Meds

di cheedori
(/viewuser.php?uid=59468)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** _Neve ***
Capitolo 2: *** _Stelle ***
Capitolo 3: *** _Pelle ***
Capitolo 4: *** _Cannella ***
Capitolo 5: *** _Pioggia ***
Capitolo 6: *** _Cera ***
Capitolo 7: *** _Tè ***



Capitolo 1
*** _Neve ***


Disclaimer: giuro di essere una narratrice mentecatta, dica lo giuro - lo giuro! I Muse e quei poveretti che fanno loro da contorno in questa storia sono totalmente estranei ai fatti narrati, checché io ne dica.
Note: tante, troppe, specie se parliamo di Matt Bellamy. Ma no, ciaosonol'autrice! un giorno sono andata in overdose da tè e ho provato a scrivere qualcosa. Non ho avuto il modo di pensarci più di tanto, in realtà, perché se l'avessi fatto avrei cestinato tutto, o forse non avrei mai avuto il coraggio di pubblicare, chissà. Approfittando dunque dell'ora tarda (what a god taxi driver, sono le 04:17!), vi delizio con il primo capitolo, come una sorta di preludio, di una storia senza alcuna pretesa che si rivelerà essere una sega megagalatica, conoscendomi.
Allora... 'Meds' è una canzone dei Placebo (ma no, Brian non presenzierà in questa storia semplicemente perché non riesco a gestirlo - voglio dire, ho già i miei Bellamy, non complichiamoci ulteriormente la vita, uh?), e da questa prende il nome la nostra impresa. A narrare è Dominic, il batterista-leopardo (idraulico nel tempo libero), che possiede la grazia e la finezza di un muratore, lo so. Il punto è che non riesco ad immaginare queste persone impegnate in un monologo alla Jane Austen, mi dispiace. Comunque... non voglio dirvi altro. C'è un motivo per cui questa storia si trova qui e non nella sezione Muse. #sapevatelo
Altre annotazioni? No, ma vi chiedo immensamente e ripetutamente scusa perché io non scrivo dalle elementari, tipo. Potrei dunque considerare questo come il mio primo autentico approccio alla scrittura di fanfiction. Insomma, non vi sto dicendo che ho dimenticato le regole basi della grammatica italiana, solo che sono fuori fase, olè.
Pairing: mostly Bellamy/Howard (o BellDom, come preferite), ma non sono escluse varie ed eventuali ulteriori;
Commenti: che ve lo dico a fare? Tutti sanno che un commento fa la giornata di una fic-writer, quindi come at me, bwos! 

Enjoy <3


Meds

_I was alone

falling free
trying my best not to forget



*


Il giorno del mio quindicesimo compleanno mio padre mi portò a pescare.
Ricordo ancora come quella mattina di dicembre la mamma avesse provato a fermarci, in piedi sull’uscio della porta sul retro, avvolta nella sua vestaglia di pile preferita - quella rosa, rosa a righine azzurre e le maniche a sbuffo che la zia Cathy le aveva regalato qualche Natale prima.
“Bill, tu credi sia davvero necessario? Hai visto il tempo, lì fuori? Sta per venir giù un acquazzone!” aveva detto, lo sguardo colmo di rimprovero.
Papà aveva solo scrollato le spalle, offrendole poi un bacio sulla guancia ed un sorriso giovale in risposta.
“Saremo a casa prima di pranzo, aspetta noi per cucinare!” e si era fatto strada fuori in cortile, nel freddo bastardo della costa inglese, avvolto nel suo piumino verde muschio e tre giri di sciarpa che lo facevano sembrare due volte più grosso di quanto in realtà non fosse.
“Papà, aspetta!” mi ero già lanciato all’inseguimento di mio padre quando la mamma mi tirò indietro, verso di sé, stringendomi in un abbraccio che profumava di gelsomino.
“Auguri, piccolo, ti voglio bene” e poi mi aveva ricoperto i capelli, e la fronte e le guance di baci giocosi e soffi di risate, divertita dai miei tentativi di allontanarla e i ripetuti “ma’, dacci un taglio! Ho quindici anni, ormai!
In piedi in cortile, mio padre osservava la scena a braccia aperte. Rideva.
“Dom, figliolo, credimi, non si è mai troppo grandi per quello” aveva detto, e poi si era voltato facendomi cenno di seguirlo perché s’era fatto tardi.
Lanciai un’ultima occhiata relativamente malevola a mia madre, la quale ancora ridacchiava compiaciuta, e poi uscii assicurandomi meglio il berretto sulla matassa di capelli biondi (a quei tempi li portavo ancora lunghi), ricalcando le orme che gli scarponi di mio padre avevano lasciato sull’erba umida.
Quel giorno tornammo a casa senza neanche un pesce, bagnati fino alle vertebre e in ritardo per il pranzo (che mia madre s’era premurata comunque di cucinare, santa donna). In serata avvertivo già i primi sintomi della febbre del secolo, ma sgattaiolai via lo stesso per raggiungere i miei amici. Ricordo che mio padre mi vide, accovacciato in giardino, in fuga come un ladro. Quando ero ormai rassegnato all’idea della rinuncia, o quanto meno del rinvio della mia missione, lui attirò la mia attenzione picchiettando piano sul vetro della finestra; mi fece l’occhiolino, e poi spense la luce in camera, voltandomi le spalle. Non ci pensai due volte: ghignando come un matto, mi avventurai nella notte.

Quella sera a casa di Ben Mitchell mancava Matt. Lo stronzo aveva tirato su un party di compleanno per me e poi aveva dato buca, per “altre robe” che aveva da fare, come mi disse Tom più tardi. Rimasi lì per non più di un paio d’ore, credo, bevendo birra e altri strani miscugli da grossi bicchieri di carta colorata ad ogni brindisi d’auguri che mi veniva proposto (“cheers!”), e dopo esser riuscito ad infilare le mani sotto la gonna di Jody Webb (un gran traguardo per lo sfigato-me dell’epoca), decisi di averne avuto abbastanza. Raccattai quel briciolo di lucidità che mi rimaneva e mi feci strada tra le viuzze di quella dannata cittadina - ah, dio, come l’odiavo quand’ero ubriaco. Continuai a camminare per qualche minuto, senza sapere realmente dove i miei piedi disgraziati mi stessero conducendo. Ero nei pressi della caserma quando lo vidi: una figurella accartocciata sul marciapiede e, intorno a lui, tre ragazzi più robusti, enormi se messi a confronto. Non ci volle molto a capire cosa stesse accadendo, e ancora meno a farmi muovere il primo passo verso la scena non appena mi accorsi che uno dei tipi teneva fermo Matt da dietro, mentre un secondo gli tirava calci nello stomaco. Non mi fermai a riflettere sul fatto che fossero chiaramente in vantaggio (e non solo numerico), né mi curai di notare il dettaglio del coltellino che scintillava nel pugno di uno di loro - quello che parlava. In realtà non so cosa cazzo mi dicesse la testa all’epoca, ma fatto sta che presi ad urlare come un diavolo dal centro della strada, tentando di attirare la loro attenzione e non solo, e... bingo.
Il più grosso dei tre, quello con un vistoso tatuaggio di un’aquila sul collo, si voltò a guardarmi, pur continuando a tirare falcate stavolta alle spalle di Matt, curve nel tentativo di proteggere le parti già lese.
“Torna a casa, riccioli d’oro” disse, scoppiando poi a ridere in una maniera che trovai quasi comica, come un cane o un doppiatore davvero scadente, la testa buttata all’indietro e il coretto incoraggiante degli altri due.
Ripeto, non so cosa mi dicesse la testa all’epoca. Fatto sta che nel 90% dei casi mi portava a dire o fare cazzate, come quella sera.
“Lasciatelo in pace, figli di puttana!” sbraitai infatti, stupidamente. Dovevano averlo pensato anche loro, che fosse una cosa stupida da dire, intendo, perché le risa raddoppiarono di volume, e poi Mr Aquila Rampante lasciò perdere Matt e si diresse verso di me, facendosi scrocchiare le dita in un’intimazione minacciosa. Da qualche parte, con la coda dell’occhio, riuscivo a vedere Matt, ancora piegato in due, ma finalmente libero, i pugni serrati contro l’addome, e i suoi occhi - i suoi occhi furibondi. Era stato pestato da tre tizi grossi il triplo di lui, insultato, molestato, probabilmente minacciato in qualsiasi modo perché - oh, chissà in che guaio s’era cacciato quel dannato figlio di puttana - eppure non era resa, o dolore, o disperazione quella che gli si leggeva in volto; no, Matt Bellamy era incazzato nero, e se la sua bocca sputava sangue a causa delle botte prese, i suoi occhi scoccavano frecce avvelenate di odio puro; era sconfitto, ma l’orgoglio bruciava, era debole, ma sempre più forte di me.
A volte mi faceva paura, altre lo ammiravo e basta, altre ancora ero così invidioso di lui che avrei voluto spaccargli la testa.
Il punto è che davvero non m’importava di prenderle per lui. Non ero nemmeno sicuro che Matt avrebbe fatto lo stesso per me, ma mi andava bene così. Sapevo che me ne sarebbe stato riconoscente a suo modo, era per quello che lo facevo. Punto.
Quando la ronda di quartiere ci incrociò, sia io che Matt eravamo ridotti in uno stato pietoso, chi più chi meno, e i tre bastardi se l’eran data a gambe, ragion per cui alle guardie venne facile pensare che ce le fossimo suonate di santa ragione tra di noi. Per fortuna bastarono poche parole da parte mia a convincerli del contrario, e dopo poco io accompagnavo Matt, appoggiato completamente a me, su per il viottolo. Non aveva detto una sola parola, né un grazie né altro - non che me l’aspettassi, a dire il vero. Arrivati sull’uscio di casa di sua nonna, aveva semplicemente aperto la porta, lasciandola poi aperta dietro di sé, in un invito nemmeno così chiaro ad entrare. Ovviamente, lo seguii.
Matt mi aspettava ai piedi delle scale, appoggiato al muro, gli occhi chiusi. Qualcosa mi diceva che fosse imbarazzato perché non sarebbe riuscito a salirle se non l’avessi aiutato, ma che non voleva ammetterlo a se stesso. Perciò quando mi avvicinai e gli feci passare un braccio attorno alla vita - sottile, sottilissima - per offrirgli un supporto, feci finta di ignorare la smorfia infastidita che gli si dipinse in volto. Ah, di nuovo, l’orgoglio.
Arrivammo in camera sua dopo due minuti di prese scomode e silenzi imbarazzati, e lì mi lasciai andare sul suo letto, accusando per la prima volta tutta la stanchezza di cui m’ero fatto carico durante la serata. Matt accese la lampada sulla scrivania e poi si tolse la felpa oversize che indossava, rivelando un busto esile ricoperto di macchie violette e altre cicatrici passeggere. Calcolai quindici battiti, quindici come gli anni che compivo, e poi me lo ritrovai lì disteso al mio fianco, sporco di sangue e terriccio. Puzzava di sudore, e un po’ di erba, e dovevo essere davvero ubriaco, ma ricordo di averlo trovato bellissimo quando si era girato a guardarmi, gli occhi blu che brillavano nella stanza illuminata a malapena.
“Sei un coglione” aveva detto, ma non lo pensava sul serio.
“Grazie mille, non c’è di che” risposi, distogliendo lo sguardo.
Passarono alcuni minuti prima che uno di noi parlasse di nuovo, e alla fine cedetti per primo. Come sempre.
“In che guaio ti sei cacciato stavolta, Matt?”
La risposta venne ancor prima che avessi terminato di fargli la domanda, puntuale come sempre.
“Non sono cazzi tuoi”
Aveva chiuso gli occhi mentre lo diceva, sospinto certamente dal peso di qualcosa più grande di lui. Matt poteva fare il figo quanto voleva, ma non mi fregava.
“Quanto ti serve?”
Avevo perso il conto delle volte in cui gli avevo prestato dei soldi che non mi eran più tornati indietro - ancora una volta, la cosa non mi interessava.
La risposta, comunque, fu un quanto mai irritato “ho detto che non sono cazzi tuoi” e poi, subito dopo “Dom, Dom, per favore, lascia perdere, sì? Com’era la festa?”, e le sue dita nervose tra i capelli.
Sbuffai.
Matt rotolò di fianco e poggiò la testa contro la mia spalla.
Sbuffai ancora, ma non aggiunsi nulla.
“Allora? Dom?”
Matt mi cinse con un braccio, stringendo forte, poi le sue labbra spaccate erano contro la mia tempia, fredde e ruvide. In quel momento avrei potuto dirgli di tutto, con la scusa di essere ubriaco e stanco morto, avrei potuto scostargli quella stupida ciocca di capelli dal viso, soffiargli sul naso, avrei potuto fargli il solletico fino a quando avesse implorato pietà, o dirgli che era il mio migliore amico e che mi faceva paura e che volevo baciarlo e che gli volevo bene e che volevo picchiarlo perché doveva smetterla di non pensare, doveva smetterla con quella cazzo d’erba, doveva smetterla con quel gruppo di sfigati del Pier, doveva -
“Oggi sono andato a pescare con mio padre. Ho preso un persico, ma mi è scappato mentre tiravo la lenza”
Il mio cervello doveva essere tarato.
“Poi pioveva, e siamo tornati a casa a mani vuote - papà ha proposto di comprare del pesce al mercato, però si è accorto di aver lasciato il portafogli a casa”
Matt emetteva suoni gentili contro il mio collo. Era piacevole, perciò continuai.
“Abbiamo mangiato pollo a pranzo. Emma mi ha regalato un orologio, è subacqueo. Poi lo zio ha sganciato un po’ di grana, potrei pensare di comprarmi un ride nuovo, sai, sostituire quello vecchio. Potremmo andare ad Exeter uno di questi giorni, uh? Verresti con me?”
Non mi aspettavo una risposta, in realtà. Per questo quando arrivò mi colse di sorpresa.
“Oggi ho preso dei soldi a Dick. Non li ho proprio rubati, erano soldi che mi doveva. Ci volevo comprare... una cosa. Poi quel tizio, Rob, se ne accorge e pretende la sua parte - la solita merda, no? Lui mi prende i soldi e mi dà il pacco, e mi dice ‘tieni un terzo’, e dentro - dentro, Dom, dentro c’era... c’era roba pesante, polvere bianca, Cristo. E allora io gli dico ‘fottiti’, gli dico... ‘fottiti’ perché io quella roba, Dom, io - quando qualche anno fa ero a casa dei miei, ricordi, quando - quando abitavo ancora sulla collina? Un giorno ero lì che giocavo con questo specchio, cazzo, nemmeno so come, cade e si rompe, e mia - c’era vetro ovunque per terra, okay, ed era colpa mia, e mi tagliai un dito perché volevo... ma mi disse di lasciar perdere, dei sette anni di sfiga che - che io - ”
Ricordo di averlo interrotto a quel punto, perché Matt stava tremando e io non riuscivo sopportarlo. L’avevo stretto e gli avevo detto “zitto, sei un coglione, sono un coglione, sta’ zitto”, e poi “Matt, Cristo, Matthew”.
Conoscevo la storia dello specchio, me l’aveva raccontata sua nonna, una volta, mentre mi versava il tè e lui nell’altra stanza finiva i suoi esercizi al pianoforte. I suoi genitori avevano divorziato un anno prima, e Matt non aveva mai smesso di farsene una colpa. La cosa lo lacerava, anche se lui avrebbe negato fino alla morte. Faceva tanto il duro e poteva anche essere un idiota che coltivava marijuana sul terrazzino di casa sua, ma non era uno di quegli idioti là. Non so con quale sicurezza riuscissi a dirlo all’epoca, neanche lo conoscevo da molto, in fin dei conti, ma quel ragazzino problematico con gli occhi di porcellana e la famiglia in fumo mi aveva aperto un varco, nel cuore, nello sterno, nel cervello, io non so - che nessun altro riusciva a colmare con la propria presenza. E, paradossalmente, mentre invidiavo fortemente il suo carattere, l’intelligenza e il suo essere perennemente in rivolta, mi ritrovavo ad essere a mia volta, in maniera del tutto inconsapevole, oggetto di invidia da parte sua. Ciò che più faceva male, naturalmente, era che a Matt mancassero cose che io davo invece per scontate o totalmente ordinarie: andare a pesca con papà, litigare con Emma per il volume dello stereo, le raccomandazioni della mamma ogni qual volta uscissi di casa...
L’avevo tenuto fino a quando non riconobbi un ringhio esasperato, l’autoimposizione di fare tutto meno che piangere, l’enorme contraddizione che era Matt lì tra le mie braccia e poi non più, alla ricerca di una via di fuga da me, da quella stanza, dal suo riflesso, da tutto.
“Non - io volevo prenderti qualcosa, un regalo, ma non - ”
Si rivestiva, mentre parlava, forse più per darsi da fare che per altro.
Un regalo, voleva farmi un regalo e si era ritrovato in affari più grandi di lui. Ma no, la colpa non era neanche del regalo, perché prima o poi Matt ci si sarebbe ritrovato comunque - quello, era quello che gli bruciava, e che tirava calci come un bastardo adesso contro il termosifone, la libreria, il letto, la mia gamba.
“Matt, Matthew - e che cazzo, Matt!”
Ero saltato su anche io, spintonandolo fino a quando la sua schiena aveva incontrato la parete, ma piano, senza fargli troppo male.
“Matt, ascolta” iniziai, ma non lo guardavo, perché adesso sapevo che non voleva che lo vedessi così “Matt, devi promettermi una cosa. Mi ascolti?”
Matt aveva emesso un verso debole, quasi sconfitto. Lo sentii annuire, e questo mi bastò.
“Promettimi che la prossima volta che avrai voglia di fare a botte chiamerai me. Promettimi che se avrai mai di nuovo bisogno di soldi, li chiederai a me”
Matt annuì, una volta e poi anche due. Gli credetti.
“Matt” ripresi, stavolta guardandolo. Aveva un sopracciglio spaccato, il viso sporco di fango sul lato sinistro, lì dove probabilmente l’avevano tenuto premuto a terra. I capelli erano un po’ sporchi come al solito, lunghi ad incorniciargli gli spigoli in evidenza degli zigomi, la linea della mascella non ancora definita. Mi stupì ancora una volta il fatto che sotto quella maschera sicura ci fosse poco più di un bambino, unica eccezione fatta per gli occhi, già duri, già adulti, abituati a vedere cose che un ragazzino di 14 anni non avrebbe dovuto vedere neanche in tv. Tanto per cambiare.
Provai un moto di tenerezza, sentendomi in parte responsabile per lui - era come se avessi fatto un voto, quella sera, quando lo avevo sentito arrancare e balbettare nel suo discorso sullo specchio; tutto il mio mondo si ritrovò concentrato su quelle labbra minuscole e screpolate, sulle quali giaceva la richiesta muta di aiuto, l’invito e la negazione. Mi avvicinai, facendo poggiare la mia fronte alla sua, ridacchiando quando lo sentii fare lo stesso.
“Matt, promettimi che la smetti con quella roba. Me lo prometti?”
Era stato solo un breve movimento del capo, un cenno e basta, e poi Matt aveva preso a trafficare con le tasche dei suoi jeans per tirarne fuori un pacchettino dall’aria malconcia, la fronte sulla mia spalla, e aveva cominciato, balbettando, a dire “non è quello che - è un’altra cosa, perché - non sapevo se - poi andiamo ad Exeter insieme, a proposito, sì certo - senti Dom scusa, io”, ma io l’avevo zittito strappandoglielo di mano.
“Per una buona volta nella tua vita, Bellamy: taci”
Matt aveva riso, e poi aveva fatto una battuta squallida sui pacchi, ed io avevo riso ma solo perché lui rideva a sua volta, e via così fino alle quattro del mattino.


Il giorno del mio quindicesimo compleanno, Matt mi regalò una musicassetta di ‘Nevermind’ dei Nirvana. Ce l’avevo già, naturalmente, ma poco importava.


Vent’anni dopo mi ritrovo seduto da solo come un coglione sul letto di una lussuosissima suite. Non so dove mi trovo, ma probabilmente sono ancora in Inghilterra, forse addirittura a Londra. La testa mi pesa come un grave nel vuoto, le gambe pure - da qualche parte nei recessi meandri del mio cervello registro anche una sensazione simile al freddo, ma forse è dovuto al fatto che sono nudo dalla vita in giù. Il perché mi sfugge, ma non lo inseguo.
Mi è stato insegnato dalle mie recenti ignobili compagnie, che la migliore soluzione in questi casi è chiudere di nuovo gli occhi e aspettare che il soffitto la smetta di girare, che le sabbie mobili del letto cessino di provare ad inghiottirmi.

Cessino. Cesso, ah-ha, devo andare al cesso, devo proprio andare al cesso!

Ho provato a chiamarlo quattro volte da quando mi sono svegliato, ma naturalmente non risponde. Volevo chiedergli dove sono e se mi viene a prendere con la macchina nuova, quella che mi piace, quella blu-viola-notte. Forse ho sbagliato numero, o forse in realtà non l’ho davvero chiamato. Non ricordo. Cosa dovevo ricordare? Ricorda Dom. Ricorda - ero andato a pesca con mio padre e avevo quasi preso un persico, poi mi era sfuggito mentre tiravo la lenza - Sono andato allo Skin stasera - Matt aveva rotto uno specchio e piangeva ma non si faceva guardare - Thierry mi ha dato della neve ed io ho riso - la vestaglia della mamma era a righe rosa e blu... no, rosa e azzurro e le maniche a sbuffo - sono tornato in camera con TiziaA e TiziaB ma non mi si alzava perché ero troppo fatto - le orme di papà nell’erba bagnata erano enormi - Matt non risponde al cellulare, Matt non mi vuole più bene - il giorno del mio quindicesimo compleanno...






Note di fine capitolo:
'Neve' è uno dei nomi che viene utilizzato per indicare la cocaina;
Il pesce persico è un pesce d'acqua dolce, ma non volevo che Dominic pescasse sardine, so deal with it. Inoltre, a Teignmouth c'è anche un fiume, quindi sono a posto con la coscienza;
La storia dello specchio è vera. Matt ruppe uno specchio antico quando aveva 13 anni, e sua madre rimproverandolo gli disse che avrebbe causato sette anni di sfortuna alla famiglia; un anno dopo i genitori di Matt divorziarono, e lui non riuscì mai a scacciare dalla mente il pensiero che potesse esser stato lui ad aver causato indirettamente la loro separazione quando aveva rotto quello specchio. Povero piccolo, ecco. :(
Non mi viene in mente altro. Buonanotte.


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** _Stelle ***


Meds

_You paint yourself white and fill up with noise

but there'll be something missing





*


Sono quasi le tre del mattino quando Bingham decide che i cinquanta minuti di dormiveglia che mi ha concesso possono, e anzi devono, bastarmi.

L’ingiustizia di tutto ciò mi colpisce con la potenza di un tram guidato da un fanatico sadico-bastardo: prima mi investe e poi mi ricalca in retromarcia, lo stronzo.
Distesa in un sonno beato, di fianco a me, Kate non accenna a muovere un dito. E grazie tante.
Ha già poppato, l’infame, e lei domani lavora, ed io invece sono qui in vacanza, quindi “Matt, ti occupi tu del piccolo, vero?” e poi sguardi di zucchero, ed io che son coglione: “certo amore!” - certo amore, me prima togliti quei cavolo di tappi dalle orecchie e dimmi, dimmi, benedetta donna: dove si spegne? L’hai fatto tu, dove sono le istruzioni? Pronto? Assistenza clienti?
A questo punto, la bestemmia che impasto mentre apro gli occhi e - sì, sì, dannato fagotto di cartilagine e cotone idrofilo, arrivo! - metto i piedi giù dal letto, mi sembra assai più che appropriata. Meritata, quasi. Liberatoria.
Sbadiglio, impreco, guardo l’ora (sono le 2:54), impreco, mi gratto la chiappa sinistra sopra ai - dove sono i miei boxers? Ah, eccoli qui, toglietevi dalle chiappe, pure voi. Impreco. I piedi l’un davanti all’altro, barcollo, borbotto, impreco. Porta, corridoio, tappeto in cashmere. Impreco, ma stavolta solo perché odio questo tappeto, e lo dico, dico “odio questo fottuto tappeto” e poi lo scanso coi piedi scalzi. Passo, passo - ormai ci siamo quasi; vagito, vagito. Porta, vagito. Luce. Orsetto, gattino, vagito, il Cane Pulce, Buzz Lightyear, vagito. Le stelle, sulla parete e sul soffitto - stelle e stelline ovunque, e giallino e azzurro e blu. A terra c’è una piccola coperta colorata, un affare di lana che 33 anni fa aveva servito un’altra culla, e che miracolosamente è ancora intatto; deve averla portata qui mia madre la settimana scorsa, insieme a quel dannato cane di pezza e al carillion della nonna che però a Kate dà i brividi, quindi l’abbiam messo via. Ah, dov’è mia madre ora? Non vuole goderselo un altro po’, nonna Marilyn, questo suo bel nipotino? Guarda come scalcia e tira e piange come un pazzo! Io ho una carriera, sai, ho bisogno di dormire, razza di polpetta starnazzante, ho... ho...

Ho avuto una settimana di merda. Ci siamo chiusi in sala lunedì, e poi martedì, e mercoledì no perché Kate doveva trascinarmi a comprare un cavolo di lampadario per il salotto, ma poi giovedì e venerdì sì e adesso siamo a sabato - non abbiam concluso molto, se non che 1) ho bisogno di una nuova chitarra e 2) i muffins dello Starbucks di fronte agli studi sono davvero molto buoni, mh! Quei fottuti paparazzi mi seguono ovunque vada - ovunque: sono lì tipo “guarda, c’è lì il fidanzato di Kate Hudson che cammina / respira / inciampa nei propri piedi!”. Ieri ne ho quasi picchiato uno - non ci sarei riuscito, perché quello era grosso tipo il triplo di me, ma l’intenzione era giusta. Gli ho lanciato addosso del ketchup. Mi è valsa almeno una tregua, la pausa pranzo - tragicamente solitaria, peraltro. È da due giorni che tento di beccare Dom da solo perché voglio parlargli di quest’idea che mi frulla in testa, ma ho come l’impressione che lo stronzo mi stia evitando. Certo so che è incazzato con me, forse perché abbiamo rimandato troppo queste prove. Fanculo, per una volta che il jolly paternità lo gioco io, deve andare tutto a puttane - e grazie al cazzo, Matt, sei tu che fai tutto lì dentro, da soli quei due sarebbero finiti a vendere caldarroste agli angoli delle strade ancor prima di poter dire “Showbiz”... beh, più o meno. Adesso chi è la “merdina egoista egocentrica egotutto”, uh? Dom me lo ha ripetuto a giorni alterni per gli ultimi quindici anni, e l’escalation dalla spensierata presa per il culo alla dura constatazione di un fatto è stata più veloce ed immediata di un colpo di crash. Dannati batteristi e i loro stupidi crash, e i ride, e quei campanacci che mi ricordano tanto le mucche e le pecore e la campagna del Devon. Ah, il Devon... mi manca così tanto quell’immensa distesa di niente. Un giorno mi piacerebbe portarci Bingham, raccontargli di quando suo padre bambino/ragazzino/adolescente/adulto si nascondeva tra gli alberi del Ness perché tutto attorno a lui diventava troppo e di nonno George che veniva a recuperarlo con la cinghia, e di quando poi il compito è passato allo zio Paul, e di quando poi alla fine ero rimasto solo a prendere a calci le radici sporgenti perché la nonna non sarebbe venuta a recuperarmi; dei miei giochi preferiti giù al Pier, il telescopio su cui da ragazzino avevo speso la quasi totalità delle mie paghette, il Den, e chissà se in piazza c’è ancora quella gelateria che fa un gelato buonissimo, così potrei comperargli un cono e poi ridere del suo faccino imbronciato quando la pallina in cima scivolerà per terra, e... oh. Oh.

Shhht, c’è qui papà adesso...”

L’unica ragione che mi impedisce di mollare tutto, album, fidanzate e cazzi vari e correre a nascondermi nel bosco più vicino è proprio lì, pesante tra le mie braccia goffe; è l’esatto istante in cui faccio schioccare la lingua sul palato, piano, e quella facciotta tonda rigata ancora dalle lacrime si volta a guardarmi, curiosa, il pianto ormai dimenticato. È quello che mi colpisce, travolge, affonda - forte e importante, ogni santissima volta.

Non credevo d’essere pronto a questo - l’intera storia dell’esser padre, intendo - ed in effetti forse non lo sono affatto, ma poi rifletto lo sguardo in quegli occhioni blu, così uguali ai miei, e penso: “ma sì, ma chi se ne importa!”. Chi se ne importa se ho avuto una settimana di merda, se sto crepando di sonno adesso, se domani ho un mucchio di lavoro da fare in sala - non m’importa più di niente, adesso, perché questa cosetta piccola che è mio figlio è sereno tra le mie braccia, e stringe piano un mio dito, possessivo. A dopo le rotture, i problemi - a domani, tra un mese, forse.

“Cosa c’è, uh? Non hai sonno? La ninna nanna della mamma ti ha fatto venire gli incubi? Ah, giuro che se l’hai fatta di nuovo ti denuncio al Proclama Ombra!”

Bing emette un suono simile ad una piccola risata, ed io non posso fare a meno di sorridere come un idiota a mia volta, mentre avvicino il viso al suo e lo cullo piano, sentendomi in pace. La mamma aveva ragione, e me lo ha detto sempre anche Chris: i bambini ti cambiano la vita; la parola “casa” assume un diverso significato, le tue preoccupazioni si spostano su un altro livello, cambia il modo di vedere le cose e d’improvviso ti ritrovi a giocare per ore e ore durante la notte / il giorno / il pomeriggio / la sera con il Cane Pulce perché tuo figlio adora quell’affare di pezza anche se è vecchio e rattoppato e non è uno di quei cosi nuovi e strafighi perché era tuo, e il trillo di quella risata, quei gridolini acuti, e le manine che picchiano e stringono il tuo naso sono l’unica ricompensa grata a cui riesci a pensare durante la giornata, quindi continui a canticchiare canzoncine senza senso perché sì. Amen.

Il mio cane mi dà un pensiero, un pensierino nero nero, ha un bel nome molto dolce sai qual è? Si chiama Pulce...

Sono solo un po’ sorpreso quando Bingham riprende a piangere disperato; subito penso che avrei dovuto provare prima con Buzz Lightyear, ma la mia preoccupazione circa il balocco da adottare per placare il Lamento Supremo del Pupo Avvilito viene soppiantata da panico allo stato puro quando lo sento squillare, distinto e insistente, da qualche parte tra le coperte della culla: il mio iPhone. Devo averlo dimenticato qui prima (una partita a Fruit Ninja mentre aspetti che il mostro s'addormenti non è mica un crimine!) e qualcosa, forse il modo in cui io stesso mi ritrovo a desiderare di coprirmi le orecchie al riparo dai RATM, mi dice che il casino totalmente inopportuno della suoneria lo ha svegliato. Povero piccolo, se Kate lo sapesse m’ammazzerebbe... fortuna che posso contare sul suo silenzio. Tenendo Bing con un braccio, allungo l’altro alla ricerca dell’aggeggio infernale disperso tra le pieghe del lenzuolino, cacciando poi un breve yep di conquista quando finalmente lo individuo. Ha smesso di squillare, nel frattempo, ma sullo schermo lampeggia, chiaro e preciso, l’avviso di segreteria.

4 chiamate perse.

Quattro chiamate perse. Quattro chiamate perse... quattro?
Mantieni la calma, Bellamy – svelato l'arcano, le tue priorità adesso consistono nel 1) riporre Bing nella sua culla, avendo cura di controllare bene che tra le coperte non ci sia più nulla prima di avvolgercelo al caldo; 2) cullarlo fino a che non si addormenti; 3) dopo aver appurato che il pupo sia effettivamente in letargo, lasciare la stanza senza emettere rumore alcuno e spegnere la luce alle tue spalle e 4) controllare nuovamente il cellulare cercando di combattere l'infarto che minaccia di stroncarti.

Una volta in corridoio, il panico che mi aveva bloccato la gola scende fin giù allo stomaco e si trasforma in angoscia pura. Traffico brevemente con il touchscreen, le dita che pasticciano sui comandi, rivelando prima la schermata ed infine l'autore delle chiamate, bianco su nero sotto l’iconcina di un telefono rosso mozzato.

Dom.

A questo punto lo stomaco fa una capriola all'indietro, ed io sento l'angoscia contenuta ribaltarsi al suo interno in una serie di echi rumorosi, prima di selezionare come un automa il comando “richiama numero”, e - che cavolo è successo adesso? Perché non risponde?
Provo a richiamarlo altre tre volte senza ottenere alcuna risposta, poi senza pensare né all'ora né al potenziale disturbo arrecabile, compongo il numero di Tom e aspetto uno, due, tre, cinque, otto squilli prima che mi risponda, la voce impastata dal sonno, il tono di pura accusa. Non perdo un colpo, anzi, nemmeno gli dico ciao, o scusa o buongiorno, gli chiedo direttamente se lui sia lì con lui, perché “tanto ultimamente vive attaccato ad una tua costola”.
La risposta di Tom è prima un grugnito, poi un insulto, poi una dichiarazione d’odio eterno ed infine una domanda che certamente non risponde alla mia.

“Matt, ma tu lo sai che ore sono in Inghilterra?”
“Fotte un cazzo dell’orario, sono anch’io a Londra, Tom, è da mezz’ora che prova a chiamarmi, non l’avevo sentito prima perché era nella stanza di Bing, e poi sono andato di là perché s’era svegliato e l’affare suonava di nuovo, un macello, e - e - non lo so, non risponde, ed io... dov’è? Che - che accidenti chiama a fare a quest’ora? Perché non è da te, io credevo che --”
“Matt, Matt, calmati! Non c’ho capito un cazzo, parla più piano! Dov’è chi?”

Sospiro, frustrato e anche un po’ seccato dalla mancanza di collaborazione da parte di Tom, poi passo una mano sul viso stringendo forte la punta del naso, accogliendo poco a poco la vocina nella mia testa che mi dice che sì, forse mi sto lasciando prendere un po’ troppo dall’ansia, e che, sempre forse, non è nemmeno il caso perché Dom sarà semplicemente rimasto a piedi dopo aver bevuto troppo e il pensiero di chiamare un taxi non gli avrà nemmeno sfiorato l’anticamera del cervello.

“Dom - Dominic. Mi ha chiamato, adesso non risponde, sai dirmi dov’è?”
Dom? Cazzo ne so, è uscito con quei tipi, Pete e gli altri, sono andati a... boh, in quella merda di locale, lo Skim, Skin, come cavolo si chiama...”
“Lo Skin, lo Skin... ah, lo Skin! Ok, d’accordo, ho capito. Vado a recuperarlo, mi sa che ha mandato giù qualche bicchiere di troppo...”
“Il solito bastardo... mandami un messaggio quando hai fatto e non t’azzardare a richiamarmi, torno a dormire.”
“Ok, ok. Ok, cioè, scusa. ‘Notte, Tom.”
“‘Notte, e... Matt?”
“Uh?”
Guida piano.

Sorrido a quest’ultima raccomandazione - un po’ perché riesco a rintracciarci dell’affetto, ed un po’ perché dimostra che ancora una volta Tom non ha fallito a cogliere il mio stato d’animo, sebbene stia cercando di mascherarlo dietro finto autocontrollo e parole pseudo-misurate. Sa bene che quando sono agitato, per qualsiasi motivo, tendo a pigiare con un po’ troppa fretta su tutto, acceleratore compreso, e che un paio di volte ci ho anche rischiato l’osso del collo, da bravo coglione.

Il punto è che non sono una persona particolarmente paranoica - o meglio, lo sono eccome, ma ciò che voglio dire è che non mi sono mai preoccupato troppo per gli altri. Forse le parole che cerco per definirmi sono ancora una volta “merdina egoista egocentrica egotutto”, ma preferisco evitare di ricadere sotto quell’etichettatura, scegliendo invece una semplice e diplomatica litote.
Insomma, ‘fanculo, è Dom quello che si preoccupa per gli altri, la fottuta crocerossina della situazione, quello gentile e disponibile verso tutti, anche se in fondo a volte non gliene frega una mazza neanche a lui; più volte mi sono effettivamente chiesto come faccia a sopportare le aspettative di tutti e soprattutto le mie, cosa ci guadagni, insomma, a starsene lì a subire i miei repentini cambiamenti d’umore e gli insulti, tutti gli insulti più o meno sentiti che gli sputo contro ogni qual volta oltrepassi la linea (quella che definisce l’amicizia dalla pietà, ma non davvero, perché ancora una volta è tutto solo nella mia testa), tutte le volte in cui gli ho tirato contro un pugno, due, tre, e poi alla fine mi sono ritrovato con la testa schiacciata contro la moquette a sputare odio anonimo e lacrime contro polvere e lanugine, lui che mi stringe i polsi e mi ringhia dietro di calmarmi. Perché l’abbia fatto finora è quello che mi sfugge; perché ultimamente vi abbia rinunciato, arrivando ad evitarmi come la forfora, è quel che invece non mi dà tregua.

Tutto questo, penso, mentre mi infilo la giacca sulla maglietta che ho fregato (preso in prestito!), guarda caso, a Dom, e che utilizzo per dormire (se lui lo sapesse mi strapperebbe via i testicoli con un paio di pinzette), tutto questo preoccuparsi e lanciarsi nel buio della notte in mutande per poi ricordarsi che sì, forse è il caso che indossi dei pantaloni e anche delle scarpe prima di uscire, è nuovo per me. Forse deriva direttamente dall’esser diventato padre, o almeno così mi piacerebbe credere, ma in fondo so, lo so che è solo un mare di puttanate; la mia è pura mania di controllo - il pensiero che Dom, il mio migliore amico/fratello estremamente coglione, possa al momento trovarsi in una situazione estranea con persone che ho conosciuto, disprezzato da subito, e alle quali non affiderei neanche la responsabilità di una sputacchiera, mi arreca sentimenti pericolosamente affini alla rabbia, e forse anche alla gelosia. Non è solo perché, semplicisticamente parlando, lui è il mio batterista, amico, etcetera, ed io mi preoccupo per la sua sorte e salute - no, no. È proprio il pensiero che possa frequentare altre persone, altri ambienti, trovando godimento nella loro compagnia forse più che nella mia, ormai, che mi fa ribollire la bile nelle vene, nello stomaco o dove cavolo sta - soprattutto se ripenso al fatto che per vederci, io e lui, bisogna prendere l’appuntamento come dal dentista, o minacciarlo con le prove in sala. Ah, beh.

La mia paura più grande, assai immatura e bambinesca e per niente attribuibile ad un trentaepassenne appena diventato padre, è naturalmente che Dom possa avermi rimpiazzato, come del resto crede abbia fatto io - perché non sono un idiota e certe cose non sfuggono neanche a me - con lui e Kate. Stronzate, ovviamente, forse anche e solo paranoie, ma a notte fonda - coi pantaloni alle ginocchia e gli stivali infilati al primo tentativo senza nemmeno i calzini perché no, non tornerò in camera dove la mia letale donna giace per recuperarli - ad un uomo come me è concesso almeno qualche pensiero ridicolo da quattordicenne ultrasensibile, no?

La porta chiusa alle mie spalle, fuori la notte è buia - e grazie tante. Fa freddo, ma siamo in Inghilterra, perciò è normale, e una volta in macchina con il riscaldamento acceso a palla, è facile dimenticarsi della brina sull’erba del prato, meno del groppo che mi attanaglia la gola dandomi l’illusione di voler piangere o gridare, quando in realtà so che è solo voglia di sbadigliare e tornare a letto. Il viaggio è breve ed io preferisco non interrogarmi su Dom o su cosa possa essergli passato per la testa quando ha deciso di chiamare me, stanotte, e non uno dei suoi amichetti hipster. Nemmeno ricordo di esser uscito dal vialetto di casa, e tempo mezz’ora e due semafori ignorati col rosso e sono nel parcheggio del club più posh di tutta l’Inghilterra - cosa che mi dà i brividi, e non per via della temperatura.

Una volta dentro mi ritrovo a galleggiare come in un flashback dei tempi andati, l’atmosfera anche solo della sala d’ingresso carica di ombre e sensualità gratuita proprio come il nostro tourbus fino a qualche anno fa, prima che la cosa assumesse un tono totalmente ridicolo e tutto diventasse semplicemente troppo. Le dita nude che si agitano scomode negli stivali, mi avvicino alla reception, piccolo e fuori luogo, con i miei pantaloni di velluto, i capelli da cuscino e la giacca decisamente poco elegante, e lì la tipa mi guarda come si fa con un ragazzino che abbia smarrito la propria mamma mentre le chiedo di ‘Sergio Georgini, un mio amico’, perché so che Dom ha ripreso quest’abitudine di fornire false identità in giro proprio dal sottoscritto. Mentre salgo le scale indicate, pur sempre inseguito da un chiacchiericcio breve e derisorio, tutta la preoccupazione accumulata nell’ora precedente si risolve in rabbia, e la prospettiva di prendere a calci in culo quella troia del mio batterista diventa sempre più invitante, nonché concreta - oh, perché lo sarà. Mi ci vogliono esattamente due minuti per arrivare alla sua suite schifosamente lussuosa (si tratta bene, il principino) e altri due per aprire quella cazzo di porta con la chiave elettronica. Una volta dentro, mi faccio strada verso la camera da letto tra le bottiglie vuote sul parquet e quelle che somigliano terribilmente alle chiazzette giallastre che Bing graziosamente riversa sui miei vestiti puliti quando non è riuscito a digerire la sua poppata - che amore.

“Dom?”

Bottiglia, bottiglia, giacca, moquette - camera da letto. Bottiglia (rosso stavolta), calzino, condom, pantaloni, altro condom, boxers - letto. I piedi, le gambe, le palle - Dom.

“Dom?”

Dom non accenna a muoversi, neanche quando prendo a schiaffeggiarlo su una coscia nuda, mentre con l’altra mano recupero i boxers scuri dalle lenzuola ai piedi del letto. Lo chiamo ancora, già cercando con gli occhi il resto dei suoi indumenti, e quando ancora una volta non risponde inizio sul serio a preoccuparmi, lasciando perdere la ricerca dei suoi stupidi pantaloni a sigaretta.

“Dom? Dom, svegliati, dai, ti porto via... Dom!”

Non mi accorgo della nota d’isteria che vela la mia voce, né delle mani che stringono un polso e la spalla fino a fare male; tutto cessa quando incrocio il suo sguardo grigio e vago, e il panico e la confusione e la stessa isteria scemano lasciando spazio alla consapevolezza, la voglia di chiudere gli occhi e non essere, non più davanti a quel sorriso che di attraente ormai ha poco o niente. Disteso con le gambe penzoloni sui bordi del materasso, la camicia aperta fino all’ombelico e il capo abbandonato su un lato al centro del letto, Dominic è perfettamente sveglio.

Semplicemente, non mi sente perché chissà che merda gli sta fottendo il cervello.







Note, brevi ed essenziali perché non mi va di ammorbare nessuno e soprattutto mi pesa il culo in primo luogo /bonjour finesse!
1. Il Proclama Ombra è la polizia strafiga intergalattica di Doctor Who, shame on you se non lo sapevate;
2. Il Cane Pulce è una triste realtà - l'ho fregato all'Albero Azzurro e non me ne pento neanche un po';
3. Il Ness è un bosco che sorge su una specie di collinetta a Teignmouth;
4. Bellamy va in giro con una busta di Tesco in testa, ma non in questa fanfic;
5. Bellamy spara ketchup contro i paparazzi, prima in questa fic e poi pare nella realtà, chissà;
6. Vi voglio male, adesso vo a dormire/disegnare/whatever.

Ah, semi-importante, la citazione di inizio capitolo proviene da una canzone per me taboo, quindi googlatela se ci tenete tanto, ecco. Inoltre, vorrei ringraziare TIPO TANTISSIMO chi ha recensito, preferito e seguito questa storia - sul serio, risponderò alle recensioni presto, sappiate solo che avete fillato il mio cuoricino imbrutito di gioia immensa. <3

x S

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** _Pelle ***


Meds

_ Voglio la tua bocca,

ma mi passerà.





*



C’è luce bianca ovunque, e odore di tabacco e nicotina.
Da qualche parte all’altezza delle tempie risuona un’unica nota bassa - ed io ho sete, la gola secca ed un terribile bisogno d’acqua, ma è difficile pensarci adesso, perché le tue ciglia si stanno muovendo e so che ti stai svegliando, che io ti ho svegliato, che questo è il mio letto, le lenzuola, la tua testa sulla mia spalla.
Dicono che il diavolo si perda nei dettagli, nell’insulso romanticismo dell’interpretazione soggettiva - e forse hanno anche ragione, ma io non ho mai amato i perfettissimi spot della Dior quanto le macchie sulla tua pelle. Quei tre nei lì, diretti in un arco sulla guancia destra, prepotenti in contrasto sullo zigomo bianco - un altro particolare insignificante che si perde nelle ombre del tuo viso assurdo: mi fanno impazzire, e voglio accarezzarti.
Ma non posso.

“Svegliati, stronzo. Mi stai sbavando addosso - cristo, che schifo.”

Mugugni. Sei carino quando lo fai - non per le persone normali, forse, ma quelle indossano ciglia finte e si muovono su tacchi altissimi e poi si coprono il naso quando togli i calzini, spostandosi in un’altra stanza.

“‘ommy?”

Puttana.

“Matt -- togliti. Non riesco a muovere il braccio, ho bisogno di acqua.”
“‘afanculo.”
“Molto carino. Se non ti sposti sarò costretto a vomitarti addosso.”
“’ai ‘chifo.”
Matty. L’acqua.”

C’è una mano sul mio fianco sinistro: è destra e bianca e stringe forte, prima di allontanarsi per ritornare col bicchiere che era sul comodino accanto al tuo lato del letto - che poi in genere è il mio, è per questo che stamattina sembra tutto storto.

“Per caso hai anche un’aspirina?”

Torni indietro col braccio, spostando l’aria sul mio petto - ho freddo. Rumori di cose che scivolano e cadono, e davanti al mio naso prima un’aspirina e poi una caramella al limone. “Vuoi anche ‘affè?”, mi chiedi, ed io ti dico che no, che caffè e limone insieme fanno schifo, che sei proprio un idiota, certe domande nemmeno si fanno. La tua stupida pretesa di barba mi solletica l’avambraccio, sorridi storto ancora mezzo addormentato e sbuffi un po’, poi annunci che devi andare a pisciare e non ti muovi più, chiudendo di nuovo gli occhi contro la mia spalla.
Bevo l’acqua, getto via l’aspirina, mangio la caramella.
Everything in its right place.

“‘om?”

Ma no, perché anche appena sveglio tu hai troppa roba nella testa per startene zitto. Tra le altre cose, ti puzza l’alito e sei troppo vicino, perciò te lo dico, ed in tutta risposta tu ti alzi un poco sui gomiti e poi ricaschi come un sacco di patate dritto addosso a me perché hai perso l’equilibrio e sei un coglione, e allora soffi forte sul collo, ridendo di quella tua risata totalmente spastica e idiota che - è inutile dirlo, ma anche quella mi fa impazzire. Rido un poco anch’io e ti accarezzo la testa, perché è facile ed è bello e rimanda di qualche minuto la domanda che muori dalla voglia di fare, anche se ancora non sai come. Alla fine, però, anche le note divertite che trascini tacciono, e la mia mano scivola via quando volti il capo per guardarmi - per guardare me e poi le tue dita e poi di nuovo me e il letto e la chitarra vicino alla finestra.

“È la chitarra di Paul, quella?”

Fantastico.

“È arrivata ieri, Emma me l’ha spedita quando ha saputo del trasloco.”
Accidenti!

Lo ripeti altre tre volte perché adesso l’unico obiettivo che hai è svuotarti della sorpresa per rimpiazzarla col tuo solito vomito di parole: “accidenti!” mentre ti alzi e ti lecchi le labbra; “accidenti, guardala!”, e poi scansi le scarpe ai piedi del letto e inciampi nei tuoi stessi piedi, piegandoti sul materasso.
Accidenti, Matt.

“Dom - ma ti ricordi?”

La mia camera a Teignmouth, il letto e le tue scarpe sporche sulla vecchia coperta verde, ‘All Apologies’ o qualche altra cagata - dita che imparavano a muoversi come ragni sulla tastiera della vecchia chitarra di tuo fratello. Birra. Sigarette - qualche canna, di tanto in tanto. La crostata di limoni di tua nonna. I capelli negli occhi. Kurt Cobain. I plettri rubati dalla sala musica a scuola. Il vecchio vinile di ‘A Night at the Opera’.

“Cosa?”

Devo sorridere, perché la situazione lo richiede - quindi allargo la bocca e mostro i denti.

“Mi ci hai insegnato a suonare tu, su questa.”
“Tu racconti un sacco di stronzate e poi finisci per crederci, Bellamy.”
“Ma zitto, stronzo, è vero!”
“Puoi tenerla, se vuoi. Cioè, in pratica è tua...”
“Come mia?”
“Beh, di Paul.”

Mi guardi un po’ di sbieco, quasi offeso, poi afferri il manico e torni qui sul letto - a gambe incrociate, verso il fondo, stavolta.

“No.”
“No?”
“No, Dom.”

No, certo che no, Matt - è solo che mi piace vederti impazzire.
Era il giorno dopo il tuo compleanno e mia madre aveva cucinato il polpettone. Hai sempre odiato il polpettone di mia madre, sebbene non avessi mai avuto il cuore di dirglielo perché la poveretta credendo che ti piacesse te lo preparava apposta, però ricordo che quella volta cercasti di darlo al cane passandolo da sotto al tavolo (discreto come uno stormo di fenicotteri, come al solito) e tutti a tavola se ne accorsero e scoppiarono a ridere - per nulla offesi, perché davvero i miei ti adoravano. Più tardi Tom ci scattò quella foto che, se apri l’armadio adesso e scavi tra le cravatte sulla destra, scoprirai conservo ancora: ci sei tu e ci sono io e siamo nel mio garage e tu mi hai appena regalato la vecchia chitarra di tuo fratello perché “tanto se Paul torna e scopre che gliel’ho presa mi ci apre il culo, quindi tienila tu” ...

“È tua. Te l’ho regalata.”
“Non puoi regalare una cosa non tua.”
“È quello che dicesti anche quando te la diedi.”

Non aggiungi più una parola, ed invece prendi ad accordare quella vecchia ciabatta provando con dita leggere le corde ormai consunte, lo sguardo sulle chiavette di metallo arrugginito.
Dovrei comprare un nuovo set, probabilmente, metterla a posto... ma in fondo mi sfugge la reale motivazione. Ci tengo troppo per quel che è - che poi è il motivo per cui gradirei anche non rivederla mai più.

“Puzzo come una ciminiera” comincio, provando a cambiare discorso: “devi avermi trasmesso i tuoi germi fetenti in qualche modo!” e ti pizzico un ginocchio, ma sperare di attirare la tua attenzione mentre hai in mano uno strumento qualsiasi, sia questo anche solo un triangolo o una dannatissima app del tuo IPhone, è praticamente un’impresa vana. Nemmeno so perché sto provando ad iniziare una conversazione, a dirla tutta; non voglio parlare con te, stamattina, non voglio vedere la tua stupida faccia, non voglio sentirti suonare quei maledetti accordi ripetuti milioni di volte in sala - o invece sì, invece al contrario vorrei assorbirti in ogni maniera possibile per quanto poco ci sei, ci siamo, ultimamente.
Oh, ‘fanculo, e non fare quella faccia adesso!

“Tanto è inutile continuare ad evitare il discorso, Dom.”

Oh, certo. Non mi credevo davvero così furbo; di certo avrai preparato una ramanzina coi fiocchi mentre sboccavo da qualche parte appeso alle tue spalle, dunque adesso vorrai recitarmela con sguardo grave e tono comprensivo e fare il buon amico di ‘stocazzo.
Sai che ti dico? Non ho alcuna intenzione di starmene seduto ad ascoltarti, quindi ribadendo ancora una volta il mio incredibile fetore (“Ma davvero, puzzo di cane morto!”), faccio per alzarmi e dirigermi verso il bagno, ambendo come ultima meta una ben sperata doccia - e magari anche una sega per togliermi questa enorme merda a forma di Bellamy dalla testa, sì?

“Solo cinque minuti, Dom - siediti, per favore.”

Le tue parole sono gentili, ma la tua mano destra mi sta stritolando un polso per riportarmi in posizione, e ciò non è né gentile né tantomeno piacevole. Per essere così magro ne hai di forze, in particolare in quegli arti pallidini e loro relative appendici, ma di certo entrambi sappiamo che se volessi potrei spingerti via e proseguire. Tuttavia, che male c’è nel darti qualche finta soddisfazione, di tanto in tanto?

“Dài, spara veloce, mezzasega.”

Posso intuire il tuo ghignetto soddisfatto più che effettivamente vederlo.
È principalmente quello il motivo per cui torno a sedermi sul letto, di fronte a te - per poterti vedere in faccia quando mi dirai che sono stato proprio un cattivo, cattivo cane. Con quale credibilità, poi, non importa - tanto te l’inventerai presto.

“Dritti al punto: ieri sera?”
“Ieri sera cosa?”
“Non fare la stronza, Howard.”

Mi rilasso un poco contro la spalliera del letto - adesso stiamo parlando.

“Non hai davvero bisogno che ti dica cos’è successo.”
“No, non sul serio. Pensavo c’avessi dato un taglio con quella roba, però.”
“Non fare il moralista del cazzo.”
“Ti sto forse giudicando?”

Do minore. (pausa)

“No. No, non lo stai facendo.”

Si bemolle. (pausa)

“Allora?”

Fa minore. (pausa)

“Allora cosa? Non farla così lunga, Matt. Sono uscito, poi una cosa tira l’altra e... niente, tu non giudichi, io non insisto, fine della storia.”

Do minore. (pausa)

“Non è quello il punto, Dom, il discorso è che- “
“Che cosa? Ma quale cazzo di discorso? Quand’è che ti sei trasformato nella tua fottutissima ex?”

Eccola, la sparata del cazzo che stavamo aspettando entrambi.
Dovresti proprio vedere la tua faccia in questo momento, Matt: occhi sbarrati e bocca che si apre e chiude bisbigliando qualche parola intelligibile; sei uno spettacolo piuttosto patetico, e un po’ mi dispiace asserire che no, non è come credi, non l’ho fatto apposta - neanche volevo tirarla in ballo, Gaia. Ero distratto.

La verità è che non riesco a gestire questo tipo di tensione - quella dell’ultimo periodo, mese, stracazzo di anno - e allora le bugie che non sono mai stato abituato a raccontare si riversano contro te e gli altri sotto forma di insulti random e colpi bassi; tu lo sai, lo sai e lo capisci, perché in fondo sono solo io ad esser cambiato. Eppure... eppure Matt, mi piace pensare che un po’ sia anche colpa tua, se prima non c’era niente di sbagliato nel chiamarti alle tre del mattino solo per farti sentire una vecchia demo che avevo ritrovato o dirti che mi mancavi perché non ci vedevamo da mesi anche se in realtà erano poche settimane e tu eri con la tua ragazza in Thailandia - o forse era lo Sri Lanka - ma a chi interessava per davvero? Avresti risposto che lì da te era mezzogiorno, che stavi mangiando chissà quale diavoleria e che ti mancava la pasta come te la cucinavo io - con le uova e il pepe; che non vedevi l’ora di tornare a Londra e farmi sentire il nuovo pezzo su cui stavi lavorando, perché era fantastico e faceva “nananabeeweep-weep, Dom!” un po’ come la sigla di Doctor Who o un pezzo degli Smiths, ma non sul serio.



“Vuoi sapere una cosa, Dom?”

Sì, no? Probabilmente no, ma annuisco lo stesso per il semplice gusto di farlo.
Mandi segnali confusi, non riesco a capire se sei davvero arrabbiato o forse più deluso, ma è probabile che sia solo perché io sono confuso e non riesco più a decifrati - e forse nemmeno voglio, in fondo.
Ti muovi sulle ginocchia, avanzando verso di me, veloce e goffo e instabile, e per un attimo spero intensamente che tu stia per tirarmi un pugno, così almeno avrei una scusa per toccarti o magari anche farti del male. Tuttavia, il braccio che avevi portato in avanti tende in realtà verso il comodino sulla sinistra e da lì recupera qualcosa che non riesco a vedere, mentre tutto il tuo peso si trasferisce sulle mie gambe.
In un battito di ciglia sei distante uno sputo dal mio naso, e una parte di me si chiede se per caso tu lo stia facendo apposta, perché così non posso non fissarti negli occhi quando parli e inevitabilmente saprò che sì - che sei incazzato, ma non necessariamente con me.

“Io non ho alcun tipo di responsabilità nei tuoi confronti. Non sei mio figlio, e nemmeno la donna che sto per sposare... ma questa merda - questa merda io non la voglio neanche vedere, siamo intesi?”

I tuoi occhi sono prima sui miei, poi sull’involucro di plastica che ha rovesciato il suo contenuto immacolato sul cuscino ed il lenzuolo - lì dove tu l’hai gettato in uno scatto violento. C’è polvere bianca anche sulle tue dita - residui minimi che quasi non si notano, scrollati via appena un attimo dopo averci posato lo sguardo.
Sono abbastanza sicuro che si trovasse nel cassetto del mobile in bagno, quella roba, almeno fino a stamattina.

“D’accordo.”

La mia risposta ti spiazza - non che non me l’aspettassi, del resto. Giocare a darti ragione è l’unica arma di difesa che mi rimane quando sono impegnato in un duello verbale con te - che mi girino vorticosamente le palle per ciò che hai detto, poi, è tutto un altro discorso, ma sono sempre stato bravo a tenermi tutto dentro.

“D’accordo che?!?” sbotti, stizzato.
“Ho detto che sono d’accordo, Matt” dico mentre mi giro a cercare una sigaretta. “E comunque in sala sono sempre pulito, tanto per dire.”

Cerco di mantenere un tono leggero; litigare con Matt Bellamy è sempre un’esperienza surreale, e non sono neanche totalmente sicuro che stiamo litigando al momento, così come non lo sei tu, perché hai quella faccia - quella di chi si è perso qualcosa, e allora rotei gli occhi furiosi mentre io ridacchio e mi accendo una cicca proprio sotto il tuo naso.

“Dom!”

Faccio neanche un tiro che tu me la tiri via, posandola in equilibrio instabile sul bordo del comodino; merda, ho la gola a pezzi, mi sorprende che non abbia gracchiato fino ad ora.

“Cosa c’è? Non posso neanche fumare, adesso?”
“No, cioè sì, non è questo - dai cazzo, Dom!”
“Sei incazzato cone me, Matt?”
“Cos- incazzato? Sì, sì, che lo sono! Sono venuto a ripescarti in quel cesso e ti ho riportato a casa, stanotte. Sarei potuto rimanere a letto con Kate, dormire qualche ora in più, poi svegliarla e farmi una scopata - e invece no, invece sono venuto a -”
“Invece sei venuto da me ed io te ne sono molto grato, okay. Qual è il punto? L’hai detto, non sei la mia cazzo di badante.”

Quello che avviene nei successivi dieci secondi è in realtà un enorme blob confuso di azioni - mi hai picchiato forte sulla fronte, poi hai strusciato il naso sulla mia guancia, soffiando velenosissimo “sei uno stronzo, Dom, sei proprio uno stronzo” direttamente contro i miei occhi - e poi, posando le labbra sulle palpebre senza realmente baciarle, hai continuato, piano: “ma sei anche il mio migliore amico ed io - io non voglio vederti - non voglio più vederti conciato in quel modo, okay? Mi hai... mi hai spaventato. Cazzo, Dom, ma a che diavolo stavi pensando?”

“Non pensavo” rispondo, ma la voce fatica a venir fuori, quindi allungo una mano e ti afferro il polso, carezzando piano lì, perché so che se ti guardassi in faccia adesso rischierei di espormi troppo. È il mio modo di chiederti scusa, perché prima o poi questo Dominic Howard che non riesci più a gestire e che spara fuori insulti come un programma automatico mentre tira di coca e fa fuori litri su litri di alcool ammetterà di avere un problema prima con se stesso e poi con te.

“A casa è tutto ok? Tua madre?”
“Cosa? Sì, sì... va - è ok, lei sta bene.”
“D’accordo. È per come abbiamo arrangiato le prove, Dom?”
“No... no, Matt, davvero. Sono io, lascia stare.”

Sospiri, mentre riprendi la sigaretta quasi finita dall’orlo del comodino e fai un ultimo tiro, prima di spegnerla direttamente sulla superficie di legno - cazzone, ci torni tu in quella fottuta boutique a ricomprarmene uno identico.

“Matt, potresti...?” ‘levarti di dosso’, ‘andartene a cagare’, ‘evitare di rovinare i miei complementi d’arredo’? Ma non finisco la frase perché mi inchiodi con quello sguardo - quello che riservi solo a me e solo in determinate situazioni, e allora... e allora... Cristo Matt, sei così sbagliato!

“Lo so che riguarda me, Dom. Vorrei solo che potessimo parlarne come facevamo una volta, perché tutto questo... tutto questo tira e molla, le stronzate che fai e che racconti, mi stanno facendo impazzire.”

È in quel momento che faccio la cosa più stupida del mondo - perché continuare a deteriorarsi come un uovo strapazzato invece di ficcarti la lingua in gola e chiarirti ogni dubbio, che a te piaccia o meno - beh, è davvero stupido, nonché incredibilmente inutile e frustrante.
Tuttavia a questo punto è inutile negare, perché allora farei fare ad entrambi la figura degli idioti, e ciò non aiuterebbe per niente. Quindi sì, ti dico, mentre tento di spostarti di lato, sì, certo, ha a che fare anche con te, ma parlarne è inutile, perché non ha senso, non realmente - risatina - è solo un mare di stronzate, davvero, che bisogno c’è di ingigantire un problema minimo? Posso occuparmene da solo, posso... posso davvero... non ha poi così tanta rilevanza la tua presenza nella questione, in realtà sei la parte minima di un sistema che ha bisogno di essere rielaborato, ma va tutto bene, perché... perché... non riesco a cancellarti dal mio cazzo di sistema, non ti voglio fuori dal mio sistema... e... ed io... io ti...

“Lascia stare, Dom, è okay.”
No no no non è okay non è okay non è -”

Ti prego, ti prego, Matt, leggi tra le righe, leggi scusa, sì, anche tu, ti voglio bene, scusami, stai con me, ti desidero, mi manchi, non va bene, non va per niente bene -

“Dom - Dominic! Oi!

Ho preso ad urlare e nemmeno me ne sono accorto.
Con una delicatezza che non ti appartiene mi fai anche notare che ti ho stretto così forte il polso che ti è andata in cancrena una mano, poi sventoli l’arto offeso nell’aria proprio davanti al mio naso, cercando di distrarmi pungolando con un dito una guancia.
“Va tutto bene”, ripeti, e poi sorridi un poco, giusto per rincuorarmi.

Non ricordo la metà delle cose che ti ho detto - non ricordo se te le ho dette per davvero o si sono forse perse nel turbine di pensieri che è diventato la mia testa negli ultimi due minuti. Santo cielo.

“Matt, io...”
“A Bing manca tanto lo zio Dom, sai. Dovresti venire a cena da noi, stasera, perché domani parte con la mamma per una settimana.”

Le tue labbra sono ancora piegate in un sorriso, e stavolta anche i tuoi occhi partecipano.
Ti voglio ancora nella mia vita’, stai cercando di dirmi - e maledizione, Matt, io non ho mai dubitato di questo, né ti ho odiato quando sei venuto a dirmi che Kate era incinta, o ancora che volevi sposarla. So che pensi che in fondo sia così, che io sia semplicemente geloso, ma davvero non lo è.

Troppo presto ti stai sollevando sulle ginocchia per liberarmi della tua presenza - del tuo calore - non prima però d’avermi punzecchiato un altro po’ sulla guancia e le spalle e i fianchi. Hai detto cose di cui probabilmente ti stai pentendo, adesso, ma è okay perché siamo io e te e sai che nessuno sa prendere la tua merda e trasformarla in qualcosa di costruttivo come faccio io. È uno dei motivi per cui la nostra amicizia ha funzionato fino a questo punto, no?

Chiudo gli occhi un secondo, e quando li riapro stai sistemando la chitarra nuovamente vicino alla finestra - ma sulla poltrona, stavolta.
“Tanto lo so che mentivi, troia” dici, facendomi l’occhiolino.
“Non ti si può nascondere niente” sospiro forte, e poi mi passo la mano sul viso per raccogliere lo stress accumulato.

Sono proprio una merda inconcludente, un cazzo di uovo che ci gode nel vedersi strapazzare.
‘Avrei dovuto farlo’ penso, mentre ti osservo intento a rivestirti e a parlare di chissà cosa - forse del fatto che i pantaloni ti stanno stretti e che dovresti mettersi a dieta (“Dom, seriamente, ho la ciccia che straborda dai fianchi, è disgustoso!”). Avrei dovuto baciarti e basta, invece di complicare le cose con queste minchiate sentimentali ed un mare di parole che neanche ricordo d’aver detto, ma sono abbastanza certo di aver mancato le più importanti perché alla fine è sempre così, no? Perché allora la situazione sarebbe stata diversa, non è vero? In realtà vorrei solo sapere cosa ti passa realmente per la testa adesso.

“Allora, cena?”

Hai di nuovo una maglietta addosso - una mia, ma farò finta di non averla vista, maledetto ladruncolo.
Fortuna che Sophie fa shopping per tutti, quando capita.

“Solo se papà Bellamy mi promette di fare la pasta fresca.”
“Ti ho viziato decisamente troppo.”
“Ma va’.”

Indossi la giacca e ti lisci i capelli sulla testa, chiedendomi dispettoso “come sto?”.
Sei un totale disastro, naturalmente, ma non hai davvero bisogno che te lo dica.

“Alle sei da me?”

Cosa ci guadagnerei a rifiutare, dopotutto?

“Alle sei da te.”
"Perfetto, allora!"

'Perfetto un cazzo' mi verrebbe da dire, ma mi trattengo perché non mi va di ricominciare tutto daccapo.
Ti saluto con una mano e tu ricambi, girando un paio di volte su te stesso come indeciso se dirmi ancora qualcosa o meno - alla fine però decidi di tacere e te ne vai, tornando indietro cinque minuti dopo per recuperare il cellulare che ovviamente avevi dimenticato qui da qualche parte.

"Cerca di mangiare qualcosa, eh?" mi dici allora, chinandoti per raccogliere il tuo giocattolo preferito dal parquet, e poi niente, neanche aspetti che ti risponda, mi freghi una sigaretta e te ne vai di nuovo, più rapido di prima.

Svuotata della tua presenza questa camera è grande il doppio - e se possibile c'è ancora più luce.
Chiudo gli occhi perché mi fanno male e perché fa male pensare e pensare a te.



No, seriamente, sono le 6:26 e ho passato la notte a scrivere perché ho mal di stomaco e temo che i pomodori non siano stati poi una cena così intelligente visto che so benissimo che in realtà non riesco a digerirli.
Bene, ora, oltre ad aggiornarvi sullo stato delle mie mucose gastriche, questa sera... notte... vabè, mattina, vi ho portato pure un aggiornamento, in ritardo rispetto alla Befana giusto per sfamare il mito, uh?
In realtà non ci sarebbe così tanto da dire; questo capitolo mi ha fatta dannare perché una volta iniziato non riuscivo a decidere dove volessero condurmi 'sti due (mi spiego, Dom continuava a dare risposte del piffero e Matt era in generale una persona orribile), ma poi fortunatamente ho visto la luce e pure 'sti due una mezza redenzione (ma dove?). Beh, Dom è confuso, è così confuso che ad un certo punto scrivendo ha confuso pure me e pareva che avessimo bevuto otto bottiglie di Chardonnay a testa, ma alla fine tutto si risolve in un blob di mezze parole e una presa fisica evitata (stupido coglione, avresti dovuto ficcargli la lingua in gola e stop, chi se ne frega delle sue reazioni, GUARDALO E' UN BASTARDO). Matt è rimasto in generale una persona orribile, ma almeno tiene a quella pezza del suo amico. Non vi sto a dire quanto perché altrimenti vi spoilero tutto e poi che gusto c'è, no? Ahnnn.
Note:
- Do minore, Si bemolle e Fa minore sono gli accordi principali di "Bliss" (hell to the yeah, io lo chiamo "mindfuck" - sì, sono una fan di Moffat e imparo dai migliori);
- ovviamente, sebbene Dominic neghi perché è scemo, la storia che sia stata lui ad insegnare al topastro a suonare la chitarra è vera;
- dedico questo capitolo a L. che mi ha fornito la migliore interpretazione di Bellamy di sempre ("non è una brutta persona, è solo confuso e un poco ricchione");
- la quote di inizio capitolo proviene da una canzone degli Afterhours intitolata "Tutto Domani";
- no, davvero, non mi sono riletta e non voglio sapere che cosa ho scritto, quindi se fa schifo arrangiatevi perché dolon dolon, okay?
- l'ov is forevah;
- cià.

x S









Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** _Cannella ***


Meds

_such a pretty house

such a pretty garden

no alarms and no surprises





*


:: Stasera a cena da me? Pasta chef!! xxM. ::

:: L’ultima cosa di cui ho bisogno è un’intossicazione alimentare, Ava ha una recita la prox settimana C. ::

:: Oi, nessuno si è lamentato della mia bolognese l’altra volta! xxM. ::

:: Perché era un sugo pronto C. ::

:: Mentecatto! Menzognero! Ho sminuzzato e soffritto verdurine con le mie mani!! xxM. ::

:: Peccato qualcuno non abbia fatto lo stesso con te. Kells dice di sì, cmq. C. ::

:: Perfetto, K ne sarà entusiasta! xxxM. ::

:: E smettila con ‘ste X ricchione! C. ::

:: Love you, Chrissy. Alle otto da me, puntuale!!! xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxM. ::

Matt continua a giocherellare con la mascherina dell’Iphone ancora per qualche secondo, un sorrisetto scemo sulle labbra e lo sguardo perso fra gli incroci familiari che adornano il pezzo di plastica tra le sue mani. Si sta consumando sui lati, nota, i colori della Union Jack meno vivi sugli spigoli, e forse sarebbe proprio il caso di cambiarla; la prossima volta che si ritroverà dalle parti di Camden dovrà comprare un case nuovo - e magari anche uno per Kate. Potrebbe prenderglielo, tipo, con la bandiera americana, così sarebbero “il Presidente e la Regina”, come già li chiamano gli amici di lei - o “il burro d’arachidi e la marmite”, come li chiamano invece gli amici di lui.
Nemmeno gli piace la marmite, o l’idea di esser paragonato alla mummia reale, in realtà.
Ma il burro d’arachidi - sul pane, con la marmellata: quello sì!

Un braccio teso verso l’alto nell’ennesimo sbadiglio, Matt getta il telefono via di lato, dove scivola tra le pieghe e i cuscini del divano, poi si alza sulle ginocchia stanche, dirigendosi verso la cucina. Non ha dormito un cazzo, se non un paio d’ore e neanche bene; è stanco morto, in fondo neanche troppo di buon umore, e vorrebbe davvero solo ficcarsi sotto le coperte e buonanotte ai suonatori - ma qualcosa nella sua testa quella mattina gli aveva invece detto che fosse il caso di organizzare una cena, e per di più di occuparsi in prima persona della realizzazione della portata principale. Kate aveva accolto la notizia con l’aspettato giubilio, naturalmente - amava avere ospiti per pranzo, o a cena, o semplicemente persone che vagavano e occupavano letti, camere e divani di casa sua, e anzi aveva suggerito di estendere l’invito anche ai coniugi Wolstenholme perché “ho promesso a Kelly che le avrei fatto assaggiare la torta di mia madre prima o poi!”. Quindi Matt lo aveva fatto, e Chris aveva dato una risposta affermativa, e adesso bastava solo riferirlo a Kate in modo che si organizzasse con i posti e le portate e poi mettersi ad impastare uova e farina e stendere la pasta come gli aveva insegnato la zia di...

“Matt, tesoro, ci sei?”
“Eh? Ci sono? Chi?”
“Tu, scemotto! E Chris e Kelly, loro?”

Una risata cristallina lo riporta piano alla realtà, la stanchezza allontanata dal piacere della constatazione stessa della tale che torna tutta insieme e gli strappa un altro sbadiglio.

“Oh - oh, sì. Sì, vengono a cena.”
“Che bello!”
“Ah - eh - sì. Che bello!”

Un’altra risata, e Kate si sta avvicinando e poi è lì ad abbracciarlo, Chanel n. 5 che gli arriva dritto ai neuroni per esser decodificato senza nemmeno passare dalle narici. Non è sicuro che la cosa gli faccia così piacere con il mal di testa che si ritrova, ma naturalmente non può dirglielo, quindi tace e invece affonda il viso tra i suoi capelli, morbidi e appena lavati. L’aroma dolce della camomilla e del miele sembra calmarlo, e lui mugola qualcosa che suona molto come “mh, amore mio” prima di richiedere un bacio e poi rubarlo lo stesso. Matt ama i baci - Matt ama baciare; ama i baci di Kate, perché le sue labbra sono morbide e la sua bocca è piccola e tiepida e magnifica; ama baciare Kate, perché quando lo fa lei sospira e poi lo stringe in vita e i suoi occhi brillano e sorridono birichini in direzione della camera da letto, proprio come ora.

“Sembri stanco, piccolo. Che ne dici se ti stendi un po’?”
“Mh...” bacio “... no, devo...” altro bacio “... la pasta, Kate...”
“Possiamo farla più tardi? Ti aiuto io!”
“Ma tu...” bacio, sospiro “... tu non la sai fare la pasta!”
“Uhm, è vero...”
Kaaaty...”

Una smorfia maliziosa, il tocco deciso sulla chiusura dei pantaloni che strappa a Matt un gemito d’apprezzamento. Santa Kate, santa subito.

“Però guarda, posso lo stesso darti una mano!”
“Sei terribile.
“Mh, ma tu mi ami così come sono, no?”

Matt la guarda negli occhi per un numero imprecisato di secondi, il capo inclinato sulla sinistra; Kate non indossa trucco e i suoi occhi sono un po’ rossi e gonfi a causa della limitata quantità di ore di sonno di cui ogni neo-madre dispone, e attorno a questi sono già visibili piccole rughe dovute più allo stress che realmente all’età; i suoi capelli non hanno incontrato le cure della spazzola di un esperto, ma solo l’aria calda del phon su nel bagno di casa loro, e ricadono in onde disordinate attorno al viso che stringe tra le mani, incorniciandolo in una maniera che un po’ gli ricorda le sere d’estate e il mare - una chitarra, un falò e gli anni ‘70. Kate è naturalmente bellissima e lui non riesce a credere alla propria fortuna, mentre si preme contro di lei e le strappa un ultimo bacio, parlando nel silenzio più di mille parole.

Sei la mia vita.”

Le iridi grigio-verde brillano ancora una volta, poi Kate si gira ed inizia a trascinarlo via dietro di sé, tirandolo per le mani congiunte, entrambi fermandosi solo per ridere quando lei, goffissima, inciampa nei gradini delle scale che portano su.

“Scusa, è che ho una voglia matta!”
Kate!
“Che c’è, solo voi uomini potete permettervi d’essere arrapati?”
“Che c’entra!”
“Oh, Matt, a volte sei così inglese!”

Matt vorrebbe replicare, magari con una battuta audace sul suo essere una sboccatissima americanaccia, invece, ma le parole gli muoiono in gola quando lei alza la gonna del vestito e si sfila veloce le mutandine, gettandole poi con noncuranza sul parquet, la schiena rilassata contro la colonna delle scale.

“Dai, stallone. O sei forse diventato gay come Carlo?”
“Dillo a Camilla!”
“Allora la Regina.”
“Sei blasfema.”
“Suppongo che dovrai punirmi adesso?”
“Qui!?”

La sua voce è appena coperta da un velo di isteria, o forse è solo stanchezza, ma Kate decide di ignorarlo con uno sbuffo derisorio mentre lo tira a sé, sfilandogli finalmente i pantaloni e stringendo decisa tra le mani la semi-erezione che vi trova nascosta sotto.

“Oh, ecco, adesso... mi sei mancato, cucciolo.”
“Non stai davvero - oh! Parlando con -- lui!”
“Lui chi, scusa?”
... lui!
“Cosa c’è, voi di Oxford non ce l’avete una parola per dire ‘cazzo’ nel vostro spocchiosissimo dizionario?”

Matt ingoia un gemito, tentando di sistemare i piedi come meglio può in equilibrio sui gradini, le dita metaforicamente incrociate nella speranza di non fare un capitombolo giù per le scale e nella hall.

“È un peccato, perché è proprio un bel cazzo. Dovremmo dargli un nome, potremmo -”
Kate...”
“Che c’è? È vero!”
“Ma così mi fai ridere!”
“Allora datti da fare, sto facendo tutto io!”

Non è realmente una critica, se non una constatazione giocosa. È stanco, è vero, ma non è solo quello; c’è qualcosa che non va, anche quando si spinge contro di lei - dentro di lei - ma Matt preferisce ignorarlo e addossare la colpa al senso di responsabilità nei confronti della cena che in quel momento sta completamente ignorando in favore di una scopata sulle maledette scale. Come se la cosa gli dispiacesse, poi.

Ti amo, ti amo, ti amo!
“Adesso dimmi, stai parlando con me o con Eugenio?”
“EuCHI!?”
“Il mio cazzo.”

Kate ride di quella sua risata contagiosa, fermandosi solo un attimo per dirgli: “scemo!”, poi chiude di nuovo gli occhi abbandonandosi alle spinte, le gambe strette attorno a lui.

“Ti amo anch’io, piccola.”

Forse il resto - le uova, la farina, Dom, il sugo e le stramaledette cipolle - possono aspettare ancora un po’.


*


Matt ha appena finito di stendere il terzo panetto di impasto quando il telefono vibra contro la sua gamba, avvisandolo che ha un nuovo messaggio. Imprecando giusto un poco a causa delle dita sporche di farina che di sicuro lasceranno tracce sui pantaloni puliti e lo schermo dell’iPhone, tira velocemente fuori l’oggetto in questione prima che possa pasticciarlo troppo, posandolo sul piano e sbloccandolo poi con il mignolo della mano sinistra. Come prevedibile, oltre che ampiamente previsto, si tratta di Dom.

:: Non credo di farcela stasera. Avevo dimenticato di avere già un impegno. D. ::

No shit, Sherlock” si ritrova a considerare ad alta voce, prima di dirigersi verso il lavabo e ripulirsi le mani sotto il getto d’acqua tiepida. Afferra il primo canovaccio disponibile - sporco di sugo, naturalmente - e si asciuga come meglio può prima di afferrare nuovamente il dispositivo e digitare una risposta.

:: Non dire puttanate. Vieni per cena e sei libero di andare, dopo. M. ::

Forse non dovrebbe essere così brusco, non nella sua posizione attuale - ma sono poche le cose che mandano realmente in bestia Matt, e tra queste figurano gli amici che lo evitano per nessuna reale motivazione, o ancor peggio, una motivazione anche reale che però rimane inespressa per qualche assurdo fottutissimo motivo di cui non è nemmeno pienamente sicuro di voler esser messo al corrente. Se poi l’amico in questione è Dom, la gravità stessa della situazione si amplifica esponenzialmente di almeno dieci volte.

La risposta, fortunatamente, non tarda troppo ad arrivare, e Matt ha già terminato di stendere le sue bellissime e perfettissime sfoglie di lasagna quando il telefono vibra di nuovo, stavolta sul marmo del ripiano della cucina.

:: Mi dispiacerebbe lasciare subito dopo. Darei l’impressione di chi volesse solo scroccarvi la cena. D. ::

Deve sbuffare, quando legge il messaggio. Che scusa patetica.

:: Ti assicuro che nessuno sentirà la tua mancanza, dopo. Saranno tutti troppo storditi dalla bontà delle mie lasagne alla bolognese. M. ::

:: Tutti chi? D. ::

:: Ci sono anche C&K. Non fare il coglione e vieni, ti aspetto. xM. ::

Quando non riceve più risposta Matt sa di aver vinto, ed infatti tempo nemmeno un’ora e quello di sistemare le lasagne nella teglia e poi in forno e il campanello di casa trilla impetuoso, mentre Kate, perfettamente truccata ma vestita ancora per metà, si precipita ad aprire la porta ululando dalle scale un accorato: “vado io, tesoro!”. Non si stupisce quando la sente esclamare, deliziata: “Dominic!”, né quando torna in cucina braccetto col presente, piegata civettuosamente sulla sua sagoma abbronzata mentre fa finta di sbottonarsi ulteriormente la camicetta chiara.

“Tesoro, che ne dici se lasciamo i bambini con Mrs Doubtfire e ce ne andiamo a cena io e te?”
“Non affiderei a Dom neanche un gatto, figuriamoci -”
“E chi ti dice che mi riferissi a lui! Ci faccio sicuramente una figura migliore a farmi vedere in giro con questo figone qui!”

Dom ha su uno di quei suoi sorrisetti storti mentre le prende la mano e posa un bacio sulle nocche bianche.

“Pare che Chef Bellamy non sia disposto a - erm, condividere il piacere della vostra compagnia con alcuno, mia cara.”
“Chef Bellamy non condivide proprio un cazzo!”
“Che peccato, ho una particolare predilezione per i biondini con un bel culetto!”

Non è la prima volta che accade che entrambi gli uomini si lascino scappare, all’unisono, in tono falsamente scandalizzato e anzi volutamente esagerato un: “Kate!” che scatena l’ilarità della donna in questione - la quale, ridacchiando felice, non fa altro che baciare la guancia ad entrambi prima di infilarsi un grembiule e spingerli fuori dalla cucina.

“Sciò, andate a giocare a badminton o qualsiasi cosa facciate voi inglesi nel vostro tempo libero a parte bere tè crogiolandovi nella convinzione di avere un senso dell’umorismo eccezionale!”
“Amore, le lasagne -”
“Ci penso io, tanto devono stare in forno per un’ora, no? Così mentre io preparo il dolce” e sottolinea la parola dolce dandogli un bacio sul naso “loro hanno il tempo di cuocere a puntino.”

Matt non sembra ancora del tutto convinto, neanche quando Dom decide di intervenire.

“Sono abbastanza sicuro che Kate abbia più dimistichezza di te con queste cose, Bells. Ricordi quando hai provato a ‘cucinare’ la colazione per tutti riscaldando del cibo rimasto dalla sera prima nel fornetto - eravamo ad Austin, non è vero? Hai quasi dato fuoco al tourbus, quella volta.”
“Sei un disastro! E poi le patate di ieri... erano nere, Dom! E si ostinava a dire che era la giusta cottura secondo la ricetta originale!” aggiunge Kate gesticolando con convinzione.
“Vi odio. Entrambi!” dice Matt, indicandoli e sventolando loro a turno il medio, poi trascina un ridacchiante Dom con sé fuori dalla cucina, in salotto.

“Dovevi proprio dirle di Austin? Adesso mi prenderà in giro a vita, troia!”
“E tu dovevi proprio ficcare quel Pad Thai nel forno con tutta la scatola di cartone, coglione?”
“È stato un incidente!”
“Certo, tu sei un concentrato di incidenti e sgradevoli avvenimenti che in maniera del tutto casuale decidono di accanirsi sulla tua povera, indifesa, persona, non è vero?”

Non c’è reale cattiveria in quelle parole, eppure Matt se ne sente più colpito di quanto dovrebbe - glielo dice la smorfia di Dom, la postura tutt’altro che rilassata e le sopracciglia inarcate all’inverosimile: vorrebbe dire ‘è solo un gioco, ti sto prendendo per il culo, amico’, ma non gli sfugge comunque la nota amara che si nasconde dietro tale annotazione. Dominic, del resto, sembra avercela con lui per qualche motivo e, per una buona volta, forse la sua non è solo la solita fottutissima paranoia. Tuttavia, non è questo il momento per le parole importanti - non possono concedersi certo il lusso di mettersi a litigare nuovamente quando hanno ospiti per cena, quindi Matt si fa forza e sfoggia invece una linguaccia indispettita all’indirizzo del batterista.

“L’hai detto, Howard! E l’esempio più grande e leopardato ce l’ho proprio qui davanti a me - dove cristo hai preso quella camicia? È imbarazzante!”
Diorrrr!” tira fuori l’altro con tono appassionato, facendo roteare esageratamente la R come nella pubblicità, ed entrambi resistono solo pochi secondi prima di arrendersi ad una risata che alleggerisce di cento masse il peso dell’atmosfera.

“Chris arriverà tra meno di un’ora, meglio iniziare a sistemare la tavola... mi dai una mano?”

Dominic ha già spostato due sedie mentre risponde affermativamente, e si sta preparando ad aprire il tavolo nella maniera indicata quando si accorge che Matt ha lasciato la stanza, senza dire una parola. È indeciso tra la voglia di fare spallucce e continuare a fare qualsiasi cosa stesse facendo - cercare di non farsi schiacciare dal peso del ripiano in mogano, nel caso specifico - e quella di sbuffare infastidito per il comportamento dell’amico e sedersi sul divano in attesa del suo ritorno. Naturalmente decide per la prima, ed è fortunato che non si sia spezzato alcun dito per quando Matt fa nuovamente capolino nell’ampia sala, il piccolo Bingham gongolante e irrequieto come al solito tra le braccia. Il batterista si lascia sfuggire un’esclamazione di deliziata sorpresa, mentre si dirige verso l’amico e il bambino che sta sillabando chissà quale diavoleria nel suo pseudolinguaggio - in maniera peraltro totalmente convinta.

“Il tuo periodo di maternità è finito, Bellamy, molla il pupo e vai a recuperare tovaglia e posate!”

Il dente storto di Matt fa bella mostra di sé tra le file scombinate del suo sorriso idiota, e Dom sta già tendendo le mani verso la pestifera figurina che si agita nella presa del cantante, mentre mormora, impaziente: “dammi qui, dammi questo amore di microbo puzzoso!”.
“È tutto tuo, zia Mimma!”
“Oi!”
“Sì, sì, scusa - Zio Dom. Ecco, tienilo bene sotto!”
Matt, lo so come si tiene in braccio un bambino!”
“Questo non è un bambino qualsiasi, Dom, è un Bellamy!”
“Una condanna più che un appellativo, praticamente.”
“Attento a come parli, Howard.”

Dom sbuffa un po’, il peso tra le sue braccia dolce e rassicurante. Bing è un bambino di quelli belli e paffuti - anche se non paffuti quanto Buster, in effetti. Ha le guanciotte piene, lo sguardo birichino e gli occhi - beh, gli occhi di Matt. La verità è che quello che stringe tra le braccia e che ricambia la presa sul suo naso non è solo ‘un Bellamy’, è il figlio di Matt - del suo Matt. Non gli costa niente ammetterlo, ma sa che ciò non è realmente necessario, perché il momento in cui lo porta in alto e posa un bacio su quella fronte così piccola, Matt saprà già che Dom ama quel bambino come fosse suo.

“Ma siamo sicuri che sia tuo? È un amore, Matt, dio...” dice piano, sentendosi per niente cretino.
Matt sta ancora sorridendo in maniera piuttosto adorabile, i denti scoperti come fa quando è felice. Cullando piano il fagotto tra le braccia, Dom ricambia lo stesso identico sorriso, dita che si incontrano e stringono in un gioco di incastri con altre infinitamente più piccole.

“Ma siamo cresciuti dall’ultima volta in cui ci siamo visti, polpettone?”
“Dom, lo avrai tenuto in braccio la settimana scorsa!”
“Ti dico che sembra più grosso! Cosa gli dai da mangiare?”
“Oh, abbiamo iniziato a dargli le pappine... è uno spasso, più quello che fa volare in giro che quello che gli finisce effettivamente in bocca.”
“Beh, se gliele cucini tu posso capirlo, povera anima.”
“Aspetta di assaggiare le mie lasagne!”
“A proposito, ‘sta tavola?”

Dom si guarda intorno alla ricerca dei supplementi necessari, ma i suoi occhi non incontrano nulla che assomigli ad una tovaglia - o delle tovagliette, o fermaposto, posate, qualsiasi cosa.

“Devo chiedere a Kate come preferisce apparecchiarla, torno subito! Cerca di non farti staccare il naso, intanto, lo vedo piuttosto deciso!”
“È un guerriero, a differenza di quel pesaculo di suo padre.”

Matt è a metà strada tra la sala e la cucina, e quando parla alza la voce per far sì che anche Kate lo senta: “quello deve averlo preso da quella strega di sua madre, infatti!”
Quando la replica (“guarda che ti sento, Merlino!”) arriva, in maniera del resto del tutto aspettata, Matt ridacchia e si affretta a raggiungerla, lasciando Dom nuovamente solo con l’agguerrito pupo sistemato meglio contro la spalla.
Bing lo guarda, curioso, masticando ancora suoni come fossero parole.

“Somigli tanto al papà, sai?”
Gurgle.
“Hai anche il suo dente malefico. Ma in effetti forse è perché hai solo quello...”
Gurgle, gurgle. Ghee.
“Bing, per caso hai tirato una puzzetta?”

Non è che si aspetti esattamente una risposta - e l’odore che gli pervade le narici parla un po’ da sé, in realtà, ma Dom crede sia comunque opportuno far notare al bambino che un’altra affascinante peculiarità ereditata dal suo egregio genitore è la capacità di trasformarsi in breve tempo in un’arma chimica ambulante.

“Mefitica creatura! Ahh, ma che cazzo ci mettono in quelle pappine?!”
“Dom, non insegnargli le parolacce!”

Matt è arrotolato per metà in un’enorme tovaglia di lino bianco nella quale rischia di inciampare più volte, salvo poi essere salvato da Dom accorso in suo aiuto.
“I piatti sono nella credenza, quelli coi bordini blu,” inizia, indicando il mobile sulla destra: “dammi Bing che - oddio, cos’è questa puzza?”
“Tuo figlio” risponde atono Dom, mentre gli porge il bambino.
Matt trattiene a stento una smorfia di puro schifo mentre lo prende in braccio, tirando fuori con tono di rimprovero: “questa storia della cacca deve finire, Bing!” e poi, prendendogli piano la manina, aggiunge: “fai ciao-ciao allo zio Dom! Di’ ‘ciao zio Dom! Noi adesso andiamo a cambiarci perché puzziamo come una pecora squartata’!”
“Ti includi nell’annotazione, vero?”
“‘fanculo, Howard, profumo di violetta selvatica, io!”
“Una su cui ci ha appena pisciato un daino, certo.”
L’imprecazione di Matt è appena sillabata con le labbra, ma a Dom non sfugge comunque - a volerla dire tutta, a Dom non sfuggirebbe una sola alzata di spalle, di quell’uomo.
“Vai, dai. Ci penso io qui... siamo in cinque, no?” chiede, mentre già prende i piatti, impilandoli poi sul tavolo in una torre ordinata. Matt sta già salendo le scale che portano alla nursery quando risponde: “due coppie e una candela!”, ridendo cattivo prima di aggiungere: “adesso arriva Kate a darti una mano, comunque, io torno subito!”.
Dopo aver fatto dono all’amico di un accoratissimo “vaffanculo”, Dom ingoia una serie di bestemmie più o meno toccanti di fronte alla prospettiva di ciò che l’aspetta a tavola; del resto, se da un lato può dire di averci fatto l’abitudine, a tutte le frecciatine e le prese per il culo dei suoi amici, non è assolutamente sicuro che ciò gli faccia piacere - specie se si tratta, come quella sera, di una cena alla quale nemmeno aveva voluto prendere parte in primo luogo.
L’ingiustizia generale di tutto ciò lo porta a perdere gradualmente la concentrazione sulla sua missione, e dopo tre tentativi (falliti) di infilare una forchetta nel segnaposto, il batterista si vede strappare di mano suddetti gingilli dalla padrona di casa.

“Dai qui, macho-man, tu pensa ai piatti!”

Kate profuma di vaniglia ed è sporca di farina sulla guancia e sul mento; Dom la trova molto bella, specie quando si tira indietro una ciocca sistemandola sull’orecchio.
Hanno appena finito di sistemare i fermaposto tra una battuta e l’altra (“vedi, si mettono così, questo si infila qui nel buco, e - cazzo ridi? Oh, sei così inglese, anche tu!”) quando lei gli prende una mano e poi inaspettatamente gli dà un bacio sulla guancia, stringendo forte le dita tra le sue.

“Sono contenta di averti a cena qui, stasera.”
“Kate, che -”
“Sul serio, piccolo. Siamo tutti contenti di averti qui.”
“No... non, io -”

Kate lo zittisce con un dito e poi prende a parlare più velocemente, una serie di passi felpati l’avvisaglia che Matt sta percorrendo il corridoio tra la cucina e la hall e presto li raggiungerà.

“Dom, lo so che a volte non è facile, io.... chiamalo istinto materno, non lo so, ma sono un po’ preoccupata per te. Spero sia tutto ok, se hai un problema parlane con me o con Matthew, d’accordo? Ci tiene così tanto a te, lo sai, vero? Non ci dorme la notte! E anche io ti voglio bene.”

Il ritorno di Matt gli risparmia la pena di dover rispondere - o, a dire il vero, quella di dover anche solo continuare a guardare in quegli occhi per un secondo in più.
Gli piace Kate, certo - e non in quel senso, perché è la donna del suo migliore amico e non si sognerebbe mai di pensare a lei in quei termini, ma... gli piace. Davvero. È spiritosa, è intelligente - dannazione, Kate è così genuina, e quando si volta verso l’arco che separa la sala da pranzo dall’ingresso, lanciando un sorriso abbagliante in direzione del suo uomo, Dom vede più di quanto non sia disposto ad ammettere: Kate ha reso e rende Matt felice come nessun altro riesce, e lui dovrebbe esserle grato per questo più di tutti.
Semplicemente, constata mentre l’amico si avvicina ai due guardandoli con piglio curioso - un sorrisetto che gli increspa una delle guance in un punto, creando una fossetta - non ci riesce.

“Grazie, K” le dice, ma è la convinzione a mancare, stavolta. Lei deve accorgersene, perché lo guarda e gli tiene la mano ancora qualche istante prima di lasciarla andare, attenzione nuovamente volta a quello che tra pochi mesi secondo promessa diventerà suo marito.

“Ho tirato fuori le lasagne. La torta deve cuocere ancora un po’, ma dovrebbe esserci quasi... non lo so, non so a fino a che punto deve imbrunire, la ricetta la conosci tu.”
“Grazie, tesoro. Vado a controllarla subito - posso fidarmi di lasciarvi da soli? Chris e Kelly dovrebbero arrivare a momenti, ormai...”
“So ancora come si apre la porta, amore. Vai, ci pensiamo noi qui.”

Kate è via di nuovo nel giro di pochi istanti, un ultimo sorriso e poi, leggero, il rumore dei tacchi che si allontanano. Il batterista ha ripreso a sistemare la tavola con cura forse eccessiva e per nulla necessaria, e Matt è presto accanto a lui, stavolta deciso e invadente.

Ehi.”

Dom sussulta al tocco di dita leggere sul collo, un gesto vecchio e caro quanto la loro amicizia. Sta per dire qualcosa, ma poi Matt lo zittisce stringendo la presa sulla nuca, l’altra mano a strappargli delicatamente dalla presa uno dei bicchieri di cristallo.
Restano così - fermi, in realtà - senza dire più nulla, lo sguardo fisso sull’intreccio del ricamo della tovaglia per alcuni lunghi minuti. Dom giocherella con una forchetta e la fa cadere, ma il solo pensiero di chinarsi per prenderla ora lo terrorizza; ha voglia di scappare e allo stesso tempo di rimanere così per sempre - vorrebbe che Matt magari gli parlasse o che fosse lui a farlo, ma poi il campanello suona due volte e il cantante va ad aprire la porta, lasciandolo lì da solo come un idiota.

Quando Chris e moglie fanno il loro ingresso nella hall, seguiti subito da una festosissima padrona di casa che tiene in equilibrio su un vassoio cinque flûtes ripieni di un liquido rosato (“è analcolico, tranquilla, Kells!”), Dom li saluta brevemente e poi annuncia che andrà a fumarsi una sigaretta fuori.

“Così ti perdi l’aperitivo, però!” lo rimprovera Kate, ma inutilmente, perché il batterista ha già superato il capannello di amici e si sta dirigendo verso la veranda, dove c’è la porta che dà sul cortile posteriore e la sdraio che, Dom ne è sicuro, al momento non desidera altro che esser presa a calci da lui.


*

“Scordatelo, Matt, non ti permetterò di indossare un turbante di perline al mio matrimonio!”
L’ilarità di Kate - malamente celata dietro il tono secco e un gesto imperioso della mano - si scontra col piccolo broncio che lentamente prende vita sul volto di Matt, il quale, puntando la forchetta nel proprio piatto a mo’ di pestata metaforica, produce una serie di schizzi dal suo filetto che gli costano un Wolstens-guardo omicida.
“Ma uffa, amore, perché no? Paul ce l’aveva!”
“Tuo fratello ha sposato un’indiana, razza di imbecille” interviene Chris, pulendosi dal volto gli spruzzi di sugo. La tregua in realtà dura poco - giusto il tempo per Matt di biascicare qualcosa che suona molto come “kamasutra - chhrff - il bastardo!” e poi il bassista è nuovamente all’attacco, cercando già con lo sguardo la collaborazione del terzo in causa, il quale però decide tacitamente di non intervenire, continuando a spostare invece i piselli nel suo piatto in una maniera che fa venire a Kelly la voglia di tirargli uno scappellotto e dirgli che non si gioca col cibo a tavola.
“Beh, guarda il lato positivo: ti sposi un’americana. Puoi vestirti da... che ne so, da Elvis! E poi organizzare un matrimonio in stile Vegas, coi lustrini, le piume e tutte quelle cazzate lì!”
“Ma a me nemmeno mi piace, ’sto Elvis!”
“Allora non puoi sposare un’americana!”
“Chris!”
“Suvvia, Kate, non è la fine del mondo! Meglio di lui li dan via col 3 per 2 al Sainsbury’s...”
“Oi!”
“Matty, tesoro, ma è Elvis!”
“D’accordo, diciamo che più che altro provo pena per lui quando quello lì” e qui Matt indica Dom, ancora intento a formare cumuletti di legumi nel suo piatto “si mette a lagnare Love Me - comesichiama? Boh, chiuso in bagno. Per ore!”
“Tu non apprezzi il suo genio, povera stella” interviene sarcasticamente il bassista, versandosi dell’acqua. Matt beve a sua volta un sorso di vino, prima di rilanciarsi all’attacco, ignorando l’occhiata d’avvertimento della sua fidanzata.
“Io non apprezzo il suo chiudersi nel cesso per eoni, maledetto ricchione!”
“Tanto i capelli non ti ricrescono, Dom.”
“Fattene una ragione, amico mio.”
“Comprati un parrucchino? Non lo diremo a nessuno.”
“E un vestito di piume. Quello lo diremo a tutti, però.”
“Non dargli certe idee, Chris, è già abbastanza imbarazzante portarselo dietro così!”
“‘sto qua fa sembrare virile persino te e le tue tutine di carta stagnola...”
Kelly schiaffeggia piano la mano di suo marito, ridacchiando beata quando avverte l’acuta nota di protesta del cantante - uno squittio indispettito seguito da una risata quasi isterica, alla quale dopo breve si aggiunge anche quella di Chris.
“Però potreste chiamare un gruppo a suonare, al matrimonio, tipo uno che piaccia ad entrambi, no? Kate, qual è la tua band preferita?”
Chris e Matt sono presto uniti nello stesso appello disperato: “oh no, no, Kelly! No! Noi non vogliamo ciò!”
Kate tira fuori una linguaccia mentre si fa leva coi gomiti sul tavolo e quasi urla: “I RADIOHEAD!” suscitando un’esplosione di ilarità generale, Kelly coprendosi la bocca e battendo una mano sul bracciolo della sedia, gli occhi di tutti puntati nuovamente su di Dom.
“Finisce che ti tocca mettere sotto protezione speciale il testimone...”
“Vorrai dire la damigella?”
“Bambiiini...”
C’è un momento in cui tutti stanno zitti, poi Chris inizia a ridere e Matt pure, mentre Kelly annuisce con affetto e inclina il capo un po’ sulla sinistra per spiare meglio il batterista, rimasto zitto fino a quel momento; le gote dell’uomo si sono tinte di un rosa pallido e le labbra chiuse sono spiegate in una linea retta - c’è qualcosa di triste, in quell’apparenza, e la mamma che è in lei non può fare a meno di notare che, con la scusa di alzarsi per andare a fumare o rispondere alla telefonate, Dom non ha toccato cibo da quando si sono seduti a tavola. Matt sembra aver notato la stessa cosa, mentre si sporge, d’un tratto serio, e gli posa una mano sulla spalla.
“Ehi, il gatto ti ha mangiato la lingua? La carne era troppo cotta, non è vero?”
Dom alza lo sguardo dal piatto per puntarlo in quello preoccupato dell’amico, posando la forchetta con disinteresse. Forse sta per dire qualcosa, quando Chris interviene nuovamente.
“Nah, è che ha paura d’ingrassare e non riuscire più ad entrare nel suo vestito da cerimonia!”
Altre risate si levano attorno alla tavola, ma stavolta Matt non si unisce al coro, continuando invece a fissare Dom con insistenza via via maggiore.
“Vuoi che ti faccia portare qualcos’altro? Del formaggio, forse? Non hai mangiato neanche la pasta, ti senti -”
“Sto bene, la carne è buona - ho solo poca fame.”
“Ma -”
“Matthew, amore, non stressarlo! Adesso andiamo a prendere la torta e se non la mangia lo diamo in pasto a Yorke!”
“Figurati,” interviene Chris indicando Matt con un cenno del capo: “quello piuttosto gli venderebbe sua madre. Inoltre, Dom è fondamentale ai fini della sopravvivenza del tuo uomo. Se non ci fosse stato lui a fargli da balia, l’avrei ammazzato secoli fa.”
Kate ride e fa una linguaccia al bassista prima di alzarsi e sparire in direzione della cucina, tornando poco dopo con la sua opera dolciaria: si tratta di una crostata dall’aspetto decisamente invitante - alta, soffice e dorata, ricoperta interamente di zucchero a velo e fiori di glassa rosa. Dom sorride e dice “grazie” quando gli viene offerta la prima, enorme, fetta; inspira forte l’odore di cannella, assaggiandone un po’ - Matt lo sta ancora guardando.
“Kate, ma è buonissima!”
Chris annuisce con convinzione all’indirizzo di sua moglie, complimentandosi a sua volta con la cuoca, la quale ringrazia entrambi prima di offrire un piattino al suo fidanzato.
“No, amore, semmai dopo. Se adesso mangio qualcos’altro scoppio...”
L’attrice non sembra troppo dispiaciuta del suo diniego, e apostrofandolo anzi con un “ciccione!”, prende nuovamente posto a capotavola con la sua fetta - piccola nemmeno un terzo di quella che ha servito agli altri.
“Katy, mi dai la ricetta, poi? Guarda che è buona per davvero!” chiede Kelly dopo qualche istante di silenzio in cui tutti, tranne Matt, sono impegnati a mangiare la torta.
“Oh, la ricetta è un segreto, non posso mica svelarla!” ridacchia Kate assottigliando gli occhi con la lingua tra i denti.
“Beh, posso sempre fungere da decodificatore - ero più bravo con le birre, ma inizio a cavarmela anche col cibo. Allora...” Chris prende un’altra forchettata e poi chiude gli occhi, alzando una mano in maniera piuttosto teatrale: “... mandorle. Qui ci sono sicuramente delle mandorle, e anche... arancia, un aroma.”
“Indovinato! Ma stai mancando l’ingrediente principale...”
“... qualche bacca selvatica... ”
“... no...”
“... pesche...”
“... no...”
“Caspita, non -”
“Pensa all’America, Chris!”
Chris sta pensando ad Obama e al cioccolato quando la risposta - quella esatta, finalmente - gli viene suggerita da una serie di suoni soffocati provenienti dalla sinistra del tavolo; svanita d’un tratto l’atmosfera giocosa, il richiamo angosciato delle due donne si fonde col rumore delle posate che vengono rovesciate, una sedia che s’incastra nel tappeto ed infine la voce di Matt, forzatamente calma e misurata su tutte.
“Chris, aiutami a spostarlo - così, piano, alzagli le gambe. Vado a prendere l’antistaminico.”
Due braccia forti sollevano e portano sul divano il corpo semi-coscio di Dom, poi il cantante scompare per qualche minuto prima di tornare con una siringa ripiena di un liquido trasparente.
“Tienimelo fermo così - piano, non fargli male.”
“Cristo, Matt, sembra gonfio qui, guarda. Pensi che -”
“Di solito va via così, non lo so - aspettiamo un po’?”
“Si può sapere che succede?”
La vocina flebile di Kate si spegne nel silenzio della sala, e per un po’ di tempo nessuno le risponde. Infine, comunque, Kelly si decide a dirle qualcosa, più che altro per spezzare la tensione.
“Non preoccuparti, cara, è capitato anche a me. C’erano le mele, no? Nella torta.”
“Beh, sì, è un’American Pie rivisitata, ma ci sono sempre le me-” Kate s’interrompe all’improvviso, portandosi una mano sulla bocca, colpevole: “oddio, l'allergia! L’avevo dimenticato!”
“Tranquilla, fortuna vuole che l'abbia solo assaggiata - guarda, sta già meglio! Pensa che io una volta -”
“Ma dico, sei cretina, cazzo?”
Il tono di Matt spiazza tutti - sé compreso, probabilmente. Non è realmente convinto che Kate abbia solo potuto pensare di farlo apposta - che abbia deliberatamente tentato di avvelenare Dom, insomma - ma forse la preoccupazione, o la rabbia genuina, lo fanno parlare in un modo che più tardi, già sa, rimpiangerà di aver usato.
“Quante volte te l’avrò detto, porca di quella puttana?! Cos’hai dentro quella cazzo di testa? Ci poteva rimanere secco, poteva - poteva soffocare, tu non sai! Se non avessi -”
“Io non -”
“Tu non che? Cosa, Kate? Pensi solo ai cazzi tuoi, cristo! Quando inviti quelle psicopatiche erbivore delle tue amiche, a pranzo, ti ricordi di non cucinare carne, però!”
Kate boccheggia per qualche secondo, chiaramente offesa. Sta per replicare, un tacco che pesta il parquet in segno di evidente irritazione, ma viene interrotta da Chris che dice a Matt di darci un taglio, scusandosi poi per lui. Il silenzio che segue è uno dei più imbarazzanti ai quali il bassista abbia mai preso parte e grazie al cielo viene presto spezzato da un rantolio debole proveniente dal divano - poco più di un paio di consonanti articolate insieme, in realtà, ma bastano affinché il cantante si precipiti sull’amico per accogliere meglio la sua richiesta.
“Ehi, Dom. Ehi - va meglio? Vuoi che chiami un dottore?”
“N-no. ‘att - devo...”
“Cosa? Vuoi dell’acqua? Chris, potresti prendere dell’acqua, credo che -”
Ma quando Dom si sporge dai cuscini, dritto con la fronte sulla sua spalla, è già troppo tardi; dita sudate afferrano la stoffa sulle braccia sottili, tirando e stressando il tessuto, mentre già Matt lo sta aiutando a sollevarsi per condurlo in bagno al piano di sopra, ignorando la pozza di liquido grigio-verdastro che si allarga sul petto.
“Scu - ‘usa, Matty, scusa, Matt, Matty -”
“Ehi, va tutto bene, va tutto bene. Tranquillo - come ai vecchi tempi, okay? Ce la fai a fare le scale, Dom? Ehi? Preferisci che andiamo in giardino? Forse è meglio il giardino...”
“Scusa... no, cioè, no, le scale, sì - scusa Matt, scusa -”
“Ssht, va tutto bene. Un piede davanti all’altro, okay? Allons-y?
Entrambi ignorano i richiami di Chris e la sua offerta d’aiuto, scegliendo piuttosto di impiegarci il doppio del tempo ma di arrivare da soli alla porta del bagno che dà sul secondo corridoio al primo piano. Dom entra per primo, a fatica, e dietro di lui Matt, che chiude la porta a chiave e abbandonandosi contro il murp dopo aver acceso la luce.
La verità, constata il cantante, è che Dom sta male - e non solo per uno stupido pezzo di torta di mele; l'istinto gli dice di scostare la schiena dalle piastrelle e andare ad abbracciarlo, incurante del puzzo di vomito che male s'armonizza con l'aroma pungente del suo dopobarba.
“Mi dispiace davvero.”
“No, non... stasera è - non è colpa sua, Matt, io -”
“No - no. Lo sai a cosa mi riferisco, Dom. Lo sai meglio di me.”
Dom se lo lascia scappare mentre si piega con le ginocchia a terra ad abbracciare la tazza, riversandoci poi tutto il contenuto del suo stomaco a più riprese - spalle che tremano mentre le dita scivolano bastarde sui bordi di ceramica.

"Stai con me?"

E sì, gli dice Matt, mentre gli tiene indietro i capelli, i polpastrelli a sfiorare la nuca e il collo come in una scena che si ripete a distanza di anni luce, in un loop temporale.

“Sempre.”






Devo essere supervelocissima perché consapevole di rischiare il linciaggio per più di un motivo (ritardo? CHI HA PARLATO DI RITARDO? UNO STREGONE BLABLA SONO GANDALF ALLORA TACI). Dunque, in primo luogo, nessun batterista/criceto/cantante/torta è stato maltrattato per davvero: questa è un'opera di fantasia della mia mente perversa nella quale sono intervenuti qui e lì apprezzamenti vari che mia madre ogni tanto fa nei confronti di Bellamy (quella del 3x2, tipo, solo che era "meglio di lui li dan via alla Rinascente col 3x2" però capite che in Inghilterra la Rinascente neanche sanno cosa sia, quindi pace). Il resto sono prese in giro di cui tutti ci facciamo carico, suvvia - scagli la prima pietra chi non ha mai dato del ricchione a Dom! è_é
Procedendo... sì, Matt e Kate trombano, e sì, Kate vi batte tutte 10 a 0 perché così ho deciso. L'è una figa e basta, non importa che abbia tentato di avvelenarci il fattone di turno, okay?
Chris è malvagio, Kelly è incinta come al solito e le mele sono rosse e molto pericolose per il nostro batterista sfigato.
Ah, naturalmente la storia dell'allergia è vera, non ho inventato nulla. Fatemi causa, se osate! TSK.

NOTE (da eseguire al trombone senza armonizzarlo, così che pare che qualcuno si sia messo a campionare il campanello di casa):
1. MALAGUENA SALEROOOOOOOOOSAAAAAAAAAAAA
2. DANDNADAAJAJJA *danza spagnoleggiante*
3. l'insulto originale da Matt a Kate dopo che questi scopre che la sua donna ha tentato di fargli fuori l'uomo che vale più di sua madre sarebbe dovuto essere, secondo Stregatta: "CHE CAZZO VAI FACENDO IN CUCINA SE NON SAI COSA CAZZO DEVI FARE, TROIA INCAPACE", ma infine abbiamo insieme deciso che forse non era il caso
4. Chris palesemente non riesce a distinguere un carciofo da una banana
5. Matt non è Severus Piton
6. l'Esselunga oggi era chiusa e io ho fame
7. MALAGUEEEEEEEEENA SALEROSA!
8. chiaramente noi tutte ficwriters odiamo Dom, povera bestia
9. Bing è un figo
10. scommetto che le lasagne di Matt erano buone
11. io shippo Kagenio - Kate x Eugenio
12. non ero ubriaca quando ho denominato il pene di Matt Bellamy 'Eugenio', no
13. Paul, il fratello di Bellamy, ha davvero sposato un'indiana e Matt ha preteso un turbante in qualità di testimone - a proposito, l'ho deciso io che Dom sarà il testimone di Matt, ma non sta scritto da nessun'altra parte
14. Thom Yorke ha avuto una discussione abbastanza accesa con Dominic - i due sono quasi venuti alle mani, e la cosa mi diverte da morire

Citazione di inizio capitolo da 'No Surprises' dei Radiohead, perché sono un troll.

Bon, pace e amore
addio.
Cheers!

x S

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** _Pioggia ***


Meds

_everywhere there's rain, my love

everywhere there's fear.





*

Piove.
Beh, non è che sia proprio una sorpresa, in realtà. Questa è Londra, l’unica città al mondo dove le previsioni meteo sono più scontate delle fragole al Tesco - quando sono in offerta, ovviamente, altrimenti no, il mio bel paragone si risolve in un’affermazione priva di senso che però suona bene e venderà comunque perché io sono un fottuto genio, un figo della madonna e tu sei appena stato stregato dal mio fascino da cobra incantatore, har har.
No, non ci credo per davvero - neanche un poco, sul serio! - e anzi mi fa ridere e al contempo mi preoccupa che il mio esser ridicolo e totalmente inadeguato venga in genere interpretato dai media come una sorta di ribellione al pensiero comune - al fottuto sistema, no? Puttanate. Non mi piace che mi puntino contro una telecamera (ho una faccia strana, sono brutto), odio parlare di cosa mi passa per la testa quando compongo (niente?), non sopporto le domande del cazzo che alcuni giornalisti si ostinano a propormi (da “qual è il ruolo di Dio nella tua vita?” a “cos’hai mangiato a colazione?” - sul serio?), intervista dopo intervista - e quindi sì, continuo a dire in giro che voglio suonare sulla luna o che allevo pecore nel tempo libero, che la pasta al sugo mi fa piangere, che ammazzo polli nel mio giardino e che, cazzo, al prossimo live show avrò un ufo ancora più grande!, perché almeno questo darà loro qualcosa di cui parlare. Più o meno, perché poi se anche non hanno nulla di concreto per le mani, in realtà, le cartucce della stampa son sempre piene di inchiostro, e a scriver quattro cazzate non ci vuole certo un’arte; è il caso (recente, ahimè) dei giornali di gossip, quelle ridicole riviste sulle quali copertine capeggiano sparaflashanti titoli in fuxia: “Matt (quando azzeccano il nome giusto, perché ormai ho perso il conto delle volte in cui sono diventato Max, Marc o David) Bellamy: tenero amante o traditore incallito?” - e beh, allora no, neanche vale la pena d’addentrarsi in quella giungla senza munirsi prima di sciabola e katana, e la voglia d’armarmi contro dei moscerini, in tutta sincerità, devo averla lasciata da qualche parte insieme a quella di bere candeggina - o, tornando nell’immediato, quella di alzare il culo e andare a recuperare l’ombrello in macchina.
Sì, perché piove e ho l’ombrello, ma ripararsi è troppo mainstream per Matt Bellamy - noto rivoluzionario. Dunque mi bagno, e anche se non c’è neanche un filo di sole - né a dire il vero abbastanza luce da permettermi di leggere il mio libro - indosso comunque delle lenti scure (cerchiate di rosso, una figata assurda!) che nascondono la stanchezza e le occhiaie. Sono a Hyde Park, su una panchina poco distante da quella che una volta era la casa di Dom qui a Londra. Persone - tante, alcune vestite come si conviene ad un funerale (poveri sfigati, dev’esserci qualche ufficio qui vicino) e mamme che trascinano via bambini che palesemente non hanno alcuna intenzione di rinunciare alle meraviglie dello scivolo solo perché in questa cazzo di città, ripetiamolo tutti in coro, PIOVE SEMPRE -, continuano a sfilarmi davanti rivolgendomi occhiate perlopiù curiose; non credo che nessuno di loro mi abbia veramente riconosciuto come “Matt Bellamy, l’ammazza-polli che suona in quella band di sfigati” o tantomeno “Max Bellamy, quel topo che sta con Kate Hudson”, ma devo comunque essere uno spettacolo degno di nota, seduto qui come un coglione in occhiali da sole a gocciolare acqua dai capelli e poi dalla punta del naso, dritta sulle pagine del libro che sto facendo finta di leggere per darmi ancora una parvenza di dignità.
Una parte di me si sta effettivamente chiedendo cosa diavolo ci faccia qui, alle tre del pomeriggio, solo e triste come il giorno in cui sono nato. La verità? Non ne ho la più pallida idea.
Dovrei essere agli Studios; oggi avevamo una sessione e ieri sera ho detto a Chris che li avrei raggiunti, anche se in realtà l’ho fatto più per far sì che la smettesse di guardarmi neanche fossi merda sotto le sue scarpe quando sono tornato giù in sala con il nostro batterista (che aveva di suo già provveduto a rimproverarmi per la scenata a tavola con Kate tra un conato, una scusa e altre preghiere imbarazzanti, tra cui quella di tenergli la mano perché aveva paura di sporcarsela e gli faceva ‘cioè troppo schifo, Matt!’. Strano tipo, quel Dominic Howard). Kelly, poi, è stata anche più eloquente: “se Chris si fosse rivolto a me in quel modo, io l’avrei castrato con una pinzatrice” mi ha detto salutandomi, un bacio sulla guancia sinistra e poi su quella destra, le sopracciglia dislocate presso l’attaccatura dei capelli ma il sorriso saldo sulle labbra. A volte quella donna mi fa una paura fottuta - e dico sul serio. La coppia del buonsenso, ad ogni modo, era già lontana dal quartiere di Primrose Hill quando mi sono offerto di accompagnare Dom a casa; quindi, senza pensarci due volte, l’ho afferrato sotto braccio, ho attraversato il giardino, percorso 34 passi verso sinistra e aperto la porta di casa sua, scortandolo fino al piano di sopra e poi a letto, dove, dopo aver trascorso mezz’ora distesi a sparlare di Kelly e del mondo femminile in generale, ho deciso non fosse il caso di passare la notte - sebbene la prospettiva di portare avanti il nostro piano di conquista per un mondo di soli uomini fosse comunque piuttosto invitante.
Naturalmente, se la reazione dei coniugi Wolstenholme mi era parsa esagerata, non ero certo pronto alla dichiarazione di guerra attuata dalla mia donna: un post-it sul frigorifero, sotto alla foto di noi tre - io, lei e Dom - in Messico, il mese scorso.

“Le lenzuola pulite sono nell’armadio in corridoio.”


‘Spero che la pelle sintetica del divano nuovo cinga le tue palle in una morsa infernale e ti eviri nella maniera più lenta e dolorosa possibile - virgola - stronzo’ avrebbe potuto aggiungere, ma Kate ha classe, e tra i suoi molteplici talenti rientra quello di riuscire a concentrare una maledizione di livello avanzato come la presente in una semplice, insignificante letterina - poco più di uno scarabocchio, nell’angolino in fondo a destra, una ‘K’ che pesa come il giudizio universale.
In conclusione? Ho trascorso la notte in salotto, sì, ma per ripicca ho fatto fuori un’altra bottiglia di rosso e una busta intera di caramelle al mou, poi ho ho provato a realizzare degli uccellini in origami con gli involucri colorati, solo che ho fallito miseramente perché le mie capacità manuali, come risaputo, si limitano ad una sega - che stringa un cazzo o una chitarra, tra le dita, è poi in realtà del tutto irrilevante.
Quando mi sono svegliato stamattina sporgevo per metà dal divano, sul parquet, dove la mia faccia si premeva tra un peluche di Bingham (una rana gialla) e una caramella mezza masticata; gli scongiuri taciuti della mia donna erano ancora una volta stati assecondati da una sorta di deviata potenza celeste, a quanto pare, perché oltre al caldo boia alle parti basse, il formicolio nelle dita dei piedi e la sensazione di non possedere più una spina dorsale, mi ero ritrovato incapace di fare altro a parte fissare, a turno: la bottiglia vuota, il telecomando, il telefono e il neo che ho sul polso destro. Scegliendo di credere che la nausea che mi aveva colto all’improvviso fosse dovuta all’insostenibilità dell’essere e delle cose e non ai due litri abbondanti di vino che simpatizzavano col toffee e il resto della cena all’interno del mio organismo, non ho potuto fare a meno di notare comunque che c’era decisamente qualcosa di strano - fuori tono - nella scena di cui mi ritrovavo a far parte. Era vero, quello non era certo il mio lettone; il profumo di brioches e bacon era stato rimpiazzato dal fetore inumano dei miei piedi, e il tè, la mia fumante tazza di tè nero, con latte e due cucchiaini di zucchero... beh, al suo posto c’erano due dita di rosso che rotolavano sul fondo della bottiglia - ma no, non era nemmeno quello il problema. Si trattava di qualcosa di molto più sottile, come un patto segreto, un serpente che agisce silenzioso. A fornirmi una soluzione all’inganno di cui mi sentivo vittima, è stato infine Dom, facendo esplodere il mio iPhone in una serie di note stonate da qualche parte sul tappeto vicino ad un mezzo topo-uccello turchese.
“Cazzo vuoi.” ho mugugnato nel ricevitore.
“Buongiorno anche a te. Non so se te ne sei accorto, ma immaginavo fosse lo stesso il caso di avvisarti: un taxi ha appena rapito tuo figlio, la tua quasi-moglie, la baby-sitter e una trentina di valigie. Tu ci vai in bici in aeroporto?”
E certo, perché Kate ripartiva oggi e ha deciso di sparire con mio figlio senza neanche pensare di svegliarmi o quantomeno farmelo salutare - poi sarei io quello che non riesce a controllare le proprie reazioni, secondo Chris. Ebbene, lanciarsi in un inseguimento folle nella propria Mini, in pantofole e con una caramella ancora appiccicata alla guancia, in tale situazione, mi è parsa una risposta piuttosto appropriata al comportamento maturo e del tutto responsabile della mia donna. Almeno è quello che ho spiegato alla statale quando mi ha fermato per eccesso di velocità - ma devo avergli fatto abbastanza pena, perché si sono limitati a controllare velocemente i documenti e a farmi una multa, poi hanno permesso che ripartissi alla volta di Heathrow pigiando sull’acceleratore con più foga di prima.
Ho sempre odiato gli aeroporti - troppe persone, troppi controlli, troppo tutto.
Quando sono arrivato il tabellone delle partenze in fondo all’area privata del check-in segnava le 10:41. Poco più sotto, un’iscrizione in bianco su blu suggeriva che il tempo dei saluti fosse arrivato per i viaggiatori del volo VS023 diretto a Los Angeles - i quali, come gentilmente ricordava la voce dello speaker, erano attesi al gate 28B per l’imbarco. Che culo, insomma.
L’eroica impresa che mi ha visto protagonista questa mattina ha in effetti un che di Hollywoodiano; sono abbastanza sicuro che i giornaletti spaccia-pettegolezzi comincerebbero a prodursi da soli, se venissero a conoscenza di questa simpatica storiella. Ebbene: Kate ha già passato i controlli, quindi sono costretto a comprare un biglietto per il primo volo disponibile (Dubai) al fine di essere fisicamente in grado di vedere e salutare mio figlio; la mia solita sfiga vuole che al check-in l’aggeggio impazzisca del tutto, così perdo altri cinque minuti cercando di convincermi che non vale la pena di mandare a puttane tutto scappando dalla security; quando gli addetti ai controlli e alla sicurezza decidono finalmente che sono, dopotutto, innocuo, mi lancio in una corsa folle lungo metà del corridoio del Terminal 5 che si conclude con un assistente di volo che mi blocca al gate mentre tento di far segno a Kate - la vedo, la testa bionda e il fagotto che nasconde! - della mia presenza; annaspo, perché l’ossigeno che mi è rimasto nei polmoni non è abbastanza neanche per chiamarla, ma lei mi sente lo stesso, perché si gira e mi studia per qualche secondo, prima di decidere che sì, forse è il caso di avvicinarsi.
Per mia fortuna, l’esperienza da commediuccia per famiglie si conclude bruscamente prima che possa fare la figura dell’idiota romantico (in ginocchio a chiedere scusa brandendo dei fiori sbucati dal nulla, tipo), e più precisamente con me che prima inciampo, poi impreco ed infine le rantolo contro non più di quattro parole in fila, in realtà - qualcosa sulle righe di “Bing - partire - perché - svegliare”; un finale che comunque Kate sembra giudicare abbastanza appropriato, visto il modo in cui finalmente si sporge per permettermi di giocare un po’ col bambino e poi salutare entrambi con un bacio sulla guancia. “Ti mando un messaggio quando arrivo” (‘se non mi richiami immediatamente puoi dire addio ai tuoi privilegi da fidanzato - virgola - stronzo’) ha detto sistemando meglio il cappellino sulla testolina bionda nuovamente serrata da una trincea di coperte e copertine; e poi niente, si è imbarcata sventolando la mano con un sorriso plastico al mio indirizzo e niente più. Sono uscito dall’aeroporto scortato da un’assistente che continuava a ripetermi che c’era ancora tempo per raggiungere il gate riservato al mio volo (quello o ci stava provando, la tipa), e fuori in parcheggio ho trovato un’altra multa ad attendermi sul cruscotto, stavolta per divieto di sosta. Evviva.
Il volo di Kate atterra a Los Angeles tra dodici ore - nove adesso, se ho fatto bene i conti; la vera sfida consiste nel cercare di rimanere svegli e sobri abbastanza a lungo, specie considerando la scarsa quantità di ore di sonno accumulate nell’ultima settimana. Ecco perché sono seduto a vegetare su una panchina, bagnato fino al midollo, a far finta di leggere un libro peraltro noiosissimo: per riposare la mente e rinvigorire lo spirito. Forse.
In realtà c’è un altro tizio sotto alla pioggia insieme a me, ma lui sta facendo jogging ed è coperto da capo a piedi da una di quelle tutine neon aderenti che lo fanno assomigliare ad una sorta di catarifrangente mobile; una scelta affascinante, in realtà - e poi mi piacciono le sue scarpe (sono rosse, adesso voglio anch’io un paio di scarpe rosse). Più in là, verso i cespugli, c’è un povero disgraziato che porta a spasso un alano largo due volte me e alto almeno cinque. Alla vista del cane considero brevemente l’idea di chiamare Tom e chiedergli dove sia, se gli vada un caffè - poi rifletto che probabilmente è in studio a filmare con i ragazzi e che dovrei esserci anch’io, quindi decido di fare un colpo a Dom, che invece sarà sicuramente in ritardo e quindi ancora in giro. Come previsto, quando risponde dopo appena uno squillo, il mio batterista mi comunica per prima cosa che è ancora a casa.
“Sì, sì, sì, lo so, scusa, sto arrivando, lo giuro, infilo le scarpe e sono lì, un casino, la lavatrice...!”
“La lavatrice.”
“No, sì - erm. Si è rotta. Cioè, ha allagato tutto.”
“La lavatrice.”
“... eh.”
La risatina rilassata che mi lascio sfuggire rovina la parvenza di serietà e rimprovero che volevo dare alla telefonata - almeno inizialmente, per scherzo. Dom ride con me. Idiota.
“Tranquillo, neanche io sono agli Air.”
“Ah - ah! Bene! Chris sarà contentissimo!”
“Lascia perdere, guarda.”
Un tonfo, uno sbuffo e poi rumore di carta.
“Quindi non vai?”
Esito. Non vado?
“Nah.”
“Ok. Che fai allora?”
Non lo so.
“Non lo so.”
Suono di bicchieri che vengono posati su una superficie dura, tipo marmo. Un accendino che scatta e uno “puf!” dritto nel ricevitore. Sta fumando, ora.
“Fumi?”
C’è una pausa, come se Dom stesse pensando a cosa dire - a quanto potermi dire.
“Mhhhh.”
Erba.
“Scommetto che è erba.”
“Roba buona, Bells. Roba buona.”
Dio, quanto mi farei una canna in questo momento.
“Mi fa piacere constatare che siamo regrediti allo stato di liceale, Dommykins.”
“Smezzerei con te, Matty caro, ma sai com’è.”
“Sai com’è cosa?”
“Sei una persona seria, adesso. A proposito, sei riuscito a recuperare la tua famiglia di fuggiaschi poi, stamattina?”
“Una persona seria, infatti. Sì, sì, alla fine sì, ma ho rischiato seriamente di volare a Dubai.”
“A Dubai.”
“Dubai.”
“Che schifo Dubai.”
“Ma sì, è assai banale, in realtà, nella sua esagerazione. Come una bolla di platino pompato.”
“Amo quando inventi termini di paragone solo perché nella tua testa suonano bene.”
Come dicevo prima?
“Ma sta’ zitto. La lavatrice, Dom, seriamente?”
“... oh, senti, vaffanculo.”
Dom ride in quella maniera affezionata che riserva solo ed esclusivamente a me e che mi fa sentire la persona più speciale al mondo. So che è molto gay, ma è anche molto vero.
“Vieni da me. Poi usciamo e ti porto a mangiare fuori, dai.”
“Dammi il tem-”
Ma ha già attaccato, lo stronzo, ed io ho finalmente mosso il culo dalla panchina su cui sono stato seduto per più di due ore.

* * *

“È colpa tua,” inizio, adocchiando male il mio batterista. “È sempre colpa tua.”
Me ne sto rannicchiato in una delle sue poltrone preferite; è verde e blu con intarsi dorati e sembra un po’ un enorme pavone impagliato, ma è anche estremamente comoda. In realtà quest’affare è più mio che suo - l’ho comprata tre o quattro anni fa in una boutique d’antiquariato a Como e lui poi me l’ha fottuta con una scusa ridicola durante l’ultimo trasloco; in generale, è quella dove mi siedo sempre quando siamo qui a prendere il tè, quindi sì, è a tutti gli effetti la mia poltrona, solo che è anche accidentalmente finita nel salotto di casa sua. È la più bella della sala, insieme con quella rosa acceso, tipo fuxia, con la struttura in legno scuro - gliel’ho regalata io nello stesso periodo e lui l’ha scelta da subito come trono personale. Stanno l’una affianco all’altra, in mezzo ad altre quattro poltrone tutte diverse tra di loro per stile e colore, in una stanza piccola e buia che profuma di dolce e tè - sempre di tè. Il “salotto piccolo” (perché poi ce n’è uno più grande - enorme - al piano inferiore, dove Dom organizza le sue feste) è la stanza che preferisco di casa Howard, insieme con la terrazza della camera da letto - ma quella non è nemmeno una stanza, quindi suppongo che questa vinca tutto.
“Che colpa?”
La cosa bionda appoggiata alla sua seduta con la tipica nonchalance del predatore - sì, proprio Dom - non si è ancora lanciata all’attacco, nonostante io tenga i piedi sul suo prezioso tavolino. Riesco persino a stupirmi di avere ancora entrambi braccia e gambe, mentre ficco in bocca quello che deve essere il terzo brownie di fila.
“Questi maledetti - ” bofonchio, masticando a bocca aperta: “- cosi!
Dom mi guarda un po’ schifato, un po’ divertito, un po’ fatto.
“Che c’è, che hanno che non va?”
“Dimmelo tu, non riesco a smettere di mangiarli!”
Resto a guardarlo mentre si alza e ne recupera uno dal vassoio sul tavolino, poi lo divide proprio davanti ai miei occhi, offrendomene una metà. L’accetto.
“Da quanto tempo non ti facevi una canna?”
La risposta “tanto” ha quasi la stessa valenza di “troppo”, quindi assottiglio gli occhi e aspetto che la sua curiosità si cheti da sé. Dom sembra rifletterci per un po’, ma alla fine sta zitto e dà un morso alla sua parte tornando a sedere con le gambe penzoloni sui braccioli della sua poltrona e la testa sporta verso la mia.
“È solo fame chimica, Ciccio-Bells. Mangia e non pensare alla dieta.”
“Oh, ‘fanculo, pure tu con questa storia...”
“Che c’è, la tua donna ti affama?”
“Mrppf. No. Cioè, non proprio. Più che altro mira a farmi sentire in colpa, sai?”
“È una donna, Matt. È così che agiscono.”
“Dice, tipo - tipo che ho sempre l’affanno quando finiamo perché mangio troppa pasta.”
“Quando finite cosa?”
“Di scopare, Dom.”
Dom si agita a disagio per un paio di secondi, una smorfia di finto disgusto in volto.
“Errgh, non avevo davvero bisogno di saperlo, ma grazie lo stesso.”
“Quando vuoi.”
Entrambi mastichiamo in silenzio per qualche secondo, gustando a fondo il sapore ricco del cacao che esplode e permane a lungo sulla lingua. Quando Dom parla di nuovo, la sua voce è strana, come se si stesse strozzando con la sua stessa saliva.
“Fatti meno seghe, Matt.” dice, ed io ci metto un po’ a capire cosa intenda dire.
“E come si fa?”
“Tieni le mani lontane dall’uccello?”
“Scemo.”
Dom sorride con la lingua tra i denti, prima di tornare improvvisamente serio.
“Ehi, va tutto bene?”
Sì? No? Dovrebbe, ma in realtà no?
“Nottataccia.”
“Capito.”
Mi raddrizzo un po’ meglio mentre lui posa il pezzettino di dolce nuovamente sul vassoio, poi torna a stendersi con le gambe in bilico sulle mie, punzecchiandomi piano con il dito indice.
“La ciccia andrà via con il tour, Bells, vedrai.”
“Dici?”
“Ma sì, e tutti torneranno a minacciare di nutrirti con una flebo.”
“Bei tempi quelli.”
Dom corruccia le sopracciglia prima di distenderle di nuovo, insieme al resto del viso, in un sorriso che in realtà non somiglia per nulla a se stesso.
“Bei tempi, già,” inizia, piano: “se non contiamo tutte le volte in cui mi hai fatto cagare sotto dalla paura con le tue stronzate, Matt.”
Taccio. Sì, Dominic è una delle poche persone al mondo - l’unica oltre a mio padre, ma per motivi totalmente diversi - che riesca a mettermi a posto con una sola frase, e questo è uno di quei momenti in cui io resto a fissarmi le dita in silenzio mentre lui internamente si chiede se sia il caso di scusarsi o meno. A quanto pare lo è, perché presto una sua mano è sulla mia e la stringe, senza dire nulla perché entrambi sappiamo che non ce n'è bisogno.
C’è questa cosa, tra noi due, come una specie di patto taciuto che stabilisce che di alcune cose non si parli più - insieme ad altre mille clausole del tipo dire-fare che puntualmente vengono infrante quando alziamo troppo il gomito; una di queste è l’anno 2000.
Quando Dom parla di “stronzate”, non si riferisce a quelle a cui tutti noi e quelli attorno alla band abbiamo assistito o preso parte; quando dice che l’ho fatto cagare sotto dalla paura, non intende ricordare la sera in cui mi hanno minacciato e poi derubato del tourbus per un debito che avevo con un paio di strozzini di Exeter; quando Dom ripete che quelli erano bei tempi, lo fa solo per farmi pesare la bugia, mentendo a sua volta.
Ci sono cose che restano e resteranno solo tra noi due: sono i tagli sulle mie braccia e le magliette a cui tiravo giù le maniche tra le dita fino a deformarle per nasconderli; sono le volte in cui mi affamavo per giorni e poi giacevo svenuto nella mia camera d’albergo fino a quando non arrivava lui con la chiave di riserva ed un panino al tonno; sono le notti trascorse schiacciati in due in una sola cuccetta, sono i giorni in cui sparivo senza dire nulla e il modo in cui lui mi chiamava “stupido coglione” quando mi ritrovava, tremante per lo spavento e la rabbia. Sono tutte le fottute volte in cui Dom e solo Dom non solo ha teso una mano, ma si è calato giù con una corda e ha assicurato la mia vita ad un gancio mentre mi tirava fuori da un baratro mai pienamente compreso. Non è detto che ne sia mai uscito, in realtà - non è possibile semplicemente ‘smettere’ di essere depressi, per quanto ci provi - ma lui è sempre stato lì con me, pronto a far tentennare la fune in caso di necessità, senza aspettarsi mai un “grazie” se non un “vaffanculo”.
Gaia una volta mi disse (e doveva essere piuttosto sconvolta, perché io ero ubriaco e ricordo anche che le risi in faccia) che era sua convinzione che Dominic fosse innamorato di me; qualche mese dopo ci siamo lasciati per un motivo assolutamente idiota (un video di me che ‘ballavo’ con una in un club di Manhattan), una cosa così stupida, così assurda (nemmeno me l’ero scopata!), che crederci mi risulta ancora difficile anche dopo tutto questo tempo.
Anzi, una parte di me pensa che le due cose - Dom e la gelosia - fossero in realtà correlate, che quella del video sia stata solo la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché era da tempo che tra di noi le cose andavano male.
“Ehi.”
Facevamo proprio schifo come coppia, io e Gaia.
“Matt?”
Ma almeno ero innamorato di lei.
“Scusa, ero distratto.”
Dom mi sta fissando, un’unghia che gratta l’interno del mio palmo sinistro, leggera. Fa il solletico, ma non gli dico di smetterla.
“Ordiniamo qualcosa qui e poi usciamo a bere, ti va?” propongo, più per spezzare il silenzio che altro. Lui si ferma e non mi risponde, studiando invece ancora per qualche secondo un punto imprecisato sulla mia faccia. È allora che mi sovviene l’idea che magari non abbia voglia di passare la serata con me, perché Dom ultimamente è un po’ così - mi evita volentieri, diciamo, quando può.
“Cioè - se ti va, intendo. Non volevo dire che - tu oggi hai detto... però se hai altri programmi, insomma, dimmelo, non farti problemi, io -”
“Thai? Anzi, ti va bene anche il cinese? Ho voglia di Chiao-tzu.”
Mentre parla, Dom si alza per recuperare il telefono dal tavolino, ma non molla la presa sulla mano, tirandola invece per farmi segno di allungarmi con lui.
“Poi dopo ti porto in un posto carino, un bar appena fuori dal centro.” Dice, sventolando la mano in una direzione immaginaria. “C’è sempre qualche band che suona e tanto buon vino, ti piacerà.”
L’idea di uscire e distrarmi un po’ non mi dispiace, anzi; in momenti come questo credo sia fortemente necessario, perciò annuisco con convinzione alla proposta e stringo di più le sue dita tra le mie quando si risiede sulle mie ginocchia, già al telefono per l’ordinazione.
“Voglio anch’io i ravioli! E poi il riso alla cantonese, il pollo alle mandorle, gli involtini e il gelato...”
Dominic allarga sempre la bocca più che può quando sorride.

* * *

“Vado a prendere da bere e torno!”
Quella è stata l’ultima frase che gli ho sentito dire prima di ritrovarmi abbandonato in compagnia di una vaschetta di arachidi troppo salate e dei salatini ammuffiti al bacon. Sono passati almeno 30 minuti ed io non vedo Dom da nessuna parte. Quando la musica cambia ancora una volta da un ritmo soft-pop ad una serie di rutti rimasterizzati da qualche testa di cazzo che gioca a fare il DJ (e la spacciano per elettronica, dico), decido che ne ho avuto abbastanza e mi lancio alla sua ricerca, dirigendomi direttamente verso il bar. Una parte di me si aspetta di trovarlo nella posizione dell’iguana rovesciato, disteso su tre quarti del bancone mentre cerca di attaccare bottone con Miss Guarda-Che-Tette o Guarda-Che-Culo, ma così non è. In realtà, Dom non è neanche tra la gente in fila per i propri drinks, o tra i cumuletti fermi a chiacchierare nell’area immediatamente prima ed io devo sembrare proprio una mamma chioccia mentre allungo il collo alla ricerca della sua testolina bionda tra la folla di persone presente nel locale.
“Matt? Matthew Bellamy?
Ohcristosignorenononotipregononononotipregocosahofattodimaleno-
“Erm - err. Sì?”
Tizia-Che-Sa-Il-Mio-Nome ha già una mano sul mio braccio mentre miagola una scusa in un inglese improvvisato.
“Sono ici pour la band, loro miei... amisci?”
“Oh, erm. Bello, sì, anch’io.” mento, voltandomi verso di lei e... oh, porca puttana.
“Sei solo?”
La ragazza che mi ritrovo davanti è molto bella. Tipo, davvero molto bella. Ha un’aspetto mediterraneo - dev’essere francese, a giudicare dall’accento.
Indossa poco trucco, e ciò me la fa piacere ancora di più.
“Sono con... erm. Un mio amico, ma -”
“Lo so? Dominic è andato avec Thierry, ha detto che dovevano... parlare.”
Chi cazzo è Thierry?!
“... Thierry?”
“Lui è un ami de Dominic, suona nella band.”
Quindi Dom mi ha mollato per le sue public relations. Il solito - bello stronzo.
“Se torna gli dici che -”
Moi, je suis Cécile.
Ah.
“Oh. Er - je... Mathieu?”
Con un brivido mi accorgo che la mano che era sul mio braccio si è spostata sulla mia spalla, e che la bella francese mi sta usando come appoggio per ballare. Trascorriamo un po’ di tempo così, qualche minuto o forse di più, semplicemente muovendoci con la musica (questo è ancora l’effetto dell’erba) e scambiando qualche parola di tanto in tanto. È un via-vai di shots, dalle nostre parti - offerti dalla band, a quanto pare - e il passo dall’essere semplicemente brillo a completamente ubriaco è più breve della gamba.
“Sei una groupie, non è vero?”
Cécile sorride eloquente scostandosi una ciocca dal viso.
In quel momento smetto di pensare.
“Posso offrirti ancora qualcosa da bere?”
Cosa sto facendo.
“Mmh, pensavo ad un’altra chose...”
“Sentiamo, allora - come posso aiutarti?”
“Vieni con moi?
Ha gli occhi come l’oro, Cécile, e i capelli del colore della terra; la sua pelle è chiara ma lievemente abbronzata sul viso, e un polso delicato sbatte contro il mio prima di afferrarlo e tirarmi con sé verso la fine del corridoio del bar, nelle toilettes degli uomini.
Non ho neanche il tempo di abituarmi al suono del suo nome sulla lingua, perché la sua bocca trova subito la mia, mentre occhi e mani vanno alla ricerca un cubicolo libero. Infine ci rinuncia, decidendo invece di farsi leva sui miei fianchi e salire su uno dei lavandini allineati contro lo specchio, le gambe allargate ad accogliermi nel mezzo - dita che già hanno trovato la zip dei miei pantaloni e tirano giù insistenti. In un attimo sposto quella patetica imitazione di gonna e le sfilo il perizoma di pizzo, toccandola con insistenza dove le cosce si dividono, preparandomi a prenderla senza troppi indugi... ma poi qualcosa deve andare storto, perché inizia ad agitarsi e a dire cose che non capisco nella sua fottuta lingua.
“Non senza - sans préservatif! Muovi via!”
Il preservativo?
“Andiamo, bellezza, sono pulito...”
Non! Non! Qu’est-ce que tu fais?!
“MATT!”
Sono ubriaco. Sono davvero molto ubriaco e probabilmente anche estremamente ridicolo in questo momento - chiappe all’aria in un bagno pubblico - ma riconosco comunque la voce che mi chiama, e le mani che mi afferrano e mi portano lontano dal calore delle cosce di Cécile, dritto sul pavimento sporco.
“Cécile, qu’est-ce qu’il y a?”
Voci concitate in francese riempono la piccola sala, mentre Dom si avvicina e mi strattona senza troppe cerimonie, facendomi segno di tirarmi su i pantaloni ed uscire immediatamente dal bagno, in silenzio.
“È lui, non è vero?”
“Thierry, per favore.”
Un uomo scuro in volto e alto almeno due me messi l’uno sull’altro ci squadra con uno sguardo indecifrabile - prima Dom, poi me e poi ancora Dom, fissandosi lì.
“Guardala, guarda la nostra Cécile, Dom. Sta tremando.”
Cécile non sta affatto tremando, noto. La stronza anzi sorride, allargando di più le gambe.
“Sono sicuro che starà bene. Matthew, tu vai in macchina.”
L’uomo francese - Thierry - caccia fuori una risata divertita, mentre torna a guardarmi.
“Ma no, può restare anche lui. Sentiamo...”
“Non t’azzardare, non ci provare neanche Thierry, non -”
“Il tuo amico è grande abbastanza per sapere che il mondo non è tutto rose e pompini, non?
A questo punto Dom mi sposta e prende ad urlare frasi in un francese che non riesco a capire, ma io ancora non mi muovo; non è che sia scemo o abbia troppa paura in questo momento - certo, sono piccolo, molliccio ed ubriaco e Thierry è grosso il doppio di me - ma c’è qualcosa nell’aria che mi suggerisce di restare zitto, per una buona volta. È il modo in cui il mio migliore amico mi vuole fuori di qui - fuori dalla questione - prima che possa comprendere cosa stia succedendo: è quello che mi fa rimanere inchiodato dove sono, lo sguardo fisso sulla scena davanti a me.
“Vuoi sapere che ci faceva Dominic qui con me, non è vero?”
Per quanto Dom si sforzi di parlare nel suo francese storpiato, comunque, Thierry pensa bene di ignorarlo continuando a rivolgersi a me in un inglese perfettamente comprensibile.
“Il nostro amico - Dominic” e lo dice calcando quello stupido accento sul suo nome. “vedi, io gli ho fatto un favore, e adesso lui mi deve qualcosa in cambio. Semplice, non?
Annuisco una volta, voltandomi a guardare Dom. Thierry lo tiene per un braccio, stringendo la pelle attorno all’osso tanto forte da lasciare un alone bianco attorno alla presa.
Sono abbastanza sicuro che gli stia facendo male.
“Vedi, mi ha detto che stasera aveva ‘altri impegni’ e di ‘togliermi dalle palle’. Scortese da parte sua, non trovi?”
Annuisco ancora, perché non so cos’altro fare.
“Tu li sai succhiare i cazzi, Mathieu?”
Cécile approfitta di quel momento per scendere dal suo trono di porcellana e infilarsi le scarpe, sussurrando qualcosa nell’orecchio di Thierry prima di uscire. Dom sta tremando, e per la prima volta da quando ho cominciato a rendermi conto di cosa sta accadendo, capisco che ha paura.
E capisco anche perché.
“Quanto vuoi?”
La domanda lascia le mie labbra prima che mi accorga di averla formulata, e una mano è già nella giacca alla ricerca del portafogli. La cosa diverte Thierry al punto che lascia andare Dom per mettersi a ridere, lanciandolo nella mia direzione.
“È proprio divertente il tuo amico.” dice, mentre apre un rubinetto e si spruzza un po’ d’acqua sul volto. “Prima fa il porco con Cécile e poi fa tanto il prezioso per un cazzo in bocca.”
È solo dopo essersi asciugato con cura le mani sotto l’apposito erogatore d’aria calda che Thierry lascia cadere una bustina a terra, proprio ai miei piedi.
La semaine prochaine, Dominic.
Tutto ciò che riesco a sentire per qualche minuto dopo - oltre ai suoi passi che si allontanano - sono i respiri profondi di Dom al mio fianco; il bianco nel pacchetto perde d’importanza di fronte al modo in cui gli tremano le gambe e quasi non riesce a stare in piedi. Non ci penso due volte prima di avvolgergli un braccio attorno alle spalle e guidarlo verso l’uscita, verso l’auto, verso casa.

* * *

Kate mi ha mandato un messaggio due ore fa, comunicandomi brevemente di essere atterrata. Ho detto a Dom di prendere il mio telefono e scrivere invece a mia madre, dicendole di lasciare le chiavi della nostra vecchia casa nel vaso delle ortensie vicino alle scale.
Radio1 passa una vecchia canzone di Tim Buckley mentre parcheggio nel vialetto di fronte alla rimessa. Aspetto che finisca prima di spegnere il motore, continuando a cantarla per un po’ nella mia testa.

Piove, nel Devon.





Allora (60 minuti).
Brevi note necessarie su questo capitolo - tipo le traduzioni di tutta quella roba in francese per quelli che non masticano lumache:

Ici pour : qui per;
Avec: con;
Moi, je suis Cécile: io sono Cecilia;
Chose: cosa;
Moi: me;
Sans préservatif: senza preservativo (poi un giorno vi racconterò di come sia finita su milioni di siti francesi sui metodi di contraccezione);
Non! Non! Qu’est-ce que tu fais?!: No! No! Che stai facendo?!
Cécile, qu’est-ce qu’il y a?: Cecilia, che succede?
La semaine prochaine: La settimana prossima

Non c'è molto da dire, in realtà - o forse troppo. Nel senso che boh, i personaggi stanno assumendo uno spessore e qualcosa che somiglia ad un plot comincia a farsi vedere, anche se andiamo in direzione totalmente opposta alle puccioserie romantiche. Perché, vi avevo dato l'impressione che potesse esserci qualcosa di lindo e love-love - a parte il Bing, ovviamente, al quale va tutto il mio ammore di zia adottiva - in questa storia? HAH, illusi.
Bon, chiudi qui ché stasera non è proprio il caso di stare qui a pettinare le bambole... ringrazio come al solito chiunque legga, favorisca e commenti questa storia, oltre alle magnifiche nainai, Leni e Stregatta che mi sopportano ancora nonostante io inizi a somigliare davvero al caro Mecciu. Motor-mouth e lagnosità generale, intendo - oltre al fatto che la scena iniziale di lui sotto alla pioggia in un parco è totalmente autoreferenziale. XD

In omaggio, la canzone che Radio1, bastarda, decide di passare nei momenti meno opportuni, nonché la stessa che dà l'incipit musicale al capitolo (http://www.youtube.com/watch?v=9UusLG4lasI)
Baci e spremute,

S.


Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** _Cera ***



Meds



Teignmouth (Devon), 10 giugno 1994


but I'll still take all the blame
'cause you and me are both one and the same
and it's driving me mad
and it's driving me mad



"D'accordo, facciamo che te lo ripeto ancora una volta per vedere se ho capito bene," inizio massaggiandomi piano le tempie con la punta delle dita. "Hai ricevuto trecento sterline per il tuo compleanno e adesso vuoi che io le butti in mare per te. Giusto?" 

Sono le dieci passate.

Poco più di due ore fa Matt ha bussato alla porta di casa, e il Fato (quella puttana) ha voluto che ad andare ad aprirgliela fosse proprio mia madre - interrotta, per di più, nella delicata impresa di rimuovere la sua famosa fishpie di gamberi e calamari dal forno. Ora: Matt adora la fishpie di gamberi e calamari, e mia madre adora Matt, e siccome da quando lo conosco in questa casa vige l'improvvisa logica del "dove mangiano quattro mangiano anche cinque", il risultato è stato un invito a scrocco per lui ed un cerchio alla testa delle dimensioni del maggiore degli anelli di Saturno per me. Ha trascorso tutta la cena parlando ininterrottamente dell'importanza di coltivare vegetali nel proprio giardino con mio padre - che peraltro annuiva pure in maniera convinta! -, beandosi dei complimenti di mia madre circa il suo nuovo taglio di capelli ("Dom, tesoro, dovresti tagliarli anche tu come Matthew - guarda come mettono in risalto gli zigomi così corti!") e alla fine ho dovuto praticamente trascinarlo di peso su per le scale ed in camera mia per capire perché, in primo luogo, abbia deciso di venire a smerigliare i maroni proprio a me stasera.

Sapevo che avrei dovuto ignorare la mia sete di conoscenza e lasciargli mangiare il dolce.

"Precisamente. Non vicino agli scogli, però - andiamo al telescopio e te le butti da lì."

Seduto con i piedi sul mio letto, Matt mi guarda con una strana, pazza, luce negli occhi, quella di chi non ha pienamente compreso il peso delle proprie parole - o che al contrario ne è perfettamente consapevole, e per questo fa ancora più paura.

"Potremmo dargli fuoco prima di lanciarle in acqua, eh?"

A quel punto abbandono ogni tentativo di comprensione a favore della solita, scettica, occhiata di traverso.

"Ma ti sei scemunito?"

Ci sono solo due cose, del soggetto Matt Bellamy, che non mi sono mai state - e mai saranno - pienamente chiare: la prima è 'Matt' e la seconda è 'Bellamy'. Se posso dire di avere una certezza nella vita, tuttavia - beh, quella è che il mostriciattolo iperattivo che mi sta imbrattando il copriletto con le suo schifossisime scarpe non abbia tutte le rotelle al loro posto.

"No."

Sebbene neghi.

"Sì, Matt, sono trecento sterline!"

Matt si tiene impegnato tirando e stressando le maniche della sua vecchia felpa, lo sguardo che sfugge con un'abilità raffinata nel corso degli anni. In risposta alla mia obiezione non fa che alzare le spalle, masticando un "borghese del cazzo" insieme ad un "non sai proprio divertirti".

"Beh, mi scusi tanto, signor Marx, ma io non trovo affatto divertente l'idea di dare fuoco as un mucchietto di banconote!"

"Perché i soldi hanno corrotto la tua mente. Sono solo pezzi di carta, Dom!"

"Pezzi di carta con un valore!"

"Solo perché tu vuoi darglielo!"

Sbuffo esasperato, le mani che salgono dalle tempie a tirare i capelli alla loro attaccatura. Lo stronzo sta solo cercando di farmi perdere la calma così avrà una scusa per fare altrettanto; la cosa grave, però, è che ci sta andando pericolosamente vicino.

"Okay, Matt, va bene. Ti serve una nuova chitarra - me lo hai detto l'altro giorno che ti servivano i soldi per una chitarra. Allora?"

"Non m'importa. Quest'estate lavorerò," inizia gesticolando con un braccio verso la finestra - verso il mare, verso il Pier -, ma prima ancora che possa riprendere a parlare lo interrompo con la domanda che avrei dovuto porgli la prima volta che mi ha illustrato il suo brillante piano per l'estinzione del Capitalismo a Teignmouth.

"Ma scusa, eh, perché adesso questi vuoi buttarli via così? Ti lamenti sempre che sei senza un soldo!"

"Mi piace lamentarmi, lo sai. Esempio: mi fa male la pancia, ohi ohi, quanto mi duole!"

"Idiota."

"Cos - oh! Mi ferisci così! Ah, come duole! Il cuore! Il dolore!"

Come ampiamente previsto, Matt evita di darmi una risposta concreta. Sfortuna (sua) vuole che gli anelli attorno alla mia testa abbiano iniziato a vorticare pericolosamente vicini alla sua orbita.

"È per questo che ieri hai fatto finta di non esserci in casa?"

"Non avevo voglia di -"

"Per poterti lamentare oggi di quanto fossi rimasto solo e triste e abbandonato a suonare il piano nella tua fetida stanzetta il giorno del tuo compleanno?"

"Cosa -"

"Io e Tom, e anche Chris, siamo venuti a cercarti, e invece -"

"Ma di che cazzo stai parlando, Dom?!"

"Di te, Matt, delle tue fottute manie di protagonismo! Tutta questa storia è - - è ridicola, cazzo! I soldi - - ma sai cosa, Matt? Li hai rubati, non è così? E adesso non sai che farne, quindi vuoi che io -"

"Io non li voglio quei soldi! NON LI VOGLIO I SUOI CAZZO DI SOLDI, HAI CAPITO?"

Un colpo alla porta e un educato "ragazzi, posso entrare?" si interpongono tra le parole che io stesso non riesco più a trovare e lo scatto iroso di Matt, che ritorna a sedere sul letto prima di voltare nuovamente lo sguardo alla finestra. Mia madre, apparentemente ignara dei recenti sviluppi del nostro incontro, si fa beatamente spazio nella stanza, dandoci le spalle mentre appoggia qualcosa sulla scrivania. La scena ha del surreale - non può non averci sentito bisticciare.

"Ci ho messo un secolo a trovarle," inizia, prendendo a frugare tra le tasche della vestaglia che indossa "avevo solo queste in casa, mi dispiace, caro, Dominic non mi ha detto che saresti venuto a cena stasera..."

"Io non lo sapevo che sarebbe -"

"Dominic, dammi un accendino," mi interrompe (per la seconda volta), allungando una mano nella mia direzione. "Non fare quella faccia, figliolo, lo so che fumi."

Quando si sposta, rivelando finalmente ciò che temevo stesse nascondendo, il mio cuore incontra lo stomaco a metà strada e decide con lui di unirsi in un unico, dolorante, organo; per qualche ridicolo motivo non riesco a distogliere lo sguardo dalle mani che reggono il piccolo vassoio -  le unghie corte, ma curate - eleganti e amorevoli. 

Due candeline (una delle quali sciolta per metà e rosa) fanno capolino su una piccola fetta di meringata al limone - la preferita di Matt. La mamma canta piano "tanti auguri", scusandosi poi più volte perché è stonata, perché è goffa, perché è poco, perché è in ritardo e perché l'aveva dimenticato.

Ovviamente mente, lo fa per gentilezza; sul calendario, giù, in cucina, si può chiaramente leggere "Compleanno Matthew B. (16)" sotto alla data 9 giugno. Non ce l'ho scritto io, figuriamoci - né Emma (che fino ad un paio di anni fa aveva una cotta non-così-segreta per Matt); ce l'ha scritto lei. Mamma cerchia anche in verde le date in cui la nonna di Matt ha i suoi controlli all'ospedale, e in rosso quelle in cui, più raramente, sa che Marilyn sarà in città per far visita a suo figlio. Questo l'aiuta a considerare che tra un cerchio rosso e l'altro spesso trascorrono mesi, mentre quelli verdi si rincorrono con frequenza quasi settimanale; è per questo che è così con lui, che lo coccola e lo vizia come se un po' fosse suo. Mamma sa che non c'è nessun altro che gli prepari una torta per il suo compleanno.

"Soffia, via, tesoro: esprimi un desiderio!"

Il desiderio di Matt deve essere qualcosa di incredibilmente impegnativo, penso, perché non l'ho mai visto tanto concentrato in vita sua come in questo momento; poi realizzo che probabilmente è solo imbarazzato, perché Matt è così, lui non è abituato alla formalità degli auguri, o dei complimenti - è sempre sulla difensiva, sempre pronto a dire "no".

Probabilmente starà desiderando che mi spunti un terzo capezzolo, o che l'uccello mi cada via secco all'istante; che gli alieni atterrino sul davanzale della sua finestra e se lo portino via, che riesca a crescere ancora di 20 centimetri in altezza prima della fine dello sviluppo, che il suo dente si raddrizzi, che sua nonna la smetta di dimenticare le cose, che il Teignmouth Community College imploda...

È troppo tardi quando mi accorgo dei pugni che tremano - delle spalle che sussultano - della labbra strette così tanto che sono divenute bianche; Matt è già tra le braccia di mia madre quando inizia a singhiozzare per davvero, ed io mi sento così inutile e così uno schifo e così incredibilmente egoista che prendo in seria considerazione l'idea di darmi fuoco con le candeline ancora accese.

Sono sei minuti - li conto sull'orologio; sei pietosi minuti di smoccio e parole indecifrabili e "oh, tesoro", e poi finisce così com'è iniziata, con mia madre che riporta il vassoio sul letto, agguerrita, e comanda a Matt di esprimere un desiderio, soffiando via le sue lacrime con una risata.

"Dom, vieni qui, suggeriscigli qualcosa!"

Non sono così sicuro di volermi unire alla scena che mi trovo di fronte, ma il buonsenso e il sincero affetto che provo nei confronti della bestiolina che tenta di nascondere gli occhi gonfi come se non avessi assistito al tutto da un punto di vista privilegiato, mi spingono comunque a farmi spazio al suo fianco, fino a toccarlo con la spalla.

"Ai Muse?"

Per un attimo penso che Matt possa mettersi a piangere di nuovo, oppure magari che mi tiri un pugno; ovviamente mi sbaglio. Sorride un po' - dente che spunta tra la schiera di compagni come un'erezione inopportuna - e poi abbassa il capo fissando lo sguardo sui mozziconi ancora accesi sulla fetta di torta.

"Ai Muse," ripete, con più convinzione di quanta ne abbia usata io nel suggerirlo. La cera delle candeline si è disciolta del tutto, chiazzando le merighe chiare di rosa e azzurro. "Alla loro vittoria alla Battle of the Bands."

E poi soffia - ma è inutile, in realtà; è già tutto spento.

Abbiamo passato gli ultimi due mesi a provare e riprovare i pezzi per quel dannato contest, chiusi sera dopo sera nella sala musica del nostro College; Matt è diventato il cantante quasi per caso, dopo quella volta in cui Chris si prese la tracheite e lui si offrì di sostituirlo per suonare comunque la sera in un locale di Plymouth. Ha una voce fantastica - sottile, acuta - ma allo stesso decisa e vellutata anche sui toni più bassi, un po' come una carezza. Non gliel'ho mai detto, però. So che non vuole sentirselo dire.

"Beh, chi vuole una tazza di tè?"

La voce di mia madre mi riporta bruscamente alla realtà.
Sta ancora tenendo una mano pallida tra le sue - lo sguardo di chi è preoccupato, sì, ma che al contempo sa che andrà tutto bene. Sia io che Matt muoviamo il capo in un cenno automatico di diniego; quella del tè non è tanto un'offerta reale quanto una scusa qualsiasi per abbandonare la stanza, ed infatti il tempo di un ultimo abbraccio e poi la mamma torna di sotto, lasciandoci nuovamente soli.

Rimango a fissare per un po' le chiazze bagnate sulle maniche di Matt - quelle con cui deve essersi asciugato il viso qualche minuto fa. Non so se sia ancora il caso di parlare, quindi lo stringo un po' al mio fianco e poi poso la testa su una spalla ossuta, chiudendo gli occhi lì.

"Mi dispiace."

E lo dico solo perché è vero, mi dispiace.

"Adesso me ne vado, tranquillo. Solo," e tira su col naso, Matt, guardandosi attorno indeciso per qualche istante. "Niente, lascia stare."

"Matt, dai, scusa. Davvero. Non volevo dirle quelle cose."

E guardami, Cristo!

"Lo so."

La mano che ha appena finito di slacciare una scarpa sale fino al naso e lì tira stringendo sulla punta. Matt sembra confuso e probabilmente lo è - è indeciso se minacciarmi o scusarsi per ciò a cui ho appena assistito. Non è che non pianga mai o cose del genere - cazzo, Matt piange un sacco, è tipo la persona più emotiva che io abbia mai conosciuto - solo che ci tiene alla sua reputazione da ghiacciolo stronzo insensibile. Il perché, naturalmente, mi sfugge. Ma la sua testa corre troppo veloce perché io gli stia dietro, a volte.

"Era ad Exeter ieri, sai? Dalla zia Mary. Non è passato neanche per dirmi ciao."

Immaginavo si trattasse di lui. 

"Quanto disterà Exeter da qui in auto? Venti minuti?"

Schifoso. Vigliacco. Stronzo.

"Perché non - cazzo, Dom - io non - perché mi odia così tanto?"

È assurdo come io riesca ad odiare così una persona che non ho mai incontrato in vita mia. Quello che Matt mi dice, ma soprattutto quello che Matt non mi dice di lui, è abbastanza perché rinunci in partenza a prendere le sue difese, a cercare anche solo di capire il suo punto di vista - perché non ci riesco, perché mio padre non è così; papà non si è mai perso un solo live di tutte delle band a cui ho partecipato da quando avevo 13 anni - non un mio saggio, o una recita scolastica, o quel che fosse. Figuriamoci poi un compleanno!

Ma non è che possa esattamente dirgli "ehi, amico, a questo chiaramente di te non importa un fico secco", perché da qualche parte nel profondo so - entrambi lo sappiamo - che non è questa la verità. "È tuo padre", gli dico invece, "certo che non ti odia."

"Allora perché, cazzo - perché mi evita come se fossi un fottuto bastardo ritardato!? Perché mi invia tutti quei soldi quando sa che vorrei solo vederlo, e -- e parlarci, cazzo, di stronzate, dirgli che adesso suono la chitarra come lui, che - che - merda! Cazzo! Merda!"

Se possibile, questo è uno scenario ancora più pietoso di quello di prima. Me ne sto inutile con le mie braccia inutili e le mie gambe inutili e il mio tutto essere un'inutile inutilità seduto sul letto, senza sapere che dire o fare. Matt sta cercando qualcosa nel suo zaino, e so già di cosa si tratta prima che le poggi davanti a me in un gesto di per sé piuttosto eloquente - trecento spiegazzate sterline sul vecchio copriletto di Donald Duck.

"Prendili. Sul serio, voglio che le prendi tu - per tutte quelle che hai prestato a me. Prendile o ti giuro - ti giuro, Dom, le brucio. Le strappo. Le butto in un tombino. Le metto nella cuccia di Ralph."

"Vuoi avvelenarmi pure il cane adesso?"

"Sono serio."

È tutto rosso in faccia, Matt, e gonfio attorno alle palpebre e sul naso.

"Non posso. Lo sai che non posso."

I suoi occhi diventano di un azzurro impossibile quando piange.

"Ho detto che non le -"

"Però possiamo utilizzarle come fondo cassa per la band. Che ne dici?"

Mi muovo lentamente verso di lui, spostando le banconote al mio fianco e riscattando la mia succitata inutilità quando lo tiro giù di nuovo sul letto per un polso, costringendolo ad arrendersi al mio abbraccio.

Non incontro resistenza - anzi, "Dom," sussurra piano contro un mio orecchio Matt, e poi: "ti voglio bene".
Lo dice sottovoce - o lo mastica in realtà - ma poco importa, perché adesso so per certo che George Bellamy è l'uomo più fottutamente cieco e stupido e idiota e coglione dell'intero Universo.

"Come ti senti?" chiedo alla fine dopo un po'. Il fiato di Matt mi solletica un lato del collo, e il peso caldo del suo corpo schiacciato contro il mio è stranamente conciliante - nella maniera in cui quello di Tom o di Chris non potrebbero mai esserlo.

"La testa mi scoppia."

Sorrido un po', accarezzandolo con le dita sulla nuca.

"Ferma quel cricetino, allora," dico, e poi, leggere, strofino le unghie contro la pelle bianca - così bianca - proprio sotto all'attaccatura dei capelli.
Matt mugola contento, rilassandosi di più contro la mia spalla.

"Mh, sì - mmh, Dom."

"Ma guardati, due grattini e ti vendi come una vecchia gatta in calore," lo sfotto, ma lui sta già ridendo e sventolando il medio dietro alle mie spalle.
"Non scassare," sbuffa, e poi: "mh, sì -- oh, così!"

"Puoi evitare di gemere come se ti stessi facendo una sega, scusa?"

"Mh, mh -- no. Più a destra."

"Così?"

"Uh, sì -- cazzo, sì. Mannaggia a te che sei nato con l'uccello, Dom."

Pausa.

"Eh?"

Riprendo a grattare, lo sguardo perplesso diretto in una linea retta sulla la parete di fronte e il poster degli Smashing Pumpkins.

"Più giù? Dico che - boh, dai. Niente."

Dato per scontato che non è possibile che una parola che denoti mancanza di elementi ("niente") possa suscitare tali contrastanti sentimenti in una persona, ho deciso di attribuire alla suddetta parola la locuzione "troppe cose e troppo complicate perché io stia qui a spiegartele". Con Matt Bellamy, la stessa è praticamente attribuibile alla metà delle cose che dice - "che palle", "fanculo", "ricchione" - tranne quando inizia a parlare dei suoi dannati fagiolini OGM. Non sia mai lì salti una spiegazione o un dettaglio.

A volte gli sono quasi grato - tipo adesso, perché non voglio davvero sapere cosa gli stia frullando nella testa, non con lui schiacciato addosso così, sul mio letto, coi grilli che cantano fuori alla finestra e il suo profumo nelle narici.

"Va be'. Resti a dormire qui?" chiedo invece.

"Che ore sono?"

"Quasi le undici."

Se possibile, Matt si fa ancora più piccolo nel mio grembo, tirando il collo di lato così che possa strofinargli le spalle.

"Posso?"

"Sì, ma," inizio, tentando di spostare le gambe da questa posizione scomoda, ma Matt è un peso morto e atterra giù con me sul materasso. Non ha idea di quello che mi sta facendo - strusciarmisi contro nel suo essere tutto occhi brillanti e denti storti e zigomi affilati - o forse sì, ed è anche peggio.

"Dicevo - sì, puoi restare, ma se scorreggi ti mando a dormire giù in giardino con Ralph."

Allungo un braccio e trovo già il cuscino, portandolo più vicino alla testa. Matt mi imita, rotolando poi alla mia sinistra e stringendosi di più contro di me per non cadere dal letto.

"Aspetta," dice sistemandosi con un braccio sotto alla mia spalla, una gamba tra le mie. "Ti do fastidio se sto così? Non mi va di dormire sul materassino da solo."

"No, tranquillo. Solo non farci l'abitudine, però."

Respirarsi addosso è praticamente inevitabile, a queste distanze. Il naso di Matt è a soli tre centimetri dal mio, e da qui posso contargli persino le ciglia appese ad ogni palpebra, gli scatti nervosi delle iridi nascoste al di sotto. Questa condivisione stretta di spazi vitali ed ossigeno è un'altra delle dinamiche del nostro rivisitato Club dei Ragazzi che sfugge alla comprensione di Tom e Chris - ma loro sono grandi e grossi e non è che possa esattamente andare in giro ad abbracciarli come un koala bisognoso.

Non che io e Matt passiamo tutto il tempo a coccolarci e piangere ed essere emotivi in generale, sia chiaro. Tutt'altro, direi.

"Ralph mi adora in realtà. Mi lecca in una continuazione."

Ralph odia Matt al punto che ogni volta che viene corre a nascondersi nella sua cuccia o dietro alla poltrona di papà. Una volta però per sbaglio gli ha leccato una mano, e da allora lui è convinto di essersi guadagnato la sua simpatia.

"Se fossi stato una cagnetta adesso avremmo già la nostra bella colonia di bastardini."

Appunto.

"La carica dei Bellamy... cielo, che incubo."

"Un esercito di... carlini a pois. Oppure quei cosi che somigliano a topi, sai?"

"I chihuahua?"

"Quelli. Ma stai tranquillo, tanto io non avrò mai dei cuccioli."

Ridacchio un po' sovrappensiero, la testa in realtà già oltre la metafora canina. Matt si alza un poco sui gomiti - giusto il tanto da permettergli di sfilarsi la felpa - e poi ritorna a stendersi contro di me, una mano a stressare le pellicine sulle labbra screpolate in una serie di pizzichi nervosi.

Tace per qualche minuto, godendosi il silenzio interrotto solo dall'occasionale frinire delle cicale appostate fuori alla mia finestra.
"Ho scritto una canzone," mi confessa poi. "Ma ho solo il testo e qualche nota, in realtà."

La lampada sulla scrivania è ancora accesa, ma la sua luce è fioca e non dà realmente fastidio agli occhi.
Ripenso ai Muse, al contest, alle trecento sterline di George Bellamy e agli auguri stonati di mia madre.

"Di che parla?"

Un braccio sottile sale a stringermi la vita, scavando invadente tra un fianco e una costola. 
"Di fuggire," mormora piano Matt.

Non mi augura la buonanotte prima di addormentarsi.


*   *   *


Teignmouth (Devon), 28 novembre 2011


why can't you just love her?
and why be such a monster?



"C'è solo del vecchio Earl Grey, qui. Va bene lo stesso?"

Matt sta trafficando con quel dannato bollitore da almeno dieci minuti. Non vuole realmente mettere su l'acqua per il tè, eppure gli sembra comunque il caso di farlo.

"Non trovo la presa," dice, schizzando ovunque e guardando da nessuna parte, "non ce n'era una proprio qui dietro al frigo, Dom?"

Un sonoro "tlud" mi suggerisce che la caraffa d'acqua è stata finalmente posata sul maledetto ripiano di marmo, mentre Matt si rigira verso di me - la ricerca di una presa di corrente mai intrapresa e già abbandonata.

Mi sta facendo innervosire.

"Lascia stare," gli dico, e inizio già a sollevarmi dallo sgabello sul quale sono rimasto seduto a guardarlo finora.
Un paio di iridi cobalto hanno già rintracciato le mie, costringendomi con forza prima ancora delle sue parole a tornare con le chiappe sul cuscinetto di lattice.

"Dobbiamo parlare," mi spiega, poggiando i gomiti sul bancone che ci divide. "Ora."

Matt ha l'aspetto di uno che sia appena stato ripassato in un'asciugatrice a secco. La sua pelle è tirata e lucida in più punti - le macchie sulle guance più evidenti del solito; gli occhi sono scavati e non brillano più come una volta - i capelli flosci e stressati che si dividono in una fila ordinata al centro del capo, la barba sfatta da giorni. Fa schifo, e non lo trovo per nulla attraente.

"Sono stanco," replico sciatto, senza più guardarlo. "Voglio dormire."

"Anche io, Dom, ma prima dobbiamo parlare."

Matt ha preso a tamburellare con le dita su una vecchia ciotola - insicuro su come debba iniziare il suo patetico discorso.
Se avesse avuto una tazza di tè tra le mani, a quest'ora si sarebbe sicuramente scottato tutto.

"Non m'importa di cosa - cioè. Aspetta. Mi importa - ciò che voglio dire è che tu hai la tua vita, okay? Fai quello che vuoi e ti scopi chi ti pare, a me non devi render conto di niente."

"Ottima premessa."

"Non fare il cretino, Dom. Non fare il cretino o giuro che m'incazzo sul serio, perché - perché cazzo, stai sbagliando tutto. Tutto."

Un piede ha preso a battere ritmicamente contro una gamba dello sgabello - il mio sgabello, e il mio piede.

"Da quando siamo tornati in sala non ne hai combinata una buona. Sei sempre stanco, sei sempre... con la testa altrove."

Matt ha allungato una mano verso di me. Non ho capito cosa vuole che ci faccia - che la raggiunga? Che la prenda? Che la schiaffeggi?

"Lo so che anche tu hai i tuoi periodi, Dom. Non siamo tutti perfetti, però -"

"Però," lo incalzo, "per qualche strano, assurdo, motivo adesso tu ti senti in dovere di farmi comunque la paternale."

Alla fine la mano resta lì da sola. 

"Si tratta della nostra amicizia. Si tratta del modo in cui ti comporti ultimamente. Dom, non è una paternale, è -"

"Ma cosa c'entra l'amicizia adesso? La nostra amicizia non ha alcuna rilevanza in questa faccenda!"

"Invece sì! Invece sì, Dom! E se lo neghi ancora, se dici ancora che io non c'entro niente -"

C'entri tutto, tesoro. C'entri tutto perché *tu* sei tutto. 

" - vuoi capirlo che mi importa solo di te, Dom? Non di quello che fai. Di te."

E quello - illudermi che potesse essere così anche per te, in fondo - è stato il mio più grande sbaglio di sempre.

"Ti importava di me anche mentre cercavi di scoparti Cécile?"

"Io - che," Matt balbetta per qualche istante, scuotendo il capo come qualcuno che si sia appena perso una parte del discorso. "Cosa?"

"O ti importava di tuo figlio, forse? Della donna che dici di voler sposare - ti importava anche di loro mentre ti tiravi fuori il cazzo dalle mutande?"

Matt si agita a disagio sul suo sgabello, le mani che scivolano dal ripiano alla ciotola - ai suoi capelli, al naso.
Il cobalto diventa subito acquamarina, e quegli occhi così belli sono già pieni di lacrime prima che possa finire di parlare.

"La verità è che sei pieno di merda - pieno di merda dentro e fuori, fino al collo. Adesso ti senti così in pace con te stesso che credi di avere il diritto di venirmi a fare la ramanzina - di dirmi che sto sbagliando tutto, Cristo! Tu che hai messo incinta la prima troia sconosciuta e adesso ti ritrovi con un moccioso che nemmeno - "

"Non osare, non ti permetto di parlare così, non -"

"Parlo come cazzo mi pare! Mi fai schifo, Matt! Sei un ipocrita, un bastardo, uno stronzo - schifoso, egoista! - traditore!"

Respira già a fatica quando glielo dico, i pugni serrati sul tavolo davanti a me: "quanto ancora prima che lo abbandoni come ha fatto lui con te?", gli sibilo contro.
Quando il primo pugno mi colpisce, sono solo felice di incassarlo.

Matt mi sputa addosso e mi strappa i capelli mentre tira colpi alla cieca, ma io leggo oltre tutte quelle moine - dietro agli insulti che mi recita contro come una filastrocca; non mira tanto a fare del male, quanto a procurarsene in prima persona.

Non che non sia incazzato nero con me.

"Io gli voglio bene - gli voglio bene, stronzo! Lo amo da impazzire, è - è la mia vita!"

"Ma non provi niente per lei, Matt, non mentire - non vuoi nemmeno sposarla!"

"Stai zitto! Zitto! Sei tu che hai un fottuto problema! Sei - sta' zitto cazzo!"

E poi mi svuoto, perché a questo punto non ho più nulla da perdere - perché non voglio più perdere.

"Sei bloccato, frustrato - non vedi l'ora di menarlo nel primo buco disponibile, di -"

"E tu - tu sei inutile! Sei - sei - hai 34 anni! 34 anni, cazzo, e sei la persona più triste e inutile e sola che io conosca! Mi fai pena! Devi tirare quella merda per darti un senso, per riempire la tua giornata!"

"Almeno io lo ammetto e non faccio finta di giocare alla famiglia del fottuto Mulino Bianco!"

Uno schiaffo mi colpisce dritto sulla fronte, facendomi traballare fino alla parete con l'orologio.

"Quello lì - il francese - te lo sei scopato, no? Ti scopi tutti quelli che incontri, non è così che fai amicizia tu?"

"Io mi scopo chi mi pare, non ho nessuno a cui renderne conto!"

"Sei solo geloso, perché io ho qualcuno e tu invece no!"

"Per quello ho un cane, Matt - per sentirmi a posto con me stesso."

"Io - tu, tu non - STA' ZITTO!"

Matt sta piangendo così forte che il pugno gli trema e mi manca di diversi centimetri.
Stremato dai singhiozzi e dalle botte, infine mi si spinge addosso, irruento e bagnato contro la mia camicia sudata.

Non lottiamo più, adesso. Non ha più senso, non l'ha mai avuto.

"Sono così stanco, Dom," mi dice lui, "così stanco".

Succede tutto all'improvviso; scivolo lungo il muro con le spalle e Matt viene giù con me. Mi dà un pugno - ed io lo spingo - e poi lui fa una cosa strana e schianta le labbra contro le mie.

Mi bacia. Matt mi bacia.

La sua lingua è dappertutto prima ancora che possa schiudere la bocca; prepotente si spinge contro ai denti, le gengive, percorrendo le file velocemente prima di succhiarmi via il fiato. Mani nervose mi tracciano gli zigomi e affondano i polpastrelli sulle tempie, premendo con vigore sulla pelle sottile vicino all'osso. Mi fa male - stringe troppo - ed è estasi.

"Cazzo," e poi mi guarda negli occhi e un po' forse sorride - un po' ancora piange - e poi "andiamo a dormire," mi dice.

Fuori albeggia, ma la pioggia batte ancora forte contro i vetri.










Note di demerito (ciaaaaao):


- l'autrice ha scritto questo capitolo di getto e non si scusa se farà schifo visto che palesemente la colpa è tutta di Dominic Howard *indica* perché è lui che me l'ha suggerito nella testa;

- a Matt voglio più bene del solito, pare! *palesemente non si è riletta*

- tra gli elementi seriamente degni di nota c'è forse giusto la citazione di inizio e metà capitolo - da Escape, se a qualcuno fosse sfuggito. In realtà tutto il capitolo ruota attorno a quella canzone, perché sì;

- sono una persona meglio perché adesso so dov'è Malmo (no, è che vado ripetendomi dalle tre di oggi pomeriggio "ma perché cazzo hai comprato un biglietto per un concerto a MALMO, DOV'E' MALMO?")

- nessuno mi ha betata/aiutata/sgridata e io ieri stavo per dar fuoco ad uno di 'sti due;

- Dominic è una persona orribile *guarda malissimo*;

- Matt pure *sostiene sguardo severo per 0,01 secondi e poi si lancia contro di lui urlando "MA NO, PUCCI!"*;

- li amo;

- lol al Club dei Ragazzi;

- scusi signor Bellamy Senior se ho detto che è un fetente, ma sa, questa è l'idea generale che mi son fatta di lei;

- la fishpie è tra le cose più buone che abbia mai assaggiato e la mamma di Dom spacca;

- ciao. xxx


P.S. VAI BELLAMY CHIAVEC' NA SOLA 'NGANN!!!
















 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** _Tè ***


Meds


everytime I rise I see you falling

can you find me space, find me space






Mi sveglio solo dopo qualche ora, il sole che filtra dalle tende, alto nel cielo.

La finestra che affaccia sulla terrazza è aperta - giusto un soffio, tanto quanto basta per permettere ad una corrente gelida di solleticarmi una spalla sopra il lenzuolo. Dominic non è a letto. Le coperte dal suo lato sono stropicciate come un nido, ma il profumo della sua pelle attacca come un cancro, impregna la stoffa dei cuscini, l'aria che respiro, sogna il fantasma della sua presenza al mio fianco.

Lo trovo appoggiato al davanzale, poco distante, le spalle rivolte verso di me per tre quarti; non mi guarda, non si è nemmeno accorto che non dormo più; scruta il mare invece, i gabbiani, le macchie sul vetro. Forse pensa.

C'è qualcosa che somiglia a discreta eleganza nel modo in cui piega una gamba sottile contro il muro - dita che grattano distrattamente l'osso sulla caviglia. Ha addosso una vecchia t-shirt di mio fratello Paul, una maglietta di Superman che deve aver trovato rovistando in qualche cassetto mentre ancora dormivo; è di un azzurro strano, sbiadito, chiazzata di verde in parecchi punti e così grande che gli arriva oltre ai gomiti e quasi a metà coscia; mi ricorda di quando la domenica mattina scendevamo a fare colazione sul molo con la nonna e Paul ordinava sempre il pane tostato coi fagioli.

“Dom,” provo a chiamarlo; vorrei dirgli di tornare a letto perché fa freddo. Tutto quello che riesco a produrre però è un colpo di tosse.

“Hey,” fa lui. Si arrampica mollemente giù dal davanzale, occhi che si posano ovunque nella stanza tranne che su di me. “Ora chiudo, avevo aperto solo per fumare.”

“Tranquillo,” gli dico. Poi tossisco ancora.

C’è puzza di sigaretta nell’aria - di Marlboro Red, quelle lunghe - un aroma che difficilmente si armonizza con quello più delicato dell’Earl Grey. Dom si abbassa sul tavolino per recuperare la teiera ancora fumante, riempie una tazza fino all’orlo e ci aggiunge due zollette.

“Ho fatto il tè,” mi informa inutilmente.

“Mh,” dico.

Non so se ringraziarlo o prenderlo a sberle; alla fine accetto la tazza che mi porge e decido di ignorarlo mentre mi si siede accanto, labbra tirate in un sorriso appena accennato.

“Come ti senti?” chiede.

“Non lo so,” rispondo onestamente.

Il tè brucia forte in gola; è una sensazione al limite del piacevole, un fiume bollente che si batte per estinguere quel che rimane dell’incendio di urla di qualche ora fa. Prendo un respiro e lo mando giù tutto in una volta, a grandi sorsi, Dom che finalmente mi guarda sopra l’oceano di lentiggini che gli macchiano la faccia.

“Dobbiamo ancora parlare,” gli dico quando ho finito.

Non è più un gioco. Non lo è mai stato.

“Dammi.”

Dom mi sfila la tazza ormai vuota dalle mani, sorride ancora - “scusa,” dice - si allunga su di me per posarla sul comodino al mio fianco; la maglietta che indossa si solleva come un velo, scoprendo per un attimo il profilo della sua intimità contro una coscia nuda.

“Ti ho baciato,” ricordo a quel punto. Lui si blocca, le dita ancora strette attorno al manico di ceramica, capelli che mi solleticano il petto lì dove mi sfiora con la testa.

“Matt…”

“Ti ho baciato,” ripeto.

Dom non dice niente per un lungo minuto, se respira non fa rumore; alla fine mi scavalca del tutto e si rimette in piedi, ripescando con mani nervose il pacchetto di sigarette che ha lasciato sul tavolino affianco alla teiera.

“Non deve succedere più,” dice con una strana furia. “Non -”

"Non ne parliamo," lo interrompo, "non è successo niente," ma poi si rilassa un poco quando forzo un sorriso sulla bocca. “Mi accendi una sigaretta?” gli chiedo a mo’ di scusa.

“No, hai la gola già rovinata,” mi fa notare.

“E di chi sarebbe la colpa?”

“Tua, Matt,” taglia corto lui. “Volevi chiedermi di nuovo dell’altra sera?”

“Sì,” faccio. “Più o meno - devi parlarne con la polizia.”

Dom sembra non capire all’inizio; le sue sopracciglia si corrugano in una smorfia ignorante, le spalle fingono indifferenza, persino la sigaretta che ha in bocca sembra non avere la più pallida idea di cosa stiamo parlando. In effetti non ce l’ha, ma quello solo perché generalmente le sigarette non hanno pensieri reconditi.

“Quel tizio ti sta ricattando,” insisto. “Dimmi solo sì o no.”

Cristo…”

“Dom.”

Ci mette un po’, ma alla fine annuisce. Si versa un’altra tazza di tè - più per tenersi impegnato che per reale desiderio, credo - poi ne offre una anche a me. Rifiuto senza dire grazie.

“Ti ha aveva già fatto del male?” gli chiedo.

Nessuna risposta.

“Quel figlio di puttana... Dom, devi -”

“Devo un cazzo, Matt. Non parlare se non sai come stanno i fatti.”

“Ma perché -”

“Perché è così, ci sono cose che tu non sai -”

“Dimmele, porca puttana, perché tutti questi segreti, lo sai che a me puoi dire tutto!”

“No, Matt. Tu non sai di cosa è capace quello lì,” dice Dom all’improvviso.

Non ci vedo più.

In un attimo sono da lui e lo spingo contro il muro, poi lo tiro per la maglietta e ce lo sbatto di nuovo. La tazza ancora piena ruzzola sul tappeto già sporco di cenere; me la prendo anche con l’abat-jour, lo sgabello, il vecchio portagioie di mia madre.

“E ALLORA SPIEGAMI - SE NON LO SO DIMMELO TU, CAZZO!” urlo.

Dom apre la bocca diverse volte ma tutto quello che riesce a dire è: “Matt, ti prego, calmati!”. Non ci riesco, però - lo prendo a schiaffi, due, forti, sulla guancia.

“Sono stufo di doverti leggere nella testa,” gli sputo addosso. “Delle tue bugie, dei tuoi cazzo di pro-”

“Mi sono scopato una minorenne!” grida lui alla fine.

Per un attimo mi sento come se fossi stato io quello a ricevere il colpo - sono lo sgabello rovesciato sulla moquette, gli orecchini di perla sotto al letto; crollo. Dom si aggrappa con forza al bracciolo della poltrona, cade di lato. Lo osservo mentre si piega, un braccio stretto attorno allo stomaco per aiutarsi a respirare - o impedirsi di vomitare - o forse entrambe.

“Pensavo fosse uno scherzo quando me l’ha detto,” inizia a spiegare. “Io… io ero strafatto. Non ci capivo niente. Lui ci ha ripresi, ha detto che avrebbe spedito il video in rete… voleva che facessi delle cose… gli servivano contatti…”

Lo ascolto per metà, la testa che mi scoppia.

“Ha minacciato di rovinarmi. Me, la band… te, Matt...”

Non è vero, è tutto uno scherzo…

“Cos’altro potevo fare?”

Potevi venire dritto da me, potevamo risolverla insieme questa cosa!

“Matt, ti prego… ti prego...”

Cristo...

Le conto sulle dita di una mano le volte in cui ho visto Dom in questo stato; sembra pazzo, cattivo, la bocca che trema come una foglia; parla in fretta, sussurrando, la voce arrochita dallo sforzo.

“Non ce la facevo più… era tutto troppo, e mi sentivo così - tu - ero - Matty, ero così solo e quella roba… mi aiutava a non pensarci...”

È tutto rosso in faccia, Dom, i capelli ritti sulla testa lì dove li ha tirati prima; mi guarda ora come mi ha sempre guardato - con occhi grandi come il mare, esperti nella lettura così come chiusi all’interpretazione. Attorno a quelle pozze così belle ci sono già delle rughe - quanto tempo è passato da quando ci siamo conosciuti?

Così solo…

Dio, sono un coglione.

“Scusa,” gli dico cercando le sue dita con le mie. “Scusa Dom, non so cosa mi sia preso.”

“Non devi - non - sono io a dovermi scusare, Matt, non volevo tenertelo segreto ma tu… tu avevi già le tue cose per la testa, io -”

“Dom,” lo interrompo. Ho le mani fredde e uno schifo immenso nel cuore - perché fa così male quando si tratta di lui?

“Ho perso il conto delle volte in cui te l’ho detto, ma,” gli prendo la testa tra le mani, poggiando la mia fronte alla sua un po’ accaldata. “Cazzo, Dom, ci vuole così tanto a capire che io sto male quando tu stai male?”

Dom piange adesso - lo fa nel suo modo strano, tutto singhiozzi e senza lacrime. Lo abbraccio un po’, l’odore di naftalina della maglietta forte nelle narici.

“Vedrai, risolveremo tutto,” gli dico. “Parleremo con un avvocato, troveremo un’accordo…”

“Matt, perché mi…perché tu -”

“Hey, calmati ora dai. Prendi un bel respiro e -”

“Perché mi hai baciato?” singhiozza. “Stamattina - prima - perché lo hai fatto?”

“Dom…”

“PERCHÉ CAZZO?” urla.

La realtà mi colpisce in quel momento - dura e precisa, come se qualcuno avesse finalmente scostato le tende dalla Mona Lisa e scoperto che cazzo c’avesse tanto da ridere poi.

“Tu sei innamorato di me,” dico stupidamente.

Cristo -”

Dom mi spinge via con urgenza, inciampa nel tavolino, da lì afferra la teiera che manda in frantumi contro la parete - poi si china e vomita sul tappeto.

Mia nonna era stata la prima a dirlo, diversi anni fa, tra lo scherzo e il sospetto tipico degli anziani ficcanaso: “quel ragazzino ha occhi solo per te”. Il secondo era stato proprio Chris: “riccioli d’oro pende dalle tue labbra,” aveva detto. Tom ci aveva dato direttamente dei ricchioni; mio padre aveva invece scelto di odiarlo da subito; Tanya mi aveva lasciato quando aveva scoperto delle orgie miste che facevo con lui; Gaia mi aveva accusato di “dipendenza morbosa da batterista”; Kate si diverte ancora a ricordarmi con frequenza odierna che lei è solo la seconda bionda della mia vita. Dom - lui invece non ha mai detto niente; ma cosa vuoi andare a raccontare ad un sordo, alla fine?

Mi avvicino solo dopo qualche minuto di indecisione, gattoni al suo fianco, scopro con sollievo che toccare una mano sulla sua spalla non comporta necessariamente la fine del mondo; Dom sta ancora vomitando la cena che non ha digerito l’altra sera, ma per qualche strana ragione la cosa non mi ripugna come dovrebbe.

“Sono un coglione,” gli comunico con una certa fretta - poi, vedendo che non risponde: “quando hai finito fammi un segno,” aggiungo.

Dom mi dà un pugno sulla gamba, ma sta ancora vomitando, quindi deduco che non sia quello il segnale. Mi faccio più vicino, però, e con l’altra mano gli sposto i capelli dalla fronte, asciugando il sudore raccolto lì.

“Mi dispiace,” dico. “Sai - erm, questa cosa fa un po’ schifo. Voglio dire, non tu - cioè, anche. Ne hai un po’ sul mento, a proposito.”

“Dio, Bellamy, taci - ugh, che schifo.”

“È quello che ho detto.”

“Tu parli troppo.”

“È che ho un cervello che va troppo veloce, ogni tanto devo svuotargli la memoria.”

“Sei un’idiota.”

“Che in greco antico non significa affatto scemo, è più tipo “particolare”. Lo sapevi?”

“No.”

“Ora lo sai. Hai finito?”

“No.”

“Ma non stai più vomitando…”

“Cristo, ma vuoi stare zitto?”

Non è come nei film - non è nemmeno come nei romanzi, che di solito sono scritti meglio dei film. Se la nostra vita fosse stata una commedia dal titolo: “Rockstar Confuse & un Poco Ricchione”, a questo punto della trama Dom avrebbe alzato la testa e mi avrebbe ficcato una lingua al dentifricio in gola. O sul mento, dipende dall’inquadratura.

Ma Dom - il mio Dom, quello vero, smoccolante e vomitoso - ha appena tirato via la mia mano dalla sua fronte e mi sta riempendo di botte e insulti.

“Sei uno stronzo - lo sapevi, tu lo hai sempre saputo! - hai fatto finta di niente per tutto questo tempo -”

“Chi è lo stronzo che non me l’ha detto prima? Cosa sono io, una specie di indovino?”

“E secondo te avrei dovuto mandare tutto a puttane solo perché - solo perché -”

“Se tu me l’avessi detto - se tu solo me l’avessi fatto capire invece di metterti a fare tutti quei giochetti -”

“Cosa,” mi interrompe Dom, dandomi una spallata così forte che mi fa perdere l’equilibrio. Cado di schiena sulla parte di tappeto pulita - Dom mi è addosso solo pochi attimi dopo, schiacciandomi per terra col suo peso.

“Tu che cosa Matt?” sibila.

La verità scappa dalle mie labbra prima ancora che riesca a rendermi conto di aver formulato un pensiero del genere.

“Io non avrei mai avuto un figlio da lei,” mormoro. Fa male, ma non solo a me.

La faccia di Dom si contorce in una smorfia di dolore, mentre la gravità porta le sue lacrime sul mio viso. “Sei uno stronzo,” mi dice. “Sei un figlio di puttana, sei -”

Ma poi non lo so cos’altro sono, perché stavolta è Dom ad arrendersi per primo.

“Voglio baciarti,” confessa. “Ma non posso, sarebbe completamente vile.”

Sto per dirgli che non m’importa nulla di tradire Kate a questo punto, ma poi lui fa una cosa strana e sputa per terra al mio fianco.

“Fattelo bastare,” dice tornando più vicino.

“Mi fai assolutamente schifo,” dico io.

E poi lo bacio.




*




AH! HA! HAAA!

Non ve l’aspettavate, vero? Dunque, AGGIORNAMENTO CACCA PER FANFIC CACCA TIME! (dovrei avere una sigla speciale per questo tipo di avvenimenti, una roba tipo Jimmy Verdoora Rhapsody - se non sapete di cosa sto parlando, cliccate qui per farvi un’idea spaventosamente precisa del mio senso dell’umorismo ► IPNOTIZZA I CAVALLIIIIIII )

Dunque, un paio di note:

DO: ho scritto questa m***a in tipo 4 ore escluse pausa cena (ho riempito di fumo tutta la casa solo per arrostirmi un filetto di salmone, il gatto ha fatto festa grande insomma) e soprattutto A DISTANZA DI EONI dalla pubblicazione dell’ultimo capitolo (tanto che son dovuta andare a rileggermelo perché non mi ricordavo più cosa fosse accaduto *shame on me*). Il succo è che mi scuso per la generale caccosaggine (e brevità? pare piccino), ma era un parto necessario, ecco.

RE: rifiutare senza dire grazie in Inghilterra è praticamente un reato, è come bestemmiare contro Betty: questo dovrebbe farvi capire quanto sia scazzato Mecchu.

MI: fa male la testa;

FA: schifo ‘sto capitolo (SRSLY BOCCA-VOMITO??!!!!=””)

SOL: sta per sorgere, sento gli uccellini cantare. Comunque la citazione in cima al capitolo è tratta da Passive Aggressive dei Placebo. Volevo citare direttamente il titolo, ma vabè.

LA: qui presente autrice è chiaramente una bastarda sadica di prima categoria, POVERO DOM OGGI È ANCHE IL SUO COMPLEANNO AUGURI STELLA MILLE DI QUESTI DORATI GIORNI ♥♥♥

SI: oh, in fondo a parte una cosa che si chiama MATT STAI IGNORANDO TUTTE LE TUE RESPONSABILITA’ DI PADRE FAMIGLIA CHE M***A CHE SEI direi che c’è quasi aria di festa in questo capitolo! *rivedere punto in cui discuto il mio particolare senso dell’umorismo*


Infine ho una dedica particolare perché ci sono persone a cui voglio più male che alle altre - questo capitolo è per nainai perché nonostante dica di odiare il BellDom in privato mi minaccia se non aggiorno.


Pace, gente. ♥


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=865690