Riflettere la propria immagine dentro una tazza di té

di ToraStrife
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pescare ***
Capitolo 2: *** Cadere ***
Capitolo 3: *** Stelle e Romanticismo ***
Capitolo 4: *** Novantadue minuti di applausi ***
Capitolo 5: *** Passeggiata invernale ***



Capitolo 1
*** Pescare ***


Le mille e uno zen.
Pescare


Un maestro di Aikido e un filosofo erano seduti in riva ad un ruscello, ognuno con una canna, ma non accesa per bearsi di nefasti fumi.
Semplicemente erano canne per pescare. Un po' per guadagnarsi quel pesce quotidiano che avrebbe permesso loro di tirare avanti ancora qualche giorno.

- C'è crisi. - Commentò il maestro, in una frase fatta per sottolineare la carestia che aveva colpito il villaggio. - E c'è chi se ne approfitta. Proprio ieri ho sentito dell'arresto di un manigoldo che si arricchiva truffando la povera gente. Ma la cosa incredibile sono le bugie e le promesse che costui raccontava, e la gente ci cascava lo stesso.

- Perché la cosa ti sorprende? - Chiese il filosofo, accarezzandosi la barba.

- Perché soprattutto, in tempi di crisi, la gente dovrebbe essere più furba e prudente, non il contrario. Soprattutto se si tratta di investire soldi.

- La gente è anche più disperata. - Commentò il filosofo. Poi indicò il fiume, anch'esso vittima della siccità.

Era quasi del tutto prosciugato. In poche, raccolte pozzanghere, si agitavano branchi di pesci.

- Quando non c'è abbondanza d'acqua, è più facile che i pesci abbocchino. Quando scarseggiano viveri e soldi, è più facile che la gente abbocchi.

- E perché da noi non abboccano? - Chiese il maestro di Aikido, guardando la sua lenza perennemente vuota.

- Perché noi siamo troppo onesti. - Concluse il filosofo, abbandonandosi alla quotidiana pennichella.

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Capitolo 2
*** Cadere ***


Zen 2
Cadere

Lei era una ragazza forte, più forte di molte altre. Arrestava criminali, combatteva ingiustizie e difendeva i deboli.
Eppure, anche lei, come tutti, aveva i suoi momenti di debolezza.
Oh, beh, in confronto, come forza di carattere, lei era una quercia e io ero un giunco.
E a dispetto di quel vecchio proverbio cinese, che professa che di fronte alla forza di un uragano le quercie si spezzano e muoiono, mentre i giunchi si piegano e sopravvivono intatti, lei non si piegava mai. O perlomeno, si guardava sempre dal farlo.
Ma anche il più robusto e incassatore dei pugili, se sballottato da una combinazione uno-due-dieci colpi in consecuzione, può avere dei momenti di barcollamento, giramento di testa, confusione mentale, e anche cadere al tappeto.
E allora, prima che sia troppo tardi, deve aggrapparsi anche a una corda del ring, non tanto robusta, un giunco debole come me.
Come quella notte che mi ha telefonato, con quella fatidica domanda.

- Come fai a essere così forte?

La domanda era troppo paradossale. Pensai a uno scherzo.
Ma lei mi spiegò cos'era accaduto.
Sciocchezze, prese una ad una. In tante contemporaneamente potevano sfiancarti, anche perdere fiducia nell'umanità. Anche chiuderti a riccio e isolarti dal resto del mondo.
Ero forse l'ultima porta che aveva deciso di varcare.
Non sapevo tuttavia come risponderle. Come se un topo insegnasse a un leone a tirare fuori i denti.

- Per quanto mi rialzi. - Mi confessò. - Sento che ogni caduta è sempre più profonda. Per quanto mi sforzi per tornare su, ogni spinta è sufficiente a ributtarmi più giu. E' come... - Fece una pausa. - Se la mia vita fosse in continua discesa.

Feci una pausa, riflettendo sulla mia, di vita, e su come avevo sempre imparato a rialzarmi. Alla mia maniera.

- Sai come fanno i gatti? - Esordii. Senza aspetter risposta, continuai. - Mentre cadono, si voltano sempre per cadere in piedi.

- Non capisco. - Mi fece lei, dubbiosa.

- Certe volte la vita, inutile negarlo, è davvero una continua discesa. Ma come gestire la discesa, dipende solo da te. Come quando precipiti da una grande altezza: se diventi dura e rigida come un riccio, finisci spiaccicata sul terreno. Se invece ti mantieni malleabile ed elastica come una palla, hai la possibilità di rimbalzare di nuovo verso la cima.

Non l'ho più sentita personalmente dopo quella telefonata notturna.
Ma ho sentito il suo ruggito, un ruggito di vittoria: segno che non solo la palla ha colto il rimbalzo, ma è volata direttamente a canestro.

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Capitolo 3
*** Stelle e Romanticismo ***


Mille e uno zen 3Notte di San Lorenzo, un cielo pieno di stelle cadenti.

Una coppia di giovani, come tanti, spensierati e innamorati, stesi su una coperta, ad ammirarle.
La donna, che tra i due, era quella romanticona, che amava il lato sentimentale ed emotivo delle cose, sembrava tuttavia insoddisfatta.

- Uffa, mi dici mai nulla di carino, di poetico.

- E che mai dovrei dirti? Del mio amore dovresti già aver certezza. - Rispose il ragazzo, le cui lenti analizzavano con freddezza il manto stellato.

- Ogni volta è la stessa storia. A guardare un cielo stellato, qualsiasi persona normale si fa prendere dalla poesia e dal romanticismo. Ma tu no! La tua scientifica visione delle stelle rovina tutto, ogni volta!  Ma questo bellissimo scenario proprio non ti ispira  proprio nulla di sentimentale? Che so, dire che quelle stelle somigliano ai miei occhi, o che la mia figura somiglia a una qualche costellazione...

- Ma sono bugie e sciocchezze. - Commentò il giovane studente, sistemandosi gli occhiali con un dito. - Perché negare quello che vediamo per quello che è: dei corpi celesti, ammassi di gas e detriti, fenomeni scientifici?

- Perché trovo che renda il tutto terribilmente banale e freddo! - Sbottò la ragazza. E sono stufa di sentire da te, l'uomo a cui ho concesso il mio cuore, delle noiose e insipide lezioni di astronomia.

Per tutta risposta, forse per fare un dispetto, lo studioso partì proprio con una di queste 'lezioni'.

- La velocità della luce è di  trecentomila chilometri al secondo....

- E questo che c'entra? - Chiese sbalordita la donna. Ma il ragazzo continuò.

- .... Non vi è nulla di più veloce della luce. Tuttavia, per arrivare dal sole a noi ci impiega circa otto minuti....

- E questa lezione di scienze ti sembra romantica? - Protestò la ragazza. Ma lui, quasi ignorandola, persistette.

- ...Ed è l'astro a noi più vicino.Se ne deduce che la luce è veloce, ma la distanza tra le stelle è infinitamente più grande. La luce che vedi ogni giorno dal sole è in realtà in differita di otto minuti.

- Mi stai stufando, sai, io me ne vado! - Avvertì la ragazza, spazientita. Fece per alzarsi, ma una mano la trattenne per il braccio.

- Immagina una distanza in migliaia di anni luce. In questo cielo stellato molte di quelle stelle che vediamo potrebbero essere solo luci di corpi celesti non più esistenti da parecchio tempo.

- E con questo? - La ragazza si preparò a dare quell'ultima strattonata che lo avrebbe separato per sempre da quella fredda macchina materialista.

- Ti ho spiegato questo perché spiegare il retroscena pratico di un fenomeno, non ne sminuisce necessariamente la romanticità.

- Cosa ci sarebbe di romantico, in quello che hai detto? - Obiettò la donna.

- Per me guardare questo cielo, in un certo senso, è la possibilità di ammirare non solo esistenze lontane, nello spazio e nel tempo, ma anche i ricordi che ci hanno lasciato.

La donna perse ogni resistenza, e si sedette. Che risvolto inaspettato da parte di quel fissato scientifico. Ma voleva ancora una conferma.

- Ed io?

- Tu sei la stella più vicina a me.

La donna infine sorrise, anzi, si lasciò sfuggire una risatina.

- Che frase banale! - Disse ironicamente.

- Lo so. - Commentò lo studioso, sistemandosi freddamente gli occhiali, nascondendo dietro le lenti spesse la sua espressione.

- Ma... grazie. - Sussurrò la ragazza "stella", appoggiando la testa sulla spalla del suo osservatore più appassionato.

In una banale notte di San Lorenzo.

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Capitolo 4
*** Novantadue minuti di applausi ***


Zen 04
Novantadue minuti di applausi

Tutto il personale del capannone venne radunato nella sala riunioni, uno scarno spazio sistemato alla bell'e meglio con file di sedie di plastica e una decina di altoparlanti disposti in modo da non considerare l'obiettivo di un'acustica perfetta.

Dopotutto, tutta la gente stipata laggiù non lo era certo per sua volontà: quell'ora era pagata, certo, ma la presenza alla conferenza di fine anno era obbligatoria, e le presenze erano garantite da minacciose guardie giurate, armate con tanto di manganello.

Seduti, o in piedi sul fondo, i dipendenti guardavano distrattamente per aria o si concentravano sulle rispettive telefonie mobili.

Un sibilo fastidioso che penetrò irriguardosamente le orecchie di tutti confermò che il noioso discorso del capo, uno straniero in giacca e cravatta, amministratore di chissà quale azienda straniera che aveva rilevato l'ex-proprietario insieme a tutta la folla, iniziasse il discorso.

Un discorso fatto di italiano masticato goffamente, sputacchiando ogni tanto qualche accento tipico della sua amata Berlino.
La nazionalità, tra l'altro, accentuava quella grottesca sensazione, condivisa dai più, di essere agnelli ebrei che ascoltavano il discorso di un ufficiale nazista.
Naturalmente nessuno lo avrebbe mai detto, sarebbe stato un suicidio per la misera carriera.
Là fuori vi erano già mendincanti, poveracci, senzatetto e accattoni, senza un lavoro il destino sarebbe stato quello.
Per lo stesso, identico e comune motivo, tutti preferirono il silenzio durante quello sfoggio di ipocrisia, fatto di pompose parole e reso inascoltabile dal pessimo accento dell'oratore, per non parlare delle audiocasse che fischiavano, quasi facendo le veci del pubblico.

Lo schermo retrostante era uno scorrere di statistiche anonime e grafici impazziti, frasi ad effetto e slogan pubblicitari.
A quei pochi che si interessavano al discorso passava la voglia di ascoltare il resto, una volta capita l'antifona: tanta retorica, tanto falso ottimismo, ma mai una parola su quello che interessava davvero al 'popolo' lavoratore.

Una volta finita l'arringa, il gran dirigente pensò di smuovere la catalessi generale con qualche tocco più vivace.
Lo schermo con le statistiche sparì, e partì il filmato di una regata.
Già l'imprevisto cambiamento, che ai più appariva come i cavoli a merenda, bastò ad attirare l'attenzione generale dei lavoratori.
Una vivace musica rockeggiante, poi, l'immortale We are the Champions dei Queen, destò ancora di più l'interesse.
Si vedevano i vogatori, uniti nel loro tirare avanti e indietro i rispettivi remi, e sulla punta della barca un uomo con il megafono che incitava.

Il dirigente prese a imitare la voce del capovoga.

Il concetto che voleva rappresentare era chiaro: l'azienda è un team, i dipendenti sono i vogatori, il dirigente è il capovoga, e solo lavorando assieme, con il giusto ritmo, si può puntare alla vittoria.

- Noi tutti siamo una squadra. Io e voi siamo compagni! - Urlò entusiasta il capo.

Forse nella teoria che aveva imparato in qualche scuola costosa, questo concetto poteva convincere.
Ma il personale, già provato dai quattro mesi precedenti di lavoro intensivo e straordinario che aveva già succhiato via gran parte del poco tempo libero, non era dello stesso avviso.

Qualche operaio obiettò, coraggiosamente.

- Anche nelle triremi dell'antichità, uno batteva il tempo, e gli altri remavano, e loro erano schiavi!

Un brusio si sparse tra il pubblico, a supportare il dubbio sollevato.

Il dirigente preferì cambiare argomento, e con un bottone cambiò il filmato.

Partì una musica epica, la colonna sonora de Il Gladiatore, per essere precisi, e in tema, apparve il fimato di un'arena e di alcuni gladiatori che si battevano.

- Siamo tutti come gladiatori. Lavoriamo per l'onore e per la gloria.

Lo stesso operaio ribatté di nuovo.

- Chi sputa sangue nell'arena siamo noi, quindi noi siamo i gladiatori. E soprattutto, i gladiatori sono comunque schiavi.

Il dirigente si affrettò di nuovo a cambiare discorso, e filmato: "Cosa vorrei per il nuovo anno", dichiarazioni fatte da alcuni dipendenti intervistati.
Tutto questo mentre, con discrezione, due guardie accompagnavano il presunto sobillatore fuori dalla stanza.

- Vorrei più stabilita nel lavoro.

- Un'azienda più competitiva.

- Orari di lavoro più flessibili.

- Ancora di più? - Commentò qualcuno. - Magari anche le Domeniche?. - Aggiunse tra sé, ma stando ben attento a non farsi sentire.

Il pubblico era più che mai freddo. Erano dichiarazioni improbabili, sembravano più richieste strappate a dei bambini per Babbo Natale.
Poi arrivò quella richiesta.

- Più soldi in busta paga.

Fu un applauso liberatorio. Novantadue minuti di applausi, esattamente come Fantozzi.
Fu l'unico, vero, cenno di vita da parte del pubblico.
L'unico desiderio autentico di tutta la platea.





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Capitolo 5
*** Passeggiata invernale ***


Zen 5
Passeggiata invernale


Esco, mentre tutti festeggiano.

Il calore del focolare è piacevole, ma il chiacchiericcio dei parenti è molesto: li vedo una volta l'anno, e ad ogni festa mi ricordo del perché.

Meglio un freddo autentico che un falso calore. Meglio che soffra la pelle piuttosto che il cuore.
Mi prendo quindi il cappotto ed esco con una scusa.
"La messa", dico, quando fuori ormai è buio.
Non sapevano di questo lato religioso, mi confessano l'ultimo momento prima di abbandonarli.
Neanch'io, se per questo, quella era solo una scusa. La mia meta sarà una golosissima cioccolata con un altrettanto appetitosa ciambella ripiena di ciliegia.
Almeno quella è una dolcezza autentica, rispetto ai loro falsi toni di voce.
Cammino, cammino, mentre il vento freddo mi scompiglia i capelli. Avrei fatto meglio a mettermi un berretto o una sciarpa, ma quando me li tolgo li abbandono sempre in giro e me ne dimentico.
Un po' come i miei parenti, appunto.
Ma gli occhi scrutano di qua e di là, lungo il tragitto. Il paesaggio è ovviamente desolato, chi mai potrebbe essere così folle da affrontare le intemperie, nell'unica occasione di potersi rinchiudere in casa con la Play e i parenti?
Io non ho la Play, solo i parenti, e le chiacchierate dopo un bicchiere di vino si perdono in sproloqui dialettali, luoghi comuni e solite discussioni, i cui toni misantropici e razzisti, a cui per anni non avevo fatto caso, cominciano a darmi sui nervi.
Con la loro assenza ho sempre avuto modo di leggere e interessarmi a cose nuove. Loro no, la solita routine calcio, politica, acciacchi personali.
Se improvvisi loro qualche altro argomento, ti guardano come se avessi parlato arabo.
"Che palle", Mi dico.
Ma non sono l'unico essere vivente nelle strade, pare.
Raggiunto il centro, infatti, l'ambiente diventa più frequentato.
Una ragazza in minigonna trema in attesa del tipo, in evidente ritardo.
Poverina, vestita così azzardatamente, magari per fargli una gradita sorpresa, e lui manco ci farà caso.
E intanto fioccano gli sguardi disapprovanti e i commenti irrispettosi della gente  per bene.
Chissà poi perché "per bene", quando l'educazione insegna che non è per niente "per bene" sparlare della gente che incontri per strada.
Io la guardo con occhi diversi, un po' perché è davvero bella, un po' per compassione per quello che sta passando per un amore che forse neanche la merita. O forse è solo follia, visti l'abbigliamento e il periodo.
Sinceramente, non sapevo se per lei fosse più rigida la temperatura o il giudizio dei passanti.
Passai oltre.
Golosa pausa cioccolato e ciambella, che magicamente mi rimette in pace con il mondo.
Sulla strada del ritorno, passo dal parco.
C'è una pista da pattinaggio a rotelle, di solito abbandonata per dieci mesi l'anno, quando non devastata da teppistelli dell'età del mio nipote più grande, tra graffiti - pardon, scarabocchi spray, che forse il mio nipote li disegnerebbe meglio. Il mio nipote più piccolo. - e biciclette ammaccate.
Invero, vedo una famiglia spensierata che ha portato i figlioletti a pattinare. Lui con un triciclo, lei, più audacemente, con ai piedi dei roller, più pericolanti di un paio di trampoli.
Per compensare, la bimba è più bardata di un cavaliere, con caschetto, ginocchiere e gomitiere (si chiameranno così?).
Lei arranca goffamente sui pattini, controllata ad ogni passo dai genitori.
La madre si preoccupa, "Tesoro, sei stanca?", cerca di suggerire con una falsa scusa, "Se vuoi smettiamo".
Ma il padre, vedendo l'entusiasmo della figlia, è dell'avviso opposto.
"No, dai, ha le protezioni", spiega.
La bambina a un certo punto perde l'equilibrio e cade.
Anche se a dieci metri di distanza, mi lascio sfuggire un "Oh mio dio".
Ma lei si rialza.
Riprova a pattinare, ma cade di nuovo.
Altro sussulto, da parte mia, e da parte dei genitori, ma lei ride.
Mi tranquillizzo, e le faccio un cenno con il pollice all'insù.
Rimettendo le mani in tasca mi allontano, sperando che la coppia non mi abbia notato: è imbarazzante, in fondo non ci conosciamo.
La situazione mi fa riflettere.
Chi pensa che i bambini siano ingenui, fa un ragionamento ancora più ingenuo.
Sono come gli animali, e alla stessa maniera, capiscono e percepiscono molto di più di quanto gli adulti sembrino accorgersi.
E' solo che, proprio come gli animali, possono arrivare ad amare gli altri più di quanto non amino sé stessi. Forse è questa la vera 'ingenuità' che gli adulti hanno davvero perso.

La mia parte adulta continua a rimproverarmi il gesto appena compiuto.
"Gli adulti non fanno gesti agli sconosciuti". E' vero.
Ma è anche vero che quel gesto è stato spontaneo.
Anzi, a dirla tutta, è stato un segno di autentica ammirazione.
Quella bambina ha fatto qualcosa che io, i suoi genitori e il parentame che mi infesta casa in questo momento, possiamo solo invidiare.
Noi, persi nei nostri treni mentali per ogni piccola o grande sciocchezza che la vita ci regala. Spesso, conseguenze di altre sciocchezze, quelle che facciamo noi.

Tornando con aria rassegnata verso casa, passo il tempo a meditare su quella capacità.

Riuscire a ridere dopo una caduta, mi domando chi ancora ne sia capace.



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