Mi avevano portato via anche la luna

di Clairy93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Settembre 1942, Trieste.

Quasi come ogni giorno dopo il lavoro, prima di tornare a casa, mi dirigo verso Piazza Unità d’Italia.
Mi siedo su una panchina, se ho denaro a sufficienza gustandomi un buon gelato, accarezzata dolcemente dalla brezza che scompiglia la gonna del mio abito. E di fronte a me, il mare di Trieste.
Adoro questi momenti. Da sola. Lontano dagli obblighi di famiglia, dal lavoro…e dalla guerra.

In questo momento le armate di Hitler stanno tentando con ogni mezzo possibile di sfondare Stalingrado che nonostante tutto offre una strenua resistenza.
Ormai le pretese territoriali del Führer e la sua ossessione per il potere sono chiare. E noi italiani siamo da tempo vincolati alla Germania dopo la scelta di Mussolini di stipulare un patto con Hitler.  

Come conosco queste notizie? Semplice, lavoro nella casa di un politico triestino, il signor Tommasi, e mi occupo dell’educazione del figlio dodicenne. Di conseguenza mi capita spesso di udire alcune discussioni del padre su tali argomenti.
E’ importante essere aggiornati, per non cadere nell’oblio della disinformazione. Tuttavia l’attendibilità delle notizie è piuttosto relativa. Il regime controlla e censura qualunque informazione possa comparire lesiva per la dittatura e impone alla nazione la sua visione del mondo. E non condividerla…beh, non ci si potrebbe nemmeno porre questo dubbio.

Ma in questi momenti “di tregua”, in cui ho la possibilità di godermi qualche minuto di pace, rimuovo dalla mia mente ogni pensiero o preoccupazione.
Siamo nel 1942. Una comune giornata di settembre. E’ ancora estate ma l’atmosfera che si respira è gelida.
Siedo su una panchina e osservo come incantata il moto perpetuo delle onde e le barche attraccate che ondeggiano.
Quando noto una figura in lontananza. Un uomo in divisa, con giacca e pantaloni grigi inseriti in stivali di pelle nera e un berretto sul capo.
Abbasso rapida lo sguardo rassettandomi nervosamente la gonna, sperando che l’uomo non si fermi.
Di soldati se ne vedono a dozzine per le strade, non è certo una novità. Tuttavia la loro presenza in città non denota un periodo di pace.
Con la coda dell’occhio controllo l’uomo e dove sia diretto.  Ma è proprio alla mia sinistra.

Ma tu guarda che fortuna…

“Buon pomeriggio!” saluta l’uomo, sollevando il berretto.
Mi volto e, dannazione, il suo sguardo mi rapisce. La dolcezza che intravedo nei suoi occhi, nei suoi lineamenti e nel suo sorriso mi incantano. Una qualità che non scorgo negli sguardi delle persone da parecchio tempo.
Accenno un sorriso, ricordandomi di riprendere a respirare.
“Cosa fate qui da sola?” chiede l’uomo.

Ecco, una domanda come questa sicuramente mi irriterebbe. Tuttavia pronunciata da quelle labbra assume tutta un'altra armonia.

“Sto facendo qualcosa di male?”
“No assolutamente. Ma non è prudente andare in giro da sole con i tempi che corrono. E tra poco scenderà la notte.”
“Stavo giusto tornando a casa.” mi alzo dalla panchina sistemando la borsa a tracolla.
“Posso riaccompagnarvi!” balza l’uomo “Se non vi infastidisce ovviamente. In questo modo sarò certo che non vi capiti niente.”
“Vi ringrazio, ma non dovete disturbarvi.”
“Nessun disturbo signorina. E’ mio dovere. Lasciate che vi accompagni.”

D’accordo, forse la sua insistenza un poco mi innervosisce.

“Va bene, come volete…”
Afferro la sacca colma di libri ma lui è più svelto e me la sfila di mano, sorridendomi. E non posso fare altro che allentare la presa.
“Come vi chiamate?” mi domanda.
“Vera. Vera Bernardis. E voi?”
“Tenente Massimo Riva, primo reggimento San Giusto.” mi offre la mano e la stringo un poco timorosa “E’ un piacere conoscerti, Vera.”
Ricambio il sorriso, ritirando la mano e abbassando imbarazzata lo sguardo.
“Sei una scrittrice?”
Lo osservo perplessa e Massimo mi indica con lo sguardo la borsa dei libri.
“Oh no! Sono un’insegnante, impartisco lezioni private a un bambino. E cerco di procurargli i volumi di cui ha bisogno.”
“…Eppure hai un volto da scrittrice.”
“E cosa ve lo fa pensare?” domando divertita.
“Hai quello sguardo…enigmatico, sognatore. Come se fosse smarrito in lontananze irraggiungibili.”
“Come siete poetico...”
“Davvero?” chiede Massimo, sfoggiando un sorriso raggiante.
Annuisco convinta e aggiungo: “E voi da quanto siete tenente?”
“Da un anno. Ma sono nell’esercito da quando ne avevo diciannove.”

Quasi senza accorgermene, desidero che non sia tanto vecchio da essere già diventato tenente…

“Siete stato costretto ad entrare nell’esercito?”
“Sì, inizialmente. Come lo sono stati tutti i ragazzini della mia età. Con il tempo capii che quella era la mia strada, così mi sono arruolato ufficialmente.”
Chissà, forse nota la mia espressione un poco incerta che, come spesso mamma mi rinfaccia, difficilmente riesco a celare.
“Non mi fraintendere!” aggiunge Massimo, sfiorandomi il braccio scoperto e causandomi un brivido che si diffonde lungo la schiena “Non sostengo la guerra né coloro che la incoraggiano. Difendere e aiutare i deboli sono i motivi per cui sono nell’esercito.”
“E’ chiaro che amate ciò che fate.”
“Oh sì, eccetto per la convivenza esclusivamente maschile in caserma…”
Gli sorrido divertita.
“Non c’è da scherzare! Uno scontro ad armi impari sarebbe meno massacrante, mi credi?”
Scoppio a ridere.
“Sei davvero carina quando ridi…”
Non riesco a sostenere il suo sguardo. Abbasso il capo imbarazzata, tentando di celare maldestramente il rossore che compare sulle mie guance.
“Non volevo metterti a disagio. Ma sono sicuro te lo avranno già detto tante volte…”

Beh… contava papà?

“Quanti anni hai Vera?”
“Diciannove. Voi?”
“Venticinque. Perciò dammi del tu, non sono poi così vecchio.”
“No, non lo sei. Anche se…”
Massimo mi osserva perplesso.
“Qualche ruga sotto gli occhi…”
Massimo rizza il sopracciglio in maniera tanto buffa che scoppio di nuovo a ridere.
Nonostante qualche momento imbarazzante durante il quale Massimo mi osserva silenzioso accennando un sorriso, è una piacevole passeggiata.
Si sorprende nel sapere le mie conoscenze su alcuni aspetti di politica e di guerra e lo esorto a raccontarmi maggiori dettagli.
“Mi pare tu ne sappia già abbastanza.”
“Non credo proprio! Sono certa il governo ci nasconda tante notizie solo per controllarci più facilmente.”
“Forse in periodi come questi Vera, meno si sa e meglio è.” mi risponde Massimo.

“Sono arrivata!” annuncio, giunti all’inizio del vialetto. Poco lontano si erge una graziosa villetta con un ampio giardino.
“Che bella casa! E da quando vivi qui?”
“Da quando sono nata. Ora perdonami ma devo proprio andare…”
“Scusa, hai ragione! Sono certo non mi sopporterai già più!”
“No! Non vorrei i miei genitori si preoccupassero per nulla.”
“Certo. Allora, ti saluto Vera.”
Massimo si sta allontanando quando lo chiamo allarmata.
Lui si volta raggiante, osservandomi speranzoso.
“La borsa con i libri…”
Massimo guarda la sacca tra le sue mani e sorride tra sé.
“Ma dove ho la testa! Ecco a te…”
Mi consegna la borsa e percepisco le sua dita sfiorare la mia mano. Mi guarda dritto negli occhi e non riesco a muovermi.
O forse non voglio…

“Sarà il caso che anche io torni in caserma.”
“Certo. Grazie per avermi accompagnata.”
“Dovere.”
Annuisco con il capo mentre la situazione si fa sempre più imbarazzante.
“Allora…ciao! E’ stato un piacere conoscerti Vera.” dice Massimo.
“Anche per me.”
Mi avvio lungo il vialetto. Guardo alle mie spalle e noto Massimo intento a guardarmi. Lo saluto con la mano e lui mi sorride. Finalmente si incammina e scompare dietro l’angolo.
Controllo attentamente che nessuno sia nelle vicinanze e specialmente che Massimo non torni indietro.
Ripercorro il vialetto e proseguo lungo la via raggiungendo una piccola abitazione in legno, provvista di qualche malinconica pianta rinsecchita accanto alla porta d’ingresso.
Casa mia.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Appena entro in casa sono avvolta dall’odore pregnante della minestra che bolle sul fuoco e dallo sguardo preoccupato di mia madre.
“Vera! Finalmente sei tornata! Si può sapere perché ci hai messo tanto?”
“Anna sei angosciante!” interviene papà impegnato a preparare la tavola “E’ un poco in ritardo, lasciala in pace.”
“Giovanni! Ma con tutto quello che succede! Come fai a non preoccuparti se nostra figlia ritarda?”
“Mamma ti prego!” dico esasperata, appoggiando la sacca con i libri in un angolo “Non è successo niente e sto benissimo.”
“Anna! La zuppa!” zia Barbara, chiamata affettuosamente Baba, accorre al camino dove la minestra, dimenticata distrattamente da mia madre sul fuoco, bolle furiosamente.
“Non vorrai far bruciare la nostra cena? Mi pare già piuttosto misera.” dichiara zia Baba mescolando la zuppa.
Mamma si passa nervosa una mano tra i capelli e sospira. Il suo dolce sguardo è più stanco e affaticato del solito e non posso che scorgere nei suoi occhi il desiderio di fuggire lontano. E mi sento in colpa.
“Scusami mamma, non capiterà più promesso.”
Mi sorride flebilmente accarezzandomi una guancia.

“Allora, cosa mangiamo di buono?”
“Zuppa di cavolfiore e patate tesoro.” mi risponde zia Baba, scorgendo una nota di tristezza nella sua voce.
“Tanto per cambiare...” Quasi mi ero scordata di mio cugino Gabriele, nascosto sotto il tavolo intento a riparare una gamba traballante.
Mi chino e lo saluto con la mano e lui ricambia con un sorriso.
“Hai aggiustato la gamba del tavolo Gabriele?” chiede zia Baba.
La zia è la sorella di mio padre e viviamo nella stessa casa da qualche anno. La convivenza non è semplice, l’alloggio è angusto e gli spazi ristretti. Purtroppo non possiamo permetterci altro.
“Sì mamma, ho finito…” Gabriele spunta da sotto il tavolo spostandosi irritato i capelli dagli occhi.
Gabriele ed io abbiamo la stessa età e siamo cresciuti insieme. Eppure negli ultimi mesi non ho potuto non osservare dei cambiamenti in mio cugino. E’ cresciuto, è maturato. Ha delle responsabilità ora e i problemi della famiglia si addossano spesso su di lui.  E’ irritabile e in alcune occasioni si chiude in se stesso.
Mamma dice che i ragazzi sono fatti così. Vivono dei periodi nei quali sono particolarmente irrequieti. E puoi provare di tutto per capirli, sarà sempre inutile.
Mi avvicino a papà baciandogli una guancia e lo aiuto ad apparecchiare.
“Tesoro la prossima volta cerca di non tardare. La mamma ha già tante preoccupazioni…”
“Hai ragione papà, mi dispiace. Ho avuto solo un contrattempo.”
“Di che tipo?”
Abbasso lo sguardo imbarazzata.
“Vera, mi stai nascondendo qualcosa?” un sorriso colora la sua voce. 
“Papà no! Perché dovrei?”
“Non saprei, sei diventata tutta rossa.”

Accidenti a me!

“E dai Giovanni! Potrà avere qualche piccolo segreto la nostra Vera o no?” zio Simone ci raggiunge dall’altra stanza e si accomoda di fronte a suo figlio Gabriele.
Sorrido allo zio cercando maldestramente di nascondere il mio rossore.
“Quale segreto?” s’intromette mia madre “Tesoro sappiamo bene che non sei brava a nasconderli…”
“Perché insistete con questa storia? Non è successo niente, cambiamo argomento per favore!”
Afferrò maldestramente la borsa con i libri che ho lasciato sul pavimento e mi dirigo svelta nella stanza attigua, la camera da letto che condivido con mamma e papà. Appoggio sulla scrivania scricchiolante la borsa e scorgo il mio viso arrossato riflesso nello specchio.
Cerco di tranquillizzarmi e tornare al mio colorito naturale, allontanando dalla mia mente l’immagine insistente di Massimo.   

Raggiungo la cucina e mi siedo accanto a Gabriele.
“Perché non vuoi rivelarci chi hai incontrato?” mormora mio cugino, giocherellando distrattamente con un cucchiaio “Tuo papà ha detto che ci sposeremo prima o poi, non dovresti nascondere la verità.”
“Papà si diverte molto a ripetere che ci sposeremo Gabriele solo perché siamo cresciuti insieme. E comunque non è successo niente.”
Finalmente la cena è in tavola e l’eccessivo interesse per il mio pomeriggio svanisce mentre consumiamo la nostra minestra, piuttosto misera e abbondantemente annacquata.
“Potevamo almeno comprare del pane da accompagnare a questa brodaglia...” dice Gabriele raccogliendo la minestra con il cucchiaio e rovesciandola nel piatto.
“Smettila di lamentarti Gabriele!” urla zio Simone, sollevando lo sguardo dal piatto “Siamo abbastanza fortunati da avere qualcosa di caldo per cena! Potevi comprare tu il pane!”
“Ma certo papà, dovrei fare tutto io in questa maledetta casa non è vero?”
Gabriele sbatte irritato un pugno sul tavolo e si alza.
“Tesoro per favore torna qui!” implora zia Baba.
“Mi è passata la fame…” Gabriele si dirige verso la soglia di casa ed esce sbattendo rumorosamente la porta.
Zia Baba sta per raggiungere il figlio ma la fermo con un cenno.
“Ci parlo io zia.”

Afferro uno scialle e lo indosso prima di uscire di casa. La fresca brezza serale mi fa rabbrividire e mi stringo nelle spalle.
“Mi dispiace vederti arrabbiato sai?” raggiungo Gabriele e mi appoggio sulla staccionata.
Lui solleva indifferente le spalle e sospira guardando dritto davanti a sé.
Non appena intravedo cosa stringe tra le dita, spalanco gli occhi sconcertata.
“E da quando fumi?”
“Non cominciare anche tu Vera! Sono libero di fare ciò che voglio.”
“No non è vero! Il denaro che spendi per questa robaccia ci serve per vivere.”
“Sono soldi che ho guadagnato da solo. Posso spenderli come voglio.”
“Penso invece che tu lo stia facendo per dispetto…”
“Sai cosa ti dico? Non mi interessa Vera. Sono stufo e vorrei solamente andarmene da questa città!” Gabriele tira una profonda boccata di fumo e getta la sigaretta spegnendola con la scarpa.
Noto le sue labbra tremare mentre si passa inquieto una mano tra i capelli.
“Gabriele, capisco che è difficile sopportare questa situazione e che gran parte degli incarichi ricadono sulle tue spalle.” mi avvicino e poso una mano sulla sua spalla “Ma sai che non possiamo permetterci di lasciare Trieste. E siamo già tanto fortunati ad avere una casa e stare insieme. Siamo una famiglia Gabriele e dobbiamo rimanere uniti. Ora più che mai.“
Lui mi sorride e i suoi occhi verdi si illuminano di quel bagliore che ormai conosco così bene.
Gabriele posa un braccio attorno alla mia spalla stringendomi a sé proprio come quando eravamo piccoli e la vita con le sue complicazioni sembrava più facile.
“Tutto si aggiusterà Gabriele e la fortuna girerà dalla nostra parte. Me lo sento.”
“Sono già fortunato ad avere te Vera.”
“Come sei dolce caro cugino. E sei diventato davvero forte, quasi mi stritoli!”
Lui ride e allenta la presa.
“Non ti piacerebbe scappare lontano Vera? In America magari…e vivere la nostra vita liberamente?”
“Gabriele me lo hai già chiesto tante volte! E’ troppo lontana l’America e sai bene che i nostri genitori non lascerebbero mai Trieste.”
“Ma se avessimo abbastanza denaro…”
“Non ne abbiamo Gabriele.”
“D’accordo ma se fossimo ricchi, tu verresti con me?”
“Stai sognando un po’ troppo cugino mio. Ed io inizio ad avere freddo. Vieni?”
“Rimango fuori ancora un minuto. Tu vai a scaldarti.”

Dopo essere rientrata in casa e aver rassicurato zia Baba e zio Simone, laviamo i piatti mentre raccontiamo come si è svolta la nostra giornata.
Augurata la buonanotte, le luci si spengono e cala il silenzio.
Mi rigiro inquieta tra le coperte ma non riesco a prendere sonno.
Intreccio le braccia dietro la nuca e sospiro mentre osservo sconsolata il soffitto.
Non riesco a togliermi dalla mente l’immagine di Massimo, l’affascinante tenente che ho incontrato oggi.
Scrollo la testa per scacciare quel volto che vaga tra i miei pensieri.
Ma non ci riesco…
Dopotutto mi ha solamente riaccompagnato a casa. Insomma un gesto di cortesia, niente di più.
Allora perché se ricordo la passeggiata con Massimo, un’improvvisa agitazione mi travolge?
E soprattutto… perché continuo a pensarci?
Forse mi ha colpito il suo atteggiamento. O magari il modo in cui mi guardava…
Mi sorprendo a sorridere ripensando ai suoi complimenti e sento le mie guance arrossire.
Oh smettila Vera!
Affondo il viso nel cuscino e chiudo gli occhi. 
Quella notte l’eroe dei miei pensieri fu Massimo. Sapevo che non lo avrei più rivisto, ma nessuno poteva impedirmi di sognare.




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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Massimo



Non ho fame. Sono completamente assente e la mia testa non vuole collaborare. 

Adagio la forchetta sul tavolo e mi appoggio allo schienale della sedia. 

Guardo i miei compagni che ridono animatamente, alcuni un poco su di giri per qualche bicchiere di troppo. 

Mi alzo e decido di allontanarmi dalla confusione che solitamente non disprezzo. Ma non quella sera.

Esco sulla terrazza e mi appoggio alla ringhiera sospirando. Accendo una sigaretta inalando profondamente il fumo che mi riempie e mi brucia i polmoni.

Ma non ha importanza e mi godo la mia sigaretta fino in fondo.


Perdo la cognizione del tempo. La mensa è quasi vuota. Avverto solo il tintinnio di piatti e bicchieri raccolti dai camerieri.

Decido di rientrare e raggiungo la mia camerata che condivo con altri cinque uomini. 

“Ecco il nostro tenente! Ma dove ti eri cacciato Riva?”

Preferisco non rispondere, giusto per lasciarli nel dubbio. 

Non sopporto la loro eccessiva curiosità, ma come biasimarli. Ogni pretesto è una distrazione per ignorare momentaneamente la nostra esistenza solitaria e segnata dal rischio incessante di essere richiamati al fronte. 

Mi sfilo distrattamente gli stivali e mi sdraio sul letto appoggiando una mano sulla fronte.

Improvvisamente scorgo una massa di riccioli affacciarsi dal letto sopra il mio e non posso che sorridere.

Filippo è il mio più caro amico, nonostante conduca uno stile di vita che non approvo completamente. 

“Massimo, credo tu mi debba raccontare qualcosa...”

Filippo scende le scale e si siede sul letto.
 Cerco di ignorarlo ma non demorde.
“Avanti smettila, ti conosco bene! Hai quell'espressione che riconoscerei anche ad un miglio di distanza.”

Lo osservo dubbioso.

“E' lo sguardo di chi ha incontrato una gran bella femmina e ne è rimasto folgorato.”mi sussurra.

Sorrido quasi senza rendermene conto e Filippo mi tira amichevole un colpo sulla spalla.

“Lo sapevo! E tu volevi tenermi all'oscuro del tuo incontro? Raccontami qualcosa di lei, sicuramente avrà un fisico strepitoso!”

“Sei sempre così fine Filippo. E ancora mi stupisco come sia possibile che nessuna donna voglia stare con te...se non più di una notte.”

“Lo so, sono difficile da gestire. Ma non cambiare argomento amico mio! Raccontami di questa donna e dalla tua conquista.”

“Se devo essere sincero, credo che sia stata lei a conquistare me…”

“Oh ma allora è qualcosa di serio. E dimmi come si chiama?”

“Vera…” il suo nome e il suo dolce sorriso mi riempiono la mente e non riesco a controllarlo. 

“Credo sia la prima volta da quando ci conosciamo, che ti vedo sorridere in quel modo Massimo. Cerca però di lasciare per un momento il meraviglioso pianeta Vera e parlami di lei.”

“E' dolce, bella…anzi bellissima. E' istruita ed è un'insegnante. E quando sorride è meravigliosa. Dovresti vedere i suoi occhi, sono verdi e incredibilmente belli.”

“Anche io ho degli affascinanti occhi verdi!” dice Filippo, sbattendo compiaciuto le palpebre.

“Perché non ti risparmi questi commenti?”

“Dai sto scherzando Massimo! Ti ha proprio sconvolto questa ragazza.
E come pensi di arrivare a...quella fase?” mi domanda Filippo con sguardo ammiccante.

“Non mi interessa portarmela a letto Filippo. Lei è diversa, non oserei toccarla nemmeno con un dito.”

Mi metto a sedere reggendomi la testa con una mano.

“Massimo non vorrei essere indiscreto…”

“Lo sei sempre Filippo.”

“Sì è vero, ma ragiona un momento. Noi siamo soldati, legarci a una donna è controproducente e potrebbe essere una distrazione.”

“Allora cosa dovrei fare, rimanere tutta la vita da solo? O suggerisci di imitare il mio caro amico Filippo che per non affezionarsi a nessuna ragazza le usa per il divertimento di una notte?”

“Vorrei ricordarti Massimo che anche tu hai avuto le tue esperienze con donne…particolarmente generose.”

“E' accaduto solo una volta. E smettila di rinfacciarmelo!”

“D'accordo, forse sto esagerando. Voglio solo che tu non soffra amico mio, soprattutto se non ne vale la pena.” 

Filippo mi sorride e posa una mano sulla mia spalla.

“Non preoccuparti, forse non la rivedrò più. Credo non abbia nemmeno apprezzato la mia compagnia…”

“Non ci credo! Non è mai successo che le donne rimanessero immuni al tuo fascino!”

“Evidentemente non funziona con la ragazza che mi interessa davvero.”

“Quanta depressione Massimo! Io me ne vado a dormire...”
Filippo sale le scale e mormora
“In ogni caso puoi sempre rintracciare la tua amata, no?”

Mi desto dal mio torpore. 

Ma certo! E' così semplice! So dove abita e sarà l'occasione perfetta per rivedere Vera. 

Sorridendo al solo pensiero. Mi tolgo la divisa e mi sdraio sul letto e attendo impaziente la mattina successiva, desideroso di rivedere il sorriso della dolce Vera.



Il segnale della tromba sveglia come ogni giorno e con puntualità impeccabile i soldati della caserma.
I troppi pensieri bloccano i miei movimenti, ma più resto fermo e più mi invade un'esigenza di fretta.

Scatto rapido fuori dal letto, indosso la divisa e quasi mi sento ridicolo nel sistemarmi i capelli in modo così accurato.

Scendo alla mensa e trangugio la colazione sotto gli occhi perplessi dei miei compagni.  

Il cielo è limpido quando esco dalla caserma e assaporo la brezza mattutina e i profumi che porta con sé. 
Nonostante la guerra, Trieste conserva sempre il suo fascino.
Percorro le strade a passo deciso, tanto che quando mi accorgo di camminare troppo rapidamente cerco di rallentare e calmarmi. 
E finalmente raggiungo la villetta. 

Mi si secca la gola e deglutisco a fatica.
E mai possibile che questa sia la prima volta che mi sento davvero nervoso?

Cerco di scacciare la tensione e busso alla porta. 

Mi guardo attorno e la mia attenzione è catturata da una signora corpulenta dallo sguardo tracotante che apre la porta.

Ammetto che la mia prima impressione non è delle migliori. Sarà che la donna non mi ricorda nessun tratto di Vera. 

In ogni caso, cerco di mostrarmi garbato e sfoggio il mio sorriso migliore. 

“Salve signora Bernardis, è un piacere conoscerla. Scusate il disturbo, sto cercando Vera.”

“Chi stai cercando?” mi chiede confusa e un poco irritata.   

“Vera, vostra figlia...”

“Ragazzo qui non abita nessuna Vera, hai sbagliato casa.” 

Sta per richiudere la porta ma la fermo prontamente. 

“Ne siete certa signora? Sono sicuro che…”

“Ma credi davvero che io non sappia chi abita in casa mia?” la donna mi interrompe esasperata  “Avrò anche la mia età ragazzo, ma la memoria non mi ha ancora abbandonato. Buona giornata!”
E sbatte la porta.
Resto immobile sull'uscio di casa, incredulo. 

…Forse devo iniziare a dubitare della mia memoria?


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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Le prime luci del mattino proiettano piccoli cristalli iridescenti sulle pareti della stanza.
Stropiccio gli occhi assonnati e mi metto a sedere, notando il letto vuoto e disfatto dei miei genitori.
Papà è già al lavoro insieme a zio Simone, sono entrambi impiegati statali, e mamma deve essere in cucina dai rumori che avverto dalla stanza accanto.
Raccolgo i capelli in una coda e mi sciacquo il volto.
Raggiungo la cucina e schiocco un bacio sulla guancia di mia madre la quale, come ogni sabato mattina, controlla accuratamente la dispensa trascrivendo su un ritaglio di carta tutto ciò che deve essere acquistato.
“Ci siamo solo noi due questa mattina?” le chiedo mentre mi accomodo sulla sedia.
“Zia è fuori a estirpare quelle orribili piante rinsecchite...”
Mamma mi porta una tazza colma di latte con dei biscotti e mi fa cenno spazientita di spostare i gomiti dal tavolo. Come spesso ripete: non saremo ricchi ma non per questo non bisogna rispettare le buone maniere.
“Gabriele sta ancora dormendo ma dovrò svegliarlo e mandarlo a fare la spesa.”
“Mamma, posso andarci io! E’ l’unico giorno di riposo per Gabriele, è giusto che si rilassi.”
“Vera, non sono tranquilla quando esci da sola...”
“Esco da sola tutti i giorni per andare al lavoro, mamma!”
“Perciò immagina la mia costante apprensione.”
Arriccio il naso.
“Mamma, sai che sono sempre prudente. Vorresti chiudermi in casa per il resto dei miei giorni?”
“Tesoro, certo che no…” si avvicina e mi dà un bacio sui capelli “Sono la tua mamma e mi preoccupo.”
“E sai che non ti fa bene angosciarti...” mi volto e sfoggio un sorriso rassicurante “Vado solo al negozio di alimentari.”
Le sfilo il foglio di carta dalle dita leggendo rapidamente le voci trascritte ed esco di casa salutando mia madre e zia Baba che mi sorride e mi lancia un bacio.

Metto sulle spalle il mio maglione per ripararmi dalla brezza mattutina e passeggio serenamente per le strade ammirando il cielo terso e limpido della mia città.
Appena chino lo sguardo mi fermo all’istante e strabuzzo gli occhi dallo stupore.
Sono in prossimità della graziosa villetta di fronte alla quale passo ogni mattina e sulla soglia di casa intravedo la governante che discute con…il tenente Massimo!
Non posso crederci. Accidenti ma cosa è venuto a fare?
La governante gli sbatte la porta in faccia e trattengo un sorriso mentre mi volto rapida e mi allontano spedita. Ma non riesco a compiere nemmeno un passo…
“Vera?!”
Rimango immobile per un istante. Vorrei cominciare a correre ma qualcosa mi fa supporre che non andrei molto lontano.
“Vera!”
Sento sempre più vicino il fragore della ghiaia calpestata dai suoi stivali.
Mi mordo il labbro e, dopo un lungo sospiro, mi volto sfoggiando un sorriso innocente che mi muore sulle labbra non appena osservo l’espressione accigliata di Massimo.
“Perché mi hai mentito Vera?”
“Non capisco di cosa tu stia parlando…”
D’accordo, mossa decisamente disperata. E dal suo sguardo sosterrei anche fallita miseramente.
“Lo sai benissimo! Ho bussato alla porta della tua presunta abitazione e una simpatica signora mi ha riferito che non conosce nessuna Vera. Non lo trovi strano?”
“Io non ti devo nessuna spiegazione. E poi cosa fai, mi sorvegli?”
Il suo atteggiamento mi irrita così decido di alzare i tacchi e andarmene.
Massimo è svelto e mi afferra per un braccio.
Io stringo il pugno e lo osservo inflessibile, cercando di ignorare la sua presa decisa sul mio polso.
Massimo se ne accorge e allenta la stretta, guardandomi mortificato.
“Ti ho ingannato Massimo, hai ragione. E mi dispiace. Non pensavo ci saremo rivisti e ho voluto farti credere che provenissi da una famiglia benestante. In realtà vivo poco lontano da qui, insieme alla mia famiglia in una piccola casa che condivido con i miei zii e mio cugino.”
“Ma perché mentirmi? Non avrebbe fatto alcuna differenza Vera.”
“Non ci ho pensato, ho agito d’impulso! Penserai sia la persona più matta che tu abbia conosciuto…”
“No, forse non la più matta!” ci guardiamo e sorridiamo “E poi sono felice di averti rivista.”
“Sei venuto apposta per incontrarmi?”
Massimo annuisce e finge di guardare da un’altra parte passandosi una mano tra i capelli scuri.
“Non potevo sopportare di non rivederti più Vera.”
Sembra che una scarica di felicità si propaghi piacevolmente dentro di me mentre ammiro i suoi occhi scuri fissarmi con tanta dolcezza. Forse questo mi permette di ignorare la mia agitazione e raccogliere il coraggio per proporgli di accompagnarmi nelle mie commissioni.
“Speravo me lo proponessi. Altrimenti non avrei saputo quale pretesto inventarmi per stare in tua compagnia.”

Ci avviamo e sono felice di aver incontrato Massimo.
Se i miei genitori sapessero che un soldato, e non vorrei trascurare il suo incredibile fascino, è venuto a cercarmi perché desideroso di rivedermi non smetterebbero di rivolgermi infinite domande e ne farebbero un affare di stato. 
E sento uno strano fermento dentro di me, forse proprio perché non posso farne parola ed è la prima volta che mi ritrovo in una situazione così… emozionante.
Massimo è alto, robusto…accanto a lui mi sento protetta. Il suo sorriso è sincero e mi dimostra attenzioni che mai nessuno prima d’ora mi aveva riservato.
“Ho qualcosa di imbarazzante sul volto? Continui a guardarmi.” chiede Massimo sorridendomi.
“No non hai niente. Ero quasi certa che non ti avrei più rivisto.”
“E il fatto che io sia qui, ti rende felice oppure no?”
“Sono contenta che tu sia venuto a cercarmi.”
“Ero molto indeciso inizialmente. Ammetto che credevo tu non mi sopportassi.”
“Forse all’inizio...” gli dico divertita, guardandolo di soppiatto per osservare la sua reazione.
“Ah sì? Proprio non riesco a capire cosa non ti piaccia di me.”
Massimo sfoggia un sorriso beffardo.
“Forse sei un po’ presuntuoso…ma credo sia solo per proteggere la tua immagine da tenente severo ed inflessibile che affascina molto le fanciulle.”
“In realtà vorrei conquistarne una in particolare ma temo di non piacerle…”
Sento le sue dita sfiorare le mie mentre i suoi occhi mi catturano dolcemente.
Abbasso lo sguardo e ritraggo la mano.
“Forse devi solamente permetterle di conoscerti meglio…”
Massimo mi sorride e mi indica un edificio alla sua destra.
“Questa è la caserma Vittorio Emanuele II. Io vivo qui.”
Un breve viale alberato conduce all’ingresso principale che delimita un’ampia piazza d’armi racchiusa da vari corpi di fabbrica. Le pareti sono rivestite da una muratura scandita da eleganti finestre ad arco. Al centro del cornicione osservo il grande stemma araldico della caserma.
“Cosa rappresenta lo stemma?”
Massimo sbottona un distintivo metallico dal bavero della sua giacca e me lo porge.  
“Lo stemma della caserma è riprodotto su questa medaglia. Riassume la storia del nostro reggimento. Questa metà riprende le insegne della Casa Savoia e invece questa parte raffigura la città di Trieste. Qui compare la corona turrita e questi nastri rappresentato le medaglie al valore militare concesse al reggimento. E se ti avvicini…riuscirai a leggere anche questa piccola iscrizione…”
Porto il distintivo più vicino e socchiudo gli occhi per leggere la didascalia.
“Fedele Sempre. Giusto?” sollevo il capo scoprendomi particolarmente vicina al volto di Massimo.
“E’ corretto.” mi risponde sorridendomi “E’ il motto del nostro reggimento.”
Ci rimettiamo in cammino raggiungendo il negozio di generi alimentari.
Massimo non fa altro che guardarmi mentre elenco al venditore i prodotti di cui ho bisogno e intravedo il suo sorriso sbarazzino dipinto sul volto.
“Allora signorina sono…374 000 lire.” dichiara l’uomo e spalanco gli occhi esterrefatta apprendendo la cifra totale.
“Ma signore, ne è sicuro? Mi pare una cifra esagerata per una spesa tanto modesta.”
“Signorina mi dispiace, siamo in guerra. I prezzi aumentano e non posso farci niente.”
Controllo il borsello e osservo tristemente il denaro al suo interno.
“Allora sono costretta a non acquistare qualcosa, non ho soldi a sufficienza.”
Tuttavia Massimo interviene prontamente e mi fa cenno di rimettere le banconote all’interno della borsa.
“Pago tutto io signore. E anzi, mi dia anche altre due pagnotte per piacere!”
“Ma sei matto?” gli chiedo sbalordita afferrandolo per un braccio e facendolo voltare verso di me “Lascia stare Massimo, per favore!”
“Hai detto che siete una famiglia numerosa, mi sorprendo come questa misera spesa possa bastarvi. Permettimi di farti un favore Vera.”
“Ti ringrazio ma non voglio il tuo aiuto, non saprei come restituirti il denaro.”
“Ragazzi potreste rimandare le vostre discussioni?" ci rimprovera il rivenditore "Io devo lavorare e state facendo aspettare gli altri clienti.”
Mi volto ed effettivamente alle nostre spalle si è formata una schiera di persone alquanto stressata per l’attesa.
Massimo mi sorride persuasivo e faccio un passo indietro abbassando lo sguardo.
“Non dovevi Massimo, ora sono in debito con te.” dico tristemente non appena usciamo dal negozio.
“E dai Vera, pensalo come un regalo.”
“Ti ringrazio, sei stato davvero gentile…”
“E’ stato un piacere.” mi dice allegro “Posso riaccompagnarti a casa?”
Annuisco abbozzando un sorriso.
Dopotutto non era necessario me lo chiedesse…Sono certa avrei accettato in ogni caso.

“Io abito in quella casetta laggiù.” dico a Massimo ormai in prossimità della mia dimora.
Massimo mi rivolge uno sguardo d’intesa e alzo gli occhi al cielo divertita.
“Sì quella è la mia vera casa!”
Massimo si incammina ma non appena osserva che non sono al suo fianco, mi guarda perplesso.
Gli sorrido dispiaciuta e lui mi si avvicina ridacchiando.
“Ho già capito Vera, non preoccuparti.”
“Scusami Massimo, ma non hai idea di quanto possono essere insistenti i miei genitori. Non vorrei ti facessero scappare…”
“Ci vuole ben altro mia cara Vera. E poiché dobbiamo salutarci, ne approfitto per invitarti a uscire con me domani sera. Cosa ne pensi?”
La sua proposta mi sorprende e per un momento mi sento smarrita.
“Io non…non lo so Massimo…”
“E dai Vera, non ti fidi di me?”
“Certo che mi fido ma…non è quello il motivo.”

Stupida, stupida Vera! Ma cosa caspita mi è passato per la mente?

“…Ho capito qual è il problema.” afferma Massimo avvicinandosi al mio viso.
“Lo sai?” chiedo agitata mentre i suoi occhi neri mi scrutano implacabili e mi incatenano al suo sguardo.
Massimo annuisce e mi sorride.
“Hai paura che ti porti in qualche postaccio pericoloso, non è così?”
Non riesco a trattenere una risata e chino il capo divertita.
“Dubito che lo faresti Massimo. Ma se ci provi, prometto che me la paghi.”
“Allora il tuo è un sì!” annuncia Massimo raggiante.

Perfetto, mi sono incastrata con le mie stesse mani…

“Ci incontriamo qui alle dieci. E non tardare signorina!”
Sfiora la punta del mio naso con un dito e si allontana gioioso.
“Massimo aspetta! Devo dirti una cosa!”
“Me la dirai domani allora!” mi urla di rimando.
“Ma è davvero importante!”
“Motivo in più per non darmi buca!” strizza l’occhio divertito e si volta salutandomi allegro con la mano.
Dovrei raggiunge Massimo, dirgli che ho cambiato idea, spiegargli che non posso uscire con lui e concludere questa farsa. Eppure non mi muovo, lo guardo semplicemente allontanarsi e sparire dietro l’angolo.
Devo essere completamente impazzita, penso mentre mi dirigo verso casa.

Apro la porta e appoggio la spesa sul tavolo della cucina salutando la mia famiglia.
Mi accorgo però che eccetto il ticchettio del pendolo, in casa regna il silenzio.
“Mamma?” controllo le stanze e il cortile sul retro. Nessuno è in casa.
Torno in cucina e noto un ritaglio di carta spuntare dalla borsa che ho posato sul tavolo. Lo sfilo e non appena riconosco la scrittura inconfondibile di mia mamma, mi porto una mano alle labbra e sobbalzo.
Esco svelta di casa e corro più veloce che posso.
Non ho più fiato e le gambe mi tremano ma raggiungo appena in tempo l’imponente sinagoga di Trieste.
Scorgo la mia famiglia poche file più avanti e mi avvicino a mia madre che mi rivolge un’occhiata di rimprovero.
“Mi vuoi spiegare perché ci hai messo tanto?” mi sussurra innervosita.
“Mi dispiace mamma, non ricordavo che oggi è lo shabbat. Appena ho trovato il tuo biglietto ho fatto il prima possibile per raggiungervi.”
A stento il mio respiro torna regolare e mi sistemo i capelli scompigliati dalla corsa.
“Non era mai capitato che ti dimenticassi dello shabbat Vera. Sai quanto è importante per noi! Non è proprio da te questo errore...” mormora indispettita.
“Mamma ti prego non farne un tragedia!” sibilo tra i denti “Ho solo fatto tardi…ho trovato tanta gente al negozio…”
Mamma mi osserva sospettosa e io strabuzzo gli occhi per implorarla di smetterla. Ho il sospetto che riesca a leggermi dentro…
Sento un pizzico sul fianco e scorgo Gabriele che mi saluta e gli sfioro l’avambraccio sorridendogli.
Cerco di concentrarmi sulla liturgia ma non riesco a ignorare lo sguardo assillante di mia madre.
“Non ti sei stancata a fissarmi?”
Mamma scuote la testa e i suoi occhi divengono due fessure che mi squadrano insistenti.
“Tu mi stai nascondendo qualcosa. Non sei brava a mentire Vera…”
Alzo gli occhi al cielo e sbuffo spazientita.
“Mamma smettila, ti prego. Non ritarderò più te lo prometto, ma per favore non tormentarmi!”
Durante lo svolgimento della cerimonia non faccio altro che pensare.
Avrei dovuto rivelare subito la verità a Massimo. Tuttavia non riesco a nascondere la mia trepidazione per il suo invito di domani sera.
Il problema sarà come convincere i miei genitori a lasciarmi andare.
Semplice, non mi permetteranno mai e poi mai di uscire!
Dovrò mentirgli e odio dire loro bugie, anche se in queste ultime ore sembra che io non abbia fatto altro…
Ma domani sarà l’ultima volta.
Racconterò la verità a Massimo e accetterò tutte le conseguenze che ciò comporta.
Perlomeno non dovrò più cercare di nascondere la verità, né a lui e né alla mia famiglia.
E Massimo sparirà dalla mia vita, dopotutto perché vorrebbe avere ancora a che fare con me, con un’ebrea?

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


                                                                 




“Vera! Mi stai ascoltando?”
La voce squillante della mia amica Elena mi riporta con fragore alla realtà.
“Ma certo!” le rispondo fingendo spudoratamente.
“Ah sì? E cosa ti ho raccontato fino ad ora?”
Mi mordo il labbro e non posso celare la mia espressione colpevole.
Elena scuote la testa divertita e mi si para davanti all’improvviso scuotendo i lunghi capelli biondi.
Elena è una domestica e lavorando entrambe per il signor Tommasi, abbiamo avuto l’opportunità di conoscerci meglio e diventare amiche, nonostante non potessimo essere più diverse.
“Tu hai la testa da tutt’altra parte, cara Vera.” dice Elena appoggiando le mani sui fianchi e guardandomi con insistenza.
“Sono solo un po’ stanca Elena.”
“Sei una pessima bugiarda! Spiegami cosa succede.”
Abbasso lo sguardo celando maldestramente il rossore che mi colora le guance.
Troppo tardi. Elena se ne accorge e sul suo volto appare un sorriso raggiante.
“Non ci credo! Il motivo è un ragazzo e tu volevi tenermi all’oscuro!”
“Ti prego non urlare Elena, non vorrei che tutta Trieste lo venisse a sapere...”
“Io non grido ma tu devi raccontarmi subito chi è il fortunato, mia cara.”
“E’ solo un amico Elena. E questa sera mi ha invitato ad uscire.”
“Mia dolce Vera, quello che tu definisci un semplice amico è in realtà già pazzo di te! E dal colorito sulle tue guance potrei dire che è reciproco.”
Colpita e affondata.
Elena scoppia in una risata squillante e posa affettuosa un braccio sulla mia spalla.
“Non mostrarti così sconcertata Vera, non c’è niente di male a innamorarsi.”
“Ma io non sono innamorata…”
Elena mi rivolge un’occhiata alquanto dubbiosa.
“Anzi, credo che non mi presenterò all’appuntamento…”
“Stai scherzando?!” Elena mi stringe la spalla con forza e trattengo un gridolino di dolore “Tu devi andarci Vera! Perché rinunciare ad una serata romantica quando sappiamo entrambe che tra il lavoro e la famiglia non ti concedi mai un attimo di svago?”
“Non voglio mentire ai miei genitori Elena. Non se lo meritano. E se gli raccontassi la verità, mi imprigionerebbero in casa.”
“Tu sei una continua sorpresa! Non posso crederci, hai una relazione segreta?!” mi domanda piacevolmente sorpresa.
“Elena non c’è nessuna relazione!” le ripeto esasperata.
“Como vuoi, ma ora ascoltami bene Vera. E’ evidente che desideri rivedere questo ragazzo. E tu vorresti mandare tutto all’aria solo perché non vuoi mentire ai tuoi genitori? Vera è una piccola bugia, chi non le racconta al giorno d’oggi!”
“Elena non è così semplice…”
“E invece lo è! Tu hai solo paura Vera. Ma ormai sei adulta e in grado di compiere le tue scelte. Ora rispondi sinceramente a questa domanda, dimenticando per un momento la famiglia e il lavoro: ti piace questo ragazzo?”
A quelle parole percepisco un salto allo stomaco e ripenso alla gentilezza che Massimo mi ha riservato e il suo sguardo affettuoso e sincero.
Incrocio lo sguardo di Elena che mi osserva sorridente e annuisco.
“Allora niente deve trattenerti mia cara Vera! Stiamo parlando della tua vita e della tua felicità ed è giusto che tu la viva pienamente, anche se ciò implicherà commettere degli errori. Altrimenti lo rimpiangerai per sempre.”
“Hai ragione, andrò all’appuntamento.”
Elena mi stringe le mani e insieme sorridiamo ed esultiamo, raggianti e spensierate.
“Non mi hai nemmeno detto il nome di questo ragazzo!”
“Si chiama Massimo ed è arruolato nell’esercito.”
“Soldati, che individui singolari! Ho passato una notte con uno di loro tempo fa, una serata indimenticabile…” Elena strizza l’occhio “Ma quello stronzo non si è fatto più vedere!”
“Forse non ti meritava Elena. Comunque Massimo è già tenente ed è molto diverso dagli altri, lo capisci all'istante. E’ davvero gentile e onesto.”
“Piccola Vera, sei proprio innamorata e sono tanto felice per te.” dice Elena abbracciandomi affettuosamente “Ma attenta a non illuderti perché gli uomini celano sempre qualche segreto inconfessabile…”
“Non stai esagerando Elena?” le chiedo divertita.
“Fidati, lo so per esperienza…”

In casa regna il silenzio ed io mi sento una ladra nella mia stessa dimora.
La mia famiglia dorme profondamente mentre mi muovo con passo felpato e spostamenti furtivi.
Questa deve essere la centesima volta che mi convinco di abbandonare la follia che sto architettando, ma è troppo tardi per rinunciare e giunta a questo punto non voglio tirarmi in dietro, nonostante l’agitazione mi stia logorando.
Raggiungo l’uscita e mi controllo rapidamente allo specchio accanto alla porta. Il colore dei miei occhi sembra più vivido indossando l’abito che mamma mi ha regalato al mio diciottesimo compleanno, un meraviglioso vestito verde stretto in vita e con un’ampia gonna che nasconde le ginocchia. Mi mordo le labbra e pizzico le guance per conferirgli un poco di colore e infine sorrido alla mia immagine.
Finché il mio sorriso non viene sostituito da un’espressione di panico appena scorgo nell’oscurità il volto di zia Baba riflesso nello specchio.
Mi volto rapida e ci guardiamo in silenzio, immobili. Forse mi illudo di poter scomparire magicamente da un momento all’altro…
“Dove stai andando Vera?” bisbiglia zia Baba, avvicinandosi silenziosamente.
“La mia idea iniziale era quella di uscire.”
“Di nascosto?!” domanda alquanto sorpresa.
Chino lo sguardo afflitta e stropiccio nervosamente la gonna dell’abito.
“Perché non lo hai detto a tuoi genitori Vera?”
“Perché non mi avrebbero mai permesso di allontanarmi da casa! Ma dovevo tentare, era davvero importante questo incontro. Non preoccuparti, ora torno a dormire e dimentichiamo l’accaduto. Per favore zia non dirlo a mamma e papà...”
“Vera puoi uscire.”
“No zia, hai ragione. Non avrei dovuto mentirvi e…cosa hai detto?” le domando incredula, piuttosto sicura di aver capito male.
“Ho detto che puoi andare, se lo ritieni opportuno.” zia Baba stringe dolcemente le mie mani tra le sue “E’ chiara l’importanza che per te ha quest’appuntamento ed è giunto il momento che compia le tue scelte. E non racconterò niente ai tuoi genitori, rimarrà il nostro segreto.”
“Grazie zia!” l’abbraccio forte e le stampo un bacio sulla guancia “Ti adoro!”
“Fa attenzione tesoro, mi fido di te.”
“Tornerò presto zia, non preoccuparti!”
Afferro il maglione e prima di chiudermi la porta alle spalle saluto zia Baba che mi sorride un poco angosciata.
Il primo passo è completato, nonostante un piccolo aiuto. Adesso devo tenere a freno l’agitazione che mi sta divorando e respirare profondamente se non voglio svenire all’istante.
Tuttavia il compito si fa arduo non appena scorgo Massimo poco lontano intento a fumare una sigaretta e le mie gambe sembrano cedere rovinosamente.
“Per fortuna ti avevo detto di non tardare Vera.” rimprovera Massimo non appena mi vede sopraggiungere “Ti aspetto da mezz’ora!”
Gli poso rapida una mano sulle labbra per zittirlo evitando che risvegli l’intero vicinato, inclusi i miei genitori.  
Massimo alza gli occhi al cielo divertito e levo la mia mano dal suo volto.
“Non ci credo sei uscita di nascosto?” mi chiede sorpreso “Non ti facevo una così cattiva ragazza Vera!”
“Però non ti ho dato buca.”
“E ne sono veramente felice.”
I nostri volti sono tanto vicini che mi sembra di perdermi nei suoi occhi scuri ravvivati dal sorriso dolce e affascinante che gli compare sulle labbra.
Il dialogo silenzioso tra i nostri sguardi si interrompe non appena noto la meravigliosa rosa rossa che Massimo mi sta porgendo.
“Questa è per te.”
Sento che le mie guance si stanno avvicinando rapidamente alla stessa tonalità dei petali, così avvicino il fiore e inspiro il suo profumo delicato.
“Grazie Massimo...”
Mi porge cortesemente un braccio e mi appoggio un poco tremante, non riuscendo a smettere di sorridere.


Non ricordo l’ultima volta che sono uscita di notte, probabilmente non ne ho mai avuto l’occasione. E non potevo immaginare quale incantevole spettacolo sia Trieste appena il sole cala e il suo mare si tinge dei riflessi delle luci accese nei locali e per le strade puoi ascoltare la musica e le risate dei giovani.
Raggiungiamo piazza Unità d’Italia e non posso celare la mia meraviglia appena capisco dove Massimo è diretto.
“Non ci credo…il Caffè Tommaseo?!”
Massimo sorride soddisfatto. “Cosa ne pensi?”
“Penso che tu sia matto! E’ un locale storico e uno dei più frequentati e lussuosi della città. Non ho mai avuto la possibilità di entrarci…”
“Credevi davvero che ti trascinassi in un posto qualsiasi? Questo caffè è frequentato da scrittori e letterati importanti, magari avremo l’occasione di incontrare qualcuno dei tuoi preferiti!”
Gli schiocco un bacio sulla guancia. Così, senza ragionarci troppo.
“Dovrò allontanarti da casa più spesso se l’effetto che ti suscita è questo.” afferma Massimo, felicemente sorpreso dal mio gesto impulsivo.
Entriamo nel locale e i due inservienti all'ingresso ci ricevono cordialmente.
Dopo un breve corridoio, raggiungiamo un’ampia sala con alcuni tavolini adiacenti alle pareti e lampadari sfarzosi. Dalla parte opposta alcuni musicisti intrattengono amabilmente i presenti.
“Mi sento davvero fuori luogo con questo vestito…” dico amareggiata appena osservo l’eleganza e la sofisticatezza degli abiti delle donne in sala.
“Sei bellissima Vera, molto più di tutte quelle signore messe insieme.”
Un cameriere si avvicina e gli sono grata poiché non avrei saputo come rispondere al complimento di Massimo senza arrossire.
“Signori, offre la casa.” ci porge due calici posti su un vassoio d’argento e afferro il mio bicchiere.
“A cosa brindiamo?” mi chiede Massimo sorridendomi e sollevando il calice.
“A una delle serate più belle che io abbia mai trascorso, grazie a te ovviamente.”
Avviciniamo i nostri bicchieri e quando ne assaggio il contenuto, cerco maldestramente di celare la mia espressione piuttosto schifata.
Tuttavia a Massimo non passa inosservata e trattiene una risata.
In quel momento osservo oltre alle sue spalle un gruppo di signori distinti chiacchierare tra loro e spalanco gli occhi non appena riconosco l’uomo nel suo soprabito scuro e con la pipa in bocca. 
“Non posso crederci…Umberto Saba!”
“Ma certo che è lui!” afferma Massimo voltandosi per controllare “Era da parecchio che non lo vedevo da queste parti. Posso presentartelo se ti fa piacere.”
“Lo conosci?” gli domando, frenando a stento la mia trepidazione.
“Mio padre ha frequentato la sua libreria per anni. Andiamo dai…”
Intreccia le sue dita alle mie in una presa tanto decisa che mi è realmente impossibile fuggire.
Incontrare di persona Umberto Saba, uno dei poeti più celebri e amati di Trieste, è una circostanza che mai avrei ritenuto realizzabile. E invece guardatemi, accanto ad uno dei più importanti scrittori del nostro tempo, tremando dall’emozione di poter conoscere l’autore di quei versi incantevoli.
“Signor Saba, scusate l'intrusione. Vi ricordate di me?”
“E come potrei dimenticarmi di te giovanotto!” dichiara il signor Saba, sfoderando un sorriso affettuoso “Mi sembra ieri che il piccolo Riva sfogliava i volumi della mia libreria quando tuo padre veniva a trovarmi. E adesso sei tenente! Una gran bella responsabilità giovanotto, alla quale sono certo adempirai con il massimo impegno.”
“Le vostre parole mi lusingano signore.”
“E chi è questa graziosa signorina in vostra compagnia?” domanda il signor Saba rivolgendosi verso di me.
“Lei è Vera Bernardis, una mia cara amica. Ci teneva molto a incontrarvi, signor Saba.”
Il poeta mi sorride dolcemente e sfiora con le labbra il palmo della mia mano.
“E’ un onore fare la vostra conoscenza signor Saba.” dico con un lieve tremolio nella voce “Sono una grande ammiratrice dei vostri componimenti.”
“E per me è una gioia incontrare una così giovane fanciulla affascinata dai versi di uno strambo signore.”
Mentre Massimo parla con un conoscente di Saba, quest’ultimo mi invita ad avvicinarmi con un cenno e ci poniamo di spalle.
“Signorina Vera, mi reputerete scortese eppure mi sento in dovere di darvi questo consiglio: non trascurate quel giovanotto, gli permetta di conoscerla meglio. E’ un bravo ragazzo…”
Sollevo il capo e incrocio lo sguardo di Massimo che mi sorride dolcemente.
“E se qualcosa andasse storto?” sussurro al poeta.
Saba scuote il capo socchiudendo gli occhi.
“Questi dubbi infondati signorina Vera, sono il peggio che noi uomini possiamo fare per rovinarci l’esistenza e rimpiangere ciò che non abbiamo avuto il coraggio di affrontare. Perciò ora tornate da lui. E se vorrete passare alla mia libreria nei prossimi giorni, sarò lieto di ospitarla.”
Lo ringrazio sentitamente e gli auguriamo un buon proseguimento di serata.
“Massimo non so come farò a sdebitarmi!” gli dico mentre ci allontaniamo “Non posso credere di aver conosciuto Saba!”
“Forse un modo ci sarebbe…”
Si ferma e mi offre la mano.
“Ti va di ballare?”
Annuisco, quasi trattenendo il fiato per l’emozione che rapida mi travolge, e afferro la sua mano.
Ci scateniamo seguendo il ritmo incalzante delle trombe e del pianoforte insieme alle altre coppie. Massimo mi fa piroettare, mi solleva e spesso inciampo ma lui mi afferra prontamente.
“Sei bravissima Vera!”
“Ma cosa dici, non faccio altro che cadere! Invece non conoscevo le tue doti da ballerino!”
“E’ ancora molto ciò che non sai di me, cara Vera.”
Ci fermiamo, stanchi e senza fiato, ridendo amabilmente. La melodia rallenta e Massimo mi stringe a sé posando una mano sul mio fianco.
“Non mi sono mai divertita tanto.”
“Allora dovresti uscire più spesso con me.” mi sussurra all’orecchio e rabbrividisco percependo il suo respiro sulla pelle.
“Ogni volta sarà un’impresa con i miei genitori…”
“Troveremo altri modi per vederci. Io non mi arrendo.”
“Lo avevo immaginato Massimo.”
Il suo dolce sorriso gli illumina lo sguardo che ancora una volta mi cattura, impedendomi una via di scampo.
“Hai degli occhi bellissimi Vera…”
Massimo sfiora con la mano la mia guancia, indugiando sulle labbra per scendere poi al mento e avvicinare la sua bocca alla mia…ma chino il capo.
“Scusami Vera…” dice amareggiato e il mio senso di colpa sembra soffocarmi.
“Massimo devo rivelarti una cosa davvero importante. E avrei dovuto farlo prima…”
Massimo mi osserva accigliato. I suoi occhi sembrano implorarmi ed è evidente che continuare a mentire non farà altro che ferirlo.
“…Io sono un’ebrea.”
Ero pronta, certa che mi avrebbe allontanato e guardata con disprezzo, sicura che non ci sarebbero più state le uscite che mi ha promesso, consapevole che tutto sarebbe finito rovinosamente...
“Non mi importa Vera.”
Spalanco gli occhi sbalordita.
“Ma che risposta è? Conosci bene le voci e i trattamenti riservati agli ebrei in Germania. Se accadesse anche qui, ti metterei in pericolo Massimo.”
“In pericolo? Io ti proteggerei Vera. E poi la comunità ebrea è perfettamente integrata e consolidata a Trieste. Noi italiani non siamo come i tedeschi.”
“Eppure ciò non ha fermato Mussolini dall'approvare le leggi razziali.”
“Stiamo parlando di stupidi pregiudizi Vera, nessuno può arrogarsi il diritto di decidere della vostra vita.”
“Questo non puoi saperlo Massimo! Se le discriminazioni diventassero più severe anche in Italia, il semplice uscire insieme sarebbe un pericolo.”
“Tu sei davvero convinta che se capitasse qualcosa a te o alla tua famiglia, ti volterei le spalle perché sei ebrea? Mi credi davvero così insensibile Vera?”
“Non ho detto questo. Ma saresti in ogni caso più che giustificato! La tua carriera e la tua vita sarebbero rovinate perché hai difeso qualcuno che lo Stato considera un nemico da annientare. ”
“Vera ma non capisci che la mia vita sarebbe finita se ti capitasse qualcosa? Non mi importa niente della carriera se il prezzo da pagare sarebbe il rimorso di averti persa perché troppo vigliacco per proteggerti!”
Chino il capo afflitta non riuscendo a sostenere lo sguardo di Massimo, mortificata per il mio giudizio affrettato.
“Se non fossi ebrea, forse non avremo tutti queste complicazioni…” dico sommessamente.
“Non dire sciocchezze Vera, non puoi incolparti per le follie di alcuni individui. Tu sei perfetta così come sei. E nessuno dovrà mai permettersi di cambiarti. Non lo permetterò.”
Abbozzo un sorriso, grata per le sue parole rasserenanti.
Decidia
mo di lasciare il locale e Massimo mi riporta a casa.
“Grazie per la serata Massimo.” dico in prossimità della mia abitazione “E’ stata una magnifica serata e mi sono divertita tanto.”
“Anche per me. E non preoccuparti, organizzerò qualcosa di altrettanto stupefacente per la nostra prossima uscita.” afferma Massimo e mi sorride.
Annuisco felice e mi dirigo verso casa. Eppure non sono serena, non so cosa mi blocchi. Sento che non posso e non voglio andarmene così…
Mi volto inavvertitamente verso Massimo indotta a dirgli qualcosa ma troppi pensieri mi affollano la mente. Scuoto il capo accennando un sorriso e mi giro mordendomi il labbro dall’imbarazzo.
Mentre mi dirigo verso casa, sento la mano di Massimo afferrarmi il polso e mi ritrovo stretta tra le sue braccia.
Ci guardiamo negli occhi, confusi e rapiti uno dell’altra, e non riesco ad indugiare ancora. Mi alzo appena in punta di piedi e sfioro le sue labbra con un bacio e mi abbandono tra le sue braccia senza paure.
“Posso vederti domani?” mi sussurra Massimo sfiorandomi le labbra.
“Verrò alla caserma dopo il lavoro, vediamoci lì…”
Massimo mi accarezza una guancia e mi sorride.
“Sarà una notte lunghissima.”
Rido e alzo il capo incrociando il suo sguardo. Allungo un braccio e gli sfioro i capelli.
“Adesso devo andare…” gli dico tristemente.
Massimo mi dà un bacio sulla fronte e ci salutiamo restii.
Appena entro in casa tutto è avvolto dall’oscurità e dal silenzio e richiudo piano la porta. Nessuno sembra essersi accorto della mia assenza.
Ho bisogno di un minuto, per riordinare le idee e riprendere a respirare regolarmente. Ripenso alla serata trascorsa con Massimo e mi sorprendo a sorridere. A stento riesco a trattenere il grido di felicità che sale dentro di me.
Dormire sarà davvero un’impresa questa notte.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


                                                              




“Massimo fai attenzione, qui c’è un errore.”
Il mio giovane alunno mi fissa perplesso con i suoi grandi occhi azzurri.
“Chi è Massimo?” mi chiede.
Accidenti, oggi è già la seconda volta che confondo il suo nome. Mi è realmente impossibile pensare ad altro, non faccio altro che distrarmi e sempre più spesso mi sorprendo a fissare il vuoto come incantata. Il pensiero di Massimo non mi ha concesso nemmeno un secondo di tregua e il suo viso è impresso nella mia mente.
“Scusami Marco, mi sono distratta. Riprendiamo…”
Tuttavia il piccolo non demorde.
“Mi dici chi è Massimo?”
“E’…mio padre. Forza completa l’esercizio.”
Avverto una risatina e intravedo Elena che invece di dedicarsi alle sue faccende domestiche, mi osserva ammiccante e origlia divertita le mie conversazioni.
“Va bene Marco, per oggi terminiamo qui. Ci vediamo domani d’accordo?”
Il bambino mi saluta e si alza dalla sedia riordinando i suoi libri e le matite.
Io faccio lo stesso ma con velocità doppia e corro verso l’uscita, confidando di non imbattermi nella signora Tommasi che mi farebbe un numero spropositato di domande sulla condotta del figlio, narrandomi i suoi infiniti aneddoti.
Da questa mattina non aspetto altro che raggiungere Massimo, voglio vederlo e avere la prova che tutto ciò che accaduto non è stato effetto della mia fervida immaginazione.
Credo di non aver chiuso occhio questa notte e se ho dormito non è stato affatto un sonno rilassante. Il pensiero martellante di Massimo era sempre vivo nella mia testa.
Percorro il vialetto e mi sento afferrare per un braccio.
“Dove pensi di andare così di fretta Vera?”
Quasi dimenticavo Elena e la sua irrefrenabile curiosità.
“Perdonami devo scappare, sono già in ritardo!”
“Il tuo appuntamento potrà aspettare qualche minuto. Voglio sapere com’è andata la tua serata…”
“Elena devo andare, ne parliamo un’altra volta d’accordo?”
Cerco di liberarmi dalla sua presa ma è tutto inutile. Non vi sono dubbi, se Elena vuole qualcosa è raro che non la ottenga.
“Continuerai a ritardare se non mi racconti subito cos’è successo tra te e l’affascinante tenente!”
“…Ci siamo baciati. Posso andare adesso?”
Un sorriso sfavillante appare sul volto di Elena che comincia a saltellare sul posto ridendo tra sé.
“Come sei dolce piccola Vera! E com’è stato?”
“Molto…romantico.” ammetto un poco imbarazzata, stringendomi nelle spalle.
“Voglio i dettagli mia cara!”
“Dai Elena! Ma che importanza ha?!”
Mi ammonisce con lo sguardo e sento che sta per accingersi ad una delle sue interminabili spiegazioni sui segnali che alcuni comportamenti assunti da un uomo possono avere.
“E’ una questione fondamentale Vera! Devi sapere che…”
“Elena me lo racconterai un’altra volta. Ora devo scappare!”
Riesco a liberarmi dalla sua stretta e corro via prima che Elena possa imprigionarmi di nuovo.
“Vera! Quando mi presenterai questo Massimo?” Elena incrocia le braccia al petto e scorgo la sua espressione accigliata.
“Molto presto, te lo prometto!” le urlo di rimando.

Dopo una breve passeggiata, il battito del mio cuore si fa più insistente appena mi trovo di fronte alla caserma Vittorio Emanuele. Percorro il viale alberato e attraverso l’ampia piazza d’armi delimitata dagli imponenti corpi di fabbrica.
Arrivo all’ingresso e istintivamente mi rassetto la gonna e sistemo i capelli. Nell’atrio regna il silenzio, interrotto solamente dallo sfregare del pennino sulla carta nelle mani di un uomo seduto alla scrivania.
“Mi scusi signore, sto cercando il tenente Riva.”
L’uomo abbassa lentamente gli occhiali sul naso e mi esamina perplesso.
“Qual è il motivo della visita?” mi chiede freddamente.
La sua domanda mi disorienta e vorrei che Massimo comparisse all'istante per sottrarmi da questo immane imbarazzo.
“Devo…chiedergli una cosa.”
E’ la prima risposta che mi passa per la mente, ma capisco che non convince l’uomo che mi osserva con un’espressione dubbiosa. China lo sguardo e riprende a compilare i fogli sparsi sulla scrivania.
“Se ha la cortesia di attendere qualche minuto, avremo il tempo di informare il tenente.”
Lo ringrazio e mi appoggio alla parete, tormentando nervosamente le mie mani mentre osservo distrattamente le pareti dell’atrio.
Sento in lontananza un vocio provenire dalle scale e poco dopo compaiono alcuni soldati che rumorosamente entrano nella sala.
La mia presenza cattura rapidamente la loro attenzione. Nonostante i soldati persistano dubbiosi a parlottare tra loro osservandomi di sottecchi, cerco di non farci caso. Una ragazza in una caserma è una situazione chiaramente insolita e se il mio piano iniziale era di passare inosservata, ho fallito miseramente.
Il più audace del gruppo, un ragazzo dalla simpatica capigliatura riccia e lo sguardo vivace, mi si avvicina seguito timidamente da altri soldati.
“Cosa ci fa una così graziosa fanciulla in un posto come questo?” mi domanda sfoggiando un sorriso radioso.
“Aspetto una persona.”
“Sei certa che non sia io quella persona?” mi chiede sorridendomi malizioso.
Aggrotto le sopracciglia, non afferrando immediatamente la sfumatura d’ironia nella sua frase.
“No sono io il ragazzo che sta cercando!” interviene un altro soldato.
“Ma cosa dici! E’ evidente che parla di me!”
“Mi dispiace ma nessuno di voi è la persona che sto aspettando.” dico ai soldati, ponendo fine a questa bizzarra conversazione e trattenendo una risata.
“Questo tuttavia non mi impedisce di presentarmi. Sergente Filippo Bassani, al vostro servizio!” il ragazzo porta rapidamente alla fronte la mano destra “E possiamo anche ignorare questi soldati, siete d’accordo?”
Filippo si fa più vicino ma i suoi compagni cominciano a spingerlo amichevolmente.
“Possiamo sapere il vostro nome signorina?” mi chiede uno di loro.
“Certo, mi chiamo Vera.”
Mentre ricevo complimenti e inviti dai soldati che nonostante tutto si rivelano davvero cortesi e divertenti, finalmente scorgo Massimo tra la folla che mi ha accerchiato.
“Si può sapere cosa fate tutti qui come avvoltoi?” domanda incuriosito, facendosi strada tra i soldati.
Il sorriso gli muore sulle labbra non appena mi intravede. Massimo strabuzza gli occhi allibito e mi rivolge un severo sguardo di rimprovero.
Il sergente Filippo si avvicina a Massimo, bisbigliando qualcosa al suo orecchio e indirizzandomi delle occhiate alquanto sospettose.
Massimo sospira irritato e allontana bruscamente Filippo per raggiungermi.
Io accenno un sorriso eppure non mi degna di uno sguardo. Mi afferra svelto per il polso e mi allontana dal gruppo.
I soldati inveiscono in un sonoro coro di disapprovazione.
“E’ stato un piacere conoscervi!” urlo di rimando, cercando di non inciampare mentre Massimo mi trascina con rapidità e fermezza fuori dalla sala.
“Puoi lasciarmi per piacere?”
Mi ignora intenzionalmente e proseguiamo nella camminata attraversando speditamente la piazza d’armi e raggiungendo l’uscita dalla caserma.
“Massimo!” mi libero spazientita dalla sua stretta “Si può sapere che ti prende?”
“E tu mi vuoi spiegare cosa ci facevi nell’atrio principale?”
“Avevamo detto che ci saremo visti alla caserma.”
“Mi pareva ovvio che io intendessi qui fuori!”
“Non riesco a capire quale sia il tuo problema Massimo.”
“Sei incredibile Vera…” dice passandosi nervosamente una mano sotto al mento “Ti sei quantomeno accorta di come quei soldati ti guardavano? Ti hanno circondata come fossi una sorta di bottino da spartirsi!”
“Sono stati gentili invece.”
“Certo che lo sono stati. Sei una bella ragazza.”
Se c’è un nesso tra questi due aspetti, io non riesco a comprenderlo e nemmeno capisco l’eccessiva reazione di Massimo. Nonostante ciò il suo complimento mi fa sorridere.
Massimo si appoggia alla ringhiera e accende una sigaretta portandola alle labbra.
“Non entrerò più se questo ti infastidisce, promesso.” mi avvicino alla staccionata e lo osservo risoluta “Vorrei capire qual è il motivo delle tue preoccupazioni.”
“Non voglio che tu abbia a che fare con loro Vera.” mi risponde seccamente “Sei una ragazza e i soldati hanno…concezioni molto diverse su come trattarle.”
“Ma questo non ha importanza perché non mi interessa nessun altro a parte te.”
Lo osservo dolcemente, cercando di calmarlo e persuaderlo della completa sincerità delle mie parole. Tuttavia Massimo solleva indifferente le spalle e guarda dritto davanti a sé, impegnato a consumare la sua sigaretta.
E’ preoccupato ma i suoi timori sono ingiustificati e vorrei tanto poterlo convincere. Quanto è testardo, deve essere una caratteristica tipica degli uomini…
“D’accordo. Se hai deciso di tenermi il broncio per il resto del pomeriggio, io torno a casa.”.
“Vera dai aspetta!” Massimo mi chiama appena fingo di incamminarmi.
Mi sorride, invitandomi a raggiungerlo.
“Non aspettavo altro che vederti.” sussurra al mio orecchio, spostandomi delicatamente una ciocca di capelli.
“Io sono quasi certa di non aver chiuso occhio questa notte. E oggi non ho fatto altro che confondere il nome del mio alunno con il tuo. Se mi licenzieranno ne sarai responsabile!”
La sua dolce risata gli illumina lo sguardo.
“Perché mi accusi? Non ho colpa se sono così affascinante.”
Sbuffo divertita e non mi lascia il tempo di replicare che si impossessa delle mie labbra e non posso che perdermi dolcemente tra i battiti del mio cuore.
Tuttavia il sapore di fumo è davvero sgradevole e mi scosto.
Massimo mi osserva confuso e ne approfitto per sfilargli rapida la sigaretta dalla mano.
“Vera dai!”
Mi allontano e agito la sigaretta in segno di sfida.
“Voi uomini siete tutti uguali! Anche mio cugino fuma e se continuerete a respirare questa roba, vi farete solamente del male.”
“Ma cosa ne sai Vera!” mi si avvicina tentando di agguantare la sigaretta ma io lo schivo svelta.
“Vera se la fai cadere con ciò che spendo per acquistarle, lo fai a tuo rischio e pericolo!”
Mi fingo impaurita e scoppio in una risata spensierata.
Massimo riesce facilmente a raggiungermi e mi cinge i fianchi da dietro, sollevandomi leggermente da terra. Affonda il viso nell’incavo del mio collo per trattenere una risata ma in questo modo fa sorridere anche a me. Mi sfila la sigaretta di mano che quasi scordo di avere tra le dita e mi volto repentinamente osservando divertita l’espressione vincente che appare sul volto di Massimo.
Mi bacia e non posso oppormi, le mie resistenze sembrano venir meno ogni qual volta mi ritrovo tra le sue braccia.
Ci accostiamo alla ringhiera e mi appoggio a Massimo che mi attira a sé posando il capo sulla mia spalla.
Tuttavia Massimo non rinuncia alla sua sigaretta e mi volto accigliata. Lui alza gli occhi al cielo divertito.
“Dovremo risolvere questo problema.” affermo abbozzando un sorriso.
“Perché invece di continuare a lamentarti Vera, non provi anche tu?”
“Stai scherzando?!”
Massimo allontana la sigaretta e la avvicina alle mie labbra. Non riesco a celare la mia perplessità eppure Massimo mi esorta a provare.
Aspiro precipitosamente, ignara della tremenda sensazione che avverto appena percepisco il fumo nella mia gola. Mi sembra quasi di soffocare e tossisco violentemente.
Massimo mi colpisce più volte la schiena. Non appena riprendo a respirare, mi asciugo le lacrime agli occhi e lo sento ridacchiare.
“Sei perfido! Quasi soffocavo per colpa tua!”
Mi bacia una guancia ma cerco di allontanarlo. Tuttavia Massimo non me lo permette e mi tiene stretta a sé.

Trascorre un meraviglioso pomeriggio e in compagnia di Massimo il tempo pare volare. Mi sento serena con lui, so di poter essere me stessa senza timore di essere giudicata.
Massimo mi racconta della sua giornata e specialmente si sofferma sull’importante comunicato giunto quella stessa mattina e divulgato dal suo generale: il 27 ottobre Mussolini si recerà a Trieste per sostenere un discorso ai cittadini in onore del ventesimo anniversario del regime fascista.
“Perché proprio nella nostra città? Cosa vuole da noi?” chiedo allarmata.
“Vera stai tranquilla, sarà il tipico discorso per incoraggiare gli uomini ad arruolarsi.”
“Mussolini sa benissimo che i triestini combatteranno. E in ogni caso è evidente che non concederà nessuna attenuante!”
“Questo ancora non lo sai Vera. Tra due giorni scopriremo cosa avrà di tanto importante da dirci, ma nel frattempo sii serena.”
Massimo mi accarezza dolcemente i capelli e sospiro tristemente.
“Cosa ti turba?” mi chiede.
“E se tu dovessi andartene? Se l’intento di Mussolini fosse di mobilitare il tuo esercito e lasciare Trieste per preparavi ad un nuovo scontro?”
“Partirei Vera, anche se ciò significherebbe allontanarmi da te. Ma è mio dovere proteggere la nostra patria se minacciata, e non posso sottrarmi.”
“Tu però proteggi una nazione che sta stupidamente appoggiando un uomo il cui unico obiettivo è imporre il proprio dominio con la guerra! E’ giusto morire per questo?”
“La guerra non è mai giusta Vera. Ma se chi ci governa la trova indispensabile, allora diventa complicato opporsi.”  appoggio il capo sulla sua spalla “E poi mi parli come se fossi uno sprovveduto! So badare a me stesso e ora ho una ragione in più per tornare. Ci sarai tu ad aspettarmi…”
Mi rifugio nel suo petto, un riparo sicuro che mi trasmette il coraggio di allontanare della mente quelle immagini di distruzione e sofferenza che mi danno il tormento.

Appena rientro a casa,  la notizia dell’arrivo di Mussolini a Trieste pare già essere sulla bocca di tutti.
“Gabriele ha appreso la notizia al lavoro.” dice zia Baba “Ci ha raccontato tutto quando è tornato. Tu sai il motivo di questa sua visita?”
“No, non ne so niente. Non ti hanno detto altro Gabriele?”
Mio cugino scuote la testa.
“Ancora no, dovremo aspettare. Magari Mussolini cambierà idea e non verrà più a Trieste.”
“Lui arriverà Gabriele. E ho un orribile presentimento…” mi avvicino a mia madre e la stringo protettiva.
La porta si apre ed entrano papà e zio Simone, affannati ed evidentemente sconvolti.
“Mussolini si recherà a Trieste tra pochi giorni! Lo abbiamo appreso da poco!” dichiara allarmato zio Simone, posando la giacca sullo schienale della sedia.
“Non agitarti papà, sappiamo già tutto.” afferma Gabriele.
Papà si avvicina e bacia la mamma sulla fronte.
“Anna stai tranquilla, sarà solo una visita di passaggio. Non angosciarti.”
Mamma annuisce e tenta di nascondere gli occhi lucidi.
“Non poteva rimanersene nella sua città e lasciarci in pace?”
“Anna non pensare subito al peggio. Coraggio, prepariamo la cena…”
Mi volto preoccupata verso mia madre e lei mi sorride rassicurante, guardandomi con il suo dolce sguardo.
“Andrà tutto bene mamma. L’importante è rimanere uniti.”
Lei annuisce socchiudendo gli occhi ma si desta non appena avverte qualcosa che la turba.
“Vera…perché puzzi di fumo?”
E’ incredibile non le sfugge niente, non posso competere. Questa bugia si ingigantisce in maniera spropositata e sarà sempre più complicato nascondere la verità ai miei genitori.
“…E’ stata la signora Tommasi, non ha fatto altro che fumare per tutto il pomeriggio...”

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Una brezza leggera entra dalla finestra aperta della camera.
Sbatto le palpebre e sorrido sognante. Pensare a Massimo rende il mio risveglio più dolce e mi travolge di un’energia nuova che ancora stento a tenere a freno.
Mi alzo e mi sorprendo nel porre particolare attenzione agli abiti da indossare, anche se la mia scelta è piuttosto ridotta per le nostre condizioni economiche non troppo propizie.
Al fine opto per un grazioso abito rosa antico che mi ero quasi scordata di possedere e mi dirigo in cucina, salutando felicemente la mia famiglia.
“Ma come siamo allegre questa mattina!” dichiara zia Baba, alzando lo sguardo e sorridendomi dolcemente.
“E quel vestito?” chiede mamma incredula “E’ una vita che provo a convincerti ad indossarlo ma lo hai sempre disdegnato.”
“Non è mai troppo tardi per cambiare idea mamma.” la bacio sulla guancia e mi osserva alquanto divertita.
“In ogni caso ti dona Vera, sei bellissima.” afferma mia madre, sistemando le maniche un poco arruffate per passare poi ai capelli “Dovresti legarli, si vedrebbe meglio il colore dei tuoi occhi tesoro.”
“Dai mamma!” mi scosto imbarazzata “Non è il momento delle tue lezioni di stile. Per di più sono già in ritardo, devo scappare.”
Afferro un biscotto dal contenitore sul tavolo e lo sgranocchio rapidamente.
“In ritardo per cosa?” domanda papà piuttosto interessato.
“Mi vedo con…Elena, la ragazza con la quale lavoro per il signor Tommasi.”
Incrocio lo sguardo serio ed eloquente di zia Baba, la quale ha indubbiamente intuito il motivo della mia bugia. Eppure ha mantenuto la nostra promessa. Non ha rivelato niente ai miei genitori riguardo la notte in cui mi ha scoperta uscire di nascosto, nonostante io sappia perfettamente quanto per la zia sia terribile mentire.
“Ah sì, mi hai parlato di questa tua amica. Ultimamente esci davvero più spesso Vera.” afferma papà, accarezzandosi la barba.
Fingo di non aver sentito e mi dirigo all’uscita.
“Ma non fai nemmeno colazione Vera?” chiede mia madre preoccupata.
Prendo un altro biscotto e le sorrido, tuttavia mi guarda poco convinta.
Riesco a sviare ulteriori domande e finalmente esco di casa.
“Vuoi dirmi dove stai andando Vera?”
Mi volto e scorgo Gabriele a pochi passi da me, inflessibile e con un’espressione particolarmente seria in volto.
“Vi ho appena detto che esco con Elena!” gli rispondo spazientita.
“Non penserai veramente che io creda a questa fesseria.”
Adoro mio cugino, ma vorrei strozzarlo ogni volta che assume quest’atteggiamento ossessivo nei miei confronti.  
“Sei incredibile Gabriele! Ogni volta che mi allontano da casa dovrei temere un tuo interrogatorio?”
“Se non hai niente da nascondere verrò con te. E mi presenterai la tua amica.”
“No!” urlo preoccupata.
Provo con scarsa abilità a celare la preoccupazione che nel frattempo mi assale. Tuttavia il sorriso soddisfatto che appare sul volto di Gabriele, non mi permette certo di fingermi rilassata.
“Voglio dire…noi ci vediamo tutti i giorni Gabriele.” tento di spiegargli, cercando disperatamente di risolvere il danno commesso “Ricordi quando mi dissi che ti sentivi soffocare? Lo stesso vale per me, anch’io ho bisogno di qualche momento per stare da sola. Mi capisci?”
Gabriele abbassa lo sguardo sospirando tristemente e nascondendo le mani in tasca.  
“D’accordo, fai come vuoi Vera…”
“Grazie Gabriele, sei sempre tanto carino a preoccuparti ma non è necessario.”
Lo abbraccio e lo bacio sulla guancia. Gabriele arrossisce ma tenta dolcemente di nasconderlo mentre rientra in casa.
Tiro un lungo sospiro di sollievo e mi allontano rapidamente.
Dopo qualche passo, scorgo con mia grande sorpresa Massimo e ringrazio il cielo che Gabriele non abbia insistito ad accompagnarmi. Se avesse visto Massimo non so che spiegazione sarei riuscita a inventarmi sul momento. Avrei dovuto improvvisare, ancora una volta. E ho notato che mi viene alquanto spontaneo in questo periodo.  
“Cosa non fai pur di impedirmi di raggiungere la caserma!” dico a Massimo, richiamando la sua attenzione.
Sorride raggiante e mi accoglie tra le sue braccia.
“Ero indeciso se bussare alla tua porta.”
“Ma sei matto?!”
“Perché ti sorprendi tanto Vera? Mi piacerebbe conoscere i tuoi genitori.”
Massimo i
ntanto cerca le mie labbra, tuttavia mi allontano leggermente per guardarlo negli occhi e richiamare la sua attenzione.
“Massimo ne abbiamo già parlato, voglio aspettare.”
“Pensi di nascondere la nostra relazione ancora per molto Vera?”
“No, non sarà per sempre. Solo fino a quando sarò certa che i miei genitori non impazziscano nell’apprendere la notizia.”
“Qualcosa mi fa presumere che mi terrai nascosto alla tua famiglia per molto tempo…” afferma Massimo, enfatizzando le ultime due parole.
Gli sorrido e lo bacio sulla guancia. Massimo prende prontamente il mio viso tra le mani e posa le sue labbra sulle mie.
“Non voglio nasconderti Massimo.” gli dico cercando di stabilizzare i battiti incalzanti del mio cuore “Ma non credo sia il momento adatto. Non capisco perché sei così interessato a conoscere i miei genitori...”
“Ed io non comprendo perché sei tanto contraria Vera. Voglio solo rassicurarli e convincerli che la loro amata figlia è in ottime mani.”
“Questo ancora non posso dimostrarlo per certo.”
Massimo mi guarda fintamente indignato, ma scoppiamo entrambi in una risata allegra. Mi imprigiona tra le sue braccia baciandomi il collo e lancio uno grido divertito quando mi morde giocosamente il lobo dell’orecchio.
Attiriamo immediatamente l’attenzione dei passanti che ci scrutano insistenti, alcuni piacevolmente incuriositi e altri alquanto irritati.
“Vera per piacere! Ma pensa che figuraccia mi tocca fare!” mi provoca Massimo, mentre trattiene una risata.
Provo ad allontanarlo ma evidentemente non m’impegno a sufficienza poiché ne approfitta per stringermi e baciarmi. E come potrei oppormi?

Mentre percorriamo tranquillamente le vie di Trieste, scorgo Elena intenta ad osservare una vetrina di un negozio.
Mi allontano da Massimo e raggiungo svelta la mia amica.
“Cosa ci fai qui Vera?” chiede felicemente sorpresa, appena mi vede correrle incontro.
“Sto facendo una passeggiata con Massimo! Ho promesso che te lo avrei presentato e finalmente è arrivata l’occasione.”
Un sorriso raggiante appare sul volto di Elena che agita entusiasta le mani.
La afferro per un braccio e ci voltiamo ridendo allegramente, trovando Massimo davanti a noi.
“Elena, lui è Massimo. E Massimo, questa è la mia migliore amica Elena.”
La reazione di Elena non è esattamente quella che immaginavo.
Ero pronta a grida vivaci, abbracci e salti di gioia. Invece la sento irrigidirsi e il suo sorriso scompare improvvisamente.
Esamino Massimo osservare inspiegabilmente inquieto Elena.
Appena si accorge della mia espressione confusa di fronte a quella scena insolita, Massimo mi sorride distogliendo lo sguardo da Elena che lo fissa insistentemente.
“…Vi conoscete per caso?” chiedo titubante, provando a interrompere quell’atmosfera gelida di sguardi.
Non ricevendo alcuna risposta, do un colpetto a Elena che pare finalmente destarsi, ponendo fine a quel persistente contatto visivo con Massimo.
“No…non credo proprio.”
Elena gli porge pigramente la mano e Massimo la stringe.
“Forse ci siamo incrociati da qualche parte, Trieste non è poi una città così estesa. Vera mi ha parlato molto di te Elena.”
“Sì…anche lei di te.”
Ripiomba un silenzio imbarazzante. Mi avvicino a Massimo e mi stringe a sé.
“Elena, se ha voglia puoi venire con noi. Facciamo una passeggiata.”
“No Vera, ti ringrazio.” Elena abbozza un sorriso “Ho alcune commissioni importanti che non posso rimandare. Vi auguro un buon pomeriggio. E divertitevi…”
Lo ammetto, il mio era un semplice gesto di cortesia. Se avessi dovuto sopportare questa situazione imbarazzante ancora per molto, probabilmente sarei corsa a nascondermi.
Elena mi abbraccia rivolgendo un ultimo sguardo fulmineo a Massimo e si allontana rapidamente.
“Non capisco, di solito Elena è sempre così allegra.”
“Magari non si sentiva tanto bene oggi.” ipotizza Massimo.
“Non credo, prima sembrava così entusiasta di conoscerti.”
“Forse non le ho ispirato molta fiducia.”
“Ne dubito…Tu sei davvero sicuro che non vi siate mai incontrati?”
“Vera te l’ho già detto, mi avrà visto da qualche parte. Io proprio non me la ricordo.”
“Eppure da come ti guardava sembrava che Elena ti conoscesse molto bene…”
“Si sarà confusa con un altro, può capitare.”
Abbasso lo sguardo e sospiro tristemente.
“Dai Vera, non farne un dramma. Domani chiederai spiegazioni alla tua amica e scoprirai che le tue preoccupazioni sono infondate.”
Su quest’ultima affermazione non sono del tutto convinta ma preferisco non rivelarlo. Dopotutto io confido in Massimo e so che non avrebbe motivo di mentirmi.
“Forse hai ragione tu Massimo. Non devo preoccuparmi inutilmente.”
“Brava.” mi bacia i capelli e mi stringe dolcemente a sé “Dai ti riaccompagno a casa.”

*
Si conclude un’altra giornata estenuante di lavoro e non ho nemmeno la consolazione di poter vedere Massimo questo pomeriggio.
Elena non si è presentata al lavoro oggi, problemi di salute mi ha riferito il signor Tommasi. Conoscendo Elena, mi sarei aspettata una scusa più elaborata per giustificare la sua assenza. E’ ovvio, la ragione di questo suo inspiegabile comportamento sono io ma vorrei poterle parlare per comprenderne appieno il motivo.
Attraverso il vialetto svogliatamente quando, con immenso stupore, scorgo Massimo e a stento riesco a contenere la mia felicità nel vederlo.
“Avevi detto che oggi non ci saremo visti!”
“Volevo farti una sorpresa. Se preferisci che me ne vada…”
Scuoto lo testa repentinamente e lo abbraccio forte per impedirgli di allontanarsi. Mi rifugio nel suo petto accogliente e Massimo mi stringe dolcemente a sé  
“Sono tanto felice di vederti Massimo…”
“Anche io piccola.” dice accarezzandomi i capelli “E allora perché hai quell’espressione così malinconica?”
“…Elena non è venuta al lavoro oggi.”
“Non sapevo lavoraste insieme...”
“Da qualche anno ormai, ci siamo conosciute proprio in questa casa.”
“D’accordo, la tua amica oggi non si è presentata al lavoro. Perché ciò dovrebbe turbarti Vera?” mi chiede perplesso.
“Il signor Tommasi mi ha riferito che Elena ha avuto dei problemi di salute e non sarebbe venuta.”
“Questo dunque conferma la mia teoria!”  
Guardo Massimo piuttosto dubbiosa e mi sorride.
“Ricordi quando abbiamo incontrato la tua amica ieri pomeriggio e il suo comportamento ti era sembrato ambiguo? In realtà non si sentiva bene. Avrà avuto bisogno di riposarsi e questo spiegherebbe perché oggi non si è presentata al lavoro.”
“Non credo Elena sia davvero indisposta…” affermo con aria sconsolata “Mi pare invece un’ottima scusa per non incontrarmi.”
“Dai Vera! Perché dovrebbe nascondersi?”
“Forse teme di doversi giustificare per il suo atteggiamento di ieri. Ma non ha importanza, avrà avuto le sue buone ragioni. Vorrei solo parlarle e sistemare questa situazione. Eppure ho il timore di aver rovinato la nostra amicizia…”
“Vera non farne una tragedia! Come potrebbe essere arrabbiata con te?”
Mi volto e Massimo mi osserva comprensivo, sorridendomi amorevolmente e dandomi un bacio sulla fronte.
“Un’amicizia non finisce per così poco Vera. Stai tranquilla, vedrai che si aggiusterà tutto.”
Annuisco non pienamente convinta. Tuttavia cerco di ignorare per un momento le mie preoccupazioni verso Elena e godermi la compagnia di Massimo.
“Ti ho già detto quanto io sia felice che tu sia venuto a prendermi?”
Massimo annuisce allegro, stringendo le mie dita tra le sue e baciandomi.
“Sei sicuro che non avrai problemi ad allontanarti così spesso dalla caserma per colpa mia?”
“Vera! Puoi per un momento smetterla di incolparti per qualsiasi cosa?”
Rido e appoggio il capo sulla sua spalla.

Passeggiamo tranquillamente quando sento in lontananza un coro esultante.
Guardo confusa Massimo e lui abbassa le spalle scoraggiato.
“Oggi è il 27 ottobre, Vera.”
Un pensiero fulmineo mi attraversa la mente. Mussolini. Sento le ginocchia cedermi e un senso di inquietudine che mi travolge.
“Vuoi che torniamo indietro?”
Scuoto il capo e sospiro lentamente, provando a scacciare il nervosismo.
Proseguiamo a passo rapido e raggiungiamo il municipio.
La piazza straripa di triestini esultanti che inneggiano l’uomo sul balcone principale del maestoso edificio.
“Noi ci auguriamo che in queste ultime ore si raggiunga una soluzione pacifica e se questo non è possibile, che il conflitto eventuale sia limitato e circoscritto. Ma se questo non avvenisse Trieste si trova di fronte ad una nuova situazione, ma Trieste è pronta ad affrontarla e a superarla; Trieste conta sulle sue forze, Trieste non può voltare, non volta, non volterà mai le spalle al suo mare!”
Un applauso giunge clamoroso dalla folla. Nella sua uniforme scura e impreziosita da un numero cospicuo di medaglie e da una fascia rossa e gialla portata a tracolla, Mussolini osserva la piazza con sguardo corrucciato e severo.
La sua voce cadenzata, sicura e inflessibile, non sembra avere su di me l’effetto incoraggiante che invece suscita nei presenti.
Mussolini gesticola insistentemente, come se volesse rafforzare i concetti da lui pronunciati e già violentemente espressi attraverso il suo tono autoritario.
“Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. Il problema razziale non è scoppiato all'improvviso, è in relazione con la conquista dell'Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno.”
Mi sembra di essere abbandonata miseramente dalle mie energie. Avverto la stretta di Massimo sulla mia mano farsi più forte e rassicurante ma non riesco a percepire il coraggio che sta provando a infondermi.
La paura per le parole che Mussolini sta per pronunciare mi inducono a scappare il più rapidamente possibile. Eppure mi accorgo di non avere la forza di compiere nemmeno un passo e per quanto l’angoscia mi stia lentamente divorando, resto immobile accanto a Massimo.
“L'ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo. Tuttavia gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari o civili, nei confronti dell'Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia. Quanto agli altri si seguirà nei loro confronti una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore!”

…Generosità? Voi state per distruggere la mia vita e quella di intere famiglie, di persone oneste e laboriose, che si ritroveranno a essere confinate per il vostro fanatismo… Con quale coraggio vi definite generosi?

Ma esporre questo pensiero sarebbe la mia condanna. Per di più un membro delle camicie nere presenti nella piazza per assicurare il regolare svolgimento del discorso, mi osserva insistentemente impugnando saldamente tra le mani un fucile. Accenna un sorriso malizioso, come se potesse leggermi dentro e sapere chi sono. Come se avesse capito che sto morendo di terrore.






Angolino dell'autrice: Ciaooo! Approfitto per ringraziare tutti, ma proprio tutti, coloro che hanno letto, commentato e stanno seguendo la mia storia. Per me è una gioia immensa e mi infondete tanta determinazione che mi spinge a continuare. Grazie di cuore!
Infine, ci tenevo a sottolineare che le frasi dette da Mussolini in questo capitolo, sono riprese da un discorso che avvenne proprio a Trieste nel municipio di Piazza dell'Unità d'Italia. Ho ripreso i passaggi che ho ritenuto più significativi e spero non sia stata un'aggiunta troppo pesante.

Grazie ancora per tutto e un abbraccio!

 
 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


E’ trascorsa una settimana da quel 27 ottobre e ogni cosa sembra irrimediabilmente cambiata.
La mia famiglia ed io siamo improvvisamente scaraventati in una situazione che mia madre, non molto ottimista, definisce solo l’inizio della nostra fine.
Il discorso di Mussolini ha sconvolto l’intera città. La comunità ebrea si ritrova allontanata e discriminata come soffrisse di qualche malattia estremamente contagiosa.  
Siamo noi il pericolo adesso, noi la priorità da rimuovere. E coloro che fino a pochi giorni fa consideravamo nostri amici, temono vilmente per la loro incolumità preferendo ignoraci piuttosto che contestare gli ordini di Mussolini.
E per completare questo quadro poco rassicurante, gli inglesi e gli americani hanno dato il via ad una terribile campagna di bombardamenti sulle città della nostra penisola partendo da un attacco devastante a Genova.
Nonostante i miei molteplici problemi, il timore che più mi tormenta è una chiamata improvvisa al fronte per Massimo.
Senza di lui, chi mi infonderebbe il coraggio di cui ho bisogno per affrontare tutto questo? Non riuscirei a reggere anche il dolore per la sua lontananza e
l’angoscia che ogni giorno mi assillerebbe.
I pensieri mi travolgono in maniera tanto vorticosa che non mi accorgo di aver superato l’entrata della dimora dei Tommasi.
Mi volto sospirando, percorro il vialetto e busso svogliatamente alla porta.
La signora Tommasi, elegante ed impeccabile come d’abitudine, apre rapidamente la porta e io abbozzo un sorriso stanco. Tuttavia sul volto della donna appare un’espressione di terrore e richiude immediatamente la porta.
Resto immobile. La scena a cui ho appena assistito mi ha particolarmente turbata e non so come interpretare l’atteggiamento bizzarro dalla signora Tommasi.
Trascorrono pochi secondi non appena riprovo a bussare ma sono preceduta dal signor Tommasi che mi apre la porta, palesemente intenzionato a impedirmi di entrare in casa.
“Ciao Vera…”
“Buongiorno Signor Tommasi! Non so cosa avesse sua moglie. Mi ha aperto la porta ma mi è sembrata strana…”
“Vera non abbiamo più bisogno di te.” mi interrompe bruscamente il signor Tommasi e le sue parole mi feriscono come un potente pugno dritto allo stomaco.
“Mi…mi sta licenziando?”
Il suo sguardo è piuttosto loquace e purtroppo più che sufficiente come risposta.
“Io non capisco signore. E’ per qualcosa che ho fatto? Suo figlio Marco si è lamentato?”
“No Vera, è abbastanza complicato. Per favore, ti chiedo di non tornare più in questa casa.”
E in quel preciso momento tutto mi pare più chiaro, dalla reazione esagerata della signora Tommasi al mio licenziamento inspiegabile.
“Vuole allontanarmi perché sono ebrea, non è vero? Le mie origini non vi hanno mai dato alcun fastidio, perché adesso dovrebbe essere diverso?”
“Molte cose sono cambiate Vera, più di quante tu possa immaginare. E io devo proteggere la mia famiglia.”
“Proteggerla da me?! Come può solamente pensare che farei del male a voi o a vostro figlio?”
“Vera non insistere, per favore.”
“Signor Tommasi io ho bisogno di questo lavoro. Non può cacciarmi da un giorno all’altro. La prego non mi faccia questo…”
“Vera concludiamo questa discussione. Ti farò recapitare il tuo ultimo stipendio ma ti chiedo di non farti più vedere. Buona giornata!”
Non mi permette di ribattere in alcun modo poiché richiude la porta rumorosamente, lasciandomi miseramente sulla soglia.
Mi è arduo compiere anche solo un semplice passo. Le lacrime salgono agli occhi ma tento di respingerle come l’oscurità che sembra repentinamente avvolgermi.
Cerco di respirare regolarmente ma sono scossa da continui brividi e violenti conati.
Raccolgo le ultime forze rimaste e mi dirigo alla piazzetta nella quale ho incontrato Massimo negli ultimi giorni.  
Il vento sembra mutilarmi ogni volta che mi sfiora, proprio come le foglie sui rami che precipitano al suolo. Non riesco a comprendere con quale energia io possa ancora reggermi in piedi, ma finalmente scorgo Massimo.
Mi sorride raggiante tuttavia muta espressione non appena intravede le lacrime che non ho più la volontà di trattenere, rigarmi le guance.
Accolta tra le sue braccia, scoppio in un pianto nervoso e incontrollabile.
Massimo prova a capire il motivo della mia reazione ma intuendo la mia incapacità al momento di elaborare una qualsiasi risposta, mi stringe a sé sussurrandomi parole dolci e confortanti all’orecchio.
Ci sediamo su una panchina e Massimo afferra le mie mani tra le sue, baciandomi la fronte.
“Sono stata licenziata…” sussurro, tentando di controllare i singhiozzi.
“Ti prego dimmi che non è per quel motivo.” dice Massimo, riferendosi alle discriminazione effettuate ultimamente a Trieste verso noi ebrei.
Chino lo sguardo tristemente e Massimo si passa esasperato una mano tra i capelli.
“Mi dispiace da morire tesoro.” appoggio il capo sulla sua spalla e mi stringe dolcemente “Speravo non fossero tutti tanto codardi. Ma tu devi essere forte Vera.”
“Massimo non credo di riuscirci. Ieri sera anche mio padre e mio zio sono stati licenziati e lo stipendio di mio cugino non sarà sufficiente per sfamare l’intera famiglia. Ho letto la notizia questa mattina: la legge stabilisce il licenziamento di tutti gli impiegati statali ebrei, perciò molto presto anche lui sarà cacciato. E poi come faremo?”
“Vera ci sono io, ti aiuterò e proteggerò la tua famiglia.”
“No Massimo, sai che non può essere così. Hanno cominciato con queste maledette leggi, poi la propaganda discriminatoria e chissà cosa ancora hanno in mente! Non capisco…perché ci fanno questo Massimo? Cosa hanno contro di noi?”
Sono colta nuovamente da singhiozzi violenti e Massimo mi abbraccia forte, accarezzandomi i capelli e asciugandomi le lacrime che mi rigano le guancie.
“Ho tanta paura Massimo. Come posso difendere la mia famiglia se non riesco nemmeno a tutelare me stessa?”
“Vera tu sei una figlia straordinaria e non puoi colpevolizzarti per i pregiudizi di quei fanatici. Potranno anche rubarti il lavoro, ma non lasciare che si arroghino il diritto di decidere della tua vita approfittando delle tue paure. Io ti starò accanto e insieme riusciremo a superare anche questa difficoltà.”
“So che posso contare su di te Massimo e te ne sono grata. Eppure temo di non aver abbastanza coraggio per affrontare tutto questo.”
“Ce la farai Vera.” sussurra dolcemente al mio orecchio “Sai cosa ho pensato la prima volta che abbiamo parlato?”
Lo osservo incuriosita e Massimo avvicina il suo volto al mio, guardandomi dritto negli occhi.
“Questa ragazza è certamente una delle persone più determinate e cocciute che io abbia mai incontrato.”
Mi sfugge un sorriso e mi rintano nel petto di Massimo.
Vorrei restare tra le sue braccia per il resto dei miei giorni, ascoltare le sue parole rassicuranti e il suo tocco delicato sul mio viso
Non pensare alla frase più giusta per annunciare il licenziamento, evitando che la mia famiglia impazzisca e come agiremo in seguito. Potrei farlo davvero se non fosse per Massimo e il suo disarmante buon senso, che mi convince ad avviarci verso casa.

La notizia del mio licenziamento non suscita lo sgomento che mi ero immaginata. Dopotutto era piuttosto scontato che l’effetto delle leggi razziali si ripercuotesse anche sulla nostra famiglia. I miei genitori mi ripetono che non devo assumermi colpe ingiustificate, eppure mi sento responsabile.
Se prima potevo contribuire anche in minima parte alle spese, ora sono completamente inutile e non posso oppormi a quelle maledette leggi discriminatorie.
La nostra preoccupazione maggiore è trovare il modo di sopravvivere, ma siamo amaramente consapevoli che lo stipendio di Gabriele non sarà sufficiente per tirare avanti.
Trascorro una notte tremenda, interrotta bruscamente da incubi e immagini confuse che m’infondono inquietudine.
Con mio immenso sollievo sorge il sole e mi preparo rapidamente per uscire e incontrare Massimo.
Mentre mi allontano da casa, sento dei passi lesti alle mie spalle. Mi volto e sussulto impaurita non appena scorgo Gabriele.
“Mi hai fatto prendere uno spavento!”
Mio cugino mi osserva accigliato, con le braccia lungo i fianchi e i pugni stretti.
“Va tutto bene?” chiedo un poco titubante.
“Ti sta aspettando, non è vero?
“A chi ti riferisci?” domando confusa.
“Basta mentire Vera!” urla Gabriele “Ti ho vista ieri pomeriggio avvinghiata a quel soldato. E non osare negarlo!”
Trattengo il fiato, come volessi celare l’angoscia che mi avvolge repentinamente.
“Non sono affari tuoi Gabriele.” mi allontano, tuttavia mio cugino mi afferra un braccio obbligandomi a voltarmi.
“Sì invece! Non capisci che quell’uomo non è giusto per te? Frequentare un’ebrea comprometterebbe per sempre la sua carriera e non passerà molto tempo prima che ci denunci al governo!”
“Tu non lo conosci Gabriele. E’ dalla nostra parte e non potrebbe mai farci del male.”
“Come sei sciocca Vera! Ti illudi che quel soldato possa realmente amarti mentre ti sta solo prendendo in giro, come probabilmente avrà fatto con mille altre prima di te!” dichiara mio cugino sprezzante.
“Smettila Gabriele! Non puoi intrometterti nella mia vita e impormi chi frequentare. Cosa ne sai tu dell’amore se non fai altro che giudicare le persone a priori?” domando indignata.
“Riconosco facilmente i bastardi che sfruttano le ragazze per divertimento. Io so cosa è meglio per te Vera!”
“E perché dovresti?!”
“Perché io ti amo veramente!”
…Ho bisogno di un momento per elaborare la dichiarazione di Gabriele. Non posso credere alle sue parole, non voglio crederci.
“Non puoi dire sul serio Gabriele…”
“Perché no? Ti ho sconvolto così tanto?”
“Non pensavo provassi questo per me. Sei mio cugino…”
“Ma certo, come potevi Vera! Dopotutto non ti è mai interessato dei miei sentimenti e non hai fatto altro che trattarmi con uno sciocco!”
“Questo non è vero. Sai che ti voglio bene.” gli dico sinceramente.
Gabriele mi afferra per i polsi in una presa vigorosa.
“Continui a ripeterlo ma non è sufficiente per me Vera! Io ti amo. Non capisci che insieme possiamo essere felici? Quel soldato ci causerà solo problemi e lo sai meglio di me.”
“Gabriele lasciami andare!”
“No! Finché non ammetterai che provi qualcosa per me!”
“Ma sei impazzito? Mi stai facendo male!”
La presa di Gabriele si fa sempre più forte e mi stringe a sé. Posa avido lo sguardo sulle mie labbra e tento di allontanarmi appena cerca di baciarmi.
La stretta ai miei polsi si allenta improvvisamente appena Gabriele viene allontanato violentemente con uno spintone.
Massimo.
“Non provare mai più ad avvicinarti a lei!” il tono autoritario di Massimo irrompe fragoroso.
“Altrimenti cosa fai?” Gabriele spinge rabbiosamente Massimo, provocandolo.
“E’ meglio che tu non lo sappia. Non ti spacco le ossa qui per rispetto di Vera.”
“Bene, allora ne approfitto io.”
E Gabriele tira rapido un pugno in pieno volto a Massimo. Mi avvicino immediatamente mentre lui traballa un poco all’indietro e strofina la manica della giacca sul labbro ferito.
Massimo si prepara al contrattacco ma lo afferro per l’avambraccio.
“Ti prego, lascia perdere e andiamo via.” lo imploro con lo sguardo e Massimo sospira adirato. Rivolge un’ultima occhiata di disprezzo a Gabriele, accigliato e tremante per la rabbia.
“Se la tocchi anche solo con un dito per te è la fine...”
Dichiara Massimo e ho il terrore che sfugga dalla mia presa e si scagli contro Gabriele ma fortunatamente riesco a trascinarlo via.
“Ti pentirai di aver scelto lui!” 
Volto il capo indirizzando a Gabriele un sguardo di profonda delusione. Ma è già scomparso.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Siamo seduti su una panchina. Inumidisco un fazzoletto con l’acqua fresca che sgorga nella vicina fontanella e, usufruendo delle mie limitate competenze mediche, tampono delicatamente la ferita al labbro di Massimo.
Il colpo ricevuto da Gabriele è stato alquanto energico e la pezzuola si macchia rapidamente di sangue. 
Massimo sussulta e fa una smorfia di dolore.
“Ti ho fatto male?” chiedo preoccupata.
“No tranquilla. Brucia un po’.”
“Scusami, farò più attenzione.”
“Vera non è grave. Sei gentile a preoccuparti. E mi piace questa tua versione da infermiera…” dichiara con sguardo ammiccante.
“Quanto sei scemo!” dico fintamente indignata e Massimo mi attira a sé, baciandomi la guancia e la punta del naso.
“Mi dispiace per il comportamento di mio cugino…” affermo mentre disinfetto delicatamente la sua ferita “Ti ringrazio per non averlo colpito.”
“Non lo avrei fatto, non davanti a te Vera. Ciò che mi preoccupa è il tuo ritorno in quella casa.”
“Ma non devi Massimo. Sono sicura che Gabriele abbia imparato la lezione.”
“Potrebbe farti del male e non ci sarò sempre io a proteggerti.” dichiara Massimo.
“Non lo farà. Gli parlerò e cercherò di chiarire questa situazione.”
“Pensi che racconterà della nostra relazione ai tuoi genitori?”
“Per farmi un dispetto? Non credo si abbasserebbe a questo Massimo. Probabilmente è stato colto da un momento di rabbia e ha reagito in malo modo.”
“Questo non giustifica affatto il suo comportamento Vera!” mi rimprovera Massimo “Cosa pensi ti avrebbe fatto se non fossi intervenuto? Una persona che non riesce a controllare la propria ira è pericolosa. E mi stupisco che non ti sia accorta prima della schizofrenia di tuo cugino, nonostante viviate sotto lo stesso tetto!”
“Massimo per favore! Se Gabriele ha reagito in quel modo, è stata anche colpa mia. Avrei dovuto capirlo e risolvere la questione molto prima.”
“Non posso crederci, riesci a incolparti anche in una situazione di questo genere?”
Mi stringo nelle spalle e abbozzo un sorriso.
“Sei incredibile Vera, davvero…” dichiara Massimo scuotendo la testa divertito.
Termino di medicargli la ferita e lo bacio delicatamente all’angolo della bocca.
Massimo ne approfitta e mi stringe a sé per baciarmi. Quando sono tra le sue braccia credo di poter ignorare i miei problemi e la dura realtà sembra meno incombente.
“Mi sono davvero spaventata prima. Temevo vi faceste del male.” sussurro mentre le mie dita scorrono tra i suoi capelli.
“Non dovresti preoccuparti per quello Vera.” afferma Massimo accarezzandomi una guancia “E’ fondamentale che tu faccia più attenzione d’ora in avanti. Non permetterò che ti accada più nulla di simile. E se il tuo caro cugino prova solo a sfiorarti, lo ammazzerò senza alcuna difficoltà.”
“Ed ecco il motivo della mia preoccupazione…”

Quanto avrei voluto rimanere con Massimo. Tornare a casa implica affrontare i problemi e ogni secondo che trascorre sembra che essi si moltiplicano, togliendomi dolorosamente il respiro.
E dovrei ancora tentare di sistemare le controversie con Gabriele. Tuttavia da quando sono rientrata, si è ingegnato nei più svariati modi per non affrontarmi.
“Come sei silenziosa questa sera Vera...” nota zio Simone sorridendomi.
Effettivamente ho evitato di parlare durante la cena. Temo che avere Gabriele seduto al mio fianco, possa implicare l'immenso rischio che qualche aspetto del nostro litigio del pomeriggio possa affiorare.
“Non ho niente da dire zio.” replico fingendomi disinteressata.
“Tesoro domani mattina vorrei che mi aiutassi a portare al mercato qualche abito per provare a venderli.”
Mia madre nota subito la mia espressione inquieta e mi domanda prontamente quale sia il problema.
“No niente, stai tranquilla mamma...” dico abbozzando un sorriso avvilito.
Domani mattina avrei dovuto incontrarmi con Massimo e se non riesco a presentarmi al nostro appuntamento, penserà che me ne sia dimenticata.
“Vera per favore, spiegami cosa ti succede.”
Chino lo sguardo e mi fingo impegnata a soffiare sulla minestra bollente per raffreddarla.
“Coraggio Vera, racconta a tutti cosa devi fare domani mattina!” dichiara mio cugino con tono sprezzante.
Lo fulmino con lo sguardo e lui abbassa gli occhi sulla minestra, stringendo i pugni.
“Di cosa stai parlando Gabriele?” chiede mia madre accigliata.
“Niente mamma, non sta parlando di niente!” intervengo tentando miseramente di terminare la discussione.
“Pensi di mantenere il segreto per sempre Vera?” mormora Gabriele, osservandomi severamente.
“Quale segreto?” domanda mia mamma, invasa furiosamente da uno stato di angoscia “Vera cosa mi stai nascondendo?”
“La tua dolce Vera, si frequenta di nascosto con un uomo!”
Come posso esporre in maniera comprensibile il vortice di sensazioni che sto provando? Pare che il mio castello di carta e bugie, da sempre estremamente instabile, sia rovinosamente crollato e non posso fare niente per frenare, o perlomeno rallentare, la sua inevitabile distruzione.
“Chi è questa persona?” papà cerca di smorzare un poco la tensione e accenna un sorriso.
“Si chiama Massimo. E’ un soldato…”
Sono interrotta non appena mia madre sbatte rabbiosa un pugno sul tavolo, facendo tintinnare piatti e posate.
“Anna non agitarti…” papà si avvicina, tuttavia lei sfugge dalla sua presa e mi rivolge un’intensa occhiata di rimprovero.
“Perché non mi hai raccontato niente Vera?”
“E te ne stupisci? Guarda come stai reagendo!”
“Se mi avessi detto prima la verità forse sarei stata più comprensiva, non trovi?”
“Non sarebbe cambiato niente mamma e tu lo sai!” dichiaro indignata “Sono stufa di vivere con il costante timore di un tuo giudizio negativo. Sono adulta e posso compiere le mie scelte!”
“Ovvio, perciò la colpa sarebbe mia adesso? Ma ti rendi conto di cosa stai dicendo Vera? Io sono tua madre, ho il diritto di consigliarti cosa è giusto e proteggerti!”
“No tu non hai nessun diritto mamma! Non più oramai! So badare a me stessa, non sono più una bambina!”
“Eppure è così che ti stai comportando!” inveisce mia madre “Possibile che tu non comprenda la pericolosità nel frequentare un soldato Vera? Hai una minima idea dei rischi che potremmo correre?”
“E’ quello che le ho detto io...” borbotta Gabriele, tuttavia nessuno sembra interessato al suo intervento.
“Potresti almeno fingere di mostrarti contenta mamma...” dico in fin di voce.
“Contenta? Ti stai frequentando con uno sporco fascista e dovrei essere contenta?!”
Una scarica di rabbia m’invade repentinamente e controllarmi si rivela un’impresa ardua.
“Non ti permettere mamma!” scosto con rapidità la sedia e mi alzo furibonda “Massimo non è un fascista! Non lo conosci nemmeno, come puoi giudicarlo?”
“Non ne ho bisogno Vera.” replica mia madre con agghiacciante spontaneità.
“Quello che hai detto è davvero spregevole…”
“E tu sei una sciocca Vera!” urla alzandosi in piedi “Cosa pensi che farà quel soldato non appena scoprirà che sei ebrea? Ci denuncerà al governo e per colpa tua ci ammazzeranno!”
“Anna smettila, stai esagerando!” si intromette papà con scarso successo.
“Ma sei impazzita mamma? Massimo non lo farebbe mai!”
“Sei un’illusa Vera…”
“Ho già rivelato a Massimo di essere ebrea e ha promesso di proteggerci!”
“Che cosa hai fatto?!” gli occhi di mia madre diventano due fessure impenetrabili “In un momento come questo, con quale coraggio diffondi la notizia di essere ebrea?! Hai segnato la tua condanna Vera. Hai tradito la tua famiglia per un fascista…”
“Anna ragiona per un momento!” interviene zia Baba “Vera non metterebbe mai in pericolo la sua famiglia, lo sai benissimo. Non ti sembra di esagerare nel giudicare questo giovanotto in modo tanto affrettato?”
“E tu cosa ne sai Barbara?” domanda mia madre indispettita.
Zia Baba non ribatte e nostri sguardi si incrociano tristemente per un istante, tempo necessario perché mia madre lo noti.
“Tu lo sapevi…” mormora mia mamma incredula “Barbara tu sapevi della relazione di Vera con quel soldato?!”
Zia Baba osserva sconsolata mia madre e tenta di spiegarsi. Tuttavia non le concede nemmeno un secondo.
“Non posso crederci…Sei vergognosa Barbara, hai preferito incoraggiare l’immaturità di mia figlia piuttosto che raccontarmi la verità!”
“Mamma smettila, la zia non ha nessuna colpa! L’ho convinta io a non raccontarti niente!”
“Ma complimenti Vera, sei riuscita anche ad abbindolare tua zia! Mi vergogno di te…”
“Mamma!” urlo in preda allo sconforto.
“Stai zitta Vera!” grida esasperata e si allontana dal tavolo, celando il volto tra le mani.
La mamma respira a fatica e papà la raggiunge, sussurrando qualcosa al suo orecchio e accarezzandole amorevolmente le spalle.
Mia madre sospira mestamente e si passa una mano tra i capelli.
“Vera ascoltami bene.” dice avvicinandosi al tavolo “Non voglio che tu veda più quel ragazzo.”
“Mamma non puoi impedirmelo!”
“Ti prego non ribattere. Sono stanca…”
“Sai cosa ti dico? Anche io sono molto stanca. Sono al limite mamma, mi dispiace ma questo non posso perdonartelo.”
“E’ per il tuo bene figlia mia. Dimentica quel soldato e andrà tutto bene, fidati di me.”
“No, non è vero! Io amo Massimo d’accordo? Lo amo mamma! Perché non provi a capirmi?”
“Sei così giovane Vera, cosa ne sai dell’amore tesoro?” afferma mentre mi si avvicina “Lui non è giusto per te, ti spezzerà il cuore non appena ci denuncerà.”
“Tu non sai cosa è giusto per me.” dichiaro sprezzante, allontanando brutalmente la sua mano appena prova ad accarezzarmi la guancia “E io non voglio più ascoltarti.”
“Vera per favore…”
“No! Basta non dire altro…”
Cerco di trattenere le lacrime e regolarizzare il mio respiro nonostante io sia estremamente tesa.
“Mi prometti che non vedrai più quel ragazzo Vera?”
Osservo mia madre e le sorrido fintamente.
“Forse non hai ancora capito mamma, ma io non ho nessuna intenzione di lasciare Massimo. Continuerò a frequentarlo e non m’importa di cosa pensi poiché è evidente che non ti interessa minimante della mia felicità.”
“Vera io lo faccio per te, per il tuo bene!”
“Stai zitta!” urlo ormai fuori controllo “Tu non hai idea di cosa sia bene per me, non puoi saperlo perché non ti è mai importato niente della mia vita! E questa tua reazione ne è la prova mamma!”
Mi avviò con passo rapido verso l’uscita.
“Vera torna qui! Non osare uscire da questa casa!” urla mia madre.
Ma è troppo tardi perché sbatto la porta rumorosamente e inizio a correre.

Tremo dalla rabbia, lacrime di frustrazione mi rigano il volto e nonostante non abbia ormai più fiato continuo a correre imperterrita, mentre i polmoni mi bruciano e implorarono pietà. Sembra che le mie gambe si debbano spezzare da un momento all’altro e sono scossa da un tremore costante.
Con le ultime forze rimaste raggiungo la caserma Vittorio Emanuele II e sospiro di sollievo non appena scorgo Massimo in compagnia di alcuni soldati, intento a fumare una sigaretta.
Lui mi intravede e, con espressione accigliata e alquanto confusa, si allontana dai suoi uomini e si dirige verso di me.
Non appena getta a terra la sua sigaretta, mi fiondo tra le sue braccia accoglienti senza lasciargli il tempo di rimproverarmi.
Ci allontaniamo silenziosi anche se riesco a percepire il vocio dei soldati, estremamente incuriositi nel vedere il loro tenente allontanarsi con una ragazza.
“Mi vuoi spiegare perché sei venuta alla caserma a quest’ora?” mi chiede Massimo avvicinando il suo volto al mio e accarezzandomi una guancia.
“Ho litigato con mia madre...”
Massimo mi guarda dubbioso e un sorriso illumina il suo volto.
“Sei stata molto carina a condividere questo tuo stato d’animo con me, ma non ti sembra un tantino eccessivo venire fino a qui? Per di più di sera?”
Mi sfugge un sorriso che presto si tinge di altre lacrime. Massimo si fa serio e mi esorta a raccontargli cosa è accaduto.
“Gabriele ha rivelato alla mia famiglia della nostra relazione.”
Massimo alza gli occhi al cielo esasperato.
“Come l’hanno presa i tuoi genitori?”
“Mia madre ha completamente dato di matto! Ha farfugliato frasi senza senso e insulti a non finire, vietandomi infine di incontrarti ancora.”
“Eppure sei qui, con me.” dichiara Massimo compiaciuto “Qualcosa mi fa supporre che non hai intenzione di sottostare alla sua decisione.”
“Non mi importa niente di cosa pensi o voglia mia madre. Non smetterò di frequentarti per i suoi stupidi pregiudizi. Però mi fa così arrabbiare!”
“Si comporta in questo modo per il tuo bene Vera. Sei sua figlia, si preoccupa per te.”
“Adesso difendi pure mia madre? Ma da che parte stai Massimo?”
Scoppia in un’allegra risata.
“Non difendo nessuno Vera. Tua madre sarà stata troppo severa ma cerca di capirla, con i tempi che corrono è pericoloso anche solo uscire di casa. E litigare non porterà a niente, prova a parlarle e cerca di spiegarti.”
“Lei non mi ascolterà. Non lo ha mai fatto. E poi non voglio tornarci in quella casa!” dico imbronciata.
“Posso accompagnarti e conoscere finalmente tua madre. Potrei rassicurarla e risolvereste i vostri disguidi.”
“Se vuoi morire giovane, accomodati pure Massimo. Ma io non sono responsabile di ciò che ti accadrà se mia mamma ti avrà a portata di mano...”




Angolino dell'autrice: ...Vi chiedo umilmente perdono per l'immenso ritardo! Scusate davvero! E' un periodo in cui trovo un po' di difficoltà nello scrivere e pubblicare regolarmente...ho un po' la testa tra le nuvole! xD
Ne approfitto per ringrazie TUTTI coloro che hanno commentanto e hanno messo la storia nelle seguite! Il vostro supporto è la forza che mi spinge a continuare la storia e sapere che il racconto vi piace è la ricompensa più bella che potessi desiderare! GRAZIE, di cuore.  =)

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Quando la sera torno a casa mi dirigo rapida nella mia stanza e mi rintano sotto le coperte. Mamma non prova nemmeno ad avvicinarsi e in ogni caso non le avrei dato la possibilità. Papà cerca di parlarmi, chiedere qualche spiegazione in più ma io persevero nel mio silenzio tombale.
La mattina seguente per evitare mia madre, appena sveglia esco silenziosamente di casa e senza rivelare a nessuno dove sarei andata e quando avrei fatto ritorno.
Un comportamento infantile? Sì può darsi…ma sono ancora troppo arrabbiata per instaurare un dialogo pacifico con mia mamma, evitando di impazzire dalla rabbia.
Nel frattempo ho un’altra faccenda in sospeso e che devo chiarire il prima possibile.
Elena.
Da quel giorno in cui Massimo ed io l’abbiamo incontrata per le strade di Trieste, non ho più avuto l’occasione per parlarle. Sarò paranoica, eppure credo che Elena stia cercando di evitarmi volontariamente.
Ho un solo modo per scoprirlo, aspettarla fuori dalla dimora del signor Tommasi dal quale sono stata molto cortesemente licenziata senza alcun preavviso.  
Intravedo sulla soglia la signora Tommasi, nel suo prezioso giro di perle attorno al collo, intenta a parlare con Elena, eccezionalmente elegante e con un ampio sorriso che le illumina lo sguardo.
Cerco di non farmi notare ma riesco ad avvicinarmi sufficientemente per cogliere qualche parola del loro dialogo.
“Carissima Elena, ci mancherai molto.” dichiara la signora Tommasi, posando le mani sulle spalle della mia amica.
“Anche voi signora Tommasi. Verrò a trovarvi spesso.”
“Sei molto premurosa, ma so bene a quanti impegni dovrai far fronte subito dopo il matrimonio.”
Le possibilità possono essere solo due: o il mio udito ha risentito delle urla della scorsa serata per il litigio con mia madre o sono completamente impazzita. Non vedo altre soluzioni.
“Avete ragione, ma non dimenticate che avrò un meraviglioso marito che mi porterà ovunque io voglia e potrò farvi visita tutte le volte che vorrò.”
“Non approfittarne troppo mia cara!” dice la signora Tommasi e scoppiano entrambe in una fragorosa risata, a mio parere velata da una certa finzione.
“Tanti auguri Elena. E tanta felicità.”
La signora Tommasi abbraccia Elena la quale ricambia e sorride radiosa.
Dopo gli ultimi saluti la donna chiude la porta ed Elena percorre il vialetto, accompagnata dal cadenzato ticchettio delle sue scarpe sull’asfalto.
“Non sapevo ti sposassi...” dichiaro avvicinandomi rapidamente a lei.
Elena alza gli occhi al cielo infastidita e finge di ignorarmi, proseguendo imperterrita e accelerando il passo.
La afferrò immediatamente per un braccio impedendole di avanzare, tuttavia Elena si scansa brutalmente e mi osserva con sdegno.
“Non toccarmi Vera!”
“Non ho una malattia contagiosa.”
“No, molto peggio! Sei ebrea! E me lo hai tenuto nascosto!” inveisce Elena con rabbia.
“Mi dispiace non averti detto la verità. Ma cosa sarebbero cambiato?”
“Ma come ti viene in mente una domanda del genere? Sarebbe cambiato tutto, non ti avrei dato tutta questa confidenza tanto per cominciare.”
“Io non ho fatto niente Elena! E’ il regime che ci incrimina. Credi realmente che io possa essere una minaccia?”
“Non sono io che devo rispondere a questa domanda. E sinceramente non mi interessa.”
“Come puoi essere così insensibile? Hai idea di cosa sto passando?” le domando allibita “Tutta la mia famiglia è stata licenziata e viviamo nel costante terrore che possano farci del male!”
“Evidentemente te lo meriti Vera, come tutti quelli come te.”
“Non posso credere lo pensi davvero…”
“Vera smettila di fare la melodrammatica! Io non posso fare niente per aiutarti e anche se potessi, credo non alzerei un dito né per te né per la tua famigliola.” dichiara con indescrivibile freddezza.
“Non ti riconosco più Elena. Qual è il motivo di questo tuo assurdo comportamento?”
“Sei la solita ingenua Vera. E questa è la colossale differenza tra me e te. Io ho carattere e riesco sempre a ottenere ciò che voglio, mentre tu continui a fare la vittima innocente e questo non ti porterà a niente, credimi. Ora se permetti, ho molti impegni da sbrigare…”
Elena tenta di allontanarsi ma la afferro nuovamente per un polso.
“Vuoi smetterla di toccarmi?!” impreca adirata.
“Non te ne andrai di qui finché non mi racconterai cosa ho fatto di tanto spregevole per meritarmi questo comportamento!”
“Ma chi ti credi di essere per darmi ordini?!”
“Voglio solo sapere la verità.” affermo risoluta, serrando le labbra e osservando Elena dritto negli occhi.
“Lo vuoi davvero?” domanda Elena ostentando un sorriso beffardo. Tuttavia non muovo un muscolo e attendo nervosa una sua spiegazione.
“Sto per sposarmi Vera, con un importante esponente delle camicie nere. E se ci vedesse qui, sono quasi certa ti arresterebbe senza troppe esitazioni.”
“Questa è una sorta di vendetta Elena?” 
“Pensi davvero che tutto graviti attorno a te Vera? Mi credi così immatura da sposare un uomo unicamente per farti un dispetto? Santo cielo sei davvero infantile…”
“Eppure è chiaro che non lo sposi per amore!”
“Ma tu cosa ne sai?!” grida Elena estremamente infastidita.
“Ti conosco bene Elena. Il matrimonio ti consentirà di stare al sicuro e vivere serenamente nell’agio e nelle ricchezze, come hai sempre desiderato. Lo intuisco dal tuo sguardo, non sei davvero innamorata Elena…e ne sei perfettamente consapevole.”
Elena si mostra tesa e posa lo sguardo a terra, giocando nervosamente con le dita.
“In ogni caso non sono affari tuoi Vera!” tenta malamente di giustificarsi “E non capisco come tu possa volere ancora la mia amicizia, dopo tutto quello che ti ho fatto.”
“Io so che hai ancora a cuore la nostra amicizia Elena, so che non mi abbandoneresti in un momento così difficile. Hai solo paura delle conseguenze! Ma il regime non ha nessun diritto di…”
“Tu non lo sai…” m’interrompe piacevolmente sorpresa.
“Sapere che cosa?”
Elena scoppia in una risata compiaciuta mentre assisto inerme alla situazione.
“Indubbiamente Massimo è stato molto bravo a tenertelo nascosto…”
“Cosa c’entra Massimo in tutto questo?” domando esasperata.
“Credo che accidentalmente Massimo abbia omesso di rivelarti che io e lui siamo andati a letto insieme.”
Un brivido gelido percorre la mia schiena e il semplice respirare mi appare estremamente complicato. Tuttavia tento di mostrare ancora un minimo di dignità.
“Stai mentendo…”
“Perché dovrei Vera? Anzi, voglio solo farti comprendere chi è veramente Massimo.”
“Lui non farebbe mai una cosa del genere! Non avrebbe motivo per mentirmi.”
“Tu sei ancora convinta che ci sia del buono in tutti, non è vero? Apri gli occhi Vera! E’ questo che fanno gli uomini, mentono per avere ciò che vogliono!”
“Massimo è diverso…” dico in un flebile sussurro.
“No Vera, lui è esattamente come tutti gli altri. Ricordi quando ti ho raccontato di quel soldato che è svanito dopo aver passato la notte con me? Era proprio Massimo! Che coincidenza strana, non trovi?”
“Considerando i posti che frequenti, ti avrà scambiata per una puttana.”
Mi mordo il labbro ma è troppo tardi. Elena sbarra gli occhi allibita, incredula nell’udire le mie parole.
“Scusami, ho esagerato. Sai che non lo penso…”
Non ho tempo di giustificarmi che mi arriva un potente schiaffo in pieno volto.
Lacrime amare mi salgono agli occhi e le trattengo a stento.
“Non osare mai più rivolgermi la parola Vera, altrimenti giuro che ti uccido. E se qualcun altro mi precederà, assisterò con molto piacere.”
Elena si allontana infuriata mentre mi massaggio la guancia dolorante. 
A metà strada si ferma, voltandosi e chiamandomi con un sorriso crudele in volto.
“Direi che tra noi due, la vera sgualdrina sei tu Vera…”

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Ciò che cattura per un impercettibile istante la mia attenzione è la voce di mia mamma nell’altra stanza che pone fine ad una discussione con mio padre dichiarando un deciso: “io lo avevo detto che l’avrebbe fatta soffrire”.  E’ piuttosto fortunata che io non abbia né le forze né la volontà per risponderle.
Tre giorni. Tre interminabili giorni rintanata in casa, in uno stato di completa apatia.
Dopo la sconcertante rivelazione di Elena e della sua avventura con Massimo, non ho avuto il coraggio di affrontarlo. Ho preferito nascondermi, evitarlo in tutti modi piuttosto che discutere. So che non avrei il coraggio di guardarlo negli occhi senza scoppiare a piangere e mostrare tutta la mia fragilità e il mio dolore.
Credevo di conoscere Massimo, soprattutto avrei giurato di potermi ciecamente fidare di lui. E invece eccomi qui: con gli occhi arrossati, i capelli disordinati e un’espressione cadaverica mentre mi ritrovo amaramente a dare ragione a mia madre.
Mi sono innamorata di Massimo e come ho potuto non accorgermi delle sue bugie? L’amore rende davvero così ciechi? Vorrei che fosse stato sincero, lo avrei preferito. Perché ora non so come comportarmi. Vorrei perdonarlo, perché lo amo e mi manca. Eppure non sarebbe giusto, se mi ha mentito significa che ha molto altro da nascondermi e non posso vivere nella menzogna.
Nonostante i miei discorsi di autoconvincimento, non ho il coraggio di alzarmi da questo maledetto letto. Ho quasi il timore di non aver abbastanza forza per reggere il macinio che sento sullo stomaco.
Eppure so di non poter rimandare l’inevitabile per sempre…o forse sì?

No, ovviamente non posso. E infatti il giorno successivo mi persuado dopo interminabili sforzi ad alzarmi dal letto e uscire di casa. Ne approfitto per prendere una boccata d’aria e compiere qualche commissione che mamma mi ha affidato.
Dopo giorni chiusa tra le mura domestiche e sottratta da qualsiasi contatto con il mondo esterno, ho la sensazione di riprendere a respirare di nuovo.
Tuttavia il mio stato di apparente serenità ha durata breve.
“Vera!”
E’ la sua voce, inconfondibile. E io sono immobile, terrorizzata, mentre il cuore batte ad una velocità spropositata.
Massimo si avvicina rapidamente e mi si para davanti, sfoggiando il suo sorriso rassicurante. Tuttavia non voglio cedere alla dolcezza del suo sguardo e chino immediatamente il capo.
“Vera, sono così felice di rivederti.” dichiara accarezzandomi una guancia ma mi ritraggo bruscamente.
Massimo mi osserva confuso e tenta nuovamente di avvicinarsi.
“No, stammi lontano!” gli ordino sprezzante.
“Vera ma cosa ti prende?” domanda Massimo esasperato “Scompari per giorni senza dire una parola e mi merito anche questo comportamento?”
“Perché io mi sono meritata le tue bugie Massimo?!”
Aggrotta le sopracciglia, senza comprendere a cosa io mi stia riferendo.
Sento gli occhi cominciare a bruciare per le lacrime che riesco a trattenere a stento. Provo perciò ad allontanarmi, tuttavia Massimo mi afferra rapido per un polso e mi trascina lontano da occhi indiscreti. Cerco di oppormi con tutte le forze ma ovviamente, non mi risulta tanto semplice.
Raggiungiamo una via secondaria e mi divincolo bruscamente dalla stretta di Massimo e ritento disperatamente di allontanarmi.
“Vera mi stai facendo impazzire, fermati!” Massimo sbuffa spazientito e mi afferra per le braccia attirandomi a sé.
“Vuoi lasciarmi?!” urlo adirata.
“No, finché non mi racconti perché ti comporti come una matta!” replica risoluto Massimo, cercando di incitarmi ad abbassare il tono della voce e non attirare l’attenzione dei passanti.
“E’ colpa tua se sto impazzando! Tu e le tue maledettissime bugie!”
“Di cosa stai parlando Vera?!”
“Smettila di far finta di niente! Elena mi ha raccontato ogni cosa.”
L’espressione corrucciata di Massimo è repentinamente sostituita da uno sguardo colpevole.
“Vera posso spiegarti ogni cosa…”
“Ma cosa vuoi spiegare Massimo? Mi hai illusa per tutto questo tempo e come una sciocca ti ho creduto.”
“Non lo avrei mai fatto Vera, sai quanto ti amo.”
“Con quale coraggio affermi ancora di amarmi? Mi ha tradito Massimo, è spregevole!” dico indignata.
“Vera quello che è accaduto con Elena è avvenuto mesi prima di conoscerci.”
“Non cambia niente Massimo. Mi hai comunque mentito giurandomi di non aver mai incontrato Elena. Perché non mi hai detto la verità?”
“Perché avrei dovuto farti soffrire inutilmente Vera? E’ stato un mio sbaglio, non volevo che ne fossi coinvolta!” si giustifica Massimo.
“Pensi davvero che prima o poi non lo avrei scoperto? Non capisci che adesso non posso più fidarmi di te?”
“Vera sai che non è così…”
“E invece sì Massimo! Mi ha mentito e per quanto ne so potresti aver frequentato altre…donne mentre eri impegnato con me!” mi si spezza la voce e sento gli occhi colmi di lacrime.
“Vera ma cosa stai dicendo! Io ti amo, non potrei nemmeno immaginare di stare con un’altra. Mi conosci ormai, sai che non sono come gli altri.”
“Eppure le tue bugie provano l’esatto contrario Massimo.”
“Ho solo cercato di proteggerti Vera, devi credermi…” dice compiendo qualche passo verso di me “Te lo ripeto, quella notte con Elena è stato uno stupido errore. Stavo vivendo un momento difficile, non ero in me. Se potessi tornare indietro, cancellerei senza indugi quella notte ma non posso.”
“No…infatti non puoi.” asserisco tristemente.
“Ma tu puoi perdonarmi! Ti amo Vera, ti amo da impazzire! Non ti tradirei mai. Sei la mia ragione di vita e non posso perderti così stupidamente.”
Sospiro e i nostri sguardi si incrociano.
“Massimo anch’io ti amo. E hai una minima idea di quanto sono stata male nei giorni passati? Quanti dubbi e domande mi vorticavano nella mente? Ho pensato di tutto, ho cercato mille spiegazioni per giustificarti, ma il timore che tu non mi amassi era sempre troppo opprimente.”
“Mi dispiace così tanto tesoro, sono stato un deficiente.” dichiara Massimo, prendendo dolcemente le miei mani tra le sue “Ma pensi che sarei qui a supplicarti come un matto di perdonarmi se non ti amassi davvero?”
Non riesco a trattenere un sorriso udendo le sue parole.
“Vera, ti amo.” Massimo si inginocchia e spalanca le braccia implorante “Ecco, guardami! Ti supplico, perdonami! Non riesco a starti lontano, ho bisogno di te.”
“Massimo non farlo…”
“Ancora non ti ho convinto Vera? Possiamo rimanere qui fino a notte fonda, io non mi muovo finché non riceverò il tuo perdono.” dichiara con fermezza.
“Dico sul serio Massimo, non farlo. Sei abbastanza imbarazzante…” dico trattenendo una risata.
“Allora mi perdoni Vera?” chiede speranzoso, mentre lo aiuto a rialzarsi.
Alzo gli occhi al cielo divertita e annuisco.
Sul volto di Massimo compare un’espressione raggiante e mi stringe forte a sé. Quasi mi manca il respiro tanto è vigorosa la sua stretta.
“Mi sei mancata Vera, non ho fatto altro che pensare a te.” si scosta leggermente per guardarmi negli occhi “Ti amo da impazzire!”
Chino lo sguardo un poco imbarazzata ma estremamente felice nel trovarmi nuovamente tra le sue braccia accoglienti. Il motivo della mia rabbia verso di lui appare un ricordo lontano e forse non così rilevante.
Lo amo, potete forse incolparmi per questo?
Massimo prende il mio mento tra le dita e mi bacia.
Le sue labbra sulle mie…quanto mi sono mancate. Morbide, dolcemente affamate e perfettamente armonizzate alle mie.
“Vorrei tenerti tra le mie braccia per sempre.” dichiara Massimo con un velo di tristezza nella voce.
“Perché non potresti?” gli chiedo posando una mano sulla sua guancia.
“Camminiamo un po’, devo parlarti.”
Leggo nei suoi occhi scuri una chiara inquietudine che lo tormenta.
Intreccia le sue dita alle mie e usciamo dal vicolo per dirigerci alla via principale tuttavia, non appena la raggiungiamo, ci imbattiamo in un soldato delle camice nere, un uomo tarchiato e dalle sopracciglia folte, in giro di perlustrazione.
Sussulto spaventata e Massimo mi stringe con forza la mano e mi rivolge una breve occhiata rassicurante.
“Perdonate signore, non vi avevo visto.” si scusa Massimo, chinando lievemente il capo.  
“Non vi preoccupate tenente, può capitare.” risponde l’uomo con un finto sorriso. Poi posa lo sguardo su di me e tento di non farmi intimorire da quegli occhi gelidi “Chi è questa graziosa signorina in vostra compagnia?”
“Non la conosco signore.” risponde prontamente Massimo impedendomi di aprire bocca “L’ho incontrata poco lontano da qui e mi ha chiesto indicazioni per raggiungere il calzolaio. Le stavo indicando la strada da percorrere.”
“Una condotta ammirevole, tenente. Se vi è disturbo posso accompagnare io questa giovane.” propone la camicia nera porgendomi una mano.
“Non è assolutamente un disturbo signore, non si preoccupi” risponde Massimo con fermezza “Sono comunque diretto in quella zona, devo tornare alla mia caserma. Accompagno io la ragazza.”
L’uomo abbozza un sorriso e raddrizza fiero le spalle.
“Caserma Vittorio Emanuale II, mi sbaglio?” domanda a Massimo.
“E’ corretto signore. Sono al Primo reggimento San Giusto.”
“Allora colgo l’occasione per augurarvi buona fortuna per la vostra missione. So che la partenza è programmata entro i prossimi giorni.”
Nell’udire le parole dell’uomo, spero vivamente di aver capito male.
“In realtà partiremo domani, signore.” risponde Massimo.
No, purtroppo ho sentito benissimo e percepisco già il panico assalirmi e divorarmi rapidamente.
“Ottimo, allora rafforzo i miei più sentiti auspici per voi e i vostri soldati.”  
Non sopporto più questa farsa e ho bisogno al più presto di alcuni chiarimenti da parte di Massimo. Le mie gambe iniziano a tremare e temo non sorreggano il macigno che sento allo stomaco.
Finalmente giunge il momento dei saluti e non appena la camicia nera si allontana, Massimo inveisce in numerose offese nei confronti di quell’uomo che preferisco non riportarvi.
“Ti prego dimmi che non dicevi sul serio e non devi lasciare Trieste.” gli chiedo preoccupata.
“Vorrei non fosse così ma è il mio lavoro Vera.”
“E quando pensavi di dirmelo scusa?” domando allibita.
“Appena ti avrei rivista. In questi ultimi giorni sei letteralmente scomparsa e se non ricordo male, mi hai vietato di recarmi a casa tua.“
“E io devo ricordarti il motivo per cui non ho voluto vederti?” chiedo con tono sprezzante.
“Vera ne abbiamo discusso, mi sembrava tutto risolto.”
“Sì lo so, ma non voglio che tu parta Massimo! E’ il tuo compito lo capisco perfettamente, ma non posso sopportare la tua lontananza.”
Non devo pronunciare un’altra parola che Massimo comprende subito le mie preoccupazioni e mi stringe a sé, accarezzandomi dolcemente i capelli.
“Starò via solo un mese tesoro, non è poi così tanto tempo.”
Annuisco istintivamente, già tristemente proiettata alle lunghissime settimane che si prospettano davanti a me.
“Dove vi mandano?” gli chiedo.
“In Jugoslavia, compiti prevalentemente presidiari e di controguerriglia. Niente di pericoloso, puoi stare serena.”
“Non sarò mai tranquilla se penso che sei lontano da me e non potrò sapere come stai.”
“Ci scriveremo.” dice prendendomi il volto tra le mani “Ti invierò lettere ogni giorno e vedrai che il tempo volerà e sarò presto di ritorno. Te lo prometto amore mio.”

…Non è stato proprio così. Ogni giorno pare un’eternità, faccio davvero fatica a dormire o a concentrarmi in qualsiasi altra attività. I miei pensieri sono costantemente rivolti a Massimo.
E grazie al cielo ho le sue lettere, che leggo e rileggo mille volte. Le custodisco gelosamente in un cassetto così che mia madre non le scopra, e quando non mi vede le sfoglio e annuso l’odore della carta sgualcita sperando di cogliere quello di Massimo.
Mi manca. Mi manca da morire.


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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***



4 dicembre 1942

Mia adorata Vera,
finalmente trovo un momento per scriverti. Siamo fermi ad una stazione e ne approfitto per aggiornarti poiché quando il treno è in moto è davvero un'impresa tenere in mano una penna.
Sono ormai tre giorni che viaggiamo. Il tempo è sempre stato bello, freddo ma soleggiato.
In questa fermata non ho trovato un comando di stazione militare a cui affidare la posta. Spero di trovarne uno alla prossima e spedirti questa lettera.
Mi manchi tesoro mio. Non faccio altro che pensarti.
Per ore infinite osservo le distese dei campi che si espandono sconfinate davanti a me e il tuo volto è sempre impresso nella mia mente.
Vorrei tanto sapere cosa stai facendo e se anche tu pensi a me.
Non vedo l’ora di risalire su questo treno per poter tornare da te e riabbracciarti.
Cercherò di farti avere presto mie notizie.
Ti amo. E stai serena.
Tuo Massimo.





27 dicembre 1942

Amore mio!
Non sai che gioia appena ho ricevuto la tua lettera. Credevo di morire di felicità. Ho riletto centinaia di volte le tue parole e credo non mi stancherò mai. E’ l’unico modo che possiedo per immaginarti qui, accanto a me.
Spero che il viaggio sia andato bene e che tu sia arrivato sano e salvo.
La situazione è stazionaria, ci stiamo attivando per trovare qualche lavoretto ma senza grandi risultati. Mamma e zia Baba provano a vendere alcuni abiti cuciti da loro e io cerco di aiutarle. Nonostante il periodo natalizio, ti lascio immaginare come procedono gli affari…
A peggiorare la situazione ci sono i razionamenti di cibo che si fanno sempre più scarsi. Ci arrangiamo con quello che troviamo.
Se penso che sono trascorse poco più di due settimane dalla tua partenza mi sento male. Vorrei che il tempo volasse e tu tornassi da me.
Ma ricevere tue notizie e sapere che stai bene un poco mi rasserena.
Come puoi chiedermi se ti penso? Non riesco a fare altro Massimo, sei il mio unico pensiero.
Sono così ansiosa di ricevere una tua risposta. Raccontami tutto, voglio sapere ogni cosa.
Ti abbraccio forte e ti bacio.
Tua per sempre, Vera.



 
 

5 gennaio 1943

Dolcissima Vera.
Sono nella mia tenda,appollaiato sul lettino al rumore della pioggia che batte sul telo e ho l’occasione per scriverti.
Come al solito sveglia alle 6. Ma questa mattina il profumo del caffè ci ha invaso di un nuovo vigore per affrontare al meglio la giornata.
Oggi infatti abbiamo ricevuto visite dalle crocerossine che ci hanno offerto the e caffè caldo…soltanto!
Non ha smesso di piovere nemmeno per un momento. Il freddo è davvero insopportabile. Non sai quanto mi piacerebbe tuffarmi in una vasca di acqua bollente…magari insieme a te. Già mi immagino il tenue rossore che ha colorato il tuo bel viso...
In questi momenti di pace, sento ancora di più la tua mancanza tesoro mio. Vorrei fossi accanto a me, ti stringerei forte e non dovrei più sopportare questo freddo.
Purtroppo si è sparsa la voce di un possibile prolungamento della nostra permanenza in Jugoslavia per qualche settimana ancora.
Ma tu non preoccuparti, tornerò presto.
Stai tranquilla, io sto bene e tutto procede per il meglio.
A prestissimo tesoro. Ti bacio e ti abbraccio forte.
Massimo.

Per la vendita degli abiti Vera, prova a recarti nella zona ad est di Trieste.
Non da sola.
E’ una zona poco raccomandabile ma sicuramente troverai chi sarà disposto a comprare i vostri vestiti. Te lo ripeto, non andare sola! Fatti accompagnare da tuo padre o da quel simpaticone di tuo cugino.
Ti amo.



 
 
24 gennaio 1943

Mio caro Massimo.
Non hai idea di quanto io senta la tua mancanza e spero che la mia lettera possa infonderti un po’ calore, amore mio.
Anche qui sono ormai giorni che non si intravede nemmeno un timido raggio di sole e questo non fa altro che aumentare la mia malinconia.
E sapere che il tuo ritorno è posticipato mi ha distrutto…mi sembra trascorsa un’eternità da quando sei partito!
Mi rasserena sapere che tu stia bene ma non posso far altro che pensarti e saperti così lontano mi procura alcuni incubi davvero spaventosi.
Quasi dimenticavo! Siamo riusciti a ricavare qualcosa dalla vendita degli abiti grazie al tuo consiglio. Nonostante la lontananza sento sempre la tua presenza, chissà forse abbiamo qualche misterioso collegamento che ci unisce!
Stai tranquillo, non sono andata da sola. Quel “simpaticone” di Gabriele è venuto insieme a me. Ormai parliamo a stento, puoi immaginare quanti dubbi sono sorti in famiglia.
Per di più mia madre non smette di pormi domande sulle lettere che sto ricevendo. E’ mai possibile che debba sempre impicciarsi?
Ma non voglio annoiarti Massimo, avrai già tanto a cui pensare. Vi danno da mangiare a sufficienza?
Non aspetto altro che riabbracciarti.
Ti amo.
Tua Vera




 
 
10 febbraio 1943
Mio carissimo tesoro,
Oggi riposo completo e allora mi dedico alla corrispondenza.
Poco fa è arrivato il mio amico Filippo (forse ti ricorderai di lui, lo hai conosciuto quel giorno alla caserma) per dirmi che stasera mi porterà delle patate e delle barbabietole già bollite: ci metterò un po’ di latte così completerà la cena. Non preoccuparti, non ci lasciano morire di fame Vera. Non sarà il meglio che si possa desiderare, ma dopotutto bisogna arrangiarsi no?
Mia dolce Vera, tu non potresti mai annoiarmi. E mi rammarica saperti così angosciata.
Ma tesoro non possiamo nasconderci per sempre ai tuoi genitori. E’ la tua vita. E’ il nostro futuro.
Quando farò ritorno a Trieste ne discuteremo e risolveremo la questione. Parlerò io con la tua famiglia, conquisterò la loro fiducia te lo prometto.
E ho una buona notizia: entro Pasqua sarò di ritorno!
Sii serena. Andrà tutto bene.
Ti amo da morire.
Tuo Massimo





26 febbraio 1943

Mia adorata Vera,
è ormai da più di 20 giorni che non ricevo tue notizie. Spero che vada tutto bene e che il problema sia solo un ritardo o uno smarrimento della mia lettera precedente.
Oggi abbiamo oltrepassato un fiume e il luogo dove ci siamo attendati è magnifico. Ti scrivo dall’ombra di un salice piangente, davanti ad un simpatico stagno con rane e un torrente in cui fare il bagno. E il tempo è magnifico.
Quanto mi piacerebbe tu fossi qui con me, è un posto incantevole.
Quando tornerò a Trieste voglio portarti al mare…hai ragione, magari quando farò un po’ più caldo. Ma ci andremo, te lo prometto.
Come ti ho accennato nella lettera precedente, per la metà di marzo saremo a casa.
Non aspetto altro che riabbracciarti. Non sopporto più la tua lontananza. Mi manchi da morire.
Ancora pochi giorni e sarò da te, amore mio. Aspettami.
Tuo Massimo.



Angolino dell'autrice:
Ciao a tutti!!!! Approfitto della brevità di questo capitolo per dirvi alcune cose. :)
Innanzitutto GRAZIE! Grazie davvero per tutti i commenti e il supporto che mi date. Accipicchia non credevo che la storia potesse piacere, mi date una forza indescrivibile! Grazie di cuore!!!
Voglio inoltre scusarmi per le mie assenze e i miei ritardi nelle pubblicazioni dei capitoli ma sono in piena sessione esami e sto studiando davvero tanto.
Spero che la modalità differente di questo capitolo non vi sia dispiaciuta, ho ritenuto una corrispondenza epistolare un buon inserimento e spero di non avervi annoiato.
Infine, ci terrei molto a farvi sapere che alcuni passi del capitolo sono stati ripresi dalle lettere che mio zio Gastone, fratello del mio nonno paterno, inviò ai suoi genitori durante la campagna di Russia del 1941-1945 e durante la quale perse la vita. Questo capitolo è dedicato a mio zio, alla sua memoria e al suo coraggio.


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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Mi stringo forte nel cappotto alla ricerca disperata di un poco di calore. Questo freddo è insopportabile. Il vento gelido mi trafigge inesorabile, tanto che la mia pelle screpolata grida pietà e con fatica riesco a tenere gli occhi aperti.
Si sta facendo buio e fortunatamente sono in prossimità di casa mia. Decido di affrettare il passo eppure si rivela un’impresa faticosa poiché il freddo sembra farsi ancora più spietato.
Alzo lo sguardo e tra la foschia mi pare di intravedere una figura. Istintivamente modero il mio andamento e socchiudo un poco gli occhi tentando di esaminare la persona che si dirige verso di me.
In quell’istante realizzo di essere sola. Non sono abbastanza vicino a casa perché le mie urla attirino l’attenzione. E non so difendermi.
Mi guardo rapidamente attorno e colta da un’agitazione improvvisa, decido di infilarmi in un vicolo confidando di non aver attirato l'interesse dello sconosciuto.
Mi appoggio alla parete e deglutisco con estrema fatica, provando a controllare il mio respiro.
Qualche minuto d’attesa e ancora non percepisco nessun rumore.
Provo a sporgermi leggermente. La strada è deserta. Tutto tace.
Inizio a credere che la mia immaginazione giochi brutti scherzi…forse è questa maledetta ansia che non smette di perseguitarmi.
Faccio un bel respiro profondo. Apro gli occhi, mi volto e di fronte a me vedo una figura imponente. E’ buio, non riesco a riconoscerne la fisionomia e il terrore non mi permette di ragionare lucidamente. Tento di allontanarmi tuttavia mi sento afferrare per un braccio.
Provo a gridare ma lo sconosciuto posa rapido una mano sulla mia bocca, immobilizzandomi.
“Ma sei matta Vera? Vuoi svegliare tutto il quartiere?”
Quella voce. La sua voce.
Mi volto immediatamente e penso di svenire.
“Massimo!”
La mia gioia è incontenibile e gli lancio le braccia al collo, scoppiando a piangere senza controllo.
“Sei tornato!” dico incredula tra i singhiozzi “Sei tornato finalmente!”
Massimo mi stringe forte, imprigionandomi a sé e togliendomi il respiro. E non ho nessuna intenzione di oppormi. Almeno morirò di lui.
Mi perdo nel suo sguardo e i suoi respiri si fondono dolcemente con i miei.
“Cosa facevi nascosta in questo vicolo?” domanda Massimo divertito.
“E’ colpa tua!” rispondo tirando leggermente una ciocca dei suoi capelli “Mi hai spaventato a morte!”
“E tu non dovresti uscire di casa a quest’ora.”
Non mi concede l’opportunità di ribattere poiché posa le sue labbra sulle mia, quasi volesse divorarle dopo tante settimane lontani.
“Quando sei tornato?” dico in un labile sussurro mentre sono a corto d’ossigeno.
“Questo pomeriggio. Ero nei pressi di casa tua poco fa, speravo di vederti. Poi ho pensato fosse meglio aspettare domani e sono andato via. Ma fortunatamente ti ho incontrata Vera, non credo avrei resistito ancora un minuto senza di te.”
“Fidati, non sai quante volte avrei desiderato prendere un treno e raggiungerti in Jugoslavia. Poi mi sono resa conto purtroppo che non avevo la minima idea di dove fossi precisamente.”
“Conoscendoti Vera, direi che è stato prudente rimanere vago sulla mia destinazione.” osserva Massimo sghignazzando “Probabilmente saresti partita davvero. E la tua intrepida fuga non solo avrebbe fatto impazzire la tua famiglia ma se anche io avessi avuto qualche minima possibilità con i tuoi genitori, tutto sarebbe svanito miseramente.”
“D’accordo Massimo, credo di aver afferrato il concetto.” rispondo simulando una risata “Il mio, caro sapientone, era solo un modo per dirti quanto tu mi sia mancato…”
Prendo il suo volto tra le mani e intrappolo le sue labbra in un dolce bacio.
“Perché non hai risposto alle mie lettere Vera?” mi chiede aggrottando un poco le sopracciglia “Mi hai fatto davvero preoccupare.”
“Mi dispiace tanto Massimo, non sai quanto avrei voluto scriverti. Ma non ho potuto e credo tu possa immaginare il motivo…”
“Tua madre?” noto nell’oscurità il sorriso che illumina il suo volto.
Annuisco tristemente.
“Ha trovato le lettere e mi ha impedito di riceverne altre. Probabilmente ha bruciato le ultime che mi hai inviato. L’ho pregata in tutti i modi ma non ha ceduto.” 
“Non importa tesoro, vedrai risolveremo queste complicazioni con i tuoi genitori. L’importante è che tu stia bene. Però temevo potesse esserti accaduto qualcosa.”
“Non è successo nulla per fortuna. E poi ora che sei tornato starò sicuramente molto meglio...”
La mano di Massimo scende lungo la mia guancia in una carezza lieve, sfiorando le mie labbra socchiuse e vi indugia per qualche istante.
Il suo sguardo si fa improvvisamente più cupo.
“Cosa succede?” chiedo preoccupata.
“…Sei dimagrita ancora Vera.”
“Massimo ti prego!” alzo gli occhi al cielo “Sono due mesi che non ci vediamo e questo è quanto di più romantico hai da dirmi?”
Massimo scoppia a ridere. Quanto mi è mancata la sua dolce risata, così allegra e contagiosa.
“D’accordo, allora cosa ne pensi se ti dicessi che ancora non riesco a capacitarmi di come sia riuscito a starti lontano durante questi mesi?“
“Ecco, questo è molto meglio.” mi rifugio nel suo petto e una piacevole sensazione di calore mi avvolge “Per fortuna stai bene Massimo, non hai idea di quanto fossi preoccupata.”
“E perché mai Vera? Ormai dovresti conoscere l'intrepido coraggio che mi contraddistingue.” dichiara Massimo con ironia, sfoggiando un sorrisetto accattivante.
“So bene quanto voi siate valoroso, Tenente Riva.” rispondo trattenendo una risata “Ma avevo sempre un brutto presentimento e non averti accanto è stato terribile.”
“Anche per me piccola, ma ce l’abbiamo fatto e ora sono qui.” Massimo mi bacia sulla fronte e mi sorride “Sei tutta infreddolita. Vieni con me, ti offro qualcosa da mangiare.”
“Non posso Massimo, devo tornare a casa…”
“Non ho affatto intenzione di lasciarti andare Vera. Non riesco a separarmi così presto da te.”
Massimo mi stringe a sé accarezzandomi dolcemente i capelli.
Per quanto folle e rischiosa possa sembrare, improvvisamente mi balena un’idea e la espongo trepidante a Massimo.
“Vieni a casa mia, domani! I miei genitori si recheranno in sinagoga. Inventerò una scusa per non andare.”
Alle mie parole il volto di Massimo si apre in un sorriso assai divertito.
“Cosa ci trovi di tanto buffo?! Questa è l’unica proposta che mi sia venuta in mente. Se pensi di avere un’idea migliore, perché non la esponi?” replico incrociando irritata le braccia e il mio comportamento non fa che suscitare maggior ilarità in Massimo.
Avverto le mie guance avvampare per l’imbarazzo e in fin di voce aggiungo: “Io vorrei stare sola con te…”
“Lo so amore, anche io non ho aspettato altro da quanto sono partito.” Massimo prende le mie mani tra le sue e si china appoggiando la sua fronte sulla mia “Però vorrei ricordarti che la tua famiglia è alquanto…numerosa e purtroppo io sono una presenza poco gradita. E credimi, non ho nessuna voglia di incontrare quell’imbecille di tuo cugino.”
“Massimo per favore!” lo rimprovero all’istante.
“Sai bene come la penso Vera. E ho un ancora un pugno in sospeso...”
“Gabriele e i miei zii sono andati via, hanno lasciato Trieste due settimane fa.”
La notizia lo disorienta.
“Dove erano diretti?”
“Per l’America. Gabriele è stato licenziato e voleva abbandonare subito Trieste. La situazione è peggiorata da quando sei partito, tutti coloro che credevamo nostri amici ci hanno voltato le spalle. Ogni giorno è una lotta, ci evitano come fossimo appestati. La situazione è insostenibile e dopo molte discussioni zia Baba e zio Simone si sono convinti a lasciare la città insieme a Gabriele, in cerca di prospettive migliori. Ma dopo due settimane non abbiamo ricevuto ancora nessuna notizia…”
Preferisco non rivelare a Massimo i dettagli dei numerosi litigi con mia madre, durante i quali lei sarebbe voluta partire insieme agli zii mentre io non potevo abbandonare Trieste con il timore di non rivedere più Massimo. Mio padre non si sbilanciava mai più del dovuto e tale atteggiamento non faceva altro che incrementare la rabbia di mamma e l'asfissiante tensione che si avvertiva in casa.
E se credevo che la partenza di Gabriele e dei suoi genitori, per quanto mi addolorasse, avrebbe posto fine alle discussioni beh, mi sbagliavo. La situazione indubbiamente non è migliorata. Mamma mi accusa ogni singolo giorno di aver segnato la nostra condanna con il mio comportamento infantile. Ancora non è riuscita a comprendere quanto Massimo sia importante nella mia vita. E nonostante papà provi a intercedere, mia madre è irremovibile nelle sue convinzioni.
“Non devi preoccuparti Vera.” mi rassicura Massimo prendendo il mio volto tra le mani “Sono viaggi lunghi e non sempre si trova la possibilità di inviare lettere.”
“Eppure non sono tranquilla. Non ho idea di come contattarli e potrebbe essere capitata qualunque cosa.”
“Andrà tutto bene Vera, stai tranquilla. Vedrai, nei prossimi giorni riceverai loro notizie.”
Tuttavia le sue parole non riescono a confortarmi, forse perché comprendo che nemmeno Massimo è poi tanto sicuro della sua affermazione.
“Allora è ancora valido l’invito di domani?” mi chiede dolcemente.
“Ma certo…”




Angolino dell'autrice: Avete ragione, sono imperdonabile. E' da troppo tempo che non pubblico e mi dispiace davvero, lo studio mi sta risucchiando! :(
Beh fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo! Spero vi possa piacere e distrarre per qualche minuto!
Grazie a tutti per il vostro sostegno, non so cosa farei senza di voi! Un bacione e un abbraccio.
P.S.: Ne approfitto per augurare a tutti i maturandi un super in bocca al lupo!!!!!! Alla fine non è un esame così tremendo come ci vogliono far credere! ;)


 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Massimo interrompe il silenzio scandito solo dai nostri tenui sospiri.
“Stai bene tesoro?”
Intreccio la mia mano alla sua e gli sorrido sognante.
“Mai stata meglio.”
Siamo a casa mia.
Soli.
Abbracciati sotto le coperte alla ricerca di un poco di calore mentre ascoltiamo il lieve ticchettio della pioggia sul tetto.
Nudi.
Sì, abbiamo fatto l’amore.
E per quanto io sia consapevole del rischio che sto correndo se i miei genitori dovessero per qualche motivo rientrare prima dalla sinagoga e trovarmi con Massimo in questa condizione, non ho il coraggio di interrompere questo momento meraviglioso.
Massimo è venuto a casa mia questa mattina, proprio come avevamo stabilito la sera precedente. Ed è successo.
Lui è stato incredibilmente premuroso, non ha insistito né obbligato a far niente contro la mia volontà. Avrebbe aspettato appena io mi fossi sentita pronta, senza pressioni.
Tuttavia mai come in quel momento mi sono sentita davvero protetta e serena.  Sì, ero sicura della mia scelta. Cosa potevo temere se Massimo era al mio fianco?
Persa nei miei dolci pensieri, Massimo sembra leggere nella mia mente e mi sorride sfiorandomi una guancia.
“Sono così contenta che tu sia tornato. Averti qui, accanto a me, è il regalo più bello che avrei potuto desiderare.”
“Lo è anche per me Vera.” mi bacia la fronte tuttavia noto il suo sguardo farsi improvvisamente cupo.
“Cosa ti preoccupa?” gli chiedo.
Massimo appoggia il gomito sul cuscino reggendo il capo con la mano e sospira tristemente .
“Purtroppo non rimarrò a Trieste per molto…”
Una morsa improvvisa mi attanaglia lo stomaco.
“Ti prego dimmi che non devi partire di nuovo.”
Il suo sguardo è sufficiente come conferma ai miei timori.
“Ormai dovresti aver capito che non dipende da me Vera.”
“Lo so Massimo!” rispondo seccata alla sua dichiarazione alquanto sprezzante.
Eppure comprendo quanto sia vano mostrarmi irritata e provo a non pensare subito al peggio.
“Quando partite?” gli domando.
“Tra una settimana.”
Spalanco gli occhi nell’apprendere i pochi giorni che ci restano da passare insieme prima della sua imminente partenza.
Massimo scosta le coperte con un rapido gesto e raccoglie i suoi abiti sparsi sul pavimento.
Sembra quasi non accorgersi dell’effetto devastante che la sua notizia ha provocato in me.
“Dove ti mandano questa volta?” chiedo con voce tremante.
“Non posso dirtelo.” risponde Massimo con sconvolgente indifferenza mentre si allaccia la cintura dei pantaloni.
Io lo osservo allibita.
“Siamo costretti a mantenere il segreto Vera.”
Vorrei ribattere tuttavia riesco solo a biascicare qualche parola di dissenso per poi ricadere nel mio silenzio.
Mi metto a sedere cercando di nascondere gli occhi arrossati che rapidamente si riempiono di lacrime. Stringo con forza la coperta al mio petto e cerco di focalizzarmi sul mio respiro.
Poi sento la mano di Massimo e le sue labbra poggiarsi sulla mia spalla.
“Mi dispiace tesoro.” sussurra al mio orecchio.
“Non è colpa tua. Il dovere ti chiama.”
“Vera.”
Pronuncia il mio nome con tale dolcezza che abbasso le palpebre per contenere l’ondata di lacrime che vuole travolgermi.
Volta delicatamente il mio viso verso di sé e posa le labbra sulle mie.
Vorrei allontanarlo ma non ci riesco.
Non posso.
Mi avvicina al suo petto e m’imprigiona tra le sue braccia. Sento le sue mani scorrere sulla mia pelle nuda, avide di impossessarsi ancora del mio corpo.
Non appena sento scivolare le coperte le afferro prontamente e cerco di coprirmi.
Massimo prova ad impedirmelo strattonandole con più forza e gli tiro uno schiaffo in pieno volto.
Me ne pento non appena realizzo cosa ho fatto.
Sento il cuore battere senza controllo mentre osservo di sottecchi lo sguardo confuso di Massimo.
Si passa irritato una mano tra i capelli e si allontana, allacciandosi rapidamente i bottoni della camicia.
Fisso insistentemente una mattonella del pavimento, incapace di muovermi o dire anche una sola parola.
Dopo interminabili secondi Massimo si avvicina alla soglia della stanza. I nostri sguardi si incrociano per un istante prima che io chini nuovamente il capo.
Sento Massimo allontanarsi a passo deciso e sussulto non appena sbatte rumorosamente la porta.
E scoppio in lacrime.

*
         
E’ trascorso poco più di un mese da quando Massimo è ripartito.
Dopo il nostro dissidio, non sopportavo l’idea di lasciarlo di nuovo senza prima aver provato a riportare la situazione alla normalità.
Il giorno seguente sono andata alla caserma. Tuttavia ho mantenuto la mia promessa e non sono entrata. Ho aspettato alcune ore al freddo in attesa che uscisse.
Non appena mi hai visto, sola e intirizzita, ha gettato la sigaretta a terra correndo verso di me e stringendomi forte. Ho provato a scusarmi, per lo schiaffo e tutto il resto, ma non me lo ha permesso.
“La colpa è mia.” continuava a ripetere “Mi dispiace Vera.”
E tutto sembrava essere tornato come prima.
Abbiamo passato una settimana splendida. Ogni secondo insieme è stato fonte di una felicità indescrivibile.
Purtroppo a rovinare le nostre giornate era l'insopportabile pensiero dell’avvicinarsi della partenza di Massimo.
Al fine mi ha svelato la meta che lui e i suoi soldati avrebbero dovuto raggiungere: Germania. Non ha potuto rivelarmi maggiori dettagli. Nemmeno quando sarebbe tornato a Trieste.
Mi ha promesso di scrivermi appena ne avrebbe avuto la possibilità, raccomandandomi di evitare che questa volta le lettere finissero nella mani di mia madre.
Ma questo non è accaduto. Ancora. Mio padre spesso cerca di darmi una mano, nonostante io sappia perfettamente quanto sia dura mentire a mamma.
Ah già, quasi dimenticavo un dettaglio: mio papà ha conosciuto Massimo. Sì, proprio così. Stavamo passeggiando sul lungomare quando abbiamo incrociato mio padre.
Prevedevo già una sua reazione esagerata, grida per la strada e insulti. Ma papà non è come mia madre. Dall’espressione comparsa sul suo volto appena ci ha incontrato, sembrava quasi non fosse stupito della presenza di Massimo al mio fianco. Come se sapesse che nonostante tutte le promesse, io avrei continuato a frequentarlo indipendentemente dal volere della mamma.
Non era arrabbiato, solo un poco confuso. Eppure ha voluto conoscere Massimo e nonostante i miei timori, l’impressione del mio fidanzato su mio papà è stata positiva.
Hanno parlato della guerra e io ho riascoltato per l’ennesima volta la nota storia del mio bisnonno, arruolato nell’esercito di Trieste proprio come Massimo. Tuttavia non ho osato interromperli. Ero felice nel vederli insieme.
Prima di salutarci papà mi ha esortato ad avviarmi verso casa con una scusa davvero banale. Voleva parlare da solo con Massimo e nonostante io possa immaginare che il tema della loro conversazione fossi io, Massimo non ha mai proferito parola sulla chiacchierata con mio padre.
Massimo sta bene. Ho ricevuto una sua lettera oggi. Si trova in Italia tuttavia è sempre molto vago nonostante io insista in tutti i modi per avere maggiori informazioni. Purtroppo non ottengo grandi risultati. Ma sapere che sta bene e ricevere le sue lettere mi tranquillizza. Soprattutto da quando Massimo mi ha aggiornata sull'ultima decisione del generale Badoglio: la proclamazione di un armistizio firmato con gli anglo-americani. Tale decisione non solo ha causato ulteriore confusione all'interno delle nostre forze armate, l'esercito tedesco infatti ha avviato centinaia di catture nei confronti di numerosi soldati italiani.
Se da Massimo ricevo notizie, purtroppo non posso dire lo stesso di Gabriele e dei miei zii. Sono trascorsi mesi e ancora nessuna lettera. Non abbiamo idea di dove siano e nonostante cerchiamo di evitare l’argomento, la scomparsa degli zii angoscia tutti noi.
“Vera, vieni a tavola!”
Appena sento la voce di mia madre dalla stanza attigua, nascondo rapidamente la lettera di risposta per Massimo in un cassetto e corro in cucina.
La minestra fumante è nei piatti e i miei genitori sono già a tavola.
Mio padre accenna un sorriso mentre mi siedo al mio posto e fisso sconsolata il nostro misero pasto. Il trucco è non concentrarsi troppo sul saporaccio.
“Vera?” mia madre attira la mia attenzione interrompendo il silenzio che regna nella stanza.
Colgo del nervosismo nei suoi occhi e la incito a continuare.
“Tu non stai più frequentando quel soldato, giusto?”
La sua domanda mi prende completamente alla sprovvista e trattengo con fatica un colpo di tosse per la minestra che mi è andata di traverso.
Non appena cerco di formulare una risposta convincente, sono interrotta da un frastuono spaventoso. Un gruppo di camicie nere sfonda con forza la porta e irrompe in casa nostra.
Le grida disperate di mia madre e le nostre espressioni terrorizzate suscitano nel caporale una raccapricciante soddisfazione. Sul suo volto appare un sorriso agghiacciante quando ordina ai suoi uomini con gesto solerte di procedere.
I soldati ci afferrano con forza e puntano i loro fucili minacciosi verso di noi, impedendoci di contrastarli.
Mamma prova disperatamente a dimenarsi dalla stretta dell’uomo. Tuttavia quest’ultimo la spinge verso lo spigolo del tavolo per rafforzare la presa sul suo braccio e mia madre urla per il dolore.
Un piatto cade sul pavimento rompendosi in mille, piccoli pezzi.
Mio padre riesce a divincolarsi e raggiungere la mamma cercando di sorreggerla.  
Io tento di fare lo stesso ma il caporale spara un colpo di pistola sul soffitto riportando l’ordine. Il fragore provocato dall’arma suscita in me una paura irrefrenabile e mi sembra di aver dimenticato anche come respirare.
“Signore la prego…” implora mio padre con voce tremante “Mia moglie soffre di pressione bassa, non si sente bene.”
“Muovetevi, portateli fuori.” ordina il caporale ai suoi uomini, ignorando intenzionalmente papà.
“Almeno fateci preparare le valigie, portare via le nostre cose!”
Il caporale guarda mio padre con un sorriso sprezzante.
“Non ne avrete bisogno. Ora datevi una mossa!”
Ci portano fuori di casa spingendoci e incitandoci a velocizzare il passo. Nemmeno l’aria gelida sembra concedermi pietà, il freddo penetra inesorabilmente nelle mie ossa. Non abbiamo potuto prendere nemmeno un cappotto per ripararci.
Due fari abbaglianti si accendono all’improvviso nel buio e non posso che distogliere lo sguardo cercando di abituarmi a quella luce accecante.
Nel frattempo il soldato allenta la presa sul mio avambraccio non appena ci troviamo vicino ad una camionetta. Mi spinge con forza e sento delle mani afferrarmi e aiutarmi a salire.
Nell’oscurità tra voci e sussurri sconosciuti riesco a trovare i miei genitori e mi stringo tremante a loro.
Guardo la nostra piccola casa, le finestre illuminate e il fumo del camino che si dissolve nel nulla.
La mia attenzione è catturata da una macchina parcheggiata poco lontano. Intravedo la collana di perle attorno al collo della donna nell’auto scintillare nel buio, proprio come la sua chioma bionda.
Mi desto non appena il motore della camionetta viene acceso con un rombo assordante e iniziamo a muoverci.
Il caporale entra nell’auto aggiustandosi il berretto e dando un rapido bacio sulle labbra alla donna seduta al suo fianco.
Elena.
 


Angolino dell'autrice: Salve a tutti!!! Purtroppo non riesco a pubblicare i capitoli con la frequenza che vorrei e ne approfitto per ricordare chi è Elena nel caso possa essere sfuggito. Elena è l'amica di Vera, lavoravano insieme presso il Signor Tommasi. Elena ha rivelato a Vera di aver avuto una relazione (seppur mooolto breve) con Massimo e di essere in procinto di sposarsi con un esponente importante delle camicie nere. Spero ora sia tutto più chiaro...scusate davvero per le mie assenze! :(
Io non posso far altro che ringraziarvi ancora e ancora per le numerose recensioni e per il supporto che mi date! Cosa farei senza di voi?! Grazie di cuore, vi adoro!
<3

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Appena il cielo si rischiara mi accorgo di come le persone sulla camionetta siano molto più numerose di quanto mi aspettassi.
Alcuni di loro si lamentano implorando gli uomini alla guida di fermarsi, anche solo per un momento. I bambini singhiozzano tra le braccia dei loro genitori. Molti hanno lo sguardo fisso nel vuoto, gli occhi arrossati per la stanchezza e iniettati di terrore.
Mi stringo a papà alla ricerca di un poco di calore. L’aria è gelida e sono scossa da un costante tremolio.
“Quanto vorrei essere nella nostra casa.”
“Stai tranquilla tesoro, ci torneremo presto.” sussurra dolcemente mio padre, stringendo le mie mani e quelle di mia mamma tra le sue e portandole alle labbra “Torneremo presto a casa, promesso.”
E spero con tutto il cuore che abbia ragione.
Eppure numerosi in questi ultimi mesi sono stati i racconti di uomini e donne che hanno assistito al sequestro immotivato di ebrei, caricati su camionette e portati in luoghi ignoti. Senza fare ritorno.
E per quanto l’idea di una simile sventura ci terrorizzasse, temevamo che ciò sarebbe accaduto anche a noi e non avremo potuto fare niente per impedirlo. Cosa siamo noi agli occhi dei potenti se non vittime insignificanti da comandare a proprio piacimento?
Mentre siamo scossi da una parte e dall’altra per i dossi e le irregolarità dell’asfalto, ho un’immagine fissa nella mia mente. Il viso di Elena.
Non posso credere abbia potuto farci questo. I bei momenti che hanno caratterizzato la nostra amicizia non avevano nessun significato per lei? Erano davvero svaniti per sempre? Non riesco a comprendere come sciocchi pregiudizi abbiano potuto influenzare Elena al punto tale da tradirmi.
Tuttavia perseverare nel cercare una giustificazione non mi aiuta né mi rende più tranquilla.
L’agitazione aumenta non appena la camionetta svolta rapidamente in un vicolo facendoci perdere l’equilibrio e il motore si spegne.
Cala un’apparente quiete. Nessuno osa parlare, ci limitiamo a scambiarci sguardi atterriti mentre l’attesa inizia a farsi opprimente.
Poi uno sparo,
distante ma chiaramente percepibile, squarcia il silenzio.
Si eleva immediatamente un sussurro confuso tra i presenti.
“Noi saremo i prossimi. Noi saremo i prossimi.” ripete insistentemente un’anziana signora stretta nell’angolo, finché alcuni uomini non la zittiscono.
Papà mi stringe forte a sé e mi rintano tra le sue braccia, pensando irrimediabilmente che questi potrebbero essere i nostri ultimi momenti insieme. Vorrei dire ai miei genitori quanto gli voglio bene, scusarmi per le bugie e i problemi che ho causato.
Mi ritengo responsabile. Dopotutto se ci troviamo in questa situazione è per colpa mia. Elena era mia amica, mi sono fidata e ho commesso un errore. E per questo anche i miei genitori dovranno pagarne le conseguenze.
Eppure non ho nemmeno un momento per pronunciare anche una sola parola poiché una luce abbagliante ci frastorna. Un uomo apre le ante della camionetta e con tono brusco e autoritario ci ordina di scendere velocemente.
Ci alziamo con estrema lentezza, impauriti da ciò che potrebbe attenderci non appena avremo abbandonato il mezzo, un posto angusto ma per lo meno sicuro.
Il nostro atteggiamento non fa che incrementare la rabbia del soldato. Richiama con gesto solerte tre dei suoi uomini che entrano bardati di armi nella camionetta e ci spingono fuori con forza.
Per poco non inciampo ma un gentile signore alle mie spalle mi afferra per le spalle evitandomi una rovinosa caduta. Mi volto e gli sorrido grata tuttavia non riesco a ringraziarlo come vorrei poiché uno dei soldati ci ammonisce per aver rallentato l’andamento della fila.
Velocizzo il passo e raggiungo i miei genitori. Mia madre mi stringe forte la mano per evitare che io rimanga ancora indietro.
“Perché ci hanno portati alla risiera di San Sabba?” domanda smarrita a papà.
“Non ne ho la minima idea Anna.”
Siamo in un ampio cortile delimitato da alti e possenti muri di un edificio con le finestre sbarrate. Nonostante la risiera sia un luogo noto a Trieste, non ho mai avuto l’occasione di entrarci. Mia madre per molti anni è stata qui, producendo e lavorando il riso come molte altre donne della città. Eppure dalla struttura imponente tutto mi sembra fuorché un luogo pacifico dove fare il riso.
Ci intimano di seguire il caporale senza fiatare.  
Prima di entrare nel complesso, la mia attenzione è catturata dalle lamentele di un ragazzo abbigliato con una sudicia divisa a righe. Viene condotto in un locale buio da due soldati che lo spintonano violentemente mentre il giovane cerca con tutte le sue forze di divincolarsi. I nostri sguardi si incrociano per un attimo ma uno dei soldati lo colpisce con l’impugnatura del suo fucile dritto allo stomaco e il ragazzo è scosso da un violento attacco di tosse.
Scompare nell’oscurità della stanza mentre le sua grida lacerano il cielo.
Non appena iniziamo a salire una scala stretta e cigolante, un tonante colpo di fucile ci fa trasalire e mette per sempre a tacere le urla del giovane.
Saliamo rapidamente gli scalini spronati dalle voci scontrose delle camicie nere finché non ci impongono di fermarci su uno stretto pianerottolo.
Un soldato ci ordina di entrare. Non possiamo far altro che rassegnarci e non appena siamo tutti nella stanza, la porta blindata viene richiusa a chiave.
E’ una camerata ampia fornita di baracche molto rudimentali e materassi vecchi e rovinati posti sul pavimento. Una debole luce penetra da anguste inferriate impolverate e illumina flebilmente i volti dubbiosi delle persone presenti nella stanza.
Improvvisamente mia madre solleva un braccio e cattura l’attenzione di un’anziana signora la quale, scrutandoci con attenzione, ricambia il saluto di mamma con un flebile sorriso non appena ci riconosce.
“Chi è quella donna?” chiedo a mio padre in un sussurro.
“E’ una conoscente della mamma, lavoravano insieme qualche anno fa.”
Mia madre abbraccia la sua amica che nonostante sia sollevata nell’avere accanto una persona conosciuta, cela con difficoltà la sua inquietudine nell’apprendere che anche noi siamo stati allontanati dalla nostra casa.
“Mi fa piacere rivedervi, facce amiche sono sempre gradite.” la donna si interrompe scossa da un colpo di tosse “E come sta Barbara e la sua famiglia?”
“Sono partiti due mesi fa Lidia. Purtroppo non abbiamo avuto ancora notizie.” risponde papà.
L’anziana signora china sommessamente lo sguardo. Nessuna parola di comprensione o rassicurazione, come se il destino dei miei poveri zii e Gabriele fosse segnato da tempo. Eppure io non ci credo, non voglio crederci.
“Come sei cresciuta Vera!” dichiara Lidia sorridendomi “L’ultima volta che ti ho vista eri una bambina, una piccola e vispa signorina. Ora sei divenuta una bellissima donna. Ricordo i pomeriggi a casa vostra, tu correvi e giocavi insieme al piccolo Gabriele e non vi fermavate un secondo. Purtroppo il buon Dio non mi ha fatto dono di un figlio…”
Mia madre le si avvicina posandole una mano sulla spalla.
“Lidia non serve abbattersi, ti è stato offerto molto altro. E rimarranno sempre i bei ricordi.”
“Hai ragione Anna. E ne ho davvero tanti e mi tengono compagnia da quando il mio Michele mi ha lasciato...”
Mia madre stringe forte la mano di Lidia tra le sue. La donna sospira tristemente ripensando al marito scomparso e tenta di ricomporsi.
“Perché ci hanno portato alla risiera di San Sabba?” chiede papà.
“La risiera oramai non è più destinata alla lavorazione del riso.” dichiara Lidia stringendosi nella coperta posta sulle sue gracili spalle “E’ stata adibita a campo di smistamento, direttamente controllato e gestito dai nazisti.”
“Ma cosa vogliono da noi?” domanda mia madre intimorita.
“Desiderano farci del male Anna. Suppongo si divertano nel vederci soffrire come animali, sottraendoci tutto ciò che amiamo.”
“Perché portarci qui allora? Cosa avrebbero intenzione di farci?”
“Non rimarremo per molto alla risiera Giovanni. Giusto il tempo per permettere a quei soldati di smistarci, trovare un treno e caricarci tutti.”
“E dove porta questo treno?” chiedo in fin di voce, temendo per la risposta di Lidia.
“Non si sa tesoro, nessuno è tornato per raccontarlo. La risiera è utilizzata solo per un transito provvisorio.”
“Io non riesco a capire…perché noi?” domanda mia mamma impallidita “Cosa hanno contro gli ebrei?”
“Penso che nemmeno la maggior parte di quegli uomini lì fuori sappia il motivo, si limitano ad eseguire gli ordini come fantocci.”
Alle parole di Lidia non posso che chiedermi se gli uomini possano essere davvero tanto influenzabili, incapaci di prendere autonomamente le proprie decisioni e capire quando alcune di esse rasentino la pura follia.
“Poco fa abbiamo visto un ragazzo.” riferisco a Lidia “E’ stato portato in una stanza da due soldati, poi c’è stato uno sparo.”
“Non appena ha messo piede in questo posto, le speranze per quel giovanotto di sopravvivere erano davvero poche. E’ stato accusato di spionaggio politico e tutti i prigionieri ritenuti pericolosi sono uccisi immediatamente.”
“E com’è possibile che nessuno intervenga?” domanda mio padre sbigottito “Dove nascondono i corpi per non destare sospetti?”
“Non avete notato l’essiccatoio del riso all’entrata? E’ stato trasformato in un forno crematorio per bruciare i cadaveri ed eliminare qualsiasi traccia.”
“Non possono farci questo! Tutto ciò mi sembra completamente assurdo.”
“Non siamo noi a decidere Giovanni. Qualcun altro muove i fili, qualcuno che ha in mano fin troppo potere.“
“E cosa dovremmo fare? Aspettare che da un momento all’altro ci ricaricano sulla camionetta portandoci alla stazione verso una destinazione sconosciuta?”
“Possiamo solo pregare, e sperare che tutto finisca presto.”
La dichiarazione di Lidia non ha l’effetto di rassicurami.
Per l’intera giornata siamo costretti a rimanere nel dormitorio, accompagnati da uno spiacevole presentimento.
Non è possibile aprire le finestre né recarsi ai servizi. L’odore pregnante di chiuso diviene sempre più insopportabile ogni ora che trascorre.
Se in qualche inspiegabile maniera riesco a mantenere la calma, ciò a durata breve poiché nel corso della giornata si colgono spari e urla soffocate. Nessuno è stato portato via dalla nostra camerata, ciò significa che molti altri sono i prigionieri presenti nella risiera. 
Ho paura. Paura di essere la prossima. Paura di non sapere cosa ci succederà.
Nessuno sa dove siamo. Nessuno avrebbe rischiato di aiutarci.
Se anche gli zii fossero tornati a Trieste o inviato qualche lettere, come avrebbero fatto a rintracciarci? Per di più avrebbero rischiato loro stessi di essere catturati e portati alla risiera.
E per la prima volta durante questa interminabile giornata, penso a Massimo. Mi scriverà e io non potrò rispondergli. E anche se potessi? Non saprei come spiegargli dove sono, non so cosa ne sarà di me e degli uomini, donne e bambini presenti in questa stanza. Metterei Massimo in pericolo se sapesse cosa ci è accaduto. Proverebbe ad aiutarmi, forse rischierebbe addirittura la vita per soccorrermi. Tuttavia per quanto mi manchi e in questo momento non desideri altro che rifugiarmi tra le sue braccia, non posso permettermi di coinvolgerlo.
Il sole tramonta e ogni cosa è avvolta da un’opprimente oscurità. Non sono mai stata terrorizzata del buio, fino ad oggi. In esso sembrano celarsi le mie paure, pronte ad assalirmi e divorarmi, trasportandomi rapide nell’oblio.
“Cerca di riposare tesoro, ci siamo qui noi.” sussurra dolcemente mio padre baciandomi la fronte.
Appoggio il capo sulla sua spalla e mi stringe forte a sé.
Mia mamma mi sfiora una guancia e mi accarezza i capelli, proprio come quando ero piccola e non riuscivo a dormire.
Finché al mio fianco avrò i miei adorati genitori, credo di poter affrontare ogni timore. Sono la mia forza. Il mio coraggio. La mia luce.
Prima che i miei occhi si chiudano, mi sembra di sentire ancora le grida disperate di quel povero ragazzo.


Angolino dell'autrice: Ciao a tutti!!! Ne approfitto per augurare a tutti voi delle ottime vacanze e una bella estate. Tra poco anche io parto e spero di pubblicare il prima possibile il prossimo capitolo.
Vi ringrazio per tutti i commenti e il meraviglioso supporto...cavolo siete tantissimi e mi sembra un sogno! Grazie di cuore, vi voglio bene! A presto e buone vacanze! Un abbraccio.
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Il risveglio si rivela estremamente spiacevole.
Alcuni soldati irrompono rumorosamente nel dormitorio, bardati di armi e torce la cui luce accecante mi frastorna per un momento.
Ordinano di alzarci e seguirli, qualcuno osa chiedere spiegazioni o dove saremo portati ma ovviamente nessuno ci degna di una risposta.
Mi alzo con fatica e quando aiuto mia madre a mettersi in piedi, i dolori alla schiena e al collo si fanno più acuti.
E’ stata una notte orribile, la peggiore della mia vita.
Non solo per la scomodissima posizione in cui sono rimasta per ore, su un pavimento duro e freddo appoggiata ad una parete irregolare. Continuavo a svegliarmi di soprassalto, da lievi rumori o da incubi terribili. Mi guardavo attorno vedendo solo oscurità e scorgendo i lineamenti dei presenti nella stanza, immobili nel loro futile tentativo di controllare la paura.
Provavo a riappisolarmi senza grande successo. Il timore per ciò che ci avrebbe atteso la mattina successiva era asfissiante. L’umidità e il freddo della stanza penetravano nelle mie ossa provocandomi continui brividi. I volti di Massimo, Gabriele, zia Baba comparivano nella mia mente senza darmi pace.
Le mie preoccupazioni prendono forma non appena i soldati ci intimano di lasciare l’ampia stanza e seguirli giù per le scale cigolanti.
Mi stringo a mio padre mentre mamma aiuta faticosamente la sua amica Lidia ad alzarsi, eppure sorreggere l’anziana signora si rivela davvero complicato. Le gambe di Lidia a malapena sostengono il suo gracile corpo, vacillano come se dovessero spezzarsi da un momento all’altro.
“Muovetevi!” grida minaccioso un soldato, separando brutalmente mia madre da Lidia la quale cade sul pavimento.
Mamma tenta immediatamente di soccorrere l’amica tuttavia mio padre le impedisce di compiere qualsiasi gesto se non quello di seguire in silenzio la massa di persone lungo le scale.
“Devo aiutarla!” dichiara cercando di divincolarsi dalla presa di mio padre.
“Non possiamo Anna, mi dispiace.”
“E cosa ne sarà di lei?”
Papà non risponde. Il suo sguardo avvilito è sufficiente perché mia madre sia colta da un’ondata di lacrime che si sforza di trattenere.
Mi volto un’ultima volta prima di abbandonare definitivamente quel freddo dormitorio. Scorgo Lidia, in ginocchio. Muove rapidamente le labbra e intreccia le sue dita nodose avvicinandole al mento.
Prega.
Quanto vorrei tornare indietro, aiutare quella povera donna. Allora perché non ci riesco? Perché non corro da lei?
La verità è semplice, ho paura. E nonostante io sia dilaniata da un terribile senso di colpa, ciò non pare arrestare le mie gambe poiché continuano imperterrite a procedere.
Raggiungiamo il cortile della risiera, ampio e desolato, illuminato dai primi timidi raggi di sole.
Ci caricano nuovamente su una camionetta. E’ un continuo spintonarsi per raggiungere i propri amici o familiari e sfuggire da una possibile ira dei soldati.
Riesco a malapena a percepire i volti di chi ho accanto, tutto appare come un vortice di confusione e paura. Questa situazione sembra così irreale che mi pare di non viverla concretamente ma di essere una sorta di spettatore che osserva distante la scena.
Dieci minuti dopo il mezzo si ferma e la mia attenzione è catturata da un fastidioso stridio metallico. Come le ruote di un treno sui binari.
“Ci hanno portato alla stazione.” sussurra un uomo ma è sufficiente per diffondere il panico tra i presenti.
Compaiono nuovamente i soldati i quali aprono la camionetta e ordinano di scendere rapidamente. Fieri nelle loro divise, bruschi e insensibili, artefici di un ingiusto destino che pare abbiano voluto programmare per noi.
Quante volte, forse troppe, sono passata per la stazione di Trieste in compagnia di mio cugino Gabriele. Mi ripeteva quanto avrebbe voluto saltare sul primo treno e fuggire lontano da questa città che ogni giorno di più sembrava soffocarlo. Io lo riportavo con i piedi per terra, ricordandogli le sue responsabilità e i suoi doveri. Questo tuttavia non ci impediva di immaginare i viaggi che avremo potuto compiere una volta cresciuti, dei luoghi meravigliosi che avremo potuto raggiungere se avessimo messo da parte la quantità di denaro necessaria.
In quei momenti non avrei mai pensato che il mio primo viaggio in treno non solo non sarebbe stato insieme a Gabriele, ma probabilmente sarebbe stato anche l’ultimo.
Non passiamo per l’entrata principale bensì per una secondaria, forse per non destare sospetti. Il freddo è davvero insopportabile e mio padre posa un braccio sulla mia spalla accennando un sorriso stanco. Mi avvicino a lui e stringo forte la mano di mia mamma intrecciando le mie dita con le sue.
Raggiungiamo la banchina dove un treno si è da poco fermato sollevando al suo passaggio una brusca ventata di freddo e polvere.  
Davanti a me due soldati aprono un vagone, probabilmente destinato al trasporto di merci e bestiame, facendo cenno di salire.
Ci guardiamo per un attimo confusi e frastornati, perplessi che quegli uomini possano dire sul serio. Davvero ci considerano tanto inferiori?
La risposta ai nostri dubbi sono grida intimidatorie da parte di un terzo soldato il quale raggiunge i colleghi e con violenza spinge la massa di persone all’interno del vagone.
Una giovane donna alle mie spalle inciampa e un soldato la solleva senza alcuna delicatezza tanto che ella incespica nuovamente e per evitare di cadere si aggrappa alla mia camicia. Il risultato è che entrambe finiamo a terra.
Sfuggo dalla presa di mia madre e la confusione è tale che la perdo di vista.
“Mamma! Papà!”
Non ricevo risposta. Mi guardo attorno ma è tutto inutile, forse sono già saliti sul treno.
Mi rialzo rapidamente aiutando la donna accanto a me. Tuttavia non è intenzionata a collaborare.
“Lasciami qui! Non voglio salire su quel treno! Non voglio!”
“Non ti abbandono! Devi alzarti! Ti prego!” la imploro di rimettersi in piedi ma la donna continua a opporre resistenza e i suoi lamenti sono strazianti.
“Coraggio alzati! Forza, lascia che ti aiuti!”
La ragazza singhiozza sconsolata per una fitta dolorosa alla caviglia. Tuttavia prova a sollevarsi
“Come ti chiami?” mi chiede abbozzando un sorriso. E’ giovane, credo sia poco più grande di me.
“Ehm…Vera. Mi chiamo Vera.” ammetto che la sua domanda in un momento del genere mi sorprende ma sono contenta nel notare un barlume di serenità nei suoi grandi occhi scuri.
“E’ un nome bellissimo. Se avrò una figlia, voglio chiamarla come te.”
Le sorrido grata mentre poso un suo braccio sulle mie spalle per poterla sorreggere.
“E invece qual è il tuo nome?”
“Stella.”
Purtroppo non ho il tempo di riferire a Stella quanto il suo nome sia altrettanto incantevole poiché il nostro andamento traballante attira l’attenzione di uno dei soldati.
L’uomo mi allontana bruscamente e con l’impugnatura del fucile colpisce con forza la spalla di Stella la quale ricade a terra dolorante.
Accorro prontamente in suo aiuto ma un altro soldato mi blocca il passaggio.
“Sali immediatamente sul treno.” mi ordina scandendo ogni singola parola.
“E se non lo facessi?”
Non ho idea di dove abbia trovato il coraggio per affrontare quell’uomo con una frase tanto audace. Mi sento invadere di un nuovo vigore. Non posso abbandonare Stella, non sarebbe giusto.
Tuttavia la mia foga svanisce rapidamente non appena il soldato punta il suo facile sulla mia fronte.
“Non voglio ripeterlo. Sali su quel maledetto treno!”
Improvvisamente avverto una mano afferrarmi per un braccio e trascinarmi via.
“Sei impazzita Vera?” mio padre stringe forte il mio polso evitando di perdermi di nuovo.
“Papà quella ragazza ha bisogno di aiuto! Non posso lasciarla!”
Provo a divincolarmi, purtroppo senza successo.
Conosco bene mio padre, sarebbe stato il primo a soccorrere una persona bisognosa.
Ma non questa volta. Deve prima proteggere la sua di famiglia.
Entriamo nel vagone e l’oscurità fa da padrona, accompagnata da un odore pregnante di paglia umida e sporco.
Raggiungiamo mia madre la quale mi abbraccia forte e posa le sue mani tremanti sul mio volto.
“Tranquilla mamma, sto bene.”
Papà la stringe a sé e le sussurra parole rassicuranti. Io nel frattempo scorgo da una piccola feritoia Stella, ancora accasciata a terra e derisa dai soldati.
I nostri sguardi s’incrociano. Non sono certa che Stella possa vedermi attraverso la fessura, tuttavia sembra sorridermi e scandire con le labbra un grazie.
I miei occhi bruciano per le lacrime che a stento riesco a contenere.
Mi dispiace Stella. Mi dispiace tanto.
Mentre Stella è portata via da un soldato, il portone scorrevole del vagone viene chiuso e bloccato.
Cala il buio.
Alcuni non si arrendono. Picchiano con i pugni e le scarpe sulle pareti, urlando e imprecando.
Ma nessuno verrà a salvarci.
Nessuno fermerà il treno che lentamente sta acquistando velocità.
Non abbiamo nemmeno idea di dove siamo diretti, di cosa sarà di noi una volta giunti a destinazione, qualunque essa sia.
Un incubo. Tutta questo sembra un orribile, maledetto incubo.
Voglio svegliarmi.
Mi sembra una follia.
Voglio svegliarmi. Svegliatemi, vi prego!
Voglio solo tornare a casa, tornare alla normalità.
Io non voglio morire.
Non voglio morire...

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Proprio nel momento in cui riesco ad assopirmi, il treno sbanda lievemente sballottando i prigionieri all’interno del vagone.
Siamo in viaggio da un giorno ormai. Ore interminabili trascorrono lente e inesorabili.
Il treno si ferma solo per qualche istante appena ci troviamo nei pressi di una stazione, tuttavia ci è impedito uscire dal nostro vagone. Non abbiamo acqua. Né cibo. E non possiamo recarci ai servizi.
Non abbiamo idea di dove siamo diretti, ancora nessuno si è degnato di darci uno straccio di spiegazione. Brancoliamo nelle tenebre, timorosi di ciò che ci attenderà una volta giunti a destinazione.
L’oscurità all’interno del vagone è opprimente. Flebili fasci di luce attraversano le strette fenditure alle pareti, in alcuni momenti si ha l’impressione di soffocare per la mancanza di ossigeno.
I bambini piangono insofferenti e nel buio si percepiscono continui lamenti e singhiozzi, in particolar modo provenienti da una donna. E’ incinta. Accarezza dolcemente la sua pancia e l’uomo al suo fianco le stringe forte la mano.
Mi ritrovo nuovamente a ripensare alla povera Stella, la ragazza che ho cercato di aiutare mentre ci ordinavano di salire sul vagone. Mi sento in colpa per non essere tornata indietro, avrei potuto aiutarla. Però non posso che domandarmi se effettivamente avrei salvato Stella caricandola sul treno o la avrei condotta a una sorte peggiore.
La mia attenzione è attirata da mio padre che sembra destarsi dal suo sonno irrequieto. Sbatte le palpebre pesanti e si guarda attorno con aria afflitta, come se per un momento avesse sperato di non essere più su questo maledetto treno. Accenna un sorriso non appena incrocia il mio sguardo e cerca di sollevarsi con l’aiuto delle braccia per appoggiare la schiena sulla parete.
“Sei preoccupata per quella donna?” mi chiede.
Sospiro tristemente volgendo il capo verso la ragazza incinta.
“Se il bambino dovesse nascere?”
“Stai tranquilla Vera.” risponde papà stringendo la mia mano “Ci sarà sicuramente un medico qui dentro. Li aiuterà.”
Nonostante la luce soffusa, le profonde occhiaie e lo sguardo affaticato di mio padre sono ben visibili.
“Per fortuna la mamma è riuscita ad addormentarsi.” sussurra papà sfiorando la guancia di mia madre. Sorrido serena nell’osservare i miei genitori abbracciati, il capo di mamma appoggiato sulla spalla di mio padre.
“Vera, tesoro, promettimi che ti prenderai sempre cura della mamma.”
“Papà…”
“Ci sono state alcune discussioni, hai ragione.” mi interrompe rapidamente “Ma ti posso assicurare che la mamma si comporta in questa maniera per proteggerti Vera. Devi starle vicino, d’accordo?”
“Papà, finché staremo uniti potremo superare ogni cosa.”
“Certo tesoro mio…” papà mi accarezza teneramente una guancia tuttavia scorgo nei suoi occhi un velo di tristezza “Ma se dovesse succedermi qualcosa, dovrai prenderti cura di te stessa e della mamma. Non devi arrenderti, non lasciare mai che la paura si impossessi di te. Sei una ragazza forte Vera.“
Le sue parole provocano in me un’ondata improvvisa di lacrime che a stento riesco a trattenere. Chino il capo, incapace di sostenere lo sguardo tormentato di mio padre e i suoi occhi lucidi.
“D’accordo papà, te lo prometto.” dico mestamente.
Intanto il treno continua a viaggiare indisturbato e a grande velocità. Il trambusto delle ruote sui binari è frastornante, come una cantilena persistente e interminabile che ti perfora il timpano e non ha intenzione di concederti un attimo di tregua.
Penso ai passeggeri annoiati o a chi osserva il treno durante la sua corsa forsennata. Non hanno idea della nostra presenza sul mezzo, nascosti in un vagone buio e sudicio mentre ci trasportano contro la nostra volontà verso un destino sempre più incombente.
“Dove pensi ci porteranno?” domando a papà avvicinandomi a lui.
“Non lo so piccola mia…” mi rintano nel suo petto e mi accarezza teneramente i capelli “Ma in qualunque posto finiremo, ricorda che io e la mamma ti staremo sempre vicino.”
Chiudendo gli occhi quasi mi sembra di vedere la nostra casa. I raggi del sole illuminano dolcemente il profilo di quegli oggetti tanto familiari: il camino, le assi un poco scheggiate del pavimento, la minestra fumante sul tavolo. E noi riuniti attorno ad esso, felici, sorridenti e spensierati mentre consumiamo il nostro pasto in compagnia.
Mi sembra di vedere Gabriele, la sua classica espressione corrucciata attraverso la quale riesco comunque a scorgere un sorriso. E poi vedo zio Simone mentre posa un braccio sulle spalle della dolce zia Baba.
Mamma sembra finalmente serena, serve la minestra con un enorme mestolo mentre canticchia allegramente una canzone. Papà le passa i piatti e le raccomanda di porre attenzione a non scottarsi.
E con mio immenso stupore noto che al tavolo è seduto anche Massimo. Il taglio rigido della sua divisa contrasta piacevolmente con la dolcezza del suo sorriso e la luminosità dei suoi occhi. Stringe forte la mia mano sotto il tavolo mentre scherza gioiosamente con la mia famiglia.
Improvvisamente avverto un rumore assordante e la cucina è avvolta da un bagliore accecante, riesco a malapena a distinguere le figure ormai inghiottite dalla luce.
Era un sogno, o almeno lo era in parte.
Non appena socchiudo le palpebre infatti, i raggi del sole mi colpiscono con violenza e necessito di qualche secondo per abituarmi alla forte luminosità.
La porta scorrevole del vagone è completamente spalancata. Per di più la luce accecante non proviene dal sole, bensì da un lampione. Scorgo nel fascio di luce prodotto dalla lanterna piccoli fiocchi di neve librarsi nell’aria e scomparire nell’oscurità della notte.
Percepisco in lontananza alcuni cani abbaiare e la voce scontrosa di un uomo in una lingua incomprensibile.
Siamo costretti a scendere dal vagone. I miei genitori ed io ci scambiamo uno sguardo impaurito e cerchiamo di rimanere uniti nonostante la calca di persone in preda al panico.
Non appena poggio piede a terra, una raffica gelida scompiglia i miei capelli mentre la neve si posa sul mio volto facendomi rabbrividire.
Nel giro di pochi secondi le mie narici sono pervase da un odore nauseante di carne bruciata. Sollevo lo sguardo e scorgo nell’oscurità una ciminiera e un fumo denso uscire dalla cima e dileguarsi nel nulla.
Attorno a me intravedo i volti terrorizzati della gente presente fino a poco fa all’interno del vagone. Numerosi soldati in una divisa scura e armati di fucile, controllano il flusso dei prigionieri gridando rabbiosamente in tedesco. E non capire una sola parola mi spaventa ancora di più.
Cani feroci sono trattenuti con forza da alcuni uomini che volontariamente e con un ghigno perfido sul volto, allentano la presa per permettere all’animale di spaventare qualche innocente, ringhiando e possibilmente afferrando chiunque passi vicino.
Arriviamo all'ingresso di quella che di primo acchito mi pare una fortezza. L’entrata è imponente, un alto muro di pietra ci sovrasta minaccioso come volesse accentuare la nostra inferiorità e la sommità del portone d'accesso è sormontata da un’enorme aquila illuminata da due fari.
“Tutti gli uomini a sinistra! Le donne a destra! Muovetevi!” ordina un soldato in un italiano con forte accento tedesco.
Vedo intorno a me uomini allontanati rapidamente e con violenza dalla folla e condotti verso un diverso lato della fortezza.
Grida strazianti squarciano l’aria. Voci femminili urlano i nomi dei propri mariti o dei propri figli, tentano di abbracciarli un’ultima volta prima che vengano condotti lontano dalle proprie famiglie.
Stringo più forte la mano di mio padre.
“Giovanni…” mia mamma lo implora con uno sguardo iniettato di terrore.
“Non mi porteranno via Anna. Voi continuate a camminare.”
Tuttavia compiamo a malapena un passo poiché due soldati afferrano con forza mio padre per le spalle.
“No papà! Lasciatelo andare!” urlo con tutto il fiato che ho in gola ma gli uomini mi ignorano intenzionalmente.
Mia madre prova disperatamente ad afferrare la camicia di papà ma un soldato la spinge furiosamente e per poco non cade a terra.
Io invece rafforzo la stretta alla mano di mio padre, raccogliendo tutte le mie energie per non lasciarlo andare.
“Vera!” sento le sua dita scivolare inesorabilmente dalla mia presa mentre i soldati lo trascinano via con prepotenza.
“No papà!” il mio grido viene soffocato da un violento singhiozzo non appena la sua mano sfugge dalla mia.
“Rimani con la mamma Vera! State unite!” la voce di papà si fa sempre più flebile finché non scompare inghiottito dalla folla.
Nonostante il desiderio di piangere e correre da mio padre sia fortissimo, mi impongo di ricacciare le lacrime e continuare a camminare.
Mia madre è china su se stessa per il dolore, lacrime inarrestabili le rigano il volto. La trascino e cerco di sorreggerla con le poche forze rimaste eppure lei si oppone e non compie il minimo sforzo per tenersi in piedi.
“Mamma!” mi ignora e non smette di singhiozzare e pronunciare il nome di papà.
“Mamma smettila!” il tono fermo della mia voce sorprende mia madre la quale mi guarda con i suoi grandi occhi lucidi e arrossati.
“Se ti accasci a terra sarà la fine lo capisci?” mia mamma annuisce poco convinta e le prendo il volto tra le mani “Hai sentito cosa ha detto papà? Dobbiamo rimanere insieme mamma, ho bisogno di te! Rivedremo papà ne sono sicura. Ma adesso devi alzarti e camminare!”
Mamma sembra riprendersi, stringe forte la mia mano ed oltrepassiamo l’ingresso. Un ampio cortile si estende davanti a noi, circondato da possenti pareti di pietra e da numerosi capannoni, illuminato da torce e lampioni. Sulle torrette sono appostati alcuni soldati che impugnano i loro fucili nel caso qualcuno provasse ad opporsi.
Siamo condotti in un ambiente chiuso, grigio e completamente spoglio ad eccezione di alcune lampade appese al soffitto e un enorme cumulo di abiti sudici e identici tra loro posti in un angolo.
Una donna in divisa, forse un sergente, ordina di metterci in fila e togliere rapidamente i nostri vestiti gettandoli alla nostra destra.
Mia madre ed io ci guardiamo sconcertate, proprie come le donne davanti a noi. Non solo le parole della donna tedesca mi paiono assurde, ma nella stanza sono presenti uomini che ci osservano con sguardo impaziente e disgustosamente divertito.
Lentamente inizio a slacciare i bottoni del mio maglione seguendo mia mamma. Tuttavia la lentezza con cui compiamo gli ordini non fa che innervosire il sergente. Quest’ultima grida con rabbia minacciandoci con una pistola.
Tutte le donne presenti nel locale si spogliano rapidamente mentre il dito del sergente continua a sfiorare pericolosamente il grilletto della sua arma.
Con mani tremanti sbottono il cardigan e la camicetta, sfilo la gonna e le calze di lana gettando i miei abiti a terra.
“Togliere tutti i vestiti!” rettifica il sergente con voce rauca. La donna afferra una ragazza che piange sommessamente e prova ad allontanarsi per tornare al suo posto. Il sergente però non ha intenzione di mollare la presa, strappa la sottoveste e lascia la giovane completamente nuda.
La ragazza si guarda intorno imbarazzata e con gli occhi sbarrati per lo spavento.  Il sergente spinge la giovane verso l’ammasso di abiti sparsi sul pavimento ordinandole di prendere una sola casacca, un paio di pantaloni e uno di zoccoli
Incrocio lo sguardo disperato di mia madre e noto le sue labbra tremanti.
“Coraggio mamma…” sono le uniche parole che riesco a pronunciare per timore di scoppiare in un pianto disperato. Decido così di aiutarla a sfilare la vestaglia ma una soldatessa mi scansa con la canna del suo fucile.
“Può farcela benissimo da sola.” dichiara la donna con tono sprezzante.
“E’ mia madre!”
“Non mi interessa. Spogliati!”
Sostengo per un istante l’espressione arrogante della soldatessa tuttavia chino il capo non appena scorgo gli occhi supplichevoli di mia mamma. “Vera…per favore.” m’implora in un sussurro impercettibile.
Con un rapido gesto mi libero della mia biancheria e istintivamente provo a coprirmi con mani e braccia per quanto mi sia possibile.
Raggiungo il cumolo di abiti dove si riversano disperatamente tutte le donne presenti nella stanza. Afferrò due maglie, una per me e una per mia madre. Lei recupera due paia di pantaloni e me ne porge un paio.
Indosso rapidamente i vestiti: stracci luridi, consumati e rigorosamente a righe blu e bianche, un bianco sporco che sembra aver perso la sua luminosità già da un pezzo.
Mentre cerco di trovare un paio di zoccoli che si adattino al mio piede, un soldato riprende con ferocia una donna.
“Sei sorda per caso?” urla l’uomo afferrando la donna per i capelli “Puoi prendere solo una casacca!”  
Distolgo lo sguardo e tento di ignorare i singhiozzi della donna crudelmente richiamata.
Trovato un paio di scarpe leggermente più grandi del mio piede, mia madre ed io siamo dirette nella stanza attigua nella quale un soldato all’entrata ci ordina di fermarci e attendere il nostro turno.
Nella camera sono disposti numerosi tavoli uno di seguito all’altro ai quali sono sedute le prigioniere…ormai prive dei propri capelli.  Alle loro spalle infatti, alcuni uomini in camice rasano le donne mentre lunghe ciocche si posano sul pavimento.
“Vera…” mamma pronuncia il mio nome gemendo.
“Sono solo capelli mamma. Ricresceranno, stai tranquilla.”
Ma le mie parole non hanno l’effetto di rassicurarla, in realtà non confortano nemmeno me.
Impulsivamente sfioro i miei capelli quando un urlo dall’altra parte della stanza attira la nostra attenzione. Tuttavia non ho il tempo per capirne la causa poiché sono spinta verso una postazione libera.
Mi siedo e un istante dopo percepisco il ronzio del rasoio e le lame sfiorarmi la nuca. Sopporto in silenzio, guardando dritto davanti a me, ordinandomi di non piangere.
Appena terminano di radermi, provo una sensazione spiacevole e istintivamente sfioro il capo con una mano. Le mie onde morbide sono scomparse, sostituite da un taglio estremamente corto e irregolare.
Sono diretta con rapidità dall’altra parte della stanza dove finalmente comprendo il motivo delle urla che ho udito appena entrata nella stanza.
Un soldato mi fa sedere su uno sgabello senza nessuna cortesia. Afferra il mio braccio sinistro scostando la manica della maglia. Lo distende stringendo forte il mio polso per impedire di ritrarmi e sfuggire alla sua presa.
Di fronte a me un uomo calvo e con occhi di ghiaccio, riempie d’inchiostro nero uno stilo il quale emana un ronzio fastidioso non appena viene acceso. Avverto la punta sottile dell'arnese penetrare nell’avambraccio e incidere la mia carne.
Mi mordo il labbro inferiore e stringo forte il pugno come se ciò potesse concedermi un minimo di sollievo.
L’operazione dura poco più di un minuto. Alla sua conclusione riapro gli occhi inumiditi dalle lacrime e scorgo una scritta incisa sul mio braccio. I contorni sanguinano e l’avambraccio è parecchio arrossato.
E’ un numero.
4753.
La cifra è impressa anche su un pezzo di tela e cucita sul lato sinistro della casacca. Accanto al numero noto un marchio colorato, una stella gialla a sei punte.
“Questo è il tuo numero di matricola e da ora in avanti il tuo nominativo.” dichiara l’uomo con estrema indifferenza mentre riporta la mia cifra in un ampio schedario “Devi impararlo a memoria. Ti potrà essere richiesto in qualsiasi momento: agli appelli, al lavoro e così via.”
Lo osservo confusa ma sembra ignorarmi. Mi ordina di allontanarmi e si prepara a registrare la successiva prigioniera.
Raggiungo mia madre poco lontana. Mi mostra il suo numero inciso sull’avambraccio macchiato di sangue e ci scambiamo uno sguardo sconsolato.
Ci riportano nell’ampio cortile dove imperversa una bufera di neve. Il freddo si insinua attraverso il tessuto estremamente leggero della divisa. Gli zoccoli sono scomodi e sento la ferita al braccio pulsare.
Ci conducono in un’altra baracca all’interno della quale veniamo rinchiuse.
E’ un dormitorio angusto con piccole finestre e le pareti ammuffite. Ciò che mi sconvolge è l’innumerevole quantità di donne e bambine disposte nei pochi letti a castello a tre piani presenti nella stanza. Indossano la nostra stessa uniforme, non hanno capelli e ci osservano con occhi sbarrati.
E’ la loro magrezza a preoccuparmi. Nonostante la flebile luce, sono chiaramente visibili gli zigomi pronunciati e la gracilità dei loro corpi.
Tra la moltitudine di donne presenti nel dormitorio, una in particolare attira la mia attenzione.
Zia Baba.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


“Anna! Vera!”
Zia Baba si alza un poco barcollante. Il suo viso stanco e incavato è illuminato da un ampio sorriso non appena ci nota tra la massa di donne appena rinchiuse nel freddo dormitorio.
La abbraccio forte tuttavia allento la stretta appena percepisco le ossa sporgenti attraverso il tessuto leggero della divisa. 
“Ho pregato tanto perché non catturassero anche voi.” dichiara zia Baba abbracciando mia madre “Ma sono comunque tanto contenta di rivedervi.” I capelli rasati e l’estrema gracilità del suo corpo rendono la zia quasi irriconoscibile. Eppure nei suoi occhi scuri riesco ancora a scorgere quel velo di dolcezza che ricordo fin da quando ero piccola.
“Eravamo molto preoccupati Barbara, perché non avete mai provato a mettervi in contatto con noi?” domanda la mamma. Dopo l'inaspettato ma felice incontro con zia Baba, mia madre pare più rilassata e ciò mi conforta.
“E’ vietato scrivere lettere. Non possiamo comunicare con nessuno al di fuori del campo. E in ogni caso non ci permettono di possedere nemmeno un pezzo di carta e una penna, figurarsi chiedere di recapitare un messaggio.”
“E come siete finiti qui?” domanda mia madre confusa.
“Stavamo per lasciare l’Italia e salpare sulla nave quando siamo stati fermati da alcune camice nere. Ci hanno caricato insieme ad altre famiglie su una camionetta e condotti alla stazione senza nessuna spiegazione. Dopo un giorno di viaggio siamo giunti qui.”
Zia Baba alza lo sguardo osservando tristemente la camerata avvolta dall’oscurità e la moltitudine di donne e bambine adagiate sui letti di legno.
“E voi come siete arrivate qui?”
“Hanno fatto irruzione in casa ordinandoci di uscire. Non abbiamo potuto prendere nemmeno dei vestiti o delle provviste.” affermo mentre zia Baba mi guarda allibita “Ci hanno condotto alla risiera di San Sabba dove siamo rimasti per qualche ora prima di raggiungere la stazione.”
“Non capisco…” interviene zia Baba alquanto turbata “Perché proprio alla risiera?”
“I tedeschi ne hanno preso il controllo dopo l’armistizio. La risiera è stata adibita a campo di smistamento, ci chiudono in dormitori simili a questo in attesa di essere nuovamente caricati sulla camionetta e portati alla stazione di Trieste.”
“Abbiamo anche incontrato Lidia.” aggiunge mia mamma con un velo di dispiacere nella voce. Comprendo bene come per lei sia angosciante ripensare alla sua amica, rievocare le atroci condizioni in cui era costretta a vivere e il trattamento brusco e vergognoso dei soldati nei confronti di un’anziana.
“Era prigioniera alla risiera?”
“Sì. E purtroppo non stava molto bene.”
“Non è venuta con voi?” domanda zia Baba, chiaramente preoccupata per le sorti della donna.
Tuttavia il silenzio di mia madre è più che sufficiente e zia Baba china afflitta il capo.
“Che cos’è questo posto?” le domando interrompendo quel silenzio opprimente.
“E’ un campo di prigionia tesoro. Siamo a Mauthausen, in Austria.”
“Austria? Perché avrebbero dovuto portarci proprio qui?”
“Perché siamo ebrei…”
Zia Baba intuisce all’istante come la sua lapidaria risposta abbia provocato in noi non poco turbamento e prova a fornirci maggiori chiarimenti.
“Trent’anni fa gli austriaci inaugurarono questo campo come luogo di reclusione e sfruttamento dei prigionieri di guerra: russi, serbi e moltissimi italiani. Erano stati incaricati di lavorare alla cava di granito, impiegato poi per pavimentare le strade della capitale.”
“E a Vienna nessuno fece domande sulle condizioni di lavoro imposte a Mauthausen?”
“Perché disturbarsi quando potevano usufruire di tutto il granito di cui necessitavano, semplicemente sfruttando una manodopera a basso prezzo?”
La risposta della zia è origine di un forte senso d’inquietudine. Molte più persone di quante immaginassi conoscevano perfettamente le disumane imposizioni a cui i prigionieri del campo dovevano sottoporsi. Eppure mai nessuno aveva tentato di impedirlo, preferendo ignorarci e abbandonarci a un destino assolutamente ingiusto.
“Perciò i tedeschi ci hanno condotto qui per lavorare le loro cave?” domanda sbigottita la mamma.
Zia Baba annuisce sconsolata.
“Lavoriamo dall’alba fino al tramonto. Non importa se il freddo sia insopportabile, se imperversi una bufera o un temporale. Appena termina l’appello mattutino, siamo spedite alla cava a frantumare rocce fino allo sfinimento. E prima di tornare nei dormitori, siamo obbligate a ripresentarci all’ultimo appello serale.”
Improvvisamente ricordo le parole dell’uomo dagli occhi di ghiaccio che mi ha tatuato il numero sull’avambraccio. Aveva nominato degli appelli a cui era indispensabile prendere parte e durante i quali poteva essere richiesta la mia cifra identificativa.
“Quei tedeschi non hanno nessun diritto di comportarsi in maniera tanto spregevole!” dichiaro con rabbia tuttavia zia Baba mi incita allarmata di abbassare il tono della mia voce.
“Attenta alle tue parole tesoro, non possiamo permetterci di affermare frasi come queste. E’ pericoloso.”
“Ma zia Baba stiamo parlando della nostra libertà! Non possono sopprimerla, non è giusto!”
“Non esiste giusto o sbagliato Vera, almeno non in questo luogo.” replica la zia tristemente “Non appena abbiamo varcato la soglia del campo, siamo entrati in un inferno. E senza rendercene conto tutto ciò che siamo ormai non esiste più: non abbiamo più un nome, né un’identità e non meritiamo nessuna forma di rispetto. Diventiamo semplici macchine da lavoro, confuse tra altre centinaia di macchine identiche. Tutto ciò che può identificarci è un numero...”
Zia Baba scosta la manica della casacca mostrando la sua cifra tatuata sull’avambraccio, ormai cicatrizzata ma perfettamente visibile.
“Non posso credere che non ci sia una via di fuga.” interviene mia madre “Ci trattano come topi in gabbia!” 
“Il campo è interamente circondato da filo spinato Anna, costantemente percorso da corrente elettrica. Chiunque provi solo ad avvicinarsi viene folgorato.”
“E’ terribile…” dice mia mamma in un flebile sussurro.
“Non è così terribile Anna se consideri tutti i prigionieri che si sono gettati volontariamente sul filo spinato per sfuggire da questo posto diabolico.”
Mia madre ed io cadiamo in un silenzio tombale.
“Mi dispiace avervi turbate ma devo essere sincera e mettervi in guardia. Vi basta osservare le donne e le bambine in questa stanza per immaginare le atrocità commesse nel campo, azioni che mai avremo pensato gli uomini potessero compiere verso i propri simili.”
Zia Baba china il capo afflitta, tormentata da un dolore troppo grande che a stento le sue gracili spalle riescono a sopportare.
“Gabriele e zio Simone dove sono? Stanno bene, non è vero?” chiedo preoccupata alla zia. Lei alza gli occhi al cielo ed esala quasi con fatica un lento sospiro.
“Zio Simone è ancora vivo, è debole ma sta bene. Capita di vederci al confine del campo. Si trova un’alta recinzione che divide la sezione femminile da quella maschile. Spero tanto che Simone abbia la fortuna di incontrare Giovanni proprio come io ne ho avuta nel ritrovarvi.”
Mamma annuisce abbozzando un sorriso.
“E…Gabriele?” domando intimorita.
Lo sguardo addolorato di zia Baba pare la triste conferma al mio brutto presentimento.
“Gabriele non ce l’ha fatta tesoro...”
Mi sembra di avvertire un pugno dritto allo stomaco.
E’ morto. Gabriele è morto.
Ricordando l’ultima occasione in cui ci siamo visti, sono colta all’improvviso da una spiacevole sensazione di nausea e la vista sembra offuscarsi.
A malapena ci eravamo salutati. Prima della sua partenza da Trieste infatti, Gabriele era ancora molto arrabbiato e distaccato nei miei confronti per la questione di Massimo.
E mi sento così sciocca, avrei dovuto mettere da parte il rancore e tutto sarebbe tornato alla normalità.
Adesso invece nessuno mi restituirà il mio amato cugino, non potrò chiedergli scusa né ricordargli quanto tenessi a lui.
Mia madre posa un braccio sulla mia spalla e mi stringe dolcemente a sé.
Con immensa fatica domando a zia Baba di raccontarmi cosa sia successo al povero Gabriele.
“Qualche settimana fa ha tentato di fuggire dal campo con altri ragazzi. Non hai idea quanto lo avessi implorato di non commettere niente di stupido, di non essere avventato come sempre e stare al fianco di suo padre. Ma Gabriele era fatto così, aveva la testa più dura della pietra.”
Ascoltando il racconto di zia Baba, i dolci momenti trascorsi in compagnia di mio cugino sembrano riaffiorare per un impercettibile istante per poi sfuggire lontano.
“Non appena Gabriele e i giovani insieme a lui hanno tentato di evadere, una guardia li ha uccisi sotto gli occhi di mio marito. Erano solo dei ragazzi…”
Immagino l’immensa disperazione provata dal povero zio Simone, impotente mentre assiste alla morte del suo amato figlio. Ciò provoca un’ondata violenta di lacrime che rigano inesorabili il mio volto.
“Oh piccola Vera, vieni qui.” zia Baba mi accoglie amorevole tra le sue braccia “Dobbiamo reagire, essere forti. Non possiamo lasciarci sopraffare dal dolore, sono sicura che Gabriele non lo avrebbe voluto. Ma adesso dobbiamo dormire. L’appello si svolge all’alba e ci attende una giornata faticosa. Venite con me.”
Io e mia madre seguiamo zia Baba brancolando nel buio. Le brande sono colme di donne strette una all’altra, impossibilitate nel compiere anche il più lieve movimento.
Quasi non mi capacito di come un numero così elevato di persone possa dormire ammassata in quelli che potrei definire letti ma che non sono forniti né di un cuscino e tanto meno di un materasso. Per combattere in qualche modo il freddo, si può usufruire solo di qualche coperta sudicia.
Alcune donne si stringono maggiormente permettendoci di infilarci in una branda.
La scomodità della posizione in cui siamo costrette a dormire è indescrivibile. Non posso girarmi né mettermi su un fianco poiché non vi è spazio a sufficienza. Decido di rimanere immobile, tentando di ignorare le fitte alla schiena e al collo per la durezza delle assi di legno.
“Cosa ci attende domani mattina?” sussurra mia madre.
“Alle cinque ci sveglieranno. Ci sarà l’appello, la colazione e poi al lavoro a spaccare pietre. E’ bene che voi dormiate adesso.”
“La fai così facile Barbara, è davvero scomodo…”
Mia madre viene bruscamente interrotta da alcune donne che le intimano il silenzio. Ripensando alle parole di zia Baba, una giornata in questo luogo deve essere incredibilmente estenuante e in qualsiasi caso le nostre lamentele sarebbero intenzionalmente ignorate.
“Zia Baba?”
Con un flebile sussurro richiamo l’attenzione della zia. La luce proveniente dall’esterno illumina debolmente il suo volto e scorgo un lieve sorriso.
“Tutto ciò che ci sta accadendo, credi sia una sorta di punizione per qualcosa che abbiamo fatto?”
“No tesoro, sono certa non sia così.” risponde la zia sfiorandomi una guancia.
“E come riesci a sopportare tutto questo?”
“Non esiste un metodo sicuro Vera. Però cerco di non pormi questo genere di domande. Creano solo più confusione e ne abbiamo già a sufficienza.”
Eppure non posso condividere il pensiero di zia Baba.
Come potrei non chiedermi quale sia la ragione delle ingiustizie che attuano nei nostri confronti? Dovrei subire in silenzio, inerme di fronte a un destino che qualcuno ha ingiustamente stabilito per me?
Fisso la schiera di letti a castello sopra di me. Nel frattempo trascorrono i minuti, forse le ore. Non saprei dirlo con sicurezza.
Prego per mio padre, spero che stia bene e possa rivederlo presto.
Ho paura del momento in cui sorgerà l’alba, temo per ciò che potrà accaderci una volta lasciata la baracca.
Mi stringo a mia madre alla ricerca di calore. Chiudo gli occhi e il buio mi avvolge.



 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Un boato assordante irrompe con violenza nella quiete delle prime ore dell’alba.
Inizialmente questo suono mi ricorda l’allarme che con frequenza scattava a Trieste durante i bombardamenti. In quelle occasioni non potevamo perdere nemmeno un secondo. Ci dirigevamo nei rifugi in attesa che gli aerei si allontanassero rapidamente dai centri abitati e soprattutto pregando che una bomba non deflagrasse sul nostro tetto.
Oramai abituata a questa prassi, mi alzo di scatto ma batto la nuca contro un’asta del letto sovrastante. Massaggio delicatamente la fronte e non appena sfioro i miei capelli, non più morbidi e fluenti bensì radi e diritti, tutto mi pare amaramente più nitido.
Non mi trovo nel mio letto, né tanto meno nella mia amata casa. Sono in un freddo dormitorio, con le pareti corrose e ammuffite scandite da anguste fenditure. Accanto a me una moltitudine inimmaginabile di donne si mette a sedere con estrema fatica, gemendo e lamentandosi della scomodità delle brande e della fame che inesorabile le tormenta.
All’improvviso il portone del dormitorio viene spalancato causando un sonoro trambusto. La luce esterna mi frastorna per un momento mentre percepisco la stretta di mia madre sul mio avambraccio, ancora un poco dolorante per il numero tatuato la sera precedente.
“Forza alzatevi, non possiamo perdere tempo!” leggo il terrore negli occhi della povera zia Baba.
Un soldato dallo sguardo severo entra con passo solerte nella camerata, fermandosi dopo pochi metri. Incrocia le mani dietro la schiena dalla quale sporge un frustino.
“Uscite per l’appello, ma prima sistemate le brande.” ordina l’uomo in divisa, indifferente di fronte alla misera condizione in cui ci troviamo. “Avete due minuti. Muovetevi!”
Il soldato abbandona il dormitorio accompagnato dal ticchettio dei suoi stivali che riecheggia fastidiosamente tra le pareti della stanza.
Sistemiamo con estrema rapidità le coperte e i materassi, di cui solo pochi letti sono provvisti. Non appena terminiamo tale mansione, nonostante la vicinanza di mia madre e di zia Baba, percepisco l’angoscia assalirmi per ciò che ci attenderà una volta usciti dalla stanza.
E’ l’alba, l’orizzonte inizia a schiarirsi ma è ancora presto perché il sole sorga. Il cielo sembra sereno, attraversato da qualche nuvola, tuttavia il freddo è insopportabile. Si insinua tra gli abiti con prepotenza, non concede un attimo di tregua tanto che faticosamente controllo il battere dei miei denti.
Tutte le donne sono poste in fila per cinque, perfettamente incolonnate. Di fronte a me scorgo un piedistallo sopra il quale un uomo tedesco legge e comunica delle cifre riportate su uno schedario. Ad ogni numero corrisponde una prigioniera che prontamente deve rispondere appena udita la sua cifra identificativa.
L’appello pare interminabile. Le ore trascorrono con una lentezza indescrivibile mentre siamo costrette a rimanere in piedi e al freddo in attesa che l’elenco si concluda definitivamente. Capitano alcuni errori di calcolo, probabilmente intenzionali, e la conta ricomincia dall’inizio.
La mia attenzione è catturata dai lamenti di una prigioniera poche file più avanti. Non appena mi volto, la donna si accascia a terra priva di sensi.
Non mi è permesso compiere nemmeno un passo per soccorrerla poiché zia Baba mi stringe con vigore un polso. Osservo incredula mia zia mentre lei scuote la testa addolorata.
Nessuno osa aiutare la prigioniera svenuta tanto che l’uomo sul piedistallo procede con l’appello con una spaventosa indifferenza.
Rapidamente due soldati si avvicinano alla donna trascinandola lontano e senza la minima gentilezza. Lei non si oppone, pare sfinita tanto da non trovare nemmeno la volontà di reagire.
Grazie al cielo l’appello è finito, dopo ore trascorse al gelo mentre il sole comincia ad affacciarsi all’orizzonte.
Dopo una misera colazione a base di una brodaglia che vagamente ricorda l’aroma del caffè, siamo indirizzate alla cava.
Il lavoro è estenuante. Il nostro compito consiste nel frantumare rocce di granito senza potersi fermare nemmeno un minuto per riprendere fiato.
Il freddo non rende certo agevole il nostro lavoro. Le mani tremano in continuazione e le dita sono così intorpidite che solo impugnare nel modo corretto il piccone si rivela incredibilmente doloroso.
Gli zoccoli che portiamo a piedi sono scomodissimi, molto pesanti e non riparano dall’aria gelida. Mi sembra quasi di avere mille aghi conficcati nella pianta del piede.
Fortunatamente la giornata di lavoro volge al termine mentre il sole tramonta, colorando di fuoco tutto ciò che incontra.
Mia mamma, zia Baba ed io siamo stremate dalla fatica e dal vento e arranchiamo verso il dormitorio insieme alle altre prigioniere.
Tuttavia quasi scordavo il secondo appello della giornata, quello di ritorno dal lavoro. Le ginocchia vacillano e il pensiero di rimanere in piedi per ore con niente nello stomaco, provoca in me uno sgradevole senso di nausea.
Durante l’appello molte donne si accasciano a terra sfinite. Alcune trovano ancora la forza e la volontà di rimettersi in piedi, sperando di non incorrere in maltrattamenti da parte dei soldati tedeschi. Altre sfortunatamente non si rialzano più e sono portate via, proprio come la donna di questa mattina.
Terminato l’appello serale, siamo condotte nuovamente nel nostro dormitorio. Fa molto freddo e la misera cena servita certo non ci soddisfa. Ma almeno siamo al riparo e possiamo riposare le gambe e i piedi doloranti.
Eppure non riesco a rilassarmi nonostante le palpebre pesanti e le ore di sonno arretrato. Mille pensieri vorticano nella mia mente causando una spiacevole sensazione di malessere.
Massimo è sicuramente uno dei miei timori. Mi scopro pensare a lui più volte di quanto mi aspettassi. Non ho idea di dove sia, se sta bene e se ha già fatto ritorno a Trieste. E la mia preoccupazione più grande è che Massimo non abbia la minima idea del luogo in cui ci hanno deportato. Nonostante ciò spero istintivamente che da un momento all’altro, il portone di questo maledetto dormitorio si apra e riesca a scorgere il profilo indistinguibile di Massimo.
Ho bisogno di lui. Dei sui baci, dei suoi abbracci. Vorrei rintanarmi tra le sua braccia mentre mi rassicura e mi riporta a casa.
Purtroppo le mie fantasie hanno breve durata poiché un altro timore irrompe impetuoso nei miei pensieri. Mio padre.  
Per l’intera giornata ho sperato di incontrarlo o anche solo scorgere il suo volto tra i prigionieri del campo, tuttavia senza risultati. E non avere nessuna notizia della sua salute è insopportabile.
Così senza ragionarci troppo, mentre mamma e zia Baba conversano con altre donne, mi allontano con passi rapidi e silenziosi dal gruppo.
Cauta nel non richiamare l’attenzione, esco dal dormitorio. Una gelida raffica di vento mi colpisce con violenza e mi stringo nelle spalle. A grandi falcate raggiungo il confine del campo che, ripensando alle parole di zia Baba, dovrebbe separare la sezione maschile da quella femminile.
Ma come temevo, non vedo mio padre. Cammino lungo la recinzione la cui sommità è ricoperta da filo spinato quando in lontananza, scorgo un prigioniero che proprio come me sembra essersi appostato in prossimità della rete, in attesa.
Non appena l’uomo volta il capo come se confidasse di avvistare qualcuno di familiare dall’altra parte della recinzione, avverto una scarica percorrere il mio corpo.
“Papà!”
La mia voce attira immediatamente la sua l’attenzione. Un ampio sorriso illumina il volto di mio padre che corre un poco zoppicante verso di me.
“Vera, piccola mia! Grazie al cielo stai bene.”
Sfioro le dita fredde di mio padre e il suo volto attraverso i fori della recinzione. Sorridiamo felici, finalmente insieme, mentre lacrime di sollievo rigano i nostri volti.
“Come stai tesoro? E la mamma sta bene?” domanda papà, stringendo la mia mano come se non volesse più lasciarmi andare.
“Stiamo bene papà. Dopo che ci siamo separati, siamo state condotte in una stanza dove abbiamo dovuto abbandonare i nostri abiti per indossare queste divise. Eravamo molto spaventate ma per fortuna abbiamo incontrato zia Baba nel nostro dormitorio.”  
“Mi rassicura sapere che vi siate ritrovate. Rimanete sempre unite, miraccomando.”
“Certo papà. E zio Simone lo hai visto? Come sta?”
Mio padre scuote il capo e china tristemente lo sguardo.
“Non bene purtroppo. E’ molto debole…”
Abbozzo un sorriso per tranquillizzarlo e rafforzo la presa sulla sua mano. Così facendo la manica della mia casacca si sposta leggermente, lasciando intravedere alcune cifre del numero tatuato sul mio avambraccio.
“Ti hanno fatto tanto male Vera?” chiede mio padre con apprensione.
“No papà. Davvero, sto bene.” cerco di rassicurarlo per non incrementare le sue preoccupazioni “Ad essere sincera, l’aspetto più strano e fastidioso è non avere più tanti capelli. Ricordi papà? Mi ripetevi sempre di tagliarli perché erano troppo lunghi!”
Mio padre sorride dolcemente mentre i suoi occhi diventano lucidi per le lacrime che affiorano.
“Sei sempre bellissima tesoro mio.”
Abbasso lo sguardo un poco imbarazzata e noto le nocche di mio padre insanguinate e il dorso della sua mano segnato da alcuni tagli.
“Cosa ti è successo papà?”
“Non è niente Vera, è solo qualche graffio. Abbiamo lavorato tanto oggi.”
“E in cosa consiste il vostro lavoro?”
“Produciamo armi: fucili, cannoni…” risponde mio padre “Ci chiudono in un’officina e lavoriamo fino a quando non ci richiamano per l’appello serale. Voi cosa siete costrette a fare?”
“Frantumiamo rocce di granito, nella cava.”
“E qualcuna tra voi è stata portata via con la prospettiva della…doccia?” domanda mio padre con estrema inquietudine.
“No, non credo. Perché vuoi saperlo?”
“Vera devi fare molta, molta attenzione.” dichiara mio padre scandendo ogni parola “Qualunque cosa ti dicano o promettano, tu non dare ascolto a nessuno e cerca di allontanarti appena sono distratti!”
“Papà non capisco, cosa sono queste docce?” chiedo confusa.
Tuttavia non riesco ad ottenere una risposta poiché un soldato si avvicina pericolosamente a mio padre, urlando e sbraitando in tedesco.
Papà stringe più forte la presa sulle mie dita.
“Ritorna tra due sere Vera, ci rincontreremo nello stesso posto. Ma presta sempre attenzione.”
Annuisco spaventata mentre scorgo il soldato alle spalle di mio padre. Non riesco nemmeno a metterlo in guardia poiché l’uomo colpisce con un potente calcio la gamba di papà.
“No! Lascialo stare!” urlo con tutto il fiato che ho in gola e scuoto rabbiosamente la rete, come se potessi spaccarla e accorrere in soccorso di papà.
Mio padre si rimette in piedi un poco barcollante mentre il soldato tedesco lo spinge lontano dalla recinzione. Papà si volta verso di me e prima di scomparire tra la folla dei prigionieri grida: “Per nessuna ragione Vera, non andare alle docce!”

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Sono trascorsi quasi due anni dal nostro arrivo a Mauthausen.
Mi sembra di essere approdata in questo inferno pochi giorni fa ma allo stesso tempo di viverci da sempre.
Ormai ho completamente perso la cognizione del tempo, procedo per inerzia.
Zio Simone ci ha lasciati da tempo, era estremamente debole e molto malato. La sua morte ha spezzato il cuore di zia Baba che nonostante il dolore indescrivibile per la perdita di suo marito, si è fatta forza e non si è arresa.
Lavoriamo dall’alba fino al tramonto e fermarsi implica una morte assicurata. Non importa se le gambe vacillano per la fatica o la stanchezza è tanto opprimente da non permettere di pensare lucidamente, nessuna giustificazione è valida per allontanarsi momentaneamente dal lavoro.
La mamma non sta bene. Da un mese mi sembra di riuscire a scorgere le sue forze che lentamente la abbandonano. E’ terribilmente magra, come tutte noi del resto. La misera alimentazione a cui siamo state abituate ci rende deboli e ammalarsi diventa sempre più semplice. E guarire risulta spesso impossibile.
Appena terminato l’appello, viene distribuito un surrogato di caffè senza zucchero come colazione. A pranzo è servita una misera zuppa di verdure essiccate e di rape cotte nell'acqua. La cena invece consiste in un pezzo di pane con un cucchiaino di margarina o di ricotta e, se siamo fortunate, una sottile fetta di salame. Una dieta come questa non sfamerebbe nessuno, e tanto meno è sufficiente per lavorare ai ritmi estenuanti del campo, con le gelide temperature che si registrano in questa zona.
Eppure le condizioni vergognose a cui siamo sottoposte, inducono molte prigioniere a lasciarsi morire di fame. Ricordo una donna che aveva rifiutato di ingerire qualsiasi piatto fosse servito nel campo.
“Il pane è rinforzato con la segatura e le zuppe con bucce di patate.” dichiarava la donna con profonda convinzione “E gira la voce di una misteriosa cenere aggiunta per dare corposità alla minestra…”
Ma come mi disse zia Baba la prima notte che arrivai al campo, non bisogna porsi troppo domande. Non possiamo permettercelo.

Oggi fortunatamente il freddo sembra meno aggressivo rispetto ai giorni passati.
Tuttavia ciò non rende il lavoro più agevole. Frantumiamo rocce dalla mattina alla sera e il giorno successivo, quando i soldati ci spediscono nuovamente nella cava, pare che abbiano scaricato durante la notte un altro cumulo di roccia da rompere con i picconi.
Quando le palpebre iniziano a farsi pesanti per la fatica e la stanchezza, la mia attenzione è improvvisamente catturata da alcuni lamenti. Scorgo poco lontano una quarantina di prigionieri ammanettati e posti in fila. Singhiozzano e implorano pietà a un ragazzo poco più giovane della mia età.
Il comandante al suo fianco, un uomo austero e dal viso squadrato, porge nelle mani tremanti del giovane una pistola sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Allo sguardo confuso e indeciso del ragazzo, il comandante replica semplicemente con un lieve sorriso, agghiacciante.
Gli spari squarciano l’aria con violenza. Uomini e donne cadono come birilli non appena le pallottole penetrano nei loro gracili corpi. Il ragazzo pare impassibile di fronte alla carneficina di cui si sta macchiando, forse per impressionare il comandante al suo fianco il quale lo osserva compiaciuto. Eppure sembra una lacrima quella che scorgo scendere lentamente dalla guancia del giovane.
Le grida di terrore dei poveri malcapitati vengono così soffocate in un flebile istante, mentre si accasciano a terra come fantocci sull’erba gelida e macchiata del loro sangue.
La scena si svolge sotto gli occhi increduli e terrorizzati di noi prigioniere. Nonostante la tragedia appena compiutasi, dobbiamo procedere nelle nostre mansioni e appena ci notano distratte richiamano brutalmente la nostra attenzione, intimandoci di riprendere a lavorare.
Mentre consumiamo il nostro pasto, scorgo con grande tormento lo sguardo insofferente di mia madre. Sono alcuni giorni che lamenta lancinanti dolori allo stomaco e con estrema fatica riesce a finire quel poco che si trova nel suo piatto. E’ terribilmente magra e durante la notte, la febbre alta le provoca tremendi momenti di delirio.
La nostra giornata lavorativa è ormai giunta al termine. Al mio fianco, mamma è madida di sudore e i suoi occhi sembrano non reggere più il peso delle palpebre.
“Forza mamma, resisti.” sussurro osservandola con sguardo implorante.
Lei annuisce con fatica e accenna un sorriso. Tuttavia dopo pochi secondi, sento un tonfo e noto il piccone di mia madre a terra.  Alzo il capo e la scorgo accasciata al suolo, svenuta.
Corro immediatamente da mia mamma e mi inginocchio al suo fianco. Provo ad aiutarla, cerco in tutti i modi di sostenerla perché si rimetta in piedi. Ma non reagisce. La chiamo, la imploro perché si svegli eppure non mi risponde.
Nel frattempo zia Baba si avvicina. Le sue labbra continuano a muoversi eppure mi sembra di non riuscire a sentire nemmeno una parola.
La zia m’incita ad alzare lo sguardo e comprendo all’istante la causa della sua angoscia: due soldati tedeschi si stanno avvicinando pericolosamente.
L’ansia pare rapidamente divorarmi. Scrollo mia madre con tutta la forza che mi rimane mentre le immagini di tutte quelle donne uccise mi affollano la mente, annebbiando la mia vista.
“Mamma svegliati! Ti prego, non lasciarmi!”
Tuttavia le mie grida si rivelano inutili. I soldati mi scansano e zia Baba mi circonda con le braccia per impedirmi di seguire mia madre.
Non ho più lacrime, né forza per oppormi.
Mi limito a osservare impotente mia mamma per l’ultima volta, mentre me la portano via.

Il giorno successivo incontro mio padre alla recinzione che delimita il campo. Gli racconto di cosa sia accaduto alla mamma e mi stupisco notando come nessuno dei due riesca a piangere.
E’ difficile conservare la propria sensibilità quando sei accerchiata da persone le quali non fanno altro che rimarcare la tua condizione di macchina da lavoro.
E probabilmente ti convincerai di esserlo davvero.
Non importa quanto tu possa provare a restare vincolato a quel debole sprazzo di umanità che persiste dentro di te, riusciranno comunque a convincerti dell’inutilità della tua esistenza.
Mio padre è debole, i suoi occhi sono arrossati per la stanchezza e per le polveri nocive che quotidianamente adopera nella fabbrica.
Non possiamo parlare per molto. Devo tornare alla cava e riprendere a frantumare rocce. Ci salutiamo, con la promessa di incontrarci la sera seguente.
La mia attenzione è catturata dalle sonore risate di un gruppo di SS oltre la recinzione. Alzo lo sguardo per scostare una ciocca di capelli dagli occhi e sento un improvviso vuoto allo stomaco quando tra i soldati tedeschi, scorgo Massimo.



Angolino dell'Autrice: Ciao a tutti miei cari! Ma io quanto vi adoro?! Siete dolcissimi e mi infondete una determinazione indescrivibile. Grazie per seguire la mia storia, grazie per sostenermi e grazie di cuore per le belle parole nei vostri commenti.
Volevo solo fare un appunto: l'evento del ragazzo che uccise i prigionieri in una sorta di "tiro a segno" purtroppo è accaduto. Il giovane era il figlio diciottenne di Franz Ziereis, comandante del campo di Mauthausen.
Grazie di tutto! Un abbraccio forte.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


                                                    


Mi sembra di essere tornata indietro di due anni.
Tutti quei ricordi impolverati e che in questi anni ho riposto in un angolo della mia mente, sembrano illuminarsi di energia nuova e premono per risorgere dal buio nel quale li ho relegati.
I momenti trascorsi con Massimo in particolar modo, scorrono davanti a me a velocità duplicata. Dal nostro primo incontro nei pressi del porto di Trieste fino a quella mattina alla stazione durante la quale l’ho salutato prima della sua partenza, senza poter minimamente immaginare che sarebbe stata l’ultima volta in cui mi avrebbe stretto tra le sue braccia.
Quegli attimi che gelosamente ho costudito in questi mesi tremendi, mi hanno permesso di rimanere ancorata a quello sprazzo di umanità ancora persistente dentro di me. Mi hanno portato via ogni cosa, mi avevano portato via anche la luna. Sono stata ridotta alla miseria, ma mai avrei permesso che mi privassero dei miei ricordi.
Massimo sembra un fantasma ai miei occhi stanchi, uno scherzo della mia debole mente. Eppure sembra così reale… Ma sì, è proprio lui! A pochi metri da me. Bello e fiero come ricordavo.
Tuttavia anche l’espressione di Massimo non è da meno.  Il suo sorriso muore sulle labbra in un istante non appena i nostri sguardi s’incrociano incatenandosi come un tempo.
Compie un passo verso di me e vorrei fare lo stesso. Tuttavia non ne ho il tempo poiché avverto una fitta lancinante al polpaccio. Cado a terra dolorante riuscendo però prontamente ad appoggiare i palmi sul terreno freddo. Scorgo una guardia tedesca alle mie spalle urlarmi parole di odio mentre minaccia di colpirmi ancora. Mi rimetto in piedi rapidamente, per quanto il mio gracile corpo me lo consenta, e mi avvio a passo spedito verso la cava di granito.
Dirigo un ultima volta lo sguardo verso Massimo. Lui mi osserva con occhi sbarrati e la bocca tremante. Un soldato tedesco richiama la sua attenzione scrollando il suo braccio. Per un momento Massimo sembra non sapere dove si trovi, come fosse stato risvegliato con violenza da un incubo. Accenna un sorriso all’uomo alla sua destra, pronunciando qualcosa e appoggiando la mano sulla sua spalla.
Purtroppo però il vero incubo l’ho sto vivendo io. E adesso mi sembra ancora più spaventoso.

“A cosa stai pensando Vera?” domanda Zia Baba notando la mia espressione alquanto distratta.
Reprimo un sospiro e mi adagio sulle scomode assi di legno del letto.
“Tesoro non avresti potuto fare niente per tua mamma.” sussurra al mio orecchio posando una mano sulle mie spalle “Non puoi incolparti per quello è accaduto. La mamma è stata coraggiosa fino alla fine e…”
Zia Baba è interrotta da un violento colpo di tosse. E’ china su se stessa e con estrema fatica riesce a riprendere fiato. Mi metto immediatamente a sedere e aiuto la zia a calmarsi.
“Sto bene Vera, non preoccuparti. Devo solo sdraiarmi un attimo.”
Sono quasi due giorni che questa maledetta tosse sembra non voler lasciare in pace la zia. E ogni volta sembra peggiorare.
Osservo zia Baba e le mani incrociate sul petto che si muovono al ritmo del suo respiro un poco affannato.
La verità è che i miei frenetici pensieri non sono rivolti alla mia povera madre come ritiene zia Baba e ciò mi fa sentire ancora più insensibile.   
Penso a Massimo, e come potrebbe non essere così?
Rivederlo ha provocato in me una grande confusione. E molta paura.
Mi sembra ancora impossibile Massimo sia un esponente delle SS, un membro di quegli uomini colmi di odio e pregiudizi nei nostri confronti.
Tutte le sue promesse perciò non avevano alcun significato? Erano solo belle parole pronunciate con il fine crudele di illudermi? E ci sono cascata miseramente, come una povera ingenua.
I miei pensieri sono interrotti da una gelida raffica di vento che travolge la stanza appena il portone del dormitorio viene spalancato.
Una guardia tedesca entra rapidamente ed esamina il pezzo di carta tra le sue dita.
Mi sembra di svenire appena pronuncia il mio nome.
Vera. Bernardis.
Queste due, semplici parole riecheggiano tra le pareti e risuonano nella mia mente come una cantilena infinita. Sono sempre stata identificata come un numero e dopo due anni non potevo che riconoscermi come tale. Ma il mio vero nome non è una cifra tatuata, e per poco stavo per dimenticarlo.
Torno alla realtà quando il soldato mi richiama, questa volta con rabbia. Incrocio lo sguardo spaventato di zia Baba, confusa quanto me. Le stringo forte la mano per rassicurarla e mi dirigo a testa bassa verso il soldato.
L’uomo mi fa cenno di precederlo e mi esorta a velocizzare il passo.
Attraversiamo il campo e mi stringo nelle spalle per ripararmi senza successo dal freddo.
Fortunatamente il tragitto si rivela breve. Entriamo in uno dei capannoni e percorriamo un breve corridoio scarsamente illuminato finché il soldato ordina di fermarmi. Gira la maniglia di una porta bianca e un poco scheggiata e con un rapido cenno mi esorta ad entrare. Non appeno varco la soglia, la porta si richiude alle mie spalle con un lieve cigolio.
Di primo acchito la stanza mi pare un’infermeria, fornita di un lettino e strumenti del mestiere. Le pareti spoglie sono illuminate da una lampadina appesa tristemente ad un filo che pende dal soffitto.
Tutto è così silenzioso. Mi sembra di sentire in lontananza un vocio, forse proveniente da una stanza attigua o da un altro punto del corridoio, e certo non mi tranquillizza. Dopotutto il motivo del mio richiamo mi è del tutto ignoto e non ho idea di cosa potrebbe accadermi.
Ma sono al caldo, grazie al cielo. Riesco lentamente a riacquistare la sensibilità delle dita e un poco titubante, decido di accomodarmi su una sedia di legno.
Improvvisamente avverto dei passi farsi sempre più vicini e decisi. Pochi secondi e la porta dell’infermeria si apre in un lampo per poi richiudersi con altrettanta rapidità.
Il mio cuore batte a una velocità considerevole tanto che la mia paura è di non riuscire a reggere l’emozione.
Massimo.
I nostri sguardi si incrociano per un istante ma chino immediatamente lo sguardo. Guardarlo negli occhi fa troppo male.
Massimo si avvicina con passo lento mentre il ticchettio dei suoi stivali riecheggia tra le pareti della piccola stanza. Si inginocchia di fronte a me levandosi il berretto e passandosi una mano tra i capelli.
Trascorrono i secondi. Poi i minuti. Nessuno pronuncia una parola. Massimo è desideroso di dire qualcosa, lo percepisco perfettamente, ma credo che la confusione nella mia testa sia in egual modo presente in Massimo.
Intravedo la sua mano avvicinarsi alla mia tuttavia la ritraggo rapidamente.
“Vera…”
E non appena sento la sua voce pronunciare il mio nome provo un malessere indescrivibile, un senso di disgusto nei miei confronti. Sono stata privata della mia femminilità e ridotta ad uno straccio, non posso che sentirmi insignificante di fronte a Massimo, sempre impeccabile e affascinante.
“Non potrei mai farti del male Vera.”
Continuo imperterrita a tenere il capo chino, fissando le mie mani scheletriche mentre sfrego con le dita un lembo della maglia.
“Non hai intenzione di rivolgermi nemmeno uno sguardo?” chiede Massimo e percepisco una punta di dolcezza nella sua voce.
Eppure persevero nel mio silenzio tombale, ancora troppo sconvolta per dire o fare qualsiasi cosa.
“Il terrore di non poterti più rivedere mi ha quasi ucciso Vera.” dichiara dopo un lento sospiro “Appena tornato a Trieste dopo la missione in Germania, ho scoperto cosa era accaduto alla tua famiglia e ho fatto qualunque cosa fosse in mio potere per ritrovarti. Ho saputo della deportazione alla Risiera di San Sabba ma quando sono arrivato, vi avevano già condotto alla stazione. Non è stato facile conoscere la destinazione esatta del treno, né tantomeno entrare a Mauthausen senza suscitare sospetti. In questi mesi non ho mai smesso di cercarti Vera, nemmeno per un momento. Non mi sarei mai dato pace se ti fosse capitato qualcosa…”
Vorrei poter pronunciare anche una sola parola, lo giuro. Ma mi sembra impossibile. Non ci riesco. Pare tutto un’illusione, come se non fossi realmente qui ma stessi vivendo per la centesima volta quella fantasia che ho custodito in tutti questi mesi di prigionia.
“Cazzo Vera dimmi qualcosa!” il tono esasperato della voce di Massimo mi scuote con violenza e al fine incrocio i suoi grandi occhi scuri.
E tutto potrebbe finire in questo istante. Finalmente riesco ad avvertire un senso di pace dentro di me. Una scarica di luce sembra piacevolmente diffondersi allontanando le ombre che per troppo tempo hanno soffocato la mia esistenza.
“Vera, mio tesoro!” Massimo stringe con dolcezza le mie mani tra le sue “Torneremo a casa e ti porterò via da questo inferno.”
Vorrei dirgli quanto mi sia mancato, quanto abbia sofferto per la sua lontananza e nonostante tutto, quanto ancora lo ami. Tuttavia riesco solo a pronunciare il suo nome e poi…piango. Finalmente sento le lacrime scorrere lungo le mie guance, bagnare il mio viso e scivolare via inesorabili. E paradossalmente ciò mi rende serena e sorrido come non riuscivo da tempo mentre sono scossa dai singhiozzi.
Massimo gioisce con me stringendomi a sé. Quasi temevo di aver dimenticato come piangere. Da quando sono giunta al campo non sono riuscita a versare nemmeno una lacrima, nemmeno quando mia madre mi ha lasciato.
“Tutto quello che ho fatto per trovarti Vera, i giorni trascorsi nella speranza di riabbracciarti e riportati a casa non saranno stati vani.” dice Massimo prendendo il mio volto tra le mani.
“Ma come hai fatto a organizzare questo incontro senza che i tedeschi si insospettissero?”
“Fingo di essere parte delle SS, in questo modo ho ottenuto la loro fiducia. Sto correndo un rischio enorme in questo momento, ma appena ti ho intravista al campo dovevo parlarti e avere la possibilità di spiegare. Se indosso una divisa tedesca è per non destare sospetti e portarti in salvo. Ma per fare ciò avevo bisogno che il colonello Ziereis non serbasse dubbi su di me.”
“Quell’uomo è un mostro.” affermo mentre un brivido diffonde in me una sensazione spiacevole pensando all’uomo a capo di Mauthausen.
“Pagherà per le crudeltà che ha commesso. Non riesco nemmeno a concepire come un essere umano possa instaurare un regime di violenze e terrore nei confronti dei suoi simili.”
Massimo infila una mano nella tasca del giubbotto tirando fuori un pacchetto avvolto da un foglio di carta.
“E’ tutto ciò che sono riuscito a racimolare. Ma è già qualcosa.”
Mi porge il fagotto e lo scarto con trepidazione riuscendo a percepire l’odore di buono proveniente dall’interno del pacco.
Mi sembra di impazzire quando vedo delle patate schiacciate, qualche fetta di prosciutto e un pezzo di pane bianco e morbidissimo. Durante la mia lunga permanenza a Mauthausen non ho mai avuto la fortuna di godere di un pranzo così ricco.
Mi fiondo sul cibo con voracità tuttavia Massimo ferma il mio entusiasmo. Improvvisamente mi sento tremendamente in imbarazzo nonostante la fame mi dilani e non aspetto altro che addentare qualcosa di sostanzioso.
“Il tuo stomaco non è abituato Vera, non vorrei ti sentissi male. Mangia con calma.” afferma Massimo sorridendomi con dolcezza.
Annuisco e mi sforzo nel mangiare lentamente senza ingozzarmi.
“Pochi sono davvero a conoscenza di cosa accada qui.” dico mentre raccolgo le ultime briciole “Sono convinti siano semplici campi di lavoro così che i massacri possano avvenire con tutta tranquillità.”
“E la tua famiglia come sta?” domanda Massimo dopo un lungo sospiro.
“La mamma è morta pochi giorni fa. Papà è tanto debole. Appena arrivati al campo abbiamo incontrato mia zia.”
“Non sono riusciti a raggiungere l’America?”
Scuoto tristemente il capo.
“I tedeschi devono averli fermati presso qualche frontiera. I tuoi zii stanno bene?”
“E’ rimasta solo zia Baba, cerchiamo di farci forza a vicenda.”
“La porteremo via da questo posto Vera.” afferma Massimo posando una mano sulla mia guancia “E verrà anche tuo padre ovviamente.”
“E’ impossibile lasciare il campo Massimo, non ti permetteranno mai di farci uscire.”
“Lo so, per questo vi aiuterò a scappare.”
Il luccichio che brilla nei suoi occhi non mi rasserena, tutto il contrario.
“Massimo non fuggirò di nascosto. Mio padre non lo reggerebbe e sarebbe un rischio troppo grande.”
“Vera non puoi dire sul serio!”
Un rumore improvviso fuori dalla porta dell’infermeria ci azzittisce all’istante e volgiamo i nostri sguardi allarmati verso l’entrata. I passi si fanno sempre più nitidi e scorgo la mano di Massimo sfiorare la pistola che porta alla cintura ponendo il dito sul grilletto. Tuttavia chiunque fosse si allontana mentre i passi echeggiano ancora per qualche secondo tra i muri del corridoio, sempre più lontani e impercettibili.
“Vera ascoltami bene.” dice Massimo richiamando deciso la mia attenzione “Ricordi due anni fa, quando passeggiavamo per Trieste e incontrammo per caso tuo padre? Mi ha chiesto di proteggerti a qualunque costo. Ho rischiato tutto per ritrovarti e non ti lascerò. Riferisci a tua zia di stare pronta, domani notte verrò da voi e abbandoneremo per sempre questo posto.”
“Come pensi di riuscirci senza farti scoprire?”
“Pensi davvero che non abbia già programmato ogni dettaglio? Ci lavoro da mesi Vera, ho giurato a me stesso che ti avrei riportato a casa e così farò.” dichiara Massimo irremovibile e con quel barlume negli occhi che è impossibile dimenticare.
“Raccontami i dettagli allora!”
“Non è necessario Vera. Ti basta sapere che ho tutto sotto controllo. Tu dovrai solo avvisare tua zia e tuo padre, al resto ci penserò io. Ho alcuni amici disposti ad aiutarci. Il soldato che è venuto a prenderti al dormitorio sta con me, l’ho incaricato io di portarti qui.”
“Avresti potuto avvisarmi! Stavo per morire di paura quando quell’uomo mi ha chiamato.”
“Mi dispiace...” Massimo posa dolcemente le sue labbra all’angolo della mia bocca “Ma non potevo rischiare di essere scoperto, non adesso che siamo così vicini dal fuggire.”
Chino lo sguardo ed emetto un flebile sospiro.
Massimo avverte le mie perplessità. Solleva il mio mento con le dita per permettermi di incrociare il suo sguardo.
“Torneremo a Trieste Vera, e questo incubo finirà.” dice con profonda determinazione “Ti amo, ti amo dal primo giorno che ti ho incontrata e per quanto abbia provat
o, non riesco a immaginare la mia vita senza di te. Ti assicuro che andremo via da qui, te lo prometto Vera. Devi fidarti di me.”
Prendo il suo volto
tra le mani un poco tremanti e Massimo posa la sua fronte sulla mia.
“Mi fido Massimo.”

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


“Riesci a tornare al tuo dormitorio?” domanda Massimo stringendomi a sé.
Annuisco non completamente convinta. Siamo nell’infermeria del campo, Massimo è riuscito ad organizzare un incontro ma è giunto il momento di salutarci evitando che qualcuno ci veda insieme.
Oltretutto Massimo è sicuro di poter predisporre un piano di fuga impeccabile e portarci a casa. Tuttavia io sono molto preoccupata. Nessuno è mai riuscito ad abbandonare il campo, per lo meno vivo.
Ma ammetto che di fronte anche a una piccola possibilità di lasciare questo inferno, sarei matta a non coglierla al volo.
Allora perché mi sembra che Massimo non colga fino in fondo l’enorme pericolosità che sta correndo?
“Vera, mi stai ascoltando?” Massimo interrompe il mio flusso di pensieri.
“Certo…”
“Non sei mai stata brava a mentire.” le sue labbra si curvano in un sorriso seducente.
Alzo gli occhi al cielo divertita, ricordando le numerose occasioni durante le quali ha sottolineato il mio difetto.
“Avvisa tua zia e appena sei in grado anche tuo padre. Domani notte verrò a prendervi al vostro dormitorio.”
Massimo è irremovibile e per quanto io provi a persuaderlo non è intenzionato ad ascoltarmi.  
Io lo amo. Lo amo da morire. Appena i nostri sguardi si sono incrociati ho capito fino in fondo quanto sia inscindibile il legame tra noi. Eppure la paura di perderlo di nuovo mi terrorizza.
“A cosa stai pensando?” mi chiede sfiorandomi una guancia.
“Non devi fare l’eroe Massimo.”
“Vera, non voglio più discuterne.” Massimo prende il mio volto tra le mani incatenando i suoi grandi occhi scuri ai miei “Ho promesso che avrei fatto qualunque cosa fosse stata in mio potere per portarti via da questo posto. E così farò.”
Afferra una coperta un poco sgualcita e la posa sulle mie spalle.    
“Accertati che non ci sia nessuno nel corridoio. Poi corri al tuo dormitorio.”
Annuisco lievemente e mi dirigo verso l’uscita. Quando poso la mano sul freddo pomello della porta, Massimo afferra il mio braccio attirandomi a sé e mi bacia. Le nostre labbra s’incontrano, tremanti e dolcemente affamate, in una perfetta armonia. Quel calore piacevole e inconfondibile mi travolge e sento il mio corpo sussultare.
“Fai attenzione.” sussurra al mio orecchio.
“Anche tu...”
Chino il capo per non incrociare nuovamente lo sguardo di Massimo. Tutto sta accadendo con una rapidità esagerata e ho tanta confusione nella testa. E poi è molto tardi, Zia Baba sarà preoccupatissima.
Esco dal capannone e corro verso il mio dormitorio. Mi guardo attorno sperando di non attirare l’attenzione di nessun tedesco mentre cerco di ignorare le raffiche gelide che colpiscono il mio volto. Faccio scorrere leggermente il portone del dormitorio tanto da permettermi di entrare e lo richiudo immediatamente. Mi appoggio alla parete e socchiudo gli occhi per un momento, esalando un respiro di sollievo.
Non appena li riapro trasalisco nel vedere l’espressione angosciata di zia Baba a un palmo dal mio viso.
“Vera cosa è successo? Ti hanno fatto del male?”
“No zia Baba, sto bene. Ma non puoi immaginare chi ho incontrato.”
Mia zia mi guarda confusa e impaziente.
“Massimo!”
Zia Baba sembra frastornata per un attimo di fronte al mio incontenibile entusiasmo. Poi una luce sembra accendersi nei suoi occhi stanchi.
“Il ragazzo con cui uscivi anni fa?”
Annuisco raggiante e prendo le mani della zia tra le mie.
“E’ venuto a salvarci zia Baba. Ci porterà via e potremo tornare a casa. Tu, papà ed io.”
Ma la zia appare molto confusa e la sua espressione non mi tranquillizza.
“Come ha fatto a trovarci?” non ho il tempo di risponderle poiché zia Baba è scossa da un violento colpo di tosse e pone le mani davanti alla bocca per non svegliare tutto il dormitorio. Mi pongo accanto lei per darle sostegno e appena il respiro torna a farsi regolare, noto i suoi palmi macchiati di sangue.
“Zia ma tu sei malata!”
“Va tutto bene tesoro, non è così grave.” dichiara zia Baba cercando di tranquillizzarmi. Ma non ha l’effetto sperato.
“Non preoccuparti.” le sussurro mentre cerco di farla sedere “Quando lasceremo il campo Massimo ci aiuterà a trovare un medico che ti assista.”
“Vera non verrò con voi.” la lapidaria risposta di zia Baba mi confonde e non trovo le parole per replicare “E nemmeno tu dovresti.”
“Perché dici questo zia?”
“Come possiamo fidarci di Massimo? Potrebbe stare con i tedeschi.”
“Non lo farebbe mai, ha promesso che ci avrebbe protetti!”
“E’ passato molto tempo Vera.” risponde tristemente zia Baba “Le persone cambiano, hanno diverse priorità e alcuni sentimenti svaniscono per essere sostituiti ad altri. Sappiamo bene di non poterci fidare di nessuno, perché questa volta dovrebbe essere diverso?”
“Massimo è sincero, te lo posso assicurare zia. Domani finalmente potremo abbandonare il campo e tu verrai con me. Non ti lascerò qui, non ora che abbiamo una speranza.”
“Vi rallenterei solamente e le tue aspettative svanirebbero per colpa mia. Lasciami qui Vera, sono vecchia e ho vissuto abbastanza. Ma tu sei giovane e hai tutto il diritto di riappropriarti della tua vita. E se sei sicura delle intenzioni di Massimo, io sono serena.”
Zia Baba tossisce ancora, questa volta con più violenza. E’ sfinita, gli occhi sembrano non reggere il peso delle sue palpebre.
“Non ti lascerò qui zia Baba.” le dico inflessibile con una determinazione che temevo mi avesse abbandonata per sempre “Non posso immaginare di perdere anche a te. Ti prometto che andrà tutto bene, fidati. Torneremo a casa.”
Zia Baba abbozza un sorriso e annuisce debolmente.
“D’accordo, è giunto il momento di lasciare questo inferno.”

La mattina successiva la temperatura pare essersi alzata di qualche grado e nonostante il lavoro sia comunque estenuante, non dobbiamo combattere costantemente anche con il freddo.
“Non girarti, non dire una parola.”
Volto leggermente il capo scorgendo Massimo alla mia destra fissare un punto nel vuoto, con le braccia incrociate dietro la schiena. Chino rapidamente lo sguardo a terra continuando a lavorare.
“Ascoltami bene. Questa notte rimani vicino al portone d’ingresso del dormitorio, quando sentirai tre colpi dovrai uscire. Io sarò lì fuori per portarvi alla camionetta. Avvisa tua zia e tuo padre.”
Non posso replicare né dire una parola poiché Massimo gira su stesso e si allontana con passo lesto.
Il piano è stato avviato. Non posso tirarmi indietro, anche se la paura di un fallimento è davvero asfissiante.
Decido di recarmi alla recinzione che separa il campo maschile da quello femminile, sperando di riuscire a trovare mio papà e aggiornarlo sul progetto di fuga. Con estrema lentezza e particolare prudenza per non attirare l’attenzione di qualche soldato, mi lascio alle spalle la cava per avviarmi verso il confine del campo.
Tuttavia intravedo proprio zia Baba dirigersi verso di me. La chiamo per catturare il suo interesse ma sembra davvero presa dai suoi pensieri.
“Zia!”
Zia Baba solleva con rapidità il capo come fosse stata percorsa da una lieve scossa. Mi osserva con un’espressione evidentemente angosciata e gli occhi un poco arrossati.
“Sicura di stare bene zia?” le chiedo preoccupata.
“Sì, come no…” risponde vaga chinando per un attimo lo sguardo e fissando il vuoto, poi sembra tornare in sé “Ma tu dove stai andando Vera?”
“Massimo mi ha dato tutte le indicazioni per questa notte. Devo correre ad avvisare papà.”
Muovo a malapena un passo quando sento zia Baba afferrarmi per il polso.
“Zia devo sbrigarmi! Non abbiamo tanto tempo!”
Tuttavia zia Baba mi rivolge uno sguardo implorante e allenta la presa per incrociare le sue dita con le mie.
“Tuo padre è morto la notte scorsa.”
Senza rendermene conto scuoto la testa ripetutamente, incapace di credere alle parole di mia zia. Perché io non voglio crederci.
Le mie dita scivolano lentamente dalla mano di zia Baba e inizio a camminare, un passo dopo l’altro, incredula di avere ancora la forza per reggermi. Cammino e le caviglie si fanno pesanti, come avessi corso per chilometri infiniti. E invece sono ancora qui, sul terreno arido di questo maledetto inferno, sormontato da un cielo che annuncia morte.
Ma io non ce la faccio più, non posso reggere altro dolore. E mio padre mi dava quel coraggio, quella forza di reagire anche quando ero spaventata.
Avverto la mano di zia Baba sulla mia spalla e sussulto. Mi volto gettandomi tra le sue braccia mentre le nostre lacrime e il nostro dolore si fondono in un unico, disperato grido.

La stessa notte, il piano di Massimo è messo in atto e procede come previsto. Mi è difficile riportare per iscritto le fasi esatte che mi hanno permesso insieme a zia Baba di lasciare Mauthausen. Ora mi trovo nella camionetta appoggiata al petto di Massimo, infreddolita ma al sicuro. Quello che è accaduto prima è una serie di immagini rapide e confuse. Non ho la forza di ripercorrere quei momenti durante i quali il terrore di essere scoperti mi impediva di ragionare con lucidità.
Alcuni complici hanno aiutato Massimo nell’impresa e insieme ci stiamo allontanando il più velocemente possibile dal campo. Sulla camionetta c’è anche Filippo, l’amico di Massimo che ho avuto l’occasione di conoscere a Trieste alcuni anni fa, quel giorno in cui mi recai alla caserma.
Filippo posa una coperta sulle spalle di zia Baba. La sua salute non sembra migliorare e spesso è colta da violenti attacchi di tosse.
“Come state signora Bernardis?” le chiede Filippo porgendole un fazzoletto.
“Sto bene, non preoccuparti giovanotto.”
“Cercate di riposare, ora siete salva.”
Zia Baba annuisce flebilmente e socchiude gli occhi.
Filippo si avvicina sorridendomi dolcemente e alcuni dei suoi ricci gli cadono davanti agli occhi. Porge un’altra coperta a Massimo con la quale mi avvolge per riscaldarmi.
Proprio quando sto per assopirmi, la camionetta si arresta all’improvviso frenando rumorosamente. Tutto attorno è silenzio fino a quando quest’apparente tranquillità è lacerata da grida di uomini tedeschi che sembrano farsi sempre più vicine.
Incrocio il mio sguardo con quello altrettanto sconvolto di Massimo.
“Quei bastardi ci hanno scoperto!” dichiara Filippo passando nervosamente una mano tra i ricci.
Zia Baba prova con fatica ad alzarsi ma l’angoscia che l’assale pare impedirle di ragionare con lucidità. Mi avvicino subito a lei stringendola tra le braccia mentre la sento tremare convulsamente.
Le voci scontrose dei tedeschi si fanno più aggressive e nonostante io non capisca la loro lingua, sono piuttosto chiare quali potrebbero essere le reali intenzioni di quei soldati.
“Cosa facciamo Massimo?” domanda agitato il conducente della camionetta, voltandosi con occhi sbarrati verso di noi.
Massimo sospira e incrocia le dita delle mani portandole davanti alla bocca. Fissa il vuoto con uno sguardo iniettato di angoscia mentre i secondi scorrono inesorabili.
Mi allontano da zia Baba per raggiungere Massimo. Non appena poso la mia mano sulla sua spalla, Massimo sembra destarsi all’improvviso afferrando con vigore le mie spalle e costringendomi a guardarlo negli occhi.
“Ho promesso che ti avrei riportata a casa. E così sarà. Ma dovrai andare da sola Vera.”
Udendo le sue parole sento le ginocchia cedere e un grido di puro terrore sembra nascere dentro me, contorcendo dolorosamente le mie viscere.
“Massimo no, ti prego!” lo imploro disperata mentre le lacrime rigano il mio volto.
“E’ me che vogliono Vera, io ho organizzato tutto questo. Appena uscirò da qui, partite e non fermatevi per nessuna ragione. Io me la caverò.”
“No, no Massimo! Non posso perderti di nuovo!” lo supplico tra i singhiozzi.
“Non preoccuparti amore mio.” sussurra prendendo il mio viso tra le mani “Io tornerò presto, tu aspettami Vera.”
Piango senza controllo, temo di non riuscire più a fermarmi.
“Amico non fare niente di stupido!” grida Filippo avvicinandosi a Massimo, cercando di distoglierlo dalle sue intenzioni suicide.
“Sergente Bassani, non discuta le mie disposizioni! Obbedisca all’istante ai miei ordini!” Massimo riprende con eccessiva severità Filippo il quale non prova a ribattere, si limita a stringere i pugni lungo i fianchi e chinare lo sguardo.
Massimo mi dà un bacio sulla fronte.
“Addio mio dolce Vera.”
Sento Massimo sfuggire dalla mia presa e quando provo a raggiungerlo, Filippo mi afferra prontamente per i fianchi allontanandomi dallo sportello della camionetta.
Massimo ricarica con gesto deciso la sua pistola e volge il suo sguardo verso di me, sorridendomi.
Aspettami Vera.
Con le ultime forze rimaste, provo disperatamente a divincolarmi dalla stretta di Filippo il quale però appoggia il mio capo nell’incavo della sua spalla per impedirmi di urlare.
E in un attimo Massimo è scomparso, le porte della camionetta si aprono e richiudono con rapidità e ripartiamo a tutta velocità.
Udiamo le voci dei soldati tedeschi e degli spari. Alcuni colpiscono la superficie del mezzo provocando un rumore assordante. E poi, più niente.
Filippo mi stringe forte a sé. Chiudo gli occhi mentre dentro mi sento morire.



Angolino dell'Autrice: Miei cari, anzi carissimi, amici! Giungiamo al penultimo capitolo della storia...non so voi ma io sono tristissima. :(
Ho già pensato ad un seguito, spero davvero di riuscire a realizzarlo. Mi sono affezionata tanto a questi personaggi e non me la sento di salutarli. Vi ringrazio infinitamente per tutto il supporto e per le dolci parole che mi riservate, vi adoro! Grazie per apprezzare il mio lavoro, grazie per aver creduto in me. GRAZIE!
Ci vediamo prossiamente per l'ultimo capitolo. Un bacione enorme a tutti!

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


6 maggio 1945

Dicono che il dolore fortifichi. Vivere brutte situazioni permette di fronteggiare con maggior tenacia le avversità future e raccogliere il coraggio necessario per non ricadere nel buio. Perché nel profondo sappiamo bene che non potrà andare peggio in confronto a un preciso momento della nostra vita (che sono certa inconsapevolmente ognuno avrà già visualizzato nella propria mente), in quell’occasione in cui l’oscurità era così fitta da temere di non trovare più la forza per rialzarsi.
Eppure sembra io non possa estendere tutto ciò alla mia situazione.
Sono tornata a Trieste da un mese ormai. In fondo speravo fosse come la ricordavo, nella sua unica bellezza e bagnata dal suo mare che così spesso m’incantava. E invece ho trovato una città segnata dalla guerra, dalle bombe deflagrate al suolo e dalla paura.
Guerra, odio, terrore. Una spirale in cui è semplice inserirsi ma dalla quale è altrettanto difficile uscirne.  E il timore di ricaderci è ancora angosciante.
Dopotutto ignorare non mi è utile. E quando ci provo, quella cifra incisa nella mia carne sembra pulsare ancora.
4753.
La vedo nei miei incubi, mi dà il tormento giorno e notte. Io non sono un numero, lo so. Tuttavia per troppo tempo me lo hanno fatto credere. Osservare la cifra sul mio avambraccio mi ricorda che sono ancora viva. Eppure subentra un senso di malessere, un disgusto nei miei confronti. Sono sopravvissuta, ma a quale prezzo? Ho perso la mia famiglia, ho assistito impotente alla morte dei miei cari mentre la fame e la malattia li portavano via da me.
Zia Baba mi ha lasciata pochi giorni dopo il nostro arrivo a Trieste. Era molto malata e l’agitazione dovuta alla fuga dal campo non le ha certo giovato. L’abbiamo portata subito in ospedale ma i medici hanno dichiarato chiaramente che non potevano agire in nessun modo. La malattia mi ha privato anche della mia amata zia e per me è stato più doloroso di quanto potessi immaginare.
In quel momento mi resi conto di essere rimasta sola. Non avevo una famiglia. Nessuno in cui riporre le mie speranze.
Nonostante ciò io non mi sono arresa, non è da me. Con fatica indescrivibile mi sono rialzata e passo dopo passo sto riuscendo a scorgere la strada da percorrere.
Una mattina mi sono guardata allo specchio. Ho visto riflesso il volto di una ragazza, anzi di una donna ormai, segnata per sempre da un dolore così devastante che non basterà una vita intera per assimilarlo. Ma nei suoi occhi ho colto quell’inarrestabile voglia di affrontare a testa alta i propri demoni, così mi sono detta: “Sono viva, con quale coraggio posso sprecare un dono tanto prezioso?”
Filippo mi ha aiutata in questo ed è stato una colonna su cui trovare un appoggio sicuro.
Da quando abbiamo fatto ritorno a Trieste, Filippo ha preso a cuore la mia situazione. Mi ha offerto protezione e un piccolo alloggio in una casa per veterani e feriti di guerra. Un gesto inaspettato ma che mi ha riempito di gioia. Anche quando i miei incubi peggiori tornano a darmi il tormento, so di poter rivolgermi a lui.
Ho rivalutato Filippo. E ne sono felice. E’ maturato, è diventato un uomo. E’ gentile, non è più il ragazzo presuntuoso e imprevedibile che ricordavo.
In particolar modo ha posto grande attenzione per quella che è la mia alimentazione. Sto riacquistando peso ma è un’operazione lenta e graduale poiché il mio stomaco si è ristretto per i pasti miseri a cui sono stata abituata.
Ho anche ricominciato a uscire. All’inizio non riuscivo nemmeno ad allontanarmi dalla mia stanza, un’ansia incontrollabile mi devastava ogni volta. Solo le quattro pareti del mio alloggio mi permettevano di sentirmi al sicuro, o almeno così mi ero convinta. Abbandonarle significava trovarmi inevitabilmente di fronte alla realtà, davanti a quel mondo tanto spaventoso e crudele dal quale volevo allontanarmi. Non avrei trovato il coraggio di guardare negli occhi nessuno, solo per il terrore di leggervi l’odio e il disprezzo che avevo intravisto negli sguardi dei gerarchi nazisti.
Eppure anche in questo caso sono debitrice a Filippo.
Con piccoli passi mi aiutato a riacquistare fiducia in me stessa e le nostri piacevoli passeggiate sul lungomare sono il momento più bello della mia giornata.
Una volta sono persino passata davanti alla mia casa. E’ stato…strano.
Per un attimo ricordo di aver avuto l’impressione di non essere mai andata via. Mi sono avvicinata lentamente attraversando il vialetto che avrò percorso centinaia di volte.
Mi era sembrato di vedere Gabriele sulla staccionata, perso come sempre nei suoi pensieri.
E poi dalla finestra scorgere la mamma vicino al focolare intenta a preparare la cena mentre papà le scocca un bacio sulla guancia.
Ecco zia Baba, mentre estirpa quelle maledette piante all’ingresso.
Ma appena sfioro il pomello arrugginito della porta, il velo posto sui miei occhi scivola via ponendo fino a queste allucinazioni.
E la realtà è un’altra. Le finestre sono impolverate, le crepe sui muri sono aumentate e la casa è deserta.
No, quella non era più casa mia. Non sarebbe più potuta esserlo.
Dovrei prendere le mie cose, ma il solo pensiero di entrare mi fa stare male. Non penso di riuscirci, almeno non ora.
Tre colpi alla porta della mia stanza mi riportano alla realtà.
Mi alzo dal letto con un rapido gesto tanto che la testa mi gira un poco. Mi accorgo di avere le guance umide così asciugo rapidamente le lacrime e mi rassetto il vestito.
Nel frattempo una massa di ricci ribelli appare dallo spiraglio della porta.
“E’ permesso?” domanda Filippo sorridendomi radioso.
Corro a spalancare la porta e lo abbraccio. Viene a trovarmi ogni giorno per assicurarsi che io stia bene, riesce sempre a trovare del tempo per tenermi compagnia. E la sua amicizia ormai è divenuta indispensabile.
Avverto un odore inebriante e quando alzo lo sguardo Filippo mi porge un coloratissimo mazzo di fiori.
“Filippo! Sono bellissimi.” lo ringrazio mentre ammiro il suo regalo e una delicata fragranza si diffonde per tutta la stanza.
“Hai pianto Vera…” nota Filippo preoccupato “C’è qualcosa che non va?”
Scuoto la testa con foga per distogliere la sua attenzione dai miei occhi arrossati e mi allontano per posare i fiori sul comodino.
“L’Armata americana ha liberato Mauthausen.” dichiara all’improvviso.
Le parole di Filippo mi fanno trasalire e il vaso con i fiori per poco non scivola dalla mia presa. Nonostante ciò riesco ad appoggiarlo sul tavolo, seppur rumorosamente.
“Quando è successo?” chiedo osservando distratta i petali dei fiori, illuminati da un raggio di sole.
“Ieri. I prigionieri sopravvissuti sono stati liberati e potranno tornare nelle loro case. Finalmente è finita Vera.”
Avverto la mano di Filippo poggiarsi delicatamente sulla mia spalla e mi volto, incrociando il suo sguardo.
“E non sai niente di…”
“Vera. Sai bene che se avessi qualsiasi novità, saresti la prima persona a cui lo direi.”
In realtà lo so molto bene. Ma la verità è che da quando sono scappata da Mauthausen, non è passato un giorno durante il quale non pensassi a Massimo.
Mi manca. Mi manca immensamente.
Ci sono stati momenti in cui ho temuto di non farcela. Non senza Massimo al mio fianco.
Il fragile mondo che avevo costruito attorno a me pareva più instabile che mai, pronto a crollare da un momento all’altro per svelare la crudeltà della realtà. Erano questi gli attimi in cui un pensiero fulmineo quanto inquietante attraversava la mia mente: se la facessi finita, forse questa insopportabile sofferenza svanirebbe con me.
Eppure non ho mai avuto il coraggio di commettere un atto così disperato.
Per paura, sì è probabile. Ma anche per rispetto. Verso la mia famiglia e quelle centinaia d’innocenti che, diversamente da me, non hanno potuto immaginare cosa fare della propria vita poiché qualcuno ha egoisticamente scelto per loro.
E so per certo che Massimo non avrebbe voluto che io gettassi via la mia vita.
“Vorrei solo sapere cosa gli è accaduto.” dichiaro chinando lo sguardo.
“Presto avremo sue notizie, vedrai.” dice Filippo accogliendomi tra le sue braccia e stringendomi forte “Tornerà Vera, ne sono sicuro.”
Abbozzo un sorriso e sospiro debolmente. 
“Ho una sorpresa per te!” dice raggiante Filippo e colgo nei suoi occhi quel barlume di vivacità che ormai conosco bene.
Lo osservo curiosa, incrociando le braccia al petto.
“Ho portato il tuo libro da un amico redattore. La tua storia lo ha emozionato tanto da volerla pubblicare!”
Il sorriso mi muore sulle labbra e raggelo il suo entusiasmo con uno sguardo.
“Che cosa hai fatto?! Come sei riuscito a prendere il libro Filippo? E’ sempre stato qui dentro…” ma non appena apro con gesto solerte il cassetto del comodino, lo trovo vuoto.
“Potrei averlo preso in prestito, a tua insaputa.” ammette guardando distrattamente il soffitto.
“Non avresti dovuto Filippo! Dovevi consultarti con me!”
“E dai Vera! Hai scritto un piccolo capolavoro, perché tenerlo chiuso in un cassetto a prendere polvere?!”
“Ma non avevi nessun diritto di concederti questa libertà!” replico furibonda.
“Fosse stato per te Vera, il romanzo non avrebbe mai visto la luce!”
“Ed era ciò che volevo Filippo! E tu avresti dovuto rispettare la mia decisione!”
“Mi stai dicendo che non sei per niente soddisfatta che il tuo libro sia piaciuto e potrebbe essere pubblicato?!”
La sua frase mi azzittisce. Non ho il coraggio di ammetterlo, eppure sono un poco sollevata che Filippo mi abbia fatto questo regalo sapendo che io non avrei mai trovato l’audacia di farlo da sola.
I primi giorni dopo il mio arrivo a Trieste sono stati terribili. Così ho provato a mettere per iscritto i miei pensieri. Per quanto fosse doloroso rivivere alcuni momenti, la scrittura mi ha aiutato più di quanto potessi immaginare facendomi compagnia nei momenti peggiori.
Scrivevo solo per me, senza alcuna ambizione di pubblicare i miei scritti o rivolgerli a uno specifico destinatario.
E’ stato un modo alternativo per custodire i miei ricordi, per non rischiare di dimenticare nemmeno il più piccolo particolare dalla mia vita. E quale modo migliore se non metterli su carta?
All’improvviso mi tornano alla mente le parole pronunciate da Massimo la prima volta che ci incontrammo.
“Hai un volto da scrittrice. Hai quello sguardo…enigmatico, sognatore. Come se fosse smarrito in lontananze irraggiungibili.”
Filippo compie qualche passo verso di me con sguardo supplichevole.
“Vera mi dispiace aver agito alle tue spalle.”
“Le tue intenzioni erano buone Filippo.” ammetto in fin di voce “La verità è che hai ragione, io non ne avrei mai avuto il coraggio. Proprio non concepisco come qualcuno possa apprezzare il mio lavoro...”
“Ciò che è davvero inconcepibile Vera, è come tu continui a mortificarti!” replica Filippo prendendo le mie mani e facendomi accomodare ai piedi del letto “Non puoi sentirti in colpa per essere sopravvissuta! Proprio per questo devi essere grata e vivere la tua vita fino in fondo. Ho consegnato il tuo libro a quel redattore perché ci tengo a te e credo nel tuo talento. Ho letto la tua storia ed è giusto che tutti sappiano cosa hai passato.”
“Ma io mi sento in colpa Filippo! Perché sono viva e la mia famiglia invece non c’è più. E ancora non riesco ad accettarlo. Pensare al mio futuro, ad una mia possibile carriera lo trovo estremamente egoista.”
“Vera quello che dici è assurdo! Pensi davvero che i tuoi genitori sarebbero felici nel vederti gettare così la tua vita? Si può sapere dov’è finita la tua grinta signorina?”
Le parole di Filippo mi fanno sorridere.
“Deve essersi nascosta molto bene.”
Filippo prende dolcemente il mio mento tra le dita.
“Ci impegneremo a scovarla allora. Così che tu possa godere appieno della tua vita, un dono meraviglioso che sarebbe un vero peccato sprecare.” mi bacia la punta del naso mentre i suoi ricci mi solleticano il viso.
“Sai Filippo, credo di avere già in mente un titolo per il libro…”
Il sorriso che illumina il suo volto è sufficiente per infondermi la forza necessaria e affrontare questa nuova sfida.
E il libro che avete tra le mani e che spero abbiate sfogliato con interesse, miei cari lettori, ne è il risultato. La pubblicazione del mio primo romanzo.
E’ vero. Ci sono stati giorni in cui sarei voluta morire. Attimi durante i quali ripensavo a tutto il male che abbiamo subito. Momenti in cui avrei dato tutto per di ricevere un abbraccio dai miei genitori.
Mi avevano portato via ogni cosa. Mi avevano portato via anche la luna.
Ma ora sono pronta per riprendermela.



Angolino dell'Autrice: Miei adorati, siamo giunti alla fine di questa avventura e come sempre io sono quasi in lacrime. Ma le mie, sono lacrime di gioia. E voi ne siete la fonte! Questo è stato il progetto più ambizioso che io mi sia mai decisa di perseguire e sono certa non lo avrei portato a termine senza il vostro sostegno. Voi siete stati la mia fonte di energia, il motore che mi ha permesso di procedere nella pubblicazione dei capitoli.
Ringrazio la mia fantastica amica Joy_10, la simpaticissima Queila dall'animo romano, la mia dolcissima CathCarey, Jennytestafralenuvole con i suoi commenti favolosi, la carissima Nadine_Rose e ovviamente TUTTI coloro che hanno seguito, letto e recensito.
Grazie di cuore, mi avete permesso di realizzare un piccolo sogno.
Con ciò io vi saluto miei compagni di viaggio! Vi mando un bacio, vi auguro buone feste e buon Natale, che il 2014 possa portarvi tanta felicità. Vi ringrazio ancora e...ci vediamo prestissimo con il primo capitolo del seguito della storia di Vera!!!


                                                                                                                                                                                                                  la vostra Clairy93

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