Poisoned Thorn

di OliverFlame
(/viewuser.php?uid=597377)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno, parte seconda. ***
Capitolo 3: *** Capitolo uno, parte terza. ***
Capitolo 4: *** Capitolo due ***
Capitolo 5: *** Capitolo due, parte due ***
Capitolo 6: *** Capitolo due, parte tre ***
Capitolo 7: *** Capitolo due, parte quarta ***
Capitolo 8: *** Capitolo tre ***
Capitolo 9: *** Capitolo tre, parte seconda ***
Capitolo 10: *** Capitolo tre, parte terza ***
Capitolo 11: *** Capitolo tre, parte quarta ***
Capitolo 12: *** Capitolo quattro ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Cercai di lavar via i residui di terriccio tra le mie unghie. Avevo aiutato Abbie a piantare un’intera fila di rose, nella serra del palazzo. Rose dai colori languidi. Abbie ne andava matta. Adorava il loro profumo, che volteggiava nell’aria, che accarezzava il naso con dolcezza. E io adoravo quando mi chiedeva di raggiungerla nella serra per piantarle. Quando le era concesso di coltivare fremeva dalla gioia, sembrava una bambina alla vista di un gelato.
Nonostante avessi sfregato ogni unghia con cura, partendo dal mignolo, il risultato era ancora scadente. Tracce di letame insistenti erano ancora depositate ai lati. Ma di tempo e voglia di tornare al lavello non ne avevo. Aprii l’armadio, presi un abito di seta morbida con colletto inamidato e merletti elaborati alle maniche e mi cambiai, riponendo nello stesso i vestiti sporchi che testimoniavano la mia breve avventura nella serra. Li avrei lavati in seguito.
La mia camera, cupa come al solito, era illuminata solo dalla luce fioca della candela posta su un comodino all’estremità del letto. Quella era anche la mia unica fonte di calore. Non che mi potessi lamentare di quella camera, ovvio. Avevo un bagno personale accessibile solo dalla mia camera da letto che comprendeva un letto, un armadio e due comodini. Il letto era in legno di cedro laccato in oro come l’armadio e uno dei comodini. L’altro comodino era l’unica cosa che non brillava nella stanza. Gli anni l’avevano completamente scolorito.
Tutta la stanza era in legno e forse era un bene che il fuoco crepitasse solo da una misera candela. Mi sedetti sul letto con un tonfo, il giardinaggio era un’attività davvero sfiancante. Aprii la finestra perché la stanza aveva odore di chiuso e perché io stavo ancora sudando. Rimasi a guardare le rifiniture in argento della finestra di sottecchi finché non mi chiamarono per la cena. Sinceramente non avevo molta voglia di mangiare, ero ancora sazio per il gran buffet che si era tenuto la sera prima. Ero stanco di tutto quel cibo e soprattutto delle risate a-tutto-fiato dei borghesi. Avrei preferito mille volte rimanere in camera mia a fare qualcosa di più costruttivo, come grattarmi la schiena o contare i cassetti dell’armadio all’infinito. O meglio avrei preferito rimanere in giardino con Abbie. Lì almeno avevo qualcuno con cui parlare che non avesse in mente solo la politica. Ad un tratto la porta si spalancò e un omone mi guardò torvo e mi prese per il braccio con forza.
Controvoglia venni portato sulle scale da Denver, il maggiordomo del piano superiore. Era un uomo brutale, nonché brutto, solo guardarlo faceva venire i brividi. Spalle larghe, fisico scolpito, alto quasi da sfiorare la porta della mia camera. Doveva far parte del corpo militare prima di essere trasferito qui, poiché nessuno aveva motivo di essere così pronto fisicamente, nella parte alta della capitale. Gli era stato ordinato di non farsi vedere, per non intimorire gli ospiti quella sera. Non avrebbero mai voluto che la loro festa fosse rovinata da un bestione di centoventi chili. Mi ordinò di scendere le scale e poi scomparì dietro un angolo, con un occhio sul corridoio e uno su di me. Ricambiai lo sguardo d’odio, nascosi le mani ancora leggermente sporche di terra nelle tasche e iniziai a scendere lungo le imponenti scale in legno di cedro che terminavano nel salone.
Tutto al piano inferiore era sfavillante. La stanza era illuminata da pannelli al neon posti sul soffitto a file da due. La luce bianca si diffondeva per tutta la stanza senza lasciare nulla nell’ombra. Dozzine di tavoli in cristallo erano allineati alle pareti, mentre un enorme tavolo circolare, sulla quale si adagiava una tovaglia realizzata in fiandra di lino bianca, era posizionato proprio al centro del salone. Pile di cibo era poggiato su di essi. I tavoli erano divisi in modo che ci fossero sezioni apposite: antipasti, primi, secondi, frutta e dolci. Come se non bastasse questa immensa distesa di piatti fumanti non terminava in salotto: i tavoli raggiungevano il giardino illuminato da lampioni alti quasi due metri che coprivano tutto il perimetro del giardino con la loro luce.
Non hanno badato a spese questa sera, pensai.
Dopo aver fatto un giro per le vie del giardino delimitate da siepi, rientrai in salotto e mi incamminai verso i tavoli con gli antipasti. Presi qualche involtino di salmone e tonno e poi una cialda fatta di patate. Non riuscii ad ingurgitare altro. Poi ritornai in giardino pieno come una botte. Mi sedetti sulla panchina il più lontano possibile della folla che aveva preso parte al buffet, salutando da lì persone che neanche conoscevo. Ci volle poco prima che una coppia a braccetto venne saltellando verso di me.
– Principe Charles è un piacere vederla, per la prima volta di persona.- disse la donna accennando un inchino.- Non credo lei mi conosca e nel caso mi presento. Sono la Contessa Clark dalla zona x. Questo, invece, è mio marito. – Odiavo essere chiamato in quel modo. Anche se ne avevo la carica essere chiamato principe mi faceva un certo effetto. Non mi sentivo così regale. Non ero così regale. E poi il mio nome completo era Adrian Charles Harvey. E preferivo di gran lunga essere chiamato Adrian. Cercai di nascondere la mia espressione contrariata e risposi porgendo la mano al giovane uomo accanto alla Contessa.
–  Il piacere è tutto mio. – Dissi, mentre l’uomo rispose alla stretta con decisione. Era alto più o meno quanto me e poco più esile. La moglie invece era una donna vissuta, con le rughe che le marcavano il viso. Mi rivolsero un sorriso lezioso e poi si allontanarono verso l’interno. Seguirono numerose presentazioni che si andarono ad aggiungere ai volti di cui non avrei mai più saputo nulla.
Dopo stancati scambi di convenevoli ebbi finalmente un po’ di tempo per me. Così a passo pesante, andai a cercare mia madre in salotto per chiederle se sarebbe stato possibile, per me, andar via subito. La notte era arrivata silenziosa e nonostante questo il palazzo pullulava ancora di persone. Mi feci spazio fra la folla, alzando lo sguardo per riuscire a individuare la capigliatura stravagante di mia madre. Notai una donna in un abito sfarzoso: le spalline erano puntellate da perle di un magnifico splendore diafano, il tessuto color prato, dei guanti in pizzo bianchi. Quello era l’abito che lei utilizzava per le occasioni speciali. Era praticamente dall’altro lato della sala e stava  facendo conversazione insieme a mio fratello Blake.
Blake.
Egoista. Narcisista. Manipolatore. Astuto. Affascinante. Aggettivi che lo descrivevano alla perfezione. Non che lo dicessi per cattiveria, anzi, lo invidiavo. Avrei voluto essere come lui perché avevo riscontrato, anche nei piccoli episodi quotidiani, di essere troppo buono. I suoi occhi di vetro erano taglienti, percepibili. Le labbra esangui racchiudevano il suo sorriso. Pallido da sembrare cagionevole. Tutte le donne cadevano ai suoi piedi. A volte anche gli uomini ne rimanevano ammaliati. C’era qualcosa in lui in grado di attirare l’attenzione e non sapevo il perché. Era un ragazzo normale, dopotutto. Ma anche io lo consideravo superiore. Ne ero consapevole: ero abituato ad essere continuamente surclassato da lui, ma avevamo un rapporto stabile. Eppure credevo di non conoscerlo bene come pensavo. Non aveva mai dato prova di questa sua superbia, ma era come se io sapessi già che, dentro di lui, essa c’era, eccome. E trovavo ridicolo che in sedici anni io conoscessi ancora alla perfezione mio fratello. Io gli volevo bene, ma era come se sentissi di non essere ricambiato.
Ero più restio ad avanzare verso mia madre e la presenza di Blake non era d’aiuto. Non volevo interromperli o entrare in una conversazione che non sarei riuscito a trattenere. Ero troppo stanco per poter anche solo salutare altre persone. Dall’ansia mi avvicinai ad uno dei tavoli, presi un bicchiere in cristallo e ci versai dentro un liquido dall’origine ignota. Un liquido rosa.
Qualunque cosa sia mi aiuterà a calmarmi, e buttai giù.
Lasciai il bicchiere sul tavolo successivo e poi raggiunsi mia madre facendomi spazio tra i nobili invadenti. Qualche spintone più in là le ero dietro e non feci in tempo a chiamarla che subito lei si voltò. 
– Adrian! Mi stavo proprio chiedendo dove ti fossi cacciato! Vieni qui ti presento delle persone – Era l’ultima cosa che volessi fare, ma mia madre mi prese per le spalle e mi spinse in avanti per stringere la mano a due figure – Loro sono il Duca e la Duchessa Khan, dalla zona x. – concluse mia madre. Strinsi le mani ad entrambi.
– Quale onore! Ho stretto la mano al principe Charles! – disse la donna sprizzante di gioia, come se fosse la cosa più entusiasmante che avesse fatto in tutta la sua vita.
– Scusate l’euforia di mia moglie. Reagisce così con chiunque – Il duca Khan, dalla carnagione scura, prese a parlare – Non che non sia un onore conoscerla, vostra altezza – E fece un sorriso di sincera ammirazione. Rimasi a fissarlo, perso nei miei pensieri. Cosa avevo fatto per meritarmi il titolo che tutti rispettano? I miei antenati erano stati dei grandi, mio padre era stato un ottimo re, io non avevo fatto nulla per loro, ma ero comunque visto come un uomo da rispettare.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo uno, parte seconda. ***


A riportarmi alla realtà fu Blake. 
– ‘Sera, Adrian Charles – lo guardai e gli feci un sorriso che non fu ricambiato – un po’ troppo tardi per unirti ai tuoi familiari, non trovi? 
La domanda mi aveva messo non in poco difficoltà. Avevo perso metà della serata stando seduto su una panchina in giardino, aveva ragione. 
– Suvvia, Blake, dopotutto adesso è qui, no? – mia madre rispose al posto mio. – Piuttosto, dovete sapere che i miei due angioletti hanno conseguito con perfetti risultati gli ultimi test sulla politica ambientale, sono così fiera di loro!
– Non avevo dubbi sul fatto che avessero potenziale, milady. – Rispose il duca.
– Vorrei precisare che con perfetti si fa riferimento a qualcosa privo di errori. E in tal caso staremmo parlando solo del mio test. Charles ha avuto parecchie difficoltà sulle domande sull’utilizzo di materiale biodegradabile, il che non è affatto una cosa da lodare. – Rimasi nuovamente senza dire niente, cercando di non guardare nessuno negli occhi. Ogni parola pronunciata da Blake era come una martellata al petto. 
– Davvero ha ottenuto il massimo principe Blake? La prego, mi racconti un po’ del test, sono curioso! – Il duca prese a guardarlo come se ne fosse estasiato, ascoltando ogni minimo particolare che Blake aveva da dirgli. 
Mia madre, intanto, mi portò con sé in un angolo più appartato della casa, con poca gente. 
– Mamma, vorrei avere il permesso di tornare in camera, non mi sento troppo bene. 
– È per quello che ha detto Blake? Tesoro, lo sai come è fatto e poi non aveva tutti i torti… 
– No, semplicemente, sono stanco, posso?  
– Non puoi adesso. Fra poco annunceranno gli eredi al trono. Pazienta fino ad allora, poi potrai anche andare. 
Non cercai di oppormi. Sbuffai leggermente, almeno mi era concesso sparire una volta annunciati i nomi. Non che ci sia nulla che io non sapessi già. Saremo io, Blake e Lester gli eredi. Non c’erano probabilità che io vincessi e il trono sarebbe stato assegnato a Blake, almeno questo era quello che tutti, amici e parenti, continuavano a ripetermi. A pensarci, Lester non si era ancora fatto vivo.
Aspettai con ansia l’arrivo di questo annunciatore seduto ad una sedia vicino al tavolo delle bevande calde. Da che parte sarebbe arrivato? Perché non si faceva ancora vivo? Erano quasi le due di notte e io avevo urgente bisogno di dormire, oltre perché quello strano liquido rosa stava iniziando a fare un brutto effetto. Iniziai allora a guardarmi intorno. Alle pareti i soliti affreschi erano stati ridefiniti e addirittura ripitturati, con colori che davano sul giallo oro. Le crepe sulle colonne che reggevano il piano superiore erano state riparate. Mi accorsi di una statua sul tavolo circolare che avrei giurato non aver mai visto. Era la statua di un angelo con un’ala caduta che con le mani reggeva una conca. I suoi occhi lacrimavano un liquido rosso che andava a depositarsi nella conca. Avrei giurato fosse sangue se non avessi visto le persone prenderne da bere. 
Vino, conclusi. Anche se c’era la possibilità che quelle persone stessero davvero assaporando del sangue. 
Quando la testa ormai iniziò a scoppiarmi, finalmente l’annunciatore degli eredi al trono arrivò. Sulla cima delle scale era stato allestito un palco, con una semplice postazione dotata di microfono. L’annunciatore, un uomo sulla cinquantina, basso, calvo e dall’aria sciatta era già in posizione su di essa. Aspettava che tutti si accorgessero di lui prima di iniziare a parlare. Le risate dei borghesi a poco a poco si affievolirono, lasciando solo il silenzio alla fine. Tutti si erano ammutoliti e fissavano l’annunciatore quasi a implorarlo di iniziare. Poi l’uomo si chiarì la voce e con disinvoltura avvicinò la bocca al microfono. 
– Siamo qui, a Palazzo Harvey, per una semplice ragione. Oggi saranno annunciati i nomi di chi prenderà la corona del regno di Forhan e con essa, si prenderà cura dei suoi sudditi. – Il pubblico strepitava, e suoni strozzati si facevano spazio tra il silenzio e le espressioni di stupore, mentre qualcuno applaudiva dall’eccitazione. – Come sapete il nostro re attualmente è in gravi condizioni. I dottori stanno facendo il possibile, ma l’ “homicidium rosae” sta per raggiungere i polmoni. – Anche la più piccola vibrazione si fermò. Si sentiva solo qualcuno piangere in lontananza. L’ “homicidium rosae” era una malattia mortale che veniva riscontrata nei soggetti  che non fossero nel pieno possesso delle facoltà mentali. Quando il cervello cedeva completamente alla pazzia, i nervi cominciavano a dilaniare i tessuti e ad aggrovigliarli come in una stretta. Causava numerose emorragie interne e perdita della sensibilità. Partiva dallo stomaco, poi saliva fino a prendere nella sua morsa cuore o polmoni. Veniva chiamata “homicidium rosae” poiché veniva diagnosticata nella stagione in cui gli omonimi fiori, le rose, sbocciavano. Di solito la morte era istantanea. Ma essendo mio padre era l’uomo più ricco e importante di tutta la regione riuscì a resistere per mesi sotto la veglia dei dottori specializzati che tagliavano i nervi quando necessario, facendo perdere l’uso della parte interessata a mio padre, ma salvandone gli organi. Mio padre aveva sempre fatto uso di calmanti e antidolorifici poiché il suo cervello era come una macchina spenta, che si accendeva a tutta forza nei momenti meno opportuni. Ormai le gambe e il braccio sinistro erano fuori uso. Il pancreas e il fegato non lavoravano come avrebbero dovuto. La morte era accanto a lui e lo teneva per mano. Vidi sul viso di mia madre delle lacrime. Lacrime d’amore, lacrime di disperazione. L’annunciatore riprese il suo discorso. 
– Allora, è ora di annunciare gli eredi. Quando sentirete il vostro nome dovrete salire la scalinata e venire accanto a me. – Prese dalla tasca della giacca un foglio di carta giallastro e lo pose sul ripiano della sua postazione, lesse. – I candidati a prendere il potere della nazione sono: Lester Cook, che purtroppo non è potuto essere qui con noi oggi, – I suoi sostenitori batterono le mani. – Adrian Charles Harvey, – Presi un bel respiro e poi mi feci spazio tra la folla, barcollando. La testa mi faceva sempre più male, tanto che non percepivo più odore o suono. Salii la scalinata a grandi passi e mi posizionai accanto all’annunciatore. – Blake Harvey – Sentii l’eccitazione del pubblico a quel nome. Mentre passava tra il pubblico le ragazze cercavano di toccarlo. Salì la scalinata e poi si girò verso le persone che lo acclamavano in coro sorridendo malignamente, ma nessuno sembrò accorgersene. 
…Avevano applaudito per me?  La poltiglia rosa aveva indurito i miei sensi, ma qualcuno l’aveva fatto? Di sicuro sì, sarebbe stato troppo scortese non farlo. Ma spinti da cosa? Dalla pietà? O lo facevano perché mi volevano davvero come re? Negli applausi rivolti a Blake era possibile tastare la sincerità. A chi di loro non sarebbe piaciuto essere governato da lui? Non c’era anima viva che non stesse applaudendo. 
Era già pronto a sparire e tornare in camera mia, quando l’annunciatore riprese a parlare. 
–…E Theodore Mitchell. – Guardai l’annunciatore con aria confusa, come il resto del pubblico. Chi era? Era la prima volta che sentivo quel nome, anche se ero aggiornato costantemente da mia madre. Un ragazzo tra il pubblico alzò la mano come per dire “Presente!” e iniziò ad avvicinarsi. Salì la scalinata senza far rumore e si mise tra me e Blake. Quelli che pensai fossero i suoi genitori applaudivano, noncuranti del pubblico disorientato. Da vicino potevo osservarlo meglio: era alto quanto Blake e forse aveva la mia stessa età. Gli occhi color acqua illuminavano il viso pallido. L’annunciatore prese il foglietto e lo ripose in tasca, piegandolo per bene, poi, prima di dileguarsi, pronunciò un’ultima frase.
– Raccomando tutti, soprattutto i qui presenti eredi al trono, di esserci, domani, alla roccaforte dei Cook per l’annunciazione del programma di elezione.  – 
Altro cibo, pensai, tastandomi lo stomaco che chiedeva pietà. 
Finalmente qualcuno iniziò a pensare che fosse ora di andare e nel giro di qualche minuto l’enorme salone si svuotò. Nostra madre venne a congratularsi con noi e poi ci congedò con un bacio. Ormai quel dannato liquido rosa aveva raggiunto la gola e allora, una volta raggiunta la camera, mi precipitai subito in bagno per vomitare. Stetti una bella mezz’ora chino sul water. Subito dopo non mi spogliai, bensì mi misi sotto le coperte con ancora addosso il vestito da cerimonia. Ormai era l’alba, ma sapevo benissimo che, se non avessi dormito anche solo per un’ora, sarei crollato durante la festa successiva. Scacciai i pensieri del viso nuovo di Theodor e del successo di Blake e mi addormentai.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo uno, parte terza. ***


Un’altra notte senza sogni. Era inquietante il fatto che i miei sogni fossero popolati dal bianco. Solo bianco. Mi tolsi l’abito da sera e mi misi una camicia e dei pantaloni in poliestere. Sembravo stare meglio rispetto all’altra sera, non sentivo più il bisogno di rimettere. Indolenzito mi incamminai in salone, dove i numerosi tavoli erano già stati sgombrati e ne era rimasto solo uno al posto di quello circolare dove Blake e mia madre stavano facendo colazione. Mi sedetti senza salutarli, facendo solo un cenno del capo al loro “Buongiorno”. Sul tavolo mi aspettavano una tazza di thè fumante e due croissant ripieni. Iniziai a sorseggiare il thè mentre mia madre dava consigli a Blake su come comportarsi durante il ricevimento che si sarebbe tenuto quel giorno. Gli diceva di come bastasse un sorriso per ottenere l’apprezzamento del pubblico. Era per questo che lui era sempre al centro dell’attenzione? Io per quanto mi sforzassi non riuscivo a sorridere guardando i loro visi. Lui era un attore migliore di me.
La serata si sarebbe svolta in questo modo: l’annunciatore avrebbe comunicato il programma d’elezione, avremmo fatto festa, saremmo tornati a palazzo. Era stato strutturato molto meglio dell’altra sera. Almeno non avremmo dovuto aspettare la notte per sentire l’annunciatore e così progettai di andarmene una volta finita la comunicazione. I nostri camerieri, vestiti in uno smoking rosso, presero i piatti una volta finito. Mi alzai da tavola silenzioso come ero arrivato e ritornai in camera per cambiarmi nuovamente. Mi ero dimenticato di lavare gli abiti che usavo per il giardinaggio: poco male, me li infilai nuovamente e sgattaiolai accertandomi che Blake e mia madre fossero ancora impegnati a chiacchierare nel salone. Presi uno dei tanti corridoi che portavano in giardino cercando di non farmi vedere da Denver che molto probabilmente quel giorno era impegnato con le pulizie di casa. Era esilarante pensare ad un uomo di quella statura con un grembiule e una scopa alla mano. Il soffitto del corridoio che si affacciava all’esterno, era in vetro, trasparente, e chiunque avrebbe potuto vedermi, ma avevo fatto un patto con ogni maggiordomo incaricato di tener d’occhio il giardino. Loro non mi vedevano, io non vedevo che loro non lavoravano. Alla fine del corridoio c’era una porta che dava sulla serra del palazzo, la più curata di Forhan. La serra era delimitata da un enorme cupola circolare completamente in vetro, con pannelli solari sul tetto e irrigatori di ultima generazione tutt’intorno. Le piante erano divise in dodici file da trenta, quaranta specie diverse. Nonostante la numerosa quantità di fiori, era praticamente impossibile vedere un solo insetto nell’intera serra. Questo perché nell’aria era presente un enzima, per niente dannoso alla salute umana, che uccideva all’istante un qualsiasi tipo di insetto. Era emanato nell’aria da pompe posizionate all’ingresso delle serra. L’utilità di una serra quando si ha un giardino grande quanto una casa media? Nessuna. Ma i miei genitori la trovavano indispensabile. 
Mi aggiravo tra le piantagioni di ambrosia e rosmarino alle ricerca dell’unico viso conosciuto in quell’immensa varietà di piante. Donne dalla divisa identica piantavano semi dappertutto, sembravano quasi robot, avevano movimenti meccanici. Cercai a lungo e alla fine la trovai, lei era ancora lì a piantare rose. Il suo profumo si mischiava con quello dei medesimi fiori. Un odore rassicurante. 
– Hai bisogno di una mano? – I suoi occhi incrociarono i miei per scrutarmi. Poi capì che ero io e rise. Risi insieme a lei guardandola nelle iridi rosse, come la rosa che stava piantando. – Certo, principe Adrian, mi aiuti. – Disse con ironia. Mi chinai per aiutarla a scavare la buca nel terreno che avrebbe ospitato la rosa. Sapeva benissimo che mi dava fastidio essere chiamato principe. E lei era l’unica persona a cui dessi il permesso di usare quel termine. 
Continuai ad aiutarla nel suo lavoro, come sempre avevo fatto. Non parlavamo molto, avevo paura di disturbarla mentre faceva ciò a cui teneva di più al mondo. Ad un tratto la voce di Abbie smorzò il silenzio. 
– Come è andata? – La guardai con aria confusa. – Ieri, al ricevimento.  
– Ah…Diciamo che non sono il loro preferito. – sbuffai scrollando le spalle. 
– Blake le ha di nuovo rubato la scena, sire? – La spinsi dolcemente via, mentre lei rideva. 
– Non che mi dispiaccia…l’idea di dover guidare un regno non mi attira. 
– Come mai? Insomma…Avresti fama e ricchezza. È qualcosa che spetta a pochi, tutto questo. Oltre che la possibilità di guidare un popolo. 
Non avevo risposta a questa domanda, così rimasi a riflettere. Volevo utilizzare le parole giuste, per giustificare una cosa così importante, ma non ne trovavo. Guardavo Abbie mentre cercava nei miei occhi una riposta. 
– Puoi anche non rispondere, era solo una curiosità. Piuttosto, continua a piantare. – E mi sorrise, ma non uno di quei sorrisi inanimati, dove bisogna mostrare i denti per convenzione, ma un sorriso che sembrava un vero e proprio faro. Un punto di riferimento e di appoggio. Ma comunque avrei voluto rispondere alla sua domanda, e avevo trovato le parole adatte. 
– Senti…io ho paura di poter deludere le persone. Chi dice che sia un bravo capo? Mi faccio mettere i piedi in testa da chiunque e non trovo che il mio posto sia questo, e lo sai bene.– Però le parole che avevo scelto con cura non sembrarono avere l’effetto desiderato, l’espressione di Abbie divenne d’un tratto nulla, piatta.
– Ci sei mai stato, là fuori? – Si punse con una spina della rosa che stava piantando e poi portò il dito alla bocca per leccare via il sangue che sgorgava dalla trascurabile ferita. 
– No, mai. – Risposi e presi un fazzoletto dalla tasca e glielo porsi. Lei lo accettò e lo legò al dito. 
– Io ci ho vissuto. Per ben sette anni prima di essere trasferita qui a palazzo. E sai cosa ho visto? – Feci cenno di no con la testa. – Squilibrio. O eri ricco, oppure morivi di fame. E la situazione, a quanto ne so, non è ancora cambiata. Ricordo che mio padre faceva di tutto per mantenere l’erboristeria, lo ricordo lavorare il doppio per assicurarci un tetto sulla testa. Gente che reclamava la libertà di parola mettendo a repentaglio la propria, di libertà. Ma a tutte quelle persone l’unica cosa concessa era la morte. – Nei suoi occhi sembrava essersi spento un fuoco.
– Non me lo avevi mai detto. 
– Perché non lo ritenevo necessario. Credevo che fossi messo a corrente dei tentativi di rivolta inutili. 
– Mai stato messo al corrente. 
– Allora, adesso che lo sai, dovresti rispondermi diversamente dall’ “avere paura”. Serva qualcuno buono come te adesso. La situazione è più grave di quanto credi e forse non te ne accorgi, ma- 
La interruppi, ero infuriato: – Mio padre non può aver lasciato che la popolazione potesse vivere in condizioni del genere. È adorato da tutti per un motivo.  
– Hai mai sentito una persona di rango più basso parlare bene di lui? – Abbie aveva alzato la voce, cosa che non aveva mai fatto prima. Mi immobilizzai. – Hai mai visto una persona povera, prima d’ora? Non sono neanche accettate alla capitale, se non sono schiave come me! Ti sembra degno di un sovrano di tutto rispetto? 
– Abbassa la voce, se solo ti sentissero verresti uccisa per aver infangato il nome di mio padre e della mia dinastia. 
– Io voglio solo farti capire che c’è bisogno di qualcuno come te. 
– Qualcuno come me: un codardo? Io non credo. Una volta che Blake sarà andato al comando i fantomatici errori di mio padre saranno risanati. 
– Blake è identico a suo padre! Il paese ha bisogno di riforme e di un nuovo condottiero! 
– Che non sarò io!
– Ma non hai neanche provato ad esserlo. 
– Invece ci sto provando, altrimenti non avrei neanche partecipato alla stupida commedia che è il programma d’elezione. – Piantai l’ultima rosa di quella giornata e non le lasciai il tempo di controbattere. Mi alzai, non la guardai negli occhi e non la salutai. Prima che potessi uscire dalla serra Abbie sussurrò qualcosa sul fatto che al potere dovrebbe esserci qualcuno che pensi meno a se stesso. 
Possibile che mio padre abbia permesso che succedesse questo?  

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo due ***


Ero nervoso per le parole di Abbie che riecheggiavano ancora nella mia mente. Raggiunsi la mia camera a passi pesanti, ignorando qualsiasi suono arrivasse alle mie orecchie e qualsiasi cosa mi stesse guardando. Appena aperta la porta in legno, mi trovai davanti a due donne dai capelli argentei che sembravano mi stessero aspettando da ore. Me ne ero quasi dimenticato: la festa a palazzo Cook. E quelle sedute sul mio letto dovevano essere le mie sarte. Senza pronunciare una parola la donna a sinistra mi prese per i fianchi e iniziò a misurarmi la vita mentre la donna a destra le passava spilli con la quale fissava al petto una fascia di tessuto bianco. L’altra guardava il lavoro della prima, e poi, con un pennarello, iniziò a segnare con delle linee il tessuto. Non parlavano tra di loro, si lanciavano semplicemente sguardi, come se potessero capirsi in quel modo. Finirono con il tessuto bianco e da una cassa che avevano dovuto aver portato con loro, uscirono altri pezzi di seta. Passarono tre ore tra misurazioni, tessuti e movimenti meccanici, mentre entrambe sbuffavano perché evidentemente annoiate. Il risultato finale era un tripudio di tessuto sconnesso che era pronto per essere cucito e adornato. Neanche il tempo di riprendere fiato, le due mi ordinarono di lavarmi poiché l’odore di letame e di insetticida le infastidiva. Mi tolsi i vestiti, gustandomi le loro facce imbarazzate, e li portai con me in bagno per lavarli. Non so quanto tempo rimasi dentro la vasca, con sguardo perso, pensando alla conversazione con Abbie. Non avevo, almeno da quello che ricordo io, mai litigato con lei. E non sapevo neanche se definirlo un litigio, io mi ero arrabbiato. Non sapevo che Abbie provasse questo nei confronti del nostro modo di governare. “Nostro”…loro modo di governare. Forse poteva essere definito come uno sfogo dell’odio che una serva prova nei confronti del sovrano. Sì, doveva essere così. Dopotutto la nostra famiglia aveva poteri illimitati su di lei, era normale che ci odiasse. Quindi avrebbe dovuto odiare anche me. Ma non era così, speravo, non mi avrebbe mai consentito di avvicinarla, a meno che la paura non le avesse… Smisi di pensare, diedi spazio ai ricordi che riaffioravano. Mi ricordavo ancora il giorno in cui venne portata al palazzo. Non ricordo il perché o il come, so solo che un giorno era lì, in casa mia, osservando la serra tra una spazzata e l’altra nonostante la scopa fosse più alta di lei di venti centimetri. Dovevo avere poco più di otto anni e lei più piccola di me di un anno circa, anche se era poco più alta. Cantava una filastrocca al vuoto, con il sorriso stampato sulle labbra, che faceva più o meno così: “Oh, dolce fior di giglio Il sol cerca di scaldarti amor Oh, per il mondo sei un appiglio Eppure la tristezza popola il tuo cuor L’albero che del mondo è la vita Sradicato, seccato, per colpa di chi non si sa tesor Per quell’albero, tu non vuoi sia finita Eppure la tristezza popola il tuo cuor E adesso anche tu, mio fiore Appassito, e mai rinvigorito Aspettando invano un salvatore Immortale, ma per sempre ferito” E, una volta finita di recitarla tutta, riprendeva, come una vecchia radio difettosa. E questo succedeva ogni giorno, dopo l’ora di pranzo e ogni giorno andavo lì ad ascoltarla. Be’, finché un giorno non la vidi più. Non era lì alla solita ora, non era lì neanche l’ora dopo e l’ora dopo ancora. Passarono settimane e avevo iniziato a credere che non l’avrei più rivista. Ma mi sbagliavo, perché quel giorno era di nuovo a fissare le porte chiuse della serra, in silenzio, senza l’assurda filastrocca che ormai anche io avevo imparato a memoria. E poi successe… Bussarono alla porta. Una, due, tre volte. – Vostra altezza, sta bene? – Era una delle due donne, sembrava abbastanza preoccupata, chissà per quanto tempo ero stato lì. – V-vostra altezza? – Sì, mi dia un minuto – Ha bisogno d’aiuto? – Disse con un tocco di malizia nella voce. – Ehm…n-no… – Avevo appena ricevuto della avance da una cinquantenne. Sarei rimasto traumatizzato a vita. La signora non rispose, per fortuna, e andò via. Uscii dalla vasca e feci sgorgare l’acqua all’interno. Mi legai un asciugamano all’altezza del bacino ed entrai in stanza. Con mia grande sorpresa vidi il vestito già pronto ad un angolo del letto. Non sapevo se fossi stato io troppo a lungo in bagno o loro a finire troppo in fretta. Lo infiali: era perfettamente aderente alla pelle, lasciava una sensazione di libertà unica. Accarezzai i guanti in pelle con lo stemma del nostro castello ricamato sopra. Si trattava di una lancia in un triangolo costituito da spine di rose. La sua origine è antichissima. Da quanto diceva mia madre risaliva a centinaio di anni fa, il giorno in cui il regno, che allora veniva chiamato Nareth, divenne una monarchia. Tredici uomini presero il potere. Uno di loro sarebbe diventato re e avrebbe garantito la l’ordine pubblico, gli altri dodici sarebbero diventati “Consiglieri” e avrebbero assicurato il buon funzionamento dello Stato, nonché avrebbero controllato e limitato il potere del re. Il primo a salire al potere come re fu Garent Harvey. I primi dodici decisero di costruire la loro sede al di sotto di una montagna alla cima dell’anello che racchiudeva il regno per evitare che venisse trovata da popoli nemici, di cui ancora non si conosce l’esistenza. Mentre Garent decise di costruire un castello, al centro del territorio che controllava, e di reclamare il pezzo di terra delimitato dalle montagne Rafhald come suo reame, sotto il nome di “Regno di Forhan”. Certo il palazzo aveva subito numerose riparazioni e ricostruzioni, ma la struttura principale restava la stessa. La pianta esagonale non aveva subito ritocchi, la pietra con cui era stato eretto tutto il castello teneva ancora, nonostante le numerose crepe. Le torri erano la parte più ritoccata. Furono completamente rase al suolo e ricostruite secondo un nuovo canone. Dalla fine dei lavori il castello aveva perso bellezza. C’era un contrasto troppo netto tra vecchio e nuovo. Anche se questo non valeva solo per il castello. Nell’antichità si era giunti alla repubblica, cioè ad un accordo col popolo. Perché mantenere quel metodo governativo così antiquato e ingiusto?

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo due, parte due ***


Mi infilai gli stivali in gomma che erano stati scelti probabilmente dalla scorta reale e che erano appoggiati allo stipite della porta, e infine, poiché mancava ancora un’ora alla partenza, mi concessi un po’ di riposo. Decisi, quindi, di passare dalla biblioteca per ingannare il tempo leggendo. Ero un appassionato di lettura, nonostante il programma reale non lasciava spazio alle attività creative. Solo ora, in tempo di elezioni, io e Blake, avevamo un periodo di tregua, poiché tutte le attività erano sospese. Fare il principe non era affatto semplice: Dovevi studiare storia dell’economia e della giustizia; dovevi saper prevenire dei colpi di stato e saper combattere egregiamente per guidare il popolo in guerra. Io ero bravo con la spada, ma Blake sapeva usare spada, ascia, arco e lancia perfettamente. Mi avviai per i corridoi lunghissimi del castello schernendo Denver, che era impegnato a lucidare le ringhiere in marmo delle scale. Vedere un uomo così imponente fare lavori domestici era esilarante. Svoltai l’angolo pieno d’arazzi che circondavano i ritratti dei miei antenati e mi ritrovai difronte all’immenso portone in ottone laccato argento della libreria. Accarezzai le maniglie in alluminio dorate con la punta delle dita e poi le afferrai in un pugno. Tirai al massimo delle mie forze e aprii la porta che fischiò al contatto con il pavimento. L’olezzo di carta stampata mi pervase le narici. Questa stanza dev’essere così trascurata da essere nuova. L’unica pecca era la quantità industriale di polvere. Chiusi la porta dietro di me che fischiò nuovamente e iniziai a svolazzare tra i libri in cerca di qualcosa di decente. I buoni tre quarti parlavano di politica, di potere e di monarchia: “L’arte di essere sovrano”, “Diventare ottimi uomini politici di Robert Greff”, “Come gestire un regno-per principianti” . E la libreria era molto estesa: i mobili arrivavano al soffitto ed erano popolati di libri che mai nessuno aveva letto, c’erano scale per raggiungere i libri più in alto e poltrone per leggere. Però non c’era nessuna cura della disposizione dei libri, nessuno scaffale con una categoria addetta. Finalmente trovai qualcosa di più soft, “un classico della letteratura di Forhan” diceva la copertina. Scelsi una poltrona infeltrita vicino alla finestra e mi ci sedetti. Inizia a leggere. Il libro meno longevo della storia, ci misi dieci minuti per finirlo. Succedevano un’accozzaglia di cose in un’unica pagina per un totale di venti pagine di eventi inutili. Volevo capire se ci fossero libri di quel genere per costringerti a leggere quelli sulla politica. Era probabile, a quanto viscidi erano le persone del castello. E io ero ridicolo, poiché facevo parte dello stesso castello che stavo insultando. Gettai il libro su uno scaffale e non feci in tempo a sceglierne un altro che Denver venne a prendermi di forza dalla libreria. Praticamente mi trascinò in salotto. Mia madre era alla soglia della porta tutta in ghingheri ad aspettarmi. Il vestito bianco illuminava la sala più dei pannelli al neon. I capelli, raccolti in uno chignon da una spilla con la gamma di colori tipica del nostro palazzo, erano stati schiariti fino a diventare bianchi come il vestito. Era nota per le sue acconciature e per il suo abbigliamento d’altri tempi, dopotutto. Spolverò delle rifiniture argento sull’ampia gonna e poi mi accolse con un largo e goffo sorriso mettendo in mostra i segni dell’età. Poco dopo scese le scale anche Blake che era vestito completamente in nero che richiamava il colore dei suoi capelli. Se non fosse stato per il viso pallidissimo l’avrei scambiato per un’ombra. Seguimmo mia madre nel cortile d’ingresso dove due maggiordomi aprirono l’enorme cancello nero pece con lo stemma degli Harvey inciso sopra. Entrammo nel Borch che era stato addobbato per l’occasione. I Borch erano imponenti autovetture computerizzate che possedevano una forma ellittica. Erano fabbricati in metallo, ma il nostro, per ovvi motivi, era in platino con il solito stemma sulla cupola in cristallo che dava importanza al tutto. L’interno era in pelle nella maggior parte di casi. Era l’unico modo “economico” per spostarsi qui a Forhan. Poi per i più poveri che non potevano permetterselo era consentita una bicicletta. O più comunamente si camminava. All’interno il Borch era costituito da quattro postazioni comunicanti con i sedili in pelle. Era come sprofondare in una pasta gommosa e a volte anche appiccicosa. Senza preavviso il Borch iniziò a fluttuare per poi cadere a terra facendomi barcollare e infine partì sfrecciando sull’asfalto. Mia madre iniziò a parlare di come ricordasse il programma d’elezione sostenuto da mio padre. Si trattava sempre di un ballo, inutile ai fini della nomina, e di un discorso al fronte dei dodici consiglieri del regno. E io e i discorsi non andavamo a braccetto. In realtà avevo paura anche per il ballo, perché be’…non mi sarebbe stato facile trovare un’accompagnatrice come lo sarebbe stato a Blake. E mi chiedevo se Abbie potesse parteciparci, anche dopo quel battibecco, non mi sarebbe affatto dispiaciuto se…insomma avesse partecipato con me. Ma poi pensai alle facce dei borghesi, una volta scoperto che l’accompagnatrice del principe era la sua serva, per giunta ad un ballo di quella portata. Per il resto del viaggio ignorai Blake e mia madre mentre chiacchieravano gaiamente sul come comportarsi alla festa e mi concentrai sul paesaggio che si mostrava ai miei occhi in modo contorto, per via della velocità elevata. La foresta di betulle alla mia destra, le città dai tetti sgargianti alla mia sinistra. Gli alberi si inclinavano al punto da toccare il terreno, oppure si riusciva a scorgere solo qualche tocco di verde attraverso la cupola tersa. Stavamo percorrendo il confine della capitale per raggiungere il colle dove il castello dei Cook era situato. La regione aveva una fisionoma un po’ anomala. Oltre ad essere recintata da una catena montuosa (non del tutto, quest’anello veniva spezzato dal fiume Grunix e dalle sue valli a Sud), al centro presentava una protuberanza che fu il fulcro del suo sviluppo. La ragione di questa scelta era semplice: in caso di inondazione, anche se le piene del Grunix erano controllate maniacalmente, c’era una possibilità di salvezza, più in cima. Il mio sguardo, poi, cadde sul porta-bevande vicino alla mia postazione. Era adornato da numerosi zaffiri che lo perimetravano. All’interno c’era una bottiglia di vino dal colore rossastro e del ghiaccio a mantenerlo freddo. Forse costava più del mio abito da sera e non me ne sarei meravigliato. Dovevamo essere abituati ai Borch, lo usavamo anche per distanze brevi, dopotutto, ma personalmente mi terrorizzava il fatto che non ci fosse nessuno a guidarlo e io non ero per niente a mio agio all’interno. Oltre al fatto che ero un tipo a cui piaceva camminare molto, eravamo nelle mani di una macchina senza vita e senza pensiero, anche se, a dir la verità, la maggior parte delle invenzioni dell’uomo erano più intelligenti dell’uomo stesso. Oltre che un affare del genere sarebbe potuto essere facile da manomettere. E mi chiesi come potesse sapere sempre la nostra destinazione, forse veniva preimpostato o chissà che cosa. Nelle librerie non c’era un singolo libro che parlasse dei Borch, avevo controllato a lungo, ma non avevo trovato niente. L’unica cosa che sapevo è che era stata l’invenzione che aveva dato il via al periodo chiamato “Innovazione tecnica”. Poi il platino non era davvero un ottimo materiale da costruzione, in quanto molto duttile e cline a deformazioni. Ma “non si rinuncia mai allo stile!” come avrebbe detto mia madre. Svariati minuti dopo, finalmente si riusciva a scorgere in lontananza il solenne castello di pietra in cima alla collina. Le imponenti torri, illuminate da luce artificiale, salutavano al nostro passaggio mentre il cielo si oscurava fondendo il rosa del tramonto al blu acceso della notte in un valzer di colori sublime. Ne rimasi ammaliato. E più ci si avvicinava più il paesaggio diventava suggestivo. Il Borch si fermò di fronte ai portoni d’ingresso, aperti per l’occasione, come già pronti ad accoglierci. Inoltre la loro laccatura dorata, che non era presente l’inverno prima, l’ultima volta che ci ero stato, rendeva l’esterno più luminoso, riuscendo a ravvivare il cortile un po’ spoglio e privo di piante. Notai mia madre soffocare il suo astio, che riusciva però a nascondere bene. In effetti anche io ero invidioso, l’entrata era sicuramente più spettacolare della nostra. Le portiere del Borch si aprirono, quasi ad invitarci a scendere. Scesi per primo e andai ad aiutare mia madre a scendere, ma Blake mi aveva preceduto e la stava già conducendo all’interno del castello. Una volta che fummo tutti fuori, la macchina si librò in aria per poi cadere sul terreno e andarsene, ripercorrendo il percorso d’arrivo, scomparendo dopo pochi secondi all’orizzonte. Mia madre si fermò davanti all’enorme portone e mi invitò a prenderla per mano così come stava facendo Blake dall’altro lato. Usavamo sempre quella specie di formazione per le feste ufficiali da quando nostro padre non fu più in grado di accompagnarla

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo due, parte tre ***


Ci incamminammo all’unisono verso l’interno della sala, snobbando, o almeno mia madre lo faceva, i camerieri che ci davano il benvenuto. Il salone era pieno di gente che ballava, chiacchierava o che addirittura cantava. Tutti erano impegnati in qualche modo, purché si festeggiasse. O almeno lo erano fin quando non videro mia madre entrare in nostra compagnia. Allora tutti gli occhi si puntarono su di noi come dei riflettori. Dei riflettori che proiettavano luce d’ammirazione. Mi sentivo come messo a nudo, nudo davanti a degli sconosciuti. Mi si annodò la gola dall’imbarazzo, anche se non ero io soggetto dei loro sguardi. Loro osservavano con attenzione la loro Regina e il futuro re, che non ero io e lo sapevano. Poi si inchinarono, davanti a noi in segno di riconoscenza verso di noi e le nostre azioni. Guardando le loro gesta non facevo altro che pensare a ciò che mi aveva detto Abbie. Lasciammo la mano a nostra madre che subito incrociò le braccia. Dall’alveare di persone una donna avanzò verso di noi. – È un onore averla qui, Vostra altezza. – La donna fece una riverenza alzandosi con le dita il vestito color panna che le marcava le forme sinuose. – Bellissima come sempre, Contessa. E il suo palazzo è incantevole questa sera. – Disse mia madre, con un filo quasi impercettibile di ironia. – Tornate pure ai vostri svaghi. – Disse muovendo energeticamente la mano. E lentamente tutti ritornarono alle loro distrazioni. Blake si inoltrò nella folla di persone, mentre mia madre veniva elogiata all’ingresso del castello. Io ne approfittai per osservare il salone che ci accoglieva. Alle pareti affrescate, numerosi quadri e arazzi raffiguranti soprattutto uomini che alzavano la spada al cielo in segno di vittoria. Essendo meno capiente del nostro e non avendo un giardino troppo curato, il ricevimento era costretto a tenersi anche nella parte superiore del castello. Il pavimento in pietra in qualche punto era instabile. Ricchi com’erano non potevano permettersi di aggiustarlo? Al centro del salone un candelabro in cristallo illuminava la stanza lasciando gli angoli quasi del tutto al buio. Due statue di marmo accanto all’ingresso lo indicavano, forse perché si voleva attirare l’attenzione su di esso, punto di forza del salone disadorno. Avanzai verso le scale che davano un tocco di colore alla sala. Posai la mano sulla ringhiera lignea che presentava un motivo geometrico sagomato in oro. Il piano superiore era meno affollato, nonostante fosse adornato bellamente. I tavoli erano intarsiati e di color panna, come il vestito della padrona di casa. Su di essi pietanze dall’odore invitante erano pronte a essere gustate. Anche se solo guardarle mi faceva venire la nausea, ero ancora pieno dal giorno prima e dal giorno prima ancora. Mi costrinsi a prendere del roast-beef dal sapore, dovevo dire, ottimo. Una salsa di mirtilli lo accompagnava rendendo la carne leggermente dolce. E sembrava che la stessa salsa accompagnasse anche l’agnello, il coniglio e il tacchino. Assaggiai anche l’insalata che gli faceva da contorno: quasi la rigettai nel piatto, tanto era amara. Riposi sul tavolo il piatto contenente ancora mezzo roast-beef e dell’insalata insalivata e mi allontanai come se non fossi mai stato lì. L’importante era che mi avessero visto mangiare. Nuovamente venni assalito da donne e uomini di corte. Una donna tra tutte, particolarmente leziosa, mi aveva colpito. Indossava uno strano cappello dai motivi floreali con cui nascondeva i capelli e un abito corto fino alle ginocchia color zaffiro con le omonime pietre unite a costruire un centurino. Era accompagnata da un uomo tarchiato e rozzo che sembrava essere suo marito. È ricco. Pensai, guardando la donna che dimostrava vent’anni, L’uomo ringhiava ai camerieri qualcosa di incomprensibile mentre la moglie cercava di ignorarlo come meglio poteva. Mi raccontò che era la Duchessa di Liior, una cittadella al confine tra la zona x e la zona y. Di come amasse il marito, anche se la sua espressione raccontava il contrario, di come la sua dimora fosse più spaziosa e ben arredata di quella dei Cook e di come quella cerimonia avrebbe dovuto svolgersi nella sua reggia. Simulai un’espressione interessata per tutto il tempo che mi intrattenne, ero molto più concentrato sul marito, che stava sputando rischiando di perdere la dentiera sul pavimento. Milioni di critiche dopo, la Duchessa si congedò con un inchino per andare a calmare il marito. Per quanto fosse bella, era troppo altezzosa per i miei gusti. Non ebbi il tempo di girarmi che un’altra figura, poco più alta di me, prese la mia mano per stringerla. Indossava una maschera a coprire l’intero viso. Una maschera rosso fuoco. Lui vide che lo guardavo spaesato così prese, con una mano, la coda di cavallo, nascosta dietro la maschera, dal color biondo scuro e me la mostrò. Quei capelli erano inconfondibili. Era Lester. – Allora, la festa è di tuo gradimento, Adrian? – Disse mellifluo, riponendo i capelli dietro la maschera. – Molto carina. Anche se il castello è un po’ diverso da quello che ricordavo… – In effetti è stato abbandonato a sé stesso. – Però il cibo è ottimo. – Risposi quasi per riparare alla frase precedente. – Sono felice che sia di tuo gradimento. – Ci fu qualche secondo di silenzio, poi continuò a parlare. – Allora come va con Abbie? Arrossii leggermente e mi grattai la guancia dall’imbarazzo. Non mi sembrava il momento giusto per parlarne, soprattutto dopo quello che era successo. – Uhm, bene grazie. – Ne sono felice. – Nel suo tono di voce riuscii a percepire un lieve tocco di tristezza. – Ricorda solo che, come per il mio castello, il tempo guasta le cose. Non trovi? Non capii esattamente quello che volesse dire. Mi stava augurando di spezzare i rapporti con Abbie? Stava dicendo che sarebbe bastato del tempo per far sì che il nostro rapporto, il rapporto fra me e lei, marcisse? Forse stavo divagando. E comunque, non riuscivo a trovare una risposta alla sua domanda. Trovavo che il tempo avrebbe cancellato qualcosa? No, non credevo. Anzi speravo che il tempo mi avesse aiutato. Che con la venuta al trono di Blake, mia madre avesse tralasciato il fatto che lei fosse una serva, che mi avrebbe dato possibilità di sposarla. E poi era davvero sposarla quello che volevo? E soprattutto, se qualcosa di più serio, come appunto il matrimonio, avesse reciso il legame che si era creato tra di noi? E poi non l’amavo, provavo un sentimento fraterno, tutto qui. O forse no. Ero pieno di dubbi e non riuscivo a decidere cosa fosse meglio per me. Attraverso la maschera, Lester notò l’indecisione nei miei occhi, poi abbandonò il mio sguardo per seguire con le iridi l’annunciatore, che si faceva spazio tra la folla. – Oh, finalmente. – Guardandolo allontanarsi notai una macchia violacea al confine tra la maschera e la pelle nuda. Un livido…?

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo due, parte quarta ***


L’annunciatore prese posizione sulla stessa postazione mobile da cui aveva parlato la sera prima. Accarezzava il capo spoglio in attesa che tutti si accorgessero di lui. Quando la sala cadde nel silenzio più totale, l’annunciatore mostrò i denti eburnei in un ghigno. – Innanzitutto, benvenuti. – Si sfregò le mani mentre osservava il pubblico magnanimo. – Per chi non fosse stato presente alla scorsa serata, annuncio che sono stati decretati i nuovi eredi al trono, che prego di raggiungermi. – L’idea di essere al centro dell’attenzione mi diede la nausea, poi mi ricordai che tutti i loro sguardi sarebbero caduti su Blake e mi avvicinai lentamente all’annunciatore. – Ancora una volta, ve li presento: Blake Harvey, Adrian Charles Harvey, Theodor Mitchell. Dai, su, venite!– Ci accolse con una stretta di mano ciascuno e ci fece mettere alla sua destra. – Bene. Ora, possiamo passare alla comunicazione del programma di elezione. – Con le mani che fremevano dall’eccitazione l’annunciatore, dal nome a me ancora ignoto, prese dalla tasca un nuovo foglio. Questo era siglato con il sigillo reale. Mostrò la lettera al pubblico, come per dire: ‘Volete che la apra?’. Il pubblico lo assecondò guardando la lettera come un gatto guarda un topo. Famelici, famelici di sapere. Anche se ogni volta rifilavano lo stesso programma di elezione. In quel momento mi sentii osservato. Puntai lo sguardo verso gli altri eredi, ma nessuno di loro mi stava guardando. Qualcuno dal pubblico mi stava osservando. Non che ci fosse nulla di strano. In fondo ero protagonista anche io di quel teatrino bizzarro chiamato elezione. Ma non era uno sguardo…umano. Ne cercai freneticamente la fonte. E poi la vidi. Un libellula, dalle ali argentee, mi fissava, lì tra il pubblico. Tirai un sospiro di sollievo. Quella era la normale videocamera utilizzata negli eventi speciali. Non ingombrante, dalla risoluzione ottima. Perfetta per occasioni del genere. Ce ne dovevano essere altre, sparse per la loggia. E anche se non le avevo notate, ce n’erano sicuramente anche la sera scorsa, a casa mia. D’un tratto lo stomaco si fece di piombo. Voleva dire che quella libellula stava riservando un mio primo piano ai telespettatori. Cercai di mantenere la calma, finché la libellula passò i suoi occhi-riflettori su Blake e poi su Theodor. E mentre io mi facevo problemi di quel genere, mi resi conto che l’annunciatore aveva iniziato a rivelare il programma d’elezione. – Vediamo un po’ cosa il programma di elezione ci riserverà quest’anno. – Goffamente cercò di togliere il sigillo reale, che era in cera rossa, e di aprire la lettera. I suoi occhi sembrarono quasi accendersi e lentamente disse. – Per la prima volta il programma d’elezione ha subito un leggero cambiamento. Il ballo, termine della festa, e il discorso si terranno come ogni volta. Ma è stata aggiunta una piccola variazione. Prima del ballo i nostri quattro eredi dovranno visitare le zone che avranno sotto il loro controllo una volta finita l’elezione! E mentre ascoltavo l’annunciatore assegnare una zona a me, Theodor e Blake (io avrei preso la x), vidi la maschera di Lester tra il pubblico. Era un erede cosa ci faceva lì? Poi la mia mente iniziò a vagare, pensavo alle parole di Abbie e mi dicevo: Adesso posso controllare. Ma avevo paura di quello che avrei potuto trovarci, in effetti avevo paura realmente di tutto, ero davvero un codardo. Inoltre se davvero la situazione era così critica, non mi sarebbe piaciuto affatto, quel viaggio non avrebbe portato altro che guai. – Oh, inoltre ho un altro annuncio da fare. – Ripose nella tasca il biglietto con gli stessi movimenti utilizzati la sera prima. – Con dolore annuncio che…Lester Cook, colui che ci ha invitato in questa splendida sala a questa splendida festa per questo splendido evento, si ritira come erede al trono di sua spontanea volontà e decisione. Grazie per la vostra attenzione e prego, continuate il banchetto!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo tre ***


Nessuno aveva mai rinunciato alla carica di erede al trono, fino a quel momento. Non si trovava motivo di farlo: se avessi vinto le elezioni saresti diventato il governatore di un intero continente, se invece le avessi perse saresti tornato a nuotare nella tua ricchezza. E allora perché Lester l’aveva fatto? Non ne aveva motivo. Inoltre era ben visto da tutti gli abitanti del regno, il preferito dopo Blake. Se proprio qualcuno avrebbe dovuto ritirarsi dalle elezioni quello sarei dovuto essere io. Era tutta fatica sprecata, un ballo ridicolo, un discorso in cui sarei stato deriso più di quanto non lo fossi prima. E la visita alla zona x. Avrei fatto tutto questo per nulla, per vedere mio fratello salire al trono. E poi se lui era praticamente già stato scelto, perché tutta questa messa in scena? Vidi oltre viso mascherato di Lester. Lui aveva capito, aveva capito che il nuovo re era stato già proclamato e che sarebbe stato inutile continuare quella farsa. E allora si stava nascondendo dagli occhi indiscreti dalla gente che lo circondava, che lo soffocava. Avrei voluto farlo io, ritirarmi, vivere silenziosamente nel lusso della mia famiglia e continuare a piantare piante con Abbie quando mi era possibile, lontano da tutti quegli avvoltoi che vedevano nelle elezioni solo un pretesto per divertirsi e fare festa. Sospirai e lasciai le mie preoccupazioni alla musica, che seguiva all’annunciazione del programma. Il mattino dopo mi ritrovai sul letto, steso sulle lenzuola ricamate a guardare il soffitto. Avevo fatto un sogno inquietantemente strano. Bicchieri di champagne danzavano una danza eterea lungo un tappeto scarlatto che conduceva ad una porta chiusa. Guardavo i bicchieri sorridermi mentre si inchinavano, facendo cadere il liquido che contenevano sul pavimento nero, quasi ad invitarmi a danzare con loro. Le pareti erano dipinte di nero con schizzi di vernice rossa e chiazze bianche. Il soffitto un muro di stelle che illuminavano il troppo buio. Senza preavviso il tappeto scarlatto sotto i miei piedi iniziò ad avanzare lentamente e io, come se fossi su un tapis roulant, con lui. E mentre mi dirigevo verso una porta, anch’essa nera, al termine del corridoio mi osservano le mani. Le unghie erano sporche come sempre, questa volta non di terriccio, ma di sangue. Sangue raffermo di cui potevo sentirne l’odore fetido. Cercai di toglierlo, ma così facendo le mie stesse unghie iniziarono a sanguinare. Il sangue colava e toccava il tappeto che ogni volta sembrava stesse andando più veloce. Iniziai a piangere, a cercare di scappare ma non ci riuscivo. Mi avvicinavo sempre più alla porta che non accennava ad aprirsi, con i piedi incollati al terreno. Poi una fitta al collo tale da farmi urlare. Urlavo, urlavo e urlavo mentre i bicchieri di champagne sembravano tristi per me. Mi guardavano come se fossi un cane. Si sentì il rumore di un fulmine. Alzai lo sguardo e le stelle erano coperte da nuvole. Stava piovendo ma la pioggia non mi raggiungeva. Il tappeto era davanti alla porta ormai e così la urtai. Il tappeto però non ci fermò, voleva farmi passare, attraverso la porta chiusa. Iniziò a fare molta più presa sulle mie gambe. Si sentì un “crack” fortissimo. Urlai. Sentivo spezzarsi i tendini delle gambe, il tappeto che si impossessava dei miei arti. Continuai a gridare, a guardare indietro in cerca di una via di uscita, ma la via era sbarrata dai bicchieri colmi di champagne, che adesso avevano trasformato il loro pianto in un ghigno perfido e soffocante e mentre mi guardavano soffrire, iniziarono a bersi l’un l’altro per festeggiare. Proprio non riuscii più a sentire le gambe, la porta si aprì, facendomi cadere nell’ignoto.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo tre, parte seconda ***


Avevo ancora il respiro affannato e la fronte madida di sudore. Per quanto potesse essere buffo e bambinesco, un sogno del genere era abbastanza per essere chiamato incubo. Mi diressi verso il lavabo e gettai l’acqua sul mio viso che andò a bagnare anche lo specchio e il pavimento lucido. Una volta ripreso colorito indossai il vestito piegato sul comodino. Questa volta era molto meno principesco, senza guanti, ma con spalline che riportavano il simbolo di palazzo. Lucidai con una pezza gli stivali in pelle e poi mi avviai verso l’ingresso. Come sospettavo ad aspettarmi c’erano mia madre e un uomo mingherlino dal naso aquilino. Tirai giù la maglietta e mi sistemai i capelli con la mano. Al piano superiore Denver sembrava non esserci. Il salone era davvero spoglio quel giorno, era rimasto solo un divano in camoscio sul lato sinistro e una pianta decorativa sul destro. Non si vedeva neanche il tavolo della colazione. Porsi la mano all’uomo accanto a mia madre, che oggi si era moderata nel vestire, che la strinse deciso. – Adrian, finalmente sveglio! – Bofonchiò la donna, cercando di mantenere la calma. Si era tirata i capelli dietro, forse per mostrare gli orecchini che aveva fatto forgiare la settimana scorsa. Cambiavano colore a seconda dell’umore, mi aveva detto, tutto grazie alla tecnologia avanzata del palazzo. In quel momento erano color oro e non sapevo cosa significasse. – Quest’uomo è Lloyd, il tuo accompagnatore. Non ti staccare mai da lui, accetta tutti i suoi consigli e fidati di qualsiasi cosa ti dica di fare o meno. Non vogliamo mica che la visita vada male, vero? Oggi avremmo dovuto visitare le zone che ci erano state assegnate. Ero molto teso, non ero mai stato così lontano da casa e, sì, pensavo ancora ad Abbie. All’esterno un Borch era già pronto ad accoglierci con le portiere aperte. Niente a che vedere con il Borch reale che avevamo usato la scorsa serata, ma non ci si potevamo lamentare. Gli interni erano in pelle come la maggior parte dei casi, anche se l’esterno sembrava essere malleabile e poco resistente. Mi chiedevo ancora se era qualcuno a manovrarli… Il cielo era sereno, anche se in lontananza sembravano esserci delle nuvole. Mia madre ci invitò a salire a bordo e poi ci salutò affettatamente quando il Borch fu pronto a partire. Il Borch poteva raggiungere velocità massime inquietanti, e allora mi resi conto che non erano solo chiacchiere che i più utilizzavano per tenere lontano chiunque dalle loro autovetture. Lottai per tenere la posizione senza sbilanciarmi troppo e mi chiedevo come poteva l’uomo alla mia destra sembrare così composto, nonostante il rischio che la troppa velocità ci facesse sbandare fuori dalla strada asfaltata. Lloyd notò la mia faccia contorcersi per trattenere il vomito. – Va tutto bene? – Mi guardava con occhi colmi di pietà, anche se stava cercando di trattenere le risate. ¬– Certo. – Anche se il mio viso testimoniava il contrario. – Se sente il bisogno di vomitare, si trattenga. Oppure potrebbe vomitare nel porta bevande, ma io poi non toccherei più nulla. – No, ce la faccio a trattenermi. Può continuare a bere ciò che vuole. – Mi erano bastati cinque minuti per capire che sarebbe stato il viaggio peggiore della mia vita. Dal finestrino vidi allontanarsi le case grigie che, come ogni mattina, aprivano automaticamente le persiane. Ormai tutta la città era costruita in acciaio con funzionalità meccaniche, che rendeva la casa quasi viva, tranne il nostro castello (a mia madre piaceva l’antico) e la piazza nord, ormai non più frequentata da nessuno. – Non si preoccupi, comunque. A questa velocità raggiungeremo in neanche sei ore la zona x. – Disse senza guardarmi in faccia, come se sei ore di viaggio fossero un lasso di tempo breve. Io non avevo intenzione di rimanere così tanto tempo in quella trappola mortale telecomandata. Eppure non stava scherzando, sapevo che la zona x era molto distante dalla sua capitale. Mi stesi sul sedile, prendendo confidenza con la velocità e cercando di bloccare i conati che ormai si facevano sempre più forti. – Sta perdendo colorito, io considererei l’idea del porta bevande. Ma se mi permette prima mi servo. – Le sue parole mi fecero star male quasi quanto il vomito che ormai aveva trovato strada spianata in gola. Era uno di quei momenti in cui avrei voluto utilizzare la carica di principe, per ricordargli con chi aveva a che fare. Poi fui ripagato dalla sua espressione, quando vomitai nel tanto pronunciato porta bevande. Lloyd non mi rivolse più la parola per qualche ora. Sbuffava quando cambiavo posizione, rischiando di colpirlo con i gomiti, ma nulla di più. Di certo mi sentivo più libero, e anche più soddisfatto, ma il viaggio era una vera e propria tortura. Se l’avessi saputo prima avrei preso dei libri dalla libreria reale per intrattenermi. L’unica mia distrazione era il paesaggio che mi si parava davanti. Avevamo superato diverse praterie, e stavamo abbandonato la strada asfaltata per dirigerci verso un sentiero tracciato sulla terra, che si addentrava nei boschi. Mentre passavamo di lì notai una piattaforma, dove di solito si giustiziavano i traditori e i ribelli che andavano contro il regno. Non avevo mai avuto la possibilità di guardarne dal vivo una, di esecuzione, ma sapevo abbastanza cose al riguardo. Per esempio che era usanza giustiziare con una singola pallottola, dritta in mezzo agli occhi. Che la piattaforma si trovava al confine tra la città e il bosco perché i corpi venivano gettati in pasto alla belve una volta freddati. E che, ai familiari della vittima, spettava un posto in prima fila, senza la possibilità di declinare l’invito. Un po’ crudele come cosa, ma i ribelli si dimezzarono da allora o, meglio, furono attenti al non farsi catturare.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo tre, parte terza ***


Il bosco si estendeva fino a raggiungere i primi villaggi della zona x. Le cinque ore di viaggio rimanenti si sarebbero dovute svolgere in quel luogo lugubre. E nonostante fosse ancora giorno, gli alberi erano abbastanza folti da chiudere il sipario sul sole cocente. Non c’era nulla che attirasse la mia attenzione. Insomma erano solo…alberi. Un’enorme quantità di alberi ed erbacce. Il terreno che faceva da strada fino ad allora fu nascosto dalle radici. Mi sentivo perso. Se non avessi saputo che i Borch non erano soliti sbagliare tragitto sarei andato nel panico. E adesso tutto quel verde mi stava dando alla nausea. Sentivo le radici degli alberi alla gola. E il Borch a quel punto mi sembrava troppo piccolo, claustrofobico, soffocante. Mentre la vegetazione si faceva più fitta e gli animali si allontanavano impauriti dal veicolo, Lloyd era impegnato ad armeggiare con un mini-schermo. Allungai il collo per vedere cosa stesse facendo, ma lui intercettò subito il mio sguardo. – Oltre che a vomitare nei porta bevande, è abituato a invadere la privacy? – Allontanai subito il collo e girai nuovamente la testa verso il finestrino. – Comunque è qualcosa che potrebbe interessarti, guarda. – Mi mise lo schermo tra le mani e fece pressione sulla parte laterale. Il mini-schermo si allargò fino a diventare delle dimensioni di un libro, anche se molto più sottile. Poi Lloyd toccò al centro dello schermo un pulsante rotondo, lo stemma del nostro castello, e partì un video. Una diretta. In sottofondo c’erano grida d’esultanza, di acclamazione e applausi, e già sapevo a cosa stessi per assistere. L’inquadratura si spostò su Blake che salutava dall’interno del suo Borch. Mostrava i denti fiero mentre gli abitanti di Zod, nella zona z, non facevano altro che acclamarlo a gran voce. Doveva essere lì da poco e le libellule erano già state piazzate per riprenderlo. Mi chiedo se saranno lì anche per me… Poi l’inquadratura si spostò da tutt’altra parte, nella zona y, nella città di Yuta (almeno così diceva la scritta in basso a destra dello schermo) dove Theodor sembrava imbarazzato di fronte a tutte quelle persone venute lì per vederlo. Alcuni lo applaudivano e lo salutavano, altri si limitavano a guardarlo. Dal ragazzo non-previsto per l’elezione era riuscito a crearsi una reputazione. Adesso aveva anche persone pronte a sostenerlo e che di certo lo avrebbero scelto come re. Nonostante non avesse fatto nulla in più di noi per meritarsi quel discreto successo. Poi sullo schermo apparvero entrambe le inquadrature e a legarle, al centro, il simbolo reale. In quel momento mi chiesi quale fosse il criterio di valutazione. Secondo cosa sarebbe stato scelto il nuovo re? Certo, c’era il programma di elezione, ma la possibilità di far sapere il nostro, di programma, una volta stati eletti, al pubblico, era rinchiusa in un unico discorso che si sarebbe tenuto il giorno prima dell’elezione. Poi chi avrebbe assicurato che tutto quello che si sarebbe detto al discorso sarebbe stato la realtà? Con attori bravi come Blake, in quel teatrino, sarebbe stato semplice far passare per vero una menzogna. La ripresa terminò e il mini-schermo si richiuse da solo. Llyod me lo tolse dalla mani velocemente, sembrava avesse paura che potessi vedere qualcos’altro e lo ripose frettolosamente in tasca. Ero abituato a viaggiare troppo di fantasia, quindi non ci diedi troppo peso e guardai altrove cercando di sembrare non interessato. – Alquanto notevole la popolarità di suo fratello, non trova? – ghignò Llyod. – Sì, direi che è apprezzato. – È più che apprezzato. Ha il trono in pugno, ne è al corrente? – Sì, credo di saperlo – ero irritato, non mi interessava il titolo di re o quant’altro, più che altro non volevo che mi si sbandierasse così il successo di Blake. – Ma non ho intenzione di lasciarglielo guadagnare così facilmente. Adopererò tutte le mie forze pur di strappargli qualche voto. – Io direi sia meglio lasciargli completamente la strada spianata. Mai pensato a ritirarsi? Rimasi ammutolito, a fissarlo. Mi stava spingendo a ritirarmi. O almeno credevo lo stesse facendo. Avevo una brutta sensazione a riguardo, che qualcuno stesse cercando di eliminare la concorrenza? Una cosa era certa, non avrei più pensato a ritirarmi. – No, mai pensato. E non trovo il motivo di farlo. Se è vero che Blake ha il trono il pugno, allora che problemi avrà a battermi? Ora quello ad essere irritato era Llyod, non mi staccava gli occhi di dosso. Mi scrutava come ad intimidirmi. E ci riusciva alla grande. Non riuscii a sorreggere lo sguardo e poco dopo girai la testa per tornare a guardare fuori dal finestrino. Ma almeno sapevo di aver centrato nel segno. Sentivo ancora il suo sguardo sulla mia pelle, stava prendendo le mie convinzioni e le stava sminuzzando con un coltello troppo affilato. Avrei voluto ricordargli chi era principe tra i due, ma non mi piaceva l’idea di dover far pressione sulla mia importanza. Dopotutto era una persona come me. O forse no? Forse avevo anche il potere di farlo giustiziare, lì, su due piedi, davanti ai miei occhi. Potevo farlo con una gran parte della popolazione e nessuno si sarebbe lamentato. Sapevo che molti si sarebbero corrotti per un potere del genere. Pronti a dare via la loro anima. Io lo avevo soltanto perché dovevo. E nonostante questo la trovavo una cosa sbagliata. Tremila anni fa c’era la repubblica, una cosa, come dice il nome, pubblica, di tutti. Perché con l’avanzare del tempo non si è fatto altro che regredire? L’avevo letto. Il territorio stava cambiando, sempre meno popoli trovavano un appostamento stazionario come il nostro. Allora le città più importanti del passato: Londra, Parigi, Washington crearono dei regimi dittatoriali, e accolsero sotto il loro tetto i cittadini che fossero disposti a sottomettersi alla dittatura, che col tempo diventò monarchia, il potere in un solo uomo, un “salvatore”. Non si aveva molta scelta, le città più importanti erano le uniche abbastanza sviluppate economicamente da poter resistere alle catastrofi climatiche che si abbattevano sul pianeta a quel tempo. La popolazione che non accettò di essere comandata venne lasciata nel territorio che stava subendo una metamorfosi, a morire. Hong Kong fu la prima città ad inventare ciò che venne chiamata “cupola a zolle”. La città era avvolta in questa cupola di un materiale simile all’acciaio, ma molto più resistente al fuoco. Era in grado di proteggere la città dalla lava, dalle eruzioni, dai maremoti e riusciva a galleggiare sulle zolle della crosta terreste, senza sprofondare. Tutte le altre città adoperarono lo stesso sistema ed in un centinaio di anni, quando ormai la Terra era sommersa dalle acque e i terremoti continuavano incessanti si finirono i lavori. Le città iniziarono a galleggiare, ma il loro moto non si poteva controllare. Mentre la Terra cambiava forma molte città finirono per scontrarsi e distruggersi. Dopo altre centinaia di anni la terra smise di trasformarsi. Si diceva che moltissime, se non tutte le città si distrussero comunque, tutte tranne la capitale della vecchia repubblica italiana, Roma. Nei libri in biblioteca si dice sia stato l’amore per la patria a salvarla, le preghiere per i capi dello stato. Si dice che all’epoca si venerava un Dio e che proprio in quei momenti il suo ricordo venne cancellato per lasciar spazio all’amore per il governatore che li aveva salvati. Il regno di Forhan, dovrebbe essere la nuova Roma, dopo le moltissime trasformazioni culturali. E non si ebbero più informazioni sul mondo esterno. Certo che tutto questo derivava da una leggenda tramandata dalla nostra popolazione, perché si sperava che il nostro regno potesse diventare grande e vasto come quello romano, ma da migliaia di anni nessuno osava varcare la soglia di quelle montagne.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo tre, parte quarta ***


Lasciai perdere Lloyd che continuava a lanciarmi sguardi d’odio. Mi stiracchiai sul sedile in pelle e, in me che non si dica presi sonno. Non mi capitava spesso di fare sogni, le mie notti erano tutte bianche, scialbe. Ma era la seconda volta di fila che sognavo, dopo mesi. Nel sogno venivo acclamato durante il mio discorso, avevo un sorriso a trentadue denti stampato sul viso, mentre trionfante vedevo la mongolfiera con il mio nome prendere il volo (Era questo il segnale per il quale si sapeva il nuovo re. Il nome sulla mongolfiera in volo era prossimo a prendere il trono.). Fin qui tutto felice e splendente. Quando successe una cosa strana. Gli arcieri reali puntarono delle frecce infuocate verso la mongolfiera e spararono all’improvviso smorzando le acclamazioni della folla. La mongolfiera prese fuoco e poi esplose con un botto che mi fece volare dalla sedia su cui ero seduto e sbattere su di una colonna. Molte persone ai piani bassi, piani dove si raccoglieva il popolo per assistere all’elezione, cominciarono a gridare di terrore, altri di dolore: molti di loro stavano bruciando. Mi rialzai tremante quando il tanfo di cadavere carbonizzato mi raggiunse. Volevo vomitare ma era come se la gola me lo impedisse. Mi alzai traballando, feci in tempo a tenermi in piedi quando due guardie reali mi presero il braccio e mi tirarono verso il basso per farmi inginocchiare. Una volta in ginocchio mi puntarono i loro fucili alla gola. Restavo immobile ad occhi sbarrati, guardando i consiglieri sulla balconata più alta di fronte a me, che se la ridevano. Mi svegliai di soprassalto. Mi guardai intorno spaesato, come se avessi perso il senso dell’orientamento. Incrociai lo sguardo di Llyod, che sembrava stesse dicendo: “ma cosa ho fatto per meritare questo” e lo ignorai. Cercavo di mettermi in una posizione tale che l’aria potesse arrivare ai polmoni, mi sentivo soffocare. Non ne potevo più di stare in quel Borch. Ero…scosso. Non capivo. Stavo sognando cose senza senso e sadiche allo stesso tempo. Un brivido mi pervase la schiena. Cosa c’era che non andava? Volevo tornare a dormire nel mio letto e svegliarmi quando il nuovo re ormai era stato eletto. Per mia fortuna notai che, nascosta tra le querce e i cipressi, spuntava una cittadina. Un città cupa, triste, grigia. Il sole era oscurato dalle nuvole che avevo visto in lontananza alla mia partenza. Finalmente ritrovammo la strada asfaltata e lasciammo la foresta alle nostre spalle. Nonostante avessi dormito per quasi quattro ore mi sentivo stanco, forse perché quel sogno mi aveva fatto sudare. In effetti non emettevo proprio un buon odore. Cercai di sistemarmi il meglio possibile. Non potevo di certo presentarmi in quello stato, ero pur sempre il principe. Il Borch raggiunse l’entrata della città: un arco costruito con gli unici materiali reperibili in quella zona: carbone e alluminio. L’arco era pericolante e ad ogni folata di vento traballava. In alto, al centro, un cartello rovinato e consunto dove era scritto il nome della città, in una calligrafia poco pulita. Sembrava uno scarabocchio e quindi lessi con qualche difficoltà: XHET. Eravamo finalmente arrivati alla capitale della zona x. Il Borch si fermò proprio sotto l’arco, e la cosa mi mise timore, non volevo finirci schiacciato sotto. Le portiere si aprirono con un suono metallico. Stavo per precipitarmi all’esterno, quando Llyod mi afferrò un braccio e mi tirò di forza dentro la vettura. – Adesso il Borch ritornerà a casa, dobbiamo continuare a piedi. La zona x è la più povera. Portare un macchinario così costoso e all’avanguardia come questo significherebbe mancare di rispetto alla loro povertà. – E come torneremo a casa? – Quando sarà il momento, tornerà. – Anche se partisse adesso ci vorrebbero dodici ore per farlo tornare. – La velocità che ha tenuto lungo questo viaggio era dovuta alla nostra presenza a bordo. Senza nessuno di umano all’interno al Borch basteranno trenta minuti per tornare. Rimasi sbigottito. Assurdo. Ecco trovato il motivo per cui erano sempre, dannatamente puntuali. – Va bene – Sospirai – Se hai finito io inizierei con questa specie di sfilata. – No, non ho finito. – Cosa c’è ancora? – Sei qui per farti riconoscere dal pubblico, sii più presentabile. – Lanciò un’occhiata gelida ai miei capelli scomposti. Subito mi cimentai a dominare le ciocche castane ribelli. – Ci saranno numerose guardie a tenere l’ordine pubblico a bada. E numerose a cercare di sventare gli attentati. – Frugò nella tasca e da lì ne estrasse qualcosa di grigio, che assomigliava ad una maniglia. – Ma non si è mai troppo sicuri, no? – Non capivo a cosa potesse servirmi un aggeggio del genere… – Cosa dovrei farmene di una pistola? – Nulla.– Per un attimo notai un sorriso soddisfatto sul suo viso. – Però potrai essere…più al sicuro, ecco. C’era puzza di bruciato, e di certo non era l’odore della polvere da sparo. Perché avrei dovuto avere una pistola? Poi ritornai alle sue parole: “sventare gli attentati”. Qualcuno avrebbe potuto cercare di uccidermi? Perché avrebbe dovuto farlo? Perché ero ricco, ovvio. Chissà quanto odio provavano nei miei confronti. Quella pistola poteva essere letale. Potevo essere in grado di uccidere. Ma, odiavo ammetterlo, tenevo alla mia vita più di qualsiasi altra cosa, ero un egoista sotto questo punto di vista. Presi l’arma e la misi in tasca. Llyod sorrise come se sapesse avrei scelto di prenderla. Pesava un botto. Non avevo mai creduto pesassero così tanto. Ma dopotutto non ne avevo mai presa una in mano. – Allora perfetto, andiamo. Entrambi uscimmo dal veicolo, che, una volta richiusi gli sportelli, fece dietrofront alzando un polverone, e a tutta velocità rientrò nella foresta.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo quattro ***


Non c’era nessuno per le strade polverose e le prime case che vidi, completamente in legno, forse l’unico materiale da costruzione reperibile, erano pericolanti. Alcune addirittura senza tetto sostituito da teli per avere almeno un riparo dalla pioggia. La puzza del carbone era arrivata fino a noi dalle miniere, che si potevano vedere in lontananza. La strada che stavamo percorrendo era piena di buche e dossi e rischiai più volte di inciampare. Inoltre rifiuti di tutti i tipi intralciavano il passaggio. Era la prima volta che la vedevo, Xhet, la capitale della zona x. Era risaputo che questa zona era la più povera tra le tre, ma non credevo che anche la capitale si trovasse in tale condizione. Dal cielo cadeva cenere, che si posava sui miei vestiti rendendoli grigi come l’aria che si respirava. Tossii più volte rumorosamente, non ero abituato a quell’aria sporca, a palazzo l’aria era purificata completamente da tutte le impurità. Llyod camminava a passo svelto, controllando l’orologio di tanto in tanto. Non sembrava contento dell’orario, forse eravamo in ritardo. Ma non c’era nessuno ad aspettarci, ogni tanto qualcuno si affacciava dalla porta, sbirciava e poi tornava dentro…sembravano sorpresi. Vedevo anche numerosi senzatetto, dormivano ancora, sotto le coperte ai limiti di un vicolo, tutti ammassati. Poco più avanti c’era un enorme muro, delimitato da filo spinato, e un enorme portone al centro. Mi fermai a guardare tutto ciò che mi circondava: miseria. Altre persone mi stavano fissando dalle loro porte. Quanto potevano odiarci? Avevamo tutto ciò che loro non avevano. Capivo perché avrebbero potuto e voluto uccidermi. Mi fermai e strinsi ancora più forte la pistola nella mia tasca. Llyod si girò e mi vide fermo a qualche metro da lui. Sbuffò e tornò in dietro, bruscamente mi prese il braccio -stavo per opporre resistenza, ma sarebbe stato inopportuno- e mi trascinò fino alla porta in metallo a cui guardia c’erano due soldati dell’esercito. Lo capivo dalla divisa che li contraddistingueva. Nera, sottile e aderente, ma incredibilmente elastica e resistente. Solo specifici proiettili erano in grado di oltrepassare quella tuta ed erano reperibili solo a palazzo. Llyod parlò con loro per qualche secondo, ero troppo distante da lui per capire cosa stessero dicendo, e poi i due aprirono la porta con delle chiavi arrugginite. Il rumore metallico che susseguì mi fece tappare l’orecchia, quasi gridare. Gli uccelli che cinguettavano felici per le strade, smisero e scapparono. Dal suono prolungato, si stavano azionando numerosi ingranaggi. Che bisogno c’era di tale protezione? E cercando la risposta a quella domanda ebbi il terrore di aver trovato la risposta. Non poteva essere così, eppure ne ero tremendamente certo. La porta si aprì del tutto. Si sentì odore di fresco, nuovo per qualche istante, poi l’odore del carbone prese nuovamente il sopravvento. Non volevo entrarci, non volevo ammettere di aver torto. Di essere stato uno stupido. Llyod mi prese con maggiore forza il braccio e mi trascinò letteralmente dentro. Le mie paure vennero confermate. All’interno c’era ciò che speravo non ci fosse. Contrapposte a tutte le case in legno, dall’altra parte del muro, c’erano case identiche a quelle del palazzo. Le persiane meccaniche si stavano appena aprendo, le strade erano perfettamente asfaltate e in ordine, nessun rifiuto sparso sui marciapiedi e sembrava che la cenere non riuscisse ad arrivare all’interno. Abbie aveva ragione. C’era un dislivello palpabile tra povertà e ricchezza. C’era chi non possedeva niente, e li avevo appena visti per strada, e chi aveva fin troppo, e stavo guardando le case che facevano crescere il giardino più rigoglioso possibile. Non ci volevo credere. Eppure era vero, lo potevo vedere. Cercavo di trovare una spiegazione a quello che stavo osservando. È normale che in una società ci siano anche delle persone più povere, no? Non tutti posso essere tanto fortunati.. Ma non era quello il punto. Le persone all’interno del muro si erano in un qualche modo “protette” dalla povertà delle persone al di fuori. Quel muro era il simbolo di una borghesia egoista. Persone alzate a quell’ora, mentre fuori da quel paradiso che si erano creati c’erano persone costrette ad aprire bottega prestissimo, per garantirsi cibo almeno per quel giorno, almeno questo era quello che faceva il padre di Abbie. Quegli uomini venivano sfruttati, lavoravano e molto probabilmente la loro mano d’opera era quasi gratis. Avevano famiglie come tutti loro, ma le persone che importavano gli avevano esclusi, le loro abitazioni, le più importanti, erano al centro della città, divise da un muro da quelle dei più poveri. C’erano persone che stavano implorando un po’ d’acqua dietro di noi e proprio da lì riuscivo a scorgere una fontana al centro di quella che sembrava una piazza lussuosa. Le porte dietro di noi si chiusero con un altro suono metallico. Da una delle case uscì una coppia, un uomo e una donna. Si muovevano freneticamente verso di noi, la donna alzandosi il vestito con le mani per andare più veloce. Non appena furono abbastanza vicini iniziarono a salutarci con una mano, finché non arrivarono da noi e fecero un inchino. Guardando bene la donna, io avevo già fatto la sua conoscenza. La contessa Car o Smart o qualcosa del genere. Risposi all’inchino con un sorriso che andava contro ciò che stavo pensando. Volevo andare ad aiutare in qualche modo le persone al di fuori del muro nonostante non le conoscessi. Il mio cervello si stava facendo abbindolare dalla pietà. E non era una cosa brutta. Ero l’unico a provare quel sentimento? – Quale onore averla qui, principe Charles – Disse la donna. – Adrian, per favore. La donna sembrò quasi ferita. – Ah…certo, mi scusi, Principe Adrian. – Allora, quando ha inizio? – Chiese Llyod che sembrava essere di fretta. – Ci lasci prima rendere più presentabile il signorino. Si ricorda di me? Sono la contessa Clark, ci vedemmo al banchetto nella sua incantevole dimora. – Oh, sì, certo che mi ricordo di lei. – Perfetto, allora se mi vuole seguire le faccio fare un giro della città e poi parliamo della parata, d’accordo? Il marito della donna, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, rimase a parlare con Llyod, mentre io venivo portato dalla donna a casa sua.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2341528