The warrior with a steel heart.

di Uni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Veleno dell'Inizio ***
Capitolo 2: *** Polvere d'ossa ***
Capitolo 3: *** Il calore della lana umida ***
Capitolo 4: *** Profumo del sapone ***



Capitolo 1
*** Il Veleno dell'Inizio ***


Il veleno dell'inizio.
 
Chiunque voglia trovare la propria strada in questo mondo, deve cominciare ammettendo di non sapere dove si trova.
Stellan Skarsgard — Prof. Erik Selvig
 
«Corri, — diceva — corri o ti uccideranno » i suoi occhi azzurri erano terrorizzati: se non l'avessi protetta, di sicuro lui le avrebbe fatto male. Ma a lei non importava - avrebbe preferito morire -, voleva solo che io fossi in salvo. «Lei! Lei ti aiuterà di certo.» farneticava, nello stesso tempo, stringendo la mia mano, mi conduceva fuori da quel palazzo metallico e freddo: perfetto per una macchina come me. Non capivo cosa fosse quell'espressione sul suo volto. So solo che a quel tempo non riuscivo a capirla, nonostante Rein tentasse disperatamente di farmelo ricordare. Non appena arrivati al cancello secondario, mi diede una leggera spinta. Va, disse. Corri, aveva detto; quindi, correvo. Non sapevo dove stessi andando, ma correvo solo perché lei me lo aveva detto. Lei, che per me non aveva nessun valore - o almeno, era quello che pensavo allora -, mi aveva portato a disubbidire al mio padrone: lui che mi aveva creato. E per qualche ragione, forse per un semplice impulso come risposta alla sua agitazione, dovuta all'affetto che provava nei miei confronti, le obbedii. 
Ma quella sera lui aveva qualcosa di diverso. Voleva qualcosa che lei non poteva dargli: la ferì quasi mortalmente, e anche sapendo che stava facendo la cosa sbagliata, era pur sempre il mio padrone e non avrei dovuto disubbidire. Eppure, poiché mi prendevo cura di Rein, se fossi rimasto, lui mi avrebbe ucciso.
Mentre correvo, qualcuno stava sparando contro e diversi proiettili perforarono la mia pelle, causando il malfunzionamento di alcuni arti: non potevo correre molto veloce, ma nonostante tutto continuavo a farlo.
Non feci in tempo ad analizzare la situazione che la mia fuga finì, appena una lunga freccia in titanio puro, trafisse il mio reattore principale: quello che dagli esseri umani è comunemente chiamato “cuore” si stava fermando. Sentii il mio corpo cedere fino a quando il mio reattore smise di funzionare. La morte si era impossessata di me lasciando in quella strada, dove prima il mio corpo correva, un oggetto di ferro artificiale, ormai privo di vita. Ma no! Non era il momento adatto per morire, lo sentivo.
Una sagoma incappucciata si avvicinò a me correndo. Aprii a malapena un occhio, vedendo che la sagoma stava rigorosamente alzando il dito medio al mio padrone, che allora guardava la scena, serio, giacendo sulla sua poltrona di pelle nera. La sagoma voltò il viso verso di me e del suo volto buio e incappucciato, riuscii a scorgerne solo il dolce sorriso che mi rivolgeva. Poi null'altro.

D'un tratto mi svegliai, seppur non l'avessi calcolato. Io sarei dovuto essere morto. Aprendo un occhio alla volta, scrutai l'ambiente intorno a me: un letto, una finestra, un armadio, pareti bianche, lei. 
Lei era l'unica cosa che colorava quell'ambiente lucente, con i suoi capelli rossi. 
Era una ragazza esile, dalla carnagione chiara e dal vestito color confetto. Dormiva nella sedia vicino al letto: sembrava innocua e scatenò in me una reazione nuova - come se avessi voluto abbracciarla per sempre. A questa sensazione seguì un impulso: la mia mano si avvicinò al suo volto e ne accarezzò le gote. A quel contatto, lei aprì lentamente gli occhi e non appena si accorse del mio gesto e del fatto che fossi sveglio, si gettò in dietro come per difendersi, ma questo suo gesto fece in modo che la sedia si ribaltasse. Cadde per terra e con grande interesse mi precipitai ad aiutarla.
«Ahi, ahi. Ma ti pare questo il modo di svegliare una giovane indifesa?» protestò lei. «Io vi ho solo svegliato.» lei mi fissò truce e aggiunse un piccolo sbuffo. «Comunque, come ti senti?» la guardai stranito, nel tentativo di capire cosa significasse quella domanda. «Come... mi sento?» chiesi, mentre lei rialzava la sedia. «Sì, come te sent-» mi fissò per un istante per poi darsi una pacca in fronte. 
«Giusto! — ammise — tu sei un replicante! Ecco, volevo chiederti se ci fossero problemi con i tuoi macchinari, o con la scheda madre.» Dissi che avrei fatto subito una scannerizzazione allo scheletro, che non diede segni di anomalie. «Io sono Fine Akagami, qual è il tuo nome?» le risposi che mi chiamavo Shade.
«Hai aggiustato tu il mio reattore?» chiesi, lei con un grande sorriso fece "sì" con la testa. Questo causò in me una nuova sensazione, simile a quella precedente ma ora molto più forte. Anche questa volta ne conseguì un impulso: mi avvicinai tempestosamente a lei e... la abbracciai. Ricambiò il mio abbraccio e quasi malinconicamente chiese «sei un TZ34…vero?».
Mi allontanò di poco e mi sorrise: mi piaceva quel sorriso. «Come lo sai?» per un po’ non mi rispose, come se rispondendomi si sarebbe auto lesionata «Ho lavorato diversi anni nella costruzione di alcuni TZ33. Ma dimmi, lavori per Bright?» il suo tono non era come quello di prima: era serio, arrabbiato e nello stesso tempo nostalgico. «Non più. Lui ha fatto male a-.» m’interruppe sbarrando gli occhi. «Rein?» adesso i suoi occhi rossi avevano paura. «Sì. Lei mi ha detto di scappare.» confessai. «Capisco.»  il suo sguardo era vuoto, quasi paragonabile al mio, ma a differenza dei miei, i suoi occhi risplendevano ancora di una piccola luce. Ricordai che, nonostante fosse debole, avevo un debito nei suoi confronti e allora, inginocchiandomi a lei e prendendole la mano, pronunciai il giuramento «Nelle fredde e buie notti, nel caos del futuro, nell'armonia del presente, giuro di proteggerti e di rispettarti fino a quando non sarai tu stessa a volere il contrario». Rimase interdetta per un secondo e poi spalancò gli occhi «Ma-» provò a dire, ma la interruppi. «Per tutelare il mio onore, la prego di accettare.» e lei ancora sconvolta, emise un piccolo verso di approvazione.
Il mio reattore si surriscaldò. "scanner: nessuna anomalia"
Che cosa sarà mai questa piacevole sensazione?

Capitolo dedicato a Luca che è il mio rompiballe preferito, 
rieditato per l'ennesima volta, sperando che - con le vacanze estive - riesca finalmente ad aggiornare.
 

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Capitolo 2
*** Polvere d'ossa ***


Polvere d'ossa.
Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. Tra le due cose c'è il mondo dei sogni.
Henri Cartier-Bresson
 
«Per tutelare il mio onore, la prego di accettare.» e lei ancora sconvolta, emise un piccolo verso di approvazione.
Il mio reattore si surriscaldò. "scanner: nessuna anomalia" .
Fine, che era ancora incredula, scostò violentemente la mia mano sentendo un rumore proveniente da un'altra stanza. Così, dicendomi che avrei potuto utilizzare quella stanza a mio piacimento, uscì e la sua figura scomparve dietro la porta. Dunque mi sedetti sul letto e non appena sfiorai il fianco con la mano, ricevetti una debole scarica. Alzai la maglia e trovai qualche cavo scoperto. 
Forse è questa la causa delle sensazioni anomale, pensai. Eseguii uno scanner: "Scansione dei dati. Somiglianza tra le due anomalie: 30%". Nulla da fare.
Fine rientrò sorridente come prima, sbirciando la situazione dalla porta. Eccomi, disse. «Hai bisogno di qualcosa? Hai fame?» dissi del cavo scoperto e subito lei, controllando il cavo, urlò un nome: Pin!
Mi fece sdraiare sul letto, e tastando l'area del fianco interessata, trovò l'altra metà del cavo, rimasta sotto la pelle. Proprio allora, dalla porta comparve un uomo, sui venti-tre anni, fisico asciutto. La cosa che mi colpì maggiormente del suo aspetto, fu - però - l'incredibile somiglianza con Rein. 
«E questo chi sarebbe?» protestò Pin. «Era uno degli scagnozzi di Bright, Rein l’ha aiutato a scappare.» Pin spalancò per un attimo gli occhi, fissandomi in modo incomprensibile: «Lei come sta? — urlò strattonandomi — Bright le ha fatto male?», negai con la testa. Pin trasse un sospiro di sollievo. «Io sono Pinapsus McCoy, per tutti, Pin; e a Maggio sposerò questa donna - eheh. » lanciò un'occhiata scherzosa a Fine «E tu sei?» mi rivolse. Risposi di chiamarmi Shade, mentre un'altra sensazione terribile e nauseabonda s'impossessava di me. Fine spiegò a Pin ciò che mi affliggeva e in poco tempo, lui aggiustò il cavo lamentandosi del fatto che Fine non sapesse aggiustare dei semplici cavi sporgenti, nonostante la sua incredibile conoscenza in biomeccanica.
Quei due insieme causavano una terribile sensazione al reattore. "Scanner: nessuna anomalia". Strano.
Mentre Pin aggiustava il cavo, prelevai un campione del suo DNA e confrontandolo con quello di Miss Rein, confutai la mia tesi: Pin e Miss Rein erano fratelli.
Non appena finito quel lavoro di manutenzione, Pin annunciò che sarebbe dovuto tornare a lavoro e stampando un dolce bacio sulle labbra della Master, Fine, le dimostrò tutto l'amore e il rispetto, misto alla gratitudine, che provava per lei. Questo gesto ebbe su di me un'azione malefica. Le mie mani iniziarono a tremare, e le visioni sul mio corpo mentre attaccava al collo Pin si facevano sempre più frequenti. Cosa mi sta accadendo?
Poco prima di uscire, Pin mi salutò con un cenno dicendo «Benvenuto in famiglia, Shade.» tacqui e Fine lo notò decisi di tenerle oscure queste sensazioni che pulsavano dentro di me, non appena me lo chiese. Stranita, annunciò di voler andare a fare una doccia e che avrebbe preferito che la aspettassi al piano di sotto. Non appena lì, mi sedetti sul divano, ma i minuti passarono e passarono, ma la Master non arrivò neanche dopo una buona mezz'ora: decisi di controllare. Il bagno doveva essere l'ultima porta a sinistra vicino le scale. 
Il bagno era vuoto. Controllai che fosse per lo meno uscita dalla mia nuova stanza, e invece lei era lì: distesa per terra, scossa da convulsioni - epilessia. Il mio reattore sembrò smettere di funzionare.
Mi gettai verso di lei, tentando disperatamente di capire cosa fare, lei indicò con un dito il bagno di fronte: l'armadietto dei medicinali! Lo aprii frettolosamente e cercai il farmaco per gli attacchi epilettici: trovato. Nel modo di prenderlo feci cadere alcune confezioni nel lavandino. Aprii il barattolo e le feci assumere cinque pillole di quel farmaco. 
Dopo poco, le convulsioni cessarono e finalmente tornai a respirare. La presi in braccio e la poggiai sul letto: tremava ancora. La guardai e riguardai a lungo, nel tentativo di capire, fino a che lei non confessò «Vedi, Shade, fin da piccola ho sofferto di una grave malattia: attacchi epilettici - come hai ben visto. Pin non ne è a conoscenza, giacché chi lavora per noi, in questa casa, hanno sempre mantenuto il segreto — prese un attimo fiato — tu potresti fare altrettanto?» ero contrario a ciò che stava dicendo, ma i suoi occhi non mi avrebbero perdonato se l'avessi tradita: annuii lievemente e l'abbracciai d'impulso - oramai queste sensazioni stavano diventando abitudini, stando a contatto con Fine.
Voglio proteggerti, le sussurrai dentro il mio cuore, voglio farlo con tutto me stesso. 
E con Fine assopita tra le mie braccia, ecco che il sonno s'impossessava anche del mio corpo - il che è strano per una macchina, addormentarsi e con lo stupore dell’inaspettato: sognai.
Sognai qualcosa che avevo rimosso dalla mia scheda madre.

" «Unità TZ34, in fase di rifinitura. Procedura d’istallazione dei programmi. Rifinitura e pulitura del disco. Unità TZ34 è rinata, fase di rinascita: completata!»
Ed ecco il mondo: massa informe di pianure colline e montagne.
Ecco i suoi occhi, quelli della donna che ho sempre chiamato “madre”, quegli occhi che tanto mi amano. «Attendo di ricevere ordini!» dissi fedele.
«Oh, che creatura meravigliosa: è così pura e fedele. Vedi, Shade, sei nato per soddisfare i miei ordini e il tuo primo incarico sarà di uccidere mia sorella: Altezza. Fai in modo che non soffra, è pur sempre mia sorella. Purtroppo, ha messo il naso in affar più grandi di lei e ciò potrebbe nuocere alla mia salute: non vuoi che io stia male, no?» la sua voce sadica e maligna, a soli dieci secondi dalla nascita, mi chiedeva di uccidere l’ultima persona cara che gli era rimasta: lui era un mostro, ma io dovevo obbedire.
E così la uccisi come mi era stato detto: velocemente e indolore. Ecco com’era avvenuta la rinascita, ma - se era una rinascita - significa che non era la prima volta, no? Esatto.”

Capitolo - rieditato (sì, per l'ennesima volta) - dedicato a Silvia che recensisce e sclera sempre.
Non ho scusanti, ma sto cambiando la grafica in tutte le storie: chiedo venia. Appena finirò di cambiare la grafica, mi cimenterò nella stesura del nuovo capitolo!
Pazientate!

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Capitolo 3
*** Il calore della lana umida ***


Il calore della lana umida.
In lei ho trovato bellezza, calore e comprensione; stare con lei era la mia sola via di fuga da un mondo orribile.
Frank Sinatra — parlando della prima moglie Nancy Barbato
 
Svegliandomi da quel sogno, che rivelava la mia natura, gettai uno sguardo a Fine che credevo dormisse ancora tra le mie braccia. Invece questa, sì, era ancora tra le mie braccia, ma mi guardava con gli occhi carichi di preoccupazione. Sorrisi dolcemente, ricordando quasi che anch’io avrei potuto provare tali sensazioni. Questo mio gesto, però, più che rassicurarla, la stupì ulteriormente.
Ma lei non era la sola a pretendere spiegazioni «potresti spiegarmi?» le chiesi. Lei abbassò lo sguardo, come se formulare la frase fosse così importante da dover richiedere tutto il suo pensiero. 
«Sono attacchi epilettici, quelli che mi affliggono. Mi accompagnano da quando ne ho memoria e — prese fiato — Pin non ne è a conoscenza.» spalancai gli occhi e la strinsi più forte, ma poiché protestò, allentai la presa chiedendole come mai non glielo avesse detto. «Sua madre. Sua madre soffriva di epilessia e Pin l'ha tenuta segregata in casa fino a che non è morta. L'epilessia è comune in questa città.» spiegò con lo sguardo solido e fermo, come se avesse raccolto tutto il suo coraggio in quell'unica frase. «Ora tocca a te, — disse — come mai sei così strano?» lo aveva già capito? 
Abbassai lo sguardo istintivamente e allora lei rispose di spostarci a parlare in giardino. Mi afferrò per mano e non la lasciò fino a quando non scendemmo le scale e non raggiungemmo un gazebo in muratura. 
Al centro del gazebo vi era un divano e delle poltrone, distanziate da un tavolino basso in vetro: il tutto, in vimini. Sedette sul divano e disse a me di accomodarmi nella poltrona di fronte. Il suo portamento era - a suo modo - delicato e maestoso. A quel gesto, una che con tutta la probabilità era una governante, si avvicinò alla Miss che le chiese di portare due the aromatizzati alla vaniglia.
«Dunque? Cosa non va?» chiese aggiustando le pieghe del vestito. Risposi che nulla non andava, ma a quella risposta Fine alzò lo sguardo su di me e disse «Non hai capito, Shade. Quella non era una domanda disinteressata alla quale potevi evitare di rispondere correttamente: era un ordine.» quel suo sguardo mi mise i brividi, e allora risposi. «Da quando vi ho conosciuto, Miss Fine, vede ho iniziato a provare delle anomalie, quasi familiari.» mi disse di descriverle, mentre la governante, che aveva detto di chiamarsi Georgia Fritz, tornava con i due the e delicatamente li poggiava nel tavolo di fronte. Fine le disse di prendersi un lungo periodo di ferie - essendo la donna incinta, forse al secondo o al terzo mese. «Ecco, la prima fra tutte è stata verso i vostri confronti: il vedervi assopita ha scatenato un forte impulso in me, come se volessi abbracciarla, Miss; — mi sentii a disagio nel discutere su questa precisa sensazione, ma continuai — la seconda è stata molto più intensa, e spiacevole. Era pesante e molto fastidiosa: volevo a tutti i costi rubarvi dalle braccia di Pin - che vi è molto vicino; la quarta è forse la più terribile tra tutte poiché si è verificata quando voi eravate distesa per terra in preda alle convulsioni: volevo trovare assolutamente una cura al vostro malore, ma la mia impotenza non me lo permetteva; la quinta si è verificata proprio ora, nella mia riluttanza nel dichiararvi queste sensazioni; La sesta...» mi incitò «La sesta?» 
«La sesta si è sviluppata in un sogno che ho fatto poc'anzi.» Balbettò la parola "sogno" un paio di volte, stupita del fatto che un androide potesse sognare. Non me ne curai e continuai.
«Il sogno che ho fatto è stato il ricordo della mia ri-nascita come androide, e ho provato un senso di mancanza» .Lei rimase interdetta per un secondo e poi iniziò a ridere «Ma è normalissimo per gli uomini, sognare e provare queste sensazioni. Sono chiamate "emozioni". La prima è l'affetto, la protezione: si sviluppa solo nei casi in cui vedi una persona a te cara, soffrire; la seconda è la gelosia, parente dell'odio; la quarta è l'oppressione e l'impotenza: il voler ma, non poter aiutare, le persone a te care; la quinta è l'imbarazzo: la difficoltà nell'esprimere le proprie emozioni; la quinta è la nostalgia.» mi stupii del fatto che non mi spiegasse nulla sulla nostalgia, quindi le chiesi cosa fosse. «Ma lo hai detto anche tu: la nostalgia è il sentimento che si prova quando qualcosa di abituale - che era solito nella nostra vita quotidiana - ci è sottratto e ci manca.» sorrise lievemente «Ma gli androidi non dovrebbero provare emozioni.» dissi. Lei allargò il suo sorriso e guardandomi disse «Anche questo è uscito dalle tue labbra: Ri-nascita.» rise e si alzò dal divano, rientrando in casa, lasciandomi da solo a pensare.
Ri... nascita.

Nel frattempo, Bright, nel suo palazzo, tentava di rintracciarmi, ma ogni sensore nel mio corpo era stato disattivato. Da Fine.
È più malefica di me, pensò. Decise di smettere di pensare a Fine, che era fonte di ogni suo pensiero, e di pensare a quel nuovo TZ34 arrivato alla base. 
Il processo di Ri-nascita era andato a buon fine, così annunciava l'altoparlante. La nuova arrivata tra poco si sarebbe svegliata, pronta a vendicare il proprio corpo da colui che glielo aveva sottratto "veloce e indolore".  E mentre il computer scaricava i ricordi della nuova arrivata in un disco removibile - come lui aveva ordinato - Bright, pensava al volto di sua sorella, che uccisa "velocemente e indolore" aveva preservato quello sguardo anche dopo la morte e che in quel momento, tormentava Bright.
"Ripristino unità Altezza: completato"
Quello sguardo così sofferente non gli dava pace, così, sotto pressione disse solo: «Ciao, — prendendo una lunga pausa — sorellina». Riprendendosi da quello stato di angoscia, Bright si chiese se fosse giusto o no eseguire ciò che stava facendo. Ma oramai aveva iniziato la partita: non poteva abbandonare il tavolo. «Uccidi Shade. Fallo soffrire.» disse imponendo il primo comando all'unità che aveva di fronte. Questa annuì lievemente, facendo pesare ancora di più il silenzio a Bright, che bramava la voce della sorella - che tanto amava.
Così si voltò e andò verso l'ascensore, allentando il nodo della cravatta: quella tensione lo uccideva. Decise di andare a giocare con il suo giocattolo personale: Rein.
Aprendo la porta della sua cella, vederla lì in quello stato, bagnata e attraente era eccitante per Bright: il corpo nudo di Rein, gli ricordava troppo quello di Fine, che non gli apparteneva più. Si avvicinò come un leone con la sua preda e accarezzandole il viso le rinfacciò quella che secondo lui era la verità «Hai visto cosa comporta non essere sempre dalla mia parte?» lei per tutta risposta gli sputò in faccia, sibilando tra i denti un "fottiti" carico di odio. Bright, si avvicinò ulteriormente «Vedo che la gattina sta mostrando gli artigli e, — sussurrò sibilando le parole all'orecchio — mi piace.» la sua voce si perse in una risata terrificante: Rein ne ebbe paura. Pose le mie mani sui suoi fianchi e scorrendo fino al bacino, ne assaporò ogni singola curva. Scese ancora un po' più in basso e le sollevò un poco la veste bianca, ormai sporca di terra e di sangue, e accarezzò senza ritegno la coscia e l'interno coscia, fino ad arrivare alla chiave della sua verginità: era bagnata «Oh, ti stai eccitando, micetta?» lei gemette emettendo un suono, che alle orecchie di Bright suonava come angelico, mentre lui continuava a muovere le dita dentro di lei. 
Tutto di lei lo eccitava: dallo sguardo infuocato, fino ai seni ancora in fase di sviluppo. Bright avrebbe voluto farla sua, ma la sua malattia non gli permetteva di sfiorarla più di tanto. Il medico aveva detto che nel mese successivo sarebbe dovuto essere tutto risolto. Perfetto! Proprio per la vigilia del suo diciottesimo compleanno, pensò Bright. 
L’abito da notte ormai bagnato, dovuto a quei suoi sconci soldati, lasciava intravedere le bellissime curve che spiccavano sul vestito come diamanti tra il carbone. Si avvicinò cautamente a loro, ma mi ricordò della promessa fatta a lei, Fine: non poteva toccarla prima dei diciotto anni. E se c'era una cosa che Bright non aveva perso tra le sue buone abitudini, questa era l'abilità nel mantenere le promesse. Bright si ritrovò a pensarla di nuovo in quella situazione, ma i suoi occhi rubino comparivano innanzi alle porte della sua mente ogni volta che si guardavo allo specchio - i loro occhi del medesimo colore -, i suoi capelli scarlatti riusciva a vederli volare al vento ogni qual volta un fuoco cremisi si innalzava fiero nel cielo, vedeva il suo corpo ogni volta che guardava Rein. Si limitò a sfiorare quelle celestiali curve con l’indice e a sbottonare l’abito che elegante cadde a terra mostrando tutta la bellezza di quel corpo. Una piccola pressione fu esercitata nei pantaloni circa sotto la zona inguinale. Quel corpo mandava in estasi e le sue gote ormai rosate dall'imbarazzo rendevano tutto più memorabile. Per lui era come avere un giocattolo che solo lui possedeva e che anche se fragile e delicato era forte nel resistere. Ammirò nuovamente quel corpo e avvicinandosi a lei stampò un bacio sulle labbra: erano dolci.
Bright ordinò di bruciare quei vestiti, e così una ventina di uomini s’insediarono nella stanza, per scrutare il corpo bramato, ma mai ricevuto. Si gettarono almeno in otto, nel tentare di conquistare quelle vesti cadute: patetici, pensò Bright che gettando uno sguardo a quella mandria di pervertiti, si accorse di un unico ragazzo che non fissava Rein, tanto meno lottava sul pavimento per la conquista delle sue vesti. Bright decise che quel ragazzo avrebbe fatto la guardia a Rein. «signorsì.» rispose il ragazzo. Non appena tutti uscirono da quella cella, Rein si rivolse al ragazzo. «Oh, mio nobile soldato, come mai i tuoi occhi non sono vogliosi del mio corpo come tutti gli altri?» lui guardò fisso negli occhi. L’unico forse, tra i soldati, che li avesse mai guardati con così tanta tristezza e gioia di saperla viva da tutti gli sguardi. 
«Anche tu sei una persona come tutti loro, io non ho il diritto di fissarvi come se voi foste un oggetto prezioso in bella mostra, ma se desiderate che io vi guardi nello stesso modo dovete solo chiederlo.» la sua voce tremolava. Ma perché aveva detto “una persona come loro”? Lui non è forse una persona?, si ritrovò a pensare Rein. «perché hai detto “loro”?» chiese convinta. «Ve ne siete accorta? Di solito mai a nessuno importa della parola di un soldato semplice» sorrise timidamente e con la sua voce roca ma allo stesso tempo dolce e suadente attirò Rein nella sua essenza.
Questo ragazzo è puro come nessuno mai lo è stato, pensò. 
La sua statura era normale, degna di un soldato. I capelli neri ribelli domati dal cappello da soldato, il viso dolce e giovanile, dalle gote rosate e le labbra cremisi. Gli occhi erano lo spettacolo più invitante che io avessi mai visto. Due occhi di ghiaccio si nascondevano dietro all'ombra creata dal berretto militare. 
«Non hai risposto alla mia domanda.» sorrise. «Giusto Miss. Io sono un TZ33, uno degli ultimi modelli. Io a dispetto dei miei fratelli ricordo ogni singolo avvenimento del mio passato. Computer ha avuto un malfunzionamento proprio quando doveva cancellarmi la memoria.» lo sguardo sbarrato e le gambe tese, Rein era agitata e sorpresa. «Vuoi dire che ricordi tutto prima di diventare un TZ33? E allora se Bright ti ha ucciso, come mai ti sei schierato con lui?» Lui la guardò gioiosamente. «Per ordine di Mister Pinapsus John. Io in poche parole sono come Shade.» rabbrividì a quelle parole: Shade poteva ricordare? Oh no! Non deve ricordare o sarebbe la fine di questa città corrotta, altrimenti chiamata Risen Village.
Rein ebbe un brutto presentimento che le portò alla mente Fine: "se non mi sbaglio quella volta è stata lei a raccoglierlo dal ciglio della strada e a disattivare i sensori. Stai attenta, Fine" pensò.
«Oh, Miss. Sarà infreddolita! Tenga, le ho portato un vestito di ricambio, una coperta, un asciugamano, del cibo e la chiave delle manette.» disse mentre la slegava da quelle opprimenti catene, ma purtroppo sia mani che caviglie erano rotti a causa del maltrattamento. Capì subito delle caviglie rotte, così la aiutò a sedermi nella tegola che dovrebbe essere stata il letto. Le porse l’asciugamano ma vedendo che provava dolore quando stringeva qualcosa, decise di dare un’occhiata. «I polsi e le caviglie sono rotti, vado a prendere le fasciature e stecche e l’attrezzatura per il gesso, così potremmo tenerli fermi.» si assentò circa due minuti, l’infermeria doveva distare molto. «Eccomi!» s’inginocchiò dinanzi a Rein e con cura fasciò e ingessò le varie fratture.
Tremava ancora: era bagnata. Il ragazzo notandolo, aprì il telo e la avvolse con quello. Era in micro-fibra e così si asciugò subito. Prese l’abito di riserva e glielo infilò delicatamente. Era in lana, perfetto per quel luogo freddo e umido, e per evitare fastidi con il pizzicore di quest’ultima, l’interno era interamente rivestito di raso e pile: era comodo e caldo.
La fece mettere a testa in giù e le avvolse l’asciugamano, quello usato per il corpo, intorno ai capelli in modo da poterli asciugare. Le avvolse la coperta in pile intorno e le pose il vassoio con il cibo sulle gambe, però anche se con i polsi rotti, poteva prendere facilmente il cucchiaino e mangiare la calda minestra alla carne.
Lui nel frattempo si era seduto per terra a guardarla sorridente, così decise di prendere l’iniziativa a parlare. «Ragazzo non so ancora come ti chiami» le sorrise più energicamente e disse: «Io mi chiamo Tom Simmons, astrofisico della marina militare. Piacere di servirla Miss.» arrossì.
Come mai un androide riesce a farmi questo? Il suo sorriso era abbagliante e radioso. Metteva allegria, pensò Rein. «Sei molto gentile Tom, ma io non voglio che tu sia un mio servitore!» la guardò dubbioso. «Voglio che tu sia mio amico» rispose al suo sorriso con uno più spendente. Era in una brutta situazione ma Tom l'avrebbe rallegrata.
«Va bene! Sarò vostro amico Miss.» sorrise a sua volta. 

Questo capitolo è più lungo del solito,
è dedicato a Hinode, che - sicuramente - è l'attimo prima del mattino che più preferisco.

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Capitolo 4
*** Profumo del sapone ***


Profumo del sapone.
Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo. Alcune ci riportano indietro, e si chiamano ricordi. Alcune ci portano avanti, e si chiamano sogni.
Jeremy Irons

“La mia ipotesi allora è fondata: ero già stato in vita una volta. Voglio sapere tutto di quel me, che ormai morto, continuava a vivere attraverso il mio corpo e attraverso me. Chi sa chi ero prima di diventare quel che sono adesso. Avevo una vita? Una famiglia? Ero innamorato? Avevo un lavoro? Una casa? Voglio sapere. La Master! Devo parlare con lei. Forse però non è una buona idea, in fondo le devo tutto. È grazie a lei se sono ancora in vita. È grazie a lei se ora so riconoscere le così dette “emozioni”, stati d’animo che prendono il sopravvento su un corpo e aiutano a migliorare o peggiorare. Adesso non sono più così anomale. Tutto grazie alla Master. Non posso abbandonarla dopo che mi ha salvato la vita e dopo che ho promesso di starle a fianco per la vita. Però forse sono un intralcio per lei, dato che si sposerà a breve. Dovrei togliermi dai piedi, ma non voglio! È un mio capriccio, non mi va di lasciarla a un uomo che non sono io. Ne sono ormai certo: la amo.“

Ne ero ormai certo. Mi alzai dal tavolo trasportando la tazza, ormai vuota, per poi portarla in cucina.
Attraversai la grande soglia e m’incamminai verso la cucina. Lì seduta sul tavolo, con lo sguardo perso nel vuoto e rivolto verso la bianca parete, c’era la donna che amavo. Mi guardò con lo sguardo ancora perso, sorrise e poi scosse la testa per tornare in se. Non capii questo suo comportamento. Mi avvicinai a lei per comunicarle ciò che sentivo, ma mi guardò strano e prima che potessi fare alcun che, prese parola «Ah, Shade! Ho notato che mi mancano alcuni ingredienti per la cena di stasera, mi accompagni fino al villaggio per aiutarmi a reggere le buste? Così ti faccio conoscere anche un po’ il villaggio e i suoi abitanti!» annuii lievemente mantenendo il volto serio e impassibile che rimaneva permanente sul mio volto. Salì al piano di sopra, lasciandomi da solo, di Nuovo! 
Evidentemente si stava preparando. Aspettai in cucina fino a quando non scese. Nella sua semplicità stava bene, aveva una gonna nera con una t-shirt rosa pallido che infilata all'interno della gonna, ne usciva lasciando il bordo all'interno e dando alla ragazza un aspetto elegante e moderno allo stesso tempo. Infilò un cappotto pesante che le arrivava fino alle ginocchia, color grigio felpato e indossò una sciarpa lunga bianca a strisce azzurre, con le frange azzurre. Mi sorrise e mi disse: «Andiamo?» annuii, ma appena arrivai alla soglia mi fermò e prese una sciarpa blu scura dall'attaccapanni di legno da cui aveva preso il suo cappotto e me la infilò e sorridendomi calorosamente, m’invitò a uscire. Mi piaceva tanto, quel sorriso! 
Chiuse la porta a chiave e facendomi cenno con il capo mi chiese di incamminarci. Ero un po’ insicuro al riguardo. La mia pelle si arrossava al freddo e i miei capelli cobalto, nascosti sotto quel cappello nero, si muovevano lentamente alla brezza invernale. La strada era delineata dalle strisce di neve depositate durante la notte. Il paesaggio era mozzafiato.
Guardai la sua figura, minuta di fronte alla mia e pensai che forse anche lei stesse pensando  a come fosse bello quel paesaggio. «Tra poco sarà Natale.» incominciò lei. «Devo comprare un regalo a Pin — si soffermò un secondo — e anche a te». 
«Na…tale?» non ricordavo quella parola ma mi sembrava familiare, in qualche modo. «beh, sì! Il Natale è una festa per chi crede nell'esistenza di Dio, e col Natale afferma la sua nascita, ma di questi tempi non significa più credere in questo: significa scambiarsi regali e passare il tempo accanto alla famiglia. È bello lo stesso.» spiegò Fine che guardandomi con dolcezza, sorrise per continuare a camminare. «Che scempiaggini. Come può esistere un Dio che da tanto dolore e sofferenza anche alle persone più buone.» commentai. «E chi lo sa! Una cosa l’ha fatta se ci pensi.» spostò il suo sguardo verso il celo, con fare riflessivo. «Ha fatto in modo che la tua vita non finisse, ti ha fatto provare tante emozioni e» interrompendola dissi: «e mi ha fatto incontrare te!» La vidi sobbalzare di colpo e girandosi imbarazzata verso di me. Lei annuì sorridendo.
Camminammo per altri due minuti parlando su quali regali fare. Parlava solo lei, io ascoltavo sforzandomi di capire. Dopo poco tempo arrivammo a un promontorio che affacciava sul piccolo paesino. Era come se la Natura amasse quel luogo, abbracciandola con le sue meravigliose e alte montagne. Di fatti la valle si trovava in mezzo delle alte montagne che era come se facessero da scudo al paesino, al quale si poteva accedere attraverso un passo tra le due montagne. Tra quelle montagne scorsi il laboratorio dal quale venivo. Vidi gli occhi di Rein: supplicanti, senza quello splendore che li vivacizzava e contagiava tutti.
Fine mi guardò mi afferrò per mano e indicò un palazzo nero che spiccava tra le case bianche. Si riusciva a notare anche da una grande distanza «Lo vedi quel palazzo?» disse. «Quella è la cava di carbone: Lì lavora Pin.» la sua voce era diventata di colpo triste e malinconica «ed è lì che è morto anche mio padre» ora la sua voce tremolava.  Aveva paura che Pin facesse la stessa fine di suo padre. Le strattonai un po’ il braccio e le feci segno di continuare a camminare.
Arrivati al villaggio, notai una scritta sul cartello di benvenuto: “Benvenuti a Risen Village” e poi scritto a pennarello da un qualche abitante “Il Villaggio Maledetto”. Lo indicai a Fine e lei sobbalzando disse di aspettare la sera. Notai che alcuni, numerosi, abitanti si fermavano a parlare con Fine che sorridendo ricambiava l’affetto che il villaggio le donava. «Mio padre è stato Sindaco per tanti anni, sono praticamente cresciuta tra questa gente». Sorrise compiaciuta della sua notorietà e continuando a passeggiare ci fermavamo in piccoli negozietti per vedere la semplice merce esposta: era bello.
A un certo punto si fermò davanti al palazzo nero, quello dove lavorava Pin e da lì ne uscì una ragazza simile a Fine. Lei la guardò con nostalgia ma anche con un pizzico odio, fino a quando la misteriosa ragazza non scomparve tra la gente per le strade. «Chi era?» chiesi e lei senza guadarmi, rispose a denti stretti un freddo “Nessuno”.
Ormai era quasi buio ed entrambi eravamo stanchi. Si fermò in un bar, Bar Di Velluto, e disse che dovevamo aspettare Pin. Mentre aspettavamo degli uomini si avvicinarono a noi con fare minaccioso. «guardate! C’è la figlia maledetta!» Lei si alzò dalla tavolo in cui era seduta e iniziò a tremare. «Io non sono Maledetta!» urlò lei. «Ah, sì? E come te lo spieghi che il corpo di tuo padre non è stato ritrovato?» Fine sbarrò gli occhi, quasi per trattenere le lacrime. «Io.- » una voce interruppe la sua giustificazione. «Lasciatela stare. Sono stato io a rubare il corpo del suo defunto padre.»
Lo sconcerto cadde tra la folla. «Che cosa stai dicendo Pinapsus John?!» lo sguardo di Fine diventò di ghiaccio. «Tu…» lui le fece un occhiolino e le si parò davanti. La prese per mano e iniziò a correre. Io senza lasciare che la spesa mi cadesse di mano seguii la mia Master: l’avrei protetta a qualunque costo. Li vidi svoltare in un vicolo e così entrai anch’io. Li sentii ridere. 
Loro… Ridevano? «Pin…! Ahah, sei uno scemo!» Prese il sedano dalla busta della spesa che portavo e lo diede in testa a Pin che bloccando il colpo, la avvicinò e la baciò. Ritornammo a casa dicendo che Pin dovesse cambiare nome, lavoro, aspetto fisico, Tutto. Fine divenne meno allegra durante la sera a casa, quando si parlava del fatto che Pin dovesse andare di nuovo a lavoro e dimettersi.
Aveva un sospetto. Forse quello che è chiamato intuito femminile, ma da quel momento Fine non fu più la stessa.
Cenammo con quello che avevamo comprato io Fine nel pomeriggio, si scherzava un po’, ma quell'aria tesa metteva i brividi. Dopo cena ognuno salì in camera propria. Io prima però lavai i piatti insieme a Pin. «Sai…» incominciò Pin. «Voglio…. No. Anzi, Pretendo che tu ti prenda cura di Fine quando non ci sarò più…» Cosa? Che voleva dire? «Oggi… sono riuscito a proteggere Fine, ma domani a lavoro, non me la faranno passare liscia «Che cosa dovrei fare?» dissi mantenendo il tono afono. «Proteggila e falle dimenticare tutto. Di me. Di suo padre. Di Tutto.» il suo tono era terribilmente triste, e il suo sguardo era perso nel vuoto: stava piangendo. «Lo farò.» anche se lo odiavo, l'amore che provavamo per Fine era l'unica cosa che ci accomunava, e che mi permetteva di rispettarlo poiché l'aveva sempre amata e onorata: ma anch’io avei dato tutto per la mia Master.
Andai a letto, controllando prima Fine che per fortuna dormiva tranquillamente. Di notte sognai una ragazza, e non era Fine. 

"Si avvicinò lentamente verso di me, e girandomi intorno mi cinse le spalle da dietro. Si mise in punta di piedi e sussurrandomi all'orecchio disse: «Shade, quando ci sposiamo? Ti sto aspettando da due mesi oramai» Aveva i capelli rosa, che sulle punte divenivano color oro, incorniciati da una coroncina di fiori. Aveva gli occhi azzurri e un lungo vestito ricamato rosa. 
Mi sembrò di amarla tanto, anche se per un solo istante. «Chi sei?» le chiesi. 
Lei, dal canto suo, rispose con una risata «ma come “Chi sei?”! Sono io: Milk!» disse come se fosse un'ovvietà.
«M-milk?» balbettai. Ma non appena mi girai per guardarla, lei non c'era più."

Mi svegliai urlando il suo nome.
 
Rein, invece, da dentro la cella capiva ben poco di quello che accadeva all'esterno. L’unica certezza era Tom: i suoi occhi sul mondo. Grazie a lui, quella cella era diventata quasi piacevole. Lo guardò mentre, come un bambino, dormiva, appoggiato alle sue gambe. Gli accarezzò i capelli pensando che Tom fosse davvero bello. Questo, al contatto, si svegliò e girò la testa e sorridendo le  accarezzò la guancia. Si avvicinò a lei, dolcemente e mantenendo il tono delicato e vibrante, disse un sensuale “Ti Amo”.
La baciò lievemente sulle labbra, come se avesse paura di romperle. Quando quella favola finì, Rein sentì un vuoto dentro, quasi lacerante. Lui è il mio ossigeno oramai, pensò. Tom indossò il cappello da militare e alzandosi, le baciò la fonte, prese il fucile e uscì dalla stanza. Rein sentì i suoi passi leggeri allontanarsi lentamente e altri, pesanti e battenti, avvicinarsi: Bright, pensò. Ma quando vide dei capelli rosa, leggermente dorati alle punte, sbucare dalla finestrella della porta, non ebbe alcun dubbio. «Milk…» sussurrò. La diretta interessata sorrise.
Che bella sensazione, pensò.

Domani mi metterò a scrivere il quinto capitolo - forse, lo spero. 
Questo luuuungo capitolo (rieditato) è dedicato a Fatima, che mi sostiene nonostante io sia molto lavativa.

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