Love Heals

di EliCF
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Prologo + capitolo 1 ***


Love Heals
Prologo

New York, 24 dicembre 2005.


Voglio provare a raccontare una storia di amore e destino.

Una storia narrata da voci che arrivano da lontano, eppure che ci toccano il cuore e che ci ricordano quanto sia unico ogni suo battito. Mi piacerebbe riuscire a raccontare la storia di una promessa sigillata durante un giorno di fede e di festa. Quella di due persone che si sono trovate e hanno capito che da quel momento in poi sarebbe stato impossibile fingere di non amarsi.

La storia di un solo anno della vita di due anime che sono state catturate dal destino e hanno deciso di non contrastarlo. La storia di chi ha deciso di giurare che, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, avrebbe accettato il tempo come peggior nemico.

Nonostante il tempo tenti sempre di rendere mortale un sentimento che mortale non è.

Non in questa vita, almeno.

Voglio raccontare la storia di uomini che si sono salvati la vita a vicenda. La storia di sguardi, dita intrecciate, strette di mano. La storia di chi ha scalato montagne e ha affrontato le profondità degli oceani. La storia del modo in cui il sentimento più profondo si è fatto strada nel petto di due persone, senza lasciare scampo.

Ci sono modi infiniti per misurare lo scorrere del tempo, ma i protagonisti di questa vicenda non potranno permettersi un orologio. Quindi, come misurare un anno di vita?

Contando il numero di volte in cui il sole si affaccia sul mondo o quello in cui decide di ritirarsi? I chilometri percorsi da un viaggiatore, i caffè bevuti in una notte insonne, le lacrime versate da un cuore spezzato, i sorrisi di bambini che giocano, i tentativi di comporre una canzone?


Perché non farlo con il sentimento che cattura ognuno di noi?  Perché non farlo con la corda che legherà ancora una volta i protagonisti della storia che voglio fare nostra?

Perché non con l’amore?

 
 
 
 

 
Capitolo 1

New York era un vero casino.

Le palazzine erano un vero dramma, in particolare a sud della quattordicesima strada. Grigie di smog e fumo, la vernice era stata grattata via o imbrattata da scritte colorate con lo spray. I lampioni illuminavano ad intermittenza, lasciando che il loro alone arancione rimbalzasse da un marciapiede all’altro solo ogni tanto. Le strade erano asfaltate poco e male e Blaine Anderson inciampava ogni due passi.

Teneva le mani incastrate nelle tasche del cappotto grigio che aveva  barattato due anni prima con un paio di guanti di pelle trovati sul lavandino di un bagno pubblico. Li rimpiangeva ogni volta in cui perdeva sensibilità alle dita.

 Non era tardi ma il sole era già tramontato;  Blaine Anderson stava tornando a casa sperando di non imbattersi in un altro di quei Babbo Natale finti che non facevano altro che suonare campanelli di plastica ed augurare buon Natale con l’alito puzzolente di alcol.

Quel dicembre il freddo era diventato pungente all’improvviso.
Blaine si era ritrovato costretto a bruciare fogli e spartiti in bidoni di latta per riscaldarsi ed illuminare. Lungo la strada di casa i marciapiedi erano ricoperti da notifiche di sfratto che gli ricordarono quella appesa alla sua porta. Scrollò le spalle superandole: avrebbe seguito l’esempio dei suoi vicini e se ne sarebbe sbarazzato.

Immerso nei pensieri, superò un gruppo di uomini vestiti con giacche di pelle.

”Hei, amico!”

Blaine si girò verso di loro, inespressivo a causa di muscoli intorpiditi dal freddo. Il gruppo si mosse nella sua direzione, a capo il ragazzo che aveva parlato. Avrebbe potuto avere i suoi stessi vent’anni.

“Hai da accendere?”

Cercò di schiarirsi la voce. Sapeva di avere la trachea bloccata dalle parole che aveva evitato di spendere durante il giorno e dai pensieri che gli opprimevano il petto persino in quel momento. Si accorse troppo tardi di come i ragazzi gli furono improvvisamente troppo vicini.

Vide uno di loro estrarre le mani dalle tasche, le nocche pericolosamente rosse e callose, per sfregarsele con aria minacciosa.

”No,” gracchiò Blaine indietreggiando, “non fumo”.

Poi, in un solo attimo, fu a terra.

Tutto quello che poté vedere furono i visi duri dei suoi aggressori che gli piantavano calci nello stomaco e tentavano di sfilargli il cappotto di dosso. Qualcuno urlò in lontananza, forse intimano loro di smetterla, e Blaine tentò di fare lo stesso ma c’era davvero troppa distanza per capire chi stesse chiedendo aiuto o se ne stesse chiedendo.
Si aggrappò alla manica, raggomitolandosi su un lato con pazienza e rabbia.

I teppisti in quella New York erano un abitué: ragazzi senza niente da perdere che rubavano e, qualche volta, picchiavano.

Non uccidevano quasi mai e Blaine sapeva che non sarebbe stato quello il caso: se avessero voluto, avrebbero già tirato fuori i coltelli.

E lui avrebbe tirato fuori il suo.

Ebbe l’audacia di fare dono della sua saliva insanguinata a quello che gli teneva le braccia inchiodate alla strada fredda e indicibilmente sporca, guadagnandosi un cazzotto che gli fece cacciare sangue nero.

”Strappagli il dannato cappotto!”

Un altro pugno. Questa volta sputò il sangue che sgorgava da una gengiva graffiata.
Nonostante gli fischiassero entrambe le orecchie riuscì ad individuare l’arrivo di qualcun quando sentì dei passi battere nella direzione dell’agglomerato che si era formato.

Pregò un dio in cui non aveva mai creduto e lo pregò che fosse qualcuno con l’intenzione di aiutarlo.

La punta del coltello che nascondeva sotto i vestiti premeva pericolosamente sul suo addome.
Due ragazzi strattonarono ancora una volta il cappotto, questa volta strappando le cuciture della manica a cui Blaine era aggrappato. Corsero via non prima di avergli mollato un calcio in più all’altezza delle costole.

Qualcuno si affrettò nella sua direzione e, se solo avesse avuto la capacità di parlare senza sputare il Mar Rosso, si sarebbe ironicamente complimentato per la gran bella operazione di salvataggio.

”Oh cielo…”

Una voce incredibilmente acuta sovrastò con un sussurro il ronzio alle orecchie e lo prese per le spalle. Blaine teneva gli occhi aperti ma non diceva una parola, carico di rabbia ma impassibile di fronte all’aggressione ricevuta.

”Stai bene, tesoro?”

La voce lo mise a sedere, gli tenne la schiena cingendolo con il braccio sinistro e gli prese il viso con la mano libera, costringendolo a voltarsi verso la sua fonte.

Nel momento in cui lo vide, Blaine seppe che non l’avrebbe mai più dimenticato.

Due occhi azzurri – due immensi occhi azzurri – scrutavano le sue ferite. Un paio di labbra perfettamente idratate nonostante il freddo si muovevano al servizio di parole che non stava ascoltando.

E poi c’era quella voce. Dio, quella voce era come musica: l’incontro di diverse armonie che si fondevano in una traccia sola.

Blaine non credeva ai miracoli, ma quella voce doveva chiaramente esserlo.

Ciocche di capelli castani pettinati alla meglio ricadevano sulle tempie chiare, dell’uomo bellissimo che gli stava intimando di provare a rimettersi in piedi.

”Stai bene?” e, avendo finalmente colto una delle domande, Blaine cercò di mostrare un pizzico di enfasi nella risposta.

”Temo di sì” biascicò, tentando di rimettersi in piedi senza il suo aiuto.
Rovinò a terra a causa di un giramento di testa.

”Ti hanno preso soldi?”

Si distese nuovamente e completamente, decidendo di arrendersi ai dolori per un paio di minuti.

Gli occhi dello sconosciuto ricominciarono a scrutargli il volto alla ricerca di nuove ferite. Estrasse un pezzo di stoffa bianco ed iniziò a tamponargli le zone contuse.

”No, non ho soldi con me. Mi hanno preso il cappotto,” sorrise con sarcasmo, “ma pare ne abbiano dimenticato un pezzo qui”. Dovette soffocare un gemito quando fece per agitare il braccio ancora avvolto dalla manica grigia.

Lo sconosciuto – lo splendido sconosciuto ridacchiò e si passò una mano tra i capelli, guadagnandosi un grado di attenzione da parte di Blaine ancora maggiore.

”Andiamo, posso fasciarti le ginocchia. Pare ne abbiano un gran bisogno, purtroppo.”

Lottarono per rimetterlo in piedi e, quando furono di nuovo faccia a faccia, il ragazzo lo strinse in vita per tenerlo stabile.

”Sono Kurt,” sorrise e Blaine pensò che un angelo gli avesse appena rivelato il suo nome.

Quello sconosciuto aveva l’assurda capacità di farlo irrimediabilmente avvampare ad ogni parola. Balbettò il suo, di nome e Kurt iniziò a guidarlo nella direzione opposta a quella di casa sua. Nemmeno si chiese se fosse il caso di fidarsi di uno sconosciuto, semplicemente lo fece.

Si lasciò trasportare fino ad un nuovo quartiere, tristemente simile a quello di casa sua. Kut lo guidò verso le scale di una scala antincendio e gli intimò di aspettarlo lì. Salì le prime due rampe, sparì all’interno dell’edificio e tornò giù pochi minuti dopo, munito di cerotti e stoffa bagnata.

Blaine lasciò che gli tamponasse i tagli sulla faccia e il sangue che gli incrostava le labbra, beandosi della sua bellezza.

Notò la ruga che gli solcava la fronte quando aggrottava le sopracciglia e stringeva inconsciamente gli occhi. Chiuse i suoi, deliziato dal suo alito sulla pelle.

”Perché lo fai?”

Kurt continuò a lavorare sul livido che gli macchiava la fronte.

”E’ la vigilia di Natale, Blaine.”

Si sentì un po’ deluso. E così lo aveva salvato solo in nome dell’holy Jesus che sarebbe nato il giorno seguente? Niente colpo di fulmine? Niente coro di chierichetti che cantavano ogni volta che i loro sguardi si incontravano?

Cogliendolo pensieroso, continuò.

”Sei carino quando arrossisci.”




Note di regia:
Klaine. Rent. Klaine+Rent. Chi poteva mai essere l’ indegna ”autrice” di tale sacro accostamento?
Io, ovviamente.

Anyway! Ho finalmente trovato il coraggio di pubblicare una long. Ho una notevole paura di non concluderla (ma farò di tutto affinché non accada) visto che sono pronti solo i primi undici capitoli. Contavo di non superare i venti, vedremo cosa accadrà. Cercherò di aggiornare una volta a settimana!

Ps. Ho iniziato a scrivere questa fanfic la vigilia di Natale dello scorso anno. Il tema portante della trama è liberamente ispirato all’opera di Jonathan Larsson (Rent) e, visto che la canzone che ha ispirato tutto quello che fino ad ora ho scritto e quello che proverò a scrivere è diventata, per noi Gleeks in particolare, una specie di inno all’amore, vorrei dedicare questo testo a Cory Monteith, per quanto possa valere. E a tutti quelli che, ascoltando Seasons of Love, anche indipendentemente da quello che è successo, piangono. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2                                                              

Le semplici medicazioni di Kurt si rivelarono efficaci e Blaine iniziò subito a sentirsi meglio.
 
Le ferite che prima bruciavano ora erano solo graffi, mentre per i lividi –entrambi lo sapevano bene- non ci sarebbe stato rimedio se non il passare del tempo.
Sarebbero diventati verdi, neri e infine giallastri, prima di scomparire.

Blaine iniziò a chiedersi come mai i suoi aggressori fossero fuggiti via con l’arrivo di Kurt: avrebbero potuto stenderlo all’istante, esattamente come avevano fatto con lui. Sembrava persino più fragile, con quel corpo esile e i muscoli non troppo gonfi.
Kurt non avrebbe spaventato nemmeno un insetto. Perché scappare?

Quando Blaine diede voce ai suoi pensieri, Kurt gli stava fasciando il primo ginocchio.

La domanda sembrò essere di suo gradimento, perché spostò lo sguardo sul suo viso e, prima di tornare a concentrarsi nuovamente sulla fasciatura, gli sorrise divertito.

”Dovrei raccontarti di quando ho strappato le  borse della spesa di una vecchietta dalle grinfie degli stessi aggressori,” disse, con un adorabile sorriso dipinto sul volto, “e non so se troveresti divertente la parte in cui ho preso per i capelli uno di quelli e l’ho sbattuto contro il muro talmente forte da fargli perdere conoscenza.”

L’espressione di Blaine boccheggiò tra il divertito e lo sconcertato. L’orgoglio di Kurt crebbe fino ad esplodere in una risata piena e cristallina.

”Non preoccuparti, i suoi amici sono scappati subito e io l’ho accompagnato all’ospedale per fare una tac.”

”E come stava?”

Kurt fece spallucce con disinvoltura. “Trauma cranico.”

Risero di gusto fino a che non esaurì la sua scorta di bende.

 
*

”Hai tutta l’aria di essere uno che si è trasferito a New York da poco.”

Blaine stava scoprendo l’assurdo potere che permetteva a Kurt di intuire molte, troppe cose su di lui. E Blaine non era mai stato in grado di scoprirsi del tutto, non con le persone.

Non lo aveva fatto con la sua famiglia, non lo aveva fatto con  il suo ex fidanzato, non lo aveva fatto con nessuna delle persone che aveva incontrato in tutta la sua vita e di certo non avrebbe iniziato quel giorno. Non avrebbe mostrato le sue debolezze e non avrebbe svelato i suoi segreti; soprattutto non l’avrebbe fatto davanti a quello sconosciuto dalla faccia d’angelo che diceva di chiamarsi Kurt.

Se ne sarebbe vergognato infinitamente.

Per questo tenne lo sguardo basso quando Kurt si sedette accanto a lui ed iniziò a raccontargli del suo lavoro con espressione serena. Doveva essere un pittore o qualcosa del genere, perché continuava a dire di dover trovare un modo per racimolare gli ultimi spiccioli e comprare colori nuovi per ultimare i nuovi disegni.

”Il problema è che se non ho i colori non posso finire i disegni,” piagnucolò in maniera teatrale, ”e se non posso finire i disegni non posso venderli!”

Blaine annuiva incastonando la testa tra le spalle e sforzandosi di non guardarlo, per evitare di perdersi di nuovo nell’azzurro di quegli occhi. Quell’uomo doveva aver venduto l’anima al diavolo.

”Se non vendo gli ultimi disegni, non potrò comprare i colori. Ma se non compro i colori non potrò mai finirli!”

Era terribilmente adorabile.
 
Blaine si spaventò di quanto stesse silenziosamente venerando un perfetto sconosciuto.
Lo aveva sottratto allo svolgimento di una delle tante risse in cui era stato coinvolto, certo, ma questo non faceva di lui il suo nuovo idolo. O, almeno, le cose sarebbero dovute andare così.

Il cielo si era ingrigito e nessuno dei due avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato.
Kurt continuava a chiacchierare e Blaine si torceva le mani quando gocce di pioggia tiepida iniziarono a picchiettare entrambi.

Kurt arricciò il naso, sospirò con impazienza e disse qualcosa a proposito di un ombrello che doveva aver rubato il giorno prima in un negozio di abiti usati.

Blaine non lo ascoltò, concentrato sulle sue ginocchia fasciate. Aveva zoppicato fin lì grazie all’aiuto di Kurt e non sarebbe riuscito a replicare l’impresa da solo. In più, nelle sue condizioni, sarebbe stato prudente evitare di inzupparsi in pieno inverno.

A New York il freddo uccideva.

Prima che potesse valutare le possibilità di salvarsi, Kurt gli fu di fronte e… sembrava brillare.

Ammiccò impercettibilmente, si chinò su di lui e, approfittando della distrazione che lo possedeva sin da quando si erano incontrati, una mano sulla schiena e l’altra sotto la piegatura delle ginocchia, lo sollevò ed iniziò ad avanzare lungo la prima rampa.

”Ku- Kurt!” Blaine si oppose debolmente, a disagio nella sua stretta. Notò la mascella serrata nello sforzo di trasportarlo e una vena che fece capolino, doppia, sul suo collo. Era vicinissimo e Blaine si sentì come un bambino tra le braccia del padre. Ebbe l’istinto di toccarlo, chiedendosi perché non fosse così bello e perfetto anche lui. Sulla schiena premeva uno dei bicipiti di Kurt, un po’ tremolante ma abbastanza stabile da farlo sentire terribilmente vulnerabile.

Un bellissimo sconosciuto che comprometteva il suo autocontrollo psicofisico lo stava accogliendo in casa sua perché è la vigilia di Natale! e lui non poteva fare altro che rimanere inerme tra le sue braccia mentre lo trasportava su per una rampa di scale.

La porta del loft era socchiusa e Kurt riuscì ad aprirla spingendola con la punta della scarpa. Non appena furono dentro, furono colpiti dall’odore di carta bruciata.
Notifiche di sfratto erano attaccate tutt’attorno alle pareti.

Blaine venne calato sul tavolo al centro dell’appartamento con estrema delicatezza. Rimase lì a guardarsi attorno, mentre Kurt estraeva dei fiammiferi dalla tasca della giacca e dava fuoco ad uno dei bidoni di latta pieni di carta straccia. Lo spinse nei pressi del tavolo e prese posto al fianco di Blaine, sporgendo le mani verso la fiamma.

”Allora, Blaine,” miagolò pronunciando il suo nome, “cosa ne dici di parlarmi un po’ di te?”

Era la peggiore domanda nell’intera scala delle peggiori domande che avrebbe potuto farsi venire in mente.

Parlargli un po’ di sé. E come si faceva?


Non era per niente abituato a parlare di sé a qualcuno. Il suo ex fidanzato era stato il suo migliore amico fin dall’asilo e non c’era mai stato bisogno di parlare e di conoscersi.
Quando l’aveva lasciato, due anni prima , l’aveva fatto perché aveva ritenuto prioritario sposare una donna giovane e ricca e Blaine era rimasto a vivere da solo in quel loft immenso e senza nessuna possibilità lavorativa.

Suonava la chitarra. In ogni piazza, nei pressi di ogni strada, lungo ogni marciapiede.
In ogni giorno, ogni mese, ogni stagione dell’anno. Era un po’ il suo modo di misurare lo scorrere del tempo e gli piaceva. Era la sua vita.

Aveva vissuto fino a quel momento alla ricerca di una canzone, alla ricerca della gloria. Qualcosa da lasciare dietro di sé, un segno in quello schifo di città che chiamavano città dei sogni.

Quelli di Blaine Anderson erano stati infranti. Calpestati. Resi irrecuperabili. Resi miseri da quella stessa città, irrimediabilmente corrotta dalla fame.

Cosa ne dici di parlarmi un po’ di te?


”Sono un musicista.”


Era tutto quello che poteva lasciar trapelare di sé. Non c’era davvero nient’altro che contasse.
 
Non valeva la pena scoprire nient’altro su di lui: né della sua storia andata a rotoli, né di tutti i sacrifici che aveva fatto per guadagnarsi un posto nel campo della musica e che, arrivato a New York, non erano serviti a nulla. Non avrebbe detto altro semplicemente perché non ci sarebbe stato nient’altro da dire.


”Oh, un musicista!” esultò Kurt e il suo volto si illuminò come se fosse giorno.
 
Le fiamme gli creavano un gioco di luci e ombre sul viso che permise a Blaine di scoprirlo in maniera più approfondita: la radice del naso era stretta, lo sguardo era reso più profondo da un paio di occhiaie lievi, il taglio delle labbra semplicemente perfetto, il modo in cui i capelli cercavano di ricadergli sulla fronte senza mai riuscirci… adorabile.
 
Inghiottì l’immane quantità di saliva che gli si era riversata in bocca e si protese anche lui verso il fuoco.


Kurt intuì che non si sarebbe lasciato sfuggire una parola in più e decise di non insistere.
 
Non ancora, almeno.
 
*

Blaine ringraziò Kurt non appena smise di piovere, intenzionato a tornare a casa prima che ricominciasse.

”Non vorrai arrivare fin lì da solo?”

Stava sistemando distrattamente una pila di disegni che Blaine, dal tavolo, non poteva vedere. Non gli diede il tempo di rispondere.


”Ti riaccompagno io. Niente storie,” gli rivolse uno sguardo divertito, “non puoi nemmeno minacciare di prendermi a calci.”


Blaine fu costretto ad arrendersi. Ovviamente Kurt non l’avrebbe sollevato di nuovo - aveva come l’impressione che nemmeno morisse dalla voglia di farlo - e si sarebbe sforzato di tornare a casa zoppicando. Si sentiva meglio: avrebbe persino tentato l’impresa di salire i gradini fino all’ultimo piano tutto da solo.
 
Guardò Kurt riempire una ciotola d’acqua e riversarla sul fuoco, inzuppando irrimediabilmente la carta che ancora doveva bruciare. Blaine rimase un po’ stranito: il fuoco era prezioso. C’erano giorni in cui rimaneva del tutto al buio e lui poteva addirittura permettersi di spegnerne uno? Cosa gli passava per la testa?

”Non preoccuparti, Blaine. Con tutte le notifiche di sfratto che mi lasciano ogni giorno, il fuoco non mancherà mai in questa casa,” sorrise Kurt, leggendo la sua espressione, “per non parlare del numero di copioni che riesce a rifilarmi ogni giorno la mia coinquilina!”

Quando Kurt si avvicinò ed issò un suo braccio sulla spalla, Blaine sperò che non avesse percepito il brivido che lo scosse con così tanta forza da fargli tremare le ginocchia.


”Copioni?”


Se la sua coinquilina avesse potuto permettersi la retta di una qualsiasi scuola di recitazione, di certo non abiterebbe lì. Allora perché?


”Pensa che io voglia ancora fare l’attore,” alzò gli occhi al cielo, “li brucio quando non se ne accorge.”

 
*
 
Come si fa a scrivere una canzone che rispecchi la vita vera, se la vita stessa è sempre più simile alla finzione? Come trovare gli accordi giusti quando già prima di essere suonati sembrano essere tutti sbagliati? Come si può sperare di generare arte quando non si riesce a stare sulle proprie gambe e la vita intera sembra essere uno scherzo di cattivo gusto? Come si può contare sul tempo quando poveri, ricchi ed amanti sono traditi dalle cellule del loro stesso sangue? 

Come pagherò l’affitto dell’anno passato?

Blaine era congelato e affamato a causa della vita che aveva scelto.

Era stato costretto a bruciare anche la manica del cappotto che gli avevano strappato il giorno prima per alimentare il fuoco che gli aveva fatto compagnia durante la notte.
Come avrebbe fatto ad accendere il fuoco quando non sarebbero rimaste da bruciare neanche le notifiche di sfratto? Come si accende un fuoco quando non si ha più nulla da bruciare?


Lo sguardo guizzò verso i suoi spartiti.


Come pagherò l’affitto di quest’anno?


Fece picchiettare la matita un paio di volte sulla carta pentagrammata, pensieroso. Chiedeva molto? Chiedeva troppo?


Una canzone. La gloria. Una sola canzone, prima di andarsene. Una dannata canzone da lasciare dietro di sé. Una canzone per far sì che qualcuno lo ricordasse. Una fiammata di gloria, un ultimo ritornello prima che la malattia prendesse piede.


Avrebbe trovato quella canzone nella vita di qualcun altro? Che fosse nella vita del suo ex ragazzo, ormai sposato e ricco, o nella sua, ghiacciata come i vetri di casa, non importava. C’era, doveva essere lì. Bastava solo che la trovasse.


Trova la gloria, Blaine, trova la gloria!


Nelle lampadine colorate che luccicano nell’appartamento di fronte? Nel ragazzo chino su una chitarra che ti guarda dallo specchio?


Avrebbe trovato la gloria in una canzone che suonasse vera, una fiamma eterna. Una canzone sull’amore, per riscattare la sua vita sfuggente. Avrebbe fatto in tempo?


Come pagherò l’affitto del prossimo anno?


”Blaine?” una voce elettronica proveniente dal telefono dell’appartamento lo informò del fatto che qualcuno stesse lasciando un messaggio nella segreteria.


”Blaine, tesoro. Buon Natale da me e papà, ti vogliamo bene. Ci dispiace che tu non sia qui con noi. Chiamaci appena ti svegli e-” la donna indugiò solo un attimo, “non dimenticare di prendere l’azt.”
 
*

Doveva essersi appisolato sulla sua stessa chitarra, perché quando la porta scorrevole cigolò per rivelare la presenza di un ospite, Blaine sobbalzò e dovette asciugarsi il sottile strato di saliva che gli bagnava il mento.

”Kurt, cosa-“


Kurt gli aveva promesso che sarebbe tornato per portargli un paio di fiammiferi in più e per augurargli buon Natale. L’aveva salutato con una stretta di mano fin troppo formale per i gusti di entrambi e gli aveva fatto l’occhiolino prima di uscire.
Blaine non credeva sarebbe arrivato così presto.


Il ragazzo varcò la soglia aprendo le braccia ed esultando in un divertito: ”Buon Natale, mi amigo!” 


Un fastidioso rumore di tacchi accompagnò la sua entrata. Il capelli castani pettinati all’indietro e i tratti del viso erano morbidi come li ricordava, la camicia azzurra, seminascosta dalla giacca blu notte, richiamava vagamente il colore dei suoi occhi; le scarpe lucide continuavano a fare rumore ad ogni impatto col pavimento.

Blaine non poteva crederci: lui era lì, tirato a lucido come non mai.


 

Si svegliò di soprassalto tra le coperte tiepide e si rese conto di aver appena avuto un incubo. Sentì il sudore asciutto sulla fronte e sulla schiena tirargli la pelle quando si stiracchiò e si voltò, strizzando gli occhi per cancellare il velo che gli rendeva lo sguardo appannato.

Una chioma di capelli castani giaceva sul lato opposto, la schiena, completamente coperta dalle lenzuola, che si alzava e abbassava regolarmente. Blaine si mise a sedere, chinandosi nella sua direzione e lasciandogli un bacio sui capelli scompigliati.

”Buon Natale, amore.”

Il ragazzo grugnì in risposta, rotolando nella sua direzione. Tirò la coperta per coprirsi fin sulla radice del naso, gli occhi spalancati che indugiavano su di lui.

”Buon Natale, gran bel pezzo di-“ Blaine lo interruppe ridendo.

”Risparmiati i tuo non-proprio-adorabili appellativi almeno il giorno di Natale, Sebastian.”

Il ragazzo calciò via le lenzuola, scoprendo entrambi e rivelando due corpi nudi ed infreddoliti. Blaine rabbrividì, ma non obiettò.

”Hai freddo, dolcezza?”

Sebastian si avvicinò e gli posò una mano tiepida sul petto liscio e, senza aspettare che rispondesse, lo spinse di nuovo giù tra i cuscini.

”Posso insegnarti io un nuovo modo per scaldarsi.”
 
 



“Che cosa ci fai qui?”
”Hei, tesoro,” Sebastian aggrottò le sopracciglia e si fermò di fronte il tavolo su cui Blaine stava lavorando, “sono qui in segno di pace!”

Blaine si accorse di avere ancora la matita stretta tra le dita solo quando la lasciò rotolare a terra nel tentativo di saltare giù dal tavolo. Poggiò con delicatezza la chitarra sul ripiano, in un gesto che parve quasi fuori luogo vista la tensione che aleggiava su entrambi.
 
Sebastian teneva ancora le braccia spalancate, come ad aspettare che Blaine si avvicinasse e facesse lo stesso, per poi stringersi in un abbraccio caloroso e forte, come fossero vecchi amici.
 
Blaine si sentì disgustato al solo pensiero.

”Avanti, dolcezza. Sono io, non il Cristo Redentore di Rio de Janeiro.”
 
Blaine lo ignorò e si diresse verso il contatore elettrico, spinse verso l’alto un paio di levette e delle lampadine si illuminarono fiocamente.

”Lo vedi? Ti ho persino ripristinato la corrente elettrica!”

Rinunciò ufficialmente all’abbraccio quando lasciò ricadere le braccia lungo il corpo sottile, guardandosi attorno con aria divertita e riconoscendo ogni angolo della casa: il tavolo di fronte il piano cottura ingiallito dal gas, il frigorifero grigio, il letto – il loro letto - lungo il lato opposto del perfetto rettangolo che disegnava il perimetro del loft.
Blaine lo aveva coperto con lenzuola azzurre, disfatte solo su uno dei due lati. Sull’altro erano lisce e ripiegate su loro stesse, come se avesse intenzionalmente evitato di dormire in quella porzione di letto.

”Cosa sei venuto a fare, Sebastian? Cos’altro vuoi?” sibilò, intercettando il suo sguardo senza riuscire ancora a cogliere il motivo della sua visita.

Cos’altro? Cosa ti ho preso fino ad ora, dolcezza?”

Sfoggiò il sorriso sghembo che era solito rifilargli ogni volta che sapeva di stare mentendo spudoratamente. Blaine boccheggiò, come colpito materialmente dall’ingenuità che il suo ex era riuscito a fingere ogni volta che avevano avuto occasione di rivedersi.
 
 


”La tua fidanzata sa che frequenti la metà dei bar gay di New York?!”

Sebastian rise, gli posò una mano sulla spalla e avvicinò il viso al suo come se stesse per rivelagli un segreto che avrebbe segnato il resto della sua vita.

”La mia fidanzata” sussurrò con dolcezza malata, “è così stupida da credermi vergine.”

Blaine cercò di ricacciare indietro le lacrime che bruciavano come fossero fuoco vivo, inspirò profondamente ed espirò in maniera lenta. Chiuse gli occhi e sentì fiamme scorrergli lungo le guance contratte in una smorfia.
”Mi hai ingannato per una vita intera.”

 
Lo guardò intensamente, sentì gli occhi muoversi convulsamente lungo i suoi lineamenti alla ricerca di un movimento, una ruga, una piega sulla sua pelle che tradisse il dolore che in realtà stava provando.
 
Ma no, Sebastian non provava dolore: sembrava essere diventato immune ai sentimenti, imbastardito dalla fame e dal freddo.

”Mi hai lasciato per una donna che non ami solo perché è la figlia del proprietario dell’intero quartiere! Mi hai lasciato dopo avermi promesso che saresti rimasto! Mi hai lasciato, e dopo avermi staccato la corrente hai il coraggio di venirmi e chiedere come sto? Che cosa hai fatto al ragazzo di cui mi sono innamorato al liceo?”

Aveva ruggito le sue accuse ad una spanna dal suo viso. Anche in quel momento, seppur guardandolo con disprezzo, dovette trattenersi dal lasciare che lo sguardo indugiasse sulle sue labbra, in quel momento dischiuse nello stesso ghigno con cui lo aveva conquistato anni prima.

”Mettiamola in questo modo, amore: per farmi perdonare posso prometterti che non verrò mai a riscuotere il tuo affitto.”


 
 

Niente più affitto, eppure la casa era tappezzata da notifiche di sfratto. Avrebbe dovuto smettere di credere alle promesse di Sebastian già da un po’.

Aprì e richiuse la bocca un paio di volte prima di scuotere la testa, sperando che cogliesse il suo silenzioso ma esasperato lasciami in pace.

”Qualcosa mi dice che non hai ancora scritto quella stupida canzone.” disse, avvicinandosi agli spartiti che giacevano sul tavolo di fianco alla chitarra. Blaine si affrettò nella sua direzione e gli strappò di mano i fogli che stava esaminando, sentendo la rabbia farsi largo nel suo petto.

”Si può sapere cosa diavolo vuoi, Sebastian?” la lingua schioccò rumorosamente quando pronunciò il suo nome e spense il sorriso che, a quel punto, sembrava deformargli il volto in una smorfia.

”L’affitto.”





velocissime Note di regia:
Non so come ringraziarmi per la fiducia che avete già riposto in questa long! Sono felice. Grazie a coloro che hanno recensito, inserito nelle seguite/ricordate/addirittura preferite, o semplicemente (che poi di semplice non c’è proprio niente) letto! Alla prossima settimana! 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Fu come se qualcosa si fosse rotto.

Riuscì a sentire qualcosa che dentro di sé si staccava e si infrangeva sul pavimento con un tonfo sordo che gli fece portare le mani alla testa.
Un pezzo di sé si era irrimediabilmente schiantato sul pavimento e, al momento dell’impatto, Blaine seppe che non ci sarebbe stato niente da fare per salvarlo.  

”Non ho intenzione di pagarti neanche un centesimo.”

Quando Sebastian fece per sfilargli gli spartiti di mano, fece in modo che le loro dita si intrecciassero.
A quel contatto si sentì catapultato nella realtà di due anni prima: vivevano insieme e quello stesso appartamento, ad entrambi, sembrava una reggia.

Era povero, estremamente povero.
Era così povero che, solo al ricordo, sentì l’improvviso bisogno di immergersi in una di quelle lussuosissime vasche da bagno solo per ricordare quanto, invece, fosse diventato ricco.

”Sei diventato schifosamente ricco,” continuò Blaine come se avesse intercettato i suoi pensieri, “non hai bisogno dei miei soldi. Potresti provare a mantenere una promessa, però. Non credi ne valga la pena?”

Sciolse la sua stretta e si riappropriò degli spartiti.

”Viviamo in America, dolcezza, pretendi compassione? E da chi? Dai poveri?”

Sputò l’ultima parola come fosse veleno. Lasciò che la sua espressione allucinata si traducesse in un sorriso comprensivo tutto per Blaine; uno di quelli che si riservano ai bambini quando si stupiscono guardando la neve, il polline che viaggia nelle mattine di primavera, uno spettacolo di marionette.

”Da chi, Blaine? Dai ricchi?” colmò la distanza tra loro con un altro passo, “Da quelli come me?”

Il sussurro di Sebastian colpì Blaine in pieno volto, come se non avesse mai conosciuto pietà.

”Ho imparato tempo fa a non fidarmi dei parassiti come te, Sebastian.”

Bugia.
Realizzò che quello che si era sfracellato pochi istanti prima doveva essere un pezzo del suo cuore.
Un pezzo del suo cuore… che apparteneva ancora a Sebastian.

Concentrarsi sul lavoro, non lasciarsi distrarre dal mondo, non respirare troppo profondamente. Sapeva di non avere alternative, allora perché diavolo hai scelto di venire a vivere in una città bastarda come New York, Blaine Anderson?

”Viviamo in America,” ripeté Sebastian, “quello che sei non vale niente. Interessa solo quello che possiedi. Qui sei quello che possiedi, Blaine.”

Blaine. Aveva quasi dimenticato di avere un nome, preso com’era dalle verità che Sebastian gli stava sputando in faccia: sei quello che possiedi.

E tu cosa possiedi, Blaine?

Una casa? Una famiglia? Una dannata chiave che ti permetta di aprire e chiuderti una porta alle spalle?

La mia canzone.

Non ancora, no.
La canzone non era ancora pronta anzi, più precisamente, lui non era ancora pronto. Gli mancava un pezzo, un pezzo importante.
 
Sperò che non si trattasse di quello che Sebastian aveva rotto pochi istanti prima.

”Vieni a lavorare con me. Mio padre ha aperto da qualche mese una casa discografica, in centro. Potresti continuare lì la tua canzone.”

Si accorse di aver torturato per tutto il tempo il lembo di uno degli spartiti solo quando si strappò.
Piantò lo sguardo sul volto di Sebastian, questa volta senza paura perché sapeva di avere lui il comando, almeno in quel momento.

Sebastian gli aveva appena proposto di andare a lavorare nella casa discografica di suo padre.

”Sai, le cose non vanno granché bene” continuò, superandolo e frugando con lo sguardo oltre i vetri alle spalle di Blaine, “i miei collaboratori pensano che nessun ragazzo che si è presentato fino ad ora sia valido per il progetto che hanno in mente. Tu hai bisogno di una canzone, io di una voce in grado di cantarne una.”

La figura di Sebastian, in controluce, sembrava una visione mistica.
Che fosse un diavolo risalito direttamente dall’inferno o un santo in giacca e cravatta non importava.
 
Era come se stesse per cadere nel cratere di un vulcano e Sebastian fosse dietro di lui, con le mani sulle sue spalle e con l’intenzione di spingerlo giù insieme a tutto quello che erano stati e che Blaine pensava, sperava, volesse ancora recuperare. Ma, al contempo, Sebastian pareva essere appena qualche metro sotto di lui, pronto ad afferrarlo al volo prima che raggiungesse la lava bollente e rossa, come il sangue che gli scorreva nelle vene e ad ogni battito gli ricordava di quanto fosse malato.

In piedi, le spalle rivolte al suo interlocutore, Sebastian agognava un appiglio per cogliere i pensieri di Blaine e fremeva all’idea che potesse accettare. Avrebbe potuto salvare suo padre e l’intera società. Avrebbe potuto convincerlo a tornare amici, persino amanti se l’avesse voluto.

Avrebbe potuto cambiare l’opinione che Blaine aveva di lui.
 
 
 
 

Una pioggia scrosciante aveva battuto per tutto il tempo contro i vetri di camera sua. Poster di band musicali e fotografie si susseguivano lungo le pareti dipinte di azzurro.

Era seduto sulla valigia arancione, nel tentativo di chiudere la zip che continuava ad impigliarsi in un lembo di stoffa nera, probabilmente appartenente alla giacca di uno dei completi nuovi regalatigli dai suoi futuri suoceri.

Mentre provava l’ennesima combinazione - spinta sul dorso della valigia con strattone alla cerniera -, un uomo brizzolato irruppe in camera.


Scrutò l’interno della camera, poi posò lo sguardo sul figlio in difficoltà.

”Sei pronto? Tua madre ci aspetta in macchina.”

Sebastian non si sorprese di fronte al tono neutro ma, al contempo, piccato.
Tornò a preoccuparsi della valigia che non riusciva a chiudere.


”Certo, dammi un minuto.”

L’uomo trattenne un sospiro e fece per chiudersi la porta alle spalle. Prima di tirare la maniglia verso di sé, si concesse un’ultima conferma.

”Sei sicuro di volerlo fare, Sebastian?”

La mano dolorante che stava strattonando la cerniera lasciò di colpo la presa. Sottrasse l’attenzione dalla valigia e la puntò sul viso del padre, incapace di reggere lo sguardo del figlio.

”Prenderò quell’aereo e andrò a sposarmi oggi stesso. Tu e mamma potrete aprire un negozio e-“

”Tu non ami quella donna. Smettila di fingere di essere normale, sei solo un deviato che, sposandosi, diventerà un deviato represso. Lo stai facendo per i soldi, sì? Perché lo stai facendo?”
 
 
 

Avrebbe potuto dimostrargli non solo di essere normale, ma di essere addirittura migliore di lui.
 
Se solo Blaine avesse detto di sì.

”Lo so, Blaine, te lo avevo già promesso. Ma cosa possono valere le promesse in un quartiere in cui non è mai Natale? Non mangi da mesi, sei uno straccio. Se non sapessi che sei al verde direi che ti fai. Ma non credere che fuori di qui le cose siano migliori, perché… perché non lo sono.”

Sebastian si portò una mano alla bocca per sopprimere un sospiro troppo profondo.

”Se non stai al passo vieni schiacciato. Non potevo più permettermi di comportarmi come un liceale innamorato, ho dovuto scegliere. I soldi mancano, persino in casa mia. Vieni a lavorare con me e potrai stare qui gratis, niente più affitto.”

Blaine si accorse di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo solo quando i polmoni iniziarono a bruciargli. Sebastian ridacchiò amaramente.

”Questa volta sul serio.”

Lavorare con il padre di Sebastian avrebbe significato lavorare con Sebastian.
Erano state così tante le notti in cui lo aveva cercato, lo aveva sognato, aveva sperato che tornasse dicendogli di aver avviato le pratiche di divorzio… che neanche sperava più di avere l’opportunità di trascorrere del tempo con lui.
 
Aveva creduto di essere stato un errore della natura, perché in tutta la sua vita l’unica cosa che aveva fatto era stata amare Sebastian.
Aveva creduto fosse quello il suo compito: fare in modo che il suo compagno stesse bene con lui, accompagnarlo e appoggiarlo in ogni sua decisione.

Sarebbe stato una buona moglie.

Ma quando Sebastian ne aveva trovata una vera, Blaine dovette chiedersi quale fosse il suo vero posto in quel mondo.

Provò a dimenticare, ma fu anche peggio. Provò ad accettare ed appoggiare, come si era ripromesso di fare per sempre, l’ultima decisione di Sebastian, ma furono sforzi inutili. Provò a scrivere la sua canzone, ovviamente senza riuscirci. Tentò persino di amare di nuovo, in una sera in cui conobbe un ragazzo giovane e carino che sembrava non desiderare altro che entrare nei suoi pantaloni il prima possibile.

Tutti quei tentativi sfumati non fecero altro che ricordargli di quanto il tempo gli sfuggisse dalle dita ogni istante in maniera più veloce e lui non potesse fare niente per cercare di rallentarlo o, addirittura, fermarlo. Non avrebbe mai combattuto quella guerra, perché l’aveva già persa.

Eppure, appena la sera prima, uno sconosciuto aveva lavato via il sangue dalle sue ferite e lo aveva trasportato in braccio al riparo dalla pioggia. Appena la sera prima uno sconosciuto lo aveva guardato come Sebastian non aveva mai fatto, come Blaine credeva nessuno avrebbe mai fatto. Uno sconosciuto aveva acceso dentro di lui la speranza di una nuova vita in cui Sebastian non esisteva.

E Sebastian non si sarebbe potuto presentare a casa sua il giorno dopo, sarebbe stata un’azione scorretta. Avrebbe fatto crollare tutti i suoi piani.

Eppure era lì e, ancora una volta, Blaine non aveva potuto farci niente.

Era malato, d’altronde. Non avrebbe potuto amare mai più Sebastian perché il tempo non glielo avrebbe permesso, così come non avrebbe potuto amare mai più nessun altro perché, se fosse stato ricambiato, la sua morte avrebbe lasciato un vuoto incolmabile nella vita del suo compagno.

Non era semplicemente malato: era un condannato a morte che non conosceva ancora la data della sua esecuzione. E chi avrebbe mai voluto prendere parte della vita di un condannato a morte?

”No.”

La risposta arrivò alle sue labbra senza passare per il cervello. Sebastian smise di dargli le spalle e si girò verso di lui con aria composta.

”Perché no? Ti sto offrendo una casa, una via di fuga dalla morte!”

Blaine rise, per niente divertito.

”Il freddo e la fame uccidono, a New York” continuò, “Non c’è niente di divertente nel buttare via un’occasione del genere!”

”Non ho bisogno di una casa per ripararmi dalla neve, Sebastian.” rispose Blaine, avanzando in direzione della porta scorrevole, “E’ dentro che ho freddo.”

 
*

Quando il Natale arriva, c’è poco da fare per impedirgli di invadere ogni luogo.
 
Persino il centro comunitario dell’isolato era addobbato con festoni colorati di bianco e rosso, le finestre ricoperte da pezzi di carta velina verde a mo’ di tenda. Una dozzina di sgabelli erano stati disposti in cerchio al centro della sala e altrettante persone prendevano posto, una per ogni sedia.


Tutti si sedettero, trovandosi inevitabilmente uno nello sguardo dell’altro.

Una donna di colore vestita di azzurro, un uomo sulla cinquantina (sfoggiava un cappello da Babbo Natale per l’occasione), un ragazzo completamente calvo armato di un sorriso gentile.

Uno di loro si alzò e si presentò. Disse di chiamarsi Michael.

”Siamo qui per aiutarci. Cosa ne dite di un giro di presentazioni?”

Si susseguì un elenco fugace di nomi ed indirizzi, voci ovattate o squillanti che decidevano di lasciarsi scoprire lì, in quella stanza luminosa e in quel venticinque dicembre in cui avevano deciso di continuare a vivere.


Paul, Allie, Christopher: sono solo alcuni dei nomi degli uomini e delle donne che si alzarono e parlarono di loro per brevi istanti.

Quando fu il turno di un ragazzo dalla pelle chiara e gli occhi azzurri, più di uno dei presenti si chiese se un uomo potesse arrivare sulla terra e prendere le sembianze di un angelo. Prima di parlare, il ragazzo strappò un paio di sorrisi accennandone uno.

”Sono Kurt Hummel e sono malato di aids.”

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Il freddo era costante in ogni periodo dell’anno, ma pizzicare le corde della chitarra in pieno inverno era tutta un’altra storia.


Sull’attico dell’edificio fumavano un paio di comignoli e Blaine, seduto sul cornicione, si chiese chi potesse permettersi di tenere il camino acceso.
Qualcuno che doveva aver risparmiato per fare in modo che quel giorno fosse il più bello dell’anno, probabilmente.

Il freddo sarebbe rimasto fuori, quel giorno.
Immaginò un paio di amici scambiarsi opinioni sulla cena della sera precedente davanti ad uno di quei camini, reggendo tazze di cioccolata fumante, raggomitolati l’uno contro l’altro.

L’incontro con Sebastian lo aveva turbato ed indispettito.
 
Si sentiva ferito, eppure fiero di se stesso.
Il suo ex era tornato in casa loro – sua – e lo aveva minacciato di sfratto.
Beh, riscuotere l’affitto era un suo diritto, ma sarebbe stato anche un suo dovere quello di mantenere una promessa.


Ma Sebastian non manteneva mai le promesse, e le persone non cambiano.
Specie le persone come lui. Possono solo peggiorare, con il passare del tempo.
”Vieni a lavorare con me,” aveva detto, “oppure prepara le valigie”.
Perfetto.
 
Quasi si aspettava che lo ringraziasse di non averlo sfrattato quello stesso giorno.


Scosse la testa per scacciare quei pensieri scomodi almeno il giorno di Natale.
Nonostante avesse smesso di credere in Dio ogni giorno un po’ in più sin da quando Sebastian lo aveva lasciato, le feste natalizie gli portavano alla mente ricordi felici che ripercorreva il Natale di ogni anno.
Non avrebbe rinunciato al suo giorno della memoria per niente al mondo e nessuno avrebbe tolto tempo alla tradizione, ne era certo.


Fu per questo che, quando Kurt lo raggiunse sull’attico, si sentì sorpreso e confuso.
Quel loft non riceveva così tante visite in una sola mattina dai tempi delle feste che organizzava Sebastian nei periodi in cui avevano qualche spicciolo in più.


”Cosa ci fai qui?” sorrise leggermente Blaine.
 
Kurt si stringeva in una giacca bianca, le mani conficcate nelle tasche. Il candore della sua pelle sembrava splendere, colpito dai raggi fiochi del sole, mentre le guance sembrarono colorarsi di un rosa tenue quando prese posto al suo fianco, i piedi penzoloni nel nulla.
Liquidò la sua domanda ricordandogli che il giorno prima gli aveva detto che sarebbe tornato.


”Per controllare che tu stia bene. Ricordi?” sorrise di rimando. “Oppure devo preoccuparmi di qualche ematoma in qualche parte del tuo cervello?”


Blaine si lasciò sfuggire una risata lieve e strinse la chitarra appena un po’. Ricominciò a pizzicarne le corde mentre continuava a rivolgere attenzioni al viso di Kurt.


Di profilo poteva notare il naso leggermente pronunciato, ma ugualmente armonioso con il resto dei suoi lineamenti. Le pupille in quel momento erano strette e lasciavano spazio a non uno, ma ben due oceani azzurri e fin troppo profondi. Si chiese se qualcuno avesse mai scoperto cosa ci fosse realmente dentro quello sguardo leggermente compromesso dall’espressione aggrottata che gli imponeva di assumere il vento freddo.

Iniziò ad ondeggiare sul posto seguendo il ritmo che Blaine stava pizzicando inconsciamente.


”You’d think that people would have had enough of silly love songs…”


Dalle  labbra di Kurt si levò un canto leggero e timido: proprio come lui, che non riusciva a guardare Blaine negli occhi senza arrossire.

Di rimando, Blaine si sentì un po’ violato. Non si era reso conto di aver iniziato a suonare gli accordi di quel pezzo, né credeva che Kurt potesse non solo riconoscerlo, ma essere addirittura in grado di cantarlo. Per qualche attimo fu indeciso su cosa fare.


”Silly love songs” era una delle canzoni cantate con il Glee Club della Dalton, la scuola privata che aveva frequentato. Quella canzone, così come le persone e gli avvenimenti racchiusi tra le mura dell’istituto, facevano parte dei bei momenti da ricordare e da portare con sé quando sarebbe stata la malattia a trascinarlo via.
Quel giorno era Natale, e lui si sarebbe concesso di ricordare.


Così decise di continuare a suonare.


Kurt cantò, ma questa volta le sue occhiate speranzose caddero nel vuoto, alla ricerca dei sorrisi rassicuranti da parte di Blaine che quel giorno non ci furono.
Viaggiava oltre il tempo e oltre lo spazio, tentando di battere il nemico che non gli dava pace e minacciava di farlo impazzire.
 
Blaine stava tornando tra le mura della Dalton. Poteva sentire persino la stoffa della giacca, leggermente stretta qua e là, fasciargli la schiena e le braccia.


Stava sfidando il tempo.


Ma Kurt era ancora lì, sulla terrazza, a guardarlo suonare.
Lasciava che il suo sguardo indugiasse sulle sue labbra umide e gli permettesse di immaginare come sarebbe stato premerle sulle sue.
Si soffermò sui ricci scuri e immaginò di stringerli leggermente tra le dita, desiderò poter radere via quel filo di barba che gli solcava il viso - testimone della poca cura che doveva avere di se stesso.

Non si accorse del fatto che stesse pensando ad altro semplicemente perché anche lui lo stava facendo, troppo concentrato nel cercare nuovi punti del suo volto da esplorare.
Sperò di riuscire a guardare oltre i solchi leggeri che gli appannavano lo sguardo profondo ma luminoso, esplorare con le mani i suoi zigomi e le pieghe dei suoi sorrisi accennati, l’incavo del suo collo.

Avrebbe mai potuto? Avrebbe mai conquistato la fiducia che gli avrebbe permesso di posare le mani sull’uomo che aveva di fianco?


Sin da quando aveva incontrato Blaine, Kurt aveva avuto paura di scambiare la semplice attrazione fisica per qualcosa di più profondo, ma sapeva di sbagliarsi.
Aveva capito di avere il dovere di soccorrere Blaine ancor prima di posare gli occhi su di lui o di conoscere il suo nome.


Era stato come se una forza sconosciuta avesse distolto l’attenzione dai suoi disegni e gli avesse suggerito di fare attenzione, di ascoltare il lamento dell’uomo che veniva pestato nell’isolato di fianco.
E Kurt l’aveva fatto non perché volesse, ma perché era stato costretto da una forza esterna che spingeva il suo corpo.
 
Gli piaceva pensare che si chiamasse destino.


Prima di raggiungerlo a casa aveva sentito il bisogno di partecipare al primo degli incontri per malati di aids che si tenevano annualmente per, chissà, forse schiarirsi le idee.
 
Era malato, ma non avrebbe sprecato la sua vita rivolgendo la totale attenzione al momento in cui sarebbe finita: avrebbe vissuto ogni istante come se fosse l’ultimo, ogni posto come se fosse l’unico. Avrebbe colto l’attimo, ogni attimo, e avrebbe brindato a chi non muore di malattia.
Avrebbe osato a suon di non un giorno, ma oggi, e non si sarebbe permesso di guastare neanche un attimo.


Non un giorno, ma oggi stesso Kurt Hummel avrebbe scoperto cosa passava per la testa di quel ragazzo misterioso, bellissimo e dannatamente sexy che diceva di chiamarsi Blaine.

“Si congelava, lì sopra!” sospirò Kurt, stringendosi nella sua giacca. Blaine lo aveva ascoltato cantare e, nonostante fosse stato distante ed immerso nei ricordi, non aveva potuto fare a meno di apprezzare la bellezza della sua voce.
“E’ pur sempre il venticinque del mese più freddo dell’anno,” abbozzò un mezzo sorriso, ancora troppo malinconico per essere presente sul serio.

Non voleva che Kurt se ne andasse.

Aveva trascorso fin troppi giorni in solitudine, lui e i suoi ricordi, ogni giorno più sbiaditi e lontani.
Voleva che Kurt rimanesse lì, in silenzio ma presente, e lo aiutasse a lasciarsi alle spalle il rimorso di non aver vissuto abbastanza e abbastanza intensamente quando poteva.

Perché Blaine aveva smesso di vivere nel momento in cui aveva scoperto di essere malato.
Aveva iniziato a cercare di comporre quella canzone quando Sebastian lo aveva piantato in asso, nel momento in cui si era reso conto del fatto che nessuno lo avrebbe ricordato.
Nessuno gli avrebbe portato un fiore, nessuno gli avrebbe rivolto una preghiera, nessuno gli avrebbe organizzato un funerale, persino.

Ma con la musica avrebbe lasciato un pezzo di sé su quella Terra.

La musica lo avrebbe reso immortale o, almeno, gli avrebbe permesso di vivere un po’ in più.
Nessuno lo avrebbe mai capito, neanche Kurt – quell’adorabile concentrato di bellezza e sorrisi che si accontentava di vivere con poco.

Non poteva avere idea di cosa significasse essere dannati.
Blaine era sicuro che Kurt non avesse mai avuto la necessità di chiedersi che fine avrebbe fatto la sua dignità, la sua forza, il suo stesso corpo.
Blaine si sbagliava di grosso.
 
*

Tieni a bada le mani, Kurt.

Fece un respiro profondo e si sforzò di scostare lo sguardo dai palmi che Blaine agitava distrattamente mentre gli spiegava come avesse ottenuto il ruolo di solista nel Glee Club che frequentava alle superiori. Piantò lo sguardo sul pavimento.

“E tu? Niente Glee Club al liceo?” chiese, costringendolo a riportare lo sguardo su di lui, “Non ci credo!”


“Oh, certo. New Directions, ci chiamavamo.” Kurt sospirò e gli rivolse un sorriso pungente, la mente un po’ lontana.


“Covo di sogni e speranze, sai come funziona con la musica: sono sbarcato a New York per studiare, come la metà degli straccioni di questo quartiere. Sarei dovuto arrivare a Broadway, e invece… eccomi qua.”


Non mi va così male, dopotutto, avrebbe voluto aggiungere, forse troppo sfacciatamente.
 
La compagnia di Blaine lo faceva sentire maledettamente bene e perfetto e al posto giusto. 
 
Ma aveva perso parte della sua fiducia nelle parole. Specialmente nei confronti di quel Blaine, sembravano non sortire alcun effetto. In quel momento non lo guardava con gli occhi di chi può capire, ma con quelli di chi capisce e si aspetta che tu faccia lo stesso, senza bisogno di parole.

Kurt sentì quello sguardo scavargli dentro e improvvisamente si accorse della pesantezza alle gambe che, penzoloni, ondeggiavano pigramente.
Cercò di inumidirsi le labbra secche, si tastò le tasche senza darlo troppo a vedere e si assicurò che le sue pillole di azt fossero al loro posto. Si chiese se Blaine avesse continuato a parlare con lui se avesse scoperto che…
 
“Anche per me è stato così. Sono partito da casa credendo-“


E poi successe.
 
Via l’imbarazzo, via la ragione, via la paura.
 
Kurt e Blaine erano entrambi seduti sul tavolo al centro dell’appartamento, le mani nelle tasche e le spalle che si sfioravano.
 
Kurt non sapeva se Blaine fosse etero o non lo fosse, ma il fatto che spendesse i suoi pochi spiccioli in bottiglioni di gel per capelli la diceva lunga sulla sua sessualità.
Non sapeva quale fosse il suo cognome, non sapeva se gli interessasse conoscerlo.


Eppure lo stava baciando.

Non era un vero e proprio bacio, no.

Kurt lo aveva assalito mentre Blaine gli parlava di come New York avesse messo un punto ai suoi sogni, invece di fare in modo che crescessero e… semplicemente, Kurt non aveva resistito.

Perché Blaine sembrava così debole, ma era palese che non lo fosse.

Aveva così tanto da raccontare, da suonare, da lasciare al mondo, eppure sembrava che non avesse la minima intenzione di farlo. Aveva così tanto da celare sotto quello sguardo scuro, eppure sano.

E Kurt avrebbe ammazzato pur di sentire che quella parola appartenesse anche a lui.


E Blaine capiva, era sicuro che avrebbe capito, avrebbe capito tutto: il suo sentimento, il bacio, la malattia. Blaine – il cognome gli parve un’informazione futile, dopotutto – avrebbe capito. Lo avrebbe accettato.

Lo avrebbe protetto, qualunque cosa sarebbe successa.


 
 
Note di regia:
Quale capitolo migliore da postare nella giornata mondiale contro l’aids? ;)

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


A Imma, per il suo onomastico.
E perché quando le ho detto “o aggiorno o vengo alla tua festa”,
lei mi ha risposto “non mettermi in difficoltà!”
 e se n’è andata col broncio.
Capitolo 5


Solitudine.

Angoscia. Frustrazione. Rimpianto. Fame.

Fu come se tutte le sensazioni accumulate nell’arco di un anno fossero esplose lì, in quel momento, e il petto di una sola persona fosse incapace di rimanere intatto, integro, compatto, al di sopra di quell’esplosione simultanea.

Blaine dovette inspirare profondamente dal naso, le labbra di Kurt che premevano sulle sue.
I suoi bicipiti si gonfiarono, forse, insieme alla cassa toracica, forse le labbra si gelarono al contatto con quelle di Kurt. Dopo un paio di secondi di smarrimento poggiò i palmi sul suo petto e lo spinse via, sconvolto.

Una serie di espressioni gli si dipinsero in vari colori sul viso: dapprima fu frastornato, poi confuso come un bambino a cui vengono strappati via i giocattoli. Nei suoi occhi guizzò un cipiglio di rabbia quando, infine, si allontanò e si mise sulla difensiva.

Kurt si permise di ricominciare a respirare solo diversi secondi dopo, pur rimanendo immobile e con le labbra ancora dischiuse e rosse.

Blaine si portò due dita alla radice del naso, chiuse gli occhi e ridusse la mano libera in un pugno.
Paradossalmente, Kurt si sentì lieto del fatto che stesse cercando, anche in quel momento, di misurare le parole.

Tuttavia, nonostante la piega che la situazione stava prendendo, non riusciva a pentirsi di quello che si stava rivelando un passo falso.

“Io- io credo che sia meglio che tu torni a casa, Kurt.”

Kurt annuì e si diresse verso la porta, gli occhi piantati sul pavimento polveroso.
Dio, avrebbe accettato di buon grado di perdere qualche anno di vita in cambio del il dono del teletrasporto, se glielo avessero offerto.
Tutto, pur di sparire dalla vista di Blaine il prima possibile.  

Lo guardò allontanarsi e strinse in un pugno anche la seconda mano.
Lo aveva invitato ad andarsene con le sole parole nonostante Kurt si aspettasse di venire letteralmente sbattuto fuori.

Ma non lo fece, così si avviò da solo, desolato e col viso ad ogni passo un po’ più paonazzo.  

Rimase sul ciglio, combattuto. Blaine sperò che risolvesse in fretta il dilemma che gli vorticava in mente con evidenza e sparisse al di là della porta scorrevole. Kurt gli rivolse un sorriso triste.

“Solo… buon Natale, Blaine.”
*

Era stato un attimo, eppure aveva sentito tutto.
Aveva percepito sapori e sensazioni di tempi andati, ma che continuavano a vivere con lui nonostante sembrasse aver dimenticato.

Le frittelle di sua madre, sapore di casa.
I rimproveri di suoi padre quando apprendeva che il figlio non sarebbe tornato per le vacanze di Natale nemmeno quell’anno.
La paura di essere scoperto quando sgattaiolava in una delle aule nel bel mezzo della notte, sapendo che ci fosse Sebastian ad aspettarlo.

In altri tempi avrebbe sorriso. Continuò.
 
“Tu sei nato per fare musica, Blaine Anderson!
No, amore. Sono nato per stare con te.

Blazer a strisce rosse e blu, vischio appeso al soffitto e duetti natalizi.
Il diploma, la sua festa, il trasferimento. Gioia, aspettative, occasioni. Occasioni sprecate.

“Mi hanno offerto un contratto, sembra che le bozze dei miei pezzi siano piaciute. Dovrò trasferirmi fuori città per un po’-“
“Dove?”
“A qualche kilometro da New York. Ma non preoccuparti tesoro, ci sentiremo tutti-“


Baci. Carta bruciata in contenitori di latta.
Resta con me e Ti amo e Non lasciarmi da solo, Blaine. E lui non lo fece. Non lo fece mai.
Solitudine, speranza e sconfitta.

Un giorno, un uomo con le tasche piene di soldi fece capolino sulla soglia del loft.
Sorrise. Blaine si sentì morire appena un po’ di più.

Ho cambiato la mia vita per te e Non avrei dovuto fidarmi e Come hai potuto farmi questo?

Calmanti, malattia e azt.
Ricordi lontani e pensieri amari; il più rassicurante era anche il più agghiacciante.

Ho la mia malattia, non sarò solo mai più.

 
*

Mentre tornava a casa poteva quasi sentire la coda tra le gambe.
Come aveva potuto? Che gli era passato per la mente? Che diavolo aveva pensato di ottenere?
Era appena saltato addosso ad uno sconosciuto.

Chi stava diventando?

“Kurt Hummel, mi stai profondamente deludendo.”

La sua coinquilina era un personaggio estremamente stravagante.
Con una mano reggeva la padella che sfrigolava sotto la sua direzione, con l’altra teneva all’altezza del viso un blocchetto di fogli rilegati con qualche colpo di spillatrice.

“Ho perso la testa,” si giustificò Kurt. Purtroppo il suo tono afflitto non bastò a calmare quello concitato della ragazza.

“Avresti dovuto avvicinarti piano, sorridergli, lanciare qualche occhiata languida. Avrebbe funzionato, parola di Rachel Berry. Non si salta addosso alle persone, non è educato!”

Se persino Rachel poteva mettersi a dargli dritte su cosa fosse educato e cosa non lo fosse - lei che al liceo sbatteva ripetutamente la porta del suo armadietto pur di attirare l’attenzione - stava davvero diventando un bohèmien fin troppo spavaldo.
Si ripulì le mani dalla pittura e scivolò nel suo letto disfatto, intenzionato a non uscirne almeno fino all’arrivo del nuovo anno.

Rachel si accorse del suo movimento e brandì la padella piena di uova nella sua direzione, teatralmente sconvolta.
 
“Non avrai intenzione di startene lì dentro! E’ Natale, Kurt! Non importa cosa hai combinato con il –  per citarti – ragazzo più sexy su cui abbia mai posato gli occhi, andiamo!” riposizionò la padella sul fuoco, “Non oggi, almeno.”

Fosse solo perché questo potrebbe essere il tuo ultimo Natale, amico mio, fu solo una delle motivazioni che Rachel si impose di mettere a tacere quando già le sfioravano le labbra.

“Comunque,” riprese e scacciò via quei cattivi pensieri, “raccontami di nuovo come ha reagito”.

Kurt sbuffò e si scostò un ciuffo color miele dalla fronte.

“Te l’ho detto. E’diventato tutto rosso e mi è sembrato arrabbiato ma stranamente attento a non esplodere. E’ stato come se non volesse cacciarmi via a calci,” gli occhi gli si riempirono di lacrime ancora una volta, “cosa che io avrei fatto, al suo posto.”

Oh, sì. Si sarebbe cacciato fuori di casa a calci nel sedere, altroché. In presenza di quell’uomo perdeva la cognizione del tempo e dello spazio e i suoi preziosissimi freni inibitori.
Rachel non lo avrebbe mai compreso perché i suoi non erano mai stati utilizzati.

“Ti ammiro, sai? Riuscire sempre a fare quello che vuoi, non darti mai una regolata. Mi piacerebbe poter fare come te.”

Rachel smise di dargli le spalle e lo scrutò, dall’altro lato della casa.
 
“Guarda che mi do fin troppe regolate!” sbottò, ma Kurt riconobbe dal tono della sua voce il fatto che non fosse alterata nemmeno un po’.

“Niente fumo, niente alcol, niente cinema la domenica sera, niente shopping-“

“No, non intendo quel tipo di regolata,” la interruppe Kurt che, intanto, aveva lasciato che una mano gli scivolasse sugli occhi, “intendo nei confronti delle persone. E’ ovvio, normale, giusto. Tu sei giusta, io mi sento sempre sbagliato. Mi innamoro sempre delle persone sbagliate.”

Mi innamoro.

Diavolo, lo aveva detto davvero? Quanto tempo era che le sue labbra non pronunciavano quel verbo, innamorarsi? E, soprattutto, era vero? Ebbe la profonda sensazione di starne facendo un abuso e si sentì in colpa.

“Se credi che lui sia etero ti stai sbagliando di grosso! Lo vedo quando prendo la metro la mattina, nel negozio di cosmetici all’angolo. Non compra mai niente, ma si vede che non gli spiace stare lì.” Rachel gli fece un occhiolino che la diceva lunga sulla sua capacità di smascherare la sessualità di chiunque si trovasse di fronte.

“Allora? Stasera cinema all’aperto?”

“Lascia che ti risponda il mio portafoglio vuoto” cantilenò Kurt. Aprì animatamente le braccia e sorrise ripensando a Blaine che si crogiolava tra ombretti e fascette per capelli.

“Oh, Rachel! Vorrei tanto andare a quello splendido cinema all’aperto sulla ventiduesima strada, ma sono prosciugato!”

Rachel spense la fiamma e rise di gusto dell’interpretazione magistrale del suo coinquilino. Lo raggiunse sul letto e gli carezzò le guancie con i palmi ammorbiditi dalle creme idratanti.

“Ancora mi chiedo perché ti sia rifiutato di ritentare il provino alla NYADA.”

“E’ stato due anni fa,” commentò Kurt, evitando accuratamente il suo sguardo serio nonostante gli tenesse ancora il viso tra le mani, “non ha più importanza, adesso.”

Poté sentire i tasti dolenti del pianoforte dentro di lui abbassarsi con forza e si sforzò di non ascoltarne il suono distorto. Che senso avrebbe avuto entrare alla NYADA o in qualsiasi altro college sapendo di avere ancora così poco tempo da vivere?

Rachel captò i suoi pensieri e si sforzò di spostare il discorso sulla necessità di pagare l’affitto.

Disse che lo avrebbe fatto lei con i soldi che le avrebbero inviato i suoi papà anche quell’anno e sperò che la discussione scatenasse in Kurt il solito moto di orgoglio che lo aveva sempre portato a reclamare, perché non esiste che paghi per entrambi.

Si era dimostrata tremendamente leale nei suoi riguardi: nonostante fosse stata ammessa alla NYADA, nonostante avesse i soldi per vivere in un quartiere migliore - in una casa con delle stanze e ben arredata - si era categoricamente rifiutata di lasciare Kurt da solo in quel loft. Aveva deciso che avrebbero vissuto insieme e non c’era stato verso di farla demordere.
Le liti su chi dovesse pagare cosa si scatenavano spesso ma lei, in un modo o nell’altro, l’aveva sempre vinta.

Burt gestiva l’officina e nonostante lui e Carole non dovessero più supportare i bisogni di Finn che ormai aveva ottenuto una cattedra in biologia e il pieno stipendio mensile che gli spettava, non erano in grado di spedirgli neanche la metà delle somme esorbitanti che cadevano mensilmente tra le mani di “Rachel ho due papà in pensione Berry”.

Purtroppo Kurt non la stava più ascoltando, troppo indaffarato a cercare di staccarsene le mani dal viso per coprirsi gli occhi che iniziavano ad inumidirsi.

“Oh no,” piagnucolò lei raccogliendo le prime lacrime con i pollici, “no, tesoro, non piangere…”

“Rachel, va tutto bene. Davvero.”

Kurt sfuggì dalla sua presa e si diresse verso le grosse vetrate.

I loft erano tutti uguali: stanza ampia, arredamento povero - il loro era uno dei più carini che ci fosse in circolazione - e vetrate. Spesso uno dei quattro muri era costituito da solo vetro, ed era la cosa che Kurt amava di più di quel posto.

Rivolgendosi ai finestroni diede le spalle alla sua coinquilina, un po’ accartocciata su se stessa e ancora seduta sul letto di Kurt. Si mordeva nervosamente un labbro.

“Scioglierai il primo strato di crema idratante che ti ho applicato stamattina e non potrò continuare con il secondo questa sera. Non ti ho mica regalato tutte quelle bottigline per niente!”

Kurt si morse il labbro alla stessa maniera e si sentì immensamente triste, perso e distante.
Distante, troppo lontano da quello che era stato un tempo, prima che la sua vita si ripiegasse su se stessa e gli imponesse di vivere ogni attimo, perché ogni attimo in più sarebbe stato un attimo in meno.

Come se cercasse di bere da un bicchiere bucato, come se nuotasse in un mare troppo profondo, come se corresse in una gara con la linea di partenza e quella di arrivo troppo vicine, Kurt viveva annaspando. Sapeva di non avere il controllo sulla fine, ma solo sull’andamento della sua corsa. E intendeva godersi il paesaggio, nel mentre.

Ogni giorno come se gliene rimanesse uno solo, Kurt Hummel correva senza voltarsi indietro perché sapeva quanto facesse male lasciarsi andare.
*

“Il negozio è chiuso, tesoro!”

Blaine picchiò di nuovo con il palmo contro la porta di vetro.
Le luci erano accese solo parzialmente e una donna vestita con colori bizzarri sedeva al bancone e scriveva su un pezzo di carta alla luce di una lampada da tavolo.

Blaine mimò un sono io! al di là del doppiovetro e la donna alzò un sopracciglio con disappunto. Morse l’estremità della matita con cui stava scrivendo e andò ad aprirgli.

“Cosa ci fai qui, stellina? Ero tanto sicura di non vederti oggi che ho raccontato a mia nipote che ti saresti aggregato agli elfi di Babbo Natale per aiutarlo con le consegne nei Paesi in cui c’è un altro fuso orario.”

“Sono venuto a trovarti,” spiegò Blaine e incassò il riferimento alla sua altezza accennando un sorriso, “per farti gli auguri di Natale. E per chiederti il resoconto dell’appuntamento con il barista del locale sulla quattordicesima…”

La donna ammiccò e gli fece segno di seguirla verso il bancone. La sua espressione divenne improvvisamente inquietante e tetra alla luce fioca della lampada, attorniata com’era dal luccichio dei brillantini e dei manici dei pennellini e degli scatolini dei rossetti più costosi.

“Era un dannato stronzo. Non riesco proprio a capire perché gli uomini di oggi cerchino solo quello!”

Alzò gli occhi al cielo e liquidò il ricordo della serata precedente con un gesto frettoloso della mano.
Blaine ridacchiò. “Pazienza, B. La volta giusta sarà la prossima.”

“Oh, per favore. Mi chiedo perché non capiscano che sono una fottuta Lady!” esclamò agitando le mani sopra la testa. Le riappoggiò al bancone quando aggiunse: “E sai bene che la mia volta giusta è… passata”.

In quel momento Blaine capì di essere esattamente alla sagra delle parole inopportune.

Lady B. era il proprietario transessuale del negozio di cosmetici all’angolo, proprio di fianco alla metropolitana, a cui Blaine faceva visita praticamente ogni giorno. Il loro insolito rapporto era iniziato grazie ad un battibecco scoppiato a causa dell’uso improprio che Blaine faceva dell’amplificatore della sua chitarra.

“Giovane, non ho visto i cartelloni di nessun concerto da queste parti. Quindi perché continui a farmi scappare i clienti amplificando quella merda di chitarra che si sente dall’ultimo piano fino al fottuto marciapiede qui sotto?”

Blaine aveva provato a replicare, ma non c’era stato verso di fermare le sue adorabili imprecazioni.

“Pensi di vivere da solo in questo formicaio, signorina? Stacca quei cavi dalla tua dannata chitarra o giuro che salgo fin lassù e te li ficco su per il culo sulle note di una bella Ave Maria!”

“Gloria a Dio nell’alto dei cieli!” aveva risposto ironicamente Blaine. Poi aveva staccato l’amplificatore, era uscito per scusarsi e lei gli aveva offerto il venticinque per cento di sconto sugli smalti.

Amicizie del genere sono destinate a durare in eterno.

“La mia non c’è mai stata”  Blaine iniziò a massaggiarsi la mano che aveva sbattuto ripetutamente contro la porta e Lady B. ricominciò a scrivere.
“A proposito della tua autocommiserazione, ho visto – lo chiamerei biondino se lo fosse – la bambolina di cui mi hai parlato passare da queste parti. Vienimi a dire che non è salito da te e mi risparmierai lo sforzo di sputare nel cestino la gomma che sto masticando perché giuro che centrerei senza alcun problema il tuo amabile visino.”

Tremendamente adorabile.
Blaine incassò ancora una volta, consapevole di essersela meritata per averle riportato alla mente ricordi spiacevoli.

Ricordava del giorno in cui lei gli aveva raccontato di come avesse visto il suo compagno morirle tra le braccia. Un attimo prima era viva, quello dopo era morta insieme a lui. Poi aveva pianto tutte le sue lacrime sulla spalla di Blaine rivivendo quei momenti, forse per la prima volta. Era malato di aids, come lei. Come Blaine.

E come Kurt. Ma questo non poteva saperlo.

“No grazie,” scherzò Blaine coprendosi il viso con le mani, “è salito e siamo stati un po’ insie-“
B. mollò nuovamente la matita e saltò praticamente a sedere sul bancone nel tentativo di avvicinarsi di più.

“Lo avete fatto!” esclamò.

“Cosa? No!” sventolò una mano e scosse la testa, “Alla faccia degli uomini che pensano solo a quello! Abbiamo parlato e mentre gli raccontavo del motivo per cui sono partito per New York mi ha-“ ebbe un attimo di esitazione, “baciato.”

Lady B. si coprì con una mano la bocca colorata di rossetto rosa, poi ridacchiò e gli fece segno di continuare.

“Placati, non è successo niente. L’ho mandato via.”
A quel punto B. si sarebbe tolto la parrucca e gliel’avrebbe lanciata, pur di avere qualcosa da scaraventargli contro.
I suoi occhi si ridussero in fessure e strinse le mani dalle unghie colorate di azzurro in due pugni che sbatté contemporaneamente sul tavolo.

“Perché!” non era una domanda, “Perché sei così stupido! E’ colpa di quel fottuto bisessuale di Sebastian, mi ci gioco il negozio. Quando ti deciderai a mandarlo a farsi inculare dal primo che incontra, mi chiedo? Se sai rispondermi, quando?”

Blaine si allontanò dal bancone e fece finta di esaminare la merce al centro del negozio.

“Non si tratta solo di lui, davvero. E’ la malattia e tu sai come la penso. Kurt è così luminoso, così pieno di vita. E’ bellissimo e io sono uno straccio, un miserabile col cuore a pezzi. Sarei un disastro con lui, non prendermi in giro. E Sebastian è gay, solo che è anche particolarmente avido.”

“Tutto quello che vuoi, tesoro,” B. gli rivolse un’occhiata sinceramente preoccupata, “ma tu sei quantomeno attratto da quel Kurt. Ti piace. Me ne accorgo da come abbassi la voce quando parli di lui e dal fatto che tu non abbia mai utilizzato le parole “luminoso” e “pieno di vita” fino ad ora. Dici che il momento in cui sei morto è stato quello in cui hai saputo di essere malato, ma se si parla di lui il cuore ti batte di nuovo. E io non ho mai visto un morto a cui batte il cuore.”

Ma vorrebbe averne avuto l’occasione.

Blaine sapeva che B. avesse ragione, ma semplicemente non poteva.
Non poteva intrappolare un uomo e chiedergli di restare, dal momento che lui se ne sarebbe andato. E lui se ne sarebbe andato presto. Non sapeva quando, ma presto.
La sua coscienza non avrebbe retto una cosa del genere.

“Uccellino, si muore solo quando la speranza muore. E c’è sempre un barlume di speranza nel tuo sguardo, posso giurartelo sulla tomba dell’anima dolce di mia madre – devo ringraziare lei e la mia abbondantemente defunta nonna per il mio impeccabile gusto. Lascia che quel ragazzo ti salvi. Non sta aspettando altro.”

Blaine rivolse tutta la sua attenzione su quell’ultima frase e si chiese se fosse vero.

Diamine, forse lo era. Ma, dopotutto, non avrebbe cambiato nulla.

O forse avrebbe cambiato tutto.
Il resto della sua vita, tutto quello che gli rimaneva da vedere, toccare, ascoltare… vivere. Voleva davvero sprecare il tempo che gli rimaneva?

Magari avrebbero trovato un compromesso, magari Kurt lo avrebbe accettato, magari sarebbe riuscito a costruirsi una seconda vita, magari…

Oh, come se fosse tutto così scontato. Non ci sarebbe stato modo di scoprire come sarebbe potuta andare se non quello di lasciare che andasse.

E Blaine era una persona tremendamente curiosa.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

Una donna seduta su un pavimento dalle mattonelle a quadroni nascondeva un sorriso al di sotto della maschera color oro che indossava. I bordi erano sottili e il taglio per gli occhi profondo, permetteva di scoprire uno sguardo penetrante anche se parzialmente nascosto. Al collo indossava un collare argentato che riprendeva il disegno della coroncina sottile che le manteneva i capelli, per niente in contrasto con l’avorio del vestito voluminoso. La stoffa si accartocciava sul pavimento come un tappeto, fili d’oro qua e là a riprendere il colore della maschera.

“Penso che questo sia uno dei tuoi quadri migliori, giovanotto.”
Kurt distolse lo sguardo dalla tela e si voltò verso la signora non troppo anziana che, da chissà quanto, lo stava guardando lavorare.

Era presto, poco più tardi dell’alba. Era anche la festa di Santo Stefano, per chi ancora credeva ai santi.

“La ringrazio. Non è ancora terminato.”

Le accennò un sorriso grato, intinse nuovamente il pennello nella tavolozza e tracciò qualche filo dorato in più.

“Vorrei comprarlo,” continuò la donna, “se non ti dispiace.”

L’atmosfera di quella mattina era surreale.
Le luci erano brillanti nonostante fosse appena iniziato un nuovo giorno e la strada era già mediamente trafficata. Il panorama non offriva altro se non palazzi, uffici e ancora palazzi e Kurt ci aveva messo più tempo del normale ad esporre in file ordinate tutte le tele che erano già in vendita. Sorrisi o smorfie, colori tenui o vivaci, l’importante era che appartenessero a donne. Niente paesaggi, niente uomini o bambini. Solo donne, misteriose, belle e soprattutto giovani.

“Sarà pronto prima dell’ora di pranzo,” Kurt annuì, “ve lo terrò da parte fino a che non tornerete per ritirarlo.”

“Mi ricorda un il vestito che indossai per una festa in maschera, sai? I bordi delle maniche, quei colori. Sono particolari che mi hanno riportato alla mente dei ricordi.”

Kurt sorrise nuovamente per ringraziarla.

“Disegni sempre donne, ho visto. Devi essere molto innamorato, perché sembra che si tratti sempre della stessa.”

Kurt trasalì e la signora scosse la testa come per scusarsi.

“Perdonami, sono solo una donna molto curiosa. Passerò più tardi.”

Era vero: immaginava di disegnare una donna, sempre la stessa.
Era un po’ come se invece di quadri fossero fotografie di uno stesso soggetto, incapace di trasformarsi e invecchiare.
Disegnava una donna morta giovane, facendo in modo che rimanesse giovane per sempre.

A lei non sarebbe mai capitato di rivedere se stessa da ragazza, un giorno, dopo essere invecchiata. Non le sarebbe mai capitato quello che era capitato alla signora anziana che gli aveva appena parlato.

Conoscendolo, chiunque avrebbe potuto leggere la sua stessa storia tra le righe della donna che amava raffigurare in ogni suo quadro.

Intanto, gli affari stavano andando non male.
Suo padre credeva che non sarebbe stato capace nemmeno di tenere in mano un pennello, invece si era dimostrato particolarmente incline a quel tipo d’arte.
I corsi di disegno che aveva frequentato nel periodo in cui aveva pensato di iscriversi in quell’università della moda - o qualcosa del genere - si erano rivelati estremamente preziosi, doveva ammetterlo.

La delusione del giorno prima si faceva sentire in ogni pennellata, ma sembrava che con ognuna di queste se ne andasse almeno un po’.
Ci aveva provato, ma non era andata. Per lo meno poteva aver detto di essere rimasto fedele al suo carpe diem.

Ogni pennellata era una domanda, sempre la stessa. Perché?

Si era riscoperto innamorato di quell’uomo, Blaine. Si era ritrovato come aggrovigliato nella sua rete da pescatore esperto, incapace di urlare, chiedere aiuto o pensare, semplicemente.

Aveva già preso tutto di lui, il danno era fatto.
Eppure l’aveva rifiutato.

Kurt era suo, ma Blaine non voleva che lo fosse.
Era un po’ come un regalo troppo costoso che non ci si sente di accettare o un buon voto scolastico ottenuto con l’inganno.
Kurt era suo e non ci sarebbe stato modo di rimediare, eppure Blaine gli aveva detto no, aveva premuto i palmi sul suo petto e lo aveva spinto via.
E Kurt sarebbe rimasto lontano, perché nonostante vivesse sforzandosi di assaporare ogni attimo, sapeva accettare una sconfitta.

Questa gli pesava particolarmente, ma andava bene. Andava bene  perché avrebbe continuato con la sua vita e in cuor suo avrebbe saputo di non aver fatto del male a Blaine…

Oh, non conosceva il suo cognome. Gli era sempre piaciuto chiamare le persone sia per nome che per cognome, peccato.
Il suo colore preferito, il mese della sua nascita, il suo sogno più grande… erano solo dettagli che non avrebbe mai conosciuto.
La giornata era andata alla grande.

Aveva venduto mezza dozzina di quadri, tutti di medie dimensioni, ed era una bella media per essere il ventisei di dicembre.
Aveva raccolto il resto dei lavori in una grossa tela e se li era caricati sottobraccio con un po’ di fatica, stringendosi il più possibile le braccia al petto a causa del freddo.

Rachel lo stava aspettando in casa, un po’ preoccupata.

“E’ tardi,” aveva detto, mentre gli tirava una coperta fin sopra il mento e gli piazzava una tazza di thè tra le mani fredde, “e io ho una cena con i miei compagni di corso. Prometto che farò presto e potremo inaugurare il lettore dvd che i miei ci hanno regalato con Funny Girl, Il Fantasma dell’Opera o Les Miserables. A te la scelta!”

“Solo se non sei troppo stanca” aveva sorriso Kurt.

Stava sorseggiando la bevanda fumante accartocciato sul divano e con lo sguardo perso in chissà quali pensieri quando qualcuno bussò lievemente alla porta.

Inizialmente pensò di averlo solo immaginato: dopotutto, chi diamine avrebbe potuto cercarlo a quell’ora? In un giorno di festa?

Chi diamine avrebbe potuto cercarlo in qualsiasi ora di qualsiasi giorno?

Si convinse di aver sentito male e si riempì la bocca di un altro sorso, nuovamente sovrappensiero.
Bussarono di nuovo e questa volta non poté far finta di niente.

Oh, diamine.

Sarebbe potuta essere Rachel e il suo difetto di dimenticare le chiavi.
Ma no, a quell’ora avrebbe già strillato di aprire il più velocemente possibile perché altrimenti avrebbe tardato alla cena.
Per non parlare dei suoi colpi fastidiosamente nevrotici e netti: quelli che aveva appena sentito ne erano solo una pallida imitazione.

“Spero sia davvero importante, perché mi sto alzando!”

Nel momento in cui vide quello che vide si rese conto che non lo avrebbe mai più dimenticato.
 
Blaine hauncognomemanonloconosco si stringeva in un maglione azzurro e nascondeva i pugni sotto le ascelle. Chiazze rosa gli coloravano il viso dagli zigomi in giù e le labbra rosse spiccavano nel pallore che le luci della strada sembravano accentuare.

Rimase in quella posizione nei secondi che seguirono, poi dischiuse le labbra e sbatté ripetutamente le palpebre come qualcuno che ha bisogno di svegliarsi alla svelta.
Sciolse la posizione aggrovigliata che aveva assunto e rivelò una candela stretta in uno dei due pugni. La tese verso Kurt e sfoggiò un sorriso timido, lo sguardo che viaggiava tra il suo viso e il pavimento.

“Ti- ti dispiacerebbe accendermi la candela?”
*
 
“Conti, bollette da pagare, altri conti, altre bollette da pagare…”
Lady B. sfogliava una pila di fogli ammassati sulla scrivania, poco lontani dalla sua tazza di thé fumante.

“…Oh, che culo! Altre bollette da pagare!”

Sbuffò e contrasse il viso in una smorfia particolarmente inquietante, alla solita luce fioca della lampada da tavolo.

“Come diamine lo pago, questo affitto di merda?”

Una risata sguaiata ruppe il silenzio notturno e la fece sussultare.
Alla prima si aggiunsero altre risatine e qualche colpo di tosse, passi sempre più vicini e rumori di vetro che tintinna.

Lady B. sospirò e abbandonò le scartoffie in cui affondava il naso per accostarsi alla porta di vetro e coprirla con pezzi di cartone, quando qualcosa attirò la sua attenzione.

Una ragazza visibilmente ubriaca barcollava su un paio di tacchi indicibilmente alti, brandendo una bottiglia di champagne e ridendo sguaiatamente. Doveva essere stata proprio la sua risata a dare il via a quella dei tre ragazzi – due ragazze e un ragazzo – che la seguivano e si sostenevano a vicenda.

Rachel Berry, le pareva si chiamasse. La coinquilina di quel Kurt… sì, doveva essere lei.

Aveva visto Blaine salire a casa del ragazzo e non lo aveva visto più scendere. Il fatto che si fosse trattenuto significava che stesse sicuramente facendo qualcosa di davvero… interessante, con quel Kurt.
L’arrivo della coinquilina ubriaca e in compagnia non avrebbe giovato a nessuno.

“Hei, trampoliera! Sì, bimba col rossetto sui denti, dico a te!”

Rachel brandì una bottiglia di champagne nella direzione del negozio, facendo segno ai suoi compagni di seguirla.

“Che cosa ne dici di abbassare il tono delle tue risate estremamente nasali e fastidiose? Non mi sorprende che siano così sguaiate, vista la nonchalance con cui madre natura ti ha fornito di un naso altrettanto sguaiato!”

Quando la ragazza le fu di fronte, Lady B. riuscì a sentirne la puzza di alcol e la respirò a pieni polmoni. Avrebbe dato l’intero set di unghie finte per un cicchetto.
Si chiese come mai quella ragazzina sfondata di soldi abitasse ancora in quel quartiere di zoticoni che non sanno distinguere una Louis Vuitton originale dalla riproduzione più palese.
Avesse avuto in mano la metà dei soldi che aveva lei, sarebbe scappata a gambe levate.

“Ma guardati, hai il trucco tutto sbavato. Tesoro, qui hai bisogno di una sistemata. Non vorrai andartene in giro conciata in questo modo?”

“Oh no!” esalò Rachel, completamente attratta dalla donna che le parlava dalla soglia del negozio, “Assolutamente no! Sono un’artista, io-“
Poi vomitò sulle scarpe di uno dei suoi amici.

Se ne andò via grugnando un paio di insulti, seguito dagli altri due.

“Avanti, dolcezza. Puzzi come il frigorifero di mia nonna Jacqueline, ma vieni dentro.”

Le afferrò un avambraccio e la tirò dentro barcollando un po’ sui suoi stessi tacchi. Rachel borbottava qualcosa riguardo un tovagliolo su cui aveva scritto un numero di telefono e ben presto iniziò a piangere.

“Dov’è il tovagliolo? Quel ragazzo stupendo mi aveva lasciato il suo numero! Ridammi il tovagliolo, troia!”

Lady B., impietosita dalla scena, ricordò di quando smarrì l’unico cellulare che aveva mai posseduto. Era pieno di numeri che utilizzava le sere in cui si sentiva particolarmente sola.

Fu un lutto così grosso che non comprò mai più un cellulare – decisione dettata dalla mancanza di denaro – e si ripromise di scrivere sempre i numeri sul palmo della mano, per poi trascriverli su una rubrica il giorno dopo.

Ma quello era prima. Poi la sua vita aveva trovato un senso e… lo aveva perso nuovamente.

“Piove” biascicò Rachel con lo sguardo perso sul pavimento. “Oh, quanto piove! Devo trovare un riparo o la mia messa in piega si trasformerà in una di quelle bruttissime parrucche che usano in Hair Spray!”

Si nascose sotto uno dei tavolini di esposizione e Lady B. le allungò la sua tazza di thè prima di tornare alle sue bollette.

“Blaine  Anderson mi deve un grosso favore, oh se me lo deve.”

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