Chronicles of Dartmoor: A tale of warlocks, princes and knights

di rosie__posie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ATTO PRIMO. L’ORFANO ZOPPO ***
Capitolo 2: *** ATTO SECONDO. LA SCIENZA DELLA STREGONERIA ***
Capitolo 3: *** ATTO III. LA POLVERE DELL'ARENA ***
Capitolo 4: *** ATTO IV. PERDONATEMI PADRE PERCHE' HO PECCATO ***
Capitolo 5: *** ATTO V. IL CAVALIERE OSCURO ***
Capitolo 6: *** ATTO VI. BALLO A CORTE ***
Capitolo 7: *** ATTO VII. L'ODORE DELLA NOTTE ***
Capitolo 8: *** ATTO VIII. Sulla nuda terra ***
Capitolo 9: *** ATTO IX. SOGNO D’UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE ***
Capitolo 10: *** Atto X. Una notte d'amore ***
Capitolo 11: *** ATTO XI. NELLE SEGRETE ***



Capitolo 1
*** ATTO PRIMO. L’ORFANO ZOPPO ***


L’autrice porge i suoi ringraziamenti e i suoi ossequi alle madonne che l’hanno aiutata nella stesura delle presenti cronache: Polly, Sara e Monica <3

 
 
 
 
 

PERSONAGGI PRINCIPALI (IN ORDINE DI MENZIONE)
 
 
 
 
 
 
John Watson, orfano.

Harriet Watson, sorella di John.

Padre Lestrade, monaco benedettino.

Miss Irene Adler, prima balia dell’orfanotrofio.

Lord Hudson, nobile cavaliere.

Lady Martha Hudson, consorte di lord Hudson.

Mary, orfana e ragazza di John.

Sir Sebastian Moran, cavaliere.

Michael Stamford, mastro pellaio.

Molly, consorte del mastro pellaio e figlia di sir Hooper.

Andrew e Louise, figli di Molly e Michael.

Sir Anderson di Colquhoun, cavaliere e guardia personale del conte Holmes.

Lord Siger Holmes, conte di Dartmoor.

Lord Mycroft, primogenito ed erede del conte Holmes.

Lord Sherlock, secondogenito del conte Holmes.

Trevor, scudiero di lord Sherlock
Lord Henry, arciduca di Baskerville

 

 
 

Questo grido si alzi da tutti i soldati del Signore: è la volontà di Dio!” – Roberto il monaco, riportando il sermone di Urbano II

 
 
 




ATTO PRIMO. L’ORFANO ZOPPO
 
 
 
Grimpen, Dartmoor

 
 
 
Correva l'anno 1421 e avevo diciannove anni.
 
Se, all'epoca, qualcuno mi avesse chiesto di fare un elenco delle cose che mi regalavano più gioia, non avrei saputo da che parte iniziare. Sicuramente le spighe di grano che danzavano al vento sul calar della sera sarebbero state in cima alla lista. Sarebbero sicuramente seguite le corse a perdifiato tra i vicoli e le viuzze del borgo dopo aver rubato una mela rossa e succosa per sfuggire alle grinfie del suo proprietario, fare lo sgambetto a qualche ignaro messo o strillone pubblico intento a decantare chissà quale nuovo editto, il sapore di un boccone di pane divorato dopo giorni di digiuno, o il viso dolce e gentile di una madonna che, per pietà, si offriva di rammendarti i buchi sui gomiti e sulle ginocchia delle tue vecchie vesti ormai logore.
 
L'elenco di quelle che detestavo sarebbe invece stato alquanto ridotto e avrebbe probabilmente incluso solo la puzza proveniente dalle vasche del pesce nel banco al mercato accanto a quello in cui prestavo la mia modesta opera in cambio di vitto (due pasti caldi al giorno) e alloggio (un modesto giaciglio ricavato alla ben’e meglio tra la stalla e il laboratorio di concia del mastro pellaio che aveva avuto pietà di me; un giaciglio che i più avrebbero considerato scomodo e che invece io trovavo caldo e accogliente come un letto a baldacchino imbottito di piume).
 
Sempre secondo i più, avrei dovuto probabilmente includere molti altri punti in questo secondo elenco, ad esempio il fatto di ricordare a malapena il volto di mia madre. Molti sostenevano che fosse una strega perché sapeva curare le persone, molto meglio del cerusico del villaggio. E non si limitava a curarle: le capiva. Ricordo che le sue mani erano sempre calde, quasi bollenti. Spesso erano sufficienti quelle, assieme a un po’ d’unguento, per donare sollievo a un corpo provato.
 
Era dolce, mia madre. Dolce, intelligente, profondamente legata ai suoi figli. E venne arsa viva. Davanti agli occhi miei e a quelli esterrefatti di mia sorella Harriet. Di quell’evento, ho sempre ricordato ben poco, poiché il mio cervello deve aver scelto di rimuoverne il più possibile le immagini. Se chiudo gli occhi, tutto ciò che la mia mente è in grado di rievocare di quel giorno siamo io e mia sorella raggomitolati a terra e stretti l’uno nelle braccia dell’altra, lacrime mescolate alla pioggia umida e ostile, e poi grida, grida e ancora grida. Quelle di mia madre, che urlava a noi tutto il suo amore, prima che il Cielo – o gli Inferi – l'attirasse a sé. Quelle del popolo, che cercava di ricacciare la strega che credeva albergasse in lei nel luogo dal quale era venuta.
 
Io non dissi nulla; non il più modesto e sommesso singulto uscì dalle mie labbra, nemmeno quando un frammento volante di tizzone proveniente dalla pira mi colpì alla base del collo, provocandomi un'ustione i cui segni porto ancora oggi [1].
 
Dopo che mia madre ebbe esalato l'ultimo respiro, padre Lestrade, monaco benedettino, si avvicinò a noi, mostrando il migliore dei suoi sorrisi. Si inginocchiò accanto a Harriet, sfiorandole paternamente i capelli sporchi e arruffati. Ci offrì tutto il suo aiuto, promettendoci che, se non avessimo rinnegato Dio come invece aveva fatto nostra madre, l’Altissimo ci avrebbe aiutato a scacciare il Diavolo dal nostro corpo.
 
Il suo aiuto fu lasciarci nelle mani di miss Adler.
 
 
 
 
 
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Oltre alla morte di mia madre, dovrei rimpiangere l’aver vissuto quasi tutta la mia infanzia nello squallido orfanotrofio [2] in cui padre Lestrade aveva portato me e mia sorella Harriet dopo la morte di nostra madre, le percosse subite in quel luogo freddo e ostile, o gli inverni passati a camminare a piedi nudi tra la neve.
 
Tuttavia, nonostante queste avversità, potevo ritenermi soddisfatto della mia vita sino ai miei diciotto anni. Se esisteva qualcuno o qualcosa, un'entità superiore che vegliava dall'alto e che a volte si faceva beffe di noialtri quaggiù, questa doveva aver provato pietà per me e mia sorella, nel giorno in cui il misero destino a cui le nostre esistenze erano destinate ha incontrato quello di due persone dall'animo caritatevole. O, forse, si trattò solo di due persone che avevano semplicemente "bisogno", ma a me è sempre piaciuto pensare che ci sia stata una briciola d'amore dietro tutto questo.
 
Harriet sarebbe stata con ogni probabilità destinata a prendere i voti se non addirittura a vendere il proprio corpo in una qualche lurida locanda del nostro villaggio o di quelli vicini. E io... beh, io non avrei di certo potuto aspirare a una sorte migliore. Soffrivo di zoppia. Ne soffrivo più o meno da quando ho memoria. Ignoravo se fosse un difetto congenito o se la causa andasse ricercata altrove. Sapevo solo che ogni volta che miss Adler, prima balia [3] dell'orfanotrofio in cui io e Harriet abbiamo vissuto dopo la morte di nostra madre, riversava su di me il suo disappunto o mi picchiava con il suo frustino (o anche quando avevo solo il sentore che ciò potesse accadere), la mia gamba destra iniziava a dolere, prima sotto forma di un formicolio sopportabile, poi come veri e propri spasmi che partivano dal polpaccio e si irradiavano fino a metà coscia.
 
L’orfanotrofio. La nostra casa. La casa della morte… Era così che lo battezzammo.
 
Miss Adler ci ripeteva sempre che nessuno avrebbe mai voluto uno storpio con la sua sorellina peccatrice, che nessuno avrebbe mai avuto pietà di noi. Si sbagliò: qualcuno ebbe pietà di noi.
 
Harry ebbe la fortuna insperata di essere presa come serva alle dipendenze di sir Hudson, un cavaliere nobile d'animo fedele al nostro re. La sua milady, Martha, l'aveva sorpresa un giorno a mendicare qualche soldo al mercato. Era stata colpita dal suo viso scarno e denutrito, ma dagli occhi al contempo vivaci e fieri, nonostante le occhiaie pronunciate. Il suo cuore si era scaldato di compassione quando aveva notato come si era fiondata sotto il banco di un commerciante per agguantare un tozzo di pane caduto dal tascapane di un frate. Il gesto aveva così tanto colpito lady Hudson da avvicinarsi a mia sorella e inginocchiarsi di fronte a lei.
 
"E tu da dove sbuchi, ragazzina?" le aveva domandato con un sorriso dolce. Harriet, spaventata, si era raggomitolata sotto il banco delle carni e, quando lady Hudson si era avvicinata ulteriormente, mia sorella aveva tentato la fuga. Fuga che le venne impedita dal grosso e grasso mercante, che l’aveva afferrata per un braccio apostrofandola come "ladra pidocchiosa". Harriet si era divincolata invano, spaventata a morte anche solo al pensiero di ciò che aspettava coloro che erano sorpresi a rubare: sarebbe stata frustata, messa alla gogna e marchiata a fuoco sulle guance. Nel suo caso non si era trattato di un vero e proprio furto, ma Harry sapeva bene che non sarebbe importato a nessuno. Ringraziando il Cielo, lady Hudson sorprese tutti con il suo intervento. "Lasciatela andare, questa ragazzina lavora per me. Risarcirò io padre Dimmock per il suo pane" furono le dolci ma risolute parole di lady Hudson. Harriet l'aveva osservata con gli occhi sgranati e il respiro trattenuto. Il suo stupore era così grande che, quando il grasso mercante lasciò il suo braccio, ella cadde a terra con un sonoro tonfo.
 
Lady Hudson aiutò mia sorella a rialzarsi e, prendendola dolcemente per un braccio, la trascinò via dal mercato. Harry le trotterellò silenziosamente al fianco, lo sguardo basso e le mani affondate nelle tasche del suo vestito cencioso. Fu solo quando raggiunsero il pozzo che trovò il coraggio di parlare alla madonna, tirando su con il naso. "Io… io non lavoro per voi, mia signora" aveva mormorato timorosa mia sorella, “ma mi piacerebbe”. Lady Hudson aveva sorriso."Allora, da oggi, sì, ragazzina".
 
Harriet aveva fatto di tutto per convincere sir Hudson a prendere anche me, ma il cavaliere non sembrava necessitare dei servigi di uno storpio. Ero grande, ero adulto (a sedici anni mi reputavo già tale) e avrei sopportato essere separato da mia sorella. Sapere che per lei la vita avrebbe avuto in serbo un destino migliore mi avrebbe aiutato a sopportare il mio con il cuore più leggero.
 
Forse, persino le frustate di miss Adler mi sarebbero apparse meno raccapriccianti.
 
 
 
 
 
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La prima volta che mi innamorai fu a quattordici anni. Si chiamava Mary, una giovane orfanella paffuta e dai capelli color del grano che dormiva nella branda accanto a Harriet, quando viveva ancora con me nella casa della morte. Mary era una delle poche persone, al di fuori di mia sorella, con cui riuscivo ad aprirmi. Forse perché avevamo qualcosa in comune: sua madre aveva incontrato l’ira di Dio quand’era stata anch’ella condannata per stregoneria e arsa viva, esattamente com’era capitato alla mia.
 
Era come se provassi per lei una sorta di empatia ricambiata. A Harry non piaceva. Non che disapprovasse Mary in sé; semplicemente non le piaceva il suo continuo cercarmi (a volte morboso), il suo stare sempre seduta accanto a me a tavola, il tenermi per mano quando salivamo le scale la sera verso i dormitori, o il suo ostinarsi a voler curare le mie ferite dopo una delle (soventi) punizioni esemplari di miss Adler.
 
A me non dava fastidio, tutt’altro. Avevo ben due persone che si preoccupavamo per me, della mia salute e della mia felicità. Per un orfano zoppo era la migliore definizione di Paradiso. A volte, me ne stavo raggomitolato nella mia branda accanto alla finestra, facendomi cullare dal suono della pioggia che batteva contro gli stracci e la tela cerata che la ricoprivano [4]. Sognavo di avere una famiglia che mi volesse bene, una casa in mattoni cotti in cui vivere senza timore di essere picchiato, o due gambe sane che mi permettessero di diventare cavaliere. Spesso chiudevo gli occhi, beandomi dell’immagine di me stesso in cotta di maglia ed elmo e lasciandomi trasportare sulle ali della fantasia.
 
Sir John Watson... Suonava bene. Sarebbe stato il mio desiderio più grande. Assieme a quello di trovare l'amore. Quello vero. Che ti sconquassa le viscere e ti brucia l'anima con la sua indicibile passione. Quello per il quale venderesti te stesso al Diavolo e a tutti i suoi demoni servitori, senza pentirtene mai, nemmeno per un sol attimo fino all'Apocalisse.
 
Ma gli orfani zoppi non ottengono una nomina a cavaliere. Gli orfani zoppi non ottengono proprio nulla.
 
Dell’amore sapevo ben poco. Le mie nozioni si riducevano a un mazzo di fiori di campo, una breve passeggiata mano nella mano nei pomeriggi estivi e piccoli baci a stampo regalati sulle labbra.
 
Del sesso, sapevo di più, invece. Non con Mary, no. Non subito, almeno. Grazie a miss Adler e alle sue attività di intrattenimento fisico a pagamento (io e Harry le avevamo battezzate così) che si tenevano nelle sue stanze, nelle cucine (la notte, quand’erano sgombre) e in altri locali di dubbio utilizzo. Io e Harry vi assistemmo per caso una sera. Non ne facemmo menzione ad anima viva in quanto, a quell’ora, avremmo dovuto essere nelle nostre brande da un bel pezzo. Quindi, rimanemmo zitti e con le labbra ben cucite, troppo timorosi di miss Adler e, soprattutto, del suo frustino. D’altro canto, non erano nemmeno affari nostri. Io avrei fatto volentieri a meno di assistere, quella prima volta, ma Harry mi bloccò il braccio, facendomi accucciare accanto a lei dietro i sacchi della farina e rendendomi partecipe del suo desiderio di conoscere.
 
Ricordo che, a un certo punto, quando il viso della donna (perché di una femmina si trattava) si intrufolò nelle cosce sinuose e spalancate di miss Adler mentre quest'ultima inarcava la schiena e con entrambe le mani strizzava i suoi seni nudi, serrai i miei occhi con tutta la forza di questo mondo e cercai di fare altrettanto con quelli di Harry, coprendoli con il palmo della mia mano, ma mia sorella lo scagliò via di prepotenza. Ricordo anche che, sebbene fu facile impedire ai miei occhi di vedere, non lo fu altrettanto con le mie orecchie. I gemiti di miss Adler via via più acuti mi entrarono nella testa, rimbombando con la stessa intensità delle campane a mezzogiorno e soggiogando al loro volere ogni mio buon proposito. E fu così che capitolai e peccai, aprendo anche io gli occhi e lasciando che a vincere fu la volontà della carne, o, meglio, della curiosità.
 
Vedemmo miss Adler accettare un piccolo sacchetto di pelle, una volta conclusosi l’incontro. La vedemmo aprirlo, riversarne il contenuto (monete) sul tavolo (avevo dimenticato di dire che il suddetto incontro si era svolto contro il tavolo più piccolo nella cucina) e contare avidamente prima ancora di rivestirsi.
 
“Harriet?” le domandai più tardi, mentre mi infilavo nella mia branda. “Che c’è?” chiese lei di rimando, scorbutica, mentre mi rimboccava la coperta. “Quello che abbiamo visto...” iniziai io, le gote che si tinsero prepotentemente di rosso. “Non dobbiamo dirlo a nessuno” mi interruppe lei, con aria severa e portandosi l’indice alle labbra. Io annuii piano. “Harriet?” domandai poi. “Cosa c’è ancora, di grazia?” “Era amore, quello?”
 
Mia sorella sospirò, prima di passare una mano sulla mia zazzera biondo cenere e scompigliarla, le labbra atteggiate in un lieve sorriso. “No, John. Era solo sesso, quello.” Non le dissi mai nulla perché me ne vergognavo, ma dopo che Harriet andò a vivere da sir e lady Hudson, cedetti altre volte alla “curiosità” e lasciai che miss Adler, senza che lei ne fosse a conoscenza, mi guidasse nella scoperta del sesso. A volte erano uomini, altre donne. Altre volte ancora erano ben più di una sola persona.
 
Miss Adler non mi scoprì mai. Uno dei suoi frequentatori (un cavaliere dai lineamenti sensuali, virili eppure sinistri [5] al tempo stesso, che rispondeva al nome di sir Sebastian), invece, sì. Ma questa è un’altra storia che racconterò in seguito…
 
 
 
 
 
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Facevo regolarmente visita a mia sorella una volta al mese e, quando sir Hudson non era in casa e riusciva a mettere le mani su uno dei suoi cavalli nella scuderia, era invece lei a venire a trovare me. Ci davamo appuntamento al pozzo, quando io abitavo ancora nell’orfanatrofio. In seguito, dopo che andai a vivere dal mastro pellaio, mi veniva a trovare al mercato, di giorno, oppure la sera. Un colpo seguito da altri tre più veloci alla porta della stalla. Il segnale che era lei.
 
Durante le mie visite mensili, lady Hudson ci faceva stare nelle cucine e dava ordine alla cuoca di prepararmi qualcosa di caldo, soprattutto nelle fredde giornate invernali. Io accettavo sempre di buon grado. Parlavamo per ore, riscaldati dall’affetto che provavamo a vicenda e dal fuoco vivace che crepitava nel grande camino alle nostre spalle. Lady Martha aveva preso in simpatia mia sorella che, ben presto, era diventata la sua dama di compagnia. Forse le ricordava la figlia che non aveva avuto…
 
“Magari io e lady Hudson potremmo convincere sir Hudson a...” iniziava regolarmente Harry ogni volta che andavo a trovarla. Se ne stava a osservarmi divorare la mia zuppa silenziosamente per qualche minuto, spesso stringendo tra le mani un calice di quella bevanda inebriante e da me totalmente disapprovata che si chiamava vino, poi partiva alla carica. “Va tutto bene, Harry. Io sto benissimo” erano sempre le mie battute, mentre soffiavo sul cucchiaio di zuppa bollente evitando di incrociare il suo sguardo e cercando di apparire convincente; “sir Hudson non ha bisogno di uno zoppo.”
 
Sir Hudson non avrà forse avuto posto per me, ma conosceva a chi potessi tornare utile: il suo pellaio di fiducia, mastro Michael Stamford. In cambio di offrire la mia opera nella misura in cui potevo (sia al mercato che nelle attività di concia delle pelli) mi avrebbe offerto vitto e alloggio, sebbene con alloggio intendesse come già detto un giaciglio non troppo comodo ma nemmeno troppo scomodo nel suo laboratorio-stalla. Accettai di buon grado, poiché sulla buona sorte non si sputa e, per essere totalmente onesti, qualsiasi cosa era preferibile alla tirannia di miss Adler. Persino la puzza del pesce proveniente dal banco attiguo al nostro al mercato, o quella che impregnava le pareti del laboratorio di concia senza lasciarle mai libere, nemmeno di notte.
 
Sostanzialmente, il mio compito nelle attività di concia di mastro Stamford era il seguente [6]. Il primo passo consisteva nell’inchiodare la pelle grezza a uno steccato. Poi applicavo una buona dose di sale e rimuovevo eventuali bolle di grasso. Le pelli rimanevano solitamente a respirare per un paio di mesi, trascorsi i quali procedevo a staccarle dall’assito, lavarle – più e più volte, in modo da togliere via il sale – e a rinverdirle in modo da conferire alle pelli l’acqua perduta durante l’essicazione.
 
Le successive operazioni di preparazioni alla concia, come la scarnatura o la decalcinazione, e la concia vera e propria erano esclusiva spettanza di mastro Stamford, all'inizio.
 
Sulle prime, non mi lasciava quasi nemmeno avvicinare al locale di concia, mentre era impegnato in queste fasi, poi, dopo quasi un anno che ero con lui, iniziò a reputarmi più affidabile e prese via via ad affidarmi altri compiti, oltre a quello di pulire e tirare a lustro le vasche, come aiutarlo a tagliare o cucire le pelli grezze per trasformarle in borse, brigantine o fodere.
 
Michael Stamford era una persona d'onore e buona come il pane. Tutta la sua famiglia lo era. Dopo due anni che vivevo con loro, potevo dire d’essermi affezionato a ciascuno di loro. A mastro Michael, sua moglie Molly e i loro due piccolini, Andrew e Louise. Non passava giorno in cui non mi chiedessi che cosa impedisse a mastro Stamford di sbarazzarsi di uno zoppo che, per molti, sarebbe stato solo un peso. Forse perché ero bravo a maneggiare le pelli. O forse perché ero un ragazzo affidabile, che non parlava molto e a cui era sufficiente una tazza di zuppa d'avena e miglio per arrivare a sera.
 
Mi piaceva addirittura pensare che fosse anche perché alla famiglia Stamford piaceva godere della mia compagnia dopo cena, quando, seduti accanto al fuoco, raccontavo ai bambini storie della ninna nanna partorite dalla mia fantasia. La loro preferita, ricordo ancora, era Sir Boast-a-Lot e l’avventura delle erbe mediche. Credo che madonna Molly, in particolare, fosse grata del mio ascendente positivo sui bambini, poiché ricambiava dando il massimo per cercare di insegnarmi un po' a leggere e scrivere, cosa di cui non avrei potuto essere più grato.
 
Madonna Molly era anch’ella figlia di un nobile cavaliere. Aveva ricevuto una buona educazione presso una scuola monastica e, pertanto, in casa Stamford carta di cenci, corni contenenti inchiostro e penne d'oca non mancavano. Compresi alcuni libri che sir Hooper, suo padre, e i suoi uomini si erano procurati razziando un monastero cattolico nella contea di Kent.
 
Tra essi, Il Libro, la Bibbia. Ne sfogliavo le pagine e, insieme a madonna Molly, facevo del mio meglio per ricopiare le lettere sulla carta. File di a, di b, di c... Non perché fossi un fervente cristiano, tutt'altro. Quando, con gli occhi ancora gonfi d'innocenza,  assisti alla morte di tua madre condannata al rogo secondo il volere di Dio perché le sue mani hanno cercato amorevolmente di alleviare il dolore della gente, semplicemente finisci col perdere per strada un po' della tua fede. E anche della tua innocenza...
 
Tuttavia, ho sempre ritenuto che Il Libro fosse gravido di storie che valesse la pena raccontare e raccontarsi. Dunque, facevo del mio meglio per assorbire avidamente tutti gli insegnamenti di madonna Molly, arrabbiandomi con me stesso quei giorni in cui sembravo fare passi indietro anziché migliorare.
 
Di sovente, finivo i miei compiti a notte fonda, quando ormai la candela che mi faceva luce sul tavolo da cucina si era ridotta a niente più di un moncherino, gli occhi che mi dolevano per lo sforzo. Altre volte, crollavo esausto sui fogli, addormentandomi come un bambino. In quelle occasioni, finivo per destarmi alle prime luci dell'alba, quando l'eco delle campane della cattedrale preannunciava dolcemente l'inizio di un nuovo giorno. Immancabilmente, mi ritrovavo con una soffice coperta che mi copriva le spalle, dono della dolce e cara madonna Molly.
 
Non solo adoravo leggere storie, ma anche gustarne di nuove. E quando i libri di sir Hooper non mi soddisfacevano, chiedevo aiuto alla mia fantasia. Lontano da occhi indiscreti e trovando ispirazione nei giochi di ombra che la luce tremula di una candela creava sulle pareti della stalla, tessevo nuove storie che avrei poi narrato ai piccoli Andrew e Louise. Storie ricche di intrighi, misteri, inseguimenti a perdifiato e talvolta persino veri e propri draghi sputa fuoco. Storie ricche del nobile e romantico sir John Watson...
 
 
 
 
 
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Avevo accennato all'amore, al sesso. A Mary. Lei fu la mia prima. E, riflettendoci, in un certo senso anche l'ultima. Dopo un anno, un anno e mezzo, che ero andato a vivere da mastro Michael, io e Mary non ci limitammo più alle passeggiate mano nella mano, a raccogliere mazzolini di fiori di campo, o a inseguire le farfalle. Non dopo tutta l'innocenza che i miei occhi avevano perduto davanti a miss Adler e ai suoi innumerevoli amanti.
 
Il mio corpo e il mio cuore non stavano più nella pelle di toccare con mano, di scoprire se il sesso (come lo chiamava Harry) o l'amore (come lo chiamavo io) potesse essere un'esperienza così sconvolgente.
 
La prima volta accadde in un prato, appena fuori le mura. Si avvicinava il crepuscolo e il cielo vespertino iniziava a tingersi di quella sfumatura di cremisi che mi ricordava le fragole selvatiche mature. Era perfetto, mi dissi, per spogliare Mary con mani tremanti e il petto gonfio di aspettativa. Era perfetto per sfiorare per la prima volta il corpo di un'altra persona con le mie labbra e la mia virilità. I baci, le carezze, la saliva, i palpiti...
 
Era perfetto per scoprire che tutto quello era soltanto e semplicemente grazioso.
 
Ricordo poco delle nostre altre volte. Dove avvennero, o che cosa provai. Ricordo benissimo, invece, la nostra ultima.
 
"Sir Anderson mi ha domandata in moglie, John" disse Mary. "Mhm... Certo" dissi io, con le labbra sul suo collo e una mano sul suo seno, il capezzolo turgido che solleticava il mio palmo. "Sto parlando seriamente, John." Mary alzò di più la voce, scostando il mio braccio e mettendosi a sedere. Eravamo sdraiati per terra nel laboratorio di concia di mastro Michael, dove avevo da poco finito di pulire le vasche in mattoni. "Oh..." fu il mio unico commento. Mi stropicciai distrattamente i capelli corti e mi tirai a sedere anch'io. "Conosci sir Anderson, John?" domandò Mary, stringendosi le ginocchia al petto. Una pennellata di rossore andò a tingere le sue guance. Non seppi dire se la causa fosse il pesante imbarazzo che si stava per instaurare tra noi, o il nome di sir Anderson che, per qualche inspiegabile motivo, le faceva tremare il cuore.
 
Certo che lo conoscevo. Lo conoscevo e non lo sopportavo. Quel giovane e spocchioso sir Anderson Dal-naso-grosso di Colquhoun [7], guardia personale di lord Siger Holmes, conte di Dartmoor. Probabilmente il messere più irritante sul quale i miei occhi si siano mai posati. Anche più del visconte Mycroft.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Era una nebbiosa mattina di inizio novembre quando mi recai al castello per la prima volta. La nebbia era così spessa che scorgemmo la pesante porta in doppio strato di quercia decorata con le imponenti borchie in ferro soltanto quando il nostro carro rischiò di andarci a sbattere contro, esattamente nel momento in cui la campana della cattedrale suonava il settimo rintocco. Ci identificammo come mastro Stamford e il suo aiutante venuti a consegnare al conte Siger il cuoio da lui richiesto e la guardia all’ingresso aprì il portone.   Ricordo che mi sentivo tremendamente nervoso mentre aspettavamo l’arrivo del fante che ci avrebbe fatto strada. La gamba mi doleva e riuscivo a trovare un po’ di pace soltanto martoriandomi le unghie.
 
Non ero mai stato a cospetto di un nobile e nemmeno avevo mai incontrato qualcuno di più nobile di un cavaliere. Mi sentivo inadeguato dalle ciocche dei miei capelli alle punte dei miei piedi, nella mia tunica di lana e calzebraghe robuste. Lasciammo il carro nel cortile e il fante ci fece passare attraverso l’entrata destinata alla servitù. Mastro Stamford seguiva a passo rapido e sicuro il fante, io seguivo il mastro trascinandomi a fatica la gamba matta e tenendo lo sguardo incollato a terra. Percorremmo un intricato dedalo di corridoi per una decina di minuti buoni, fino a quando, giunti a una porta chiusa contro la quale bussò un paio di colpi, il fante si congedò. E noi venimmo inghiottiti in un salone che era totalmente e inesorabilmente quanto di più bello avessi mai visto: i soffitti erano ampi e a volta, le pareti erano decorate da drappi di velluto e arazzi di mille colori, il pavimento in assi di legno che cigolavano sotto il nostro passo era ricoperto da preziosi tappeti. Qua e là erano appese delle torce per rischiarare il salone altrimenti buio. Infine, notai un paio di bifore chiuse addirittura da veri e propri vetri, non da stracci o cenci. Ovunque, aleggiava un buon profumo di vaniglia. Ricordo di essermi lasciato sfuggire un “Oh” di meraviglia quando entrammo del salone, esclamazione che mi fece guadagnare un’occhiataccia da parte di Stamford.
 
Mastro Michael si trovava a suo agio con il conte, essendo suo fornitore ufficiale di pelli da diversi anni. Un po’ meno con il suo erede, il visconte Mycroft [8]. Il padre era un uomo basso e tarchiato, il figlio alto e dal viso lievemente rotondo ma con un interessante naso affilato. Gli occhi del primo allegri ma cerchiati dalle occhiaie, quelli del secondo penetranti e fieri. A volte, il conte pareva estraniarsi in un mondo tutto suo, seduto sul trono in legno di quercia e ferro battuto. Il visconte, invece, era perennemente attento e vigile. Vigile nei confronti del padre, soprattutto: lo sguardo emaciato del conte non era sfuggito a me, dunque le sue precarie condizioni di salute non dovevano essere sconosciute al figlio.
 
Non che il visconte Mycroft Holmes fosse spaventoso; era semplicemente mellifluo, imperturbabile [9].
 
Ricordo che sir Anderson era rimasto per tutto il tempo in un angolo, con la mano destra stretta all’elsa della sua spada e gli occhi gelidi incollati alla mia schiena. Fu subito antipatia reciproca, la nostra. Ne avevo già incontrati di tipi come lui, nella mia vita (il mercato poteva essere una preziosa finestra sul mondo). Viscidi, approfittatori. Stupidi. Di quelli che, per contro, si ritengono le creature migliori della Terra.
 
Sir Anderson si convinse d'esserlo ancora di più quando incespicai in un inginocchiatoio e feci cadere una pila di fodere in cuoio per draghe che stavo portando al cospetto di lord Mycroft affinché le esaminasse.
 
“Il vostro servo, mastro Stamford, deve possedere braccia storpie esattamente come lo sono le sue gambe” disse sir Anderson mentre aiutava lord Mycroft a togliersi di dosso un paio di fodere che gli erano cadute rovinosamente in grembo. Mi sentii avvampare sino alla punta delle orecchie e, mentre un baluginio di orgoglio mi accendeva gli occhi con un'intensità di sicuro superiore a quella delle torce che rischiaravano il salone, sentenziai a denti stretti che “ne avevo solo una, di gamba zoppa.”
 
Stavo per pagare caro il mio atto di... idiozia poiché sir Anderson sfoderò la spada e si avventò su di me sibilando un "Come osi, bastardello insolente?"
 
Lord Mycroft sorprese tutti noi alzando pigramente una mano verso il suo messere, fermandolo e mettendolo a tacere. "Sir Anderson, suvvia, non è questa la sede di banali scaramucce" disse il visconte, non muovendo un sol muscolo a eccezione di quello che aveva comandato alla mano di alzarsi. "Questo ragazzo è giovane e inesperto. Sono certo che non voleva mancarmi di rispetto" disse, tenendo gli occhi chiari fissi nei miei e parlando muovendo le labbra quasi impercettibilmente. Erano freddi e penetranti come pugnali, quegli occhi, e io vi specchiavo dentro i miei senza timore, tenendogli fieramente testa.
 
Poi, di scatto, mastro Stamford si inginocchiò accanto a me e, tenendo il capo chino, domandò a lord Mycroft di accettare le mie e le sue scuse. Il mio corpo tremò appena e mi sorpresi a votarmi al Signore – quel Signore che disconoscevo – affinché non accadesse nulla al povero mastro.
 
"Accetto le vostre scuse, mastro Stamford, e anche quelle del ragazzo." Michael mi dette una gomitata e io chinai il capo, farfugliando un "Vogliate scusarmi, Vostra Grazia." Un'alzata di sopracciglio. "E anche voi, sir Col-chi-oun." Sir Anderson sospirò e alzò gli occhi al cielo, stizzito. "Si pronuncia Ca-uun, bifolco!" [10]
 
Lord Mycroft alzò nuovamente una mano, per calmare i bollenti spiriti di sir Anderson, e le sue labbra si atteggiarono a uno strano ghigno sghembo, prima di dischiudersi e dire: "Ma che non recapiti mai più."
 
Mastro Stamford venne rapidamente pagato per le sue fodere e pelli grezze e, poco dopo, fummo scortati fuori, lo sguardo velenoso di messer Anderson minacciosamente incollato alla mia nuca. Il conte Siger, con la sua aria distante, sembrò non essersi accorto di nulla.
 
Ricordo di aver pregato il mastro di accettare le mie scuse più sincere, mentre montavo sul carro. Ricordo anche che lui mi sorrise, con uno dei suoi caldi sorrisi contagiosi che gli riempivano tutto il viso e l'intero corpo. "Lord Mycroft ha visto qualcosa in te, quest'oggi" disse Michael, prendendo in mano le redini. Io non replicai, non essendo certo che fosse qualcosa di buono.
 
Ero invece certo che la mia persona fosse stata etichettata come potenzialmente non gradita all'interno del castello. Come potenzialmente da tenere d'occhio.
 
Per qualche tempo, mi sbagliai. Fino a quando non arrivò Sherlock...
 
Ma procediamo con ordine.
 
 
 
 
 
 
 
In quel momento, non riuscivo a togliermi dalla mente che le mani sgraziate e tozze di sir Anderson avrebbero carezzato i turgidi e bianchi seni di Mary. Le sue labbra simili al becco di un rumoroso picchio avrebbero incontrato quelle carnose della mia donna. Per non parlare della lingua. O del suo sesso...
 
Le mani mi prudevano e il sangue mi ribolliva sino alle tempie. "Apparterrai a quell'uomo, Mary! Vuoi davvero che quel Col-chi-houn con le sue manacce ruvide ti possegga per il resto dei tuoi giorni?" sbottai, stentando a credere alle mie orecchie. "Anderson è un cavaliere di nobile famiglia, John. Soprattutto, è in grado di badare a me e darmi un futuro più che decoroso." Una pausa. "Lui non è storpio."
 
E mentre Mary si tirava in piedi e iniziava a ricomporsi, per la prima volta in vita mia capii cosa volesse dire sentire il proprio cuore infrangersi in pezzi infiniti, appassendo come un fiore lasciato a lungo senz'acqua.
 
Non è storpio...
 
"E, comunque, si dice Ca-uun!" Queste furono le ultime parole di Mary, prima di uscire dal laboratorio di concia e anche dalla mia vita. Rimasto solo, boccheggiai un paio di volte in cerca d'aria.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
La famiglia di mastro Stamford aveva l'abitudine di pregare ogni giorno l'Altissimo ai sei rintocchi della mattina, prima di dare inizio alle faccende giornaliere, e di recarsi a Messa alla cattedrale, ogni domenica. Non iniziai subito ad accompagnarli: dopo anni di presenze forzate alla Messa tenuta nella piccola cappella dell’orfanotrofio, desideravo solo dimenticarmi di ogni frate, suora o monaco sulla faccia della Terra.
 
Li aspettavo a casa, preferendo portarmi avanti con le mie mansioni, oppure allenandomi nei compiti di lettura e scrittura. Poi, madonna Molly dette inizio a una lunga opera di corteggiamento, se così si può definire, parlandomi della profondità delle letture del Vangelo, di come ognuno di noi fosse chiamato dall'unico vero Dio a rigettare le tentazioni del Demonio e, infine, del carisma di padre Lestrade, un uomo buono e giusto, a suo dire.
 
Padre Lestrade, il monaco dal viso attraente e affabile che aveva condannato mia madre al rogo... Ecco chi era per me.
 
Tuttavia, pensando a quanto facesse madonna Molly per me, alla fine cedetti e una domenica acconsentii ad accompagnare la famiglia Stamford alla cattedrale. Ammetto più per curiosità e obbligo nei confronti di coloro che erano stati così caritatevoli nei miei confronti, che per un vero richiamo della fede.
 
Io e Harriet fummo fortunati, non potevo certo negarlo, e ho sempre creduto che ci fosse davvero un'entità che permise tutto questo, che guardò verso di noi allungando una mano, mossa da insperata compassione. Tuttavia, dove albergasse questa entità non mi fu dato saperlo per parecchio tempo.
 
Il sermone di padre Lestrade, la prima volta che mi recai alla cattedrale, fu senza dubbio una delle orazioni più sorprendenti ascoltate dalle mie orecchie in tutta la mia vita. Un'orchestrazione di vocaboli e termini a me pressoché sconosciuti, ma indubbiamente appassionanti e trascinanti.
 
Perdizione, redenzione, colpa ed espiazione. Tutto ruotava attorno a queste quattro parole, secondo padre Lestrade, che le pronunciava con così tanta passione e ardore che le vetrate della casa di Dio parevano quasi vibrare sotto la potenza della sua voce.
 
Avevo preso l'abitudine di accompagnare la famiglia di mastro Stamford a Messa da poco più di un mese quando ebbero inizio gli avvenimenti oggetto del mio racconto.
 
Me ne stavo seduto su una panca nella navata laterale destra, in un angolino buio rischiarato solamente dalla luce fioca e tremula di due ceri che si stavano pian piano esaurendo, a rimuginare con occhi sbarrati e fronte corrugata sulle parole pronunciate da padre Lestrade nel suo sermone sulla lussuria e la sodomia, cercando di attribuire a esse il significato più appropriato, quando successe. Una delle cose più belle su cui il mio sguardo si sia mai posato. La meraviglia delle meraviglie.
 
Era un viso regale e aggraziato, nonostante l'apparente durezza dei lineamenti. Erano riccioli corvini che ricadevano sulla fronte alta e spaziosa come grappoli d'uva matura. Erano due occhi chiari come il ghiaccio, ma profondi e vivaci quanto un ruscello in primavera, nel pieno del disgelo. Erano due labbra marcate e turgide quanto il seno di una madre.
 
Credo d'essere rimasto impunemente a bearmi di quella singolare visione per un tempo indefinito, con la bocca appena dischiusa, per lo stupore e l'ammirazione, e uno sguardo smarrito dipinto negli occhi, tant'è che, assorto nei miei pensieri, non mi accorsi che dal sermone si era passati ai canti.
 
Non avevo notato subito quel ragazzo. Almeno, non prima che si voltasse verso il fondo della navata dal suo banco in prima fila.
 
Stavamo cantando l'Inno del Signore quando qualcosa doveva aver catturato la sua attenzione, costringendolo a voltarsi. Forse un rumore non gradito, ma io propendo di più per una nota stonata eseguita da qualcuno dei fedeli durante il canto. Fu la luce nei suoi occhi a colpirmi, così come le sue labbra perfette che si aprivano e si chiudevano, danzando al suono dell'organo.
 
Lo sguardo contrariato e di disapprovazione che il misterioso quanto affascinante sconosciuto rivolse a tutti noi fedeli durò solo una manciata di secondi, prima di voltarsi nuovamente verso l'altare, con fare annoiato. E fu allora che i nostri occhi si incrociarono. Le sue iridi chiare abbracciarono le mie più scure.
 
Fu un attimo. Fu una frazione di secondo. Fu fugace quanto il battito delle ali di una farfalla che guarda il mondo con occhi nuovi. E fu meraviglioso. Provai qualcosa in quel momento, quell'esatto momento –quegli esatti due secondi, li contai – in cui il tenebroso sconosciuto tenne fermo il suo sguardo su di me. Un formicolio alle guance e uno strano calore allo stomaco, ecco che cosa provai.
 
Riuscii a sentire nitidamente i suoi occhi che mi scandagliavano e mi penetravano, catalogandomi forse come nuovo volto, nuovo fedele o solo come curioso popolano.
 
Fu come deliziare le proprie orecchie con la più celestiale delle melodie, o cibarsi del più prezioso nettare degli dei. E, come tale, quando i suoi occhi si sganciarono da me per tornare a posarsi su padre Lestrade, la caduta dal Paradiso agli Inferi fu rapida e straziante.
 
"Chi è... Chi è quel ragazzo?" sussurrai all'orecchio di madonna Molly. Non mi curai del fatto che gli altri fedeli stessero ancora inneggiando le proprie lodi al Signore. Nemmeno del fatto che potessi arrecarle un qualche disturbo. Dovevo sapere. Madonna Molly portò fugacemente lo sguardo nella direzione dei miei occhi, per poi riportarlo esattamente dove dovesse stare, verso padre Lestrade. "È il figlio minore del conte Siger Holmes, lord Sherlock" bisbigliò la donna di fretta.
 
Sherlock.
 
Lord Sherlock...
 
Mai un nome era sembrato tanto bizzarro quanto vera e propria ambrosia alle mie orecchie. Nessuno mai prima di questo. Non avevo mai sentito parlare di lui, prima di quel giorno.
 
"Credevo... Credevo che lord Siger avesse solo un figlio maschio" bisbigliai più a me stesso che a madonna Molly.
 
"Lord Sherlock ha trascorso diversi anni a Londra, presso la corte del cugino del conte, il duca di Moriarty [11]" disse madonna Molly al mio indirizzo, celandosi la bocca con il palmo di una mano.
 
Mi sorpresi a rammaricarmi del fatto che lord Sherlock fosse rimasto così a lungo lontano da Dartmoor, poiché una creatura così bella meritava d'essere ammirata più e più volte. Non soltanto da me, ma dalla contea intera.
 
Quando la Messa giunse al termine, mi sorpresi a correre fuori dalla cattedrale, spintonando con poca creanza i malcapitati fedeli che avevano avuto la sfortuna di incrociare la mia strada, mormorando scuse di circostanza.
 
Volevo vederlo. Volevo che i miei occhi si cibassero di lui un'ultima volta.
 
Mi sentii quasi posseduto, indemoniato. E, per la prima volta, iniziavo a sentirmi affine con le omelie pregne di fuoco di padre Lestrade.
 
Non saprei dire che cosa mi catturò subito in lui. Forse i suoi occhi così vivi e intelligenti. O forse la parola solitudine che sembrava aver cucito addosso, in ogni più piccolo brandello di pelle. Probabilmente ogni cosa attrasse la mia attenzione. Possedeva l'ardente esaltazione di un demone imprigionata nel corpo di un angelo. Era questo che mi trasmetteva il suo corpo, il suo sguardo. Era questo che aveva fatto fremere la mia carne in quei pochi attimi in cui avevo percepito una sorta di connessione tra noi.
 
Lo vidi seguire suo padre e montare in sella a un destriero nero dal manto lucido come la più preziosa delle stoffe, dandomi le spalle. Rimasi imbambolato a guardarlo, con le braccia distese lungo i fianchi e le labbra appena dischiuse.
 
Lord Sherlock montò in sella, prese la briglia tra le mani e si bloccò. Lo stavo ancora osservando mezzo inebetito, come se fossi stato sotto l'effetto di una qualche fattura, quando lo vidi voltarsi e guardarmi. Ci fissammo di nuovo negli occhi, come avevamo fatto poco prima durante la funzione. Fu come se ci stessimo parlando silenziosamente. E io mi sentii avvampare per essere stato scoperto con le mani nel vaso della marmellata, come un bambino.
 
Poi Lord Sherlock fischiò, strattonò il cavallo e andò via al trotto, lasciandomi da solo, a osservarlo scomparire tra la gente. Sentii improvvisamente freddo in tutto il corpo. Poi una mano afferrò la mia spalla. "Sei qui, di grazia!" Era mastro Stamford, che mi guardava con il viso sudato e l'aria preoccupata. "Io stavo..." mi guardai attorno, ma di Lord Sherlock e del suo magnifico destriero non c'era più traccia. Fu come fossero stati inghiottiti nella nebbia, o ascesi al Cielo. Come se non fossero mai esistiti.
 
"Stai solo provocando confusione e ritardo” [12] borbottò, strattonandomi verso la moglie e i figli. “Sì, signore. Scusatemi, signore” mormorai, chinando il capo e iniziando a trotterellare al suo fianco.
 
Incontrai Lord Sherlock ogni giorno. Nei miei sogni. Sia in quelli a occhi chiusi, che in quelli a occhi aperti. Per ogni sera della settimana seguente, mi coricavo sul mio giaciglio nel laboratorio-stalla intrecciando le braccia sotto la nuca e cercando di immaginare, con  lo sguardo smarrito verso le travi del sottotetto, che cosa stesse facendo il mio principe in quel momento e che cosa avesse fatto per tutto il giorno.
 
Lord Sherlock non era un principe, ovviamente. Era il secondogenito di un conte, cosa che faceva di lui semplicemente un onorevole [13]. Ma principe suonava meglio di onorevole, sicuramente. Suonava persino meglio di lord. Suonava meglio di qualsiasi cosa e a me piaceva il suono che faceva quella parola pronunciata sulla mia lingua.
 
Principe. Principe. Principe…
 
Ma, cosa più importante, non era mio. Non possedevo nulla di mio, se non la mia fervida  immaginazione e il mio amore per le belle storie. Avevo deciso che lord Sherlock Holmes, figlio del conte Siger Holmes di Dartmoor e fratello minore del visconte Mycroft Holmes, era, almeno nei miei sogni, il mio principe e così doveva essere.
 
Era  il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi la sera e il primo che mi visitava quando aprivo gli occhi al mattino. L’ansia e l’aspettativa di poterlo rivedere la domenica successiva a Messa mi dette la spinta per affrontare i duri lavori nei lunghi e freddi sette giorni che avevo davanti. Le fatiche e le ore scemarono via come neve disciolta dal sole e dalle piogge e, in un baleno,  la tanto attesa domenica mattina arrivò.
 
 
 
Ma le cose non andarono esattamente come previsto.
 
 
 
Una ruota del carro si ruppe nel tragitto tra casa e la cattedrale. Io mi fermai ad aiutare mastro Stamford a ripararla, mentre madonna Molly avrebbe  proseguito a piedi con i bambini.
 
Fu  solo un attimo di distrazione; piegai male il braccio nel tentativo di inclinare il carro mentre il mastro faceva leva aiutandosi con un ramo sufficientemente grande: sentii uno strappo alla spalla sinistra. Strinsi i denti e non dissi nulla, mordicchiandomi il labbro inferiore sino a far uscire sangue. Non un solo suono uscì dalla mia bocca. Non ho mai amato lamentarmi del dolore fisico. Ero abituato al dolore, sopportando quello costante della mia gamba. Ma, soprattutto, dolore significava non poter lavorare e io non potevo permettermelo. Mastro Stamford non poteva permetterselo. Quindi, continuai ad aiutarlo, facendo del mio meglio. Facendo quel che potevo.
 
Non avevamo ancora finito quando le nuvole in cielo si squarciarono iniziando a  vomitare pioggia sulla Terra. Così, quando finalmente il carro fu di nuovo in pista e giungemmo alla cattedrale, la funzione era già iniziata ed eravamo  zuppi e infangati dalla testa ai piedi. Madonna Molly aveva trovato posto su una panca in penultima fila, Andrew seduto nel suo grembo. Io rimasi in piedi, quasi schiacciato contro una colonna. Mastro Stamford si sistemò alle mie spalle, prendendo la piccola Louise in braccio.
 
Nemmeno per un sol attimo fu concesso ai  miei occhi di incontrare quelli di lord Sherlock.  Non ero nemmeno sicuro che fosse presente alla funzione; dalla mia poco fortunata posizione riuscivo a malapena scorgere l'altare e sentivo a fatica le parole di padre Lestrade, che parlavano di peccati e peccatori e che scivolavano via dalle mie orecchie, prive in quel momento di qualsivoglia interesse.
 
Non saprei spiegarmi se fu una coincidenza oppure no, ma per tutto il tempo la mia  gamba doleva come non mai. Uscii dalla cattedrale a fatica, trascinandomi su quella buona. Ogni centimetro del mio corpo doleva: la gamba, il braccio, la testa... Mi guardai intorno: ovunque regnava il grigio asciutto della delusione.
 
Notai mastro Stamford avviarsi verso il carro costeggiando il ciglio della strada, senza  tuttavia vederlo realmente. Madonna Molly e i bambini presero posto in cassetta, mentre io rimanevo immobile nella mia posizione, sotto la pioggia che ormai stava scemando, come se i miei arti inferiori si fossero  improvvisamente trasformati in pietra.
 
Ruotai  il capo prima a sinistra, poi a destra, soffermandomi sui volti della gente come se fossi smarrito e stessi cercando di trovare in loro un viso conosciuto. Michael stava cercando di attirare la mia attenzione sventolando un braccio, ma con scarso successo. Non sentivo nulla, i rumori che giungevano ovattati alle mie orecchie.
 
E  infine lo vidi, in sella al suo destriero nero, le briglie tra le mani. Indossava un farsetto blu dalle maniche larghe, braghe di fustagno e mantello di pelliccia. In breve, era  bellissimo. E mi stava guardando.
 
Lord Sherlock mi stava osservando con un sopraciglio inarcato, la fronte corrugata e una strana luce negli occhi. Provai  la netta sensazione che mi stesse analizzando, scandagliando, valutando. Lord Sherlock stava guardando me - proprio me - e credo di non aver mai avuto in tutta la mia vita un aspetto più miserabile come quello che avevo in quel momento.
 
I  miei capelli se ne stavano piatti sulla mia fronte, neanche fossi appena riemerso dalle acque profonde di un lago. Tunica e calzabraghe esibivano pesanti macchie di fango. Il viso era sporco e, in quei pochi punti dove non lo era, sentivo che stava prepotentemente assumendo quella sfumatura di rosso tipica di chi stava sprofondando in un terribile imbarazzo. Ormai non sentivo più il dolore al braccio o il freddo. Sentivo solamente la mia pelle farsi bollente e il cuore fare strane bizze nel mio petto.
 
Lord Sherlock spronò il suo destriero. Lo fece muovere al passo, molto lentamente. Si stava avvicinando a me. Io continuavo a fissarlo con aria inebetita, gli occhi calamitati da quelle labbra turgide che si facevano sempre più vicine.
 
Più grandi.
 
Più belle.
 
E, un attimo dopo, quelle labbra così simili a un bocciolo di rosa si dischiusero, piano, e mi parlarono. "Impacco di foglie di cavolo" furono le parole di cui si bearono le mie orecchie.
 
Aveva una voce baritonale e calda, lord Sherlock. Una vera e propria melodia,  celestiale, come se fosse stata suonata da un cherubino in persona. Così intensa da impedire al mio cervello di capire nemmeno una sillaba di ciò che avesse detto. "Chiedo per... perdono?" farfugliai.
 
Lord Sherlock roteò gli occhi in aria, annoiato. "La tua spalla. Nulla di grave, solo una distorsione. Niente che un buon impacco di foglie esterne di cavolo fatte bollire in acqua calda non possa guarire."
 
Lord Sherlock non aggiunse altro. Si limitò a fissarmi con quel suo sguardo enigmatico e indagatore, mentre io mi sentivo paralizzato, quasi incapace di respirare o addirittura pensare. Tuttavia, avrei giurato di sentire di nuovo quella sorta di connessione tra noi, come un invisibile filo di lana che qualcuno nel Cielo, magari un angelo dalle ali soffici e maestose, stava pian piano tessendo per unire la mia anima alla sua.
 
Alla  fine, altro non feci se non annuire in assenso, poiché proprio non ero in grado di proferire parola. Lord Sherlock annuì a sua volta, sottolineando così, con  un semplice gesto, l'unione che sentivo con lui, poi strattonò il suo destriero per farlo voltare e sgusciò via, lasciandosi per la seconda volta inghiottire nella nebbia bassa che non accennava a dissolversi. Aveva l'eleganza di una pantera, lord Sherlock, e sospettavo anche  il suo coraggio.
 
Con gentilezza, domandai a madonna Molly, una volta tornati a casa, di prepararmi un impacco di foglie di cavolo e mi compiacqui di scoprire che sortì l'effetto desiderato.
 
"Non avevo mai usato il cavolo, prima d'ora" fu il commento della madonna, mentre mi aiutava con la fasciatura. Le mie labbra si atteggiarono a un sorriso, mentre mi lasciavo scaldare dal ricordo del mio tanto breve quanto intenso  incontro con il giovane lord. Al minore dei figli del conte Siger era bastata  una sola occhiata per scoprire che cosa mi affliggesse. Stregoneria, forse? Mi morsicai con forza il labbro inferiore per impedirmi di ridacchiare davanti agli occhi curiosi di Molly, inginocchiata accanto a me, in quanto se  lord Sherlock era davvero un messaggero del Diavolo, allora non avrei desiderato null'altro al di fuori della dannazione eterna.
 
Quella sera rimasi sveglio sino a tarda ora, nel mio cantuccio all'interno del laboratorio di mastro Stamford. Sebbene avessi dovuto tenere il braccio a  riposo, mi esercitai nella scrittura sotto la luce tremula di una candela. Ero ansioso di apprendere, di migliorare. Promisi a me stesso che avrei fatto di tutto per apparire agli occhi di lord Sherlock come una persona migliore.
 
Quando alla fine mi abbandonai al sonno, il mio ultimo pensiero prima di chiudere gli occhi fu quello che, l'indomani, avrei iniziato a escogitare un modo per rivederlo.
 
 
 
 
 
 


 
Angolo dell'autrice: non essendo un'esperta del Medioevo, mi sono affidata a chi lo è più di me, ovvero una studentessa di storia medievale. Chiedo comunque perdono per ogni "errore storico" che sia rimasto in essere: amate la storia e i personaggi per quelli che sono, così come lo faccio io! Non so ancora quanti capitoli saranno perché...queste cronache non hanno ancora un finale! Conto di fare capitoli brevi proprio a causa degli studi di storia che ci sono dietro...
 
[1] nel Medioevo, i figli erano obbligati ad assistere all’esecuzione della propria madre giudicata strega. L’idea di John che riporta un’ustione è tutta di Saranel e la ringrazio.
 
[2] gli orfanotrofi erano già presenti sin dall'età carolingia, come riporta questo testo anche se l'eccezione moderna, quella che abbiamo noi per intenderci è successiva.
 
[3] generalmente gli orfanotrofi erano gestiti da suore della carità, ma non mi vedevo molto Irene Adler impersonare una suora o una badessa! Oltre alle suore, negli orfanotrofi c'erano le balie, quindi...
 
[4] erano ben poche le persone che nel Medioevo potevano permettersi finestre con veri e propri vetri. Spesso nemmeno i ricchi...
 
[5] descrizione di Sebastian Moran daLa casa vuota. Pensavate forse che scrivessi una nuova storia senza di lui?!?
 
[6] riferimento a questo sito
 
[7] [10] licenza poetica: qui faccio finta che Anderson sia il nome di battesimo. Il riferimento a Colquhoun è un omaggio a uno dei miei personaggi TV preferiti di sempre, il sergente Ben Jones deL'ispettore Barnaby. Nell'episodio Matrimonio con delitto lo spocchioso lord Colquhoun lo accusa di essere un bifolco perché pronuncia il suo cognome nobile in modo errato, esattamente come fa John.
 
[8] [13] lord e altri titoli nobiliari inglesi: tecnicamente "lord" viene usato un po' più avanti rispetto all'anno in cui è ambientata questa storia ma l'ho usato esattamente come nella ff che mi ha ispirato questa storia: Song of the dauntless knight . Visconte era usato per l'erede al titolo di conte, onorevole invece per gli altri figli. Da questo sito: http://georgianagarden.blogspot.it/2009/11/i-titoli-nobiliari-inglesi.html
 
[9] citazione da Mio diletto Holmes.
 
[11] riferimento a  Song of the dauntless knight .
 
[12] citazione di sir Topham dal cartone animato Il trenino Thomas.

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Capitolo 2
*** ATTO SECONDO. LA SCIENZA DELLA STREGONERIA ***


Essere cavalieri o di nobili natali non significa essere nobili o importanti. Essere nobile significa mostrare senza orgoglio le proprie virtù mettendole al servizio di Dio e del prossimo  [Anonimo templare]

 
 
 
 
 


ATTO II. LA SCIENZA DELLA STREGONERIA
 
 
 
I sette giorni che mi separavano dalla domenica trascorsero rapidi.
 
Lavorai, lavorai e ancora lavorai. Immerso sino alla fronte negli odori forti dei tannini, quando aiutavo mastro Michael in laboratorio, o in quello pungente del pesce, al mercato.
 
Alla sera, invece, scrivevo, scrivevo e ancora scrivevo. Mi esercitavo il più possibile, a volte cancellando persino quanto avevo scritto grattando via l'inchiostro [1], in modo da non sprecare i preziosissimi fogli donati da madonna Molly. Rimanevo alzato sino a tardi, a imparare. A migliorare. Per lui, soltanto per lui. Lord Sherlock mi aveva catturato – stregato, invero – con la sua bellezza e la sua peculiarità ammaliatrice, degna di quella che supponevo possedessero gli stregoni delle favole. Se non addirittura il Diavolo in persona.
 
Gli erano bastati solo pochi sguardi e ancor meno parole per conquistarmi. Non esisteva nulla di più ambito, per me, se non potergli parlare di nuovo. E poter essere suo, per servirlo, sebbene ciò suonasse alle mie orecchie tanto impossibile quanto essere ricevuto alla corte di Sua Maestà il re in persona.
 
Ricordo che, una sera, avevo riempito un foglio intero scrivendo il nome Sherlock più e più volte. Ero rimasto a osservare il risultato della mia opera con quello stesso sguardo che mastro Michael avrebbe riservato a una borsa tascapane appena nata dalle sue abili mani.
 
Sono certo che la luce che animava i miei occhi in quegli attimi non aveva nulla da invidiare a quella che li aveva fatti brillare la prima volta in cui si erano posati sui seni nudi di Mary.
 
"Sherlock..." bisbigliai, solamente per lasciare che le mie orecchie si cibassero di quel suono. "Sher-lock" ripetei un attimo dopo, con tono più alto di una nota. Mi piaceva la sensazione che lasciava quel nome così strano e magico sulla mia lingua.
 
"Come hai detto, John?" domandò di soppiatto madonna Molly, inginocchiata davanti alla madia dentro cui stava riponendo le pentole, solo pochi passi più in là dal tavolo da pranzo dov’ero seduto io. Mi sentii avvampare, mentre il sangue ribolliva dentro me. Il cuore prese a scalciare al centro del petto, dalla paura di essere scoperto, mentre farfugliavo un “Nulla, signora” poco convinto.
 
Madonna Molly mi sorrise e, sistemando le pieghe del grembiule bianco che le cingeva la vita, si alzò in piedi. “Desideri una mano, John, con il tuo alfabeto?” domandò cortese, avvicinandosi. Mi sforzai di trovare qualcosa di plausibile da dire, in quel metro e mezzo che la separava dalla mia sedia, mentre con finto disinteresse sistemavo i fogli davanti a me e pregavo qualsiasi entità ultraterrena che fosse disposta ad ascoltarmi affinché mi risparmiasse dall’imbarazzo di dover giustificare a madonna Molly il fatto di aver riempito un intero e preziosissimo foglio con il nome del figlio minore del conte Holmes.
 
Conte.
 
Figlio.
 
Maschio.
 
Qualcuno, lassù, fu incredibilmente magnanimo nei miei confronti, facendo sì che, a un paio di passi dal tavolo, il piccolo Andrew si scontrasse con le gonne della madre, durante il suo maldestro tentativo di rincorrere la sorellina. “Oh, eccolo qui il mio ometto!” squittì di gioia madonna Molly, inginocchiandosi ad abbracciare il figlioletto. Dal canto mio, sospirai e mi voltai verso il focolare. Un attimo dopo, le alte fiamme lambivano il mio prezioso foglio.
 


 
§§§
 


 
Madama Molly si stupì quando le domandai la cortesia di rammendare la mia tunica di lana, ormai pesantemente logora all’altezza dei gomiti. Questo perché non avevo mai attribuito troppa importanza alle condizioni delle mie vesti, poiché reputavo già un mezzo miracolo solo il fatto di possederle (calze e addirittura stivali [2], regalo della famiglia Stamford per il primo compleanno trascorso sotto il loro tetto, l’unico capo a cui dedicavo ogni mia cura). Ricordo che non prestai molta attenzione alle mie vesti nemmeno in occasione del mio primo vero appuntamento con Mary, quando la portai al Cross Keys [3], la locanda del villaggio. L'unica cosa che feci, e che facevo sempre, fu coprire in tutti i modi il segno lasciato tra collo e spalla dall'ustione risalente al giorno della morte di mia madre, di cui mi vergognavo terribilmente.
 
Ma lo stupore di madonna Molly non fu nulla in confronto a quello che provò quando le domandai se domenica, prima di recarci alla funzione, avessi potuto fare un bagno [4]. Ricordo che, in successione, sgranò gli occhi, trattenne a stento un sorriso, infine distolse lo sguardo, arrossendo lievemente sulle gote.
 
Poco più tardi, mi pregò di raggiungerla nel laboratorio, dove trovai ad attendermi la tinozza del bucato colma d’acqua fatta bollire, pronta per il mio bagno. “Ti lascio questi stracci per asciugarti” aveva detto la madonna, appoggiandoli su una pertica orizzontale. La ringraziai e le diedi le spalle, pronto per sfilare le mie vesti. Udii la porta del laboratorio cigolare; una pausa, poi madonna Molly parlò di nuovo.
 
“Come si chiama?” disse dolcemente. Io mi paralizzai, con la stoffa della tunica tra le mani. “A chi vi riferite, signora?” chiesi io, voltandomi a guardarla, preso da un reale smarrimento. Il viso di Molly era addolcito da un tenero sorriso. “La ragazza per la quale ti stai facendo bello, John” rispose, gioviale, con una mano sulla porta e l’altra lungo il fianco. Annaspai in cerca d’aria, mentre capivo di essere arrossito sin sulla punta delle orecchie. “Io non... non c’è nessuna... ecco” farfugliai, sentendomi sprofondare in un’inesorabile miscela d’imbarazzo e panico.
 
Madonna Molly si avvicinò, sfiorandomi teneramente una guancia con la mano. “D’accordo, John caro, ma ricorda che se mai avrai bisogno di qualche consiglio, mi troverai sempre qui” disse, prima di voltarsi e lasciarmi solo. Un attimo dopo, la porta del laboratorio cigolò di nuovo, chiudendosi e lasciando fuori i raggi di una splendida mattinata di sole. Boccheggiai più e più volte. Avevo la pelle ancora in fiamme quando immersi il mio corpo nudo nell’acqua calda e profumata di spezie.
 


 
§§§
 


 
La bellezza dei raggi del sole appassì subitamente come una rosa recisa da una cesoia inclemente e il gelo assalì il mio cuore come il più rigido degli inverni. Lord Sherlock non era presente alla funzione quella domenica. Nessun membro della famiglia del conte Holmes era alla cattedrale, invero. Il banco in prima fila era spoglio quanto i rami di un pesco a dicembre.
 
Le parole di padre Lestrade, pronunciate come al solito con tutta la veemenza che lo contraddistingueva dal pulpito al centro della cattedrale, scorrevano via dalle mie orecchie e dalla mia mente, senza lasciare impronta alcuna del loro passaggio.
 
Rimasi immerso nel mio piccolo mondo fatto di rammarico e delusione per tutta la durata della Messa, del viaggio verso casa e del pranzo, impegnato in ogni sorta di congetture circa il motivo della sua assenza.
 
Il mio cuore bramava di conoscenza, di sapere se stesse bene, se fosse partito per un lungo viaggio, se mai lo avessi rivisto.
 
"Lei non c'era?" bisbigliò Molly al mio orecchio, mentre rimuoveva la tovaglia [5] a pranzo concluso. Mi fu impossibile impedire alla mia pelle di arrossire come il più maturo e carnoso dei papaveri. Scossi debolmente il capo, arrendendomi parzialmente all'arguzia di quella donna.
 
"Nemmeno la famiglia del conte era presente alla funzione, quest'oggi" dissi io, cercando di esibire una finta noncuranza e sperando che i miei occhi non mi tradissero. Ma quella speranza durò ben poco quando madonna Molly accostò nuovamente le labbra al mio orecchio, mormorando un "Mi informerò con lady Hudson" in tono complice.
 
Credo che il mio viso assunse tutte le tonalità del rosso – dal rosa pallido al viola acceso – di questo mondo e quell'altro, quando Molly si allontanò strizzando un occhio.
 
La consorte di mastro Stamford aveva scoperto tutte le mie carte.
 


 
§§§
 


 
Due sonori colpi inferti contro la porta del laboratorio di concia. Era lunedì sera; mi ero appena chiuso la porta alle spalle senza, tuttavia, aver ancora indossato la veste da notte, quando bussarono. Era madonna Molly, con un sorriso raggiante e occhi così brillanti da rendere quasi completamente inutile la candela che reggeva in una mano.
 
"Sono in visita presso un cugino del conte, lord Henry. Saranno di ritorno tra pochi giorni" mi informò, con una voce così pregna d'entusiasmo da costringere il mio cuore a smarrire qualche colpo per strada. Inutile aggiungere che, per l'ennesima volta, avvampai.
 
Borbottai un confuso "Vi ringrazio", quindi madonna Molly, con un ultimo sorriso, si lasciò inghiottire dalle tenebre della notte. Mi spogliai di fretta e mi coricai nel mio giaciglio. Chiusi gli occhi cercando di ipotizzare quanto avrei dovuto aspettare ancora prima di rivedere lord Sherlock. Una domenica? Due domeniche?
 
Non dovetti aspettare molto, perché lord Sherlock venne da me.
 
Beh, non proprio da me, ma da mastro Michael al mercato. E non da solo, ma con suo fratello, il visconte Mycroft, per acquistare fodere e borse. Ma andava benissimo così.
 
Quando i miei occhi riconobbero il suo magnifico destriero e quella folta chioma scura, il mio cuore non perse un battito, ma un numero che non fui capace di quantificare.
 
Dopo che vidi i due fratelli Holmes smontare da cavallo e dirigersi verso il nostro banco, la mia testa prese a girare vorticosamente e la mia gamba a richiedere attenzioni. Non riuscivo a credere che stessero venendo da noi, proprio da noi.
 
Non avrei saputo dire con certezza che cosa domandò lord Mycroft e cosa gli rispose mastro Michael, poiché l'eco del mio cuore imbizzarrito rimbombava prepotentemente nella mia testa, che mi costrinsi a tenere china per la maggior parte del tempo, troppo imbarazzato e timoroso per riuscire a guardare il giovane lord in volto.
 
Detti, tuttavia, ben più di una sbirciata, grazie alle quali notai che sul viso del ragazzo moro era dipinta un'espressione attenta e concentrata, con un sopracciglio inarcato e le labbra arricciate.
 
I suoi occhi sembravano assorbire avidamente ogni cosa attorno a lui – i colori, i profumi, la merce in vendita, io – e trasformarla in qualcosa di nuovo, di meraviglioso.
 
Il mio sguardo saltellava dalla punta dei miei stivali al suo viso e, durante uno di questi saltelli, finì per scontrarsi con quello di lord Sherlock, facendomi arrossire al pari di una fanciulla alle prese con il suo primo amore.
 
"John! Le fodere, John, di grazia!" la voce acuta e agitata di mastro Stamford mi fece trasalire e arrossire ancor di più, se mai fosse stato possibile. Mi chinai sotto il banco, iniziando a mio malgrado a cercare le fodere tra le... brigantine.
 
"Credo che le fodere siano laggiù, John."
 
John...
 
Sentì distintamente il mio cuore smettere di battere e i miei polmoni di respirare. Lord Sherlock si era accucciato accanto a me e il mio nome sillabato dalle sue labbra era echeggiato alle mie orecchie meglio delle note suonate da un'arpa celestiale.
 
John.
 
Nessuno mai lo aveva pronunciato con l'intonazione usata dal giovane lord. E nessuno lo fece più dopo di lui.
 
"Sì, giusto..." farfugliai, allungando un braccio verso sinistra. "Le fodere laggiù, sì."
 
"Ovvio che è giusto" borbottò il minore dei fratelli Holmes, piccato, cosa che mi mandò nel panico più totale. Raccolsi una pila di fodere, mi alzai per riporle sul banco e mi riaccucciai a terra, in un'unica mossa fluida. Lord Sherlock non si era mosso di un pelo e mi stava ancora fissando con quegli occhi carichi di curiosità.
 
"Deduco dai tuoi movimenti che la spalla vada molto meglio" disse il giovane, studiando i movimenti del mio braccio. "Oh sì, grazie... Vostra grazia... Volevo dire, signor conte. No, sire..." farfugliai in preda al massimo imbarazzo. Nulla venne in mio aiuto per impedirmi di diventare paonazzo in viso. “Insomma, sì, vi ringrazio, lord Holmes” terminai, scuotendo il capo energicamente.
 
Lord Holmes, signor conte e tutte le altre sciocchezze che hai nominato vanno bene per mio padre. Io sono semplicemente Sherlock” disse il mio sire, il mio principe. Quindi, fece qualcosa di assolutamente inaspettato per una persona come lui nei confronti di una persona come me: mi porse la mano in segno di saluto e io, con il cuore che graffiava e urlava al centro del petto e all’altezza delle mie tempie, gli porsi la mia, tremante. “Io sono... John” borbottai confusamente. “Lo so” disse lui, arricciando le labbra in una sorta di strano sorriso. Mi ferrò l’avambraccio stringendolo fortemente [6] e io sentii una netta sferzata di qualcosa di sconosciuto – qualcosa di vivo – lambire il mio intero corpo.
 
Dopo la stretta di mano, lord Sherlock si alzò, mentre io rimasi un attimo ancora inginocchiato sotto il banco, sistemando il piccolo danno che avevo fatto poc’anzi. “Foglie di cavolo, curioso... Un rimedio che non avevo mai sentito. Ma indubbiamente efficace” dissi, desideroso come non mai di prolungare la conversazione, possibilmente sino all'Apocalisse. Mi tirai alla fine in piedi, la mia gamba capricciosa che cercava di richiamare la mia attenzione con piccole scosse. Lord Mycroft e mastro Stamford erano poco lontani da noi, intenti nella loro trattativa, ma noi non ci facemmo caso.
 
I miei occhi non abbandonarono quelli del giovane lord nemmeno per un attimo, i quali, tuttavia, parevano essere intenti a scandagliare il mio intero corpo, cosa che mi metteva a disagio in un certo qual modo. “E quali rimedi ti avrebbe consigliato il tuo cerusico? Sentiamo!” chiese poi Sherlock, tornando d’improvviso a osservarmi in viso. “Aglio e olio di mandorle” risposi io, iniziando a sentirmi pian piano a mio agio, “e non il mio cerusico, ma mia madre.”
 
Non so perché gli parlai di mia madre: ero troppo piccolo per serbare grandi ricordi della donna che aveva messo al mondo me e mia sorella, ma era come se, prima di morire, ci avesse in qualche modo trasmesso alcune delle sue preziose conoscenze. Il timore che fosse effettivamente una strega come padre Lestrade sosteneva fece per un attimo pulsare di dolore la mia gamba e strattonai il collo della mia veste, giocherellando con i lembi di stoffa, proprio all'altezza della cicatrice lasciata dalla vecchia ustione, come facevo sempre quand'ero nervoso.
 
L’espressione che si dipinse sul viso di lord Sherlock sembrava comunicare che avesse capito in qualche modo ciò che stesse passando per la mia testa. “Tu non sei figlio di mastro Stamford, nevvero?” Fu una constatazione, più che una vera e propria domanda. Scossi il capo in segno di conferma. “No, non lo sono” ammisi.
 
“Sei orfano” continuò, osservandomi con una profondità tale in quegli occhi azzurri da sentirmi quasi trapassato da parte a parte, proprio all’altezza della fronte. “Sei orfano perché tua madre è stata accusata di stregoneria e arsa viva” continuò, con la stessa disinvoltura che avrebbe avuto parlandomi del suo magnifico destriero.
 
Mi sentii mancare, mentre il minore dei fratelli Holmes sembrava essere appena venuto a capo di un difficilissimo rompicapo, i lineamenti aguzzi del viso che finalmente riuscivano in qualche modo a rilassarsi completamente.
 
Si avvicinò a me, con movimenti lenti e densi di aspettativa. Alzò il braccio destro e il suo indice sfiorò piano il mio collo, scostando appena la veste per scoprire un pezzetto della mia pelle, quello che non amavo, che detestavo con tutto me stesso.
 
Quello sul quale miss Adler amava particolarmente sfogare la sua rabbia.
 
Quello davanti al quale Mary aveva arricciato il naso e distolto lo sguardo.
 
L'aria frizzante si scontrò con la mia pelle resa bollente dalla tensione del momento, man mano che le dita lunghe e affusolate di lord Sherlock scendevano giù e più giù, andando a morire poco prima della spalla. Quella splendida creatura stava toccando me, il mio corpo. La mia carne.
 
E io tremai.
 
"Come testimonia questa cicatrice, del resto. Qualche tizzone vagante... È normale, la prole è sempre costretta ad assistere all'esecuzione di una strega" concluse, con una voce calma e profonda, che, sebbene provvista di ben più di una nota di supponenza, riuscì a far vibrare il mio corpo come le corde di una lira bizantina tra le mani del più abile dei suonatori.
 
C'era, tuttavia, una parte di me che avrebbe voluto gridargli con quanto fiato avevo in gola "Ehi, state parlando di mia madre!", ma questa assurda voglia morì sul nascere. Fu schiacciata quasi del tutto da quell'altra parte – quella più forte, quella innamorata – che ordinò alla mia bocca di dischiudersi per lasciare uscire un flebile, ma deciso "Meraviglioso..."
 
Le gote di lord Sherlock si tinsero di una tenue sfumatura di carminio, espressione della sua sorpresa e del suo piacere per il complimento appena ricevuto.
 
"Vogliate scusarmi, se vi sono apparso insolente" farfugliai, nel timore di aver osato troppo.
 
"Non sei insolente, tutt'altro. È che, normalmente, ricevo tutto un altro genere di commenti." Un ghigno, a metà strada tra il divertito e l'indispettito, mentre gli occhi vagavano lontano, verso un mondo in cui non mi era permesso entrare. Ancora...
 
"E cosa vi dicono, di solito, se mi è permesso chiederlo?" mi sorpresi a dire. Il lato di me che era rimasto contrariato dalla sua spiccata supponenza capitolò del tutto, mentre le mie labbra si atteggiarono a un sorriso d'ammirazione. "Di smetterla, se non voglio essere accusato anche io di stregoneria!" C'era ben più di una nota di allegria nella voce del giovane lord, ora; sembrava contento delle mie parole. Quasi felice. E io, inspiegabilmente, mi misi a ridere. E lui con me.
 
Fu il primo momento in anni in cui mi sentivo libero da qualsiasi preoccupazione. Quasi felice anch'io. No... ero totalmente felice. Una risata genuina, sana. Come non ne facevo da tempo.
 
"E chi mai vi accuserebbe, di grazia?" continuai. Mi sentivo inspiegabilmente libero di poter chiedere al giovane Holmes qualsiasi cosa avessi voluto, certo di non ricevere in cambio alcun rimprovero. "Mio fratello, ad esempio" bisbigliò Sherlock, inclinando leggermente il capo verso sinistra. I miei occhi seguirono quel movimento e si accertarono che lord Mycroft fosse ancora fervidamente impegnato nelle trattative con il mastro pellaio. "Oh..." fui capace di mormorare solamente. Iniziavo a percepire una sorta di complicità con lord Sherlock. Ed era bellissimo. "È invero, tuttavia, che voi possediate capacità strabilianti" aggiunsi poi, per dimostrare al mio affascinante interlocutore tutta l'ammirazione che provavo nei suoi confronti, "non stento a credere che possano essere scambiate per stregoneria."
 
"Io preferisco chiamarle in altro modo" ribatté lui. Lord Sherlock aveva negli occhi una strana luce, che mi ricordava molto quella che avevo intravisto negli occhi di Mary la prima volta che le dissi, esagerando deliberatamente, che mai avevo visto creatura più bella [7].
 
"Ovvero?" domandai, accorgendomi di stare sempre più pendendo dalle sue labbra. "Deduzione" un sorriso perfetto che scoprì denti ancora più perfetti, "ed è una scienza!"
 
Ridemmo ancora, sempre più complici. E, in virtù di tale complicità, mi sorpresi a indietreggiare di qualche passo, come se volessi proteggerlo mettendo una certa distanza tra noi e suo fratello. Fu allora che il minore dei figli del conte Holmes mi sorprese di nuovo. "Tu zoppichi" constatò, adottando per l'ennesima quell'espressione seria e concentrata da studioso. Mi sentii sprofondare, mentre le mie gote iniziarono a pulsare con veemenza per la vergogna. Non ero stato abbastanza cauto da nasconderlo. "Già..." borbottai imbarazzato, "dalla nascita, credo." "Credi?" "Sì, insomma, da quando ne ho memoria. Incurabile."
 
Iniziai a sudare e il mio cuore a protestare: temevo che la mia zoppia mi facesse apparire infimo agli occhi di lord Sherlock, esattamente come capitava con la maggior parte delle persone, finendo così per fargli perdere ogni interesse che stava dimostrando nei miei confronti.
 
"Magari lo credi tu, che sia incurabile..." disse invece il giovane Holmes, più parlando a se stesso che realmente a me. "Cos'altro potrebbe essere, di grazia?" La mia voce fu appena più di un sussurro. Un sussurro malinconico, rassegnato e lievemente sarcastico. "Una madre accusata delle peggior cose, arsa viva, davanti ai tuoi occhi. Probabilmente, costretto a vivere per anni in una di quelle case della morte. Senso di responsabilità e debito incolmabile nei confronti della famiglia che ti ha dimostrato clemenza accogliendoti nel proprio focolare domestico..." iniziò a recitare, parlando con un fervore che avrebbe fatto invidia persino a padre Lestrade nei giorni migliori e che stava schiacciando il mio piccolo cuore con un'intensità degna della furia del Signore. "Forse sarebbe il caso che regalassi un po' di respiro al tuo corpo spostando la tua mente su altre cose" [8] concluse.
 
Quelle parole, sparate a raffica da lord Sherlock, mi lasciarono in preda a un bizzarro senso di leggerezza e sbigottimento. Ciononostante, percepivo tutt'intorno a noi qualcosa – qualcosa di davvero speciale – che univa come ben poche altre cose al mondo me a lui e lui a me.
 
Se avevo definito quanto detto da lui prima come semplicemente "meraviglioso", questo era addirittura strabiliante.
 
Il bagliore nei suoi occhi era ora divenuto qualcosa di ancor più indescrivibile, che, come per incanto, pareva riflettere tutt'intorno a Sherlock la sua reale bellezza, quella che proveniva dal profondo e di cui forse lui stesso non era a conoscenza.
 
Ma, qualunque cosa fosse, fu presto ricacciata al suo posto dalla voce invasiva di lord Mycroft, che richiamava suo fratello a sé rammentandogli che era giunta l'ora di rimettersi in marcia.
 
E fu così che lord Sherlock si congedò dalla mia persona; mi lanciò un ultimo sguardo e, prima di montare in groppa al suo destriero, strizzò l'occhio in segno d'intesa.
 
Ancora ignoro come io non abbia fatto a morire lì, quel giorno e in quel preciso istante.
 
Lo seguii con lo sguardo fino a quando lui e lord Mycroft non scomparvero dai miei occhi. 
 


 
§§§
 


 
Erano già calate le tenebre quando "presi in prestito" il castrone baio di mastro Stamford. "Andiamo a fare un giretto, bello" sussurrai grattandogli dolcemente il muso, mentre uscivamo guardinghi dal laboratorio-stalla.
 
Galoppai a perdifiato per i vicoli e le viuzze di Grimpen, fino a raggiungere la signorile abitazione a più piani di sir Hudson. Arrestai il mio baio, scesi e legai le briglie a un cespuglio. Posai gli occhi a terra, alla ricerca di qualche sassolino che avrebbe potuto tornare utile al mio scopo. 
 
Tirai il primo verso la piccola finestrella dietro cui sapevo si trovava la stanza di mia sorella, ma sbagliai completamente il bersaglio.
 
Aggiustai il tiro e il secondo colpì al centro l'imposta di legno [9]. Harry aprì al terzo sassolino.
 
"Harry!" chiamai, senza tuttavia alzare troppo la voce.
 
"John? John, sei tu?" La voce di mia sorella era lievemente impastata. "Sì, sono io! Dovevo assolutamente vederti!"
 
Harry si stropicciò un occhio, poi si sporse di più, per vedermi meglio. "Per tutti i diavoli, che cosa succede?"
 
Io non risposi immediatamente; sorrisi per una manciata di secondi mentre cercavo nella mia mente il modo migliore per introdurre mia sorella agli avvenimenti accaduti.
 
"Ho conosciuto una persona [10]" dissi infine, il sorriso che man mano cresceva sul mio viso, irradiandolo di luce come se attorno a noi stesse crescendo l'aurora più bella di tutti i tempi.
 
Harry si lasciò scappare un gridolino di approvazione, mentre mi sorrideva di rimando. "Chi è? La conosco?" domandò, entusiasta.
 
"Te ne parlerò!" dissi io, slegando il mio baio e montando in sella con un po' di fatica, a causa della mia gamba. "Mastro Michael non sa che ho preso il cavallo e sono venuto qui."
 
Harry mi salutò portandosi le dita alle labbra e mandandomi un bacio immaginario. Non sentii il rumore delle imposte che si chiudevano perché io e il mio destriero eravamo già lontani.
 


 
§§§
 


 
Quando mettemmo piede nella cattedrale per la funzione domenicale, la famiglia Holmes era già presente. Eleganti, impettiti e altezzosi nel loro banco personale in prima fila. Erano tutti, così: il conte Siger, la contessa Violet, il visconte Mycroft.
 
Lord Sherlock no. Lord Sherlock era indubbiamente elegante, nel suo farsetto di seta blu e nel caldo mantello di zibellino, ma sul suo viso non era dipinta l'altezzosità che potevo invece notare in suo fratello o in sua madre. Ci vedevo invece un nitido desiderio di trovarsi altrove; o, per lo meno, così appariva evidente ai miei occhi.
 
Mi divertii a cercare di immaginare dove avrebbe preferito essere lord Sherlock, in quel momento. Una biblioteca benedettina, forse, o magari in riva a un fiume. O forse ancora in sella al suo magnifico destriero, galoppando a più non posso verso le colline, con il vento che gli accarezzava i capelli con fervore. Era questo, almeno, ciò che avrei voluto fare io se mi fossi ritrovato al suo posto.
 
Fu durante un passaggio del sermone di padre Lestrade che si voltò a guardarmi. Prima di quel momento, sembrava non essersi accorto della mia presenza, eppure era riuscito a trovare i miei occhi con sicurezza, come se avesse saputo esattamente dove cercare. Come se mi avesse in qualche modo "percepito". Non potei impedirmi di pensare alle sue abilità molto vicine alla stregoneria, che lui chiamava invece "deduzione", e sorrisi intimamente.
 
Lord Sherlock non disse nulla. Per lo meno, non con le parole. I suoi occhi, invece, dialogarono così tanto con i miei che, a un certo punto, temetti seriamente che padre Lestrade scendesse dal suo pulpito per rimproverarlo della sua distrazione.
 
A funzione terminata, mentre mi avviavo verso il carro tenendo Andrew e Louise per mano, gli occhi del giovane Holmes cercarono nuovamente i miei e io sostai sul selciato per dar loro il tempo di "conversare" ancora.
 
Poi lord Sherlock montò in groppa al suo cavallo e io non riuscii più a trattenere quel sorriso che già da prima stava lottando con tutte le sue forze per prendere possesso del mio viso.
 
Sono quasi certo che il giovane lord fece del suo meglio per resistergli, tuttavia ai miei occhi attenti non sfuggì quell'angolo della bocca che si arricciò all'insù prima di comandare al suo destriero di mettersi in marcia.
 
Fu piccolissimo, quel sorriso appena accennato che lord Sherlock mi regalò. Piccolissimo, ma più prezioso di un intero forziere d'oro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice: ringrazio ancora una volta madonna Saranel per il suo aiuto. [1] poiché la carta era rara e preziosa nel Medioevo, spesso i fogli venivano riutilizzati grattando via l'inchiostro. [2] non era da tutti possedere delle calzature nel Medioevo. Spesso i più poveri non le avevano del tutto, oppure avevano delle calze-scarpe. [3] la famosa locanda di Baskerville. [4] il bagno era cosa rara nel Medioevo, poiché l'acqua non era sempre disponibile. Quando si riusciva a farlo, l'acqua doveva essere precedentemente bollita e spesso si utilizzavano anche delle spezie. [5] curiosità: nel Medioevo non si usavano veri e propri piatti, spesso sostituiti da fette di pane, ma si cambiava spesso tovaglia. [6] questo era il modo di stringersi la mano in epoca medievale. Tutta la scena della stretta di mano vuole essere un omaggio alla splendida 48 seconds della mia soulmate Saranel. [7] rivisitazione di un brano del Canone in cui Watson afferma che i complimenti per le deduzioni fatte facevano brillare gli occhi di Holmes come i complimenti fatti a una fanciulla per la sua bellezza. [8] parlare di disturbo psicosomatico nel Medioevo non mi pareva adeguato: ho preferito "girarci intorno". [9] ho letto in un libro che alcune abitazioni medievali, quelle più ricche, usavano le imposte di legno. Ho pensato di usarle per casa Hudson, poiché sono un filo più ricchi degli Stamford ma meno degli Holmes, che avevano i vetri! [10] la battuta e l'intera scena è una citazione dal film Return to me, con Minnie Driver e il "mio primo grande amore televisivo", David Duchovny.

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Capitolo 3
*** ATTO III. LA POLVERE DELL'ARENA ***



L'autrice desidera porre i suoi migliori ringraziamenti a madonna Chiara per l'aiuto offerto nella stesura del presente capitolo. E come sempre a madonna Sara per il suo amore <3
 
 
 

–Un amore non ricambiato infiamma la passione (massima medievale)

 
 





ATTO III. LA POLVERE DELL'ARENA
 
 
 
 
 
Vivo.
 
Che vive, che è dotato di funzioni vitali.
 
Ecco come mi sentivo io, dopo tempo immemorabile. Aperto alla luce vera, quella che tinge d'arcobaleno ogni cosa che ci circonda, riproponendola agl'occhi con fattezze nuove, tutte da scoprire.
 
Prima di Sherlock, sopravvivevo.
 
Con lui, iniziai a vivere.
 
E a tessere nuove storie e avventure nella mia mente. Racconti di dame e cavalieri, stregoni e principi, che raccontavo ogni sera ai piccoli Andrew e Louise seduti attorno al fuoco. Alcune di queste storie finirono anche sulla carta, quelle più brevi. Quelle con una lunghezza compatibile con le mie abilità didattiche e narrative ancora in erba.
 
Lord Sherlock era sempre il protagonista delle mie favole fantastiche. Un giorno, era un cavaliere senza macchia e senza paura che, con la sua spada d'argento, sconfiggeva il temibile drago sputafuoco Moriarty che lo aveva tenuto prigioniero per anni e anni nella triste e lugubre torre di Londra, privando la pittoresca e ridente contea di Dartmoor della sua celestiale visione.
 
Il giorno dopo, era invece un bizzarro stregone che, con le sue magiche pozioni, riusciva a porre fine all'esistenza di orde e orde di demoni alati arrivati in Inghilterra da terre lontane e sconosciute.
 
Lord Sherlock era il mio eroe. Lo avevo eletto a quel ruolo senza che avesse fatto poco o nulla per apparire tale ai miei occhi. Vi lascio immaginare come essi presero a guardarlo dopo che... guarì la mia zoppia.
 



 
§§§
 



 
Si dice che, se la tua felicità ti porta troppo in alto, troppo vicino al cielo da essere quasi in grado di sfiorarlo con un dito, devi prestare molta attenzione, poiché, più in alto sali, più dolorosa è la caduta. E vi assicuro che non esiste nulla di più vero.
 
Lord Sherlock era riuscito a stregare la mia anima così nel profondo che il mio intero corpo bramava il momento in cui avrei potuto rivederlo. La mia follia era tale che, ben presto, gli sguardi rubati nelle navate della cattedrale non mi bastavano più.
 
Volevo di più. Volevo potergli parlare, sapere che cosa gli aggradasse o non aggradasse fare. Volevo poter sfiorare il suo corpo, esattamente come lui aveva fatto con il mio, per sapere se la sua pelle apparisse al tatto morbida come una pesca, esattamente come me la immaginavo, o se i suoi capelli profumassero come quelli di Mary. Volevo che i miei occhi si cibassero di ogni sfumatura delle sue iridi, in modo da poterle poi riconoscere tra mille, se avessi dovuto. Soprattutto, volevo che le mie orecchie ascoltassero ancora le parole meravigliose e strabilianti che uscivano dalla sua bocca.
 
Volevo che mi stupisse.
 
Dunque, potete ben immaginare come mi sentii quando mastro Michael mi disse di essere attesi al castello in quanto il conte Siger desiderava acquistare nuove brigantine per i suoi cavalieri. Era il primo mese del nuovo anno [1] e la natura stava pian piano iniziando a risvegliarsi.
 
Il mio corpo fremette alla notizia, alternando uno stato di euforia a uno stato di panico totale.
 
Avrei avuto un'opportunità come poche di rivederlo e magari addirittura parlargli. Non stavo nella pelle.
 
Quella notte non chiusi occhio: il mio cervello non voleva saperne di riposare, troppo intento a esercitarsi su cosa avrei potuto dire a lord Sherlock.
 
Quando dirgliela.
 
E come dirgliela.
 
Quando, ai sei rintocchi, feci il mio ingresso nella cucina della famiglia Stamford per una prima e frugale colazione, scoprii ad attendermi la più grande delle sorprese. Sul tavolo, pronti ad attendermi, c'erano tunica e calzabraghe nuove. Poco distante, in piedi, c'era invece madonna Molly che mi osservava con il migliore dei sorrisi.
 
"Sono... per me?" mormorai, con un fil di voce. La madonna annuì, con un sorriso che diveniva via via più grande. "Desidero che tu sia bello" cinguettò, avvicinandosi e posando maternamente una mano sulla mia spalla, "stai andando al castello."
 
Mi sentii avvampare, dalle dita dei piedi alle ciocche dei capelli, mentre il mio cuore faceva strane capriole al centro del petto. Cercavo di ripetermi Stiamo andando al castello solo per affari, magari nemmeno lo vedrai ma queste parole non sortivano su di me alcun effetto calmante, mentre, una volta rimasto solo, mi sfilai le vecchie vesti e indossai quelle nuove.
 
Cannella. Le nuove vesti odoravano di cannella. Sorrisi.
 


 
Per tutto il tragitto da casa al castello, le mie unghie rimasero affondate nella pelle del palmo, mentre cercavo di imporre alla mia mente di vagare altrove, su pensieri più importanti. Ad esempio, cercare di non far irritare ancora sir Anderson o lord Mycroft. Sospirai rassegnato quando la guardia all'ingresso aprì l'imponente portone per lasciarci passare.
 
Erano da poco risuonati i sette rintocchi quando arrestammo il carro nel cortile. La lieve nebbiolina mattutina si stava pian piano diradando, preannunciando un giorno luminoso e vivo. Mi morsicai insistentemente il labbro inferiore.
 
Fummo accolti dal solito fante, di cui ancora ignoro il nome. Mastro Michael lo seguì subito con passo svelto, mentre io indugiai sulla porta dell'ingresso della servitù. "John, di grazia, che ti succede?" domandò il mastro sbigottito, quando notò che ero rimasto indietro. I miei denti affondarono con maggior decisione nella carne. "Io... non credo di sentirmi molto bene" bisbigliai.
 
Non era una bugia: il mio stomaco aveva iniziato a far compagnia al mio giovane cuore nella giostra delle piroette. Mastro Michael annuì, comprensivo come sempre. "Aiutami a portare dentro quelle brigantine, poi torna qui fuori a prendere un po' d'aria" decise. Il fante ci stava osservando da metà del primo corridoio, con una maschera di cipiglio dipinta sul volto.
 
E così feci: con una pila di brigantine che mi arrivava agli occhi e rendeva complicati i miei movimenti, giungemmo alla piccola porta che dava nel salone delle udienze. Il fante si accomiatò e noi entrammo.
 
Percepii la presenza di sir Anderson anche senza vederlo, poiché il suo sguardo mi pizzicava la nuca, esattamente come soleva fare ogni volta. Poi, tra una fessura e l'altra lasciata dalle brigantine nella pila, intravidi il conte Siger seduto sul suo trono, con aria distratta e lo sguardo perso in chissà quali pensieri.
 
"Mastro Michael! Avete portato la merce che vi abbiamo comandato?"
 
La voce melliflua di lord Mycroft mi guidò attraverso il salone, fino a giungere al tavolo dove appoggiai le brigantine, non senza un sonoro tonfo. L'erede del conte mi scoccò la solita occhiata di disapprovazione e il mastro volle sottolineare il concetto inarcando un sopracciglio.
 
"Chiedo perdono" mormorai, mentre i miei occhi vagavano per il salone. I primi raggi del timido sole mattutino filtravano dai vetri, regalando carezze di luce alle pareti. Lord Sherlock non era presente. Non avrei dovuto stupirmene. Soprattutto, dovevo fare del mio meglio per non rammaricarmene.
 
Mastro Michael mi lanciò un'occhiata che sembrava dire che non aveva più bisogno dei miei servigi. "Con il vostro permesso..." mormorai all'indirizzo di lord Mycroft, il quale fece uno stanco cenno d'approvazione con la mano. Quindi, con un inchino, mi congedai.
 
Una sferzata d'aria fresca mi colpì le guance, non appena misi il naso fuori dall'ingresso della servitù. Poi mi fermai e sospirai. I due cavalli di mastro Michael stavano brucando pacificamente. Mi guardai attorno: non c'era nessuno in vista. Mi chinai per strappare un lungo filo d'erba da terra e presi a mangiucchiarlo nervosamente, con la schiena appoggiata al calesse. "Vi faccio compagnia, ragazzi" dissi, rivolto ai cavalli.
 
Qualche minuto più tardi, passò accanto a me un uomo che, a giudicare dai ferri che teneva in mano, dedussi fosse il maniscalco del castello. Per noia e per curiosità, decisi di seguirlo. Fu una delle scelte migliori della mia intera vita.
 
Mi ritrovai nel cortile posteriore, dove i miei occhi furono catturati da una moltitudine di colori e profumi. Vidi il pozzo, situato al centro del cortile. Notai la scuderia, un po' più a destra, verso cui il maniscalco si stava dirigendo con passo deciso. Poi fu il turno delle latrine, a sinistra, poco lontano dalla torre d'angolo. Infine, in fondo, proprio sotto il camminamento, c'era il campo pratica, con accanto una vera quintana per le esercitazioni di mira. E lì stava lord Sherlock.
 
Mi arrestai di colpo, mentre i miei occhi si posavano sul giovane Holmes e il mio cuore iniziava a fare le bizze, né più e né meno come il cavallo sul quale il mio principe era in groppa. Aprii e chiusi i pugni in un moto di nervosismo: mi sentivo a disagio, poiché sapevo che nessuno mi aveva concesso il permesso di essere dove mi trovavo. Era un po' come se mi fossi introdotto di nascosto nel mondo privato del giovane nobile: non ero stato invitato e, dunque, non avevo ragione d'essere lì.
 
Era sbagliato, eppure non riuscivo ad allontanarmi di un solo passo. Avevo un'occasione preziosa di conoscere ciò che lord Sherlock faceva nel suo tempo, nella sua vita, quella vita di cui io non facevo parte, e non avevo alcuna voglia di lasciarmela scappare.
 
C'era un giovane uomo vicino al figlio del conte; aveva i capelli che arrivavano a sfiorare le spalle e gli occhi d'un verde intenso. Pensai si trattasse del suo scudiero, poiché gli stava dando alcune dritte su come colpire la giostra con la lancia. Ritenni che tali consigli non incontrarono il favore del giovane lord, che ribatteva con supponenza a ogni cosa che usciva dalla bocca dell'uomo più adulto. Eppure, nonostante tutta la sua evidente pretenziosità, Sherlock non riusciva proprio a starmi antipatico, nemmeno un filo.
 
Scandagliai rapido con lo sguardo il cortile alla ricerca di un riparo sicuro e, dopo averlo trovato in un paio di barili dal contenuto sconosciuto, mi inginocchiai dietro uno di essi. Non volevo andarmene: volevo rimanere lì a godere sino in fondo di quell'occasione insperata che mi era stata donata. Mi dimenticai di mastro Michael. Mi dimenticai totalmente di lui. E il pensiero che, a quell'ora, potesse aver già finito con il conte Siger e lord Mycroft non mi sfiorò nemmeno.
 
Valutai che, forse, avrei dovuto chiamare a me ogni brandello di coraggio e avvicinarmi a lord Sherlock per parlargli. Alla sola idea, la mia gamba prese a formicolare impenitente. Chi mai credevo improvvisamente d'essere per avere il diritto di avvicinarmi a lord Sherlock in casa sua? Ero solo un povero orfano zoppo, non avevo diritto a nulla. Questa volta morsicai il labbro con così tanta convinzione, per cacciar via quel folle e insano desiderio, che non potei impedire al sangue di vedere la luce.
 
Lord Sherlock e il suo scudiero si scambiarono ancora qualche invettiva, poi l'uomo si fece da parte scuotendo rassegnato il capo, mentre il ragazzo si preparava a dare nuovamente prova di sé.
 
Alzai il più possibile la testa per non perdere nemmeno un secondo di quanto stava accadendo e il mio respiro si arrestò nell'aria mentre lord Sherlock si gettava al galoppo, lancia in resta, verso il fantoccio armato di mazzafrusto. Lo scudo venne colpito esattamente nel centro e con un'intensità tale da staccarsi dal fantoccio, nell'esatto momento in cui questo iniziava a vorticare rapidamente su se stesso. Non potei impedire alle mie labbra di riversare al mondo intero un Oooooh di meraviglia e stupore, mentre lord Sherlock arrestava il suo destriero e, con un balzo e un paio d'imprecazioni, scendeva a terra.
 
"Se mi è concesso, sire, ve l'avevo detto..." udii lo scudiero dire.
 
"No, non vi è permesso, Trevor!" borbottò lord Sherlock, cupo in viso. Solo allora notai che la sua lancia si era spezzata. La scaraventò da parte, altamente contrariato, poi portò entrambe le mani sui fianchi e prese a camminare in circolo, dando qua e là piccoli calci ai sassi che avevano la sfortuna di capitargli a tiro.
 
Un sorriso dolce e ammirato si dipinse sul mio volto: mi faceva una tenerezza infinita, lord Sherlock, sebbene fosse indispettito e imbronciato con se stesso e, molto probabilmente, con tutta l'umanità intera. Alla fine, dette un calcio a un sasso un po' troppo grande, che finì per ruzzolare sino alla staccionata che limitava il campo pratica e alzare una nuvoletta di polvere, che costrinse il giovane nobile a chiudere gli occhi e a tossire. Era davvero buffo in quel momento e io non riuscii a trattenere una risatina, se pur sommossa.
 
"Puoi uscire da lì adesso, John."
 
Mi assalì il panico più totale, mentre la mia gola si seccò di colpo e il cuore prese a martellare nel petto. Che cosa potevo fare, ora, se non fuggire a gambe elevate il più lontano possibile? Ma il mio cervello sembrava non riuscire più a impartire alcun tipo di ordine al resto del colpo, che rimase bloccato dov'era, neanche fosse stato trasformato in pietra da uno stregone.
 
Lord Sherlock aveva parlato con gli occhi ancora chiusi e le mani impegnate a scacciare (inutilmente) la polvere dalla camicia di lino ormai già troppo sporca. Non mi aveva visto, eppure era riuscito a dedurre la mia presenza.
 
Quando finalmente il mio corpo dette segno di una qualche capacità a eseguire i movimenti più basilari, mi accucciai ancor di più dietro il barile, raggomitolandomi su me stesso. Magari c'era stato un malinteso. Invece di John, il nobile aveva sicuramente pronunciato un Paul, un Joe, un...
 
"John, le tue orecchie funzionano peggio della tua gamba, forse? Smettila di abbracciare così amorevolmente quel barile e vieni qui!" borbottò, con tono di chi non ammetteva repliche. Di chi aveva tutti i diritti di comandare. E questa volta aveva gli occhi aperti, puntati decisamente nella mia direzione.
 
Nessun malinteso, dunque. Ero stato scoperto. Mi alzai e uscii dal mio rifugio. Mossi qualche passo, con le braccia incollate lungo i fianchi e un fastidioso formicolio non solo alla gamba ma al corpo intero. Poi mi bloccai, gli occhi fissi in quelli insistenti e indagatori di lord Sherlock. Ero terrorizzato, letteralmente terrorizzato da quello che il figlio del conte mi avrebbe detto di lì a poco, mentre davanti ai miei occhi saettavano gli amari ricordi degli abusi subiti da miss Adler per una vita intera. Per un attimo, fui contento della mia zoppia, del mio basso rango e di non essere potuto divenire cavaliere, perché, per la prima volta in anni, pensai di non possederne assolutamente la stoffa.
 
“Ho bisogno di un paio di braccia in più” disse invece Holmes. Mi irrigidii ancor di più, ignorando totalmente che cosa avesse in mente; tuttavia, ripresi a muovere i miei piedi verso di lui. Ero quasi a un metro che aggiunse: “Potrebbe essere pericoloso.” Mi bloccai dov’ero per l’ennesima volta e sgranai gli occhi, sorpreso. Lord Sherlock inarcò un sopracciglio e inclinò appena il capo: mi parve evidente che era accigliato. “Andiamo, non far finta di essere una donnicciola, John!” mi ammonì.
 
Poi, in un gesto fluido, si chinò a prendere due delle spade (che ai miei occhi apparivano di dimensioni immense) appoggiate al recinto del campo pratica  e ne lanciò una nella mia direzione. La forza che era uscita dalle sue braccia per compiere quel gesto trovò tutta la mia sorpresa, ma fu nulla in confronto a quella che provai rendendomi conto, un attimo dopo, che avevo impugnato la spada al volo.
 
“Trevor non è abbastanza bravo nel combattimento con lo spadone a due mani. Mi annoio con lui” spiegò Holmes, posizionandosi al centro del campo. Dunque non era solo un'impressione che questa spada fosse enorme mi ritrovai a pensare, sempre più terrorizzato.
 
Trotterellai dietro il giovane nobile, con la spada che sembrava essere un vero e proprio macigno tra le mie mani. Notai solo in quel momento che l’elsa decorata presentava buffi motivi a forma di ape. “Ma io non...” tentai nuovamente di protestare. Lord Sherlock lanciò un’altra occhiata densa di cipiglio nella mia direzione. “Io zoppico. Non credo ne sarò capace” dissi. Ricordo che avevo parlato chinando il capo a terra; il mio cuore gravava nel mio petto come un vero e proprio macigno, poiché nulla desideravo di più al mondo, se non combattere.
 
“Ora lo vedremo, se la tua gamba è davvero matta.” Quelle parole risuonarono nelle mie orecchie come la più dolce delle promesse e sollevai il capo, speranzoso. Ad accogliermi, trovai due occhi chiari lucenti più del sole e un sorriso appena accennato ma in grado di riscaldare il mio corpo meglio di una soffice coperta di lana.
 
Annuii.
 
E lord Sherlock annuì con me.
 
Mi ritrovai al centro dell'arena con entrambe le mani così strette attorno alla guardia [2] dello spadone che le nocche era quasi divenute bianche per lo sforzo. Ricordo che mi ritrovai a domandarmi come facessero i cavalieri a tirare con così tanta facilità; forse, mi dissi, le loro spade non pesavano tonnellate e tonnellate come quella che mi ero ritrovato a impugnare. Sicuramente la mia pesava come un intero cavallo. O forse addirittura due... Era questo che pensavo, mentre, con il sudore che già imperlava la mia fronte, indietreggiavo di piccoli passi verso il recinto.
 
Lord Sherlock, che si trovava diametralmente opposto a me, mi fissava con occhi così penetranti e taglienti da far invidia a una coppia di pugnali ben affilati. Iniziò a muoversi verso la sua sinistra e, di riflesso, mi mossi anch'io. Avrei voluto fuggire, invero, ma ormai era troppo tardi.
 
D'un tratto, il mio nobile avversario alzò la sua spada sopra la testa, con una fluidità tale che mi fece supporre che, al contrario della mia, la sua fosse fatta di piuma. In un baleno, mirando dritto dritto alla mia fronte, calò lo spadone in verticale con così tanta forza che la lama baluginò nell'aria, come se fosse stata forgiata con la più preziosa e lucente delle pietre.
 
Avvenne tutto in una frazione di secondo. In seguito avrei giurato che i miei occhi fossero davvero in grado di dialogare con i suoi, in quanto sembrava che fossi riuscito ad anticipare la sua mossa leggendola nel suo sguardo. All'ultimo istante, infatti, schivai il colpo con un balzo verso destra, aumentando così il cipiglio di lord Sherlock a livelli inimmaginabili. Indietreggiai con il piede destro, mentre il mio fiato era fastidiosamente già corto. Non ce l’avrei mai fatta, mi ritrovai a pensare, con lo spadone che sembrava divenire sempre più pesante ogni mezzo attimo che passava. Tant’è che la punta iniziò ben presto a pendere in avanti, mentre allontanavo inconsapevolmente la mia arma dal mio corpo.
 
Il mio gesto sembrò irritare ulteriormente il giovane Holmes, che scosse il capo, e temetti che, prima o poi, avrebbe chiesto al suo scudiero di liberarsi di me. Oppure mi avrebbe lui stesso cacciato dal castello prendendomi a calci. “E tu questo lo chiami combattimento?” sbuffò. “No, no, io sto solo cercando di difendermi” farfugliai. Mi sentivo esattamente come il primo giorno di lavoro presso mastro Michael: inadeguato. “Se vuoi difenderti, la lunga deve essere di posta breve” disse, non senza una certa supponenza.
 
Sgranai gli occhi in preda al panico più totale, mentre la punta del mio spadone sfiorava definitivamente il suolo: non avevo capito assolutamente nulla di ciò che Holmes aveva detto. Lo vidi roteare le sue splendide iridi di ghiaccio verso l’alto.
 
Sbuffò.
 
Due volte.
 
“Tieni il pomo quasi aderente all’addome, con la punta rivolta all’avversario, invero il sottoscritto, leggermente verso l’alto.”
 
Annuii.
 
Due volte.
 
“Gambe leggermente divaricate!” gridò.
 
Obbedii di nuovo, come il migliore degli allievi. Mi sentivo stordito. La sua voce mi stordiva. Era profonda, calda, avvolgente. Eppure racchiudeva in sé il potere di cento eserciti.
 
“Ginocchia morbide. Più morbide, John! Pronto a scattare!” gridò ancora, più forte, le parole che penetravano nel mio cervello con così tanto vigore da sembrare una moltitudine di aculei piccoli ma altamente aguzzi e altrettanto letali, in grado di raggiungere ogni mio più recondito nervo, solleticarlo, eccitarlo e spingerlo a reagire.
 
E fu così che, di scatto, portai lo spadone  con entrambe le braccia in alto alla mia sinistra, arretrando contemporaneamente il piede mancino, poi, istintivamente, ruotai leggermente busto e polsi nella stessa direzione e tentai di sferrare un colpo dritto in verticale, atto a colpire il corpo del mio avversario.
 
Ma lord Sherlock non si fece trovare impreparato, flettendo le gambe per non perdere l’equilibrio e coprendo la spalla destra, verso cui io avevo mirato, inclinando lo spadone leggermente verso il basso, le sue mani bianche e affusolate di poco sopra la testa. Il suono prodotto dalle lame delle nostre armi che cozzavano l’una contro l’altra fu qualcosa di meravigliosamente... puro.
 
Mi venne naturale paragonarlo al rumore osceno ma bellissimo del sesso. Per il tempo equivalente a un battito di ciglia, la mia mente ripresentò davanti ai miei occhi un’immagine sbiadita di Mary, nuda e ammaliante nel mio giaciglio. Un battito di ciglia più tardi, il viso di lord Sherlock, sudato e acceso di fervore, cancellò quell’immagine.
 
E fu così che ci ritrovammo a duellare l'uno contro l'altro, con slancio e ardore. I nostri colpi trasudavano passione e convinzione, come se da quello scontro ne andasse delle nostre intere vite. E forse, in parte, era davvero così, almeno per quanto mi riguardava, poiché sembrava che stessi nascendo a vita nuova.
 
Rispondevo agli attacchi di lord Sherlock come se fossi nato per quello, la gamba matta che, d'improvviso, come per effetto della più efficace delle fatture, non solo non protestava più, ma si fletteva avanti o indietro, fulminea, pronta per aiutare le mie braccia a schivare fendenti, trancianti e sgualembri [3] o a infliggerne a mia volta.
 
Stavamo ballando. Io e il giovane figlio del conte Holmes non stavamo più semplicemente duellando: i nostri corpi stavano danzando tra la polvere rossa e grezza dell’arena, perfettamente all’unisono l’uno con l’altro, ottenendo così un incastro perfetto, fatto di ferro, fuoco, sudore, ansimi, palpiti.
 
Mi pareva d’essermi trasformato nel prolungamento giusto e assoluto di lord Sherlock e lui nel mio. Io non potevo esistere se non in virtù del giovane Holmes e lui non poteva esistere se non in virtù mia. Eravamo diventati una cosa sola. O due metà della stessa entità, che non avrebbero avuto ragion d’essere l’una senza l’altra.
 
Il mio corpo fremeva, la mia pelle scottava, il mio cuore galoppava, le mie gambe volavano. Non sbagliai un colpo; riuscivo a schivare ogni montante e ogni affondo che lord Sherlock indirizzava alla mia persona. Ci fu un momento in cui arrivai addirittura a credere che sarei stato io il messere vincitore del duello.
 
Ma poi commisi un errore imperdonabile. Guardai lord Sherlock negli occhi.
 
E mi fu fatale...
 
Fino a quell’attimo, ero stato completamente assorbito dalle spade, dalle braccia, dal gioco di gambe. Il mio cuore e la mia mente erano totalmente focalizzati dall’arena e da ciò che stava avvenendo al suo interno. Fu quando alzai il viso e il mio sguardo si tuffò senza preavviso in quelle iridi azzurre così liquide di passione che capitolai.
 
Cuore, mente e corpo dimenticarono all’istante dove mi trovassi e cosa stessi facendo. E Holmes ne approfittò. Portò rapidamente indietro la gamba destra e, con altrettanta fulmineità, roteò completamente su se stesso, verso sinistra, infliggendo violentemente col dritto dello spadone un tondo [4] sul mio fianco destro, del tutto scoperto.
 
Vidi bianco, poi nero, infine mi ritrovai a terra.
 
In un attimo, finii sdraiato di schiena, con un ginocchio piegato e la spada ancora stretta, senza troppa convinzione, nella mano. Ansimavo, mentre sul mio cuore sembrava essere spuntata tutto d'un tratto una moltitudine di unghie, impegnate a graffiare prepotentemente il mio sterno. Tenevo gli occhi puntati verso il cielo terso mattutino e, pian piano, l'azzurro pallido lasciò il posto alla visione (splendidamente inebriante) del ragazzo che mi aveva battuto.
 
Lord Sherlock si avvicinò a me con piccoli passi, le mani che lambivano così saldamente l'impugnatura della sua spada da dubitare che sarebbe stato mai possibile, per lui, lasciarla andare.
 
"Odio sottolineare l'ovvio, ma..." iniziò, con una voce così calda che, al confronto, la mia carne bruciante pareva essere più gelida del ghiaccio. Così dicendo, inclinò il debole [5] dello spadone verso di me, piano. Molto piano. Sentii la lama sfiorare la mia guancia, in una sorta di timida carezza che, in realtà, serbava ben poco di timido.
 
"...ti ho..." continuò, scendendo ad accarezzare la mascella, il mento e, infine, il mio collo. Il curioso contrasto tra il freddo del ferro e il calore della mia pelle mi fece rabbrividire.
 
"...battuto" concluse, indugiando sulla gola. Sentii distintamente il mio respiro venir meno in quel momento e, quando Holmes ruotò appena i polsi per portare il filo falso [6] a contatto della mia pelle, ritenni davvero che il mio cuore sarebbe scoppiato da un momento all'altro e che sarei morto lì, in quell'arena. In uno dei modi più strabilianti che il destino avrebbe mai potuto regalarmi.
 
Sorprendentemente, rimasi in vita.
 
Il mio cuore non scoppiò nemmeno quando lord Sherlock alzò un piede per appoggiarlo sulla mia mano, quella che ancora brandiva la spada, e, con una lieve pressione dello stivale, mi costrinse ad aprire il pugno e a liberarmi della mia arma.
 
Fu un miracolo, soprattutto, che non scoppiò quando, senza staccare nemmeno per un attimo gli occhi dai miei, gettò il suo spadone lontano, scavalcò il mio corpo e si mise a cavalcioni sopra di me.
 
Fu come se qualcuno mi avesse messo nella cucchiara [7] di una catapulta per poi lanciarmi direttamente in Paradiso. O all'Inferno. Qualunque fosse il luogo in cui ero finito, era ugualmente meraviglioso.
 
"Sono giunto a due conclusioni" continuò il giovane ragazzo moro, piegandosi in avanti. Per essere onesti, le sue conclusioni non mi parevano realmente interessanti, in quel frangente.
 
Ciò che trovai davvero interessante furono le sue mani incredibilmente fresche, che andarono a stringersi attorno ai miei polsi, bloccandoli là dov'erano.
 
Fu la sua camicia, una volta candida e ora irrimediabilmente imbrattata dalla terra rossa dell'arena, con i lacci aperti che lasciavano intravedere parte del petto glabro, pallido come la neve ma impreziosito dalle gocce di sudore, che mi ricordavano la rugiada che spesso ammiravo sulle foglie di soffione, al mattino.
 
Fu il suo respiro caldo, in netta antitesi con la temperatura della sua pelle, che accarezzava pericolosamente le mie labbra, raccontando loro la più bella delle favole.
 
E, in particolare, fu il suo sguardo accesso e rovente, che bruciava nei miei occhi, sul mio collo e ovunque, contro il mio corpo.
 
La sua bocca si trovava a due sole dita dalla mia e dovetti richiamare a me anche la più minuscola scheggia di volontà per non avventarmi su essa per farla mia e cedere al più violento richiamo della carne.
 
"La prima" iniziò, muovendo appena le labbra, "è che è un vero peccato per Sua Maestà il re d'Inghilterra che tu non sia figlio di un nobile cavaliere, poiché saresti stato uno splendido e formidabile cavaliere a tua volta."
 
Deglutii.
 
"Anche se non così formidabile come il sottoscritto" specificò, inclinando la testa da parte, un guizzo di superbia che balenava nei suoi occhi.
 
Deglutii due volte.
 
"Sicuramente, di più del mio scudiero Trevor qui presente" aggiunse, alzando di poco lo sguardo. Solo allora mi ricordai della presenza dell'altro uomo e, potenzialmente, anche di altre persone attorno a noi e capii di essere arrossito sino alla radice dei capelli.
 
Lo stato d'animo in cui versavo fu ulteriormente messo alla prova da una delle gocce di sudore che imperlavano la tempia destra di lord Holmes, quando decise di abbandonarla per andare a visitare le sue magnifiche labbra. Ne seguii, rapito, il percorso, fino a vederla arrestarsi sull'arco di Cupido, dove indugiò un sol attimo, prima di dirgli addio e volare via. Precipitò nel vuoto e atterrò sulle mie, di labbra, dove la lingua la raccolse, avida.
 
Non potei impedirmi di pensare che il sapore salato che aveva conosciuto la mia bocca era in realtà il sapore di lord Sherlock, pensiero che riversò una pioggia di brividi sulla mia carne e che temetti seriamente potesse tramutarsi in un turgore assolutamente inopportuno tra le mie gambe.
 
"La seconda..."
 
Trasalii.
 
Solo due parole e lord Sherlock si bloccò di nuovo. Arricciò le labbra in un lieve sorriso, poi inclinò di più il capo e le accostò al mio orecchio, con un tono di voce che non riusciva a trattenere tutto il suo divertimento. "...è che è indubbio che le tue gambe funzionino entrambe benissimo, quando la tua mente è rilassata e concentrata altrove" concluse.
 
Il giovane Holmes aveva parlato riducendo ulteriormente le distanze tra noi, avvicinandosi ancor di più al mio lobo, incurante del fatto che, nel mentre, il suo ventre aveva sfiorato il mio.
 
Non deglutii.
 
Né tremai.
 
Esplosi, letteralmente.
 
Scattai in piedi con un balzo che avrebbe fatto invidia a un felino, scaraventando malamente il giovane nobile da parte. Mi girava tutto e ogni più piccolo e maledetto centimetro del mio corpo era in fermento.
 
In agitazione.
 
No, in eccitazione.
 
In un terribile e sconveniente stato d'eccitazione.
 
Non feci in tempo a muovere un passo che mi trovai di fronte Trevor, lo scudiero, che mi osservava – ci osservava – con occhi sgranati e labbra atteggiate alla più piena manifestazionedi stupore.
 
Dietro di lui, solo qualche metro più in là, c'era mastro Michael, con dipinta sul viso un'espressione così stupita da far impallidire quella di Trevor.
 
E, dietro mastro Michael, si ergeva sir Anderson, in tutta la sua arroganza. Lui non era stupito. Era solo stupido.
 
Il mio corpo fremette ancor di più, mentre mi ritrovai ad aprire e chiudere nervosamente le mani a pugno. Non stavo facendo nulla di male: il figlio del conte mi aveva semplicemente domandato, o meglio ordinato, di essere suo avversario durante un'esercitazione di combattimento con la spada a due mani. Non c'era proprio niente di sbagliato in questo.
 
Il fatto che non avrei dovuto trovarmi in primo luogo al campo pratica era pressoché irrilevante.
 
E il fatto che, fino a mezzo minuto prima, lord Sherlock si trovasse a cavalcioni sopra di me e io stessi sconvenientemente cedendo al più primordiale degli istinti era decisamente irrilevante.
 
"John, per tutti i diavoli! Che cosa ci fai qui?" borbottò il mastro, basito.
 
Aprii la bocca per dire qualcosa che ancora non sapevo che cosa sarebbe esattamente stata, ma Holmes mi precedette, parlando per primo. "Ho chiesto al vostro garzone di essere mio avversario d'allenamento, mastro Stamford" disse, passandomi accanto e urtando inavvertitamente – o, forse, volutamente – la mia spalla, prima di superarmi e raggiungere Trevor, che si fece premura di coprire il giovane lord con un mantello.
 
"E prima che me lo chiediate, sir Anderson, sì, ho insistito io e, no, voi non sareste stato in grado. In un combattimento con il più stupido dei garzoni arrivereste secondo perché siete... stupido!"
 
Mi fu impossibile non ridacchiare, ma, a un'ennesima occhiataccia da parte di mastro Stamford, mi morsicai l'interno della guancia per costringermi a smettere.
 
"Se non avete altri affari da sbrigare, il conte vi prega di lasciare il castello" tuonò sir Anderson. Dall'espressione che si era impossessata del suo viso non mi fu difficile capire che, se avesse potuto, avrebbe scuoiato lord Sherlock con le sue stesse mani. E, possibilmente, lentamente. Molto lentamente.
 
Mi ritrovai ubbidiente a seguire mastro Stamford, sorprendendomi a pensare che, con tutta l'eccitazione che si era impossessata del mio corpo, questi era ben carico per riuscire a tornarmene a casa a piedi senza problemi.
 
E qualcosa, dentro me, sembrava sussurrare che avrei tranquillamente potuto farlo davvero, per il resto dei miei giorni. Mi sentivo rinato a vita nuova.
 
Avevo duellato con il più affascinante degli stregoni, capitolando miseramente davanti alla sua sensualità. E lui, in cambio, mi aveva fatto dono di una gamba nuova.
 
Sorrisi.
 
Osservai il mastro sparire dietro la curva e, prima di farlo anch'io, mi fermai e voltai piano il capo, lasciando che il mio sguardo affamato scivolasse verso il campo d'allenamento.
 
Trevor lo scudiero stava spiegando qualcosa a lord Sherlock, gesticolando con fervore. Il giovane lo stava a malapena ascoltando, troppo preso a esaminare le due spade che avevamo usato poc'anzi. Stupidamente, provai uno scomodo e insensato moto d'invidia nei confronti dello scudiero: sentii il sangue ribollire nelle vene al pensiero che io ero stato invitato a portare la mia presenza altrove, mentre quell'uomo sarebbe rimasto vicino a Sherlock ancora e ancora. Così come sir Anderson, d'altronde. Così come tutte quelle persone che prestavano la propria opera all'interno del castello, animandone i corridoi e i cortili. Decine di persone.
 
Escluso me.
 
Scossi appena il capo in segno di tristezza, lasciando ai miei occhi e al mio naso una manciata di secondi per catturare i profumi e le immagini di quel luogo, in modo da trasformarli poi in ricordi che sarebbero rimasti per sempre a scaldare il mio cuore.
 
Avevo sì e no alzato il piede per riprendere il mio incedere e andarmene davvero da lì quando il giovane lord alzò il viso da quelle spade e mi cercò con lo sguardo, il cespuglio di capelli scuri ora meno ribelli del solito che si tingevano di una calda sfumatura di rosso sotto i raggi del sole.
 
Rimasi a fissarlo rapito, con il piede a mezz'aria, e, quando lo riabbassai, inciampai su una pietra e barcollai, senza tuttavia cadere. Arrossii di nuovo.
 
Lord Sherlock mi osservò, serio in volto, i pensieri evidentemente impegnati a danzare freneticamente dentro la sua testa. Avrei volentieri ceduto tutto il mio salario (che, in realtà non percepivo) per entrare in quella testa e vedere che cosa ci fosse realmente dentro.
 
E poi il mio magnifico ammaliatore si esibì di nuovo in una delle sue strabilianti magie: mi parlò, muovendo le labbra molto lentamente in modo da permettermi di leggere le sue parole anche da quella distanza. E le parole che lessi furono "Solo fatti utili."
 
Dentro la sua testa c'erano solo cose utili. Sorrisi, mordicchiandomi poi di nuovo il labbro con insistenza, cercando di mettere fine alla mia insolenza.
 
Anche lord Sherlock sorrise. Un piccolissimo sorriso sghembo. Poi mi strizzò l'occhio, per la seconda volta, e io, per l'ennesima, sentii il mio stomaco attorcigliarsi di piacere dentro me.
 
Raggiunsi il mastro correndo, il cuore in gola. Correndo veramente. Niente più mezze corse faticose trascinandomi dietro una dolorosa gamba matta. Ero vivo come non lo ero mai stato.
 
Più di quando fui costretto ad assistere al rogo di mia madre.
 
Più di quando osservavo di nascosto miss Adler a fare all'amore oggi con una nobildonna, l'indomani con un messere.
 
Più di quando le mie mani aiutavano mastro Stamford a trasformare un insulso pezzo di pelle in una borsa magnifica o quando raccontavo favole appassionanti ai suoi bambini.
 
Più di quelle volte in cui avevo unito il mio corpo a quello di Mary...
 
"Ma tu non zoppichi..." farfugliò Stamford, quando mi vide salire al volo sul carro già in movimento
 
"Odio sottolineare l'ovvio ma... È così!" dissi, mentre prendevo posto accanto a lui in cassetta, ridendo.
 


 
§§§
 


 
Il contatto della mia fronte con il legno della porta del laboratorio aggiunse un brivido a quella moltitudine di fremiti che ancora facevano vibrare ogni singolo nervo del mio corpo.
 
Chiusi gli occhi e sospirai. Feci schioccare la lingua contro i miei denti e alzai una mano per far scorrere il chiavistello e lasciare tutto il resto al di là. Volevo chiudere fuori il mondo intero. Niente interferenze: soltanto io e i miei preziosissimi ricordi di quanto accaduto.
 
Mi buttai sul mio giaciglio, il viso rivolto alle travi che sostenevano il soffitto e le palpebre ancora serrate. Mi sfilai gli stivali aiutandomi solamente con i piedi, mentre il mio petto era ancora tutto un susseguirsi di palpiti.
 
L'immagine ancora troppo vivida di lord Sherlock sopra di me, con il volto accesso e sudato dalla concitazione e dalla frenesia che erano state innescate dal nostro duello, si fece violentemente strada nella mia mente.
 
Piegai una gamba e mi scompigliai i capelli con entrambe le mani. Sapevo che la cosa più sensata sarebbe stata quella di scacciare quell'immagine dalla mia testa, assieme a tutti i ricordi che, quella mattina, vi avevo impresso così bene. Ma era così strabiliante l'effetto che la rievocazione di quel viso affilato eppur interessante provocava su di me che mi fu del tutto impossibile.
 
Era così piacevole la sensazione di vitalità che il duello intrapreso con il giovane lord aveva inciso nelle mie membra...
 
"Sherlock" mormorai.
 
Era così dolce il suono del suo bizzarro nome contro il mio palato...
 
Erano così trascinanti i palpiti che presero, di nuovo, a sconquassare il mio petto, con prepotenza...
 
Infine, era così sconveniente, e al contempo inevitabile, il turgore che si risvegliò sotto quella cascata di eccitazioni accompagnate dalle più proibite delle fantasie che si stavano gonfiando nella mia mente, per non far menzione di quanto fosse riprovevole la mano che scivolò lenta tra le mie gambe per porre sollievo, o il mio bacino che si alzò per andarle incontro e agevolarle il compito.
 
Un gemito sconnesso sgusciò fuori dalle mie labbra, proprio mentre l'immagine di Sherlock sbiadiva e l'estasi pennellava ogni cosa di un bianco acceso.
 
Mi abbandonai, stanco, sulla paglia, mentre il mio corpo era ancora un intrico di fremiti e palpiti. Per la prima volta in vita mia, mi sentivo davvero peccatore. Avevo ceduto al bisogno della carne. Inarcai la schiena e spalancai la bocca, il capo reclinato all'indietro e una mano ancora umida dei miei umori. Volevo urlare, ma non un sol suono uscì dalla mia gola. Annaspai in cerca d'aria.
 
Avevo peccato di lussuria e, come mai era accaduto prima, la cosa mi turbava: avevo approfittato del ricordo di lord Sherlock e mi sentivo come se avessi abusato realmente di lui.
 
Ma non avevo proprio potuto farci nulla. Avevo capito che desideravo quel giovane sopra ogni altra cosa. Desideravo parlare con lui; ascoltare ciò che avrebbe avuto da dirmi, come le sue piccole (o grandi) stramberie; cavalcare al suo fianco; duellare contro di lui; desinare assieme a lui.
 
Semplicemente, amarlo.
 
Chiusi gli occhi e, pian piano, mi addormentai, con il ricordo sfocato della calda voce di lord Sherlock che sussurrava dolci parole al mio cuore.
 
Nelle settimane a venire, temetti che quell'immagine sfocata sarebbe stata l'ultimo ricordo che avrei serbato di lui per il resto della mia vita.
 
 
 
 
 



Note:  [1] secondo il calendario medievale, quello giuliano, il nuovo anno iniziava il primo marzo.
[2] è l'impugnatura della spada.
[3] alcuni tipi di colpi nel combattimento con la spada.
[4] altro tipo di colpo.
[5] la parte più lontana dall'impugnatura della spada, ovvero la punta.
[6] il rovescio della spada, quello che rimane rivolto verso chi la impugna.
[7] uno dei due capi della catapulta, in cui si mettono i blocchi di legno o di metallo.
 

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Capitolo 4
*** ATTO IV. PERDONATEMI PADRE PERCHE' HO PECCATO ***


L’autrice desidera dedicare il presente capitolo a madonna Arthur_Rubrum <3

 
 
 

“Sì, c'è una lussuria del dolore, come c'è una lussuria dell'adorazione e persino una lussuria dell'umiltà. Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d'adorazione e umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano?”– dal libro "Il nome della rosa" di Umberto Eco

 
 


 
ATTO IV. PERDONATEMI PADRE PERCHÉ HO PECCATO
 
 
"Dunque, la conosco?"
 
La voce di Harriet era dolce e vivace, mentre si sporgeva un po' di più dal muretto, per guardarmi in viso. Arricciai il naso. "Hai bevuto di nuovo, Harry" le feci notare con tutta la disapprovazione, sdraiato sul prato a pochi passi da lei. "Andiamo, non cambiare discorso" borbottò, facendo oscillare nervosamente i piedi. Adoravo mia sorella quando si comportava come una bambina petulante. Un po' meno quando permetteva al vino di inebriare la sua mente.
 
Eravamo fuori le mura di Grimpen e il sole volgeva al mezzogiorno, i nostri cavalli, poco distanti da noi, troppo presi a brucare per dedicarci una qualche attenzione. 
 
"Non credo tu conosca questa persona. Almeno non intimamente" risposi un po' controvoglia. Un filo d'erba mi solleticò irriverentemente una guancia; lo strappai e presi svogliatamente a mangiucchiarlo, abbassando le palpebre.
 
"Un'altra ragazza della casa della morte, per caso? O la figlia di un qualche bottegaio? Ti prego, non dirmi che c'entra di nuovo quella Mary!"
 
Aprii gli occhi e il sole li ferì. Li richiusi subito.
 
"È una persona che ho incontrato durante la funzione domenicale" dissi. C'era una parte di me che desiderava raccontare ogni cosa a mia sorella. Un'altra che ne aveva timore.
 
"Oh..." fu il commento di Harry, che non riuscii a interpretare. Mi tirai a sedere d'improvviso, raccogliendo le ginocchia al petto. La guardai seriamente in viso e dischiusi appena le labbra per parlare, senza tuttavia riuscire a dire alcunché. Sorprendentemente, Harriet fu in grado di leggere molte cose nel mio sguardo. "John, ti stai mettendo nei guai?"
 
Mi morsicai con violenza la guancia, ancora incapace di trovare le parole giuste. "Hai smesso di zoppicare, Johnny... Non dirmi che ti stai impegolando con una strega, fratello! Per l'amor di Dio, potresti finire sul rogo!" 
 
"Non è una strega, Harry!" dissi, alzando la voce per porre fine a quel turbinio di parole.
 
Non si trattava forse di una strega, ma l'ipotesi di porre fine ai miei giorni bruciato su una pira non era del tutto estranea alla situazione.
 
Guardai lontano, perdendomi via nelle spine di grano, smosse da una leggera brezza.
 
"È il figlio minore del conte, Harry..." bisbigliai. Per un attimo, sperai non avesse udito le mie parole. Invece le erano giunte perfettamente all'orecchio.
 
"Va bene, John, basta scherzare" la udii asserire con fermezza. Mi voltai a osservarla negli occhi. Non aprii bocca, ma mia sorella ebbe la conferma sul mio viso che quanto appena detto corrispondeva alla verità.
 
"John, per tutti gli dei..."
 
Harriet arrossì sulle gote. E io con lei.
 
"È così..."
 
"Già..."
 
"...surreale..."
 
"Infatti..."
 
Non aggiungemmo altro per diversi minuti. Harriet era intenta a ponderare quanto le avessi appena rivelato, io a lasciarle tutto il tempo di questo mondo per abituarsi.
 
Il silenzio tra noi si spezzò quando la brezza divenne più forte.
 
"E lui... Non ricordo bene il suo nome..."
 
"Sherlock. Lord Sherlock Holmes."
 
Il mio cuore sussultò al solo pronunciare quel nome e il mio ventre fremette.
 
"Bene, lord Sherlock... Lui ti ricambia?"
 
C'era tensione nell'aria, oltre alla brezza. Il mio cuore perse un battito e io mi sforzai di guardare lontano, imbarazzato.
 
"Io non... Non so... Lui mi tratta alla pari" iniziai, poi staccai un filo d'erba e presi nervosamente a farlo in tanti pezzettini. "Ma non... Non credo che il suo cuore provi per me ciò che il mio prova per lui."
 
Sospirai.
 
Era la verità. Nonostante il nostro confronto nell'arena, gli sguardi rubati e i sorrisi appena accennati, sperare che il giovane Holmes fosse attratto da me era troppo anche per un sognatore e favoliere come il sottoscritto.
 
Harry mi stupì, scendendo dal muretto per venire a sedersi accanto a me. Mi guardò, quindi si lanciò addosso a me, soffocandomi con il più intenso degli abbracci.
 
"Chiunque sarebbe uno stupido a non amarti, fratellino" disse, il volto schiacciato nella mia spalla. "Persino un giovane nobile."
 
"Se mi amasse, Harriet, metterebbe in pericolo la sua stessa vita" ribattei, sfiorandole i capelli ricci con una mano.
 
"Se tu non fossi mio fratello, io ce la metterei, la mia vita in pericolo, per te."
 
Mi morsicai di nuovo la guancia e trattenni a fatica le lacrime. I rintocchi della campana della cattedrale risuonarono lontano.
 
"Dobbiamo muoverci, Harry, è già tardi" le dissi.
 


 
§§§
 


 
"John!"
 
Il gridolino di madonna Molly mi fece trasalire sulla panca. Era sabato sera e mi stavo esercitando con l'alfabeto. Alzai la testa dai fogli e la osservai senza capire subito.
 
"Smettila di scrivere con quella mano. È la mano del Diavolo!" borbottò, le sue occupate a rammendare una tunica di mastro Michael.
 
Annuii poco convinto e passai la penna nella mano destra, per compiacerla. In tutta onestà, non vedevo alcuna relazione tra la mia mano sinistra e il Diavolo, ma non dissi nulla. Ripresi a scrivere e madonna Molly a rammendare, quando mastro Michael entrò in casa provenendo dritto dal laboratorio, per darmi la peggiore delle notizie.
 
"John, ho bisogno di te in laboratorio domani mattina" esordì il mastro, "devi finire di trattare quel cuoio, altrimenti non sarà pronto in tempo per la commessa."
 
Rimasi per un attimo a bocca aperta, la penna sospesa a metà tra la conchiglia contenente l'inchiostro e il mio foglio.
 
Domani mattina. Ovvero, domenica mattina.
 
In laboratorio...
 
In breve, niente funzione.
 
Niente lord Sherlock.
 
Bianco.
 
Vuoto.
 
"John?" disse mastro Michael, inarcando un sopracciglio. I suoi occhi piccoli e tondi erano su di me. In un attimo, sentii sulla mia pelle anche quelli dolci e preoccupati di madonna Molly. Infine, anche quelli dei piccoli Andrew e Louise, probabilmente stupiti e divertiti dal vedermi con la bocca spalancata come quella di un giullare e nessun suono che usciva dalla mia ugola.
 
"Io..."
 
Mi sentii sprofondare nella delusione e nella disperazione più totali. Io non chiedevo nulla di pretenzioso al Fato, solo di poter godere della vista del giovane nobile per poco meno di un'ora sui banchi della cattedrale e magari rubare due chiacchiere all'uscita.
 
Non chiedevo molto, ma non mi fu concesso.
 


 
§§§
 


 
In tutta onestà, non so come lavorai quel cuoio l'indomani mattina. La mente era altrove, il corpo scosso. Quando finii, non fui per nulla soddisfatto del mio lavoro, ma mastro Michael non si lamentò.
 
Le mie mani tremavano e la mia pelle sudava. Mi sembrava di impazzire. Non mangiai nulla né a pranzo né a cena, lo stomaco troppo aggrovigliato su sé stesso per riuscire a contenere qualcosa in più dell'acqua.
 
Nemmeno chiusi occhio, quella notte. Rimasi a fissare le travi del controsoffitto per ore e ore, fino ad averne la nausea. Fino ad avere la nausea di tutto.
 
Fui esasperatamente intrattabile nei giorni successivi e la mia mente non riusciva a concentrarsi su nulla. Non ero molto utile né al mercato, né in laboratorio. Ero distratto e combinavo disastri su disastri. Tuttavia, mastro Michael fu comprensivo, non rivolgendomi mai parole di rimprovero o guidate dall'ira.
 
Madonna Molly non fece domande, ma mi seguiva sempre con i suoi occhi costantemente preoccupati.
 
Non esagero quando dico che mi pareva d'impazzire sempre di più, a ogni rintocco delle campane. Lord Sherlock mi aveva stupito, ammaliato, stregato. Mi aveva regalato un piccolo scorcio su una vita così normale da apparirmi meravigliosa. Il giovane Holmes mi trattava come suo pari e io semplicemente ne volevo di più.
 
E così feci la più grande delle sciocchezze.
 
Come già dissi, quando voli troppo in alto, la caduta è assai dolorosa.
 
E io mi feci molto male.
 


 
§§§
 


 
Il cuoio che avevo terminato di lavorare quella domenica mattina era stato comandato da sir Anderson. Il che voleva dire che, non appena fosse stato asciutto, lo avremmo portato al castello.
 
E quella sarebbe stata la mia occasione.
 
Dove sbagliai fu che ragionai con la debole carne, non con il saggio cervello.
 


 
Era la mattina di giovedì. Il cielo plumbeo e triste sopra la contea di Dartmoor non preannunciava nulla di buono per la giornata. 
 
Il mio cuore palpitava e il mio corpo fremeva quando il fante al portone d'entrata ci fece passare. Giunti nel cortile su cui dava l'ingresso della servitù, i miei occhi presero a scandagliare ogni angolo, finestra o feritoia. 
 
Incespicai un paio di volte e mastro Michael mi riprese. Avevo un solo desiderio: lasciare nelle mani di sir Naso Grosso la sua commessa e mettermi a esplorare il castello in ogni dove.
 
Non fummo ricevuti nel solito salone delle udienze del conte Holmes, ma nella sala delle guardie e dei cavalieri.
 
Sir Anderson era il solito indisponente di sempre, tuttavia un moto d'orgoglio attraversò il mio corpo quando capii che aveva notato, non senza una buona dose di sorpresa, la miracolosa guarigione della mia gamba.
 
Trattenni a stento un sorriso di vittoria, che smorzai subito rammentando quali fossero le mie priorità in quel momento: trovare lord Sherlock.
 
Sussurrai a mastro Michael che lo avrei aspettato nel cortile  e, con un inchino, mi congedai.
 
Una volta fuori dalla sala delle guardie, mi ritrovai di fronte a un dedalo di deserti corridoi e scale. Sopra o sotto? Destra o manca? Ero in preda a un fremito totale, la nuca formicolava e non stavo nella pelle di lanciarmi nella mia spedizione.
 
Ruppi ogni indugio e mi fiondai nel corridoio a sinistra. Una svolta e un'altra svolta. Il deserto. A desta c'era una stanza aperta; misi dentro la testa: nessuno. Procedetti.
 
Incontrai una feritoia: guardai fuori. C'era il cortile posteriore con il campo pratica.
 
Il mio cuore perse un battito.
 
Deserto anche lì.
 
Ebbi un attimo di indecisione, o meglio, di lucidità, quando tentai di riflettere su ciò che dovessi fare. Era tutt'altro che una cosa semplice, poiché lord Sherlock aveva completamente mandato a benedire ogni parte raziocinante del mio cervello. Non ero mai stato in vita mia sotto l'effetto di bevande o sostanze ottenebranti, come quelle portate in patria dai più nobili cavalieri templari, ma fui alquanto sicuro che il loro effetto sulla mente umana non si discostava di molto da quello che lord Sherlock aveva avuto sulla mia.
 
Avevo pochi minuti a disposizione e un castello intero da esplorare. Pensai che non avrei mai potuto farcela.
 
E di fatti non ce la feci.
 
Udii un rumore di passi – appartenenti a due o tre fanti, a giudicare dallo scalpiccio sul pavimento e dal tintinnio delle spade – provenire dalla direzione in cui ero venuto. Mi prese il panico e decisi di fare l'unica cosa che potevo fare: mettermi a correre.
 
E corsi, corsi e ancora corsi.
 
Fino a quando, dopo una svolta, una porticina si aprì e io andai a sbattere contro la dura armatura di sir Anderson.
 
"Bene, bene, chi abbiamo qui? Il piccolo garzone ficcanaso di mastro Stamford!" disse sir Anderson, esibendo il più ostile e viscido dei sorrisi. I suoi occhi piccoli e agghiaccianti scandagliarono rapidamente il mio corpo. Rabbrividii. Mi voltai e feci per correre nella direzione opposta quando mi trovai di fronte i tre fanti, che mi sovrastarono dall'alto della loro mole.
 
Non sarei più andato da nessuna parte.
 
Rimasi intimorito e imbambolato a guardare le alabarde in resta nelle loro mani destre, poi sir Anderson mi agguantò per un braccio, sbattendomi contro la parete con tutta la forza di cui fu capace.
 
Il dolore che provai alla schiena fu così lancinante da mozzarmi il respiro, ma non urlai né piansi. Nemmeno quando sir Anderson mi colpì alla bocca dello stomaco. Quello che feci fu pregare che qualcuno venisse in mio soccorso.
 
Nessuno ascoltò la mia preghiera.
 
"Adesso te la faccio passare io la voglia di ficcanasare in giro, Watson" disse sir Anderson, con un ghigno. "Tu sei solo un povero pezzente..."
 
Un altro pugno.
 
"...figlio bastardo di una strega, che non è bravo in niente. Nemmeno a letto, stando a quanto sostiene miss Morstan..."
 
Poi sir Anderson mi sputò addosso, saliva calda che si mischiava a sangue ancor più caldo.
 
E allora io reagii.
 
Gli assestai un montante con la mancina, in pieno viso. Fu un attacco del tutto inaspettato e sir Anderson non poté far nulla per reagire, a parte barcollare e sostenersi alla parete per non finire a terra, rivoli di sangue che macchiavano il suo naso.
 
"Buttate questo schifoso bastardo fuori da qui" ordinò sir Anderson ai fanti, gridando così forte che per un attimo temetti gli scoppiasse la testa, una mano che andava a coprire il naso ferito.
 
Due dei tre fanti mi presero per le braccia e mi trascinarono per i corridoi. Il mio corpo doleva in ogni dove e mi ritrovai a desiderare ardentemente che lord Sherlock non mi vedesse in quello stato, altrimenti sarei sicuramente morto di vergogna.
 
Giungemmo ben presto nel cortile dove i fanti mi restituirono alla polvere della terra, cadendo ai piedi del nostro carro.
 
"John, per l'amor di Dio" farfugliò mastro Michael, chinandosi per aiutarmi a rimettermi in piedi. "Che cosa hai fatto?"
 
Lo guardai in volto: i suoi occhi erano spaventati, atterriti, e le sue mani tremavano. Solo in quel momento compresi la reale portata dell'errore che avevo commesso.
 
"Il vostro garzone è stato sorpreso frugare nelle stanze del castello, mastro" proferì sir Anderson, coprendosi il volto sanguinante con un cencio che una guardia gli aveva passato.
 
"Ma io non stavo fru..." protestai debolmente.
 
"Taci, di grazia!" mi interruppe il mastro, tuonando nelle mie orecchie. E io tacqui, chinando il capo.
 
"Ma ho deciso di essere clemente, quest'oggi. Potete andare, ma il vostro garzone non è più persona gradita, qui al castello. E se solo osasse disubbidire e rimettere piede qui, per lui ci sarà la forca..."
 
Mi sentii mancare.
 
"...e in quanto a voi, mastro" una pausa, "sarete rovinato qualora scoprissi il vostro coinvolgimento. Per oggi siete congedati, ma siete stati avvertiti."
 
Mastro Michael annuì un numero imprecisato di volte, continuando a ringraziare sir Anderson per la sua magnanimità, che proprio io non riuscivo a vedere.
 
Poi il nobile e i fanti rientrarono, lasciandoci soli. Salimmo sul carro e partimmo, la polvere alzata dalle ruote che ci faceva da triste cornice. Rimanemmo in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, sino a casa.
 
Non aprii bocca nemmeno una volta messo piede, per primo, all’interno delle mura domestiche. Semplicemente, non ne ero in grado. Corsi dritto davanti al fuoco accesso e lì rimasi, in piedi, le braccia lungo i fianchi. Il mio corpo era scosso da brividi glaciali che non ero capace di controllare. Mi persi via a osservare le fiamme quasi arancioni e il pentolone di zuppa sul fuoco, mentre aprivo e chiudevo a pugno la mancina.
 
“John? Per l’amor del cielo, cos’è accaduto, John?”
 
Madonna Molly si era inginocchiata accanto a me, gli occhi sgranati e spaventati. Non le risposi. Un attimo dopo, sentii la sua mano calda sfiorare piano il dorso della mia mano ghiacciata. La scacciai con un gesto brusco e poco educato, di cui mi pentii subito.
 
“John, buon Dio... Sei ferito” mi incalzò ancora, la sua voce che mi appariva distante miglia e miglia. I miei occhi stavano osservando il fuoco, ma ciò che vedevano erano solamente i ricordi sbiaditi di quanto accaduto al castello, quella mattina. Il dolore che provavo allo stomaco e al petto era lancinante, tuttavia tutto ciò che riuscivo a provare era la vergogna e il rimorso per quanto accaduto.
 
Che cosa avevo fatto? Che cosa la mia debole carne mi aveva mai portato a compiere?
 
La porta sbatté contro i cardini con una violenza tale da far sussultare madonna Molly. Io non battei ciglio, invece. Era mastro Michael che entrava in casa. Non disse nulla, dapprima, ma, sebbene gli stessi dando le spalle, lo sentii sospirare in preda alla disperazione.
 
“Mike, vuoi dirmi almeno tu che cosa è successo, di grazia?” domandò la madonna, in un evidente stato di agitazione, mentre si alzava e raggiungeva il marito.
 
“John è stato allontanato dal castello” iniziò Michael, parlando a fatica.
 
Unghie che si conficcavano senza pietà nei palmi delle mani...
 
“Potevo perdere il lavoro, John.”
 
...denti che affondavano ancor di più nella carne facendola sanguinare...
 
“E potrei perderlo ancora. Sono a tanto così per perderlo!”
 
...lacrime che tingevano ogni cosa di un bianco pallido.
 
“Io... sono desolato, signore” furono le uniche parole che fui capace di pronunciare, quando trovai la forza di respirare. Deglutii, ricacciando indietro le ultime lacrime. Poi boccheggiai e reclinai il capo all’indietro. Fu allora che i miei occhi si posarono sul ballatoio del primo piano, dove vidi Andrew e Louise, inginocchiati a osservarmi con curiosità attraverso la balaustra. Provai un’indescrivibile fitta al cuore.
 
Che cosa mi ero messo in testa di fare? Avevo davvero creduto che potessi avere un qualche diritto su lord Sherlock Holmes? Che potessi avere il diritto di parlargli quando ne sentivo il desiderio? In un attimo, il mio comportamento scellerato aveva messo a repentaglio la vita di quattro anime, quelle quattro anime che mi avevano regalato un tetto e a cui io dovevo tutto.
 
La mia anima, no, non contava. Io non contavo. Ero già fortunato a essere ancora vivo, a non essere morto di stenti in un vicolo di Grimpen o arso vivo tra le fiamme, come era capitato alla donna che mi aveva messo al mondo. Come ero convinto che prima o poi sarebbe capitato, un giorno di questi.
 
Io non avevo diritti.
 
Io ero inferiore.
 
E cedendo ai bisogni della carne – e a quelli insensati del mio cuore, di un amore a senso unico che non aveva ragion d’essere – avevo rischiato di far male a queste quattro persone che mi volevano davvero bene, di farle finire sulla strada. Mastro Michael avrebbe potuto perdere il suo lavoro, la sua casa. Tutto.
 
E sarebbe stata solo colpa mia.
 
“Sei desolato?” le parole del mastro furono peggio di tutti i pugni che sir Anderson mi aveva inferto. Boccheggiai in un disperato bisogno d’aria e mi voltai, le unghie ancora ben artigliate nella carne.
 
“Vi prometto sul mio onore che non si ripeterà mai più” dissi, guardando il signor Stamford negli occhi. Non so cosa egli ci vide, ma presumo tutta la sincerità del mio cuore. Il mastro sospirò e annuì, quindi si avvicinò alla consorte, accarezzandola dolcemente sulla schiena, per tranquillizzarla. “Occupati di lui, mia cara. Ha dei brutti lividi” bisbigliò al suo orecchio, prima di uscire e tornare al laboratorio.
 
Madonna Molly mi fece delle spugnature e cosparse di unguento il mio corpo nei punti offesi. Non domandò ulteriori spiegazioni e io non gliene detti.
 
Dentro di me, c’era solo la morte.
 
Avevo aperto gli occhi. E la caduta dalla Terra Promessa era stata terribile.
 


 
§§§
 


 
“John, se non ti sbrighi, faremo tardi” cinguettò madonna Molly, aggiustandosi la cuffietta bianca. Era la domenica mattina dopo quel terribile giovedì e la famiglia Stamford si stava preparando per recarsi alla funzione.
 
“Io non vengo” tagliai corto, senza alzare lo sguardo dai miei esercizi di scrittura. Non udii né passi, né altri rumori, segno che la mia dichiarazione aveva stupito tutti.
 
“Non vieni alla Messa, John?” domandò Michael, allibito.
 
“È quello che ho detto” risposi, gli occhi sempre incollati sul foglio di cenci. Mi pentii immediatamente del tono che avevo usato: il mastro non aveva colpe. Ce le avevo tutte io.
 
“Vuoi morire peccatore, John?” tuonò il signor Stamford, con un impeto che mi terrorizzò. Non l’avevo mai sentito così alterato, prima d’allora. E, come ho appena detto, era solo colpa mia. "Con quella tua gamba che è tornata sana per effetto di chissà quale fattura?" aggiunse, indicandola con il mento.
 
Sherlock...
 
Lui doveva solo restarne fuori.
 
Mi sentii mancare e provai un’indescrivibile morsa allo stomaco: stavo facendo del mio meglio per riparare al danno fatto, eppure riuscivo solo a fare uno sbaglio dopo l’altro. Stupido e inadeguato, ecco cosa pensavo di me stesso. A fatica, alzai lo sguardo dai miei compiti e incontrai i loro occhi: quelli di Michael furenti, quelli di Molly tristi e carichi d’affetto.
 
Michael e Molly erano la mia famiglia, la sola che avrei mai avuto. E li stavo deludendo. In quel momento, mi odiai con tutto me stesso e iniziai a pensare che sarei dovuto morire io sulla pira, quel giorno, non la mia povera madre. Io ero capace solo di far soffrire le persone.
 
Forse, sir Anderson e Mary avevano ragione, dopotutto.
 
Poi madonna Molly sorrise e, prendendo il consorte per il gomito, lo spinse dolcemente verso la porta. “Va tutto bene, John, non preoccuparti. Noi andiamo e tu... puoi preparare la zuppa, mentre siamo via” disse, con tutta la dolcezza di cui fu capace. Annuii e mi alzai, alla volta della madia. “Padre Lestrade. Dovresti andare da padre Lestrade per liberare la tua coscienza” borbottò Michael, prima di chiudersi la porta alle spalle.
 
Rimasto solo, mi inginocchiai e aprii le ante della madia. Rimasi a guardare le stoviglie senza vederle realmente, immerso com’ero nei miei pensieri. Avevo preso una decisione, la più triste della mia vita: avrei fatto di tutto per dimenticare il ragazzo che aveva stregato il mio cuore. Non gli avrei più parlato, non lo avrei più cercato... Avrei fatto del mio meglio per evitare di incontrarlo, di vederlo. Anche solo di pensare a lui.
 
Non sarei più andato alla funzione domenicale per il resto dei miei giorni e sarei morto da peccatore – peccatore infelice e pieno di rimpianti– se questo voleva dire garantire la sicurezza della famiglia Stamford.  
 
Stavo dicendo a lord Sherlock, al mio principe, addio per sempre.
 
Forse avrei permesso al mio cuore di incontrarlo qualche volta nei miei sogni, o al mio calamaio di narrare ancora le sue gesta nei miei racconti, ma nulla di più.
 
Scelsi il pentolone tra le varie stoviglie e mi alzai in piedi. Sognare era stato magnifico, fin tanto che era durato.
 


 
§§§
 


 
Quando la famiglia Stamford rincasò dalla funzione, quella stessa domenica mattina, mi trovò ancora davanti al fuoco, intento a rimestare la zuppa e con la mente assorta ancora in pensieri poco felici. Madonna Molly mi passò accanto e mi sorrise. Io le sorrisi di rimando, sebbene gli unici sentimenti che ero capace di provare erano solo un'immensa tristezza e un incolmabile senso di vuoto.
 
"Che buon profumino!" gongolò il mastro, mentre saliva al piano di sopra assieme ai figli, apparentemente dimentico della rabbia di un'ora prima. Lo vidi sparire dietro la balaustra, quindi ripresi a mescolare la zuppa. Solo allora mi resi conto che madonna Molly era rimasta accanto a me e saltellava nervosamente su una gamba, con fare incerto. La guardai dubbioso.
 
"Le pratiche di sodomia... Padre Lestrade dice che sono punibili con la morte. La più atroce delle morti..."
 
Avvampai, mentre il mio cuore iniziava una corsa disperata e senza sosta. Mi sentii mancare e persi per un attimo controllo sul mio corpo, tant'è che nemmeno mi accorsi che il cucchiaio di legno che un attimo prima era nella mia mano, un attimo dopo era scivolato sul pavimento.
 
Pratiche di sodomia... Io nemmeno avevo il diritto d'aspirare a pratiche d'amicizia con lord Sherlock, figuriamoci qualcosa di più. Scivolare con lui nel peccato più totale... ed esserne al tempo stesso immensamente felice...
 
Tuttavia, la genuina preoccupazione che la signora Stamford provava nei miei confronti mi riempiva l'animo di una pacata e contenuta forma di serenità. E, al contempo, ebbe il potere di farmi sentire ancora più misero.
 
"Padre Lestrade, devi sul serio parlare con lui" aggiunse, chinandosi a raccogliere il cucchiaio.
 
Mi persi via a osservare le fiamme alte e forti, che accarezzavano con veemenza il pentolone di rame, mentre la mia mente rifletteva sulle parole della madonna.
 
"Mhm, buona... Direi che è pronta!"
 
Madonna Molly voleva che chiedessi perdono per i miei peccati.
 
Mastro Michael voleva che chiedessi perdono per i miei peccati.
 
Sospirai.
 
Lo avrei fatto.
 


 
§§§
 


 
"Perdonatemi, padre, perché ho peccato..."
 
La luce fioca che faceva capolino nel piccolo confessionale illuminava appena il profilo virile di padre Lestrade, al di là della grata. Ricordo che era una giornata di sole, eppure tutto ciò che provavo era solo un freddo gelido e sterile, dentro e fuori il mio corpo.
 
Ogni cosa mi appariva irreale. Irreale lo stretto vano in cui ero inginocchiato. Irreale la voce del monaco benedettino che mi invitava a confidarmi perché Dio mi ascolta. Irreale il suono della mia stessa voce o del mio stesso respiro.
 
Io ero lì, eppure non c'ero realmente.
 
Era da poco terminata la preghiera della mattina quando la mia mano si mosse rapida nel segno della croce, accostandomi al sacramento della confessione con dolore e vergogna.
 
"Non mi confesso da... Non ricordo, esattamente, padre" esordii, la voce roca e incerta. Sentii le mie gote farsi di un porpora accesso e ringraziai che, nella debole luce, non fosse semplice per il monaco notarlo.
 
"Non avere timori, figliolo, perché Dio ti ascolta. Anzi, ascolta il tuo cuore."
 
Nell'intimità del confessionale, Lestrade sembrava avere una voce meno poderosa di quando tuonava i suoi sermoni dall'alto del pulpito. Appariva comprensiva, quasi dolce. Ben diversa dal ricordo che serbavo di lui risalente alla notte della morte di mia madre.
 
Nonostante questo, avevo paura. Mi morsicai la guancia e chinai il capo. "Ho peccato, padre..."
 
Una pausa.
 
"Di stoltezza..."
 
Il mio cuore palpitava e il corpo trepidava.
 
"Ho ceduto alla debolezza della carne e..."
 
Alzai il capo, chiamando a me tutto il mio coraggio per affrontare la giusta punizione che mi aspettava.
 
"...e del cuore."
 
Sentii padre Lestrade muoversi incerto sul suo seggiolino.
 
"La carne è sovente sinonimo di debolezza, figliolo. Ma è il tuo cuore che devi imparare ad ascoltare, senza timor alcuno..."
 
"Il mio cuore si è innamorato, padre" lo interruppi. Volevo parlare, volevo gridare al mondo intero il mio amore per lord Sherlock, quell'amore che per la prima volta nella mia esistenza mi aveva fatto sentire vivo, reale e non più trasparente agli occhi di tutti. Ma non potevo farlo.
 
Pensavo a tutto questo mentre mi chinavo ancor di più in avanti, trovando appoggio contro la grata con entrambe le mani.
 
"Il mio cuore si è innamorato di una... persona... che non potrò mai amare."
 
Sospirai.
 
Chiusi gli occhi.
 
E ogni cosa mi parve morta, senza spessore. Insormontabile.
 
"Dimmi figliolo, hai giaciuto con questa persona?" sentii la voce roca del monaco domandarmi.
 
"Giacere con questa persona, padre?" Scossi il capo e mi abbandonai a un sorriso triste e sarcastico. "Io non ho nemmeno il diritto di pronunciare il suo nome a voce alta. O quello d'incontrarla nei miei sogni."
 
Grigio.
 
Vedevo e sentivo solo grigio. Grigia la voce di padre Lestrade, grigia la mia pelle, grigi i miei ricordi più belli.
 
Ogni cosa era grigia, tranne il suono del nome Sherlock che riverberava nella mia mente. Quello serbava ancora ogni sfumatura dei più accesi colori pastello.
 
"Ho messo a repentaglio la vita di altre quattro persone solo per poter... vedere l'oggetto del mio desiderio."
 
Non feci menzione del piacere che avevo concesso a me stesso, timoroso e vergognoso come non mai in vita mia di quel gesto illegale [1] e immorale che avevo compiuto a seguito del duello nell'arena.
 
"E, Dio mi è testimone, non v'é nulla di cui mi sia mai pentito di più..."
 
Sospirai di nuovo, poi i miei occhi cercarono quelli scuri di padre Lestrade al di là della grata, in un, per me insolito, tentativo di trovare nel monaco una qualche forma di conforto.
 
E in quel momento il monaco alzò la mano destra, andandola a posare contro la grata, quasi come se volesse regalarmi un po' di calore con cui tentare di riscaldare il mio cuore così angosciato.
 
"Figliolo, il tuo pentimento ti fa onore" iniziò. Padre Lestrade possedeva sguardo e voce magnetici e io non potei trattenermi dall'osservarlo pendendo dalle sue labbra. Spostai la mano destra, posandola contro quella del monaco, al di qua della grata. "La profondità del tuo sentimento d'amore è palpabile, ragazzo mio. Così come la devozione nei confronti di queste altre persone che hai messo a rischio con la tua scelleratezza. Parlano per te senza che tu debba muovere le labbra. E lo fanno attraverso gli occhi, le tue mani..."
 
Nonostante la penombra, non facevo fatica a scorgere il luccichio che animava le iridi di padre Lestrade. Se lui riusciva a intuire la veridicità dei miei sentimenti, io facevo altrettanto con la sua fede e la sua passione che metteva nel suo operato.
 
Ma mi chiedevo quali sarebbero state le sue parole e quali i suoi atti se fosse venuto a conoscenza del fatto che la persona di cui il mio cuore si era innamorato altro non era che un giovane uomo.
 
Può l'amore avere confini? Può l'amore tra un giovane uomo e una giovane donna essere più puro e meritevole di quello tra due giovani uomini? O tra due giovani donne?
 
Sapevo fin troppo bene quale sarebbe stata la risposta di padre Lestrade se gli avessi posto quella domanda. Nonostante la bontà che leggevo nelle sue parole, non era un segreto cosa mi avrebbe atteso se fossi stato sincero: il rogo. Come mia madre, né più né meno.
 
"È per questo che sono certo che saprai prendere le decisioni con giudizio, in futuro" continuò, con voce profonda e accalorata. "Affidati a nostro Signore e fatti guidare dal tuo cuore. Se vi rimarrai fedele, ogni decisione che prenderai sarà la più giusta. Anche se questo vorrà dire rinunciare al tuo amore."
 
Rinunciare...
 
A lord Sherlock.
 
Per sempre...
 
Sospirai, poi chiusi gli occhi. Annuii, ripetendomi mentalmente che quella era la scelta più giusta. Soffocare il mio sentimento sul nascere.
 
"Ti invito a fare ammenda recitando il Padre Nostro e l'Atto di pentimento. E io ti assolvo, figliolo, dai tuoi peccati. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Che la pace sia sempre con te."
 
Un attimo dopo prendevo commiato dal monaco benedettino, con l'animo carico di tristezza e rassegnazione.
 
 
 
 
Note: [1] la masturbazione nel Medioevo era immorale e illegale.

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Capitolo 5
*** ATTO V. IL CAVALIERE OSCURO ***


--Era così strano stare fermo in mezzo alla strada nella speranza di vedere una ragazza che neppure l'aveva riconosciuto; ma non voleva andarsene. Si sentiva fremere di un sentimento nuovo. Niente gli sembrava più importante, eccettuata la principessa. Era un pensiero fisso che lo incentrava e lo ossessionava. Era innamorato.

 

Ken Follet, I pilastri della terra

 
 

 
 
 
ATTO V. IL CAVALIERE OSCURO
 
 
 
"Questa è senza dubbio la cosa più sciocca e scellerata ch'io abbia mai udito in tutta la mia vita" borbottò Harry, stringendo le braccia al petto e arricciando il naso. Avevo sempre adorato quando, da piccoli, metteva il broncio in quel modo. In quel momento, invece, mi irritava solamente.
 
"Credimi, sorella, è stata la decisione più sensata di tutta la mia vita" ribattei io, voltandole le spalle e iniziando a spazzolare il cuoio steso al sole.
 
"Vorrai senza dubbio dire la più insensata, Johnny" mi corresse, parandosi di fronte a me.
 
Io sbuffai.
 
Lei sbuffò più forte.
 
"Senti, sono d'accordo. Forse non è stata una mossa molto intelligente mettersi a girare in lungo e in largo il castello nella speranza di trovarlo..." mi concesse, prendendo a grattarsi la punta del naso.
 
Io sollevai lo sguardo dal mio lavoro, agganciando i miei occhi blu ai suoi e osservandola con un sopracciglio inarcato.
 
"Va bene, va bene. Tolgo quel forse... Però non è necessario essere così drastici, fratello. Puoi sempre aspettare il momento propizio in cui vi incontrerete di nuovo. E parlargli in quell'occasione..." Harry si appoggiò con le braccia alla staccionata. "Durante la funzione domenicale, magari."
 
Scossi il capo con risolutezza. "No, Harry, ormai la mia decisione è presa. Con il mio comportamento ho rischiato di mettere nei guai la mia famiglia. E non posso escludere che una cosa simile ricapiti di nuovo."
 
Mi appoggiai anch'io alla staccionata, osservando le mura lontane con aria distratta. I nostri gomiti si sfioravano appena. "Non posso escluderlo, poiché quando si tratta del mio principe divento vulnerabile."
 
Sulle prime, non mi accorsi di aver di nuovo usato quelle parole – mio principe – per descrivere lord Sherlock e, quando lo feci, arrossii sentendomi sciocco e infantile.
 
Harry mi guardò, i lineamenti plasmati da una dolcezza che in tanti anni non avevo ancora visto su di lei. Non disse nulla, ma mi strinse a sé in un abbraccio soffocante.
 
"Quel sir Anderson... Se potessi lo sgozzerei con le mie stesse mani e ti servirei la sua testa su un piatto d'argento" borbottò contro la mia spalla. "Harry!" la redarguii. Mi staccai da quell'abbraccio per osservarla negli occhi e l'affetto che vi lessi era così intenso da impedirmi di rimproverarla ulteriormente. Mi limitai a darle un leggero buffetto su una guancia.
 
"Non so proprio come faccia Mary a..." poi Harry si bloccò di colpo, alla vista della tristezza che si dipinse sul mio viso. “Scusami, non era mia intenzione riaprire vecchie ferite. Ne hai già abbastanza di nuove...” mormorò. “Non fa nulla, sorellina, non fa nulla” la tranquillizzai, prima di rimettermi al lavoro.
 
§§§
 
 
 
Era giorno di mercato della settimana seguente e la campana aveva appena suonato i dodici rintocchi. “Puoi prenderti la tua pausa per il pranzo, se vuoi” furono le parole di mastro Michael che mi giunsero all’orecchio. “Puoi anche prenderti una pausa più lunga del solito” aggiunse. Lo guardai per un attimo, prima di ribattere: "Ne siete sicuro, mastro? C’è tanta gente, oggi, e non vorrei che...”
 
Il mastro mi sorrise. “Hai lavorato duramente questa settimana. Te la meriti davvero un po’ di calma. Fatti un giro alla taverna, se vuoi!” E questo era il suo modo migliore per farmi capire che si scusava per aver tenuto costantemente il fiato sul mio collo dopo la disavventura al castello. “Grazie, mastro” dissi, prima di chinarmi sotto il banco alla ricerca della borsa tascapane contenente il mio pranzo.
 
Me la infilai a tracolla e mi incamminai per le viuzze di Grimpen alla ricerca di un luogo tranquillo dove consumare il mio pasto, iniziando a mangiucchiare una fetta di pane dolce.
 
Senza accorgermene, giunsi ben presto nella piazzetta antistante la cattedrale e lì mi bloccai, il tozzo di pane che ruzzolava via dalla mia mano per la sorpresa. E, soprattutto, l'orrore...
 
Al centro della piazza gremita dalla folla c'era un piccolo palco di legno, sul quale troneggiavano due pali dello stesso materiale, uno a destra e l'altro a sinistra. Sotto a ciascun palo si trovavano abbondanti fasci di legnami dai quali partivano lingue di fuoco che si facevano via via più alte, via via più inesorabili e letali.
 
Appesi ai due pali, i corpi di due giovani uomini, legati e con evidenti segni di percosse. Si dimenavano, quelle due povere anime, in un ultimo e disperato tentativo di fuggire al loro destino ormai scritto.
 
Potevo distintamente vedere le loro bocche aperte, spalancate per versare sul mondo le loro ultime parole, o le loro ultime grida, ma nulla giungeva al mio orecchio, poiché qualunque cosa stessero urlando o implorando – compassione? Perdono? O semplicemente una morte rapida? – era coperta dal fragore della gente, dalle sue, di grida, che pareva trarre un'indicibile e soprattutto un'indecente piacere da quanto stava accadendo sotto i nostri occhi, sotto il cielo grigio e cupo di quella tarda mattina.
 
Mi alzai in punta di piedi e solo in quel momento notai sul palco, alla sinistra degli uomini che stavano controllando l'altezza delle fiamme, la figura di padre Lestrade. Teneva lo sguardo rivolto a terra e appariva indubbiamente concentrato, smarrito in chissà quali pensieri. Quasi triste.
 
Accanto a lui e che pareva tuonare rimproveri e accuse con ogni pollice della sua veste viola e con tutta la sua figura imponente e austera, c'era il vescovo Charles Augustus Milverton. I lineamenti del vescovo erano duri e viscidi, in netto contrasto con quelli del monaco benedettino a suo fianco. Gli occhi erano freddi, quasi glaciali, e gli angoli della bocca erano piegati in un sorriso divertito, quasi come si stesse beando – nutrendo – di quelle due povere anime che stavano smettendo di vivere nel peggiore dei modi.
 
Fu in quel momento che qualcuno mi urtò, spingendomi contro una donna alla mia sinistra. "Per tutti i diavoli, ragazzo!" protestò la donna. Io farfugliai le mie scuse, proprio mentre sentivo qualcuno, probabilmente la persona che mi aveva appena urtato, chiedere che mai avessero commesso i due condannati.
 
"Hanno peccato di lussuria e sodomia" rispose con disprezzo la donna che avevo urtato. "Andranno all'Inferno, qual è il loro posto" aggiunse qualcun altro.
 
Mi sentii mancare, tra tutto quell'odio che percepivo attorno a me, mentre i ricordi della morte di mia madre iniziavano prepotentemente a riaffiorare nella mia mente. Allora mi voltai di scatto, urtando quella donna una seconda volta, e presi a correre, correre e correre. Il più lontano possibile. Mentre il cielo ferito iniziava a rigettare scrosci di pioggia violenta.
 
Alla fine, giunsi dall'estremità opposta del villaggio, nella piccola piazzetta del pozzo, fradicio dalla testa ai piedi. Mi appoggiai al muretto con entrambe le mani e chinai il capo, le gambe che mi reggevano a fatica.
 
E poi vomitai l'anima.
 
La mia testa girava ancora vorticosamente quando mi sedetti ai piedi del pozzo. Boccheggiai in cerca d'aria e mi asciugai le labbra con il dorso della mano, mentre la pioggia iniziava finalmente a lasciare in pace noi poveri pellegrini sulla Terra. Aprii la mia borsa e guardai dentro: pane, formaggio, carne secca. Un pasto discreto, ma dopo le atrocità di cui ero appena stato testimone e con lo stomaco così sotto sopra, credetti che non sarei più stato capace di cibarmi per almeno una settimana intera.
 
Chiusi la borsa e anche i miei occhi. Quei due poveri uomini... Colpevoli d'amarsi d'un amore che non veniva considerato come tale...
 
Sarei finito così anch'io, un giorno? Se il mio cuore si fosse di nuovo innamorato di un amore impuro senza essere capace d’arginarlo?
 
Rabbrividii al sol pensiero.
 
E poi sentii una mano forte e calda stringere la mia spalla.
 
"Un soldo per i tuoi pensieri, piccolo Watson."
 
Riaprii gli occhi.
 
Accanto a me, che mi osservava con aria curiosa e mi sovrastava con la sua imponente e muscolosa statura, nel suo mantello color della notte, la giacca in pelle nera chiusa da un dedalo di lacci, i pantaloni in pelle così attillati da valorizzare perfettamente le linee del corpo e i gambali e i parabracci anch’essi scuri come la pece, stava sir Sebastian Moran [1], che mi osservava con i suoi occhi d'un azzurro intenso e selvaggio, che parevan quasi scagliare lampi [2].
 
“Non sono più piccolo” borbottai, vagando lontano con lo sguardo.
 
Sir Sebastian si accomodò accanto a me, sfiorandomi coscia contro coscia. “Hai ragione, Johnny-boy. Me lo dimentico sempre” disse, piegando le gambe e appoggiando mollemente gli avambracci alle ginocchia. “Eppure dovrei riuscire a rammentarlo, essendo io stato presente nel giorno in cui sei diventato grande”.
 
Moran aveva parlato con il suo solito sarcasmo, che negli anni avevo imparato a ben sopportare, tuttavia le sue parole non mi impedirono di arrossire pesantemente sulle gote.
 
Vi avevo già detto che vi avrei parlato di sir Sebastian Moran quando sarebbe stato più opportuno e credo che questo sia il momento migliore per farlo.
 
Avevo quasi diciassette anni e Harry aveva lasciato la casa della morte per andare a vivere nella dimora di sir Hudson. Il mio odio nei confronti della prima balia, miss Adler, non solo non era diminuito, bensì era aumentato. Se da una parte le sue violenze fisiche si erano ridotte, forse per timore che, crescendo, avessi potuto ribellarmi, quelle psicologiche erano cresciute a dismisura. Non c’era giorno in cui non mi facesse sentire inadeguato in tutto, in cui non mi ricordasse con quali sofferenze era morta mia madre o mi preventivasse che, prima o poi, la mia esistenza avrebbe avuto un simile epilogo, poiché non esiste prole del Diavolo che non sia Diavolo essa stessa.
 
L'unico aspetto che non era cambiato era il mio nascondermi dietro i sacchi di farina, nelle cucine, quando miss Adler incontrava uno dei suoi amanti (o una delle sue amanti). In tutta sincerità, continuavo a farlo più per abitudine che per vero e proprio gusto nel peccato. Soprattutto, ero affascinato dalla varietà di persone che pagavano per qualche mezz'ora di oblio: messeri, forestieri, milady annoiate...
 
Cavalieri.
 
Tutte persone molto diverse tra loro, eppure che condividevano qualcosa: ognuna di loro si sentiva smarrita.
 
Era una tarda serata del nono mese dell'anno quando accadde. Miss Adler aveva ricevuto un cavaliere. Era la seconda o terza volta che lo riceveva, un cavaliere proveniente da Londra e che era stato da poco chiamato a servire il conte Holmes.
 
Lo avevo segretamente soprannominato il cavaliere oscuro, per il colore delle sue vesti, più scure della più oscura delle notti. Ma anche per i suoi occhi, che, sebbene fossero azzurri come l'acqua cristallina del fiume, apparivano sempre svuotati, quasi tristi. Come se avesse smarrito per strada la serenità, lasciandola nel luogo da cui proveniva.
 
"Stasera desidero pagare per qualcosa di diverso, donna" aveva detto lui.
 
"Le vostre monete vi danno diritto a ottenere qualunque cosa voi domandiate, sir Sebastian" aveva detto lei.
 
Ciò che richiese fu di legare e bendare miss Adler, farla inginocchiare a terra e conoscerla in vase indebito [3]. Dal canto mio, mi sentivo sconvolto: non avevo mai assistito a un atto sessuale di quel tipo, prima d'allora. Mi sentivo scioccato e terribilmente incuriosito. Così tanto che commisi l'imprudenza di sollevarmi appena sulle punte dei piedi, in modo da avere una migliore visione degli avvenimenti dal luogo in cui ero accucciato.
 
Non avevo, tuttavia, messo in conto il fatto che, appeso sulla parete proprio sotto la quale si trovavano la prima balia della casa per gli orfani e il suo amante, troneggiava un bello specchio, dono del vescovo Milverton. Fu un solo attimo, il tempo di un battito di ciglia, ma bastò agli occhi azzurri di sir Sebastian per incontrare i miei.
 
Sprofondai nuovamente nel mio cantuccio, con il cuore che palpitava e la paura che brandiva ogni frammento del mio corpo. Non accadde nulla. Terminato l'incontro, sir Moran pagò miss Adler e, con poche parole, prese congedo da lei. Rimasta sola, la prima balia terminò di rivestirsi, quindi spense tutte le luci ancora accese nelle cucine, prese la sua candela e si avviò verso i suoi alloggi personali.
 
Rimasi lì, immerso nel buio, fin quando fui totalmente certo che la via fosse libera, quindi sgusciai fuori dal mio nascondiglio e, stando ben attento a non fare nemmeno il più piccolo rumore, mi insinuai sotto le mie coperte.
 
Pensai di averla scampata.
 
Ma non fu così.
 
Stavo bighellonando per i vicoli di Grimpen quando mi ritrovai di fronte sir Sebastian, due lune dopo. “Bene, bene, bene” esordì, tirando indietro il suo mantello nero e posando le mani sui fianchi. “Il giovane orfano che gioca a fare l’adulto...” aggiunse, con un sorrisetto di scherno.
 
Preso dal panico, tentai di fuggire, ma la mia gamba zoppa non mi consentì di andare molto lontano, tant’è che il lesto sir Moran riuscì ad agguantarmi per la collottola. “Ehi, ehi, tu non vai da nessuna parte, ragazzo” sussurrò al mio orecchio, mentre il mio corpo era visibilmente scosso da brividi. “Vi prego, sire, non fatemi del male! Ve ne scongiuro!” implorai, chiudendo gli occhi. Temevo che volesse picchiarmi o Dio solo sapeva cos’altro. Poiché frequentava miss Adler, ritenevo che il suo modo di risolvere i contenziosi fosse lo stesso. Ma sir Sebastian mi stupì.
 
“Non voglio farti del male, ragazzo. Voglio solo offrirti da bere” disse. Aprii un occhio, con fare decisamente poco coraggioso, e mi resi conto che i lineamenti del suo viso erano plasmati in un sorriso, questa volta non di scherno, ma sincero.
 
Sir Sebastian mi portò al Cross keys, dove scelse un tavolinetto d’angolo, vicino alla finestra. Presi posto di fronte a lui, quasi sparendo sulla seggiola di legno. Tremavo ancora come una foglia. “Rilassati. Ho già detto che non ti picchierò!” I miei occhi si ostinavano a osservarlo ancora sgomenti. “E nemmeno abuserò del tuo corpo in altri modi!” aggiunse, con il più malizioso degli sguardi. Deglutii a vuoto.
 
Il cavaliere comandò una caraffa di vino speziato per lui e un bicchiere di idromele per me. Non ero mai stato in una taverna prima d’allora. Il sapore dell’idromele che scorreva con piacere nella mia gola, il menestrello che suonava in fondo alla sala, i gruppetti di mercanti e cavalieri intenti a fumare e parlottare tra loro... Ogni cosa mi affascinava a dismisura. E, sì, iniziavo a sentirmi davvero adulto.
 
“Non conosco ancora il tuo nome, ragazzino.” Eravamo rimasti per un bel po’ di tempo in silenzio, poi, dopo il primo bicchiere di vino, il cavaliere aveva deciso di spezzarlo. “Mi chiamo John Watson, sire. E non sono più un ragazzino: ho diciassette anni, quasi...” risposi con orgoglio.
 
“Bene, bene, vedo che la lingua non ti manca!”
 
Arrossii.
 
“E nemmeno la voglia di mettere il tuo bel nasino all’insu in affari che non ti riguardano...”
 
Arrossii ancor più violentemente, mentre sir Sebastian dava fondo al suo secondo bicchiere. “Io sono sir Sebastian Moran, comunque” disse, versandosi il terzo. “Piacere di conoscerti.” Dopo l’imbarazzo più totale, mi ritrovai inspiegabilmente ad annuire e lasciarmi andare a un piccolo sorriso. Quindi presi il mio bicchiere e bevvi tutto il suo contenuto in un sol sorso, per darmi coraggio.
 
“Vi porgo le mie scuse più sentite, sire. Non era mia intenzione ficcanasare. È solo che...” Lasciai la frase a metà, perdendomi nella trasparenza del bicchiere ormai vuoto. “Che la vita nella casa della morte non prevede gioie per i ragazzi come te?” domandò sir Sebastian, terminando la frase al mio posto.
 
Annuii tristemente, senza alzare lo sguardo da dove si trovava. “Che cosa è accaduto alla tua famiglia, piccolo Watson?” Mi stupii del fatto che un uomo del genere scegliesse di infondere una certa dolcezza nelle sue parole. Eppure questo, erano: dolci.
 
“Mia sorella Harriet ha trovato la benevolenza di sir Hudson. Mia madre è stata accusata di stregoneria e... Beh, lei..."
 
Lasciai volutamente la frase sospesa e alzai lo sguardo quel tanto che bastava per notare che sir Sebastian stava annuendo, indicando così che avesse compreso.
 
"E tuo padre, piccolo Watson?"
 
Alzai le spalle, facendo del mio meglio per dimostrare un (finto) disinteresse. "Non l'ho mai conosciuto. Da quel che ricordo, madre parlava sempre di un uomo che aveva amato ma che non le era mai appartenuto, prima di trasferirsi qui a Grimpen."
 
Sir Sebastian annuì con ancor più decisione, quasi come se conoscesse in prima persona ciò di cui stavo parlando. "E da dove veniva la tua sfortunata madre, piccolo Watson?"
 
Mi ero un po' stancato di sentirmi chiamare piccolo Watson, ma la sua spada grande e poderosa che teneva riposta al fianco mi intimoriva troppo, all'epoca, per protestare.
 
"Tankerville" [4] risposi io. Ero ancora troppo smarrito nei miei pensieri e ancora poco smaliziato della vita per notare il cambiamento di espressione e uno strano baluginio negli occhi di sir Sebastian.
 
"E come mai tu non sei finito dal messere Cuore D'oro assieme alla tua sorellina?" chiese poi. Presi a rigirarmi nervosamente il mio bicchiere tra le mani, lo scomodo imbarazzo che cresceva e si impossessava di me.
 
"Nessuno sa cosa farsene, di uno zoppo" mormorai, lo sguardo nuovamente smarrito nel nulla. "Già" convenne il mio tenebroso interlocutore, mentre dava fondo alla caraffa di vino.
 
"E voi, invece? Cosa mi dite di voi, sire?" sentii con stupore la mia stessa voce chiedere. Non sapevo dove avessi trovato il coraggio di porre quella domanda. Sapevo soltanto che sir Sebastian era diverso, che con lui mi trovavo a mio agio.
 
"Cosa ti dice che ci sia qualcosa da sapere, di me?" domandò il cavaliere, di rimando.
 
"Solo che qui apparite... fuori posto, sire" spiegai. I lineamenti in apparenza duri di sir Moran si fecero rilassati. Rilassati e stanchi. "Sai cosa ti dico, piccolo Watson? Che tu non hai tutti i torti. Sei pronto per ascoltare una bella storia?"
 
Annuii, pieno d'interesse. "Allora... C'era una volta un giovane cavaliere, che prestava i suoi servigi a Londra. La sua spada era comandata dal più intelligente dei nobili. Il più carismatico, il più..."
 
Lo sguardo dell'oscuro cavaliere sgusciò via verso ricordi più sereni, mentre io mi trovai a pendere dalle sue labbra. "Il più?" incalzai.
 
"Meraviglioso..."
 
Fu appena più di un sussurro, quella parola, eppure trasudava passione in ogni lettera. Potevo quasi sentirla vibrare nell'aria, nel suo corpo. Nel mio.
 
"E poi? Cosa accadde, sire?" domandai, rapito da quel racconto come se fosse la più bella delle storie mai uscite da un calamaio.
 
Ma sir Sebastian, lo stanco e oscuro sir Sebastian, fece un gesto con la mano, come per scacciare tutte quelle memorie che si erano insinuate al nostro tavolo.
 
"Accadde che un bel giorno il cavaliere, fino ad allora senza macchia e senza paura, si innamorò di quel duca bello, potente e senza scrupoli. L'amore lo divorò, trasformandolo in un cavaliere non più immacolato, ma con una, cento macchie. Finché non fu cacciato dalla corte e dalla cittá che amava, rilegato in questo... triste posto. E, se è vero che esiste un Inferno, sarà lì che quel cavaliere finirà, alla fine dei suoi giorni."
 
Moran mi sorrise, prima di flettere il busto in avanti. Io ero sempre lì, in attesa di qualsiasi parola potesse ancora uscire dalla sua bocca, come un uccellino nel nido che spalanca il proprio becco verso la madre che si accinge a nutrirlo.
 
Ma tutto ciò d'altro che il misterioso cavaliere disse fu "Fine." Trasalii, ripiombando miseramente nella mia – nostra – realtà.
 
"Oh..." Bisbigliai, deluso. Sarei andato avanti ad ascoltarlo per ore, poiché sir Sebastian possedeva un carisma davvero singolare, che non avevo notato in nessun'altra anima. Non prima di lord Sherlock, almeno.
 
"Dunque, piccolo Watson" riprese poi il cavaliere, "gradirei conoscere le tue intenzioni."
 
"Beh, dovrei fare ritorno alla casa degli orfani per i dodici rintocchi, perché devo aiutare le balie a preparare..."
 
"No, no, no, no, no!" mi interruppe prontamente. "Intendevo a riguardo di ciò che hai visto accadere tra me e miss Adler."
 
Sir Sebastian mi stava fissando con uno sguardo selvaggio e intenso. Non mi vergogno a dire che tremai.
 
"Io..." Presi a morsicarmi nervosamente il labbro inferiore. "Non è accaduto nulla tra voi e miss Adler. E, poiché non è accaduto nulla, nulla uscirà mai dalle mie labbra" proferii alla fine con tutta la decisione di cui fui capace.
 
La mia risposta sembrò soddisfare il messere. Sebastian annuì lentamente, il sorriso che non abbandonò mai il suo viso.
 
"Bene, piccolo Watson, vedo che sei un ragazzo giudizioso. E, in tutta onestà, se io avessi posseduto ancora una famiglia e una buona dimora, ti avrei preso con me. Zoppo o non zoppo."
 
Il mio cuore palpitò: quelle parole furono senz'alcun dubbio le prime cose carine che le mie orecchie ascoltavano in anni. Mi sentii avvampare mentre farfugliavo un timido grazie.
 
Poi sir Sebastian si alzò. "Ordina pure un altro bicchiere di idromele, sei mio ospite. Io sono atteso al castello. E ricorda... Se mai un giorno ne andasse della tua vita, sai dove trovarmi" promise, prima di sparire alle mie spalle.
 
Incontrai diverse volte sir Moran negli anni a venire. Qualche volta parlavamo, altre volte a malapena mi salutava. E ogni luna che passava, io diventavo più adulto e lui più triste.
 
Definirci amici è forse azzardato, ma posso dire con certezza che condividevamo qualcosa di speciale. Seppi solo successivamente che il duca di cui parlava con fervore altri non era che il duca di Moriarty. Pertanto, quando madonna Molly mi disse che lord Sherlock era stato obbligato a trascorrere diversi anni presso la sua corte a Londra, avevo ben due ragioni per detestarlo a priori.
 
"Rilancio la posta: ti offro ben due soldi per i tuoi pensieri, grande Watson!"
 
La voce calda e allegra di sir Sebastian mi riscosse dai miei pensieri. Gli sorrisi, sebbene di serenità non ne avevo neppure un'oncia, in corpo.
 
"È solo che... è solo che non è un bel periodo, questo" mormorai, gli occhi incollati sulla mia borsa tascapane.
 
"Oh, lo vedo, non stai toccando cibo."
 
Mi strinsi nelle spalle, senza nemmeno voltarmi a guardarlo. "E cosa mai sarebbe accaduto di così brutto? No, no, aspetta, lasciami indovinare!"
 
Una pausa.
 
"L'amore?"
 
Io annuii e sospirai. Poi sospirai e annuii ancora.
 
"Dunque avevo ragione! Sono abbastanza bravo a indovinare questo genere di cose. Sono anche abbastanza bravo a sottrarre la vita alle persone, ma non credo che ciò conti al momento!"
 
Sir Sebastian stava facendo del suo meglio per tirarmi su di morale. Lo potevo sentire in ogni sua sillaba, ma i suoi sforzi furono tutti pressoché vani.
 
"Ancora quella biondina con le trecce e dagli occhi falsi?" incalzò. Scossi il capo. "No, Mary non ha nulla a che vedere con questo. È solo che..." presi a gesticolare convulsamente. "Ho conosciuto una persona, ma non posso averlo."
 
"Averlo?" ripeté il cavaliere. Avvampai: ero stato tradito da uno stupido pronome.
 
"Ullallà! Si tratta di un rapporto proibito..." commentò con un ghigno, "e purtroppo conosco l'argomento."
 
"E hai visto lo spettacolino che il vescovo Milverton ha allestito giù in piazza per tutti quegli ipocriti dei suoi fedeli" riprese, indicando la viuzza che portava alla cattedrale, "ed è per questo che sei in questo stato pietoso."
 
Mi voltai a guardarlo per la prima volta in volto. "No. Non proprio... Il reale problema è un altro."
 
Il messere si fece serio in viso. "Anche se fosse una fanciulla, non potrei averlo ugualmente. Perché lui è... troppo per me" spiegai, gli occhi che iniziavano a pungere.
 
"Ho capito. È un nobiluomo. Purtroppo conosco bene anche questo argomento..." commentò sarcastico, stirando le lunghe gambe.
 
"Già."
 
"E non prevedo nulla di buono, per voi."
 
"Grazie, Sebastian, è sempre un piacere parlare con voi" dissi io, in un primo tentativo di farmi forza. Poi Moran si alzò e mi guardò, incantandomi con tutta la sua altezza per qualche attimo prima di tendermi la mano.
 
"Vieni con me alla locanda, piccolo Watson. Desidero offrirti un bicchiere di cervogia [5] in cui annegare il tuo sconforto."
 
Presi la sua mano, accettando di buon grado quell'invito.
 
 
 
§§§
 
 
 
Ero in ritardo sul mio normale orario di rientro dalla pausa quando presi congedo da sir Sebastian. Mi infilai la tascapane a tracolla, ancora quasi completamente piena del mio pranzo, e iniziai a percorrere con passo spedito i vicoli di Grimpen verso il mercato.
 
Quando vi arrivai, la mia mente era assorta a valutare se non fosse il caso di disfarmi del pranzo preparato da madonna Molly per non impensierirla, magari donandolo a uno dei tanto mendicanti a ridosso del mercato.
 
Ero così assorto che non lo notai. Stavo frugando nella borsa quando lo percepii. Il suo sguardo, sui miei capelli e sulle mie mani. Poi alzai il viso e i miei occhi blu abbracciarono i suoi di ghiaccio.
 
Rimasi lì, in piedi, con i passanti che mi urtavano e le mani ancora avvinghiate alla pelle della borsa.
 
Rimasi lì, a fissare lord Sherlock mentre lui fissava me, in fondo al mercato.
 
Rimasi lí, in silenzio, quando invece avrei voluto gridargli Perdonatemi ma non mi è concesso esservi amico, oppure semplicemente Grazie per tutto.
 
Rimasi lì, immobile, mentre invece avrei voluto solamente correre incontro al giovane lord, abbracciarlo sino a mozzargli il respiro e tuffare il viso nei suoi riccioli neri, sussurrando al suo orecchio quale meravigliosa creatura lui fosse ai miei occhi.
 
Chissà se lui fosse a conoscenza, mi chiesi, di quanto mi era capitato per mano di sir Anderson, o se invece fosse all'oscuro di ogni cosa.
 
Tutto ciò che sapevo è che lui era lì, accanto a suo fratello, davanti al banco del mastro pellaio e mi stava osservando.
 
Scandagliando.
 
Sminuzzando.
 
Soprattutto, capendo.
 
Ebbi la netta sensazione che aveva compreso sino in fondo, che era riuscito ancora a creare quel magico legame tra la sua testa e la mia e che lo stava sfruttando per capire me.
 
Lo vidi inarcare un sopracciglio, socchiudere gli occhi a due fessure e inclinare la testa da un lato. Non sembrava felice. Sembrava deluso, rammaricato.
 
Solo.
 
Allora distolsi lo sguardo, sentendomi reietto e colpevole.
 
Quando trovai il coraggio di rialzarlo, lord Sherlock stava montando in sella al suo magnifico destriero, dandomi le spalle.
 
Lo vidi allontanarsi da me, al passo. Feci di tutto per cercare di non sentirmi come se stessi pian piano morendo dentro, ma fallii miseramente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  coraggio, se siete arrivate fin qui, ce la potete fare a proseguire! ^___^ Dai, poco dovrebbe arrivare la parte divertente! Forse. Ho fatto più in fretta che potevo ad aggiornare, sperando che Macaron faccia in tempo a leggerla <3 Grazie a tutti voi che leggete <3 E a Sasu tutto il mio amore come sempre. E ora un po’ di note…
 
[1] una mia ff non è una mia ff se non c’è Sebastian! Se non sapete come immaginarvelo, sappiate che ha il volto di Jeremy Renner in Hansel & Gretel cacciatori di streghe! [2] descrizione rivisitata di Moran da La casa vuota di Doyle. [3] espressione medievale per descrivere gli atti sessuali sodomitici, ma anche in generale tutti quelli con penetrazione non consona e comunque non destinati alla procreazione. [4] uno dei club in cui Moran amava andare a giocare a carte. [5] il vino speziato e la cervogia erano due bevande medievali.
 
La fanart a inizio pagina è di liuhagaren.
 

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Capitolo 6
*** ATTO VI. BALLO A CORTE ***


"Mezza città è già convinta che tu sia un angelo."
"Ma non lo sono affatto."
"No" disse, con quel sorriso che amava tanto. "Ma sei quanto di più vicino a un angelo abbiano mai conosciuto."

--Ken Follet, Mondo senza fine

 
 
 
 

 
 
ATTO VI. BALLO A CORTE
 


 
Zuppa d'avena.
 
Era da una settimana che madonna Molly serviva zuppa d'avena a cena e io iniziavo a odiarla con tutto me stesso.
 
Eravamo seduti a tavola ed era da poco calato il crepuscolo. Durante la preghiera, le mie labbra erano rimaste immobili e i miei occhi persi nel vuoto, smarriti nei ricordi ancora troppo freschi di quella giornata.
 
Lo sguardo di lord Sherlock su di me, gonfio di un'emozione di cui non ero certo fosse reale e non un banale frutto della mia immaginazione, era ancora lì, vivido davanti a me e fin troppo presente nella mia pelle per pensare a qualsiasi altra cosa.
 
Quando la preghiera giunse al termine, madonna Molly si alzò e prese a servire la zuppa nelle nostre ciotole.
 
Eravamo tutti in silenzio, un silenzio che mi aiutava a sopportare un pochino il tutto.
 
Fino a quando il mastro parlò.
 
E il mio cuore si spezzò.
 
"È venuto lord Mycroft al mercato, oggi. La commessa più nutrita degli ultimi due mesi!" informò giulivo la consorte. Lei annuì. "Per il ricevimento di corte, suppongo" disse Molly, prendendo la mia ciotola. "E per i doni di nozze, donna. Il conte Holmes dovrebbe far ammogliare i figli tutti i giorni, per Diana!"
 
Trasalii, la mia bocca si spalancò in cerca d'aria e, quando madonna Molly mi porse la zuppa, la mia mano non fu capace di reggere la ciotola, che finì rovinosamente a terra.
 
"Vogliate scusarmi" balbettai colpevole, vedendo la madonna che si chinava per rimediare al mio danno, sotto gli sguardi divertiti di Andrew e Louise, che ridevano alle mie spalle.
 
Mi chinai a mia volta per aiutare la donna a raccogliere quanto ancora si poteva del cibo andato sprecato, ma tutto ciò che le mie mani tremanti furono capaci di raccogliere fu una fetta di pane.
 
Osservavo sgomento il danno di cui ero stato artefice, mentre la mia mente continuava a ripetere in ciclo due sole parole: nozze, Holmes. Fino a quando la mano di madonna Molly si posò con dolcezza sul mio polso.
 
"Va tutto bene, John" sussurrò al mio orecchio. "È il visconte Mycroft che prende moglie" disse, con fare complice. "Lady Anthea da Blackberry [1]."
 
Non so come feci a non scoppiare in tutta una serie di singulti liberatori. So solo che presi un grande respiro, annuii e aiutai la madonna a porre rimedio al mio scempio.
 
Mangiai poco o nulla, quella sera. Terminata la cena, uscii fuori a osservare il cielo, dipinto con le piacevoli sfumature lasciate dal giorno morente che volgeva alla sera. Mi appoggiai stancamente alla staccionata di legno sulla quale solevo mettere le pelli a essiccare.
 
Non avevo interesse pressoché in nulla. Né a stare in mezzo agli altri o a esercitarmi nella scrittura.
 
Se da una parte era vero che non si trattava di lord Sherlock a prendere moglie, era indubbiamente altrettanto vero che ciò era destinato ad accadere, prima o poi. Poiché la vita del giovane nobile stava andando avanti. Senza di me. Che io lo volessi o meno.
 
L'indomani era il giorno della visita mensile a mia sorella presso la dimora di sir Hudson. Trovai Harriet ad attendermi nel cortile interno. Era visibilmente a disagio.
 
Mi abbracciò come se non mi vedesse da settimane intere. Affondai il viso tra i suoi riccioli chiari: profumavano di spezie, esattamente come nel nostro ultimo incontro. Era evidente che aveva avuto il privilegio di poter fare un altro bagno. Non potei impedirmi di provare una certa invidia per tutte le grazie di cui Harry godeva e di cui io non avrei mai potuto beneficiare.
 
"Sono desolata" esordì. "Di che cosa mai, sorellina?" "Andrò al ballo a corte" mormorò, la voce che vacillava sempre di più a ogni lettera. Provai un'indicibile stretta allo stomaco.
 
Mi staccai da lei quel tanto che bastava per guardarla in viso. Aveva gli occhi lucidi e il labbro inferiore stretto tra i denti.
 
"Mi dispiace, Johnny mio. Mi dispiace d'essere io a poter andare a corte e non tu" disse. Eccolo là, un nuovo privilegio che si sommava a una catasta di altri.
 
Harriet Watson veniva ricevuta a corte al pari di nobildonne e consorti di facoltosi mercanti o cavalieri.
 
John Watson, d'altro canto, non aveva nemmeno il diritto di respirare nei pressi del castello, se non voleva essere condannato a morte e ridurre sul lastrico le uniche persone che avevano dimostrato una certa benevolenza nella sua persona.
 
Io e Harry eravamo figli della stessa madre, con alle spalle lo stesso destino. Eppure lei era quella che alla casa della morte rubava una mela e io ero quello che veniva giudicato colpevole e frustato da miss Adler. Era lei che rubava al mercato un tozzo di pane e veniva presa a benvolere da sir e lady Hudson. Era lei che sarebbe stata ricevuta a corte e avrebbe incontrato lord Sherlock.
 
Era Harriet quella fortunata, io ero solo il fratello zoppo.
 
"Mi dispiace" bisbigliò ancora. Io esibii il migliore dei miei sorrisi, cercando di apparire il più possibile rassicurante, poiché le volevo bene davvero e, se il destino era stato più magnanimo con lei, non era di certo colpa sua.
 
"Non importa, Harry. Lo sai che è... finita." Indugiai un poco prima di pronunciare l'ultima parola, poiché tra me e il giovane Holmes non era mai nemmeno iniziata.
 
Tuttavia, le mie parole ebbero l'effetto di rianimarla, se così si può dire, e un lampo di genio attraversò i suoi begl'occhi.
 
"Ma forse c'é un modo per sfruttare la situazione a nostro vantaggio, fratellino!" Corrugai la fronte. "Quale situazione? Quale vantaggio?" Non capivo. Harry mi prese per un braccio e mi trascinò fino al tavolo e alle seggiole in legno al centro del cortile. Ci accomodammo. Di nuovo quel lampo negli occhi.
 
"Potrò vedere lord Sherlock. E parlare con lui!" La sua voce salì di un'ottava per l'entusiasmo. "Sì, l'avevo intuito. Grazie per sottolinearlo" borbottai.
 
Cercai di immaginarmi come si sarebbe comportato il giovane Holmes in un ricevimento di tal portata, al quale sarebbero sicuramente stati presenti i nobili membri di entrambe le famiglie e gli altri notabili della contea, tra cui il vescovo Milverton. Chissà se l'arciduca Henry di Baskerville e sua sorella lady Clara sarebbero stati presenti all'evento, o se il celeberrimo duca di Moriarty si sarebbe degnato di abbandonare la sua Londra per mettersi in marcia sino a quel di Grimpen.
 
Pensai che sicuramente lord Sherlock sarebbe stato irritato dal dover prendere parte al ricevimento di fidanzamento e annoiato a morte durante tutto il suo svolgimento, ricordando le sue espressioni insofferenti già solo durante la funzione domenicale. Ma poi chiesi a me stesso chi fossi io per avere la pretesa di conoscere a fondo il giovane nobile. E il mio viso si rabbuiò.
 
Harry mi riscosse dai miei pensieri prendendomi di nuovo per un braccio e strattonandomi con vigore. "John, avrò l'occasione di recapitare a lord Sherlock un tuo messaggio!" cinguettò, il corpo che quasi tremava per l'emozione.
 
Io la guardai come se avesse appena affermato con risolutezza che un giorno gli uomini avrebbero potuto spostarsi da un punto all'altro dell'Inghilterra volando.
 
"E, sentiamo, che mai vorresti dirgli, di grazia? Per caso Sua eccellenza, mio fratello gradirebbe potervi incontrare; sareste così gentile da recarvi da lui? Vi sta attendendo in una stalla" dissi io, mimando una voce volutamente stridula.
 
Mia sorella ci pensò su seriamente, prima di rispondere: "Sarebbe un'idea! Se tu non puoi andare da lui, lui può venire da te."
 
Non riuscivo a capire se Harry stesse scherzando o parlando seriamente. Il baluginio sempre più intenso nei suoi occhi mi fece propendere per la seconda. Appoggiai dolcemente una mano sul suo ginocchio destro, che stava sfiorando la mia coscia, e scossi il capo con veemenza.
 
"Non se ne parla, sorella mia..." Vidi il suo entusiasmo appassire davanti ai miei occhi come un bel fiore lasciato senz'acqua.
 
"Ma John, rifletti!" protestò, cercando di farmi cambiare idea. "È ben quello che ho fatto" le dissi, agganciando i miei occhi, ora tristi al pari dei suoi. "Ho riflettuto e questa cosa non s'ha da fare..." Voltai il capo e presi a guardare avanti a me, le fronde del faggio sotto il quale eravamo seduti che proiettavano buffe ombre sul selciato. "Il mio è un sentimento a senso unico. Non sono un pari di lord Sherlock e non lo sarà mai. Dunque, devo fare del mio meglio per togliere la sua memoria dalla mente."
 
Sentii Harry sospirare e poi stringersi di più a me. "Se è questa la tua volontà, fratello..." "Lo è, sorella. Lo e."
 
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, stretti l'uno all'altra, proprio come se non avessimo null'altro nella vita. Poi Harry sospirò e reclinò il capo sulla mia spalla, stancamente.
 
"Lady Anthea da Blackberry... Dovresti vederla, John. È di una bellezza eterea, non di questo mondo. Ebbi l'onore di parlarle una sola volta. È bastata una sua parola per far sussultare il mio cuore..."
 
Allora presi ad accarezzarle dolcemente la schiena, poiché sapevo cosa mia sorella stesse cercando di dirmi. "Il mio cuore ha sussultato, ma non posso averla."
 
Le regalai un bacio veloce sui capelli, perennemente arruffati. "Che cosa mai c'è di sbagliato in noi, Harry?" mormorai. "Chi ti dice che ci sia qualcosa di sbagliato?" "La gente. La gente dice che i nostri sentimenti sono impuri" risposi, la mente che tornava prepotente verso il rogo dei due sfortunati amanti sodomiti. "Allora forse la gente si sbaglia, fratellino."
 
Rimanemmo così, a cercare conforto l'uno stretto all'altra, fin quando la mia visita giunse al termine.
 


 
§§§
 


 
Arrivò ben presto la sera del ballo a corte. Ricordo che rimasi sfuggente per tutte le lune che separavano il villaggio di Grimpen dal gran evento. Non c'è bisogno di aggiungere che il mio stato d'animo non sfuggì all'arguta e intelligente madonna Molly, così come il motivo celato dietro la mia spiccata tristezza. Così non perdeva occasione per cercare di tirarmi su di morale in ogni modo possibile, in particolare quello culinario: una fetta di pane fresco e non più stantio, ad esempio, o qualche fetta del suo squisito dolce speziato alle castagne [2]. Tuttavia, apprezzai ben poco di quel che mi veniva offerto, poiché il mio stomaco era chiuso su se stesso e non aveva intenzione di lasciar passare proprio niente.
 
Durante quella settimana feci del mio meglio per cercare di dimenticare lord Sherlock, ma non fu semplice, poiché pareva che il villaggio intero stesse complottando contro di me: festoni e stendardi appesi fuori dalle case, menestrelli in ogni angolo, la gente che non parlava d'altro se non del lieto evento. Persino i mendicanti e la spazzatura parevo essere scomparsi magicamente dai vicoli più poveri di Grimpen. Anche le commesse che io e il mastro stavamo cercando di ultimare gridavano Holmes in ogni pollice di materia prima.
 
Non ebbi più modo d'incontrare Harriet nei giorni precedenti il gran ballo di fidanzamento. Ne fui lieto, poiché c'erano in giro già fin troppe cose che compromettevano il mio umore, senza aggiungere a esse vedere mia sorella e rammentarmi che, al contrario di lei, il castello mi era interdetto.
 
"Ecco qua, la cena è servita!"
 
Stentavo a credere ai miei occhi quando madonna Molly servì per cena spalla di montone allo spiedo. Il giorno stava voltando al crepuscolo, tingendo il cielo di una curiosa sfumatura di carminio, e le campane avevano appena suonato i sei rintocchi della sera. Di quella sera...
 
Niente più zuppa d'avena. Madonna Molly aveva cercato di sollevare il mio umore rimpinzando il mio stomaco con la mia preferita delle pietanze. E non andò molto lontana dal successo.
 
Per la prima volta in tanti giorni, mangiai. Non mi abbuffai ma riuscii a mandar giù una porzione di carne di degno rispetto e, soprattutto, la gradii.
 
Terminata la cena, aiutai la madonna a sparecchiare e ripulire la dispensa. Infine, presi posto nuovamente a tavola con fogli e calamaio davanti a me e la piccola Louise sulle ginocchia.
 
Quando, d'improvviso, qualcuno bussò.
 
Vidi madonna Molly aprire la porta, sorridere e voltarsi poi al mio indirizzo. "John, tua sorella domanda di vederti" mi disse.
 
Mi alzi mosso dalla curiosità e uscii. Trovai Harry che mi aspettava nel piccolo spiazzo davanti casa. Era avvolta in un mantello nero che lasciava intravedere solo l'ultima parte della treccia in cui erano raccolti i suoi capelli chiari. La sua pelle diafana risaltava nelle tenebre, facendo concorrenza alla luna che ormai occhieggiava sopra di noi.
 
"Ehi, Harry" esordii io, sorridendo. Mia sorella alzò le mani per abbassare il cappuccio e fu così che scoprì la magnifica veste che indossava sotto. Si trattava di un abito in velluto, color verde bosco, con maniche a ruota e inserti in seta inframmezzati da ricami dorati.
 
In breve, era bellissima.
 
Mi sentivo orgoglioso di lei, non come un fratello minore, ma come un padre che vedeva la figlia divenire donna nel momento della sua introduzione a corte. Solo che non mi era concesso accompagnarla.
 
"Sei semplicemente meravigliosa" bisbigliai, prendendo entrambe le sue mani tra le mie. Erano fresche e lisce come seta. Le mie, al contrario, ruvide e callose.
 
"Grazie, fratellino" disse lei, arrossendo appena sulle gote. Subito dopo, si insinuò tra noi un sorriso imbarazzante, durante il quale scorsi la figura magra di madonna Molly affacciarsi per un attimo alla finestra, prima di chiuderla al meglio con i sacchi per la notte.
 
"Hai un'ultima possibilità per cambiare idea, John!" Io sbuffai, ma non potei replicare perché Harry continuò. "Potremmo farci aiutare da lady Hudson! Ti nasconderemo sul loro carro e ti faremo entrare al castello, nascosto nel tappeto che sir Hudson desidera regalare ai futuri sposi!"
 
Mentre Harriet riversava con ardore quel fiume di parole dalle sue labbra rosse, la convinzione che nutriva nella sua idea le accendeva gli occhi come lampi nella notte. Io mi sentii basito per l'azzardo che conteneva quella proposta.
 
"Ehi, ehi, ehi!" dissi, cercando di metterle un freno afferrandola dolcemente per i polsi. "Apprezzo la tua intraprendenza, ma la mia risposta è ancora no. Anzi, più no di prima. Che mai guadagnerei con la mia presenza al ricevimento? Scaraventare la famiglia Stamford in mezzo a una strada per colpa di quel fellone di sir Anderson?" continuai, alzando la voce quel tanto che bastava per sottolineare il fatto che non ammettevo discussioni.
 
I lampi negli occhi di mia sorella cessarono di colpo e la vidi annuire tristemente. "Come desideri, Johnny..."
 
Non so chi dei due, tra noi, fosse più triste quando l'abbracciai. Sembrava lei essere quella più in necessità d'affetto, quando invece ero io colui che aveva il cuore spezzato.
 
Le regalai un bacio sfiorandole le tempie con le labbra, prima di staccarmi da lei. Harry mi sorrise rassegnata prima di coprirsi nuovamente il capo con il cappuccio e voltarmi le spalle, sparendo nella notte verso il profilo di una carrozza che mi parve scorgere in lontananza.
 
Rimasi qualche minuto all'aperto, prima di rincasare, lasciando che la mia pelle si facesse carezzare dalla brezza vespertina. Non so cosa avrei dato per poter essere al posto di Harriet, quella notte.
 
Andai con il pensiero al giorno in cui mi disse che sarebbe andata a vivere con sir Hudson, ma che il cavaliere non mi avrebbe preso con sé perché ero zoppo.
 
Ripensai anche a tutte le volte in cui la prima balia Adler mi disse che ero prole del Diavolo e che sarei finito all'Inferno. O al giorno in cui Mary mi lasciò per sir Anderson.
 
Boccheggiai in cerca d'aria, mentre sentivo un'indescrivibile forza opprimere il mio petto.
 
Mossi qualche passo verso il portone di casa e, quando vi appoggiai la mano, mi fermai un attimo. Era la famiglia al di là del mio portone, la mia. Era a quella che appartenevo. Non a sir Hudson o a lord Sherlock. E nemmeno all'esercito di Sua Maestà il re d'Inghilterra.
 
Dovevo già ben essere grato del fatto che avessi un tetto sotto cui dormire e del cibo che mi riempisse lo stomaco, ogni giorno. In una parola, dovevo già essere riconoscente di riuscire a sopravvivere. Non avevo diritto ad altro. La felicità e la realizzazione personale, in quel tempo, non erano comprese.
 
Presi un grande respiro ed entrai. Notai la madonna seduta al tavolo a ricamare, con i due piccini ai suoi piedi, intenti a giocare con una bambola di cenci e un cavallino che era stato intagliato nel legno dal loro padre.
 
Mi imposi di guardare ostinatamente per terra, mentre mi infilavo entrambe le mani nelle tasche dei calzoni e tornavo al mio posto, a capotavola, poiché sapevo che se avessi incrociato gli occhi della signora Stamford sarei scoppiato in un mare di lacrime.
 
Mi sedetti, impugnai la penna, ne infilai la punta nel calamaio e mi bloccai. Piccole gocce d'inchiostro cadevano sul foglio davanti a me, imbrattandolo senza ragione. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a mettere assieme un pensiero, una frase di senso compiuto. O anche una sola lettera.
 
Poi la mano amorevole di Molly si posò sul mio avambraccio destro, stringendolo forte per farmi capire che lei c'era per me. "Lo so che avresti dato tutto per poter essere a corte, stasera..." mormorò. Mi voltai a guardarla. I miei occhi incontrarono i suoi e io capitolai.
 
Mi ritrovai tra le sue braccia, che mi stringevano con un affetto se possibile superiore a quello con cui, solo poco prima, avevo stretto il sangue del mio sangue a me. Infossai il viso nell'incavo tra il suo collo e la spalla, strinsi gli occhi, spalancai la bocca per urlare il mio dolore, ma non un sol suono uscì dalle mie labbra. Né una lacrima dai miei occhi.
 
Il mio corpo era scosso da tremiti, tuttavia non piansi. Sentii la mano di madonna Molly posarsi sui miei capelli, accarezzandoli maternamente. La udii chiamarmi sommessamente "il mio piccolo guerriero" e io davvero non so ancora come non feci a sfogare la mia pena con mille e mille lacrime. Forse possedevo davvero la tempra di un guerriero.
 
Poi la dolce Molly mi scostò, prendendo il mio viso tra le mani e accostando la sua fronte alla mia. Parlò con il respiro sulla mia pelle come la più dolce delle carezze. "Ascoltami bene, John Watson! Tu sei cento volte superiore a gran parte dei cavalieri che stasera si trovano a corte. I vari sir Anderson, sir Hudson e i loro degni compari. E prego Iddio che tu possa servire il nostro re, prima della fine dei suoi giorni, perché la tua anima è più pura di cento anime pure e il tuo cuore più sincero di mille altri cuori sinceri. Ricordatelo sempre."
 
Affondai i denti nel labbro inferiore e feci del mio meglio per non piangere. L'abbracciai con slancio e poco mi importava di ciò che potessero pensare i piccoli o il mastro, che stava facendo il suo ingresso proprio in quel momento dal laboratorio e che vidi osservarci con aria incuriosita.
 
Fui incurante del giudizio altrui, poiché mi ero reso conto solo in quel momento che madonna Molly era la madre che non avevo avuto un tutti quegl'anni. Tutto quello mi fece sentire ancora più colpevole per il rischio che avevo fatto loro correre. E più sicuro che la decisione da me presa fosse la più giusta.
 
Mi staccai da quell'abbraccio non appena mastro Michael fu accanto a noi. Ci guardammo un attimo negli occhi, madonna Molly e io, con sguardo d'intesa. Poi annuii, raccolsi i miei fogli e presi congedo dalla famiglia Stamford.
 
Un minuto dopo, chiusi la porta del laboratorio-stalla alle mie spalle e vi appoggiai la schiena. Sospirai, cercando di assaporare il più possibile di quella tutto sommato piacevole sensazione che mi avevano lasciato addosso le parole della madonna.
 
Poi lanciai uno sguardo ai fogli che tenevo nella mano sinistra: Cronache del temerario stregone Sherlock e del suo fedele cavaliere sir John. Così avevo intitolato i miei racconti. E mai come in quel momento mi erano parsi stupidi e senza senso.
 
Lord Sherlock... Mi pareva fosse trascorsa un'eternità da quando gli avevo parlato, o guardato negli occhi. Già, i suoi occhi... Mi stavo addirittura scordando quale fosse il colore esatto delle sue iridi. Erano azzurre, forse? O si trattava di infinite sfumature di grigio?
 
E il profumo dei suoi capelli? E quello della sua pelle? Raggiunsi il mio giaciglio e, in un gesto di stizza, buttai all'aria i miei scritti.
 
Mi sedetti, raccogliendo le ginocchia al petto e poi affondandovi il viso. Ripensai a quanto detto dalla dolce Molly: credeva sul serio in me, che possedessi le qualità giuste per servire il nostro re.
 
Pensai che, dopotutto, l'esercito di Sua Maestà non era composto solo da cavalieri, ma anche da arcieri, fanti... Magari sarei potuto divenire uno di loro e magari suo padre, sir Hooper, avrebbe potuto consigliarmi, indirizzarmi sulla strada giusta.
 
In un attimo, davanti ai miei occhi ebbi una visione. Ero io, proiettato in avanti nel tempo di qualcosa come quattro o cinque anni. Era inverno, la neve cadeva copiosa e, quando terminava la sua corsa a contatto del suolo, il suo candore si trasformava nel rosso cupo del sangue, che imbrattava il campo di battaglia su cui giacevano i corpi senza vita di dieci, cento, mille uomini. I nemici che avevano osato mettersi contro il nostro re.
 
Io ero su quel campo, vivo. Ferito ma vivo. Imbracciavo spada e scudo e avevo ancora il sangue degli uomini a cui avevo tolto la vita sulle dita, sul viso. Persino i capelli, ora rossicci e sporchi.
 
E quando alzavo lo sguardo, sotto il cielo grigio e cupo che copriva il Dartmoor, i miei occhi incontravano quelli di lord Sherlock, bellissimo come un tempo, come se per lui fosse trascorso un sol giorno, in sella al suo destriero bardato e a cui avevo appena salvato la vita con la mia spada, strappandola al fante che aveva cercato di uccidere il fratello del nuovo conte Holmes.
 
Lord Sherlock mi guardava con il sopracciglio inarcato, come se stesse cercando di ricordare, o capire, qualcosa. "Ti ho già incontrato, forse, ragazzo?" domandava.
 
Sì, che ci siamo già incontrati. Voi siete la persona che il mio cuore ha amato di più in tutta la sua vita avrei voluto dire. Invece, scossi il capo in segno di diniego e mi inchinai, esclamando un sommesso "No, milord, non credo. Sono soltanto un umile fante."
 
E allora lord Sherlock annuiva, strattonava il suo destriero per le briglie e spariva all'orizzonte, verso il castello. Verso la sua consorte e il loro erede appena venuto al mondo.
 
Ecco quale poteva essere il mio destino. Una favola, forse, con il più dolce-amaro dei finali.
 
Serrai gli occhi così intensamente da vedere un fiume di lampi davanti a me, poi scacciai quella visione di un mio ipotetico futuro tirando un calcio alla parete che divideva il laboratorio dalla stalla.
 
Mi sfilai gli stivali, gettandoli malamente da parte, e mi coricai così com'ero, senza nemmeno togliere le vesti da lavoro e indossare quella da notte, con il cuore che pesava come un macigno.
 
L'ultima immagine che serbai prima d'addormentarmi fu il ricordo di Mary che mi lasciava, solo pochi mesi prima, in quello stesso giaciglio.
 
Perché tu sei zoppo...
 
Il mio fu un sonno agitato. Sognai Mary che mi lasciava. E poi mi rivoleva con sé e mi lasciava nuovamente. Sognai il rogo di mia madre, ma con esito diverso: questa volta, oltre a lei bruciavo e spiravo anch'io.
 
Infine, l'incubo peggiore di tutti. Sognai Harry che, nel cuore della notte – proprio quella notte – di ritorno dal ballo a corte veniva a bussare alla porta del laboratorio. Le aprivo il portone e lei, con il più raggiante dei sorrisi, mi presentava il suo futuro sposo: lord Sherlock.
 
Harry mi raccontava ch'era rimasta folgorata dalla bellezza e dalla peculiarità di quel giovane, finendo coll'innamorarsi all'istante. Lord Sherlock le aveva domandato l'onore di danzare con lei e già alla fine del primo ballo anche lui si era innamorato e aveva deciso di chiederla in moglie a sir Hudson.
 
Entrambi sarebbero stati lieti di vedermi presente al ricevimento di nozze, che si sarebbe tenuto presto, ma non avrei potuto vivere con loro al castello perché non ero adeguato. Tuttavia mi avrebbero ricevuto volentieri a corte, una volta al mese.
 
Mi svegliai di soprassalto, con il cuore in gola e madido di sudore. Sembrava tutto così reale, nel sogno. La voce di Harry, i lineamenti del viso di lord Sherlock, la mia stessa persona costretta a sorridere e pronunciare parole sofferte come Vi porgo le mie più sincere felicitazioni, milord...
 
Persino i colpi bussati da Harry contro il portone apparivano reali. Così tanto reali che mi parve di udirli di nuovo, questa volta più distintamente.
 
Un colpo seguito da altri tre più rapidi, il segnale di Harry. Sobbalzai. C'era davvero qualcuno che stava bussando al portone. Lanciai uno sguardo al piccolo abbaino nel sottotetto: la notte era ancora cupa e lunga. Mi alzai, mossi qualche passo verso l’ingresso, un piede dopo l’altro. Molto, molto lentamente. Accostai la fronte al portone e chiusi gli occhi.
 
Madre, se mi stai ascoltando dal luogo in cui ti trovi adesso, ti scongiuro... Ti imploro! Non fare che sia Harriet venuta davvero ad annunciarmi quelle tristi nozze dissi a me stesso.
 
Presi un gran respiro per farmi coraggio, dandomi dello stupido per quella paura ridicola e insensata che avevo.
 
"Harriet, sei tu?" bisbigliai, mentre facevo scorrere il chiavistello.
 
E poi il mio cuore sussultò, quando in risposta, dall'altra parte del portone, le mie orecchie udirono un caldo e profondo "John..."
 
Jawn...
 
Jawn, Jawn, Jawn...
 
Quel modo tutto particolare che aveva il mio principe di pronunciare il mio nome. Socchiusi il portone, con il cuore in gola e la nuca, la mia gamba e il corpo intero che formicolavano per l'emozione e la tensione del momento. Fuori regnavano ancora le tenebre e i raggi argentati della luna incorniciavano di una bellezza impalpabile il volto di lord Sherlock, rendendolo più bello di quanto non fosse già di suo. Quasi effimero, quasi celestiale come un angelo, di cui mi pareva possedere, mai come in quel momento, tutte le fattezze.
 
E io ero lì, incredulo e intontito, a guardarlo – contemplarlo – proprio come se stessi assistendo a un'apparizione divina, ostinandomi a non credere ai miei stessi occhi. A temere di non essermi mai svegliato e di continuare a vivere nel mio sogno.
 
Ma poi il mio principe dischiuse le sue – splendide – labbra e parlò, dissipando ogni mio dubbio.
 
"Le tue intenzioni sono di lasciarmi qua fuori tutto il resto della notte, John?" disse con la sua solita voce irritante – melodiosa – e inarcando appena un sopracciglio.
 
Scossi il capo con forza, in segno di diniego. Lo scossi così tanto che un ciuffo di capelli mi ricadde ribelle sull'occhio sinistro.
 
"Ottimo, allora mi accomodo" continuò Holmes, senza abbandonare il suo cipiglio, il quale, anziché renderlo odioso – beh, forse solamente un pochino – faceva di lui la più affascinante delle creature in tutti i mondi conosciuti. "E, non appena ti sarà tornato l'uso della parola, potremmo anche fare due chiacchiere, John" concluse.
 
Poi alzò piano la mano destra e, in un gesto che non riuscii a capire se volesse essere innocente o malizioso, scostò il ciuffo dal mio viso, atto che mise a dura prova non solo il controllo del mio corpo ma anche quello della mia stessa ragione.
 
Il giovane Sherlock mi scostò da parte passandomi accanto, mettendo così piede nella mia umile dimora. Poi io, con mani tremanti, richiusi dietro di noi il portone della stalla, accingendomi a vivere la prima delle notti più belle di tutta la mia vita intera.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  desidero ringraziare come sempre la mia soulmate Sara per tutto l’affetto che mi regala ogni giorno <3 E tutti coloro che stanno leggendo questa storia <3 [1] Un po’ di ironia per sottolineare il fatto che nel primo episodio Anthea è sempre incollata al suo Blackberry! [2] Nel Medioevo si usava molto preparare dolci a base di castagne, simili al nostro castagnaccio.

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Capitolo 7
*** ATTO VII. L'ODORE DELLA NOTTE ***


Avrebbe voluto dirgli “Ti amo come un temporale, come un leone, come una rabbia impotente”.

--Ken Follet, I pilastri della Terra

 
 
 


ATTO VII. L’ODORE DELLA NOTTE
 


 
Quando richiusi il portone della stalla alle mie spalle, tremavo. Per un attimo, rimasi a fissare stoicamente il legno avanti a me, dando le spalle a lord Sherlock, poiché temevo che magari, voltandomi, lui sarebbe scomparso come per magia, lasciandomi solo il ricordo di un bel sogno.
 
Ma poi mi giunse all'orecchio il suono ovattato dei suoi stivali sulla paglia e il mio cuore si calmò.
 
Quando mi voltai, lord Sherlock si stava guardando intorno, muovendosi e osservando nella penombra con le stesse abilità di orientamento che avrebbe un gatto nel muoversi nella notte buia.
 
"Desiderate..." un imbarazzantissimo colpo di tosse da parte mia, "Desiderate che accenda la candela?" Il giovane Holmes si voltò a osservarmi, con la fronte corrugata. "Se tu non riesci a vedermi, fallo pure. Da parte mia, ci vedo benissimo."
 
Ottimo, partiamo già con il piede sbagliato,pensai, mentre facevo oscillare nervosamente le braccia avanti e indietro, mormorando un imbarazzato "Come desiderate, lord Holmes."
 
"Mi pareva di averti già corretto in proposito: lord Holmes è mio padre. O mio fratello. Io sono semplicemente... Sherlock" puntualizzò il mio interlocutore, avvicinandosi alla porta che separava la stalla dal laboratorio.
 
"Oh,  di lì c'è..." "Il laboratorio di concia. Ovvio" mi interruppe lui, con una supponenza tale da farmi sentire ancor più imbarazzato. "L'odore del tannino è forte. Ma forse lo è solo per un olfatto ben allenato come il mio..."
 
Sherlock indietreggiò d'un paio di passi, gli occhi che si muovevano rapidi, inghiottendo ogni cosa al loro passaggio: i due cavalli del mastro pellaio, l'abbaino, il mio giaciglio, la veste da notte ancora ripiegata sulla gruccia...
 
Per un attimo, mi sentii imbarazzato per l'inadeguatezza che tutto ciò rappresentava agli occhi di uno come lui, una sorta di divinità per la gente del mio infimo rango. Ma poi capii che i suoi occhi non stavano giudicando ma semplicemente registrando ogni dettaglio.
 
“Siete venuto qui... da solo?” domandai, quando lo vidi avvicinarsi pericolosamente al mio giaciglio e, in particolar modo, ai miei scritti. “E con chi altri dovevo mai venire, per Giove?” chiese di rimando, inarcando un sopracciglio e distogliendo, fortunatamente, lo sguardo dai fogli. “Pensavo con lo sceriffo Gregson... Per mettermi agli arresti, magari, per ciò che era accaduto al castello” farfugliai, sentendomi di nuovo impossessare dalla colpa.
 
Al nome Gregson notai distintamente una smorfia di disgusto impossessarsi del suo viso. “Non credo di seguirti, John. Che cosa è mai accaduto al castello che potrebbe implicare un tuo arresto?” disse, avvicinandosi a me con quei soli pochi passi resi possibili dalle sue lunghe gambe.
 
“Sir Anderson...” iniziai, chinando il capo in un misto di dolore al ricordo dell’accaduto e di vergogna per il fatto di doverlo raccontare al giovane nobile. “Mi sorprese in una zona del castello in cui non avrei dovuto trovarmi e mi intimò che mi avrebbe fatto condannare alla peggiore delle sorti se avessi rimesso piede nella vostra dimora.”
 
Quando alzai lo sguardo, incontrai quello confuso di Sherlock, come se quelle parole gli suonassero del tutto nuove. “Non che l’abbia più fatto, sia ben chiaro!” mi premurai di puntualizzare, “Ma magari voi, lord Holmes... volevo dire, Sherlock. Sherlock, sì...”
 
Oh, quale suono leggiadro aveva il suo nome srotolato ad alta voce sulla mia lingua! Così meraviglioso da meritare d’essere ripetuto più e più volte. “E che cosa ci facevi esattamente in una zona del castello in cui non avresti dovuto trovarti, di grazia?” chiese ancora. Il suo tono non era di rimprovero; era solo quello di colui che... desidera semplicemente indagare per avere a sua disposizione tutti i dettagli del caso.
 
“Oh, io stavo... cercando voi, sire” risposi, consapevole di stare di nuovo arrossendo come un papavero.
 
“Sherlock.”
 
“Come dite, milord?”
 
“Sherlock. Basta con questi sire o milord, mi sto annoiando. Tu sei John, io sono Sherlock. E al diavolo tutte queste formalità!” borbottò lui, arricciando le labbra. Capii in seguito che quello era il suo modo più cortese di dire Diventiamo amici.
 
“Comunque, non ero stato informato di tutta questa storia, te lo posso assicurare” continuò, sfilandosi il mantello scuro e rivelandosi in tutta la sua bellezza. Mi stavo perdendo via a deliziare i miei occhi con le sue vesti da sera che gli cadevano a pennello (calzamaglia scura, abito di velluto nero, maniche a sbuffo con preziosi inserti in oro) che quasi stavo per smarrire ciò che stava continuando a dire: “Se lo fossi stato, ti assicuro che a messer Col-chi-oun nessuno sarebbe riuscito a risparmiare un bel montante sul quel naso grosso che si ritrova.”
 
Notai uno strano bagliore illuminare i suoi occhi chiari e le labbra trattenere a fatica un mezzo sorriso. Sherlock aveva appena detto, nel suo personalissimo gergo, che avrebbe volentieri preso a pugni sir Anderson. Per me. Non so proprio come riuscii a trattenermi dallo spalancare il portone della stalla per urlare alla notte e al mondo la mia gioia.
 
Sorprendentemente, riuscii a mantenere un certo autocontrollo e a dire: “Quel fellone ci tiene a precisare che si pronuncia Ca-uun, comunque!” “Oh, per quanto mi riguarda, potrebbe tranquillamente mettere la sua pronuncia in quel posto dove non batte la luce” cantilenò, gettando il suo mantello sulla gruccia, in un gesto che voleva significare Io resto.
 
Scoppiai a ridere e la cosa più bella fu che, nonostante un disperato tentativo iniziale di trattenersi, Sherlock ne rimase contagiato, ridendo a sua volta. Si sedette in mezzo alla paglia e io mi accomodai accanto. “Per quanto mi riguarda, se desideri rimettere piede al castello non hai che da farlo” disse, piegando le gambe e appoggiando le braccia alle ginocchia. Scossi il capo con decisione.
 
“Non se ne parla. Sir Anderson ha minacciato di buttare in mezzo alla strada la mia famiglia” spiegai, tornando immediatamente serio. Lo sguardo di Sherlock si fece deciso. “Quel mannaro! Se solo prendesse ordini da me e non da mia madre e mio fratello... Al pari dello sceriffo Gregson!”
 
Le parole del giovane nobile erano così sentite che, d’istinto, mi spinsero a posare una mano sul suo ginocchio, desideroso di calmarlo, di dirgli che andava bene così. Ma il contatto imprevisto col suo corpo mi fece sussultare e mi augurai vivamente che lui non avesse notato il mio turbamento. Ritirai fulmineamente la mano.
 
"Sir Anderson... Devo a lui buona parte delle mie sventure" dissi quasi a me stesso, lo sguardo smarrito nel vuoto. "Prima s'è preso Mary, la mia promessa sposa. E poi questo..."
 
"Essersi preso la tua promessa sarebbe dunque un affronto?" sentii Sherlock domandare. Mi voltai a guardarlo e, dall'espressione corrugata che aveva dipinto in viso, intuii che non capiva.
 
"Beh, sì..." tentennai. "Quando Mary se n'è andata, il mio cuore s'è spezzato." Il giovane lord sminuì il mio dolore con un'alzata di spalle. "Non vedo dove sia il problema. Un matrimonio è un mero accordo tra due parti. L'unione di due casate. Esistono ben altre priorità. In cuor mio, sono certo che saprai farne a meno, John."
 
Adesso che tu sei qui, sicuramente pensai, ma evitai di dar voce ai miei pensieri. Sorrisi, all'idea di come il matrimonio venisse considerato diversamente da due persone di rango sociale opposto come noi due. Ma forse, riflettendoci, era semplicemente la mente di Sherlock Holmes a esser diversa dal resto del creato.
 
“Dunque se non siete qui per ammonirmi, né rinchiudermi nelle segrete, posso sapere che cosa vi ha condotto nella mia umile dimora, Sherlock?” ripresi. “Ovvio. Tua sorella mi ha detto che desideravi parlarmi” rispose, con un tono di voce che sottolineava la banalità della mia domanda.
 
“Harriet?”
 
Sherlock sbuffò. “Hai forse altre sorelle che si trovavano a corte, stasera?” Divenni nuovamente bordeaux. “Dunque, lei vi ha espresso il mio desiderio d’incontrarvi e voi siete venuto qui, semplicemente?” Scandii bene le parole, gesticolando. “Non è un concetto complicato, John” borbottò lui, esibendo sul viso un cipiglio che lo rendeva, in una parola, adorabile.
 
“Perché?” insistetti. Era tutto così straordinariamente semplice da terrorizzarmi. “Perché è questo che fanno gli amici” disse.
 
“Dunque è questo che siamo? Amici?” domandai ancora. Sentivo nitidamente il mio cuore cessare di battere e il respiro mozzarsi nell’aria. “Sono diventato uno dei vostri amici?”
 
“Io non ho amici” precisò con cipiglio, sforzandosi per mettere tutto il suo disgusto in quell’ultima parola.
 
“Ma avete appena detto...” iniziai, il cuore che faceva un’immensa fatica a riprendere a pompare.
 
“Ne ho uno solo, di amico.”
 
Lo vidi iniziare a fissare con insistenza le punte degli stivali, mentre i lineamenti duri e fieri sembravano essersi improvvisamente addolciti. Sorrisi, provando un immenso desiderio di rimettere il palmo della mano laddove si trovava poc’anzi, ma mi trattenni. Era già tanto rendersi conto d'esser tornato a respirare.
 
“Ed esattamente...” un provvidenziale colpo di tosse, “...cosa ti ha detto mia sorella? Che volevo semplicemente vederti?” chiesi, con l’urgenza di sapere se Harry avesse compiuto solo un miracolo oppure anche un danno, subito dopo. Non mi accorsi del tono informale che avevo adottato nelle mie parole. E nemmeno Sherlock mi rimproverò. Parve normale a entrambi.
 
Lui annuì. “Ho avuto modo di conoscerla sotto un tavolo.” Sgranai gli occhi alla scelta di quei termini. “John, è ovvio che non l’ho conosciuta in senso biblico. Oltretutto, le femmine non sono esattamente la mia area di competenza” soggiunse, riflettendo sulle sue stesse parole.
 
Io feci schioccare la mia lingua contro il palato.
 
Lui distolse lo sguardo.
 
“Per tutta onestà, le persone in genere non sono la mia area di competenza...” Avrei voluto ribattere che io, al contrario, adoravo la gente ma lo trovai fuori luogo e tenni la bocca chiusa.
 
“E come mai vi trovavate sotto un tavolo, se mi è permesso chiedere?” dissi io, la gola che si seccava sempre di più a ogni secondo. “Ovvio, John: ci stavamo annoiando! Tonnellate di cibo, menestrelli, giuochi e danze assurde... Una persona intelligente non può che annoiarsi in una situazione di cotale insulsaggine. E svignarsela sotto il tavolo, celati ai più per mano delle lunghe e pesanti tovaglie, è davvero un’ottima soluzione, ragazzo mio.” [1]
 
Io trattenni a stento un sorriso, felice di sentire che avevo indovinato circa lo stato d'animo che si sarebbe impossessato di Sherlock in un evento di siffatta portata.
 
"Ero appena riuscito a declinare l'ennesimo invito a danzare da parte della noiosissima e ripugnante lady Kitty di Riley, quando decisi di nascondermi dalla vista di tutti, in modo da evitare ulteriori e irritanti inviti."
 
Appoggiai il gomito sul ginocchio e il viso alla mano, già totalmente catturato dalle sue calde parole.
 
"Scivolai non visto sotto il tavolo più vicino e, con mio enorme stupore, vidi che il rifugio ospitava già un fuggitivo."
 
A quel punto, dischiusi le labbra, sempre più ammaliato da quel racconto.
 
"Dedussi immediatamente chi fosse. Capelli color del grano, labbra sottili, occhi blu belli e sinceri... Evidentemente sangue del tuo sangue."
 
Occhi belli... Lord Sherlock aveva proprio detto occhi belli. Per qualche attimo, smarrii il filo del suo discorso.
 
"Tua sorella, pur appartenendo al gentil sesso, possiede capacità deduttive degne di nota, John. Suggerirei di non trascurarle."
 
Lord Sherlock aveva pronunciato quelle parole con un genuino stupore ed ebbi l'impressione che, nella sua testa, tutte le donne venissero considerate stupide.
 
"Ha difatti intuito subito chi fossi. E per questo si è avvicinata a me, gattonando sotto il tavolo, per domandare la cortesia di concederle udienza esclamando un curioso 'Ma questo è invero un insperato e fottutissimo segno del destino, milord'!"
 
Mi mordicchiai insistentemente il labbro inferiore, facendo del mio meglio per non ridere al linguaggio colorito utilizzato da mia sorella.
 
"Così, mi ha messo a parte del tuo... desiderio" – qui io arrossii violentemente – "di rivedermi. E, or dunque, eccomi qui."
 
"Sono desolato, Sherlock, di averti sottratto ai tuoi impegni" dissi, il rossore che non accennava ad abbandonare le mie gote.
 
No, in realtà non ero per nulla desolato.
 
"Non dispiacerti. Non sai quanto siano noiosi i ricevimenti di corte! E, soprattutto, non insultare la mia intelligenza: persino sir Anderson sarebbe in grado di capire che non sei affatto desolato."
 
Sarei arrossito ancor di più, a quelle parole, se una cosa del genere non fosse stata umanamente impossibile.
 
"È un vero peccato che Harriet sia rimasta da sola, ad annoiarsi sotto quel tavolo..." commentai, in un disperato tentativo di sviare la conversazione.
 
"Oh, non era da sola! Quando me ne andai, stava conversando amabilmente con la terza persona più annoiata del ricevimento: mia cugina di secondo grado, lady Clara da Baskerville..."
 
Lady Clara. Quel nome aveva un suono delizioso alle mie orecchie e sospettai che fosse lo stesso per quelle di mia sorella. Sorrisi.
 
E non notai subito cosa stesse facendo pericolosamente lord Sherlock in quel frangente. "Bene, bene, che cosa abbiamo qui?" lo udii bisbigliare, quando era già troppo tardi.
 
Il giovane nobile si era sdraiato su un fianco, assumendo una postura a sua insaputa provocante.
 
Deglutii.
 
Deglutii più forte non appena mi resi conto che reggeva tra le mani snelle e sensuali i miei scritti.
 
"O Dio no! Non leggerli, te ne prego!" implorai, lanciandomi al recupero dei fogli della vergogna. Sherlock li alzò sopra la testa, forte dell'agio offerto dalle sue lunghe braccia, mentre con l'altra mano bloccò il mio cammino, appoggiandola al centro del mio petto.
 
Feci del mio meglio per tentare di strapparglieli, ma Sherlock era capace di destreggiarsi abilmente, al pari di un felino. Io mi sentivo goffo e impacciato, al suo confronto.
 
E tale sensazione aumentò ancora di più quando, per il confuso gioco di braccia e gambe, mi ritrovai sdraiato sul suo corpo, il suo respiro che sfiorava la mia guancia, la mia mano stretta alla sua spalla, il suo ginocchio che premeva contro la mia coscia.
 
Annaspai in cerca d'aria, scosso da un fremito. Gli occhi chiari di Sherlock erano agganciati ai miei, presi a scavarmi in profondità. A scavare dentro me. Provai una bizzarra sensazione, un misto tra smarrimento e sicurezza. Come se ciò che stavo sentendo fosse il succo della mia intera esistenza. Il perdere e il ritrovare.
 
Ero così sconvolto per quel contatto fisico, così perduto in quelle iridi dal colore indefinito da cui non volevo più allontanarmi, che non feci nulla per impedire a lord Sherlock di staccarle da me e portarle sull'inchiostro.
 
"...e fu così che, in men che non si dica, il giovane e magnifico stregone Sherlock fu in sella al suo splendido destriero alato, la destra stretta alle briglie e la mancina chiusa a pugno attorno al talismano che avevamo appena recuperato ai piedi del cadavere della strega Irene, unico indizio di quel decesso apparentemente senza senso. 'John, sbrigatevi, di grazia' mi incalzò con tutto il suo entusiasmo, 'Dobbiamo arrivare in tempo e impedire che lo sceriffo Lestrade condanni l'ennesimo innocente'."
 
Lord Sherlock terminò di leggere l'ultimo paragrafo che avevo scritto e, quando giunse all'ultima sillaba, i suoi occhi sostarono stupiti sul foglio che aveva innanzi, le labbra appena dischiuse e la fronte corrugata. Stava analizzando quanto aveva appena letto, mentre io, sconfitto, mi sentivo incapace di pronunciare anche una sola parola, la mano aggrappata alla sua spalla che cingeva il velluto della veste come se fosse l'unico appiglio con cui avrei potuto mettere in salvo la mia vita.
 
"John..." esclamò dopo un'attenta riflessione. " Sono solo i miei esercizi con alfabeto e grammatica" tagliai corto io. Ero riuscito a riprendere possesso delle mie corde vocali e, prima che sparissero anche quelle, utilizzai le ultime briciole di controllo sul mio corpo per strappargli i fogli dalle mani.
 
"Solo esercizi? Mi parevano ben più che semplici esercizi, John. Hai una discreta padronanza della nostra lingua. A parte 'sceriffo' che si scrive con due effe e non una, direi che la tua ortografia è più che discreta."
 
Il mio amico si sistemò meglio sulle mie coperte e prese a mangiucchiare con aria apparentemente distratta un filo di fieno. Non avrei mai pensato che lord Sherlock potesse aumentare ulteriormente l'attrazione che provavo nei suoi confronti, ma con quel semplice gesto tuttavia ci riuscì. Per la mia stessa sopravvivenza, mi imposi di affondare lo sguardo sui fogli che cercavo disperatamente  di riordinare, dopo che quelle mani insolenti – bellissime – vi avevano portato scompiglio.
 
"È invero, a dirla tutta, che non ho mai letto nulla di così eccessivamente sentimentale e fantasioso..."
 
Eccola là, la stoccatina che mi ero aspettato da un momento all'altro di sentirmi dire! Grazie a Dio, Sherlock sembrava aver sorvolato sul fatto che i protagonisti del racconto fossimo noi due.
 
"Ma suppongo che dovrei sentirmi onorato del fatto che tu abbia scelto la mia persona come protagonista del tuo racconto! Il giovane e magnifico stregone Sherlock!"
 
Avevo parlato troppo presto. Sospirai sconsolato e imbarazzato.
 
"Sono soltanto storielle..."
 
"Sentimentali storielle."
 
"Assolutamente. Che racconto ai bambini prima della nanna."
 
"Nemmeno esistono destrieri ala... Aspetta, racconti di me a chi?"
 
In quel momento, avrei davvero voluto conoscere un potente stregone che mi facesse scomparire dalla mia stessa dimora, a seguito del disagio che stavo provando.
 
"Ehm, i figli del mastro pellaio. Amo raccontare loro qualche fiaba della buona notte e nel mentre prendo appunti esercitandomi così con l'alfabeto" risposi, consapevole che la mia carnagione avesse assunto un colorito fino a quel momento sconosciuto a ogni essere umano sulla terra.
 
"John, sono bambini, di grazia. Avranno un domani. Non puoi tirarli su con delle fiabe sentimentali e fantastiche come queste!" borbottò Sherlock. Io lo guardai allibito. "Sherlock le fiabe sono fantastiche. È la loro essenza. Che genere di storie soleva mai raccontarti la contessa o la balia, quand'eri un bambino?" domandai, alquanto punto sul vivo per via delle critiche smosse al mio indirizzo.
 
Il lord fece spallucce, prima di rispondere. "Non ho memoria di fiabe o favole alcune che mi solevano raccontare prima di coricarmi" disse, distogliendo lo sguardo.
 
"Oh..." mormorai. Fui colto da un pizzico di tristezza. Con timore, allungai una mano verso la sua e la strinsi. Ero già pronto a fronteggiare un sicuro rifiuto, ma lord Sherlock mi stupì, non ritraendo la mano.
 
"Forse dovresti scegliere un personaggio più interessante per le tue fiabe. La mia esistenza è alquanto banale" commentò, lo sguardo perso tra le righe di inchiostro. "Oh, non credo proprio" ribattei io, "tu sei la persona più interessante ch'io abbia mai conosciuto!"
 
"John, io trascorro le giornate in solitudine, leggendo libri, tirando di spada e cercando di fare del mio meglio per assecondare le volontà di mia madre la contessa, ovvero di non intralciare i progetti di mio fratello. Ti sembra una vita degna di nota, questa?" mi chiese, voltandosi finalmente per agganciare le sue iridi alle mie. Erano bellissime, quelle iridi. Tristi e bellissime.
 
"Tu mi ha guarito, Sherlock. Mi hai reso una persona un po' migliore di com'ero prima. Questo, a mio avviso, è ben più che degno di nota" dichiarai con decisione, stringendogli forte una mano. Vidi i suoi occhi brillare di gioia e ne fui deliziato.
 
"E sospetto" ripresi, "che se rimarrò ancora un po' al tuo fianco, diventerò ancor di più una persona migliore."
 
In quel momento, nella stalla echeggiavano solamente il rumore del mio respiro e i palpiti del mio cuore, ai quali si sommarono ben presto quelli di lord Sherlock. E poi il giovane nobile si chinò, accostando le labbra al mio orecchio.
 
"Non so se potrà mai succedere. Ma sono sicuro che, se mai riuscirò a farti divenire una persona migliore, vorrà dire che prima sarai riuscito tu a fare lo stesso con me, John Watson..." disse. E io tremai per l'ennesima volta.
 
Non fu difficile per il molto onorevole lord Sherlock intuire lo stato d'animo in cui mi avevano fatto sprofondare le sue parole, ma non disse nulla in proposito e io gliene fui grato. Avevo compreso d'essere la prima persona che trattava alla pari, in quanto nessuno lo aveva mai trattato in quel modo. Il mio cuore aveva intuito che quello della persona seduta al mio fianco era, in definitiva, ancora più solo di quanto esso stesso non fosse e io non potevo sentirmi più felice per aver ricevuto la possibilità di ribaltare questa situazione.
 
Lord Sherlock aveva abbandonato la sua dimora, nel bel mezzo di un avvenimento che rappresentava l'essenza, se pur scomoda, della sua vita per venire da me. E questo da solo mi riempiva d'immenso.
 
"Allora, John, vorresti allietarmi raccontandomi altri aneddoti della tua vita?" riprese, tornando a sdraiarsi su un fianco. Ma io scossi il capo, cogliendolo di sorpresa. "Hai già dedotto da solo gran parte di quello che c'era da sapere sulla mia vita. L'altra parte te l'ho poc'anzi narrata io... Dunque adesso è il mio turno!" sentenziai. Sherlock inarcò un sopracciglio. "Raccontami tu un aneddoto divertente della tua vita." "Io non ho aneddoti divertenti da raccontare" puntualizzò con cipiglio.
 
"Oh, andiamo! Qualcosa ci sarà!"
 
Un vigoroso cenno di diniego col capo.
 
"Proprio nulla? Nemmeno uno scherzo fatto a lord Mycroft?"
 
Le parole magiche: il viso del mio nobile amico s'illuminò. Avevo trovato la chiave giusta. Annuì, poi si puntellò la testa con un gomito. Io lo imitai, perdendomi via in quegl'occhi più limpidi di una fonte.
 
E poi dischiuse le labbra, permettendo alle mie umili orecchie di ascoltare cento, mille parole da quella voce profonda e calda come il vento da mezzogiorno, che sembrava essere stata creata da Dio in persona per narrare le più belle delle fiabe.
 
Lord Sherlock mi parlò di quella volta che aveva corrotto un messo per recapitare al fratello maggiore una missiva (scritta di suo pugno e imitando alla perfezione la grafia di lady Anthea) in cui la sua promessa sposa gli comunicava di dover declinare a suo malgrado l'offerta di matrimonio in quanto il duca di Moriarty aveva avanzato una proposta migliore.
 
Il visconte Holmes non aveva preso bene la notizia, chiudendosi nei suoi appartamenti per tre giorni interi, senza toccare cibo. Sherlock non si era dato pena, poiché a suo avviso il corpo del fratello era sufficientemente pasciuto per campare qualche settimana.
 
Ma poi lady Holmes si era resa conto della burla, intuendo facilmente chi fosse il colpevole, e aveva messo il figlio minore in punizione: ovvero confinato nei suoi, di appartamenti, senza libri né musica e con la sola compagnia della sua guardia del corpo. Che, a suo dire, minacciava di sgozzarlo con il suo pugnale a ogni scoccar dell'ora se non avesse smesso di fare il saccente su qualsiasi cosa gli passasse per la testa (provai subito una certa empatia nei confronti della guardia personale di Sherlock, pur non conoscendola. Almeno, credevo di non conoscerla...).
 
Ma la punizione non aveva scoraggiato il giovane, che non si era lasciato scappare altre occasioni per prendersi gioco del fratello maggiore o della di lui sposa. Tipo quella volta in cui le aveva fatto trovare dei rospi sotto il suo posto a tavola durante una visita alla dimora dei BlackBerry (lady Anthea aveva gridato così forte d'esser persino riuscita a svegliare il conte Siger dal suo costante stato di catalessi), o quell'altra in cui aveva volutamente praticato un taglio nelle staffe del destriero di lord Mycroft. Fu un vero e proprio miracolo che egli non caracollò a terra quando queste avevano finito per rompersi del tutto.
 
Sherlock parlava con un entusiasmo contagioso che faceva fremere il suo intero corpo. Io lo ascoltavo completamente soggiogato dai suoi racconti e, più parlava, più mi rendevo conto che ogni cosa che usciva dalla sua bocca era più emozionante dei racconti di mille cavalieri templari, più saggio della parola di mille saggi e persino più seducente della più seducente delle dame.
 
Avrei volentieri barattato il resto della mia vita per la dannazione eterna se questa avesse significato ascoltare lord Sherlock Holmes narrare delle proprie gesta fino alla fine dei tempi.
 
Quando tacque, il silenzio che avvolse i nostri corpi mi parve essere insopportabile, dunque lo esortai a continuare.
 
"Parlami" sussurrai, i nostri respiri così vicini da mescolarsi. "Parlami come il vento che fruscia tra gli alberi."
 
E lord Sherlock assecondò la mia richiesta. Mi parlò di quanto fosse stato nobile e coraggioso suo padre in gioventù e di come fosse sempre stato l'unico a trattarlo come una persona prima che come fratello minore dell'erede al titolo. O, di come, invece, l'unica preoccupazione di lady Violet fosse quella di istruirlo ai non-sentimenti. I sentimenti stavano dalla parte dei perdenti, secondo la contessa.
 
Raccontò della fobia sviluppata nei confronti dei canidi dal cugino di secondo grado, lord Henry; di come il segugio di Trevor, lo stalliere, avesse un giorno azzannato lady Violet alla caviglia [2] e Mycroft abbia fatto di tutto, spuntandola, per tenere la sua testa ben ancorata al suo corpo poiché Victor sembrava essere l'unico ad andare in qualche modo d'accordo con il minore degli Holmes; dell'arroganza e della superbia del Duca di Moriarty, che lo aveva trattenuto forzatamente come suo ospite per diverse stagioni soltanto per indispettire il maggiore degli Holmes; infine, di quanto fosse meravigliosa Londra, nonostante il cielo perennemente grigio, le strade quasi ovunque sporche e l'aria salmastra e poco salubre che si respirava in certi quartieri che sorgevano accanto al Tamigi.
 
Quasi riuscivo a raffigurarmi davanti agli occhi tutto ciò che Sherlock raccontava, poiché, sebbene si limitasse a fornire i fatti degli accadimenti, senza fronzoli o superflue descrizioni sentimentali come avrei fatto io al suo posto, si trattava sempre dei dettagli fondamentali per comprendere.
 
Ricordo che, a un certo punto della narrazione, chiusi gli occhi, lasciandomi trasportare da ciò che sentivo. E quello che principalmente sentii, che mi colpì alle narici come la più deliziosa delle sensazioni, fu il suo profumo.
 
Lord Sherlock profumava di buono. Non ero sufficientemente bravo da asserire con esattezza di che cosa profumasse, ma qualunque cosa fosse era tanto piacevole all'olfatto quanto lo era al mio cuore.
 
"Hai un buon odore, Sherlock..." mormorai, la mente persa via nel limbo dei sensi. Il profumo di quegli splendidi capelli, l'odore di quella pelle così pallida... "Tu e mia sorella. Così fortunati da potervi immergere in profumati bagni speziati ogni volta che più vi aggrada..." Ero invidioso e sono certo che nemmeno riuscii a nasconderlo tanto bene.
 
Poi qualcosa di morbido mi sfiorò il collo e io sussultai, scosso da un brivido che percorse rapido la mia spina dorsale. Spalancai le palpebre.
 
Il viso di Sherlock era contro la mia spalla, gli occhi chiusi in un'espressione di massima concentrazione. Il suo naso sfiorava il mio collo, accarezzando la pelle con risolutezza e, al contempo, delicatezza estrema. Stava annusando il mio odore.
 
Il suo petto carezzava il mio e la sua spalla sinistra premeva contro la mia destra. Io mi ritrovai con una mano sul suo fianco, a stringerlo dolcemente. Non so come riuscii a non capitolare. Mi domando ancora perché non mi chinai sulle sue labbra per salutarle dolcemente con le mie, pur desiderandolo con tutto me stesso. Probabilmente perché ero troppo annichilito, troppo soggiogato dal calore del suo corpo contro il mio per riuscire a fare qualsiasi cosa. Persino respirare richiese sforzi considerevoli da parte mia.
 
"Sento un profumo intenso..."
 
Deglutii.
 
"Olio... Sento odore di olio..." mormorò. "Mhm, ovvio per la concia del cuoio di bufalo."[3] Provai un fremito quando il suo naso s'abbassò, seguendo la linea della mia gola per andare a raggiungere l'orecchio sinistro. "E qui invece abbiamo... sale! Sale, sale, sale. Hai essiccato di recente delle nuove pelli" continuò. Sherlock teneva gli occhi chiusi, eppure non mi aveva mai visto così bene come in quel momento. Il mio corpo, invece, era totalmente in tensione, il labbro inferiore stretto tra i denti sino a far male.
 
Il giovane nobile continuò l'esplorazione della mia persona, scendendo lungo il braccio, il viso accarezzato dalla stoffa della mia casacca. "Oh, qui sento qualcosa di completamente diverso!" esclamò, aprendo gli occhi con entusiasmo e schioccando la lingua. Dal canto mio, trasalii a quel cambiamento di atmosfera. "Sento profumo di carne. È recente. Montone, per la precisione. Come denota questa piccola macchia qui sulla manica. La cena di questa sera, molto probabilmente" disse mostrandomela, soddisfatto di se stesso. Io abbassai lo sguardo, ma non riuscii a scorgere proprio nulla.
 
Infine, il gesto dei gesti, che mi fece sciogliere in un mare d'infinite ammirazione e, non mi vergogno ad ammetterlo, attrazione. Prese delicatamente la mia mano sinistra tra le sue. La osservò per bene, girandola prima da una parte, poi dall'altra. Se la portò sino al naso, chiuse gli occhi e l'annusò, strofinando dolcemente la punta su ogni mio singolo dito, fino ad arrivare a morire sul mio polso. "Qui sento odore di carbone. E gomma arabica. Inchiostro nerofumo, naturalmente [4]. I tuoi esercizi di scrittura..."
 
Sherlock abbandonò con lo sguardo la mia mano, andando a posare i suoi occhi chiarissimi nei miei. Un moto di turbamento mi percorse da capo a piedi. "Ma non sono tracce fresche. Risalgono almeno a ventiquattro ore fa. Segno che questa sera non eri proprio dell'umore adatto per scrivere" concluse. Le sue iridi risplendevano come la più preziosa delle pietre, mentre il più bello dei sorrisi trattenuti era dipinto sulle sue labbra a forma di cuore.
 
"Meraviglioso..." bisbigliai io. Deglutii. "È meraviglioso ciò che hai appena fatto. Che hai appena detto. Semplicemente fantastico." Rimpiansi di non possedere una varietà tale di linguaggio per fargli capire quanto mi avesse piacevolmente stupito, quanto mi avesse positivamente scosso dentro quello che aveva in pochi attimi dedotto della mia persona.
 
Il giovane Holmes alzò le spalle, come per sminuire le mie parole. Poi raccolse un nuovo filo di paglia, lo portò al mio viso e ne prese a tracciare i contorni. Lentamente, molto lentamente. La mandibola, il mento, la mia bocca... "Il tuo corpo mi parla, John" mormorò. "E a voce alta."
 
Fremetti.
 
"Se tu facessi un bagno tanto spesso quanto ho il piacere, o dispiacere, di farlo io, non sarei più in grado di dedurre tutte queste cose su di te. Sei molto più interessante così, nella tua banale normalità" decretò, sbarazzandosi di quel filo di paglia e rimettendosi sdraiato in un sol gesto. Mi girò la testa per via di quella scomoda distanza che era tornata a instaurarsi tra noi. Ma poi sentii la sua mano stretta attorno al mio polso, che con forza e autorità mi tirò giù, al suo fianco.
 
Ci guardammo negli occhi, in silenzio, per un tempo che mi parve infinito. Poi io sorrisi a lui e lui sorrise a me.
 
Ci addormentammo l'uno accanto all'altro.
 


 
§§§
 


 
Aprii gli occhi alle prime luci dell'alba. Trasalii in panico. Avevo il terrore di scoprire che tutto ciò che avevo vissuto quella notte non fosse altro che l'ennesimo sogno.
 
Sospirai di sollievo quando mi resi conto che Sherlock giaceva ancora addormentato accanto a me, una mano appoggiata mollemente al mio fianco e le belle labbra appena dischiuse. Sorrisi, perdendomi via nel regolare alzarsi e abbassarsi del suo petto, nel piacevole contrasto chiaro-scuro tra la paglia e i suoi morbidi ricci e nella piega invitante del suo collo.
 
Sorridevo, poiché era la conferma che ogni cosa era reale. Stavo assistendo alla nascita di qualcosa. Ancora ignoravo esattamente che cosa fosse. Un'amicizia oppure un sentimento più forte. Ero tuttavia certo di un fatto: qualsiasi cosa fosse stata, sarebbe stata meravigliosa.
 
"Il tuo cervello mi disturba, John."
 
Le parole di Sherlock ancora impastate dal sonno mi fecero trasalire. " Oh, io... Come hai fatto a... A..." Sprofondai nell'imbarazzo totale e arrossii violentemente. "Credevo dormissi ancora..." mi giustificai.
 
"Dormivo fino a quando non hai iniziato fastidiosamente a pensare" borbottò aggrottando la fronte, le palpebre ancora abbassate. Poi socchiuse un occhio e poco dopo anche il secondo. Io sorrisi, prima di bisbigliare un timido e felice Buongiorno.
 
"Io non sono una persona che ama poltrire, ma questo tuo giaciglio è sorprendentemente comodo" disse lui, spalancando finalmente gli occhi. Erano sempre bellissimi, anche appena usciti dal regno di Morfeo.
 
La sua mano stazionava ancora sul mio fianco. "È l'alba, Sherlock" lo informai. "Grazie, lo vedo dalla luce che filtra dall'abbaino, John" continuò il mio amico in tutta la sua arroganza, che, stranamente, non mi urtava. "Lo dicevo perché forse devi affrettarti a tornare al castello" spiegai, mentre la mia mano sinistra decideva di fare di testa propria andando a sua volta ad adagiarsi sul suo fianco.
 
Sherlock posò il capo a una mano, osservandomi con uno sguardo divertito negli occhi. "Oh, forse dovrei proprio farlo, John. Se non torno in tempo rischio di essere trasformato in una zucca" [5] sentenziò. Lo guardai strabuzzando gli occhi e lui, di rimando, mi lanciò un'aria di rimprovero. "Non costringermi davvero a dirti che sto scherzando..." Arrossii. "No, no. Lo sapevo che stavi scherzando..." farfugliai, sentendomi sciocco.
 
Con mio sommo rammarico, lo vidi alzarsi sulle sue lunghe gambe e allungare una mano verso il mantello riposto sulla staffa. Se lo allacciò attorno al collo, quindi si voltò verso di me, guardandomi senza proferir parola. Se ne stava andando e io fui assalito da un irrefrenabile moto di malinconia. Avrei voluto dirgli Resta ma sapevo bene che non era possibile.
 
"Non me ne sto andando per sempre, John" mi stupì lui, come se avesse appena letto ciò che stava passando dentro la mia testa. Io mi abbandonai a un sorriso di sollievo, mentre il mio amico, sebbene non stesse facendo altrettanto, mi donò uno sguardo in grado di rasserenare il mio cuore.
 
Mi alzai anch'io, avvicinandomi al portone per far scorrere il chiavistello. La timida luce del sole appena sorto ci investì, costringendomi a strizzare appena gli occhi. Un raggio colpì i capelli di Sherlock, facendoli apparire incredibilmente lucidi, quasi rossicci.
 
"Allora..." iniziai io. Non ero bravo con i commiati, non lo ero mai stato. E quello, in particolare, mi faceva sentire a disagio in una maniera che non riesco ancora a descrivere a parole.
 
"Allora, se d'ora in poi desideri vedermi, tutto quello che dovrai fare sarà recapitarmi un messaggio" tagliò corto Sherlock, con praticità estrema. "Un messaggio?" ripetei io, confuso. Credo che la mia ripetizione lo infastidì, da quanto potei constatare dagli occhi che rotearono rapidi verso il cielo. "Sì, John, un messaggio. Porta il tuo messaggio a sir Moran, al Cross Keys. E lui provvederà a recapitarlo al sottoscritto."
 
Questo mi confuse ovviamente ancor di più. "A Sebastian?" dissi io. A giudicare dall'espressione di totale disappunto che si dipinse sul suo viso, Sherlock non gradì questa mia manifestazione inappropriata di confidenza. "A sir Moran?" Provai subito ad aggiustare il tiro.
 
"Mi pare di intuire che il mannaro non ti sia del tutto sconosciuto..." commentò, serrando gli occhi a due fessure e inarcando un sopracciglio. Dall'enfasi che aveva posto sulla parola mannaro, credetti di dedurre una certa disapprovazione alla mia conoscenza con il cavaliere.
 
Io arrossii sulle gote, con l'aria del colpevole colto in flagrante.
 
Lui inarcò ancor di più il sopracciglio, con un barlume di gelosia negli occhi.
 
"Sir Moran è la mia guardia del corpo personale" spiegò. A quella rivelazione, mi morsicai con insistenza l'interno della guancia, facendo del mio meglio per non ridere, ma riuscii solamente a guadagnare l'ennesimo sguardo di gelida disapprovazione.
 
"Trovo difficile da crederlo, dal momento che trascorre quasi tutte le sue giornate alla locanda..." commentai. Sherlock scrollò le spalle. "Questo perché a me non va d'avere una guardia del corpo, né più e né meno di quanto lui tolleri il dovermi stare appresso tutto il giorno. Così abbiamo formulato questo accordo: lui sta alla larga da me, io sto alla larga da lui. Fatta ovviamente eccezione per gli impegni mondani, per i quali, ahimè, dobbiamo entrambi sottostare al volere di mia madre la contessa..."
 
A quelle parole, mi domandai se Sebastian lo avesse visto sgattaiolare via dal ricevimento e se, in questo caso, sapesse da chi si stava recando.
 
"...e del duca di Moriarty."
 
Il duca, sempre lui. Se mai un giorno lo avessi incontrato, mi dissi, avrei fatto del mio meglio per vendicare le angherie subite dai miei amici. Magari, chessò, scaraventandolo giù da una cascata...[6]
 
"Quando ha accettato la richiesta di mia madre di farmi tornare qui nel Dartmoor, il duca ha espressamente richiesto che un suo uomo di fiducia mi tenesse sempre d'occhio, informandolo periodicamente sui miei spostamenti. La scelta è ricaduta su sir Moran, un tempo capo delle guardie del duca [7]. Io non fui felice della cosa, ovviamente, ma a nulla valsero le mie proteste alle orecchie di mia madre. Come sempre, del resto..." Una scrollata di spalle. "E nemmeno sir Moran ne è rimasto felice."
 
Mi appoggiai allo stipite del portone, osservando il mio amico con aria sempre più interessata. Non avrei mai detto che avrei ottenuto da un Holmes alcuni degli indizi mancanti per risolvere quel rompicapo che era il cavalier Sebastian Moran.
 
"Soprattutto di dover inviare regolarmente a Londra tramite messaggero rapporti dettagliati su ciò che faccio o non faccio." Lo sguardo di Sherlock si fece pensieroso. "Sospetto che i rotoli di fogli che Moran invia periodicamente alla corte del duca non servano a un granché, dal momento che la mia stessa madre è più che ben disposta a tenerlo informato sugli accadimenti degni di nota. Non capisco dunque perché Moriarty richieda a Moran di svolgere questo compito. E io detesto non comprendere le cose..." borbottò con cipiglio.
 
Io sorrisi non visto, poiché ai miei occhi appariva tutto molto chiaro: potevo quasi immaginarmi il duca che custodiva con gelosia in una tasca qualsiasi delle sue eleganti vesti quel rotolo di preziosi fogli redatti con tanto zelo [8] dal suo vecchio capo delle guardie. Dal suo amante di un tempo. Probabilmente quello era per Moriarty un modo per tenere Sebastian ancora legato a sé, in un certo qual senso. Curioso che Sherlock non ci fosse arrivato. Forse, per lui, i sentimenti non erano facili da decifrare al pari degli odori.
 
Il giovane nobile spalancò del tutto il portone, ampliando così ancor di più la nostra vista sul nuovo giorno. Intravidi il suo destriero legato a un albero, dietro la modesta siepe.
 
"Lo senti, John? Stanno per iniziare..." disse poi, alzando il cappuccio del mantello sin sopra la fronte. Lord Sherlock mi stava guardando con aria misteriosa. Misteriosa e terribilmente affascinante, al contempo.
 
"Che cosa?" chiesi io.
 
"Le nostre avventure insieme" rispose lui, ammiccando.
 
Il mio cuore sprofondò in un punto indefinibile del mio corpo, a quelle parole. Seguii Holmes con lo sguardo fin quando montò sul suo cavallo, allontanandosi al galoppo nel bagliore del giorno nascente.
 
Mi sentii rinato a vita nuova.
 






 
Angolo dell'autrice: perdonate il ritardo con cui aggiorno queste cronache ma sapevo che alcune di voi erano assenti, dunque ho preferito aspettarvi! ^__^ Come al solito ringrazio madonna Saranel per il betaggio e tutte voi per seguirmi con affetto <3 Penso di aggiornare con l'ottavo atto tra un mesetto, perché adesso sono io che mi prendo una vacanza.
 
[1] riferimento al Canone (Holmes si rivolge molto spesso a Watson con questo appellativo). [2] riferimento a L'avventura del Gloria Scott. [3] Nel Medioevo, era il cuoio conciato in modo elastico e tenace da poter essere impiegato nelle armature. [4] Tipo di inchiostro medievale. [5] Passatemi questo riferimento a Cenerentola, ve ne prego! [6] ovvio riferimento a Il problema finale e alle cascate di Reichenbach. [7] Nel Canone, Moran era considerato il chief of staff di Moriarty. [8] Riferimento slashoso a Il mastino dei Baskerville: Holmes fa redigere a Watson rapporti su rapporti, pur non avendone realmente bisogno, che custodisce in una tasca e quando il dottore lo viene a sapere e si infuria, Sherlock lo loda per il suo zelo.
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** ATTO VIII. Sulla nuda terra ***


A Cey dalla sua Sally, perché lo aspettava…
 
 
 
 
 
“Una metà non può odiare ciò che la rende completa”
 
-Merlin
 
 
 
 
 
 
 

ATTO VIII. Sulla nuda terra
 
 
 
“E lo spaventoso drago sputafuoco spalancò la bocca, rivelando fauci affilate che scintillavano nella penombra. Il fedele scudiero era riverso a terra, rivoli di sangue che imbrattavano la gamba sinistra. ‘Se John muore...’ sibilò lo stregone Sherlock, brandendo il suo bastone magico e facendolo oscillare minaccioso davanti alle narici del drago, dalle quali uscivano sbuffi di fumo color blu acceso a indicare tutta la sua ferocia.
 
‘Se John muore, riverserò su di te i peggiori dei miei incantesimi che ti ridurranno al silenzio eterno’ minacciò il potente stregone, con le labbra tremanti e i begl’occhi chiari offuscati per un attimo. ‘È solo un graffio’ mormorò lo scudiero, mordendo con insistenza il labbro inferiore per imporsi di non gridare il suo dolore.
 
Valeva infatti ben più d’una ferita, per il fedele scudiero, avere finalmente la prova, dopo anni e anni di fedele servizio, che dietro la fredda maschera che il magnifico stregone Sherlock si era imposto di indossare v’erano celati lealtà e amore di una profondità indiscutibile. Avrebbe terminato in pace la sua vita terrena, ora che aveva questa preziosa consapevolezza a scaldargli l’anima. Perché, per la prima e unica volta, oltre a una grande mente, aveva visto nello stregone Sherlock, anche un grande cuore. [1]
 
‘A voi, drago, ora non aspetta altro che...’”
 
 
 
“Ma i feroci draghi sputafuoco esistono per davvero, John?” chiese la vocetta petulante di Louise. “Oh, possiamo prenderne uno anche noi? Madre, vi prego! Vi prego!” fece eco Andrew, battendo le mani. “Per me i draghi non esistono!” continuò Louise, scuotendo decisa la testa.
 
Madonna Molly sollevò lo sguardo dalla stoffa che stava tessendo, sorridendo prima ai suoi piccoli, poi a me. Mastro Michael fece il suo ingresso in quel momento, di ritorno dalla stalla dove aveva caricato il carro. “Già tutti svegli è allegri?” disse, il buonumore che aveva in un attimo conquistato anche lui nella forma di un sorriso sentito e gioviale.
 
“John ci stava allietando tutti con una delle sue fantastiche storie” spiegò Molly, riponendo il cucito sulla panca per mettere il nostro pranzo nelle borse tascapane.
 
“Andiamo, ragazzo, porta la tua fantasia al mercato, ora! Abbiamo del lavoro da fare!” decretò il mastro, con un’affettuosa pacca sulla spalla. I bambini augurarono a entrambi una buona giornata di lavoro con un abbraccio e un bacio, prima di lasciarci andare.
 
Io mi sentivo felice. Tutti ci sentivamo felici.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
“Allora, quanto bene vuoi a tua sorella?”
 
Harry era sbucata dal nulla, mentre ero chino sotto il banco intento a separare i vari articoli da mettere in vendita. Trasalii.
 
“Harry, perdiana!” esclamai, con il cuore in gola. Mia sorella si appoggiò al banco con entrambe le braccia, sporgendosi così tanto che quasi le nostre fronti si sfiorarono. “Scusa, ma non mi pare di aver ancora udito una risposta!” pungolò ancora lei, portando una mano a conca attorno all’orecchio destro.
 
Io mi tirai in piedi, impossessato da una strana sensazione che era una curiosa combinazione tra l’imbarazzo e la felicità più totale. “Le voglio tanto bene quanto è grande l’Inghilterra!” risposi, donandole una carezza sui capelli biondi perennemente arruffati. Harry sorrise e cercò di baciarmi su una guancia, ma io non gliene detti la possibilità schizzando via all’altro capo del bancone.
 
Lei borbottò qualcosa circa la mia pessima educazione, io le scoccai un’occhiata divertita. “Allora, desideri mettermi a parte di quanto è accaduto tre te e milord, ieri notte, oppure no?” “Solo se tu mi metterai a parte di quanto accaduto tra te e lady Baskerville!” la pungolai io. La vidi assumere tutte le tonalità dei più belli papaveri in fiore.
 
“Nulla che sia degno di nota. Abbiamo solo conversato...” tagliò corto Harry, deviando lo sguardo altrove. “Anche noi abbiamo solo conversato” ribattei, perdendomi via nei dolci ricordi della notte appena trascorsa. “Davvero? E di cosa, fratellino mio?” domandò lei, scivolando rapidamente davanti a me.
 
“Oh, di tutto... Abbiamo trascorso la notte intera a parlare di tutto. Di me, di lui, di ciò che ama fare...” “Anche delle storie che scrivi su di lui?” “Anche di quelle” ammisi, la mente troppo annebbiata dal ricordo ancora vivido e prepotente della voce di Sherlock e del profumo della sua pelle per riuscire a mentire. “E avete dormito assieme?” “Sì...” “Nel tuo giaciglio?” “Sì...” “Fianco contro fianco?” “Fianco contro fianco...”
 
Mi ritrovai a ripetere parola per parola tutto ciò che Harry mormorava, come per effetto di una potente fattura. “Piede contro piede? Bocca contro bocca?” continuava quella scellerata. “Piede contro piede, bocca contro... No!” gridai all’improvviso, riprendendo all’istante possesso dei miei sensi. “Non è accaduto nulla di tutto ciò!” sentenziai. Questa volta ero io a essere arrossito per la vergogna. “Proprio nulla!”
 
Mia sorella fece spallucce, un po’ delusa. “Vi rivedrete, almeno?” “Sì. Ha detto che, quando desidero incontrarlo, di recapitare un messaggio a sir Sebastian. E lui verrà.”
 
“A sir Sebastian?” ripeté lei, arricciando le labbra verso il basso in una smorfia di disgusto. “Già. A quanto pare è la guardia personale di Sherlock” spiegai.
 
Harry sorrise divertita. “Sherlock! Come suona bene questo nome pronunciato con così tanta confidenza sulla tua lingua, fratellino!” Arrossii nuovamente sentendomi a disagio.
 
“Bene, or dunque. Gli hai già fatto recapitare il tuo messaggio?” “Ovvio che no, Harry! È passato solo un giorno!” le feci notare. “Solo un giorno, tu dici. Ma il tuo cuore non sente già forse la sua mancanza?” mi fece notare. Sospirai. “Terribilmente, Harry. La sente già terribilmente” ammisi. Mia sorella inclinò il capo, regalandomi un’occhiata che valeva mille parole.
 
“Domani. Domani ai dieci colpi mi recherò al Cross Keys a portare il mio messaggio a Sebastian” capitolai, lo stomaco già sottosopra per la crescente tensione.
 
“Mi stupisco ogni volta” commentò Harry, facendo scuotere i bei capelli biondi. “Di cosa?” chiesi io. “Di quanto tu e sir Moran siate in confidenza...” Scrollai le spalle al fine di sminuire la cosa, poiché Harriet ignorava cosa ci fosse tra noi, che cosa avevo visto quella notte di alcuni anni prima. Avevo fatto una promessa, dopotutto. “È solo un’impressione, sorella mia. Una conoscenza superficiale. Non ho certo amicizie altolocate, io.”
 
Lei sorrise con malizia. “No, fratellino. Hai solamente un molto onorevole come innamorato!” cantilenò, prima di sorprendermi con un bacio, questa volta andato a segno, sulla guancia e fuggire via. La vidi salutare con un cenno della mano prima di sparire tra la folla del mercato.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
Mai mi costò fatica mettere piede al Cross Keys come la mattina seguente. Il campanile della cattedrale aveva appena battuto i dieci rintocchi, ma la taverna era già piena di avventori indaffarati a bere, perditempo a giocare ai dadi e menestrelli a suonare.
 
Mi diressi con passo deciso al tavolo d’angolo, in fondo, dove ben sapevo avrei trovato Sebastian e la sua caraffa di vino speziato.
 
Scivolai sullo sgabello di fronte a lui. Aprii la bocca ma la richiusi subito: ero incapace di formulare un pensiero di senso compiuto. “Qual buon vento ti porta nella terra dei dannati, piccolo Watson?” esordì il mio oscuro cavaliere, senza tuttavia distogliere lo sguardo dal suo calice pieno a metà.
 
“Ecco, io...” iniziai, facendomi tuttavia di nuovo prendere dall’indecisione. Presi a fissare anch’io con insistenza il calice tra le mani del cavaliere. Magari, chissà, sarebbe stato in grado di infondermi un po’ di coraggio. “Avrei un messaggio da recapitare...”
 
Presi un profondo respiro, poi alzai gli occhi per invitare quelli di Sebastian, impegnati altrove, a fare altrettanto. “Avrei un messaggio da recapitare a lord Sherlock, per la precisione” sciorinai tutto d’un fiato. Il cavaliere lasciò di botto perdere il suo vino, l’attenzione improvvisamente tutta su di me.
 
“A lord Sherlock?” ripeté incredulo, facendo tanto d’occhi. “Le vostre orecchie sentono benissimo, Sebastian!” scherzai io, la tensione che iniziava a scemare. “Il molto onorevole mi ha detto che voi siete la sua guardia personale e che dunque dovevo recapitare a voi eventuali messaggi diretti alla sua persona” spiegai, sentendomi tuttavia ancora lievemente in imbarazzo.
 
“Or bene, quale sarebbe dunque questo messaggio?” domandò allora Moran, inarcando un sopracciglio e attendendo la risposta, che tardava tuttavia ad arrivare. “Che vorrei rincontrarlo, non appena gli conviene” risposi alla fine, le gote che si accendevano per la vergogna.
 
“Oh, bene bene bene!” ridacchiò il cavaliere, portando il capo all’indietro e accarezzandosi il mento coperto da un accenno di barba incolta. “Non avevo capito che il tuo interesse amoroso fosse così elevato!” commentò con malizia. “No no! Non c’è nessun interesse amoroso!” mi affrettai a correggerlo. “Non c’è?” fece eco Moran. “È soltanto un’amicizia. Proibita, ma pur sempre un’amicizia.”
 
Sebastian dette fondo al suo vino e un attimo dopo fu in piedi. “Molti amori iniziano così, Johnny-boy...” disse, pulendosi le labbra con la manica del suo pastrano di pelle, in un gesto innocentemente erotico. Arrossii ancor di più. “Recapiterò il tuo messaggio. Fatti trovare qui domani, ai dieci rintocchi, per la risposta. Ti saluto, giovane amico mio!” E il cavaliere, con un cenno della mano, mi lasciò solo nella penombra della locanda.
 
Mi sporsi in avanti con aria indagatrice e notai che erano rimaste due dita di vino nella caraffa. Mi affrettai a farle sparire.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
Quella notte non dormii. Ero agitato come se l’indomani avessi dovuto incontrare Sherlock in persona, alla locanda. I dubbi attanagliavano membra e anima in un tutt’uno di fuoco. E se non avesse più voluto vedermi? E se la sua risposta fosse stata evasiva o del tutto negativa? Mi giravo e rigiravo sulla paglia, non trovando pace. Mi ripetevo che il giovane Holmes non avrebbe mai potuto cambiare idea su di me in un sol giorno, ma se invece fossimo stati scoperti e qualcuno glielo avesse imposto? L’ansia mi divorava come la più implacabile delle pestilenze. Mi sentii libero quando vidi le prime luci del nuovo giorno filtrare dall’abbaino nel sottotetto. Mi alzai e mi vestii fulmineamente: non stavo più nella pelle.
 
Il mio cuore galoppava come un cavallo imbizzarrito e la nuca formicolava in modo imbarazzante quando giunsi alla locanda. Le campane non avevano ancora battuto i dieci rintocchi, ma io bramavo solo di porre fine a quell’agonia.
 
Le labbra di sir Sebastian si piegarono maliziosamente all’insù e i suoi occhi color del mare scintillavano di vivacità quando mi vide prendere posto al suo tavolo. Rimase in silenzio per qualche attimo, cuocendomi lentamente con il suo tipico sadismo, nemmeno fossi la più gustosa delle prede.
 
“Allora?” chiesi io a un certo punto, incapace di sostenere oltre quel silenzio impietoso. Il cavaliere allacciò le mani sul tavolo, di fronte al suo bicchiere.
 
“Allora domani. Ai quattro rintocchi del pomeriggio. Prendi il sentiero che inizia a destra della seconda grande quercia. Ti aspetterà al di là del fiume, vicino ai due olmi gemelli” sciorinò Moran, senza prender respiro.
 
Il mio cuore batteva in modo così forte e assordante quasi da annullare le mie capacità mentali. Quercia, fiume, olmi... Mi ci volle un po’ prima di riuscire ad attribuire un significato a quelle parole, lo smarrimento che si era fatto palese sul mio volto. “Che il diavolo mi porti, piccolo John. Sei proprio così innamorato d’esserti rincitrullito del tutto!” commentò divertito il cavaliere.
 
Arrossii fin sulle punte delle orecchie. “No no, ho capito!” protestai, cercando di ripetere mentalmente le istruzioni appena udite.
 
Seconda grande quercia.
 
A destra.
 
Attraversare il fiume.
 
Olmi gemelli.
 
Potevo farcela.
 
Mi alzai, ringraziando il mio oscuro cavaliere con un cenno del capo. Lo lasciai a trangugiare il suo vino e a mormorare un sommesso “Se ti perdi, scocca una freccia e io verrò in tuo aiuto...”
 
Sorrisi.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
Aspettai sino all’ultimo prima di chiedere in prestito al mastro uno dei suoi bai. C’era infatti una parte di me che temeva di ricevere all’ultimo minuto un messaggio di lord Sherlock in cui disdiceva l’appuntamento. Ma all’ora di pranzo dovetti parlare.
 
“Mastro Michael, abbisognate di me tutto il pomeriggio?” domandai speranzoso, tra un cucchiaio di zuppa e l’altro. I miei occhi erano impegnati in uno stretto incontro d’amore con la mia ciotola, eppure riuscivo a percepire lo sguardo incuriosito di madonna Molly su di me.
 
“C’è forse qualche bella fanciulla che ti reclama, Johnny?” si informò gioviale il mastro. Per un attimo, fui indeciso su cosa rispondere. Poi mi dissi che lasciare intendere di aver trovato una nuova giovane pulzella da corteggiare era forse l’espediente migliore. E così feci.
 
“In verità, sì. Avrei un appuntamento... Per questo volevo domandarvi la cortesia di prestarmi il vostro baio, mastro” dissi, chinando la testa in segno di rispetto.
 
“Ma certo!” rispose Michael, con la bocca piena. “Ma a una condizione, John...” “Se volete che recuperi stanotte, non c’è alcun...” iniziai io, ma il signor Stamford mi interruppe. “Oh, no. Puoi avere la serata libera, per quel che mi riguarda! La mia richiesta è ben più semplice: desidero che prima o poi tu ci faccia conoscere questa fanciulla fortunata!” disse lui con allegria.
 
La richiesta giunse così di sorpresa che io strabuzzai gli occhi e spalancai la bocca, mentre a madonna Molly, che ben immaginava il tutto, andò per traverso ciò che stava bevendo. Sentii poi la sua mano stringermi maternamente il polso, forse per infondermi coraggio.
 
“Ma certo...” farfugliai a fatica. E poi mi ritrovai a pensare come sarebbe stato fantastico, anche solo per una volta, far sedere lord Sherlock all’umile tavola del mastro per desinare tutti assieme.
 
Incontrai gli occhi di Molly, che mi stavano sorridendo, quasi sapesse cosa mi stesse passando per la mente. “Ne saremmo onorati” fece eco lei.
 
Sorrisi, accarezzando il mio sogno. Ma poi il mio cervello iniziò a mostrarmi immagini esilaranti, se così potevano essere definite, di Sherlock terrorizzato dalla vivacità dei piccoli Louise e Andrew e io dovetti fare del mio meglio per non scoppiare irriverentemente a ridere.
 
 
 
 
 
§§§
 
 
 
 
 
Il sole era ancora alto e vigile nel cielo quando montai in sella al mio umile destriero. Il cuore prese a martellarmi nel petto e la pelle a trasudare eccitazione quando uscii dalle mura del villaggio e spronai il mio destriero al galoppo verso la brughiera.
 
Feci del mio meglio per non pensare al fatto che mi ero messo in marcia in ritardo o, sopratutto, a ciò che avrei potuto dire a Sherlock non appena i miei occhi si fossero posati su di lui.
 
Quercia, destra, fiume, olmi continuavo a ripetermi nella testa. Quando giunsi al grande e solitario albero, si era alzata una certa brezza, che accarezzava piacevolmente i miei capelli. Oh, quale diletto per gli occhi sarebbe stata la visione dei morbidi ricci del giovane nobile scompigliati dal vento!
 
Scossi il capo con decisione, rigettando il pensiero per la giusta causa qual era la mia sanità mentale.
 
Guadai il fiume nel punto più basso e di nuovo la mia mente mi tradì, quando mi ritrovai a domandarmi come sarebbe stato divertente rincorrerci nell’acqua e schizzarci l’un l’altro fino a quando le nostre vesti non fossero state completamente zuppe.
 
Altro pensiero da scacciare con più decisione del primo.
 
Una volta al di là del fiume, percorsi al passo una modesta distanza e in un baleno i due olmi gemelli furono in vista.
 
Mi ritrovai in un attimo il cuore in gola, poiché lord Sherlock non sembrava essere in vista. Arrestai il mio baio strattonandolo per le briglie e finalmente lo vidi. Se ne stava sdraiato sull’erba, sotto le fronde dei due alberi gemelli che ondeggiavano al vento. Dal punto in cui mi trovavo riuscivo a scorgere bene la schiena, il suo (bellissimo) fondoschiena e parte della sua ricca capigliatura scura. Sembrava immobile come la più magnifica delle sculture.
 
Forse, nell’attesa causata dal mio ritardo, aveva finito per addormentarsi, pensai mentre smontavo da cavallo. Presi in mano le briglie e iniziai ad avvicinarmi ai due olmi cercando di muovermi il più possibile silenziosamente, nel tentativo di non disturbarlo.
 
Ma poi un crack mi fece sobbalzare: avevo inavvertitamente calpestato un ramoscello. Alzai gli occhi al cielo, imprecai e sbuffai. Tuttavia, quando tornai a posarli sul mio nobile amico, notai ch’egli non s’era mosso di un sol pollice.
 
Avevo ripreso ad avanzare, ammetto con una punta di preoccupazione ad animare il mio passo a causa dell’apparente immobilità di quel corpo, quando Sherlock mi sorprese. “Non sono morto, John. Sei solo tu a essere in ritardo.”
 
Trasalii e arrossii al contempo. Mi bloccai sul posto e sono quasi sicuro che per un attimo smisi anche di respirare, mentre lord Sherlock si voltava a guardarmi.
 
Negli occhi.
 
Con le sue due splendide gemme azzurre.
 
Farfugliai un Mi dispiace in preda all’imbarazzo più totale e solo allora mi resi conto che aveva tra le mani un taccuino. “Credevo stessi dormendo” dissi io, mentre legavo il mio destriero a un albero, accanto al suo.
 
“Dormire è una perdita di tempo!” mi fece notare Sherlock con una punta di disgusto. “Studiare è invece molto più interessante.”
 
Mi accovacciai accanto a lui e buttai un occhio ai suoi scritti. “Cosa stai studiando, se mi è permesso?” chiesi, notando dei curiosi disegni con tanto di annotazioni scarabocchiati sul taccuino.
 
“Un po’ di tutto ciò che madre natura offre” iniziò. Prese in mano il suo taccuino, sfogliò alcune pagine e, con orgoglio, mi mostrò i suoi studi. “Al momento, mi sto occupando delle piante velenose. Come questa!” E, così dicendo, prese il libretto e lo schiaffò con naturalezza sulle mie... cosce. Avvampai.
 
Feci forza su me stesso per allontanare il pensiero del contatto corpo su corpo e concentrarmi su quanto Sherlock mi stesse spiegando. Ma non fu per nulla facile, con il suo respiro caldo contro il mio collo e il suo braccio che sostava sulla mia gamba. Serrai forte le palpebre, ma i lampi che vidi innanzi a me non mi furono di conforto alcuno.
 
“Come questa, ad esempio. Il toxicodendron...”
 
La sua voce calda e avvolgente come sempre mi riscosse, guidandomi invitante verso la luce. Aprii gli occhi guardingo e li posai sul taccuino aperto nel mio grembo.
 
Vidi lo schizzo di una pianta da foglie di forma pennata e frutti che parevano essere biancastri o grigiastri [2]. Per nulla interessante, dovetti ammettere a me stesso. Ma se questo stuzzicava la mente di lord Sherlock, allora doveva per forza essere quanto di più vicino alla seduzione esisteva in natura.
 
“Tutte le specie appartenenti a questo genere producono un olio irritante per la pelle. Sto infatti conducendo esperimenti sugli effetti sull’epidermide umana e animale!” spiegò, con l’eccitazione che attraversava i suoi begl’occhi come saette in una notte d’estate.
 
“Ho quasi paura a chiederti su chi tu stia conducendo questi esperimenti...” mi lasciai sfuggire dalle labbra. “Su Trevor, il mio scudiero. E sul falco [3] di mio fratello Mycroft” rispose con prontezza. “Quale coraggio hanno dimostrato concedendoti il loro permesso!” commentai io con ammirazione.
 
Sherlock stava sfogliando le pagine del suo prezioso quaderno, ma, a quelle parole si bloccò di colpo. “Chi ti dice ch’io abbia chiesto loro il permesso?” disse, guardandomi con un pizzico di malizia. Di tutta risposta strabuzzai gli occhi, aprii la bocca e la richiusi subito. Di primo acchito, avrei voluto rimproverarlo, se mi fosse stato concesso dal mio rango sociale, ma poi fu pervaso da un moto d’ilarità che mi spinse a ridere della più genuina delle risate. E Sherlock rise con me.
 
Quando la pace venne di nuovo a farci compagnia, guardai lontano, oltre il fiume, perdendomi via ad assaporare il momento. “Dunque è questo ciò che ti piace fare. Studiare...” commentai, “posso?” Un cenno del capo da parte di Sherlock mi dette il via libera e io presi a sfogliare quelle pagine ricche di scoperte e mondi nuovi.
 
“Guarda, John, quello è lo schizzo di un rametto di sambuco! Fa parte del mio studio sulle erbe magiche predilette dagli stregoni!”.
 
Alzai il viso dal taccuino e lo fissai serio. “Mi era parso di intuire che tu non credessi nella magia...” “Infatti! Il mio studio mira a provare le proprietà innocentemente terapeutiche di determinate piante e determinati arbusti al fine di sfatare ogni mito e leggenda circa l’esistenza di streghe e stregoni. Sfortunatamente, prova anche quanto sia eccessivamente sciocco e di mente ristretta l’essere umano... È un errore capitale teorizzare prima di essere in possesso dei dati; senza accorgersene, si comincia a deformare i fatti per adattarli alle teorie invece di adattare le teorie ai fatti!” [4] sciorinò il mio amico tutto d’un fiato.
 
Sambucus [5]: legno, corteccia, foglie e bacche hanno diversi poteri terapeutici, tra cui quello di lenire i dolori del parto. Ma poiché le credenze popolari suggeriscono di creare collane da indossare per preservare la felicità popolare, chiunque venga trovato in possesso di sambuco può potenzialmente essere accusato di stregoneria. Patetico...”
 
Il mio nobile amico voltò un paio di pagine e i suoi occhi si illuminarono d’immenso. “Ah, il myrtus communis [6], la pianta delle nozze! La preferita dal popolo di Roma! Dai suoi fiori si ricava un’essenza che tonifica e astringe la pelle. Le foglie sono ottime per insaporire carne e pesce, ma, poiché si narra che fosse la pianta della dea Venere, chi crede nella magia consiglia di portarne alcune foglie in tasca per riappacificarsi con la persona amata dopo un litigio. Oppure di tenere un rametto stretto nella mano al chiaro di luna per dissipare ogni dubbio in questioni di carattere sentimentale...”
 
Notai una evidente nota di incertezza alla parola sentimentale, pronunciata con una “s” così stridente da farmi sorridere, quasi come se non fosse abituato a farla uscire a voce alta dalla sua bocca.
 
“E ancora... Rosmarinus officinalis [7]! Chi crede nella stregoneria ne porta un rametto sempre con sé, come amuleto. Si dice che protegga principalmente chi è nato sotto la costellazione dell’Ariete, ma la sua natura occulta si può estendere su tutti quanti. Le sue foglie hanno il potere di rafforzare la memoria. E conservare... l’amore.”
 
Avrei giurato di aver udito una pausa, prima di quella parola. Amore. Non ne fui completamente sicuro, ma di una cosa ero certo: del fremito che mi pervase in quell’attimo, poiché il respiro (il suo) non mentiva. “Wow...” bisbigliai al vento.
 
Mentre Sherlock parlava, i suoi occhi brillavano e, ponendosi la mano al petto, fece un piccolo inchino come di fronte a una fantomatica platea. “C’è da congratularsi con te” [8] aggiunsi, non poco sorpreso dal suo entusiasmo. Il mio amico sminuì il tutto con una scrollata di spalle.
 
“Non c’è granché altro da fare quando hai tutto il tempo di questo mondo a disposizione e l’unica cosa che sta al tuo fianco con fedeltà è la noia che deriva dalla solitudine di essere il secondogenito di un nobile” disse, facendo scivolare via le sue lunghe dita dal taccuino. E da me. Provai freddo a quella sensazione di distanza che, in un attimo, s’era instaurata tra noi. Con un movimento fluido, Sherlock allungò le gambe e tornò a distendersi sull’erba.
 
“Ora non sei più così solo” farfugliai io, costringendomi a fissare con insistenza le pagine del quadernetto. “Ci sono io...” Feci del mio meglio per darmi una certa importanza, ma tutto ciò che ottenni fu avvampare in seguito alla mia audacia. “Così pare!” gongolò lui, allacciandosi le mani sotto la nuca. Sorrisi e trovai la forza per voltarmi a guardarlo negli occhi. Fu allora che notai un mucchietto di altri libri – libri veri – poco più in là dal punto in cui eravamo seduti.
 
“E quelli?” chiesi, indicandoli con un cenno del mento. “Libri, è ovvio” fu la brusca risposta che ottenni. Mi morsicai la lingua in segno di pentimento, poi Sherlock sbuffò e abbassò le palpebre. “Libri presi dalla biblioteca di mio padre. Non hai idea di quanti volumi si siano appropriati i cavalieri del conte grazie alle loro razzie...” [9]. “Posso?” domandai, chinandomi quel tanto che bastava per sfiorare con riverenza il libro a me più vicino.
 
Sherlock sbuffò di nuovo. “Per quale motivo pensi li abbia portati, altrimenti, se non per donarteli?” Arrossii con più decisione di prima e il mio cuore prese a fare inopportune piroette dentro il mio sterno. “Per donarli a me?” biascicai. Il mio nobile amico aprì mezzo occhio, sufficiente per incenerirmi con lo sguardo. “Devi ripetere tutto ciò che dico? Cerca di stare al passo, John!” mi rimproverò.
 
Con mani tremanti, presi il primo libro e ne sfogliai alcune pagine. Narrava le gesta di un impavido cavaliere. Lo riposi dolcemente in grembo, accanto al taccuino di studi di Sherlock, con la stessa cura che avrei riservato a un cucciolo ferito. Presi il secondo: erano i Vangeli. Tremai. Infine il terzo, che elogiava la grandezza del nostro re. Poi non vidi più nulla, poiché lacrime di commozione e di gioia mi salirono agli occhi, appannandomi la vista.
 
“Questo è... meraviglioso” farfugliai, “ma io non credo di meritarlo.” Sentii qualcosa scivolare sulla mia coscia e risalirla piano, con lentezza estrema. Era la mano di Sherlock, che un attimo dopo cercava e trovava la mia, stringendola in una presa confortante ma incerta al tempo stesso. “Io direi che meriti molto di più, John” disse. Palpitai e tremai.
 
E come era già capitato due sere avanti, mi trascinò giù, facendomi sdraiare accanto a lui. Sfiorai il suo collo con la punta del mio naso. Il suo buon odore speziato mi avvolse come una carezza. Sentivo il suo respiro sul mio volto, silenzioso. Delicato. Sherlock dischiuse le labbra, osservandomi con un’intensità di cui pochi erano capaci. Mi vedeva come non mi aveva mai visto nessuno. “Molto di più...” ripeté, in un sussurro che parlava dritto dritto al mio cuore.
 
Il mio respiro si fermò a mezz’aria.
 
Lui si avvicinò di più a me, sfiorandomi con la guancia. Sperai con tutto me stesso che il mio nobile amico scegliesse di unire le sue labbra alle mie.
 
Ma, a mio malgrado, ciò non accadde.
 
Ciò che vidi, e amai ugualmente, fu di nuovo quel guizzo di luce che attraversò i begl’occhi chiari, prima che parlasse. “E ora sediamo sulla nuda terra e raccontiamo tristi storie della morte dei re...” [10]
 
Rimanemmo distesi l’uno accanto all’altro, con i piedi scalzi che si sfioravano con gentilezza e rispettosità, fino a quando la prima stella della sera iniziò a occhieggiarci da lontano.
 
Alternavamo momenti di conversazione intensa ad altri in cui il silenzio più totale era frammentato qua e là dal piacevole cinguettio di qualche passerotto nascosto tra le fronde degli alberi che ci circondavano.
 
A volte ero io che trovavo un passo curioso tra i libri appena donatomi e lo leggevo al mio amico, pieno d’entusiasmo. Altre, era Sherlock a chiedermi un’opinione – a me, proprio a una persone come me – sui suoi studi.
 
“Come mai lord Henry ha così timore dei cani?” domandai a un certo punto, portandomi un filo d’erba alla bocca, quando ormai la giovane notte stava scivolando sopra le nostre teste. Nessuno di noi pareva aver fretta di tornare alle proprie dimore. Avevamo desinato con un po’ di frutta e avevamo a portata di mano tutto ciò di cui avevamo bisogno: buoni libri, la splendida Madre Natura e noi stessi.
 
“Oh, è semplicemente per via del mastino” rispose il giovane lord mentre faceva oscillare i piedi, i riccioli color dell’ebano che danzavano sotto quel movimento.
 
“Quale mastino?” chiesi ancora, voltandomi a guardarlo da sopra la spalla. La mia guancia sfiorò il suo braccio. Lo sentii ridacchiare e poi chiudere con un tonfo il libro che stava leggendo.
 
“Ma come? Non conosci la leggenda del terribile e gigantesco mastino dei Baskerville che si aggira per queste brughiere?” disse, mascherando con la voce una non tanto evidente presa in giro.
 
“Mhm, no... Non ne ho mai sentito parlare” risposi con sincerità. Un ghigno divertito attraversò il suo viso, prima che Sherlock scivolasse meglio contro di me, pronto a rivelarmi la più agghiacciante delle storie.
 
In un attimo, il suo naso fu contro il mio, i suoi riccioli mi solleticavano una guancia e il suo respiro invitava il mio a far conoscenza reciproca.
 
“Se domandi a lord Henry perché non ami avventurarsi di notte, da solo, in questi boschi, ti risponderà Per non incontrare quel gigantesco mastino mangiatore d’uomini!”
 
Corrugai la fronte, chiedendo a me stesso quanto mai ci fosse di vero nella storia che mi accingevo ad ascoltare.
 
“Di padre in figlio, di nonno in nipote, si tramanda la leggenda del celeberrimo mastino dei Baskerville. Che colpisce le sue prede, lesto nella notte, quando il buio arriva in suo favore...”
 
Di riflesso, alzai lo sguardo al cielo, verso le stelle che iniziavano a essere sempre più numerose in cielo. Quando tornai a posarlo su Sherlock, il mio amico teneva il viso appoggiato a una mano e mi fissava con occhi enigmatici. Il suo respiro era sempre un tutt’uno con il mio, increspandomi la pelle in un incontro meraviglioso.
 
“Lord Henry se la ricorda ancora, quella sera d’autunno di tanti e tanti anni fa. Quando aveva accompagnato suo padre per una passeggiata a cavallo nella brughiera. Se la ricorda ancora, la nebbia che divorava ogni cosa come la più terribile delle pestilenze. Se le ricorda ancora, le strane luci che serpeggiavano tra gli alberi prima di farli ripiombare nel buio più cupo.”
 
Una pausa a effetto e gli occhi di Sherlock sondavano i miei, per capire se godevano della mia attenzione. Ce l’avevano tutta.
 
“Se le ricorda ancora, quelle orme gigantesche” riprese poi, senza mai staccare lo sguardo da me. “Così come le urla strazianti che risuonarono nella vallata.”
 
Il mio cuore martellava nelle orecchie, eccitato dalla tensione del momento. Nemmeno io riuscivo a sottrarre lo sguardo dagli occhi del mio nobile amico. Mi leccai il labbro inferiore: ne volevo ancora.
 
“Ma, soprattutto, lord Henry non dimenticò mai il corpo senza vita di suo padre riverso a terra e la mano gelida stretta, per l’ultima volta, tra le sue...”
 
La voce di Sherlock si affievolì pian piano, arrivando a spegnersi del tutto. Mi guardò, forse attendendo una mia reazione, e io lo guardai di rimando.
 
Non saprei dire per quanto rimanemmo in silenzio, ma poi udimmo un profondo e ripetuto praaank che fece trasalire entrambi e un corvo nero dalle piume lucide planò a pochi pollici dalle nostre teste.
 
La sorpresa mi spinse a stringere forte il polso di Sherlock nella mano. Il mio amico mi guardò sorpreso e io lasciai immediatamente la stretta, distogliendo lo sguardo, imbarazzato.
 
“Così il tuo secondo cugino ha assistito alla morte di suo padre...” commentai poi, gli occhi sempre fissi altrove. Percepivo una sorta di affinità emotiva con lord Henry, cosa che sorprendentemente passò inosservata agli occhi di Sherlock. Sentimenti, quali sconosciuti…
 
“Io ero troppo piccolo all’epoca, ma mio fratello sostiene che Henry non sia più stato lo stesso da allora” aveva poi aggiunto con un’espressione di totale disapprovazione dipinta sul viso che trasmetteva il suo non capire che un evento del genere, l’assistere alla morte di un genitore, potesse avere gravi ripercussioni sulla vita di un fanciullo e di un essere umano in generale.
 
Provai tenerezza nei confronti del mio nuovo amico, poiché sospettavo che non fosse del tutto colpa sua l’essere cresciuto in quel modo sterile. Timidamente, allungai di nuovo una mano verso di lui, ma l’arrestai a metà strada. “Assistere alla morte di un genitore è qualcosa che ti cambia dentro, Sherlock” sussurrai, con quella mano ancora indecisa.
 
Lui mi guardò perplesso: non capiva. “Se mia madre morisse, io non proverei nulla” mi rivelò. E poi mi osservò con una strana luce negli occhi: parevano essere densi d’aspettativa. Persino il suo respiro sembrava esser sospeso nell’aria. Così come le sue lunghe ciglia nere, anch’esse immobili in attesa di qualcosa.
 
Capii subito quale fosse la cosa di cui era in attesa: la mia reazione. La mia reazione con cui pensava lo avrei giudicato non degno della mia amicizia. O del mio affetto. Né più e né meno come aveva fatto gran parte delle persone di cui era formata la sua vita. Ma io non avevo la minima intenzione di rinnegare proprio nulla.
 
Ne ebbi sentore quando mi resi conto che anche il mio respiro era fermo nell’aria.
 
Lo capii quando il mio cuore sembrò perdere un colpo per strada un attimo e quello dopo galoppare così tanto da farmi male.
 
Ne ebbi la prova assoluta quando la mia mano scivolò sicura tra le sue, avvinghiandole in un deciso intreccio di dita.
 
“Per quel che possa valere la parola di un garzone, tu sei l’umano più umano che io conosca, Sherlock [11]. Non devi sentirti a disagio se provi questi sentimenti, poiché non ti rendono una brutta persona. Ti rendono solo una persona sincera.”
 
Avevo parlato tutto d’un fiato, in quanto temevo che se mi fossi fermato l’imbarazzo per tutta quella libertà di parola che mi stavo prendendo mi avrebbe impedito di proseguire.
 
Fu una frazione di secondo, ma le labbra del mio nobile amico tremarono e gli occhi solitamente rigidi e fieri si offuscarono di qualcosa di molto simile alle lacrime.
 
Sentimento.
 
Per un solo piccolo attimo intravidi davvero un grandissimo cuore, prima di un magnifico cervello. Esattamente come era accaduto per lo stregone e il suo fidato assistente delle mie storie. E questo grande cuore era per me, soltanto per me.
 
Poi lord Sherlock distolse lo sguardo, forse nel tentativo di ricacciare indietro quelle che a me erano parse vere e proprie lacrime. Ma la sua mano era ancora avvolta dalle mie. Sembrava starci bene in quel luogo e non aveva fretta alcuna di andarsene.
 
“Quanto credi ci sia di vero in quella storia?” bisbigliai quindi, nel tentativo di far rientrare la conversazione nei giusti ranghi.
 
“Lord Charles trovò indubbiamente la fine nella brughiera, quella notte, e questo è un fatto. Ma pensare che si fosse trattato di un mastino gigantesco, questo è tutto un altro paio di maniche... Interessante solo per un collezionista di favole.” [12]
 
La voce del mio nobile amico era tornata ferma e sicura come sempre, dimentica di quel passo falso avvenuto solo pochi attimi prima. “Qual è la tua teoria?” domandai, passandomi per l’ennesima volta la lingua sul labbro inferiore. Sentivo qualcosa nell’aria. Qualcosa di inebriante come il lampo di eccitazione che balenò attraverso gli occhi di Sherlock. Finalmente aveva qualcuno che desiderava starlo a sentire. Aveva davvero un pubblico.
 
“Sospetto qualcuno di molto vicino a lui. Una guardia personale. O un amico, magari. Quel fellone di Milverton non era ancora vescovo, all’epoca dei fatti, ma cercava di sbarazzarsi di ogni possibile ostacolo alla sua ascesa. E lord Baskerville, benvoluto dal nostro re, era considerato tale. Né più né meno come mio padre.”
 
La voce del mio amico tentennò sull’ultima parola. “Ma la sua malattia, al contrario del cugino, lo mise fuori gioco alquanto precocemente” concluse, la voce che si assottigliava rapidamente in un sussurro. Da quello che potevo intuire, Sherlock non riservava al padre la stessa freddezza che nutriva nei confronti della contessa. Era forse il risultato del diverso modo in cui lord Siger aveva trattato il figlio negli anni?
 
“Ma il prossimo sarò io, a mettergli il bastone tra le ruote!” decretò il mio amico con fare di sfida, alzando nuovamente la voce. “Al vescovo Milverton? Sei completamente scellerato!” gridai io, sobbalzando di sorpresa.
 
“Dove sarebbe il bello del gioco? Il bello della vita, altrimenti? Se non sentirla scorrere nelle vene?” Così dicendo, Sherlock si distese a terra e io scivolai accanto a lui, le nostre mani ancora unite.
 
La notte stava nascendo attorno a noi, avvolgendoci in un limbo d’intimità da cui desideravo non uscire più. Pensai che fosse curioso come l’oscurità, il non essere visti, rendesse l’uomo più coraggioso, più predisposto a osare.
 
“Ho già perduto mia madre. Non vorrei perdere anche te...” sussurrai al suo orecchio. Sherlock mi osservò con tutta la serietà di questo mondo, le sue iridi chiare che risplendevano nelle tenebre come lucciole. Assaporai quel momento come uno dei migliori della mia vita, abbeverandomi a quella fonte che era la sua bellezza. La nostra, assieme.
 
“Nessuno prima d’ora mi aveva mai detto una cosa del genere...” bisbigliò lui. Mai come allora lord Sherlock apparve fragile ai miei occhi. Una sola parola e avrei potuto frantumarlo in mille pezzi.
 
“E che cosa vi dicono normalmente le persone, milord?” domandai poi, adottando volutamente un tono formale. Un ghigno beffardo si dipinse sul volto del mio amico. “Sparisci!”
 
Ridemmo. Insieme. Con le stelle che ci osservavano serene sopra di noi. Fu bellissimo.
 
“Se dovesse mai accadere qualcosa... Con il vescovo Milverton, ma non solo...” continuò lord Sherlock, lasciando poi cadere la frase a metà. “Sì?” lo esortai io a continuare. “Tu saresti al mio fianco?”
 
Rabbrividii a quella domanda, poiché mi parve che in essa ci fosse racchiuso molto di più d’una semplice dichiarazione di lealtà al proprio signore.
 
Mi alzai in piedi, lo sguardo smarrito del giovane Holmes su di me. Per una volta, l’avevo fatto dubitare. “Quando volete e dove volete” [13] risposi, piegando un ginocchio e inchinandomi al mio principe.
 
“Potrebbe essere pericoloso...” lo udirono mormorare le mie orecchie. “Ci sarei ugualmente” soggiunsi, alzando il capo e incontrando il suo sguardo. Mi sorrise e io mi sentii come se avessi il mondo ai miei piedi.
 
Per un tempo che mi parve indefinibile, non aggiungemmo altro e io tornai a stendermi accanto al mio principe. “Pensi che, un giorno, qualcuno di tanto fortunato riuscirà a volare sino alla luna?” bisbigliai a un certo punto, gli occhi rivolti al cielo sopra di noi e le braccia incrociate dietro la nuca.
 
Sentii il capo di Sherlock voltarsi e percepii il suo sguardo severo su di me. “A parte il fatto che non penso che la fortuna centri molto qualora ciò dovesse mai accadere, non vedo l’utilità di andare sulla luna” borbottò.
 
“Ma è la luna, Sherlock!” ribattei, sottolineando implicitamente la sua importanza. “Il sole, la luna, le stelle... Chi non vorrebbe ammirarle da vicino? Chi mai penserebbe non siano importanti?” Volsi la testa verso di lui e incontrai i suoi eloquenti occhi, che mi comunicava Io per primo.
 
“Va bene, come vuoi...” sospirai rassegnato, alzando nuovamente lo sguardo su quel manto di luce che ci riscaldava. Con la cosa dell’occhio, lo vidi fare altrettanto. “Bellissimo, non è vero?” Tornai a guardarlo di scatto. Pensai per un attimo che la mia mente si fosse immaginata quelle parole. Gli occhi del mio amico fissavano quei puntini luminosi con un’intensità tale da quasi addolcire i suoi lineamenti normalmente duri.
 
“Avevo capito che non ti importasse delle…” “Non significa che non possa apprezzarlo” [14] tagliò corto lui. Sorrisi, provando un indescrivibile calore al centro del petto, mentre accavallavo le gambe e abbassavo le palpebre. Il buio tornò ad abbracciarmi. C’era sintonia, tra noi. Una sintonia palpabile e positiva.
 
E poi lord Sherlock parlò di nuovo, nella notte. Questa volta le sue parole furono più affilate della più affilata delle lame. Più amare del fiele più amaro. Più dolorose della più dolorosa delle ferite.
 
“Mia madre e lord Riley desiderano unire le casate. Io e Kitty.”
 
In un attimo, mi ritrovai con gli occhi sgranati, seduto, le mani chiuse a pugno e il respiro trattenuto. Guardavo lord Sherlock in cerca di un suo cenno rassicurante, ma non ne ricevetti alcuno. Mi morsicai con insistenza la guancia, sentendomi stupido poiché ero consapevole di ciò che significasse la mia reazione. Alla fine, distolsi lo sguardo, sentendomi colpevole: un amico non avrebbe dovuto comportarsi in quel modo. Avevo mille cose da dire, tuttavia nulla uscì dalle mie labbra. Attorno a me sentivo solo freddo.
 
Ma il mio amico non nutriva dubbi su ciò che mi stava passando per la testa, in quegli attimi, e soprattutto nel cuore. Ero per lui trasparente più dell’acqua. “La contessa è una banderuola nelle mani del vescovo Milverton: potrebbe addirittura decidere che il matrimonio non si abbia da fare” lo sentii poi dire. Ciononostante, le mie unghie rimanevano conficcate nel palmo, producendo un dolore che nemmeno sentivo, a dispetto di quello che provavo dentro.
 
“E, qualora dovesse mai accadere, tra noi non cambierebbe nulla” aggiunse, la voce colorita d’una nota di dolcezza di cui mai avrei ritenuto Sherlock capace. Sentii la sua mano fredda intrufolarsi nella mia mancina serrata a pugno e dischiuderla goffamente.
 
Teneramente.
 
Intrecciammo le dita una dopo l’altra, piano, nella paura che ognuno di noi risultasse sconveniente all’altro. Ma Sherlock non avrebbe mai potuto apparire sconveniente ai miei occhi, qualsiasi cosa potesse mai dire o fare. Né io, imparai col tempo, avrei mai potuto esserlo ai suoi.
 
Rimanemmo così, mano con mano e dita con dita, a contemplare le stelle in quella notte magica, lasciando che parole non dette ma che si preparavano a esser presto pronunciate ad alta voce scivolassero tra noi e ci facessero compagnia.
 
Fino alle prime luci del nuovo giorno, nella brughiera echeggiarono solamente il canto dei grilli nascosti nell’erba e i nostri palpiti che danzavano all’unisono.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  perdonate il ritardo (preannunciato) con cui aggiorno! Grazie come sempre a chi segue questa storia, a chi la commenta, a chi legge anche senza commentare e, come sempre, alla studiosa di storia medievale che mi ha aiutato nella stesura di questa storia. E un bacio alla mia beta reader/soulmate Sara <3
 
[1] citazione rimaneggiata da L’avventura dei tre Garrideb. [2] pianta nota anche come “albero velenoso”. [3] nel Medioevo il falco era uno degli animali per così dire domestici. [4] citazione da Uno scandalo in Boemia. [5] il sambuco; chiamato dagli zingari “albero benefico”, aveva dominio sulle streghe, sull’occulto e sugli spiriti maligni. [6] il mirto; pianta sacra a Venere, in Inghilterra sino ai nostri giorni è stato il fiore delle nozze. [7] il rosmarino; in campagna si usava regalarsi un rametto a vicenda come portafortuna. [8] citazione da Uno studio in rosso. [9] nel Medioevo i cavalieri erano tristemente famosi anche per le razzie apportate ai monasteri, dove si trovavano ben fornite biblioteche. [10] Riccardo II, di William Shakespeare (come periodo storico non c’entra una mazza, ma come frase l’ho trovata particolarmente suggestiva e appropriata per i nostri due. [11] citazione dall’episodio *si soffia il naso* 2x03. [12] citazione da Il mastino dei Baskervilles. [13] citazione da L’avventura della casa vuota. [14] citazione dall’episodio 1x03.
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** ATTO IX. SOGNO D’UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE ***





ATTO IX. SOGNO D’UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
 
 
 
Da quel giorno, i due olmi gemelli divennero il nostro personale rifugio segreto.
 
Avevamo preso l’abitudine di incontrarci in quel luogo almeno una volta a settimana, al riparo da orecchie e occhi indiscreti. I mesi passavano rapidamente e io continuavo ad attendere con trepidazione ogni messaggio consegnato e ricevuto da messer Moran e, con altrettanto turbamento e batticuore, aspettavo la funzione domenicale. Come il primo giorno.
 
Sentivo il sangue pompare nelle mie vene con un’intensità superiore alla norma quando io e il mio principe ci incontravamo in quel luogo pubblico in cui era proibito manifestare la nostra amicizia. Spesso, avevamo entrambi l’ardire di sfidare la sorte, magari con un occhiolino o un cenno del capo, durante le prediche di padre Lestrade.
 
A volte, la sfrontatezza (e l’amore per il rischio) di lord Sherlock lo portava addirittura ad accennare a un minuscolo saluto nei confronti della mia persona, agitando appena le sue lunghe dita dopo aver appena ricevuto la comunione dalle mani del vescovo Milverton in persona. Io, seduto sulle panche nelle ultime file, mi sentivo riscaldare il cuore ogni volta, consapevole che correvamo entrambi su un filo di lama così sottile da rischiare la fine ogni minuto, ogni secondo.
 
Ma era tutto così speciale, poiché eravamo noi due, io e lui, assieme.

 

§§§

 

“Le nozze tra il visconte Mycroft e lady BlackBerry si terranno il secondo lunedì dopo il solstizio d’estate, il giorno del compleanno di madonna Anthea.”
 
Harry se ne stava seduta sulla staccionata a farmi compagnia mentre spazzolavo il cuoio, i tiepidi raggi del sole pomeridiano che le carezzavano i capelli biondi perennemente scompigliati.
 
“Così pare. Lo ha annunciato il messo del conte stamattina, nella piazza del mercato” convenni, senza alzare lo sguardo dal mio lavoro.
 
“Pensavo avessi avuto notizie più di prima mano, viste le tue conoscenze altolocate...” scherzò mia sorella, facendo schioccare la lingua. “Sherlock non parla volentieri dei ricevimenti a cui è chiamato a partecipare contro voglia quando sarebbe più propenso a sottoporsi al supplizio della ruota” [1] ribattei io, con un sorriso.
 
La risposta non incontrò evidentemente il suo favore e Harry decise di stupirmi rilanciando con qualcosa di, sorprendentemente, ancora doloroso.
 
“E il sabato ancora seguente sarà la volta di sir Anderson di convolare a nozze con miss Morstan.”
 
Mi bloccai con la spazzola a mezz’aria. Udire quei due nomi assieme continuava a rivoltare il mio stomaco, se pur in maniera meno dolorosa di un tempo. “Ti ringrazio, Harriet, per avermi messo a parte di questa lieta novella...” borbottai, tornando a rivolgere le mie attenzioni al cuoio steso.
 
Con un balzo, mia sorella scese dalla staccionata e, in un attimo, fu accanto a me. “Come vanno le cose tra voi due?” domandò. La guardai senza ben comprendere. “Non credo che verrò invitato alle loro nozze, se è questo che volevi sapere. Piuttosto mi sottoporrei anche io al supplizio.”
 
Harry sbuffò e alzò gli occhi al cielo, portando le mani ai fianchi. “Intendevo tra te e lord Sherlock, sciocco d’un fratello. Sono due mesi che vi frequentate. Si saranno evolute un po’ le cose, no?”
 
Io corrugai la fronte. “Non sarò invitato nemmeno a quell’altro banchetto di nozze. Come al solito sarai tu la Watson presente a corte!” “Smettila di fare lo stupido!” rincarò lei la dose, parandosi davanti a me e sfilandomi la spazzola dalle mani, in modo da avere tutta la mia attenzione. “Va bene, d’accordo” borbottai.
 
“Si sono evolute che lord Sherlock è il migliore e più sincero dei miei amici, così come io lo sono per lui” sentenziai con trasporto. “E non credo... Non voglio domandare altro al destino.”
 
Non era una menzogna. Quanto avevamo costruito in quelle settimane, io e il giovane Holmes, superava di gran lunga quanto avessi mai chiesto alla vita. Avevo qualcuno di speciale che mi arricchiva come persona; ero finalmente importante per qualcuno. Per non parlare del fatto che la segretezza che dovevamo mantenere attorno alla nostra amicizia rendeva il tutto più eccitante. Non volevo di più, non ne sentivo il bisogno.
 
Non ancora, almeno...
 
L’espressione che si dipinse sul viso di Harry era a metà strada tra la comprensione e il disappunto, mentre tornava a sedersi sulla staccionata, oscillando annoiata le gambe. “Tu e lui... avete un rapporto così saldo che il mondo intero dovrebbe invidiarvi...” mormorò.
 
Io sorrisi. “Ma se nemmeno ci hai mai visto assieme!” le feci notare. “Ma ho visto le vostre due metà separate. I suoi occhi risplendevano come gemme nella notte, mentre parlava di te. Esattamente come tu fai con lui...”
 
La osservai completamente rapito, con le labbra appena dischiuse in attesa delle sue parole come un assetato. “Vedervi assieme... Sarebbe il migliore degli spettacoli. Sono quasi certa che fareste scintille assieme, come la più bella delle magie delle fate nella notte di mezza estate...” concluse, lo sguardo perso via in un sogno di cui stavo iniziando io stesso a vederne i contorni, che divenivano sempre più nitidi.
 
“Il solstizio d’estate...” mi sorpresi a bisbigliare. Harry posò lo sguardo su di me, improvvisamente riscossa dai suoi pensieri.
 
“Prego?”
 
“Sarà il giorno di san Giovanni, il mio santo protettore...” dissi. E, per la prima volta, desiderai ardentemente che io e lord Sherlock non ci dovessimo più nascondere agli occhi degli abitanti di Grimpen o del mondo intero.

 

§§§


 
Stavo fissando il foglio di cenci con sguardo assorto. Lo tenevo tra le mani facendolo oscillare quel tanto che bastava per giocherellare con una goccia d’inchiostro che aveva dato addio alla S di Sherlock e che ora errava da un punto all’altro della carta.
 
“I fogli sono preziosi, John” mi ammonì madonna Molly. Arrossii per il rimprovero e mi scusai immediatamente per la mia irriverenza. Tornai ad appoggiare il foglio sul tavolo, stendendolo con il manico del coltello nella speranza di lisciare via le pieghe che il mio poco rispetto aveva finito per creare. Poi ne utilizzai la lama per grattar via le macchie d’inchiostro create da quella goccia ribelle, prima che si asciugassero. [2]
 
Infine, tornai a contemplare con aria assorta quanto avevo scritto fino a quel momento: Mio diletto Sherlock
 
Sospirai.
 
“Qualora avessi mai bisogno d’aiuto, o di un consiglio, ricorda che io sono qui” mi raggiunse la dolcezza della voce della signora Stamford.
 
“Ecco, io...” iniziai, la lingua incapace di pronunciar altro. Molly sorrise: “Anche per le lettere d’amore!” Avvampai. “No, no. Non è una lettera d’amore...” farfugliai.
 
La madonna abbandonò la tunica di Andrew che stava rammendando per venire ad accomodarsi al mio fianco. Sentii il tepore del suo affetto avvolgermi come una calda coperta.
 
“Desidero invitare lord Sherlock alla festa di San Giovanni di mezza estate.” Mi morsicai con insistenza il labbro inferiore, incapace di esprimere quanto significasse per me poter stare sotto la luce del sole con il giovane Holmes. Rubare una parola sussurrata all’orecchio, uno sguardo complice o uno sfiorarsi di dita... Avrei rischiato volentieri la mia vita per molto meno.
 
Madonna Molly mi sorrise e mi stupì, sfilandomi il pennino dalle mani e avvicinando poi il foglio a sé. Lo riempì scrivendo con aria decisa, come se lei avesse da sempre saputo cosa dire al mio nobile amico.
 
“Penso che così possa andare!” esclamò alla fine con aria soddisfatta. Allungai il collo per leggere.
 
Mio diletto Sherlock,
 
Come la Vostra molto onorabile persona saprà, la giornata di sabato prossimo venturo sarà la festa di San Giovanni. È da sempre la mia festa preferita poiché si festeggia l’estate e il mio protettore.
 
Mi renderebbe felice poterla trascorrere in compagnia della Vostra onorata persona. La folla ci offrirà riparo.
 
Tuttavia, potrebbe essere pericoloso. Se la Vostra onorabile persona non potesse venire, la pregherei di venire ugualmente... [3]
 
Sinceramente Vostro,
 
JW
 
 
 
Lessi la missiva più volte: era perfetta. Madonna Molly lo era, invero. La guardai e le sorrisi. “Ora l’arrotoliamo e la sigilliamo. Così sarà pronta per le mani del molto onorevole Holmes” cinguettò lei, sorridendomi di rimando.


 
§§§


 
Sir Sebastian mi osservava con la fronte corrugata, un sopracciglio inarcato e un’eloquente espressione di sconcerto dipinta sul volto.
 
“Bene, bene, bene. Sembra che il piccolo Watson qui presente non si fida più del sottoscritto...”
 
“No, no! Ripongo ancora tutta la mia fiducia in voi, messer Moran” mi affrettai a correggerlo, mentre stringevo il rotolo tra le mani con così tanta forza da far sbiancare le nocche. “È solo che si tratta di qualcosa di importante... Qualcosa che merita un bel foglio e un inchiostro elegante.”
 
Un sorrisetto malizioso si impossessò dei lineamenti del mio cavaliere oscuro. “Che cosa abbiamo? Una dichiarazione d’amore, forse?” Non potei far nulla per evitare d’arrossire. “Assolutamente no. Solo un invito alla prossima festa di mezz’estate...” chiarii, ancora in preda all’imbarazzo.
 
Seguì una pausa, mentre mi morsicavo con insistenza la guancia. “So bene che è pericoloso, ma...” “Lo proteggerò io. Veglierò su entrambi” tagliò corto Sebastian, annuendo. “Non dovrete andare in giro a chiacchierare apertamente come due grandi compari, ovviamente. Niente pacche sulla spalla o attirare l’attenzione pubblica in altro modo. Ma la folla vi permetterà di passare inosservati. E io sarò sempre all’erta, per sincerarmi che sia tutto sotto controllo.”
 
Il cavaliere annuì di nuovo e poi scolò il suo bicchiere. Lo guardai con profonda e sentita ammirazione: per la prima volta in vita mia, dovetti frenare l’impulso di abbracciare sir Sebastian con trasporto. Fu la prima di tante volte.
 
“Credo che il giovane Holmes sarà entusiasta di sfoggiare un travestimento nuovo di zecca” concluse Moran, alzandosi e facendo sparire la missiva sotto il mantello. Io balbettai un saluto appena accennato e il cavaliere prese commiato da me, con un piccolo inchino.
 
Sospirai. Sentivo già il sangue pomparmi tremendamente nelle vene.


 
§§§


 
La festa di mezza estate giunse in men che non si dica. Io e Sherlock avevamo appuntamento ai quattro rintocchi nella piazza della cattedrale, dove i giovani maschi di Grimpen sarebbero partiti in processione, brandendo tizzoni ardenti per omaggiare il sole (e scacciare i perfidi draghi), alla volta della collina a oriente appena fuori le mura, dove si sarebbe tenuto il falò di mezza estate e la cerimonia della ruota infuocata [4].
 
Madonna Molly rammendò le mie vesti e insistette affinché mi facessi un bagno caldo, quella mattina. Mai come in quel momento la signora Stamford apparve ai miei occhi come l’amorevole madre di cui ero stato privato.
 
Ancora non mi capacitavo che lord Sherlock avesse accolto così di buon grado il mio invito. Avrei detto che lo avrebbe rifiutato adducendo come giustificazione la mancanza d’interesse che suscitava in lui una tal celebrazione. Invece il suo consenso arrivò prontamente e con sollecitudine, lasciandomi in corpo una piacevole sensazione di completezza.
 
Quando giunsi nella piazza, il mio cuore era impegnato a sussurrare alla mia anima un concerto fatto di palpiti e fremiti. Gli occhi vagavano rapiti tra i volti della gente. Grimpen non m’era mai parsa così popolosa come quel pomeriggio. Riconobbi sir Hudson e consorte (Harriet brillava per la sua assenza, al contrario), molti mastri e mercanti che esponevano le proprie merci al mercato nei pressi del nostro banco, miss Adler e addirittura Mary in compagnia di sir Anderson. Ma di Sherlock, o sir Moran, nessuna traccia.
 
Mi sentii già smarrito, mentre fermo in mezzo alla piazza guardavo impaziente a destra e a manca. Poi un uomo mi urtò e io non mi curai di porgergli le mie scuse. “È davvero scortese da parte sua non dimostrare il minimo rispetto per il prossimo!”
 
Sobbalzai e mi voltai. “Sherlock?” mormorai, all’indirizzo dell’uomo che mi aveva urtato. Aveva l’aspetto di un mercante nelle sue vesti decorose ma semplici e quando abbassò il cappuccio color del grano, il viso che mi osservava con un ghigno di scherno era indubbiamente quello del giovane Holmes.
 
Risi sollevato. “Accidenti, ci ero quasi cascato!” dissi, avvicinandomi a lui. “Puoi tranquillamente levare quel quasi, John” ribatté lui, gli angoli delle labbra piegati in un accenno di sorriso. La sua mano sinistra sfiorò la mia, forse a seguito della calca che c’era nella piazza, ma volli pensare che fosse un contatto cercato. Desiderato.
 
“Messer Moran? Non mi sembra d’averlo notato...” chiesi, mentre la processione dei tizzoni aveva inizio. Il mio amico mi rivolse un’occhiata di disappunto.
 
“Non ci si può accorgere di sir Moran se sir Moran non desidera essere visto” borbottò a denti stretti, mentre, con un gesto rapido, si calava nuovamente il cappuccio sulla fronte. Mi parve evidente che non gradisse parlare di Sebastian. In particolare se ero io a tirare in ballo l’argomento...
 
Seguimmo la processione spalla contro spalla, la folla che ci regalava il migliore dei travestimenti.
 
“Credo che saresti pressoché perfetto” sussurrò Sherlock, chinandosi al mio orecchio. “Per che cosa?” gli feci eco. “Per brandire impavido un tizzone infuocato con cui tentar di scacciare il più temibile dei draghi” disse poi, conferendo alla sua voce tutta l’enfasi di cui era capace; “Sarebbe un’ottima scena da includere nelle tue sentimentali favole!”
 
Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo, lievemente contrariato per essere oggetto del suo scherno. “Non sono sentimentali le mie...” tentai di protestare, ma il mio nobile amico m’interruppe, prendendomi per un gomito e stringendolo con forza. “Fellone in avvicinamento dritto davanti a noi” proclamò. Guardai nella direzione da lui indicata e vidi sir Anderson puntare gli occhi al mio indirizzo. Quasi non feci in tempo a realizzare ciò che stesse accadendo che sentii la mano fredda ma forte del mio amico scivolare sulla mia. “Prendi la mia mano” ordinò. E in un attimo venni trascinato via.
 
Ci ritrovammo a muoverci rapidi tra la folla, facendoci strada a gomitate.
 
Urtai un menestrello e per poco non feci rotolare a terra il suo liuto. Per un attimo, ritenni d’aver perso di vista Sherlock, ma ben presto la sua mano tornò a stringere la mia . “Per di là!” udii poi una voce conosciuta al mio orecchio. Apparteneva a messer Moran, apparso dal nulla neanche fosse sceso dai cieli apposta per custodirci.
 
Ci addentrammo correndo in un viottolo buio e sporco e da lì in un altro. Seguivo fedelmente il mio amico, le mie dita strette alle sue come se non volessero mai più lasciarle andare. Io non avevo la più pallida idea di dove fossimo diretti; Sherlock, al contrario, pareva aver memorizzato a menadito l’intera mappa cittadina.
 
Al fine, giungemmo in un vicolo cieco, chiuso da una staccionata di legno che giaceva in condizioni alquanto precarie. “Qui non si va da nessuna parte” mormorai, il fiato corto per la corsa appena fatta. Mi resi subito conto che il giovane Holmes non aveva intenzione di andare proprio in altro luogo.
 
Sicuro di se stesso, Sherlock si diresse verso alcune casse rotte gettate con mal creanza in un angolo. Con gesti rapidi, ne prese due e le impilò contro la staccionata. Ci fu sopra in un balzo, accostando poi un occhio alla fessura tra due assi in modo da osservare cosa stesse avvenendo al di là.
 
“Cosa... cosa stai guardando?” chiesi io ansimando, mentre mi piegavo sulle ginocchia. “Da qui ho un’ottima visione sull’ingresso del Cross Keys” rispose Sherlock con solennità. “Ah, d’accordo. E ci... interessa?”. Mi sedetti a terra, appoggiando la schiena alla staccionata e chiudendo gli occhi. “Così è. Sembra che sir Anderson abbia sfidato sir Moran in singolar tenzone.”
 
Riaprii immediatamente le palpebre, tutti i sensi all’erta. “Oh no! Sir Anderson ha colpito sir Moran in pieno petto!”
 
Fui in piedi in un attimo, un occhio schiacciato contro l’ennesimo foro nelle assi e il cuore in gola; tuttavia, dalla mia posizione riuscivo a scorgere ben poco. “Non vedo nulla!” gridai nel panico. Alzai lo sguardo e notai quello di lord Sherlock su di me: i suoi occhi erano ridotti pressoché a fessure, eppure era chiaro come nelle sue iridi saettassero lampi di odio. Sprofondai nell’imbarazzo più scomodo, mentre il mio amico tornava a guardare al di là della staccionata.
 
“Sir Moran è riuscito a distrarre sir Anderson invitandolo a bere un goccio alla locanda. Assieme alla tua ex promessa sposa, ovviamente” sentenziò lord Sherlock, con voce profonda e solenne. Mi aveva messo nel sacco. “Io e sir Moran siamo buoni amici” bisbigliai, sentendomi in dovere di giustificarmi. Il giovane Holmes balzò giù dalle casse con un salto. “Ovviamente” commentò sfuggevole, senza degnarmi d’uno sguardo.
 
La sua voce era piatta, tuttavia percepii un fiume di disappunto. Avevo il sentore che Sherlock avesse paura: paura di dividere il suo unico amico con qualcuno, rischiando potenzialmente di perderlo del tutto. Provai l’urgenza di chiarire. Lo afferrai dolcemente per un gomito, bloccandolo dov’era. “È stato l’unico, nella casa della morte, a trattarmi con rispetto. Alla pari...”
 
Non sapevo se potessi dire di più. Se dovessi...
 
“È soltanto un amico” aggiunsi. Sentii il suo braccio irrigidirsi sotto le mie dita. “Tu, al contrario, sei l’amico.” Si rilassò appena sotto la mia stretta e lo lasciai libero. Mi parve addirittura di vedere un accenno di sorriso su quelle belle labbra. “Andiamo a vedere la ruota di fuoco che rotola giù dalla collina?” lo invitai poi. Lo vidi annuire, continuando tuttavia a tenere stoicamente e fieramente lo sguardo fisso innanzi a sé.


 
§§§

 

Ammirammo di lontano la cerimonia della ruota rotolante e l’accensione del falò in cui sarebbero state bruciate le vecchie erbe. Ce ne stavamo seduti sul muretto in rovina vicino alla porta occidentale, il luogo d’incontro preferito da me e Harriet. Rimanemmo lì sin al calare del sole: io con le ginocchia raccolte al petto, lui sdraiato a pancia in su sul bordo. Ci godemmo lunghi momenti in cui nessuno di noi sentì il bisogno di parlare o fare altro, poiché la sola presenza dell’uno bastava a rasserenare il cuore dell’altro. Quando la palla di fuoco sparì oltre la collina, le mie labbra parlarono senza che io accordassi loro il permesso.
 
“Quando devi andare?”
 
“Quando lo vorrai tu.”
 
“Io non voglio che tu vada.”
 
“Allora non me ne andrò.”
 
Saltai giù dal muretto e lo guardai, senza tuttavia aggiungere altro. Sherlock teneva gli occhi chiusi, come sempre. E, come sempre, sbuffò. “Avanti, chiedi ciò che hai da chiedere e smettila di fissarmi. A volte sai essere irritante.”
 
“Vorrei che ti unissi alla mia tavola, stasera” dissi. “Cioè, quella del mastro pellaio, ovviamente.” Il mio amico si tirò a sedere: era perplesso. “È una tavola modesta. La più modesta delle modeste...”
 
“Va bene.”
 
“Niente a che vedere con un nobile castello, ma...” continuai imperterrito.
 
“Ho detto che va bene, John.” Mi resi conto solo in quel momento che il mio nobile amico aveva acconsentito. “Oh, bene…” farfugliai.
 
“Io sono uno che mangia pochissimo a pasto. E parlo ancora di meno. Per me la tavola è un dovere, non un piacere” sciorinò il mio amico tutto d’un fiato.
 
“Beh, se vuoi declinare il mio invito non devi far altro che dirlo a chiare lettere” borbottai io. Non posso negare che mi sentii lievemente offeso.
 
“Non stavo affatto declinando il tuo invito: ti stavo semplicemente mettendo in guardia su come sia io in realtà. Così, qualora ti irritassi, non potrai dire di non esser stato avvisato” ribatté.
 
“Non mi irriterò” lo redarguii. Il mio amico inarcò un sopracciglio. “Magari solo un pochino!” convenni. “E magari io non piacerò per nulla alle persone con cui dividi il tetto. Dopotutto, è ciò che capita quasi sempre” continuò lui, tornando a sdraiarsi e a chiudere gli occhi.
 
“Se ti comporterai bene ed eviterai di fare l’indisponente, non succederà!” dissi io, con un mezzo sorriso. “Insomma, mi stai dicendo di fingere d’essere un’altra persona, John” borbottò lui, tornando a osservarmi con cipiglio.
 
“No, solo di non esagerare. Gli Stamford sono gente semplice. Io ti trovo adorabile ma gli altri...” “Adorabile?” mi interruppe, tirandosi a sedere di colpo.
 
Avvampai. Non mi ero accorto del vocabolo improprio e proibito che avevo usato. “Apprezzabile. Intendevo dire apprezzabile” mi corressi. Saltai giù dal muretto, affrettandomi a cambiare discorso.
 
“Forse faremmo meglio a incamminarci” tagliai corto. Nella mia testa iniziai a formulare ipotesi varie su quali avrebbero potuto essere le reazioni della famiglia Stamford.
 



 
Sgomento.
 
Incredulità.
 
Rifiuto.
 
Smarrimento.
 
Gioia.
 
Panico.
 
Tutto un ventaglio di emozioni contrastanti si dipinse sul viso del mastro pellaio e della sua signora quando i loro umili occhi si posarono sul molto onorevole ospite che chiesi il permesso di far sedere alla nostra tavola, quella sera.
 
Li vidi sparire per un attimo nel piccolo vano sotto le scale che portavano di sopra. A consultarsi. A definire un piano, forse. Li sentii parlottare là sotto sino a quando madonna Molly non tornò in vista. Aveva gli occhi luccicanti di gioia, non lo dimenticherò mai. Venne raggiunta ben presto dal consorte, che le cinse teneramente le spalle prima di rivolgersi al nostro ospite.
 
“Siamo lieti di avervi alla nostra umile tavola, mio sire” disse il mastro con un piccolo inchino. Anche il più stolto degli stolti non avrebbe faticato a capire che si sentivano davvero onorati.
 
Sorrisi, mentre mostravo a Sherlock dove accomodarsi. Il mio cuore era colmo di gioia, poiché era tutto così semplice e perfetto.
 
Madonna Molly si affrettò a portare in tavola un piccolo catino d’acqua e un asciugamani di lino, affinché il nostro molto onorevole ospite potesse lavarsi le mani prima di desinare, mentre il mastro si occupò del pentolone e delle porzioni.
 
“Pasticcio di quaglie e piccioni, mio sire” disse il mastro, prima di servire il mio nobile amico. Di sottecchi, lo vidi annuire: sul viso aveva dipinta una maschera indecifrabile. Non fui capace di dire se si sentisse tutto sommato a suo agio alla nostra tavola o se lo stesse facendo solamente per compiacermi.
 
Per tutta la durata della cena, i coniugi Stamford lo soffocarono con le loro attenzioni: “Gradite un po’ di pane, sire?” “Dell’altro vino, milord?” mentre Sherlock spiluccava ciò che aveva nel suo piatto con una lentezza tale da far invidia a una lumaca.
 
Andrew e Louise sembravano aver soggezione del nostro ospite, come se avessero intuito che si trattasse di qualcuno d’importante. Rimasero gran parte del tempo ammutoliti, imbambolati come delle statue, fissandolo con curiosità, cosa che capivo urtasse in qualche modo il giovane Holmes.
 
Ogni cosa fu pacata e controllata. Fino a quando mi rivolsi al mio amico chiamandolo per nome.
 
Louise lanciò un gridolino e si portò entrambe le mani al viso, come se fosse rimasta folgorata dalla più meravigliosa delle rivelazioni. Andrew balzò sulla sedia, lanciando in aria la sua posata. “Tu! Tu sei Sherlock lo stregone!” ululò il piccolo, indicandolo con il suo piccolo dito paffuto.
 
Madonna Molly sgranò gli occhi e arrossì.
 
Mastro Michael cercò di acchiappare il figlio minore borbottando scuse su scuse.
 
Sherlock inorridì, mentre tentava invano di mettere quanta più distanza possibile tra lui e i bambini scivolando lungo la panca (sfortunatamente, la nostra casa aveva un grandissimo difetto: non era infinita).
 
Io desiderai semplicemente di sparire da questo mondo.
 
Nonostante gli sforzi di tutti, Holmes fu circondato dalle due pesti, che lo chiusero in un angolo e lo subissarono di domande quali “Ma lo tieni davvero un drago nelle segrete del tuo castello?” “Possiamo vederlo? Possiamo vederlo, per cortesia?” “Ma è vero che hai sconfitto diciaventi [5] cattivi?” “Ma che dici? Erano di più! Lui e il suo assistente John ne hanno sconfitti a bizzeffe!”
 
In un attimo, percepii gli occhi di tutti su di me: quelli sgomenti dei coniugi Stamford, quelli pregni di rimprovero di Sherlock. Gli occhi del mio amico parevano dire Visto che cosa succede a riempire la testa dei bambini di sciocchezze?, ma anche Salvami, John!
 
“Piccolini, se lasciate stare il nostro nobile ospite, vi prometto di darvi razione doppia di budino!” Le dolci parole della cara Molly capitarono a fagiolo e i due bimbi si staccarono finalmente dal mio amico lasciandolo libero di respirare, probabilmente giungendo alla conclusione che il pudding fosse mille volte meglio di un Holmes.
 
Allora udii Sherlock sospirare appena percettibilmente e, con la coda dell’occhio, notai che l’espressione di terrore puro che fino a un attimo prima era stata padrona incontrastata dei suoi lineamenti stava pian piano iniziando a scemare.
 
Sorrisi.
 
Finimmo di cenare in silenzio, poi Andrew, con dei deliziosi finti baffi di budino e un’aria falsamente disinteressata, scivolò sulla panca sino a raggiungere lord Sherlock all’altro capo della tavola. Il mio amico si irrigidì di nuovo quando se lo trovò accanto.
 
“Così tu non ce l’hai, un drago...” borbottò.
 
“No” rispose secco Sherlock.
 
“È un vero peccato!”
 
Una pausa. Quasi quasi potevo sentire gli ingranaggi del cervello del mio amico lavorare con forza.
 
“Lo è davvero!”
 
Dischiusi le labbra in una perfetta O stupore: Sherlock stava davvero dando corda al bambino.
 
“Se i draghi esistessero sul serio si potrebbe fare uno studio per capire se la velocità con cui inceneriscono le persone sia proporzionale a… Ahi!”
 
Mi presi la libertà di allungare un piccolo calcio contro la sua gamba, poiché avevo visto lo sguardo di terrore che si era dipinto sul viso di Andrew all’udire della parola “incenerire”. Il mio amico mi osservò confuso: sembrava non capire. Scossi la testa. “Ma, John, rifletti! Sarebbe uno studio degno…” La scossi con ancor più decisione: finalmente capì.
 
“Ma la spada?” chiese di nuovo Andrew. “Già, la spada! La spada! Quella ce l’hai, almeno?” fece eco Louise. Gli occhi del giovane Holmes brillarono di gioia a quella domanda. “La più potente tra le potenti, la più scintillante tra le scintillanti!” sussurrò con fare misterioso, mentre si chinava verso i due bambini.
 
Andrew era indiscutibilmente affascinato da Sherlock; Louise indiscutibilmente innamorata. “E John?” “Già, già, John! È un bravo assistente?” cinguettarono di nuovo all’unisono. Io mi sentii trasalire sulla sedia. “Se John è un bravo assistente?” ripeté il mio amico, voltandosi a scrutarmi. Soppesarmi.
 
Lo guardai negli occhi.
 
Mi guardò negli occhi.
 
Poi tornò a posare lo sguardo sui due fratellini. “Il migliore che un uomo possa mai avere.” E lord Sherlock parlò con una solennità tale nella voce da far tremare il mio corpo, mentre goffamente portava una mano al centro del petto e mimava un piccolo inchino trattenuto.
 
Mi morsicai il labbro e, combattendo con una lacrima che faceva di tutto per sfuggire ai miei occhi, cercai di ripetermi che il mio amico stava semplicemente recitando, che non poteva sentirsi realmente così lusingato dalla mia modesta persona.
 
Semplicemente, non era possibile.


 
§§§


 
Il giovane Holmes prese commiato ricevendo l’ennesimo e caloroso inchino da parte di mastro Michael e stupendo tutti con il baciamano a madonna Molly, le cui gote arrossirono con la stessa purezza d’una fanciulla al primo complimento d’amore.
 
Uscimmo nell’aria frizzante di quella notte di mezza estate. I candidi raggi di luna scendevano verso di noi, ad abbracciarci con curiosità. Il cielo era tornato a essere buio e silenzioso: le pennellate color carminio dipinte dai falò avevano ormai lasciato il posto alle tenebre.
 
I miei occhi ammirarono audaci la figura snella di lord Sherlock che si incamminava avanti a me, le mani lunghe e aggraziate che alzavano il cappuccio scuro fin a coprire la testa, facendolo apparire come il più tenebroso e affascinante dei cavalieri.
 
Ero così perso via, ottenebrato dai movimenti del suo corpo ammaliante e sinuoso, che finii per urtare uno dei catini in cui madonna Molly aveva messo a mollo le erbe nuove [6]. “Dannazione…” imprecai, chinandomi per tentare di porre rimedio al danno e salvare le erbe salvabili.
 
“Se non sbaglio, alcune credenze popolari sostengano porti sfortuna rovesciare le erbe nuove” sentenziò il mio amico, fermandosi sul ciottolato e guardandomi con un sopracciglio inarcato e la sua ormai tipica espressione di rimprovero.
 
“Non credo nella sfortuna” ribattei io, tirandomi in piedi. “Ognuno di noi è fautore del proprio destino.” A queste parole, le labbra di Sherlock si arricciarono all’insù e l’espressione di rimprovero vigile e presente solo un attimo prima, un attimo dopo si era trasformata in approvazione. “Mi piace questo tuo modo di ragionare” disse, tornando lentamente sui suoi passi. Sorrisi compiaciuto.
 
Un passo e poi un secondo...
 
Il profumo della sua pelle mi fu così vicino che pareva esser divenuto un tutt’uno con il mio.
 
Un altro passo ancora...
 
Il mio respiro si intrecciò così saldamente al suo da poter esser scambiato per la brezza che la notte stava soffiando attorno a noi.
 
“E a me piace che a te piaccia.”
 
Fu allora che donai le mie labbra alle sue.
 
Non seppi dire se il mio gesto avventato lo avesse sorpreso, poiché mi sentivo io stesso così sorpreso di me stesso da serrare forte gli occhi nel timore di ciò che avrei mai potuto leggere sul suo viso.
 
Non seppi nemmeno dire di che cosa sapessero le sue labbra, se di budino o di pasticcio; se fossero morbide o screpolate, poiché il fremito che scosse il mio corpo in quel momento fu così intenso da annullare tutto il resto.
 
Con timore e riverenza, alzai la mancina per cingerla attorno alla sua vita: mi accorsi solo allora che Sherlock stava tremando. Temetti d’averlo turbato. Irrimediabilmente turbato.
 
Abbandonai con dolore la sua bocca e accostai titubante la mia al suo orecchio.
 
“Perdona queste mie labbra impudenti per aver trovato diletto in un luogo così proibito” sussurrai. Il suo corpo continuava a tremare sotto il tocco leggero della mia mano e la mia voce tremava con lui.
 
“Io... Devo tornare al castello, ora” fu tutto ciò che disse lord Sherlock.
 
Non mi stava guardando negli occhi. Non mi guardò più negli occhi.
 
Io ero così impaurito che mi limitai ad annuire, stringendo con forza il labbro inferiore tra i denti. Il mio amico speciale, il mio principe, era sempre stato per me qualcosa di prezioso. Un piccolo esserino a cui serviva protezione, così fragile da poter essere distrutto persino da un alito di vento troppo vigoroso. Lo avevo accolto con gioia nel palmo della mia mano, ma ero stato così scellerato da chiuderla troppo forte e ora temevo d’averlo infranto in mille pezzi.
 
Sherlock si staccò dalla mia mano, fino ad allora ancora ferma sul suo fianco. Cercai per un’ultima volta i suoi occhi, ma di nuovo si negarono ai miei. “Buonanotte, John” aggiunse, con una voce fredda e indecifrabile. Poi mi dette le spalle e lo vidi sparire, inghiottito dalla notte di mezza estate.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  molte di voi mi hanno chiesto da dove provengono le fanart che uso a inizio capitolo. Alcune sono della famosissima reaper, quella di Jeremy Renner/Hansel/Moran è di liuhagaren; le altre sinceramente non lo ricordo più perché trovate per caso su Internet o passatemi da amiche. Se qualcuna sapesse la fonte di ciascuna e volesse dirmelo, la ringrazierei di cuore! <3
[1] il supplizio della ruota era una delle tante tecniche di tortura praticate nel Medioevo. Non vi spiego come funzionasse perché sto male anche solo al pensiero! [2] come già detto in un altro capitolo, i fogli erano preziosi e sovente venivano riutilizzati, grattando appunto l’inchiostro con il coltello. [3] citazioni varie e rimaneggiate dall’episodio 1x01 e dal Canone Doyle in generale. [4] nel Medioevo la festa di mezza estate era molto importante. Prevedeva diverse celebrazioni, tra cui il falò, la processione con i tizzoni ardenti a scacciare ipotetici draghi e la ruota infuocata, che veniva fatta rotolare da un’altura a simboleggiare il sole che prendeva parte alla cerimonia. [5] dopo il 19, mio figlio sostiene che venga il diciaventi! ^___^ [6] altri riti della festa di san Giovanni prevedevano mettere a bagno le erbe nuove e bruciare quelle vecchie.

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Capitolo 10
*** Atto X. Una notte d'amore ***




ATTO X. UNA NOTTE D’AMORE
 
I giorni che seguirono la festa di mezza estate furono tra i più gelidi che io ricordi. La vita trascorreva nella normalità tra la gente accanto a me, mentre io rimanevo indietro, a osservare con apatia e disinteresse quanto avveniva attorno a me.
 
Non provavo nulla, non mi interessava nulla.
 
Nulla mi faceva piangere e nulla mi divertiva.
 
Tutto ciò che riusciva a scuotermi era l’immensa rabbia che provavo nei confronti di me stesso.
 
Avrei voluto fustigarmi, ferire la mia pelle fino a far uscire sangue. Ripetermi quanto fossi stato stolto sino a quando non fossi più riuscito a muovere la lingua.
 
Avevo fatto del male al mio principe, era lampante come il sole.
 
 
 
§§§
 
 
 
“Mrs. Hudson farà tessere dalla sua sarta personale un abito appositamente per me! Ti rendi conto, John? Te ne rendi conto?”
 
Harriet decantava tutta la sua immensa gioia per essere stata invitata al ricevimento di nozze tra il visconte Mycroft e lady BlackBerry. Le sue parole potevano avere la stessa musicalità del cinguettio di un passerotto, i movimenti del suo corpo nel cortile della residenza di sir Hudson la stessa leggiadria di un cerbiatto. Eppure suscitavano in me solo indifferenza.
 
“Rivedrò lady Clara, fratellino!” gongolò a un certo punto, sedendosi accanto a me sotto l’albero. Mi limitai a pronunciare un Mhm gutturale che sapevo l’avrebbe fatta arrabbiare ma mi fu impossibile essere più gentile di così.
 
Lei sbuffò. “So bene che tu non ci potrai venire al ricevimento, ma potresti anche sforzarti d’essere un filo contento per me, fratellino!” borbottò. “Harry, questo tipo di amori non sfociano da nessuna parte. È meglio che tu te ne renda conto subito” tagliai corto io, la voce piena di veleno.
 
Me ne pentii immediatamente e mormorai un Mi dispiace forzato.
 
“Cos’è successo, John?” mi esortò mia sorella , sfiorandomi il braccio. “Ho fatto una cosa...” iniziai incerto, senza incrociare il suo sguardo. Mi morsicai il labbro con insistenza. “E non posso disfarla.” [1]
 
Harry si chinò verso di me, pendendo dalle mie labbra. “L’ho baciato...” Un accenno di sorriso comparve sulle sue labbra: lo smorzai subito. “E da allora Sherlock non ha più voluto incontrarmi.”
 
“Oh...” mormorò mia sorella confusa. “È successo alla festa di mezza estate e poi... Più nulla” sospirai, guardando le aiuole fiorite nel cortile. “Ma forse c’è una spiegazione, John. Vedrai che sir Sebastian...”
 
“Sir Sebastian non c’è più” la interruppi di nuovo. Harriet mi guardò sempre più smarrita. “Da allora, sono andato ogni giorno alla locanda, tutti i giorni. Nella speranza di vederlo e consegnargli il mio messaggio di scuse per lord Sherlock. Ma messer Moran non s’è più visto...” sospirai, mentre la malinconia prendeva di nuovo possesso della mia anima.
 
La mia mente andò rapida al giorno del nostro solito appuntamento agli olmi gemelli e il mio cuore s’avvizzì al ricordo di tutte quelle ore trascorse invano attendendo l’arrivo del giovane Holmes.
 
 
 
“Ma magari è soltanto una coincidenza, John. Magari è soltanto...” Alzai una mano per porre fin anche alla sua ultima speranza. “Sir Moran vive in simbiosi con il Cross Keys: non credo ci sia altra spiegazione oltre a quella che Sherlock gli abbia ordinato di non venire più. Per non farsi contattare da me.”
 
Parlai senza intonazione alcuna: ero troppo rassegnato e arrabbiato con me stesso per essere triste. “Sono desolata, fratellino, non riesco a esprimere quanto...” In un attimo, mi sentii soffocare dal suo amorevole abbraccio. Affondai il viso nella sua spalla e spalancai la bocca in una disperata ricerca d’ossigeno.
 
“Io ero l’unico, per lui. Il suo unico amico, l’unica persona desiderosa d’ascoltarlo. E con il mio comportamento insensato e scellerato l’ho privato di tutto questo” dissi a denti stretti.
 
Allorché, Harry si staccò da me e mi guardò con severità negli occhi. “John Watson, tu sei l’unico a questo mondo che viene mollato e che si sente ugualmente colpevole!” mi rimproverò.
 
“Ma Harry, sono colpevole d’averlo baciato! D’aver buttato alle ortiche il nostro rapporto!” gridai nella disperazione. “Tu sei colpevole soltanto d’amarlo, John...” urlò lei più forte. E poi ci ritrovammo di nuovo abbracciati.
 
“Dici... Dici che sia rimasto spaventato dalla minaccia del rogo?” bisbigliò contro il mio collo. “Onestamente non lo penso, Harry... Credo invece che proprio non vedesse il nostro rapporto sotto quell’aspetto” risposi, stringendo disperatamente mia sorella a me.
 
“Sono invitata al ricevimento, lunedì, come ti ho detto. Forse potrei...” “No!” la interruppi alzando la voce. “Questa volta assolutamente no. Sherlock deve essere libero e io accetterò ogni sua decisione...”
 
La sentii piangere sommessamente contro la mia pelle. Io ero così paralizzato dal dolore da non riuscire a fare altrettanto.
 
 
 
§§§
 
 
 
Il via vai nel mercato di Grimpen, quel sabato mattina, era più intenso del normale.
 
Era evidente che le nozze imminenti avessero attirato gente da ogni angolo della contea e mi ritrovai a pensare a come ogni scusa fosse buona, per molte persone, per alzare il gomito e finire ubriachi negli angoli più sporchi dei vicoli più bui.
 
Riflettevo su questo mentre, con la tascapane a tracolla, mi incamminavo verso il pozzo per consumare rapidamente la mia meritata pausa pranzo. Riflettevo su quanto fosse diffusa l’ipocrisia in quei tempi, spennellata ovunque sul volto dell’essere umano.
 
Estrassi una fetta di pane dalla mia borsa, l’addentai e, mentre mi stavo guardando intorno con aria distratta, qualcosa ebbe il potere di paralizzarmi dov’ero. Corsi rapido verso il pozzo e mi accucciai. Boccheggiai in cerca d’ossigeno, quindi, con fare guardingo e molto, molto lentamente, appoggiai una mano alle fredde pietre e feci capolino da un lato, rivolgendo gli occhi a ciò che aveva catturato il mio interesse, al di là della piccola piazza.
 
Sir Moran aveva appena messo piede fuori dal Cross Keys e stava montando in groppa al suo destriero.
 
Il cuore mi balzò in gola in un attimo, rendendo assai difficile la ricerca d’aria. Tentai d’alzarmi, ma poi tornai a raggomitolarmi dov’ero. C’era una parte di me che avrebbe voluto avvicinarsi a lui per domandare spiegazioni, un’altra che aveva un timore folle di ciò che avrei potuto ricevere in risposta.
 
Chiusi gli occhi, scossi la testa e serrai i pugni: no, non avrei importunato messer Sebastian. Mi consideravo un soldato e un vero guerriero sa quando giunge il momento di arrendersi. Avrei smesso di combattere, rispettando sino in fondo le volontà del mio principe. Se Sherlock non desiderava più avere contatti con me, era più che giusto che...
 
“Da quale male ci stiamo nascondendo, piccolo Watson?” giunse una voce al mio orecchio.
 
Trasalii e mi voltai di scatto: Sebastian era alle mie spalle, in piedi, e teneva il suo destriero per le briglie. Mi osservava con fare curioso, come se trovasse bizzarro il mio comportamento.
 
“Io... Da voi, suppongo” risposi, deponendo le armi. Moran mi guardò ancora più perplesso prima di sedersi accanto a me, appoggiandosi anche lui al pozzo.
 
“E da quando io sarei tuo nemico?” Non risposi, limitandomi a serrare e aprire spasmodicamente i pugni. “Che cosa è accaduto, di grazia?” mi sollecitò ancora. C’era tensione nella sua voce e lo apprezzai.
 
“Questo credo dobbiate dirmelo voi!” dissi. Mi fu chiaro che non mi seguiva. “Se avete ricevuto ordine di stare lontano dalla locanda e conseguentemente da me, vi pregherei di dirmelo, sire” dichiarai, sfoderando gli ultimi brandelli di coraggio che mi erano rimasti. Tirai in fuori il petto: ero pronto.
 
Sir Moran mi osservò con una strana espressione dipinta sul volto. E poi scoppiò a ridere. “Ho avuto ordine di accompagnare lady Violet e il molto onorevole lord Sherlock a Baskerville Hall, per prendere lord Henry e lady Clara. Siamo tornati stanotte. Non so se la notizia ti sia giunta all’orecchio, ma si terrà un matrimonio, dopodomani...”
 
“Ah...” farfugliai io. Affondai le unghie nei palmi. “Dunque lord Sherlock non vi ha ordinato di non mettervi più in contatto con il sottoscritto?” volli sapere. Provai un indicibile sollievo, a quelle parole.
 
“Ullallà, vedo che abbiamo litigato!” scherzò, divaricando le gambe e appoggiando i polsi alle ginocchia. “Beh, non proprio...” iniziai.
 
Moran scivolò di qualche centimetro sulla nuda terra, arrivando a sfiorare il mio fianco. Era il suo modo per dire Ti ascolto.
 
“Ecco, io... L’ho baciato” rivelai semplicemente. Il mio cavaliere oscuro rimase in silenzio per un attimo, prima di scoppiare in una fragorosa risata. “Orbene, ecco dunque spiegato il motivo per cui il mio protetto è stato ancora più intrattabile del solito, in questi giorni!”
 
Mi sentii girare la testa: il sollievo che avevo conosciuto mi aveva già abbandonato. “Intrattabile?” sussurrai. “Così tanto da aggiudicarsi l’ira della contessa. Non credo metterà il naso fuori dalla sua stanza, prima del ricevimento. Fatto salvo forse per la funzione domenicale...”
 
“Così lord Sherlock è adirato con me...” sospirai smarrito, mentre facevo cadere lo sguardo sui miei calzari. Poi sentii la mano del cavaliere scivolare sulla mia coscia, tentando di darmi conforto.
 
“Ascoltami bene, piccolo Watson. Se lo conosco come lo conosco, lord Sherlock non è adirato, ma soltanto spaventato” iniziò. Riportai gli occhi su di lui: i suoi erano pieni d’affetto.
 
“Già, per via di quello che la Chiesa fa a chi ama di un amore impuro...” mormorai. “No, no, no, no, no! Non sarebbe cambiato proprio nulla se tu fossi stato una donna. Sherlock non ha paura della Chiesa: ciò che lo terrorizza sono i sentimenti.”
 
“È stato cresciuto all’oscuro dall’amore. Educato al suo rigetto. Un bacio è per lui qualcosa di completamente ignoto. E ora forse se ne starà là a studiare che cosa mai significhi... A capire se debba avere davvero paura, di quei sentimenti, oppure se siano al contrario la cosa più bella del mondo. Nessuno lo ha mai veramente amato ed è per questo che l’amore lo terrorizza a questo punto.”
 
Io sospirai e mi sforzai di guardare altrove: mi sarei volentieri preso la testa a pugni se avessi potuto.
 
Come avevo osato destabilizzarlo in quel modo? Come avevo osato portar scompiglio nella sua vita già provata? Se da una parte era vero che non aveva allontanato messer Moran da me, era indubbio che il mio gesto lo aveva sconvolto: era partito per Baskerville Hall senza avvisarmi, consapevole che avrebbe saltato il nostro consueto appuntamento nel bosco, gettandomi nell’ansia.
 
Lord Sherlock aveva bisogno d’amore, nonostante il suo rifiuto, ma il modo migliore per donarglielo non avrebbe dovuto essere un bacio non richiesto imposto nel cuore nella notte, quanto piuttosto la mia sola e genuina amicizia.
 
“Forse dovrei porgergli le mie scuse più sentite” mormorai con un fil di voce.
 
Continuai a sentirmi colpevole.
 
Poi sentii la mano di Sebastian stringermi ancora affettuosamente la coscia.
 
“Non preoccupati, piccolo Watson. Il giovane lord tornerà da te non appena avrà risolto il suo rompicapo” disse. Il cavaliere oscuro prese commiato da me con un’affettuosa e fraterna carezza sui miei capelli e, mentre lo vedevo montare in groppa al suo destriero e scivolare via da me, ebbi la sensazione che Sherlock non sarebbe mai venuto a patti con quel rompicapo.
 
 
 
§§§
 
 
 
Il giorno seguente, la cattedrale era così gremita di gente da rendere praticamente impossibile ottenere anche un solo sfuggevole scorcio del vescovo Milverton mentre officiava. Volti vecchi e nuovi riempivano i banchi e gremivano le navate.
 
Io me ne rimasi schiacciato in fondo alla navata laterale destra per gran parte della funzione, immerso non tanto nella preghiera quanto nelle mie preoccupazioni.
 
Fino a quando non lo vidi.
 
Scese dall’altare dopo aver preso la comunione, lo sguardo ostinatamente incollato al suolo. Ogni cosa mi parve chiara in quel gesto. Chiara e insopportabile. Poiché a quel punto lord Sherlock era solito rivolgere sempre un’occhiata di sfida al mio indirizzo, cercare sempre i miei occhi tra la gente. E questo suo evitarmi aveva davanti a me un significato e uno soltanto.
 
Non appena la funzione giunse al termine, scappai fuori dalla cattedrale, incurante di aspettare i membri della famiglia Stamford. Mi allontanai il più possibile verso il carro, tenendo lo sguardo fisso sui miei calzari. Ignoravo da dove sarebbero usciti gli Holmes, se dall’ingresso principale o da una delle porte laterali, ma in ogni caso volevo fare il possibile per non incontrare Sherlock e nemmeno vederlo.
 
Sarebbe stato meglio per tutti.
 
Il carro del mastro era in vista quando mi fermai, la schiena ostinatamente rivolta alla gente che mi passava accanto.
 
Sì, avevo preso la decisione più saggia, convenni, e con il passare del tempo il dolore e la rabbia sarebbero presto (o tardi) scomparsi. A questo pensavo, quando qualcuno mi urtò.
 
E mi ritrovai inspiegabilmente con una chiave tra le mani.
 
Durò tutto non più di qualche secondo. Io che osservavo stranito quella pesante chiave di ferro che era comparsa come per magia nel mio palmo, una voce che sussurrava strane parole al mio orecchio.
 
La sua voce.
 
“Domani sera. Piano secondo. Stanza ventuno. Chiedi a Moran.”
 
Il respiro di Sherlock mi solleticò una guancia, increspando la pelle. Mi voltai giusto il tempo per lasciare che i miei occhi si cibassero di una fugace visione di Sherlock che calava sulla fronte il cappuccio del suo mantello nero, facendomi l’occhiolino prima di mescolarsi tra la folla.
 
Non fui in grado di spiccicare parola. Anche respirare fu davvero un’impresa. Per un attimo ritenni d’essermi immaginato tutto, ma il peso della chiave nella mia mano mi rammentò che non era così.
 
Poi qualcun altro mi urtò e mi ritrovai a essere trascinato via, una mano stretta al mio braccio destro.
 
“Nel caso te lo stessi chiedendo, sì, sei stato appena invitato al castello durante il ricevimento di nozze, piccolo Watson.” Sir Sebastian, anch’egli apparso dal nulla come per incanto. Lo guardai con la bocca spalancata come il più perfetto degli idioti.
 
“E bada bene che ho detto durante il ricevimento, non per il ricevimento.” Il mio cavaliere oscuro si guardava attorno con fare sospettoso, la mano che non era impegnata a trascinarmi via stretta attorno all’elsa della spada. Eravamo arrivati al carro del mastro.
 
“Ma io... Io non posso mettere piede al castello” farfugliai. “Dunque devo dire al mio padrone che rifiuti il suo premuroso invito?” domandò, con un sorriso di scherno dipinto sul bel viso maturo. “No no, ovviamente no” mi affrettai a rettificare.
 
“Lo sospettavo. Vengo a prenderti al fienile domani sera, al tramonto. Porterò un cavallo anche per te” e con un cenno del capo Moran si dileguò.
 
“Sei qui, John!” Sobbalzai. Erano il mastro e la sua famiglia che mi osservavano con aria interrogativa. “Ti stavamo cercando dappertutto...”
 
“Vogliate perdonarmi, mi ero allontanato giusto un poco.” Montai sul carro assieme ai piccoli e rimasi concentrato sui miei pensieri sino a casa, lo sguardo di madonna Molly perennemente incollato alla mia nuca.
 
 
 
§§§
 
 
 
Stavo rassettando il fienile, quel pomeriggio, quando la signora Stamford mi raggiunse con una scusa.
 
La guardai.
 
Lei mi guardò.
 
Ormai io la capivo.
 
Soprattutto, lei capiva me.
 
“Hai voglia di parlarmi?” mi domandò. Sì che ne avevo, tantissima. “Lord Sherlock mi ha invitato domani sera al castello” dissi, andando dritto al sodo. Lei strabuzzò gli occhi. “Cioè, non al ricevimento, ma nelle sue stanze.”
 
La madonna strabuzzò ancora di più gli occhi, cosa avrei pensato non fosse umanamente possibile. Arrossii. “No, no, nessun convegno amoroso! È solamente in punizione e non può uscire dai suoi alloggi!” mi affrettai a chiarire, passandomi nervosamente la scopa da una mano all’altra.
 
“Ma è una cosa meravigliosa!” commentò lei, le labbra plasmate in un sorriso radioso. “Già... Ma io ovviamente non ci andrò” dissi, alzando il capo con aria fiera. “E perché mai, di grazia?” volle sapere lei, appoggiandosi alla pertica per le mie vesti.
 
“Andando al castello metterei a rischio la vostra incolumità. Non potrei mai farlo” proferii con decisione, rimettendomi al lavoro. “Sei uno stupido, John Watson” commentò lei con tutta la calma di questo mondo.
 
La guardai a bocca aperta. “Uno stupido a rinunciare al tuo destino per noi” sentenziò, puntandomi l’indice contro. Non l’avevo mai vista così risoluta, sembrava quasi un’altra persona. “Tu domani sera andrai al castello, che tu lo voglia o no. Ora continua a fare il tuo dovere e io vado a fare il mio!” proferì elettrizzata, uscendo dal fienile. “Il vostro dovere?” balbettai, inseguendola per un attimo sin fuori al portone. “Esatto, devo cucire!” spiegò, prima di sparire in casa.
 
Capii ciò che madonna Molly intendesse solo rincasando quella stessa sera, il sole che si era già tuffato nel suo comodo giaciglio al di là delle montagne del Dartmoor.
 
La trovai china sul tavolo, intenta a cucire con fervore una stoffa preziosa dal colore dell’oro.
 
“Un nuovo abito per il mastro?” chiesi, pulendomi le mani e la fronte con un panno a sua volta non molto pulito. “No, mio caro John, questo è l’abito per te, domani sera.”
 
La vidi arrossire lievemente sulle gote. “Un abito? Non... Non capisco” mormorai, avvicinandomi a lei con riverenza. Quando le fui accanto, Molly si tirò da parte, per farmi guardare – ammirare – il suo lavoro. Era una splendida tunica di raso color oro, impreziosita sulle maniche da inserti smeraldo. Mi rammentava molto le vesti di lord Sherlock e la cosa mi gettò nel panico assoluto.
 
“Che dici? Devo stringere ancora di più lo scollo?”
 
“Io...io...”
 
“Beh, ora che sei qui, direi di prenderti un po’ di misure. Voltati, ragazzo!”
 
Madonna Molly fece forza sul mio avambraccio, poiché io non volevo proprio saperne di muovermi. “Non credo dobbiate darvi così tanto disturbo per me, madama Stamford...” sussurrai.
 
“Oh, io credo proprio che sia il caso! Allunga una mano, ecco così.” Obbedii. “D’altra parte, converrai con me” continuò, “che un bel giovane in vesti eleganti passerà più inosservato di un garzone nei suoi abiti da lavoro. Non credi?”
 
Potevo sentire che stesse sorridendo, nonostante le dessi ancora alle spalle. “E poi devi essere bellissimo agli occhi del molto onorevole Sherlock” aggiunse, soffiando contro la mia guancia.
 
Deglutii, il labbro incastrato vergognosamente tra i denti. Mi sarei accontentato di apparire anche solo come un amico, ai suoi occhi.
 
“Bene, adesso che è imbastita, perché non ti spogli e la provi?” mi incitò, riscuotendomi dai miei pensieri. “Non ti guardo, prometto!” cinguettò, mentre mi metteva in mano la tunica e si voltava verso il muro.
 
In tutta fretta, mi privai della mia vecchia tunica di cotone e, lentamente, infilai quella nuova. Era così leggera che quasi non mi pareva d’averla addosso. Leggera e delicata come un soffio contro la pelle umida.
 
“Sei bellissimo, John. Bellissimo e perfetto” disse madonna Molly, squadrandomi dalla testa ai piedi. Mi detti anche io una rapida occhiata: convenni con lei, non ero male. Sorrisi, ma poi notai un’ombra di tristezza nei suoi occhi e mi feci d’improvviso serio.
 
“Che cosa avete, madonna Molly? Se siete preoccupata, non andrò” decretai con decisione. “Oh, non è questo, mio caro. È che, vederti agghindato così, mi viene da pensare a quanto saresti meraviglioso con un’armatura da cavaliere indosso..”
 
Un’inspiegabile misto di tristezza e orgoglio mi invase, mentre esprimevo a madonna Molly tutto il mio affetto con un sorriso e un inchino.
 
 
 
§§§
 
 
 
L’indomani, la signora Stamford insistette per farmi un bagno caldo e tagliarmi i capelli. Non ero abituato a tutte quelle attenzioni, a tutta quella importanza. Ero un semplice garzone orfano. Non dovevo contare agli occhi del mondo.
 
E man mano che i minuti si trasformavano in ore, il tramonto si avvicinava e le gioiose campane della cattedrale di Grimpen decretavano l’unione tra il visconte Mycroft e lady Anthea, l’ansia si faceva strada in me. Che cosa avrei detto a Sherlock, quando lo avrei rivisto? Avrei dovuto porgergli le mie più sincere scuse o avrei fatto meglio a far finta di nulla? E che dire del mio amico? Come mi avrebbe trattato? Sarebbe andato lui sull’argomento o l’avrebbe forse ignorato del tutto?
 
Me ne stavo nel fienile, in piedi contro la pertica per evitare di sporcare le vesti nuove, quando udii tre brevi colpi bussati lentamente al portone.
 
Sobbalzai.
 
Era arrivato messer Moran.
 
Il mio cavaliere oscuro mi accolse masticando tabacco e salutandomi con un cenno del mento. Io farfugliai uno stentato Buonasera. “La tua carrozza per stasera” disse, ironico come sempre, indicando un cavallo grigio impegnato a brucare a terra poco più in là.
 
Mi avvicinai guardingo al cavallo. Lo contemplai per un tempo indefinito, aprendo e chiudendo nervosamente i pugni. “È un cavallo, qualora non ne avessi mai visto uno in vita tua...” continuò Moran, che evidentemente teneva a dare il massimo per aumentare il mio nervosismo.
 
Cercai di montare in sella, ma il mio movimento dovette spaventarlo, poiché si scostò e nitrì. “Non voglio farti del male, piccolino” sussurrai, carezzandogli il muso.
 
Udii sir Sebastian sbuffare alle mie spalle. “Devi fare all’amore anche con un quadrupede, stasera?” sentenziò, giusto mentre stavo tentando di montare in groppa, tant’è che il mio piede scivolò dalla staffa e persi l’equilibrio.
 
“Non... Non devo fare all’amore con nessuno” farfugliai, sentendomi alquanto stupido. Dovevo solo fare pace con il mio migliore amico evitando al tempo stesso di non far finire la famiglia Stamford in mezzo a una strada.
 
Finalmente fui in groppa al mio destriero. “Sono pronto” avvisai la mia scorta. “Ottimo. Ancora un po’ e arrivavamo al castello a ricevimento già terminato” si lagnò Moran, strattonando il suo cavallo e partendo al trotto. Io feci altrettanto.
 
“Vedo che ci siamo fatti belli!” lo sentii commentare a voce alta, la piacevole aria della sera che ci colpiva in pieno volto. “È soltanto una mimetizzazione” tagliai corto io.
 
Ben presto giungemmo davanti al portone d’ingresso del castello. L’atmosfera era surreale e piacevole. Ovunque c’erano piccole torce che rischiaravano le tenebre che stavano calando sul Dartmoor e in lontananza si udivano le musiche che stavano rallegrando gli invitati al banchetto.
 
Strinsi forte fin quasi a sentir male la chiave nel mio palmo. Il fante all’ingresso salutò messer Moran con un inchino e ci fece passare senza chiedere nulla. In un attimo, eravamo dentro.
 
Non mi pareva vero. Da quanto tempo non mettevo piede in quel luogo magico? Da quanto tempo non percepivo l’eccitazione nel mio corpo? Ricordi dolci-amari iniziarono ad affiorare alla mia mente, mentre il sangue scorreva nelle mie vene con un’intensità tale da atterrarmi.
 
Pensai ci dirigessimo all’ingresso della servitù, invece entrammo da un altro laterale che non conoscevo, probabilmente destinato ai cavalieri del conte.
 
Ci ritrovammo in un’ampia sala circolare, con un grande camino d’angolo in cui scoppiettava allegro un bel fuoco. Al centro, si trovava una tavola lunga e stretta, imbandita con frutta e carni d’ogni tipo.
 
Le mie orecchie vennero solleticate da una musica vivace che arrivava di lontano. Arpe, flauti, dulcimer...[2] Mi guardai perplesso attorno e mi resi conto che la musica proveniva dal salone che si apriva in fondo al corridoio alla mia destra. Il grande salone delle feste.
 
I miei occhi rubarono una visione fugace di dame in vesti dalle lunghe code che danzavano in cerchio prendendo per mano i loro eleganti messeri, abbandonandosi al piacere della farandole [3]. Li guardai rapito fermarsi, cantare un ritornello, battere le mani e riprendere a danzare. Fino a quando messer Moran non mi prese per un braccio, ricordandomi il motivo per cui mi trovavo lì.
 
“Imbocca quella scala” mi ordinò sibillina la sua voce, “e cerca di non farti notare.” Annuii, aggrappato alla chiave come un’ancora di salvezza. Imboccai il corridoio a sinistra e salii le scale con risolutezza.
 
Secondo piano, camera ventuno [4].
 
Salii gli scalini a due a due e, arrivato in cima, mi ritrovai immerso nel buio quasi totale creato dall’alto soffitto e dagli scuri applicati alle feritoie. Deglutii. Ventuno stanze erano tante e forse ce n’erano pure di più. Nessuno era in vista e la cosa mi riempì di serenità. Iniziai a contare osservando le porte, prima a destra e poi a sinistra, il cuore che graffiava il petto con sempre maggior intensità man mano che muovevo un passo dopo l’altro.
 
Giunto a metà corridoio avevo dimenticato il numero a cui ero arrivato a contare. Mi detti dello stupido, scossi il capo e tornai indietro. Ricominciai, serrando i pugni. Diciassette, diciotto, diciannove, venti...
 
Ed eccola là, la porta numero ventuno, l’ultima a sinistra. In basso filtrava una flebile luce tremolante, probabilmente frutto d’una candela. Deglutii più forte. Il mio principe era al di là di quella porta di legno massiccio. E, soprattutto, stava aspettando me. Alzai piano la mano per bussare; la sentii tremare per l’emozione e mi bloccai.
 
“Se rimarrai ancora un po’ fuori nel corridoio, prima o poi qualche guardia ti noterà, John.”
 
Sobbalzai. Sherlock mi aveva notato. “Sì, sì” farfugliai, cercando di abbassare la maniglia. Ovviamente, quella non si aprì. “Se fosse stata aperta, non ti avrei dato la chiave, non ti sembra?” lo sentii borbottare dall’altra parte.
 
“Già, certo...” Ottimo, iniziavamo davvero bene la nostra riappacificazione. Infilai la chiave nella toppa, girai ed entrai. Sgusciai dentro rapidamente e, con altrettanta rapidità, aderii con la schiena alla porta. Annaspai in cerca d’aria.
 
Capii che ne avevo ancora più bisogno quando vidi lord Sherlock sdraiato sul suo letto a baldacchino. La mia pelle quasi doleva per l’emozione.
 
“Pensavo non arrivassi più” continuò lui, il naso affondato in un taccuino.
 
“Dunque non vedevi l’ora che fossi qui” lo provocai, sorprendendomi di me stesso.
 
“Non l’ho detto.”
 
“Ma lo hai pensato!” mi sorpresi ancora. Lui mi scoccò un’occhiata di disappunto. Fu un vero colpo al cuore incontrare nuovamente i suoi occhi chiari; avevo temuto che non li avrei più rivisti. Parevano quasi grigi, nella penombra della sera e rischiarati da una consumata candela. Mi parvero belli come non mai.
 
“Se lo dici tu...” commentò, arricciando lievemente le labbra in uno strano sorriso e tornando a guardare il suo taccuino.
 
“Eri chiuso dentro” iniziai, raccogliendo il mio coraggio e avvicinandomi al baldacchino. “Acuta osservazione, amico mio” disse, scribacchiando con vigore sulle pagine.  ”Ma poteva essere pericoloso! Dare a me la chiave solo a me! Se fosse accaduto qualcosa...” Sherlock mi interruppe alzando una mano. “È per questo che l’ho data alla persona di cui mi fido di più” tagliò corto.
 
Per un attimo, il mio respiro prese congedo da me ed ebbi timore che non dovesse più tornare. “Va bene, d’accordo…” mormorai, sedendomi con riluttanza sul bordo del letto. Per precauzione, tenni un piede ben ancorato a terra, nel caso il mio amico s’indispettisse e mi scacciasse via, ma lui sembrò non farci molto caso. Lo osservai per un po’, la mano che annotava sul quaderno con la massima velocità.
 
Valutai se non fosse il caso di scusarmi per il mio comportamento la notte di mezza estate, ma poi decisi che forse l’avevo scosso abbastanza e che rivivere l’avvenimento avrebbe potuto essere controproducente per Sherlock. Perciò, non dissi nulla e decisi di fare del mio meglio per dimenticare. Era per il suo bene, ne ero convinto.
 
“Cosa stai scrivendo?” chiesi poi, rubando occhiate a ciò che stava scarabocchiando. “Oh, John, un piccolo studio sulle larve delle api!” rispose, tornando a guardarmi con una strana luce negli occhi. Alla parola larve rabbrividii e storsi il naso. “Che cos’è tutto questo disgusto? Ti posso assicurare che le larve delle api possono essere utilizzate anche nell’alimentazione umana” ribatté, inarcando un sopracciglio. Io arricciai ancor di più le labbra in disgusto. “Se lo dici tu…” fu tutto ciò che dissi.
 
Lo vidi scuotere il capo e tornare a scrivere con più fervore. Non potei fare a meno di pensare che, tutto sommato, con quella punizione lady Violet gli aveva fatto un piacere, più che infliggergli una penitenza. Starsene da solo in una stanza illuminata dal chiaro di una candela tremula, ad annotare appunti su insetti; ecco cosa piaceva a lord Sherlock Holmes. Di certo non danzare in cerchio al fianco di dame sontuosamente agghindate.
 
Sorrisi, mentre mi allungavo meglio sul letto.
 
E allora commisi l’errore di sfiorare con il ginocchio la sua coscia. Mi irrigidii all’istante.
 
Mi resi conto che desideravo abbracciarlo, più d’ogni altra cosa. Stringerlo a me, tenerlo al caldo delle mie braccia sino alle prime luci dell’alba; dormire l’uno accanto all’altro e risvegliarci con le dita dei piedi che ancora si sfioravano le une con le altre. Strinsi i pugni. Non avrei più dovuto cercare di baciarlo, o cingerlo a me. Nemmeno sfiorarlo.
 
Era ciò che desiderava il mio principe, ripetei a me stesso con decisione.
 
“Che cosa c’è, John?” giunse al mio orecchio la sua voce profonda. Trasalii. “Ecco, nulla…” iniziai. Ma non ero bravo a mentire e lui lo sapeva benissimo. “Sono solo lievemente in tensione” mentii, “dopotutto non dovrei essere qui.”
 
“Se non volevi venire…” sentenziò Sherlock, gli occhi insolitamente spenti. “No, no! Non desideravo altro che venire da te!” mi affrettai a correggerlo, “e lo rifarei domani, il giorno dopo ancora e altre mille volte! Stavo semplicemente riflettendo su quanto fosse rischioso…”
 
E non mi riferivo solamente alle minacce di sir Anderson, ma anche al fatto di aver vicino la persona che amavo e non poterla avere.
 
“Ma tu ami il rischio, mi pare di ricordare” disse lui.
 
“Oh, sì!” ammisi.
 
“Bene, anche io!” ribatté il giovane Holmes, con una strana luce nello sguardo. “Vuoi rischiare di più?” propose, chiudendo il taccuino e liberandosene.
 
“Che cos’hai in mente?” mi informai, non senza una nota di preoccupazione nella voce.
 
“Lo vedrai!” Con un balzo, fu giù dal baldacchino, poi mi prese per mano invitandomi a seguirlo.
 
“Vuoi andare di sotto?” dissi in preda al panico.
 
“Esatto.”
 
“Tu sei pazzo…”
 
“Esatto anche questo!” gorgogliò il mio amico con gioia, la mano sulla maniglia della porta.
 
“Tutta quella gente… la tua famiglia… Ci scopriranno!” farfugliai, ritrovandomi a un dito dal legno massiccio.
 
“Non voglio andare a danzare con te, se è questo che ti preoccupa” mi rivelò Sherlock, appoggiando il viso al muro e sorridendomi. Aveva un bel sorriso, il più bello che avessi mai visto.
 
“No?”
 
“No davvero, John. Puoi riprendere a respirare, ora.”
 
“E dove vuoi portarmi, allora?” sussurrai. C’era qualcosa nell’aria, assieme a noi; qualcosa che ancora non sapevo descrivere. La luce tremula della candela ormai prossima a spegnersi giocava a proiettare buffe ombre sul suo bel viso affilato.
 
“Desidero mostrarti il luogo di questo castello che amo di più” disse, stringendo la sua mano attorno alla mia.
 
Tremai.
 
 
 
§§§
 
 
 
Sherlock mi fece scendere per primo le scale. Disse che un cavaliere avrebbe dovuto proteggere il suo signore e, poiché avevo sempre sostenuto d’essere il suo cavaliere, ora avrei dovuto dimostrarlo camminando davanti a lui. Sospettai che fosse solo un’abile scusa per prendermi in giro, ma acconsentii più che volentieri.
 
Giunti sull’ultimo gradino, ci raggiunse la piacevole musica dei clavicembali. Per un attimo, mi voltai verso il salone delle feste, ma subito il mio amico mi esortò a lasciar perdere e a prendere il corridoio di sinistra. Lo imboccai sentendo il sangue che pompava gagliardo nelle mie vene. E quando svoltammo l’angolo mi ritrovai di fronte mia sorella.
 
Mi bloccai così di colpo che Sherlock mi urtò e borbottò qualcosa circa la mia stupidità. Io guardai Harriet con la bocca aperta. Anche lei mi guardò con la bocca aperta. Solo dopo un po’ mi resi conto che era assieme a un’altra persona, una donna. Per un attimo la scambiai per Mary, vista la corporatura simile e i capelli morbidi e biondi, ma poi mi resi conto che la mano di mia sorella era stretta a quella della sconosciuta, così supposi si trattasse di lady Clara da Baskerville.
 
“Fratello” bisbigliò lei, in preda allo stupore.
 
“Harry…”
 
“Cugino!”
 
Uno sbuffo. “Di secondo grado, prego.”
 
Presi mia sorella da parte, poiché sapevo che da un secondo con l’altro sarebbe scoppiata in un mare di rimproveri.
 
“Sei al ricevimento! Sei venuto al ricevimento e non mi hai detto…” iniziò a protestare. Le intimai di zittirsi, mettendole un dito sulle labbra carnose; per un attimo, la cosa funzionò, ma poi si rese conto che ero assieme a Sherlock e non fu più possibile tenerla. Prese a parlare come un fiume in piena, asserendo quanto fossimo perfetti assieme e quanto fosse felice che fossimo di nuovo assieme. Io arrossii, Sherlock incrociò le braccia al petto e alzò gli occhi al soffitto.
 
“John, dobbiamo proprio” mi sollecitò poi. Mi fu lampante che ci avrebbe volentieri tutti sottoposti a un qualche supplizio di sorta, dunque mi affrettai a prendere congedo da mia sorella e dalla sua accompagnatrice. “Lady Clara” dissi, inchinandomi e baciandole la mano. Ma la sorella dell’arciduca Henry s’affettò ad agguantare la mia mano, la voltò e, con il suo indice destro, prese a percorrere le linee sul mio palmo e a studiarne ogni aspetto e proporzioni.
 
“Vedo che avete avuto un passato davvero travagliato, sir John” decretò lady Clara, portando la mia mano a un dito dal suo naso e iniziando ad annusarla con ardore. “Non… non sono cavaliere” la contraddissi, con un fil di voce, ma la madonna non sembrò curarsene.
 
“Oh, bene, diamo a tutti una bella dimostrazione di stregoneria” udii poi Sherlock borbottare alle mie spalle. Immediatamente, Harriet si accostò a noi, con aria molto interessata. “Molto travagliato, lady Clara. È cresciuto nella casa della morte!” convenne mia sorella, bisbigliando all’orecchio della sua compagna.
 
“Ma avete un animo nobile e un cuore sincero. Siete fedele e innamorato” continuò lady Clara. A quel punto, il mio nobile amico si unì al nostro terzetto e io arrossii. “Credo che, ben presto, i vostri due più grandi desideri si avvereranno, sir John…”
 
Stabilii che quella donna era pazza. “E uno già stasera, se prima di coricarvi annuserete un fiore di pervinca [5]” concluse, abbandonando di colpo la mia mano e facendomi sbilanciare. Sì, Harry si era decisamente innamorata di una pazza.
 
“Mi raccomando, sir John, abbiate sempre cura di Shearlock” aggiunse con foga e l’aria di chi s’era appena rammentata di qualcosa di importante.
 
“Sherlock, vorrete dire” la corressi io. Lei mi azzittì con un dito.
 
“Shearlock, la vostra spada.”
 
Strabuzzai gli occhi. “Io non ho una spada, lady Clara...”
 
“Non ancora, sir John.”
 
Poi, senza più pronunciar una sola parola, salutò entrambi con un inchino e prese commiato da noi, con mia sorella che le trotterellava fedelmente al fianco e ci lanciava occhiate curiose.
 
Ma, un attimo dopo, lady Clara si bloccò e si voltò, tornando a osservarmi con uno sguardo perso via in una realtà tutta sua. Evidentemente non aveva ancora finito con me. “Siate sereno, sir John. Tre anni passeranno in fretta.” Un secondo dopo erano sparite dietro uno dei mille corridoi.
 
Rimasi per un attimo a fissare imbambolato il punto oltre il quale le due donne erano sparite, la mia testa che era divenuta improvvisamente leggera, poi Sherlock mi afferrò per un polso, strattonandomi via: “Andiamo, John! Abbiamo già perso troppo tempo, con queste sciocchezze.”
 
“Tua cugina di secondo grado è pazza…” mormorai.
 
“Come un cavallo!” convenne gioioso il mio amico, ora che eravamo tornati in due.
 
Giunti alla fine del corridoio, ci trovammo di fronte una piccola porta di legno, alta e stretta con un semicerchio in alto. “Siamo arrivati” mi comunicò Sherlock, abbassando la maniglia. Fummo inghiottiti dal buio più fitto; io rimasi prudentemente incollato alla parete, muovendo solo un paio di passi all’interno, mentre il mio amico si muoveva rapido e sicuro nella stanza, con una facilità da far invidia a un gatto.
 
Lo sentii armeggiare con qualcosa e poi soffiare, infine accese la luce di una candela che rischiarò un angolo di quel luogo misterioso. Fu allora che capii che ci trovavamo in una biblioteca. Era piccola e raccolta, ma ugualmente uno spettacolo. “Dunque è questo il tuo posto preferito…” commentai io, il naso in aria. “Già” disse lui, accendendo un’altra candela.
 
Il soffitto era basso e i mattoni a vista; c’erano un paio di armadia [6] di legno carichi di manoscritti e alcuni volumi spuntavano addirittura da qualche capsa [7] appoggiate alla parete. Ma ciò che mi attirò – ammaliò –fu lo scriptoria [8] al centro della stanza.
 
Mi immaginai il corpo lungo e magro di lord Sherlock chino su di esso, intento a scribacchiare con la penna d’oca o divorare nuove nozioni da un volume aperto a un palmo di naso dai suoi occhi.
 
Non stentavo a credere che la biblioteca fosse il suo personale angolo di Paradiso. Presi a muovermi nella piccola stanza, gli occhi che si cibavano con avidità di ogni dettaglio. “Buon Cielo! Quanti libri…” sussurrai in una sorta di timore reverenziale. Mi avvicinai a un armadia e, con un po’ di indecisione, accostai l’indice al dorso di un volume, le labbra appena dischiuse dalla meraviglia.
 
“Questa è ben poca cosa, se vedessi la nostra residenza di Fulworth…” disse Sherlock poco distante dalle mie spalle. “Fulworth?” ripetei. “Nel Sussex. Conquistata… Anzi, depredata. Da mio nonno e i suoi cavalieri.” Notai ben più d’una nota di disapprovazione nella sua voce. “Un tempo è stata un florido monastero. Ora è prossima alla decadenza invece.”
 
“Un gran peccato” sussurrai, carezzando i volumi per un’ultima volta. E poi mi voltai, la mente ancora persa via in quelle bellezze. Fu così che urtai un vaso di fiori su un tavolinetto di legno accanto all’armadia, che fino a quel momento era passato inosservato alla mia vista. I miei riflessi furono sufficientemente rapidi e sufficientemente poco goffi per impedire a esso di cadere e infrangersi al suolo, rovinando quegli splendidi e profumati fiori color… pervinca.
 
Feci un balzo indietro, nemmeno fossi stato appena morso da un animale velenoso. L’immagine di lady Clara aleggiava pazzamente davanti ai miei occhi. Sentii Sherlock ridacchiare e sedersi allo scriptoria.
 
“La pervinca è il fiore preferito di mia madre. Non ci vogliono grandi abilità di predizione per utilizzarlo in una profezia. Qui al castello lo puoi trovare ovunque” spiegò, accavallando le lunghe gambe. “Beh, mi ha terrorizzato ugualmente” ribattei, indicando il mazzo, come se fosse prossimo a mordermi da un attimo con l’altro. Rimanemmo entrambi in silenzio, a osservare quei fiori profumati. Poi Sherlock si alzò e, con passi lenti e misurati, mi fu accanto.
 
“Ritengo anche io che lady Clara sia soltanto una pazza. Tuttavia, per amore della conoscenza, suggerirei di provare che ha torto”. La sua voce era calda e suadente, mentre, con un cenno del mento, mi invitava chiaramente ad annusare le pervinche.
 
Il mio cuore balzò in gola in un attimo, chiedendole asilo. “Io non so… io non credo…” farfugliai imbarazzato. “Non ci perdi nulla” continuava a esortarmi Sherlock. Era una tortura, una vera e propria tortura quella che cercava di infliggermi. Desideravo lui – il suo corpo e la sua anima – e non potevo averli.
 
Mi avvicinai piano al vaso e annusai i fiori molto velocemente, quindi mi ritrassi subito. Il mio amico sbuffò. “Non ti sei impegnato molto.” “Tanto non funziona” dissi stizzito. Le sue labbra si arricciarono appena all’insù; mi chiesi se avesse idea del supplizio a cui mi stava sottoponendo. Magari invece credeva che il mio unico desiderio fosse quello di diventare cavaliere. Sbuffai.
 
“D’accordo. Cosa dovrei fare, secondo te?” chiesi, rassegnato. “Chiudi gli occhi e annusa con più decisione.” Scossi il capo, tuttavia lo assecondai. Abbassai le palpebre, mi avvicinai nuovamente ai fiori e li annusai. Una, due volte. Avevano davvero un profumo magnifico.
 
“Bene, e adesso? Soddisfatto?” bofonchiai. “Credo dovresti provare a immaginare come sarebbe, se il tuo desiderio si avverasse” furono le parole che udii. Ebbene, non era per nulla difficile, questo. I miei denti scesero a stringere con vigore il mio labbro inferiore. Volevo provare dolore, poiché era questo che il mio cuore sentiva, in quel momento.
 
Volevo provare dolore per non poter stringere Sherlock tra le mie braccia, carezzare le sue labbra con le mie, sussurrare al suo orecchio quanto lui facesse parte di me, addormentarmi con lui al suo fianco.
 
“Com’è ciò che stai vedendo?” domandò lui, con voce attenta e indagatrice. “Oh, bello, molto bello…” La mia voce, invece, tradiva solamente tristezza. “Solo che non lo posso avere…”
 
“Perché?”
 
“Perché non s’ha da fare. Ed è rischioso, molto rischioso.”
 
“Ma tu ami il rischio…”
 
Mi abbandonai a una risata malinconica. Era tutto così vero, ma anche tutto così inclemente. Non faticavo a immaginarmi lord Sherlock con un sopracciglio inarcato, intento a studiarmi per amore della conoscenza.
 
“Già, lo amo” ammisi.
 
“Anche io lo amo…”
 
La sua voce si affievolì sino a divenire un sussurro. Il sussurro si assottigliò così tanto da trasformarsi in un tutt’uno col suo respiro. Infine, il suo respiro morì sulle mie labbra, quando vi appoggiò le sue. Il nostro secondo bacio. Mi parve di morire e di rinascere. E di morire ancora. Sherlock appoggiò goffamente una mano sul mio fianco, esattamente dove l’avevo appoggiata io, quella sera. Io tremavo e tremava anche lui.
 
Poi disse arrivederci alle mie labbra, urtando sgraziatamente nel mentre una guancia con il suo naso. Accostò la sua bocca al mio orecchio e disse: “Perdona queste mie labbra impudenti per aver trovato diletto in un luogo così proibito.”
 
La sua voce tremava più del suo corpo. “Te lo ricordi ancora…” dissi io a fatica. Mi sorpresi a ridere. Sherlock si staccò da me, osservandomi con un broncio adorabile che non fu capace di tenere per più d’un attimo. “Non sono passati anni, John. Ovvio che me lo ricordo” borbottò, quasi offeso. Allora presi il suo viso tra le mani e lo attirai piano a me. Donai un bacio a ciascuno dei suoi occhi, al suo naso e infine alle sue morbide labbra.
 
Poi la sua mano scivolò sulla mia, stringendola forte. “Andiamo” ordinò il mio principe, trascinandomi via. Lo seguii fedelmente nei corridoi e su per le scale. Con il cuore in gola, correvamo pregando segretamente che nessuno ci sorprendesse, poiché ci avrebbe inevitabilmente letto in volto tutta la nostra felicità e tutta la nostra colpevolezza per ciò che stavamo facendo.
 
Varcammo la ventunesima porta come fuggiaschi nel cuore della notte. Ansimavo mentre Sherlock chiudeva rapido la porta alle nostre spalle e mi guardava, con una mano appoggiata alla parete e le labbra appena dischiuse. Nei suoi occhi saettavano lampi di luce e il suo petto s’alzava e s’abbassava rapidamente. “Sono… sono terrorizzato” furono le parole che sgusciarono, infine, dalla sua bocca. “Lo sono anch’io” bisbigliai. Allungai piano una mano e sfiorai la sua; m’aspettavo di trovarla glaciale come al solito e invece era bollente.
 
“Non mi sono mai donato completamente a qualcuno” continuò, aggrappandosi alla mia mano come se avesse timore che qualcuno, o qualcosa, dovesse strapparlo via da me da un attimo con l’altro. Scossi il capo e gli sorrisi, mentre lo attiravo dolcemente tra le mie braccia. “In un certo senso, nemmeno io…” sospirai al suo orecchio.
 
Lo feci sedere sul suo imponente letto a baldacchino. I miei occhi erano costantemente incollati ai suoi, tant’è che io mancai la mira e rischiai di scivolare a terra. Sherlock si chinò in avanti catturando la mia bocca con la sua, aiutandomi così a rimanere dov’ero.
 
“Spogliami” ordinò soffiando sulla mia pelle. Alzai lentamente le mani e le appoggiai a palmi aperti contro il suo petto. Potevo sentire il suo cuore battere sotto il tessuto. Batteva intensamente, sincero. Batteva per me.
 
Slacciai a fatica la sua veste, le dita che incespicavano tra loro. Rimasi a contemplare il suo corpo candido e magro come se fosse il più magnifico dei dipinti, come possedesse tutta la bellezza d’un fiume dalle acque cristalline che corre impetuoso sino a valle. D’improvviso, Sherlock si chinò nuovamente verso di me, rubando rapido e goffo un altro bacio.
 
Potevo udire le melodie di arpe e chitarre provenienti dal salone delle feste avvolgerci con la loro vivacità, ma forse era soltanto la suggestione del momento. Feci per iniziare a spogliarmi a mia volta e togliere la tunica, ma il mio principe mi bloccò afferrandomi per i polsi. “Lo faccio io” decretò.
 
Mi liberò dalle mie vesti con mano ferma, molto più della mia, la goffaggine di prima scomparsa come per magia. Per un attimo, dubitai che fosse la sua prima volta. “Ti posso assicurare che lo è. Desidero solo non sprecare tempo inutilmente” disse con autorità, rispondendo ai miei pensieri. Sorrisi.
 
Ci ritrovammo nudi l’uno di fronte all’altro. Provai un caldo insopportabile, poi freddo e poi di nuovo caldo. Mi sentivo felice, spaventato, insicuro, invincibile, euforico, completo. Mille emozioni attraversavano la mia anima e, dalla luce che balenava negli occhi di Sherlock, capii che le stava provando anche lui.
 
“John...” sussurrò il mio principe a fior di labbra.
 
“Sì?”
 
“Amami.”
 
Ricordo che tremavo mentre lo stringevo a me, scostavo le coperte e, con le labbra affondate nel suo collo e la mano tra i suoi capelli, ci sdraiavamo intrecciando i corpi.
 
Ci amammo come se fossimo una cosa sola. Come il Cielo ama la sua Terra, come la spada ama il suo cavaliere.
 
Come se avessimo timore che sarebbe stata l’ultima volta.
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:  voglio ringraziare tutte coloro che stanno amando questa storia come la amo io <3. E la cara SAranel che mi aiuta sempre. Credo che tra un paio di capitoli, purtroppo, dovrò lasciare andare il mio orfanello e il suo principe...
[1] Citazione da Thelma & Louise. [2] vari strumenti musicali utilizzati nel Medioevo. [3] tipo di danza medievale. [4] non ho idea se ci possano essere così tante stanze in un solo piano di un castello, ma volevo ricreare l'idea che gli appartamenti di Sherlock fossero al 221. [5] la pervinca è una delle tante altre piante associate alle streghe nel Medioevo. Veniva utilizzata per produrre filtri d'amore e altri incantesimi. [6] [7] [8] ciò che si poteva trovare nelle biblioteche medievali. Gli scriptoria sono gli scrittoi utilizzati dai monaci (non so quanto fossero presenti nei castelli della nobiltà, ma ho voluto prendermi una licenza). Gli armadia erano gli scaffali, ma era la capsa a essere più frequente nelle dimore dei nobili, in quanto erano sacche in cui venivano riposti i libri e dunque più pratiche da trasportare quando ci si spostava.
La fanart è presa da questo sito: http://31.media.tumblr.com/36cf61f7f803343e67f2d9dee0ba010a/tumblr_mu3orqLxQn1s0bdono1_500.png

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Capitolo 11
*** ATTO XI. NELLE SEGRETE ***


ATTO XI. NELLE SEGRETE
 
L’indomani, quando l’alba iniziò la sua pigra ascesa su Grimpen, un timido raggio di sole fece capolino dagli scuri, solleticandomi gli occhi ancora addormentati. Mai ci fu risveglio più bello, quando mi decisi a sollevare le palpebre: il mio principe giaceva ancora assopito al mio fianco, i riccioli che solleticavano la mia spalla e il corpo ancora nudo e caldo che sfiorava il mio.
 
Sorrisi. Mi sentivo il dominatore del mondo, mentre mi domandavo se esistesse davvero qualcuno, lassù, che aveva preso a cuore le mie sorti. Se fosse stato davvero così, gli avrei fatto una sola, modesta richiesta: poter avere altri cento di quei risvegli. Non avevo grandi pretese, non ritenevo che potessi mai chiedere di più. Le mie spalle avrebbero ben volentieri supportato tutti i fardelli che il fato m’avrebbe riservato da quella mattina alla fine dei miei giorni se avessi potuto avere altre cento notti e altri cento risvegli accanto a Sherlock.
 
Un mugolio alla mia destra mi disse che il mio principe si stava svegliando. Alzai un braccio e lo passai sopra la sua testa, cingendolo per le spalle. Lo attirai a me, il mio respiro che era una carezza sul suo naso. “Benvenuto in questo nuovo giorno, mio principe” sussurrai al suo orecchio, prima di deporre un bacio reverenziale sulla sua fronte.
 
“Sono davvero desolato di contraddirti, ma sono semplicemente un molto onorevole, John” borbottò lui, con voce ancora impastata dal sonno. “Sai essere antipatico anche appena sveglio?”, dissi, prima d’abbandonarmi a una risata sentita. “Soprattutto appena sveglio” precisò lui, prima di aprire gli occhi e regalarmi la più magnifica delle visioni. Il suo sguardo brillava, di qualcosa che io non esitai a definire come felicità. Era radioso, brillante, era vivo. Era una memoria ancora presente dell’amore che avevamo vissuto quella notte, come se stesse accadendo di nuovo. Era uno sguardo che mi comunicava quanto fosse estasiato di trovarmi ancora lì.
 
Lo strinsi di più a me e affondai le mie labbra tra i suoi capelli. “Tu per me sei e resterai per sempre il mio principe” sussurrai. “E tu il mio cavaliere” soffiò lui contro il mio collo, facendomi rabbrividire. Rimanemmo abbracciati a scambiarci coccole e affetto fino a quando i raggi del sole divennero più insistenti. Fino a quando un insistente bussare non ci fece trasalire.
 
“Presto!” gridò Sherlock. Con movimenti rapidi e colpevoli, scostai le coperte e raccolsi le mie vesti sparpagliate a terra. Un attimo dopo, sparivo sotto il letto. Vidi i piedi nudi di Sherlock avvicinarsi alla porta, udii lo scatto della chiave, poi di nuovo i piedi che tornavano indietro. “Avanti” disse Sherlock, tornando a letto con un balzo. Poco dopo, due stivali fecero il loro ingresso nella stanza.
 
“Devo portarlo via” esclamò una voce conosciuta. Sherlock borbottò qualcosa a me incomprensibile. “Coraggio, piccolo Watson. Puoi anche rivestirti davanti ai miei occhi: non possiedi nulla ch’io già non conosca!” tuonò messer Moran.
 
Mi infilai a fatica i calzoni, stando semi-seduto sotto il letto, dopodiché uscii fuori. Con le gote infiammate di vergogna, notai Sebastian scoccarmi uno sguardo divertito e Sherlock darne uno a lui carico di disappunto. “Ciò che le mie parole intendevano, sire, è che John è un uomo come me. E come voi...” spiegò platealmente il mio cavaliere oscuro, con un inchino. Quanti significati erano racchiusi in quelle ultime tre parole, pensai. “Ti aspetto qua fuori mentre controllo il corridoio. Non tirate notte con l’ultimo bacio” disse poi, sparendo da dove era venuto.
 
Rimasti soli, mi rivestii di tutta fretta, quindi mi arrampicai di nuovo sul letto, accanto a uno Sherlock che si era tirato le coperte fin sopra il naso, lasciando fuori solo gli occhi e la fronte. Era imbronciato. Adorabilmente imbronciato.
 
“Ehi, lo sai che tra me e messer Moran... Sì, insomma...” esordii, tirandolo di nuovo tra le mie braccia e stringendolo dolcemente. Sherlock emanava un piacevolissimo tepore; se avessi potuto, non lo avrei più lasciato andar via.
 
“Lo so cosa siete” farfugliò lui, adagiando nuovamente il capo contro di me. Lo sentii respirare fortemente il mio odore. Mi piaceva. “Solo che non voglio…” “Che cosa non vuoi? Che io e messer Moran siamo qualcosa?” domandai io, affondando le labbra tra i suoi capelli. Il solletico che provai fu impagabile. “No, non essere sciocco!” continuò a lamentarsi il mio principe. Lo guardai senza capire. “Non voglio che tu te ne vada.”
 
Ebbi il timore che il mio cuore non avrebbe mai potuto reggere all’ondata d’amore che provai in quel momento. Mi morsicai il labbro inferiore perché non volevo abbandonarmi alle lacrime. Un uomo non avrebbe mai dovuto piangere; un cavaliere, non avrebbe dovuto nemmeno pensarlo.
 
“Sentimentale” fu il commento di Sherlock, al quale non erano sfuggite le mie emozioni. Pensai che a quella parola sarebbe seguita tutta una serie di lamentele al mio indirizzo, invece il mio principe mi sorprese, alzando il viso verso il mio e baciandomi le labbra, il naso, gli occhi.
 
Un colpo alla porta ci ricordò scomodamente che dovevamo sbrigarci. “Quando possiamo incontrarci di nuovo?” domandai, scivolando giù dal letto e infilandomi gli stivali.
 
“Stasera. Vengo io al fienile” rispose il mio amato, raggomitolandosi su se stesso. “Al tramonto?” feci eco io. “No, al calar delle fitte tenebre. È più prudente.”
 
Trasalii all’ultima parola: ero così immerso nella mia felicità da non essermi reso conto che ormai eravamo clandestini, che il nostro amore avrebbe potuto condannarci al rogo.
 
“Vai ora!” ordinò il mio principe. Ubbidii, dopo aver rubato un altro bacio alle sue labbra.
 
 
 
§§§
 
 
 
Mi ritirai nel fienile molto presto quella sera, subito dopo aver desinato. Non fu difficile evitare le mille domande ch’ero certo madonna Molly avrebbe voluto pormi.
 
Probabilmente perché aveva intuito già tutto. Probabilmente perché i miei occhi raccontavano già ogni risvolto dell’amore che stavo conoscendo.
 
La madonna intonò allegre canzoni per buona parte della sera, creando un’atmosfera di serenità che cullava tutti noi. Capivo che era felice per me e io non potevo ricevere regalo migliore.
 
Fu una serata splendida, dal clima teneramente familiare. Quasi come se tutti quanti – la madonna, il mastro e i piccoli – avessero voluto esprimermi il loro affetto, farmi capire che ero davvero uno di loro.
 
Come se avessero voluto salutarmi.
 
Quando Sherlock bussò al portone della stalla, mi pareva trascorsa un’eternità. Con un calcio, mi liberai della coperta e corsi ad aprire. Non stavo più nella pelle.
 
Lo afferrai per il polso destro e lo tirai dentro. Mi ritrovai con il corpo schiacciato al suo, contro la parete. Ci baciammo come se, per vivere, necessitassimo ognuno delle labbra altrui. Sentii le sue mani scorrazzare per il mio corpo con una sicurezza più matura di quanta non avessero avuto la notte precedente.
 
Ci adagiammo nel mio giaciglio e ci abbandonammo di nuovo all’amore, alternando momenti d’urgenza ad altri di estrema dolcezza.
 
Sherlock si lasciò andare al sonno nuovamente tra le mie braccia. Pareva quasi che l’intensità che dedicava all’amarmi lo prosciugasse di ogni sua forza, rimettendolo in discussione come un nuovo Sherlock Holmes. Uno più umano al pari mio.
 
Feci del mio meglio per non cadere addormentato, quella notte. Avrei voluto trascorrerla ad accarezzare i suoi riccioli, ad annusare la sua pelle, a cibarmi di lui addormentato tra le mie braccia.
 
Poiché c’era  qualcosa, qualcosa dentro me... Un piccolo e scomodo tarlo che mi stava sussurrando che non avrei più rivisto il mio amato principe.
 
Feci del mio meglio ma non ci riuscì.
 
Alla fine, caddi addormentato anche io avvinghiato a Sherlock. Dormii poco e male, fino a quando strani rumori mi svegliarono di soprassalto.
 
Aprii gli occhi con tutti i sensi del bravo cavaliere all’erta. Il buio che filtrava dall’abbaino sopra di me mi disse che non era ancora l’alba. Mi tirai piano a sedere, guardandomi attorno con circospezione. Determinai che il rumore che avevo udito era qualcosa di strisciante, seguito da uno scalpiccio simile a zoccoli.
 
D’improvviso, notai una flebile luce far capolino da sotto il portone. C’era qualcuno, là fuori. Mi chinai verso Sherlock con il cuore che mi moriva in gola.
 
Feci appena in tempo a donargli un ultimo bacio quando il portone si spalancò di colpo con un rumore sordo, sbattendo contro il muro e scagliando la spranga a terra.
 
Ebbi paura.
 
Intravidi appena dei cavalli e delle guardie fuori nel cortile. Sherlock si svegliò quando un altro paio di guardie si avvicinarono a noi.
 
Uno di loro gridava qualcosa di incomprensibile, mentre l’altro faceva minacciosamente oscillare davanti al nostro naso un tizzone ardente in una mano e una spada nell’altra.
 
Ci strattonarono per le braccia fino a farci uscire dal fienile, con le poche vesti che avevamo addosso. Ricordo che Sherlock protestava, rammentando ai presenti di chi fosse figlio, ma a quelli sembrava non interessare.
 
Una volta fuori, mentre una guardia mi bloccava i polsi dietro la schiena, i miei occhi riuscirono finalmente a vedere chi dovessimo ringraziare per tutto questo. Di fronte a noi, accanto alla staccionata dove solevo appendere il cuoio per farlo essiccare, se ne stava il bieco sceriffo Gregson in groppa al suo grigio destriero; poco più in là, nel suo sbuffo violaceo e raccapricciante, v’era il vescovo Milverton, che ci osservava imponendo su di noi il suo giudizio.
 
Non mi ci volle molto per rendermi conto di ciò che stesse accadendo, del perché stesse accadendo. Sopratutto, capii che cosa ci attendeva: il rogo.
 
Una delle guardie dello sceriffo fece salire Sherlock a forza su un cavallo e poi calò un cappuccio nero sulla sua testa, proprio mentre un altro individuo che non conoscevo e che vestiva abiti francescani prese a recitare le nostre colpe. Ovvero, il nostro amore.
 
In un guizzo di pazzo e insensato coraggio, tentai di liberarmi, sferrando un calcio all’indirizzo della guardia che mi aveva appena legato i polsi. Ma ciò che ottenni in cambio fu un pugno in pieno stomaco da parte dell’altra guardia. Poi coprirono anche me con uno spesso e scuro cappuccio, infine qualcuno mi sferrò un colpo secco in testa.
 
E tutto divenne buio.
 
 
 
§§§
 
 
 
Quando riaprii gli occhi, non ricordai subito gli ultimi accadimenti. Rammentavo solamente un’impietosa sensazione di disperazione che non voleva abbandonarmi.
 
Mi resi conto d’essere sdraiato a terra e quando cercai di rialzarmi una fitta terribile mi assalì al capo, a significare ch’ero ancora vivo. Per il momento.
 
Attorno a me regnava un buio raccapricciante. Mi trovavo in una cella piccola e sporca. Non v’erano né feritoie o abbaini che potessero lasciar entrare un qualche filo di luce in grado di dirmi se fosse ancora mattina. L’unica e modesta fonte d’illuminazione era data da due torce appese alla parete opposta alla cella. Per il resto, erano il buio e la solitudine più totali.
 
La circolarità dell’ambiente e la pungente umidità mi fecero supporre che mi trovassi nelle segrete a cui si accedeva dalla torre occidentale di Grimpen, regno indiscusso dello sceriffo Gregson, ove aveva allestito le sue prigioni.
 
Mi domandai se l’assenza di Sherlock fosse un bene o un male, oppure se lo sceriffo avesse semplicemente ritenuto che fosse più semplice separarci.
 
Alla fine mi alzai e cinsi le sbarre della porta della cella con entrambi le mani; poi, come uno stolto, presi a strattonarle con tutta la forza che avevo in corpo. Ma quelle ovviamente ebbero la sfrontatezza di non muoversi d’un solo pollice. Allora chinai il capo, appoggiando la fronte al freddo ferro, e sospirai rassegnato. “Stupido” sussurrai a me stesso.
 
Poi un gelido clink riempì la cella. Sollevai la testa e, sulla parete opposta, notai aprirsi una porticina di legno che prima non avevo notato e una figura a me tristemente familiare scendere i tre scalini. La mia gola si seccò improvvisamente.
 
“Bene, bene, bene! Chi abbiamo qui? Il bifolco John Watson, la prole del Diavolo! Che, domattina, tornerà finalmente in quegli Inferi da cui è stato sputato!”
 
Con il più sadico dei ghigni e nella sua armatura fin troppo scintillante, sir Anderson di Colquhoun si parò davanti a me, al di là delle sbarre.
 
Mi sentii fremere: perché, in nome del Cielo, non ero libero di fargli sparire quel ghigno a suon di pugni?
 
L’odioso fellone si massaggiò il mento. “Sai, amico, mi sono offerto volontario presso lo sceriffo per venire qua a controllarti prima che...” Una risata. “Beh, prima che tu domani venga arrostito davanti alla cattedrale!” Di nuovo quel prurito alle mani.
 
“Perché lo sai cosa ti capiterà domani, sì?” Continuò sir Anderson sgranando gli occhi. “Verrai arso vivo per spiare i tuoi peccati!” Era lampante come il sole assente in quel luogo quanto sir Anderson ci godesse, a parlarmi così.
 
“Sai, dicono che, per prima cosa brucino le palpebre. Un vero peccato... Non potrai abbassarle quando gli spettatori ti tireranno dietro uova, sassi e ogni altro regalo che vorranno farti!”
 
Abbassasi lo sguardo, strinsi i denti attorno al labbro e serrai i pugni. Se avessi dovuto essere condannato a morte per qualcosa, in quel momento avrei preferito fosse stato per la morte di quel fellone.
 
“Ma poi anche il resto del tuo corpo brucerà. Lembi di pelle si staccheranno pian piano l’uno dopo l’altro. Già, è così che morirai. Sempre che non lo farai prima, soffocato dal fumo!”
 
Ancora mi ostinavo a non guardarlo in volto, ma a quel punto capii che qualcosa era cambiato, che sir Anderson non stava più ghignando: l’intonazione della sua voce mi suggerì che s’era fatto improvvisamente serio.
 
“Vi ho visti” sibilò. “Ho visto lord Sherlock uscire con fare sospetto nella notte. E ho deciso di pedinarlo.” Seguì una risata raccapricciante. “È questo ciò che capita a chi pratica atti in vase indebito. A chi ama d’un amore infetto.” Non ci vidi più: di scatto, alzai viso e mani e, con movimenti così rapidi da non dare a sir Anderson il tempo di interpretarli, presi la sua testa con entrambe e gliela schiacciai violentemente contro le sbarre.
 
Quello gemette e reagì con un goffo tentativo di sferrarmi un pugno sul petto, ma io lo schivai prontamente spostandomi da parte.
 
“Cosa diamine sta accadendo qui, per Diana?” tuonò una voce.
 
Portai immediatamente lo sguardo nella direzione di provenienza di quelle parole e mi ritrovai di fronte un’altra visita inaspettata: sul primo dei tre scalini se ne stava il visconte Mycroft, circondato da due delle sue impassibili e impettite guardie personali.
 
“Il prigioniero ha osato colpirmi, milord” spiegò sir Anderson con voce ancora strozzata dal dolore. “E voi siete a conoscenza del fatto che alle guardie sia proibito rivolgere parola ai prigionieri?”  rincarò il maggiore degli Holmes, allacciando le mani dietro la schiena e scendendo i gradini con fare solenne.
 
Feci del mio meglio per non ridacchiare, ma mi fu impossibile. A un’occhiataccia di Mycroft tornai diligentemente serio.
 
“E ora sparite!” ringhiò il visconte all’indirizzo di sir Anderson, il quale s’affrettò a uscire continuando a mormorare le sue scuse.
 
Rimanemmo soli, a eccezione ovviamente dei due fanti, che apparivano ai miei occhi alla stregua di due fantasmi. Lord Mycroft mi osservò in silenzio per attimi interminabili, camminando avanti e indietro di fronte alla mia cella. Lentamente, molto lentamente. Mi guardò, mi scandagliò, mi analizzò, al pari – o forse meglio – di suo fratello. E io sostenni quello sguardo.
 
Infine, si bloccò di colpo e inarcò un sopracciglio. Ebbe molto di Sherlock, in quel frangente. “Tu non hai paura di me, ragazzo” constatò poi.
 
“Voi non mi parete spaventoso” risposi pronto. “Sire...” aggiunsi poi. Di certo, non avevo timore di un Holmes. Di un Milverton e dei suoi giochetti con le pire, invece...
 
Le labbra del visconte Mycroft si piegarono in un sorriso enigmatico. “Guardia!” Schioccò le dita e il basso soffitto sembrò tremare sotto tutta quella foga. Uno dei due fanti scese i gradini, s’avvicinò alla mia cella e mi lanciò la tunica che avevo lasciato nel fienile, quella mattina.
 
“Rivestiti” ordinò il visconte.
 
Obbedii, tenendo sempre lo sguardo fisso sul mio nobile interlocutore. Il visconte riprese a passeggiare lentamente, parlando soppesando le parole. “Dunque sei tu la persona per cui mio fratello...” Una pausa, in cui Mycroft sembrava alla ricerca dei termini più appropriati. “...ha scelto di passare sulla sponda dei perdenti.”
 
“Si possono dire tante cose di vostro fratello, tranne che sia un perdente! Sire” gridai io, accalorato. Dopotutto, non avevo molto altro da perdere. Il visconte arricciò appena le labbra. “È bello vedere come tu, ragazzo, possieda un cuore sincero. Non mi è ancora del tutto chiaro perché tu abbia scelto di farlo battere per mio fratello.”
 
Lo guardai senza comprendere. Come poteva non capire? Era suo fratello, dopotutto. Ma poi mi tornarono alla mente le parole di messer Sebastian e pensai che, forse, ciò che valeva per Sherlock e i sentimenti potesse valere anche per il visconte.
 
“Sono fiero che il mio cuore batta sincero per vostro fratello, sire, perché non conosco un umano più umano” dissi, mostrandomi fiero ed eretto. “Lui non si merita tutto questo!”
 
“Difatti non lo avrà” disse sbrigativo il maggiore degli Holmes. Lo guardai con le labbra dischiuse, senza comprendere. “Mentre parliamo, mio fratello sta negoziando la salvezza.” Uno strano sogghigno che aveva un non so che d’amaro si dipinse sul suo volto. “Dopotutto, come potevi pensare che un giovane di nobile rango potesse mai essere condannato al rogo? Sono i privilegi d’una certa condizione sociale. Una condizione che tu non hai.”
 
La mia testa si fece improvvisamente pesante, il mio corpo prese a tremare e gli occhi a pungere come se fossero stati improvvisamente trafitti da cento spilli. Il mio cuore fu felice di apprendere che Sherlock sarebbe stato salvo, ma una parte di me si sentiva ferita.
 
Lui era mille volte migliore di me; se mai fosse esistita una persona che meritasse di vivere quella era indubbiamente Sherlock Holmes.
 
Eppure, credevo di meritare qualcosa di più dal destino, mi sentivo migliore di tante persone che affollavano la contea di Dartmoor.
 
Quella, invece, era l’ennesima riprova che mi ricordava quanto la mia esistenza non avesse mai contato nulla. Ero sempre stato io il perdente; solamente da poco avevo imparato a conoscere una promessa di felicità e subito ecco che il fato veniva a reclamare il conto per quel poco che avevo ricevuto.
 
“Comunque hai ragione, Watson.” La voce del visconte mi riportò alla grigia realtà. “Sherlock è davvero diventato più umano da quando sta al tuo fianco.”
 
Strinsi i pugni, fino ad affondare le unghie nella carne. “Beh... È un vero peccato che non lo possa diventare ulteriormente” dissi con un fil di voce.
 
Il visconte mi dedicò una strana occhiata; sembrava quasi malinconica. “Già...” convenne. Poi mi voltò le spalle e mosse un paio di passi verso l’uscita, ma giunto al primo gradino si bloccò. “Ai condannati viene concesso un ultimo desiderio. Qual è il tuo? Un ultimo pasto? Oppure un incontro con una persona cara?” mi domandò, sempre voltandomi le spalle.
 
Un sorriso sbocciò speranzoso sulle mie labbra, ma venne ucciso immediatamente dal visconte. “Chiunque ma non mio fratello, beninteso” precisò. Chinai il capo e chiusi gli occhi. Il dolore che provai fu indicibile. Cosa avrei dato per rivederlo un’ultima volta! Cosa avrei dato per respirare ancora l’odore della sua pelle o salutare con le mie quelle labbra che tanto amavo!
 
Non avrei potuto dire addio all’amore della mia vita, all’altra metà di me stesso.
 
“Mia sorella, sire. Mia sorella Harriet; dimora presso sir Hudson” dissi infine, la voce strozzata da lacrime che non m’era permesso versare.
 
Mycroft Holmes annuì. “Buona fortuna, ragazzo” furono le sue ultime parole, prima di uscire scortato dai suoi fanti.
 
Rimasto solo, mi accasciai a terra, la schiena al muro e la testa tra le mani. Se fossi stato un vero cavaliere, avrei sicuramente trovato il modo di fuggire. Mi sentii davvero inadeguato, mediocre. Sin da bambino, avevo sempre creduto che la mia fine sarebbe stata quella: bruciare sul rogo e raggiungere la mia ascendenza. Forse, dopotutto, era giusto che fosse questo il mio destino. Il mondo avrebbe sopportato la perdita di uno zotico qualunque di nome John Watson.
 
Anche Sherlock, alla fine, sarebbe sceso a patti con la mia dipartita. L’avrebbe accettata, sarebbe andato avanti. Si sarebbe accasato con lady Kitty da cui avrebbe avuto un erede. E, magari, il suo cuore avrebbe conosciuto nuovamente l’amore.
 
Faceva male da morire. Forse più delle fiamme in cui di lì a poche ore avrei trovato la fine.
 
Credo trascorsero un paio di ore prima che la porta di legno s’aprì di nuovo. Un fante che non avevo mai visto lasciò entrare una spaurita e tremante Harry, che si guardava attorno con occhi sgranati. Balzai in piedi e lei corse verso di me. La chiamai per nome e lei chiamò me. Sporsi entrambe le mani al di là delle sbarre e la toccai: avevo un disperato bisogno di contatto fisico.
 
Harry scoppiò a piangere, il mio nome che frammentava i suoi singhiozzi e le sue lacrime che nascevano sul suo viso e finivano per rigare il mio.
 
“Come sta... Come sta la famiglia Stamford?” domandai con urgenza, stringendo mia sorella a me per quel che mi era possibile. Harry annuì, strofinando il naso umido contro il mio collo. “Stanno bene. Nessuna accusa è stata mossa contro di loro” la udii dire.
 
Affondai il viso tra i suoi capelli e presi ad accarezzarle teneramente la schiena: sarebbe stato l’ultimo calore che avrei percepito. Harry mi baciò fraternamente il collo una, due, tre volte. In silenzio, continuai ad accarezzarla e lei a baciarmi.
 
“Domani... Non venire” le intimai poi, quando ritrovai la forza di parlare. “Nemmeno la madonna e il mastro devono venire. Voglio che mi ricordiate...” Non terminai la frase, un singhiozzo che mi moriva in gola. Con urgenza, Harry si staccò da me e pose un dito sulle mie labbra.
 
“Non dire nemmeno ciò che stai per dire” disse grave. “Non dovete venire!” decretai con risolutezza. E allora Harry scosse il capo con veemenza, lo sguardo appannato da lacrime silenziose.
 
“Io sarò lì accanto a te. Ci sarò fino all’ultimo, proprio come ho fatto con nostra madre...”
 
La guardia, che sino a quel momento s’era tenuta in disparte, batté la lancia a terra per tre volte. “La visita è terminata” ci informò con voce resa quasi inumana per via dell’elmo calato fino a metà viso.
 
Allora Harry scoppiò in un pianto a dirotto, mentre mi baciava goffamente gli occhi, i capelli, le guance. La strinsi con forza a me: non mi capacitavo che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei toccato qualcuno.
 
“Sono una pessima sorella!” si lamentò tra le lacrime, “dovrei darti forza, invece...” Le presi il viso tra le mani e la guardai intensamente negli occhi: “Sei stata la migliore delle sorelle, ricordatelo sempre” furono le ultime parole che le dissi.
 
Harry si staccò a fatica da me. Ricordo che allungò la mano e io feci altrettanto, lasciando che i nostri polpastrelli si sfiorassero sino all’ultimo. Con la guardia che la tirava per un braccio, continuò a camminare all’indietro, donandomi i suoi amorevoli occhi fino a quando la porta si chiuse dietro di lei e mi fu sottratta la sua vista.
 
Ero di nuovo solo.
 
Il senso di vuoto e la paura iniziò a strisciare verso il mio corpo e a farlo lentamente proprio. Mi accucciai in un angolo della cella, abbracciando le ginocchia al petto.
 
Mi sentivo così esausto che mi addormentai.
 
 
 
§§§
 
 
 
Un rumore mi svegliò di soprassalto. Non capii immediatamente che cosa fosse, ma quando mi resi conto che si trattava della porticina di legno che s’apriva, il mio cuore balzò in gola.
 
Pensai che fosse giunto il momento, che fosse già arrivato il nuovo giorno – quello in cui avrei dato addio a questo mondo. Mi ripetei che avrei dovuto essere coraggioso, che un cavaliere non avrebbe avuto timore della morte. Mi dicevo questo mentre mi avvicinavo alle sbarre attendendo il mio destino.
 
Ritenni di trovarmi di fronte uno degli uomini di Gregson, ma mi sbagliai.
 
“Hai preparato il tuo fardello, piccolo Watson? Leviamo le tende!” Trasalii alla vista del mio cavaliere oscuro. “Siete… siete venuto a farmi fuggire, sir Moran?” domandai io incredulo, le mani ben salde attorno alle sbarre. “Se avessi dovuto farti evadere, non sarei di certo passato per la porta principale” ghignò Sebastian, “ma avrei piuttosto aperto uno squarcio nella torre!” Poi prese a  guardarsi attorno, domandando a gran voce dove fossero quelle fottute chiavi. Infine, trovò l’anello, appeso a un chiodo in alto alla parete accanto alla porticina di legno.
 
“Nessuna evasione. Te ne vai ufficialmente da questo lugubre posto” mi spiegò, mentre sfilava il mazzo ed esaminava minuziosamente ciascuna delle chiavi. Io mi sentivo sempre più confuso. “Sono… sono libero?” domandai con un fil di voce. “Mhm, mi raccomando, piccolo Watson: contieni il tuo entusiasmo!” commentò sir Moran con il suo solito sarcasmo, “è accaduto che lord…”
 
Ma il mio cavaliere oscuro non ebbe il tempo di concludere la frase. Si udì un secco sprank: la porta si aprì sbattendo con tutto il suo fragore e sir Anderson comparve nelle segrete. “Per Diana! Cosa sta succedendo? Cosa ci fate qua voi?” tuonò.
 
“Orsù, non vi agitate, Col-chi-oun, altrimenti vi verrà sangue da naso” commentò imperturbabile Moran, infilando una chiave a caso nella toppa. Non era quella giusta. E io iniziai ad agitarmi.
 
“Si pronuncia Ca-uun” sibilò l’altro, avvicinandosi. “State facendo forse evadere il prigioniero? Questo ragazzo sarà arso vivo domattina ai dieci rintocchi!” Gli occhi di sir Anderson saettavano veleno a destra e a manca. “Non sto facendo evadere nessuno. La condanna è stata revocata. Informatevi!”
 
Una seconda chiave, ancora sbagliata. “Lo vedremo… Guardiaaaa!” tuonò sir Naso Grosso. E poi si scatenò l’inferno.
 
Ho ricordi alquanto confusi e affannosi di ciò che accadde. Sir Anderson sguainò la sua spada e Moran fece altrettanto, proprio mentre una guardia arrivava a dar man forte a quel fellone e il mazzo di chiavi scivolava a nascondersi nella paglia, lontano da me. Mi accucciai a terra e allungai il più possibile la mano fuori dalle sbarre, nel disperato tentativo di prendere il mazzo.
 
Sopra la mia testa echeggiavano i clink clank delle lame che si urtavano a vicenda. Alzai appena lo sguardo e vidi Sebastian che sferrava un calcio alla guardia, buttandola a terra. Ma Anderson non desisteva. Allora schiacciai il più possibile la mia faccia contro le sbarre e, finalmente, le mie dita sfiorarono il mazzo di chiavi. Lo agguantai con mani tremanti e mi tirai in piedi. Tutto il mio corpo tremava, invero.
 
Infilai la prima chiave nella toppa: sbagliata. Intanto Moran era riuscito a mettere non so come le mani sullo scudo della guardia sconfitta e, avvalendosi del suo riparo, schivava brillantemente i colpi sferrati da sir Anderson.
 
Al secondo tentativo, la chiave girò. Ero libero.
 
Vidi sir Sebastian compiere con il busto un semicerchio in senso orario, far scattare le braccia rapidamente in avanti e colpire con il forte della sua lama la spada del suo avversario, facendola rovinare a terra. I due uomini si guardarono per un attimo negli occhi, ansimanti. Anderson piegò un ginocchio e un braccio a terra, lanciando un’ultima occhiata di sfida all’uomo di fronte a sé. “Avanti, fatelo. Finitemi...” disse. Senza battere ciglio e con la fierezza della tigre dipinta sul viso, Moran alzò la spada perpendicolarmente sopra la sua testa, pronto a colpire per un’ultima, inesorabile volta.
 
“No!” gli intimai, bloccando per il braccio. “Non uccidetelo.” Messer Moran si voltò verso di me, accigliato. “Non merita che tu ti macchi del suo sangue” spiegai, “e poi causerebbe solo dolore a Mary.”
 
Sir Sebastian non ribatté, ma dai suoi occhi non mi fu difficile intuire che ritenesse che il mio cuore fosse troppo incline alla debolezza. “Come desideri...” borbottò e, con un gancio ben assestato, tramortì sir Anderson.
 
Poi udimmo uno scalpiccio di passi che s’avvicinavano correndo a noi. Per una frazione di secondo, ebbi paura che si trattassero di altre guardie dello sceriffo Gregson, ma poi vidi Sherlock mettere piede nelle segrete con aria inquieta e allarmata e mi fu impossibile non trattenere ulteriormente le lacrime.
 
Un attimo dopo, lord Sherlock era tra le mie braccia. La mia voce sussurrava confusi Stai bene? Stai bene?; la sua, gemiti sconnessi e rochi che al mio orecchio suonavano, tuttavia,  come la più bella delle melodie.
 
Il mio principe era tornato a prendermi e io ero stato così stupido da dubitare di lui.
 
“Se non vi dispiace, piccioncini, gradirei uscire di qui prima che arrivi altra gente che non conosce il significato della parola revoca” sentenziò Moran, separandoci non troppo gentilmente con le sue mani e mettendo per primo piede fuori dalla porticina di legno. “Via libera!” ci comunicò.
 
Moran si precipitò correndo su per le scale e Sherlock lo seguì, prendendomi per mano e trascinandomi dietro a lui.
 
“Hai... Hai negoziato anche la mia vita, nel tuo accordo?” domandai più a me stesso che a lui, mentre salivamo le scale.
 
Sherlock si bloccò di colpo quando non eravamo nemmeno a metà strada. “Hai dubitato di me?” I suoi occhi, non li dimenticherò mai: erano feriti. Lo guardai con aria colpevole.
 
“Tuo fratello ha detto...” “Oh, ho capito, hai ricevuto una visita da Mycroft!” Sul suo viso si dipinse un’aria più sollevata all’udire quel nome. “A lui piace rendere tutto più drammatico ma ti posso assicurare che gli vai a genio” tagliò corto, riprendendo a salire.
 
Questo non toglieva che mi sentissi ancora colpevole per aver dubitato di lui. Di noi. Per non aver creduto che il suo accordo includesse anche me.
 
Accordo...
 
Fui io a bloccarmi di colpo, questa volta.
 
“Un momento, Sherlock. Se hai fatto un accordo, che cosa hai concesso in cambio?” chiesi, allarmato e affannato. Sentii la sua mano irrigidirsi attorno alla mia. “Usciamo nelle stelle” rispose evasivo, senza cercare i miei occhi.
 
Quando mettemmo piede fuori dalla torre, notai che era ancora piena notte. Un fante con lancia in resta salutò Moran con un cenno del capo e un inchino nei confronti di Sherlock.
 
“Che cosa hai concesso in cambio?” gridai, incurante di tutto e di tutti. Era evidente che qualcosa non andava. Lasciai andare la sua mano, ma lui continuava a muoversi imperterrito davanti a me. “Sherlock!” gli intimai. E finalmente si fermò e mi guardò.
 
Il suo bel viso era solcato da due evidenti occhiaie e il suo sguardo era spento. Sospirò e poi tornò sui suoi passi, cercando le mie mani. “Mia madre, lady Violet, è in accordi con il vescovo Milverton. Lo è sempre stata e sempre lo sarà, temo.”
 
“In accordi per che cosa?” Chiesi io, stringendo le sue mani. Erano fredde e tremanti. “Per qualsiasi cosa: protezione, agio, potere...” Scrollò le spalle. “Ti renderai conto che l’aver trovato il figlio minore in atteggiamenti... compromettenti, beh non costituisce esattamente la miglior espressione di fedeltà.”
 
Sentii le lacrime salire prepotentemente agli occhi: sapevo dove stesse andando. “Così, mi stai dicendo addio...” sussurrai.
 
“Non è per sempre, John!” I suoi occhi tornarono a scintillare, il suo labbro inferiore tremò e strinse le mie mani con forza. “Alla morte di mio padre, Mycroft sarà il nuovo conte di Dartmoor e allora metteremo in atto il nostro piano, che stiamo già iniziando a tessere, per far spodestare Milverton e mettere al suo posto padre Lestrade!”
 
Lo guardai con una profonda tristezza: la sua idea non mi piaceva per niente. “Ma perché non far semplicemente finta che ci siamo lasciati? Potremmo sempre incontrarci di nascosto!”
 
“No!” proferì Sherlock con decisione, “perché tu mi distrai...” aggiunse, mettendo nell’ultima parola tutta la dolcezza di cui un Holmes era capace. Il mio cuore scalciava in protesta dentro al petto. “Ma potrebbero volerci mesi, anni prima che tuo padre muoia...” continuai a ribattere. Feci scivolare il mio sguardo sulle sue mani: mai mi erano parse così belle.
 
“Vederci di nascosto sarebbe troppo pericoloso, John. Devi stare il più possibile lontano da me e da Grimpen. Un’altra sola, piccola distrazione e Milverton ti arrostirebbe per davvero questa volta. E io non posso, non voglio...” mi attirò a sé e mi abbracciò goffamente,  ”perderti.”
 
Affondai il viso nella sua spalla e respirai forte l’odore della sua pelle. Chissà quanto tempo sarebbe passato prima che avessi potuto sentirlo nuovamente.
 
“Dove... Dove andrò?” dissi, staccandomi da quel porto sicuro. “Lui si prenderà cura di te per tutto il tempo” rispose, facendo un cenno con il mento. Mi voltai incuriosito nella direzione indicata da Sherlock e lo vidi: in sella a un magnifico stallone bardato, sotto la volta della porta occidentale della città e rischiarato dai pallidi raggi di luna, se ne stava lord Henry, arciduca di Baskerville.
 
“È una persona fidata e ci darà una mano.” Ebbi la sensazione che ci fosse dell’altro, che non potessi rimanere tutto il tempo a Baskerville Hall, luogo che lady Violet frequentava, ma non feci domande, essendo già abbastanza sconvolto da ciò che avevo appena appreso.
 
“Ehi, piccioncini, dolente di portare nuovamente scompiglio, ma sarebbe opportuno metterci in viaggio. Vostro cugino si stanca molto facilmente, come sapete” ci interruppe sir Sebastian, comparendo quatto alle nostre spalle.
 
“È mio cugino di secondo grado, per l’esattezza” lo corresse Sherlock sbuffando. “Fate ancora l’insolente con me e vi stacco la lingua a morsi” sibilò Moran, alzando un dito. “Va tutto bene, arrivo subito” intervenni io, nella speranza di riportare la pace. Eravamo tutti stanchi e provati, dopotutto.
 
Il mio cavaliere oscuro mi guardò, annuì e si voltò per raggiungere lord  Henry, ma poi Sherlock lo bloccò chiamandolo per nome.
 
“Moran?”
 
Una pausa stizzita. “Sì?”
 
“Abbiate cura di John...” disse, con un’intensità tale da farmi girare la testa. E il cuore.
 
Dio, quanto lo amavo...
 
Messer Sebastian sorrise: fu la prima e unica volta che lo vidi sorridere a Sherlock. “Lo proteggerò come se fosse sangue del mio sangue, milord” e così dicendo raggiunse lord Henry e montò a cavallo.
 
Le parole di Sebastian fecero tremare la mia anima già abbastanza scossa. Quante persone stavano facendo del loro meglio per permettermi di vivere, quella notte? Non ero sicuro di meritarmelo.
 
Riportai il mio sguardo sul lord Sherlock; il suo era indecifrabile. Cercai di memorizzare ogni più piccolo dettaglio del suo viso: le sfumature delle iridi, il profilo del naso, il colore della ciglia, i piccoli nei sul collo, la forma dei suoi riccioli...
 
Poi lo vidi frugare nella tasca del suo mantello. “Io non credo nella stregoneria” iniziò. Cercai i suoi occhi ma quelli scapparono da me. Una lieve sfumatura color cremisi tinse le sue gote. “Ma staremo lontani per troppo tempo per non provarci...”
 
Tra le sue lunghe dita ora stringeva un mazzolino di rosmarino: mi sovvenne alla mente che quel giorno, in occasione del nostro primo incontro agli olmi gemelli, mi raccontò della storia di questa erba officinale, di come maghi e streghe la usassero per preservare l’amore.
 
Mi prese una mano con fare incerto, mise il mazzolino sul palmo aperto e lo richiuse. Lo strinse forte, lasciando la sua mano attorno alla mia, come se non volesse più farla scappare.
 
Non sono capace di descrivere ciò che provai – provammo – in quegli ultimi istanti: paura, smarrimento, angoscia, amore, vuoto... Io me ne stavo andando da lui e lui se ne stava andando da me. Forse per anni, forse per sempre.
 
Quanto sarebbe passato prima che le mie orecchie si sarebbero di nuovo rallegrate al suono della sua risata cristallina? Quanto sarebbe passato prima che i miei occhi avessero potuto di nuovo dialogare con i suoi? Quanto, prima che le mie mani potessero di nuovo accarezzare la sua pallida pelle?
 
Quanto?
 
Lo strinsi forte a me, così forte che i miei sospiri si mescolarono ai suoi e i palpiti dei cuori divennero un tutt’uno.
 
“Promettimi che mi aspetterai...”
 
“Prometto.”
 
“Promettimi che non ti unirai con quella Kitty. Qualsiasi cosa, ma non questo...”
 
Ebbi quasi vergogna della mia voce implorante, assai poco nobile. Alla mia ultima richiesta, Sherlock si aggrappò di più a me, le sue unghie che graffiavano i miei abiti e la mia pelle.
 
Non disse nulla per attimi che mi parvero infiniti e io interpretai il suo silenzio come un “non posso prometterlo”. Il mio cuore si riempì di tristezza. Alzai lo sguardo verso la porta: Sebastian e l’arciduca erano in groppa ai loro destrieri; accanto a loro era comparso uno splendido cavallo bianco. Che sarebbe stato mio.
 
Poi sentii le labbra fredde di Sherlock sfiorare il mio orecchio. “Io credo di... amarti” sussurrò con un fil di voce. Annaspai in cerca d’aria. “Non ne sono del tutto certo... Non sono cose ch’io abbia mai provato prima, ma ho fatto molte ricerche e penso si tratti proprio d’amore.”
 
Per la prima volta, in quella lunghissima giornata, mi abbandonai a una risata di sollievo. Sentii lord Sherlock stringersi di più a me, mormorando un deluso “Ho detto qualcosa di sbagliato?” Strofinai il naso umido contro il suo collo.
 
“No, al contrario, hai detto la cosa più giusta di questo mondo inclemente...” Mi staccai da lui; con mani tremanti, presi il suo viso e donai a quelle amate labbra un ultimo, malinconico bacio. Poi, stanco, appoggiai la mia fronte alla sua. “Credo di amarti anche io...” bisbigliai.
 
Ci stringemmo ancora l’un l’altro, respirando l’altrui profumo fino a quando il nitrito dei cavalli non ci disse che era tempo.
 
“Ora vai” mi intimò il mio principe. Io annuii. Fu la prova più difficile, quella. Gli accarezzai una guancia, abbassai lo sguardo e mi voltai. A passo spedito, raggiunsi il mio cavaliere oscuro e l’arciduca. Montai in sella al mio nuovo destriero e strattonai le briglie.
 
Sparimmo nella notte senza più voltarci indietro.

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