Meds di cheedori (/viewuser.php?uid=59468)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** _Neve ***
Capitolo 2: *** _Stelle ***
Capitolo 3: *** _Pelle ***
Capitolo 4: *** _Cannella ***
Capitolo 5: *** _Pioggia ***
Capitolo 6: *** _Cera ***
Capitolo 7: *** _Tè ***
Capitolo 1 *** _Neve ***
Disclaimer: giuro di
essere una narratrice mentecatta, dica lo giuro - lo giuro! I Muse e
quei poveretti che fanno loro da contorno in questa storia sono
totalmente estranei ai fatti narrati, checché io ne dica.
Note: tante, troppe, specie se
parliamo di Matt Bellamy. Ma no, ciaosonol'autrice!
un giorno sono andata in overdose da tè e ho provato a
scrivere qualcosa. Non ho avuto il modo di pensarci più di
tanto, in realtà, perché se l'avessi fatto avrei
cestinato tutto, o forse non avrei mai avuto il coraggio di pubblicare,
chissà. Approfittando dunque dell'ora tarda (what a god taxi driver,
sono le 04:17!), vi delizio con il primo capitolo, come una sorta di
preludio, di una storia senza alcuna pretesa che si rivelerà
essere una sega megagalatica, conoscendomi.
Allora... 'Meds' è
una canzone dei Placebo (ma no, Brian non presenzierà in
questa storia semplicemente perché non riesco a gestirlo -
voglio dire, ho già i miei Bellamy, non complichiamoci
ulteriormente la vita, uh?), e da questa prende il nome la nostra
impresa. A narrare è Dominic, il batterista-leopardo
(idraulico nel tempo libero), che possiede la grazia e la finezza di un
muratore, lo so. Il punto è che non riesco ad immaginare
queste persone impegnate in un monologo alla Jane Austen, mi dispiace.
Comunque... non voglio dirvi altro.
C'è un motivo per cui questa storia si trova qui e
non nella sezione Muse.
#sapevatelo
Altre annotazioni? No, ma vi chiedo immensamente e ripetutamente scusa
perché io non scrivo dalle elementari, tipo. Potrei dunque
considerare questo come il mio primo autentico approccio alla scrittura
di fanfiction. Insomma, non vi sto dicendo che ho dimenticato le regole
basi della grammatica italiana, solo che sono fuori fase,
olè.
Pairing:
mostly Bellamy/Howard (o BellDom, come preferite), ma non sono escluse
varie ed eventuali ulteriori;
Commenti:
che ve lo dico a fare? Tutti sanno che un commento fa la giornata di
una fic-writer, quindi come
at me, bwos!
Enjoy <3
Meds
_I was
alone
falling
free
trying
my best not to forget
*
Il
giorno del mio quindicesimo compleanno mio padre mi portò a
pescare.
Ricordo
ancora come quella mattina di dicembre la mamma avesse provato a
fermarci, in piedi sull’uscio della porta sul retro, avvolta
nella sua vestaglia di pile preferita - quella rosa, rosa a righine
azzurre e le maniche a sbuffo che la zia Cathy le aveva regalato
qualche Natale prima.
“Bill,
tu credi sia davvero necessario? Hai visto il tempo, lì
fuori? Sta per venir giù un acquazzone!” aveva
detto, lo sguardo colmo di rimprovero.
Papà
aveva solo scrollato le spalle, offrendole poi un bacio sulla guancia
ed un sorriso giovale in risposta.
“Saremo
a casa prima di pranzo, aspetta noi per cucinare!” e si era
fatto strada fuori in cortile, nel freddo bastardo della costa inglese,
avvolto nel suo piumino verde muschio e tre giri di sciarpa che lo
facevano sembrare due volte più grosso di quanto in
realtà non fosse.
“Papà,
aspetta!” mi ero già lanciato
all’inseguimento di mio padre quando la mamma mi
tirò indietro, verso di sé, stringendomi in un
abbraccio che profumava di gelsomino.
“Auguri,
piccolo, ti voglio bene” e poi mi aveva ricoperto i capelli,
e la fronte e le guance di baci giocosi e soffi di risate, divertita
dai miei tentativi di allontanarla e i ripetuti
“ma’, dacci un taglio! Ho
quindici anni, ormai!”
In
piedi in cortile, mio padre osservava la scena a braccia aperte. Rideva.
“Dom,
figliolo, credimi, non si è mai troppo grandi per quello”
aveva detto, e poi si era voltato facendomi cenno di seguirlo
perché s’era fatto tardi.
Lanciai
un’ultima occhiata relativamente malevola a mia madre, la
quale ancora ridacchiava compiaciuta, e poi uscii assicurandomi meglio
il berretto sulla matassa di capelli biondi (a quei tempi li portavo
ancora lunghi), ricalcando le orme che gli scarponi di mio padre
avevano lasciato sull’erba umida.
Quel
giorno tornammo a casa senza neanche un pesce, bagnati fino alle
vertebre e in ritardo per il pranzo (che mia madre s’era
premurata comunque di cucinare, santa donna). In serata avvertivo
già i primi sintomi della febbre del secolo, ma sgattaiolai
via lo stesso per raggiungere i miei amici.
Ricordo che mio padre mi vide, accovacciato in giardino, in fuga come
un ladro. Quando ero ormai rassegnato all’idea della
rinuncia, o quanto meno del rinvio della mia missione, lui
attirò la mia attenzione picchiettando piano sul vetro della
finestra; mi fece l’occhiolino, e poi spense la luce in
camera, voltandomi le spalle. Non ci pensai due volte: ghignando come
un matto, mi avventurai nella notte.
Quella
sera a casa di Ben Mitchell mancava Matt. Lo stronzo aveva tirato su un
party di compleanno per me e poi aveva dato buca, per “altre
robe” che aveva da fare, come mi disse Tom più
tardi. Rimasi lì per non più di un paio
d’ore, credo, bevendo birra e altri strani miscugli da grossi
bicchieri di carta colorata ad ogni brindisi d’auguri che mi
veniva proposto (“cheers!”),
e dopo esser riuscito ad infilare le mani sotto la gonna di Jody Webb
(un gran traguardo per lo sfigato-me dell’epoca), decisi di
averne avuto abbastanza. Raccattai quel briciolo di lucidità
che mi rimaneva e mi feci strada tra le viuzze di quella dannata
cittadina - ah, dio, come l’odiavo quand’ero
ubriaco. Continuai a camminare per qualche minuto, senza sapere
realmente dove i miei piedi disgraziati mi stessero conducendo. Ero nei
pressi della caserma quando lo vidi: una figurella accartocciata sul
marciapiede e, intorno a lui, tre ragazzi più robusti,
enormi se messi a confronto. Non ci volle molto a capire cosa stesse
accadendo, e ancora meno a farmi muovere il primo passo verso la scena
non appena mi accorsi che uno dei tipi teneva fermo Matt da dietro,
mentre un secondo gli tirava calci nello stomaco. Non mi fermai a
riflettere sul fatto che fossero chiaramente in vantaggio (e non solo
numerico), né mi curai di notare il dettaglio del coltellino
che scintillava nel pugno di uno di loro - quello che parlava. In
realtà non so cosa cazzo mi dicesse la testa
all’epoca, ma fatto sta che presi ad urlare come un diavolo
dal centro della strada, tentando di attirare la loro attenzione e non
solo, e...
bingo.
Il
più grosso dei tre, quello con un vistoso tatuaggio di
un’aquila sul collo, si voltò a guardarmi, pur
continuando a tirare falcate stavolta alle spalle di Matt, curve nel
tentativo di proteggere le parti già lese.
“Torna
a casa, riccioli
d’oro”
disse, scoppiando poi a ridere in una maniera che trovai quasi comica,
come un cane o un doppiatore davvero scadente, la testa buttata
all’indietro e il coretto incoraggiante degli altri due.
Ripeto,
non so cosa mi dicesse la testa all’epoca. Fatto sta che nel
90% dei casi mi portava a dire o fare cazzate, come quella sera.
“Lasciatelo
in pace, figli di puttana!” sbraitai infatti, stupidamente.
Dovevano averlo pensato anche loro, che fosse una cosa stupida da dire,
intendo, perché le risa raddoppiarono di volume, e poi Mr
Aquila Rampante lasciò perdere Matt e si diresse verso di
me, facendosi scrocchiare le dita in un’intimazione
minacciosa. Da qualche parte, con la coda dell’occhio,
riuscivo a vedere Matt, ancora piegato in due, ma finalmente libero, i
pugni serrati contro l’addome, e i suoi occhi - i suoi occhi
furibondi. Era stato pestato da tre tizi grossi il triplo di lui,
insultato, molestato, probabilmente minacciato in qualsiasi modo
perché - oh, chissà in che guaio s’era
cacciato quel dannato figlio di puttana - eppure non era resa, o
dolore, o disperazione quella che gli si leggeva in volto; no, Matt
Bellamy era incazzato nero, e se la sua bocca sputava sangue a causa
delle botte prese, i suoi occhi scoccavano frecce avvelenate di odio
puro; era sconfitto, ma l’orgoglio bruciava, era debole, ma
sempre più forte di me.
A
volte mi faceva paura, altre lo ammiravo e basta, altre ancora ero
così invidioso di lui che avrei voluto spaccargli la testa.
Il
punto è che davvero non m’importava di prenderle
per lui. Non ero nemmeno sicuro che Matt avrebbe fatto lo stesso per
me, ma mi andava bene così. Sapevo che me ne sarebbe stato
riconoscente a suo modo, era per quello che lo facevo. Punto.
Quando
la ronda di quartiere ci incrociò, sia io che Matt eravamo
ridotti in uno stato pietoso, chi più chi meno, e i tre
bastardi se l’eran data a gambe, ragion per cui alle guardie
venne facile pensare che ce le fossimo suonate di santa ragione tra di
noi. Per fortuna bastarono poche parole da parte mia a convincerli del
contrario, e dopo poco io accompagnavo Matt, appoggiato completamente a
me, su per il viottolo. Non aveva detto una sola parola, né
un grazie né altro - non che me l’aspettassi, a
dire il vero. Arrivati sull’uscio di casa di sua nonna, aveva
semplicemente aperto la porta, lasciandola poi aperta dietro di
sé, in un invito nemmeno così chiaro ad entrare.
Ovviamente, lo seguii.
Matt
mi aspettava ai piedi delle scale, appoggiato al muro, gli occhi
chiusi. Qualcosa mi diceva che fosse imbarazzato perché non
sarebbe riuscito a salirle se non l’avessi aiutato, ma che
non voleva ammetterlo a se stesso. Perciò quando mi
avvicinai e gli feci passare un braccio attorno alla vita - sottile,
sottilissima - per offrirgli un supporto, feci finta di ignorare la
smorfia infastidita che gli si dipinse in volto. Ah, di nuovo,
l’orgoglio.
Arrivammo
in camera sua dopo due minuti di prese scomode e silenzi imbarazzati, e
lì mi lasciai andare sul suo letto, accusando per la prima
volta tutta la stanchezza di cui m’ero fatto carico durante
la serata. Matt accese la lampada sulla scrivania e poi si tolse la
felpa oversize che indossava, rivelando un busto esile ricoperto di
macchie violette e altre cicatrici passeggere. Calcolai quindici
battiti, quindici come gli anni che compivo, e poi me lo ritrovai lì
disteso al mio fianco, sporco di sangue e terriccio. Puzzava di sudore,
e un po’ di erba, e dovevo essere davvero ubriaco, ma ricordo
di averlo trovato bellissimo quando si era girato a guardarmi, gli
occhi blu che brillavano nella stanza illuminata a malapena.
“Sei
un coglione” aveva detto, ma non lo pensava sul serio.
“Grazie
mille, non c’è di che” risposi,
distogliendo lo sguardo.
Passarono
alcuni minuti prima che uno di noi parlasse di nuovo, e alla fine
cedetti per primo. Come sempre.
“In
che guaio ti sei cacciato stavolta, Matt?”
La
risposta venne ancor prima che avessi terminato di fargli la domanda,
puntuale come sempre.
“Non
sono cazzi tuoi”
Aveva
chiuso gli occhi mentre lo diceva, sospinto certamente dal peso di
qualcosa più grande di lui. Matt poteva fare il figo quanto
voleva, ma non mi fregava.
“Quanto
ti serve?”
Avevo
perso il conto delle volte in cui gli avevo prestato dei soldi che non
mi eran più tornati indietro - ancora una volta, la cosa non
mi interessava.
La
risposta, comunque, fu un quanto mai irritato “ho detto che
non sono cazzi tuoi” e poi, subito dopo “Dom, Dom,
per favore, lascia perdere, sì? Com’era la
festa?”, e le sue dita nervose tra i capelli.
Sbuffai.
Matt
rotolò di fianco e poggiò la testa contro la mia
spalla.
Sbuffai
ancora, ma non aggiunsi nulla.
“Allora?
Dom?”
Matt
mi cinse con un braccio, stringendo forte, poi le sue labbra spaccate
erano contro la mia tempia, fredde e ruvide. In quel momento avrei
potuto dirgli di tutto, con la scusa di essere ubriaco e stanco morto,
avrei potuto scostargli quella stupida ciocca di capelli dal viso,
soffiargli sul naso, avrei potuto fargli il solletico fino a quando
avesse implorato pietà, o dirgli che era il mio migliore
amico e che mi faceva paura e che volevo baciarlo e che gli volevo bene
e che volevo picchiarlo perché doveva smetterla di non
pensare, doveva smetterla con quella cazzo d’erba, doveva
smetterla con quel gruppo di sfigati del Pier, doveva -
“Oggi
sono andato a pescare con mio padre. Ho preso un persico, ma mi
è scappato mentre tiravo la lenza”
Il
mio cervello doveva essere tarato.
“Poi
pioveva, e siamo tornati a casa a mani vuote - papà ha
proposto di comprare del pesce al mercato, però si
è accorto di aver lasciato il portafogli a casa”
Matt
emetteva suoni gentili contro il mio collo. Era piacevole,
perciò continuai.
“Abbiamo
mangiato pollo a pranzo. Emma mi ha regalato un orologio, è
subacqueo. Poi lo zio ha sganciato un po’ di grana, potrei
pensare di comprarmi un ride nuovo, sai, sostituire quello vecchio.
Potremmo andare ad Exeter uno di questi giorni, uh? Verresti con
me?”
Non
mi aspettavo una risposta, in realtà. Per questo quando
arrivò mi colse di sorpresa.
“Oggi
ho preso dei soldi a Dick. Non li ho proprio rubati, erano soldi che mi
doveva. Ci volevo comprare... una cosa. Poi quel tizio, Rob, se ne
accorge e pretende la sua parte - la solita merda, no? Lui mi prende i
soldi e mi dà il pacco, e mi dice ‘tieni un
terzo’, e dentro - dentro, Dom, dentro c’era...
c’era roba pesante, polvere bianca, Cristo. E allora io gli
dico ‘fottiti’, gli dico...
‘fottiti’ perché io quella roba, Dom, io
- quando qualche anno fa ero a casa dei miei, ricordi, quando - quando
abitavo ancora sulla collina? Un giorno ero lì che giocavo
con questo specchio, cazzo, nemmeno so come, cade e si rompe, e mia -
c’era vetro ovunque per terra, okay, ed era colpa mia, e mi
tagliai un dito perché volevo... ma mi disse di lasciar
perdere, dei sette anni di sfiga che - che io - ”
Ricordo
di averlo interrotto a quel punto, perché Matt stava
tremando e io non riuscivo sopportarlo. L’avevo stretto e gli
avevo detto “zitto, sei un coglione, sono un coglione,
sta’ zitto”, e poi “Matt, Cristo,
Matthew”.
Conoscevo
la storia dello specchio, me l’aveva raccontata sua nonna,
una volta, mentre mi versava il tè e lui
nell’altra stanza finiva i suoi esercizi al pianoforte. I
suoi genitori avevano divorziato un anno prima, e Matt non aveva mai
smesso di farsene una colpa. La cosa lo lacerava, anche se lui avrebbe
negato fino alla morte. Faceva tanto il duro e poteva anche essere un
idiota che coltivava marijuana sul terrazzino di casa sua, ma non era
uno di quegli
idioti là.
Non so con quale sicurezza riuscissi a dirlo all’epoca,
neanche lo conoscevo da molto, in fin dei conti, ma quel ragazzino
problematico con gli occhi di porcellana e la famiglia in fumo mi aveva
aperto un varco, nel cuore, nello sterno, nel cervello, io non so - che
nessun altro riusciva a colmare con la propria presenza. E,
paradossalmente, mentre invidiavo fortemente il suo carattere,
l’intelligenza e il suo essere perennemente in rivolta, mi
ritrovavo ad essere a mia volta, in maniera del tutto inconsapevole,
oggetto di invidia da parte sua. Ciò che più
faceva male, naturalmente, era che a Matt mancassero cose che io davo
invece per scontate o totalmente ordinarie: andare a pesca con
papà, litigare con Emma per il volume dello stereo, le
raccomandazioni della mamma ogni qual volta uscissi di casa...
L’avevo
tenuto fino a quando non riconobbi un ringhio esasperato,
l’autoimposizione di fare tutto meno che piangere,
l’enorme contraddizione che era Matt lì tra le mie
braccia e poi non più, alla ricerca di una via di fuga da
me, da quella stanza, dal suo riflesso, da tutto.
“Non
- io volevo prenderti qualcosa, un regalo, ma non - ”
Si
rivestiva, mentre parlava, forse più per darsi da fare che
per altro.
Un
regalo, voleva farmi un regalo e si era ritrovato in affari
più grandi di lui. Ma no, la colpa non era neanche del
regalo, perché prima o poi Matt ci si sarebbe ritrovato
comunque - quello, era quello che gli bruciava, e che tirava calci come
un bastardo adesso contro il termosifone, la libreria, il letto, la mia
gamba.
“Matt,
Matthew - e che cazzo, Matt!”
Ero
saltato su anche io, spintonandolo fino a quando la sua schiena aveva
incontrato la parete, ma piano, senza fargli troppo male.
“Matt,
ascolta” iniziai, ma non lo guardavo, perché
adesso sapevo che non voleva che lo vedessi così
“Matt, devi promettermi una cosa. Mi ascolti?”
Matt
aveva emesso un verso debole, quasi sconfitto. Lo sentii annuire, e
questo mi bastò.
“Promettimi
che la prossima volta che avrai voglia di fare a botte chiamerai me.
Promettimi che se avrai mai di nuovo bisogno di soldi, li chiederai a
me”
Matt
annuì, una volta e poi anche due. Gli credetti.
“Matt”
ripresi, stavolta guardandolo. Aveva un sopracciglio spaccato, il viso
sporco di fango sul lato sinistro, lì dove probabilmente
l’avevano tenuto premuto a terra. I capelli erano un
po’ sporchi come al solito, lunghi ad incorniciargli gli
spigoli in evidenza degli zigomi, la linea della mascella non ancora
definita. Mi stupì ancora una volta il fatto che sotto
quella maschera sicura ci fosse poco più di un bambino,
unica eccezione fatta per gli occhi, già duri,
già adulti, abituati a vedere cose che un ragazzino di 14
anni non avrebbe dovuto vedere neanche in tv. Tanto per cambiare.
Provai
un moto di tenerezza, sentendomi in parte responsabile per lui - era
come se avessi fatto un voto, quella sera, quando lo avevo sentito
arrancare e balbettare nel suo discorso sullo specchio; tutto il mio
mondo si ritrovò concentrato su quelle labbra minuscole e
screpolate, sulle quali giaceva la richiesta muta di aiuto,
l’invito e la negazione. Mi avvicinai, facendo poggiare la
mia fronte alla sua, ridacchiando quando lo sentii fare lo stesso.
“Matt,
promettimi che la smetti con quella roba.
Me
lo prometti?”
Era
stato solo un breve movimento del capo, un cenno e basta, e poi Matt
aveva preso a trafficare con le tasche dei suoi jeans per tirarne fuori
un pacchettino dall’aria malconcia, la fronte sulla mia
spalla, e aveva cominciato, balbettando, a dire “non
è quello che - è un’altra cosa,
perché - non sapevo se - poi andiamo ad Exeter insieme, a
proposito, sì certo - senti Dom scusa, io”, ma io
l’avevo zittito strappandoglielo di mano.
“Per
una buona volta nella tua vita, Bellamy: taci”
Matt
aveva riso, e poi aveva fatto una battuta squallida sui pacchi, ed io
avevo riso ma solo perché lui rideva a sua volta, e via
così fino alle quattro del mattino.
Il
giorno del mio quindicesimo compleanno, Matt mi regalò una
musicassetta di ‘Nevermind’ dei Nirvana. Ce
l’avevo già, naturalmente, ma poco importava.
Vent’anni
dopo mi ritrovo seduto da solo come un coglione sul letto di una
lussuosissima suite. Non so dove mi trovo, ma probabilmente sono ancora
in Inghilterra, forse addirittura a Londra. La testa mi pesa come un
grave nel vuoto, le gambe pure - da qualche parte nei recessi meandri
del mio cervello registro anche una sensazione simile al freddo, ma
forse è dovuto al fatto che sono nudo dalla vita in
giù. Il perché mi sfugge, ma non lo inseguo.
Mi
è stato insegnato dalle mie recenti ignobili compagnie, che
la migliore soluzione in questi casi è chiudere di nuovo gli
occhi e aspettare che il soffitto la smetta di girare, che le sabbie
mobili del letto cessino di provare ad inghiottirmi.
Cessino.
Cesso,
ah-ha, devo andare al cesso, devo proprio andare al cesso!
Ho
provato a chiamarlo quattro volte da quando mi sono svegliato, ma
naturalmente non risponde. Volevo chiedergli dove sono e se mi viene a
prendere con la macchina nuova, quella che mi piace, quella
blu-viola-notte. Forse ho sbagliato numero, o forse in
realtà non l’ho davvero chiamato. Non ricordo.
Cosa dovevo ricordare? Ricorda Dom. Ricorda - ero
andato a pesca con mio padre e avevo quasi preso un persico, poi mi era
sfuggito mentre tiravo la lenza
-
Sono
andato allo Skin stasera - Matt
aveva rotto uno specchio e piangeva ma non si faceva guardare
- Thierry mi ha dato della neve ed io ho riso - la
vestaglia della mamma era a righe rosa e blu... no, rosa e azzurro e le
maniche a sbuffo - sono
tornato in camera con TiziaA e TiziaB ma non mi si alzava
perché ero troppo fatto - le
orme di papà nell’erba bagnata erano enormi -
Matt non risponde al cellulare, Matt non mi vuole più bene - il giorno del mio
quindicesimo compleanno...
Note
di fine capitolo:
'Neve' è uno dei nomi
che viene utilizzato per indicare la cocaina;
Il pesce
persico è un pesce d'acqua dolce, ma non volevo che Dominic
pescasse sardine, so deal with it. Inoltre, a Teignmouth c'è
anche un fiume, quindi sono a posto con la coscienza;
La storia dello
specchio è vera. Matt ruppe uno specchio antico quando aveva
13 anni, e sua madre rimproverandolo gli disse che avrebbe causato
sette anni di sfortuna alla famiglia; un anno dopo i genitori di Matt
divorziarono, e lui non riuscì mai a scacciare dalla mente
il pensiero che potesse esser stato lui ad aver causato indirettamente
la loro separazione quando aveva rotto quello specchio. Povero piccolo,
ecco. :(
Non mi viene in mente
altro. Buonanotte.
|
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Capitolo 2 *** _Stelle ***
Meds
_You
paint yourself white and fill up with noise
but
there'll be something missing
*
Sono
quasi le tre del mattino quando Bingham decide che i cinquanta minuti
di dormiveglia che mi ha concesso possono, e anzi devono,
bastarmi.
L’ingiustizia
di tutto ciò mi colpisce con la potenza di un tram guidato
da un fanatico sadico-bastardo: prima mi investe e poi mi ricalca in
retromarcia, lo stronzo.
Distesa
in un sonno beato, di fianco a me, Kate non accenna a muovere un dito.
E grazie tante.
Ha
già poppato, l’infame,
e lei domani lavora,
ed
io invece sono qui in vacanza,
quindi “Matt, ti occupi tu del piccolo, vero?” e
poi sguardi di zucchero, ed io che son coglione: “certo
amore!” - certo
amore, me prima togliti quei cavolo di tappi dalle orecchie e dimmi,
dimmi, benedetta donna: dove si spegne? L’hai fatto tu, dove
sono le istruzioni? Pronto? Assistenza clienti?
A
questo punto, la bestemmia che impasto mentre apro gli occhi e - sì,
sì, dannato fagotto di cartilagine e cotone idrofilo, arrivo!
- metto i piedi giù dal letto, mi sembra assai
più che appropriata. Meritata, quasi. Liberatoria.
Sbadiglio,
impreco, guardo l’ora (sono le 2:54), impreco, mi gratto la
chiappa sinistra sopra ai - dove sono i miei boxers? Ah, eccoli qui,
toglietevi dalle chiappe, pure
voi.
Impreco. I piedi l’un davanti all’altro, barcollo,
borbotto, impreco. Porta, corridoio, tappeto
in cashmere.
Impreco, ma stavolta solo perché odio questo tappeto, e lo
dico, dico “odio questo fottuto tappeto” e poi lo
scanso coi piedi scalzi. Passo, passo - ormai ci siamo quasi; vagito,
vagito. Porta, vagito. Luce. Orsetto, gattino, vagito,
il Cane Pulce, Buzz Lightyear, vagito.
Le stelle, sulla parete e sul soffitto - stelle e stelline ovunque, e
giallino e azzurro e blu. A terra c’è una piccola
coperta colorata, un affare di lana che 33 anni fa aveva servito
un’altra culla, e che miracolosamente è ancora
intatto; deve averla portata qui mia madre la settimana scorsa, insieme
a quel dannato cane di pezza e al carillion della nonna che
però a Kate dà i brividi, quindi
l’abbiam messo via. Ah, dov’è mia madre
ora? Non vuole goderselo un altro po’, nonna Marilyn, questo
suo bel nipotino? Guarda come scalcia e tira e piange come un pazzo! Io
ho una carriera, sai, ho bisogno di dormire, razza di polpetta
starnazzante, ho... ho...
Ho
avuto una settimana di merda.
Ci
siamo chiusi in sala lunedì, e poi martedì, e
mercoledì no perché Kate doveva trascinarmi a
comprare un cavolo di lampadario per il salotto, ma poi
giovedì e venerdì sì e adesso siamo a
sabato - non abbiam concluso molto, se non che 1) ho bisogno di una
nuova chitarra e 2) i muffins dello Starbucks di fronte agli studi sono
davvero molto buoni, mh! Quei fottuti paparazzi mi seguono ovunque vada
- ovunque: sono lì tipo “guarda,
c’è lì il fidanzato di Kate Hudson che
cammina / respira / inciampa nei propri piedi!”. Ieri ne ho
quasi picchiato uno - non ci sarei riuscito, perché quello
era grosso tipo il triplo di me, ma l’intenzione era giusta.
Gli ho lanciato addosso del ketchup. Mi è valsa almeno una
tregua, la pausa pranzo - tragicamente solitaria, peraltro.
È da due giorni che tento di beccare Dom da solo
perché voglio parlargli di quest’idea che mi
frulla in testa, ma ho come l’impressione che lo stronzo mi
stia evitando. Certo so che è incazzato con me, forse
perché abbiamo rimandato troppo queste prove. Fanculo, per
una volta che il jolly paternità lo gioco io, deve andare
tutto a puttane - e grazie al cazzo, Matt, sei tu che fai tutto
lì dentro, da soli quei due sarebbero finiti a vendere
caldarroste agli angoli delle strade ancor prima di poter dire
“Showbiz”... beh, più o meno. Adesso chi
è la “merdina egoista egocentrica
egotutto”, uh? Dom me lo ha ripetuto a giorni alterni per gli
ultimi quindici anni, e l’escalation dalla spensierata presa
per il culo alla dura constatazione di un fatto è stata
più veloce ed immediata di un colpo di crash. Dannati
batteristi e i loro stupidi crash, e i ride, e quei campanacci che mi
ricordano tanto le mucche e le pecore e la campagna del Devon. Ah, il
Devon... mi manca così tanto quell’immensa distesa
di niente. Un giorno mi piacerebbe portarci Bingham, raccontargli di
quando suo padre bambino/ragazzino/adolescente/adulto si nascondeva tra
gli alberi del Ness perché tutto attorno a lui diventava
troppo e di nonno George che veniva a recuperarlo con la cinghia, e di
quando poi il compito è passato allo zio Paul, e di quando
poi alla fine ero rimasto solo a prendere a calci le radici sporgenti
perché la nonna non sarebbe venuta a recuperarmi; dei miei
giochi preferiti giù al Pier, il telescopio su cui da
ragazzino avevo speso la quasi totalità delle mie paghette,
il Den, e chissà se in piazza c’è
ancora quella gelateria che fa un gelato buonissimo, così
potrei comperargli un cono e poi ridere del suo faccino imbronciato
quando la pallina in cima scivolerà per terra, e... oh. Oh.
“Shhht,
c’è qui papà adesso...”
L’unica
ragione che mi impedisce di mollare tutto, album, fidanzate e cazzi
vari e correre a nascondermi nel bosco più vicino
è proprio lì, pesante tra le mie braccia goffe;
è l’esatto istante in cui faccio schioccare la
lingua sul palato, piano, e quella facciotta tonda rigata ancora dalle
lacrime si volta a guardarmi, curiosa, il pianto ormai dimenticato.
È quello che mi colpisce, travolge, affonda - forte e
importante, ogni santissima volta.
Non
credevo d’essere pronto a questo - l’intera storia
dell’esser
padre,
intendo - ed in effetti forse non lo sono affatto,
ma poi rifletto lo sguardo in quegli occhioni blu, così
uguali ai miei, e penso: “ma sì, ma chi se ne
importa!”. Chi se ne importa se ho avuto una settimana di
merda, se sto crepando di sonno adesso, se domani ho un mucchio di
lavoro da fare in sala - non m’importa più di
niente, adesso, perché questa cosetta piccola che
è mio figlio è sereno tra le mie braccia, e
stringe piano un mio dito, possessivo. A dopo le rotture, i problemi -
a domani, tra un mese, forse.
“Cosa
c’è, uh? Non hai sonno? La ninna nanna della mamma
ti ha fatto venire gli incubi? Ah, giuro che se l’hai fatta
di nuovo ti denuncio al Proclama Ombra!”
Bing
emette un suono simile ad una piccola risata, ed io non posso fare a
meno di sorridere come un idiota a mia volta, mentre avvicino il viso
al suo e lo cullo piano, sentendomi in pace. La mamma aveva ragione, e
me lo ha detto sempre anche Chris: i bambini ti cambiano la vita; la
parola “casa” assume un diverso significato, le tue
preoccupazioni si spostano su un altro livello, cambia il modo di
vedere le cose e d’improvviso ti ritrovi a giocare per ore e
ore durante la notte / il giorno / il pomeriggio / la sera con il Cane
Pulce
perché
tuo figlio adora quell’affare di pezza anche se è
vecchio e rattoppato e non è uno di quei cosi nuovi e
strafighi perché era tuo, e il trillo di quella risata, quei
gridolini acuti, e le manine che picchiano e stringono il tuo naso sono
l’unica ricompensa grata a cui riesci a pensare durante la
giornata, quindi continui a canticchiare canzoncine senza senso
perché sì. Amen.
“Il
mio cane mi dà un pensiero, un pensierino nero nero, ha un
bel nome molto dolce sai qual è? Si chiama Pulce...”
Sono
solo un po’ sorpreso quando Bingham riprende a piangere
disperato; subito penso che avrei dovuto provare prima con Buzz
Lightyear, ma la mia preoccupazione circa il balocco da adottare per
placare il Lamento Supremo del Pupo Avvilito viene soppiantata da
panico allo stato puro quando lo sento squillare, distinto e
insistente, da qualche parte tra le coperte della culla: il mio iPhone.
Devo averlo dimenticato qui prima (una partita a Fruit Ninja mentre
aspetti che il mostro s'addormenti non è mica un crimine!) e
qualcosa, forse il modo in cui io stesso mi ritrovo a desiderare di
coprirmi le orecchie al riparo dai RATM,
mi
dice che il casino totalmente inopportuno della suoneria lo ha
svegliato. Povero piccolo, se Kate lo sapesse
m’ammazzerebbe... fortuna che posso contare sul suo silenzio.
Tenendo Bing con un braccio, allungo l’altro alla ricerca
dell’aggeggio infernale disperso tra le pieghe del
lenzuolino, cacciando poi un breve yep
di
conquista quando finalmente lo individuo. Ha smesso di squillare, nel
frattempo, ma sullo schermo lampeggia, chiaro e preciso,
l’avviso di segreteria.
4
chiamate perse.
Quattro
chiamate perse. Quattro chiamate perse... quattro?
Mantieni
la calma, Bellamy – svelato l'arcano, le tue
priorità adesso consistono nel 1) riporre Bing nella sua
culla, avendo cura di controllare bene che tra le coperte non ci sia
più nulla prima di avvolgercelo al caldo; 2) cullarlo fino a
che non si addormenti; 3) dopo aver appurato che il pupo sia
effettivamente in letargo, lasciare la stanza senza emettere rumore
alcuno e spegnere la luce alle tue spalle e 4) controllare nuovamente
il cellulare cercando di combattere l'infarto che minaccia di
stroncarti.
Una
volta in corridoio, il panico che mi aveva bloccato la gola scende fin
giù allo stomaco e si trasforma in angoscia pura. Traffico
brevemente con il touchscreen, le dita che pasticciano sui comandi,
rivelando prima la schermata ed infine l'autore delle chiamate, bianco
su nero sotto l’iconcina di un telefono rosso mozzato.
Dom.
A
questo punto lo stomaco fa una capriola all'indietro, ed io sento
l'angoscia contenuta ribaltarsi al suo interno in una serie di echi
rumorosi, prima di selezionare come un automa il comando
“richiama numero”, e - che cavolo è
successo adesso? Perché non risponde?
Provo
a richiamarlo altre tre volte senza ottenere alcuna risposta, poi senza
pensare né all'ora né al potenziale disturbo
arrecabile, compongo il numero di Tom e aspetto uno, due, tre, cinque,
otto squilli prima che mi risponda, la voce impastata dal sonno, il
tono di pura accusa. Non perdo un colpo, anzi, nemmeno gli dico ciao, o
scusa o buongiorno, gli chiedo direttamente se lui
sia lì con lui, perché “tanto
ultimamente vive attaccato ad una tua costola”.
La
risposta di Tom è prima un grugnito, poi un insulto, poi una
dichiarazione d’odio eterno ed infine una domanda che
certamente non risponde alla mia.
“Matt,
ma tu lo sai che ore sono in Inghilterra?”
“Fotte
un cazzo dell’orario, sono anch’io a Londra, Tom,
è da mezz’ora che prova a chiamarmi, non
l’avevo sentito prima perché era nella stanza di
Bing, e poi sono andato di là perché
s’era svegliato e l’affare suonava di nuovo, un
macello, e - e - non lo so, non risponde, ed io...
dov’è? Che - che accidenti chiama a fare a
quest’ora? Perché non è da te, io
credevo che --”
“Matt,
Matt, calmati! Non c’ho capito un cazzo, parla più
piano! Dov’è chi?”
Sospiro,
frustrato e anche un po’ seccato dalla mancanza di
collaborazione da parte di Tom, poi passo una mano sul viso stringendo
forte la punta del naso, accogliendo poco a poco la vocina nella mia
testa che mi dice che sì, forse mi sto lasciando prendere un
po’ troppo dall’ansia, e che, sempre forse, non
è nemmeno il caso perché Dom sarà
semplicemente rimasto a piedi dopo aver bevuto troppo e il pensiero di
chiamare un taxi non gli avrà nemmeno sfiorato
l’anticamera del cervello.
“Dom
- Dominic.
Mi ha chiamato, adesso non risponde, sai dirmi
dov’è?”
“Dom?
Cazzo
ne so, è uscito con quei tipi, Pete e gli altri, sono andati
a... boh, in quella merda di locale, lo Skim, Skin,
come cavolo si chiama...”
“Lo
Skin, lo Skin...
ah, lo Skin!
Ok, d’accordo, ho capito. Vado a recuperarlo, mi sa che ha
mandato giù qualche bicchiere di troppo...”
“Il
solito bastardo... mandami un messaggio quando hai fatto e non
t’azzardare a richiamarmi, torno a dormire.”
“Ok,
ok. Ok, cioè, scusa. ‘Notte, Tom.”
“‘Notte,
e... Matt?”
“Uh?”
“Guida
piano.”
Sorrido
a quest’ultima raccomandazione - un po’
perché riesco a rintracciarci dell’affetto, ed un
po’ perché dimostra che ancora una volta Tom non
ha fallito a cogliere il mio stato d’animo, sebbene stia
cercando di mascherarlo dietro finto autocontrollo e parole
pseudo-misurate. Sa bene che quando sono agitato, per qualsiasi motivo,
tendo a pigiare con un po’ troppa fretta su tutto,
acceleratore compreso, e che un paio di volte ci ho anche rischiato
l’osso del collo, da bravo coglione.
Il
punto è che non sono una persona particolarmente paranoica -
o meglio, lo sono eccome, ma ciò che voglio dire
è che non mi sono mai preoccupato troppo per gli altri.
Forse le parole che cerco per definirmi sono ancora una volta
“merdina
egoista egocentrica egotutto”,
ma preferisco evitare di ricadere sotto quell’etichettatura,
scegliendo invece una semplice e diplomatica litote.
Insomma,
‘fanculo, è Dom quello che si preoccupa per gli
altri, la fottuta crocerossina della situazione, quello gentile e
disponibile verso tutti, anche se in fondo a volte non gliene frega una
mazza neanche a lui; più volte mi sono effettivamente
chiesto come faccia a sopportare le aspettative di tutti e soprattutto
le mie, cosa ci guadagni, insomma, a starsene lì a subire i
miei repentini cambiamenti d’umore e gli insulti, tutti gli
insulti più o meno sentiti che gli sputo contro ogni qual
volta oltrepassi la linea (quella che definisce l’amicizia
dalla pietà, ma non davvero, perché ancora una
volta è tutto solo nella mia testa), tutte le volte in cui
gli ho tirato contro un pugno, due, tre, e poi alla fine mi sono
ritrovato con la testa schiacciata contro la moquette a sputare odio
anonimo e lacrime contro polvere e lanugine, lui che mi stringe i polsi
e mi ringhia dietro di calmarmi. Perché l’abbia
fatto finora è quello che mi sfugge; perché
ultimamente vi abbia rinunciato, arrivando ad evitarmi come la forfora,
è quel che invece non mi dà tregua.
Tutto
questo, penso, mentre mi infilo la giacca sulla maglietta che ho
fregato (preso in prestito!), guarda caso, a Dom,
e che utilizzo per dormire (se lui lo sapesse mi strapperebbe via i
testicoli con un paio di pinzette), tutto questo preoccuparsi e
lanciarsi nel buio della notte in mutande per poi ricordarsi che
sì, forse è il caso che indossi dei pantaloni e
anche delle scarpe prima di uscire, è nuovo per me. Forse
deriva direttamente dall’esser diventato padre, o almeno
così mi piacerebbe credere, ma in fondo so, lo so che
è solo un mare di puttanate; la mia è pura mania
di controllo - il pensiero che Dom, il mio migliore amico/fratello
estremamente coglione, possa al momento trovarsi in una situazione
estranea con persone che ho conosciuto, disprezzato da subito, e alle
quali non affiderei neanche la responsabilità di una
sputacchiera, mi arreca sentimenti pericolosamente affini alla rabbia,
e forse anche alla gelosia. Non è solo perché,
semplicisticamente parlando, lui è il mio batterista, amico,
etcetera, ed io mi preoccupo per la sua sorte e salute - no, no.
È proprio il pensiero che possa frequentare altre persone,
altri ambienti, trovando godimento nella loro compagnia forse
più che nella mia, ormai, che mi fa ribollire la bile nelle
vene, nello stomaco o dove cavolo sta - soprattutto se ripenso al fatto
che per vederci, io e lui, bisogna prendere l’appuntamento
come dal dentista, o minacciarlo con le prove in sala. Ah, beh.
La
mia paura più grande, assai immatura e bambinesca e per
niente attribuibile ad un trentaepassenne appena diventato padre,
è naturalmente che Dom possa avermi rimpiazzato, come del
resto crede abbia fatto io - perché non sono un idiota e
certe cose non sfuggono neanche a me - con lui e Kate. Stronzate,
ovviamente, forse anche e solo paranoie, ma a notte fonda - coi
pantaloni alle ginocchia e gli stivali infilati al primo tentativo
senza nemmeno i calzini perché no, non tornerò in
camera dove la mia letale donna giace per recuperarli - ad un uomo come me
è concesso almeno qualche pensiero ridicolo da
quattordicenne ultrasensibile, no?
La
porta chiusa alle mie spalle, fuori la notte è buia - e
grazie tante. Fa freddo, ma siamo in Inghilterra, perciò
è normale, e una volta in macchina con il riscaldamento
acceso a palla, è facile dimenticarsi della brina
sull’erba del prato, meno del groppo che mi attanaglia la
gola dandomi l’illusione di voler piangere o gridare, quando
in realtà so che è solo voglia di sbadigliare e
tornare a letto. Il viaggio è breve ed io preferisco non
interrogarmi su Dom o su cosa possa essergli passato per la testa
quando ha deciso di chiamare me, stanotte, e non uno dei suoi amichetti
hipster. Nemmeno ricordo di esser uscito dal vialetto di casa, e tempo
mezz’ora e due semafori ignorati col rosso e sono nel
parcheggio del club più posh di tutta
l’Inghilterra - cosa che mi dà i brividi, e non
per via della temperatura.
Una
volta dentro mi ritrovo a galleggiare come in un flashback dei tempi
andati, l’atmosfera anche solo della sala
d’ingresso carica di ombre e sensualità gratuita
proprio come il nostro tourbus fino a qualche anno fa, prima che la cosa
assumesse un tono totalmente ridicolo e tutto diventasse semplicemente
troppo. Le dita nude che si agitano scomode negli stivali, mi avvicino
alla reception, piccolo e fuori luogo, con i miei pantaloni di velluto,
i capelli da cuscino e la giacca decisamente poco elegante, e
lì la tipa mi guarda come si fa con un ragazzino che abbia
smarrito la propria mamma mentre le chiedo di ‘Sergio
Georgini, un mio amico’,
perché so che Dom ha ripreso quest’abitudine di
fornire false identità in giro proprio dal sottoscritto.
Mentre salgo le scale indicate, pur sempre inseguito da un
chiacchiericcio breve e derisorio, tutta la preoccupazione accumulata
nell’ora precedente si risolve in rabbia, e la prospettiva di
prendere a calci in culo quella troia del mio batterista diventa sempre
più invitante, nonché concreta - oh,
perché lo sarà. Mi ci vogliono esattamente due
minuti per arrivare alla sua suite schifosamente lussuosa (si tratta
bene, il principino) e altri due per aprire quella cazzo di porta con
la chiave elettronica. Una volta dentro, mi faccio strada verso la
camera da letto tra le bottiglie vuote sul parquet e quelle che
somigliano terribilmente alle chiazzette giallastre che Bing
graziosamente riversa sui miei vestiti puliti quando non è
riuscito a digerire la sua poppata - che amore.
“Dom?”
Bottiglia,
bottiglia, giacca, moquette - camera da letto. Bottiglia (rosso
stavolta), calzino, condom, pantaloni, altro condom, boxers - letto. I
piedi, le gambe, le palle - Dom.
“Dom?”
Dom
non accenna a muoversi, neanche quando prendo a schiaffeggiarlo su una
coscia nuda, mentre con l’altra mano recupero i boxers scuri
dalle lenzuola ai piedi del letto. Lo chiamo ancora, già
cercando con gli occhi il resto dei suoi indumenti, e quando ancora una
volta non risponde inizio sul serio a preoccuparmi, lasciando perdere
la ricerca dei suoi stupidi pantaloni a sigaretta.
“Dom?
Dom, svegliati, dai, ti porto via... Dom!”
Non
mi accorgo della nota d’isteria che vela la mia voce,
né delle mani che stringono un polso e la spalla fino a fare
male; tutto cessa quando incrocio il suo sguardo grigio e vago, e il
panico e la confusione e la stessa isteria scemano lasciando spazio
alla consapevolezza, la voglia di chiudere gli occhi e non essere, non
più davanti a quel sorriso che di attraente ormai ha poco o
niente. Disteso con le gambe penzoloni sui bordi del materasso, la
camicia aperta fino all’ombelico e il capo abbandonato su un
lato al centro del letto, Dominic è perfettamente sveglio.
Semplicemente,
non mi sente perché chissà che merda gli sta
fottendo il cervello.
Note, brevi ed essenziali perché non mi va di ammorbare
nessuno e soprattutto mi pesa il culo in primo luogo /bonjour finesse!
1. Il Proclama Ombra è la polizia strafiga intergalattica di
Doctor Who, shame on you se non lo sapevate;
2. Il Cane Pulce è una triste realtà - l'ho
fregato all'Albero Azzurro e non me ne pento neanche un po';
3. Il Ness è un bosco che sorge su una specie di collinetta
a Teignmouth;
4. Bellamy va in giro con una busta di Tesco in testa, ma non in questa
fanfic;
5. Bellamy spara ketchup contro i paparazzi, prima in questa fic e poi
pare nella realtà, chissà;
6. Vi voglio male, adesso vo a dormire/disegnare/whatever.
Ah, semi-importante, la citazione di inizio capitolo proviene da una
canzone per me taboo, quindi googlatela se ci tenete tanto, ecco.
Inoltre, vorrei ringraziare TIPO TANTISSIMO chi ha recensito, preferito e seguito questa storia - sul serio, risponderò alle recensioni presto, sappiate solo che avete fillato il mio cuoricino imbrutito di gioia immensa. <3
x S
|
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Capitolo 3 *** _Pelle ***
Meds
_
Voglio la tua bocca,
ma
mi passerà.
*
C’è
luce bianca ovunque, e odore di tabacco e nicotina.
Da
qualche parte all’altezza delle tempie risuona
un’unica nota bassa - ed io ho sete, la gola secca ed un
terribile bisogno d’acqua, ma è difficile pensarci
adesso, perché le tue ciglia si stanno muovendo e so che ti
stai svegliando, che io
ti
ho svegliato, che questo è il mio letto, le lenzuola, la tua
testa sulla mia spalla.
Dicono
che il diavolo si perda nei dettagli, nell’insulso
romanticismo dell’interpretazione soggettiva - e forse hanno
anche ragione, ma io non ho mai amato i perfettissimi spot della Dior
quanto le macchie sulla tua pelle. Quei tre nei lì, diretti
in un arco sulla guancia destra, prepotenti in contrasto sullo zigomo
bianco - un altro particolare insignificante che si perde nelle ombre
del tuo viso assurdo: mi fanno impazzire, e voglio accarezzarti.
Ma
non posso.
“Svegliati,
stronzo. Mi stai sbavando addosso - cristo, che schifo.”
Mugugni.
Sei carino quando lo fai - non per le persone normali, forse, ma quelle
indossano ciglia finte e si muovono su tacchi altissimi e poi si
coprono il naso quando togli i calzini, spostandosi in
un’altra stanza.
“‘ommy?”
Puttana.
“Matt
-- togliti.
Non riesco a muovere il braccio, ho bisogno di acqua.”
“‘afanculo.”
“Molto
carino. Se non ti sposti sarò costretto a vomitarti
addosso.”
“’ai
‘chifo.”
“Matty.
L’acqua.”
C’è
una mano sul mio fianco sinistro: è destra e bianca e
stringe forte, prima di allontanarsi per ritornare col bicchiere che
era sul comodino accanto al tuo lato del letto - che poi in genere
è il mio, è per questo che stamattina sembra
tutto storto.
“Per
caso hai anche un’aspirina?”
Torni
indietro col braccio, spostando l’aria sul mio petto - ho
freddo. Rumori di cose che scivolano e cadono, e davanti al mio naso
prima un’aspirina e poi una caramella al limone.
“Vuoi anche ‘affè?”, mi
chiedi, ed io ti dico che no, che caffè e limone insieme
fanno schifo, che sei proprio un idiota, certe domande nemmeno si
fanno. La tua stupida pretesa di barba mi solletica
l’avambraccio, sorridi storto ancora mezzo addormentato e
sbuffi un po’, poi annunci che devi andare a pisciare e non
ti muovi più, chiudendo di nuovo gli occhi contro la mia
spalla.
Bevo
l’acqua, getto via l’aspirina, mangio la caramella.
Everything
in its right place.
“‘om?”
Ma
no, perché anche appena sveglio tu hai troppa roba nella
testa per startene zitto. Tra le altre cose, ti puzza l’alito
e sei troppo vicino, perciò te lo dico, ed in tutta risposta
tu ti alzi un poco sui gomiti e poi ricaschi come un sacco di patate
dritto addosso a me perché hai perso l’equilibrio
e sei un coglione, e allora soffi forte sul collo, ridendo di quella
tua risata totalmente spastica e idiota che - è inutile
dirlo, ma anche quella mi fa impazzire. Rido un poco anch’io
e ti accarezzo la testa, perché è facile ed
è bello e rimanda di qualche minuto la domanda che muori
dalla voglia di fare, anche se ancora non sai come. Alla fine,
però, anche le note divertite che trascini tacciono, e la
mia mano scivola via quando volti il capo per guardarmi - per guardare
me e poi le tue dita e poi di nuovo me e il letto e la chitarra vicino
alla finestra.
“È
la chitarra di Paul, quella?”
Fantastico.
“È
arrivata ieri, Emma me l’ha spedita quando ha saputo del
trasloco.”
“Accidenti!”
Lo
ripeti altre tre volte perché adesso l’unico
obiettivo che hai è svuotarti della sorpresa per
rimpiazzarla col tuo solito vomito di parole: “accidenti!”
mentre ti alzi e ti lecchi le labbra; “accidenti,
guardala!”,
e poi scansi le scarpe ai piedi del letto e inciampi nei tuoi stessi
piedi, piegandoti sul materasso.
Accidenti,
Matt.
“Dom
- ma ti ricordi?”
La
mia camera a Teignmouth, il letto e le tue scarpe sporche sulla vecchia
coperta verde, ‘All Apologies’ o qualche altra
cagata - dita che imparavano a muoversi come ragni sulla tastiera della
vecchia chitarra di tuo fratello. Birra. Sigarette - qualche canna, di
tanto in tanto. La crostata di limoni di tua nonna. I capelli negli
occhi. Kurt Cobain. I plettri rubati dalla sala musica a scuola. Il
vecchio vinile di ‘A Night at the Opera’.
“Cosa?”
Devo
sorridere, perché la situazione lo richiede - quindi allargo
la bocca e mostro i denti.
“Mi
ci hai insegnato a suonare tu, su questa.”
“Tu
racconti un sacco di stronzate e poi finisci per crederci,
Bellamy.”
“Ma
zitto, stronzo, è vero!”
“Puoi
tenerla, se vuoi. Cioè, in pratica è
tua...”
“Come
mia?”
“Beh,
di Paul.”
Mi
guardi un po’ di sbieco, quasi offeso, poi afferri il manico
e torni qui sul letto - a gambe incrociate, verso il fondo, stavolta.
“No.”
“No?”
“No,
Dom.”
No,
certo che no, Matt - è solo che mi piace vederti impazzire.
Era
il giorno dopo il tuo compleanno e mia madre aveva cucinato il
polpettone. Hai sempre odiato il polpettone di mia madre, sebbene non
avessi mai avuto il cuore di dirglielo perché la poveretta
credendo che ti piacesse te lo preparava apposta, però
ricordo che quella volta cercasti di darlo al cane passandolo da sotto
al tavolo (discreto come uno stormo di fenicotteri, come al solito) e
tutti a tavola se ne accorsero e scoppiarono a ridere - per nulla
offesi, perché davvero i miei ti adoravano. Più
tardi Tom ci scattò quella foto che, se apri
l’armadio adesso e scavi tra le cravatte sulla destra,
scoprirai conservo ancora: ci sei tu e ci sono io e siamo nel mio
garage e tu mi hai appena regalato la vecchia chitarra di tuo fratello
perché “tanto se Paul torna e scopre che
gliel’ho presa mi ci apre il culo, quindi tienila
tu” ...
“È
tua. Te l’ho regalata.”
“Non
puoi regalare una cosa non tua.”
“È
quello che dicesti anche quando te la diedi.”
Non
aggiungi più una parola, ed invece prendi ad accordare
quella vecchia ciabatta provando con dita leggere le corde ormai
consunte, lo sguardo sulle chiavette di metallo arrugginito.
Dovrei
comprare un nuovo set, probabilmente, metterla a posto... ma in fondo
mi sfugge la reale motivazione. Ci tengo troppo per quel che
è - che poi è il motivo per cui gradirei anche
non rivederla mai più.
“Puzzo
come una ciminiera” comincio, provando a cambiare discorso:
“devi avermi trasmesso i tuoi germi fetenti in qualche
modo!” e ti pizzico un ginocchio, ma sperare di attirare la
tua attenzione mentre hai in mano uno strumento qualsiasi, sia questo
anche solo un triangolo o una dannatissima app del tuo IPhone,
è praticamente un’impresa vana. Nemmeno so
perché sto provando ad iniziare una conversazione, a dirla
tutta; non voglio parlare con te, stamattina, non voglio vedere la tua
stupida faccia, non voglio sentirti suonare quei maledetti accordi
ripetuti milioni di volte in sala - o invece sì, invece al
contrario vorrei assorbirti in ogni maniera possibile per quanto poco
ci sei, ci
siamo,
ultimamente.
Oh,
‘fanculo, e non fare quella faccia adesso!
“Tanto
è inutile continuare ad evitare il discorso, Dom.”
Oh,
certo. Non mi credevo davvero così furbo; di certo avrai
preparato una ramanzina coi fiocchi mentre sboccavo da qualche parte
appeso alle tue spalle, dunque adesso vorrai recitarmela con sguardo
grave e tono comprensivo e fare il buon amico di ‘stocazzo.
Sai
che ti dico? Non ho alcuna intenzione di starmene seduto ad ascoltarti,
quindi ribadendo ancora una volta il mio incredibile fetore
(“Ma davvero, puzzo di cane morto!”), faccio per
alzarmi e dirigermi verso il bagno, ambendo come ultima meta una ben
sperata doccia - e magari anche una sega per togliermi questa enorme
merda a forma di Bellamy dalla testa, sì?
“Solo
cinque minuti, Dom - siediti, per favore.”
Le
tue parole sono gentili, ma la tua mano destra mi sta stritolando un
polso per riportarmi in posizione, e ciò non è
né gentile né tantomeno piacevole. Per essere
così magro ne hai di forze, in particolare in quegli arti
pallidini e loro relative appendici, ma di certo entrambi sappiamo che
se volessi potrei spingerti via e proseguire. Tuttavia, che male
c’è nel darti qualche finta soddisfazione, di
tanto in tanto?
“Dài,
spara veloce, mezzasega.”
Posso
intuire
il tuo ghignetto soddisfatto più che effettivamente vederlo.
È
principalmente quello il motivo per cui torno a sedermi sul letto, di
fronte a te - per poterti vedere in faccia quando mi dirai che sono
stato proprio un cattivo,
cattivo cane.
Con quale credibilità, poi, non importa - tanto te
l’inventerai presto.
“Dritti
al punto: ieri sera?”
“Ieri
sera cosa?”
“Non
fare la stronza, Howard.”
Mi
rilasso un poco contro la spalliera del letto - adesso stiamo parlando.
“Non
hai davvero bisogno che ti dica cos’è
successo.”
“No,
non sul serio. Pensavo c’avessi dato un taglio con quella
roba, però.”
“Non
fare il moralista del cazzo.”
“Ti
sto forse giudicando?”
Do
minore. (pausa)
“No.
No, non lo stai facendo.”
Si
bemolle. (pausa)
“Allora?”
Fa
minore. (pausa)
“Allora
cosa? Non farla così lunga, Matt. Sono uscito, poi una cosa
tira l’altra e... niente, tu non giudichi, io non insisto,
fine della storia.”
Do
minore. (pausa)
“Non
è quello il punto, Dom, il discorso è che-
“
“Che
cosa? Ma quale cazzo di discorso? Quand’è che ti
sei trasformato nella tua fottutissima ex?”
Eccola,
la sparata del cazzo che stavamo aspettando entrambi.
Dovresti
proprio vedere la tua faccia in questo momento, Matt: occhi sbarrati e
bocca che si apre e chiude bisbigliando qualche parola intelligibile;
sei uno spettacolo piuttosto patetico, e un po’ mi dispiace
asserire che no, non è come credi, non l’ho fatto apposta
- neanche volevo tirarla in ballo, Gaia. Ero distratto.
La
verità è che non riesco a gestire questo tipo di
tensione - quella dell’ultimo periodo, mese, stracazzo di anno
- e allora le bugie che non sono mai stato abituato a raccontare si
riversano contro te e gli altri sotto forma di insulti random e colpi
bassi; tu lo sai, lo sai e lo capisci, perché in fondo sono
solo io ad esser cambiato. Eppure... eppure Matt, mi piace pensare che
un po’ sia anche colpa tua, se prima non c’era
niente di sbagliato nel chiamarti alle tre del mattino solo per farti
sentire una vecchia demo che avevo ritrovato o dirti che mi mancavi
perché non ci vedevamo da mesi anche se in realtà
erano poche settimane e tu eri con la tua ragazza in Thailandia - o
forse era lo Sri Lanka - ma a chi interessava per davvero? Avresti
risposto che lì da te era mezzogiorno, che stavi mangiando
chissà quale diavoleria e che ti mancava la pasta come te la
cucinavo io - con le uova e il pepe; che non vedevi l’ora di
tornare a Londra e farmi sentire il nuovo pezzo su cui stavi lavorando,
perché era fantastico e faceva “nananabeeweep-weep,
Dom!”
un po’ come la sigla di Doctor Who o un pezzo degli Smiths,
ma non sul serio.
“Vuoi
sapere una cosa, Dom?”
Sì,
no? Probabilmente no, ma annuisco lo stesso per il semplice gusto di
farlo.
Mandi
segnali confusi, non riesco a capire se sei davvero arrabbiato o forse
più deluso, ma è probabile che sia solo
perché io sono confuso e non riesco più a
decifrati - e forse nemmeno voglio, in fondo.
Ti
muovi sulle ginocchia, avanzando verso di me, veloce e goffo e
instabile, e per un attimo spero intensamente che tu stia per tirarmi
un pugno, così almeno avrei una scusa per toccarti o magari
anche farti del male. Tuttavia, il braccio che avevi portato in avanti
tende in realtà verso il comodino sulla sinistra e da
lì recupera qualcosa che non riesco a vedere, mentre tutto
il tuo peso si trasferisce sulle mie gambe.
In
un battito di ciglia sei distante uno sputo dal mio naso, e una parte
di me si chiede se per caso tu lo stia facendo apposta,
perché così non posso non fissarti negli occhi
quando parli e inevitabilmente saprò che sì - che
sei incazzato, ma non necessariamente con me.
“Io
non ho alcun tipo di responsabilità nei tuoi confronti. Non
sei mio figlio, e nemmeno la donna che sto per sposare... ma questa
merda - questa merda io non la voglio neanche vedere, siamo
intesi?”
I
tuoi occhi sono prima sui miei, poi sull’involucro di
plastica che ha rovesciato il suo contenuto immacolato sul cuscino ed
il lenzuolo - lì dove tu l’hai gettato in uno
scatto violento. C’è polvere bianca anche sulle
tue dita - residui minimi che quasi non si notano, scrollati via appena
un attimo dopo averci posato lo sguardo.
Sono
abbastanza sicuro che si trovasse nel cassetto del mobile in bagno,
quella roba, almeno fino a stamattina.
“D’accordo.”
La
mia risposta ti spiazza - non che non me l’aspettassi, del
resto. Giocare a darti ragione è l’unica arma di
difesa che mi rimane quando sono impegnato in un duello verbale con te
- che mi girino vorticosamente le palle per ciò che hai
detto, poi, è tutto un altro discorso, ma sono sempre stato
bravo a tenermi tutto dentro.
“D’accordo
che?!?” sbotti, stizzato.
“Ho
detto che sono d’accordo, Matt” dico mentre mi giro
a cercare una sigaretta. “E comunque in sala sono sempre
pulito, tanto per dire.”
Cerco
di mantenere un tono leggero; litigare con Matt Bellamy è
sempre un’esperienza surreale, e non sono neanche totalmente
sicuro che stiamo litigando al momento, così come non lo sei
tu, perché hai quella faccia - quella di chi si è
perso qualcosa, e allora rotei gli occhi furiosi mentre io ridacchio e
mi accendo una cicca proprio sotto il tuo naso.
“Dom!”
Faccio
neanche un tiro che tu me la tiri via, posandola in equilibrio
instabile sul bordo del comodino; merda, ho la gola a pezzi, mi
sorprende che non abbia gracchiato fino ad ora.
“Cosa
c’è? Non posso neanche fumare, adesso?”
“No,
cioè sì, non è questo - dai cazzo,
Dom!”
“Sei
incazzato cone me, Matt?”
“Cos-
incazzato? Sì, sì, che lo sono! Sono venuto a
ripescarti in quel cesso e ti ho riportato a casa, stanotte. Sarei
potuto rimanere a letto con Kate, dormire qualche ora in
più, poi svegliarla e farmi una scopata - e invece no,
invece sono venuto a -”
“Invece
sei venuto da me ed io te ne sono molto grato, okay. Qual è
il punto? L’hai detto, non sei la mia cazzo di
badante.”
Quello
che avviene nei successivi dieci secondi è in
realtà un enorme blob confuso di azioni - mi hai picchiato
forte sulla fronte, poi hai strusciato il naso sulla mia guancia,
soffiando velenosissimo “sei uno stronzo, Dom, sei proprio
uno stronzo” direttamente contro i miei occhi - e poi,
posando le labbra sulle palpebre senza realmente baciarle, hai
continuato, piano: “ma sei anche il mio migliore amico ed io
- io non voglio vederti - non voglio più vederti conciato in
quel modo, okay? Mi hai... mi hai spaventato. Cazzo, Dom, ma a che
diavolo stavi pensando?”
“Non
pensavo” rispondo, ma la voce fatica a venir fuori, quindi
allungo una mano e ti afferro il polso, carezzando piano lì,
perché so che se ti guardassi in faccia adesso rischierei di
espormi troppo. È il mio modo di chiederti scusa,
perché prima o poi questo Dominic Howard che non riesci
più a gestire e che spara fuori insulti come un programma
automatico mentre tira di coca e fa fuori litri su litri di alcool
ammetterà di avere un problema prima con se stesso e poi con
te.
“A
casa è tutto ok? Tua madre?”
“Cosa?
Sì, sì... va - è ok, lei sta
bene.”
“D’accordo.
È per come abbiamo arrangiato le prove, Dom?”
“No...
no, Matt, davvero. Sono io, lascia stare.”
Sospiri,
mentre riprendi la sigaretta quasi finita dall’orlo del
comodino e fai un ultimo tiro, prima di spegnerla direttamente sulla
superficie di legno - cazzone, ci torni tu in quella fottuta boutique a
ricomprarmene uno identico.
“Matt,
potresti...?” ‘levarti
di dosso’,
‘andartene
a cagare’,
‘evitare
di rovinare i miei complementi d’arredo’?
Ma non finisco la frase perché mi inchiodi con quello
sguardo - quello che riservi solo a me e solo in determinate
situazioni, e allora... e allora... Cristo
Matt,
sei così sbagliato!
“Lo
so che riguarda me, Dom. Vorrei solo che potessimo parlarne come
facevamo una volta, perché tutto questo... tutto questo tira
e molla, le stronzate che fai e che racconti, mi stanno facendo
impazzire.”
È
in quel momento che faccio la cosa più stupida del mondo -
perché continuare a deteriorarsi come un uovo strapazzato
invece di ficcarti la lingua in gola e chiarirti ogni dubbio, che a te
piaccia o meno - beh, è davvero stupido, nonché
incredibilmente inutile e frustrante.
Tuttavia
a questo punto è inutile negare, perché allora
farei fare ad entrambi la figura degli idioti, e ciò non
aiuterebbe per niente. Quindi sì, ti dico, mentre tento di
spostarti di lato, sì, certo, ha a che fare anche
con te, ma parlarne è inutile, perché non ha
senso, non realmente - risatina
- è solo un mare di stronzate, davvero, che bisogno
c’è di ingigantire un problema minimo? Posso
occuparmene da solo, posso... posso davvero... non ha poi
così tanta rilevanza la tua presenza nella questione, in
realtà sei la parte minima di un sistema che ha bisogno di
essere rielaborato, ma va tutto bene, perché...
perché... non riesco a cancellarti dal mio cazzo di sistema,
non ti voglio fuori dal mio sistema... e... ed io... io ti...
“Lascia
stare, Dom, è okay.”
“No
no no non è okay non è okay non è
-”
Ti
prego, ti prego, Matt, leggi tra le righe, leggi scusa, sì,
anche tu, ti voglio bene, scusami, stai con me, ti desidero, mi manchi,
non va bene, non va per niente bene -
“Dom
- Dominic!
Oi!”
Ho
preso ad urlare e nemmeno me ne sono accorto.
Con
una delicatezza che non ti appartiene mi fai anche notare che ti ho
stretto così forte il polso che ti è andata in
cancrena una mano, poi sventoli l’arto offeso
nell’aria proprio davanti al mio naso, cercando di distrarmi
pungolando con un dito una guancia.
“Va
tutto bene”, ripeti, e poi sorridi un poco, giusto per
rincuorarmi.
Non
ricordo la metà delle cose che ti ho detto - non ricordo se
te le ho dette per davvero o si sono forse perse nel turbine di
pensieri che è diventato la mia testa negli ultimi due
minuti. Santo cielo.
“Matt,
io...”
“A
Bing manca tanto lo zio Dom, sai. Dovresti venire a cena da noi,
stasera, perché domani parte con la mamma per una
settimana.”
Le
tue labbra sono ancora piegate in un sorriso, e stavolta anche i tuoi
occhi partecipano.
‘Ti
voglio ancora nella mia vita’,
stai cercando di dirmi - e maledizione, Matt, io non ho mai dubitato di
questo, né ti ho odiato quando sei venuto a dirmi che Kate
era incinta, o ancora che volevi sposarla. So che pensi che in fondo
sia così, che io sia semplicemente geloso, ma davvero non lo
è.
Troppo
presto ti stai sollevando sulle ginocchia per liberarmi della tua
presenza - del tuo calore - non prima però
d’avermi punzecchiato un altro po’ sulla guancia e
le spalle e i fianchi. Hai detto cose di cui probabilmente ti stai
pentendo, adesso, ma è okay perché siamo io e te
e sai che nessuno sa prendere la tua merda e trasformarla in qualcosa
di costruttivo come faccio io. È uno dei motivi per cui la
nostra amicizia ha funzionato fino a questo punto, no?
Chiudo
gli occhi un secondo, e quando li riapro stai sistemando la chitarra
nuovamente vicino alla finestra - ma sulla poltrona, stavolta.
“Tanto
lo so che mentivi, troia” dici, facendomi
l’occhiolino.
“Non
ti si può nascondere niente” sospiro forte, e poi
mi passo la mano sul viso per raccogliere lo stress accumulato.
Sono
proprio una merda inconcludente, un cazzo di uovo che ci gode nel
vedersi strapazzare.
‘Avrei
dovuto farlo’ penso, mentre ti osservo intento a rivestirti e
a parlare di chissà cosa - forse del fatto che i pantaloni
ti stanno stretti e che dovresti mettersi a dieta (“Dom,
seriamente, ho la ciccia che straborda dai fianchi, è
disgustoso!”). Avrei dovuto baciarti e basta, invece di
complicare le cose con queste minchiate sentimentali ed un mare di
parole che neanche ricordo d’aver detto, ma sono abbastanza
certo di aver mancato le più importanti perché
alla fine è sempre così, no? Perché
allora la situazione sarebbe stata diversa, non è vero? In
realtà vorrei solo sapere cosa ti passa realmente per la
testa adesso.
“Allora,
cena?”
Hai
di nuovo una maglietta addosso - una mia, ma farò finta di
non
averla vista, maledetto ladruncolo.
Fortuna
che Sophie fa shopping per tutti, quando capita.
“Solo
se papà Bellamy mi promette di fare la pasta
fresca.”
“Ti
ho viziato decisamente troppo.”
“Ma
va’.”
Indossi
la giacca e ti lisci i capelli sulla testa, chiedendomi dispettoso
“come sto?”.
Sei
un totale disastro, naturalmente, ma non hai davvero bisogno che te lo
dica.
“Alle
sei da me?”
Cosa
ci guadagnerei a rifiutare, dopotutto?
“Alle
sei da te.”
"Perfetto, allora!"
'Perfetto un cazzo' mi verrebbe da dire, ma mi trattengo
perché non mi va di ricominciare tutto daccapo.
Ti saluto con una mano e tu ricambi, girando un paio di volte su te
stesso come indeciso se dirmi ancora qualcosa o meno - alla fine
però decidi di tacere e te ne vai, tornando indietro cinque
minuti dopo per recuperare il cellulare che ovviamente avevi
dimenticato qui da qualche parte.
"Cerca di mangiare qualcosa, eh?" mi dici allora, chinandoti per
raccogliere il tuo giocattolo preferito dal parquet, e
poi niente, neanche aspetti che ti risponda, mi freghi una
sigaretta e te ne vai di nuovo, più rapido di prima.
Svuotata della tua presenza questa camera è grande il doppio
- e se possibile c'è ancora più luce.
Chiudo gli occhi perché mi fanno male e perché fa
male pensare e pensare a te.
No, seriamente, sono le 6:26 e ho passato la notte a scrivere
perché ho mal di stomaco e temo che i pomodori non siano
stati poi una cena così intelligente visto che so benissimo
che in realtà non riesco a digerirli.
Bene, ora, oltre ad aggiornarvi sullo stato delle mie mucose gastriche,
questa sera... notte... vabè, mattina, vi ho portato pure un
aggiornamento, in ritardo rispetto alla Befana giusto per sfamare il
mito, uh?
In realtà non ci sarebbe così tanto da dire;
questo capitolo mi ha fatta dannare perché una volta
iniziato non riuscivo a decidere dove volessero condurmi 'sti due (mi
spiego, Dom continuava a dare risposte del piffero e Matt era in
generale una persona orribile), ma poi fortunatamente ho visto la luce
e pure 'sti due una mezza redenzione (ma dove?). Beh, Dom è
confuso, è così confuso che ad un certo punto
scrivendo ha confuso pure me e pareva che avessimo bevuto otto
bottiglie di Chardonnay a testa, ma alla fine tutto si risolve in un
blob di mezze parole e una presa fisica evitata (stupido coglione,
avresti dovuto ficcargli la lingua in gola e stop, chi se ne frega
delle sue reazioni, GUARDALO E' UN BASTARDO). Matt è rimasto
in generale una persona orribile, ma almeno tiene a quella pezza del
suo amico. Non vi sto a dire quanto perché altrimenti vi
spoilero tutto e poi che gusto c'è, no? Ahnnn.
Note:
- Do minore, Si bemolle e Fa minore sono gli
accordi principali di "Bliss"
(hell to the yeah, io lo chiamo "mindfuck" - sì, sono una
fan di Moffat e imparo dai migliori);
- ovviamente, sebbene Dominic neghi perché è
scemo, la storia che sia stata lui ad insegnare al topastro a suonare
la chitarra è vera;
- dedico questo capitolo a L. che mi ha fornito la migliore
interpretazione di Bellamy di sempre ("non è una brutta
persona, è solo confuso e un poco ricchione");
- la quote di inizio capitolo proviene da una canzone degli Afterhours
intitolata "Tutto Domani";
- no, davvero, non mi sono riletta e non voglio sapere che cosa ho
scritto, quindi se fa schifo arrangiatevi perché dolon
dolon, okay?
- l'ov is forevah;
- cià.
x S
|
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Capitolo 4 *** _Cannella ***
Meds
_such
a pretty house
such
a pretty garden
no
alarms and no surprises
*
::
Stasera a cena da me? Pasta chef!! xxM. ::
::
L’ultima cosa di cui ho bisogno è
un’intossicazione alimentare, Ava ha una recita la prox
settimana C. ::
::
Oi, nessuno si è lamentato della mia bolognese
l’altra volta! xxM. ::
::
Perché era un sugo pronto C. ::
::
Mentecatto! Menzognero! Ho sminuzzato e soffritto verdurine con le mie
mani!! xxM. ::
::
Peccato qualcuno non abbia fatto lo stesso con te. Kells dice di
sì, cmq. C. ::
::
Perfetto, K ne sarà entusiasta! xxxM. ::
::
E smettila con ‘ste X ricchione! C. ::
::
Love you, Chrissy. Alle otto da me, puntuale!!!
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxM. ::
Matt
continua a giocherellare con la mascherina dell’Iphone ancora
per qualche secondo, un sorrisetto scemo sulle labbra e lo sguardo
perso fra gli incroci familiari che adornano il pezzo di plastica tra
le sue mani. Si sta consumando sui lati, nota, i colori della Union
Jack meno vivi sugli spigoli, e forse sarebbe proprio il caso di
cambiarla; la prossima volta che si ritroverà dalle parti di
Camden dovrà comprare un case nuovo - e magari anche uno per
Kate. Potrebbe prenderglielo, tipo, con la bandiera americana,
così sarebbero “il
Presidente e la Regina”,
come già li chiamano gli amici di lei
- o “il
burro d’arachidi e la marmite”,
come li chiamano invece gli amici di lui.
Nemmeno
gli piace la marmite, o l’idea di esser paragonato alla
mummia reale, in realtà.
Ma
il burro d’arachidi - sul pane, con la marmellata: quello
sì!
Un
braccio teso verso l’alto nell’ennesimo sbadiglio,
Matt getta il telefono via di lato, dove scivola tra le pieghe e i
cuscini del divano, poi si alza sulle ginocchia stanche, dirigendosi
verso la cucina. Non ha dormito un cazzo, se non un paio
d’ore e neanche bene; è stanco morto, in fondo
neanche troppo di buon umore, e vorrebbe davvero solo ficcarsi sotto le
coperte e buonanotte ai suonatori - ma qualcosa nella sua testa quella
mattina gli aveva invece detto che fosse il caso di organizzare una
cena, e per di più di occuparsi in prima persona della
realizzazione della portata principale. Kate aveva accolto la notizia
con l’aspettato giubilio, naturalmente - amava avere ospiti
per pranzo, o a cena, o semplicemente persone che vagavano e occupavano
letti, camere e divani di casa sua, e anzi aveva suggerito di estendere
l’invito anche ai coniugi Wolstenholme perché
“ho
promesso a Kelly che le avrei fatto assaggiare la torta di mia madre
prima o poi!”.
Quindi Matt lo aveva fatto, e Chris aveva dato una risposta
affermativa, e adesso bastava solo riferirlo a Kate in modo che si
organizzasse con i posti e le portate e poi mettersi ad impastare uova
e farina e stendere la pasta come gli aveva insegnato la zia di...
“Matt,
tesoro, ci sei?”
“Eh?
Ci sono? Chi?”
“Tu,
scemotto! E Chris e Kelly, loro?”
Una
risata cristallina lo riporta piano alla realtà, la
stanchezza allontanata dal piacere della constatazione stessa della
tale che torna tutta insieme e gli strappa un altro sbadiglio.
“Oh
- oh, sì. Sì, vengono a cena.”
“Che
bello!”
“Ah
- eh - sì. Che bello!”
Un’altra
risata, e Kate si sta avvicinando e poi è lì ad
abbracciarlo, Chanel n. 5 che gli arriva dritto ai neuroni per esser
decodificato senza nemmeno passare dalle narici. Non è
sicuro che la cosa gli faccia così piacere con il mal di
testa che si ritrova, ma naturalmente non può dirglielo,
quindi tace e invece affonda il viso tra i suoi capelli, morbidi e
appena lavati. L’aroma dolce della camomilla e del miele
sembra calmarlo, e lui mugola qualcosa che suona molto come “mh,
amore mio”
prima di richiedere un bacio e poi rubarlo lo stesso. Matt ama i baci -
Matt ama baciare;
ama i baci di Kate, perché le sue labbra sono morbide e la
sua bocca è piccola e tiepida e magnifica; ama baciare Kate,
perché quando lo fa lei sospira e poi lo stringe in vita e i
suoi occhi brillano e sorridono birichini in direzione della camera da
letto, proprio come ora.
“Sembri
stanco, piccolo. Che ne dici se ti stendi un po’?”
“Mh...”
bacio
“... no, devo...” altro
bacio
“... la pasta,
Kate...”
“Possiamo
farla più tardi? Ti aiuto io!”
“Ma
tu...” bacio,
sospiro
“... tu non la sai fare la pasta!”
“Uhm,
è vero...”
“Kaaaty...”
Una
smorfia maliziosa, il tocco deciso sulla chiusura dei pantaloni che
strappa a Matt un gemito d’apprezzamento. Santa Kate, santa
subito.
“Però
guarda, posso lo stesso darti una mano!”
“Sei
terribile.”
“Mh,
ma tu mi ami così come sono, no?”
Matt
la guarda negli occhi per un numero imprecisato di secondi, il capo
inclinato sulla sinistra; Kate non indossa trucco e i suoi occhi sono
un po’ rossi e gonfi a causa della limitata
quantità di ore di sonno di cui ogni neo-madre dispone, e
attorno a questi sono già visibili piccole rughe dovute
più allo stress che realmente all’età;
i suoi capelli non hanno incontrato le cure della spazzola di un
esperto, ma solo l’aria calda del phon su nel bagno di casa
loro, e ricadono in onde disordinate attorno al viso che stringe tra le
mani, incorniciandolo in una maniera che un po’ gli ricorda
le sere d’estate e il mare - una chitarra, un falò
e gli anni ‘70. Kate è naturalmente bellissima e
lui non riesce a credere alla propria fortuna, mentre si preme contro
di lei e le strappa un ultimo bacio, parlando nel silenzio
più di mille parole.
“Sei
la mia vita.”
Le
iridi grigio-verde brillano ancora una volta, poi Kate si gira ed
inizia a trascinarlo via dietro di sé, tirandolo per le mani
congiunte, entrambi fermandosi solo per ridere quando lei, goffissima,
inciampa nei gradini delle scale che portano su.
“Scusa,
è che ho una voglia matta!”
“Kate!”
“Che
c’è, solo voi uomini potete permettervi
d’essere arrapati?”
“Che
c’entra!”
“Oh,
Matt, a volte sei così inglese!”
Matt
vorrebbe replicare, magari con una battuta audace sul suo essere una sboccatissima
americanaccia,
invece, ma le parole gli muoiono in gola quando lei alza la gonna del
vestito e si sfila veloce le mutandine, gettandole poi con noncuranza
sul parquet, la schiena rilassata contro la colonna delle scale.
“Dai,
stallone. O sei forse diventato gay come Carlo?”
“Dillo
a Camilla!”
“Allora
la Regina.”
“Sei
blasfema.”
“Suppongo
che dovrai punirmi adesso?”
“Qui!?”
La
sua voce è appena coperta da un velo di isteria, o forse
è solo stanchezza, ma Kate decide di ignorarlo con uno
sbuffo derisorio mentre lo tira a sé, sfilandogli finalmente
i pantaloni e stringendo decisa tra le mani la semi-erezione che vi
trova nascosta sotto.
“Oh,
ecco, adesso... mi sei mancato, cucciolo.”
“Non
stai davvero - oh! Parlando con -- lui!”
“Lui
chi,
scusa?”
“...
lui!”
“Cosa
c’è, voi di Oxford non ce l’avete una
parola per dire ‘cazzo’
nel vostro spocchiosissimo dizionario?”
Matt
ingoia un gemito, tentando di sistemare i piedi come meglio
può in equilibrio sui gradini, le dita metaforicamente
incrociate nella speranza di non fare un capitombolo giù per
le scale e nella hall.
“È
un peccato, perché è proprio un bel cazzo.
Dovremmo dargli un nome, potremmo -”
“Kate...”
“Che
c’è? È vero!”
“Ma
così mi fai ridere!”
“Allora
datti da fare, sto facendo tutto io!”
Non
è realmente una critica, se non una constatazione giocosa.
È stanco, è vero, ma non è solo
quello; c’è qualcosa che non va, anche quando si
spinge contro di lei - dentro di lei - ma Matt preferisce ignorarlo e
addossare la colpa al senso di responsabilità nei confronti
della cena che in quel momento sta completamente ignorando in favore di
una scopata sulle maledette scale. Come se la cosa gli dispiacesse, poi.
“Ti
amo, ti amo, ti amo!”
“Adesso
dimmi, stai parlando con me o con Eugenio?”
“EuCHI!?”
“Il
mio cazzo.”
Kate
ride di quella sua risata contagiosa, fermandosi solo un attimo per
dirgli: “scemo!”,
poi chiude di nuovo gli occhi abbandonandosi alle spinte, le gambe
strette attorno a lui.
“Ti
amo anch’io, piccola.”
Forse
il resto - le uova, la farina, Dom, il sugo e le stramaledette cipolle
- possono aspettare ancora un po’.
*
Matt
ha appena finito di stendere il terzo panetto di impasto quando il
telefono vibra contro la sua gamba, avvisandolo che ha un nuovo
messaggio. Imprecando giusto un poco a causa delle dita sporche di
farina che di sicuro lasceranno tracce sui pantaloni puliti e lo
schermo dell’iPhone, tira velocemente fuori
l’oggetto in questione prima che possa pasticciarlo troppo,
posandolo sul piano e sbloccandolo poi con il mignolo della mano
sinistra. Come prevedibile, oltre che ampiamente previsto, si tratta di
Dom.
::
Non credo di farcela stasera. Avevo dimenticato di avere già
un impegno. D. ::
“No
shit, Sherlock”
si ritrova a considerare ad alta voce, prima di dirigersi verso il
lavabo e ripulirsi le mani sotto il getto d’acqua tiepida.
Afferra il primo canovaccio disponibile - sporco di sugo, naturalmente
- e si asciuga come meglio può prima di afferrare nuovamente
il dispositivo e digitare una risposta.
::
Non dire puttanate. Vieni per cena e sei libero di andare, dopo. M. ::
Forse
non dovrebbe essere così brusco, non nella sua posizione
attuale - ma sono poche le cose che mandano realmente in bestia Matt, e
tra queste figurano gli amici che lo evitano per nessuna reale
motivazione, o ancor peggio, una motivazione anche reale che
però rimane inespressa per qualche assurdo fottutissimo
motivo di cui non è nemmeno pienamente sicuro di voler esser
messo al corrente. Se poi l’amico in questione è
Dom, la gravità stessa della situazione si amplifica
esponenzialmente di almeno dieci volte.
La
risposta, fortunatamente, non tarda troppo ad arrivare, e Matt ha
già terminato di stendere le sue bellissime e perfettissime
sfoglie di lasagna quando il telefono vibra di nuovo, stavolta sul
marmo del ripiano della cucina.
::
Mi dispiacerebbe lasciare subito dopo. Darei l’impressione di
chi volesse solo scroccarvi la cena. D. ::
Deve
sbuffare, quando legge il messaggio. Che scusa patetica.
::
Ti assicuro che nessuno sentirà la tua mancanza, dopo.
Saranno tutti troppo storditi dalla bontà delle mie lasagne
alla bolognese. M. ::
::
Tutti chi? D. ::
::
Ci sono anche C&K. Non fare il coglione e vieni, ti aspetto.
xM. ::
Quando
non riceve più risposta Matt sa di aver vinto, ed infatti
tempo nemmeno un’ora e quello di sistemare le lasagne nella
teglia e poi in forno e il campanello di casa trilla impetuoso, mentre
Kate, perfettamente truccata ma vestita ancora per metà, si
precipita ad aprire la porta ululando dalle scale un accorato:
“vado
io, tesoro!”.
Non si stupisce quando la sente esclamare, deliziata: “Dominic!”,
né quando torna in cucina braccetto col presente, piegata
civettuosamente sulla sua sagoma abbronzata mentre fa finta di
sbottonarsi ulteriormente la camicetta chiara.
“Tesoro,
che ne dici se lasciamo i bambini con Mrs Doubtfire e ce ne andiamo a
cena io e te?”
“Non
affiderei a Dom neanche un gatto, figuriamoci -”
“E
chi ti dice che mi riferissi a lui! Ci faccio sicuramente una figura
migliore a farmi vedere in giro con questo figone qui!”
Dom
ha su uno di quei suoi sorrisetti storti mentre le prende la mano e
posa un bacio sulle nocche bianche.
“Pare
che Chef Bellamy non sia disposto a - erm, condividere il piacere della
vostra compagnia con alcuno, mia cara.”
“Chef
Bellamy non condivide proprio un cazzo!”
“Che
peccato, ho una particolare predilezione per i biondini con un bel
culetto!”
Non
è la prima volta che accade che entrambi gli uomini si
lascino scappare, all’unisono, in tono falsamente
scandalizzato e anzi volutamente esagerato un: “Kate!”
che scatena l’ilarità della donna in questione -
la quale, ridacchiando felice, non fa altro che baciare la guancia ad
entrambi prima di infilarsi un grembiule e spingerli fuori dalla cucina.
“Sciò,
andate a giocare a badminton o qualsiasi cosa facciate voi inglesi nel
vostro tempo libero a parte bere tè crogiolandovi nella
convinzione di avere un senso dell’umorismo
eccezionale!”
“Amore,
le lasagne -”
“Ci
penso io, tanto devono stare in forno per un’ora, no?
Così mentre io preparo il dolce” e sottolinea la
parola dolce
dandogli un bacio sul naso “loro hanno il tempo di cuocere a
puntino.”
Matt
non sembra ancora del tutto convinto, neanche quando Dom decide di
intervenire.
“Sono
abbastanza sicuro che Kate abbia più dimistichezza di te con
queste cose, Bells. Ricordi quando hai provato a
‘cucinare’ la colazione per tutti riscaldando del
cibo rimasto dalla sera prima nel fornetto - eravamo ad Austin, non
è vero? Hai quasi dato fuoco al tourbus, quella
volta.”
“Sei
un disastro! E poi le patate di ieri... erano nere, Dom! E si ostinava
a dire che era la giusta cottura secondo la ricetta
originale!” aggiunge Kate gesticolando con convinzione.
“Vi
odio. Entrambi!” dice Matt, indicandoli e sventolando loro a
turno il medio, poi trascina un ridacchiante Dom con sé
fuori dalla cucina, in salotto.
“Dovevi
proprio dirle di Austin? Adesso mi prenderà in giro a vita, troia!”
“E
tu dovevi proprio ficcare quel Pad Thai nel forno con tutta la scatola
di cartone, coglione?”
“È
stato un incidente!”
“Certo,
tu sei un concentrato di incidenti e sgradevoli avvenimenti che in
maniera del tutto casuale decidono di accanirsi sulla tua povera,
indifesa, persona, non è vero?”
Non
c’è reale cattiveria in quelle parole, eppure Matt
se ne sente più colpito di quanto dovrebbe - glielo dice la
smorfia di Dom, la postura tutt’altro che rilassata e le
sopracciglia inarcate all’inverosimile: vorrebbe dire
‘è
solo un gioco, ti sto prendendo per il culo, amico’,
ma non gli sfugge comunque la nota amara che si nasconde dietro tale
annotazione. Dominic, del resto, sembra avercela con lui per qualche
motivo e, per una buona volta, forse la sua non è solo la
solita fottutissima paranoia. Tuttavia, non è questo il
momento per le parole importanti - non possono concedersi certo il
lusso di mettersi a litigare nuovamente quando hanno ospiti per cena,
quindi Matt si fa forza e sfoggia invece una linguaccia indispettita
all’indirizzo del batterista.
“L’hai
detto, Howard! E l’esempio più grande e leopardato
ce l’ho proprio qui davanti a me - dove cristo hai preso
quella camicia? È imbarazzante!”
“Diorrrr!”
tira fuori l’altro con tono appassionato, facendo roteare
esageratamente la R come nella pubblicità, ed entrambi
resistono solo pochi secondi prima di arrendersi ad una risata che
alleggerisce di cento masse il peso dell’atmosfera.
“Chris
arriverà tra meno di un’ora, meglio iniziare a
sistemare la tavola... mi dai una mano?”
Dominic
ha già spostato due sedie mentre risponde affermativamente,
e si sta preparando ad aprire il tavolo nella maniera indicata quando
si accorge che Matt ha lasciato la stanza, senza dire una parola.
È indeciso tra la voglia di fare spallucce e continuare a
fare qualsiasi cosa stesse facendo - cercare di non farsi schiacciare
dal peso del ripiano in mogano, nel caso specifico - e quella di
sbuffare infastidito per il comportamento dell’amico e
sedersi sul divano in attesa del suo ritorno. Naturalmente decide per
la prima, ed è fortunato che non si sia spezzato alcun dito
per quando Matt fa nuovamente capolino nell’ampia sala, il
piccolo Bingham gongolante e irrequieto come al solito tra le braccia.
Il batterista si lascia sfuggire un’esclamazione di deliziata
sorpresa, mentre si dirige verso l’amico e il bambino che sta
sillabando chissà quale diavoleria nel suo pseudolinguaggio
- in maniera peraltro totalmente convinta.
“Il
tuo periodo di maternità è finito, Bellamy, molla
il pupo e vai a recuperare tovaglia e posate!”
Il
dente storto di Matt fa bella mostra di sé tra le file
scombinate del suo sorriso idiota, e Dom sta già tendendo le
mani verso la pestifera figurina che si agita nella presa del cantante,
mentre mormora, impaziente: “dammi qui, dammi questo amore di
microbo puzzoso!”.
“È
tutto tuo, zia Mimma!”
“Oi!”
“Sì,
sì, scusa - Zio
Dom.
Ecco, tienilo bene sotto!”
“Matt,
lo so come si tiene in braccio un bambino!”
“Questo
non è un bambino qualsiasi, Dom, è un
Bellamy!”
“Una
condanna più che un appellativo, praticamente.”
“Attento
a come parli, Howard.”
Dom
sbuffa un po’, il peso tra le sue braccia dolce e
rassicurante. Bing è un bambino di quelli belli e paffuti -
anche se non paffuti quanto Buster, in effetti. Ha le guanciotte piene,
lo sguardo birichino e gli occhi - beh, gli occhi di Matt.
La verità è che quello che stringe tra le braccia
e che ricambia la presa sul suo naso non è solo
‘un Bellamy’, è il figlio di Matt - del suo
Matt. Non gli costa niente ammetterlo, ma sa che ciò non
è realmente necessario, perché il momento in cui
lo porta in alto e posa un bacio su quella fronte così
piccola, Matt saprà già che Dom ama quel bambino
come fosse suo.
“Ma
siamo sicuri che sia tuo? È un amore, Matt,
dio...” dice piano, sentendosi per niente cretino.
Matt
sta ancora sorridendo in maniera piuttosto adorabile, i denti scoperti
come fa quando è felice. Cullando piano il fagotto tra le
braccia, Dom ricambia lo stesso identico sorriso, dita che si
incontrano e stringono in un gioco di incastri con altre infinitamente
più piccole.
“Ma
siamo cresciuti dall’ultima volta in cui ci siamo visti,
polpettone?”
“Dom,
lo avrai tenuto in braccio la settimana scorsa!”
“Ti
dico che sembra più grosso! Cosa gli dai da
mangiare?”
“Oh,
abbiamo iniziato a dargli le pappine... è uno spasso,
più quello che fa volare in giro che quello che gli finisce
effettivamente in bocca.”
“Beh,
se gliele cucini tu posso capirlo, povera anima.”
“Aspetta
di assaggiare le mie lasagne!”
“A
proposito, ‘sta tavola?”
Dom
si guarda intorno alla ricerca dei supplementi necessari, ma i suoi
occhi non incontrano nulla che assomigli ad una tovaglia - o delle
tovagliette, o fermaposto, posate, qualsiasi cosa.
“Devo
chiedere a Kate come preferisce apparecchiarla, torno subito! Cerca di
non farti staccare il naso, intanto, lo vedo piuttosto
deciso!”
“È
un guerriero, a differenza di quel pesaculo di suo padre.”
Matt
è a metà strada tra la sala e la cucina, e quando
parla alza la voce per far sì che anche Kate lo senta:
“quello deve averlo preso da quella strega
di sua madre, infatti!”
Quando
la replica (“guarda
che ti sento, Merlino!”)
arriva, in maniera del resto del tutto aspettata, Matt ridacchia e si
affretta a raggiungerla, lasciando Dom nuovamente solo con
l’agguerrito pupo sistemato meglio contro la spalla.
Bing
lo guarda, curioso, masticando ancora suoni come fossero parole.
“Somigli
tanto al papà, sai?”
Gurgle.
“Hai
anche il suo dente malefico. Ma in effetti forse è
perché hai solo quello...”
Gurgle,
gurgle.
Ghee.
“Bing,
per caso hai tirato una puzzetta?”
Non
è che si aspetti esattamente una risposta - e
l’odore che gli pervade le narici parla un po’ da
sé, in realtà, ma Dom crede sia comunque
opportuno far notare al bambino che un’altra affascinante
peculiarità ereditata dal suo egregio genitore è
la capacità di trasformarsi in breve tempo in
un’arma chimica ambulante.
“Mefitica
creatura! Ahh, ma che cazzo ci mettono in quelle pappine?!”
“Dom,
non insegnargli le parolacce!”
Matt
è arrotolato per metà in un’enorme
tovaglia di lino bianco nella quale rischia di inciampare
più volte, salvo poi essere salvato da Dom accorso in suo
aiuto.
“I
piatti sono nella credenza, quelli coi bordini blu,” inizia,
indicando il mobile sulla destra: “dammi Bing che - oddio,
cos’è questa puzza?”
“Tuo
figlio” risponde atono Dom, mentre gli porge il bambino.
Matt
trattiene a stento una smorfia di puro schifo mentre lo prende in
braccio, tirando fuori con tono di rimprovero: “questa storia
della cacca deve finire, Bing!” e poi, prendendogli piano la
manina, aggiunge: “fai ciao-ciao allo zio Dom! Di’
‘ciao zio Dom! Noi adesso andiamo a cambiarci
perché puzziamo come una pecora
squartata’!”
“Ti
includi nell’annotazione, vero?”
“‘fanculo,
Howard, profumo di violetta selvatica, io!”
“Una
su cui ci ha appena pisciato un daino, certo.”
L’imprecazione
di Matt è appena sillabata con le labbra, ma a Dom non
sfugge comunque - a volerla dire tutta, a Dom non sfuggirebbe una sola
alzata di spalle, di quell’uomo.
“Vai,
dai. Ci penso io qui... siamo in cinque, no?” chiede, mentre
già prende i piatti, impilandoli poi sul tavolo in una torre
ordinata. Matt sta già salendo le scale che portano alla
nursery quando risponde: “due coppie e una
candela!”, ridendo cattivo prima di aggiungere:
“adesso arriva Kate a darti una mano, comunque, io torno
subito!”.
Dopo
aver fatto dono all’amico di un accoratissimo
“vaffanculo”, Dom ingoia una serie di bestemmie
più o meno toccanti di fronte alla prospettiva di
ciò che l’aspetta a tavola; del resto, se da un
lato può dire di averci fatto l’abitudine, a tutte
le frecciatine e le prese per il culo dei suoi amici, non è
assolutamente sicuro che ciò gli faccia piacere - specie se
si tratta, come quella sera, di una cena alla quale nemmeno aveva
voluto prendere parte in primo luogo.
L’ingiustizia
generale di tutto ciò lo porta a perdere gradualmente la
concentrazione sulla sua missione, e dopo tre tentativi (falliti) di
infilare una forchetta nel segnaposto, il batterista si vede strappare
di mano suddetti gingilli dalla padrona di casa.
“Dai
qui, macho-man, tu pensa ai piatti!”
Kate
profuma di vaniglia ed è sporca di farina sulla guancia e
sul mento; Dom la trova molto bella, specie quando si tira indietro una
ciocca sistemandola sull’orecchio.
Hanno
appena finito di sistemare i fermaposto tra una battuta e
l’altra (“vedi, si mettono così, questo
si infila qui nel buco, e - cazzo ridi? Oh, sei così inglese,
anche
tu!”) quando lei gli prende una mano e poi inaspettatamente
gli dà un bacio sulla guancia, stringendo forte le dita tra
le sue.
“Sono
contenta di averti a cena qui, stasera.”
“Kate,
che -”
“Sul
serio, piccolo. Siamo tutti contenti di averti qui.”
“No...
non, io -”
Kate
lo zittisce con un dito e poi prende a parlare più
velocemente, una serie di passi felpati l’avvisaglia che Matt
sta percorrendo il corridoio tra la cucina e la hall e presto li
raggiungerà.
“Dom,
lo so che a volte non è facile, io.... chiamalo istinto
materno, non lo so, ma sono un po’ preoccupata per te. Spero
sia tutto ok, se hai un problema parlane con me o con Matthew,
d’accordo? Ci tiene così tanto a te, lo sai, vero?
Non ci dorme la notte! E anche io ti voglio bene.”
Il
ritorno di Matt gli risparmia la pena di dover rispondere - o, a dire
il vero, quella di dover anche solo continuare a guardare in quegli
occhi per un secondo in più.
Gli
piace Kate, certo - e non in quel senso, perché è
la donna del suo migliore amico e non si sognerebbe mai di pensare a
lei in quei termini, ma... gli piace. Davvero. È spiritosa,
è intelligente - dannazione, Kate è
così genuina,
e quando si volta verso l’arco che separa la sala da pranzo
dall’ingresso, lanciando un sorriso abbagliante in direzione
del suo uomo, Dom vede più di quanto non sia disposto ad
ammettere: Kate ha reso e rende Matt felice come nessun altro riesce, e
lui dovrebbe esserle grato per questo più di tutti.
Semplicemente,
constata mentre l’amico si avvicina ai due guardandoli con
piglio curioso - un sorrisetto che gli increspa una delle guance in un
punto, creando una fossetta - non ci riesce.
“Grazie,
K” le dice, ma è la convinzione a mancare,
stavolta. Lei deve accorgersene, perché lo guarda e gli
tiene la mano ancora qualche istante prima di lasciarla andare,
attenzione nuovamente volta a quello che tra pochi mesi secondo
promessa diventerà suo marito.
“Ho
tirato fuori le lasagne. La torta deve cuocere ancora un po’,
ma dovrebbe esserci quasi... non lo so, non so a fino a che punto deve
imbrunire, la ricetta la conosci tu.”
“Grazie,
tesoro. Vado a controllarla subito - posso fidarmi di lasciarvi da
soli? Chris e Kelly dovrebbero arrivare a momenti, ormai...”
“So
ancora come si apre la porta, amore. Vai, ci pensiamo noi
qui.”
Kate
è via di nuovo nel giro di pochi istanti, un ultimo sorriso
e poi, leggero, il rumore dei tacchi che si allontanano. Il batterista
ha ripreso a sistemare la tavola con cura forse eccessiva e per nulla
necessaria, e Matt è presto accanto a lui, stavolta deciso e
invadente.
“Ehi.”
Dom
sussulta al tocco di dita leggere sul collo, un gesto vecchio e caro
quanto la loro amicizia. Sta per dire qualcosa, ma poi Matt lo zittisce
stringendo la presa sulla nuca, l’altra mano a strappargli
delicatamente dalla presa uno dei bicchieri di cristallo.
Restano
così - fermi, in realtà - senza dire
più nulla, lo sguardo fisso sull’intreccio del
ricamo della tovaglia per alcuni lunghi minuti. Dom giocherella con una
forchetta e la fa cadere, ma il solo pensiero di chinarsi per prenderla
ora lo terrorizza; ha voglia di scappare e allo stesso tempo di
rimanere così per sempre - vorrebbe che Matt magari gli
parlasse o che fosse lui a farlo, ma poi il campanello suona due volte
e il cantante va ad aprire la porta, lasciandolo lì da solo
come un idiota.
Quando
Chris e moglie fanno il loro ingresso nella hall, seguiti subito da una
festosissima padrona di casa che tiene in equilibrio su un vassoio
cinque flûtes
ripieni di un liquido rosato (“è analcolico,
tranquilla, Kells!”), Dom li saluta brevemente e poi annuncia
che andrà a fumarsi una sigaretta fuori.
“Così
ti perdi l’aperitivo, però!” lo
rimprovera Kate, ma inutilmente, perché il batterista ha
già superato il capannello di amici e si sta dirigendo verso
la veranda, dove c’è la porta che dà
sul cortile posteriore e la sdraio che, Dom ne è sicuro, al
momento non desidera altro che esser presa a calci da lui.
*
“Scordatelo,
Matt, non ti permetterò di indossare un turbante di perline
al mio
matrimonio!”
L’ilarità
di Kate - malamente celata dietro il tono secco e un gesto imperioso
della mano - si scontra col piccolo broncio che lentamente prende vita
sul volto di Matt, il quale, puntando la forchetta nel proprio piatto a
mo’ di pestata metaforica, produce una serie di schizzi dal
suo filetto che gli costano un Wolstens-guardo omicida.
“Ma
uffa, amore, perché no? Paul ce l’aveva!”
“Tuo
fratello ha sposato un’indiana, razza di imbecille”
interviene Chris, pulendosi dal volto gli spruzzi di sugo. La tregua in
realtà dura poco - giusto il tempo per Matt di biascicare
qualcosa che suona molto come “kamasutra
- chhrff - il bastardo!”
e poi il bassista è nuovamente all’attacco,
cercando già con lo sguardo la collaborazione del terzo in
causa, il quale però decide tacitamente di non intervenire,
continuando a spostare invece i piselli nel suo piatto in una maniera
che fa venire a Kelly la voglia di tirargli uno scappellotto e dirgli
che non si gioca col cibo a tavola.
“Beh,
guarda il lato positivo: ti sposi un’americana. Puoi vestirti
da... che ne so, da Elvis! E poi organizzare un matrimonio in stile
Vegas, coi lustrini, le piume e tutte quelle cazzate
lì!”
“Ma
a me nemmeno mi piace, ’sto Elvis!”
“Allora
non puoi sposare un’americana!”
“Chris!”
“Suvvia,
Kate, non è la fine del mondo! Meglio di lui li dan via col
3 per 2 al Sainsbury’s...”
“Oi!”
“Matty,
tesoro, ma è Elvis!”
“D’accordo,
diciamo che più che altro provo pena per lui quando quello
lì” e qui Matt indica Dom, ancora intento a
formare cumuletti di legumi nel suo piatto “si mette a
lagnare Love
Me - comesichiama?
Boh, chiuso in bagno. Per ore!”
“Tu
non apprezzi il suo genio, povera stella” interviene
sarcasticamente il bassista, versandosi dell’acqua. Matt beve
a sua volta un sorso di vino, prima di rilanciarsi
all’attacco, ignorando l’occhiata
d’avvertimento della sua fidanzata.
“Io
non apprezzo il suo chiudersi nel cesso per eoni, maledetto
ricchione!”
“Tanto
i capelli non ti ricrescono, Dom.”
“Fattene
una ragione, amico mio.”
“Comprati
un parrucchino? Non lo diremo a nessuno.”
“E
un vestito di piume. Quello lo diremo a tutti,
però.”
“Non
dargli certe idee, Chris, è già abbastanza
imbarazzante portarselo dietro così!”
“‘sto
qua fa sembrare virile persino te e le tue tutine di carta
stagnola...”
Kelly
schiaffeggia piano la mano di suo marito, ridacchiando beata quando
avverte l’acuta nota di protesta del cantante - uno squittio
indispettito seguito da una risata quasi isterica, alla quale dopo
breve si aggiunge anche quella di Chris.
“Però
potreste chiamare un gruppo a suonare, al matrimonio, tipo uno che
piaccia ad entrambi, no? Kate, qual è la tua band
preferita?”
Chris
e Matt sono presto uniti nello stesso appello disperato: “oh
no, no, Kelly! No! Noi non vogliamo ciò!”
Kate
tira fuori una linguaccia mentre si fa leva coi gomiti sul tavolo e
quasi urla: “I RADIOHEAD!” suscitando
un’esplosione di ilarità generale, Kelly
coprendosi la bocca e battendo una mano sul bracciolo della sedia,
gli occhi di tutti puntati nuovamente su di Dom.
“Finisce
che ti tocca mettere sotto protezione speciale il
testimone...”
“Vorrai
dire la damigella?”
“Bambiiini...”
C’è
un momento in cui tutti stanno zitti, poi Chris inizia a ridere e Matt
pure, mentre Kelly annuisce con affetto e inclina il capo un
po’ sulla sinistra per spiare meglio il batterista, rimasto
zitto fino a quel momento; le gote dell’uomo si sono tinte di
un rosa pallido e le labbra chiuse sono spiegate in una linea retta -
c’è qualcosa di triste, in
quell’apparenza, e la mamma che è in lei non
può fare a meno di notare che, con la scusa di alzarsi per
andare a fumare o rispondere alla telefonate, Dom non ha toccato cibo
da quando si sono seduti a tavola. Matt sembra aver notato la stessa
cosa, mentre si sporge, d’un tratto serio, e gli posa una
mano sulla spalla.
“Ehi,
il gatto ti ha mangiato la lingua? La carne era troppo cotta, non
è vero?”
Dom
alza lo sguardo dal piatto per puntarlo in quello preoccupato
dell’amico, posando la forchetta con disinteresse. Forse sta
per dire qualcosa, quando Chris interviene nuovamente.
“Nah,
è che ha paura d’ingrassare e non riuscire
più ad entrare nel suo vestito da cerimonia!”
Altre
risate si levano attorno alla tavola, ma stavolta Matt non si unisce al
coro, continuando invece a fissare Dom con insistenza via via maggiore.
“Vuoi
che ti faccia portare qualcos’altro? Del formaggio, forse?
Non hai mangiato neanche la pasta, ti senti -”
“Sto
bene, la carne è buona - ho solo poca fame.”
“Ma
-”
“Matthew,
amore, non stressarlo! Adesso andiamo a prendere la torta e se non la
mangia lo diamo in pasto a Yorke!”
“Figurati,”
interviene Chris indicando Matt con un cenno del capo:
“quello piuttosto gli venderebbe sua madre. Inoltre, Dom
è fondamentale ai fini della sopravvivenza del tuo uomo. Se
non ci fosse stato lui a fargli da balia, l’avrei ammazzato
secoli fa.”
Kate
ride e fa una linguaccia al bassista prima di alzarsi e sparire in
direzione della cucina, tornando poco dopo con la sua opera dolciaria:
si tratta di una crostata dall’aspetto decisamente invitante
- alta, soffice e dorata, ricoperta interamente di zucchero a velo e
fiori di glassa rosa. Dom sorride e dice “grazie”
quando gli viene offerta la prima, enorme, fetta; inspira forte
l’odore di cannella, assaggiandone un po’ - Matt lo
sta ancora guardando.
“Kate,
ma è buonissima!”
Chris
annuisce con convinzione all’indirizzo di sua moglie,
complimentandosi a sua volta con la cuoca, la quale ringrazia entrambi
prima di offrire un piattino al suo fidanzato.
“No,
amore, semmai dopo. Se adesso mangio qualcos’altro
scoppio...”
L’attrice
non sembra troppo dispiaciuta del suo diniego, e apostrofandolo anzi
con un “ciccione!”, prende nuovamente posto a
capotavola con la sua fetta - piccola nemmeno un terzo di quella che ha
servito agli altri.
“Katy,
mi dai la ricetta, poi? Guarda che è buona per
davvero!” chiede Kelly dopo qualche istante di silenzio in
cui tutti, tranne Matt, sono impegnati a mangiare la torta.
“Oh,
la ricetta è un segreto, non posso mica svelarla!”
ridacchia Kate assottigliando gli occhi con la lingua tra i denti.
“Beh,
posso sempre fungere da decodificatore - ero più bravo con
le birre, ma inizio a cavarmela anche col cibo. Allora...”
Chris prende un’altra forchettata e poi chiude gli occhi,
alzando una mano in maniera piuttosto teatrale: “...
mandorle. Qui ci sono sicuramente delle mandorle, e anche... arancia,
un aroma.”
“Indovinato!
Ma stai mancando l’ingrediente principale...”
“...
qualche bacca selvatica... ”
“...
no...”
“...
pesche...”
“...
no...”
“Caspita,
non -”
“Pensa
all’America, Chris!”
Chris
sta pensando ad Obama e al cioccolato quando la risposta - quella
esatta, finalmente - gli viene suggerita da una serie di suoni
soffocati provenienti dalla sinistra del tavolo; svanita d’un
tratto
l’atmosfera giocosa, il richiamo angosciato delle due donne
si fonde col rumore delle posate che vengono rovesciate, una sedia che
s’incastra nel tappeto ed infine la voce di Matt,
forzatamente calma e misurata su tutte.
“Chris,
aiutami a spostarlo - così, piano, alzagli le gambe. Vado a
prendere l’antistaminico.”
Due
braccia forti sollevano e portano sul divano il corpo semi-coscio di
Dom, poi il cantante scompare per qualche minuto prima di tornare
con una siringa ripiena di un liquido trasparente.
“Tienimelo
fermo così - piano, non fargli male.”
“Cristo,
Matt, sembra gonfio qui, guarda. Pensi che -”
“Di
solito va via così, non lo so - aspettiamo un
po’?”
“Si
può sapere che succede?”
La
vocina flebile di Kate si spegne nel silenzio della sala, e per un
po’ di tempo nessuno le risponde. Infine, comunque, Kelly si
decide a dirle qualcosa, più che altro per spezzare la
tensione.
“Non
preoccuparti, cara, è capitato anche a me. C’erano
le mele, no? Nella torta.”
“Beh,
sì, è un’American Pie rivisitata, ma ci
sono sempre le me-” Kate s’interrompe
all’improvviso, portandosi una mano sulla bocca, colpevole:
“oddio, l'allergia! L’avevo dimenticato!”
“Tranquilla,
fortuna vuole che l'abbia solo assaggiata - guarda, sta già
meglio! Pensa che io
una volta -”
“Ma
dico, sei cretina, cazzo?”
Il
tono di Matt spiazza tutti - sé compreso, probabilmente. Non
è realmente convinto che Kate abbia solo potuto pensare di
farlo apposta - che abbia deliberatamente tentato di avvelenare
Dom,
insomma - ma forse la preoccupazione, o la rabbia genuina, lo fanno
parlare in un modo che più tardi, già sa,
rimpiangerà di aver usato.
“Quante
volte te l’avrò detto, porca di quella puttana?!
Cos’hai dentro quella cazzo di testa? Ci poteva rimanere
secco, poteva - poteva soffocare, tu non sai! Se non avessi -”
“Io
non -”
“Tu
non che? Cosa, Kate? Pensi solo ai cazzi tuoi, cristo! Quando inviti
quelle psicopatiche erbivore delle tue amiche, a pranzo, ti ricordi di
non cucinare carne, però!”
Kate
boccheggia per qualche secondo, chiaramente offesa. Sta per replicare,
un tacco che pesta il parquet in segno di evidente irritazione, ma
viene interrotta da Chris che dice a Matt di darci un taglio,
scusandosi poi per lui. Il silenzio che segue è uno dei
più imbarazzanti ai quali il bassista abbia mai preso parte
e grazie al cielo viene presto spezzato da un rantolio debole
proveniente dal divano - poco più di un paio di consonanti
articolate insieme, in realtà, ma bastano
affinché il cantante si precipiti sull’amico per
accogliere meglio la sua richiesta.
“Ehi,
Dom. Ehi - va meglio? Vuoi che chiami un dottore?”
“N-no.
‘att - devo...”
“Cosa?
Vuoi dell’acqua? Chris, potresti prendere
dell’acqua, credo che -”
Ma
quando Dom si sporge dai cuscini, dritto con la fronte sulla sua
spalla, è già troppo tardi; dita sudate afferrano
la stoffa sulle braccia sottili, tirando e stressando il tessuto,
mentre già Matt lo sta aiutando a sollevarsi per condurlo in
bagno al piano di sopra, ignorando la pozza di liquido grigio-verdastro
che si allarga sul petto.
“Scu
- ‘usa, Matty, scusa, Matt, Matty -”
“Ehi,
va tutto bene, va tutto bene. Tranquillo - come ai vecchi tempi, okay?
Ce la fai a fare le scale, Dom? Ehi? Preferisci che andiamo in
giardino? Forse è meglio il giardino...”
“Scusa...
no, cioè, no, le scale, sì - scusa Matt, scusa
-”
“Ssht,
va tutto bene. Un piede davanti all’altro, okay? Allons-y?”
Entrambi
ignorano i richiami di Chris e la sua offerta d’aiuto,
scegliendo piuttosto di impiegarci il doppio del tempo ma di arrivare
da soli alla porta del bagno che dà sul secondo corridoio al
primo piano. Dom entra per primo, a fatica, e dietro di lui Matt, che
chiude la porta a chiave e abbandonandosi contro il murp dopo aver acceso la luce.
La verità, constata il cantante, è che Dom sta male - e non solo per uno stupido pezzo di torta di mele; l'istinto gli dice di scostare la schiena dalle piastrelle e andare ad abbracciarlo, incurante del puzzo di vomito che male s'armonizza con l'aroma pungente del suo dopobarba.
“Mi
dispiace davvero.”
“No,
non... stasera è - non è colpa sua, Matt, io
-”
“No
- no. Lo sai a cosa mi riferisco, Dom. Lo sai meglio di me.”
Dom
se lo lascia scappare mentre si piega con le ginocchia a terra ad
abbracciare la tazza, riversandoci poi tutto il contenuto del suo
stomaco a più riprese - spalle che tremano mentre le dita
scivolano bastarde sui bordi di ceramica.
"Stai con me?"
E
sì, gli dice Matt, mentre gli tiene indietro i capelli, i
polpastrelli a sfiorare la nuca e il collo come in una scena che si
ripete a distanza di anni luce, in un loop temporale.
“Sempre.”
Devo
essere supervelocissima perché consapevole di rischiare il
linciaggio per più di un motivo (ritardo? CHI HA PARLATO DI
RITARDO? UNO STREGONE BLABLA SONO GANDALF ALLORA TACI). Dunque, in
primo luogo, nessun batterista/criceto/cantante/torta è
stato maltrattato per davvero: questa è un'opera di fantasia
della mia mente perversa nella quale sono intervenuti qui e
lì apprezzamenti vari che mia madre ogni tanto fa nei
confronti di Bellamy (quella del 3x2, tipo, solo che era "meglio di lui
li dan via alla Rinascente col 3x2" però capite che in
Inghilterra la Rinascente neanche sanno cosa sia, quindi pace). Il
resto sono prese in giro di cui tutti ci facciamo carico, suvvia -
scagli la prima pietra chi non ha mai dato del ricchione a Dom!
è_é
Procedendo... sì, Matt e Kate trombano, e sì,
Kate vi batte tutte 10 a 0 perché così ho deciso.
L'è una figa e basta, non importa che abbia tentato di
avvelenarci il fattone di turno, okay?
Chris è malvagio, Kelly è incinta come al solito
e le mele sono rosse e molto pericolose per il nostro batterista
sfigato.
Ah, naturalmente la storia dell'allergia è vera, non ho
inventato nulla. Fatemi causa, se osate! TSK.
NOTE (da
eseguire al trombone senza armonizzarlo, così che
pare che qualcuno si sia messo a campionare il campanello di casa):
1. MALAGUENA SALEROOOOOOOOOSAAAAAAAAAAAA
2. DANDNADAAJAJJA *danza spagnoleggiante*
3. l'insulto originale da Matt a Kate dopo che questi scopre che la sua
donna ha tentato di fargli fuori l'uomo che vale più di sua
madre sarebbe dovuto essere, secondo
Stregatta: "CHE CAZZO VAI FACENDO IN CUCINA SE NON SAI
COSA CAZZO DEVI FARE, TROIA INCAPACE", ma infine abbiamo insieme deciso
che forse non era il caso
4. Chris palesemente non riesce a distinguere un carciofo da una banana
5. Matt non è Severus Piton
6. l'Esselunga oggi era chiusa e io ho fame
7. MALAGUEEEEEEEEENA SALEROSA!
8. chiaramente noi tutte ficwriters odiamo Dom, povera bestia
9. Bing è un figo
10. scommetto che le lasagne di Matt erano buone
11. io shippo Kagenio - Kate x Eugenio
12. non ero ubriaca quando ho denominato il pene di Matt Bellamy
'Eugenio', no
13. Paul, il fratello di Bellamy, ha davvero sposato un'indiana e Matt
ha preteso un turbante in qualità di testimone - a
proposito, l'ho deciso io che Dom sarà il testimone di Matt,
ma non sta scritto da nessun'altra parte
14. Thom Yorke ha avuto una discussione abbastanza accesa con Dominic -
i due sono quasi venuti alle mani, e la cosa mi diverte da morire
Citazione di inizio capitolo da 'No
Surprises' dei Radiohead, perché sono un troll.
Bon, pace e amore
addio.
Cheers!
x S
|
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Capitolo 5 *** _Pioggia ***
Meds
_everywhere
there's rain, my love
everywhere
there's fear.
*
Piove.
Beh,
non è che sia proprio una sorpresa, in realtà.
Questa è Londra, l’unica città al mondo
dove le previsioni meteo sono più scontate delle fragole al
Tesco - quando sono in offerta, ovviamente, altrimenti no, il mio bel
paragone si risolve in un’affermazione priva di senso che
però suona bene e venderà comunque
perché io sono un fottuto genio, un figo della madonna e tu
sei appena stato stregato dal mio fascino da cobra incantatore, har
har.
No,
non ci credo per davvero - neanche un poco, sul serio! - e anzi mi fa
ridere e al contempo mi preoccupa che il mio esser ridicolo e
totalmente inadeguato venga in genere interpretato dai media come una
sorta di ribellione al pensiero comune - al fottuto sistema, no?
Puttanate. Non mi piace che mi puntino contro una telecamera (ho una
faccia strana, sono brutto), odio parlare di cosa mi passa per la testa
quando compongo (niente?), non sopporto le domande del cazzo che alcuni
giornalisti si ostinano a propormi (da “qual è il
ruolo di Dio nella tua vita?” a “cos’hai
mangiato a colazione?” - sul serio?), intervista dopo
intervista - e quindi sì, continuo a dire in giro che voglio
suonare sulla luna o che allevo pecore nel tempo libero, che la pasta
al sugo mi fa piangere, che ammazzo polli nel mio giardino e che,
cazzo, al prossimo live show avrò un ufo ancora
più grande!, perché almeno questo darà
loro qualcosa di cui parlare. Più o meno, perché
poi se anche non hanno nulla di concreto per le mani, in
realtà, le cartucce della stampa son sempre piene di
inchiostro, e a scriver quattro cazzate non ci vuole certo
un’arte; è il caso (recente, ahimè) dei
giornali di gossip, quelle ridicole riviste sulle quali copertine
capeggiano sparaflashanti titoli in fuxia: “Matt (quando
azzeccano il nome giusto, perché ormai ho perso il conto
delle volte in cui sono diventato Max, Marc o David) Bellamy: tenero
amante o traditore incallito?” - e beh, allora no, neanche
vale la pena d’addentrarsi in quella giungla senza munirsi
prima di sciabola e katana, e la voglia d’armarmi contro dei
moscerini, in tutta sincerità, devo averla lasciata da
qualche parte insieme a quella di bere candeggina - o, tornando
nell’immediato, quella di alzare il culo e andare a
recuperare l’ombrello in macchina.
Sì,
perché piove e ho l’ombrello, ma ripararsi
è troppo mainstream per Matt Bellamy - noto rivoluzionario.
Dunque mi bagno, e anche se non c’è neanche un
filo di sole - né a dire il vero abbastanza luce da
permettermi di leggere il mio libro - indosso comunque delle lenti
scure (cerchiate di rosso, una figata assurda!) che nascondono la
stanchezza e le occhiaie. Sono a Hyde Park, su una panchina poco
distante da quella che una volta era la casa di Dom qui a Londra.
Persone - tante, alcune vestite come si conviene ad un funerale (poveri
sfigati, dev’esserci qualche ufficio qui vicino) e mamme che
trascinano via bambini che palesemente non hanno alcuna intenzione di
rinunciare alle meraviglie dello scivolo solo perché in
questa cazzo di città, ripetiamolo tutti in coro, PIOVE
SEMPRE -, continuano a sfilarmi davanti rivolgendomi occhiate
perlopiù curiose; non credo che nessuno di loro mi abbia
veramente riconosciuto come “Matt Bellamy,
l’ammazza-polli che suona in quella band di
sfigati” o tantomeno “Max Bellamy, quel topo che
sta con Kate Hudson”, ma devo comunque essere uno spettacolo
degno di nota, seduto qui come un coglione in occhiali da sole a
gocciolare acqua dai capelli e poi dalla punta del naso, dritta sulle
pagine del libro che sto facendo finta di leggere per darmi ancora una
parvenza di dignità.
Una
parte di me si sta effettivamente chiedendo cosa diavolo ci faccia qui,
alle tre del pomeriggio, solo e triste come il giorno in cui sono nato.
La verità? Non ne ho la più pallida idea.
Dovrei
essere agli Studios; oggi avevamo una sessione e ieri sera ho detto a
Chris che li avrei raggiunti, anche se in realtà
l’ho fatto più per far sì che la
smettesse di guardarmi neanche fossi merda sotto le sue scarpe quando
sono tornato giù in sala con il nostro batterista (che aveva
di suo già provveduto a rimproverarmi per la scenata a
tavola con Kate tra un conato, una scusa e altre preghiere
imbarazzanti, tra cui quella di tenergli la mano perché
aveva paura di sporcarsela e gli faceva ‘cioè
troppo
schifo, Matt!’.
Strano tipo, quel Dominic Howard). Kelly, poi, è stata anche
più eloquente: “se Chris si fosse rivolto a me in
quel modo, io l’avrei castrato con una pinzatrice”
mi ha detto salutandomi, un bacio sulla guancia sinistra e poi su
quella destra, le sopracciglia dislocate presso l’attaccatura
dei capelli ma il sorriso saldo sulle labbra. A volte quella donna mi
fa una paura fottuta - e dico sul serio. La coppia del buonsenso, ad
ogni modo, era già lontana dal quartiere di Primrose Hill
quando mi sono offerto di accompagnare Dom a casa; quindi, senza
pensarci due volte, l’ho afferrato sotto braccio, ho
attraversato il giardino, percorso 34 passi verso sinistra e aperto la
porta di casa sua, scortandolo fino al piano di sopra e poi a letto,
dove, dopo aver trascorso mezz’ora distesi a sparlare di
Kelly e del mondo femminile in generale, ho deciso non fosse il caso di
passare la notte - sebbene la prospettiva di portare avanti il nostro
piano di conquista per un mondo di soli uomini fosse comunque piuttosto
invitante.
Naturalmente,
se la reazione dei coniugi Wolstenholme mi era parsa esagerata, non ero
certo pronto alla dichiarazione di guerra attuata dalla mia donna: un
post-it sul frigorifero, sotto alla foto di noi tre - io, lei e Dom -
in Messico, il mese scorso.
“Le
lenzuola pulite sono nell’armadio in corridoio.”
‘Spero
che la pelle sintetica del divano nuovo cinga le tue palle in una morsa
infernale e ti eviri nella maniera più lenta e dolorosa
possibile - virgola - stronzo’ avrebbe
potuto aggiungere, ma Kate ha classe, e tra i suoi molteplici talenti
rientra quello di riuscire a concentrare una maledizione di livello
avanzato come la presente in una semplice, insignificante letterina -
poco più di uno scarabocchio, nell’angolino in
fondo a destra, una ‘K’
che pesa come il giudizio universale.
In
conclusione? Ho trascorso la notte in salotto, sì, ma per
ripicca ho fatto fuori un’altra bottiglia di rosso e una
busta intera di caramelle al mou, poi ho ho provato a realizzare degli
uccellini in origami con gli involucri colorati, solo che ho fallito
miseramente perché le mie capacità manuali, come
risaputo, si limitano ad una sega - che stringa un cazzo o una
chitarra, tra le dita, è poi in realtà del tutto
irrilevante.
Quando
mi sono svegliato stamattina sporgevo per metà dal divano,
sul parquet, dove la mia faccia si premeva tra un peluche di Bingham
(una rana gialla) e una caramella mezza masticata; gli scongiuri
taciuti della mia donna erano ancora una volta stati assecondati da una
sorta di deviata potenza celeste, a quanto pare, perché
oltre al caldo boia alle parti basse, il formicolio nelle dita dei
piedi e la sensazione di non possedere più una spina
dorsale, mi ero ritrovato incapace di fare altro a parte fissare, a
turno: la bottiglia vuota, il telecomando, il telefono e il neo che ho
sul polso destro. Scegliendo di credere che la nausea che mi aveva
colto all’improvviso fosse dovuta
all’insostenibilità dell’essere e delle
cose e non ai due litri abbondanti di vino che simpatizzavano col
toffee e il resto della cena all’interno del mio organismo,
non ho potuto fare a meno di notare comunque che c’era
decisamente qualcosa di strano - fuori tono - nella scena di cui mi
ritrovavo a far parte. Era vero, quello non era certo il mio lettone;
il profumo di brioches e bacon era stato rimpiazzato dal fetore inumano
dei miei piedi, e il tè, la mia fumante tazza di
tè nero, con latte e due cucchiaini di zucchero... beh, al
suo posto c’erano due dita di rosso che rotolavano sul fondo
della bottiglia - ma no, non era nemmeno quello il problema. Si
trattava di qualcosa di molto più sottile, come un patto
segreto, un serpente che agisce silenzioso. A fornirmi una soluzione
all’inganno di cui mi sentivo vittima, è stato
infine Dom, facendo esplodere il mio iPhone in una serie di note
stonate da qualche parte sul tappeto vicino ad un mezzo topo-uccello
turchese.
“Cazzo
vuoi.” ho mugugnato nel ricevitore.
“Buongiorno
anche a te. Non so se te ne sei accorto, ma immaginavo fosse lo stesso
il caso di avvisarti: un taxi ha appena rapito tuo figlio, la tua
quasi-moglie, la baby-sitter e una trentina di valigie. Tu ci vai in
bici in aeroporto?”
E
certo, perché Kate ripartiva oggi e ha deciso di sparire con
mio figlio senza neanche pensare di svegliarmi o quantomeno farmelo
salutare - poi sarei io quello che non riesce a controllare le proprie
reazioni, secondo Chris. Ebbene, lanciarsi in un inseguimento folle
nella propria Mini, in pantofole e con una caramella ancora appiccicata
alla guancia, in tale situazione, mi è parsa una risposta
piuttosto appropriata al comportamento maturo e del tutto responsabile
della mia donna. Almeno è quello che ho spiegato alla
statale quando mi ha fermato per eccesso di velocità - ma
devo avergli fatto abbastanza pena, perché si sono limitati
a controllare velocemente i documenti e a farmi una multa, poi hanno
permesso che ripartissi alla volta di Heathrow pigiando
sull’acceleratore con più foga di prima.
Ho
sempre odiato gli aeroporti - troppe persone, troppi controlli, troppo
tutto.
Quando
sono arrivato il tabellone delle partenze in fondo all’area
privata del check-in segnava le 10:41. Poco più sotto,
un’iscrizione in bianco su blu suggeriva che il tempo dei
saluti fosse arrivato per i viaggiatori del volo VS023 diretto a Los
Angeles - i quali, come gentilmente ricordava la voce dello speaker,
erano attesi al gate 28B per l’imbarco. Che culo, insomma.
L’eroica
impresa che mi ha visto protagonista questa mattina ha in effetti un
che di Hollywoodiano; sono abbastanza sicuro che i giornaletti
spaccia-pettegolezzi comincerebbero a prodursi da soli, se venissero a
conoscenza di questa simpatica storiella. Ebbene: Kate ha
già passato i controlli, quindi sono costretto a comprare un
biglietto per il primo volo disponibile (Dubai) al fine di essere
fisicamente in grado di vedere e salutare mio figlio; la mia solita
sfiga vuole che al check-in l’aggeggio impazzisca del tutto,
così perdo altri cinque minuti cercando di convincermi che
non vale la pena di mandare a puttane tutto scappando dalla security;
quando gli addetti ai controlli e alla sicurezza decidono finalmente
che sono, dopotutto, innocuo, mi lancio in una corsa folle lungo
metà del corridoio del Terminal 5 che si conclude con un
assistente di volo che mi blocca al gate mentre tento di far segno a
Kate - la vedo, la testa bionda e il fagotto che nasconde! - della mia
presenza; annaspo, perché l’ossigeno che mi
è rimasto nei polmoni non è abbastanza neanche
per chiamarla, ma lei mi sente lo stesso, perché si gira e
mi studia per qualche secondo, prima di decidere che sì,
forse è il caso di avvicinarsi.
Per
mia fortuna, l’esperienza da commediuccia per famiglie si
conclude bruscamente prima che possa fare la figura
dell’idiota romantico (in ginocchio a chiedere scusa
brandendo dei fiori sbucati dal nulla, tipo), e più
precisamente con me che prima inciampo, poi impreco ed infine le
rantolo contro non più di quattro parole in fila, in
realtà - qualcosa sulle righe di “Bing - partire -
perché - svegliare”; un finale che comunque Kate
sembra giudicare abbastanza appropriato, visto il modo in cui
finalmente si sporge per permettermi di giocare un po’ col
bambino e poi salutare entrambi con un bacio sulla guancia.
“Ti mando un messaggio quando arrivo” (‘se
non mi richiami immediatamente puoi dire addio ai tuoi privilegi da
fidanzato - virgola - stronzo’)
ha detto sistemando meglio il cappellino sulla testolina bionda
nuovamente serrata da una trincea di coperte e copertine; e poi niente,
si è imbarcata sventolando la mano con un sorriso plastico
al mio indirizzo e niente più. Sono uscito
dall’aeroporto scortato da un’assistente che
continuava a ripetermi che c’era ancora tempo per raggiungere
il gate riservato al mio volo (quello o ci stava provando, la tipa), e
fuori in parcheggio ho trovato un’altra multa ad attendermi
sul cruscotto, stavolta per divieto di sosta. Evviva.
Il
volo di Kate atterra a Los Angeles tra dodici ore - nove adesso, se ho
fatto bene i conti; la vera sfida consiste nel cercare di rimanere
svegli e sobri abbastanza a lungo, specie considerando la scarsa
quantità di ore di sonno accumulate nell’ultima
settimana. Ecco perché sono seduto a vegetare su una
panchina, bagnato fino al midollo, a far finta di leggere un libro
peraltro noiosissimo: per riposare la mente e rinvigorire lo spirito.
Forse.
In
realtà c’è un altro tizio sotto alla
pioggia insieme a me, ma lui sta facendo jogging ed è
coperto da capo a piedi da una di quelle tutine neon aderenti che lo
fanno assomigliare ad una sorta di catarifrangente mobile; una scelta
affascinante, in realtà - e poi mi piacciono le sue scarpe
(sono rosse, adesso voglio anch’io un paio di scarpe rosse).
Più in là, verso i cespugli,
c’è un povero disgraziato che porta a spasso un
alano largo due volte me e alto almeno cinque. Alla vista del cane
considero brevemente l’idea di chiamare Tom e chiedergli dove
sia, se gli vada un caffè - poi rifletto che probabilmente
è in studio a filmare con i ragazzi e che dovrei esserci
anch’io, quindi decido di fare un colpo a Dom, che invece
sarà sicuramente in ritardo e quindi ancora in giro. Come
previsto, quando risponde dopo appena uno squillo, il mio batterista mi
comunica per prima cosa che è ancora a casa.
“Sì,
sì, sì, lo so, scusa, sto arrivando, lo giuro,
infilo le scarpe e sono lì, un casino, la
lavatrice...!”
“La
lavatrice.”
“No,
sì - erm. Si è rotta. Cioè, ha
allagato tutto.”
“La
lavatrice.”
“...
eh.”
La
risatina rilassata che mi lascio sfuggire rovina la parvenza di
serietà e rimprovero che volevo dare alla telefonata -
almeno inizialmente, per scherzo. Dom ride con me. Idiota.
“Tranquillo,
neanche io sono agli Air.”
“Ah
- ah! Bene! Chris sarà contentissimo!”
“Lascia
perdere, guarda.”
Un
tonfo, uno sbuffo e poi rumore di carta.
“Quindi
non vai?”
Esito.
Non vado?
“Nah.”
“Ok.
Che fai allora?”
Non
lo so.
“Non
lo so.”
Suono
di bicchieri che vengono posati su una superficie dura, tipo marmo. Un
accendino che scatta e uno “puf!” dritto nel
ricevitore. Sta fumando, ora.
“Fumi?”
C’è
una pausa, come se Dom stesse pensando a cosa dire - a quanto potermi
dire.
“Mhhhh.”
Erba.
“Scommetto
che è erba.”
“Roba
buona, Bells. Roba buona.”
Dio,
quanto mi farei una canna in questo momento.
“Mi
fa piacere constatare che siamo regrediti allo stato di liceale,
Dommykins.”
“Smezzerei
con te, Matty caro, ma sai com’è.”
“Sai
com’è cosa?”
“Sei
una persona seria, adesso. A proposito, sei riuscito a recuperare la
tua famiglia di fuggiaschi poi, stamattina?”
“Una
persona seria, infatti. Sì, sì, alla fine
sì, ma ho rischiato seriamente di volare a Dubai.”
“A
Dubai.”
“Dubai.”
“Che
schifo Dubai.”
“Ma
sì, è assai banale, in realtà, nella
sua esagerazione. Come una bolla di platino pompato.”
“Amo
quando inventi termini di paragone solo perché nella tua
testa suonano bene.”
Come
dicevo prima?
“Ma
sta’ zitto. La lavatrice, Dom, seriamente?”
“...
oh, senti, vaffanculo.”
Dom
ride in quella maniera affezionata che riserva solo ed esclusivamente a
me e che mi fa sentire la persona più speciale al mondo. So
che è molto gay, ma è anche molto vero.
“Vieni
da me. Poi usciamo e ti porto a mangiare fuori, dai.”
“Dammi
il tem-”
Ma
ha già attaccato, lo stronzo, ed io ho finalmente mosso il
culo dalla panchina su cui sono stato seduto per più di due
ore.
*
* *
“È
colpa tua,” inizio, adocchiando male il mio batterista.
“È sempre colpa tua.”
Me
ne sto rannicchiato in una delle sue poltrone preferite; è
verde e blu con intarsi dorati e sembra un po’ un enorme
pavone impagliato, ma è anche estremamente comoda. In
realtà quest’affare è più
mio che suo - l’ho comprata tre o quattro anni fa in una
boutique d’antiquariato a Como e lui poi me l’ha
fottuta con una scusa ridicola durante l’ultimo trasloco; in
generale, è quella dove mi siedo sempre quando siamo qui a
prendere il tè, quindi sì, è a tutti
gli effetti la mia
poltrona, solo che è anche accidentalmente finita nel
salotto di casa sua.
È la più bella della sala, insieme con quella
rosa acceso, tipo fuxia, con la struttura in legno scuro -
gliel’ho regalata io nello stesso periodo e lui
l’ha scelta da subito come trono personale. Stanno
l’una affianco all’altra, in mezzo ad altre quattro
poltrone tutte diverse tra di loro per stile e colore, in una stanza
piccola e buia che profuma di dolce e tè - sempre di
tè. Il “salotto piccolo”
(perché poi ce n’è uno più
grande - enorme - al piano inferiore, dove Dom organizza le sue feste)
è la stanza che preferisco di casa Howard, insieme con la
terrazza della camera da letto - ma quella non è nemmeno una
stanza, quindi suppongo che questa vinca tutto.
“Che
colpa?”
La
cosa bionda appoggiata alla sua seduta con la tipica nonchalance del
predatore - sì, proprio Dom - non si è ancora
lanciata all’attacco, nonostante io tenga i piedi sul suo
prezioso tavolino. Riesco persino a stupirmi di avere ancora entrambi
braccia e gambe, mentre ficco in bocca quello che deve essere il terzo
brownie di fila.
“Questi
maledetti - ” bofonchio, masticando a bocca aperta:
“- cosi!”
Dom
mi guarda un po’ schifato, un po’ divertito, un
po’ fatto.
“Che
c’è, che hanno che non va?”
“Dimmelo
tu, non riesco a smettere di mangiarli!”
Resto
a guardarlo mentre si alza e ne recupera uno dal vassoio sul tavolino,
poi lo divide proprio davanti ai miei occhi, offrendomene una
metà. L’accetto.
“Da
quanto tempo non ti facevi una canna?”
La
risposta “tanto”
ha quasi la stessa valenza di “troppo”,
quindi assottiglio gli occhi e aspetto che la sua curiosità
si cheti da sé. Dom sembra rifletterci per un po’,
ma alla fine sta zitto e dà un morso alla sua parte tornando
a sedere con le gambe penzoloni sui braccioli della sua poltrona e la
testa sporta verso la mia.
“È
solo fame chimica, Ciccio-Bells. Mangia e non pensare alla
dieta.”
“Oh,
‘fanculo, pure tu con questa storia...”
“Che
c’è, la tua donna ti affama?”
“Mrppf.
No. Cioè, non proprio. Più che altro mira a farmi
sentire in colpa, sai?”
“È
una donna, Matt. È così che agiscono.”
“Dice,
tipo - tipo che ho sempre l’affanno quando finiamo
perché mangio troppa pasta.”
“Quando
finite cosa?”
“Di
scopare, Dom.”
Dom
si agita a disagio per un paio di secondi, una smorfia di finto
disgusto in volto.
“Errgh,
non avevo davvero bisogno di saperlo, ma grazie lo stesso.”
“Quando
vuoi.”
Entrambi
mastichiamo in silenzio per qualche secondo, gustando a fondo il sapore
ricco del cacao che esplode e permane a lungo sulla lingua. Quando Dom
parla di nuovo, la sua voce è strana, come se si stesse
strozzando con la sua stessa saliva.
“Fatti
meno seghe, Matt.” dice, ed io ci metto un po’ a
capire cosa intenda dire.
“E
come si fa?”
“Tieni
le mani lontane dall’uccello?”
“Scemo.”
Dom
sorride con la lingua tra i denti, prima di tornare improvvisamente
serio.
“Ehi,
va tutto bene?”
Sì?
No? Dovrebbe, ma in realtà no?
“Nottataccia.”
“Capito.”
Mi
raddrizzo un po’ meglio mentre lui posa il pezzettino di
dolce nuovamente sul vassoio, poi torna a stendersi con le gambe in
bilico sulle mie, punzecchiandomi piano con il dito indice.
“La
ciccia andrà via con il tour, Bells, vedrai.”
“Dici?”
“Ma
sì, e tutti torneranno a minacciare di nutrirti con una
flebo.”
“Bei
tempi quelli.”
Dom
corruccia le sopracciglia prima di distenderle di nuovo, insieme al
resto del viso, in un sorriso che in realtà non somiglia per
nulla a se stesso.
“Bei
tempi, già,” inizia, piano: “se non
contiamo tutte le volte in cui mi hai fatto cagare sotto dalla paura
con le tue stronzate, Matt.”
Taccio.
Sì, Dominic è una delle poche persone al mondo -
l’unica oltre a mio padre, ma per motivi totalmente diversi -
che riesca a mettermi a posto con una sola frase, e questo è
uno di quei momenti in cui io resto a fissarmi le dita in silenzio
mentre lui internamente si chiede se sia il caso di scusarsi o meno. A
quanto pare lo è, perché presto una sua mano
è sulla mia e la stringe, senza dire nulla perché
entrambi sappiamo che non ce n'è bisogno.
C’è
questa cosa, tra noi due, come una specie di patto taciuto che
stabilisce che di alcune cose non si parli più - insieme ad
altre mille clausole del tipo dire-fare che puntualmente vengono
infrante quando alziamo troppo il gomito; una di queste è
l’anno 2000.
Quando
Dom parla di “stronzate”, non si riferisce a quelle
a cui tutti noi e quelli attorno alla band abbiamo assistito o preso
parte; quando dice che l’ho fatto cagare sotto dalla paura,
non intende ricordare la sera in cui mi hanno minacciato e poi derubato
del tourbus per un debito che avevo con un paio di strozzini di Exeter;
quando Dom ripete che quelli erano bei tempi, lo fa solo per farmi
pesare la bugia, mentendo a sua volta.
Ci
sono cose che restano e resteranno solo tra noi due: sono i tagli sulle
mie braccia e le magliette a cui tiravo giù le maniche tra
le dita fino a deformarle per nasconderli; sono le volte in cui mi
affamavo per giorni e poi giacevo svenuto nella mia camera
d’albergo fino a quando non arrivava lui con la chiave di
riserva ed un panino al tonno; sono le notti trascorse schiacciati in
due in una sola cuccetta, sono i giorni in cui sparivo senza dire nulla
e il modo in cui lui mi chiamava “stupido
coglione”
quando mi ritrovava, tremante per lo spavento e la rabbia. Sono tutte
le fottute volte in cui Dom e solo Dom non solo ha teso una mano, ma si
è calato giù con una corda e ha assicurato la mia
vita ad un gancio mentre mi tirava fuori da un baratro mai pienamente
compreso. Non è detto che ne sia mai uscito, in
realtà - non è possibile semplicemente ‘smettere’
di essere depressi, per quanto ci provi - ma lui è sempre
stato lì con me, pronto a far tentennare la fune in caso di
necessità, senza aspettarsi mai un “grazie”
se non un “vaffanculo”.
Gaia
una volta mi disse (e doveva essere piuttosto sconvolta,
perché io ero ubriaco e ricordo anche che le risi in faccia)
che era sua convinzione che Dominic fosse innamorato di me; qualche
mese dopo ci siamo lasciati per un motivo assolutamente idiota (un
video di me che ‘ballavo’ con una in un club di
Manhattan), una cosa così stupida, così assurda
(nemmeno me l’ero scopata!), che crederci mi risulta ancora
difficile anche dopo tutto questo tempo.
Anzi,
una parte di me pensa che le due cose - Dom e la gelosia - fossero in
realtà correlate, che quella del video sia stata solo la
proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché
era da tempo che tra di noi le cose andavano male.
“Ehi.”
Facevamo
proprio schifo come coppia, io e Gaia.
“Matt?”
Ma
almeno ero innamorato di lei.
“Scusa,
ero distratto.”
Dom
mi sta fissando, un’unghia che gratta l’interno del
mio palmo sinistro, leggera. Fa il solletico, ma non gli dico di
smetterla.
“Ordiniamo
qualcosa qui e poi usciamo a bere, ti va?” propongo,
più per spezzare il silenzio che altro. Lui si ferma e non
mi risponde, studiando invece ancora per qualche secondo un punto
imprecisato sulla mia faccia. È allora che mi sovviene
l’idea che magari non abbia voglia di passare la serata con
me, perché Dom ultimamente è un po’
così - mi evita volentieri, diciamo, quando può.
“Cioè
- se ti va, intendo. Non volevo dire che - tu oggi hai detto...
però se hai altri programmi, insomma, dimmelo, non farti
problemi, io -”
“Thai?
Anzi, ti va bene anche il cinese? Ho voglia di Chiao-tzu.”
Mentre
parla, Dom si alza per recuperare il telefono dal tavolino, ma non
molla la presa sulla mano, tirandola invece per farmi segno di
allungarmi con lui.
“Poi
dopo ti porto in un posto carino, un bar appena fuori dal
centro.” Dice, sventolando la mano in una direzione
immaginaria. “C’è sempre qualche band
che suona e tanto buon vino, ti piacerà.”
L’idea
di uscire e distrarmi un po’ non mi dispiace, anzi; in
momenti come questo credo sia fortemente necessario, perciò
annuisco con convinzione alla proposta e stringo di più le
sue dita tra le mie quando si risiede sulle mie ginocchia,
già al telefono per l’ordinazione.
“Voglio
anch’io i ravioli! E poi il riso alla cantonese, il pollo
alle mandorle, gli involtini e il gelato...”
Dominic
allarga sempre la bocca più che può quando
sorride.
*
* *
“Vado
a prendere da bere e torno!”
Quella
è stata l’ultima frase che gli ho sentito dire
prima di ritrovarmi abbandonato in compagnia di una vaschetta di
arachidi troppo salate e dei salatini ammuffiti al bacon. Sono passati
almeno 30 minuti ed io non vedo Dom da nessuna parte. Quando la musica
cambia ancora una volta da un ritmo soft-pop ad una serie di rutti
rimasterizzati da qualche testa di cazzo che gioca a fare il DJ (e la
spacciano per elettronica, dico), decido che ne ho avuto abbastanza e
mi lancio alla sua ricerca, dirigendomi direttamente verso il bar. Una
parte di me si aspetta di trovarlo nella posizione
dell’iguana rovesciato, disteso su tre quarti del bancone
mentre cerca di attaccare bottone con Miss Guarda-Che-Tette o
Guarda-Che-Culo, ma così non è. In
realtà, Dom non è neanche tra la gente in fila
per i propri drinks, o tra i cumuletti fermi a chiacchierare
nell’area immediatamente prima ed io devo sembrare proprio
una mamma chioccia mentre allungo il collo alla ricerca della sua
testolina bionda tra la folla di persone presente nel locale.
“Matt?
Matthew
Bellamy?”
Ohcristosignorenononotipregononononotipregocosahofattodimaleno-
“Erm
- err. Sì?”
Tizia-Che-Sa-Il-Mio-Nome
ha già una mano sul mio braccio mentre miagola una scusa in
un inglese improvvisato.
“Sono
ici
pour
la
band, loro miei... amisci?”
“Oh,
erm. Bello, sì, anch’io.” mento,
voltandomi verso di lei e... oh, porca
puttana.
“Sei
solo?”
La
ragazza che mi ritrovo davanti è molto bella. Tipo, davvero
molto bella. Ha un’aspetto mediterraneo -
dev’essere francese, a giudicare dall’accento.
Indossa
poco trucco, e ciò me la fa piacere ancora di più.
“Sono
con... erm. Un mio amico, ma -”
“Lo
so? Dominic
è andato avec
Thierry,
ha detto che dovevano... parlare.”
Chi
cazzo è Thierry?!
“...
Thierry?”
“Lui
è un
ami de Dominic,
suona nella band.”
Quindi
Dom mi ha mollato per le sue public relations. Il solito - bello
stronzo.
“Se
torna gli dici che -”
“Moi,
je suis Cécile.”
Ah.
“Oh.
Er - je...
Mathieu?”
Con
un brivido mi accorgo che la mano che era sul mio braccio si
è spostata sulla mia spalla, e che la bella francese mi sta
usando come appoggio per ballare. Trascorriamo un po’ di
tempo così, qualche minuto o forse di più,
semplicemente muovendoci con la musica (questo è ancora
l’effetto dell’erba) e scambiando qualche parola di
tanto in tanto. È un via-vai di shots, dalle nostre parti -
offerti dalla band, a quanto pare - e il passo dall’essere
semplicemente brillo a completamente ubriaco è
più breve della gamba.
“Sei
una groupie, non è vero?”
Cécile
sorride eloquente scostandosi una ciocca dal viso.
In
quel momento smetto di pensare.
“Posso
offrirti ancora qualcosa da bere?”
Cosa
sto facendo.
“Mmh,
pensavo ad un’altra chose...”
“Sentiamo,
allora - come posso aiutarti?”
“Vieni
con moi?”
Ha
gli occhi come l’oro, Cécile, e i capelli del
colore della terra; la sua pelle è chiara ma lievemente
abbronzata sul viso, e un polso delicato sbatte contro il mio prima di
afferrarlo e tirarmi con sé verso la fine del corridoio del
bar, nelle toilettes degli uomini.
Non
ho neanche il tempo di abituarmi al suono del suo nome sulla lingua,
perché la sua bocca trova subito la mia, mentre occhi e mani
vanno alla ricerca un cubicolo libero. Infine ci rinuncia, decidendo
invece di farsi leva sui miei fianchi e salire su uno dei lavandini
allineati contro lo specchio, le gambe allargate ad accogliermi nel
mezzo - dita che già hanno trovato la zip dei miei pantaloni
e tirano giù insistenti. In un attimo sposto quella patetica
imitazione di gonna e le sfilo il perizoma di pizzo, toccandola con
insistenza dove le cosce si dividono, preparandomi a prenderla senza
troppi indugi... ma poi qualcosa deve andare storto, perché
inizia ad agitarsi e a dire cose che non capisco nella sua fottuta
lingua.
“Non
senza
- sans préservatif! Muovi via!”
Il
preservativo?
“Andiamo,
bellezza, sono pulito...”
“Non!
Non! Qu’est-ce que tu fais?!”
“MATT!”
Sono
ubriaco. Sono davvero molto ubriaco e probabilmente anche estremamente
ridicolo in questo momento - chiappe all’aria in un bagno
pubblico - ma riconosco comunque la voce che mi chiama, e le mani che
mi afferrano e mi portano lontano dal calore delle cosce di
Cécile, dritto sul pavimento sporco.
“Cécile,
qu’est-ce qu’il y a?”
Voci
concitate in francese riempono la piccola sala, mentre Dom si avvicina
e mi strattona senza troppe cerimonie, facendomi segno di tirarmi su i
pantaloni ed uscire immediatamente dal bagno, in silenzio.
“È
lui, non è vero?”
“Thierry,
per favore.”
Un
uomo scuro in volto e alto almeno due me messi l’uno
sull’altro ci squadra con uno sguardo indecifrabile - prima
Dom, poi me e poi ancora Dom, fissandosi lì.
“Guardala,
guarda la nostra Cécile, Dom. Sta tremando.”
Cécile
non sta affatto tremando, noto. La stronza anzi sorride, allargando di
più le gambe.
“Sono
sicuro che starà bene. Matthew, tu vai in
macchina.”
L’uomo
francese - Thierry
- caccia fuori una risata divertita, mentre torna a guardarmi.
“Ma
no, può restare anche lui. Sentiamo...”
“Non
t’azzardare, non ci provare neanche Thierry,
non -”
“Il
tuo amico è grande abbastanza per sapere che il mondo non
è tutto rose e pompini, non?”
A
questo punto Dom mi sposta e prende ad urlare frasi in un francese che
non riesco a capire, ma io ancora non mi muovo; non è che
sia scemo o abbia troppa paura in questo momento - certo, sono piccolo,
molliccio ed ubriaco e Thierry
è grosso il doppio di me - ma c’è
qualcosa nell’aria che mi suggerisce di restare zitto, per
una buona volta. È il modo in cui il mio migliore amico mi
vuole fuori di qui - fuori dalla questione - prima che possa
comprendere cosa stia succedendo: è quello che mi fa
rimanere inchiodato dove sono, lo sguardo fisso sulla scena davanti a
me.
“Vuoi
sapere che ci faceva Dominic
qui con me, non è vero?”
Per
quanto Dom si sforzi di parlare nel suo francese storpiato, comunque,
Thierry pensa bene di ignorarlo continuando a rivolgersi a me in un
inglese perfettamente comprensibile.
“Il
nostro amico - Dominic”
e
lo dice calcando quello stupido accento sul suo nome. “vedi,
io gli ho fatto un favore, e adesso lui mi deve qualcosa in cambio.
Semplice, non?”
Annuisco
una volta, voltandomi a guardare Dom. Thierry lo tiene per un braccio,
stringendo la pelle attorno all’osso tanto forte da lasciare
un alone bianco attorno alla presa.
Sono
abbastanza sicuro che gli stia facendo male.
“Vedi,
mi ha detto che stasera aveva ‘altri impegni’ e di
‘togliermi dalle palle’. Scortese da parte sua, non
trovi?”
Annuisco
ancora, perché non so cos’altro fare.
“Tu
li sai succhiare i cazzi, Mathieu?”
Cécile
approfitta di quel momento per scendere dal suo trono di porcellana e
infilarsi le scarpe, sussurrando qualcosa nell’orecchio di
Thierry prima di uscire. Dom sta tremando, e per la prima volta da
quando ho cominciato a rendermi conto di cosa sta accadendo, capisco
che ha paura.
E
capisco anche perché.
“Quanto
vuoi?”
La
domanda lascia le mie labbra prima che mi accorga di averla formulata,
e una mano è già nella giacca alla ricerca del
portafogli. La cosa diverte Thierry al punto che lascia andare Dom per
mettersi a ridere, lanciandolo nella mia direzione.
“È
proprio divertente il tuo amico.” dice, mentre apre un
rubinetto e si spruzza un po’ d’acqua sul volto.
“Prima fa il porco con Cécile
e poi fa tanto il prezioso per un cazzo in bocca.”
È
solo dopo essersi asciugato con cura le mani sotto l’apposito
erogatore d’aria calda che Thierry lascia cadere una bustina a terra,
proprio ai miei piedi.
“La
semaine prochaine, Dominic.”
Tutto
ciò che riesco a sentire per qualche minuto dopo - oltre ai
suoi passi che si allontanano - sono i respiri profondi di Dom al mio
fianco; il bianco nel pacchetto perde d’importanza di fronte
al modo in cui gli tremano le gambe e quasi non riesce a stare in
piedi. Non ci penso due volte prima di avvolgergli un braccio attorno
alle spalle e guidarlo verso l’uscita, verso
l’auto, verso casa.
*
* *
Kate
mi ha mandato un messaggio due ore fa, comunicandomi brevemente di
essere atterrata. Ho detto a Dom di prendere il mio telefono e scrivere
invece a mia madre, dicendole di lasciare le chiavi della nostra
vecchia casa nel vaso delle ortensie vicino alle scale.
Radio1
passa una vecchia canzone di Tim Buckley mentre parcheggio nel vialetto
di fronte alla rimessa. Aspetto che finisca prima di spegnere il
motore, continuando a cantarla per un po’ nella mia testa.
Piove,
nel Devon.
Allora (60 minuti).
Brevi note necessarie su questo capitolo - tipo le traduzioni di tutta
quella roba in francese per quelli che non masticano lumache:
Ici pour : qui per;
Avec: con;
Moi, je suis Cécile: io sono Cecilia;
Chose: cosa;
Moi: me;
Sans préservatif: senza preservativo (poi un giorno vi
racconterò di come sia finita su milioni di siti francesi
sui metodi di contraccezione);
Non! Non! Qu’est-ce que tu fais?!: No! No! Che stai facendo?!
Cécile, qu’est-ce qu’il y a?: Cecilia,
che succede?
La semaine prochaine: La settimana prossima
Non c'è molto da dire, in realtà - o forse
troppo. Nel senso che boh, i personaggi stanno assumendo uno spessore e
qualcosa che somiglia ad un plot comincia a farsi vedere, anche se
andiamo in direzione totalmente opposta alle puccioserie romantiche.
Perché, vi avevo dato l'impressione che potesse esserci
qualcosa di lindo e love-love - a parte il Bing, ovviamente, al quale
va tutto il mio ammore di zia adottiva - in questa storia? HAH, illusi.
Bon, chiudi qui ché stasera non è proprio il caso
di stare qui a pettinare le bambole... ringrazio come al solito
chiunque legga, favorisca e commenti questa storia, oltre alle
magnifiche nainai, Leni e Stregatta che mi sopportano ancora nonostante
io inizi a somigliare davvero al caro Mecciu. Motor-mouth e
lagnosità generale, intendo - oltre al fatto che la scena
iniziale di lui sotto alla pioggia in un parco è totalmente
autoreferenziale. XD
In omaggio, la canzone che Radio1, bastarda, decide di passare nei
momenti meno opportuni, nonché la stessa che dà
l'incipit musicale al capitolo
(http://www.youtube.com/watch?v=9UusLG4lasI)
Baci e spremute,
S.
|
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Capitolo 6 *** _Cera ***
Meds
Teignmouth
(Devon), 10 giugno 1994
but
I'll still take all the blame
'cause you and me are both one and the same
and it's driving me mad
and it's driving me mad
"D'accordo,
facciamo che te lo ripeto ancora una volta per vedere se ho
capito bene," inizio massaggiandomi piano le tempie con la punta delle
dita. "Hai ricevuto trecento sterline per il tuo compleanno e
adesso vuoi che io le butti in mare per te. Giusto?"
Sono
le dieci passate.
Poco
più di due ore fa Matt ha bussato alla porta di casa, e
il Fato (quella puttana) ha voluto che ad andare ad aprirgliela fosse
proprio mia madre - interrotta, per di più, nella delicata
impresa di rimuovere la sua famosa fishpie di gamberi e calamari dal
forno. Ora: Matt adora la fishpie di gamberi e calamari, e mia madre
adora Matt, e siccome da quando lo conosco in questa casa vige
l'improvvisa logica del "dove
mangiano quattro mangiano anche cinque",
il risultato è stato un invito a scrocco per lui ed un
cerchio alla testa delle dimensioni del maggiore degli anelli di
Saturno per me. Ha trascorso tutta la cena parlando ininterrottamente
dell'importanza di coltivare vegetali nel proprio giardino con mio
padre - che peraltro annuiva pure in maniera convinta! -, beandosi dei
complimenti di mia madre circa il suo nuovo taglio di capelli ("Dom,
tesoro, dovresti tagliarli anche tu come Matthew - guarda come mettono
in risalto gli zigomi così corti!") e alla fine
ho dovuto
praticamente trascinarlo di peso su per le scale ed in camera mia per
capire perché, in primo luogo, abbia deciso di venire a
smerigliare i maroni proprio a me stasera.
Sapevo
che avrei dovuto ignorare la mia sete di conoscenza e lasciargli
mangiare il dolce.
"Precisamente.
Non vicino agli scogli, però - andiamo al
telescopio e te le butti da lì."
Seduto
con i piedi sul mio letto, Matt mi guarda con una strana, pazza,
luce negli occhi, quella di chi non ha pienamente compreso il peso
delle proprie parole - o che al contrario ne è perfettamente
consapevole, e per questo fa ancora più paura.
"Potremmo
dargli fuoco prima di lanciarle in acqua, eh?"
A
quel punto abbandono ogni tentativo di comprensione a favore della
solita, scettica, occhiata di traverso.
"Ma
ti sei scemunito?"
Ci
sono solo due cose, del soggetto Matt Bellamy, che
non mi
sono mai state - e mai saranno - pienamente chiare: la prima
è 'Matt'
e la seconda è 'Bellamy'.
Se posso dire
di avere una certezza nella vita, tuttavia - beh, quella è
che il mostriciattolo iperattivo che mi sta imbrattando il copriletto
con le suo schifossisime scarpe non abbia tutte le rotelle al loro
posto.
"No."
Sebbene
neghi.
"Sì,
Matt, sono trecento sterline!"
Matt
si tiene impegnato tirando e stressando le maniche della sua
vecchia felpa, lo sguardo che sfugge con un'abilità
raffinata nel corso degli anni. In risposta alla mia obiezione non fa
che alzare le spalle, masticando un "borghese del cazzo"
insieme ad un "non sai proprio divertirti".
"Beh,
mi scusi tanto, signor
Marx, ma io non trovo affatto divertente
l'idea di dare fuoco as un mucchietto di banconote!"
"Perché
i soldi hanno corrotto la tua mente. Sono solo pezzi
di carta, Dom!"
"Pezzi
di carta con un valore!"
"Solo
perché tu
vuoi darglielo!"
Sbuffo
esasperato, le mani che salgono dalle tempie a tirare i capelli
alla loro attaccatura. Lo stronzo sta solo cercando di farmi perdere la
calma così avrà una scusa per fare altrettanto;
la cosa grave, però, è che ci sta andando
pericolosamente vicino.
"Okay,
Matt, va bene. Ti serve una nuova chitarra - me lo hai detto
l'altro giorno che ti servivano i soldi per una chitarra. Allora?"
"Non
m'importa. Quest'estate lavorerò," inizia gesticolando
con un braccio verso la finestra - verso il mare, verso il Pier -, ma
prima ancora che possa riprendere a parlare lo interrompo con la
domanda che avrei dovuto porgli la prima volta che mi ha illustrato il
suo brillante piano per l'estinzione del Capitalismo a Teignmouth.
"Ma
scusa, eh, perché adesso questi vuoi buttarli via
così? Ti lamenti sempre che sei senza un soldo!"
"Mi
piace lamentarmi, lo sai. Esempio: mi fa male la pancia,
ohi ohi,
quanto mi duole!"
"Idiota."
"Cos
- oh! Mi ferisci così! Ah, come
duole! Il
cuore! Il dolore!"
Come
ampiamente previsto, Matt evita di darmi una risposta concreta.
Sfortuna (sua) vuole che gli anelli attorno alla mia testa abbiano
iniziato a vorticare pericolosamente vicini alla sua orbita.
"È
per questo che ieri hai fatto finta di non esserci in
casa?"
"Non
avevo voglia di -"
"Per
poterti lamentare oggi di quanto fossi rimasto solo e triste e
abbandonato a suonare il piano nella tua fetida stanzetta il giorno del
tuo compleanno?"
"Cosa
-"
"Io
e Tom, e anche Chris, siamo venuti a cercarti, e invece -"
"Ma
di che cazzo stai parlando, Dom?!"
"Di
te, Matt, delle tue fottute manie di protagonismo! Tutta questa
storia è - - è ridicola, cazzo! I soldi - - ma
sai cosa, Matt? Li hai rubati, non è così? E
adesso non sai che farne, quindi vuoi che io -"
"Io
non li voglio quei soldi! NON
LI VOGLIO I SUOI CAZZO DI SOLDI, HAI
CAPITO?"
Un
colpo alla porta e un educato "ragazzi, posso entrare?" si
interpongono tra le parole che io stesso non riesco più a
trovare e lo scatto iroso di Matt, che ritorna a sedere sul letto prima
di voltare nuovamente lo sguardo alla finestra. Mia madre,
apparentemente ignara dei recenti sviluppi del nostro incontro, si fa
beatamente spazio nella stanza, dandoci le spalle mentre appoggia
qualcosa sulla scrivania. La scena ha del surreale - non può
non averci sentito bisticciare.
"Ci
ho messo un secolo a trovarle," inizia, prendendo a frugare tra le
tasche della vestaglia che indossa "avevo solo queste in casa, mi
dispiace, caro, Dominic non mi ha detto che saresti venuto a cena
stasera..."
"Io
non lo sapevo che sarebbe -"
"Dominic,
dammi un accendino," mi interrompe (per la seconda volta),
allungando una mano nella mia direzione. "Non fare quella faccia,
figliolo, lo so che fumi."
Quando
si sposta, rivelando finalmente ciò che temevo stesse
nascondendo, il mio cuore incontra lo stomaco a metà strada
e decide con lui di unirsi in un unico, dolorante, organo; per qualche
ridicolo motivo non riesco a distogliere lo sguardo dalle mani che
reggono il piccolo vassoio - le unghie corte, ma curate -
eleganti e amorevoli.
Due
candeline (una delle quali sciolta per metà e rosa) fanno
capolino su
una piccola fetta di meringata al limone - la preferita di Matt. La
mamma canta piano "tanti auguri", scusandosi poi più volte
perché è stonata, perché è
goffa, perché è poco, perché
è in ritardo e perché l'aveva dimenticato.
Ovviamente
mente, lo fa per gentilezza; sul calendario, giù,
in cucina, si può chiaramente leggere "Compleanno Matthew B.
(16)" sotto alla data 9 giugno. Non ce l'ho scritto io,
figuriamoci -
né Emma (che fino ad un paio di anni fa aveva una cotta
non-così-segreta per Matt); ce l'ha scritto lei. Mamma
cerchia anche in verde le date in cui la nonna di Matt ha i suoi
controlli all'ospedale, e in rosso quelle in cui, più
raramente, sa che Marilyn sarà in città per far
visita a suo figlio. Questo l'aiuta a considerare che tra un cerchio
rosso e l'altro spesso trascorrono mesi, mentre quelli verdi si
rincorrono con frequenza quasi settimanale; è per questo che
è così con lui, che lo coccola e lo vizia come se
un po' fosse suo. Mamma sa che non c'è nessun altro che gli
prepari una torta per il suo compleanno.
"Soffia,
via, tesoro: esprimi un desiderio!"
Il
desiderio di Matt deve essere qualcosa di incredibilmente
impegnativo, penso, perché non l'ho mai visto tanto
concentrato in vita sua come in questo momento; poi realizzo che
probabilmente è solo imbarazzato, perché Matt
è così, lui non è abituato alla
formalità degli auguri, o dei complimenti - è
sempre sulla difensiva, sempre pronto a dire "no".
Probabilmente
starà desiderando che mi spunti un terzo
capezzolo, o che l'uccello mi cada via secco all'istante; che gli
alieni atterrino sul davanzale della sua finestra e se lo portino via,
che riesca a crescere ancora di 20 centimetri in altezza prima della
fine dello sviluppo, che il suo dente si raddrizzi, che sua nonna la
smetta di dimenticare le cose, che il Teignmouth Community College
imploda...
È
troppo tardi quando mi accorgo dei pugni che tremano -
delle spalle che sussultano - della labbra strette così
tanto che sono divenute bianche; Matt è già tra
le braccia di mia madre quando inizia a singhiozzare per davvero, ed io
mi sento così inutile e così uno schifo e
così incredibilmente egoista che prendo in seria
considerazione l'idea di darmi fuoco con le candeline ancora accese.
Sono
sei minuti - li conto sull'orologio; sei pietosi minuti di smoccio
e parole indecifrabili e "oh, tesoro", e poi finisce così
com'è iniziata, con mia madre che riporta il vassoio sul
letto, agguerrita, e comanda a Matt di esprimere un desiderio,
soffiando via le sue lacrime con una risata.
"Dom,
vieni qui, suggeriscigli qualcosa!"
Non
sono così sicuro di volermi unire alla scena che mi
trovo di fronte, ma il buonsenso e il sincero affetto che provo nei
confronti della bestiolina che tenta di nascondere gli occhi gonfi come
se non avessi assistito al tutto da un punto di vista privilegiato, mi
spingono comunque a farmi spazio al suo fianco, fino a toccarlo con la
spalla.
"Ai
Muse?"
Per
un attimo penso che Matt possa mettersi a piangere di nuovo, oppure
magari che mi tiri un pugno; ovviamente mi sbaglio. Sorride un po' -
dente che spunta tra la schiera di compagni come un'erezione
inopportuna - e poi abbassa il capo fissando lo sguardo sui mozziconi
ancora accesi sulla fetta di torta.
"Ai
Muse,"
ripete, con più convinzione di quanta ne abbia
usata io nel suggerirlo. La cera delle candeline si è
disciolta del tutto, chiazzando le merighe chiare di rosa e azzurro.
"Alla loro vittoria alla Battle
of the Bands."
E
poi soffia - ma è inutile, in realtà;
è già tutto spento.
Abbiamo
passato gli ultimi due mesi a provare e riprovare i
pezzi per quel dannato contest, chiusi sera dopo sera nella sala musica
del nostro College; Matt è diventato il cantante quasi per
caso, dopo quella volta in cui Chris si prese la tracheite e lui si
offrì di sostituirlo per suonare comunque la sera in un
locale di Plymouth. Ha una voce fantastica - sottile, acuta - ma allo
stesso decisa e vellutata anche sui toni più bassi, un po'
come una carezza. Non gliel'ho mai detto, però. So che non
vuole sentirselo dire.
"Beh,
chi vuole una tazza di tè?"
La
voce di mia madre mi riporta bruscamente alla realtà.
Sta
ancora tenendo una mano pallida tra le sue - lo sguardo di chi
è preoccupato, sì, ma che al contempo sa che
andrà tutto bene. Sia io che Matt muoviamo il capo in un
cenno automatico di diniego; quella del tè non è
tanto un'offerta reale quanto una scusa qualsiasi per abbandonare la
stanza, ed infatti il tempo di un ultimo abbraccio e poi la mamma torna
di sotto, lasciandoci nuovamente soli.
Rimango
a fissare per un po' le chiazze bagnate sulle maniche di Matt -
quelle con cui deve essersi asciugato il viso qualche minuto fa. Non so
se sia ancora il caso di parlare, quindi lo stringo un po' al mio
fianco e poi poso la testa su una spalla ossuta, chiudendo gli occhi
lì.
"Mi
dispiace."
E
lo dico solo perché è vero, mi dispiace.
"Adesso
me ne vado, tranquillo. Solo," e tira su col naso, Matt,
guardandosi attorno indeciso per qualche istante. "Niente, lascia
stare."
"Matt,
dai, scusa. Davvero. Non volevo dirle quelle cose."
E guardami,
Cristo!
"Lo
so."
La
mano che ha appena finito di slacciare una scarpa sale fino al naso
e lì tira stringendo sulla punta. Matt sembra confuso e
probabilmente lo è - è indeciso se minacciarmi o
scusarsi per ciò a cui ho appena assistito. Non è
che non pianga mai o cose del genere - cazzo, Matt piange un sacco,
è tipo la persona più emotiva che io abbia mai
conosciuto - solo che ci tiene alla sua reputazione da ghiacciolo
stronzo insensibile. Il perché, naturalmente, mi sfugge. Ma
la sua testa corre troppo veloce perché io gli stia dietro,
a volte.
"Era
ad Exeter ieri, sai? Dalla zia Mary. Non è passato
neanche per dirmi ciao."
Immaginavo
si trattasse di lui.
"Quanto
disterà Exeter da qui in auto? Venti minuti?"
Schifoso.
Vigliacco. Stronzo.
"Perché
non - cazzo, Dom - io non - perché
mi
odia così tanto?"
È
assurdo come io riesca ad odiare così una
persona che non ho mai incontrato in vita mia. Quello che Matt mi dice,
ma soprattutto quello che Matt non
mi dice di lui, è
abbastanza perché rinunci in partenza a prendere le sue
difese, a cercare anche solo di capire il suo punto di vista -
perché non ci riesco, perché mio padre non
è così;
papà non si è mai perso un solo live di tutte
delle band a cui ho partecipato da quando avevo 13 anni - non un mio
saggio, o una recita scolastica, o quel che fosse. Figuriamoci poi un
compleanno!
Ma
non è che possa esattamente dirgli "ehi, amico, a questo
chiaramente di te non importa un fico secco", perché da
qualche parte nel profondo so - entrambi lo sappiamo - che non
è questa la verità. "È tuo padre", gli
dico invece, "certo che non ti odia."
"Allora
perché, cazzo - perché mi evita come se
fossi un fottuto bastardo ritardato!? Perché mi invia tutti
quei soldi quando sa che vorrei solo vederlo, e -- e parlarci, cazzo,
di stronzate, dirgli che adesso suono la chitarra come lui, che - che -
merda! Cazzo! Merda!"
Se
possibile, questo è uno scenario ancora più
pietoso di quello di prima. Me ne sto inutile con le mie braccia
inutili e le mie gambe inutili e il mio tutto essere un'inutile
inutilità seduto sul letto, senza sapere che dire o fare.
Matt sta cercando qualcosa nel suo zaino, e so già di cosa
si tratta prima che le poggi davanti a me in un gesto di per
sé piuttosto eloquente - trecento spiegazzate sterline sul
vecchio copriletto di Donald Duck.
"Prendili.
Sul serio, voglio che le prendi tu - per tutte quelle che
hai prestato a me. Prendile o ti giuro - ti giuro, Dom, le brucio. Le
strappo. Le butto in un tombino. Le metto nella cuccia di Ralph."
"Vuoi
avvelenarmi pure il cane adesso?"
"Sono
serio."
È
tutto rosso in faccia, Matt, e gonfio attorno alle
palpebre e sul naso.
"Non
posso. Lo sai che non posso."
I
suoi occhi diventano di un azzurro impossibile quando piange.
"Ho detto che non le -"
"Però
possiamo utilizzarle come fondo cassa per la band. Che
ne dici?"
Mi
muovo lentamente verso di lui, spostando le banconote al mio fianco
e riscattando la mia succitata inutilità quando lo tiro
giù di nuovo sul letto per un polso, costringendolo ad
arrendersi al mio abbraccio.
Non
incontro resistenza - anzi, "Dom," sussurra piano contro un mio
orecchio Matt, e poi: "ti voglio bene".
Lo
dice sottovoce - o lo mastica in realtà - ma poco
importa, perché adesso so per certo che George Bellamy
è l'uomo più fottutamente cieco e stupido e
idiota e coglione dell'intero Universo.
"Come
ti senti?" chiedo alla fine dopo un po'. Il fiato di Matt mi
solletica un lato del collo, e il peso caldo del suo corpo schiacciato
contro il mio è stranamente conciliante - nella maniera in
cui quello di Tom o di Chris non potrebbero mai esserlo.
"La
testa mi scoppia."
Sorrido
un po', accarezzandolo con le dita sulla nuca.
"Ferma
quel cricetino, allora," dico, e poi, leggere, strofino le
unghie contro la pelle bianca - così bianca - proprio sotto
all'attaccatura dei capelli.
Matt mugola
contento, rilassandosi di più contro la
mia spalla.
"Mh,
sì - mmh, Dom."
"Ma
guardati, due grattini e ti vendi come una vecchia gatta in
calore," lo sfotto, ma lui sta già ridendo e sventolando il
medio dietro alle mie spalle.
"Non
scassare," sbuffa, e poi: "mh, sì -- oh,
così!"
"Puoi
evitare di gemere come se ti stessi facendo una sega, scusa?"
"Mh,
mh -- no. Più a destra."
"Così?"
"Uh,
sì -- cazzo, sì. Mannaggia a te che sei nato
con l'uccello, Dom."
Pausa.
"Eh?"
Riprendo
a grattare, lo sguardo perplesso diretto in una linea retta
sulla la parete di fronte e il poster degli Smashing Pumpkins.
"Più
giù? Dico che - boh, dai. Niente."
Dato
per scontato che non è possibile che una parola che
denoti mancanza di elementi ("niente") possa suscitare tali
contrastanti sentimenti in una persona, ho deciso di attribuire alla
suddetta parola la locuzione "troppe cose e troppo complicate
perché io stia qui a spiegartele". Con Matt Bellamy, la
stessa è praticamente attribuibile alla metà
delle cose che dice - "che palle", "fanculo", "ricchione" - tranne
quando inizia a parlare dei suoi dannati fagiolini OGM. Non sia mai
lì salti una spiegazione o un dettaglio.
A
volte gli sono quasi grato - tipo adesso, perché non
voglio davvero sapere cosa gli stia frullando nella testa, non
con lui schiacciato addosso così, sul mio letto, coi grilli
che cantano fuori alla finestra e il suo profumo nelle narici.
"Va
be'. Resti a dormire qui?" chiedo invece.
"Che
ore sono?"
"Quasi
le undici."
Se
possibile, Matt si fa ancora più piccolo nel mio grembo,
tirando il collo di lato così che possa strofinargli le
spalle.
"Posso?"
"Sì,
ma," inizio, tentando di spostare le gambe da questa
posizione scomoda, ma Matt è un peso morto e atterra
giù con me sul materasso. Non ha idea di quello che mi sta
facendo - strusciarmisi contro nel suo essere tutto occhi brillanti e
denti storti e zigomi affilati - o forse sì, ed è
anche peggio.
"Dicevo
- sì, puoi restare, ma se scorreggi ti mando a
dormire giù in giardino con Ralph."
Allungo
un braccio e trovo già il cuscino, portandolo
più vicino alla testa. Matt mi imita, rotolando poi alla mia
sinistra e stringendosi di più contro di me per non cadere
dal letto.
"Aspetta,"
dice sistemandosi con un braccio sotto alla mia spalla, una
gamba tra le mie. "Ti do fastidio se sto così? Non mi va di
dormire sul materassino da solo."
"No,
tranquillo. Solo non farci l'abitudine, però."
Respirarsi
addosso è praticamente inevitabile, a queste
distanze. Il naso di Matt è a soli tre centimetri dal mio, e
da qui posso contargli persino le ciglia appese ad ogni palpebra, gli
scatti nervosi delle iridi nascoste al di sotto. Questa condivisione
stretta di spazi vitali ed ossigeno è un'altra delle
dinamiche del nostro rivisitato Club
dei Ragazzi che sfugge alla
comprensione di Tom e Chris - ma loro sono grandi e grossi e non
è che possa esattamente andare in giro ad abbracciarli
come un koala bisognoso.
Non
che io e Matt passiamo tutto il tempo a coccolarci e piangere ed
essere emotivi in generale, sia chiaro. Tutt'altro, direi.
"Ralph
mi adora in realtà. Mi lecca in una continuazione."
Ralph
odia Matt al punto che ogni volta che viene corre a nascondersi
nella sua cuccia o dietro alla poltrona di papà. Una volta
però per sbaglio gli ha leccato una mano, e da allora lui
è convinto di essersi guadagnato la sua simpatia.
"Se
fossi stato una cagnetta adesso avremmo già la nostra
bella colonia di bastardini."
Appunto.
"La
carica dei Bellamy... cielo, che incubo."
"Un
esercito di... carlini a pois. Oppure quei cosi che somigliano a
topi, sai?"
"I
chihuahua?"
"Quelli.
Ma stai tranquillo, tanto io non avrò mai dei
cuccioli."
Ridacchio
un po' sovrappensiero, la testa in realtà
già oltre la metafora canina. Matt si alza un poco sui
gomiti - giusto il tanto da permettergli di sfilarsi la felpa - e poi
ritorna a stendersi contro di me, una mano a stressare le pellicine
sulle labbra screpolate in una serie di pizzichi nervosi.
Tace
per qualche minuto, godendosi il silenzio interrotto solo
dall'occasionale frinire delle cicale appostate fuori alla mia finestra.
"Ho
scritto una canzone," mi confessa poi. "Ma ho solo il testo e
qualche nota, in realtà."
La
lampada sulla scrivania è ancora accesa, ma la sua luce
è fioca e non dà realmente fastidio agli occhi.
Ripenso
ai Muse, al contest, alle trecento sterline di George Bellamy e
agli auguri stonati di mia madre.
"Di
che parla?"
Un
braccio sottile sale a stringermi la vita, scavando invadente tra un
fianco e una costola.
"Di
fuggire,"
mormora piano Matt.
Non
mi augura la buonanotte prima di addormentarsi.
* *
*
Teignmouth
(Devon), 28 novembre 2011
why
can't you just love her?
and
why be such a monster?
"C'è
solo del vecchio Earl
Grey, qui. Va bene lo stesso?"
Matt
sta trafficando con quel dannato bollitore da almeno dieci minuti.
Non vuole realmente mettere su l'acqua per il tè, eppure gli
sembra comunque il caso di farlo.
"Non
trovo la presa," dice, schizzando ovunque e guardando da nessuna
parte, "non ce n'era una proprio qui dietro al frigo, Dom?"
Un
sonoro "tlud"
mi suggerisce che la caraffa d'acqua è
stata finalmente posata sul maledetto ripiano di marmo, mentre Matt si
rigira verso di me - la ricerca di una presa di corrente mai intrapresa
e già abbandonata.
Mi
sta facendo innervosire.
"Lascia
stare," gli dico, e inizio già a sollevarmi dallo
sgabello sul quale sono rimasto seduto a guardarlo finora.
Un
paio di iridi cobalto hanno già rintracciato le mie,
costringendomi con forza prima ancora delle sue parole a tornare con le
chiappe sul cuscinetto di lattice.
"Dobbiamo
parlare," mi spiega, poggiando i gomiti sul bancone che ci
divide. "Ora."
Matt
ha l'aspetto di uno che sia appena stato ripassato in
un'asciugatrice a secco. La sua pelle è tirata e lucida in
più punti - le macchie sulle guance più evidenti
del solito; gli occhi sono scavati e non brillano più come
una volta - i capelli flosci e stressati che si dividono in una fila
ordinata al centro del capo, la barba sfatta da giorni. Fa schifo, e
non lo trovo per nulla attraente.
"Sono
stanco," replico sciatto, senza più guardarlo. "Voglio
dormire."
"Anche
io, Dom, ma prima dobbiamo parlare."
Matt
ha preso a tamburellare con le dita su una vecchia ciotola -
insicuro su come debba iniziare il suo patetico discorso.
Se
avesse avuto una tazza di tè tra le mani, a quest'ora si
sarebbe sicuramente scottato tutto.
"Non
m'importa di cosa - cioè. Aspetta. Mi importa -
ciò che voglio dire è che tu hai la tua vita,
okay? Fai quello che vuoi e ti scopi chi ti pare, a me non devi render
conto di niente."
"Ottima
premessa."
"Non
fare il cretino, Dom. Non fare il cretino o giuro che m'incazzo
sul serio, perché - perché cazzo, stai sbagliando
tutto. Tutto."
Un
piede ha preso a battere ritmicamente contro una gamba dello
sgabello - il mio sgabello, e il mio piede.
"Da
quando siamo tornati in sala non ne hai combinata una buona. Sei
sempre stanco, sei sempre... con la testa altrove."
Matt
ha allungato una mano verso di me. Non ho capito cosa vuole che ci
faccia - che la raggiunga? Che la prenda? Che la schiaffeggi?
"Lo
so che anche tu hai i tuoi periodi, Dom. Non siamo tutti perfetti,
però -"
"Però,"
lo incalzo, "per qualche strano, assurdo, motivo
adesso tu ti senti in dovere di farmi comunque la paternale."
Alla
fine la mano resta lì da sola.
"Si
tratta della nostra amicizia. Si tratta del modo in cui ti
comporti ultimamente. Dom, non è una paternale, è
-"
"Ma
cosa c'entra l'amicizia adesso? La nostra amicizia non ha alcuna
rilevanza in questa faccenda!"
"Invece
sì! Invece sì, Dom! E se lo neghi ancora,
se dici ancora che io non c'entro niente -"
C'entri
tutto, tesoro. C'entri tutto perché *tu* sei tutto.
" -
vuoi capirlo che mi importa solo di te, Dom? Non di quello che fai.
Di te."
E
quello - illudermi che potesse essere così anche
per te, in fondo - è stato il mio più grande
sbaglio di sempre.
"Ti
importava di me anche mentre cercavi di scoparti Cécile?"
"Io
- che," Matt balbetta per qualche istante, scuotendo il capo come
qualcuno che si sia appena perso una parte del discorso. "Cosa?"
"O
ti importava di tuo figlio, forse? Della donna che dici di voler
sposare - ti importava anche di loro mentre ti tiravi fuori il cazzo
dalle mutande?"
Matt
si agita a disagio sul suo sgabello, le mani che scivolano dal
ripiano alla ciotola - ai suoi capelli, al naso.
Il
cobalto diventa subito acquamarina, e quegli occhi così
belli sono già pieni di lacrime prima che possa finire di
parlare.
"La
verità è che sei pieno di merda - pieno di
merda dentro e fuori, fino al collo. Adesso ti senti così in
pace con te stesso che credi di avere il diritto di venirmi a fare la
ramanzina - di dirmi che sto
sbagliando tutto, Cristo! Tu che hai messo
incinta la prima troia
sconosciuta e adesso ti ritrovi con un moccioso
che nemmeno - "
"Non
osare, non ti permetto di parlare così, non -"
"Parlo
come cazzo mi pare! Mi fai schifo, Matt! Sei un ipocrita, un
bastardo, uno stronzo -
schifoso, egoista! - traditore!"
Respira
già a fatica quando glielo dico, i pugni serrati sul
tavolo davanti a me: "quanto ancora prima che lo abbandoni come ha
fatto lui con te?", gli sibilo contro.
Quando
il primo pugno mi colpisce, sono solo felice di incassarlo.
Matt
mi sputa addosso e mi strappa i capelli mentre tira colpi alla cieca,
ma io leggo oltre tutte quelle moine - dietro agli insulti che mi
recita contro come una filastrocca; non mira tanto a fare del
male, quanto a procurarsene in prima persona.
Non
che non sia incazzato nero con me.
"Io
gli voglio bene - gli
voglio bene, stronzo! Lo amo da impazzire,
è - è
la mia vita!"
"Ma
non provi niente per lei, Matt, non mentire - non vuoi nemmeno
sposarla!"
"Stai
zitto! Zitto!
Sei tu che hai un fottuto problema! Sei - sta'
zitto cazzo!"
E
poi mi svuoto, perché a questo punto non ho più
nulla da perdere - perché non voglio più perdere.
"Sei
bloccato, frustrato
- non vedi l'ora di menarlo nel primo buco
disponibile, di -"
"E
tu - tu sei inutile! Sei - sei
- hai 34
anni! 34 anni, cazzo, e sei
la persona più triste e inutile e sola che io conosca! Mi
fai pena! Devi tirare quella merda per darti un senso, per riempire la
tua giornata!"
"Almeno
io lo ammetto e non faccio finta di giocare alla famiglia del
fottuto Mulino Bianco!"
Uno
schiaffo mi colpisce dritto sulla fronte, facendomi traballare fino
alla parete con l'orologio.
"Quello
lì - il francese - te lo sei scopato, no? Ti scopi
tutti quelli che incontri, non è così che fai
amicizia tu?"
"Io
mi scopo chi mi pare, non ho nessuno a cui renderne conto!"
"Sei
solo geloso, perché io ho qualcuno e tu invece no!"
"Per
quello ho un cane, Matt - per sentirmi a posto con me stesso."
"Io
- tu, tu non - STA'
ZITTO!"
Matt
sta piangendo così forte che il pugno gli trema e mi
manca di diversi centimetri.
Stremato
dai singhiozzi e dalle botte, infine mi si spinge addosso,
irruento e bagnato contro la mia camicia sudata.
Non
lottiamo più, adesso. Non ha più senso, non
l'ha mai avuto.
"Sono
così stanco, Dom," mi dice lui, "così
stanco".
Succede
tutto all'improvviso; scivolo lungo il muro con le spalle e
Matt viene giù con me. Mi dà un pugno - ed io lo
spingo - e poi lui fa una cosa strana e schianta le labbra contro le
mie.
Mi
bacia. Matt mi bacia.
La
sua lingua è dappertutto prima ancora che possa schiudere
la bocca; prepotente si spinge contro ai denti, le gengive, percorrendo
le file velocemente prima di succhiarmi via il fiato. Mani nervose mi
tracciano gli zigomi e affondano i polpastrelli sulle tempie, premendo
con vigore sulla pelle sottile vicino all'osso. Mi fa male - stringe
troppo - ed è estasi.
"Cazzo,"
e poi mi guarda negli occhi e un po' forse sorride - un po'
ancora piange - e poi "andiamo a dormire," mi dice.
Fuori
albeggia, ma la pioggia batte ancora forte contro i vetri.
Note di demerito (ciaaaaao):
- l'autrice ha scritto questo capitolo di getto e non si scusa se
farà schifo visto che palesemente la colpa è
tutta di Dominic Howard *indica* perché è lui che
me l'ha suggerito nella testa;
- a Matt voglio più bene del solito, pare! *palesemente non
si è riletta*
- tra gli elementi seriamente degni di nota
c'è forse giusto la citazione di inizio e metà
capitolo - da Escape,
se a qualcuno fosse sfuggito.
In realtà tutto il capitolo ruota attorno a quella canzone,
perché sì;
- sono una persona meglio perché adesso so dov'è
Malmo (no, è che vado ripetendomi dalle tre di oggi
pomeriggio "ma perché cazzo hai comprato un biglietto per un
concerto a MALMO, DOV'E' MALMO?")
- nessuno mi ha betata/aiutata/sgridata e io ieri stavo per dar fuoco
ad uno di 'sti due;
- Dominic è una persona orribile *guarda malissimo*;
- Matt pure *sostiene sguardo severo per 0,01 secondi e poi si lancia
contro di lui urlando "MA
NO, PUCCI!"*;
- li amo;
- lol al Club dei Ragazzi;
- scusi signor Bellamy Senior se ho detto che è un fetente,
ma sa,
questa è l'idea generale che mi son fatta di lei;
- la fishpie è tra le cose più buone che abbia
mai assaggiato e la mamma di Dom spacca;
- ciao. xxx
P.S. VAI BELLAMY CHIAVEC' NA SOLA
'NGANN!!!
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Capitolo 7 *** _Tè ***
Meds
everytime
I rise I see you falling
can
you find me space, find me space
Mi
sveglio solo dopo qualche ora, il sole che filtra dalle tende, alto nel
cielo.
La
finestra che affaccia sulla terrazza è aperta - giusto un
soffio, tanto quanto basta per permettere ad una corrente gelida di
solleticarmi una spalla sopra il lenzuolo. Dominic non è a
letto. Le coperte dal suo lato sono stropicciate come un nido, ma il
profumo della sua pelle attacca come un cancro, impregna la stoffa dei
cuscini, l'aria che respiro, sogna il fantasma della sua presenza al
mio fianco.
Lo
trovo appoggiato al davanzale, poco distante, le spalle rivolte verso
di me per tre quarti; non mi guarda, non si è nemmeno
accorto che non dormo più; scruta il mare invece, i
gabbiani, le macchie sul vetro. Forse pensa.
C'è
qualcosa che somiglia a discreta eleganza nel modo in cui piega una
gamba sottile contro il muro - dita che grattano distrattamente l'osso
sulla caviglia. Ha addosso una vecchia t-shirt di mio fratello Paul,
una maglietta di Superman
che deve aver trovato rovistando in qualche cassetto mentre ancora
dormivo; è di un azzurro strano, sbiadito, chiazzata di
verde in parecchi punti e così grande che gli arriva oltre
ai gomiti e quasi a metà coscia; mi ricorda di quando la
domenica mattina scendevamo a fare colazione sul molo con la nonna e
Paul ordinava sempre il pane tostato coi fagioli.
“Dom,”
provo a chiamarlo; vorrei dirgli di tornare a letto perché
fa freddo. Tutto quello che riesco a produrre però
è un colpo di tosse.
“Hey,”
fa lui. Si arrampica mollemente giù dal davanzale, occhi che
si posano ovunque nella stanza tranne che su di me. “Ora
chiudo, avevo aperto solo per fumare.”
“Tranquillo,”
gli dico. Poi tossisco ancora.
C’è
puzza di sigaretta nell’aria - di Marlboro Red, quelle lunghe
- un aroma che difficilmente si armonizza con quello più
delicato dell’Earl Grey. Dom si abbassa sul tavolino per
recuperare la teiera ancora fumante, riempie una tazza fino
all’orlo e ci aggiunge due zollette.
“Ho
fatto il tè,” mi informa inutilmente.
“Mh,”
dico.
Non
so se ringraziarlo o prenderlo a sberle; alla fine accetto la tazza che
mi porge e decido di ignorarlo mentre mi si siede accanto, labbra
tirate in un sorriso appena accennato.
“Come
ti senti?” chiede.
“Non
lo so,” rispondo onestamente.
Il
tè brucia forte in gola; è una sensazione al
limite del piacevole, un fiume bollente che si batte per estinguere
quel che rimane dell’incendio di urla di qualche ora fa.
Prendo un respiro e lo mando giù tutto in una volta, a
grandi sorsi, Dom che finalmente mi guarda sopra l’oceano di
lentiggini che gli macchiano la faccia.
“Dobbiamo
ancora parlare,” gli dico quando ho finito.
Non
è più un gioco. Non lo è mai stato.
“Dammi.”
Dom
mi sfila la tazza ormai vuota dalle mani, sorride ancora -
“scusa,” dice - si allunga su di me per posarla sul
comodino al mio fianco; la maglietta che indossa si solleva come un
velo, scoprendo per un attimo il profilo della sua intimità
contro una coscia nuda.
“Ti
ho baciato,” ricordo a quel punto. Lui si blocca, le dita
ancora strette attorno al manico di ceramica, capelli che mi
solleticano il petto lì dove mi sfiora con la testa.
“Matt…”
“Ti
ho baciato,” ripeto.
Dom
non dice niente per un lungo minuto, se respira non fa rumore; alla
fine mi scavalca del tutto e si rimette in piedi, ripescando con mani
nervose il pacchetto di sigarette che ha lasciato sul tavolino affianco
alla teiera.
“Non
deve succedere più,” dice con una strana furia.
“Non
-”
"Non
ne parliamo," lo interrompo, "non è successo niente," ma poi
si rilassa un poco quando forzo un sorriso sulla bocca. “Mi
accendi una sigaretta?” gli chiedo a mo’ di scusa.
“No,
hai la gola già rovinata,” mi fa notare.
“E
di chi sarebbe la colpa?”
“Tua,
Matt,” taglia corto lui. “Volevi chiedermi di nuovo
dell’altra sera?”
“Sì,”
faccio. “Più o meno - devi parlarne con la
polizia.”
Dom
sembra non capire all’inizio; le sue sopracciglia si
corrugano in una smorfia ignorante, le spalle fingono indifferenza,
persino la sigaretta che ha in bocca sembra non avere la più
pallida idea di cosa stiamo parlando. In effetti non ce l’ha,
ma quello solo perché generalmente le sigarette non hanno
pensieri reconditi.
“Quel
tizio ti sta ricattando,” insisto. “Dimmi solo
sì o no.”
“Cristo…”
“Dom.”
Ci
mette un po’, ma alla fine annuisce. Si versa
un’altra tazza di tè - più per tenersi
impegnato che per reale desiderio, credo - poi ne offre una anche a me.
Rifiuto senza dire grazie.
“Ti
ha aveva già fatto del male?” gli chiedo.
Nessuna
risposta.
“Quel
figlio di puttana... Dom, devi -”
“Devo
un cazzo, Matt. Non parlare se non sai come stanno i fatti.”
“Ma
perché -”
“Perché
è così, ci sono cose che tu non sai -”
“Dimmele,
porca puttana, perché tutti questi segreti, lo sai che a me
puoi dire tutto!”
“No,
Matt. Tu non sai di cosa è capace quello
lì,” dice Dom all’improvviso.
Non
ci vedo più.
In
un attimo sono da lui e lo spingo contro il muro, poi lo tiro per la
maglietta e ce lo sbatto di nuovo. La tazza ancora piena ruzzola sul
tappeto già sporco di cenere; me la prendo anche con
l’abat-jour, lo sgabello, il vecchio portagioie di mia madre.
“E
ALLORA SPIEGAMI - SE NON LO SO DIMMELO TU, CAZZO!” urlo.
Dom
apre la bocca diverse volte ma tutto quello che riesce a dire
è: “Matt,
ti
prego, calmati!”.
Non ci riesco, però - lo prendo a schiaffi, due, forti,
sulla guancia.
“Sono
stufo di doverti leggere nella testa,” gli sputo addosso.
“Delle tue bugie, dei tuoi cazzo di pro-”
“Mi
sono scopato una minorenne!” grida lui alla fine.
Per
un attimo mi sento come se fossi stato io quello a ricevere il colpo -
sono lo sgabello rovesciato sulla moquette, gli orecchini di perla
sotto al letto; crollo. Dom si aggrappa con forza al bracciolo della
poltrona, cade di lato. Lo osservo mentre si piega, un braccio stretto
attorno allo stomaco per aiutarsi a respirare - o impedirsi di vomitare
- o forse entrambe.
“Pensavo
fosse uno scherzo quando me l’ha detto,” inizia a
spiegare. “Io… io ero strafatto. Non ci capivo
niente. Lui ci ha ripresi, ha detto che avrebbe spedito il video in
rete… voleva che facessi delle cose… gli
servivano contatti…”
Lo
ascolto per metà, la testa che mi scoppia.
“Ha
minacciato di rovinarmi. Me, la band… te,
Matt...”
Non
è vero, è tutto uno scherzo…
“Cos’altro
potevo fare?”
Potevi
venire dritto da me, potevamo risolverla insieme questa cosa!
“Matt,
ti prego… ti prego...”
Cristo...
Le
conto sulle dita di una mano le volte in cui ho visto Dom in questo
stato; sembra pazzo, cattivo, la bocca che trema come una foglia; parla
in fretta, sussurrando, la voce arrochita dallo sforzo.
“Non
ce la facevo più… era tutto troppo, e mi sentivo
così - tu - ero
- Matty,
ero così
solo e quella roba… mi aiutava a non pensarci...”
È
tutto rosso in faccia, Dom, i capelli ritti sulla testa lì
dove li ha tirati prima; mi guarda ora come mi ha sempre guardato - con
occhi grandi come il mare, esperti nella lettura così come
chiusi all’interpretazione. Attorno a quelle pozze
così belle ci sono già delle rughe - quanto
tempo è passato da quando ci siamo conosciuti?
“Così
solo…”
Dio,
sono un coglione.
“Scusa,”
gli dico cercando le sue dita con le mie. “Scusa Dom, non so
cosa mi sia preso.”
“Non
devi - non - sono io
a dovermi scusare, Matt, non volevo tenertelo segreto ma tu…
tu avevi già le tue cose per la testa, io -”
“Dom,”
lo interrompo. Ho le mani fredde e uno schifo immenso nel cuore -
perché fa così male quando si tratta di lui?
“Ho
perso il conto delle volte in cui te l’ho detto,
ma,” gli prendo la testa tra le mani, poggiando la mia fronte
alla sua un po’ accaldata. “Cazzo, Dom, ci vuole
così tanto a capire che io
sto male quando tu
stai male?”
Dom
piange adesso - lo fa nel suo modo strano, tutto singhiozzi e senza
lacrime. Lo abbraccio un po’, l’odore di naftalina
della maglietta forte nelle narici.
“Vedrai,
risolveremo tutto,” gli dico. “Parleremo con un
avvocato, troveremo un’accordo…”
“Matt,
perché mi…perché tu -”
“Hey,
calmati ora dai. Prendi un bel respiro e -”
“Perché
mi hai baciato?” singhiozza. “Stamattina - prima -
perché lo hai fatto?”
“Dom…”
“PERCHÉ
CAZZO?” urla.
La
realtà mi colpisce in quel momento - dura e precisa, come se
qualcuno avesse finalmente scostato le tende dalla Mona Lisa e scoperto
che cazzo c’avesse tanto da ridere poi.
“Tu
sei innamorato di me,” dico stupidamente.
“Cristo
-”
Dom
mi spinge via con urgenza, inciampa nel tavolino, da lì
afferra la teiera che manda in frantumi contro la parete - poi si china
e vomita sul tappeto.
Mia
nonna era stata la prima a dirlo, diversi anni fa, tra lo scherzo e il
sospetto tipico degli anziani ficcanaso: “quel ragazzino ha
occhi solo per te”. Il secondo era stato proprio Chris:
“riccioli d’oro pende dalle tue labbra,”
aveva detto. Tom ci aveva dato direttamente dei ricchioni; mio padre
aveva invece scelto di odiarlo da subito; Tanya mi aveva lasciato
quando aveva scoperto delle orgie miste che facevo con lui; Gaia mi
aveva accusato di “dipendenza morbosa da
batterista”; Kate si diverte ancora a ricordarmi con
frequenza odierna che lei è solo la seconda bionda della mia
vita. Dom - lui invece non ha mai detto niente; ma cosa vuoi andare a
raccontare ad un sordo, alla fine?
Mi
avvicino solo dopo qualche minuto di indecisione, gattoni al suo
fianco, scopro con sollievo che toccare una mano sulla sua spalla non
comporta necessariamente la fine del mondo; Dom sta ancora vomitando la
cena che non ha digerito l’altra sera, ma per qualche strana
ragione la cosa non mi ripugna come dovrebbe.
“Sono
un coglione,” gli comunico con una certa fretta - poi,
vedendo che non risponde: “quando hai finito fammi un
segno,” aggiungo.
Dom
mi dà un pugno sulla gamba, ma sta ancora vomitando, quindi
deduco che non sia quello il segnale. Mi faccio più vicino,
però, e con l’altra mano gli sposto i capelli
dalla fronte, asciugando il sudore raccolto lì.
“Mi
dispiace,” dico. “Sai - erm, questa cosa fa un
po’ schifo. Voglio dire, non tu - cioè, anche. Ne
hai un po’ sul mento, a proposito.”
“Dio,
Bellamy, taci - ugh, che schifo.”
“È
quello che ho detto.”
“Tu
parli troppo.”
“È
che ho un cervello che va troppo veloce, ogni tanto devo svuotargli la
memoria.”
“Sei
un’idiota.”
“Che
in greco antico non significa affatto scemo, è
più tipo “particolare”. Lo
sapevi?”
“No.”
“Ora
lo sai. Hai finito?”
“No.”
“Ma
non stai più vomitando…”
“Cristo,
ma vuoi stare zitto?”
Non
è come nei film - non è nemmeno come nei romanzi,
che di solito sono scritti meglio dei film. Se la nostra vita fosse
stata una commedia dal titolo: “Rockstar Confuse & un
Poco Ricchione”, a questo punto della trama Dom avrebbe
alzato la testa e mi avrebbe ficcato una lingua al dentifricio in gola.
O sul mento, dipende dall’inquadratura.
Ma
Dom - il mio Dom, quello vero, smoccolante e vomitoso - ha appena
tirato via la mia mano dalla sua fronte e mi sta riempendo di botte e
insulti.
“Sei
uno stronzo - lo sapevi, tu lo hai sempre saputo! - hai fatto finta di
niente per tutto questo tempo -”
“Chi
è lo stronzo che non me l’ha detto prima? Cosa
sono io, una specie di indovino?”
“E
secondo te avrei dovuto mandare tutto a puttane solo perché
- solo perché -”
“Se
tu me l’avessi detto - se tu solo me l’avessi fatto
capire invece di metterti a fare tutti quei giochetti -”
“Cosa,”
mi interrompe Dom, dandomi una spallata così forte che mi fa
perdere l’equilibrio. Cado di schiena sulla parte di tappeto
pulita - Dom mi è addosso solo pochi attimi dopo,
schiacciandomi per terra col suo peso.
“Tu che cosa Matt?” sibila.
La
verità scappa dalle mie labbra prima ancora che riesca a
rendermi conto di aver formulato un pensiero del genere.
“Io
non avrei mai avuto un figlio da lei,” mormoro. Fa male, ma
non solo a me.
La
faccia di Dom si contorce in una smorfia di dolore, mentre la
gravità porta le sue lacrime sul mio viso. “Sei
uno stronzo,” mi dice. “Sei un figlio di puttana,
sei -”
Ma
poi non lo so cos’altro sono, perché stavolta
è Dom ad arrendersi per primo.
“Voglio
baciarti,” confessa. “Ma non posso, sarebbe
completamente vile.”
Sto
per dirgli che non m’importa nulla di tradire Kate a questo
punto, ma poi lui fa una cosa strana e sputa per terra al mio fianco.
“Fattelo
bastare,” dice tornando più vicino.
“Mi
fai assolutamente schifo,” dico io.
E
poi lo bacio.
*
AH!
HA! HAAA!
Non
ve l’aspettavate, vero? Dunque, AGGIORNAMENTO CACCA PER
FANFIC CACCA TIME! (dovrei avere una sigla speciale per questo tipo di
avvenimenti, una roba tipo Jimmy Verdoora Rhapsody - se non sapete di
cosa sto parlando, cliccate qui per farvi un’idea
spaventosamente precisa del mio senso dell’umorismo ► IPNOTIZZA
I CAVALLIIIIIII )
Dunque,
un paio di note:
DO:
ho
scritto questa m***a in tipo 4 ore escluse pausa cena (ho riempito di
fumo tutta la casa solo per arrostirmi un filetto di salmone, il gatto
ha fatto festa grande insomma) e soprattutto A DISTANZA DI EONI dalla
pubblicazione dell’ultimo capitolo (tanto che son dovuta
andare a rileggermelo perché non mi ricordavo più
cosa fosse accaduto *shame on me*). Il succo è che mi scuso
per la generale caccosaggine (e brevità? pare piccino), ma
era un parto necessario, ecco.
RE:
rifiutare
senza dire grazie in Inghilterra è praticamente un reato,
è come bestemmiare contro Betty: questo dovrebbe farvi
capire quanto sia scazzato Mecchu.
MI:
fa male la testa;
FA:
schifo
‘sto capitolo (SRSLY
BOCCA-VOMITO??!!!!=””)
SOL:
sta
per sorgere, sento gli uccellini cantare. Comunque la citazione in cima
al capitolo è tratta da Passive
Aggressive
dei Placebo. Volevo citare direttamente il titolo, ma vabè.
LA:
qui
presente autrice è chiaramente una bastarda sadica di prima
categoria, POVERO DOM OGGI È ANCHE IL SUO COMPLEANNO AUGURI
STELLA
MILLE DI QUESTI DORATI GIORNI ♥♥♥
SI:
oh,
in fondo a parte una cosa che si chiama MATT STAI IGNORANDO TUTTE LE
TUE RESPONSABILITA’ DI PADRE FAMIGLIA CHE M***A CHE SEI direi
che c’è quasi aria di festa in questo capitolo!
*rivedere punto in cui discuto il mio particolare
senso dell’umorismo*
Infine
ho una dedica particolare perché ci sono persone a cui
voglio più male che alle altre - questo capitolo
è per nainai
perché
nonostante dica di odiare il BellDom in privato mi minaccia se non
aggiorno.
Pace,
gente. ♥
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