo rendeva felice. Sua madre aveva preparato un sacco di roba per Heymans e la sua famiglia e lui era orgogliosissimo di poter dare una mano al suo amico in quel momento così delicato: sapeva che avrebbe sorriso nel vedere quel pensiero gentile da parte dei suoi e anche la signora Laura l’avrebbe fatto. Ne valeva veramente la pena.
Come arrivò in paese decise di svolgere prima una piccola commissione per sua madre e si recò nella farmacia per recuperare alcune erbe che aveva ordinato la settimana prima.
Salutò la signora al bancone e mentre aspettava che recuperasse le erbe dal retro, si mise a gironzolare per gli scaffali, guardando con curiosità le etichette dai nomi strani. Nel frattempo il suo udito attento colse alcuni stralci di conversazione tra alcune donne che avevano formato un piccolo gruppo in un angolo.
“… certo che ce ne vuole di coraggio. Ma ve lo immaginate? Una donna separata.”
“Fossi in lei me ne sarei già andata dal paese dalla vergogna, ma del resto, sappiamo tutti di chi stiamo parlando, no?”
“Ed è stato suo figlio a provocare l’incidente del bambino dell’ingegner Fury: io li caccerei dal paese, tutti e tre. Ho già detto ai miei ragazzi di stare lontani da loro a scuola.”
“Non la sapete l’ultima? Ieri quella ha avuto anche l’ardire di andare alla drogheria a fare compere, con quella guancia livida, che vergogna!”
“Ah sì, la moglie del droghiere non era presente, altrimenti l’avrebbe mandata via… oh, ma è lei…”
A quelle parole Jean, che aveva sentito la rabbia montare dentro di sé, si girò di colpo e vide la madre di Heymans entrare e dirigersi verso il bancone. La guancia era ancora livida e gonfia e teneva lo sguardo basso, cercando di evitare le occhiate degli altri clienti.
Proprio in quel momento la farmacista rientrò con il pacco di erbe pronto e si accorse della nuova cliente. Fu incredibile come lo sguardo prima sorridente diventasse incredibilmente ostile: prese di malagrazia il foglio che Laura aveva messo sul bancone e iniziò a frugare negli scaffali.
“Dipendesse da me, certa gente non metterebbe piede nei negozi della gente perbene.” sibilò una donna con la chiara intenzione di farsi sentire da tutti.
A quelle parole Laura chiuse gli occhi con rassegnazione, ma non si mosse.
“Di certo io non farei entrare voi nell’emporio di mio padre! – sbottò Jean, facendosi avanti e guardando malissimo la donna che aveva parlato – Branco di vecchie megere!”
“Jean Havoc, quando la smetterai di essere così maleducato?”
“E voi quando la smetterete di prendere the al veleno con pasticcini di acidità? – ritorse lui, per niente scoraggiato – Siete in farmacia, approfittate per prendervi qualcosa per le vostre lingue lunghe!”
“Ma come osi!”
“Ecco i soldi, grazie mille signora – sbottò, posando di malagrazia le monete sul bancone. Poi si girò verso Laura e le fece un gran sorriso – Signora Laura, se permette la attendo: stavo giusto per venire a trovare Heymans.”
“Oh Jean – sorrise lei – grazie mille, tesoro, conto di finire in pochi secondi.”
“Ma certo, tanto la congrega di streghe non vede l’ora di iniziare il sabba non appena andremo via! – ridacchiò il ragazzo, mentre la donna prendeva il sacchetto che l’imbarazzata farmacista le dava e pagava – E mi raccomando! Attente a come ripartite con le scope, oggi c’è vento!”
Perché, oggettivamente, se ti chiami Jean Havoc e sei uno dei ragazzi più strafottenti del paese, sei in grado di mettere fuori combattimento anche le pettegole più maligne: lui e Laura uscirono tra gli sguardi increduli di quelle donne, come se non fosse successo niente.
“Jean – ridacchiò Laura quando furono a distanza di sicurezza – sei proprio fuori di testa.”
“Naaaah – arrossì lui con un sorriso – sono solo uno a cui piace dire le cose come stanno. Se quelle provano a darle fastidio, venga a dirmelo che porto anche mia sorellina: ha sei anni ma tira fuori offese davvero originali.”
“Ah, tesoro, ci fossero più persone come te e la tua famiglia, non smetterò mai di ringraziare tuo padre per quello che ha fatto.”
“Stia tranquilla, anzi le manda i suoi saluti. E la mamma mi ha riempito lo zaino di roba per voi.”
“Non doveva, sul serio.”
“Scherza? In questo periodo lei deve riposare, signora, e pensare ai suoi figli. Ci penso io a difenderla da quelle pazze scatenate e…”
Si bloccò perché Roy era appena uscito da una strada laterale, capitando proprio davanti a loro. Il moro alzò lo sguardo su Laura e arrossì leggermente, come se si vergognasse, ma Jean non gli diede il tempo di fare altro che prese la donna per un braccio ed esclamò.
“Su, andiamo, questo zaino è davvero pesante e poi ho sentito un rumore strano e non vorrei che si fosse rotto qualche barattolo di vetro.”
 
Heymans si fece notevoli risate quando il suo amico gli raccontò di quell’episodio in farmacia.
Però, nonostante quella parentesi, la situazione non era facile e se ne rendeva pienamente conto: adesso sua madre era una donna separata e questo aveva portato ad una nuova e pesante forma di ostracismo da parte della maggioranza del paese. La gente era davvero ipocrita: finché era maltrattata e tradita ma sposata, allora tutto andava bene, mentre ora veniva additata come una poco di buono dai cosiddetti benpensanti.
Certo, non era violenza fisica, ma era decisamente spiacevole venire trattata come una reietta per l’ennesima volta, proprio quando era appena uscita da una situazione così dolorosa. In quei quattro giorni che erano passati da quella tremenda mattinata, l’aveva vista tornare diverse volte con le lacrime agli occhi, tanto che, quando poteva, andava lui a fare le commissioni. Non che fosse esente da simili commenti, ma oggettivamente era più abile di sua madre a farsi scivolare tutto sulle spalle.
Ma c’era Henry a cui pensare e non era facile: era ancora in uno stato di apatia, tuttavia mostrava segni di nervosismo se veniva lasciato da solo. La prima notte avevano provato a farlo dormire nel letto matrimoniale assieme alla madre, ma evidentemente quella camera richiamava in lui brutti ricordi perché si svegliava di continuo piangendo. Così Heymans l’aveva fatto dormire con sé ed era filato tutto liscio, e da allora Henry aveva iniziato a stare tranquillo soprattutto in sua presenza.
In quel momento dormiva profondamente nel letto del fratello maggiore, mentre Heymans e Jean stavano alla scrivania a controllare i quaderni di scuola.
“Allora, questi sono i compiti che hanno dato stamane: sono per dopodomani.”
“Perfetto, se domani vieni ti do il quaderno, ma non copiarli, mi raccomando.”
“Ma quando mai! Allora, non torni ancora a scuola, vero?”
“No, non posso – sospirò lui, guardando con aria significativa il fratello – dorme a intervalli irregolari e comunque con i medicinali che prende rimane stordito. Il medico ha detto che è normale che in questa fase sia così, ma per ora continua a cercarmi se si spaventa nel sonno: non posso lasciarlo.”
“Cacchio, sembra molto più piccolo senza quell’aria strafottente che gli conoscevo. Quasi quasi mi dispiace vederlo in queste condizioni; come va la sua coscia?”
“Un bel livido: non c’è che dire, Roy c’è andato pesante, ma è il meno peggio considerato il crollo nervoso che ha avuto.”
“E le tue ferite?”
“Sotto controllo – dichiarò, alzandosi la maglietta e mostrando il fianco livido con i segni dei colpi – oh, non ti preoccupare, fa meno male di quel che sembra: mamma mi mette un balsamo ogni giorno e migliora in fretta. Non vedo l’ora che passi anche il suo livido alla guancia… forse senza quello le persone smetteranno di additarla in maniera così palese, ma ne dubito.”
“Sono solo degli stronzi, lo sai bene: tua madre è fantastica, non ha niente di cui vergognarsi.”
“Lo so bene e lo sa anche lei. Solo che… – fece un profondo sospiro – cazzo, Jean, ma perché la gente non vuole capire? Perché non ci lasciano in pace, dopo tutto quello che è successo? Chiedo solo un po’ di tregua, è tanto?”
“Vedrai che migliorerà, coraggio.” Jean gli mise una mano sulla spalla: gli faceva davvero male vedere il suo miglior amico in simili condizioni. Ma capiva che non era per niente facile superare il trauma che aveva vissuto e di cui la sua famiglia portava i segni.
Proprio per questo motivo non aveva alcuna intenzione di perdonare Roy Mustang.
Aveva provato a capirlo in questi giorni, ma non aveva trovato alcuna giustificazione. Quello che era successo a Kain era orribile e lui era il primo a volere che il bambino guarisse, ma per quanto si potesse avercela con Henry…
… per quanto mi riguarda suo padre può anche riempire di botte sua moglie…
No, simili parole non avevano alcuna giustificazione, così come l’ostinazione nel dire che non era successo niente che valesse la pena per coinvolgere Andrew Fury. Perché era ostinazione: Riza, Vato… nessuno di loro aveva esitato a credergli, a correre a chiamare aiuto. Solo Roy non aveva voluto, spinto dalla sua stupida sete di vendetta, proprio lui che vedeva spesso Gregor al locale di sua zia e quindi sapeva bene che tipo di persona era.
Non gli andava di essere amico di una simile persona: un amico aiuta, non aggredisce.
Un concetto chiaro, limpido, pulito, proprio come gli occhi di Heymans e di sua madre.
 
“Oh, finalmente!” sospirò con soddisfazione Kain, quando le lenti gli permisero di vedere bene mettendo a fuoco anche gli oggetti distanti.
“Credo che ora i tuoi mal di testa passeranno, figliolo – sorrise Andrew, arruffandogli i capelli – sicuro che l’asticella non ti dia fastidio?”
“Assolutamente, papà: le ferite hanno fatto tutte la crosta e poi il viso non è più gonfio.”
“Un bel cambiamento, vero? Dai, fammi sdraiare accanto a te per qualche minuto: tua madre e Riza oggi vogliono fare un bel pranzetto per questo bell’evento e per il fatto che la febbre sia sparita del tutto.”
Il che voleva dire che l’infezione era completamente passata e dunque non c’era più il rischio di amputazione, ma ovviamente Kain non doveva saperlo.
“Tanto non potrò mangiare quasi niente di tutto questo fantomatico pranzo – protestò il bambino riadagiandosi nei cuscini: ora che non aveva più la febbre gli era tornato anche l’appetito, ma doveva ancora mangiare leggero – mi tocca brodo, pesce lesso e mela cotta… voglio una barretta di cioccolato!”
“Mangione – lo prese in giro Andrew, stuzzicandogli la pancia con la mano, tanto da suscitare una risatina – ti prometto che come guarisci davvero bene avrai un’intera torta al cioccolato.”
“Allora se è così tanta, inviterò anche gli altri a mangiarla.”
“Certo, dovremo festeggiare tutti assieme, no?”
“Festeggiare… – si incupì lui – mi dispiace, ho rovinato il compleanno della mamma.”
“Tranquillo, rimedieremo anche a quello.”
“Non glieli hai dati gli orecchini, vero?”
“No, ma come ti ho detto non mancherà occasione: adesso l’importante è che tu ti riprenda del tutto.”
Kain annuì e si girò sul fianco sinistro con movimenti un po’ goffi: poteva muovere la gamba ma doveva fare molta attenzione però almeno aveva più libertà. Andrew lo aiutò in quelle difficili manovre facendolo posare sulla sua spalla.
“Papà, ho rischiato di morire, vero?”
“No, ma che dici? Ti sei ferito malamente è vero, ma questo non vuol dire che fossi in pericolo di vita.”
“E’ che in questi giorni ti ho visto spesso abbracciare mamma in un modo tutto particolare: lo stesso di quando ero piccolo e stavo davvero male.”
“Non ti sfugge niente, eh? Ma non eri in pericolo di vita, te lo giuro.”
“E allora che cosa c’è? E’ la gamba vero? Il dottore la controlla sempre e dopo parlate tanto con lui: quando è in camera fa tanti commenti su come stanno guarendo bene la faccia ed il braccio, ma sulla gamba dice sempre poco…”
Andrew fissò con attenzione il figlio: non era più un bimbetto di quattro anni che si doveva fidare ciecamente dei genitori perché non capiva quello che gli stava succedendo attorno. Adesso aveva undici anni, una mente molto sveglia e un’esperienza passata che l’aveva reso attento a molti dettagli a cui un’altra persona non avrebbe fatto caso. Forse era giusto renderlo più partecipe.
“E’ una brutta ferita – ammise – non so se ti ricordi come te la sei fatta…”
“Sì, mi ricordo: qualcosa mi ha infilzato, vero?”
“Sì, ed è per questo che ci siamo preoccupati molto: era metallo arrugginito e può fare infezione. La febbre era dovuta a quello, ma ora è passata, così come il peggio.”
Ma… perché c’è un ma, vero papà?”
“Onestamente, Kain, hai provato a muovere la gamba?”
Lui arrossì colpevolmente: sì, l’aveva fatto nei rari momenti in cui era solo. E aveva fatto un gran male, ma soprattutto si era accorto di una notevole rigidità nel muoverla che non gli era piaciuta per niente: un normale taglio fa male, però…
“Potrò camminare ancora, vero papà?” chiese con un sussurro.
“Il dottore ha detto che dovrai fare delle visite specialistiche ad East City, non appena starai meglio. Ma sono sicuro che andrà tutto bene, piccolo mio.” gli accarezzò la guancia dove ancora c’erano alcune raschiature. Non era il caso che sapesse di aver rischiato l’amputazione, ma era inutile nascondergli che non si sapeva ancora che danni c’erano alla gamba.
Il dottore aveva promesso che si sarebbe messo in contatto con degli specialisti di East City che si sarebbero occupati del caso: avrebbero verificato eventuali danni ai muscoli e ai legamenti e avrebbero deciso come procedere. Era difficile fare delle ipotesi, però…
“Riesci a muoverla, vero?”
“Sì, ma non bene… ma se la muovo è un buon segno, vero?”
“Credo proprio di sì, ma non farlo più da solo, promesso?”
“Certo… senti papà, tu vuoi bene ad Heymans, vero?”
“Sì che gli voglio bene – annuì Andrew, chiedendosi dove volesse arrivare il bambino – perché me lo chiedi?”
“E gli vorresti bene anche se scoprissi che qualcuno vicino a lui ha fatto una cosa grave?”
Andrew capì e sorrise, accarezzandogli il dorso del naso.
“E’ stato Henry, lo so.”
“E’ successo qualcosa di brutto, vero? Credo che Roy l’abbia scoperto ed abbia litigato con Heymans: Riza non ha detto molto quando le ho chiesto qualcosa, ma ho capito che c’è qualcosa che non va. Papà… Henry quel giorno era strano, non credo che l’abbia fatto con cattiveria. E anche se è così, la colpa è mia che sono entrato dentro la miniera da solo pur sapendo che era pericoloso…”
“Senti, non preoccuparti di queste cose – gli consigliò il padre – fra me ed Heymans va tutto bene, te lo assicuro e sono certo che anche con Roy si risolverà. Adesso tu devi solo pensare a guarire, siamo intesi? E’ il miglior aiuto che puoi dare a tutti noi perché è questa la cosa a cui teniamo di più.”
“Spero che sia come dici tu.”
 
Tuttavia la controversia non era facile da risolvere.
Jean aveva preso una decisione drastica nei confronti di Roy, facendo regredire la situazione ad inizio anno scolastico, quando si guardavano in cagnesco. Heymans non aveva ancora detto niente in merito, ma aveva altro a cui pensare e, oggettivamente, il giovane Mustang era l’ultima delle sue preoccupazioni.
E Roy… beh, lui doveva fare i conti con il suo orgoglio e con il fatto che per una volta tanto aveva completamente sbagliato tutto. Ed era molto difficile ammetterlo: avrebbe significato giustificare Henry e lasciare così i propositi di vendetta, privando Kain di quella che lui riteneva giustizia.
Mentre per Andrew e gli altri era più semplice attribuire la colpa ultima a Gregor e alla violenza psicologica che aveva fatto sul figlio minore, lui non era abituato ad un simile ragionamento: aveva sempre pensato di testa propria, senza lasciarsi condizionare da niente e nessuno… perché Henry non doveva esserne in grado? Provava a mettersi nei suoi panni, ma la sua mente lo portava a ragionare con il classico se fossi stato in lui non mi sarei certo fatto fregare. Insomma, credeva di immedesimarsi, ma in realtà continuava a vedere le cose da perfetto esterno.
Questo dipendeva anche da una strana lacuna che aveva nel rapporto con Jean ed Heymans: a loro era arrivato per vie traverse. Non c’era stata una stretta di mano come per Vato o Kain, semplicemente ad un certo punto, per merito degli altri, si erano ritrovati assieme, senza però arrivare ad essere confidenti… E a questo punto era lui l’esterno: Heymans e Vato, Riza e Jean: loro avevano stretto i rapporti in maniera molto più forte e tangibile.
“Ci stai ancora pensando?” Vato si avvicinò a lui durante l’intervallo.
“Assolutamente no – mentì – persone come quelle meglio perderle che trovarle.”
“Andiamo, Roy, perché non la smetti di fare l’offeso: hai sbagliato, ecco tutto. Considerata la situazione è anche comprensibile la tua rabbia: non avevi lucidità mentale per capire cosa stava succedendo. Perché non affronti Jean e non vi chiarite?”
“Non ne ho la minima intenzione: è stata una sua scelta quella di chiudere i rapporti con me. Se vuole io sono qui, non ha che da chiedere.”
Vato scosse il capo con aria sconsolata: i tentativi suoi e di Riza di far riappacificare i due contendenti non stavano avendo successo. Erano arrivati alla conclusione che Jean, in questo caso, era irremovibile in un modo più marcato rispetto a Roy e dunque era su quest’ultimo che bisognava insistere.
“Perché devi sempre vedere tutto o bianco o nero? Non vuoi accettare una via di mezzo?”
“Che vorresti dire?” gli occhi scuri si volsero su di lui trafiggendolo.
“Che potresti arrenderti all’idea che, tutto sommato, Henry non voleva fare del male a Kain e…”
“Non prendere anche tu le parti di quel ragazzino, fammi questo piacere.”
“Non sto prendendo le sue parti, vorrei solo che tu provassi a capire la situazione… Roy, io c’ero. Ho visto quell’uomo con l’attizzatoio in mano: aveva uno sguardo così cattivo. Chissà che tutto ha combinato alla moglie e ai figli.”
“Heymans ha reagito, lo capisci? – sbottò Roy – Non si è fatto piegare da quel bestione per tutti questi quattordici anni: ha lottato contro di lui sia fisicamente che psicologicamente. Anche quell’altro imbecille poteva benissimo farlo ed invece ha preferito seguire quel farabutto qualsiasi cosa gli dicesse.”
“Non siamo tutti uguali, suvvia.”
“Proprio per questo alcuni mi piacciono e altri no: alcuni li giustifico ed altri no. Ed Henry rientra in questa categoria, chiaro? E se quell’imbecille di Jean continua a dare retta ad Heymans e a giustificare quel piccolo teppista, allora sono affari loro. Amici di questo tipo non mi servono.”
Il suo sguardo corse dall’altra parte del cortile dove Jean stava parlando con Riza, l’espressione dura e gli occhi azzurri ostinati. Non si sa per quale strano motivo, ma si accorse di quell’osservatore e si volse verso di lui.
Fu come se una scarica elettrica corresse lungo tutto il cortile.
C’era tanta rabbia da sfogare, troppa.
Roy era seriamente tentato di correre verso di lui e buttarlo a terra, scrollarlo e dirgli che era un grandissimo imbecille. Forse queste sue intenzioni erano chiare perché Jean aveva fatto qualche passo nella sua direzione e sembrava sfidarlo a farsi avanti.
“Buoni…” mormorò Vato, mettendo un braccio sulla spalla di Roy, mentre Riza dall’altra parte faceva lo stesso con Jean. Fortunatamente a salvare la situazione arrivo Janet che si aggrappò alla gamba del fratello maggiore distogliendolo da qualsiasi proposito bellicoso, almeno per il momento.
Roy lo guardo prenderla in braccio con aria seccata e incamminarsi nella direzione opposta, senza più degnarlo di uno sguardo.
Ringrazia tua sorella perché era la volta buona che ti riempivo di pugni.
Non ci avrebbe mai creduto, ma era il medesimo pensiero che stava avendo Jean.
 
E così questa era la situazione che si trascinava a scuola, con Riza e Vato che provavano a fare da pacieri tra i due contendenti, senza ottenere risultati.
Alla ragazzina faceva molto male questo clima di ostilità in un momento in cui invece avrebbero dovuto stare uniti più che mai, sia per Heymans che per Kain. Ma Jean era irremovibile nelle sue decisioni, troppo ferito per le parole che erano state rivolte alla madre del suo miglior amico.
In qualche modo a Riza tornava in mente quando sia lui che Roy l’avevano difesa contro quelle donne malvage che la volevano cacciare via dal capannone appena dopo la piena: entrambi spietati e irremovibili, seppure in maniera diversa.
Solo che adesso, invece di difendere la stessa persona, erano in posizioni opposte: Jean a difendere Heymans e suo fratello e Roy a difendere Kain… o meglio la sua sete di vendetta.
Negli ultimi giorni tirava sempre un sospiro di sollievo quando tornava a casa dei Fury nella consapevolezza che anche quella mattinata era stato evitato lo scontro. Finita la scuola si poteva dedicare alla sua famiglia alternativa, al suo piccolo fratellino malato che adorava ogni giorno di più.
Tuttavia, dopo un paio di giorni che il medico dichiarò l’infezione sparita del tutto, capì che era anche il momento di tornare a casa: una decisione sofferta, ma responsabile. Del resto si era ripromessa di stare fino a quando Kain stava molto male ed ora era decisamente migliorato… e se non lo faceva adesso non se ne sarebbe andata più da lì.
“Come te ne vai?” chiese Kain in tono mogio.
“Sono qui da più di dieci giorni – spiegò Riza accarezzandogli i capelli – e ormai il peggio è passato. E poi sto occupando la tua camera da troppo tempo: ora che stai meglio magari ci vorrai tornare, no? Non si può sempre stare nel lettone dei genitori.”
“Oh dai! Te la cedo volentieri, basta che resti qui con noi.”
Il bambino tese il braccio sano e attirò Riza a sé per stringerla come poteva, rifiutandosi di lasciarla andare. L’unica cosa positiva di quelle ferite era che la sua meravigliosa amica era venuta a stare da loro, perché proprio ora doveva andarsene? Adesso stava decisamente meglio e potevano fare un sacco di cose assieme: voleva essere portato in cucina e mangiare assieme a tutti loro, giocare con lei, abbracciarla prima di addormentarsi. Perché doveva rinunciare a Riza quando era chiaro che lei era nata per stare con loro?
“Devo tornare a casa da mio padre, piccolino – mormorò lei, rispondendo a quell’abbraccio – dipendesse da me starei con te per sempre, lo sai. Ma non si può.”
“Sì che si può: ascolta abbiamo una camera per gli ospiti. Diventa la tua… o se ti piace la mia mi trasferisco io, va bene? Dai, Riza, resta… ti prego.”
“Kain – Andrew sciolse con gentilezza quell’abbraccio – da bravo, niente storie. Riza aveva promesso che sarebbe stata qui finché la situazione non migliorava ed è arrivato il momento che ritorni a casa: perché invece di fare il broncio non la ringrazi con un sorriso?”
“Torni a trovarmi, vero? – chiese invece il bambino con urgenza – Per favore…”
“Certo che torno, stupidino, tutti i giorni.”
“Promesso?”
“Promesso.”
Se per Kain era difficile accettare quella separazione, anche per Riza non era una cosa semplice andare via da quella casa dove aveva vissuto una strana forma di quotidianità a cui si era abituata fin troppo in fretta. Era una situazione davvero surreale: insomma tutti e quattro avrebbero voluto che lei restasse, però sapevano che non era possibile e, tutto sommato, prima si tornava alla normalità meglio era.
“Sta piangendo, lo so…” sospirò Riza, mentre metteva il guinzaglio a Black Hayate e si sistemava meglio la tracolla con il materiale scolastico.
“Gli passerà, piccola mia – la consolò Andrew – domani torni a trovarci e vedrai che sarà felicissimo. Ti accompagno in paese, dai pure a me quella sacca.”
“Sul serio? Non si deve disturbare troppo.”
“Tranquilla, devo anche fare alcune commissioni. Hai salutato Ellie?”
“Sì.” la voce le tremò leggermente al ricordo di quelle lacrime che avevano versato entrambe nell’abbracciarsi. Sembrava si stessero separando per sempre.
Fortunatamente il padre di Kain era in grado di gestire quelle situazioni emotive e così per tutto il percorso verso il paese la distrasse, come se quella fosse solo una piacevole passeggiata primaverile. Inconsapevolmente Riza gli prese la mano e la tenne stretta per tutto il tempo, fino a quando arrivarono al cancelletto di ferro del cortile della villetta.
“Entro a ringraziare tuo padre per averti permesso di…”
“No – scosse il capo lei – per favore, l’ha conosciuto e non voglio che ci abbia ancora a che fare.”
“Riza…”
“Sul serio, signore, l’ultima cosa che voglio e che la tratti con indifferenza. Si fidi di me, va bene così: è stato gentilissimo a riaccompagnarmi a casa.”
Fu così strano e brutto dire quella parola per un posto che non sentiva più suo.
L’idea di dormire nella sua camera avrebbe dovuto farla felice: avrebbe potuto finalmente far sdraiare Hayate ai piedi del suo letto, riguardare la foto di lei e sua madre che stava nel comodino. Insomma… si è sempre felici di tornare a casa no?
No… non è vero.
Soprattutto quando vieni abbracciata in quel modo dalla persona che vorresti come padre, quando ti stringi a lui e ti rifiuti di lasciarlo andare e devi ascoltare le sue parole di conforto per mollare finalmente la presa.
“Per qualsiasi cosa io sono qui.” trovò la forza di dire.
“Per qualunque cosa sai dove trovarci.” le rispose Andrew, baciandola sulla guancia.
 
“Ad East City ci saranno sicuramente i dottori giusti per Kain – annuì Laura con un sorriso – sono certa che presto tornerà a camminare come tutti gli altri bambini.”
“Sì, ne sono convinto – Andrew mandò giù un sorso di caffè e si guardò attorno, notando come la cucina fosse pulita e accogliente e come ci fosse un’aria più serena in tutta la casa: nemmeno una settimana che Gregor era andato via e già si sentiva il cambiamento – e tu come stai? Finalmente il livido sta sparendo.”
“Sì – Laura si portò istintivamente la mano alla guancia – sarà un vero sollievo per Heymans, non fa che chiedermi se mi fa male, se lo sento gonfio. E’ come se fosse l’ultimo marchio di Gregor che vuole cancellare.”
“In un certo senso è vero, fisicamente parlando. Ma mi basta guardare i tuoi occhi per vederti più tranquilla, senza quella paura che avevi ogni volta.”
“Ehi, Andrew Fury, ci pensi? Sei a casa mia, nella mia cucina a prendere il caffè… e non dobbiamo nasconderlo a nessuno.”
“Sono dei grandi traguardi Laura Hevans – le strizzò l’occhio lui, come quando erano ragazzi – ci abbiamo dovuto lavorare parecchio, ma sono arrivati. Henry sarebbe fiero della sua sorellina.”
“E del suo miglior amico, non dimentichiamolo. Adesso anche parlare di lui non fa più paura o dolore, me ne stavo rendendo conto ieri assieme ad Heymans.”
“Proprio a questo proposito devo ridargli questa – sorrise Andrew, prendendo dalla tasca la busta con le foto – lui si è tenuto una targhetta che non so se ti abbia ancora mostrato, ma queste foto ha preferito che le tenessi io fino a quando c’era Gregor. Ammira questi baldi giovani, ragazzina: questo follettino sei proprio tu…”
“Follettino! – Laura scoppiò a ridere – Cielo, Andrew, è passato un secolo da quando tu ed Henry mi chiamavate così… e queste foto? Me le ero completamente dimenticate. Che spettacolo, qui siamo addirittura alle scuole medie.”
“Scommetto che ne avrai di aneddoti da raccontare ad Heymans e… ehilà, ragazzino, si parlava giusto di te. Ti ho riportato le foto, come promesso.”
Non fece in tempo a dire altro che Heymans l’aveva già abbracciato con foga e rideva felice. Gli arruffò la chioma rossa e lo strinse a sé.
“Sarei passato il prima possibile a trovare lei e la sua famiglia, giuro.”
“Tranquillo, furfante – sogghignò Andrew – so benissimo che in questo periodo sei parecchio impegnato.”
“E Kain come sta? E sua moglie? E…”
“Henry – chiamò dolcemente Laura – vieni dentro, tesoro, da bravo.”
Il bambino entrò con esitazione, in uno dei rari momenti in cui era vigile e nervoso. Gli occhi grigi saettavano preoccupati dalla madre al fratello a quella persona quasi del tutto sconosciuta.
“Stavamo venendo in cucina perché aveva fame – spiegò Heymans andando vicino al fratello e mettendogli le mani sulle spalle – Henry, questo signore è Andrew Fury, ti ricordi di lui?”
A quelle parole gli occhi grigi si sgranarono e il bambino rinculò contro il fratello.
“Non c’è niente di cui aver paura – spiegò Heymans con voce calma, stringendogli le spalle – è un amico mio e della mamma, va bene? Non è tuo padre, non deve più crearti problemi questo nome, va bene?”
“Non forzarlo troppo – si preoccupò Laura – è spaventato.”
“Forse è meglio che vada…” cominciò Andrew.
“No – scosse il capo Heymans – ce la fa, tranquilli. Henry, ti ho raccontato tanto di lui, coraggio: non ti fa niente.”
Henry alzò la testa e fissò il fratello con ansia, in evidente ricerca di rassicurazioni. Era cosciente, lo si capiva, ma era come se qualcosa lo tenesse frenato. Un piccolo suono uscì dalle sue labbra.
“Sì, da bravo – lo incitò il maggiore – prova a parlare… gli dovresti dire qualcosa, non credi?”
“S… usa…”
Fu strano sentirlo parlare e quella parola gli uscì in maniera molto forzata.
Laura si alzò in piedi di scatto, ma Andrew gli fece un cenno con lo sguardo.
“Come primo tentativo non c’è male – continuò Heymans – dai, riprova.”
“S… scusa…”
“Sono felice di sentire queste tue prime parole – annuì Andrew, allungando una mano per sfiorare una ciocca rossiccia – scuse accettate, lo so che non volevi fare del male a mio figlio. Ti ho mai detto… no, e come avrei potuto, ma assomigli davvero tanto a tua madre: le lentiggini sono proprio le stesse.”
“Efelidi.” corresse Laura.
“Lo vedi? E’ sempre stata schizzinosa sulle sue lentiggini, spero che tu non lo sia.”
E per la prima volta dopo una settimana Henry riuscì a fare un timido sorriso.

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Capitolo 46
*** Capitolo 45. L'amicizia è... ***


Capitolo 45. L’amicizia è…

 

Uno dei tanti libri che Vato aveva nella sua libreria era relativo alla diplomazia e ai comportamenti da tenere quando si fa da paciere o ambasciatore, in tutte le situazioni.
Negli ultimi giorni si era convinto che l’autore non capiva assolutamente niente e quel libro poteva essere buttato (non l'avrebbe fatto perché sempre di un libro si trattava e dunque, nel bene o nel male, era una forma di sapere… sebbene sbagliato, ma bisogna conoscere gli errori per non farli più): quel tizio poteva anche vantarsi di aver partecipato alla stesura di grandi trattati tra le varie nazioni, ma sicuramente non aveva mai avuto a che fare con due persone ostinate ai limiti dell’impossibile come erano Jean e Roy.
“Eh certo! Perché io devo andare a scuola per evitare che si scateni la guerra del secolo! – disse sarcasticamente prendendo la tracolla ed uscendo fuori dalla stanza – L’amicizia è la base della materia della diplomazia, che grandissima cavolata! L’amicizia è il trattenersi dal mandarli a quel paese entrambi!”
“Vato!” sua madre alzò lo sguardo sconcertata.
“Scusa – borbottò lui – mi è scappato. Io vado a scuola, o meglio ad una nuova mattina in trincea.”
La porta si sbatté con notevole forza e Rosie lanciò un’occhiata al marito che non aveva fatto nessun commento per quello sfogo così strano del figlio.
“Problemi con gli amici?”
“Problemi tra i suoi amici, è diverso – corresse lui, finendo di bere il caffè – e sapendo di chi si tratta non posso che dargli tutta la mia solidarietà. Beh, adesso vado pure io: ci vediamo a pranzo, amore.”
“Buona giornata.” salutò lei, baciandolo.
“Se senti un’esplosione dalla parte della scuola è nostro figlio che scopre di non essere un buon diplomatico – sghignazzò aprendo la porta – ma sono sicuro che anche oggi ne uscirà vivo.”
 
“Perché mi sembra di essere tra due fuochi?” chiese Roy con sarcasmo mentre Vato e Riza lo attendevano fuori dal locale di Madame. Le loro facce agguerrite parlavano chiaro: anche oggi volevano cercare di far riappacificare lui e Jean, ma sarebbero rimasti a bocca asciutta.
“Perché teniamo a te e a Jean e il vostro comportamento sta iniziando a seccarci.” disse Riza senza mezzi termini: adesso che era tornata a casa poteva occuparsi di queste problematiche tra i suoi amici con maggiore intensità. Uscita dal mondo incantato della famiglia Fury aveva scoperto quanto questa storia, che ormai si stava prolungando da troppo tempo, le provocasse un notevole malumore.
“Se vi seccate così tanto allora lasciate stare – scrollò le spalle Roy – e oggi dov’è la terza giustiziera? Non viene a scuola la tua fidanzata?”
“No, ieri sera le è venuto un forte mal di testa: forse era stanca di sentirmi lamentarmi di voi due.”
“Potresti trovare argomenti migliori quando sei con la tua ragazza.”
“Io inizio a seccarmi davvero! – Vato si irrigidì, iniziando a pensare che sarebbe esploso anche prima di arrivare a scuola – E non provare a dire cose sul mio rapporto con Elisa perché io…”
“Oh, ma quello è Heymans!”
I tre videro il rosso uscire dalla via laterale dove stava casa sua: aveva la tracolla e questo voleva dire che, dopo più di una settimana, aveva deciso di tornare a scuola.
Riza e Vato sorrisero e corsero verso di lui, mentre Roy fece una leggera smorfia e finse indifferenza, preferendo restare indietro.
“Finalmente torni a scuola – esclamò Riza, abbracciando il rosso con gioia – sono così felice, ero tanto preoccupata per te e la tua famiglia.”
“Oh, tranquilla biondina – sorrise Heymans, ricambiando con affetto quell’abbraccio – stiamo tutti bene. Sono felice di poterti rivedere, sul serio. Ehi, Vato, come stai? Ti devo ancora ringraziare: l’ultima volta che ci siamo visti non ero messo molto bene e non ero in grado di dirti quanto sia grato a te e tuo padre.”
“Ma finiscila – Vato gli strinse con calore la mano, arrivando anche ad abbracciarlo – sono davvero felice che tu torni a scuola. Vuol dire che le cose vanno meglio a casa, vero?”
“Sì, decisamente.”
“Ne sono felice…” commentò Roy con una punta di sarcasmo raggiungendoli.
A quelle parole Heymans si irrigidì leggermente, ricordandosi di tutto quello che si erano detti quella fatidica mattina: non era stupido, anche se Jean non gli diceva quasi nulla sapeva benissimo che la situazione era ai ferri corti.
Per quanto gli riguardava era anche disposto a passare sopra quelle parole dette all’apice della furia, del resto gli aveva risposto a tono. In fondo conosceva Roy abbastanza bene per sapere che non pensava davvero quelle cose di sua madre, per quanto fossero state frasi davvero pessime. Ma non aveva nessuna intenzione di lasciare Henry in balia della sua furia, se ancora ne aveva: stava riprendendo a dire qualche parola, mangiava di più ed i periodi di coscienza diventavano più frequenti. Quella mattina era riuscito persino a sorridere di nuovo tanto che si era convinto di poter tornare a scuola.
Non avrebbe permesso a Roy di distruggere questo faticoso percorso che aveva fatto: Henry poteva essere stato un piccolo teppista, ma la maggior parte dei suoi atteggiamenti erano condizionati dalla strana forma di pressione che Gregor esercitava su di lui. Già da mesi aveva smesso di essere turbolento e l’episodio con Kain non era da annoverare tra le cattiverie gratuite… persino Andrew Fury e la sua famiglia avevano capito la situazione.
“Ti ringrazio.” rispose in tono piatto.
Ripresero a camminare verso scuola con Riza e Vato che si posero strategicamente in mezzo e continuarono a parlare con Heymans, raccontandogli delle ultime novità che erano successe mentre lui era via. Roy rimase in silenzio per tutto quel tempo, ignorando quella strana forma di felicità che provava nel rivedere Heymans parlare con tranquillità.
 
A scuola era ovvio che si parlasse del suo ritorno: quello che era accaduto sarebbe stato per molto tempo l’argomento principale dei pettegolezzi del paese ed ora Heymans era visto come una strana creatura da cui si doveva stare lontani o rivolgere a malapena la parola. Era il figlio di una donna separata e dunque non certo una persona perbene.
Ma questa cosa non lo turbò minimamente: fu ricoperto di così tante attenzioni dai suoi amici che non ebbe nemmeno il tempo di vedere quelle facce tra l’ostile e l’imbarazzato. A lui non importava: c’erano gli abbracci e le moine di Janet che, durante l’intervallo, rimase appellicciata a lui, le battute di Jean, le parole di Vato e Riza e anche Rebecca era felicissima di rivederlo, in barba a quanto le poteva aver detto sua madre a proposito di evitare contatti con lui.
Solo Roy se ne stava in disparte, non riuscendo a partecipare a quella felicità, nonostante fosse innegabile che lui stesso era contento. Non ci fosse stata la questione di Henry non ci avrebbe messo due secondi a mettere una pietra sopra quelle brutte parole che si erano scambiati.
Ma c’è e non riesco a perdonare.
“E’ tornato e tu devi lasciarlo in pace, mi sono spiegato?”
La voce sibilante di Jean lo fece riscuotere dai suoi pensieri e se lo ritrovò a nemmeno un metro da lui, gli occhi azzurri carichi di astio nei suoi confronti.
“Non ha bisogno della balia, stupido.”
“Non provocarmi, Mustang, in questi ultimi giorni mi sono accorto di avere molta rabbia da sfogare.”
“Quando vuoi, Jean Havoc – rispose lui nel medesimo tono – anche io ne ho da vendere.”
“Già mi tocca ad aver a che fare con quelle brutte streghe pettegole che non sanno farsi gli affaracci loro, mi ci manchi solo tu con la minaccia per quel povero fesso di Henry!”
“Ah, lo ammetti che è un fesso!”
“Non è pericoloso, capito? Non più. Ha chiesto anche scusa al padre di Kain, geniaccio. Mettiti l’anima in pace: sei l’unico ad avercela ancora con lui.”
A quelle parole Roy si infuriò e maledisse Andrew Fury: se aveva accettato le scuse di quel pivello, lo metteva totalmente fuori dalla sua portata. Vendicarsi avrebbe voluto dire indisporre anche lui ed era l’ultima cosa che il ragazzo voleva.
“Benissimo!” disse, mettendosi a braccia conserte.
“Benissimo!” lo imitò Jean con aria torva, mentre l’aria tra di loro si riempiva di carica elettrica.
“Jean, tesoro – esclamò Rebecca, arrivando di corsa e prendendogli il braccio – vieni: dobbiamo mangiare la torta che ho preparato. Dobbiamo festeggiare il ritorno del tuo miglior amico a scuola e non devi mancare.”
“Sì, arrivo…” borbottò lui, arrossendo leggermente per quel gesto di confidenza così plateale.
“Vai pure a mangiare la tortina, Jean – sorrise Mustang con sarcasmo – l'ha fatta con le sue manine.”
“A te ti ammazzo, stai tranquillo.” sibilò il biondo mentre si allontanava.
La classica goccia che fa traboccare il vaso stava arrivando con estrema velocità.
 
“La maestra ha detto che per domani dobbiamo fare un pensierino su cosa è l’amicizia.”
“Sono sicuro che il tuo sarà il migliore di tutta la classe, Janet.” sorrise Heymans arruffandole la testolina bionda.
“Ci dovrò pensare tanto – ammise la bambina – oh, ma come? Non vieni con noi fino al bivio?”
“Non posso, devo tornare a casa presto oggi. Temo che per un po’ di giorni dovrete fare a meno di me sia all’andata che al ritorno, ma ci vediamo a scuola.”
Janet si incupì lievemente a quella scoperta, ma poi il buonumore per il ritorno del suo fidanzatino prese il sopravvento e sorrise. Si strinse un ultima volta a lui e si fece prendere in braccio, approfittando per dargli un bacio sulla guancia.
“Allora a domani.” salutò mettendola a terra e facendo un cenno a Jean.
“A domani.” risposero in coro i due fratelli.
Guardandoli allontanarsi Heymans sospirò di sollievo: era bello poter di nuovo godere della loro compagnia dopo tutto questo tempo; non ci si rende conto di quanto siano importanti determinate persone fino a quando non si è costretti a separasi da loro.
Mettendosi le mani in tasca si avviò verso il paese.
Nel percorso era normale incontrare altri ragazzi della scuola, ma tutti fecero finta di niente e ben presto si ritrovò isolato: non ci avrebbe fatto caso in condizioni normali, ma sapendo cosa stava accadendo alla sua famiglia si rese conto del vuoto che si era creato attorno alla sua persona. Persino i suoi compagni di classe che in genere gli rivolgevano sempre un saluto questa volta fecero finta di niente.
“Ehi, Breda!”
Una voce familiare gli fece capire che non tutti preferivano mostrare indifferenza.
E’ chiaro: quando vedi il nemico in difficoltà ne approfitti.
“Che c’è, Denny? – chiese fermandosi e girandosi a guardare il suo vecchio avversario e non fu sorpreso nel vedere che c’erano anche altri volti noti del periodo d’oro in cui lui e Jean avevano uno scontro più o meno una volta alla settimana – Ma guarda, non vi vedevo tutti insieme da tempo.”
“Come sta mammina?”
“Non ti riguarda.”
“I miei genitori ne hanno dette un sacco su di lei – sogghignò facendosi avanti con tutti gli altri – e se è vera solo la decima parte allora non capisco perché non sia al locale delle prostitute.”
Heymans era pronto a scattare, ma si concesse un sorriso sarcastico.
Aspetti la mia reazione quando sono uno contro dieci? Mi credi davvero così idiota?
Doveva gestirla: non c’era Jean ed era chiaro che quegli scemi stavano giocando su quel momento difficile per la sua famiglia per prendersi delle rivincite a distanza di più di un anno. Si fosse trattato solo di tre o quattro non si sarebbe tirato indietro, ma erano oggettivamente troppi anche per lui.
“Il locale dove dovrai andare perché non troverai mai uno straccio di ragazza?”
“Dove andava sempre anche tuo padre.”
“Sì, ci andava, ma ora non più: è stato bandito dal paese – scrollò le spalle con noncuranza – e allora?”
C’era un perverso gusto nel lasciarli a bocca asciutta, non rispondendo a quelle provocazioni. Ma sapeva bene che presto sarebbero passati all’attacco e la sua mente iniziò a individuare gli elementi deboli da mettere fuori combattimento subito.
“E il tuo fratellino quando torna a scuola? – continuò un altro – E’ vero che non parla più? Sono curioso di vedere se a furia di calci gli ritorna la parola.”
“Tocca mio fratello e ti arriverà un solo calcio, ma dritto nelle palle, coglione. E’ un avviso e tu sai bene che quando metto sull’avviso qualcuno mantengo sempre quanto dico.”
“Perché non ci provi adesso?”
“No, mi annoiate. Tornatevene a casa, da bravi: i vostri genitori vi aspettano per raccontarvi altri pettegolezzi sulla mia famiglia. Si vede che non hanno di meglio da fare.”
Girò loro le spalle e riprese a camminare, pronto a dare un colpo di tracolla al primo che gli avesse messo le mani addosso: avrebbero provato l’ebbrezza dei libri di storia, letteratura e matematica con rispettivi quaderni sulle loro teste vuote.
Ma i suoi occhi grigi si strinsero leggermente ed un sorriso sghembo gli apparve sul riso.
“Ciao Heymans, che si dice?”
“Niente Roy, due chiacchiere con vecchie conoscenze.”
“Qualcosa di interessante? Vi ho visti parlare e sono tornato indietro apposta… se sono così tanti deve essere qualche argomento divertente.”
Innegabilmente era una grande soddisfazione vedere le facce sgomente di tutti loro: Roy Mustang che scendeva in campo non era cosa da tutti i giorni, figuriamoci poi vederlo insieme ad un altro indipendente. Dieci contro due: avevano ancora la superiorità numerica, ma la sorpresa di trovarsi davanti quell’altro avversario era stata troppa e così il gruppetto si disperse con mormorii e borbottii.
“Mi ero dimenticato di quanto fossero noiosi: tornare a casa senza prima andare al bivio comporta anche questi strani incontri. Grazie per l’intervento: ci sarebbe stato uno scontro e ne sarei uscito male, ma avrei avuto la soddisfazione di mettere fuori combattimento un paio di loro.”
“Sei molto realista.” commentò Roy, mentre si riavviavano verso il paese.
“Sopravalutare se stessi è dannoso quanto sottovalutare gli avversari: si impara con l’esperienza.”
“Hai sottovalutato tuo padre o sopravalutato te stesso?” Roy lo chiese con sincera curiosità, senza però girarsi a guardarlo, gli occhi neri fissi sul sentiero.
Heymans non la prese come provocazione, ma si concesse di pensarci sopra.
“Entrambe le cose, forse – ammise alla fine, sistemandosi meglio la tracolla – ma era una situazione in cui dovevo fare qualcosa a prescindere. Sono stato fortunato, inutile negarlo: i grandi mi hanno salvato il culo.”
“Mi dispiace per quello che è successo a tua madre, sul serio.”
“Lo so, il problema non è mia madre, ma mio fratello, vero? Sai bene come la penso, Roy ed intendo restare fedele a quanto ho detto: toccalo e te la vedi con me.”
Roy questa volta si fermò in strada e si girò a guardarlo con il volto contratto in una smorfia di disappunto.
Heymans resse quello sguardo senza alcuna esitazione fino a quando l’altro non parlò.
“Sei andato a trovare Kain?”
“Conto di farlo in questi giorni, l’ho promesso anche a suo padre.”
“Lui l’ha… perdonato, vero?”
“Sì, l’ha fatto. Ma il rapporto tra la mia famiglia e la sua è molto particolare: è il miglior amico di mia madre sin dall’infanzia, praticamente un secondo fratello… diciamo che ha vissuto da vicino tutti gli eventi della mia storia. Adesso puoi iniziare a capire la situazione?”
“Mi fa rabbia solo che Kain sia in quelle condizioni, mentre tuo fratello resterà impunito.”
“Roy – sospirò il rosso – Henry sta già pagando un prezzo molto alto. La violenza all’interno della propria famiglia è una cosa davvero difficile da mandare giù e su di lui mio padre è stato davvero spietato perché gli ha voltato le spalle dall’oggi al domani senza che lui ne capisse il motivo.”
“Ma Kain…”
“Kain guarirà, ne sono certo. E’ più forte di quanto tu creda, fidati di me che conosco molto meglio la sua storia. Lui non ha bisogno della tua vendetta, non gli cambia di certo la situazione.”
“Merda! – sibilò Roy – Non hai idea di quanto abbia voglia di prendere a pugni qualcuno.”
“Tu e Jean ci state arrivando a questa rissa, eh? Non mi ha detto niente ma si capisce che siete ai ferri corti per causa mia, ma conto che risolverete.”
“Se vuole parlarmi io sono qui, ma dovrà essere molto convincente.”
“Mh – sogghignò il rosso – temo che lui la pensi allo stesso modo. E anche se ora faccio pace con te lui non seppellirà l’ascia di guerra.”
“Vuoi davvero fare pace? – chiese Roy con sospetto – Il tuo grande amico lo vedrà come tradimento.”
“No. L’amicizia è rendersi conto che le situazioni brutte si possono superare con un po’ di buona volontà e uno che prenda l’iniziativa. Riza e Vato ci stanno morendo pur di farvi riappacificare e mi pare giusto fare la mia parte: nessun rancore Roy?” e tese la mano.
“Lo fai solo per Riza e Vato?”
“No, lo faccio perché, nonostante tutto quello che ci siamo urlati contro, ti considero mio amico. Ti va bene messa in questo modo?”
“Sì, direi di sì.” annuì Roy con un sorriso, stringendo senza più esitare la mano che gli veniva offerta.
“Per quanto riguarda Jean, sono sicuro che troverete un modo per sfogare la vostra rabbia.”
“Non ti offendere se lo riempirò di pugni.”
“Non mi offenderò nemmeno se lo farà lui con te.”
E Roy non poté fare a meno di sorridere.
 
“La famiglia Havoc al completo che scende in paese, quale onore!” scherzò James quel pomeriggio mentre guidava il carro per il sentiero che conduceva verso il centro abitato.
“Andiamo fratellone, aiutami! – supplicò Janet – Non trovo un pensierino sull’amicizia, mi paiono tutti stupidi e sicuramente i miei compagni ne faranno di molto belli.”
“Ma che cosa ne so! – protestò Jean, leggermente contrariato di aver dovuto cedere il suo posto in cassetta alla madre, per stare dentro al carro con la sorellina – Non stressarmi con i tuoi compiti e… ma quella è la mamma di Kain! Ehi, signora Fury, come sta?”
“Buon pomeriggio a tutti – salutò Ellie, facendosi da parte nel sentiero – come state?”
“Ciao signora mamma di Kain! – salutò Janet con entusiasmo – Stai andando in paese?”
“Sì, tesoro – sorrise la donna, mentre James fermava il carro – Devo fare alcune commissioni e ne approfitto per godermi un paio di ore d’aria.”
“Allora che ne dice di farsi il resto del viaggio con noi? – propose subito Jean – Venga, dai! La aiuto a salire.”
“Ma sì, Ellie – annuì Angela – Sali che così chiacchieriamo un po’. E’ da tanto che non ci vediamo.”
E così, davanti a quelle insistenze, la giovane donna si trovò seduta nel carro con Janet che subito si accoccolò al suo grembo. Era la prima volta che si concedeva un’uscita da quando Kain stava male: si era sempre rifiutata di lasciare il capezzale del bambino e le commissioni le aveva sempre sbrigate Andrew o anche Riza. Quel pomeriggio, proprio su insistenza del marito, aveva deciso di concedersi per la prima volta un po’ di tempo per se stessa: si era fatta un bel bagno rigenerante, messa un abito fresco e si era incamminata godendosi il piacevole tepore del pomeriggio di maggio. E adesso, l’incontro con la rumorosa e divertente famiglia Havoc le faceva completare quel tragitto in gran bellezza.
“Pensavo di andare a trovare Laura come finisco le commissioni.” ammise mentre chiacchierava con Angela.
“Ci pensavo pure io: purtroppo non è che possa scendere spesso in paese e mi devo fidare di quello che mi dice questo furfante di figlio.”
“Che hai ora contro di me?” protestò Jean.
“Niente, lascia stare… e vedi di non fare danni quando siamo in paese.”
“Ma io dico, che è questa sfiducia nei miei confronti?” borbottò lui con aria estremamente offesa, suscitando le risate degli altri.
 
Proprio in quel momento Laura accarezzava i capelli di Henry.
“Allora, la mamma adesso esce per una ventina di minuti: deve andare a comprare alcune cose che si è dimenticata. Heymans non c’è, ma torna presto: te la senti di restare da solo?”
Il ragazzino, seduto nel pavimento di camera di Heymans con diverse biglie davanti a lui la fissò con aria smarrita. Era chiaro che l’idea di restare per la prima volta solo lo innervosiva e dovette fare uno sforzo per annuire debolmente: le sue dita corsero alle palline di vetro, iniziando a disporle in fila.
“Sarò di ritorno prima di quanto tu creda, Henry. Stai tranquillo.” sorrise la donna.
Come uscì di casa trasse un profondo respiro e si fece coraggio: non aveva dubbi che avrebbe incontrato persone che avrebbero fatto dei commenti su di lei, ma non poteva stare chiusa in casa. Era come dargliela vinta e lei non voleva: ora che si era affrancata da Gregor, recuperando una libertà di cui non godeva da ormai quindici anni, non aveva nessuna intenzione di rinunciare alla sua vita.
Certo, avrebbe voluto avere la forza di suo fratello per poter reagire meglio alle provocazioni, ma…
“Signora Breda!” una voce la chiamò e lei si girò preoccupata, pensando che i suoi tormentatori iniziassero la loro opera da subito. Ma poi vide che si trattava della moglie del capitano Falman.
“Signora Falman – sorrise timidamente, ricordandosi di quanto fosse stata gentile con lei, prendendosi cura anche di Henry nei primi tragici momenti dopo l’arresto di Gregor – buon pomeriggio.”
“Non l’avevo più vista e mi chiedevo come andassero le cose: Vato oggi mi ha detto che suo figlio Heymans è tornato a scuola.”
“Sì, è un nuovo passo verso la normalità.”
“E il piccolino? Povero caro, era così sotto shock quel giorno.”
“Piano piano si sta riprendendo anche lui – annuì Laura, felice di poter parlare con una persona amica – e suo marito come sta?”
Fu incredibilmente spontaneo come si presero a braccetto ed iniziarono a chiacchierare, mentre si dirigevano verso i negozi. Rosie non aveva molte amiche strette, probabilmente dipendeva dal fatto che lei e Vincent non erano originari del paese, ma si erano trasferiti per il lavoro di lui; Laura le era piaciuta da subito, nonostante l’avesse conosciuta in circostanze non proprio felici. E poi suo figlio era buon amico di Vato e lo trovava davvero simpatico ed educato.
Negli ultimi giorni le era spesso capitato di sentire frasi sgradevoli su Laura e c’era rimasta molto male: più di una volta era stata tentata di ribattere, ma un po’ per timidezza e un po’ per paura di mettersi contro tutte quelle persone, aveva fatto finta di niente. Tuttavia, quando aveva visto Laura non aveva potuto fare a meno di andarle incontro.
“Perché dopo non viene a casa mia a prendere un the?” propose Laura, mentre entravano nel negozio.
“Volentieri, è da un po’ che…”
“Ehi, tu, poco di buono, non dovresti mettere piede in questo posto!”
Queste parole interruppero la serena conversazione e videro che a parlare era stata la proprietaria del negozio, circondata da un discreto numero di donne dagli sguardi ostili.
“Scusi?” fece Rosie.
“Signora Falman, lei non dovrebbe accompagnarsi ad una simile persona: ha un decoro da mantenere in quanto moglie del capitano di polizia.”
La mano di Laura che stringeva il braccio di Rosie si allentò, come se la rossa volesse allontanarsi per evitare di contaminarla con la sua difficile situazione. Ma se Rosie aveva esitato prima, a questo punto prese coraggio e consolidò la stretta sull’amica.
“Con chi mi accompagno è affar mio e lei è una persona perbene.”
“E’ una donna separata, non capisce? Quale vergogna…”
“Signora Falman – mormorò Laura – non deve…”
“Vergogna è vedere delle donne che invece di essere solidali…” continuò Rosie con voce pacata ma decisa.
“Non si può essere solidali con una sgualdrina! Perché è quello che è… poco di buono, sei un oltraggio per noi donne perbene.”
“Patricia Mott, tappati quella bocca perché hai più scheletri negli armadi tu di tutti gli altri!”
Laura e Rosie si girarono interdette e videro Angela sulla soglia del negozio con Ellie dietro che aveva l’aria notevolmente imbarazzata. Mani sui fianchi, sguardo irritato, la signora Havoc squadrò con attenzione tutte le sue avversarie prima di fare dieci passi, superando Rosie e Laura, e andare davanti a loro.
Ellie, silenziosa, si accostò a Laura e la prese per il braccio libero.
“Tutto bene?” le chiese.
“Sì, però…”
“Angela Astor, come ti permetti?”
“Per te sono Angela Havoc, Patricia! E se ti pesco a dare ancora fastidio alla signora Laura ti assicuro che me la paghi cara: lei è mia amica, hai capito bene?”
“Adesso capisco da chi ha preso quel maleducato di tuo figlio…”
“Non osare parlare di mio figlio, disgraziata! Mi ha raccontato della tua grande abilità nel muovere la tua linguaccia acida! Proprio come a scuola: se non seminavi zizzania non eri contenta.”
“Come osi!”
“Hai fregato il ragazzo ad Allison, credi che non me lo ricordi? E ci hai anche provato anche con James quando era già il mio fidanzato, credi che non lo sappia? Crescendo sei diventata ancora peggio… e queste oche starnazzanti attorno a te sono la tua degna congrega!”
 
Proprio fuori dal locale stava c’era James con Janet in braccio che sentiva tutto e si faceva grosse risate.
In quel momento passò anche Vincent, attratto da tutto quel rumore e pronto ad intervenire per riportare l’ordine in caso di necessità.
“Che succede?” chiese con aria preoccupata.
“Niente, mia moglie si sta semplicemente facendo valere. Che spettacolo di donna, adoro quando fa così!”
“Ma c’è anche mia moglie là dentro!”
“Si calmi e si goda la scena, capitano – lo bloccò James – che ne vale la pena.”
“La mamma ora gliene canta quattro.” annuì Janet con convinzione.
 
“Brutta villana!” disse Patricia.
“Sta zitta, strega da quattro soldi! Te la prendi tanto con lei, ma lo sappiamo tutte che tu, che tanto ti professi casta e pura, quando avevi sedici anni te la sei fatta con il fratello di Tom Derson!”
A quell’affermazione ci fu un mormorio di stupore, mentre l’interessata arrossiva.
“Non è vero!”
“Ma se te ne sei vantata per settimane! Che poi cosa ci abbia trovato in te è un mistero considerato che già da allora eri acida e velenosa come una serpe!”
“Almeno ho avuto il buonsenso di non restare incinta.”
“Già e meno male! Povero bambino chissà come ne sarebbe venuto fuori con una madre come te!”
“Chissà come cresceranno i tuoi figli allora: Jean è già un maleducato e l’altra…”
“Dì qualcosa sui miei ragazzi e non risponderò più delle mie azioni. Le donne come te mi fanno rivoltare lo stomaco: un sabba di streghe, Jean vi ha proprio definito bene. E se lui e Janet prendono da me, ne sarò felicissima: saranno sempre in grado di riconoscere le persone idiote e retrograde come voi!”
“Che donna impudente, non capisco proprio come tuo marito ti possa sopportare.”
“Io ho due figli e tu nemmeno uno… rivoltiamo la questione: forse è tuo marito a non sopportarti e a voler star lontano dal te perché ha paura di morire avvelenato. Comunque, care le mie pollastre, se avete qualcosa da dire alla signora Laura, venite a parlarne quando ci sono pure io e vediamo.”
“Signora Fury, dica qualcosa… lei è così perbene.”
“Da donna perbene non posso che confermare ogni parola detta dalla signora Havoc.” sorrise candidamente Ellie, posando con disinvoltura la testa sulla spalla di Laura in un gesto d’affetto.
“Mi accodo a quanto detto dalla signora Fury.” annuì Rosie.
“La merce di questo posto è avariata, ragazze – si girò Angela – andiamo da un’altra parte.”
E così le quattro donne uscirono vittoriose dal negozio, accolte da un sogghignante James ed uno perplesso Vincent.
“Rosie…”
“Lascia stare, caro – alzò le spalle lei, accarezzandogli il braccio – questioni tra donne.”
“Ah, gallinella mia – James sollevò tra le braccia Angela e le diede un bacio entusiasta – adoro quando arruffi le piume in questo modo.”
“Ahah! Era da tanto che non mi divertivo così –ammise la donna – stupide pettegole, pensavano di essersi liberate di me, ma si sbagliavano. Adesso bisogna proprio andare a festeggiare signore, che ne dite?”
“Proponevo un the a casa mia.” disse Laura con un gran sorriso, circondata dalle sue amiche.
“E sia! Ci vediamo dopo, signori. Vieni, Janet, anche tu devi festeggiare con noi!”
 
Proprio mentre Angela si scontrava con le altre donne, mostrando tutto il suo caratterino, Jean e Roy si squadravano con astio con Heymans e Vato in mezzo a loro: si erano incontrati per caso e sembrava che ormai non ci fosse niente che potesse rimandare lo scontro.
“Non azzardarti ad aprire quel libro sulla diplomazia o ti ammazzo.” avviso Jean.
“E chi lo apre… tanto non mi dareste mai ascolto.” ammise Vato con stizza.
“Non sono arrabbiato perché avete fatto pace – continuò, rivolgendosi a Roy – sono furioso perché sei una persona ostinata e testarda… ho tanta rabbia dentro di me che non puoi immaginare!”
“Perché io no? – esclamò Roy, affrontandolo – Non hai idea di quella che ho io dentro di me: ti ho sopportato per tutti questi giorni in cui hai fatto l’offeso, ma sono proprio al limite. Se non mi sfogo giuro che esploderò!”
“Heymans Breda! Eccoti qua!”
“Ancora loro? – sbuffò Heymans, girandosi e guardando i suoi avversari – Oh, addirittura in dodici. Che succede? Avete ancora problemi con la mia famiglia?”
“Stamattina hai avuto fortuna, ma non credere che… uh…”
Jean e Roy si erano appena voltati verso di loro con gli sguardi furenti.
“Io sono veramente incazzato…” mormorò Jean.
“Se non picchio qualcuno…” continuò Roy.
“Sapete, ragazzi – ammise Heymans, mentre i due si affiancavano a lui – ora che ci penso mi sento molto arrabbiato pure io e ho bisogno di sfogarmi: perché non testiamo la forza di tre indipendenti contro un branco di idioti?”
“Ragazzi… - iniziò Vato con preoccupazione – non credo che…”
“Al diavolo la diplomazia!” gridò Jean buttandosi a capofitto verso i suoi avversari.
Quale modo migliore di sfogare finalmente tutta questa rabbia repressa?
 
Circa venti minuti dopo Heymans aprì la porta di casa per far entrare i suoi amici di soppiatto.
“Bene, sembra che mamma non sia ancora tornata e…” la sua frase fu interrotta da delle risate che provenivano dalla cucina, risate chiaramente femminili.
“Merda – sibilò Jean – questa è la risata di mia madre: andiamo via prima che…”
Ma quasi a farlo apposta la porta della cucina si aprì ed uscì Laura.
“Heymans! Quell’occhio nero… oddio ragazzi, ma che…”
Tutte le altre donne uscirono e rimasero interdette nel vedere i ragazzi pieni di sporco e lividi.
“Vato! – Rosie si precipitò accanto al figlio  – Ma che cosa hai fatto?”
“Ho… ho partecipato ad una rissa – ammise lui sconvolto – e credo… credo di avere un forte mal di testa.”
“Ma quello a cui hai dato il tuo libro in testa ne ha molto di più, fidati – disse Jean, battendogli una pacca sulla spalla – Ah, ragazzi, mi sento molto meglio: tutta questa rabbia da sfogare proprio mi stava dando fastidio.”
“A chi lo dici – annuì Roy – meno male che quegli scemi si sono offerti volontari.”
“Roy, fatti vedere – Ellie si fece avanti – pazzo furioso, guarda che lividi. Laura, hai ghiaccio?”
“Tutti in cucina – sospirò la donna – andiamo a fare la conta dei danni, le spiegazioni a dopo.”
“L’amicizia è… venire coinvolto in una rissa…” sospirò Vato.
“Buona definizione, amico – disse Heymans – dovresti dirlo all’autore di quel libro. Guarda come hanno risolto i loro problemi Roy e Jean.”
“Mi piace questa idea: penso che lo scriverò come pensierino.” disse Janet, seguendo quella strana truppa.

 
 

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Capitolo 47
*** Capitolo 46. Linee d'amore. ***


Capitolo 46. Linee d’amore.


 
Era appena passata l’alba quando Angela entrò silenziosamente nella camera di Jean e si accostò al letto: sfiorò con dolcezza i capelli biondi ed arruffati e annuì nel sentire il respiro regolare del figlio, segno che il suo sonno non era stato disturbato dal dolore provocato dai lividi.
Era una sciocca a preoccuparsi, lo sapeva bene: Jean aveva la stessa robustezza del padre e sin da quando era piccolissimo era sempre stato un ricettacolo per lividi, sbucciature, tagli e quanto altro. Ma ogni volta tornava sempre da lei sporco, pesto e sorridente come a tranquillizzarla che anche questa volta non era successo niente di grave.
Ma, nonostante tutto, essere madre voleva dire anche sincerarsi sempre e comunque delle condizioni di un simile scalmanato e dunque ogni volta che era ferito o malato, non passava mattina in cui andava a controllare che dormisse sereno.
Jean si girò supino proprio in quel momento, aprendo le braccia in quella che Angela definiva posa ad aquilotto con la quale, da piccolo, monopolizzava il letto matrimoniale.
“Aquilotto mio – mormorò baciandolo in fronte – quanto sono pazza di te.”
Irruento, irascibile, scalmanato eppure sempre con il sorriso pronto e disposto ad aiutare gli altri: suo figlio era un concentrato di lei e James davvero incredibile. Mentre Janet era molto somigliante a lei, limitandosi ad avere i capelli e gli occhi del padre, Jean invece aveva mischiato i caratteri di entrambi: forse era per questo che Angela lo considerava davvero speciale.
Con un’ultima carezza alla chioma bionda, uscì dalla stanza ed andò a controllare che anche Janet dormisse pacificamente. E come non poteva? Eccetto le notti con i temporali, la bambina aveva il sonno facile e pesante: stava appallottolata su se stessa, con un pupazzo abbracciato ed i capelli biondi sparsi sul cuscino e sulle spalle. Come la madre le scostò una ciocca che era scivolata sulla guancia, mormorò qualcosa nel sonno e si leccò le labbra.
“Dormi, cucciola,– sussurrò, rimboccandole la coperta – è ancora presto.”
Finita quell’ispezione tornò nella camera matrimoniale, illuminata dalla discreta luce mattutina, lieta di potersi concedere ancora una mezz’ora di riposo prima di iniziare la giornata: la domenica ci si poteva concedere qualche momento di riposo in più.
“Il galletto sta bene?” chiese James ancora sdraiato, strizzandole l’occhio.
“E chi sta meglio di lui? – sorrise, sedendosi sul bordo del letto –  Dorme come un ghiro, occupando tutto lo spazio a disposizione. Anche l’altra pollastra è ancora nel mondo dei sogni e ha tutta l’intenzione di restarci. Ieri si sono scatenati entrambi, sebbene in modo diverso e… James!”
L’uomo interruppe il suo discorso afferrandola per la vita e trascinandola nel centro del materasso.
“Ciao, gallinella dalle piume arruffate – sorrise andando sopra di lei ed imprigionandola – ti ho mai detto che ti trovo estremamente eccitante quando metti in scena spettacoli come quello di ieri?”
“Stupido! – rise lei – Come se mi ci volesse chissà che cosa per mettere in riga quelle pettegole, eppure mi conosci bene James Havoc: ho messo in riga anche te.”
“Come quando mi hai dato un ceffone al nostro primo appuntamento?” scherzò lui, ma nel frattempo la sua mano iniziò a scendere sul seno della moglie.
“Più o meno – Angela rise ancora più forte a quel ricordo – … ma che fai?”
“Oh lo sai bene cosa faccio: del resto se ho resistito alle doti di seduttrice di Patricia Mott…”
“Ah, la mettiamo così?”
“Eh, proprio una vergogna quella donna che a sedici anni se l’è fatta con il fratello di Tom Derson, ma come si fa? Proprio non capisco come sia possibile...”
“Va bene, forse lì sono stata un po’ ipocrita, – ammise lei, senza però nessun rimpianto nello sguardo, anzi vi era notevole divertimento – mentre lei vagava come un’ape da un ragazzo all’altro noi a diciassette anni ci rotolavamo tra i sacchi di farina dell’emporio quando tuo padre non c’era. Ma sempre e solo con te, sei il primo e l’unico.”
“Ci mancherebbe altro. E se fossi rimasta incinta ti avrei sposato su due piedi, gallinella.”
“Era proprio destino: del resto tra galletto e gallinella ci si intende no?”
Le sue gambe, ben tornite come quando era ragazza, si mossero con abilità e si strinsero attorno alla vita del marito, la camicia da notte che si sollevava in maniera provocante fino ai fianchi.
“Siamo vogliose, Angela Astor, eh?” la voce di James sul suo orecchio la fece impazzire.
“Ti ricordo che Jean e Janet sono arrivati entrambi in seguito a divertimenti mattutini come questo… l’alba deve avere qualche effetto particolare su di noi” ma lo disse in un tono che incitava a continuare.
Del resto se arrivava un terzo pargolo non c’era alcun problema.
Più Havoc c’erano al mondo meglio era, ormai ne era convinta.
 
Rosie aprì gli occhi, infastidita da una ciocca di capelli che le pizzicava il naso.
Con un lieve soffio la allontanò, ma ormai il danno era fatto ed era sveglia: purtroppo per lei era una di quelle persone che difficilmente riescono a riaddormentarsi, tanto valeva alzarsi e iniziare a preparare la colazione.
Però è ancora troppo presto…
Si rotolò dall’altra parte e vide Vincent che ancora dormiva, supino come al solito, con un braccio sopra la testa. Con gentilezza allungò una mano e gli accarezzò la guancia, salendo fino ai capelli neri.
“Ehilà, capitano Falman?” chiamò con un sorriso divertito.
“Mh?” mugugnò lui, per niente abituato a simili sveglie.
“Buongiorno, tesoro mio – si accoccolò a lui, baciandolo sul collo e affondando il viso sulla sua spalla – sai che ti amo?”
“Eh? – Vincent aprì gli occhi – Che cosa ti succede?”
“Niente, semplicemente ti amo.”
Non era proprio vero che non stava accadendo niente: effettivamente dopo quanto era successo ieri si sentiva particolarmente… gioiosa? Lei e Vato in questo si assomigliavano tantissimo: si facevano coinvolgere dalla situazione e dalle persone attorno a loro; era uno dei motivi per cui non se l’era sentita di rimproverarlo troppo per quella rissa a cui aveva partecipato.
E poi era felice: finalmente aveva delle vere amiche, cosa che non le era mai successa in tutti quegli anni che viveva in quel paese. Insomma, conosceva molte persone e spesso ci parlava, la sua vita non era certo solitaria; tuttavia mancava quella complicità che invece aveva trovato in Ellie, Laura ed Angela. Adesso si davano anche del tu e si erano ripromesse di rivedersi molto spesso.
E questi avvenimenti avevano il potere di sovreccitarla come una ragazzina di tredici anni.
E, volente o nolente, suo marito veniva coinvolto in questo umore così vivace.
“Rosie… ehi!” il capitano arrossì vistosamente quando lei salì sul suo stomaco e gli si accoccolò sopra.
“Che c’è? Peso così tanto?” ridacchiò baciandolo sul mento.
“Non è questo – disse lui, ormai sveglio, cingendole la schiena con le braccia – ma che hai stamattina? Anzi da ieri sera.”
“Sono semplicemente felice: ieri mi sono divertita tanto, proprio come quando abbiamo partecipato a quella festicciola dagli Havoc.”
“Sai che quando fai così assomigli pericolosamente a tua sorella? Eppure io ti ho subito notata perché eri così diversa dalle altre, piccolo fiore, così timida e delicata… tutta da proteggere.”
“Ti dispiace tanto che sia così… uhm… vivace più del solito? E dai…”
Ed insinuò le mani sotto le coperte per andare a sollevare la parte superiore del pigiama del marito.
“Ehi! Piano… ssssh, ragazzina – la rovesciò di sotto – calmati un pochino e non… non arrossire in quel modo perché altrimenti…”
“Altrimenti?” mormorò lei, con sguardo languido.
“Altrimenti potrei non fermarmi.”
Rosie avrebbe potuto dare una risposta, ma preferì alzare il viso e baciare il marito con foga, passandogli le braccia attorno al collo e attirandolo a sé. Adorava quando Vincent l’amava in quel modo così improvviso e passionale.
“Oh sì, amore – sussurrò, arrossendo molto più vistosamente – amore...”
Sarebbe stato tutto perfetto se non fosse che in quel momento la porta si aprì con discrezione e…
“Mamm… Eh? Oh, ommiodio! Io… io…”
“Vato! – esclamò Rosie, mentre Vincent con un mossa rapida si scostava da lei – Tesoro, che c’è?”
“Io… volevo solo chiederti – annaspò il ragazzo rosso fino alla radice dei capelli – se… se l’impacco per il livido… scusate!” e chiuse con violenza la porta, sconvolto da quella scena incredibilmente imbarazzante.
“Cavolo! – borbottò Vincent, alzandosi in piedi – e che ci fa sveglio a quest’ora? In genere dobbiamo andare noi a chiamarlo.”
“Dev’essere il livido che gli fa male; povero fiocco di neve, lui… lui…” scoppiò a ridere.
“Che ci trovi di spassoso?”
“Sto ripensando al tuo gesto atletico, amore! – Rosie dovette riadagiarsi sui cuscini per quanto rideva – Sei stato troppo divertente, te lo giuro.”
“Sì, oggi decisamente assomigli a quella vipera di tua sorella, sempre pronta a fare battute e a prendermi in giro. Stamattina da piccolo fiore sei diventata piccola viperetta: la compagnia delle tue amiche ti fa uno strano effetto.”
“Oh, non mettere il broncio, capitano Vincent Falman – sorrise lei, alzandosi nel letto e cingendogli le braccia al collo – anche se hai sempre un grande fascino quando fai l’offeso. Ci parli tu o ci parlo io con il nostro traumatizzato figlio?”
“Vado io – sorrise lui, baciandola sul naso – ma il discorso di poco fa è solo rimandato a stanotte, capito?”
“Agli ordini.”
 
Quella mattina iniziata in maniera così particolare per alcuni e in modo più entusiasta per altri era una domenica di metà maggio.
Il mese di maggio in quel piccolo angolo di mondo è particolarmente amato, specialmente dai ragazzi: porta con sé le promesse di un’estate che sta quasi per giungere, il primo vero caldo che fa mettere definitivamente da parte le coperte e i vestiti pesanti. Quello che non si era ancora risvegliato ad aprile sboccia in tutto il suo splendore ed i campi diventano un tripudio di fiori e di insetti che invitano le persone a godersi la vita ed i suoi bellissimi colori primaverili.
Tutto questo era troppo romantico per passare nella mente di Jean mentre finiva di vestirsi e guardava con aria sfastidiata la bella giornata fuori dalla finestra. In occasioni normali non avrebbe esitato a catapultarsi fuori e iniziare una corsa perdifiato per sfogare ogni briciolo d’energia, ma questa domenica aveva un impegno del tutto particolare.
Scese in cucina e salutò sua madre.
“Mamma, io esco: non torno a pranzo, va bene? – disse in tono sbrigativo, cercando di non farsi prendere in trappola – ci vediamo stasera e non ti preoccupare: i lividi non fanno male.”
“Fermo lì, Jean – lo bloccò Angela, puntandogli il coltello con cui stava tagliando il pane contro – cosa devi combinare per tentare la fuga così di soppiatto?”
“Niente, te lo assicuro – scosse il capo lui – e non minacciarmi con quel coltello! Fai paura!”
“Andiamo, confessa signorino – la donna gli si portò davanti – qualche nuova rissa o guaio?”
“Devo… devo uscire con Rebecca. Sei contenta?” sbottò il ragazzo alzando gli occhi al soffitto con aria imbarazzata.
“Che? – Angela sgranò gli occhi castano chiaro e poi sorrise con malizia – Oh, tesoro, allora divertiti tanto con la tua amichetta. Ma ricordati bene…”
“Mamma…”
“Certe cose si fanno più avanti.”
“Mamma! Sei… sei completamente pazza! Sto solo uscendo con lei perché ha insistito tanto e mi sembrava brutto rifiutare – adesso era completamente rosso in viso – E comunque non dovresti dire queste cose: sei mia madre!
“Non penso di doverti spiegare come siete nati tu e Janet, vero?”
“Non voglio sentire altro! A stasera!”
Prese una ricorsa tale che casa sua scomparve in pochissimo tempo.
Solo quando fu a quella che riteneva distanza di sicurezza si fermò a riprendere fiato: sua madre aveva la tremenda facoltà di metterlo in imbarazzo, come se la situazione non fosse abbastanza difficile. Insomma, ci arrivava benissimo a capire che quello a cui stava andando era un appuntamento e questo voleva dire ammettere ufficialmente che tra lui e Rebecca c’era qualcosa.
Sospirando si avviò con passo più tranquillo per il sentiero, sperando che questa faccenda restasse privata, senza che si facessero troppi pettegolezzi in giro. Già bastavano le occhiate delle compagne di classe di Rebecca e Riza, ci mancava solo che questa ufficializzazione diventasse di pubblico dominio.
Per quanto riguardava i suoi amici, se doveva essere sincero, a parte qualche battutina di Roy ed Heymans, sembrava che tutti avessero accettato Rebecca nel gruppo e non proprio in quanto amica di Riza, ma in quanto sua…
… mia ragazza.
Quel pensiero gli fece salire un brivido lungo la schiena e deglutì rumorosamente.
Ammetterlo era il primo, tremendo passo in avanti verso il fidanzamento ufficiale e…
“Buongiorno, Jean!”
La voce di Rebecca lo riscosse da quei pensieri ed alzò lo sguardo, vedendola corrergli incontro.
Va bene… ammettiamolo, non è male. E’ carina.
Sì, lo era proprio con quella maglietta a righe che le stava un po’ larga e la gonna svolazzante. I capelli neri sembravano risplendere sotto il sole e le guance erano piacevolmente arrossate.
“Ciao…” salutò, mantenendo la sua aria sostenuta e cercando di dimenticare quei pensieri poco da lui.
“Pensa che sono arrivata in anticipo: è da un quarto d’ora che aspetto!”
“E perché l’hai fatto?”
“Ero troppo ansiosa! Non potevo stare a casa ad aspettare… oh, Jean, non sei emozionato?”
“Stiamo solo andando a fare un pranzo al sacco.”
“Già… il nostro primo appuntamento – arrossì lei, prendendolo a braccetto – che cosa fantastica.”
“Invece di ciarlare così direi che possiamo anche andare…” fece lui con aria rassegnata.
“Va bene, tesoro, recupero lo zaino ed arrivo: ho preparato un sacco di roba!”
“Non dovevi disturbarti troppo.”
“L’ho fatto con estremo piacere: ho fatto tanti tramezzini, una torta salata, una crostata e molto altro. Sono rimasta tutto la sera a cucinare.”
Jean sospirò, ma in fondo sembrava che un fantomatico primo appuntamento non comportasse niente di particolare: lui a mangiare era parecchio bravo e Rebecca ci sapeva fare ai fornelli. Tutto sommato poteva andare discretamente bene.
In barba a tutte le cavolate che ha detto mia madre.
 
Vato leggeva un libro nel piccolo stagno dove era solito andare l’estate scorsa e dove aveva fatto conoscenza con Kain. Era un posto che aveva la facoltà di farlo sentire calmo e tranquillo e ne aveva decisamente bisogno dopo quello che aveva, non proprio visto, ma intuito quella mattina presto.
Un buon motivo per non partecipare mai più ad una rissa: non avrai lividi che ti duoleranno così tanto da farti svegliare prima del dovuto e scoprire i tuoi genitori in atteggiamenti… poco consoni.
Insomma, sapeva come funzionava quella questione là e sapeva benissimo che i suo genitori lo facevano, come tutte le persone sposate, del resto. I figli si concepivano in questo modo e dunque non c’era niente di strano che sua madre e suo padre…
“E’ stata la cosa più imbarazzante di tutta la mia vita!” esclamò portandosi le mani alla testa e cercando di cacciare via quello che aveva intravisto (che poi non era nemmeno tanto considerato che erano entrambi sotto le coperte e vestiti).
Come se non bastasse suo padre era andato in camera sua per cercare di calmarlo.
“Figliolo non è niente di cui ti debba preoccupare…”
“Giuro che volevo solo chiedere alla mamma l’impacco per il livido! Non volevo disturbare mentre… mentre… oh cavolo!”
“Vato è una cosa che…”
“Non è il caso che dica niente: insomma ho letto tutto sulla riproduzione nel libro di scienze, papà. La teoria dell’atto riproduttivo, con le differenze tra organi maschili e femminili… mi… mi sto sentendo veramente in imbarazzo a pensare queste cose di te e mamma! Ommiodio che ho appena detto!?”
“Non impanicarti!”
Insomma era uscito di casa non appena aveva potuto e sperava di trovare il coraggio di rientrare in condizioni relativamente normali, o per lo meno in grado di guardare i suoi in faccia senza arrossire.
“Ah, ecco dov’eri! – la voce di Elisa lo riscosse – Non c’eri a casa e ti ho cercato ovunque. Meno male che mi sono ricordata del tuo piccolo rifugio.”
“Ciao Eli – salutò, mentre lei gli si sedeva accanto e gli dava un piccolo bacio sulle labbra – scusami sono sparito.”
“E’ una così bella domenica, pensavo che saresti voluto uscire a fare una passeggiata. Però quando non sei venuto a casa ho pensato che era successo qualcosa e… ma che hai? Le conseguenze della rissa di ieri si fanno sentire? Però mi sembra che il livido non sia peggiorato, anzi.”
“Magari fosse il livido: stamane presto ho aperto la porta di camera dei miei. Volevo svegliare la mamma per chiederle l’impacco per il livido e invece erano svegli entrambi.”
“Oh, e allora?”
“Ecco stavano per… tu sai come nascono i bambini, no?”
“Ah, stavano per fare l’amore.”
“Come puoi dirlo con tanta semplicità? – si sconvolse lui – Non sono dettagli dei miei genitori a cui voglio pensare!”
“Beh, lo credo bene. Ma presumo che tu sappia che loro lo fanno… così come i miei e tutti gli altri genitori. E’ stato solo imbarazzante, ma non ne devi fare una tragedia.”
“No?”
“Beh – Elisa si accoccolò alla sua spalla – ti ricordi alla festa a casa degli Havoc? Ci siamo detti che è presto, ma prima o poi anche noi lo faremo, no?”
Lui si irrigidì e arrossì fino alla radice dei capelli, mentre il cuore iniziava a battergli a mille. I suoi ricordi lasciarono la visione dei suoi genitori per andare a quella di Elisa così bella e desiderabile e a quella sensazione di morbido che aveva provato nel toccare il suo seno.
“Certo che lo faremo – ammise, girandosi verso di lei – è che…”
E’ che lei aveva gli occhi socchiusi così come le labbra ed era immensamente bella sotto il sole di maggio.
“Accidenti, Vato Falman – mormorò – quel livido sotto la guancia ti dona parecchio…”
Da lì a baciarsi passò un secondo e poco dopo erano sdraiati su quel piccolo ponte abbracciati l’uno all’altra, il libro ormai dimenticato di lato, con una libellula posata sopra la copertina rigida.
 
“Allora, pulcino, va bene la fasciatura? Vuoi che la stringa di più?”
“No, mamma, va bene così – sorrise Kain, muovendo il braccio destro finalmente libero dal gesso – finalmente! E’ fantastico avere di nuovo entrambe le braccia a disposizione.”
“Sì, ma ricordati che per questi primi giorni non devi esagerare coi movimenti e… Kain!”
“Il primo abbraccio doveva essere per te! – dichiarò il bambino, stringendo le braccia attorno al collo di Ellie, ignorando l’ovvio fastidio nel piegare per la prima volta l’arto dopo tanto tempo – Mamma, ti ho mai detto che sei la più bella del mondo?”
“Ripetimelo di nuovo, avanti – Ellie lo strinse come finalmente voleva, senza correre il rischio di fargli male – dimmi quanto bene mi vuoi, hai cinque secondi per farlo prima che ti riempia di baci.”
“Infinito bene all’ennesima potenza – rise Kain precedendola nel darle un entusiasta bacio sulle labbra – è incalcolabile come gli elettroni che ci sono nel mondo!”
“Tesoro sei bellissimo quando dici queste cose alla tua mamma – Ellie quasi si commosse nel vederlo così vivace e desideroso delle sue attenzioni – Quasi quasi mi dispiace che tu torni nel tuo lettino da stasera: avrei tutta l’intenzione di imprigionarti qui per tanto tempo ancora.”
“Oh, dai, le coccole me le puoi fare sempre – tornando a cingerle il collo con le braccia si buttò indietro nei cuscini – voglio tutte le coccole del mondo stamattina, ti prego.”
“Va bene, è deciso – dichiarò Ellie con serietà – tu sei sequestrato fino a prossimo ordine. E adesso preparati, Kain Fury, sta arrivando lo spiritello del solletico!”
“No quello no!” scoppiò a ridere il bambino.
Andrew sentendo quelle risate dal piano di sotto scosse la testa con indulgenza e pensò che un’ondata di allegria simile voleva significare che suo figlio stava decisamente bene. La liberazione dal gesso, qualche ora prima, l’aveva reso estremamente felice e sembrava che lui ed Ellie si volessero godere quei momenti di armonia. Sua moglie era tornata splendente dopo quelle settimane di dura prova e sembrava pronta ad affrontare il viaggio ad East City, organizzato per la settimana che stava per iniziare, e le visite alla gamba di Kain.
Andrà tutto bene, ne sono certo. Questo momento di felicità è destinato a durare.
E forse era anche il momento di recuperare un qualcosa che avrebbe voluto fare quasi un mese prima.
Ma era meglio aspettare la notte.
 
“Vuoi un’altra fetta di crostata?”
“No, se ne prendo ancora esplodo – dichiarò Jean con soddisfazione, sdraiandosi nell’erba con le braccia dietro la schiena – ma ti giuro che era tutto buonissimo. Sono pieno come un uovo.”
“Sono felice che ti sia piaciuto tutto – batté le mani Rebecca, mettendo via i resti del loro pranzo al sacco – Aspetta, adesso la coperta che abbiamo usato come tovaglia la possiamo usare per sdraiarci, così non ti sporchi la maglietta con l’erba.”
“Va bene.” acconsentì lui alzandosi e aiutandola a scuotere la coperta per liberarla dalle briciole. Poi la stesero sull’erba e si sdraiarono a godere del caldo sole di maggio. Solo dopo qualche minuto di silenzio Jean si accorse che lui e Rebecca erano davvero vicini, anche se non si toccavano: lanciò un’occhiata di sbieco e vide che lei era ad occhi chiusi, un sorriso rilassato sulle labbra e le guance piacevolmente rosate.
“Dormi?” le chiese.
“Quasi – ammise lei – forse abbiamo mangiato troppo.”
“Perché hai scelto me?” le domandò con sincera curiosità. E la vide aprire gli occhi scuri per poi girare il viso verso di lui.
“Perché a parer mio sei il ragazzo più bello di tutte le scuole superiori – dichiarò con quell’entusiasmo privo di timidezza tipico di lei – insomma guardati, sei alto, biondo, con occhi azzurri fantastici: sembri uno di quarta superiore almeno, altro che seconda! E poi hai dei muscoli da paura! E quando hai dei lividi per qualche rissa sei veramente spettacolare… e poi il tuo sorriso è fantastico, anche se con me non lo fai mai o quasi mai…”
“Davvero le ragazze notano tutti questi dettagli assurdi?” Jean sgranò gli occhi, non riuscendo a credere che Rebecca gli avesse fatto un esame così accurato.
“Certamente! – annuì lei – Perché voi maschi no? Io per esempio ho deciso che eri il più bello sin dalla seconda media, quando tu eri in terza… e sono così felice. Sai, sicuramente l’anno prossimo anche altre ragazze inizieranno a ronzarti attorno, ma tu ormai sei solo mio.”
“Ehi, piano con queste idee di possesso!” protestò lui.
“Beh, stiamo uscendo insieme, no? Scusa… ti dispiace così tanto stare con me?”
Lo chiese con un tono di voce tale che Jean fu costretto a deglutire: ecco la trappola.
Se le diceva di sì si offendeva, ma se le diceva di no…
“Non è così male come sembrava all’inizio, va bene come risposta?”
Dai, in fondo mi pare un buon compromesso: insomma, è carina, cucina bene, è persino simpatica quando non fa la scontrosa. Certo, avesse evitato di obbligarmi a quel primo bacio…
“Sì, mi va bene come risposta, per adesso – sorrise lei, prendendogli la mano – Uh guarda, quella nuvola sembra tanto una fetta della crostata che ho fatto!”
“No, più un tramezzino.”
E le loro mani non si lasciarono.
 
“Va bene, puoi… puoi sbottonarmi la camicetta, se ti va… però solo quella.”
Elisa avvampò nel fare quella concessione e anche Vato deglutì rumorosamente. Ma era ormai impossibile restare abbracciati su quel ponticello nascosto dal canneto e coccolarsi senza osare qualcosa in più.
“Posso davvero?” sussurrò, portando le mani al primo bottone.
Quei sette bottoni gli parvero settemila e tutti incredibilmente ostinati, ma forse dipendeva dalle sue dita che tremavano vistosamente mentre procedeva verso il basso. La pelle del ventre di lei era candida, al contrario di quella del viso e delle braccia, leggermente abbronzata dalle prime vere giornate di sole.
E andando sopra c’era…
“Il… il reggiseno no, va bene?”
“C… certo – la mano di Vato accarezzò quella schiena così delicata, sentendo all’improvviso la pelle d’oca di lei. Però non poté fare a meno di salire verso quella stoffa e poi sul davanti – ti… ti dispiace molto se… se…”
“No… puoi.” lei chiuse gli occhi con un sospiro
Ed era qualcosa di estremamente morbido, proprio come se lo ricordava.
“Oh Eli – sussurrò prima di baciarla – non hai idea di quanto ti amo.”
Che avevano fatto i suoi genitori quella mattina? Non se lo ricordava nemmeno.
 
Qualche ora dopo Laura era in camera sua e stava seduta sulla sponda del letto a ricucire lo strappo di una camicia, quando Heymans entrò di corsa con aria estremamente sconvolta.
“Ma come hai potuto?” esclamò tenendo in mano un foglio.
“Cosa? – chiese lei perplessa – Attento che ci sono degli aghi sul letto.”
“Che cosa importa? Mamma, come hai potuto farmi una cosa così imbarazzante?”
“Vuoi spiegarti, tesoro?”
“Guarda! Guarda questa lettera!”
“Ma che cos’è? – chiese Laura posando la camicia e prendendo il foglio in mano – Ah, una delle lettere che avevo mandato ad Henry quando era al fronte. Stavi leggendo la corrispondenza che ci siamo scambiati io, lui ed Andrew… è vero che te l’ha data perché eri così curioso.”
“Quarta riga – scosse il capo lui – mamma, come hai potuto scrivere una cosa del genere a mio zio?!”
“Che cosa avrei scritto di tanto… oh, questo. Ma dai, non mi pare il caso di farne un dramma: avevi un mese circa ed eri…”
Un grosso e grasso pupo spupazzabile?! – Heymans inorridì nel pronunciare a voce alta quelle parole così umilianti, mentre l’immagine di suo zio che leggeva la lettera ad alta voce davanti a tutto l’esercito lo travolgeva – Ma perché?!”
“Perché all’epoca ti consideravo il mio grosso e grasso pupo spupazzabile, tutto qui – sorrise Laura con semplicità – ad un mese pesavi già sei chili, eri raddoppiato. E mi ricordavi tanto un pupazzo che avevo da bambina, ecco perché eri spupazzabile… era un termine inventato da piccola. Tesoro, guarda che è normale dare dei soprannomi quando si è piccoli. Se non ricordo male Ellie ti chiamava leoncino per i tuoi capelli rossi.”
“Quello è più accettabile! Ma io… io non sono…”
“Grosso e grasso?” chiese Laura con aria significativa, allungando una mano per prendergli tra le dita un po’ di pancia.
“E’ preferibile robusto o ben sviluppato!” arrossì lui, alzando gli occhi al soffitto e ignorando quel dettaglio.
“Spupazzabile? Forza, vieni qua, proprio davanti a me.”
Heymans eseguì l’ordine, mettendosi a braccia conserte davanti a Laura, come a chiederle che cosa mai potesse trovare di spupazzabile in lui.
“Mi dispiace deluderti – disse lei dopo qualche secondo in cui lo squadrò con attenzione – ma ti considero ancora altamente spupazzabile. Forza, fatti abbracciare!” e con una rapidità invidiabile lo afferrò stringendoselo al petto.
“Mamma! – protestò lui, davanti a quelle coccole così poco dignitose – Ho quattordici anni, quasi quindici!”
“Ma certo, mio grosso e grasso pupo spupazzabile!” rise lei, baciandolo sulle guance.
“Dimenticati quel nomignolo, ti prego! Ecco, lo senti? Bussano alla porta! Liberami che vado!”
Con un ultimo bacio Laura lo liberò dalla sua presa possessiva e lo lasciò correre al piano di sotto.
Maledizione… che umiliazione! Ma perché… un grosso e grasso pupo spupazzabile! Non è vero!
Come aprì l’uscio, cercando di ritrovare un minimo di dignità e compostezza, si trovò davanti uno sconvolto Jean che, senza nemmeno salutarlo, entrò in casa.
“E’ successa una cosa tremenda!” esclamò prendendolo per il braccio.
“Eh? Ma che dici?” Heymans notò l’espressione stravolta e si chiese cosa potesse esser andato male nell’appuntamento con Rebecca.
“Insomma, non era per niente calcolato che succedesse una cosa simile! – Jean iniziò a camminare avanti ed indietro per il salotto, come un animale in trappola – Eppure non c’era alcun motivo, sembrava che fosse tutto in regola: abbiamo mangiato, chiacchierato… era tutto perfetto.”
“Ma?”
“E’ successo quando l’ho riaccompagnata in paese! – Jean corse davanti a lui e gli afferrò il braccio – Mi sembrava scorretto farla tornare da sola a casa, anche perché le stavo portando lo zaino con tutta la roba. E poi il dramma! Non capisco perché l’ho fatto… io devo stare male, sul serio. Guardami, mi trovi diverso? Non aver paura di dirmi la verità.”
“Mi sembri più matto del solito! – lo scostò Heymans con impazienza – Insomma che è accaduto?”
“Eravamo davanti a casa sua, ci siamo salutati: insomma io dovevo solo girare le spalle e andare via… l’ho baciata!”
“Uh…” Heymans non seppe dire altro.
“Capisci? Non lei che bacia me o mi obbliga… ma io! Io!”
“Beh, vuol dire che ti piace: del resto se uscite insieme un minimo deve piacerti.”
“Sì, ma non pensavo che… insomma non era nelle mie intenzioni di darle un bacio. Sulle labbra, capisci? Non sulle guance o sulla fronte.”
“E lei?”
“Beh… lei… lei è rimasta ferma. Che doveva fare? E sai qual è la cosa peggiore in tutto questo?”
“No, illuminami.”
“Che mi è piaciuto!”
Sì, era proprio una tragedia.
 
E così, quella giornata terminò con quelle nuove e strane scoperte sull’amore e sugli effetti che la primavera faceva alle persone: Vato riuscì a guardare in faccia i suoi genitori, ma le sue guance erano lievemente rosse per un altro motivo; lo stravolgimento di Jean per il suo secondo bacio fece in parte dimenticare ad Heymans le sue imbarazzanti scoperte.
Insomma tutto procedeva secondo le regole della crescita.
“Dorme?” chiese Andrew, quando Ellie rientrò in camera matrimoniale, così strana ora che Kain non c’era più nel letto.
“Come un ghiro – annuì lei – senza quel gesso al braccio va decisamente meglio. Adesso non ci resta che partire per East City e vedere che diranno sulla gamba.”
“Andrà tutto bene, meraviglia – Andrew la abbracciò – però, adesso vorrei pensare un po’ a te.”
“Mh?”
“Con lieve ritardo, ma… auguri di buon compleanno e di buon anniversario, vita mia.” e le porse una scatolina foderata di velluto.
“Oh, Andrew – arrossì lei, aprendola – non dovevi e… ma questi sono quegli orecchini che avevo visto quando siamo andati ad East City a gennaio! Me li hai comprati…”
“Li tenevo da parte da mesi, sciocchina. Credi che non avessi visto come ti brillavano gli occhi davanti a quella vetrina? Anima mia, come posso ringraziarti per tutti questi anni assieme? Per il meraviglioso figlio che mi hai dato? Per ogni secondo che passi accanto a me?”
“Baciami – sussurrò lei, cingendogli le braccia al collo – baciami ed amami come solo tu sai fare, Andrew Fury: questa notte è solo per noi due.”
E lo fu davvero.





I bellissimi disegni sono di Mary_
^_^

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Capitolo 48
*** Capitolo 47. Per tornare a camminare. ***


Capitolo 47. Per tornare a camminare.

 

Kain assaporava a pieni polmoni l’aria carica di profumi primaverili, mentre il caldo sole del primo pomeriggio gli accarezzava la pelle: avrebbe tanto voluto iniziare una sfrenata corsa per i campi, catturare tanti insetti, rotolarsi nell’erba, ma tutto quello che poteva fare era stare in braccio a suo padre mentre percorrevano il sentiero in aperta campagna che conduceva alla stazione del treno.
Abbassò lo sguardo sulla fasciatura che si intravedeva dai suoi calzoni lunghi sino al ginocchio: era stato strano indossarli qualche ora prima e aveva temuto che gli dessero fastidio, ma non era stato così. La sua gamba non faceva più male, a volte gli dava una strana sensazione di formicolio ma niente di grave.
Però la sento sempre rigida e, a piegarla o fare movimenti, la coscia ha proprio difficoltà.
A quel pensiero le sue braccia si cinsero maggiormente al collo di Andrew e nascose il viso sulla sua spalla, cercando di convincersi per la centesima volta che sarebbe andato tutto bene e che quella rigidità non era niente di preoccupante, ma solo una conseguenza temporanea della ferita.
“Non aver paura, Kain – la mano del padre gli accarezzò la schiena – il dottore che ti visiterà è veramente bravo e si prenderà cura di te.”
“E cosa mi farà alla gamba?” mormorò il bambino con preoccupazione.
“Questo non lo so, ma proprio come tu trovi l’errore nei circuiti delle radio che non funzionano, lui troverà se c’è qualcosa che non va nella tua gamba e sistemerà le cose.”
“Voi resterete con me, vero?”
“Certo, pulcino – lo rassicurò Ellie – quando mai potremmo lasciarti?”
“Coraggio, ragazzino, ad East City ti porto in un posto dove fanno un gelato fantastico: avrai una coppa al cioccolato tutta per te, con tanto di panna e ciliegina sopra. Sei contento?”
“Sì, papà.”
“Per cui adesso cerca di stare tranquillo: è anche il tuo primo viaggio in treno e scommetto che lo troverai molto eccitante; eccoci e pare che qualcuno sia venuto a salutarti.”
A quelle parole Kain alzò il viso dalla spalla di Andrew e si girò a guardare verso l’ingresso della piccola stazione: come riconobbe quelle persone un grande sorriso gli illuminò il volto.
“Ciao, gnomo! – Roy si fece avanti, seguito da Riza, Vato, Elisa ed Heymans – abbiamo pensato di venire a salutarti e augurarti buon viaggio e una pronta guarigione.”
“Che bello, siete venuti. Papà, posso andare in braccio a Roy?”
“Va bene – acconsentì Andrew, passando con delicatezza il bambino – tienilo così, in modo che la gamba non si pieghi… bene, perfetto.”
“Ehilà, ragazzino – sorrise Roy, sistemandoselo meglio – lo sai che ti aspettiamo per goderci le vacanze tutti assieme, vero? Quest’estate dobbiamo fare centinaia di cose e ci divertiremo un mondo.”
“Anche Jean sarebbe voluto venire a salutarti – Heymans gli arruffò i capelli neri con dolcezza – ma non ha potuto, ti devi accontentare di me.”
Kain quasi piangeva dalla commozione davanti a tutte quelle dimostrazioni d’affetto dei suoi amici. Tutti loro gli accarezzavano i capelli, gli promettevano che quando sarebbe tornato avrebbero fatto cose incredibili tutti assieme.
“Adesso che c’è bel tempo Hayate non vede l’ora di correre per i campi – mormorò Riza abbracciandolo – devi tornare presto, piccolo mio, lui ti aspetta… ed anche io. Non hai idea di quanto mi mancherai in questi giorni.”
“Spero di tornare presto, Riza.” dovette tirare su col naso perché proprio non ce la faceva.
East City era così lontana, quattro ore e più di treno, centinaia di chilometri: sapere una distanza simile da tutti loro era veramente dura. E per quanto poi? Per ora sapeva che erano circa quattro giorni per fare tutte le visite mediche, ma era solo per quel periodo?
 
La prima sensazione che ebbe di East City, non appena vide la grande stazione ferroviaria, fu di qualcosa troppo grande per lui. Tutto quel viavai frenetico lo metteva a disagio: gente che si muoveva rapidamente, procedendo dritta per la propria strada, senza salutarsi. Era così difficile uscire da una realtà tranquilla come quella del paese dove i volti sono almeno conosciuti per tuffarsi in quel mondo nuovo.
Fu quasi istintivo aggrapparsi maggiormente a suo padre e cercare con lo sguardo sua madre, quasi avesse paura di essere strappato da loro da qualche sconosciuto e portato via per sempre.
Fortunatamente il caos che c’era alla stazione ferroviaria diminuì notevolmente quando si incamminarono per le strade, andando verso il centro della città dove c’erano ampi viali con diversi giardini e parchi.
“Ehi, Kain – lo chiamò con gentilezza Andrew – guarda, quella è l’Università dove ho studiato: desideravo da tanto fartela vedere, figlio mio.”
Il bambino si girò e vide l’imponente edificio che sorgeva all’interno di un grande parco, dove decine e decine di giovani camminavano con i libri sottobraccio. Era così grande e maestoso, ma trasudava una stabilità ed una sicurezza tale che probabilmente fu in quel momento Kain decise che lui sarebbe ad ogni costo andato a studiare lì.
“Si può visitare, papà?”
“Lo faremo, promesso – annuì Andrew – ma adesso è il caso di andare in albergo, riposarci e cenare: ormai è tardi e domani mattina dobbiamo andare all’ospedale a farti visitare dal medico.”
“E la cosa migliore è che tu vada a letto presto, pulcino – disse Ellie, accarezzandogli i capelli – è la prima giornata che passi fuori dal letto ed è stata davvero stancante per il viaggio. Scommetto che dopo cena crollerai addormentato, anche se adesso non te ne rendi conto.”
Ed effettivamente fu così: già mentre cenavano in albergo si sentì incredibilmente stanco, come se tutta la fatica avesse deciso di presentarsi in quel momento. Fu quindi con piacere che si fece mettere a letto, nella stanza che condivideva con i genitori.
“Che strano, – commentò – il letto grande è nella stessa stanza del mio e c’è anche un divano e un tavolo… solo il bagno è in una camera diversa: è una mini casa però senza cucina, vero mamma?”
“Già – sorrise Ellie, rimboccandogli le coperte – gli alberghi sono così e ovviamente non potevamo stare in una stanza separata da te, pulcino. Allora, i tuoi occhiali sono qui nel comodino, per qualsiasi cosa chiama, tanto noi siamo qui.”
“Mamma – Kain le prese la mano – sono… sono solo quattro giorni, vero? Poi torniamo a casa, promesso?”
“Sei spaventato?”
“Un po’ – ammise, con tristezza – è che… non è come addormentarsi con i suoni della campagna ed è tutto così strano, diverso. Insomma, mi piace, davvero, e voglio vedere l’Università, andare a mangiare il gelato in quel posto che mi avete detto, ma… non è casa.”
“Lo so, pulcino – la donna gli baciò la fronte – fa uno strano effetto per noi che veniamo da quel piccolo angolo di mondo così protetto e tranquillo.”
“Insomma, fossi qui in gita con te e papà non credo che sarei così spaventato.”
“Vedrai che andrà tutto bene, amore mio – sussurrò Ellie, portando il viso accanto al suo – la tua gamba guarirà e torneremo a casa, promesso. Ma tu devi essere forte e coraggioso, come sei sempre stato: io e papà saremo accanto a te, tranquillo.”
 
Il giorno successivo a scuola tutti i ragazzi erano stranamente silenziosi e poco attenti alle lezioni: sapevano che in quelle medesime ore il medico stava visitando Kain e si sentivano estremamente preoccupati per la diagnosi che avrebbe fatto.
“Insomma, è solo un po’ rigida – commentò Roy all’intervallo, rivolto a nessuno in particolare – è del tutto normale che succeda dopo che è stato per tanto tempo fermo. E poi mi ricordo che una volta mi sono strappato un muscolo della gamba e si è irrigidita tutta per diversi giorni, forse non è dissimile.”
I ragazzi si girarono verso Vato, fonte di conoscenza indiscussa del gruppo.
“Ecco – arrossì, passandosi una mano tra i capelli bicolori – quello che hai avuto tu è un trauma esterno, ma il problema è che quella lamina è entrata dentro la carne e non sappiamo cosa abbia eventualmente preso: ci sono un sacco di muscoli e legamenti in quella parte dell’arto… però il fatto che riesca a muovere la parte inferiore è positivo, suvvia. Non c’è stata una lesione davvero grave da paralizzarla.”
“E come fanno i medici a capire che danni ha avuto? – chiese Jean grattandosi il dorso del naso con perplessità – La ferita è ormai in buona parte rimarginata come qualunque taglio che si rispetti.”
“Non so di preciso – ammise Vato – ma sono dei medici specializzati in queste cose: sicuramente gli faranno provare determinati movimenti e coglieranno dei dettagli che il nostro dottore non sarebbe in grado di vedere.”
“E poi come procederanno?”
“Adesso mi chiedete troppo, mi dispiace – sospirò – ho letto nei libri che ci sono diversi tipi di riabilitazione a seconda del tipo di problema, ma non erano molto specifici.”
O meglio, era lui a non voler raccontare agli altri di stampelle, bastoni, tutori e altre cose che aveva visto durante le sue ricerche: gli dava fastidio pensare a Kain con delle simili soluzioni addosso e preferiva tenere simili pensieri per sé.
No dai, non sarà niente di grave.
“Spero che ci facciano presto avere notizie.” sospirò Heymans.
“Mio padre ha chiesto al signor Fury di chiamare al telefono che c’è alla stazione di polizia per tenerlo informato – ammise, volendo dare loro un minimo di conforto – Appena ci sono novità lo sapremo.”
“Davvero? Ottimo!”
Però quelle ore di attesa erano davvero dure.
 
I telefoni erano abbastanza rari nel paese, le comunicazioni affidate per lo più alle classica posta scritta, e uno dei pochi si trovava nell’ufficio del capitano Falman.
“Ragazzi… siamo in orario d’ufficio e sto lavorando.” disse Vincent quel pomeriggio, squadrando a turno quei giovani invasori che da venti minuti stavano nel suo ufficio.
“Non stiamo dando disturbo – disse Roy, seduto nella sedia e con le braccia conserte nella scrivana – stiamo solo aspettando la chiamata del padre di Kain.”
“Vato…”
“Scusa, papà, ma proprio mi è scappato – arrossì lui, nascondendo il viso dietro al libro che stava facendo finta di leggere – lo so che mi avevi chiesto di non dirlo.”
“E c’era un motivo ben preciso: senti un po’, invasore, questa scrivania mi serve. Leva le tue braccia da lì, non lo vedi che sto lavorando?”
“Se vuole le do una mano – sorrise furbescamente Roy – e poi voglio stare vicino al telefono: voglio rispondere io quando chiama il padre di Kain.”
“Tu non rispondi proprio a niente – lo bloccò immediatamente Vincent – al telefono ci penso io. Voi tre, se proprio volete restare…”
Dobbiamo restare – dichiarò Roy con aria seccata – abbiamo tirato a sorte per non invaderle l’ufficio tutti quanti, anche se ovviamente Vato doveva esserci dato che è suo figlio. Per il resto siamo usciti io e Riza, quindi dovrebbe anche ringraziarmi, perché l’idea è stata mia.”
“Arrogante ragazzino che non sei altro…” cominciò Vincent, stringendo la penna con aria seccata, tanto che Vato desiderò scomparire dietro al suo libro: proprio Roy non poteva fare a meno di stuzzicare suo padre, incurante delle conseguenze a cui poteva andare incontro.
“Oh no, signore, non si arrabbi – fece Riza, alzandosi dalla sua sedia e andando accanto a Vincent – ci scusi tanto, davvero, ma siamo così in pensiero per Kain che proprio non potevamo restare ad aspettare a casa. Le giuro che non le daremo fastidio, vero Roy?”
“Ovviamente.” annuì lui con uno sbuffo.
“E sia – sbottò Vincent, dando un buffetto alla guancia di Riza – dipendesse da me farei restare solo Vato e te, signorina, ma chiuderò un occhio anche per il nostro furfante.”
Ottenuto quel permesso i ragazzi parvero rilassarsi e rimasero in quieta attesa, continuando a lanciare esasperate occhiate a quel telefono che proprio non aveva voglia di squillare e far sapere loro qualcosa.
Quando dopo un’ora ci fu una chiamata accorsero, ma non si trattava del padre di Kain: era una telefonata di lavoro e Vincent fece loro cenno di uscire dall’ufficio.
“Maledetto telefono – sbottò Roy – potrebbe anche degnarsi di passarci la telefonata giusta.”
“Sono quasi le sette – sospirò Riza, guardando l’orologio appeso nel piccolo corridoio della stazione – tuo padre finisce di lavorare alle otto, vero?”
“Sì – ammise Vato – spero che il signor Fury ce la faccia a chiamare prima di quell’ora.”
La chiamata successiva, circa mezz’ora dopo, fu quella tanto attesa.
“Ciao, Andrew – salutò Vincent – iniziavo a pensare che… ehi!”
“Mi dia quel telefono! – Roy praticamente saltò sopra la scrivania – Voglio sapere di Kain!”
Riza dal canto suo corse verso Vincent e si aggrappò al suo braccio e anche Vato si era accostato alla scrivania.
“Dannazione… ragazzi! – gridò – Fermi tutti o vi faccio uscire da quest’ufficio, sono stato chiaro? E tu scendi dalla scrivania: non sei un gatto ma un essere umano! Scalmanati che non siete altri… allora Andrew, scusami tanto, qui ho gli amici di tuo figlio impazienti di sapere le novità.”
“Non avevo molti dubbi in merito – la voce di Andrew indicava che stava sorridendo – mi dispiace di crearti tutti questi disagi in ufficio.”
“Ma che disagi. Allora, che hanno detto i medici?”
“Stamattina gli hanno fatto i primi controlli: gli hanno esaminato la ferita e provato a far muovere la gamba in diversi modi. Dicono che c’è qualcosa che non va di sicuro, ma devono ancora fare alcuni esami per capire nello specifico di che cosa si tratta.”
“Ovvio che vorranno essere certi prima di fare una diagnosi – annuì Vincent con serietà – quindi si prospettano altri esami, eh? E il bambino come sta?”
“Adesso è tranquillo ed è in camera con Ellie. Ma all’ospedale era molto spaventato e ovviamente la gamba con tutte quelle prove gli ha fatto un gran male… è terrorizzato a tornarci domani. Senza contare che anche questo ambiente nuovo lo mette a disagio: insomma non è facile.”
“Mi dispiace…”
“E’ che Kain non ha un buon rapporto con l’idea di stare male, non riesce a viverla serenamente… e ad essere sinceri ha pienamente ragione. Nemmeno io ci riesco anche se cerco di nasconderlo: mi sono continuato a ripetere che tutto sarebbe andato bene, ma quando stamattina l’ho visto piangere e l’ho dovuto tenere fermo mentre il medico gli piegava la gamba… lasciamo stare che è meglio.”
“E’ una dura prova, amico mio, ma sono sicuro che la supererete – volse lo sguardo verso i ragazzi che lo guardavano con ansia – e dunque domani altri esami, eh? Per oggi nessuna novità.”
“No, dillo pure ai ragazzi. Del resto lo sapevano che non sarebbe stata questione di un giorno solo: ci hanno pronosticato almeno altri due giorni di esami e poi ci diranno. Rassicurali che il medico è in gamba e ci sa fare, ma non dire loro che Kain è così spaventato, va bene?”
“Ovviamente. Puoi richiamare anche domani per farci sapere come va?”
“Certo. Adesso però devo andare: fra un venti minuti vorrei farlo mangiare così poi lo mettiamo a dormire e si calma. Vedrò di chiamare a quest’ora.”
“Va bene, a domani.”
Come chiuse la chiamata Vincent dovette raccogliere le sue forze nell’arco di un millesimo di secondo per potersi girare a guardare suo figlio, Riza e Roy.
“Allora?” chiese lei, con le mani giunte.
“Oggi gli hanno fatto i primi esami, ma ovviamente non hanno ancora informazioni necessarie per sapere bene che cosa c’è che non va. Il medico è molto bravo e per sincerarsi farà altre analisi, almeno per i prossimi due giorni.”
“Cosa? – si rabbuiò Roy – Dunque non si sa ancora niente?”
“Ci vuole tempo, ragazzino. Per simili cose bisogna procedere con cautela, ma Andrew ha promesso che chiamerà anche domani alla medesima ora per dirci le novità.”
“E Kain come sta?” chiese Riza.
“Bene, – mentì Vincent – è molto stanco, ovviamente ed Andrew mi ha detto che dopo cenato andrà subito a dormire: sono giornate impegnative per tutti loro, del resto.”
Ma chiaramente Roy capì che gli stava tenendo nascosto qualcosa.
 
Non furono dei giorni facili per Kain: si può promettere di essere forti e coraggiosi e mettere tutto l’impegno possibile per mantenere la parola data, ma oggettivamente di fronte a tutti quegli esami la sua volontà di undicenne cedette.
Non era colpa dei medici e delle infermiere: erano molto gentili con lui, lo chiamavano per nome e cercavano di tranquillizzarlo. Ma la gamba gli faceva male per tutti quegli sforzi e poi quell’ambiente che sapeva di disinfettante e dove c’erano tante cose misteriose e sconosciute gli faceva davvero paura.
Il terzo giorno gli fecero un prelievo di sangue e fu una vera e propria tragedia: lui odiava gli aghi ed il concetto a cui era abituato era quello di iniezione nel sedere, dove almeno non poteva vedere… un prelievo dal braccio fu un’esperienza che lo lasciò senza fiato per tutti gli strilli e le suppliche che fece.
“Mamma – mormorò, sdraiato nel lettino, esausto dopo che l’avevano calmato – voglio andare via! Voglio tornare a casa… per favore…”
“Devi essere forte, pulcino – lo consolò Ellie, accarezzandogli i capelli – coraggio.”
“Non voglio più…”
“Sssh, tesoro, ti sei agitato tanto: adesso chiudi gli occhi e riposa, da bravo.”
“No – supplicò – che poi vengono e mi mettono di nuovo l’ago nel braccio!”
“Ma no.”
Dovettero passare alcuni minuti prima che Kain cedesse alla stanchezza e si addormentasse. Ellie rimase ad accarezzargli i capelli fino a quando non entrò il medico seguito da Andrew.
“Bene, direi che possiamo fare il punto della situazione – dichiarò l’uomo, controllando la cartelletta che aveva in mano – gli esami fatti sono sufficienti.”
Si avvicinò al letto e scostò il lenzuolo per vedere la leggera fasciatura sulla coscia del bambino.
“Non paiono esserci danni ai muscoli o ai legamenti, i movimenti riesce a farli senza problemi…”
“Ma gli fa molto male.” obbiettò Ellie.
“In parte è dovuto al normale processo di guarigione, ma sicuramente c’è un problema di fondo: c’è qualche tessuto che si sta cicatrizzando nel modo sbagliato, andando a dare fastidio agli altri componenti della gamba.”
“Ossia sta guarendo male?” Andrew si mise a braccia conserte ed annuì.
“Sì, se vogliamo metterla in questo modo e c’è anche la spiegazione logica – l’uomo prese le forbici e tagliò con gentilezza il bendaggio, mostrando la ferita rossastra – in genere per tagli di questo tipo si mettono dei punti di sutura per chiudere i lembi. Tuttavia, leggendo la relazione fatta dal vostro medico, non posso che approvare la sua scelta di farla procedere con naturalezza: con dei punti di sutura era molto più facile che l’infezione si diffondesse e la priorità era mantenere la ferita pulita e sotto costante controllo. E qui si è creato il problema perché evidentemente alcuni tessuti, senza l’aiuto della sutura che teneva chiusi i lembi, si sono cicatrizzati in maniera troppo estesa o comunque male, creando le difficoltà attuali.”
“E si può fare qualcosa in merito?” Ellie fece la fatidica domanda.
“Sì – annuì il medico sfiorando l’estremità della ferita – possiamo procedere con un’operazione: riapriamo la ferita ed eliminiamo il tessuto che si è cicatrizzato male e poi mettiamo dei punti di sutura in modo che la guarigione avvenga in modo corretto.”
“Detta così pare una cosa abbastanza tranquilla.” mormorò Andrew, con una lieve speranza nella voce.
“Ha undici anni e a quest’età le capacità rigenerative del corpo sono molto elevate: il tessuto buono non dovrebbe avere problemi a formare una nuova parte cicatrizzata questa volta in maniera corretta.”
“Insomma tornerà a camminare normalmente? – Ellie prese il braccio del marito e lo strinse con ansia – E’ questo che ci sta dicendo, dottore?”
Il medico sorrise e annuì.
“Salvo complicazioni è il risultato che mi attendo. Tuttavia voglio che il bambino resti alcune settimane qui in ospedale: in primis voglio tenere d’occhio la ferita per tutto il tempo che avrà i punti di sutura, ossia una decina di giorni, e poi è consigliabile che la prima parte della riabilitazione la faccia qui sotto la guida di esperti. Ma se tutto va bene in massimo tre mesi vostro figlio torna a correre e a saltare come tutti gli altri bambini.”
 
“Operare? – Roy sgranò gli occhi, quando Vato riferì loro la notizia – Ma stai scherzando?”
“No – scosse il capo lui – voi eravate già andati via ed io stavo aspettando papà per tornare a casa quando il signor Fury ha chiamato. Dovranno riaprire la sua ferita per sistemare alcune cose che stavano guarendo male. Però ha detto che se tutto va bene Kain tornerà a camminare e correre senza problemi.”
“Oh, questa sì che è una notizia meravigliosa!” Elisa abbracciò il fidanzato.
Anche gli altri sembrarono sollevarsi a quella rassicurazione: era quello che tutti avevano sperato in quei giorni e finalmente la grande conferma era arrivata.
“E quando torna a casa?” chiese Riza.
“Ecco, per quello ci vorrà parecchio tempo…”
“Oh – si incupì subito lei – più o meno quanto?”
“Penso che lo opereranno entro la settimana prossima e poi deve stare in ospedale per diverso tempo perché i dottori vogliono controllare che questa volta la ferita guarisca bene e poi deve fare riabilitazione.”
“Che è la riabilitazione?” chiese Jean.
“Sono degli esercizi che ti fanno fare in modo che la gamba riprenda a muoversi piano piano, senza forzare troppo. Sai, come quando ti sloghi una caviglia: non devi sforzarla per i primi giorni e certo non puoi correre subito.”
“Allora saranno solo pochi giorni.”
“No, la ferita di Kain è più grave – spiegò il ragazzo – diciamo che tra una cosa e l’altra non torneranno qui prima di un mese.”
Un mese?” a quelle parole Roy sbottò.
“Così tanto…” anche Heymans scosse il capo.
“Praticamente starà tutto giugno lì – capì Jean – accidenti, io credevo che fosse una cosa più rapida.”
Tutti iniziarono a commentare quella lunga attesa che li aspettava: ovviamente nella loro ingenuità avevano pensato che la questione si risolvesse nell’arco di una settimana o massimo dieci giorni. Del resto stavano parlando di medici di East City, si presumeva che loro fossero in grado di risolvere il problema in tempi decenti.
Era veramente strano per tutti loro: erano abituati a vedersi quotidianamente e anche le assenze da scuola non volevano certo significare scomparsa per periodi così lunghi. E quegli oltre centocinquanta chilometri di distanza si facevano sentire per chi era abituato a camminare al massimo per quaranta minuti per arrivare a casa dell’altro.
Insomma sembrava che Kain fosse incredibilmente irraggiungibile e questo era difficile da sopportare.
In tutto questo Riza si strinse le braccia attorno alla vita e abbassò lo sguardo a terra: lei era quella maggiormente colpita da questa separazione. Oltre a Kain per un mese non avrebbe rivisto Ellie ed Andrew che ormai erano diventati il suo punto di riferimento: le sembrava di essere stata abbandonata, lasciata indietro, proprio ora che le serviva il maggior sostegno emotivo.
Non si accorse nemmeno di come Roy avesse posato lo sguardo su di lei.
 
“Sarai addormentato, Kain – spiegò Ellie, mentre rientravano in albergo – non sentirai niente. E quando ti risveglierai mamma e papà saranno accanto a te.”
“E se mi sveglio quando mi stanno operando? – mormorò lui nel panico, aggrappato ad Andrew – Non voglio, ho paura… voglio tornare a casa, da Riza.”
“Ti addormentano in un modo speciale, figliolo – lo abbracciò ancora più forte il padre – non ti potrai svegliare, tranquillo. Dai, basta con le lacrime: ricordi che hai promesso di essere forte? E poi sembra tanto, ma un mese passerà in fretta, devi solo essere più ottimista.”
Ma era difficile esserlo dopo un’altra giornata snervante in ospedale e con la prospettiva di essere operato nell’arco di pochi giorni.
“E perché poi devo stare in ospedale? Non posso tornare in albergo?”
“No, pulcino: i dottori devono tenerti d’occhio giorno e notte.”
“Ma voi starete con me… vero mamma?” ma intuiva già la risposta.
“Verremo a trovarti tutti i giorni, amore mio – Ellie lo baciò sulla guancia, mentre Andrew lo posava sopra il letto – ma non possiamo stare sempre con te.”
“Io non voglio dormire senza di voi – pianse disperato – non voglio stare in quel posto! Mamma, ti giuro che faccio il bravo, faccio tutto quello che mi dite voi… ma non abbandonatemi lì.”
“Nessuno ti sta abbandonando, piccolo pulcino – la donna lo abbracciò – ma non possiamo: in ospedale ci stanno medici e pazienti. Per i parenti ci sono gli orari visite, altrimenti non ci sarebbe spazio per tutti.”
Ma quelle spiegazioni e rassicurazioni non venivano recepite dal bambino: ormai la sua mente spaventata si era convinta dell’idea di un prossimo abbandono, con i suoi genitori che lo lasciavano per sempre in quella città per via della sua gamba che non sarebbe mai guarita del tutto.
“Kain – lo riscosse Andrew – ascolta, vuoi scendere giù con me? Devo chiamare Vincent e sicuramente ci saranno anche dei tuoi amici: chiedo se puoi parlare con loro, va bene?”
“Davvero?” singhiozzò lui, asciugandosi le lacrime e facendo un disastro con gli occhiali appannati.
“Certo – sorrise lui, inginocchiandosi e sistemando la situazione con un fazzoletto – ma non credo che vogliano sentirti piangere, diventerebbero tristi. Ci calmiamo un po’ e poi andiamo, va bene?”
“Sì…”
 
“Ti passo una persona al telefono – dichiarò Vincent, porgendo la cornetta a Roy che quella sera era passato nella speranza di avere delle novità – così finalmente ti calmi.”
A quella concessione il ragazzo rimase perplesso, ma prese l’apparecchio senza esitazione.
“Pronto?”
“Roy! – la vocetta di Kain squillò felice – Oh Roy! Sono così felice di sentirti!”
“Gnomo! Che sorpresa, pensavo che fosse tuo padre.”
“Papà ha detto che se mi calmavo potevo parlare con voi.”
“Calmarti?”
“Mh – adesso la voce era più triste – E’ che mi devono operare e ho paura… lo so che mi hai detto di essere forte, ma ti devo confessare che ho pianto tanto in questi giorni.”
“Oh no, gnometto – sospirò Roy sedendosi sulla scrivania – non dire questo, non va bene. Ci sono i tuoi genitori con te e noi ti pensiamo ogni giorno… e se devi fare questa stupida operazione, che sia. Dai che ti devo insegnare ad andare in bicicletta e se non guarisci bene non potrò farlo.”
“Vorrei essere coraggioso come te, Roy. Vorrei non essere così spaventato… sai, devo stare in ospedale per tanti giorni e mamma e papà non potranno stare sempre con me. Potranno venire solo a certe ore e non la notte.”
Roy si passò una mano sui capelli, cercando un modo per consolare il suo piccolo amico in quello che era un momento veramente difficile.
“Portati qualcosa in ospedale – suggerì – un qualcosa che potrai stringere quando sarai a letto, che te ne pare? Come quando stringevi la tua penna per farti forza: dovrebbe funzionare.”
“La penna l’ho lasciata a casa: avrei troppa paura di perderla qui e poi non pensavo di starci così tanto. Credevo che dopo questi esami… sarei… sarei… Roy… c’è Riza lì con te?”
“No, gnomo, mi dispiace è a casa. No, dai, non piangere…”
“Dai, Ellie, prendilo – disse una nuova voce – da bravo, Kain, dammi la cornetta. Ehi, Roy, sono Andrew…”
“Stava piangendo così disperatamente…”
“Lo so, è spaventato e innervosito all’idea di quello che lo aspetta. Ma adesso Ellie lo mette a dormire e si calma. E’ stato felice di sentirti, davvero.”
“Davvero per un mese non tornerete?”
“No, ragazzo mio – la voce di Andrew sospirò – non possiamo lasciarlo solo ed i medici vogliono giustamente seguire momento per momento la sua guarigione. Senti, Riza come sta?”
“Preoccupata… di certo l’idea che per un mese non ci sarete turba più lei di tutti noi altri, non credo di doverglielo dire.”
“Lo immaginavo, mi dispiace, povera piccola mia. So che lo farai comunque, ma stalle vicino, prenditi cura di lei e non lasciare che si deprima troppo.”
“Ovviamente.”
“Grazie, Roy, sapevo di poter contare su di te.”
“Quando lo operano?”
“Dopodomani lo ricoverano, mentre l’intervento è previsto il giorno dopo.”
“Gli dica che noi stiamo aspettando con ansia il suo ritorno e che deve farsi forza.”
“Certo che lo farò, ragazzo… e fatevi forza anche voi. Si tratta di un mese, dopotutto.”
 
“Fra tre giorni – mormorò Riza, tenendo tra le braccia Hayate – così presto…”
I suoi occhi castani si socchiusero per ripararsi dal sole che tramontava proprio davanti a lei, rendendo i contorni di Roy, posato al cancelletto di ferro, molto sfocati.
“E già. Ah, il signor Fury ha chiesto di te e ha detto che devi stare tranquilla.”
“Come se fosse facile.”
“Ti capisco fin troppo bene – ammise Roy ad occhi bassi, fissando l’erba alta che invadeva in parte il sentierino che conduceva verso la porta della villetta – l’ho sentito ed era molto spaventato: non deve essere per niente bella l’idea di passare tutte quelle notti in ospedale da solo.”
“Dovrei essere con lui, almeno il giorno dell’operazione.”
A quelle parole Roy sorrise furbescamente.
“Proprio quello che volevo sentire, colombina. E se ti proponessi di andare ad East City?”
Perché lui aveva già deciso che sarebbe andato e gli serviva una compagna d’avventura, più ovviamente qualche complice.
Del resto non era roba da tutti giorni prendere un treno clandestinamente.

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Capitolo 49
*** Capitolo 48. Reato di clandestinità. ***


Capitolo 48. Reato di clandestinità.

 

Due giorni dopo uno strano terzetto camminava per le campagne che conducevano alla stazione ferroviaria.
“Ovviamente ci stiamo rendendo tutti conto che quello che stiamo per fare è un reato bello e buono, vero? E nel caso ve lo foste dimenticato, mio padre è il capo della polizia del paese.”
“Infatti tu non stai partendo con noi, Vato – disse Roy con sicurezza, mentre la stazione iniziava a comparire in lontananza – ci servivi perché tu sei quello che maggiormente se ne intende di queste cose: nei tuoi libri hai più informazioni tu che tutti noi altri messi assieme.”
Vato scosse il capo per niente contento di essere stato coinvolto in quella che si prospettava essere la bravata peggiore che Roy avesse mai commesso in vita sua. Un conto era andare al commissariato di polizia per una caccia al fantasma, con la rassicurazione che, tutto sommato, tuo padre certo non ti sbatterà in cella.
Ma questa volta si sta decisamente esagerando! Prendere clandestinamente un treno è gravissimo.
“Roy – mormorò Riza, insolita complice di quel piano così pericoloso – perché non possiamo semplicemente comprare i biglietti ed andare legalmente?”
“No – scosse il capo lui con decisione – siamo troppo giovani per viaggiare da soli e sicuramente farebbero delle domande. Senza contare che non ho la minima idea di quanto possano costare.”
“Parecchio, credimi – si intromise Vato – è comunque una tratta distante, senza considerare che c’è anche il biglietto di ritorno da fare. Mi potrei comprare almeno dieci libri con quella cifra.”
“Eh? Ma io non potrei mai permettermi una spesa simile – arrossì lei – sono davvero tanti. Oh, Roy, siamo proprio sicuri? E se ci scoprono?”
“Fidati di me, è tutto calcolato: sgattaioliamo nel vagone delle merci e stiamo lì per tutto il tempo. E poi ad East City usciamo fuori e con tutta la gente che ci sarà nessuno farà caso a noi.”
Quello che poi avrebbero fatto ad East City era ancora tutto da decidere, ma Roy aveva liquidato la faccenda con un sorridente ci penseremo quando saremo lì. Del resto che ci voleva? Kain era in ospedale quindi bastava chiedere a qualcuno dove si trovasse ed andare lì.
“Il treno qui passa solo ogni tre giorni, lo sapete bene: come potrete giustificare la vostra assenza?”
“Ho detto a mio padre che sono di nuovo da degli amici.” ammise Riza con aria colpevole.
“Io invece ho detto a mia zia che sono da te, Vato, così la cosa rimane tra noi tre e basta: tanto Madame non è solita fare troppe domande. E comunque meno persone sono coinvolte meglio è.”
A quella rivelazione Vato sbiancò e si fermò sul sentiero.
“Mi stai chiedendo di reggere un simile gioco con mio padre? – ansimò – Roy! Tu non sai quello che mi chiedi: scoprirà tutto e mi ammazzerà e poi ammazzerà te, lo so. Ma perché non hai chiesto ad altri? Perché hai dovuto coinvolgere proprio me?”
“Perché Heymans non può certo mancare tre giorni considerata la condizione di suo fratello e sua madre e dirlo a lui equivaleva farlo sapere anche a Jean, altra persona che non può assentarsi per così tanto. E come ti ho detto meno persone lo sanno meglio è. Ed inoltre non dimenticate che stiamo facendo tutto questo per Kain: ha bisogno del nostro sostegno.”
“Sì, ma penso che si potrebbero trovare soluzioni meno pericolose.”
“Fidati che ce la caveremo. Eccoci arrivati, occhio a non farci vedere dal capostazione… e siamo giusto in tempo. Vedo il treno in lontananza: allora Vato, sei pronto?”
Vato scosse il capo, mostrando per l’ultima volta il suo disappunto per quel folle piano.
Ma nonostante tutto aspettò con diligenza che il treno arrivasse in stazione ed un funzionario scendesse da un vagone per andare ad aprire il rimorchio destinato alle merci e alla posta. Preso un sacco con la corrispondenza lo portò verso il capostazione e in quel momento Vato si mosse.
“Buongiorno, signori – salutò con grande imbarazzo – è arrivato per caso un libro per me? E’ già in ritardo di quattro giorni e mi sto un po’ preoccupando.”
“Un libro? Fammi vedere – disse il funzionario aprendo il sacco assieme al capostazione – ma credo di no, non mi pare che ci siano pacchi a forma di libro.”
Mentre i due controllavano, Vato guardò con ansia Roy che mano nella mano con Riza sgattaiolava nella banchina per infilarsi nel vagone merci. Il moro rivolse una piccola strizzata d’occhio all’amico e gli fece un rapido cenno di vittoria prima di scomparire dentro il rimorchio.
“No, Vato, pare che non ci sia il tuo libro.” disse il capostazione.
“Davvero? Oh, che peccato… beh, spero che arrivi presto.”
Nel frattempo l’altro funzionario fece un cenno di saluto e andò a chiudere il vagone merci: nei tre secondi che ci impiegò per far scorrere lo sportello di legno, Vato trattenne il fiato, ma Roy e Riza non vennero scoperti.
Vedendo il treno allontanarsi verso East City, iniziò a sentire un grosso senso di catastrofe incombente cadere sopra loro, in primis sopra lui.
 
Riza sentiva il cuore che le batteva all’impazzata man mano che la consapevolezza di non poter più tornare indietro prendeva possesso di lei. Non avrebbe dovuto farlo, si era lasciata trasportare dalla foga di rivedere Kain e non aveva pensato alle conseguenze di quel gesto.
Lei e Roy stavano facendo una cosa illegale e pericolosa: non sapeva quanto grande fosse East City, quello scritto nei libri di scuola valeva ben poco, ma non le piaceva l’idea di andare in quel posto sconosciuto senza la presenza di qualche adulto affidabile. C’erano migliaia e migliaia di persone in quella città e poteva succedere di tutto.
E anche senza pensare a quello che sarebbe successo ad East City, c’era il grande peso nella coscienza di essere in un vagone merci, in un viaggio clandestino, con il rischio di essere scoperti da un momento all’altro. Istintivamente cercò la mano di Roy, seduto accanto a lei in mezzo a tutti quei sacchi di corrispondenza e la strinse.
“Sicuro che non entrerà nessuno?” chiese con voce flebile.
“Ma sì, colombina – sorrise lui nella lieve luce che entrava da alcune piccole grate nella parte superiore delle pareti di legno – che motivo avrebbe di entrare? Ieri, assieme a Vato, ho visto il percorso di questo treno e non ci sono altre stazioni prima di East City: non entrerà nessuno se non quando arriveremo alla nostra meta e sicuramente ci sarà una confusione tale che potremmo sgattaiolare via da questo vagone senza che nessuno ci veda.”
Lei annuì, cercando di trovare confronto in quelle parole, ma proprio non ci riusciva.
Continuava ad immaginare che qualcosa andasse storto.
“E una volta ad East City?” chiese ancora.
“Allora, secondo gli orari, il treno arriva alle sei meno un quarto in stazione: da lì si tratta di andare a vedere in quale dei tre ospedali della città si trova Kain.”
“Tre ospedali?”
“Mh – annuì Roy, felice di avere la sua attenzione – a dire il vero uno è da scartare perché è quello militare e dunque dubito che Kain sia ricoverato lì: ce lo terremo come ultimo.”
“I signori Fury si arrabbieranno molto quando…”
“No, loro non ci vedranno: faremo in modo di andare da Kain quando non ci sono, ossia quando non c’è l’orario visite. Tanto non ci vorrà molto per eludere i medici, suvvia.”
“Roy, ci stiamo spingendo troppo oltre – scosse il capo Riza, con disappunto – dovremmo andare da loro, chiedere scusa per il disagio e dire che volevamo vedere Kain.”
“Adulti e ancora adulti, ma perché dobbiamo sempre far affidamento su di loro? – sbottò lui – Ci sono io a proteggerti, va bene? Tanto le giornate sono già caldine e dormire all’aperto non sarà un problema: ci sistemeremo nel cortile dell’ospedale, sicuramente ne avrà uno… così saremo vicini a Kain in ogni momento.”
“E per mangiare?”
Roy si frugò nella tasca e tirò fuori alcuni soldi.
“Non saranno certo sufficienti per un ristorante di lusso, ma qualcosa da mettere sotto i denti per questi giorni ce la procuriamo senza problemi. E’ tutto perfetto, oggi ricoverano Kain e domani lo operano: gli staremo vicini proprio nei momenti decisivi. Il giorno dopo l’operazione il treno riparte e noi lo prenderemo… tutto filerà liscio come l’olio.”
“Sei felice, vero? – Riza lo guardò con occhi socchiusi – In qualche modo stai scappando da quel mondo troppo piccolo per te…”
“Un’evasione di tre giorni da quel posto – Roy non se la sentì di smentirla, esaltato dall’idea di avere una situazione così importante sotto il suo unico e diretto controllo – Vedrai, Riza, è tutto diverso ed eccitante in un posto come East City; adesso goditi il viaggio, non è proprio la prima classe, ma questi sacchi non sono niente male per posare la schiena.”
E con un sospiro la ragazzina seguì il consiglio del suo amico e cercò di rilassarsi.
 
“Ciao, figliolo, come va?”
Vato trasalì vistosamente quando Vincent lo salutò in mezzo alla strada.
Ha già scoperto tutto! Ma sono passate solo due ore, come diamine ha fatto?
“Papà.”
“Non ho visto il tuo amico Roy in girò; oggi non viene al commissariato ad attendere la chiamata di Andrew?”
“Eh? No, a dire il vero non lo so – rispose lui con tutta la faccia tosta che poteva – ha detto che voleva stare un po’ con Riza perché… perché lei era così triste per il fatto che Kain starà via così tanto.”
“Capisco, tu che fai? Vuoi venire stasera? Tanto più o meno sai a che ora chiama Andrew.”
“Vedrò – deglutì il ragazzo – tanto mi darai tu le notizie come arrivi a casa, no?”
“Certamente.” Vincent lo guardò con aria perplessa.
“Adesso devo proprio andare: ho un appuntamento con Elisa. A più tardi!”
E senza aspettare risposta corse via, pregando con tutto il cuore che la copertura reggesse per questi tre giorni. Del resto Roy aveva più o meno calcolato tutto: suo padre era andato ieri a sentire le novità da Madame Christmas e dunque non aveva motivo per passare in questi giorni al locale della zia di Roy… ed inoltre non era previsto che i coniugi Fury venissero a conoscenza della loro presenza, ovviamente tutto dipendeva dalla discrezione di Kain.
Dai, i presupposti per cavarcela ci sono tutti… spero.
Ma la sua mente pensava a tutti gli eventi storici che avevano avuto presupposti ottimi per finire poi in disfatte clamorose.
 
“Continua a correre!” Roy esclamò quell’unica frase mentre trascinava Riza fuori dalla stazione ferroviaria di East City.
“Avevi detto che saremo sgattaiolati via senza problemi! – protestò lei, correndo più forte che poteva e serrando la presa sulla mano di Roy – Se ci prendono siamo nei guai!”
“Fidati che non ci riescono: forza, gira qui!”
“Roy, siamo dei criminali!” Riza ansimò disperata mentre si posavano contro un muro per riprendere fiato.
Li avevano scoperti: un controllore li aveva visti uscire dal vagone merci e aveva fischiato per bloccarli. A quel punto Roy l’aveva afferrata e l’aveva trascinata in una rocambolesca fuga per tutta la stazione ferroviaria, passando in mezzo a decine e decine di persone che li guardavano perplessi.
“Ma che criminali…”
“Invece sì! – pianse lei – E ora che facciamo?”
Roy controllò che nessuno li stesse seguendo, ma era ovvio che il personale delle ferrovie non aveva tempo per correre dietro a due ragazzini, anche perché ormai erano abbastanza distanti dal grande edificio con tutta quella folla.
“Facile: chiediamo a qualcuno dove sono gli ospedali e ci dirigiamo verso il primo di essi. Vedrai che tra poco potremmo rivedere Kain.”
 
Roy era nato ad East City, certo, e per sette anni aveva vissuto nella capitale, sebbene quasi sempre chiuso nella grande casa dei suoi genitori. Tuttavia i suoi ricordi di bambino era davvero pochi e di conseguenza aveva calcolato male quanto potesse essere complicato orientarsi in una grande città.
Per arrivare all’ospedale più vicino ci impiegarono un’ora buona, perdendosi più volte e chiedendo informazioni a diverse persone che spesso li mandavano in direzioni sbagliate. Ed una volta lì la situazione non migliorò affatto.
“Accidenti a loro – sbottò Roy, mentre uscivano nel cortile – non capisco perché non ci possono dire se Kain è ricoverato qui o no.”
“Perché siamo ragazzini – sospirò Riza con aria sconsolata – ed è normale che non ci diano determinate informazioni: non siamo nemmeno suoi parenti. Non so quanto sia prudente restare qui, Roy, la signora all’ingresso ci guardava in modo sospetto: ho paura che chiami qualcuno e ci facciano delle domande.”
“Ma quanto sei paranoica: sembra che tutta East City sia sulle nostre tracce.”
“Beh, di certo quelli alla stazione ferroviaria lo sono: come faremo quando dovremo ripartire? E se quel capostazione ci riconosce?”
“In un posto grande come quello? Dannazione, dovremmo essere davvero sfortunati per imbatterci proprio in lui… non fare la drammatica.”
“Intanto ti sta sfuggendo tutto di mano, perché non lo ammetti?” lo squadrò lei.
“Sono solo imprevisti – ritorse lui con il broncio – è colpa di questi stupidi adulti che ci mettono i bastoni tra le ruote: dannazione, non vedo l’ora di diventare grande e non avere più di questi problemi.”
Nel frattempo erano arrivati dal cancello dell’ospedale e rimasero fermi ad osservare il sole che stava per tramontare.
“Vuoi sul serio dormire all’aperto?” chiese Riza chiudendosi la giacchetta che indossava sopra la camicia a maniche corte. L’idea non le piaceva per niente: stare fuori col buio non era una buona cosa, a maggior ragione in un posto sconosciuto e pericoloso come una grande città.
Ho promesso al padre di Kain che non sarei mai stata fuori da sola e con il buio…
“Sì, adesso andiamo a cercare un posto adatto: se hai freddo ti do anche la mia giacca.”
“No, è che… Roy, io non voglio dormire all’aperto: è pericoloso e lo sai anche tu.”
“Ma finiscila, perché devi…”
“No, non la finisco! – Riza si girò e lo affrontò con occhi gelidi – E’ tutta una follia, non capisci? Sono stata una sciocca a seguirti in questa avventura che non ci sta portando a niente: senza adulti non possiamo riuscire a trovare Kain. Mettitelo nella testa, Roy Mustang.”
“Non ti fidi di me? E’ questo il problema?” la fissò con aria offesa.
“Non è questo, ma ci sono cose per cui oggettivamente non sei pronto. Roy, guarda questa città… è enorme, mi fa paura e non sappiamo dove andare a dormire. Chissà che gente gira di notte.”
“Ma no, vedrai che…”
“Riza! Roy!” una voce sconvolta li fece girare.
Ellie ed Andrew erano appena usciti dall’ospedale e li avevano riconosciuti.
Roy sbuffò con disappunto mentre capiva che il suo piano era stato scoperto, Riza al contrario sospirò di sollievo: erano salvi.
 
“Avete fatto il viaggio da soli e clandestinamente?”
La voce di Ellie era così arrabbiata che Riza serrò gli occhi, mortificata; Roy, dal canto suo, si limitò ad incrociare le braccia al petto e a fissare il soffitto della camera con aria esasperata.
Alla fine l’ospedale dove erano andati era quello giusto (cosa che aveva fatto esultare interiormente Roy), ma l’orario visite stava praticamente terminando ed inoltre non potevano entrare senza nessuno a garantire per loro.
Ellie ed Andrew li avevano portati in albergo e avevano ovviamente preteso di sapere cosa stava succedendo: Roy era pronto ad inventare una storia più o meno verosimile, in modo da arginare la rabbia degli adulti, ma Riza l’aveva preceduto ed aveva raccontato tutto, dichiarandosi veramente dispiaciuta per quanto era successo.
Dannazione a lei, è troppo responsabile… potevamo cavarcela benissimo con qualche mezza verità.
“Ci mancava anche questa – sospirò Andrew, sedendosi nel letto – vi rendete conto dei pericoli che avete corso con questa bravata?”
“Ma quali pericoli…” iniziò Roy, ma l’uomo alzò l’indice.
“Se vi avessero preso i controllori alla stazione che avresti fatto?”
“Beh, avrei detto loro che…”
“Ti voglio far notare una cosa: – lo bloccò lui, implacabile – non è il capostazione che vi conosce tutti quanti da quando siete piccoli, ma gente sconosciuta alla quale non interessa molto la vostra storia. Siete semplicemente dei clandestini che non hanno pagato il biglietto… e per giunta non possono riaccompagnarvi a casa: vi avrebbero messo chissà dove in attesa di mettersi in contatto col paese.”
“Di certo non ci avrebbero fatto del male.”
“Certo che no, ma l’idea di sapervi alla stazione di polizia non mi piace per niente per nessuno di voi due, spero che questo ti sia chiaro, giovanotto. E poi, dimmi, dove avevate intenzione di passare la notte?”
“Fuori, tanto mica fa freddo.”
“E se qualche vagabondo o malfattore vi vedeva? Non siamo in paese, Roy Mustang, cerca di capirlo una volta per tutte.”
Roy rimase a fissare con offesa sfida Andrew, cercando qualche modo di ribattere a quanto gli aveva appena detto. Ma purtroppo non c’erano molti appigli.
“Quanto a te, Riza, – fu Ellie a parlare – questa proprio non me l’aspettavo da parte tua. Ma come ti è saltata in mente una cosa simile?”
“Volevo solo rivedere Kain prima dell’operazione…” spiegò lei a testa bassa.
“Non è una giustificazione, signorina – scosse il capo la donna – e se ti succedeva qualcosa? Ringraziando il cielo io ed Andrew vi abbiamo trovato prima che facesse buio… l’idea di sapervi fuori in questo posto da soli… preferisco non proseguire.”
Si scambiò un’occhiata significativa col marito ed Andrew si alzò.
“Vieni, Roy: devo andare a chiamare Vincent e credo che non sarà molto felice di sapere che tu sei qui con noi.”
“Figuriamoci – sbottò lui, mettendosi le mani in tasca – ci mancava anche questa ciliegina sulla torta. Vieni, Riza, andiamo.”
“No, lei resta qui – scosse il capo Ellie, mettendo una mano sulla spalla della ragazzina – abbiamo un discorsetto da fare e non è certo il caso di rimandarlo.”
A quelle parole e vedendo lo sguardo minaccioso negli occhi scuri della donna, Roy si sentì in dovere di obiettare, ma Andrew gli mise una mano sul braccio e lo incitò a seguirlo fuori dalla stanza.
 
“Che cosa ti sconvolge tanto?” chiese Andrew mentre scendevano le scale.
“La sta punendo… a Riza!” era una cosa così fuori dall’ordinario che il ragazzo stentava a crederci.
Riza era quella responsabile e pronta a rimproverare gli altri per i loro comportamenti sbagliati, a volte la trovava anche irritante in questo suo atteggiamento. L’idea che le stesse prendendo da Ellie lo faceva sentire come se qualcosa nel funzionamento del mondo fosse andato storto.
“Ha commesso una bravata non da poco e credimi che se fosse mia figlia le prenderebbe anche da me.”
“Non capisco questo suo ragionamento, mi scusi…”
“E’ una ragazzina di tredici anni, Roy, – scosse il capo Andrew – è abbastanza grande per avere un certo senso del pudore che è giusto rispettare: diciamo che non essendo suo padre non è corretto che veda determinate cose, capisci?  Ma non ti preoccupare che Ellie le darà quanto merita.”
“Sarà così delicata anche con me? – chiese Roy con finta e sarcastica curiosità, mentre l’uomo si fermava ad uno dei telefoni che stavano all’ingresso dell’albergo e faceva un numero – Sono un maschietto di quindici anni e certe cose non le deve vedere…”
“Oh tranquillo, Roy, tu non te la vedi né con me né con  mia moglie – sorrise enigmaticamente Andrew – Ciao, Vincent, ti devo raccontare alcune importanti novità.”
E a quelle parole Roy non poté fare a meno di sentire un brivido lungo la schiena.
Dopo qualche minuto Andrew gli fece cenno di avvicinarsi e gli passò la cornetta.
“Capitano Falman…”
“Mi limito a dire che aspetto con ansia il tuo ritorno, Roy Mustang.”
Voce calma e piatta, ma proprio per questo incredibilmente letale.
 
“Vato, tra una ventina di minuti è pronta la cena – lo avvisò Rosie dalla cucina – quindi non metterti a leggere che poi non ti stacchi più dai libri.”
“Tranquilla, mamma!” rispose lui dalla sua camera.
Guardando la sveglia sulla scrivania vide che erano le otto meno cinque e questo voleva dire che suo padre stava per rientrare. Il fatto che non fosse ancora piombato su di lui lo faceva ben sperare che almeno per quel primo giorno le cose fossero andate bene: insomma, era qualche ora in meno a separarli dalla riuscita di quel piano.
Proprio mentre iniziava a sentirsi sollevato, sentì la porta di casa aprirsi.
“Dov'è quel genio di nostro figlio?”
Riconoscendo quel tono arrabbiato Vato sentì tutte le sue speranze crollare come un castello di carte.
Abbandonò la posizione sdraiata sul letto per sedersi con apprensione, aspettando che suo padre arrivasse.
E come lo vide entrare con il cucchiaio di legno in mano sentì il sangue gelarsi nelle vene.
“Per i prossimi venti minuti io e te faremo un interessante discorso, giovanotto, a proposito di un viaggio clandestino ad East City. – dichiarò Vincent, chiudendo la porta e andando a sedersi alla scrivania – Di questi venti minuti te ne concedo due per darmi la tua versione dei fatti, ma giusto perché mi voglio levare la giacca e arrotolarmi la manica della camicia: il resto del tempo lo passi prono sulle mie ginocchia… e ti assicuro che per cena ti siederai a fatica. E ringraziami, perché quando tornerà il tuo amico a lui andrà molto peggio.”
E Vato capì come si erano sentiti i generali del passato nel vedere i loro piani clamorosamente falliti.
 
“Kain verrà operato verso le undici e noi possiamo andare in ospedale a partire dalle nove e mezza – spiegò Andrew, andando verso la porta della loro camera – vieni, Roy, iniziamo a scendere per la colazione.”
“Sissignore – sbadigliò lui, arruffandosi i capelli neri – ho una fame da lupo.”
Come la porta si chiuse alle spalle dei due maschi, Riza si chiese per la centesima volta come potesse fare il suo amico ad essere così tranquillo, come se ieri non fosse successo niente e non fosse nei guai fino al collo.
“Vieni, Riza – la chiamò Ellie, sedendosi sul letto – ti do una sistemata ai capelli.”
Si accostò a lei, sedendosi vicino e lasciando che il pettine sbrogliasse i nodi che si erano formati durante la notte. Era ancora molto imbarazzata e dispiaciuta per quanto era successo ieri sera: non le era mai capitato di vedere Ellie così arrabbiata con lei e l’essere stata punita in maniera così severa l’aveva colta completamente di sorpresa: non sospettava minimamente che sarebbe passata dalla sgridata ai fatti.
“Ancora arrabbiata?” chiese timidamente.
“No – sospirò la donna, sistemandole i ciuffi sulla fronte – la cosa importante è che vi abbiamo recuperato in tempo. Non dovrei dirlo, ma sono felice che tu sia qui, signorina.”
“Vorrei chiederle scusa per il disagio che vi stiamo provocando io e Roy: stanotte abbiamo costretto suo marito a dormire in quel divano ed io…” non terminò la frase.
E lei aveva dormito nel letto matrimoniale con Ellie, svegliandosi abbracciata a lei, a stretto contatto con quelle braccia morbide, quel profumo rassicurante che le ricordava tanto quello di sua madre. E si era sentita così bene nell’accorgersi che era ancora presto e che si poteva riaddormentare in quel nido così caldo e protetto.
“Quando dormi ti raggomitoli su te stessa, l’avevo già notato quando sei stata a casa nostra – Ellie sorrise – e metti la mano sotto la guancia, lo sai che anche Kain ogni tanto lo fa? Bene, direi che ci siamo: possiamo raggiungere Andrew e Roy per la colazione e poi andare a trovare Kain.”
Annuendo Riza si alzò in piedi e seguì la donna, ma come furono nel corridoio appena fuori la stanza le prese la mano e arrossì.
“Davvero veniva a vedere se dormivo quando stavo da voi?”
“Certo che sì, tesoro – sorrise la donna, ricambiando quella stretta – io mi accerto sempre che i miei piccoli dormano tranquilli. Dai, adesso andiamo, rischiamo di far aspettare troppo i maschietti.”
 
“Buongiorno, Kain – l’infermiera entrò nella stanza con un gran sorriso e aprì la finestra – come hai passato la notte?”
“Ecco io – mormorò il bambino – a dire il vero non lo so…”
Era una bugia bella e buona: come si erano spente le luci si era accucciato sotto il lenzuolo e aveva iniziato a piangere tutte le lacrime che aveva trattenuto da quando i suoi genitori erano andati via. Quella separazione l’aveva lasciato così sconvolto che non era nemmeno riuscito a singhiozzare e a chiamarli: aveva tenuto stretta la mano di sua madre fino a quando lei non aveva gentilmente sciolto quella presa, rassicurandolo che la mattina successiva sarebbe arrivata il prima possibile.
Era stato così brutto passare tutte quelle ore senza di loro, mangiando quella cena servita su un vassoio bianco e che sapeva sempre di disinfettante. E poi ogni volta che qualcuno entrava in camera a controllare come stava, aveva sempre il terrore che gli facesse qualcosa di brutto come un nuovo prelievo di sangue.
“Allora, oggi è il grande giorno – disse l’infermiera, accostandosi al suo letto – tra poco verrà il dottore a controllare che vada tutto bene: nel frattempo ti devo misurare la temperatura e la pressione.”
A quelle parole il bambino si irrigidì tra i cuscini.
“Fa male misurare la pressione?” ansimò.
“No, tranquillo – sorrise lei, accarezzandogli i capelli – adesso apri la parte superiore del pigiama e metti il termometro sotto l’ascella: nel frattempo lasciamo che la stanza arieggi.”
“Mamma e papà quando vengono?”
“Sono le otto e mezza, tesoro, ci vorrà ancora un’oretta buona.”
Ancora un’ora: la mente di Kain iniziò a fare spietati calcoli, su quanti minuti e secondi c’erano in quell’arco di tempo. Forse a fare il conto alla rovescia sarebbero passati più in fretta.
 
Roy non poté far a meno di sfoggiare un sorriso strafottente all’infermiera all’ingresso dell’ospedale che sicuramente si ricordava di lui dalla sera prima: adesso non c’era niente che l’avrebbe potuto fermare e si sentiva di nuovo con la situazione sotto il suo controllo, preferendo ignorare che in realtà il merito era di Andrew ed Ellie che avevano garantito per loro.
“Signori Fury – salutò un dottore andando loro incontro – il bambino sarà felice di vedervi e… oh, ma abbiamo visite.”
“Sono degli amici di Kain – spiegò Andrew, mettendo le mani sulle spalle di Riza – proprio non ce la facevano a stare in paese ad aspettare e così ci hanno raggiunto.”
“Possiamo vederlo?” chiese con impazienza Roy.
“La stanza più avanti, direi che sarà felice di…”
Ma non terminò la frase che i due ragazzi si erano già catapultati nel corridoio.
Roy aprì con frenesia la porta, tallonato da Riza.
“Gnomo!” esclamò con gioia correndo accanto al letto.
“Roy! Riza! – Kain annaspò per la sorpresa, ma due secondi dopo era già stretto tra le braccia di Riza, ridendo e piangendo allo stesso tempo – Siete qui…”
“Ma certo che siamo qui – dichiarò Roy, stringendolo a sua volta e mettendo completamente da parte qualsiasi forma di dignità adolescenziale – quando mai ti potevamo lasciare solo? Vedrai che andrà tutto bene, coraggio.”
“Starete con me? Anche quando mi sveglierò dopo l’operazione?”
“Ma certo, tesoro – sorrise Riza – saremo proprio accanto a te, non aver paura.”
“Siamo venuti clandestinamente in treno – sogghignò Roy – appena finisci con questa stupida operazione ti racconto tutto quanto.”
Con una promessa del genere Kain non vedeva l’ora che tutto terminasse per poter ascoltare quell’incredibile avventura.
 
La presenza dei suoi amici riuscì a rendere le cose molto più sopportabili per Kain.
Mentre con Ellie ed Andrew era più facile lasciarsi andare a scene di sconforto, Roy riusciva a stimolarlo nel modo giusto e a far uscire il lato più coraggioso della sua personalità. Riuscì a trattenere le lacrime persino quando due infermiere entrarono in stanza con il lettino mobile e lo prepararono per l’operazione.
“Voi non potete venire, vero?” chiese lui, mentre Ellie gli levava gli occhiali.
“No, pulcino – la donna lo baciò in fronte – ma aspetteremo qui e come ti sveglierai ci troverai tutti accanto a te, non temere.”
E così ai quattro non restò che aspettare quelle due estenuanti ore di operazione.
Per tutto quel tempo Ellie rimase a guardare dalla finestra, tenendo tra le mani gli occhiali del figlio, lo sguardo perso nel cortile dell’ospedale. Riza ne fu così colpita che decise di non disturbarla e così si sedette nel letto accanto ad Andrew, posandosi contro il suo fianco in cerca di conforto.
“Andrà tutto bene, piccola mia – sorrise lui, passandole il braccio attorno alle spalle – è solo snervante stare ad aspettare, tutto qui.”
Roy invece era posato allo stipite della porta, le braccia conserte, e fissava l’orologio appeso alla parete: erano due ore e anche se quelle lancette si ostinavano a procedere con grande lentezza, lui avrebbe atteso.
 
“Beh, direi che fare un viaggio in un vagone normale è tutta un’altra cosa.” dichiarò Roy il giorno dopo mentre lui e Riza stavano seduti nello scompartimento del treno che li riportava in paese.
“I signori Fury sono stati davvero premurosi – sospirò Riza, prendendo dalla tracolla uno dei panini che avevano comprato per il viaggio – tieni questo è tuo e poi ci sono anche delle fette di torta.”
“Allora, farai come ti hanno proposto? Io accetterei, Riza, così almeno tu rivedi Kain.”
Lei ci rifletté per diverso tempo, tenendo il proprio panino, ancora avvolto nel tovagliolo, in grembo: tornare ad East City fra una decina di giorni, approfittando di Andrew che scendeva in paese per prendere qualche cambio per sé e la moglie, voleva dire farsi pagare il viaggio da loro e le dispiaceva essere di così tanto disturbo… avevano già pagato i loro biglietti per farli tornare a casa.
“Non lo so…”
“Sei importante per loro, ragazzina – scrollò le spalle Roy – non sei un peso, assolutamente, e sono certo che sarebbero felici di averti lì per altri tre giorni: pensa anche a Kain, la tua presenza non potrà che fargli bene. In fondo se tu ci andrai, noi altri ci sentiremo molto più tranquilli.”
“Dici? Beh, mi riservo ancora del tempo per pensare: tanto il signor Fury non rientra in paese che tra una decina di giorni. Oh, ecco il controllore, prendo i biglietti.”
Ci furono dieci secondi di apprensione mentre l’uomo controllava e forava i loro biglietti, ma poi passò oltre come se niente fosse. Ed entrambi tirarono un sospiro di sollievo.
“Roy, non faremo mai più delle follie simili come quel viaggio clandestino in treno, va bene?” dichiarò lei dopo diverso tempo che rimasero in silenzio.
“Ma dai, in fondo è andato tutto bene, no?” ritorse il ragazzo con aria offesa.
“Certo, come no. Diciamo le cose come stanno: la situazione ti è del tutto sfuggita di mano.”
In minima parte, suvvia. In fondo all’ospedale giusto ci siamo arrivati senza problemi.”
Riza scosse il capo: quando Roy assumeva quel tono di supponenza era irremovibile: oramai si era convinto che in ogni caso il suo piano sarebbe riuscito se non fosse stato per l’intervento degli adulti. E Riza ringraziò per l’ennesima volta il cielo che Andrew ed Ellie li avessero trovati in tempo, prima che lui tentasse qualche nuova follia.
Roy purtroppo era fatto così: se si intestardiva su qualcosa non c’era modo di fargli cambiare idea.
“Oh, stiamo arrivando – disse, vedendo la stazione del paese dal finestrino – dai, iniziamo ad alzarci e ad avvicinarci all’uscita del vagone.”
“Perfetto.”
Come misero piede nella piccola banchina tirarono un sospiro di sollievo, la loro avventura clandestina ufficialmente finita. Mentre Riza si sistemava meglio la tracolla, Roy si stiracchio, felice di sgranchirsi le gambe dopo così tante ore di viaggio. Fece un rapido saluto al capostazione che lo guardò perplesso, chiedendosi quando quei due ragazzi erano partiti per andare a chissà dove, ed assieme all’amica uscì dalla stazione, tutto sommato felice di essere tornato a casa.
Come fecero i primi passi fuori dal piccolo edificio una voce li bloccò.
“Bentornati, clandestini – salutò Vincent, staccandosi dal muro della stazione dove era tranquillamente posato – aspettavo con ansia il vostro ritorno, il tuo in particolare Roy.”
“Ca… capitano Falman…” mormorò il ragazzo con voce nervosa, mentre l’uomo si avvicinava e metteva una mano sulla spalla di ciascuno di loro.
“Ci dispiace tanto.” si scusò subito Riza.
“A te hanno già pensato Andrew e sua moglie, signorina – la squadrò lui – mi limiterò a dirti che una storia simile non si deve ripetere mai più, mi sono spiegato bene?”
“Certamente.”
“Ottimo: forza, adesso ti riaccompagniamo a casa. E poi mi occupo di te, Roy Mustang.”
E Roy ebbe un brivido nel percepire tutta la minaccia insita in quell’ultima frase.

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Capitolo 50
*** Capitolo 49. Rapporto teso. ***


Capitolo 49. Rapporto teso.

 

Vato aveva avuto il vago sentore che suo padre avesse in mente qualcosa di simile e dunque, nonostante fosse ancora offeso per essere stato coinvolto nella follia di Roy, con tutte le dolorose conseguenze, appena l’amico venne spinto dentro casa si accostò a lui.
“Non opporre resistenza – gli sussurrò, prendendolo per il braccio – peggiori solo le cose e non hai idea di quanto possa essere dannoso.”
“Ma che vuole fare? – chiese il moro, osservando Vincent che posava la giacca sulla sedia e poi andava in cucina – Non vorrà osare…”
“Adesso io e te andiamo in camera matrimoniale e facciamo un bel discorso – disse l’uomo, tornando con in mano il cucchiaio di legno – sta tranquillo che ho già parlato con tua zia e lei non ha fatto alcuna obiezione. Oggi sarai nostro gradito ospite a cena, ma temo che dovrai sederti con molta cautela.”
“Mi rifiuto categoricamente di… ahia!”
“Obiezione respinta. – Vincent lo afferrò per l’orecchio – Vato, quando torna tua madre dille di aggiungere un posto a tavola e spiegale la situazione: io e questo furfante saremo parecchio impegnati.”
“Sì papà…” sospirò lui.
Rimase in piedi nel salotto sentendo la porta della stanza matrimoniale chiudersi, attutendo le proteste di Roy, ma tutto fu perfettamente udibile.
“Mi lasci andare!”
“Resta fermo e smettila di dimenarti come una biscia!”
“Restare fermo? Fossi scemo… ahia! Il braccio!”
“Decisamente con il braccio bloccato sei più gestibile e adesso basta scalciare.”
“Questo è abuso disciplinare!”
“Ma non sai nemmeno di che stai parlando! E già che ci siamo, prendere un treno clandestinamente come lo chiami? A casa mia si dice reato!”
E come Vato iniziò a sentire i lamenti di Roy sospirò con rassegnazione.
“Gliel’avevo detto di non opporre resistenza…”
 
La problematica di Roy era non aver mai avuto a che fare con una figura paterna stabile, sia nel bene che nel male. Di conseguenza quello che era abbastanza chiaro per un Jean o per un Vato, per lui era invece qualcosa di totalmente estraneo. A vederla sotto questo punto di vista quanto successe nemmeno un’ora dopo fu logico, anche perché Vincent Falman non era certo morbido come un Andrew Fury,
“Ancora due minuti e potrai sederti a con noi.” dichiarò il capitano, impassibile, rivolgendosi al ragazzo nell’angolo della stanza.
“Che gentile concessione – sbottò Roy, cercando di ignorare il dolore al sedere e la bruciante umiliazione che stava provando nel stare in castigo come un moccioso delle elementari – non ci penso nemmeno. Piuttosto, posso andare a casa?”
“Se usi questo tono direi di no – lo squadrò Vincent – e ti avviso che il cucchiaio di legno è ancora posato sul letto, capisci cosa intendo?”
“Dai, Roy – sospirò Rosie, cercando di calmare gli animi – non fare l’offeso e vieni a tavola con noi.”
Vato dal canto suo gli rivolse un’occhiata eloquente che lo invitava a seguire quanto gli veniva detto. Ma un conto era avere un carattere tranquillo come il suo, un altro era avere un forte spirito di ribellione e  parecchi problemi nell’accettare l’autorità dei grandi.
“Se lo scordi, signora. Io con quell’uomo non voglio aver niente a che fare.”
“Roy…” mormorò Vato, iniziando a temere il peggio e vedendo il volto di suo padre diventare di pietra.
“Roy cosa? Gli avessi fatto chissà quale sgarbo! Te l’ho mai detto che tuo padre è veramente rigido?
“Ti avviso che mi sto per alzare…”
“Non provocare così…”
“Ma chi provoca! Io me ne vado a casa.” e senza aspettare risposta, con aria offesa, si allontanò dall’angolo dove era stato messo in punizione.
“No, tu ora vieni in camera con me – lo bloccò Vincent, alzandosi e afferrandolo per il colletto – a quanto pare c’è bisogno di una seconda ripassata.”
“Che? Dannazione a lei, mi lasci andare! Questo è sequestro di persona!”
“No – borbottò l’uomo, mettendoselo sottobraccio e avviandosi verso il luogo della sentenza – è cercare di metterti un minimo in riga. E prova a scalciare come l’altra volta e giuro che ci vado ancora più pesante!”
“Più pesante? Più pesante di come ha fatto prima… questo è impossibile!”
“E questa è resistenza a pubblico ufficiale! Molla quella maniglia!”
“Mai!”
“Oh sì che la molli! Piccolo testardo!”
Vato e Rosie si guardarono con rassegnazione, mentre quello strano teatrino si concludeva con la porta che veniva chiusa e le proteste di Roy che continuavano a farsi sentire.
Sembrava che le cose tra lui e Vincent proprio non fossero destinate ad andare bene.
“Vuoi ancora insalata, tesoro?”
“Grazie, mamma – sospirò Vato – e mi passi anche l’olio?”
 
La mattina successiva Roy si svegliò con un gemito di protesta e rimase sorpreso nel constatare che si trovava nella sua camera: non aveva alcun ricordo di essere tornato al locale di sua zia, l’ultima immagine che aveva era del letto matrimoniale dove era rimasto sdraiato prono a sfogare l’universo di dolore che era il suo fondoschiena.
Maledetto bastardo, come si è permesso?
Si spostò supino, ma si rese immediatamente conto che non era ancora il caso di fare sforzi simili: probabilmente per il resto della giornata non avrebbe potuto sedersi se non con estrema difficoltà.
Ad una rapida analisi conveniva alzarsi in piedi: prima di tutto doveva levarsi il pigiama e…
Ma non sto indossando il pigiama.
No, aveva ancora i vestiti del giorno prima, solo le scarpe gli erano state levate.
Mentre scrollava la testa cercando di schiarirsi le idee, manco fosse reduce da un’ubriacatura, la porta si aprì e sua zia fece la sua comparsa, una vestaglia rossa a coprirle l’abito.
“Buongiorno, nipote – sorrise – vedo che ci siamo ripresi.”
“Ti ringrazio per avermi consegnato nelle grinfie del nostro grande capitano di polizia.” rispose sarcasticamente lui, lieto di parlare con l’unico adulto che accettava il suo modo di fare.
“Offeso nel tuo grande ego, Roy – boy? Non potevi certo pensare di passarla liscia dopo quella gita di tre giorni che ti sei fatto.”
“Stai diventando troppo apprensiva, Madame – constatò lui, odorandosi con disappunto la maglietta e sentendo l’esigenza di un bagno – mi devo preoccupare?”
“Di me no – sorrise furbescamente lei, posandosi al tavolo – ma del capitano Falman sì, mi pare. Mi ha raccontato che non sei stato molto disciplinato nel ricevere il tuo castigo.”
“E’ fuori di testa, te lo dico io. Non so nemmeno come sono riuscito a tornare a casa dopo quello che mi ha fatto: non lo voglio più vedere in vita mia. Adesso scusa, ma ho proprio bisogno di lavarmi.”
“Vai pure, ragazzo. Ah, a proposito, riguardo il grande mistero di come tu sia tornato in camera tua: ti eri addormentato da loro e ti ha riportato lui in braccio. Dovevi vederti, Roy – boy, avevi proprio un faccino delizioso con le guance ancora arrossate per il pianto.”
Roy sbuffò ed uscì dalla stanza con impazienza. Detestava simili prese in giro, anche da parte di sua zia; ed essere venuto a conoscenza di quell’umiliante dettaglio non faceva che aumentare il suo odio nei confronti di quell’uomo. Proprio non riusciva a capire come, per diversi mesi, avesse fatto affidamento su di lui.
“Non dimenticarti di andare a scuola – gli ricordò sua zia – oggi è l’ultimo giorno e non sarebbe bello mancare, non credi?”
“Perché, altrimenti il capitano Falman si arrabbia?” mormorò sarcasticamente.
 
“Non devi essere così spaventato – disse Heymans – lo sai che l’ultimo giorno sono solo tre ore.”
Henry annuì leggermente, ma si vedeva che non era molto convinto di quel ritorno a scuola.
Avrebbe preferito di gran lunga che quell’anno scolastico terminasse senza la sua presenza in modo da avere un’intera estate a disposizione per riordinare bene le idee e decidere che atteggiamento adottare a settembre con la ripresa delle lezioni.
“Non puoi par-parlare tu con i m-miei insegnanti?” chiese, mentre la fastidiosa balbuzie, residuo del suo periodo di mutismo, si faceva sentire. Un altro motivo per non voler rivedere i suoi compagni: già non sarebbero stati molto bendisposti nei suoi confronti, ne era certo, se si andava ad aggiungere questo fattore era anche peggio.
“E’ meglio che ci sia anche tu – scrollò le spalle il fratello, mentre scendevano dalle scale – hai saltato più di tre settimane di lezioni ed, anche se non rischi la bocciatura perché hai sempre avuto buoni voti, è giusto sapere se è necessario che a settembre tu faccia qualche verifica o cose simili.”
“Mh…”
“Ciao, mamma, noi andiamo. Ci vediamo dopo.”
“Ciao, ragazzi, mi raccomando.” salutò Laura.
Mentre camminavano per le strade del paese, Heymans pensò che non andava più a scuola con suo fratello da anni, ormai. Probabilmente da quando lui era in terza elementare e già si stava facendo un gruppetto di amici non proprio affidabili. Lanciando un’occhiata di sbieco ad Henry gli fece male vedere come era rimpicciolito in quelle settimane: sembrava che assieme a Gregor fossero sparite tutte le espressioni strafottenti e arroganti che gli erano solite, lasciando solo un viso smunto e carico di ansia ed apprensione.
Oggettivamente era difficile affrontare un mondo esterno che in quel momento era loro ostile: mentre Heymans aveva basi solide con Jean ed il resto del suo gruppo, Henry sapeva di non avere nessuno.
“Sarai felice di rivedere i tuoi amici, suvvia.” gli aveva detto la sera prima.
“Non so se sar-saranno ancora miei a-amici.”
E non era una paura priva di fondamento.
Non parlare con i figli della poco di buono: era quasi diventato un comandamento che la maggior parte dei ragazzi della scuola doveva seguire. E molto probabilmente  i compagni di classe di Henry l’avrebbero applicato alla lettera.
Come arrivarono nel cortile, Heymans si rese conto di una grande differenza tra lui e suo fratello: la scuola in un paio di giorni si era in parte riabituata alla sua presenza, ma vedere Henry tornare destò maggior scalpore. La notizia di quello che aveva fatto a Kain era serpeggiata ovunque, ovviamente nelle versioni che più conveniva raccontare, e quindi lui era la mela più marcia della famiglia Breda.
“Heymans…” sussurrò il ragazzino, mentre i suoi occhi grigi saettavano nervosamente da una parte all’altra del cortile, cogliendo tutti quei visi chiaramente ostili. E dopo tutto quello che aveva passato era veramente difficile tenere i nervi saldi e convincersi che non c’era nessun pericolo.
“Stai calmo – gli consigliò il fratello – ci sono io con te. Forza, andiamo a parlare con i tuoi professori.”
Non fu un’esperienza molto facile: ovviamente i docenti erano paesani e dunque perfettamente influenzabili dall’ostracismo che stava colpendo la famiglia dei due ragazzi. Alcuni si dimostrarono più freddi del previsto, magari gli stessi che non avevano avuto esitazioni a lodare Henry durante le interrogazioni, ma per fortuna altri si dimostrarono più comprensivi e non lanciarono frecciate cattive contro di lui.
Durante quei colloqui la balbuzie del ragazzino, ovviamente determinata dal nervosismo, divenne molto forte, tanto che ad un certo punto serrò gli occhi e si rifiutò di parlare ancora.
“Mh – lo guardò di sbieco il docente di scienze – con un problema simile non so quanto possa combinare in classe. Sarebbe più un elemento di disturbo che altro.”
Certo che se lei è così incoraggiante…
Heymans si dovette ingoiare quella risposta rovente.
“E’ solo nervoso, tutto qui. Allora, se a settembre fa delle verifiche non ci dovrebbero essere problemi vero?”
E non ci dovevano essere problemi: in virtù del fatto che una simile possibilità veniva concessa a Kain, anche Henry doveva godere di tale trattamento. Anche se era chiaro che molti non lo consideravano giusto.
Quando quei colloqui finirono, Henry si sedette nel suo banco con aria così sconvolta che Heymans ne fu preoccupato.
“Resto con te, va bene? Tanto ormai manca poco al discorso del preside e poi torniamo a casa.”
“Mh…” annuì debolmente lui, comunque sollevato a quella concessione.
E poi abbiamo tre mesi buoni per farti tornare più sereno. Dannazione, Henry, non mi piace proprio per niente vederti in questo stato.
 
“Ovvio che non ho detto nulla a nessuno.” sospirò con rassegnazione Vato, mentre Roy lo fissava con un broncio degno di miglior causa.
“Nemmeno ad Elisa?”
“No, nemmeno a lei. E comunque te l’avevo detto di non ribellarti in quel modo: è la cosa che mio padre detesta di più.”
“Già, a proposito di lui: scordati che io venga ancora a casa tua e se mai lo farò sarà quando lui non c’è.”
“Non capisco perché te la prendi così tanto – si grattò la testa il giovane Falman – in fondo le hai prese anche dal padre di Jean quando facemmo quella caccia al fantasma e non mi pare che ce l’abbia con lui.”
“E’ stata una cosa completamente diversa.” dichiarò con convinzione.
James Havoc non si era imposto su di lui: aveva soltanto eseguito una richiesta fatta da sua zia ed inoltre, quella volta, c’era stata anche l’esigenza di non dare troppa soddisfazione a Jean che gongolava all’idea che lui fosse spaventato nell’assaggiare la cintura di suo padre.
Ma Vincent Falman era un discorso differente perché si era imposto su di lui e non con la logica di Andrew Fury, a cui oggettivamente era stato impossibile rispondere, ma con una disciplina molto più pesante ed umiliante.
Era abbastanza paradossale fare l’offeso, proprio lui che ad inizio anno aveva rimproverato Vato per quell’eccessiva reazione alla punizione dopo la caccia al fantasma, ma questa volta Roy si trovava violato in una strana forma di dignità personale che probabilmente nessuno avrebbe mai capito.
Lui non aveva bisogno degli adulti, se non per questioni puramente legali, ma in questo bastava sua zia. Per il resto era perfettamente in grado di cavarsela da solo e pensava di averlo dimostrato ampiamente, per esempio quando aveva dato il suo aiuto nei lavori subito dopo la piena.
Ed invece Vincent Falman aveva deciso che non era così e gliel’aveva fatto capire nel modo più umiliante possibile: potevano starci le botte, ma l’averlo messo nell’angolo come un moccioso proprio no.
“Si è arrabbiato perché era preoccupato per te e anche per Riza. Insomma, se vi succedeva qualcosa…”
“Non sarebbe successo niente, dannazione! Avevo tutto sotto controllo, perché nessuno mi vuole credere?”
“Perché a quindici anni non credo che si possa dire di…”
“Io posso e sai perché? – Roy si mise una mano sul petto – Perché tra mia madre che è morta che ero piccolissimo e mio padre che ho visto poco e niente, ho imparato a cavarmela per conto mio. Non ho bisogno di genitori: non ho bisogno di un paparino arrabbiato che me le suoni, chiaro? Spero che tuo padre se lo metta bene in testa e mi lasci in pace.”
E lo disse con un tono tale che a Vato non restò che sospirare con rassegnazione.
Si trovava davanti all’ennesimo colpo di testa di Roy e sapeva che non ci poteva fare niente: in quei momenti era così ostinato che avrebbe potuto convincerlo a fare la guardia ad uno spietato assassino rinchiuso in un’armatura senza che lui potesse avanzare alcuna obiezione.
Spero solo che le cose tra lui e papà si risolvano.
In fondo era sinceramente dispiaciuto per la piega che aveva preso la situazione: gli piaceva quando Roy veniva a passare dei pomeriggi a casa sua e sapeva che anche i suoi genitori si erano affezionati tanto a lui.
Era una strana forma di fratello esuberante, proprio come Kain era un perfetto fratellino: ma mentre il piccolo Fury aveva dei genitori e dunque c’era un'ovvia separazione, Roy con il suo essere orfano ed avere quella zia particolare, era più facilmente inseribile all’interno del nucleo familiare.
Anche se… fosse mio fratello credo che scene come quella di ieri sarebbero all’ordine del giorno.
 
“Ferito nell’orgoglio come l’ho visto poche volte – scrollò le spalle Madame Christmas, versando il caffè nella tazzina e allungandola nel bancone – e anche lei, capitano, ha una bella faccia, eh? Mio nipote non è per niente facile da gestire.”
Vincent borbottò qualcosa di incomprensibile e prese quella tazzina con aria profondamente irritata.
Il giovane Mustang aveva la capacità di indisporlo come pochi: non aveva mai avuto a che fare con un ragazzino così ribelle e poco propenso alla disciplina. Sulle prime non aveva pensato che fosse così: Roy si era presentato a lui e Rosie con quella che si poteva definire timidezza, ma una volta presa confidenza si era dimostrato cortese ed educato. Non era quello il suo problema, no: in condizioni normali era perfettamente gestibile…
“Quando si mette in testa qualcosa non c’è verso di fargli cambiare idea – dichiarò scuotendo il capo – crede di aver ragione lui ed è tutto il mondo attorno che si deve adeguare alla sua scelta. Gli farei il sedere nero per una settimana di fila, mattina e sera: piccolo arrogante che non è altro.”
“Arrogante e con un grande spirito d’indipendenza: non vede l’ora di affrancarsi da noi adulti, non è chiaro anche a lei?”
“Non capisco proprio perché una simile fretta – sospirò Vincent – non c’è niente di male a rispettare i tempi e crescere con le giuste tappe. Proprio non riesce a capire che guidare i suoi amici in queste follie non vuol dire assolutamente essere maturo, tutt’altro.”
“Più che essere maturo, mio nipote vuole essere indipendente e vedere gli altri che lo seguono gli dà la sensazione di avere la sua vita sotto controllo, senza interferenze degli adulti. Un po’ lo capisco, considerata l’infanzia che ha passato… mio fratello non è mai stato carico d’attenzioni per lui, tutt’altro. A dire il vero tra me e Christopher ero io quella più adatta a diventare genitore, ed è tutto dire.”
Scoppiò in una strana ed amara risata e poi prese dalla tasca della sua vestaglia il bocchino d’oro e un pacchetto di sigarette. Dopo qualche secondo alle narici di Vincent arrivò l’odore dolciastro della nicotina.
“Mi sta dicendo che dovrei sentirmi in colpa, signora? – chiese l’uomo, guardando con aria pensosa il fondo della tazzina, ma poi scosse il capo – No, non lo sono: anche se ha avuto un’infanzia particolare, determinate cose richiedono una punizione e lui ha avuto quello che si meritava. E se il suo orgoglio ne è ferito tanto meglio: è un modo per imparare la lezione, tutto qui.”
“Si è davvero affezionato al mio turbolento nipote, eh? – sorrise la donna – Non pensavo che Roy trovasse qualcuno come lei a metterlo in riga quando serve.”
“Perché lei non l’ha mai fatto, signora? In fondo è suo nipote e…”
“Senta, lo sa bene che tipo di locale è questo, anche se sappiamo che le mie ragazze sono molto meglio di tante donne che girano con la puzza sotto il naso e poi magari la sera i loro mariti vengono qui. Un giorno mi trovo tra le mani una lettera con cui mi si informa che sono l’unica parente rimasta ad un microbo di sette anni: in meno di dieci giorni me lo ritrovo in mezzo ai piedi… e sa una cosa, capitano? Non gli ho mai visto versare una lacrima per suo padre.”
Vincent non rispose e Madame aspirò profondamente.
“Era serio, di poche parole, ci ho impiegato qualche tempo per capire che era così di natura e non per il trauma della morte del genitore. Io e le ragazze abbiamo trovato il giusto modo di approcciarci a lui e dopo qualche mese ha iniziato ad essere decisamente più piacevole come compagnia… ma non siamo tipe che raccontiamo favole o ci assicuriamo che faccia i compiti, io per prima. Non siamo le sue madri, ed io sono solo sua zia e gli ho dato quello che potevo… e a quanto ne so è più di quanto gli abbia dato suo padre e anche sua madre, anche se quella poveretta ha avuto l’unica colpa di morire troppo presto.”
“Non ho mai insinuato che lei sia stata una cattiva tutrice per Roy.” sospirò Vincent.
“Lo so: la conosco bene, capitano, e credo che lei sia una delle persone migliori che ci siano in questo paese. Ha sempre fatto in modo che io e le mie ragazze venissimo trattate con la dovuta cortesia e non per qualche interesse personale, ma semplicemente perché ha integrità morale. Concetto a molti sconosciuto, considerato l’atteggiamento che stanno assumendo con quella poveretta di cui ha cacciato via il marito… bel figlio di buona donna, quello lì, è stata una bella liberazione.”
“Mia moglie si è affezionata molto a Roy e pure io – ammise Vincent – anche se ha la capacità di farmi arrabbiare come pochi al mondo.”
“A Roy non fa male una figura paterna di polso come lei, capitano, si fidi, e se ci resta male perché scopre che a quindici anni può tranquillamente prenderle ed essere messo in castigo, buon per lui. Anche se probabilmente adesso ce l’avrà con lei per diverso tempo: non si aspetterà certo di vederlo nel suo ufficio a chiederle scusa, vero?”
“Se lo facesse lo porterei subito dal medico – sorrise sarcasticamente l’uomo – ma non ho nessuna intenzione di cedere davanti a questa sua stupida ostinazione. Signora, se suo nipote prova a mancarmi di rispetto o tentare qualche ripicca nei miei confronti io…”
“Lei è autorizzato a fare come meglio crede, capitano – ridacchiò Madame Christmas – non mi crea nessun problema rispondere ai suoi rimbrotti quando si ritrova col sedere pesto.”
“Quello che speravo di sentirle dire. Bene, adesso è meglio che ritorni in ufficio: grazie per il caffè, Madame.”
“E’ stato un piacere, capitano.”
 
“Finito anche quest’anno! – esclamò Jean, perfetta incarnazione dello studente liberato dalla tortura delle lezioni – Tre mesi di libertà!”
E con un rapido gesto sollevò Janet tra le braccia, provocandone le risate entusiaste. Anche tutti gli amici vicino a lui si fecero contagiare da una simile gioia: la prospettiva di un’estate tutta da vivere era qualcosa che faceva dimenticare totalmente le lezioni ed i libri che per nove mesi l’avevano fatta da padrone.
“Nuotate allo stagno, gite, picnic, feste – elencò Rebecca, andando a stringere le braccia attorno al collo di Jean che, per una volta tanto, non reagì con sdegnata vergogna ad un gesto così plateale – ragazzi, ci divertiremo un mondo!”
Persino Roy si concesse un sorriso soddisfatto: l’estate portava con sé l’opportunità di fare miliardi di cose assieme ai suoi amici, che altro poteva chiedere di più? E poi tra un mese sarebbe tornato anche Kain e tutto sarebbe stato perfetto, assolutamente perfetto.
“Ehi, Heymans! – chiamo Jean – Non dimenticarti che in questi giorni dobbiamo festeggiare l’inizio delle vacanze, va bene?”
“Sì, va bene – annuì lui, mentre usciva da scuola con Henry e rispondeva al gesto di saluto dell’amico – ci sentiamo in questi giorni.”
Si sarebbe tanto voluto unire agli altri e celebrare quel momento come si conveniva, ma mise una mano sulla spalla del fratello e lo incitò gentilmente a camminare verso casa. Sicuramente una volta che la porta si fosse chiusa alle sue spalle sarebbe andata meglio: aveva parlato poco e niente da quando si era seduto nel suo banco.
“Ciao, Henry.”
Una voce li fece girare e furono sorpresi nel vedere Mike e Liam, gli amici più stretti di Henry e come lui facenti parte della banda.
“C-ciao.” mormorò lui con esitazione, non aspettandosi che gli rivolgessero la parola.
“Senti, – fece uno di loro – non è facile dirtelo, ma ha detto il capo che non ti vuole più nella banda.”
“Ragazzi – iniziò Heymans – non mi pare il caso di parlare di simili cose.”
“No, dit-ditemi pure.”
“Ma perché parli in modo così strano?” chiese Liam con curiosità.
“Ho… ho solo qualche problema temp-temporaneo.”
“Uh – annuì Mike, avvicinandosi – beh, dicevamo che il capo dopo quanto è successo, considerato anche che era da tempo che non ti facevi più vedere, ritiene che non sia più il caso che tu stia nel gruppo.”
“Liquidato.”
La parola, usata nel gergo delle bande per indicare l’espulsione di qualcuno dal gruppo, uscì dalla bocca di Henry senza alcuna esitazione. Heymans notò come i suoi pugni si strinsero lievemente: durò solo per qualche secondo, ma doveva essere dura vedere tutti i propri compagni sparire in modo così vigliacco.
“Sì, – ammise Liam, abbassando lo sguardo con imbarazzo – abbiamo cercato di opporci, ma come sai noi delle medie non abbiamo molta voce in merito a queste decisioni.”
“Cap-capisco.”
“Senti, anche se sei uscito fuori dalla banda per me non ci sono problemi a vederci. A noi non è che considerino più di tanto, lo sai, e d’estate siamo sempre stati in tre a divertirci…”
“E’ vero – annuì Mike – dai, perché qualche volta non passi da me… anzi, no, forse mia madre non sarebbe molto felice. Ma ci possiamo vedere all’aperto, tanto chi vuoi che ci controlli?”
Heymans a quelle parole fece un lieve sorriso e diede una lieve pacca ad Henry, incitandolo a rispondere.
Lui, commosso da quelle parole di amicizia, annuì e mormorò.
“Mi piacer-ebbe, sul serio.”
“Perfetto! Allora ci vediamo nelle prossime settimane e mi raccomando, riprenditi.”
Come i due ragazzini si furono allontanati, Heymans sospirò di sollievo, vedendo il viso di Henry rilassarsi in un sorriso. Non tutte le persone che frequentava quando era un teppistello erano dei cattivi diavoli e la presenza di quei due l’avrebbe aiutato a superare le difficoltà.
Dunque quando tornarono a casa e Laura andò loro incontro, si dimostrarono più soddisfatti del previsto.
Tuttavia, quando Henry fu andato in camera sua la donna chiamò il figlio maggiore in cucina e gli mise una mano sulla spalla.
“Oggi è venuto il padre di Andrew – iniziò – gli è arrivata una lettera dall’avvocato di New Optain.”
“La nonna è morta.” capì subito lui, ricordandosi di come l’avvocato avesse detto che non le restava molto da vivere.
Laura annuì ed Heymans la sbirciò con curiosità, cercando di cogliere le emozioni che una simile notizia poteva suscitare in lei. Ma appariva estremamente serena, gli occhi grigi limpidi e puliti, senza quella gelida rabbia che traspariva le poche volte che aveva parlato della madre in sua presenza.
“Non sei arrabbiata…”
“No – ammise lei – è come se fosse un altro piccolo livido nella mia anima che sparisce. So che ormai non poteva più nuocermi, ma è come se adesso fossi libera da un altro peso. Ora non dovrà più distruggersi nella rabbia per quanto mi è successo.”
“E nel dolore per la morte dello zio – Heymans disse quelle parole con discrezione, ma voleva che almeno quella parte di sua nonna, forse l’unica decente, venisse riferita a sua madre – per lui credo che…”
“Forse, – sospirò Laura – ma mio fratello non avrebbe voluto che facesse molte cose… anche struggersi in quel dolore assurdo per la sua morte.”
“Il signor Fury mi aveva detto diverse volte che tu sei forte in modo molto diverso da Henry, mamma – sorrise lui, baciandole la guancia – e ogni giorno ne colgo una sfumatura diversa. E adesso cosa succederà?”
Laura lo abbracciò.
“Niente di particolare: è morta la settimana scorsa e si è già provveduto al funerale secondo le disposizioni che aveva lasciato. L’eredità a quanto pare va a me e dunque ho chiesto al padre di Andrew di occuparsene, come ha sempre fatto; la casa che avevano a New Optain era solo in affitto e dunque non ci saranno nemmeno problemi legati ad essa.”
“Mh, capisco… però, devo andare dal signor Fury e parlargli di una cosa che vorrei da quel posto. Ci vediamo dopo, mamma.”
 
“Ciao, Roy – salutò Rosie, incontrando il ragazzo per strada – come va?”
Roy si irrigidì a quella domanda, la gioia per la fine della scuola che spariva improvvisamente, ma cercò di ingoiare almeno in parte la risposta rovente.
“Si riferisce a me o al mio sedere? – chiese, mettendosi le mani in tasca – In ogni caso bene, ma non certo grazie a suo marito.”
La donna sospirò e allungò una mano per accarezzare i capelli neri, ma Roy si scostò con sdegno.
A quel gesto lei ci rimase male, ma sapeva che era molto probabile che per i prossimo giorni il ragazzo ce l’avrebbe avuta particolarmente con suo marito e dunque in parte anche con lei.
“Roy, vorrei che non…”
“Mi scusi, ma ora devo proprio andare.” e si allontanò senza darle il tempo di replicare.
Rosie lo guardò andare via, carico di rabbia ed umiliazione: non era facile da gestire come Vato. Roy era un genere di ragazzo molto differente e Vincent era arrivato davvero ai ferri corti con lui.
“Forse sei stato troppo severo, dovevi parlargli. Magari avrebbe capito dove ha sbagliato e accettato meglio il castigo.”
“Non c’era niente che dovevo spiegargli: sapeva benissimo che grande cavolata ha combinato. L’unico discorso che può capire è quello dove lui sta sulle mie ginocchia a prenderle… farabutto che non è altro.”
“La seconda passata di botte potevi evitarla, poverino: quando sono venuta in camera era così sfinito e stravolto dal dolore che si è addormentato quasi subito.”
“Tu pronta a fargli le coccole, vero?”
“Gli ho solo asciugato le lacrime e consolato un pochino, Vincent. Proprio come ho sempre fatto con nostro figlio dopo che veniva punito.”
“Nostro figlio dopo la punizione ha sempre avuto la decenza di chiedere scusa e di capire il suo errore. Questo demonio non ha capito proprio nulla, ma non si illuda che ceda.”
“Non ti ho mai visto così intestardito su qualcosa. Certo che un figlio come Roy sarebbe stato davvero impegnativo per te, vero? Non ne vuole proprio sapere di stare sotto l’autorità di qualcuno.”
“Non farmici pensare… forza, adesso lo riporto a casa; almeno quando dorme è tranquillo. Vieni, furfante, non mi pare il caso di interrompere il tuo sonno, sei anche esausto dal viaggio in treno.”
Già, ovviamente Roy non poteva sapere di quella discussione: era praticamente crollato addormentato dopo un minuto che lei era arrivata a consolarlo.
Le dispiaceva: si era sinceramente affezionata a lui ed era sicura che con un minimo di pazienza…
Ma fra lui e Vincent è davvero difficile.
Bisognava aspettare che la situazione sbollisse.
 
Qualche giorno dopo Heymans attendeva l’arrivo del treno alla stazione ferroviaria, chiacchierando con tranquillità col capostazione.
“Dovrebbe arrivare una cosa per me – stava dicendo – e preferisco prenderla già da qui piuttosto che aspettarla a casa. Ah, ecco il treno!”
Con un sorriso aspettò che l’addetto al vagone merci aprisse lo sportello e parlasse con il capostazione il quale gli fece cenno di avvicinarsi. Prese in consegna quando gli doveva arrivare, constatando con felicità che non aveva subito traumi per il lungo viaggio e si diresse a casa.
“Mamma, sono tornato – annunciò, aprendo la porta con qualche difficoltà per via dell’ingombro – vado in camera di Henry.”
Salì le scale ed entrò nella stanza del fratello che stava seduto nel letto a leggere.
“Ehi – sorrise, sedendosi accanto a lui e mettendo sopra il materasso quella grossa scatola di cartone con il coperchio e le pareti piene di fori – c’è una sorpresa per te.”
Un tintinnio seguito da un miagolio uscì dalla scatola come Henry la scosse.
“Un gatto?” esclamò, aprendo il coperchio.
La prima cosa a fare capolino fu una folta coda arancione, seguita subito dopo dal muso con gli occhi verdi e incuriositi. Dopo due secondi il grosso gatto si stiracchiava nel letto di Henry, annusando con sospetto la sua nuova casa.
“Heymans – Laura entrò – dove sei stat… un gatto?”
“Mamma, è bellissimo – sorrise Henry, accarezzandolo – po-po-possiamo tenerlo?”
“E quello di cui mi avevi parlato, vero? – sospirò lei, andando davanti al letto e squadrando il figlio maggiore – Ecco cosa volevi recuperare, eh?”
“Ti dispiace tanto? Io l’ho trovato simpatico da subito e mi sarebbe dispiaciuto che finisse chissà dove, magari per strada.”
“Va bene, possiamo tenerlo.” concesse lei, vedendo come Henry ne fosse entusiasta.
“Ha un nome?” chiese il ragazzino.
“Non mi pare che nel collare ci sia scritto qualcosa – constatò Heymans – ha solo il sonaglino attaccato. Beh, è maschio, per il resto direi che lo puoi chiamare come vuoi tu, Henry.”
“Allora ci pe-penserò bene.”
Il grosso gatto miagolo con soddisfazione: dopo tutto il trambusto che era successo negli ultimi giorni era piacevole avere un po’ di tranquillità. E poi quegli umani sembravano simpatici: si sarebbe trovato bene con loro.
 
Mentre la famiglia Breda accoglieva quel nuovo ospite, Vincent tornava a casa dopo una giornata di lavoro.
Posò la giacca della divisa sulla sedia, sentendo che ormai iniziava a fargli veramente caldo, e si sedette nel divano con aria cupa.
Erano passati cinque giorni ma non c’era stato nessun segnale da parte di Roy. Aveva ritenuto che il ragazzo cedesse dopo massimo due giorni, cercando un minimo di dialogo con lui, magari tramite Vato, ma non era accaduto niente di simile. Le poche volte che l’aveva incrociato per strada, lui si era sempre preoccupato di cambiare improvvisamente direzione, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
Questo l’aveva portato a ripensare ai discorsi che aveva avuto con Madame e con Rosie e una piccola parte di lui iniziava a pensare che forse doveva fare il primo passo con quel piccolo ribelle. Roy non era Vato, su questo non c’erano dubbi: non ne voleva sapere di ammettere le proprie colpe e chiedere scusa.
“Mamma, vuoi che apparecchi? – chiese proprio Vato uscendo dalla sua camera – Oh, ciao papà, bentornato.”
“Ciao, figliolo, tutto bene?” sorrise, lieto di vedere il figlio che, eccetto quell’unica volta, aveva imparato ad accettare e a comprendere le sue punizioni.
“Sì, certo.”
“Ah sei rientrato – fece Rosie, apparendo dalla cucina – non ti avevo sentito, caro.”
“Scusa, ero molto stanco e non sono nemmeno venuto a salutarti.”
“Fa niente – sorrise lei, facendosi avanti e guardandoli a turno con aria felice – bene, ora che ci siamo tutti devo farvi un annuncio. E’ arrivata posta per me, qualche ora fa, da New Optain.”
A quelle parole Vincent sentì un gelido brivido lungo la schiena; al contrario Vato mandò un’esclamazione gioiosa e si accostò alla madre che aveva tirato fuori dalla tasca del grembiule una lettera.
“E’ da parte di zia Daisy, vero?” chiese con foga, cingendole il braccio.
“Certo che sì, fiocco di neve.” ridacchiò Rosie.
“Bruciala subito e facciamo finta che non ci sia mai arrivata…”
“Vincent!”
L’uomo sospirò: ci mancava anche la lettera della sua odiatissima cognata.
“E cosa vuole la vipera? – chiese con voce cupa, sprofondando nella poltrona – Mandarmi i suoi amorevoli saluti?”
“Finiscila, possibile che tu e Daisy proprio non riusciate ad andare d’accordo?”
“Oh, dai mamma, non tenermi sulle spine! Che dice la zia?” la riscosse Vato.
“Tieniti forte, tesoro, lei e zio Max vengono a trovarci la settimana prossima!”
“Che cosa? Grandioso! – il viso del ragazzo era felice come poche volte i suoi amici avevano visto. Abbracciò la madre ed iniziò a battere le mani come un bimbo delle elementari – Zia Daisy e zio Max!”
“Vengono a trovarci… vengono qui?”
Al capitano di polizia Vincent Falman era appena crollato il mondo addosso.
Perché se c’era una persona che non sopportava era la sua sarcastica cognata Daisy McLane.
Dovrò armarmi di tutta la pazienza possibile…

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Capitolo 51
*** Capitolo 50. La zia Daisy. ***


Capitolo 50. La zia Daisy.

 

Vato era certamente il membro più discreto del gruppo: anche nelle sue dimostrazioni di amicizia o felicità aveva quasi sempre una forma di timidezza e riserbo a cui bisognava fare l’abitudine, tanto era differente dagli altri. Per questi motivi il suo entusiasmo per l’arrivo della zia era abbastanza spiazzante, anche per chi lo conosceva bene come Elisa.
Mentre attendeva che il treno giungesse, seduto nella panchina di legno che dava sulla banchina, il viso era illuminato da un grande sorriso: aveva provato a spiegare ai suoi amici chi fosse zia Daisy e cosa rappresentasse per lui, ma le parole in questo specifico caso non potevano bastare.
Spesso ci si porta dietro il ricordo di qualche figura che ha illuminato le giornate d’infanzia con una particolare magia per tutti i giochi e le attenzioni che ha regalato. Una persona ben diversa dai propri genitori, prima fonte d’amore e sicurezza, ma che riveste un ruolo davvero speciale nella vita di un bambino.
E, stranamente, anche per il maturo Vato Falman esisteva una persona simile, una zia per la quale non provava alcuna vergogna nel venir ancora coccolato in una maniera del tutto speciale.
Come finalmente il treno arrivò, si alzò in piedi con ansia.
“Zia Daisy!” esclamò con gioia, come una donna scese dalla carrozza di mezzo.
“Vato! – lei gli corse subito incontro e lo strinse in un morbido abbraccio – Oh, il mio piccolo pasticcino! Piccolo… diamine, tesoro, sei alto quasi quanto me, ormai: da quanti anni non ci vediamo?”
“Più di cinque, zia – ridacchiò lui, felice nell’averla sorpresa in questo modo – avevo circa undici anni l’ultima volta che sono venuto a New Optain con la mamma. Adesso ne ho diciassette… ciao, zio Max!”
L’uomo scoppiò a ridere e lo sollevò come se niente fosse.
“Ahah, ragazzo mio, sei ogni giorno di più l’immagine di tuo padre.”
“Non è vero – strizzò l’occhio Daisy – guarda, non vedi che sorride? Fortunatamente il mio adorato nipote ha preso da mia sorella in questo e non da Mister Rigidità. Allora, vogliamo andare? Sono ansiosa di riabbracciare il mio piccolo fiore.”
“Andiamo pure, vuoi che prenda una delle valige, zio?”
“No, faccio io, Vato. Nel frattempo raccontaci un po’ di come vanno le cose in paese.”
“A patto che voi mi diciate dei nonni, di zia Alyce e zio Luke e dei miei cugini.”
E il trio si avviò verso casa Falman.
 
Quando aveva conosciuto Vincent, Rosie McLane lavorava nella pasticceria che la sua famiglia gestiva da oltre quarant’anni. Era la seconda di tre sorelle, la più calma e delicata, tanto che tutti in famiglia la chiamavano piccolo fiore.
Lei e Daisy, così come la sorella minore Alyce, erano molto simili nei lineamenti e nei colori, ma Rosie era l’unica ad avere i capelli perfettamente lisci e a restare più minuta. Daisy invece aveva i capelli mossi, un viso più rubicondo e un carattere decisamente più gioviale ed espansivo, tanto che Rosie aveva sempre ritenuto che, anche se magari la sorella era la meno carina tra le tre, aveva il fascino giusto per far capitolare ai suoi piedi qualsiasi uomo.
“Oh, il mio piccolo fiore – esclamò Daisy, abbracciando la sorella con calore – non sai quanto mi sei mancata, tesoro.”
“Sorellona – Rosie lacrimava dalla gioia – non hai idea tu di quanto sia mancata a me.”
Perché nonostante i caratteri così differenti le due donne erano sinceramente legate tra di loro: era stata Daisy a capire i timidi turbamenti della sorella quando si era innamorata di Vincent, era lei che le era stata vicina quando aveva messo al mondo Vato, prendendolo in braccio per prima… era lei che aveva fatto il maggiore sforzo ad accettare Vincent. Ma non perché avesse qualcosa contro la polizia o contro il fatto che lui non fosse benestante all’epoca del fidanzamento. Più che altro perché…
“Sono tornato… ah, siete già arrivati.”
“Ciao, Vincent – salutò Max, con una calorosa stretta di mano – come va, amico mio?”
“Bene, Max, e tu?”
“E fai un sorriso, Mister Rigidità! Ero convinta che dopo oltre dieci anni di lontananza e con questo bel clima un minimo di senso dell’umorismo fosse sbocciato dentro di te.”
“Ciao, Daisy…”
“Simpatico come sempre, non c’è che dire.” Daisy si mise a braccia conserte e sbuffò, un ciuffo dei mossi capelli neri che venne sollevato dalla fronte.
“Come te: lavorare in pasticceria non rende automaticamente più dolci.”
“Vincent!” esclamò Rosie, mettendosi una mano nella tempia nel vedere che i caratteri di marito e sorella erano come sempre cozzanti tra di loro.
“Ah, mi mancavano queste scene.” ridacchiò Max
“Invece indossare la divisa aiuta a mantenere rigidi; ah quanta pazienza ci vuole con quest’uomo. Ma io dico, tesoro mio, eri corteggiata da quel bravo ragazzo così simpatico e gioviale…”
“Daisy…” mormorò Rosie, arrossendo nel ricordare il suo spasimante prima che arrivasse Vincent a farla innamorare di colpo.
“Dai, come si chiamava?”
Il brontolio sordo che uscì dalla bocca di Vincent echeggiò per tutta la stanza.
“Ah, già – continuò Daisy, godendoci un mondo a stuzzicare il cognato – Nath, me lo ricordo. Almeno lui sapeva sorridere. Con Mister Rigidità ci ho impiegato almeno un mese per capire che sapeva fare qualche battuta… ti giuro avevo paura che contagiasse Max a furia di stare con lui.”
“Se la mia presenza ti dà così tanto fastidio, ti riaccompagno in stazione.” si offrì Vincent con un sorriso sarcastico.
“Ma dai – rispose Daisy, andando davanti a lui – e mi pagheresti anche il biglietto, ci scommetto.”
“Senza alcun indugio.”
“Oh, suvvia, basta così – si intromise Rosie, prendendo per il braccio la sorella e allontanandola da Vincent – Daisy, tu e Max sarete stanchi, perché non andate nella camera per gli ospiti a rinfrescarvi?”
“Va bene, piccolo fiore – sospirò lei – non te la prendere, stavo solo giocando un poco con l’uomo dal grande senso dell’umorismo. Dai, hai ragione: è meglio che andiamo a disfare le valige… vieni anche tu, pasticcino? Credo che ci sia un regalo per te.”
“Davvero, zia? Grazie mille.”
“Oh, per il mio adorato nipotino questo e altro – sorrise lei, prendendogli il viso e dandogli un bacio sul naso – dai, sono anche curiosa di vedere la tua camera: scommetto che è stracolma di libri.”
“Ci puoi scommettere.”
“Dopo ti aiuto con la cena, piccolo fiore. Preparerò una delle torte per cui vado famosa in città.”
Come rimasero soli moglie e marito, Rosie sorrise con rassegnazione e poi si accostò a Vincent che ancora stava rigido all’ingresso con l’espressione che la diceva lunga sul suo disappunto.
“Amore – lo abbracciò con una risatina – e dai, non te la prendere. La conosci e sai che ti vuole bene.”
“Sono sicuro che avvelenerà la torta con tutto l’acido che esce dalle sue parole. Ma so che sei felice di averla qui per cui la sopporterò, nei limiti del consentito.
Ma sarebbe stata molto dura.
 
Se non fosse stato per Rosie e Max, Daisy e Vincent si sarebbero odiati a prima vista, senza alcuna possibilità di compromesso. Alla donna non erano mai piaciuti gli uomini seri e compassati come lui e dunque non perdeva occasione per stuzzicarlo. Allo stesso modo al poliziotto non piacevano assolutamente le persone con la battuta pronta come Daisy McLain e sopportava la cognata solo per amore di Rosie, nonostante non mettesse in discussione i sentimenti sinceri che lei provava per la sorella ed il nipote.
E poi c’era la questione di Max che ancora non aveva smesso di bruciare nell’anima del capitano di polizia: il grande traditore, il corrotto dai dolci. Sì, perché Vincent aveva conosciuto Rosie il giorno in cui il suo collega nella polizia Max Maffer l’aveva trascinato nella pasticceria dei McLain… in origine era un poliziotto come Vincent, un membro della sua personale squadra, ma poi, per amore di Daisy aveva abbandonato una carriera promettente per andare ad aiutare la famiglia della sua futura sposa.
E questo era uno smacco che a Vincent bruciava ancora, nonostante con Max riuscisse a parlare senza troppi problemi.
Insomma c’erano tutta una serie di motivazioni per cui tra i due cognati non corresse buon sangue e quei dieci giorni di vacanza che i coniugi Maffer si stavano concedendo lì, approfittando della ristrutturazione della pasticceria, promettevano di mettere a dura prova i nervi del capitano di polizia.
Al contrario di lui, Rosie e Vato erano entusiasti dei due ospiti.
“E così hai la fidanzata, – esclamò Daisy, a pranzo, due giorni dopo che erano arrivati – me la devi assolutamente presentare: scommetto che è una ragazza meravigliosa. Come si chiama?”
“Elisa, zia – arrossì lui – e le ho parlato spesso di te: è ansiosa di conoscerti.”
“E poi voglio conoscere anche i tuoi amici o ti vergogni di presentare una signora vecchia come me?”
“Ma se hai quarantaquattro anni, zia!”
“Ahi, ragazzo! Ricorda che alle signore non vai mai ricordata la loro età. Non sono certo vecchia come tuo padre, no?”
“Ho due anni più di te – sbuffò Vincent, alzandosi dalla sedia e mettendosi la giacca della divisa – e tuo marito ha la mia stessa età, dato che abbiamo preso servizio nella polizia assieme.”
“Scusa tanto, ma in pasticceria non teniamo conto di queste cose: non si sale di grado diventando ammiraglio pasticciere o sergente delle torte.”
“Già, lì l’unica cosa che avanza è la pancia, vero Max?” commentò Vincent, guardando con occhio critico i chili messi su dal suo amico.
“E dai che non è tanta, e poi sono passati quasi diciotto anni  e non ho certo la costituzione magra che hai tu, lo sai bene. Vai a lavoro?”
“Sì, ci sono alcune questioni che richiedono la mia presenza.”
“Buona serata, tesoro, ti aspettiamo per cena.”
“A dopo, buon proseguimento: accidenti è anche tardi, ci siamo prolungati più del previsto con questo pranzo… non disturbatevi, vado io.” disse, sentendo che qualcuno bussava.
Come aprì la porta rimase interdetto nel trovarsi davanti Roy e per un attimo i due rimasero a squadrarsi con sorpresa, non sapendo che cosa dire. Gli occhi scuri del ragazzo si strinsero e istintivamente fece un passo indietro, mentre il volto si induriva in una smorfia di disappunto.
Vedendo quell’aria di sfida, Vincent si riscosse.
“Adesso devo andare a lavoro – disse con voce piatta – entra pure e cerca di capire che quanto ti ho fatto è stato per il tuo bene.”
“Il classico ha fatto più male a me che a te? – rispose Roy, sarcasticamente – Che luogo comune veramente patetico, mi aspettavo di più.”
“Non provocarmi troppo, Roy – lo ammonì – hai visto cosa succede, no?”
“Un giorno si pentirà di avermele date.” sibilò lui con sfida.
“Ti sta per arrivare uno schiaffo, ti avviso.”
“Ma che succede? – chiese Daisy, arrivando alla porta – Uh, un amico di Vato?”
E in quel momento Vincent ebbe un tremendo brivido lungo la schiena: si era appena reso conto che c’era una perversa somiglianza nel sarcasmo di Roy ed in quello della cognata. Era come se quell’incontro avesse appena provocato un grave turbamento delle forze… non poteva venire niente di buono da loro due assieme.
“Ciao, Roy.” salutò Vato, raggiungendoli.
E con un’ultima occhiataccia a Roy, Vincent preferì andare a sommergersi nel lavoro d’ufficio.
 
Quando Rosie definiva sua sorella carica di fascino non scherzava: nell’arco di due giorni aveva conquistato sia gli amici di Vato che le sue amiche strette, ossia Laura ed Angela. Aveva un grandissimo magnetismo e la sua risata era contagiosa: le sue battute erano pronte ed argute e sapeva come trattare le diverse personalità che si trovavano davanti a lei. Per esempio fu molto gentile con Laura e Riza, mentre con Jean ed Heymans si mostrò estremamente di spirito, con sommo divertimento di tutti.
E, come aveva sospettato Vincent, ci volle ben poco che tra lei e Roy si sviluppasse una forte sintonia.
In fondo fu un bene perché fece superare al ragazzo il trauma di andare a casa di Vato e lo aiutò anche a riavvicinarsi a Rosie che, tutto sommato, non aveva colpe nell’avere per marito Mister Rigidità.
Scoprire questo soprannome fu una vera e propria manna dal cielo per il giovane Mustang: far scadere nel ridicolo il suo avversario serviva a privarlo di quella presunta aura di autorità che aveva preteso di far valere su di lui. Gli aneddoti che raccontava Daisy lo facevano gongolare come non mai e ogni notte si addormentava pensando a come poterli utilizzare per un’eventuale vendetta.
“Dovevi vederlo quando prendeva in braccio la cuginetta di Vato: sembrava tenesse in mano un grappolo di serpenti – scoppiò a ridere Daisy un pomeriggio che il ragazzo era andato a casa dei Falman a fare merenda – e quella povera bambina piangeva come una disperata.”
“Ancora quella storia? – sospirò Rosie, servendo the freddo e la torta al limone – Ma perché devi sempre ritirarla fuori?”
“Era troppo divertente, suvvia – strizzò l’occhio lei – ti giuro che all’epoca non pensavo che potesse mai diventare padre. Ma devo dire che mi ha sorpreso con questo meraviglioso e adorabile nipote.”
“Chissà perché Daisy ha sempre stravisto per Vato – spiegò Max – non che non voglia bene ad Ally e Loris, ma per lui ha sempre avuto una predilezione.”
“Dovevo festeggiare: il suo senso dell’umorismo non è certo quello di Vincent. Ha rischiato parecchio ad averlo come padre: pensa se ne usciva fuori un secondo Mister Rigidità.”
“E dai, Daisy.”
Roy dal canto suo quasi si soffocava per le risate all’idea del capitano Falman che teneva in braccio una bambinetta come se fosse una pericolosa bomba pronta ad esplodere. Si riscosse solo guardando l’orologio appeso in salotto e si alzò in piedi.
“Adesso devo andare, scusate.”
“Davvero? E dove?” chiese Vato.
“A salutare Riza: oggi parte con il padre di Kain ad East City.”
“Ah, è vero, aspetta vengo pure…”
“No – lo interruppe Roy – basto solo io, suvvia. Tu hai ospiti.”
“Poi torna a cena da noi – gli disse Rosie – mi farebbe molto piacere.”
Roy soppesò quelle parole con aria dubbiosa: tornare per cena voleva dire aver a che fare con Mister Rigidità e sapeva bene che bastava poco a riaprire le ostilità. Tuttavia spostò lo sguardo su Daisy e intercettò la sua strizzata d’occhio: forse con un’alleata così particolare la cena poteva rivelarsi molto interessante.
“Va bene, signora: tornerò dopo.”
 
“Ha un tutore alla gamba, non ti devi spaventare – stava dicendo Andrew mentre lui e Riza attendevano il treno – è normale che si metta: serve ad aiutare la ferita a rimarginarsi nel modo giusto anche all’interno. Lo dovrà tenere per diverso tempo.”
“E la riabilitazione?” si informò lei, prendendo mentalmente appunti per essere una perfetta infermiera per tutti i sei giorni in cui sarebbe stata lì. Perché alla fine, su proposta di Andrew, aveva accettato di restare di più rispetto agli originari tre giorni pronosticati: non c’erano più gli impegni scolastici a disturbare e sicuramente Kain ne sarebbe stato entusiasta.
“Per ora ne fa poca: giusto per evitare che la gamba si intorpidisca troppo. Ma ci sono ancora i punti di sutura e dunque non vanno fatti molti sforzi: è una fase delicata ed è per questo motivo che è ancora ricoverato. Ma tra una settimana potrà venire in albergo e lo porteremo in ospedale solo per le sedute di riabilitazione.”
“Capisco.”
“Vedrai, piccola mia, sarà bellissimo per lui averti accanto: ieri era estremamente eccitato all’idea del tuo arrivo e anche Ellie non vede l’ora di riabbracciarti. Oh, ciao Vincent, sei venuto a salutare?”
“Non potevo non venire – ammise il capitano, stringendo la mano ad Andrew e accarezzando la guancia di Riza – e tu, signorina, questa volta viaggio regolare, vero?”
“Sì – arrossì lei – oh, la prego, si dimentichi di quella brutta storia.”
Era così imbarazzata che Andrew ridacchiò e la strinse a sé, e anche Vincent si concesse di sorridere.
Non c’erano problemi a perdonare Riza per quanto era successo: si sapeva benissimo chi era stato il vero promotore del viaggio e si sapeva anche del profondo affetto che legava la ragazzina ai Fury. Ed inoltre si aveva la garanzia che Riza questo tipo di lezioni le imparava subito e non aveva problemi a fidarsi degli adulti.
No – sospirò Vincent – la problematica non è lei, ma lui…oh, l’abbiamo evocato, eh?
“Ciao, Roy – salutò Andrew – sei venuto a salutarci pure tu?”
“Sì – borbottò lui, nel vedere anche il capitano di polizia – vedo che qualcuno ha avuto la mia stessa idea.”
In ogni caso, finché il treno non partì dalla stazione, i due rivali si ignorarono completamente, preferendo dedicare le loro attenzioni ad Andrew e Riza. Solo quando il treno sparì in lontananza si degnarono di guardarsi, con Roy che si mise le mani in tasca con aria di sfida.
“Sto tornando in paese – dichiarò Vincent, a braccia conserte – vieni anche tu o sei ancora offeso nel tuo grande orgoglio da quindicenne?”
“Andiamo pure – concesse il ragazzo – del resto non potrei più prendere quel treno: ormai è troppo distante e il prossimo passa tra tre giorni. No, e poi stasera ho un impegno importante.”
“Ah sì? – Vincent rimase serio, ma era in qualche modo contento di quella minima ripresa di dialogo – E quale?”
“Devo venire a cena a casa sua, Mister Rigidità – sogghignò Roy, mettendosi prudentemente fuori dalla portata di Vincent – sua cognata mi sta raccontando così tante cose divertenti…”
Il capitano si irrigidì a quella rivelazione, ma del resto se l’era aspettato: la degenerata alleanza era dunque nata e lui non poteva fare niente per scioglierla. Tuttavia una piccola parte di lui fu estremamente felice perché sapeva che Rosie teneva ormai tanto a quel ragazzo e riaverlo a casa non le avrebbe fatto che piacere, così come a Vato.
 
Mister Rigidità era il soprannome che Daisy aveva affibbiato a Vincent sin dalle prime volte che aveva avuto a che fare con lui e dipendeva dal fatto che quando veniva provocato, l’uomo tendeva ad assumere una posa veramente rigida ed impassibile.
Tale espressione venne mantenuta dal capitano per tutta la cena perché trovarsi di fronte Roy e Daisy in grande spolvero per quanto concerneva le battute nei suoi confronti metteva a dura prova i suoi nervi. Ma mentre per la cognata era un qualcosa a cui era abituato ed in parte rassegnato, per quanto riguardava il ragazzo la mano gli prudeva dalla voglia di dargli un paio di sberle per fargli sparire quel sogghigno sarcastico.
“Sai, Roy, quando Rosie l’ha presentato a casa è stato spettacolare: ti giuro, temevo che ad ogni domanda che gli facevano scattasse sull’attenti o mi rispondesse sissignora.”
“Non sei stata molto gentile in quell’occasione, Daisy – la rimproverò Rosie – e te l’avevo anche chiesto di evitare troppe battute.”
“Lo sa che una volta mi ha detto che stavo opponendo resistenza a pubblico ufficiale?”
“Davvero? A un ragazzino come te? Ah, Vincent Falman, questa me la devo proprio segnare!”
Nel frattempo Rosie si alzò per ritirare l’arrosto e ne approfittò per baciare il marito sulla guancia, cercando di rabbonirlo e consolarlo da quel fuoco incrociato che stava subendo.
“Oh, suvvia – intervenne Max, sentendosi in dovere di difendere l’amico – in ogni caso Vincent è una delle persone migliori del mondo, ve lo posso garantire. Sono sinceramente felice di essere stato nella sua squadra, prima che l’amore per la mia adorata fatina della crema e dello zucchero mi portasse in altri lidi.”
“Max, ti prego non chiamarmi in quel modo – sospirò Daisy – eravate proprio una bella coppiata quando stavi ancora nella polizia: Mister Rigidità e Mister Smielato.”
“Ma alla fine hai ceduto ai miei complimenti.” le strizzò l’occhio lui.
“Mi hai preso solo per sfinimento.”
“I miei genitori quando ti ho presentato a casa ancora un po’ e non ci credevano – ridacchiò e poi si rivolse a Roy – le ho fatto una corte spietata per oltre cinque anni prima che si arrendesse. La costanza paga.”
Il ragazzo sorrise e poi si rivolse a Vato, seduto accanto a lui.
“Non oso immaginare come hanno reagito i tuoi nonni paterni quando tuo padre ha presentato tua madre – bisbigliò con aria complice – non ci avranno creduto che una dolce come lei finisse nelle sue grinfie.”
“Oh no – rispose Vato con lo stesso tono, ma con aria seria – papà non ha più i genitori. Sono morti che lui era ancora bambino.”
A quelle parole qualcosa scattò in Roy e alzò lo sguardo verso il suo grande rivale che lanciava un’occhiataccia alla cognata, mentre questa lo prendeva in giro per qualcosa. Avere quello strano e macabro punto in comune con lui gli diede un profondo senso di vuoto.
E allora perché? – si ritrovò a chiedersi – Lui più di tutti dovrebbe capirmi.
 
Inaspettatamente fu Rosie ad accorgersi di questo turbamento interiore di Roy.
Quando erano tutti ormai seduti in salotto a mangiare il dolce, la donna lo chiamò in cucina, con la scusa di dargli una mano con il caffè ed il the fresco per lui e Vato.
“Allora – chiese, mentre chiudeva la porta e andava a prendere la caffettiera – che cosa ti è successo?”
“Signora?” fece lui, andando a prendere il vassoio sul piano da lavoro ed iniziando a metterci le tazzine.
“C’è qualcosa che ti turba da un certo punto della cena, vero? Non hai smesso di lanciare strane occhiate a Vincent, l’ho notato.”
Di fronte a quella sicurezza, e consapevole che il discorso sarebbe rimasto tra di loro, Roy decise di essere sincero, anche perché erano delle sensazioni che non era sicuro di voler tenere solo per sé.
“Vato mi ha detto che non ha nonni paterni.”
“No – scosse il capo la donna – i genitori di Vincent sono morti di una brutta febbre uno a pochi giorni di distanza dall’altro: lui aveva circa quattro anni e andò a vivere da una zia, mi pare di ricordare.”
La tazzina che Roy aveva in mano quasi cadde sul pavimento e fu solo con un abile gesto che lui la recuperò e la mise illesa sul vassoio. La mano gli tremava così tanto che fu costretto a trarre dei profondi respiri prima di prendere la successiva.
Rosie si accorse di quel gesto e gli andò accanto, accarezzandogli i capelli neri.
“Sì, voi due avete storie abbastanza simili. Sai, mia sorella non fa altro che prenderlo in giro, si ostina a voler vedere sempre il lato serio di lui e forse è quello che stai facendo pure tu.”
“Mi scusi, ma dopo quello che è successo non vedo altri lati di suo marito.”
“Un contraltare, dici?”
“Sì, più o meno.”
“Te ne offro qualche esempio io, se vuoi: ti ricordi quella storia che tutti i bambini piangevano con lui?”
“Perché li teneva in mano come un grappolo di serpenti? – sorrise Roy, a cui quella metafora piaceva in modo particolare – Certamente.”
“Vato non ha mai pianto quando lo prendeva in braccio, anzi, adorava stare con lui. O vogliamo parlare della sua rigidità? Non era proprio rigido quando mi ha abbracciato la prima volta o quando ho pianto perché avevo paura di averlo perso per una sciocchezza e mi ha consolato”
“Perché allora…”
“Roy, forse Vincent ti capisce meglio di qualsiasi altra persona.”
“Ah, mi capisce meglio di qualsiasi altra persona? E invece che ha fatto? – sbottò il ragazzo – Mi ha trattato come un bambino, senza darmi nemmeno modo di spiegare: e nei momenti in cui ho provato ad essere indipendente lui era sempre lì a tirarmi indietro. A dirmi che non ero ancora pronto, a dirmi di non correre… davvero uno strano modo di capirmi.”
“Già, davvero strano. Se però ti soffermassi a pensare un attimo ci potresti arrivare Mister Indipendenza.
Roy si girò di scatto e si irrigidì nel vedere che Vincent era entrato in cucina.
“Io credo che sia il momento giusto per un chiarimento – sorrise Rosie – Tesoro, versi tu il caffè? E’ quasi pronto. Io torno in salotto a mangiare un’altra fetta di torta, prima che sparisca del tutto.”
Roy dovette congratularsi mentalmente con la donna che, inaspettatamente, si dimostrava una stratega e con una tempistica davvero invidiabile. Nell’arco di dieci secondi si trovò da solo con Vincent, imbarazzato da un discorso che in fondo aveva paura di affrontare.
“Allora ti capisco più degli altri, vero? – disse l’uomo, andando a controllare il caffè sul fornello – hai saputo dei miei genitori, presumo.”
“Sì, ho saputo – ammise Roy, senza guardarlo – mi dispiace e sa che lo dico con sincerità.”
“Le nostre storie però sono differenti, Roy, ed è meglio che tu lo sappia. Ti capisco sì, ma non nel modo in cui tu credi: se mi vuoi ascoltare, forse arriverai anche a comprendere il motivo per cui sono così severo con te e ti tratto da ragazzino.”
“Sono tutto orecchi.” rispose lui caustico, mettendosi a braccia conserte.
Vincent fece un rassegnato sorriso a quell’ennesimo gesto di sfida, ma poi tornò a controllare il caffè che iniziava a uscire dalla caffettiera.
“I miei genitori erano persone normali, nessun grado alto dell’esercito o simili: ad essere sinceri eravamo una famiglia molto modesta. Mi volevano bene, per quanto i miei ricordi di loro siano pochi, ma la certezza di essere stato amato è un qualcosa che ti resta nel profondo… forse questo lo puoi capire per tua madre, vero?”
“Sì.” ammise il ragazzo, sentendo l’odore pungente della bevanda che iniziava a diffondersi nella cucina.
“La zia presso cui andai a vivere era una cugina di mia madre, l’unica parente che avessi. Non fu facile, era chiaro che non sapeva che farsene di me… a dire il vero mi avrebbe potuto mandare in un istituto per orfani, ma per una strana forma di pietà non lo fece. Però ti assicuro che capisci benissimo quando non sei gradito in casa: tu in questo sei stato fortunato, Roy. Non è una zia come tutte le altre la tua, ma in senso veramente positivo: ha evitato di mettere una maschera per te ed è sempre stata schietta e sincera. Per questo non hai mai avuto dubbi sulla forma di affetto che ti lega a lei, vero?”
“Mia zia mi ha sempre permesso di essere indipendente…”
“Lei ti ha permesso di fare tutto ma sempre con la condizione che poi affrontassi le conseguenze, è diverso.” lo corresse prontamente Vincent.
“Non ci vedo la differenza.”
“C’è molta differenza, credimi – sospirò l’uomo, prendendo la caffettiera e avvicinandosi a lui per iniziare a versare la bevanda nelle tazzine – Per ottenere l’indipendenza da mia zia ho studiato tantissimo e per il resto del tempo facevo sempre qualche lavoretto in modo da potermi comprare i libri per la scuola da solo; mi sono arruolato prestissimo nella polizia, andando subito a stare nelle caserme: mettevo via ogni risparmio per potermi un giorno permettere un appartamento tutto mio, senza che mi dovessi sentire in colpa per ogni boccone che mangiavo, per ogni bicchiere d’acqua che bevevo, persino per le coperte sotto le quali dormivo… ce l’ho fatta a ventuno anni, quando mi hanno dato uno stipendio decente: vivere in una città non è uno scherzo, credimi.”
“Sarebbe questa l’indipendenza?”
“L’indipendenza degli adulti, sì, almeno per quanto mi riguarda: – sorrise Vincent – è il potercela fare da solo, con le proprie forze. Un giorno la proverai pure tu, ma non con i sacrifici che ho dovuto fare io e non sai quanto questo mi renda felice: nessuno di voi ragazzi dovrebbe mai provare una cosa simile.”
“E allora dove sarebbe che ci capiamo?” chiese con amarezza Roy.
“Se vuoi ti dico le tue motivazioni per il viaggio ad East City, levando quella principale di voler trovare Kain. Volevi avere la situazione sotto il tuo unico controllo, vero? Sentire la libertà da qualsiasi adulto che ti dicesse cosa fare, perché è fantastico, no? Solo tu a decidere, lontano da un posto che inizia ad andarti davvero stretto… avere il controllo, essere padrone della tua vita; dalla tua faccia capisco che non ho sbagliato di una virgola, vero?”
“Allora doveva evitare di darmi quella punizione – sibilò il ragazzo – umiliandomi in quel modo.”
“Fa male, vero? Il grande Roy Mustang, il ragazzo più famoso del paese… a sedere scoperto, sulle mie ginocchia a dimenarsi e strillare come un bambinetto. Azione e conseguenza, proprio quello che vuole tua zia, non ci sono dubbi.”
“La motivazione di mia zia è quella, ma la sua proprio non ce la vedo – sbottò Roy – Perché mi vuole impedire di essere indipendente? Di vivere da grande come è giusto che faccia!”
“Perché hai quindici maledettissimi anni – ritorse Vincent, prendendolo per le spalle – e, nonostante quello che è successo con i tuoi genitori, hai la fortuna di poter vivere un’adolescenza serena, con persone che ti vogliono bene. Non devi aver fretta di crescere, maledizione! Tu non hai idea del rimpianto che resta nell’aver sacrificato tutta l’adolescenza a studiare e lavorare, bruciando tantissime tappe. Ma se per me è stata una necessità, per te non è così, mi capisci?”
“La smetta…” ansimò Roy, terrorizzato alla prospettiva di questi fantomatici rimpianti.
Come quello che hai per tuo padre? Come quello che ti provoca il ricordo di quelle carezze fatte per senso di dovere e non per amore?
“No che non la smetto – lo scosse l’uomo – continuerò a caricarti sulle mie ginocchia e dartele ogni volta che lo meriti, ragazzino. Così come faccio per mio figlio, inizi a capire adesso?”
“Non ho… non ho bisogno di… di un dannato padre!”
“Maledizione, sì che ne hai bisogno se scambi le tue bravate con quella che è realmente l’indipendenza. Ne devi ancora fare di strada per diventare grande, Roy Mustang, ma è giusto così, va benissimo così.”
“Merda…” sibilò Roy, trattenendo le lacrime.
“Sì… proprio merda – sospirò Vincent, facendogli posare la testa sul proprio petto e non incontrando alcuna resistenza – Sei il leader di quella banda di scalmanati e va benissimo. Fai le tue dannate esperienze, impara a pagarne le conseguenze come la punizione che hai subito, ma ricordati che l’indipendenza è un’altra cosa e per quella c’è tempo, ragazzo mio, fidati di me. Tu ne hai veramente tanto a disposizione.”
“Allora, ragazzi – esclamò Daisy entrando – questo caffè lo state bevendo tutto voi alla faccia nost…”
“Adesso arriva.” annuì Vincent, continuando a tenere stretto il ragazzo.
“Lascia, lo porto io – mormorò lei, prendendo il vassoio con le tazzine piene – qui pare che ci sia bisogno di tranquillità. Adesso capisco perché il mio piccolo fiore diceva di avere pazienza, dannazione a te.”
 
Quattro giorni dopo l’esuberante cognata Daisy e marito lasciarono il paese per tornare a New Optain in tempo per la fine dei lavori di ristrutturazione della loro pasticceria.
In stazione a salutare c’era anche Roy che venne entusiasticamente abbracciato dalla donna.
“Beh – sorrise lei – mi fa piacere che anche qui ci sia uno che dia filo da torcere a Mister Rigidità.”
“Ci conti, signora – sogghignò il ragazzo – qualcuno deve pur farlo.”
“Perché lo devi istigare? – chiese Vincent contrariato – ti assicuro che non ha bisogno di incoraggiamenti per farmi perdere anni di vita ad ogni bravata che combina. E tu, non iniziare ad allargarti troppo, ragazzino.”
“Sai, papà – commentò Vato con serietà – devo dire che a volte Roy ti fa pulsare la vena che hai nella tempia allo stesso identico modo di zia Daisy.”
“Già, chissà perché. Vipera e farabutto, proprio una bella coppia.”
“Vincent! Almeno adesso che sta partendo.”
“Stappo una bottiglia di vino appena torno a casa.”
“Fidati che farò lo stesso pure io, cognato: tutta New Optain festeggia ancora per essersi liberata del poliziotto più rigido del mondo.”
“Peccato che debba ancora sopportare la presenza della fatina dello zucchero e del veleno.”
E quello scambio di complimenti durò fino a quando il treno non ripartì.
Solo allora Vincent Falman fece un grande sospiro di sollievo, lieto che nell’arco di poche ore tra lui e la sua grande antagonista ci sarebbero stati centinaia di salutari chilometri di distanza.
“Bene, direi che ho fatto il pieno di lei per i prossimi dieci anni – ammise, prendendo la moglie a braccetto – possiamo tornare a casa. Allora, Mister Indipendenza, posso contare di vederti di nuovo da noi anche ora che mia cognata è andata via?”
“Ho il compito di tenerla impegnata, capitano – annuì con sufficienza Roy – direi che non posso proprio tirarmi indietro. Ehi, Vato, organizziamo un torneo di Risiko con Heymans?”
“Ottima idea – sorrise lui – vediamo anche di applicare il regolamento che ho letto su un libro: c’è una variante molto interessante su come usare le truppe.”
E mentre i due ragazzi discutevano su come affrontare le nuove partite, Rosie si arrischiò a lanciare una timida occhiata al marito e vide che sorrideva soddisfatto. Fra lui e Roy era tornata la pace e forse il ragazzo aveva iniziato a vedere Vincent con occhi del tutto nuovi.
E non per tutti gli aneddoti che aveva scoperto su di lui.





*piccolo annuncio*
siccome siete abituati a vedermi postare con frequenza quasi quotidiana, ritengo giusto avvisarvi che dal 3 al 10 aprile non sono a casa e dunque non lavorerò alla fic.
La storia riprenderà con regolarità, si presume, al mio ritorno.
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Capitolo 52
*** Capitolo 51. Questioni di madri. ***


Capitolo 51. Questioni di madri.

 

“Sasso, carta, forbice!”
“Ahah! La carta batte il sasso! – esclamò Kain, mettendo la sua mano aperta sopra il pugno di Riza per imitare il foglio che avvolge il sasso – E  sono arrivato a dieci: ho vinto.”
La ragazzina fece il broncio a quella sconfitta, ma poi allungò la mano per arruffare i capelli del bambino, lieta di vederlo così sorridente e tranquillo, nonostante indossasse il camice dell’ospedale e fosse a letto.
Ormai quel posto non gli faceva più paura: si era abituato ai medici e alle infermiere che a loro volta si erano affezionati a lui e lo trattavano con estrema tenerezza.
L’operazione era andata benissimo e anche la guarigione della ferita procedeva in maniera corretta, tanto che i medici parlavano di levare i punti con un giorno d’anticipo. Senza contare che la ferita non gli doleva più di tanto e non doveva avere a che fare con gli aghi, dato che gli unici controlli che faceva riguardavano la temperatura e la pressione (più l’ovvio cambio di fasciatura ogni giorno).
“Preoccupato per qualcosa?” chiese, sistemandogli meglio il lenzuolo sulle gambe.
“Un po’ per quando mi leveranno i punti – ammise lui – ho paura che faccia male.”
“Vedrai che sarà una cosa rapida e poi i dottori sono molto bravi e sono sicura che non ti faranno male. Pensa che bello: una volta senza punti potrai tornare in albergo con i tuoi genitori.”
“Ma sì – sorrise il bambino, incoraggiato – è un passo in avanti per tornare in paese da tutti voi. Mi dispiace che tu parta tra due giorni: ti avrei voluta qui per tutto il tempo.”
“Oh, fratellino – sospirò lei, lasciandosi andare a quel nome così carico di significato – anche io vorrei stare qui. Ma sarà solo per poco, questo giugno passerà in fretta e lo sai bene.”
“Riza, – Ellie entrò nella stanza – adesso dobbiamo andare: l’orario visite è terminato e tra poco passeranno per il pranzo.”
“Lo sai che oggi l’infermiera Dorothy mi ha promesso un budino alla crema?” disse Kain con aria cospiratoria, felice di aver ottenuto delle piccole concessioni nel menù quotidiano.
“Sei tremendo – ridacchiò Riza, arruffandogli i capelli – e non dimenticare che come esci di qui hai un gelato al cioccolato che ti aspetta.”
“E chi se lo dimentica? Allora ci vediamo stasera, vero?”
“Alle quattro come sempre, pulcino – sorrise Ellie baciandolo in fronte – buon pranzo e poi cerca di dormire un pochino, va bene?”
“Certo mamma, buon pranzo anche a tutti voi.”
Dopo aver salutato il piccolo, le due si avviarono per i corridoi fino a raggiungere Andrew che le aspettava all’ingresso dell’ospedale.
Uscendo nel cortile Riza considerò che, senza tutte le paure che l’avevano condizionata durante il suo viaggio clandestino con Roy, East City era una bella città.
Le persone che passeggiavano nelle strade erano meno ostili di quanto le era parso la prima volta e anche gli edifici, i negozi, l’ospedale erano visti con una luce del tutto nuova. Certo, la differenza con il paese si faceva sentire e a volte quel caos cittadino la metteva leggermente a disagio, ma c’era qualcosa di estremamente piacevole nel fare delle passeggiate con Ellie ed Andrew nei momenti in cui non erano in ospedale con Kain.
 “Bene – disse l’uomo  – che ne dite se oggi vi porto a pranzo fuori, signore? Il menù dell’albergo mi è venuto a noia ed è anche giusto che vi vizi un pochino, non credete?”
“Pranzo al ristorante?” esclamò Ellie con gioia.
“Davvero? ­–  le fece eco Riza, correndo ad abbracciare l’uomo – Oh, sarebbe meraviglioso!”
“A quanto vedo le mie due ragazze apprezzano l’idea – ridacchiò lui – forza, andiamo: c’è un ristorante che frequentavo ai tempi dell’Università e credo che rimarrete molto soddisfatte.”
E così, nell’arco di venti minuti, Riza si trovò seduta ad un tavolo in una deliziosa piazzetta di una zona tranquilla poco lontana dall’ospedale. Era tutto così speciale con il sole che batteva piacevolmente su di loro, la tovaglia bianca, e tutto apparecchiato in maniera perfetta.
Ad un certo punto, il cameriere che prendeva le ordinazioni disse:
“E per vostra figlia, da bere va bene l’acqua?”
Quel vostra figlia fece balzare in gola il cuore della ragazzina. Si sentì quasi in dovere di chiarire l’equivoco, ma prima che potesse dire qualcosa, Andrew annuì e rispose che l’acqua sarebbe andata benissimo.
“Mi ha preso per vostra figlia…” mormorò incredula quando l’uomo si allontanò.
Con che criterio? Lei era bionda con gli occhi castani, Ellie aveva i capelli e gli occhi scuri, mentre Andrew era castano: forse con lui poteva avere dei punti di contatto, ma con lei proprio no.
“Una moneta per i tuoi pensieri, piccola Riza.” fece Andrew, con un sorriso.
“Pensavo agli occhi e ai capelli – ammise lei, fissando il proprio piatto come se fosse uno specchio – non ci avevo mai fatto caso, ma sia io che Kain li abbiamo presi da parte materna.”
Si girò verso Ellie, chiedendosi se quel riferimento a sua madre le avesse dato in qualche modo fastidio, ma vide che la donna sorrideva teneramente.
“Sono sicura che era molto bella e da grande le somiglierai molto.”
“Lei… – Riza iniziò, sentendosi desiderosa di parlare di quell’argomento che non aveva mai affrontato con nessuno, nemmeno con Roy – era davvero bella: aveva i capelli sciolti sulla schiena, sembravano una cascata d’oro. Ricordo che parlava tanto, raccontandomi della casa dove viveva, con il grande giardino, la sua camera da letto con decine e decine di libri: sono sicura che ne sentiva grande nostalgia.”
“Dove abitava?” chiese Andrew, con tono incoraggiante.
“Non lo so – scosse il capo lei – per quanto i suoi racconti fossero particolareggiati e quasi mi potevo immaginare la casa e tutte le altre cose, non diceva mai dove si trovava o se viveva con qualcuno. Era come se si parlasse del castello di una favola… in un paese tanto tanto lontano, ma senza mai dire quale.”
“Evidentemente non voleva turbarti con dei brutti pensieri – disse Ellie – è normale per una madre.”
“Come è stato normale che la signora Laura non abbia detto tutte quelle cose ad Heymans per tanto tempo?”
“Più o meno, anche se per lui la situazione era molto diversa.” sospirò Andrew.
“Ora che ci penso, so veramente poco di mia madre – ammise Riza, sentendosi sorpresa – è sempre stata vicina a me per nove anni, tuttavia… era come se non avesse alcun passato reale. Mi chiedo se ci sia una famiglia che si chiede se è viva o morta: al funerale non venne nessuno.”
“Non hai mai conosciuto nessun parente oltre i tuoi genitori?”
“No, so solo che la casa è della famiglia di mio padre, ma per il resto è vuoto totale: di mia madre non so nemmeno il cognome, perché mio padre nella lapide ha fatto incidere il suo. Avrei voluto chiedergli il motivo, ma non ho mai osato. Che voi sappiate… in paese si dice qualcosa di più sulla mia famiglia?”
Andrew ed Ellie si scambiarono un’occhiata e poi lui scosse il capo.
“Non so proprio cosa risponderti, piccola mia: la tua famiglia è sempre stata il mistero del paese, ma questo lo sai bene anche tu. Per quanto mi ricordo i tuoi arrivarono qui che tu stavi per nascere, ma non presero mai confidenza con nessuno. Si parlò solo di dissapori con le rispettive famiglie, forse per via del loro matrimonio, ma non te lo posso garantire. Se vuoi posso provare a chiedere a mio padre della famiglia Hawkeye non appena torneremo in paese.”
“Andrew…” Ellie gli mise una mano sul braccio.
“Heymans aveva tutto il diritto di conoscere il suo passato – mormorò lui – e così è per Riza.”
“No - la ragazzina scosse il capo – non mi interessa conoscere i dettagli della famiglia di mio padre, lui non fa veramente parte della mia vita. Per mia madre mi piacerebbe, lei è sempre stata molto buona e attenta con me, ma oggettivamente se in tredici anni, anzi quattordici tra poco, non si è mai fatto vivo nessuno… non sono sicura di voler sapere. Forse prima di conoscere voi mi sarebbe importato di più, lo ammetto, però…”
“Però?” sorrise Ellie, sistemandole una ciocca di capelli.
“Però adesso va decisamente bene così – ammise Riza arrossendo – vorrei davvero stare con voi per sempre. E lei, signora, è meravigliosa… io…”
“Avanti, prova a chiamarmi per nome.”
“Non potrei mai! – annaspò lei con imbarazzo – E’ irrispettoso.”
“Coraggio, non è irrispettoso te lo assicuro: a me farebbe tanto piacere.”
“Ellie.” pronunciò Riza con estrema rigidità.
“Vuoi provare anche con me, piccola Riza?” le strizzò l’occhio Andrew.
“Oh dai – esclamò lei, arrossendo vistosamente – è così difficile, per favore…”
“Tesoro – ridacchiò Ellie, sporgendosi dalla sedia e abbracciandola – sta tranquilla, va tutto bene: ma guardati, sei rossa come un pomodoro.”
E anche se Riza non era riuscita ad andare ad un livello di confidenza maggiore, in quel momento si dovette mordere le labbra per non chiamarli mamma e papà.
 
Mentre Riza decideva di lasciarsi alle spalle qualsiasi domanda sulle sue origini per godersi la sua famiglia attuale, in casa di Vato si stava per iniziare una partita di Risiko.
“Ti devo rispiegare le regole, Jean?” chiese Vato, guardando dubbioso il nuovo partecipante.
“Non sono mica scemo, eh – protestò il biondo, prendendo il mano i segnalini delle truppe e schierandoli davanti a sé nel tavolo – guarda che i miei voti a scuola non sono niente male.”
“Non volevo dire questo, è che tu non hai mai giocato a Risiko e quindi potresti avere difficoltà a…”
“Sapientone, tappati quella bocca e tira i dadi: vediamo quanto vali!”
“Ma se dobbiamo ancora disporre le truppe – sospirò Roy – avanti, prepariamo il tabellone e…”
“Ragazzi – li interruppe Rosie – rimandate la partita e liberate il tavolo, da bravi.”
“Eh? – protestò Vato contrariato – Ma perché mai, mamma? Stiamo per iniziare il torneo estivo di Risiko: è un momento importante.”
“Più importante dei crostini con crema di formaggio, torta salata, tramezzini con prosciutto, pomodoro e insalata? – strizzò l’occhio lei –  Oppure tengo tutto in cucina compresa la limonata, la crostata ai frutti di bosco e la macedonia con la panna?”
“Signora Falman, lei è la mia eroina! – esclamò Roy, accatastando il gioco dentro la scatola, aiutato con entusiasmo da Jean ed Heymans – Le sue merende sono meravigliose.”
“Oggi mi sono superata – sorrise Rosie, arrivando con un vassoio colmo – sapendo di avere così tanti ospiti, sicuramente affamati, mi sono data da fare. E’ un piacere vedere quattro giovanotti mangiare con sano appetito; torno subito con i bicchieri e la caraffa di limonata.”
“Ah, Vato, ma come fai a non ingrassare con una madre che prepara così tante cose buone?” chiese Jean, afferrando il primo tramezzino.
“Anche tu mangi parecchio a casa, credo.” rispose causticamente l’interessato.
 “Certo, ma con tutto il lavoro che faccio in emporio smaltisco tutto. Ma poi papà dice sempre che ho la sua costituzione e quindi metterò tutto in altezza e muscoli.”
“Somigli tantissimo a tuo padre, Jean – confermò Rosie – mentre tua sorellina, nonostante occhi e capelli, diventerà simile a tua madre, si vede già.”
“Chissà, signora, – propose Roy – se magari aveva una bambina assomigliava a lei e non a suo marito.”
“Non credere – scosse il capo Vato, assumendo la classica espressione accademica – ho letto in un libro di scienze che alcuni caratteri sono dominanti, altri recessivi.”
Eccessivi?” chiese Jean perplesso.
Recessivi: in genetica si dice recessivo…”
“No, ti prego, non iniziare a fare la lezione: siamo in vacanza, chiaro?”
“Quello che vuole dire Vato – cercò di spiegare Heymans – è che tuoi eventuali figli saranno con molta probabilità biondi e con occhi azzurri.”
“Esattamente – annuì l’altro – così come eventuali figli di Heymans saranno rossi con gli occhi grigi. Per il medesimo motivo una mia eventuale sorellina sarebbe somigliante a me e a papà.”
“E questi capelli bicolori da chi li hai presi invece?” chiese Jean in tono canzonatorio.
“Anomalia, tutto qui – scrollò le spalle lui che ormai conviveva benissimo con quella sua particolarità – ma non è albinismo, altrimenti avrei gli occhi rossi.”
Occhi rossi? Ma sarebbe grandioso! Te lo immagini? Sembreresti qualche protagonista delle storie di fantasmi.”
“Ma puoi essere più imbecille, Jean?” lo bloccò Heymans.
“E tu, invece, Roy? – chiese Rosie con curiosità, andando accanto a lui e accarezzandogli i capelli – Ti ricordi a chi assomigli?”
“A mia madre – rispose senza alcuna esitazione lui – ho una foto di me e lei e il taglio di occhi è identico. E poi mio padre aveva i capelli castano scuro e non neri come i miei.”
Solo mentre allungava la mano per prendere un crostino si accorse che aveva parlato con estrema facilità di un argomento che prima riteneva assolutamente riservato, tanto da non averlo mai affrontato nemmeno con Riza. Forse con la sua amica era difficile parlare di qualcosa che poteva in qualche modo ferire entrambi, ma a stare con Jean, Vato ed Heymans che avevano delle madri splendide era tutto più facile: nonostante in teoria potesse crearsi qualche imbarazzo, era come se tutti loro fossero consapevoli di come e quanto dire.
Somigliava a te o alla mamma di Kain? – si chiese Roy, fissando Rosie che ridacchiava arruffando i capelli di un imbarazzato Vato – O forse era spigliata come la signora Angela, oppure ancora fragile ma solo in apparenza come la signora Laura?
Sicuramente sua madre era speciale, ma non sarebbe stato male se avesse avuto qualche punto in comune con il carattere di quelle donne così forti, ciascuna a modo suo. Quest’ultima considerazione gli diede leggermente fastidio: gli sembrava quasi di tradire l’unica figura del cui amore era stato sicuro nella sua primissima infanzia. Christopher Mustang era stato spogliato dell’aura di intoccabilità dal capitano Falman, un punto che Roy era arrivato ad accettare senza troppi problemi, dopo un’iniziale reticenza: dava uno strano senso di conforto avere la certezza di non essere stato un fallimento come figlio, l’indifferenza dovuta solo ed esclusivamente ad una scelta paterna. Era come se gli fosse stata levata via una strana colpa di cui si era sempre sentito marchiato.
Ma mia madre non ha mai esitato ad amarmi e…
“Roy, tieni la limonata: un solo cucchiaio di zucchero, come piace a te.”
“Grazie, signora.”
… e lei sicuramente si sarebbe sempre ricordata di quanti cucchiai di zucchero mettere nella mia limonata.
 
“Riza, tocca a te.”
“Uh?”
“Ma sì – fece Kain, porgendole il libro – un capitolo a testa, no? Ho finito di leggere il mio e ora tocca a te.”
“Oh, certo – arrossì lei, recuperando il libro – scusa, mi sono distratta.”
“Se ti va non lo leggiamo più assieme e lo finisco da solo: forse è un tipo di libro che a te non piace.”
“No, non è questo. Ero sovrappensiero, tutto qui: mi è tornata in mente una cosa all’improvviso.”
“In questi casi papà dice sempre una moneta per i tuoi pensieri.” sorrise il bambino, facendo un cenno con la mano ed invitandola ad abbandonare la sedia per accomodarsi accanto a lui nel letto: una soluzione che avevano adottato già più volte.
“Pensavo a mia madre.” ammise lei.
E sembrava che quel giorno dovesse pensare a lei più di quanto avesse fatto nell’ultimo anno.
Era come se quel piccolo fraintendimento al ristorante le avesse fatto capire fino a che punto fosse davvero coinvolta a livello emotivo con la famiglia Fury. Non che prima non le fosse mai passato di mente, tuttavia l’essersi dovuta trattenere dal chiamare Andrew ed Ellie papà e mamma l’aveva messa in difficoltà.
Paradossalmente non era la parola papà a metterla a disagio, quando mamma.
Le sembrava di fare un torto enorme a sua madre nell’aver pensato quella parola per una persona che non fosse lei: anche se fino a quel momento con Ellie aveva avuto un rapporto molto stretto, non era mai arrivata al punto di pensarla davvero come madre.
Ma adesso?
“Assomigliava alla mia?” chiese Kain, riportandola alla realtà.
“Sotto alcuni aspetti, ma non era fantasiosa come la tua. Mi leggeva molti libri, ma le storie che inventa tua madre dubito che riuscirebbe ad inventarle qualcun altro… e poi non è che cucinasse molti dolci.”
“Ahi, questo non va bene.”
“Kain…”
“Sì?”
“Tu riusciresti a pensare ad un’altra madre al di fuori della tua?”
Il bambino assunse un’aria riflessiva, segno che considerava il discorso tremendamente serio. A Riza sembrò quasi di vedere la sua mente soppesare la sua domanda e squadrarla da ogni possibile angolazione.
“Mh – scosse il capo alla fine – proprio non ci riesco. Mamma e papà sono sempre stati fantastici con me e non posso immaginare altri genitori al mio fianco… sai, prima di conoscere te e gli altri, con papà avevo diverse difficoltà a dialogare, ma ora non più. Tuttavia non credo che nemmeno allora avrei pensato a qualcun altro al di fuori di lui. E’ perché voglio che tu venga a stare con noi, vero?”
“Non proprio – ammise la ragazzina, fissando pensosa davanti a sé – però non ti nego che in parte è dovuto anche a quello.”
“Ti dà così fastidio?”
“No, è che…”
“Scusami, non ho mai pensato al fatto che tu vuoi bene alla tua mamma anche se non c’è più da anni – mormorò il bambino – Se mi metto nei tuoi panni forse proverei le tue medesime cose… solo che sapere che tuo padre non ti vuole tanto bene mi dispiace tanto. E vorrei tenerti a casa con noi perché siamo felici insieme e anche tu lo sei.”
“Credi che le persone che non ci sono più possano in qualche modo sentirci?”
“Non lo so – ammise lui – però mi piacerebbe. Insomma se quando ero piccolo fossi morto mi sarebbe piaciuto continuare a sentire la mamma che mi parlava e mi diceva quanto mi voleva bene. E chissà, magari pure io avrei potuto farle sapere di me e del posto dove andavo a stare, così non si preoccupava. Parli con la tua mamma a volte?”
Un pensiero piuttosto surreale per un bambino di undici anni, ma Kain aveva avuto diverse occasioni per pensare ad una simile eventualità: per quanto dolorosa era anche arrivato ad accettare l’idea della morte.
“Parlare… non proprio. Ma sai, qualche volta vado a trovarla al cimitero: allora mi siedo davanti alla sua tomba e ricordo le cose che ho fatto assieme a lei. Le prime volte mi chiedevo se magari le piaceva come stavano andando le cose a casa, o se le andava bene il fatto che avessi iniziato ad andare a scuola, ma in fondo era qualcosa che chiedevo a me stessa: non è che avessi molte persone con cui parlare.”
“Nemmeno Roy?”
“Beh, all’inizio non lo conoscevo e poi ci sono argomenti che non abbiamo mai toccato.”
“Se vuoi come torno in paese vengo a trovare la tomba di tua madre – propose il bambino – ovviamente di giorno, eh. Niente prove di coraggio.”
“E perché vorresti venire?” chiese Riza con curiosità.
“Perché così mi presento e le chiedo se le va bene che tu stia assieme a noi – strizzò l’occhio Kain – Ti capisco, sai, a volte si vorrebbe chiedere qualcosa ai propri genitori, ma si ha paura.”
“Paura, eh? – mormorò Riza, rivolgendosi più a se stessa che al bambino – Forse hai ragione… oh, dai, non pensiamoci più. I tuoi genitori stanno ancora parlando con i dottori e facciamo in tempo a leggere un altro capitolo.”
 
Quella notte, prima di andare a dormire, Roy compì un gesto che non faceva da tanto tempo: già scalzo ed in pigiama, andò alla scrivania, aprì il secondo cassetto e prese un piccolo libro di poesie. Aprì le pagine dove c’era qualcosa che fungeva da segnalibro e tirò fuori una fotografia.
Non aveva molte foto di lui bambino, anzi quella era l’unica e la cosa importante era che stava in braccio a sua madre.
Ci somigliamo? Direi proprio di sì
C’era un fascino sofisticato in lei, nell’acconciatura semplice eppure ricercata, nell’abito alla moda, nell’espressione sicura e felice: era una donna completamente diversa da quelle che vivevano nel paese. Sua madre apparteneva all’alta borghesia, era fatta per la vita cittadina, per le feste ed i ricevimenti: Roy spesso se l’era immaginata come una regina della buona società, con tutti che si giravano a guardarla quando entrava in qualche salone o in qualche villa. Era lei ad essere magnetica nella coppia, non suo padre, questo era poco ma sicuro.
Katherina Berriel Mustang.
Lei era sicuramente una grande donna e una grande madre: sarebbe stata in grado di combaciare la sua vita pubblica con il prendersi cura di lui. Sarebbe stata estremamente fiera di lui, lo si capiva dallo sguardo che gli rivolgeva, dal sorriso, dal modo in cui lo teneva in braccio.
Chiuse gli occhi e con un enorme sforzo di volontà andò a frugare nei cassetti della memoria più remoti, alla ricerca di qualche frammento di canzone, qualche frase… com’era la sua voce? Mai alta, ma estremamente elegante e musicale.
Ti dispiace che la madre di Vato mi accarezzi i capelli o sappia quanto zucchero voglio nella limonata? Ti dispiace che la madre di Kain mi abbia abbracciato in quella tremenda notte in cui sono stato nella vecchia miniera?
Ti dispiace che… che voglia bene anche a loro?
 
Mentre alcuni facevano i conti con delle madri che non c’erano più, Heymans si trovava ad affrontare una nuova situazione a casa, strana e piacevole perlopiù, ma che poteva assumere dei risvolti estremamente imbarazzanti.
Lui e Laura si erano sempre trattenuti nel loro rapporto per evitare di provocare la reazione di Gregor. Ora che l’uomo era andato via, la donna non si faceva più alcun problema a concedere effusioni e attenzioni nei confronti del figlio maggiore.
Sulle prime ad Heymans era sembrato così strano poter godere di quelle coccole senza il timore del padre che controllasse ogni loro movimento e più di una volta un piccolo germoglio dell’antica paura si era fatto strada dentro il suo animo quando Laura stava con lui. Ma poi questa remore era sparita del tutto e si era abituato a quella nuova forma di quotidianità: del resto Laura distribuiva il suo amore equamente tra lui ed Henry e dunque non c’erano gelosie di sorta che si potevano creare.
Tuttavia, avere un rapporto con la propria madre finalmente normale significava incorrere anche in piccoli imprevisti.
“Carota, eh? – commentò Jean un pomeriggio che era passato a prendere l’amico per uscire fuori – E’ un nome strano per un gatto, ma devo dire che con quel pelo rosso gli sta bene.”
“Henry è rimasto due giorni a pensarci e alla fine ha deciso così – ammise Heymans mentre salivano le scale, preceduti dal grosso gatto rosso che ormai la faceva da padrone in casa – Dai, aspettami in camera che io vado in bagno, mi cambio la maglietta e mi lavo i denti. Faccio in due minuti.”
“Perfetto… ehi, micio, vieni qui.”
Jean prese in braccio il gatto e accarezzandogli la testa entrò in camera dell’amico, sedendosi nel letto.
Stava osservando con distrazione i movimenti del sonaglino al collo dell’animale, quando Laura entrò.
“Oh, ciao Jean.”
“Salve, signora – sorrise lui – sto aspettando Heymans: è andato un secondo in bagno.”
“Dovete uscire?”
“Sì.”
“Allora questa gliela posso mostrare quando torna.” rifletté lei, tenendo in mano una foto.
“Di che si tratta?”
“Oh, è una foto di quando aveva circa un anno e mezza: abbiamo avuto una piccola conversazione una decina di giorni fa e stamane mentre rimettevo in ordine alcune cose ho ritrovato questa. E’adorabile non trovi?”
Jean si era alzato in piedi, liberando Carota, e si era accostato alla donna, sporgendosi per vedere la foto.
Si dovette mettere la mano davanti alla bocca per trattenere le risate.
“Davvero, signora!” disse con voce tremante.
“Ah, è incredibile quanto fosse sempre pronto a mangiare sin da piccolo – sorrise Laura, guardando con amore la foto – appena lo prendevo in braccio e lo portavo verso il seggiolone capiva che era l’ora della pappa e si esaltava. E molto spesso combinava disastri come questo… credo che fosse passato di carota a giudicare dal colore. E poi mi chiede perché lo chiamavo grosso e grasso pupo spupazzabile… insomma guardalo: aveva un pancino che ancora un po’ e non ci stava nel seggiolone.”
“Eccomi, sono pron… mamma?” Heymans entrò e rimase interdetto nel vedere la donna con Jean accanto che aveva il viso contratto nel chiaro sforzo di trattenere le risate. Poi gli occhi grigi colsero la foto e un forte brivido gli attraversò la schiena.
“Volevo farti vedere questa, tesoro – sorrise Laura – non sei splendido?”
“Mamma! – ansimò il rosso – ma perché dovevi farla vedere a Jean?”
“Che c’è di male? Sei così bello in questa foto: quando mangiavi era la gioia fatta bimbo, non c’è altro da dire.” dichiarò prendendogli il viso tra le mani e baciandogli le guance.
“E sei così spupazzabile…” riuscì a dire Jean, rischiando di soffocarsi dalle risate.
Heymans scosse il capo: era appena successa una tragedia a cui doveva cercare di porre rimedio, altrimenti le prese in giro da parte del suo migliore amico sarebbero durate per tutta la vita.
Purtroppo Jean era fatto così: se si fissava su qualcosa che lo divertiva particolarmente era capacissimo di inferire sul suo bersaglio. E dunque se aveva trovato estremamente piacevole tormentare Kain per diversi anni, adesso sembrava aver tutta l’intenzione di ricordare ogni cinque minuti quanto fosse adorabile e spupazzabile il piccolo Heymans della foto.
E la prospettiva che quella storia proseguisse per buona parte dell’estate e, peggio ancora, si diffondesse tra gli amici, era intollerabile. Fu dunque per un istintivo meccanismo di difesa personale che la mente del rosso iniziò a lavorare con frenesia.
Ma a volte non c’è bisogno di essere troppo fantasiosi e la soluzione arriva da semplici detti popolari come rendere pan per focaccia.
Mentre stavano seduti su un prato, Heymans, dopo aver fatto un paio di calcoli relativi alla distanza da percorrere, si alzò di colpo, un ghigno cattivo che gli compariva sul viso, e senza che Jean potesse dire qualcosa iniziò una sfrenata corsa verso l’emporio Havoc. Sapeva di avere un discreto vantaggio sull’amico ed inoltre aveva il fattore sorpresa: il suo piano aveva tutte le carte in regola per riuscire.
Tuttavia sembrava che Jean avesse intuito qualcosa, perché aveva iniziato a corrergli dietro chiamandolo disperatamente ed intimandogli di fermarsi.
Troppo tardi! Non ti permetterò di rovinarmi l’estate per colpa di quella foto!
In barba a tutte le norme dell’educazione, quasi sfondò la porta della foga di entrare, rischiando di travolgere Janet che stava giocando con le costruzioni proprio all’ingresso.
“Dov’è tua madre?” ansimò.
“In cucina, ma…” iniziò la bambina, alzandosi in piedi.
“Grazie!”
“Fermalo! – esclamò Jean ancora a metà cortile – Dannazione, fermalo!”
Ma ormai Heymans era proiettato verso la sua vittoria.
“Signora Havoc! – salutò, andando a posarsi contro il tavolo – Scommetto che lei ha un sacco di foto di Jean piccolo, vero?”
“Eh?” chiese Angela con perplessità.
“Sì – annuì il rosso – sa oggi mia madre ne ha fatto vedere una mia a Jean… che ne dice? Le va di ricambiare il favore?”
“Mamma, non ascoltarlo!” Jean si catapultò addosso all’amico cercando di tappargli la bocca.
I due iniziarono una lotta senza quartiere in quel lato del tavolo, ma ormai il danno era fatto. Purtroppo per Jean, Angela era una di quelle madri estremamente fiere delle compromettenti foto dei figli piccoli.
“Ne ho una scatola piena! – esclamò battendo le mani con gioia – Ne vorresti vedere qualcuna?”
“Cert…”
“No!”
“Lasciami parlare! Ovvio che la voglio vedere!”
“Vado a prenderle…”
“Che? Mamma, non farlo… e mollami!”
“No, adesso aspettiamo che tua madre porti le foto!” lo bloccò Heymans.
“Ne ho una spettacolare di Jean a due anni che corre nudo in salotto – disse la voce di Angela dall’altra stanza, mentre si avviava per andare a prendere quelle documentazioni scottanti – sarà un vero piacere rivederle assieme a voi.”
“Sei contento? – sibilò il biondo, mollando la presa sull’amico – Adesso andrà avanti per almeno una settimana.”
“Chi di foto colpisce di foto perisce, amico mio – sghignazzò Heymans – ma sta tranquillo che se tu non aprirai bocca riguardo me, io sarò muto come un pesce su questa tua corsa nudista in salotto.”
Dei veri amici potevano stringere anche patti simili.





Il bellissimo (e spupazzoso) disegno è di Mary_

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Capitolo 53
*** Capitolo 52. Un ritorno. ***


Capitolo 52. Un ritorno.

 

Il mese di giugno giungeva ormai a termine, caldo e piacevole, senza l’eccessiva afa che si sarebbe presentata in seguito. La vita nella campagna procedeva tranquilla come sempre con i ragazzi che sciamavano nei prati godendosi la loro meritata libertà dopo la scuola.
Gli eventi turbolenti che avevano scosso il paese a fine aprile ed inizio maggio sembravano essere stati, almeno in parte, assimilati dalla popolazione. Almeno questa era l’idea che Heymans si era fatto, ma la sua mente acuta riusciva a cogliere particolari dettagli che avevano favorito quella situazione tutto sommato tranquilla.
Questa riflessione iniziò una sera quando era sdraiato nel suo letto dopo un pomeriggio intero passato con Jean e Roy a fare prove di destrezza su un campo abbandonato. Era tornato a casa così esausto che, dopo aver bevuto tre bicchieri d’acqua fresca, aveva avuto solo la forza di salire in camera, cambiarsi i vestiti sudati e cadere pesantemente sul materasso. Distrattamente aveva girato la testa e il suo sguardo era caduto sul calendario che aveva appeso nell’anta dell’armadio.
29 giugno.
Il ritorno di Kain si avvicinava con grande rapidità e nell’arco di una settimana finalmente il suo periodo di riabilitazione ad East City sarebbe terminato. Il resoconto che aveva fatto Riza quando era tornata dalla sua visita era stato molto positivo e anche le successive telefonate di Andrew avevano confermato quanto tutti speravano: nell’arco di un paio di mesi quel brutto incidente sarebbe stato solo un pessimo ricordo e sarebbe rimasta solo una cicatrice nella coscia destra di Kain come testimonianza.
Succedeva più o meno due mesi fa… ed è quasi un mese e mezza che lui è andato via.
Lui… nemmeno riusciva a chiamarlo più padre.
Ecco l’altro grande evento che il paese aveva dovuto assimilare: adesso aveva una donna separata con due figli, un episodio di violenza domestica uscito prepotentemente allo scoperto e con conseguenze che nessuno avrebbe mai immaginato. Ma se il primo impatto era stato difficile, adesso per la famiglia Breda le cose erano molto più facili… e che importava se parte della popolazione aveva difficoltà ad accettare quella novità? Sua madre per fortuna aveva delle persone su cui poter contare, che la proteggevano e le volevano un gran bene: il tanto temuto ostracismo era da dimenticare grazie ad un gruppo di famiglie che aveva fatto cerchio attorno a lei. E quando tra queste persone ci sono gli eroi della piena e Angela Havoc, molte malelingue preferiscono tacere. Laura stava rifiorendo, su questo non c’erano dubbi: Heymans avevano notato che, con molta riservatezza, aveva ripreso anche a lavorare come sarta. Piccole ordinazioni, fatte con discrezione, ma anche questo era un segno di accettazione e di ritorno alla normalità.
E poi c’era Henry.
La balbuzie era completamente sparita da circa una settimana, così come il nervosismo. Ormai non prendeva più nessun farmaco e dormiva tranquillo in camera sua la maggior parte delle notti: aveva ripreso ad uscire con i suoi due amici delle scuole medie e questo aveva confortato non poco Heymans. Se non ci fossero stati loro suo fratello si sarebbe trovato completamente isolato: in una simile eventualità, il ragazzo aveva anche ipotizzato di inserirlo discretamente all’interno del suo gruppo, ma era una mossa molto rischiosa considerata la presenza di Roy ed il ritorno di Kain. Non che alla fine non si sarebbe trovato un nuovo equilibrio, ma sarebbe stata una cosa particolarmente forzata.
Meno male, davvero, non mi andava proprio di lasciarlo da solo.
Perché l’uscita di scena di Gregor aveva dimostrato quello che Heymans aveva sospettato da tempo: Henry era stata la persona maggiormente condizionata da quell’uomo. Il suo atteggiamento strafottente era quasi del tutto sparito ora che non aveva l’esigenza di mostrarsi come duro ad un padre che chiedeva simili dimostrazioni di forza. Certo, era un ragazzino con l’argento vivo addosso, ma adesso tendeva a somigliare a Jean nelle sue dimostrazioni di esuberanza. Probabilmente anche l’essere stato liquidato dalla sua banda aveva avuto un effetto positivo: senza dimostrazioni di coraggio o di prepotenza da fare per compiacere i capi, Henry non era più obbligato a simili prove.
“Heymans – disse proprio l’interessato, entrando in camera sua – mamma dice che tra un quarto d’ora si mangia, va bene?”
“Va bene.”
Il ragazzino annuì e poi vide che Carota era tranquillamente sdraiato sul davanzale della finestra a godersi la lieve brezza della sera. Con un sorriso si accostò a lui e iniziò ad accarezzargli la testa rossa, provocando fusa di soddisfazione.
“Ieri sera era in grembo alla mamma – disse con un sogghigno – ormai è proprio parte della famiglia.”
“Ma dai! – si sorprese Heymans, mettendosi a sedere – Credevo che mamma non avrebbe mai accettato simile confidenza…adesso capisco perché quando abbiamo mangiato il pesce ha fatto attenzione a non buttare subito gli avanzi: li ha dati al gatto. Sai conquistare tutti, furfante.”
“Heymans…”
“Sì?”
“Tu sai dov’è andato papà?”
A quelle parole il rosso si irrigidì, ma tutto sommato si era aspettato che prima o poi suo fratello tirasse fuori una domanda simile: lui e Laura gli avevano semplicemente detto che Gregor era andato via e non sarebbe più tornato. L’avevano fatto in modo gentile, rassicurandolo che non ci sarebbero state più violenze a casa, ma era comunque dire che un pezzo della loro famiglia non c’era più.
“No, non lo so – ammise schiettamente – so solo che in paese non può più tornare.”
“Capisco – gli occhi grigi di Henry si fecero remoti, ma la mano continuò ad accarezzare la testa del gatto – insomma è stato liquidato anche lui, un po’ come me.”
“Ne senti la mancanza?” Heymans scoprì di essere leggermente ansioso.
“Non lo so… senza di lui tu e mamma siete completamente diversi e mi va bene. Però non nego che è strano pensare che non lo rivedrò mai più.”
“Anche tu sei diverso senza di lui, non te ne rendi conto?”
“Dici?”
“Sì, sei molto più sereno – il rosso si alzò dal letto – e riusciamo a parlarci senza problemi.”
“Papà non voleva che stessi con te, diceva che non eri una buona compagnia… ed eri così serio e responsabile a casa che non potevo che dargli ragione.”
Heymans annuì, consapevole di aver in parte sbagliato con quell’atteggiamento così duro e privo di compromessi: aveva creduto di contrapporsi alla cattiva influenza che Gregor aveva su Henry, ma in realtà aveva contribuito ad allontanare il fratello da lui.
“La dovevo gestire diversamente, lo ammetto.”
“Mi faceva rabbia – spiegò Henry – perché fuori casa eri completamente diverso… e lo eri con Jean Havoc e poi con gli altri tuoi amici. Era come se mi avessi escluso, come se io fossi parte di una realtà che non ti piaceva.”
“E dunque era più facile sentire papà, vero? Scusami, Hen, davvero.”
“Fa niente – scrollò le spalle lui – hai protetto la mamma e questo è l’importante. Adesso lei è felice ed è questo che conta.”
“Henry…”
“Lei ci vuole bene e non ci lascerà mai, vero?”
“Ma certo! Che domande ti vengono in mente?”
“Beh, dopo che tuo padre fa tutto quello che… – serrò gli occhi e scosse il capo come a cacciare via un brutto ricordo – qualche dubbio ti viene, no?”
“Ma non sulla mamma – Heymans allungò una mano e gli arruffò i capelli rossicci – e nemmeno su di me, va bene?”
“Va bene.”
“Heymans, Henry! – la voce di Laura li chiamò dalla cucina – La cena è pronta: andate a lavarvi le mani.”
“Va bene, mamma! – rispose Heymans. Poi si rivolse ad Henry – Hai da fare stasera?”
“No, direi di no.”
“Prepara le tue biglie: creiamo un percorso ad ostacoli tra camera mia e camera tua.”
“Grandioso! Spero solo che mamma non decida di irrompere nel corridoio proprio quando passiamo di lì.”
“No, la facciamo stare in salotto con il gatto, vero Carota? – sogghignò Heymans – Avanti, scendi pure tu: scommetto che c’è da mangiare anche per te.”
 
Il giorno successivo era un lunedì e Roy attendeva con ansia che arrivassero le tre del pomeriggio.
Quasi non mangiò a pranzo e per una volta tanto preferì non avere a che fare con Vato e gli altri: rimase chiuso in casa fino a quando, alle due e mezza, si mise in marcia verso la stazione ferroviaria, sperando che il treno quel particolare giorno fosse puntualissimo, se non addirittura in anticipo.
Non era da lui essere così emozionato ed effettivamente, mentre stava seduto nella panchina ad attendere, la sua espressione non faceva trapelare nulla. Tuttavia dopo che per anni non vedi il tuo miglior amico ed il suo arrivo è stato rimandato per mesi, anche quei venti minuti di attesa diventavano esasperanti.
Dalla tasca recuperò la lettera che gli era arrivata la settimana scorsa con cui Maes si scusava della sua sparizione negli ultimi mesi e annunciava il suo arrivo per lunedì 30 giugno: sarebbe stato in paese solo per tre giorni, il tempo che i suoi genitori intendevano dedicare ad alcune questioni di famiglia, ma era meglio di niente. Leggendo quelle righe gli occhi scuri di Roy si strinsero leggermente: aveva sperato in almeno una settimana di tempo da passare assieme, ma si sarebbero dovuti accontentare.
Ogni pensiero venne interrotto dal fischio in lontananza della locomotiva.
Roy si alzò in piedi ed un lieve sorriso gli increspò le labbra mentre vedeva il treno avvicinarsi sempre di più alla stazione.
“Chi deve arrivare, ragazzo?” chiese il capostazione, uscendo dal piccolo edificio.
“Vecchie conoscenze, signore – rispose Roy – a volte in paese ci sono graditi ritorni.”
Non aggiunse altro perché dal vagone erano appena usciti i genitori di Maes che subito vennero accolti con estrema sorpresa dal funzionario delle ferrovie. Ma Roy li degnò appena di un gesto di saluto.
“Roy Mustang!” una voce divertita e sicura, più profonda rispetto a come se la ricordava, attirò la sua attenzione verso il vagone. Indossava pantaloni neri e camicia a maniche corte della divisa scolastica di una prestigiosa scuola di Central City, aveva cambiato occhiali ed il ciuffo che gli cadeva sulla fronte era leggermente più lungo.
Ma quegli occhi verdi e scaltri non erano cambiati di una virgola da quando loro due erano una coppia perfetta, qualcosa che nemmeno Jean ed Heymans avrebbero potuto eguagliare. Le vere personalità di tutta la scuola, gli indipendenti per eccellenza.
“Maes Hughes!” salutò Roy, con il medesimo tono mentre si avvicinavano l’uno all’altro, incontrandosi a metà banchina. Lui posò la sua valigia a terra e squadrò l’amico.
Prima erano alti uguali, ma adesso Maes era più alto di circa due centimetri; il suo fisico era snello e asciutto, ma si riconosceva la forza nelle braccia leggermente abbronzate. Anche se aveva sempre fatto affidamento sulla velocità, Maes si sapeva difendere bene nella lotta fisica.
“La monotona vita di campagna non ti ha fatto sparire quel sogghigno, vero Roy?”
“Lo stesso si può dire per la caotica vita di Central, Maes.”
E scoppiando a ridere si abbracciarono, migliori amici che nemmeno una grande distanza poteva dividere.
 
Se le prime impressioni tra Heymans e Jean alle scuole medie non erano state favorevoli, limitandosi al reciproco ignorarsi, l’incontro tra Maes e Roy era stato ancora più disastroso. Alle elementari avevano litigato per il possesso di un qualcosa ritrovato in cortile, probabilmente un vecchio nido, che aveva attratto l’attenzione di entrambi. Spesso questi litigi finiscono con un niente di fatto, ma il nido, in quel caso, era stato ben presto dimenticato dai due bambini che avevano iniziato ad azzuffarsi come dei demoni, tanto che era dovuta intervenire la maestra a separarli.
Siccome erano entrambi molto ostinati ed orgogliosi, si erano rifiutati di far pace e chiedere scusa e così erano rimasti in punizione per tutta la giornata, ciascuno in piedi in un angolo della classe. Dopo un primo incontro del genere sembrava che fosse inevitabile una rivalità destinata a protrarsi negli anni, ma paradossalmente quando, finalmente, era stato concesso loro di uscire dalla classe, si erano guardati ed erano scoppiati a ridere.
All’epoca erano in terza elementare e da lì era iniziato un sodalizio che era durato fino alla fine della terza media, quando la famiglia Hughes si era trasferita a Central City per motivi di lavoro del padre. Sei anni circa di amicizia strettissima, quasi assoluta, una perfetta simbiosi.
“Non è vero che sei sempre lo stesso – ammise Roy qualche ora dopo, mentre passeggiavano per le vie del paese, dopo che Maes ed i suoi genitori si erano sistemati a casa di un parente – sei cambiato e non solo fisicamente.”
“Dici? – fece lui, sistemandosi gli occhiali sul naso – Forse l’aria della capitale è diversa da quella di questo paesino e di certo la scuola che frequento non ha classi di una decina di ragazzi: nella mia siamo ventidue.”
“Ventidue? Accidenti! Immagino il chiasso…”
“Non credere – sogghignò l’altro – la disciplina è molto più marcata: già il fatto che dobbiamo indossare la divisa la dice lunga, no? Mh? Ma perché continui a fissare i miei occhiali?”
“Niente, pensavo a quelli di Kain: sono molto diversi dai tuoi.”
“Kain?”
“Kain Fury, il figlio dell’ingegnere, ti ricordi?”
“Fury… Fury, ah il notaio?”
“E’ il nonno.”
“Aspetta, credo di ricordarmi di lui: era quel microbetto che stava in seconda o terza elementare… mi pare che assieme a me fosse l’unico ad avere gli occhiali a scuola. Come mai lo chiami per nome? Non mi dire che lo frequenti.”
“E’ mio amico.” ammise Roy.
A quella dichiarazione Maes lo gratificò di una penetrante occhiata dei suoi occhi verdi.
“Ma guarda, il grande Roy Mustang che stringe amicizia con uno schizzetto delle elementari.”
“A settembre va in seconda media.”
“Non usare quel tono difensivo, sono solo sorpreso. Insomma, quando sono andato a vivere a Central ero convinto che non avresti stretto amicizia con nessun altro e dalle lettere che ci scambiavamo mi sembrava di capire che era così… non credo che tu mi abbia mai accennato a qualcuno, forse qualche volta mi hai detto che tua zia stava bene, ma niente di più.”
“Tu invece mi hai spesso parlato dei tuoi compagni di classe e della tua nuova scuola. Gran bel posto da quello che ho capito.”
“Persone notevoli, lo ammetto – alzò le spalle lui – faresti faville in un posto simile. Senza contare che uno come te avrebbe molto successo con le ragazze.”
“Ma dai, adesso pensi alle ragazze?” Roy sorrise incredulo.
Ma sgranò gli occhi quando l’amico lo afferrò con violenza per una spalla e lo guardò con aria estremamente seria, come se quella domanda fosse stata profondamente offensiva.
“Pensare alle ragazze… ti stai sbagliando di grosso.” sibilò.
“Non… non volevo dire che…” iniziò Roy, non capendo cosa avesse detto di male.
“Io ho la ragazza, Roy Mustang! – esclamò, il viso che si illuminava in un esaltato sorriso estatico – Ti devo mostrare la sua foto! La porto sempre con me… si chiama Glacier ed è nella sezione accanto alla mia! Guarda! Non trovi che sia la studentessa più bella del mondo? E’ stata una faticaccia tenertelo nascosto per tutti questi mesi!”
Nell’arco di un decimo di secondo, Roy si trovò sbattuta in faccia una fotografia. Dovette indietreggiare e prenderla in mano prima di riuscire a vedere una ragazzina sorridente con corti capelli castano chiari e occhi color verde acqua.
“Allora? Che ne pensi?”
Roy prese in mano la foto e la squadrò con aria pensosa: era carina, su questo non c’erano dubbi, e la divisa le stava davvero bene. Sembrava una ragazzina con la testa sulle spalle e un po’ nell’espressione gli ricordava Elisa. Però non gli sembrava tutta questa enorme bellezza… ma da come si stava comportando Maes pareva di avere a che fare con la donna più bella del mondo.
“Complimenti…” gli disse restituendogli la foto.
Si trattava semplicemente di prendere atto di un fatto: Maes sotto questo punto di vista era cresciuto più in fretta di lui e aveva già iniziato ad interessarsi al mondo femminile. Anzi, ad una femmina in particolare.
Sotto questo punto di vista Roy si sentì leggermente offeso: non gli piaceva essere lasciato indietro ed era ovvio che in un paese piccolo come il loro non poteva avere le medesime possibilità che si avevano in una grande scuola come quella frequentata da Hughes.
“E’ fantastica: non vedo l’ora di sposarla!”
“Sposarla? Diamine, Maes, devi compiere sedici anni tra due mesi, non ti sembra di correre troppo?”
“E perché? E’ chiaro che è la donna della mia vita.”
“Donna… se anche lei va in quarta allora ha quindici anni. E’ una ragazza.”
“Non sto certo a guardare simili dettagli: io e Glacier siamo destinati a passare la nostra vita assieme. E tu parli così acidamente perché hai bisogno di una ragazza, ne sono certo! Dovresti trasferirti a Central e smetterla di fare il solitario in questo posto…”
“Solitario…”
“… dove l’unica cosa che fai è stringere amicizia con un microbetto delle medie.”
“A dire il vero io…”
“Roy! – chiamò una voce e dalla strada principale Riza arrivò di corsa – Ha appena chiamato il padre di Kain all’ufficio del capitano Falman! E’ confermato! Lunedì prossimo tornano a casa!”
La ragazzina si fermò ansante davanti a lui, le guance arrossate per la corsa, gli occhi castani brillanti per la gioia di quella notizia. Solo dopo qualche secondo si accorse che il suo amico non era solo e si girò per guardare Maes, riconoscendolo dalla foto che Roy aveva in camera sua.
“E lei chi è? Non mi sembra di ricordarla a scuola… sono Maes Hughes.” sorrise tendendo la mano.
“Riza Hawkeye.”
“Ah! Ecco spiegato il mistero: la figlia del vecchio alchimista… ma guarda, allora non sono il solo ad aver trovato la ragazza, eh? Potevi anche dirmelo, Roy!”
“Ma che dici!” Roy annaspò mentre Riza arrossiva violentemente, intrappolata nella stretta di meno di quel ragazzo.
“State benissimo assieme, fatevelo dire. Certo, Glacier è decisamente più carina di lei, ma non ti offendere ragazzina, sei bellina pure tu e per Roy sei perfetta.”
“Veramente io e lui non…”
“Non essere timida!”
“Maes! – la mano di Roy liberò Riza da quella stretta – La vuoi smettere di dire assurdità? Riza è mia amica, tutto qui! Il fatto che tu ti sia trovato la fidanzata non vuol dire che anche io debba automaticamente seguire il tuo esempio.”
“E’ già fidanzata?”
“No! – protestò Riza che si era immaginata l’amico di Roy in tutt’altra maniera – Ma che dici?”
“In città siamo più sciolti su queste cose, dovreste farlo pure voi e…”
“Maes! – chiamò una voce – Forza vieni, stasera siamo a cena dai nonni e devi prepararti.”
“Arrivo, mamma! Beh, scusate tanto, ragazzi, ma ovviamente in questi tre giorni i parenti pretenderanno che raccontiamo loro le ultime novità. Ci vediamo domani Roy, ho il sospetto che tu abbia diverse cose da raccontarmi. Quanto a te, Riza, è stato un piacere conoscerti.”
E senza attendere risposta, il ragazzo girò loro le spalle e si diresse verso il paese, lasciando Roy e Riza a guardarlo esterrefatti, come se fosse stato un uragano che li aveva appena lasciati illesi.
“E così quello è Maes…” mormorò Riza infine.
“Sì – annuì Roy, riprendendo la calma e mettendosi le mani in tasca – anche se tu hai visto una parte di lui che ancora non conoscevo. A quanto pare trovarsi una ragazza a Central City ha effetti collaterali di questo tipo.”
“Tranquillo, non mi ha mica offesa.”
“Posso confidarti una cosa?”
“Dimmi.”
“Sai, nelle lettere che ci siamo scambiati io e lui in tutti questi anni, non ho mai parlato di voi.”
“Oh…” Riza non seppe che altro dire, ma una piccola forma di fastidio si insinuò dentro di lei. Non essere stata nemmeno citata in discorsi con il suo miglior amico voleva dire che forse non era così importante come credeva.
“E’ che…”
“Adesso devo andare – lo bloccò lei – voglio passare da Heymans per dargli la bella notizia del ritorno di Kain e poi devo correre a casa a preparare la cena e Hayate si sentirà solo.”
Nemmeno lei gli diede tempo di replicare e nell’arco di cinque secondi si ritrovò solo in quella strada alla fine del paese, con l’aria che iniziava a rinfrescarsi lievemente per il tramonto.
Il ritorno di Maes l’aveva scombussolato più del previsto, doveva ammetterlo.
E non solo perché è cambiato lui, ma anche perché mi rendo conto solo ora di essere cambiato pure io.
 
“Adesso che mi hai dato le belle notizie mi vuoi dire che cosa ti rende triste?” chiese Heymans, sedendosi nel divano accanto a Riza.
La ragazzina fissò pensosa il caminetto spento davanti a loro, puntando la sua attenzione sulle pietre annerite dall’uso e sui solchi tra di esse. E così il suo turbamento era davvero palese se Heymans se ne era accorto subito: adesso capiva perché l’aveva fatta entrare in casa e non erano rimasti a chiacchierare all’ingresso come spesso succedeva.
“Oggi è tornato Maes Hughes, lo sapevi?”
“No – scosse il capo lui con lieve sorpresa – non immaginavo dovesse venire in paese. Immagino che Roy ne sia molto felice.”
“Heymans, tu che sei un indipendente che mi puoi dire di lui? Ci hai mai parlato?”
“No, a parte qualche cenno o qualche saluto: sicuramente era la parte più aperta della coppia, ma con me e Jean non ha mai avuto a che fare. Sono rapporti tra indipendenti, del resto, in genere ciascuno tendeva a stare per i fatti propri, quindi non mi sono mai preoccupato di simili cose.”
“Se a te e Jean fosse accaduta la stessa cosa che è successa a Maes e Roy…”
“… il trasferimento di uno di noi due, dici?”
“Sì – Riza serrò le mani in grembo – ecco… tu l’avresti scritto a Jean che avevi conosciuto me e gli altri?”
“Non vedo perché no – scrollò le spalle lui – però… ti confesso che forse ne avrei avuto un po’ paura, ora che ci penso bene.”
“Paura?” Riza alzò gli occhi sul suo amico.
“Supponiamo che Kain un giorno ti dicesse che ha trovato una migliore amica, magari ad East City, tu come ti sentiresti? E non dirmi che saresti felicissima per lui, Riza, ho il vago sentore che tu all’inizio fossi anche leggermente gelosa dell’amicizia di Kain con Elisa.”
“E’ stato solo per qualche giorno – scosse il capo lei – è stato anche stupido perché non ne avevo motivo.”
“Certo che non ne avevi: Kain ha una sola sorella maggiore che ama con tutto se stesso e sei tu. Solo a te guarderà sempre e comunque in modo speciale e questo ti fa sentire bene, vero?”
“Non capisco cosa c’entri con Roy e Maes e quanto ti ho domandato.”
“Uh che sguardo – sogghignò Heymans, allungando una mano per tirarle una ciocca di capelli biondi – è da tanto che non vedevo la paladina dei secchioni… ma per tornare a noi, se io e Jean fossimo separati avrei paura a dirgli che ho dei nuovi amici e sai perché? Perché per il tipo di rapporto che abbiamo mi sembrerebbe quasi di tradirlo, o meglio di tradire il nucleo forte che siamo.”
“Non vi siete fatti problemi a diventare nostri amici, tuttavia.”
“Ma qui siamo assieme, Riza: tu sei amica mia quanto sua e così Kain, Vato, Elisa, Roy… Rebecca è un discorso a parte, ovviamente, ma il nostro è un rapporto quotidiano e la nostra amicizia non subisce alterazioni. Ma quando si è distanti è un’esigenza crearsi delle nuove amicizie, anche se si è solitari come Roy.”
“Credeva di tradire Maes?”
“Probabile, ma conoscendo il nostro folle eroe, così pazzo da coinvolgere anche una come te in un viaggio clandestino, forse ha preferito tenere per sé alcune fatti che considerava estremamente personali. Mi sono reso conto che l’amicizia per Roy è qualcosa di estremamente importante una volta che la concede e per tutelarla ne parla il meno possibile con chi è esterno alla cosa.”
“E’ complicata come cosa – Riza si posò allo schienale con aria smarrita – però non posso negare di esserci rimasta male: non dire niente di me al tuo migliore amico vuol dire che non…”
“… non sei importante?”
“Mh.”
“Riza – Heymans le prese le mani – ti ricordi quando ci hai aiutato per la piena e poi ti sei ammalata? Ti ricordi come Roy ti ha difeso spietatamente, tutte le parole che lui e noi altri ti abbiamo detto?”
“Certamente.”
“Perché devi ancora avere dubbi su questa cosa?”
“Non lo so – arrossì la ragazzina – mi faccio più problemi del previsto a quanto pare.”
“Maes starà qui pochi giorni e poi tornerà a Central: riprenderà la sua vita e così Roy… e tu sei nella sua vita da parecchi anni. Fidati di me, il fatto che Roy non abbia detto niente di noi e di te a Maes non deve minimamente preoccuparti… andiamo, fammi un sorriso: pensa che tra una settimana la tua famiglia sarà di nuovo qui.”
“La mia famiglia… Heymans, tu mi capisci, lo so.”
“Oh sì che ti capisco, Riza – annuì lui con serietà – quell’uomo è un padre anche per me… lui…”
I suoi occhi grigi si spostarono sull’angolo tra camino e muro, dove si era rifugiato quando Gregor l’aveva aggredito con quell’arma. D’istinto si toccò il fianco ricordandosi del dolore, ricordandosi di come Andrew l’avesse abbracciato e protetto mentre in quella stanza infuriava l’inferno.
“Lui è semplicemente fantastico.” concluse Riza.
Ed Heymans si trovò perfettamente d’accordo.
 
In camera sua Roy era seduto sul pavimento con accanto a lui un pacco di lettere tenute assieme da un elastico: la corrispondenza con Maes in quegli oltre tre anni di separazione. Aveva passato l’ultima ora a rileggere ogni singola pagina a partire dalla prima lettera fino a quella più recente: ora che le analizzava tutte insieme vedeva una chiara evoluzione nel loro contenuto: nei primi tempi Maes accennava solo vagamente ai suoi nuovi compagni di scuola, limitandosi a parlare della casa, della città, dei suoi nuovi insegnanti.
Come mi volesse tacere di proposito il fatto di aver stretto nuove amicizie.
E su di questo Roy non aveva dubbi: anche se Maes aveva sempre fatto coppia con lui non aveva mai disdegnato la compagnia degli altri compagni di classe, tutt’altro. Aveva sempre avuto un carattere espansivo e socievole ed era facile volergli bene: era naturale che dopo qualche settimana di ambientazione iniziasse a farsi dei nuovi amici tra i compagni di scuola.
Ed erano arrivati i primi accenni a loro, nelle lettere di quasi un anno dopo il trasferimento: nomi, degli accenni a qualche episodio particolarmente divertente, una vita sociale che piano piano traspariva da quelle righe. E man mano che si andava avanti tutto questo diventava più evidente: volti e personalità ormai perfettamente definiti, un gruppo chiaro e consolidato… solo di Glacier non si faceva mai accenno, ma a quanto sembrava era stato un proposito di Maes per fargli una sorpresa.
E conoscendolo gli deve essere costato davvero tanto…
Con un sospirò si mise sdraiato, le mani dietro la testa: lui non aveva mai fatto accenno a nessuno dei suoi amici, nemmeno a Riza che conosceva da anni. Perché era stato così riservato? Del resto Maes era il suo miglior amico, avrebbe avuto il diritto di sapere queste importanti evoluzioni… diamine ora lui, Roy Mustang, era amico di Jean Havoc e di Heymans Breda. Tre indipendenti tutti assieme, dove diavolo si era mai visto?
E il piccolo gnomo dove lo metti? E Vato? Tutte le loro famiglie… tutto il mio mondo.
E Riza?
“…ma guarda, allora non sono il solo ad aver trovato la ragazza, eh? Potevi anche dirmelo, Roy!”
“Non potresti andare più lontano di così, Maes!” borbottò.
Una fidanzata era Elisa con Vato o persino Rebecca con Jean. Per lui Riza andava oltre questo concetto: era la persona che lo capiva al volo, l’unica la cui presenza non gli desse mai fastidio. Silenziosa, responsabile, a volte malinconica, eppure sempre tenace e disposta a tutto, persino a seguirlo nelle sue follie.
Riza era quella che gli aveva impedito di sprofondare nella solitudine più assoluta quando Maes era partito.
Riza è qualcosa che non può essere semplicemente scritto… la devi vedere seduta con la schiena posata all’albero a leggere per la decima volta quel libro dalla copertina azzurra che era di sua madre. Devi sentire la sua voce, la sua risata, devi vederla abbracciare Kain, accarezzargli i capelli, i suoi occhi che si illuminano per la gioia di aver trovato quella famiglia che la ama tanto. Non è la foto di una studentessa carina delle superiori… è la ragazza che durante la piena si è distrutta di lavoro per aiutare le persone che ama, quella che ha assistito Kain fino a quando è stato necessario. Lei è…
“… lei è qualcuno che non ho voluto dividere con te.”

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Capitolo 54
*** Capitolo 53. Ovvi squilibri. ***


Capitolo 53. Ovvi squilibri.

 

Due persone che Roy non ebbe problemi a presentare a Maes, anche perché non erano proprio degli sconosciuti, furono Heymans e Jean. In quanto indipendenti facevano in qualche modo parte del passato che aveva condiviso con il suo amico e dunque non c’era l’impressione di essere un traditore.
Come il moro aveva sperato, dopo un primo momento in cui la vecchia rivalità era saltata fuori, si erano messi a parlare come se fossero amici di vecchia data, rievocando episodi risalenti al periodo delle scuole medie quando già iniziavano a farsi strada in mezzo alle bande.
Linguaggio secco e senza impegno, sapendo bene di chi poter parlare e sparlare: gli indipendenti avevano parecchio in comune, in particolare i nemici. Sembrava che anche nella prestigiosa scuola di Central non si disdegnassero liti o zuffe e dunque ben presto il quartetto iniziò a ridere della grossa e a raccontarsi episodi che ovviamente vedevano sempre una loro vittoria.
In tutto questo, Vato stava in disparte: era stato presentato a Maes, ma era apparso chiaro che, se non fosse stato per i capelli bicolore, il ragazzo non si sarebbe minimamente ricordato di lui. Ed era strano: in genere quello che non era mai a corto di argomenti era proprio il giovane Falman, ma in questo caso si scontrava con un muro invalicabile. Risse, mosse scorrette, ricordi di lividi durati per settimane… decisamente per un ragazzo modello come lui, sebbene da quando frequentasse Roy la sua vita fosse diventata molto più movimentata, erano cose di cui non era facile parlare.
E così si sentì ben presto escluso da quel gruppo, ma mentre vedere Heymans e Jean così spigliati non gli creava problemi, del resto li aveva sempre conosciuti come coppia, la confidenza che Roy dimostrava con Maes gli diede notevole fastidio. Sapeva benissimo che il ragazzo con gli occhiali era il miglior amico di Roy sin dalle elementari, così come sapeva che loro due erano stati una coppia proprio come Heymans e Jean: non doveva meravigliare che fossero così affiatati tra di loro, che si capissero con un solo sguardo, ridendo ed intervenendo quando era il momento giusto.
A volte Roy mi guarda per dieci secondi prima che io capisca che lui sta scherzando.
Quel pensiero lo fece arrossire e si sentì incredibilmente stupido.
Sapeva di essere completamente diverso da loro, ma se prima questo fattore non gli era mai pesato, la presenza di Maes aveva aperto un baratro dentro il quale lui era caduto senza alcun appiglio.
“Uh – si fece avanti ad un certo punto, non tollerando più quella situazione – ecco io, credo che andrò a trovare Elisa.”
“Ah davvero? – fece Heymans – Guarda che stasera doveva andare a casa mia per farsi sistemare un abito: almeno questo è quello che mi ha detto mia madre come sono uscito.”
“E’ vero.” sospirò, ricordandosi di quel dettaglio.
“Non vuoi restare con noi? – chiese Maes, mettendo un braccio attorno alle spalle di Roy – ci stiamo divertendo un mondo a ricordare l’incapacità di certa gente nel combattere.”
“Ecco, io non credo di essere molto bravo in simili discorsi.”
“Vato è un ragazzo di pensiero – spiegò Roy con un sogghigno – e tende più a ragionare che ad agire.”
“Dannazione, Roy Mustang, ti sei proprio circondato di gente strana, eh? Già i due indipendenti esterni a noi, poi la figlia del vecchio alchimista… e quello piccoletto che fa?”
“Costruisce radio.”
“Ma dai mi prendi in giro!”
Vato non rimase ad ascoltare il resto della discussione: mettendosi le mani in tasca girò le spalle al quartetto e tornò verso il paese.
 
Nel medesimo momento Riza sedeva sul letto di Laura e osservava la donna girare attorno ad Elisa indossante un grazioso abitino verde come i suoi occhi. Quella giornata si sentiva particolarmente triste perché, nonostante le parole di Heymans, si era convinta che per Roy lei non fosse così importante da parlarne con il suo miglior amico.
Quando aveva saputo che si doveva incontrare con i soli maschi del gruppo c’era rimasta malissimo. Da una parte si era detta che era un atteggiamento simile a quando avevano fatto la caccia al fantasma e che fosse quindi una cosa tra uomini.
Però non si è nemmeno preoccupato di darmi una spiegazione per quanto mi ha detto ieri. Sembrava quasi che si vergognasse di me.
“Sedici anni, vero Elisa?” chiese Laura, distogliendo Riza da quei cupi pensieri.
“Diciassette compiuti a inizio mese.”
“Signorina, questo vestito non si chiude più perché da settembre che l’hai messo via fino ad oggi il tuo petto ed i tuoi fianchi sono cresciuti. Sei una donnina ormai, tesoro.”
“Non si può fare niente? – chiese lei con aria supplichevole – E’ il mio vestito preferito per l’estate e anche a Vato piace tantissimo: è uno dei pochi per cui abbia mai detto qualcosa di sua spontanea volontà.”
“Come siamo romantiche, eh? – strizzò l’occhio Laura, prima di squadrare la ragazza con aria pensosa – Vediamo che cosa possiamo inventarci: il rosa ti piace?”
“Sì, lo uso spesso.”
“Dovrei avere una stoffa rosa identica a quella del vestito: taglio il corpetto al centro e la inserisco, così dietro possiamo arrivare a chiudere i bottoni. Forza, adesso levatelo e fatti vedere: prima mi parlavi del tuo costume da bagno, quello te lo devo fare nuovo.”
“Mi dica che non costerà troppo: per queste cose uso i soldi della mia paghetta.”
“Tu sei cliente speciale, Elisa – la consolò Laura, tirandole indietro i capelli castani – il costume da bagno te lo faccio senza che tu mi debba niente. E tu, Riza? Visto che ci sono lo faccio anche per te?”
“Uh? Cosa?”
“Costume da bagno, tesoro mio: non sei mai andata allo stagno a farti un tuffo?”
“A dire il vero no.”
“Dovresti farlo, Riza – suggerì Elisa finendo di liberarsi del vestito verde – e poi credo che ci andremo tutti assieme quest’estate. E credimi è fantastico tuffarsi quando fa veramente caldo.”
“Levati i vestiti, coraggio: prendo le misure anche a te. Azzurro chiaro ti starà benissimo.”
“Non dovrebbe preoccuparsi così per me, signora.” protestò la biondina, alzandosi in piedi ed eseguendo l’ordine.
“Se non lo faccio io lo farà Ellie, non credi? Ma per un costume da bagno bisogna fare attenzione: i maschietti non devono vedere più del consentito, intese? Per certe cose Roy e Vato aspetteranno.”
“Roy?” arrossì Riza.
“Non è il tuo fidanzatino?” chiese Laura, mentre Elisa ridacchiava.
“No! Lui è solo mio amico.”
“Confermo, signora – disse Elisa – da quando li conosco non li ho mai visti comportarsi da fidanzati: sono solo pettegolezzi.”
“Davvero? Oh non ti preoccupare, signorina: prima o poi lui si accorgerà di te.”
Quelle parole ebbero il potere di intristire ancora di più la ragazzina: a lei non importava che Roy fosse il suo fidanzato, non l’aveva mai vista sotto quel punto di vista. Ma lui era troppo importante: era la persona con cui aveva stretto un vero legame per primo, l’unico con cui non si sarebbe mai sentita veramente sola. Era la sua ancora di salvezza quando il mondo le crollava addosso, era un legame troppo speciale per essere definito a parole.
E’ a senso unico?
 
“E credimi è veramente grosso! – stava dicendo Maes, mentre camminava con Jean accanto – Una montagna di muscoli: Alex è veramente incredibile, anche se lui ama definirsi artistico.
Roy ed Heymans stavano a qualche metro di distanza e si godevano la fine di quel pomeriggio passato ad evocare i vecchi tempi: un vero successo proprio come il moro si era aspettato.
Il suo piano era stato perfetto: focalizzando l’attenzione su Heymans e Jean, l’argomento scottante di Riza non era stato tirato fuori almeno per quel giorno. A dire il vero Roy non aveva ancora deciso se affrontare un discorso simile o meno: Riza era qualcosa di troppo complesso per poterne parlare a qualcuno di esterno alle dinamiche del gruppo. Gli dispiaceva ammetterlo, ma aveva paura che il suo miglior amico avrebbe banalizzato la figura di Riza, riducendola a una ragazzina carina che avrebbe visto bene assieme a lui.
“Central City l’ha cambiato parecchio, eh? – commentò Heymans – Tra voi due era il più espansivo, ma non così tanto. Ed è molto più sicuro di sé anche se manca del tuo carisma.”
“Io non sono cambiato?” chiese Roy con curiosità.
“Non come lui, ma forse dipende dal fatto che a te ti ho sempre visto e dunque non mi sono reso conto di eventuali cambiamenti: sai come si dice, no? Se non vedi una persona per tanti anni ti accorgi di evoluzioni di cui lui non si rende conto.”
“E’ vero, può darsi che dipenda da questo.”
“Però è anche vero che sei sceso dal tuo piedistallo da quando frequenti noi – sogghignò il rosso – non hai più parlato di essere nostro capo, anche se lo sei diventato di fatto.”
“Ti dà fastidio come situazione?”
“No, perché sei un buon capo, anche se di un gruppo parecchio strano tra indipendenti, secchioni e quanto altro: ma a me va benissimo così. E sei un buon amico, se proprio lo vuoi sapere.”
“Su quest’ultima affermazione ho qualche dubbio in merito.”
“Ti riferisci a Riza? Ieri non era proprio al settimo cielo.”
“Credo di aver gestito malamente alcune cose: dovevo parlare a Maes di voi, di lei in primis, ma non l’ho fatto.”
“In fondo ti capisco: avevi paura che lui ci restasse male, no?”
“Probabilmente è anche questo.”
Anche?” gli occhi grigi di Heymans lo squadrarono con attenzione, tanto che Roy si sentì estremamente a disagio e dopo qualche secondo riprese a guardare Jean e Maes che continuavano a ridere.
“Forse tu e Jean siete le persone di cui avrei potuto scrivere con più facilità. Ma Kain, Vato… Riza… loro sono diversi. Sono persone con cui una volta non avrei mai pensato di poter stringere amicizia.”
“Ti vergognavi a scriverlo?”
“No, assolutamente. E’ che… li ho voluti tenere per me. Ora che ci penso è una cosa molto egoistica, ma è come se lui non possa capire davvero.”
“Ovvio che non può capire davvero, come non possiamo capire davvero i suoi amici o la sua ragazza a Central. Mica li conosciamo di persona e poi sappiamo bene che le nostre dinamiche sono molto particolari, no? Non tutti hanno un padre cacciato via, una famiglia che vorresti come tua anche se non lo è, una gamba da rimettere in sesto… ed è solo l’inizio, lo sai bene anche tu.”
“Capisci che è troppo complesso, anche solo per pensare di scriverlo?”
“Certo che lo capisco e capisco anche che tu adesso ti senti diviso a metà: il tuo passato ed il tuo presente. Vorresti incastrarli alla perfezione ma non si può.”
“Dovrò parlare con Riza – sospirò Roy – ci sarà sicuramente rimasta male ed è giusto che provi a chiarire le cose con lei. Sta per succedere qualcosa, lo sento.”
“Che vorresti dire?”
“E’ successo quando è tornata da East City: è solo una sensazione, ma credo che ormai il suo rapporto con i Fury sia veramente troppo forte.”
“Dici che si verranno a creare problemi con suo padre?” Heymans si tese leggermente, come se tutto il gruppo si dovesse preparare ad affrontare una nuova emergenza.
“Non lo so, ma ormai è insofferente a stare in quel posto con lui. E’ come se ci fosse una dannata catena che le impedisce di essere davvero felice, proprio quando la felicità è a un passo da lei.”
Heymans sospirò e pensò a come risolvere quella situazione. Ma era diverso rispetto a quanto aveva vissuto lui con suo padre: a conti fatti Berthold Hawkeye non costituiva una minaccia per la ragazza. Non c’era nessun motivo di provocarlo o fare qualcosa di simile: con un personaggio così strano e ambiguo non sapeva proprio come comportarsi.
“La cosa importante è che questa dannata settimana passi e Kain e la sua famiglia tornino qui. La loro presenza aiuterà Riza e la sua attenzione si focalizzerà sul nanetto. Nel frattempo analizzeremo la situazione e vedremo cosa fare. Però vuoi un consiglio?”
“Dimmi pure.”
“Presentala bene a Maes, lei ci tiene e lui anche. Poi quello che siete tu e Riza non lo cambieranno di certo i vaneggi di uno studente di una prestigiosa scuola di Central City.”
“Lo sai che a volte sei irritante con la tua logica? – sorrise tristemente Roy – Mi metti con le spalle al muro, impedendomi di crogiolarmi nei miei dubbi.”
“Cose simili lasciale fare a persone di pensiero come Vato – ridacchio Heymans – a proposito, mi è sembrato perplesso per tutto il tempo che è stato con noi. Non credo che Maes gli piaccia molto.”
“L’hai notato anche tu? Mah, forse era solo a disagio perché di discorsi di indipendenti non ci capisce niente… e sai come è fatto, se non conosce un argomento entra nel panico. Sarà andato a casa a leggere qualcosa di lotte e zuffe: scommetto che riesce a tirare fuori un libro anche su questo argomento. E’ completamente fuori di testa.” sorrise.
 “E’ un ragazzo di pensiero, Roy Mustang, non sottovalutarlo.”
 
Il ragazzo di pensiero in quel momento era sdraiato sul suo letto, supino, un libro posato sopra il volto. L’aveva aperto circa un’ora fa, rileggendo per almeno venti volte la prima pagina, poi aveva rinunciato all’impresa e se l’era posato in faccia, mentre quel grande meccanismo che era il suo cervello iniziava a macinare pensieri poco produttivi.
La parola gelosia continuava a ronzargli nella mente, lasciandolo al dir poco perplesso.
La gelosia è un sentimento che in genere si prova nei confronti di una persona del sesso opposto, per esempio come quando Roy aveva invitato Elisa a ballare alla festa del primo dicembre. Non pensava proprio di poterla provare in maniera così feroce per Maes Hughes.
Ecco un’altra conseguenza di aver avuto una vita sociale molto limitata per quasi sedici anni: non era assolutamente preparato a simili situazioni.
“Vato – Rosie entrò nella stanza e sollevò il libro da sopra il volto del figlio, facendogli sbattere gli occhi per l’impatto con la luce – ti senti bene?”
“Sì, mamma.”
“Dici? Non ti ho mai trovato con un libro in faccia, nemmeno se era veramente noioso.”
A quelle parole il ragazzo si girò su un fianco, posandosi meglio sul cuscino: la sua espressione era così desolata che Rosie gli accarezzò la chioma bicolore in un gesto di conforto.
“Che succede, fiocco di neve?”
“Mamma, credo di essere una persona veramente noiosa.”
“Eh?”
“Sì, noioso: che provoca noia.”
“E perché mai dovresti esserlo?”
“Mi sono accorto di essere molto diverso da una determinata persona. E a quanto pare le attenzioni sono tutte per lui, mentre un ragazzo di pensiero come me non è altrettanto interessante.”
“Tesoro, se non metti dei soggetti più definiti nelle tue spiegazioni ci capisco ben poco.”
“E’ solo un nuovo esempio di antropologia applicata – borbottò il ragazzo – anzi, evoluzionismo: la specie meno noiosa ha il miglior amico, quella di pensiero no.”
“Parli di Roy? Che cosa è successo?”
“Niente di speciale, mi sono semplicemente accorto di quanto siamo diversi io e lui.”
“Non è mai stato un mistero, però…”
“Però è così e a quanto pare io non sono bravo a partecipare a discorsi da indipendenti che hanno passato il loro tempo libero a scuola a fare risse. Lo sai come ho combattuto io l’unica volta che sono stato coinvolto in una rissa? A colpi di libro di diplomazia… ti pare normale?”
A quella dichiarazione così offesa, Rosie dovette trattenere una risata.
“Beh, effettivamente è originale usare un libro di diplomazia per un simile scopo.”
“Adesso mi stai prendendo in giro, mamma. E non è divertente.”
“Vato, Roy è tuo amico su questo non devi avere dei dubbi.”
“Io lo considero il mio miglior amico, è diverso.”
“E’ una cosa bellissima e sono certa che lui è felice di avere un miglior amico come te.”
“No – sospirò Vato – lui ha già un miglior amico e non sono io… è Maes Hughes. In tutto questo Vato Falman è solo un rimpiazzo per giocare a Risiko quando lui non c’è. Del resto come dargli torto? Mi sono accorto subito che il confronto è impietoso.”
“Mamma mia, che brutta opinione che hai di te stesso, tesoro – lo spronò Rosie – eppure hai un sacco di qualità, perché sei così pessimista?”
“Non lo so, ma ti giuro che a volte credo davvero di essere una persona noiosa.”
“Noioso! Il mio fiocco di neve? Quando mai!”
Ma per quanto l’abbraccio della madre fosse confortante, Vato non riuscì ad uscire da quel vortice di autocommiserazione. E se avesse sforzato un poco la sua prodigiosa memoria, si sarebbe ricordato che l’ultima volta che gli era successa una cosa simile aveva litigato malamente proprio con la persona interessata.
 
Quando poco prima di cena il quartetto di indipendenti si salutò, Roy e Maes si misero a passeggiare tranquillamente per le vie del paese, in attesa che il ragazzo venisse chiamato dai suoi genitori.
“Bene bene – commentò, sedendosi su un muretto – Heymans e Jean, me lo sarei dovuto aspettare da te, Roy Mustang.”
“Non è proprio il tipo di rapporto che avrei immaginato un anno fa, ma mi va bene così.”
“Che intendi dire?”
“Sono il loro leader, è vero – spiegò Roy, alzando lo sguardo ed individuando le prime stelle che comparivano nel cielo ancora chiaro – ma sono prima di tutto miei amici e quello che abbiamo passato insieme è davvero troppo complicato da raccontare.”
“Discorsi profondi che da te proprio non mi aspettavo: ma è vero che il tuo concetto di amicizia è sempre stato diverso da quello degli altri. Non scegli mai a caso le persone con cui circondarti, anche se ad essere sinceri con uno come Vato Falman proprio non riesco a vederti.”
“Perché dici questo?”
“Non lo so, a dire il vero non mi ha dato possibilità di inquadrarlo bene: è rimasto sulle sue per tutto il tempo. Però… porca miseria è così dannatamente serio e compassato che proprio non ce lo vedo come tuo amico.”
Mister Rigidità? – commentò Roy con un sogghigno – No, lascia stare! Una cosa senza senso. Comunque all’inizio può sembrare così, ma ti assicuro che è un gran bravo ragazzo: bisogna solo coinvolgerlo nel modo giusto.”
“Mi fido di te, del resto se lo ritieni degno della tua amicizia…”
“Avanti, spara: quello sguardo fisso su di me vuoi dire che hai qualcosa.”
“Dov’è la tua amichetta? Credevo che me la presentassi meglio dopo l’incontro di ieri.”
“Te la presenterò meglio domani, promesso.”
“Sono commosso.”
“Maes.”
“Dimmi.”
“Non è la mia ragazza e ti prego di non tirare fuori l’argomento, va bene?”
Si girò verso di lui, fissandolo con estrema serietà: era chiaro che stava mettendo delle condizioni ben precise per accettare quell’incontro. E se Roy Mustang faceva una cosa simile non era mai a caso.
“Ci sono problemi?”
“Non del tipo che tu credi, ma Riza è una persona troppo particolare e le dinamiche tra me e lei sono strettamente personali. Mi dispiace di non avertene parlato per lettera, di non averti detto niente di nessuno di loro, ma proprio non mi andava.”
“Non ti fidi più di me?” chiese Maes con un sorriso ironico.
“Non è questo, lo sai bene.”
Rimasero in silenzio, come se quella risposta evasiva di Roy dovesse per forza bastare.
Maes lo fissò perplesso per qualche secondo, ma il loro legame era troppo forte e fu come se si fossero detti tutto: del resto Roy era sempre stato la parte riservata della coppia e se a volte preferiva tenere le cose per sé non lo faceva con cattive intenzioni. Semplicemente si relazionava come meglio credeva e lasciava che gli altri facessero altrettanto con lui.
“Dimmi solo una cosa: quella ragazzina è davvero speciale per te, vero?”
“Sì, lo è. Su questo non ci sono dubbi.”
E si concesse un sorriso.
 
Una ventina di minuti dopo Riza stava uscendo dal commissariato assieme a Vincent.
“La ringrazio molto per avermi permesso di parlare con Kain anche stasera, signore – disse, mentre lo osservava chiudere la porta – in questo mese le abbiamo creato tanto disturbo.”
“Tranquilla signorina: sei sempre stata molto docile e discreta e non mi hai creato nessun problema. Sono davvero felice che tra qualche giorno potrai riabbracciare il tuo amichetto.”
“Sarà così bello tornare alla normalità.” ammise lei, sentendosi veramente sollevata.
Le aveva fatto tantissimo piacere sentire Kain entusiasta: anche se portava un tutore per tutto il giorno, gli esercizi di riabilitazione non gli davano alcun fastidio. Adesso che stava in albergo e andava in ospedale solo per le sedute con i dottori, aveva avuto occasione di fare qualche giro per East City e dunque si stava in parte godendo quel soggiorno.
“Confido che tu terrai a bada il tuo amico Roy quando Kain tornerà qui – si raccomandò Vincent – non sono certo io a doverti spiegare che la sua riabilitazione va fatta per gradi e dunque non bisogna coinvolgerlo in follie.”
“Stia tranquillo, capitano. Ci penserò io a badare a Kain.”
“Proprio quello che volevo sentirti dire, signorinella – sorrise l’uomo, mentre si avviavano per le strade – a casa tutto bene?”
“Sì, tutto bene.” confermò lei con leggera sorpresa.
“Non fare quella faccia: Andrew mi ha chiesto di badare a te, tutto qui. So che te la cavi egregiamente, ma ogni tanto preferisco sincerarmene di persona.”
“Lei pensa proprio a tutti noi, signore.”
“Fortunatamente tu non sei problematica come il tuo amico. Ah, eccolo qua: manco ti avessimo evocato, Roy. Qualche guaio in vista?”
“Perché c’è sempre una grande diffidenza nei miei confronti?” chiese con aria offesa il ragazzo, avanzando verso di loro e mettendosi le mani in tasca.
“Ti sei fatto la domanda, ora prova a darti la risposta. Bene, io sono arrivato: pensi tu a scortare a casa la signorina?” chiese con una strizzata d’occhio.
“Signorsì!” esclamò subito Roy, mettendosi sull’attenti con un sogghigno e ricevendo in cambio un lieve scappellotto.
“Rispetto, ragazzino – sbuffò Vincent con rassegnazione – mi raccomando. Buona cena, ragazzi.”
Salutato il capitano, Roy e Riza rimasero per qualche secondo ad osservarsi: lei si sentiva felice che il suo amico fosse comparso all’improvviso. Il fatto che fosse venuto a cercarla le infondeva una strana forma di sicurezza e tutti i dubbi che aveva avuto quel pomeriggio svanirono.
Sono stata una stupida. Come potrei pensare di non essere importante per lui? Ultimamente mi sto creando davvero troppi problemi: dovrei stare più tranquilla.
“Vogliamo andare? – le chiese Roy con un sorriso – Tanto io ceno sempre più tardi rispetto a tutti voi, lo sapete bene.”
“Andiamo pure. Sai, prima ho parlato con Kain: oggi è andato a mangiare il gelato al cioccolato ed era veramente al settimo cielo.”
“Ahah, il mio piccolo gnometto: il cioccolato per lui è la miglior medicina del mondo. Non vedo l’ora che torni qui: ci divertiremo un mondo quest’estate.”
“Ricordati che non deve fare sforzi: la riabilitazione deve procedere per gradi e dunque non deve essere coinvolto in follie. Mi preoccuperò personalmente che non accada nulla di grave.”
“Certamente, signorina infermiera: eseguiremo tutti i suoi ordini.”
“Non prendermi in giro, sai benissimo che ho ragione. E poi i signori Fury si fidano di me e sono certa che sotto la mia supervisione permetteranno a Kain di uscire.”
“Non fare l’offesa, suvvia – sorrise Roy con tono di scusa – so benissimo che sarai la migliore infermiera per Kain e sono sincero. Piuttosto, volevo chiederti una cosa: domani pomeriggio hai da fare?”
“No, niente. Di mattina devo andare dalla signora Laura, ma di sera sono libera, perché?”
“Volevo presentarti meglio Maes, tutto qui – ammise lui – ieri non è che sia stato un grande incontro quello tra voi due: ci hai colti un po’ di sorpresa.”
“Oh! – Riza arrossì con piacere – Davvero vorresti presentarmelo meglio?”
“Certamente: oggi gli ho presentato Heymans, Jean e Vato… anche se a dire il vero Heymans e Jean li conosceva già. Ma abbiamo parlato così tanto di combattimenti che tu ti saresti annoiata, o peggio avresti iniziato a rimproverarci su quanto siamo irresponsabili.”
“E faccio bene: se mi ricordo di te e Jean dopo il vostro assurdo duello tra indipendenti. Tu con gli occhi neri che crollavi praticamente svenuto e Jean che vomitava sull’erba: una settimana di assenza da scuola e lividi che sono spariti molto dopo! Senza contare la paura che si è preso Kain e…”
“Lo vedi?” la bloccò Roy con un sorriso.
“Va bene – ammise lei con un leggero broncio – è stato un bene che non ci fossi.”
Continuarono a proseguire in silenzio, fino a quando non giunsero davanti a casa di lei.
Subito Black Hayate corse al cancelletto e si mise su due zampe, felice di rivedere la padroncina e Roy.
Proprio il ragazzo allungò una mano per accarezzare il muso dell’animale e mormorò.
“Ho chiarito a Maes che non siamo fidanzati. Non sarà indiscreto su noi due.”
“Capisco – annuì lei, guardando a terra – ma non dovevi preoccuparti così. Lo sai che sono voci che circolano anche a scuola e non ci hanno mai creato problemi.”
“Già… senti, Riza, credo di doverti delle spiegazioni per non aver mai scritto di te a Maes…”
“Mh, fa niente – lo bloccò lei scuotendo il capo – è stata una scelta tua e io non voglio entrare nel merito.”
“Ieri ne sembravi offesa.”
“Ho sbagliato, tutto qui.”
“Sei speciale per tutti noi, lo sapevi? Te l’ho ripetuto tante volte, ma una in più non guasta mai.”
“Grazie.”
“E di che? E’ solo la verità.” sorrise lui, lieto di aver chiarito il malinteso in maniera relativamente indolore e tranquilla.
“Adesso devo andare – dichiarò lei dopo qualche secondo di silenzio – devo preparare la cena e anche Hayate avrà sicuramente fame, vero?”
Aprì il cancelletto e subito il cane le saltò in braccio.
“Allora buonanotte, Riza.”
“Buonanotte anche a te, Roy.”
E mentre il ragazzo si allontanava, Riza strinse a se il cagnolino con una piccola risata.
Aveva ragione Roy: ripeterle una volta in più che era speciale non guastava mai.

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Capitolo 55
*** Capitolo 54. Per un'amicizia importante. ***


Capitolo 54. Per un’amicizia importante.

 

Due giorni dopo il treno arrivò nella piccola stazione e Roy si alzò dalla panchina assieme a Maes.
“E così ci siamo – sospirò il ragazzo con gli occhiali – chissà quando ci rivedremo. Ci sono voluti più di tre anni prima di tornare in paese, magari conviene che vieni tu a trovarmi a Central. A casa c’è una camera per gli ospiti, non dovrai certo dormire all’aperto.”
“Chissà – alzò le spalle Roy, fingendo noncuranza – ma sono sicuro che prima o poi ci rivedremo. Nel frattempo ci sono sempre le nostre care vecchie lettere.”
“Spero di veder comparire il nome dei tuoi amici ogni tanto.”
“Ci puoi scommettere.”
“Ovviamente quando io e Glacier ci sposeremo tu sarai il testimone.”
Lo disse in un tono così convinto che la risata di Roy venne soffocata dall’incredulità.
“Ne abbiamo già parlato: non ti sembra di correre troppo?”
“No, assolutamente: una coppia perfetta come noi non può avere che quel meraviglioso destino.”
“Come credi, allora è un arrivederci, Maes Hughes.”
“E’ un arrivederci come l’altra volta Roy Mustang, si tratta solo di capire a quando. Mi raccomando fino ad allora, va bene?” mormorò, mentre i genitori salivano sul treno e lo chiamavano.
“Come sempre. Fate buon viaggio.”
Fu quasi surreale vedere il treno allontanarsi e rendersi conto che per la seconda volta stava portando il suo amico veramente lontano da lui. Mentre l’ultimo vagone spariva dalla sua visuale, Roy si rese conto che quei tre giorni, per quanto intensi, erano stati davvero brevi e che ci sarebbero state decine di cose che avrebbe voluto dire e fare con Maes. Era come se quella vicinanza avesse fatto riaffiorare la sua vecchia personalità e ora che si trovava di nuovo a dover affrontare il presente si sentiva preso in giro dalla vita: gli toglieva e gli ridava le persone come meglio riteneva, senza curarsi di lasciarlo sballottato e con un senso di amaro in bocca.
Con un ultimo sospiro, accorgendosi che ormai non c’era più nulla da vedere, si mise le mani in tasca e si avviò verso il paese.
Si conosceva abbastanza bene e sapeva che nei prossimi giorni non sarebbe stato dell’umore giusto per stare assieme agli altri. Ma era sicuro che Riza avrebbe capito e avrebbe provveduto a mettere in guardia il resto del gruppo.
“E così è partito per la seconda volta.”
Proprio la voce della ragazza lo fece girare: era posata alla parete della stazione, nel medesimo punto dove, giorni prima, il capitano Falman li aveva attesi al ritorno dal loro viaggio clandestino. Nel vederla Roy fece una lieve smorfia di disappunto: non era mai felice di venir sorpreso in un momento di debolezza, ma poi si rese conto che la presenza di Riza era sempre stata discreta e confortante.
Infatti, quasi a confermare questa sua dote, lei gli si affiancò e, senza aggiungere altro, ripresero la via verso casa.
Ad un certo punto, proprio quando un’ape gli ronzò davanti al viso per poi tornare sul prato che costeggiava il sentiero, Roy decise di rompere il silenzio.
“Gli sei piaciuta molto, su questo non ci sono dubbi: tralasciando tutte quelle idiozie iniziali gli hai fatto davvero una bellissima impressione.”
“Anche lui mi è piaciuto molto – sorrise lei – e si vede che nonostante la distanza avete un grandissimo affiatamento. Solo adesso mi rendo conto che anche il vostro è un legame davvero forte, come quello di Heymans e Jean, sebbene con caratteri diversi.”
“Il mondo è bello perché vario, no?” fece un sorriso triste.
Riza non commentò, limitandosi a guardare con aria serena davanti a sé ed il ragazzo apprezzò questa sua sensibilità. Con lei andava benissimo anche il silenzio.
 
Proprio come Riza capiva i silenzi di Roy, Elisa era brava ad interpretare quelli di Vato.
Aveva imparato che il suo fidanzato aveva tre modi di essere silenzioso: quando era immobile e privo di qualsiasi espressione voleva dire che stava riflettendo su qualcosa di estremamente importante; quando la fronte era leggermente corrugata aveva letto qualcosa che non gli tornava e dunque cercava di trovare la risposta giusta ed infine, forse il caso più raro, quando fissava insistentemente un oggetto davanti a sé voleva dire che aveva fatto tutti i ragionamenti possibili e la risposta che aveva ottenuto non gli era  piaciuta per niente.
“E’ veramente interessante il tuo portapenne, vero?” chiese ad un certo punto lei, mettendo una mano tra lo sguardo di Vato e l’oggetto in questione, in modo da spezzare quel contatto alienante.
“Scusa?” fece lui, come riscuotendosi da un sogno.
“Lascia stare, si vede che questo pomeriggio non sei proprio in vena di stare con me.”
“Ma che dici? – arrossì, alzandosi dalla sedia – Avanti, dimmi quello che vuoi fare.”
“Avrei voluto passare qualche ora con il mio fidanzato, magari uscire a fare una passeggiata. Ma ovviamente non sei dell’umore giusto: mi vuoi raccontare? Sei turbato e non da oggi: è da più di due giorni che non metti il naso fuori di casa.”
“Hai ragione – sospirò – non sono proprio di buonumore in questi giorni.”
“Che cosa è successo? Hai litigato con qualcuno dei nostri amici?”
“Litigato? No, direi proprio di no.”
Elisa si sedette sul letto, aspettando spiegazioni: non voleva fargli un interrogatorio troppo pressante perché sapeva che poteva indisporlo. Era meglio dargli l’imbeccata e aspettare che fosse lui a sfogarsi. E infatti, dopo qualche minuto, il ragazzo decise di parlare.
“Oggi è ripartito Maes Hughes, il miglior amico di Roy.”
“Sì, lo so. Li ho incontrati per caso ieri sera e Roy me l’ha presentato: mi è sembrato molto simpatico.”
“Simpatico…”
“Mh?”
“Eli, tu hai una migliore amica?”
“Che? Miglior amica? – la ragazza ci pensò – A pensarci bene no: insomma ho diverse amiche tra le ragazze di scuola, ma non è che ci sia così tanta confidenza. Ne ho parecchia con Riza, certamente, ma a dire il vero le parole miglior amico le ho usate sempre e solo per te.”
“Adesso sono il tuo fidanzato.”
“Mi devo trovare un nuovo miglior amico?”
“No! – arrossì lui – non è questo che volevo dire! Insomma, presumo che l’amicizia tra ragazzo e ragazza sia un discorso molto differente e non conti ai fini di quanto pensavo io.”
“Uhm, va bene. Allora stiamo parlando di migliori amici maschi, eh?”
“Secondo te una persona può averne più di uno?”
“In teoria no, del resto si parla del migliore amico, non di un miglior amico. Ma ovviamente potrei sbagliarmi: sei tu quello bravo in queste cose. Perché? Che problemi ti ha creato Maes Hughes?”
Vato abbassò il capo con aria profondamente desolata.
“Credo di essere incredibilmente geloso di lui.”
Elisa lo guardò con sorpresa, ma poi annuì. Non c’era da meravigliarsi se Vato restasse turbato davanti a simili problematiche: era una conseguenza del suo essere rimasto volontariamente isolato per tantissimo tempo. Nel momento in cui aveva iniziato a stringere dei legami l’aveva fatto con quella che si poteva definire brama anche se magari l’iniziativa non era partita da lui. E adesso le intrusioni esterne che turbavano l’equilibrio che si era creato all’interno del gruppo lo mettevano a disagio.
Specialmente se riguardavano Roy.
“Roy che dice in merito?”
“Niente, non credo che lo sappia – scosse il capo il ragazzo con aria offesa – mi ha definito persona di pensiero e mi è sembrata una presa in giro bella e buona.”
“Perché? Non sei una persona di pensiero?” chiese Elisa non riuscendo a trattenere un sorriso.
“Sì, ma quando lo dici con un sogghigno e per giunta davanti a tutti gli indipendenti della scuola non mi pare molto lusinghiera come cosa. E’ come dire ecco, lui è quello inutile.”
“Adesso esageri.”
“Esagero? Per tutti i tre giorni che Maes è stato qui Roy mi ha chiamato solo quella prima volta. Per il resto non si è fatto vedere, ma so che con Heymans e Jean sono usciti anche ieri. Evidentemente io faccio comodo solo quando non si parla di cose di indipendenti.”
“Sei veramente tragico quando fai così – Elisa si incupì – perché invece di autocommiserarti non ne parli con il diretto interessato?”
“E che gli dico? Sai Roy, io ti considero il mio miglior amico, mi piacerebbe che anche per te fosse così!”
“Beh, non è proprio così che la metterei, però…”
Però il confronto tra me e Maes è impietoso, vero? Oggettivamente chi sceglierebbe me?”
Io ho scelto te, e allora?” fece la ragazza, portandosi davanti a lui e mettendosi le mani sui fianchi in gesto di sfida. I suoi occhi verdi si socchiusero pericolosamente: detestava quando il suo ragazzo si sminuiva in questo modo.
“E’… è diverso. Noi ci conosciamo da sempre e non è la stessa cosa.”
“Hai ragione, per fortuna non è la stessa cosa. In ogni caso, dato che è palese che hai intenzione di crogiolarti ancora nel tuo stupido vittimismo, è meglio che io vada. Ti conosco bene e so che fino a quando non ti chiarirai con Roy non ne uscirai fuori. Scusa, ma adesso vado a fare una passeggiata: non mi piace assistere a queste scenate.”
“No, Eli…”
Ma prima che potesse dire o fare qualcosa la ragazza era uscita dalla stanza, chiudendo la porta con notevole forza a dimostrazione del suo disappunto. Vato rimase a fissare il legno chiaro per diversi secondi, prima di emettere un sospiro irritato e lasciarsi cadere sul letto.
Certo! Chiaramente sono io nel torto marcio! Che cosa importa se mi sento rifiutato come miglior amico e mi vedo superato da una persona che non si faceva vedere da anni? Stupido Maes… e stupido Roy!
 
Mentre Vato cadeva ancora di più nel suo vortice di depressione, Roy, nonostante i suoi migliori propositi, si ritrovò sprofondato nella solitudine più totale. Non aveva pensato che il contraccolpo per la partenza di Maes potesse essere tale, ma dopo qualche ora che era tornato a casa, si accorse di avere l’impellente esigenza di uscire ed andare in un posto dove non ci fosse nessuno.
Proprio come era successo anni prima, si ritrovò nella radura personale, seduto contro un albero e con le ginocchia tirate al petto, in modo da poterci posare il viso. Niente lacrime o singhiozzi, solo un senso di vuoto che era impossibile da colmare.
Era tutto così assurdo: quei tre giorni erano bastati per far riemergere una parte di lui che ormai credeva seppellita, quella che aveva visto Maes come suo unico amico per così tanto tempo. Perché così era stato: la diffidenza nei confronti di quel bambino che viveva nel locale malfamato era stata vinta solo dal suo compagno di classe con gli occhiali. Mai un riferimento a sua zia, mai una parola sulle cose sgradevoli che si dicevano in giro su di lui: Maes l’aveva accettato immediatamente per quello che era. Si erano battuti, ci avevano riso sopra ed avevano iniziato una solida amicizia che si era rafforzata col passare degli anni.
C’era voluto del tempo per abituarsi all’assenza di quella figura ormai quotidiana.
Dopo la partenza per diversi giorni a Roy era sembrato di sentire la voce di Maes che lo chiamava in ogni momento. Era stato per fuggire a quella follia che aveva iniziato a fare lunghe passeggiate fino a trovare quel piccolo rifugio.
Lì le cose erano migliorate, era arrivato ad accettare la solitudine più nera fino a quando, quasi un anno dopo, aveva incontrato Riza.
Con un sospiro tremante si guardò attorno.
Quanto tempo gli ci sarebbe voluto questa volta per tornare alla normalità?
In quel momento invidiava tantissimo Heymans e Jean, sicuri della loro inseparabilità, senza che nessun trasferimento si profilasse all’orizzonte. E invidiava in qualche modo anche Riza perché lunedì sarebbe stata ovviamente lei la più felice per il ritorno di Kain.
Va bene, oggi è mercoledì. Hai quattro giorni per riprenderti, ce la puoi fare. Lunedì quando il piccolo torna devi essere in una forma decente pure tu, non si merita il tuo broncio.
Quattro giorni…
Per come si sentiva in quel momento ci volevano almeno quattro settimane.
 
Due giorni dopo sia Roy che Vato si trovavano in una condizione di notevole tensione.
Il primo era di umore pessimo e cercava di evitare qualsiasi contatto con qualunque essere vivente che facesse più rumore di una mosca, mentre l’altro si era ormai convinto della palese ingiustizia che era stata commessa nei confronti della sua sincera amicizia per Roy.
Per cui, quando quest’ultimo, quel fatidico venerdì, si accorse di aver lasciato a casa di Vato alcune cose dalla settimana precedente che avevano giocato a Risiko, e dunque si presentò a riprenderle, fu inevitabile che la tragedia scoppiasse.
“Ciao – mormorò il moro a testa bassa, quando l’amico aprì la porta – credo di aver lasciato qui l’agendina con la nostra classifica. Ci sono scritte alcune cose che mi servono.”
“Sì, entra che controllo: deve essere sopra la credenza.”
“Grazie.”
Con le mani in tasca, sperando che quel contatto con il mondo esterno finisse il più in fretta possibile, Roy entrò in casa e rimase ad osservare Vato che frugava nel ripiano della credenza del salotto fino a recuperare l’agendina. Si riavvicinò a lui e tese la mano per dargliela, ma poi fu come se riflettesse attentamente su qualcosa.
“Non hai una bella faccia.” disse con voce piatta.
“Vero? Beh, ho fretta e non ho voglia di parlarne: me la ridai l’agenda?”
In altre occasioni Roy non avrebbe usato un tono così sgarbato e sbrigativo, ma il pessimo umore la faceva da padrone. Ed in altre occasioni Vato avrebbe capito che era meglio lasciar stare o affrontare il problema in modo pacato e gentile.
“Non hai voglia di parlarne perché è qualcosa che confideresti solo al tuo miglior amico?” fu particolarmente acido nel pronunciare quelle ultime due parole. E per la prima volta ebbe l’occasione di vedere lo sguardo di Roy diventare veramente freddo e letale. Ma nemmeno questo lo fece desistere dal suo proposito di spiattellargli tutto il suo malessere in faccia.
Perché è colpa sua se sto così male!
“Dammi quella maledetta agenda, Vato.”
“No – fece lui, mettendo il braccio dietro la schiena in modo da nascondere l’oggetto in questione – non puoi pretendere di sparire per giorni e poi venire qui solo quando ti fa comodo. Non puoi pretendere che io sia solo un dannato rimpiazzo.”
“Di che cazzo stai parlando?” sbuffò Roy, sentendo il suo corpo diventare un solo ed unico fascio di nervi pronto ad esplodere.
“Ti sei divertito tanto con il tuo miglior amico, vero? – Vato, accecato dal dolore e dall’umiliazione stava dando sfogo a tutto quello che provava dentro, sentendosi incredibilmente spavaldo ed incurante delle conseguenze di simili provocazioni – La compagnia di una stupida persona di pensiero non è gradita quando si torna ad essere il più grande degli indipendenti, eh?”
“Vato Falman, ti avviso, è che non voglio creare problemi ai tuoi genitori, ma se continui così…”
“Non ci sono i miei genitori in questo momento! – sbottò lui, pestando un piede a terra – Il problema non sono loro, ma siamo io e te… sono io a quanto pare! Stupido io a considerarti il mio miglior amico! Dovevo capirlo subito che non eri veramente interessato a me.”
“Dammi quella cazzo di agenda e finiscila di dire idiozie! – Roy contrasse i pugni e si sporse leggermente in avanti. Vato non era esperto di combattimenti e non capiva che quella era una posizione che preannunciava l’attacco – Ti concedo cinque secondi!”
“Puoi contare anche fino a cinquecento! Sai, ho riflettuto molto sul nostro rapporto in questi giorni e ho capito che per me sei come una cazzo di peronospora!
“Per… che?” Roy lo guardò di sbieco, non essendo ovviamente abituato all’originalità dell’insulto.
“E’ un oomiceta!” sbottò Vato.
“Eh?”
“E’ una classe degli stramenoopili, andiamo!”
“E parla in modo da farti capire!”
“Sei un maledetto parassita!”
Parassita? Vato Falman, tu hai appena pronunciato il tuo ultimo insulto!”
E con quel grido di battaglia Roy si buttò addosso all’amico e lo fece cadere pesantemente a terra.
L’unica rissa a cui aveva partecipato Vato non aveva certo regalato molta esperienza al giovane che si trovò a combattere con uno che, invece, sapeva come e dove colpire. Era uno scontro chiaramente impari e Roy ci stava mettendo una foga particolare, scoprendo che aveva estremo bisogno di sfogare tutta la sua rabbia e il suo dolore… anche su una persona totalmente impreparata a simili colpi.
Tuttavia in questo modo si privava anche della sua preziosa razionalità e così, quando Vato riuscì a rialzarsi in un momento in cui si divincolò dall’avversario, ebbe il tempo materiale di andare in camera sua e prendere l’unica arma che conosceva: un libro.
E così Roy, non appena varcò la soglia con le lacrime agli occhi e la chiara intenzione di sommergere di botte il rivale, si trovò sbattuto in testa un pesantissimo volume di botanica.
L’impatto lo mandò a sbattere contro la parete, con un grido di dolore, mentre Vato, con le lacrime agli occhi ed il naso sanguinante, teneva stretto il libro pronto a dare un nuovo colpo in caso di attacco.
“Sei uno stronzo!” esclamò Roy.
“No! Tu lo sei… non mi hai minimamente considerato! Possibile – la voce gli si spezzò – che ti faccia così schifo come… come miglior amico?”
“Tu non sei un maledetto miglior amico!” sibilò il moro, esasperato dal sentire quelle due parole che gli facevano troppo male. Perché lui un miglior amico ce l’aveva, ma adesso c’erano centinaia di chilometri tra di loro e chissà quando l’avrebbe rivisto. Era di nuovo rinchiuso in quella maledetta minuscola realtà!
“E allora potevi anche evitare di farmelo credere!”
“Non l’ho mai fatto! Rimpiango anche di essere amico tuo!”
“Parassita!”
“Adesso basta!” una voce irruppe nella stanza e Vincent fece la sua comparsa.
Nonostante questo i due contendenti non si levarono gli occhi di dosso, troppo accecati dalla rabbia e dal dolore per pensare razionalmente a quello che stavano rischiando.
Vincent si rese immediatamente conto che la situazione stava degenerando: i volti tesi, il respiro singhiozzante di entrambi, un dolore fin troppo tangibile.
“Chiaramente avete bisogno di darvi una calmata entrambi. Vato, metti quel libro sul letto, avanti.”
“No!” si oppose lui, scuotendo il capo e serrando spasmodicamente le mani su quell’oggetto, sua unica difesa contro le botte di Roy, contro quel rifiuto che lo stava straziando.
Ho detto – ripeté con voce decisa il padre – di mettere quel libro sul letto.”
Contemporaneamente il capitano si accosto a Roy, allontanandolo dalla parete, e lo cinse, facendogli posare la schiena contro di lui. Solo quando vide il suo rivale bloccato nella presa paterna Vato si convinse a mettere il libro sul letto.
“Adesso andiamo in salotto, coraggio.”
Con mosse rigide i due ragazzi si fecero condurre fuori dalla camera, le loro menti solo in parte consapevoli della possibilità di un castigo. Ma per una volta tanto non importava ad entrambi.
“Vato, tu nell’angolo destro e tu Roy in quello a sinistra: starete lì fino a quando lo dico io, intesi?”
“Ho diciassette anni!” protestò immediatamente Vato.
“E io quindici!” gli fece eco l’altro, non essendo disposto a quell’umiliazione.
“E io ne ho quarantasei, tanto piacere – Vincent alzò il tono della voce il tanto che bastava per bloccare qualsiasi altra protesta – Ma guardatevi, litigavate come due bambinetti; chi è stato il primo? Coraggio.”
Nessuno dei due rispose, ma il capitano non era disposto ad accettare simili silenzi: voleva una confessione e l’avrebbe avuta.
“Devo andare a prendere il cucchiaio di legno? E vi avviso che una volta che mi muovo…”
“Ho attaccato io per primo.” ammise Roy, anche per la soddisfazione di far passare Vato per un vigliacco.
“Molto bene – Vincent si accostò a lui e gli diede una sculacciata tale da farlo strillare per il dolore – avanti, nell’angolo che ti ho indicato.”
E mentre il ragazzo si avviava verso il luogo della sua punizione, l’uomo si accostò a Vato che abbassò lo sguardo con vergogna.
“L’ho provocato io…”
“Immaginavo – annuì e con calma gelida riservò il medesimo trattamento al figlio, incitandolo poi con una spinta ad andare verso il proprio angolo – Facce contro il muro e non osate muovervi di lì fino a nuovo ordine: non vi voglio nemmeno sentire fiatare, altrimenti vi darò io un motivo per gridare e sapete bene di cosa parlo. Adesso vado a cambiarmi: non mi aspettavo proprio un simile ritorno a casa.”
 
Quando Rosie tornò una mezz’ora dopo trovò i due colpevoli ancora nei rispettivi angoli, mentre Vincent stava seduto nel tavolo a braccia conserte e li fissava con impassibilità.
“Che succede?” chiese accostandosi al marito.
“Imparano che con la testardaggine non si ottiene niente.”
“Ah sì? E cosa… aspetta, ma Vato! Girati – si accostò a lui – oddio, tesoro, ma hai perso sangue dal naso, e questi lividi? Ma che avete fatto?”
“E guarda l’altro.” le consigliò Vincent, alzandosi e andando accanto a Roy per farlo girare e far vedere il segno violaceo sulla tempia.
“Santo cielo – Rosie si avvicinò e sfiorò i capelli neri di Roy – ma che cosa ti ha colpito?”
“Chiedilo a tuo figlio.” suggerì Vincent.
“Il volume di botanica…” ammise Vato con voce sommessa.
“Si sono dati da fare, insomma. Adesso direi che tu, caro Roy, vieni in camera con me e facciamo un discorsetto. Con te ci parlo dopo, Vato: adesso fatti vedere quei lividi da tua madre.”
Con un sospiro irritato Roy si lasciò guidare nella camera matrimoniale: entrarci suscitò in lui dei pessimi ricordi legati alla punizione che aveva ricevuto nemmeno una quindicina di giorni prima. Tuttavia l’idea di essere di nuovo picchiato non lo spaventò come avrebbe dovuto: in quei trenta minuti che era stato fermo la sua rabbia era sbollita, certamente, ma restava tutto il nervosismo per la partenza di Maes, la sensazione di vuoto incolmabile che lo tormentava.
“Allora – Vincent si sedette sul letto e gli fece cenno di mettersi davanti a lui – che succede?”
“Niente – rispose con sguardo assente – per favore, posso tornare a casa?”
Voleva solo richiudersi in camera sua, buttarsi sul letto e dimenticarsi del mondo attorno a lui.
Chiedeva tanto? Era troppo voler stare soli con la propria impotente solitudine?
“Sei teso come un elastico – commentò il capitano, posandogli le mani sulle braccia e massaggiandole lievemente – e per aggredire così Vato deve esserti accaduto qualcosa di grave. Non sono arrabbiato perché hai picchiato mio figlio, non voglio punirti… ma hai una faccia, Roy. Da bravo.”
La voce, in genere così severa, era comprensiva e gentile: come quando Kain si era ferito e lui era corso a cercare qualcuno che allontanasse quelle accuse così brutte che Ellie gli aveva rivolto.
Roy si accorse che una lacrima gli pizzicava leggermente l’occhio destro.
“E’ partito…” mormorò.
“Chi? Il tuo amico che era tornato in questi giorni?” Vincent gli prese le mani, accorgendosi che erano serrate a pugno tanto da essere bianche per lo sforzo.
“Il mio miglior amico.” precisò.
“Da bravo, respira profondamente – gli consigliò l’uomo, sentendo il lieve isterismo nella voce – va tutto bene.”
“No che non va bene – Roy scosse il capo, cercando di controllare il groppo che aveva in gola – Ci sono voluti più di tre anni prima che tornasse… per tre fottuti giorni! Non dovrebbe funzionare così.”
“E’ dura, posso immaginare, ma lui è sempre il tuo miglior amico: la distanza non cambierà le cose.”
“Un miglior amico dovrebbe stare qui. Assieme.”
“Sssh, va bene… è giusto che tu ci resti male.”
Malissimo!”
“Malissimo, perfetto.”
“E’ questo… questo maledetto vuoto che non passa! – si sfogò lui mentre qualche lacrima gli colava senza parere sulle guance – E fa più male della prima volta! Perché anche se ci diciamo che ci rivedremo presto sappiamo che non è vero… E io… dannazione, io non voglio piangere.
“Rimane tra noi, Roy – lo consolò Vincent abbracciandolo – e ti assicuro che fa bene sfogarsi.”
Sentì le dita del ragazzo che affondavano sulle sue spalle con violenza, alla ricerca di un appiglio emotivo di fronte alla tempesta che stava imperversando nella sua anima. Finalmente, dopo due giorni in cui era stato solo in compagnia del suo sordo dolore, Roy trovava il modo di sfogarsi.
Perché in questo secondo caso la vita gli chiedeva di andare avanti: aveva altri accanto a lui e non si poteva permettere di crogiolarsi nella solitudine… questa volta tutta la sua persona gli chiedeva di buttare fuori immediatamente tutto quello che aveva e poi riprendere a vivere.
Era anche quella una forma di tradimento nei confronti di Maes?
Non lo sapeva: in quel momento l’unica cosa che importava era la solidità del capitano Falman e di quell’abbraccio di cui aveva estremamente bisogno.
 
“No, tieni il viso alzato – ordinò Rosie posando il batuffolo di ovatta sul naso del figlio – non vorrei riprendesse a sanguinare. Mamma mia, fiocco di neve, che brutto livido questo sull’occhio.”
Come le dita della donna sfiorarono la parte interessata, Vato si ritrasse e quasi cadde. Si dovette posare al tavolo, colto da improvvise vertigini: ora che l’adrenalina per lo scontro era passata sentiva tutte le conseguenze di quelle botte prese in viso e nel resto del corpo.
“Siediti – Rosie lo aiutò a sistemarsi – piccolo mio, sei pallidissimo.”
“Ho la nausea…”
“Chinati e metti la testa tra le mani: respira profondamente col naso, da bravo. Vado a prendere una bacinella così se devi rimettere siamo organizzati.”
Quando la donna si fu allontanata Vato fece quanto gli era stato consigliato ed in questo modo il fastidioso ronzio che aveva nelle orecchie passò. Libero da quel rumore fu in grado di sentire dei singhiozzi e li riconobbe chiaramente come quelli di Roy.
Papà lo sta punendo?
La domanda gli sorse spontanea perché voleva dire che dopo sarebbe toccato anche a lui.
Cercò di essere felice per la punizione che stava toccando al moro, ma proprio non ci riuscì: nonostante tutto non riusciva ad odiarlo ed era tentato di alzarsi per andare a cercare di placare suo padre in qualche modo.
Del resto è questo quello che dovrebbe fare un miglior amico, no?
Ma i suoi buoni propositi vennero interrotti dalla nausea che saliva prepotente e Rosie fece giusto in tempo ad arrivare con la bacinella prima che il rigetto si scatenasse.
L’impatto fisico fu così violento che poi sua madre lo dovette accompagnare a letto per farlo stendere.
 
Dopo diversi minuti di sfogo, finalmente Roy si calmò.
“Ehi, direi che va decisamente meglio, vero?” gli chiese Vincent, arruffandogli i capelli.
“Da schifo – obiettò Roy – mi sento svuotato.”
“Meglio svuotato che con tutta quella tensione che avevi addosso – gli fece notare l’uomo alzandosi in piedi – mi hai letteralmente inzuppato la camicia, ragazzo. Ne avevi da sfogare, eh?”
“Lo trovo oltremodo umiliante.”
“Forza, ti accompagno a lavarti il viso e poi pensiamo a Vato.”
“Non voglio parlare con lui.”
“No? – Vincent lo condusse lungo il corridoio fino al bagno – E per quale motivo?”
“Perché la nostra amicizia è tutta da rivedere ed in questo momento non ne ho proprio voglia.”
Vincent non disse nulla, ma osservò con attenzione il ragazzo che si lavava il viso con acqua fredda. Lo sfogo l’aveva lasciato sfinito, ma almeno non era più teso e una prima forma di calma gli attraversava i lineamenti. L’uomo prese un asciugamano e glielo porse, notando la lieve smorfia quando la stoffa toccò il grosso livido sulla tempia.
“Per quello chiedo a Rosie di farti un impacco: vatti a sdraiare in camera nostra.”
“Posso tornare a casa, non c’è problema.”
“Prima che mia moglie ti abbia controllato come si deve? Non credo che ti permetterebbe mai di uscire.”
“Lo faccio solo per lei, allora.”
“Molto bene.”
Proprio in quel momento la donna entrò in bagno e subito andò accanto a Roy prendendogli il viso tra le mani e osservando il livido.
“Vatti immediatamente a sdraiare – ordinò – appena finisco con Vato vengo da te. Questo livido ha bisogno di un impacco.”
“Sissignora.” sospirò Roy.
“Vai pure con lui – disse Vincent –vado io a parlare con nostro figlio.”
“E’ in camera sua, coricato – lo avvisò Rosie – non alzare la voce che sta malissimo: ha rimesso pochi minuti fa.”
Roy provò a sentirsi preoccupato per quella notizia, ma non ci riuscì.
Osservò il capitano camminare lungo il corridoio fino alla camera del figlio ed entrarvi, ma niente lo scosse.
Migliore amico… Maes è il mio miglior amico. Vato Falman tu sei… sei solo uno stupido se pensi di poterlo minimamente sostituire.
 
Come vide il figlio sdraiato di fianco sul letto, Vincent capì che la rissa era andata peggio del previsto e si pentì di averlo fatto stare in piedi per tutto quel tempo. Nonostante i lividi il pallore nel viso era evidente, senza contare l’occhio sinistro gonfio e pesto: emetteva piccoli e rapidi respiri, come se il rigetto si potesse riscatenare da un momento all’altro.
“Dammi quel panno – mormorò, sedendosi accanto a lui e prendendo il pezzo di stoffa che il ragazzo si teneva premuto sull’occhio – da bravo, continua a respirare.”
“L’hai punito?” chiese lui con voce lieve.
“No, stai tranquillo: non ho intenzione di punire nessuno. Avete già fatto abbastanza da soli a quanto pare… tieni l’occhio chiuso: ti si sta gonfiando davvero tanto.”
“Posso parlare con lui?”
“Non è il momento. Ora devi pensare a calmarti: se ti alzi ti verranno dei capogiri.”
“Papà, è così sbagliato voler essere il suo miglior amico?” c’era una grande sofferenza nella sua voce e non solo per le ferite che, chiaramente, gli dovevano fare un gran male. Si girò quel tanto che bastava per guardarlo con l’occhio sano. C’era tanta ansia nella sua espressione, come se avesse un disperato bisogno che qualcuno gli desse delle conferme.
“Non c’è niente di sbagliato nell’amicizia, Vato.”
“Non ho chiesto questo. Possibile che valgo così poco?”
“La questione è differente – mormorò il capitano, accarezzandogli i capelli con la mano libera – Vato, devi capire che Roy ha…”
“… ha Maes…”
“Sì, però questo non vuol dire che…”
“Vuol dire che non serve un altro miglior amico.”
“Piccolo mio...” Vincent non seppe proprio cosa rispondere. Non poteva certo imporre a Roy una cosa simile, specie dopo lo sfogo che aveva avuto, ma vedere suo figlio in condizioni così pietose lo fece davvero star male: il rifiuto stava davvero tormentando quel ragazzo che per anni non aveva stretto rapporti con nessuno.
E quando l’ha fatto si è buttato a capofitto, mettendoci tutto se stesso. Dannazione, perché proprio a questi due?
“Heymans ha Jean – continuò Vato – e… e anche se Roy ha Riza io pensavo che le cose tra maschi fossero differenti… e… e ho creduto che Roy fosse il mio miglior amico. Per me lo è, davvero…”
“Adesso non pensarci, suvvia.”
“… però io non vado bene come miglior amico.”
Non disse altro, rimase a guardare fisso davanti a sé.
E Vincent non ebbe la forza di interrompere quel silenzio che faceva male quanto lo sfogo di Roy poco prima.


 

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Capitolo 56
*** Capitolo 55. Capire il punto di vista. ***


Capitolo 55. Capire il punto di vista.

 

Il treno non procedeva a velocità molto sostenuta e così, dal finestrino, si vedevano le campagne passare con quella che si poteva definire placidità. Ogni tanto compariva qualche gregge di pecore o qualche pascolo di mucche ed era possibile osservare gli animali con attenzione prima che sparissero dalla visuale.
Persino gli odori della campagna estiva sembravano avere il tempo di penetrare nelle narici, regalando tutta la loro energia e ondata di ricordi.
Kain si godeva quell’andatura da crociera, assaporando il ritorno alla sua amata realtà bucolica libera dai ritmi forsennati della grande città.
“Riconosco quelle montagne! – esclamò all’improvviso, sporgendosi ancora di più dal finestrino – Sono quelle che stanno ad ovest del paese: siamo quasi a casa!”
Andrew sorrise e si alzò per andare accanto al figlio.
“Sì, hai proprio ragione – commentò, mettendogli una mano sulla spalla ed indicandogli alcuni dettagli – se fai attenzione, come facciamo la curva, potrai vedere il fiume. Direi che tra massimo dieci minuti saremo in stazione. Allora, ragazzo mio, sei pronto a tornare a casa?”
“Prontissimo – annuì lui con decisione – e voglio scendere i gradini del vagone da solo, senza stampella.”
“Sei sicuro di volerlo fare, pulcino? – chiese Ellie, mentre il bambino si risedeva accanto a lei e la aiutava a sistemare il cestino con i resti del loro pranzo – scendere dei gradini senza l’aiuto della stampella comporta caricare molto la tua gamba.”
“Tranquilla, mamma – sorrise il piccolo, prendendole la mano – hai sentito che ha detto il dottore: posso iniziare a fare esercizi di questo tipo, senza esagerare. Quando siamo saliti ho contato che il vagone ha solo tre gradini: non sarà uno sforzo eccessivo. E poi vorrei che gli altri mi vedessero scendere dal treno senza aiuti: Roy al telefono mi ha detto che verranno a prenderci.”
“E’ un bel modo per celebrare il tuo ritorno a casa – annuì Andrew, lanciando un’occhiata ad Ellie per tranquillizzarla – sono sicuro che i tuoi amici ne saranno davvero contenti. Forza, adesso prendiamo le valigie: il treno sta ulteriormente rallentando e vuol dire che siamo quasi alla stazione.”
Kain si alzò in piedi e affidò la piccola stampella alla madre.
Ormai si era abituato ad usare quello strano strumento, così come si era abituato al tutore. Dopo che gli avevano levato i punti era iniziata la riabilitazione e sembrava che tutto procedesse per il meglio: la gamba aveva perso buona parte della rigidità e rispondeva bene agli stimoli. I medici per due settimane gli avevano fatto fare decine e decine di sedute, constatando con piacere che l’esito dell’operazione era stato più che positivo: il tessuto cicatriziale stava finalmente crescendo nel modo corretto.
Certo era ancora presto per parlare di corse: per ora poteva camminare con l’aiuto di una stampella. Sulle prime quella soluzione gli era parsa veramente deprimente, lo faceva sentire un povero storpio. Ma poi aveva notato i sensibili miglioramenti e si era convinto che era solo un aiuto momentaneo, come il tutore, e che, ben presto, non avrebbe più avuto bisogno di niente.
E di niente aveva bisogno in quel momento, mentre i suoi genitori lo precedevano nel scendere dal vagone.
Guardò con determinazione la piattaforma di metallo dove stava l’uscita e fece i fatidici passi che l’avrebbero portato alla luce del sole.
“Ciao, gnomo!” fu la voce di Roy ad accoglierlo, proprio come si era aspettato.
Sollevò lo sguardo e vide che il ragazzo stava proprio davanti a lui, nella banchina, con le braccia tese pronto a prenderlo. Dietro c’erano Riza, Heymans e Jean.
“Ciao, ragazzi! – sorrise con gioia – Oh no, Roy, aspetta. Voglio scendere da solo, per favore.”
“Va bene – annuì il moro, con un sorriso soddisfatto, facendo un passo indietro – avanti, dimostrami che stare un mese ad East City ne è valsa la pena.”
Kain non se lo fece ripetere due volte e mise la gamba destra sul primo gradino, posando con cautela tutto il peso del corpo su di essa. Sentì un lieve formicolio che ormai aveva imparato a riconoscere come niente di allarmante e poi procedette a scendere i restanti gradini.
Sentiva che tutti tenevano il fiato sospeso e la cosa lo fece emozionare, ma non ebbe esitazioni fino a quando non toccò con entrambi i piedi la banchina.
“Visto?” esclamò vittorioso.
Roy scoppiò a ridere e senza preavviso lo sollevò tra le braccia, come se fosse un trofeo. A quel segnale anche gli altri ragazzi si accostarono a lui e lo salutarono con entusiastiche parole, pacche sulle spalle e arruffate di capelli.
“Non c’è che dire – commentò Andrew, guardando il figlio che rideva e piangeva di fronte  a quelle dimostrazioni d’amicizia – un vero e proprio comitato d’accoglienza. Bentornata a casa, famiglia Fury.”
A quelle parole, Riza si scostò dal gruppetto e corse verso i due adulti, abbracciando Ellie con ardore.
“Sono così felice che siate finalmente tornati! – dichiarò – Questo mese sembrava non finire mai.”
“Lo so, tesoro – sorrise Ellie, prendendole il viso tra le mani – Ma adesso ci potremo vedere ogni giorno.”
“Allora, truppa – disse Andrew – vogliamo stare qui o possiamo tornare in paese?”
 
“Andrew mi ha detto che sta bene e che la riabilitazione procede spedita – spiegò Vincent, il giorno dopo mentre pranzava con moglie e figlio – a fine mese dovranno tornare ad East City per un controllo, ma sarà una questione di due giorni.”
“Sono splendide notizie – sorrise Rosie – domani andrò a trovare Ellie: ho sentito la sua mancanza in queste settimane. Porterò una torta al cioccolato: penso che Kain ne sarà felice, se non ricordo male lui lo adora.”
Vato annuì impercettibilmente allo sguardo della madre che gli chiedeva conferma e poi mandò giù un’altra cucchiaiata di brodo, sebbene con qualche difficoltà. Erano passati quasi cinque giorni dalla rissa con Roy e per quanto si fosse ripreso non era in grado di lasciare il letto che per poche occasioni, come i pasti.
L’occhio era ancora chiuso e una forte emicrania lo tormentava per la maggior parte della giornata, così come gli attacchi di nausea. Il medico aveva detto che i lividi non erano niente di preoccupante e il mal di testa sarebbe sparito col passare del tempo. Il malessere era dovuto al fatto che stava somatizzando pesantemente tutta la situazione che si era creata con Roy. Non era stupido e sapeva che si era spinto troppo oltre: il fatto che il moro non si fosse presentato per tutti questi giorni voleva dire che aveva troncato ogni rapporto con lui.
Me la sono cercata, del resto.
Era un pensiero che lo tormentava diverse volte al giorno e ogni volta gli mozzava il respiro.
Non pensava che l’amicizia potesse scottarlo così tanto.
“Io torno a letto – mormorò, alzandosi con cautela e posandosi al tavolo e sentendosi molto debole – non mi sento bene, scusate.”
“Fermo, ti do una mano – si alzò prontamente Vincent, notando il pallore nel suo viso – forza, appoggiati a me, figliolo. Nausea?”
“No, solo mal di testa. Scusa, papà, non dovevi alzarti.”
“Finiscila – il capitano lo fece sdraiare con cautela a letto, coprendolo con il lenzuolo – l’importante è che tu ti riprenda. Magari per l’ora di merenda riuscirai a mangiare qualcosa di più, va bene?”
“Mh.” annuì lui, girandosi di lato e chiudendo gli occhi.
Aveva scoperto che dormire gli riusciva facile e lo aiutava a dimenticare. Nei suoi sogni, miracolosamente, esistevano solo le care e vecchie nozioni imparate sui libri: la sua memoria lo cullava e proteggeva dal mondo esterno come ai vecchi tempi. Con un sospiro tremante si addormentò, solo in parte consapevole della mano paterna che gli accarezzava i capelli, come quando era piccolo.
“Dorme?” mormorò Rosie, entrando.
“Sì, è crollato subito – ammise Vincent, alzandosi dal letto – ma almeno non ha avuto la nausea. Meglio rispetto a ieri che non ha tenuto niente sullo stomaco.”
“Che possiamo fare? – chiese la donna mentre uscivano dalla stanza e chiudevano delicatamente la porta – Non l’ho mai visto così distrutto e sappiamo che c’è altro oltre le ferite.”
“E’ un bel problema, amore mio, ma purtroppo non possiamo fare molto – Vincent si risedette al tavolo, ma non riprese a mangiare – Vato e Roy si devono chiarire, questo è poco ma sicuro. Tuttavia Roy non ha alcuna intenzione di fare un passo avanti e nostro figlio non è nelle condizioni fisiche per farlo e dubito che Roy lo ascolterebbe. Hanno davvero ecceduto con questa storia.”
“Sai – ammise Rosie – in questi ultimi giorni mi sono chiesta se in parte non sia stata anche colpa nostra. Quando era piccolo e ha iniziato ad estraniarsi nel mondo dei libri forse dovevamo essere più decisi nel spingerlo a socializzare con gli altri bambini.”
“Lo dici proprio tu, piccolo fiore? –  sorrise Vincent, allungando una mano per sfiorarle la guancia – Proprio tu che l’hai sempre protetto nella sua diversità?”
“Perché in fondo lo vedevo felice così, con i suoi libri, la sua memoria: mi sarebbe sembrato di violentarlo se l’avessi costretto a frequentare gli altri bambini quando lui non ne sentiva il bisogno. Poi è arrivata Elisa e, vedendo che faceva amicizia di sua spontanea volontà, mi sono convinta che avevo fatto la scelta giusta, ma oggi non sono più così sicura. A diciassette anni sta vivendo dei turbamenti così forti… si intuisce tutta la carenza relazionale che ha accumulato. Siamo dei cattivi genitori?”
“Finiscila, Rosie. Tu sei stata e sei una madre splendida, sin da quando lo portavi in grembo. Gli hai dato tutta te stessa e non puoi che essere fiera del ragazzo che abbiamo cresciuto. E’ intelligente, sensibile, educato e ti ama profondamente.”
“Vederlo in quello stato mi distrugge – disse lei con un sospiro tremante – non è come la crisi che ha avuto con te dopo quella storia della caccia al fantasma. Qui non… non ha reazione. Anche con Elisa parla pochissimo e dorme… è letargico, da spavento. Il mio fiocco di neve!”
“Ehi, Rosie – il capitano si alzò e la prese tra le braccia – che sono queste lacrime adesso? Andrà tutto bene, tranquilla. E’ solo una fase che passerà: troveranno il compromesso, come sempre, bisogna solo dare loro tempo, fidati. Conosco abbastanza bene Roy e sono sicuro che prima o poi la situazione si sbloccherà.”
“Dare tempo – Rosie ripeté quelle parole con ansia – e quanto? Vincent, come posso restare a guardare il mio unico bambino che si tormenta così?”
“Anche per me è dura, tesoro – la baciò in fronte lui – ma se forziamo le cose potrebbe essere peggio. Tranquilla adesso, vedrai che a merenda riuscirà a mangiare anche altro e piano piano starà meglio.”
“Hai visto Roy in questi giorni?” chiese lei dopo qualche secondo di pausa, ovviamente preoccupata per l’assenza in casa di quella particolare forma di figlio acquisito.
“Sì, l’ho visto.”
“E come sta?”
“Bene – ammise Vincent – ora che è tornato Kain è decisamente più vitale. L’aver sfogato quelle lacrime per la partenza del suo amico gli è servito e non penso che ci vorrà molto per vederlo tornare agli antichi splendori. E fidati, è la cosa migliore: una volta sbollito del tutto si riavvicinerà a nostro figlio.”
“Speriamo – sospirò la donna sciogliendosi delicatamente dal suo abbraccio e iniziando a sparecchiare, dato che era chiaro che nessuno dei due aveva voglia di terminare il pranzo – ma è così caparbio nelle sue scelte e anche molto orgoglioso. Non lo so, Vincent, a volte lui e Vato mi sembrano una combinazione davvero malriuscita.”
Il capitano non poté far a meno di annuire: l’aveva pensato pure lui diverse volte, eppure si era convinto che, nonostante la diversità, quei due erano in grado di instaurare un solido legame.
Devono solo superare questo nuovo scoglio.
 
Il pomeriggio del giorno dopo il gruppo di amiche era riunito a casa Fury.
Era stata una cosa nata completamente per caso: Angela, Laura e Rosie avevano avuto tutte la medesima idea e così, nell’arco di venti minuti, si era improvvisata una riunione delle quattro donne, felici di essere finalmente di nuovo riunite.
“Mamma, io e Janet andiamo in camera mia, va bene?” disse Kain.
“Va bene – annuì Ellie – attenzione a come fai le scale. Vuoi una mano?”
“Ma no – sorrise il bambino – ho la stampella e faccio attenzione.”
“Janet!” esclamò Angela, vedendo la bambina che, con abilità, prendeva due fette di torta al cioccolato e le metteva su un piattino.
“Per me e Kain – spiegò la bambina – se poi ci viene ancora fame non disturbiamo voi che parlate. Perché ora fate come le bambine grandi, no? A scuola vanno tutte in un angolo del cortile e si dicono cose segrete che i maschi e le altre non possono sapere.”
A quelle parole, dette con aria così convinta, Laura scoppiò a ridere.
“Beh, non c’è che dire, è decisamente arguta la piccolina.”
“Pettegolina – la rimproverò con un sorriso Angela, tirandole lievemente una delle trecce bionde – fai attenzione a non rovesciare il piattino e non sporcate.”
“Tranquilla, mammina. Andiamo pure, Kain!”
“E’ adorabile – sospirò Laura – con due figli maschi a volte sento la mancanza di una femminuccia.”
“La vedi adesso che con Kain è tutta moine e sorrisi – strizzò l’occhio Angela – ma guardala a casa col fratello e scoprirai la sua natura di istrice: due giorni fa hanno litigato malamente e lei ha dato una testata tale a Jean da mozzargli il fiato. Inizia a tirare fuori gli artigli.”
“Semplicemente si sa difendere – la giustificò Rosie – ma quando è con noi è sempre dolcissima. Confesso che pure io avrei voluto dare una sorellina a Vato.”
“A proposito, come sta?” chiese Laura.
“Come sta? – Ellie si girò sorpresa – Non sapevo niente. Che è successo?”
“Il venerdì prima che tornaste lui e Roy hanno litigato malamente – spiegò Rosie – con tanto di rissa. E ha avuto la peggio: l’occhio è ancora gonfio e continua ad avere forti mal di testa. Il dottore ha detto che tutto procede bene ed entro questa settimana il peggio passerà, tuttavia…”
“Vato che litiga – Ellie si mise a braccia conserte – proprio non me lo immagino.”
“Ragazze, vi è mai capitato di avere la sensazione di aver sbagliato come madri?” chiese Rosie, abbassando lo sguardo.
“Oh, ma che dici? Adesso non devi prendertela troppo – la consolò subito Angela – Se dovessi avere dei ripensamenti per tutte le volte che Jean è tornato a casa pesto non vivrei più. E’ normale che a volte si litighi ed i maschietti spesso sono propensi a risolverla a pugni.”
“Fosse quello… – scosse il capo Rosie – no, è un qualcosa che sta venendo a galla ora, ma ha radici molto più profonde. L’ho assecondato nel suo isolamento da piccolo e adesso è incapace di affrontare determinate situazioni relazionali. Lo scontro con una personalità forte come quella di Roy l’ha distrutto e anche se Vincent dice che tutto si risolverà, io mi sento impotente e mi chiedo se…”
“Se sei in parte responsabile di questa infelicità?” chiese Laura con comprensione.
“Sì, se non del tutto.”
“Ti capisco, sai – sorrise la rossa – ogni volta che vedevo Heymans o Henry turbati mi chiedevo se non avevo fatto abbastanza per proteggerli da Gregor o dal resto del paese. Ma a rifletterci ci siamo passate anche noi e sappiamo che la loro età non è per niente facile: per esempio io ero poco più grande di tuo figlio, ma un giorno mi sono scoperta veramente gelosa di una determinata persona.”
“Un ragazzo che ti piaceva?” chiese Angela con curiosità.
“No – ridacchiò lei – il mio miglior amico, il mio secondo fratello. All’improvviso avevo capito di non essere più l’unica speciale nella sua vita: era arrivata una ragazzina con una lunga treccia nera a fargli battere il cuore.”
“Che strano – ammise Ellie con una strizzata d’occhio – proprio in quel periodo io ero gelosissima della miglior amica del ragazzo che amavo. Mi sentivo così piccola in confronto a lei, con i suoi quattro anni in più ed il corpo già sviluppato: credevo che da un momento all’altro Andrew si accorgesse di quanta differenza c’era e mi dimenticasse.”
“Non so proprio come l’avete gestita – commentò Angela – con una situazione simile sarei morta di gelosia e avrei litigato con James, di sicuro.”
“Sono state settimane di disperazione, te lo assicuro – Ellie alzò gli occhi al ricordo – mi rodevo di gelosia e non osavo dire niente perché avevo paura che Andrew alla prima avvisaglia mi considerasse solo una ragazzina viziata. Però devo ammettere che una delle doti di mio marito è sempre stata quella di saper placare gli animi.”
“Placare gli animi, eh? Un giorno ci invitò entrambe a casa sua, una all’insaputa dell’altra, e ci mise faccia a faccia.”
“Ed è ancora vivo per raccontarlo?” chiese Angela con un sorriso divertito.
“Conosco le due donne della mia vita – intervenne Andrew entrando in cucina in tempo per sentire l’ultima parte del discorso – non fate caso a me, signore. Prendo un bicchiere d’acqua e me ne vado.”
“Ci sentiamo buone e ti concediamo anche una fetta di torta – lo prese in giro Ellie – anche se quella volta hai rischiato di beccartela in testa con tutto il vassoio.”
“Sembra un santo, ma in realtà è una mente diabolica.” commentò Laura.
“Chi io? – Andrew sogghignò, mettendosi tra lei ed Ellie – Mi definisco un buon osservatore, tutto qui. Ed i fatti mi danno ragione, no? Nonostante la vostra testardaggine vi ho fatto vedere le cose dal giusto punto di vista, tutto qui.”
“Ma sentilo come fa lo splendido.” Ellie diede una gomitata allo stomaco del marito, ma poi sorrise quando lui si chinò per baciarla sulla punta del naso.
“Giusto punto di vista, eh? – rifletté Rosie – Non guasterebbe in determinate occasioni.”
“Si riferisce al litigio che Vato ha avuto con Roy, signora? Suo marito mi ha raccontato tutto ed è stata una bella sfuriata, eh?”
“La questione del miglior amico è davvero scottante – sentenziò Angela – non ho mai visto Jean così convinto nel dare ragione a Roy. Ha detto che se qualcuno osasse toccare il suo rapporto con Heymans farebbe anche peggio.”
A quelle parole Rosie si irrigidì lievemente, sentendo che suo figlio veniva in qualche modo attaccato.
“Credo che in buona parte la situazione l’abbia creata anche Roy – disse – in tutti questi mesi che si conoscono lui e Vato si vedevano praticamente ogni giorno. Per me era quasi scontato sapere che a merenda avrei dovuto preparare qualcosa anche per lui… non posso biasimare mio figlio nell’aver creduto di aver un rapporto privilegiato con Roy perché è quello che ho pensato io stessa.”
“Sì, credo che lei abbia ragione, signora – ammise Andrew dopo qualche secondo di riflessione – ed è semplicemente la conseguenza di una lontananza così grande come quella che il nostro scalmanato ragazzo sta subendo con il suo miglior amico. Ho notato che nel gruppo ci sono dinamiche abbastanza definite, per esempio abbiamo Jean ed Heymans che restano sempre un nucleo a se stante.”
“E chi li scolla quei due?” alzò le spalle Laura, ormai abituata alla presenza del biondo in casa.
“E poi abbiamo il nostro Roy, metà di una coppia che è stata costretta a separarsi… e quando succede prima o poi senti che è il momento di instaurare nuovi legami: non ci si può rinchiudere per sempre nella solitudine. Forse capisco quel ragazzo meglio di chiunque altro.” disse quest’ultima frase con una lieve sfumatura di malinconia e i suoi occhi corsero a Laura.
“Dici che Vato è stato davvero un rimpiazzo per quell’altro ragazzo?” chiese questa con una smorfia di disappunto.
“Rimpiazzo – Andrew soppesò quel termine e poi scosse il capo – no, così come non lo è stata Riza prima di lui. Semplicemente sono dei nuovi amici che si è fatto e che l’hanno aiutato a colmare quel vuoto, così come ha fatto Kain… ma Riza è una femmina e Kain è oggettivamente troppo piccolo. Vato è diventata la persona con cui passare il tempo e stringere un forte legame perché, nonostante i differenti interessi, Roy ci si è trovato naturalmente bene.”
“E mio figlio ha equivocato tutto… no, non è nemmeno corretto dire questo perché lui considera veramente Roy suo miglior amico. Mi piange il cuore a vederlo in quello stato di depressione: si sente così inadeguato e mortificato.” si strinse le braccia attorno al corpo come a proteggersi da una pessima sensazione e subito Angela le passò un braccio attorno alle spalle.
“Andrew – Ellie alzò gli occhi verso il marito – cosa credi si possa fare?”
“Bisogna procedere con cautela, questo è certo. E non credo che Roy si smuoverà a breve.”
“E se organizzassimo qualcosa di simile a quello che hai fatto tu anni fa?” propose Laura.
“Che intendi dire?” chiese Rosie, alzando lo sguardo su di lei.
“Il 22 luglio è il compleanno di Heymans. Volevo chiedergli se gli va di festeggiare a casa ed invitare i suoi amici: potrebbe essere l’occasione giusta per far incontrare i due contendenti.”
“Oggi è il 9 luglio – rifletté Andrew – direi che in due settimane Vato ha tutto il tempo per guarire e riprendersi fisicamente e anche mentalmente. E anche il nostro grande eroe smaltirà qualsiasi residuo di quell’odio. Sì, direi che potrebbe essere lo scenario ideale per farli riappacificare.”
“Ottimo, allora è deciso – ridacchiò Angela – sarà una festa indimenticabile, ci scommetto.”
 
Mentre in cucina gli adulti complottavano per raccogliere i cocci dell’amicizia di Vato e Roy, al piano di sopra Kain scopriva che Janet non era un ospite discreta come Riza.
La bambina era letteralmente affascinata dalla sua cameretta e continuava a vagare da uno scaffale all’altro prendendo in mano qualsiasi cosa e facendo centinaia di domande, senza lasciare al ragazzino la possibilità di rispondere.
“Questa qui dentro è come quella del braccialetto che mi hai fatto! – esclamò all’improvviso, prendendo in mano un vasetto di vetro con dentro alcune pietre – lo vedi? Solo che questa pietra è nera e non bianca.”
“Attenta che è pesante – si spaventò Kain, seduto nel letto ed impossibilitato a starle dietro – solleva il coperchio e prendila se ti piace tanto. Ma poggia il vaso nella scrivania, se cade si rompe e le schegge di vetro potrebbero ferirti.”
Janet fece come richiesto e si rigirò la pietrolina fra le mani prima di mettersela nella tasca del grembiulino.
Poi prese dalla scrivania il piattino con le fette di torta e con l’aiuto della forchetta le tagliò in tanti piccoli pezzetti. Quindi sorrise e si sedette nel letto accanto a Kain, prendendo il primo.
“Avanti, fai aaaah!” esclamò mettendoglielo davanti alla bocca.
“Eh? Ma posso mangiare da solo – protestò lui arrossendo – non è il caso.”
“Una volta ho visto Rebecca farlo con Jean, però Heymans non vuole farlo con me: vorrei provare se è speciale come si dice.”
“Speciale? Beh, non saprei che dire: mia mamma mi imbocca quando sto molto male.”
“Pure la mia quando ho l’influenza. Però forse fatto quando non si è malati è diverso, non credi?”
“Forse – ammise Kain, riflettendoci – va bene, mi puoi imboccare.”
Con un’esclamazione gioiosa a quella concessione, Janet mise il pezzetto di torta nella bocca di Kain, sentendosi enormemente adulta nel compiere quel gesto.
“Beh, come ti è sembrato?” chiese impaziente.
“E’ buona – spiegò Kain – del resto è cioccolato.”
“Adesso prova tu con me! – subito Janet gli porse forchetta e piattino – Però piano che mi si muove un dentino, eh.”
“Davvero? Anche a me e quando cade ne resta solo uno e avrò cambiato tutti quelli da latte.” dichiarò con una sfumatura d’orgoglio.
“Che grande che sei! – lo ammirò Janet – Io ne ho perso solo due, questo è il terzo. Quale devi perdere?”
“Questo sopra: si chiama canino.”
“Io questo sotto, mamma dice che come cade fa la finestrella. Dai, ora fammi assaggiare la torta.”
“Va bene – annuì, allungando la forchetta con il pezzetto - Opinioni?”
“Hai ragione, è buona perché è al cioccolato – ammise la bambina dopo qualche secondo – però non ci vedo tutta questa magia. Ma è divertente suvvia! Facciamo un pezzetto a testa?”
“D’accordo!” acconsentì Kain, lieto di non averla delusa.
E così si divisero equamente i pezzi di torta, ridacchiando allegri nel fare quel gioco che era nato quasi per caso. Era la prima volta che i due avevano occasione di stare da soli e il ragazzino aveva avuto una piacevole conferma: Janet era così dolce e vivace, si era accorto di volerle tantissimo bene.
“Mettilo pure sopra la scrivania – consigliò quando terminarono lo spuntino – lo riportiamo giù come scendiamo.”
Janet annuì ed eseguì l’ordine, facendo attenzione a non far cadere le briciole per terra. Poi tornò a sedersi nel letto, accanto all’amico che, nel frattempo si era spostato all’indietro fino a posare la schiena contro il muro, la gamba completamente distesa.
“Ti spaventa molto?” le chiese, notando che osservava il tutore.
“Un po’ – ammise lei, non sapendo come valutare quelle cose di metallo che imprigionavano la gamba – ti fa male?”
“No, tranquilla – le sorrise con dolcezza – e poi per la notte lo levo. Aiuta la mia gamba a guarire più in fretta: è una specie di strano e grosso cerotto, vedila così.”
“Però usi ancora quel bastone così strano. Quando torni a camminare?”
“Se tutto va bene a settembre non avrò più niente addosso.”
Lei annuì, ma i suoi occhi azzurri non poterono far a meno di tornare al tutore.
“Vuoi toccarlo?” propose Kain.
“Ti farà male? A me se tocchi una ferita anche se c’è il cerotto fa male.”
“Dammi la mano – sorrise, tendendole la sua – lo senti? E’ solo metallo, come… uhm… gli attrezzi da lavoro del tuo papà. Vedi? Non mi fa male?”
“E se tocco la gamba?” chiese lei, infilando la manina tra quelle giunture e toccando la pelle calda del ginocchio. Guardò con ansia il viso di Kain e poi sorrise nel vedere che non c’era alcuna smorfia di dolore.
“Ora sei più tranquilla?” le strizzò l’occhio.
“Decisamente. Sai, Jean mi ha detto che avevi un taglio brutto brutto nella gamba, ma non c’è più.”
“A dire il vero c’è – ammise Kain, sollevandosi i pantaloncini che gli arrivavano appena sopra il ginocchio – ma è fasciato e sta guarendo lentamente, vedi? Ti impressiona?”
“No, sono grande – scosse il capo lei con serietà – sai, ora ho sette anni. Li ho compiuti a fine maggio.”
“Davvero? Allora tanti auguri, sebbene in ritardo.”
“Ti volevo invitare al mio compleanno, ma tu stavi male e la mamma mi ha detto che non era il caso.”
“Mi dispiace, sarei venuto volentieri. Ti prometto che per i tuoi prossimi compleanni non mancherò mai, va bene?”
“Sul serio? – a quella promessa Janet lo abbracciò con foga – Che bello! Grazie, Kain!”
“E di che, dopo che ti ho fatto preoccupare così tanto; anzi, vai alla mia scrivania e apri il cassetto in alto. C’è una scatolina azzurra: portala qui.”
La piccola annuì e tornò con quanto richiesto, accostandosi con meraviglia al ragazzino che l’apriva e ne mostrava il contenuto. Pietroline, piume, petali, fili colorati, elastici: qualcosa di magico che fece sgranare gli occhi azzurri di lei.
“Me la ridai la pietra che ti ho regalato?” chiese lui, prendendo un nastro azzurro abbastanza lungo.
Poi, con destrezza iniziò ad armeggiare, prendendo anche un altro nastro, questa volta blu scuro, della medesima lunghezza. Era come un mago che intesseva un incantesimo con degli strumenti fatati e la cosa incantò così tanto la bambina che si accovacciò al suo fianco e guardò quel nuovo braccialetto che prendeva forma.
“Avanti, dammi il polso – sorrise infine Kain – vediamo come ti sta.”
E sembrava un preziosissimo gioiello con quell’intreccio color del cielo e quella pietra nera in mezzo.
“E’ per me?” annaspò lei, stringendosi il polso al petto.
“Certo, è un regalo di compleanno. Forse ne avrai ricevuti di più belli, ma non ho avuto il tempo di…”
“E’ bellissimo! – esclamò la piccola, mozzandogli la frase con il suo abbraccio – Kain è il gioiello più bello di questo mondo! Nessuna delle mie compagne ha un braccialetto così!”
Il bambino arrossì, ma poi ricambiò quell’abbraccio: l’esuberanza di Janet lo lasciava sempre interdetto, ma doveva ammettere che gli piaceva davvero tanto. Era così vitale, proprio come la campagna che li circondava: perfetto emblema della gioia di vivere.
Tornare a casa voleva dire anche questo: essere circondato dalle persone che si amano.
 
Fra tutte le ospiti Laura fu quella che si attardò più di tutte, lei ed Ellie finalmente libere di parlare dopo tanti anni in cui avevano dovuto nascondere la loro amicizia.
Alla fine, Andrew si offrì di accompagnarla fino all’inizio del sentiero, poco fuori dal cortile.
“Sai, Andy – iniziò sorridendo – mi ha molto sorpreso che…”
“Innanzitutto dimenticati di usare quel nomignolo con me – la bloccò lui, mettendole l’indice sulla fronte – altrimenti io riprendo a chiamarti Follettino e a parlare delle tue lentiggini.”
Efelidi.”
“A te la scelta, Laura Hevans. Allora, che cosa ti avrebbe sorpreso?”
“Quello che hai detto sul capire Roy meglio di chiunque altro. E’ la prima volta in così tanto tempo che fai un riferimento a proposito del tuo rapporto con Henry.”
“Fra due mesi e un giorno saranno esattamente quindici anni – sospirò l’uomo guardando il cielo che ormai si tingeva del rosso del tramonto – a volte mi sembra passata una vita, altre volte quella dannata lettera pare essere arrivata solo poche settimane fa. Sai, adesso che la questione di Gregor è stata finalmente risolta mi sento più libero di pensare a lui e mi fa piacere, anche se è innegabile un pizzico di tristezza.”
“E’ vero, anche a me succede la stessa cosa: Heymans mi chiede spesso di parlargli di lui e anche Henry sta iniziando ad interessarsi alla figura di suo zio. Ma sai, in qualche modo mi aiuta a vedere quanto c’è di mio fratello nei ragazzi ed è una grande gioia.”
“Era… anzi, è insostituibile.”
“Ma tu capisci Roy meglio di tutti, no?”
“Che vorresti dire, Laura Hevans?”
“Suvvia, conosci bene le donne della tua vita, ma anche loro ti conoscono. Io ed Ellie ci siamo accorte che con quella frase si è smosso qualcosa in te… e abbiamo deciso che è meglio che ne parlassi con me, piuttosto che con lei.”
“Si complotta alle mie spalle, eh?”
“Rendiamo pan per focaccia – alzò le spalle lei con noncuranza – andiamo, non vuoi dirlo alla tua sorellina? Che poi sono più grande di te di tre mesi, ricordiamocelo.”
“Va bene, lo confesso: è un pensiero stupido, ma mi sono reso conto che per la prima volta dalla sua morte ho stresso un legame d’amicizia molto forte.”
“Il capitano Falman, vero? – sorrise Laura – E’ una gran brava persona.”
“Già, sai ti confesso che nei primi giorni ad East City, quando Kain era così spaventato, sentire la sua voce al telefono mi aiutava a farmi forza. E parlare con lui è davvero piacevole, diciamo che ci capiamo abbastanza bene ed una cosa del genere non mi era più capitata. Precisiamo, a trentaquattro anni, quasi trentacinque, è un po’ infantile fare discorsi sul miglior amico o cose simili, ma…”
“Senti che in qualche modo lo stai tradendo?”
“E’ così?” chiese lui con un triste sorriso.
“Io credo che lui è felice di vederci andare avanti con le nostre vite, tutto qui.”
“Conosci fin troppo bene questo stupido che a volte è troppo sentimentale, Laura Hevans.”
“Ne abbiamo passato troppe per non conoscerci bene a vicenda, Andrew. Brutti momenti, certo, ma anche altri meravigliosi… i miei primi diciannove anni, a pensarci bene, sono stati fantastici. Persino quando mi hai costretto a quel faccia a faccia con Ellie, dicendomi che non dovevo essere stupida e gelosa.”
“Per me sei sempre la mia sorellina, Laura Hevans, mettiti in testa che è qualcosa che nessuno ti leverà mai e poi mai.” citò lui, come se fosse tutto successo il giorno prima.
Laura scoppiò a ridere, ricordandosi quella scena così assurda nel salotto di casa di Andrew, con lei ed Ellie che si squadravano con gelosia reciproca. Ma erano ricordi così belli e dolci, un passato meraviglioso che li accarezzava come la leggera brezza del tramonto estivo.
“Parlerai con Roy, vero?” fece Laura dopo qualche minuto stringendosi il leggero scialle attorno alle spalle.
“L’avevi capito da subito – ammise lui – lui e Riza sono ormai parte delle nostre vite.”
“Sono sicura che ce la farai.”
“Beh, parlare con quello scalmanato non è mai facile, ma penso di…”
“Non mi riferivo a quello – lo interruppe lei – ma a Riza. Sono sicura che prima o poi tu ed Ellie, con il piccolo Kain, darete a quella bambina la famiglia che merita. Dal migliore amico di Henry Hevans sono abituata a simili miracoli.”
“Laura…”
“Tra due mesi e un giorno sono quindici anni – lo salutò lei, iniziando ad avviarsi – e siamo cresciuti anche noi, Andrew.”
“Già, cresciuti…” Andrew sospirò, guardando la sua amica allontanarsi sempre di più.
Ma poi un sorriso gli rischiarò il volto.
Sì, ha ragione lei. Sei certamente felice di vederci andare avanti, amico mio.

 


Ps:
auguri di buona pasqua ^_^

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Capitolo 57
*** Capitolo 56. Come recuperare un'amicizia. Prima parte: pressioni esterne. ***


Capitolo 56. Come recuperare un'amicizia. Prima parte: pressioni esterne.


 
In genere quando si è piccoli, specie alle elementari, è normale fare delle feste per il proprio compleanno: si invitano gli amici a casa, si spengono le candeline sulla torta, si ricevono dei regali. Di norma si aspetta con ansia questo giorno, allo stesso modo del natale.
Per Heymans non era così: il suo compleanno non era mai un giorno lieto, anzi meno se ne faceva accenno meglio era. Forse nei primi anni di vita sua madre aveva fatto di quel giorno qualcosa di speciale, ma tutto scivolava via nella quotidianità e nell’amore che lei gli dava. Quando poi aveva iniziato ad andare a scuola, la sua condizione di figlio concepito prima del matrimonio l’aveva estromesso da tutte queste occasioni e, considerata la situazione a casa, non c’era mai stata la possibilità materiale di fare delle feste. Inoltre il suo compleanno cadeva in estate e dunque era lontano anche dal periodo scolastico e dalla quotidianità con i propri compagni che, oggettivamente, non sarebbero mai venuti.
Un altro motivo per cui Heymans non aveva un buon rapporto con il suo compleanno era la grande disparità di trattamento che Gregor aveva riservato ai due figli. Per il secondogenito c’era sempre un regalo speciale, dei grandi sorrisi, un pranzo fatto apposta per l’occasione. Un conto era vedere le cose da ragazzino ormai consapevole della realtà familiare e dunque farsi scivolare anche questo sulle spalle, ma per tutte le elementari il giorno del suo compleanno, al momento di andare a letto, si era sempre ritrovato a soffocare i singhiozzi sul cuscino, non trovando una risposta a quell’indifferenza che aveva caratterizzato anche per quell’anno quello che in teoria doveva essere un giorno bellissimo.
Era per questo strano senso di amarezza derivante dal passato che il ragazzo preferiva far passare in sordina il suo compleanno: a volte Jean aveva cercato di convincerlo a festeggiare a casa sua, ma lui si era sempre rifiutato. A partecipare alle feste di lui e Janet non aveva problemi, ma gli era rimasta una profonda tristezza di fondo per il suo giorno di nascita.
Per cui fu colto di sorpresa quando Laura entrò in camera sua quel pomeriggio.
“Ciao, Heymans, che cosa fai?”
“Uno schema per i compiti delle vacanze sia mio che di Henry – rispose lui, chino sulla scrivania – controllo i programmi così possiamo organizzarci anche per le sue lezioni di recupero: a inizio settembre ha quelle verifiche in tutte le materie e voglio che arrivi preparato.”
“Capisco – annuì la donna, sedendosi nel letto – senti, puoi lasciare un attimo il tuo lavoro e venire accanto a me?”
A quella richiesta il ragazzo si girò con occhi perplessi, ma poi annuì e andò a sedersi accanto a lei. Una volta che lo ebbe vicino, Laura lo guardò attentamente, notando i lineamenti così simili a Gregor, eppure così diversi nell’espressione seria e responsabile, dolce. E la sfumatura rossa dei capelli identica a quella di Henry, così come gli occhi. I due nemici convivevano così tanto in quel ragazzo.
“Mamma?” la chiamò lui.
“Pensavo a quanto sei cresciuto in quest’anno, amore – sorrise lei, accarezzandogli la guancia – e sei così bello, non ne hai idea.”
“Bello – lui arrossì e poi fece un sorrisino imbarazzato – non credo di esserlo, suvvia.”
“Lo sei, fidati. Cielo, quasi quindici anni: è passato davvero così tanto da quando ti ho preso tra le braccia ed il mio mondo è cambiato per sempre?”
A quelle parole il ragazzo la abbracciò, nascondendo il viso sulla sua spalla. Per uno strano trauma emotivo avvertiva sempre un tuffo al cuore quando sentiva parlare della sua nascita come un evento felice. Niente odio o rancore, sua madre aveva provato solo amore per lui in quei primi momenti, quando altre persone avrebbero voluto saperlo morto o lo vedevano come una catena. E questo amore lo faceva stare bene, protetto contro tutto il mondo esterno che l’aveva messo in difficoltà sin dal primo giorno di vita.
In un gesto spontaneo alzò il viso e la baciò sulla guancia.
“Ma non commuoverti, va bene?” mormorò, staccandosi da lei e sorridendole, questa volta identico a suo zio, con quello sguardo malizioso e tenero allo stesso tempo.
“Ma no – scosse il capo lei, ricacciando indietro le lacrime – senti, quasi quindicenne, ti vorrei domandare una cosa molto importante.”
“Dimmi pure.” annuì lui, mettendosi a gambe incrociate sul letto.
“Tra otto giorni è il tuo compleanno e mi chiedevo se volessi fare una festa qui a casa.”
Gli occhi grigi si sgranarono ed il viso assunse un’aria incredula.
“Festa?”
“Sì: da mangiare, una torta, i tuoi amici, Andrew ed Ellie, mh?”
Un altro ragazzino avrebbe fatto salti di gioia e sarebbe corso a preparare una lista delle cose che voleva da mangiare, oppure si sarebbe fiondato fuori ad invitare i suoi amici. Invece lui rimase a guardarla ancora per qualche secondo, prima di abbassare gli occhi sul lenzuolo, le mani, posate sulle caviglie, che tremavano leggermente.
“Non lo so…” ammise.
“Eppure ai compleanni di Jean ti sei sempre divertito… e a quello di Vato a gennaio ancora di più: eravate tutti assieme – Laura gli accarezzò i ciuffi rossi – Non ti piacerebbe?”
“E’ che – lui arrossì leggermente – oramai sono abituato a non… mamma, ti ricordi quando… quando piangevo ogni sera del mio compleanno? E tu venivi sempre, anche se io facevo meno rumore possibile, e ti sdraiavi assieme a me e mi cantavi le filastrocche degli animaletti del bosco…”
“E come potrei dimenticarmelo? Ti stringevi a me e ti accarezzavo i capelli fino a quando non ti addormentavi… piccolo mio, non sai quanto mi sentivo lacerata nel vederti così triste in quello che doveva essere il tuo giorno speciale.”
“Era l’unico momento bello e poi la mattina dopo sotto il cuscino trovavo sempre un regalino da parte tua, ed è strano pensare che iniziava sempre con me che piangevo…”
“Ogni volta mi dicevo che il prossimo anno sarebbe stato differente, ma poi…”
Ma poi ogni anno c’era sempre Gregor che impediva qualsiasi cosa ed era meglio non rischiare di indisporlo: avrebbe potuto rovinare in maniera davvero traumatica qualsiasi tentativo di festeggiamento.
Heymans scosse il capo con violenza, cercando di allontanare quei ricordi: essere tristi per quegli avvenimenti voleva dire che suo padre in qualche modo lo condizionava ancora. A vederla sotto questo punto di vista era indispensabile cambiare le cose.
“Sai – disse infine – in fondo l’idea della festa non mi dispiace. E se davvero a te non disturba troppo mi farebbe piacere che i miei amici venissero a casa.”
E scoprì che gli avrebbe fatto davvero piacere.
Festeggiare il mio compleanno... una festa solo per me.
“Allora affare fatto, signor festeggiato – sorrise Laura, arruffandogli i capelli – dopo cena armati di quaderno e penna che dobbiamo fare un elenco di tutto quello che vuoi.”
“Agli ordini, mamma – ridacchiò lui, prima di abbracciarla di nuovo – e grazie, sul serio.”
“E di che, tesoro mio – lo baciò Laura – il tuo compleanno è un evento che merita di essere festeggiato.”
E sarebbe stato un giorno speciale che niente e nessuno avrebbe rovinato.
 
Una delle potenziali minacce alla buona riuscita del compleanno di Heymans stava legando la stampella di Kain al telaio della sua bicicletta, mentre una preoccupatissima Ellie teneva in braccio il bambino per aiutarlo a sistemarsi nel sellino: infatti, non si capiva ancora come, la donna si era lasciata convincere a far scendere il figlio in paese assieme a Roy. L’idea era stata del ragazzo, ovviamente, ma era stato l’entusiasmo di Kain all’idea di poter finalmente muoversi un po’ che aveva convinto l’ansiosa madre.
Roy colse l’ennesima occhiata preoccupata della donna e sorrise.
“Oh, suvvia, faccio attenzione. Si fidi di me, signora: le ho dato ampia dimostrazione di essere responsabile…”
“Come durante la fuga clandestina?”
“… se mi lasciava finire la frase avrei detto essere responsabile quando si tratta di suo figlio.”
“Come quando l’hai convinto a scavalcare il davanzale della finestra e salire sull’albero?”
“Andiamo, quanta sfiducia – fece il broncio lui – giuro che vado piano e poi per il ritorno lo affido a suo marito, va bene? Guido piano e andiamo sani e lontano.” citò, storpiando il proverbio per l’occasione.
“Tranquilla, mammina – Kain strinse le braccia al collo della madre, sentendola tesa – fidati di Roy: non mi farà cadere e per cena sarò di ritorno con papà.”
“Mi raccomando…” sospirò lei, mentre il ragazzo grande faceva loro cenno di avvicinarsi. Aiutò il bambino a sistemarsi nel sellino e a stringere le braccia alla vita del compagno.
“Pronto gnomo?”
“Prontissimo!” esclamò Kain con un brivido d’eccitazione.
“E allora via!” e con una forte spinta sui pedali, Roy si catapultò verso il sentiero, le promesse di andare piano completamente dimenticate. Ma l’urlo deliziato lanciato da Kain nascose completamente quello terrorizzato di Ellie e nell’arco di una decina di secondi la strada era tutta loro.
Era come se l’energia del bambino fosse contagiosa: Roy sentiva scariche di adrenalina in tutto il corpo, come se quella discesa in bici fosse un’esperienza del tutto nuova anche per lui. Le luci, i suoni ed i colori danzavano davanti alla sua persona in un miscuglio inebriante che lo faceva sentire vivo come mai era successo. Vivo e libero, senza nessun ostacolo che potesse frapporsi tra lui e la felicità che stava assaporando e condividendo con il suo piccolo amico.
Fu dunque con dispiacere che dopo una decina di minuti giunsero al paese, l’andatura che rallentava forzatamente per via delle diverse persone nelle strade. Riprendendosi da quella strana estasi, Roy recuperò il controllo e girò con abilità nella stradina laterale che li avrebbe condotti a casa di Riza.
“Grazie, Roy – mormorò Kain, posando la testa contro la sua schiena – ho sognato così tanto di sentire di nuovo tutte queste sensazioni. E credevo di dover aspettare ancora due mesi per poterle provare… scusa, ma mi stanno anche lacrimando gli occhi.”
“Oh, gnometto – sorrise Roy, fermandosi davanti alla villetta degli Hawkeye – ne avevi bisogno di stare fuori, eh? Coraggio, adesso aggrappati a me che ti aiuto a scendere, forza, un bel paio di respiri profondi: adesso chiediamo a Riza un bicchiere d’acqua, va bene?”
“Sì – annuì lui, rifiutandosi di lasciarlo – scusa… non so che mi prende.”
“Tranquillo, Kain – continuò a tenerlo in braccio – è solo una bella scarica di energia a cui non eri preparato, tutto qui. Ehi, ciao Hayate! Hai visto chi ti ho portato?”
Nell’arco di un poco tempo i tre ragazzi si sistemarono nella parte del cortile davanti alla cucina, dove alcuni salici li riparavano dal sole troppo forte di luglio: Kain era comodamente seduto nell’erba e accarezzava il cagnolino che gli si era accoccolato sulla gamba sana.
“Non vedo l’ora di poter correre assieme a lui – mormorò – prima era troppo piccolo e poi è successo tutto il disastro dell’incidente. Ma molto presto mi leverò questo tutore e non avrò più bisogno della stampella.”
Roy sorrise nel sentire quell’entusiasmo e guardò con affetto Riza che abbracciava il loro piccolo amico.
Si sentiva decisamente bene: era come se il ritorno di Kain avesse rimesso a posto dei meccanismi della sua vita che avevano iniziato a funzionare male. Quel ragazzino era un vero toccasana ed era facile capire perché Riza gli fosse così legata.
“A proposito – disse Kain, girandosi verso Roy – non ti ho ancora chiesto come ti sei fatto quel livido sulla tempia. Si vede poco perché i capelli lo coprono in parte, ma c’è. Cosa è successo?”
“Oh questo? – il moro si toccò con imbarazzo il segno che, a onor del vero, non gli dava più nessun fastidio – Tranquillo è acqua passata… è che mi è caduto un libro in testa, pensa che distratto. Era nel ripiano più alto della libreria e non ho fatto molta attenzione come l’ho preso.”
“Che dolore! Chissà se una cosa del genere è successa anche a Vato con tutti i libri che ha.”
A sentire pronunciare quel nome Roy si irrigidì, ma un’occhiataccia di Riza gli ricordò di fare buon viso a cattivo gioco: Kain non sapeva niente di quel litigio e doveva restare nell’ignoranza. Così fu costretto ad ingoiare le parole roventi che aveva in bocca e ad alzare le spalle.
Tuttavia il discorso era ormai avviato ed il malumore si ripresentò più in fretta del previsto.
“Ora che ci penso non ho ancora visto Vato in questi giorni – ammise Kain, girandosi verso Riza – non è venuto alla stazione quando siamo tornati e, al contrario di tutti voi, non è passato a casa. E’ per caso offeso con me?”
“No, ma che dici! Che motivo avrebbe di avercela con te? E’ che non si sente molto bene, tutto qui.” spiegò Riza, sperando che la discussione finisse lì.
“Cosa? – gli occhi scuri del bambino si sgranarono – Ma perché non me l’avete detto? Nemmeno Elisa ne ha fatto parola. Roy, mi accompagni a casa sua? Se sta male mi piacerebbe fargli visita e…”
“Non è in condizioni di vedere nessuno.” lo interruppe lui con voce piatta.
“Uh – il bambino si ritrasse, intuendo una lieve sfumatura irritata in quella dichiarazione. Tuttavia, preoccupato per l’amico, insistette – però potresti accompagnarmi da suo padre, così chiedo a lui. Se avessi saputo…”
“Finiscila di parlare di lui! – sbottò Roy – Sta male, va bene? Come guarisce lo rivedi, punto e basta. Non sono venuto a prenderti in bici per parlare di lui, capito?”
“Roy!” Riza lo guardò con rimprovero, mentre Hayate si alzava con aria preoccupata, intuendo la tensione tra i suoi amici.
“Non… non volevo…” mormorò Kain, abbassando lo sguardo con un’espressione così mogia che subito Roy si pentì di aver avuto quello scatto d’ira.
Tutto il suo buonumore era passato: per diversi giorni di fila, da quando era tornato il piccolo, era riuscito a non pensare al suo litigio con Vato e ora era tutto tornato a galla. Il livido, come per magia, riprese a dargli fastidio e sentì che la compagnia dei suoi amici non andava più bene: era meglio evitare ulteriori scenate proprio davanti a Kain.
“Scusate, mi sono ricordato di avere un impegno. Riza, poi accompagnalo tu da suo padre, tanto è in paese, doveva andare a trovare la madre di Heymans.”
Non diede loro tempo di reagire. Si alzò in piedi e con passo deciso si avviò fuori dal cortile, salendo abilmente in sella alla bicicletta e pedalando verso il locale di sua zia. Sperava solo che Riza sbrogliasse la situazione e che Kain si dimenticasse di Vato il più in fretta possibile.
Idiota di un Falman, quando mai potresti raggiungere il livello di Maes?
 
L’idiota di un Falman circa mezz’ora dopo sedeva al tavolo di cucina, aspettando che sua madre finisse di preparare le mele cotte che avrebbero costituito la sua merenda. Provò a mettere a fuoco il bicchiere che stava davanti a lui e annuì soddisfatto: anche l’occhio ferito faceva il suo dovere ed ormai tenerlo aperto non costituiva più alcun problema. Certo, c’era ancora un bell’alone giallognolo attorno ad esso, ma sarebbe sparito nei prossimi giorni. Anche il resto dei lividi era in via di guarigione e le emicranie l’avevano abbandonato quasi del tutto, così come la nausea.
Stava decisamente meglio e anche la letargia era sparita: dormiva profondamente sia durante la notte che dopo pranzo, ma per il resto era desto e vigile e aveva persino ripreso a leggere. Tutto sommato era felice di questi miglioramenti: si era reso conto della forte preoccupazione che aveva destato nei suoi genitori, soprattutto in sua madre e si era sentito in colpa.
Se non posso essere un miglior amico, almeno posso essere un bravo figlio e un bravo fidanzato.
L’idea lo sfiorava più volte al giorno e gli faceva discretamente male: era passata una settimana, se non di più dal suo litigio con Roy ed il ragazzo non si era ripresentato a casa. Questo voleva dire che non mentiva quando aveva dichiarato che non lo voleva più come amico e Vato sapeva che il moro poteva essere molto drastico nelle sue decisioni.
E’ una nuova lezione di vita – si disse con filosofia – dovevo capire subito la situazione. Sapevo bene che lui e Maes erano migliori amici e avrei dovuto tenere maggiormente le distanze da Roy, sin dalle prime volte.
“Perché non esci uno di questi giorni?” chiese all’improvviso Rosie.
“Come?”
“Sono belle giornate e un po’ d’aria ti farebbe bene: oramai sei guarito abbastanza, no? Fare una passeggiata con Elisa non sarebbe male: a furia di stare a casa state perdendo questo bellissimo periodo.”
“Ci penserò.” acconsentì lui, anche se uscire voleva dire incontrare gli altri ragazzi.
Non sapeva il perché, ma aveva la pessima sensazione di essere nel torto marcio e che dunque ora ce l’avessero con lui, specie Heymans e Jean. Un’ulteriore conferma di quanto fosse meglio tornare al suo esclusivo rapporto con Elisa e con i libri. Del resto al piccolo stagno non correva il rischio di incontrare qualcuno di loro e…
“Bussano alla porta, vai tu, Vato? Con il fornello acceso non posso allontanarmi.”
“Tranquilla, mamma.” annuì, alzandosi in piedi con i calzoncini corti e la maglietta che costituivano la sua tenuta casalinga estiva. Probabilmente era Elisa che passava a vedere come stava.
“Ciao, Vato!” esclamò Kain, come aprì la porta.
“Kain? Oh, ciao Riza.”
“Voleva passare a trovarti – sorrise la ragazzina – ti dispiace?”
“No, dai entrate.”
Solo come i due si fecero avanti notò il tutore alla gamba di Kain e la stampella e provò una fitta al cuore, i pensieri che correvano al suo primo incontro con quel timido bambino. Si rimproverò mentalmente per non aver pensato a lui in questi giorni: sarebbe dovuto andare a trovarlo o fargli sapere in qualche modo che era felice del suo ritorno a casa.
“Come ti senti?” chiese il piccolo.
“Bene, ma dovrei chiederlo a te. Come va la gamba? Forza, venite in cucina, così ci sediamo. Mia madre è lì a prepararmi la merenda.”
Si accomodarono nel tavolo, accolti con un gran sorriso da Rosie e accettarono volentieri le mele cotte che vennero loro offerte. Anche se era cibo che in genere si mangia da malati, la donna ci aggiunse una spruzzata di zucchero che contribuì a migliorare il sapore.
Vato scambiò un’occhiata con Riza, come a chiederle quanto Kain sapesse della situazione tra lui e Roy, ma lei fece un gesto di diniego. Tuttavia era chiaro che quell’occhio nero parlava da solo: non era certo una malattia quella che l’aveva ridotto a letto.
E Kain poteva essere ingenuo su molte cose, ma fu rapido a collegare la sfuriata di Roy e il suo livido alla tempia con l’occhio nero di Vato.
“Ma perché? – mormorò perplesso – Tu e Roy siete così amici.”
A quella dichiarazione così sincera Vato abbassò lo sguardo e anche Riza si sentì profondamente imbarazzata. Non aveva mai detto niente in merito alla questione, limitandosi a stare accanto al furente Roy, proprio come Elisa faceva con Vato, ma non riusciva a capacitarsi della fine di quel legame così forte.
E io che mi ero preoccupata di essere un rimpiazzo, non oso immaginare quello che deve aver provato Vato.
Perché ovviamente lei ed Elisa ne avevano discusso e la situazione del ragazzo più grande appariva abbastanza chiara e, oggettivamente, non se la sentivano di dare la colpa esclusivamente a lui.
“Oh, stai tranquillo, Kain – disse l’altro, sforzandosi di sorridere – io e te siamo sempre amici, così come tu e Roy: non devi preoccuparti.”
“Ma non è bello. Non potete fare pace come per il tuo compleanno?”
“Kain – Riza gli accarezzò i capelli – è stato un litigio diverso, capisci? E ci vuole del tempo.”
“Effettivamente Roy sembrava molto arrabbiato: è andato via così in fretta.”
“Davvero?” Vato fece quella domanda del tutto involontaria e in cuor suo si sentì profondamente ferito da quell’ostilità che non accennava a diminuire. Fu di estremo conforto sentire le braccia di sua madre che gli stringevano le spalle e le sue labbra posate sulla chioma bicolore.
“Vedrete che tutto si risolverà, ragazzi – sorrise con dolcezza Rosie – bisogna solo avere pazienza.”
“Comunque mi dispiace davvero di non essere passato a trovarti – disse Vato per cambiare argomento – ti va di raccontarmi qualcosa di East City? Ho saputo che hai avuto occasione di visitarla un po’ e mi farebbe davvero piacere sentire come è fatta… specie dell’Università.”
Kain si fece dirottare docilmente verso quell’argomento, lieto di vedere l’amico sorridere, ma in cuor suo non credeva possibile che un litigio potesse degenerare in questo modo. Così, quando un’oretta dopo lui e Riza si congedarono, chiese perplesso:
“Perché si litiga sull’amicizia?”
“E’ una questione di gelosia, presumo.”
“Non credo che Roy odi Vato: insomma, sono stati insieme per tutto questo tempo. Che senso avrebbe? Se una persona mi dice che mi considera il suo miglior amico ne sarei felice, tu no?”
“E se un giorno tu mi dicessi che un’altra ragazzina ti considera come un fratello?”
“Che? Oh no, Riza – quasi gli cadde la stampella mentre la abbracciava – tu sei unica, non potrei avere altre sorelle all’infuori di te. Sei tu quella speciale, credimi.”
“Ti credo, piccolo mio – sorrise lei tranquillizzandolo – era solo per farti capire anche l’altro punto di vista. E’ come se qualcuno andasse da Heymans e gli dicesse che vuole essere il suo miglior amico, ma lui ha già Jean: non potrebbe mai preferire l’altro.”
“Sì, lo capisco… però non è giusto. Scommetto che Vato è un ottimo miglior amico.”
“Non lo metto in dubbio.”
“Sai, a volte mi sono chiesto se io avevo un miglior amico tra di voi, ma poi ho capito che preferisco di no. Tu sei mia sorella ormai e a te vorrò sempre bene in un modo tutto speciale, ma per quanto riguarda gli altri… ecco anche loro saranno speciali, ciascuno a modo suo. Capisci? Diversi eppure uguali e io ci sarò sempre per tutti loro.”
“E’ un bel ragionamento, molto altruista.”
“Siete così buoni con me – sorrise lui – ed io sono felice. Sai, dopo che per tanto tempo nessuno voleva stare con me ora mi sento così amato ed è una sensazione bellissima. Ah, eccoci a casa di Heymans, non entri pure tu?”
“No, devo tornare a casa e poi andare a fare la spesa – ammise Riza – mi mancano alcune cose per la cena di stasera e ne approfitto per fare alcune commissioni. Ma domani mattina passo a casa tua alle dieci, va bene?”
“Perfetto, lo dirò alla mamma. Buona serata, Riza.”
La ragazzina arruffò per l’ultima volta i capelli neri di Kain, lasciandolo solo a bussare alla porta.
Di conseguenza il bambino fu estremamente impreparato e privo di sostegno quando ad aprirgli fu Henry.
Era la prima volta che si vedevano dopo il fatidico lancio della penna e fu come se ciascuno vedesse un fantasma. La mano di Kain si serrò sulla stampella allo stesso modo in cui quella di Henry lo fece sulla maniglia. Rimasero così per una ventina di secondi, non sapendo cosa dirsi.
“Ciao.” mormorò infine Henry.
“Ciao.” rispose Kain, con voce leggermente ansiosa.
“La tua gamba…”
“Oh va bene – disse subito lui, come a giustificarsi – sta guarendo, sai. Eh… c’è per caso mio padre?”
“Sì, è in cucina con mia madre – annuì il rosso, esitando qualche secondo prima di fargli cenno di entrare – ti serve una mano?”
“No, ce la faccio da solo e… oh un micio!”
Carota scese le scale e si fermò perplesso a guardare Kain con la sua stampella ed il suo tutore. Henry lo prese in braccio e gli accarezzò il collo, facendo tintinnare il sonaglino.
“Si chiama Carota.”
“Posso accarezzarlo?”
“Mh – annuì lui – ma lo tengo in braccio, forse la stampella lo spaventa.”
Kain allungò la mano e accarezzò la testolina pelosa, provocando fusa di soddisfazione.
I due ragazzini poi tornarono a guardarsi, l’imbarazzo che tornava tra di loro.
“Senti – mormorò infine Henry – mi dispiace per l’incidente che hai avuto. Non volevo che succedesse, sul serio. Ma quel giorno proprio non ero in me.”
“Oh ma non fa niente, tanto mi riprendo del tutto.”
Il rosso annuì e gli fece strada verso la cucina: aprì la porta e lo fece entrare per poi dileguarsi verso le scale ancora con il gatto in braccio.
“Ehilà, figliolo – lo salutò Andrew – che ci fai qui?”
“Ciao, papà. Signora Laura. Sono sceso in paese con Roy, sulla sua bicicletta. Poi io e Riza siamo andati a trovare Vato ed infine lei mi ha accompagnato sino a qui: ho detto alla mamma che sarei tornato assieme a te.”
“Davvero? – sorrise l’uomo, prendendolo e sistemandoselo sulle ginocchia – Ottimo, allora tra una mezz’oretta andiamo.”
Laura stava per aggiungere altro, ma in quel momento entrò Heymans.
“Ciao, Kain – salutò, andandogli accanto e arruffandogli i capelli – non pensavo di trovarti qui, ma capiti proprio a fagiolo.”
“Ah sì?”
“Certo. Torno adesso da casa di Jean perché dovevo dirgli una cosa importante e ora ne approfitto per dirla a te: il 22 luglio è il mio compleanno.”
“Davvero? Grandioso, tra otto giorni!”
“Esatto e faccio una festa a casa: ovviamente tu e i tuoi siete invitati. Jean mi ha già detto che lui e la sua famiglia verranno di sicuro e prima ho incontrato anche Riza e pure lei ha detto che verrà.”
“Conta pure anche noi, allora. Vero, papà?”
“Assolutamente sì.”
Il rosso annuì con un gran sorriso, dimostrandosi entusiasta come raramente succedeva. Poi si fece serio in volto e rifletté ad alta voce:
“Ovviamente vorrei invitare Vato ed i suoi genitori e anche Elisa, ma lo stesso vorrei fare con Roy.”
Ne aveva parlato con Jean fino a poco prima, ma purtroppo non avevano trovato nessuna soluzione: invitare uno all’insaputa dell’altro poteva creare dei problemi, specie per Roy e, oggettivamente, Heymans non se la sentiva di rovinare quel giorno che aveva scoperto di attendere con impazienza.
Gli avrebbe fatto veramente piacere avere tutti i suoi amici attorno a sé, tuttavia non poteva imporre una sgradita presenza a qualcuno di loro.
Anzi, a questo proposito…
“Ci sarà anche mio fratello – fece, rivolgendosi a Kain – ti crea molti problemi?”
“Cosa? Ma no, assolutamente! – scosse il capo lui – Ci ho anche parlato poco fa, mi ha fatto accarezzare il vostro gatto. Sul serio, non mi dà alcun fastidio la sua presenza e poi è ovvio che lui ci deve essere, è tuo fratello.”
“Grazie, nanetto, tu sì che sei una persona con cui si può parlare senza problemi.”
“Tutto tace dai due fronti, vero?” chiese Laura.
“Sono stato da Vato prima – ammise Kain – e pare che non si parlino proprio. E Roy, quando gli ho accennato la cosa, si è molto arrabbiato ed è andato via. Non è come l’altra volta che hanno fatto pace subito.”
Heymans annuì, dando pienamente ragione al piccolo del gruppo.
 “Abbiamo ancora otto giorni di tempo per fargli fare pace.” disse Kain.
“Roy non farà pace, fidati di me. Questa volta non ascolterà nessuno di noi.”
“E allora ci parlerò io – disse Andrew con calma – che dici, Heymans, proviamo a salvare la tua festa di compleanno?”
“Sarebbe fantastico, signore – sorrise il ragazzo, totalmente fiducioso nelle capacità di quell’uomo – forse dopo il capitano Falman lei è l’unico che Roy ascolterà.”
 
“Capitano, per caso mio nipote si è beccato una nuova punizione?” chiese Madame Christmas quando Vincent entrò nel locale.
“No, non da parte mia – rispose l’uomo accostandosi al bancone – e penso di essere l’unico in grado di domare un pochino quel furfante. Perché? Che cosa è successo?”
La donna scoppiò a ridere sentendo il tono vagamente rassegnato.
“E’ tornato al locale circa due ore fa con una faccia che era tutta un programma. Sembrava quasi di vedere i fulmini ed i nuvoloni neri sopra la sua testa e le uniche volte che l’ho visto così amareggiato è stato dopo qualche litigio con lei.”
“Mi dispiace, ma questa volta non sono io l’artefice dei malumori di suo nipote. Posso salire a parlarci?”
“A suo rischio e pericolo, signore – indicò le scale – la strada la conosce fin troppo bene, ormai.”
Vincent sospirò e con un cenno della testa si avviò verso la tana del leone: sperava che il ragazzo fosse ormai uscito da questi momenti di depressione nera, ma a quanto sembrava non era ancora soddisfatto. E il capitano aveva scoperto che gli dava estremamente fastidio vederlo in simili atteggiamenti: Roy era fatto per combinare guai, essere sarcastico, vitale, non doveva starsene rinchiuso in una roccaforte di cattivi pensieri.
Quello l’ha già fatto per tutta la sua prima infanzia.
Arrivò alla porta e bussò.
“Roy, sono io.” chiamò.
Non ottenne nessuna risposta. Provò ad abbassare la maniglia, ma scoprì che il ragazzo si era chiuso a chiave.
“Roy – chiamò di nuovo – andiamo, voglio solo parlare. Cerca di comportarti da adulto.”
“Proprio io che dovrei godermi la mia adolescenza? – la voce del ragazzo, nonostante fosse attutita dalla porta trasudava acido – Mi lasci godere il mio momento di infantilismo!”
“Questo sarcasmo non ti aiuta sai…”
“Mia zia ha qualche cucchiaio di legno in cucina, se lo faccia prestare, ma io questa porta non la apro!”
“E quindi te ne stai chiuso in camera, manco fossi in castigo? – commentò Vincent – proprio una bella mossa, complimenti. Andiamo, possiamo parlarne come abbiamo fatto l’altra volta.”
“Non c’è niente di cui parlare – sentenziò Roy – sono di malumore, va bene? Vi decidete a lasciarmi in pace una buona volta? Vi crea così tanti problemi il fatto che voglia stare solo?”
“Sì, me li crea! – sospirò Vincent – scusa tanto se mi preoccupo per te. Cosa credi che mi faccia piacere saperti di malumore? E’ sempre per quel motivo, vero?”
Non ci fu nessuna risposta.
“Roy, non puoi continuare a tenere il broncio per sempre. Avete sbagliato entrambi, se ci pensi scoprirai che è vero, perché non fai uno sforzo?”
“Il suo parere non conta, capitano, non questa volta. Vato è suo figlio e non c’è l’imparzialità che mi aspetto… la colpa è di suo figlio, non mia. Posso essere lasciato in pace una buona volta?”
“Va bene, signorino, fai come credi – sbottò l’uomo – rimani chiuso nella tua roccaforte a rimuginare sul tuo prezioso orgoglio. Ribadisco il concetto che ti dissi tempo fa: devi ringraziare di non essere mio figlio, altrimenti ti farei il sedere nero dalla mattina alla sera.”
“Come se adesso si ponesse problemi!” sbottò Roy dall’altra parte, la voce più vicina, segno che si era accostato alla porta.
“Stai tranquillo che se fossi figlio mio la porta non oseresti chiuderla. Buona serata, Roy Mustang, goditi la tua solitudine.”
“Con vero piacere! E dica a tutti che la roccaforte è sigillata!”
“Non mancherò.”
Vincent girò sui tacchi e si avviò verso le scale, profondamente irritato da quell’atteggiamento.
Non era disposto a parlare con una porta tra lui e quel ragazzino testardo.

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Capitolo 58
*** Capitolo 57. Come recuperare un'amicizia. Seconda parte: il vero problema. ***


Capitolo 57. Come recuperare un’amicizia. Seconda parte: il vero problema.

 

Il giorno successivo Vato si decise finalmente ad uscire di casa.
Aveva detto ai suoi genitori che andava a fare una passeggiata, ma in realtà la spinta maggiore gliel’aveva data il fatto che il suo antagonista stava chiuso in camera sua, nel locale della zia, e sembrava aver intenzione di restarci a tempo indeterminato.
Senza la paura di incontrarlo per strada Vato si sentiva più sicuro e propenso a vedere il resto dei ragazzi: la visita di Kain e Riza l’aveva in parte rassicurato e confidava che anche le altre amicizie si potessero definire solide. Probabilmente era stato troppo pessimista facendo un unico fascio d’erba anche con chi nel litigio non era stato coinvolto. Di conseguenza, quando vide Heymans che usciva da una strada laterale fece un cenno di saluto e sorrise quando gli si avvicinò.
“Ehilà, ragazzo di pensiero – lo prese in giro il rosso con un sogghigno – siamo finalmente usciti dalla tana.”
“Preferirei non essere più chiamato in quel modo – sorrise Vato in tono contrito – non è molto di pensiero avere gli ultimi residui di un occhio nero, ti pare?”
“Ah, fidati di me, in due giorni non ne rimane traccia. E te lo dice uno che di queste cose è abbastanza esperto. Tutto bene?”
“Sì, diciamo che va discretamente bene.”
I due si guardarono con quello che si poteva definire imbarazzo: era come se la presenza di Roy si facesse sentire prepotentemente sopra le loro teste. A quel pensiero il ragazzo dai capelli bicolore scosse la testa con violenza.
I nostri rapporti devono essere per forza condizionati da lui?
Era vero, aveva considerato Roy il suo miglior amico e la loro avventura, forse, si era conclusa nel modo peggiore, ma c’erano anche gli altri e lui ci teneva. Non era giusto dover rinunciare pure a loro e, alla luce di questo, decise di fare un tentativo, mettendo da parte tutti i suoi timori.
“Lo so che probabilmente mi considerate una persona pessima per quanto è successo…”
“Smettila, non dire cose simili – scosse il capo Heymans – non è vero che sei pessimo.”
“Presumo che tu e Jean capiate Roy meglio del previsto.”
“In parte sì, ma questo non ti rende pessimo.”
“Siamo ancora amici?”
“Certo, per quale motivo non dovremmo esserlo?”
“Non lo so… è che ho avuto la sensazione che dopo questo litigio tutti voi sareste stati chiamati a scegliere tra me e Roy. E la scelta mi pare scontata.”
“Lo sai? Hai proprio ragione: ragazzo di pensiero non ti sta bene come termine. Paranoico è molto più adatto a te.” Heymans lo squadrò con occhi attenti.
“Dalla padella alla brace, insomma.”
“Tranquillo, paranoico, noi siamo sempre amici e da quello che so anche Riza e Kain la pensano come me. E pure Jean, fidati. Senti, ci vieni al mio compleanno? E’ tra una settimana e faccio una festa a casa: mi farebbe piacere se tu ed i tuoi genitori veniste.”
“Davvero? – a quelle parole Vato si illuminò in viso e arrossì – Farebbe enormemente piacere anche a me esserci e sono sicuro che lo stesso sarà per i miei. Solo che…”
“Sì, lo chiederò anche a lui.” annuì Heymans, seguendo il filo dei suoi pensieri
“Non verrà se ci sono pure io, questo è poco ma sicuro.”
“E se venisse?”
“E’ la tua festa di compleanno, non potrei mai rovinarla. Se viene cercherò di stare a distanza da lui, così non creerò problemi.”
“Sei paranoico, ma sei un bravo ragazzo – Heymans gli diede delle pacche sul braccio – dovresti smetterla di farti tutti questi complessi. E ti confesso una cosa: capisco Roy, ma capisco anche te e sono sicuro che in qualche modo chiarirete.”
“Lo spero proprio. E’… è stato difficile per me: Roy non mi ha trattato molto bene in presenza di Maes – confessò – mi ha appena presentato e poi era come se fossi un estraneo, mentre con voi ha avuto un atteggiamento completamente diverso.”
“E’ vero, c’è stata una disparità di trattamenti.” ammise il rosso.
“A Riza l’ha presentata il giorno dopo e presumo che anche se ci fosse stato Kain avrebbe fatto lo stesso con lui. Il mio non è essere vittima, sto facendo una considerazione che non potrai che confermare.”
Ebbe la soddisfazione di vedere Heymans mettersi a braccia conserte e fissare la strada con aria assorta: quello che aveva appena detto non era sbagliato, non poteva essere rimasto accecato dalla gelosia fino a quel punto.
“Io – commentò l’altro dopo una decina di secondi – sto iniziando a pensare che Roy abbia fatto dei ragionamenti davvero strani. In ogni caso il mio invito per il compleanno resta e vorrei che ovviamente venisse pure Elisa: appena la vedo la invito, ma se la incontri prima di me diglielo pure.”
“Non mancherò: sto giusto andando a casa sua. L’ho trascurata così tanto e non se lo meritava affatto.”
“Corri dalla tua fidanzatina, Vato Falman e stai sereno: i tuoi amici sono sempre gli stessi, fidati di me.”
Furono parole dette in tono scherzoso, ma ebbero il potere di risollevare ampiamente il morale del ragazzo più grande: la consapevolezza di non aver perso tutto era davvero confortante. Tanto che si arrischiò ad essere ottimista anche su Roy.
Forse a questo giro tocca a me rimediare.
Pensieri poco consoni per un ragazzo di pensiero e paranoico, ma era come se il sole di luglio stesse dando nuova forza a Vato Falman e non solo fisica.
 
Roy invece evitava la luce del sole tenendo le tende tirate, come se l’oscurità potesse dargli maggiore sicurezza e sigillarlo maggiormente nella sua stanza. Non si era aspettato che il suo malumore si riscatenasse in maniera così violenta, ma sentire la preoccupazione nella voce di Kain gli aveva dato più fastidio del previsto.
Non aveva voluto aprire la porta a nessuno, nemmeno a sua zia.
Aveva preso il vassoio con la cena che gli avevano lasciato fuori dall’uscio ed era andato in bagno quando non c’era nessuno in vista. Almeno, al contrario del capitano Falman, le ragazze del locale sembravano assecondare questa sua voglia di solitudine: avevano ben altro a cui pensare rispetto ai capricci di un adolescente.
Il suo stomaco brontolò, segno che tra poco sarebbe stata ora di pranzo. Sperava che nel vassoio ci fosse qualcosa di sostanzioso perché, al contrario di quanto si poteva pensare, stare fermi a rimuginare consumava più energie del previsto. Specie se si trattava di brutti pensieri, come quello di sentirsi in qualche modo tradito… da Kain.
Perché doveva mostrarsi così preoccupato per lui?
Razionalmente sapeva di essere in torto: Kain non conosceva le vicende ed era normale che mostrasse preoccupazione per Vato. Ed inoltre il bambino era così ingenuo che anche a fatti conosciuti non avrebbe mai potuto mostrare astio per una persona, non l’aveva fatto nemmeno con Jean.
Ma era come se fosse la palla di neve che cade dalla montagna: dopo di lui anche gli altri si sarebbero schierati con Vato, mostrandogli simpatia? L’idea non gli andava giù: voleva che tutti gli fossero ostili, rendendo palese il suo errore.
“Ha sbagliato! – sbottò, sdraiandosi sul letto – Lui non è il mio miglior amico!”
Annuì con convinzione, ricacciando indietro la prima piccola briciola di dubbio che aveva intaccato il suo cuore.
 
Per Vato baciarsi con Elisa era la cosa più bella del mondo: poterla stringere a sé lo faceva sentire bene come non mai e, in un lontano angolo della sua mente, si chiedeva come aveva fatto a non capire che lei, come sempre, era la medicina migliore contro tutti i suoi mali.
“Mi puoi perdonare per averti trascurata così?” le chiese tra un bacio e l’altro, mentre il sole illuminava il campo di erba alta dove erano andati per ottenere l’intimità desiderata.
“Sarei tentata di tenere il broncio – ammise lei, baciandogli il mento, mentre si sdraiava e lo incitava a fare altrettanto – ma poi mi perderei tutte queste coccole e decisamente non mi va.”
“Sei tutta mia Elisa Meril – sussurrò lui, abbracciandola – di nessun altro, giuramelo.”
“E tu sei solo mio – le mani scesero alla maglietta e si insinuarono sotto di essa – per sempre, Vato Falman.”
Le dita di lei erano bollenti e lasciavano scie di fuoco sulla pelle fresca. Lui iniziò a ricambiare con la stessa moneta, sbottonandole la parte superiore del vestito di lino. Perché era meraviglioso sentirsi così vivi e amati con il sole a baciare entrambi e a rendere perfetti quei momenti.
Il pensiero di Roy era ormai lontano, nascosto da colei che era una certezza insostituibile nella sua vita.
Amica, compagna, amore della mia vita… non potrei mai rinunciare a te.
“Piano – mormorò lei mentre la baciava sul collo e le sue mani scendevano al seno – piano, ti prego.”
“Presto o tardi io e te faremo l’amore – riuscì a dire, sollevandosi a guardarla, perdendosi nei suoi occhi verdi. La sua destra automaticamente superò la parte più stretta del vestito, andando a sfiorare la biancheria della ragazza – lo sai, vero?”
“Sì, ma per favore, non adesso.” si irrigidì lei
La supplica nella voce, l’espressione impaurita, fecero ridestare Vato dal mondo di luce dove era finito. Le sue mani uscirono dal vestito e andarono ad abbracciarla con tenerezza, facendola posare contro il proprio petto. L’odore dei suoi capelli gli penetrava nelle narici, come una droga, ma riuscì a controllarsi e ad emettere alcuni profondi sospiri, anche se il suo corpo stava impazzendo di desiderio.
“Scusami, – mormorò lei accorgendosene – lo volevi fare?”
“Non potrei mai se tu non vuoi, Eli.”
“E’ che ho paura e poi… potrei restare incinta. E allora come faremo?”
“Ci sposiamo, ovvio. Del resto prima o poi… tu vorrai sposarmi, vero?”
“Ovviamente – e si capiva che era sollevata che il momento di passione tra di loro fosse naturalmente scemato, ma era altrettanto convinta di voler stare con lui per sempre – certo che lo voglio.”
“E’ fantastico…” ammise con un sorriso, seguendo il contorno degli zigomi di lei con un dito.
“Cosa?”
“Avere questa certezza. Insomma, non credo nel destino o in cose simili, eppure sono sicuro che noi ci sposeremo davvero. Ed è una sensazione bellissima sapere che ti avrò sempre nella mia vita.”
Lei ridacchiò soddisfatta e si sciolse dal suo abbraccio per girarsi completamente supina, allargando le braccia come una bambina.
“A settembre inizieremo l’ultimo anno di liceo – dichiarò – poi voglio continuare a studiare e diventare una dottoressa. Potrò aiutare le persone e se mai dovesse succedere qualcosa di brutto come quello che è accaduto a Kain, saprò cosa fare. E nel frattempo mi sposerò con te.”
“Io invece voglio… non lo so.” ci fu una sfumatura di sorpresa in quella dichiarazione.
“Non volevi fare il poliziotto come tuo padre?” chiese lei, girandosi a guardarlo.
“Ad essere sinceri ora non ne sono tanto sicuro. Continuo a credere che quello che faccia mio padre sia fantastico, come quando è intervenuto per aiutare Heymans e sua madre, però… i miei libri…”
“E’ difficile prendere delle decisioni, vero?”
“Già, credo che quest’anno dovrò schiarirmi bene le idee.”
“Che ci sposiamo consideralo una certezza, mi raccomando. Per il resto conviene procedere a piccoli passi, chissà, magari viene l’ispirazione quando meno te lo aspetti.”
“Chissà. E nel frattempo – si sollevò a sedere – faccio progetti a breve termine. Stasera voglio provare a parlare con Roy.”
“Gli vuoi rinfacciare quello che provi?”
“No, rinfacciare non è il termine giusto…ma alla fine gli dirò che per me è un amico insostituibile e che se vuole io ci sarò sempre. Sai, parlando con Heymans, stamane, mi sono reso conto dell’importanza dei legami che ho stretto con loro.”
“La verità è che vorresti non creare problemi per la sua festa, vero?”
“Anche questo, lo ammetto. Chissà, io e Roy l’altra volta ci siamo riappacificati in occasione del mio compleanno… magari quello di Heymans ci porterà bene.”
“Lo spero proprio. E dunque questo pomeriggio vuoi affrontare Roy, eh? – sorrise maliziosa – Allora devi essere in forma: avanti alleniamo la respirazione con un bacio.”
E si rituffarono senza indugi nel vortice dell’amore.
 
Quando quel pomeriggio, armato dei migliori propositi, si presentò al locale di Madame Christmas e si diresse alla camera di Roy, Vato rimpianse quei momenti spensierati passati assieme alla sua fidanzata.
Quanto stava per fare non era per niente facile: lui non aveva il carisma di Roy, la sua fantasia nell’organizzare una recita per riappacificarsi. L’unica cosa che poteva fare era parlare con lui sperando di venir ascoltato.
Come allungò la mano per bussare trasse un profondo respiro: aveva pensato tutto quel tempo alle parole da dire, ma aveva cambiato idea così tante volte che ora si trovava in uno stato di confusione totale. Per cui, un raro evento, fu costretto all’improvvisazione.
“Roy – bussò discretamente – sono io.”
Sinceramente non sapeva cosa aspettarsi: mutismo o una nuova aggressione? Nella più ottimistica delle ipotesi una risposta, ma dopo qualche minuto capì che stava pretendendo troppo.
Tuttavia mi deve ascoltare.
Serrò i pugni e si fece forza.
“Capisco che tu non mi voglia aprire – iniziò, sentendosi veramente un’idiota a parlare ad una porta, ma c’era la concreta possibilità che lui stesse ascoltando – però vorrei che sentissi quello che ho da dire. Mi dispiace per come ti ho provocato quella volta, non era assolutamente mia intenzione ferirti in quel modo. E capisco benissimo che tu ci sia rimasto male per la partenza di Maes.”
Nessuna risposta.
Dovette fare un altro profondo respiro perché era giusto dirgli quello che pensava.
“Roy… io non ho mai avuto amici, eccetto Elisa. Non mi interessava, tutto qui: mi bastavano i libri, la mia famiglia, non sentivo la necessità di altri legami e anche quando è arrivato Kain… insomma è fantastico, ma è piccolo, lo sai…”
Era incredibilmente difficile dare voce ai suoi pensieri: gli sembrava di esporsi in una maniera del tutto nuova e violenta. Non era come parlare con Elisa, avere la certezza di essere capiti… qui non c’era nessuna garanzia che Roy avrebbe ricambiato la sua amicizia. E davanti a questa possibilità ripercorrere la loro storia faceva davvero male.
“… e poi all’improvviso mi avete messo in mezzo alle vostre dispute e, senza nemmeno capire come, mi sono ritrovato in camera tua con te che mi dicevi che io ero il primo del tuo gruppo fondato sull’amicizia… diamine, mi sembra passato un secolo da quel giorno.”
Sorrise, ricordandosi di quel pomeriggio così surreale in cui era entrato con timore in quel locale.
“La mia vita era così diversa prima che arrivassi tu. Mi hai spronato con Elisa, mi hai fatto compiere delle follie come la caccia al fantasma… credo di aver ricevuto più punizioni in questi mesi che negli ultimi dieci anni…”
E se tutto quello non bastava c’era anche un’altra questione che per Vato era importantissima.
“Sai, sono anche convinto che i miei genitori… inizino a pensare a te come un secondo figlio. Una cosa del genere dovrebbe dare fastidio, ma io non sono geloso all’idea. So che è improbabile pensarci come membri della stessa famiglia considerate le nostre diversità, però…”
Il fatto di non aver ricevuto ancora nessuna risposta lo fece esitare. Possibile che nemmeno dicendo quelle cose così personali si smuovesse qualcosa? Era dunque così poco che contavano i suoi sentimenti?
Ma devo arrivare sino in fondo… forza Vato.
“E’ che per me sei importante e mi ha dato così fastidio quando c’era Maes e mi hai poco più che presentato. Con tutti gli altri è stato diverso, sembrava che di me ti vergognassi…”
Posò la testa contro la porta, non riuscendo a capire come interpretare quel silenzio.
“Non credi che meriti almeno una risposta?” chiese con esasperazione.
Niente.
Non gli restava che aspettare.
 
Nel medesimo momento, Andrew si passava una mano tra i capelli castani e arrossiva lievemente all’idea di mettere piede in quel locale: gli sembrava in qualche modo di mancare di rispetto ad Ellie anche se, ne era quasi certo, a quell’ora non c’erano avventori e le ragazze non lavoravano.
Ma si era convinto che era il momento giusto per parlare con Roy: Vincent gli aveva raccontato di quel tentativo andato a male e aveva la netta impressione che lui fosse l’unico a poter espugnare la roccaforte di quel ragazzino.
“Vai e torna vincitore, mio prode cavaliere. La tua dama ti aspetta qui nel castello!”
Ellie l’aveva preso leggermente in giro mentre usciva di casa ed effettivamente gli sembrava quasi di andare ad affrontare un drago di cui tutti hanno paura.
Tuttavia questi pensieri eroici finirono come entrò e lanciò una discreta occhiata in giro, nel timore di vedere qualcosa di non previsto.
“Madame Christmas?” chiamò facendosi avanti.
“Guardi che siamo chiusi e la signora non c’è in questo momento – fece una ragazza scendendo dalle scale con una provocante veste che le arrivava appena a metà coscia – la posso aiutare? Non mi pare di averla mai vista qui da noi…”
“Ecco – arrossì Andrew, levando subito lo sguardo da quelle gambe e portandolo sul viso di lei – io sarei qui per vedere…”
“Aspetti, lei è il padre di Kain!”
La ragazza, estremamente giovane, si fece avanti e gli prese le mani con un gran sorriso. Aveva una folta treccia castana che le cadeva sulle spalle ed un viso tenero ed incantevole: assomigliava in modo incredibile ad Ellie. E questo ebbe il potere di spiazzare Andrew per qualche istante, prima che la vocina di Kain, nella sua mente, gli ricordasse un nome.
“Lei è la signorina Lola, vero?”
“Zuccherino le ha parlato di me? Oh, chiamo così suo figlio, è talmente dolce: non si preoccupi, quando è stato qui l’abbiamo trattato benissimo.”
“Non avevo dubbi.”
“Come sta? Povero caro, abbiamo saputo del suo incidente e ogni giorno chiedevo a Roy delle notizie, ma ultimamente quello scorbutico è davvero a corto di parole.”
C’era una sincera preoccupazione negli occhi castani della ragazza e Andrew si trovò a ricambiare quella stretta. Ricordava a sommi capi quello che aveva detto Kain a proposito di un fidanzato che non l’aveva trattata bene e questo gli fece provare immediata simpatia per lei.
Poteva esserci Laura al posto di questa ragazza…
“Sta bene, stia tranquilla – sorrise – Presto guarirà del tutto.”
“Meno male, sono davvero felice. E’ un bambino così speciale, ma vedendo suo padre posso immaginare da chi abbia preso. Sua moglie è davvero fortunata, signore.”
Andrew arrossì davanti a tutti quei complimenti da parte di una prostituta.
“Ecco, sono sicuro che Kain sarà felice di sapere che ha chiesto di lui. Però io sarei venuto qui per parlare con Roy, sarebbe possibile?”
“Il signorino è chiuso in camera sua da ieri e non vuole uscirne... credo che ci stia provando ancora il ragazzo dai capelli bicolore. Ma conoscendo quell’ostinato sta solo sprecando fiato.”
“Vato è qui?” si sorprese l’uomo.
“Sì, è arrivato poco fa, ma come le ho detto probabilmente non otterrà nulla. Vuole salire anche lei?”
Andrew annuì e si fece guidare su per le scale, ignorando volutamente che in quel piano c’erano anche le camere dove quelle donne ricevevano i clienti. Fu quasi con sollievo che capì la funzione del piccolo andito di disimpegno e venne condotto dove stavano le stanze private di Roy e sua zia.
Lola gli fece cenno di proseguire per il corridoio e Andrew capì che doveva andare da solo ad affrontare il leone. Riflettendo ancora sull’età del suo avversario gli venne da sorridere, ma poi sentì la voce di Vato.
“Va bene – stava dicendo – non vuoi rispondermi. Però… fra una settimana c’è il compleanno di Heymans e ovviamente inviterà anche te. Senti, non roviniamogli la festa: io me ne sto da parte, non ti rivolgo la parola e non ti do fastidio, d’accordo? Allora… adesso vado, eh?”
Andrew sospirò nel vedere l’aria desolata del ragazzo nel non ricevere alcuna risposta.
Gli mise una mano sulla spalla, facendogli contemporaneamente cenno di tacere.
Vato scosse il capo, come ad ammettere la pesante sconfitta che aveva appena subito e l’uomo gli arruffò i capelli con gentilezza, facendogli cenno di andare. Come si fu assicurato di essere solo, fece un rapido respiro.
“Ehi, Roy – bussò – come andiamo?”
“Signor Fury? – la voce del ragazzo era sorpresa – Che cosa ci fa lei in questo posto?”
“C’è venuto Kain – alzò le spalle lui con un sorriso – perché non dovrei farlo io? Hai intenzione di aprirmi?”
“No – quasi si immaginò di vedere il viso di Roy che, ripresosi dalla sorpresa, tornava ad essere impassibile – ed è meglio che lei se ne vada, tanto non apro fino a quando non sono sicuro di essere solo. E poi sua moglie si preoccuperà tantissimo per la sua virtù.”
“Oh dai, la signorina Lola non sembrava avere intenzioni particolari con me.”
“Le è andata bene. Comunque se le va di fare la muffa qui fuori faccia pure.”
“Tranquillo, mi metto comodo sul pavimento.” si sedette per terra, posando la schiena contro la porta.
“Può farsi preparare una coperta allora. Beh, io me ne torno a letto.”
“Come si chiama?”
“Chi?” la voce di Roy era ancora vicina, segno che, tutto sommato, era disposto a parlare.
“Il tuo amico che è partito – Andrew usò un tono volutamente noncurante – non ho avuto occasione di conoscerlo, mi dispiace.”
Ci furono diversi secondi di silenzio, tanto che l’uomo si chiese se il pesce avesse abboccato all’amo.
“Maes Hughes.” fu quasi un sussurrò ed Andrew percepì un lieve rumore sul legno della porta.
Si è seduto anche lui…
“Henry Hevans.” mormorò.
“Cosa?”
“Henry Hevans, il nome del mio miglior amico.”
“Lo zio di Heymans?”
“Sì: a settembre sono quindici anni che la guerra l’avrà portato via.”
“Brutta storia, vero?”
“Già, più brutta di quanto tu pensi. Però è stata dura anche prima: quando è andato in Accademia non l’ho quasi visto per due anni e anche dopo andava e tornava con irregolarità. E poi sono partito io per l’Università: un vero e proprio disastro di organizzazione, vero?”
“Immagino…”
“Certo Central è lontana… sapete già quando vi rivedrete?”
Il sospiro fu fin troppo udibile: no, chiaramente non lo sapevano. Erano comunque dei ragazzi legati alla loro famiglia, almeno nel caso di Maes, e alla loro giovane età.
“Sai, Henry era per me un fratello maggiore: quando andò in Accademia io avevo quattordici anni e fu veramente dura. Passare dall’essere inseparabili a non vedersi per mesi è qualcosa che all’inizio ti appare inconcepibile… è come se ti strappassero via un pezzo della tua vita. Guardi il calendario in attesa del suo ritorno e ti accorgi che spesso il tempo sembra tornare indietro invece di andare avanti.”
“Ma poi lui è tornato, dopo l’Accademia intendo.”
“Sì, ammetto che sotto questo punto di vista le nostre storie sono differenti.”
“E’ vero…”
“Che cosa?” chiese Andrew con un sorriso.
“E’ come se ti venisse strappato via un pezzo di vita e ti chiedi come si fa ad andare avanti. Ti dici che è ingiusto, ma allo stesso tempo non ci puoi fare niente e piano piano ti rassegni.”
“Ti rassegni? A me sembra che tu sia andato avanti.”
“Dice?”
“Tu hai stretto delle nuove amicizie, Roy. Questo si chiama andare avanti, no?”
“Ma loro non sono come lui.”
“No, e come potrebbero? Il miglior amico è un qualcuno che resta unico per sempre. Anche ora che Henry non c’è più non potrà mai essere sostituito: il tempo e le esperienze vissute insieme sono uniche anche a distanza di quindici anni.”
“Le è mai sembrato di tradirlo?” la domanda fu lieve, ma ormai Andrew aveva l’orecchio teso.
“Ci ho pensato, ti dirò la verità, ma poi mi sono accorto che lui vorrebbe che io andassi avanti con la mia vita. E scommetto che anche il tuo amico lo desidera, proprio come tu vuoi che lui vada avanti con la sua. Riza, Kain… ti sembra di tradirlo con loro?”
“No, assolutamente.”
“E con Jean ed Heymans?”
“No…”
“Sei intelligente e capisci dove sto arrivando vero? Il problema non sono quelli che ho appena nominato, vero?”
“Ha sentito quello che mi ha detto?”
“Solo l’ultima frase a proposito del compleanno di Heymans e questo dimostra quanto tenga a tutti voi – Andrew si passò una mano tra i capelli – ma ho sentito qualche resoconto della vicenda da parte di Heymans e Riza e ammetterai che sono abbastanza imparziali come osservatori.”
“Mi ha chiesto scusa.” la voce di Roy era tornata lievemente dura.
“Ha fatto il primo passo, eh? E’ strano pensarlo per uno come Vato che in genere deve essere spronato.”
“Devo fargli un applauso? Concedergli il mio perdono solo perché ha preso l’iniziativa? Lui non…”
“Roy, perché l’hai escluso di proposito quando è arrivato Maes?”
Domanda a bruciapelo, quasi a prenderlo in trappola, ma era necessario non farlo sviare dal succo del discorso: doveva rendersi conto dell’errore che aveva commesso lui e del motivo. Il silenzio si fece pesante, ma Andrew era sicuro che Roy era ancora posato alla porta.
“Sai – continuò – ho provato a mettermi nei tuoi panni. Ho immaginato di avere di nuovo quindici anni e di non vedere Henry per tanto tempo… e mi sono immaginato di incontrare, durante quella separazione, James e Vincent. Ora, razionalmente mi sono detto che come tornava Henry li avrei presentati entrambi, ma credo che con Vincent mi sarei comportato diversamente, sai perché?”
“Non può essere il mio miglior amico! – un rumore indicò che Roy si era alzato – E’ Maes il mio miglior amico, capisce?”
“Andiamo Roy, perché non apri questa porta e me lo dici in faccia dove sta il problema? Del resto l’abbiamo capito entrambi, no?”
Con soddisfazione sentì la chiave che girava nella serratura e si alzò in piedi in tempo per vedere il ragazzino pallido, con i capelli arruffati e con maglietta e pantaloncini sbrindellati.
“Accidenti, vieni direttamente dal mondo degli spiriti?”
“Me lo dica lei il problema – sibilò il ragazzo con aria tesa – dato che ha capito tutto.”
“Va bene – annuì Andrew con calma e con la coda dell’occhio notò un movimento dove il corridoio curvava – il problema è che quando hai fatto amicizia con Vato ti ci sei trovato davvero bene, nonostante tutte le vostre differenze. Non può certo arrivare a livello di Maes, ma è la persona con cui hai instaurato un legame più forte, vero? E non mettere in mezzo Riza, sappiamo che è molto diverso.”
“Non poteva pretendere che io diventassi il suo miglior amico.”
“Roy, lui l’ha creduto perché vi siete comportati in maniera molto simile a due migliori amici… l’hai tenuto di poco conto davanti a Maes perché avevi paura che vedesse il nuovo legame che avevi instaurato. Perché un conto è parlare con Jean ed Heymans che, si sa, sono inseparabili e non costituiscono un pericolo per te e Maes, no?”
“Sono totalmente diversi… Vato non è come Maes.” Roy si poggiò alla porta con aria stanca.
“E per questo non vado nemmeno considerato?”
Vato comparve nel corridoio, la faccia profondamente delusa. A quella visione Roy si indurì in volto, ma solo per qualche secondo: la differenza di comportamento c’era stata, era innegabile.
“Scusa – mormorò – in fondo è stata in parte colpa mia. E’ vero non ti ho considerato quando c’era Maes, mi vergognavo…”
“Grazie tante.”
“… mi vergognavo di aver instaurato un legame così forte con te. E non volevo che lui lo capisse perché ci sarebbe potuto restare male… e io mi sarei sentito un traditore. Sei contento adesso, Vato Falman? – si girò a guardarlo con aria profondamente seccata – Se non ci fosse lui saresti tu il mio miglior amico, complimenti.”
“Interessante dichiarazione, Roy – sorrise Andrew, facendo cenno a Vato di avvicinarsi – la domanda è la seguente: ora che sappiamo quello che è successo, vale davvero la pena rompere quest’amicizia?”
Roy squadrò Vato che si era portato davanti a lui: aveva un’espressione così commossa, ma allo stesso tempo timorosa. Era come se avesse di nuovo iniziato, anzi osato sperare. E per far arrivare a simili dimostrazioni di sentimenti uno chiuso come Vato Falman ci voleva un motivo davvero speciale.
E alla luce di questo il moro si pentì.
Sì, il ragionamento che aveva proposto il padre di Kain era corretto: non aveva voluto che Maes si accorgesse di quella forma di tradimento, non voleva che fosse palese il legame che aveva con Vato.
Lanciò una penetrante occhiata all’uomo che aveva passato il braccio attorno alle spalle dell’altro; gli stava sorridendo, come ad incoraggiarlo a fare un passo in avanti.
Dannazione, ma perché tutti quanti non mi lasciano in pace? Mi costringono a vivere la mia vita e mi impediscono di stare da solo con il mio dolore… a volte sarebbe più facile non avere amici.
Ma questi amici c’erano e non poteva rinnegarli, specie quello che stava davanti a lui.
“Non posso essere il tuo miglior amico, scusa.” mise in chiaro.
“Mi accontento del secondo posto, ti va bene? – l’altro sospirò e tese la mano – Sei importante per me, Roy e non importa se hai già un miglior amico.”
“Dannazione a te, Vato. Mi metti sempre in difficoltà.” sbottò, distogliendo lo sguardo, ma accettando quella stretta di mano.
“Vieni a casa?” chiese speranzoso l’altro.
E Roy si accorse che l’idea non gli dispiaceva affatto.
“Tuo padre di che umore è?”
“Ieri era abbastanza nero per colpa tua, ma credo che quando ti vedrà gli passerà tutto.”
Roy annuì e rispose al sorriso.
“Vado a lavarmi che faccio schifo.”
Senza attendere risposta uscì nel corridoio e si avviò verso il bagno.
Come scomparve alla loro vista, Vato fece un enorme sospiro di sollievo e si posò pesantemente contro Andrew. Non gli sembrava vero: in qualche modo aveva recuperato la sua amicizia con Roy.
“Mi scusi se sono rimasto ad ascoltare – mormorò rivolgendosi all’uomo – non è stato bello, ma…”
“E’ stata la cosa migliore che potessi fare – lo consolò lui – sono sicuro che il mio intervento ha solo accelerato il vostro chiarimento.”
“Dice?”
“E’ testardo, certamente, ma sa riconoscere l’importanza dei suoi legami. Quando viene a patti con il suo orgoglio, Roy è uno che ci tiene alle sue amicizie, specie a quella tua.”
“Non mi importa se sono al secondo posto, va bene così.”
“Non parlare di classifiche, non è bello – gli consigliò Andrew – direi che tu sei il suo fratello maggiore acquisito. Magari non è proprio da dirglielo in faccia, ma ho il vago sentore che la realtà sia questa.”
“Se avessi un fratello come Roy a mio padre verrebbero dieci infarti in una volta.”
Andrew scoppiò a ridere e anche Vato si unì a quell’ilarità.
Però iniziava a pensare che le cose fossero davvero in questo modo.

 

 

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Capitolo 59
*** Capitolo 58. Crisi di coppia. ***


Capitolo 58. Crisi di coppia.

 

Per quanto Roy dovesse fare i conti con un ego ed un orgoglio sproporzionati rispetto alla sua età, una volta che capitolava era come se decidesse di cancellare tutto e riniziare daccapo. In realtà non era vero: la sua personalità assimilava la nuova esperienza ed in qualche modo diventava più matura e forte, anche se in apparenza era come se niente l’avesse turbato.
Vincent aveva ben colto questa caratteristica del ragazzo e non fu molto sorpreso quando questi riprese a frequentare casa sua come se niente fosse accaduto. E, intuendo l’atteggiamento giusto da tenere, non fece accenno all’avvenuta riappacificazione.
“Oggi niente Risiko?” chiese qualche pomeriggio dopo mentre i due ragazzi stavano al tavolo del salotto in mezzo a quaderni e libri.
“No, oggi compiti – ammise Vato – ma contiamo di finirli in tempo per andare a fare un giro.”
“Dobbiamo ancora trovare il regalo per Heymans – spiegò Roy – il suo compleanno è tra due giorni e siamo ancora in preda ai dubbi.”
“Troverete la soluzione per tempo.” commentò il capitano, felice di poter arruffare contemporaneamente le due chiome sedute vicino.
I ragazzi annuirono e si misero di buona lena a studiare per poi potersi dedicare a risolvere quel dilemma. Era raro che facessero i compiti assieme, ma chiaramente era un modo per consolidare il loro legame dopo il litigio che avevano avuto: nonostante le differenze caratteriali, molto spesso si intendevano meglio del previsto. E se il moro non poteva avere un altro migliore amico al di fuori di Maes, era arrivato a convincersi che Vato era invece un fratello maggiore che aveva adottato assieme alla sua famiglia. Ovviamente non c’era niente di paragonabile a quello che legava Riza ai Fury, ma Roy era felice di aver trovato quel famoso compromesso per evidenziare il suo stretto legame con Vato senza però tradire quello con Maes.
Quel tranquillo pomeriggio di studio venne tuttavia interrotto dieci minuti dopo da un violento bussare alla porta. I ragazzi lasciarono che fosse Vincent ad aprire, ma subito dopo si trovarono un furentissimo Jean davanti a loro.
“Senti un po’ – esclamò il biondo piantando le mani sul tavolo e squadrando Vato – quando Elisa dimostra di essere una stupida, per non dire altro, che cosa fai?”
“Che? – Vato arrossì – Ma quando mai Elisa… che cosa stai dicendo della mia ragazza?”
“Non sto parlando di lei! – Jean batté un pugno sul tavolo con aria esasperata – Devo capire come funziona tra innamorati, anche se per quella stupida di Rebecca in questo momento provo solo disprezzo!”
“Beh, ecco… non mi è mai capitato di pensare che Elisa…”
“Accidenti a te e al tuo rapporto perfetto! Non mi servi a niente!”
“Si può sapere che cosa è successo?” chiese Roy, mentre anche Vincent si avvicinava con curiosità.
“E’ successo che mi sono appena accorto che la mia ragazza presto non sarà più tale.”
I fatti vennero spiegati ed erano molto semplici: Jean era venuto a sapere che Rebecca non sarebbe andata alla festa di Heymans e ovviamente non l’aveva presa bene. Riteneva che il compleanno del suo migliore amico, il primo che veniva festeggiato, fosse un evento a cui nessuno degli invitati dovesse mancare e questo smacco proprio da parte di Rebecca non se lo aspettava.
“Dice che sua madre non glielo permette, tutte storie! Per un evento simile io me ne fregherei di quanto mi dicono i miei genitori e ci andrei, a costo di scappare di casa!” esclamò con orgoglio, mettendosi la mano sul petto per enfatizzare quella dichiarazione.
“Non credi di esagerare? – gli chiese Vincent con aria contrariata – Non penso che lei sia stata molto felice di quanto le ha imposto sua madre.”
“Quella donna! Non la conosco, ma è una di quelle stupide che parlano male della signora Laura! Col cavolo che io resto fidanzato con una che ha una madre simile.”
“Non mi è mai capitato di avere problemi simili con i genitori di Elisa – ammise Vato – e non credo di poterti aiutare. Ma se vuoi un parere, credo sia troppo drastico lasciarla. Insomma, alla fine stai con lei, mica con i suoi genitori, no?”
Tuttavia Jean da quell’orecchio non era in grado di ascoltare: era ormai troppo coinvolto emotivamente anche con la madre di Heymans per non sentire come un insulto personale il rifiuto di Rebecca.
 
“Mi ha detto che sono una pessima persona, te ne rendi conto? – protestò Rebecca, afferrando Riza per il braccio – Stupido testone! Ho provato a spiegargli mille volte che non è colpa mia, ma niente da fare!”
“E’ la prima volta che ti sento così furente con lui – ammise la bionda, mentre passeggiavano per il paese dato che l’amica aveva bisogno di sbollire – in genere passi sopra qualsiasi suo atteggiamento.”
“Non questa volta! E’ uno zuccone! Invece di essere solidale mi ha attaccato.”
“Jean è fatto così: quando si tratta di Heymans diventa molto suscettibile…” cercò di giustificarlo Riza, anche se poteva capire la delusione dell’amica.
Rebecca aveva un rapporto abbastanza conflittuale con sua madre e spesso ci litigava. In parte tali incomprensioni erano dovute ad una precoce ribellione adolescenziale da parte di lei, ma anche la madre ci metteva del suo con un atteggiamento decisamente insofferente. Riza più di una volta l’aveva definita pettegola, ma col passare del tempo si era resa conto che spesso c’era una bella differenza con la figlia.
Il fatto che le avesse proibito di andare alla festa di Heymans era stato un brutto colpo, ma non del tutto inaspettato: non era un mistero che fosse una delle donne schierate contro Laura.
“Sta con me, mica con lui!” mormorò Rebecca.
“Ma che dici? Suvvia… ovvio che sta con te, Heymans è il suo miglior amico. Sono sicura che dovete solo capire come gestire questa situazione e…”
“Se mi devo sentire insultata, allora lo lascio!”
A quelle parole Riza sgranò gli occhi e guardò interdetta l’amica. Le sembrava una soluzione troppo drastica anche perché, nonostante tutto, riteneva che quei due stessero bene insieme. Dopo le iniziali reticenze di Jean si stavano dimostrando una coppia affiatata e divertente, sebbene fossero ancora molto lontani dall’avere il rapporto stretto di Vato ed Elisa.
“Non mi pare il caso di dire così, vedrai che risolvete. Presumo, del resto, che essere una coppia voglia dire affrontare anche simili situazioni.”
“Senti, ieri ho litigato per l’ennesima volta con mia madre, tutto per colpa di quel testone! Ho cercato in tutti i modi di poter andare a quella festa, possibile che non se ne renda conto? Ma lui, assolutamente no! Dice che non ci tengo abbastanza… certo che ci tengo! E’ il suo miglior amico! Dannazione! Jean Havoc… sei il ragazzo più idiota del mondo!”
Manco a farlo apposta, proprio mentre Rebecca esternava a voce volutamente alta quel pensiero, l’interessato usciva da una strada laterale in tempo per sentire tutto.
“Che cosa sarei?” chiese, mettendosi a braccia conserte.
“Uno zuccone! – Rebecca strinse gli occhi e mollando la presa su Riza si portò davanti al ragazzo – Il più stupido e prepotente zuccone del mondo!”
“Benissimo, sei io sono uno zuccone tu sei soltanto una stupida bamboccia!”
“Come osi!”
Mentre quel battibecco proseguiva, Riza rimase interdetta a guardare: se non fosse stato per l’effettiva tensione tra i due, avrebbe sorriso con indulgenza a quello che sembrava uno dei vecchi scontri verbali. Ma si percepiva la reciproca delusione che aleggiava nella coppia e si sentì in dovere di intervenire.
“Ecco – si fece avanti – non mi pare il caso di litigare!”
“Sì che è il caso! – esplose Rebecca – Sono stanca di farmi insultare da questo deficiente!”
“Sei stanca di me? Ottimo lo sai che ti dico?”
“Te lo dico prima io! E’ finita!”
Quella frase praticamente gridata in faccia ebbe il potere di far indietreggiare Jean, il viso che assumeva un’espressione di dolorosa sorpresa. Durò un secondo a dire il vero e solo l’occhio attento di Riza se ne accorse, ma subito il giovane si riprese e assunse un’aria profondamente seccata.
“Benissimo! E’ una vera e propria liberazione!”
“Benissimo lo dico io! – replicò Rebecca assumendo la medesima espressione – Mi sento già meglio. Addio per sempre Jean Havoc!”
E senza attendere una risposta, né aspettare Riza, girò le spalle al suo ex fidanzato e si diresse verso casa.
La bionda, proprio a metà strada tra i due, si girò a guardarla e poi si rivolse di nuovo verso Jean.
“Che aspetti? – gli chiese – Vai a dirle qualcosa!”
E sembrava che lui fosse tentato di fare qualcosa del genere, ma poi i suoi occhi azzurri divennero gelidi e scosse il capo.
“Ci siamo già detti tutto.”
“No dai…” Riza cercò ancora di fermarlo, ma anche il ragazzo si girò e iniziò una corsa sfrenata fuori dal paese, sicuramente diretto verso casa.
Per due amici che si erano ritrovati, una coppia si era appena sciolta.
 
Ovviamente, trattandosi di una questione di coppia, Riza non se la sentì di confidarsi con Roy. C’erano alcune questioni che lei considerava prettamente femminili e quelli d’amore rientravano assolutamente in questa categoria. Considerato inoltre che la sua migliore amica era una delle parti interessate andò a parlare con l’unica altra ragazza con cui aveva notevole confidenza, ossia Elisa.
Era la prima volta che andava a casa sua e quando entrò nella sua stanza non poté fare a meno di lanciare un’esclamazione di sorpresa per quanto era carina. Non che fosse grandissima, tutt’altro, ma era piena di tanti piccoli elementi che la rendevano deliziosa: i vasi di fiori alla finestra, le tendine di mussola, i cuscini ricamati sopra il letto. Era un ambiente così delicato e accogliente che per qualche secondo Riza si dimenticò del problema per cui era venuta.
Elisa sorrise e prese dalla scrivania una scatoletta azzurra e sedendosi sul letto, accanto all’amica, la aprì per offrirle dei biscotti.
“Fatti stamattina – sorrise – ne tengo sempre in camera: ne vado matta.”
“Grazie – esclamò la biondina, prendendone uno – sei bravissima a cucinare.”
“Stavo pensando di farli per la festa di Heymans: non so cosa regalargli e Vato e Roy sono decisi a comprargli uno di quei giochi da tavolo.”
“Uh, davvero? Io pensavo ad un romanzo d’avventura: facciamo società con doppio regalo?”
“Ottima idea, rendiamo pan per focaccia ai maschi.”
“A proposito di maschi: dobbiamo risolvere un problema, possibilmente prima del compleanno di Heymans. Rebecca e Jean si sono appena lasciati.”
E così raccontò la vicenda, senza tralasciare nessun dettaglio del litigio: forse Elisa, dall’alto del suo rapporto con Vato, avrebbe saputo come fare. Ma la faccia perplessa di lei non prometteva una soluzione.
“Sono ben strani come coppia – ammise alla fine – io e Vato non abbiamo mai avuto litigi simili.”
“Onestamente io li vedo bene assieme, Jean dopo un po’ si è abituato a Rebecca e lei ci tiene davvero tanto. Mi dispiace… lei sarebbe la prima a voler andare alla festa di Heymans, ma sua madre non glielo permetterebbe mai: non è colpa sua, Jean dovrebbe capire.”
“Mh, capire… non è un’offesa, ma Jean mi sembra molto testardo su determinate cose.”
“Vero.” Riza sospirò profondamente.
“Però, suvvia non disperiamo – fece l’altra per consolarla – sono sicura che sbolliranno entrambi. E vedrai che per la festa tutto sarà risolto. Ce l’hanno fatta Vato e Roy ed era veramente difficile considerato quanto era successo, per loro sarà più facile, ci scommetto.”
 
“Facilissimo: ho chiuso con lei!”
A quella dichiarazione da parte del figlio, James sgranò gli occhi e poi si portò una mano alla fronte, scuotendo la testa con rassegnazione.
“Figliolo, io credo che tu debba ancora imparare molte cose su come si gestisce un rapporto.”
“Questo rapporto è finito: hai sentito quando ti ho detto di sua madre?”
“Stai con Rebecca, mica con sua madre. Posso capirti: quel tipo di persona non piace nemmeno a me, ma la ragazza mi sembra completamente diversa e con la testa sulle spalle.”
“No – scosse il capo con cocciutaggine il ragazzo – e poi è stata lei a lasciarmi se proprio vogliamo essere sinceri. Quindi che rimanga pure a bollire nel suo brodo, a me va benissimo stare da solo: mi eviterò un sacco di problemi futuri!”
Mentre batteva il pugno sul tavolo, a sottolineare le sue parole, entrò Angela.
“Che facce che avete – commentò – posso sapere che è successo? C’è qualche punizione in arrivo per questo scalmanato?”
“No – sbottò James – anche se un ceffone per mettergli il sale in zucca glielo darei volentieri.”
“Dovresti darmi ragione, invece! Insomma, perché devo stare con una persona che mi pugnala alle spalle in questo modo? Gliel’ho anche detto! Scappa di casa per quel giorno che ti aiuto io, ma niente da fare.”
“Chi dovrebbe scappare di casa con il tuo aiuto?”
“La sua fidanzata.”
“Ex fidanzata, papà.”
“Rebecca? – si sorprese Angela – Vi siete lasciati? Che hai combinato, Jean Havoc?”
“Sempre colpa mia, vero? – si alzò dal tavolo con aria seccata – Scusate tanto se sono l’unico a preoccuparmi di Heymans e di sua madre. Ma tanto io sono quello scemo, vero? Sono sempre io nel torto e chi se ne importa se la madre di Rebecca è una di quelle streghe che parlano male della signora Laura!”
Ignorando le occhiate dei genitori, salì in camera sua e si buttò nel letto.
Circa quattro mesi insieme a Rebecca e ora tutto era finito.
“Del resto da una che ruba il primo bacio in quel modo che mi dovevo aspettare?”
Si girò prono, dando un forte pugno al cuscino e poi affondandovi il viso: gli dava un enorme fastidio sentirsi tradito. Col tempo si era abituato a lei e la considerava una persona su cui fare affidamento.
Ed era carina: quando rideva il viso le si illuminava in una maniera del tutto particolare. Sotto il sole i suoi capelli neri assumevano riflessi rossicci e le guance diventavano piacevolmente rosate. E poi era divertente, ma allo stesso tempo sapeva essere dolce e premurosa.
Peccato che in realtà si sia dimostrata una stupida!
 
Il giorno dopo Heymans, inconsapevole causa di quella rottura così improvvisa, entrò in cucina e oltre alla madre vi trovò Henry che la aiutava a preparare le varie cibarie per la festa di domani.
“Assaggia – fece Laura, porgendo al figlio un cucchiaio – salsina agrodolce per i crostini.”
Senza pensarci due volte Heymans gustò quel sapore così particolare che gli invadeva la bocca e annuì con soddisfazione: sua madre si stava davvero dando da fare e stava preparando roba per un reggimento.
“Accidenti, eppure la festa è domani pomeriggio.”
“Queste sono le cose che devono riposare la notte – spiegò lei – domani verrà anche Ellie ad aiutarmi con i dolci. E’ lei l’esperta: allora confermiamo la torta al cioccolato con doppio strato di crema?”
“Io la confermo più che volentieri!” sorrise Henry, allungando una mano e mettendo un dito nella terrina con la salsa.
“Buono tu! Più che aiutarmi sei qui per assaggiare tutto, vero?”
“Oh dai, mamma. E’ così piacevole vederti cucinare per qualcosa di speciale: non credo di averti mai visto così affaccendata. Al massimo facevi dei biscotti o una torta piccola.”
“Decisamente è più brava come sarta che come cuoca – strizzò l’occhio Heymans, andando accanto ad Henry e spalleggiandolo – la madre di Kain cucina decisamente meglio. E anche quella di Vato, per non parlare di quella di Jean e…”
“Senti un po’, festeggiato – Laura squadrò i figli con aria estremamente offesa – hai ancora intenzione di criticare chi ti sta preparando una festa di tutto rispetto oppure devo smettere di cucinare?”
“Come sei suscettibile, mamma!” ridacchio Henry.
“E tu, signorino, se vuoi che anche per il tuo compleanno ti conceda di fare una festa a casa, cerca di essere meno critico nei confronti di tua madre.”
Heymans scoppiò a ridere, seguito dal fratello, godendosi quei momenti di gioco familiare.
Anche Laura dopo aver tenuto il broncio per qualche secondo sorrise, unendosi all’ilarità.
“Tranquilla, mamma – disse Heymans – anche se sei più brava con ago e filo piuttosto che con pentole e fornelli, per me resti la migliore di tutti.”
“Fidati che domani resterai sorpreso dal banchetto Heymans Breda. Piuttosto, ci saranno tutti?”
“Mi manca solo chiedere a Rebecca, ma per il resto è tutto confermato – annuì lui – anzi, adesso esco e vedo di trovarla: avevo chiesto e Jean di dirglielo, ma non mi ha fatto sapere nulla.”
Con un ultimo assaggio alla salsa, uscì dalla cucina per avviarsi alla porta. Tuttavia si fermò in salotto per osservarlo con attenzione: in occasione della festa del giorno successivo avevano già spostato tavolo e sedie di lato, lo spazio centrale della stanza lasciato libero. Anche il divano era stato girato verso il centro, in modo che tutti potessero sedersi senza dare le spalle agli altri.
C’era un’aria di festa e aspettativa che in quella casa era sempre mancata: non perché ci fossero festoni o altro a decorare la stanza, ma per altri semplici e freschi tocchi quotidiani. La tovaglia piegata sul tavolo sapeva di fresco e pulito, dalle finestre aperte entrava un bellissimo sole, la credenza era spolverata e vi era un bellissimo sottovaso ricamato a farla da padrone sulla superficie di legno.
E’ come se la casa brillasse di più: per la prima volta la vedo accogliente e niente mi sembra più bello che tornarci dopo una giornata passata fuori. E’ cosi che deve essere… con mia madre e mio fratello che non hanno più paura di ridere, di essere felici. Non c’è più la sua ombra a tarpare loro le ali.
La settimana prossima Henry avrebbe reso la sua testimonianza su quanto era successo e le pratiche per la separazione si sarebbero concluse in maniera definitiva, grazie alla firma del capitano Falman e del notaio.
Sarebbe stata sigillata per sempre tutta quella storia e l’ultimo grande peso sarebbe stato levato dai loro cuori.
E’ solo una formalità, ma sarà una liberazione simbolica. Per il resto ce l’abbiamo già fatta.
E con un’ultima occhiata alla stanza uscì di casa e si mise alla ricerca di Rebecca.
Si incamminò per le vie del paese, certo di trovarla in giro: aveva notato che non era molto casalinga e approfittava di ogni momento libero per uscire, soprattutto con Jean.
Dopo attente considerazioni era arrivato alla conclusione che era la ragazza giusta per il suo scalmanato amico: in qualche strano modo lo teneva a bada, eppure lo ricopriva anche di attenzioni. Sulle prime aveva pensato che la persona ideale per il suo miglior amico fosse una come Elisa, decisamente più tranquilla e matura. Tuttavia quella storia iniziata in maniera così forzata si stava sviluppando meglio del previsto.
E chi si aspettava di vedere quel puledro impazzito finalmente domato? Potere dell’amore e…
“Ehi, Rebecca! – sorrise nel vedere l’oggetto delle sue ricerche – Eccoti qua, volevo parlarti.”
Come lo vide la ragazza esitò e sembrò cercare una via di fuga, ma poi rimase ferma e abbassò lo sguardo a terra quando le si avvicinò.
“Non so se Jean te ne ha parlato – iniziò il rosso – ma domani pomeriggio c’è la mia festa di compleanno e ovviamente sei invitata. Mi hanno dato tutti la conferma e manchi solo tu e… uh, ma che è quella faccia?”
“Niente.” scosse il capo lei.
“Ho detto qualcosa che non va?” chiese preoccupato.
“No – scosse il capo la ragazzina – è che non potrò venire.”
“Hai già altri impegni? Beh, non fa niente se non puoi.” tuttavia sentiva che c’era qualcosa che non andava. Se si fosse trattato di Riza non avrebbe avuto problemi a chiederle che cosa stava succedendo, ma aveva scoperto che per la fidanzata di Jean non era così facile.
“Heymans… la verità è che mia madre non vuole assolutamente che io venga a casa tua.”
“Scusa? Eppure non mi sembra che ci siano problemi se parli con me.”
“No – scosse il capo la ragazza, arrossendo – alla fine su di te sono riuscita a convincerla. E poi vedendoci anche a scuola, insomma si è abituata all’idea che noi siamo amici.”
“E’ per mia madre, vero?” capì il ragazzo incupendosi.
“Già. Sai, lei la considera una poco di buono e mi ha detto che se oso disobbedirle finirò in guai seri e non mi permetterà di uscire di casa per il resto dell’estate.”
“Capisco…”
“Scusami – delle lacrime iniziarono a scendere dagli occhi scuri della ragazzina – io non ho niente contro tua madre e so bene tutto quello che vi è successo. E sei il miglior amico di Jean e sarei stata felicissima di venire al tuo compleanno. Ti giuro che ho cercato di parlarne a mia madre, ma…”
“Ehi – Heymans la prese per le braccia e cercò di consolarla – non sono arrabbiato, sul serio. So benissimo che tu non c’entri niente. Non devi farti problemi se non puoi venire, davvero… stai tranquilla. Se Jean me l’avesse detto subito avrei evitato di metterti in difficoltà e…”
“Io e Jean abbiamo rotto.” confessò lei.
“Che? – si sorprese lui, consolidando la presa sulle sue braccia – Ma quando? Non mi ha detto niente e… oh no, Rebecca. Non mi dire che è per questa storia, ti prego!”
“E’ solo uno stupido zuccone! – scoppiò a singhiozzare, nascondendo il viso sulla spalla del ragazzo – Non ha capito niente… non ha voluto fare nemmeno uno sforzo!”
Heymans sospirò e abbracciò con delicatezza quel corpo scosso dal pianto. Si accorse di voler bene a quella ragazzina e vederla soffrire così gli dava estremamente fastidio.
“Andiamo!” le disse dopo qualche secondo, staccandola da sé e prendendola per mano.
“Dove?” chiese lei, asciugandosi le lacrime con la mano libera.
“A trovare quello zuccone del tuo ragazzo.”
“Non lo è più…”
“Sì che lo è, te lo dico io.”
Mentre trascinava la ragazza con se lungo i sentieri di campagna, il rosso iniziava a ribollire di rabbia. Possibile che Jean potesse essere così imbecille?
“Aspetta un momento!” lo bloccò Rebecca ad un certo punto.
“Cosa?” si girò a guardarla e vide che le lacrime erano sparite ed una smorfia era dipinta sul viso.
“Mi ha trattata malissimo! Mi deve come minimo chiedere scusa!”
“Lo farà, fidati.”
“E poi – proseguì lei, facendosi trascinare di malavoglia – a pensarci bene che ci guadagno a stare con uno come lui? Insomma è veramente testardo e prepotente e non è adatto per una brava ragazza come me. Io sono sicura di meritare di meglio e…”
“Sì, sì, continua pure, ma cammina, mi raccomando.” sospirò Heymans.
Aveva la netta impressione che quella fosse solo la prima di innumerevoli volte in cui avrebbe dovuto risolvere queste crisi d’amore tra il suo miglior amico e Rebecca.
Come arrivarono a casa degli Havoc, vide Jean che stava seduto sotto il grande albero del cortile, intento a sonnecchiare beatamente.
“Svegliati, zuccone!” lo chiamò Heymans facendosi avanti.
“Eh? – lui aprì gli occhi, ma subito tornò vigile come vide a chi si accompagnava – E lei che ci fa qui?”
“Tu e la tua ragazza ora risolvete!” il rosso spintonò Rebecca in avanti e Jean fece in tempo a mettersi in piedi per trovarsela contro il suo petto.
“Non c’è niente da risolvere! – esclamò lei, liberandosi da quella posizione imbarazzante – Ti ho lasciato, hai capito?”
“Solo perché sei stata più veloce: ti stavo per lasciare io.”
“Ma non per la mia festa di compleanno, mi sono spiegato? – si intromise Heymans – Jean, non fa niente se sua madre le ha proibito di venire, chiaro?”
“Come puoi dire una cosa sim…”
“La dico e basta, punto! Se proprio dovete litigare, non mettetemi in mezzo. E adesso vedete di fare pace, io torno in paese.” fece per girarsi e lasciare i due piccioncini a chiarire, quando Rebecca lo afferrò per il braccio.
“Aspetta che abbia diciotto anni e vedi come me ne vado di casa! Io e Jean ci sposeremo e finalmente mi libererò del giogo di mia madre! Ma la mia ribellione parte già da adesso!”
“Non credo che…”
“Avanti! – gli puntò il dito sulla pancia – dimmi i tuoi tramezzini preferiti.”
“Pomodoro, uova ed insalata, ma perc…”
“Ti farò avere un vassoio carico di tramezzini per il giorno del tuo compleanno! E ti preparo anche altro! Io non ci sarò, ma il mio cibo sì!”
“Io credo che tu sia fuori di testa –  ridacchiò Heymans, arruffandole la testa – e sei quella giusta per quello zuccone biondo dietro di te. Capito, Jean? Domani non osarti presentare alla festa se non sei di nuovo fidanzato con lei! Buona serata, ragazzi.”
 
Jean e Rebecca fissarono interdetti il loro amico che si allontanava senza nemmeno girarsi. Solo quando la sua figura sparì lungo il sentiero osarono guardarsi in faccia, ma dopo qualche secondo entrambi misero il broncio e si misero a fissare uno il cielo l’altra il terreno.
“E allora?” chiese Jean dopo qualche minuto, sempre a braccia conserte.
“E allora cosa? – fece lei – Mi ha trascinato qui. Io non volevo proprio venirci.”
“Molto bene, allora se vuoi puoi andare…”
“Certo.”
Rimasero ancora fermi per diversi minuti, belle statuine che attendevano che uno facesse il primo passo. Jean avrebbe voluto farlo, davvero, ma la sua testardaggine glielo impediva e lo stesso valeva per Rebecca, forte della consapevolezza di essere stata trattata male ingiustamente.
“Odio tua madre.” dichiarò Jean alla fine.
“Non si è comportata bene, lo so – ammise lei – non ho niente contro la madre di Heymans.”
“Non la vorrò mai conoscere.”
“Non sei obbligato. E tua madre? Mi odia ora che sa che la mia è fatta così?”
“No, perché dovrebbe…” lui si girò a guardarla per la prima volta.
“Chissà.”
“Heymans vuole che mi rimetta assieme a te, altrimenti non mi posso presentare alla festa.” ricordò lui dopo una decina di secondi, passandosi una mano tra i capelli con aria imbarazzata. Ora che la rabbia era sparita si sentiva incredibilmente a disagio… e stupido.
“Sarebbe un peccato – ammise lei – insomma, già non ci posso andare io, se poi non ci vai nemmeno tu…”
“Sono uno zuccone, scusami.”
“Sei uno scemo – sospirò Rebecca, ma gli permise di abbracciarla – possibile che tu… mi faccia stare così male? Mi hai fatto sentire una persona orribile!”
“Scusami, scusami… sono fatto così, Reby – disse serrandola ancora di più e sentendosi enormemente dispiaciuto – ma lo sai che ci tengo a te. Sei la mia fidanzata e mi piace stare con te, te lo giuro. E’ che ci sono cose che mi feriscono profondamente, ma so che tu non c’entri niente con tua madre.”
“Va bene ti scuso – concesse lei, passandogli le braccia attorno al collo – ma voglio un bacio.”
“Si può fare.” annuì lui, leccandosi le labbra.
“Un bacio da grandi…” lo bloccò.
A quella richiesta di andare oltre i baci a stampo a cui erano ormai abituati, Jean si irrigidì. Non aveva la minima idea di come funzionasse: sapeva che c’entrava la lingua, ma a pensarci la cosa gli faceva leggermente schifo.
Non è proprio bello se un cane ti lecca in faccia.
“Dici che possiamo farlo?”
Lei annuì con convinzione.
“Beh, con i baci non ce la caviamo male! Dai, siamo tornati assieme e sono felice: siamo decisamente più maturi e pronti a una simile cosa, ne sono certa!”
“Va bene… e… sai come si fa?”
“Secondo me ci viene naturale: noi partiamo col solito bacio.”
Con qualche perplessità Jean annuì e posò le labbra su quelle della ragazza, cercando rassicurazione in quell’infantile bacio a stampo che aveva imparato a dare decisamente bene. Dopo una decina di secondi provò ad andare oltre schiudendo le labbra e sentiva che anche lei ricambiava…
Tuttavia…
“Ma che schifo! – si staccò dopo cinque eterni secondi di quella nuova esperienza – è una cosa sbavante e umidiccia!”
“Ma che hai mangiato a merenda? La tua lingua sapeva di amaro!”
“Ho mangiato torta salata… puah! Che schifo, devo assolutamente sciacquarmi la bocca!”
Si diresse verso la pompa del cortile, tallonato da Rebecca. Si mise alla leva e le fece cenno di servirsi per prima. Poi si premurò di sputare per tre volte i suoi sorsi d’acqua prima di bere.
“Come diavolo fanno Vato ed Elisa a fare una cosa così schifosa?” chiese, passandosi un braccio per asciugarsi la bocca.
“Non lo so – rabbrividì lei – è stato così strano…”
“Senti, facciamo che restiamo ai baci normali, va bene?”
“Sì, direi proprio che va benissimo.” disse Rebecca, assumendo un’aria desolata per il fallimento della sua iniziativa.
Jean se ne accorse e cercò di rimediare.
“Bene… allora abbiamo risolto, vero? Ti va di entrare a casa e conoscere bene i miei?” propose.
“Ma questo è un passo verso il fidanzamento ufficiale – esclamò lei, illuminandosi in viso e aggrappandosi al suo braccio – certo che lo voglio, tesoruccio!”
“Non chiamarmi così davanti a mia madre, sia ben chiaro.”
 
E così, il giorno dopo, la festa di compleanno fu un vero e proprio successo.
Eccetto Rebecca, da parte di cui Riza e Jean portarono tre pacchi ricolmi di roba da mangiare, c’erano proprio tutti e l’atmosfera era felice e rilassata.
La presenza di Henry non costituì un problema per nessuno: Kain fu il primo a cercare il dialogo con lui e dopo qualche momento di iniziale imbarazzo con Roy, il secondogenito dei Breda fu ammesso a giocare assieme agli altri.
Per Heymans fu un esperienza bellissima, avrebbe sempre ricordato con estremo piacere quel primo compleanno festeggiato a casa. Ogni istante di quella festa rimase per sempre impresso nella sua memoria: i biscotti preparati da Elisa, le pacche che si scambiavano Roy e Vato, Kain ed Henry che insegnavano a Janet a giocare a biglie, Riza che aiutava Ellie a tagliare la torta, il sorriso di sua madre nell’essere circondata da tutti quegli amici.
Il momento più imbarazzante, ovviamente, fu quando Jean lo trascinò in bagno e gli raccontò della strana e schifosa riappacificazione avuta con Rebecca e anche della grande e pericolosa complicità che era sorta tra lei e sua madre.
“Quelle due mi stanno incastrando, me lo sento!”
Ma il rosso non mancò di notare la sua felicità nell’aver risolto quella prima crisi d’amore con Rebecca.
E questo era l’importante.
 
Come quella notte sua madre venne a salutarlo, dopo aver passato l’ultima ora a rimettere a posto tutte le stoviglie ed il salotto, lui stava finendo di abbottonarsi il pigiama.
“E’ forse la parte del tuo compleanno che mi sta piacendo di più.” sorrise Laura, sedendosi sopra il letto.
“Cioè?” fece lui con curiosità.
“Entrare e vederti felice e soddisfatto del tuo compleanno, senza più lacrime.”
“Non mi devi più lasciare un regalino sotto il cuscino – ammise lui, sedendosi accanto – è un bel passo in avanti, non trovi?”
“Già. Ma anche se non lo trovi la mattina dopo sotto il cuscino, un regalo te lo dovevo fare lo stesso.”
“Oh dai – arrossì – dopo questa festa? Non dovevi!”
“C’è anche lo zampino di Andrew, sappilo, dovevo farmi consigliare: diciamo che è da parte di entrambi.”
Dalla tasca del grembiule tirò fuori un piccolo pacchetto e glielo porse.
Heymans lo prese e lo scartò con emozione. La scatolina era di legno e aveva forma allungata: facendo scattare l’apertura il ragazzo trattenne il fiato.
“Cacchio, mamma, ma questa penna è fantastica…”
“Piano con le parole.”
“Scusa. E’ bellissima, sul serio. Non è come quella di Kain, è diversa.”
“Ovvio, non potevo certo regalartela uguale, no? E anche Andrew è stato d’accordissimo.”
“E’ per le cose importanti – dichiarò Heymans, ricordandosi di quanto gli aveva raccontato Kain – come quelle che ho intenzione di fare in futuro.”
“Tipo?” sorrise lei, accarezzandogli i capelli.
“Ancora non lo so – ammise lui, rigirandosi l’oggetto tra le mani – ma lo scoprirò presto e tu sarai la prima a saperlo, promesso. Per ora mi limito a risolvere i litigi tra Jean e Rebecca, ma in futuro ci sarà molto di più.”
“ Ne sono convinta! Buon compleanno, amore mio.” Laura quasi pianse nell’abbracciarlo.
“Grazie, mamma.”

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Capitolo 60
*** Capitolo 59. Madre. ***


Capitolo 59. Madre.

 
 
La mattina del 2 agosto Riza camminava nel sentiero che portava fuori dal paese, verso il piccolo cimitero, tenendo tra le braccia un mazzo di fiori campestri che aveva raccolto poco prima.
Era l’anniversario della morte di sua madre e, come ogni anno, andava a trovarla e a portare dei fiori alla sua tomba, preoccupandosi di levare le eventuali erbacce che erano cresciute attorno ad essa.
Era di umore un po’ strano e la cosa le dava fastidio: per una simile occasione avrebbe preferito provare maggiore serenità o, al massimo, malinconia e tristezza. Tuttavia quella notte aveva dormito male, tanto che era stata svegliata da Hayate che le leccava il viso, preoccupato per il suo lamentarsi.
Aveva sognato la mattina in cui sua madre era morta: era la prima volta che le capitava in cinque anni.
La cosa era stata così improvvisa che non se ne era resa subito conto: era un periodo in cui la donna stava relativamente meglio, tanto che quella particolare giornata si era alzata dal letto, vestendosi e pettinandosi. Per somma gioia della figlia era persino andata in salotto e si era seduta nella poltrona.
“Che libro stavamo leggendo l’ultima volta, tesoro?”
“Quello delle poesie, mamma: guarda, eravamo arrivate qui.”
Quelle parole risuonarono nella mente della ragazza, così vivide, come se accanto a lei ci fosse una piccola Riza che, col vestitino azzurro cielo, sorrideva felice nel vedere la propria madre che le dava attenzioni.
“… i battiti del bosco, delle foglie e del vento
dove la magia opera sempre a piacimento…”
“…Voleranno le fate, i ricordi ed i pensieri,
 non esisterà un domani, non esisterà un ieri.”
Pronunciò questi ultimi due versi, sovrapponendo la propria voce al ricordo di quella materna. Perché era stata quella poesia l’ultimo suo testamento, l’ultimo momento che aveva passato con lei.
Il tempo di andare a prendere un bicchiere d’acqua per quella giornata afosa e tutto era finito: l’aveva trovata col capo posato sullo schienale della poltrona, gli occhi chiusi come se dormisse, il libro ancora aperto su quella poesia che parlava di un posto incantato e bellissimo dove il tempo non esisteva.
C’erano voluti trenta secondi buoni per capire che non stava dormendo, che i suoi occhi ambrati si erano chiusi per sempre.
“Papà… papà, la mamma non apre più gli occhi!”
L’unica volta in cui non aveva bussato alla porta dello studio di suo padre. L’unica volta in cui lui l’aveva degnata immediatamente d’attenzione, ma nemmeno l’alchimia poteva riportarla in vita. Alla faccia di tutti i suoi studi, Berthold Hawkeye aveva potuto solo tastare il polso della moglie e chinare il capo in segno di resa. E per tutto il tempo lei aveva tenuto quel bicchiere in mano, non riuscendo a metabolizzare che sua madre non avrebbe mai bevuto quell’acqua.
Con quell’ultimo pensiero arrivò al cimitero e oltrepassò l’apertura nel basso muretto di pietre.
Sbirciò attorno, lieta di vedere che non ci fosse nessuno, e poi andò alla tomba di sua madre, chinandosi davanti ad essa.
Elisabeth Hawkeye 4 Aprile 1859  - 2 Agosto 1892.
Con attenzione levò alcuni fili d’erba che si erano infilati nell’incisione della prima lettera. Provvide altresì a levare alcune foglie che stavano li vicino e solo allora depose il mazzo di fiori.
Finita quell’operazione si sedette e portò le ginocchia al petto.
Si mise a pensare a tutti gli avvenimenti che erano successi dall’inizio della scuola, intessendoli come un racconto, come se sua madre fosse seduta davanti a lei e le chiedesse quali erano le novità. L’amicizia con i ragazzi, la festa del primo dicembre, la piena, l’incidente di Kain, il viaggio clandestino ad East City… era come se in quell’anno avesse vissuto più che in quelli precedenti, solo ora se ne rendeva conto.
Ed infine arrivò alla parte più difficile, quella di cui forse si vergognava un po’ e per la quale capiva in parte quanto era successo a Roy con Vato.
Ti dispiace che io le voglia così tanto bene?
Non lo disse a voce alta, ma la domanda aleggiò nella sua anima: cercò di presentare Ellie sotto tutti i migliori punti di vista, come se sua madre fosse davvero lì ad esaminarla. Non come sostituta, assolutamente, ma come una persona che ora le era tremendamente necessaria, così come Andrew e Kain: erano la famiglia di cui aveva bisogno, specie lei era la figura fondamentale senza la quale non sapeva come crescere. Perché si era resa conto che era bello avere un adulto che si preoccupa per te, nonostante i quattordici anni compiuti da poco, con cui potersi confidare in quei dubbi della vita che i tuoi coetanei spesso non possono risolvere.
Ti dispiace che io abbia trovato un padre in lui piuttosto che nel mio?
Ma quello fu un dubbio che la attanagliò per pochi secondi: no, non le dispiaceva affatto, ne era certa. Sua madre non poteva essere felice di vederla legata ad un uomo che non la considerava nemmeno, una persona praticamente estranea che non le aveva mai concesso un abbraccio, nemmeno il giorno del funerale, quando avevano più bisogno l’uno dell’altra.
Ti dispiace che io voglia far parte della loro famiglia?
“Elisabeth…”
Una voce appena dietro di lei la fece sobbalzare. Si affrettò ad alzarsi, pronta a mormorare scusa per quella posizione seduta non proprio consona in un cimitero. Ma come si girò qualsiasi parola le si morì in gola: non conosceva quella persona, quel militare.
Era un uomo di una certa età, sicuramente: dopo il primo momento di panico Riza notò i dritti baffi grigi del medesimo colore dei capelli che ancora stavano attorno alla testa la cui parte alta era calva. Occhi tra l’azzurro ed il violetto la fissavano da dietro piccoli occhiali, come se avessero visto un fantasma.
“Signore?” mormorò la ragazzina, portandosi le mani al petto.
“Le assomigli così tanto – l’uomo allungò la mano e le sfiorò una ciocca di capelli – sei sua figlia…”
“Mi scusi, ma io… non credo di conoscerla – disse con voce insicura, mentre la frase non si parla con gli sconosciuti le rimbombava nella testa – io…”
Era spaventata: avrebbe tanto voluto che Roy si materializzasse all’improvviso e la portasse via da lì. Che qualcuno dei suoi amici venisse a salvarla a scioglierla da quella paralisi che le impediva di correre via.
L’uomo sospirò e, oltrepassandola, si inginocchiò davanti alla lapide e posò una mano sopra il nome inciso.
“Figlia mia – disse con voce flebile – già cinque anni… ed io lo scopro solo adesso.”
Quelle parole sconvolsero Riza.
Figlia mia?
 
Una volta Rebecca, dopo un litigio con sua madre, aveva confidato a Riza di voler correre fino a quando il fiato glielo permetteva per allontanarsi il più possibile da casa sua.
Mentre stava in cortile, con Hayate che le si era accucciato accanto, la ragazzina desiderava poter fare una cosa simile, ma era come se un peso schiacciante fosse stato caricato sulla sua schiena, impedendole di muoversi ed allontanarsi da quanto stava succedendo.
“Riza! Riza!” Roy oltrepassò il cancelletto e corse verso di lei con un gran sorriso.
“Roy !” sussurrò, ringraziando il cielo di averle mandato finalmente qualcuno a cui potersi affidare.
“Non hai idea della novità! – iniziò lui estasiato – Sono arrivati dei militari e…”
Non poté aggiungere altro che l’amica si era aggrappata a lui con disperazione, nascondendo il viso nel suo petto ed emettendo un singhiozzo strozzato.
“Ma che ti succede? – chiese, prendendole le braccia – Sei sconvolta.”
“E’ mio nonno – riuscì a dire lei, alzando gli occhi ambrati e pieni di lacrime – è venuto qui… non… non sapevo nemmeno che esistesse.”
“Cosa?”
“Sì, è un militare. E adesso è dentro e sta parlando con mio padre… saranno più di venti minuti. Roy, io ho paura, tanta! Ma perché i signori Fury sono ad East City proprio in questi giorni?”
“Tornano questo pomeriggio, non ti devi preoccupare – cercò di consolarla lui, mettendole la mano sulla guancia – e poi è tuo nonno, non credo che abbia cattive intenzioni. Insomma, che motivo ci sarebbe?”
“Non lo so, Roy – sospirò – ma dopo quattordici anni, se non di più. Che cosa può volere?”
“Nonno paterno o materno?”
“Materno… Grumman, è questo a quanto pare il cognome di mia madre. Non avevo la minima idea, insomma quell’uomo sembra una persona importante.”
“Il proprietario della locanda ha parlato di un Generale di Brigata – rifletté Roy – accidenti, è un rango davvero alto dell’esercito: due gradi in più di mio padre. Dai, raccontami cosa è successo esattamente.”
Con voce sommessa la ragazzina gli raccontò di quello strano incontro al cimitero, di come poi l’uomo si fosse presentato e le avesse chiesto di condurlo a casa sua. Per tutto il tragitto era stato molto gentile, chiedendole che classe faceva, come andava a scuola, se stava bene…
Ma è un completo estraneo!
Era questo che faceva crollare il mondo di Riza: ormai si era abituata ad avere come legame di sangue solo suo padre. Per il resto il suo concetto di famiglia era spostato verso Ellie, Andrew e Kain e non voleva accettare nessun altro. La venuta di quella persona sconvolgeva quello strano equilibrio che era riuscita a creare con la speranza di poter un giorno far parte realmente dei Fury.
“Roy, ho paura…”
“Ma perché dovresti?”
“Tutti in paese parlano di dissapori tra le famiglie dei miei genitori, sembra che fossero contrari al matrimonio… presumo che mio nonno non abbia un bel rapporto con mio padre.”
“Beh, magari gli vuole chiedere di tua madre – ipotizzò lui – vorrà sapere perché in tutti questi anni…”
“E… e se mi volesse portare via?”
Quella frase appena sussurrata fece dilatare gli occhi neri di Roy.
Le sue mani strinsero ancora più forte le braccia di Riza, quasi ad evidenziare un forte senso di possesso.
“Non lo farà – sibilò, posando la fronte sulla sua – non glielo permetteremo mai.”
La sua emozione per aver visto dei soldati, l’entusiasmo per quella grande novità nella monotona estate del paese… tutto sparì di fronte a quell’eventualità così terribile. Adesso l’unica cosa che contava era accertarsi che Riza restasse.
E’ qui la sua vita, la sua famiglia, i suoi amici… non me la porterete via. Nemmeno se si presentasse il Comandante Supremo in persona lo permetterei.
 
Non c’era nessuna certezza che il militare volesse davvero portare via Riza, dunque Roy ritenne che la cosa migliore fosse attendere l’evolversi degli eventi. Tuttavia non mancò di avvisare i suoi amici, mettendoli in guardia su questa eventualità, in modo da non essere colti totalmente impreparati.
“Dobbiamo andare a parlare subito con mio padre – suggerì Vato, mentre si incamminavano verso il commissariato – sicuramente lui saprà cosa fare.”
“Suvvia, non potrà succedere niente di grave – commentò Heymans, cercando di apparire più calmo di quanto in realtà fosse – Riza sta con suo padre, non c’è alcun pretesto per poterla portare via da lui. Il padre di Kain mi ha spiegato che è quello il legame legale più forte: infatti si porta il cognome del padre, mica quello della madre.”
“Sicuro?” chiese Jean.
“Sì, finché non c’è prova che lui tratti male Riza o le faccia mancare qualcosa, non c’è alcuna motivazione.”
“Sarà anche vero – disse Roy, mentre entravano nell’edificio – ma di quell’uomo non mi fido per niente.”
Ed era vero: non poteva dimenticarsi della pessima impressione che gli aveva fatto quando si era rifiutato di aiutare per la piena del fiume. Il ragazzo non credeva assolutamente che la sua alchimia fosse inutile in quel frangente, si era trattato di puro egoismo e disinteresse. E da parte di una persona simile ci si poteva aspettare qualsiasi cosa.
Del resto potrebbe considerare Riza come un peso e approfittare della situazione per liberarsi di lei.
Come aprì la porta dell’ufficio del capitano, rimase spiazzato nel trovarlo in piedi ad osservare dalla finestra.
“Papà – chiamò Vato – possiamo parlarti?”
Vincent si girò e non sembrò per niente sorpreso della loro presenza.
Si portò davanti al figlio e Roy e mise una mano sulla spalla di ciascuno.
“Si tratta di quei militari, vero? Non voglio disastri, ragazzi, niente mosse azzardate: quella macchina non va toccata e loro vanno lasciati in pace, va bene? Probabilmente sono qui per chiudere finalmente la miniera e…”
“No, non è così! – lo bloccò Roy con aria seccata – il loro superiore è il nonno di Riza e c’è la concreta possibilità che la voglia portare via.”
“Cosa? – il capitano lo squadrò – Raccontami tutto filo e per segno, Roy Mustang.”
 
Nel frattempo la ragazza si trovava in una situazione molto particolare ed in parte rimpiangeva il fatto di aver congedato Roy, dicendogli che se la sarebbe cavata egregiamente. Infatti non pensava che suo nonno, una volta concluso il colloquio con suo padre, chiedesse anche di parlare con lei.
E così si era ritrovata nella cucina della villetta, con quella persona seduta davanti che la fissava con quegli occhi così particolari: un azzurro che sfumava nel violetto. Riza era sicura di non averne mai visto simili.
“Immagino che non sia una mattinata come tutte le altre.” commentò l’uomo, dopo qualche minuto di imbarazzato silenzio.
“Signore…”
“Già, presumo sia difficile per te chiamarmi nonno – sospirò lui – sono un perfetto estraneo.”
“Mi scusi.”
“Non fa niente. Ti confesso che anche per è strano scoprire di avere una nipote di quattordici anni.”
“Non lo sapeva?” Riza alzò gli occhi su di lui. Era sempre stata convinta che i suoi parenti fossero al corrente della sua nascita.
“No, non lo sapevo. Ed è incredibile pensare che tu eri qui, a nemmeno cinque ore di viaggio da East City.”
“Ci sono anche stata – si sorprese Riza – a giugno… eravamo nella stessa città e non lo sapevamo. Allora mia madre abitava lì.”
“Più o meno. A quanto vedo Elisabeth non ti ha raccontato molto della sua vita prima del matrimonio, eh?”
“No, signore – scosse il capo lei – a volte mi descriveva la sua stanza, il grande giardino della sua casa, ma non è mai entrata nei dettagli.”
“Ma guardati – la mano dell’uomo la prese gentilmente per il mento – sei come tua madre alla tua età, se non fosse per i capelli corti.”
La sfumatura di malinconia e rimpianto fu perfettamente percepibile in quell’ultima frase. Riza si chiese cosa mai potesse essere successo tra quella persona, all’apparenza così gentile, e sua madre: di colpo le vennero in mente i nonni di Heymans… forse la loro storia non era dissimile.
“Posso sapere che cosa è successo tra lei e mia madre, signore?” domandò, facendosi coraggio.
Il militare sospirò e si mise a braccia conserte.
“Ma sì, in fondo è giusto che tu conosca la storia. Elisabeth era l’unica figlia che io e la mia adorata moglie avevamo avuto: era sempre stata una bambina esile e fragile tanto che ci trasferimmo in una tenuta poco lontana da East City in modo che la sua salute ne avesse dei giovamenti. Sua madre, tua nonna, la teneva sotto una campana di vetro… a posteriori ammetto che dev’essere stato molto soffocante vivere in quell’eterno bozzolo di protezione. – i suoi occhi si puntarono su Riza – Alla tua età iniziò a mostrare insofferenza per quella vita e così ci convinse a tornare in città: i suoi problemi di salute sembravano risolti e così l’accontentammo, certi che le frequentazioni della buona società l’avrebbero aiutata a superare quel momento difficile. E sembrava che così fosse… poter stare con altre persone la rendeva felice, ma a intervalli irregolari tornava alla tenuta di campagna. Era come se avesse bisogno di isolarsi dal mondo.”
“In fondo la capisco…” mormorò Riza, pensando alla piccola radura di betulle.
“Mia moglie, non riusciva a capire dei simili atteggiamenti e nemmeno io ad essere sinceri. Nostra figlia era una creatura irrequieta e difficile da gestire ed i momenti di tensione erano all’ordine del giorno. Quando aveva diciannove anni tua nonna iniziò a pensare che forse con un buon matrimonio si sarebbero risolti molti problemi: interpretava l’insofferenza di tua madre come esigenza di costruirsi una famiglia propria e così iniziò a presentarla a dei giovani di buona famiglia. Ammetto che pure io feci la mia parte: all’epoca la mia carriera nell’esercito stava avendo delle grosse spinte in avanti e se mia figlia avesse sposato qualche soldato di alto grado ne avrei tratto dei benefici.”
“Come se mia madre fosse un oggetto!” a quella dichiarazione Riza alzò gli occhi ambrati con profondo disgusto: adesso capiva perfettamente perché non le aveva mai parlato della sua famiglia.
“Non ci fu nessun matrimonio combinato – la bloccò lui – mia figlia aveva facoltà di scegliere e decise di respingere tutti, anche quelli che noi ritenevamo perfetti per lei. Alla luce di questo i litigi con tua nonna divennero ancora più violenti: si assomigliavano molto di carattere, sai. E poi, quando aveva circa ventuno anni conobbe tuo padre.”
“Si innamorarono?” chiese lei con sorpresa.
Grumman fece una smorfia a quella domanda.
“Amore, passione, desiderio di scappare… non chiedermi cosa sia passato per la testa di quei due quando si incontrarono. Credo le sia stato presentato da una delle sue amiche in uno dei momenti in cui eravamo in città. Nella famiglia di questa ragazza c’era un’alchimista che spesso raccoglieva intorno a sé altri esponenti di questa scienza. Nemmeno una settimana dopo lei annunciò che lo voleva sposare.”
“Una settimana?”
“Già, una settimana e con un perfetto sconosciuto…”
“E la famiglia di mio padre? – Riza scosse il capo – Tutti qui parlano di dissapori per via del matrimonio.”
“Ci furono infatti: noi non volevamo che nostra figlia sposasse quell’uomo e loro volevano avere a che fare il meno possibile con quel parente così strano e chiuso nei suoi studi. Il risultato concreto fu che nell’arco di pochi mesi tua madre scappò di casa e non lasciò nessuna traccia. Assunsi investigatori, feci delle indagini, ma si erano come volatilizzati.”
“Questa casa è della famiglia Hawkeye – protestò la ragazzina – potevate risalire a loro.”
“No, una simile proprietà non appare tra quelle della famiglia Hawkeye: ci arrivammo solo qualche settimana fa… era stata venduta, ma i nuovi proprietari erano morti poco dopo. Evidentemente solo tuo padre ne era a conoscenza e così portò qui Elisabeth che aveva sposato poco dopo la fuga.”
“E mamma non ha mai cercato… di mettersi in contatto con lei?”
“No – la voce si fece ancora più triste – considerati i litigi è anche normale che non lo fece. Mia moglie morì circa tre anni dopo la sua fuga: era stato un brutto colpo per lei e non si riprese mai. Col passare degli anni persi pure io le speranze, anche se non ho mai smesso di assumere investigatori… e due settimane fa, all’improvviso c’è stata la svolta.”
Riza abbassò il capo con aria pensosa: non le piaceva per niente quella versione così irrequieta di sua madre che le era stata appena presentata. La persona che conosceva era amorevole e premurosa e si era sempre occupata di lei, rendendole la vita felice. E, soprattutto, non riusciva a credere che lei e suo padre si amassero a tal punto da scappare assieme: non coincideva per niente coi suoi ricordi di un legame assente tra i due adulti. Berthold era un estraneo che sua madre considerava poco e niente.
Possibile che volesse solo scappare da quella vita? E che per questo si sia sposata con mio padre?
Qualcosa di umido le toccò la gamba e vide che Hayate la fissava con aria perplessa.
Cercò di sorridere per rassicurarlo, ma non ce la fece: in realtà qualcuno doveva rassicurare lei.
“Posso… – iniziò, cercando di spezzare quel silenzio – posso sapere che vi siete detti lei e mio padre?”
“Abbiamo parlato di tua madre – la voce di Grumman si era indurita – per quanto poco si sia degnato di dire quell’uomo. Non è cambiato affatto nel suo menefreghismo: Elisabeth è stata una sciocca… doveva saperlo che lei sarebbe stata la moglie e l’alchimia l’amante.”
“Le ha detto che si è ammalata?”
“Sì, non ne sono sorpreso del resto: è sempre stata fragile e presumo che la tua nascita l’abbia indebolita parecchio.”
Riza pensò alla foto che aveva nel suo comodino, dove lei era in braccio a sua madre. Più di una volta aveva notato il contrasto tra lei, paffuta e sana, ed il viso scavato della donna.
Come se tutte le sue energie le avesse date a me, lasciandosi solo quelle per trascinarsi avanti negli anni.
“Vi siete detti altro?” chiese ancora per allontanare quei brutti pensieri.
“Non è un buon padre, vero?” Grumman le fece quella domanda a bruciapelo e la ragazzina lo fissò con estrema paura.
No, non era un buon padre. Si parlavano pochissimo e se l’alchimia era l’amante che aveva scalzato sua madre, era anche la figlia che Riza non aveva potuto sostituire. Certo, non l’aveva mai aggredita o le aveva fatto mancare qualcosa…
E’ mancato semplicemente lui… tuttavia…
“E’ preso dai suoi studi, signore.”
Era una giustificazione? No, semplicemente era la verità.
“Capisco – sospirò l’uomo – mi basta vedere le condizioni di questa casa per intuire che razza di vita sei costretta a sopportare.”
“Cosa?”
“Ma tutto questo finirà, stai tranquilla. Ad East City andrà decisamente meglio.”
“East City? Ma signore, io non…”
“Ho chiesto a tuo padre di farti venire con me e lui non ha opposto resistenza. Mi dispiace solo di non essere arrivato in tempo anche per tua madre.”
Ma Riza non sentì quelle ultime frasi: il suo cuore aveva smesso di battere.
Signori Fury, per favore… dove siete?
 
“Kain, dai, siediti e stai calmo!” Ellie ridacchiò e poi abbracciò il bambino che si era appena riseduto accanto a lei.
“Non vedo l’ora di arrivare – dichiarò lui, felice – rimarranno tutti sorpresi, ne sono certo!”
Andrew sorrise nel vedere suo figlio così contento: la visita medica era andata meglio del previsto, tanto che i medici gli avevano levato il tutore con una settimana d’anticipo per sostituirlo con uno a fascia molto meno ingombrante. Anche la stampella era stata del tutto accantonata ed ora Kain poteva camminare con tutta tranquillità. Solo correre gli era ancora proibito, ma ancora per poco tempo: nell’arco di una settimana le sue gambe sarebbero state in grado di fare le prime corse, senza esagerare.
E a settembre resterà solo un segno bianco sulla coscia a ricordare quest’esperienza. Cielo, non mi pare vero, è il più bel miracolo del mondo.
I suoi pensieri si interruppero perché Kain si era di nuovo alzato e si era buttato addosso a lui. Non l’aveva mai visto così sovreccitato: la nuova libertà di movimento lo esaltava come mai era successo e stare fermo per lui era impossibile.
“Buono, giovanotto – ridacchiò, caricandoselo seduto sulle ginocchia – lo so che scalpiti, ma in treno devi fare il bravo. Risparmia le tue energie per quando arriveremo e ci saranno i tuoi amici ad attenderti.”
Lui parve calmarsi a quelle parole e si posò contro il suo petto con estrema soddisfazione. Andrew gli accarezzò la chioma corvina e lo sistemò in una posizione più comoda.
“Credi che a Riza piacerà il regalo che le abbiamo preso?” Kain si rivolse alla madre.
“Ma certo, tesoro. Vedrai le piacerà tantissimo.”
“Mamma, pensi che potrà vivere con noi un giorno?”
Una domanda che Kain non aveva mai fatto così esplicitamente e che lasciò i due adulti senza parole.
“Non è facile come sembra, figliolo – spiegò Andrew – lei ha già un padre, lo sai.”
“Lo so, ma credo che lei voglia te come papà e la mamma come mamma. Ti dispiace tanto come idea?”
“No, non mi dispiace, lo sai – l’uomo sospirò, mentre Ellie abbandonava il suo sedile per andare accanto a loro – e nemmeno alla mamma. E so bene che non dispiace nemmeno a te l’idea di averla come sorella.”
“Perché non la adottiamo? Mi sarebbe sempre piaciuta una sorella!”
Andrew lanciò un’occhiata alla moglie, ma Ellie assorbì il colpo meglio del previsto: Kain non poteva sapere delle conseguenze della sua nascita sul corpo della donna e la sua considerazione era priva di qualsiasi sottinteso. Tuttavia l’uomo capì che la moglie aveva maturato un grande cambiamento negli ultimi mesi: per lei ormai Riza era una figlia e il discorso di dove abitasse era qualcosa che si sarebbe prima o poi risolto.
E lui? Beh, lui adorava quella ragazzina: la riteneva dolce, coraggiosa, responsabile, si rendeva pienamente conto del bisogno d’affetto che aveva. Era arrivata timidamente nemmeno un anno fa eppure era come se facesse parte della famiglia da sempre.
Possiamo davvero permetterci di pensare tutto questo, Ellie? – si chiese, mettendosi a guardare il panorama che preannunciava il loro avvicinarsi al paese – Possiamo davvero sperare di avere quella bambina?
Come, una decina di minuti dopo, arrivarono alla stazione, il bambino li precedette nel scendere dal treno, ansioso di mostrare ai suoi amici le grandi novità.
“Ma come… non sono venuti?”
Come scese dal treno assieme ad Ellie, Andrew guardò la banchina dove stava solo Kain che girava la testa da una parte all’altra con aria smarrita.
“Strano – ammise – eppure ieri al telefono Roy ha detto che sarebbero sicuramente venuti.”
“Siamo partiti in orario, vero papà? Non abbiamo fatto ritardo.”
“No. Oh, dai, stai tranquillo. Avviamoci verso il paese: chissà, magari Roy ne ha combinato una delle sue e tutti gli altri stanno cercando di tirarlo fuori dai guai.”
“Va bene – si rasserenò il bambino – andiamo pure.”
Si diressero verso il paese con Kain che doveva frenare il suo entusiasmo per non cominciare a correre. Più di una volta Ellie lo dovette richiamare all’ordine, tanto che alla fine il bambino si rassegnò a prenderle la mano e a procedere con passo tranquillo.
Come arrivarono in prossimità delle prime case, videro una figura correre verso di loro.
“Elisa!” la riconobbe Kain con un gran sorriso.
La ragazza li raggiunse con il respiro ansante per la corsa.
“Finalmente siete tornati! – esclamò, mentre Kain la abbracciava con gioia – Per favore, dovete venire subito a casa di Vato, è importante.”
“Uh, ma che succede, cara?” chiese Ellie, notando lo sguardo preoccupato.
“E’ arrivato il nonno di Riza – spiegò lei – e pare che la voglia portare via con sé!”
A quelle parole Andrew sentì la mano della moglie afferrargli il braccio con violenza: nemmeno nel mezzo del parto di Kain gli aveva fatto così male. Ma il dolore fisico lasciò subito il posto all’incredulità.
“Dopo quattordici anni?” chiese, mentre si avviavano.
“Riza? – la voce di Kain, carica di terrore, lo fece ridestare – Oh no, papà, non la possono portare via! Tu lo impedirai, vero?”
“Stai calmo – lo rassicurò – adesso andiamo a sentire cosa è successo.”
Ma in cuor suo tremava davanti a quella nuova prospettiva.
E quando, poco dopo, vide l’espressione preoccupata di Vincent, ebbe conferma che la situazione era davvero grave.
 
Tre giorni.
Solo tre giorni.
Riza stava seduta nel suo letto, incapace di reagire davanti alla prospettiva di essere portata ad East City, lontana dai suoi amici e dalle persone che amava.
In cuor suo si rimproverava: stava accettando la cosa con estrema passività e se ne rendeva perfettamente conto. Ma era come se qualcosa fosse stata bloccata dentro di lei, come se qualcuno avesse spento un interruttore, impedendole di reagire.
Si girò a guardare la foto nel comodino.
Perché sta succedendo questo, mamma?
Ti dava davvero così fastidio che io volessi far parte della loro famiglia?
Ma prima che potesse pensare altro, Roy entrò nella sua stanza e la fece alzare.
“Andiamo.” mormorò impassibile, prendenola per mano.
“Dove?” chiese lei.
“Via da questa maledetta casa: sono tornati Kain ed i suoi genitori.”
A quelle parole silenziose lacrime iniziarono a colare sulle sue guance. Un’estrema sensazione di sollievo le percorse tutto il corpo, tanto che non riuscì a proferir parola mentre Roy la conduceva per le strade del paese, fino a casa di Vato.
Ma quando vide Ellie, il silenzioso pianto divenne una vera e propria tempesta.
“Non voglio! – singhiozzò aggrappandosi a lei – Non voglio!”
“Andrà tutto bene – la consolò la donna – stai tranquilla, piccola mia.”
“Non glielo permettere – supplicò a voce bassa – per favore… per favore, mamma…”
L’ultima parola fu un sussurro che sentì solo Ellie.

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Capitolo 61
*** Capitolo 60. Operazione salvataggio. ***


Capitolo 60. Operazione salvataggio.

 

Kain capiva subito quando tra i suoi genitori qualcosa non andava.
In genere non si trattava di fatti importanti: magari sua madre era turbata e non ne aveva ancora parlato o viceversa, ma erano tutte questioni che venivano risolte nell’arco di una giornata. A rifletterci il bambino non aveva mai visto i suoi genitori litigare tra di loro.
Per questo, quando entrarono in camera per dargli la buonanotte, capì immediatamente che c’era qualcosa di sbagliato. Suo padre rimase accanto alla porta, la mano sull’interruttore della luce, e gli rivolse appena un sorriso in risposta al suo saluto. Sua madre gli sistemò il pigiama, assicurandosi che la lieve fasciatura alla gamba fosse in ordine, e poi gli rimboccò il lenzuolo con aria pensosa. Persino il bacio sulla fronte fu dato in maniera molto distratta.
Come la luce fu spenta e la porta chiusa, Kain rimase ad occhi aperti, abituandosi al lievissimo chiarore proveniente da sotto la porta, ed iniziò a riflettere.
Mentre i suoi genitori discutevano con quelli di Vato, Roy e gli altri gli avevano raccontato quanto era successo. Aveva immediatamente capito che la questione era molto grave e aveva altresì ritenuto che fosse necessario che ci pensassero gli adulti. Tuttavia, quando qualche ora dopo era tornato a casa con i suoi, nessuno aveva detto niente. E suo padre era stato molto elusivo nel rispondere alle domande.
“Vedrai che tutto si sistemerà, Kain.”
Ma per la prima volta la voce non gli era sembrata rassicurante e quel silenzio con sua madre la diceva lunga: era dura ammetterlo, ma gli adulti non erano infallibili, nemmeno i suoi genitori.
Ripensò con dolore a Riza: la ragazza l’aveva abbracciato, ma era così sconvolta e prosciugata;  aveva ricambiato quella stretta con tutto se stesso, cercando di darle tutto il sostegno possibile, tutta la forza di cui disponeva.
Però non basta… non è giusto. Perché la devono far piangere così?
I suoi pensieri vennero interrotti dalle voci al piano di sotto. Era strano, ma capì immediatamente di cosa si trattava: i suoi genitori stavano discutendo nello studio di suo padre proprio sotto la sua camera da letto. Tese l’orecchio ma non riuscì a capire molto e dunque, sicuro che stessero parlando di Riza, decise di fare una cosa non da bravo bambino.
Silenziosamente scese dal letto, uscì dalla stanza e, arrivato nel soggiorno, si accostò alla porta semiaperta dello studio per osservare la conversazione.
“Adesso cerca di calmarti, Ellie – disse Andrew, posato di schiena contro la libreria, le mani in tasca e l’aria profondamente stanca – sembri un animale in gabbia.”
La donna continuava a camminare avanti e indietro per la stanza, tormentandosi le mani. A quella frase del marito si fermò e gli lanciò un’occhiataccia.
“Ce la stanno portando via, lo capisci? E tu sei lì fermo a non fare niente.”
“Non dirlo nemmeno per scherzo, ma in questo momento sono con le mani legate. Domani parlo con mio padre e vedo cosa è possibile…”
“Domani? Dovevamo portarla a casa con noi già da stasera: era terrorizzata, non l’hai vista?”
“Ellie, non capisci che dobbiamo essere prudenti? – Andrew si staccò dalla libreria e la prese per le spalle – Una mossa falsa e ci giochiamo Riza: noi non abbiamo alcun diritto legale su di lei, portarla a casa sarebbe quasi un rapimento.”
“E’ già stata da noi.”
“Finché si trattava di suo padre si poteva fare, ma qui stiamo parlando di suo nonno. A lui la bambina interessa e di certo non passerebbe sopra simili iniziative… e quanto ci potrebbero costare, Ellie? Forse le poche possibilità che abbiamo di tenerla.”
“Ti odio… dannazione, Andrew, ti odio. Sto impazzendo di disperazione mentre tu riesci a stare calmo. Perché il mio destino è di restare sempre a guardare con impotenza?”
“Amore mio, ma di che impotenza parli? – Andrew la baciò in fronte – Sei una delle creature più forti e meravigliose del mondo e ne hai dato ampia prova. La mia vita non ha senso senza di te.”
“Andrew, te ne supplico – sospirò lei – non permettere che portino via la nostra bambina.”
“Ellie, ti giuro che farò il possibile, tenterò ogni mossa… ma non ti posso promettere niente. E non guardarmi così, meraviglia, mi sento già un mostro a non poterti dare nessuna certezza… ma sarebbe peggio se ti illudessi per poi fallire.”
“Non possono farlo – Ellie iniziò a piangere, aggrappandosi alla camicia del marito – non possono…”
“Sssh, vita mia, adesso cerca di calmarti. Sei stanca e la cosa migliore è andare a sdraiarci anche noi. Domani sarà una giornata impegnativa… e soprattutto cerchiamo di non spaventare troppo Kain, va bene?”
A quell’ultima frase il bambino abbassò la testa, vergognandosi profondamente di aver ascoltato quella conversazione. Ma subito, mentre risaliva le scale, si rese conto che la situazione era davvero grave e che Riza rischiava di essere portata via senza che i suoi genitori potessero fare qualcosa.
 
Proprio perché sentivano questa incertezza da parte degli adulti, i ragazzi decisero di fare fronte comune contro la minaccia che incombeva sull’amica. La mattina successiva si incontrarono nel cortile della scuola, ormai deserto da quasi due mesi, e fecero il punto della situazione.
“Semplice – disse Roy, mettendosi a braccia conserte – la rapiamo e la teniamo nascosta finché non se ne vanno via.”
“Cosa? – esclamò Vato, impallidendo – E’ un piano che non ha nessuna possibilità di funzionare.”
“Ne hai qualche altro in mente?”
“No, però…”
“Sentite – proseguì il moro, rivolgendosi a tutti – devono stare qui per altri due giorni, oggi compreso: il tempo necessario per risolvere le questioni della vecchia miniera. Poi dovranno andare via: il nonno di Riza è un grado elevato dell’esercito e non si potrà trattenere, i suoi doveri lo richiameranno ad East City.”
“Dici che se ne andrà?” chiese Kain speranzoso.
“Ovviamente, e quando non ci sarà più noi faremo uscire Riza dal nascondiglio ed il gioco è fatto.”
“Mi piace, ci sto!” esclamò Jean con foga.
Ovviamente anche Kain era favorevole a quell’espediente, ma Vato ed Heymans erano molto dubbiosi.
“Roy, questo mi sembra tanto un altro viaggio clandestino ad East City – sospirò il più grande – ti scopriranno e finirai nei guai, lo so.”
“E metteremo nei guai anche i nostri genitori, specie quelli di Kain – aggiunse Heymans – non hai sentito il resoconto della conversazione che hanno avuto? Una mossa sbagliata e perdono anche le poche possibilità che hanno.”
“E dunque devo aspettare che gli adulti se la sbrighino da soli? Quando sembrano rassegnati all’idea di lasciarla andare? – Roy si girò verso il rosso con aria profondamente indispettita – Ti dico una cosa, Heymans Breda, proprio come tu sei riuscito a cacciare via tuo padre, io riuscirò a cacciare via quell’uomo e a tenere Riza qui. Chi mi vuole aiutare è il benvenuto, altrimenti tanti saluti!”
“Io sono con te, Roy – Kain lo afferrò per una manica – stanne certo.”
“Non avevo mai avuto dubbi su di te, gnomo. Adesso dobbiamo pensare ad un posto dove nasconderla.”
 
Nel momento stesso in cui si progettava il suo rapimento, Riza cercava di fare colazione, ma il suo stomaco era troppo chiuso per riuscire a mandare giù qualcosa: si limitava a guardare la sua tazza di latte che, mano a mano, si raffreddava, un primo strato di panna che andava a formarsi sulla superficie.
Aveva dormito pochissimo quella notte, rigirandosi di continuo, pregando che qualcuno venisse a dirle che era solo un brutto sogno. Hayate le era andato vicino e si era lasciato abbracciare, offrendole tutto il conforto possibile, ma in quel momento lei avrebbe voluto che ci fosse Ellie a consolarla. Il giorno prima avrebbe dato chissà cosa per poter tornare a casa assieme a loro.
Sapere che erano di nuovo in paese le dava un minimo di sollievo, tuttavia iniziava a rendersi conto del divario che c’era fra loro e lei: nessun legame di sangue. A lei non importava assolutamente, ma intuiva che per decidere il suo destino era un fattore veramente importante.
Con un sospirò allontanò la tazza da sé.
Avrebbe voluto parlare con suo padre, domandargli…
Non so nemmeno io che cosa vorrei chiedergli.
Del resto, da parte di una persona praticamente estranea che cosa poteva pretendere? Probabilmente da un certo punto di vista stava facendo, per la prima volta, qualcosa per lei. Peccato che fosse qualcosa che Riza non voleva: suo nonno non gli sembrava una cattiva persona, tutt’altro, ma era un completo estraneo ed aveva il timore che andare con lui volesse dire trovarsi nella medesima prigione che aveva tenuto chiusa sua madre per tanto tempo.
Non voglio ridurmi così. Io voglio stare qui… è qui che ho la mia vita, le persone che amo.
“Non glielo permettere, per favore… per favore, mamma…”
Quella frase che aveva detto le rimbalzava nella testa: non si era resa conto di aver chiamato in quel modo la signora Fury. Il solo pensiero la faceva arrossire e vergognare: per quanto fosse chiaro che ormai fosse come una seconda figlia per quelle persone, non era mai arrivata a dirlo esplicitamente.
Hayate iniziò ad abbaiare, distogliendola dai suoi pensieri, e andò verso la porta per uscire in cortile: dalla sua agitazione si capiva che c’era qualcuno che stava arrivando. Qualsiasi visitatore sarebbe stato gradito: i volti amici la aiutavano a sentirsi più protetta e sicura.
“Signora Fury!” esclamò, andando verso la donna che attraversava il cortile.
“Ero così preoccupata – sospirò Ellie abbracciandola – piccola mia, come hai passato la notte? Sei riuscita a dormire un po’?”
“No, e quando mi addormentavo mi svegliavo quasi subito.”
“Hai mangiato qualcosa?”
“Stomaco chiuso.” scosse il capo lei, portandosi una mano alla pancia.
“Capisco. Forza, vieni, ti preparo una camomilla e poi ti metti a letto.”
“Non si deve prendere questo disturbo, sul serio.”
“Andrew è andato a parlare con suo padre – spiegò Ellie, mentre si faceva condurre in cucina – vedrà quello che si può fare per impedire di portarti via. No, decisamente questo latte non va bene, adesso ci penso io.”
Mentre la donna armeggiava ai fornelli, Riza si sedette e iniziò ad osservarla. Solo dopo qualche secondo si rese conto di un importante dettaglio.
“E’ la prima volta che una donna sta qui dopo mia madre.”
A quelle parole Ellie si girò sorridendole.
“Ti dà fastidio?”
“No. Però… ieri mi sono lasciata davvero andare e le vorrei chiedere scusa per…”
“Per quella parola?”
“Non mi dovevo permettere.” sospirò lei.
“Permettere? Perché usi una simile parola? – Ellie le si accostò e le prese il viso tra le mani – Che c’è da vergognarsi se è quello che sono per te?”
“Proprio adesso che mi porteranno via? E’ stata una prigione per mia madre, lo sarà anche per me… non voglio essere un’ammenda per un errore del passato.”
“Faremo di tutto per impedirlo, tesoro, fidati di me.”
Fidarsi, era l’unica cosa che Riza poteva fare. Anche se sapeva che, oggettivamente, c’erano poche possibilità, aveva una fiducia cieca in Ellie ed in suo marito. Quegli adulti l’avevano protetta e accudita durante l’emergenza della piena, ma anche nella vita di tutti i giorni: per un naturale istinto era arrivata a considerarli fondamentali.
Se devo fidarmi… posso farlo con voi due.
Faceva comodo pensarlo e dopo tutto lo stress accumulato fu quasi automatico obbedire docilmente a quanto le diceva Ellie. Bevette la sua camomilla e si fece condurre nella camera da letto. Come una bambina piccola si fece togliere le scarpe e sistemare sotto le coperte.
“Non riesco… – mormorò, impressionata dalla propria fragilità – non… non riesco a reagire.”
“Devi solo stare tranquilla.”
“Lei ce l’ha fatta – lo sguardo degli occhi ambrati si portò verso la foto sul comodino – ma… ma è uscita da una prigione per entrare in un’altra. Non voglio avere il suo stesso destino.”
Ellie prese la foto e la contemplò con aria pensosa per diversi minuti.
“C’è tanta malinconia nel suo sguardo –ammise – ma c’è anche tanta felicità nel tenerti in braccio, da madre posso capirlo benissimo. Non sei stata la sua prigione, Riza.”
“Voglio solo scoprire che è stato un pessimo incubo!” singhiozzò lei.
Rimase a mormorarlo fino a quando non si addormentò, le dita di Ellie che le accarezzavano i capelli in un gesto pieno di conforto. Non si accorse nemmeno di quando la donna si alzò e andò via.
Questa volta il suo sonno fu decisamente più pesante e rilassante, non si rese conto delle ore che passarono. A svegliarla fu una mano che la scuoteva con gentilezza e per qualche secondo pensò che si trattasse di Ellie.
“Ben svegliata, colombina – sorrise Roy – spero che tu abbia riposato davvero bene: sono le quattro di pomeriggio passate. Coraggio, alzati e preparati.”
“Scusa? – fece lei stropicciandosi gli occhi e non realizzando quanto stava succedendo. Vide che c’era anche Jean che armeggiava con la sua tracolla, levando i libri di scuola – ma che… Jean, che fai con la mia roba?”
“I libri non ti servono, ragazzina, mettici piuttosto qualcosa di pesante: a dormire all’aperto potresti avere freddo, anche se porteremo una coperta.”
“Dormire all’aperto? Coperta? – scosse il capo, mentre scendeva dal letto e quasi inciampava in Hayate – Ma che…?”
“Il cane viene con noi?” chiese il biondo.
“Ovviamente –  annuì Roy, poi si rivolse a Riza – ti portiamo al sicuro, colombina. Anche se sembra un rapimento, in realtà è un salvataggio.”
 
 Se Vincent avesse saputo cosa stava combinando Roy avrebbe cercato di fermare quell’ennesima follia.
Tuttavia quel pomeriggio aveva deciso di accompagnare Andrew a casa di suo padre in modo da poter considerare quello che si poteva fare per trattenere Riza in paese. Ma, come aveva presupposto, la situazione non era per niente a loro favore.
Il vecchio notaio scosse il capo con tristezza mentre posava la schiena sulla comoda poltrona del suo studio.
“Mi dispiace, Andy – sospirò – ma c’è ben poco che tu possa fare.”
“Niente?” chiese Andrew con aria incredula.
“La bambina non ha alcun legame di sangue né con te né con Ellie; non c’è nessuna tutela legale che possiate avvallare nei suoi confronti.”
“Trattarla come figlia non basta? Darle l’amore che le serve mentre suo padre nemmeno la considera non conta proprio niente?”
“Calmo, figliolo.”
“Calmo – l’uomo sorrise con amarezza – non ho fatto altro che ripeterlo a mia moglie, ieri sera. Di stare calma, ma adesso scopro che nemmeno io ci riesco… diamine, papà, siamo riusciti a liberare Laura ed i ragazzi da quella bestia di uomo, come possiamo cedere davanti a questo…”
“Andrew – Vincent gli mise una mano sul braccio – quell’uomo, hai detto bene, era una bestia. C’erano tutti i motivi per allontanarlo dal paese. Ma qui la situazione è differente: stiamo parlando del padre e del nonno della bambina… e quell’uomo parla di portarla ad East City e tenerla con sé. Non sta mettendo in pericolo la sua incolumità, lo capisci?”
“Certo, perché Riza è un pupazzo che può essere preso e portato via come meglio si crede? Dannazione, nessuno pensa a quanto ha passato quella bambina? Proprio adesso che sta finalmente godendo un’infanzia felice devono venire a portarla in un posto sconosciuto, dove si sentirà sperduta.”
“Sai bene che non sono queste le cose che la legge considera, per quanto possa apparire ingiusto e insensibile – disse il notaio, alzandosi e andando davanti al figlio – qualunque legale darebbe ragione al nonno di lei, non dimenticare che stiamo parlando di un militare, un grado elevato per giunta.”
“Mi sono informato – annuì Vincent – quell’uomo in breve diventerà molto potente. Ad East City è in piena ascesa e si dice che presto diventerà il Generale del distretto dell’Est. Capisci contro chi stai combattendo, Andrew?”
L’uomo scosse il capo con ostinazione, passandosi poi una mano tra i capelli arruffati.
“Non mi sono arreso… io ed Ellie non ci siamo arresi quando il medico ci ha detto che Kain era destinato a vivere solo poche ore. Il destino ha voluto che Ellie non potesse avere altri figli dopo quel parto disastroso e poi è arrivata Riza: non permetterò che qualcuno porti via a mia moglie la bambina… che la porti via a me!”
Batté un pugno sulla scrivania, mettendoci tutta la rabbia che aveva in corpo.
La scossa di dolore si riversò sul braccio per andare ad esplodere nel cervello.
“Andrew!” lo chiamò Vincent, cercando di calmarlo.
“Scusate – sospirò, tornando lucido – io…”
“Andrew! – Ellie entrò di corsa – Riza è sparita!”
“Sparita? Che cosa?”
“Sì – lei gli afferrò la manica della camicia – l’avevo lasciata addormentata questa mattina ed ora, come sono andata a controllare che stesse bene, non c’è più… e nella sua stanza ci sono i cassetti aperti e diverso disordine che prima non c’era. E manca anche il suo cagnolino.”
“Scappata? – Andrew scosse il capo non riuscendo a credere che la ragazzina facesse una cosa simile – Mi pare assurdo.”
“Dannazione – sbottò Vincent – questo sì che è un problema. Speriamo che suo nonno non se ne accorga.”
“Cerchiamo di ritrovarla – mormorò Andrew, prendendo tra le braccia la moglie che aveva iniziato a singhiozzare – potremmo chiedere ai ragazzi: forse loro conoscono i posti dove potrebbe essere andata e…”
Si bloccò perché vide Vincent fare una strana smorfia.
“O è molto più probabile che i ragazzi siano coinvolti in questa fuga.” dichiarò il capitano.
 
“Dove stiamo andando?” chiese Riza, girandosi a guardare il paese che si faceva sempre più piccolo: non si era mai spinta così lontano nei suoi vagabondaggi e iniziava ad avere paura. L’improvvisata di Jean e Roy non le aveva dato il tempo di obbiettare, ma ora iniziava a preoccuparsi e a capire che gli adulti si sarebbero preoccupati molto per quella fuga. La parte responsabile di lei pensò immediatamente al dispiacere che avrebbe provato la signora Fury nel non trovarla in casa e il cuore le si strinse.
“E’ un vecchio rifugio, dovremmo camminare ancora per parecchio – spiegò Jean, tenendola per mano ed incitandola a camminare – lo conosciamo solo io ed Heymans, fidati che lì non ti troveranno mai.”
“E perché Roy non è venuto con noi?”
“Perché così lo saprò solo io dove stiamo andando, capisci? Meno persone lo sanno meglio è, nemmeno Roy ha voluto che glielo dicessi, tanto chiederanno prima a lui.”
“Jean, siamo sicuri che funzionerà?”
“Insomma! – il biondo si fermò e la prese per le spalle – Vuoi davvero andare con quel vecchio?”
“No! Ma quando mai!”
“Il tuo posto è qui con noi, Riza, lo sai bene. E stiamo facendo di tutto per te, fidati: vedrai che tra qualche giorno quelli andranno via e allora potrai tornare in paese. L’importante è che tu stia nascosta in questi primi momenti: vedrai che gli impegni non tratterranno a lungo quei militari.”
“I tuoi genitori non saranno per niente contenti quando scopriranno quanto state facendo.”
“E allora?” Jean riprese a camminare con noncuranza, sistemandosi meglio la tracolla che stava trasportando.
“E allora? Finirai nei guai; se stasera non rientri a casa…”
“Oh, per un’amica questo e altro – sorrise con sfacciataggine – e non dimentichiamo che sei anche la miglior amica di Reby. E poi ho assaggiato così tante volte la cintura di papà che una in più non fa la differenza. E se è il prezzo per farti restare qui, lo pago più che volentieri.”
“Siete una banda di matti…” rispose al sorriso lei, sentendosi improvvisamente bene.
Chissà perché quel folle piano dei suoi amici la faceva sentire al sicuro.
“Non ne abbiamo mai fatto mistero. Forza, adesso dobbiamo tagliare per questi campi: ci vuole ancora una mezz’ora buona di cammino.”
 
Forse quando aveva progettato il viaggio clandestino ad East City Roy aveva lasciato molto all’improvvisazione. Ma in questo caso aveva calcolato tutte le eventualità, deciso a non correre nessun rischio per la buona riuscita del piano.
Di conseguenza, quando il capitano Falman gli venne incontro per strada e gli ordinò di seguirlo a casa sua non ne fu per niente sorpreso. Così come non fu sorpreso di trovare Vato, Kain ed Heymans seduti nel divano con aria profondamente preoccupata.
“Signori.” salutò, rivolgendosi a tutti gli adulti presenti e andando a sedersi in mezzo ai suoi amici.
“Adesso che ci sei anche tu – iniziò Vincent – e non ho dubbi che sei il promotore di questa idea malsana, vi farò la domanda una sola volta: dove avete portato Riza?”
“Non lo so.” alzò le spalle con noncuranza.
“Idem.” sospirò Vato, lanciando un’occhiata preoccupata al padre.
“Come sopra.” ammise Heymans.
“Nemmeno io lo so – spiegò Kain – non lo sa nessuno di noi.”
“Kain, questo non è un gioco – disse Andrew squadrando con severità il figlio – per favore, ragazzi, non abbiamo tempo da perdere. Dov’è Riza?”
“Non lo sappiamo – ripeté Roy – potete anche punirci, ma è la verità. Nessuno dei presenti lo sa.”
“Nessuno dei presenti… Heymans, dov’è Jean?”
“Non lo so.” il rosso distolse lo sguardo da Andrew e si mise a fissare con ostinazione il pavimento.
“Ti credevo un minimo maturo…”
“E’ il solo modo che abbiamo per difenderla, signore – mormorò il ragazzo – per quanto rischioso o sconsiderato, non ci resta altro. Non permetteremo che la portino via.”
“Ragazzi – Vincent, si mise la mano sulla testa, non riuscendo ad essere davvero arrabbiato davanti a quel disperato tentativo di aiutare la loro amica – stiamo cercando di fare il possibile. Capisco le vostre intenzioni e sono degne di lode, tuttavia…”
“Kain – Ellie interruppe il discorso, per accostarsi al bambino e prenderlo per le braccia – in nome del cielo, capisci che se scoprono che Riza è scappata sarà anche peggio?”
Il bambino abbassò lo sguardo davanti alla madre.
“Vi ho sentiti ieri sera… a te e papà intendo. Non ti ho mai sentito dire che lo odi.”
“Odiare? Oh no, tesoro, se hai sentito bene sai che non è stato detto seriamente e…”
“Non l’hai mai detto nemmeno per scherzo – la interruppe – e sei spaventata e anche lui. Non sapete se potete aiutare Riza…”
“Se non funziona col vostro modo, allora funzionerà col nostro.” dichiarò Roy, passando un braccio attorno alle esili spalle del bambino, come a fornirgli sostegno.
“Riza è con Jean – spiegò Vato – lui la proteggerà e non la lascerà sola.”
“E’ tutto qui?” chiese Rosie.
“Tutto qui.” annuì il ragazzo.
La situazione era davvero di stallo: il piano di Roy era così freddo e spietato che non lasciava alcuna possibilità di compromesso. Nessuno di loro sapeva realmente dove si fossero cacciati i due ragazzi e considerata la vastità dei nascondigli nei dintorni era davvero improbabile trovarli nell’arco di poco tempo.
“Mi complimento con te, Roy Mustang – commentò Vincent, sedendosi al tavolo e mettendosi a braccia conserte – un piano perfetto, degno di un grande stratega. No, non guardarmi con aria offesa, sono sincero: mi ha colpito questa tua intelligenza. Nessuna possibilità di confessione perché i presenti non sanno niente, tu per primo. Vi siete messi nelle mani di Jean, fidandovi ciecamente di lui. L’unica domanda che ti pongo è questa: hai reso partecipi i tuoi amici dei guai a cui potreste andare incontro?”
“Sì, lo sappiamo bene – annuì lui – e siamo disposti a pagarne le conseguenze.”
“Non parlo di me o dei genitori di Kain. Come lo spiegherai a quei militari?”
A quella dichiarazione i ragazzi si scambiarono occhiate cariche di disagio.
“Possono arrestarci?” chiese flebilmente Kain.
“No – scosse il capo con decisione Roy – non possono.”
“E allora che ci possono fare?” chiese ancor il bambino con aria spaventata.
“Non vi faranno niente, Kain – sospirò il capitano alzandosi in piedi – i vostri genitori, ossia noi, faranno in modo che nessuna colpa ricada su di voi. Strano, vero? A volte potersi fidare degli adulti non è sbagliato.”
 
Mentre calava la sera, Jean finiva di sistemare il piccolo rifugio dove lui e Riza avrebbero trascorso i prossimi giorni. La ragazza si guardò attorno: era di una piccola grotticella, profonda nemmeno cinque metri, nascosta così bene tra le colline che non l’aveva vista fino a quando l’amico non l’aveva spinta dentro.
Sedendosi all’ingresso, mentre Hayate le si accoccolava in grembo, la ragazza assaporò la brezza serale e si sentì finalmente libera da tutta l’angoscia che l’aveva logorata fino a qualche ora prima. Davanti a quel panorama, a quella quiete, era impossibile non provare un senso di sollievo.
“Niente male come posto, vero? – sorrise Jean, raggiungendola – l’ho scoperto per caso quando avevo dodici anni e mi divertivo ad esplorare assieme ad Heymans.”
“E’ fantastico – ammise lei – non credo di essere mai stata così vicino alle montagne. Guarda, lassù si vede ancora la parte di parete che si è staccata a febbraio, durante la piena del fiume.”
“Già, sembra passato un secolo, vero?”
“Se ci penso mi fanno ancora male le mani.”
“Hai trasportato almeno trenta sacchi, non te l’ho mai detto, ma stavo tenendo più o meno il conto.”
“Mi sono sembrati mille, è stata la giornata più sconvolgente della mia vita.”
“Ti ho ammirata tanto quel giorno, sai? Sembravi sempre sul punto di cedere, eppure non hai mollato fino all’ultimo. Come aveva detto, Heymans? Abbiamo le stesse mani, no?”
“Già, le stesse mani.”
Con un gesto del tutto spontaneo posò la testa sulla robusta spalla del biondo. Si era dimenticata di quanto potesse essere solida e rassicurante la sua presenza: forte eppure placida come quella campagna.
“Non credo che Rebecca ne sarà gelosa – ridacchiò Jean – ma è meglio che non lo venga a sapere.”
“Credi che si arrabbierà per il fatto che siamo solo in due?”
“Naaah! Lei vuole che stai in paese come tutti quanti, e poi io dormirò fuori dalla grotta.”
“Ma prenderai freddo – protestò lei – e dentro c’è spazio per entrambi. Jean, sul serio, stai già facendo tanto per me…”
“Io nell’angolo sinistro e tu nel destro, sia ben chiaro – arrossì lui – per quanto tu sia una specie di sorella non mi va di averti appiccicata come Janet.”
“Non potrei mai – sorrise lei. E poi dopo una decina di secondi aggiunse – Mi dispiace per i signori Fury: saranno tremendamente in pensiero.”
“Vedrai che a quest’ora sapranno che sei con me e saranno più tranquilli. E sono sicuro che nel frattempo che siamo nascosti troveranno una scappatoia.”
“Lo spero tanto.”
“Vanno benissimo per te, lo sai? E poi credo che al nanetto serva una sorella maggiore… in fondo lo eri già quando lo difendevi da me, a scuola.”
“Povero Kain – sorrise tristemente Riza – doveva essere così felice di essersi levato il tutore e di non aver più bisogno della stampella. E ora è così spaventato per me… non merita tutto questo.”
“Il nano è quello più determinato a difenderti, fidati.”
“Non vedo l’ora che tutto finisca.”
Jean annuì e rimasero per qualche minuto in silenzio
“Sarebbe voluto venire Roy – disse ancora il biondo all’improvviso – ma io conosco la campagna meglio di lui e alla fine ha scelto me.”
“Perché me lo dici?” chiese Riza, girandosi verso di lui.
“Perché credo che sia giusto che tu lo sappia – dichiarò Jean, guardando pensoso l’ombra di un albero poco distante da loro – Coraggio: adesso vediamo di arrangiarci qualcosa da mangiare. Abbiamo saccheggiato la dispensa di casa tua, mi sa.”
Riza sorrise mentre l’amico si alzava e andava a frugare nella borsa.
Sentiva che quella serata estiva era davvero meravigliosa.

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Capitolo 62
*** Capitolo 61. Egoismo. ***


Capitolo 61. Egoismo.

 

La mattina successiva Roy, seduto nel muretto della scuola, guardava il sole alzarsi sempre di più, sperando che il suo piano funzionasse.
Aveva dichiarato davanti a tutti i suoi amici che i soldati sarebbero certamente andati via non appena concluse le pratiche per la vecchia miniera, ma in realtà non aveva nessuna certezza. Per tutta la notte si era rigirato nel letto, sapendo che era solo questione di ore prima che il nonno di Riza scoprisse la sua fuga.
Ma non era spaventato: avrebbe affrontato qualsiasi conseguenza, l’importante era che la ragazza restasse nascosta e al sicuro.
“Proprio non hai idea di dove siano andati, vero?” Rebecca si sedette accanto a lui.
“No – scosse il capo, voltandosi dietro la ragazza che l’aveva raggiunto – ho vietato a Jean di dirmelo: non potevamo correre dei rischi simili.”
“Non siete stati molto carini ad organizzare tutto senza di me – mise il broncio – sono la sua migliore amica del resto. Non è stato bello quando ieri sera Heymans mi ha raccontato che il mio fidanzato è in mezzo alla campagna solo con Riza. Fosse stata un’altra ragazza mi sarei davvero ingelosita.”
“Scusami tanto, ma è stata una cosa fatta molto in fretta e più discreti eravamo meglio era. – sorrise mestamente Roy – Ma sono sicuro che Jean non ti tradirebbe mai.”
“Lo so, non è questo il problema – rimase per qualche secondo in silenzio e poi domandò – Ti da fastidio?”
“Cosa?”
“Che non ci sei tu con lei.”
Roy sospirò e fissò con aria malinconica la campagna che si propagava per chilometri e chilometri verso i monti. Certo che gli dava fastidio non essere con Riza in quel momento: la sera prima si era dovuto trattenere per non seguire i due ragazzi che si allontanavano, per non afferrare la sua mano e tenerla stretta in un gesto teso a rassicurare entrambi.
Ma sapeva anche che tutto il piano si basava sulla sua capacità di resistere ed inoltre, oggettivamente, tra lui e Jean era il biondo quello in grado di trovare il nascondiglio più adeguato.
“So che posso fare di più stando qui.” ammise con una scrollata di spalle.
Lei annuì e, intuendo che l’amico voleva stare da solo, fece per allontanarsi, ma come per ripensamento gli prese la mano.
“Spero con tutto il cuore che il piano funzioni. Riza è la mia migliore amica e averla vista così distrutta è stata una delle cose peggiori che mi potessero capitare. Se hai bisogno di me, per qualsiasi cosa, sai dove trovarmi.”
“Grazie – sorrise, ricambiando la stretta – sapevo di poter contare sul tuo appoggio.”
Mentre la ragazza si allontanava, pensò che simili dimostrazioni di solidarietà non potevano che indicare come stesse facendo la cosa giusta. Tuttavia era difficile stare seduto ad aspettare, che cosa poi? Che i militari andassero via o che qualcuno gli venisse a dire che avevano scoperto tutto quanto e che sarebbero andati a cercare Riza e Jean? C’era una serie di incognite che non sapeva come affrontare e la cosa, con suo sommo disappunto, lo faceva sentire molto insicuro.
Rimase assorto nei suoi pensieri per diverso tempo, tanto che quando Vincent gli posò una mano sulla spalla ebbe un sussulto di sorpresa.
“Che cosa mi dici, piccola vedetta, qualche nemico all’orizzonte?”
“Molto divertente, signore – commentò sarcastico – no, niente all’orizzonte.”
“Ti volevo giusto avvisare che il tuo grande nemico tra una mezz’ora verrà nel mio ufficio per dare tutte le autorizzazioni per sigillare la vecchia miniera, è inutile che lo aspetti qui.”
“Davvero?”
“Sì, quindi stai tranquillo per adesso.”
“Cosa c’è? Ha paura che combini qualcosa di eclatante?”
“L’hai già fatto con il tuo piano – sospirò Vincent, tirandogli lievemente l’orecchio – ma ti confesso che sono estremamente fiero di te, ragazzino. Ti stai prendendo tutte le responsabilità, come quando ieri sera sei voluto andare di persona a parlare con James e a dirgli che fine aveva fatto suo figlio.”
“Credevo che mi ammazzasse – confessò Roy, ricordandosi la faccia per niente felice del signor Havoc – però alla fine ha detto che in fondo Jean sta seguendo i principi che gli ha insegnato. Questo mi fa ben sperare che non sarà troppo severo con lui quando tutto sarà finito.”
“Sono sicuro che non lo sarà.” sorrise il capitano, circondandogli le spalle con affetto.
Per una volta tanto non ci fu una risposta sarcastica a quella dimostrazione di spirito paterno, al contrario Roy si posò contro di lui. Avere la certezza di quella protezione, ora che la parte più difficile della missione si stava avvicinando, lo faceva sentire decisamente meglio.
“Davvero non ci possono fare niente? I soldati intendo…”
“Non sei spavaldo come ieri, eh? – lo prese in giro il capitano, ma poi scosse il capo e gli arruffò i capelli – Tranquillo furfante, siete tutti minorenni e l’unica cosa che possono fare è dire a noi genitori di darvi un buon castigo. Non c’è nessun crimine che pende sulle vostre teste dure e anche se ci fosse farei di tutto per tirarvi fuori dai guai.”
“Contro un generale di brigata dell’esercito?”
“Un capitano di polizia ti appare poca cosa, vero? Lo ammetto, sono suo subordinato, ma qui entra in gioco anche l’essere genitore. Permettimi di dare la precedenza a quest’ultima parte della mia persona.”
“Non so se sia meglio che quell’uomo dia la precedenza al suo essere soldato o al suo essere nonno.”
“Roy, ti posso chiedere l’enorme favore di lasciar gestire la cosa a me e ad Andrew? – chiese Vincent con serietà – Voi avete fatto abbastanza, ma adesso è meglio che siamo noi grandi a trattare con i soldati, va bene? Ho già chiesto a Vato ed Heymans di starsene tranquilli a casa, anche per non preoccupare le loro madri…”
“… io non ho dei genitori da far preoccupare.”
“Rosie lo sarebbe e così pure io, ti basta?”
Il ragazzo abbassò lo sguardo, ma poi lo rialzò sull’uomo quando una mano gentile si posò sulla sua guancia. In fondo gli dava enorme sollievo il fatto che qualche adulto venisse in suo soccorso.
“Va bene, signore.”
“Bravo, ragazzo mio. Dai, adesso torniamo in paese: non è bello stare nel muretto della scuola, fino a settembre questo posto non lo devi proprio frequentare.”
 
Kain sbadigliò e aprì gli occhi con fare assonnato.
Per qualche secondo rimase perplesso non riconoscendo la camera, ma poi si ricordò che lui ed i suoi genitori erano rimasti a dormire dai nonni e quella era la vecchia stanza di suo padre. Si alzò e provvide ad aprire le tende, permettendo alla luce del mattino di illuminare quell’ambiente. Aveva paura, tanta: nonostante tutte le rassicurazioni di Roy, temeva che da un momento all’altro quei soldati partissero alla caccia di Jean e Riza e li trovassero senza troppi sforzi.
Con un sospiro guardò con aria distratta la mensola sopra la scrivania, ormai vuota eccetto qualche vecchio libro di scuola.
“Kain – lo chiamò Andrew, entrando – coraggio, lavati e preparati che l’ora di colazione è già passata. Rischi di trovare tutto freddo.”
“Va bene, papà.” annuì distrattamente, senza tuttavia muoversi.
Andrew si accorse di quel disagio e si accostò al figlio, recuperando gli occhiali dal comodino e mettendoglieli con delicatezza. Solo a quel punto il bambino si girò verso di lui.
“Tu e la mamma siete molto arrabbiati per quello che abbiamo fatto?”
“Ma no – sospirò l’uomo, accarezzandogli i capelli corvini – capisco benissimo il vostro gesto. Tuttavia la situazione è molto difficile, Kain: il vostro piano, nella migliore delle ipotesi, farà guadagnare tempo.”
“E nella peggiore?”
“Suvvia, adesso non ci pensare.”
“E’ stato brutto sentire la mamma così disperata ieri notte, non è mai stata così quando ero malato. Non voglio che succeda mai più e nemmeno a te, papà.”
“Per quanto riguarda me e la mamma non devi preoccuparti. Mi dispiace tantissimo che tu abbia sentito ieri sera. Ma non devi dubitare dell’amore che proviamo uno per l’altra. Succede, sai? A volte i genitori hanno dei momenti di crisi, ma ti assicuro che risolviamo sempre tutto.”
“Anche per Riza. Vero, papà? Me lo prometti che farai il possibile? Tu hai salvato il paese durante la piena – il piccolo si aggrappò alla sua camicia – hai aiutato Heymans e la sua famiglia contro quell’uomo cattivo, hai fatto far pace a Roy e Vato… per favore…”
Andrew lo prese in braccio, consapevole che in quel momento aveva estremo bisogno di essere rassicurato. Purtroppo, come Riza, anche lui era in completa balia degli eventi e cercava un appiglio sicuro a cui aggrapparsi: la piccola discussione che aveva avuto con Ellie la sera prima l’aveva sconvolto più di quanto faceva credere.
“Kain, piccolo mio, io non…”
“Tu puoi fare tutto – mormorò, stringendogli con forza le braccia al collo – puoi perché sei il mio papà… il mio papà.”
“Certo che sono il tuo papà e…”
Non terminò la frase e sgranò gli occhi con lieve sorpresa, il primo barlume di un’intuizione che si faceva largo in lui.
“Papà?”
“Adesso preparati, coraggio – lo incitò con un sorriso, mettendolo a terra. Ma prima di lasciarlo andare gli prese la testa tra le mani e baciò la fronte – Ti ho mai detto che per me sei un’ispirazione, piccolo mio? Assieme a tua madre sei il dono più prezioso che la vita mi ha fatto e me ne dai continue conferme.”
Ma certo, come ho fatto a non pensarci prima?
 
Qualche ora dopo Ellie stava sdraiata nel letto della camera degli ospiti della casa del suocero, il viso nascosto sul cuscino.
Aveva cercato di tenere un’aria serena per buona parte della mattina, soprattutto in presenza di Kain, ma proprio non ce l’aveva fatta a sostenere una simile recita e così, alla prima occasione, si era ritirata dove non c’era nessuno.
Per una volta tanto non aveva cercato la compagnia del marito, il suo rassicurante conforto: sentiva di essere violata nella sua intima essenza di madre e che Andrew non potesse capirla. Portarle via Riza era come dirle che non aveva alcun diritto di avere altri bambini al di fuori di Kain, un nuovo e brutale ritorno alla realtà del suo corpo straziato da quel parto.
Del resto che razza di madre sono se non riesco a proteggerla? – pensò lacrimando copiosamente sul cuscino – Tutto quello che riuscivo a dirle era che sarebbe andato tutto bene. Hanno fatto di più tutti quanti, persino i ragazzi, mentre io rimanevo a guardare con passività.
Era così persa in quel circolo vizioso di dolore e autocommiserazione che non si accorse della porta che veniva aperta con discrezione. Si rese conto che qualcuno era entrato quando sentì il materasso che veniva scosso.
 “Mamma, non piangere…” sussurrò una voce.
La mano fresca e delicata di Kain le accarezzò la guancia umida, asciugando le lacrime, e subito dopo sentì le sue labbra che si posavano sulla sua testa, mentre il piccolo si accoccolava a lei.
 “Pulcino – mormorò, cercando di assumere un’aria più serena – hai bisogno di me?”
“Non è bello che piangi, mamma. Non essere triste.”
“Ma no, amore, la mamma non…”
“Sì che lo sei, non mentire.” mentre diceva quelle parole la abbracciò, offrendole tutto il suo sostegno, proteggendola proprio come avrebbe fatto il padre.
Davanti a quella dimostrazione di affetto Ellie non resse e strinse il figlio con forza, i singhiozzi ancora più forti. Non voleva spaventarlo, ma in quel momento aveva bisogno di stare a stretto contatto con la sua creatura, quella che era riuscita a strappare alla morte, colui che le dava la certezza di essere una madre.
“Sono sicuro che papà risolverà tutto quanto. E che presto Riza potrà uscire dal suo nascondiglio e tornare da noi – dichiarò Kain, con voce soffocata dall’avere il visino sulla spalla di lei – devi fidarti, mamma, ci siamo messi tutti d’impegno per farcela.”
“Oh, pulcino… mio piccolo pulcino, scusa, la mamma non dovrebbe piangere così davanti a te…”
“Ma no, mamma! – disse, baciandola sulla guancia – Stai tranquilla, non è successo niente. A volte capita.”
“Cielo, quanto sei uguale a tuo padre in questo momento – riuscì a sorridere, prendendogli il mento tra le mani – il mio tesoro più prezioso.”
Sì, Kain per molti versi era uguale ad Andrew. Aveva un’incredibile capacità di confortarla, di amarla, di proteggerla: in quelle terribili ore era l’unico che potesse veramente fare qualcosa per lei.
 
Proprio per il grande senso di protezione che aveva nei confronti della madre, Kain sentì una grande rabbia montare nel suo piccolo corpicino: non poteva tollerare di vederla in quello stato, così come non poteva sopportare che la sua famiglia, compresa Riza, stesse soffrendo così tanto.
Fu per questo motivo che, quando uscì di casa poco dopo, aveva preso un’importante decisione.
Corse verso il locale della zia di Roy e fu lieto nel vedere che il suo amico era proprio lì, seduto nei gradini.
“Ehi, gnometto – lo salutò il moro – ci sono novità?”
“No, che io sappia niente si muove. Dove sono Vato ed Heymans?”
“Ciascuno a casa loro – sospirò – Meglio così, preferisco che vengano coinvolti il meno possibile. E anche tu dovresti andare a casa e stare accanto a tua madre. Non ti preoccupare, ho deciso di andare a parlare con quel militare e…”
“Roy, pure io voglio andare a parlare con lui!” esclamò Kain, bloccandolo.
“Cosa?”
“Hai capito bene – annuì con serietà – basta con queste storie: vado a dirgli le cose come stanno.”
“Che cosa vorresti dirgli?” chiese il grande, alzandosi in piedi.
“Che ci siamo io e la mia famiglia che pensiamo a Riza e ho deciso di farlo adesso, con te o da solo. Questa storia sta facendo piangere la mia mamma e ha fatto piangere anche Riza… e pure me! Dovrà ascoltare le mie ragioni, anche se ho solo undici anni; mi accompagni?”
Rimase a guardare Roy che lo fissava con aria interdetta per dieci buoni secondi, probabilmente sorpreso di vedere quella sua versione così decisa e sicura. Ma poi il ragazzo sorrise e si alzò in piedi.
“Andiamo – lo prese per mano – è arrivato il momento di farci valere, gnometto!”
 
Mentre i due ragazzi si incamminavano verso la roccaforte nemica, Riza si dirigeva verso il paese, seguita da un dubbioso Jean.
“Dammi retta, Riza! – protestò per la centesima volta il biondo – Restiamo nascosti, è meglio!”
Ma lei scosse il capo con decisione, proseguendo con passo svelto, mentre Hayate apriva la strada.
“No, adesso basta. Sono stanca di vedere che tutti si danno da fare, mentre io rimango passiva ad accettare gli eventi. Voglio andare da mio nonno e dirgli che non voglio andare con lui.”
Ci aveva riflettuto tutta la notte mentre il suo compagno dormiva profondamente. Stare lontano dal paese le aveva fatto trovare la forza di reagire: era tutto così chiaro, del resto. Lei non aveva nessuna intenzione di andare a vivere con quello che, a conti fatti, era uno sconosciuto. La vita era stata dura con lei e finalmente aveva trovato la serenità che voleva: non avrebbe permesso che gliela portassero via così facilmente.
“Quello potrebbe non ascoltarti, capisci? – continuò Jean – E allora come faremo? Ti porterà via e noi…”
“Se voleva bene a mia madre allora deve capire le mie ragioni. Se dice di volere il mio bene allora mi deve lasciare qui. Non può essere così egoista.”
“E supponiamo che non lo faccia – scosse il capo l’altro, prendendola per un braccio e costringendola a fermarsi – come potremo difenderti se ti prende con la forza?”
“Se mi porta via allora lo odierò con tutta me stessa per i quattro anni che mi restano per diventare maggiorenne: non scapperò, ma non gli rivolgerò mai la parola. E appena avrò diciotto anni andrò via e tornerò qui… glielo dirò chiaro e tondo.”
“E pensi che cederà a questa minaccia? Non credo che…”
“No – scosse il capo lei con determinazione – io gli devo parlare. Jean, sul serio, sei stato fantastico a portarmi in quel rifugio e farò di tutto perché tu non subisca alcuna punizione. Ma ti giuro, non ho più intenzione di scappare o di subire tutto questo. Io ce l’ho una famiglia che mi vuole… e loro stanno lottando per me.”
Tornò a guardare l’amico, gli occhi castani determinati come era successo poche volte. E Jean vi riconobbe la stessa decisione che li aveva illuminati durante la piena quando, a costo di distruggersi fisicamente, lei aveva preteso di dare il suo contributo. E così capitolò.
“Femmine! Quando volete siete davvero testarde!”
 
Andrew arrivò davanti alla villetta degli Hawkeye e fece un profondo respiro, raccogliendo tutte le energie necessarie per affrontare quell’uomo. Poi oltrepassò il cancelletto e giunto alla porta entrò senza nemmeno preoccuparsi di bussare: negli ultimi giorni quella casa era stata un vero e proprio porto di mare, eppure Berthold Hawkeye non si era degnato di uscire dal suo studio nemmeno una volta.
Gli altri esseri umani ti danno proprio fastidio, eh? Ma qui c’è in gioco il destino di tua figlia, mi dovrai ascoltare volente o nolente.
La frase di Kain gli aveva dato la giusta ispirazione: era Berthold colui che aveva ogni diritto legale sulla bambina. Era lui e non il nonno la chiave di volta di tutta la situazione.
Arrivò davanti allo studio e strinse con forza i fogli che teneva in mano poi, dopo un secondo d’indecisione, entrò.
Quella stanza gli fece la medesima impressione che gli aveva fatto immediatamente dopo la piena, quando era andato a rassicurare l’uomo sulle condizioni di salute della figlia. Una bolla senza tempo, totalmente isolata dal resto del mondo, dove quell’eremita si crogiolava nei suoi studi ignorando e venendo ignorato.
“Signor Hawkeye…” iniziò portandosi davanti alla scrivania dove l’uomo stava chino su un grosso volume.
Gli occhi azzurri e febbrili si sollevarono leggermente su di lui, ma poi tornarono su quelle parole, il dito che si puntava su una parola ben precisa.
Andrew non poté fare a meno di osservare quella pagina ingiallita: era così diversa da un libro di ingegneria o architettura. Era come se quei caratteri, quelle figure, fossero febbrili e brucianti come chi le stava leggendo, sembravano un veleno pronto a penetrare nella pelle e consumare l’anima.
“Ci siamo già visti un’altra volta, dopo la piena – proseguì non ottenendo risposta – mi sono preso cura di sua figlia, assieme alla mia famiglia.”
Ancora nessun cenno di ascolto, ma una piccola parte di Andrew capì che doveva continuare a parlare.
“Signore, io non so che genere di legame avesse con la madre di Riza, né quali sono le motivazioni che hanno portato a quello che, a quanto ho capito, non è stato un matrimonio felice. Sua moglie è morta e ora resta la bambina e da quanto ne so con lei ha tutto meno che un rapporto.”
Sì, ti sto dicendo che sei un pessimo padre e se non fossi così educato ti riempirei di insulti per quello che hai fatto passare a quella povera creatura.
Ma non aveva margini d’errore per lasciarsi andare a queste indulgenze.
“Tuttavia… lei è il tutore legale di Riza: è sua figlia, sangue del suo sangue e per la legge ha tutti i diritti su di lei. So che suo nonno la vuole portare via ad East City e so che lei gli ha dato il suo consenso… le chiedo solo una cosa, mi risponda sinceramente: ha firmato qualcosa? Uno straccio di documento con cui rinuncia ai suoi diritti su Riza?”
Finalmente ebbe la soddisfazione di vedere l’uomo alzare il viso su di lui.
Faceva paura quello sguardo bruciante e, allo stesso tempo consumato dall’alchimia: Andrew pensò con pietà a quella bambina che per anni si era trovata a convivere con una simile persona.
Come hai fatto a vendere la tua anima in questo modo? Come è possibile essere malati in maniera così perversa della propria materia?
Ma lui di sentimenti perversi ne aveva già visti: Gregor con il suo malato possesso della sua famiglia ne era un chiaro esempio. Qui cambiava solo il soggetto ed il modo di esprimere questa malsana mania.
“Che vuole da me? – chiese Berthold – Avanti, lo dica.”
“Voglio la custodia legale della bambina – dichiarò Andrew puntando i suoi occhi castani su quelli azzurri, in segno di sfida – voglio che Riza venga a stare a casa mia, dove io e la mia famiglia ci prenderemo cura di lei come merita.”
“Suo nonno…”
“Suo nonno la porterà ad East City – lo bloccò – non so se se ne è mai reso conto, signore, ma sua figlia qui ha una vita, degli amici, delle persone che ama. E’ una crudeltà bella e buona mandarla in un posto che le è completamente estraneo, con una persona che non conosce nemmeno. Probabilmente suo nonno ha le intenzioni migliori, non ho motivo di dubitarne, ma Riza ne subirebbe un trauma e…”
“Perché invece non parla da egoista? Del resto tutti gli esseri umani lo sono.” quella richiesta giunse come uno schiaffo ed un lieve sogghigno apparve nel viso dell’uomo. Andrew esitò: perché parlava di egoismo? A che trappola lo stava conducendo? Ma poi scosse il capo.
“Devo parlare da egoista? Va bene lo farò: voglio che Riza diventi legalmente mia figlia… lo voglio perché traggo piacere dall’averla a casa mia, assieme alla mia famiglia. Perché sono uno sporco egoista e voglio essere io il fautore della sua felicità… le piace come risposta? Siamo tutti egoisti se rigiriamo le cose, ma se dal mio egoismo Riza ne trae giovamento, allora sono felice di essere la persona più egoista del mondo.”
“No, non ho firmato niente al nonno di Riza.”
Fu questa la risposta che gli diede, quasi una ricompensa a quella forma di sincerità a cui aveva appena assistito. Ma ad Andrew questo non importava: sentì solo che un grande peso gli veniva levato dal cuore.
“Allora firmi questi fogli – mormorò, mettendo le carte sopra la pagina del libro – se vuole li può anche leggere, ma suppongo che sia impaziente di tornare alla sua alchimia. Mio padre è notaio e questo è un documento con il quale lei, padre naturale ed ufficiale, rinuncia a qualsiasi diritto su Riza in mio favore. La bambina passa sotto la mia tutela e quella di mia moglie: non prende il mio cognome, perché so che Riza non vorrebbe mai rinunciare al suo, ma per qualsiasi altra cosa provvederò io a lei.”
“Veramente egoista…”
“Sì, è un documento veramente egoista, lo ammetto. Ed egoisticamente io le chiedo di fare il primo vero gesto da padre responsabile nei confronti di sua figlia… firmi.
Disse quell’ultima parola con estrema decisione, non gli andava di supplicare quell’uomo. Era convinto di essere nel giusto e che per un’unica volta nella sua vita Berthold Hawkeye dovesse cedere di fronte al bene di Riza.
E come la penna si mosse, mettendo la fatidica firma, Andrew si sentì l’egoista più felice del mondo.
 
Kain non aveva mai affrontato nessuno: aveva un’indole troppo pacifica per pensare a simili cose anche quando si trattava di persone che lo tormentavano, come era successo tante volte a scuola.
Ma sembrava che ci fossero delle eccezioni alla regola.
E così, si trovò a puntare i suoi timidi ma determinati occhi scuri su quell’uomo vestito con la divisa militare che stava seduto nella sua stanza della locanda e lo fissava con aria che si poteva definire divertita. A dire il vero i due ragazzi non avevano immaginato di poter avvicinare così facilmente quel personaggio, invece erano stati invitati ad accompagnarlo al piano di sopra.
Tuttavia avevano rifiutato il suo invito a sedersi: non potevano dimenticare che era il loro avversario.
In particolare Kain era deciso a portare avanti la sua causa, anche se Roy non fosse stato presente.
“E così mia nipote sarebbe tua sorella?” l’uomo lo squadrò con un sorriso.
“Sì! E non importa se non siamo davvero parenti – esclamò Kain – Lei fa parte della mia famiglia e io non voglio che la porti via!”
“Non ho mai avuto il piacere di conoscere i tuoi genitori, piccolino.”
“Se vuole glieli presento e si renderà conto che sono i genitori perfetti per me e Riza! I nonni dovrebbero essere buoni e portare gioia ai propri nipoti, ma Riza ha pianto tanto in questi giorni… lei vuole restare qui, con me e la mia famiglia.”
A quella dichiarazione, Grumman si alzò dalla sedia. Kain indietreggiò d’istinto, afferrando il braccio di Roy, ma l’uomo non aveva intenzione di andare verso di loro: si diresse invece alla finestra, le mani dietro la schiena.
“Vuole restare qui, eh?”
“L’abbiamo fatta nascondere nelle campagne – spiegò il ragazzo grande – non capisce? Riza vive qui, è qui che ha la sua famiglia…portandola via in questo modo lei dimostra solo di essere un egoista!”
“Egoista, dici? Forse anche voi siete egoisti: volete tenerla qui, eppure lei non ha mai detto niente in merito…”
“Sono sicuro che…”
“Però glielo potremmo chiedere di persona: sta per entrare nella locanda.”
A quelle parole, dette con un sorriso che aleggiava sulle labbra, Kain e Roy rimasero interdetti, ma dopo nemmeno un minuto qualcuno bussò alla porta. Obbedendo ad un cenno dell’uomo, uno dei soldati della scorta aprì e Riza fece il suo ingresso, seguita da un preoccupatissimo Jean.
“Riza? – Roy la prese tra le braccia – Ma che diamine ci fai qui?”
“Le avevo detto di restare nascosta – si scusò Jean – ma lei… ecco, Roy, forse non ha tutti i torti nel voler essere qui.”
“Nonno – Riza si divincolò dalla presa di Roy e si portò avanti, fino a pochi passi dal soldato – mi dispiace di non avertelo detto prima, ma io non posso… non posso accettare di venire con te ad East City.”
“Ah no?” chiese con gentilezza l’uomo.
“Ecco io… – la ragazzina si portò le mani al petto, quasi a proteggersi – sono sicura delle tue buone intenzioni e… e sono felice di aver saputo che tu ci sei e che tieni a me, sul serio. Ma vedi, io qui ho trovato una famiglia fantastica che mi vuole bene.”
“Sta parlando della mia famiglia! – dichiarò Kain, andandole accanto e abbracciandola – Adesso capisce perché le dicevo che è mia sorella?”
“Ti prego, nonno, se tu li volessi incontrare… sono delle persone meravigliose.”
“Generale di brigata – una voce interruppe la supplica di Riza ed Andrew entrò nella stanza – mi scusi se vengo senza preavviso, ma sono… Riza? Kain? Ragazzi, ma…”
“Papà!” il bambino corse subito verso l’uomo, aggrappandosi alla sua gamba e dopo una frazione di secondo anche Riza si attaccò a lui, le lacrime che colavano sulle guance.
“Riza! Piccola mia – Andrew si dimenticò di tutto e tutti e abbracciò sia lei che il figlio – che spavento che ci hai fatto prendere con quella fuga.”
“Perdonami! – pianse lei, passando a dargli del tu, in un nuovo automatismo che si era creato sull’onda dell’emotività – ma in quel momento non sapevo che fare ed ero così spaventata…”
“Stai tranquilla, tesoro – la baciò in fronte, arruffando contemporaneamente i capelli a Kain – va tutto bene, l’importante è che tu sia qui, sul serio.”
“E così sarebbe questo il padre con cui vuoi stare.” commentò Grumman, facendosi avanti.
“Sì, nonno, e ti prego di…”
“E perché dovrebbero avere loro la precedenza sui legami di sangue che abbiamo?” chiese con cortese curiosità, senza però alcuna minaccia.
Tuttavia a quelle parole Riza si rifugiò ancora di più nell’abbraccio di Andrew, credendo che ora suo nonno facesse valere i diritti legali che aveva su di lei.
“Perché questa bambina è come se fosse mia figlia – disse Andrew, fissandolo con sfida – e tengo a lei a tal punto che stamane sono andato da suo padre e mi sono fatto firmare un documento in cui mi viene affidata la sua custodia… senza offesa, signore, ma lei non può strappare Riza dall’ambiente dove vive da sempre. La piccola mi ha raccontato diverse cose su sua madre, vuole davvero commettere lo stesso errore per egoismo?”
A tale dichiarazione nella stanza si fece silenzio, Grumman ed Andrew che si fissavano con aria di sfida. Ma l’aria di tensione venne interrotta da Kain.
“Oh, papà! Lo sapevo che avresti trovato la soluzione!”
“Signor Fury, lei è un genio, un maledettissimo genio!” Roy si accostò all’uomo abbracciandolo a sua volta, seguito a ruota libera da Jean.
E il generale di brigata dovette nascondere un sorriso davanti a quei festeggiamenti.
La gioia incontenibile di Riza davanti a quella dichiarazione aveva eliminato qualsiasi forma di dubbio che ancora restava. Del resto, il bambino con gli occhiali non gli aveva detto che i nonni dovrebbero portare gioia ai propri nipoti?
 
Roy fissò la macchina che si allontanava dal paese, lasciando dietro di sé una scia di polvere. Solo quando si fu allontanata del tutto tirò un sospiro di sollievo: adesso era veramente sicuro che quel soldato non avrebbe portato via Riza.
Spostò quindi lo sguardo verso la famigliola felice che, finalmente libera dall’ansia, si concedeva di festeggiare. Riza era estasiata, non c’era alcun dubbio in merito: lo si vedeva dal sorriso, dalle guance rosse, dall’abbraccio con il quale stringeva la signora Fury. Sembrava che tutta quella malinconia di fondo che aveva sempre visto in lei fosse finalmente sparita, gli spettri della sua famiglia andati via una volta per tutte.
Dovette aspettare solo qualche minuto prima che la ragazza si allontanasse dal gruppetto per raggiungerlo.
“Ehilà, colombina – sorrise, mettendosi a braccia conserte – hai visto che è andato tutto bene?”
“Sì – ammise lei, ricambiando il sorriso – alla fine mio nonno si è dimostrato davvero una brava persona. Ti confesso che ogni tanto non mi dispiacerebbe che passasse a trovarmi.”
“O magari potresti andare tu ad East City, ma sempre accompagnata.”
“In viaggio clandestino o con biglietto?” ridacchiò lei, seguita immediatamente da Roy.
Rimasero qualche secondo in silenzio, prima che Riza si appoggiasse al muretto che delimitava il cortile della villetta. Hayate si accostò al cancelletto e si alzò su due zampe per farsi accarezzare.
“Appena il tempo di sistemare la stanza e portare via le mie cose e andrò a vivere con Kain ed i suoi genitori.” mormorò, arruffando il pelo dell’animale.
“Ti permettono di portare il cane?”
“Certamente, Kain sta facendo salti di gioia. Sai, a lui non l’hanno mai permesso.”
“Sarà un bene per lo gnomo averti vicina e sarà bello anche per te, ne sono sicuro.”
“Però confesso che un po’ questa casa mi mancherà.”
Guardò con malinconia i salici che stavano poco distanti, quel giardino così trascurato. La sua mente andò alla cucina e alla sua camera da letto, gli ambienti che costituivano il suo mondo entro quelle mura dove era una completa estranea.
“Ci potrai tornare quando vorrai, presumo – commentò Roy, seguendo la direzione del suo sguardo – ma scommetto che lui non ti mancherà.”
“No, su questo hai proprio ragione.”
“Riza! – Kain corse verso di loro due e la prese per mano – mamma ha detto che…”
“Non puoi ancora correre – lo rimproverò bonariamente lei – ricordati della tua fasciatura.”
“Oh, già è vero. Comunque ha detto mamma che stasera devi venire a cenare da noi, a casa dei nonni: dobbiamo assolutamente festeggiare tutti assieme il tuo ingresso in famiglia.”
E le afferrò la mano, inducendola ad andare con lui.
“Vai, colombina – sorrise Roy, strizzandole l’occhio – goditi la felicità che ti sei ampiamente guadagnata.”
La felicità che si erano guadagnati tutti quanti.


 

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Capitolo 63
*** Capitolo 62. Adattamento. ***


Capitolo 62. Adattamento.

 

“Un lavoraccio, ma direi che ne è valsa la pena, vero?”
Ellie si mise le mani sui fianchi e guardò con aria soddisfatta la camera di Riza.
“Ne è valsa la pena? – esclamò la ragazzina estasiata – E’ semplicemente fantastica!”
Non le sembrava vero che nemmeno una settimana prima quella era la camera degli ospiti di casa Fury.
Effettivamente la prima impressione che aveva avuto, quando Ellie aveva aperto la porta, era stata quella di una camera completamente anonima e con un forte odore di chiuso. Ma nell’arco di cinque giorni aveva subito una trasformazione tale che ormai era irriconoscibile.
“Manca solo la scrivania – commentò la donna – e la mettiamo lì, vicino alla finestra. Sei proprio sicura di voler portare quella che avevi nella tua vecchia stanza? Procurarcene una nuova non è un problema, lo sai.”
“Sì, vorrei avere la mia vecchia scrivania – sorrise Riza, andando verso la finestra – non so per quale motivo ma ci sono parecchio affezionata. Piuttosto devo pensare a come trasportarla.”
“Sono sicura che il signor Havoc ci presterà volentieri il suo carro e credo che i tuoi amici vorranno dare una mano con il trasloco delle tue cose.”
“Già, le mie cose…”
Si sentiva elettrizzata all’idea che presto i suoi vestiti, i suoi libri, i suoi effetti personali sarebbero stati in quella camera così bella e da grande. La sua vecchia stanza era sempre rimasta legata al passato, al suo essere bambina, ma questa era totalmente diversa: il letto e l’armadio laccati di bianco, il comò con lo specchio, la libreria… le tendine di mussola proprio come quelle di camera di Elisa. Tutto trasudava una maggiore maturità che si addiceva maggiormente ad una ragazza che, a settembre, avrebbe iniziato la seconda superiore.
“Ehi, Riza! Mamma!” una voce chiamò dal cortile e sia lei che Ellie si affrettarono ad andare alla finestra.
In mezzo all’erba Andrew e Kain stavano davanti alla cuccia che avevano costruito per Hayate il quale annusava con curiosità la sua nuova casa.
“E’ fantastica!”
“Sembra gli piaccia – commentò Andrew, guardando l’animale che entrava dentro – poi d’inverno ci mettiamo anche una coperta così starà benone.”
“Un cane – sospirò Ellie – beh, spero che almeno finisca la mania di Kain di portare gli insetti a casa.”
“Grazie per avermelo fatto tenere – sorrise Riza, sapendo del divieto che per anni aveva turbato il bambino – è buono, lo giuro. Ed è anche educato: non fa buche e non abbaia se non i caso di necessità.”
“Si inizia dal cortile, ma prevedo già che presto lo troverò dentro casa. Conosco mio figlio e sembra che anche Andrew si stia facendo conquistare… l’unica regola è che non deve salire sui letti, sul tavolo e sul divano, va bene?”
“Certamente, sign… mamma.”
Da quando si era trasferita a casa dei Fury aveva cercato di sforzarsi per dare del tu ai due adulti e chiamarli mamma e papà, ma non era un automatismo facile da acquisire. A volte iniziava, ma poi scivolava di nuovo nella forma di cortesia e questo la faceva sprofondare nell’imbarazzo. Tuttavia Ellie ed Andrew non la sforzavano in nessun modo, come se quello fosse un dettaglio di secondaria importanza.
Un rumore di passi affrettati la fece distogliere dai suoi pensieri e alzò lo sguardo in tempo per vedere Kain che entrava nella stanza e si buttava con entusiasmo nel letto.
“Kain! – esclamò Ellie – Era appena fatto!”
“Lo sto inaugurando! – dichiarò il bambino con una risata rotolandosi tra le lenzuola – Così Riza stanotte non si sente a disagio: se è troppo perfetto può dar fastidio.”
“Ma sentilo! Signorino, ricordati che la camera di una ragazza non è un posto dove combinare disastri, chiaro? Devi essere più discreto e delicato.”
“Va bene, mamma.” annuì, mettendosi diligentemente a sedere a gambe incrociate.
Riza dovette trattenere un sorriso, ma capiva chiaramente che il piccolo Fury non aveva alcuna intenzione di seguire quelle regole. Osservandolo così spigliato e vivace si trovò a pensare a quel bambino così timido che nemmeno un anno prima aveva rincorso per la campagna: quanto era cambiato in quei mesi. Le sue paure, i suoi complessi, buona parte della timidezza erano scomparsi.
Sentendo un richiamo del padre Kain si alzò immediatamente in piedi e corse fuori dalla camera.
“Cielo, come è cambiato quel pulcino…” mormorò Ellie che, evidentemente, aveva seguito gli stessi pensieri di Riza.
“Io lo trovo sempre incredibilmente adorabile.”
“Quello sì, per fortuna è una caratteristica che non perderà, si capisce. Ma ora è molto più giocoso ed imperversa per la casa in un modo tutto nuovo… ovviamente è su di giri per il tuo arrivo qui. Credo che ci sperasse ormai da tempo.”
“Un po’ come tutti, mi sa.”
“Vero. Comunque cercate di assestarvi a vicenda, va bene? Adesso che hai una camera tua, e dunque sei ufficialmente abitante della casa, è necessario che trovate i vostri spazi ed i vostri limiti. Vivere da fratelli e quotidianamente è molto differente dall’essere ospite.”
“Non credo che ci saranno problemi.”
Del resto con un fratello tranquillo come Kain le sembrava impossibile che si potessero creare dei contrasti.
 
“Che cavolo, Jean, aspetta! – protestò Heymans – Riza deve ancora finire di svuotare i cassetti! Solo dopo la portiamo via!”
“E potevate dirlo che non aveva finito, uff!”
“Scusa, Jean – esclamò la ragazza, andando alla scrivania e aprendo i vari scomparti – la svuoto subito così potete prenderla. Siete sicuri di farcela tu ed Heymans?”
“Mi prendi in giro, biondina? Guarda che al magazzino dell’emporio sollevo ben altro.”
Come i cassetti vennero svuotati e la roba posata sul pavimento, i due amici, dimostrando grande affiatamento, sollevarono senza difficoltà il mobile e iniziarono a portarlo fuori dalla stanza. Riza li osservò con sincera ammirazione e poi si girò a constatare come il trasloco fosse ben lungi dal finire: diverse scatole di cartone erano ancora piene a metà ed il letto era ingombro di roba tra vestiario, libri e altri effetti personali.
“Accidenti, non pensavo di avere così tanta roba.” mormorò in tono di scusa.
“Si tratta solo di organizzare per bene – la consolò Vato che, assieme ad Elisa, stava svuotando la libreria – non ne hai certo quanto me, ma ammetto che molti titoli sono interessanti.”
“Perlopiù erano di mia madre – spiegò lei, avvicinandosi – e mio nonno mi ha promesso che mi farà avere anche gli altri che sono rimasti ad East City.”
“Me ne dovrai prestare – Elisa prese un romanzo ed iniziò a sfogliarlo – paiono davvero belli.”
“Quando vuoi… e devi venire al più presto a venire a vedere la mia stanza nuova.”
“Ci tengo! Dovremmo festeggiare tra ragazze, credi che la signora Fury ce lo permetterà?”
“Posso chiederlo, sarebbe meraviglioso!”
“Comunque anche questa scatola è piena – commentò Vato, chiudendola – possiamo portarla fuori nel carro del padre di Jean.”
“E poi io prendo altra limonata – sospirò Elisa, alzandosi e aiutandolo a tenere il peso – oggi si muore di caldo: sto sudando tantissimo.”
“In cucina la caraffa è ancora piena – spiegò Riza – fate con comodo.”
In camera rimasero soltanto lei e Roy, il ragazzo che per tutto quel tempo si era preoccupato di impilare con ordine i libri di scuola.
“Allora, come procedono le cose nella tua nuova casa?”
“Molto bene, lo ammetto. Anzi, è davvero strano essere di nuovo qui dopo una settimana d’assenza.”
“Ci hai parlato?” fece un cenno eloquente verso la parete.
“Ci ho provato, ma non è stato facile e non ho saputo interpretare quel lieve mugugno che ha fatto…” si avvicinò al letto e abbassò lo sguardo sui vestiti. Si chiuse in uno strano silenzio ed iniziò a piegarli passivamente.
Aveva provato a ringraziare suo padre per quella concessione che aveva fatto al signor Fury, gli aveva persino detto che, a prescindere dai fatti, lei sarebbe continuata a passare a casa per vedere se aveva bisogno di qualcosa. Ora che finalmente il suo sogno di avere una famiglia si era avverato, si era accorta che si sentiva in colpa a lasciare quell’uomo nella più assoluta solitudine.
Per quasi cinque anni lei era stata la sua unica compagnia, l’unico contatto che avesse con il mondo esterno. In qualche modo era arrivata a sentirsi responsabile per lui, accettando una strana e scomoda catena che l’aveva in parte resa un’estranea agli occhi del paese.
Ma non poteva nemmeno negare che in quella solitudine a volte ci si era trovata bene e si era sentita in qualche modo protetta. Non che fosse infelice all’idea di stare con la sua nuova famiglia, ma sentiva che una parte di lei avrebbe provato inevitabile nostalgia per questa casa.
“E’ un egoista bello e buono.” commentò Roy.
“Comunque prima di andare via gli parlerò di nuovo. Insomma, vorrei passare qui almeno una volta ogni tre giorni per vedere come va e se ha bisogno di qualcosa… sai, a volte penso che se non ci fossi io lui non mangerebbe.”
Lanciò un’occhiata in tralice all’amico: sapevano entrambi che non sarebbe servito a molto.
 
“E’ tremendo!” sospirò quella notte, mettendosi a letto.
“Non ti ha detto proprio niente, eh?” Andrew si sedette accanto a lei.
“Non una parola, nemmeno un mugugno o un verso. Sembra quasi che mi stia punendo in qualche modo per essere andata via da casa.”
E lei si sentiva in colpa e non le piaceva per niente. Più ci pensava e più si ripeteva che era sbagliato provare tutta quella preoccupazione per un uomo che non si era mai occupato di lei: perché adesso il suo silenzio doveva essere ancora più pesante?
“Mi sento una pessima figlia.” ammise.
“No, non lo sei – la corresse Andrew, spingendola contro il cuscino – è lui quello che ha sbagliato non considerandoti per così tanto tempo. Posso in parte capire il tuo senso di colpa, ma non farti condizionare più del dovuto, Riza. Come genitore la mia più grande aspirazione è vedere i miei figli felici, aiutarli quando vedo che sono in difficoltà o tristi… quando mai lui l’ha fatto? Eri tu a prenderti cura di lui e non viceversa.”
“Appunto – protestò lei – e ora come farà? Senza di me sprofonderà nella solitudine più assoluta… io… io… dannazione, ma perché devo sempre rovinarmi la felicità!”
Si girò prona, nascondendo il viso sul cuscino.
“Riza – l’uomo le accarezzò la schiena – adesso calmati e rifletti. Sei a casa da quasi dieci giorni e per tutto questo tempo sei stata incredibilmente felice, così come noi. Lui starà bene, fidati: trovo molto encomiabile che tu abbia deciso di andare spesso a vedere se ha bisogno di qualcosa… sai, come tuo tutore legale te lo potrei impedire.”
“Non lo farebbe, vero? – si girò lei, con sorpresa – Voglio dire… vuoi davvero che non…”
“No, non te lo impedirò perché è un tipo di legame che tu vuoi mantenere con lui e ne hai tutto il diritto. In fondo in quella casa ci sei cresciuta e presumo che ti dia una strana forma di sollievo tornarci, specie in questo primo periodo… ma non voglio che lui ti crei tutti questi problemi emotivi. Riza, se ci rifletti bene capirai che non ti sta trattando in maniera diversa da quella con cui ti ha trattato in tutti questi anni.”
La ragazzina si fece convincere da quelle parole e quando Andrew uscì dalla sua stanza, chiudendo delicatamente la porta, si sentì leggermente sollevato. Andò in camera da letto e si accostò alla moglie che stava finendo di abbottonarsi la camicia da notte.
“Va meglio?” chiese la donna.
“Decisamente. E’ intelligente e capirà che lei non c’entra niente con gli atteggiamenti del padre.”
“Le passerà, ne sono certa – sorrise lei, abbracciandolo – è solo una fase, si capisce.”
“E’ la prima volta che ti vedo così sicura.”
“Conosco abbastanza bene Riza, credimi.”
“Non ho mai avuto dubbi che abbia un livello di confidenza maggiore con te – dichiarò l’uomo, prima di baciarla  - mi vuoi dare anche delle disposizioni?”
“No, è una cosa che verrà naturale. Piuttosto domani le voglio proporre di invitare le sue amiche a casa: magari lei non ci ha mai fatto caso, ma poter avere delle piccole “riunioni” tra femmine è estremamente piacevole. Specie nella propria cameretta nuova.”
“Sono questioni femminili che lascio a te, mia cara. Non voglio nemmeno entrare nel merito.”
“Tranquillo – ridacchiò lei, emettendo un gridolino deliziato quando il marito la sollevò all’improvviso e la portò a letto – andrà tutto bene. Adesso bisogna solo fare attenzione a nostro figlio.”
“Kain? – Andrew la fissò con sorpresa, mentre si adagiava sopra di lei – Che cosa può combinare eccetto portare dentro casa il cane?”
“Niente di pericoloso – mormorò, mordicchiandogli il mento – ma deve imparare che Riza non è più ospite, ma sorella… ed è diverso. Oh, ma ci possiamo pensare domani, ti pare?”
“Ellie Lyod! – rise Andrew, mentre lei gli sbottonava la camicia – Che hai stasera, eh?”
“Vuoi fare l’amore con me?” sussurrò lei all’orecchio.
“Sarebbe un sì in ogni caso, ma se me lo chiedi in questo modo non c’è alcuna possibilità di rifiuto.”
 
Come aveva presupposto Ellie, l’idea di fare una festa tra ragazze per inaugurare la nuova stanza venne accolta con entusiasmo da Riza. Ormai il trasloco delle sue cose era terminato ed erano stati aggiunti anche gli ultimi tocchi per fare di quella camera il suo regno personale.
E così, nell’arco di pochi giorni, la ragazza si trovò ad accogliere Elisa e Rebecca e a condurle al piano di sopra dove era stato già portato il vassoio con i biscotti e il succo di more freddo. Ellie rimase per qualche minuto fuori dalla porta ad ascoltare le voci e le risatine soffocate ma poi, come si convinse che tutto procedeva per il meglio, ridiscese in cucina.
“Mamma – esclamò Kain, entrando dalla porta che dava sul cortile – prima mi è sembrato di sentire delle voci. E’ venuto qualcuno?”
“Sì, ci sono Elisa e Rebecca in camera di Riza.”
“Davvero? – si illuminò lui – allora vado subito!”
“No! – la donna fu rapida ad afferrare il bambino per il colletto della maglietta – E’ una festa privata ed i maschi non sono ammessi.”
“Cosa? – protestò lui – Ma Elisa e Rebecca sono anche mie amiche! Perché non posso andarci pure io?”
“Perché proprio come tu fai cose con i tuoi amici maschietti, anche lei fa delle cose con le sue amiche.”
“Che? – il bimbo la guardò stranito – Ma io non faccio cose con gli altri maschi…”
“E la caccia al fantasma?”
“Oh quella! Ma è stata un’idea di Roy; fosse dipeso da me non l’avrei mai fatta o nel caso l’avrei detto anche a Riza. Oh dai, mamma! Posso andare da loro? Mi fa piacere che siano a casa.”
Ellie sospirò, capendo che i primi problemi stavano iniziando a presentarsi: Kain non aveva ancora compreso che, in quanto abitante ufficiale della casa, Riza aveva diritto a spazi e momenti tutti per sé e per chi voleva.
Poteva capire questa sua confusione: era figlio unico e fino ad un anno prima era abituato ad avere la casa che ruotava attorno a lui. Questa forma di proibizione gli era totalmente nuova ed incomprensibile.
“Senti – propose Ellie – perché in questi giorni non inviti i tuoi amici maschietti e non fate una cosa tutti assieme?”
“Ma io non voglio escludere Riza.” scosse il capo lui.
“Pulcino – sospirò la donna, sedendosi su una sedia e prendendolo in braccio – anche se tu sei amico di Elisa e Rebecca loro sono venute per Riza, capisci?”
“Ma sono a casa mia.”
“E’ anche casa sua adesso, capisci?”
“Non mi piace questa separazione di maschi e femmine – ammise lui mettendo il broncio – trovo sia molto stupida. E sarà sempre così? I nostri amici verranno sempre per me o per Riza?”
“No, non sto dicendo questo… ehi, dai, non divincolarti. Ascolta, perché non resti in cucina con me e prepariamo i biscotti al cioccolato?”
“No – mormorò lui – non ne ho voglia.”
“Non fare l’offeso, dai. Ascolta, vogliamo portare qualcosa da mangiare al cane?”
“Ha già mangiato e ora dorme. No, preferisco andare in camera mia.” dichiarò.
 
Aveva chiuso la porta a chiave, una cosa che non era mai successa.
Ma in quel momento si sentiva stranamente tradito e voleva evitare contatti con tutto il resto del mondo.
Ricadde nell’automatismo di smontare e rimontare lo stesso circuito della radio elaborando la strana e nuova forma di rifiuto che aveva appena ricevuto.
Quando diceva che non capiva era sincero.
Per undici anni era stato praticamente ostracizzato dal resto dei ragazzi e dunque non aveva mai maturato l’idea di separazione tra maschi e femmine: lo evitavano sia gli uni che le altre. Come se non bastasse il genitore con cui aveva il legame più forte era sua madre e di conseguenza tendeva ad attaccarsi maggiormente alle figure femminili. Sentirsi escluso da delle sue amiche che stavano nella stanza accanto alla sua gli diede profondo fastidio.
Sentendo le risatine da oltre la parete, chiaro segno che si stavano divertendo un mondo, scosse il capo con violenza e gattonò fino al cassetto della scrivania per tirare fuori dei nuovi strumenti. Cuffie, voleva costruirsi un paio di cuffie, collegarle alla radio ed escludere il resto del mondo: alla radio e ai cavi non importavano le differenze tra maschi e femmine.
Nell’arco di pochi minuti il pavimento divenne un campo minato di minuscoli pezzetti, dove solo lui sapeva muoversi con destrezza senza distruggerne nessuno.
“Kain – suo padre bussò alla porta – posso entrare?”
“E’ chiuso a chiave.”
“A chiave?”
“Sì, a chiave – annuì distrattamente, sdraiandosi supino e riuscendo a non sfiorare nessuno dei piccoli frammenti. Le sue mani sollevarono delle minuscole rondelle adattandole tra di loro – tre rondelle A5 su un sistema base 2…” bisbigliò quelle ultime parole, perdendosi nei calcoli.
“Posso chiederti di aprire?”
A quel richiamo alla realtà, fatto con estrema gentilezza, il bambino annuì e si alzò in piedi. Senza nemmeno guardare il pavimento andò verso la porta e diede il giro di chiave, rigirandosi subito per tornare alla sua radio.

Appena mosse un passo, Andrew quasi si ritrasse nel scoprire quel caos.
Dovette muoversi con estrema cautela prima di raggiungere la sedia ed evitare di distruggere qualche pezzetto elettronico.
Non si era mai fermato a guardare il figlio lavorare alla sua passione, non quando lo faceva per difendersi dal mondo esterno. Era sempre stato un dettaglio che gli aveva raccontato Ellie, ma vederlo di persona era abbastanza sconvolgente: c’era una strana passività, ma di una precisione tale che sembrava di avere a che fare con un automa piuttosto che con un bambino.
Rimase qualche minuto ad osservare affascinato quelle dita piccole e sottili che si muovevano con una precisione tale da far invidia ad un tecnico navigato: non si era mai reso conto di aver dato al figlio la propria precisione estrema, sebbene applicata in un campo diverso.
“Ehi – mormorò, chinandosi per posare l’indice sulla sua fronte, quasi fosse un interruttore – guardami, Kain, da bravo.”
Ellie gli aveva raccontato cosa era successo e si aspettò di vedere rabbia e orgoglio offeso negli occhi scuri. Invece c’era una serenità e freddezza fuori dal comune: l’estraniamento era tornato a fare da baluardo difensivo contro le cose che non andavano bene.
Finché si tratta di ferite dolorose o malattie è disposto a tutto, ma davanti a problemi interpersonali si chiude davvero a riccio.
“Che cosa stai costruendo?”
“Cuffie.”
Una risata particolarmente forte dalla camera di Riza fece saettare gli occhi scuri verso la parete.
“Non ti devi sentire escluso, lo sai.” gli spiegò Andrew, levando con attenzione i piccoli pezzi nel pavimento davanti a lui e sedendosi.
“Credi che mi saluteranno quando vanno via?”
“Ma certo, perché non dovrebbero.”
“Non lo so – alzò le spalle lui – forse le cose tra femmine funzionano così. Io so solo che se invitassi amici a casa mia Riza non la escluderei mai; sono amici di entrambi, che senso ha?”
“E’ un qualcosa che capirai tra qualche anno. Quello che importa è che ora tu non ce l’abbia con Riza, va bene? Sta passando un bel pomeriggio con le sue amiche e sarebbe davvero brutto che poi si accorgesse del tuo broncio, non credi? E poi devi imparare che Riza non può sempre fare tutto con te: proprio come andate in classi differenti, è giusto che facciate anche cose differenti.”
“Non mi è mai sembrato di essere invadente fino ad adesso.”
“No – Andrew si rese conto che era vero, Kain aveva sempre rispettato gli spazi di Riza – e anche non essere andato dalle ragazze è una forma di non invadenza.”
“Né lei né la mamma mi hanno detto niente.”
“Figliolo, adesso stai facendo un dramma per una cosa che non lo merita – lo scrollò lievemente – vogliamo fare una cosa solo io e te? Una cosa tra maschi? Dai, avanti, dimmi cosa vuoi fare.”
Il bambino scosse il capo, come se qualsiasi cosa proponesse il padre fosse senza importanza.
Nemmeno un anno prima Andrew avrebbe reagito a questo atteggiamento infantile lasciando il figlio solo a riflettere e maturare, ma questa volta si rifiutò di lasciarlo bollire nel suo brodo. Gli aprì le mani, lasciando cadere tutti quegli elementi elettronici e lo prese sottobraccio, portandolo fuori da quella stanza e dal quel pericoloso estraniarsi.
Scese le scale con il figlio che scalciava leggermente, tanto che Ellie vedendoli si ritenne in dovere di intervenire.
“Andrew…”
“Stiamo andando a fare una cosa nel mio studio – dichiarò – stai tranquilla, è una cosa tra me e lui.”
“Non vorrai punirmi – protestò Kain, come la porta si chiuse alle loro spalle – non ho fatto niente per meritarlo!”
L’uomo nemmeno si degnò di rispondergli: lo portò davanti al tavolo da disegno e lo fece sedere sullo sgabello, provvedendo poi ad alzarlo per permettere al bambino di arrivare bene al foglio bianco.
“Riga e matita – dichiarò, mettendogli in mano gli oggetti in questione – adesso squadri il foglio, coraggio. Medesima distanza da ogni angolo, senza il minimo errore. Il compasso è poggiato lì.”
“Perché? – chiese il bambino, fissandolo con perplessità – Che cosa dovrei fare?”
“Non usciremo da questa stanza fino a quando non avremo impostato il disegno del ponte di East City.”
“Che? Quello del tuo libro? Ma papà, è complicatissimo! Ed io non ho mai…”
“Solo io e te – Andrew gli prese il viso tra le mani e posò la fronte contro la sua – ma io non muoverò la matita nemmeno per un secondo. Ti guiderò, ti spiegherò ogni passaggio e ti darò tutte le delucidazioni che vuoi, ma alla fine questo disegno avrà la tua firma, chiaro?”
“Ci vorrà un sacco di tempo!”
“Quello che ci serve, ovvio. Ma quando lavoriamo a questa cosa siamo solo io e te, nessun altro, va bene?”
Kain capì al volo che suo padre stava solo cercando di compensare quanto era successo e per qualche secondo si sentì estremamente offeso. Ma prima che potesse ribattere, l’uomo gli fece un cenno deciso verso il foglio bianco e lui fu costretto ad annuire ed iniziare la squadratura del foglio.
Bastarono solo pochi minuti prima che venisse assorbito completamente da quella nuova avventura.
 
“Un progetto? – si stupì Roy due giorni dopo – Non sapevo che gnometto si interessasse di cose simili.”
“E’ una cosa che sta facendo assieme a suo padre – spiegò Riza con un sorriso, mentre camminavano per le vie del paese – quando si chiudono nel suo studio non è ammesso nessun altro. E’ una cosa solo tra loro due, capisci? E Kain ne è entusiasta.”
“Buon per lui, anche se io preferirei passare queste ultime due settimane di vacanza facendo tutt’altro.”
“Non hai l’animo dello studioso, Roy, non è un mistero – ridacchiò la bionda sistemando meglio la busta di cartone che stava in equilibrio sul sellino della bici – comunque ti ringrazio per accompagnarmi, ma non lo devi sentire come un obbligo, davvero.”
“Nessun obbligo, fidati. E poi adesso che abiti dai Fury non ci vediamo più così spesso.”
Era vero: un altro dei cambiamenti che aveva comportato quel trasferimento era la distanza molto più grande tra le loro case. Ed inoltre, vivendo con altre persone, Riza non poteva certo permettersi di ricevere il suo amico come e quando le pareva. Ma, come aveva detto Roy con grande filosofia, erano meglio dieci minuti in bici che sei ore di treno.
“Bene, eccoci arrivati – sospirò Riza, mentre giungevano davanti alla villetta degli Hawkeye – sei sicuro di voler entrare con me?”
“Certamente! Tieni aperto il cancello, così sistemo la bici dentro.”
Per qualche istante Riza esitò nell’aprire la porta di casa, ma poi con un sospiro girò la maniglia.
“Papà, sono io con Roy – disse a voce alta – sono venuta a portarti un po’ di spesa.”
Senza aspettare risposta si diresse in cucina, seguita dall’amico.
“Mamma mia che disastro – commentò, notando le stoviglie sporche posate senza alcun ritegno sopra il tavolo o nel lavandino – beh, direi che è il caso che dia anche una lavata: non c’è nemmeno spazio per posare la spesa.”
“Aspetta, ti do una mano – si offrì Roy, prendendo i piatti sporchi dal tavolo e portandoli nel lavandino – così almeno il tavolo si libera.”
“Grazie. Mh, qui mancano almeno un cinque piatti: devono essere nel suo studio… aspettami, vado a prenderli.”
Ma Roy la tallonò senza che lei potesse avanzare obiezioni.
Non voleva che Riza incontrasse suo padre da sola: era un compito che si era assunto di sua spontanea volontà. Aveva il timore che quell’uomo potesse in qualche modo spezzare la serenità che la ragazza si era faticosamente guadagnata.
“Papà – bussò discretamente lei prima di entrare nello studio dell’uomo – sto entrando con Roy.”
Come c’era da aspettarsi c’erano i piatti impilati sull’estremità della scrivania che correvano il rischio di cadere al minimo movimento. Riza si precipitò a prendere quella piccola torre pendente, ma come si girò quasi cadde per un libro buttato a terra. Fu solo l’intervento di Roy ad impedire il disastro.
“Vado a lavare i piatti e sistemare la spesa. Metto un po’ in ordine anche la cucina visto che ci sono.”
Fu tutto quello che Riza disse, ma Roy notò che la sua voce era più alta e meno timorosa. La cosa gli fece enormemente piacere, tanto che azzardò un sorriso mentre raccoglieva il libro per metterlo in un posto dove non creasse problemi.
Basi dell’alchimia.
Lesse il titolo sul dorso in maniera quasi distratta, ma i suoi occhi si illuminarono di aspettativa.
Lanciò un’occhiata distratta al maestro Hawkeye e, vedendo che era immerso nei suoi studi, si arrischiò a sfogliare le prime pagine.
“E’ un testo semplice – disse la voce dell’uomo all’improvviso, facendolo sobbalzare – lo capirebbe persino un bambino.”
“Già – commentò Roy, facendo per posarlo sulla scrivania, ma poi esitò – le dispiace se lo prendo in prestito? Lo restituisco entro la settimana prossima, promesso.”
Fu gratificato da una penetrante occhiata da parte di quegli occhi azzurri e febbrili. Sembrava che l’uomo lo vedesse per la prima volta, soppesandolo come se fosse un animale da studiare. Ma alla fine fece un cenno del capo e Roy tirò un profondo sospiro di soddisfazione.
Si affrettò a raggiungere Riza in cucina e posò il libro sul tavolo.
“Che cosa è?” chiese lei sorpresa, mentre iniziava a lavare i piatti.
“Un libro di alchimia, tuo padre e l’ha prestato.” spiegò lui, aprendo la prima pagina.
Il rumore delle stoviglie che sbattevano tra di loro lo fece girare e vide che Riza lo guardava con occhi dilatanti e spaventati.
“Che intenzioni hai?” chiese con voce flebile.
“Voglio leggerlo – disse con calma, immaginando che lei non avesse molta simpatia per quella materia – sai bene che l’alchimia mi ha sempre interessato. Hai paura che diventi come lui?”
“Lo farai?”
“Nel momento in cui ti sembrerà che accada una cosa simile, allora dimmelo – dichiarò con serietà – Tu e gli altri strappatemi i libri di mano se mai ci fossero avvisaglie simili: l’ultima cosa che voglio è diventare come tuo padre.”
“Perché allora non evitare del tutto il problema?” supplicò lei.
Roy soppesò quella domanda non priva di una certa logica. Ma poi si ricordò della rabbia che aveva provato davanti all’egoismo di Berthold Hawkeye davanti alla piena del fiume, quando l’alchimia avrebbe potuto davvero aiutare le persone.
“Perché l’alchimia può fare tanto e io voglio usarla per far del bene al mio paese. Ti fidi di me, colombina?”
Se lei avesse detto di no, allora avrebbe posato il libro e l’avrebbe lasciato in quella cucina, lo sapeva. La fiducia che Riza riponeva in lui era troppo preziosa per barattarla in questo modo, per quanto fosse estremamente deciso ad imparare i segreti di quell’arte.
Ma dentro di sé sapeva che la sua amica non l’avrebbe deluso.
E difatti la testa bionda, dopo una lieve esitazione, annuì.

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Capitolo 64
*** Capitolo 63. Imbarazzi fisici. ***


Capitolo 63. Imbarazzi fisici.

 

Una delle novità a cui Riza dovette adattarsi fu quella di avvisare se usciva o chiedere eventuali permessi. Con suo padre la questione si era ridotta a rarissimi casi, senza mai ricevere un rifiuto, ma lei aveva sempre ritenuto che anche se fosse uscita senza avvisarlo non sarebbe accaduto niente.
Con Ellie ed Andrew era diverso e, oggettivamente, c’era maggiore ansia all’idea di una risposta negativa.
Così, quando quel pomeriggio entrò in camera matrimoniale si sentiva leggermente in apprensione: non sapeva che opinione potesse avere Ellie di quanto le stava per proporre.
“Mamma, posso chiederti un permesso per domani?” domandò andando accanto alla donna che stava piegando alcuni vestiti.
“Permesso? Dimmi pure.”
“Ecco, siccome sta per finire agosto, Elisa ha proposto di fare una gita allo stagno, dalla mattina fino a sera, con pranzo al sacco.”
“Mi sembra un’ottima idea – sorrise Ellie, lasciando i vestiti e battendo le mani – voi ragazze vi divertirete un mondo, ne sono certa. Se vuoi pensiamo già a cosa preparare.”
“Possiamo fare anche il bagno? In costume, intendo.”
“Non vedo perché no. Ne hai uno?”
“Sì, me l’ha fatto la signora Laura, ma a dire il vero non l’ho mai usato.”
“Allora dopo andiamo a vedere se ti va a pennello, finisco di sistemare queste cose e…”
“Mamma, ti crea problemi se ci sono anche i ragazzi? Effettivamente l’invito è anche per Kain…”
Era quello il motivo principale che l’aveva tanto fatta esitare. Un conto era stare assieme ai ragazzi in comuni occasioni, ma per una gita allo stagno inevitabilmente sarebbero stati tutti in costume da bagno e lei non sapeva quanto questo potesse andare bene o meno: a conti fatti la maggior parte di loro non era più bambina.
Ellie la squadrò con attenzione e alzò le spalle.
“Non vedo che motivi potrebbe crearmi: vi conosco tutti e mi fido di voi… che è quel rossore adesso?”
“Si... si vede così tanto con il costume da bagno. E se…”
E se il mio corpo non va bene?
Non aveva la minima idea di quali fossero i pareri dei maschi riguardo al corpo delle ragazze. Ma era inevitabile che con il costume si vedesse parecchio di quello che in genere era nascosto dai vestiti: la parte inferiore copriva una minima porzione della coscia e anche quella superiore era abbastanza aderente da far intuire maggiormente le forme del petto.
“La cosa migliore è farmi vedere ora come ti sta – commentò Ellie, vedendola così esitante – ho il sospetto che tu abbia qualche problemino con il tuo corpo, vero?”
“Mi… mi sta crescendo.” ammise Riza tutto d’un fiato.
“Eh?”
“Non ci ho fatto molto caso – arrossì ancora di più – ma negli ultimi mesi si è… uhm… gonfiato.”
“Il seno?”
Riza abbassò la testa, desiderando sprofondare seduta stante in una voragine.
Sapeva bene che il corpo femminile prima o poi cresceva in quel senso, ma ci si trovava ancora a disagio. Per ora la cosa era ancora discretamente nascosta dai vestiti, ma con l’aderenza del costume intero…
“Posso dare un’occhiata?” sorrise Ellie andandole vicino.
“Un’occhiata?” automaticamente si portò le mani nella parte interessata, quasi a proteggerla.
“Tesoro, rilassati – la tranquillizzò la donna – è normale che questa crescita all’inizio imbarazzi un po’. Del resto doveva succedere: dopo il primo ciclo tutto il corpo inizia a diventare da signorina.”
“E i ragazzi le vedono tutte queste cose?”
Ellie sorrise con comprensione e le cinse le spalle con un braccio.
“Posso capire che queste cose ti spaventino, sai io non avevo un bel rapporto con il mio corpo alla tua età. Mi sentivo sempre troppo piccola e piatta, mentre tutte le mie amiche mi sembravano così grandi. Ma fidati di me: per avere quattordici anni non c’è niente che non vada nel tuo corpo, chiaro?”
“Sicura?” con un gesto imbarazzato la ragazza allungò il colletto del vestito per sbirciare.
La donna le si accostò e sbirciò pure lei con aria cospiratoria.
“Sicurissima.” le strizzò l’occhio.
 
La mattina successiva l’incontro era all’ingresso del paese.
A dire la verità tutti i ragazzi erano molto eccitati all’idea di fare questa gita allo stagno: dopo quel pranzo tutti assieme quella domenica di inizio primavera non avevano avuto occasione di avere una giornata di svago tutta per loro. Ed inoltre c’era la grande aspettativa di essere privi del controllo dei grandi e questo li faceva sentire molto più indipendenti e liberi di combinare monellerie.
In particolare Roy non vedeva l’ora di iniziare quella giornata in cui sarebbe stato il leader indiscusso del gruppo. Aveva già in mente di proporre un sacco di gare tra i ragazzi, prove di abilità e…
“Mi raccomando, non voglio sentire di annegamenti o altri disastri – dichiarò Vincent, arruffando con aria significativa i capelli di Roy – e non chiedermi perché lo dico a te e non agli altri.”
“Mancanza di fiducia nei miei confronti!” sbuffò il moro, ignorando la risatina di Vato ed Heymans.
“E ben giustificata – sogghignò il capitano – divertitevi, ragazzi. A stasera.”
“A stasera, papà.” salutò Vato, mentre l’uomo si avviava per andare al commissariato.
“Spero che gli altri non tardino troppo – commentò Heymans – ci vuole comunque più di mezz’ora per arrivare allo stagno.”
“Ricordiamoci che per le ore più calde conviene stare sotto gli alberi – disse Vato – altrimenti ci scotteremo ed il sole di agosto è fra i peggiori.”
“Con la pelle bianca che ti ritrovi devi stare attento soprattutto tu, mi sa.”
“Già, anche perché saremo in costume da bagno. Oh, ecco Elisa. Ciao…”
“Buongiorno a tutti – salutò lei, dando un bacio al fidanzato – scusate il ritardo ma stavo finendo di sistemare la roba per il pranzo al sacco.”
“Credo che con tutto quello che porteremo ci sarà da mangiare per un reggimento. Ed ecco anche Rebecca.”
“Buongiorno, ragazzi! – esclamò la brunetta con entusiasmo – Siamo pronti?”
“Possiamo muoverci e andare all’ingresso del paese – propose Roy – tanto sia Jean che Riza e Kain verranno da lì.”
Non dovettero aspettare molto prima che gli amici gli raggiungessero: la novità fu costituita da un seccatissimo Jean che si portava dietro Janet, graziosissima nel suo vestitino azzurro e bianco.
“E lei che ci fa qui?” chiese Roy, mentre la bambina abbracciava con entusiasmo Heymans.
“Ieri ha fatto il diavolo a quattro per venire – sospirò con irritazione il biondo – e mia madre mi ha praticamente obbligato a caricarmela… stupida sorella! In realtà i miei genitori non volevano sentirla piangere per tutta la giornata.”
“Oh, dai, non c’è problema – commentò Elisa – penseremo tutti a lei, e sono sicura che si comporterà bene, vero Janet?”
“Certamente! – sorrise la bambina – Elisa, lo sai che il mio costumino è rosa?”
“Davvero? Ma che bello. Sarò proprio curiosa di vedertelo.”
“Però adesso è nello zaino. Me lo devo mettere lì.”
“Ci cambiamo tutte lì, stai tranquilla. Se ti serve una mano ci sarò io.”
 
Nonostante quell’ospite aggiunto, la mattinata iniziò nel migliore dei modi.
Una volta che anche Kain e Riza arrivarono, il gruppo si diresse allegramente allo stagno, pregustando l’idea di buttarsi in quelle acque fresche e ristoranti. Una volta che vi giunsero, constatando con piacere che non c’era nessun altro ragazzo a contendere loro lo spazio, sistemarono tutti i loro zaini all’ombra di un gruppo di alberi.
“Ragazze – chiamò Elisa – se mi date una mano stendiamo già le coperte così…”
“Chi si tuffa per ultimo è uno scemo!”
La voce di Jean interruppe qualsiasi tentativo di coinvolgere i maschi nell’organizzazione. Con un tripudio di magliette levate e pantaloni lanciati per aria assieme alle scarpe, i ragazzi corsero al pontile e si buttarono in acqua con un concerto di grida e risate.
“Secondo me sono tutti scemi…” commentò Riza, osservando gli indumenti sparsi in giro per il prato.
“Stavo dicendo – riprese Elisa, come se niente fosse – se mi date una mano organizziamo la roba da mangiare, va bene.”
“Vi aiuto pure io.” si offrì Kain che non aveva seguito i suoi amici nella corsa al tuffo.
Effettivamente il bambino al contrario degli altri non era davvero entusiasta di quella gita allo stagno, anche se avrebbe tanto voluto esserlo. Rimase stranamente silenzioso mentre aiutava le ragazze a sistemare gli zaini e tutto il resto e quando queste andarono dietro dei cespugli per cambiarsi si sedette con aria sconsolata sulla coperta restando a guardare i suoi amici che sguazzavano nell’acqua.
“Kain – lo chiamò Riza comparendo dopo qualche minuto – fa caldo, vuoi levarti la maglietta?”
“Mh? Va bene.”
La bionda lo aiutò e sistemò gli indumenti di entrambi in un mucchietto ordinato vicino ai loro zaini. Poi si avvicinò di nuovo al fratellino e gli chiese.
“Allora… come sto?”
Kain sorrise, guardando il costume azzurro chiaro della sua sorella adottiva. Avrebbe detto che le stava bene in ogni caso, ma non c’erano dubbi che quel colore si adattasse veramente bene alla sua snella figura.
“Ti sta molto bene.”
“Perché non ti levi scarpe e calzoni e non resti in costume pure tu? Non ti va di fare il bagno?”
“Ecco… no. Magari le scarpe me le levo, hai ragione. Ma i pantaloncini no.”
La ragazza lo fissò con perplessità mentre si levava le scarpe, notando solo di striscio Rebecca, Elisa e Janet che andavano verso la riva dello stagno. Si inginocchiò accanto al bambino e gli arruffò i capelli corvini.
“Cosa c’è?”
“I pantaloni li tengo, arrivano al ginocchio. Se li levo resto in costume che arriva a metà coscia.”
“Hai paura che la vedano?”
Kain annuì con apprensione.
I medici non avevano posto alcun problema che lui bagnasse la ferita: ormai la guarigione era avvenuta e quella cicatrice era destinata a sbiadire col passare del tempo. Ma per ora era ancora tremendamente visibile, di uno strano color rossastro e in rilievo. Non era come la fasciatura che sporgeva dai pantaloni… era qualcosa molto spiacevole da vedere.
“C’è anche Janet e lei si può impressionare.”
“Però non è bello che tu te ne stai qui tutto solo – commentò Riza – ascolta, loro lo sanno che cosa ti è successo e vedrai che non ci faranno caso. E a Janet lo spieghiamo con calma e vedrai che…”
“Gnomo! – Roy uscì dall’acqua, scrollando la testa come un cane e corse verso di loro con un sorriso felice – Allora che aspetti? Ti devo prendere e buttare in acqua? Su, via questi pantaloni!”
“No! – ansimò lui, bloccando le mani dell’amico – per favore!”
“Piano! – gli diede subito manforte Riza – aspetta Roy, c’è un problema.”
Con calma gli espose le paure del bambino e alla fine il moro lo guardò con perplessità.
“Posso vederla?” chiese.
Kain esitò: per ora gli unici che l’avevano vista erano i suoi genitori e Riza.
“E dai, del resto io ti ho visto anche la ferita quando era appena fatta.”
E con gentilezza sbottonò i pantaloni del bambino e li fece scivolare lungo le gambe, lasciandolo solo in costume. Lo vide serrare gli occhi, mentre una lacrima di vergogna gli colava sulla guancia destra, tanto che Riza fu pronta ad abbracciarlo e consolarlo.
“Dai che non fa impressione – mormorò, posando una mano sopra la parte interessata – coraggio, gnometto, non vedevo l’ora di vederti fare qualcosa assieme a noi dopo che sei stato fermo per tanto tempo.”
“So nuotare solo a cagnolino.” tirò su col naso.
“Ti insegno io, tranquillo.”
“E se Janet si impressiona?” chiese con ansia.
“Beh, meglio risolvere tutto adesso. Aspetta qui, vado a parlare con Jean, Heymans e lei.”
E senza che Kain avesse il tempo di ribattere, si alzò in piedi e si avviò verso lo stagno per discutere con gli altri della cosa. Con apprensione li vide parlottare ed infine Jean chiamò a sé la sorellina ed iniziò a parlarle sommessamente, addirittura inginocchiandosi per essere alla medesima altezza.
La bambina dalle trecce bionde fece un’espressione molto perplessa, ma poi anche Heymans iniziò a parlarle e dopo qualche minuto, tenuta per mano da entrambi, si avvicinò a Kain e Riza.
Con una lieve ansia lui fece per mettere una mano a coprire la parte di cicatrice che si vedeva, ma poi si trattenne. Alzò lo sguardo sugli occhi azzurri di lei e li vide sgranarsi per la sorpresa e anche un po’ per la paura.
“Ti fa male?” mormorò infine, tormentandosi con le dita una delle bretelle del costume.
“No, è… è solo brutta da vedere.”
“Mi hai visto ridotto peggio, Janet – le ricordò Jean – lo sai che le ferite fanno la crosta, no? Questa è un po’ più brutta delle altre. Ti dà fastidio? Kain ha paura che tu non voglia stare vicino a lui.”
“Oh no! – esclamò subito lei, lanciandosi ad abbracciare l’amico – Non è vero, Kain! Non devi pensare una cosa simile! Dai vieni! Sto tutto il giorno con te, contento?”
“Non devi sentirti obbligata…” mormorò il bambino, mentre veniva incitato ad alzarsi in piedi.
“Dai, vieni! Ci sono i gamberetti piccolini in riva: se metti i piedi in acqua ti pizzicano e fanno il solletico!”
E senza attendere altra risposta lo incitò a seguirla, mentre dietro di loro i ragazzi più grandi si scambiavano occhiate soddisfatte.
 
Dopo aver risolto quella piccola incombenza il gruppo si amalgamò: i turbolenti ragazzi lasciarono spazio anche a giochi che potevano coinvolgere le femmine e la presenza di una palla portata provvidenzialmente da Jean rese tutto molto più facile.
A questi momenti di gruppo se ne alternavano altri in cui ci si divideva.
Per esempio a un certo punto, a pomeriggio inoltrato, Vato ed Elisa si presero per mano ed andarono a fare una passeggiata nella riva opposta dello stagno.
“Ecco – ammise il ragazzo dopo qualche minuto di imbarazzato silenzio – stai molto bene in costume. Te lo volevo dire prima, ma con gli altri…”
“Davvero mi sta bene?” sorrise lei arrossendo felice.
“Certamente!”
E lo pensava davvero: quel verde, ora più scuro dopo essersi bagnato, si intonava perfettamente agli occhi di lei. E stava divinamente con i capelli castani appiccicati e pesanti sulle spalle e sulla fronte.
“Anche tu stai bene in costume, sai.”
“Dici? Non sono troppo magro?”
“Ormai ci ho fatto il callo alla tua costituzione. Comunque mi complimento: stai mettendo dei muscoli nelle braccia.”
“Mi prendi in giro – arrossì, mentre giravano dietro un canneto, seguendo il sentierino – paragonato a Jean faccio davvero pena. Solo in altezza siamo più o meno uguali… e pensare che lui deve ancora compiere i quindici anni.”
“Rebecca non fa altro che ammirarlo – ridacchiò Elisa – dice che in costume da bagno il suo ragazzo è una visione semplicemente divina e…ahi!”
“Che succede?” chiese, vedendola saltellare su un piede solo.
“Una spina… ohi, aspetta che mi siedo. Proprio sulla punta dell’alluce.”
Uscirono dal sentiero e si sistemarono sul prato, lei che si adoperò immediatamente per levarsi la fastidiosa scheggia dal piede.
“Levata senza problemi?”
“Sì, per fortuna non era andata molto in profondità – ammise lei, gettandola – ah, decisamente meglio.”
Si stiracchiò con soddisfazione, sdraiandosi in quell’erba soffice e profumata.
“Sei mimetica con quel costume – ridacchiò il ragazzo, imitandola – se non fosse per le parti scoperte…”
“Sai, la signora Laura me l’ha dovuto fare nuovo. Quello degli anni passati non mi stava più.”
“Ora che ci penso non ci eravamo mai visti in costume da bagno: tu ci sei sempre andata con i tuoi cugini allo stagno.”
“Perché qualcuno si è sempre rifiutato di venire, nonostante gli inviti.”
“Senti, lo sai che…”
“Lo so! – lo bloccò lei, conoscendo bene il precedente imbarazzo del fidanzato nel farsi vedere assieme a lei in occasioni di famiglia – Per fortuna che con i nostri amici non hai tutti questi pudori.”
“Il pudore non è stato molto nei nostri pensieri negli ultimi tempi.” considerò lui.
Dicendo questa frase sapeva bene di provocarla.
Effettivamente andando a fare quella passeggiata in solitaria sapeva che poteva finire in quel modo, con loro due che sparivano dalla vista degli altri. La verità era che aveva notato sin da subito quanto quel costume stesse bene sul corpo di lei, quanto la rendesse sensuale con quel pantaloncino che arrivava nemmeno a metà coscia.
E desiderava andare più avanti rispetto a quanto si erano concessi fino a quel momento.
“Eli…” mormorò cercando le sue labbra.
Furono i soliti due minuti prima che si ritrovassero accoccolati a scambiarsi effusioni. Sentire il costume bagnato di lei sul petto nudo era una nuova sensazione completamente inebriante. Ad un certo punto abbandonò la posizione di fianco per mettersi supino e indusse lei a sdraiarsi sopra.
“Peso…” sussurrò Elisa, prima di baciarlo, i suoi capelli che gocciolavano sul collo.
“No, tranquilla… Eli… io…”
Chiudendo gli occhi e cercando di nuovo le sue labbra si lasciò andare. Le sue mani scesero alle cosce della fanciulla, accarezzandole come mai aveva fatto con l’impedimento della gonna. La sentì ansimare leggermente e nascondere la testa sulla sua spalla, senza però opporre un vero rifiuto.
A quel punto non seppe resistere ed insinuò le dita sotto quei corti calzoncini, salendo sul sedere.
Quella carne soda e il contatto del suo seno umido sotto il costume lo fecero reagire come mai era successo prima di quel momento.
“Stai… stai premendo…” mormorò la ragazza al suo orecchio.
“Eli, ti prego… dimmi che questo costume è in due pezzi e che ti posso sfilare la parte di sotto… faccio più piano che posso…” sussurrò lui
“E’ intero, amore – ridacchiò sensualmente lei – si sfila partendo dall’alto.”
“Ma io devo…” e inconsciamente mosse il bacino contro il suo, con evidente desiderio.
“E’ meglio che scenda da te – commentò lei baciandolo in fronte – ne abbiamo già parlato, no? E… amore, credo che tu debba riprenderti prima che torniamo dagli altri.”
Ma lui non rispose, si mise le mani sulla testa e iniziò a respirare profondamente, perso in una luce che non era quella del sole.
Gli ci volle parecchio per riprendersi.
 
Nonostante questo imprevisto, quando i due tornarono ad unirsi al gruppo nessuno fece commenti. Tuttavia a Vato sembrò che le ragazze si scambiassero dei sorrisi complici e quando sentì Elisa fare una risatina maliziosa in risposta a qualcosa che aveva detto Rebecca, arrossì vistosamente.
Da parte dei maschi invece non ci fu nessuna reazione in particolare.
Sembrava che determinate cose non interessassero ancora gli altri componenti del gruppo, nemmeno Jean che, a rigor di logica, doveva avere una minima esperienza dell’essere fidanzato.
“Roy, giusto per curiosità – chiese all’improvviso, rivolgendosi all’amico – che effetto ti fa vedere le ragazze in costume da bagno?”
Gli occhi scuri lo guardarono con sospetto per qualche secondo.
“Ecco – ammise infine – devo ammettere che è strano. Non è come quando Riza si era vestita così bene per la festa del primo dicembre… qui si vede…”
“… tanto, eh?”
“Esattamente. Insomma, non  mi ero ancora accorto che fosse diventata così.”
Nessuno dei due fece caso al fatto che avesse parlato esplicitamente della bionda, senza nemmeno pensare alle altre. Del resto Elisa e Rebecca erano già impegnate e sarebbe stato fuori luogo. Tuttavia, se si fosse soffermato a pensare, Roy Mustang si sarebbe reso conto che, a prescindere dal numero e disponibilità di ragazze, la sua attenzione si sarebbe volta inevitabilmente verso la sua amica.
Ma non ebbe tempo di indugiare su simili pensieri perché si sentì il rumore di uno schiaffo.
 
“Sei un villano!” lo strillo di Rebecca echeggiò per tutto lo stagno.
“Villano? – protestò Jean, portandosi la mano alla guancia rossa – Ma perché?”
“Io ti odio! – pianse la ragazza, correndo via dal fidanzato – Ti odio!”
Ovviamente questo richiamò l’attenzione di tutto il gruppo.
Le ragazze corsero verso l’amica offesa, mentre i maschi si avvicinarono al biondo che fissava con perplessità il punto dove Rebecca veniva consolata.
“Oh senti! – sbottò dopo qualche secondo, andando verso le ragazze – Non ti ho detto niente di male, lo sai bene!”
“Sei l’essere più insensibile sulla faccia della terra!” singhiozzò lei, nascondendo poi il viso sulla spalla di Riza.
“Ma che è successo?” chiese Heymans.
“E che ne so! Mi ha mollato un ceffone senza preavviso.”
“Dopo quello che mi hai detto!”
“E che ti ho detto di offensivo?” si spazientì lui.
“Lo sai bene!”
“Ti ho detto che il blu scuro del costume ti sta bene, no?”
“Non è quello – singhiozzò lei, fissandolo con roventi occhi neri – Quando ti ho chiesto se… se mi valorizzava… quello!”
“E io ti ho chiesto che cosa, insomma non ho capito a cosa ti riferivi e…”
“Mi hai fatto capire che non ho petto!” sbraitò lei, un urlo che ancora echeggiò nello stagno.
“Ecco – mormorò Roy – vieni Kain, ti insegno a tuffarti dal pontile, eh…”
E prima che il bambino potesse dire qualcosa lo portò lontano da quella tragedia incombente, seguito immediatamente da Vato. Heymans sarebbe tanto voluto andare con loro, si capiva, ma non se la sentiva di lasciare il suo amico contro tutte le ragazze.
E purtroppo, Jean si era ovviamente irritato e dunque aveva perso qualsiasi forma di accondiscendenza.
“Petto? Ma se sei piatta!”
“Ma come osi!?” fece Riza lanciandogli uno sguardo rovente.
“E’ vero! Insomma tu hai un po’ di petto, si vede – spiegò lui in tutta onestà – Elisa ne ha di più… ma lei forse ne ha più solo di Janet, però non credo che…”
“Jean Havoc sei un mostro!” Elisa si unì nell’abbracciare Rebecca, la solidarietà femminile che iniziava a far fronte compatto contro il nemico.
“Jean – suggerì Heymans con imbarazzo – non è delicato essere così schietti su certi argomenti, sai…”
“Ma è la verità! Insomma, Reby, che problemi ti fai se non hai tette?”
Ancora?
“Sei un insensibile!”
“Non si devono mai dire cose del genere a una ragazza!”
L’aggressione fu tale che Jean indietreggiò di un passo: non gli era mai capitato di vedere le ragazze così furenti, ma nella sua ostinazione non riusciva ancora a capire cosa ci fosse stato di sbagliato nelle sue risposte. Insomma, Rebecca aveva quattordici anni, non poteva certo pretendere di avere il seno che aveva Elisa. E le curve in generale…
“Stupide femmine! –  sbottò girandosi e andando verso lo stagno. Passò accanto alla sorellina e le puntò il dito contro – Tu prova a diventare come loro e ti disconosco!”
 
“E Roy mi ha anche insegnato a tuffarmi dal ponte – esclamò Kain quella sera, mentre la famiglia cenava – all’inizio ho avuto paura, ma lui è stato molto paziente.”
Andrew ed Ellie sorrisero nel vedere tanto entusiasmo da parte del bambino. La sua prima uscita movimentata dopo l’incidente era andata a gonfie vele ed aveva persino superato la sua vergogna per la cicatrice alla gamba.
“E tu, Riza? Non sei stata molto loquace…” fece Ellie all’improvviso.
“Ha detto quasi tutto lui – sorrise la ragazza, accarezzando la guancia di Kain – ma mi sono divertita davvero tanto pure io, lo ammetto.”
“Ci siamo divertiti tutti, peccato solo per il litigio tra Jean e Rebecca.”
“Litigio?” la donna si interessò all’argomento, mentre Andrew si alzava dal tavolo per andare a prendere un'altra caraffa d’acqua.
“Mh sì – annuì il bambino – Jean dice che la sincerità non paga mai. Ed è anche molto arrabbiato.”
“Jean deve imparare ad essere più sensibile – ritorse Riza, lanciando un’occhiataccia a Kain – ricordatelo sempre, capito? Bisogna essere delicati su certe cose.”
“Però quello che ha detto era la verità, no? Insomma, a me pare chiaro che…”
“Sì, era vero, ma non è questo il punto. Certe verità è meglio non dirle o essere gentili.”
Ellie squadrò i due figli, non riuscendo a capire di cosa stessero parlando.
“Uhm, facciamo un esempio – ipotizzò il bambino – Papà, tu sei grande amico della signora Laura, vero?”
“Certo, Kain – annuì l’uomo tornando a sedersi – lo sai bene.”
“E anche tu lo sei, vero mamma?”
“Certamente.”
“Papà, scusa, non è semplicemente la verità che la signora Laura ha più tette della mamma?”
A quella frase Andrew quasi sputò l’acqua che stava bevendo e ad Ellie andò storto il boccone.
Riza arrossì violentemente e desiderò sprofondare seduta stante.
Kain, invece, nella sua ingenuità, non riusciva a capire perché un dato di fatto potesse creare delle problematiche simili.
 
Se Jean e Rebecca avevano litigato perché lei non era ancora discretamente sviluppata, Vato iniziava a trovarsi in difficoltà per l’esatto contrario. Oramai aveva capito benissimo che su determinati argomenti i suoi amici non lo potevano aiutare e così, quella sera, si fece estremo coraggio e chiese a suo padre di poter parlare.
“Vieni in camera per favore – gli disse con imbarazzo – è una cosa… maschile.”
Vincent notò l’aria profondamente confusa del figlio e annuì. Lo seguì nella sua stanza e rimase seduto nel letto guardandolo contorcersi le mani con fare nervoso.
“Qualcosa non va?” gli chiese.
“Ecco, papà… ti è capitato di non saperti… no, dai, lascia stare. E’ troppo difficile.”
Si alzò di scatto dal letto e andò a sedersi alla scrivania, nascondendo il viso tra le mani.
“Che è questa cosa maschile che ti turba tanto?”
“Fare l’amore…” buttò fuori all’improvviso, anche se nei suoi intenti doveva solo pensare una simile cosa e non esprimerla a parole. Si irrigidì immediatamente, aspettandosi che suo padre lo giustiziasse da un momento all’altro.
“Le cose tra te ed Elisa corrono, eh? – disse invece il capitano, in tono comprensivo – Sembra quasi che vogliate recuperare il tempo che avete perso da non fidanzati. E a diciassette anni il desiderio si fa sentire.”
“Fin troppo – ammise lui, rosso in viso, ma lieto di vedere che c’era possibilità di dialogo – oggi non… papà ho avuto una reazione che non… non era mai successo.”
“Da una precedente discussione mi ricordo che hai letto tutto sull’argomento – lo prese in giro l’uomo – dai, stavo scherzando. Insomma stavate per farlo.”
“No, non si può. E se poi resta incinta? – sospirò lui – Insomma, io so che la voglio sposare e che dunque non c’è… papà, come si fa a resistere?”
“Rispetto.”
Fu una risposta secca e laconica, tanto che Vato si girò a guardare il genitore.
“Rispetto… tutto qui?”
“Tutto qui? – Vincent si alzò e sorrise con gentilezza – ragazzo mio, in questa parola magica c’è tutto il senso di un vero amore. Tu la rispetti?”
“Ovviamente! Ma non è questo! Insomma sembra che anche le voglia, ma poi ad un certo punto le scatta la paura e ci fermiamo. Insomma io capisco però… oggi il mio corpo ha…”
“Stai tranquillo che anche lei ha avuto delle reazioni, meno visibili, ma ci sono. Ma non ti devi preoccupare, figliolo, siete due ragazzi responsabili e sapete quando fermarvi: non ci vedo niente di male in questi primi approcci.”
“Anche se poi devi restare cinque minuti buoni a riprendere un minimo di contegno?”
“Ricordati la parola magica, Vato – gli arruffò i capelli – rispetto.”
“Certo…”
Che se la ricordi anche il mio corpo….

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Capitolo 65
*** Capitolo 64. La leggenda del cavaliere. ***


Capitolo 64. La leggenda del cavaliere.


 
La sera stessa di quel tragico litigio, quando Andrew ed Ellie andarono a dormire lei teneva uno strano broncio. L’uomo non ne fu del tutto sorpreso, ma preferì non dire niente lasciando che fosse lei stessa ad esplodere al momento giusto. Ed infatti…
“Mi auguro che prima o poi farai a tuo figlio un bel discorsetto sull’essere sensibili con le ragazze.”
“Ti ho mai detto che hai un seno piccolo e bellissimo? – le ritorse lui, abbracciandola e mettendo una mano sulla parte in questione – Perfettamente proporzionato con il tuo meraviglioso corpo.”
“Stai cercando di fare il ruffiano!” cercò di respingerlo lei.
“No, sul serio… quindi non fare la gattina infuriata con il pelo rizzato e gli artigli fuori. Onestamente, mi hai mai sentito fare paragoni tra te e Laura? E poi, quando mai avrei parlato del suo seno? L’unico su cui ho mai detto parola è il tuo… e ne ho sempre parlato solo con te in termini più che lusinghieri.”
“Scusami – sbuffò lei, girandosi in modo da dargli la schiena e facendosi abbracciare – è che capisco Rebecca meglio del previsto. A conti fatti è un bene che tra noi due ci sia stata una differenza d’età tale da impedirci di vivere simili esperienze assieme. Non credo che avrei mai avuto la forza di mettere un costume da bagno sapendo che c’eri anche tu.”
“Sono ragazzi e sono ancora da sgrezzare, tutto qui – commentò lui – Capisco che per voi femmine alcuni dettagli siano importanti e conoscendo Jean so che non è molto accorto su determinate cose. Ma vedrai che si risolve, suvvia. E anche se nostro figlio è rimasto perplesso, stai certa che ha già la sensibilità giusta.”
“Davvero? Riza sembrava sul punto di fulminarlo quando ha tirato fuori quella frase impietosa su me e Laura.”
“Ha undici anni e per certe cose è più ingenuo del previsto. Avere una nuova sorella sulla soglia dell’adolescenza non è facile sotto certi punti di vista, ma non puoi dire che non sappia cosa sia l’imbarazzo fisico… l’idea che i suoi amici vedessero la cicatrice lo spaventava molto.”
“Lo so, non ce l’ho con lui. E’ il mio pulcino, non potrei mai.”
“Vedrai che Riza sbollirà presto. La solidarietà femminile non la priverà della sua capacità di ragionare.”
“Mi stai dando dell’irrazionale?” lei si girò improvvisamente per fissarlo.
“Apprensiva, irrazionale, in adolescenza piena di complessi per il tuo corpo… ma quanto adoro il tuo seno piccolo e morbido, le tue gambe snelle, i tuoi capelli così ribelli che se non li tieni in una treccia non sapresti come fare. Perché dovevo cercare una principessa quando invece ho avuto la regina delle fate?”
“Sono io quella che inventava fiabe – ridacchiò Ellie, salendo sopra di lui – e molto spesso ti immaginavo come cavaliere coraggioso che veniva solo per me.”
“Bellissima regina delle fate – mormorò lui, guardandola alla luce della luna che entrava dalla finestra – concedi a questo cavaliere il tuo splendente amore?”
“E sia, cavaliere – lo baciò lei con un sorriso – il tuo peregrinare è giunto al termine.”
 
“Tuo figlio e la cavalleria sono due universi distanti e destinati a non incontrarsi mai – Angela spiattellò questa frase in faccia a James mentre la famiglia faceva colazione – e tu, figliolo, non lamentarti se quello sarà il primo di una serie di schiaffi che Rebecca ti darà.”
“E’ ancora un po’ rosso da ieri – notò Janet, ancora in pigiama, inzuppando una fetta di torta nella sua scodella di latte – proprio come quando lo schiaffo te lo dà la mamma o il papà.”
“E tu stai zitta!” sbottò Jean, profondamente contrariato da non trovare la solidarietà familiare che si era aspettato. Sua madre sembrava stare dalla parte di Rebecca, suo padre pareva in qualche modo rassegnato e Janet…
Lei non fa testo… - pensò, osservando la bambina che cercava di mangiare la torta inzuppata prima che cadesse dentro la tazza.
“Insomma, la colpa è anche sua! Che domande mi va a fare se sa benissimo che non ha niente da valorizzare? Io sono solo stato onesto: non avevo proprio capito che intendesse il petto… non ne ha!”
“Non conta la verità, ma quello che lei si vuole sentir dire – sospirò Angela – diamine, Jean, per certe questioni sei proprio zuccone, eh?”
“Grazie, mamma, è proprio bello sentirselo dire.”
“Figliolo, quando hai a che fare con le ragazze devi soppesare ogni cosa che dici, perché può diventare un’arma da usare contro di te…”
“Mah! Lo sapevo che questa storia dell’amore era una fregatura bella e buona.”
“James Havoc, che cosa intendevi dire con l’ultima frase? Che idee stai mettendo in testa a nostro figlio?”
Angela si alzò dal tavolo iniziando a rimettere in ordine e lanciò al marito un’occhiata omicida.
“Vedi, Jean? – commentò l’uomo – ecco l’esempio di quanto ti ho appena detto. Ti possono rivoltare contro qualsiasi cosa.”
“Cosa vuol dire rivoltare, papino?” chiese Janet incuriosita.
“Usare una cosa contro qualcuno.”
“Anche io rivolto le cose?”
“No, non ancora almeno…” ebbe l’accortezza di dire l’ultima parte della frase in modo che la potesse sentire solo Jean.
“Si chiama cavalleria – dichiarò Angela, pulendo con un tovagliolo il mento della figlioletta – e in questa casa pare essere defunta da molto tempo.”
“Mi è passato decisamente l’appetito!” sbuffò Jean alzandosi.
Con aria estremamente offesa si preparò ed uscì per fare un giro che lo aiutasse a sbollire.
Ovviamente gli dispiaceva che Rebecca ci fosse restata male e se la fosse presa, ma era la verità: la ragazza non aveva un briciolo di seno. E Jean non capiva il concetto: se non ne hai allora perché devi fare domande di quel genere? Tutti gli altri, chi in maniera più marcata, chi meno, gli avevano detto che per determinate cose doveva essere più delicato, ma lui non ne capiva il senso.
“In fondo le ho detto che per me va benissimo com’è: le tette le cresceranno più avanti.”
L’idea di Rebecca più alta e con un bel seno non gli dispiaceva tanto: si era accorto che le curve di Elisa non erano niente male e per la prima volta pensare a questi dettagli femminili non gli dispiaceva, tutt’altro. Del resto il seno era la parte più morbida dove appoggiarsi: da piccolo adorava addormentarsi con il viso affondato sul petto di sua madre.
Morbido, profumato… oh sì, come si stava bene.
E se Rebecca con il passare degli anni cresceva anche in quel senso sarebbe stato fantastico.
 
“Ovviamente tu non le dirai niente del genere – disse Heymans squadrandolo con aria dubbiosa – credo che servirebbe solo a farla arrabbiare ancora di più.”
Jean mise il broncio e giochicchiò con uno dei pezzetti del risiko.
Era andato a casa del suo amico e vi aveva trovato anche Vato e Roy, intenti a fare una partita. Così era stato inevitabile che la discussione si spostasse verso quell’argomento così delicato.
“Perché si dovrebbe arrabbiare? Insomma, la metto sul positivo: le faccio capire che a me va bene così com’è e che c’è ottima possibilità che le cresca il seno.”
“Non credo che funzioni in questo modo…” fece Roy caustico.
“Oh senti! E allora che le devo dire? Ovvio che le chiedo scusa se c’è rimasta così male, però è vero che non ha tette.”
“Una volta una delle ragazze del locale di mia zia ha detto che con le parole un uomo può rovinare una relazione in men che non si dica. E loro se ne intendono.”
“Ti riferisci alla cavalleria?”
“Eh?”
“Mia madre ha detto qualcosa come la cavalleria è morta in questa casa. Che cosa si intende di specifico per cavalleria, signor antropologo?”
“Antr… ehi, l’hai detto giusto per la prima volta!” esclamò Vato piacevolmente sopreso.
“Si vede che la situazione è proprio grave, vero?” sogghignò Heymans.
“Beh, vediamo… per cavalleria si intende l’insieme dei doveri imposti a un perfetto cavaliere: nobiltà di modi, generosità, cortesia…”
Delicatezza.” aggiunse Roy.
“Come un cavaliere, eh?”
Jean si posò contro lo schienale ed iniziò a riflettere profondamente.
 
Ovviamente Rebecca non aveva voluto nemmeno vederlo: era andato a casa sua, ma la sorella gli aveva detto che la ragazza non aveva intenzione di uscire dalla sua stanza. Un po’ si era aspettato un atteggiamento del genere e non c’era rimasto troppo male.
Stava iniziando a maturare l’idea che quello che aveva fatto aveva colpito nel segno la sua fidanzata: un po’ come se avesse preso in giro Kain per la sua cicatrice. Di conseguenza serviva qualcosa di veramente speciale per farsi perdonare.
Mentre tornava a casa la sua mente continuò a macinare idee su idee, ma tutte gli sembrarono banali ed inutili: gli serviva qualcosa di eclatante che facesse dimenticare a Rebecca tutto quello che era successo. E poi voleva anche dimostrare che lui era un ottimo fidanzato e che la cavalleria non era per niente morta in casa Havoc, alla faccia di quanto diceva sua madre.
Purtroppo, non avendo esperienze in merito, si trovò costretto ad andare da suo padre e chiedergli consiglio.
“Sì, decisamente servirebbe un gesto eclatante pure a me – sbuffò James, controllando alcuni barattoli sulle mensole dell’emporio – considerato che tua madre è furiosa.”
“Per la storia della cavalleria?”
“Cavalleria e per la solita questione della solidarietà femminile. E non c’è niente di peggio delle femmine ostinate per simili questioni.”
L’occhiata che l’uomo gli lanciò fu molto eloquente.
“Mamma è offesa anche con te?”
“Tua madre è una donna fantastica, Jean, ma ha un difettuccio: se decide che la razza maschile ha fatto qualcosa che non va, non importa se sei suo marito o suo figlio. Ti terrà il broncio per giorni e giorni… tu te la sei scampata più o meno fino ad adesso: ora che hai una ragazza preparati a subire il medesimo trattamento.”
“Ma bene! – sbottò il biondo, mettendosi a braccia conserte – allora è proprio guerra dichiarata tra lei e Rebecca! Le femmine sono davvero impossibili.”
“E preparati: tra circa sei anni ci sarà anche tua sorella a dare man forte.”
“L’ho sempre detto che avrei preferito un fratello…” mormorò Jean, meditando sulle sue sfortune.
L’unico consiglio che ricevette da suo padre fu quello di aspettare che la situazione sbollisse da sola: parlare con le ragazze all’apice della loro furia poteva essere davvero improduttivo.
Tuttavia Jean aveva preso la testardaggine dalla madre e non dal padre e così, salendo in camera sua, era ancora più deciso a ribaltare questa legge del mondo per cui non doveva ottenere il perdono da parte della sua fidanzata: ormai ne aveva fatto una questione di orgoglio personale.
Si sdraiò nel letto analizzando la situazione da tutti i possibili punti di vista, ma più ci pensava più tutte le sue idee gli parevano inutili. Mazzi di fiori, dolci o cose simili erano troppo sdolcinate e certamente non adatte all’occasione.
No, mi serve il gesto eclatante… di cavalleria.
“Cavalleria…”
Mormorò quella parola magica e si alzò in piedi: corse nella camera della sorellina e quasi la travolse.
“Dov’è il libro di favole?” chiese, inizando a rovistare tra i pochi volumi della libreria.
“Eh?”
“Ma sì, quello che ti legge la mamma qualche volta prima di andare a letto!”
“Ah quello! – si illuminò lei – è qui sotto il letto! Mi vuoi leggere una favola?”
“Non ora, avanti dammelo! E poi, perché è sotto il letto?” si chinò a recuperarlo.
“Non lo so… ah no! Aspetta! Prima lo stavo usando come tavolo per la merenda delle mie bambole.”
“Molto entusiasmante – borbottò lui, sedendosi a gambe incrociate e sfogliando con impazienza quelle pagine – andiamo… mi ricordo che c’era quella storia… eccola!”
“Quale? – chiese con curiosità la sorellina abbracciandogli il collo da dietro e sbirciando dalla sua spalla – Oh, ma quella è l’immagine del cavaliere! E la storia dell’eroe che va a salvare la principessa nel castello! Chiedo a mamma di raccontarmela tante volte!”
“Ti piace quest’immagine?” chiese Jean girandosi a guardarla.
“Tanto: guarda, il cavaliere è biondo e ha gli occhi azzurri come te e papà.”
“E perché pensi che alla principessa piaccia il cavaliere?”
“Perché è bello, coraggioso e arriva col suo cavallo bianco – disse lei, quasi fosse una filastrocca – e non ha paura di niente e nessuno per salvare la bella principessa.”
“Janet, hai proprio colpito nel segno! – rise Jean afferrandola e abbracciandola – Si vede che sei mia sorella: puoi chiedermi tutto quello che vuoi.”
“Allora me la leggi la favola?”
“Ma certo! – sorrise, facendo sistemare la bambina nel suo grembo – mi farà bene sapere ulteriori dettagli.”
“Eh?”
“Niente, lascia stare… allora: in un regno tanto tanto lontano…”
 
Quella sera, totalmente ignaro di quanto progettava il suo miglior amico, Heymans aiutava sua madre a sparecchiare.
“Se vuoi puoi andare, tesoro – gli disse Laura – posso fare da sola.”
“Ma figurati mamma, la cavalleria mica è morta in questa casa.”
“Scusa?” ridacchiò lei, mettendo le stoviglie nel lavandino.
“Una frase della madre di Jean – spiegò lui con un sogghigno – che forse lo farà riflettere un po’ sull’essere delicato con la propria ragazza.”
“Ah, la famosa questione del litigio? Sono proprio curiosa di vedere cosa si inventerà il tuo amico.”
“Io più che curioso ne sono impaurito – ammise il rosso, passando lo strofinaccio sopra il tavolo – però è una questione tale che io non mi sono voluto intromettere. Insomma, non mi piace pensare di Rebecca in quel senso… è mia amica.”
“Non c’è qualche fanciullina che ti piace?”
Fu una domanda fatta all’improvviso, tanto che Heymans alzò lo sguardo sulla donna, quasi a chiederle se lo stesse prendendo in giro. A dire il vero lui non era minimamente interessato al mondo femminile, non in quel senso. Certo, riteneva che alcune ragazze andassero più incontro ai suoi gusti rispetto di altre, ma da qui a dire che qualcuna gli piaceva veramente, la strada era davvero lunga.
“No, direi di no – ammise infine – e poi non credo di essere un buon partito, sia fisicamente che… uhm… per altre questioni.”
“Spero che un giorno troverai una brava ragazza che non faccia caso a tutto ciò che è successo – sospirò Laura – e lo stesso mi auguro per tuo fratello.”
“Se mai succederà, ti giuro che sarò rispettoso di lei – dichiarò con convinzione – non sarò come p… scusa, non dovevo dirlo.”
“Non sarai come tuo padre? – concluse Laura con un sorriso stanco – E’ quello che mi aspetto da te ed Henry, ma sono convinta che non sarete assolutamente come lui.”
“Per ora mi limito ad essere il tuo cavaliere, mamma, ti va bene?”
“Oh, ma così mi fai sentire una principessa, sir Heymans – lo prese in giro, slegandosi il grembiule e mettendoglielo sulle spalle a mò di mantello – e dimmi, mio prode cavaliere, domani farai anche delle commissioni per la tua dama?”
“Nei limiti del consentito.” concesse lui, strizzandole l’occhio.
 
Il sole stava appena sorgendo nella placida campagna di quel piccolo angolo di mondo, quando il prode cavaliere condusse fuori dal maniero il suo maestoso destriero. Voleva aprofittare dei primi raggi di quell’alba fatale per andare in missione senza che nessuno se ne accorgesse: era convinto che la sua impresa avrebbe avuto esito positivo solo con l’assoluta segretezza.
L’impavida giullare di corte gli aveva dato l’idea giusta per rientrare nelle grazie della sua dama, dimostrandole tutto l’amore che provava per lei. Quale fanciulla non sarebbe svenuta ai piedi di un cavaliere in groppa ad un cavallo bianco.
Non è proprio bianco, va bene… è pezzato.
“No, dai Scruffo, non fare così – mormorò, accarezzando sul muso l’animale che sbuffava, incuriosito da quella novità di essere portato fuori così presto – tieni, fai il bravo, è una carota tutta per te.”
Scruffo… non era proprio un nome adatto al destriero di un importante cavaliere: Fulmine, Lampo, Maestoso, quelli sì che andavano bene. Tuttavia quel nome era stato scelto da Janet quattro anni fa, quando il cavallo aveva preso il posto dell’ormai vecchissima Margherita… la bambina era rimasta molto divertita dai movimenti della criniera e dai versi che faceva l’animale quando scrollava la testa.
Fa scruff! Scruff!
E così era stato battezzato Scruffo.
Tornando all’impresa…
Il prode cavaliere mise le redini al cavallo e, incurante delle convenzioni, lo montò a pelo. La sella non serviva se non nei tornei: in questo caso andava a rendere omaggio ad una fanciulla e, oggettivamente, nella sella non ci sarebbero mai stati in due.
Anche perché una sella non ce l’abbiamo considerato che lo usiamo per il carro.
Scruffo scartò lievemente quando sentì il ragazzo sopra la sua groppa: non capiva come mai non lo attaccasse al carro come sempre. Tuttavia dopo dieci secondi d’esitazione seguì le indicazioni delle familiari redini ed iniziò a muoversi verso il sentiero che portava in paese.
Nessuno si era ancora svegliato e così il prode cavaliere si godette il silenzio della campagna, fiero in sella al suo purosangue dal manto quasi candido fedele compagno di mille avventure.
“No… no aspetta, ma che fai! – esclamò a metà strada, quando l’animale andò al lato del sentiero a brucare l’erba – Scemo! Dobbiamo andare in paese! Forza!”
Con qualche incitazione riuscì a distogliere l’attenzione del cavallo dal cespuglio di margherite e proseguì verso la sua meta. Il sole era da poco alto quando giunse nel paese dove abitava la fanciulla verso cui doveva fare ammenda. Non facendo caso ai pochi popolani che lo guardavano con curiosità (zotici villici, che cosa ne potevano sapere dell’amor cortese?), andò al castello della fanciulla, proprio sotto la torre dove aveva le sue stanze.
“Reby! – chiamò, prendendo dalla tasca dei chicchi di riso che aveva precedentemente preso dall’emporio e lanciandoli alla finestra – Reby!”
Dopo una decina di secondi la dolce visione apparve, con i capelli scompigliati, il pigiama stroppicciato e gli occhi ancora chiusi per il sonno.
“Ti rendi conto di che ore sono, cretino?” sbottò.
A quel benvenuto non proprio caloroso, il cavaliere sbottò.
“Credi che mi faccia piacere alzarmi a ques… ehm, meravigliosa fanciulla che occupa i miei sogni ed è per lei che sospiro e… canto versi in pros… rime baciate come il bacio che…”
“Sei ubriaco o cosa?”
“Ma no! Insomma – sbuffò lui, vedendo che i suoi tentativi di linguaggio cavalleresco non andavano a buon fine – io volevo chiederti ancora una volta scusa. E volevo… uhm, ti va di venire a fare un giro sul mio destriero?”
“E’ il cavallo di tuo padre, quello che usa per il carro.”
“E usa la fantasia! Perché devi trattare così male Scruffo? Certo non è proprio bianco e…”
Quasi si fosse sentito chiamato in causa il destriero si girò di lato e alzò la coda, defecando.
“Ma che schifo!” commentò Rebecca, mettendosi la mano a protezione del naso e della bocca.
“E’ un cavallo, ovvio che fa così! Dannazione, esci si o no?”
“Ti pare il modo di chiedermelo?”
“E dai che non è bello che la faccia nella strada del paese – supplicò lui – e se mi vede il capitano Falman come minimo mi fa una ramanzina…”
“Ma perché stai facendo tutto questo?”
“Per fare pace con te, ovvio.”
La fanciulla a quel punto guardò il suo cavaliere e si convinse a metterlo alla prova. Il loro amore era stato messo in dubbio da perfidi incantesimi del destino, ma sembrava che in fondo al cuore pulsasse ancora pura e splendente la scintilla del vero sentimento che li univa.
“Dammi un paio di minuti per cambiarmi… anzi, vai direttamente alla scuola. Ti raggiungo lì tra cinque minuti.”
“Grandioso!”
 
Fanciulla e cavaliere si misero in viaggio allontanandosi dal luogo dove lei era stata vittima del malefico incantesimo: finalmente, a cavallo del valoroso destriero, erano di nuovo insieme e felici.
“Fa malissimo! I movimenti della schiena del cavallo mi fanno male al sedere… ed ha il pelo che punge!”
“Eh?”
“Prova a metterti in gonna e poi ne riparliano – sbuffò Rebecca, tenendosi alla vita del compagno – e poi non è che mi senta molto sicura ad una simile altezza, sai.”
“Fidati, mia dolce dama, non permetterò che ti accada alcunchè!”
“La smetti di parlare come un deficiente?”
“Non è un linguaggio da deficiente! E’ quello dei cavalieri, capito? Non so se l’hai intuito, ma sto cercando di essere cavalleresco con te!”
Per sottolineare questa protesta diede un colpo di redini e Scuffo reagì con un nitrito e caraccolando nel prato che stavano attraversando.
“No! – ansimò Rebecca, serrando la vita di Jean – Fallo calamare! Ho paura!”
“Non agitarti – la supplicò il ragazzo – sente se sei nervosa e… No, Scruffo!”
L’animale ovviamente era già eccitato dalla novità di essere libero dal peso del carro, a questo si aggiunse il nervosismo trasmesso dalla giovane coppia… passare dal passo al galoppo fu molto breve, anche perché il cavaliere non era per niente bravo a tenere le redini.
Fortunatamente per dama ed eroe il cavallo aveva solo intenzione di sgranchirsi le zampe e come vide un cespuglio di margherite calmò la sua corsa per andare a brucare docilmente i suoi fiori preferiti. Aproffittando di quel momento di tregua, i due giovani scesero con cautela a terra.
“Sei un cretino! – strillò Rebecca, dandogli uno schiaffo – E’ così che ti vuoi far perdonare? Facendomi morire di paura?”
“Ma non è successo niente! – protestò lui – No, adesso perché piangi?”
“Ho creduto che ci disarcionasse! Potevamo farci male! Sei un mostro, Jean Havoc, non ti voglio mai più vedere in vita mia!”
E con passo tremante si avviò verso l’uscita del campo.
“Reby! – le corse dietro lui, afferrandola per il braccio – aspetta, sei spaventata, ti riaccompagno io a casa e…”
“Lasciami stare! Ti odio! Ti odio tantissimo!” esclamò, divincolandosi dalla sua stretta e correndo via.
E al prode cavaliere non restò che osservare la sua dama che si allontanava, ancora una volta portata via dal crudele incantesimo che le gelava il cuore. L’unico che venne a consolarlo fu Scruffo che gli diede un’amichevole musata sulla testa, quasi a ricordargli che non c’era niente da fare e che restare in quel campo, fermi a guardare il vuoto, non serviva a niente ed era davvero poco cavalleresco.
E così, senza nemmeno risalire in groppa al fedele destriero, l’eroe tornò al suo maniero con il cuore gravato dalla più pesante sconfitta della sua vita. Riteneva che niente potesse rendere la situazione peggiore…
“Fratellone! – Janet gli corse incontro appena lo vide vicino al cortile – Fratellone, sei nei guai!”
“Eh?” chiese distrattamente, accorgendosi dell’occhiata preoccupata della sorella.
“Mh – annuì lei – papà si è arrabbiato quando ha scoperto che hai preso Scruffo senza permesso… mi ha detto di aspettare che arrivassi. Dice che devi riportare Scruffo nella stalla e poi andare immediatamente in camera tua.”
“Merda…” sibilò il giovane, sapendo che dietro quell’ordine c’era la punizione peggiore che lo potesse aspettare. 
Avrebbe potuto salire in groppa al destriero e fuggire verso lontani paesi, via da quel mondo così ingrato dove non solo veniva umiliato e vilipreso (o era vilipeso? Non che la cosa avesse importanza), ma anche punito. Tuttavia con un sospiro si avviò verso le stalle, la manina di Janet stretta nella sua quasi a fornirgli assistenza morale… piccolo giullare di corte, forse l’unica che gli era stata vicina in quest’avventura.
Non sempre le favole finivano bene per il cavalieri.
Forse la cavalleria è davvero morta in questa casa.
 
“Rubare il cavallo di tuo padre e andare a prendere Rebecca come se fossi un cavaliere – la sera successiva Heymans ancora lo prendeva in giro – sapevo che mi dovevo aspettare qualcosa fuori di testa da parte tua, ma questo supera ogni mia aspettativa.”
“Grazie mille – sbuffò Jean, posato a braccia conserte contro la staccionata del cortile – apprezzo la solidarietà che dimostri nei miei confronti.”
“Finiscila – gli diede una pacca amichevole sulla schiena – allora come l’ha presa tuo padre?”
“Beh, mio padre ha due modi di darmele: o mi fa piegare sul tavolo e lì le cinghiate che mi prendo sono relativamente poche, oppure mi carica sulle ginocchia perché mi deve tenere fermo da quante ha intenzione di darmene.”
“E ieri?”
“Sulle sue ginocchia… per molto… troppo tempo. Credo sia stata la punizione più severa che mi sia mai preso in quasi quindici anni di vita.”
“Affermazione pesante, eh?”
“Ma ci sono gli elementi per confermarla – dichiarò con aria seria – ho il sedere e la parte alta delle cosce livida e a strisce. Dovrò mangiare in piedi per almeno due giorni, non ho dubbi… sai qual è la mia opinione? Che la cavalleria è davvero morta perché nessuno l’apprezza più.”
“E tua madre che ha detto?”
“Che sono uno zuccone e che non devo più fare niente di simile. Ha continuato a vaneggiare su tutti i pericoli che ci potevano essere ad andare a cavallo di Scruffo… ecco, forse lui è l’unico che ha ottenuto qualcosa: una bella passeggiata senza carro da trainare.”
“Vedi? Allora a qualcosa è servito e… uh? Ma quella è Rebecca…”
“Lei? – Jean aguzzò la vista e riconobbe la brunetta che correva verso l’emporio – Sì, hai ragione…”
Come li vide, la ragazza deviò e senza lasciare loro il tempo di parlare si buttò addosso a Jean, facendolo cadere a terra (con dolorose conseguenze considerato che impattò di sedere) e scoppiò in lacrime.
“Oh Jean! – singhiozzò – Tu sei il fidanzato più meraviglioso e fantastico del mondo! Ti amo con tutte le mie forze! Ti adoro!”
“Eh? – si sorprese lui, mentre veniva abbracciato con foga – Ma che è successo? Ieri eri furiosa con me!”
“Ho saputo che le hai prese da tuo padre…” disse, prima di baciarlo.
“E con questo?”
“Oh, tesoro mio, sei stato così coraggioso – sospirò lei con occhi sognanti – per salvare il nostro amore non hai esitato a sfidare le ire di tuo padre. Chi mai avrebbe fatto una cosa simile?”
Jean lanciò un’occhiata perplessa ad Heymans, il quale si limitò a sogghignare e scrollare le spalle.
Poi recuperò un minimo di dignità e abbracciò la ragazza con fare seccato.
“Certo! Ovvio che… che l’ho fatto! Se poi tu sei così stupida da non capire…”
“Tesoro scusami! Domani ti preparo una torta, quella che piace a te… oh, il mio cavaliere meraviglioso! Le mie compagne creperanno d’invidia! Tutte le ragazze lo faranno…”
E così, nonostante le conseguenze infauste al sedere, il cavaliere aveva dimostrato che l’amore trionfa sempre.
“E che la cavalleria in questa casa non è morta!”
“Scusa?” fece Rebecca.
“Niente, andiamo, perché non mi dici ancora quanto sono meraviglioso?”

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Capitolo 66
*** Capitolo 65. Ritorno agli studi. ***


Capitolo 65. Ritorno agli studi.

 
 
Ritornare in classe comporta sempre un miscuglio di emozioni: delusione per la fine delle vacanze, aspettative per il nuovo anno scolastico, timore per le nuove materie che si dovranno affrontare, sollievo perché in fondo c’è la certezza di nove mesi assieme a persone che si conoscono bene.
Kain non aveva mai vissuto tutte queste sensazioni, in genere in lui ne convivevano solo due: gioia per avere tantissime nuove cose da imparare e terrore per le sevizie che avrebbe subito da parte degli altri ragazzi.
Per questo motivo stare seduto sul proprio banco, i docenti presenti, per lui costituiva una grande forma di sollievo: quegli adulti, fonte di sapere e dunque degni della sua ammirazione, erano la parte sicura della scuola, quella per la quale era felice di alzarsi la mattina.
O almeno questo era quello che provava un anno prima.
Adesso, per la prima volta, nonostante fosse innegabilmente felice di essere tornato a sedere in un banco, iniziava a capire la nostalgia per il tempo libero, per gli scherzi e le risate estive, per quella libertà che gli consentiva di stare con i suoi amici.
Tuttavia questi pensieri erano tranquillamente controllati dal bambino che, sotto l’occhio vigile di due docenti, continuava a scrivere sui fogli delle verifiche. La sua mano si muoveva agile, la penna lasciava un tratto sicuro sull’espressione di matematica: per quelle prove aveva deciso di usare la penna di suo padre. Non l’avrebbe portata a scuola per altre occasioni, ma in quel caso riteneva che fosse giusto così. Del resto era per quell’oggetto che si era fatto così male, perdendo tanti giorni di lezione.
Scrivendo il risultato finale del problema di matematica si arrischiò a lanciare un’occhiata all’altro studente che stava a pochi banchi di distanza dal suo e notò con piacere che non stava avendo problemi in quelle verifiche di recupero.
Effettivamente era strano trovarsi da soli in classe, consapevoli che nessun altro studente era nella scuola dato che era domenica. A dire il vero era la prima volta che succedeva una cosa simile. Ma più di un mese di scuola saltato comportava delle lacune e lui ed Henry dovevano dimostrare di averle colmate durante l’estate.
“Hai finito, Kain?” gli chiese la docente di lettere con un sorriso.
“Sì, signora – annuì lui, alzandosi in piedi – adesso consegno.”
La donna fece per alzarsi a sua volta, credendo che avesse bisogno d’aiuto: era un effetto collaterale dei pantaloncini corti dai quali sporgeva la fasciatura che copriva la cicatrice. Ma il bambino aveva dimostrato a tutti che era perfettamente in grado di correre e camminare senza alcun dolore a tormentarlo: due giorni prima era andato ad East City per l’ultimo controllo ed i medici l’avevano dichiarato completamente guarito.
Quasi contemporaneamente anche Henry si alzò dal suo banco e andò a consegnare le sue verifiche.
I due ragazzini si scambiarono un’occhiata mentre osservavano i loro professori che iniziavano la correzione: considerato che erano solo in due non ci sarebbe voluto molto tempo e l’esito si sarebbe saputo entro dieci minuti.
“Ti ha dato ventisei l’espressione?” sussurrò Henry.
“Sì.”
“Molto bene.” il rosso annuì compiaciuto e riprese a guardare gli insegnanti intenti nel loro lavoro.
Kain ne approfittò per squadrarlo con attenzione, scoprendo quanto assomigliasse a sua madre, specie ora che aveva perso buona parte dell’aria cattiva che aveva avuto fino a un paio di mesi prima. Ora, non sapeva nei dettagli quello che era successo alla famiglia Breda: i suoi genitori gli avevano raccontato che il padre di Heymans non era una persona molto buona e così era stato mandato via. Era successo quando lui stava male e dunque non aveva potuto essere partecipe come gli altri ragazzi, ma non era così ingenuo da non capire che sicuramente quell’uomo aveva fatto del male alla moglie e ai figli.
Era per colpa sua che Henry era così cattivo?
Sembrava incredibile, ma era così. O per lo meno l’atteggiamento del ragazzino era molto cambiato dopo quell’episodio. Ora lo salutava, parlava tranquillamente con lui e pur non essendo veramente amici c’era un’interazione cordiale e pacifica.
“Molto bene, ragazzi – la voce del docente gli fece riportare l’attenzione al motivo per cui erano lì – non avevo molti dubbi che due bravi studenti come voi non avrebbero avuto problemi. Le verifiche sono perfette e direi che non c’è motivo per non considerarvi studenti di seconda media a tutti gli effetti. Complimenti ad entrambi.”
A quelle parole i due ragazzi si scambiarono un’occhiata e sorrisero con estrema soddisfazione: era come se quell’atto chiudesse definitivamente la brutta storia dell’incidente alla miniera.
 
Ad aspettare nel cortile della scuola c’erano sia Heymans che Riza.
Nessuno dei due era molto ansioso riguardo l’esito di quelle verifiche di recupero, sapevano bene quanto i due ragazzini fossero intelligenti. Tuttavia la bionda notò che l’amico era lievemente preoccupato.
“Qualcosa non va?” gli chiese.
“Non proprio – rispose lui, mettendosi a braccia conserte – o per lo meno per quanto riguarda le verifiche. Ho aiutato Henry a recuperare tutto il programma e sono sicuro che se la caverà egregiamente.”
“E allora che cosa ti preoccupa?”
“L’atteggiamento degli insegnanti.”
“Credi che ce l’abbiano ancora con lui?”
“Non ce la dovevano avere con lui a prescindere – scosse il capo con disappunto – quando Henry è tornato a scuola, l’ultimo giorno, diversi di loro sono stati molto freddi nei suoi confronti. So che la situazione era molto difficile e confusa, che tutti erano molto più preoccupati per Kain, ma…”
“Mi dispiace.”
“Sono felice che sia tornato solo per quelle ultime tre ore, se fosse accaduto in pieno anno scolastico sarebbe stata ancora più difficile, lo so. Per fortuna ha avuto tutta l’estate per riprendersi dalla balbuzie e liberarsi della figura di nostro padre.”
“L’ha fatto davvero? – chiese Riza con curiosità – Te lo chiedo perché in fondo io credo che non riuscirò a liberarmi del tutto dal mio.”
“E’ diverso – ammise Heymans – tuo padre in fondo non ti ha mai fatto niente di male… da noi è stata una vera e propria violenza fisica e mentale. C’è stato un trauma che ha spezzato tutto quanto e questo fa una grande differenza.”
“Anche un padre che non ti considera può essere dannoso, sai?”
“Vuoi fare a gara?” la prese in giro il rosso con un’occhiata sarcastica.
“Non volevo dire questo, scusa.”
“Tranquilla, capisco che nemmeno per te è stato facile gestire quell’uomo. E dopo la morte di tua madre sei rimasta sola con lui in quella casa… almeno la mia è sempre stata accanto a me ed Henry. Non so cosa avremmo fatto senza di lei.”
“E’ strano, sai? Insomma penso che sarebbe molto diverso se lui fosse andato via come tuo padre; invece è ancora lì, nella nostra villetta, che prosegue a studiare come se io non fossi mai andata via…”
“Senti, è vero che Roy sta studiando alchimia?”
La domanda cadde pesante fra di loro, il punto dolente della questione che veniva finalmente toccato. Berthold continuava ad essere presente nella vita di Riza e adesso c’era un nuovo e pesante legame che la incatenava a lui.
“Sì, è vero.”
Ma non aggiunse altro e si costrinse a sorridere nel vedere Kain ed Henry che uscivano dalla scuola annunciando a gran voce la bella notizia delle verifiche passate.
 
Proprio quel pomeriggio, quasi a dare conferma ai timori di Riza, Roy aprì la porta di casa Hawkeye tenendo tra le mani il libro di alchimia che aveva preso in prestito un paio di settimane prima.
L’aveva letto due volte da cima a fondo, sempre di sera quando rientrava a casa.
Aveva promesso a Riza che lo studio di questa materia non l’avrebbe reso una persona chiusa in se stessa come Berthold Hawkeye: era per questo che preferiva dedicarsi ad essa quando non era visto da nessuno. Se avesse trascurato i suoi amici per l’alchimia sicuramente gli sarebbero tutti piombati addosso come dei falchi: in determinate situazioni era meglio essere discreti, anche con le persone a cui si voleva bene.
Mentre percorreva il corridoio silenzioso e modificava la presa sul libro rifletté sul suo contenuto.
Se doveva essere sincero si era aspettato un primo approccio più entusiasmante: certo era da ingenui aspettarsi che quel libro di basi potesse già insegnargli l’uso dell’alchimia, ma aveva sperato in qualcosa di più. Tuttavia sarebbe stato sciocco non approfittare dell’occasione che gli veniva offerta e così aveva assorbito tutto quello che le pagine ingiallite potevano offrirgli, sperando che il prossimo testo si dimostrasse più avvincente.
Perché ovviamente ci sarebbe stato un secondo libro: Berthold Hawkeye non poteva mettergli la pulce nell’orecchio e poi lasciarlo con un pugno di mosche in mano. Se gli aveva prestato quel libro c’era una ragione e cioè che, in fondo, era interessato a lui.
Devo giocarmela al meglio: devo uscire da questa casa come suo allievo!
Arrivato davanti allo studio dell’alchimista bussò due volte prima di aprire la porta.
Aveva già iniziato a pensare ad un modo per attirare l’attenzione dell’uomo, ma rimase sorpreso nel vederlo voltarsi di sua spontanea iniziativa.
“Signore – mormorò, riprendendosi e mostrando il volume – sono venuto a riportarle il libro di alchimia che mi aveva prestato. Lo metto nella scrivania?”
“No – rispose Berthold, gli occhi azzurri e febbrili sempre fissi su di lui – mettilo nel terzo ripiano dell’ultima libreria.”
Annuendo lievemente Roy eseguì quanto gli veniva richiesto, intimamente sollevato di interrompere per almeno qualche secondo il contatto visivo a cui era stato costretto. Ma quegli occhi sembravano trafiggergli la schiena mentre sistemava il volume al suo posto.
Dovette trarre un lieve respiro per recuperare la calma e portarsi davanti alla scrivania.
Dannazione, ma perché mi guardi così? Dove è finita tutta la tua indifferenza?
Eppure questa attenzione che gli veniva data avrebbe dovuto fargli piacere: voleva dire che in qualche modo Berthold Hawkeye era interessato a lui e forse c’era la minima possibilità che lo accettasse come allievo.
Era un’idea che ormai aveva maturato da tempo: prima era solo una speranza, ma dal periodo successivo alla piena si era ripromesso che, in un modo o nell’altro, avrebbe convinto quell’uomo ad insegnargli l’alchimia. La vicenda del nonno di Riza e quanto ne era conseguito avevano spianato una strada del tutto nuova ed inaspettata.
E sarebbe da folli non approfittarne…
“Ebbene?” la voce dell’alchimista lo fece trasalire e Roy capì di essere davanti ad un insegnante che lo interrogava su quanto era stato appena studiato.
“Ho bisogno di altri libri.”
“Perché?”
“Perché voglio andare oltre le basi e…”
La risata di Berthold lo interruppe e un brivido percorse la schiena del ragazzo: non credeva che quell’uomo fosse capace di fare una risata tanto sgradevole. L’aveva già sentita un’altra volta durante la piena, ma si era dimenticato di quanto potesse essere carica di amarezza e disillusione: era come se lo prendesse in giro per il solo fatto di esistere.
“Oltre le basi, eh? Dimmi, pretendi anche di saper già fare qualcosa per un solo libro letto?”
“Non ho detto questo!” si difese Roy.
“Ascoltami bene, ragazzino – si alzò in piedi, dimostrando di essere una persona più alta del previsto. Era la posizione china che traeva in inganno – quello che hai letto è solo una briciola di quello che è l’alchimia. E paragonato a quello che ho creato io è ancora di meno… cosa pretende di fare una mente come la tua? Volevi già usarla durante la piena del fiume, lo so bene, lo leggevo nei tuoi occhi, ma se pensi che sia così facile ti sbagli di grosso.”
“E allora la prego di accettarmi come suo allievo!”
Roy fece un passo avanti e con un gesto della mano bloccò il discorso di quell’uomo.
Non gli piaceva, assolutamente: lo considerava un pessimo padre ed era felice che Riza non vivesse più con lui. Ma quello che gli bruciava di più era che avesse a disposizione tutto quel sapere e non volesse condividerlo con nessuno… con lui.
“Dammi una motivazione valida.”
“Per uno scambio equivalente!”
“Che c’è? – sogghignò l’altro – Vuoi dimostrarmi di aver imparato a memoria i concetti di quel libro? Scambio equivalente… probabilmente non hai nemmeno capito che…”
“Morirà con lei, è questo che vuole?” ancora una volta Roy lo bloccò.
Ed ebbe la soddisfazione di vedere un briciolo di paura nei suoi occhi: aveva trovato il punto debole di quell’uomo. Le sue notti passate a meditare erano servite a qualcosa. Forte di questa convinzione trovò il coraggio di continuare con una certa sfacciataggine:
“Lo scambio equivalente dice che per avere qualcosa bisogna sacrificare qualcosa del medesimo valore. E’ semplicemente un dare per avere, no? Io do me stesso come allievo – si mise una mano sul petto a sottolineare quanto diceva – e lei mi insegna tutto quello che sa.”
“Dare per avere, eh?”
“Che cosa succederà quando morirà? – continuò Roy imperterrito, facendo un ampio gesto con la mano ad includere tutta la stanza colma di libri e di fogli – Le sue ricerche, quello per cui ha tanto lavorato e sacrificato moriranno assieme a lei… è questo che vuole? Anni di lavoro destinati a sparire per sempre?”
Berthold sorrise lievemente e si risedette, posando i gomiti sulla scrivania e usando le mani come appoggio per il mento.
“E perché proprio tu?”
“Perché non ha scelta, altrimenti sarebbe già andato via. Sono l’unico in questo paese disposto a diventare suo allievo… anzi, a voler diventare suo allievo.”
“Mh.”
“Riza è da escludere – disse con fermezza – con il suo atteggiamento l’ha allontanata così tanto che prova ribrezzo per l’alchimia e…”
“E se provasse ribrezzo anche per te?”
C’era un non so che di amabile nel tono con cui gli venne rivolta quella domanda, tanto che Roy ne rimase spiazzato: quell’uomo era in grado di cambiare atteggiamento con una velocità disarmante. Era come avere a che fare con più personalità.
Che cosa mi vuoi far dire? Vuoi che arrivi a dirti che io non sarò mai pessimo come te?
Iniziò ad aprire bocca ma si fermò… e se era una trappola? Una scusa per non accettarlo? Possibile che gli stesse chiedendo di essere come lui come condizione per diventare suo allievo?
“I rapporti con le persone che stanno attorno a me ho intenzione di gestirli a modo mio, signore – disse infine – l’alchimia non condizionerà quello che sono.”
“Ne sei certo? Eppure tenevi il libro con una brama tale… pensi che non ti abbia visto? Ed erano solo le basi. Se arrivassi a quanto c’è dopo saresti sicuro di poter affermare sempre le stesse cose?”
“Mi sta dicendo che è destino di ogni alchimista essere solo?”
“Ti sto dicendo che per imparare tutto quello che vuoi sapere devi dare molto di più che l’impegno. Non è una stupida materia scolastica.”
“Non l’ho mai pensato. Mi metta alla prova.”
Rimasero dieci secondi a guardarsi, gli occhi neri che non esitavano a tenere lo sguardo di quelli azzurri.
“Andata, ragazzo – disse infine Berthold – ti concedo una settimana di prova: vieni ogni giorno alle sei e vediamo quanto vali.”
“Grazie, signore! – esclamò Roy con gioia – Le assicuro che non avrà di che pentirsene.”
 
Il giorno dopo ricominciò la scuola ed i ragazzi si dovettero riabituare ai ritmi imposti dalle cinque ore di lezione mattutine ed i compiti dati a casa. Trattandosi della prima settimana i docenti erano ancora propensi ad andare leggeri, preferendo fare un ripasso generale prima di affrontare il nuovo programma e così gli studenti potevano assorbire con più facilità il rientro dalle vacanze.
Ovviamente questo discorso valeva anche per il gruppo di amici: eccetto Kain ed Henry che avevano studiato più del previsto durante quell’estate, gli altri si dovettero lentamente riadattare alla mentalità scolastica. Persino Vato dovette fare i conti con qualche giorno di assestamento, effetto collaterale di aver passato per la prima volta l’estate più fuori che dentro casa.
Ma in ogni caso tutti erano felici di avere di nuovo quell’appuntamento quotidiano.
“E’ bello poter tornare a casa assieme a te.”
Kain sorrise timidamente mentre lui e Riza, alla fine del terzo giorno, si avviavano nel sentiero di campagna che li avrebbe ricondotti a casa.
“Sono le prime volte che facciamo la strada assieme dopo scuola, ci hai mai pensato?”
“Già, però una volta mi avevi rincorso, ti ricordi? Sembra tanto tempo fa – il bambino fece un saltello per andare a sfiorare con le dita un ramo pendente sul sentiero – invece non è nemmeno un anno. Sai, mi sono sentito tanto felice di scoprire che volevi diventare mia amica.”
“In un anno ne cambiano di cose, vero? Adesso sono tua sorella.”
“Già e poi per te è un vantaggio, no? Se hai problemi con la trigonometria hai papà a disposizione per spiegartela.”
“Trigonometria – sospirò lei con delusione – ci ha già dato dei compiti di ripasso, te ne rendi conto? Il terzo giorno di scuola… penso sia stato l’unico insegnante.”
“Ma sono sicuro che papà ti aiuterà volentieri. E quando la studierò, ti darò una mano pure io.”
Riza sorrise e gli arruffò i capelli neri: Kain non aveva perso minimamente la sua capacità di farla sentire bene e amata in una maniera assoluta. La sua semplice spontaneità, priva di qualsiasi sottinteso, le illuminava la giornata anche quando c’erano dei problemi ad assillarla.
Ed effettivamente ne ho uno anche bello grosso.
“Suvvia! – esclamò, rifiutandosi di cedere alla preoccupazione almeno in quei momenti spensierati – Facciamo una gara a chi arriva prima al ponte?”
“Ti avviso che sono veloce!” annuì lui, scattando in avanti in maniera davvero improvvisa.
“Così non vale!” rise correndogli dietro e godendosi il sole settembrino.
 
“Su B?” l’indice di Andrew si posò sulla matita che Riza stava maneggiando.
“Beh sì…” ammise lei guardando il cerchio disegnato sul quaderno.
“Attenta.”
La ragazzina arrossì mentre l’uomo le dava un leggero colpetto sulla testa e la invitava a guardare con attenzione il problema di trigonometria. Più ne faceva e più si convinceva che quella materia sarebbe stata il suo punto debole fino alla fine della sua vita scolastica.
“Stiamo parlando del…?” Andrew la incitò, mettendosi a braccia conserte.
“Del seno.” un lieve broncio le comparve nei lineamenti sentendosi presa in giro.
“E qual è la formula?”
“Seno uguale BC”
“Appunto, e allora come fa ad andare in B se da B deve partire?”
“Oh! – arrossì lei – Dannazione, ho ancora confuso con il coseno!”
Si affrettò a correggere la formula e a terminare l’esercizio.
“Non è proprio un ottimo inizio di anno scolastico, eh? – Andrew prese il quaderno e controllò che gli esercizi fossero tutti fatti correttamente – Con quell’insegnante non concludi molto, vero?”
“Mi odia, si capisce.”
“Che parolone – la prese in giro lui – Laura diceva le stesse cose per il docente di lettere. Ma ammetto che quell’uomo non era simpatico alla maggior parte degli studenti.”
“Una persona che ti dà dei compiti i primi giorni non è proprio degna di simpatia – commentò la ragazzina alzandosi dal tavolo di cucina e radunando il suo materiale scolastico – scusa, papà, ti ho impegnato tutto il dopo cena.”
“Tranquilla, tesoro – la consolò lui – direi che ci dovremo andare sotto con la trigonometria.”
“Che?”
“Non hai una mentalità molto scientifica, vero? Sei più portata per le materie letterarie.”
“In matematica e geometria piana non sono male.”
“Già, resta solo la tua bestia nera: per quella vedremo di ripartire dalle basi così smetti di fare simili errori.”
“Ripetizioni?” sospirò.
“Niente di pesante, te lo prometto – le strizzò l’occhio lui – un paio di ore alla settimana io e te. E vedrai che seno e coseno non avranno più segreti.”
“Un paio di ore alla settimana, eh? Beh, ovviamente… la trigonometria non è come l’alchimia.”
Non si accorse nemmeno di aver detto quella frase a voce alta e subito se ne pentì: non gli piaceva che suo padre entrasse in quella casa, nemmeno in forma di discorso. Le sembrava di fare un torto alla sua nuova famiglia, in particolare ad Andrew.
“Come mai una simile osservazione?”
La ragazza era quasi arrivata alla porta della cucina e si girò.
Andrew si era seduto di nuovo e accarezzava la testa di Hayate che si era alzato su due zampe per ricevere attenzioni.  Forse non era bello parlarne proprio con lui, ma effettivamente Riza sentiva l’esigenza di confidare le sue paure a qualche adulto e se si trattava proprio della persona che più aveva avuto a che fare con suo padre era ancora meglio.
“Ieri sera sono andata a casa per sistemare un po’ in cucina… e ho incontrato Roy.”
“Roy? A casa tua?”
“Ecco, io credo che voglia convincere mio padre a prenderlo come allievo.”
“Studiare l’alchimia? – Andrew sgranò lievemente gli occhi a quella notizia – Non sapevo che avesse un simile interesse.”
“Ce l’ha da quando lo conosco, anche se a dire il vero non ha mai affrontato seriamente l’argomento con me – confessò lei, risedendosi – credo che non volesse per via di mio padre e della difficile situazione che avevo a casa. Però, adesso che sto assieme a voi è come se quell’interesse fosse di colpo riaffiorato.”
“Ti ha detto qualcosa in merito?”
“Beh, mi ha detto che anche se inizierà a studiare l’alchimia io non mi devo preoccupare, che lui rimarrà quello di sempre… però…”
“Però non ti piace il fatto che frequenti tuo padre.”
“Esatto, specie quando non ci sono io.”
“Tranquilla, piccola mia, Roy ha la testa sulle spalle e non è certo tipo da farsi influenzare.”
Riza annuì, cercando di convincersi di quelle parole: aveva tutte le ragioni del mondo per credere che Roy non sarebbe mai diventato come quell’uomo che aveva sacrificato la propria famiglia per correre dietro ai suoi studi.
Però…
 
“… però non ti preoccupare, zia, mangerò qualcosa più tardi.”
Congedandosi dalla donna, Roy salì di corsa le scale e andò nella sua camera.
Come la porta venne chiusa alle sue spalle si concesse di ridere con gioia e di buttarsi nel letto.
Solo quando ebbe sfogato la sua felicità recuperò la tracolla che aveva gettato a terra e da essa tirò fuori un nuovo libro che il maestro Hawkeye gli aveva prestato.
Non sentiva fame o sete, quello che aveva imparato quella sera era stato così entusiasmante che si era scordato di qualsiasi necessità fisica. Non l’avrebbe mai detto, ma quell’uomo in genere così scontroso ed irritante si stava rivelando un grande maestro.
Sentirlo parlare voleva dire imparare in maniera del tutto nuova e produttiva quanto aveva letto nei libri: se come padre gli si poteva dire di tutto, come insegnante ed alchimista era veramente fuori dall’ordinario.
E la sua alchimia va ben oltre quella ordinaria, si capisce.
Aveva letto da qualche parte che spesso gli alchimisti riuscivano a creare una propria e speciale esternazione di quella scienza. Era sicuro che anche Berthold Hawkeye fosse arrivato ad un traguardo simile, altrimenti non avrebbe speso gran parte della sua vita a studiare così tanto.
Voglio arrivare pure io a quell’alchimia. Voglio conoscerne ogni segreto e dominarla.
Andando alla scrivania, scostò con un gesto seccato i quaderni di scuola per fare spazio al nuovo libro e ai fogli che stava usando per annotare gli appunti.
Doveva mettere per iscritto tutto quello che aveva imparato quella sera: col tempo avrebbe imparato a capire cosa gli era indispensabile e cosa no, ne era certo, ma per il momento non si poteva permettere alcun errore.
 
“E così vai da mio padre ogni sera.” mormorò Riza.
Si era fatta forza e durante l’intervallo aveva fatto capire a Roy di voler parlare con lui da sola.
Si sentiva molto stupida per il discorso che stavano affrontando, tuttavia la preoccupazione non accennava a diminuire, nemmeno dopo le rassicurazioni da parte del signor Fury. Aveva passato tutta la notte a rigirarsi nel letto, scoprendo con sommo disappunto di essere anche gelosa delle attenzioni che suo padre stava dedicando a Roy. In quattordici anni lei non aveva mai ricevuto un trattamento simile.
Solo perché non sono interessata all’alchimia. E poi arriva lui e cambia atteggiamento…
Suo nonno le aveva detto che l’alchimia era l’amante ed Elisabeth la moglie: stava succedendo la medesima cosa, con la differenza che ora c’era un allievo, un figlio a cui dedicare le attenzioni.
E quel figlio era l’ultima persona che Riza voleva vicino a suo padre.
Ma lui, al contrario, sembrava intenzionato a proseguire per la sua strada.
“Sì – ammise Roy, mettendosi le mani in tasca – se tutto va bene tra poco finirà il periodo di prova e mi prenderà come allievo.”
A quelle parole la ragazza abbassò lo sguardo con un sospiro.
Dannazione, non posso proteggerlo da mio padre se non sono a casa con loro.
Era così impanicata all’idea di non poter avere la situazione sotto controllo che decise di agire d’impulso, proponendo la soluzione che aveva preso forma la notte.
“Che hai?” le chiese Roy, vedendola così pensierosa.
“Chiederò a mamma e pap… chiederò ai signori Fury di poter tornare a casa.”
“Che? – il moro sgranò gli occhi, non aspettandosi minimamente una simile dichiarazione – Ma sei matta? Proprio ora che sei finalmente felice!”
“Stai andando a casa mia tutti i giorni ed io non ci sono. Stai con lui…”
“Non ho mai fatto mistero che l’alchimia mi interessava – si difese – e ti ho promesso che non diventerò mai come lui. Non ho bisogno di te che mi fai da balia.”
“Perché devi andare a casa? – continuò lei, intestardendosi – Non può prestarti i libri e basta?”
“Se mi basassi solo sui libri perderei almeno sessanta volte quello che mi può insegnare lui… mi è bastato un giorno per capirlo! Riza – la prese per le spalle – tuo padre è un dannato genio dell’alchimia! Ma questo non vuol dire che…”
“Ci ho provato… maledizione, ci ho provato per più di tre anni. Lo sapevo che eri attratto da quella materia, ma ho sperato in ogni modo che… che ti bastasse altro.”
“Non mi distruggerà – sussurrò lui, posando la fronte contro la sua – stupida colombina, come puoi pensare che io diventi come quella persona, eh?”
La sua presa era forte e rassicurante come sempre, eppure questa volta Riza non riusciva a sentirsi tranquilla. Capiva che, nonostante tutto, Roy aveva quindici anni ed era perfettamente influenzabile da suo padre, specie ora che era altamente entusiasta di questo primo approccio all’alchimia.
E capiva benissimo che lei non poteva fare da contraltare, non ne avrebbe mai avuto la forza.
Un contraltare… ma certo!
“Parlane col capitano Falman.” propose all’improvviso.
“Che? – Roy sgranò lievemente gli occhi a quella richiesta – Ma perché mai dovrei…”
“E’ l’unico favore che ti chiedo. Digli che cosa stai facendo e senti il suo parere… per favore, Roy, è importante, sul serio…”
Era l’unica soluzione che le restava: sapeva che il capitano aveva un grande ascendente su di Roy e, al contrario di suo padre, era una persona buona e di cui ci si poteva fidare. Era l’uomo perfetto per evitare che il suo amico si facesse deviare troppo dall’alchimia, perdendo il contatto con la realtà.
Tuttavia, dallo sguardo irritato degli occhi scuri, era chiaro che l’idea non entusiasmava molto il diretto interessato. Ma questa volta Riza non era disposta a cedere.
“E’ importante, credimi.”

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Capitolo 67
*** Capitolo 66. Percorsi di vita. ***


Capitolo 66. Percorsi della vita.

 

Non aver niente da scrivere era davvero grave.
Quel foglio bianco davanti a lui sembrava prenderlo in giro e non era bello considerato che, in teoria, ci avrebbe dovuto mettere tutti i suoi progetti per il futuro.
Vato sospirò e si accasciò contro lo schienale, lasciando cadere la penna sul tavolo di cucina.
“Che hai, fiocco di neve?” gli chiese Rosie, entrando nella stanza e aprendo un’anta della dispensa.
“Niente di importante. Che fai?”
“Sto controllando se ho alcune cose: volevo provare una nuova ricetta che tua zia mi ha lasciato quando è stata qui. Uhm, infatti, mancano parecchi ingredienti… ti dispiace prendere nota?”
“Detta pure.”
“Allora, zucchero, cannella, metti anche burro: non mi serve, ma vedo che sta per finire.”
Vato annuì e continuò a scrivere quella lista della spesa con passività: almeno quel foglio sarebbe stato utile a qualcosa. Certo l’elenco di alimenti riguardava un progetto a breve termine ed era più facile da fare.
Però non è bello avere le idee confuse.
“Mamma – chiese, quando la donna ebbe finito di dettargli la lista – che cosa volevi fare alla mia età?”
“In che senso?” Rosie prese il ricettario che teneva su una mensola e iniziò a sfogliarlo.
“Quali progetti avevi per il futuro: insomma progettavi di diventare una casalinga o avevi altro in mente?”
A quella domanda la donna rivolse tutta la sua attenzione al figlio, chiudendo il ricettario e andando a sedersi davanti a lui.
“Trovi che la mia vita non sia per niente appagante?”
“Non voglio dire questo, assolutamente. Però sai, Elisa ha detto che vuole proseguire gli studi per diventare medico ed ha già ben chiaro che vuole andare ad East City a studiare. Alla sua età tu non avevi delle grandi ambizioni?”
“Erano tempi un po’ diversi, amore mio – confidò la donna – innanzitutto la scuola si finiva un anno prima, la quinta superiore è stata aggiunta una decina di anni dopo che io ebbi finito di studiare. E poi, sin da quando ero piccola, ero abituata a stare nella pasticceria di famiglia e per me era naturale aiutare i miei genitori e le mie sorelle.”
“Ma era quello che volevi fare? Oppure era solo senso del dovere?” Vato si sentì estremamente curioso: non aveva mai parlato con sua madre di simili dettagli e scoprì che il suo punto di vista lo interessava più del previsto.
“Era il mio mondo, tutto qui. La scuola mi aveva insegnato a leggere, scrivere e fare di conto… avevo scoperto che mi piaceva tanto leggere, ma non mi aveva messo in testa nessuna ambizione particolare – Rosie alzò le spalle con semplicità – Mi piaceva lavorare in pasticceria: stavo con i miei genitori e le tue zie e questo mi faceva sentire bene, protetta.”
“Nessuna ambizione, proprio niente?”
“Tua madre ti sembra una donna molto modesta?”
Rosie inclinò gentilmente la testa, ma non sembrava minimamente imbarazzata da quanto gli stava raccontando.
“Modesta… no – arrossì lui – non volevo offenderti, mamma, sul serio.”
“Del resto è lì che ho avuto modo di incontrare tuo padre – sorrise lei – e anche dopo che ci siamo sposati ho continuato a lavorare dai miei. Sei stato tu a bloccare tutto, mio caro fiocco di neve.”
“Adesso mi fai sentire in colpa.”
“Scherzavo – lei si alzò ed andò ad abbracciarlo – sei stato il mio più grande appagamento, Vato, la mia più grande gioia. Non cambierei una virgola del mio percorso di vita… e non ho pianificato niente.”
“Io volevo pianificare tutto, invece – sospirò, guardando il foglio ormai occupato dalla lista della spesa – ma ora non sono più sicuro di quello che voglio fare. Eppure tra nove mesi finisco la scuola e sarebbe giusto che avessi le idee chiare.”
“Che cosa ti piacerebbe fare?”
“Prima pensavo sempre di fare il poliziotto come papà, tuttavia negli ultimi tempi non ne sono molto convinto. Mi piacerebbe anche lavorare con i libri, magari nel negozio del nonno di Elisa… sai, più di una volta mi ha chiesto se volevo dare una mano. Però mi sembrerebbe di approfittare troppo della loro gentilezza e poi non so se è quello il mio percorso di vita.”
“Perché non hai messo l’Università tra queste opzioni?”
“Non saprei che cosa studiare e poi è una cosa molto dispen…”
Arrossì violentemente e abbassò lo sguardo sul tavolo.
“Tesoro – la mano della donna gli accarezzò la chioma bicolore – se vuoi andare all’Università non ti devi preoccupare: io e tuo padre saremo felicissimi di darti tutto il nostro sostegno.”
“Per questo voglio essere sicuro della mia scelta. Ma più ci penso più mi accorgo di non essere sicuro di niente… e siamo già al sette settembre: nove mesi e poi sarò in mezzo all’indecisione più totale.”
“Oh suvvia, sappiamo benissimo che una certezza ce l’hai: vuoi sposare Elisa, no?”
“Mamma! – Vato arrossì violentemente – Suvvia, non mi pare il caso di…”
“Aspetta, credo di aver capito il problema – la donna gli arruffò la chioma con aria divertita – ti dà fastidio che sia lei nella coppia ad avere le idee chiare sul futuro, mentre tu no.”
“Non… non è vero… è che se ci sposiamo poi come capofam…”
“Vato! Vato! Vato! – Rosie scoppiò a ridere e lo abbracciò – Ma che problemi ti crei, amore mio? Innanzitutto non è che tu ed Elisa vi sposate immediatamente dopo la scuola… lei andrà all’Università e tu chissà che cosa farai. Ma troverai la tua strada, fiocco di neve; prendi me e tuo padre: ci siamo sposati che avevamo ventidue e ventisei anni.”
“Papà ha voluto aspettare la promozione per chiedertelo, lo so.”
“La situazione era diversa, amore, lo sai bene che lui era solo… ma i miei genitori sarebbero stati felici di aiutarci, su di questo non ho mai avuto dubbi.”
“Ma io vorrò farcela da solo.”
“E sono sicura che ce la farai. E non credo che pianificare le cose in questo momento ti serva a qualcosa.”
“Se lo dici tu, mamma: comunque ecco la tua lista della spesa.”
“Grazie mille – ridacchiò lei – accidenti che precisione! Addirittura un elenco numerato: mi sa che ti chiamerò sempre per quest’incombenza.”
“Davvero divertente!”
 
Se Vato aveva difficoltà a capire qual’era il proprio percorso di vita, Roy invece l’aveva già deciso.
Stava seduto nel piccolo rifugio e usava il taglierino per modellare un pezzetto di legno: era da tanto che non si dedicava a questo passatempo, ma si era accorto di voler rimandare il più possibile quanto aveva promesso a Riza.
Era tutto pianificato: ancora due anni di scuola e poi l’Accademia Militare; nel frattempo sarebbe diventato Alchimista di Stato.
Un percorso limpido e pulito che l’avrebbe portato a diventare qualcuno di importante e rispettato: avrebbe girato il paese, fatto del bene alla sua gente, cambiato il mondo rendendolo migliore.
Studiare con Berthold Hawkeye gli offriva la possibilità di dare una grossa accelerata a queste sue ambizioni: diventare alchimista avrebbe dato una forte spinta alla sua scalata nella gerarchia militare.
Ora che ci pensava, sarebbe potuto andare ad East City a chiedere al nonno di Riza: magari sotto di lui avrebbe avuto la possibilità di farsi valere.
Non pretendeva certo favoritismi, ma sicuramente conoscere qualcuno l’avrebbe aiutato.
Devo dire che, tra suo padre e suo nonno, Riza mi sta proprio dando una mano nella realizzazione dei miei progetti.
Aveva deciso che un giorno, quando sarebbe diventato importante, sarebbe tornato a prenderla e l’avrebbe portata via da quel posto così piccolo. Le avrebbe fatto conoscere il mondo, l’avrebbe ripagata di tutto quello che aveva fatto per lui.
Del resto lo scambio equivalente è la legge che domina tutto il mondo.
Adesso capiva in minima parte Berthold Hawkeye: per ottenere una grande alchimia aveva fatto dei grandi sacrifici. Non l’aveva fatto per egoismo, ma semplicemente perché doveva seguire questa legge che stava alla base della sua scienza.
“E’ l’unico favore che ti chiedo…”
La supplica di Riza tornò a punzecchiarlo come un fastidioso insetto, tanto che scosse il capo con il desiderio di allontanarla.
Tuttavia una promessa era una promessa e forse non era il caso di rimandare oltre.
Con un sospiro si alzò in piedi e ripose il temperino in tasca: squadrò con aria critica il pezzo di legno e poi lo gettò in mezzo agli alberi.
“Ma sì, andiamo ad affrontare il nostro grande capitano di polizia e sentiamo che preziosi consigli avrà da darmi.”
Anche quello era uno scambio equivalente: per ottenere l’approvazione di Riza doveva pagare un prezzo, per quanto fosse estremamente elevato.
 
“Quando vieni al commissariato e hai quell’aria seria deve essere successo qualcosa di molto grave – Vincent si mise a braccia conserte e squadrò Roy che stava seduto davanti alla scrivania – che hai combinato?”
Per un automatismo il ragazzo imitò quella posizione, ma non spiaccicò parola.
L’irritazione che l’aveva accompagnato per tutto il tragitto si era trasformata in vera e propria insofferenza non appena aveva messo piede nell’ufficio del capitano.
E sapeva bene il perché.
Considerava l’alchimia come qualcosa che apparteneva solo a lui e non voleva che altri adulti, al di fuori di Berthold Hawkeye, ne fossero coinvolti. In particolare temeva il capitano Falman: negli ultimi tempi aveva accettato l’idea che quell’uomo costituisse per lui un punto di riferimento che si poteva definire paterno e di questo ne era abbastanza contento.
Tuttavia, proprio in virtù di questa strana relazione, poteva costituire il vero ostacolo nei suoi progetti.
Se a lui non sta bene è persino capace di impedirmi di frequentare le lezioni del maestro.
E questo non l’avrebbe tollerato.
Era inquietante ed era un pessimo soggetto, ma Berthold Hawkeye era una fonte di sapere che Roy non avrebbe mai immaginato: l’alchimia si stava schiudendo piano piano davanti a lui, promettendogli meravigliose scoperte che nemmeno nei suoi sogni più proibiti aveva osato sperare.
Del resto ho sempre detto che l’avrei usata per aiutare la gente e ne sono estremamente convinto. Perché devo rendere conto proprio a lui?
“E allora? – lo incalzò Vincent – mi devo preoccupare? Devo cercare il cadavere di qualcuno dei tuoi amici che hai fatto fuori accidentalmente?”
“Possibile che abbia sempre del sarcasmo da fare nei miei confronti?”
Un’altra dimostrazione che non è disposto a prendermi sul serio…
“Uhm – l’uomo si alzò in piedi e girò attorno alla scrivania per andare davanti al ragazzo – la questione è più grave del previsto. Sei troppo serio.”
A quel commento Roy fece una smorfia di disappunto: ormai era diventato un libro aperto per quell’uomo.
Non può impedirmelo, non potrebbe mai farlo…
“Ho promesso a Riza che avrei parlato con lei.”
“Ah sì? A proposito di cosa?”
Ci vollero dieci secondi prima che Roy trovasse il coraggio di alzare lo sguardo sugli occhi dal taglio allungato del capitano e confessare.
“Sto studiando alchimia con suo padre, molto probabilmente mi accetterà come allievo.”
Ecco, l’ho detto. Andiamo Vincent Falman, inizia pure a farmi la predica su quanto io sia…
“Ne sei contento?”
“Ovviamente – rispose lui, confuso da quel tono tranquillo – insomma è da tanto che volevo imparare l’alchimia: è una cosa che ho in mente da anni, ma non avrei mai pensato che quell’uomo cedesse. Forse… forse se Riza non si fosse trasferita dai Fury non avrei mai preso l’iniziativa. Tuttavia…”
“Mi ricordo di un discorso che abbiamo fatto subito dopo la piena – l’uomo lo invitò ad alzarsi e a seguirlo alla finestra – parlammo sia di Berthold Hawkeye che di tuo padre.”
“A proposito della fallibilità dei genitori, mi ricordo – fece lui – ma come maestro d’alchimia quell’uomo può darmi davvero tanto.”
“Davvero tanto, eh?”
“Se lo immagina quello che avrei potuto fare durante la piena se avessi avuto l’alchimia? – Roy si guardò le mani con aria incredula, immaginandosi alzare un argine a difesa del paese – Il padre di Kain, lei e il signor Havoc non avreste dovuto rischiare così tanto andando oltre la linea dei sacchi. Non sarebbe stato necessario niente di tutto questo perché ci avrei pensato io!”
“E torniamo sempre al solito discorso – Vincent scosse il capo – quanti anni hai, Roy Mustang?”
“Sedici tra poco più di un mese… oh, ancora questa storia di godermi l’infanzia?! Non credo che…”
“Quello che abbiamo fatto io Andrew ed il padre di Jean è stato pericoloso e di certo quell’uomo ci sarebbe stato di grande aiuto. Ma vedere te fare una cosa simile mi avrebbe fatto arrabbiare tantissimo, anche se tutto il paese ne avrebbe tratto giovamento.”
“Già, deve sempre pensare a non farmi crescere, vero?”
“Senti un po’ giovanotto – l’uomo gli afferrò una ciocca di capelli e la tirò con aria contrariata – secondo te quanto tempo ci vuole per diventare un bravo alchimista? E non dirmi che tu, con il tuo grande cervello, ci impiegheresti poco… non ti crederebbe nessuno.”
“Anni presumo…”
“Appunto, anni ed è una materia difficile che si va ad aggiungere a quelle che studi a scuola e…”
“Ma chi se ne frega della scuola! Andiamo, la letteratura e la matematica mi aiuteranno a risolvere i problemi? Se ci pensa non può darmi che ragione sulla maggiore utilità dell’alchimia.”
“Utilità davvero grande se quella scienza è in mano a un completo immaturo. Complimenti, Roy, le tue parole mi hanno appena dimostrato come tu sia ben lontano dall’essere pronto per una simile responsabilità.”
“Ho semplicemente ragione.”
“No – scosse il capo l’uomo – hai semplicemente la dote di farmi prudere la mano per la voglia di farti il sedere nero. Senti, aspirante alchimista, dimmi quali sono le condizioni che quell’uomo ti ha posto.”
“Nessuna condizione! Vado da lui ogni giorno alle sei di sera e per un paio di ore mi fa leggere dei libri sulle basi dell’alchimia e poi mi spiega le cose in modo più dettagliato.”
“Bene, adesso ti detto io le mie condizioni perché tu continui a frequentare queste lezioni.”
“Non può farlo!”
“Sì che posso – l’indice di Vincent si puntò sulla fronte del ragazzo – e sta tranquillo che se mi ci obblighi ti impedirò di continuare con questi studi. E mi conosci, Roy Mustang, sai benissimo che lo faccio.”
“Sono tutto orecchi…” sbuffò il ragazzo, mettendosi a braccia conserte e alzando gli occhi al cielo.
“Domani tu mi fai avere la tua pagella di fine anno… e non fare quella faccia. Il tuo andamento scolastico non deve risentire di questi studi, chiaro? Mi premurerò di controllare e se vedo un minimo abbassamento dei voti fidati che fai i conti con me, chiaro?”
“Sì, signore…” acconsentì lui, con un briciolo di timore.
“Altra condizione: non trascurare i tuoi amici. Voglio vederti giocare a Risiko, combinare cavolate, divertirti: se diventi musone come quel tipo…”
“Ma quando mai!”
“Ed inoltre cerca di capire Riza, va bene? E’ solo preoccupata perché l’alchimia ha già rovinato la sua vita familiare per tanto tempo. Sta cercando di proteggerti, tutto qui.”
“Lo so – questa volta annuì quietamente – e sono venuto a parlare con lei per tranquillizzarla. Chissà, forse sapeva bene quello che mi avrebbe detto e le minacce che mi avrebbe fatto.”
“Questo dimostra che è una ragazzina assennata – sorrise il capitano, arruffando i capelli neri – sei fortunato ad avere un’amica come lei.”
“Però – un’espressione triste fece la sua comparsa sul viso avvenente – tutto quello che sta succedendo mi fa pensare che tutto sommato non è che nutriate una grande fiducia nei miei confronti.”
Alzò gli occhi scuri sul capitano, quasi per avere una conferma di quel dubbio: se tutti lo stavano mettendo sull’avviso voleva dire che temevano seriamente che deviasse su un sentiero sbagliato.
“Mi stai chiedendo se mi fido di te?”
“Beh, per metterla in maniera più semplice direi che è corretto.”
“Certo che mi fido di te.” scrollò le spalle Vincent.
“E allora perché tanti prob….”
“Perché non ci fidiamo di lui, non c’eri arrivato? E’ lui che preoccupa Riza, non tu. E anche per me è lo stesso. So benissimo che sei scalmanato, prepotente, ma con ottimi principi morali: non tradiresti mai le cose in cui credi, le persone che ami e questo mi rende estremamente fiero di te.”
Un lieve rossore apparve sulle guance di Roy e Vincent sorrise, accarezzandogli i capelli con dolcezza.
“La problematica è sempre la stessa: hai quindici anni e comunque ci sono cose che ancora ti possono influenzare anche se non te ne rendi pienamente conto. Se tu vuoi studiare l’alchimia per poter un giorno aiutare la gente a me va benissimo, ma pretendo che sia una cosa fatta con criterio, capisci?”
“Fa paura…”
“Cosa?”
“Lo sguardo di quell’uomo, ammetto che mi fa una certa paura – Roy si gratto il collo con aria imbarazzata – è come se avesse… se non avesse altro se non la sua ricerca. E forse è davvero così. Io… qualche settimana fa, Heymans mi ha detto che si è ripromesso di non diventare mai come suo padre. Quando guardo negli occhi quell’uomo mi viene spontaneo ripromettermi una cosa simile…”
“Ricorda che diventi suo allievo, non sua proprietà – l’uomo si chinò per posare la fronte sulla sua – lui ti darà la sua scienza, certo, ma tu non gli devi niente.”
“No, gli devo qualcosa: è il principio dell’alchimia. Per avere qualcosa devi dare qualcosa del medesimo valore: si chiama scambio equivalente. Io gli sto dando la possibilità di tramandare la sua ricerca a me, in modo che non muoia con lui.”
“E’ un grande impegno – sospirò Vincent – e non mi piace questo concetto di scambio equivalente, devo essere sincero.”
“E’ il principio che regola il mondo…”
“E allora che avevate tu, Heymans e Riza di così sbagliato per non veder restituito in modo equivalente l’amore per i vostri padri?”
A quella domanda Roy arrossì violentemente e fu tentato di andar via da quell’ufficio. Detestava quando il capitano Falman lo coglieva alla sprovvista con domande di quel tipo.
“Non è…”
“A parer mio non è il principio che regola il mondo o per lo meno non tutto. Forse per alcune leggi fisiche o chissà che altro è così, ma non fare l’errore di applicarlo alla lettera, almeno è lo spassionato consiglio di questo ignorante di un poliziotto.”
“Spassionato…”
“Quell’uomo ti insegnerà l’alchimia, non ci sono dubbi. Ma la vita continua ad impararla così come stai facendo adesso: stai andando benissimo, Roy, te lo garantisco.”
“Non avevo di certo l’intenzione di cambiare il mio modo di vivere solo per compiacere quell’uomo.”
“Era quello che volevamo sentirti dire un po’ tutti, mi sa. E forse Riza si aspetterà anche qualche dato di fatto, ma vedrai che le passerà.”
Roy non poté far a meno di sorridere con soddisfazione a quell’ultima affermazione, come se finalmente il mondo avesse deciso di dargli retta e di assecondare la sua decisione. Ma una piccola parte di lui fu estremamente sollevata nel sapere che il capitano Falman si sarebbe preoccupato che Berthold Hawkeye non avesse troppo ascendente sulla sua persona.
“Adesso devo proprio andare – mormorò, per non andare troppo avanti con quella situazione che stava diventando troppo confidenziale – si stanno avvicinando le sei del pomeriggio.”
“Conti di finire per le otto e mezza?”
“Massimo le nove – annuì lui, avviandosi verso la porta – perché?”
“Allora poi vieni a cena da noi, voglio proprio vedere se dopo tu e Vato siete in grado di battermi a Risiko.”
“Oh oh! Il grande capitano si mette in gioco – sogghignò il giovane con gli occhi che brillavano – non me la perderò per nulla al mondo. Allora a dopo!”
E uscendo dal commissariato Roy si senti molto più sollevato di quando ci era entrato un’oretta prima.
 
“Ma come ha fatto a stracciarci in una maniera così impietosa?”
Il giorno dopo, prima di entrare a scuola, Roy e Vato ancora non si capacitavano della partita della sera prima.
“Vi ha sconfitto in maniera così pesante?” chiese Heymans, conoscendo la bravura dei due ragazzi.
“E’ stato traumatizzante – annuì Vato – ha fatto fuori prima me e poi Roy, alla faccia della strategia.”
Davanti a quelle facce funeree Riza non poté fare a meno di ridere, seguita a ruota da Elisa: era davvero buffo vedere quei due provetti giocatori messi alle strette da qualcuno di maggiormente esperto.
“Andiamo, grande giocatore – sorrise Elisa – abbiamo interrogazione alla prima ora ed è meglio farci trovare in classe. E poi ho alcuni dubbi che mi devi chiarire.”
Annuendo Vato si fece condurre per i corridoi, cercando di dimenticare l’imbarazzante sconfitta e iniziando a concentrarsi sulle possibili domande di letteratura.
“A proposito – lo riscosse la fidanzata – ieri hai stilato il tuo percorso di vita come ti eri proposto di fare?”
“No – ammise – alla fine dopo una chiacchierata con mia madre ho lasciato perdere. Credo sia meglio aspettare e non avere fretta: in nove mesi di scuola possono cambiare molte cose.”
“Mi sembra una buona idea.”
“Sei sempre convinta di voler fare il medico?”
“Certamente, anche se con le scienze non vado molto d’accordo.”
“Però sai, una cosa l’ho decisa: avrà a che fare con i libri e con la mia memoria… il mio futuro lavoro, intendo.”
“Beh, ci mancherebbe altro! – lo prese in giro lei – Con la memoria che ti ritrovi sarebbe davvero un grande spreco.”
 
“Ah, tieni – fece Roy mentre anche lui e Riza stavano per entrare a scuola – i quaderni di trigonometria dell’anno scorso, come mi avevi chiesto.”
“Grazie – sospirò lei, prendendoli – spero che papà sia paziente con me, ma ho paura che queste fantomatiche ripetizioni saranno davvero pesanti. Uh, ma in mezzo a questo quaderno c’è un foglio…”
“Oh, dammelo, meno male che l’hai notato in tempo.”
“Ma è la tua pagella di fine anno scolastico – si sorprese la ragazza prendendola e vedendo i voti parecchio alti dell’amico – perché te la porti dietro?”
“Non è che me la porto dietro – arrossì con imbarazzo – è che… oh, e va bene, la devo portare al capitano Falman, sei contenta?”
“Che?” ridacchiò lei.
“A quanto pare quest’anno mi controllerà più del previsto: per studiare con tuo padre mi ha posto diverse condizioni tra cui quella di non trascurare la scuola. Ha detto che i miei voti non si devono abbassare di una virgola.”
“Sai, sono davvero felice che tu abbia parlato con lui.”
“Diciamo che sei felice che mi tenga sotto torchio.”
“Non ti fa male, Roy – dichiarò lei, fermandosi davanti alla sua classe – e lo sai bene pure tu.”
“Sei tranquilla adesso, colombina? Nel mio percorso di vita ci sarà sempre un fastidioso capitano di polizia a tenermi sotto controllo… così come fai tu.”
“Sì, sono tranquilla.”
“Allora parlare con quell’uomo è stato un buon scambio equivalente.”
“Scusa?”
“Niente, lascia stare – scrollò le spalle il ragazzo, avviandosi verso la sua classe – è una cosa che non c’entra niente con la vita.”

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Capitolo 68
*** Capitolo 67. Tortini ripieni. ***


Capitolo 67. Tortini ripieni.

 

Mancava un giorno al compleanno di Kain ed i preparativi erano in pieno svolgimento.
La festa si sarebbe svolta nel cortile di casa Fury che, per la prima volta, avrebbe visto un così grande numero di ospiti: alla fine, facendo i conti assieme ai suoi genitori, Kain aveva stilato una lista di circa quindici persone. E considerando che, tra quelle quindici persone, diverse erano ragazzi di buon appetito che avrebbero certamente speso tutte le loro energie in giochi e divertimenti, era necessario preparare notevoli quantità di cibo.
Le mamme non persero tempo ed organizzarono un vero e proprio piano di battaglia: Angela prese in mano la situazione invitando le amiche a casa sua, considerata l’ampiezza della cucina, per dare vita ad una vera e propria catena di montaggio. Che poi, durante quella preparazione, potessero chiacchierare allegramente era un piacevole dettaglio.
“Bene bene – annuì la donna compiaciuta mente sistemavano tutto sul grande tavolo – James si sta occupando dell’emporio ed i pargoli sono stati spediti in paese con il chiaro ordine di non ripresentarsi fino a sera: signore, abbiamo tutto il tempo che vogliamo.”
E di buona lena si misero a lavorare, riempiendo ben presto la cucina di intensi profumi.
“Pensavo che anche Riza ed Elisa volessero aiutare – osservò Laura ad un certo punto – come mai non sono venute?”
“Hanno deciso, assieme a Rebecca, che volevano tentare qualcosa tutte da sole – rispose Ellie con aria divertita – vogliono preparare da sole i tortini ripieni, una bella impresa. Ho lasciato a loro disposizione la cucina di casa.”
“Uh, hanno scelto una pietanza davvero difficile – fece Rosie sorpresa – sono molto difficili da gestire, basta un minimo errore e si sgonfiano: come mai proprio quelli?”
“Evidentemente vogliono mettersi alla prova – scrollò le spalle l’altra – in fondo le capisco, alla loro età un po’ tutte noi volevamo cimentarci in esperimenti culinari. Sono proprio curiosa di sapere cosa ne uscirà fuori, potrebbero persino avere successo.”
“Ma sì, tutto sommato non sono male come cuoche dilettanti – annuì Angela – e anche se si sgonfieranno, come è molto probabile che succeda, scommetto che ne usciranno fuori dei tortini deliziosi. Ed il festeggiato non potrà che apprezzare.”
“Oh, a Kain basta dire che è stato fatto da una di loro e lo mangerà tutto, dicendo che è buonissimo in ogni caso – rise Ellie – è molto di parte per quanto riguarda i pareri culinari.”
“A proposito, dobbiamo pensare anche alla torta!” si ricordò Laura.
“A quella ci penso io – la tranquillizzò l’amica – è un rito che facciamo io e mio figlio da tantissimi anni ormai. Domani la troverete prontissima.”
“Un maschio che ama stare in cucina – sospirò Angela – se vedessi Jean starmi accanto mentre preparo qualcosa mi scenderebbe un infarto. No, quel demonio si presenta solo quando tutto è ormai in forno e non c’è più niente da fare se non mangiare. Benedetto ragazzo, con la storia del cavallo ha superato se stesso.”
Ricordando quell’impresa tutte scoppiarono a ridere.
“E comunque la cavalleria non è morta in questa casa – imitò Angela, mettendosi le mani ai fianchi – la sera stessa se ne è uscito con questa frase e devo dire che James si è sentito in difetto. E’ stato molto cavalleresco nei giorni successivi.”
“Maschi, non cambieranno mai – rise Ellie – quando vogliono farsi perdonare qualcosa sono sempre molto cavallereschi.”
 
“Ciao, gnometto, dove stai andando?”
Kain si fermò e sorrise nel vedere Roy che usciva dal locale di sua zia e si affrettava a raggiungerlo.
“Vado all’ufficio postale per portare una lettera da spedire ai miei nonni materni: è la risposta a quella che mi hanno mandato loro.”
“Ti accompagno, allora. E dimmi abitano molto lontano?”
“Hai presente il paese dopo l’altro fiume? E’ da parecchio che non li vedo, ma hanno detto che sperano di venire per Natale, così conoscono Riza.”
“Spero ce li presenterai.”
“Molto volentieri. Speravo riuscissero a venire per il mio compleanno, ma purtroppo il nonno è molto impegnato: sai, ha un grande allevamento ed è il responsabile di tutto.”
A quelle parole dette in tono noncurante Roy rimase davvero sorpreso: aveva intuito che la famiglia di Kain fosse parecchio benestante, almeno da parte paterna, ma ora veniva a scoprire che anche i nonni materni avevano una discreta fortuna. E questo gli fece ancora di più apprezzare i Fury: nonostante quest’agiatezza erano persone alla mano e non facevano alcun sfoggio; erano altresì dei grandi lavoratori: come dimenticarsi di quello che aveva fatto quell’uomo durante la piena?
“Ho finito di scriverla a casa del nonno, sai papà è ancora da lui. Abbiamo l’ordine di non tornare a casa se non di sera tardi, prima di cena.”
“Ah sì? – Roy si incuriosì – come mai?”
“Ci sono Riza, Elisa e Rebecca che stanno usando la cucina per preparare una cosa speciale per il mio compleanno – sorrise il bambino – i tortini ripieni.”
“Tortini ripieni?”
“Beh, mamma li fa in genere dolci, ma si possono fare anche salati. Credo che proveranno entrambi.” Kain si mise una mano sulla pancia per mostrare la sua grande aspettativa.
“E come mai tutto questo gran segreto?”
“Non lo so – ammise lui – ma credo che c’entrino le famose cose da femmine.”
“Ah, è così?” Roy si mise a braccia conserte, mentre una prima idea su come passare quel pomeriggio gli veniva in mente. Il maestro Hawkeye gli aveva detto che per le prossime due sere non voleva essere disturbato e se la cosa tornava utile per il pomeriggio successivo, quando ci sarebbe stata la festa di Kain, dall’altra l’aveva lasciato senza niente da fare quello stesso giorno.
Così, una volta che il bambino tornò dall’aver consegnato la lettera all’ufficio postale, lo invitò ad andare a chiamare il resto della banda.
“Vogliamo fare qualcosa tutti assieme?” chiese con gioia Kain.
“Direi proprio di sì.”
 
Una volta Roy aveva spinto gli altri ragazzi a fare una “cosa tra maschi”.
Era stata un’esperienza disastrosa che si era conclusa nel peggiore dei modi, tuttavia questo non gli aveva levato dalla testa l’idea che fosse più che giusto che ne seguissero altre. Questa volta voleva fare un ulteriore passo avanti: fare una cosa tra maschi che andasse a intersecarsi con una cosa tra femmine.
“Perché dobbiamo andare a rubare i tortini?” chiese Vato, mentre si dirigevano verso casa di Kain.
“Perché li stanno preparando come se fosse il più grande segreto del mondo – spiegò Roy – mentre è giusto che diamo la nostra collaborazione, assaggiando.”
“Roy – Kain era perplesso quanto Vato – perché non possiamo direttamente aspettare domani? Oppure, se proprio ci tieni, chiedo alle ragazze se posso prenderne uno e…”
“Appunto, perché rubarli?” quel verbo faceva scattare nella mente del giovane Falman pensieri molto sgradevoli, legati ad un’eventuale punizione da parte di suo padre.
“Perché così c’è più gusto – spiegò Jean che si era trovato pienamente d’accordo con Roy – mi ha rivoluzionato l’intera serata quest’idea.”
“Veramente stavamo giocando a casa mia…” gli ricordò Heymans, leggermente offeso nel vedere la partita a scacchi sminuita in questo modo.
“Certo, con mia sorella che dava noie a quel povero gatto. Ed invece adesso l’ho potuta sistemare a casa di una delle sue compagnette e liberarmi di lei… con la prospettiva di mangiare deliziosi tortini.”
“Heymans, tu che ne dici?” chiese Kain, cercando un’ulteriore sostegno per fermare quella che riteneva una follia bella e buona e perfettamente evitabile.
“Beh, in altre occasioni direi di no – ammise il rosso con leggero imbarazzo, ma poi i suoi occhi grigi iniziarono a brillare d’aspettativa – ma i tortini ripieni appena levati dal forno sono tutta un’altra cosa rispetto al giorno dopo. Fidati di me, Kain, è una cosa che bisogna assaggiare una volta nella vita.”
“Sì – gli fece eco Jean, con l’aria di chi la sa lunga – e poi questa volta non c’è un avversario temibile come mia madre, ma sono tre ragazze. Sarà più semplice del previsto: senza contare la superiorità numerica.”
“Io continuo a non esserne convinto.” sospirò Vato.
“Oh, andiamo – lo spronò Roy – vuoi davvero che il primo tortino di Elisa lo mangi qualcun altro?”
“Non è questo che…”
“Fatto con tutto il suo amore e sicuramente anche lei vorrebbe che fossi tu il primo ad assaggiarlo… perché correre simili rischi?”
“Ma perché rubarli! E’ questa la domanda?”
“E’ anche un modo di apprezzare la loro bravura culinaria – sogghignò Roy – sono così brave che non ne possiamo fare a meno.”
Se doveva essere sincero se la stava godendo un mondo: dopo tutta la serietà messa negli ultimi giorni per applicarsi all’alchimia, sentiva l’esigenza si staccare la mente e fare qualcosa di decisamente più infantile. In fondo era anche quello che gli aveva raccomandato il capitano Falman: chi era lui per deludere simili aspettative?
“Stiamo per arrivare – mormorò, facendo cenno agli altri di venire attorno a lui – adesso progettiamo bene come fare.”
 
Completamente ignara del nemico che si stava avvicinando, Riza mise con cura il vassoio dentro il forno e procedette a chiudere lo sportello.
“Bene, tenete conto dell’ora – annunciò – almeno venti minuti. E non possiamo aprire il forno perché rischiamo che si affloscino: la mamma me l’ha ripetuto più volte.”
“E’ bello che tu ormai riesca a chiamarla mamma senza alcun problema – sorrise Elisa, mentre con uno strofinaccio puliva il tavolo – si vede che ti sei proprio adattata a stare in questa casa.”
Riza sorrise soddisfatta e si guardò attorno: effettivamente ormai riconosceva quella cucina e quella casa come proprie. Ed era estremamente fiera del lavoro che lei e le sue amiche avevano compiuto quel pomeriggio: quando avevano scelto di preparare i tortini ripieni sapevano benissimo che andavano incontro ad una sfida veramente difficile, ma non si erano tirate indietro. Era un banco di prova che aspettavano da tempo nel loro entusiasmo di cuoche ancora dilettanti. Avevano confrontato le ricette, chiesto conferme alle rispettive madri, proposto e bocciato eventuali modifiche; avevano preparato l’impasto della sfoglia con grande attenzione, stendendolo più volte fino a quando non avevano ottenuto uno spessore che le soddisfacesse. Altresì si erano impegnate nella preparazione dei ripieni: il fatto di volerli fare sia dolci che salati rendeva la cosa ancora più difficile, ma non si erano tirate indietro.
E così, dopo un’ora di preparativi una prima teglia sperimentale era stata infornata.
Per prudenza avevano deciso di aspettare il risultato prima di preparare gli altri tortini, in modo da poter correggere eventuali errori.
“E’ vero – ammise prendendo tre bicchieri e portandoli al tavolo – mentre attendiamo che ne dite del succo di more? Direi che meritiamo una pausa.”
“Uh, volentieri!” Rebecca si fece subito avanti
“Me l’ha portato Roy due giorni fa ed è davvero buono.” spiegò, versando il succo scuro nei bicchieri.
“Ma guarda, adesso ti fa anche i regalini, eh?”
“Era per tutti noi – la corresse prontamente Riza, arrossendo – tu se non fai qualche sottinteso non sei contenta, vero? Pensa al tuo Jean e lascia in pace me.”
“Oh suvvia, non mi pare il caso – ridacchiò Elisa, bevendo un primo sorso – Quindi non ci sono evoluzioni in quel senso. Ti dirò la verità, ti vedo benissimo assieme a lui.”
“E poi sarebbe fantastico che fossimo tutte e tre fidanzate con uno dei ragazzi del gruppo! – Rebecca congiunse le mani con aria estasiata – Secondo me siete solo timidi e non volete prendere l’iniziativa l’uno con l’altra.”
“Ma smettila.”
“Però stai arrossendo ancora di più: l’idea di Roy come fidanzato non ti dispiacerebbe, vero?”
“E poi chissà – le diede manforte Elisa – io e Vato tutto sommato siamo diventati fidanzati nemmeno un anno fa, abbiamo aspettato parecchio prima di deciderci a far evolvere l’amicizia.”
“Oh già, e parliamo della vostra sparizione il giorno della gita allo stagno – Rebecca posò il bicchiere e si sporse nel tavolo – che cosa stavate facendo, eh? Siete stati via almeno mezz’ora.”
“Finiscila, dai – la rimproverò Riza, ma contemporaneamente si girò verso la ragazza più grande con curiosità – L’avete… uh…”
“No, non l’abbiamo fatto! – Elisa si alzò con veemenza, paonazza in volto – E’ che… è ancora presto per arrivare in fondo.”
“Ma ti ha toccato?” Rebecca la fissò come se fosse la sua eroina.
La ragazza fissò a turno le sue amiche e poi fece un sospiro prima di sorridere con aria maliziosa.
“Secondo voi?”
 
“Ma che hanno tanto da divertirsi?” chiese Vato mentre con passo felpato si dirigevano verso l’albero che stava davanti alla camera di Kain. Le risate delle ragazze arrivavano fino a lì e per qualche strano motivo sentiva le orecchie fischiare.
“E perché dobbiamo scalare l’albero? – chiese Kain, memore di quello che era successo l’ultima volta che aveva avuto a che fare con quella pianta – Non possiamo entrare dalla porta principale?”
“Gnometto, tu di strategia proprio non capisci nulla – lo rimproverò Roy, aggrappandosi con agilità ad un ramo e dandosi una spinta sul tronco per iniziare la scalata – dobbiamo farti giocare di più a Risiko. Nessuno si aspetta che noi scendiamo dal primo piano.”
“Sì, ma dalle scale arriveremo in soggiorno, lo stesso che se entrassimo dalla porta.”
“Finiscila, levi gusto all’avventura. Afferra la mia mano che ti tiro su.”
Con qualche sbuffo e difficoltà i cinque ragazzi riuscirono a salire sopra la tettoia e ad intrufolarsi in camera di Kain. Facendo il più silenziosamente possibile aprirono la porta ed avanzarono per il corridoio, il bambino e Roy ad aprire la strada agli altri. Confortati dal fatto che le risate dalla cucina non accennavano a diminuire, scesero le scale e si accostarono alla porta chiusa.
“Tutto chiaro?” sibilò Roy strizzando l’occhio.
Gli altri annuirono, sapendo benissimo che il loro piano si basava sulla rapidità.
“Roy – supplicò Kain – ti prego…”
“Adesso!” esclamò il moro aprendo di colpo la porta.
E in tre secondi fu il caos più totale.
 
“Scusami, Riza – Kain abbracciò la sorella con aria mortificata – ti giuro che non… non volevo che succedesse questo. Ti prego, non arrabbiarti.”
La ragazza fissò con aria irata il bambino, tenendo le braccia rigide sui fianchi e rifiutandosi di ricambiare la stretta. Poi alzò gli occhi sul resto della banda che stava seduta in cucina con aria frastornata, mentre Rebecca ed Elisa li fissavano con altrettanto odio.
E come non potevano? Un vassoio di dieci tortini completamente rovinato, una terrina con l’impasto caduta a terra e dunque rotta, svariati altri ingredienti rovesciati nel pavimento, compreso il succo di more…
“Merda che male! Merda che male!”
… e Jean Havoc con i palmi delle mani bruciati per aver avuto la brillante idea di aprire il forno e prendere il vassoio senza alcuna protezione.
“Posso sapere di chi è stata l’iniziativa?” chiese, girandosi verso Roy.
Sapeva benissimo che non poteva essere che lui ed era furente: si sentiva offesa nel suo essere cuoca, nella sua intenzione di fare qualcosa di speciale per il compleanno di Kain. Con la sua idea malsana era riuscito a rovinare tutto quanto.
“Ti faccio avere altro succo di more, tranquilla…” fece lui tra l’imbarazzato ed il seccato.
Succo di more? Tu hai distrutto ore di lavoro ed un vassoio di tortini e pensi al dannatissimo succo di more?!
“Ti sbatterei il vassoio in testa, brutto stupido! Avete rovinato i nostri tortini!” esclamò.
“No, dai Riza – Kain si strinse ancora di più a lei – la colpa è mia che non li ho fermati. Scusami! Scusami… ti… ti aiuto a rifare tutto quanto e se mamma si arrabbia per la terrina rotta dico che sono stato io. Ma non essere furiosa, non il giorno prima del mio compleanno.”
Solo allora la ragazza abbassò lo sguardo sul viso addolorato del bambino e le sue braccia si mossero istintivamente attorno a lui: era così mortificato che non poteva dargli nessuna colpa.
Sarebbe qualcun altro a doversi fare l’esame di coscienza!
“Dai, ragazze – intervenne Heymans – siamo stati degli stupidi, lo ammetto. Vi chiediamo umilmente scusa, davvero e – prese uno dei tortini, che ovviamente si erano afflosciati, dal vassoio posato sul tavolo – vi assicuro che sono buonissimi.”
“Stavano venendo perfettamente! – protestò Rebecca, dando una sberla sulla nuca di Jean che stava seduto e serrava gli occhi per il dolore – Ma voi maschi siete sempre i soliti imbecilli!”
“Eli…” Vato si accostò alla fidanzata e la abbracciò.
“E io che te ne volevo portare uno stasera stesso – protestò lei con un broncio rassegnato – in questo momento ti sto odiando profondamente.”
“No, dai, non dire così. Ecco… io volevo solo mangiare il primo tortino fatto da te. Se avessi saputo che volevi portarmelo… oh, sono sicuro che sono buonissimi anche così: adesso ne assaggio uno pure io.” e con un sorriso si accostò al tavolo per prendere uno dei pietosi tortini afflosciati.
“E tu non dici niente?” chiese Rebecca, pretendendo le scuse anche dal suo fidanzato.
“Ma a quanto cazzo lo tenevate quel forno?” ritorse lui.
Tutto qui?”
“Tutto qui? Ma se ho le mani ustionate! Pretendi che riesca a prendere uno di quei tortini?”
“Vado a prendere della crema lenitiva – sospirò Riza, capendo che era inutile restare arrabbiata con quella banda di scalmanati – mettile sotto l’acqua fredda, tonto. Dai, Kain, inizia a rimettere un po’ in ordine, non sono arrabbiata con te, va bene?”
“Sul serio?” chiese il bambino con ansia.
“Sul serio – riuscì a sorridere – come sistemiamo provo a prepararne altri, va bene?”
“Ti aiuto pure io, Riza – la abbracciò con le lacrime agli occhi – promesso.”
“Forza, nano – sorrise Heymans – ti do una mano pure io… e comunque assaggia, te l’avevo detto che valeva la pena mangiarli appena levati dal forno.”
“Grazie al mio contributo.” riuscì a sogghignare Jean, mentre Kain prendeva in mano un tortino e lo assaggiava.
“Stupido – ridacchiò Rebecca, prendendo un altro tortino  e imboccandolo – avanti, dammi il tuo illuminato parere.”
“Mmmh – commentò lui a bocca piena – direi che ne è valsa la pena di ustionarmi così. Ragazze siete fenomenali.”
Ritrovando in parte il buonumore davanti a quegli apprezzamenti e considerato che anche Elisa e Rebecca sembravano aver perdonato, Riza andò in soggiorno e salì le scale, cercando di fare mente locale sul posto dove stava la crema lenitiva.
In realtà si sentiva un po’ triste perché tutti avevano detto qualcosa per farsi perdonare, mentre qualcuno aveva pensato soltanto al succo di more. Probabilmente per il suo modo di fare, poco incline a chiedere scusa, era tutto quello che ci si poteva aspettare.
Però poteva dire qualcosa di carino anche lui… persino Jean si è dimostrato sensibile.
 Era così immersa in quei pensieri che trasalì quando una mano le afferrò il polso.
Girandosi vide che si trattava proprio di Roy.
“Che c’è?” gli chiese non riuscendo ad evitare di mettere il broncio.
“Mi dispiace – mormorò lui con sincerità – volevamo solo rubare un vassoio, ma era anche un modo per complimentarci con la vostra bravura di cuoche.”
“Ma che follie ti inventi? – sospirò lei, rassegnata – Sei così assurdo, Roy. Un giorno sei la persona più seria del mondo e quello dopo te ne esci fuori con queste ragazzate. E quello che hai da dire davanti agli altri è che mi riporterai altro succo di more…”
“E’ vero.”
“Potevi dirmi qualcosa di più…”
Si sarebbe voluta mordere la lingua non appena disse quella frase, ma tutto quello che potè fare fu divincolarsi dalla sua presa e finire di salire le scale, dirigendosi verso il bagno.
“Riza…” lui la raggiunse e si frappose tra lei e la porta.
“Che c’è? Coraggio che Jean sta soffrendo come un disperato per quella bruciatura e…”
“Quando sarò grande e andrò via da qui, giuro che ti porterò con me.”
E senza che lei potesse ribattere le diede un bacio sulla fronte.
 
Quella sera, dopo cena, Ellie si mise a preparare la torta per la festa di domani mentre Kain osservava con interesse ogni sua mossa.
La donna non aveva mai avuto problemi ad averlo con sé in cucina, anzi era quasi un rituale che fosse accanto a lei mentre preparava la torta per il suo compleanno. A dire il vero erano dei momenti che adoravano entrambi: era come se l’odore degli ingredienti, la calma di quella cucina, stimolassero a chiacchierare e a confidarsi. Era anche per questo motivo che il ragazzino aveva sviluppano una maggiore sintonia con la madre piuttosto che con il padre.
“Ovviamente sarà al cioccolato, vero?” chiese Kain osservando la donna che mescolava l’impasto nella terrina. Non era ancora stato aggiunto l’ingrediente principale e dunque il colore era ancora deludentemente giallastro per via delle uova.
“Dodici anni domani e ancora mi fai simili domande, pulcino? – lo prese in giro Ellie, accennandogli alla busta con la preziosa polvere di cacao – Eppure dovresti aver imparato che va messo per ultimo.”
Il bambino sorrise soddisfatto e posò un braccio sul tavolo. 
“Mi sembra che stai usando un contenitore molto più grosso rispetto alle altre volte – osservò dopo qualche secondo – o sbaglio?”
“Fatti un po’ il conto di quanti saremo, tesoro. Fino all’anno scorso eravamo solo in cinque: noi tre ed i nonni. A questa festa siamo in quindici e direi che la torta dovrà essere più grande se vogliamo che tutti ne abbiano una fetta.”
“E’ vero!”
“E poi la solita terrina è andata in frantumi per via del piccolo incidente di questo pomeriggio.”
Lo disse con un sorriso tranquillo, segno che non se l’era presa troppo.
Effettivamente, eccetto la terrina rotta e il succo di more sprecato, i danni erano stati limitati. Alla fine le ragazze erano riuscite a preparare altri tortini, mentre i ragazzi avevano mangiato quelli afflosciati del vassoio conteso che, nonostante quel dettaglio, erano usciti davvero bene. E le infornate successive erano state coronate da successo, tanto che una ventina di tortini dolci e altrettanti salati stavano impilati su due piatti coperti con dei panni.
Persino le mani di Jean avevano subito meno danni del previsto e sembrava che tutto fosse stato perdonato.
Anche Riza, che sembrava la più arrabbiata, una volta che era tornata con la crema lenitiva assieme a Roy, aveva scrollato le spalle e si era messa di buona lena a rimettere in ordine. A Kain era sembrata addirittura felice, tanto che si era convinto che le famigerate separazioni tra maschi e femmine fossero la causa di tante incomprensioni. Del resto lui non adorava osservare sua madre cucinare?
“Ti sei ricordato di spedire la lettera ai nonni?”
“Certo, mamma – annuì. Poi dopo qualche secondo di silenzio aggiunse – Sai, è davvero strano.”
“Che cosa? – Ellie prese un cucchiaino pulito e gli fece assaggiare un po’ d’impasto – Buono, vero? E non c’è ancora il cioccolato, pensa tu.”
“Ovvio che è buono… comunque dicevo, è stano pensare che l’anno scorso, in questo giorno, non avevo nessun amico. Sono davvero cambiate tante cose e a volte mi sorprendo che sia passato così poco tempo.”
“Hai ragione; beh, del resto l’avevi detto che la prima media era un nuovo inizio, no?”
“A dire il vero lo dissi solo per far piacere a papà – arrossì colpevolmente il bambino – trovavo così difficile parlare con lui della scuola, dei ragazzi che erano cattivi con me… non capisco ancora come sia possibile che adesso posso dirgli tutto quello che voglio.”
“Siete cambiati, pulcino, sia tu che lui. Ora sei molto più sicuro di te stesso, senza più tutte quelle paure a tormentarti.” lo fissò con amore, notando come il cambiamento fosse visibile anche dall’atteggiamento più dritto, dal fatto che non tenesse più lo sguardo perennemente basso, evitando il contatto visivo con le persone, a volte anche con lei ed Andrew. Era come quando, a quattro anni, improvvisamente aveva deciso di diventare un bambino sano, sconfiggendo la debolezza fisica.
E anche per Andrew si poteva dire la stessa cosa: si era rilassato tantissimo nell’atteggiamento da mantenere col proprio figlio. Adesso gli veniva incontro più che spronarlo a reagire, cercava un dialogo che prima non esisteva, coinvolgeva il figlio nella sua vita in una maniera decisamente più intima.
“Entro la prossima settimana finiamo il progetto del ponte di East City – sorrise Kain – Papà ha detto che lo incornicia e poi lo appende in camera mia. Dice che ho un tratto davvero preciso: se non mi piacessero così tanto le radio mi piacerebbe diventare ingegnere… oppure studiare gli animali e la natura.”
“Accidenti quanti progetti.”
“Oh, però ho già deciso che sarà l’elettronica quella che studierò all’Università.”
“Ti è piaciuto davvero tanto quel posto, vero?”
“Sì, ed è stato fantastico quando papà mi ha presentato ad uno dei suoi professori: si ricordava di lui anche dopo tutti questi anni, si vede che era davvero bravo.”
“Migliore del suo corso – strizzò l’occhio Ellie – ma se ne vantava solo con me.”
“Voglio pure io essere il migliore del mio corso.”
“E lo sarai, pulcino – sorrise la donna iniziando a stendere l’impasto – non ho molti dubbi in merito.”
“Mh, appena posso ho intenzione di comprarmi quel grosso libro di elettronica che ho visto nella libreria dei parenti di Elisa: mi ci vorrà tanto, ma sono ottimista.”
“Davvero? – Ellie alzò gli occhi con aria noncurante – è un ottimo progetto.”
“Già – annuì Kain, non intercettando quell’occhiata – ma per ora mi importa solo che la festa di domani sia fantastica.”
“Sono sicura che lo sarà, pulcino mio.”
“Per fortuna che le ragazze non si sono arrabbiate più di tanto. Non avrei mai sopportato che avessero il broncio proprio per il mio compleanno. Però sai, a volte penso che siano strane: erano così furiose, ma poi piano piano sono tornate felici… sembravano quasi contente della nostra intrusione.”
“E scommetto che a un certo punto Elisa è uscita fuori con Vato e altrettanto hanno fatto Rebecca e Jean.”
“E tu come lo sai? – chiese il bambino con sorpresa – Mamma, sei una maga?”
Ellie scoppiò a ridere, arruffando i capelli del bambino con gentilezza.
“No, tesoro, sono cose che capirai con gli anni.”
“Mh, però allora Roy e Riza hanno fatto una cosa diversa.”
“Eh?” gli occhi scuri di Ellie si puntarono sul figlio.
“Certo, perché lei era felice subito dopo che è successo il danno, quando è andata a prendere la crema lenitiva per Jean e Roy l’ha seguita. Ma dev’essere perché loro non sono fidanzati.”
“E già…” sorrise la donna, iniziando a capire l’atteggiamento stranito della figlia adottiva durante la cena.
Ma era un qualcosa che sospettava già da qualche tempo.






Il bellissimo disegno è di Mary_
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Capitolo 69
*** Capitolo 68. Un anno per crescere. ***


Capitolo 68. Un anno per crescere.

 

Il nove settembre, lunedì, fu una giornata particolarmente serena: l’eccessivo caldo aveva iniziato a scemare e quel pomeriggio prometteva di essere perfetto per la festa di compleanno di Kain.
Gli ospiti dovevano arrivare verso le quattro e così, già da dopo pranzo, la famiglia si mise all’opera per sistemare i tavoli e le sedie nel cortile sul retro. Alla fine si era optato per quella soluzione considerato il numero di partecipanti e la comodità di accedere alla cucina.
“E se voi ragazzi avrete voglia di scatenarvi c’è tutta la pineta qui davanti – commentò Andrew mentre finiva di montare l’ultimo dei tavoli – bene, direi che con questo ho finito. Ellie, se vuoi tu e Riza potete iniziare a mettere le tovaglie e sistemare la roba da mangiare.”
Mentre si inginocchiava per controllare che una gamba di legno fosse fissata nel modo corretto, l’uomo venne abbracciato entusiasticamente dal figlio.
“Ehi, festeggiato – ridacchiò, alzandosi e tenendolo sollevato – siamo su di giri da stamattina.”
“Oh, papà, sarà una festa fantastica, me lo sento! Grazie per avermi permesso di invitare qui tutti i miei amici.”
“Ormai sono di casa, fa un enorme piacere pure a noi averli qui. Piuttosto, prima che inizino i festeggiamenti veri e propri, che ne dici di dare un’occhiata al regalo che ti abbiamo fatto io e la mamma?”
“Davvero posso guardarlo adesso?”
“Ovviamente, vado a prenderlo. Sentito, Ellie?”
“Oh! – la donna arrivò con le tovaglie tra le braccia e le posò sul tavolo – Splendido, spero che ti piacerà, pulcino, ma ho il vago sentore che non resterai deluso.”
“Voglio assistere pure io all’apertura! – Riza si accostò a loro, proprio mentre Andrew tornava con un pacco – Sono sicura che sarà un regalo speciale.”
“Anche il tuo album da disegno con i colori è stato speciale, Riza – commentò il bambino, sedendosi per terra e iniziando ad aprire la carta azzurra che avvolgeva il regalo – l’ho apprezzato tant… oh! Oh! Uao! Ma papà! E’ il libro di elettronica! Quello del negozio dei parenti di Elisa!”
Andrew scoppiò a ridere vedendo la smania con cui il figlio finiva di scartare il prezioso volume.
“Una piccola spia bionda mi ha raccontato del tuo entusiasmo quando l’hai visto qualche settimana fa. E così io e la mamma abbiamo pensato di farti questa sorpresa.”
“Ma ne stavamo parlando proprio ieri! – Kain sorrise alla madre, capendo di essere stato preso in giro – Grazie! E’ un regalo meraviglioso!”
Fu un abbraccio a tre molto complicato considerato che c’era un grosso volume in mezzo a loro, ma nonostante questo dettaglio l’entusiasmo fu assolutamente sincero. Riza osservava con felicità e, nell’arco di pochi secondi, venne inclusa pure lei.
Una volta terminato quel momento familiare, la ragazza si rimise di buona lena a sistemare i tavoli e a portare le pietanze. L’aspettativa e la gioia per quel giorno speciale le avevano persino fatto dimenticare quello che era successo con Roy il pomeriggio prima.
Ad un certo punto Ellie le si affiancò.
“Sono sicura che i vostri tortini avranno un grande successo.”
“Lo spero proprio, considerate tutte le peripezie che abbiamo passato per farli.”
“Ma da quanto ho capito l’attacco da parte dei maschi non è andato così male, vero?”
“Niente è andato sprecato, per fortuna: anche i tortini afflosciati sono stati mangiati.”
Il silenzio che ricevette in risposta la indusse ad alzare lo sguardo sulla madre: la fissava con gentilezza e anche con un pizzico di malizia e fu quest’ultimo particolare a farla arrossire lievemente. Possibile che avesse intuito quanto era successo?
“Ci tiene a te, si vede.” Ellie disse quella frase con estrema naturalezza: anche senza mettere un soggetto si capiva benissimo a chi si riferiva.
“Non l’ho mai messo in dubbio – Riza abbassò lo sguardo sui tortini impilati ad opera d’arte – è che…”
“Quando sarò grande e andrò via da qui, giuro che ti porterò con me.”
Era quella frase che la confondeva così tanto: era tipica di Roy, detta così all’improvviso, eppure con grande convinzione.
Se doveva essere sincera aveva iniziato da qualche settimana a chiedersi se le cose tra lei ed il suo miglior amico sarebbero sempre rimaste così. Ed era strano: alla festa del primo dicembre, quando sembrava in tutto e per tutto un appuntamento, nessuno di loro due aveva fatto dei sottintesi in merito. E adesso quella frase e quel bacio, così senza alcun preavviso e per un’occasione che certo non lo meritava: era stata altre volte arrabbiata con lui e non erano arrivati certo a questo.
Tuttavia… vedendo Elisa e Rebecca che andavano avanti nelle loro relazioni con Vato e Jean iniziava a chiedersi se non fosse arrivato anche per lei il momento di far evolvere la situazione. E non poteva essere che con Roy.
Ma se da una parte pensava questo, dall’altra quella frase l’aveva anche spaventata: di nuovo quell’esigenza di scappare, quel sentire stretto il paese con la sua calma e la sua placidità. Ma se per lui era una gabbia, per lei era invece un nido sicuro e caldo dove ormai aveva una famiglia che amava ed una vita felice: davvero era disposta ad abbandonare tutto questo che aveva guadagnato con tanta sofferenza e fatica?
Certo lei era in seconda superiore e dunque le mancavano altri tre anni per completare la scuola: in quell’arco di tempo molte cose potevano cambiare.
Ma c’era quel senso d’urgenza…
“Riza! Secondo te dove conviene che metta questi bicchieri?”
Girandosi di scatto vide Kain che avanzava con in mano un vassoio carico di bicchieri pericolosamente traballanti. Corse verso di lui per evitare il disastro ed incontrò il suo sorriso limpido e riconoscente.
Potrei mai abbandonarti, piccolo mio?
 
Circa un’ora dopo, mentre si sistemava i capelli davanti allo specchio, Roy continuava a ripetersi se era il caso di parlare con Riza a proposito di quello che era successo la sera prima. A scuola non c’era stato tempo di affrontare l’argomento e, se doveva essere sincero, lo preoccupava un po’ l’idea di farlo proprio alla festa di Kain. L’ultima cosa che voleva era che una parola sbagliata rovinasse la festa a lei e agli altri.
“Io vado, zia – disse, scendendo le scale – dovrei tornare verso l’ora di cena o poco più tardi.”
“Divertiti – salutò la donna, impegnata a controllare i libri dei conti – e fai tanti auguri al piumino.”
“Ovviamente.”
“Ehi, Roy!”
Il ragazzo si girò in tempo per vedere Lola scendere di corsa le scale e raggiungerlo.
“Che c’è?”
“Dallo a zuccherino – sorrise la ragazza porgendogli un pacchetto – è un pensierino per lui.”
“Non mancherò.”
Salito in sella alla bicicletta iniziò a pedalare verso l’uscita del paese: aveva preferito andare separatamente dal resto dei suoi amici e alle loro famiglie, riteneva che una pedalata solitaria l’avrebbe aiutato a riflettere sui grandi cambiamenti che nell’ultimo periodo erano avvenuti nella sua vita. Perché era veramente cambiato tanto: ora che Riza viveva con i Fury era come se si fosse concluso un capitolo della loro amicizia in cui si dovevano sostenere l’uno con l’altro per far fronte allo strano vuoto che pervadeva le loro vite. La ragazza si era finalmente affrancata da suo padre e anche da quella dipendenza emotiva che aveva nei suoi confronti: avere una famiglia stabile l’aveva resa più sicura e decisamente più grande.
E lui?
Mentre si poneva quella domanda quasi sgommò, ricordandosi all’ultimo di prendere la deviazione dal sentiero principale. Recuperando il controllo del suo mezzo rifletté anche sulla sua persona.
Poco più di un mese e avrebbe compiuto sedici anni: adesso era in quarta superiore e studiava anche per diventare alchimista. Quel pensiero l’avrebbe dovuto rendere veramente fiero di se stesso, del resto era qualcosa che voleva da tempo, tuttavia la sua attenzione si spostò su altri dettagli della sua vita.
A novembre dell’anno prima aveva promesso davanti a Vato che avrebbe creato un gruppo basato sull’amicizia e ci era pienamente riuscito: aveva stretto dei legami con dei ragazzi così diversi tra di loro eppure così complementari che sembravano nati per essere amici. Forse questo in parte lo sminuiva: non era più il solitario, quello a cui quel posto e quella gente non andavano a genio, ma…
I suoi amici e le loro famiglie gli andavano fin troppo a genio.
Riza ha trovato i Fury ed io in qualche modo i Falman… che è? Il complotto delle F?
Sogghignò pensando a tutto quello che aveva fatto passare al capitano e alla sua famiglia, ma si sentì pieno di felicità all’idea che poteva fare affidamento su tutti loro.
“Roy! – la vocetta allegra di Kain lo salutò, mentre arrivava in prossimità di casa Fury – Ciao! Sei il primo ad arrivare!”
“Io sono sempre il primo – rispose al saluto, fermandosi con la bici accanto al ragazzino – buon compleanno dodicenne e questo è un pensierino da parte di Lola.”
“Davvero? – il ragazzino prese il pacchetto tra le mani – Allora in settimana passerò a ringraziarla. Oh ma che bello! E’ un sacchettino: sicuramente si è ricordata di quando facevo confusione tra i miei attrezzi perché erano tutti mischiati nella tracolla. Qui ci posso mettere quelli più piccoli!”
“Ti conosce davvero bene, eh?”
“Ciao, Roy.” Riza apparve dal cortile del retro e si accostò a loro.
I due ragazzi più grandi si scambiarono solo un’occhiata prima che Kain attirasse l’attenzione di Riza sul regalo appena ricevuto.
 
Laura si guardava intorno con grande felicità, sentendosi elettrizzata come non le accadeva da tempo. Era la seconda festa a cui partecipava da quando era rimasta sola con i ragazzi, ma la prima si era svolta a casa sua. In quest’occasione invece era un’ospite e la cosa la faceva sentire bene, di nuovo accettata come non accadeva ormai da anni. Vedere tutte quelle persone che non la escludevano, anzi la coinvolgevano nei loro discorsi, le dava un nuovo senso di libertà.
Vedere inoltre i suoi figli che si divertivano assieme a tutti gli altri ragazzi la convinceva sempre di più che piano piano la situazione stava davvero migliorando, fino ad arrivare ad una nuova e meravigliosa normalità.
“Una fetta di torta per un’ospite particolarmente speciale.” disse una voce accanto a lei.
Laura si girò e sorrise quando vide Andrew che le porgeva un piatto con una grossa fetta di dolce.
“Quale onore – ridacchiò, mangiando il primo boccone – addirittura servita dal padrone di casa.”
“Negli ultimi quindici anni sei mancata a troppe feste, Laura Hevans, mi sembrava giusto concederti questo piccolo privilegio.”
I due amici si sorrisero complici e poi si misero a guardare tutti gli altri invitati che si godevano quel pomeriggio di svago. La loro attenzione andò istintivamente ad Henry che stava accarezzando Hayate e poi ad Heymans che chiacchierava con il nonno di Kain.
“E’ cresciuto tanto, eh?” fece Andrew.
“Non mi sembra vero – annuì Laura – quindici anni… e per la vita familiare che gli ho dato mi pare un miracolo che sia venuto su così bene. E’ stato il mio punto fermo per tutto questo tempo, ma ha pagato un prezzo così alto.”
“Poteva andare molto peggio: Gregor poteva condizionare la sua vita in maniera maggiormente pressante. Ma Heymans è forte, lo è sempre stato: c’è tanto di Henry in lui, vero?”
“Da gennaio a questa parte me ne rendo conto ogni giorno di più: l’incontro con te è stata la svolta che l’ha aiutato a crescere e a risolvere tutti i problemi. Ma del resto, che altro potevo aspettarmi da te?”
“Se la metti in questo modo mi fai sentire in colpa per non essere intervenuto prima – sospirò Andrew – quando Kain mi ha raccontato delle sue nuove amicizie ed ho capito che c’era anche Heymans… mi è sceso un brivido lungo la schiena. Ne ho avuto paura, lo confesso.”
“Di essere giudicato?”
Andrew si girò a guardarla, accorgendosi di quanto fosse diversa dalla sua amica spensierata delle scuole superiori, ma anche dalla donna spaventata che era stata la moglie di Gregor. Ma c’era sempre quella capacità di leggergli nel pensiero, dimostrando di conoscerlo meglio del previsto.
“Sì, di essere giudicato… e forse il giudizio di un ragazzino è più temibile di quello di un adulto.”
“Domani sono quindici anni, Andy. Credi che sia fiero di noi?”
“Estremamente fiero: non hai motivo di temere il suo giudizio.”
“Vorrei che fosse qui a vedere quanto sono belli i suoi nipoti… credo che li adorerebbe.”
Andrew sorrise nel vedere Kain ed Henry che parlavano tra di loro: suo figlio si toccò la gamba da cui si vedeva la lieve fasciatura e rise. I due protagonisti di quel tragico episodio sembravano in perfetta armonia tra di loro: dolore, trauma… la capacità dei bambini di superare tutto quanto non avrebbe mai smesso di sorprenderlo.
“Ehi, Laura – Angela, poco distante, fece cenno alla donna di raggiungere lei e Rosie – vieni che ti dobbiamo raccontare una novità troppo divertente!”
“Ti dispiace?” fece la rossa lanciando un’occhiata di scusa al suo amico.
“Vai pure, in fondo questa la considero anche un po’ la tua festa e sentiti autorizzata a fare tutto quello che vuoi.” sorrise l’uomo.
“Posso raccontare gli imbarazzanti episodi della tua infanzia?” scherzò lei.
“A patto che poi tu sia pronta a quelli che racconterò io su di te!” ritorse lui tirandole una ciocca di capelli.
Tuttavia come vide l’amica inserirsi perfettamente nella discussione tra le altre donne non poté fare a meno di sentirsi estremamente felice ed orgoglioso. Quell’anno gli aveva davvero ridato una parte della sua vita che, a volte, aveva creduto perduta per sempre.
“E’ felice, vero?” sorrise Ellie accostandosi a lui e cingendogli la vita con entrambe le braccia.
“E se lo merita dopo tanto tempo, amore mio – annuì lui, passandole un braccio attorno alle spalle – credo che le cose non potrebbero andare meglio di così. Heymans ed Henry si prenderanno sempre cura di lei, ne sono certo.”
“E tu ti prenderai sempre cura di me e dei ragazzi?” chiese lei con aria supplichevole.
“Ora e sempre, meraviglia – le sorrise – nutri ancora qualche dubbio in merito?”
“Ma no, è solo che mi piace sentirmelo dire. Piuttosto, come pensi di cavartela con una quattordicenne che fa i suoi primi ed esitanti passi nel mondo dell’amore?”
“Perché ritiri fuori la nostra storia? – le chiese lui sorpreso – Beh, è stato difficilino all’inizio lo ammetto, non sapevo come prenderti per paura di deluderti… eri oggettivamente troppo piccola e…”
“No no, non parlo di me – ridacchiò Ellie – ora c’è un’altra quattordicenne a cui pensare.”
“Riza? – lo sguardo dell’uomo cercò immediatamente la ragazzina che, in quel momento, parlava con le sue amiche – Non vorrai dirmi che…”
“Ma dai, ancora non l’avevi capito? Ahi ahi ahi, Andrew Fury, non sei un buon osservatore, non più.”
“Roy?”
“E chi altri? Non mi dire che ora ti metterai a fare il padre geloso, non è proprio il caso.”
Andrew spostò l’attenzione sul moro che in quel momento veniva preso per l’orecchio dal capitano Falman mentre un nuovo battibecco tra i due iniziava. Ovviamente sapeva che il legame tra i due ragazzi era molto forte e, a pensarci bene, segnali in quella direzione c’erano tutti. Però, oggettivamente, gli sembrava che Riza non fosse ancora pronta in quel senso e forse anche Roy: si fosse trattato di altri due ragazzi non avrebbe avuto problemi a vederci la nascita di una storia d’amore. Tuttavia…
“Non credo che succederà nell’immediato.”
“Perché dici questo?”
“Perché in qualche modo quei due sono diversi dal resto degli altri ragazzi e forse devono capire ancora molte cose di loro stessi – scrollò le spalle – ma non ho dubbi che, al momento giusto, sapranno essere felici. E quando Riza avrà bisogno di me o di te, saremo sempre pronti a sostenerla. Ma per ora la cosa più giusta da fare è goderci la festa, amore mio. Che dici? Andiamo a chiedere al festeggiato se vuole un’altra fetta di torta?”
“Ve benissimo, tanto sappiamo già che dirà di sì.”
 
“Ti stai proprio divertendo con quella macchina fotografica – commentò Vato, osservando Elisa che scattava l’ennesima foto – tuo cugino è stato davvero gentile a prestartela.”
“Non vedo l’ora che vengano sviluppate! – sorrise lei – Ne ho scattato alcune fantastiche, per esempio quella di Riza con tutta la sua famiglia o quella di Heymans con il fratello e la madre! Sono bellissimi ricordi: quando le guarderemo, fra molti anni, ci tornerà in mente questa giornata.”
“Però, effettivamente manca qualcosa – ammise Vato, prendendo la macchina fotografica – ehi, Heymans, posso chiederti un favore?”
“Dimmi pure.” fece il rosso, avvicinandosi.
“Scatteresti una foto a me ed Elisa?” chiese passandogli la macchina fotografica e abbracciando la fidanzata da dietro. Con un sorriso si accorse che lei si irrigidiva per la sorpresa, le guance che le si coloravano di rosso: quando mai lui, Vato Falman, aveva preso l’iniziativa per una cosa simile?
“Più che volentieri, amico – strizzò l’occhio Heymans indietreggiando di un passo – ehi, Elisa, rilassati, suvvia! Vogliamo che questa foto esca bene, no?”
“Decisamente – ridacchiò lei, posandosi contro il fidanzato e sorridendo felice – scatta pure.”
Rimasero immobili il tempo necessario per sentire il click e poi lei si girò per baciare il fidanzato.
“Grazie.” sussurrò.
“E di che – sorrise lui di rimando, mentre Heymans restituiva la macchina fotografica – del resto, quando guarderemo questa foto, ci tornerà in mente questa bellissima giornata, no? E’ più che giusto che ci sia un ricordo anche di noi due… il primo di tanti.”
“Oggi sei in vena di romanticherie: attento che potrei abituarmici.”
“E’ che oggi mi sento molto bene: sono felice che siamo tutti qui assieme… alla festa di compleanno di Heymans mancava Rebecca e poi Kain aveva ancora la stampella. Ma questa volta è tutto perfetto! Tu sei perfetta…”
“E pensare che un anno fa non eravamo ancora fidanzati: il nostro primo anniversario sarà il primo dicembre, non mi sembra vero. Come vola il tempo…”
“Già.”
“Uh, aspetta! Voglio assolutamente fotografare Hayate! Poverino, deve stare legato, ma credo che si stia godendo la festa pure lui.”
 
“Ahah! Guarda: Elisa sta andando a fotografare il cane! Perché poi quella foto non te la incornici e la metti nella scrivania?” Jean rise di gusto e diede una gomitata ad Heymans che l’aveva appena raggiunto.
“Spiritoso – lo guardò torvo lui – mi dispiace, ma ho molta più affinità con i gatti.”
“I gatti rossi, vorrei specificare: in una famiglia di rossi come voi non poteva che arrivare un gatto come Carota – continuò a prenderlo in giro l’amico – fosse stato grigio non l’avresti apprezzato, ne sono certo.”
“Oggi sei particolarmente fastidioso, hai perfino dato corda a tua sorella per la solita storia di imboccarmi quando hanno servito la torta. Per fortuna sono riuscito a deviarla su Kain come al solito: quel ragazzino è la mia ancora di salvezza in queste situazioni.”
“Prima o poi dovrai cedere alle insistenze di Janet – ridacchio il biondo – è solo questione di tempo e capitolerai.”
“Finiscila!” sbottò Heymans, lanciando una rapida occhiata alla bambina che stava seduta su una sedia mentre la madre le rifaceva una delle trecce. Si somigliavano davvero tanto e in qualche modo si poteva già intravedere un primo barlume della splendida ragazza che sarebbe stata tra una decina d’anni.
“E’ speciale, vero? – Jean assunse un tono di voce particolarmente dolce, così strano per lui – Ne vado dannatamente fiero, anche se non glielo dirò mai e poi mai.”
“Oh, ma lei lo capisce, fidati.”
“Senti, anche se avete otto anni di differenza…”
“Jean...”
“Sul serio, se un giorno vi sposerete io ne sarò più che felice: so di potermi fidare di te.”
“Adesso inizi a correre troppo, amico mio – Heymans gli diede un lieve pugno sul braccio – limitiamoci al presente e a goderci la vita. Ne ho proprio voglia dopo tutto quello che abbiamo passato: vedere mamma ed Henry così felici è l’unica cosa che mi importa in questo momento.”
“Prima ho visto che parlavi con il nonno di Kain… altri guai all’orizzonte?”
“No – scrollò le spalle lui – è che… ti confesso che da grande non mi dispiacerebbe lavorare nel mondo della giurisprudenza. Da quando mamma mi ha regalato la penna ho pensato diverse volte a quello che mi piacerebbe realizzare e vorrei aiutare le persone che si trovano in difficoltà come sono stato io. Non tutti hanno un Andrew Fury che ti tira fuori dai guai... o un Jean Havoc che li salva quando sembra tutto andare per il verso sbagliato.”
“Parlavamo di goderci il presente, suvvia.” disse il biondo, arrossendo lievemente.
“Hai ragione, che dici, andiamo da Kain? Non gli abbiamo ancora chiesto che regali ha ricevuto.”
“Ottima idea. I discorsi seri non vanno bene ad una festa… giusto per farti divertire, lo sai che i miei genitori poco fa mi hanno fatto quasi morire d’infarto con uno scherzo di pessimo gusto?”
“Ah sì?”
“Già, li stavo rimproverando di essersi baciati in pubblico, insomma, non sono più dei ragazzini…”
“Ma che moralista! Mi sorprendi, Jean!”
“… smettila. E comunque, mia madre se ne esce fuori con la solita storia che senza le effusioni io e Janet non saremmo mai nati, insomma i soliti discorsi imbarazzanti che sa fare solo lei. E poi se ne esce dicendo che è probabile che le effusioni abbiano fatto effetto di nuovo.”
A quelle parole Heymans si fermò e lo guardò con aria sconvolta.
“Un nuovo erede per la grande casata Havoc?”
“Fortunatamente era solo uno scherzo! – sospirò di sollievo il biondo – Ma ti giuro che per tre secondi il mio cuore ha smesso di battere… ti rendi conto del trauma di ricominciare tutto dall’inizio? Già mi è bastata Janet e sono sicuro che con la sfortuna che mi ritrovo sarebbe stata un’altra femmina.”
“Che burlona tua madre…”
“Fin troppo!”
 
“E’ una dannata festa, la pianti di essere così rigido, capitano!”
A quell’ennesima provocazione Rosie non poté far a meno di ridacchiare, nonostante l’occhiataccia che Vincent le lanciò. Poi l’uomo rivolse la sua attenzione a Roy.
“Smettila di usare quella parola con me, ragazzino – lo redarguì – proprio non riesci a portare rispetto per gli adulti, vero?”
“Per lei ne porto fin troppo – ribatté il giovane, mettendosi a braccia conserte e fissandolo con un sorriso strafottente – se fossi più grande e responsabile forse il mio atteggiamento sarebbe diverso, ma qualcuno vuole che mi goda appieno la mia adolescenza.”
“Non rigirare la frittata.”
“Coraggio, Roy – intervenne Rosie, mettendo le mani sulle spalle del ragazzo – non mi pare il caso di un nuovo litigio in quest’occasione, non credi?”
“Come preferisce, signora – annuì docilmente il ragazzo, godendo nel vedere il capitano rodersi per quel diverso atteggiamento – a lei non potrei mai dire di no.”
“Ma sentilo il ruffiano…” sbuffò Vincent, arruffandogli i capelli.
“Un vero adulatore – commentò Rosie, arrossendo lievemente – ma forse è meglio che usi simile galanteria con qualcuna di più vicino alla tua età, Roy.”
“Dice?” il giovane guardò di lato giusto in tempo per scorgere Riza che si addentrava fra i primi alberi della pineta.
Si era ripromesso di non parlarle in quest’occasione di festa…
Tuttavia…
 
Riza si stiracchiò con estrema soddisfazione, ascoltando il sottofondo delle risate che proveniva da poco lontano: la festa stava riuscendo davvero bene, proprio come aveva sperato, ed era felice che Kain fosse al centro di tutta quell’attenzione.
E poi, ora che ci pensava, era anche la sua prima festa come membro ufficiale della famiglia Fury e questo voleva dire tanto per lei. Non vedeva l’ora di vedere la foto che Elisa aveva fatto a loro quattro assieme: le sarebbe tanto piaciuto incorniciarla e metterla accanto a quella dove lei stava in braccio a sua madre.
“Qualcosa non va?”
Una voce da dietro la distolse da questi lieti pensieri e si irrigidì lievemente quando vide Roy che la raggiungeva: per un tacito accordo nessuno dei due aveva detto qualcosa riguardo a quanto era successo la sera prima, ma per una strana forma di intuito, Riza capiva che era arrivato il momento.
“No, niente: volevo solo godermi un po’ di tranquillità.”
“Se vuoi torno indietro – propose subito lui – non hai che da chiedere.”
“Ma no, resta pure. Del resto nel nostro rifugio personale abbiamo sempre spartito lo spazio senza alcun problema, no? Perché dovremmo iniziare proprio adesso?”
Roy accolse quell’invito con un sorriso e si accostò maggiormente a lei: si mise le mani in tasca e fissò la pineta con aria distratta, il suo gomito che sfiorava con noncuranza il braccio scoperto dell’amica.
“Riguardo quello che è successo ieri…” iniziò proprio lei dopo qualche minuto di silenzio.
“Ero serio – dichiarò subito lui – e sono ancora di quel proposito, ovviamente se ti va di seguirmi.”
Il silenzio cadde di nuovo tra di loro, tanto che Roy si chiese se aveva fatto bene ad essere così impulsivo.
Ma perché mentire? Riza era speciale ed era certo di volere lei accanto in tutte le gioie ed i dolori che la vita gli avrebbe riservato: più di qualsiasi altro era lei con cui voleva condividere la parte più intima di se stesso, certo che sarebbe stato capito.
“Ti sta ancora stretto questo posto, vero?” chiese lei con lo sguardo basso.
“Stretto… beh, è diverso.”
“Hai sempre l’esigenza di andare via da qui a scoprire il mondo, a fare qualcosa di grande – le mani di lei si congiunsero in grembo, le dita che si tormentavano tra di loro – qui proprio non ci vuoi stare.”
“No, non è così.” impiegò qualche secondo per dire questa frase, come se fosse l’ammissione di una piccola sconfitta personale.
“Che intendi dire?” questa volta Riza si voltò a guardarlo.
“E’ un piccolo e tranquillo angolo di mondo e mi sta stretto, è vero… tuttavia qui ci sono le persone migliori che conosca e sapere di avere un posto simile dove tornare, con la certezza di trovarle, mi dà un grandissimo sollievo.”
“Tornare…”
“Sì, tornare – annuì lui con serietà – non potrei mai abbandonare gli altri, soprattutto il piccolo gnomo. Del resto essere un leader vuol dire anche questo, no? Mi devo prendere cura di loro.”
“Ma ci vorrà ancora tempo.” Riza sorrise, felice di sentire tutte quelle rassicurazioni.
“Già, infatti: almeno due anni e poi dovrò andare all’Accademia militare… e nel frattempo tu finirai le scuole. Insomma ci sono tantissime cose che potranno accadere in quest’arco di tempo. Però mi piacerebbe che tu ci fossi, davvero.”
“Ci sono già, Roy, ci sono sempre stata – arrossì lei – e continuerò ad esserci, non avere dubbi.”
A quelle parole lui sorrise felice ed istintivamente le prese la mano.
Andava bene così per entrambi, si capiva.
Non ci sarebbe stato un primo bacio come invece era già successo per gli altri, ma c’era una consapevolezza molto più profonda: non erano più outsider, ma il loro legame non si sarebbe mai spezzato.
“Più che amici ma meno che fidanzati… mi pare che una volta Elisa abbia definito così se stessa e Vato. Vale lo stesso per noi?” chiese passandosi la mano libera tra i capelli neri con aria imbarazzata.
“Mi piace come idea – sorrise lei – e sono così felice. Abbiamo degli amici fantastici, degli adulti di cui fidarci… ed oggi è una giornata davvero speciale. Ci è bastato solo un anno per crescere così tanto, Roy.”
“Sul serio…”
Dei richiami li fecero girare e, sciogliendo quella stretta di mano con aria complice, tornarono nel cortile della festa.
“Eccovi qua! – sorrise Kain felice – non vi vedevamo più.”
“Tranquillo, gnomo – sorrise di rimando Roy, mentre Riza scambiava un’occhiata maliziosa con Elisa e Rebecca – quando mai andrei via dalla festa senza salutarti.”
“Piuttosto che ne dici di una nuova gara? – chiese Jean, avvicinandosi assieme ad Heymans – O sei stanco?”
“Ma quando mai! Vato, preparati, sei in squadra con me!”
“Certamente, Roy, però questa volta lascia che dica la mia sulla strategia da seguire e…”
“Oh ma che belli che siete così assieme! – commentò Elisa – I sei del gruppo originario! Stringetevi un po’ che vi faccio una foto: Kain tu mettiti al centro che sei più piccolo e sei anche il festeggiato!”
“Il  mio gruppo originario, eh? – Roy mormorò quella frase con uno strano sorriso, mentre gli altri si stringevano – Mi piace come definizione.”
E in un lampo d’intuizione capì che con quelle cinque persone si sarebbe ritrovato sempre.
Anche in un’altra vita con ruoli ed identità diverse, ne sono certo. Loro sono legati a me ed io a loro in maniera indissolubile.
“Sorridi, Roy, suvvia!” mormorò Riza.
“Pronti? – chiese Elisa, indietreggiando ancora di un passo per far entrare tutti nell’inquadratura – Scatto!”
 
 


E quando le foto vennero sviluppate qualche giorno dopo, tutti i ragazzi furono concordi nel confermare che quella era la migliore.
 
     

 

Il meravigliosissimo disegno (la seconda è un particolare) è di Mary
*______*

 

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Capitolo 70
*** Epilogo. Vent'anni dopo. ***


Epilogo. Vent’anni dopo.

 

La radio si stava dimostrando veramente tosta, ma Kain era senza dubbio più testardo di lei: tenendo una cuffia all’orecchio con la mano sinistra, con la destra continuava a ruotare con paziente lentezza la manopola di sintonizzazione. Gli occhi scuri dietro gli occhiali erano leggermente socchiusi per la concentrazione, ma ad un tratto si sgranarono per la sorpresa: immediatamente schiacciò alcuni bottoni dell’apparecchio e sorrise.
“Sintonizzata! – annunciò – Bisognava rimettere a posto tutti i canali e farla collegare alle nuove stazioni.”
“E così anche questa stazione di polizia ha finalmente una radio decente – commentò Henry accostandosi e prendendo in mano le cuffie, lieto di non sentire più il fastidioso ed inutile fruscio – grazie, Kain.”
“E di che – scrollò le spalle il giovane, iniziando a raccogliere i suoi piccoli attrezzi – è stato un piacere cimentarmi con questa bellezza. E’ un modello davvero intrigante, nonostante non sia proprio nuovissimo: comunque domani ti insegno bene a collegarti e preparerò anche uno schema riassuntivo in modo che tutti vi possiate destreggiare se creasse di nuovo problemi.”
“Ottima idea – Henry si levò la giacca della divisa per far fronte al caldo di metà giugno – Dannazione che afa, quest’anno sarà un’estate rovente.”
“Già – annuì Kain, beandosi della sua leggera camicia a maniche corte – ma penso che sarà solo fino ad agosto: a settembre tornerà già un clima più vivibile e…”
“Henry Breda – il capitano Falman entrò nella stanza e diede un leggero colpetto alla nuca del ragazzo – caldo o meno sei in servizio e la giacca della divisa la devi tenere, quante volte te lo devo dire?”
“E allora si ritroverà con una pozzanghera al posto del suo subordinato, signore – sospirò il trentaduenne poliziotto, mentre Kain ridacchiava – andiamo, sono le sue ultime ore prima del pensionamento: perché non fa uno strappo alla regola e mi permette di sopravvivere?”
Vincent, la sua divisa perfettamente in ordine, afferrò i capelli rossi del giovane e li tirò lievemente come aveva fatto innumerevoli volte con ciascuno di loro e come spesso continuava a fare in barba all’età.
“Ricordati che fino alle otto di stasera sono il tuo capo e mi devi rispetto.”
“Suvvia, capitano, sia buono – Kain si ritenne in dovere di intervenire – non si rovini il suo ultimo giorno di lavoro, se lo goda piuttosto.”
“Secondo me ancora non ci crede che da domani farà il nonno a tempo pieno…” ridacchiò il rosso con un sorriso impudente.
“Henry!” lo rimproverò Vincent con un ultimo strattone.
“Nonno! Nonnino, sei qui?” una vocina avanzò nei corridoi: immediatamente Henry, libero della presa, diede una gomitata a Kain per fargli notare il cambiamento d’atteggiamento nel capitano.
Il viso di Vincent si distese quando una bimbetta di sette anni, col taglio allungato di occhi tipico dei Falman, fece timidamente il suo ingresso nella stanza. Ma qualsiasi esitazione sparì come riconobbe tutti i presenti e tese le braccia verso il capitano.
“Lisa, principessina – Vincent non poté fare a meno di usare un tono di voce esageratamente tenero nel prenderla in braccio – come mai sei qui?”
“Volevo farti vedere questi – disse la bambina, portandosi le mani alle dritte codette castane dove spiccavano due elastici con una perlina azzurra – me li ha regalati la nonna per la festa di domani: ti piacciono?”
“Ma certo che mi piacciono. E dimmi, dov’è la nonna?”
“Lisa, sei qui? – Rosie entrò con un sorriso – Scusate, ma ci teneva tanto a mostrarli a te, caro.”
“Li ho fatti vedere anche al papà, alla mamma e a Rey! Zio Kain, zio Henry, a voi piacciono?”
“Sono bellissimi, Lisa.” sorrise Kain, accarezzandole una codetta.
“Davvero belli – gli fece eco il rosso – vedrai che domani piaceranno tantissimo a tutti.”
Mentre la bambina arrossiva felice e si stringeva al collo del nonno, Kain lanciò un’occhiata all’orologio appeso alla parete.
“Scusate, ma devo andare: il treno arriverà tra poco e voglio essere in stazione.”
“Ah, già, tornano oggi: giusto in tempo per la festa di pensionamento del nostro capitano. Decisamente non si può mancare ad un evento simile – sghignazzò Henry – dopo tanti anni il suo regno di terrore finirà.”
“Ti ricordo che ho ancora un paio di ore di servizio, Henry: se non vuoi che le dedichi completamente a te vedi di tenere a freno quella linguaccia.”
Soffocando una risatina davanti a quell’ennesimo battibecco, al quale assisteva una perplessa Lisa e una divertita Rosie, Kain uscì dalla stazione ed inforcò la bicicletta, dando un primo colpo di pedale. Uscì dal paese ed imboccò il sentiero che portava verso la stazione ferroviaria, godendosi il movimento d’aria dato dalla velocità: quella bici aveva più di venticinque anni ma andava ancora che era una meraviglia. E Kain non l’avrebbe cambiata per niente al mondo, considerato che gliel’aveva lasciata Roy.
Il capitano Falman in pensione… era incredibile come volava il tempo: a volte gli sembrava solo ieri che tutti loro finivano inevitabilmente nei guai e dovevano far fronte alle sue prediche e alle conseguenti punizioni. A pensarci bene era un vero e proprio miracolo che nessun infarto avesse colpito quell’uomo, considerato che alcune bravate erano state al limite del consentito, come quando Roy li aveva convinti a rubare il carro degli Havoc per fare un’allegra scampagnata che in realtà era durata sino a notte fonda.
Sì, non vedere più Vincent Falman nella sua perfetta divisa sarebbe stato davvero strano.
Ma era anche giusto che si potesse dedicare a tempo pieno ai due nipotini: si capiva che ormai il sessantacinquenne capitano di polizia desiderava godersi appieno la pensione e la sua famiglia.
Il suo dovere l’aveva fatto e poteva essere più che soddisfatto: la squadra del paese era veramente ben organizzata e Kain era sicuro che, nell’arco di pochi anni, sarebbe passata nelle capaci mani di Henry Breda. Nonostante i battibecchi quel giovane dai capelli rossi era il fiore all’occhiello del capitano Falman.
Già, Henry… il suo compagno di classe.
Tutti erano rimasti sorpresi quando, finite le scuole, aveva deciso di diventare poliziotto e qualche malalingua, remore ancora degli avvenimenti che avevano scosso la famiglia Breda, aveva commentato che uno come lui non ce l’avrebbe mai fatta. Ma il ragazzo aveva zittito tutti con la grande determinazione che aveva dimostrato e sicuramente il capitano Falman aveva visto qualcosa di speciale in lui. E così ora in paese circolava un poliziotto dai capelli rossi che, ai più anziani, ricordava sotto molti punti di vista, un giovane soldato dallo stesso nome che, anni prima, recava tanto orgoglio alla comunità. Nel frattempo si era anche sposato con una giovane maestrina delle elementari, Katrin, e avevano avuto due bambini: Mary di sei anni ed Heymans junior di quattro… ovviamente entrambi con i capelli rossi.
 
Arrivato alla stazione,  parcheggiò la bici ed andò nella banchina, giusto in tempo per sentire il fischio della locomotiva in lontananza. Aveva tanto atteso questo momento: era da natale che non li vedeva e la loro assenza era sempre molto sentita.
Come il treno si fermò dal vagone centrale saltò a terra un ragazzino. Immediatamente i suoi occhi nerissimi si girarono verso di lui, mentre un furbo sorriso gli appariva nel viso ancora pallido, ma pronto a colorarsi in quei mesi estivi.
“Zio Kain! – esclamò piombandogli addosso – Come stai?”
“Ouch! Piano Vincent! – rise l’uomo, prendendolo in braccio – Accidenti ma quanto sei cresciuto in questi mesi! Tra un po’ sarai tu a dover prendere in braccio me.”
“Ma se ho otto anni – sogghignò lui, in maniera pressoché identica al padre – a settembre inizio la quarta, lo sai, no?”
“Lasci salutare anche a noi o hai preso in ostaggio tuo zio, giovanotto?” chiese una voce.
“Nessun problema, mamma – sorrise il bambino, facendosi mettere a terra – Zio, vero che sei venuto con la bici? Poi posso usarla? Ormai ai pedali ci arrivo, ne sono certo.”
“Vedremo, ma ora lasciami salutare i tuoi genitori.”
Subito si fece avanti una bellissima donna dai lunghi capelli biondi fermati dietro la nuca da un fermaglio. La gonna aderente al ginocchio e la camicetta a maniche corte facevano di lei una perfetta cittadina, ma lo sguardo era quello felice di una ragazza di campagna che finalmente torna a casa.
“Ciao, fratellino – lo salutò, abbracciandolo con ardore – tutto bene?”
“Tutto bene, Riza – annuì lui rispondendo all’abbraccio con la medesima intensità – mamma e papà non stanno più nella pelle. Finalmente starete qui per tre mesi, non vedevamo l’ora.”
“E’ più che giusto che tornassimo in tempo per il grande avvenimento – sogghignò Roy, stringendo con calore la mano di Kain, prima di abbraccialo con sincerità – sempre in splendida forma, gnometto, eh?”
“Ovviamente, colonnello Mustang.” ridacchiò lui, facendo un saluto militare perfetto.
“Oh, finiscila, questa divisa la levo non appena saremo a casa: qui non è proprio il caso di indossarla.”
“Posso levarmi anche io la divisa della scuola, papà?” chiese con impazienza Vincent.
“Certamente, giovanotto, sei o non sei in vacanza?”
 
Mentre Kain teneva la bici per il manubrio e chiacchierava con Roy e Riza delle ultime novità, Vincent Christopher stava seduto tranquillamente nel sellino della bicicletta che era stata di suo padre. Somigliava tantissimo a Roy sia fisicamente che caratterialmente, anche se il taglio degli occhi l’aveva preso da Riza: Kain non aveva molti dubbi che la sua presenza per l’estate avrebbe scatenato tutti gli altri ragazzi. Come suo padre, Vincent Christopher, era l’indubbio leader della nuova generazione… con buona pace del capitano di polizia in onore del quale portava il nome.
“Qui si respira decisamente di più rispetto alla città – sospirò Roy, allentandosi il colletto della camicia – ti lascio immaginare l’inferno che c’è ad East City.”
Si era levato la giacca della divisa e l’aveva posata sul telaio della bici, respirando a pieni polmoni l’aria della campagna: a conti fatti anche un colonnello dell’esercito e alchimista di stato è felice di poter tornare al proprio nido.
Crescendo, infatti, Roy Mustang aveva mantenuto fede ai suoi progetti e una volta terminata l’Accademia Militare aveva dedicato tutta la sua attenzione allo studio dell’alchimia, conseguendo il titolo di stato a ventuno anni.
Alchimista di fuoco… Kain col tempo aveva imparato qualcosina sull’alchimia, ma non aveva mai pensato che una persona così chiusa come il padre di Riza potesse possedere il segreto di un potere simile. Ovviamente il giovane non l’aveva mai vista all’opera, ma sapeva che era una delle più forti che esistevano: Roy l’aveva utilizzata in guerra, ma mai e poi mai come arma vera e propria per uccidere le persone. Altrimenti Riza non gliel’avrebbe mai perdonato.
La loro storia d’amore aveva impiegato diverso tempo prima di arrivare al matrimonio, nonostante fossero chiari i sentimenti che uno provava per l’altra. Il progetto originario prevedeva che la ragazza raggiungesse il fidanzato ad East City non appena questi avesse ottenuto il titolo di alchimista di stato: tuttavia, proprio quando Roy aveva tagliato questo traguardo, Berthold Hawkeye si era ammalato gravemente e Riza si era sentita in dovere di stargli accanto. Purtroppo la malattia non aveva lasciato scampo all’uomo, ma il suo decorso era stato lento e doloroso, durando più di due anni.
Una volta che il vecchio alchimista era morto, era stata la guerra a separare i due giovani: Roy era stato chiamato a prestare servizio contro Aerugo e, considerate le sue doti di alchimista, la sua permanenza nel fronte si era protratta ben oltre i sei mesi canonici prima del ricambio truppe. Nel frattempo, tuttavia, la ragazza non era rimasta ferma ed era entrata nell’esercito come membro dello staff amministrativo di suo nonno, senza dunque aver bisogno di fare l’Accademia.
E quando Roy era finalmente tornato ad East City ne era diventata assistente e moglie: all’epoca lei aveva venticinque anni e lui ventisette. Tuttavia questa collaborazione ufficiale non era durata nemmeno un anno: una volta che era rimasta incinta di Vincent, Riza aveva abbandonato il suo ruolo per dedicarsi al bambino, anche se continuava ad assistere il marito in veste privata.
“La mamma ha pensato ad aprire casa vostra in questi giorni – spiegò Kain, riferendosi alla vecchia villetta degli Hawkeye che, alla morte di Berthold, era stata finalmente ristrutturata diventando la casa di Riza e Roy nei mesi in cui tornavano in paese – così non troverete l’aria di chiuso. Se non siete troppo stanchi stasera ceniamo tutti assieme, va bene?”
“A casa dei nonni? – Vincent si girò verso lo zio con aspettativa – Sarebbe fantastico! Io ci vengo! Se mamma e papà sono stanchi pazienza.”
“Guarda che i tuoi genitori mica sono vecchi, sono solo accaldati – sbottò Roy – e poi voglio vedere chi crollerà addormentato nemmeno alle nove e mezza di sera.”
“Ah! Sono sicuro che posso reggere fino alle dieci e mezza.”
“Peccato che massimo alle dieci tu sarai a letto, Vincent – lo riprese Riza con voce calma ma che non ammetteva repliche – domani vorrai essere in forma per incontrare tutti i tuoi amici, no?”
“Io sono sempre in forma!” protestò il bambino.
“Per somma gioia del capitano…” commento Kain, ridacchiando.
 
Come sempre le riunioni e le feste delle famiglie si svolgevano nel grande cortile degli Havoc. Il grosso complesso di edifici che comprendeva sia emporio che abitazione aveva subito dei grossi cambiamenti in quei vent’anni: una nuova ala era stata aggiunta alla casa originaria ed era stata occupata da Jean e Rebecca quando erano finalmente convolati a nozze.
Proprio Jean Havoc, nel pieno dei suoi trentaquattro anni, fumava beatamente una sigaretta nel cortile dell’emporio, pregustando l’imminente festa che avrebbe visto riunite tutte le persone a lui care. Quei vent’anni l’avevano fatto crescere di altezza e di muscoli, ma i capelli biondi col ciuffo ribelle erano sempre gli stessi, così come gli occhi azzurri e maliziosi.
“Papà!”
La voce di Jilly gli fece immediatamente spegnere la sigaretta su un vecchio vaso sbeccato che stava lì accanto. Adorava il tabacco, ma il fumo provocava sempre una fastidiosa tosse a sua figlia e dunque, seppur con grande sacrificio, il numero di sigarette era drasticamente ridotto… e venivano sempre fumate fuori casa, senza che Jilly fosse presente.
“Dimmi, bambolina.” sorrise, nel vedere la figuretta snella che si avvicinava.
“Papà! – protestò subito lei pestando i piedi a terra – Mamma dice che per la festa mi devo mettere un abitino! Perché diamine non posso restare in pantaloncini e canottiera? Se poi giochiamo con gli altri voglio stare comoda!”
Jean dovette trattenere una risata davanti alla sfuriata fatta da quel piccolo istrice di sette anni: adorava la sua bambina, identica alla madre se non fosse stato per i capelli biondi e gli occhi azzurri, ma maschiaccio impenitente. Nella cucciolata della nuova generazione, Jilly era decisamente la più difficile da gestire: pronta ad avercela con tutto e tutti, tranne due eccezioni ossia suo padre e suo nonno James.
“Suvvia – la prese in braccio, notando le ginocchia sbucciate – sono sicuro che starai veramente bene con l’abitino. Sarà solo per qualche ora e potrai tornare a vestire i soliti pantaloncini corti, con somma disperazione di tua madre.”
“Lo so, ma quelle ore saranno una vera e propria rottura!” sospirò lei, abbracciando il collo del padre e accoccolandosi alla sua spalla.
“Non dire cose simili davanti a tua madre, sennò poi si infuria con me, lo sai. E dai, fammi un sorriso, bambolina… da brava.”
Davanti a quella richiesta la piccola non poté far a meno di elargire il più dolce dei suoi sorrisi all’adorato genitore. Succede che le femmine siano maggiormente legate alla figura paterna, ma Jilly estremizzava questa caratteristica con una vera e propria ossessione nei confronti di Jean: era possessiva e niente le dava più fastidio di vedere altri bambini attorno a lui. Giusto tollerava la presenza del gemello, ma per tutti gli altri, soprattutto le femmine, era guerra.
“Jilly Havoc! – la voce di Rebecca giunse imperiosa dalla casa – O vai immediatamente a lavarti e cambiarti, o giuro che passerai seri guai!”
“Ora arriva! – rispose Jean per evitare che un ennesimo litigio madre e figlia avesse luogo – Forza, ragazzina, vediamo di essere obbedienti almeno oggi.”
“Solo un paio d’ore…” sbottò lei, facendosi mettere a terra.
 
“A quanto pare il padre sta riuscendo ad ottenere qualcosa – sospirò Rebecca, rientrando in cucina – ma perché deve essere così scorbutica?”
“E’ un bel peperino – commentò Angela, controllando il forno – ha preso sia da te che da Jean, mia cara.”
“A me piaceva vestire bene – ridacchiò la mora, portandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli che era sfuggita al fermaglio – sin da quando ero piccolina.”
Angela sorrise e guardò con soddisfazione l’amata nuora, ricordandosi di quella ragazzina che vent’anni prima si era praticamente imposta come fidanzata di suo figlio. Il tempo aveva in parte sgrezzato ed ingentilito il suo carattere, ma era rimasta una donna estremamente forte, l’unica adatta a far mettere la testa a posto a quello scavezzacollo di Jean.
A dire il vero la loro relazione era stato un tira e molla per diversi anni, fino a pochi mesi prima del matrimonio. Ormai si era perso il conto delle volte in cui uno dei loro amici aveva fatto da paciere per quelle che alla fine erano sciocchezze. E poi cinque anni dopo le nozze erano arrivati i gemelli e casa Havoc era di nuovo colma di vocette e strilla infantili.
A proposito di gemelli…
“Jilly è sistemata – commento – ma dov’è Jody?”
“Jody! – Rebecca sollevò lo sguardo dall’impasto che stava stendendo – Oh no! Che fine ha fatto quel benedetto bambino?”
 
“Ah, vedrai che la mamma ti sgriderà!” commentò Jilly che, in barba a quanto gli aveva detto il padre, aveva deviato il tragitto verso l’odiato bagno e l’ancor più odiato vestitino per andare in cerca del gemello.
“Dici?” chiese ingenuamente Jody coperto dalla testa ai piedi di fango.
Si tirò la maglietta con le mani sporche, chiedendosi come fosse stato possibile che una corsa tra le pozzanghere lo riducesse in quel modo. Però era stato estremamente divertente e poi la mamma non si doveva arrabbiare troppo: erano solo vestiti, bastava lavarli… e se lo chiedeva lui l’avrebbe aiutata più che volentieri. Adorava tutte le bolle di sapone e poi spruzzare l’acqua era davvero divertente.
Perché Jody Havoc era così: semplice e genuino, uno di quei bambini perennemente felici e iperattivi. Esatta antitesi della sorella, privo di qualsiasi malizia, fisicamente era come avere a che fare con un giovanissimo Jean Havoc.
Per questi motivi Heymans commentava che vedere i due gemelli era abbastanza inquietante: sembravano la versione dei loro genitori da giovani.
“Dico! – annuì Jilly con convinzione, dall’alto del suo essere sorella maggiore di ben venti minuti – E io ho sempre ragione.”
“Ehi, ciao ragazzi!”
A quel richiamo i due gemelli si girarono e riconobbero i due fratelli Falman che deviavano dal sentiero, salutando con un cenno la loro madre, per raggiungerli.
“Ehi, Jody – fece Rey tenendosi a distanza di sicurezza da tutto quello sporco – ma che hai combinato?”
“Corsa sul fango!” sorrise il biondo.
“Oh…” il giovane primogenito dei Falman aggrottò leggermente la fronte davanti a quella follia che lui mai avrebbe commesso. Aveva nove anni ed era il più grande del gruppetto di ragazzi: a settembre avrebbe iniziato la quinta elementare. Tuttavia il suo carattere non era certo da leader.
“Sempre perfettino, Rey? – lo prese in giro Jilly – Mamma, mia quanto sei noioso!”
“Perché dici una cosa simile? – chiese con aria profondamente perplessa – Sei arrabbiata con me?”
“E me lo chiedi? – lei si fece avanti, andando a pochi centimetri da lui – La settimana scorsa siamo finiti in punizione, ma tu non hai protestato. Sei uno stupido perfettino, seguitore delle regole manco fosse…”
“Semmai seguace.” corresse subito Lisa.
“Non sto parlando con te! – sbottò Jilly che non nutriva molta simpatia per la sua compagna di classe – Sto parlando con tuo fratello.”
“Ma Jilly – cercò di spiegare Rey – avevamo sbagliato ed era inevitabile che…”
“Non ti sopporto, non ti arrabbi mai!”
Al ragazzo dai capelli castani, curiosamente di tonalità più scure sotto e più chiari sopra, variante della bicromia paterna, non rimase che sospirare davanti a quell’ennesima sfuriata. Jilly cercava sempre di convincerlo della bontà delle sue monellerie, ma lui sapeva bene che non funzionava proprio in quel modo… specie per gli adulti. Però, anche se queste erano le sue convinzioni, finiva sempre per seguire la sua amica.
Nel frattempo Lisa si era accostata a Jody e, preso un fazzoletto, aveva iniziato a pulirgli il viso dal fango… un tentativo davvero pietoso considerata la percentuale di sporco del bambino.
“Lisa, non ce n’è bisogno.” commentò con un sorriso bonaccione.
“Poi ti prendi una sgridata, tontolone.” rispose lei, concentrata nella sua opera di pulizia.
“E se poi ti sporchi il vestito? Dai, lascia stare: meglio che venga sgridato solo io piuttosto che tutti e due.”
“Però mi dispiace – sospirò la bambina, passandogli il fazzoletto ormai imbrattato – oh, Jody, ma perché…”
“Ma smettila! Che tanto mamma non si arrabbia troppo.”
“A questo punto il bagno me lo faccio prima io! – Jilly iniziò a correre verso casa – non voglio la vasca lurida di fango dopo che ci sarai passato tu! E poi fai sempre un lago!”
“E’ tutto da vedere che lo fai prima!” scattò Jody, cogliendo al volo la sfida.
E così ai due fratelli Falman non restò che osservare i loro amici allontanarsi in fretta e furia.
“Speriamo davvero che non venga sgridato…” mormorò Lisa, raccogliendo il fazzoletto sporco che Jody aveva lasciato cadere a terra nella foga di correre verso casa.
“Vedrai che se la caverà, come sempre.” scrollò le spalle Rey.
Nonostante le apparenze e le grandi diversità, quei quattro erano un gruppo molto compatto e durante l’anno scolastico erano sempre gli uni a pranzo dagli altri o viceversa. Fondamentalmente era Jody che faceva da collante, specie tra la sorella e Lisa: le due bambine infatti non andavano molto d’accordo, più che altro non si comprendevano con i loro caratteri così diversi.
Lisa era tranquilla, studiosa, amava leggere ed aveva una memoria prodigiosa proprio come il padre; a Jody piaceva molto: la trovava intelligente, anche se spesso non capiva le parole complicate che usava. Però adorava sentirla parlare di qualsiasi argomento: spesso riteneva che Lisa ne sapesse anche più di molti grandi, di certo sapeva molte più cose di lui. E se c’era una cosa che detestava era se qualcuno la faceva piangere: una volta aveva dato una testata ad un altro bambino perché aveva osato prenderla in giro dicendo che aveva gli occhi strabici.
Rey invece non era studioso all’inverosimile come la sorella, ma non di molto. Le voleva bene, certamente, ma era esitante nelle dimostrazioni fisiche d’affetto. A dire il vero non riusciva proprio a capire come Jody potesse essere così affettuoso con tutti quei abbracci che definiva stile san Bernardo… e, soprattutto, non riusciva a capire come una bambina più piccola di lui come Jilly lo facesse finire inevitabilmente nei guai.
“Sarà davvero bello adesso che Vincent è tornato per le vacanze – commentò la ragazzina, piegando con cura il fazzoletto imbrattato e tenendolo prudentemente lontano dal suo vestito nuovo – ieri l’abbiamo appena salutato dato che era tardi, ma credo che ci divertiremo molto tutti assieme.”
“Già – annuì Rey, mentre si incamminavano verso casa Havoc – ma ho il vago sospetto che la maggior parte di questi divertimenti ci metteranno nei guai.”
 
“Non vedo l’ora di spettegolare con Riza!” esclamò Rebecca con felicità.
“A chi lo dici – ridacchiò Elisa, andando accanto a lei ed iniziando ad aiutarla – è da troppi mesi che non ci si vede, ma abbiamo tutta un’estate per recuperare. E sarà lo stesso anche per i ragazzi: aspettavano tutti il ritorno di Roy! Vato non stava più nella pelle negli ultimi giorni! A proposito, lui arriva tra poco non appena chiude la libreria.”
“Non fa altro che lavorare a quella revisione delle voci enciclopediche: solo lui poteva fare una cosa del genere. Oh, suvvia, dottoressa – protestò la bruna – non è il caso che ti disturbi…”
“Ma finiscila, il fatto che lavori con garze e farmaci non mi impedisce di dare una mano in cucina e…”
“Sei lenta, Jilly!”
Un bolide coperto di fango attraversò la cucina seguito a poca distanza da Jilly.
Elisa e Rebecca rimasero perplesse ad osservare le tracce di sporco lasciate nel pavimento prima di sentire le proteste della bambina lasciata fuori dal bagno.
“Jilly Havoc! – chiamò Rebecca – Non ti avevo detto più di venti minuti fa di farti questo benedetto bagno?”
“E’ colpa di Jody!” protestò lei tornando in cucina e mettendosi a braccia conserte.
“Non è così che…”
“Buongiorno a tutti!”
L’arrivo di Janet interruppe l’inevitabile sgridata.
Tutti dicevano sempre che da grande la secondogenita degli Havoc sarebbe diventata una vera bellezza e le aspettative erano state ampiamente rispettate: sempre biondissima, anche se ora i capelli erano raccolti in un’unica lunga treccia, Janet era sbocciata in una splendida fanciulla alta e snella che sin dai primi anni del liceo era stata corteggiata da molti giovanotti del paese.
Il vestito azzurro ed il grembiule bianco avvolgevano in maniera sensuale la sua figura, mettendo in evidenza il viso leggermente abbronzato e sorridente. Tuttavia l’attenzione della donna, dato che ormai aveva ventisei anni, era volta alla bimbetta che teneva tra le braccia.
“Ciao, Lulù!” sorrise Elisa, andando vicino a loro e accarezzando la guancia della piccola.
“Si è svegliata adesso – spiegò Janet – stanotte non ha dormito bene per il caldo e ha recuperato tutto in queste ore. Ben svegliata, topolina, hai visto che siamo arrivate a casa dei nonni e degli zii?”
Lulù si stropicciò gli occhi col pugnetto chiuso e si svegliò del tutto nel vedere le altre persone nella stanza.
“Ehilà, salve –  Kain fece il suo ingresso con un grosso pacco tra le mani – ecco arrivati i pasticcini al cioccolato preparati da Janet.”
“Di cui tu hai fatto ampio assaggio già ieri sera.” lo prese in giro lei.
“Dai pure a me.” si fece avanti Rebecca, liberando l’uomo dall’ingombro.
“Papà!” Lulù tese le braccia verso di lui.
“Oh, ci siamo svegliate – sorrise, prendendola e baciandola sul nasino – buongiorno, mio dolce passerotto dagli occhi blu, dormito bene?”
E sì, alla fine a rubare il cuore di Janet Havoc era stato Kain Fury e non Heymans Breda, come invece ci si sarebbe aspettati vent’anni prima.
Verso la prima media, infatti, la ragazzina si era accorta che quello che provava per il rosso amico di Jean era un sentimento fraterno e la sua attenzione si era spostata verso una ben precisa persona.
A posteriori, scherzando, Kain diceva che c’era qualcosa di ereditario in quella storia d’amore un po’ particolare considerati i cinque anni di differenza… ma i momenti di tensione erano stati tanti, anche perché Jean non era stato molto felice di quella nuova passione della sorella. E quando due caratteri forti come i loro si scontravano erano davvero faville.
 Tra i due fratelli era stata una vera e propria lotta, con Jean che aveva riniziato a vedere Kain come un nemico, tanto che più di una volta si era quasi arrivati all’aggressione fisica. Tutto questo nonostante il giovane Fury avesse mantenuto un atteggiamento più che corretto nei confronti della ragazza.
Ovviamente, da principio, si era trovato in difficoltà ad accettare quei sentimenti: voleva molto bene a Janet e desiderava il meglio per lei, ma quella differenza d’età era molto forte. Si era ripromesso di aspettare che lei finisse almeno il liceo, memore del percorso che avevano fatto i suoi genitori, ma Janet aveva reso le cose molto più complicate in quanto, a differenza di Ellie, era molto più decisa e spudorata.
Era persino riuscita a rubargli il primo bacio che aveva appena quindici anni e lui quasi venti.
Per non parlare della volta che era scappata di casa per fargli un’improvvisata ad East City, quando lui era all’ultimo anno di Università.
Insomma c’era voluta tutta la pazienza e la buona volontà tipica dei Fury per permettere al giovane esperto in elettronica di gestire quella complicata situazione. Tra minacce da parte di Jean ed entusiasmo da parte di Janet, era riuscito ad arrivare indenne al momento in cui lei aveva finalmente finito le scuole e dunque non era più così sconveniente ammettere di provare determinati sentimenti.
Piano piano, spinto anche dal buonsenso dei genitori e degli amici, Jean aveva accettato la situazione e per il loro matrimonio, celebratosi due anni dopo, i rapporti erano ormai distesi. E cinque anni dopo, la nascita di Lilia, Lulù per tutti, aveva seppellito definitivamente l’ascia di guerra.
“Su – Kain mise a terra la figlioletta – sgranchisciti pure le gambe.”
La bimba scrollò la testolina castana e sgranò gli occhi di un blu veramente carico: si mise il pollice in bocca e mosse esitanti passi, indecisa verso chi andare.
“Ehi, Lulù – chiamò Jean, entrando dall’altra parte della stanza – vieni da zio Jean!”
A quel richiamo la piccola sorrise e iniziò a trotterellare verso quella direzione, ma arrivata all’altezza di Jilly venne circondata dal braccio della cugina.
“Non ci provare, microbo…” le sibilò in tono minaccioso.
“Ah, ecco le mie bellissime nipoti! – James spezzò quella minaccia entrando a sua volta ed andando a prendere in braccio entrambe le bambine – Figliolo, posso sapere dove diamine hai messo gli attrezzi per montare i tavoli?”
“Sono già fuori in cortile, papà – Jean si avvicinò per dare un’arruffata di capelli ad entrambe le bimbe – non aspettano altro che noi.”
“Bene, scusate signore, ma gli uomini devono lavorare. Vieni Kain, anche se non ci sono cavi ed elettricità con cui avere a che fare, un altro aiuto è sempre gradito.”
Come gli uomini si furono allontanati, passarono pochi secondi che Jody rientrò in cucina con i capelli ancora gocciolanti.
 “Mamma! Ho finito col bagno e… – dichiarò con orgoglio – Ciao, Lulù!”
L’abbraccio da orso sommerse la cuginetta che emise dei versi soffocati, l’equilibrio messo seriamente in difficoltà. Il ragazzino adorava la cugina, anche se spesso le sue effusioni erano troppo esagerate.
“Jody! – subito Janet si accostò a loro – Piano, tesoro, piano! Sei il triplo di lei!”
Il bambino ridacchiò e abbracciò con entusiasmo la zia, mozzandole il respiro.
“Oh no, Jody – Angela arrivò e si accostò a lui – hai messo la maglietta al rovescio e hai ancora i capelli fradici… vieni, bietolone, andiamo a sistemarci meglio! Jilly, forza, devi fare il bagno si o no?”
 
Nonostante queste difficoltà di preparazione, nell’arco di due orette tutti quanti erano radunati per festeggiare il pensionamento del capitano Falman. Il clima era sempre lo stesso di vent’anni prima: i bambini che si scatenavano e due generazioni di adulti che si godevano quella giornata estiva.
Ovviamente furono numerosissimi i brindisi e gli aneddoti che si sprecarono per il festeggiato, in particolare Roy fece la parte da leone citando gli episodi più esilaranti in cui aveva coinvolto il capitano di polizia.
“C’è davvero da stupirsi che sia arrivato al pensionamento dopo tutto quello che gli abbiamo fatto passare – sogghignò Heymans dopo l’ennesima storia che aveva fatto ridere tutti (un po’ meno l’ormai ex capitano Falman che sembrava sul punto di dare una sberla al divertito Roy) – siamo stati peggio di qualsiasi banda criminale che potesse mai incontrare.”
“Oh suvvia – sorrise Laura, seduta accanto al figlio maggiore, il rosso dei capelli leggermente spento, ma sempre sorridente – in realtà è sempre stato estremamente fiero di tutti quanti voi. Allora, resterai qui per tutta l’estate? Sono stata così felice quando sei tornato prima del previsto.”
“Sì, non credo ci saranno problemi – annuì Heymans, prendendo con affetto la mano della donna – ho chiuso tutti i casi che sto seguendo e non credo che dovrò andare ad East City fino a settembre inoltrato. Mi potrò godere un’estate di tranquillità.”
“Zio Heymans – una manina gli tirò la manica della camicia e Mary, rossa e dagli occhi grigi come il fratello minore, tirò fuori dalla tasca del grembiulino un disegno – ti piace? L’ho fatto io!”
“Che brava che sei, ragazzina – sorrise lo zio, prendendola in braccio – ma stai mangiando? Sei sempre uno stecchetto e non va bene: forza, apri la bocca.”
“Non ingozzarla come un’oca! Guarda che ha mangiato.”
“Sì, ma poco. Non va bene se vuole crescere.”
“Oh, forza, dalla a me. Vieni, tesoro, hai sete?”
“Pure io, nonna!” Heymans junior si accostò a lei, mettendosi in piedi sulla panca e poggiandosi al tavolo con qualche difficoltà. Ma per fortuna Laura era ormai pratica nel gestire contemporaneamente i due nipoti, così come era abile a tenere a bada tutti gli altri bambini… una dote che tutte le nonne avevano acquisito, tanto che Angela definiva tutte loro la squadra delle nonne vincenti.
 
Approfittando di quella pausa dai nipoti (precisando era zio onorario di tutta la nuova generazione), Heymans si alzò dal tavolo e si passò una mano sui corti capelli rossi. Alla fine lui era l’unico del gruppo che non si era sposato, ma era perfettamente felice della sua vita: era diventato avvocato e anche se stava in paese, spesso andava ad East City per via del suo lavoro.
Proprio grazie al suo lavoro era venuto di recente a conoscenza di alcuni fatti che riguardavano il suo passato. Negli ultimi giorni aveva riflettuto parecchio se tenere esclusivamente per se quelle notizie, ma poi aveva deciso che almeno due persone ne dovevano venire a conoscenza.
“Ti posso parlare un secondo?” chiese accostandosi ad Henry.
“Certamente – annuì il fratello, facendo cenno a sua moglie di tornare pure accanto alla suocera e ai bambini. Evidentemente aveva già intuito qualcosa perché come si furono allontanati leggermente dai tavoli aggiunse – c’è qualcosa che vuoi dirmi da quando sei tornato la settimana scorsa, vero? Te lo leggo in faccia.”
“Non è facilissimo – ammise lui, cercando con lo sguardo la seconda persona a cui voleva parlare – riguarda nostro padre.”
Proprio in quell’istante Andrew Fury alzò lo sguardo da Ellie e Riza che chiacchieravano allegramente e capendo di essere convocato si alzò dal tavolo e si accostò con discrezione ai due fratelli.
Il tempo era stato molto gentile sia con lui che con la moglie che dimostravano molto meno dell’età effettiva. Ormai non vivevano più nella casa sulla collina che era stata lasciata a Kain e Janet: quando qualche anno prima era venuto a mancare il notaio Fury, si erano trasferiti nella casa di famiglia. L’uomo continuava ad essere uno stimato ingegnere e, a prescindere dai suoi cinquantaquattro anni, continuava a lavorare quotidianamente ad ogni cantiere.
“Tutto bene ragazzi?” chiese, mettendo una mano sulla spalla di ciascuno di loro.
“Stavo per affrontare un discorso un po’ particolare con Henry, signore – ammise Heymans. Ed è strano parlarne a più di vent’anni di distanza: si tratta di nostro padre.”
Gli occhi castani dell’uomo si incupirono lievemente a quella rivelazione.
“Hai fatto delle ricerche su di lui?” chiese con gentilezza.
“Non so nemmeno io perché – Heymans lo guardò con aria di scusa, quasi fosse stata una mossa tremendamente sciocca come quando, vent’anni prima aveva deciso di sfidarlo apertamente – ma ad un certo punto mi sono reso conto che ormai doveva avere una certa età e che… forse volevo affrontarlo di nuovo da adulto, un po’ come feci con mia nonna tempo addietro, ma probabilmente alla fine non so nemmeno io quello che volevo.”
“E che hai scoperto?” chiese Henry con calma, dopo qualche secondo.
“E’ morto qualche anno fa… cirrosi epatica a quanto pare. Non aveva una dimora stabile, era quasi un vagabondo ormai. Non ha mai avuto dei problemi con la legge, eccetto quello che è accaduto qui, però non è riuscito a ricostruirsi una vita.”
Il tre si guardarono per qualche istante e poi, immediatamente, rivolsero la loro attenzione a Laura che si godeva la compagnia dei nipotini e della nuora. Adesso in paese erano pochi quelli che ancora le tenevano il broncio per il suo essere donna separata.
“Non deve saperlo.” disse subito Henry.
“No – annuì Heymans – che senso avrebbe?”
“Sono d’accordo con voi: non è il caso di riaprire spiacevoli ferite. Adesso ha voi, i bambini, le sue amiche e tutti noi altri… lui non le deve far più del male, nemmeno da morto. Questa notizia deve restare tra noi tre e…”
“Nonno Andi! Nonno Andi!”
I tre adulti subito cambiarono atteggiamento mentre Lulù correva ancora in maniera traballante verso di loro, un gran sorriso sul viso paffuto.
“Piano, cucciola, piano! – ridacchiò l’uomo, recuperandola in tempo per evitare un ruzzolone – cosa c’è?”
“Nonna Elli dato questo a Lulù! – esclamò lei felice, mostrando un coniglietto di stoffa – E’ Oscar! Oscar! E’ venuto dalle favole di nonna per Lulù! E’ un conilietto magico!”
“Coniglietto – la corresse Heymans – ripeti, amore, coniglietto.”
“Conilietto!” ripeté lei, inciampando in quel suono ancora troppo difficile e provocando la risata di tutti.
 
“Scommetto che allo stagno ci saranno un sacco di rane!” dichiarò Vincent Christopher mettendosi le mani in tasca.
“Oh sì che ci sono! – annuì Jilly – e nel prato dietro casa ho trovato una tana di lucertole enorme! E secondo me sono ancora lì!”
“Grandioso! Andiamo a vedere!”
“Ovviam…”
“Vincent Mustang e Jilly Havoc! Tornate subito qui!”
La voce del capitano Falman tuonò e subito i due ragazzini si guardarono con aria complice.
“Oh,dai, chi se ne frega di lui! – Jilly iniziò a correre – scappiamo Vin!”
“Piccole pesti!” sibilò l’ex capitano di polizia, risedendosi nella sedia e intuendo che quei tre mesi sarebbero stati molto movimentati per via di quei due. E che, inevitabilmente, i suoi due tranquilli e disciplinati nipoti sarebbero stati coinvolti nelle varie monellerie.
“Papà, stai calmo – Vato gli mise una mano sulla spalla – ti fa male alla pressione.”
“Li lasci divertire capitano – ridacchiò Roy, seduto accanto all’amico – devono godersi la loro infanzia, no?”
“Dannazione a me – sbottò Vincent, mettendosi una mano sulla tempia in un gesto d’esasperazione – che grande errore ho fatto inculcandoti quel concetto in testa, Roy!”
“Errore? – il moro sorrise furbescamente e lanciò un’occhiata significativa a Vato – Signore, lei è stato una grande guida per tutti noi. Oggettivamente, guardando questa tavolata, lei e gli altri genitori potete rammaricarvi di qualcosa?”
“No – sospirò l’uomo con un lieve sorriso – direi proprio di no. E mi pare incredibile che siano passati vent’anni da quei fatidici mesi in cui avete fatto amicizia.”
“Sono stati dei mesi rivoluzionari – commentò Vato, osservando Jody e Rey che ridacchiavano assieme a James, mentre Lisa si faceva sistemare una codetta dalla madre – non è sbagliato dire che hanno deciso in buona parte quello che siamo adesso.”
“Com’è che è iniziata? Ah sì… ad inizio anno scolastico Riza aveva stretto amicizia con Kain.”
Il colonnello fissò la moglie che chiacchierava con Ellie, le mani delle due donne intrecciate amorevolmente.
“E poi tu e Jean vi siete picchiati…” sogghignò Vato.
“E poi ho coinvolto te nel mio progetto d’amicizia… che matti che eravamo all’epoca.”
“Davvero, ma sai, quella foto fatta alla festa di compleanno di Kain è ancora in bella mostra in salotto – confessò Vato – accanto a quella del matrimonio e dei bambini. Eppure ne abbiamo fatte altre tutti assieme, ma quella ha un significato tutto particolare.”
“Il gruppo originario… beh, devo proprio fare un brindisi a quei ragazzi che eravamo e agli adulti che ci hanno insegnato a vivere.” alzò il bicchiere di vino.
“E gli adulti sono fieri di voi, ragazzi.” rispose Vincent, imitando il gesto assieme al figlio.
Come potevano non esserlo dopo tutto quello che avevano passato?
E anche dopo vent’anni, in quel piccolo e sperduto angolo di mondo, avrebbero sempre ricordato quel breve arco di tempo che li aveva uniti in maniera indissolubile.




I bellissimi disegni sono di Mary  ^___^


___________________________
Ed eccoci finalmente arrivati alla fine di questa fic, con una nuova generazione di pargoli che imperversa in quel piccolo angolo di mondo, pronta a creare un sacco di guai al nostro amato ex capitano di polizia! (è destino, Vincent, rassegnati).
Scherzi a parte è stato un viaggio davvero lungo: credevo che nessuna fic superasse The Memory Man con i suoi 33 capitoli, ma di giorno in giorno questa creatura mia (e in parte anche di Mary che mi ha ispirato tante scene con i suoi disegni meravigliosi) cresceva e non mi andava di levare spazio a quelli che erano momenti fondamentali nella vita dei ragazzi.

Alla fine ho optato per far diventare solo Roy militare: mi sarebbe sembrata una forzatura bella e buona creare di nuovo il Team Mustang considerati i background differenti a quelli reali: in primis il fatto che non c'è la guerra civile sullo sfondo. In ogni caso la squadra è in qualche modo presente: sempre compatti ed uniti a prescindere dal fatto che indossino o meno la divisa.

Ok, adesso mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate di quest'opera in generale: sui ragazzi, sulle problematiche che hanno affrontato, sui loro genitori... ecco proprio su di loro e sugli altri miei OC (Janet, Elisa ed Henry) mi piacerebbe sapere cosa ne pensate ^___^
E poi ho una domanda da farvi: 
vi interesserebbero gli spin off sui genitori? Sarebbero in teoria tre: uno su Vincent e Rosie, uno su Ellie, Andrew e Laura (e anche Gregor ed Henry senior ovviamente) e uno su James ed Angela. Insomma fic sul loro primo incontro, il loro evolversi nella storia, i loro matrimonio e la nascita dei nostri soldatini, cose che magari in parte ho già introdotto come flashback. Per esempio con Vin e Rosie si vedranno i rappori con Max e Daisy e così via... boh, fatemi sapere se vi piace l'idea. 


in ogni caso, grazie per avermi seguito pazientemente in questo percorso davvero particolare :D

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