Best of you

di Elisewin Ci
(/viewuser.php?uid=308812)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Breath of life ***
Capitolo 3: *** You weren't there ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Image and video hosting by TinyPic

BEST OF YOU
 

Prologue.



A New York si ha come l’impressione che le cose avvengano più velocemente che altrove.
Lawrence Block

“Sei tu la ragazza della libreria giusto?”, due occhi verdi mi sorridono prima di sentire una carezza lieve sulla schiena.
“Si, sono io, la ragazza del Molasses books, in carne ed ossa”
“Posso sapere il tuo nome?”
“Elena Gilbert, sono a New York da sette mesi, vivo a un paio di isolati da qui e sono una stronza, avrei dovuto richiamarti Stefan”
“Posso sedermi?”
“Certo” sposto la sedia di qualche centimetro per fargli spazio, mentre chiudo il quaderno degli appunti e riordino i libri che mi ha consigliato di leggere il professor Saltzman come preparazione per la relazione di fine corso.
“Studi?”
“Si, per lo meno ci provo” sospiro appoggiando il mento sul dorso della mia mano, mentre mi lascio coccolare un attimo dalla musica lieve di sottofondo di questo caffè letterario che ha salvato gran parte dei miei giorni tristi a New York.
“Cosa c’è che non va?”, gli occhi di Stefan sono buoni, la sua voce riesce sempre a calmarmi e io mi sento terribilmente in colpa.
“Sono stati giorni difficili, ma… ma se vuoi domani possiamo passare la giornata insieme”, sbatto più e più volte le ciglia prima d’iniziare a sentire una sensazione di vergogna invadermi: non ho mai preso l’iniziativa con un ragazzo, ma da lui devo farmi perdonare e infondo, Stefan mi piace. E’ rassicurante e condividiamo gli stessi interessi.
Mi sembra un buon inizio.
“Lena sono venuto qui per restituirti questo”, le sue dita lunghe e perfette spingono verso di me il mio diario, sgrano gli occhi inorridita senza riuscire a parlare, “prendilo, è tuo. Non ho letto niente, stai tranquilla”
“Stef… Stefan come fai ad averlo tu? Io, io credevo di averlo perso”, stringo al petto il custode dei miei segreti e cerco di non sbattere gli occhi impaurita che qualche lacrima di vergogna possa svelare il mio disagio.
“Damon è passato da me stamattina. Mi ha chiesto di portartelo”, l’espressione colpevole sul suo viso serve solo ad aumentare la mia confusione.
“Tu conosci Damon? Ma è impossibile…”
“E’ una lunga storia Lena e tu non meriti di conoscerla”
“Stai scherzando vero? Sono stanca di tutti questi segreti, tu non puoi mentirmi come fa lui, non… non è giusto”
Vedo i suoi occhi incupirsi e improvvisamente le sue spalle si piegano come vinte da una stanchezza indicibile, mi sorride appena prima di sfiorare la mia coscia nuda, stretta in un paio di shorts bianchi.
“Sei bella Lena, sei bellissima”
“Sono grassa Stefan. E tu continui a mentirmi”
“Eri in carne e ora sei dimagrita. E comunque eri bella anche prima di perdere peso”
“Otto chili in quattro mesi di bugie e solitudine. Potrebbe essere il titolo della mia relazione per il professor Saltzman” e poi mi alzo, ferita, mentre sistemo tutte le mie cose nella borsa pronta ad andarmene.
“Lena non fare così”
“Stefan da quanto conosci Damon?”
Apre la bocca per poi richiuderla l’attimo dopo.
“Stefan ti ho fatto una domanda”
“Da sempre. Ci conosciamo da sempre”

 

L’inferno non è mai tanto scatenato quanto una donna offesa.
W. Shakespeare

Sfoglio le pagine del mio diario, passando gli occhi sulle parole curate e a tratti distratte che raccontano la mia vita negli ultimi mesi. Le parole che raccontano chi sono io, davvero, senza filtri.
E mi sento violata fin nel profondo all’idea che Damon possa aver letto i miei pensieri, di Stefan mi fido nonostante tutto, ma di Damon no, quindi vado con lo sguardo in cerca di qualche segno che dimostri la sua intrusione tra le mie pagine.
Voglio sapere, e sentire addosso, quanto in basso può ancora cadere.
Ha rubato il mio diario, ha letto i miei segreti, ha riso del mio amore.
Non è ancora tornato.
Non ha avuto il coraggio di confessarmi il suo furto.
Poi arrivo in fondo,  e la consistenza delle ultime pagine cambia improvvisamente tra le mie mani, sono pagine dure, rattrappite un po’ su se stesse, l’inchiostro sbiadito si è allargato confondendo le parole come se qualcuno le avesse bagnate con acqua o… lacrime.


Caro diario,
stamattina il professor Saltzman ci ha chiesto cosa pensiamo della grammatica, se la riteniamo importante oppure no. Ho risposto senza riflettere, di getto, ad alta voce, ho urlato un “non sempre è necessaria” che ha spiazzato tutti. Me compresa.

“Spiegati Elena, può essere una tesi interessante”
“E’ fondamentale per ritenere uno scritto degno di tale nome. Ma… ci vuole cuore, anche a costo di un qualche tempo verbale sbagliato. Ci vuole realtà… io leggo di tutto, da Platone a Joyce a Sepulveda, ma leggo anche il romanzetto da spiaggia che compro a pochi dollari alle bancarelle della domenica mattina vicino casa. E non sempre l’alta letteratura mi emoziona come un racconto trash. Quindi no… non metterei la grammatica al primo posto, ma la credo necessaria. Un po’…”
“Un po’ come il rispetto in una storia d’amore, non trovi Elena?” mi interrompe sorridendomi e io non posso fare altro che spostare lo sguardo di lato per incontrare gli occhi infastiditi di Damon.
“Si, credo sia lo stesso”
“E allora pensateci tutti, per domani voglio uno scritto in cui mi esponete le vostre teorie sull’amore. Cos’è, in quante forme si manifesta, come reagite alla sua mancanza. Ovviamente potrete anche parlare dell’amore per il mio nuovo corso di sociologia. Tutti, avete capito? Dovrete farlo tutti. Elena, tu puoi scegliere, non ho bisogno di altri tuoi lavori”

E allora scrivo a te, caro diario, scrivo a te perché sono stanca di essere considerata la secchiona della classe, e ti scrivo perché ne ho bisogno. Ho bisogno di parlare con qualcuno e qui ci sei solo tu.
Quanti tipi di amore esistono?
So che c'è l'amore di mio padre e mia madre, quello forte e sincero delle favole, quello buono che profuma di vaniglia e fiori freschi, quello eterno, quello che esiste ancora su di me anche se loro non ci sono più, quello che mi spinge ad andare avanti, nel ricordo di come i loro occhi si sono guardati per l'ultima volta.
C'è l'amore del professor Saltzman per la dottoressa Fell, così grande e colpevole da non trovare pace e riuscire a vivere nonostante il senso di colpa.
C'è l'amore che provo per la piccola Sophie, il mio scricciolino che non riesce a parlare ma che lotta con così tanta forza per farsi spazio. E quella bambina è il mio orgoglio segreto, caro diario, spesso è il pensiero di lei che mi fa andare avanti, lei che forse non parlerà mai ma che non nasconde il suo amore a nessuno. Sophie ama con i suoi occhioni, con i suoi abbracci, con la gentilezza delle sue manine sulle mie gote, Sophie ama con lo sconfinato desiderio che ha di crescere in mezzo agli altri senza nascondersi mai nonostante il suo deficit.
E poi c'è Caroline, che è l'essenza stessa dell'amore, così innamorata di un'idea da apparire quasi fastidiosa. Ma in realtà invidio la sua capacità di essere presente, per tutti, nonostante tutto, il suo voler essere positiva ad ogni costo, il suo innato senso di rivalsa verso le ingiustizie.
Io, invece, amo un po' meno. Amo a tratti, picchi passionali che mi distruggono tra vuoti senza fine. Per quanti giorni non ho sentito niente dopo la morte di mia madre, neanche dolore, solo assenza e vuoto. Il vuoto bianco delle giornate autunnali in Colorado, quando restavo abbracciata alla nonna cercando di farle forza.

"Vai mia piccola Elena vai, prendi i miei soldi e costruisciti la vita che vuoi. Ho chiamato Julie, mia cugina, la chiudono in una casa di cura, ti lascia casa sua a New York. È un appartamentino senza pretese bambina mia, ma scappa via da questi prati che ti hanno portato tanto dolore, tu sei intelligente Elena, devi fare una vita migliore della nostra"
"Ma nonna... io sono felice qui"
"Lo eravamo tutti Lena, ma adesso mia figlia non c'è più e queste praterie ci tolgono il senso del tempo. Non fare l'errore che ho fatto io e che ha fatto tua madre: l'amore non basta Lena, neanche se hai accanto l'uomo migliore del mondo, devi vivere bambina mia. Non fermarti qui come abbiamo fatto noi"
"Hai avuto una vita infelice nonna?"
"No Lena, tutt'altro. Ho avuto una vita meravigliosa, ma conosco solo questi prati e i vostri volti. Io voglio di più per te"
"Ma nonna… come farò senza di te?"
"Pensa solo che io sono felice qui. Prendi questi risparmi Elena, tuo padre sognava la grande città per te"

E non ci sono le braccia forti di mio padre ad abbracciarmi adesso, non c’è nessuno con me. Mio padre se l’è portato via il fuoco, mio padre era un pompiere che combatteva gli incendi che hanno colpito le nostre praterie. Mio padre che sembrava invincibile se ne è andato via una domenica mattina d’agosto, nella disperazione della mamma che si è lasciata andare senza combattere più contro la malattia.
Come se io non fossi un buon motivo per attaccarsi alla vita, come se io non fossi abbastanza.
Lo so, il mio è un pensiero cattivo, ma è un qualcosa che porto dentro e mi condiziona ogni giorno. Io, forse, frutto del loro amore, valgo meno dell’amore che i miei genitori provavano l’uno per l’altro.

Ma l’ho scoperto, piano piano, un po’ d’amore per me stessa.

L'amore che ho imparato ad avere verso la vita, un attaccamento spasmodico e incontrollato che mi tiene a galla, che mi fa sperare in momenti migliori e che mi fa accettare quelli terribili. L'amore che ho sviluppato per le corse alle sei di mattina al Grand Ferry Park, l'amore per i miei libri, per l’Elisabeth Bennet di ‘Orgoglio e pregiudizio’, per il sole della domenica pomeriggio, l'amore per i concerti al Music hall, l'amore per lo skyline di Manhattan illuminato, l'amore per gli scoiattoli tristi di Central Park, l'amore per i negozietti di vestiti vintage dove passo il mio tempo frivolo.
C'è l'amore che ancora non ho per il mio corpo, quel disamore che sento per la mia pancia piatta che non è in armonia con i fianchi torniti, il seno abbondante e la mia faccia tonda. Il disamore che provo per i muffin al cioccolato a cui non so rinunciare e per la mia immagine allo specchio che mi vieta categoricamente di mettere un tubino nero al ballo di fine anno.
E allora indosserò quell'abito blu dalla gonna lunga e ampia che mi ha trovato Caroline in un grande magazzino sulla 14esima strada. O molto probabilmente passerò quella serata a casa, a rimettere in ordine la cucina e pulire il frigo con in sottofondo il ciddì dei ‘Vampire weekend’ che Haley ha lasciato qui dimenticandosi di tornare.

Come si sta dimenticando di tornare anche lui, dopo che ieri notte in preda all'alcol le sue mani mi hanno ferita. Ma non è niente, non ho versato neanche una lacrima, solo un piccolo livido nerastro sotto l'occhio, che con un po' di trucco riuscirò a nascondere dimenticando l'accaduto. Per le tazze invece sarà un problema, le ha rotte tutte, una per una, quelle meravigliose della mia collezione. Ha distrutto quella di quand'ero piccola mentre mi urlava addosso quando poco sapessi della sua vita, ha sbattuto a terra quella gialla con la stampa di Cenerentola che nonna mi regalò per il mio sesto compleanno, così, una dietro l'altra, fino a quella comprata insieme poche settimane fa durante la nostra gita al mare. O forse dovrei dire sull'Oceano, aperto freddo e incontaminato, così meraviglioso visto da Coney Island.

Se solo il professor Saltzman sapesse.

La grammatica, caro diario, guarda a quali confessioni stupide mi porta.
Damon non  mi ha mai toccata, non è mai successo, non lo sento lo zigomo dolorante adesso che stringo gli occhi per non piangere. Me lo sono solo immaginata, davvero.

La grammatica, forse ce ne vorrebbe di più, tale e quale al rispetto.


Un biglietto nascosto tra le pagine, quasi accartocciato scritto con una calligrafia malferma che conosco benissimo.

“Non avrei mai dovuto toccarti, e il fatto che non fossi in me non è una giustificazione.
Sono cattivo Elena, non vado bene per te. Perché non te ne vai il più lontano possibile da tutto questo?
Io non cambierò quello che sono e mi rifiuto di pensare a come tu possa sentirti ogni volta che sbaglio, ogni volta che ti metto di fronte all’evidenza, ogni volta che esagero. Ho deciso di darti sollievo.

Ho ripreso il vinile che mi avevi nascosto sotto il tuo materasso.
Lo sai, non mi sposto mai senza Jimi Hendrix.
E tu non puoi attaccarti a una sera in cui non avevo niente di meglio da fare che farti ascoltare la musica che amo… mi sopravvaluti Lena, sei troppo sentimentale.

Spero che tu possa perdonarmi, in qualche modo.
Damon”

E improvvisamente capisco, come un segreto svelato dal niente, il perché delle sue mani piene di graffi e sangue dell’altra notte. Damon si è punito per avermi picchiata.
La mia mano sullo stomaco stringe forte il tessuto leggero del golfino primaverile che indosso, le mie unghie graffiano la carne del mio palmo mentre con la mano che lascio libera continuo a sfogliare le pagine del mio diario dove lui ha posato gli occhi e le lacrime, e mentre leggo maledico la mia ossessione di accendere ancora il camino, in pieno maggio, solo per farmi compagnia, e mi maledico e sfoglio, sfoglio e maledico sotto voce per ritrovare il passo dove confesso di aver nascosto il suo vinile.

Williamsburgh, casa da sola
E’ importante segnare una data? Oggi no, i bambini non hanno la percezione del tempo.

Si, caro diario, forse sono davvero una bambina perché io i miei pensieri li annoto sempre, così è più facile ricordare.
Ma forse è vero, perché del dolore che sento dentro, quello forte, non accenno mai niente.
Io lo voglio dimenticare.
E adesso sto piangendo un po', in silenzio, non do fastidio a nessuno.

Mentre Lui dice che non si piange, e che il dolore si porta addosso tatuato sulla pelle e marchiato nello sguardo.
"Quello che ci succede si porta addosso non si racconta al mondo", Lui me lo ripete sempre, il passato non si cancella perché fa parte di noi, ma non si regala a una penna, quella è un'offesa. È un lavoro timido da sognatori senza coraggio.

E allora io me lo marchio addosso e lo scrivo lo stesso.
Quando è rientrato l'ho visto, non c'era solo la macchia di caffè sul suo maglione, Lui aveva un labbro tumefatto e tracce di sangue sulla mani.

Ho pianto un po' quando ha sbattuto la porta. Forse se lo marchio qui, su di te, magari imparo a crescere.

Ma Lui è immorale per scelta, caro diario. Lui, me lo ricorda sempre, "pensa meno Elena, la vita si vive di petto" ma io, tutto questo non pensare, non lo so cosa vuol dire.

E adesso piango in silenzio, si è spento pure il fuoco, fa freddo in questa casa dove vivo da sola, ma io un primo appuntamento non l'ho mai avuto.
E neanche un primo vero bacio, neanche una vera prima volta.
Io non mi sono mai sentita desiderata davvero.

È questo quello che mi tatuo addosso.
Ma ho desiderato e amato così tanto, caro diario, che forse adesso quando ti scrivo devo chiamarti per nome.

Cara Elena, forse sei così immatura e codarda da non avere uno scopo se non compiacere gli altri, ma tu non ti distruggi.
Mentre Lui si.
Lui si ammazza ogni giorno da solo.
È una sua scelta, la sua prerogativa.
Fa male, cara Elena, dio quanto fa male. Allora piangi pure, ma tu lo sapevi, lui non sarebbe cambiato per te. Lui non ha mai accennato a questo.

Lui, cara Elena, non ti ha mai chiesto niente.

E allora me lo tatuo addosso che in certe sere io non servo.
Lui ha la sua fede a proteggerlo, la fede del caso, "quella che Elena si impara da soli quando si capisce che la vita fa schifo, ma New York aiuta, dio se aiuta, questa città ti apre le prospettive. Ma tu sei piccola Lena, sei piccola nei desideri, tu non l'accetti che le giornate facciano sanguinare, e che la notte è fatta per i tormentati. Impara a conviverci ragazzina, è una fede questa, la fede in se stessi"
E io, caro diario, non ho nessuna fede. Né in Dio, né in me stessa, non la trovo questa fede con cui darmi pace.

Eppure... eppure io l'ho sentito così vicino, eppure io lo volevo uguale a me.

Ma Lui è oscuro, e forte.
Anzi no, caro diario, Lui è fragile, e cattivo, e troppo sensibile per la vita che fa. Io non volevo cambiarlo, volevo solo amarlo.
Ma ha ragione Lui come sempre, Lui non ha bisogno di qualcuno che lo culli la notte e che medichi i suoi occhi tumefatti.
Quelle sono state solo mie scelte sbagliate, "le scelte che fanno le bambine ingenue che credono al principe azzurro. Io, Lena, ti credevo diversa"

Quella sera, caro diario, non te l'ho raccontata, ma quando mi ha detto quelle parole mi è sembrato osceno anche Central Park, e la sua mano stretta alla mia ha iniziato a bruciare.
Volevo correre, volevo scappare lontano tra le braccia di papà, ma papà non c'è, me lo ha portato via il fuoco degli incendi in Colorado.

Cara Elena, tu non sei felice, neanche con addosso il vestito a fiori che hai preso al negozio vintage all'angolo. Tu non sei felice, cara Elena, perché sei innamorata.
E allora tatuatelo sulla pelle e marchiatelo nello sguardo, tutto questo tormento.
Magari, adesso, cara Elena, inizi a crescere.

Ho mal di stomaco, caro diario, la nausea mi fa venire voglia di vomitare anche se non ho mangiato. Non ho toccato cibo per tutto il giorno dopo il cappuccino che gli ho lanciato addosso stamattina.

Pensi ai suoi occhi, cara Elena, al sangue sulle sue labbra, e ammettilo che rovinarle ti sembra un reato da pagare con la pena di morte.
E sei una bambina, il vinile di Jimi Hendrix è sempre lì, sotto il tuo materasso, marchiatelo addosso quanto male ti fa averglielo nascosto, non lo scrivere su un diario. Quella è roba per codardi sognatori che non sanno prendere in mano la loro vita.

Ma diglieLo, cara Lena, diglielo che anche se sei una bambina tu hai coraggio. Il coraggio di amarlo tanto, nonostante tutto. Il coraggio di contraddirlo, il coraggio di passare ore con le dita su un vinile che ti ha fatto ascoltare mentre ti spiegava quanto bella e curativa può essere la musica.
UrlaglieLo cara Lena, che tu nonostante la vita ti abbia tolto tutto, tu ami lo stesso, urlaglieLo Lena.

Si è fatto tardi, caro diario, meglio se vado a letto. Domani forse chiamo Caroline.



Non voglio più sentire niente, voglio smettere di accettare quello che mi succede senza lottare, sono stanca di tutta questa commiserazione con cui tratto me stessa. Ho solo voglia di urlare, perché io lo so, lo so davvero, quanto di meglio posso meritare. Così afferro il cellulare e lo chiamo.
Stranamente risponde ancora prima che possa squillare.
“Pronto”
“Dove sei?”
“Cosa vuoi?”
“Dove sei?”
“A Central Park”
“Aspettami”
“Sono le dieci e mezzo non riuscirai ad arrivare in tempo. All’una chiudono tutto”
“Ti troverò”
“Non essere stupida… è buio e potrei essere ovunque”
“Sei seduto lì, al solito posto, dove mi hai salvata sei mesi fa”
“Va al diavolo Lena”
“Ti odio Damon”
“Anch’io, Lena, anch’io”, ma la sua voce è stranamente dolce, come a volermi finalmente confessare l’esatto contrario.

 

Per tutti quegli incroci tirare a testa o croce
qualcuno ci avrà messi lì, siamo chi siamo,
il prezzo di una mela per Adamo, il tempo dell’ennesimo respiro
e gli anticorpi fatti col veleno,
siamo chi siamo.
Non si finisce mai di avere fame,
conosco le certezze dello specchio
e il fatto che da quelle non si scappa,
siamo chi siamo, siamo arrivati qui com’eravamo,
si sente una canzone da lontano
potresti fare solo un po’ più piano?

 

 

Note dell’autrice:
Dopo il mio viaggio a New York e dopo l’amore smisurato che provo per questa città ho avuto l’ispirazione per questa nuova fanfiction Delena un po’ particolare, come avrete capito da questo prologo che vi dice tutto e niente. Spero però che vi lanci gli input giusti per interessarvi alla storia, o per lo meno per incuriosirvi un po’.
E’ un inizio in medias res, dal primo capitolo potrete poi conoscere le vicende dei protagonisti dall’inizio.
Vi dico solo che l’immagine che ho nella mia testa di Damon e Elena non è quella attuale del telefilm…
Elena non è bella, ha un visino molto espressivo e qualche chilo di troppo, un po’ com’era Nina intorno ai 16 anni, un po’ come siamo state tutte noi prima di imparare a prenderci cura di noi stesse.
Damon invece è bello da togliere il fiato, il bad boy pieno di donne che ama suonare la chitarra (vedi riferimento a Jimy Hendrix) e come punto di riferimento… pensate alle foto di Ian da ragazzino.

[per il banner, perfetto stupendo meraviglioso azzeccatissimo un grazie e un bacione alla mia Bloodstream]

http://i44.tinypic.com/2r25h6p.jpg

http://i42.tinypic.com/2iafpg2.jpg

Molasses book, il caffè letterario citato all’inizio, è una piccola libreria molto carina di Williamsburgh, quartiere di Brooklyn dove vive la nostra Elena.

http://i40.tinypic.com/2hmzigx.jpg

http://i42.tinypic.com/2r6yvjt.jpg

E cosa dirvi ancora?
Restate sintonizzate, anche se questo è un assaggio, anche se le pubblicazioni vere e proprie arriveranno dalla fine della mia fanfiction su Ian e Nina, “Visionaries award”… lasciatemi un parere, due righe, battete un colpo, fatemi sentire le vostre opinioni. Sono curiosa… davvero.

Non  mi resta altro che salutarvi e ringraziarvi in anticipo.
Un bacione,
Elisewin

Ps il titolo non è scelto a caso… “Best of you”, in onore di quel capolavoro che è l’omonima canzone dei Foo Fighters.
Ascoltatela!

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Breath of life ***


Image and video hosting by TinyPic

BEST OF YOU
 
CAPITOLO 1
BREATH OF LIFE


http://youtu.be/WUI-Mjz56S0
da ascoltare

 

A che scopo esisterei, se fossi tutta contenuta in me stessa? I miei grandi dolori, in questo mondo, sono stati i dolori di Heathcliff, io li ho tutti indovinati e sentiti fin dal principio. Il mio gran pensiero, nella vita, è lui. Se tutto il resto perisse e lui restasse, io potrei continuare ad esistere; ma se tutto il resto durasse e lui fosse annientato, il mondo diverrebbe, per me, qualche cosa di immensamente estraneo: avrei l'impressione di non farne più parte. Il mio amore per Linton è come il fogliame dei boschi: il tempo lo trasformerà, ne sono sicura, come l'inverno trasforma le piante. Ma il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce nascoste ed immutabili; dà poca gioia apparente ma è necessario. Nelly: io sono Heathcliff! Egli è stato sempre, sempre nel mio spirito: non come un piacere, allo stesso modo ch'io non sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Così, non parlar più di separazione: ciò è impossibile.
da 'Cime tempestose' di Emilie Bronte




 

 
Leggo distratta il messaggio che la nonna mi ha appena inviato sul cellulare mentre tento di finire di lavarmi i denti

"Buon primo giorno di scuola tesoro. New York è sempre bella come ieri?"

Si, nonna.
Certo che è come ieri.
Ma io vivo a Williamsburg nella casina di tua cugina, con le pareti gialle verdi e rosa, e della New York che immagini tu non c'è traccia.

Qui non ci sono grattacieli, ma solo palazzi di due o tre piani in mattoni rossi. Qui ci sono prati e fiori, librerie e negozi vintage. C'è il supermercato nonna, e nessun grande magazzino.
E tua nipote va ancora a scuola con le converse bucate in cima, nessun tailleur e nessun tacco altro.

Nonna non so neanche da dove cominciare. Questa settimana lontano da te, è stata dura.
Ma come te lo spiego nonna?
Come te lo racconto?

Come ti dico che quella New York che immagini tu non è casa mia. Quella è Manatthan nonna.
E quella la vedo solo la sera, quando prendo coraggio e cammino sui marciapiedi, quando passo davanti a una serie infinita di locali che fanno bella musica e arrivo sull'Hudson.
Lì c'è lo skyline.
Sai cos'è nonna?
I disegni e le luci di Manatthan, i suoi contorni improvvisamente ti spazientiscono e affascinano.
Ti lasciano senza fiato.
E ti fanno credere che tutto è possibile.
Da lì vedo quello che immagini tu.
È pieno di persone nonna.
Davvero.
Ma io mi sento sola.
E questo non posso dirtelo, va tutto bene nonna, va tutto benissimo.
Ho la compagnia dei miei libri.
Dei fiori che coltivo sul terrazzo.
E sai cosa c'è di simpatico?
La voce squillante della ragazza che abita nel palazzo accanto.
Ride e urla così tanto che ormai mi sembra di conoscerla.
A volte mi affaccio alla finestra e la guardo, ma riesco a vederla solo di schiena: è bionda. E suona la chitarra. 
Da casa sua esce una musica dolcissima che mi fa compagnia. A volte mi culla.
E poi ride, ride sempre.
Solo una volta l'ho vista piangere.
Ieri mattina, quando sono uscita dal portone insieme a lei. Aveva la testa bassa e una sciarpa nera piena di brillantini intorno al collo.
Si è asciugata una lacrima sbrigativa, poi è tornata a darmi le spalle.
Non lo so, nonna, non lo so come sto davvero.
E non so neanche se questa città è così bella come dicono.
Dovrei scoprirla, forse, ma mi sento troppo piccola per riuscirci adesso.
O anche solo per tentare di farlo.
Scusami nonna, adesso devo andare davvero, sono in ritardo, non posso più parlarti nei miei pensieri: la scuola mi aspetta.

Digito veloce una risposta che sappia di gioia e amore, di entusiasmo e nuove avventure. La rassicuro, come faccio da sette giorni ogni mattina e ogni sera, poi spengo il cellulare, afferro la borsa e chiudo la porta con un tonfo sordo.
Mastico veloce la mia brioche, quella con le scaglie di cioccolato che al supermercato vendono a sconto, e inizio a correre.
Corro veloce, incurante delle stringhe sciolte e dei mattoncini delle case, quelli su cui mi soffermo la sera quando cammino, quelli che conto per non pensare, mi passano accanto come un flash sfumato di bordeaux.
Non ho la testa per soffermarmi sui particolari. Oggi si ricomincia davvero.

E sono in ritardo, schivo le persone che incrocio sui marciapiedi, cerco di non fare caso ai loro cappelli grandi, alle giacche colorate, alle gonnelline a ruota alzate dal vento.
Sono belli i newyorkesi.
Sono strani.
Sono colorati. Belli da respirare e da sfumare nell’idea di un racconto, la sera prima di dormire.
Quegli sprazzi di parole che butto giù sul diario, misti ai miei pensieri.
Potrei prendere un taxi, o addirittura la metro per raggiungere la scuola, ma la paura di restare senza soldi mi fa solo camminare, a piedi, veloce, quasi correre – attanagliare lo stomaco in una morsa di paura che va via solo immergendomi in quella massa di gente: gente che vive, si perde, come se avessero un obiettivo importante da inseguire.
Come se la loro vita avesse un senso che io adesso non riesco né a trovare né a percepire.
Mi manca il Colorado. Le sue praterie , il suono del vento tra gli alberi, la mia classe di sole ragazze.
Io non  sono fatta per tutto questo.
Io non volevo andarmene.
Io volevo solo restare tra le braccia di mia madre.
Ma lei se n’è andata e io devo  crescere.
Chissà dov’è Jeremy adesso. Chissà se la colazione senza di me lo fa sentire più autonomo. Più adulto.
Chissà se un giorno, tra qualche anno, mi chiamerà per dirmi che lui sogna New York, e che vuole venire a prendersi la mia vita.
Io che al telefono mi fingo entusiasta.
Ma è solo una settimana che sono qui, e la Brooklyn Technical High School mi attende.
 
Ho attraversato Williamsburgh, devo solo continuare a camminare dritto e svoltare a destra, mi manca solo l’ultima traversa, così do un’occhiata veloce al mio orologio e la conferma di essere in ritardo mi fa quasi puntare i piedi a terra: fermarmi, girare e tornare a casa.
Resto un attimo interdetta, potrei scappare, rifugiarmi a casa e dimenticare che la scuola pubblica più importante di Brooklyn mi sta aspettando. Potrei.
Ma qualcuno forse ha la mia stessa fretta, perché mi rendo conto dello scalpiticcio di passi dietro di me solo dopo aver ricevuto una botta poco gentile alle spalle: una massa di capelli biondi mi sfiora e una ragazza con un vestitino nero a fiori continua a parlare al cellulare mentre mima verso di me un gesto di scuse con la mano.
 
“Ma si può sapere dove sei? Sono in ritardo, coglione. Ti ho aspettato a casa e non sei passato. Damon dannazione è quasi una settimana che non torni a scuola, vuoi farti bocciare di nuovo, per la seconda volta? Ehi ehi ehi. Rispondimi. Ma dove hai dormito? Si, cavolo sono preoccupata. Lo vuoi capire? Dove sei?”
 
Sembra una mitraglietta, parla così veloce da farmi mancare l’aria, più di quella che già mi manca a causa dell’ansia e del vento che mi rema contro in questa corsa contro il tempo. New York è fredda come se fosse sempre gennaio, anche quando è appena iniziato novembre.
Mi passo una mano sulla fronte e sposto tutti i miei ricci sulla spalla destra, ho bisogno di respirare.
E poi riprendo a camminare, seguo la ragazza davanti a me che continua a gesticolare, animata, mentre maledice il suo interlocutore senza sosta.
 
“Sono tre giorni che non ti vedo. Ti sembra giusto? Si, si si. Puoi dirlo forte: sono incazzata. No, Damon, no. Non dirlo mai più: so benissimo che sei un’irresponsabile su cui è impossibile fare affidamento, ma sono io, Caroline, ti ricordi? Siamo amici da una vita. Mi aspetterei un trattamento diverso da quello che riservi alle donne che frequenti.”
 
La bionda si ferma, poggia una mano nell’inferriata del cancello della scuola e con un sospiro improvviso alza le spalle e getta il suo iphone nella borsa di pelle marrone che tiene a tracolla. Solo quando la supero per entrare mi accorgo di chi si tratta: la ragazza che abita di fronte a casa mia.
La ragazza che ride sempre, ma che ieri piangeva con una sciarpa nera di brillantini al collo.
Questo Damon deve avergliela davvero combinata grossa.
 
Ma non ho tempo per fantasticare sulla vita degli altri, devo entrare e riuscire a trovare la mia aula.
“Elena, Elena… rifletti. Cosa ti aveva detto il professor Saltzman giovedì?” - parlo tra me e me, il suono della mia voce, bassa, lieve, riesce sempre a calmarmi come conferma dell’essere viva -  “Si, entra, cammina lungo il corridoio, ultima porta a sinistra”
 
Mi avvio svelta lungo questo stanzone senza fine, non ho tempo per soffermarmi sul bidello che cerca di catturare la mia attenzione, probabilmente per sapere chi sono e lasciarmi le chiavi del mio armadietto, uno dei tanti che costeggiano queste pareti infinite, ma adesso non  ha importanza, non ho niente con me se non un quaderno e un astuccio di lapis e matite. Non devo poggiare niente, devo solo portare me stessa dentro quell’aula, sedermi e ascoltare… sarà mai così difficile?
 
Eppure sento la paura assalirmi davanti a quella porta dipinta di un azzurro pallido che mi ricorda fin troppo bene i pigiami di mia madre nell'ultimo periodo della sua malattia, eppure dovrò aprirla e scusarmi per il ritardo con un sorriso buono che esprima la mia gioia per essere stata ammessa all'ultimo anno di liceo dopo due mesi dall'inizio dell'anno scolastico.
E so di dover essere socievole e aperta alle conoscenze per cercare di rifarmi una vita in questa città così grande e diversa dalla villetta a schiera in mezzo a una prateria dello sconfinato Colorado in cui ho trascorso gli anni bellissimi della mia infanzia.

Sospiro, cercando di non dare peso alle stringhe sciolte delle mie converse e busso alla porta, come se davvero tutto andasse bene e il mio cuore non cercasse il modo migliore per uscirmi dal petto.

"Buongiorno" – stringo impercettibilmente i lembi del mio giubbottino blu notte – “Buongiorno professor Saltzamn. Mi… mi scusi per il ritardo, io… io, beh stamattina non ho calcolato bene le distanze e…” – un fruscio di teste che si voltano verso di me mi coglie alla sprovvista: non mi ero preparata allo sguardo curioso dei miei compagni – “mi sono accorta che da casa mia a qui, la mattina, devo partire prima” – abbasso la testa e l’immagine del sorriso del mio docente in un attimo diviene solo un ricordo sfumato. E sbiadito.

"Oh Elena. Accomodati pure" – il rumore del gesso sulla lavagna mi riporta alla realtà – “Ragazzi… lei è Elena Gilbert, la vostra nuova compagna”
Il professore scrive il mio nome, lentamente, con una calligrafia maschile e chiara che mi fa sentire ancora di più sotto osservazione. I miei piedi non si staccano dal pavimento come i miei occhi non si allontanano dalle spalle larghe dell’uomo, celate in una giacca scura di tweed.

"Mi scusi per il ritardo professor Saltzman, non conosco ancora bene le strade qui a Brooklyn" – ripeto, blanda, in imbarazzo, e il vento freddo che agita gli alberi fuori dalla finestra sembra colpire me: il mio maglione nero e i miei jeans slavati sembrano improvvisamente troppo leggeri.
Mi accarezzo il corpo e sposto il peso da un piede all’altro, quando una serie di risate sottomesse arriva alle mie orecchie e una pallina di carta mi colpisce in pieno viso. Indietreggio, colta alla sprovvista, e finisco per inciampare nella tracolla della mia borsa sbattendo un fianco contro lo spigolo di un banco attaccato al muro. Non mi ero neanche accorta di essermi mossa prima di quel dolore sordo.
Mi mordo la lingua nell’attimo in cui cerco di non perdere l’equilibrio.
Il sangue sa di ferro tra le labbra, stringo gli occhi per ammortizzare il dolore e non sentire lo stomaco chiudersi su se stesso, ma non c’è rimedio per il disagio che mi assale.
"Ahi" - esclamo mentre lacrime pungenti di vergogna si affacciano ai miei occhi: odio sentirmi al centro dell’attenzione.

"Loockwood” – la voce perentoria dell’insegnante sovrasta il chiacchiericcio che anima l’aula –“per te l'ora è finita. Vattene dal preside!” – un ragazzo di media altezza, con le spalle grandi e un sorriso provocatorio si alza e mi fissa con un paio di occhi neri che mi mettono a disagio – “Ehi ragazzi, mantenete un certo contegno e… Elena mi dispiace, ti sei trovata in mezzo a una mandria inferocita di caproni. Avrete solo da imparare da questa ragazza... siediti pure dove vuoi" - il professore di storia e letteratura è stata l'unica persona gentile con me nell'ultima settimana. Ha letto qualcuno dei miei scritti, gli ho parlato della mia situazione difficile e del mio trasferimento e mi ha semplicemente sorriso e teso una mano senza giudicarmi, così ancora imbarazzata e ferita, mi siedo in un banco vuoto, in terza fila, vicino alla finestra, tiro fuori quaderno e lapis e tengo la testa bassa, i capelli a coprire il disagio di sentirmi il fenomeno da baraccone della mattinata.

"Professore sto uscendo cosa devo raccontare al preside? Che ho quasi ucciso la nuova arrivata con una pallina di carta?" - la voce del ragazzo si alza fino a quando uno scoppio di risa mi fa gelare il sangue, massacro il lapis stringendolo tra le mani ormai diventate bianche per lo sforzo di non crollare, così, di fronte a tutti.

"Loockwood sparisci e voi smettetela subito! Credete di essere divertenti?" – la domanda retorica è accompagnata dal tonfo di un libro sbattuto sulla cattedra con rabbia. Io mi stringo ancora di più su me stessa, quasi spiaccicata al muro.
Dannazione, nonna.
Voglio solo tornarmene a casa.

"Divertentissimi prof" - una voce profonda e ironica si alza contro quella dell’insegnante e mi volto un attimo per vedere con la coda dell'occhio un ragazzo con un giubbotto scuro di pelle entrare nell'aula tirando una spallata a Loockwood - "Tyler brutto coglione togliti di mezzo"

"Buongiorno Salvatore" – Saltzman si passa una mano tra i capelli. Stanco.
Non c’è traccia dell’uomo dolce che mi ha parlato pochi giorni fa.
Sembra più che altro sull’orlo di una crisi di nervi.
E io con lui.

"Anche a lei prof" – lo sconosciuto allontana la sedia dal banco vicino al mio facendola stridere per terra prima di sedere in modo per niente composto: le gambe divaricate, la schiena rilassata e la testa quasi poggiata su una spalla.
Non siedo così neanche sulla poltrona di casa mia.

"Può darci un motivo del suo ritardo, signor Salvatore?"

"Salvatore” – biascica il ragazzo con un tono duro che mi fa rabbrividire – “Ti suona bene in bocca Alaric. Ma sai come mi chiamo. Puoi chiamarmi Damon, come mi chiami ogni dannata sera in cui vieni a casa mia per scoparti mia madre. Quindi, Alaric, io sono Damon"
 
Un silenzio impressionante scende sulla classe. I miei brividi raddoppiano, o forse triplicano. Nessuno si muove, nessuno dice una parola. Nessuno si esprime.
Ma il professor Saltzman si siede tranquillamente sulla sua sedia e quando alza gli occhi verso di noi, un sorriso divertito gli accende lo sguardo.
 
“E questo ti disturba Damon?” – lo provoca, accavallando le gambe e incrociando le braccia al petto – “E’ un problema che vogliamo discutere davanti a tutta la classe?”
 
Il ragazzo si limita a scuotere la testa, poi si sporge piano in avanti e fa scivolare il suo giubbotto scuro sullo schienale della sedia, rivelando un fisico slanciato stretto in una maglietta bianca a mezzemaniche. Una vena pulsa frenetica sul suo bicipite, segno dell’agitazione che sta salendo dentro di lui e che cerca di celare nella stretta dei pugni chiusi.
 
“Oppure vogliamo parlare delle tue assenze ingiustificate? Dei tuoi voti al limite del ridicolo? Della tua preparazione che fa acqua da tutte le parti?” – incalza l’insegnante senza dargli tregua, ma più il suo tono diventa inquisitorio, più Damon sorride, beffardo.
 
“Come al solito, Alaric” – ripete il suo nome come a voler dimostrare una confidenza che non dovrebbe esserci – “ti perdi dietro convenevoli che non mi toccano”
 
“Vuoi parlarci delle sorelle Bronte, Damon?” – poggia la testa sulle mani giunte facendo perno con i gomiti sulla cattedra – “Stamattina devo interrogare. Visto il tuo ritardo e la tua maleducazione potrei iniziare proprio da te”
 
“Stai scherzando vero?” – a questo punto il ragazzo ride, di una risata amara che mi stringe il cuore senza saperne in motivo – “credi di mettermi in soggezione Rick? Smetti di giocare. Abbandona la parte del professore intransigente. Non ti si addice”
 
“Hai letto Cime tempestose, Damon?”
 
“Avevo di meglio da fare” – biascica annoiato mentre accartoccia un foglio bianco che era disteso sul suo banco – “Te l’ho già detto, Rick, i libri sono per i perditempo. Per chi ha paura di vivere.  Per chi non sa fare i conti con se stesso. Non è roba che fa per me. Puoi bocciarmi di nuovo, non m’interessa” – lancia la pallina verso il cestino dietro la cattedra e fa centro.
 
Heatcliff sarebbe d’accordo con te” – sorride il professore – “Era un selvaggio come te”
 
“Rick… falla finita” – Damon fa per alzarsi ma il professore è più svelto, lo anticipa, con furbizia, in un’ammissione che lascia la classe a bocca aperta, me compresa.
 
“Non mi chiedi chi sia Heatcliff? Non ti domandi a chi ti sto paragonando?” – Saltzman si alza, cammina lento intorno alla cattedra, supera le prime due file di banchi, poi poggia le mani sul banco di Damon, dopo aver sganciato i primi due bottoni della sua camicia grigia – “Certo, non me lo chiedi perché lo sai. Come hai fatto notare a tutti vado a letto con tua madre e frequento casa tua. Hai il libro che vi ho chiesto di comprare sul comodino, ma ammetterlo davanti a tutti sarebbe troppo umiliante per te. Il misterioso Damon Salvatore, il menefreghista, che per sbaglio ascolta una lezione del povero e illuso signor Saltzman. Sarebbe un’ammissione troppo grande anche per te, vero ragazzino? Cresci Damon. Finiscila con queste sceneggiate. Continuerai a sputare terra se non abbandoni l’immagine che ti sei creato, non credo che sia divertente strisciare tra i perdenti”
 
Sono spiaccicata con la schiena contro il muro, le mie mani che inconsapevoli si sono nascoste tra le pieghe del maglione, mentre osservo i due uomini sfidarsi accanto a me.
C’è tensione emotiva nell’aria.
Un dolore sordo che aleggia tra di noi.
Un silenzio che sembra non volerci lasciare.
Solo il respiro di Damon che, umiliato, non riesce ad alzare gli occhi contro il suo avversario.
Respira a fatica. Un sospiro dopo l’altro.
Una boccata di vita per riaprire i polmoni e ricordarsi di essere vivo.
Non riesco neanche a immaginare quanto tutto questo possa fare male.
Le mie orecchie non hanno mai ascoltato parole così dure.
 
“Allora ragazzi c’è qualche volontario? Io ho un voto da mettere stamattina” – il professore si tira su, mi dà le spalle, torna alla lavagna e si sfila la giacca con eleganza prima di posarla sulla sedia con un gesto distratto. Per un attimo un velo scuro attraversa i suoi occhi – “Nessuno? Bene, sono costretto a scegliere… Salvatore, mi raggiungi in cima alla classe? Ti concedo di sederti, non sono un professore vecchio stampo che vi obbliga a stare in piedi durante le interrogazioni. Mi piace la comodità, dovresti saperlo.”
 
“Vengo io, prof” – la voce dolce di una ragazza mi arriva alle spalle, mi volto, curiosa, consapevole che nessuno si sta curando di me – “Meglio levarsi il dente finché fa male, no?” – scherza.
 
E’ bellissima, penso solo questo.
Elegante.
Con delle infinite gambe lunghe fasciate da un paio di calze a rete.
I suoi occhi nocciola, grandissimi, accarezzano con dolcezza la schiena di Damon, prima che le sue ciglia lunghe sbattano con malizia verso il professor Saltzman.
 
“Haley… ti sei dimenticata di vestirti stamattina? Siamo  in una scuola, all’ultimo anno di liceo, dovrei essere interessato a quello che ti esce dalla bocca non al rossetto rosso con cui ti dipingi le labbra” – lei sorride, e in effetti ha davvero una bocca bellissima; gli occhi del professore sono buoni, dolci, verso di lei. Oserei dire… comprensivi – “Per lo meno sai chi sono le sorelle Bronte? O ti sei alzata solo per salvare quel coglione di Damon?”
 
Lei ride. Una risata genuina che m’incanta.
 
“Non so chi sia Damon, professor Saltzman. Non frequentiamo gli stessi giri” – risponde, con gli occhi puntati verso il mio vicino di posto, il labbro inferiore stretto tra i denti.
 
“Ah! Da quando? Questa mi è nuova. Ragazzi… Damon ha per caso cambiato compagnie?” – domanda con ironia a tutta la classe. Non riesco a capacitarmi della follia in cui mi sono ritrovata, non comprendo la situazione. Non capisco perché questa ragazza castana, altissima e magrissima, continui a ridere con dolcezza, senza arrabbiarsi. Senza protestare.
 
“No, professore. Sono le compagnie che lo hanno abbandonato. Haley è l’unica che non vuole andare a letto con Damon” – la porta viene aperta con forza e Loockwood rientra in classe con prepotenza – “Salvatore le fa il filo, ma lei lo snobba. Ti brucia eh coglione!”
 
Ed è la frazione di un secondo, un attimo di troppo, una voce alzata che non sarebbe dovuta rientrare. Un tonfo sordo, una sedia che cade, un’imprecazione che avanza.
Loockwood è a terra con un labbro sanguinante, gli occhi sbarrati dalla paura.
 
“Non farlo mai più. Mai più. Chiaro?” – una minaccia a denti stretti, di fronte a me, nello stupore di un chiacchiericcio generale.
 
Io sono immobile, un freddo profondo che mi attraversa la schiena, mi sembra di non riuscire più a respirare. I miei occhi non riescono ad allontanarsi dalle spalle tese di Damon, dalle sue gambe appena un po’ piegate, le mie orecchie sentono solo il suo respiro affannoso.
La stanchezza dopo un pugno dato con rabbia.
La spossatezza dopo un quarto d’ora emotivamente difficile.
Vorrei sapere chi è. Perché non ha risposto agli assalti del professor Saltzman.
Perché quel fantoccio di Loockwood non risponde alle botte appena incassate.
 
“Damon” – una voce squillante, quella voce , irrompe nel brusio – “ma si può sapere cosa hai fatto? Ancora? Perché?” – la ragazza del palazzo di fronte, quella della sciarpa con i brillantini, quella di stamattina al telefono: eccolo il suo Damon, eccola irrompere in classe con i suoi occhi verdi sgranati e increduli – “Tyler, deficiente, tirati su! La finirete mai voi due?”
 
“Buongiorno signorina Forbes. Ci mancavi tu stamattina. Siediti. Poi voglio una spiegazione per il ritardo” – interviene il professor Saltzman senza scomporsi, come se scene del genere fossero all’ordine del giorno per lui – “Tyler, Damon, sedetevi. Riprendiamo, per favore”
 
“Ma professore…”
“Caroline” – allora si chiama così la mia vicina di casa – “dove sei stata fino ad ora? Giuro che non mi arrabbio ma per favore almeno tu parla chiaramente stamattina”
“Professor Saltzman… ma perché si sono picchiati?”
 
“Caroline impara a farti i fatti tuoi. Damon dannazione se esci da quella porta ti spedisco fuori dall’istituto a calci in culo” – il tono è duro, perentorio, lo sguardo dell’insegnante fisso infondo alla classe.
 
Così continuo a seguire la scena, le ginocchia al petto e le mie dita che giocano col buco sulla punta delle mie converse, non avrei mai pensato di sedermi così, con i piedi sulla sedia, il mio primo giorno di scuola, ma mi sembra di essere al cinema, in uno spettacolo dove io non sono compresa, dove continuo ad essere trasparente e tutto questo mi piace, mi rende tranquilla, mi ricorda che niente è cambiato: io valgo poco, nessuno s’interessa davvero a me.
Nemmeno mia madre che è morta.
Nemmeno mio padre che è bruciato in un incendio estivo.
Nemmeno loro hanno avuto la forza di restare per me.
 
“Damon vuoi fermarti!” – la bionda urla, e mi riporta alla realtà allontanandomi bruscamente dai pensieri malati che mi accompagnano, o forse è lo sguardo di ghiaccio che mi trapassa quando i miei occhi incontrano quelli di Damon per la prima volta.
 
Ha gli occhi più azzurri che abbia mai visto.
La mascella delineata e tirata in un’espressione che accentua ancora di più i suoi lineamenti perfetti. Non avevo mai visto un ragazzo che trasmettesse così tanta forza con una sola espressione.
 
Heatcliff.
Il professor Saltzman aveva ragione a paragonarli.
Sono entrambi due selvaggi.
 
“Care vuoi smetterla di urlare come un’oca giuliva?” – la riprende, e sembra che anche i suoi occhi inizino ad ammorbidirsi – “non vado da nessuna parte ok? Mi siedo. Così tu e Rick la smetterete di ossessionarmi. Dio che mattinata assurda” – adesso cammina elegantemente tra i banchi, i capelli scuri che si muovono sulla sua fronte al ritmo della sua risata.
 
“Salvatore ti aspetto all’ora di pranzo” – soffia Loockwood al suo orecchio, ma Damon lo spintona piano allontanando il suo fiato dal collo – e non so perché, ma mi invade la sensazione schifosa di un alito puzzolente sulla pelle.
 
“Si, certo coglione. Attento a non inciampare nelle stringhe mentre tenterai di sferrarmi il colpo mortale” – fa per alzare il banco che era caduto durante l’assalto di poco prima e si accorge che una gamba è rotta, traballante, così si tira su e sospira afferrando una sedia e voltandosi verso di me – “ti dispiace se seguo la lezione appoggiandomi al tuo banco? Giuro che non voglio picchiare anche te”
 
Scuoto la testa facendogli posto, a bocca aperta, non mi aspettavo che fosse capace di usare un tono dolce. Sembra una di quelle classiche persone che non urlano mai, che parlano a bassa voce, una voce profonda e meschina che può far solo rabbrividire e mai accarezzare.
Ma i suoi occhi, dio, i suoi sono gli occhi di Heatcliff, quelli che mi sono disegnata nella mente così tante volte, durante le mie riletture di Cime tempestose. E poco importante se Heatcliff ha gli occhi neri come la pece, non è questione di colore – quella di cui parlo – ma questione d’intensità.
 
Si siede in un angolo del banco, mi lascia spazio, poggia una mano sul ginocchio, il suo peso tutto spostato contro lo schienale della sedia.
 
“Non è finita qui Salvatore. Non è finita qui” – l’eco delle parole di Loockwood persiste nelle mie orecchie. Lo odio, odio quel ragazzo spocchione di cui non so niente, ma che mi fa schifo. Come poche cose nella mia vita.
 
“Dannazione Tyler. Vuoi zittirti? Sei peggio di lui” – la voce di Haley riporta l’attenzione verso la cattedra, il professor Saltzman sorride benevolo verso di me – “Quando ti comporti da stronzo come stamattina mi dimentico perché ti sono amica”
 
“Haley… non ti ci mettere anche tu” – borbotta il ragazzo, e solo adesso mi accorgo che indossa la felpa di una squadra di football. Il quarterback della scuola, dovevo immaginarlo.
Sono tutti privi di cervello e buone maniere, come nei migliori film.
 
“Caroline Forbes… vuoi restare in piedi o vai a sederti?” – la prende in giro il professore, canzonandola – “Mi sembri abbastanza sconvolta”
 
“Non ci si metta anche lei, prof. Ho passato l’ultima mezzora in compagnia del dottor Wes. Mi ha chiesto di riconsegnare i compiti della settimana passata. Posso farlo adesso?”
 
“Ti ha bocciata di nuovo Forbes?” – scherza l’insegnante di letteratura, mentre mi accorgo che gli occhi di Haley non si staccano da Damon, un sorriso dolce prima di mimare qualche parola incomprensibile con quelle labbra rosse e perfette che vorrei avere per me.
Damon contraccambia il suo sguardo, la mascella ferma, rigida, prima di spostare i suoi occhi oltre, verso la finestra. Gli alberi della scuola agitati dal vento. Sembra perso nei suoi pensieri e io vorrei solo potermi allontanare.
 
“Ovviamente… no, professor Saltzman. Non sono la prima della classe per caso” – la bionda passa tra i banchi, consegna un foglio dietro l’altro, veloce, pragmatica. Preparata.
Non c’è traccia delle risate che sentivo uscire dalla sua finestra, solo una piccola donna pratica che svolge bene il suo mestiere. Mi sembra quasi impossibile che sia lei a suonare così bene la chitarra, quella musica dolce che mi ha cullata nei miei primi giorni a New York.
 
“Elena Gilbert? Chi è Elena Gilbert? Forse Wes ha sbagliato. Un compito sbarrato e inclassificabile. Tyler hai cambiato nome?”
 
Mi sento sprofondare. Avevo dimenticato che giovedì scorso, dopo aver parlato col professor Saltzman ero stata chiusa in una stanzina per controllare il mio livello di conoscenza in chimica, fisica ed economia. A niente erano valse le mie proteste, i miei tentativi di spiegare al dottor Wes che il liceo che frequentavo in Colorado preparava soltanto nelle materie umanistiche.
 
“E’ quella nuova, bionda. Io per lo meno ho preso D. La morettina vicino alla finestra” – precisa il quarterback – “Quella che per poco muore sbattendo la testa contro una pallina di carta”
 
Abbasso la testa e mi nascondo di nuovo dietro i miei ricci ribelli. Vorrei sprofondare.
Lacrime di rabbia e vergogna, d’impotenza, mi rigano le guance. Le cancello svelta col dorso della mano e tiro su col naso.
 
“Il tuo compito” – una voce femminile mi richiama all’attenzione, ma non riesco a muovermi, poi una mano maschile, con una cicatrice sul dorso, mi posa il foglio sulle ginocchia.
 
“Ci mancava la frignona. Siamo al completo, Rick. Che classe di fenomeni eh” – mi sfotte Damon, prima di sospirare e passare gli occhi su di me con un misto di disgusto e scetticismo che mi ferisce.
 
“Grazie… grazie per il foglio” – balbetto, con un sussurro flebile che si perde dietro le parole del professor Saltzman.
 
“Haley. Dimmi la verità… sei preparata?”
 
Caroline Forbes torna verso di noi, poggia il compito corretto sul banco prima di tirare uno schiaffo affettuoso sulla testa di Damon,  i miei occhi riescono a leggere un unico segno rosso su quel foglio: una A in alto a sinistra, accanto al nome Salvatore, prima che il mio vicino di posto accartocci tutto in una pallina che vola di nuovo precisa nel cestino.
 
“Hai preso una A” – sussurro.
 
“Elena… ti chiami così, giusto?” – annuisco – “Io non sono un tipo socievole. Non cercare di fare amicizia con me” – mi risponde brusco – “ e non piangere. Sai dove sei venuta? Resisterai due giorni se continui così”
 
Non ho il tempo di articolare una risposta, perché il signor Saltzman chiama il mio nome.
 
“Elena… vuoi dirci tu chi sono le sorelle Bronte?”
 
Non so se rispondere.
Non so quale sia la scelta migliore da fare: farmi nuovi nemici dimostrandomi una secchiona priva di vita sociale o prendere l’ennesima insufficienza dopo meno di un’ora di scuola.
 
“Haley vai a posto. T’interrogo domani, preparati per bene”
“Professor Saltzman sono pronta anche adesso”
“Domani lo sarai senza dubbio di più”
 
La ragazza sorride, poi cammina lungo la classe per raggiungere il suo posto nell’ultimo banco, ondeggia sui fianchi con eleganza e Damon si volta, poggia il mento sulla spalla  seguendo minuziosamente ogni suo passo.
E’ arrogante, ma senza dubbio succube del fascino femminile.
Nessuno guarderà mai le mie gambe così.
 
“Ragazzi facciamo il punto della situazione” – riprende Saltzman – “come ci ha fatto notare con gentilezza Damon, non siamo una classe di fenomeni. Caroline Forbes è la prima della classe, e io non la sponsorizzerei per nessun  college degli Stati Uniti. Siamo la miglior scuola pubblica di Brooklyn, ma voi non valete neanche un centesimo del riconoscimento che ci accollano. Voi tutti, eccetto una persona. Ed è la vostra nuova compagna di classe, si chiama Elena, viene dal Colorado e se il suo compito col professor Wes è andato male è solo perché nel liceo che ha frequentato fino ad oggi non si studiano né chimica, né fisica né tanto meno economia. Ho avuto il piacere di parlare con lei e di leggere alcuni dei suoi scritti: pensa e propone idee che voi neanche vi sognate. Quindi… adesso lei vi spiegherà chi sono le sorelle Bronte, chi è Heatcliff e cos’è Cime tempestose. Il primo di voi che ride non potrà propormi la sua domanda per il college, non vi supervisionerò, non vi aiuterò. Neanche tu Loockwood, neanche se speri di andare al collage per meriti sportivi, chiaro?”
 
“Professore” – intervengo, con un sussurro flebile quasi inudibile –“potrei evitare di alzarmi? Almeno questo”
 
“Resta pure lì Elena. Vuoi spiegare al signor Salvatore chi è Heatcliff?”
 
“Non penso sia interessato” – massacro i miei ricci con le mani mentre sento le guance in fiamme. Vorrei solo sprofondare nel maglione deforme che indosso. Quelli che adoro portare sempre, quelli che mi nascondono dal mondo, quelli che mascherano i miei chili di troppo facendomi sembrare un sacco dell’immondizia dal visino dolce di bambina.
 
“Io invece credo di si” – rimarca con dolcezza il professor Saltzman – “Damon muore dalla voglia di ascoltarti. Perché non lo ammetterà mai, ma è un osservatore nato. Un tipo curioso per intelligenza. Non far caso al fatto che non sappia usarla”
 
“Ti sbagli Rick. E non cercare di farmi socializzare con la nuova arrivata” – si passa una mano tra i capelli, infastidito – “non funziona con me. E poi… dio mio, ma l’hai vista? Non ti offendere ma…” – si volta verso di me prima di terminare la frase – “mi piacciono le donne adulte, con le bambine ho smesso da un pezzo”
 
Un pugno in pieno viso mi avrebbe fatto meno male di quel giudizio gratuito e non richiesto.
Perché sono tutti così ostili? Perché sono così cattivi?
Non rispondo.
Non so cosa dire.
Fa male allo stomaco, alla gola, alle parole.
Al mio cuore. Alla mia autostima.
Al dolore che sento dentro.
Lo ingigantisce e lo lascia rimbombare.
New York non è la mia nuova possibilità, è una prigione feroce da cui non so scappare.
 
“Elena” – mi richiama il mio insegnante – “come definiresti Heatcliff?
 
E allora, ferita, le parole mi escono dalla bocca senza controllo, come se improvvisamente dovessi dimostrare a me stessa chi sono e quanto valgo. Quanto stupidi e inferiori sono i miei compagni di classe. Questi sconosciuti barbari che non conoscono le buone maniere.
 
“Heatcliff era orfano – come me, ma questo non posso dirlo – un bambino buono che incontra la cattiveria del fratellastro. Viene picchiato, umiliato, reso bastardo dalle sue condizioni di non nobile. La sua stessa famiglia lo fa sentire indegno, non meritevole d’amore. Così s’incattivisce, diviene folle di rabbia e d’amore, Heatcliff è un selvaggio che sa amare, un  duro dal cuore buono e dalle maniere rudi. L’amore per Katherine…”
 
“Fermati Elena. Fermati” – m’interrompe – “in realtà volevo solo che ti ascoltassero parlare. Io giovedì scorso ti ho già dato un voto, e per me è una A. Volevo solo che i tuoi compagni sapessero con chi si stanno confrontando: sponsorizzerò solo uno di voi per il college. E per me il tuo nome è già scritto” – abbasso la testa ancora più imbarazzata, non ho detto niente, non credo di meritarmi un tale trattamento – “che ne pensi Damon della tua compagna di banco?”
 
“Non ho compagni di banco. E’ solo un caso” – ribatte atono, allungando le gambe fasciate nei jeans scuri accanto a me.
 
“E di Heatcliff cosa ne pensi?” – incalza Saltzman, sfogliando il libro che tiene tra le mani.
 
“Penso che è un coglione. Quasi come te, Rick”
 
La classe sogghigna, il mormorio riprende vita e la ragazza seduta di fronte a me si volta sporgendosi con malizia verso Damon, il seno in bella mostra stretto in uno scollo profondo. E’ bella, bionda, di una bellezza piena e sfacciata che mi lascia senza parole.
 
“Damon vuoi dirci quanto hai preso al compito che ti ha consegnato prima Caroline?”
 
“Non lo so. L’ho gettato senza guardare” – risponde sarcastico, spalancando le braccia e scuotendo la testa. Ma i suoi occhi sono lì, sul seno della tipa che siede a pochi centimetri da noi. Si accarezza le labbra con la lingua e quel gesto intimo tra i due racconta una storia privata che non sono pronta ad ascoltare. Mi volto verso la finestra, per scappare lontana con gli occhi, per perdermi nei miei desideri buoni, nelle poche certezze che mi sono rimaste: quelle della gentilezza, dell’umiltà e dell’educazione. Niente a che vedere con la volgarità di quello scambio tra i due che mi siedono vicini.
 
“Elena… tu hai visto il suo voto?” – mi richiama il professor Saltzman con curiosità.
 
“No… no…” – balbetto, impaurita e ancora sconvolta – “Non ne ho idea professore”
 
Alaric Saltzman si alza dalla sedia, fa il giro della cattedra, la camicia ormai sgualcita, e si para davanti alla bionda molestatrice.
 
“Rebeka ti do fastidio?” – la osserva da sopra la spalla, sorridendole sornione... e lungimirante.
 
Ecco un altro nome da memorizzare.
Rebeka.
La seduttrice. Le darò questo appellativo nella mia testa.
 
“Oh no professore. Faccia pure” – risponde lei, sicura di sé, nessuna traccia di visibile imbarazzo.
 
“Potresti organizzare uno spettacolino sexy per tutta la scuola alla fine dell’anno… cosa ne pensi? Non puoi riservare certe gioie solo a Damon Salvatore. Se tuo padre lo sapesse… non credo ne sarebbe felice”
 
“Ho capito prof, ho capito. La smetto”
 
“Domani vieni con un maglione a collo alto. Chiaro?”
 
“Chiarissimo” – sbuffa la bionda, prima di allargare le labbra in un sorriso consapevole, che forse sa un po’ di colpa, o di paura… dopo che è stato menzionato suo padre.
 
“Damon ha preso una A. Capito ragazzi?” – riprende il nostro insegnante rivolgendosi alla classe e passando lo sguardo su ciascuno dei nostri volti – “Damon Salvatore, il menefreghista, è il miglior allievo del corso del dottor Wes. E voi sapete quanto sia difficile avere un voto positivo con quell’uomo…”
 
“Smettila Rick” – Damon si alza, infastidito, interrompendo le chiacchere sul suo conto – “per me l’ora è durata anche troppo”
 
“Salvatore” – lo richiama – “Vai a farti un giro, ma alle quattro fatti trovare in aula!”
 
“Perché mai?” – lo sguardo allibito, quasi scioccato – “sai che non mi presenterò mai”
 
“Si, che lo farai. Perché vuoi andare a studiare business in Europa. E perché adesso te lo ordina il tuo professore, non il tuo pseudo amico Rick” – rimarca, divertito – “E perché se vuoi che firmi la tua domanda per l’Europa dovrai avere una A anche nelle mie materie”
 
“Non succederà mai” – sibila a denti stretti – “e smettila di raccontare cazzate sul mio conto”
 
“Sei un genio in chimica, Damon. Smettila di vergognartene. E smetti di fare il coglione. Voglio una A per Elena al prossimo compito di Wes. Dovrai aiutarla, come lei aiuterà te in letteratura.”
 
“Tu sei pazzo” – afferra il giubbotto, e se lo porta sulla spalla con un gesto plateale che cattura l’attenzione di tutti.
 
“Glibert… oggi alle quattro. Mettetevi d’accordo. Voglio una relazione sulle sorelle Bronte entro la settimana prossima. Una a testa” – mi ordina puntandomi il dito indice contro.
 
“Professore io oggi devo…” – protesto – “devo… cioè, dovrei andare a cercarmi un lavoro… non posso…”
 
“I vostri problemi personali non mi riguardano. Siete il primo gruppo di recupero dell’anno, da domani toccherà anche al resto di voi. Chiaro per tutti?”
 
Caroline Forbes cerca di protestare ma la sua voce viene schiacciata dal suono fortissimo della campanella.
 
“Buona mattinata ragazzi. Evitate di picchiarvi ancora” – il professor Saltzman afferra la sua ventiquattrore e esce dall’aula, veloce come un fulmine, dimenticandosi anche della sua bella giacca di tweed.
 
 
 
 
 
  • Note dell’autrice 
Eccomi qui con questo primo capitolo. Mi ero ripromessa di non pubblicarlo prima della fine di Visionaries Award, ma questa è una storia a cui tengo tanto e che scrivo con tanta passione, per questo… ho deciso di lasciarvi il primo capitolo.
Spero vi piaccia, spero vi aiuti ad avere un approccio giusto con i personaggi.
Sarà la storia di Damon e Elena, ma anche quella di Alaric, di Caroline, di Haley.
Sarà una storia d’amore e di passione, ma anche di dolore. Di vita.
Di prime esperienze.
Spero che abbiate la pazienza di vederla crescere con me, e spero che piano piano impariate ad amarla come la amo io.
 
Vorrei dirvi che aggiornerò spesso, ma tenere in piedi due storie così “piene” senza mancare di rispetto all’una o all’altra non è cosa facile. Cercherò di aggiornare una volta ogni dieci giorni, spiegando di volta in volta questo nuovo mondo che si agita nella mia testa.
 
Fatemi sapere cosa ne pensate, vi scongiuro, ho bisogno del vostro parare spassionato per andare avanti in questo nuovo viaggio. E’ importante per chi scrive e per chi legge, trovare un’interazione positiva che renda tutto ancora più appassionante.
 
Vi abbraccio forte.
E vi ringrazio.
 
Elise.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** You weren't there ***


Image and video hosting by TinyPic

BEST OF YOU
 
CAPITOLO 2
YOU WEREN'T THERE

http://www.youtube.com/watch?v=G6uKZI5XZdQ
da ascoltare

 
Nel mezzo del cammin di nostra vita 
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
(Dante Alighieri, La Divina commedia)




Damon
Un tonfo sordo contro l’armadietto vicino al mio mi disturba ancora più di quanto non facciano già le chiacchere di tutti gli studenti intorno a me: una massa di stupidi che corre per prendere posto alla mensa - quando i posti sono sempre gli stessi da anni: il gruppo di quelli popolari e acclamati, il gruppo dei cervelloni, quello degli sfigati, quello dei pettegoli che osservano tutto di tutti, quello dei senza vita, quello inconcepibile degli alternativi e quello inutile degli sportivi, poi ci sono io, che di gruppo non se ne parla – quando una mano familiare si posa leggera sulla mia schiena.
Alzo appena un sopracciglio, contrariato, verso il sorriso caldo di Caroline.
“Mangiamo insieme?” – mi propone la bionda mentre si liscia il vestito con i palmi aperti, poi fa un giro su se stessa e la gonna corta gira, ampia, lasciando scoperto un pezzo di pelle bianchissima libera dalla costrizione delle parigine grigie che le coprono a malapena le ginocchia.
“Care no. Non vengo in mezzo a quella banda di trogloditi che fa a cazzotti per un pezzo di pane avariato” – sospiro, chiudendo deciso il mio armadietto e passandole oltre.
“Damon… tu fai a cazzotti per molto meno”
“Ecco… hai intenzione di farmi un terzo grado” – mi volto puntandole il dito indice contro – “Mi sembra un buon motivo per continuare ad evitarti. Buon pranzo Care”
Ho quasi raggiunto la porta d’uscita e dentro di me sto lentamente maledicendo tutte le ragazzine che stanno sedute sui gradoni dell’entrata non lasciandomi libero di passare quando sento qualcuno tirare il lembo del mio giubbotto di pelle.
Non ho bisogno di voltarmi per sapere che è sempre lei, so che se girerò la testa per guardarla incontrerò i suoi occhi stanchi e delusi, quelli della bambina che prendevo sulle spalle perché finiva sempre per sbucciarsi le ginocchia dopo ogni giro in bicicletta lungo Bedford Avenue, la domenica, quando correvamo come due pazzi tra le bancarelle del mercato, e mia madre ci aspettava a casa con la boccetta di disinfettante sul tavolo e un muffin al cioccolato a testa per merenda.
“Care ti ho detto che…” – tento di bloccare sul nascere qualsiasi sua protesta, ma lei è più svelta di me e si rifugia tra le mie braccia – “Ehi stai bene?” – stringe forte, così forte da togliermi il respiro, e annuso piano i suoi capelli biondi che profumano sempre di margherite.
Lei è l’odore delle mie sicurezze.
Quelle poche che ho e che spesso fanno acqua da tutte le parti.
Tutte tranne lei.
 
“Mi stai abbracciando davanti a tutta la scuola nell’ora di pranzo?” – mi sussurra piano contro il collo, un po’ incredula e un po’ bugiarda mentre il suo respiro mi fa il solletico sulla pelle sensibile del collo.
“Sai benissimo che non m’importa di tutta questa gente”
Caroline si discosta appena da me, mi guarda e mi accarezza una guancia, lascio un bacio lieve sul palmo della sua mano prima di nascondermi nuovamente dietro la mia espressione burbera.
 
“Non sparire mai più” – mi ordina aggrottando la fronte.
Non ci crede nemmeno lei.
Sa che continuerò sempre a comportarmi come al solito.
Come uno stronzo di prima categoria.
 
“Sei l’unica a cui rispondo sempre al telefono” – le faccio notare lasciandole un piccolo bacio sulla punta del naso.
 
“Si, lo so ma…”
“Care. Non ti lascerò mai. Lo sai” – ammetto, serio, forse un po’ stanco delle sue infinite paure.
“A volte penso che ti ritroveranno ucciso chissà dove e che sarò io a dover riconoscere il cadavere”
“Sei sempre la solita megalomane. Chi mai dovrebbe uccidermi?” – sorrido, contro la sua tempia, mentre passo un braccio sulle sue spalle e lei si appoggia a me in uno slalom improvvisato tra i gradoni e gli studenti seduti per terra.
“Ti cacci sempre nei guai e io mi preoccupo. Se solo tu mi dicessi dove vai, con chi, quando… io potrei…”
“Cosa potresti Care? Dare tutte le giuste informazioni alla polizia nel caso fossi disperso?”
“Si” – mi guarda seria, le braccia distese lungo i fianchi, il viso tirato in una solennità plateale che mi fa sorridere.
E’ sempre la stessa. Non cambierà mai.
 
“Prima quando mi hai abbracciato mi sono tornate in mente le nostre domeniche in bicicletta…” – le confesso, passandomi una mano tra i capelli, un po’ imbarazzato dalla debolezza che mi è uscita dalle labbra.
Sono stati giorni stancanti.
L’ultima settimana è stata un inferno.
Forse ho davvero bisogno di un po’ della sua dolcezza.
 
“…i muffin al cioccolato e il disinfettante sulle mie sbucciature” – m’interrompe lei mentre il vento le scompiglia i capelli, agitandoli intorno al suo viso dolce.
Il volto dell’unica amica che ho.
Si, Care è il mio porto sicuro.
 
Anche se le gambe gliele guardo lo stesso, anche se capita che mi ci faccia spazio, anche se io e Care non riusciamo mai ad essere del tutto innocenti.
E le guardo anche adesso, adesso che sente freddo e piccoli brividi le attraversano le cosce scoperte.
 
“Vai a pranzo Care, altrimenti non avrai tempo per mangiare. La mensa sarà già piena” – le bacio la fronte e mi allontano, senza darle modo di replicare, mentre cammino tra studenti che non ho mai visto, tra persone di cui non m’interessa niente, mentre la cantilena di voci straniere mi sfiora per scivolarmi addosso senza toccarmi davvero.
 
Ho bisogno di stare da solo.
 
 
Elena
Ho fatto la fila per prendere un vassoio, riuscire ad accaparrarmi un piatto di ‘non-so-cosa’ senza far cadere tutto per terra per ritrovarmi in mezzo a questo stanzone enorme e non sapere dove andare a sedermi.
Ci sono tavoli sparsi ovunque, senza un ordine preciso. Tavolate lunghe e rettangolari intervallate da tavolini rotondi più intimi. Non riesco a capire la dislocazione che è stata scelta per arredare questa mensa enorme.
C’è tanta gente, un flusso continuo di parole, di urla e prese in giro che mi rimbomba nella testa… e io qui, ferma, immobile, che pesticcio sul posto e i polsi iniziano a farmi male per il peso del vassoio.
Dove posso sedermi?
Non dovrebbe esserci un cartello con su scritto “Benvenuta sconosciuta”?
Niente.
 
Provo a guardarmi intorno ma non riconosco nessuno dei miei compagni di classe eccetto Tyler Loockwood che mangia con i gomiti posati sul tavolo accanto a una schiera di energumeni che indossano la sua solita felpa. Squadra di football o magari di basket: ho posato lo sguardo senza dubbio verso la zona degli sportivi senza cervello e nonostante la confusione, mi sembra quasi di sentire nelle mie orecchie lo sgranocchio fastidioso del cibo sotto i loro denti.
 
Sembrano tutti catalogati in serie, caricature di se stessi, gruppi di persone omologate che camminano allo stesso passo occupando una parte della sala. Quelli che leggono mentre mangiano sono seduti insieme, alla mia sinistra, poi alla mia destra ci sono quelli che non si staccano dall’iphone o dall’ipad o da qualsiasi altro meccanismo elettronico tralasciando il pranzo. Dietro di me un gruppo di ragazzi con delle creste altissime e coloratissime sulla testa.
Sono tutti qui intorno a me, raggruppati secondo uno schema, un’ideologia mentale e spicciola che non mi comprende né tanto meno affascina.
 
Non c’è posto per me.
Non mi riconosco in nessuno.
Pensavo che certe suddivisioni sociali esistessero solo nei film. A volte nei libri.
Ma non qui, non a New York.
 
Sospiro e decido di muovermi, gli occhi fissi oltre le vetrate: dei finestroni enormi circondano il lato esterno dell’edificio, quello che dà sulla strada che si affaccia su Fort Greene Park.
Il sole se n’è andato, nuvole grigie hanno preso il suo posto, ma per fortuna questo specchio di vetro verso l’esterno mi ricorda che non sono chiusa in una caserma, ma in realtà è qui che dovrei passare gli anni più belli della mia vita.
 
Sbuffo, contrariata e impaurita, mentre mi faccio largo tra gli studenti ancora in piedi, schivo la spalla di un tipo che si muove d’improvviso senza vedermi e per fortuna evito il bicchiere d’acqua che una ragazza lancia contro il suo ipotetico fidanzato urlandogli contro ingiurie irripetibili. Poso il vassoio su un tavolo e mi siedo in mezzo a un gruppo di ragazze che non conosco, mi sembrano normali – se è una definizione che si può usare in una città come questa – ma nessuna di loro mi rivolge la parola, si limitano a scambiarsi qualche gomitata e a fissarmi a bocca aperta come fossi un alieno.
 
“Scusami… Elena, giusto?” – una voce familiare e concitata mi raggiunge, alzo gli occhi e in piedi accanto a me trovo Caroline Forbes – “Quello è il mio angolo. Ti sei seduta nel mio posto” – ripete, contrariata, alzando gli occhi al cielo e facendoli roteare in gesto degno delle migliori attrici comiche.
 
“Oh… non sapevo che i posti fossero prenotati” – mi alzo, scoordinata, e faccio cadere a terra la mela che mi rigiravo tra le mani per ingannare l’agitazione crescente.
 
“No… in realtà non lo sono. Ma questa è la mia sedia da cinque anni!” – sentenzia gettando la borsa sul tavolo e quasi rischia di rovesciare a terra tutto il contenuto del mio vassoio.
 
“Senti Caroline. Io non voglio dare fastidio a nessuno” – sospiro cercando di ricacciare indietro le lacrime di spossatezza che mi si affacciano sulle ciglia – “puoi dirmi per favore dove posso mangiare? Sono nuova qui e nessuno mi aiuta”
 
Fa male.
Fa male allo stomaco.
Anche questo fa male.
Ultimamente tutto fa male.
Elemosinare una gentilezza.
Un sorriso.
Un attimo di comprensione.
Mi gira la testa.
Sono stanca. Stanca dentro.
E di lottare non ho nessuna voglia.
Nessuna forza.
 
“Oh si” – mi risponde la bionda, guardandosi intorno – “puoi sederti lì o lì o lì… oppure ecco, laggiù sarebbe perfetto” – mi indica un tavolo appartato, con un lato attaccato al muro dove sarei costretta a sedermi dando le spalle a tutti.
Come se non fossi neanche degna di osservare.
 
“E’ il tavolo delle punizioni?” – le chiedo cercando di sdrammatizzare – “mi mettete all’angolo?” – le mani perse di nuovo tra la lana del maglione enorme che indosso, il labbro inferiore massacrato dai canini mentre la mela è ormai una pallina sotto il mio piede – “va bene, ho capito. Tolgo il disturbo” – prendo il mio vassoio e faccio per allontanarmi ma quando sento le risate delle ragazze sedute arrivarmi alle orecchie lo poso di nuovo giù con un gesto brusco che finisce per far sbattere insieme piatti, bicchieri e posate.
 
“Ma che problemi avete tutti qua dentro?” – mi guardano, allibite, come se fossi pazza – “Mi è passato l’appetito Caroline. Se vuoi mangiare prendi pure il mio pranzo. Altrimenti dovrai scomodarti per buttarlo via. Non voglio stare qui dentro un secondo di più”
 
Afferro la mia borsa e cerco di superare la bionda che mi si para davanti sorridendo appena, sarcastica.
 
“Elena… io non so neanche chi sei. Sei tu ad avere dei problemi”
 
Incasso anche questa.
Una in più non può di certo farmi più male di quanto già faccia.
 
Non riesco a rispondere e lascio che quegli occhi chiari mi osservino con attenzione. Tutta. Dalla testa ai piedi. Come se fossi una cavia da laboratorio.
 
“Hai finito di guardarmi? C’è qualcosa che non va nel mio abbigliamento?” – la provoco, e appena finisco di aggredirla mi rendo conto che le parole sono uscite da sole come spinte da quell’istinto di sopravvivenza che mi accompagna da mesi.
 
“Si, in effetti non sei…” – borbotta, mentre con le mani disegna la figura inconsistente di un  corpo femminile.
 
“..non sono bella? Poco alla moda? Grazie. Sei molto gentile”
 
“No Elena, volevo solo dire che…”
 
Ma non la lascio finire, mi allontano da quegli occhi indagatori il più in fretta possibile e finisco per sbattere senza volere contro qualcosa di duro. Il petto di un ragazzo alto, dalle spalle larghe che mi guarda stupito.
 
“Ehi Care… va tutto bene?”
“Si, certo Matt. Solo un disguido con quella nuova”
 
Un altro tipo con la stessa felpa. Biondo con gli occhi azzurri e la mascella disegnata.
Un tipo tutto palestra e apparenza.
Senza dubbio un amico di quell’idiota patentato di Loockwood.
 
“Scusami” – balbetto, ancora appoggiata contro il suo petto – “voglio solo andarmene”
 
Lui mi fa spazio, si sposta di lato e quasi lo pesto, non alzo gli occhi per guardarlo, sono decisamente stanca di tutta la disapprovazione che sento intorno a me. Immagino che si avvicini a Caroline e la sfiori in un gesto d’affetto, storcendo la bocca stupito dal mio comportamento.
E lei scuote la testa, agita le braccia e mi liquida con un gesto infastidito della mano.
 
Si, proprio lei. Quella che ho osservato per giorni e che tanto mi piaceva.
Infondo, non sapendo neanche che faccia avesse, già desideravo il suo mondo. Chissà perché. Forse per la chitarra, o magari per la sciarpa di brillantini o semplicemente per le risate che rivolgeva a qualcuno fino a tarda notte.
In realtà adesso la odio con tutta me stessa.
Questa ragazzina pignola e precisina che crede d’avere il mondo in mano tanto da permettersi di urlare chiedendo spiegazioni per una rissa tra due stupidi in mezzo alla lezione di letteratura. Dev’essere un’altra di quelle stronze che giudicano chiunque per paura di parlare con se stesse.
 
“E’ una tipa strana e imbranata. Starebbe bene con April Young” – la sento commentare.
“Cosa c’entro io?” – una terza voce s’intromette.
“Niente April. Continua a sbavare dietro i pettorali di Matt” – poi se ne va, prima che io possa difendermi.
Ancora prima che possa pensare di farlo.
 
Scappo da quello stanzone, pestandomi i piedi, stringendo le dita contro la tracolla della cartella e ricacciando indietro le lacrime.
Non mi vedranno mai più piangere.
Non posso dargli questa soddisfazione.
Non a queste persone così meschine e poco altruiste.
 
In un attimo sono fuori dalla scuola, non ho mai corso così veloce in tutta la mia vita, neanche quando sono scappata di casa per restarmene  in quel bosco bruciato per vedere dove se ne fosse andato mio padre.
Per sentire quale fosse stato l’ultimo odore che ha percepito, l’ultimo orizzonte che ha osservato.
Per sentirmi più vicina a lui.
Sono rimasta lì, rannicchiata sull’erba annerita per ore, fino a quando il mio vicino di casa mi ha presa in braccio per riportarmi dalla nonna.
Credevo di aver corso tanto quel giorno.
Ma in realtà quel pomeriggio vagavo con l’anima oppressa dalla paura.
Adesso muovo i piedi uno davanti all’altro spinta dalla sacrosanta voglia di urlare.
Io che non ho mai urlato in tutta la mia vita.
Io che neanche so cosa significa aggredire qualcuno.
Io che odio la violenza e le imposizioni.
Io… io… a me che piace solo sognare dietro un buon libro.
 
Pensieri folli e contorti che si agitano dentro di me, tanto da aver tirato fuori il diario dalla borsa senza neanche essermene accorta.
Ho attraversato la strada, mi sono rifugiata dentro Fort Greene Park e ho iniziato a prendere fiato appoggiandomi al tronco solido di una quercia. Mi sono graffita il palmo delle mani passandole sopra la corteccia ruvida più e più volte, per sentire prima il bruciore salire sulla pelle e poi il dolore del graffio a chiudermi la gola.
Mi sono lasciata andare, seduta sull’erba ghiacciata e ho ripreso a respirare.
Come se quel dolore fisico potesse essere più forte della disapprovazione dispettosa che ho incontrato stamattina.
Mi sono autopunita.
Ho lesionato la pelle morbida delle mie mani.
Poi ho preso la penna e ho iniziato a scrivere, incurante del dolore.
 
Caro diario,
è stata una mattinata bellissima.
Mi sono alzata in orario, la scuola è vicina a casa e ho fatto colazione in un bar carinissimo.
Un bel ragazzo mi ha pagato il cappuccino e in classe mi hanno accolta a braccia aperte.
Sono finalmente felice dopo tanto tempo.
I sorrisi dei miei compagni mi…
 
Scarabocchio le bugie che ho scritto.
I sogni che mi ero creata nella testa, le fantasie a cui mi ero attaccata per sopravvivere.
 
Caro diario,
ho lottato con la voglia di piangere tutta la mattina.
Mi hanno fatta sentire inadeguata, brutta, grassa, inappropriata.
Ho sbattuto contro lo spigolo di un banco e adesso ho un livido enorme su un fianco.
Mi sono morsa la lingua e ancora fa un po’ male.
Odio il sapore del sangue tra le labbra.
Sa di peccato.
Non ho neanche pranzato… perché sono così inutile che nessuno mi ha spiegato dove avrei potuto sedermi. Mi hanno consigliato il tavolo dei peccatori… sbarrato contro un muro, avrei dovuto starmene lì da sola dando le spalle a tutti. Come se fossi in punizione.
E adesso ho fame.
La fame della stanchezza.
Una fame nervosa che mi attanaglia lo stomaco e mi fa scoppiare la testa.
Combatto per non piangere, ti rendi conto?
Io che ho sempre trovato dignitose le lacrime di chiunque.
Un’espressione della propria sensibilità.
Qualcosa di cui non vergognarsi mai.
Eppure… eppure mi hanno fatto notare che piangono solo i deboli.
Quelli per cui non vale la pena.
Come un fastidio.
Una spina sul fianco.
Una palla al piede da sganciare.
 
Hanno detto che sono strana.
Io?
Io che non ho mai litigato con nessuno in tutta la mia vita?
Ho solo chiesto aiuto, caro diario.
E adesso dovrei aspettare due ore per poi tornarmene in quella classe e spiegare qualcosa sulla letteratura inglese dell’età vittoriana a un perfetto idiota.
E… e lui dovrebbe aiutarmi a studiare chimica. O forse economia. O magari fisica.
Ho paura.
Di deludere la nonna e di fare male a me stessa.
Non voglio sentire più dolore di quello che già sento.
Ma io… io non sono brava a difendermi.
Ci ho provato… per un attimo, a farmi le mie ragioni ma adesso riesco solo a sentirmi colpevole per aver alzato la voce. Non voglio che si facciano un’idea sbagliata di me.
Perché non dovrebbe importarmi niente di tutta questa gente sconosciuta, ma in realtà vorrei solo essere apprezzata.
E odio avere questa consapevolezza.
Come faccio a restare qui fino alla fine della scuola da sola?
Come posso resistere?
 
Voglio tornare a casa.
Voglio la mia vecchia classe, non voglio stare qui tra queste bestie.
Ma chi l’ha detto che New York è la città delle possibilità?
Dei sogni?
Chi cavolo l’ha scritto per la prima volta?
Dio. Vorrei solo strozzarlo.
 
Fa male al cuore.
La verità è solo questa, caro diario.
Fa così male anche la rabbia che sento.
Mi fa male anche solo rendermi conto che sto giudicando persone che non conosco.
Che hanno una storia, dei dolori e dei ricordi con cui si scaldano il cuore quando fuori fa troppo freddo. Mi fa male rendermi conto che ho passato le ultime ore a pensare male di ogni persona che mi ha rivolto la parola.
Ho protestato anche sulle richieste del professore di letteratura.
Non voglio essere questo.
 
Mi torna in mente una frase del film ‘The big Kahuna’ quando Phil Cooper dice:
“vivi a New York per un po’, ma lasciala prima che t’indurisca”
Sono già diventata una persona diversa?
Dopo soli sette giorni lontano da casa?
Non mi piaccio.
Non vado bene così.
 
Io sorrido sempre e sono gentile con tutti, anche quando gli altri non lo sono con me.
 
Come con mamma e papà.
Non ho mai detto loro che sono arrabbiata, non gliel’ho mai detto davanti alle loro lapidi, non ho mai voluto che sapessero che mi sono sentita abbandonata. Come se il mio amore non fosse abbastanza. Non l’ho mai confessato neanche alla nonna.
 
Perché io non faccio del male.
Io non ne sono in grado.
 
Non vedo l’ora sia domani, caro diario.
Voglio scusarmi con Caroline Forbes. Forse lei cercava solo un modo per essere gentile.
 
 
Un fruscio di passi dietro di me blocca il flusso dei miei pensieri, mi sposto appena con la schiena contro la corteccia, poggio una mano sulla terra e strizzo gli occhi per il dolore dei graffi a contatto con l’erba.
Il professor Saltzman.
Tiro un sospiro di sollievo.
Forse anche lui ha avuto bisogno di un momento di pausa dalla scuola.
 
 
Damon
 
“Damon”
 
Una voce mi raggiunge alle spalle, la riconosco subito. Come non potrei.
Non mi volto, batto solo i miei anfibi neri contro il legno della panchina su cui poggio i piedi e mi stringo nelle spalle, mi piego ancora di più su me stesso poggiando i gomiti sulle cosce e facendo pressione col mio peso sul tavolo su cui sono seduto, nascosto tra gli alberi fitti di Fort Greene Park.
Forse questo posto è l’unico motivo per cui vengo ancora a scuola.
Sapere di potermi rifugiare qui, lontano da tutti, mi piace.
Lontano dalle chiacchere, dalle imposizioni, dal perbenismo falso con cui sono costretto a confrontarmi.
 
“Damon”
 
Ancora.
Dio, vattene.
Vattene via.
 
Sbatto più forte i piedi in segno di protesta, come se cercassi di allontanare un animale che cerca di spaventarmi. Come se davvero volessi cacciare via qualsiasi intrusione.
Come se fossi io, l’animale spaventato.
 
“Butta quello spinello” – il tono perentorio, quasi aggressivo.
E io rido, una risata profonda che parte dallo stomaco e che non riesco a controllare.
Il gusto amaro della consapevolezza che mi schiaffeggia in pieno viso.
E io rido, rido per contrastare l’istinto di correre via, ancora una volta.
 
“Sei patetico” – sbotto, così, osservando un punto lontano, una frasca ingiallita mossa dallo sbattere delle ali di un uccello.
Vorrei che fosse un gabbiano.
Uno di quelli grandi che si agitano a Coney Island a maggio, quando l’oceano è uno spettacolo bellissimo, pieno di luci e fiori, pieno di vita.
Quando amo New York, di un amore impossibile da cancellare.
 
“Smetti di fumare quella merda alle due del pomeriggio davanti alla scuola”
 
Ancora.
Ma la sua voce  adesso è più vicina, sento i suoi passi perdersi e frusciare tra le foglie secche, mentre mi limito a tirare su il colletto della giacca di pelle per ripararmi dalle sferzate del vento freddo.
 
“Mi hai capito?”
 
“Sennò cosa fai? Mi mandi dal preside?” – a questo punto mi volto, indifferente, chiuso in me stesso, mentre permetto agli occhi del professor Saltzman di stringersi su di me.
 
Ha ripreso la sua giacca di tweed, quella pesante, invernale. Quella che lo fa quasi sembrare un vero professore, non fosse per la camicia eternamente sganciata e mai inamidata, e per quel sorriso stronzo che mi ha salvato la vita chissà quante volte.
 
“Perché fai così?”
“Così come, Rick?” – sono stanco di discutere con lui.
Sono stanco di odiare e non comprendere la sua parte ordinaria.
“Così come uno stupido. Comportarti come uno sciocco. Come un ragazzino viziato”
 
“Rick. Ti prego” – mi allontano di nuovo da lui, con lo sguardo torno a perdermi chissà dove.
Ci sono così tanti alberi che quasi sembra buio.
E aspiro, profondamente, quel sapore dolciastro che mi rilassa.
E inebria giusto il tempo di qualche attimo.
“Non te l’ha mai detto nessuno che è vietato intromettersi nella canna di qualcuno che cerca un attimo di pace?” – lo schernisco, distendendo le gambe davanti a me, per ingannare l’apprensione che sento crescere dentro muovendomi un po’, il minimo necessario, prima di riportare quella cicca saporita ancora una volta tra le labbra.
 
E allora sento una presa ferrea stringermi la spalla e la sua mano afferrarmi il polso con forza. Abbasso le spalle, stanco di reagire e controbattere e non faccio resistenza. Alzo gli occhi verso di lui, in attesa.
 
“Dammi qua”
 
Mi sfila lo spinello dalle dita, glielo lascio fare, inerme.
Mi allungo con uno scatto verso la sua mano solo quando sembra che voglia lanciarlo lontano.
Poi si ferma.
Lo porta alle labbra.
 
E finalmente sorride.
 
Si siede accanto a me, nella mia medesima posizione e mi guarda, la testa leggermente piegata e gli occhi complici.
 
“Se ti vedono fumare ti licenziano” – lo prendo in giro, finalmente leggero. Un sorriso scanzonato mi sale alle labbra, d’improvviso, come se mi sentissi libero di rilassarmi almeno per un po’.
 
“Se sapessero tutto quello che faccio non mi farebbero insegnare da qui al Brasile”
 
Aspira, più forte di me, più uomo, con più bisogno e maggior consapevolezza.
Guardo Alaric e penso solo che sarebbe un buon amico, se non fosse… beh, se non fosse tutto quello che è.
 
“Complimenti per stamattina. Bella lezione di vita Rick… da quant’è che desideravi umiliarmi davanti a tutti?”
 
“Dallo stesso tempo in cui tu desideri prendermi a pugni”
 
Funziona così tra noi. Un botta e risposta che s’incastra perfettamente.
Nessuna confidenza di troppo.
Solo le nostre affinità che s’incastrano per il semplice fatto d’esistere… e di esserci incontrati.
Non ho paura di Rick.
Non l’ho mai avuta.
Neanche la paura di essere tradito. O ferito.
E’ troppo nobile per pensare di deludermi.
 
“Dove hai dormito queste notti? Sei stato da Caroline? Tua madre è preoccupata” – azzarda, fissando lontano, forse perdendosi dietro il mio stesso orizzonte.
I suoi occhi improvvisamente stanchi, adulti. L’espressione contrariata e impotente quasi riesce a farmi stringere lo stomaco in una morsa che non posso permettermi di sentire e accogliere.
 
“Sei qui per lei? Non m’interessa lo sai. Te l’ho già detto” – mi alzo parandomi davanti a lui.
Al mio professore che continua a fumare uno spinello e che mi guarda, come se potesse trovare quel punto dentro di me su cui fare leva per farmi inginocchiare.
 
“Damon se solo tu sapessi… se ascoltassi le sue ragioni…”
 
“Rick. Limitati ad andarci a letto, va bene? Non innamorartene. Mio padre se n’è andato per colpa sua” – gli do le spalle e mi allontano, lentamente, un passo dietro l’altro.
Infondo non so dove andare.
 
“Damon”
 
Ancora.
 
“Cosa vuoi Rick?” – non mi volto, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans congelati dall’aria fredda e umida. La schiena dritta, la testa alta. Improvvisamente mi accorgo di essere tirato come una corda di violino, fa male anche respirare.
 
Lo sento sbuffare, maledirmi in silenzio, borbottare qualche ingiuria nei miei confronti che finisce per farmi sorridere di un sorriso triste che mi fa sentire ancora più solo.
 
Poi sospira.
 
“Elena ti aspetta alle quattro. Mi raccomando”
 
“Sei tornato ad incarnare la parte del professore autoritario?” – lo canzono, rigido, sperando che il tono della mia voce non faccia trapelare quanto difficile sia per me, anche solo accennare a mio padre.
 
“Non sto scherzando Damon. Ti boccio per la terza volta, te lo giuro. Non andrai al college. Nessun soggiorno in Europa. Nessuna speranza per un futuro migliore”
 
“Va bene Rick. Fa come credi” – apro le braccia e  mi stringo nelle spalle mentre riprendo a camminare – “Vado al locale. Stasera suono” – e alzo la voce, il tono ironico con cui mi difendo sempre, avvicino le labbra e inizio a fischiare, chiudo appena gli occhi mentre mi lascio andare all’idea di una canzone che possa placarmi.
Non ho potuto farlo con lo spinello, ma posso sempre farlo con la musica.
 
Ma lui è svelto, a volte dimentico come ci siamo conosciuti – il famoso ‘Rick mano lesta’ di cui tutti parlavano, una garanzia nel mondo del malaffare di Brooklyn – e mi afferra una spalla, stringendo così forte da costringermi a piegarmi sulle ginocchia per non cadere.
 
“Damon” – mi ritiro su a fatica e lo sfido, il mio volto a pochi centimetri dal suo – “quella ragazzina ha passato le pene dell’inferno” – ma lui è stanco, come i suoi occhi, che non si staccano dai miei.
 
“Bene. Allora si trova nel posto giusto. Le manca solo da scegliere il girone in cui perdersi” – gli sorrido, e nel voltarmi tiro un calcio a una pigna che mi ritrovo tra i piedi, il rumore che fa sbattendo contro il tronco di un abete lascia che le proteste di Rick si perdano dietro di me.
 
“Leggi Dante, Damon?” – lo sento ripetere – “Eh… leggi Dante ragazzino?” – e lo so che sta camminando nella direzione opposta alla mia, magari prendendo a calci le foglie gialle e raggrinzite su se stesse, magari per fare rumore e non sentire il peso assordante dell’inadeguatezza.
Siamo agli estremi io e Rick, agli estremi di una stessa strada, come adesso, camminando in direzioni opposte.
Eppure mi chiama.
Continua a interrogarmi.
 
“Eh stronzo. Ti leggi l’Inferno di Dante prima di scoparti Rebeka Mikaelson?”
 
“Non so chi sia. Non so di chi tu stia parlando. Questo Dante… mi sfugge” – rispondo, gridando contro il vento che mi scompiglia i capelli, sapendo benissimo che Rick cammina lentamente per riuscire ad afferrare un mio segno di cedimento, per ricordarsi che infondo la voglio sempre per me, l’ultima parola.
 
“Fa che non lo sappia suo fratello, Damon. Sai a cosa vai incontro”
 
“Si fa di tutto…” – inizio, accentando il tono via via che le parole mi escono di bocca.
 
“…per un bel paio di tette” – finisce lui per me, come un mantra solo nostro, mentre ride, e il suono profondo della sua risata arriva alle mie orecchie trascinato dal vento.
E anche questa è musica, lo è così tanto che sorrido.
Forse più leggero, forse colpevole, probabilmente cupo. Come sempre.
 
Io e Alaric Saltzman, lungo una stessa strada, dandoci le spalle, dopo aver condiviso lo stesso spinello. E lo stesso senso oppressivo d’attesa. Di non so cosa.
 
 
***
 
Rannicchiata su se stessa e con la testa poggiata contro il vetro della finestra, Elena è bella.
Pensa questo Bonnie, appena oltrepassa la porta della classe e trova l’aula nella penombra, occupata da una ragazza nuova, che guarda la gente camminare frenetica fuori dal vetro.
Ha dei capelli bellissimi, lunghi fino a metà schiena, piena di riccioli ribelli che escono fuori dal fermaglio con cui si è appuntata due ciocche sopra la testa.
Ascolta la musica con le cuffie. Un paio di cuffie bianche con cui si diverte ad ingannare il tempo giocando con le dita sui fili che le attaccano ad un vecchio ipod.
Si domanda quale voce stia ascoltando, ancor prima di chiedersi chi sia.
Si domanda quale canzone malinconica dia voce alla sua presenza solitaria mentre gli ultimi corsi finiscono e tutti desiderano scappare fuori, immergersi nella vita, invece di nascondersi in un angolo buio di una classe qualunque di quell’immensa scuola.
 
Bonnie ha quasi paura ad avvicinarsi, non vuole disturbarla nella perfezione di quell’attimo solo suo. Si domanda quale mondo bello porti dentro di sé, per non aver paura del buio e del silenzio, per non sentire la necessità di dedicarsi ai fogli sparsi che ha sul banco contro cui è costretta.
 
Poi una lacrima le riga la guancia, ma la sconosciuta la cancella in un attimo, la porta via col dorso della mano in uno sbuffo che fa sorridere Bonnie di tenerezza.
Sembra abituata, questa ragazza, a cancellarsi i segni della tristezza dal viso.
 
Così Bonnie si siede nel banco più distante possibile, senza fare rumore, apre il suo libro di chimica e inizia a leggere. Parola dopo parola, riga dopo riga, spiegazione dopo spiegazione.
Appunta qualche formula su un foglio a quadretti e intanto sbircia l’orologio.
Le quattro e un quarto.
Le quattro e mezzo.
Dieci minuti alle cinque.
 
La sconosciuta è sempre lì, sembra non essersi mossa di un millimetro. Respira piano, con gli occhi socchiusi, le mani adesso intente a districare un ricciolo più ribelle degli altri.
Ha la pelle candida, nessuna traccia di trucco sul viso, neanche l’accenno di una riga di matita sugli occhi sfumata dalla giornata appena trascorsa.
Sembra avere paura a muoversi, sembra impossibilitata ad accorgersi della possibile presenza di qualcuno intorno a lei, dondola lenta su stessa col mento poggiato sulle ginocchia.
Chissà cosa pensa.
Dove si è rifugiata.
Per quale motivo si nasconde dal mondo e dai suoi rumori.
Chissà perché sbircia solo la vita degli altri, fuori dalla finestra.
 
Si domanda questo Bonnie, mentre cerca il modo migliore per parlarle, per provare a chiederle se ha bisogno di un fazzoletto con cui asciugarsi meglio gli occhi umidi.
Perché appena li apre, sono due laghi così grandi che riflettono la lucentezza delle lacrime trattenute anche a distanza.
 
Poi d’un tratto Elena si volta e le sorride.
Ma non con la bocca.
Elena sorride con le labbra, e con la lingua che esce dispettosa dai denti. Sorride con la smorfia imbarazzata che fa quando si accorge che ridere presuppone strizzare gli zigomi e muovere gli occhi, così che le lacrime trattenute scendano leggere a decorarle le guance.
 
“Scusami oggi sono un disastro” – queste le prime parole che le vengono in mente, quando Bonnie si alza per andarle incontro porgendole il suo fazzoletto rosa, quello decorato con le iniziali di sua nonna: Sheila Bennet.
 
 
Elena
  “Io sono un disastro per i restanti giorni dell’anno” – mi risponde questa ragazzina minuta dalla pelle scura e il sorriso buono – “quindi non preoccuparti. Sei nuova qui?”
 
“Si. Oggi è il mio primo giorno di liceo dell’ultimo anno. E sto piangendo ascoltando vecchie canzoni di Lene Marlin” – sospiro tirandomi su i capelli e fermando la massa di ricci con un lapis – “sto aspettando da un’ora un mio compagno per una lezione di recupero e non so dove sia né come rintracciarlo. In realtà dubito che si presenti. E sto parlando senza sosta senza neanche chiederti il tuo nome” – mi scuso alzandomi finalmente in piedi e porgendole la mano – “Sono Elena. Il mio nome è Elena”
 
“Io sono Bonnie” – contraccambia la mia stretta di mano con decisione – “e anch’io sto aspettando uno studente che non si presenterà mai. Quindi… io e la chimica ci siamo prese un appuntamento in solitaria” – scherza, per cercare di farmi sentire meglio.
E’ la prima persona che ci riesce negli ultimi sette giorni.
 
Mi piace questa ragazza.
E’ schietta.
 
“E… se posso chiedertelo, Elena, chi stai aspettando?”
“Damon. Damon Salvatore. Credo si chiami così. Dobbiamo preparare una ricerca di letteratura per il professor Saltzman” – le spiego mentre riordino i fogli sparsi sul banco per richiudere la cartella e decidermi a tornare verso casa – “grazie per il fazzoletto Bonnie. E scusami se l’ho bagnato, io… io ho qualche problema d’emotività ultimamente”
 
Poi il mio stomaco brontola. Un  gorgoglio forte e deciso che m’imbarazza, così mi stringo ancora una volta le braccia intorno al corpo per difendermi: dal suo sguardo e dalle mie reazioni involontarie. E’ tutto motivo di vergogna, mi sento scoperta, un libro aperto per tutti… che qui sembrano mascherare i loro sentimenti dietro comportamenti arroganti con una facilità che mi lascia senza parole.
 
“E’ che… non ho pranzato. Credo di avere fame” – mi affretto a prendere le mie cose e allontanarmi da lei – “Scusami ancora. Devo andare” – ma lei continua a fisarmi con quegli occhi buoni e rassicuranti che mi spingono lentamente a distendere il mio corpo in un sospiro tranquillo, e aperto, bisognoso d’attenzioni… come tutto di me.
 
“C’è un bar qua vicino. Vuoi che ti accompagni a mangiare qualcosa?” – la sua voce è dolce, come se parlasse a un bambino, o a un cucciolo ferito.
 
“Oh si, si… si, certo. Lo faresti davvero?”
 
“Mi vedi Elena?” – mi domanda lei mentre divarica le gambe e apre le braccia per mostrarmi il suo corpo – “Sono una ragazza di colore che vive nel Bronx e che frequenta una scuola pubblica a Brooklyn. I miei vicini di casa non apprezzano che mi mescoli con i bianchi. Capisco perfettamente il tuo senso d’inadeguatezza” – poi mi afferra la mano e mi porta fuori dalla classe, mi trascina dietro di sé e continua a parlarmi, senza sosta, senza darmi il tempo di pensare a nient’altro oltre alle sue parole – “Dovrai sceglierti un armadietto tutto tuo dove posare i libri e tutte le tue cose per non portarti la borsa dietro tutto il giorno. Hai già scelto i corsi supplementari? Ce ne sono di bellissimi davvero. Interessanti… cose che puoi studiare solo qui. Il professor Wes fa un corso di microbiologia che è la fine del mondo…” – a quel punto la interrompo, spaventata dal solo sentir nominare quell’uomo al ricordo della prima insufficienza imbarazzante della mia carriera scolastica.
 
“Io… io e il dottor Wes non andiamo d’accordo. Vengo da una scuola per sole ragazze in Colorado dove non si studiamo materie scientifiche e…”
 
Le mani di Bonnie si posano sulle mie, che gesticolano agitate verso di lei, mi stringe forte le dita e mi placa, congiungendo le nostre mani insieme in un gesto dolcissimo che mi scalda il cuore. Quello di cui avevo bisogno.
 
“Adesso capisco le ripetizioni con Damon Salvatore” – sorride, in mezzo al corridoio, io e lei circondate da armadietti e mattonelle a scacchi bianche e nere – “è il preferito del professore”
 
“Ah. Lo conosci bene?” – domando, un po’ incuriosita e un po’ spaventata dalla possibile risposta.
 
“So quello che sanno tutti di lui. E’ un tipo strano e solitario, poco socievole. Uno di cui non fidarsi mai”
 
“Immaginavo. Stamattina ha preso a pugni uno in classe e…”
 
“Non hai visto niente Elena. Non è mai successo, okei? Qui fatti sempre gli affari tuoi. E’ la prima regola per sopravvivere” – mi avvisa, i suoi occhi neri che si stringono in due fessure verso di me – “E Damon è il preferito di Wes solo perché io sono al quarto anno e lui all’ultimo. Voglio solo che bocci anche quest’anno così da poter frequentare la sua stessa classe e dimostrargli chi è davvero bravo in chimica. Quella sono io, non lui” – e torna a sorridermi, facendomi l’occhiolino e tirando fuori la lingua in una boccaccia che sdrammatizzi il suo tono perentorio.
 
Poi Bonnie apre il suo armadietto, afferra la sua giacca e la indossa con eleganza.
E’ lieve.
Penso questo di lei.
Si muove con una gentilezza elegante che mi affascina.
Eppure parla con così tanta sicurezza da farmi desiderare di essere un po’ come lei.
Forte e leggera.
Affascinante.
Un po’ misteriosa.
 
“Andiamo a prenderci un frappè che ne dici Elena? Ne fanno di buonissimi al cioccolato. E per le tue lezioni di recupero ci penso io. Damon è senza dubbio inaffidabile”
 
“Forse dovrei chiedere al professor Saltzman…” – balbetto mentre la seguo verso l’uscita.
 
“No. Assolutamente. Qui ognuno lavora per sé. Damon non si è presentato. Tu troverai il modo di finire il tuo lavoro senza di lui. Chiaro?”
 
“Bonnie io…”
 
“Si?” – si ferma sulle scalinate per guardarmi meglio – “va tutto bene, stai tranquilla” – mi stringe un braccio per lasciare che il calore delle sue buone maniere mi inondi tutta – “Questa è New York, Elena. T’indurisce… ma è meravigliosa. Fidati di me”
 
Forse anche lei ha bisogno di un’amica.
O forse è solo gentile.
Ma al momento non m’importa.
Ho fame e questa ragazza dalla pelle olivastra e i vestiti colorati è la prima ancora di salvezza che trovo a cui aggrapparmi. E mi piace.
Fidarmi di qualcuno… così, d’impatto, senza ammazzarmi di domande, mi piace.
 
“Bonnie grazie” – mi getto verso di lei e la stringo in un abbraccio, il primo che ricevo da troppo tempo – “scusami, è che io…”
 
“…ti senti sola, Elena. Lo so. Ci siamo passati tutti” – mi sussurra all’orecchio, per poi sfilare il lapis dai miei capelli e sorridermi quando mi ricadono sulle spalle in una massa selvaggia – “basta piangere, va bene? Damon Salvatore non merita la tua tristezza”
 
E lei ha ragione.
Ma io di questo tipo non so niente, se non che i suoi occhi sono color del cielo.
 
Camminiamo insieme, lungo il marciapiede, in silenzio, e non mi sento a disagio con lei.
E’ un silenzio buono, il nostro, educato. Non invadente. Posato.
E se tutto restasse così come adesso, potrei decidere di visitare Manhattan per la prima volta, se questa ragazza appena conosciuta decidesse di accompagnarmi.
Fantastico un po’ su come sarebbe bello vivere qui e avere un’amica del cuore con cui condividere i pensieri davanti allo skyline, sotto il ponte di Williamsburg, dove tutto sembra bello e possibile.
La sera potrei camminare parlando con lei, invece di contare i mattoncini rossi delle case che mi separano da quello spettacolo.
Potrei camminare con lei lungo l’Hudson invece di scrivere sempre sul diario.
 
Vorrei… potrei… dovrei… vivere.
 
“A cosa pensi?” – mi domanda lei, fermandosi davanti alla porta di un bar da cui proviene un buonissimo odore di caffè. E’ un posto carinissimo, con i tavolini fuori dove le persone bevono caffè scaldandosi le mani con i bicchieri fumanti o togliendosi i guanti e soffiandosi sui palmi stretti intorno alla bocca.
Un mosaico colorato decora la parete esterna del palazzo, prima che le vetrate mostrino l’interno del locale costruito perfettamente all’angolo: tavolini in legno, pareti gialle e quadri colorati alle pareti.
E’ un posto kitsch, oserei dire.
Un po’ come Bonnie.
 
“Pensavo a come sarebbe bello avere un’amica qui” – confesso, abbassando subito lo sguardo verso le mie converse bucate e muovendo i pollici verso l’alto per vedere il calzino rosa sbucare contro il buchino della stoffa nera, mascherando in qualche modo la mia debolezza.
 
“Ci sono qua io adesso, no? Andiamo a fare due chiacchere” – Bonnie apre la porta di vetro e una melodia country ci scalda facendoci subito dimenticare del vento freddo che spettina gli alberi e le persone – “da qualcosa dobbiamo pur cominciare, no?”
 
“Certo” – rido, verso di lei, e neanche mi accorgo che sto saltellando di gioia mentre raggiungo un tavolino su cui sedermi e Bonnie prende al volo un menù da una dispensa improvvisata per il pubblico alla nostra destra.
 
“Scegli tutto quello che vuoi” – mi incita prima di allontanarsi un attimo e correre ad abbracciare una ragazza bionda che mi dà le spalle.
 
“Bonniiieeeeeee tesoro come stai?”
Ormai riconosco perfettamente quella voce squillante.
E’ Caroline Forbes.
Ed è sua amica.
Gesticolano tra di loro, complici, spintonandosi un po’, prima di dirigersi verso di me.
Non so cosa fare, forse potrei prendere la palla al balzo e scusarmi subito con lei, per evitare ulteriori incomprensioni, o magari potrei semplicemente voltarmi dall’altro lato fingendo di non vederla. O molto probabilmente la bionda si sarà già dimenticata della mia esistenza: io che sono quella strana e imbranata.
 
“Vi aspetto stasera, va bene?” – le sento dire a Bonnie – “non potete mancare. Alle dieci davanti ai cancelli della scuola, sarà una festa bellissima, alcool musica e… no, no nessuna droga. Solo sano divertimento” – scherza poggiando dei volantini sul tavolo e sfiorando appena un mio braccio – “vieni anche tu, Elena, che dici? Ormai fai parte della classe”
 
E io resto a guardarla, sorridendole appena e passando gli occhi su quel volantino futurista dove su uno sfondo nero  troneggiano in rosso le parole “Brooklyn Technical High school party. Impossible is nothing”.
 
 
 
 
  • Note dell’autrice.
 
Ecco per voi il terzo capitolo.
Ci sono alcuni incontri, un nuovo personaggio, alcune dinamiche che piano piano prendono forma.
Troverete alcuni imput che vi faranno domandare chi e che cosa succederà,
chi sono veramente queste persone, cosa nascondono,
spero di avervi incuriosito,
piano piano avrete tutte le risposte del caso.
 
Vi ringrazio per le bellissime recensioni, siete così buone e belle che non so mai come ringraziarvi. Spero che le mie parole continueranno sempre a scaldarvi il cuore,
o per lo meno a regalarvi una piccola emozione.
E’ il minimo che possa fare per sdebitarmi.
 
Questa è la Brooklyn Technical High School

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/ff/Brooklyn_Tech_High_School.jpg
 
e davanti si apre davvero il Fort Greene Park dove si rifugiano Damon, Elena e Rick.
Eccolo in autunno.

http://www.lacasapark.com/la/wp-content/uploads/2009/11/IMG_4192-1024x768.jpg
 
La quercia di Elena

http://farm8.staticflickr.com/7163/6422995133_bd2f683cce.jpg
 
E il caffè dove Elena e Bonnie trovano Caroline

http://archives.jrn.columbia.edu/2009/thebrooklynink/wp-content/uploads/2008/12/dsc_0145-11.jpg
 
Questo quello che vede Elena quando osserva il tramonto da sotto il ponte di Williamsburg

http://www.nuok.it/wp-content/uploads/2012/03/EastRiverStatePArk_Manhattan-592x442.jpg
 
Spero di avervi regalato qualche minuto piacevole.
 
E quello che trovate scritto su New York, su Williamsburg, sul Bronx… sono tutte nozioni che ho appreso nel mio secondo viaggio nella Grande Mela, parlando con una ragazza italiana che vive lì ormai da dieci anni.
 
E grazie, ancora, di tutto.
A chi ha inserito la storia tra le preferite, seguite, ricordate.
Fatevi sentire.
Lasciatemi le vostre impressioni.
Le vostre supposizioni.
Quello che sperate che succeda.
Sarà una storia al limite… o per lo meno questo è quello che spero di creare.
 
Ne approfitto per ringraziare Bloodstream con tutto il mio cuoricino.
Per il banner bellissimo, per gli incoraggiamenti e gli scleri.
Per la presenza.
 
Un abbraccio a tutte.
Siete importanti.
 
Elise.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2338317