Folie à Deux

di Altariah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Your House ***
Capitolo 2: *** The house of the Rising Sun ***
Capitolo 3: *** That I would be good ***
Capitolo 4: *** Down to Earth ***
Capitolo 5: *** Do you remember? ***
Capitolo 6: *** The first day of my life ***
Capitolo 7: *** Mercy Street ***
Capitolo 8: *** Don't give up ***
Capitolo 9: *** Timing is Everything ***



Capitolo 1
*** Your House ***


Folie à Deux

 

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I went to your house, 
walked up the stairs,
I opened your door without ringing the bell”


Dall’esterno dell’edificio si intravedeva appena una luce blu, che filtrava tra le veneziane della finestra di un piccolo bilocale.
Un olofilm d’azione sopravvalutato illuminava a scatti la stanza buia, il volume era alto, forse troppo per quell’ora... ma Kolyat non riusciva a seguire la trama. Non capiva, e l’unico tentativo che faceva di tanto in tanto era quello di alzare un paio di tacche il volume, ma la sua mente gridava sempre più forte delle casse del televisore.
Gli occhi del drell seguirono i contorni del corpo di un animale mai visto, probabilmente terrestre. Trovava strano che la maggior parte di ciò che proveniva dalla Terra fosse ricoperto di peli.
Le scene mano a mano presero velocità, divennero più consistenti, e lentamente lui si abbandonò alla visione che i pixel componevano di fronte a lui, sprofondando nel divano. Ecco, ora senza nemmeno rendersene conto aveva iniziato a guardare davvero l’olofilm. Non ricordava nemmeno da quanto non si concedeva una serata per non fare nulla, sempre troppo schiavo di pensieri altalenanti e ricordi crudeli, i suoi sbalzi d’umore sembravano non lasciarlo mai in pace.  
Un turian sparava con un fucile a pompa ridicolmente grande e luminoso che forse doveva imitare uno scimitar. Questo stava coprendo due alleati senza più munizioni accovacciati dietro degli scaffali caduti. La bocca di Kolyat si curvò in un sorriso rilassato, mentre un umano ferito si avvicinava ad un’asari e tutta la sala era invasa da spari e cartucce che cadevano a terra. L’inquadratura si restrinse e l’uomo le andò ancora più vicino se possibile, e fece per sussurrarle qualcosa…

 

“Walked down the hall into your room, 
where I could smell you 
And I shouldn't be here 
without permission”


Kolyat riuscì solo a vedere le labbra di questo muoversi, ma il suono fu sostituito dall’insopportabile gracchio del campanello, che lo trascinò fuori da quella falsa realtà che lo aveva sollevato per un momento da tutti i suoi problemi. Ritornò seduto sul divano, nel suo salotto buio ricolmo di aria viziata, dentro quattro pareti che avevano assorbito troppo rimpianto e troppa rabbia. Drizzò la schiena e guardò il pavimento, cercando di contenere il nervosismo che si stava facendo strada dentro di lui.
“Fanculo…” Kolyat si alzò, stringendo i denti. Si diresse verso la porta d’ingresso, contrariato. Lui sapeva già chi fosse venuto ad importunarlo, non voleva che qualcuno in quel momento entrasse nel suo spazio, non quella sera.
Ma contro se stesso aprì la porta senza osservare dallo spioncino e si scostò di lato, allungando un braccio per indicare di entrare.
“Hai davvero degli occhi tristi oggi…” Sussurrò la ragazza, osservandolo dal basso, piegando la testa di lato. “Non mi aspettavo certo che mi avresti aperto saltellando, ma nemmeno di vederti così giù… maledizione, tu sei sempre giù di morale!”
“Per lo meno entra e non farmi restare qui come un idiota a tenerti la porta, è il minimo, no? O sei venuta solo per criticare tutto quello che vedi, come al solito?”
Lei sospirò, roteando gli occhi e accettando anche questa volta le sue parole, avendo ormai imparato a non replicare quando lui aveva quell’umore. Avanzò, storcendo il naso appena venne investita dall’odore di chiuso e si diresse istintivamente verso la finestra, aprendola e osservando fuori per qualche istante.
Non voleva cercare nulla da dirgli, avrebbe aspettato che parlasse lui per primo: ogni cosa avrebbe detto non l’avrebbe gradita, di questo era certa. Così si limitò ad osservare gli altri palazzi degli agglomerati sprofondati nel buio della notte simulata, pensando ad una sorella troppo lontana che avrebbe voluto al suo fianco di nuovo, il prima possibile.
“Vuoi qualcosa da bere?”
La ragazza si voltò, guardando il drell appoggiato con gli avambracci al ripiano della piccola cucina. Lei fece di no con la testa, posando poi gli occhi sulla televisione. “Folie a deux? E’ ovvio che sei triste, se guardi questi olofilm pessimi.” Sorrise, cercando di avvicinarlo con cautela, farlo aprire, ma senza riuscirci.
Kolyat silenziosamente afferrò un bicchiere per sé, lo riempì di tè freddo e tornò a sedersi sul divano, senza degnarla di uno sguardo.
Le emozioni che lei provava non erano definite. Avrebbe dovuto provare fastidio, ma in lei c’era tanta comprensione, macchiata appena di una goccia di disappunto. Lei provava ad aiutarlo, ma senza un piccolo sforzo anche da parte sua lui avrebbe finito per trascinarla nel baratro con sé. Cosa credeva? Che in quel mondo i problemi li conoscesse soltanto lui?
Dopo quello che le parve un’infinità di tempo ma che realmente fu soltanto un minuto, con un sospiro lei tentò di nuovo un approccio, dopodiché, si disse, avrebbe lasciato stare e girato i tacchi per tornare a casa sua. Che quella non sarebbe stata una serata facile si era capito già dal primo istante dopo aver varcato la soglia.
La ragazza lo affiancò sul divano, guardando il televisore distrattamente, senza la minima voglia di seguire l’olofilm.
“Non credevo ti piacesse il tè” Indicò con il mento la bevanda che lui stringeva tra le mani, sulla bocca disegnato il suo solito sorriso lieve nel tentativo di rassicurarlo. Gli osservò le labbra mentre tremavano come se stesse decidendo le giuste parole, parole che in realtà non arrivarono affatto, e questo la spinse a prendere l’iniziativa di parlare di nuovo. “So che tenevi le bustine per tuo padre, a lui piaceva, almeno così mi dicesti una volta…” Abbassò gli occhi, senza timore. “ma aggiungesti che tu ne odiavi sia l’odore sia il sapore.”
Kolyat fece schioccare la lingua. “Devo pur finirle, non credi?”
Quelle parole le sembrarono una sferzata di vento gelido. Erano talmente piatte e prive di spessore che sembravano pronunciate quasi con cattiveria. Per la prima volta ebbe paura che lui avrebbe soltanto potuto creare negativismo e distruzione. Per un attimo perse di vista la luce che aveva sempre ritrovato dentro di lui, un piccolo spiraglio di speranza che lo avrebbe condotto ad un’esistenza migliore con se stesso. Come qualcuno che si avvicina troppo ad una fonte di calore intenso lei si ritrasse, abbandonando il sorriso e sostituendolo con una smorfia che non cercò di nascondere.
Il drell deglutì, lo sapeva che quella non sarebbe la serata giusta per parlare, lo sapeva che avrebbe fatto disastri… ma lei era entrata nel suo spazio in modo così irruento da non lasciargli alcuna via d’uscita. Lui stava cercando un modo di uscire da quella conversazione, di cancellare quanto detto, ma ogni parola che affiancava mentalmente ad un'altra poi cadeva e con essa le altre posizionate prima, come se stesse cercando di costruire un castello di carte in mezzo ad una bufera.
 
Lei si morse le labbra, indecisa su cosa fare. Parole dure spingevano contro la sua bocca, ma lei cercava di resistere, sapendo che non lo avrebbe affatto aiutato se avesse permesso loro di uscire. Così spense la televisione ed iniziò ad intonare una vecchia canzone che adorava, arrendendosi alla speranza che fosse l’unica opzione disponibile, che quelle parole cantate in quella cadenza avrebbero avuto il potere di tranquillizzarlo, proprio come facevano con lei. Lei amava cantare, era una delle poche cose di cui era certa.
Vivevano su due livelli divisi da una frattura troppo vasta, qualche volta riuscivano a sfiorarsi, ad avvicinarsi all’anello di congiunzione che avrebbe abbattuto le loro barriere per permettere loro di comunicare sulla stessa lunghezza d’onda.
Ma la sincronia non c’era, non per Kolyat, non quella sera. Era successo tutto in fretta, ogni nota suonata da lei, ogni mossa sulla scacchiera gli sembrò sbagliata, e durante il ritornello la fermò, scuotendo la testa. “Vattene.” Sospirò lui, infastidito più da se stesso che da lei. Quando lei gli poggiò una mano sulla spalla, come per cercare una spiegazione, lui si alzò in piedi, allontanandola e aprendo la porta d’ingresso con un gesto secco.
“Ma Kolyat…” balbettò lei, senza capire, trattenendo lacrime di frustrazione. “Io volevo solo…”
“Vattene!” Lui alzò troppo la voce, e la parola gli uscì distorta e rauca, come fosse un grido di pura ira. Osservò la ragazza allontanarsi e svanire nell’oscurità del corridoio fuori dall’appartamento, immaginandola con gli occhi ancora sbarrati, sconvolta.
Quanto tempo gli ci sarebbe voluto per rimpiangere ogni singola azione compiuta quella sera?
Quando avrebbe capito che non ci sarebbe stato nulla di male nel confidarle che in realtà il tè lo adorava, ma solo quando era freddo e addolcito con un sacco di zucchero? Kolyat si sdraiò sul divano, perdendosi nei ricordi scatenati dal dolore. E prima di scivolare in un sonno terribile pensò alla canzone che lei aveva cantato per lui, capendo quanto fosse bello quel gesto e maledicendo la disarmonia che lo allontanava da una vita normale… che lo allontanava così crudelmente da lei.

 

 

 
 










Se è la prima volta che aprite questa storia... che dire. Calcolatela come One-Shot e non prendetevi neppure la briga di continuare con i capitoli.

 
 

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Capitolo 2
*** The house of the Rising Sun ***


II – The house of the Rising Sun

 

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Well, I got one foot on the platform
The other foot on the train
I'm goin' back to New Orleans
To wear that ball and chain

 

Lei camminava, in mezzo al buio dei palazzi, trascinata da un automatismo che la faceva avanzare senza che avesse il tempo di pensarci. Non sapeva se la luce fosse ancora accesa nell’appartamento di Kolyat, non si era voltata una volta in strada cercando la sua finestra, cercando la sua sagoma che la osservava andare via come faceva tutte le altre volte.
Era un’area discreta, quella dove lui si era stabilito. Silenziosa. Il silenzio era un aspetto che lei non riusciva a sopportare, in quel posto era vuoto, isolava completamente gli individui, li rendeva sagome buie senza spessore che ignoravano l’esterno, assillati dai propri problemi, mostri che gridavano. Non era la pace di una mattina lontano dal rumore, una mattina la cui luce fa strizzare gli occhi mentre si osserva il paesaggio vivo scaldato una stella vicina. Era un luogo affollato, in cui le persone stavano a stretto contatto l’una con l’altra, ma ognuna delle quali era profondamente sola, persa dentro se stessa.
Sulla cittadella non pioveva, era una stazione il cui metallo era irrorato solamente dalla vita dei passanti, dalle luci a neon ronzanti delle bettole e dalle insegne olografiche dei bar di lusso più vicini al presidium. Ma Oriana stava cercando di convincersi che stesse piovendo, come sulla Terra, quel pianeta che aveva il nome di casa ma a cui sapeva di non appartenere. Aggrappandosi ad alcune speranze che le rimanevano lei riusciva ad andare avanti anche questa volta, sperando che reggessero ancora per tanto tempo senza farla sprofondare, come era successo a Kolyat.
Ma quelle speranze avrebbero davvero potuto sopportare il peso di entrambi?
 
Entrò nel suo appartamento senza accendere la luce, accolta dal rumore familiare e tanto amato di quattro zampe che atterrano sulla moquette. La ragazza sorrise, improvvisamente tranquillizzata dal contatto dei fianchi del gatto contro le gambe, lasciando che un sospiro si perdesse nella quiete della stanza, carico della confusione e della disperazione provate appena prima. Era bello come senza una parola riuscivano a capirsi, gli animali si appigliavano direttamente all’anima senza venire traviati da quel meschino linguaggio capace solo di occultare le cose più fastidiose.
Eppure doveva avere ricominciato a piovere, forse più forte di prima, perché le labbra di Oriana si tirarono di nuovo e il mento le spingeva verso l’alto, gli occhi si restringevano.
Provò il desiderio di lasciarsi andare contro la porta alle sue spalle, ma di nuovo rovistò tra le speranze e attraversò la casa. Erano gocce crudeli quelle che le piovevano sul viso, un diluvio che Queequeg non capiva, ma che osservava, attento, e ne aspettava pazientemente la fine sulla soglia della porta del bagno illuminato dalla luce sterile del neon sul soffitto.
Il gatto seguiva la sagoma della padrona con i grandi occhi ambra, seguendola attento, piegando la testa prima da un lato e poi dall’altro. La sua coda sembrava quasi seguire il ritmo dei lievi singhiozzi che lei emetteva.
Alzò il viso, trovando nel riflesso dello specchio qualcuno che non avrebbe voluto vedere. Il factotum segnalò un messaggio in arrivo, e questa volta lei lo fece aspettare, temendo di trovare cose che l’avrebbero fatta soltanto sentire peggio.
Si guardò di nuovo, avvicinandosi al vetro tanto da condensarlo con il fiato irregolare, e si osservò gli occhi.
Erano grigi, maledettamente grigi quella sera cupa. Le diverse luci le facevano apparire le iridi in molti modi, ma in quel momento credette di essere riuscita ad afferrarne il reale colore. Grigi e piatti, alcune minuscole macchie castane sparpagliate, senza ordine.
Alzò il braccio, mordendosi le labbra e sentendo il sapore delle lacrime. Trattenendo il respiro aprì il messaggio, mentre ogni cellula del suo corpo tremava, senza un motivo apparente.
Oriana pianse nuove lacrime, sollevata, trovando parole cariche di un affetto che non era certa di meritare. Lesse tutto il testo con avidità, sperando di non arrivare mai alla fine, immaginandoselo pronunciato direttamente dalla sua voce. Quanto era lontana, Miranda.
La ragazza si strinse nelle spalle, accasciandosi accanto al lavandino, consapevole che si sarebbe aggrappata a quel testo febbrilmente, rileggendolo con disperazione un’infinità di volte, fino all’arrivo di uno nuovo.
“Non so fino a quando riuscirò a sopportare la tua mancanza, Miri.” Sussurrò, portandosi il braccio avvolto di luce arancio al petto.
 

Well, there is a house in New Orleans
They call the Rising Sun
And it's been the ruin of many a poor boy
And God, I know, I'm one

 

Su Kahje non c’era l’azzurro, non c’era il verde, non c’era nulla. Le nubi pesanti appiattivano i volumi, soffocavano le ombre, e la brillantezza dei colori spariva davanti agli occhi sbagliati, creati per percepire il mondo in altre condizioni.
La loro casa era nella regione in cui il nuovo giorno arrivava prima… prima che in qualunque altro punto del globo.
“Il cielo non è mai stato così bello, vero?” Kolyat sorrideva, sdraiato nel suo letto, osservando luminosità del crepuscolo dalla finestra.
“Hai ragione” Rise lei, in risposta. “Guardalo più che puoi, è uno spettacolo raro.”
Le piccole mani acerbe cercarono quelle della madre, senza guardarla. Lui era troppo interessato ai nuovi colori di cui il mondo si stava tingendo fuori da quella stanza.
“Sembra tutto più nitido, non è vero, piccolo?”
Chissà quanto era bella, avvolta in quella luce… ma il tempo era poco, lui non voleva voltarsi, il cielo era troppo prezioso.
Kolyat non riusciva a smettere di sorridere. “Sì”
Lui avrebbe voluto che non diventasse mai notte, avrebbe voluto stare ad osservare quella meraviglia per il resto della sua vita… però, lentamente, i suoi occhi si chiusero, ma la gioia non aveva intenzione di abbandonarlo.
Le prime stelle non le vide neppure, ma si aprirono con un canto e con le dita fresche che sfioravano le palpebre giovani. L’antica canzone diventò un sussurro, e poi andò sfumandosi nel silenzio.
 
Kolyat riaprì gli occhi e vide il grigio. Le sue mani, ora, erano vuote e grandi.
Una delusione opprimente lo investì, senza lasciargli il tempo di riprendersi dal ricordo così vivido. La stessa sensazione che aveva provato da bambino, il giorno seguente, nel riaprire gli occhi e vedere il vetro bagnato di pioggia.
Ora che ci pensava era sempre stata così la sua vita, monocroma e spenta, come la Kahje che lui aveva conosciuto per anni e che aveva imparato a sopportare.
Le screziature di colore, la vita vera, erano cose che lui aveva intravisto poche volte, offuscate e in lontananza. Ma gli era rimasto nel cuore il colore di quel tramonto insolito, tanto da voler ricercare il cielo ovunque, pur di fingere di essere ancora lo stesso di quando tutto sembrava più giusto ai suoi occhi ingenui.
Il blu profondo del cielo che diventa viola e poi si perde nel porpora e poi nel giallo accecante del sole. Il blu, che si rispecchia nelle onde del mare, dipingendole e dando loro consistenza.
Il suo vestito aveva il colore di quel mare, pensò lui, e qualche volta andava a rispecchiarsi nei suoi occhi.
 

 
 











 
 
Ripetizioniii oooohhh oh  ri pe ti zio niii oh oh oh 
zonk izizwe mazibuye
Ovunque e e e 

Volevo ringraziare tantissimo Andromeda e shadow_sea, senza di loro questa storia sarebbe stata bloccata subito e non si sarebbe sviluppata... *non sarebbe nemmeno un male hauhshahahhua* Ma beh, io ci provo e anche se fatico come un mulo a scrivere queste due righe che vi propino dopotutto credo di divertirmi. (Ho detto credo) 
Almeno, se non mi piacesse farlo non lo farei, no? 
O forse, più semplicemente, sono solo masochista. Chi lo sa. 


(non ho avuto la minima voglia di rileggerlo, volevo solo liberarmene. Quindi.. gli eventuali errori, beh, svaniranno quando la riguarderò)
<3 <3 <3 Coniglietti.

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Capitolo 3
*** That I would be good ***


III – That I would be good



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That I would be fine even if I went bankrupt
That I would be good if I lost my hair and my youth
That I would be great if I was no longer queen
That I would be grand if I was not all knowing


 

C’era qualcosa di sbagliato quella notte nell’aria. Era opprimente, lei si sentiva soffocare, qualcosa le bloccava la gola ma lei tentava di ignorarlo.
Un dolore indefinito, sordo, che a volte occupava solo la gola e altre si allargava fino al petto, lasciandola a boccheggiare tra le lenzuola.
Ma mano a mano la spossatezza si faceva presente, e palpebre di Oriana si chiudevano lentamente, dolcemente cullate dal suono di fusa leggere. Strinse le labbra, mentre ormai stava per precipitare nel sonno, quel momento in cui  ormai i pensieri si destrutturano e assumono forme bizzarre e oscure. Un pensiero si mescola ad un altro, poi si blocca a metà perché si teme di affrontare il ragionamento, si rimanda. Si cercano altre cose a cui pensare, ma quello torna e perseguita.
Una presenza crudele, il ricordo di due occhi scuri che la seguivano, per un motivo che le sfuggiva completamente. Era bizzarro che lei avesse preso tanto a cuore Kolyat, lui che l’aveva cercata la prima volta ma che sembrava volersi tirare indietro, scottato. Era questo che le faceva male, non sapere il motivo del suo apparente pentimento nell’averla conosciuta.
Per una volta si era sentita spaventata ma importante nello stesso momento, aveva percepito lievemente, lontana, una sensazione nuova che non sapeva bene cosa volesse dirle.
Lui stava ritto a fissarla, da lontano, sembrava quasi non gli importasse affatto essere notato. Oriana si era interrogata tante, troppe volte a proposito del loro primo incontro. Sembrava che la guardasse come si osserva qualcosa di nuovo, mai visto, qualcosa di stupefacente capace di lasciare senza fiato anche i meno emotivi… si era guardata intorno, stranita, domandandosi cosa avesse di così incredibile agli occhi di quell’alieno mai visto. Mise da parte il buonsenso, abbassando imbarazzata il viso e gli sorrise, sentendo le barriere crollare, e capendo di essere ormai troppo vulnerabile per tornare indietro. Avvicinarsi, un concetto espresso con un semplice gesto, gli occhi che continuano a guardarsi, scivolando su contorni spigolosi, morbidi, arrivando ad osservare squame, pelle.
Lui l’aveva cercata e lei gli si era abbandonata totalmente, lasciando paure,timori e la prudenza che Miranda le aveva tanto raccomandato, ignorate. Si era sentita come avvolta dalle sue richieste, sentendo che con quel sorriso si era lasciata andare come contro il suo petto. Cos’era, cos’era quell’istante così lontano da tutto? Quante cose possono nascere e vivere all’interno di due secondi del sorriso più sincero dell’universo?
Il sonno la abbracciò in quell'istante, i pensieri che non avrebbero mai trovato risposta le scivolarono dalle dita e i suoi muscoli si rilassarono, dandole una breve sensazione di vuoto sotto di sè. E poi incontrò nuovamente l'inconscio, che chissà cosa le avrebbe offerto quella notte.
Il gatto si addormentò, lasciando i respiri cadenzati di Oriana liberi di esprimersi nel silenzio della stanza.

 

That I would be loved even when I numb myself
That I would be good even when I am overwhelmed

 
Anche lui era immerso nel buio, avvolto da quello che a noi può sembrare il vapore acqueo delle nuvole. Stava sognando qualcosa, ma incredibilmente da sveglio non avrebbe saputo ricordare di cosa si trattasse. C'erano dei colori limpidi e chiari, sembravano fatti solamente di luce. Poi cambiò tutto. Nei suoi occhi chiusi penetrò il colore dell'ardesia, liquido, che si mescolò  ad un insopportabile blu. Si sentì trascinare verso il basso, quell'inchiostro terribile sembrava volergli aprire il petto e sostituirsi al suo cuore.  E il respiro che dapprima si era soltanto velocizzato, in preda all'ansia, in quel momento s'interruppe. 
In un altro quartiere, in un appartamento lontano lei riempiva la stanza, ora. Ma era come se fossero uniti nel silenzio, creavano insieme qualcosa di nuovo, addormentati insieme, troppo spossati per riuscire a resistere anche solo un’altra ora. La sinfonia di fiati così dolce di poco prima aveva lasciato Oriana solista.
La necessità di ossigeno dopo dieci assurdi secondi di apnea lo costrinsero a spalancare occhi e bocca, tentando di scacciare l'oscurità che incombeva. Kolyat tossì troppo forte. Un bruciore intenso gli riscaldò la gola e scese troppo in basso, afferrò i polmoni e li strinse. Il drell si era alzato a sedere sul letto senza volerlo, le sue mani in un gesto istintivo avevano cercato quelle dell’unica persona che ora avrebbe potuto esserci, mani che ne cercano altre per un sostegno doveroso, ma non trovandole si erano accontentate di stringere le lenzuola. I suoni, che prima componevano a malapena una sinfonia dall'andamento adagio, ora avevano saltato ogni altro battito del metronomo raggiungendo il presto. Kolyat ebbe paura, si ricordò dei risvegli di suo padre e si sentì impotente, non riuscendo a  smettere di tossire.
Riprese fiato, l'aria di cui aveva bisogno disperatamente gli graffiava le pareti della gola, ma per quel veloce secondo, la tosse svaniva. Lentamente l'andamento dei suoni diminuì, perdendo battiti. Se lei fosse stata lì si sarebbe limitata a tenere una mano sulla sua, le parole non sarebbero servite, finchè lui non avrebbe deciso di coricarsi di nuovo.
Non era la Kepral, era soltanto un momento, una reazione fisiologica passeggera ad un’esposizione all’umidità di alcune aree in cui si era recato per lavoro. Era stata forse troppo violenta, approfittandosi delle sue debolezze sempre più grandi senza scrupoli e lasciandolo inerme e terrorizzato, a colpevolizzarsi.
Poi i suoi occhi si spalancarono e attraverso loro passò un ricordo che aveva già cercato mille volte, sperando di dargli una logica.
E’ finito il mio turno, sto raccogliendo le cose per tornare a casa. Alzo gli occhi e noto un'umana, giovane, viso tondo. Mi ricorda qualcuno, ma so che è diversa, lo sento. Sta seduta a qualche metro da me, aspettando in coda. Alza gli occhi e nota un’asari malandata. E’ Ize, reduce dalla battaglia su Palaven, senza più nulla al di fuori di se stessa. Io l’avevo conosciuta, avevo involontariamente ascoltato la sua storia, mentre giorni fa si sfogava con un suo amico che non avrebbe creduto di rivedere che aveva trovato lavoro con me, dopo il disastro. Era stata accanto a chi le aveva dato le ragioni per continuare, lottando per lui, per ciò che si era guadagnata e aveva costruito con il tempo. Ma i razziatori le avevano sottratto tutto, era rimasta da sola, a resistere, senza perdere la speranza che ormai non doveva più avere significato per lei. Riuscii così a giustificare i suoi occhi sempre gonfi ma pieni di una nuova speranza che è giusto che vada oltre l’egoismo.
“Oddio!” Esclama l’umana, percorrendo con gli occhi il corpo martoriato dell’asari appena arrivata. Con un sorriso rammaricato si alza in piedi, lasciando l’asari libera di sedersi e riposare. “Mi dispiace” Si scusa, tirando le labbra in un sorriso che viene ricambiato.
L’umana fa due passi verso sinistra, appoggiandosi ad una parete. Gonfia le guance, ignorando totalmente la mia reazione nei confronti della sua gentilezza. E’ quello che descriveva mio padre quando raccontava di mia madre?
E’ questo quell’istante in cui smetti di cercare una ragione perché realizzi di averla di fronte a te?
La Ragione alza gli occhi e li lega ai miei. La Ragione mi sorride. Ha gli occhi del mare e continua a mostrarmeli, sembra che non voglia lasciare i miei.

Devo conoscerla. 


















Aggiornamenti a caso. Flashback a caso. Invenzioni a caso. Odio buttare cose di sana pianta senza riferimenti perchè già non so trattare di cose esistenti, figuriamoci se le introduco io. OMG.
Devo ancora rispondere alle recensioni, mi scuso troppo, mi sento l'inerzia in persona ultimamente. (Ho finito ora il capitolo e qualcosa mi spingeva a pubblicarlo... scusate gli errori e/o ripetizioni, ce ne saranno sicuramente) 

Quanto sono cattivi i gelati al limone :S

 

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Capitolo 4
*** Down to Earth ***


IV – Down to Earth

 

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 Did you feel you were tricked

by the future you picked?

 

Miranda alzò lo sguardo dal terminale, sulla retina ancora impressa la luce che aveva continuato a fissare per troppo tempo e che seguiva ogni cosa su cui lei andava a posare gli occhi. Era esausta e aveva bisogno di dormire, così disattivò le attrezzature e camminò lentamente verso la finestra, dall’altra parte della stanza.
Non le capitava spesso di pensare al passato, alle cose di cui si sentiva fiera o a ciò che rimpiangeva, anzi, evitava di farlo.
Ma ora, iniziava a capire che, per quanto la sua vita fosse stata un susseguirsi di tempeste, non avrebbe voluto cambiare nulla. Miranda non si amava, non amava la propria vita… ma conosceva le ragioni che la miglioravano e addolcivano.
Oriana era una di queste, la sua più convincente ragione per lottare, per non arrendersi, per sentirsi migliore. E, senza rendersene conto, sentiva di essere lo stesso per lei, l’unica nel suo mondo, e non calcolava l’amarezza che avrebbe provato se  non fosse stato così.
Cercò tra i file sul factotum un’immagine della sorella che le mancava così tanto, senza riuscire a provare altro che un’immensa voglia di riabbracciarla. Nonostante i pericoli fossero stati scongiurati Miranda aveva paura, temeva che qualcosa di profondamente sbagliato si mettesse di nuovo a distruggere ogni cosa che cercava di costruire. Ogni volta che stringeva un legame con qualcuno, una persona di cui credeva di potersi fidare, o qualcuno a cui iniziava a tenere con tutta se stessa, ecco, tutto andava a rotoli.
Osservò attraverso il vetro il nuovo cielo a cui si stava lentamente abituando, sentendo una fitta all’altezza del cuore senza riuscire a riconoscere nessuna delle costellazioni che aveva conosciuto negli anni. Era costretta a soffocare il suo senso di vuoto, il suo smarrimento ogni volta che in cielo cercava cose che aveva conosciuto ma non avrebbe potuto ritrovare, consistenze della terra e colori che non avrebbe potuto più percepire o vedere, se non dopo aver atteso a lungo.
E faceva ancora troppo male ricordare tutti coloro che aveva perso, che l’avevano lasciata sola quando ormai lei immaginava di poterli avere per sempre al proprio fianco. Le mancava la voce di Niket che la chiamava con un soprannome, le sarebbero mancati tutti i compagni di squadra sulla Normandy se solo avrebbe avuto la forza di pensare a loro, per quanto avesse sempre cercato di dimostrarsi indifferente a loro, sempre per paura di affezionarsi troppo…
Niket, al suo pensiero riusciva a trovare soltanto risentimento, ormai ogni sua sensazione si era acquietata trasformandosi in quello, dopo tutto quel tempo, che non era neppure troppo.
“Miri” Lei sorrise a se stessa, appoggiandosi sul davanzale. Restare in piedi era diventato troppo complesso ormai.
Era morto, come tutti gli altri. Credeva che non facesse differenza l’avesse ucciso lei oppure no, il risultato nei primi momenti le sembrava identico. Ma c’era stato qualcosa negli occhi di lui, qualcosa che era emerso con il tempo, riflettendo, che se avesse premuto il grilletto non avrebbe visto.   
Troppe cose continuavano a mutare nella sua vita, avventure e disgrazie la circondavano, scivolandole addosso, mentre lei cercava di concentrarsi solo sulla sua corsa verso i propri obiettivi. Senza avere il tempo di rendersene conto aveva rinnegato ogni dono egoistico che le era stato fatto, si era volontariamente gettata nel cuore di un’organizzazione terroristica, poi si era ritrovata a ripararsi dietro uno scudo cinetico semidistrutto accanto al Comandante Shepard. E ora… ora era finito tutto e lei si sentiva frastornata, come se il tempo le fosse stato sottratto insieme a tutto ciò che aveva avuto ed amato.
Le mancava Shepard e non poteva assolutamente alleviare malinconia e dolore, rendendosi conto che se il suo Comandante fosse ritornato dall’ultima battaglia, lei sarebbe stata la prima ad osservarlo scendere dalla Normandy. Avrebbe alzato la mano che prima stava mollemente lungo il fianco, e fatto il saluto militare. Avrebbe sorriso, o forse pianto… e nonostante il tempo continuasse a scorrere, lei lo stava ancora aspettando, fedelmente.
E le venne da piangere, perché sapeva di non aver mai dimostrato nulla a nessuno, nulla a Shepard: non aveva mai esternato il rispetto che quella figura incredibile le evocava e tutta la gratitudine ogni qualvolta si metteva incondizionatamente a sua disposizione.
Ma lei sentiva di poter ancora provare a riporre in qualcosa speranza ed amore, per paura aveva cercato di privarsene prima di Omega4 e prima dei Razziatori, ma non ci era più riuscita. Dopotutto cosa sarebbe cambiato? Se si fosse rinchiusa nell’indifferenza lasciando il mondo esterno chiuso dietro l’azzurro di due occhi perfetti si sarebbero creati soltanto altri rimpianti. Avrebbe semplicemente provato, d’ora in poi, uscendone ammaccata ma non vinta.
Miranda si stava svestendo, travolta dai pensieri altalenanti. Il bisogno opprimente di felicità, in quell’istante, iniziò a plasmare un’idea che al solo pensiero le faceva perdere il fiato dall’emozione.

 
We’ve got snow up on the mountains,
we’ve got rivers down below

 

“E’ dura prendersene cura?” Una giovane commessa umana sorrise ad Oriana, imbustandole le tre gigantesche confezioni di cibo liofilizzato per gatti.
Oriana sbuffò una risata, senza osservare la ragazza, con gli occhi fissi sul factotum pronta a digitare l’importo per pagare. “Affatto” rispose. “La cosa peggiore è solamente saltare qua e là di ufficio in ufficio al Presidium per dichiarare che hai un animale domestico…”
“Io ricordo di aver avuto un cane da bambina, quando vivevo ancora sulla Terra… non c’erano tutti questi vincoli, nemmeno la metà.”
“Viveva sulla Terra? E com’è?” Oriana si ritrovò a sorridere entusiasta e curiosa. Era da tempo che avrebbe voluto visitarla, ma iniziava a credere che non ci sarebbe mai riuscita.
“E’ strano che tanti umani me lo chiedano.” Commentò, un po’ confusa. “E’ la nostra casa, ma da quando ci siamo connessi con l’Universo abbiamo voluto scappare dalla nostra madre naturale e mi dispiace non ricordarla quasi per niente… so soltanto che una volta che ci sei, è come se sapessi di essere a casa, quella vera. L’aria ha qualcosa di sbagliato in ogni posto che ho visitato dopo essere partita.”
“E’ stata una buona madre per figli irriconoscenti, a quanto pare…” Il discorso aveva scatenato in lei un nuovo ragionamento e aperto nuovi punti di vista su cui riflettere che non aveva mai considerato.
“Sono dieci crediti” Le disse gentilmente, dopo aver passato qualche secondo riflettendo a sua volta. “Credo che darà da mangiare al suo cucciolo per mesi, con tutta questa roba!” Dopo aver sistemato gli acquisti e ricevuto il pagamento allungò il sacchetto ad Oriana.
“Non conosce il mio gatto” Le sfuggì una nuova risata, mentre gli occhi si andavano a soffermare su una richiesta di adozione dell’ultimo gatto rimasto di una cucciolata numerosa. Era incredibile, stava ritornando tutto a posto, e giorno dopo giorno, insieme alle speranze dei sopravvissuti, anche la Cittadella sembrava ritornare a pulsare di vita. I danni gradualmente sbiadivano, tutto sembrava tornare alla normalità nonostante ogni cosa o persona ne avrebbe portato i segni per molto tempo ancora.
La commessa seguì il suo sguardo accigliato verso l’immagine. “E’ bella, non è vero?”
Oriana annuì, chiarendo prontamente il suo interessamento: “Oh, sì, è meravigliosa, ma non sono intenzionata ad adottarla… non ho proprio spazio nel mio appartamento…”
“…e nemmeno la voglia di girovagare senza meta tra gli uffici del Presidium immagino” aggiunse la giovane.
“Esattamente” Ammise lei, afferrando la busta e salutando la ragazza con un cenno del capo. “Grazie mille” La salutò poi con la mano e si voltò, camminando verso casa.
Camminava a brevi e svelte falcate, pensando all’ultimo messaggio di Miranda. Conteneva qualcosa di troppo bello, e non vedeva l’ora di poter seguire la sua proposta, anche se le sembrava un progetto irrealizzabile. Ad un tratto le s’illuminò il factotum, e lei lo avvicinò al viso immediatamente, emozionata solo all’idea di trovare un altro di quei messaggi così carichi di dolcezza capaci di risollevarle la giornata e farla sorridere. Ma non trovò tra le e-mail ricevute un nuovo messaggio della sorella, bensì trovò qualcosa di Kolyat.
Oriana s’irrigidì, senza sapere a cosa pensare. Una parte di lei fremeva dalla voglia di scoprire il motivo che lo avesse spinto a mandarle un’e-mail, cosa che, peraltro, non aveva mia fatto. Non riusciva a spiegarsene il motivo ma aveva paura di aprire qualcosa di tanto inaspettato, così inaspettato che probabilmente nemmeno lui aveva calcolato.
Si appoggiò ad una parete accanto a delle nuove proiezioni olografiche che riportavano repliche su repliche del secondo olofilm su Blasto, in un’ovvia assenza di nuovi titoli.
Chiuse gli occhi, appoggiando il dito sul messaggio e ascoltando il rumore del factotum mentre lo apriva. Trattenne il respiro, come fosse un rito, e notò subito che l’impatto visivo lasciava parecchio a desiderare. Rialzò gli occhi, chiedendosi cosa avesse intenzione di dirle – o come avrebbe avuto l’intenzione di scusarsi, che era il minimo- con una riga di testo.
E’ una mia impressione o questa mail finisce con il punto interrogativo? Si domandò, sempre più curiosa.
Al diavolo!Così riportò gli occhi sul factotum, con decisione.
“Oriana, ma com’è che l’80% di roba che viene dalla terra ha dei peli?”
Lei scoppiò in una risata che sapeva di divertimento ma anche di felicità, una gioia autentica. Scrivere molto ed esporsi non era il suo forte, ma quella volta doveva decisamente essersi impegnato. Era quello il modo di scusarsi? Beh, lei lo avrebbe accettato benissimo.
E forse, iniziò a pensare, fare altri chilometri lungo il presidium saltando di ufficio in ufficio non sarebbe neppure stato così noioso.

 

 










 
 
Prima cosa: mi scuso con gli È che qualche volta hanno l'accento e altre volte quell'abominevole apostrofo. Questo computer è scemo e prende il codice quando gli pare e sono troppo pigra per copiaincollarlo. 
Grazie per le recensioni, sono importantissime e non so come farei a trovare il coraggio di continuare. Davvero, grazie grazie grazie ;-; 
Poi mi sono accorta che forse troppo grande il formato del testo D: Cioè se lo è ditemelo, il fatto è che sono cieca io e non me ne accorgo.
Di chiarimenti vorrei scriverne diversi ma non so da dove iniziare. Boh. Quindi non lo farò direttamente. Se non capite nulla allora chiedetemelo auauauau D: 
Ecco. Ecco. Era la storia dei peli che volevo sviluppare. L’avevo inserita apposta nel primo capitolo ma dal momento che aveva preso una piega terrificante-triste-deprimente l’ho lasciata in sospeso.
Pubblico perché sto guardando in tv un documentario su Roma e Pompei e sto piangendo perchè sono come una psicopatica e voglio smettere. Troppe cose belle in così pochi minuti.
 
Voglio una nave da pirata rosa con una polena parlante. 

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Capitolo 5
*** Do you remember? ***


V – Do you remember?

 

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We never talked about it, 
but I hear the blame was mine 
 
"Krios."
Kolyat sospirò prima di voltarsi. Lanciò ancora uno sguardo oltre il vetro dello sportello, intuendo che non avrebbe ascoltato nulla di piacevole. 
Con un gesto, il suo superiore gli indicò di seguirlo. Sapeva già da un po' che ad attenderlo ci sarebbe stato qualcosa, ma evitava di pensare di cosa si potesse trattare. Aspettava da settimane quello che stava per succedere, ed affrontarlo, evitando però per tutto il tempo di pensarci. Non poteva permettersi di essere scartato dal C-Sec, non proprio ora che tutto si stava riassemblando; aveva imparato a convivere con il caos degli hangar della Cittadella, imparato a sopportare ogni sorta di bambino alieno che restava stupito nel vedere un drell allo sportello, tirando la manica al genitore per chiedere spiegazioni. 
Era stato così difficile all'inizio, quando dopo aver sentito la sveglia suonare temeva anche solo di immaginare cosa avrebbe dovuto affrontare quel giorno. Ma mano a mano imparava, osservando in silenzio e cominciando, con un pacato distacco, a rivolgersi ai visitatori. 
Licenziato era una parola che suonava male in tutto il contesto in cui si era adagiato con così tanta fatica. Così tante persone lo avevano a raggiungere quel punto, ma capiva che c'erano altrettanti superstiti senza più un lavoro... e per quanto la Cittadella fosse così aperta verso ogni tipo di alieno che vi entrava, il C-Sec lo teneva in bilico, privilegiando personale Turian, o nel caso della dogana dove era stato assegnato lui, personale umano, che tendeva ad essere piuttosto gentile ed equilibrato con i nuovi ospiti di ogni razza.
Camminava, a schiena dritta, ma non riusciva a tenere alta la testa, pesava. Era semplicemente troppo complesso. 
Senza accorgersene era entrato nell'ufficio, come se qualcuno l'avesse trasportato lì senza che lui se ne accorgesse. Aveva richiuso la porta alle spalle, lasciando fuori lo sguardo di alcuni colleghi. Non gli importava sapere che tipo di sensazioni loro provassero nei suoi confronti.
"Siediti pure", disse il Turian, indicando con una mano la poltroncina di fronte alla scrivania, mentre prendeva posto dietro. Accese il computer, fissandolo brevemente, per poi tornare ad osservare Kolyat che continuava a restare indietro, appena accanto alla porta, in piedi.
"Preferirei stare qui" Rispose il drell, piegando le labbra in una smorfia mentre i suoi occhi restavano fissi in un punto oltre le cose, immobili senza osservare effettivamente nulla. Non era una buona idea distaccarsi così dal presente, sarebbero potuti arrivare i ricordi con più facilità cogliendolo di sorpresa. Ci sarebbe mancato soltanto quello...
"Come preferisci," sbuffò l'agente "non ci vorrà comunque molto."
 
 
You could've tried to see the distance between us 
but it seemed too far for you to go. 
 
 
Oriana rientrò a casa, aprendo dolcemente il trasportino e facendo attenzione a non compiere movimenti troppo bruschi. Osservò all'interno, sorridendo mentre tendeva una mano per afferrare la gatta. Solo quando la ebbe tra le mani capì quanto fosse piccola, ma, ebbe modo di accertarlo del tutto, in perfetta salute. 
"Hey," le sussurrò la ragazza, avvicinando il cucciolo al viso "se Kolyat mi butta fuori di casa quando non faccio nulla di male, chissà cosa succederà quando mi presenterò con te... mi vorrà bandire dalla Cittadella" rise, alleggerendo con tranquillità quell'episodio che le faceva ancora tanto male. 
Le diede un bacio sul capo per abitudine, come faceva sempre con Queequeg, e la appoggiò sul pavimento. Si diresse verso il bagno, prendendo un paio di asciugamani per creare una cuccetta provvisoria. Queequeg si fece vivo dalla porta della cucina, sporgendosi con curiosità da dietro lo stipite. 
Quando Oriana tornò, li vide entrambi intenti a conoscersi, molto interessati l'una all'altro, ma intuiva già come sarebbe finita. Nel giro di alcuni secondi infatti lui si era già allontanato di qualche centimetro, arricciando il naso e curvando la schiena. 
La piccola gatta turca era frastornata dalla marea di cambiamenti avvenuti in così poco tempo e spaventata, ma anche tanto stanca. Non aveva fame, così la ragazza andò sul divano, appoggiandola sulle gambe, iniziando ad accarezzarla finchè, dopo alcune timide fusa, si addormentò.
Aveva aspettato a darle un nome perchè voleva che lo decidesse Kolyat, anche se questa scelta aveva rallentato la compilazione dei suoi documenti.
Era curiosa di sapere che nome avrebbe scelto, e non vedeva l'ora di scoprire un vocabolo drell, nel caso lui gliel'avesse assegnato.
Rimase lì per un tempo indefinito, persa in ricordi lontani. Le mancava molto la sua vecchia famiglia, ma aveva insistito proprio lei a farla andare a vivere da sola. Ad Oriana tutta quell'indipendenza all'inizio spaventava, ma mano a mano riusciva a conoscere persone nuove, anche se si approcciava alle amicizie con cautela.
Anche Miranda si trovava d'accordo, nonostante avesse molta paura. Studiare in un momento come quello era complicato, ma proprio per questo aveva deciso di restare sulla Cittadella, lì i corsi avevano subito un lunghissimo momento di pausa, ma erano ripartiti, ed era questa la cosa importante. La sorella maggiore l'avrebbe tenuta con sè, ma temeva che la sua presenza l'avrebbe messa più in pericolo di quanto invece l'avrebbe protetta. Sorrise, mentre le luci artificiali all'esterno lentamente si affievolivano, sfumando in colori diversi, pensando a cosa avrebbe potuto mostrare alla sorella cosa aveva imparato negli ultimi tempi e raccontarle le nuove esperienze. Era rientrata in casa poche volte a quell'ora, ma solo in quel momento si accorse dell'incredibile silenzio che avvolgeva i palazzi. Improvvisamente sentì il bisogno di vedere qualcuno. Si sentiva sempre talmente sola... 
In realtà le uniche due persone che avrebbe voluto accanto in quel momento erano Miranda e Kolyat, soprattutto Miranda, che le aveva promesso di farsi viva non appena il lavoro gliel'avesse permesso, e ovviamente dopo che i portali fossero stati sistemati in modo definitivo. Mancavano le risorse e gli uomini per compiere una riparazione totale di ogni portale, così ci si occupava di pochi alla volta, partendo dai nodi più importanti. Nel frattempo, i viaggi erano molto più lunghi ed imprecisi, i salti iperluce fattibili ma rischiosi. E Oriana non avrebbe mai permesso che sua sorella, per andare a trovarla, avrebbe corso rischi del genere.
Kolyat invece le mancava in un modo molto differente. Era vicinissimo a lei, sarebbe potuta anche andarlo a trovare a lavoro. Probabilmente, pensò, starà chiudendo il suo sportello proprio ora. Ma la vicinanza fisica era l'unica cosa che davvero riusciva a farli incontrare, non ricordava nemmeno quante settimane prima le avesse parlato davvero, confidandole cose che forse non aveva mai detto a nessun altro. 
Oriana avrebbe voluto dargli sicurezza, trasmettergli fiducia, ma quando s'illudeva di avere fatto dei passi avanti lui la volta successiva si chiudeva a riccio. Era una situazione talmente stressante che di tanto in tanto lei arrivava al punto di pensare di lasciarlo perdere. Ma dopo le serate passate a piangere da sola e averci dormito su, non riusciva ad evitare di sentirsi in colpa. Pensare a tutto ciò che doveva essere stato costretto a subire le stringeva il cuore; Kolyat aveva bisogno di tante persone accanto, ma lei si era ritrovata sola.
Sola, a tenere per mano qualcuno che da un istante all'altro aveva la capacità di mutare, un alieno che aveva il potere di farla sorridere e subito dopo piangere.
Intanto iniziava dall'esterno a sentirsi il rumore degli impiegati che rientrano nei rispettivi appartamenti dopo i propri turni di lavoro, rompendo il silenzio di pochi minuti prima.
 
 
Through all of my life,
in spite of all the pain, 
you know, people are funny sometimes 


 
Kolyat rimase un attimo bloccato, indeciso sul da farsi. Era ancora immobile, perso a cercare un significato a quello a cui aveva assistito. 
Avrebbe potuto andarle accanto e parlarle, oppure non si sarebbe dovuto permettere? Probabilmente lei si sarebbe spaventata. Ma in quel sorriso lui era in grado di vedere soltanto sincerità, non circostanza. Rimase a fissarla ancora per una manciata di secondi, le labbra curvate a loro volta in un sorriso, ma molto meno ampio.
Il drell abbassò gli occhi, afferrando lo zaino. Scosse la testa, e senza voltarsi si allontanò dall'hangar, con mille domande sospese che chiedevano rumorosamente una risposta.
Il suo nome, si domandava, quale può essere il suo nome? La ragazza di poco prima che per lui era nota come Ragione lo stava tormentando nonostante non ci fosse. Era bizzarro, una situazione del genere gli sembrava decisamente irreale.
E insieme al termine puro che gli aleggiava davanti agli occhi, un'altra parola così diversa da quelle della sua lingua madre le si contrapponeva in modo vistoso. Ragione ed Umana, non poteva esistere, non c'era nulla che legasse quei due vocaboli. La sua ragione era umana? 
Emise una breve risata nervosa, forse stava correndo troppo. Anzi, senza dubbio; aveva preso in considerazione tutto senza approfondire nulla. 
Ridicolo.
 

 
'Cos they just can't wait 
to get hurt again.










 
Aspè... il prossimo capitolo... è il sei? GH

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Capitolo 6
*** The first day of my life ***


VI – The first day of my life

 

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This is the first day of my life
I swear I was born right in the doorway
I went out in the rain
suddenly everything changed

 
Kolyat uscì dall’hangar con un nodo alla gola. Stavolta teneva le spalle e la testa perfettamente ritte, cercando di dissimulare il suo turbamento. Non avrebbe potuto continuare così, e ogni minuto di più la consapevolezza cresceva.
Quel giorno però decise di evitare le navette pubbliche per tornare a casa, preferì di gran lunga camminare fino al suo quartiere degli agglomerati; non sarebbe riuscito a sopportare un viaggio che l’avrebbe costretto a stare immobile e subire le emozioni e i ricordi.
Avrebbe perso parecchio tempo andando a piedi, ma gli avrebbe permesso di tenere la mente occupata, nello scoprire piccole cose che dalle vetture non si possono notare e osservare da nuove angolazioni.
La sera stava lentamente arrivando, le luci artificiali si affievolivano dolcemente, lasciando il posto alle prime insegne luminose dei bar e dei ristoranti.
In quel momento sul suo factotum arrivò un messaggio, e lui lo aprì, fermandosi senza curarsi di ingombrare sul marciapiede. Lesse il testo velocemente, sentendosi in qualche modo sollevato.
“Kolyat, stasera faccio un salto nel tuo quartiere, devo parlarti di una cosa. Se non ti va la compagnia non importa, faccio giusto un salto e scappo se non ti va di vedermi.”
Era logico, per lei sarebbe stato l’unico modo di incontrarlo. Autoinvitarsi, lo aveva imparato, sarebbe stato l’unico modo di avvicinarlo, seppure bruscamente.
Kolyat sorrise. Oriana lo sarebbe andato a trovare, e lui ne fu felice. Per questo, con tutta la sua buona volontà si decise a risponderle. Fece un rapido calcolo del tempo che avrebbero impiegato entrambi ad arrivare a casa sua, e se lei fosse partita in breve, si sarebbero incontrati senza che nessuno dei due dovesse aspettare. Così riprese a camminare a passo svelto, sperando magari di incontrarla nell’ultimo pezzo di strada.
Yours is the first face that I saw
I think I was blind before I met you
I don’t know where I am
I don’t know where I’ve been
but I know where I want to go
 
Oriana balzò in piedi sentendo il campanello, strofinandosi un occhio con una mano. Guardò brevemente il factotum, rendendosi conto che se avrebbe davvero voluto andare da Kolyat quella sera, avrebbe dovuto scusarsi in cento lingue diverse. Notò con dispiacere che le aveva risposto addirittura, lui che sembrava odiare quel tipo di comunicazione anche più di quanto odiasse parlare ed esporsi.
“No…” Sospirò, con desolazione. “Non è possibile…”
Kolyat le era sembrato così stranamente gentile, quasi come se quando le aveva scritto fosse stato felice. Come se quella sera sarebbe stato felice di vederla. Ma forse si stava solo facendo illusioni e la sua coscienza tentava di rendere ancora più fastidioso il fatto di essersi addormentata, nel tentativo di far crescere ancora di più il suo senso di colpa, che cresceva in continuazione.
Si era addormenta in un attimo, cullata da una felpa oversize sul divano, accanto ai gatti e nemmeno il messaggio di lui l’aveva fatta svegliare. Ora era passata più di un’ora e lui doveva aver per forza capito che si era rimangiata tutto, o forse avrebbe pensato ad un contrattempo.
“Arrivo subito!” Gridò, per farsi sentire all’esterno, e si mise qualche secondo davanti allo specchio appeso al muro aggiustandosi i capelli e tentando con la punta delle dita ad eliminare velocemente un po’ di matita colata dagli occhi.
 
So I thought I’d let you know
that these things take forever
I especially am slow
but I realized that I need you
and I wondered if I could come home
 
Oriana aprì la porta, restando immobile nel vedere i lineamenti di Kolyat che apparivano di fronte a lei. Prima che lei avesse la possibilità di parlare, di cercare una scusa o di spiegarsi, lui l'aveva salutata con un cenno del capo, lasciandole quello che doveva essere un sorriso. Alla ragazza parve che lui avesse avuto l'intenzione di avvicinarla, come per cercare qualcosa, un sostegno. Ma quell'iniziativa non arrivò mai, e lei restò nella stessa posizione, con una mano sul pannello della porta e con l'altra che mollemente si disegnava lungo il suo fianco.
"Hey" Sussurrò lui, piano, sapendo di non riuscire a sostenere ancora lo sguardo di Oriana e facendo scivolare gli occhi alle sue spalle, dentro l'appartamento.
C'era qualcosa di estremamente strano in tutto ciò, ma per quanto una voce le intimasse esasperatamente di non farsi illusioni, lei ora riusciva a vedere solo tanta gioia e forse, finalmente, una destinazione.  Perchè lei lo aveva preso come uno dei suoi obiettivi? Non era certa della risposta che aveva provato da sola a darsi, ma le bastava e tentava di non indagare oltre.
"Kolyat..." Sospirò lei, sorridendo di rimando, chiedendosi se avesse pronunciato qualcosa che aveva un suono vagamente interrogativo. "Io... mi devo essere addormentata, e mi hai svegliata ora con il campanello... Scusami, scusami davvero!"
Guardò il drell annuire, osservandola stringersi le mani. Lei si lasciò andare ad una risata nervosa, facendosi finalmente da parte e invitandolo silenziosamente ad entrare.
Lui accettò, e lei capì proprio in quell'istante che lui, lì, non ci era mai andato prima. “Speravo fossi qui, ti ho aspettato un po’ ma non arrivavi.” Poteva esserti successo qualcosa, frase che evitò totalmente, e cercò di nasconderla tra le righe in modo forse troppo fitto. Il drell si guardò attorno, portandosi una mano al collo. Poi si voltò verso di lei con un espressione neutra, e guardandola inspirò forte. "Qui c'è il tuo odore moltiplicato per dieci."
Lei restò immobile, come congelata. Avrebbe dovuto ridere? Fargli delle domande? Chiedergli se avesse preso una botta sulla testa?
Si limitò quindi a portarsi una ciocca di capelli neri dietro l'orecchio, accennando un sorriso e abbassando la testa. "Sì... solitamente tutte le case hanno un loro odore..."
"Non lo sapevo..."
"Siediti..." Balbettò lei, presa alla sprovvista di nuovo, "siediti pure se vuoi. Io vado a prendere qualcosa da bere, porto tutto quello che trovo così puoi scegliere quello che ti piace e possiamo... parlare, no?"
Oriana sparì dietro la parete, e senza smettere di farsi domande raccolse tutto ciò che le capitava a tiro. Aveva talmente tante bottiglie in giro per la casa di cui non aveva nemmeno mai letto l'etichetta che se ne stupì lei stessa.
Lei uscì dalla cucina tenendo tra le braccia tantissimi tipi di bevande, aspettandosi che Kolyat l'avrebbe guardata e probabilmente presa in giro. Sei la solita esagerata, immaginava già quelle parole, invece trovò il drell seduto sul bordo del divano, che teneva tra le mani proprio la gattina, quella che sarebbe stata sua, la quale lo fissava stranita.
Lei restò in piedi, osservando la scena per una manciata di secondi nei quali Kolyat e la cucciola si osservavano, curiosi l'una dell'altro in egual modo.
Oriana sorrise, un sorriso che le venne dal cuore, subito dopo aver visto lui voltare la testa e domandarle: "ma questo che diavolo è?"
Dopo, del gatto ne avrebbero parlato dopo... Ora la ragazza aveva solamente tanta curiosità da soddisfare.
Lentamente, ingombrata dalle numerose bottiglie, avanzò verso di lui e verso il tavolino, lasciandosi aiutare.
"Non... pensavo ti piacesse tanto bere" Osservò lui, lasciando il gatto sul pavimento e girando le bottiglie dal lato dell'etichetta. Era incredibile, provenivano da molte colonie ma anche diverse erano terrestri.
"No, no!" Sorrise lei, negando anche con il capo "È Miranda che mi manda questa roba, io ne farei anche a meno!" Afferrò il Vermouth, uno dei pochi contenitori che era già aperto, passando le dita sull'etichetta. "A lei piace tantissimo questo..."
Lo riappoggiò sul tavolo, girandosi a guardare Kolyat. "Sembra incredibile che mia sorella e tuo padre lavorassero insieme, vero?"
Sì, era un'incatenarsi di situazioni casuali, un disegno enorme che li vedeva ad incastrarsi ripetutamente che seguiva una logica sconosciuta. In qualche modo, Shepard aveva lasciato un'impronta, era stato un personaggio che creava continuamente reazioni a catena tra tutti coloro che avessero avuto occasione d'incontrarlo.
Mentre lei versava qualcosa da bere e l’imbarazzo mano a mano svaniva, le arrivò un messaggio sul factotum, ma lei decise di ignorarlo.
“Non guardi chi è?” Domandò Kolyat, indicando il suo braccio con il mento. “Potrebbe essere importante”
Lei osservò di sfuggita il factotum, senza soffermarsi troppo e segnò tutto come già letto. “Non mi va, ora… dev’essere Miranda che mi scrive…”
“Pensavo che i suoi messaggi ti facessero piacere”
“Infatti, è proprio così. Ma mi manca, e se leggessi ciò che ha da dirmi mi sentirei subito malinconica, e non è la serata giusta.” Oriana sentì una strana sensazione, qualcosa che le ricordava un po’ il senso di colpa. Non era verso Miranda, nemmeno lontanamente.
Lui capì che quell’argomento si stava chiudendo, e non fece nulla per impedirlo. Non gli avrebbe dato fastidio se avesse dedicato un po’ di tempo a sua sorella, era legittimo, ma lei non volle.
“Perché sei qui, Kolyat?” Oriana era finalmente riuscita a chiederglielo, senza giri di parole, semplicemente rischiando. Era curiosa, curiosa in modo esagerato, ma anche tanto felice.
Kolyat la guardò negli occhi, e lei vide chiaramente svanire la convinzione che aveva di dirle qualcosa. Di qualunque cosa si trattasse non doveva essere nulla di semplice, ma lo riuscì a capire solo allora. Prima le sembrava semplicemente andato a trovarla senza un motivo particolare, forse si è soltanto sentito solo, si diceva, o forse vuole davvero scusarsi. Invece in quel momento le parve di vedere tutto ribaltato, ogni cosa era stata catapultata in un contesto differente. Le sembrò che le  luci si facevano più cupe e l’ambiente cominciava ad apparire più intricato di quanto non fosse prima. Ed erano stati semplicemente gli occhi di lui a comunicarglielo, che prima si erano spalancati, insieme alla bocca, cercando le parole per iniziare, e subito dopo erano andati di lato, le labbra che si chiudevano velocemente, e tutto se stesso stava fuggendo da lei e dal suo sguardo.
“Io…” Kolyat si bagnò le labbra con la lingua, cercando sempre più disperatamente le parole che gli erano sfuggite senza lasciare nemmeno un residuo.
“Hey, tutto bene?” Lei lo avvicinò sul divano, allungando una mano per poggiargliela sulla spalla ma non ebbe il coraggio di terminare quel gesto, troppa era la paura di un rifiuto. Kolyat era l’unica persona con cui lei doveva controllarsi su ogni cosa che diceva o faceva, soltanto un passo falso e lui avrebbe potuto chiudersi di nuovo su se stesso, rientrare nel suo mondo fatto di ricordi e dolore, lasciando tutto ciò che sarebbe stato in grado di salvarlo al di fuori.
“Oggi mi hanno messo tra gli Enforcement” cominciò in un sussurro, evitando di guardarla. Ma dal suo silenzio successivo, Oriana aveva già capito che per lui il discorso era iniziato e terminato lì.
I pensieri di lei presero voce senza che avesse il tempo di riflettere, e si ritrovò a dire, come una constatazione segreta a se stessa: “è… pericoloso.”  Enforcement significava ronde, sedare crimini, perlustrazioni. E lei ebbe paura, una semplice emozione che non scava nel concetto reale del termine. È soltanto un parere dato al momento, un sentimento nato senza riflettere.
Le uscì come un lamento, a voce bassa e stavolta, per la seconda volta da quando si erano conosciuti, fu lui a cercarla. La sua mano si era mossa, come spinta da una forza invisibile ma profondamente giusta, e aveva cercato quella di lei.
Le spalle della ragazza s’irrigidirono, accettando il contatto, senza respingerlo ma lasciando immobile la mano. Si voltò verso di lui e anche se lui si era sottratto quasi subito ai suoi occhi lei se ne pentì: il suo volto era un enigma, increspato da emozioni che lei non riuscì a comprendere.
“Non è quello, Oriana.” Mormorò lui a denti stretti. “Non m’importa di dove mi mettano, non m’importa nulla.”
“E allora cosa?”
In quel momento, lui concepì l’affermazione di Oriana in un modo diverso, e s’innervosì improvvisamente. “Pensi che abbia paura? Ecco cosa pensi di me, che abbia paura” nel dirlo continuò ad evitare il contatto visivo che lei, invece, stava cercando di raggiungere a tutti i costi. Lui cercò di liberare la mano, ma lei, spinta dalla determinazione che l’aveva sempre caratterizzata, gli evitò di interrompere quel gesto. Strinse la mano nella sua, e nel farlo sentì sotto il palmo tutte le sue squame che le solleticavano la pelle, i muscoli tesi.
Lui finalmente la incontrò, la osservò con indignazione. E dopo quell’istante infinito in cui si fissarono, lui provò di nuovo a divincolarsi, ma con più foga. Tirò la propria mano verso di sé, ma lei resistette e finì per sbilanciarsi in avanti, verso di lui. “Oriana, lasciami!” Disse duramente, guardandola a testa china.
Kolyat osservò la ragazza portare anche l’altra mano a stringere la sua. La guardò alzare lo sguardo, e avvicinarla al petto, per poi pregarlo di parlarle.
“Ti prego…” Disse lei in un soffio, sentendo le forze svanire ma appoggiandosi ancora con fiducia alla speranza che l’aveva sempre spinta a tentare con lui. “…scusami… smettila di cacciarmi, come l’altra sera, come tante altre volte. Scusami…”
Lui rilassò i muscoli appena scorse una piccola lacrima che si era vestita di pura luce, sulla rima di uno dei suoi occhi azzurri; bagliore che lei fece in fretta a nascondere. “Scusa, scusa, scusa!” ripeté, alzando la voce e portando la mano di Kolyat accanto al suo viso. C’erano le scuse di chi sa di aver superato i confini anche se spinta dall’innocenza, c’era la rabbia, la stanchezza.
Se Miranda combatteva su un campo, contro dei nemici corazzati, impugnando un’arma con una forza fuori dal comune, Oriana poteva definirsi altrettanto temeraria. Quell’individuo a cui si era ormai affezionata così tanto era capace di sfinirla sul piano psicologico, di lasciarla delle serate intere a piangere dopo un rifiuto, un insulto velato. E tutto perché lei non riusciva mai a capire dove interrompersi, talmente sottile e variabile era la linea che delimitava lo spazio di Kolyat.
Il drell sentì il contatto della guancia contro il dorso della sua mano e sentì scivolare via tutto il resto. Si rese conto che quella ragazza si stava scusando, ma di cosa? Si stava scusando di un errore che lui aveva commesso. Faceva sue le colpe che invece erano di qualcun altro, ma perché?
“Oriana…” Sospirò, arrendendosi, percependo il suo tocco sulla mano farsi più gentile e dolce. Scusami tu. “È stata una brutta giornata.” Implicava troppo la scusa che lei invece utilizzava così tanto.
“Cosa ti è successo?” Ricominciò, osservandolo e aprendo la mano quanto bastava per fargli capire che se avesse voluto ritrarla, lei lo avrebbe lasciato. La ragazza trasse un sospiro di sollievo e si lasciò andare contro lo schienale del divano, portando la mano libera tra i capelli e socchiudendo gli occhi, in attesa che lui scegliesse le parole.
Lentamente sentì la sua mano vuotarsi, e insieme a lei sentì anche il cuore che faceva lo stesso, così voltò la testa dall’altro lato, sentendo di nuovo tutto lo sconforto della perdita.

I’m glad I didn’t die before I met you
but now I don’t care
I could go anywhere with you
and I’d probably be happy.
So if you wanna be with me
with these things there’s no telling
we’ll just have to wait and see

E fu proprio in quel momento che capitò, di nuovo. Si ripresentò di fronte a loro quell’attimo in cui erano già stati, un istante già vissuto. Qualcosa di lontano dal tempo, ma che avevano già percorso insieme, allora meno consapevoli ognuno dei propri demoni.
Terzo contatto, ora lei era semplicemente abbandonata, costretta a sentire l’uniforme del C-Sec contro la sua felpa grigia. Si era spinto verso di lei, le ginocchia appoggiate contro la seduta del divano.
“Oggi sono caduto in un ricordo davanti ai miei superiori.”
Oriana respirò il profumo di Kolyat, guardando un punto indefinito oltre la sua spalla. Si decise ad alzare le mani e portargliele dietro la schiena, ricambiando l’abbraccio e ascoltando una voce che per la prima volta sapeva solamente di vergogna e smarrimento.
“Ho ricordato te.”

 
 




 

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Capitolo 7
*** Mercy Street ***


VII - Mercy Street
 

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Looking down on empty streets, all she can see
Are the dreams all made solid
Are the dreams all made real

Oriana lo strinse a sé a sua volta, perdendo il fiato, mettendo tutta se stessa in quel gesto. L’aveva cercato tante volte, quel supporto reciproco, ma non si era mai fidata di chiederglielo. Ed era strano, perché lei non amava molto la vicinanza fisica, i contatti stretti ad altre persone. Ma lui le provocava il contrario, l’avrebbe voluto avere e sentire vicino, gli avrebbe promesso la tranquillità che ogni volta nei suoi occhi mancava, la sicurezza che ormai lui non conosceva più.
Non avrebbe indagato. No, non l’avrebbe mai potuto fare. Chiedergli il motivo, una spiegazione, a cosa avrebbe portato? L’avrebbe spinta con le spalle al muro, a pentirsi di sé e della sua lingua, mentre Kolyat si poneva sulla difensiva senza nemmeno provare a capirla.
La separazione, poi, fu forse più dolce dell’abbraccio. Gli circondò il viso con le mani e lui la osservò, più in profondità che in qualsiasi altra occasione, più di chiunque avesse mai fatto. E lei si sentì tremare. Che carico avrebbe portato quello scambio, se solo non l’avesse interrotto in quell’istante? Portò i pollici accanto a quegli occhi che l’avevano terrorizzata e lui li chiuse, lasciando che lei vi passasse i polpastrelli. Come quando, da bambino, sua madre gli accarezzava le palpebre chiuse per tranquillizzarlo. E come faceva, lei, a saperlo? Come poteva Oriana fare un gesto dettato dall’istinto, che però andava così precisamente a graffiargli il cuore?
Così anche lei chiuse gli occhi, lasciando sfuggire un singhiozzo, senza neppure cercare di nasconderlo, e gli posò un bacio sulla fronte.
Poi si allontanarono, senza riuscire a sorridere, senza essere in grado di fare altro che tornare a guardarsi l’un l’altra in apnea. Poi lei interruppe quella nuova connessione.
Abbassò gli occhi, sorridendo e asciugandosi una piccola perla impigliata tra le ciglia.

 
She pictures the broken glass, she pictures the steam,
she pictures a soul
with no leak at the seam
 
Oriana era sparita già da un paio di minuti, dopo aver detto di dover andare un momento in bagno. Kolyat era rimasto seduto sul divano, osservando le luci che dal finestrone filtravano nel salone, più grande di quanto Oriana avrebbe voluto, dipingendo le superfici di strane sfumature. Poteva ancora sentire il calore di lei sotto le dita e il suo profumo addosso… e avrebbe potuto rivivere quel momento per sempre. Era suo, e di nessun altro.
Mentre il drell stava assorto a fissare il vuoto, la gattina gli si avvicinò di nuovo. La sua curiosità a proposito di quello strano essere azzurrognolo non era ancora stata soddisfatta.
Lui appena la notò la richiamò schioccando un paio di volte la lingua, e non appena gli fu vicino la sollevò, tenendola a distanza; lei mollemente si lasciava penzolare, concentrata sugli occhi neri di lui.
“Quanti diamine di peli che hai” Osservò lui, senza capirne bene l’utilità. Lei parve rispondergli con un miagolio lieve, e lui sbarrò gli occhi. “Nel posto della Terra da cui provieni ci dev’essere freddo, eh?”
Appoggiò la gatta sulle gambe, in attesa di una nuova risposta. E Oriana, quando sbucò dal bagno, non poté far altro che sorridere di soddisfazione, guardando quei due mentre facevano amicizia. Non c’era scelta migliore che avrebbe potuto fare, ne era certa. Un successo.
“Ti piace?” Domandò Oriana, trovando di nuovo il suo posto accanto a Kolyat.
Lui pensò per un lungo momento a cosa rispondere. Avrebbe fatto bene ad eludere con una battuta, oppure no?
“Sì.” Disse, in un sussurro, annuendo anche col capo, mentre continuava a far giocare il cucciolo con le dita. “Odio i suoi peli, ma questo tipetto tutto sommato è accettabile. Mi piace.”
Oriana rise ancora, accarezzandola a sua volta “È femmina”, lo informò. “Ed è tua.”
Kolyat aprì la bocca, senza avere la più pallida idea di cosa dire. “M-ma” balbettò, passandosi la lingua sulle labbra, tornando poi ad osservare il gatto. “Nemmeno per sogno, non la voglio!”
“E perché non dovresti volerla?” La ragazza alzò un sopracciglio, aspettandosi una risposta insensata. La risposta arrivò, ma riuscì a scavarle dentro e farla sanguinare.
“Non sono nemmeno capace di curare me stesso, come potrei prendermi cura di lei?”
Oriana posò gli occhi in altri punti del salone, in panico, cercando disperatamente cosa dire. Prima che potesse riuscirci, Kolyat l’aveva preceduta, ma confusa dai suoi pensieri non era riuscita ad afferrare cosa lui avesse mormorato.
“Cos’hai detto?” Chiese la ragazza, concentrata stavolta a captare qualsiasi cosa avesse perso poco prima.
“Le Piramidi, ti piacciono?”
Lei rise appena “Di cosa stai parlando?”
Mio padre cerca su extranet delle immagini. Dipingono il suo volto di luci colorate, nella penombra. La Terra, ti piacerebbe visitarla? Io faccio una smorfia, non provo nemmeno ad annuire. Ti passo queste fotografie, mi dice, digitando sul suo factotum. Io smetto di mescolare il mio caffè, guardo il mio factotum che continua a lampeggiare. Sono… spettacolari.”
Kolyat rimase immobile, e Oriana cercò di capire se il ricordo fosse finito o se fosse una pausa che faceva ancora parte della trance.
Vaffanculo…” Sospirò lui, tornando al presente con vergogna, passandosi una mano sugli occhi.
“Quali piramidi ti colpirono?” Lei si chinò ancora di più verso di lui, le mani strette a loro stesse per l’interesse.
“Cheope, Chefren, Micerino.” Chiuse gli occhi, perdendosi forse in un suo ricordo legato a quelle costruzioni. Un ricordo più silenzioso di quello precedente. “Mio padre mi ha insegnato a rispettarvi. Lui amava particolarmente i vostri testi, mi riempiva la testa di liriche di poeti ed elaborazioni filosofiche. A me colpisce di più la vostra architettura, i vostri monumenti. Avete una capacità incredibile e una versatilità universale, voi umani. Le vostre costruzioni sono le più diversificate… Sul vostro pianeta, voi, avete Illium, Tuchanka, Kahje… e per quanto possa immaginare, persino l’antica Rakhana. Voi siete i più diversificati, in questa galassia.” Un lieve sorriso increspò le sue labbra, per morire subito dopo “Voi siete i creatori della Piramide a otto lati, visibili tutti chiaramente soltanto dal cielo nei due equinozi. Se non è perfezione questa, io faccio segno di resa.”
Oriana si accorse di trattenere il fiato per l’entusiasmo. Se aveva amato quel discorso almeno la metà di quanto lui apprezzasse l’argomento, allora poteva dirsi esterrefatta.
Potremmo andare a Giza, pianificheremo le licenze… No. Progettare un futuro ancora offuscato era egoista e stupido.
Non aveva parole dopo aver ricacciato indietro la proposta che si era affacciata nella sua mente, era incantata alla vista di quella passione, nel drell, che non aveva mai neppure percepito in lontananza e di cui tante volte aveva dubitato l’esistenza.
“Tu non visitasti invece il New Mexico, anziché l’Egitto?”
Kolyat annuì “L’Egitto è una meta scontata, Kolyat. E io non lo volli contraddire.” L’unica cosa importante era che lui potesse sentirsi felice… Bastava soltanto che sorridesse. “Lui le doveva avere tutte vinte, come sempre. L’unica cosa che meritava era lui, cosa gli importava degli altri?”
“Puoi chiamarla Cheope” Propose Oriana, in attesa del giudizio di lui.
Kolyat guardò il cucciolo, trovando qualcosa che gli ricordò il calore. Il calore di un abbraccio, di un sostegno, un affetto muto che non aveva bisogno di parole. L’avrebbe tenuta con sé, non avrebbe rinunciato a lei.
“Lei non è solo la Piramide a otto lati. Lei è la cintura di Orione specchiata sul tuo pianeta… Lei è tutto il complesso di Giza” Affermò, senza vergogna. Era un discorso assurdo? Beh, lo faceva sentire tremendamente bene. “Il tuo nome è Giza” Sussurrò, appoggiando un polpastrello sul suo naso umido, il muso attento.
Successivamente, forse in gesto di approvazione, la cucciola mosse i baffi bianchi e sbadigliò, lasciandosi andare appena dopo contro il torace del drell e omaggiandolo con morbide fusa.
Oriana, in quel momento, sentiva solo il bisogno di piangere di commozione.

Nowhere in the corridors of pale green and grey
Nowhere in the suburbs
In the cold light of day
 
La ragazza andò lentamente verso la porta d’ingresso al suo appartamento, il diciannove. Kolyat seguì i suoi passi, tenendo il trasportino con Giza all’interno con una mano. “Ecco…” Disse Oriana, dandogli una borsa con il cibo per gatti e tutti i documenti che gli sarebbero serviti per tenerla.
“Grazie.” Sussurrò lui, varcando la soglia e sospingendosi verso di lei, trasportato da una sorta di automatismo. Ma, come notarono entrambi, lui non si pentì di quel gesto, né lo represse. Lei chiuse gli occhi e sorrise, in imbarazzo, di fronte al tentativo un po’ goffo di lui di imitare il bacio che lei gli aveva dato sulla fronte.
“Diamine, assomigli parecchio a Kolyat, ma tu non lo sei di certo” Ridacchiò, contenta che almeno quella sera fossero riusciti a trovarsi in armonia, dopo tanto tempo.  “Torna quando vuoi… ecco tutto.” Si portò i capelli indietro con una mano, osservandolo mentre si allontanava in un corridoio deserto ormai in quell’ora tarda.
Dimenticò persino di controllare il factotum, senza vedere il contenuto del messaggio in entrata, e s’infilò in bagno per lavarsi i denti.
Di fronte allo specchio non vide la persona di qualche giorno prima; questa aveva un sorriso che non si cancellava, gli occhi profondi come il mare segnati dalla stanchezza, senza trucco e spettinata come dopo aver corso e riso a perdifiato.
Infilò in bocca lo spazzolino, senza che iniziasse a passarlo sui denti il campanello suonò dolcemente. Uscì dal bagno e andò verso la porta, cosa diavolo sta succedendo questa sera? Si domandò, stupita.
Guardò nel videocitofono e aprì subito, trovando di nuovo davanti Kolyat, gli occhi schivi per la vergogna. Hai detto che sarei potuto tornare quando volevo.
 “Posso restare, stanotte?"
Dreaming of mercy street
Wear your inside out
Dreaming of mercy
In your daddy's arms again
 
Oriana si rigirò nel letto, nel farlo l’incoscienza del sonno si affievolì e lei mentre cercava la pace nella nuova posizione, tra i lamenti delle lenzuola, si trovò in uno strano dormiveglia.
Provò una sensazione forte, che trascinava assieme ansia, timore, domande evitate e  segrete. Prese coraggio, determinata a scacciare qualunque cosa si fosse insinuato dentro di lei e aprendo gli occhi rivolse velocemente lo sguardo alla porta d’ingresso della sua camera.
C’era la figura di lui, in piedi, un passo a destra della porta.
E in meno di un istante le sembrò di capire totalmente il solipsismo dei drell, la loro memoria, tanto che il ricordo del loro primo incontro le scorse vivido di fronte.
Si sentì esattamente come la prima volta, totalmente esposta a lui, così innocente da far sorridere… e ora tutto sembrava essersi ricollocato alla stessa maniera: lei si era trovata a stirare le labbra, osservandolo, e lui a cercare di capire cosa potesse pensare lei, dietro quegli occhi colore del mare, immobile ed attratto da una forza meschina.
Era un deja-vu improbabile, eppure erano di nuovo allo stesso punto e con la stessa intensità immersi in un ricordo così lontano, ma anche così prepotente.
Kolyat si ritrovò a domandare esasperatamente in un grido muto quello di cui si era interrogato da solo nel buio fumoso del suo bilocale. Era una domanda sadica, ricorrente come uno dei peggiori incubi, che lo assaliva con tutta la forza e tutte le sfumature che poteva assumere. Così la domanda non era più una soltanto, diventava due, tre, e poi anche mille, tutte irrisolte allo stesso modo… e l’unica cosa a cui portavano era un’ulteriore stress psicologico che non gli avrebbe lasciato tregua.
Oriana udì tutto. Udì la sua domanda tacita, in un modo che né lei né nessun altro avrebbe potuto comprendere. Sentì ogni vibrazione di suono, ogni ricciolo e ogni nota che aveva risuonato tra quelle mura.
C’erano le note confuse, quelle stonate, quelle angosciate… e non ne perse nessuna. Come in una rivelazione si trovò non più davanti a Kolyat, nell’ombra notturna della sua stanza: ora davanti a lei, c’era se stessa.
Se stessa dal punto di vista di lui, una Oriana dal viso rotondo e roseo che rischiava di arrossire anche per una sciocchezza.
Una ragazza dagli occhi colore del mare in una giornata di sole. Una giornata di sole che è fatta di sorrisi, di umiltà e di lacrime.
Emotività. Passione, Luce, Ombra, Perfezioni e Imperfezioni.
Imperfezioni, contenute in una chiave di violino. Il suo viso, per quanto unico e suo, familiare, dagli occhi di Kolyat, si accorse, era tremendamente sbagliato. Sembrava innaturale, terribile e sconvolgente.
Sembrava soltanto umano… una Ragione fatta in forma umana.
Era per questo che Kolyat la cercava, perché lui la voleva, terribilmente. Per cui un giorno la cercava con determinazione, lasciava che lei lo facesse sentire bene. Poi, arrivavano i sensi di colpa.
Come poteva, una come lei, essere diventata così importante? Non era della sua razza, non era della razza di sua madre.
E lei… a quella domanda non riuscì a sottrarsi, non potè e non volle eluderla. Così, dopo aver ottenuto tutte le informazioni da quell’altra se stessa, cercò ancora Kolyat. I loro occhi umidi risplendevano, catturando le poche luci che vivevano in quell’oscurità. Riuscivano a malapena a vedersi, contorni offuscati dalla notte inesistente… sembravano immateriali, distorti come una figura in lontananza spezzata crudelmente dall’afa.
La ragazza prese un momento per sé, riflettendo. Se mai si sarebbe pentita di avergli risposto in quell’occasione, quanto sarebbe stato grave il danno che avrebbe provocato?
Socchiuse le labbra e gli rispose, lasciandogli il tempo per la mossa successiva.
Ancora sconcertato, Kolyat mosse qualche passo verso di lei. Sì infilò tra le lenzuola, sentendo al tatto un tessuto gelido nel posto rimasto vuoto.
“Mi svegliavo di notte, terrorizzato dai tuoni.” Fece lui, lasciandosi andare contro il petto di lei, lasciando che  stringesse il suo capo tra le braccia. Ora, accanto all’orecchio di Kolyat, un battito di cuore leggero e svelto.
Lei ascoltava.
“Correvo, senza fare attenzione e sbattendo piedi nudi, gambe, fianchi e spalle contro gli ostacoli nel buio.” Deglutì. “Poi mi arrampicavo sul letto, disfacevo il lato sinistro e mi accoccolavo contro il petto di mia madre. Contro il mio fianco, lenzuola gelide e vuote.”
Oriana gli baciò dolcemente la fronte, poi passò le labbra lungo tutte le sue piccole creste azzurre che disegnavano il suo capo di profilo. Respirò a fondo, abbandonando una lacrima che cominciò a scorrere verso il basso.
“Non avevo bisogno di cercare il suo viso con le mani, Oriana. Non avevo bisogno di sentirlo sotto le dita, sapevo che aveva pianto anche quella notte.”
“Non si pentiva di averti avuto, Kolyat.” La sua stretta si fece più intensa, e lui rispose a sua volta nello stesso modo, lasciandole un bacio sullo sterno e facendola rabbrividire.
“Il problema è che non si pentiva neppure di avere amato mio padre. Lei avrebbe rivissuto ancora e fatto le stesse scelte. Lei sarebbe stata disposta a soffrire in quella vita e in mille altre. E guarda com’è finita…” Il drell ricacciò indietro un singhiozzo, insieme alla voglia di piangere.
La ragazza si lasciò andare completamente alle emozioni. La razionalità le andava più stretta istante dopo istante, finché non si lacerò lasciandola totalmente spoglia.
“Se solo fosse ancora in vita… I suoi occhi e il suo sorriso sapevano far perdere il fiato… ma ora appartengono soltanto all’Oceano e io non posso reclamarli.” Mormorò lui, senza più essere in grado di trattenere lacrime che stavano finendo per trafiggergli gli occhi.
Se quello fosse stato un errore, l’avrebbero pagato a caro prezzo entrambi. Se lui aveva bisogno di capire se quelle fossero le braccia giuste per stringerlo, quella volta non ne avrebbe avuto la certezza. Aveva davvero bisogno di quelle braccia pallide e deboli, attorno al suo viso? Oppure avrebbe dovuto cercarne altre, magari ricoperte di squame, magari dalle ossa più dure o magari dalla pelle rigida e i muscoli più possenti?
Senza che nessuno dei due si fermasse un solo momento a ragionare sulla logicità e sulla giustizia, le loro mani si erano unite, timidamente, rincorrendosi sotto strati di tessuto. E allo stesso modo, con impacciata lentezza ma notevole grazia, avvolti da un’eco di silenzi surreale, le loro labbra s’incontrarono. Quale sarebbe stato il fine? Sarebbe stato quello l’inizio di un rito?
Presero confidenza con cautela, lasciando però l’istinto a guidarli e fidandosi ciecamente di lui. Era dolce il suono di quel bacio, che durò tanto da far immaginare ad entrambi come sarebbe stato se protratto all’infinito. Insieme ai loro tormenti,  le loro labbra si schiusero all’unisono, lasciandosi entrambi scoprire ma al contempo decisi a capire i lati oscuri dell’altro. Poi, due sorrisi nascosti dall’oscurità andarono rilassandosi, ed entrambi vennero accolti dal sonno con gentilezza.
Se quello fosse stato semplicemente un sogno, o un’esperienza amplificata dal dormiveglia, non avrebbe avuto importanza. Sarebbe bastato a lui, se fosse stato un suo segreto; sarebbe bastato a lei.
 
Dreaming of the tenderness - the tremble in the hips
of kissing Mary's lips











 
 
 
 



 
 
…Di un silenzio candido di trine… La citazione non era voluta io lo giuro XD Me ne sono accorta solo alla rilettura, Pascoli mi sta indottrinando o cosa? MyricaeMyricaeskjhfjad
OMG Altariah che scrive così tanto? Che storia.
Non so cosa traspare, da qui. Non so dargli un giudizio, ma so che ci ho messo tutta la passione che avevo.
Pensavo e ripensavo a questo capitolo. Andavo a letto la sera e ripetevo nella mia mente frasi d’effetto, che immaginavo di inserire qui. Ma a casa, accendevo il computer e tutte le mie parole se ne andavano. Ho scritto questo senza connessione, lasciando che la tranquillità della casa di mia nonna mi aiutasse e consigliasse. Beh, diciamo che ho pur sempre fatto più di quello che sarei riuscita ad elaborare a casa.
È un pairing non solo emotivamente demoralizzante, ma terribilmente oscuro, e questo lascia una libertà di azione che è davvero tanta, troppa. Quindi sì, una delle poche cose conosciute non trascurabile è la loro età: giovani, inesperti, inconsapevoli e combattuti. Come ci tengo a ribadire questa è una non-storia che si limita ad esperimento a capitoli e diamine, mi fa una paura tremenda… quindi in qualsiasi caso, qualsiasi sfumatura che potete trovare sbagliata, fatemelo sapere. Solo con le belle parole non si va da nessuna parte e la crescita è pari a zero.
Visto che è già lunga, una puntina. Mercy Steet è incredibile, ancora più incredibile la versione con l'orchestra New Blood.
 
Giocando a ME3: *Su Menae, appare Garrus*
Io- “Garrusss!”
La mia Sheppa- “Garrus!”
Mia mamma che stava facendo un solitario al computer- “Garus! Festaaa!”

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Capitolo 8
*** Don't give up ***


VIII - Don't give up

 

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In this proud land we grew up strong
we were wanted all along
I was taught to fight, taught to win,
I never thought I could fail

Era notte fonda. La pioggia scrosciava incessante contro le tegole. Lontano, cadeva sull'acqua di mare e si confondeva al suono delle onde contro la terra.
La notte di Kahje sa essere una delle più buie; nessuna stella sapeva farsi strada oltre la pesante coltre di nubi, e quella notte non faceva eccezione.
Kolyat l'aveva sentito arrivare, proprio nel mezzo di quella tempesta. Era stanco, le fibbie del suo vestito erano state slacciate in cerca di comodità e tintinnavano. In quelle condizioni, per quanta cautela avrebbe potuto usare, chiunque fosse stato dotato del suo sonno leggero l'avrebbe sentito. Kolyat trasse un sospiro, snudando delicatamente i suoi denti bianchi in un sorriso sognante e le sue piccole mani si strinsero attorno ad un lembo delle coperte.
Rimase un momento indeciso sul da farsi: faceva maledettamente freddo, e se si fosse alzato non sarebbe più riuscito a dormire. Aveva da sempre un sonno leggerissimo, e una volta svegliato gli era quasi impossibile ritrovarlo.
Si morse le labbra e scese dal letto e i piedi andarono a toccare il pavimento in pietra, gelido. Scosso da un brivido afferrò la trapunta e se la passò sulle spalle, andando verso la porta assieme al suo nuovo mantello improvvisato.
Aveva già in mente il suo piano: avrebbe percorso il corridoio con furtività, non si sarebbe fatto sentire. Nessuno si sarebbe accorto di lui, doveva essere abile come suo padre, se non di più. Avrebbe guardato nella loro camera e trovato la figura di Thane che gli mancava così tanto, poi si sarebbe rannicchiato lì, proprio di fianco alla porta, e sicuramente si sarebbe addormentato a terra, confortato finalmente da una presenza talmente importante per lui. 
Arrivò di fronte alla porta della stanza da letto dei suoi genitori, la porta socchiusa, la luce accesa. Si sospinse giusto un po' più il là, socchiudendo le labbra mentre tentava di vedere ciò che cercava. 
Eccolo! Da un lato del letto, seduto, c'era lui. Aveva la testa bassa e stava in silenzio. Perché fai così? Si domandò Kolyat, trattenendo l'impulso di entrare e chiederglielo personalmente, cacciando indietro la voglia di abbracciarlo soltanto per non disturbarlo quella sera perchè doveva essere stravolto e avrebbe avuto tutto il tempo l'indomani mattina.
"Per Arashu, Thane, avanti parlami!" Kolyat dovette muoversi un po' per riuscire a vedere sua madre di fronte al marito, in piedi, la voce dura. "Mi dici che devi parlarmi e poi non fai altro che guardare in basso!" Lei evitava di alzare il tono solo perchè non avrebbe voluto svegliare Kolyat.
"Siha... calmati..." Riuscì a sospirare lui, cercando una forza che aveva perduto chissà in quale battaglia. Le cercò le mani, e lei avanzò di un passo, accettando il contatto e unendole alle sue. 
"Mi sei mancato tanto, Thane." Gemette, senza però riuscire ad abbattere le distanze, rimanendo sempre nella stessa posizione cercando una connessione in due occhi troppo schivi.
Una confessione nata direttamente dal cuore, una confessione che recava al suo intero molteplici emozioni e troppi sentimenti. Insicurezza e paura, delusione, amore e rimpianto. C'era qualcosa che doveva essere indissolubile ma che, mano a mano, veniva intaccato e ne rimaneva sempre meno, solo polvere.
Il viso di lui assunse un'espressione di puro dolore, Kolyat si sentiva stordito. Cosa stava succedendo? Perchè sono tristi? Cosa ci sarebbe potuto essere di più doloroso che provare una gioia immensa che non è condivisa? Come avrebbe potuto sopportare di vedere i suoi genitori così disperati, qual'era il problema?
Sarebbe dovuto essere un momento gioioso.

 
No fight left or so it seems
I am a man whose dreams have all deserted
I've changed my face, I've changed my name
but no one wants you when you lose

"Sono venuto per vederti. Dormirò un paio d'ore, e prima dell'alba dovrò ripartire. Prima che Kolyat si svegli, così non dovrò salutarlo di nuovo. Sarà come se non fossi tornato." 
Irikah soffocò un lamento. Le sue gambe divennero svogliate, e cedettero. Si lasciò andare a terra come se non avesse più vita, mentre Thane serrava la mascella.
"Perché mi fai questo, Thane." Esalò, lo sguardo perso tra le pieghe delle lenzuola. "Non ti saresti dovuto arrendere... hai ancora noi." La tristezza si tramutava in rabbia di minuto in minuto. "Credevo che dopo queste due settimane, saresti rimasto con noi. Almeno un po'."
"Tornerò presto, Siha..." Si alzò e la sollevò di peso, facendola poi sedere sul letto e mettendosi accanto a lei.
"Non vuoi salutare nemmeno tuo figlio?" Chiese, ma quella domanda suonò quasi come un'affermazione. 
"Prima di partire andrò da lui, ma non lo sveglierò."
Lei snudò i denti in un'espressione disgustata, cercando gli occhi del marito da agganciare ai suoi, umidi di lacrime. "Allora vattene ora. Non restare due ore qui, a farmi ricordare com'era averti accanto a me. Vattene."
Lui le passò una mano dietro il collo , traendola  a sè e le diede un bacio sulle labbra, troppo irruento, che lei non avrebbe accettato. Poi, mentre lei voltava il viso dall'altra parte, verso la finestra, lui si alzò in piedi. La guardò per un unico istante e si maledisse, per poi cominciare ad allacciarsi la giacca di pelle.
Kolyat tornò in camera sua, s'infilò sotto il letto. C'era polvere e il pavimento gli gelava la schiena. Si avvolse con quello che era stato il suo mantello, poi pianse, pianse finchè non fu mattina.

 
Don't give up,
you still have us
Don't give up
we don't need much of anything

 
Qualcosa doveva essere salito sul letto ed adagiatosi tra le sue gambe, e Kolyat si era ritrovato a cercare con lo sguardo la familiarità della sua stanza. Invece rimase smarrito per qualche attimo, cercando di capire. Aveva dormito sul fianco, probabilmente non si era mai mosso, e gli fu difficile ricordare da quanto tempo non dormiva così tranquillamente. Poi, mentre i ricordi della sera prima gli passavano davanti in fretta, trovò Oriana contro il suo petto, le mani congiunte sotto la guancia.
Sotto di sè si disegnava una creatura diversa, ora. I termini erano cambiati drasticamente, adesso lei non era qualcuno che l'avrebbe potuto salvare: era diventata tutto il contrario. Sembrava che chiedesse tacitamente di essere protetta, così chiusa in se stessa, curva come un feto.
La regina degli scacchi era diventata Re, aveva smesso di essere l'insistente forza che aveva sempre visto. Ora era unicamente qualcosa di cui prendersi cura.
La mattina, il futuro appena prossimo, è la culla dell'insicurezza. Riesce ad instillare la paura nella sua forma più crudele. C'era stato quel bacio, oppure era soltanto un sogno mischiato abilmente alla realtà? Quali e quante barriere erano cadute, con certezza? Per quanto si sforzasse, capì, non avrebbe trovato risposta e non era certo che ne avrebbe davvero voluta una.
Kolyat deglutì, cercando di cacciare indietro imbarazzo e vergogna, sentendo il desiderio fortissimo di scappare. Cercò di riordinare le idee, pianificando il da farsi, quando sentì distintamente la ragazza sbadigliare contro il suo petto e strofinarsi un occhio con la mano.
"Il tuo cuore..." sbiascicò lei, cercandolo nel buio. "Sei sveglio?" Tese lievemente una mano che cozzò da un lato del suo viso spigoloso. "Stai male? Hai un battito velocissimo" Disse, preoccupata, mentre lentamente i suoi occhi iniziavano a fornirle le prime informazioni.
"Sì... sto... sto bene" Trovò le parole dopo una manciata di secondi, implorando a se stesso di mantenere la calma. 
"Hai fatto un brutto sogno?" Gli accarezzò dolcemente la guancia, rivolgendogli un sorriso rassicurante che forse lui non avrebbe visto.
Il drell si sentì investito da una sorta di felicità, scoprendo che era stato così semplice tornare a quell'atmosfera pacata e dolce della sera trascorsa. I ripensamenti e i dubbi lasciarono posto solo al momento che dev'essere vissuto, ed era solo grazie a lei ed al suo carattere.
"Sì" Rispose, come se non fosse stato lui a parlare. Era scattato qualcosa di troppo grande in quel gigantesco meccanismo, ed ora senza volerlo lui sentiva il bisogno di essere sincero. Non avrebbe più mentito o deviato su queste piccole cose, ed ecco che mentre lei lo incitava a raccontare, qualora lui avesse voluto, la ragazza tornava al suo consueto posto sulla scacchiera, ad impersonare la sola che si sarebbe battuta tenacemente per salvare ciò a cui teneva.
"Era solo un ricordo d'infanzia. Non mi era mai capitato."
Lei gli rivolse un abbraccio impacciato dalla loro posizione. "Fatti forza... non arrenderti."
Come poteva leggergli dentro? Come aveva fatto, con una frase fatta ad arrivare così precisamente al cuore del suo ricordo?
Arrendersi. Aveva cercato a lungo il significato delle parole di sua madre, quella notte. Non ti saresti dovuto arrendere... hai ancora noi. Quelle parole rimbombavano in cerca di un significato da anni, represse ed odiate. Suo padre si era arreso alla sua testardaggine, non avrebbe potuto vivere la vita di nessun altro. Si era fatto travolgere e trascinare, non potendo più gestire quel nuovo mondo. E neppure Kolyat e Irikah erano stati in grado di fargli cambiare ottica.
Se si fosse arreso, si sarebbe scatenata la stessa reazione che aveva diviso i suoi genitori?
Sarebbe rimasto involucro vuoto, come Thane?
Ma per quale motivo Oriana teneva a lui, poi? Era semplicemente troppo preso dall'attimo per porsi una domanda del genere, una domanda che non si era mai fatto semplicemente perchè allontanandola, era certo che lei non lo avrebbe più voluto aiutare. Invece ogni volta tornava, e lui ogni volta cercava di dare il peggio di sè. 
Lui non la voleva semplicemente perchè sapeva di volerla troppo. Lui voleva lasciarle la possibilità di voltargli le spalle come avevano fatto tutti, ma visto che lei sembrava resistere allora anche lui avrebbe adottato una tecnica nuova.
"Sono egoista, sai?" Sussurrò, cercando a sua volta il piccolo viso di lei. 
"Perché dovresti esserlo?" 
"Ti ho cercata. Ho voluto conoscerti. Ma è stato sbagliato seguire i miei desideri... avrei dovuto lasciarti in pace, ora non saresti infastidita da un drell che ti importuna. Soltanto... io.." s'interruppe, non avrebbe potuto dire una sola parola di più.
Non merito assolutamente nulla di tutto ciò che mi hai dato.
"Sai," Oriana scosse la testa "lo ricordo ancora bene." Disse, fingendo di non aver sentito nulla di ciò che le era stato detto e lasciando sfuggire una lieve risata argentina dalle labbra. "Erano passati otto giorni dalla prima volta che ci siamo visti. Io stavo controllando per la terza volta alla dogana se il gatto che mia sorella mi aveva regalato fosse arrivato. Stavo dando di matto, ero preoccupata che sulle navi non l'avrebbero curato a dovere. Avevo guardato dietro i vetri degli altri sportelli ma tu questa volta non c'eri e non sapevo se fosse un bene o un male. Poi, mentre me ne stavo andando ti ho incrociato sulle scale..." smise di raccontare, percependo chiaramente i muscoli di lui farsi tesi.
"La trovo mentre scendo gli scalini. Il mio turno è iniziato da dieci minuti, sono in ritardo, mi sono addormentato troppo tardi ieri notte. Lei mi guarda stupita. Non vedo la paura nei suoi occhi. Il suo sguardo non è indagatore come quello degli altri umani.  Vorrei farle una domanda ma si spaventerebbe, così la guardo, senza trovare il coraggio di fare altro.
Poi, un abbraccio. Giusto il tempo di domandarmi
se si stesse trattando di un sogno improbabile e lei lo scioglie, mi sorride. Mi chiamo Oriana."
Lei aspettò in silenzio la domanda che era certa sarebbe conseguita a quel ricordo. 
"Perchè?" Ecco la materializzazione del dubbio, quell'interrogativo opprimente sempre eluso.
"Kolyat... diavolo, non ne ho proprio idea." Ridacchiò, cercando la stoffa della sua divisa con le mani. "Mi sono fidata del mio istinto e di ciò che mi diceva."
Restarono in silenzio. Uno che non era più impregnato di vergogna, non c'era disagio. Aleggiavano solamente molte riflessioni, mentre il respiro di lei andava a cozzare di nuovo contro il torace di lui.
Se da un lato, Oriana stava per addormentarsi di nuovo, lui per quanto ci tentasse, non ci sarebbe riuscito. Così si allontanò delicatamente, alzandosi dal letto. 
"Vai via?" 
Lui annuì, "Tra due ore dovrei presentarmi al lavoro. Oggi inizia il mio nuovo turno... e preferirei non fare stronzate. Non oggi."
Lei si sporse, prese il factotum dal comodino e lo allacciò, controllando l'ora. Si sarebbe dovuta preparare anche lei, e in fretta. Quella mattina aveva i corsi, c'erano lezioni di aritmetica e scienze. Sempre meglio che storia, ricordò a se stessa. In realtà avrebbe voluto studiare un po' di violino, ormai erano giorni che per motivi diversi nemmeno non lo toccava.
Mentre lui faceva ordine nel salotto alle sue cose, lei si cambiò in fretta e poi lo raggiunse. 
"Hai tutto?" Gli sorrise, accompagnandolo alla porta. Kolyat annuì, sorridendo di rimando, e lei fu profondamente felice nel vederlo così. Era successo tutto in fretta, oltre ogni più rosea aspettativa.
"Fa' attenzione, a lavoro." Sospirò, abbassandosi a salutare Giza e lasciando che la porta, chiudendosi, li dividesse una volta per tutte.
Don't give up
'cause I believe there's a place,
there's a place where we belong

 











Omg aritmetica, lo schifo divino
Datemi da giocare Master Mind e vado forte. Ma gli scacchi... HAHAH sono troppo babba uaua un po' come quando scrivo insomma.

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Capitolo 9
*** Timing is Everything ***


IX - Timing is Everything

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It can happen so fast
or a little bit late:
timing is everything


Oriana s’infilò nella sua felpa preferita, una color crema con una tazza di cappuccino stampata all’altezza del petto. Era vecchia, vecchia abbastanza da farle ricordare l’atmosfera di altre giornate. Un po’ sgualcita e scolorita, ma ai suoi occhi continuava a rimanere unica e bella.
La indossava appena si sentiva insicura ed inadatta, chiudeva gli occhi e fingeva di essere ancora una ragazza che viveva una vita semplice in una famiglia altrettanto semplice. Quei tempi in cui era figlia unica, in quello stesso universo che ormai, a distanza solo di qualche anno, le sembrava così distante e distorto.
Quella mattina, però, non si sentiva affatto malinconica, anzi, era incredibilmente felice. Avrebbe voluto saltare le lezioni e restare a casa a suonare e cantare tutto il giorno.
Lanciò un’occhiata al violino, nell’angolo del salotto fermo ormai da troppi giorni e si sentì in colpa, come dopo essersi ricordati di aver trascurato troppo una persona cara. Sorrise, sconsolata, promettendo mentalmente allo strumento le attenzioni che meritava, e dopo una carezza a Queequeg e un ultimo sguardo verso l’appartamento, uscì.
Appena sulla soglia trovò una sua compagna di corso che la guardava in un modo che non seppe interpretare. Oriana non aveva fatto molte amicizie, più che altro chiacchiere per passare il tempo tra una lezione e l’altra. Era selettiva in quanto a persone con cui parlare, e sentiva di non essere più riuscita a costruire legami come quelli che aveva fatto prima di trasferirsi sulla Cittadella.
 Da quel poco che aveva potuto capire di quella ragazza che per qualche motivo era piombata alla soglia del suo appartamento, era che i suoi genitori dovevano essere parecchio tradizionalisti e che non vedevano l’ora di tornare sulla Terra.
Oriana non si era mai permessa di chiedere perché allora invece di stare sulla Cittadella a sbuffare e continuare ininterrottamente a fare paragoni con la Terra non tornassero là una volta per tutte. L’ipotesi più probabile, aveva pensato, era che aspettassero che quelli rimasti in patria ricostruissero tutto quanto così loro non avrebbero dovuto sopportare la devastazione. Per quanto li vedesse maledettamente approfittatori e vigliacchi, avrebbe continuato a sorridere ed annuire sperando che i suoi pensieri coprissero il maggior numero di idiozie pronunciate da lei. Perché quello era in grado di dire: idiozie.
“Frida? Cosa ci fai qui, tutto bene?”
Quella, come era solito fare, sbuffò e continuò a fissarla, stupita. “Te l’ho detto tre giorni fa! L’affitto nell’altra zona era diventato troppo alto e quindi siamo dovuti trasferire qui… e ho pensato di fare il tragitto fino a scuola insieme. Non mi piace, come diavolo fai a viverci?” Domandò, con un calcato accento spagnolo che rifletteva le origini honduregne di entrambi i genitori.
Oriana fece un sorriso di circostanza, senza capire quale fosse il problema. “Ah, sì, scusa. Ho avuto un sacco di pensieri tra la testa nell’ultimo periodo. In realtà questa è una gran bella zona, mia sorella mi ha comprato questo appartamento e non è niente male… se dici così non devi aver visitato gli agglomerati più vicini alle estremità delle braccia.” Scherzò, rendendosi conto che quella che aveva innocentemente pronunciato come battuta avrebbe provocato una reazione quantomeno fastidiosa.
“Certo che no!” Esclamò, cominciando a camminare assieme ad Oriana, senza staccarle gli occhi di dosso. “Non ci andrei nemmeno sotto tortura, ci sono troppi pochi umani e decisamente troppi alieni”
Ecco, ottimo Oriana, complimenti. Se avesse potuto, si sarebbe fatta un applauso da sola.
In realtà, per quanto le stesse dando fastidio il suo continuare ad osservarla e il dispensare pareri a proposito di ogni cosa come se lei di partito preso fosse già d’accordo, si continuò a ripromettere di stare in silenzio; non avrebbe voluto scatenare un putiferio per una cosa tanto inutile, non ne vedeva il motivo.
E perché continua a guardarmi, maledizione… Oriana si morse un labbro, abbassando la testa decisa ad ignorare Frida, cercando di distrarsi pensando a quale brano avrebbe voluto  suonare. Si rilassava pensando a quelle piccole certezze che aveva, e senza accorgersene iniziò a sorridere, immaginando di mostrare a Kolyat quella sua passione nella musica, il suo talento e i suoi piccoli brani originali, ora che lui sembrava essere ricettivo.
Per quanto la ferita bruciasse ancora dalla sera in appartamento di lui, quando lei aveva tentato di regalargli un po’ di se stessa cantando e lui l’aveva interrotta, non c’era più amarezza. Ora lo aveva capito, aveva capito i motivi che lo avevano spinto a compiere quei gesti, e lei l’aveva perdonato.
A metà strada  Frida la pungolò con un dito sul braccio e Oriana trattenne un sospiro, catapultata bruscamente fuori dai suoi pensieri per chissà quale motivo. “Che c’è?”
“Senti, davvero, speravo me lo dicessi tu ma a quanto pare vuoi evitare…” Ridacchiò, stringendo di nuovo con entrambe le mani il pad scolastico “ma, scusami, sono troppo curiosa”
“Frida, sei strana oggi” più del solito… disse a se stessa, voltandosi a guardarla a sua volta.
Gli occhi scuri della ragazza ruotarono in fretta. “Ma ti piacciono gli alieni?”
“Cosa?” Oriana scoppiò a ridere “ma che..?”
“Pensavo stessi dietro a Danner, ma per carità, io mica ti giudico! Anche se beh, Dan era tutto un altro mondo … in tutti i sensi” la ragazza scoppiò a ridere in modo quasi isterico, compiaciuta dalla sua stessa battuta.
“Davvero, Frida, non capisco cosa diavolo vuoi dire” Oriana continuò quella discussione improbabile provando un imbarazzo sempre crescente “e Dan cosa c’entra?”
“Senti io non sono mica cieca, Ori! L’ho visto io quell’alieno strambo azzurro che se ne usciva quatto quatto stamattina da casa tua…”
Oriana prese giusto un momento per fare una smorfia sbigottita, poi scoppiò in una risata nervosa e pregò di sparire il prima possibile. Aveva sempre cercato di starsene in disparte, tranquilla, invisibile… era semplicemente una di quelle ragazze che non sai nemmeno chi siano, e ora già si vedeva al centro di un gossip scolastico incredibile.
 

 
 I was young when I learned just how fragile life can be
I lost friends of mine
I guess it wasn't my time


Miranda guardava lo schermo del computer distrattamente, senza sforzarsi di capire cosa stesse guardando in realtà. L’aveva acceso solo per girare un po’ su  Extranet e leggere le ultime notizie. Aveva lasciato il factotum nel comodino della sua stanza, delusa vedendo che Oriana sembrava non avere avuto voglia o tempo di risponderle.
Prima cercò informazioni sulle ricostruzioni dei vari pianeti,  e con stupore notò che la Terra si stava rialzando con straordinario entusiasmo e che addirittura il portale Sol fosse uno di quelli in fase di ripristino totale più avanzato.
Spulciò ogni notiziario già emesso che lei aveva perso, controllando la situazione dei pianeti natale di ciascuna razza, e senza neppure rendersene conto cominciò a piangere nella penombra di quella sua stanza vuota. Le immagini della più grande ripresa che la galassia aveva mai visto si susseguivano, mostrando campi d’erba medica che rinasceva dalle sue stesse ceneri in cui il verde s’interrompeva solamente a piccole chiazze di terra scura; matriarche Asari che riposizionavano statue storiche un po’ ammaccate al centro delle piazze. Si convinse che quella fosse una delle cose più belle che avesse mai visto nel corso di tutta la vita. Rimase incantata, trovando un’Asari che, nonostante l’impaccio del casco, le numerose ferite subite e i danni alla tuta che le causavano ustioni alla pelle si fosse alzata in piedi in un grido di gioia alla fine della guerra su Palaven. Per quanto provò a sforzarsi non riuscì a vedere se stessa riflessa in quella donna. Come era capace gioire di fronte a tutta quella devastazione ed dopo ogni morte di un commilitone? Dove aveva potuto trovare la forza di lasciare il suo pianeta, le sue sorelle, e combattere in un pianeta tanto ostile a lei?
In un flash accecante forse capì di chi si potesse trattare. Era improbabile che potesse esistere una coincidenza così grande, ma ci volle credere.  Le sembrò precisamente la descrizione di un’Asari che le aveva fatto Oriana, raccontandole di un giorno speciale in una mail. Che fosse davvero quella Ize, sopravvissuta ai Razziatori e ancora capace di sorridere nonostante ormai l’unica che le fosse rimasta fosse se stessa?
Miranda cercò di sorridere, le labbra tremanti, realizzando che forse si stesse per commuovere. Ritornò al minuto tre e ventitre, osservò la donna rialzarsi dalle macerie insieme ai compagni ed alzare le armi al cielo in uno dei primi filmati registrati gli istanti appena successivi la vittoria. Aveva un’espressione imperturbabile, severa, gli occhi arrossati soltanto dalla stanchezza e dalla tensione, ma non ancora dal pianto.
S’innamorò di quella risolutezza, avrebbe dato ogni cosa pur di sapere di essere così forte. Ma ogni lacrima che le bagnava le guance le confermava l’esatto contrario. Magari un tempo lo era, quando l’unica per cui decideva di lottare era se stessa. Poi aveva deciso che era sbagliato ignorare di avere una sorella, capì, dopo aver meditato sere e sere in mezzo a buio e solitudine, che a lei serviva qualcuno da amare. Scelse che fosse giusto salvare sua sorella, risparmiarla da una vita piena di domande che sarebbero restate irrisolte, piena di morte.
Ora piangeva, prima non l’avrebbe mai fatto. Nemmeno sulla Normandy, nemmeno in segreto, e sentiva di dover attribuire la colpa soltanto ad una parola: cambiare. Aveva finito di lottare, di essere in prima linea. Diventare una sorella, una familiare che s’impegna ad essere presente anche quando è impossibile l’aveva cambiata. Erano passati poco più di due anni, e lei si sentiva già catapultata in una realtà terribilmente distante.
Si portò una mano alla bocca, mentre mille pensieri le passavano in mente divorandola dall’interno. C’erano sempre le stesse immagini che non le lasciavano pace, come tutti i suoi compagni della missione suicida che osservavano Shepard e che lei non aveva mai chiamato amici, ma iniziava a pentirsene. C’era il viso di suo padre, mentre in un secondo sbarrava gli occhi, colpito in pieno dallo Slam biotico che lei gli aveva riversato addosso con foga. Si guardò brevemente attorno, trovando la forza di recidere di netto quel flusso prepotente di ricordi e senza che potesse fare nulla per evitarlo le tornò in mente di essere sola, come se a comando potesse essere stata in grado di non accorgersene per settimane intere.
Un affetto, una relazione vera… ecco, lei non ce l’aveva mai avuta. Nonostante fosse palese il contrario, cercava ogni giorno, tacitamente, di convincersi che quella fosse una scelta. Ma lo sapeva bene che non avrebbe mai avuto la possibilità di essere diversa, anzi no: comune, essere vista come una donna che si può amare. Era sempre stata un oggetto, una bambola resa perfetta da osservare da lontano. Se si fosse vestita con dei jeans e una maglia stampata avrebbe lasciato alle spalle la se stessa che era stata fin ora, e aveva paura di questo più di qualunque altra cosa. Le soddisfazioni e le sicurezze che quella tuta le aveva regalato erano le cose che le servivano ogni giorno di più per tirare avanti. Oriana non l’avrebbe mai saputo, lei non gliel’avrebbe mai confidato. Era questo tipo di vita che Miranda aveva sempre voluto evitare alla sorella… i timori di lasciare quella realtà, seppur infinitamente pericolosa, in cui aveva imparato a vivere. Fuori da essa si sarebbe sentita esposta, totalmente nuda in un mondo così semplice da farti impazzire.
Trasse un respiro profondo, guardando le luci della colonia Cuervo brillare oltre il vetro. Inizialmente Cuervo era nata soltanto come postazione dell’Alleanza con una sola grande base, ma durante l’assalto dei Razziatori si era popolata di rifugiati ed ora stava diventando a tutti gli effetti una colonia esclusivamente civile. Miranda gestiva le entrate e le uscite dalla fine della Guerra collaborando con un team dell’Alleanza che la monitorava in continuazione nonostante lei avesse dimostrato più volte la propria lealtà e dedizione. Si trattava di un lavoro troppo sciocco per lei ma che lei avrebbe sopportato ancora per poco. Anche il fatto di sentirsi una cavia da osservare in continuazione le stava dando sempre più fastidio, anche se aveva ponderato anche situazioni di gran lunga peggiori essendo una Ex Cerberus.
Il mal di testa iniziò a martellarle le tempie, e gli occhi le si riempirono di nuovo di lacrime. Era lento il tempo da quando era iniziata la ricostruzione. Ognuno sembrava avere trovato la pace… ognuno tranne lei, che era rimasta senza più battaglie.
Pianse e non seppe più come smettere, l’unica cosa che fu in grado di fare fu accoccolarsi tra le coperte. Sentì un forte bisogno di conferme, come se non ne avesse già a sufficienza. Finse di non ripugnarsi da sola, e digitò con vergogna il sito d’incontri in cui era iscritta, sognando che il futuro che aveva programmato arrivasse il prima possibile.
È questione di poche settimane, tentava di rincuorarsi, mentre leggeva complimenti imbarazzanti che le intasavano la posta.
 

 
And I could've been the child that God took home, 
and I would've been one more unfinished song 
and when it seems a rhyme is hard to find
That's when one comes along
just in time


Kolyat finì la sua giornata lavorativa avvolto da uno strano senso di soddisfazione. In così poco tempo era stato in grado di arrivare ad un buon punto, e per quanto fosse più esposto al pericolo, la cosa gli faceva solo piacere.
Stare a guardare persone che passano e domandano cose senza aspettare la risposta, controllare i traffici, le corrispondenze, scansionare i pacchi per garantire la sicurezza all’interno della stazione era una routine piatta e insulsa, per lui. E il contatto con la gente… ecco, quello l’aveva tormentato per mesi, prima di riuscire a farne l’abitudine, come se la pelle gli si fosse ispessita come a formare dei calli soltanto per permettergli di sentire le persone, ma non ascoltarle davvero.
Rientrò in appartamento, sospirando ed avviandosi verso il frigorifero.
Con la coda dell’occhio scorse una piccola macchia bianca che lo fissava dal davanzale della finestra, e lui si disse che quella creaturina dovesse avere fame, erano ormai le 17 e lui le aveva lasciato giusto qualche bocconcino la mattina.
“Ehi, Giza” Disse, dandosi dello stupido subito dopo, con imbarazzo.  Perché dovrei parlarti, stupido animale terrestre peloso… tu non capisci, io non devo nemmeno sprecare fiato. Il suo brontolio mentale aveva un filo logico, ma un brontolio restava. Giza lo osservava attenta, sperando che il suo pasto tanto atteso arrivasse in fretta.
Kolyat versò il contenuto di una bustina nella ciotola, poi, dopo aver letto un paio di volte le istruzioni, aggiunse l’acqua e il cibo liofilizzato acquistò un nuovo colore e un nuovo aspetto.
Che schifo, rise tra sé e sé, storcendo il naso e appoggiando il contenitore a terra.
Il drell poi dedicò di nuovo attenzione al frigo, e aprendolo trovò come al solito, la desolazione più totale. Come ogni persona sola e triste che si rispetti, nell’anta troneggiavano fiere delle lattine di birra in fila, e sui ripiani pochi cibi, tutti da riscaldare.
Prese la birra, andandosi a sdraiare sul divano, e poi cercò informazioni a proposito di gatti, anche se non m’interessa molto.
 

 
I remember that day
when our eyes first met
You ran into the building to get out of the rain
cause you were soaking wet


Al contrario del rincaso di Kolyat, Oriana ne ebbe uno molto trafelato. Chiuse la porta alle spalle e poi vi si appoggiò, lasciandosi andare, e cercando di calmare il respiro.
Non poteva credere di essere capitata nel mezzo del chiacchiericcio della sua scuola. Che poi si consolava, sorridendo del fatto che a molti non importasse nulla e che non trovassero nulla di strano nell’uscire con alieni. Soltanto che era una scuola frequentata prevalentemente da Umani scelta da Miranda, nel tentativo di ricercare più possibili insegnanti terrestri. Non le importava di alcune persone che dopo aver sfruttato un po’ la notizia per far conversazione l’avrebbero lasciata sospesa senza un fine, scordandosela. La cosa che più inquietava Oriana sarebbe stata Frida che, insieme alle sue amichette, ne era certa, l’avrebbe torturata per tutto il semestre.
Poi socchiuse gli occhi, mentre Queequeg arrivava a salutarla strusciandosi contro le sue gambe e si ritrovò a ridere.
Restò immobile a ridere di gusto con il gatto che se ne stava a squadrarla per un momento, e poi ritornava a donarle affetto nella speranza di ricevere in cambio coccole o cibo, o preferibilmente entrambe.
Oriana poi, con disinvoltura, compose il codice del factotum di Kolyat per chiamarlo, cercando disperatamente di smettere di ridere.
 

 
And as I held the door 
you wanted to know my name:
timing is everything


“In alcuni documenti si fa menzione a gatti originari della Turchia, dotati di pelo setoso…” La pagina che stava leggendo si bloccò, poi si spense per un attimo, facendo sobbalzare Kolyat, che vide subito dopo il factotum accendersi ed esibire una telefonata in arrivo da Oriana.
Trattenne un sorriso, ed accettò la chiamata. Poi si ritrovò ad ascoltare qualcosa sarebbe potuto essere riassumibile semplicemente con una sola parola: delirio. 













Niente, mi metto il paradenti. No, ok, doveva essere un capitolo leggero, da come l'avevo in mente. Sono felice di vedere finalmente un X tra i titoli dei capitoli, anche se non è ancora il decimo sono contenta, anche perchè significa che è quasi finita questa roba *esult* ...anche se non so ancora tra quanti capitoli di preciso... cinque... sei... non lo so. Pochi. Doveva essere leggero come capitolo per una serie lunghissima di motivi, forse nessuno sensato, ma che importa? Dopo un'era glaciale sono tornata a pubblicare! Pronta a premere shift e 1 contemporaneamente per donarvi tanta esclamazione, gioia e simboli simpatici.
Vabè niente ciao.

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