Chess Academy- Bianco o Nero

di Agapanto Blu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il posto vuoto ***
Capitolo 3: *** Gregory Gray ***
Capitolo 4: *** Una tremenda scoperta ***
Capitolo 5: *** Sebastian King ***
Capitolo 6: *** Sta aspettando solo questo ***
Capitolo 7: *** Trucchi psicologici ***
Capitolo 8: *** L'unica cosa dolce ***
Capitolo 9: *** Smettila, ti prego! ***
Capitolo 10: *** Illegale ***
Capitolo 11: *** Cedimenti e aggressioni ***
Capitolo 12: *** Segni e grigi ***
Capitolo 13: *** La scelta di Mat e il dolore di Ryan ***
Capitolo 14: *** Una grande Rivolta e un grandissimo Alfred ***
Capitolo 15: *** Nemmeno io so a cosa ***
Capitolo 16: *** Condizioni ***
Capitolo 17: *** Dimmi ***
Capitolo 18: *** È così che deve andare ***
Capitolo 19: *** Educazione Spartana ***
Capitolo 20: *** Lo facciamo oggi ***
Capitolo 21: *** Vieni a letto con me... ***
Capitolo 22: *** Istinto protettivo ***
Capitolo 23: *** In cambio ***
Capitolo 24: *** Farmi l'amore ***
Capitolo 25: *** Epilogo ***
Capitolo 26: *** Oppure no? ***



Capitolo 1
*** Prologo ***












Prologo

"Chess Academy" fu la prima cosa che vidi della mi nuova ‘scuola’. Era una scritta grande, con le lettere alternate in bianco e nero, messa a semicerchio sopra il cancello d’entrata. La scuola era circondata da un muretto di mattoni di circa un metro sopra cui stava una recinzione di ferro battuto alta altri due, per un totale di tre metri di barriera; all’interno di tutto questo, vi era un giardino enorme dall’erba accuratamente tagliata ma con pochi alberi e al centro di tutto stava l’edificio vero e proprio. L’Accademia degli Scacchi era molto simile ad un enorme castello in stile vittoriano: la facciata era bianca e il tetto nero, c’era una torretta al centro della parete posteriore e da davanti si vedeva la sua punta, l’edificio si sviluppava su cinque piani e non potei fare a meno di chiedermi a che cosa servisse tutto quello spazio in una scuola privata dal limitato numero di studenti visto che costava un occhio della testa ed era prettamente maschile.
Ecco, quest’ultimo fatto mi inquietava. Considerato il motivo principale per cui venivo spedito in collegio a quattrocentosessantacinque miglia da casa in un altro stato e oltre il mare, mi sembrava un po’ una contraddizione.
Sentii gli occhi pizzicare al ricordo delle urla di mio padre ma cercai di costringermi a non piangere. Avevo sperato in una reazione diversa, questo è sicuro, ma le mie suppliche non avevano piegato nessuno prima e non l’avrebbero fatto adesso.
“Alfred?” chiamai, piano, con la voce un po’ spezzata dal pianto trattenuto.
L’autista si voltò appena e nello specchietto retrovisore vidi bene la sua espressione dispiaciuta.
“Signorino, io non posso…” disse subito, immaginando che volessi chiedergli di riportarmi a casa, ma io scossi la testa, sorridendo mesto.
“Non è questo.” mormorai, rassicurandolo perché già sapevo che non dipendeva da lui ma che comunque aveva già tentato di convincere i miei, “Solo… Che scusa hanno usato?”
Da quando sono nato, credo che l’unico ad avermi voluto bene per davvero sia stato proprio Alfred, lui era venuto dall’Inghilterra apposta perché mia madre voleva avere un maggiordomo di nome Alfred nella sua villa a Parigi. I miei non avevano avuto tempo per me: mio padre era troppo occupato con gli affari e mia madre con gli amanti. Alfred mi aveva cresciuto ed era l’unico ad avermi accompagnato dalla capitale di Francia ad un’Accademia inglese sperduta nel nulla oltre la città di Exeter, nel sud-ovest dell’isola.
Alfred mi lanciò un’occhiata mesta dallo specchietto ma ripeté a pappagallo le bugie dei miei.
“Lei, signorino, è in viaggio per una scuola esclusiva per ragazzi particolarmente dotati di capacità intellettive” in una sottospecie di monastero/riformatorio per figli di papà dove vengono mollati ragazzi troppo vivaci per la buona società o semplicemente troppo d’impaccio a genitori sempre in giro “ma loro non hanno potuto accompagnarla perché sua madre ha un delicato incontro di beneficenza” l’ultimo amante che si è trovata ossia il banchiere del club del golf “mentre suo padre ha un meeting importante.” ecco, questa forse è vera.
Annuii, tornando a guardare fuori e stringendomi appena nella giacca dell’uniforme. Camicia bianca con cravatta nera, pantaloni e scarpe nere e fazzoletto bianco nel taschino della giacca nera che portava sul petto una piccola scacchiera cui sopra era ricamato il numero della classe che avrei frequentato.
Bianco e nero, bianco e nero: solo questo esisteva lì, niente vie di mezzo. O eri uno o eri l’altro, e se non volevi esserlo ti ci trasformavano lo stesso.
Mi passai una mano sul viso per essere certo di non aver pianto, ci mancava ancora quello, poi mi raddrizzai perché ormai eravamo arrivati.
Scesi dalla macchina cercando di dare una rapida occhiata in giro e notai alcuni ragazzi accanto al portone di ingresso. Erano quasi tutti per conto loro, solo alcuni camminavano accanto in coppia, e tutti erano vestiti con l’uniforme e avevano i capelli tagliati corti; molti mi fissarono per un attimo prima di voltarsi ed andarsene, con espressione quasi annoiata, e la mia depressione aumentò vertiginosamente.
Avvicinandomi all’entrata mentre Alfred scaricava la macchina, alzai gli occhi sulle finestre del primo piano e intravidi un ragazzo fissarmi attraverso il vetro. I capelli, ovviamente corti, erano castani e anche gli occhi parevano scuri ma a differenza degli altri non sembrava annoiato e non distolse lo sguardo quando mi vide. Mi guardava più con…preoccupazione? possibile?
Scossi la testa, non aveva senso, ma tornai a guardarlo proprio nell’istante in cui un altro ragazzo compariva alla finestra. Questo era diversissimo: aveva gli occhi chiari e la divisa, sì, ma la cosa che attirò la mia attenzione fu che, a differenza di tutti gli altri, aveva i capelli lunghi fino alle spalle e legati in una coda di cavallo dietro la testa.
Vidi chiaramente il moro indicarmi con la testa e il biondo annuire, entrambi facendosi cupi in volto. Si scambiarono un’occhiata.
“Signorino?”
Sobbalzai sentendomi chiamare da Alfred e mi voltai verso di lui che mi porse le mie valige poiché non gli era permesso entrare nell’edificio. Annuii e ci salutammo rapidamente, per non farmi arrivare in ritardo.
“Le auguro tutta la fortuna possibile, signorino.” mi disse piano.
Sorrisi, mesto.
“Grazie di tutto, Alfred.” sussurrai staccandomi dall’abbraccio.
Osservai l’auto fare retromarcia e poi mi voltai verso la scuola. Prima di entrare, però, lanciai un’occhiata verso l’alto: il moro non c’era più ma il biondino sì e continuava a fissarmi come se fossi stato la promessa vittima di un film horror.





Premettendo che non ho idea di come sarà questo racconto, ci tenevo a dirvi un paio di cose.
Innanzitutto, grazie a chiunque sia qui a leggere, è molto importante per me. In secondo luogo, questa storia per me è meno importante di altre due che sto pubblicando, non per la trama che mi sta molto a cuore ma per una questione di tempo, è semplicemente arrivata dopo. Non me la sento di dirvi che sarò regolare negli aggiornamenti, non ne sono sicura, e perciò prendete pure con le pinze la scadenza di pubblicazione: un capitolo ogni due settimane, ma il Lunedì (quindi il prossimo sarebbe l'8 luglio).
Non so, è una storia strana cui voglio bene senza un motivo particolare ed è la mia prima Yaoi.
A proposito di questo, la storia è segnalata sia come Yaoi sia come Shoen-ai, non è una contraddizione e con il procedere della storia capirete perché.
Grazie mille a tutti.
A presto!
Agapanto Blu

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Capitolo 2
*** Il posto vuoto ***












Capitolo 1: Il posto vuoto

L’interno della scuola era inquietantemente diviso in due colori: bianco e nero. Ogni cosa, dalle piastrelle romboidali del pavimento che alternavano i due non colori, alla pelle delle poltrone. Il piano terra era un unico salone immenso in cui si apriva direttamente il portone d’ingresso e di fronte a me vidi un’altra porta a doppio battente dietro la quale sparivano gli studenti; sulla destra in fondo stavano due enormi camini con davanti le sopracitate poltrone mentre per il resto lo spazio era organizzato con librerie e scrivanie vicine alle pareti in modo da lasciare il vuoto in mezzo. Invece, sulla sinistra, sulla parete di fronte a me correva un enorme bancone che mi fece pensare all’accettazione di un ospedale perché coperto di fogli e carte e ospitante un paio di persone intente a lavorare al computer o con delle cartelle, e invece quella di fondo era un’immensa vetrata che dava sul giardino e da essa entravano ed uscivano alcuni ragazzi. Osservandoli, notai che perfino i loro libri avevano o la copertina nera e le pagine bianche o la copertina bianca e il lato delle pagine nero. Inquietante.
Deglutii, sempre più a disagio, ma prima che potessi fare qualcosa una donna mi si avvicinò. Sembrava uscita direttamente da un romanzo di Jane Austen, solo che lei doveva essere stata l’antagonista più che la protagonista. Doveva avere quarant’anni, non gliene davo di più, e teneva i capelli castani stretti in una crocchia sopra la nuca; indossava semplicemente una camicetta bianca a maniche lunghe dentro una gonna nera che le scendeva liscia fino a terra.
“Mathieu Legris?” mi chiese, avvicinandosi con un sorriso strano. Non sapevo perché, ma lo trovai falso.
Annuii, incerto se darle la mano visto che lei teneva le sue ben strette l’una nell’altra di fronte al ventre.
“Sono la preside, Camille Williams.” si presentò, “Immagino tu sia appena arrivato.”
Annuii, sempre incapace di parlare, e lei sorrise.
“Bene, tuo padre ci ha avvertiti dei vari motivi che ti hanno spinto qui” e io arrossii di botto, imbarazzato, “e puoi star certo che riusciremo a porvi rimedio.”
A quel punto, sbiancai. Cosa intendeva con ‘porvi rimedio’?
“Detto questo,” continuò, “ci tengo a ricordarti che qui abbiamo regole rigide che non permettiamo vengano infrante, perciò ti inviterei a fartele spiegare dal tutor che ti ho fatto assegnare e che sarà il tuo compagno di stanza.”
Non smetteva mai di sorridere e più lo faceva più sentivo il bisogno di scappare via.
“Mi ha fatto chiamare, preside Williams?”
Quasi sobbalzai nel sentire una voce di un ragazzo arrivare alle spalle della donna e interrompere la sua inquietante eloquenza.
La facciata della Williams si increspò solo per un attimo poi tornò a sorridere e si voltò verso colui che aveva parlato. Quando si spostò, mi permise di vedere il volto del mio salvatore e per poco non mi venne un colpo.
Era lui! Il moro della finestra!
A distanza ravvicinata, potevo notare che era più alto di quanto avessi supposto, doveva superarmi di una testa buona, e i capelli castani corti erano abbastanza in disordine rispetto a quelli di altri. Gli occhi scuri erano grandi e scintillavano quasi provocatori su di un naso semplice e un sorriso che sembrava troppo smagliante per essere sincero. Probabilmente mi stavo facendo io delle paranoie.
“Ma certo, Hastings, vieni.” gli disse allargando un braccio per farlo avvicinare e poi posandogli una mano sulla spalla quando lo ebbe fatto.
Lui non fece una piega ma guardò me, quindi probabilmente ero io che mi stavo sognando tutto. Sembrava gentile e mi porse la mano, che strinsi con un po’ d’esitazione.
“Benvenuto alla Chess Academy.” mi disse, tranquillo, “Io sono Ryan Hastings, sono al terzo anno” diciassettenne come me?, sembra più grande “e tu sei?”
“Mathieu Legris.” mi presentai, cercando di non inciampare nelle sillabe, “Terzo anno.”
Mi aspettavo mi chiedesse da dove venivo ma non lo fece, semplicemente mi indicò le valige che avevo addosso e rise.
“Forse è il caso che ti faccia vedere dove lasciarle, eh?” mi chiese.
Annuii, un po’ rinfrancato, e la Williams rise.
“Perfetto, allora!” disse lasciando Ryan e indicandoci la porta alle sue spalle, “E ricordate di essere puntuali a cena: non vogliamo iniziare con il piede sbagliato, vero Legris?”
“No, certo…” mormorai, di nuovo a disagio, ma il moro mi mise una mano sulla spalla invitandomi a seguirlo.
Ryan aprì uno dei due battenti e mi ritrovai di fronte ad una scalinata dai gradini alternati bianchi e neri, illuminata solo da una finestra tra le due rampe opposte che la componevano e perciò un po’ in luce e un po’ in ombra. Lui mi stava seguendo ed era sul punto di chiudere di nuovo il portone quando sentimmo la Williams richiamarlo.
“Sì, preside?” chiese lui, apparentemente tranquillo.
“I capelli, Hastings.” disse lei, con la voce gentilissima, e lui se li aggiustò con la mano, “Alle nove nel mio studio?”
“Certo, preside.” rispose, ma quando chiuse la porta mi parve di vederlo stringere leggermente il pomello, come per calmarsi.
Fu un attimo, poi tornò a me.
“Scusami, altre questioni.” mi rassicurò, sempre sorridendo ma ora sembrava più sincero, “Andiamo?”
Annuii e prima che potessi accorgermene lui aveva afferrato una delle mie due borse.
“No, davvero Ryan, non serve!” tentai ma lui mi ignorò, iniziando a salire le scale.
“Allora, al secondo piano ci sono gli uffici dei professori e le aule, cinque aule normali per le cinque classi più un laboratorio di scienze e uno multimediale che usiamo raramente assieme poi alla biblioteca dell’istituto.” mi spiegò, “Al terzo ci sono le camere dei professori e al quarto e quinto piano stanno le stanze degli allievi. In realtà c’è ancora una soffitta minuscola ma non la sua nessuno. La mensa invece è nel gazebo sul retro, in giardino, quando fa caldo mentre d’inverno viene spostata al piano terra, vicino ai camini sulla destra.”
“Quali sono le regole dell’istituto?” chiesi subito, ricordando la minaccia implicita della Williams.
Ryan sospirò, scuotendo la testa.
“Rispetta gli orari, obbedisci ai professori e vedi di essere sempre in ordine.” mi elencò, “Basilarmente, le regole sono queste. C’è una tabella di orari appesa all’interno della porta della nostra stanza e sul tuo letto ne troverai una copia assieme ai tuoi libri di testo.”
Annuii e rimasi in silenzio mentre salivamo le scale. Avevo visto solo due rampe prima ma in quel momento mi accorsi che ce n’era una coppia per ogni piano, per un totale di otto per arrivare al quarto piano, dove scoprii esserci la mia stanza. La nostra era la prima dalla porta, sulla sinistra, e dentro appariva abbastanza normale.
I due letti a una piazza erano con la testiera contro la parete di fronte alla porta, avevano coperte nere su lenzuola bianche come il cuscino e tra essi stavano due piccoli comodini neri, così come due scrivanie stavano ai due lati della porta e due piccole panche stavano sulle pareti laterali.
“Il tuo è il sinistro, se ti va bene.” mi disse Ryan, “Io sono nel destro dal mio primo anno, perciò…”
Annuii, ringraziandolo, e lo seguii a posare le mie borse sulla panca a sinistra del mio letto, accanto ad un porta di mogano nero –come tutte le altre, ovviamente incassate in pareti bianche–.
“Quello è il bagno, se vuoi darti una rinfrescata. Però ti consiglio di mettere a posto dopo cena.” continuò Ryan, “Rischi di far tardi e non mi pare il caso. Si mangia alle sette e mezza.”
Mi sembrava un po’ presto ma annuii e iniziai a tirar fuori un po’ di cose dalle valige, tanto per essere pulito a cena. Ryan si era seduto sul suo letto, le braccia all’indietro in modo da sorreggersi su di esse, e un sorriso condiscendente in viso.
“Paura?” mi chiese a bruciapelo, “Non parli mai.” Arrossii, di botto, ma lui rise e continuò. “Tranquillo, Mathieu: nessuno dei ragazzi ti mangerà, promesso. Tutto sommato, siamo una bella congrega.”
Lo guardai, imbarazzato.
“Si vede così tanto?” gli chiesi.
Lui rise e annuì.
“Sembra che tu stia aspettando di essere fatto a pezzi alla prima parola sbagliata!” ammise poi mi fece l’occhiolino, “Stai tranquillo, male che vada ci sono io a difenderti.”
Sorrisi, un po’ rassicurato, e promettendogli di fare presto svanii nel bagno.
Posai il ricambio sul ripiano di marmo bianco del lavandino (con perfino le tubature in nero) e mi sciacquai un po’ il viso. Mi guardai allo specchio e quello che vidi fu un diciassettenne terrorizzato, nessuna sorpresa che Ryan l’avesse notato. I capelli castani erano davvero in disordine perciò tentai di aggiustarli come avevo visto in testa agli altri ragazzi, eccezion fatta per il biondino, ma per gli occhi potei fare ben poco: erano del solito color nocciola con sprazzi verdi, ma erano un po’ arrossati dal pianto che ancora cercava di uscire ed apparivano forse troppo liquidi e luminosi. Mi vergognavo a voler piangere alla mia età ma io ero sempre stato così, nonostante gli anni mantenevo la lacrima facile e quando mi arrabbiavo o ero triste piangevo senza riuscire ad impedirmelo.
Il ricordo dell’ultimo dialogo con mio padre mi aggredì come un pugno allo stomaco.
-Che diamine significa gay?!
-Papà, v-vuol dire che…
-Lo so che vuol dire, idiota! Ma è una cretinata! Tu non puoi esserlo, maledizione! Sei un debole, ma non fino a questo punto!
-Papà, ti prego…
-Taci, Mathieu: tuo padre ha ragione! È vergognoso, adesso che facciamo? La stampa ci distruggerà quando saprà la cosa!
-Scordatelo, Michelle: la stampa non scoprirà mai la cosa perché mio figlio non è un finocchio del cazzo!
-Papà, smettila, ti prego…!
-No, smettila tu di chiamarmi ‘papà’! Io non avrò mai un figlio frocio: quando tornerai ad essere normale tornerai anche ad essere mio congiunto!
-Io non…
-Piantala di fare la femminuccia e smettila di piangere! Imbecille. Come diavolo è possibile che sia figlio mio, Michelle?! È nato da una delle tue scopate, non c’è altra spiegazione!
-Ah, adesso sarebbe colpa mia?! Guarda che, se è finocchio, la colpa è del fatto che tu non gli hai insegnato ad essere un maschio, Charles!
Strinsi le mani al ripiano, chinando il capo e chiudendo gli occhi mentre le dighe che avevo accuratamente costruito si spezzavano e lasciavano passare tutte le lacrime accumulate in quei giorni.
Da quel punto in poi, la discussione dei miei era degenerata sui toni di “È colpa tua se nostro figlio è una delusione continua” e cose simili, fino a quando mio padre non aveva emesso la sua sentenza: -Ah, ma adesso basta! Questa è l’ultima che mi fai, Mathieu: hai superato ogni limite! Ci avevo già pensato ma prima di sborsare tutti quei soldi per te volevo aspettare, però a questo punto pagherei anche un occhio della testa per sbatterti lontano da qui e trovare qualcuno che riesca a farti diventare un uomo serio anziché lo smidollato che sei ora. “Gay”, tsk! Alla Chess Academy sapranno rimetterti in riga, vedrai!
L’ultima cosa che mi aveva detto, dopo avermi spedito nella mia stanza, era stato un “Non tornerai prima di essere guarito, dovessero volerci anni!” attraverso la porta e poi ero stato segregato là dentro fino alla partenza, con proibizione di vedere e sentire qualsiasi amico avessi, ovviamente amiche escluse.
Continuavo a piangere e a mordermi la lingua per evitare che il mio compagno di stanza mi sentisse ma volevo solo smettere. Avrei fatto tardi, non avrei trovato la mensa e avrei iniziato malissimo con ripercussioni ad vitam sulla mia carriera scolastica.
Sobbalzai quando sentii due mani posarsi sulle mie spalle e mi voltai, spaventato, per ritrovarmi davanti Ryan. Non sorrideva più, era tremendamente serio, e la presa sulle mie spalle era salda abbastanza da farmi sentire la forma calda delle sue mani.
“Non hai chiuso a chiave, ho bussato ma non mi hai sentito. Volevo farti vedere dove prendere gli asciugamani e dove mettere le cose sporche ma ti ho sentito piangere.” mi spiegò, accennando un mezzo sorriso, prima di fare una leggera pressione per convincermi ad abbracciarlo.
Per quanto in imbarazzo, quel contatto gentile mi fece sentire molto meglio e così lo strinsi continuando a piangere senza riuscire a fermarmi.
“Stai tranquillo. È normale, è il primo giorno. Capita praticamente a tutti, qui, o prima o poi.” mi sentii dire, poi mi parve che la voce di Ryan si facesse leggermente più allegra, quasi stesse sorridendo, “Se può farti star meglio, io ho pianto un sacco di volte da quando sono entrato qui.”
Non ci avrei creduto nemmeno se l’avessi visto. Ryan, con il fisico atletico che percepivo sotto il viso e il sorriso perfetto, non mi pareva affatto il tipo che si permetteva di piangere; però apprezzai il tentativo e mi costrinsi a staccarmi notando che finalmente avevo fermato le lacrime. Mi asciugai il viso con le mani, in fretta, e poi rialzai lo sguardo su di lui, deciso a ringraziarlo, ma mi accorsi con sgomento che la camicia della sua uniforme era costellata di macchie trasparenti.
“Ryan, scusami!” esclamai, capendo che ero stato io a bagnargliela, ma lui scoppiò a ridere.
“Ehy, è un passo avanti!” scherzò, “Mi aspettavo quasi che mi chiamassi per cognome, a questo punto: forse non sei così imbalsamato come sembri!”
Arrossii ma sorrisi, più a mio agio di prima, però poi ricordai una cosa ed esitai.
“Ryan, forse è il caso che ti dica una cosa…” esitai.
 “Che sei gay lo so già.” mi avvertì scrollando le spalle, la tranquillità fatta a persona.
Cosa?! Ma che diavolo…?!
Ryan dovette notare il mio sconcerto perché sorrise.
“Non sono dalla tua sponda, posso dirtelo subito, ma conosco qualcuno che ha un radar incorporato per indovinare la sessualità dei ragazzi in arrivo.” scherzò, “Forse però sono i cinque anni qui dentro che insegnano a capire i comportamenti altrui.”
Aggrottai la fronte.
“Cinque?” chiesi, “Non sei al terzo?”
“Sì, ma ho diciannove anni.” mi spiegò, annuendo, “Ho ripetuto la seconda e adesso ripeto la terza: che vuoi che ti dica, i professori qui mi vogliono così bene che vogliono tenermici il più possibile!”
Mi parve di notare acidità e forse anche rancore nelle sue parole, perciò non commentai e mi limitai ad assicurargli che sarei arrivato presto e a guardarlo uscire dal bagno. Che strano, non mi sembrava il tipo capace di farsi bocciare due volte in cinque anni ma non stava a me giudicare.
Mi aggiustai in fretta, giusto quel tanto da essere presentabile, e uscii, trovando Ryan in piedi fuori dalla porta della stanza, il pomello in mano per tenerla socchiusa alle sue spalle, e intento a parlare fitto fitto con un altro ragazzo. Mi accostai a lui appena in tempo per riconoscere il biondino di prima mentre salutava e se ne andava, sgusciando via con grazia.
Ryan sembrava molto cupo quando riaprì la porta e sobbalzò nel trovarmi davanti a sé. Fu solo un attimo, e riprese il suo sorriso.
“Pronto?” mi chiese.
Annuii, un po’ più deciso, e con lui mi avviai alle scale, sperando di poter dire di essermi già fatto un nuovo amico.
 
La mensa, in realtà, erano tre tavoli: uno di media lunghezza messo in orizzontale e su di una specie di palco, ed immaginai fosse quello dei professori perché vi era la Williams intenta a parlare con un altro uomo, e due più lunghi ancora messi paralleli tra loro e perpendicolari all’altro, e ospitavano i ragazzi. Il tutto era sistemato sotto un enorme gazebo bianco, nel bel mezzo del prato che avevamo raggiunto oltrepassando la porta finestra del piano terra e spostandoci sul retro della scuola.
Notai che gli studenti con lo stesso numero sulla scacchiera erano vicini perciò dedussi che eravamo sistemati per classi e mi accostai ancora di più a Ryan che mi sorrise rassicurante.
Lui si muoveva tranquillo e notai che ogni tanto, quasi senza farsi notare, sfiorava la schiena o posava per un istante la mano sulla spalla ad alcuni ragazzi. La maggior parte di loro, gli lanciava dietro un’occhiata…riconoscente?, e solo alcuni facevano finta di niente per continuare a parlare sottovoce con altri ragazzi.
Il cibo non era ancora in tavola e parecchi posti erano vuoti, soprattutto al tavolo dei professori, ma Ryan tirò dritto verso il fondo del tavolo sinistro e mi fece mettere accanto a lui nel lato interno del tavolo. Se io ero alla sua sinistra, però, il posto alla sua destra era vuoto.
“Ricordati dove sei.” mi disse, “Fino all’anno prossimo, quando si scala per classe, dovrai sederti sempre qui: così notano subito chi manca o chi è in ritardo.”
Annuii e mi sporsi verso di lui quando notai i professori mancanti arrivare all’appello e sedersi assieme alla Williams.
“Quel posto?” gli chiesi, indicando quello accanto a lui.
Mi parve di vederlo stringere le labbra ma poi sorrise di nuovo. Diavolo, ma avevo le allucinazioni?!
“Tranquillo, arriverà.”
Perché mi sembrava stesse parlando con sé stesso?
Comunque, mentiva. Perché il cibo arrivò, la Williams si alzò in piedi e scrutò la sala sussurrando –mano a mano che trovava posti vuoti– qualcosa all’uomo che scriveva alla sua destra, noi mangiammo e ci alzammo per tornare in camera, ma quel posto rimase vuoto.





Abituatevi, dico una cosa e poi ne faccio un'altra: con questa storia sarà così.
Allora, massimo aggiornerò tra due settimane ma è possibile, per non dire probabile che aggiorni prima. Non mi darò scadenze con questo racconto, non ne potrei rispettare in questo momento. Mi dispiace che sia così, davvero, ma non posso dare certezze.
Detto questo, è apparso Ryan, che sarà molto importante per la storia. Vi avviso che i fatti, l'azione della storia, saranno molto rapidi almeno all'inizio: in tre giorni, a Mathieu potrebbe accadere di tutto. Mathieu, a proposito, è preso dal film Les Choristes, che ho rivisto di recente e mi ha spinta a mettere su carta questa storia che mi ronzava in testa da parecchio tempo.
Poi, avete notato i genitori di Mathieu? Che splendida famiglia, non è vero?
E il biondino? Lui si che sarà parecchio importante ;)
Boh, direi che ho detto tutto :)
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 3
*** Gregory Gray ***











Capitolo 2: Gregory Gray

Quando rientrammo in camera, Ryan non era più così tranquillo. Si grattava la nuca in continuazione, come a voler dissimulare con quel gesto il suo nervosismo ma in realtà accentuandolo ancora di più. Non appena ebbi chiuso la porta, si lasciò cadere seduto sul suo letto, puntò i gomiti sulle cosce e si prese le mani l’una nell’altra posandovi sopra le labbra, gli occhi persi su qualcosa che non c’era.
“Tutto bene?” mi osai a chiedergli, sedendomi di fronte a lui sul mio letto.
Ryan scrollò le spalle, senza rispondermi né guardarmi.
“Sono sicuro che non è niente.” provai a dirgli, “Magari il tuo amico biondo è stato male o lo ha chiamato qualche professore…”
Ryan spostò gli occhi stralunati su di me.
“Come lo sai che è lui?” mi chiese, sorpreso.
Scrollai le spalle.
“Ho tirato a caso: è l’unico con cui ti ho visto parlare e mancava perciò ho immaginato fosse lui.” ammisi.
Ryan sorrise mesto alla mia affermazione.
“Sai, Mathieu, lui è un tipo tutto particolare.” mi spiegò, “Siamo entrati qui insieme, stati promossi e bocciati assieme, siamo amici da anni. Gli voglio un bene dell’anima ma è una testa calda, di quelli che creano problemi: è buono come il pane, te l’assicuro, ma non è il tipo che si lascia calpestare e dice sempre tutto ciò che pensa, anche e soprattutto quando farebbe meglio a tacere. Ci sono migliaia di motivi per cui potrebbe aver saltato la cena, ma conoscendolo è perché è riuscito a mettersi nei guai a un’ora e mezza dal coprifuoco.”
Sorrisi mesto, un po’ divertito e un po’ preoccupato per quella descrizione, poi feci due conti. Ormai era meno dieci e il coprifuoco sarebbe stato allo scoccare dell’ora ma le nove mi facevano pensare ad altro, chissà perché… Poi ricordai.
“Ryan, tu non dovevi andare dalla preside?” gli chiesi, sorpreso.
Lui guardò l’orologio sul suo comodino e sbiancò.
“Dannazione!” esclamò saltando in piedi e tirando fuori a bracciate dalla sua panca il necessario per il giorno dopo.
Non ce l’avrebbe fatta in dieci minuti, non se doveva anche correre dalla preside, perciò lo fermai.
“Posso prepararti io la cartella.” mi offrii, “Se siamo nello stesso corso, abbiamo anche lo stesso orario, no?”
Ryan mi guardò, stranito.
“Sicuro?” mi chiese.
Annuii, lanciando un’occhiata divertita alla pila di vestiti e libri che aveva creato sul letto.
“Mi sa che è meglio.” commentai, ridendo, e dopo qualche istante lui si unì a me.
Mi augurò buonanotte, raccomandandomi di spegnere le luci al suono della campanella, e poi uscì.
Sempre sorridendo, organizzai la mia e sua cartella e spostai i nostri abiti in bagno, chiedendomi come ci saremmo organizzati per usarlo, poi iniziai a mettere i miei vestiti nella mia panca. Vestiti, oddio: erano una decina di pantaloni neri e camicie bianche e giacche nere e fazzoletti bianchi e calzini neri e perfino sull’intimo erano stati severi pretendendo il bianco. Ma era o no schizofrenia, una cosa del genere?
Avevo a malapena cominciato quando sentii suonare la campanella. Per un attimo pensai di finire ma poi ricordai la promessa fatta a Ryan e mi sdraiai spegnendo la luce.
Anche al buio si potevano distinguere gli oggetti neri e bianchi e la cosa mi innervosì: avrei pagato oro per avere un barattolo di colore e poterlo lanciare sulla parete o sul soffitto o semplicemente su qualsiasi cosa capitasse alla mia vista.
Sospirai e mi voltai sul fianco sinistro, ritrovandomi senza volerlo a fissare il letto vuoto di Ryan. Infilai un braccio sotto il cuscino per rialzarlo e mi misi a pensare: era stato gentilissimo con me, ma a tratti sembrava incostante. Era come se stesse cercando di farmi sentire a mio agio e al contempo fosse preoccupato da qualcosa che riguardava la scuola. Quel suo amico biondo, per esempio: perché era così in ansia per lui?, in che guaio potrebbe cacciarsi, chiuso qui dentro? D’altra parte, però, la Williams mi aveva messo ansia: il modo in cui si era alzata in piedi per controllare tutti i posti vuoti, l’espressione mentre li dettava all’insegnante alla sua destra e il sorriso con cui poi si era riseduta…era stata agghiacciante. E invece Ryan mi era stato vicino durante lo sfogo nel bagno, cosa che non molti avrebbero fatto per uno sconosciuto.
Non capivo: era come se qualcosa mi stesse sfuggendo, come se tutti mi stessero nascondendo qualcosa…
Non arrivai mai a capire cosa perché crollai addormentato dopo pochi istanti.

Riaprii gli occhi di scatto quando sentii un cigolìo. Avevo il sonno leggero: abituato a vivere in una casa enorme e vuota, ogni piccolo rumore mi metteva in allarme. Sollevai la testa appena in tempo per intravedere il viso di Ryan illuminato dalla luce del corridoio prima che chiudesse la porta e tornasse nel buio.
“Ryan?” sussurrai, sorpreso dall’ora tarda che lessi sulla sveglia analogica.
Allungai la mano per accendere la luce ma lui fu più rapido ad afferrarmi il polso.
“No!” sussurrò ma subito dopo, appena mossi la mano, sibilò.
Il suo palmo, quando mi aveva afferrato, era caldo e leggermente gonfio.
“Stai bene?” gli sussurrai, tirandomi a sedere, ma lui mi spinse con delicatezza a sdraiarmi di nuovo.
Il suo sorriso era visibile anche al buio ma pareva rigido.
Devo piantarla con queste sensazioni: non è che ovunque attorno a me stiano complottando qualcosa!, mi imposi ma poi tornai con l’attenzione a Ryan.
“Tutto a posto, scricciolo.” mi prese in giro, “Sono solo stato tanto stupido da chiudermi la mano nella porta dell’ufficio della preside, nulla di troppo grave.”
“Devi disinfettarti, allora.” gli imposi, tentando di suonare severo abbastanza da farlo obbedire.
Ovviamente, rise.
“Tranquillo, lo farò” mi promise, “ma ora torna a dormire ‘ché, se ci beccano a parlare, sono guai.”
Obbedii, sdraiandomi di nuovo sul fianco. Rimasi in silenzio sentendo i passi di qualcuno nel corridoio, ma non potei fare a meno di notare che Ryan si era messo a letto senza disinfettare un bel cavolo.
 
Fu con orrore che scoprii che la campana del coprifuoco era anche la campana della sveglia, delle ore di lezione, dei pasti e di qualsiasi altra cosa in quella scuola. Mugugnai qualcosa quando suonò alle sei del mattino e sentii distintamente la risata di Ryan, che mandai a quel paese senza tante cerimonie. Da sveglio, ero l’essere più placido e mite dell’universo e lo stesso da addormentato, ma in quello stadio di mezzo tra i due diventavo parecchio irritabile e sconvolgevo la maggior parte delle persone che mi avevano conosciuto solo in stato normale. Esattamente come Ryan, che rimase zitto per un istante per poi di ridere più di prima.
“Ti odio…” bofonchiai, il viso seppellito nel cuscino.
“Ho capito, vado prima io.” rise lui, tranquillo.
Quando sparì in bagno, mi costrinsi a tirarmi a sedere e a cercare di mettere a fuoco la stanza. Mi resi conto che ero sopravvissuto indenne alla prima notte, paranoie a parte, e che era un notevole risultato, però sapevo che la parte più complicata sarebbe stata iniziare con il piede giusto le lezioni. Sospirai rendendomi conto che, se il mio carattere mi rendeva difficile la socializzazione in una scuola normale, figurarsi in una Accademia come poteva esserlo quella.
“Ben svegliato, scricciolo!” esclamò Ryan uscendo dal bagno impeccabile come il giorno prima.
Stavo per intimargli di non chiamarmi ‘scricciolo’ quando si passò la mano destra tra i capelli e notai che aveva il dorso letteralmente viola.
“Dio Santo, che razza di porta era?!” esclamai, prima di riuscire a fermarmi, saltando in piedi, “Era un portone blindato!” Che strano, notai e prima di pensarci ero già lì che chiedevo: “Perché ci sono più lividi?”
Ryan si osservò la mano, neanche la vedesse allora per la prima volta, e mi accorsi che effettivamente anche il palmo era abbastanza gonfio sebbene solo come conseguenza al gonfiore del dorso.
“Perché sono un imbranato.” mi disse Ryan, sorridendo, “Mi sono chiuso la mano nella porta, l’ho riaperta ma c’era la finestra dell’ufficio spalancata e l’aria l’ha fatta chiudere di nuovo, sempre sulla mia mano.”
Aggrottai la fronte, avvicinandomi per esaminare i lividi, ma Ryan mi spinse in bagno.
“Non fare la mammina in pena, per favore, visto che quel posto è mio e cambiati in fretta o faremo tardi a colazione!” mi impose.
Sbuffai e obbedii ma niente riusciva a fermare quella concatenazione di immagini e pensieri che mi riempiva la testa. Mi lavai e cambiai, misi a posto capelli e fazzoletto e feci il nodo alla cravatta più dritto che mi fosse mai riuscito. Baldanzoso per il risultato, uscii dal bagno e trovai Ryan con in spalla lo zaino.
“Hai controllato?” gli chiesi, indicandolo, ma lui scosse la testa.
“Nah, mi fido.” rise, accostandosi alla porta mentre io prendevo la mia cartella, “Andiamo?”
Annuii, più tranquillo, ma quando uscimmo tornai al mio dubbio di prima.
Cercavo di immaginare la scena in cui Ryan si faceva male ma continuavo a bloccarmi nello stesso punto, senza riuscire ad andare avanti: insomma, perché un ragazzo, dopo essersi chiuso una mano in una porta, dovrebbe aprire quest’ultima ma lasciare la mano sullo stipite?
 
Dopo colazione, scoprii che le lezioni iniziavano alle otto.
Il secondo piano era organizzato come una città romana, con due corridoi che creavano una croce indicando i quattro punti cardinali. Su ogni braccio dell’asse verticale della croce stavano due porte per la lato, che conducevano ad altrettante classi, mentre sulle braccia dell’asse orizzontale stava una porta per lato che conduceva ad un’aula più ampia. Quindi le totali quattro aule più grosse erano state adibite a laboratorio di lingua e informatica -a SudOvest-, laboratorio di scienze e fisica -NordOvest-, laboratorio di musica -NordEst- e biblioteca -SudEst-. Restavano così otto aule agibili: di fronte alla nostra stava quella della quarta, prima della nostra a sinistra stava quella della seconda e a destra quella della quinta; entrando dalle scale, la prima sulla sinistra era una specie di bidelleria e quella a destra l’ufficio del vice-preside, seguite a sinistra dall’aula della prima e a destra dall’ufficio della preside.
Ryan mi snocciolò queste nozioni in fretta, mentre camminavamo in mezzo ad altri ragazzi verso la nostra aula, quella sulla sinistra all’estremo Nord e quindi opposta alla porta delle scale. Entrammo insieme e la trovammo ancora mezza vuota: i banchi tutti singoli accoglievano solo qualche ragazzo che stava già sistemando i libri, la cattedra accanto alla parete opposta alla porta era vuota e la lavagna dietro di essa pulita, c’era anche una grande finestra sulla parete destra mentre quella di sinistra doveva probabilmente dividere la nostra da un’altra aula.
“Vieni, ti faccio vedere il tuo posto.” mi disse Ryan, prima ancora che potessi pormi il problema, “Io sono qui” mi disse indicando il banco più vicino alla finestra nella terza delle cinque file da quattro posti poi indicò quello subito a sinistra del suo, “e qui stai tu.”
Obbedii e mi sedetti posando la cartella sulla sedia e prendendo il libro nero della prima ora, lanciandomi qualche occhiata attorno tanto per studiare la situazione. I ragazzi si preparavano ma stavano tutti zitti anche se il professore ancora non era arrivato, perfino Ryan non parlava e la cosa mi sorprese parecchio. Il posto alla mia sinistra era vuoto e mi ritrovai a chiedermi chi ci fosse, anche se la distanza di almeno un metro tra banco e banco rendeva difficili se non impossibili le interazioni tra alunni durante la lezione.
Stavo per chiedere a Ryan quando il diavolo mostrò le corna: il biondino amico del mio caro tutor si sedette placido alla mia sinistra e mi sconvolse. Si sedette pesantemente sulla sedia, le mani in tasca, e dovetti ammettere con me stesso che non si poteva certo dire che fosse ordinato: aveva la camicia fuori dai pantaloni, la cravatta larga e il fazzoletto stropicciato, inoltre i suoi capelli lunghi lo facevano svettare rispetto a noi altri tutti col taglio corto. Paragonato all’ambiente, era incredibilmente fuori luogo eppure sulle labbra aveva un sorriso soddisfatto, quasi un ghigno, che faceva capire quanto a lui poco importasse dell’opinione altrui. E in quel suo caos appariva bello. I capelli erano biondi naturali perché anche le sopracciglia erano chiare eppure alcune ciocche spuntavano più scure, addirittura nere, e gli occhi erano di un azzurro denso e luminoso, quasi liquido, che svettava in mezzo al bianco e nero dell’intera scuola.
Poi fu il suono della campana della prima ora e arrivò la professoressa. Mi alzai subito in piedi, come tutti gli altri tranne il biondino che lo fece lentamente, e lasciai perdere lui per osservarla e cercare di capirla: era una donna che per poco non scambiai per la Williams perché vestiva esattamente come lei, con tanto di crocchia sulla nuca che però era fatta con i capelli biondi, ma era più giovane, forse trentenne. Era carina e aveva un sorriso gentile sulle labbra ma provai un brivido spiacevole quando mi passò accanto e mi guardò.
Piantala, Mathieu! Non vorrai cominciare come ieri?!
Mi sedetti quando lo fecero gli altri e di nuovo il biondino lo fece in ritardo rispetto alla classe. La professoressa gli scoccò un’occhiata ma non disse nulla, continuò a sorridere poi prese il gesso ed iniziò a scrivere alla lavagna il mio nome.
Sbiancai ma finsi indifferenza mentre mi presentava alla classe e mi faceva domande su di me. Tutto sommato, non fu nulla di particolare: di dove fossi, quale scuola avessi frequentato prima, come facessi da francese a parlare così bene l’inglese (mia madre era francese e mio padre inglese ma nessuno dei due si era mai piegato a cambiare la propria lingua per il figlio, le avevo imparate entrambe tanto da poter essere ritenuto madrelingua in entrambi gli Stati); cose normali, insomma, e poi mi lasciò sedermi di nuovo.
Per una mezzora la professoressa Spencer ci spiegò il programma del nuovo anno poi iniziammo la prima lezione. Prendendo il libro quando ce lo chiese, scoccai un’occhiata al biondino e rimasi sgomento nel notare che si era praticamente sdraiato sulla sedia, aveva infilato le mani in tasca e teneva le gambe lunghe sotto il banco. Tornai subito a concentrarmi sul libro, sperando di non aver involontariamente attirato l’attenzione su di lui, e sentii un sussurro alla mia destra.
Voltai appena il capo e vidi Ryan, la sedia inclinata all’indietro, sussurrare qualcosa allo studente alle sue spalle approfittando del fatto che la prof fosse voltata. Il ragazzo annuì e poi si sporse alla sua sinistra, riferendo il messaggio al ragazzo dietro di me che passò voce per l’ennesima volta facendola arrivare allo studente dietro il biondino. Proprio quest’ultimo ricevette il testimone e ascoltò la frase da Ryan senza mutare espressione. Si voltò verso di me e arrossii di botto prima di accorgermi che voleva il suo amico. Mi spostai indietro per permettere loro di parlarsi, tenendo però sotto controllo la prof che scriveva alla lavagna.
Ryan gesticolava verso l’amico, a quanto capivo per convincerlo a mettersi un po’ a posto, ma questo continuava a sorridere e a far cenno di no. Alla fine, il mio amico perse la pazienza.
“Piantala di fare l’idiota!” sibilò al biondo, a voce bassissima, ma questo scrollò le spalle.
Mi sentii sulle spine per il nervosismo che notai nel moro: per quel poco che lo conoscevo, perdeva raramente la calma. Osservai il biondo di cui ancora non conoscevo il nome ma questo tornò a guardare la lavagna ignorando il suo amico.
“Gregory!” ringhiò Ryan, sempre a bassa voce.
Il biondo non si voltò ma il ragazzo dietro di lui gli sussurrò qualcosa con espressione preoccupata. Effettivamente, Ryan rischiava di farsi beccare se continuava ad alzare la voce.
Guardai il mio compagno di stanza, sperando che capisse che doveva limitarsi, ma l’unica cosa che ottenni sillabandogli un “Sta’ calmo” fu che si voltasse sbuffando verso la prof cominciando a battersi una matita sulla mano sinistra, fino a quando colpì un livido violaceo e dovette mordersi le labbra per non imprecare.
Sospirai ma poi aggrottai la fronte: non era la destra, quella che si era chiuso nella porta?
“Gray.” Per poco non sobbalzai sentendo la voce della Spencer ma poi mi accorsi che, per quanto il significato fosse lo stesso (‘Le-gris’ vuol dire ‘Il grigio’ in francese), quello non era il mio cognome. Ma chi…? “Si alzi in piedi.”
Sentendo Ryan imprecare a mezza voce, capii di chi si trattava prima ancora di vedere il biondo (era lui Gregory?) alzarsi in piedi dalla sua posa indolente.
Mi aspettavo che la Spencer gli dicesse qualcosa ma invece tornò a spiegare indicando con la sua bacchetta una citazione alla lavagna, come se non si fosse mai interrotta. Non gli disse di sedersi di nuovo e lui non lo fece.
Per tutta le due ore successive, rimase ostinatamente in piedi.
 
Al suonare della seconda ora, la Spencer si voltò e ci sorrise.
“Bene allora, con qualcuno mi vedrò dopo; per tutti gli altri: a domani!” ci salutò, uscendo dall’aula con tranquillità.
Ci alzammo per salutarla e solo quando ci sedemmo tutti tornò a sedersi anche il biondo.
“Sei un cretino, Gregory!” lo insultò Ryan, la voce cattiva sembrava piena di veleno e mi ritrovai a pensare che fosse un po’ troppo visto che già ci aveva pensato la professoressa.
“Ryan…” tentai, mediando per Gregory che non doveva essere al massimo della forma.
“Tranquillo, Mathieu.” Mi voltai con sorpresa sentendomi chiamare per nome dal biondo e lui mi sorrise, in modo molto più gentile di come avesse fatto con la Spencer, “Rompe tanto ma alla fine mi perdona sempre.”
“Io rompo?!” esclamò Ryan, alzando un po’ troppo la voce e facendosi zittire da tutti gli studenti, ora voltati verso di noi, “Scusa se cerco di infilare un po’ di sale in quella tua zucca vuota!”
“Come se tu ti comportassi tanto diversamente, eh?” lo rimbeccò Gregory, diventando così serio da sorprendermi.
Ryan si zittì e, sebbene continuasse a fissare Gregory malissimo, non commentò più.
 
Al suonare della fine della sesta ora, mi accorsi di non ricordare nulla dei due professori che si erano susseguiti dopo la Spencer, di italiano. Un uomo inquietante che ci aveva fatto matematica e uno un po’ meno che ci aveva fatto scienze, ma nulla di più. Non ero riuscito a concentrarmi molto ed era stata una fortuna che i due non mi avessero chiesto nulla perché non avrei saputo rispondere nemmeno alla domanda “Come ti chiami?”.
La causa era semplice: Ryan. Gregory era relativamente più facile da capire, viste le parole dettemi dal mio amico la sera prima, ma era quest’ultimo a preoccuparmi: sembrava davvero in ansia, dopo l’episodio della Spencer. Potevo ammettere che anche io ero rimasto sconvolto dalla scena ma dalla sua reazione sembrava più che si aspettasse qualcos’altro da un momento all’altro. Eppure non mi pareva che Gregory fosse più stato tanto strano, dopo l’episodio. Sì, era rigido e collaborava poco, ma nulla di più. D’altra parte, la sua frase mi preoccupava: aveva detto che Ryan si comportava esattamente come lui, ma io non riuscivo a capire. A me sembravano diversi come il giorno e la notte! E poi c’era la mano del moro: era la destra o la sinistra che si era chiuso nella porta?!, io ricordavo la destra, ma non potevo negare che i lividi sulla sinistra ci fossero e l’altra non era nella mia visuale perciò mi sbagliavo? Non ne ero sicuro.





Lo so, sembra inutile, ma non lo è!
Innanzitutto, vi presento il nostro biondino: Gregory Gray, professione combinaguai. Come vi pare?
Passiamo al resto: sarà Mathieu che soffre di esagerate reazioni d'allarme o c'è davvero qualcosa di strano? E Ryan? Che gli è capitato? Credete alla storia della porta?
Dunque, nel prossimo capitolo avremo qualche "rivelazioncina da poco" che darà l'imput a questa storia.
Aggiornamento previsto: Mercoledì prossimo (cercherò di impormi un capitolo a settimana, proprio di Mercoledì)
Detto questo, grazie a tutti e a presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 4
*** Una tremenda scoperta ***











Capitolo 3: Una tremenda scoperta
 
Ryan si alzò in fretta dal suo posto appena l’insegnante fu uscito e puntò dritto su Gregory.
“Ti detesto quando fai così: devi piantarla!” gli sibilò contro, piantando le mani sul suo banco.
Il biondo sbuffò.
“Sai che non lo farò mai, vero?” gli chiese, senza spostarsi da seduto sulla sedia.
“Allora lasciati aiutare!” esclamò Ryan, non più irritato ma…triste.
Gregory gli sorrise.
“Sai benissimo che non farò mai nemmeno questo.” ribatté, poi si alzò e mise una mano sulla spalla del moro, “Sono onorato del fatto che dopo cinque anni continui a farmi la paternale, davvero, ma adesso preoccupati del marmocchio” e indicò me, “visto che è a malapena cosciente di essere al mondo, figurarsi se sa come sopravvivere qua dentro.”
Arrossii, imbarazzato e umiliato, ma non dissi nulla perché Ryan mi precedette.
“Gregory, lo scricciolo è più furbo di quanto io pensassi.” disse, ignorando la mia presenza, “Te ne do atto, avevi ragione tu: ma ora perché non la smetti di voler fare l’idiota tutto da solo e non lasci che ti aiutiamo anche noi?”
No, fermi, mi sono perso qualcosa: gli sta dicendo di fare l’idiota ma in compagnia?!
Ero sbalordito e non ci capivo davvero più nulla. Era come se mi fossi iscritto ad un corso di chimica avanzata senza mai aver fatto scienze in vita mia: mi mancava qualcosa alla base per poter capire e per quanto provassi non potevo raggiungere le conoscenze degli altri.
Gregory sembrò sul punto di rispondere qualcosa, poi mi notò con la coda dell’occhio. Guardò Ryan.
“Lo sa già?”
Il mio amico sbiancò leggermente e deglutì ma scosse la testa, lanciandomi un’occhiata dispiaciuta prima di rispondere: “Non ancora.”
Gregory annuì e tornò alla domanda di prima.
“Non ve lo lascio fare, perché siete in ritardo per il pranzo: avanti, march!” ordinò spingendo Ryan per le spalle verso la porta.
Preparai la mia roba in fretta e lo seguii come fossi il suo cagnolino. Sulla porta però mi fermai.
“Tu non vieni?” chiesi a Gregory, notando che aveva parlato di ‘Voi’ non di ‘Noi’.
Lui mi sorrise e mi scompigliò i capelli, costringendomi a difendermi la testa con le braccia, tanto per ribadire il suo essere mezza testa più alto di Ryan e di conseguenza una e mezza più di me.
“Nah, marmocchio: vi raggiungo dopo, adesso ho da fare.”
“Piantatela, entrambi!” mi lamentai, “Tu di darmi del marmocchio e tu di darmi dello scricciolo!”
Sia Gregory che Ryan, così come tutta la classe attorno a noi, scoppiarono a ridere.
“Come vuoi, marmocchio!”
“D’accordo, ma adesso andiamo, scricciolo!”
Imprecai mentre Ryan, afferratomi per un braccio, mi trascinava lungo il corridoio, diretto al piano terra e al gazebo.
“Vi odio…” borbottai, ma mentivo e lo sapevano tutti.
 
“Capisco perché non c’è la palestra qui.” ringhiai, arrivato al fondo delle scale, “Non ce n’è bisogno, con tutte ‘ste rampe!”
Ryan rise, scuotendo la testa.
“Sei impossibile, scricciolo.” mi riprese, sempre usando quel fastidioso soprannome, poi aggiunse, prima che lo azzannassi, “Comunque, ce la fai a raggiungere il gazebo da solo? Sono sei ore che devo andare in bagno e a questo punto sto per scoppiare!”
Risi, tanto più che avevo notato il movimento della sua gamba durante la sesta ora, e annuii.
“Ci penso io, Ryan.” si intromise il ragazzo che era dietro a Gregory in classe.
Era un mio coetaneo un po’ più basso di me, almeno lui!, con corti capelli neri, occhi castani e i tratti ancora un po’ rotondi da bambino. Mi mise un braccio attorno alle spalle con espressione comprensiva.
“Tranquillo, Mathieu: siamo passati tutti sotto le grinfie di Ryan, prima o poi.” mi disse, sospirando come uno che la sa lunga, “È la classica mamma chioccia: povero chi si troverà ad essere anche il suo compagno di stanza!”
“Sempre io, quindi.” sospirai alzando gli occhi al cielo.
“Ah sì?” mi chiese, sorpreso, “Be’, allora sì: povero te!”
“Scott.” il ragazzo si voltò verso Ryan che gli mostrò le tre dita centrali della mano sinistra, piena di lividi, alzate, “Leggi fra le parentesi.”
Scott gli fece la linguaccia mentre io scoppiavo a ridere e poi mi diede una pacca sulla spalla così insieme ci dirigemmo al gazebo. Eravamo ad un passo dal tavolo quando me ne accorsi.
“Oh no.” sussurrai quando il dubbio mi colpì e subito iniziai a cercare nello zaino.
“Che hai?” mi chiese Scott.
“Ho lasciato il libro di inglese sotto al banco!” esclamai, sconvolto.
Ma come potevo essere così stordito?! Lo sapevo, la storia Gregory-Ryan mi aveva distratto… per cui non era tutta colpa mia.
“Cavolo!” esclamò Scott, “Guarda che poi chiudono le aule e non ti lasciano più entrare a meno che non abbiate lezioni al pomeriggio. Ti serve per domani quel libro?”
Annuii, detestando in cuor mio più di ogni altra cosa al mondo la Spencer e i compiti che ci aveva dato.
“Allora mi sa che ci tocca andarlo a prendere.” commentò Scott, lanciando un’occhiata verso il tavolo professori per controllare se qualcuno ci avesse visto.
“Vado io, tu va’ a sederti.” gli dissi, rimettendomi lo zaino in spalla, “Almeno se torna Ryan, non gli viene un infarto perché siamo scomparsi nel nulla.”
Scott rise, a bassa voce, e annuì.
“D’accordo, ma il fatto che io lo avvisi potrebbe non salvarti da una ramanzina di Mr-Vi-Avevo-Detto-Di-Aspettarmi-Al-Tavolo-Bambini: sei avvertito!”
“D’accordo, allora a dopo.” lo salutai, ridendo a mia volta e allontanandomi verso la porta a vetri.
Attraversai il primo piano e feci le scale quasi di corsa per poi rallentare arrivato al secondo piano. Mi avviai verso la classe con calma ma mi impietrii quando sentii uno strano schiocco, seguito da qualcos’altro, giungere proprio dall’aula. Aggrottai la fronte, confuso, e rallentai ancora di più. La porta era socchiusa e mi accostai ad essa cercando di fare meno rumore possibile. Sentii un sibilo, di nuovo uno schiocco e poi quel suono.
Era stranissimo, mi ricordava molto un…un gemito soffocato, ecco.
Sbirciai attraverso l’apertura con un occhio e vidi, di fianco, Gregory in piedi davanti alla Spencer. Lui aveva le braccia tese in avanti, così come le mani, e stringeva le labbra. La professoressa lo fissava con serietà, le braccia incrociate e in una mano la sua onnipresente bacchetta di legno che avevo notato essere in dotazione a tutti gli insegnanti.
Non capii cosa stessero facendo finché non vidi la Spencer colpire le mani di Gregory con la bacchetta. Ci fu il sibilo a malapena udibile mentre calava, lo schiocco quando il colpo andò a segno e poi il gemito trattenuto del biondo.
Gelai. Non riuscivo a pensare a niente, sentivo gli occhi bruciare per la secchezza poiché li avevo sgranati e non trovavo più la forza di sbattere le palpebre. Continuai a guardare la Spencer che diceva qualcosa a Gregory, le braccia di nuovo incrociate.
La donna si spostò da davanti al ragazzo e prese un libro dalla copertina nera da sopra la sua cattedra poi lo porse al biondo che lo prese con espressione confusa. Lei gli disse ancora qualcosa e sorrise, in modo molto inquietante.
Gregory lesse qualcosa all’interno della prima pagina del libro ma sbiancò e si diresse rapido verso la porta, attraversando tutta la classe in mezzo ai banchi. Quando aprì, non ebbi neanche la forza di spostarmi o di dire qualcosa: lo fissai semplicemente in viso. Era più pallido di oggi e sulle labbra non aveva né il suo ghigno né il sorriso spensierato, gli occhi azzurri sembravano agitati.
“Mathieu, vattene da qui.” mi ordinò a bassa voce porgendomi il mio libro di inglese ma io non riuscivo a muovermi.
Mi prese per i polsi e mi fece prendere il volume a forza ma io abbassai gli occhi sulle sue mani, dove si stagliavano rossi i segni dei colpi, più di quanti io avessi sentito o immaginato e temuto, e mi venne da vomitare.
“Mathieu, torna in mensa, mi hai capito?!” mi sussurrò ancora, stringendo la presa sulle dita e facendo aumentare i conati che avevo, “Va’ giù, cerca Ryan e stai con lui, va bene? Me lo prometti, marmocchio?”
Scossi la testa, incapace di fare altro, ma la Spencer ci interruppe.
“Gray, ti ho permesso di restituire il libro al tuo amico ma adesso è meglio che lui vada in mensa. A meno che non desideri che io lo punisca per aver dimenticato il materiale scolastico in classe e per aver mancato l’orario del pranzo, è così?”
Rabbrividii nel sentire le sue parole e Gregory la insultò con il solo movimento delle labbra.
“Per il bene di entrambi, marmocchio: va’, per favore.” mi sentii dire, mentre la sua mano sempre più gonfia e tendente al viola si posava sulla mia spalla e mi spingeva a forza lungo il corridoio per le scale.
Sentii la porta richiudersi, questa volta del tutto, ma non riuscii a muovermi fino a quando non sentii un nuovo schiocco. Gregory gemette un po’ più forte e non volevo sapere se lo avesse fatto solo per farmi scappare o se lei l’avesse colpito con più forza.
“Basta!” mi ritrovai a dire, le mani -anche se una occupata dal libro- sulle orecchie mentre correvo a rotta di collo fino alla scalinata.
Non scesi i gradini verso la mensa, non avevo il coraggio di farlo, ma li salii fino al quarto piano. Entrai nella mia stanza e mi chiusi la porta alle spalle poi lasciai cadere il libro a terra continuando a tapparmi le orecchie.
“Basta, basta!”
Doveva essere tutto un incubo, non poteva essere vero.
Cosa succedeva di sotto? La Spencer aveva finito o continuava? Per colpa mia, Gregory avrebbe subito di più?
Un flash mi colpì, ricordandomi l’invito che la preside aveva fatto a Ryan. Era stato dopo avergli rimproverato l’avere i capelli fuori posto, dopo che lui l’aveva praticamente interrotta nel minacciarmi. La sua scusa, i più segni viola, il fatto che mi paresse averli su entrambe le mani e non su una sola come sosteneva lui, la palese impossibilità della sua spiegazione alle mie domande…
Anche lui. Hanno picchiato anche lui, fu l’unica conclusione cui riuscii ad arrivare.
Saltai in piedi e corsi in bagno, appena in tempo per dare di stomaco nel wc. Quando stetti ‘meglio’, mi lasciai cadere seduto con la schiena e la nuca contro il muro. Tanto per cambiare e sentirmi più meschino e inutile che mai, chiusi gli occhi e piansi.
 
“Mathieu?!”
Sobbalzai quando sentii la voce di Ryan.
Doveva essere passata un’ora, forse un’ora e mezza, non ne avevo idea. Probabilmente aveva finito di mangiare ed era venuto su appena aveva potuto, notando che non c’ero. Se Scott gli aveva detto che ero andato a cercare il libro e lui aveva idea di cosa sarebbe successo a Gregory, ecco che Ryan doveva essere in panico.
“Mathieu, dannazione, non azzardarti a farmi uno scherzo del genere!” lo sentii esclamare poi la maniglia della porta del bagno si abbassò, “Mathieu, sei qui? Scricciolo?”
Non risposi, non ne avevo proprio la forza, e rimasi fermo ad ascoltarlo chiamarmi oltre la porta. Dopo poco, Ryan iniziò a preoccuparsi e a sputare maledizioni e minacce che sapevo non avrebbe mai messo in atto.
“Cosa succede, qui? Che stai facendo, Hastings?”
Rabbrividii nel riconoscere la voce della preside Williams e raddrizzai la testa di scatto.
“Dov’è Legris?” chiese ancora, senza permettere al mio compagno di rispondere.
“Sono qui.” mormorai, la voce roca, aprendo la porta del bagno.
La Williams sollevò un sopracciglio scuro, scrutandomi.
“Come mai assente al pranzo?” mi chiese, fintamente gentile.
“Non sono stato bene…” e mai menzogna fu più veritiera. Per poco non vomitai di nuovo solo alla vista del suo sorriso.
“Bene, sono contenta non sia stato nulla di più.” disse, gentile all’apparenza, restando sulla porta, “Vado. Non fate più così caos, mi raccomando.”
Mi accorsi di Ryan solo quando, non appena se ne fu andata la preside, scattò da accanto alla porta del bagno per chiudere quella d’entrata.
“Io ti ammazzo!” mi ringhiò contro venendomi addosso e afferrandomi per le braccia per scuotermi, “Perché diavolo non mi hai risposto?! Ho girato tutta la scuola per trovarti! Che ti costava dirmi ‘Ryan, non sto bene, lasciami in pace’?! E poi non ci si chiude mai a chiave quando si sta male! Se avessi perso i sensi?! Mi hai fatto stare in pena! Ho pensato…”
“Hai pensato che avessi visto la Spencer picchiare Gregory?”
Ryan smise di colpo di parlare e di scuotermi, pallido e sconvolto. Non avevo idea dell’espressione sul mio viso, non volevo nemmeno saperlo: mi sentivo solo molto ma molto stanco. Volevo andare a dormire così, con un po’ di fortuna, magari mi sarei svegliato a casa mia, a Parigi, lontano da quegli inglesi pazzi e da quella scuola maledetta e in bianco e nero.
Ryan mi guardò in viso ancora un po’ poi la sorpresa fu sostituita dalla tristezza. Mi ritrovai abbracciato da lui ma non riuscii a ricambiare il gesto fino a quando non gli sentii dire quelle dannate quattro parole: “Mi dispiace tanto, scricciolo.”
A quel punto lo strinsi, rimettendomi a piangere e odiandomi per questo, e senza sapere come mi ritrovai a tirargli dei pugni addosso.
“Dovevi dirmelo, maledizione!” gli stavo dicendo, senza urlare perché avevo ancora in mente la minaccia della Williams, “Aveva le mani rosse, stavano diventando gonfie! E sei un idiota perché me l’avresti dovuto dire quando la preside ha picchiato te! Altro che porte e porte! Ti odio!”
Ryan fu gentile anche in quell’occasione, mantenne la calma e mi permise di aggredirlo, per quanto ingiustamente, fino a che non mi fui sfogato del tutto e poi mi aiutò a sedermi sul mio letto, mettendosi accanto a me.
“Come ti senti?” mi chiese, piano, “Va’ un po’ meglio?”
“Avresti dovuto dirmelo.” borbottai per l’ennesima volta, poco restio a scollarmi da quella convinzione. Sentivo come se fossi potuto andare in pezzi se avessi mollato quella certezza, era come l’unica cosa fissa cui riuscivo ad aggrapparmi.
“E come avrei potuto fare?” mi chiese lui, ridendo amaro, “Sarei dovuto venire da te e dirti ‘Ehi, scricciolo, guarda che qui picchiano i ragazzi, se non diventano ciò che gli insegnanti e le loro famiglie vogliono’. Avrei dovuto dirti così?”
Scossi la testa ma non risposi perché non sapevo cosa dire. Lo fece lui.
“Scricciolo, qui le cose vanno così da anni. Io e Gregory siamo stati gli ultimi ad avervi fatto un anno normale. Eravamo in seconda quando la Williams è diventata preside e ha cambiato tutto qui. Perché credi che ci abbiano bocciati ad ogni anno? Diamo fastidio, non ci pieghiamo e proteggiamo i piccoletti come te, che arrivano qui come cuccioli spaventati. Proviamo a resistere, anche se a volte paghiamo per questo. Credimi, Gregory sa sempre a cosa va incontro quando fa uno dei suoi colpi di testa, quando provoca gli insegnanti e la Williams, quando sfida la loro autorità. Io posso anche non sopportare che gli facciano del male, è mio amico, ma sono consapevole che ciò che fa è come una resistenza passiva dentro questa scuola. Non avresti dovuto scoprirlo così, hai ragione, ma cercavo di tenerti fuori da questo il più possibile. Io e Gregory siamo legati ma diversi: lui attacca, io difendo; lui provoca i nemici, io proteggo i possibili amici. Siamo così.”
“Sentivo i suoi gemiti nel corridoio…” mormorai, le immagini ancora lì nella mia testa, che si ripetevano ancora e ancora senza sosta, “L’ho vista quando lo colpiva…”
“Lo so. Credimi, ci sono passato anche io e so che è terribile vederlo per la prima volta, forse è peggio anche della prima volta in cui le prendi. Però conosco Gregory e starà benone, te lo assicuro. Ha la pellaccia dura, lui.”
Dura, sì, ma soffriva lo stesso. Sarebbe stato bene, certo, i lividi non sarebbero rimasti in eterno, ma l’umiliazione? La Spencer l’aveva umiliato, tanto più costringendolo a portarmi il libro per fargli sapere che io ero lì e che avevo visto tutto, che ero sconvolto e che lui non poteva far nulla per aiutarmi. Se Gregory era come Ryan, allora era stato questo a ferirlo di più: sapere che, per quanto facesse, lei aveva il coltello dalla parte del manico.
“Voglio andare via da qui…” mormorai, pur consapevole di passare per il ragazzino piagnucoloso. Però, cavolo, avevo diciassette anni! Avevo paura: stava succedendo tutto e tutto insieme, tra l’altro pure in fretta.
“Anche io, scricciolo.” sussurrò Ryan e percepii una vera nostalgia nella sua voce, “Credimi, in cinque anni sono tornato a casa tre mesi, tra il primo e il secondo. Sono quattro anni che sono bloccato qui dentro perché i miei non fanno richiesta per riavermi a casa nemmeno quelle due settimane che la Williams ci concederebbe in estate. Mi manca mio fratello e forse anche un po’ mia madre, mi manca la mia ragazza che era qui al primo anno ma è dovuta andarsene quando la scuola è diventata solo maschile e mi manca casa mia.” rise amaro, “E invece mi aspettano ancora due anni almeno, ma probabilmente quattro visto l’odio della Williams per me. Dovrei stare pensando all’Università e invece penso solo a tenere i miei amici lontano dai guai.”
Mi staccai, vergognandomi profondamente per essermi lamentato: a confronto di Ryan, io non avevo proprio nulla per cui piangere.
“Scusa…” mormorai, ma lui mi interruppe.
“Non volevo farti sentire in colpa, scricciolo.” sorrise anche se mesto, “Solo farti capire che è normale: tutti vogliamo tornare a casa e tutti ogni tanto piangiamo. È il minimo: non saresti normale se non facessi così.”
Annuii, esausto, e lui mi posò una mano sulla fronte.
“Sei un po’ caldo, probabilmente non ti sei ancora ripreso del tutto.” constatò, poi mi sorrise e mi aiutò, leggi: costrinse, a sdraiarmi, “Dormi un po’, ne hai bisogno.”
Non osai ribattere.
Mi ritrovai a pensare che Ryan aveva la stoffa del leader: volenti o nolenti, alla fine tutti facevano ciò che diceva per il semplice fatto che era lui. Sapeva farsi obbedire perché sapeva mettersi nei panni degli altri e rigirare le cose in modo da aiutare, sapeva dire la cosa giusta al momento giusto e ne aveva passate tante da apparire come l’eroe travagliato di una qualche storia. Iniziavo a pensare che fosse Gregory il più difficile da capire. Ryan era aperto, sincero e metteva sempre tutto sul piatto della bilancia per permettere agli altri di scegliere liberamente; lui invece era tutto un mistero, nascondeva ogni cosa, ma era altrettanto carismatico e per quel che avevo capito anche più potente, nella piccola comunità degli studenti. Non c’era da stupirsi che tutti facessero capo a loro due.
Se organizzassero una rivolta, io li seguirei, mi scoprii a considerare ma poi scacciai il pensiero: una rivolta?, e contro cosa?, contro gli insegnanti? Non era possibile, lo sapevo bene.
Stavo per addormentarmi, quando qualcuno bussò alla porta.






Non so bene cosa dire, spero che il capitolo parli da sé...
E così avete capito come girano le cose alla Chess Academy. Non sperate sia la prima e unica volta.
Nel prossimo capitolo entra in scena una figura peggiore ancora della Williams. Il vicepreside.
Spero di ritrovarsi alla prossima.
A presto,
ciao ciao.
Agapanto Blu

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Capitolo 5
*** Sebastian King ***











Capitolo 4: Sebastian King
 
“Il marmocchio è qui?!”
Ringraziai il cielo di aver continuato a fingere di dormire quando la voce, metà preoccupata e metà seccata, di Gregory entrò bassa dalla porta. Sentii Ryan sibilargli di tacere e poi dirgli di entrare e chiudersi la porta alle spalle. Un piccolo ‘tlack’ mi fece capire che Gregory era dentro.
“È qui, è qui…” sentii dire a Ryan, con voce stanca, mentre lo ascoltavo sedersi pesantemente sul suo letto, “È stato male. L’ho trovato chiuso a chiave nel bagno e, a giudicare dalla faccia, ha vomitato anche l’anima. Come vanno le mani?”
“A posto, non preoccuparti. Lui piuttosto, mi ha fatto venire un colpo: Scott mi ha detto che non è tornato giù.” la voce di Gregory era bassa e si avvicinava a me, ma non sembrava molto arrabbiata, più sollevata.
Sentii Ryan sospirare stancamente.
“È venuto un colpo anche a me.” lo sentii dire, poi, dopo una pausa, aggiunse: “Vorrei poter fare in modo che venga espulso.”
“Non lo faranno mai, lo sai.” replicò Gregory, sempre a bassa voce ma ormai in piedi davanti al mio viso, “Li pagano fior di soldi perché ci trasformino in automi senza personalità, non manderanno via nessuno con il rischio che tutti pensino di poter farla franca. Sai per quale motivo l’hanno spedito qui?”
“No, non me l’ha detto. Però non è così difficile da immaginare: non si vergogna di essere gay di per sé e non è confuso, anzi mi è parso sicuro del suo orientamento, però ha paura delle reazioni altrui. Tirando a indovinare, i suoi l’hanno spedito qui sperando che cambiasse.”
“Che idiozia.” Mi irrigidii leggermente quando Gregory si sedette sul bordo del mio letto. Ero sdraiato di fianco in posizione quasi fetale quindi la sua schiena era vicina al mio ventre. “Neanche fosse malato.” Nonostante la mia ferrea decisione di continuare a fingere, mi si spezzò il respiro quando appoggiò una mano praticamente di fronte al mio viso un po’ chinato e si resse su di essa per piegarsi verso di me e osservarmi in viso. “Non ha una bella cera.”
“Ti aspettavi saltasse e ballasse dalla gioia?” replicò Ryan, leggermente irritato, prima di tornare all’argomento precedente, “Non cambierà, Gregory. Gli ho ordinato di stare con Scott e non allontanarsi da lui e invece ha fatto il contrario: raramente i novellini mi disobbediscono, lo sai.”
“L’ha fatto anche con me.” annuì Gregory e una ciocca bionda sfuggita alla sua coda mi sfiorò uno zigomo, “Gli avevo detto di promettermi che sarebbe venuto da te e ci sarebbe rimasto ma mi ha detto di no e poi è venuto qui. Non si piega facilmente, eh?”
“Gregory, è terrorizzato.” Non credo di aver mai sentito la voce di Ryan così seria, nemmeno mentre sgridava il biondo alla lezione. “Ha già pianto due volte da quando è venuto qui ed è…”
“Non sto dicendo di trasformarlo in un novello me, Ryan.” lo interruppe lui, “Non lo farei mai e tu lo sai. Sto solo dicendo che, spaventato o no, ha fatto di testa sua. Forse non vorrà dire molto, ma io penso che quando si sarà rimesso in sesto darà del filo da torcere alla Williams.”
Ryan non rispose a lungo, facendomi pensare che dubitasse dell’affermazione dell’amico, e quando alla fine lo fece sembrava più tranquillo.
“Spero solo che lo lascino in pace ancora un po’. Mi sa che è malato sul serio.”
“Dici?” chiese Gregory e Ryan mugugnò un verso di assenso.
Stavo per fingere di svegliarmi quando accadde. Il contatto tiepido delle labbra del biondo sulla mia tempia fece sciogliere tutte le tensioni che il mio corpo aveva accumulato in quei giorni e senza accorgermene sospirai piano. Gregory indugiò ancora un attimo nel contatto poi si staccò.
“Non mi sembra abbia la febbre.” commentò, “Non mi starai diventando paranoico, eh Ry?”
“Va’ a farti fottere, Greg.” borbottò il moro, sbuffando.
“Non potrei mai farti un torto simile.” disse Gregory e la frase suonò molto più seria che ironica.
“Dio, amico: ne abbiamo già parlato!” si lamentò Ryan ma Greg lo interruppe.
“E non cambierò idea, punto uno. Punto due: abbassa la voce o sveglierai il piccoletto.”
“Quand’è che l’hai promosso da ‘marmocchio’ a ‘piccoletto’?”
“Quando ha scoperto tutto: il marmocchio non sa niente, lui invece è consapevole. Però resta un moccioso e non ho intenzione di chiamarlo ‘scricciolo’ come fossi sua madre” e udii distintamente le indicazioni stradali dategli da Ryan, “perciò è diventato ‘piccoletto’.”
“Gregory, con tutto il bene che ti voglio: ogni tanto i tuoi ragionamenti mi sconvolgono.” rispose dopo un attimo il moro e il biondo rise piano, praticamente nel mio orecchio.
“Vado.” disse poi, “Se mi beccano qui, poi al piccoletto viene un infarto.”
“Piantala, non hai appena detto che è più resistente di quanto ti aspettassi?”
“Vero, ma è il tuo adepto: tra poco avremo due mamme chiocce.”
“Fila via!”
Ridendo piano, Gregory uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle. Ryan sbuffò qualcosa ma si alzò e prese il posto dell’amico sulla sponda del mio letto. Come il biondo prima di lui, si resse su una mano e si piegò in avanti verso il mio viso.
“Sai, è un peccato che tu abbia dormito: Gregory ti avrebbe fatto una bella lavata di testa per averlo fatto preoccupare.” disse, “Ed è anche strano, visto il sonno leggerissimo che mi hai dimostrato ieri sera: ti svegli se apro io una porta ma non se due persone dialogano accanto a te, che cosa incredibile.” Dannazione a Ryan e al suo spirito d’osservazione. “Non ti sei svegliato neanche quando Greg ti ha toccato: da non credere! Davvero un grandissimo peccato, perché devo dirti una cosa importante.” Ryan attese un attimo, forse per vedere le mie reazioni, ma poi si piegò ancora più in avanti portando le labbra ad un niente dal mio orecchio, “Tu e Gregory…giocate nella stessa squadra.”
“Che cosa?!” esclamai, sconvolto, quando compresi il significato.
Ryan scoppiò a ridere, piegandosi in due con le braccia a tenersi la pancia e le lacrime agli occhi, e mi trovai, costretto dalle circostanze ovviamente, a spingerlo giù dal mio letto, lasciando che cadesse sul pavimento. Anche così, continuò a ridere per un po’.
Al diavolo la segretezza, tanto Ryan aveva già capito e l’importante era che Gregory non lo sapesse mai ma…cavolo, non poteva venir fuori con commenti così dal nulla!
“Hai finito?” gli chiesi, parecchio dopo, quando sembrò essersi calmato.
“No, avresti dovuto vedere la tua faccia!”
“Vacci tu, dove hai mandato Gregory.” ringhiai, offeso, ma lui scosse la testa.
“No, grazie: a lui può far piacere, a me no.”
Rimasi sconvolto dalla battuta così infima che uscì dalle labbra fini di Ryan. E io che lo credevo una specie di santo martire puro e caritatevole!
“Sei tremendo…” commentai e lui scrollò le spalle.
“Meglio di te: non ti hanno insegnato che non si origliano le conversazioni altrui?” mi prese in giro, ottenendo di farmi arrossire, “Comunque non mentivo, Gregory è davvero dell’altra sponda, rispetto a me.”
“Perché d…”
“Non ti azzardare a chiedermi perché dovrebbe interessarti perché ti meno!” mi rimproverò, poi tornò calmo, “Per la gioia del tuo cuoricino, il caro vecchio Gray è più in forma che mai e sta bene, ha le dita un po’ intorpidite ma poteva andargli peggio. La Spencer è una novellina, non sa come fare davvero male. Ci prova ma ti assicuro che fallisce miseramente, rispetto ad altri.”
Non sapevo quanto sentirmi rassicurato da tale affermazione ma comunque decisi di cambiare argomento, inquietato dall’accenno al mio cuoricino che ancora stava facendo le capriole.
“Qual è l’idea che Gregory non ha intenzione di cambiare?” chiesi, curioso mio malgrado, “Quella di cui avete già parlato…”
Ryan sorrise, gentile.
“Sei impossibile!” rise, “Ma comunque… Sai che Greg ha una sorella? Be’, sorellastra… Sia lui che Lucille sono stati adottati e hanno la stessa età: il padre voleva un maschio, la madre una femmina, non riuscivano a mettersi d’accordo e hanno avuto la brillante idea di prendere due bambini per accontentarsi entrambi.” Ryan alzò gli occhi al cielo, “Quei due hanno la profondità spirituale di una pozzanghera fangosa. Comunque, Gregory e sua sorella sono stati iscritti qui e siamo finiti in classe assieme, ci conosciamo da allora…”
“Sono cinque anni.” contai, “Avrei detto vi conosceste da più tempo.”
Ryan sorrise.
“Non sei l’unico, ma in effetti non ci conosciamo da tantissimo. È che quando ci siamo incontrati è scoccata la scintilla: d’amicizia con Greg e di qualcosa di più con Lucille.” mi raccontò, “Io e lei ci siamo messi insieme molto presto ma l’anno successivo è arrivata la Williams che ha reso l’Accademia solo maschile. Lucille è dovuta andare via ma le ho promesso che saremmo rimasti insieme. All’epoca pensavo che avessimo le estati da passare assieme e magari anche le vacanze per le festività più importanti, invece poi la Williams ci ha segregati qui dentro e io non l’ho più potuta vedere. La promessa è rimasta e, dammi del pazzo, io ci credo ancora. Per cui, aspetto lei. Gregory, quando scoprimmo che saremmo rimasti qui dentro praticamente fino al diploma, venne da me in piena notte e mi disse: ‘Se a te tocca la castità, allora faccio voto anch’io!’ Lì per lì pensai fosse ubriaco o avesse preso una botta in testa, invece lui era serissimo. Da gay, avrebbe potuto tranquillamente avere un rapporto anche qui nella scuola e credo che mi darai ragione se dico che non avrebbe avuto alcun problema a trovare qualcuno, anzi probabilmente avrebbe avuto varietà di scelta.”
Arrossii ma mi ritrovai ad annuire: senza doppi sensi, Gregory era un bel ragazzo.
“Appunto.” annuì Ryan continuando, “Invece lui fece un  mezzo voto di castità, disse che finché non fossi tornato da Lucille, lui mi avrebbe sostenuto moralmente.”
“Disse proprio così?” chiesi, sbalordito.
“No, in effetti disse ‘se non scopi tu, non scopo neanche io’ però stavo cercando di farlo passare in modo più elegante.”
Scoppiammo a ridere. Ero divertito dalla personalità di Gregory: appariva rozzo e un po’ maleducato, soprattutto in classe, ma in realtà stavo iniziando a capire che era totalmente diverso.
“E ha mantenuto la promessa?” chiesi.
Ryan annuì, solenne.
“Lui lascia che in giro si dica ciò che la gente vuole, ma di fatto mantiene il suo giuramento da quattro anni.” mi spiegò, poi sospirò, “Gli ho detto più volte che non è giusto, che può fare ciò che vuole e non deve preoccuparsi per me, ma lui ha la testa di un mulo e non sono riuscito a fargli cambiare idea.” Ryan alzò gli occhi su di me, un ghigno malefico in volto, “Però una cosa sono riuscito a strappargliela: avendo io già baciato la sua sorellastra in passato, lui è libero di baciare chi gli pare. Però l’idiota non ha mai usato la scappatoia.”
Scrollai le spalle.
“È un amico fedele.” commentai.
Ryan annuì, quasi soprappensiero, poi si riscosse e mi sorrise anche se un po’ mesto.
“Compiti?” chiese.
La mia risposta fu un gemito di pura sofferenza che lui interpretò, non seppi mai come, quale un ‘sì’ entusiasta.
 
Attraversammo il giardino quasi senza guardarlo, diretti al gazebo. Non avevo molta fame ma Ryan mi aveva assicurato che, se avessi saltato anche la cena, la Williams sarebbe venuta a controllare personalmente le mie condizioni e un incontro con lei era l’ultima cosa che volevo al mondo. Arrivati al gazebo, ci defilammo tra gli altri studenti fino a raggiungere il nostro posto e io rimasi quasi sorpreso di trovare Gregory seduto al suo.
Anche Ryan doveva esserlo, o quantomeno non ci aveva sperato, perché se ne uscì con un “Grazie a Dio!” a braccia spalancate e viso al cielo che fece ridacchiare quasi tutta la nostra classe.
I prof non erano ancora alla tavola principale perciò notai che quasi tutti gli studenti approfittavano del momento per chiacchierare tra loro, anche se tutti a voce bassa, e che qualcuno si era appostato all’angolo dell’edificio, fingendo di godersi il sole sul viso, a fare la guardia. Fu quando due ragazzi si diedero il cambio, apparentemente per caso, che mi accorsi che erano tutti organizzati. I cambi avvenivano spontanei, senza alcun intervento esterno, ed erano fluidi e melliflui, come se nulla fosse. Un ragazzo di quinta passò apparentemente per caso accanto a noi e gettò qualcosa sulle gambe di Ryan. Il moro continuò a parlare con Scott, come se nulla fosse successo, ma infilò l’oggetto in tasca a Gregory senza farsi notare.
Proprio Gregory si accorse del mio sguardo e si piegò dietro Ryan per parlarmi, così lo imitai.
“Salviette con disinfettante.” mi disse, piano, “Un nostro ex compagno di classe può uscire da scuola nello stacco dell’estate e fa incetta di queste e di altre cose di primo soccorso, quando può. Ormai i trucchi per infiltrare oggetti nella scuola li conosciamo tutti.”
“Chi è che organizza il lavoro?” chiesi, “La guardia, le consegne…chi è che si occupa di sincronizzare tutto?”
“Prova un po’ a indovinare…” mi sentii sussurrare da Ryan che continuava a guardare Scott ma parlava con me, “Chi può essere l’unico talmente pazzo da mettere in piedi una cosa simile?”
Sgranai gli occhi guardando Gregory ma questo si raddrizzò e fece una linguaccia all’amico.
“Molto maturo, Greg, bravo.” rispose Ryan, sempre fingendo di parlare con Scott.
“Scusa, mamma!” lo scimmiottò il biondo facendomi ridere.
Ryan sembrò sul punto di replicare ma tornò serio di colpo e l’unica cosa che disse fu: “Eccoli.”
I tre ragazzi appoggiati al muro si stavano avvicinando rapidamente, dividendosi per tornare ognuno al proprio posto e lentamente le due tavolate si zittirono. L’altra volta, probabilmente non l’avevo notato perché la Williams era presente e al pranzo mancavo, mentre la colazione era un pasto non sorvegliato perché opzionale; ma adesso mi accorgevo di come con il muoversi dei professori cambiassero gli studenti.
Forse mi ero fatto suggestionare dalle scoperte, ma comunque era reale il silenzio che accolse la Williams. Poiché era la preside, ci alzammo tutti in piedi.
Ovviamente, Gregory in ritardo.
Mi sentii molto Ryan, in quel momento, ma non potei fare a meno di mordermi la lingua e sperare che nessuno lo notasse, borbottando mentalmente tra me e me che quel biondino in particolare si cercava i guai con il lanternino.
Quando la preside ce lo permise, ci sedemmo di nuovo e così lei controllò assenze e presenze, sussurrandole all’uomo alla sua destra.
“Quello chi è?” chiesi pianissimo a Ryan, fingendo di bere.
“È il vicepreside, Sebastian King.” mi disse, tra una cucchiaiata e l’altra di una strana minestra di pollo decisamente troppo fluorescente per essere un verde naturale, “Segue la Williams come un cagnolino, si dice anche che siano amanti. Hai presente quando ti ho detto che la Spencer è una novellina, nel picchiare? Be’, lui è il veterano. Nemmeno la Williams è sadica quanto lui. Non attirare mai la sua attenzione, scricciolo, né in bene né in male, chiaro?”
Annuii fingendo un colpo di tosse e d’improvviso mi sentii nel bel mezzo di un film di spionaggio. Dio, ieri era tutto così normale! Perché era cambiato così tanto?! Perché fingevano, perfino loro: Ryan, Gregory, Scott…fingevano tutti di essere normali e invece mentivano mentre tu ti comportavi normalmente e non sapevi. Adesso sai e vedi.
Deglutii, inquietato dalla catena di pensieri che stavo seguendo, e rialzai discretamente gli occhi sul tavolo dei professori. E sentii la minestra di pollo trasformarsi in piombo fuso nella mia gola, tanto che per poco non soffocai. Tornai a guardare diritto con gli occhi lucidi, tossendo come un disperato per un paio di volte, tanto che Ryan mi guardò con preoccupazione.
“Tutto bene?” mi chiese, piano.
No, perché Sebastian King sta camminando tra le tavolate, bacchetta in mano, e punta verso di noi.
Non feci in tempo a dirlo, era arrivato troppo vicino, e Ryan se ne accorse quando la sua ombra rimase proiettata sulla schiena di Gregory. Ma ce l’avevano tutti con lui?!
Notai che, a differenza degli altri, il biondo si era ingobbito per mangiare. L’aveva fatto sicuramente apposta perché prima non stava così ricurvo.
Sebastian King gli afferrò la coda di capelli e lo strattonò, raddrizzandolo e strappandogli un mezzo verso di dolore, dopodiché gli infilò la bacchetta nel colletto, correggendo ulteriormente la postura dandogli dei colpetti sulla schiena.
“Questa è la posizione di una persona che mangia, Gray.” sentii distintamente dire dall’uomo e rabbrividii, per il tono che aveva usato e per l’espressione apatica sul viso di Gregory nonostante l’umiliazione che stava subendo. Improvvisamente la minestra, già poco invitante, mi apparve disgustosa e il poco appetito che avevo scomparve.
Sebastian King, non riesco a non chiamarlo con nome e cognome, è come un mostro cui non puoi abbreviare l’appellativo, sfilò la bacchetta dalla camicia di Gregory e gli mollò la coda rudemente. Sul volto del biondo non era apparsa ancora nessuna emozione e rimase fermo a fissare dritto davanti a sé, ma stringeva i pugni e anche Ryan l’aveva notato perché allargò appena un po’ le gambe per sfiorare il ginocchio dell’amico con il proprio, in un tacito invito alla calma. Il vicepreside se ne accorse e colpì Ryan su una scapola con la bacchetta, facendogli chiudere gli occhi di scatto e strappandogli un sibilo per il dolore.
“Gambe chiuse, Hastings.”
Vidi un muscolo della mascella di Ryan guizzare, ma lui dimostrò un autocontrollo incredibile e obbedì, trovando anche il coraggio di sussurrare un “Certo, professore” che mi parve essergli costato sangue vivo.
Gregory si era voltato verso l’amico e così Sebastian King lo afferrò di nuovo per la coda, riportandogli la testa in posizione diritta.
Questa è la posizione, Gray.” Ripeté prima di lasciarlo.
Fa’ che si trattenga, fa’ che si trattenga speravo ma seppi che era inutile in quel millesimo di secondo in cui il biondo aprì la bocca, prima ancora di parlare.
“Questa è la posizione di chi è tanto snob da rifiutare il cibo, professore.” rispose.
Era serio ma il contrasto al vicepreside era palese. Gregory voltò apertamente la testa verso di lui e con una mano spinse via il piatto da davanti a sé.
Pensai che Sebastian King lo avrebbe mangiato vivo, invece scrollò le spalle e fece un cenno ad un cameriere vicino al tavolo degli insegnanti. L’uomo si avvicinò, rapido, e il vicepreside gli fece segno di portar via il piatto del biondo. Il cameriere obbedì e fece per andarsene, passando dietro me e Ryan, ma il professore, casualmente, colpì il piatto con la punta della bacchetta e l’intero contenuto di quest’ultimo cadde sulla schiena e sulla nuca di Gregory.
Sobbalzai. Certo, ormai non era più calda e non poteva averlo ustionato, ma il biondo avrebbe reagito a questo, ne ero certo.
“Oh, che peccato. Be’, tanto tu non mangiavi, giusto?” commentò Sebastian King prima di voltarsi e avviarsi verso il suo posto accanto alla preside.
“Dev’essere un giorno triste per lei.” commentò il biondo, a voce tanto alta da farsi sentire da tutte e tre le tavolate per intero, “Per farci mangiare, hanno ammazzato qualche suo parente di allevamento.”
No, Gregory, ti prego… Per un attimo sperai che Sebastian King non lo avesse sentito, ma lui si voltò con un sopracciglio sollevato.
Tornò indietro, piazzandosi praticamente a destra di Gregory e fissandolo in viso anche se lui guardava ancora dritto avanti a sé.
“Cosa hai detto?” chiese.
Mossi appena la mano, in uno spasmo di tentativo per fermare il biondo prima che si mettesse ancora più nei guai, ma Ryan me l’afferrò. Lo fece per fermarmi ma poi non la mollò e la sua presa troppo stretta mi fece capire che era terrorizzato per l’amico. Ricambiai il gesto, tentando di dargli un minimo di supporto, e nascosi le nostre mani sotto la tovaglia.
Gregory, intanto, non si era scomposto. Aveva esitato un attimo e preso un profondo respiro, la brodaglia che gli colava lungo il collo, ma alla fine aveva risposto: “Lo sa, cosa ho detto.”
Sebastian King non mutò mai espressione. Mentre afferrava Gregory per la coda anche se scivolosa, mentre per i capelli lo tirava in piedi e lo trascinava via con sé, continuò ad avere in viso l’espressione fredda e calcolatrice che aveva all’inizio di quella scena cruenta.
Ebbi un flash e agii senza pensarci due volte. Con la mano, schiacciai il bordo del mio piatto, rovesciandomi addosso la minestra. Saltai in piedi, fingendomi sconvolto e ebbi cura di cadere contro Sebastian King e, soprattutto, contro Gregory. Feci il mio gesto rapidamente poi mi indietreggiai quando il vicepreside mi spintonò di nuovo al mio tavolo. Mi risedetti, con la sensazione di aver rischiato tanto per nulla ma poi mi corressi da solo: forse avevo fatto nulla, ma era meglio che correre rischi inutili.
Sebastian King e Gregory sparirono in un attimo, oltre l’angolo dell’istituto.
Lanciai un’occhiata al tavolo del professori, sperando di vedere qualcuno di loro turbato tanto quanto me dall’ingiustizia della scena, ma vidi solo l’ennesima follia: la Williams si concesse un sorrisetto e riprese a mangiare come se nulla fosse accaduto.




Mi dispiace, sono un po' in ritardo e molto di fretta.
Sebastian King è il peggiore della scuola, direi che l'avete capito: tenetelo d'occhio perchè è in assoluto il più pericoloso.
Però Mathieu ha fatto qualcosa, avete notato? Cosa?
Scusatemi se sono così rapida ma davvero sono di corsa!
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 6
*** Sta aspettando solo questo ***











Capitolo 5: Sta aspettando solo questo

Osservai mesto Ryan che rovesciava di nuovo nel piatto l’ennesima cucchiaiata di minestra, senza trovare la forza o il coraggio di mangiare. Aveva un’espressione in viso che faceva pensare gli avessero portato via un fratello.
“Amico, provaci almeno.” sussurrò Scott, per l’ennesima volta, ma Ryan scosse la testa.
“Non ho fame…” disse.
“Gregory starà morendo di fame.” commentai piano, sentendomi un verme per quel colpo basso ma ormai disposto a tutto, “Lui ha saltato il pranzo e ora anche la cena. Non pensi che si arrabbierebbe se sapesse che neanche tu mangi?”
Ryan mi scoccò un’occhiata mesta ma poi si sforzò e ingoiò almeno un cucchiaio di brodaglia.
Meglio di niente, pensai sospirando poi mi guardai attorno. L’atmosfera generale era davvero cupa rispetto a prima che Gregory fosse portato via. Che fosse perché tutti volevano bene al biondo o perché Sebastian King era uno stronzo di prima categoria, non potevo saperlo e il dubbio mi teneva in ansia.
Mangiammo poco tutti, malgrado la mia ramanzina ispirata, e alla fine tornammo tutti in camera lasciandoci dietro piatti mezzi, se non praticamente tutti, pieni. Ci dividemmo da Scott sulle scale, perché lui saliva al quinto piano, e poi seguii mesto Ryan nella nostra camera. Era così silenzioso che, dopo essermi chiuso la porta alle spalle, non riuscii a trattenermi dal parlare.
“Vedrai che starà bene.” mormorai, senza sapere esattamente cosa dire e perciò ripetendo ciò che lui aveva detto a me, “Gregory ha la pellaccia dura.”
“Non starà bene, Mathieu! E King la pelle te la fa a pezzi, se ne frega di quanto è dura!” mi ringhiò contro, voltandosi di scatto come per aggredirmi fisicamente, ma fu un attimo poi si calmò. “Scusa, scricciolo, scusa!” mormorò portandosi le mani tra i capelli e sedendosi pesantemente sul proprio letto, “È che quello è…”
“Lo so.” dissi, senza pensarci, solo per non costringerlo a parlare, poi mi sedetti accanto a lui.
“È colpa mia.” disse, ignorando le mie parole per iniziare ad autoaccusarsi con durezza, “Se fossi stato fermo, sarebbe andato tutto a posto! E invece no, dovevo immischiarmi! Lo sapevo che Gregory si sarebbe legato al dito qualsiasi livido quel maledetto avesse fatto ai suoi amici, ma sono dovuto intervenire lo stesso! E così Greg ha esagerato e chissà cosa gli farà quel pazzo.” Poi parve fulminato da un ricordo. “Dio, la salvietta disinfettante! King gli spezzerà le dita, se la trova, e poi chissà che farà pur di capire come l’ha avuta!”
“Non lo farà…” lo rassicurai ma lui mi interruppe.
“Credimi, scricciolo, lo farà!” gemette, “Non sarebbe la prima volta e…”
“Non lo farà” ripetei tirando fuori la salvietta dalla tasca per mostrargliela sul palmo, “perché non la troverà.”
Lui guardò la bustina verde con espressione confusa.
“Come…?” potei quasi vedere la lampadina che gli si accendeva in testa, da quanto si illuminarono i suoi occhi, “Quando gli sei caduto addosso. Era un finta.”
Annuii, arrossendo.
“Non ero sicuro che fosse la cosa giusta da fare.” ammisi, “Ho agito d’istinto, spero solo di non aver fatto danni.”
Ryan scosse la testa.
“No, tu hai solo tolto un enorme problema da addosso a Gregory.” mi rassicurò e fu vedendolo provare a sorridere che capii che era sul punto di piangere, “Sono io che ho peggiorato le cose.”
“Piantala, Ryan.” lo supplicai, mettendogli una mano su una spalla per farlo calmare, “Sebastian King aveva deciso di prendersela con lui sin dall’inizio: hai visto che ha fatto di tutto per provocarlo! Tu non c’entri niente.”
Poi ricordai il colpo che si era preso sulla spalla e d’istinto gli spostai giacca e camicia per controllare: una linea rosso acceso si stagliava sulla pelle, tagliando a metà l’osso della clavicola e prendendo già colore nerastro su di esso. Quanto forte doveva aver colpito per lasciare un simile segno? Stava già tendendo al viola.
“Ti ci vorrebbe del ghiaccio…” mormorai ma Ryan scosse la testa.
“Mi ci vorrebbe un’altra botta, forse mi sentirei meglio.” replicò, amaro.
Scossi la testa, comprendendo che non l’avrei distolto dalla sua folle certezza, e mi limitai ad aiutarlo, o meglio a spingerlo a forza, a cambiarsi. Lo costrinsi a sdraiarsi, ricordandogli che tanto non potevamo far nulla per il nostro amico, al momento.
Ryan si rigirò nel sonno parecchie volte. Era crollato, esausto per la paura della giornata, ma la preoccupazione lo aggrediva anche nel mondo onirico, sotto forma di incubi.
Io, invece, non riuscivo a dormire. Troppe cose mi passavano per la testa. Ero alla Chess Academy da due giorni appena, praticamente uno e mezzo, eppure eccomi dentro agli ingranaggi della resistenza, già a fare la mia parte senza nemmeno aver capito bene come. Ero passato dalla parte degli ignari a quella dei consapevoli tanto in fretta e bruscamente che era come se fossi rimasto sospeso a metà tra le due. Sdraiato nel mio letto, sul fianco, fissai Ryan contorcersi tra le coperte nel buio della camera e sentii prepotente il desiderio di scusarmi per non essere bravo quanto lui nell’essere d’aiuto.
Le cose sono troppo veloci qui dentro, pensai. Troppo velocemente veniamo sbattuti all’Inferno, troppo velocemente passiamo da figli ad automi da educare. Troppo in fretta ci affezioniamo gli uni agli altri, Ryan, come io con te o tu con Gregory. Tutto va troppo in fretta. Ieri sono entrato qui spaventato e in lacrime e tu sei stato lì a consolarmi, ma oggi si sono invertite le parti e io non ero pronto: è troppo veloce per me, Ryan, non sono stato bravo come lo sei sempre tu. Sono stati troppo veloci nel portare via Gregory: non ho neanche avuto il tempo di vedere se nei suoi occhi ci fosse il terrore o la solita alterigia orgogliosa. Ho paura perché ne ha Ryan e lui non ne ha mai; ho paura perché lui ha pianto. Ma io lo conosco da poco, da un giorno, e forse lui ha sempre paura e sempre piange. Però io non lo so, non lo posso sapere così come non posso sapere come sta Gregory. Ed è per questo che ho paura.
...
È già passato il coprifuoco. È tutto troppo veloce.

Toc. Un bussare soltanto, appena accennato, seguito da una sottilissima imprecazione mi fece saltare a sedere nel letto, i nervi allerta e l’espressione vigile.
“Cazzo, Ryan, non farmi bussare, ti prego!”
Avrei riconosciuto quella voce tra mille, perciò saltai giù dal letto. Scossi appena Ryan, chiamandolo per farlo svegliare, e quando ci riuscii lo lasciai perdere per correre alla porta.
Gregory stava accasciato contro lo stipite, la lingua stretta tra i denti e le mani nascoste sotto le ascelle. Aveva un segno rosso su una guancia e mi preoccupai seriamente per lui, mentre lo facevo entrare, perché continuava ad imprecare. Accesi la luce solo quando la porta fu chiusa e voltandomi lo trovai stretto in un abbraccio fraterno con Ryan ma si lasciarono in fretta perché Gregory gemette. Ryan lo fece sedere sul mio letto e gli afferrò le braccia.
“Fammi vedere!” gli ordinò, strappando le mani al nascondiglio, e l’unica cosa che vidi dalla distanza fu che sanguinavano. “Merda!” imprecò Ryan, alzandosi e passandomi accanto, “Sta’ con lui, trova la salvietta: io prendo dell’acqua!”
Annuii e mi inginocchiai davanti a Gregory strappando la bustina verde della salvietta monouso con i denti, tanta era la fretta.
“Dammi qui.” gli dissi, leggermente più gentile del suo amico moro, e lui obbedì docile.
Dio. Aveva le mani distrutte. Erano più i tagli dei lividi ma ci vedevo male perché lui continuava a tremare, probabilmente per la debolezza.
“Calmo.” sussurrai, senza sapere se parlassi con lui o con me, “Andrà bene, vedrai.”
“Non sto morendo dissanguato.” sussurrò cercando di sorridere ma gli si chiudevano gli occhi mentre parlava.
Lo costrinsi a togliere la giacca, per non sporcarla di sangue, nonostante tutti i suoi lamenti mi stessero facendo sentire un mostro e poi gli arrotolai le maniche della camicia.
“Sto morendo di caldo.” mormorò, ciondolando il capo a destra e sinistra, e così gli slacciai due bottoni sul petto poi mi rassegnai e lo feci sdraiare di schiena, deciso a disinfettargli quelle mani in un modo o nell’altro.
Ryan arrivò con due asciugamani bagnati e una bottiglietta di plastica, dove l’ha presa? non ci sono distributori qui, piena d’acqua. Si mise dall’altra parte e lavò via il sangue, scoprendo i tagli. Imprecò.
“Che succede?” chiesi, messo in allarme.
“Ci sono delle schegge.” ringhiò.
“Le sento…” sussurrò Gregory, sforzandosi di sorridere, “Fanno maluccio…”
Ryan imprecò di nuovo e si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa con cui estrarle, ma io fui più rapido. Scattai verso la mia panca e la aprii, tirandone fuori l’unico oggetto con un minimo di valore sentimentale, per me: una banalissima spilla da balia di ferro, con sopra attaccato uno stemma in plastica dipinta d’oro. Era stata di Alfred e lui me l’aveva regalata quando avevo sentito per la prima volta mio padre dire che ero figlio di una scappatella di mia madre, all’età di nove anni. Cercando di non pensarci troppo, staccai lo stemma e storsi la spilla costringendola ad aprirsi per centottanta gradi poi la mostrai a Ryan. Lui annuì e mi aspettavo agisse in prima persona invece mi fece spazio perché qualcosa era appena rotolato sotto la soglia: un cilindretto di vetro con un tappo di plastica nera, di quelli che si usano per i campioni di profumo.
“Disinfettante.” mi disse, lanciandomelo perché lo prendessi al volo, “Per far entrare queste cose qui dentro, dobbiamo fare di tutto.” Poi aprì la porta e sgusciò fuori.
Versando il disinfettante sulla spilla, lo osservai bussare alla porta di fronte, parlare con il ragazzo di quinta biondo che gli aprì e dirgli poche parole. Quello annuì e sparì sulle scale.
“Cosa succede?” chiesi a Ryan, mettendomi a estrarre le schegge con la spilla e tentando di ignorare i gemiti di Gregory ogni volta che ne toglievo una.
“Mando un ragazzo nel suo letto.” mi disse, “Se King andasse a controllare.”
Annuii, senza stare a sindacare, e cercai di finire in fretta il mio lavoro, per non fare al biondo troppo male. Non che i risultati, in quel secondo campo, furono gran che e ad ogni gemito di Gregory, Ryan cambiava la direzione del suo peregrinare così continuava a muoversi per la stanza facendomi venire ansia.
Dopo un po’, finalmente, finii. Strappai in due la salvietta disinfettante e tentai di fare una mezza fasciatura che coprisse almeno i tagli più profondi, poi mi alzai e lasciai che Ryan desse una controllata.
Annuì e mi aiutò a raccogliere tutte le prove poi andammo in bagno: la bustina verde e il flaconcino di disinfettante andarono giù nello scarico perché, a detta di Ryan, gli insegnanti si sarebbero insospettiti moltissimo se per caso li avessero trovati. Lavammo gli asciugamani nel lavandino, usando l’acqua fredda fino a farci diventare le mani quasi viola, non che quelle di Ryan fossero di un colore diverso prima, fino a quando le macchie di sangue non furono sparite; a quel punto, li gettammo nella cesta di vimini che conteneva la roba sporca da mandare in lavanderia e li seppellimmo sotto un altro pulito. Le schegge furono fatte volare dalla finestra e la mia spilla venne nascosta dietro lo specchio, bloccata tra quello e il muro e attaccata allo stesso chiodo. Allora tornammo in camera, parlando piano delle possibilità di trovare qualcosa da far mangiare al biondo ma inutilmente.
Gregory, infatti, si era addormentato.
Ryan ed io lo guardammo, sorpresi per un attimo. Mi era parso il tipo sempre all’erta, vederlo così mi prese un po’ alla sprovvista. Ryan gli si avvicinò, scuotendo la testa ma di nuovo sorridente, e lo vidi allungare una mano per svegliarlo.
“Lascialo dormire.” gli sussurrai, bloccandolo, “Tanto non credo riuscirebbe a farsi le scale in silenzio: mi sembra alquanto stordito.”
Ryan esitò, passando con gli occhi da lui a me e viceversa.
“Ma tu dove dormi?” mi chiese e solo allora notai che il biondo dormiva nel mio letto.
Scrollai le spalle, fingendo indifferenza.
“Vedremo.” lo rassicurai, “Vado un attimo in bagno.”
Con la scusa più patetica del mondo, scappai dagli occhi di nuovo attenti di Ryan e mi presi un attimo per calmarmi. Avevo tutte le interiora al posto sbagliato e non capivo se fosse una reazione a scoppio ritardato alla scena di oggi o una conseguenza normale del giorno da incubo appena passato o, la cosa peggiore, un risultato della presenza di Gregory nel mio letto. Scossi la testa, mi lavai le mani con l’acqua fredda e mi spruzzai il viso per cercare di rinsavire: non, aveva, senso.
Uscii dal bagno e mi avvicinai ai due letti per scoprire, sgomento, che anche Ryan si era addormentato della grossa.
“Ma dico, siete fratelli?!” sibilai, offeso, “Vi addormentate a comando?!”
Ryan mi rispose solo russando un po’ più forte e così sbuffai, raggiungendo la mia panca per tirarne fuori un cuscino e mettermi a dormire per terra.
“Vado via, aspetta…”
Sobbalzai, sentendo la voce bassissima di Gregory, e mi voltai appena in tempo per vederlo provare ad alzarsi puntandosi solo sui gomiti.
“Non ci pensare nemmeno!” sbottai, sempre sussurrando per non svegliare Ryan, “Tu resti qui! Sii serio, Gregory, non riusciresti nemmeno a fare le scale senza farti beccare.”
Gregory borbottò qualcosa che probabilmente era un’offesa per Sebastian King, ma che io non riuscii ad afferrare bene, e poi si lasciò cadere di nuovo sdraiato.
Sorrisi, senza un motivo, e lo aiutai a mettersi su un fianco quando vidi che provarci da solo gli faceva male quindi riuscii a sfilargli le coperte da sotto il corpo e mettergliele addosso, infine mi raddrizzai per tornare a prepararmi un letto di fortuna ma lui mi afferrò il polso.
“Dormi qui.” mi disse, puntando gli occhi nei miei e impedendomi così di sfuggirgli.
“Non ci stiamo…” provai a dire ma lui mi strattonò, costringendomi a fare il giro del letto per andargli davanti.
“Ci stiamo.” replicò facendomi sdraiare di fronte a lui.
Sbuffai e mi lanciai un’occhiata alle spalle per assicurarmi che Ryan dormisse altrimenti avrebbe potuto pensare male, a torto, poi però la diedi vinta al biondo perché la sua presa sul mio polso stava muovendo la fasciatura.
“Ok, sono qui, visto?” gli dissi, staccando le sue dita da me per controllare e rimettere a posto la salvietta, “Ora fa’ il bravo.”
Una risata trattenuta fece rimbombare il suo petto, vicinissimo al mio, prima che lui sfilasse la fasciatura dalla mia presa e afferrasse le coperte mettendomele addosso. La sua mano trascinò la stoffa su lungo il mio fianco, fino alla spalla, e lì la lasciò con delicatezza, sfiorandomi la pelle, nuda perché dormivo senza maglia. Cazzo. Mi vennero i brividi e il sorriso di Gregory mi fece capire che se n’era accorto così arrossii.
“Dormi.” borbottai, offeso, e lui rise di nuovo solo con il petto lasciato in parte scoperto.
Gli scintillavano gli occhi quando rideva, in un modo strano e liquido che faceva pensare a delle barche a vela che navigavano nel mare delle sue iridi. In quel momento, chissà come visto il buio, notai che erano azzurre. Di un azzurro intenso e morbido, gentile ma quasi formato da tante schegge affilate, per difendersi. Era come guardare una sostanza simile al mercurio ma color del cielo, che si muoveva e giocava con il perno nero della pupilla. Che mi fissava.
“Perché lo fai?” mi lasciai sfuggire, “Perché li provochi, se tanto sai che non ti espelleranno? Prendi solo tante botte, ma perché?”
Gli occhi di Gregory scintillavano ancora, anche se le palpebre si socchiusero un poco.
“È complesso, piccoletto.” mi rispose, pianissimo, “Non sono cose di cui parlare a quest’ora.”
“Ma sono cose che, a qualsiasi altra ora e in qualsiasi altra situazione, ti rifiuteresti di dirmi.” replicai, rannicchiandomi un po’ di più, “Non sono piccolo come pensi, sai?”
“Lo so.” sussurrò lui e all’improvviso lo vidi avvicinarsi con il volto al mio e mi irrigidii mentre lui portava le labbra accanto al mio orecchio, “Lo so da quando hai infilato la mano nella mia tasca per portar via la salvietta.” Arrossii, imbarazzatissimo, ma lui non mi permise di scusarmi perché mi fermò, posando di nuovo la testa sul cuscino ma molto più vicina alla mia, “Non è sempre stato così, qui, piccoletto. Quando la Williams è arrivata, ci siamo ribellati tutti, noi delle quattro classi che avevano avuto l’altro preside. Sai quale fu il risultato? Che ci picchiavano in continuazione. Durante le lezioni, senza aspettare di aver finito perché eravamo troppi da punire, e a volte durante i pasti in modo che tutti vedessero. Quell’anno, passando nel corridoio, sentivi schiocchi da tutte le aule. Pensavamo che compatti saremmo riusciti ad averla vinta e che, se tutti avessimo dato loro del filo da torcere, prima o poi avrebbero ceduto.” sospirò, “Invece, dopo i primi mesi così, la classe del primo anno ci abbandonò, erano tutti terrorizzati dalla piega degli eventi. A un ragazzo del quinto anno, un giorno, ruppero la mano destra e lo rimandarono a casa: lui voleva fare il pittore e i suoi lo volevano contabile, la scuola aveva ottenuto l’obiettivo perché non avrebbe più potuto disegnare. I suoi compagni mollarono subito dopo perché capirono che altrimenti non li avrebbero più fatti uscire da qui.” Gregory sospirò, abbassando leggermente lo sguardo un po’ incupito, “Fu più o meno allora che capii: sai perché una sola persona ‘martirizzata’ ha più effetto di mille? Perché ispira tanti altri. Se ottanta persone su cento si fanno picchiare a sangue, le restanti venti non avranno mai il coraggio di reagire perché penseranno ‘hanno distrutto loro che erano di più, noi siamo inutili’, ed è quello che è accaduto qui dentro. Ma se una persona sola su cento si fa pestare a sangue, se una sola mette la faccia e non si lascia fermare da niente, ecco che diventa il volto di una ribellione vera e propria. Certo, se questa persona si piega, la ribellione viene sedata di colpo; ma se lei resiste, allora gli ingranaggi si mettono in moto, le menti pensano, le persone agiscono. Hai visto oggi? Sebastian King mi avrà anche fatto del male, ma tu stesso hai agito per difendermi, come ha fatto Ryan, e Alex che sta dormendo nel mio letto, e Walter che ha introdotto qui dentro medicinali da primo soccorso. Basta questo capisci? Basto io. Hai ragione, non otterrò nulla più che un sacco di botte e probabilmente mi terranno qua dentro fino a quando non avrò la barba bianca e la dentiera, ma la Williams non potrà mai dormire tranquilla perché lei sa che io sono solo la punta dell’iceberg. Potrebbe lasciarmi andare o espellermi, ma non si risolverebbe il problema perché Ryan prenderebbe il mio posto, e poi sarà il turno di Scott o di chissà chi altro avrà il coraggio di prendere in mano questa sottospecie di resistenza. Finché non mi piega, lei non può piegare nessuno. È per questo che si accaniscono tutti su di me, non tanto perché li provoco. Anche Sebastian King mi teme, io lo so: mi guarda negli occhi e sa che troppe persone contano su di me perché io mi pieghi davanti a lui. Mi umilia, forse si diverte anche, ma non è un idiota e ha capito che, nella scala gerarchica, io sono in cima. Molti degli insegnanti non si sognano nemmeno tutto ciò che gli studenti fanno sotto il loro naso, ma lui sì e fondamentalmente è per questo che è il più pericoloso: sa che, da capo, difenderò chi mi segue perciò se la prende molto più con gli altri, che con me. La scena in mensa? Un passatempo, un momento in cui ero già debole di cui approfittare non tanto per aggredire me, ma per controllare le reazioni di Ryan e per studiare te.” fu come tornare alla realtà all’improvviso, tanto che sobbalzai.
“Me?” chiesi, sorpreso, ma Gregory annuì confermando ciò che aveva detto prima.
“Non è uno sprovveduto: tu sei nuovo, sei l’incognita di cui non conosce ancora il punto debole e vai studiato.” sussurra, “Riguardo a Ryan, sa che è quanto di più vicino ad un punto debole io abbia ma io e Hastings non cederemo, nemmeno l’uno per l’altro, perché non servirebbe a nulla se non a far crollare l’immenso castello di carte che abbiamo costruito per resistere. Ogni tanto il bastardo ci prova e se la prende con lui, e ti giuro che mi fa venir voglia di spaccargli la faccia, ma io non posso permettermi di smettere di fare l’idiota nemmeno per Ry, per quanto sia mio amico. Ryan lo sa. E adesso lo sai anche tu. Perciò, piccoletto, non metterti nei casini con King, ok? Perché sta aspettando solo questo.”




Chiedo umilmente perdono!
Scusatemi, ero convinta che oggi fosse Mercoledì e invece... -.- Scusate, davvero, mi dispiace da morire! :( Sarò puntuale la prossima volta, ve lo assicuro!
Detto questo, ecco Gregory salvo e relativamente sano. Mathieu ha anche avuto il suo momentino privato con lui :D
Scusatemi, ma sono anche di fretta: spero solo che vi sia piaciuto!
Ancora scusatemi -.-
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 7
*** Trucchi psicologici ***











Capitolo 6: Trucchi psicologici
 
Riaprire gli occhi, quel mattino, fu la solita crociata dei pezzenti: una lotta perfettamente inutile. Ringhiai qualcosa di sconnesso quando sentii Ryan togliermi le coperte di dosso ridendo e blaterando robaccia come “Il sole splende!” o altro, poi per ripicca afferrai il cuscino e ci nascosi sotto la testa.
Sinceramente, non mi interessava di essere bloccato in una scuola piena di pazzi maniaci né di essere finito nel mirino del re dei sadici e nemmeno di saltare la colazione, tanto era opzionale: volevo solo e soltanto dormire.
Ryan non si lasciò scoraggiare e iniziò a passarmi la punta del dito sulla pianta del piede. Scalciai, tentando di allontanarlo, e alla fine lo mandai a quel paese raddrizzandomi e tirandogli contro il cuscino.
“Ehi, piccoletto! Ma fai così tutte le mattine?”
No, ti prego, no.Gemetti perché, , avevo lanciato il cuscino a Gregory, non a Ryan. Il moro, infatti, uscì in quel momento dal bagno, già incamiciato e ingiaccato. Osservò per un attimo la mia espressione sconvolta e il ghigno del biondo, che ancora teneva in mano l’arma che aveva preso al volo, poi si rivolse a quest’ultimo.
“Ti avevo detto di non provare a svegliarlo, che mi diventa scurrile.” finse di lamentarsi.
“Be’, ma io mica credevo diventasse anche manesco!” rise Gregory, “Comunque, ben svegliato, piccoletto: fatto bei sogni?”
“Sì, che un tir ti investiva.” brontolai, offeso, alzandomi e dirigendomi stancamente in bagno, seguito dalle risate dei miei due amici.
Mentre mi lavavo, sentii la porta aprirsi e chiudersi e ne dedussi che Gregory doveva essersene andato. Ryan bussò alla porta.
“Che c’è?” chiesi.
“Per la cronaca, io non mi addormento a comando e dovresti aver notato che sono diversissimo da Greg, troppo per essere suo fratello.” mi disse, da attraverso il legno.
Mi fermai. Pensai. Capii.
“Bastardo!” esclamai, bloccandomi con la camicia metà addosso e metà no, “Infame, eri sveglio!”
Ryan scoppiò a ridere dietro la porta e perciò lo insultai ancora un po’, passando ogni tanto al francese giusto per confonderlo.
“Te lo sei meritato: adesso siamo pari!” continuò, senza smettere di ridere, “Allora, me lo dici di cosa avete confabulato tutta la notte, voi due?”
“Sei un idiota!” ringhiai, infilandomi la giacca sbrigativamente pur di uscire a togliergli il sorriso dalla faccia, “Non abbiamo fatto niente!”
Ryan rise aprendo la sua panca per prendere i libri per la giornata, lavoro che aveva scansato la sera prima per ovvi motivi.
“Scricciolo, io sono un mago nel creare le situazioni giuste!” dichiarò poi mi scoccò un’occhiata strana, “E voi due ce ne mettete del vostro, eh? ‘Dormi qui’, ‘Non ci stiamo’, ‘Ci stiamo’: che teneri che eravate!”
Afferrai il cuscino e glielo sbattei in testa con forza.
“Sei un idiota!” borbottai, “E non ti azzardare a rifarlo mai più!”
“Scordatelo!” rise Ryan, “Lo rifarò ogni volta che mi sarà possibile!”
Sbuffai, arrendendomi e prendendo il mio zaino, ma poi mi concessi un momento per studiare il moro: era così strano, se paragonavo questo Ryan a quello venuto fuori la sera prima mi sconvolgeva vederlo di nuovo così di buon’umore. Ma forse faceva bene: se tutti avessimo pensato solo e soltanto al nero di questa scuola, non ne saremmo usciti vivi; dovevamo provare a godere del bianco, in attesa di poter creare il nostro colore.
“Ti dispiace se inizio a scendere?” chiesi a Ryan, “Faccio due passi.”
“Tranquillo, basta che poi mi racconti tutto.” mi disse, continuando a rovistare nella panca.
“Di cosa?” replicai, sorpreso.
Ryan mi rivolse un ghigno fugace: “Di ciò che vi direte tu e Greg!”
Uscii dalla porta mandandolo per l’ennesima volta a quel paese, e borbottando che ormai avrebbero fatto prima a dargli la cittadinanza arrivai alle scale. E andai a sbattere contro qualcuno in arrivo dal quinto piano.
“Scusa!” esclamai, sfregandomi la testa che aveva colpito il suo petto, prima ancora di alzare gli occhi.
“Se questa è una ripicca per l’averti svegliato, piccoletto, giuro che non lo farò mai più!”
Eh no, di nuovo no!Ma rialzando gli occhi trovai confermai ai miei timori: Gregory se la rideva della grossa. Mi sfuggì un verso di disapprovazione e lui scosse la testa.
“Come mai tutto solo?” mi chiese, sorridendo.
“Ryan è in versione mamma chioccia mista a suocera: non potevo sopportarlo.” mugugnai e Gregory mi lanciò un’occhiata comprensiva.
“Ogni tanto gli parte.” ammise poi mi afferrò per un polso e iniziò a trascinarmi giù per le scale, “Muoviti, che blocchiamo il traffico.”
Riuscii a raggiungerlo dopo una rampa e così mi mollò. Stavo per dirgli che avevo ripensato a quello che mi aveva detto ieri sera, visto che dopo la sua reazione c’era stato un momento di silenzio terribile e in esso ci eravamo addormentati, quando arrivammo davanti alla porta del terzo piano e scorsi una figura in piedi sulla soglia.
Sebastian King osservava gli allievi che scendevano le scale e aveva già in mano la sua onnipresente bacchetta. Ebbi un brivido ma mi costrinsi a nasconderlo: non avevo paura del vicepreside in sé, be’ sì, anche di lui, ma non in questo momento, ma della reazione di Gregory, che aveva notato l’uomo e che ora lo fissava. Era una testa calda, ma fin dove era capace di spingersi non lo sapevo ancora.
“Ti prego,” mi ritrovai a supplicarlo a bassa voce mentre ci avvicinavamo inesorabilmente alla porta, “non provocarlo ancora.”
“Te l’ho spiegato, piccoletto.” mi sussurrò lui in risposta, “È la mia missione.”
Sentii il cuore annaspare nel petto e smisi di respirare. Quelle parole avevano aggiunto consapevolezza alla mia ansia già di suo enorme e ora non sapevo cosa aspettarmi né da uno né dall’altro.
Sebastian King ci vide e puntò gli occhi in quelli di Gregory, piegando leggermente la bacchetta. Volevo vomitare. Gregory raddrizzò il mento, senza distogliere lo sguardo. Volevo scappare e trascinarlo via con me. Perché Ryan non aveva fatto quel maledetto zaino ieri sera?!
“Buongiorno, professore.” salutò Gregory, un enorme sorriso sulla sua perfetta faccia da schiaffi, “Splendida giornata, vero?”
Per fortuna, Gregory non si fermò, né io dietro di lui, e continuò a scendere le scale, senza aspettare una risposta. Rimasi teso, le orecchie allerta, fino a quando non arrivammo al piano terra: mi aspettavo di sentire la voce di Sebastian King richiamarci da un momento all’altro, ma arrivati alla porta-finestra lui non ci aveva ancora fermati.
Gregory rise e io lo guardai scioccato.
“Andiamo, piccoletto: sei bianco come un lenzuolo!” si giustificò, “Sta’ tranquillo, ok? So badare a me stesso.”
“Già, l’ho notato ieri sera.” bofonchiai, per poi pentirmi subito per la cattiveria appena detta, “Scusa.”
Gregory annuì.
“Tranquillo, all’inizio sembra sempre tutto troppo grande per noi.” disse, sembrando di nuovo il ragazzo serio della sera prima, quello troppo adulto in un corpo da adolescente.
Annuii, abbattuto, ma lui mi posò una mano su una spalla.
“È tutta un’illusione, piccoletto.” mi sussurrò, pianissimo, “È un enorme trucco psicologico fatto da loro, ma ti assicuro che non è così.”
Mi voltai verso di lui, confuso. Che voleva dire? Gregory si guardò un attimo intorno, poi mi afferrò per un braccio e mi tirò con sé. Anziché girare verso il gazebo, proseguimmo dritti fino ad un minuscolo gruppetto di tre alberi e ci fermammo sotto di essi. Solo allora Gregory mi mollò, ma solamente per guardarmi dritto in faccia.
“Sei un diavolo d’osservatore, piccoletto, e ti assicuro che qui dentro non è un bene.” esordì, serissimo, “Forse non è vero, forse sei solo un ragazzino alquanto spaventato che finisce per essere sempre nel posto sbagliato, al momento sbagliato e con le persone sbagliate, per giunta; ma il risultato è sempre che sai fin troppe cose. Diamine, da quanto sei qui? Tre giorni, due e mezzo? La maggior parte dei ragazzi non sa nemmeno la metà delle cose che hai capito o sentito tu eppure è qui da anni! Sai che più cose vieni a sapere, più entri dentro questa cosa e più difficile sarà la tua vita qui, vero? Ryan ed io siamo il tuo biglietto di sola andata per l’Inferno, ma tu ci stai sventolando in aria con soddisfazione! La Williams ha subodorato qualcosa e Sebastian King è vicino a capire quanto ti sei affezionato a noi, per presto che sia. Sai tutto questo, vero?”
Annuii, incapace di fare altro, ma Gregory scosse la testa.
“Devi dirmelo a parole, piccoletto: non ho intenzione di tirarti dentro ancora di più se non ne sei assolutamente sicuro.” dichiarò, risoluto.
Esitai, ma gli risposi: “Lo so, Gregory.”
Lui sospirò e si passò una mano tra i capelli.
“Ogni singola cosa, qui, è studiata per far arrivare un messaggio al cervello: se obbedisci le cose vanno bene, se non obbedisci va tutto male.” mi spiegò, “Ti faccio un esempio banale: il cibo.”
“Il cibo?” chiesi, aggrottando la fronte. Ma aveva sbattuto la testa o cosa?
“Hai presente ieri sera cosa abbiamo mangiato?” mi chiese, “Cosa mi è finito in testa?”
“Minestra di pollo…” risposi, sempre più confuso.
Gregory annuì poi mi guardò dritto negli occhi.
“Io sono vegetariano.”
Sentii un maglio colpirmi la bocca dello stomaco, ripetutamente, ma Gregory continuò, ignorandomi.
“È così: se ti comporti in un modo che a loro non va bene, fanno in modo da farti arrivare ciò che più odi nel piatto. Fu Ryan a farmelo notare, è lui il cervello del gruppo, e così una volta ho provato a fare esattamente ciò che volevano facessi, ad essere ciò che volevano fossi, e sai cosa mi sono ritrovato nel piatto? Verdure grigliate. Neanche un accenno di carne, anche se agli altri ragazzi ne avevano servita. La maggior parte delle persone non se ne accorge, nemmeno io l’avevo fatto all’inizio, e così si ha la percezione che le cose vadano meglio se ci si comporta come richiesto. Sono messaggi subliminali, lavaggio del cervello, chiamali come vuoi, ma resta il fatto che giocano con le nostre teste.” Gregory sospirò, “Se devo essere sincero, dovrei dire che ero vegetariano: ormai è una rarità che non mi infilino carne in ogni piatto, potessero me la rifilerebbero anche a colazione.”
Sentii un paio di litri di bile invadere il mio corpo, sostituendone il sangue. Avevano rovesciato addosso ad un ragazzo vegetariano della minestra di pollo?! Era un crudeltà! Come tutto il resto, d’altronde.
“Mi dispiace, Gregory.” mormorai, piano.
Lui scrollò le spalle.
“Ormai ci ho fatto l’abitudine, mi viene più facile se penso che mi mangio un animale ma aiuto i miei compagni.” commentò ma non potei fare a meno di chiedermi come fosse stata dura all’inizio, “Questo comunque è solo un esempio. Lo fanno anche con le visite, le telefonate: se fai il bravo, fanno sempre in modo che tu riceva qualcosa. Sono decine i trucchi che usano, ma credo che Ryan ormai li abbia scoperti tutti.”
Vedo Gregory fare una smorfia di dolore e capisco che sta pensando all’amico.
“Che c’è?” gli chiedo.
“Sarebbe un ottimo psicologo, o magari uno di quegli scienziati che studiano le masse, sai?” mi risponde, sorridendo orgoglioso anche se con la voce triste, “Sarebbe bravissimo ed è quello che vorrebbe fare, ma questa scuola lo terrà qui fino a che non si sarà adeguato a ciò che la sua famiglia vuole da lui: dovrebbe già prepararsi ai test d’ammissione e invece gli hanno rubato due anni senza che se lo meritasse. La sua media di voti è sempre stata nove punto sette, capisci? Hai idea di cosa ci voglia per avere dei voti simili qui?! E l’hanno bocciato continuando a rifilargli un tre in condotta: se anche uscisse da qui, chi pensi che lo assumerebbe dopo aver chiesto le credenziali alla scuola? Nessuno. Ma sai qual è la cosa più triste? Che ogni settimana i suoi gli fanno avere un giornale di borsa, per ricordargli che gli basterebbe accettare di dirigere gli affari di famiglia per uscire da questo buco dimenticato da Dio.”
Ryan. Non avevo pensato a lui. Ho sempre visto Gregory come il martire, esattamente ciò che loro hanno voluto mostrarmi, e non ho mai pensato a cosa il mio compagno di stanza avesse dovuto abbandonare per strada.
“Però lui non accetta.” ricordai, a me stesso e al biondo, “Questo vuol dire che c’è qualcosa di più importante, per lui.”
Gregory sorrise, sarcastico.
“Già, un coglione biondo troppo orgoglioso per aiutare davvero i suoi amici.”
“Non lo pensi davvero.” lo interruppi, scuotendo la testa a destra e sinistra pur di scacciare quelle parole, “Altrimenti avresti già smesso.”
La mia testa si fermò, ma non per volere mio. Gregory l’aveva afferrata con entrambe le mani, per costringermi a guardarlo in faccia.
“Hai un’immagine troppo alta di me.” disse, serio, “Quella che Ryan ed io abbiamo costruito ad arte. Ce la prendiamo con loro, ma noi non siamo diversi: giochiamo con le vostre teste, tanto che ieri sera non hai potuto fare a meno di rischiare per me.” avvicinò il volto al mio, arrivando con le labbra ad un soffio dalla mia pelle e facendomi impietrire, poi sussurrò, a voce bassissima: “Pensaci bene, piccoletto, prima di decidere di lottare per noi. Il manico del coltello lo tengono sempre loro, ma forse non è prudente fidarsi di qualcuno che gioca stringendo la lama.”
Gregory mi fissò per un attimo, con quel tipo di sguardo che ti faceva capire che saresti dovuto stare zitto perché non voleva sentire la tua risposta, o almeno non subito, e poi sparì. Senza che potessi far nulla, mi lasciò e sgusciò via, limitandosi a sussurrarmi di aspettare un po’ prima di uscire, nel caso la Williams stesse guardando il parco dalla finestra. Aspettai, nemmeno seppi quanto, con un solo pensiero, tra l’altro idiota, nella testa.
Ha gli occhi troppo azzurri per questo posto in bianco e nero.
 
Sesta ora, lezione di musica. Alla luce di ciò che mi aveva detto Gregory prima di colazione sui trucchi psicologici della scuola, non potevo fare a meno, mentre camminavamo in fila verso il laboratorio, di chiedermi: Perché?
Appunto Gregory, dietro di me, camminava con le mani in tasca e fischiettava ignorando l’ordine al silenzio del professor Pattern, di musica appunto, mentre Ryan, davanti, non parlava ma avevo notato che continuava a spostare lo sguardo su tutti, alla ricerca di chi pareva più contento o abbattuto degli altri. La cosa peggiore era che io temevo di sapere per chi fosse stato organizzato il tutto.
Non avevo mai imparato a leggere gli spartiti, mio padre riteneva Musica una materia inutile e mi aveva fatto esonerare dalla frequenza alle lezioni anche quando studiavo alla scuola pubblica, prima di fare da privato a casa con Alfred. Però la musica era stata l’unica cosa che avessi davvero apprezzato in vita mia. Quando i miei non c’erano, ossia quasi sempre, accendevo una radio in ogni stanza della casa e passavo da una zona all’altra ascoltando di tutto. Poi ascoltare non mi era bastato, mi ero seduto ad un pianoforte che mia madre aveva preso solo per bellezza e avevo iniziato a riprodurre i suoi che sentivo andando per tentativi. Avevo studiato giusto la posizione delle note sui tasti o sulle corde e per il resto ero sempre andato ad orecchio. Non ero un musicista ma la musica era stata la mia unica amica per anni. E adesso mi faceva paura.
Cercai di pensare. Avevo fatto qualcosa di buono agli occhi della Williams? No, decisamente no. Al contrario, avevo fatto di tutto e di più contro di lei e le sue regole. Era per quello? Lo aveva scoperto e questo aveva a che fare con una sua vendetta? O semplicemente stavo diventando più paranoico di prima? Probabilmente l’ultima.
“Va tutto bene, piccoletto?” mi sentii sussurrare all’orecchio, ma ero troppo preoccupato persino per sobbalzare.
“Da quanto è che non venite al laboratorio di musica?” chiesi, piano.
“L’anno scorso siamo andati forse due volte e poi basta. Perché?”
Mi sentii morire a quella risposta ma mi costrinsi a darne una anche io.
“Ho paura che sia per me.” mormorai, pianissimo, sentendomi un condannato a morte che si avvicinava alla forca.
Gregory imprecò. “Ok, senti: fa’ finta di niente e stai tranquillo, va bene? Limitati a fare solo quello che ti dice il professore, niente di più, e per il resto stai in disparte e non contraddirlo. Andrà bene, tranquillo.”
Annuii, incapace di dire granché, ma non riuscivo a proprio a collegare il ‘tutto bene’ con qualsiasi cosa riguardasse un insegnante della Chess Academy.
Il laboratorio di musica altro non era se non una grande aula bianca, di dimensioni doppie alla nostra, con sedie nere appoggiate alle pareti ed alcuni strumenti nel mezzo. Il professor Pattern era un uomo non molto alto, senza capelli se non alcuni bianchi ad altezza delle orecchie e vestiva solo di nero. Aveva gli occhi scuri e il naso grosso, ma soprattutto non perdeva occasione di colpire oggetti con la bacchetta. Metteva paura.
Si mise accanto al pianoforte che capeggiava al centro del laboratorio e ci fece cenno di metterci dietro lo sgabello.
“Bene.” disse con l’espressione di non pensarlo affatto, “Dopo tre anni mi aspetto che qualcuno di voi abbia imparato il minimo necessario per sedersi a questo sgabello e suonare almeno qualcosa di decente. Chi vuole venire? Nessuno? Deciderò io, allora.” Stavo pensando che, se anche qualcuno avesse voluto offrirsi, il professore non aveva dato tempo ai volontari nemmeno di capire la domanda, quando lui mi fissò, “Mathieu Legris, ho indovinato?”
Deglutii, sentendomi sulle spine, ma risposi comunque un “Sì, professore.” non troppo sussurrato.
“Sei quello nuovo.” continuò, quasi senza ascoltarmi, “Sai suonare?” Annuii, esitando solo un attimo, e lui mi indicò perentorio lo strumento. “Avanti, forza.”
Mi sentivo troppo rigido per suonare, troppo spaventato anche solo per pensare, ma mi mossi meccanicamente verso il pianoforte, cercando di carpire le voci di Ryan e Gregory nel lieve brusio che accompagnò i miei gesti ma inutilmente perché Pattern urlò il silenzio.
Mi sedetti, incerto, e lui mi aprì a caso lo spartito davanti.
“Suona.” mi ordinò.
“Non posso.” mormorai, seppure sentissi un groppo in gola.
“Come sarebbe a dire?!” urlò Pattern e io sentii i palmi delle mani sudati ma mi costrinsi a non mostrargli che avevo paura.
“Non so leggere le note, professore.” sussurrai.




Lo so, lo so, non infierite, so che sto maltrattando Mathieu e Gregory oltre ogni umana follia e che siamo solo al sesto capitolo -.-"
Comunque, devo avvisarvi che i prossimi due capitoli sono gli ultimi già pronti che abbia, perciò non potrò più assicurare un aggiornamento regolare per questa storia. Come già detto per altre, la mia priorità assoluta va alla serie Commedie di Amore di Amore e Violenza e alla storia ora in pubblicazione Sulle Ali dei Violati perciò potrei dover aspettare un po' per questa. Mi spiace, ma Chess Academy è nata per gioco, mentre Sulle Ali dei Violati è un impegno un po' più serio che mi sono presa da tanto tempo.
Tuttavia non ho intenzione di abbandonare questo racconto, la cui trama è già pronta nella mia mente :D
Alla prossima direi, a questo punto :)
Che accadrà al 'piccoletto'?
Agapanto Blu

 

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Capitolo 8
*** L'unica cosa dolce ***











Capitolo 7: L’unica cosa dolce
 
“Pensi di prendermi in giro, ragazzino?! Mi hai detto che sai suonare!” urlò il professore di musica, palesemente furioso.
Avevo chiare le parole di Gregory nella testa, non contraddirlo, eppure vi andai contro completamente, senza ragione.
“Sì, ma non so leggere le note.” ripetei, un po’ più forte, “Suono ad orecchio.”
Sentii il silenzio, ma non mi voltai verso Pattern né verso gli altri ragazzi. Avevo avuto una paura del diavolo, quando mi ero seduto lì, ma quel timore stava scemando, sostituito dall’adrenalina. Era questo che provava Gregory nel ribellarsi? Aveva un gusto strano, dolceamaro.
“Bene.” commentò per l’ennesima volta Pattern e notai che, di nuovo, l’aveva detto lasciando intendere che non lo pensava affatto, “Allora, forza: suona pure ad orecchio!”
Deglutii ma posai le dita sui tasti costringendomi a nascondere il tremore delle mani. “Cosa vuole che suoni?” chiesi.
“Ma che vuoi che importi?!” esclamò, “Suona una canzone dei cartoni animati, se ti pare!”
Stavo per dire qualcosa, ancora non sapevo cosa ma qualcosa, quando sentii Pattern dare la parola a qualcuno.
“Scusi professore, ho un dubbio: ricordo male o lei non è capace di suonare ad orecchio? Solo per curiosità.”
Gregory, chi altri? Non avrei dovuto dirgli nulla quando eravamo entrati, stava già abbastanza male senza il bisogno di mettersi ancora nei guai.
“Hai voglia di scherzare, Gray?” chiese Pattern, quasi ringhiando, “Vuoi esporre le tue curiosità alla preside o magari preferisci confrontarti con il signor King? Ieri sera, per colpa del vostro ‘dialogo’ l’intero corpo docenti ha avuto difficoltà ad addormentarsi: hai una voce potente, se ben ‘stimolata’, Gray; dovresti fare il cantante lirico.”
No, no, no!Stava precipitando tutto, dannazione! Cosa potevo fare?
Le mie dita, tremando, sfiorarono i tasti del pianoforte e quel freddo conosciuto mi diede l’idea. Solo musica, mi dissi, Non devo pensare a nient’altro.
Suonai la prima cosa che mi saltò in mente, ma con il senno di poi notai che aveva senso, nel contesto in cui mi trovavo.
As you go through life you'll see/ there is so much that we/ don't understand.” all’inizio canticchiai appena, limitandomi a suonare, ma poi alzai la voce pensando che, se tanto dovevo farmi punire, almeno volevo ne valesse la pena, “And the only thing we know/ is things don't always go/ the way we planned…/ But you'll see every day/ that we'll never turn away./ When it seems all your dreams come undone,…/ we will stand by your side/ filled with hope and filled with pride./ We are more than we are:/ we are one…/ If there's so much I must be,/ can I still just be me/ the way I am?” Pattern forse iniziava a rendersi conto di ciò che stavo dicendo, ma ancora non aveva idea di cosa stessi effettivamente facendo, “Can I trust in my own heart/ or am I just one part/ of some big plan?.../ Even those who are gone/ are with us as we go on./ Your journey has only begun…/ Tears of pain, tears of joy,/ one thing nothing can destroy/ is our pride: deep inside/ we are one…/ We are one, you and I/. We are like the earth and sky./ One family under the sun…/ All the wisdom to lead,/ all the courage that you need,/ you will find when you see/ we are one.
Una canzone che parlava dell’essere uno solo, di non rinunciare ai proprio sogni per un piano che sembrava più grande di noi, di fidarci di noi stessi per essere solo ciò che eravamo e non ciò che altri volevano fossimo. Perfetta per la Chess Academy, vero?
“Che diavolo sarebbe questa…cosa, Legris?!” ringhiò Pattern.
Lo guardai, fingendo uno sguardo sorpreso.
“We are one. Il Re Leone due.” risposi, tutta la falsa innocenza di questo mondo concentrata nel mio sguardo.
Pattern mi fissò per un momento solo, poi mi afferrò per un braccio e mi rimise in piedi, spingendomi di nuovo a forza in mezzo ai miei compagni, che si aprirono e poi richiusero nascondendomi alla vista del professore fingendo che fosse stata la mia spinta a farli muovere. In un attimo, mi ritrovai preso tra due fuochi che mi facevano più paura di Pattern: Ryan e Gregory.
“Che diavolo pensavi di fare?!” mi sibilò il moro, contemporaneamente al commento del biondo: “Cosa non capisci di ‘resta in disparte’, ‘non fare niente’ e ‘non contraddirlo’?!”
Iniziai, lentamente, a rendermi conto di ciò che avevo fatto. Sì, avevo un motivo più che valido -impedire che togliessero a Gregory l’uso delle dita per il resto dei suoi giorni- ma adesso la paura tornava.
“Non lo so…” mormorai solo, gli occhi fissi su Pattern per non dover guardare le espressioni furenti dei due, “Non lo so.”
Sentii Ryan sospirare, mentre Gregory restava in silenzio. Il moro mi mise una mano su una spalla, comprendendo che stavo iniziando ad avere davvero paura.
Sì, avevo paura e anche tanta. La scena della Spencer che picchiava Gregory era ancora nitida nella mia mente, così come lo erano i lividi sulle mani del biondo e del mio compagno di stanza. Quanto male faceva? Quanto sarebbe durata? Come si sarebbe svolta? Tutte domande sulla mia futura punizione cui non sapevo assolutamente dare una risposta. Mi sentivo male, ma non tanto come quando avevo visto Sebastian King umiliare Gregory, perciò immaginai fosse una cosa normale. Sarei voluto sparire da lì e ogni tanto avevo la tentazione di darmi dell’idiota per come avevo agito e dirmi che in fondo Greg sapeva cosa faceva ma mi trattenevo sempre: avevo fatto tutto per un amico e sarebbe stato sbagliato adesso addossargli la colpa, visto che avevo agito di mia iniziativa.
Stavo deglutendo saliva per l’ennesima volta quando la mano di Gregory strinse la mia. Sobbalzai ma mi costrinsi a continuare a fissare dritto davanti a me. Le dita del biondo esplorarono il palmo e mi vergognai da matti perché era sudaticcio per la paura ma lui lo ignorò e dopo un attimo strinse forte la presa, nonostante immaginassi gli facesse male.
“Troverò una soluzione, piccoletto.” mi sussurrò, “Tranquillo, non ti lascio nei guai.”
Avrei voluto piangere, sì, ma per il sollievo. Le parole di Gregory mossero qualcosa, tanto che mi rifiutai di offendermi perché mi aveva chiamato ‘piccoletto’ per l’ennesima volta. Grazie Gregory. Non mi importava più poi tanto come sarebbero finite le cose, se davvero avrebbe trovato una soluzione oppure no, perché quelle parole ormai le aveva dette e perché sentivo la stretta delle sue dita salda sulle mie. Grazie di tutto.
 
Non riuscivo ad ascoltare le spiegazioni di Pattern, né a preoccuparmi di ciò che ci urlava contro o di come suonavano gli altri ragazzi che chiamò al piano. Riuscivo solo a concentrarmi sulla gola che si seccava, sul dolore simile a spilli dovuto alla saliva che cercava di inumidirla di nuovo e sulla sensazione di avere i polmoni anestetizzati e insensibili.
Alla fine, suonò la campana. La presa della mano del biondo sulla mia si intensificò per un istante, prima che mi lasciasse andare per chinarsi un poco su di me.
“Va’ fuori, segui Ryan e non fermarti, ok?” mi sentii sussurrare da Gregory, “Può anche essersi dimenticato, è capace di farlo ed è arrabbiato anche con un sacco di altre persone.”
Non era vero, lo seppi nell’istante in cui la campana smise di suonare e Pattern puntò gli occhi su di me. E seppi che se me ne fossi andato, avrebbe preso Gregory perché il biondo era sul punto di andargli incontro e lo aveva provocato già prima.
Lo afferrai per un polso, fermandolo, e lui si voltò a guardarmi con sorpresa.
“Grazie, Gregory.” sussurrai, sorridendo davvero per il tentativo suo e di Ryan di proteggermi, “Faccio da solo.”
Superai il biondo, sfuggendo appena in tempo ad un tentato placcaggio da parte di Ryan -alle mie spalle-, e svicolai tra i ragazzi che stavano camminando verso la porta, accostandomi al professore.
“Bene.” commentò Pattern, le braccia incrociate e la bacchetta che spuntava da esse, “È qui da soli tre giorni e già sa come funzionano le punizioni? Non so se complimentarmi o offendermi.” Incassai il colpo in silenzio, limitandomi a fissarlo, ma lui alzò gli occhi su qualcosa alle mie spalle. “Hastings e Gray, capisco la vostra sorpresa nel non essere trattenuti ma per oggi direi che potete anche andare. Fuori.”
Mi ritrovai a sperare che lo facessero in fretta, volevo che finisse tutto rapidamente, e al contempo che non se ne andassero mai, per uno strano bisogno di conforto.
Pattern dovette richiamarli ancora una volta e solo allora sentii i passi dei miei due amici dirigersi alla porta e poi chiudersela alle spalle.
Oddio.
Pattern era mollemente appoggiato al pianoforte con la base della schiena e mi fissava con sufficienza, come se fossi stato qualcosa di inutile capitato sulla sua strada per sbaglio. Avevo paura da morire ma finsi che non mi importasse.
“Dovresti porgere le mani, Legris.” commentò Pattern, sprezzante, e mi sentii morire di vergogna.
Pensai a Gregory, all’espressione sempre ghignante che teneva sul viso e all’apatia orgogliosa cui si aggrappava al momento di dimostrare quanto era disposto a fare per la sua causa. Non sarei mai stato come lui, ma potevo provarci.
Deglutii ma tesi le mani davanti a me, verso Pattern che però sollevò un sopracciglio.
“Alla buon’ora.” commentò, raddrizzandosi.
Cercai di costringermi a respirare, anche se mi sembrava di avere troppe cose nella testa per ricordarmi anche di quello, e aspettai. Pattern sollevò un sopracciglio con spregio poi alzò anche la bacchetta.
Il primo colpo fu il peggiore.
Fu come se lo schiocco fosse arrivato prima del legno, il dolore arrivò dopo ma fu tremendo: bruciante come lava, una striscia infuocata sulle mie nocche, un rosso acceso che mi pareva di poter vedere sin da subito, quando ancora l’ombra sulla mia mano era biancastra. Mi morsi la lingua, ma un gemito mi scappò lo stesso. Pattern non fece come la Spencer, non aspettò neanche un attimo ma calò subito il secondo colpo, dritto sulle dita.
Persi il conto dopo quel dolore e quel gemito, lasciando che colpisse un po’ ovunque sui dorsi. Aumentava la forza, mano a mano che passava il tempo, e anche l’altezza da cui scaricava il colpo. E faceva male. Un male atroce.
“La prossima volta…” commentò Pattern, intervallando la frase con dei colpi, “eviterai di fare…lo spiritoso…vero, Legris?”
Mi morsi la lingua con più forza quando la bacchetta prese il centro del dorso, ma poi mi costrinsi a rispondere: “Sì, professore.”
Non che accontentarlo cambiò molto perché Pattern continuò a colpire. Sempre più forte.
 
Strinsi le dita attorno alla maniglia e entrai nella mia stanza di corsa, cercando di costringere le dita al movimento e alla pressione il meno possibile. Mi chiusi dentro, sbattendo la porta alle mie spalle con un calcio, e corsi in bagno stringendo ancora la lingua tra i denti. Non mi preoccupai di chiudermi dentro, non ne ebbi né il tempo né la voglia. Colpii la maniglia del rubinetto con il polso, per non sforzare le dita doloranti,e quello si aprì ma non uscì nulla.
“No…” mormorai, chiudendo e riaprendo il flusso ma senza che uscisse neanche una goccia. Non poteva non esserci acqua, maledizione! “No, no, no! Dannazione!”
Avevo le lacrime agli occhi per il dolore e le mani bruciavano tanto da far pensare che mi ci avessero acceso sopra un fuoco.
“Hai ancora un sacco di cose da imparare, prima di fare il grande eroe.” A malapena feci in tempo a voltarmi che Ryan fu al mio fianco, posò una bottiglietta d’acqua sul lavandino e mi prese le mani tra le sue.
“Mi…mi dispiace.” mormorai ma lui mi fece cenno di lasciar perdere mentre svitava il tappo della bottiglietta.
“Chiudono sempre l’acqua della stanza di un ragazzo che è appena stato punito.” mi spiegò, “Lo fanno per impedirgli di medicarsi. È anche per questo che Gregory è venuto qui ieri sera, anziché andare nella sua camera. Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo.”
Gemetti quando iniziò a versare l’acqua sulle mani e lui riprese subito a parlare, come per distrarmi.
“Sei fortunato che non ci siano tagli.” commentò, “Avrebbe fatto più male.”
“Tagli tipo questo?” chiesi, voltando la mano sinistra con il palmo all’insù per mostrargli la ferita che lo attraversava diagonalmente, dalla base del polso alla punta del mignolo più o meno. Ryan guardò il taglio, sgomento, e io non potei trattenermi dal raccontargli tutto. “Mi aveva detto che era finita e che potevo andare, stavo abbassando le mani ma ha colpito ancora e la punta ha fatto il taglio. Ha detto che così ci avrei pensato prima di suonare di nuovo cose simili.”
“Scricciolo…”
“Gliel’ha detto mio padre, Ryan.” lo interruppi, “Lo so. Lui ha sempre ritenuto la musica una sciocchezza e quando ha saputo che suonavo ha fatto fare a pezzi il pianoforte e l’ha usato per accendere fuochi per le erbacce. Ha detto anche questo alla Williams, ne sono sicuro.”
Ryan si fermò, smise per un attimo di ripulire il taglio e alzò gli occhi scuri su di me. Ricambiai lo sguardo cercando di nascondere quanto male mi avesse fatto quell’ennesimo colpo basso dei miei, ma dovetti fallire perché lui alzò una mano a stringermi la nuca, per farmi posare la testa sulla sua spalla senza spostare le mani da sopra il lavandino.
Restammo così per un attimo, solo quel secondo necessario a riprenderci entrambi, poi tornò a bagnarmi le mani e lavare il taglio. Gemetti, faceva un male cane, e lui ricominciò di nuovo a blaterare.
“Gregory è davvero furioso con te, sai?” mi raccontò, “Ha imprecato per tutto il pranzo, ma c’è di buono che era così arrabbiato che si è dimenticato di offendere qualche professore. Forse stasera gli concederanno un menù vegetariano, quantomeno.”
Mi strappò una risata, non so come ma Ryan ce la fece, e da lì in poi fu più semplice aspettare che finisse il suo lavoro e mi avvolgesse un asciugamano umido attorno alle mani. Alla fine, tornammo in camera e mi costrinse a sdraiarmi.
“Ho passato più tempo a letto che in piedi, da quando sono qui…” notai tra me e me e Ryan sorrise.
“Capita.” disse solo, poi mi guardò con serietà, “Senti, so che di solito le persone preferiscono stare da sole in queste circostante, perciò se vuoi vado in biblioteca o… a organizzare con i ragazzi del quinto il prossimo carico di farmaci o… a trattenere Scott dall’uccidere Pattern…ok, forse quest’ultimo non lo farò, ma comunque… Se vuoi me ne vado, scricciolo, però io so, per esperienza, che se sei con i tuoi amici, fa meno male.”
Gli sorrisi, riconoscente per tutto, ma non potei accettare la sua compagnia.
“Ne terrò conto.” sussurrai solo.
“D’accordo.” mormorò lui, alzandosi e dirigendosi alla porta. Sulla soglia si fermò e mi lanciò un’occhiata dolce. “Riposati, ok? Dirò agli altri che stai bene.”
Lo ringraziai ma lasciai che se ne andasse. Mi sentivo troppo…strano per stare con qualcuno. Continuavo a rivivere tutto, dall’inizio alla fine, solo che nella mia mente era sempre peggio, sempre più distorto, e faceva sempre più male. Mi vergognavo. Nella mia testa era tutto al rallentatore e potevo risentire tutte le parole sprezzanti di Pattern che mi umiliavano e poi tutti i miei gemiti che mi imbarazzavano perché non riuscivo a non pensare che sarei dovuto stare zitto, che se fossi stato un po’ più forte avrei potuto non cedere, mentre invece alla fine mi ero anche lasciato scappare un’esclamazione per il dolore, un “Ah!” che mi risuonava nella testa gridandomi che ero un idiota e che forse mio padre aveva ragione a ripetere che ero uno smidollato.
Chiusi gli occhi ma la situazione peggiorò, al punto che mi parve di sentire qualcuno bussare alla porta. Ignorai le mie allucinazioni e mi portai le mani al petto, stringendo di più gli occhi e costringendo a forza le lacrime ad uscire: forse loro si sarebbero portate via un po’ di pensieri, in fondo erano vicine alla testa. Mi ritrovai quasi a singhiozzare come un bambino perché l’asciugamano si stava scaldando e il dolore tornava.
“Shhh, piccoletto. Va tutto bene, sta’ calmo.” e assieme alla sua voce arrivò di nuovo la frescura sulle mani.
Aprii gli occhi, per accertarmi dell’illusione, ma Gregory era lì per davvero, seduto sul bordo del mio letto come quando ero stato male perché avevano picchiato lui. Versava l’acqua dalla bottiglietta che Ryan mi aveva lasciato sul comodino direttamente sull’asciugamano e quando ebbe finito mi costrinse a bere, dicendo che ne avevo bisogno. Non avevo la forza di oppormi per cui obbedii docilmente, ringraziando il fatto che fosse lui e non la Williams perché al momento mi sentivo in uno stato tale che avrei potuto piegarmi anche a lei, nonostante ciò che sapevo facesse.
“Andrà meglio.” mi assicurò, “Il dolore sparisce quasi subito appena smetti di pensarci.”
“Allora temo starà qui per un po’.” mormorai, ridendo con amarezza.
Gregory mi sorrise, mesto, e i suoi occhi azzurri erano pieni di barche dalla vela candida.
“Mi hai fatto preoccupare.” mi rimproverò, “Anzi, hai fatto preoccupare tutti, per essere precisi. Che ti è saltato in mente?!”
Deglutii, mi sentivo troppo debole per sopportare il suo rimprovero eppure mi costrinsi a difendermi.
“Gli avresti risposto” sussurrai, stringendo i denti per le fitte che le mani continuavano a mandarmi, “e ti avrebbero punito di nuovo. E visto come ti ha conciato Sebastian King ieri sera ho pensato che…”
“Non avresti dovuto farlo.” mi interruppe Gregory con durezza, “Non era compito tuo, te l’ho spiegato, e di me non ti devi preoccupare, chiaro?” Deglutii, imbarazzato, ma chiusi gli occhi e annuii, senza il coraggio di guardarlo in viso. Stavo per scusarmi quando lui mi interruppe, riprendendo. “Nonostante questo…grazie. Per tutto. Per l’altro ieri, per ieri e per oggi. Adesso però pensa a te, ok? Basta fare il buon samaritano dell’istituto.”
Sorrisi alle sue parole e annuii.
“Cosa mi sono perso?” chiesi quindi.
Gregory scrollò le spalle e i capelli biondi gli ondeggiarono dietro la nuca.
“Nulla di che, solo la faccia della Williams più soddisfatta del solito ma quella avrei preferito evitarmela anche io.” commentò con una smorfia, “Sto pensando di combinare qualcosa tanto per rovinarle la giornata, ma non vorrei che qualcuno a caso si mettesse di nuovo in mezzo.”
Arrossii alla frecciatina ma poi dovetti stringere gli occhi perché avevo mosso le dita e il dolore si era riacceso.
“Ok, senti piccoletto: io posso fare del mio meglio per distrarti però, se tu non stai fermo, non ne usciamo vivi.” borbottò Gregory sbuffando, “Che devo fare per farti stare buono?”
Nel pronunciare queste parole, allungò la mano a spostarmi delle ciocche di capelli dalla fronte ma poi la posò sul lato della mia testa e la tenne lì, sorridendomi rassicurante.
“Sdraiati qui con me.” sussurrai, stordito da quel contatto e dalle emozioni forti. Lui parve sorpreso e io mi ritrovai a pregarlo. “Resta qui, per favore. Mi…mi vergogno così tanto di tutto… e fa male e…”
“Shhh…” mi ripeté lui, muovendo la mano sul mio viso in una lenta e dolce carezza. L’attimo dopo era sdraiato sul fianco di fronte a me, non aveva tolto la mano e teneva le mie ancora doloranti tra i nostri ventri mentre con la sua libera si sosteneva la testa. “Va bene così? Adesso fai il bravo?”
Annuii, sorridendo mesto e chiudendo gli occhi per poi chinare il capo. Calcolai male le distanze e con il mio gesto posai la fronte contro il suo petto. Mi irrigidii e non osai muovermi di lì. Invece di spostarmi, Gregory iniziò a carezzarmi la nuca, facendo passare le dita tra i miei capelli e causandomi alcuni sospiri soddisfatti.
Mi stavo addormentando quando lo sentii parlare di nuovo: “Non devi vergognarti di nulla, piccoletto. Sei l’unica cosa dolce rimasta in questo posto.”

 
 
 
*Quando andrai attraverso la vita vedrai/ che c’è così tanto che noi/ non capiamo./ E l’unica cosa che sappiamo/ è che le cose non sempre vanno/ nel modo che abbiamo programmato…/ Ma vedrai tutti i giorni/ che noi non ti abbandoneremo mai./ Quando sembrerà che tutti i tuoi sogni siano cancellati,.../ noi staremo al tuo fianco/ uniti da speranza e uniti da orgoglio./ Noi siamo più di ciò che siamo:/ noi siamo uno./ Se c’è così tanto che devo essere,/ posso essere ancora soltanto me stesso/ nel modo in cui sono?/ Posso fidarmi del mio stesso cuore/ o sono solo una parte/ di un grande piano?/ Anche quelli che se ne sono andati/ sono con noi mentre andiamo avanti./ Il tuo viaggio è appena iniziato./ Lacrime di dolore, lacrime di gioia,/ una sola cosa che nulla può distruggere/ è il tuo orgoglio, dentro nel profondo/ siamo uno./ Siamo uno, tu ed io./ Siamo come la terra e il cielo./ Una famiglia sotto il sole./ Tutta la saggezza per guidare,/ tutto il coraggio che ti serve/ li troverai quando vedrai/ che siamo uno. [We are one, OST The Lion King 2: Simba’s Pride]




Eccomi!
Lo so, è il penultimo programmato ma non so cosa dirvi... Purtroppo per questa storia e per un'altra sarà così: vedrò di impedirlo in futuro...
Comunque chiarisco assolutamente un punto: non ho intenzione di abbandonare, sospendere o lasciare incompiuto proprio un bel niente, ok?
Detto questo, alla prossima!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 9
*** Smettila, ti prego! ***











Capitolo 8: Smettila, ti prego!
 
Da allora, le cose non cambiarono granché. Cambiai io.
Gregory continuò a fare il ribelle e di conseguenza a prendere un sacco di botte, ma la sua aura da bello e dannato sembrava solo crogiolarsi nella situazione aumentando la sua fama presso i nuovi arrivati nella scuola. Ryan continuò a lamentarsi della linea d’azione del biondo, a curarlo quando le prendeva e a organizzare fisicamente le fila dei rivoltosi, da perfetto primo stratega di guerra. Scott si unì di più a noi, divenne un amico fidato anche per me che lo conoscevo meno. E io divenni una specie di mascotte itinerante. Per la maggior parte del tempo aiutavo Ryan o facevo da corriere portando in giro bigliettini e oggetti che mi dava il moro, qualche volta mi misi ancora in mezzo tra il biondo e le sue punizioni -quando era palesemente necessario perché Gregory non ce la faceva più ma si rifiutava di fermarsi- e per questo il nostro caro martire mi faceva sempre delle lavate di testa assurde; a volte anche io finivo per prenderle ma dopo la prima volta fu più facile. Non piansi più, non serviva, ma imparai che a volte bisognava tirare fuori le unghie e lottare, anche per cose che ci sarebbero state dovute, come il semplice diritto a non essere pestati ogni santo momento. Lottare mi diede forza e scoprii che Ryan aveva ragione: aveva fatto più male vedere la punizione di Gregory, che accettare la mia.
Erano passati quattro mesi, quattro mesi di vero Inferno. Gregory era strano, si avvicinava e si allontanava da me, incostante come il mare che gli scintillava negli occhi, ma io sapevo perché lo faceva, conoscevo la promessa fatta a Ryan e sapevo che non l’avrebbe infranta.
I miei si erano fatti sentire una volta dopo il primo mese, avevano telefonato alla Williams e il caso aveva voluto che in quel momento fossi nelle grinfie della Spencer per cui mio padre era venuto a sapere che mi stavano punendo ed era andato su tutte le furie. Risultato: non avevo più ricevuto altre notizie. Non potevo dire di esserne dispiaciuto.
“Buongiorno a tutti.” salutai, sedendomi accanto a Ryan.
La mensa, essendo i primi di Gennaio, era stata spostata nella parte destra del piano terra, accanto ai camini, ma rimanevano le solite tre tavolate inquietanti.
“Alla buon’ora!” commentò Scott, davanti a me, ridendo.
“Sono ancora a metà tra sonno e veglia, parlatemi e potrebbe essere l’ultima cosa che fate in vita vostra.” replicai, facendo colazione con gli occhi semichiusi.
Ryan rise e in quel momento Gregory si unì a noi con espressione furiosa.
“Ti sei fatto beccare di nuovo?” gli chiesi piano, un po’ preoccupato.
Lui si lasciò cadere seduto al suo posto, oltre Ryan, e ringhiò un: “Peggio.”
“Le pagelle del primo quadrimestre.” mi spiegò il moro, tranquillo.
“Le consegnano oggi, no?” ricordai ma ero confuso, “Insomma, condotta a parte, non le ha tutte sopra?”
“Oh, non è quello il problema.” commentò Ryan, rimestando il suo latte e cereali con una smorfia. Per la cronaca, Ryan odiava i cereali ed era intollerante al latte ma il giorno prima aveva fatto infuriare Pattern fuori dall’orario di lezione.
“E allora qual è?”
“I miei non perdono neanche una delle occasioni per venire qua dentro.” borbottò Gregory, offeso, “Vengono, parlano con la Williams, si lamentano di non aver scelto un altro bambino in orfanotrofio e poi se ne vanno, non prima però di aver lasciato alla scuola un’ingente donazione. Insomma, io faccio di tutto per fermare questa gente e loro gli danno dei soldi: è inconcepibile!”
“Quindi…i genitori posso venire alla scuola?” chiesi, sorpreso.
“Per la consegna delle pagelle sì. Altrimenti vengono mandate per mail o per posta.” mi aggiornò Scott, scrollando le spalle.
“Grandioso.” commentai, acido, “Mio padre sarà felicissimo: suo figlio e la musica finalmente non vanno più d’accordo!”
Ryan mi diede una pacca sulla spalla, in segno di solidarietà, poi rinunciò a mangiare.
“Io inizio ad andare in classe.” ci disse, prima di andarsene.
Annuimmo e dopo poco anche Scott ci abbandonò. Io e Gregory ci alzammo insieme e salimmo le scale lentamente.
Le aule erano gelide e lasciare il letto o anche solo il posto accanto al camino, al mattino, era allucinante. Come se non bastasse, avevo scoperto l’ennesimo giochino della Williams: guarda il caso, nella stanza di Gregory non c’era mai acqua calda. Se non stava morendo di polmonite era solo perché eravamo riusciti ad organizzarci in modo che venisse a far la doccia da noi. Lui non era l’unico, ma io e Ryan avevamo buttato giù un piano di spostamenti per far sì che nessuno dovesse lavarsi nell’acqua gelida con meno dieci gradi all’esterno.
“Oggi vieni da noi?” chiesi al biondo.
Lui scrollò le spalle.
“Come sempre, direi!” rise.
Annuii. Non mi dispiaceva questa soluzione. Gregory passava un sacco di tempo con me, visto che Ryan spariva magicamente quasi ogni volta; all’inizio questa indole del moro da agenzia matrimoniale mi inquietava, ma poi avevo dovuto ammettere che non era così male.
Entrammo in classe con calma, senza alcuna voglia di dover sopportare l’ennesima giornata di umiliazioni praticamente continue e di lezioni noiose. Per di più, le pagelle le avrebbe dovute consegnare la Williams, il che era orribile, o in sostituzione Sebastian King, che forse era ancora peggio. Speravo solo di sopravvivere fino al pomeriggio.
Mi sedetti al mio posto dove, preso tra i due fuochi, Ryan e Gregory potevano tenermi costantemente sott’occhio. ‘Scricciolo’ e ‘Piccoletto’ non erano cambiati.
La Spencer era soporifera, non c’era altra spiegazione, e il freddo era tale che mi sentivo congelare le dita dei piedi. Avevamo provato a farlo notare al corpo docente con le buone ma la Williams era stata irremovibile: la divisa scolastica era quella, per leggera che fosse, e non sarebbe stata accettata alcuna modifica. Il biondo terribile aveva ovviamente reagito a modo suo, presentandosi a scuola un giorno senza giacca e dichiarando di avere caldo, ma per poco non ci era rimasto perché Sebastian King, che si era rivelato nostro insegnante di Spagnolo, lo aveva costretto a stare in piedi accanto alla finestra aperta, con la camicia sbottonata, per le tre ore della sua lezione.
Al momento, Ryan seguiva abbastanza bene, la materia gli piaceva e aveva un animo da secchione che non poteva essere soppresso, mentre Gregory continuava a sbuffare a bassa voce. Non aveva ancora tentato colpi di testa e mi chiedevo se fosse per l’arrivo imminente dei suoi genitori o se per aspettare la Williams e combinarne qualcuna direttamente a lei. Per crudele che fosse, speravo la prima: mi dispiaceva il rapporto del biondo con i suoi, mi ricordava il mio, ma almeno sarebbe stato lontano dai guai per un giorno, che era meglio di niente.
Eravamo nel bel mezzo della lezione, quando si aprì la porta e la Williams fece un passo dentro, rimanendo però sulla porta.
“Scusami, Ginger.” disse alla Spencer, “Dovrei rubarti uno dei tuoi allievi: ci sono i genitori in visita.”
Sentii uno schiocco e mi voltai verso Gregory: il biondo aveva fatto a pezzi la matita che teneva in mano, per via della pressione con cui l’aveva stretta. Si accorse del mio sguardo e si voltò verso di me, lanciandomi un’espressione sofferente cui risposi con una comprensiva.
“Legris, vieni.”
Cosa?! Mi voltai, sgomento, ma la Williams continuò a guardarmi con quel suo maledetto sorriso sulle labbra. Mi sentii all’improvviso di ghiaccio: che voleva dire?, perché i miei erano nella scuola?!
“Legris, saresti così gentile da sbrigarti?” la voce della Williams si era indurita e questo bastò a farmi uscire dalla trance. Per quel poco che avevo capito, la gerarchia in ambito di violenza vedeva Sebastian King al primo posto, seguito dalla Williams e con poi Pattern in terza posizione. Non avevo ancora mai sperimentato i primi due ma ricordavo bene le botte del terzo e non ci tenevo a conoscere le posizioni superiori.
Mi alzai e iniziai ad attraversare la classe, sorpreso, ma non ero ancora sulla porta che sentii per la prima volta la voce di mio padre dopo quattro mesi: “È sempre il solito idiota.”
Chiusi gli occhi per un attimo. L’avevano sentito tutti di sicuro, non poteva essere diversamente, e questo aumentò il mio desiderio di fingere un malore e lasciarmi cadere per terra dandomi per morto.
La Williams mi posò una mano sulla spalla e mi spinse delicatamente fuori dalla classe. Lanciai un’occhiata rapida ai miei compagni: Ryan era sorpreso e abbastanza preoccupato -lui più di tutti conosceva le difficoltà che avevo con i miei- mentre Gregory era confuso.
I miei genitori erano al centro del corridoio. Mia madre si guardava attorno e non mi sarei stupito se uscita dalla scuola avesse ricordato meglio l’arredamento che il sottoscritto, non mi avrebbe sorpreso da una che era stata capace di far emigrare un uomo solo per avere il cameriere di nome Alfred perché così era ‘più elegante’; portava i capelli biondo scuro più lunghi, fino a metà schiena, e aveva il viso elegantemente truccato attorno agli occhi castani con sprazzi verdi che avevo ereditato, indossava un abito al ginocchio color crema e un filo di perle al collo. Per quanto potesse farmi male, capivo come mai così tanti uomini la inseguissero: aveva appena trentasette anni ed era bellissima. Mio padre, invece, era fermo in piedi, le mani dietro la schiena e il petto gonfio, e mi guardava con la solita espressione di sufficienza; avvicinandomi, ebbi voglia di sospirare, perché per quanto dicesse che ero nato da una scappatella di mamma bastava guardarlo per capire che ero figlio suo: stessi capelli castani -ora che li portavo alla maniera della scuola, erano anche nella stessa acconciatura-, stessi zigomi e stesse labbra sottili, se non fosse stato per gli occhi che lui aveva scurissimi -e per il carattere- sarei stato la sua copia in miniatura.
“Ecco suo figlio, signor Legris.” commentò la Williams, ricordandomi che era alle mie spalle, prima di porgere a mio padre un cartoncino azzurro in formato protocollo che riconobbi con orrore, “E qui abbiamo il suo rendimento scolastico.”
Tentai di salutare mio padre ma lui mi ignorò per aprire la mia pagella, mia madre alle sue spalle continuava a guardarsi attorno con aria svanita. A volte mi ricordava una bambina, quando non mi urlava contro anche lei, e questo mi faceva stare più male che mai: si era mai accorta di essere diventata madre?, o aveva archiviato la cosa dopo il parto, la sua ‘esperienza interessante’ -sue testuali parole- di cui parlare con le amiche di buona società?
“C’è qualche carenza in musica e arte…” iniziò la Williams ma mio padre le fece un cenno con la mano.
“Va più che bene.” disse, tornando a leggere.
Aspettavo con angoscia che arrivasse alla fine della seconda pagina e intanto mi chiedevo come avrebbe reagito. Avrei voluto Gregory o Ryan vicini, quantomeno loro ci erano già passati. Mio padre divenne all’improvviso paonazzo, gli occhi sgranati, e seppi che aveva letto la parte peggiore: il voto di comportamento.
“Che diamine significa questo?!” urlò, tanto forte che la Spencer smise di spiegare, in classe, e che l’aula di fronte si aprì, facendo uscire un Pattern dall’espressione seccata. Il professore di musica capì la situazione e ghignò, si sporse nella sua classe urlando di fare silenzio ma poi tornò a guardare. Mio padre ignorò tutto, me compreso, per rivolgersi alla preside. “Che significherebbe quattro di condotta?!”
La Williams sospirò teatralmente, guardandomi con un’espressione di rimprovero.
“Purtroppo” disse estraendo un foglio bianco dai documenti che teneva in mano e porgendolo a mio padre, “suo figlio ha dimostrato un carattere difficile. Come può vedere, siamo stati costretti a ricorrere a metodi drastici più e più volte.”
Sapevo cosa fosse quel foglio, era la lista giorno per giorno dei provvedimenti presi nei miei confronti. A conti fatti, era una fortuna che non fossero due o tre pagine.
“Che vorrebbe dire tutto questo, Mathieu?!” urlò mio padre, guardandomi per davvero per la prima volta dall’inizio del colloquio.
“Papà…” iniziai, ma la frase che avevo in testa era: Tanto non mi ascolterai neanche ‘stavolta.
“Sta’ zitto!” mi urlò infatti, sventolando il foglio bianco con foga, “È questo che fai?! Ti mando via per punirti e inizi a comportarti così?!”
“Se mi permette, non è tutta colpa di suo figlio.” si inserì la Williams e per un attimo rimasi sgomento perché sembrava stesse venendo in mia difesa ma poi capii il suo vero intento quando aggiunse: “È che Mathieu sta frequentando…delle cattive compagnie, qui all’istituto. È così dal suo arrivo e credo sia colpa di questo se ha iniziato a comportarsi così male.”
Frequentare, ero certo che avesse usato quel verbo apposta e infatti mio padre drizzò subito le orecchie.
“Che vorrebbe dire?!”
Tentai di inserirmi ma la Williams mi precedette e mio padre mi fece cenno di tacere.
“Due ragazzi della sua classe, pluribocciati per il comportamento: due teste calde che purtroppo temo abbiano rovinato vostro figlio.” commentò lei con un sospiro triste falso come Giuda, poi però fissò mio padre con serietà, “Mi sento obbligata a dirle, signor Legris, che uno dei due ragazzi ha lo stesso problema di Mathieu.”
A mio padre si gonfiò una vena sulla tempia per la rabbia ma a mia volta strinsi i pugni. Come diavolo si permetteva, la Williams?! Un problema?! L’unico problema, in quella scuola, era proprio lei con i suoi metodi sadici!
“Lo sapevo!” gridò mio padre, come esplodendo, e la sua voce fece aprire anche le porte di classi più lontane.
La Spencer aprì quella della mia classe e uscì in corridoio mormorando un flebile “Signora Preside?” prima che la Williams le facesse un imperioso quanto soddisfatto cenno di tacere. Notai che sorrideva, poi però dovetti tornare a guardare mio padre.
“Lo sapevo! Sei sempre il solito, vero Mathieu?! Non riuscirò mai a rimetterti in riga!” strepitava, “Ti mando in questa scuola per porre fine al problema e tu lo incrementi! Ci manca solo che tu vada a battere e la nostra famiglia le avrà viste tutte!”
“Papà!” esclamai, sconvolto. Mio Dio, ero pure vergine! Come poteva dire cose simili?!
“Papà un corno!” urlò lui, sempre più furioso, “Tu non sei figlio mio, te l’ho già detto mille volte! Sei nato da una scopata clandestina di tua madre!”
Chinai il capo, umiliato. Mia madre sentì la frase che la accusava e tornò dal suo mondo dei sogni, giusto per dar contro a mio padre e mettersi ad urlare che era stata una scelta sua avere un figlio e che se fosse stato per lei si sarebbe risparmiata nove mesi di ingombro e una notte di dolori atroci. Proprio le cose che un figlio vuole sentirsi dire, no?
“Smettetela!”
Mi voltai, sorpreso, nel riconoscere quella voce.
Gregory era sulla soglia della nostra classe, con Ryan subito alle spalle e tutti gli altri dietro. Era furioso, davvero, e stringeva i pugni tanto da far tremare tutte le braccia.
“Dovreste vergognarvi!” continuò, ignorando la Spencer che stava ordinando di rientrare in classe, Gregory, ti prego, non farlo!, “Dire cose del genere davanti a vostro figlio! Non vi meritate uno come lui!”
Mi voltai verso mio padre, spaventato dalla reazione che avrebbe potuto avere davanti ad una sfida così dura, e lo trovai paonazzo, più di prima.
“Chi ti credi di essere, ragazzino?!” urlò contro Gregory e ovviamente la Williams non perse l’occasione.
“Ecco, lui è precisamente il ragazzo di cui le ho parlato prima.” disse, con espressione dura, poi indicò Ryan, “E quello è l’altro.”
A mio padre si ruppe un capillare in un occhio, da quanto era furioso.
“Allora è lui!” urlò, facendo accorrere dalla prima classe addirittura Sebastian King, “È lui che ha traviato mio figlio!” smettila, com’è possibile se non lo conoscevo nemmeno quando ti ho detto di me?!, mio padre puntò un dito contro Gregory, “Tu sei un rovina-famiglie! Una disgrazia ambulante! Ma io non permetterò ad un sudicio frocetto,” smettila, papà, ti prego! “ad uno schifoso scherzo di natura,” smettila!, “di prendersi Mathieu! Lui sarà anche figlio di una scopata occasionale ma ha il mio cognome e…”
“SMETTILA!” smettila, smettila, smettila, “Smettila, tanto lo sanno tutti che è più probabile che sia tu a mettere incinta una delle tue segretarie: mamma quantomeno è abbastanza furba da usare la pillola, sei tu il coglione che se ne frega degli altri tanto da infischiarsene se la sua amante aspetta un figlio!”
Dolore. Finii a malapena di parlare che mio padre mi tirò un ceffone in pieno viso.
Sentivo il cuore che pulsava nella testa, riuscivo ad ascoltare solo quello. Era come se lo schiaffo mi avesse gettato più in profondità nel mio corpo e così vedevo tutto in modo strano, distante.
Tump, tump. Vidi Sebastian King afferrare Gregory, che però si dimenava. Tump, tump. Pattern intervenne e con la Spencer spinse tutti i ragazzi dentro la classe poi afferrò Ryan che cercava di aiutare il biondo. Tump, tump. I miei due amici furono trascinati sulla porta e praticamente gettati nell’aula, poi la Spencer chiuse la porta e fece girare la chiave nella serratura. Tump, tump. Non sentivo se stessero gridando qualcosa, era tutto molto silenzioso a parte il pompare del cuore, ma la porta tremava come se vi stessero tirando contro dei colpi. Tump, tump.
Mi voltai di nuovo verso mio padre, lui aveva ancora il braccio alzato e ansimava per la rabbia, mentre mia madre, dietro di lui, aveva entrambe le mani sulla bocca e mi fissava con gli occhi sgranati, neanche mi vedesse per la prima volta. Ora ti ricordi di tuo figlio? avrei voluto chiederle e quasi senza accorgermene portai una mano a toccarmi la guancia colpita, che ancora bruciava da morire. Il contatto rinverdì il dolore e fu come scoppiare la bolla in cui ero rinchiuso perché sentii di nuovo tutto.
I miei compagni gridavano che fosse loro aperto, le voci di Ryan e di Gregory si staccavano dalle altre perché chiamavano il mio nome. Sebastian King sbatté il pugno chiuso contro la porta, urlando che se non avessero fatto silenzio li avrebbe puniti tutti personalmente uno ad uno, ma passò inascoltato. Pattern tornò alla sua classe e gridò agli studenti, usciti in corridoio dopo il mio sfogo, di tornare ai loro posti. La Williams non diceva niente, si limitava a guardare la scena con un mezzo sorriso soddisfatto.
“Tu…” mi ringhiò contro mio padre, avvicinandosi e puntandomi un dito contro il petto, “…tu non uscirai mai più da qui!”
Sollevai il mento, furioso.
“Come se fuori ci fosse qualcuno ad aspettarmi.” replicai, amaro.
Sentii un singhiozzo ma non mi voltai verso mia madre, continuai a sostenere lo sguardo di mio padre. Tanto lei cosa poteva dirmi? Che si era accorta, dopo diciassette anni ad ignorarmi e dopo avermi fatto scontare quattro mesi in un posto come quello, di aver sbagliato? Non l’avrei accettato, non potevo.
“Tenetevelo.” continuò mio padre, sempre fissandomi ma rivolgendosi alla Williams, “Fategli quello che vi pare, non mi interessa. Finché non avrò delle scuse ufficiali, lui per me è morto.”
“E cosa cambierebbe dal solito?” gli chiesi, sarcastico, “Per quello che ti ricordi di me normalmente, è come se ci fossi nato, morto.”
Mio padre mi lanciò un ultimo sguardo di fuoco, sollevando il mento con disprezzo, poi si voltò e se ne andò.
Mia madre mi fissò. Al di là di tutto quel che avevo pensato, capii che se in quel momento preciso mi avesse chiesto scusa o mi avesse detto che mi voleva bene, indipendentemente da tutto il male che mi aveva fatto e da che mi tirasse o meno fuori di lì, le avrei perdonato ogni cosa. Ma tanto non lo fece. Dopo uno sguardo disperato, si voltò e corse appresso a mio padre, voltandomi le spalle per l’ennesima volta.
Sorrisi, mesto, e dopo quasi quattro mesi sentii di nuovo la voglia di piangere. Per forte che diventassi, i miei continuavano a ferirmi colpendo i punti deboli.




 

Che genitori adorabili, non trovate?
Se devo essere sincera non apprezzo poi tanto questo capitolo, poteva uscirmi meglio, ma pazienza.
È l'ultimo pronto che abbia, mi dispiace, ma per il successivo sono a buon punto, potrei anche riuscire a pubblicarlo in orario, non ne sono sicura...
Beh, non ho altro da dire...
Alla prossima,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 10
*** Illegale ***











Capitolo 9: Illegale
 
“Dentro.” mi ordinò la Williams, spingendomi nell’ufficio della vicepresidenza senza mollare la presa sul mio braccio.
La sua stretta era dolorosa, per essere una donna aveva parecchia forza nelle braccia, ma non riuscii a preoccuparmene più di tanto. Si era spezzato qualcosa, in me, e la cosa triste era che negli anni si era spezzato migliaia di volte ma ancora non ero immune al dolore che ne derivava.
La Williams mi costrinse a sedermi su una sedia, di fronte alla scrivania, e poi mi si piazzò davanti, posando le mani sui braccioli per portare il viso vicinissimo al mio.
“Lo sai cos’hai fatto, ragazzino?” mi chiese, con un sorriso soddisfatto sul volto, “Hai appena bruciato la tua possibilità di andartene da qui prima che lo decida io. Dopo la tua scenata, non credo proprio che i tuoi verrebbero a reclamarti se anche io ti bocciassi all’infinito.”
Rimasi impassibile. Lei lo sa, preside, che non ho bruciato un bel niente? Che era così sin dal primo giorno in cui ho messo piede qui dentro? La Williams divenne seria.
“Mi stai ascoltando?!” mi chiese ma io non le risposi. Rimasi fermo, lo sguardo vacuo e mesto, fino a quando lei non mi tirò uno schiaffo sulla guancia già colpita, facendomi girare la testa. Continuai a non trovare la forza di risponderle. “Va bene.” disse, raddrizzandosi, “Vorrà dire che mi accontenterò di ciò che Sebastian mi farà sentire.”
Sul momento non afferrai ciò che intendeva e nemmeno la seguii con lo sguardo mentre usciva dall’ufficio, ma rimasi a fissare la scrivania piena di ordinate pile di fogli, con un portamatite colmo e un righello di legno. Mi persi nelle pieghe della pelle nera della poltrona di fronte a me e rimasi lì, a pensare con sbigottimento alla figura effettiva che mio padre aveva fatto e aveva fatto fare a me. Tutti l’avevano sentito accusarmi di essere illegittimo, chiunque non l’avesse guardato bene avrebbe potuto anche crederci, anche se non era vero, e comunque mi imbarazzava l’idea che Ryan e Gregory l’avessero sentito, anche perché io stesso avevo ammesso che mia madre non era esattamente fedelissima quando avevo accusato mio padre di non esserlo a sua volta.
Chinai il capo, sospirando mesto, e rimasi lì ad aspettare senza avere la forza nemmeno di provare paura. Finalmente, dopo un bel po’, la porta si riaprì.
Sebastian King entrò, per niente sorpreso di trovarmi nel suo studio, e raggiunse con calma la sua sedia. Si sedette e iniziò a giocare con il righello, sollevandolo un poco e facendolo poi ricadere in modo che il bordo inclinato colpisse il ripiano della scrivania, producendo un semplice ‘tac’. Nel fare tutto, mi fissava.
Guardai per un po’ le sue mani muoversi, sempre con espressione apatica, ma alla fine dovetti fare l’unica domanda che mi premeva davvero.
“Saranno puniti anche gli altri?” chiesi, pianissimo.
Sebastian King si fermò e sollevò un sopracciglio.
“Credo dovresti preoccuparti più del fatto che stai per essere punito tu, che pensare ad altri.” commentò, sprezzante ma sempre controllato, però io rimasi impassibile.
“Saranno puniti anche gli altri?” ripetei, con lo stesso tono piatto, ignorando la risposta che mi era stata precedentemente data.
La mano del vicepreside si serrò sul righello e sul momento pensai l’avrebbe spezzato, come Gregory aveva fatto con la matita, ma non lo fece.
“Guardami.” ordinò. Sollevai lo sguardo vuoto su di lui, staccandolo solo allora dalle sue mani, e lui mi rivolse un'occhiata dura, prima di rispondermi: “Sono stati sospesi loro i pasti per i prossimi tre giorni. Con meno energie, sono certo che eviteranno una replica di quella sottospecie di…sommossa!, che si è verificata oggi.”
“Non è colpa loro.” mormorai, “È colpa mia, volevano solo aiutarmi.”
Sebastian King sorrise, per la prima volta dall’inizio del colloquio, e non fu un gesto sincero né tantomeno rassicurante.
“Oh, lo so.” commentò, “È per questo che sei qui.”
Mi ritrovai ad annuire e lui si alzò dalla poltrona per venirmi incontro, così mi alzai anche io e porsi le mani sempre senza espressioni. Era come se fossi da un’altra parte e mi scoprii a pensare che se le botte mi avessero fatto tornare in me, gli sarei anche stato grato.
Sebastian King non prese la bacchetta ma tenne il righello e in un flash ricordai le mani insanguinate di Gregory eppure ancora non riuscii a smuovermi. Pensavo solo che tanto con i miei finiva sempre allo stesso modo: come il biondo, combattevo una battaglia persa in partenza, il cui esito non sarebbe mai cambiato, ma non riuscivo a fermarmi nonostante il numero crescente di vittime.
Fece male, un male cane, ma più dei colpi facevano male le parole di Sebastian King, che continuava a rinfacciarmi le frase dette dai miei, il fatto che ero ritenuto un figlio bastardo anche dai miei genitori naturali, che per colpa mia tutta la classe -per un totale di diciannove persone- avrebbe pagato.
Colpiva forte e ogni tanto il righello arrivava di fianco e scoprii presto che era affilato perché tagliava sempre. Non avevo mai provato un dolore così. Ben presto iniziai a gemere e dopo poco anche a lanciare dei mezzi gridi per il dolore e capii perché anche Gregory avesse paura del vicepreside.
Dopo un bel po’, Sebastian King si fermò ma non per darmi tregua. Mi afferrò le mani e le girò con il palmo verso l’alto, poi riprese.
Faceva dieci volte più male di prima.
 
“Quell’idiota…di Gray…avrebbe dovuto…insegnarti…meglio!” male, male, male, male, fermati, ti prego, fa male, fa male, fa male, “Sei caduto…in un trucchetto…da bambini!... E questo…è quello…che ottieni!”
Fa male.“Forse…ah!” strinsi i denti, fa male, ma mi costrinsi, fa male, a rispondere, fa male, “Ma almeno…” sibilai dal dolore, qualcuno lo fermi, “mi sono tolto…da dentro…tutto quello…che pensavo…davvero. AH!”
Qualcuno lo fermi, fa male!
 
Esitai, fissando la maniglia della mia camera. Sentivo le mani come carne macinata, quasi, ma non avevo il coraggio di entrare e guardare in faccia Ryan dopo quello che mio padre aveva sbandierato davanti a tutta la scuola.
Sebastian King, comunque, non mi diede modo di decidere perché sfruttò la presa sul mio braccio per tirarmi indietro e avvicinarsi alla porta. Lo osservai mordendomi la lingua per il dolore ma per un attimo misi tutto da parte quando lo vidi infilare una chiave nella serratura ed aprire la porta chiusa dall’esterno. Avevano rinchiuso Ryan in camera? E gli altri? Sebastian King aprì e mi gettò malamente nella stanza, ringhiandomi un “Dentro!” molto seccato.
Ryan era seduto sul suo letto, i gomiti sulle cosce e le mani intrecciate dietro la testa, ma quando sentì la voce del vicepreside sollevò lo sguardo. Erano quattro mesi che vivevo con Ryan e avevo sempre pensato che le sue parole il primo giorno fossero bugie a fin di bene dette per tirarmi su il morale, ma scoprii allora che non era così. Perché Ryan piangeva, per davvero: gli occhi arrossati erano gonfi e lucidi e le guance bagnate, il respiro era spezzato e irregolare.
Quando Sebastian King chiuse la porta alle mie spalle e diede due giri di chiave, Ryan si rese davvero conto che ero lì davanti a lui con le mani insanguinate e l’espressione sperduta. Saltò in piedi e prima ancora che potessi dire qualcosa mi stava abbracciando, mormorando qualcosa di incomprensibile e chiamando più volte Nostro Signore.
“Sto bene…” mormorai, un po’ incerto, cercando di ricambiare il gesto senza sporcarlo di sangue. Ma cosa è successo?
Ryan si staccò da me, aveva smesso di piangere, e costrinse i muscoli del suo viso a fare un sorriso, ma il risultato fu qualcosa che andava e veniva, perché questi si rifiutavano di eseguire.
“Sto bene, davvero.” ripetei e lui annuì, finalmente asciugandosi il viso con le mani.
“Vieni.” disse solo, cingendomi le spalle con un braccio e tirandomi in bagno.
Mentre lui agiva e medicava, mi limitai a guardare l’acqua scivolare nel lavandino, a volte con ghirigori rosso scarlatto e a volte totalmente di colore rosa scuro. Avevo paura a chiedere di lui, terrore di scoprire come aveva reagito, ciò che era successo e ciò che gli sarebbe stato fatto per questo. Non parlarne era come nasconderlo, tenerlo al sicuro per un po’: le parole avrebbero reso tutto reale, la mia paura e la mia preoccupazione, e una volta che avessi saputo non avrei più potuto fingere che non fosse colpa mia. Solo quando Ryan iniziò a farmi una fasciatura provvisoria con la carta igienica, mi decisi a parlare.
“Gregory?” chiesi, pianissimo. Assaporai quelle sillabe, perché il suo nome mi aveva martellato la testa per tutto il tempo senza poter uscire dalle mie labbra; fu come prendere il respiro dopo una lunghissima apnea e cedere al godere della sensazione di frescura nonostante si sappia che sopra la nostra testa sta per scatenarsi un uragano.
Ryan deglutì e non rispose.
“Ry,” mormorai, ricorrendo al nomignolo che usavamo solo io e Gregory e solo in casi estremi, “ti prego.”
“Non lo so, davvero…” rispose lui, scrollando le spalle e fingendo indifferenza ma ormai lo conoscevo abbastanza da capire che era davvero preoccupato, “So che quando ci hanno aperto era passata l’ora di pranzo. La Williams e la Spencer hanno portato gli altri ai loro piani, King ha trascinato Gregory al quinto di peso e Pattern ha portato me fino a qui. Non so altro, nessuno si osa a mandarmi informazioni perché c’è un professore che passa periodicamente a controllare, anche se non so chi sia.”
Annuii, mesto, e tornai a guardare il suo lavoro per non dover sostenere il suo sguardo mentre ponevo ancora una domanda.
“Pensi che lo abbiano picchiato?” chiesi, piano.
Ryan scrollò di nuovo le spalle, brutto segno, ma rispose.
“Non lo so. King era con te ma ormai sono le sei, potrebbe essere andato da lui prima; però in effetti non è che Gregory c’entri molto con tutto questo, perciò… Non lo so, proprio non lo so.”
La garza improvvisata era perfetta ma Ryan continuava ad aggiustarla inutilmente perciò gli afferrai le mani, fermandolo, e rialzai lo sguardo su di lui.
“Sebastian King mi ha detto che staremo tre giorni senza cibo, ma non ha parlato di altre punizioni fisiche oltre la mia…” rivelai, cercando di apparire sicuro di me stesso nonostante non lo fossi affatto, “Starà bene, magari è solo un po’ preoccupato ma…”
Un po’ preoccupato?!” la voce di Ryan era quasi isterica e si era alzata notevolmente, “Hai idea di cosa sia stato tutto questo tempo?! Sei sparito alle otto di mattina e sono le sei di sera! Sai cosa è passato per la mia testa?! Sono arrivato a pensare che ti avessero rinchiuso in qualche sotterraneo sconosciuto! Figurati Gregory, che qui dentro ha passato di tutto, cosa può aver pensato!”
“Non volevo che vi preoccupaste…” iniziai. Ero sorpreso dallo sfogo di Ryan ma, in effetti, anche io sarei impazzito d’angoscia se lui fosse sparito per dieci ore consecutive portato via dalla Williams.
“Sì, beh, hai scelto il modo giusto per evitarlo!” mi rimproverò il moro, ma si calmò subito. “Scusa,” mormorò, sorridendo ma con gli occhi di nuovo lucidi, “è che questa volta ho avuto davvero paura, pensavo che, se non ti avessero fatto del male loro, tu stesso avresti potuto fare una sciocchezza…”
Mi sforzai di sorridergli e ci abbracciammo ancora, tentando di farci forza a vicenda ma entrambi ancora spaventati. Avrei pagato oro pur di sapere come stesse il biondo.
 
Fu solo la mattina dopo che sentimmo la chiave girare nella toppa.
Sia io che Ryan, seduti di fronte sui nostri rispettivi letti, rialzammo di scatto la testa. Sebastian King ci fissò con disprezzo per un attimo.
“In classe, in silenzio.” ordinò, “Pasti sospesi, ritenetevi confinati nelle vostre stanze.”
Quando il vicepreside si voltò, Ryan saltò in piedi. Riuscii ad afferrarlo appena in tempo per evitare che aggredisse l’uomo, il quale se ne andò come senza aver notato nulla.
“Brutto…!” Ryan era furioso e potevo capirlo.
“Cerchiamo Gregory.” gli dissi, tentando di calmarlo, “Apriranno anche a lui, no?”
Ryan annuì, continuando a fissare la porta come a volerla incenerire con gli occhi. Non ero certo di averlo calmato del tutto, ma in quel momento la mia priorità andava a Gregory.
Silenziosi, uscimmo dalla nostra stanza e scoprimmo un piccolo di corteo di nostri compagni di stanza, probabilmente appena liberati a loro volta. Ci unimmo a loro e iniziammo a scendere le scale, unendoci su di esse al gruppo in arrivo dal quinto piano.
Allungai il collo, cercando di trovare il biondo, e mi sentii male.
“Lo vedi?” mormorai, sbiancando, a Ryan.
Lui deglutì ma scosse la testa, gli occhi che correvano attorno a lui catalogando e analizzando tutto ciò che riusciva a vedere, e diede così conferma alla mia paura.
Gregory non c’era.
No, maledizione!
 
Passai tutta la giornata a battere il piede per terra in modo ossessivo, gli occhi fissi sulla porta sperando di veder apparire miracolosamente il mio biondo preferito, ma senza risultati. Ogni tanto scambiavo un’occhiata con Ryan ma neanche lui sembrava ottimista riguardo alla situazione. A ben pensarci, nessuno sembrava ottimista riguardo alla situazione.
 
Il pranzo non fu migliore, il silenzio contagiò cupo tutte e due le tavolate degli studenti mentre ebbe il potere di rallegrare quella degli insegnanti. Guardai la Williams seduta al suo tavolo e…aggrottai la fronte.
“Ryan.” sussurrai, pianissimo, “Dove sono King e Pattern?”
Ryan lanciò un’occhiata dubbiosa al tavolo poi sbiancò.
Non c’erano molti motivi per cui quei due potessero essere assenti al pranzo, ma pensare che fossero con Gregory era allucinante. Non potevo credere che gli stessero facendo del male per qualcosa che io avevo fatto, a meno che non fosse successo qualcosa di più dopo che la Williams mi aveva portato via.
Senza pensarci tanto, mi alzai in piedi. Gli occhi di tutti si fissarono su di me, soprattutto quelli sbigottiti e furiosi della Williams, ma io li ignorai. Credetti di sentire qualcuno ordinarmi di sedermi di nuovo, ma non ne ero sicuro perché ero già scattato verso le scale.
Salii i gradini di corsa, spaventato da ciò che potevo trovare, e lanciai appena uno sguardo al piano delle aule, sperando che i due insegnanti si fossero trattenuti per qualcosa, ma appurato che non erano lì ripresi la mia corsa. Superai il quarto piano senza degnarlo di un’occhiata e spalancai la porta del quinto senza tatto.
In fondo al corridoio, la porta sulla destra era aperta e sentii un “Sta’ fermo!” arrivare da lì.
È la camera di Greg!
Corsi verso la porta e vi arrivai nell’esatto istante in cui Pattern e King riuscivano a trascinarne Gregory fuori. Lui si dimenava, insultava, cercava persino di morderli, ma i due uomini erano avvantaggiati e rimasi sgomento nello scoprire che avevano messo a Gregory un paio di manette, manette vere.
“Lasciatelo!” non mi resi conto di ciò che facevo finché non mi scoprii aggrappato a Sebastian King intento a strattonarlo e a gridare, così come non mi accorsi di essere stato seguito fino a quando non notai Ryan aggrappato alla schiena del vicepreside e Scott e…Walter, mi pareva, intenti a strattonare Pattern.
“Andate via!” ci ordinò Gregory, piegandosi verso di me per costringermi ad indietreggiare anche a costo di mordermi, a giudicare dalla bocca che si apriva.
Maledizione a te, Gregory! A te, alla tua resistenza, al tuo martirio, a questi due bastardi, a quella stronza della Williams e a queste tue maledette labbra che sanno di arancia!
Mi staccai subito, tornando a spintonare Sebastian King, senza più guardare Greg in viso. Lui non parlava, il mio gesto doveva averlo sconvolto, ma comunque non avemmo più tempo per parlarne.
Scott era gracilino, come me, e Walter e Ryan da soli non riuscirono a trattenere gli insegnanti a lungo, così il resto del corpo docente ci raggiunse e ci strappò via dal piccolo gruppo.
Gregory si voltò lanciandoci un’occhiata spaventata da sopra le spalle e seppi subito che non era preoccupato per sé, non quanto lo era per noi almeno.
“GREG!” urlai, ma lui non poté più voltarsi perché Pattern gli afferrò la coda di capelli tra le mani e lo costrinse ad uscire dal quinto piano, scendendo le scale.
Non sapevo se i due insegnanti si fossero accorti del mio momento rubato, ma nemmeno mi interessava molto.
Perché portavano Greg via?! Cos’aveva fatto, adesso?! Lo avrebbero finalmente espulso, concedendogli di scappare da questo inferno?! No, quella era una mera utopia, non lo avrebbero mai lasciato libero prima di averlo piegato.
“Hai mai sentito ‘I will not bow’, dei Breaking Benjamin? Dice: ‘All is lost again but I'm not giving in. I will not bow’... E io sono così: perdo tutto ancora e ancora, ma non mollo; non mi piegherò.”
Ricordo bene il giorno in cui me l’ha detto, il suo tono orgoglioso nel ripetere quelle parole che erano diventate il suo mantra, ma non riesco a stare tranquillo.
So che non si farà piegare, lo conosco, ma per questo ho ancora più paura che decidano, alla fine, di spezzarlo.
La presa di un insegnante sulle mie braccia, torte all’indietro, non riesce a togliermi questo pensiero dalla mente, fino a quando non mi accorgo che la Williams, paonazza, ci sta precedendo e che la nostra direzione non è il quarto o il terzo piano.
Stiamo andando al sesto, nel sottotetto.
Mi irrigidisco, voltandomi indietro, ma scopro che Ryan e gli altri stanno venendo trascinati giù, verso le loro camere, e capisco. La Williams ha visto, non si è fatta imbrogliare e non si è fatta sfuggire il mio gesto fugace; Sebastian King può non averlo notato, preso com’era dallo scrollarsi Ryan dalle spalle ma lei…lei è un’altra cosa.
Non lascia nulla al caso, non fa nulla che non gli porti del vantaggio, nessuno dei suoi gesti è meno che studiato attentamente, per questo odia Gregory: perché lui è la variabile impazzita nell’equazione perfetta della sua vita. Lui è il caos e lei non può tollerarlo.
Deglutii, sgomento, ma poi i miei pensieri si rivolsero alla porta davanti ai miei occhi. Era blindata, spessa e resistente, probabilmente anche insonorizzata. Sudai freddo chiedendomi cosa contenesse ma quando si aprì rimasi sorpreso: la camera che nascondeva era in realtà un’enorme spazio unico, che vedeva tutta l’ampiezza del corpo principale dell’edificio; il soffitto aveva la forma del tetto a spiovente ed era alto nel centro a malapena a sufficienza per consentirmi di stare in piedi, mentre nel resto degli spazi avrei dovuto stare piegato o addirittura gattonare; a parte un letto nell’angolo in fondo a destra, era totalmente vuoto.
La Williams mi afferrò per i capelli e mi spinse dentro poi afferrò la porta, ostruendomi la visuale sull’insegnante che qui mi aveva trascinato. Mi sorrise per un attimo, maligna, poi sbatté l’uscio e mi chiuse dentro.
Fissai la serratura mentre ascoltavo la chiave girare nella toppa e rimasi con gli occhi sulla porta per un po’, poi mi costrinsi a camminare fino al fondo del locale. Raggiunsi il muro opposto alla porta e mi ci lasciai scivolare contro, la schiena che strusciava contro il legno rigido e schiarito dalla polvere delle pareti. Seduto per terra, allungai una gamba e piegai l’altra, stringendola con le mani e posandovi sopra il mento.
Sapevo che era un momento brutto, che mi sarei dovuto preoccupare, eppure le mie dita scivolarono fino a sfiorare le mie labbra con la punta. Il contatto era delicato, ma freddo.
Quello con la bocca di Gregory era stato violento, dato dall’impeto di farlo tacere e di fare per disperazione ciò che desideravo fare per pura e semplice passione da mesi, ma caldo perché le labbra di Greg erano così. Morbide, al di là di ciò che pensavo perché sembravano secche e anche screpolate alla vista, e schiuse, per parlare o per mordere, e che sapevano di arancia. Quell’arancia non secca, non caramellata, come se non gli servissero tanti trattamenti per essere appetibile, ma fresca e appena colta, succosa e da quel gusto che mescolava la dolcezza con l’acidulo.
Senza pensarci, passai piano la punta della lingua sulle labbra, ravvivando quel gusto e portandolo più all’interno della mia bocca.
Non era stato uno scambio vero, solo un contatto rapido e di sfuggita, ma il mio cuore aumentava i battiti al ripensarci. Non dubitavo che i miei sarebbero stati immediatamente avvertiti del mio gesto avventato, ma non riuscivo a pentirmene.
Era valsa la pena di rischiare, per quel bacio illegale.




Lo so, magari potevo far conoscere le lorobocche in un modo un po' più...appetibile, ma, ehi, c'est la vie! ;)
Scusate il ritardo, davvero, non so quando posterò il prossimo capitolo perciò vi prego di scusarmi...
Che dire, boh...
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 11
*** Cedimenti e aggressioni ***











Capitolo 10: Cedimenti e aggressioni
 
Non sapevo cosa fare, cosa dire. Rimanevo fermo, immobile nel mio angolino, al centro della parete ma lontano dalla porta, e fissavo le travi del tetto cercando disegni tra le venature del legno, tanto per passare il tempo.
Non avevo idea di quanto fosse passato da quando mi avevano messo lì. C’era una sola finestra, un abbaino, ma la sua apertura e la sua veneziana erano automatiche e non controllate da me. Chiusa era quando ero entrato e chiusa era rimasta, la luce che avevo proveniva da una lampadina appesa alla trave centrale che penzolava ed oscillava e sfarfallava spesso.
Avrei solo voluto sapere cos’avevano fatto a Gregory, era l’unica cosa che mi importava.
 
Quando la porta si aprì, realizzai che avevo fame, sete e sonno. Per gli altri bisogni, c’era un piccolo bagno nell’angolo a destra della porta ma non è che fosse molto.
L’entrata della Williams, comunque, mise da parte quelle necessità di fronte ad un imperativo ancora più forte: scappare. Lei posò una ciotola per terra e se ne andò tranquillamente, senza un parola ma con un sorrisetto soddisfatto.
Sul momento, pensai di non toccare la ciotola e vedere come avrebbe reagito, ma le lamentele del mio stomaco e della mia gola mi spinsero ad alzarmi e controllare: minestra e una bottiglietta d’acqua. Meglio di niente. Tornai indietro praticamente piegato, mi sedetti sul letto e mangiai la mia cena poi, esausto, mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi.
Per poi riaprirli di scatto, irrigidendomi, nel trovare l’odore di Greg sul cuscino.
Non può essere! Beh, no, non era vero: Gregory doveva aver passato di tutto qui dentro e non avrebbe dovuto sorprendermi scoprire che lo avevano anche sbattuto in isolamento. Chissà quanto tempo fa era stata l’ultima volta.
Deglutii, ma poi mi arresi. Chiusi gli occhi, affondai il viso nel cuscino e mi permisi di dormire avvolto dal profumo di arancia.
 
Quanto tempo ho passato qui? Ho dormito dieci volte, mangiato sette. Sono io che ho molto sonno oppure mi danno da mangiare ad orari strani? Sono confuso. Non ho visto la luce del sole, mai da quando sono qui, ma vorrei tanto vederla di nuovo. Ho freddo, tanto, e anche quando mi siedo per terra devo avvolgermi alle spalle la coperta. Mi fanno male i piedi e le mani e ho un mal di testa tremendo. Ho i brividi: forse è la febbre o forse è la confusione. Non c’è il russare basso e fastidioso di Ryan, accanto a me, né i suoi abiti tutti in disordine ovunque per la stanza o i suoi libri malamente sbattuti sulla scrivania. C’è l’odore d’arancia di Gregory, ma non c’è la sua forza, quella scintilla nei suoi occhi azzurri e quella corrente elettrica attorno al suo corpo. Non ci sono loro, né l’uno né l’altro. Non so più che giorno sia, né che ora o che parte della giornata. È tutto confuso. Tanto.
 
Quando la porta si aprì, non ci feci nemmeno tanto caso. Pensai che probabilmente era qualcuno venuto a portarmi il cibo. Mi riscossi un po’, solo quando notai che la Williams non aveva piatti in mano e si stava facendo da parte lasciando l’uscita libera.
Una scossa mi percorse la pelle e mi raddrizzai di scatto, incerto, fissando la mia via di fuga palesemente spalancata. Era un trucco?
Guardai la Williams e lei la indicò con un ampio gesto della mano.
“Allora?!” mi chiese, seccata, “Cosa c’è, ti sei affezionato?! Muoviti!”
Non me lo feci ripetere. Saltai in piedi, rischiando di battere la testa contro il soffitto, e mi avviai rapidamente alla porta, che varcai sentendo come un velo di polvere cadermi dalle spalle, quasi mi fossi liberato di un fantasma. Deglutii guardando le scale illuminate dalle finestre. Era giorno, quindi.
D’istinto feci di corsa quei quattro gradini che mi separavano dalla prima vetrata e guardai fuori: mattina, vedevo il sole dritto davanti a me, ad Est. Socchiusi gli occhi, brucianti e lacrimanti per quello sguardo diretto dopo tanta luce sintetica, ma sorrisi lo stesso.
“Muoviti, gli altri sono già in classe.” mi ordinò, seccata, la Williams.
Per una volta in vita mia, obbedii volentieri. Non osavo immaginare come si fosse preoccupato Ryan: mi avrebbe strappato le interiora, molto probabilmente! E Gregory?! Oddio, lui mi avrebbe strangolato, tenendomi fermo per aiutare Ry! Però mi erano mancati, avevo sentito il bisogno di loro due a confortarmi.
Corsi giù per le rampe e mi infilai nella nostra stanza, lanciai un’occhiata a tutto e aggrottai la fronte perché era stranamente in ordine. Che Ryan l’avesse fatto per me? Afferrai di corsa lo zaino, senza neanche sapere cosa contenesse tanto non avrei potuto cambiare i libri perché non avevo idea di che giorno fosse, poi scattai fuori per raggiungere la nostra aula.
Quasi inciampai sulle scale per il terzo piano, ma alla fine riuscii raggiungere il secondo e a fermarmi davanti alla porta bianca della nostra classe. Presi un respiro profondo poi, con un sorriso che andava da un estremo all’altro della mia faccia, entrai.
Silenzio totale. I miei compagni alzarono gli occhi su di me come se fossi un miraggio.
“Ehi.” salutai, reso incerto dalla loro reazione sbigottita e il mio sorriso si spense.
“Mathieu?!” mi voltai verso la voce sorpresa che mi aveva chiamato.
Sembrava che Ryan avesse visto un fantasma.
Aggrottai la fronte.
“No, la bella lavanderina.” commentai, confuso dalla sua…confusione. “Si può sapere che vi prende?”
Non ricevetti risposta, ma comunque visto che le braccia di Ryan iniziarono a strangolarmi non penso che l’avrei udita comunque. Non capivo se il moro mi stesse abbracciando o se stesse tentando di uccidermi, ma nel dubbio mi staccai per guardarlo in viso.
Ryan aveva i capelli più corti dell’ultima volta e delle occhiaie pesanti, il suo sorriso sembrava in parte vero e in parte finto, in un modo stranissimo, e mi stringeva le spalle tanto forte che pensai potesse spezzarmi le clavicole. Aveva gli occhi castani come…spenti.
In un flash, ricordai il mio primo giorno lì: mi erano parsi tutti annoiati e solo dopo avevo scoperto che non si trattava di noia ma di rassegnazione. Gli unici ad apparire ancora vitali erano stati Ryan e Gregory: nonostante li avessi solo intravisti dalla finestra, li avevo trovati come diversi da tutti gli altri. Ma in quel momento, Ryan si sarebbe perfettamente confuso nella massa dei disperati.
“Che è successo?!” chiesi subito, irrigidito, e poi ricordai.
Avevano portato via Gregory! Con delle manette! Come avevo potuto dimenticarlo?! Lo sapevo, la gioia di uscire da quel buco mi aveva fatto scordare che non ero stato l’unico ad essere punito. E pensare che salvare Gregory era esattamente la causa della mia punizione!
Deglutii, capendo all’improvviso che ciò che avevamo fatto era stato inutile, e fissai Ryan, aspettando una risposta.
A sorpresa, tutta la classe mi si era fatta intorno, come per sorreggermi, e questo mi diede la certezza che non avrei ricevuto alcuna bella notizia.
“Cosa è successo, Ryan?” ripetei, la voce bassa e anche un po’ tremante.
Ryan si costrinse a sorridere ma il gesto era così falso che mi fece male al cuore. Ti prego, dimmi che non gli hanno fatto del male.
“Ti hanno tenuto via per sette giorni.” mi disse piano, le lacrime agli occhi, “Non sapevamo più che pensare, abbiamo creduto che ti avessero mandato via ma…era così impossibile. E nessuno ci diceva niente e tu non tornavi, nemmeno in camera, e Gregory era…così…così…”
Esitò alzando gli occhi al soffitto come a cercare in esso la fine della frase e io mi sentii male. Che parola stava cercando? Preoccupato?, ansioso?, ferito?!
Ryan sospirò e abbassò lo sguardo aprendo la bocca per continuare ma si irrigidì e tacque. Sul momento non capii ma poi mi accorsi che fissava la porta e mi voltai.
Gelai. Potrei giurare che il mio cuore si fermò e lo stesso fecero sangue, polmoni, muscoli, tutto! Ogni cosa di me, come in un orologio, si paralizzò e il mio cervello si immobilizzò appena elaborò il pensiero: no.
Il ragazzo sulla porta era alto e dritto, in una posa perfetta ed elegante. Le scarpe nere quasi luccicavano, i pantaloni gli cadevano perfetti sulle gambe e sul cavallo, la camicia bianca svaniva in essi senza imperfezioni e incredibilmente senza pieghe, la giacca nera era totalmente aperta e mostrava la lustra scacchiera con ricamato il numero tre. La mascella squadra era rigida ma non in tensione, le labbra sottili erano chiuse il una linea apparentemente annoiata e gli occhi azzurri erano immobili, nessuna delle sfumature dell’iride che una volta pareva accesa e scintillante si muoveva più e quel miscuglio meraviglioso di tinte blu passò dal sembrare un mare in tempesta all’apparire come un lago totalmente congelato. I capelli biondi quasi non esistevano più e a malapena raggiungevano l’un dito di lunghezza.
Della lunga coda di cavallo, della bellezza naturale o quasi trasandata e delle scintille birichine negli occhi non vi era più traccia e in quel momento pensai che qualcuno mi avesse strappato il cuore per infilare al suo posto nel mio petto una palla di neve, un frammento di iceberg delle dimensioni del mio pugno.
Sperai di essere in un sogno, in una versione malata della favola che Alfred mi raccontava da bambino ogni anno alla sera della prima nevicata. Per un attimo, pensai che davvero una regina delle nevi avesse infilato una scheggia di ghiaccio nell’occhio e nel cuore di quel biondino, perché altrimenti il mio cervello non riusciva ad assimilare una tale metamorfosi.
Gregory Gray sembrava il prodotto riuscito della crudeltà della Williams.
 
Non seppi mai per quanto rimasi a fissarlo, la prima ora era buca perciò perdemmo tempo così. A guardarci come se fossimo stati l’uno l’incubo dell’altro.
Gregory non aveva mutato l’espressione del viso, ma i suoi occhi si erano scuriti per qualcosa quando mi aveva riconosciuto tra gli altri alunni. Come se non fossi nulla d’importante, però, riprese a camminare e oltrepassò me e il resto del gruppo per andare a sedersi al suo banco.
Lo fissai imbambolato tirare fuori i suoi libri perfettamente tenuti, aggiustarsi la giacca che si era un poco spostata nel suo piegarsi e poi sedersi elegantemente al banco e iniziare a fissare il vuoto come fosse niente. Come se non esistesse nessuno di noi.
“Greg…” mormorai, avvicinandomi di un passo per istinto, ma Ryan mi bloccò con un braccio.
Lo guardai, confuso. Doveva essere tutto un sogno, Greg non poteva aver ceduto così! Sette giorni fa lottava come un leone, adesso sembrava che gli avessero succhiato via l’anima! Cosa diavolo era successo?!
“Lascialo stare, Mathieu.” mi disse piano Ryan, negli occhi scuri la lacerazione che aveva provocato il tradimento dell’amico, “Tanto non ti risponderà. Non lo fa mai.”
Quelle parole sigillarono la consapevolezza nella mia testa. Era finita, per qualche ragione incomprensibile, Gregory aveva ceduto. E con lui, eravamo destinati a cadere tutti noi.
 
Passai tutta la mattina a guardarlo, sconvolto. Gregory non reagiva alle provocazioni, obbediva senza discutere e quando non era chiamato in causa se ne stava fermo immobile senza dir nulla, seguendo la lezione diligentemente. Non riuscivo a capire: quello non era il Gregory che avevo lasciato sette giorni prima, come potevano averlo ridotto così in una settimana se non ce l’avevano fatta in quattro anni?!
Quando finì l’ultima ora, lui si alzò e se ne andò dall’aula, senza parlare né guardare negli occhi nessuno. Così, come se neanche ci conoscesse.
Alzandomi, mi accostai a Ryan che fissava la porta da dove se n’era appena andato il suo migliore amico.
“Non tagliava i capelli da quando la Williams ha messo piede qui dentro per la prima volta.” mi sussurrò, senza staccare gli occhi da un punto fisso, “Erano quattro anni che li faceva crescere, per darle fastidio.”
Non aggiunse altro e io non chiesi nulla. Aveva detto tutto ciò che mi serviva sapere per mettere a tacere quella piccola voce speranzosa che, nella mia testa, continuava a ripetere che doveva esserci un’altra spiegazione, che forse stava progettando qualcosa di grosso: Gregory, per qualche motivo che non riuscivamo a capire, aveva smesso per davvero di opporre resistenza.
 
“Considerando che sei stato sette giorni rinchiuso senza mangiare decentemente, mi spieghi come fai a non correre a rotta di collo verso il pranzo?”
Risi al tono seccato di Ryan. Eravamo nella nostra camera e avevo messo a posto i vestiti ormai lerci che avevo tenuto per la settimana in isolamento e mi stavo lavando e cambiando. Wow, una doccia era proprio un miracolo, in quel momento.
“Ti sbrighi?!” sbuffò Ry per l’ennesima volta e io risi ancora.
“Vai giù tu.” gli urlai da sotto l’acqua, “Vi raggiungo quando ho finito, se ho fame.”
“Non vorrei fare lo iettatore, Mathieu, però mi sento in dovere di ricordarti che torni adesso dall’isolamento: ti è piaciuto tanto e vuoi tornarci?” la voce di Ryan si avvicinò alla porta e questa scricchiolò, facendomi immaginare Ry appoggiatovi contro con la schiena, “Non dovresti tirare troppo la corda, specialmente ora che…” esitò un attimo, poi si corresse al volo, “hai appena scontato una punizione.”
Specialmente adesso che non c’è più Gregory a fare da parafulmine., completai io, mentalmente, e sospirai.
Lasciavo che l’acqua tiepida mi colpisse la nuca leggermente, scivolandomi in rivoletti sul viso e creando piccoli ma fissi sentieri accanto al mio occhio sinistro e giù sulle labbra o vicino a mio orecchio destro e poi lungo la mandibola. Il mio corpo assaporava il calore dell’acqua lì dove essa scorreva e le porzioni di pelle che l’avevano assaggiata nei miei movimenti ma adesso erano scoperte mi causavano dei brividi di freddo pur di riprovare quella sensazione di tepore. Alzai la testa ad occhi chiusi, lasciando che i molteplici raggi d’acqua mi colpissero il viso, tirassero indietro i miei capelli e accarezzassero nuovi punti del mio corpo tra cui la gola e la parte alta del petto.
“Vai pure, Ryan.” gli dissi, sorridendo nel sentire il picchiare dell’acqua sulla lingua, “Me la cavo da solo.”
Il moro borbottò qualcosa ma alla fine sentii la porta della camera aprirsi e chiudersi e sospirai. Solo e senza più il mio ‘diversivo-Ryan’ gli eventi mi assalirono.
Ma se una persona sola su cento si fa pestare a sangue, se una sola mette la faccia e non si lascia fermare da niente, ecco che diventa il volto di una ribellione vera e propria. Certo, se questa persona si piega, la ribellione viene sedata di colpo; ma se lei resiste, allora gli ingranaggi si mettono in moto, le menti pensano, le persone agiscono.
Ricordavo ancora bene il discorso spietato di Gregory, quella notte nel mio letto, e altrettanto bene la mia mente aveva conservato la sensazione della sua mano che mi trascinava la stoffa addosso.
Scossi la testa, lanciando gocce dalle punte dei capelli contro le pareti del box, e mi imposi di scacciare quel momento dalla testa. Non era a quello che stavo pensando e comunque non aveva senso: Gregory era cambiato, era passato alla Williams, e per quanto bene gli volessi, adesso dovevo considerarlo alla stregua di un nemico. Senza potermi trattenere, tirai un calcio al flacone di bagnoschiuma e poi ringhiai qualcosa di sconnesso. Cavolo, l’avevo baciato! Per lui non contava nulla, potevo anche accettarlo, ma questo era un tradimento bello e buono! E non solo nei miei confronti ma in quelli di tutti, Ryan per primo! Inoltre Gregory sapeva che se avesse ceduto, avrebbe buttato giù tutto ciò che avevamo organizzato: perché ci ha pugnalato alle spalle lo stesso?! Ry ci mette il cervello: se prendono lui anche solo per un’ora, si blocca tutto perciò non può metterci anche la faccia!
“Maledizione, Greg: perché?!” ringhiai, passandomi le mani tra i capelli bagnati.
Sobbalzai quando sentii un rumore.
Con il cuore a mille, chiusi l’acqua senza badare al fatto che fossi ancora mezzo insaponato, specialmente in testa, e poi tesi le orecchie. Qualcuno bussò alla porta una seconda volta.
Chiusi gli occhi e sospirai, stanco, ma non mi ero aspettato nulla di diverso: la Williams doveva aver fatto i salti di gioia non vedendomi a pranzo. Magari ha pure lanciato i coriandoli!
Più irritato che preoccupato, mi avvolsi il telo da bagno alla vita e andai ad aprire la porta. Tanto ormai le avevo passate tutte, perciò non riuscivo ad immaginare cosa quella strega potesse aver inventato di nuovo. Una parte maligna di me si chiedeva se avrebbe osato trascinarmi da qualche parte anche coperto solo dalla vita a sopra il ginocchio o se mi avrebbe permesso di rivestirmi.
Feci appena in tempo a far scattare la serratura che la porta si spalancò tanto bruscamente da spingermi indietro e farmi cadere sul mio letto. Chiusi gli occhi e imprecai per il dolore quando il retro del mio ginocchio colpì malamente il pomello della testiera ai piedi del letto, ma poi qualcuno mi tappò la bocca con la mano portandosi alle mie spalle.
D’istinto, afferrai quel polso con la mano e allungai l’altra all’indietro tentando di colpire il mio assalitore, pur non vedendolo, mentre muovevo le gambe e scalciavo nel tentativo di fargli mollare la presa.
Il braccio dell’altro mi si avvolse alle spalle, bloccando i movimenti del braccio con cui cercavo di allontanarlo ma senza riuscire a farmi mollare la presa sul suo polso. Dibattendomi come un pesce, cercai di mordere la mano sulla mia bocca ma finii per morsicarmi le labbra perché la presa di questa era stoica e mi impediva di aprire tanto le mascelle.
Che cavolo, qualcuno mi aiuti!
Per un attimo, la mia mente si popolò di scenari orrendi e assurdi. Ricordai quello che mi aveva detto una volta Ryan sull’aver avuto paura che rinchiudessero in qualche sotterraneo sconosciuto e mi immaginai una fredda cella di pietra con grosse catene di metallo alle pareti e topi che correvano ovunque. Era una follia, ne ero consapevole, ma spronato da essa iniziai a dibattermi più forte e alla fine riuscii a tirare una gomitata all’indietro. Sentendo il mio aggressore espirare pesantemente nel mio orecchio, capii che dovevo aver preso lo stomaco o il petto e mi congratulai con me stesso per il colpo riuscito poi ricominciai a dibattermi.
“Piccoletto, dannazione, smettila!”
Mi irrigidii. Con il lieve dubbio che, perso nelle mie immagini di prigioni medioevali, mi fossi lasciato sfuggire qualche frase dal mio assalitore, smisi di opporre resistenza e, come d’incanto tanto per restare in tema, anche l’aggressore allentò la presa progressivamente fino a quando non mi ritrovai completamente libero, con solo un asciugamano in vita, mezzo coperto di schiuma, quasi sdraiato di schiena sul mio letto. ‘Quasi’ perché tra me e il materasso stava il mio misterioso ospite.
Non lui, per favore, non lui: non lo voglio vedere!
Più che una preghiera, il mio fu un ringhio e forse per questo non fu ascoltato per niente perché quando voltai la testa mi ritrovai a fissare l’ultima persona al mondo che avrei immaginato mi aggredisse.
Gregory mi fissava come se si aspettasse un’altra gomitata da un momento all’altro.




Lo so che avevo detto di pregare ardentemente per il prossimo aggiornamento ma boh...
Devo davvero fare un ringraziamento serio a Christine_Heart: adesso non mi ricordo quale parola, ma ho letto qualcosa nella tua recensione che ha fatto scattare una molla nel mio cervelletto bacato, permettendomi di superare 'la crisi' e di finire il capitolo. Grazie!
Sorvolando, spero che il capitolo via sia piaciuto e che possiate perdonarmi l'attesa per il prossimo (devo ancora iniziare a scriverlo, sigh!)...
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 12
*** Segni e grigi ***










 
Capitolo 11: Segni e grigi
 
Rimasi rigido, fermo immobile, per un periodo lunghissimo, poi realizzai di essere sdraiato praticamente nudo su Gregory e che lui mi stava ancora trattenendo con un braccio ad altezza petto. Greg sospirò.
“Ascoltami, Mathieu, io…”
“Lasciami.” Concentrati, Mathieu, ricordati che ci ha traditi!
“Mathieu, cosa…?” provò Gregory ma io lo interruppi di nuovo.
“Lasciami andare, Greg. Subito.” La sua presa si rafforzò per una attimo, forse involontariamente, ma per me fu troppo e scattai via da lui saltando in piedi, voltandomi di nuovo verso il biondo solo una volta ad un paio di metri dal letto. “Ti ho detto di lasciarmi andare!” gridai poi realizzai che ero libero e che lui mi fissava con gli occhi sgranati. Presi un respiro profondo, cercando di non apparire pazzo, e poi indicai la porta. “Vattene.” ordinai, “Subito, Gregory.”
Il biondo scosse la testa. Tentò di alzarsi dal letto ma io indietreggiai di un passo e si immobilizzò per un attimo prima di tornare lentamente a sedersi sul materasso.
“Mathieu, ascoltami, per favore.” mi chiese, piano, ma io scossi la testa.
“Per cosa?!” ringhiai, “Per sentirmi dire che dovrei obbedire come te?! Adesso fai anche le commissioni per la Williams?!”
Il mio tono velenoso lo colpì quasi fisicamente, facendolo sobbalzare, ma ciò che mi ferì davvero fu che non ribatté. Chinò il capo, colpevole, e sospirò ancora.
Vedere la sua nuca coperta dai corti ed arruffati capelli biondi tramutò la rabbia in rimpianto. Avrei voluto poter stringere quella coda, ma adesso non sarebbe più stato possibile; avrei voluto dirgli cosa provavo per lui, ma ormai era per sua stessa ammissione un alleato del nemico. Abbassai le spalle e rilassai le mani che avevo stretto a pugno poi, sospirando, mi avvicinai al letto fino a sedermi sul materasso, il più in fondo possibile per stare lontano da lui, ormai seduto vicino al cuscino.
“Che cosa vuoi?” gli chiesi, piano, “Non voglio che Ryan ti trovi qui, l’hai già ferito abbastanza.”
Vidi un sorriso mesto comparire sulle labbra di Gregory, seppure il capo piegato e le palpebre chiuse mi impedissero di scrutare le sue iridi.
“Lo so.” mormorò, “L’ho fatto apposta.”
Quell’ultima frase mi fece sobbalzare. Sgranai gli occhi, sconvolto dalla facilità con cui Greg aveva ammesso di aver pugnalato alle spalle il suo migliore amico.
Non conoscevo i dettagli, contavo di parlarne con Ryan quella notte, ma Scott mi aveva parlato di una brutta lite capitata tra il moro e il biondo quattro giorni dopo la mia reclusione e la metamorfosi del nostro leader. A quanto si era capito, Ryan aveva affrontato Gregory per delle spiegazioni e il biondo aveva risposto male facendo iniziare una discussione che era praticamente finita alle mani, giù nel cortile, in mezzo alla neve, e che aveva costretto gli altri studenti ad intervenire per evitare che ci pensassero i professori.
“Bene.” commentai, sforzandomi di non urlare ancora, “Allora credo non ci sia altro da dirci, no?”
Gregory scosse la testa.
“Mathieu, ascoltami.” mi implorò allungando la mano ad afferrarmi il braccio. Sul momento, tentai di scrollarlo via ma poi vidi i suoi occhi. Erano meravigliosi, blu come due lapislazzuli ma soprattutto vivi, come mercurio. “Ho bisogno di parlarne, almeno con te!”
“Parlare di cosa?” mormorai, senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi. Perché mi guardi così?!, “Perché almeno con me?”
Gregory deglutì, incerto, poi però mollò la presa dal mio braccio e si tirò indietro. Non mi ero accorto che non avesse le scarpe -ma probabilmente l’aveva fatto per evitare che si sentisse il rumore dei suoi passi al piano di sotto, quello delle camere degli insegnanti- ma lo feci nel momento in cui incrociò le gambe sul letto e si afferrò le caviglie, come per reggersi.
“Quando mi hanno portato via,” parlava così piano, come in un soffio, che dovetti appoggiare le mani sul materasso e protendermi verso di lui per sentire, “mi hanno messo sul furgoncino bianco, quello che porta la spesa e la carta e quelle cose lì.” Annuii per fargli capire che sapevo di quale stesse parlando ma lui non continuò subito. Alzò gli occhi su di me, ora erano di un azzurro agitato e liquido, come un’ombra spaventata. “Sai che…esiste una seconda accademia?”
Mi impietrii. No, non ne avevo idea, non l’avevo mai sentita nominare. Ma se apparteneva alla Williams tanto quanto questa potevo immedesimarmi negli alunni che la frequentavano.
“Neanche io.” sussurrò Gregory, probabilmente intuendo i miei pensieri, e abbassò lo sguardo prima di continuare, “Si chiama Checkers Academy.”
Aggrottai la fronte. Chess Academy significava L’Accademia Degli Scacchi, ma Checkers Academy significava L’Accademia Delle Dame, sempre in riferimento al gioco su scacchiera bianca e nera. Il piccolo dubbio iniziò a scivolarmi come brivido lungo la schiena e mi irrigidii, ma Gregory diede il colpo di grazia.
“Ci hanno mentito, Mathieu. Avevano detto che le ragazze venivano rimandate a casa…ma invece le hanno chiuse lì.” sussurrò e rabbrividì vistosamente.
Prima che il mio cervello terminasse il suo ragionamento, il nome mi salì alle labbra.
“Lucille…” sussurrai, sgranando gli occhi e comprendendo al volo l’accaduto.
Gregory avrebbe resistito per chiunque di noi, eravamo tutti ragazzi e perciò almeno nominalmente in grado di lottare, ma sua sorella era il suo vero punto debole, l’unica carta alla quale non avrebbe saputo ribattere. Già di per sé, la cavalleria di Gregory lo avrebbe portato a prendere le parti di una donna in una contesa, ma il fatto che si trattasse anche della sua sorellina…
“Lei era tornata a casa davvero” mi spiegò a bassa voce, “ma io non tornavo, non tornavo, non tornavo e allora ha iniziato a fare di tutto e di più, fino a che i nostri genitori non l’hanno riportata alla Checkers Academy. È tornata otto giorni fa.”
Ecco perché la Williams non l’ha usata prima: non poteva!
Esitai, incerto su cosa dire per rassicurare Gregory, ma lui continuò.
“King ha detto…” deglutì, “che da adesso in poi non mi puniranno più, indipendentemente da cosa faccia. Ha detto che farà pagare a lei ogni mia minima infrazione del regolamento.”
Fu come una bastonata in pieno stomaco.
Era un colpo basso, un gioco davvero meschino, tirare in ballo la sorella di Gregory per piegarlo era qualcosa che mi faceva venire la nausea per il disgusto. Capivo perché Greg avesse ceduto: avrebbe tirato avanti a qualsiasi costo se si fosse trattato di lui, ma non avrebbe mai permesso che sua sorella o una qualsiasi ragazza pagasse al posto suo. Per gay che fosse, era un ragazzo d’onore.
L’ultimo pensiero mi causò una vertigine dolorosa quando ricordai un dettaglio.
“Ryan lo sa?” sussurrai.
“No!” esclamò Greg, raddrizzandosi di scatto e protendendosi verso di me fino ad afferrarmi il braccio, “Non deve, Mathieu, davvero! Se sapesse che la sua ragazza è in quell’Accademia…”
“…smetterebbe di reagire per proteggerla.” capii. Era la stessa cosa che aveva fatto Greg, Ry non sarebbe stato da meno.
“Se non avessi saputo di Lucille” mormorò piano Gregory, “sarei ancora con voi, lo sai. Ma ogni volta che anche solo penso di reagire la rivedo in piedi davanti alla cattedra con le mani viola.” scosse la testa, come per scacciare quel ricordo dai suoi occhi, “Non ci riesco, Mathieu. Non riuscirei più a guardare negli occhi né lei né Ryan né me stesso allo specchio. Reagire qui è un conto, so che se anche facessi ‘il bravo’ vi picchierebbero lo stesso, con una scusa o con l’altra. Ma Lucille… Non voglio condannarla a sprecare anni qui dentro. È mia sorella, è la ragazza del mio migliore amico, è l’unica persona che mi abbia davvero voluto bene quando ero solo un bambino. Posso rovinare la mia vita, ma non la sua.”
Per quanto spietato il ragionamento fosse, per quanto dolore mi causasse l’idea di trovarlo dall’altra parte della barricata, non potei non chiudere gli occhi e annuire, chinando il capo di fronte alla sua decisione. Sapevo che stava male quanto me all’idea di passare alla Williams, ma purtroppo sapevamo entrambi che non aveva scelta. La stronza aveva pescato dal mazzo la carta più alta e Gregory, che aveva voluto giocare da solo, aveva perso la sua ultima manche.
“Mathieu…” sentii la sua voce bassa, triste ma decisa, però non ebbi il coraggio di sollevare lo sguardo dalla trapunta.
“Non mi hai risposto.” gli ricordai, piano.
Lui si irrigidì, capendo a cosa mi riferivo, ma poi sospirò.
Sentii la sua mano posarsi sulla mia mascella e costringermi ad alzare il viso per guardarlo. Tentai di tenere lo sguardo sulla mia cassapanca ma la sua presa si irrigidì e, d’istinto, lo fissai per capire cosa avesse.
Gli occhi di Gregory erano tutti i blu e tutti gli azzurri che contenevano. Erano vivi e spenti, grandi e piccoli, luminosi e cupi. Erano tutto eppure per me erano niente perché non li avevo mai visti così e non riuscivo a capire di cosa parlassero.
Perché almeno con me?
Perché hai voluto risparmiare a Ryan questa consapevolezza, ma hai voluto sbattermela in faccia?!, Perché hai protetto lui ma non ti sei fermato a chiederti come sarei stato io dopo una rivelazione del genere?!
“Avevo bisogno di dirlo a qualcuno.” sussurrò.
Se voleva farmi male, ci stava riuscendo alla perfezione.
Chiusi gli occhi e annuii, fingendo che mi bastasse, poi provai a scivolare fuori dalla sua presa per allontanarmi ma lui mi trattenne. Cosa…?
“Mathieu, puoi fingere che non sia successo nulla con chiunque, ma in un bacio ci sono due persone e non puoi rifilare anche a me la balla che non è capitato proprio niente.” ringhiò.
Mi sorprese. Sembrava davvero…arrabbiato. Con me di sicuro, ma per cosa non riuscivo a capirlo.
“È per la promessa a Ryan?” chiesi, stranito dal suo comportamento, “Non sei stato tu, sono io che…”
“Tieni Ryan fuori da questa cosa, per favore!” sibilò Greg, scuotendo la testa, “Sono stufo di vederti nascondere dietro di lui!”
“Ma che diavolo…?!” esclamai, offeso, tirandomi indietro dalla sua stretta e balzando in piedi accanto al letto, “Sei impazzito?!”
“Oh, smettila!” ribatté lui, alzandosi a sua volta per piazzarsi di fronte a me, “Mi avvicinavo un po’ di più e tu: ‘Oh, mi sembra di sentire Ryan in corridoio!’; ti dicevo qualcosa di personale e: ‘Oh, Ryan ci starà aspettando!’ Qualsiasi maledetta cosa io facessi, tu te la svignavi dietro le sottane di Ryan! E stai facendo la stessa cosa anche adesso, solo che questa volta ad aver sconfinato sei stato tu!”
“Io non mi nascondo dietro alle sottane di Ryan!” ringhiai, stringendo i pugni. Mi sono allontanato da te tutte le volte che stavo per saltarti addosso, è diversa come cosa!
“Beh, notizia dell’ultima ora: Ryan, non, c’è! Ci sono io ed è con me che devi chiarire, non con la tua mammina chioccia!” sibilò Gregory, stringendo i pugni tanto quanto me, “Tu hai oltrepassato il limite, tu hai baciato me, e questa volta tocca a me fermare tutto!”
“L’hai già fatto, se non sbaglio!” sibilai, “Non mi hai cercato quando ero in isolamento, mi hai ignorato tutto oggi e…”
“E SONO QUI!” gridò Gregory, perdendo del tutto la calma.
Mi irrigidii, sgomento, e lo fissai. Mi guardava come se volesse uccidermi, ansimava per l’urlo e sembrava ancora furibondo quando continuò.
“Sono. Qui.” scandì lentamente, “Sto mettendo in pericolo mia sorella per questo e tu hai il coraggio di dirmi che ti ho ignorato?!”
No, io non… Non… Greg, io…
Gregory era furioso. Mi oltrepassò, sbattendo malamente la spalla contro la mia e facendomi barcollare, e si diresse alla porta.
Afferrò la maniglia della porta con la destra nello stesso istante in cui io afferrai il suo polso sinistro.
Non sapevo che espressione avevo in viso e non lo seppi mai, ma quando si voltò e mi fissò la sua rabbia si incanalò in un’unica direzione.
Le sue mani mi afferrarono il viso mentre le sue labbra aggredirono le mie con tanta, forse troppa, forza. Sentii la bocca dolere e lamentarsi per quell’intrusione violenta, quasi punitiva, ma una parte di me gioì tanto forte da sovrastare quel reclamo. Sentii i muscoli della sua schiena sotto le mie dita e me li godetti mentre si tendevano e rilassavano a seconda di come le sue mani avvicinassero o allontanassero il mio viso dal suo. Quando il suo respiro schiacciò il mio capii che eravamo ormai appiccicati, petto contro petto, e ricordai che a differenza mia lui era ancora vestito.
Mi stava ancora castigando, la sua lingua nella mia bocca era una punizione che accettavo volentieri e le sue mani stringevano il mio viso abbastanza forte da spingere la mia testa a chiedergli di lasciarmi ma ormai non era più il cervello a comandare.
Mi ci vollero ancora alcuni minuti per reagire, spingere la sua lingua fuori dalla mia bocca per poter infilare la mia nella sua, spostare le mani sul suo petto e strattonare via la giacca malamente. Sapevo del giuramento a Ry e non lo avrei portato ad infrangerlo, non gli avrei chiesto di scegliere tra me e lui, ma per Dio si stava godendo quasi ogni centimetro della mie pelle e per quanti errori avessi fatto meritavo anche io di assaporare la sua.
Manterremo la promessa!
Lo sentii dire qualcosa a metà tra un gemito e un grugnito, ma mollò il mio viso per sfilarsi la giacca. Tentai di staccarmi da lui per rendere la cosa più facile ma i suoi denti si serrarono sul mio labbro inferiore, trattenendo le nostre bocche incollate e strappandomi un gemito strano. Grugnii di disapprovazione quando ci mise tanto a sfilarsi quel malefico indumento, ma quando le sue mani arrivarono alla mia vita scoprii che si era preso la briga di levarsi anche la camicia e sorrisi contro le sue labbra.
Però manterremo la promessa.
“Ma guarda che piccolo pervertito!” commentò Gregory, ridendo, mentre sfruttava i suoi due anni e parecchi muscoli in più per spingermi all’indietro fino a farmi sdraiare sul letto.
“Ricorda la promessa a…” feci in tempo a dire ma il biondo si buttò su di me prima che potessi finire.
“Di’ quel nome e ‘stavolta ti ammazzo!” minacciò, ringhiando per davvero prima di riportare le labbra sulle mie.
“Lo dicevo per te…” sussurrai nel bacio, facendo scivolare la mano sul suo petto visto che ancora non ero riuscito a guardarlo, avendo il viso in tutt’altra direzione e una certa faccia da Lucifero a intaccarmi la visuale.
Manterremo la promessa!
“Sei perfido.” grugnì Gregory allargando le gambe in modo da mettersi con un ginocchio per mio fianco.
Manterremo… la… la… Manterremo… la…
Gemetti quando si sedette sul mio ventre, facendomi sentire il suo cavallo dei pantaloni contro i miei addominali. Quello minava di parecchio il mio autocontrollo e rendeva un po’ difficile ricordare il ‘manterremo la promessa’ che mi stavo ripetendo fino ad allora.
“Greg…” cercai di ammonirlo, ma suonò come una supplica alle mie stesse orecchie.
“Taci, piccoletto.” mormorò ma il tono dolce smorzò la durezza dell’ordine e il mio nomignolo, finalmente di ritorno, mi fece sciogliere.
Portai le mani alla sua vita poi passai un palmo aperto sul suo ventre mentre facevo salire l’altra mano su lungo il fianco, fino ad afferrargli il braccio.
“Se non stai fermo,” sbuffò Gregory afferrando la mano che avevo messo sul suo stomaco, “mi costringerai a fare qualcosa per cui poi mi pentirò senza dubbio!”
Risi, maligno.
“Sei tu il diavolo della situazione.” gli feci notare, muovendo il bacino verso l’alto per ricordargli la sua posizione dominante e sfregare lo stomaco contro il suo cavallo, “Io non sto facendo nulla.”
Mi ritrovai con i polsi bloccati sopra la testa dalle mani di Greg e il suo viso con un’espressione scettica ad un soffio dal mio.
“Io ne non sono così sicuro.” borbottò, “Di entrambe le cose.”
Scoppiai a ridere, senza riuscire a trattenermi, e le sue labbra tornarono sulle mie ma con più dolcezza prima di scivolare con la bocca contro il mio collo, tra l’orecchio e la spalla sinistri.
“Quando sarò fuori da questa stanza,” sussurrò dopo un po’, “sarà finita. Lo capisci?”
Deglutii, smettendo immediatamente di ridere, ma annuii.
“Ascoltami, piccoletto!” ringhiò Greg mordendomi il collo per farmi fermare, “Non voglio farti male e lo sai, ma qui non si tratta di me o te, va bene? Siamo sui due fronti opposti di una guerra che non finirà tanto rapidamente…”
“Senza di te…” tentai di dire, nonostante la sua lingua e i suoi denti giocassero con la mia pelle ad ogni parola, “non andrà avanti a lungo. Non abbiamo più…” ma un altro morso mi fece gemere e zittire.
“Avete Ryan.” mi ricordò Gregory, il viso seppellito nel mio collo. Senza pensarci, sfilai le mani dalla sua presa morbida sopra la mia testa e infilai le dita tra i suoi capelli immaginando come sarebbe stato farlo da lunghi. “Concentrati, piccoletto.”
“Difficile. Sei una distrazione continua, Gray.”
“Gray, Legris, Legris, Gray…” rise Greg, leccandomi il collo, “Significano la stessa cosa, no? Grigio.”
“Adesso…” ansimai, sentendolo baciare e succhiare il punto reso parecchio sensibile dalle sue precedenti cure, “chi è che si sta distraendo?”
Gregory rise contro il mio collo.
“Colpa tua. Sai di mare in un modo assurdo.” ribatté, “Comunque non mi sono distratto, sai?” La sua lingua sulla mia pelle. “È che il grigio…è la somma…”
“…di nero e bianco.” sorrisi, chiudendo gli occhi per assaporare la morbidezza delle sue ciocche tra le mie dita, “Sarà un segno?”
“Quello non lo so.” commentò Gregory, staccandosi da me per raddrizzarsi e tirarsi eretto in ginocchio su di me, poi sorrise malignamente quando mi accarezzai il punto del collo contro cui la sua bocca aveva giocato, “Quello lo è di sicuro.”
Sul momento non capii poi sbiancai.
“Dimmi che non l’hai fatto!” esclamai, tirandomi a sedere, ma la risata che fece mentre mi lasciava correre in bagno a controllare mi diede la conferma che temevo ancor prima dello specchio.
La macchia rossa stava già tendendo al viola ed era assolutamente visibile sul lato destro della mia gola.
“Ma io ti ammazzo!” gridai, tornando di corsa in camera, ma mi paralizzai nel trovare Gregory, petto nudo e cavallo ingombrante, sdraiato placidamente sul mio letto con le braccia incrociate dietro la testa.
Boccheggiai per un attimo, un po’ perché era assolutamente meraviglioso e un po’ perché alcune chiazze violacee facevano mostra di sé anche sul suo petto, solo che ero praticamente certo di non averle fatte io.
Greg scrollò le spalle, intuendo la mia reazione, e continuò a sorridere come lo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie così sbuffai.
“Idiota…” bofonchiai e lui sollevò un sopracciglio con fare scettico.
“Mai quanto te che pensi di tornare qui con solo quello addosso.” commentò, fissando apertamente il solo asciugamano che avevo addosso e facendomi sbiancare per l’imbarazzo, “Sai, sopravvaluti di parecchio la mia amicizia con Ryan se pensi di non correre alcun rischio a venirmi vicino in quelle condizioni.”
Bofonchiai qualcosa, offeso, e feci retromarcia, infilandomi in bagno per coprirmi il minimo necessario per evitare una situazione scomoda. Tornai di là con la camicia e la giacca ancora in mano, deciso a non dare a Greg nessun vantaggio su di me, e lo trovai intento a giocherellare con una piccola bustina di plastica.
“Cos’è?” chiesi e lui me lo lanciò.
“Fondotinta.” commentò, tranquillo, mentre lo afferravo, “Tre utilizzi. Risparmialo per le mattine a scuola, in camera usa una sciarpa o qualcos’altro.”
“Come se Ryan fosse un’idiota.” borbottai, prevedendo interrogatori di ore ed ore e d’un tratto la mia famosa prigione medioevale mi apparve molto più allettante.
Greg ghignò.
“Lascerò a te l’onore di trovare una spiegazione.” rise alzandosi e prendendo la sua camicia per infilarla.
Mi irrigidii, dimenticando all’istante le ovvie domande sul fondotinta.
Quando sarò fuori da questa stanza sarà finita.
Gregory indossò la camicia con calma, ma in silenzio e io feci lo stesso ma mi imbambolai a osservare il suo petto che svaniva mano a mano che i bottoni entravano nelle asole e rimasi con la mia aperta anche quando lui ebbe finito e mi fu vicino.
Le sue mani sul mio viso, le sue labbra sulle mie. Un ultima invasione d’arancia.
“Non lasciare che Ryan molli tutto.” mi sussurrò Gregory staccandosi, “Lui è l’unico che possa proteggervi tutti almeno un po’ ma tu sei l’unico che possa convincerlo a non mollare proprio ora.”
Annuii, gli occhi chiusi.
“Gray e Legris.” mormorai, “Penso ancora che il grigio sia meglio del semplice bianco o del semplice nero, sai?”
Potei immaginare Gregory che sorrideva dal suono dell’aria che usciva rapida dal suo naso, in uno strano sbuffo che faceva sempre quando era divertito.
“Lo penso anch’io.” mormorò, staccandosi e lasciandomi. Sentii i suoi passi verso la porta ma mi costrinsi a tenere gli occhi chiusi perché altrimenti l’avrei fermato una seconda volta. La porta si aprì però, prima di richiudersi, sentii ancora una volta la voce di Greg. “Il problema è che non c’è spazio per il grigio sulla scacchiera.” sussurrava, prima di sparire assieme al click del catenaccio.





Tsk, al diavolo il nuovo html senza l'evidenziatore! -.-
Ehilà! Lo so, lo so, dovevo tornare Mercoledì, ma devo fare un annuncio: cancellerò... un cavolo, tranquilli XD
Sarò via fino a Sabato prossimo, quindi perderei un Mercoledì di pubblicazione: non mi andava perciò eccomi qui! ;)
Tranquilli, potete respirare ;)
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 13
*** La scelta di Mat e il dolore di Ryan ***











Capitolo 12: La scelta di Mat e il dolore di Ryan
 
C’erano stati molti momenti, in quei mesi, in cui mi ero trovato a pensare ‘Farei qualsiasi cosa per…’. Ma mai, prima di quel momento, avevo appreso in pieno le implicazioni di quella frase e forse proprio per questo l’avevo usata con blando interesse; però, dopo la visita di Gregory, mi scoprii a ragionare su cosa fare per riportare tutto agli albori, senza alcuna condizione che potesse impedirmi di proseguire. Mi fossi dovuto far odiare da chiunque sulla faccia della Terra e soprattutto in quella scuola, sarei riuscito a trovare una soluzione.
“Ehi, scricciolo, si può sapere che fine avevi fatto?” Riuscii a malapena a non voltarmi quando Ryan entrò, preceduto dal suono della sua voce e della porta che si apriva e chiudeva. “Ma sei appena uscito dalla doccia?!”
Realizzai in quel momento che, oltre al palese succhiotto da nascondere, avevo anche la mia seminudità da spiegare e così anche la mia assenza in mensa. Gregory, prega di non incontrarmi da solo perché questa volta ti ammazzo!
“Ehi?”
Sobbalzai quando sentii la sua mano sulla spalla e mi voltai appena per guardarlo in viso. Mi chiesi perché avesse tagliato i capelli, ma immaginai subito che fosse stato un tentativo di riconciliarsi con Gregory, per quanto possibile, e sentii un qualcosa colpirmi al petto.
Lucille era la ragazza di Ryan, anni prima: quanto doveva esserle legato lui se per tutto quel tempo l’aveva aspettata con pazienza, senza pretendere niente nonostante la brutta situazione? Una parte molto egoista, dentro di me, continuava a ripetere che Ry meritava di sapere la verità e io di potermi sfogare, ma quella parte più importante che si sarebbe lanciata dalla torretta per Gregory mi stava strillando che non potevo tradire Greg e far soffrire Ry a questo modo.
Alla fine mi ritrovai a stringere la bustina di fondotinta in mano e a dire una bugia a caso per infilarmi di nuovo in bagno, vestirmi e giustificare la sciarpa che mi avvolsi alla gola.
 
Il giorno dopo mi svegliai prima della campana, erano quasi le quattro del mattino, e sdraiato a pancia in giù sul mio letto esaminai delle specie di dati statistici elaborati da Ry: così demoralizzati e senza Gregory a sviare l’attenzione del corpo docenti, avremmo finito per perdere seguaci e per farci beccare fin troppe volte. Le sue previsioni più ottimistiche erano a dir poco desolanti.
Sospirai, scuotendo la testa, e mi passai una mano sul viso e poi sul collo. Una piccola scossa mi fece sobbalzare quando, per errore, premetti sul livido lasciatomi dalle labbra di Gregory e d’istinto arrossii.
Avevo nascosto bene il mio piccolo segno di peccato, ma i pensieri che continuavo a fare ogni volta che per caso mi tornava in mente erano ben poco casti. Potevo mentire a me stesso ripetendomi che avrei accettato la scelta di Gregory, che avrei accettato che fosse tutto finito nel momento in cui era uscito dalla mia camera, ma io ero ben lontano dall’aver ‘finito’ con lui.
Quando la campana suonò e Ryan si svegliò, ero ancora perso dietro alle mie domande. Scendemmo le scale fino in mensa, ancora spostata nel salone del piano terra, ma una piccola scena mi distrasse dalla colazione.
Uno nuovo. Non c’era dubbio, non era di qui: il ragazzino aveva i capelli biondi e ricci, una testata di capelli che faceva pensare ad un piccolo casco di banane, e aveva un’espressione smarrita mentre stringeva convulsamente tra le mani il borsone che probabilmente era la sua valigia. Sembrava un piccolo cherubino, di quelli dipinti nel Rinascimento, e mi sorprese leggere sulla sua giacca che frequentava il primo anno perché davvero sembrava più piccolo. Era spaventato a morte, tanto più che aveva di fronte un King furioso che sbraitava contro i suoi capelli.
Forse fu il fatto che aveva la stessa espressione che avevo io al mio primo giorno, forse fu l’idea che altri capelli biondi andassero perduti o forse fu solo un disperato ed egoistico bisogno di far smettere l’insistente nenia della mia coscienza su come avessi pensato solo a me stesso quando Greg stava passando l’inferno; fatto sta che mi ritrovai con un braccio sulle spalle del novellino e con il resto del corpo tra lui e King.
Il vicepreside mi guardò con tanto d’occhi, neanche avessi avuto una crisi epilettica nel bel mezzo della sala, e sentii netta un’imprecazione arrivare dai tavoli improvvisamente silenziosi. Chissà perché, ero praticamente certo che fosse diretta a me.
Non seppi neanche come, ma mi ritrovai, sorriso sulle labbra, a propormi come guida del nuovo venuto e un attimo dopo lo stavo già trascinando su per le scale, guardandomi costantemente all’indietro per timore che King si riprendesse e venisse a recuperare lui e me. Una volta al quarto piano, chiusi la porta che conduceva alle scale e mi voltai verso il ragazzino: aveva gli occhi sgranati, sconvolti, e a giudicare dal pallore sapeva benissimo perché era lì e che cosa gli sarebbe successo probabilmente molto presto.
“Io… Grazie…” lo sentii dire piano, incerto.
Sospirai, conscio che ormai avevo ben poco da dirgli per farlo stare meglio, e prendendo l’iniziativa lo strinsi, abbracciandolo.
“Io sono Mathieu.” mi presentai.
Sul momento esitò ma poi strinse la presa. Forte.
“Colin.” mormorò, piano.
Nei dieci minuti successivi, in cui non ci muovemmo, scoprii il mio cuore battere furiosamente nel petto, ma non nel modo che faceva con Gregory. Era quella stessa sensazione che avevo provato il giorno in cui avevo sfidato Pattern per Greg. Un misto di euforia e paura, di eccitazione e soddisfazione e terrore e rimpianto. Era fantastico. Provava quello Greg ogni volta che lottava per sé e per gli altri?
E in quel momento ebbi l’idea più folle e perfetta di tutta la mia vita.
 
Ryan sbatté le palpebre. Tre volte.
“Spiegami se ho capito bene…” chiese, la sua voce troppo controllata mi fece spaventare, “Tu hai intenzione di sostituire Greg come volto della rivoluzione?”
Annuii, calmo.
Eravamo nella nostra camera, ciascuno dei due stava seduto a gambe incrociate sul proprio letto e io continuavo a sentire quel formicolio lungo la colonna vertebrale che faceva su e giù come un’amante paziente. Era adrenalina allo stato puro e ancora non avevo iniziato!
“Ma ti sei rincretinito tutto d’un tratto?!” le grida, furibonde, di Ryan riuscirono a interrompere per un attimo il brivido e mi parve di poterlo vedere sotto forma di piccolo serpentello staccarsi un attimo dalla mia pelle per guardare il mio amico con sorpresa.
“Ryan, so cosa sto dicendo…” tentai ma lui mi interruppe.
“Col cazzo che lo sai!” strillò, saltando in piedi, “Tu non hai la minima idea di cosa voglia dire fare la parte di Gregory!”
“Non sono così deficiente come vi ostinate a pensare!” ringhiai di mio, restando però seduto, “E piantala di urlare o ti sentirà qualcuno.”
“Qualcuno ha già sentito.”
Sia io che Ryan ci voltammo, sgomenti, e rimasi davvero sorpreso di vedere Walter, il biondo con occhi verdi di quinta che ogni tanto si infilava nel letto di Greg quando lui aveva bisogno di farsi medicare. Dietro di lui, stavano Scott e altri due ragazzi, mi pareva Chase e Larry, ma non ero sicuro del secondo.
I tre entrarono e si chiusero la porta alle spalle, poi Walter mi fissò con un sopracciglio sollevato.
“Mathieu, lo sai che sei uno scricciolo di un metro e un tappo, vero?” mi chiese.
Sbuffai, ma non avevo voglia di cogliere provocazioni perciò annuii poi però sostenni il suo sguardo.
“Le mani non dipendono dall’altezza.” ricordai, “E comunque ho deciso cosa fare. L’unica cosa che voglio sapere è se siete con me oppure no, solo per potermi regolare e capire come agire. Siete liberi di dire no, nessuno vi obbliga ad accettarmi come successore di Greg, ma io farò di testa mia.”
“Ma ti ascolti?!” esclamò Ryan, “Ti rendi conto che parli come Gregory?! ‘Successori’ e ‘Rivoluzioni’ e chissà cos’altro! Voi due non vi rendete più conto della linea di confine tra realtà e fantasia! Credete di poter cambiare il mondo con le vostre teorie da ribelli?!”
“No.” risposi, tranquillo, “Solo questa scuola.”
Ryan imprecò ma Walter, Scott e gli altri due sorrisero e lo stesso feci io: Ry poteva dire quello che voleva, ma in fondo sapevamo tutti che avrebbe fatto ciò che era necessario comunque. Forse non credeva nella rivoluzione come la intendevamo io e Gregory, ma credeva davvero che uniti avremmo potuto ottenere qualcosa: si era sentito tradito dall’amico, ma non era il tipo da farsi mettere fuori gioco così rapidamente.
“D’accordo!” ringhiò, puntandomi un dito contro, “Ma si fa come dico io: se dico no è no, se dico sì è sì, chiaro?! Se ti dico che non ne vale la pena, tu lasci perdere, promesso?”
Sorrisi.
“No.”
“Quanto ti odio quando sembri il fratellino di Gregory, Mathieu!”
 
Dolore. Atroce. Alle. Mani.
Quattro parole che potrebbero riassumere senza difficoltà le cinque settimane successive. Quelle e ‘Isolamento’. Ormai il sottotetto stava diventando la mia camera fissa: la Williams non faceva altro che rinchiudermici dentro.
Mi carezzai piano i dorsi delle mani, cercando di riavviare la circolazione senza ravvivare il dolore, ma il freddo rimaneva. Era a malapena metà Gennaio e nel sottotetto non c’era riscaldamento; ero arrivato a dormire sul pavimento, per assorbire il calore che arrivava dal piano di sotto ma la Williams impostava l’abbaino perché si aprisse di notte, non abbastanza da farmi scappare ma a sufficienza per farmi gelare.
Sospirai. L’isolamento non era la parte peggiore e il freddo non era così forte da farmi assiderare. Il momento più brutto era stato una settimana prima. Ero nel sottotetto perché qualcuno aveva gettato nella notte della vernice blu e azzurra nella mensa e io me ne ero preso la colpa, perché sapevo che era stato Ryan…
È quasi mezzanotte quando la porta si apre e la Williams entra.
Non capisco, non ha senso che sia qui, e la guardo con la fronte aggrottata, temendo di nascosto che voglia darmi un’altra lezione. Ma lei non è qui per questo.
Sorride, maligna, e mi indica l’abbaino.
“Guarda fuori, Mathieu.” dice solo e io ho paura ma mi alzo e raggiungo quella specie di finestra nel tetto.
Devo mettermi in punta di piedi e infilare metà viso fuori, all’aria, ma dopo un po’, sforzando gli occhi per via del buio, riesco a vederlo.
Ry, rannicchiato nella sua giacca, seduto con la schiena contro uno dei tre sparuti alberi del cortile, trema.
La Williams, non seppi mai come, aveva capito che era stato lui e lo aveva lasciato chiuso fuori tutta la notte, nonostante la neve caduta il giorno prima. Il mattino dopo, dovemmo fare l’impossibile per aiutarlo...
“Larry, cavolo, lo sto tenendo solo io! Tiragli su quei piedi, maledizione! Mat, sbrigati ad aprirci la porta!”
“Sì, sì, ok… Diavolo, Walt, non sarà congelato, vero?!”
“È solo svenuto, Mat! La Williams non ha santi in Paradiso né avvocati sulla terra che possano salvarle il culo, se si azzarda a far morire uno studente! Vieni, aiutami a mettergli la coperta sulle spalle!”
“Ok, ma mettigli anche la mia, Walt.”
“Ragazzi, dategli anche la mia già che ci siete, io ne cerco un’altra, che dite?”
“Scott, aspetta! Walt, sono tre, dici che bastano?!”
“Ragazzi, qui trema ancora, fate qualcosa!”
“Scott, dammi la tua camicia. Mat, anche la tua. Larry, aiutami a portarlo in bagno.”
“Walt, non riesce a camminare!”
“Lo so, Mat, per questo che lo portiamo di peso! Larry, facciamolo sedere sul bordo, forza.”
“Ok, sto aprendo l’acqua calda al massimo…”
“Non puntargliela addosso finché non è calda, chiaro?”
“Walt, non sono scemo!”
“Piantatela, tutti e due! La mia camicia e quella di Scott, Walter…”
“Aiutami a mettergliele attorno alle mani…”
“Che diavolo sono quelli?!”
“Merda! Gli stanno spuntando delle vesciche e anche dei geloni! Diavolo, sbrigati, Mat!”
“Mi sto sbrigando!”
“Ragazzi, sta tremando ancora!”
“LO SAPPIAMO, SCOTT!”
“Ehi, Ry, mi senti? Stai calmo, ok? Adesso passa, fa male solo ora, ma poi andrà meglio, d’accordo? Te lo prometto, andrà tutto a posto, te l’assicuro… Walter!”
“Sto facendo del mio meglio, Mat! … D’accordo, piano B. Larry, fa’ riempire la vasca. Mat, aiutami a farcelo sdraiare dentro. Scott, hai ancora il cellulare per le emergenze che ti ha chiesto di tenere Ry?”
“Sì…”
“Prendilo. Subito.”
“Walt, che cosa vuoi fare?!”
“Non posso fargli sparire vesciche, geloni e chissà che altro per magia, Mat: chiamo mio fratello e gli chiedo di farmi arrivare qualcosa.”
“Ma la Williams…”
“La Williams crede che sia impossibile farle passare qualcosa sotto il naso! Per questo, noi ci riusciamo sempre. Vedrai che ce la farà, in un modo o nell’altro…”
Sorrisi mesto ricordando che, incredibile ma vero, avevamo fatto davvero entrare in scuola quelle pomate: infilate in una torta, come le lime dei carcerati. Ancora mi sorprendeva avercela fatta.
Sospirai.
Quella notte, avevamo mandato al diavolo la Williams e l’avevamo passata tutti nel nostro bagno, seduti per terra o sul davanzale o sul bordo della vasca. Cambiavamo l’acqua in modo che fosse sempre calda, controllavamo che Ry non finisse con il viso sotto la superficie e gli parlavamo piano incitandolo a svegliarsi, ma lui si era ripreso solo poco prima dell’alba e con un febbrone da cavallo. Walter mi aveva dato istruzioni precise e per i giorni successivi non avevo fatto altro che stargli appiccicato per essere sicuro che non avesse ricadute. Il problema, però, era che io c’ero quella notte, quando Ry aveva fatto la follia della vernice. Non era da lui correre un rischio simile, lo sapevamo tutti, ma solo io ero a conoscenza del motivo per cui aveva fatto quel gesto…
Apro gli occhi. È notte fonda ma io so di aver sentito qualcosa.
Ryan non è nel suo letto, il suono che mi ha svegliato è stato il chiudersi della porta.
Ho una brutta sensazione. So che Ryan sta per fare qualcosa e che io devo fermarlo, perciò salto in piedi ed esco dalla camera, intravedendolo prendere le scale. Gli corro dietro, scendo con lui fino al pieno terra ma quando entro nel salone lui sta giù facendo.
Ha una latta di vernice azzurra nelle mani, quella che hanno recapitato qui per sbaglio questa mattina, e ne sta tirando il contenuto contro il muro e le vetrate e i tavoli e le sedie. Sta facendo un macello.
“Ryan!” esclamo, a bassa voce però, correndo da lui.
Lo afferro ma lui si dimena, cerca di sbattermi via senza curarsi di potermi far male.
“Ryan, per l’amor del cielo, che stai facendo?! Smettila, ti metterai nei guai!”
La latta cade per terra, ma con essa anche Ry, che crolla sulle proprie ginocchia. Scivolo giù con lui, le sue mani aggrappate alle mie spalle, e sgrano gli occhi quando mi accorgo che sta piangendo, ma piangendo davvero.
“Che cosa è successo, Mat?!” mi supplica, singhiozzando, “Che cosa ho sbagliato, eh?! Che cosa ho fatto di male perché Gregory mi mollasse così?!”
Mi sento male. Sgrano gli occhi, ma non dico la verità.
“Ry, cos’è successo?”
Ho paura che Greg abbia fatto qualcosa, detto qualcosa, che abbia ferito Ryan. Ho paura di dover scegliere tra loro due perché se amo uno come uomo, amo l'altro come fratello.
Ryan piange ma sbatte per terra qualcosa che fino ad adesso ha tenuto in mano. La rivista arrotolata e sporca di vernice blu mi schizza il colore fin sulle guance.
Il titolo, per quanto rovinato, si capisce: Bloomberg. È una rivista di economia. È la rivista che ogni mese Ryan riceve dai suoi. È la loro minaccia: o questo, o un altro mese in Accademia.
Chiudo gli occhi. Stringo più forte le spalle di Ryan. Lascio che finga con se stesso di potermi nascondere le sue lacrime schiacciando il viso contro il mio petto. Non posso fare di più.
“Che cosa ho fatto per meritare tutto questo, posso saperlo?! Prima mi hanno spedito qui, poi mi hanno portato via Lucille! Gregory era l’ultima cosa che mi restava! C’era sempre quando arrivava questa rivista e anche quando mi picchiavano e quando avevo paura e quando… Era il mio migliore amico, Mat, perché mi ha tradito in questo modo?!”
Vorrei dirgli il perché, ma non posso. Vorrei dirgli che non lo so, ma non posso. Vorrei inventare una scusa, ma non posso.
Così sto zitto, lo stringo e lo lascio piangere poi lo costringo a tornare di sopra, lavarsi via la vernice di dosso e mettersi a letto. Al mattino, mi prendo la colpa di tutto.
La porta si aprì di nuovo e io la guardai con indifferenza. La Williams sbuffò e mi fece cenno con la testa di uscire.
In silenzio, mi alzai, superai la preside e scesi le scale, diretto in mensa per la colazione.




Salve!
Innanzitutto, mi scuso per il ritardo :(
Ho letteralmente appena finito il capitolo, perciò se ci sono errori o imprecisioni perdonatemi :)
Ringrazio quella cara persona che con il suo messaggio di poco fa mi ha dato la grinta per finire il capitolo: grazie mille, davvero! ;)
Beh, che dire... A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu


P.S.
IO TROVERÒ QUELL'EVIDENZIATORE A QUALSIASI COSTO, DOVESSI LAVORARCI TUTTA UNA VITA!!! GROARRRRR!!!

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Capitolo 14
*** Una grande Rivolta e un grandissimo Alfred ***










 
Capitolo 13: Una grande Rivolta e un grandissimo Alfred
 
Ormai avevo smesso di preoccuparmi per le punizioni. Iniziavo a capire come mai a Gregory non facessero né caldo né freddo: dopo la prima, erano tutte la stessa cosa e, per quanto all’inizio facessero male, con il tempo ci si abituava anche a quel dolore.
Ryan continuava a preoccuparmi, però.
Forse dovrei dirlo a Gregory…, mi ritrovai a pensare mentre passavo in camera mia per cambiarmi la camicia, resa ormai marrone dalla polvere del sottotetto.
Entrai in bagno, mi sciacquai e tornai in camera ma mi bloccai quando notai qualcosa sul mio letto.
“Seriamente, ti diverti ad apparire quando qualcuno pensa il tuo nome o è la tua indole demoniaca a costringerti a reagire alle evocazioni?” chiesi, sarcastico, osservando il biondino.
Gregory mi guardò con espressione seria, restando seduto e senza rispondere.
Sospirai. Lo sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento, per questo avevo evitato attentamente il ragazzo in quelle settimane. Evidentemente, lui se ne era accorto e aveva deciso di intervenire alla radice.
“Greg, non ho intenzione di tirarmi indietro solo perché me lo chiedi tu.” misi subito in chiaro, serissimo.
“Maledizione, Mathieu!” gridò lui, saltando in piedi, “Non era questo l’accordo!”
Sollevai un sopracciglio, scettico.
“L’unica cosa che abbiamo stabilito era che…quello che è successo l’ultima volta…sarebbe finito immediatamente.” gli ricordai, imbarazzato mio malgrado. Mi toccai d’istinto il punto dove prima stava il succhiotto ma che ormai era scomparso. “Ti ho sempre detto che capivo perché tu stessi evitando delle punizioni, ma non ho mai promesso niente riguardo alle mie.”
Non feci neanche in tempo a realizzare ciò che successe. Un secondo prima mi stavo sistemando la giacca sentendomi molto un uomo d’affari che trattava con Gregory e un secondo dopo mi ritrovai con la schiena contro il muro e le mani di Greg sul colletto della mia camicia.
“Non provare a fare retorica con me, Mathieu!” ringhiò lui, “Era scontato! Ti ho detto sin dall’inizio di tenerti lontano dai guai!”
Iniziava a preoccuparmi la piega degli eventi, ma scrollai le spalle.
“Non mi pare di averti mai dato molto retta…” commentai.
Greg mi sbatté più forte contro il muro, probabilmente senza neanche accorgersene perché troppo preso dall’imprecare.
“Perché non mi obbedisci mai?!” sibilò, fulminandomi con gli occhi induriti e ghiacciati dalla rabbia.
Deglutii perché, nella sua rabbia, Gregory era ormai totalmente premuto contro di me e mi toccava di nuovo guardarlo dal basso percependo però ogni centimetro di lui contro il mio corpo.
“Per sport.” risposi, ma la battuta perse parte della sua efficacia per via del mio tono basso, sussurrato.
Gregory sollevò un sopracciglio. Era ancora arrabbiato ma gli leggevo in faccia che la mia frase lo aveva divertito almeno in parte.
“Per sport?!” ripeté, sarcastico, e io annuii, deglutendo ancora, ma smisi nell’esatto istante in cui il suo viso si avvicinò ancora di più al mio, “Davvero?”
Deglutii.
“Eh già…” mormorai, “È molto divertente…”
“Divertente.” ripeté Greg, come saggiando la parola.
Per un po’ rimanemmo così, immobili. Avevo l’istinto di lanciarmi in avanti e baciarlo, sentivo il suo odore d’arancia anche da quella distanza, ma non feci in tempo perché la campana del pranzo ci fece sobbalzare entrambi.
Gregory imprecò poi si voltò verso di me, gli occhi sgranati di paura.
“Devo andare, Mat. Lucille…”
“Vai.” lo interruppi, annuendo, “Non preoccuparti.”
Lui esitò.
“Smetti di metterti nei guai.” mi ordinò, ma il tono che usò fu veramente implorante.
Scossi la testa.
“Non posso, Greg.” mormorai, “Prima eri tu, ora sono io. Mi dispiace.”
Lui indietreggiò, fissandomi come se avesse voluto aggiungere qualcosa, e fece volare lo sguardo da me alla porta parecchie volte prima di decidersi ad andare.
Lo guardai sparire in corridoio mentre aspettavo di distanziarmi da lui abbastanza da non destare sospetti e intanto pensavo. Sapevo che avrebbe scelto di proteggere Lucille, non ne avevo mai dubitato, ma la lunga esitazione che aveva avuto nel decidere tra lei e me mi provocava una piacevole sensazione.
 
Scivolai tra i posti cercando Gregory con gli occhi e trovandolo sulla sua sedia, a destra di Ryan. Provai una fitta al cuore notando come il moro si sforzasse di ignorare il biondo, soprattutto perché sapevo che in realtà era solo un malinteso a dividerli, ma notai che anche tutti gli altri stavano facendo del loro meglio per fingere che Greg non esistesse.
Il tradimento fa male…, mi ritrovai a pensare mentre mi mettevo a sinistra di Ry poi però scacciai quei pensieri quando il moro mi posò sulla gamba un piccolo schema degli interventi che dovevamo far accadere quella settimana.
Avevamo finito il disinfettante e anche le salviette perché la scorsa consegna era saltata, ma avevamo ancora dei cerotti e delle garze. Ci restava una ventina di bottigliette d’acqua e se non altro il freddo faceva sì che non fosse necessaria un’incursione nelle cucine –oddio, cucine… delle stanze con frigoriferi perennemente vuoti visto che il cibo arrivava giornalmente– per prendere possesso di un po’ di ghiaccio. L’entrata di disinfettante e salviette avveniva tramite libri: il fratello di Walter lasciava intatti i primi cinque capitoli dell’ultimo volume della pila che consegnava e poi faceva un buco nelle altre pagine e lì metteva gli oggetti accuratamente imballati. Quindi, io dovevo ‘solo’ dare alla Williams qualcosa di più importante da fare che controllare uno ad uno i volumi che il nostro vorace lettore Walt si faceva mandare.
Stavo ragionando su cosa combinare mentre masticavo il piccolo foglietto un po’ bagnato nell’acqua –l’ennesima precauzione– quando il portone d’ingresso si aprì.
Ci voltammo tutti, sorpresi, mentre sui tavoli calava il silenzio.
Non c’erano nuovi arrivi in programma, oppure i professori non sarebbero stati sorpresi quanto noi, e il personale passava dalla porta sul retro quindi poteva essere solo un ospite, ma in arrivo all’ora di pranzo e senza che nessuno lo sapesse pareva improbabile come ipotesi.
Qualsiasi minimo pensiero razionale, comunque, svanì nel momento in cui tre ragazze fecero il loro ingresso nel salone, puntando dritte verso il corridoio tra le due tavolate degli studenti.
Le due ragazze laterali erano l’una opposta all’altra. Quella di sinistra aveva capelli biondi cortissimi, quasi da ragazzo, e occhi chiari su una carnagione color latte, mentre l’altra aveva lunghissimi capelli neri legati in piccole treccine e occhi scuri su una pelle color cioccolato fondente. Entrambe portavano scarpe nere lucide con lunghe calze bianche che salivano fino alla coscia, poco sotto l’orlo della gonna nera a balze in cui stava infilata la camicetta candida con la cravatta nera. Stesso abbigliamento lo portava la terza, centrale, che però precedeva le altre di un passo almeno, apparendo facile da identificare come capo del gruppetto. Aveva capelli castano chiaro con ciocche color miele che le scendevano in lunghi boccoli fino a metà schiena e due occhi verdi determinati, ma, se le sue amiche sembravano entrambe statue di ghiaccio dall’espressione imperscrutabile, sul suo viso faceva bella mostra di sé un sorrisetto soddisfatto e strafottente diretto immediatamente alla Williams. Ci misi un attimo per notare la scacchiera ricamata sulla sinistra del petto di ognuna delle tre che mostrava il numero cinque e sotto il tutto il nome della scuola in corsivo svolazzante: Checkers Academy.
Per un attimo, considerai davvero l’ipotesi di essermi sbagliato, adducendo la scusa che era una coincidenza impossibile quella che stavo considerando, ma una volta ammesso che tutto poteva essere tranne una coincidenza, dovetti cedere all’evidenza davanti ai miei occhi: non avevo idea di chi fossero la Bianca e la Nera che facevano da guardie del corpo ferme a due passi dai professori impersonando le stesse caselle della scacchiera, ma la sfumatura verde sui visi di Ryan e Gregory presentava la terza senza possibilità di malinteso.
LUCILLE GRAY?!
Rimasi immobile a guardarla con la bocca spalancata. Sapendo che lei e Greg non avevano neanche un cromosoma in comune, non avevo potuto fare a meno di immaginarmela al suo opposto e la paura di suo fratello per lei aveva contribuito all’immagine di piccola e timida fragile ragazzina che mi ero fatto. Ma quella che stava salendo i gradini fino al tavolo dei professori senza mai staccare gli occhi dalla Williams poteva essere tutto fuorché una piccola e timida fragile ragazzina!
Lucille si fermò per un attimo in piedi davanti alla preside, lasciandosi fissare a bocca aperta dalla strega, poi scosse la testa con finta delusione.
“Che sistema di allarme penoso.” commentò, sempre sorridendo.
“Sicurezza!” urlò la Williams, saltando in piedi, ma Lucille si piegò in avanti sbattendo le mani su tavolo e il suo movimento spaventò la preside che ricadde seduta, il viso dell’allieva ad un soffio dal suo.
“Ascoltami bene:” disse la piccola Gray, sempre sorridendo e con un tono di voce gentilissimo che stonava molto con le sue azioni, “adesso siamo solo venute a farti un salutino, ma la prossima volta le tue belle Accademie verranno giù come castelli di carte.” Si raddrizzò, sempre sorridendo con tranquillità. “Mi raccomando: mi aspetto un po’ più di impegno, da parte vostra.”
Sebastian King, Pattern, la Spencer… sembravano tutti statuine di pasta di sale asciugate dal sole e mi sembrava quasi di poter vedere la rabbia lievitare dentro di loro mano a mano che si rendevano conto di ciò che era successo. Non solo tre allieve erano scappate dalla propria Accademia, ma si erano anche intrufolate nell’altra senza che nessuno le fermasse!
Lucille diede le spalle alla Williams e scese con calma i tre scalini. Una volta messo piede sul pavimento, iniziò a correre. Le sue amiche le andarono dietro ma il caro vicepreside scattò all’inseguimento e a fine della tavolata era ad un soffio dal prenderle.
Agii d’istinto, come la prima volta. Saltai in piedi e spinsi lo schienale della mia sedia con la mano, in modo da farla cadere in mezzo al corridoio, e King vi inciampò dentro nell’attimo in cui afferrò il braccio di Lucille.
La ragazza si fermò un attimo, guardò il prof a terra e poi me.
“Bel colpo.” commentò poi, sorridendo, prima di riprendere a scappare.
“Luci, muoviti!” le gridò la ragazza di colore afferrandola per un braccio e facendola spostare un attimo prima che fosse Pattern ad afferrarla.
Sotto il mio sguardo sgomento, la più piccola e fragile delle tre, la ragazza bianchissima, mollò al professore di musica un calcio nel basso ventre.
Un coro unanime di “Ahia!” si levò dagli studenti che lo osservarono piegarsi in due.
Ci fu un attimo di esitazione. Poi fu la rivolta più totale.
Ognuno degli studenti, dal primo all’ultimo, saltò in piedi e sbatté a terra la sedia, creando un vero e proprio percorso ad ostacoli tra i professori, bloccati nella selva di mobili, e le ragazze ormai oltre.
“Muovetevi, qui ce la caviamo noi!” gridò Ryan alle ragazze, prima che il suo piatto colmo di polpettone volasse fin sulla spalla della Spencer che stava scendendo dalla piccola pedana del tavolo degli insegnanti per aiutare i colleghi.
“Dilettante!” gridò qualcuno con ironia, forse Walter, dall’altro tavolo, e un pezzo di polpettone, chissà perché senza il piatto, volò fin sulla testa di Pattern che si stava raddrizzando chiamando la sicurezza.
“Ry, sei il mio eroe!” rise Lucille prima di aprire il portone.
Mentre afferravo il mio polpettone e mi preparavo ad unirmi alla mischia, la vidi far uscire le sue compagne ma esitare un attimo prima di seguirle. Fu seguendo il suo sguardo che vidi Gregory ancora seduto, immobile nel suo sgomento, con gli occhi fissi sulla sorella. Quando tornai a Lucille, lei stava scuotendo la testa con delusione. L’attimo dopo, la porta si richiuse con un botto dietro le sue spalle e i rumori della battaglia intestina alla nostra mensa mi richiamarono alla lotta.
Non pensai a Gregory, aveva la sua guerra contro se stesso da combattere. Tirai su una sedia, vi montai sopra e al grido di “Rivoluzione!” lanciai il mio polpettone verso la Williams.
Con il senno di poi, devo dire che quello fu il gesto più idiota che potessi fare. Non il lancio ovviamente, ma il grido. Penso che non mi sarei seguito nemmeno io, se fossi stato gli altri ragazzi.
Ma io ero io e gli altri erano gli altri e così, nell’idiotissimo coro unanime di “Rivoluzione!”, il polpettone prese a volare da tutte le parti.
 
“Questo è troppo!” stava strillando la Williams nella cornetta.
Sorrisi. Erano venti minuti che ripeteva le stesse cose eppure non sembrava ancora soddisfatta di quante volte avesse spiegato al mio maggiordomo della barbarie con cui le avevo spiaccicato il pranzo in faccia –un tiro da maestro, Ryan mi doveva dieci sterline per questo-. Che peccato che i miei genitori proprio non fossero raggiungibili…
Stavo ancora ringraziando mentalmente Alfred perché ero certo che stesse accampando chissà quali scuse per coprirmi con i miei, quando la porta si aprì.
Io ero nella minuscola anticamera dell’ufficio della presidenza dove la Williams stava ancora sbraitando al telefono pur di farsi passare mio padre e dalla porta appena aperta entrò King spintonando Ryan. Un Ryan un po’ pesto.
Lo osservai sforzandomi di sorridere e non far notare la mia apprensione nonostante il grosso livido sulla guancia e il labbro inferiore spaccato che spiccavano sul suo viso. Non potevo vedergli il petto o le braccia, ma se aveva ricevuto il mio stesso trattamento non dovevano essere messi poi tanto bene.
King lo fece sedere a viva forza sulla seggiola di fronte alla mia, all’opposto, e poi uscì lasciandoci entrambi sotto la custodia della Spencer che, seduta in un angolo, fissava entrambi con occhi truci.
“Pattern o King?” chiesi, sforzandomi di rivolgere a Ry un sorriso strafottente.
Lui ghignò, anche se mi pareva che ansimasse leggermente.
“Tutti e due.” rispose come se fosse un vanto e io annuii perché era la stessa cosa che avevano riservato a me.
Non avevo idea di quando la rivolta fosse stata sedata, nel caos era stato impossibile capirlo, ma ricordavo di aver visto gli agenti della sicurezza e l’insieme di cuochi e camerieri e addetti vari gettarsi sulla calca di studenti per immobilizzarli. Ero passato da starmene lì a schiacciare con sommo piacere il polpettone sulla faccia di King, sedutogli sulla pancia, alle mani di un maledetto cameriere che mi teneva fermo mentre Pattern e King iniziavano a prendermi a calci in una specie di sgabuzzino.
“Silenzio!” sibilò la Spencer, saltando in piedi e brandendo la bacchetta come neanche Mago Merlino avrebbe mai osato fare.
Per qualche incredibile motivo –leggera ironia, eh?–, l’idea di qualche bacchettata non mi spaventava più così tanto. Non con le costole ammaccate che erano arrivate a chiedere pietà in turco, almeno.
“Grazie, siamo a posto così.” risposi, sarcastico, con una smorfia e Ryan rise per un attimo prima di mettersi a tossire.
La Williams continuava a strillare contro Alfred, blaterando che pretendeva di parlare con mio padre, e io sorrisi malefico. Ero intimamente soddisfatto all’idea che anche io da solo gli stessi dando tanti grattacapi.
Aspettammo ancora una ventina di minuti, poi la porta si aprì e King sbatté dentro Walter, nemmeno lui esattamente al massimo della sua forma.
“Ehi, Walt, ti unisci alla festa?” chiesi, sforzandomi di sorridere, e lui rise sguaiatamente gettando la testa all’indietro mentre veniva costretto a sedersi a quattro posti di distanza da Ryan, di fronte alla cara professoressa di inglese. Era palese che fingeva, non era neanche una battuta divertente, ma la Spencer si irritò da morire e capii che quello era proprio l’obiettivo del nostro amico.
“Che dite?” chiesi, ignorando l’ennesima minaccia, “Verrà ancora qualcuno alla nostra riunione?”
“Ti ho detto di stare zitto!” gridò, esasperata, la Spencer, piantandosi davanti a me e tirandomi uno schiaffo in piena faccia.
Voltai il viso, ma più per abitudine che per reale dolore. Greg l’aveva detto, una volta, che la Spencer era una novellina nel picchiare e adesso lo capivo. Poteva anche fare male con la bacchetta sulle mani sensibili, ma adesso, con ancora il ricordo dei pugni di Pattern e King nella carne, lei appariva come una bambina dell’asilo che giocava con i grandi.
La lasciai tornare a sedersi sanza continuare a infierire e fu guardandola, dritta come un fuso sulla sua seggiolina, che capii cosa era davvero successo.
Aveva paura. Una paura folle e assoluta di noi ragazzi. Fino ad allora aveva creduto di poterci sottomettere facilmente, ma la rivolta le aveva fatto capire che se mai ci fossimo sollevati allo stesso modo in classe, dove era da sola a tenerci, non avrebbe avuto speranza. Prima non se ne era accorta, ma adesso sì e tremava come un pulcino bagnato.
“Attaccare o fuggire fanno parte dello scontro. Quello che non appartiene alla lotta è restare paralizzati dalla paura.” Non ricordavo chi l’avesse scritto, forse Paulo Coelho, ma mi sembrava così perfetta per quel momento che sorrisi senza accorgermene.
“Che cosa fai?!” squittì la Spencer, gli occhi grandi per la paura, ma io scossi la testa.
“Nulla…” commentai, tranquillo, tornando a guardare Ryan e Walter per vedere se erano giunti alla mia stessa conclusione.
Walt non mi pareva interessato alla Spencer. Continuava a fissare le mani che tenevo in grembo con espressione aggrottata e non mi sarei stupito se avessi scoperto che stava tentando di capire come scassinare le manette che mi avevano messo in quanto ‘fautore’ della rivolta. Effettivamente, gli insegnanti iniziavano a perdere di originalità: anche a Greg avevano messo le manette, ormai non era più divertente né spaventoso…
Ryan, invece, ricambiò il mio sguardo annuendo appena incrociai i suoi occhi e sorrise impercettibilmente.
La paura della Spencer poteva essere un vantaggio incredibile per noi, se solo avessimo capito come sfruttarla al meglio senza che la Williams se ne accorgesse e intervenisse. Dubitavo seriamente che la preside si fosse fatta terrorizzare dalla rivolta, non era tipa da cedere con così poco.
“AAAAAAAH!” strillò la donna proprio in quel momento, sbattendo il telefono contro la scrivania con tanta forza da farsi sentire anche fuori dall’Accademia. Trafficò per un po’ con qualcosa poi la sentimmo urlare nell’interfono, con la voce che rimbombava per i corridoi, “KING! VIENI IMMEDIATAMENTE QUI! IMMEDIATAMENTE!”
Aggrottai la fronte, sorridendo con cattiveria.
“Che dite, se n’è accorta di aver detto due volte ‘immediatamente’?” chiesi, fintamente angelico.
“Secondo me no!” rise Ryan, dandomi manforte, “Così non la prenderà sul serio mai nessuno, su!”
“Dovrebbe dirglielo lei, prof.” rincarò la dose Walt, fissando la Spencer che si sforzava di non farsi piccola piccola davanti a noi, “La sua era una brutta ripetizione, non trova?”
La Spencer boccheggiò per un attimo, incerta su cosa dirci, ma la Williams interruppe il nostro gioco –crudele ma quantomeno meritato, su!– sbucando fuori dal suo ufficio con il viso stravolto dalla rabbia.
Prima che potessi dirle qualcosa, mi afferrò con la mano per un bavero della giacca e mi tirò in piedi proprio nell’istante in cui King faceva irruzione nell’ufficio.
“Prenditelo!” ringhiò spingendomi malamente contro il vicepreside, “Fa’ quello che vuoi, dagli una lezione, non mi interessa cosa fai ma fallo!”
King sorrise e mi afferrò per un braccio, iniziando a portarmi via, ma io sorrisi a mia volta.
Perché la rabbia della Williams poteva voler dire solo una cosa: aveva appena perso contro Alfred.




Non credevo avrei aggiornato in orario, sono seria... Questa mattina quando sono uscita di casa, questo bel capitoletto aveva appena due delle sei pagine minime previste e adesso ne ha sette, quasi otto! Senza contare la bella novità che vi ho lanciato...
Allora, come vi sembra Lucille? ;) A me è apparsa diversa da ciò che immaginavo all'inizio, inizio, di questa storia (quando ancora non avevo la più pallida idea di chi fosse King, figuratevi!)...
Non posso parlarvi del prossimo capitolo perché non esiste, quindi... boh...
Ah! Domenica, Lunedì e Martedì sarò via, perciò non so se riuscirò a scrivere il capitolo in tempo per Mercoledì, vi avviso subito...
Vabbé, a presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

P.S.
Alfred è il mio nuovo amore! XD

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Capitolo 15
*** Nemmeno io so a cosa ***










 
Capitolo 14: Nemmeno io so a cosa
 
Mi ci vollero tre tentativi per aprire la porta della mia camera, ma alla fine riuscii a barcollare dentro.
Ryan, sdraiato sul fianco sopra le coperte del suo letto, aprì gli occhi e si tirò un po’ su, come per mettersi a sedere.
“Ehi.” disse, senza corrermi incontro come avrebbe fatto una volta.
“Ehi.” risposi, ma poi iniziai a tossire e sentii il mio petto lamentarsi per quei gesti inconsulti.
Mi piegai su me stesso con una smorfia e mi concessi di imprecare mentre mi lasciavo cadere seduto sul mio letto. Faceva un male cane, non potevo dire altrimenti. La ripassata di King era stata micidiale e già prima lui e Pattern mi avevano dato una bella lezione, devo ammetterlo. All’inizio, una cosa del genere mi avrebbe piegato in due all’istante; ora, mi faceva venire una voglia matta di nascondere qualcosa di estremamente viscido o appiccicoso nelle scarpe della Williams. Anzi, qualcosa di viscido e appiccicoso. Esisteva?
“Voglio mettere qualche schifezza nelle scarpe della preside.” riferii a Ryan, lasciandomi cadere di lato sul mio letto e raggomitolandomi per non sentire i lividi che cantavano il Requiem.
Ryan rise.
“Ci sto.”
“Ci starebbero tutti…” borbottai, poi mi voltai sulla schiena perché il fianco mi faceva male, “Notizie degli altri?”
“Walter è l’unico che abbiano pestato come noi.” sospirò Ryan, “Gli altri sono tutti confinati nelle stanze: i professori fanno il giro, entrano, fanno…largo uso della bacchetta, diciamo, e poi se ne vanno.”
Deglutii, ferito dall’idea che tutti avessero pagato. Con Gregory, una carneficina del genere non sarebbe mai accaduta.
Sentimmo una porta aprirsi e richiudersi con un botto, in fondo al nostro corridoio.
“Hanno appena finito.” mormorò Ryan, lasciandosi cadere di nuovo sdraiato e stringendo i pugni.
“Il quinto piano?” chiesi, confuso.
“Fatto per primo.”
“Pensi che abbiano preso anche Greg?”
“E perché?” commentò Ryan, sprezzante e ferito, “Quello non ha fatto altro che starsene fermo a guardare il proprio piatto.”
Mi sentii urtato dalla cattiveria di Ry. Potevo capire che ce l’aveva con lui, dal suo punto di vista era comprensibile, ma lui avrebbe dovuto comprendere lo shock del biondo.
“Abbi pietà.” mi ritrovai a dire, gli occhi chiusi per la stanchezza e la voce roca per le botte, “Era pur sempre sua sorella, non è stata una bella sorpresa per lui.”
Ryan esitò per un attimo, confuso, e voltando la testa lo vidi aggrottare la fronte.
“Tu come lo sai che era sua sorella?”
Merda.
“L’ho dedotto…” provai a dire, ma la scusa era patetica e infatti Ryan si tirò a sedere.
“L’hai dedotto?” chiese, acido, fissandomi con espressione pensosa, “E da cosa? Dalla loro incredibile somiglianza fisica? Dal nome sulla fronte?”
L’ironia pungente di Ryan mi diede la forza di tirarmi a sedere ma non il colpo di genio per inventare una bugia su due piedi.
“Io…”
Ryan però non mi permise di dire altro. Aveva gli occhi vacui, come pensasse ad altro, ma si alzò in piedi.
“Tu…” parla piano, muovendo una mano con l’indice teso come se stesse seguendo un ragionamento strano, “Tu hai immaginato che fosse lei. Ma tu avresti dovuto sapere che era a casa sua, come lo sapevo io, e perciò non avresti dovuto neanche pensare che una delle tre fosse Lucille… E Gregory…” Gli occhi di Ryan si sgranarono, puntandosi su di me con sgomento, “Gregory non ne era sorpreso. Non lo ha scioccato per niente l’idea che la sorella fosse in un’altra Accademia, non lo ha sorpreso nemmeno che questa Checkers esistesse!”
Oh, cavolo, no!
“Ryan, ascoltami, io…” tentai, saltando in piedi, ma Ryan mi respinse indietreggiando di scatto.
“Tu lo sapevi!” esclamò in un ringhio, fissandomi con tutto il tradimento che poteva, poi un ultimo lampo gli accese gli occhi, facendolo boccheggiare per un attimo, “E lo sapeva anche lui!”
“Ryan!” provai ancora, ma non feci in tempo a finire la parola.
Ry scattò verso la porta, spalancandola senza curarsi di non fare rumore, e, come dimentico di tutti i lividi, iniziò a correre verso le scale.
Una scossa mi partì dal cervello e mi fece scattare al suo inseguimento, i muscoli ammaccati che non sapevano se dolere per lo sforzo o se starsene buoni perché avevo già abbastanza guai di cui occuparmi. Diamine, Gregory mi avrebbe ammazzato! Avevo rivelato il suo segreto proprio a Ryan! D’altra parte, però, era stata Lucille a rivelarsi, in realtà… Però io avevo detto a Ry che Greg… Diavolo!
Ryan non rallentò un attimo. Si fece le scale di corsa fino al quinto piano e poi percorse il corridoio con le falcate di un atleta e la delicatezza di una mandria di rinoceronti, tanto che tutte le porte si aprirono e i ragazzi, in barba alle sevizie appena ricevute, si affacciarono per capire cosa stesse succedendo.
“Ryan, ti prego!” gridai quando lo vidi spalancare la porta della camera di Greg, l’ultima a destra, con tanta forza da far saltare via uno dei vecchi cardini arrugginiti.
Mi sforzai di correre più forte, visto che Ry mi aveva distaccato sulle scale, ma quando mi affacciai alla porta era già troppo tardi.
Arrivai appena in tempo per vedere il mio amico moro assestare un pugno sulla mascella di Greg. Il biondo si piegò di lato, preso alla sprovvista, e gemette ma Ryan lo afferrò lo stesso per la vita, come per spintonarlo per terra.
“Ryan, no!” esclamai, ma feci solo un passo dentro e Gregory, grugnendo, spintonò fino a sbattere Ryan contro un muro.
Il moro imprecò per il dolore, ma scalciò a caso finendo per colpire un ginocchio di Gregory, che si piegò. Ryan gli afferrò le spalle, spingendolo di nuovo verso il centro della stanza e riuscendo a farlo cadere di schiena sul letto.
“Smettetela!”
Ryan iniziò a tempestare Gregory di pugni al petto e ad ogni colpo il biondo si ripiegava su se stesso espirando violentemente. Alla fine, però, Greg piantò un pugno nello stomaco di Ry, questi si piegò in due e il biondo lo ribaltò gettandolo giù dal letto. Ryan gemette quando il fianco si schiantò contro il pavimento duro, ma Gregory rotolò fino a cadergli addosso e, piantato un gomito nella schiena del moro, usò il braccio libero per torcere il suo.
“Gregory, basta, fermo!” Perché non mi ascoltava mai nessuno, là dentro?!
Ryan rotolò, solo lui sa come, e Gregory, aggrappandosi a lui, finì per rotolare a sua volta, ma la stanza era piccola. Sulle prime, Gregory ebbe la meglio e i due si schiantarono contro il muro di sinistra, Ryan di spalle, ma il moro sfruttò l’appiglio e invertì il senso di roteamento verso il centro della camera.
Con mia enorme sorpresa, finirono entrambi, avvinghiati, sotto il letto, ma poi lì si incastrarono. Non era poi un male: bloccati là sotto, erano troppo stretti per potersi muovere e continuare e picchiarsi.
“Togliti di dosso!” ringhiò Ryan, furibondo, cercando di disincastrare le spalle dalla morsa di pavimento e rete del letto, “Bastardo traditore, lasciami!”
Gregory lottava a sua volta per liberarsi e capii che in fretta sarebbero usciti dall’impasse, per poi ricominciare a darsele.
Mi guardai attorno, ansioso, e notai che parecchi ragazzi erano bloccati sulla porta, incerti sul da farsi, appena in tempo per vedere Walter fendere la folla con il suo cipiglio da vichingo. Nell’inutilità più assoluta, realizzai che si stava facendo crescere i baffi proprio come un antico nordico.
“Che diavolo…?!” esclamò, chinandosi e scorgendo Ryan e Gregory ancora stretti sotto il letto, “Sono troppo vestiti per fare ciò che sembra stiano facendo, perciò…che stanno facendo?”
Una piacevole conversazione di filosofia…
“Walt, vieni!” Avevo avuto un’idea probabilmente idiota, ma era comunque l’unica che ci fosse nella stanza. Afferrai il nostro biondo per un braccio e lo trascinai in modo che andasse a destra del letto mentre io mi mettevo a sinistra, “Non permettere loro di uscire da qui, capito?!” ordinai, prima di piegarmi a gattoni e infilare le braccia sotto il letto per spingere Gregory verso Ryan.
Do atto a Walter che in quel momento non mi chiese assolutamente niente e obbedì ciecamente, spingendo il moro verso il biondo.
“Che fate?!” ringhiò il moro, infuriato oltre ogni dire, “Walt, fammi uscire o giuro che lo ammazzo!”
“Ammazzalo.” lo sfidai, “Diavolo, Ryan, credevo avessi un po’ più di sale in zucca! Va bene, è vero, sapeva di Lucille e della Checkers: questo non dovrebbe farti intuire qualcosa?!”
Sentii Gregory irrigidirsi notevolmente nel sentirmi rivelare praticamente a tutti il suo segreto, ma io mi concentrai solo sul moro, che in quel momento sputò in faccia al biondo.
“Me ne frego di cosa credi tu, Mathieu!” ringhiò, mentre Gregory si piegava su se stesso perché la saliva lo aveva preso nell’occhio, “Doveva dirmelo!”
“L’ha fatto per te!” provai a ribattere.
“APPUNTO!” urlò Ryan.
Mi immobilizzai.
Era…era quello il problema? Che Gregory si era fatto carico di quella notizia da solo, lasciando Ryan all’oscuro?
Il silenzio era pesante nella camera di Greg e io sentii immediatamente le braccia molli, incapaci di reggere la barriera che stavano costituendo fino ad un attimo prima. Gregory spintonò all’indietro e le mie forze svanirono, così lui poté uscire dalla trappola sotto il letto, ormai libero dalla presa di Ryan che, a sua volta, scivolava via dalla presa inerte di Walter.
Io e il mezzo-vichingo ci guardammo e ci raddrizzammo, consci che entrambi ormai avevamo fatto la nostra parte: se volevano riappacificarsi, Ryan e Gregory avrebbero dovuto farlo da soli.
Il biondo era immobile, in piedi, a sinistra del proprio letto. Il moro stava rigido a destra. Si fissavano con un gelo che tra loro non avevo mai visto. Mai.
Boccheggiai, incerto su cosa dire, ma fui bloccato dal suono di tacchi che percorrevano rapidi il corridoio. Mi irrigidii. Le uniche donne della scuola erano le professoresse e solo una portava i tacchi. Mi voltai alla disperata ricerca di una scusa che giustificasse la presenza di tutti quanti da Gregory senza implicare il pestaggio di qualcuno, ma non mi venne in tempo abbastanza in fretta per propinarla alla Williams.
La donna fendette i corpi dei ragazzi, che si fingevano impacciati nei movimenti per rallentarla, e si piantò sulla porta. Seria e cupa in viso come mai l’avevo vista prima, non guardò neanche di striscio Ryan e Gregory ma fissò solo me.
“Legris, in presidenza. Immediatamente.” disse, ma con una voce piatta che non avevo mai sentito.
Quando voleva punire qualcuno era molto più allegra, quando avevo fatto qualcosa io era più funerea. Questa voce era…cupa, ma non minacciosa né arrabbiata.
Lanciai un’occhiata rapida a Ryan, Walt e Greg e tutti loro mi guardarono con espressione stupita e preoccupata, rigidi nelle loro posizioni e voltati verso di me.
“Legris, non ti ho chiesto di consultarti con i tuoi amici e poi di farmi sapere.” sibilò la preside, “Vieni con me, adesso!”
Esitai, ma in fondo sapevo di non avere scelta.
Diedi le spalle ai miei tre amici e mi incamminai dietro di lei in silenzio.
 
La Williams si fece tutta la strada in assoluto silenzio. Scendemmo le scale senza che lei dicesse una sola parola e fu così fino a quando non raggiungemmo il suo ufficio, a quel punto raggiunse la scrivania, prese la cornetta del telefono fisso già fuori dalla sua sede e la portò all’orecchio.
“Eccolo.” disse solo, laconica, poi mi passò l’oggetto.
Ero…confuso. Insomma, non capivo cosa stesse accadendo e lei non è che spiegasse molto. Presi la cornetta con un po’ d’esitazione e guardai la preside uscire dall’ufficio senza una parola prima di trovare il coraggio di portarmi il telefono all’orecchio.
“Pronto?” chiesi, esitante.
“Signorino, sono Alfred.”
Sgranai gli occhi, sorpreso, e d’istinto guardai la porta con apprensione. Se la Williams era riuscita a contattare i miei per dir loro della rivolta…ero morto, ma molto morto!
“Alfred, Dio mio, che succede?!” chiesi, ansioso.
“Signorino, lei sta bene, vero?!”
Sorrisi, sentendo l’ansia anche nella voce del mio maggiordomo, e d’istinto annuii.
“Sto bene, Alfred, non preoccuparti.” lo rassicurai, poi però aggrottai la fronte, “Come mai hai chiamato qui? La Williams è strana, mi sorprende che mi abbia passato la chiamata…”
Per un momento lungo un secolo, Alfred non osò parlare e quello bastò a farmi venire un brivido, una paura sottile ed effimera che iniziava a serpeggiarmi addosso.
“Alfred?” mormorai, esitante.
“Signorino, io…” che succede?!, non riesco a capire!, “Signorino, io devo…darle una brutta notizia, purtroppo.”
Mi irrigidii.
In quel momento, prima che Alfred mi spiegassi, non potei fare a meno di chiedermi: perché? Insomma, non ne passavo già abbastanza? L’Accademia, le botte, Ryan e Gregory che si odiavano, la rivolta da portare avanti, Lucille e le altre ragazze, la passione omosessuale… Non erano abbastanza cose per un ragazzo? Avevo fatto qualcosa di male per meritare tutta la catasta di guai che mi pioveva addosso?
Per un attimo, un solo attimo folle, mi ritrovai a pensare che forse l’essere gay era sbagliato, forse era per quello che il destino ce l’aveva con me: la mia punizione, il mio castigo, per essere andato contro le leggi di natura. Forse, se avessi accettato di fare ciò che volevano tutti, se magari fossi cambiato…
Scossi la testa, lasciando che l’azzurro di Gregory mi entrasse nella mente. No, non era giusto che pensassi così; e, se anche lo fosse stato, io non volevo farlo. Volevo più che bene al mio biondino e non avevo intenzione di rimangiarmi quel sentimento, poco importavano le conseguenze.
Alfred esitò ancora un attimo, ma poi vuotò il sacco.
 
Tre ore dopo, ero seduto su un aereo in procinto di decollare, con gli occhi fissi fuori dal finestrino e qualcosa di strano nel petto.
 
Deglutii. Una, due, tre volte. Non importava perché continuavo a sentire un qualcosa bloccarmi la gola, trattenervi la saliva per soffocarmi e impedirmi di parlare. Avevo freddo, un freddo terribile, ma mi costringevo a non tremare. Tutti i peli mi si drizzavano sulle braccia e sul collo e il mio viso si era ormai irrigidito nell’espressione vuota e gelida che aveva preso non appena avevo riattaccato il telefono della Williams.
“Perché non siamo in ospedale?”
La mia voce risuonò strana alle mie stesse orecchie. Cupa, bassa e vuota. Troppo vuota. Vuota come quella casa, come quella famiglia, come quella vita. Tutte e tre cose mie.
Alzai gli occhi, puntandoli sulla goccia che cadeva piano nella plastica e ne seguii il percorso nel piccolo tubicino, fino all’ago, e poi me la immaginai entrare nel sangue e risalire su lungo il braccio, per la spalla, giù nel petto, fino al cuore di mia madre.
Mio padre, in piedi accanto a me, non mi rispose neanche. Ai suoi occhi ero morto e lui non parlava con i defunti, nemmeno per dire loro per telefono che sua moglie si era riempita di medicinali e ci aveva bevuto dietro una bottiglia di Whiskey Scotch, arrivando ad un niente dal lasciarci la pelle. Neanche se il ‘defunto’ era suo figlio.
“Signorino,” intervenne Alfred, mettendomi una mano sulla spalla, “questa è la cosa migliore da fare.”
Strinsi i pugni.
Alfred stava alla mia destra, più vicino di quanto mio padre fosse mai stato da quando ero tornato, con il labbro rotto e lividi ovunque, ed era stato l’unico a preoccuparsi di come stessi. E in quel momento io me ne stavo lì, in piedi di fianco al letto di mia madre, a guardarla con la flebo e una macchina per le palpitazioni, circondata da un medico e un’infermiera privati che non la lasciavano mai. Papà non aveva voluto portarla in ospedale.
“Migliore per lei” sibilai, spostando gli occhi dalla sua sagoma pallida e immobile a quella rigida e impassibile di mio padre, “o migliore per te?!”
Mio padre non mi guardò neanche, ma mi tirò uno schiaffo che fece sobbalzare Alfred.
Non voltai neanche la testa, a confronto di ciò che subivo all’Accademia era nulla, ma il mio orgoglio iniziò a bruciare e sorrisi sprezzante.
“Lo sapevo.” commentai, “Migliore per te, come sempre.”
Aspettai che dicesse qualcosa, che mi colpisse ancora, invece si voltò e se ne andò, senza dir nulla.
“Signorino?” mi chiese pianissimo Alfred, quando la porta si fu chiusa.
“Sto bene.” mormorai, tornando con gli occhi a mia madre nel letto, “Grazie.”
La presa di Alfred sulla mia spalla si strinse un po’ e lui annuì.
“Lo sa che non deve ringraziarmi, signorino.” disse piano.
Non dovetti chiedergli nulla. Mi lasciò da solo senza bisogno che glielo dicessi e fece in modo, con un cenno, che anche il medico e l’infermiera si dileguassero discretamente. Mi conosceva più lui che entrambi i miei messi assieme, era l’unico che avrei definito ‘un mio parente’.
Fissai mia madre ancora un attimo, poi sospirai. Lentamente, mi avvicinai al letto e mi sedetti piano sul bordo, stando attento a non muovere i macchinari. Le sfiorai la mano libera da tubi per un secondo, poi spostai la mia sul suo viso.
Mi sorprese notare che ormai era lunga come il suo viso, ma in effetti avevo passato sei mesi nell’Accademia ed erano anni che mia madre non mi permetteva più di accarezzarla. Ero cresciuto, nei messi alla Chess, e ormai ero alto come Ryan, Gregory era sempre più vicino.
Sospirai. Mi piegai in avanti lentamente e posai la fronte e il naso contro quelli di mia madre, chiedendomi se i motivi del suo gesto fossero anche solo lontanamente legati a me, alla mia distanza e alla scenata di papà.
“Puoi cambiare le cose, mamma,” le sussurrai, pianissimo, poi riaprii lentamente gli occhi per fissare il suo viso, così perfetto da parere scolpito, “ma non è questo il modo giusto.”
Chiusi gli occhi con dolore, mi staccai un po’ e, piano, le baciai la fronte.
Poi mi alzai, le diedi le spalle e uscii dalla camera, dirigendomi in silenzio verso la mia stanza per poi chiudermi dentro e pensare. Nemmeno io so a cosa.




Posso dire una cosa? È incredibile la rapidità con cui voi, lettori, mi contattiate se manco un appuntamento a questa storia e l'abilità con cui mi facciate sentire in colpa: alla fine, non posso fare a meno di scrivere fino a tardi pur di postare per voi :)
Scherzi a parte, sono di fretta e vi dico subito che non l'ho nemmeno riletto, lo farò domani, ma comunque godetevelo :)
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 16
*** Condizioni ***










 
Capitolo 15: Condizioni
 
Passarono tre giorni prima che mia madre aprisse gli occhi, ma per me era meglio tardi che mai, letteralmente.
 
“Ciao, mamma…” mormorai, entrando in camera di mia madre dieci giorni dopo il suo risveglio.
Il medico e l’infermiera le stavano togliendo aghi e flebo dal braccio e perciò lei sorrideva più del solito. Poteva tornare alla sua vita e questo la rendeva felice, ma avvicinava il momento in cui sarei andato di nuovo alla Chess e a questo punto temevo l’idea di farlo. Non tanto per le due settimane di tregua che mi erano state concesse, quanto più perché non potevo essere certo che, una volta lontano, non ritentasse il suo gesto sconsiderato e di sicuro mio padre non le avrebbe prestato più attenzione del solito per quello.
“Come ti senti?” le chiesi, sedendomi sul bordo del letto e lasciando che lei mettesse la sua mano sulla mia e la stringesse, sorridendo.
“Meglio.” ammise, “Sono sicura di essermi ripresa del tutto!”
“Lo spero.” risposi, annuendo.
Lei allungò la mano libera a cercare di riordinarmi i capelli.
“Che strano taglio…” commentò.
Mi irrigidii.
La Chess, dopo aver piegato Gregory, era diventata molto più severa anche nei tagli di capelli. Un bel giorno, Pattern era entrato nelle camere degli studenti, aveva controllato le lunghezze e aveva tagliato alla bell’e meglio quelli troppo lunghi. Il risultato era…approssimativo.
“Papà è passato?” chiesi, sforzandomi di cambiare argomento.
Mamma scosse la testa, continuando a sorridere e a passarmi la mano tra i capelli. Io, invece, imprecai mentalmente contro mio padre: aveva voluto dirmi chiaramente che, se non avessi detto io a mamma che stavo per ripartire, lui non si sarebbe certo piegato a riferirle nulla.
“Tuo padre era impegnato…” continuò mamma, ignorando totalmente la mia espressione arrabbiata, o forse cercando di placarla, “Dagli tempo, Mathieu. Come ho capito io, capirà lui.”
Tu hai capito quando hai visto lui picchiarmi. Non credo sia esattamente una bella prospettiva, mamma.
“Sì, certo…” mi costrinsi a dire, blandendola, mentre lei faceva scendere la mano sulla mia guancia. Era cambiata tanto, troppo, e iniziavo a temere che questo suo cambiamento fosse dovuto ad un’instabilità mentale. Speravo solo che questa notizia in arrivo non la facesse stare peggio. “Mamma, parto dopodomani.”
Il sorriso sul viso di mia madre si congelò, immobile, e la sua mano si bloccò sulla mia guancia. Per un lungo minuto lei rimase in silenzio, come a pensare ad un’altra interpretazione delle mie parole.
“D-dove vai?” chiese, piano, ma le leggevo negli occhi che aveva capito benissimo dove sarei andato.
“Mamma.” la rimproverai, ma senza durezza. Non ce l’avevo con lei, mi faceva anzi piacere che a quel punto si preoccupasse per me, ma non poteva pensare di risolvere qualcosa fingendo di non capire.
La mano di mia madre mi ricadde in grembo, il suo viso che impallidiva e gli occhi che mi fissavano con disperazione da dietro un primo lieve strato di lacrime.
“Non tornarci…” sussurrò, pianissimo, “Dirò a Charles di ritirarti, lo farà, vedrai, e poi potremmo…”
“Mamma, no.” la interruppi, stringendole la mano e allungando la mia ad accarezzarle una guancia in modo da cancellare una prima lacrima fuggitiva, “Non posso, mamma, cerca di capirmi. Ho degli amici, laggiù, che voglio aiutare. Mi farei schifo per il resto della vita, se dovessi approfittare della prima occasione per abbandonarli nei guai senza neanche un ‘Ciao, scusa ma non ce la faccio più’. Riesci a capire cosa voglio dire?”
Mia madre scosse la testa e la sua mano libera si posò stringendo su quella con cui io stavo accarezzando la sua.
“Ho perso tanto tempo, Mathieu…” sussurrò, piano, “Sono una stupida, lo so, e so anche che chiederti di perdonarmi da un momento all’altro è troppo, ma mi sono accorta che…che nonostante tutto quello che può essere successo e che posso aver detto io ti voglio bene… Sei il mio bambino e io…”
Non finì perché si mise a piangere.
Deglutii ma spostai la mano che avevo sulla sua guancia alla sua nuca e sfilai l’altra dalla presa delle sue per portarla a cingerle le spalle. La tirai contro di me e lasciai che singhiozzasse contro il mio petto, come una bambina.
In fondo, era quello che era quando sposò mio padre. Lui sapeva cosa voleva: una moglie soprammobile giovane e carina che distraesse le persone con cui trattava e che non accampasse troppe pretese. Aveva trovato una bellissima diciottenne cresciuta nel lusso, con una mentalità ancora infantile e sognatrice, che vedeva sempre tutto in rosa. Era la tipica giovinetta che avrebbe potuto dire alla gente del popolo affamato “Se non hanno pane, che mangino brioches” con tutta l’ingenuità del mondo e a lui erano bastate poche moine perché lei perdesse la testa. A quel punto, quale ragazza nella sua situazione avrebbe detto di no alla domanda di matrimonio del suo primo amore, un principe azzurro sì più grande di qualche anno ma con tanto di castello e cavallo bianco? Quando aveva iniziato ad accorgersi che non era più tutto splendido come all’inizio, ormai era tardi ed era incinta di me. Probabilmente fu per questo che iniziò ad odiarmi, o a credere di farlo: arrivavo nel momento in cui la sua vita non sembrava più così tanto ‘en rose’ e per lei venne naturale pensare che la colpa fosse mia. Immagino che cinque mesi fa le si siano spalancati gli occhi.
“Mamma, per favore…” sussurrai, continuando a stringerla forte, “Devo tornare laggiù. Ci sono dei ragazzi che contano su di me e non ho intenzione di permettere a quella donna di continuare a far loro del male. E poi…” esitai, incerto, ma alla fine piegai la testa per portare le labbra all’orecchio di mia madre e aggiunsi, a voce bassissima, “…laggiù c’è un ragazzo che mi interessa, mamma. Uno che mi fa battere il cuore per davvero.”
Ricordavo le parole dure di mia madre quando mio padre le aveva detto la verità sul mio orientamento sessuale, ma, appunto, le aveva spiegato tutto mio padre e lei tendeva a credere ciecamente ad ogni sua parola e a seguirlo in ogni suo gesto, come se assecondandolo potesse attirarsi un po’ di quelle attenzioni che le riservava una volta, quando ancora aveva bisogno che lei dicesse ‘Sì’ davanti all’altare. Non la incolpavo, ma volevo fare la prova del nove e vedere se ora avesse dato più retta alle mie parole o se avrebbe creduto ciecamente a quelle di mio padre ancora una volta.
Mia madre si irrigidì. Lentamente, come se fosse indecisa se muoversi o meno, si staccò un po’ da me per guardarmi negli occhi. Si asciugò il viso con la manica della maglia, prima di parlare, e il gesto mi fece sorridere perché la madre-Michelle che avevo una volta non l’avrebbe mai fatto. Cinque mesi avevano cambiato anche lei.
“Tuo padre…ha detto che gli uomini a cui piacciono gli uomini sono delle aberrazioni di natura,” mormorò, esitante, “che non sono neanche umani ma degli animali e che…che una volta la gente aveva più sale in zucca e allora li ammazzava. Diceva che la gente d’oggi è solo un’accozzaglia di rammolliti e che tu saresti diventato…una specie di mostro che portava a casa malintenzionati per…per farsi sbattere senza pudore.” Stringevo i pugni tanto forte che sentivo le unghie scavarmi delle voragini nei palmi, ma mi costrinsi a rimanere immobile a fissarla mentre continuava. “Io…io non avevo mai sentito parlare di persone così, prima.”
Avrei voluto schiaffeggiarmi da solo, ma mi limitai ad un sospiro triste. Che mio padre avesse fatto il possibile per avere la moglie ubriaca, o idiota che dir si voglia, oltre alla botte piena già lo sapevo, ma che fosse arrivato a metterle dei paraocchi del genere era oltre ogni mia aspettativa. Va bene che la famiglia di mia madre era rigida e conservatrice tanto da farla studiare da privata per tutta la vita, ma diamine!
“Va bene, mamma, non preoccuparti.” le dissi, sforzandomi di sorridere davanti alla sua espressione colpevole, ma lei scosse la testa.
“Tu non capisci, vero, Mathieu?” mormorò, distrutta, “Io non ho mai avuto l’istinto materno. Quando sei nato, ho rischiato di farti cadere tre volte, quando l’infermiera ti ha dato a me. Non ero nemmeno capace di tenerti in braccio! Più notti di quanto mi faccia piacere ammetterlo, ho spento la radiolina nella tua stanza così che non ti sentisse nessuno e non mi svegliassero perché avevi fame. E poi, mesi dopo, ho tentato di svezzarti troppo presto perché mi dava fastidio vederti attaccato al mio seno e tu sei stato così male che ti abbiamo dovuto portare in ospedale! Ho dimenticato tutti i ricevimenti con i tuoi maestri e professori, da sempre, e ho perso anche il portachiavi di pongo che mi avevi fatto per la festa della mamma, a scuola quando avevi sei anni. Non capisci?! Che razza di madre ero? Alla fine, quando tuo padre mi ha detto quelle cose e che voleva mandarti in una scuola privata, ho pensato: ‘In fondo, con lui ho già fatto troppi errori. Di figli potrei averne degli altri, riprovare, e forse andrà meglio anche se ormai lui è venuto così. Ma un marito? È tutta un’altra cosa, trovarsi un nuovo marito. E il divorzio e tutte quelle cose, non posso affrontarle!’ Mi sono convita che se avessi spalleggiato tuo padre, lui ti avrebbe mandato via e sarebbe tornato da me per avere un altro bambino… E invece, dopo un mese, mi sono accorta che tornavo a casa, la sera, ed era vuota. C’era Alfred ma non faceva più quelle sua battute che io capivo solo dopo dieci minuti, ma che tu afferravi al volo e che ti facevano sorridere in quel modo strano, timido come se ti vergognassi a farti vedere così da me e tuo padre. E mi sono guardata intorno e…non c’era la tua giacca sull’appendiabiti, né un qualche quaderno lasciato in sala o in cucina per un ultimo ripasso dopo cena, non…non sentivo i tuoi passi per la casa e non ti incrociavo per sbaglio nei corridoi. Stavo nella mia camera e mi ricordavo delle volte in cui ti sentivo venire davanti alla porta, specie quando eri più piccolo, come se volessi entrare per parlarmi, ma non osassi farlo. Ricordavo che a volte bussavi, ma io facevo sempre finta di non sentirti perché…non perché fosse colpa tua se la mia vita andava a rotoli, ma…perché eri l’unico che venisse ancora a cercarmi. A tuo padre ormai mi ero concessa e lui aveva smesso di guardarmi nell’istante in cui da me non aveva avuto più nulla da ottenere; se ti avessi permesso di avvicinarmi, pensavo…che anche tu poi ti saresti stancato e io sarei rimasta sola. Così, invece, tu continuavi a tornare a cercarmi…” Mia madre scosse la testa, gli occhi fissi sul lenzuolo che le copriva le gambe, ma continuò, imperterrita. “Poi, un giorno, mi sono ritrovata nella tua camera, neanche io sapevo come. Mi guardavo intorno e c’eri tu ovunque e al contempo non c’eri più, te n’eri andato via perché ti avevamo cacciato noi. Avevi lasciato due foto sulla scrivania, una di tuo padre e una mia, e mi accorsi in quel momento che il sorriso che avevo regalato alla macchina fotografica, non lo avevo mai neanche una volta rivolto a te. E io e tuo padre non avevamo più neanche una foto insieme, ma solo quelle separati. Così, quando un paio di settimane dopo è arrivata la notizia che potevamo venire in Accademia per la consegna delle pagelle, ho convinto tuo padre ad andare. Pensavo di…aver bisogno di vederti per capire cosa ti fossi portato via da casa. All’Academy, mi guardavo attorno cercando di vedere te tra quei muri, ma non…non sembrava giusto per te, c’era qualcosa di sbagliato eppure che io non capivo, riesci a seguirmi? Tuo padre a quel punto ha iniziato ad insultarmi e io non ci ho visto più. Eri di nuovo passato in secondo piano, avevo fatto di tutto per Charles e lui continuava a tradirmi accusandomi di essere io la puttana. Stavo dimenticando totalmente perché fossi venuta lì da te, quando quel ragazzo ha iniziato a difenderti. Era più bravo di me, Mathieu, a proteggerti, a farti stare bene. Io avevo sbagliato di nuovo, per l’ennesima volta, e perfino quello sconosciuto me lo faceva pesare. Avrei voluto chiederti scusa ma tuo padre iniziò a urlare contro te e lui. Quelle parole mi sconvolgevano e poi, all’improvviso, tu ti sei messo a urlare. Era la prima volta che ti sentivo farlo. E tuo padre ti ha colpito. Ero…sconvolta. Ti avevo tradito di nuovo, per l’ennesima volta, e tu, nonostante questo, mi avevi difesa con le tue parole. In fondo, dicendo quelle cose a tuo padre hai protetto anche me. Non lo meritavo, Mathieu, lo so. Ero così sconvolta che… Quel ragazzo aveva detto che non ti meritavamo e aveva ragione, Mathieu, l’ho capito in quel momento. Tu eri e sei…troppo…troppo buono, per noi.”
“Mamma, smettila…” mi ritrovai a supplicare, piano, scuotendo la testa, ma lei continuò.
“Sono corsa dietro a tuo padre perché mi sono sentita identica a lui, altrettanto crudele, e perché avevo paura di quegli occhi con cui mi guardavi: tu…ti fidavi ancora, mi pregavi con lo sguardo di non farti male un’altra volta, ma non sapevo come fare! Ho avuto paura e sono scappata via… In macchina, dopo l’atterraggio in Francia, tuo padre ha iniziato a sibilare che sperava ti facessero il più male possibile. Io non capivo cosa volesse dire e così lui mi ha spiegato…delle punizioni, della liberatoria che aveva firmato perché potessero picchiarti. Quella sera, ci siamo urlati contro delle cose… Anzi, io gli ho detto cose che non avrei mai immaginato di potergli rinfacciare… Ma non ha cambiato niente. Per le settimane successive non ho fatto altro che supplicarlo, provare a convincerlo, urlargli contro, qualsiasi cosa pur di convincerlo a portarti via da lì. E lui continuava a rispondermi che in quel posto non c’era nessuno, che suo figlio era morto. Ho passato giorni nella tua camera, mi sono barricata là dentro senza mangiare, poi ho deciso di fare l’ultimo tentativo. Ho minacciato tuo padre di chiedere il divorzio, se non ti avesse riportato a casa. Mi ha detto: ‘Fa’ pure, tanto ormai sei troppo vecchia e facile per servire a qualcosa. Sai quanto ci metto a trovarmi una più giovane e meno usata?’.”
Volevo…disperatamente…la testa di mio padre. Mia madre era ancora una donna meravigliosa e aveva solo trentasette anni! E non sopportavo l’idea che l’avesse trattata come spazzatura dopo averla esposta come un trofeo per tutto quel tempo.
“Stronzo…” sibilai, incapace di trattenermi, e a mia madre scappò un risolino strano.
“È quello che ho detto anch’io buttando giù il Whiskey.” ammise, scuotendo la testa. “Mathieu, mi dispiace, io ti capisco se non puoi perdonarmi, ma voglio che tu…”
“Mamma, basta, hai capito? Va bene così…” mormorai, cercando di sorriderle e allungando una mano a spostare una ciocca dietro l’orecchio, “E non dire sciocchezze, ti ho già perdonato qualsiasi cosa potessi avermi fatto. È lui che non posso ancora perdonare.”
Mamma annuì, poi si asciugò il viso una seconda volta, sempre con la manica, e tirò su col naso. Era così diversa da prima, però…iniziavo a crederle. E a sperare.
“Dimmi una cosa, Mathieu…” mormorò, seria, “Tu sei…sicuro che questo ragazzo…sia giusto per te, vero? Non intendo maschio o femmina, ma… Non rischi di fare l’errore che ho fatto io, vero? Di vedere cose che non ci sono per il troppo desiderio che sia tutto perfetto?”
Sbattei le palpebre un paio di volte ma poi scoppiai a ridere.
“Gregory può essere tutto, mamma, ma non una versione più giovane e bionda di papà!” esclamai, scuotendo la testa, “Credimi, lui è…è Gregory. Non c’è un modo diverso di spiegarlo. È lui e basta.”
Mia madre, sorprendentemente, sorrise. Si spostò un po’ nel grosso letto, facendomi spazio, e batté accanto a sé per convincermi a sdraiarmi al suo fianco.
“Allora prova a descrivermi com’è un Gregory.” sorrise, accoccolandosi su un fianco mentre io, speculare a lei, ridevo e iniziavo a raccontarle di lui.
 
Mi chiusi la porta alle spalle con forse troppa forza, ma non mi importava.
“Dimmi cosa vuoi e chiudiamola qui.” ordinai, avvicinandomi a passo di marcia alla scrivania dove mio padre stava elaborando dei dati a computer.
Non sapevo perché mi avesse voluto vedere, ma non mi interessava neanche. Avevo solo voglia di tirargli un pugno sul naso e romperglielo, volevo fargli sentire il male che aveva provato mamma e quello che avevo provato io in quell’Accademia maledetta.
“Credevo di averti insegnato un minimo d’educazione.” commentò lui, sprezzante.
“Non certo con il tuo buon esempio.” replicai, piccato, poi incrociai le braccia al petto, “Allora?”
Mio padre si degnò di smettere di digitare per appoggiarsi contro lo schienale della sedia e guardarmi dal basso con la solita espressione disgustata.
“Domattina presto parto, un impegno a Kyoto.”
Aggrottai la fronte. Non voleva davvero dire quello che stavo capendo io, vero?
“Mamma si è appena ripresa.” sibilai, “E io riparto dopodomani, nel caso l’avessi dimenticato.”
Mio padre mi lanciò un’occhiataccia.
“È un incontro importante, Mathieu, ne va della nostra situazione economica.”
Sollevai un sopracciglio, scettico.
“Sai, mi viene da chiedermi che razza di uomo d’affari tu sia, visto che la nostra situazione economica è sempre talmente in bilico da non permetterti neanche di pensare a mettere la tua famiglia al di sopra di questi incontri.” sibilai, caustico.
Mio padre non raccolse la provocazione, stranamente, pur guardandomi malissimo.
“Ok, cosa vuoi?” chiesi, sospettoso di fronte a tanta permissività.
Mio padre sollevò un sopracciglio, ma tenne per sé qualsiasi cosa stesse pensando e mi rispose.
“Non tornare.” Non capendo sollevai un sopracciglio e allora lui precisò. “Non tornare all’Accademia. Resti qui, ti prendi cura di tua madre mentre sono via e poi…” fece una smorfia, segno che la concessione che stava per farmi gli dava parecchio fastidio, “…ti permetterò di frequentare l’Università che preferisci.”
Sgranai gli occhi, sgomento.
Mio padre aveva progettato la mia vita sin da prima che nascessi e aveva fatto il possibile per soffocare qualsiasi vocazione diversa io potessi esprimere. Permettermi di scegliere l’Università equivaleva a darmi un biglietto di sola andata verso la mia vita, la chiave della catena che mi aveva messo al collo in tutti quegli anni. Sento puzza di bruciato…
“Senza ingerenze da parte tua?!” chiesi, “Non ci credo.” 
Mio padre sembrò offendersi davanti alla mia dichiarazione, ma io non gli credetti neanche un attimo. Decisi di sondare il terreno. “Perché dovresti preoccuparti di tenermi qui?” chiesi, incerto, “E non dirmi che sei preoccupato per mamma, perché altrimenti prendo la porta e me ne vado.”
Mio padre non rispose, ma mise istintivamente una mano a coprire il giornale che teneva arrotolato sulla scrivania. Una volta non l’avrei mai notato, impietrito dalla sua espressione sempre più furiosa, ma con l’esperienza fatta alla Chess Academy il dettaglio mi saltò all’occhio. Mi ci volle un attimo, ma alla fine intuii.
“Il suo tentato suicidio è arrivato alla stampa. Se la lasci da sola, l’opinione pubblica ti massacrerà.” compresi, scuotendo la testa con commiserazione, “Ma certo, come ho fatto a non capirlo prima?” Lo guardai, disgustato. “Perché dovrei accettare? Perché mi dai la tua parola? Non l’hai mai mantenuta in tutta la tua vita, quindi vai al diavolo!”
Mio padre saltò in piedi al mio insulto gratuito, ma si trattenne all’ultimo dall’urlarmi contro. Era paonazzo, ma per una volta avevo io il coltello dalla parte del manico.
“Dimentica questa tua schifosa…malattia!…” ringhiò, “e resta con tua madre. In cambio…” con mia enorme sorpresa, mio padre prese il blocchetto degli assegni dalla scrivania e ci scarabocchiò sopra una cifra. Una grossa cifra. “…questi basteranno per cinque anni d’Università e di appartamento, non importa dove.”
Sul momento, rimasi sconvolto. Ma davvero pensava di potermi comprare così?!
Ero sul punto di urlargli contro di tutto, quando gli squillò il telefono.
“Aspetta.” mi ordinò, alzandosi e allontanandosi dalla scrivania.
Pensai seriamente di andarmene e piantarlo lì con quel suo assegno del cavolo, quando lo sguardo mi cadde sul giornale che papà aveva cercato di nascondermi e che portava la notizia del tentato suicidio di mia madre.
Mi ritrovai a pensare seriamente a tante cose e a rimpiangere di non avere Ryan a fare statistiche e ragionamenti al posto mio, ma quando mio padre tornò io avevo preso la mia decisione.
Lui aprì la bocca per parlare, ma io sollevai una mano per interromperlo.
“Ho le mie condizioni.” dichiarai.




Buondì!
Questa storia è molto strana: per una settimana non ho idea di cosa scrivere, per quanto ci provi, ma poi all'improvviso, o Martedì o direttamente Mercoledì, puf!, ecco le idee -.-
Comunque, che ve ne pare? La mamma di Mathieu, Michelle, si sta riprendendo un pochino, su... Spero che conoscere la sua storia ve la faccia accettare un po' di più :) Charles, il padre, invece non ha proprio niente che lo giustifichi -.-
Adesso, però... Quali saranno le condizioni di Mathieu?
Non sapendo come sarà il prossimo capitolo, non posso anticiparvi niente XD È stranissimo, è come se leggessi la storia anche io per la prima volta quando pubblico, mi dà una strana sensazione... :)
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 17
*** Dimmi ***











Capitolo 16: Dimmi
 
Ero certo di non aver mai visto mio padre più furioso, eppure sapevamo entrambi chi aveva il coltello dalla parte del manico perciò lui si limitò ad appoggiarsi allo schienale della sedia e a fissarmi con odio.
“Sentiamo.” sibilò.
“Voglio l’assegno e la tua parola, scritta, che non interferirai con la mia scelta.” iniziai ad elencare, serio.
Mio padre ebbe uno spasmo alla mascella, ma annuì perciò continuai, impassibile.
“E voglio che rimandi il viaggio a Tokyo di un mese.”
“Che cazzo dici?!” Mio padre saltò in piedi, furibondo, e sbatté entrambe le mani sulla scrivania. “Questi sono affari, Mathieu, non i tuoi capricci!”
“O rimandi di un mese o io me ne vado, ma prima di sparire parlo con un qualsiasi giornalista, racconto ciò che mi fanno in Accademia per conto tuo e poi gli dico anche che i medicinali che mamma ha preso sono in realtà droga che tu le hai dato spacciandola per aspirine, vuoi vedere?” minacciai, “Non mi farebbe né caldo né freddo ormai, Charles.”
Fa strano il nome di battesimo del proprio padre sulle labbra, ma in quel momento non avevo più il coraggio di chiamarlo papà e così sputai quell’ultima parola con tutto il veleno che avevo, sentendomi quasi un cobra.
Mio padre era sul punto di gridarmi ancora contro, ma si trattenne. Sembrava un palloncino sul punto di esplodere, ma all’improvviso diventò di nuovo gelido, come se avesse capito qualcosa di importante.
“A che cosa ti serve un mese?” mi chiese, rigido.
“A mettere le cose a posto in Accademia.” dichiarai, serio e senza vergogna delle mie parole. Lo vidi aprire la bocca per replicare, ma io fui più lesto e lo interruppi. “Tu rimanda il viaggio e lasciami tornare laggiù per un mese, non ti chiedo neanche un giorno di più, e ti giuro che, quando sarò tornato, non me ne sentirai parlare mai più. Non dirò nulla, né di ciò che è successo prima né di ciò che mi hanno fatto là dentro. Sarà come se non fosse successo niente e non ne parleremo mai più.”
Mio padre mi fissò, ma a quel punto era molto più calmo. Gli avevo dato ciò che voleva, gli avevo offerto protezione dall’unica cosa che temesse veramente: se fossi rimasto lì e avessi raccontato tutto alla stampa, lui sarebbe stato rovinato. Gli stavo offrendo il modo migliore di insabbiare tutto e in quel momento preciso mi misi il cartellino del prezzo sul cuore.
La bile e il disgusto per me stesso, corrosivi, mi risalirono in gola, cercando di soffocarmi, ma mi costrinsi a non mostrarlo.
Mio padre mi fissava e io sapevo che aveva già preso la sua decisione, ma lui si concesse qualche minuto per tenermi sulle spine, come se sperasse di farmi innervosire, nonostante io stessi rimanendo imperscrutabile.
“Un mese.” assentì alla fine, “Non un giorno di più.”
Annuii, poi mi voltai e, senza dir nulla né salutare, uscii. Appena fuori, iniziai a correre a perdifiato, tanto che quando finalmente entrai nella camera, mia madre mi fissò con ansia, sobbalzando.
“Mathieu, cos’è successo?!” chiese, preoccupata.
Ansimante, la raggiunsi e mi sedetti sul bordo del suo letto. Le presi piano in viso tra le mani e la fissai dritta negli occhi.
“Mamma, ho bisogno del tuo aiuto…” le dissi, serio nonostante la voce spezzata dal fiatone.
Sul momento, lei sgranò gli occhi, ma poi annuì, determinata, prima ancora di sapere che cosa le avrei chiesto.
 
“Immagino non dovrei dirlo, ma sono quasi felice di lasciare quella casa.”
Sorrisi voltandomi verso Alfred che, a sua volta, fissava la strada con un’espressione gioviale.
“Quasi?” chiesi, retorico. “Io starei facendo i salti di gioia.”
“Non mi menta, Mathieu.” mi riprese Alfred, bonario, “Sua madre le mancherebbe e non saprebbe essere felice se la lasciasse con suo padre.”
Mi morsi la lingua, colto in flagrante, e sospirai.
Alfred aveva ragione. Prima di andare alla Chess Academy non avrei mai pensato di poter provare una cosa del genere, ma a quel punto sapevo che avrei sentito la mancanza di mia madre e che una parte di me avrebbe tanto voluto portarla via da quel posto.
“Mi dispiace di aver chiesto a mamma di licenziarti.” ammisi.
Non che volessi davvero liberarmi di Alfred, al contrario avevo bisogno di lui in Inghilterra, alla Chess Academy. La liquidazione di Alfred era il motivo per cui questi mi chiamava finalmente per nome, pur non resistendo al darmi del lei, e perché indossava una camicia bianca dalle maniche arrotolate fino ai gomiti e dei pantaloni neri anziché il suo solito abbigliamento da pinguino.
Scrollò le spalle.
“Mi dica solo quello che devo fare, Mathieu: lei non si libererà così facilmente di me, almeno non fino a quando avrà a che fare con certi pessimi soggetti…” dichiarò, con una smorfia.
“Ti riferisci agli insegnanti dell’Accademia o a mio padre?” chiesi con un sorriso.
“Ammetto che è una bella lotta.” ribatté Alfred, ridendo.
Mi faceva piacere averlo vicino, su di lui potevo contare sempre, ma lo stesso le risa mi morirono in gola quando vidi di nuovo l’enorme scritta ‘Chess Academy’ capeggiare sull’entrata della scuola. L’idea di tornare lì dentro, di ricominciare a dover lottare con le unghie e con i denti anche per la minima cosa, di stare sempre sul filo del rasoio a pesare ogni singola parola prima di pronunciarla, mi fece sentire claustrofobico, specialmente dopo gli ultimi giorni passati a recuperare il tempo perduto con mia madre.
“Ferma qui.” gli dissi, facendolo rimanere fuori dalla portata delle telecamere di sicurezza. Gliele indicai. “Non so se ce ne siano nella scuola, ma ce ne sono di sicuro nel giardino.”
Non aggiunsi altro, ma Alfred annuì, capendo al volo.
“È sicuro, Mathieu? Potrebbe non essere necessario che lei torni lì dentro, magari si…”
“Dovrei tornare anche se non avessi un piano, Alfred.” lo interruppi, scuotendo la testa, “Ci sono alcune cose che devo mettere a posto. Ho rimandato abbastanza.”
 
Mi pareva di sentire il ronzio delle telecamere che mi seguivano anche mentre attraversavo a piedi il vialetto per raggiungere il portone, anche se sapevo che era impossibile. Alla porta, non presi un respiro profondo solo perché temevo di essere osservato, ma respirai rapidamente tra i denti e aprii la porta.
Pattern dietro il bancone dell’accettazione fu il primo che vidi e posso dire che ne avrei fatto volentieri a meno. Fischiettava, segno che aveva picchiato qualcuno, e il motivetto di Lupo Alberto mi fece capire che la vittima designata era stato Alex, il ragazzo di quinta che, al suo arrivo all’Accademia, aveva una delle ciocche bionde tinta di blu. Inutile dire che King e Pattern lo tennero fermo quella notte stessa per permettere alla Williams di tagliar via ‘lo schifoso orrore’. Era anche il biondino che stava nella camera di fronte alla nostra e aveva preso il posto di Greg nel suo letto la notte della prima punizione di King di cui avevo visto gli effetti.
Era l’una, ora di pranzo, perciò mi voltai lentamente, sotto lo sguardo sorpreso del prof di musica, verso destra. Intuii, più che vedere veramente, le posizioni di Ryan, Greg, Walter, Larry, Alex e Scott. Sul suo tavolo rialzato, la Williams era in piedi e fissava la porta con un bel sorriso ampio.
Sapeva che sarei arrivato, non era sorpresa e la mia entrata non aveva sortito l’effetto sperato. Al diavolo. Mio padre doveva averle telefonato.
Cercando di far finta di niente, la salutai con un sorriso sghembo e poi, senza dir nulla, proseguii la mia strada su per le scale. Dovevo raggiungere la mia camera, il mio rifugio, e riabituarmi alle fiamme dell’Inferno; solo dopo avrei potuto iniziare a danzare con i demoni.
 
Osservai l’orologio analogico far scattare il trenta dei minuti in trentuno e poi, puntualissimo, Ryan piombò in stanza spalancando la porta.
Il mio amico aveva gli occhi fuori dalle orbite, un’espressione sconvolta sul viso ancora leggermente segnato dai lividi della rissa con Greg avvenuta solo dodici giorni prima. Si bloccò sulla porta, fissandomi come fossi un fantasma, e lo stesso fecero tutti gli altri dietro di lui. E con ‘tutti’ intendo proprio tutti gli alunni della Chess, per quello che potevo vedere.
“Ehi!” esclamai, fingendomi offeso mentre mi alzavo in piedi, “Non avrete davvero pensato che vi mollassi così?!”
Nessuno si prese la briga di rispondere, ma Ryan, Scott, Walter, Larry e un Alex dalle mani gonfie mi si gettarono al collo in un abbraccio stritolatore. Tentai di individuare Gregory oltre le loro teste, ma sembrava che il mio ‘tutti’ escludesse lui.
“Che diavolo è successo?!” esclamò Ryan, staccandosi un po’ e facendo tacere con un gesto della mano il brusio dei nostri compagni, per evitare che qualcuno ci sentisse.
Gli sorrisi, mesto, ma ammisi la verità.
“Mia madre ha cercato di suicidarsi, mi hanno chiamato quando l’hanno trovata.” Potevo quasi sentire i miei compagni immobilizzarsi, perciò li tranquillizzai, “Adesso però sta bene, si è ripresa.”
Rimanemmo un po’ così, tutti insieme, poi gli altri se ne andarono e rimanemmo solo io e Ryan, seduti a gambe incrociate sui nostri letti.
“Quindi, fammi capire: vi siete riappacificati così?, dal nulla?” chiese, per l’ennesima volta, sorpreso.
Annuii, ridendo, ma poi sospirai.
“Ryan, non è di mia madre che dobbiamo parlare, adesso.” dissi, serio.
Ry aggrottò la fronte.
“Ok…” commentò, palesemente confuso, “E…di che cosa dovremmo parlare?”
Lo guardai negli occhi, serio. Ry era un caposaldo della resistenza, ma dal resistere all’attaccare c’è un bella differenza.
“Tra un mese lascio la scuola.” buttai fuori di colpo. Tanto era inutile indorargli la pillola, non ci sarebbe cascato. “Mio padre è disposto a portarmi fuori da qui se io resto a casa a badare a mia madre e faccio in modo che lei non riprovi mai più a suicidarsi.” Ry si irrigidì. Avrei potuto dire ogni singolo pensiero che gli passava negli occhi, dalla sorpresa alla tristezza perché mi avrebbe dovuto dire addio alla felicità per me alla confusione per il patto con mio padre. “Mi darà i soldi per l’Università e non ci metterà becco. Però io devo…dimenticare che mi piacciono i maschi.”
Ry spalancò la bocca, sgomento, e fui sul punto di chiamare un dottore o qualcosa, ma lui saltò in piedi.
“Che bastardo!”
Non sai quanto.
“Non importa, Ry, per…”
“Non è vero che non importa, Mathieu!” ringhiò lui, interrompendomi, “Non è giusto che faccia così, non ne ha il diritto! Lui…”
“Non importa, Ry, perché non lo farò!” ribadii, interrompendolo.
Ryan esitò.
Sapevo che lo stavo confondendo, ne ero pienamente consapevole, ma a volte far sapere meno è l’unico modo che si abbia per proteggere le persone a cui si vuole bene.
“Io… Non riesco a capire, Mathieu. Che cosa vuoi fare?”
Sorrisi, sentendomi malefico e maligno dalla punta dei piedi a quella dei capelli e assolutamente orgoglioso di tale percezione.
“Fondamentalmente? Evadere.”
 
Scivolai piano nel corridoio del quinto piano. Ryan era andato in biblioteca e stava, lentamente, organizzando ciò che gli avevo chiesto avvertendo tutti gli alunni della scuola. lui si sarebbe solo dovuto occupare di informare i capiclasse poi loro avrebbero fatto viaggiare la voce nelle loro ‘aree di competenza’. Devo ammettere che ogni volta che mi accorgevo di quanto organizzata fosse la nostra resistenza, mi veniva un po’ paura di Ryan, che era di fatto il direttore di tutto.
Mi guardai attorno un paio di volte, poi spalancai l’ultima porta ed entrai richiudendomela alle spalle.
Mi voltai appena in tempo per vedere Gregory uscire, un asciugamano avvolto in vita, dal bagno. Perché quella situazione mi dava molto un’idea di déjà-vu, dalla prospettiva contraria?!
“Ma che diamine…?” Greg sembrava sgomento, ma ben gli stava: almeno avrebbe imparato a non entrare più nella mia stanza nel momento meno opportuno!
“Complimenti per le doti casalinghe.” commentai, accennando con la testa alla sua stanza preda del disordine, “Questo…disastro…non va contro le regole della Chess Academy?”
“Ci andrebbe se avessi il tempo materiale di riordinare.” commentò Greg, stringendo i pugni sul secondo asciugamano che teneva dietro il collo.
“Non ne hai?” chiesi, infilando le mani in tasca e rimanendo ostinatamente fermo sulla porta.
“Mi hanno messo a lavorare in cucina. Punizione extra per aver iniziato una rissa con Ryan.” rispose lui, spostandosi fino a raggiungere il materasso e sedendosi su esso.
“Quella del giorno in cui me ne sono andato?”
“Quella.”
“Non hai iniziato tu.”
Mi sentivo un completo idiota. Ovvio che sapesse di non avere iniziato lui, era stato Ryan ad aggredirlo, ma comunque mi sorprendeva l’idea che Greg si fosse preso la colpa e che Ry glielo avesse fatto fare. Le cose tra i due non mi sembravano essere tornate ad essere poi così rosee.
Gregory scrollò le spalle.
“King voleva picchiarmi da settimane.” commentò, calmo.
“Non hai né lividi né graffi, sulle mani.” Avevo catalogato il dettaglio in automatico, ormai, e sapevo bene che le punizioni di King lasciavano i loro segni per molto più che una decina di giorni.
Greg mi fissò negli occhi, come a valutarmi, ma poi sospirò, si alzò in piedi e si voltò, permettendomi di vedere i suoi polpacci striati da segni viola e lunghi graffi ormai rimarginati. Avrei scommesso qualsiasi cosa che glieli avevano fatti con la bacchetta lunga con cui King indicava gli stati sulle cartine appese ai muri. Qualche livido spariva ben sotto le caviglie e immaginai che dolore doveva essere stato ricevere quei colpi sulle piante dei piedi.
Scossi la testa.
“Quello è malato di mente.”
Gregory si voltò e mi lanciò un’occhiata a sopracciglio alzato.
“Davvero, Mathieu: te ne sei accorto solo adesso?” mi chiese, sarcastico, e a me scappò un sorriso.
“Forse… O forse no… Vuoi saperlo?”
“Credimi, piccoletto,” commentò lui, avvicinandosi fino ad arrivare ad un soffio da me. Io mi appoggiai con la schiena alla porta e continuai a fissarlo, ma non mi avvicinai. “l’ultima cosa che mi viene in mente di fare, ora come ora, è parlare di King.”
Sorrisi, un po’ più dolce, e mi concessi di allungare una mano ad afferrare uno dei capi dell’asciugamano che gli pendeva sulle spalle.
“Fa tanto male?” chiesi, piano.
Greg esitò.
“Sul momento.” ammise, “Ma almeno non continua a far male a lungo: le mani si muovono di più e perciò va avanti più a lungo, mentre con le gambe basta sdraiarsi un po’.” Fece una smorfia, “Le piante dei piedi invece fanno malissimo. Non riuscivo a camminare e Pattern mi ha praticamente dovuto portare in stanza a braccia.”
“C’era anche lui?”
“Figurati se si perdeva lo spettacolo…” scosse la testa Greg, sorridendo mesto.
Sospirai.
“Sai se hanno fatto qualcosa a Ryan?” chiesi, “Lui non ha voluto dirmi niente e la cosa mi preoccupa.”
“Isolamento.” Mi sentii gelare il sangue nelle vene. Ryan era forte, la nostra testa, ma con lui in isolamento si sarebbe potuto bloccare tutto! Greg dovette capire la mia ansia perché si affrettò a spiegare. “Non è successo niente! L’hanno tenuto là una settimana, qualche bacchettata, ma intanto Walter e Alex hanno più o meno gestito tutto, con l’aiuto di Larry e Scott.”
“Ma non il tuo.” mi lasciai scappare.
Gregory deglutì.
Alzò una mano a stringere la mia, ancora serrata sul suo asciugamano.
“So cosa stai pensando, Mathieu, ma avevo bisogno di capire.” sussurrò, “Lucille è…diversa da quello che mi aspettavo. È sempre stata una ragazza forte e un po’ ribelle, ma non immaginavo che in una situazione del genere avrebbe reagito…addirittura così! Insomma, rispetto a me è sempre stata un angelo!”
“Non vorrei rovinarti l’infanzia, Greg, ” commentai sollevando un sopracciglio scettico, “ma chiunque sembrerebbe un angelo paragonato a te.”
“Senti, senti che lingua lunga!” rise Greg, appoggiandosi di più a me e premendo il petto contro il mio, schiacciandomi contro la porta. “Che ne dici se la teniamo occupata con qualcosa di diverso da questi argomenti tetri?”
“Non tentarmi.” sorrisi scuotendo la testa, poi però sospirai. Misi entrambe le mani sulle spalle di Gregory, fissandolo negli occhi. “Ho bisogno di sapere che cosa hai deciso, Greg. Se sei con noi o…mi rifiuto di considerarti ‘contro di noi’, ma comunque devo sapere se continuerai a fare cosa ti dicono loro.”
Greg esitò.
“Mathieu, Lucille…lei è l’unica cosa che vada sopra questa dannata rivolta e, se le fanno del male, io...io non so come reagirei.” mormorò, “So che è forte, davvero, ma anche solo quest’ultima punizione…non posso fare altro che chiedermi se abbiano fatto del male anche a lei. E mi sento in colpa da morire.”
Annuii deglutendo e chinando il capo, ma poi presi un respiro profondo e mi decisi.
“Greg, ricordi quando mi hai detto che tra noi non poteva esserci niente?” chiesi, serio, e, quando lui annuì, continuai senza esitazione, “In fondo, me l’ero aspettato. Lo sapevo, in un qualche strano modo: tra me e te era finita prima ancora di cominciare e io non potevo farci proprio niente. O almeno così pensavo. Però tu sei continuato a venire da me, ti ricordi? E quando sono tornato a casa, mi sono accorto di una cosa: io non piango più. Lo sai cosa significhi per me?! Sono arrivato qui in lacrime, ho visto tante di quelle…schifezze!...accadere sotto i miei occhi e colpire le persone a cui più volevo bene, ho sofferto un male e un’umiliazione che non pensavo mi avrebbero mai toccato! Sono tornato a casa, ho trovato mia madre in fin di vita in un letto e non sono riuscito a piangere perché c’era una fottutissima vocina nella mia testa che diceva: se piangi, lo useranno contro di te, ti faranno del male e forse anche qualcun altro pagherà al posto tuo! Lei si è ripresa e sai qual è stata la prima cosa a cui ho pensato?! Devo tornare in Accademia, i miei amici hanno bisogno di me, non posso stare qui fuori e lasciarli nelle mani di quei pazzi! Capisci?! Forse Lucille non sarà me, ma nei suoi occhi c’era la stessa luce che c’era nei tuoi quando ancora combattevi per questa maledettissima libertà! Va bene, non saremo dei partigiani, o dei sans-culottes, o degli anticesariani, non siamo nemmeno dei novelli Catone che si suicideranno per la libertas! Ma siamo dei ragazzi che hanno il sacrosanto diritto di difendersi da chi fa loro del male! Lo so che pensi di proteggere Lucille, Greg, ma non è così! Stai soltanto aiutando coloro che le fanno del male ogni santo giorno! Pensa a quello che fanno a te: vuoi davvero aiutarli?, dopo quello che ti hanno fatto e che potrebbero fare anche a lei? È questo che vuoi?! Non ci credo, Greg, non sei così! Non tu!”
Ansimavo, ma me ne accorsi solo quando smisi di parlare e di gesticolare. Il mio discorso ispirato mi lasciò vuoto e stanco, provato, ma non mi sarei spostato dalla mia prigione, tra il corpo praticamente nudo di Greg e la porta chiusa, neanche se fossi stato esausto il doppio.
Greg si chinò in avanti. Non disse niente né mi baciò, ma posò la fronte sulla mia e chiuse gli occhi. Rialzai un po’ la mia testa e lasciai che si appoggiasse di più, strofinando il naso contro il mio.
“Ho paura…” mormorò piano, “Se faccio la scelta sbagliata, sarà comunque qualcun altro che ne pagherà le spese. Mia sorella o Ryan…o tu.”
Sorrisi, chiudendo gli occhi come lui.
“Di questo non preoccuparti: a mettermi nei guai sto già pensando da solo.”
Gregory rise un po’, tremando contro di me e facendomi sobbalzare a mia volta.
“Greg?”
“Sì?”
“Se sei con noi, ho bisogno che tu faccia una cosa.”
Greg schiuse le labbra e, piano, le posò sulle mie, costringendomi ad aprire piano la bocca.
“Dimmi.” mi sussurrò direttamente sulla lingua.




Lo so, non sarà il massimo come momentino Greg/Mathieu però date tempo a questo povero piccolo! Sta organizzando un'evasione, ha tanto da fare! v.v
Ok, al di là delle sciocchezze, vi consiglio di fare come faccio: carta, penna e appunt su tutti i mezzi indizi che Mat sta lasciando. Innanzitutto, gli serve Alfred. Poi gli serve Ryan. E gli serve anche Gregory. E ha un assegno.
C'è ancora qualche indizio su ciò che vuole, nel capitolo, perciò fate attenzione, ok? ;)
Vi lascio perché per scrivere questo capitolo la sottoscritta non ha ancora fatto i compiti (professori alla lettura, non uccidetemi!) perciò devo volare! XD
A presto e grazie a tutti per il sostegno,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 18
*** È così che deve andare ***











Capitolo 17: È così che deve andare
 
C’erano cinque classi, nella Chess Academy. Ognuna di esse conteneva quindici ragazzi, tranne la nostra che ne vedeva venti. Quindici per quattro più venti faceva…un numero esorbitante di ragazzi, ottanta!, pressati nel corridoio del quarto piano, uno dei due con gli alloggi degli studenti. La scuola era stata organizzata in modo che le camere dei ragazzi fossero ai piani più alti: impossibile scappare dalle finestre o passare ad uno degli altri livelli senza essere sentiti. A meno che non si avesse qualche asso nella manica ovviamente.
Controllai ancora una volta che i ragazzi nel corridoio si sedessero per terra silenziosamente e poi alzai uno sguardo su Ryan, in piedi accanto alla porta delle scale. Da lontano, lo vidi fare un ultimo controllo sulla lista di nomi che teneva in mano e annuire prima di guardarmi e mostrarmi con le mani ‘settantanove’. Non era difficile immaginare chi fosse l’ottantesimo mancante perciò annuii e gli feci cenno di raggiungermi.
Mentre lui oltrepassava piano tutti i ragazzi per venire da me, nel centro del corridoio, io mi passai una mano sulla fronte e chiusi gli occhi, cercando di calmarmi. Presi un respiro profondo. Posso farcela.
Mi chiesi se Alfred fosse riuscito nel suo scopo e cosa avesse deciso di fare Greg, se Ryan fosse ora un po’ più disponibile a perdonare l’errore e se Walter non si sarebbe offeso a sapere che avevo introdotto altri medicinali in scuola, se Alex si sarebbe mai più fatto i capelli blu e cosa mia madre stesse facendo il quel momento sapendo ciò che avevo in mente di combinare io. A mio padre rivolsi solo un pensiero di un attimo, fugace, e impregnato di veleno. Devo farcela.
Aprii gli occhi appena in tempo per vedere Ry oltrepassare l’ultima fila di ragazzi e sedersi tra loro, in attesa, e per incrociare due occhi azzurrissimi che varcavano in quel momento la soglia della porta, affiancati da un anziano maggiordomo vestito come gli addetti alla sicurezza della Chess. Sorrisi per un attimo, annuendo tra me e me. Ora so che ce la farò.
Presi un respiro profondo poi mi guardai attorno, lasciando volare lo sguardo sulla massa di ragazzi accorsi alla mia inattesa richiesta di assemblea.
“Che ne dite se saltiamo la parte in cui vi ringrazio per essere qui e saltiamo direttamente al perché vi ho chiesto di venire nel bel mezzo della notte?” esordii, serio.
Per un attimo ci fu il silenzio, i ragazzi erano sorpresi dal tono che usavo e dalla mia sicurezza, ma poi la voce di Alex si alzò.
“Va’ avanti, Mat.” disse, “Ci fidiamo di te.”
Gli indirizzai uno sguardo grato e un cenno del capo, ma poi tornai alla mia filippica. Avevo attentamente studiato il più possibile per creare una vera e propria orazione contro la Williams e adesso avevo intenzione di giocarmi bene le mie carte.
Ogni rivoluzione ha bisogno di un leader, ma ogni leader ha bisogno di qualcuno che lo segua, altrimenti non è nessuno.
“Ci sono cose che dovete sapere.” esordii, serio, “La prima è che esiste una seconda Accademia, la Checkers, ma immagino l’abbiate già intuito. È prettamente femminile, ma al di là delle implicazioni personali di chi ha amiche, fidanzate” scoccai un’occhiata a Ryan, “o sorelle” incrociai gli occhi azzurri di Greg, in disparte e appoggiato contro il muro nell’angolo accanto alla porta, “questo ci dice quanto potere la Williams stia sviluppando. Al di là di tutto, lei sta aggirando delle leggi, sta dimostrando di poter fare esattamente cosa vuole e al diavolo le regole della società. Ha usato l’altra Accademia per colpirci e qui nasce la seconda cosa che dovete sapere.” fissai Greg apertamente, spingendo tutti ad alzare gli sguardi sul biondino confuso e a disagio. Avrei dovuto dirglielo che avevo intenzione di raccontare tutto? Nah!, “Gregory non ci ha tradito per una scelta egoistica: hanno usato Lucille, per chi non lo sapesse sua sorella, per ricattarlo e io sfido uno qualsiasi di voi a dire che non avrebbe agito nello stesso modo.”
Speravo davvero che nessuno replicasse, ma al di sopra di tutti gli sguardi scioccati si levò la voce di Ryan.
“Non è perché ha agito, il punto, ma come.” sibilò, caustico, “Avrebbe dovuto dircelo! Era il nostro capo e un nostro amico e noi avevamo il diritto di sapere per quale ragione ci pugnalava alle spalle!”
Maledizione, Ryan! Ferito quanto vuoi, ma adesso basta: difendi la nostra causa e lascia stare ciò che è successo, poi avrete tutto il tempo di insultarvi o fare pace!
“E dopo voi cos’avreste fatto?!” ribattei, zittendolo, “Te lo dico io: vi sareste sentiti in colpa per le ragazze, avreste deciso di proteggerle esattamente come ha fatto lui e in un giorno la Williams si sarebbe risolta tutti i problemi che le avete sempre dato da quattro anni a questa parte!” Notai qualcuno come Walter che annuiva, qualcuno come Scott che abbassava gli occhi sentendosi colpevole e qualcuno come Larry che ancora esitava. Fulminai il mio compagno di stanza con lo sguardo. “Non fare lo stupido, Ryan,” sibilai, “so che non lo sei!” Ryan strinse i pugni, offeso, ma tacque. Di contro, Gregory mi fissava come se volesse uccidermi. “Piantala anche tu di guardarmi così!” intimai al biondo, “Mi serve che siamo tutti uniti, perciò scusa se rivelo il tuo terribile segreto!”
Ignorando i mormorii che iniziarono ad alzarsi, incerti, guardai Alfred che mi annuì due volte. Andata.
“Greg?” chiesi, gonfiando il petto e preparandomi al mio primo gesto decisivo, “Hai fatto quello che ti ho chiesto?”
Gregory, a sorpresa, smise di fulminarmi, ma chiuse gli occhi poi raddrizzò la schiena, li riaprì e mi annuì seriamente. Sorrisi.
“Bene.” dissi, “Adesso sapremo tutti con certezza se possiamo o non possiamo fidarci del nostro ex-leader.”
Mi guardarono tutti con confusione, compreso Gregory che aveva fatto ciò che gli avevo chiesto all’oscuro di cosa effettivamente fosse. Scatenando il panico generale, iniziai a sbattere un piede per terra parecchie volte, rumorosamente, esattamente sopra la camera da letto della Williams.
“MAT!” esclamò Walt, saltando in piedi con sgomento, ma ormai tutti sapevano che la preside doveva essersi svegliata e aver sentito.
Non c’era tempo perché tutti tornassero nelle loro stanze e perciò anche quelli che avrebbero potuto farlo rimasero fermi, in ginocchio sul punto di alzarsi o per terra impietriti, ad aspettare che la cara Camille Williams venisse a massacrarci tutti.
Non accadde niente.
Dopo dieci minuti, i ragazzi erano ancora in religioso silenzio e si guardavano tra di loro, confusi. Come ad un segnale che non conoscevo, alzarono tutti lo sguardo su di me.
“Andiamo!” esclamai, offeso, a voce alta, “Non avrete pensato davvero che vi avrei condannati tutti?! Meno male che vi fidate di me!”
“Che diamine significa questo?!” ringhiò Walt.
“Per prima cosa,” bloccai la sua protesta con un gesto della mano e indicai il mio caro alleato direttamente dalla Francia, “permettetemi di presentarvi Alfred, un amico che ha più libertà di movimento e che qualche ora fa ha dato a Gregory qualche flacone dei famosi sonniferi di mia madre. Il motivo per cui la cara Williams” e tirai un altro paio di colpi al pavimento, “non è qui è che dorme della grossa sotto il loro effetto. Così come ovviamente tutto il resto del corpo docenti, del personale e della sicurezza.”
Tacqui, lasciando che le mie parole scivolassero nel silenzio. Qualcuno, dopo alcuni istanti, prese coraggio e batté un colpo per terra. Gregory, in fondo al corridoio, fissava i ragazzi sempre più numerosi che si fidavano di lui e tentavano di verificare le mie parole.
Mi concessi un mezzo sorriso, ma poi cercai di calmare i miei compagni e ripresi a parlare. Ero ancora solo all’inizio, avevo tanto da dire e da dimostrare.
“Ascoltatemi!” gridai, per farmi sentire, e alla fine ottenni di nuovo il silenzio, “Lo so che quella che stiamo vivendo non è una bella situazione” esordii, “e so anche che quello che vi proporrò vi sembrerà folle, tanto più che non potrò darvi alcuna certezza se non che, se dovessimo fallire, la Williams ci scorticherebbe vivi.” Presi un respiro profondo. “La verità, ragazzi, è che se questi bastardi sono arrivati sin qui, è perché noi gliel’abbiamo lasciato fare.” Come avevo previsto, un boato di insulti e opposizioni si levò alle mie parole. Ryan saltò in piedi, ringhiando, e lo stesso Gregory si staccò dal muro con furia. “È vero!” ribattei, continuando a parlare nonostante il caos, “Certo, abbiamo organizzato una rivolta, ma l’abbiamo mai usata veramente?!” le voci iniziarono a calare, “Non è ‘ribellarsi’ limitarsi a curare le ferite, riparare i danni e poi far finta di niente fino alla volta dopo! Abbiamo avuto una bella resistenza, è vero, ma non una rivolta; Gregory è stato un buon leader, ma non un condottiero. C’è differenza e voi lo sapete, se non altro perché siete ancora qui!” A quel punto era tornato il silenzio e io stavo ansimando. Respira, pensa, continua. Convincili.
“Però proprio perché fin’ora ci siamo limitati ad arginare la Williams e abbiamo ottenuto tutto questo” li indicai tutti, dal primo all’ultimo, mostrando quanto anche il solo resistere ci avesse resi forti, “allora immaginate cosa potremmo fare se decidessimo di agire! Se teniamo la situazione sotto controllo come abbiamo fatto sin’ora e ci organizziamo, non dovremo temere nemmeno la Williams! Siamo ottanta ragazzi e loro sono una ventina di professori! È vero,” troncai sul nascere alcune proteste, “che tra gli addetti alla sorveglianza e tutti gli altri domestici, loro saranno una centocinquantina di persone, ma allora? Non è solo con il numero che possiamo batterli! Non mi verrete a dire che pensate davvero che Pattern sia più intelligente di noi!” Qualche risatina si sollevò e mi concessi un attimo.
Era buio fuori, saranno state le tre di notte, e la poca luce presente era quella che arrivava dalle porte aperte delle camere, proveniente dalla luna che brillava nel cielo, ed era a malapena sufficiente per intuire le sagome dei ragazzi, ma ormai io li sapevo riconoscere anche solo da un dettaglio o da un gesto. Erano la mia famiglia, i miei commilitoni, il mio esercito. I miei amici.
“Sentite, noi non siamo guerrieri,” ammisi, riprendendo il filo, “
ma non lo sono neanche loro. Voglio dire, persino gli Ateniesi, pochi e certo meno addestrati di altri, sconfissero gli Spartani e i Persiani! Mio Dio, ma pensate a quello che ci fanno! E noi non facciamo niente per risolvere la situazione definitivamente!”
Ero letteralmente a pezzi. Non pensavo che sostenere un discorso potesse essere così pesante, ma c’era da dire che mi ero parecchio infervorato. Mi guardai attorno e notai molti ancora incerti.
“Se qualcuno di voi dubita ancora, posso capirlo.” dichiarai, “Insomma, siamo seri: non abbiamo niente più di loro” sospirai “però pensate un attimo a com’era fuori da qui. Io torno adesso da più di dieci giorni di pace, senza nessuno che muore dalla voglia di picchiarmi” più o meno “ma con persone che si preoccupano per me. Non dico che voi siate terribili, ma non vorreste tornare a casa?” Colpo basso, molto basso, ma pazienza: devo dargli una svegliata!, “Ok, siamo sinceri: lo so che sto facendo un bellissimo discorso.” Sorrisi. “Non è mio. Non del tutto, per lo meno. Ho passato…una notte intera…a studiarmi le Filippiche di Demostene e un sacco di altra roba, per costruirlo.” La maggior parte dei ragazzi scoppiò a ridere e continuò a farlo nonostante la mia espressione offesa. “Sì, ok, perfetto, grazie tante, comunque Demostene dice: chiunque è disposto ad allearsi e a schierarsi con chi vede preparato e determinato a fare ciò che si conviene. Magari non sarò un leader nato, ma sono preparato e sono determinato, questo ve lo giuro. Peccato che da solo non andrò lontano: se sono qui, è per avere il vostro aiuto! Se metteremo da parte tutto e se ognuno di noi farà la sua parte, farà ciò che deve e la pianterà di starsene seduto pensando ‘fai che non succeda di nuovo, fai che Ryan o Gregory o Walt o Pinco Pallino facciano qualcosa’, allora potremmo farcela a riprenderci ciò che era nostro!” Scossi la testa e scrollai le spalle. “Solo perché una cosa si è fissata in un modo da tanto tempo, non vuol dire che dovrà restare così per sempre. Si dice che ‘La libertà non è la meta della Storia, ma la materia con cui essa lavora.’ e allora, maledizione, lavoriamoci! La Williams non è certo la prima al mondo a cercare di imporre la propria volontà sugli altri e io non credo proprio che sarà quella che ci riuscirà. Gli uomini si sono sempre vantati di essere liberi, ognuno di noi l’ha fatto ma ora non possiamo più! Non lo siamo più! Per colpa di quella donna! Ma adesso, davvero, basta!”
Mi fermai e finalmente mi arrischiai ad ascoltare ciò che i miei occhi vedevano: i brusii delle bocche in movimento, i fruscii delle teste che annuivano, il suono delle labbra che si piegavano in sorrisi soddisfatti e delle palpebre che liberavano sguardi di sfida.
“È ora che ricordiamo quali sono i nostri diritti e che loro paghino i propri debiti. Le fantasie sono speranze, ma noi siamo qui per agire! E lo faremo adesso!”
Ryan si alzò in piedi prima ancora che finissi di parlare, un pugno chiuso alzato sopra la testa mentre lui gridava un verso senza parole. Gregory si staccò dal muro, alzò il pugno e seguì l’amico nel suo urlo di battaglia. E poi Walt, Alex, Larry, Scott, tutti quanti fino a quando, con un sorriso, anche io non alzai il mio, unendo la mia voce alle altre.
 
“Siamo tutti qui, Mat.” Lo sguardo di Gregory era limpido mentre, le mani degli amici ritrovati che ancora gli battevano sulle spalle, mi fissava con un sorriso malandrino. “Qual è il piano?”
“Fondamentalmente?” mi precedette Ryan, avvicinandosi al biondo fino ad essergli accanto. Lentamente, posò la mano sulla sua spalla e poi, con un sospiro di sollievo, sorrise. “Evadere.”
 
La Spencer ha paura di noi. King non si fida. La Williams è troppo sicura di sé. Pattern è troppo idiota per accorgersi di qualcosa. Hanno tutti un difetto, anche uno solo, e noi li sappiamo.
Loro si credono al sicuro, ma non lo sono. Loro pensano di piegarci e invece ci danno lo slancio verso l’alto. Loro ci feriscono, ma riescono solo a renderci più forti.
Oggi sarà un giorno come tanti. Oggi sarà il nostro primo giorno di battaglia.
 
Scendemmo a colazione in silenzio, tutti compatti, in attesa.
La Williams era un stronza, ma non una sprovveduta. Aveva certamente capito che avevamo fatto qualcosa, anche se probabilmente non poteva capacitarsi di come avessimo fatto a far entrare del sonnifero nella scuola.
Non immaginava che avessi pagato parecchie persone per introdurre Alfred tra gli addetti alla sicurezza della scuola, né ciò che avevo intenzione di fare. Se la conoscevo almeno un po’, sapevo cosa avrebbe fatto. E l’avrei sfruttato. Dovevo solo stare attento a chi ci sarebbe potuto finire in mezzo.
A malapena riuscimmo ad entrare tutti nel salone al piano terra: la Williams ci attese al varco, furiosa oltre ogni misura.
“Tutti. Fuori. Subito!” ringhiò, indicandoci perentoria la vetrata che portava al giardino.
È ora.
Strinsi d’istinto la mano di Ryan, al mio fianco, e mi voltai indietro alla ricerca di Gregory, ma la calca di ragazzi mi impedì di vedere più che la sua testata di capelli biondi.
La spinta degli studenti ci portò fuori, nel giardino dove la neve aveva finito per sciogliersi lasciando solo un immenso pantano fangoso. Se avessero osato punire qualcuno perché aveva i pantaloni sporchi di terra, avrei potuto ammazzare la Williams.
Io e Ry eravamo a metà della colonna. Sapendo come andavano di solito a finire le cose, la marmaglia di ragazzi ci aveva trascinati nel centro in un blando tentativo di sottrarci alle occhiate degli insegnanti e di riuscire a impedir loro di farci del male. Manovra inutile, ma gradita.
La Williams pareva un avvoltoio mentre gli altri insegnanti ci spintonavano fino a raggrupparci in un cerchio impreciso, premuti tutti gli uni contro gli altri. Iniziai a sentirmi soffocare, affogato in un mare di gente tutta troppo alta per me. Perché a tanta crescita interiore non era equivalsa una crescita esteriore?!
Stavo ancora imprecando mentalmente contro il mio metro e un tappo di altezza e rantolando alla ricerca d’aria, con i miei vicini che cercavano di scansarsi per farmi spazio e Ryan che stringeva la mia mano sempre più forte ma non poteva dirmi nulla perché Pattern e King stavo riempiendo a casaccio di bacchettate chiunque osasse aprir bocca.
Tacemmo, ma in quel silenzio sapevo che non stava più la paura di una repressione violenta, bensì l’attesa di qualcosa che non capivamo, lo studio attento del nostro nemico.
Ho guardato troppi film storici…e le Filippiche mi hanno contagiato…e anche la mia immaginazione di celle medioevali… Sono impazzito...
Deglutii, tentando invano di prendere un po’ più aria, e socchiusi gli occhi. Voglio uscire da qui. Ero al centro del cerchio, con Ry, ma ero davvero troppo schiacciato. Deglutii ancora ma barcollai un po’ e qualcuno riuscì ad afferrarmi al volo prima che cadessi e portassi tutti gli con me in un patetico effetto domino.
Conosco questa presa…
Riaprii gli occhi con notevole sforzo, il lato destro del viso affondato nel petto del ragazzo che mi sosteneva per la vita e le braccia mollemente abbassate lungo i fianchi. Faticai un po’, ma riuscii a piegare un po’ la testa verso l’alto incrociando gli occhi azzurri di Greg.
In quell’azzurro vidi il mare, la gioia della lotta, della sfida, la soddisfazione di chi riprende in mano la sua vita e il suo obiettivo, la neve, i nasi e le dita e i piedi congelati dalle risate di una guerra nel bianco, l’acqua, il brivido freddo che insegue la punta di un dito giù lungo una schiena nuda, i cristalli che bloccano la pelle sotto il sottile strato di saliva che arranca dietro la corsa di una lingua sulla carne, il colore della sete placata, di un bacio illegale, di un succhiotto troppo puro per il viola e, infine, rividi il cielo. E in quel cielo riuscii a respirare di nuovo.
“Piccoletto?”
Greg aveva la fronte aggrottata, era preoccupato, e perciò, fissando solo i suoi occhi maledettamente troppo azzurri per quello schifo di posto, mi sforzai di annuire e di rimettermi in piedi. Le gambe erano molli, i corpi che premevano sempre più contro il mio, incalzati dalle continue spinte degli insegnanti, cercavano di cancellare la sensazione di fresco con la loro calura soffocante e con una cappa irrespirabile.
“Agorafobico.” mormorò Ryan scuotendo la testa, “Sei maledettamente bravo con i discorsi e poi salta fuori che sei Agorafobico?!”
“Non ho paura degli spazi aperti…” sussurrai, a voce bassissima, ignorando gli strepiti della Williams che riferiva la storia del sonnifero che già tutti sapevamo.
Ryan fu sul punto di dire qualcos’altro, ma gli arrivò accidentalmente una gomitata in un fianco e l’unica cosa che produsse fu una smorfia mentre si stringeva le costole. Sentii uno scossone e solo allora mi accorsi che i miei amici, stringendosi, avevano creato un piccolo scudo con i propri corpi attorno a me, per impedirmi di ricevere colpi o di essere schiacciato.
Feci una smorfia, ma riuscii a staccarmi da Greg e a reggermi di nuovo sulle mie gambe.
“Che cosa…?” provai a chiedere, confuso, ma feci appena in tempo a voltarmi che vidi King fendere la folla di ragazzi a colpi di bacchetta e per poco non mi prese un colpo. Non di nuovo. Era troppo simile a quella volta in mensa, troppo uguale la camminata e la direzione della sua marcia, ma gli occhi questa volta erano accesi di brace.
Prima che potessi dire qualcosa, infilò le mani nei capelli di Greg e li strinse malamente, trascinandolo all’indietro e strappandogli un’esclamazione di dolore.
Sentii i mormorii dei miei compagni, aizzati dalle mie parole, e temetti veramente di vederli intervenire.
Non era il momento! Non potevano farlo, non ancora, non era ancora tutto pronto! Però maledizione!
“Eccolo, il bastardo!” ringhiò il vicepreside trascinando Greg, tenuto piegato quasi a novanta dalla sua presa, fin dalla Williams che se ne stava in piedi, ritta come un fuso, accanto al tronco di uno degli alberi.
Provai a muovere un passo in avanti, d’istinto, ma i professori iniziarono a spingere di nuovo la calca e io mi ritrovai sballottato tra i corpi che venivano a forza disposti in semicerchio davanti alla scena. Quando potei fermarmi, King e Pattern stavano ancora tenendo un Greg furibondo come mai prima ma di nuovo vivo e battagliero intento a dimenarsi, mentre la Williams lo indicava a tutti noi.
“Questo piccolo mostro” esordì, ringhiante, “ha messo del narcotizzante nei pasti di ieri sera. Nessuno di voi, schifosi, osi pensare che permetterò a una cosa del genere di passare liscia!” Sembrava un mostro, invasata, ma subito ci ignorò per voltarsi di lato rispetto a noi e fissare Greg che era stato portato alla sua sinistra, “Allora, chi te l’ha dato?!”
Greg la guardò, sprezzante, e poi, con mia somma soddisfazione, le sputò sul corsetto.
È così che deve andare. Questa è la rivoluzione, anche se si costruisce sul sangue e sulla violenza.
La Williams indietreggiò con una smorfia mentre King iniziava a scuotere la testa di Greg urlandogli nelle orecchie una marea di insulti. È così che deve andare. È l’unico modo perché ci serve un agnello sacrificale, ci serve una vittima da immolare e un sopruso da sbattere in faccia al mondo. La preside alzò la bacchetta, pronta a colpire Gregory in volto.
È così che deve andare.
...
Ma, porca puttana, non il MIO Greg!

“Non è stato lui!”
Sparite le vertigini, sparito il soffocamento, sparito il caldo e sparita la calca attorno a me, che mi uccide ma per difendermi.
Un passo avanti agli altri, gli occhi sulla Williams, alzai il volto e la sfidai con gli occhi.
Tra me e lei.
È così che deve andare.




Lo so cosa state pensando ("è in ritardo!"), ma sappiate che è un vero miracolo, questo aggiornamento.
Non è che non riuscissi a scrivere, ma il discorso di Mat ha richiesto per davvero delle difficili e lunghe ricerche. Per chi fosse interessato al discorso del piccoletto, mi sono basata su: "V Filippica" di Demostene, "
In margine ad un testo implicito" di Gòmez Dàvila Nicolàs, "I persiani" e "Prometeo incanato" e "Supplici" di Eschilo, "Macbeth" di Shakespeare. E ho dato a King gli occhi di braci che Dante Alighieri diede a Caronte nell'Inferno della Divina Commedia.
Lo so, sono pazza XD
Comunque, ho riletto il capitolo ma potrebbero esserci errori ancora: scusatemi!
Vi lascio, devo correre!
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

 

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Capitolo 19
*** Educazione Spartana ***











Capitolo 18: Educazione Spartana
 
La Williams aveva un tic all’occhio. Non seppi mai se fosse il nervoso accumulato quel giorno e se fosse stata proprio la mia persona a farglielo scattare, ma la rendeva ancora più inquietante del solito, sebbene in un modo quasi comico. Di fronte a quel segno di “umanità” –fra virgolette perché di umano, quella donna, aveva ben poco– dimenticai la paura e mi concessi un ghigno.
“Non è stato lui.” ribadii, indicando Gregory con la mano, “L’unica colpa che gli si può dare è di essere stato tanto idiota da pensare davvero che fossi andato nelle cucine solo per vedere come stesse.” Mentire, mentire, mentire. Non sono mai stato capace di mentire. Prima di venire qui, ovviamente. “Mia madre ha avanzato un sacco di medicinali, sarebbe stato uno spreco buttarli via, non trova?”
La Williams assunse una tonalità molto…violastra. Pensai avesse smesso di respirare e quasi osai credere che le sarebbe venuto un infarto. Già mi visualizzavo la scena: lei iniziava a tenersi il petto, cadeva a terra, boccheggiava, sveniva, qualcuno chiamava i soccorsi ma era troppo tardi, la scuola veniva chiusa e tornavamo tutti a casa felici e contenti.
Sì, come no.
“KING!” Perché ogni volta che la faccio arrabbiare deve mettersi a strillare e a chiamare King? È fastidioso.
Sebastian King non se lo fece ripetere due volte. Mollò nelle mani di Pattern un Gregory paonazzo, evidentemente indeciso su se dire la verità e smascherarmi per provare a proteggermi o se fidarsi di me e lasciarmi portare avanti il mio piano, e poi mi raggiunse ma io lo ignorai per avvicinarmi alla Williams, tranquillo.
Prima di poterci ripensare, le porsi le mani, sorridendo come se le avessi offerto un biscotto per merenda e non me stesso per una punizione.
Greg aprì la bocca, iniziando a ringhiare qualcosa, ma Pattern riuscì a bloccarlo all’altezza del petto con un braccio e a tappargli la bocca con la mano libera, tenendolo premuto contro di sé tanto che pensai per un attimo che gli avrebbe spezzato le costole. Circolavano voci sul fatto che Pattern preferisse l’Accademia Chess alla Checkers per un motivo ben preciso, ma vedendolo schiacciare il mio biondino contro il proprio petto mi costrinsi a non pensarci.
Sapevo che Ryan, tra la folla di studenti cinerei, sembrava stare venendo mangiato da una tigre, almeno dall’espressione: decisamente, lui non era mai stato felice di quella parte del piano, sin dall’inizio.
Mi costrinsi a lasciar perdere tutti i miei sogni, incubi, ad occhi aperti per tornare a porre attenzione alla Williams. Quella spintonò verso il basso le mie mani, sorprendendomi.
Ma che diavolo…?! Per un attimo, temetti avesse scoperto il mio piano, che sapesse cosa volevo fare e perché stavo permettendo tutto quel teatrino, ma poi lei mi afferrò per un braccio e mi spintonò violentemente verso l’albero alla sua destra e capii che non era affatto così.
King mi strappò via la giacca e la camicia, facendone saltare i bottoni, e poi mi afferrò per la collottola e mi fece sbattere la fronte contro il tronco, facendo sì che il mio cervello finisse sballottato per la scatola cranica, a riprovazione di quanto minuscolo dovesse essere per avermi permesso di ficcarmi in quella situazione, e causandomi un bel po’ di intontimento. Quando mi ripresi, scuotendo la testa, mi accorsi che King si era messo dall’altra parte dell’albero, mi aveva afferrato i polsi e ora li stava ammanettando costringendomi ad abbracciare quella specie di palo improvvisato.
Una quercia. Osservai la corteccia ruvida e disegnata in quel modo in cui non capivi se fosse più scavata da piccoli canali, come la foce di un fiume, o più composta da scaglie, come un drago, e poi alzai gli occhi sulle fronde, non molto ampie, che ormai si stavano riempiendo di nuove piccole gemme. Immaginai le foglie come sarebbero state: ondulate ai bordi come le onde del mare che disegnavo a quattro anni e di un verde brillante e acceso che avrebbe fatto sfigurare i non colori della scuola. Poi ci sarebbero state le ghiande, lisce e dure, con il loro cappello che le faceva sembrare piccoli soldati in esplorazione e magari qualche scoiattolo sarebbe riuscito a scavalcare la recinzione e a nascondersi tra i rami, facendovi la tana e trovando in quel posto da incubo il suo locus amoenus, il suo paradiso terrestre dove vivere felice. O forse no. Forse abbatteranno l’albero l’anno prossimo oppure gli dipingeranno le foglie di bianco e nero, strapperanno tutte le ghiande e King aspetterà lo scoiattolo armato di spingarda. Senza dubbio è più realistico.
Nel tempo in cui io avevo fatto quelle considerazioni idiote, Gregory era stato trascinato indietro, in modo che anche lui fosse con gli altri dove poteva assistere alla scena senza dare fastidio, e la Williams mi si era avvicinata alle spalle mentre King si allontanava.
Le manette di ferro mi facevano male ai polsi. L’albero era giovane ma dal tronco già abbastanza largo da costringermi a tendere tutti i muscoli delle braccia per circondarlo nella sua circonferenza intera e le irregolarità della corteccia mi graffiavano la pelle lasciata nuda in modo così rude. Il petto premuto esibiva piccole ferite e simil-bruciature che i bottoni avevano causato, dopo lo strappo violento di King, o con i bordi resi taglienti dalle spaccature o semplicemente trascinandosi dietro ad alta velocità fili sottili dalla stoffa. Il risultato era comunque abbastanza doloroso.
La Williams mi afferrò i capelli sulla nuca e tirò indietro, costringendomi a piegare il collo.
“Hai mai letto il volantino della nostra scuola?” mi chiese, sarcastica perché sapeva benissimo che se uno qualsiasi di noi l’avesse letto non sarebbe mai entrato in Accademia, “Dice ‘educazione rigida e spartana’.” sibilò accendendo qualcosa che iniziò a ronzare dietro le mie spalle, “Non so se hai mai visto il film ‘300’ ma sebbene non sia il massimo come attendibilità storica, le scene iniziali sull’educazione dei ragazzi erano molto credibili.”
Avevo visto il film. In quel momento però dimenticai qualsiasi cosa lo riguardasse e non fosse l’inizio, dove il ragazzo rasato veniva picchiato dopo essere stato legato ad un palo.
Oh cazzo.
Le lame del rasoio elettrico furono impietose. Tagliarono ogni ciocca, lasciandomi a malapena il puntino nero che indicava il bulbo pilifero, e queste caddero a terra ai miei piedi, nel silenzio sgomento e inquieto degli altri che pure ancora non avevano ben capito cosa mi sarebbe successo. Paradossalmente, nonostante fossi a petto nudo, iniziai a sentire freddo solo alla testa e solo quando persi la protezione dei capelli, era come se li avessi dati per scontati fino a quando li avevo avuti.
Quando la Williams spense il rasoio, mi sentivo molto più umiliato di quanto non mi fossi sentito alla mia prima punizione, eppure al contempo qualcosa mi si era acceso dentro e aveva iniziato a dirmi che ora, almeno, stavo passando la stessa cosa che aveva passato Gregory quando gli avevano tagliato la sua bella coda bionda e che ora gli ero un po’ più vicino, per quel che valeva.
La Williams indietreggiò e chiamò King, ma qualcuno li interruppe.
“Che cosa volete fare?!” Ryan era sconvolto, doveva aver visto qualsiasi cosa la Williams volesse usare e stava tentando, in barba ai buoni propositi del piano, di impedire che venissi molto probabilmente ridotto a carne trita.
“Silenzio!” La voce di King seguita da uno schiocco non mi sorprese, mi sorprese piuttosto il mezzo grido di dolore di Pattern.
“Non potete! È disumano!” iniziò a gridare Gregory, spalleggiato ben presto dalle voci degli altri nostri compagni, e sentii i passi di molte persone accorrere per bloccare gli studenti nelle loro posizioni e impedir loro di intervenire.
“Quello stronzetto mi ha morso!” ringhiò Pattern all’improvviso.
Sobbalzai ad ogni schiocco sentendo parecchi colpi schiantarsi sulla pelle di qualcuno e la saliva nella mia bocca diminuì al ritmo dei gemiti di Gregory fino a lasciarmi la bocca asciutta.
Per favore, fa’ che si fermino! Non per me, ma per loro: sarà una carneficina, se continuano!
Non che fossi mai stato un gran credente, ma nel momento del bisogno ogni aiuto è ben accetto.
“NO!” gridò qualcuno, nella confusione generale, e solo in quel momento mi ricordai che non ero solo uno spettatore silenzioso e cieco di un horror radiofonico, ma bensì l’attrazione principale della festa.
Poi il bastone, bello spesso, di legno, duro, si schiantò sulla mia schiena, schiacciandomi le costole in una posizione innaturale contro il tronco. Le rompono. Almeno una di sicuro.
Buttai l’aria fuori di getto, nel tentativo di appiattirmi contro il mio palo e di assecondare il colpo per quanto possibile, sapendo che opponendo resistenza avrei ottenuto solo di render loro più facile la distruzione delle mie ossa. Portai la testa a sinistra del tronco, per non tirare facciate contro il legno ad ogni colpo anche se ormai il primo mi aveva fatto sanguinare il naso e aveva fatto incastrare una bella scheggia marrone nel mio labbro inferiore, e contrassi le braccia per appiattirmi ancora di più nei limiti del possibile.
Non che ottenni molto, ma sempre meglio di niente.
Arrivò anche la seconda bastonata, con una violenza assurda, e mi ritrovai a chiedermi se la Williams avesse fatto pesi negli anni passati, se si fosse rafforzata facendo allenamento sulla schiena di altri o se semplicemente avesse ceduto il posto al mastodontico vicepreside.
La terza bastonata mi fece capire, assieme al gemito di una delle costole in basso a destra, che non era poi tanto importante il ‘chi?’, quanto piuttosto il ‘per quanto ancora?’.
Al quarto colpo, capii che, per quanto vicina fosse stata la fine, sarebbe stata comunque troppo tardi perché un dolore allucinante, un scrocchio orrendo e una serie di puntini luminosi e colorati nella mia visuale mi avvisarono che le mie costole avevano iniziato a cedere.
 
Grido con tutto il fiato che ho in gola ma è come se nessuno mi sentisse, perché fanno finta di non ascoltarmi. Grido anche se le costole fanno sempre più male ad ogni singola molecola d’aria che entra nei polmoni, costringendole a muoversi. So che dovrei mordermi la lingua e smetterla di urlare, per orgoglio e per risparmiare il fiato e per non muovere troppo la cassa toracica e per non dare alla Williams questa soddisfazione, ma non ce la faccio. Grido perché sto andando in pezzi assieme alle mie ossa, perché ho perso il conto degli schiocchi dopo la prima costola andata in frantumi come un cristallo Swarovski gettato da una finestra del centotreesimo piano, perché vorrei solo che smettessero, perché fa un male atroce. Grido perché sento ottanta ragazzi, dietro di me, fare lo stesso.
 
“Resta fermo, non muoverti, cerca di trattenere il fiato e…” “Ragazzi, non so se…” “Mathieu, riesci a sentirci?! Mathieu! Ci senti?!” “Qualcuno lo sollevi!” “Dove sono le bende?!” “Più stretto, più stretto, non devono muoversi!” “Mio Dio!” “Qui come facciamo?! È tutto infossato!” “Stringi di più, maledizione!” “Ha del sangue che esce dalla bocca!” “Gli faccio male!” “Peggio di così?! Stringi!” “Non così tanto, lo soffocate!” “Devono stare ferme!” “Deve andare in ospedale!” “Più stretto!” “No, no, non è la bocca, è il naso! È da lì che sanguina!” “Deve andare in ospedale!” “Qualcuno mi dia qualcosa per estrarre questo coso dal suo labbro!” “Stringi ancora, maledizione! Non puoi fargli più male di così, sai?!” “Deve andare in ospedale!” “Più stretto!” “Trovate del ghiaccio, maledizione!” “Che diavolo d’altro possiamo fare per aiutarlo?!”
Stare zitti aiuterebbe. C’è così tanto caos nella mia testa. Spero solo di stare meglio domani mattina: devo andare a scuola, c’è la verifica della Spencer. Non posso saltare, non domani. Albert? Credo di avere lo stomaco sottosopra. Mi ci vorrebbe proprio una di quelle strane tisane che facevi alla mamma quando beveva un po’ troppo. Mi sento come se fossi brillo. Ho bevuto? Non me lo ricordo. Non lo so. Domani non posso saltare, ho la verifica con la Spencer e io devo esserci.
Devo.
 
Aprii gli occhi, piano, e la prima cosa che intuii, nella nebbia della mia mente, fu il viso di Ryan piegato su di me.
“Ehi?” chiese, piano.
Aspettai di averlo messo bene a fuoco prima di azzardarmi a dire o fare qualcosa, ma quando ci riuscii realizzai un’altra cosa. Avevo tutto il torace bianco. Ci misi un attimo a capire ma poi mi resi conto che qualcuno mi aveva praticamente avvolto in un paio di chilometri di bende, strette tanto che a malapena riuscivo a respirare. Non che mi dispiacesse, visto che la sola idea di prendere aria riaccendeva il dolore alle costole.
Tuttavia, senza aria viene dura sopravvivere, perciò mi sforzai e presi un piccolo respiro.
Dolore.
“Piano, testone!” mi rimproverò Ryan, mettendomi le mani sulle spalle per tenermi fermo, “Devi stare attento a come ti muovi!”
“Quanto…” che male, dannazione, che male!, cercai di respirare un po’ più piano e mi costrinsi a stare immobile, “Quanto…sono messo…male?”
Ryan si sedette con attenzione sul bordo del mio letto, ma lo stesso il movimento del materasso sotto la mia schiena mi strappò una smorfia. La sola idea di dover respirare ancora era allucinante e mi faceva venir voglia di piangere all’idea del dolore che comprendeva.
“Ti hanno rotto tre costole nella parte bassa della schiena, sulla destra, e due si sono rotte sulla parte anteriore sinistra, sul petto insomma.” ammette, cupo, “Scott ed io non sapevamo cosa fare, sembravi Humpty Dumpty appena caduto dal muretto.”
“Tu sì che sai come…” strinsi i denti per il male, “rassicurare le persone.”
Riuscii a strappare a Ryan un sorriso mesto e per quello avrei meritato una medaglia, senza dubbio.
“Ci provo.” mi prese in giro poi, una volta esaminato con occhio critico tutto il mio corpo, si risolse a mettermi una mano sulla fronte, “Come va?”
“Male.” borbottai, facendo l’errore più grande della mia vita ossia sospirando, “Mi aiuti ad alzarmi?”
Ryan si irrigidì.
“Mat, non credo sia il caso di…” provò, ma io gli lanciai un’occhiata supplicante.
Non potevo starmene bloccato a letto, avevo solo un mese prima di dover tornare a casa! Non avevo tempo da perdere per aspettare che qualche ossicino inutile si rinsaldasse!
Ryan probabilmente non capì appieno le mie motivazioni, ma doveva aver ammesso con se stesso di non potermi impedire di fare nulla, una volta che me lo fossi messo in testa, perciò sospirò e si piegò in avanti, aiutandomi ad aggrapparmi a lui per tirarmi seduto senza far forza sugli addominali. Male lo stesso.
Mi sforzai di respirare, ma un piccolo accesso di tosse mi fece piegare su me stesso per il dolore. E piegarmi peggiorò la situazione, tanto che Ryan dovette farmi passare le braccia sotto le ascelle e tirarmi indietro, bloccandomi eretto, nonostante il colpi di tosse mi stessero facendo gridare dal dolore.
“Per favore!” supplicai, senza neanche sapere bene a chi mi stessi rivolgendo.
Ryan, comunque, si sentì chiamato in causa.
“Aspetta.” mi ordinò alzandosi e avvicinandosi alla porta senza staccarmi gli occhi di dosso, nel caso avessi avuto un’altra crisi, “Vado da Walter a prendere altri antidolorifici: te ne abbiamo dati finché sei stato privo di sensi, ma direi che l’ultima dose ha finito il suo effetto. Stai fermo mentre non ci sono, ok?”
Non mi presi neanche la pena di annuire per finta e Ry non perse tempo a cercare di estorcermi una promessa che sapeva bene avrei infranto, ma preferì scattare di corsa verso la camera del nostro amico cercando di battermi sul tempo.
Ignorando le sua parole, mi alzai in piedi a fatica, stringendo i denti per il dolore atroce, e raggiunsi il bagno a fatica, quasi in apnea per non sforzare le ossa.
Ogni singolo respiro era come un fiotto di lava rovente nel mio petto e non riuscivo a camminare senza tenere le braccia incrociate strette al busto, le dita che arpionavano i fianchi, nel tentativo patetico di tenermi insieme. Le bende non mi bastavano: sapevo che sarebbe stato meglio evitare qualsiasi fasciatura perché poteva essere pericolosa, ma in quel momento avrei pagato perché mi mettessero anche un blocco di cemento attorno alle costole.
Mi fermai davanti allo specchio e mi irrigidii.
Sembro la versione più nutrita di un prigioniero di Auschwitz.
Non sapevo benissimo perché, ma avevo voglia di piangere, dopo tanto tempo. Avevo occhiaie enormi e scure, le guance scavate più dalla tristezza che dal dolore o dalla fame e gli occhi sembravano neri perché la sclera era rossa a causa di alcuni capillari rotti e la pupilla sotto la palpebra cascante era tanto dilatata da mangiarsi quasi interamente l’iride nocciola screziata di verde. Ma quello che mi feriva di più era la testa ormai rasata. Sì, era già capitato che mi avessero tagliato i capelli a forza, lì dentro, ma allora li avevano solo accorciati mentre in quel momento…
Le costole si lamentarono, quando il mio cuore iniziò a battere con forza, e, quando il diaframma iniziò a contrarsi per spingere fuori i singhiozzi, le ossa rotte mi riempirono gli occhi di macchie colorate.
“Mathieu…”
Ryan, desolato, apparve nel riflesso dello specchio e io incrociai il suo sguardo con il mio, annacquato dalle lacrime ormai prossime.
“Sono un animale.” mi sorpresi a sussurrargli, disperato, “Mi hanno legato, tosato e picchiato come una bestia.”
“No, scricciolo, no!” esclamò lui, scattando subito in avanti e lasciando una siringa piena sul bordo del mobiletto.
Nemmeno seppi come, nemmeno perché, ma scivolai in ginocchio a terra e mi aggrappai con forza alla camicia di Ryan, arrivato ad abbracciarmi per aiutarmi a tenere insieme i miei cocci.
 
“Voglio Gregory…” biascicai mentre il liquido della siringa entrava piano nel mio braccio, accompagnato dallo stantuffo e dalla spinta ormai esperta delle mani di Ryan.
“Arriva.” mi rispose lui, “È andato a mettere della melma nelle pantofole della Williams.”
“…” chiusi gli occhi, “Stai scherzando, vero?”
“No. Avevi detto che volevi metterle qualcosa di schifoso nelle scarpe, io l’ho riferito a Gregory e ora lui sta provvedendo.”
“Vi odio.”
“Perché?!”
“Perché mi fate ridere e le mie costole non ne sono contente.”
“Oh, sta’ zitto, piccoletto.”
Nonostante la mia ragione fosse ormai ben lontana, sentii distintamente un sorriso affiorarmi alle labbra quando la voce nota del biondino mi si avvicinò.
Se però disse qualcos’altro, non lo seppi mai.
 
Tre settimane dopo, pericolosamente vicino alla fine del mio mandato, ero ancora in condizioni pietose, ma non sufficienti a Ryan e Gregory per vincere un confronto di cocciutaggine contro di me. Sarei tornato in classe e avrei battagliato, costasse quel che costasse.
Era ora di chiudere i conti con certe persone, speravo solo che Albert avesse fatto la sua parte nonostante io fossi stato impossibilitato a fare la mia.
“Scricciolo…” borbottò Ryan, scettico, mentre con notevole sforzo mi finivo di allacciare la cravatta, operazione resa difficile dal tentare di non alzare troppo i gomiti per non tendere la cassa toracica.
“Non una parola, Ry.” borbottai, continuando a nascondere le smorfie per le fitte sotto un’espressione gelida. “Dobbiamo farlo oggi o rischiamo di non avere abbastanza tempo.”
“Abbiamo ancora una settimana.” ribatté lui, appoggiato con la spalla allo stipite della porta del bagno.
“Non è abbastanza.” lo bloccai, non volevo arrivare al limite e rischiare di dare a mio padre un qualsiasi pretesto per rimangiarsi le sue promesse.
“Ti sei già bruciato parte dei soldi per l’Università che ti aveva dato.” mi ricordò Ryan, “Non è che convincere la sicurezza della Chess ad accettare Albert sia stata proprio una manovra economica.”
“Mio padre mi ha dato abbastanza per comperarmi un appartamento, oltre al pagare la retta dell’Università.” ghignai, “Per l’affitto di una stanza basta e avanza.”
Ryan borbottò qualcosa, offeso, ma io lo ignorai e mi voltai, sorridendo.
Aveva già preso il mio zaino e io avevo divieto assoluto di prenderlo o di osare fare qualsiasi altra azione che comportasse il benché minimo sforzo fisico. Avevo provato a baciare Gregory due giorni dopo la punizione, ma il risultato era stato un dolore allucinante così adesso anche il biondino vigilava affinché non pensassi nemmeno a fare qualcosa di faticoso. Snervante.
“Pronto alla guerra?” chiesi.
Ryan ghignò.
“Sempre e comunque, capitano!”




Cinque capitoli di storia e due secoli di Arte mi hanno resa incapace di rileggere il capitolo, finito esattamente tre minuti (va bene, tre e mezzo) fa, perciò perdonatemi se trovate degli orrori!
Comunque ho postato, è già qualcosa, no?
A quanti immaginavano finisse così: ... Ragazzi, ma siete dei sadici! v.v
Io? No, io no, io sono solo la portavoce innocente dei fatti! u.u Ambasciator non porta pena, no? ;)
Va bene, scusatemi se vi dico poco ma sono un po' fulminata...
Lo so che volevate un bel momentino Greg/Mathieu ma in parte c'è stato: Greg ha messo della roba schifosissima nelle ciabatte della Williams! ^-^ Non pensateci neanche, però: solo perché non l'ho specificato, non significa che Greg non sia stato punito per questo, ok?
Va bene, che altro posso dire? ... Con Mat ridotto così, mi spiace infrangere i vostri desideri d'amore, lui e il nostro bel biondino non potranno fare molto, temo! :D
Vabbé, ci vediamo settimana prossima, ok? :)
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 20
*** Lo facciamo oggi ***












Imparerai a tue spese che lungo il tuo cammino incontrerai ogni giorno milioni di maschere e pochissimi volti.
(Anonimo)
 
 


 
Capitolo 19: Lo facciamo oggi
 
Avevo dei rimpianti nella mia vita, come tutti, ma non potevo dire che, avendone la possibilità, avrei cancellato l’esperienza della Chess Academy dalla mia vita. Ci avevo guadagnato tanto dolore, davvero, così tanto che il ricordo mi fa ancora svegliare nel pieno della notte e mi spinge in bagno a vomitare per la paura e il disgusto, ma ci avevo anche guadagnato un Ryan, un Walt, un Larry, un Alex, uno Scott e, soprattutto, un Gregory. Non potevo trovare aggettivi che li descrivessero, erano semplicemente loro, ma, qualsiasi cosa fossero, ero grato di averli incontrati. Era grazie a loro che ero passato da piagnucoloso ragazzino sperduto a determinato leader di ribelli. Se non sono diventato come mia madre, succube di qualcuno che mi nasconde la verità per manipolarmi e ferirmi, è grazie a loro e un po’, in parte, anche della violenza che ho passato. Non ringrazierò mai la Chess per nulla, ma ringrazierò sempre loro per esserci.
Racchiusi stretti nel nostro gruppetto ormai tanto e tanto unito, scendemmo piano le scale fino alla sala da pranzo, ma come tre settimane prima la situazione che ci apparve di fronte non era quella solita.
La Williams era in piedi al centro della sala, tra le due file di tavoli degli allievi, e sorrideva davvero troppo perché quella che stava per darci fosse una buona notizia. Lasciava che gli studenti si sedessero perciò, seppur un po’ dubbiosi, anche noi ci mettemmo ai nostri posti. Solo allora notai la grossa scatola di cartone posata per terra accanto alla preside e, chissà perché, mi scoprii a pensare che qualsiasi cosa vi fosse contenuta certo non mi avrebbe fatto piacere.
“Bene, ragazzi, ruberò alla vostra colazione solo pochi minuti.” Aveva quell’espressione gentile, quel sorriso luminoso, che chiunque avrebbe definito dolce, comprensivo, e per l’ennesima volta, per quanto fossi ormai esperto della sua crudeltà, non riuscii a far combaciare quella donna con quella che mi aveva legato, umiliato e preso a bastonate fino a spaccarmi cinque costole. Eppure era stata lei, in persona, e Ryan me l’aveva confermato. La sua maschera era fatta dannatamente bene, maledizione. Ogni falsità è una maschera, e per quanto la maschera sia ben fatta, si arriva sempre, con un po' di attenzione, a distinguerla dal volto.” diceva Alexandre Dumas ne I Tre Moschettieri.
Lanciai un’occhiata a Ryan da dietro le mie spalle, poiché entrambi dovevamo voltarci all’indietro per fissare la preside e lo schienale della sedia era un impedimento notevole. Lui annuì, come comprendendo cosa sottintendesse l’espressione sul mio viso, e si piegò fino a portare le labbra al mio orecchio.
“È se stessa solo quando fa del male a qualcuno.” mi sussurrò pianissimo e io non potei fare a meno di essere d’accordo mentre tornavo a guardare quella giovane donna chinarsi per tirare fuori un oggetto nero dalla scatola.
Quando lo sollevò per mostrarcelo meglio, aggrottai la fronte. Era un bracciale nero con una piccola scatola di plastica attaccata che mi era stranamente familiare. Ci misi un po’, ma alla fine ricordai di averlo visto in televisione e ne rimasi scioccato. Come ha fatto a procurarsi i braccialetti elettronici per la localizzazione costante dei detenuti?! Non riuscivo a credere che potesse aver avuto quegli affari!
Ma soprattutto, quelli rischiavano di essere un grosso problema: non avevo idea di quanta fosse la precisione di quegli aggeggi, ma immaginando di usarli nell’ambito relativamente ristretto dell’Accademia potevano  essere molto sensibili. Lo sarebbero stati abbastanza da indicare l’ammassarsi degli alunni in una classe o in un corridoio? Poteva saltare tutto, maledizione!
Sentii Ryan borbottare qualcosa alle mie spalle, parlottando con Gregory, ma riconobbi solo una notevole serie di numeri e parole che andavano al di là della mia comprensione. Ry avrebbe dovuto imparare ad essere un po’ meno geniale o noi altri non saremmo più riusciti a stargli dietro, molto presto.
“Immagino che qualcuno di voi abbia una vaga idea” iniziò la Williams calamitando l’attenzione di tutti, per una volta senza urlare di fare silenzio e senza pestare chi osasse anche solo respirare, e agitando un po’ il bracciale nella sua mano, “di che cosa siano questi. Tuttavia preferisco essere chiara, a scanso di equivoci. Mmm….vediamo, chi potrebbe venire ad aiutarmi in una dimostrazione?” King sarebbe perfetto.
Lanciai un’occhiata a Greg nell’esatto istante in cui lui la lanciava a me. Era tra noi due la scelta, lo sapevamo bene, perciò ci costringemmo a lanciarci un sorriso d’incoraggiamento, non sapendo quale fosse la vittima designata.
“Hastings, vieni tu.”
Che cosa?! No!
Spalancai la bocca e a Gregory sfuggì un’imprecazione. Non poteva aver chiamato Ryan, lui non c’entrava niente! Insomma, sì, va bene, lui faceva la sua parte, ma eravamo io e Greg ai vertici della piramide! Ry non c’entrava nulla!
Il mio caro amico moro sembrava abbastanza sorpreso, ma si alzò in piedi e raggiunse la preside a passo deciso, come a sfidarla.
Una parte di me mi fece notare che, in fondo, si trattava di un segnalatore di posizione e che avesse certo più senso metterlo a Ry, che agiva dietro le quinte, piuttosto che a me o Greg che facevamo le cose in modo decisamente più teatrale. Però l’altra parte continuava a dirmi che c’era qualcosa di strano e la parola ‘dimostrazione’ continuava a rimbalzare da una parete all’altra del mio cervello.
Ryan si piazzò di fronte alla Williams, deciso, e lei gli sorrise, brutto segno, prima di allungare una mano verso di lui. Ry non esitò a darle la sua né smise di guardarla di faccia mentre lei gli allacciava con calma il braccialetto nero al polso.
Sentii un brivido spiacevole lungo la schiena quando il sorriso della preside si allargò nel lasciare la mano di Ry e la cosa mi inquietò molto. Sembrava troppo felice per aver solo…
Che diavolo è quello?!
Mi irrigidii notevolmente vedendo la Williams chinarsi e tirare fuori un piccolo telecomando, simile a quelli per l’apertura delle auto, dalla scatola.
“Ricordate, ragazzi,” ci dice, guardandosi attorno con un’espressione melensa, “queste sono solo misure drastiche che qualche ragazzo davvero tanto indisciplinato ci ha costretti a prendere, ma non saranno applicate a tutti, solo a chi dimostrerà di meritarlo, va bene?”
Non mi piace, non mi piace, non mi piace. Misure drastiche, ha detto. Non mi piace, non mi piace per niente.
Feci appena in tempo a stringere la presa sullo schienale della sedia, nel tentativo di calmarmi, che le Williams iniziò a premere il pulsante sul comando.
E Ryan gemette.
Si irrigidì, iniziò a tremare un po’ come se stesse lottando con qualcosa di molto più forte di lui e il suo viso perse immediatamente colore mentre gli occhi si sgranavano e le labbra andavano a stringersi nel tentativo di trattenere un verso di dolore che comunque echeggiò nella sua gola. Le gambe di Ryan vacillarono e la Williams sorrise così, finalmente, capii.
Quell’affare non era un localizzatore, come per i detenuti. Era la versione più piccola di un collare a scossa e la Williams lo stava usando su Ry.
“No!” esclamai, saltando in piedi, ma tutto ciò che ottenni fu che King mi si parasse davanti, trattenendomi, mentre la Williams continuava a tenere premuto quel pulsante maledetto.
Ryan non resse più e crollò a terra in ginocchio, la testa che si piegò fino a toccare le cosce con la fronte e la mano sinistra che piantò le unghie nella carne del polso destro nel tentativo di artigliare il bracciale e strapparlo via. Gemette ancora.
La Williams lasciò andare il pulsante e, come rispondendo a sua volta al comando, Ryan inspirò profondamente, facendomi capire che aveva smesso di respirare con l’iniziare del flusso di corrente elettrica, ma rimase a terra.
“Alzati, Hastings.” disse la Williams, con la stessa dolcezza che avrebbe potuto usare mia madre per dirmi che era il mio compleanno.
Io ero immobile, paralizzato nella presa di King, e continuavo a fissare Ryan che aveva iniziato a tremare come una foglia. Ricordavo che i movimenti, nel nostro corpo, erano fondamentalmente garantiti dall’energia perciò la scossa elettrica doveva aver innescato una serie di movimenti involontari nei suoi muscoli.
La sala era silenziosa, fissavamo tutti Ry con la bocca spalancata e nessuno osava intervenire per paura di metterlo nei guai. Finché avesse avuto quell’affare al braccio, non potevamo neanche pensare di muoverci di un millimetro.
“Haaastiiings…” canticchiò la Williams, muovendo un po’ il comando a destra e sinistra.
Ryan ansimava e aveva ancora dei tremiti molto forti perciò, quando provò ad alzarsi, fece pochi centimetri e ricadde in ginocchio. Dio, quanto forte doveva essere stata, la scarica, per ridurlo così?!
Ryan ansimò ancora. E la Williams premette di nuovo il tasto.
“BASTA!” gridai, ma la scossa fu più rapida della mia voce e l’intero corpo di Ryan si contrasse in uno spasmo unico mentre un mezzo grido di dolore gli scappava dalle labbra e la schiena gli si inarcava verso l’alto.
La Williams mollò la presa sul tasto quasi subito, questa volta, ma lo stesso Ryan crollò in avanti ansimando pesantemente e riprese a tremare.
Ero sconvolto.
La preside non chiese a Ryan di alzarsi, forse aveva sempre saputo che non ce l’avrebbe fatta, ma si inginocchiò, gli prese il polso e infilò nel piccolo buco che stava sul lato della scatola di plastica una specie di chiave elettronica per antifurto. Il braccialetto si aprì e lei lasciò andare Ryan, incurante del fatto che fosse ancora in ginocchio, e si alzò per mostrarci il suo prototipo come fosse un trofeo.
“Bene, ragazzi!” disse subito dopo, allegra, “Buona colazione.”
Appena lei si fu voltata verso il suo tavolo, King mi mollò e sia io che Greg corremmo ad afferrare Ryan.
 
Restare a distanza da Ry quando era palese che lui stesse soffrendo faceva male, un male cane, tanto a me quanto a Gregory, ma rimanemmo zitti e obbedimmo alla sua richiesta mentre lui, la fronte premuta contro il vetro gelido della finestra e le mani strette violentemente al davanzale, respirava lentamente.
Eravamo sulle scale che portavano al terzo piano, dalle classi. Avevamo portato Ryan lì subito dopo l’episodio in mensa e l’avevamo fatto sedere sui gradini in attesa che si riprendesse. Era stato poi lui a chiedere che tutti gli altri, Scott e Walt e compagnia bella, andassero via, ma io e Greg ci eravamo rifiutati di lasciarlo da solo. Dopo poco era riuscito ad alzarsi in piedi, ma non voleva essere toccato e perciò a noi toccava stare ad almeno un metro di distanza da lui, per lasciare che si riprendesse. Ma, diavolo, quanto faceva male vederlo così e non poterlo aiutare!
Ryan prese un respiro profondo, poi aprì gli occhi e puntò le iridi castano scuro sul mio viso.
“M-at?” chiese, con la voce che si spezzava, roca. Tossicchiò cercando di riprendersi e poi sospiro. “Ricordi che ‘stamattina ti ho detto…” deglutì, “che c’era ancora una settimana?, che quindi avevamo tempo?” Annuii, serio, e lui scosse la testa violentemente. “Ho detto una cazzata. Non abbiamo tempo, neanche un po’. Non devi dare a quella strega la possibilità di mettere quei bracciali su qualcun altro.”
Ryan era serio, come poche volte prima. Mi avvicinai a lui fino ad arrivargli di fronte, deciso.
“Lo facciamo oggi, Ryan.” dissi, secco, “Ti giuro che ce ne andiamo da qui.”
Ryan non disse nulla, ma annuì e nei suoi occhi vidi che ancora si fidava di me.
 
“Alfred, mi senti?”
Dica, Mathieu.
“Lo facciamo oggi, la Williams ha…”
Ho visto. Il suo amico sta bene?
“Hai quello che ti serve?”
Aspetto solo che lei mi dica di mandarlo.
“Mandalo. Lo facciamo oggi.”
Benissimo. Ah, Mathieu?
“Sì?”
In bocca al lupo a tutti voi.
 
Quando entrammo in classe, dopo gli altri, la lezione era già iniziata e la Spencer si avvicinò a noi minacciosa, pronta a dirci qualcosa, ma a quel punto la mia pazienza era esaurita perciò la fissai con un’occhiataccia che la fece sbiancare. Ry e Greg mi guardarono, probabilmente sgomenti dalla mia rabbia, ma proprio non ne potevo più. Tutte le sante volte che arrivavo ad un soffio dal tirare gli altri fuori dai guai, la Williams trovava una scusa per far loro del male e quello non mi andava giù per niente.
Dovevamo farlo? Bene, allora era venuta l’ora di darsi da fare.
Mi bloccai a metà del corridoio tra i banchi e presi un respiro profondo poi mi voltai e tornai indietro fino a piazzarmi di fronte alla Spencer.
Con la coda dell’occhio notai i due ragazzi in prima fila sulla sinistra irrigidirsi e spostare i piedi fuori da sotto al banco, pronti a scattare, e sorrisi per l’organizzazione precisissima di Ryan, poi tornai a guardare la professoressa che sembrava impietrita.
“Prof?” dissi.
Lei quasi sobbalzò, ma si diede un contegno e afferrò la bacchetta come se quella avesse potuto difenderla da tutto.
“Cosa vuoi?” ringhiò.
“Solo chiederle scusa.” risposi, con un’espressione angelica. “Per questo.”
Lei sgranò gli occhi, confusa, e io spostai i miei su Jack e Philippe che saltarono in piedi e arrivarono ad afferrare le braccia della Spencer, prendendola alle spalle.
La Spencer urlò.
Sapevo che l’avrebbe fatto, avevamo poco tempo, perciò mentre Jack e Phil trascinavano la Spencer lontana dalla porta, Ryan si occupò di evacuare gli altri fuori dall’aula. Quando fummo tutti fuori, i due mollarono la prof e scattarono verso la porta, uscendo dalla classe. Di corsa, chiusi a chiave, bloccando la Spencer dentro, e poi mi strappai di dosso la giacca nera, ansioso, e mi concessi di guardarmi attorno.
Le porte delle altre aule erano aperte, qualcuna perché il professore era uscito a controllare e qualcuna perché i miei compagni stavano provvedendo, comunque in poco tempo tutte furono richiuse con gli insegnanti bloccati dentro e ben presto il corridoio fu intasato dagli ottanta studenti della Chess.
“Non se ne sono accorti!” urlò Walter, dal suo punto d’appostamento alla finestra dove fissava le guardie della sicurezza che controllavano il perimetro della scuola.
“Forse neanche la Williams…” azzardò Larry, ma io lo ignorai per correre da Gregory, accanto alla porta della classe del primo anno, al quale stava sanguinando copiosamente un labbro.
“Cosa…?”
“King.” borbottò lui, senza farmi finire, ma si aprì in un sorriso soddisfatto, “Però gliel’ho restituito, prima di chiuderlo dentro.”
La sua espressione era così soddisfatta e il tono così compiaciuto che non potei fare a meno di sorridere, contento, mentre con lui iniziavo a correre verso la porta che dava sulle scale.
Ryan aveva già iniziato a far salire gli studenti verso il sottotetto.
“Sei sicuro di quello che facciamo, Mat?!” chiese Alex, avvicinandosi, “Ci andiamo a mettere con le spalle al muro, così!”
“Non possiamo scendere.” scossi la testa, “C’è la Williams e tutta la sicurezza e i dipendenti: ci prenderebbero subito!”
“E lassù no?” intervenne Scott, aggrottando la fronte.
“Lassù non possono prenderci e comunque, se tutto va come abbiamo programmato, non dovremo starci a lungo.” lo riprese Gregory, secco, correndo come al solito in mia difesa.
“E se le cose non vanno come abbiamo programmato?” ci chiese, da lontano, Walter. Non rispondemmo, ma lo guardammo. Era pallido. “Perché” continuò, “credo che ci abbiano scoperti. Stanno venendo su.”
Merda! Mi guardai attorno. No, forse no. Eravamo rimasti solo noi, io con Ryan e Greg e Alex con Walt e Larry e Scott, quindi potevamo farcela a infilarci tutti nel sottotetto prima che ci raggiungessero.
“Correte!” urlai, spingendoli fuori.
Aspettai che Walt ci raggiungesse, ignorando a fatica gli improperi e le minacce che arrivavano dagli insegnanti bloccati nelle classi, e poi uscii sulle scale, iniziando a salire i gradini verso l'alto.
“Che diavolo…?!”
Mi voltai dopo pochi passi, sgomento, nel sentire quella voce, ma non lo feci abbastanza in fretta e la Williams riuscì ad afferrarmi per un braccio.
“Mi molli!” ringhiai, iniziando a strattonare, ma lei piantò le unghie nel mio braccio.
“Tanto vi riprendo!” sibilava, “Non andrete da nessuna parte, nessuno di voi! E a te… Ti giuro che troverò il modo di strapparti la pelle, vedrai!”
Strinsi i denti cercando di ignorare il dolore e le piccole goccioline di sangue che iniziavano a macchiarmi la camicia.
“Non ci contare, stronza!”
Non feci in tempo a provare paura perché qualcosa mi arrivò alle spalle e mi spintonò facendomi sbattere lo stomaco, e le costole offese, contro il corrimano. Strinsi i denti, imprecando mentalmente, ma mi voltai e scoprii che la Williams non solo aveva mollato la presa, ma indietreggiava perché Gregory l’aveva afferrata per i polsi e la stava strattonando di nuovo verso il pianerottolo del terzo piano.
Però vidi anche gli uomini della sicurezza a due rampe a malapena da loro due, che ancora lottavano furiosamente.
“GREG!” urlai, ma lui non si voltò.
Grugnì e spinse con forza. La Williams barcollò indietro oltre la porta del terzo piano e cadde rovinosamente nel corridoio. Greg chiuse la porta e fece appena in tempo a far scattare la chiave per voltarsi e tirare un pugno all’addetto che stava per afferrarlo. L’uomo cadde, colpendo il compagno, e parecchi di coloro che stavano dietro di loro barcollarono rischiando di cadere e causare un effetto domino.
Né io né Greg ci fermammo a controllare se accadde oppure no, ma corremmo su, raggiungendo gli altri al sesto piano.
Ci infilammo nel sottotetto e, in quanto ultimi, chiudemmo la porta a chiave dietro di noi, barricandoci dentro.
“Mat, e adesso?!” esclamò Ryan, guardandosi attorno.
Da lì in poi, sapevo solo io cosa sarebbe successo. L’avevo fatto per proteggere gli altri, ma ora mi rendevo conto che se la Williams mi avesse preso sarebbe saltato tutto. Per fortuna non era successo.
Corsi all’abbaino e provai a tirargli una spallata. Le mie costole imprecarono immediatamente per il riverbero del colpo che le percorse e in tempo pochi secondi Walter e Greg avevano preso il mio posto nello sfondare il vetro. La porta iniziò a cigolare sotto i colpi degli uomini all’esterno e parecchi ragazzi si affannarono a tenerla bloccata mentre altri prendevano il letto e lo spostavano a bloccare l’entrata. La lunga stanza fu subito invasa da un insieme di mormorii, grida confuse e suoni di colpi, in una cacofonia confusa che mi spaccava i timpani. La finestra cedette e il blocco della serratura si ruppe, ma i cardini rimasero intatti così potemmo rivoltarla all’esterno, aprendo un varco verso l’aria pura e non piena di polvere.
Uno ad uno, iniziammo a salire sul tetto.




Oh yes, guy, finisce così v.v
Il mio sadismo sta peggiorando, ma dovete rassegnarvi: non è curabile XD
L'influenza mi permette di prestare più attenzione a ciò che scrivo quindi spero non ci siano errori... Vabbé, detto questo: che ve ne pare?, ormai ci siamo, la rivolta è iniziata e la storia si avvia alla sua fine :)
Credo sia la long più corta che io abbia mai scritto XD
Se qualcuno ha voglia di leggere, consiglio caldamente
Naughty Blu- Che conseguenze può avere una minaccia?, che trovate anche cliccando qui sopra il suo titolo, storia che ho recentemente "ritrovato" e che mi sta appassionando da matti! :D Secondo me potrebbe piacere ai lettori di Chess Academy...però preparatevi a voler tirare qualche sberla ad alcuni dei personaggi -.-
Vabbé, scappo...
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 21
*** Vieni a letto con me... ***











Capitolo 20: Vieni a letto con me
 
Quando richiudemmo la finestra, dopo che tutti fummo sul tetto, sentimmo netto il suono della porta che veniva sfondata e della brandina del letto che cigolava violentemente mentre veniva fatta a pezzi. Ci mettemmo in cinque a tenere bloccato l’abbaino rotto mentre gli altri si muovevano a prendere i copertoni, che erano stati messi dalla scuola per la neve ma che ancora non erano stati tolti, così da metterli a bloccare la fessura.
Anche da lì fuori, l’urlo della Williams ci arrivò nitido quando le fu riferito che non potevano salire a prenderci, anche perché il passaggio era stretto e noi potevamo vantare la posizione strategicamente dominante. Inoltre, se uno solo di noi fosse caduto, lei avrebbe passato l’Inferno e di certo non era quello che voleva.
“Crepate pure di fame!” ci urlò, al culmine della rabbia, prima di far sigillare l’abbaino dall’interno tanto per farci capire chi avesse il coltello dalla parte del manico.
Sorrisi di fronte a quella follia e scossi la testa. Tenevo una mano premuta sul fianco che avevo sbattuto contro il corrimano, le mie costole stavano singhiozzando per il dolore atroce e perciò io ero ben deciso a rimanere un momento fermo, seduto, e a non fare sciocchezze che avrebbero potuto farmi precipitare da un’altezza considerevole.
“Ok…” commentò Ryan, un po’ confuso, guardandomi, “Ora che si fa?”
Con il mento, stando attento a non prendere respiri troppo profondi e a non muovere troppo il busto, gli indicai la torretta.
“Il collegamento con la scuola è stato murato, ma le finestre no.” gli feci notare, “Dovrebbero esserci dentro dei borsoni. Credo ci sia acqua, qualcosa da mangiare e probabilmente dei medicinali, se Alfred ha fatto bene. Giuro che se c’è una scatola di aspirine la requisisco per me stesso e al diavolo voi altri.”
Accompagnai le mie parole con una smorfia, tanto per ribadire il concetto, e poi mi lasciai cadere all’indietro sdraiandomi di schiena con lentezza. Avevo male, d’accordo, ma avevo intenzione di godermi appieno la soddisfazione che stavo provando in quel momento e perciò mi presi un attimo per riprendere fiato e calmare il dolore.
Mentre Ryan, un po’ barcollante, camminava sulle tegole per raggiungere la torretta, Gregory si sedette vicino a me, in silenzio.
Attorno a noi c’erano settant’otto ragazzi sul tetto di un palazzo di sei piani, in bilico su vecchie tegole che potevano tranquillamente rompersi da un momento all’altro ma felici come mai prima. Qualcuno alzava il viso al cielo godendosi il sole come se non l’avesse mai visto prima e qualcuno si rannicchiava su se stesso con espressione confusa come se non riuscisse a credere di essere davvero fuori, qualcuno se ne stava in piedi a braccia larghe e rideva come un pazzo mentre qualcuno si aggrappava spasmodicamente ad un qualsiasi appiglio apparisse solido nonostante il sorriso sulle labbra. Tutti eravamo spaventati, non potevamo prevedere cosa avrebbe fatto la Williams, ma eravamo anche tutti presi da una sensazione di libertà assurda, forse anche stupida visto che di fatto eravamo ancora prigionieri sul tetto. Ma era ciò che avevamo fatto ad averci resi liberi. Poco importava dove fossimo, noi avevamo preso la nostra occasione al volo, avevamo chiuso a chiave i professori nelle classi, li avevamo strattonati e imprigionati come tante volte loro avevano fatto con noi, e ne avevamo ignorato le grida. Per una volta, il coltello dalla parte del manico l’avevamo noi. Poteva mettersi a piovere, nevicare, grandinare, e noi saremmo comunque scoppiati a ridere perché sapevamo che qualche metro sotto di noi la Williams si stava mangiando il fegato per la rabbia.
“Mi dispiace.” Voltai, sorpreso, la testa verso Gregory e lui mi rivolse un sorriso mesto indicandomi con un cenno del mento le costole che tenevo strette con una mano, “Non volevo farti male.”
Ci misi un attimo a connettere, ma poi sorrisi e scossi la testa.
“Lascia stare.” lo rassicurai, incapace di farmi guastare il buonumore. Era mattina presto quindi il sole colpiva Gregory in viso, ma poiché lui era voltato verso di me la luce gli creava tante ombreggiature sul viso, come una foto un po’ sfocata. A tratti, aveva la pelle che rifletteva la luce come brillasse, mentre altre zone erano coperte da ombre leggere. L’occhio destro, più illuminato, appariva di un azzurro luminosissimo, mentre quello sinistro, in ombra, sembrava il blu scuro del mare aperto. Le labbra erano mezze luminose e mezze no, come una promessa peccaminosa che dicesse di poter essere tutto e il contrario di tutto, ogni cosa io volessi. “L’hai fatto per difendermi.” ricordai al biondo, cercando di deglutire, per risolvere la secchezza della gola, senza però uccidere le mie costole, “Non fartene una colpa, ok? Quantomeno tu non volevi…”
Lanciai un’occhiata significativa alla manica della mia camicia su cui si aprivano nette cinque macchiette rosse, lì dove la pressione delle unghie della Williams aveva aperto piccoli taglietti, e Gregory si rabbuiò, stringendo le sue famose labbra in una linea sottile e arrabbiata che mi fece desiderare di baciarlo ancora di più. E il mio inguine si tese in modo preoccupante, in risposta a quella visione.
“Avrei dovuto buttarla giù dalle scale…” bofonchiò il mio biondino, offeso, e io sorrisi.
Con un pensiero malefico in testa, decisi di tirarmi su, ma a metà del movimento mi ritrovai piegato su me stesso da un dolore atroce al petto.
“Mathieu?! Mathieu, che hai?!” Gregory era sgomento, infatti prima ancora che potessi rispondere si voltò all’indietro e iniziò a chiamare Ryan.
No, Ryan no, poi come faccio a sbarazzarmi di lui?! Io avevo un progetto, per ora!
Il moro, invece, arrivò subito.
“Che succede?!” chiese ma, tale e quale al suo amico, non attese risposta e si inginocchiò accanto a me, dall’altro lato rispetto a Gregory e iniziò a studiarmi.
“Si è tirato su e poi ha iniziato ad aver male, ma si teneva il petto già da prima.” riassunse il mio caro biondino. Spione!
Ryan iniziò a tastarmi piano i fianchi facendo passare le dita sotto le mie braccia, ma poi si rivolse a Greg.
“Aiutami a fargliele alzare.” ordinò mentre, di suo, mi afferrava con una mano per il polso e con l’altra all’altezza del gomito e mi costringeva a stendere gli arti davanti a me. “Pronto?” mi chiese.
“Fa differenza?” borbottai, offeso, e lui sorrise appena mentre, in sincrono con Greg, provava ad alzarmi le braccia tese verso l’alto.
Una lama di dolore puro mi tagliò in due all’altezza del petto, squartò i miei polmoni aprendoli come volantini pubblicitari, e io gridai per il male. Urlai proprio, con tutto il fiato che avevo in gola, attirando su di me gli sguardi di tutti.
Greg e Ryan si affrettarono a mollarmi e io mi portai subito le mani alle costole, imprecando di dolore dietro gli occhi pieni di lacrime.
“Cazzo…” mormorò Ryan, stringendomi una spalla con la mano.
Cazzo lo sapevo dire anche io, Ry!” ringhiò Greg, “Quello che devi dire tu è che cos’ha!”
Strinsi la lingua tra i denti nel tentativo di non singhiozzare per il male atroce, poi alzai gli occhi sul moro che, però, fissava l’altro suo amico come se io non esistessi.
“Credo si sia rotto di nuovo una delle costole sulla sinistra del petto.” ammise Ryan, mesto, “Non sono ancora a posto e la saldatura era fragile, probabilmente il colpo contro il corrimano è stato abbastanza forte da spaccarne di nuovo una.”
No, non di nuovo! Non riuscivo a crederci, non volevo crederci. Una costola rotta voleva dire di nuovo dolori allucinanti ad ogni movimento, stilettate tanto forti da farmi quasi piangere ad ogni dannato respiro, per non parlare delle grida di dolore ad ogni fottutissimo colpo di tosse. Quel dolore era atroce e più volte durante gli accessi di essa mi ero sorpreso a singhiozzare e a implorare a gran voce Ryan o Gregory, chiunque mi fosse accanto, di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di farlo smettere. All’inizio mi avevano riempito di antidolorifici finché ne avevamo avuti e poi, in assenza di essi e privati della possibilità di ricevere qualsiasi oggetto per ordine della Williams, Walt e Ryan avevano deciso di dar fondo ai sonniferi di cui disponevamo, perfino quelli più pesanti, ma erano pochi ed erano bastati per appena qualche giorno poi era diventato un Inferno. Avevo passato notti in bianco perché non riuscivo a stare sdraiato in nessuna posizione senza avere la sensazione di stare cadendo a pezzi e una volta, dopo una settimana quasi senza sonno, nel delirio pieno di sofferenza del dormiveglia, avevo supplicato Greg di ammazzarmi. Deglutire, cibo o acqua indifferentemente, era una tortura e Ryan aveva dovuto darmi delle purghe e farmi dei clisteri perché potessi andare in bagno. Mi ero sentito inutile, un peso, e le mie debolezze mi avevano fatto vergognare fin nelle mie ossa sbriciolate. E adesso ricominciava tutto da capo per un maledettissimo corrimano!
“No…” sussurrai, scuotendo la testa, e non dovetti aggiungere altro perché i miei amici capissero. Mi erano stati vicini, avevano visto la mia lotta rovinosa con quel male e sapevano che la sola idea di doverlo combattere di nuovo mi spaventava e spezzava.
“Ehi, ehi, ehi!” provò a bloccarmi Gregory, passandomi un braccio dietro le spalle con delicatezza e stringendomi un gomito con l’altra mano, “Siamo qui, d’accordo? Staremo con te anche ‘stavolta e passerà in fretta, vedrai…”
“È solo una, Mathieu, al massimo due nella stessa zona.” mi rassicurò Ryan.
Io non dissi niente, non volevo smontare il suo sogno di gloria, ma un gemito tradì il mio pensiero.
“Forse è meglio se lo porto nella torretta.” commentò Greg, come se non esistessi, guardando l’amico, “Se gli viene una fitta mentre è in piedi, rischia di volare di sotto.”
Ryan annuì, senza neanche pensare di chiedermi la mia opinione, e io mi ritrovai costretto ad alzarmi. Mi chiesi, distrattamente, come avessi fatto ad arrampicarmi sul tetto senza sentire il dolore, ma quel Gregory alla mia destra pose la domanda al posto mio e Ry scrollò le spalle mentre, con attenzione, mi sosteneva a sinistra.
“Credo sia stata l’adrenalina.” intervenne Walt, spostandosi per farci passare e fissandomi con preoccupazione, “La paura della fuga ha stimolato l’adrenalina e forse anche le endorfine e così il cervello ha ignorato il dolore per concentrarsi sul pericolo più imminente. Una volta al sicuro e con l’adrenalina esaurita, il male è tornato.”
Questo sì che mi rassicura. Preside Williams, non è che avrebbe voglia di saltarmi alle spalle facendomi ‘Buh’? Magari serve…
Gregory e Ryan mi fecero scavalcare con delicatezza la finestra della piccola torretta circolare che stava sul tetto e poi mi fecero sedere piano sul pavimento coperto da tanta polvere e qualche calcinaccio. Era una stanza circolare di forse tre metri di diametro, alta sì e no altrettanto, con due piccole finestre ad arco ogivale poste l’una di fronte all’altra e con il soffitto di legno vecchio e ingrigito dal tempo.
“Va’ pure a occuparti degli altri.” disse Greg a Ry, sedendosi piano vicino a me, “Io resto con lui, tu cerca di tenerli insieme e di impedire che qualche idiota caschi di sotto.”
Ryan annuì, sorridendo mesto, e mi guardò. Mentre ricambiavo l’occhiata con un’espressione afflitta, mi posò una mano su una guancia, in una lunga carezza resa ancora più delicata dal movimento lento del pollice sul mio zigomo.
In un attimo sgusciò via, abbassandosi alle spalle il drappo di stoffa nera che una volta doveva essere una pregiata tenda.
“È fortunato che io sia sicuro della sua eterosessualità.” Mi voltai con la testa, sorpreso, verso Gregory e lo trovai intento a fulminare la finestra dalla quale il suo amico era sparito. “Se non fossi più che certo che sta con mia sorella, lo starei già buttando di sotto.”
Per un attimo non realizzai, poi sgranai gli occhi.
“Greg!” provai a protestare, nonostante le fitte al petto, “Ryan non…”
“Ryan ti ha accarezzato in un modo che non mi è piaciuto per niente.” mi interruppe il biondo, scuotendo la testa. Prima che potessi aggiungere altro, passò piano il dorso delle dita sulla mia guancia, languidamente, e ruotò piano la mano quando fu certo che così le punte delle sue tre dita più lunghe mi sfiorassero la linea di apertura delle labbra. Fu lento e crudele, lì sulla mia bocca, e poi passò oltre per mettere il palmo a coppa sull’altro lato del mio viso mentre il suo si avvicinava sempre di più.
“Neanche a me è piaciuto tanto…” sussurrai, incapace di reagire a quello sguardo predatore, “Non…” tentai di deglutire nonostante il dolore, “Non quanto questo modo, almeno…”
Gregory sorrise, soddisfatto, e mi premiò con un bacio casto sulle labbra, poi usò la mano sul mio viso per farmi posare la testa sulla sua spalla e infilò l’altro braccio a cingere le mie, dietro il collo.
“Sarà più facile dell’altra volta.” mormorò, pianissimo, tornando all’argomento principale, prima della nostra digressione erotica, “Riuscirai a dormire senza sonniferi sdraiandoti su un fianco e…”
“E dovrò trovarmi un lecchino che mi imbocchi, che raccolga tutto ciò che mi cade, che mi vesta e mi svesta e che mi accompagni pure a cagare.” ringhiai, disperato per la situazione e offeso per i miei progetti in fumo.
Avevo a malapena assaggiato di nuovo la possibilità di respirare senza dolore, di essere abbracciato, di essere autonomo nelle cose più basilari della mia vita, e invece ero da capo.
“Vorrà dire che lo farò io.” assentì Gregory, sorridendo in modo strano. Tirai su la testa e lo fissai, confuso, ma lui avvicinò davvero troppo il viso al mio perché potessi ragionare razionalmente.
“Ti imboccherò.” sussurrò, suadente, passando la punta dell’indice sul mio labbro inferiore. Il gusto d’arancia scivolò dentro come veleno, stordendomi e intossicandomi, stuzzicando la dipendenza che ormai avevo sviluppato da lui.
“Se mai…” la punta dell’indice scappò dalle mie labbra, scivolò giù per il mento e poi lungo il collo, “…ti dovesse cadere qualcosa,…” il dito corse lungo la fila dei bottoni della mia camicia, indugiando sulla zona dello stomaco, “…io mi inginocchierò davanti a te…” la punta dell’unghia scese ancora di più, malefica, fino alla zona lombare per mettersi a giochicchiare con i punti della zip dei pantaloni, “…per raccoglierlo.”
Salvatemi!
“Ti vestirò…” Gregory allungò le gambe, attorcigliandole un po’ alle mie, e portò la bocca accanto al mio orecchio, senza spostare la mano dal cavallo dei miei pantaloni, “…e ti svestirò.”
Anzi, no, non salvatemi…
“E ti accompagnerò anche in bagno…” Le labbra di Gregory iniziarono a giocare con il mio lobo destro, facendomi perdere definitivamente la ragione. “…anche quando dovrai farti la doccia…”
“Non…” Ragione, devo ritrovare la mia ragione. “Non ho parlato della doccia…io…” ansimai, gli occhi semichiusi e la bocca semiaperta, in un’espressione d’abbandono totale a quel biondo malefico accanto a me.
Era pazzo, decisamente. O forse lo ero io visto che ognuna delle sue parole mi era parsa un’allusione a…qualcos’altro. E l’avevo fermato! Quale persona sana di mente lo avrebbe fermato?!
Nel tentativo di riprendere un po’ di dignità, girai la testa di lato portando via il mio orecchio al gioco crudele della bocca di Gregory, ma lui si limitò ad indietreggiare un po’ con il viso, continuando a sorridere, senza mai togliere la mano che non mi cingeva le spalle dal mio inguine ma appoggiandola bellamente sull’interno di una delle mie cosce, come se nulla fosse, dando deliberatamente fuoco ad alcuni dei pochi neuroni che mi erano rimasti.
“Non mi sembrava il caso di parlare del tuo fondoschiena,” ribatté, placido, “ma se proprio ci tieni…”
“No.” lo bloccai, in un’ammissione divertita accompagnata dal sorriso che era riuscito a strapparmi.
Gregory sorrise a sua volta, molto meno malizioso di prima, e tolse la mano dalla sua posizione strategica per metterla invece sulla mia pancia. Sembrava soddisfatto del suo operato, come se già avesse finito il suo dovere, e la cosa mi fece impensierire.
Gregory mi era stato così vicino in quelle settimane da aver fatto aumentare a dismisura il sentimento che provavo per lui e al quale ancora non volevo dare un nome, forse solo per una mera questione scaramantica. Il mio biondino non mi aveva abbandonato una volta, nonostante i miei sfoghi e anche le brutte parole che a volte gli avevo tirato addosso esasperato dal dolore, mi aveva protetto dai professori e aveva dormito sul pavimento per rimanere accanto al mio letto così tante notti che faticavo a ricordare quante fossero.
Di contro, avevo bene in mente la prima volta che si era presentato nella nostra stanza per assicurarsi che dormissi…
 
Faceva male, tanto male, un dolore atroce, e nel buio continuavo a tremare. Mi mordevo le labbra a sangue pur di non gemere né piangere per non svegliare Ryan, che aveva passato già due notti sveglio con me.
I medicinali erano finiti tre giorni prima, ma non mi ero ancora abituato al dolore atroce che era ogni minima cosa senza l’intorpidimento dei sensi.
Stritolai l’angolo della fodera del cuscino con una mano mentre, piano, cercavo con l’altra di asciugare le lacrime sulle mie guance.
Era così difficile anche solo l’idea di dover respirare ancora, il ricordo del dolore dell’inalata precedente era terribile ma poi al momento successivo impallidiva davanti alla sofferenza vera e propria. Il battito del cuore, accelerato dal male e dai brutti pensieri, colpiva ritmicamente la parte lesa, come un boia crudele che continuasse a frustare un prigioniero ormai allo stremo.
Mi sfuggì un singhiozzo e morsi ancora di più le labbra, finché sentii un liquido salato scivolarmi in bocca.
Fu allora che, tra le ombre, sentii la porta aprirsi e intravidi una figura scivolare nella nostra camera. Aprii la bocca per parlare, ma ebbi paura di fare un guaio. Nella mia mente, vidi King alzare il bastone per colpirmi ancora, nel sonno, e peggiorare la situazione. L’idea mi fece singhiozzare ancora, complici la stanchezza accumulata di giorni e il dolore fisico, ma un voce conosciuta mi scaldò un po’.
“Shhh… Mathieu, sono io… Tranquillo…” Sentire Greg, in quel momento, bastò a far rallentare il mio battito.
Con mia grande sorpresa, il biondino si sedette lentamente sul pavimento, accanto al mio letto, e allungò una mano sul materasso fino a trovare quella con cui stritolavo il cuscino.
“Lascia.” mi ordinò, piano, mentre si sdraiava e piegava l’altro braccio a fargli da guanciale, “Stringi me.”
Non me lo feci ripetere due volte e intrecciai, reso più sicuro dal buio e dalla notte, le dita alle sue, ringraziando il cielo che i letti fossero bassi e non lo costringessero a storcere troppo il braccio.
“Più forte.” mi intimò, dolce, “Fammi sentire quanto vuoi combattere.”
E lo feci, strinsi quelle dita fino a farmi male, ma sorrisi nel mio dolore sempre più grande, perché avevo un protettore speciale a farmi la guardia.
 
Prima di poterci pensare davvero, posai la fronte su quella di Gregory, strofinando il naso contro il suo, e solo dopo un attimo osai aprire gli occhi e, perso definitivamente in quel blu meraviglioso, pronunciai le parole che avevo iniziato a pensare durante quella lunga convalescenza.
 “Vieni a letto con me…”




Posate quelle armi, per favore! Ma perché ogni volta che finisco un capitolo in modo...(NdVoi: Brusco?!, maledetto?!, crudele?!, sadico?!) ...artistico!... dobbiamo finire con le minacce di morte nei miei confronti? (NdVoi: ARTISTICO?!?!?!?!?!)
Allora, lo so che come finale è un po' deludente (vorreste sapere cosa succederà, eh?!), però mi permetto di farvi notare che Mat non è al massimo della sua forma, no no, quindi chissà cosa succederà! v.v
Detto questo, passiamo ad altro, tipo l'importante AVVISO che devo darvi.

ATTENZIONE: la prossima settimana io sarò in Inghilterra, come sa chi legge Sulle Ali dei Violati, perciò TUTTE le pubblicazioni dovranno essere SPOSTATE.
Miei Lettori Sovrani, poiché io credo nel "vox popoli, vox dei" ("voce del popolo, voce di dio"): quando preferite l'aggiornamenti di Chess Academy che dovrebbe essere Mercoledì prossimo? Le opzioni sono o questo SABATO 9 o DOMENICA 17. Come al solito, potete dirmi la vostra opinione anche per messaggio privato o (se riuscite a "brincarmi") sul forum, se non siete recensori. Però, come sempre, vi ricordo che i tempi di pubblicazione di questa storia sono A MIA ASSOLUTA DISCREZIONE (che non dipende da capricci, ma solo dai miei tempi e dalle mie possibilità di scrittura) perciò NON È DETTO che possa seguire la vostra decisione.

Bene, sono contenta che abbiamo chiarito! XD
Fatemi sapere cosa preferireste, sono a buon punto con la stesura quindi potrei riuscire a pubblicare già Sabato se voi preferite così.
Detto questo, ci avviciniamo alla fine, gente! Ormai mancheranno un 4-5 capitoli, forse anche meno, ma non sono sicura :)
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 22
*** Istinto protettivo ***











Capitolo 21: Istinto protettivo
 
“Vieni a letto con me…”

Dal modo in cui Greg sbatté le palpebre, capii che si stava sforzando di capire se avesse sentito bene e cosa volessi davvero dire.
“Mat…” tentò ma lo interruppi premendo le labbra contro le sue con forza.
Ci sbilanciammo entrambi perché io mi ero messo in ginocchio e il bacio che stavo imponendo al biondino davvero non era delicato né casto e la violenza del mio slancio fece precipitare Gregory sulla schiena. Fui trascinato su di lui dalla mia stessa foga e il movimento scatenò un dolore assurdo nel mio petto, simile ad un gorgo nero che colpiva ripetutamente le mie costole e al contempo tentava di strapparle dalla carne per richiamarle in sé. Mi si spezzò il respiro e chiusi forte gli occhi per non lasciar cadere le numerose lacrime che sentivo correre alle palpebre, un calore assurdo mi ustionava il viso dall’interno, un po’ per il male e un po’ per l’imbarazzo della mia richiesta disperata, ma io cercai di irrigidire la mascella e continuare il mio operato. Le mani di Greg mi strinsero il viso nell’esatto istante in cui riuscivo a mettere la lingua nella sua bocca, ma mi staccò di peso, costringendomi a indietreggiare di una decina di centimetri.
Il dolore, l’ansia crescente per la situazione in cui mi trovavo, l’idea che Gregory si fosse allontanato da me si unirono e le lacrime che cercavo di sbarrare ruppero gli indugi con un singhiozzo che mi fece sobbalzare e peggiorò la situazione delle mie costole.
“Ehi…” mormorò piano Greg, tirandosi seduto senza mollare me che, a gattoni davanti a lui, continuavo a singhiozzare. “Ehi… Che succede?” Allargò meglio le mani sulle mie guance e con i pollici mi asciugò le lacrime mentre un’espressione preoccupata si estendeva ai suoi lineamenti. “Mat, sei bollente…” sussurrò, ma io scossi la testa.
“Vieni a letto con me…” ripetei e la voce mi uscì così spezzata e supplichevole che avrebbe fatto pietà anche a mio padre.
Ma a Gregory no. Lui rimase solo sconvolto.
“Che cosa?” chiese, confuso.
“Vieni a letto con me!” ringhiai, offeso dalla sua cocciutaggine, “Fa’ l’amore con me, scopami, fottimi, vedila come vuoi!”
Gli occhi del mio biondino si sgranarono ancora di più, ma fu solo un attimo e poi lui scosse la testa.
“No.” disse e bastò quello a farmi chiudere gli occhi mentre le lacrime aumentavano il loro ritmo. “Mat, non piangere, ti prego.” mi supplicò con un sorriso mesto, portando una delle mani a carezzarmi piano il collo, ma io la scossi e abbassai il viso, timoroso anche solo di guardarlo.
Avevo rischiato tutto e avevo perso. Capita a volte, ma in quell’occasione mi fece più male che mai.
Due dita lunghe e sottili, pallide, mi presero il mento con delicatezza ma solidità e mi costrinsero a rialzare lo sguardo. Mi ritrovai, a gattoni sul pavimento, a fissare gli occhi blu, dolci e pieni, di un Gregory più alto di me anche in ginocchio. Continuò a tenermi il viso fermo, ma con il dorso delle dita della mano libera mi spostò i capelli dal viso, per liberarlo e fissarlo.
“Mat, ascoltami.” mi sussurrò, ma più che una supplica apparve come un ordine e io mi ritrovai, immobile e muto, ad obbedire. Gregory sorrideva appena, ma gli si leggeva la serietà di ciò che stava per dire nelle iridi luminose e mobili, gentili ma determinate. “Vorrei.”
Bastò quella parola a far partire la mia testa. Le mie braccia si indebolirono, come gelatina, e il cervello mise da parte il dolore ancora cocente al petto per concentrarsi sulla visione che gli occhi gli portavano. Gregory era serio, molto, e aveva le labbra piegate appena verso l’alto, ma con qualcosa nell’angolo che mi faceva capire che non avrei potuto contestare la decisione che stava per rivelarmi.
“Mat, davvero, io vorrei farlo con te.” sussurrò, avvicinando il viso per strofinare il naso contro il mio in un gesto che mi strappò un sorriso. “Tu non hai idea” continuò, “di quanto io ci abbia pensato in questi mesi e di quanto difficile sia, adesso, dirti di no.”
“Allora non farlo!” intervenni, tentando di bloccarlo pur sapendo che era inutile.
“No.” ribadì Gregory, sempre serio ma senza alzare la voce. “Mat, tu stai male. Hai una costola rotta e non puoi permetterti uno sforzo del genere!”
“Ma non è vero…” provai a piagnucolare, ma l’espressione di Greg non mostrò cedimenti mentre lui scuoteva ancora la testa.
“Ho detto di no.” ribadì poi sospirò e mi guardò negli occhi con dolcezza, senza mai togliere le mani dal mio viso, “Mat, una costola rotta non è uno scherzo, ok? Tu lo sai bene. Anche volendo darti tutte le possibilità di questo mondo, da passivo come da attivo rischi di farti seriamente male, senza contare il fatto che le costole che ti si sono appena aggiustate sono ancora fragili: non correrò il rischio di farti soffrire o di romperti di nuovo qualcosa solo per una cosa del genere, è chiaro?” disse, il tono di voce che non ammetteva repliche.
Una parte di me era felice all’idea che Greg mettesse da parte gli impulsi più animali per il mio bene, che avesse un istinto protettivo così forte nei miei confronti, si sentiva importante e compresa, ma l’altra continuava a rinfacciarmi il cedimento avuto con mio padre.
“Tu non capisci…” mormorai, mentre scuotevo la testa per scacciare il ricordo spiacevole.
Fermai la testa voltata verso un muro, di lato rispetto a Greg, ma lui non si lasciò sconfortare.
“Va bene, allora prova a spiegarmi.” disse, calmo, come se avesse a che fare con un bambino.
Forse aveva ragione. Il dolore al petto era sempre più esteso e forte, strisciava piano verso la testa.
“Se io non vengo a letto con te,” sussurrai, “avranno vinto loro in ogni caso.”
Mi sentii un perfetto idiota per quelle parole, ma mi azzardai a guardare appena Gregory, il quale aggrottò la fronte.
“Ma che cosa dici?” chiese, confuso, e io scossi la testa.
“Ho…” esitai, provai a prendere un respiro profondo e a deglutire ma le costole mi fecero pagare cara la mia disattenzione, “Ho promesso a mio padre che se mi avesse fatto venire qui…avrei dimenticato di…di essere gay…”
Con mia enorme sorpresa, Greg annuì.
“Ryan me l’ha detto.” spiegò, sotto la mia espressione sorpresa, poi la sua espressione si rabbuiò un po’, “Però avevo capito che avevi deciso di non rispettare il patto.”
Annuii subito, deglutendo, ma poi chinai il capo.
“Io…” esitai, ma alla fine vuotai il sacco, “Io credevo di avere…un piano. Doveva essere infallibile, capisci? Credevo che mio padre non avrebbe mantenuto la sua parte dell’accordo, in qualche modo, ma invece lui non ha cercato di imbrogliarmi. Adesso…credevo che la Williams non avrebbe potuto niente contro la mia idea, pensavo di aver valutato tutte le possibilità, e invece per poco non è saltato tutto! Ho…ho paura di aver fatto lo stesso errore, Greg. Ho paura di aver scommesso male la mia possibilità e se anche solo una cosa non va come ho immaginato io allora…non avrò niente con cui trattare con mio padre…” singhiozzai, per la prima volta non solo per il dolore che ormai era mi arrivato alla gola, “Io non voglio dover dimenticare ciò che sono Greg, ma se proprio devo farlo almeno…almeno voglio poter dire che con te sono andato avanti fino alla fine! Voglio poter dire che sono stato tuo perché altrimenti… Se non vengo a letto con te, non ci sarà niente che potrà provare la scelta che ho fatto, io da solo. Non potrò mai più essere ciò che sono e finirò per fingere tutta la vita senza nemmeno la consolazione del ricordo di com’è stato averti dentro e io… Io non voglio che sia così, Gregory, ma non ho avuto altra scelta che fare quella promessa!”
A quel punto, le lacrime scendevano inarrestabili, i singhiozzi mi scuotevano fino ai piedi e ad ognuno di essi il dolore saliva lungo i nervi fino al cervello, sempre più, riempiendomi la testa di una sofferenza atroce che si mescolava a quella più intima che già stavo provando.
Le braccia di Gregory mi strinsero le spalle quando il dolore si fece insopportabile e iniziò a pulsare nel centro esatto del cranio, stordendomi definitivamente.
Mentre il mio corpo si accasciava contro quello del biondo, che mi fece posare le testa sulle proprie cosce, e il buio afferrò saldamente la mia coscienza per strapparla via, sentii quella voce che aveva il potere di terrorizzare il mio cuore tanto da fargli aumentare i battiti. Si increspò leggera nel mio orecchio, accompagnato dal rumore delle sue dita che scorrono piano sulla mia testa coperta appena da capelli di appena qualche millimetro.
“Troverai una soluzione, Mat… Lo so, lo fai sempre…”
E lo trovai molto ironico, perché era esattamente ciò che io avevo sempre pensato di lui.
 
“MAT! Mat, svegliati!”
Aprii gli occhi, confuso, e mi scoprii con la testa posata sulle cosce di Gregory e la mano del biondino intenta a stringermi con ansia febbrile una spalla. Ryan, fuori dalla torretta, teneva la tenda alzata con una mano e si guardava attorno con un’espressione che felice era dir poco. Ogni tanto qualche ragazzo spuntava ad abbracciarlo, ridendo.
“Ma cosa…?” provai a chiedere, aggrottando la fronte.
Greg era radioso e non badò alle mie parole per potermi stringere le spalle e aiutarmi ad alzare.
“Li hai chiamati tu?” mi chiese, con un sorriso da orecchio a orecchio.
Un faro si accese nella mia testa, indicandomi la via, e io sorrisi.
Alfred, ti adoro!
“Aiutami.” ordinai, troppo felice per aggiungere altre parole, e Greg obbedì ridendo.
Si portò un mio braccio attorno alle spalle e ne afferrò il polso con una mano, poi fece passare l’altra dietro la mia schiena per arpionarla al mio fianco. Con fatica, mia, e attenzione, sua, per via delle mie costole scavalcammo il davanzale della finestra. E mi ritrovai dritto tra le braccia di Ryan.
“Scricciolo!” disse, ma non aggiunse niente e io capii che era troppo felice per farlo.
Allungando il collo, potevo vedere il cancello della Chess Academy e, oltre quello, una folla assiepata e una ventina di camioncini.
Su ognuno di essi, un diverso logo televisivo.
“Se la polizia non può niente, chiama i giornalisti.” commentò Greg, ridendo e iniziando a sventolare il braccio non intento a reggermi per la vita.
Ryan scoppiò a ridere e a sua volta sventolò una mano mentre allungava l’altra a tenermi.
Io, in mezzo a loro, non potevo salutare, ma sorrisi comunque guardando la Williams e i professori correre al cancello.
Mio padre mi aveva dato l’idea, con la sua smania di proteggersi dalle mire dei media, e io l’avevo usata a mio vantaggio. In quel momento me lo immaginavo sbiancare vedendo la notizia alla TV, il suo incubo peggiore che diventava realtà.
In lontananza, guarda il caso, si iniziarono a vedere i lampeggianti della ‘police’ in arrivo.
Beh, meglio tardi che mai.
 
“Restate fermi! Adesso vi facciamo scendere!”
“E chi si muove?” Ryan rise, seduto sul bordo del tetto con le gambe a penzoloni nel vuoto.
Io e Greg avevamo optato per una distanza di almeno un metro dal cornicione, come tutti gli altri dotati di cervello, ma a Ryan la libertà in arrivo dava alla testa perciò lui aveva deciso di giocare con la sua vita ancora un po’, in attesa che gli agenti finissero di arrestare tutti i presenti nella scuola e riuscissero a sbloccare l’abbaino da dentro per farci scendere. I giornalisti, armati di megafono, avevano cercato di farci delle domande, ma noi eravamo troppo intenti a ridere per considerarli e così alla fine avevano montato un grosso schermo sul tetto di uno dei furgoncini e ora proiettavano immagini che noi, purtroppo, conoscevamo bene, ma che non riuscivano a rattristarci.
Quando il filmato della notte che Ryan aveva passato fuori finì e cominciò quello delle mie bastonate, mi strinsi di più a Greg e strofinai il naso contro il suo collo.
“Ti dà fastidio?” mi chiese, piegando appena la testa in modo da sfiorare la mia con la guancia.
“No, tranquillo.” lo rassicurai, sorridente, “Sto solo pensando a come deve aver reagito mio padre vedendo tutto questo passare in tv.”
Greg rise e io con lui. Quando smettemmo, il video era diventato la ripresa di quando Ryan aveva sopportato il bracciale a scossa.
“Come hai fatto?” mi chiese Greg, guardando le riprese ad alta definizione sebbene dalle inquadrature fisse.
“Sono i filmati delle telecamere di sorveglianza.” ammisi, scrollando le spalle, “Nelle classi non ce ne sono, ma all’esterno e nell’atrio sì: ho dovuto aspettare che la Williams punisse qualcuno sotto i loro occhi, ma alla fine ne è valsa la pena. Alfred ha preso le registrazioni e le ha spedite agli enti televisivi e adesso eccoci qui.”
Greg scosse la testa, ma sorrideva.
“È un po’ triste pensare che fino ad ora la polizia non ha potuto far nulla perché non riceveva i permessi di irruzione solo per via di uno stupido plico di stupidissime liberatorie con la decisamente stupida firma dei nostri genitori, mentre ora che l’opinione pubblica sa tutto i vertici decidono misteriosamente di ignorare quei documenti.” commentò con uno sbuffo, “Senza contare che tutti i nostri genitori negheranno di aver mai saputo alcunché.”
“Non si può vincere sempre.” scrollai la spalle, “Pensa solo che la Williams andrà in galera fino a quando non sarà vecchia.”
“Ah, beh, allora per poco.”
Ridemmo come stupidi e quasi non sentimmo l’abbaino che veniva aperto.
Si voltarono tutti quando il vetro venne rotto e per un attimo ci fu silenzio, ma quando vedemmo che la testa che sporgeva era quella di una paramedico saltammo tutti in piedi. Sì, beh, saltarono. Io andai un po’ più pianino, le costole che brontolavano.
 
Mi fecero calare per primo, lentamente, e mentre gli altri scendevano e venivano fatti uscire dalla scuola io rimasi su nel sottotetto perché il paramedico voleva controllare. Mi fece un’iniezione di antidolorifico e si complimentò con Greg e Ryan, fissi accanto a me come due bodyguard, per il lavoro fatto alle mie varie fratture, anche se era meglio aspettare una radiografia per dire qualcosa di più preciso. I due miei amici diedero il merito a Walt che scese, orgoglioso, assieme all’uomo che gli faceva domande.
“Sarà un dottore fantastico.” commentai, annuendo, mentre mi tiravo in piedi aggrappandomi ai miei due angeli custodi, che annuirono.
Scendemmo le scale con una lentezza esasperante, le mie braccia sulle spalle dei miei amici e le loro attorno alla mia vita, ma alla fine uscimmo dal portone appena in tempo per goderci il sottile vento che annunciava l’arrivo della primavera.
Alzai il viso per godermi il sole, ora che davvero ero libero, e intanto mi lasciai solleticare le orecchie dagli improperi che la Williams rivolgeva ai due agenti che la stavano arrestando, sotto il padiglione esterno dove si mangiava con la bella stagione.
“Questa sì che è una soddisfazione!” sentii dire a Gregory e sia io che Ry ridemmo, seppur concordi.
Stavo per dire una cosa, raccontargli l’altra bella notizia, ma fui distratto da un qualcosa biondo che attraversò il giardino, passando dal cancello all’angolo dell’edificio in un attimo, per puntare dritto sulla Williams che stava arrivando in quel momento, saldamente ammanettata e trattenuta dagli agenti. Prima che uno qualsiasi di noi potesse dire qualcosa, un pugno partì e prese la Williams sui denti, spintonandola indietro.
“PUTTANA!” urlò la macchia bionda, che scoprii così essere una donna, gettandosi ancora sulla preside e colpendola a casaccio mentre i due agenti tentavano di staccarla, “Stronza! Ti faccio passare tutto quello che hai fatto a mio figlio! Vieni qui, vigliacca! Vieni qui!”
Ottanta bocche erano rimaste spalancate dal vedere la madre di uno di noi saltare sulla Williams e tentare di sbranarla.
“Wow…” commentò Greg, alle nostre spalle, “Chi è?”
La donna, vestita in jeans e camicetta come se si fosse preparata in fretta e furia per presentarsi qui, con ai piedi un paio di stivali e i capelli biondi sciolti, si staccò infine dalla preside. Indietreggiò di alcuni passi lasciando la donna a tenersi il viso con grossi graffi e dal labbro contuso e, finalmente, si voltò verso la massa di studenti, probabilmente alla ricerca del figlio che aveva così arduamente difeso.
E l’ipotesi che fosse tutta una farsa per proteggere la propria reputazione crollò immediatamente quando potei riconoscere il viso.
“Mamma?!” esclamai, sgomento.
Ma che diamine…?! Un mese e mezzo fa tentava il suicidio e adesso era lì a picchiare a sangue la Williams?!
Mia madre ignorò tutti gli agenti che provarono a fermarla e venne verso di noi. Le costole mi fecero male in anticipo, prevedendo l’abbraccio che le avrebbe ferite, ma mia madre interruppe la corsa un attimo prima e si limitò a mettermi le mani ai lati del viso.
Aveva gli occhi verdi troppo luminosi, segno che stava per piangere, ma le labbra erano atteggiate in un sorriso ed era forse la prima volta che la vedevo fuori di casa senza trucco.
“Come…?” provai a chiedere, confuso.
Mia madre sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
“Ho torchiato Albert.” borbottò, “Mi ha detto cos’era successo e sono venuta qui tre giorni fa, ma non mi lasciavano entrare.”
La ascoltai con un orecchio solo. L’immagine di lei che prendeva a pugni e graffi la Williams era qualcosa che andava ben oltre quanto avessi osato sperare dal rifiorire del nostro rapporto, eppure era successo. Mi scaldò tanto che dimenticai le costole e lasciai le spalle di Greg e Ry per allungarmi ad abbracciarla. La mia mamma.
“Grazie.” le sussurrai all’orecchio, sentendola confusa sotto le mie mani.
Un attimo dopo, mi stava abbracciando a sua volta.
“Non dirlo nemmeno.” mi rimproverò, “Come madre sarò anche stata terribile, lo so, ma ancora possiedo quel minimo di istinto protettivo per far molto male a chi osa picchiarti.” Scoppiai a ridere ma lei scosse la testa, senza lasciarmi. “Non scherzo, Mathieu, sono seria. Che provino a toccarti un’altra volta, scopriranno fin dove sa arrivare una donna nel pieno delle proprie facoltà mentali e priva di paraocchi per proteggere il suo cucciolo. E si pentiranno amaramente di essersi avvicinati a lui.”




Et voilà, anche la mamma di Mathieu ha avuto la sua crescita. :D
So che può sembrare improvvisa, ma ricordate che per lei è passato un mese: ha avuto tempo di pensare, capire e decidere fin dove fosse disposta ad arrivare per il suo "cucciolo". Direi che ha deciso che la prigione per aggressione non poteva fermarla XD
Allora, ho preso una decisione molto sofferta: non aprirò più la pagina delle recensioni fino al mio ritorno, non guarderò proprio, fino al mio ritorno. Non so perché, forse perché questo capitolo preannuncia la fine della storia (ancora 1-2 capitoli, 3 massimo direi, non credo ce ne saranno di più) e vorrei vedere le vostre reazioni) o forse perché finalmente ho fatto picchiare la Williams da qualcuno e voglio godermi con calma le reazioni di chi scriverà XD
Quindi se non vi rispondo subito, sapete perché, ok?
Alla prossima settimana!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

P.S. Ho finito il capitolo...adesso, quindi se ci sono errori perdonatemi, correggerò tutto al mio ritorno, ma oggi ho ancora parecchie cosa da fare per la partenza di domani :)

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Capitolo 23
*** In cambio ***











Capitolo 22: In cambio
 
“Mamma, questo è Ryan, il mio compagno di stanza: è lui chi mi ha rimesso a posto le costole, la prima volta.” C’era una nota d’orgoglio nella mia voce e sorrisi: avevo degli amici fantastici, tanto valeva vantarmene!
Mia madre sorrise, radiosa, stringendo la mano di Ryan e chinando la testa in un muto ringraziamento per ciò che lui aveva fatto e Ry, ovviamente, scosse la testa per schermirsi.
“E questo” continuai, leggermente più imbarazzato ricordando il bel dialogo di due ore sul biondo che io e mamma avevamo condiviso prima del mio ritorno in Accademia, “è Gregory, un mio…”
Non feci neanche in tempo a finire la frase: gli occhi di Michelle Legris si accesero inequivocabilmente puntandosi sul mio biondino preferito.
“È un piacere conoscerti, Gregory!” disse, tranquilla, stringendogli la mano, “Mathieu mi ha parlato così tanto di te!”
Cercando di ignorare Ryan, scoppiato a ridere, provai ad arginare mia madre, ma lei stava già scansionando Greg per paragonarlo all’immagine di lui che si era fatta sulla base di ciò che le avevo detto.
“Mamma!” tentai, con tono di rimprovero, ma lei scacciò via la mia sott’intesa obiezione con un gesto della mano.
Gregory sembrava divertito dalla situazione e mi scoccò un’occhiata particolare con un sopracciglio alzato.
“Davvero?” chiese con finta noncuranza, “Spero non siano state brutte cose…”
Questa me la paghi, Gray!, lo minacciai con gli occhi, ma sia lui che la mia cara mammina mi ignorarono completamente.
“Assolutamente no! Al contrario!” lo spalleggiò mia madre, facendo piegare in due dal ridere Ryan.
“Zitto!” ringhiai, tirandogli un pugno sulla spalla ma senza ottenere risultati. Guardai malissimo mia madre. “Mamma, sono sicura che a Greg questo non interessa…”
“Oh, invece sì!” rise l’interessato, attirandosi a sua volta un mio pugno.
“NO!” ribadii, senza smettere di guardare lei, “Mamma, per favore!”
Lei si finse sorpresa.
“Ma come, Mathieu? Io sto solo cercando di essere gentile con i tuoi amici!”
Sì, come no!
Alzai gli occhi al cielo, sbuffando, e tutti si misero a ridere, ma prima che potessi aggiungere qualcosa due piccoli autobus si infilarono nel cortile della scuola.
Sulle prime pensai fossero i mezzi di trasporto destinati a portare tutti i ragazzi in aeroporto, ma poi sorrisi quando la porta si aprì e una figura inequivocabilmente femminile scese, facendo da apri-fila ad una cinquantina di altre.
“Signori,” risi quando a Greg e Ry cadde la mascella nel riconoscere la giovane e senza dubbio splendida Lucille Gray alla guida delle sue compagne, “credo che nemmeno la Checkers Academy sia sopravvissuta ai media!”
Lucille non ci mise nulla ad individuare il fratello e il fidanzato e il sorriso sulle sue labbra brillò mentre lei partiva di corsa, senza rallentare, e finiva per andare a sbattere loro contro con tanta forza da gettarli a terra. Un braccio attorno al collo di Ry e uno attorno a quello di Greg e i capelli sparpagliati su entrambi, Lucille iniziò a ridere, felice.
“Siamo fuori!” esclamò, facendo scoppiare anche i due ragazzi che si tiravano su per stringerla a loro volta.
Sorrisi.
Lucille aveva ragione: eravamo fuori, finalmente.
 
“Ahia!” mi lamentai quando i paramedici strinsero le fasce che mi bloccavano sulla barella.
Le mie costole non avevano più retto, piegandomi in due per il dolore, ed essendo questo accaduto nel cortile sotto gli occhi di tutti, purtroppo, mi ero ritrovato privo di scelta: ospedale. Mia madre era stata fantastica con i miei amici, ma irremovibile con me e perciò in quel momento mi stavano caricando sull’ambulanza per accertarsi delle mie condizioni e decidere cosa farmi, ma siccome la mia situazione non era rosea i paramedici avevano stabilito che era impensabile farmi stare seduto. Risultato: me legato ad una barella come un pazzo.
Fulminai mia madre con un’occhiataccia, ma lei incrociò le braccia al petto, come a dirmi che era inutile anche solo pensare di convincerla a fare altrimenti.
Dietro di lei, Greg e Ryan mi sorridevano, annuendo soddisfatti, e Lucille mi lanciò un’occhiata comprensiva da in mezzo a loro, una mano stretta a quella del fratello e l’altra attorno alla vita del fidanzato che le cingeva le spalle con un braccio.
“Sto bene!” tentai per l’ennesima volta, ma fui zittito da un unanime “Shhhhh!” e mi offesi, così misi il broncio e smisi di parlare loro.
Gli sportelli dell’ambulanza provarono a chiudersi dietro mia madre, ma una voce li bloccò.
Strinsi i pugni d’istinto, ma mio padre parve non notare né quello né le occhiatacce che i miei amici e mamma gli stavano rivolgendo. Al contrario, salì placidamente sull’ambulanza per sedersi al fianco della moglie come se nulla fosse.
“Mi viene da vomitare.” sibilai.
Un paramedico, povero sciocco, cercò di prendermi un sacchetto, ma un suo collega un po’ più intuitivo lo fermò e iniziò a far oscillare lo sguardo tra me che fulminavo mio padre e lui che mi ignorava come se nemmeno esistessi.
Lanciai un’occhiata veloce a Greg, ma a malapena incrociai le sue iridi blu prima che le porte fossero chiuse per davvero. Quando l’ambulanza iniziò a muoversi, sospirai.
Si prospettava un lungo viaggio.
 
“Va bene, quindi, mi raccomando, devi stare…?”
“…fermo.” sbuffai, completando per la diciassettesima volta la frase del dottore.
Non sono così scemo!
Mio padre sbuffò e quindi io, tanto per ripicca, mi trattenni dal farlo. Non volevo avere niente in comune, con quell’idiota, mai più.
Me ne stavo sdraiato sul lettino al quale avevano minacciato già due volte di legarmi, mia madre invece rimaneva in piedi accanto alla testiera e ogni tanto mi passava una mano tra i capelli mentre mio padre si era seduto su una sedia accanto alla porta, neanche fosse stato pronto a scappare alla prima occasione. Non che a me sarebbe dispiaciuto poi tanto.
“Bene,” disse Charles, alzandosi e avvicinandosi a me degnandosi finalmente di guardarmi, “chiamerò uno di quei giornalisti: preparati all’intervista.”
“Ma, signore!” esclamò il medico, confuso, guardandolo con confusione.
Io non me ne sorpresi. Anzi, ne ero felice: aveva fatto ciò che pensavo e quindi, forse, potevo ancora giocarmi la mia carta per riavere Gregory.
Mio padre fulminò il dottore con un’occhiataccia.
“Cosa c’è?” sbottò, offeso.
L’uomo esitò, chiaramente confuso.
“Suo figlio…le sue costole sono ancora…insomma, dovrebbe riposare e…” provò a spiegare, ma era chiaro che non conosceva mio padre, il quale infatti sbuffò.
“È vivo, no?” chiese, retorico, “Poteva finire peggio, con quelle costole, no?”
“Beh, sì, però…”
“E allora resisterà ancora un po’: dieci minuti con quel giornalista, poi farà finta di non volerne parlare, due lacrimucce visto che è tanto bravo a versarle e allora potrà riposare finché vuole.”
Strinsi i pugni e digrignai i denti a quelle parole. Se ti fossi degnato di scoprire qualcosa di me, sapresti che è da un bel po’ che QUEL Mathieu non esiste più! E non esiste più nemmeno quello che farà ciò che vuoi senza fiatare!
“No.”
Mio padre si voltò di scatto verso di me, sgomento, per fissarmi con un sopracciglio sollevato.
“Come, scusa?” la sua voce era gelida, rigida, e ancora uno spasmo di paura mi fece stringere le labbra, però non ritrattai.
“Ho detto di no.” ribadii.
“Mathieu…” mormorò mia madre, a bassa voce, facendo correre lo sguardo da me a mio padre, evidentemente preoccupata.
Mio padre alzò una mano a zittirla e continuò a fissarmi, ma io ressi lo sguardo. All’improvviso, lui si avvicinò al letto.
“Dottore, può andare.” disse al medico, ma senza smettere di guardarmi.
L’uomo esitò vistosamente, ma io gli feci un cenno con la mano perché capisse che erano questioni personali che avrei dovuto chiarire da solo e così se ne andò.
Mio padre mi mise una mano sul petto e premette leggermente. Strinsi i denti sentendo le costole iniziare a lamentarsi debolmente al di sotto della coperta degli antidolorifici, ma mi costrinsi a non reagire.
“CHARLES, NON OSARE!” Mia madre iniziò a colpire mio padre sulle spalle, a prenderlo a pugni e schiaffi, ma per quanto avesse imparato a fare la mamma, non sapeva certo come far male.
Mio padre aumentò la pressione, continuando a fissarmi negli occhi.
“Forse non è chiaro” sibilò, “chi comanda, qui.”
Mi morsi la lingua, ricacciai le lacrime indietro e strinsi i pugni, costringendomi a non tentare di staccarlo da me.
“Mi hai fatto promettere che non ne avrei parlato mai più!” esclamai, tutto d’un fiato perché parlare e respirare con la sua mano che mi schiacciava era un dolore allucinante.
La sorpresa per le mie parole lo fece irrigidire per un attimo e la pressione scemò abbastanza da farmi respirare di nuovo.
Notai che mia madre si era fermata e mi fissava con confusione, come sorpresa dalla mia freddezza, e mi concessi un sorrisetto.
“Mi hai fatto dare la mia parola.” ripetei, “Se adesso vuoi cambiare l’accordo, devi darmi qualcosa in cambio.”
Gli occhi di mio padre bruciarono di furia, ma io finsi di non vederli e di non sentire la pressione di nuovo forte sul mio petto. Gli occorsero parecchi secondi, che per me furono momenti di pura agonia, ma alla fine si raddrizzò di scatto, furioso, togliendo la mano dal mio petto.
Hai bisogno di me, Charles. Ti serve che io ti pari il culo, perché se non dico una parola capiranno tutti che è colpa tua e non puoi permettertelo. Ho ancora io il coltello dalla parte del manico e, finché sarà così, dovrai accettare i miei compromessi.
“Cosa vuoi?!” ringhiò.
Sollevai il mento, orgoglioso, e lo fissai dritto negli occhi.
“Dimentica la clausola sulla mia omosessualità: io sarò libero di stare con chi mi pare, al diavolo di che sesso sia, e tu non ci potrai mettere becco; in cambio io spezzo il silenzio e parlo con il giornalista dicendo che tu non sapevi nulla di quello che mi facevano lì dentro.”
La vena sulla fronte di mio padre iniziò a pulsare mentre lui stringeva i pugni tanto da far tremare tutte le braccia e mi fissava con gli occhi sgranati all’inverosimile.
“Non sfidarmi!” ringhiò, “Osa tirare troppo la corda e io ti sbatto fuori di casa, non credere che non ne sarei capace!”
Stavo per dire qualcosa di sarcastico, ma la figura minuta di mia madre si interpose tra mio padre e me.
“Tu provaci e dovrai sbattere fuori anche me!” sibilò, determinata, “Allora poi vediamo cosa farai con tutti i clienti che il mio nome ti ha portato!”
Mio padre divenne paonazzo e dal modo in cui guardava mia madre pensai che avrebbe potuto farle del male.
Al diavolo le raccomandazioni del medico, mi sollevai sulle braccia e tentai di mettermi a sedere per aiutarla, ma feci solo metà del movimento che lui si voltò di nuovo verso di me.
“Io non li voglio vedere.” ringhiò, “Né io né chiunque altro, è chiaro?! E se ti azzardi a portarne uno a casa o a far sapere in giro questa tua…perversione!...giuro che ti spezzo tutte le costole e poi ti caccio di casa, chiaro?!”
La mia espressione si indurì.
“Oh, tranquillo, non ho mai pensato di presentarti nessuno!” sibilai, “Non vorrei mai mi lasciassero perché gli fai schifo.”
Mio padre sollevò il labbro superiore, come disgustato dalla vista che si trovava davanti, siamo tuo figlio e tua moglie, sai?, non dei mostri!, ma poi si voltò e si diresse alla porta.
La aprì ma si fermò a metà strada tra il dentro e il fuori.
“Vado a chiamare la stazione televisiva.” commentò solo, prima di andarsene sbattendo la porta.
Tirai un sospiro di sollievo appena la sua figura fu scomparsa, ma le costole si offesero e mi fecero ripiegare su me stesso, una mano stretta al petto come a strapparmi il cuore.
“Mathieu?!”
Le mani di mia madre sulle spalle, in quel momento, mi parvero la cosa più bella del mondo e mi ci abbandonai spostando la mano da sopra il mio petto a sopra la sua.
“Tranquilla…” sussurrai piano, riprendendo fiato.
Mia madre strinse appena la presa ed esitò un attimo prima di parlare.
“Il divorzio non sembra più così una brutta cosa…” mormorò, pianissimo.
Sorrisi, mesto, ma scossi la testa.
“Lo pensi solo perché è un brutto momento: non fare scelte affrettate.” le consigliai, pur sentendo il cuore che sanguinava al dover difendere mio padre.
Non volevo che mamma dovesse scegliere tra me e lui, mi sembrava così ingiusto.
Mamma si sedette sul bordo del letto e poi, voltandosi verso di me, mi prese perché mi sdraiassi di nuovo, ma questa volta posando la testa sul suo grembo.
Il mio cuore perse un battito. Era la prima volta in vita mia che potevo dormire così, appoggiato a lei, con le sue dita sui capelli e sulle guance. Da piccolo non mi era mai stato permesso.
Ora capivo perché i bambini si calmassero così velocemente quando le madri li abbracciavano: era una sensazione meravigliosa, di calore e protezione. Posai la mano davanti al mio viso, per reggermi, e chiusi gli occhi.
Più nel mondo dei sogni che in quello reale, sentii a malapena le parole di mia madre.
“Il problema di questo momento è che dura troppo ed è sempre più brutto…” sospirava.
Il mio cuore raggrinzì all’idea del dolore che stava provando.
“Mamma?” mormorai.
“Sì?”
“Ti voglio bene… Tanto…”
Il suo corpo si piegò sul mio e le sue labbra lasciarono una carezza delicata sulla mia tempia.
“Anche io, piccolo…” sussurrò, “Tantissimo…”
 
“Arrivederci…” salutai, a bassa voce, guardando il giornalista andarsene.
Mio padre non aveva avuto pietà del mio sonno. Era tornato dopo quindici minuti, mi aveva svegliato con una scrollata violenta che aveva urtato profondamente la sensibilità delle mie costole e mi aveva costretto all’intervista.
Ora che era finita, mi sentivo così svuotato da pensare di poter dormire per sette giorni almeno.
Ma avevo una cosuccia un po’ più importante da fare.
“Mamma?” chiamai, mentre già iniziavo a tirarmi a sedere. Lei entrò, ma era tutt’altro che calma e la cosa mi confuse. Che diavolo era successo? “Ma’?”
“Mathieu, Gregory è passato durante l’intervista!” mi disse, ansiosa, “Tuo padre l’ha mandato via!”
“Che cosa?!” Come ha potuto?! Sentii la rabbia montarmi dentro, ma mi costrinsi a chiudere gli occhi e a prendere un respiro mentre mi aggiustavo piano la camicia che ero stato costretto ad indossare, con i pantaloni, per l’intervista. “Chiederò scusa a Greg, tranquilla. Lui capirà, sa che mio padre non…”
“Greg sta partendo, Mathieu!”
Mi irrigidii.
“Che…che cosa?”
No, Greg non poteva stare partendo! Lui era…era… Lui non poteva andarsene! Noi…noi…
Guardai mia madre, sgomento, ma lei aveva le lacrime agli occhi e annuì.
“Torna a casa sua ad Aberdeen, in Scozia.” sussurrò, “Va via con i suoi, hanno l’aereo a Exeter t…”
“NO!”
Non la ascoltai nemmeno, non volevo sentirla. Si fottessero, le costole! Saltai giù dal lettino per iniziare a correre. Lei provò a fermarmi ma io mi divincolai.
“Non posso, mamma, non posso!” le urlai mentre già uscivo dalla porta.
Non indossavo i vestiti dei pazienti, sembravo un “civile”, e perciò nessuno mi fermò quando corsi a perdifiato, gli occhi pieni di lacrime per le fitte delle costole, fuori dall’ospedale.
Fermai al volo un taxi da cui era appena scesa una coppia e diedi l’indirizzo dell’aeroporto più vicino con un battito folle nel cuore. Se fossi arrivato tardi, se Greg fosse partito…
 
“So che male faccia, Mat… Mio padre mi ha tirato contro una bottiglia di grappa, una di quelle di vetro spesso, quando i genitori del ragazzo con cui stavo lo hanno chiamato per dirgli che mi avevano beccato a ‘traviare’ il loro figlioletto adorato… E la cosa più triste è che era stato lui a invitarmi per studiare e invece mi era poi saltato addosso.”
 
Mi portai un pugno alla bocca e lo morsi, con forza, ricordando quella confessione, una delle notti nella mia stanza.
Avevo risolto il problema di mio padre, ma il suo? La sua famiglia cosa avrebbe fatto?
Pregavo solo di avere tempo di baciare Greg una volta, prima di scoprirlo…
 
Corsi.
Saltai giù dal taxi urlando all’
autista di aspettarmi e corsi dentro. Spintonai persone su persone, incurante degli impatti contro il mio petto, mentre con gli occhi cercavo la chioma bionda di Gregory o un lampo blu che mi indicasse i suoi occhi. Oltrepassai i controlli di corsa, con la sicurezza che mi urlava dietro e iniziava ad inseguirmi, ma raggiunsi la sala di attesa per i voli.
Impietrii, lo sguardo fisso oltre la parete di vetro che dava sulla pista.
L’unico aereo diretto ad Aberdeen tirò su il carrello e si staccò da suolo sotto i miei occhi supplicanti e inascoltati.




Chiedo umilmente perdono!
Ho finito il capitolo proprio adesso, con l'Inghilterra non avevo avuto tempo prima, e perciò può esserci qualsiasi orrore grammaticale!
Scusate, scappo davvero: accontentatevi di ciò che c'è, anche se è un capitoletto corto e non troppo felice...
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 24
*** Farmi l'amore ***











Capitolo 23: Fammi l’amore
 
Mi passai la mano tra i capelli, scompigliandoli per l’ennesima volta, e alla fine strinsi le dita sulle ciocche, sbuffando per l’ennesima volta nel tentativo di ignorare il grumo d’ansia che mi pulsava dolorosamente nel petto. Chiusi gli occhi, mordendomi la lingua, e posai i gomiti sulle ginocchia senza però sollevare la testa.
È tutto sbagliato, tutto! Ma non potevo farci niente.
Sospirai. Sembrava quasi che la mia condanna fosse l’impotenza su qualsiasi cosa importante per me, come punizione per aver avuto fin troppo potere sul destino della Chess e della Checkers Academies. Doveva essere quello per forza, perché era stata la chiusura delle scuole a dare inizio al domino che mi aveva portato fin lì, in quel corridoio silenzioso e seduto su quella panca.
 
Rimango a fissare l’aereo che si allontana come se il mio semplice sguardo possa impedirgli di lasciarmi ed è solo quando sparisce sopra le nuvole che mi accorgo di quanto rumore si sta svolgendo attorno a me. La sicurezza alle mie spalle non mi sta arrestando soltanto perché una voce continua ad arrivare dai loro walkie-talkie avvisandoli che non sono pericoloso. Una parte di me si chiede come fanno a saperlo.
“Mattie…”
Mi volto, confuso, e incrocio gli occhi verdi, grandi e luminosi, di mia madre.
Non so perché, ma mi costringo a sorridere. Non che ottenga quel gran risultato e infatti a metà del gesto lei inizia ad abbracciarmi, qualcosa in me cade e io mi appoggio totalmente al suo corpo esile, nascondendo il viso nella massa di capelli che ha spostato su una spalla.
Stringo gli occhi con tutta la forza che ho pur di non piangere.
 
Provo decine, centinaia, migliaia di volte!, a contattare Gregory. Mail, ricerche su internet o tra i contatti di mio padre, qualsiasi cosa, ma benché la famiglia Gray sia molto conosciuta, il loro erede adottivo sembra scomparso nel nulla, sottratto ai riflettori da due genitori amorevoli che tentano di risparmiargli altre sofferenze mentre lui, piegato nello spirito, cerca di rimettersi dall’esperienza traumatica subita nella scuola degli orrori.
Ma andate al diavolo, bugiardi doppiogiochisti.
 
Quasi saltai in piedi quando la porta di legno alla destra della ormai mia panca si aprì.
Raddrizzai la testa, sottraendola alla presa delle mani, e puntai gli occhi sulla figura che usciva in quel momento, ma mi sgonfiai come un palloncino nel momento stesso in cui mi accorsi che era uno degli studenti Universitari venuto ad assistere che si allontanava per rispondere al cellulare.
Al diavolo, avrebbe dovuto spegnerlo!
Sospirando, mi passai le mani sul viso. Ero quasi certo di apparire come uno zombie alle cinque di mattina il giorno dopo una sbronza colossale finita in rissa con una squadra di rugby. Se non peggio.
Cautamente, passai la mano sul cerotto all’angolo della fronte, sulla destra, per controllare che non si fosse staccato. Potevo sentire il taglio, abbastanza piccolo ma non poco profondo, pulsare lieve sotto la plastica lucida e chiusi gli occhi.
Questo era stata la fine di un ciclo fatto di grida e porte sbattute e porte sbattute e grida. Io contro mio padre, mio padre contro di me; mia madre contro di lui, lui contro di lei. I tre mesi successivi al mio rientro a casa erano stati l’Inferno e mi avevano impietosamente rivelato quanto rapidamente mio padre si fosse abituato a non avermi tra i piedi: a differenza di mia madre, non provava alcun fastidio nel non vedere alcuna traccia di me per casa, al contrario sembrava infuriarsi al solo vedere qualcosa di mio. O me, direttamente. Non potevo dire di essere lo stesso Mathieu di prima e forse era stato quello a rendere la nostra già difficile convivenza praticamente insostenibile. Alla fine, era inevitabile che entrambi, all’apice della rabbia, scoppiassimo…
 
Stringo forte i pugni e le mie braccia tremano sotto i desideri contrastanti nella mia mente: una parte di me vorrebbe colpirlo, l’altra sa che sarebbe una dichiarazione di guerra sulla quale Charles Legris non potrebbe mai passar sopra.
Lui urla e urla e urla e non so nemmeno perché. Stavo studiando per l’esame di ammissione al quarto anno della nuova scuola, ero seduto per terra in salotto di fronte al camino con il quaderno sulle gambe incrociate quando mio padre è entrato. Poi non ricordo, forse ha fatto un commento lui o forse sono stato io, ma dopo un attimo eravamo in piedi, l’uno di fronte all’altro, ad urlarci contro tutto l’odio che gli anni avevano saputo donarci.
“Basta, Charles!” interviene mia madre, arrivando alle spalle di mio padre con un’espressione furiosa.
Di tutte le battaglie di questi giorni, neanche una l’ho dovuta combattere senza che lei arrivasse ad aiutarmi ad un certo punto. A volte sedava tutto sul nascere, a volte si limitava a separarci prima che la sola vista reciproca ci portasse ad esplodere, ma nella maggior parte dei casi iniziava ad urlare anche lei.
Questa volta, però, mio padre la scaccia via con un gesto del braccio all’indietro.
“Bada, Mathieu!” urla, furibondo, “Sto perdendo la pazienza!”
“E allora?!” ribatto, sarcastico, “Cosa vuoi fare?!, spedirmi di nuovo alla Chess?! Toh guarda, l’hanno chiusa e la preside è in galera!”
Questo argomento lo fa sempre imbestialire, lo so: non riesce a sopportare l’idea che io mi sia dimostrato più bravo di lui, che abbia trovato il modo di scappare da una scatola sigillata.
“Non tirare troppo la corda!” mi avvisa e le sue parole sono il segnale che fa scattare mia madre più vicina a lui per impedirgli di perdere il controllo come ultimamente è sempre più solito fare.
“Sono tutti in galera!” continuo, ignorandolo e senza neanche aspettare che mia madre l’abbia raggiunto, “E indovina un po’?! Dovresti esserci anche tu!”
A malapena finisco la frase che la sua furia esplode. Il limite è rotto, l’argine spezzato, e adesso nulla lo trattiene.
La sua mano si abbatte sulla mia guancia, è così grande che aperta coprirebbe tutto il mio viso, e quando il colpo arriva è tanto forte da farmi perdere l’equilibrio. Prima che possa anche solo accorgermene, girando il torso incrocio le caviglie e così perdo l’equilibrio e cado di lato. La mia fronte impatta contro il mattone arancio del camino leggermente rialzato prima che le mie mani possano toccare terra per reggermi. Mi scappa un gemito quando il dolore inizia a bruciare sulla destra, sopra il sopracciglio, e il mio occhio si chiude d’istinto quando un liquido inizia a scivolargli sopra. Lo tocco con il palmo della mano ma so cos’è prima ancora di vedere il rosso sulla pelle: sto sanguinando.
“MATTIE!” L’urlo di mia madre è il più forte tra tutti quelli lanciati oggi e ci vuole una notevole forza di polmoni e di gola per ottenere un simile risultato.
Le sue mani sono sulle mie spalle in un attimo mentre io mi tiro su a quattro zampe e, appena riesco a sollevare la testa per incrociare l’espressione di mio padre, i suoi occhi ispezionano la ferita. Ciò che vede la manda fuori di sé e si volta verso di lui.
La sua rabbia è tanto grande che, benché lei sia in ginocchio accanto a me e lui in piedi a sovrastarci, mio padre indietreggia di un passo.
“Sei impazzito?!” urla mia madre.
Mio padre non dice nulla ma la guarda negli occhi con espressione sgomenta, come se non capisse. È solo quando lei si volta verso di me che anche io inizio ad intuire che quello che è appena successo ha spezzato la capacità di sopportazione di mamma.
“Mathieu, va’ nella tua stanza. Arrivo subito con i medicinali.” È così gelida, così fredda, che non oso far altro se non alzarmi in piedi, un po’ barcollante, ed obbedire.
 
Alzai gli occhi per guardare l’orologio sul muro di fronte a me. Erano passate due ore e ancora non sapevo nulla di come stesse andando dentro. Sfregai le mani l’una con l’altra e tornai ai miei ricordi.
 
Quando la porta della mia camera si apre, sto tenendo una benda premuta sul taglio che sembra solo ora finalmente iniziare a smettere di sanguinare. Alzo subito gli occhi sulla figura che entra e rimango sorpreso nel vedere che mia madre è vestita in modo elegante e ha la sua borsa sulla spalla oltre alla valigetta dei medicinali nella mano.
“Cosa succede?” chiedo, confuso. Lei scuote la testa. Posa la borsa, si siede sul letto accanto a me e mi prende la benda per poter controllare. “Mamma?” provo di nuovo mentre lei inizia a medicare.
“Voglio che tu faccia una cosa, Mattie.” mi dice mentre spruzza lo spray per la cicatrizzazione delle ferite sul taglio e poi inizia a ritagliare un cerotto delle giuste dimensioni dalla garza adesiva.
“Cosa?” chiedo tra i denti mentre me lo preme sul taglio.
Mia madre mi premia con un sorriso quando finisce le sue operazioni e mi guarda negli occhi.
“Prepara un borsone con la tua roba, il minimo indispensabile per un paio di giorni e poi il resto lo porterà Albert.”
Deglutisco, sgranando gli occhi.
“Cosa…vuol dire?” Ma che diavolo succede?!
“Nulla di cui ti debba preoccupare, piccolo.” mi rassicura lei posando un bacio leggero sul cerotto appena applicato, “Però fai quello che ti ho chiesto, va bene?”
Annuisco, come in trance, e lei, sorridente, riprende la sua borsa ed esce.
 
Mezz’ora dopo io e mamma saliamo in auto. A due ore dall’incidente con mio padre, siamo sistemati in un albergo in centro e io fisso con sgomento la chiave elettronica della stanza che mia madre ha prenotato fino a data da destinarsi.
 
La sera della nostra partenza Alfred ci ha portato tutta la nostra roba più un messaggio di mio padre: “Chiamate immediatamente”. Mamma lo ha fatto aspettare un giorno e poi ha telefonato. Credo che le urla di questa conversazione si stiano sentendo fin nella hall.
Quando entrambi riagganciarono, la decisione è presa definitivamente.
 
Erano passati sette giorni dall’incidente ed eravamo ancora in albergo.
La porta accanto a me si aprì e io sollevai di nuovo lo sguardo, ma questa volta il mio cuore perse un battito nel riconoscere la sagoma di mia madre che camminava fuori a testa alta.
Era finita, capii guardandola negli occhi. Michelle Legris aveva smesso di esistere e Michelle Cendre era rinata come una fenice.
Deglutii ma mi costrinsi ad alzarmi in piedi e ad aspettare che mamma mi venisse vicina. Non facemmo in tempo a parlare che mio padre uscì a sua volta dall’aula del tribunale, l’espressione seria come se non avesse appena divorziato dalla moglie, e si allontanò seguito dal suo avvocato senza neanche guardarmi.
“Una fine settimana al mese la dovrai passare con lui.” ammise mia madre fissandolo, “Almeno fino a quando non compirai i diciotto anni, poi potrai decidere tu. Si tratterà di solo un paio di week-end, in fondo.”
Annuii senza, a mia volta, staccargli gli occhi di dosso.
Era andata così, quindi: dopo anni di battaglie, i miei stavano divorziando. Per un qualche motivo, non riuscivo a sentirmi triste. Era come se si fossero lasciati già da anni, nonostante avessero continuato a vivere assieme.
Spostai finalmente gli occhi su mia madre e lei mi sorrise mestamente. Ricambiando il gesto, la abbracciai forte sotto lo sguardo vigile di Albert.
“Andiamo.” mormorò mia madre, rimanendo sotto la stretta del mio braccio ma trascinandomi, con il suo solo passo leggero, lungo il corridoio, diretto all’uscita e ad un nuovo inizio.
 
Mi aggiustai la giacca sulla camicia bianca e passai una mano tra i capelli per spettinarli ancora un po’. Mio padre mi avrebbe odiato e per quello un sorrisetto mi nacque sulle labbra.
Erano passati dodici mesi dal divorzio, ormai avevo imparato a camminare sul filo di lana che legava mia madre e mio padre, in modo da passare da una vita all’altra come un gatto di tetto in tetto. Non avrei mai voluto la separazione tra i miei, ma con il senno di poi mi rendo conto che era solo la parola a spaventarmi. Era definitiva, finale, immutabile: da quella, non si tornava indietro. Fino a che i miei fossero stati sposati, la speranza che qualcosa potesse cambiare, che mio padre si convertisse come mie madre, che tornasse ad amarla come lei aveva amato lui fino all’ultimo, era ancora qualcosa di possibile. In quel momento non lo era più però io avevo accettato che forse non lo era mai stato.
Scossi la testa per tornare a concentrarmi sul presente, mi guardai nello specchio e sorrisi, nonostante tutto felice e un po’ malignamente soddisfatto, lo ammetto.
Era ora che mi prendessi ciò che era mio.
Camminai a passo sicuro fuori dalla mia camera, lungo i corridoi di quella che era stata casa mia e che ora non lo era più, se non pochi giorni all’anno. Scivolai piano nel silenzio di quella costruzione troppo grande per un uomo solo e per un attimo mi chiesi come si sentisse mio padre a passarci tutta la vita.
Scrollai le spalle. In fondo, se l’era voluto lui.
Raggiunsi il suo ufficio e mi presi un momento, fuori dalla porta, per inspirare profondamente, aggiustare il sorriso cordiale ma distaccato sulle mie labbra e decidermi a fare la cosa più folle del secolo. Quindi, aprii la porta.
Mio padre rideva parlando con un altro uomo. Alto, con corti capelli brizzolati e un paio di baffi curati, il tipo in giacca e cravatta era un qualche importante imprenditore tanto anonimo da sembrare uscito da uno stampino apposta per uomini d’affari. Persino la voce aveva qualcosa di banale, ma in fondo avevo sempre saputo che aveva una sola cosa interessante con sé: il figlio.
Sollevai il mento quando tre paia di occhi si puntarono su di me mentre mi accostavo a mio padre.
“Scusate il ritardo.” dissi, tranquillo.
Charles strinse la presa sul bicchiere ma fece finta di niente e mi indicò agli altri due uomini e allora, per la prima volta dopo un anno, incrociai quelle iridi che erano fatte da frammenti di cielo presi ad ore diverse del giorno. I due caleidoscopi in blu e azzurro si sgranarono un po’, al di là del ciuffo di capelli biondi che cadeva sul lato sinistro del viso, nell’
incontrare i miei.
“Mathieu Legris.” mi presentai, irrigidendo il sorriso per non scoppiare a ridere nel parlare con lo stampino che non aveva idea di chi fossi.
Subito dopo il padre, il biondo esitò solo un attimo prima di allungare la mano a stringere quella che gli stavo porgendo, quindi la scosse con calma.
“Gregory Gray.”
 
Il dialogo d’affari tra mio padre e il signor Gray durò un’ora ancora, tempo durante il quale io e il biondo sconosciuto passammo a scambiarci innocue chiacchiere sul tempo e piccole curiosità. L’apice si raggiunse quando gli chiesi che scuola avesse frequentato e lui scrollò le spalle dicendo che si era trattato di una comunissima, “probabilmente senza alcuna differenza da quella che hai frequentato tu”. Come avevo immaginato, mio padre non aveva mai prestato abbastanza attenzione a Gregory per riconoscerlo ad un anno di distanza, non che potessi biasimarlo tanto visti i cambiamenti del mio...amico.
Gli occhi erano quelli, incastonati nel viso però un po’ più colorito e più pieno, cosa che mi aveva fatto ricordare quanta fame avesse patito alla Chess e per quanto tempo si fosse ritrovato in reclusione. I capelli biondi non erano più cortissimi come era stato costretto a portare, ma gli arrivavano scalati fino alle spalle, con l’ampio ciuffo che ogni tanto scivolava a coprirgli l’occhio e che lui tutte le volte rimetteva a posto con uno sbuffo esasperato. Al polso portava un nastro per capelli nero, così capii che finalmente poteva di nuovo legarli in un coda, sebbene certo non lunga come quella che aveva quando ci eravamo conosciuti. Mi sembrava un po’ più alto, le spalle e il petto un po’ più ampi e le braccia un po’ più tornite sotto la giacca elegante del completo scuro che indossava, ma forse era solo la distanza che me lo faceva apparire così. I suoi occhi così meravigliosi si illuminavano ogni volta che mi lanciava una frecciatina su quello che c’era stato tra noi nella scuola e io sentivo le mie labbra allargarsi in risposta.
Alla fine, i nostri genitori si accordarono su non ho idea di quale tipo di affare e così potei dare inizio al mio malefico piano.
“Bene, non so voi, ma io ho sete.” dissi, mentre mi alzavo in piedi.
Greg colse al volo l’imbeccata.
“Ti dispiace se vengo con te?” chiese, alzandosi, “Anche io ho un po’ di sete.”
Mio padre ci ignorò bellamente, ma notai con la coda dell’occhio che il padre di Gregory strinse molto la presa sulla propria valigetta.
Fingendo di non essermene accorto, uscii dall’ufficio seguito da Greg. Appena lui si chiuse la porta alle spalle, lo afferrai per un polso e cominciai a correre.
La risata divertita dietro di me mi fece sorridere, ma non mi fermai. Trascinai Gregory fino alla mia camera e ce lo spinsi dentro quasi a forza, prima di seguirlo.
Non ero un idiota, perciò mi premurai di chiudere a chiave prima di voltarmi, appena in tempo perché la bocca di Gregory si schiantasse sulla mia con tanta forza da farmi sbattere contro la porta con tutto il corpo, testa in particolar modo, facendomi scappare un gemito offeso.
“Non mi risulta tu abbia altre costole rotte quindi sta’ zitto e subisci, piccoletto.” Risi contro la bocca di Gregory alle sue parole, ma il biondino mi afferrò per la vita e si premette con forza contro di me. “Un anno, Mat! Un anno! E quando finalmente ti rivedo, mi incastri in un fottutissimo giochetto di ruolo davanti agli occhi dei nostri padri: è un’ora che voglio baciarti, il minimo che puoi fare è non lamentarti!”
“E chi si lamenta?!” scherzai, lasciando poi la bocca aperta contro la sua per permettere l’ingresso della sua lingua.
Gemetti notevolmente a quell’intrusione che aspettavo da mesi e, nell’impeto, piantai il piede contro la porta e spinsi, facendo barcollare entrambi verso l’interno della stanza e continuando a muovermi fino a quando Greg non cadde seduto sul mio letto, permettendomi di mettermi a cavalcioni su di lui.
“Perché quando non posso venire a letto con te indossi solo un maledettissimo asciugamano e quando posso hai tutta questa roba?!” ringhia il mio biondino, faticando per aprire i piccoli bottoni della mia camicia.
“Potrei farti la stessa domanda.” ribatto, “Anche tu ti sei parato davanti a me con solo un asciugamano!”
“Già, ma tu non hai passato tutto il tempo a pregare tra te e te che cadesse, no?”
In realtà sì, ma non feci in tempo a rispondere perché Greg riuscì a sfilarmi giacca e camicia e a girarsi sbattendomi sul letto. Risi rimbalzando un po’.
“Che delicatezza!” lo presi in giro mentre armeggiavo con la sua giacca fingendo di non sentire che mi stava sfilando i pantaloni.
Greg non rispose con una battuta, come mi aspettavo, ma si sollevò un po’ per gettare giacca e camicia per terra e intanto mi guardò con serietà.
“Faccio l’idiota, Mat, ma sai che non ti farei mai male.” aggrottò la fronte, pensando a qualcosa, e poi si corresse, “Non intenzionalmente, almeno.”
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo.
“Greg, non l’hai fatto apposta” gli ricordai, poi sorrisi “e comunque hai pagato il tuo debito in astinenza, no?”
Greg scoppiò a ridere.
“A caro prezzo!”
Risi anche io mentre gli stringevo i capelli tra le dita come sempre avevo sognato di fare e allargavo le gambe per permettergli di sdraiarsi su di me e baciarmi e farmi l’amore.




Lo so, lo so, vi prego, trattenete la rabbia, non volevo saltare una settimana, ma questi ultimi dieci giorni sono stati...l'Inferno! Adesso non è che stia proprio in Paradiso, ma direi che ho iniziato la mia scalata al Purgatorio (dove non si purgano i peccati, ma la tendenza ad essi e che fu creato nel concilio del 1274 per...*bla, bla, bla, rendiamo orgoglioso il prof di Italiano, bla, bla, bla*), che è già un bel miglioramento ;)
Comunque ci siamo, ho sbagliato di poco le previsioni: il prossimo sarà l'ultimo capitolo.
Sto valutando un possibile capitolo extra dal punto di vista di Greg, ma non credo lo scriverò: quel biondino è troppo complicato per me -.-
Va bene, per una volta posso anche dirvi il titolo del prossimo capitolo, anche se ho appena finito questo e quello non esiste ancora: Epilogo.
Ci vediamo Mercoledì prossimo! ;)
Ciao ciao!
Agapanto Blu

P.S. Scusate ancora il ritardo!!!

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Capitolo 25
*** Epilogo ***











Epilogo
 
Il momento del giorno che ho sempre preferito è il crepuscolo. L’istante dopo il tramontare del sole, quando ormai non c’è più né oro né arancione nell’immensità del firmamento e, piegando la testa all’indietro, si possono vedere tutte le sfumature di blu e d’azzurro di cui il cielo sa vestirsi. Quelle sfumature che di solito vedo negli occhi di una certa persona.
Sospiro guardando le macchiette grigie delle nuvole che iniziano a disperdersi dopo aver gettato neve su di noi fino a due ore fa.
“Non distrarti!” vengo rimproverato mentre una mano mi strattona la manica per farmi voltare verso il mio interlocutore.
Sorrido nell’incrociare gli occhi grigi e luminosi di Carolyn. La sua enorme massa di ricci neri è in parte nascosta sotto il capello di lana rossa, il viso ben proporzionato e luminoso puntato verso di me mentre le mani si nascondono dal freddo trovando riparo nelle ampie tasche della pesante giacca marroncina che indossa sopra al maglione di lana bianco e ai pantaloni da neve neri. Non mi piace l’accostamento bianco-nero, ma non le dico niente perché so che non poteva rendersi conto di ciò che mi ricorda.
“Cosa?” chiedo, ricordando che mi ha parlato.
La bellissima diciottenne seduta accanto a me sbuffa di esasperazione, quindi si gira in modo da portare le gambe incrociate sulla panchina dove ci siamo seduti e sfila le mani fasciate da guanti rossi senza dita dalle tasche per poter gesticolare ampiamente.
“Allora?!” chiede, come fosse ovvio, “Poi cos’è successo?!”
Sorrido, ma torno a guardare davanti a me sino ad incontrare con lo sguardo la figura snella di Theresa, con i suoi lunghi capelli biondi e la risata da bambina ancora a quarant’anni, che chiacchiera tranquilla con Justin, diciannove anni e ribelli capelli castani sugli occhi verdi ereditati da suo padre. Torno a guardare Carolyn e allungo la mano a darle un paio di buffetti su una guancia.
“Sei troppo piccola per i dettagli.” la rimprovero, scuotendo la testa, e lei sgrana gli occhi.
“NONNO!” urla, imbarazzatissima, facendomi scoppiare a ridere.
“La sai, la storia…” dico poi, “Hai visto le foto, no? Sono passati quasi sessantacinque anni da quando io e Greg abbiamo deciso di buttarci. Al diavolo tutto, ci siamo sposati, vestiti totalmente di grigio e abolendo qualsiasi cosa fosse bianca o nera. I primi anni sono stati bellissimi e poi, un giorno, abbiamo deciso che potevamo provarci.” risi un po’, “Adottare tua madre fu la cosa più bella e difficile della nostra vita: avresti dovuto vedere tuo nonno -l’altro- perché 
era totalmente incapace di cambiare un pannolino!” La risata di Carolyn mi fa sorridere mentre continuo, “Poi, boh, è andata un po’ così… Tua madre si è innamorata, si è sposata, ha avuto un figlio da giovane e poi, un paio d’anni dopo, un’altra figlia.”
“Perché a Justin l’avete raccontata prima, la storia?” mi chiede mia nipote, confusa.
Sospiro.
“Tuo fratello ha vissuto la cosa in modo diverso.” le spiego, “Come tua madre, ha avuto qualche problema per via della coppietta di nonni gay e quindi abbiamo pensato che raccontargli com’erano andate le cose lo avrebbe aiutato.”
Mi volto verso mia nipote per controllare la sua reazione, ma lei sta fissando, oltre la fontana ghiacciata del giardino di casa, suo fratello intento a ridere con la madre e il nonno.
“Lui ha risolto i problemi per me, vero?” mi chiede, senza guardarmi.
Annuisco.
“Credo abbia fatto circolare la voce di starti alla larga: conoscendo lui e il nonno -l’altro- che si ritrova, non mi stupirebbe per nulla.”
Carolyn ride, annuendo, e poi si alza in piedi e si volta per porgermi le mani e aiutarmi ad tirarmi su a mia volta, ma io le faccio cenno con la mano di lasciar perdere.
“Penso che resterò qui ancora un po’.” la rassicuro, annuendo.
Lei esita, ma alla fine si volta e, saltellando come suo solito, raggiunge il fratello. Sotto il mio sguardo divertito, gli salta in spalla avvinghiandosi a lui come un koala, nelle risate generali.
Tiro un po’ più verso di me il mio bastone così posso appoggiare il mento sulle mani congiunte sopra di esso, quindi sospiro, beato.
La mia famiglia non è normale. È diversa, sopra le righe, spregiudicata e praticamente composta solo da folli. A partire da mio marito, s’intende.
Theresa è cresciuta come nostra figlia, non ha mai detto nulla contro di noi e ci ha amato come due padri; sua madre l’aveva abbandonata così, quando noi l’abbiamo adottata, il commento di quella piccolina di otto anni è stato “voglio tanto bene ai miei papà, loro non mi lasciano!” Quando è rimasta incinta, a vent’anni, io e Greg abbiamo faticato per convincerla che sarebbe potuta essere diversa dalla donna che l’aveva messa al mondo e lei, alla fine, ci ha creduto. Non è stato comunque facile per il primo anno perché ha dovuto crescere Justin da sola: quello che ora è suo marito era partito per l’Africa come medico di frontiera e ci erano voluti mesi perché lei trovasse il coraggio e il modo di dargli la notizia. Credo che lui non le abbia del tutto perdonato ancora oggi l’avergli fatto perdere i primi mesi di vita del figlio, ma so che la ama comunque alla follia.
 Justin, il primogenito, è più come me: introverso e riflessivo finché tutto va bene, ma capace di qualsiasi cosa quando ritiene che valga la pena combattere. Carolyn la secondogenita, poi, è la cocca di casa: la più piccola e la più dolce, un terremoto in forma umana capace di tutto tranne che dare retta al buonsenso. Inutile dire che lei e Greg vanno molto d’accordo.
Scuoto la testa vedendo i miei nipoti iniziare a tirarsi contro palle di neve e poi mi lascio cadere contro lo schienale della panchina quando anche mia figlia si unisce a loro: nulla da fare, nessuno di noi crescerà mai del tutto.
Volto la testa quando noto la figura che, un po’ a fatica, si siede vicino a me.
Gregory è cambiato poco. Sì, il viso si è un po’ rattrappito, il suo corpo non è più quello forte di una volta e i capelli sono ormai bianchi, ma porta ancora questi ultimi in una lunghissima coda che gli arriva al bacino e gli occhi non sono cambiati di una virgola, luminosi e pieni di malizia come sempre.
Sorrido e mi piego un po’ per posare la testa sulla sua spalla e lasciare che mi cinga le spalle con un braccio.
“Sono dei piccoli teppisti in erba.” commenta guardando la nostra famiglia, “Decisamente hanno preso tutto da te.”
Rido, sobbalzando un po’ contro la sua spalla spigolosa, e poi scuoto la testa lasciando che passi la mani tra i miei capelli, imbiancati come il paesaggio della Scozia attorno a noi ma non dalla neve.
“Parla il santarellino.” lo prendo in giro.
“Non sono io quello che ha iniziato una rivolta contro il sistema.” ribatte mio marito baciandomi la fronte.
Annuisco, ma non dico più nulla.
Guardo mia figlia e i miei nipoti giocare, porto la mano destra sulla mia spalla sinistra per stringere le dita di quel vecchio brontolone che è mio marito e sorrido alzando gli occhi al cielo invernale: ho combattuto tanto, ma ne è valsa la pena.
“Greg?” chiedo chiudendo gli occhi senza smettere di sorridere.
“Sì?” mi chiede posando la guancia sulla mia testa.
“L’ho fatto anche io.”
“Cosa?” è confuso, lo sento dalla sua voce.
Sorrido, malefico.
“Pregare tra me e me che ti cadesse di dosso l’asciugamano.”


FINE




Oh, cavolo! Odio questa parte... ç___ç Basta, l'ultima parola non mi piace: posso cambiarla, cancellarla, eliminarla dalla faccia del pianeta e dal dizionario di Word? No, basta, adesso la smetto...
Dunque, ogni volta che finisco una storia faccio un piccolo excursus su da dove è saltata fuori perciò, se non vi interessa, passate direttamente al prossimo paragrafo. Chess Academy è nata, senza titolo e con personaggi in fase embrionale, da un sogno. Non guardatemi così, io non interpretavo la Williams! Morale, nel mio sogno andavo ad uno spettacolo o ad una conferenza, non ricordo, e c'erano anche i ragazzi, tutti maschi, di questa scuola privata. Tenevano tutti le braccia incrociate e le mani nascoste sotto di esse e la cosa mi incuriosiva ma solo al momento di andare via ho visto che uno di loro aveva le mani tutte piene di lividi. Questo ragazzo è venuto da me e mi ha detto "Tiraci fuori." poi lo hanno portato via con gli altri. Da lì, voi capite, come facevo a non mantenere esaudire quella richiesta? Ho fantasticato sulla scuola, su quei ragazzi e su come 'tirarli fuori' a lungo, per anni addirittura, ma senza il coraggio di mettere tutto nero su bianco. Ci sono tante violenze che ho trattato, chi segue 'Commedie di Amore e Violenza' lo sa, ma questa mi...imbarazzava. Obiettivo della Chess era umiliare e svilire i ragazzi e mi sentivo davvero a disagio all'idea di postare qualcosa del genere, pensavo "Mi prenderanno tutti per pazza!" Poi, vabbé, ho iniziato con L'Amore nel Silenzio e Sulle Ali dei Violati e a quel punto non avevo più paura di sentirmi dire niente XD
Chess Academy è per me meno importante delle altre due sopracitate, forse perché su questa non ho mai fantasticato un futuro oltre EFP né progettato tanto come su di esse, e mi ha sorpreso moltissimo vedere quanto affetto avete dimostrato sin da subito per questa scemenza che avevo paura mi costasse la reputazione di "sana di mente" che a fatica sono riuscita a mantenere fino ad ora.
È stata la mia prima Yaoi (a vedere EFP, in realtà la prima a nascere è stata un'altra ma per ora è l'ennesimo progetto "da riprendere" nascosto in una bellissima cartellina del mio computer di nome "In corso") e tutti sapete che fifa avessi di postarla. Chi mi conosce sa che detesto qualsiasi tipo di discriminazione, sessuale e razziale e tutte le possibili esistenti, e che ogni volta che scrivo lo faccio con rispetto e attenzione alle tematiche che tratto, stando sempre attenta a far capire che ciò che scrivo per i personaggi come il padre di Mathieu non mi appartiene per nulla. Come sempre, non volevo mancare di rispetto a nessuno e, se l'ho fatto inavvertitamente, chiedo pubblicamente scusa.
Detto questo, sembra che sia piaciuta e di ciò mi rallegro, anche se continuo a rimanere così "O.O" quando mi sento dire "Qui, hai superato la te stessa che scrive Commedie di Amore e Violenza!" (è troppo lungo come titolo, da ora in poi sarà CAV -.-) perché davvero non mi sembra. Lavoro molto di più sull'altra storia, faccio più ricerche, sto più attenta ai dettagli come le date, i giorni della settimana, gli impegni fissi dei miei personaggi (il Dio Bisonte sa quanto ho imprecato contro gli allenamenti di baseball di Gabriel -.-), mentre qui ho lasciato un po' perdere... Anche se c'è da dire che non è che i personaggi avessero tanto da fare, chiusi lì dentro, ma comunque...
Quindi ora, alla fine dell'enorme fatica che ho fatto per non lasciare questa storia incompiuta (non ho abbandonato neanche HYP!, devo solo...riprenderla un po' in mano, ecco, ma ora lo farò!), posso sorridere e mettere il tick (quella specie di √ che vuol dire 'fatto' XD) nella casellina "Completa?" e andare avanti. Scriverò un'altra storia, inventerò un nuovo protagonista (niente da fare ragazzi, tutte le mie storie con una donna come protagonista si arenano inevitabilmente: poi gli uomini si lamentano che non ci capiscono, come se noi ne fossimo capaci!), una nuova ambientazione, creerò una nuova controparte cattiva e un nuovo oggetto di sentimenti (maschio o femmina si vedrà) e poi via, vedremo cosa ci porterà il vento :)
Per ora i miei progetti con priorità saranno 'HYP- Il Falco e l'Usignolo' (chi la segue dirà: finalmente!) e 'Una Sirenetta a Caboncino' (che però qui rimarrà inedita fino alla fine delle pubblicazioni di Sulle Ali dei Violati). Poi chissà, magari si infiltrerà qualcosa di nuovo, visto che il mio cervelletto bacato si sta arrovellando su una nuova novella Yaoi ambientata nell'Antica Roma, ma vedremo...
Una piccola precisazione prima di lasciarvi andare: so che ho messo tra gli avvenimenti della storia sia 'Yaoi' (in cui si indugia nell'aspetto sessuale del rapporto
 cit da Regolamento di EFP) sia Shonen-ai (storie in cui non si indugia nell'aspetto sessuale del rapporto cit da Regolamento di EFP) però, alla luce di tutta la storia... era una Yaoi, ho sempre parlato dell'aspetto sessuale della relazione Mat-Greg, ma insomma, praticamente non sono riusciti a fare niente per ventitré capitoli su ventiquattro e nell'ultimo sono settantenni se non ottantenni! Praticamente è anche una Shonen-ai! XD A parte tutto, ho messo entrambi perché all'inizio, ammetto le mie colpe, non sapevo se avrei mai permesso loro di andare a letto assieme o se li avrei brutalmente separati per qualche motivo e così... XD Perdonatemi quindi questo mezzo paradosso!
Bene, a questo punto non mi resta che dire una cosa: GRAZIE. Grazie ad Holls per avermi assillata perché facessi cadere l'asciugamano a Mat o a Greg anche se alla fine non l'ho accontentata, grazie a Christine_Heart che non si stanca mai di provare a leggere le follie della mia testa, grazie a Last Night per essere spuntata anche nelle altre mie storie pur di insultare la Williams, grazie a dolcemary, a lullyrugg, a lady_poe, a BokuraFamily, a Bimba98, a HisLovelyVoice, a TVdFOREVER, a Seymur e a Fabio92 e a tutti gli altri che SO che ci sono ma che ora non riesco a ricordare... 
Grazie per aver seguito, per aver commentato, per aver recensito. Grazie per aver avuto un'immensa pazienza con me e grazie per non averla avuta e avermi minacciata nei messaggi personali perché postassi in orario. Grazie per aver letto, per avermi contattata, per tutte le scemenze che mi hanno fatta ridere e le cose belle che mi hanno fatta commuovere. Grazie per essere arrivati fino a qui, alla fine di una Nota Autrice che è più lunga del capitolo stesso.
Grazie e a presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

P.S. Buuuuuuuuuuuuuuuuuuh! Non ho trovato l'evidenziatore, buuuuuuuuuuuuuuuuuuh! DX

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Capitolo 26
*** Oppure no? ***










 
Oppure no?

 
Circa sessantasei anni prima dell’Epilogo…
 
Questa me la pagherà, oh se me la pagherà!
Si alitò sulle mani più e più volte nel tentativo di scaldarle. Non importava che avesse un paio di guanti senza dita sopra un paio di guanti normali, non faceva differenza; non importava quante maglie, quanti maglioni e quante giacche, o quanti berretti e quante sciarpe. Aveva freddo. Sempre. E sempre lo avrebbe avuto.
Scosse la testa per scacciare il ricordo inopportuno di quella notte, la notte in cui aveva capito davvero cosa fosse il freddo, in cui aveva pensato di lasciar perdere e in cui aveva supplicato per un aiuto che non era arrivato proprio da nessuno. La notte più brutta della sua vita, in pratica.
Alzò lo sguardo sulla strada e la scrutò in entrambi i sensi, ma senza trovare ciò che cercava. Ennesimo sospiro.
Decisamente, me la pagherà.
L’usciere dell’hotel gli rivolse uno sguardo dubbioso, palesemente incerto se chiedergli cosa stesse facendo o se fare ciò per cui era pagato in sostanza, ossia fingere di non vedere.
Ryan sospirò. Se uno solo di quelli si fosse degnato di ascoltare la propria coscienza, sua madre sarebbe stata in galera e punto e chiuso. Non incolpava suo padre di non aver mai mosso un dito per lui, quel pover’uomo era a malapena cosciente di essere al mondo tra una bottiglia e l’altra di superalcolici, ma sua madre era una strega e lui non l’avrebbe mai perdonata. Non che avrebbe più avuto tante occasioni di parlarle.
Il braccio pulsava dolorosamente dove le schegge di vetro erano ancora piantate nella carne. Dopo avergli tirato contro qualsiasi oggetto possibile e averlo fatto finire per terra a tenersi il corpo ammaccato da libri e vasi e altro, la sua cara mammina era passata ai calici da vino di suo padre e aveva ben deciso di spaccargliene uno sul volto. Se avesse alzato il braccio un secondo più tardi, la sua bella faccia sarebbe diventata una bella metà faccia. Ma la differenza tra sua madre e la Chess era che da sua madre era molto più facile scappare.
 
La spinse via con tutta la forza che trovò e si alzò in piedi, una mano stretta al braccio sanguinante. Per un attimo guardò le nuove ferite, poi la faccia di sua madre, rossa di rabbia, quindi decise.
“Vaffanculo.” le sibilò contro prima di darle le spalle e correre alla propria stanza.
La sua camera era la matrimoniale poiché, visto che sua madre si rifiutava di dormire con suo marito, lui avrebbe dovuto dividerla con suo padre. Padre che trovò seduto sul letto, una mano tra i capelli e l’altra penzolante tra le cosce ma saldamente aggrappata al collo di una bottiglia.
“Te ne vai?” chiese l’uomo, il tono un po’ biascicato che indicava la sbronza imminente.
Ryan chiuse a chiave la porta alle proprie spalle e raggiunse la propria valigia, ancora da disfare dopo la Chess.
“Sì.” disse solo.
“Dove?”
Ryan strinse i denti. Era ovvio che non lo sapesse! Ancora non era nemmeno fuori dall’hotel! Ma era così fottutamente stanco di prenderle ovunque stesse, alla Chess o a casa o all’estero quando viaggiava con i suoi o perfino in vacanza. Era stanco di dover raccattare suo padre ubriaco e di dare la colpa a dei farmaci inesistenti davanti ai giornalisti, di dover buttare i cocci –se ne aveva la forza– di ciò che sua madre gli aveva tirato contro, di dover rovinare la propria vita per rendere felici persone che odiava con tutto il cuore. Era stanco e basta.
“Tua madre non ti manderà la tua roba…” continuò suo padre, ignorando la rabbia con cui il figlio si stava vestendo e il silenzio alla sua ultima domanda.
“Come se mi importasse.” sibilò Ryan in risposta afferrando saldamente il proprio borsone.
E dieci minuti dopo, il tempo di una telefonata veloce, era fuori dall’hotel, fuori dalla sua vita e fuori dalla sua famiglia.
 
Tremò, ma strinse i denti e finse di non sentire il panico che montava nel suo petto. Non aveva mai patito il freddo fino alla notte in cui la Williams non l’aveva gettato nella neve a lasciare che rischiasse l’assideramento. Adesso, il minimo spiffero riportava la sua mente a quella notte e lo terrorizzava.
Portò una mano all’avambraccio ferito e lo strinse con tutta la forza che aveva, chiedendosi quanto tempo avesse prima che il sangue venisse assorbito da tutti gli strati e facesse la sua comparsa sulla manica in una bella macchia saltante all’occhio. Allora sì che sarebbe stato fantastico vagare per città senza una meta o un tetto o un soldo. Vai, Ry: così si fa.
Ryan sospirò, pronto ad accogliere gli insulti della sua mente, ma prima che potesse farlo un taxi si fermò davanti all’hotel e lasciò uscire dalla sua portiera l’unica persona che avesse il potere di farlo sentire un minimo meglio.
E invece di fargliela pagare, l’unica cosa che Ryan volle fare nel vederla fu tirarsi un pugno nei denti.
“Oh Dio, Lucy!” esclamò, terrorizzato, quando vide la ragazza mettersi sulle spalle un borsone di forma particolare dalla cui chiusura…precaria…penzolava malamente la manica di un golfino.
Lucille Gray ignorò la sua paura per sorridergli, corrergli incontro, lasciar cadere il borsone e abbracciarlo con tutta la forza che possedeva. Ryan non riuscì ad accantonare il pensiero di quello che la sua ragazza aveva fatto, ma finse di farlo per un attimo mentre le avvolgeva le braccia alla vita e alla schiena e nascondeva il visto nella massa morbida e luminosa dei suoi capelli fatti di boccoli castani striati di miele. Lucille era diventata ancora più bella in quegli anni in cui non si erano parlati, si era alzata e il suo petto si era ammorbidito, la sua figura era diventata più femminile, ma le labbra e il profumo e quei maledetti occhi verdi come l’erba a Maggio che gli avevano fatto perdere la testa erano rimasti gli stessi in ogni minimo dettaglio.
“Lucy, mi dispiace…” sussurrò Ry stringendola ancora di più, “Mi dispiace, non ho pensato prima di chiamarti! Dio, se l’avessi saputo, non l’avrei mai fatto! Tu non sai quanto vorrei poter tornare indietro, io…”
“Ehi!” Lucille si staccò giusto il necessario per spostare le mani dalla schiena alle guance di Ryan quindi gli rivolse il più luminoso dei propri sorrisi mentre cercava di fargli sentire quel calore che, lo sapeva, la sua famiglia gli aveva portato via. “Va tutto bene, d’accordo?” provò a rassicurarlo, “È andata così, ma non è colpa tua!”
“Sì, certo…”
“Sì, te lo giuro!” lo rimproverò lei mettendo a tacere il suo borbottio offeso. Lucille sospirò sapendo che convincere il suo ragazzo sarebbe stata un’impresa, quindi fece scorrere il dorso della mano sotto il suo occhi, cancellando con noncuranza una lacrima fuggitiva. “Ryan, io non credo che saremo gli unici, sai?” Ry aggrottò la fronte a quelle parole, ma lei annuì, convinta anche se tristemente. “Ci sono cose…che non si possono dimenticare, capisci? E la Chess, come la Checkers, è tra queste. Io non…” scosse la testa, alla ricerca delle parole, “Io non sarei più riuscita a guardare in faccia i miei, a svegliarmi la mattina e trovarmeli davanti fino a sera. Lo so che è finita, ma lo stesso ogni volta che li guardo, vedo le persone che mi hanno rinchiusa per mesi in quel posto, vedo i bastardi che hanno rinchiuso mio fratello in quell’inferno per quattro anni e che hanno contribuito a farci finire il mio ragazzo.” sospirò al ricordo di suo padre che chiacchierava con la madre di Ryan di come la Chess fosse perfetta per ragazzi come i loro, “Anche se tu non mi avessi chiamata, Ry, me ne sarei andata lo stesso, prima o poi. Non posso dimenticare quello che ci hanno fatto, né posso perdonarli. E so che non sarò l’unica, so che un sacco di ragazzi torneranno a casa e scopriranno di vedere le proprie famiglie…in modo troppo diverso per accettare di restare con loro.”
Ryan sorrise, mesto.
“Come fai ad esserne sicura?” chiese, piano.
“Ne sono sicura perché sono stata all’Inferno e l’ho visto.” rispose lei, senza esitazione.
Niente da fare, nessuno avrebbe mai sconfitto Lucille Gray. Ryan, quindi, si arrese e sospirò poi però la guardò con serietà.
“E adesso che facciamo?” chiese.
Erano due adolescenti senza un soldo, senza un familiare disposto ad aiutarli e senza neanche un diploma, ma in compenso provvisti di due influenti famiglie determinate a distruggere loro la vita. Avevano proprio tante prospettive davanti a loro.
Per un attimo Ryan vide la sua stessa preoccupazione negli occhi della sua ragazza, ma lei era troppo tenace per mostrarla.
“Ho visto un ponte carinissimo venendo qui, sai?” scherzò, riuscendo addirittura a strappare ad entrambi un mezzo sorriso.
“Beh, certo, c’è anche il ponte, ma io pensavo a qualcosa…con più muri, ecco.”
Ryan sollevò lo sguardo, sorpreso, e Lucille si voltò di scatto quando una voce nota li raggiunse. Sotto lo sguardo sgomento dei due piccioncini, la testa di Greg sporgeva, munita di sorrisetto soddisfatto, dal finestrino del taxi che aveva appena accostato al marciapiede.
“Che diavolo ci fai tu qui?” esclamò Ryan, sgomento. Non dirmi che anche lui…!
“Disattiva la modalità mamma chioccia, Ry: non sono scappato di casa, io.” lo prese in giro il biondo aprendo la portiera ma senza scendere, “Forza.”
Lucille aggrottò la fronte.
“Cosa vuoi fare?” chiese.
“Affitto una casa e vi ci lascio, cosa vuoi che faccia?” sbuffò il biondo, fintamente offeso, “Tu a casa non vuoi tornare e Ryan sono io che non voglio che torni alla sua: non restano tante opzioni, no?”
Lucille e Ryan si scambiarono un’occhiata, ma il freddo era notevole e così raccolsero i propri bagagli e salirono sul taxi mentre Greg dava un nuovo indirizzo.
“Quando hai cercato una casa?” chiese Lucille, confusa, scivolando in mezzo per permettere al fidanzato di sedersi accanto a lei, che rimase così tra lui e il fratello.
“Quando hai iniziato a strillare contro papà perché non ti lasciava raggiungere Ry.” ammise Greg con un sorriso gentile, poi si sporse verso l’amico, “Ah, mi raccomando: niente sesso prima del matrimonio, eh? Te l’affido, ma me la devi rispettare e…”
“Ti ricordo che finché io non faccio sesso con lei, tu non puoi fare sesso con nessuno.” lo interruppe Ryan.
Greg esitò solo un attimo.
“La casa è a due minuti da qui: mi raccomando, ho letto che andare a letto con il partner è il modo migliore per scaldarsi, sì sì, e oggi fa taaaaanto freddo!”
Ryan scoppiò a ridere ma Lucille aggrottò la fronte.
“Dovrei sapere di cosa state parlando?” chiese.
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata.
“Naaaaaah!” risposero poi all’unisono.
 
Circa sessantatre anni prima dell’Epilogo…
 
Ryan chiuse la porta alle proprie spalle ed esitò, guardandosi attorno come temendo un’aggressione da un momento all’altro.
Lucille, entrata un attimo prima di lui, si voltò per guardarlo con confusione.
“Va tutto bene?” gli chiese.
Lui aggrottò la fronte.
“La casa è nostra?” ribatté, dubbioso.
Lucille scosse la testa, esasperata, ma annuì.
“Sì, amore, l’abbiamo definitivamente comprata.” lo rassicurò con un sorriso, ma lui continuò a fissarla con sospetto, come se non si fidasse di lei.
“Il conto non è in rosso?”
“No, amore, non lo è.” sospirò la ragazza, pur mantenendo la calma.
“Mi hanno preso?” chiese ancora Ry, sempre più insospettito.
“Sì, amore, ti hanno preso e sei il nuovo insegnante di scienze sociali alla neo-fondata Chess Academy. Mi dici che cos’hai?” Lucille si piantò le mani sui fianchi e quando si piantava le mani sui fianchi, non c’era santo che tenesse.
Ryan scosse la testa.
“C’è qualcosa che non quadra. Va tutto troppo bene.” borbottò, “Dove diavolo sono finiti i tuoi genitori e soprattutto dove diamine è finita mia madre?!”
Lucille scoppiò a ridere, ma fu una risata un po’ falsa, forse la prima della sua vita. Una parte di lei, comprendeva fin troppo le paure che Ryan stava in quel momento esagerando. In tre anni, non c’era stato nulla che non si fossero dovuti sudare duramente, mai una volta che le loro famiglie non fossero intervenute per dar loro tanto ma tanto da penare. Certo, Gregory e gli altri erano stati un aiuto prezioso, ma era comunque stata durissima.
“I miei sono impegnati a costruire bambole voodoo con le sembianze di mio fratello e del suo promesso sposo, se può farti sentire meglio.” disse invece, scacciando i brutti pensieri con un sorriso e posando piano la mano sulla pancia appena distesa del quarto mese, “E tua madre starà cercando un modo, nel suo antro spettrale, di trarre a sé sua nipote per renderla l’erede universale di tutte le sue ricchezze.”
Bastò l’accenno all’imminente matrimonio di Mathieu e Gregory e alla bimba che Lucille portava in grembo per riaccendere la luce e il sorriso sul viso di Ryan che le si accostò e posò una mano sulla sua pancia, facendola scorrere fino a trovare il punto dove la piccolina in questione stava scalciando leggermente.
“Bah, al diavolo quei vecchi bacucchi, vero amore?” chiese alla bambina inginocchiandosi a terra per portare il viso davanti alla pancia della moglie, “Non ci servono e non ci fanno paura. Tanto noi abbiamo la mamma, loro ci fanno un baffo!”
Lucille rise e scosse la testa poi allungò la mano ad accarezzare il volto del ragazzo che aveva sposato un anno prima, nel bel mezzo di una notte di Febbraio con suo fratello a testimoniare per lei e il fidanzato di Greg a testimoniare per Ry: quattro ragazzi, neve per riso, un bouquet di fiori finti e due piccole fedi di rame. Il matrimonio più bello che potesse sognare.
“Ti amo tanto, lo sai?” gli chiese, le lacrime agli occhi nel vedere il suo volto e nell’accarezzare le piccole cicatrici sull’avambraccio, ricordo del giorno in cui era scappato di casa, lasciate scoperte dalla maglietta a maniche corte.
Ryan era cambiato. Gli stessi occhi scuri, gli stessi capelli castani, ma la pelle più chiara e lo sguardo, a sorpresa, più felice: non importava quanto avesse le guance scavate, quante preoccupazioni gli facessero aggrottare la fronte ogni giorno e quante lacrime avesse versato con lei di notte quando non avevano idea di come avrebbero fatto anche solo a trovare il coraggio di alzarsi il giorno dopo. Era felice perché per una volta nella sua vita prendeva le sue decisioni da solo, faceva ciò che era la sua anima a chiedere e accettava ciò che ne arrivava con il sorriso.
“Lucille,” la rimproverò lui, diventando serio, “non ho mai dimenticato tutto ciò che hai fatto per me, né l’amore che mi porti. Ma tra i due, sono io quello che ama di più perché, se tu non esistessi, io sarei come un’equazione senza uguale.”
“Un’equazione senza uguale?”
“Una sfilza complicata di numeri e lettere senza un fine che non riusciranno mai a trovare una soluzione per se stessi.”
Lucille sorrise.
“Quindi io sono il tuo uguale?” chiese.
Ryan si tirò su e la baciò poi si staccò appena per sorriderle.
“No, tu sei la mia soluzione.”
 
Circa sessantatre anni e venti minuti prima dell’Epilogo…
 
Walter salutò Larry e uscì dalla biblioteca.
Quel vecchio pazzo di Lar avrebbe messo a posto quei volumi polverosi da solo, era il nuovo insegnante di inglese della Chess quindi poteva occuparsene. Lui, in fondo, era solo l’infermiere responsabile di quella scuola e il suo compito, al massimo, era di occuparsi dell’infermeria –che faceva davvero schifo, a riprova di quanto poco fosse fregato ai precedenti occupanti di curare gli allievi–.
Errore che qui non sarà ripetuto., si ripromise, tra sé e sé, mentre si dirigeva verso le scale. Aveva finito la laurea triennale di infermeria, adesso avrebbe studiato tramite internet per il corso di medicina e si sarebbe recato in facoltà solo per le lezioni pratiche e per gli esami. Sapeva che sarebbe stata dura, ma la Chess era più importante. Quella scuola, ristrutturata e aperta di nuovo con un’amministrazione e un corpo docenti totalmente diversi, era il riscatto di tutti coloro che ci avevano passato anni dentro ed era la seconda possibilità per quelli che, come Greg e Mat e Ryan, ne erano usciti troppo cambiati per tornare alla loro vita di prima.
Walt sapeva di essere fortunato, era l’unico entrato nella Chess di sua spontanea volontà e non per ordine dei suoi. Anzi, la vera battaglia con la sua famiglia l’aveva dovuta combattere per convincerli a lasciarlo rimanere là nonostante le punizioni corporali: i suoi genitori e suo fratello avrebbero voluto portarlo via, ma lui aveva deciso di restare e di combattere da dentro, con i suoi amici. Adesso, dopo tre anni, la sua famiglia aveva accettato anche quel secondo colpo di testa e Walter gliene era dannatamente grato.
Mentre saliva le scale verso il quinto piano, incrociò Scott che correva giù, ma non fece in tempo a chiedergli cosa avesse che era già sparito. Pace, i ragazzi della Chess non avrebbero potuto dire che il loro insegnante di educazione fisica non era un tipo atletico.
Scrollò le spalle e riprese a salire, sbirciando di volta in volta dalle porte dei vari piani per controllare gli ultimi lavori. Arrivato a destinazione, entrò e si fermò sulla soglia ad ammirare.
“Immagino potesse andarci peggio.” commentò guardando le pareti con la vernice di un azzurro tenuissimo ancora fresca.
Il biondo al centro del corridoio annuì, ma non si mosse, continuò a dargli le spalle e a fissare il lavoro appena concluso con le mani sui fianchi e un pennello gocciolante liquido sui pezzi di giornale stesi a terra.
Walter scosse la testa con un sospiro, ma si staccò dall’ingresso per raggiungere l’altro.
“Come saranno felici i ragazzi di sapere che le loro stanze sono state dipinte addirittura dal preside!” scherzò fermandosi accanto all’amico.
Questi rise e si voltò verso di lui.
“Credimi, Walter,” disse Alex, sorridendo e fissandolo come un monello con quei suoi occhi semi-nascosti dallo spettinato ciuffo di nuovo tinto di blu, “saranno felici e basta.”
 
E questa è veramente la…
FINE





 

Davvero, questa volta. Fine, per tutti. Per Mat, per Greg, per Ry, per Lucille, per Walter, per Alex, per Scott e per Larry. Fine per voi, fine per me.
Ho sempre detto che credo nei vostri consigli e che sono disposta a scrivere, se c'è qualcosa che vi interessa: lady_poe, mi hai chiesto cosa fosse successo a Ry e spero davvero di averti accontentata :)
Per l'ultima volta in questa storia,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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