Ragazzo Sorriso e Lenticchia: la triste storia di un vicolo cieco

di Shomer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Ragazzo Sorriso e Lenticchia: la triste storia di un vicolo cieco




 

Capitolo uno
Dove vai quando poi resti sola? Senza ali, tu lo sai, non si vola. - Lucio Battisti

 

Estate 1989


Janis aveva i capelli color miele, lunghi fino alle spalle, talmente lisci e talmente perfetti da far sì che io li invidiassi. Avevo passato tutta la vita ad invidiare i capelli di Janis, così luminosi da sembrare quelli di una donna. Li teneva quasi sempre raccolti e aveva una barbetta poco accennata che sembrava un po’ disordinata, vestiva con magliette coloratissime e pantaloni larghi, aveva una particolare fissazione per i braccialetti di legno e di solito lo prendevo in giro dicendogli che sembrava un figlio dei fiori, come sua madre tanto tempo prima.
Aveva un barattolo di latta gigante che si ostinava a chiamare macchina e a cui ogni tanto dava dei soprannomi ridicoli;  l'aveva comprato dopo il primo anno di lavoro di seconda o terza mano, ma era talmente vecchio e talmente arrugginito che ormai era diventato una specie di trappola mortale.
Quando scesi dalla bicicletta, in quel soleggiato venerdì di metà luglio, lo trovai appoggiato al cancello con le braccia incrociate e mi accorsi che non era cambiato di una virgola. Sorrideva come da bambino, quando ogni tanto ci aspettava sul ciglio della strada e correva come un pazzo incontro alla macchina, una volta che mio padre avesse girato l’angolo.
Incrociare il suo sguardo non fu facile. Trattenni il fiato per un po’ e poi mi costrinsi ad alzare il viso; cercai di fermare i miei occhi nei suoi per un tempo che fosse almeno dignitoso, per un tempo che bastasse a far capire a lui ma soprattutto a me che magari ero riuscita a cancellare un pezzetto di quello che era successo. Non ce la feci. Distolsi lo sguardo quasi subito.
Appoggiai la bicicletta al muretto di casa mia e andai ad abbracciarlo.
«Ti trovo bene, Lenticchia» mi disse, passandomi una mano tra i capelli.
Sorrisi lievemente per quello stupido soprannome che mi aveva affibbiato da piccola a causa delle mie numerose lentiggini e interruppi l’abbraccio, appoggiandomi al muro di fianco a lui.
«Stamattina tua madre mi ha detto che non eri in casa» dissi.
«Avevo detto allo zio che sarei venuto a prenderti io, alla stazione» rispose, incrociando le braccia al petto come faceva sempre quando non otteneva ciò che voleva. «Doveva essere una sorpresa. Ma poi ho avuto un contrattempo.»
«Che contrattempo?» chiesi, voltando la testa verso di lui.
«Gaia» borbottò, scuotendo il capo.
Annuii. Mi si strinse lo stomaco al pensiero che avrei rivisto Gaia e gli altri e non avrei potuto fare niente per impedirlo.
«Come stanno gli altri?» chiesi, facendo leva con le mani per sedermi sul muretto. «Li ho sentiti così poco…»
Non gli chiesi come stava lui, che cosa aveva fatto durante l'inverno e come si era sentito durante tutto quel tempo. Mi interessava, ovviamente, ma pensavo che una sua risposta avrebbe fatto stare male sia me che lui. Non volevo sapere niente di ciò che aveva fatto in mia assenza. E sicuramente neanche lui voleva sapere della mia vita lontano da casa. Non eravamo pronti per questo.
«Come al solito» rispose, pacato. «Freddie lavora ancora con me dal meccanico, Marco studia come un matto e Gaia fa la commessa al negozio dei suoi.»
«Sanno che sono qui?»
«In realtà lo sa solo Freddie. Anche io ho saputo da poco la data esatta del tuo arrivo... Non ho avuto modo di dirlo a Marco… e poi Gaia… insomma…» disse confusamente.
«Le cose non sono più come prima» dissi, intuendo perfettamente quello che stava cercando di dire.
«Già.»
«Scusa se non ti ho mai chiamato.»
«Neanche io ti ho chiamata.»    
Janis mi passò un braccio attorno alle spalle e strinse forte. Io appoggiai la testa sul suo petto e incrociai le braccia, accorgendomi che un brivido mi stava percorrendo il corpo e cominciando a sentire la pelle d’oca nonostante il gran caldo che si respirava in quel paese di mare.
Non cercai lo sguardo di mio cugino né probabilmente lui cercò il mio; sapevamo che guardandoci o dicendoci qualcos’altro ci saremmo inoltrati in luoghi della nostra mente che era meglio non visitare, sapevamo di essere ancora in grado di ritardare quel momento e volevamo farlo con tutte le nostre forze. Allora rimanemmo lì, abbracciati, per tantissimo tempo e quando lo sentii sospirare profondamente dovetti reprimere con tutta me stessa le lacrime che cercavano di fuoriuscire, perché almeno con lui volevo essere forte, almeno quello glielo dovevo.

 


Casa mia era una villetta bifamiliare in periferia; una parte era della mia famiglia e l’altra della famiglia di Janis. Era una casa che aveva costruito mio nonno e che lui aveva deciso di lasciare a mia madre e a mia zia, le sue uniche figlie, non appena si fossero fatte una famiglia. Per questo motivo io e Janis avevamo vissuto sempre a strettissimo contatto, confondendo a volte le due case e vedendole nella nostra testa come se fossero state una singola abitazione. Non era passato giorno durante la nostra infanzia che avevamo vissuto senza vederci e, nonostante durante la pubertà ci fossimo divisi, ci eravamo riavvicinati durante il mio terzo anno di liceo. Durante quell'anno mio cugino e Freddie frequentavano il quinto e ultimo anno di scuola, Gaia invece faceva il quarto e Marco il secondo. Li conoscevo poco, più che altro perché eravamo in un paese piccolo e in un modo o nell'altro ci si conosce tutti. Non ero il tipo di ragazza che usciva il pomeriggio o che aveva un giro di amici, perché mia madre (ignorando le obiezioni di mio padre) non era favorevole alle uscite o ai ragazzi che non possedessero un genitore con un discreto conto in banca. 
Quando il primo giorno di scuola del mio terzo liceo Febri decise di sedersi accanto a me, la cugina silenziosa del suo amico Janis, cambiò tutto. Cominciai a frequentarli assiduamente e a stringere amicizia con tutti loro, specialmente con lui. Con mio cugino fu strano.
Non eravamo più inseparabili come da bambini: semplicemente frequentavamo le stesse persone, un po’ perché io avevo stretto un profondo rapporto con Febri, che era sempre stato il suo migliore amico, un po’ perché il paese era piccolo e quindi alla fine ci si ritrovava tutti, un po’ perché in un modo o nell’altro avremmo dovuto riavvicinarci, come se fosse qualcosa di inevitabile.
Ci trattavamo come se fossimo due normali amici, ma c’era qualcosa che stonava e questo era diventato palese l'anno successivo, quando concluso il liceo era dovuto partire per il servizio militare. Avevo passato quell'anno ad aspettare le sue telefonate o le sue lettere, chiedendomi come avevo fatto per tutti gli anni delle scuole medie e i primi anni del liceo ad andare avanti senza di lui. Quando tornava a casa per qualche giorno e poi doveva ripartire, passavo i primi tempi a piangere incessantemente e calcolare il tempo che rimaneva prima di rivederlo ancora.
Nessuno lo sapeva. Non avrei mai avuto il coraggio di confessarlo a qualcuno, neanche a lui.
Quelle poche volte che ci vedevamo, dopo essere usciti con gli altri ragazzi, stavamo fino a notte fonda a parlare di qualsiasi cosa seduti sugli scalini di casa mia o casa sua. E di mattina, invece, a volte saltavo la scuola e insieme facevamo lunghe passeggiate fino alla campagna poco distante da casa, rimanendo lì a parlare fino all'ora di pranzo.
Quando mi ero resa conto che c'era qualcosa che non andava? Esattamente l'anno successivo quando Freddie, che aveva dovuto ripetere il quinto anno, era partito. La sua lontananza non mi aveva fatto lo stesso effetto; mi era mancato, sì, ma in un modo completamente diverso.
Durante gli anni avevo imparato che nonostante per un lungo periodo fossimo stati lontani, Janis mi vedeva ormai come un pezzetto di sé, come un qualcosa da cui non avrebbe mai potuto separarsi del tutto, e lo vedevo così anch’io. 
Era proprio di questa dipendenza che avevo cercato di liberarmi, senza grossi risultati. Fondamentalmente ero una debole. La parte forte di me era Janis.
Mia madre, andando in direzione contraria rispetto alla sua natura, aveva sviluppato nel tempo una specie di venerazione verso mio cugino, paragonabile solo a quella che nutriva verso sua sorella, Eva, che si era laureata in medicina con ottimi voti e ora lavorava a tempo pieno in un’altra città. Quando uscivo con Janis infatti non avevo orari di rientro a patto che fosse lui a riaccompagnarmi a casa con il suo apriscatole su quattro ruote, per questo mi stupì sentire mia madre dire certe cose, quella sera a cena.
«Stasera esci?» mi chiese, grattando il fondo del piatto con la forchetta.
Mio padre alzò lo sguardo verso di me e appoggiò il bicchiere di vino sul tavolo.
«Forse» risposi, anche se in realtà non mi ero accordata con nessuno.
«Hai intenzione di continuare a passare le tue giornate con quel gruppo di sbandati?»
«Mamma, sono con Janis.»
Mio padre si schiarì la gola e mi guardò, scusandosi con lo sguardo per il tono sprezzante di mia madre. «Credo che quello che voglia dire tua madre, è che dovresti farti anche degli altri amici…»
«Sono con Janis» ripetei, come se bastasse per considerare chiusa la questione.
«Anche lui dovrebbe rivedere un attimo le sue compagnie, penso proprio che ne parlerò con tua zia» disse mia madre, passandosi il fazzoletto sulla bocca con una mossa molto ordinata e composta. «Per esempio» continuò. «Ci sono i figli del dottor Serli, quelli che abitano dall’altra parte della strada, che sono dei ragazzi così piacevoli… lei si è appena diplomata con il massimo, è una cara ragazza.»
Mi battei con forza una mano sul petto quando l’acqua mi andò di traverso e cominciai a tossire rumorosamente.
«Non farti ingannare dal portafogli, mamma» dissi, quando riacquistai la capacità di respirare, pensando a quella volta in cui li avevo beccati in discoteca ad impasticcarsi.
«Beh, almeno loro non sono dei tossicodipendenti come la gente che frequenti tu» disse mia madre, altezzosa.
Bloccai la forchetta a mezz’aria e la guardai con gli occhi sgranati. Mi sentii come paralizzata. Mio padre socchiuse gli occhi e scosse la testa, come faceva di solito quando mia madre esagerava o faceva qualcuna delle sue stupidaggini da madre apprensiva e un po’ psicopatica.
«Non vorrai certo che faccia come la signora Breschi, che quando il figlio torna a casa gli controlla le braccia per verificare che non ci siano buchi?» continuò mia madre, come se controllarmi l’interno del gomito fosse la cosa più sensata del mondo.
Sentivo gli occhi che cominciavano a pizzicare e appoggiai lentamente la forchetta sul piatto, subito prima di allontanarlo da me con aria schifata. «Ho finito» dissi, alzandomi.
«Ti sembra il modo di alzarti da tavola?» si spazientì mia madre. «E a ventidue anni non ci hai ancora portato un ragazzo a casa! Che cosa aspetti? Vuoi forse rimanere zitella? Mara, torna qui!»
Io la ignorai e le voltai le spalle, avviandomi verso l’ingresso e infilandomi in tasca un pacchetto mezzo vuoto di sigarette e qualche spicciolo. Era tipico di mia madre portare ogni discussione sul fatto che non avessi ancora un ragazzo e lamentarsene costantemente. Come se ventidue anni fossero tanti.
Mentre mi chiudevo la porta alle spalle sentii mio padre rimproverare mia madre per il poco tatto.
Scesi velocemente le scale rischiando di inciampare e mi precipitai al di là della staccionata, chiudendo il piccolo cancello verde. Respirai a pieni polmoni e mi sedetti sul marciapiede.
I miei genitori non sarebbero venuti a disturbarmi: non lo facevano mai. Mio padre sapeva che non era il caso e mia madre era sempre convinta di avere ragione. Solitamente non si rendeva neanche conto delle cose che diceva, quindi probabilmente anche quella volta pensava di non aver detto nulla di  male.
Mi passai una mano sugli occhi e non riuscii ad impedire alla mia mente di far scorrere le immagini.

 

 
Estate 1988


L’estate dell’anno precedente, quella del 1988, era stata la peggiore della mia vita. Ancora portavo i postumi di quel periodo e tentavo invano di incassare tutti i colpi subiti.
Dopo il diploma, i miei genitori avevano deciso che dovevo un po' responsabilizzarmi se volevo continuare gli studi lontano da casa, considerando il voto mediocre che avevo portato loro a liceo concluso. Per questo motivo, avevo passato l'anno successivo a lavorare nel loro ristorante per gente altolocata, passando le serate ad aspettare il momento in cui Janis sarebbe venuto a trovarmi per una pausa sigaretta e a chiedermi che cosa stesse facendo Febri in quel momento dato che anche lui, come tutti, era partito per il servizio militare. 
Arrivata l'estate, il desiderio di continuare gli studi e di abbandonare il posto al ristorante si era fatto sempre più intenso, solo che ancora non avevo la minima idea di che strada intraprendere.
Per questo motivo passai l'anno successivo a fare la barista alla paninoteca di Rob, che spesso mi faceva addirittura oliare la sua sedia a rotelle o mi mandava a comprargli le sigarette, e in due anni avevo guadagnato un bel gruzzoletto per iscrivermi all’università e far capire ai miei che valeva la pena continuare a mantenermi.
Quando mi tolsi per l’ultima volta il grembiule del Sottomarino e lo lanciai addosso a Rob, che mi guardava con le braccia incrociate dal basso della sua sedia a rotelle, quasi fui pervasa da una scarica di malinconia. Mi ero divertita a lavorare per lui, alla fin fine, dato che ormai lo conoscevamo da così tanto tempo e avevo passato da lui così tante serate da considerarlo una specie di padre.
Gli sorrisi radiosamente e mi avvicinai, superandolo e afferrando i manici della sua sedia.
«Finalmente posso ricominciare a chiamarti vecchio rimbambito, sei contento?» gli chiesi, ridendo. Spinsi la sua sedia a rotelle attraverso il locale in legno e mi guardai intorno, constatando che come al solito l’unica a rimanere con Rob fino alla chiusura ero io.
«Modera il tono, piccola ingrata» rispose, fingendosi arrabbiato nonostante fosse palese che stesse ridendo sotto i baffi. «Ti ricordo che l’ultima settimana di paga ancora non te l’ho data.»
Risi e lo spinsi fuori dal locale, dopodiché spensi la luce e chiusi a chiave. Presi una sigaretta dal pacchetto che avevo comprato e glielo porsi.
Proprio in quel momento arrivò Janis che parcheggiò davanti a noi con una sgommata degna di una gara tra macchine e ci fece sobbalzare. Scese dall’apriscatole ridacchiando, seguito a ruota da Febri.
«Ma ti sembra il modo di trattare quel gioiellino, ragazzo?» tuonò Rob, con la sigaretta tra i denti. «Se alla tua età avessi avuto una macchina del genere l’avrei usata con molto più rispetto, oh signore…»
«Quando tu avevi l’età nostra il massimo della tua aspirazione era possedere un furgoncino con le margherite, Rob» disse Febri, guadagnandosi un’occhiataccia. Ridemmo tutti tranne il vecchio, che cominciò a borbottare qualche frase sconclusionata riguardo a quanto la sua generazione fosse migliore della nostra.
Janis mi si avvicinò e mi passò un braccio intorno alle spalle, abbracciandomi con una stretta leggera. Lanciai un’occhiata a Febri e mi accorsi che nonostante il sorriso smagliante era un po’ strano, come se fosse incredibilmente stanco. Intercettai il suo sguardo per chiedergli se andava tutto bene, muovendo solo gli occhi e le sopracciglia, e lui annuì socchiudendo le palpebre. 
Feci l’imperdonabile errore di credergli.
«Allora vecchio, hai già sostituito la nostra Lenticchia?» chiese Janis, strattonandomi.
«Ancora no» borbottò lui, cominciando ad allontanarsi con la sua sedia. «E non chiamarmi vecchio, che ho solo cinquantadue anni!»
Ridemmo tutti quanti, Rob compreso, che si atteggiava tanto a uomo burbero, ma in realtà aveva un cuore d’oro.
«Piccoli ingrati…» disse ancora. «Me ne torno da mia moglie! Voi drogatevi di meno!»
Lo salutammo tra le risate e salimmo in macchina di Janis, allegri e spensierati. Mio cugino partì immediatamente e alzò il volume dell'autoradio; io ormai avevo imparato che nella sua auto le discussioni sulla musica non erano ammesse, ma Febri ogni tanto ci provava ancora, tirando fuori una cassetta che portava sempre in tasca e provando in tutti i modi ad inserirla. Quando lanciò un’occhiata alla radio mi aspettai che lo facesse anche quella volta, ma invece, contro ogni mia previsione, si limitò alle parole.
«I Deep Purple sono ormai al capolinea, amico» disse, guadagnandosi una delle occhiate più truci che io avessi mai visto. «Perché non mettiamo un po’ di musica nostrana?»
Janis per tutta risposta alzò il volume al massimo. «La mia bambina non ascolterà mai la voce di quei similfroci che piacciono a te» urlò, per sovrastare il volume. «Se vuoi ascoltare Battisti puoi farti scorrazzare in macchina da mia madre!»
Risi di gusto, ormai abituata a quelle scene stupide a bordo della macchina di mio cugino. Aveva sviluppato un attaccamento morboso verso quell'apriscatole paragonabile a quello che si può avere per un animale domestico, e non permetteva a nessuno di criticarla né tantomeno di sfiorare la sua radio malandata.
«Allora, Lenticchia» mi gridò Febri, voltandosi verso di me e mettendo in mostra delle orribili occhiaie. «Ora sei libera! Come ti senti?»
«In realtà sarò libera solo per luglio e agosto. Poi dovrò andare ad iscrivermi all’università, ricordi?» dissi, appoggiandomi allo schienale.
«Che palle questa storia dell’università» rispose, annoiato. «Dopo che mi sono diplomato, mio padre mi ha fatto intendere che sarebbe stato un grosso disonore se io mi fossi iscritto all’università!»
Janis si girò verso di lui e abbassò il volume della radio. «Febri, non ho nulla contro tuo padre, ma ti ricordo che due mesi fa ci ha regalato cinque grammi d’erba. Diciamo che non è proprio un genitore normale.»
«E’ il migliore» sospirò lui, accendendosi una sigaretta. «In più è il giardiniere più quotato della zona, fama che prima o poi passerà a me.»
«Non ti capisco, Lenticchia, non capisco perché vuoi così tanto andare all’università. I tuoi hanno un ristorante, il culo ce l’hai parato a vita» mi disse Janis, lanciandomi un’occhiata dallo specchietto retrovisore. Quando finì di parlare strinse le labbra con disapprovazione, come faceva sempre quando si parlava del mio futuro accademico.
«Non so se hai notato, ma appena si è liberato un posto da Rob sono scappata da quel ristorante…»
«E poi che cos’è che vuoi studiare? Filosofia? O era psicologia?»
«Ma che roba ridicola è?»
«Veramente è biologia!» esclamai.
«E poi si può sapere dove hai intenzione di andare?»
«Non lo so ancora, ma non troppo lontano e-»
«Non puoi andare dove va Marco, che in mezz'ora è a casa?»
«Non mi piace lì, e poi tornerò a casa per tutte le feste...» dissi, quasi come se volessi scusarmi.
«Sì sì, come no.»
«Dicono tutti così, e poi tornano solo d’estate.»
«Oppure quando finiscono i soldi.»
«O quando si fanno ingravidare.»
«O quando si laureano.»
«Beh, io tornerò per tutte le feste e non solo d’estate!» sbottai, ponendo fine a quel ridicolo scambio di battute. «E non mi farò ingravidare da nessuno!»
«Ti conviene.»
Janis parcheggiò la macchina e aprì la portiera, guardandomi con un sopracciglio alzato e un sorrisetto in viso. Guardai fuori dal finestrino e mi accorsi che eravamo nella nostra solita montagnola da cui si vedeva tutta la città, con l’auto parcheggiata a circa cinque metri dal dirupo.
Febri, che era già sceso dalla macchina, in uno strano attacco di galanteria venne ad aprirmi lo sportello. 
«Sarà meglio per te se tornerai, Lenticchia» disse, porgendomi la mano per aiutarmi a scendere. Io aggrottai la fronte afferrandola, dato che non pensavo di essere così impedita da non riuscire ad uscire sola dall’auto.
«Vi ho detto che tornerò per tutte le feste!» dissi un’altra volta.
Non tornai.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


 


Capitolo Due
E mi hanno fatto domande sulla mia vita interiore, ed in qualcuna delle mie risposte c'era il tuo nome. - Francesco De Gregori
 


Estate 1989


Freddie mi rivolse un sorriso radioso. Mi venne in contro con le braccia allargate e i piccoli riccioli biondi svolazzanti.
Lui era uno di quei personaggi che mia madre mi permetteva di frequentare solo perché insieme a me c’era Janis. I numerosi tatuaggi, il piercing al sopracciglio e il suo modo di vestire eccentrico non l’avevano mai messo in buona luce di fronte ai miei genitori e, considerati gli avvenimenti dell’estate precedente e le parole che mia madre aveva detto a cena la sera prima, probabilmente non l’avrebbero mai fatto.
Incrociare il suo sguardo non fu difficile come incrociare quello di Janis, ma vi scorsi comunque qualcosa di rancoroso, una punta di ostilità e un filo di risentimento che svanirono in un istante. Lo abbracciai con trasporto e ignorai le paure e le paranoie, felice di rivederlo dopo quasi un anno.
Quando l’abbraccio si interruppe, ci sedemmo entrambi sul mio asciugamano sulla spiaggia.
«E’ bello rivederti, Lenticchia» mi disse, sorridendo.
«Dovresti smetterla di chiamarmi Lenticchia, o io potrei cominciare a chiamarti Alfredo…» dissi con un sorrisetto, sapendo benissimo quanto odiasse il suo nome di battesimo. Fece una grossa smorfia e mi diede un colpetto sul braccio.
Sorrisi pensando che il giorno precedente, quando ero arrivata in paese, avevo provato una morsa di inquietudine al pensiero che avrei rivisto gli altri; in quel momento, però, mentre ero seduta con Freddie, mi sentivo rilassata e contenta.
«Oggi è il tuo giorno libero?» gli chiesi.
«Ho solo il pomeriggio libero, stamattina ho lavorato. Il capo è proprio uno sfruttatore, mezza giornata libera alla settimana!» sbuffò.
«Non lamentarti!» dissi. «Hai anche la domenica libera, quando lavoravo da Rob io non avevo neanche quella… avevo solo il lunedì.»
Freddie mi fece una smorfia e si distese per terra, con il sedere appoggiato sull’asciugamano e il busto sulla sabbia. Si portò una sigaretta alla bocca e si passò un braccio dietro la nuca, come se fosse un cuscino. Fece un lungo tiro e buttò lentamente fuori il fumo.
Io stavo a fianco a lui a gambe incrociate e lo osservavo di sottecchi, rendendomi conto che non era cambiato di una virgola in quell’anno di separazione.
Freddie era sempre estremamente rilassato, non si faceva quasi mai prendere dall’ansia o dall’esuberanza; lui era quella persona che riusciva ad infonderti calma e tranquillità solo toccandoti un braccio. Nonostante a primo impatto sembrasse tutto l’opposto, era lui che di solito poneva fine alle serate più burrascose: era lui che aveva diviso Febri e Janis quando si stavano picchiando, che aveva fatto capire a Gaia che prendersela con me non avrebbe risolto i suoi problemi, era stato lui a persuadere mio cugino e Febri a non prendere a sprangate l’auto di quel Carlo con i capelli rossi solo perché aveva osato insinuare che loro due fossero omosessuali. Insomma, era un po’ come se fosse nostra madre. Affiancato da Rob, che era nostro padre.
Nonostante questo suo lato ragionevole e pacifico, però, ne nascondeva uno estremamente irresponsabile e imprevedibile. Beveva e fumava come se non ci fosse un domani, aveva distrutto due macchine perché guidava troppo veloce e nessuno avrebbe mai potuto dimenticare quella volta in cui, un anno prima, si era rotto qualcosa in una mano perché per la rabbia aveva preso a pugni il muro. Guardai le sue nocche e notai che aveva ancora un paio di cicatrici.
«Come sta il vecchio?» chiesi, pensando che una sera di quelle avrei dovuto salutarlo, altrimenti non mi avrebbe più rivolto la parola, considerato il suo alto grado di permalosità.
«E’ sempre più rompicoglioni. Adesso non ci fa più fumare erba nel locale» disse, come se fosse la cosa più assurda del mondo. «Capisco che non la faccia fumare agli altri clienti, ma io e Janis! Siamo suoi amici!»
Risi, immaginando la faccia di Rob mentre proibiva alla gente di fare qualcosa che lui faceva ad ogni ora del giorno e della notte. «Una sera di queste passiamo da lui, che ne dici? Io, tu e Janis.»
«Certo» sorrise. «Gaia e Marco non sanno ancora che sei qui, vero?»
«Janis ha detto di no» risposi, sospirando.
«Gaia non la prenderebbe bene, probabilmente» si tolse gli occhiali da sole e tirò una boccata di fumo, guardandomi con un sorriso incerto. «E a Marco non interesserebbe.»
Mi si strinse lo stomaco. Sapevo perché Gaia non l’avrebbe presa bene, naturalmente; mi incolpava e mi disprezzava ancora per le cose che erano successe l’estate precedente e io non potevo biasimarla per questo. Dopotutto, dentro di me ero convinta che da una parte avesse ragione.
«All’inizio Marco mi telefonava almeno un paio di volte al mese» dissi «Poi ha smesso e ho cominciato a telefonare io, ma lui era sempre più distaccato. Allora ho lasciato perdere.»
«Caspita» commentò Freddie, infatti. «Per me ricevere una tua telefonata era come vincere alla lotteria! Le segnavo anche sul calendario, mi chiamavi ad intervalli regolari di quaranta giorni. Se al quarantesimo giorno non avevi ancora chiamato, allora ti chiamavo io.»
«Lo so» dissi. «Mi dispiace.»
Freddie sorrise. «Non ti preoccupare. Quest’anno è andata un po’ così per tutti.»
«Già.»
«E poi sono stato più fortunato di Janis, immagino» commentò ancora, alzando un sopracciglio e facendo il sorrisetto di uno che la sa lunga.
«Beh, sì» ammisi. «E’ che… con Janis è complicato.»
«Non ne avete ancora parlato?» mi chiese, spegnendo nella sabbia la sua sigaretta e buttandola in una bottiglia vuota che usavamo per le cicche.
«No» dissi. «Pensi che dovremmo parlarne?» chiesi inutilmente.
«Direi di sì. Dopotutto siete cugini.»
«E’ proprio questo il problema.»
Sospirò profondamente e io distolsi lo sguardo, stringendo le labbra. Un giorno o l’altro avremmo dovuto affrontare quel discorso, in cuor mio sapevo che quel momento sarebbe arrivato presto e che non avrei potuto continuare a fuggire come avevo fatto per quei nove mesi che avevo trascorso lontano da casa. 
Avevo paura e quella paura era talmente radicata in me e si era aggrappata così profondamente al mio animo e al mio essere che sarebbe stato impossibile liberarmene.
Non volevo perdere Janis eppure l’avevo allontanato per un anno intero, perché volevo liberarmi dalla dipendenza che provavo nei suoi confronti; non volevo in nessun modo cancellare quello che era successo, ma allo stesso tempo facevo finta di niente, per paura di ciò che sarebbe potuto accadere se l’avessi riportato a galla. Non volevo dimenticare Febri, ma cercavo in tutti i modi di non pensare a lui.

 


Estate 1988


Quella sera dell’estate precedente, Febri non c’era. Nessuno di noi si era chiesto come mai non ci fosse, dato che in quel periodo erano arrivati a casa sua degli amici di famiglia con i figli e in più ci aveva detto che si stava vedendo con una ragazza, ma tempo dopo mi ritrovai a maledirmi e ad odiarmi per non aver capito e per non aver fatto domande, mi ritrovai a disprezzarmi profondamente per non essere stata più attenta e più vigile su quello che era uno dei miei migliori amici.
Era notte inoltrata e la spiaggia era illuminata solo dalle luci del chiosco in pineta; noi eravamo sdraiati sulla sabbia mezzi ubriachi, attorno a noi c’erano bottiglie di birra vuote e Marco e Freddie cantavano a squarciagola una canzone sdolcinata sull’amore che se ne va, una di quelle che piacevano a Febri e che Janis definiva “da omosessuale represso”.
Sdraiata sulla sabbia pensavo che era per i momenti come quello che avevo desiderato tanto non dover crescere mai; volevo rimanere per sempre una ragazza di ventun anni. Non sapevo che da lì a poco la mia esistenza sarebbe stata completamente sconvolta, me ne stavo lì sdraiata a guardare le stelle e a pensare che sì, mi sentivo felice.
«Domani dovremmo andare dalla parrucchiera.»
La voce di Gaia arrivava sottile e lontana alle mie orecchie, come se non fosse sdraiata di fianco a me, ma fosse a trenta metri di distanza. Mi voltai verso di lei distrattamente, sfilando una sigaretta dal pacchetto che avevo appoggiato sulla sabbia e accendendola con fare annoiato. Spostai lo sguardo decisamente poco lucido su di lei. Era bella, bellissima: aveva i capelli nerissimi e corti, come quelli di un maschio, ma con il ciuffo davanti che a volte teneva all’insù; aveva le labbra carnose e scure e il naso dritto da cui brillava un anellino d’argento che le avevamo regalato qualche mese prima. Era alta e slanciata, con la carnagione olivastra, e non c’era ragazzo all’infuori degli amici più intimi che non avesse provato a combinare qualcosa con lei. Gaia non era solita negarsi, si concedeva con molta facilità – cosa che io e i ragazzi incitavamo sempre tra le risate, esultando stupidamente ogni volta che ne aggiungeva un altro alla lista – perché aveva una strana filosofia di vita che metteva il sesso e l’amore al di sopra di tutto e le vedeva come due cose distinte e separate. Tra di noi infatti si vociferava che nonostante si lasciasse trasportare dai piaceri della carne molto frequentemente e con ragazzi diversi, avesse il cuore occupato da qualcuno che non contraccambiava per qualche oscuro motivo. Nessuno diceva chi era, però lo sapevamo tutti, io per prima, perché ero l'unica a cui Gaia l'aveva confessato. Ma anche tutti gli altri sapevano che questo ragazzo era Janis.
«Hai capito? Dobbiamo andare dalla parrucchiera.»
«Ma tu non hai capelli» obiettai.
«No, infatti sei tu che ne hai troppi» rispose lei, sbadigliando. Si girò su un fianco e cominciò a passarsi tra le mani delle grosse ciocche dei miei capelli lunghi fino a metà schiena, disponendoli sulla sabbia come a creare complesse figure geometriche. Io continuai lasciarmi andare in risatine isteriche per un po’.
Janis era sdraiato tra noi e gli altri ragazzi e ogni tanto suggeriva qualche canzone da suonare; per il resto se ne stava lì, con il suo solito sorriso stampato sul viso. Quando ad un certo punto si voltò verso di me e incastonò il suo sguardo con il mio, smisi di ridere. Lui allungò la mano nella mia direzione e io feci lo stesso, sfiorandogli le dita.
«Vieni con me» sussurrò.
Presi la sua mano senza pensarci due volte e mi alzai, lanciando un'occhiata a Gaia che era troppo ubriaca per notarci. Mio cugino cominciò a camminare a piedi nudi sulla sabbia, diretto chissà dove e io lo seguii passivamente, lanciandogli occhiate di tanto in tanto e osservandolo mentre si girava barcollante e sorridente verso di me.
Non ricordo molto di quella sera; ricordo gli aghi di pino che cominciavano a pungermi i piedi scalzi quando Janis mi portò alla pineta, ricordo delle dita che mi scostavano i capelli dal viso e mi sfilavano la sigaretta dalla bocca e ricordo l’unica cosa che avrei dovuto dimenticare.
«Mara» sussurrò Janis, mentre buttava la mia sigaretta per terra e faceva scivolare un dito sul mio collo.
«Dimmi» dissi, tenendo ancora stretta la sua mano nella mia. 
La mia mente annebbiata mi impediva di rendermi conto appieno della situazione in cui mi trovavo: ero sola con mio cugino in una pineta, scalza, e per di più sentivo brividi che mi percorrevano la schiena ogni qualvolta i nostri sguardi si incrociavano. 
Janis si avvicinò al mio viso, lasciando solo qualche centimetro a separare i nostri nasi e il pensiero che mi attraversò la mente lo ricordo perfettamente: desiderai che mi baciasse.
«E’ troppo difficile» mi soffiò nell’orecchio, mentre faceva scivolare la mano sulla mia schiena, avvolgendola con il braccio. Cominciai a respirare un po’ affannosamente, rendendomi conto che probabilmente uno dei miei desideri più segreti e malsani si stava per avverare e non avendo nessuna voglia né forza di reagire. Se fossi stata sobria probabilmente avrei avuto abbastanza buonsenso da non salire su in pineta da sola con Janis.
«Che cosa?» 
«Starti lontano.»
Voltai la testa di lato, avendo per un momento paura che Janis potesse allontanarsi per cercare un contatto visivo. Non lo fece.
«Di cosa stai parlando?» chiesi, stupidamente.
«Hai capito.»
«E che cosa vuoi fare?»
La mia voce era bassa e sottile come un filo e il mostro che abitava dentro di me, il mostro che aveva le fattezze di Janis, cominciava a stringermi le viscere e a pesare sul mio stomaco. Il respiro lento e caldo di mio cugino mi stuzzicava la pelle e mi teneva ancorata al terreno, seppur minimamente. Dentro di me avevo solo una vaga idea di quello che stava succedendo e per una volta nella mia vita non mi importava delle conseguenze.
«Lo sai» insinuò le dita tra i miei capelli e fece una leggera pressione alla base della nuca, avvicinandomi a lui di qualche centimetro.
«Allora fallo.»
Mi resi conto di quello che avevo detto solo quando, probabilmente mille anni dopo, Janis staccò la sua mano dalla mia e smise di abbracciarmi. Anche in quel momento, anche quando ero stata io a dare a mio cugino il permesso, avevo paura di guardarlo negli occhi, perché pensavo che se l’avessi fatto allora sarebbe stato tutto vero. 
Io non ero come Janis: io non l’avrei mai portato in un posto appartato per dirgli che non riuscivo più a far finta di nulla. Io avrei portato quel segreto con me nella tomba e avrei continuato a vergognarmene giorno dopo giorno, come ormai facevo da anni. Avrei continuato a fare in modo che nessuno si accorgesse di niente e a fare finta che neanche Janis se ne fosse accorto, avrei visto altri ragazzi di tanto in tanto e prima o poi avrei dimenticato quella cosa strana che sentivo per mio cugino. L’avrei fatto e ci sarei riuscita.
Ma Janis non era come me e io dovevo saperlo: lui non avrebbe mai permesso che una cosa del genere andasse dimenticata, lui avrebbe provato a trattenersi esattamente come me, ma mentre io avrei continuato a farcela, stringendo i denti tormentandomi perennemente, lui prima o poi avrebbe ceduto. E quando avrebbe ceduto lui l’avrei fatto anche io, perché solo così poteva essere. 
Io dovevo saperlo. E dovevo sapere anche che Janis non mi avrebbe mai permesso di non esserne consapevole, per questo mi posò entrambe le mani sul volto e mi costrinse a guardarlo. Fu in quel momento, fu quando incontrai gli occhi di mio cugino che mi resi conto per la prima volta che avevo accettato di macchiarmi di qualcosa di indelebile, qualcosa che mi avrebbe tormentato per tutta la vita e che non avrei mai potuto dimenticare. Una voce nella mia testa, lontana anni luce, mi gridava di non farlo, perché sarebbe finita male, ma io non l’ascoltai. 
Quando Janis appoggiò delicatamente le sue labbra sulle mie non opposi resistenza, al contrario mi alzai in punta di piedi e mi aggrappai con forza alla sua maglietta, noncurante degli aghi di pino che mi pungevano i piedi e del tronco d’albero a cui ero appoggiata che mi graffiava la schiena a tratti nuda. Janis volle approfondire il bacio e io lo lasciai fare, totalmente incapace di oppormi anche se l’avessi voluto; fece scorrere le mani dalle mie spalle ai fianchi, alzandomi, e io mi aggrappai con le gambe alla sua vita, stringendolo forte anche con le braccia per non cadere.
Non so per quanto tempo rimanemmo così, appoggiati su un tronco di pino a baciarci, non lo ricordo. Dentro di me le immagini si susseguono come se fossero infinite, e ogni volta che mi tornano alla mente reagisco con un tuffo al cuore e una morsa allo stomaco.
Non sono mai riuscita a perdonarmi e penso che neanche Janis mi abbia mai perdonata.

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***



Capitolo Tre
Se ci fosse la luna si potrebbe cantare. - Francesco De Gregori


Estate 1989


Il cofano anteriore della macchina di Janis era abbastanza lungo, quindi non fu difficile sedersi lì sopra in tre. Il problema di quell’apriscatole con le ruote era che, nonostante fosse una “principessa d’epoca”, come la definiva il suo proprietario, era terribilmente scomoda da usare come divano. Avevo il gomito di Freddie che premeva sulla mia spalla e il bacino di Janis che si scontrava col mio ginocchio. Nessuno di noi poteva fare movimento bruschi, altrimenti saremmo scivolati per terra.
Freddie era sdraiato sul cofano in posizione semiseduta, facendo leva con i gomiti, con una mano teneva una birra e con l’altra una sigaretta. Guardava il cielo con un’espressione strana, a tratti malinconica e a tratti rilassata, lanciandomi ampi sorrisi di tanto in tanto.
Mio cugino a volte si sdraiava e a volte si alzava, appoggiandosi al cofano e dandoci le spalle; raccoglieva delle pietre per terra e le lanciava giù nel dirupo che era a circa cinque metri da noi. Le osservava attentamente mentre erano in aria e sbuffava se il lancio non era abbastanza lungo.
Mi guardai intorno e cercai disperatamente di non pensare ai momenti passati in quella piccola collinetta; mi sforzai di scacciare dalla mente le immagini di tutti noi, felici, che ridevamo appoggiati all'apriscatole e al motorino di Marco, come se fossimo nella nostra oasi felice, lontana da tutti i problemi della “vita reale”.
«Ci vuoi andare, Lenticchia?» mi chiese Freddie, rompendo il silenzio. Vidi con la coda dell’occhio Janis che serrava la mascella e mi si strinse lo stomaco.
Mi voltai verso Freddie senza incrociare il suo sguardo, che era puntato verso le tantissime luci che si riuscivano a vedere da lì.
«Sì» risposi. «Domani.»
«Domani…» borbottò Janis, tra sé e sé. «Allora verranno anche Gaia e Marco.»
Freddie buttò giù un lungo sorso di birra e mio cugino lanciò con rabbia un'altra pietra. Io mi accesi una sigaretta.
«Devi dire a Gaia che sono arrivata» mormorai. «Non voglio scenate. Non domani.»
Janis mi rivolse un’occhiata. Il suo volto era calmo e impassibile, ma riuscii a scorgere una punta di inquietudine nei suoi occhi che erano diventati così impenetrabili.
Gli sfiorai la mano con la punta delle dita, pentendomene subito dopo e ritraendola, ma lui la seguì con lo sguardo.
«Glielo dirò» disse. «Anche se non capisco perché questi compiti poco piacevoli spettino sempre a me.»
«Vorresti che glielo dicessi io?» domandò Freddie dal collo della sua bottiglia, con un sopracciglio alzato.
«Potresti farlo» rispose. «Siamo o non siamo amici?»
«Scordatelo, amico» decretò Freddie. «Non vedo Gaia da settimane. Sei l’unico che la vede.»
Janis annuì sconsolato, come se l’ultima cosa che volesse fare era vedere Gaia, e io ebbi un tuffo al cuore. Provai una piccola morsa di rabbia e gelosia al pensiero che loro due si fossero visti da soli probabilmente per tutto l’inverno, ma cercai di scacciarla subito così come era nata. Sperai che tra loro non ci fosse nulla, ma giurai a me stessa che mai e poi mai gliel’avrei chiesto.
«Perché Marco ad un certo punto ha smesso di volermi sentire?» domandai, cercando un pretesto qualsiasi per cambiare discorso.
Janis sorrise in modo strano. «Ha cambiato giro» disse. «Ha conosciuto una ragazza, una di quelle che la domenica ti invitano a cena con i genitori. Che schifo.»
«Dice di voler mettere la testa a posto» continuò Freddie. «E a quanto pare alla fidanzata non piacciamo.»
«In realtà non piacciamo a nessuno, dopo quello che è successo» commentò Janis, cupamente.
«E’ un piccolo paese, questo. Alla gente non importa molto dei fatti reali.»
Freddie si passò una mano sulla fronte con aria sfinita. Io ero stata via un anno e non potevo sapere quello che avevano passato per tutto l’inverno, però ero perfettamente a conoscenza del tipo di gente che viveva a pochi passi da casa mia. Nel mio paese le persone parlavano e parlavano, esprimendo giudizi su fatti ascoltati al bar o in piazza e quindi del tutto distorti, facendo circolare voci palesemente false giusto per il gusto di fare quattro chiacchiere. E’ così in tutti i piccoli paesi e il mio non era sicuramente da meno.
«Non lo sapevo» ammisi. «Quindi è per questo che mia madre l’altra sera mi ha detto che dovrei cambiare amicizie.»
«Sicuro» disse Freddie, ridacchiando sotto i baffi. «Janis è intoccabile, Gaia e Marco non li vedi più e rimango solo io. Tua madre lo sa che qui in mezzo sono l’unico capace di intendere e di volere?»
Risi, vedendo con la coda dell’occhio Janis che scuoteva la testa. «Che cosa dicevano di voi?» chiesi.
Mio cugino sospirò e si sedette sul cofano dell’auto, continuando a darmi le spalle. «Dicevano che eravamo anche noi nel giro. E che siamo stati noi a trascinarlo… insomma, che la colpa di quello che è successo è nostra.»
«Che stronzi.»
«Mia madre e tua madre non mi hanno dato pace per mesi, poi hanno capito.»
«Ma intanto  quando mi vedono si girano dall’altra parte» borbottò Freddie.
Sospirai profondamente. Mia madre e mia zia non erano famose per la loro discrezione, anzi, se in paese qualcuno avesse stilato una classifica delle donne più pettegole o che più prendevano questo genere di dicerie come oro colato, probabilmente loro due sarebbero state le prime. Nonostante mia zia da giovane si atteggiasse a figlia dei fiori libertina tanto da dare a suo figlio un nome assurdo come Janis, che se non sbaglio era di qualche pacifista che lei aveva conosciuto chissà dove, poi l’influenza di mia madre si era fatta sentire. Non sapevo come mai mia madre durante le nostre brevi telefonate invernali non mi avesse mai parlato di tutto questo, però da una parte ne ero contenta: era meglio non sapere. In questo modo, ero riuscita a staccarmi molto più facilmente dalla vita che avevo condotto a casa e in alcuni momenti ero riuscita a non pensarci. Janis e Freddie, però, avevano dovuto sopportare mesi e mesi di false dicerie, venendo presi di mira e tartassati, ritrovandosi davanti agli occhi qualcosa che avrebbero solo voluto dimenticare. Questo non era giusto. Avrei dovuto esserci.
«Dovevo starvi vicino» mormorai.
Mi sorrisero entrambi, Janis un po’ più amaramente e Freddie con serenità.
«Ci avresti difeso con le tue braccia possenti, Lenticchia?» provò a scherzare quest’ultimo.
«Lenticchia paladina della giustizia» commentò mio cugino.
«Smettetela, idioti» borbottai.
Janis rise e si sdraiò sull’auto, facendo stringere me e Freddie. Rimanemmo lì per ore, stretti, con le nostre spalle che si toccavano e attenti a non fare un qualsiasi movimento che avrebbe potuto far scivolare qualcuno per terra.
Non parlammo più molto perché non ce ne era bisogno, bastava solo essere di nuovo insieme. Ma anche se noi eravamo lì a guardare le stelle, nel luogo dove avevamo passato le serate più felici della nostra vita e con in mano quelle stupide birre che piacevano tanto a Febri, una parte di noi non c’era. Se ne era andata per sempre.

 

 

Estate 1988


Janis aveva quello strano modo di sorridere che riusciva a farmi provare una morsa allo stomaco ogni volta che lo vedevo. Quando sorrideva, gli si formava una fossetta sulla guancia destra e gli si illuminavano gli occhi; per questo fin da bambina io avevo sempre detto  «Janis sa sorridere solo con gli occhi» e ogni tanto gli coprivo la bocca con la mano per far vedere a tutti che riuscivo ad accorgermi quando sorrideva, anche senza guardargli le labbra.
Mio cugino aveva passato tutta la sua vita ad essere felice, costantemente, tanto che un anno prima se qualcuno mi avesse chiesto di ricordarmi il suo volto senza sorriso, gli avrei risposto che era impossibile, che la sua immagina era stampata nella mia mente allegra e spensierata, come era sempre stata. Perfino quando dieci anni prima era morto il suo cane, Furetto, lui aveva piegato la bocca con tranquillità e accettazione dicendo che non dovevamo piangere perché il cane era andato in un posto migliore ed era felice. Ho sempre invidiato la sua capacità di essere ottimista e speranzoso, qualsiasi cosa succedesse. Io sono paranoica e ansiosa e tendo sempre a trascinare le persone nel mio stato di agitazione perenne, come mio cugino non tardava mai a farmi notare.
«Ma per fortuna io sono immune a questo tuo potere» diceva sempre. «Anzi, se ti prendo per le spalle e ti scuoto un po’ riesco pure a farti smettere di essere pazza!»
Quando tornai a casa dall’università trovai però una situazione un po’ diversa: Janis era sempre lo stesso, o meglio così si sforzava di apparire agli altri, ma un’osservatrice attenta come me se ne accorgeva, che anche lui era stato segnato. Quando sorrideva gli occhi gli si piegavano di meno, e quando mi guardava non riusciva più a trasmettermi tutta la sua positività e la sua voglia di vivere e di spingersi sempre al limite.
Se qualcuno un anno prima mi avesse chiesto perché era così difficile per me stare lontana da mio cugino, avrei risposto che mi faceva sentire viva e che ero innamorata di lui perché quando gli ero accanto sentivo di poter fare qualsiasi cosa. E poi perché sapeva sorridere.
Se qualcuno, ad un anno di distanza, mi avesse chiesto se ero ancora innamorata di lui, anche se non sorrideva più come prima e si era spento, avrei risposto: «sì». E sarebbe stato un «sì» sincero, perché nonostante avessi provato per un anno a staccarmi da lui e forse un po’ anche a dimenticarlo, avevo dovuto accettare il fatto che mai e poi mai ci sarei riuscita, perché avrei portato una parte di Janis con me per sempre, anche se non fossi riuscita a sopportarlo e anche se il destino prima o poi ci avesse diviso.
Ogni cosa di mio cugino riusciva a ricordarmi costantemente che non sarei mai  riuscita a stargli lontana: il modo in cui si metteva un ciuffetto di capelli dietro l’orecchio, o quel modo stupido che aveva di salutare i suoi amici, addirittura il suo modo di ingozzarsi mentre mangiava. 
Avevo bisogno di lui perché era l’unico capace di farmi smettere di piangere, l’unico che riusciva a ricordarmi che il mondo era di più e che non era tutto lì, nella mia testa, nelle quattro mura in cui era rinchiuso il mio cervello che a volte scalpitava per uscire. 
Di Janis amavo l’espressione dolce che assumeva quando mi chiamava “Lenticchia”, quella cosa strana che faceva con gli occhi quando alludeva a qualcosa che sapeva mi avrebbe messa in imbarazzo e anche il suo modo di essere così protettivo con me.
Dentro di me, però, sapevo che tutto questo non ci avrebbe portato da nessuna parte. 
Lui invece non lo sapeva: nel vocabolario di Janis le parole “impossibile” e “fallimento” non erano contemplate, lui andava sempre avanti fregandosene di quello che sarebbe successo, perché era fatto così e alla fine di come avrebbero reagito gli altri gli importava poco.
Febri era una via di mezzo tra me e Janis, era quello che si frapponeva tra me e lui e cercava di farci collidere nel verso giusto e io avevo un disperato bisogno di lui, perché altrimenti mio cugino avrebbe finito per assorbirmi, e di questo avevo una tremenda paura. Per questo quando confessai l’inconfessabile, Febri si arrabbiò.
«Quand’è che Janis imparerà a pensare col cervello?» sbottò, cercando di mantenere un tono di voce basso e cortese nonostante il suo umore fosse tradito dalla vena ben evidente sulla sua fronte. «Sei sua cugina, porca puttana!»
«Febri, stai calmo» dissi io, guardandomi intorno e accertandomi che gli altri fossero ancora tutti in acqua.
Per tutta risposta lui afferrò una pietra e la lanciò con rabbia sulla sabbia, facendo allontanare un bambino che stava giocando a pochi metri da noi.
Lo guardai negli occhi segnati da due profonde occhiaie e lui distolse lo sguardo, stringendo i pugni. «Febri, da quant’è che non dormi?» chiesi, posandogli una mano sul braccio.
«Un po’» ammise, brusco. «Ho problemi con quella ragazza di cui vi parlavo.»
«E quando hai intenzione di presentarcela?» insistei, sperando di chiudere in questo modo il discorso Janis. Non volevo che Febri si arrabbiasse con me o con lui.
«Quando la situazione si normalizza» disse. «Ma non cercare di cambiare discorso, Mara. Perché hai baciato Janis? Lo sai com’è fatto!»
Abbassai il volto, sentendomi un po’ colpevole. Mi portai le ginocchia la petto e lanciai un’occhiata alla riva, dove mio cugino aveva preso Gaia sulle spalle le faceva fare i tuffi, con Freddie e Marco che ridevano a pochi metri da loro. Cercai di scacciare il moto di rabbia che sentivo nascere.
«So che non dovevo» dissi, un po’ sconsolata. «Tutto questo è un vicolo cieco.»
Febri sospirò, passandosi una mano tra i capelli scuri e scoccandomi un’occhiata di rimprovero. Aveva un’espressione delusa e amareggiata, una di quelle che mi faceva sentire tremendamente in colpa e forse sapevo cosa stava pensando: che tra noi tre le cose non sarebbero state più come prima. 
Io e Janis non avevamo ancora parlato di quello che era successo qualche giorno prima: avevamo semplicemente fatto finta di niente, anche se ogni tanto lui mi lanciava occhiate allusive e cercava sempre il contatto fisico. Gli altri ragazzi non avrebbero mai potuto notare che c’era qualcosa che non andava, perché in fondo eravamo imparentati, ma Febri non era come loro. Sapeva che tra me e Janis c’era sempre stato qualcosa di strano, anche se nessuno ne aveva mai parlato.
«Conosco Janis meglio di chiunque altro» disse poi, grave. «Se non otterrà quello che vuole finirà male, Mara. Ormai sono cinque anni che vi osservo e fidati, non si accontenterà di qualche bacio di nascosto.»
«Lo so!» scoppiai, passandomi le mani tra i capelli. «Che cosa credi, che non abbia pensato solo a questo negli ultimi giorni? So perfettamente che Janis sta solo aspettando il momento giusto per costringermi a parlare di quello che è successo!»
Febri mi scoccò un’occhiataccia. «Ti dico io cosa succederà: Janis da te vorrà qualcosa di concreto che tu non sarai in grado di dargli, perché è tuo cugino e hai paura di quello che potrebbe succedere. Questa cosa lo farà star male, molto male, lo ucciderà dentro, perché non è il tipo che si accontenta, lui è il tipo che vuole tutto e lo vuole subito, infatti con te ha aspettato fin troppo. Le cose a metà lo logorano, quindi a questo punto probabilmente ti odierà e troverà il modo di vendicarsi, perché lui è fatto così.»
Mi sentivo come se le parole di Febri mi stessero schiacciando e mentre lo guardavo dritto negli occhi mi sembrava strano, quasi irriconoscibile: non riuscii a trovare il mio amico, là dentro. Mi stava dicendo quelle cose quasi con cattiveria e non con comprensione, come aveva sempre fatto, ma come se volesse farmi male. Le stava dicendo con quel piacere perverso che si prova quando si va da qualcuno a dire “te l’avevo detto”.
Non ebbi modo di rispondergli perché gli altri tornarono bagnati fradici alla nostra distesa di asciugamani e Janis si sedette dietro di me, abbracciandomi e dandomi un bacio umido sulla spalla che mi fece rabbrividire.
«Di che parlate, amici?» disse, stringendomi la pancia. Io sorrisi voltando la testa verso di lui, rendendomi conto che quanto era vicino a me riuscivo a sentirmi più tranquilla e in pace. 
Mentre ero con Janis il pensiero di quello che sarebbe successo tra me e lui se ne andava, ma quando ero da sola o quando lui non c’era, il ricordo di quel bacio e la paura per le conseguenze arrivavano a tormentarmi, impedendomi di dormire e facendomi fumare una sigaretta dopo l’altra per il nervosismo. Non potevo rischiare di perderlo perché senza di lui sarei stata incompleta, non sarei stata più io, ma non potevo neanche averlo accanto. 
Janis era uno di quei ragazzi che da una persona vuole tutto, sfinendola a volte, ed era vero che un amore segreto o difettoso come quello che potevo dargli io sarebbe stato insufficiente e l’avrebbe ucciso. Ma dargli quello che voleva lui avrebbe ucciso me.
«Del fatto che il caro Marco prima o poi smetterà di studiare e andrà a lavorare alle poste» mentì Febri, con un sorriso. «Quelli come lui finiscono sempre alle poste!»
«Che schifo» disse Marco, che si era lasciato cadere malamente sul suo asciugamano tra Gaia e Freddie. «La morte piuttosto che lavorare alle poste come mio padre!»
«Fossi in te ci farei un pensierino» disse Freddie, allegro. «Vedo la tua laurea in lettere allontanarsi sempre di più!»
Ridemmo tutti, anche Marco, nonostante quell’anno non si fosse dato molto da fare con lo studio e dovesse subire le continue pressioni di suo padre che voleva a tutti costi che si mettesse a lavorare.
«Beh, ragazzi, io vi saluto» disse Febri, alzandosi e mettendosi in testa il suo solito cappellino da baseball. «Ci vediamo stasera da Rob.»
«Dove vai?» gli chiese Gaia, che si era già sdraiata sul suo asciugamano pronta a prendere il sole come una vera lucertola.
«A soddisfare le mie voglie carnali» rispose lui, ammiccando allusivamente.
Io risi mentre gli altri ragazzi cominciavano a fare battute a sfondo sessuale e si raccomandavano di usare le precauzioni. 
Non sapevamo che quelle raccomandazioni erano del tutto inutili, perché in realtà Febri non stava vedendo nessuna ragazza.

 

Estate 1989
 

Gettai la cenere nel pacchetto vuoto di sigarette che avevo sul comodino e continuai a guardare il fumo che saliva piano verso il soffitto. Le mura della mia stanza erano di un arancione sbiadito, uno di quei colori caldi che mi facevano sentire a casa; quelle della stanza in cui abitavo per l’università erano invece bianche e asettiche, fredde, e mi inquietavano. Se Febri ci fosse stato, sicuramente mi avrebbe aiutato a dipingerle o mi avrebbe regalato qualche quadro, uno di quelli che dipingeva lui, per rendere la stanza meno spoglia. 
Voltai la testa e davanti agli occhi mi si parò una foto che avevo sul comodino; sorrisi amaramente pensando che erano passati esattamente due anni, poco tempo se paragonato a quello di una vita intera, eppure era cambiato tutto. Quella foto ci ritraeva tutti insieme: io, Janis, Febri, Freddie, Marco, Gaia e anche Rob, felici, con dei ridicoli cappellini in testa e una torta di compleanno con scritto “Tanti auguri Febri”. Era il 25 luglio 1987. Gettai un’occhiata al calendario: 25 luglio 1989.
«Mara, posso entrare?» disse la voce di mia madre, dall’altra parte della porta.
«Sì.»
Mia madre spalancò la porta ed entrò in camera, cominciando a raccogliere i vestiti che la sera prima avevo malamente gettato in terra. «C’è tuo cugino che ti aspetta di sotto» mi disse. «Ha detto di darti una mossa perché lui e quell’altro vostro amico hanno solo un’ora di permesso.»
Annuii e spensi la sigaretta, alzandomi lentamente. Mi sentivo il viso arrossato e la mente stanca, incredibilmente stanca.
«Mara, si può sapere perché tu e tuo cugino continuate a frequentare ancora queste persone?»
Lanciai un’occhiata di sbieco a mia madre, infilandomi le scarpe. «Perché sono nostri amici.»
«Quell’Alfredo non mi piace, non mi è mai piaciuto» commentò mia madre. «Neanche Fabrizio mi piaceva, e infatti…»
Mi cadde una scarpa per terra per lo stupore; mia madre in qualche modo riusciva sempre ad essere inopportuna, anche se non lo faceva apposta. Raccolsi la scarpa e me la infilai velocemente, adesso ansiosa di uscire da quella stanza. «Hai pensato di telefonare al figlio del dottor Serli? Potreste andare a mangiare qualcosa insieme, una sera di queste…»
«Mamma, non è giornata» sbottai, prendendo la borsa e infilandoci dentro portafogli e sigarette.
«Per te non è mai giornata!» disse mia madre, appoggiando i miei vestiti sulla sedia e guardandomi con le braccia conserte. Io le voltai le spalle e uscii dalla mia camera.
«Ci vediamo dopo» dissi, cominciando a scendere le scale in fretta. Uscii di casa sbattendo la porta e trovai Janis in macchina, armato di occhiali da sole e sorriso spento.
«Guarda che non finisce qui!» sentii mia madre gridare. Mi girai e mi accorsi che si era affacciata dalla mia finestra. «E smettila di fumare così tanto, che sei in età fertile!»
Scossi la testa in direzione di mio cugino ed entrai in macchina, accomodandomi nel posto del passeggero e aprendo il finestrino.
Lui suonò il clacson in segno di saluto. «Ciao zia!» urlò mentre partiva. Mia madre gridò qualcos’altro, probabilmente qualche raccomandazione, ma noi non la sentimmo.
«Perché tua madre era arrabbiata?» mi chiese, con lo sguardo fisso sulla strada.
«Vuole che cominci a frequentare quell’idiota di Giacomo Serli. Lo sai com’è lei, si è sposata a diciott’anni quindi pensa che io che ne ho ventidue dovrei già avere almeno due figli…»
«Sì, sono anni che fa così» commentò Janis amaramente. Si girò per un millesimo di secondo nella mia direzione e il mostro con le sue fattezze, quello che avevo nella pancia, mi graffiò le pareti dello stomaco. Deglutii ed evitai di raccontargli ciò che mia madre aveva detto su Freddie e Febri.
«Dov’è Freddie?» chiesi.
«E’ già lì.»
«E Gaia?»
«La va a prendere Marco.»
«Perché non ci sei andato tu?»
«Perché volevo venire da te.»
Janis voltò la testa verso di me e sorrise teneramente; per un attimo sul suo viso riuscii a scorgere il ragazzo pieno di vita e di speranza che era stato un tempo, esattamente un anno prima. Dopo cinque minuti arrivammo a destinazione e Janis accostò la macchina al marciapiede, io lanciai uno sguardo dal finestrino e, con gli occhi che cominciavano a pizzicarmi, feci un profondo sospiro e scesi dalla macchina.
Mio cugino fece il giro e mi raggiunse, prendendomi per mano e cominciammo a camminare. Il cimitero del mio paese era piccolo ed era tutto bianco: le mura che lo circondavano erano chiarissime e anche il cancello era dipinto di bianco, cosa che secondo me era abbastanza inquietante. Era pieno di gatti randagi e oleandri, penso un po’ come tutti i cimiteri.
Camminavo tenendo la testa bassa, non ricordando bene la strada dato che non mettevo piede lì da un anno, e seguivo mio cugino tenendolo per mano. Lui camminava velocemente senza neanche guardarsi intorno, segno che era andato lì più volte di quante avessi immaginato. Appena avvistammo gli altri in lontananza liberò la mia mano dalla sua presa e ci avvicinammo.
Marco era ad una decina di metri da Gaia e Freddie e stava fumando una sigaretta dando le spalle agli altri; loro due invece erano abbracciati e Gaia piangeva. Marco mi aveva detto che piangeva sempre, quando andava lì. Io probabilmente ancora non riuscivo a rendermi conto di dove mi trovavo e perché, dato che era la prima volta che ci tornavo dal funerale, ma quando la vidi, quella scritta nera sul marmo bianco, mi sentii come se non ci fosse più la terra sotto i miei piedi. Afferrai velocemente la mano di Janis e intrecciai le mie dita alle sue, di nuovo, noncurante del fatto che gli altri mi avrebbero visto, e lo feci con una stretta talmente forte che lui contraccambiò con altrettanta impazienza. Per un attimo pensai ingenuamente che se mi fossi aggrappata a lui sarei rimasta ancorata al terreno, ma poi lessi attentamente la scritta nera.
“Ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini. Fabrizio Galea, 25 luglio 1967 – 28 agosto 1988”.
Trattenni un singhiozzo e chiusi gli occhi.
Febri se ne era andato per sempre.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***



Capitolo quattro
Ma perché tu non ti vuoi più azzurra e lucente? - Lucio Battisti

 

Estate 1989


Dopo lo spaesamento iniziale, riuscii a ricompormi e a riacquistare consapevolezza del luogo in cui mi trovavo e delle persone che mi erano intorno. Mi ripetei mentalmente più volte che dovevo calmarmi, perché la morte di Febri era qualcosa che non sarei mai riuscita a superare, ma che potevo affrontare con una certa compostezza. Mi passai una mano sugli occhi e Janis si liberò dalla mia stretta, avvicinandosi a Gaia per sussurrarle qualcosa nell’orecchio. Non ebbi neanche la forza di irritarmi per quel gesto. Andai verso Marco che ancora non avevo salutato, ignorando le occhiate piene di disprezzo che la mia ex amica mi stava lanciando da lontano. 
Marco mi sorrise tristemente e mi abbracciò forte; fu un abbraccio lungo e pieno d’affetto e quando lo guardai mi resi conto che forse si sentiva un po’ in colpa per averci abbandonato. Un po’ come mi sentivo io.
«Come stai?» mi chiese, con un mezzo sorriso.
«Come al solito» risposi. «E tu?»
«Come al solito.»
Non mi disse nient’altro, probabilmente perché sapeva che Freddie e Janis mi avevano già raccontato tutto, ma mi rivolse un sorriso di scuse che io non tardai a contraccambiare. Era inevitabile che le cose sarebbero cambiate, alla fine succede sempre, quindi non me la sentivo di incolpare Marco, perché una parte di colpa in quella storia ce l’avevamo tutti. Anche Febri. Nessuno di noi l’avrebbe mai perdonato per essere morto in quel modo.
Ci avvicinammo lentamente agli altri che stavano parlottando a qualche metro da noi e Freddie mi passò un braccio intorno alle spalle stringendo forte. Gaia e Janis, non appena ci videro arrivare, si allontanarono un po’.
«Siamo a questi livelli?» sussurrai a Freddie. Lui scosse la testa e si accese una sigaretta con la mano libera.
Guardai con la coda dell’occhio mio cugino e Gaia e mi resi conto che stavano discutendo sotto voce, allora distolsi subito lo sguardo e tirai il mio amico un po’ più lontano, per non rischiare di sentire quello che si stavano dicendo.
«E’ strano essere qui» dissi.
«La prima volta che ci sono tornato, dopo il funerale, è stato orribile» mormorò Freddie. «Probabilmente non avevo realizzato appieno, quindi quando sono tornato mi sono sentito come se mi fossi svegliato da un sogno per rendermi conto che era vero.»
Non dissi niente, perché era esattamente quello che pensavo io.
«Dovrai crescere, Janis, dovrai farlo per forza» sentii dire a Gaia. Mi voltai e mi resi conto che lei e mio cugino si stavano avvicinando a noi. Lui con un’espressione di completo disagio e lei decisamente arrabbiata. «Marco, per favore, riaccompagnami al lavoro.»
Gaia non mi degnò di uno sguardo, salutò solamente Freddie e si allontanò dopo che Marco le ebbe fatto un cenno. Mio cugino si sistemò di fianco a me e si accese anche lui una sigaretta, guardando inespressivo un punto oltre la mia testa. Pensai che in quel gruppo fumavamo decisamente troppo.
Marco mi posò una mano sulla spalla e mi diede un bacio sulla guancia, poi salutò gli altri due e se ne andò con Gaia.
Io, Freddie e Janis rimanemmo lì ancora un altro po’, senza dire niente. Quando decidemmo di andarcene non tornammo a casa, ma salimmo sull'apriscatole e vagammo un po’ senza meta, dopo che i ragazzi ebbero convinto il loro capo che avevano avuto un contrattempo assurdo e che non sarebbero potuti tornare a lavoro.
Passammo tutto il tempo in silenzio perché non avevamo molte cose da dirci: tutti e tre eravamo a pezzi perché con Febri era morta anche una parte di noi e tutti e tre ancora ci svegliavamo durante la notte pensando che fosse solo un brutto sogno, che il nostro amico il giorno dopo si sarebbe presentato da noi con il cappellino da baseball e qualcosa di ridicolo da raccontarci.
Quando il sole stava ormai tramontando nel cielo Janis decise di andare da Rob per cena, così passammo un attimo da casa di tutti e tre per avvertire i nostri genitori e poi ci fiondammo al Sottomarino, dove trovammo un Rob decisamente triste e malinconico ad accoglierci. 
La canzone di sottofondo che c’era nel locale faceva parte delle preferite di Febri. Neanche Rob aveva dimenticato che quel giorno il nostro amico avrebbe compiuto ventidue anni.
«Alla buon’ora, piccola ingrata» tuonò quando mi vide. «Era ora che passassi a salutare il tuo vecchio.»
Io gli feci un sorriso e mi abbassai per abbracciarlo, felice di rivederlo dopo tanto tempo. «Sono arrivata solo da pochi giorni!»
Mi rialzai e mi guardai intorno, notando che il Sottomarino non era cambiato di una virgola: il mobilio era tutto di legno come anche le pareti, che erano tappezzate di quadri e poster di gruppi musicali e di disegni che lasciavano gli avventori.
Lanciai uno sguardo al nostro solito tavolo sotto la finestra, rettangolare e con due panche di legno, perfetto per farci entrare tutti nelle serate passate lì a chiacchierare. Pensai con una stretta al cuore che questa volta ci saremmo seduti solo in tre.
«Venite, ragazzi» disse Rob, spingendo le ruote della sua sedia. «Andiamo a berci qualcosa tutti insieme, offre la casa.»
«Che ti succede, vecchio?» chiese mio cugino, prendendo i manici della sedia e spingendolo fino al nostro tavolo. «Non ci hai mai offerto neanche una nocciolina!»
«E’ vero» disse Freddie. «Mai neanche una lira di sconto…»
«Oggi è un giorno speciale» disse lui, facendo nascere e morire un sorriso in un lampo. «E poi è tornata la nostra Lenticchia. E’ bello che almeno voi tre continuate a vedervi ancora, mi ricordate tanto me da giovane…»
Ci accomodammo e passammo tutta la serata a parlare con Rob, che come al solito ci raccontava aneddoti riguardanti la sua adolescenza e ci faceva paternali più o meno credibili che ci facevano sorridere. I ragazzi lo conoscevano dai primi anni del liceo, mentre io invece solo da cinque o sei anni, cioè da quando avevo stretto amicizia con Febri e avevo cominciato ad uscire con Janis e gli altri. Rob aveva sempre una parola di conforto e una mano sulla spalla a disposizione per ognuno di noi, tanto che quando avevamo un qualsiasi problema gliene parlavamo sempre, ci confidavamo più con lui che con i nostri genitori.
La serata passò tranquilla, tra chiacchiere e malinconia che ormai era di routine, ma cercammo tutti di non farci prendere dallo sconforto e di non soffermarci troppo sui ricordi. 
Ad un certo punto Janis si avvicinò di più a me e mi prese la mano da sotto il tavolo, senza farsi vedere dargli altri, e quel gesto bastò a scaldarmi un po’. Rimanemmo tutta la sera con le mani intrecciate, senza scambiarci neanche un’occhiata equivoca, chiacchierando con Freddie e con Rob, finché non fummo tutti troppo ubriachi per trattenere la tristezza e il dolore.


Dopo che Rob chiuse il Sottomarino e tornò a casa sua, noi non ce ne andammo. Uscimmo fuori dal locale e ci sedemmo sul marciapiede a fissare il vuoto. Non eravamo abbastanza lucidi da pensare che fosse il caso di tornare a casa e non avevamo abbastanza autocontrollo per smettere di bere e fumare.
«Vado a farmi un giro» borbottò Freddie, facendo una smorfia con la sua faccia cadaverica e alzandosi. Lo guardammo allontanarsi con un passo scoordinato e i movimenti stanchi.
Janis chiuse gli occhi, appoggiandosi al marciapiede con le mani e mettendosi in una posa che sembrava quasi stesse prendendo il sole. Io mi avvicinai le ginocchia al petto e le abbracciai, appoggiandoci da testa. La macchina era parcheggiata proprio davanti a noi, come a proteggerci da occhi indiscreti.
«E’ il primo anno» disse mio cugino, mentre io osservavo Freddie che si faceva sempre più lontano. «Magari l’anno prossimo sarà più facile.»
«Non ci sperare» obiettai, tetra. Non riuscivo a pensare molto lucidamente, quindi non ricordo granché di quello che mi stava passando in testa in quel momento; ricordo solo che aspettai che mio cugino si voltasse verso di me e mi guardasse dritto negli occhi prima di parlare.
«Spesso penso che Febri è morto perché io l’ho sopravvalutato» confessai a voce bassa.
«Che intendi dire?»
«Era da giugno che di giorno praticamente non si faceva vedere. E quando c'era era sempre strano.»
«Febri è sempre stato strano» obiettò Janis.
«Sì, ma non mi sono accorta che stava cambiando. Dovevo capire che c'era qualcosa che non andava, e invece pensavo fosse stressato per una ragazza che nemmeno esiste.»
«Lo pensavamo tutti» mormorò lui.
Tornando indietro con la mente, mi sento sempre di più in colpa per aver permesso che Febri morisse. Nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare che uno come lui sarebbe finito a fare uso di droghe, per questo non ci eravamo fatti domande e avevamo creduto alle stupide giustificazioni per i suoi comportamenti strani. Nessuno si domandava dove fosse quando spariva per ore, o quando la sera non usciva, perché ci dava sempre una spiegazione più che plausibile e perché mai noi non avremmo dovuto credergli? Era Febri, il ragazzo più intelligente e brillante che ognuno di noi avesse mai conosciuto, quello che nonostante all’apparenza sembrasse stronzo e menefreghista, al bisogno c’era sempre. E la cosa buffa è che quando ha avuto bisogno lui, io non me ne sono accorta.
«Avrei voluto non essere arrabbiato con lui, quando è morto» confessò Janis, in un sussurro quasi impercettibile.
«Non pensarci.»
Mio cugino sorrise amaramente. «Spesso penso che mentre lui stava morendo, io cercavo un modo per fargliela pagare.»
«Ti aveva preso a pugni» gli ricordai. «E' normale che fossi arrabbiato.»
«Aveva fatto bene» ammise. «L'avevo deluso. Ho deluso tutti.»
Rimasi in silenzio.
«No, non è stata colpa tua» continuò, guardando la sagoma di Freddie che si avvicinava lentamente.  «E’ stata colpa mia» sussurrò.
Sgranai un po’ gli occhi e distolsi lo sguardo. Janis stringeva il marciapiede talmente forte che le sue nocche erano bianche. Presi la sua mano con la mia e lo staccai da lì.
«Perché dici questo?» chiesi.
Con un piccolo strattone si liberò dalla mia stretta e si alzò.
«Era compito mio insegnare al mio fratellino come si fa.»
Sentii gli occhi cominciare a pizzicare. Janis si allontanò da me e andò incontro a Freddie, che ancora si reggeva la testa con la mano. Gli passò un braccio intorno alle spalle e lo condusse alla macchina. Sospirai e mi alzai, dirigendomi verso di loro.

 

Estate 1988


Quando ripenso a tutto ciò che successe e non successe quell’estate, mi viene spontaneo fare il confronto con quella precedente, quando tutto mi sembrava così difficile, ma in realtà era più facile di quanto immaginassi. All’epoca liberarmi delle mie paura mi sembrava qualcosa di impossibile, un ostacolo insormontabile, e invece adesso mi rendo conto che forse Janis aveva avuto sempre ragione sul mio conto.
Dopo che quella sera in pineta ci baciammo, passarono un po’ di giorni durante i quali entrambi facemmo finta di niente, io un po’ meglio di lui, dato che ero troppo riservata e timorosa che qualcuno si accorgesse di qualcosa per fare battute allusive o per stargli troppo accanto.
Arrivò quel momento – arriva sempre, prima o poi – in cui io pensai che se Janis non aveva ancora aperto quel discorso allora non l’avrebbe mai fatto, ma dato che non sono mai stata una maga in questo genere di previsioni, ovviamente mi sbagliavo. Quel momento arrivò, eccome se arrivò, ma io non fui grintosa e decisa come avevo immaginato.
 «Ma Febri quando arriva?» chiesi, affacciandomi alla finestra della camera di Janis, impaziente di vedere il mio amico.
«Aveva detto che sarebbe arrivato quindici minuti fa» rispose mio cugino, dando una rapida occhiata all’orologio. «Doveva passare da Gaia a farsi regalare la tinta.»
Sbuffai sonoramente, pensando che Febri era riuscito ad incastrarci un’altra volta. Il nostro amico aveva la strana mania di non riuscire a tenere un’acconciatura per più di un mese di fila, neanche fosse una ragazza, tanto che da quando lo conoscevamo l’avevamo visto rasato, con la cresta, con il codino, con i capelli biondi e una volta talmente chiari da sembrare bianchi, ma anche acconciati con la cera in delle punte che sembravano degli aculei e così via. In quel periodo Febri aveva i capelli neri, di media lunghezza, e diceva di voler tornare al suo colore naturale, castano scuro. E come al solito ci andavamo di mezzo io e Janis, perché ormai sua madre sapeva che noi lo assecondavamo sempre ed eravamo gli artefici dei disastri che spiccavano sulla sua testa e quindi se la prendeva con noi.
«Prima o poi arriverà, Lenticchia.»
La voce di Janis era quasi un sussurro ed era talmente vicina a me che mi fece sussultare e voltare di scatto. Lui era dietro di me, con un sopracciglio alzato e un sorrisetto decisamente divertito per avermi fatta trasalire.
«Non farlo mai più!» sbottai, facendolo ridere.
«Non ti piace che ti sussurri cose all’orecchio?» chiese, spostandomi una ciocca di capelli da davanti agli occhi.
«No» risposi.
Janis si faceva sempre più vicino a me e io indietreggiai di qualche passo, scontrandomi con la sua scrivania. Lanciai un’occhiata alla porta per controllare se fosse chiusa e fortunatamente lo era, ma poi mi ricordai che in ogni caso i miei zii non erano in casa.
«Strano» commentò Janis, con un cipiglio divertito. «Conosco almeno un albero convinto del contrario.»
Arrossii violentemente per l’allusione al nostro bacio e distolsi lo sguardo, anche se senza volerlo feci un piccolo sorriso. Janis mi posò due dita sotto il mento e mi alzò il viso, guardandomi dritto negli occhi e io capii che non avrei mai in nessun modo potuto resistergli. Di fatto lui si avvicinò ancora di più, facendo aderire il suo corpo al mio che ormai era incastrato tra lui e la scrivania, sorridendomi serenamente. Alzai un braccio e gli accarezzai il viso lentamente, come tante volte avevo sognato di fare vergognandomi come una ladra, avvicinandolo ancora di più al mio finché lui non mi spostò la mano, prendendola nella sua, e mi baciò.
Fu un bacio diverso da quello della notte in pineta, probabilmente perché in quel momento entrambi eravamo più consapevoli di quello che stavamo facendo e ci rendevamo appieno conto di quello che stava succedendo. Dentro di me sapevo che avrei dovuto oppormi, ma non lo feci, perché in segreto avevo sognato quel momento per tanto tempo tormentandomi e maledicendomi, colpevolizzandomi per qualcosa che infondo non potevo controllare. Ma mentre baciavo Janis accarezzandogli la schiena con la punta delle dita, mi ricordai con un moto di terrore delle parole che Febri mi aveva detto qualche giorno prima in spiaggia e qualche brivido mi percorse il corpo, facendomi sentire improvvisamente freddo. Interruppi il bacio delicatamente, per non far pensare a Janis che ci fosse qualcosa che non andava anche se in realtà c’era, e gli sorrisi.
Lui mi prese per mano e mi condusse sul suo letto, dove ci sdraiammo insieme, e mi baciò ancora. Io non riuscivo in nessun modo a resistergli, anche se sapevo che prima o poi gli avrei fatto del male, perché non potevo dargli quello che lui voleva.
«Sembra incredibile» disse quando ebbe interrotto il bacio, ad un centimetro dalle mie labbra.
«Che cosa?» chiesi, spostandomi dalla posizione in cui mi trovavo e appoggiando la testa sulla sua spalla.
«Io e te» rispose, con semplicità. «Quasi non speravo più di trovare il coraggio.»
«Tu?» soffiai con una risatina, cercando di non pensare a ciò che più mi tormentava. «Tu che non hai il coraggio di fare qualcosa? Questo è il colmo.»
Janis rise, con quella sua risata cristallina, dandomi una leggera botta sulla spalla, e quando lo guardai in viso mi accorsi che era veramente felice. Tutti i pensieri negativi se ne andarono in un baleno dalla mia testa, lasciando spazio solo al volto disteso e sereno di mio cugino, con quell’espressione che avrei voluto vedergli in viso per sempre. Nei giorni successivi riuscii a capire perfettamente quello che mi stava succedendo in quel momento: Janis mi stava assorbendo. Mentre gli ero accanto non riuscivo a pensare ad altro che non fosse lui e il suo sorriso, riuscivo a sentirmi solo felice per essere finalmente con l’unica persona che avrei voluto al mio fianco e se per sbaglio la realtà faceva capolino tra i miei pensieri, io la scacciavo malamente. Il pensiero che Janis fosse mio cugino e che ero cresciuta con lui, che i nostri genitori ci avrebbero ucciso e che tutto quello era sbagliato, se ne andava così come nasceva: in un lampo. Era come se fossi sua succube. Questo pensiero ancora mi spaventa a morte.
«La prima volta che ho avuto l’impulso di baciarti è stata anni fa, quel giorno in cui sono venuto a prenderti a scuola e Febri mi ha preso in giro» confessò Janis, con gli occhi fissi sul soffitto e una mano ad accarezzarmi la spalla. «Sei inciampata sui tuoi piedi mentre mi venivi in contro e mi sei caduta addosso. Però avevo paura. Ho sempre avuto paura, avevo come la sensazione che fosse qualcosa di sbagliato. Ma poi non ce l’ho più fatta.»
Deglutii, pensando che quella sensazione io ce l’avevo tutt’ora.
«Durante questi giorni non ti ho detto niente per lo stesso motivo, ma non sono mai stato bravo con queste cose» continuò. «Alla fine cedo sempre.»
«Io ho paura anche adesso» confessai, rendendomi conto che quelle parole mi erano uscite dalla bocca prima ancora che riuscissi a realizzarle.
«Sei sempre la solita, Lenticchia» rispose. «Fai quello che senti, per una volta, e fregatene delle conseguenze. Smettila di stare rintanata in te stessa, fai cose stupide solo per il gusto di farle, se ti fanno stare bene: canta sotto la doccia, mangia con le mani e ridi troppo forte. Ma soprattutto, non ti azzardare a muoverti da qui, perché io so che è qui che vuoi stare.»
Mentre lo disse mi strinse a sé un po’ più forte e io sorrisi, senza dire nulla. Janis aveva ragione: quello era l’unico posto in cui avrei passato volentieri il resto della mia vita, e cioè fra le sue braccia. Ma durante tutto il tempo che trascorrevo con lui mi sentivo come una farfalla che cerca di uscire dal suo bozzolo, ma non ce la fa perché ancora non è abbastanza forte. Mio cugino cercava in tutti i modi di aiutarmi, lo faceva da sempre: mi tirava con sé nella pista da ballo perché sapeva che non avevo mai ballato in vita mia, abbassava di colpo la musica in macchina quando si accorgeva che stavo cantando per incitarmi a continuare anche se qualcuno poteva sentire la mia voce, mi toglieva con la forza la maglietta al mare in quei giorni in cui mi sentivo più brutta del solito e quindi avevo vergogna a spogliarmi. Probabilmente Janis voleva che diventassi come lui e tutti gli altri: libera, senza pensieri e senza freni inibitori. Il problema era che mio cugino non sapeva che non ero ancora pronta per uscire dal mio rifugio e sicuramente non immaginava che se mi avesse costretta, alla fine mi sarei rivoltata contro di lui. Non lo sapevo neanche io, per questo nei momenti in cui ero con lui mi illudevo di poter cambiare, scacciavo via dalla testa tutte le mie paranoie e pensavo solo alla mia felicità.
«L’altro giorno Febri stava ascoltando una delle sue canzoni da omosessuale represso» disse Janis. «Mi è rimasta impressa una frase.»
«Che frase?»
«Ma è meglio poi un giorno solo da ricordare che ricadere in una nuova realtà sempre identica» canticchiò, sorridendo.
«E’ Guccini» dissi io, che in parte condividevo i gusti musicali di Febri.
«Dato che piace anche a te dovresti imparare a dargli retta.»
«Stai dicendo che insieme dureremo solo un giorno, ma che lo ricorderemo per sempre?»
«No, sto dicendo che devi uscire dai tuoi stupidi schemi.»
«Insieme a te?»
«Insieme a me.»
Sorrisi e mi sistemai meglio sul petto di Janis. Rimanemmo lì tutto il pomeriggio, ma quando fu ormai passata un’ora cominciammo a preoccuparci per l’assenza ingiustificata di Febri. Mio cugino diceva che prima o poi sarebbe arrivato, che magari aveva avuto qualche contrattempo con quella ragazza che ancora pensavamo esistesse davvero, ma in sostanza Febri non arrivò mai. Lo vedemmo il giorno dopo e ci raccontò una scusa ben pensata e plausibile, che come al solito noi prendemmo per vera senza fare troppe domande.




La frase "Ma è meglio poi un giorno solo da ricordare che ricadere in una nuova realtà sempre identica" è della canzone Scirocco di Guccini, mentre "era compito mio insegnare al mio fratellino come si fa" è una citazione di Supernatural.
Un grazie infinito a chi è arrivato fino a qui, a chi ha recensito, a chi ha messo la storia tra le preferite, seguite e ricordate, e anche a chi ha letto e basta :)
Fate la mia felicità!

 

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque ***


Capitolo cinque
Mi basta il tempo di morire tra le tue braccia così. Domani puoi dimenticare, ma adesso, adesso dimmi di sì. - Lucio Battisti

 

Estate 1989


Stare in casa con mia madre che mi ripeteva dalla mattina alla sera che passavo le mie serate con dei tossicodipendenti contribuì di gran lunga a rovinarmi l’estate, anche se probabilmente l’estate sarebbe stata bella che andata in ogni caso. In quel periodo le mie giornate ormai andavano tutte allo stesso modo: mi svegliavo, studiavo, andavo un po’ al mare e quando il sole cominciava a calare facevo una passeggiata. Mio cugino e Freddie lavoravano quasi tutti i giorni e staccavano più o meno verso le sette, quindi la sera stavamo un po’ insieme, ma Janis riuscivo a vederlo anche prima. Sì perché ogni giorno, quando tornava a casa al lavoro, andava velocemente a cambiarsi e mi aspettava seduto sul muretto di casa nostra per quella passeggiata. Non ci eravamo mai messi d’accordo o organizzati, semplicemente un giorno si era accorto che sempre allo stesso orario uscivo di casa e aveva deciso che doveva venire con me.
«Ciao» disse, scendendo dal muretto e porgendomi la mano. «Andiamo?»
Mi guardai intorno per controllare che i nostri genitori non fossero affacciati alla finestra e che sul marciapiede non ci fosse nessuno che avrebbe potuto vederci; questa operazione non passò inosservata, infatti Janis strinse di poco le labbra, ma alla fine decise di far finta di niente. Probabilmente in quel momento avrei dovuto domandarmi il motivo di quel comportamento così strano, dato che solo un anno prima aveva detto chiaramente che a lui del giudizio dei nostri genitori e delle altre persone non importava nulla.
Afferrai la sua mano e intrecciai le mie dita con le sue, sorridendogli. «Andiamo.»
Mentre passavo il mio tempo con Janis mi sentivo in una specie di limbo protetto, come se fossi sicura che non potesse succedermi niente e che qualsiasi cosa e qualsiasi pensiero potessero aspettare, perché in quel momento c’era qualcosa di più importante. Ogni tanto mi veniva in mente il fatto che ancora nessuno dei due avesse avuto il coraggio di chiarire quella situazione che avevamo lasciato in sospeso l’estate precedente, ma come ogni volta che mi trovavo insieme a lui mi dicevo che per le preoccupazioni c'era tempo e che quello non era il momento di pensarci. Mi dicevo che dopo qualche settimana sarei partita e quindi tutto quello che dovevo fare era godermi quei momenti con mio cugino che probabilmente d'inverno non sarebbero tornati.
Quando mi trovavo da sola, invece, di notte e nella mia stanza, mi rendevo conto che quegli attimi non sarebbero tornati sul serio se non mi fossi decisa a parlare con Janis e l'inquietudine e l'ansia che da sempre mi avevano caratterizzata si facevano strada nelle mie viscere stringendo e graffiando, insieme al mostro che aveva le fattezze di mio cugino, e lì avevo paura. Avevo paura che a causa della mia passività e della mia codardia avrei perso l'unica persona che riusciva a rendermi felice. Allo stesso tempo, però, i motivi per cui un anno prima avevo rovinato quello che avevo con Janis mi tornavano alla mente e mi facevano desistere dal fare qualsiasi cosa. La paura di come avrebbero reagito i miei genitori – specialmente mia madre, che in quel periodo era più decisa che mai a farmi frequentare un ragazzo di “buona famiglia e con brillanti prospettive” - oppure il pensiero costante di provare qualcosa di malato perché Janis era mio cugino ed eravamo cresciuti insieme e insomma non era una cosa sana, accettabile né tantomeno possibile e ultimo, ma più importante di tutti, il timore che per lui avrei annullato me stessa, assecondandolo e facendomi plasmare, mi tenevano in uno stato di blocco che mi imponeva di seguire la mente piuttosto che il cuore.
Quello che stava succedendo all'interno della mia testa era un po' complicato sia da capire che da spiegare, per questo ci misi del tempo per rendermene conto. Da una parte c'era la mia paura disperata di cambiare, di uscire dagli schemi e di diventare quindi come Janis avrebbe voluto, dall'altra invece c'era la mia voglia matta di farlo. Fare entrambe le cose contemporaneamente non era, per ovvi motivi, possibile.
Negli ultimi giorni, però, dentro di me aveva cominciato a nascere la convinzione che probabilmente avrei dovuto prendere la prima via. Iniziavo a credere che cambiare non era qualcosa di così catastrofico e che mi avrebbe stravolto la vita in senso positivo. Adesso posso dire con certezza che gradualmente stavo cominciando a diventare come Janis mi avrebbe voluta: desiderosa di libertà, troppo stanca per potare ancora quel fardello che da anni gravava sulla mia schiena e avida di una vita senza più troppi pensieri. Ho ripetuto più volte che la mia paura più grande era quella di diventare come avrebbe voluto Janis: in quei giorni in me si affacciava l'idea che forse, per averlo accanto, l'avrei potuto sopportare.
«Dove andiamo oggi?» chiesi, alzando lo sguardo verso Janis. Lui guardava dritto davanti a sé con un tiepido sorriso sulle labbra.
«Devo mostrarti una cosa» disse.
«Che cosa?» domandai, curiosa.
Mio cugino si voltò nella mia direzione e mi rivolse un sorriso, uno di quelli splendidi che lo caratterizzavano. «E' una sorpresa» rispose.
Io ricambiai il suo sorriso, un po' incerta ma soprattutto curiosa. Janis era un ragazzo sorprendente sotto molti punti di vista, ma sicuramente non era abbastanza premuroso da organizzare sorprese o cose  del genere. A me, poi, dopo tutto quello che era successo, non avrebbe mai organizzato nulla.
«Parlami di quello che hai fatto quest'anno» mi disse, mantenendo un passo lento e rilassante. La sua richiesta un po' mi sorprese, perché ormai era da un mese che ero tornata in paese e avevo pensato che se ancora non mi aveva posto quella domanda, allora voleva dire che non gli interessava. Risposi ugualmente.
«Non c'è molto da dire» cominciai. «Non mi sono fatta molti amici.»
«Questo me l'aspettavo, non sei un grande esempio di socialità» disse lui, ammiccando.
«Molto divertente» borbottai, lanciandogli un'occhiataccia.
Mio cugino, tutto sommato, aveva ragione. Non ero una ragazza molto socievole o estroversa, ma sono sicura che se anche lo fossi stata sarebbe cambiato poco. In realtà la vera ragione per cui desistevo dal fare nuove conoscenze, era la mia paura di ricominciare da capo e perdere qualcuno di nuovo. Non sapevo se avrei potuto sopportare un'altra perdita, dato che ancora non avevo accettato completamente quella che avevo avuto.
«Non hai fatto amicizia neanche con le tue coinquiline?» domandò Janis, con un sorrisetto ironico.
«Coinquilini» lo corressi, vedendo scomparire in un lampo l'espressione divertita che aveva.
«Coinquilini?» chiese, con disapprovazione.
«Coinquilini» ripetei. «Un ragazzo e una ragazza.»
Mio cugino aprì la bocca e poi la richiuse, stringendo un po' di più la mia mano intrecciata alla sua. Scosse la testa in modo quasi impercettibile e affrettò il passo, strappandomi un sorrisetto.
«Che c'è?»
«Lo zio e la zia lo sanno?» mi chiese, con un tono che era molto simile a quello di un rimprovero.
«Sì. È stata l'unica casa che ho trovato. Mi sono messa a cercare troppo tardi» risposi, con una stretta al cuore. Nonostante quel pizzico di gelosia che trapelava dalle sue parole mi facesse piacere perché voleva dire che allora non mi aveva cancellata, esattamente come non l'avevo fatto io, evitai accuratamente di guardarlo, non sapendo come comportarmi in quella situazione. «Pensavo che lo sapessi, sicuramente mia madre l'avrà detto ai tuoi. Freddie lo sapeva.»
«Io no» mormorò, risentito.
Improvvisamente sciolse la stretta che univa le nostre mani e, nonostante il gran caldo d'agosto, sentii un gran freddo al palmo. D'istinto mi guardai intorno, pensando che se aveva liberato la mia mano voleva dire che aveva avvistato qualche nostro conoscente nei paraggi.
«Che c'è?» chiesi subito, ansiosa.
Lui affrettò il passo e chinò il capo, indicando con un gesto quasi impercettibile un uomo dall'altro lato della strada.
«Non farti vedere!» mi disse quando si accorse che guardavo quell'uomo con insistenza. «E' il padre di Gaia. Non facciamoci riconoscere.»
Aggrottai le sopracciglia e accelerai il passo proprio come stava facendo Janis, non dicendo una parola per un lungo lasso di tempo.
«Perché non vuoi che ci riconosca?»
«Non ti ricordi?» disse, un po' affannato da quella camminata fin troppo veloce. «Non gli piaccio. Io e Freddie ormai non piacciamo a nessuno.»
Annuii. Quando il padre di Gaia fu abbastanza lontano cominciammo a camminare più lentamente, senza però prenderci per mano. Dopotutto, eravamo stati sciocchi a farlo in quel modo, in mezzo alla strada, dove tutti potevano vederci. Nemmeno lui, infatti, cercò più quel contatto. Pensai che lo stesse facendo per farmi stare tranquilla, lui che dei giudizi se ne era sempre fregato. Beh, pensavo male.
Quando la strada finì e ci ritrovammo nella campagna, quella in cui eravamo soliti rifugiarci nelle poche volte in cui lui era tornato a casa dal servizio militare, mi si strinse il cuore.
Mi fermai un attimo, un po' spaesata, e mio cugino se ne accorse.
«Non vuoi venire?» mi chiese, preoccupato.
«No, no» risposi, cercando di sembrare convincente e di non far trapelare il mio turbamento.
«Allora cosa c'è?»
Janis si fece più vicino a me, sorridendomi tiepidamente. Quel giorno portava i capelli sciolti che gli arrivavano fin sotto la spalla, lisci e lucenti. Da quando ero arrivata lo avevo visto solo con i capelli legati, quindi quel giorno mi stupii di quanto fossero diventati lunghi. Sicuramente a casa non li scioglieva mai, altrimenti mia zia non gli avrebbe dato pace. Mentre osservavo il suo viso, per un fugace attimo riuscii a scorgere tutta la sua spensieratezza e l'allegria di un tempo, che però scomparvero quasi subito per far posto all'espressione un po' spenta che ormai avevo imparato ad accettare da quando ero tornata in città. Mi guardava con insistenza e sapevo perfettamente ciò che stava facendo: stava cercando di rassicurarmi con lo sguardo, voleva dirmi che nonostante fossimo nel luogo dove avevamo passato gli attimi in cui eravamo stati più uniti, non sarebbe successo niente che avrebbe potuto turbarmi o mettermi a disagio. Sospirai e cominciai a camminare al suo fianco, accorgendomi poco dopo tempo che lui si guardava intorno insistentemente, come se stesse cercando qualcosa.
Ad un certo punto vidi un cespuglio muoversi e trasalii, facendolo scoppiare a ridere.
«Stai tranquilla!» mi disse, allegro. «Deve essere Lenticchia.»
«Lenticchia?» domandai, con un sopracciglio alzato.
Janis sorrise e andò verso il cespuglio, dandomi le spalle. Ad un certo punto si abbassò per raccogliere qualcosa da terra e quando si voltò nella mia direzione ci misi un po' a realizzare che tra le braccia aveva un cane. Un cane piccolo, piccolissimo, poteva avere al massimo tre mesi. Sarebbe stato completamente bianco se non avesse avuto due piccole chiazze marroni, una sull'orecchio e una sulla zampa destra posteriore. Si muoveva incessantemente tra le braccia di mio cugino, che gli accarezzava la testa con affetto.
«Lenticchia Due» disse, rivolto al cane. «Ti presento Lenticchia Uno, la tua nuova padroncina.»
Non potevo crederci: mio cugino mi stava regalando un cane. Mia madre mi avrebbe uccisa.


Dopo che mi fui ripresa dallo stupore iniziale, Janis mi spiegò che da un po' di tempo tornava da solo in quella campagna quando cercava tranquillità. Fui felice al pensiero che avesse scelto proprio quel posto in cui rifugiarsi, perché stava a significare che nei ricordi con me trovava un po' di serenità e che forse mi aveva perdonata per ciò che gli avevo fatto l'anno precedente. Mi disse che una settimana prima aveva trovato quel cane, che aveva deciso di chiamare Lenticchia probabilmente solo per prendermi in giro, e da quel momento era tornato tutti i giorni per dargli da mangiare in attesa di trovare il momento giusto per darlo a me. Il gesto di mio mio cugino mi rese felice.
Passammo un po' di tempo a ridere e a giocare con Lenticchia Due e quando il cagnolino si stancò e andò ad accucciarsi sotto un albero, decidemmo di imitarlo anche noi.
«Mia madre sarà furiosa appena le porterò il cane a casa» dissi, ridendo.
«Non lo sarà» rispose Janis, serenamente. «L'ho già convinta io a fartelo tenere.»
«Ma che ti prende?» gli dissi, con una mezza risata. «Da quando stai attento a questi dettagli? O forse sarebbe meglio chiederti da quando ti metti a fare regali!»
«Inizialmente ho pensato che ti avrebbe fatta sentire meno sola quando fossi partita, ma se hai già il tuo coinquilino a tenerti compagnia, posso tenere io Lenticchia Due.»
Gli scoccai un'occhiata divertita, tranquilla e serena dopo tanto tempo, sentendo il mio cuore un po' più leggero.
«Il mio coinquilino ti crea problemi?» chiesi, rendendomi conto subito dopo che avrei dovuto tenere la bocca chiusa. 
Janis alzò un sopracciglio, cominciando ad accarezzare la testa di Lenticchia Due che dormiva appollaiato al suo fianco. «Non provocarmi, Lenticchia» si lamentò. «In che rapporti sei con questo tizio?»
«Litighiamo sempre» confessai, vedendo un lampo di sollievo passare sul suo viso. «Ha qualche problema con il rispetto della privacy e soprattutto non ha nessun senso del pudore.»
«Che cosa vuoi dire?» si informò, guardingo.
«Gira sempre per casa mezzo nudo ed entra in camera mia senza bussare» dissi. «Ma sto imparando a gestirlo.»
«Che cafone!» esclamò Janis, arrabbiato, con una punta di gelosia. «Non ci si comporta così con una ragazza!»
«E come ci si comporta?» chiesi, con una punta di acidità che non passò inosservata. Mi morsi la lingua, vedendo la sua espressione mutare da arrabbiata a mortificata.
«Scusami» mi affrettai ad aggiungere. «Sono l'ultima persona che può farti un appunto del genere...»
«Tranquilla, tanto hai ragione» disse, chinando la testa. «Non mi piace che un tizio qualunque si metta a girare nudo davanti a te, comunque.»
«Non gira nudo!» esclamai. «Solo senza maglietta.»
«E' la stessa cosa.»
Janis mi abbracciò e io appoggiai la testa sulla sua spalla, beandomi di quel contatto e sentendo la sua pelle scottare sulla mia guancia, da sotto il tessuto della maglietta. Sentivo il suo cuore battere velocemente sul petto e per la prima volta in tutta la mia vita provai un desiderio ardente che percorreva tutto il mio corpo, allora mi ritrovai a chiedermi che cosa sarebbe successo se a quel punto avessi deciso di baciarlo e di lasciarmi andare almeno per una volta. Come avrebbe reagito? Mi avrebbe assecondata? Oppure mi avrebbe allontanata, timoroso all'idea che la storia si sarebbe ripetuta? Scacciai velocemente quelle domande, come facevo da sempre quando mi trovavo in sua compagnia, e mi divincolai dal suo abbraccio. Presi il suo viso tra le mani e premetti con forza le mie labbra sulle sue, con un coraggio che mai avrei pensato di possedere, e subito dopo averlo fatto attesi in preda all'ansia una risposta da parte sua. Questa risposta non tardò ad arrivare, infatti lui dopo un attimo di spaesamento rispose al mio bacio con urgenza e passione, poggiandomi le mani sui fianchi e stringendomi forte.
In quel momento ero più lucida che mai e ricordo nitidamente quello che mi passò per la testa. “Questa è l'ultima possibilità. O faccio quello che non ho voluto fare l'anno scorso, o lo perdo per sempre.”
Proprio mentre mi rendevo conto che quella volta avrei dovuto prendere quella decisione, Janis staccò le sue labbra dalle mie. Lo guardai dritto negli occhi, rendendomi conto di quanto un suo sguardo fosse capace di sconvolgermi dentro.
Ci guardammo a lungo, io impaurita e lui con un'espressione indecifrabile. I suoi occhi mi sembravano dei pozzi infiniti, lucidi e splendenti. Dopo molto tempo mi passò una mano sulla guancia, con una carezza leggera.
«Sono stato molto male quest'anno» disse, facendo trapelare dal suo tono un'infinita tristezza. «Risparmiamoci un'ulteriore sofferenza.»
Lentamente si allontanò da me, appoggiandosi di nuovo al tronco dell'albero. Io mi sentivo come paralizzata, ero incapace di muovermi e di proferir parola; quello che Janis mi aveva appena detto mi aveva fatto stringere le viscere in una morsa atroce e dopo molto tempo riuscii a sentire anche il mostro che avevo nello stomaco contorcersi e dimenarsi. Mio cugino, l'impulsivo sognatore, colui che non conosceva il significato della parola “conseguenza” aveva deliberatamente deciso di smettere di baciarmi per non soffrire di nuovo. Improvvisamente mi resi conto che lo stavo perdendo e in cuor mio desideravo fare qualsiasi cosa fosse in mio potere pur di mantenerlo accanto a me. La sua voce, poi, ruppe il silenzio.
«Che cosa faresti se potessi tornare indietro, Mara?» chiese, accarezzando piano la testa di Lenticchia che si era svegliato e ora gli mordicchiava il lembo dei pantaloni.
«In che senso?» chiesi, in un sussurro.
«Se potessi tornare indietro di un anno. Mi diresti di sì?»
«Perché mi chiedi questo?»
«Rispondimi, per favore.»
Janis aveva lo sguardo puntato dritto di fronte a sé e il volto arrossato.
«Sì. Ti direi di sì» dissi impulsivamente, senza pensarci.
«Mi basta questo. Adesso andiamo a casa.»


Estate 1988


Successe tutto molto velocemente: la sorella di Janis spalancò la porta della camera da letto e ci vide.
Era un pomeriggio come tanti in cui io ero andata da mio cugino un po’ prima dell’orario previsto per l’uscita serale. La sorte volle che i suoi genitori non fossero in casa e che noi facessimo l’errore di scambiarci qualche bacio, ignari del fatto che Eva stava per fare una sorpresa a tutti tornando in paese. La sensazione che provai quando la vidi guardarci con gli occhi spalancati fu strana, perché mi resi conto di qualcosa che probabilmente in fondo avevo sempre saputo. La prima cosa che pensai fu: “lo sapevo”. Janis invece non lo sapeva.
Uno degli errori più grandi che commise mio cugino quell’estate fu credere che sarebbe andato tutto bene. Io non l’avevo mai pensato, dopotutto come avrebbe mai fatto una relazione segreta tra cugini ad avere un futuro o a non incappare in qualche problema? La mia mente non riusciva a contemplare prospettive rosee, dentro di me avevo sempre saputo che sarebbe finita male e anche Febri me l’aveva detto senza troppi giri di parole. Nonostante questo, però, non riuscivo ad immaginare la mia vita senza Janis e mentre ero con lui cercavo di godermi fino in fondo tutti quegli attimi, con la paura costante che in qualsiasi momento sarebbero potuti finire. Era ormai da un mese che ci vedevamo di nascosto da tutti e considerando il mio alto tasso di sfortuna, era anche troppo.
Ricordo che Eva cominciò a balbettare confusamente, in un mormorio che somigliava molto a “siete pazzi” e “ma che diavolo vi dice il cervello” contornato con un “volete far morire la mamma di crepacuore”. Ogni sua parola somigliava molto ad una coltellata dritta sulla spina dorsale, e ogni volta che scuoteva la testa e si portava una mano al petto mi sentivo morire.
Quando Janis si riprese dallo shock di averla vista piombare in camera in quel modo, dal nulla, provò a farla ragionare e a dirle che c’era stato un malinteso, ma ovviamente lei non volle sentire ragioni e se ne andò dalla camera, seguita da suo fratello che sembrava proprio deciso a trovare una specie di compromesso.
Janis era fatto così, dopotutto: non si arrendeva neanche davanti ad una palese sconfitta. Mentre l’entrata in camera di Eva per me aveva significato la fine di tutto, per lui invece non era stata una vera e propria perdita, perché l’aveva presa come un modo per poter uscire allo scoperto e ammettere la verità davanti ai nostri genitori. Niente di più sbagliato.
Quel pomeriggio seguii con lo sguardo Janis che si allontanava in corridoio dietro sua sorella ed entrava nella sua stanza. Io rimasi ad aspettarlo in camera sua, comportandomi come se quella faccenda non mi riguardasse, anche se dentro di me mi sentivo come se ormai tutto fosse perduto e niente ci avrebbe fatto recuperare.
Volevo molto bene a mia cugina Eva, anche se la grande differenza di età non ci aveva mai fatto legare particolarmente. Lei era una ragazza sempre ligia al dovere, studiosissima e “con prospettive rosee” tanto per citare una frase tipica di mia madre; non era certo come Janis: un ragazzo di ventitré anni, a malapena diplomato, che per sentirsi meno in colpa per il fatto di non avere idea di cosa fare della sua vita, lavorava a tempo pieno in un’officina. E non era neanche come me: Eva era sempre decisa e non si perdeva mai in chiacchiere, non conosceva la parola “indecisione” e rispettava sempre le regole, qualsiasi fossero, per questo la vista mia e di Janis in atteggiamenti equivoci l’aveva sconvolta così tanto.
Pensandoci a mente fredda, però, mi rendo conto che una relazione tra cugini di primo grado non è una cosa del tutto fuori dall’ordinario: esistono tante coppie del genere e continueranno ad esistere. Non so perché la cosa all’epoca mi turbasse così tanto e mi facesse sentire così sporca, così colpevole di chissà quale crimine; probabilmente era lo stesso motivo per cui mia cugina la prese così male, e cioè che io e Janis eravamo cresciuti insieme quasi come se fossimo fratelli. Nella mia famiglia, in ogni caso, queste relazioni “particolari”, se così le vogliamo chiamare, non erano viste di buon occhio. Come non erano viste bene le relazioni omosessuali e altre mille cose, per esempio il non essere credenti, le feste tra ragazzi, l’alcol, gli scioperi e il proletariato. Io e Janis eravamo un po’ le due pecore nere.
Quel pomeriggio ricordo che sperai con tutto il cuore che mio cugino decidesse di usare la ragione, per una volta, e convincesse sua sorella a dimenticare tutto e a non dire niente ai nostri genitori. Chiaramente mi sbagliai. Quando sentii la porta di casa sbattere rumorosamente, segno che Eva era andata via, Janis entrò in camera con l’espressione di qualcuno che ha appena perso la casa alle carte, ma allo stesso tempo aveva uno strano luccichio negli occhi che non mi piacque per niente.
«Allora?» chiesi, impaziente di ricevere una doccia fredda. Lui mi scrutava come se volesse cercare di capire in che modo avrei reagito.
«Non è andata bene» disse. «Ha detto che se non tronchiamo subito lo dirà ai nostri genitori.»
Lo guardai con gli occhi spalancati pieni di terrore. Mi guardai le mani e scoprii che erano scosse da un leggero tremolio, segno che mi stavo facendo prendere dall’ansia e dall’agitazione, dalla paura che da quel momento in poi la mia vita sarebbe stata stravolta.
«Penso che dovremmo dirglielo noi.»
«Non dici sul serio» sussurrai con voce rotta. Scossi la testa velocemente, guardandolo sconvolta: non poteva veramente voler fare una cosa del genere, era assurdo, saremmo stati rovinati! Dirlo ai nostri genitori avrebbe potuto significare due cose: o il divieto assoluto di vederci, cosa molto probabile, o il poter stare insieme alla luce del sole, cosa altamente improbabile. La seconda opzione mi spaventava ancor più della prima, perché se avessimo avuto quella possibilità saremmo diventati una coppia a tutti gli effetti e la cosa per me era agghiacciante. Avevo paura, non so bene neanche adesso di cosa: avevo paura di lui, di me stessa, di star male o di essere felice, di perdermi, non lo so. Ma era una cosa che non potevo accettare.
«Perché no?» chiese Janis, avvicinandosi a me di qualche passo.
«Perché no!» ripetei. «I patti non erano questi!»
Mio cugino voltò la testa di scatto verso di me e assottigliò gli occhi, come se credesse di non aver sentito bene. Io mi passai una mano sulla fronte con fare nervoso, sentendo che stavo già cominciando a sudare freddo e che da lì a poco mi sarei messa a piangere.
«I patti?» mormorò, incredulo e arrabbiato. «I patti? Sto solo cercando un modo per continuare a stare insieme! Smettila di essere così stupidamente codarda!»
«E tu smettila di fregartene delle conseguenze!» esclamai, con un tono un po' alterato. «Smettila di fare le cose senza pensare, impara a fermarti un attimo a riflettere!»
Janis piegò un angolo della bocca in una smorfia strana, quasi derisoria. Si allontanò da me e appoggiò la schiena al muro, incrociando le braccia.
«Forse hai ragione» disse, continuando a guardarmi. «Magari sono famoso per essere impulsivo, è possibile che spesso non mi interessino le conseguenze delle mie azioni. Ma sai una cosa, Mara? Ho passato anni della mia vita a pensare a come mi sarei comportato quando questo momento fosse arrivato. Ho passato nottate intere a chiedermi cosa avrei fatto quando avessi deciso di farmi avanti con te e qualcuno ci avesse scoperto. Quindi smettila parlarmi in questo modo, perché tanto tu queste cose non le capisci!»
Mio cugino mi scrutava torvo e deluso dall'alto della sua statura e in quel momento io mi sentivo piccolissima, ma allo stesso tempo rimanevo ferma nelle mie posizioni. Non mi sentivo pronta per portare quella relazione ad un livello successivo, perché forse non mi sentivo pronta neanche ad avercela, quella relazione. Non avevo mai pensato che tutto quello sarebbe potuto accadere. Janis invece no, lui aveva appena confessato di aver passato anni a prepararsi a quel momento. Beh, se anche l'avessi fatto pure io, non sarei mai e poi mai arrivata preparata.
«Scusami» dissi. «Non avrei dovuto parlarti così. Ma in ogni caso non sono d'accordo.»
«Sai qual è la cosa buffa?» chiese, e io scossi la testa. «Che ogni volta che pensavo ad un momento come questo, l'idea di lasciar perdere tutto non mi ha mai neanche sfiorato. Ho sempre pensato che avrei fatto qualsiasi cosa pur di non perderti. Invece, a quanto pare, è proprio questa l'eventualità che ti disturba tanto.»
Rimasi in silenzio non sapendo cosa dire, dato che le parole di mio cugino erano vere.
«Non dici niente?» chiese allora, con un tono più basso e pacato, ma pur sempre deluso.
Rimasi in silenzio ancora una volta. Guardai mio cugino negli occhi e mi resi conto che gli stavo facendo del male; sapevo che l'unico modo per non farlo soffrire era uscire allo scoperto e vedere cosa sarebbe successo, ma ero bloccata. Avrei fatto qualsiasi cosa per lui e questo a volte mi spaventava e mi spaventa tutt'ora, e anche per quello cercavo di mantenere tutto sotto controllo, ma all'epoca non sarei mai riuscita a superare quella paura di me stessa che si era così radicata in me, quel sentimento di inadeguatezza che provavo costantemente, il pensiero martellante di non andare bene e di dover sempre dimostrare alle persone che anche io valevo qualcosa.
Non volevo deludere i miei genitori e non volevo abbandonare Janis. Dovevo fare una scelta e, come sempre, feci quella sbagliata.
«Non credo di essere in grado di affrontare una cosa del genere» ammisi, distogliendo lo sguardo da mio cugino.
Lui sospirò e chiuse gli occhi per un lungo attimo, assimilando quello che avevo appena detto.
«Allora è vero» disse, il volto duro e i pugni serrati. «E' vero che ci sono persone che non cambiano.»
Mi guardò a lungo, poi prese una sigaretta dal pacchetto e se la infilò in bocca, lentamente. Riuscivo a vedere i muscoli del suo collo che si contraevano mentre piegava piano la testa e aggrottava la fronte.
Quando la sigaretta fu accesa mi scoccò un'altra occhiata, mi diede le spalle e se ne andò.
Proprio mentre le prime lacrime cominciavano a rigarmi le guance, mi ricordai le parole che Febri mi aveva detto qualche settimana prima: le cose a metà lo logorano, quindi a questo punto probabilmente ti odierà e troverà il modo di vendicarsi, perché lui è fatto così.
Lo fece. E lo fece anche bene.
Esattamente cinque giorni dopo Gaia venne da me, elettrizzata, per raccontarmi che Janis l'aveva baciata.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


Capitolo Sei
Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi da indietro quelle stagioni di vetro e sabbia? - Francesco Guccini

 

Estate 1989


La seconda volta che andai al cimitero fu tutto diverso. Ero da sola e questa volta non ci sarebbe stata la mano di Janis a cui aggrapparmi o la spalla di Freddie a cui appoggiarmi; sapevo che avrei avuto ancora la bruttissima sensazione che avevo avuto la volta precedente, ma amplificata. “La sensazione di svegliarti da un brutto sogno per scoprire che è vero”, aveva detto Freddie. Ed era una cosa che noi tutti provavamo ogni mattina da un anno. Ma quando andai al cimitero, da sola, e vidi ancora la lapide bianca con la foto di Febri sorridente, mi sentii come quando un anno prima avevo scoperto che era morto. Impotente, sola, devastata e con dentro un vuoto grande come una galassia.
Mi sedetti a gambe incrociate di fronte alla foto del mio amico e mi accessi una sigaretta. Dopo, feci una cosa che mai e poi mai avrei pensato di fare: cominciai a parlare.
«Vorrei che fossi qui» mormorai, guardando Febri che mi sorrideva radioso dalla foto e i suoi occhi di un azzurro chiarissimo brillavano. «E' strano che i tuoi genitori abbiano scelto proprio questa foto, non pensi? Qui hai i capelli troppo corti, di solito non li portavi così... mi ricordo che tua madre ti aveva costretto a tagliarli quando eri tornato a casa con quelle ciocche verdi... effettivamente erano un po' ridicole.»
Sospirai e feci un lungo tiro dalla sigaretta. «Due giorni fa ho fatto una cosa che non ti sarebbe piaciuta. Ho baciato Janis. Stavolta sono stata io, quindi scommetto che se fossi qui ti arrabbieresti molto di più dell'anno scorso... Però mi consiglieresti cosa fare. Questa volta non posso tirarmi indietro, Janis vorrà sicuramente qualcosa di concreto e penso di volerlo anche io, ma ho paura. Ieri mi ha detto delle cose strane.»
Mi asciugai una lacrima e continuai a parlare, sempre a voce bassa. «Vorrei che fossi qui» ripetei, con voce strozzata. «Scusa se non mi sono accorta di quello che ti stava succedendo. Scusa se non ti ho fermato.»
Le lacrime cominciarono a sgorgare copiose dai miei occhi e il rumore dei miei singhiozzi doveva essere decisamente alto. Stavo facendo quello che per un anno non avevo avuto il coraggio di fare e dentro di me sentivo emozioni contrastanti: Febri mi mancava terribilmente e l'avrei portato per sempre con me, così come un pezzetto di me se ne era andato con lui, ma da un lato lo odiavo per avermi abbandonata.
«Mi manchi tantissimo» singhiozzai, facendo cadere la sigaretta per terra e nascondendomi il volto con le mani. «Scusa se sono venuta qui solo ora... e se ho provato a dimenticarti.»
Continuai a piangere con il viso coperto dalle mie mani per un tempo che non riuscii a quantificare. Dentro di me pensavo a tutto ciò che avevo perso e che non sarebbe mai più ritornato: avevo perso il mio migliore amico, mio fratello, la mia spalla. Ripensai ai momenti che più di ogni altri mi facevano pensare a Febri così com'era: razionale ma pazzoide, allegro ma pensieroso, buono ma irascibile, libero ma allo stesso tempo schiavo.
Quando finalmente riuscii a calmarmi, mi asciugai le ultime lacrime e mi accesi un'altra sigaretta.
«Aspettavo giusto che smettessi, bambina.»
Sussultai nel sentire una voce e mi voltai di scatto, ancora scossa e con gli occhi umidi. Rob era a pochi metri da me, sulla sua sedia a rotelle, in testa un cappellino da baseball e degli occhiali scuri a coprirgli gli occhi. Posò le mani sulle ruote della sua sedia per darsi una spinta e si avvicinò a me, sorridendomi.
«Da quanto sei qui?» gli chiesi.
«Abbastanza» rispose, con un pizzico di tristezza. «Non ti volevo disturbare, ma non me la sono sentita di andarmene e lasciarti qui in questo stato.»
Gli sorrisi. Rob era come un secondo padre per me e per tutti noi. Aveva sempre una parola di conforto e un consiglio da dare quando ne avevamo bisogno, ma allo stesso tempo era severo e aveva il pugno di ferro. Dopotutto era stato anni ad ascoltare tutti nostri drammi: dalla volta in cui Freddie era stato bocciato a scuola alla volta in cui non sapevo come dire a mia madre di aver avuto un incidente con la sua macchina.
«Che cosa ci fai qui, Rob?» gli chiesi, mentre lui fermava la sua sedia a pochi passi da me.
«Sono venuto a trovare il mio vecchio» disse, con un sorriso. «E' proprio laggiù.»
Con la mano indicò un punto alla nostra destra e poi si tolse gli occhiali da sole.
«Sai come sono finito sulla sedia a rotelle, Lenticchia?» mi chiese.
Scossi la testa. «No.»
«Da piccolo avevo paura di tutto. Avevo paura del buio, degli alieni, dei mostri dentro l'armadio, delle malattie e soprattutto delle cose pericolose. Mio fratello invece era tutto l'opposto di me, sprezzante del pericolo e impulsivo. L'avresti mai detto?»
«Scherzi?» chiesi, sorpresa. «Non riesco ad immaginarti così fifone.»
«E invece sì, lo ero!» rise. «Mio fratello e i miei amici mi proponevano sempre di fare cose pericolose e io rifiutavo senza pensarci due volte. Scalare delle montagne ripidissime, rubare la barchetta di mio padre e navigare tutta la notte e cose del genere... ero così inquadrato e impaurito dalla vita che non salivo in macchina con qualcuno senza prima essermi assicurato che avesse una guida impeccabile. Insomma, continuavo a rifiutare di fare tante cose divertenti che all'epoca consideravo pericolose.»
«E un giorno hai accettato.»
«No, non ho mai accettato. E' di questo che mi pento. Fino ai venticinque ho vissuto in una campana di vetro, paranoico e ipocondriaco, per paura. Una sera, mentre rientravo a casa, un pirata della strada mi ha investito e sono rimasto così.» concluse, con semplicità.
Rob cominciò a guardarmi insistentemente, con una strana luce negli occhi. «Quello che voglio dirti, bambina, è che ho passato la maggior parte degli anni della mia giovinezza privandomi della libertà e della spensieratezza che la caratterizzano. E quando ho capito che ero stato fin troppo inquadrato, è stato troppo tardi. Se le cose devono succedere, succedono lo stesso e non si può fare niente per fermarle. Io ne sono l'esempio vivente.»
«Dove vuoi arrivare?» chiesi.
«Quanti anni avete tu e tuo cugino?»
«Sei qui proprio dall'inizio» mormorai, rendendomi conto che avevo nominato Janis poco dopo aver cominciato a parlare.
«Beh, sì» ammise.
«Io ne ho ventidue e Janis ne ha ventiquattro.»
«Siete giovani» disse, con ovvietà. «Non commettere i miei stessi errori. Finalmente sei venuta a parlare con il tuo amico, ma adesso devi andare avanti con Janis. E' stato un brutto periodo per lui... è stato un brutto periodo per tutti voi. E' ora di ricominciare a vivere.»
Guardai Rob dritto negli occhi e lo vidi sorridere. Non avevo mai saputo come fosse finito sulla sedia a rotelle, nessuno dei ragazzi lo sapeva. Ricordo che una volta Febri gliel'aveva chiesto, ma lui aveva risposto di essere scivolato su una buccia di banana. In quel momento capii perché Rob aveva deciso di raccontarmelo e gli sorrisi riconoscente.
La decisione che mi ero imposta di prendere in quei giorni adesso era così chiara nella mia mente che mi stupii di averci messo così tanto tempo per rendermene conto. Avrei rischiato e, per una volta, avrei deciso di fare qualcosa per me, indipendentemente dargli altri.
In quel momento decisi che se ancora avevo la possibilità di essere felice dovevo sfruttarla.
«Grazie» gli dissi.

 

Estate 1988


Rimasi chiusa in casa per centoventi ore. Freddie e Gaia vennero a trovarmi un paio di volte per capire che cosa avessi, ma io feci finta di dormire facendogli credere che fossi malata. Non potevo guardare in faccia Gaia, che al contrario di me non aveva nessuna colpa, senza scoppiare in lacrime. Alla centoventesima ora, però, arrivò a casa mia Febri. Ero un po' arrabbiata con lui, perché l'avevo chiamato più volte e avevo chiesto ai suoi di dirgli di richiamarmi, ma non mi aveva mai cercata. Quando entrò nella mia stanza mi sembrò di vedere un cadavere: era magro, aveva uno strano colorito e delle occhiaie da far spavento.
«Sei tornato dall'oltretomba?» gli chiesi, atona.
«Sì. E tu?» chiese, lasciandosi cadere sulla sedia della mia scrivania.
«Ancora no. Che ti è successo?»
«Problemi sentimentali, come te» mi osservò di sottecchi con uno sguardo indagatore: sapevo che anche se durante quei giorni lui non mi aveva chiamata, adesso avrei dovuto raccontargli tutto. «Ora muovi il culo e andiamo al Sottomarino.»
«Non ci voglio venire.»
«Invece sì.»
Il suo tono non ammetteva repliche.
Distrattamente mi alzai dal letto, presi qualche vestito pulito e andai a cambiarmi. Per la prima volta dopo tempo, mi feci qualche domanda sul suo comportamento. Era il mio migliore amico ormai da quattro anni e mai era sparito per così tanto tempo nonostante io gli avessi mandato una palese richiesta d'aiuto. Mi chiesi che cosa aveva combinato durante quei giorni che io avevo passato a letto da sola e perché non era subito corso da me non appena aveva ricevuto notizia delle mie chiamate. Mi chiesi come mai aveva deliberatamente deciso di ignorarmi.
Quando tornai nella mia camera e lo vidi, mi si strinse un po' il cuore. Era appoggiato con i gomiti alla mia scrivania e con le mani si reggeva la testa. Sembrava preoccupato e abbattuto. Improvvisamente mi ricordai che proprio un attimo prima mi aveva detto di aver avuto problemi sentimentali. La curiosità di sapere chi diavolo fosse la ragazza che lo faceva stare così male mi assalì tutta d'un tratto, insieme alla rabbia che provavo nel vedere il mio amico in quello stato pietoso e insieme anche ad un po' di disgusto per me stessa. Ricordo nitidamente le parole che pensai in quel momento. “Sono la solita egoista. Do sempre Febri per scontato e ai suoi problemi non ci penso mai.”
Andai verso il mio amico e gli posai una mano sul braccio, sorridendogli . Lui ricambiò il sorriso e insieme uscimmo di casa, avviandoci a piedi al Sottomarino. Durante quel tragitto non parlammo molto, perché io gli feci un paio di domande sulla sua vita sentimentale a cui lui non volle rispondere per niente al mondo.
«Scusa, Lenticchia. Non me la sento di parlarne. Presto ti racconterò tutto, te lo prometto.»
Come al solito, credetti ad ogni singola parola. Passai la sera a giustificare i comportamenti strani di Febri con quella motivazione inventata, perché probabilmente era più facile credere alle sue scuse che farsi domande sulle cose che non tornavano. Se veramente ogni volta che scompariva era con questa ragazza, perché ancora non ce l'aveva presentata? E perché non ci aveva neanche detto il suo nome? Lui diceva sempre che c'erano delle questioni da sistemare con la famiglia di lei, che non voleva che loro due stessero insieme. Quindi nessuno doveva sapere che vedeva questa ragazza. Ma neanche io, Janis e Freddie, i suoi migliori amici? Ogni tanto queste domande mi frullavano in testa, ma le accantonavo subito. Perché mai Febri, il ragazzo brillante, divertente, sveglio e altruista avrebbe dovuto mentirci?
Quando arrivammo al Sottomarino salutammo Rob  e andammo a sederci al solito tavolo attaccato alla finestra, scoprendo con sollievo che era vuoto. Sperai che gli altri non arrivassero mai, quantomeno Janis e Gaia, perché non sapevo come avrei reagito alla vista di loro due insieme.
Dopo un po' Febri cominciò a farmi domande, a chiedermi cosa diavolo fosse successo con mio cugino.
«Dimmi che ha combinato quell'idiota di Janis» disse, con un sorriso stanco.
«Perché dai per scontato che abbia fatto qualcosa?»
«”Gli uomini sono arroganti o stupidi. E se sono amabili si lasciano condizionare al punto di non essere consapevoli di sé.” Janis non è da meno.»
Alzai un sopracciglio. «E questa perla di saggezza da dove esce fuori?»
«L'ho letta da qualche parte. Ora dimmi cos'è successo di così catastrofico da costringerti a rimanere chiusa in casa per cinque giorni.»
Come al solito capiva sempre tutto. Glielo raccontai. 
Durante tutto il mio discorso era rimase ad ascoltarmi guardando un punto imprecisato dietro di me e facendo di tanto in tanto espressioni seccate e contrariate, sbuffando quando dicevo qualcosa a cui sapevo lui essere contrario e scuotendo la testa esasperato. Quando poi gli dissi che Janis aveva baciato Gaia, voltò di scatto la testa verso di me e mi fissò dritto negli occhi; vidi tutti i suoi muscoli irrigidirsi e piano piano aggrottò la fronte, strinse la mascella e posò i pugni serrati sul tavolo. Febri era molto arrabbiato.
«Janis ha sorpassato ogni limite» sbottò.
«Tu me l'avevi detto che si sarebbe vendicato» mormorai, mentre il mio stomaco sprofondava un po' più giù.
«Non pensavo che avrebbe mai fatto una cosa del genere! Pensavo che sarebbe andato in giro a scoparsi sconosciute o che avrebbe sabotato tutti i tuoi appuntamenti!» disse iracondo, alzando la voce. «Ma non avrei mai immaginato che avrebbe usato Gaia, una nostra amica, ma soprattutto una sua amica! E poi tutti sappiamo che lei ha una cotta per Janis, lo sa anche lui! Questa volta Janis non la passerà liscia. Gliela faccio vedere io.»
«Che cosa hai intenzione di fare? Ti prego, non dirgli nulla!» lo supplicai, preoccupata. Febri non era famoso né per la sua pazienza né tantomeno per il suo tatto e per di più quella sera non mi sembrava nel pieno delle sue facoltà mentali.  
Dalla sua espressione riuscivo a capire che era furioso con Janis, che aveva fatto del male a me e  aveva usato Gaia, ma era arrabbiato anche con me. Secondo lui io non avrei mai dovuto permettere che Janis mi baciasse quella sera in spiaggia, perché sarebbe inevitabilmente finita in questo modo.
Spostò lo sguardo sulla finestra e io lo seguii, vedendo che fissava l'apriscatole di Janis che si accostava al marciapiede. Con una fitta al cuore spostai velocemente lo sguardo su Febri.
«Andiamocene» sussurrai. «Non li voglio vedere.»
«Non andiamo da nessuna parte.»
Si alzò velocemente e uscì dal locale. Rob mi lanciò un'occhiata a cui io risposi con una scrollata di spalle e oltrepassai la porta d'ingresso, decisa ad impedire a Febri di dire qualsiasi cosa a mio cugino. Cercai di tenere suo il passo che era troppo veloce e lo seguii mentre attraversava la strada e si inoltrava nel vicolo in cui Janis aveva parcheggiato. Lo supplicai di non dirgli niente, ma mi ignorò.
Quando Janis scese dalla macchina mi lanciò un'occhiata risentita e sentii gli occhi pizzicarmi, poi mi voltai e vidi che Febri si avvicinava minaccioso a lui.
Successe tutto molto velocemente. Febri gli mollò un pugno in pieno viso e Janis cadde a terra, in volto l'espressione più sorpresa che io avessi mai visto. Io e Gaia gridammo.
«Ma che diavolo ti prende!» urlò Janis, subito dopo essersi ripreso dallo shock. Io corsi verso Febri e gli afferrai il braccio, stravolta.
«Febri, no!» esclamai, spaventata, ma lui mi ignorà ancora.
Nel frattempo Gaia si era inginocchiata vicino a mio cugino e ci fissava, decisamente arrabbiata. Lui se la scrollò di dosso alzandosi e si avvicinò minacciosamente a Febri, che non arretrò di un passo.
«Che diavolo mi prende?» urlò. «Che diavolo prende a te! Ma tu ci pensi prima di fare le cose o no?»
Janis sobbalzò, rendendosi conto di ciò a cui si stava riferendo. Io mi portai una mano alla bocca e gli liberai il braccio. Non potevo credere che volesse veramente dire tutto davanti a Gaia.
«Febri, ti prego, lascia stare» dissi.
«Che cosa sta succedendo?» chiese Gaia, posando lo sguardo su ognuno di noi.
Janis e Febri si guardavano in cagnesco e ignoravano tutto ciò che dicevamo io e Gaia, non degnandoci di un sguardo.
«Non ho fatto niente di male» sibilò mio cugino, stringendo i pugni. «Non colpirmi mai più, Febri, non ti conviene.»
«Non hai fatto niente di male» ripeté lui, in viso un sorrisetto sarcastico. «Mara è tua cugina, stupido! E Gaia è una nostra amica! Che cosa ti dice il cervello?»
«Di che cosa stai parlando?» chiese Gaia, sospettosa. «Janis, di che cosa sta parlando? Mara?»
Io non risposi, perché ormai le lacrime avevano cominciato a sgorgare impietose e non riuscivo a capacitarmi di ciò che stava succedendo. Il rombo del motorino di Marco ci avvisò che lui e Freddie erano appena arrivati e avvertii uno strano senso di sollievo, probabilmente perché pensavo che solo Freddie avrebbe potuto mettere fine a quella sceneggiata.
Nel mentre, Janis e Febri stavano continuando a gridare e il secondo pugno da parte del mio amico non tardò ad arrivare, solo che questa volta mio cugino reagì. I due ragazzi continuarono a picchiarsi selvaggiamente mentre io piangevo e insieme a Gaia gridavo loro di smetterla. 
Freddie e Marco, non appena videro la scena, corsero subito verso di noi e cercarono di dividerli. Entrambi incassarono un paio di colpi prima di riuscire a trascinarli lontano l'uno dall'altro.
«Che cazzo fate, stupidi coglioni!» gridò Freddie, che come al solito doveva sempre porre fine a quelle che lui definiva “ragazzate senza senso”. «Siete amici da oltre dieci anni!»
Io mi asciugai velocemente le lacrime, ma rimasi ferma e in silenzio dove mi trovavo, come paralizzata. Gaia mi guardava sospettosa, probabilmente non vedeva l'ora di venire da me a parlarmi.
Febri e Janis cercavano di divincolarsi dalle prese di Freddie e Marco e allo stesso tempo continuavano a guardarsi male. Erano irriconoscibili.
Febri fondamentalmente era una testa calda e perdeva la pazienza quasi subito: aveva partecipato a più risse lui di qualsiasi altra persona che io conoscessi. Janis invece, nonostante fosse piuttosto esuberante, non si faceva quasi mai sopraffare dall'ira e quella era la prima volta che lo vedevo in quello stato. Mentre guardavo il suo volto sfigurato da un labbro spaccato e un sopracciglio sanguinante, pensai che era irriconoscibile. Non pensavo che sarebbe mai stato in grado di prendere a pugni qualcuno.
«Ditemi subito che cazzo è successo!» gridò ancora Freddie.
«Voglio saperlo anche io» disse Gaia, in un sussurro appena percettibile. Spostò lo sguardo su Janis, che sputò un po' di sangue per terra, liberandosi dalla stretta di Marco che osservava la scena sconvolto.
«Forza, Janis» lo incitò Febri, con una nota perversa nella voce. «Dì a tutti cos'è successo.»
Mio cugino gli lanciò un'occhiata sprezzante e si mise le mani sporche in tasca. «Non devi immischiarti in queste cose, Febri, non sono affari tuoi.»
«Lo diventano nel momento in cui la persona coinvolta è la mia migliore amica.»
«Lenticchia sa badare a se stessa, non ha bisogno della guardia del corpo!»
Io rimasi ancora in silenzio, incapace di formulare una sola frase. La verità stava per venir fuori e insieme ad essa avrei dovuto affrontare anche la mia paura di essere scoperta. Avrei dovuto sopportare gli sguardi carichi d'odio di Gaia, la compassione di Freddie e l'incomprensione di Marco. Sarei diventata la ragazza innamorata di suo cugino ma incapace di starci insieme, la persona che intraprende una relazione segreta con il ragazzo di cui la sua amica è cotta da sempre.
«Adesso basta» sbottò Gaia, spazientita. «Che cosa è successo tra te e Mara?»
Janis mi guardò come per chiedermi il permesso di rispondere. Non avrebbe mai voluto che venisse fuori tutto in quel modo, ma non aveva scelta, era con le spalle al muro. In qualsiasi caso, gli altri avrebbero continuato a fare domande. Tutto perché Febri si era fatto prendere dalla rabbia e dal desiderio di far capire a Janis la lezione, smascherandolo davanti a tutti. Non aveva pensato che in questo modo avrebbe umiliato me. Oppure l'aveva pensato, ma non gli era importato.
Io annuii stancamente a mio cugino, conscia del fatto che non avrei potuto fare nient'altro.
«Io e Lenticchia abbiamo avuto una relazione» confessò. «Ma è finita prima di te» aggiunse, rivolto a Gaia.
Trattenni il fiato per un attimo, preparandomi mentalmente ad ascoltare le accuse e le urla della mia amica che però non arrivarono. Mi guardai intorno e notai che Freddie e Marco facevano spostare lo sguardo da me a Janis, increduli. Gaia invece sembrava caduta in una specie di trance.
«E' vero?» mi chiese, dopo un po'.
«Sì» risposi, senza trovare il coraggio per guardarla negli occhi.
Trasse un profondo sospiro e si avvicinò a me, lentamente. «Pensavo che fossi mia amica» mormorò, facendomi scoppiare di nuovo a piangere. «E invece hai fatto tutto questo di nascosto... e chissà cos'hai pensato quando sono venuta da te, la settimana scorsa!»
«Mi disp-» provai a scusarmi.
«Non dire una parola, per piacere» mi interruppe. «Non voglio avere più niente a che fare con te.»
Continuai a piangere pateticamente, osservando la mia amica allontanarsi e avvicinarsi a Marco. Gli chiese se poteva accompagnarla a casa e Janis non fece niente per fermarla.
Questa scena mi rimase impressa nella mente perché per molti anni fu l'ultima che vidi prima di addormentarmi: Marco e Gaia che ci voltavano le spalle e andavano verso il motorino, Freddie  sconvolto che teneva Febri per un braccio, Janis che si passava nervosamente una mano tra i capelli  mentre io piangevo in silenzio.
Il ricordo di quel momento non mi abbandonerà mai e ancora oggi arriva prepotentemente a disturbare i miei sogni, perché quella fu l'ultima volta in cui ci trovammo tutti insieme.

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette ***



Capitolo sette
Ho paura a dirti che per te mi svegliai. - Lucio Battisti

 

Estate 1989


Quella sera al Sottomarino si respirava un'aria strana. Prima di allora non ci avevo mai fatto caso, ma in quel preciso momento mi accorsi dei numerosi occhi puntati su Freddie, che era seduto di fronte a me.
«E' abbastanza inquietante» commentai, guardandomi intorno infastidita.
«E' sempre così» disse lui, giocherellando con il cibo che aveva sul piatto. «Ormai non me ne accorgo quasi più. Ma ci vuole un po' ad abituarsi all'idea che la gente ti considera un drogato.»
«Eppure tutti sanno quello che è successo in realtà...» sospirai. «E' un paese piccolo.»
Freddie mi sorrise teneramente. «Appunto per questo, Lenticchia» disse. «Nei piccoli paesi la gente fa così. Ormai dovresti saperlo.»
Un brivido mi percorse tutto il corpo. Effettivamente lo sapevo, ed era una cosa che mi aveva sempre spaventato. Che cosa avrebbero detto le persone, un anno prima, se avessero scoperto di ciò che c'era tra me e Janis? Qualcosa che alle mie orecchie suonava come “sono stati praticamente compagni di culla, questo è poco meno di un incesto”. Che poi, sarebbe stata  la voce costante che avrebbe invaso le mie orecchie non appena mi fossi decisa a parlare con lui, sarebbe stato quello che mi avrebbe gridato mia madre non appena glielo avessi confessato e sarebbe stato il motivo per cui, probabilmente, Janis avrebbe litigato con sua sorella. Ma non era più una frase che mi tormentava giorno e notte come aveva fatto per anni, insistentemente, impedendomi di fare qualsiasi cosa. In un modo o nell'altro ero riuscita ad andare avanti. E questo era successo per molti motivi: da una parte c'era il discorso di Rob che mi aveva toccata profondamente, dall'altro c'era l'anno che  avevo passato nella più completa solitudine e che mi aveva fatto capire, una volta tornata, che mai avrei potuto fare a meno di Janis. Ultimo, ma più importante di tutto, c'era la straziante paura che mi travolgeva ogni qualvolta in me si affacciava il pensiero di perderlo per sempre. Quindi sì, probabilmente ci avrei fatto l'abitudine anche io. Ne valeva la pena.
«Come mai Janis non è ancora arrivato?» domandai. «Aveva detto che ci avrebbe messo poco.»
«Lo sai com'è Gaia...»
«Gaia?» domandai in fretta. «Cosa c'entra Gaia?»
Freddie alzò velocemente lo sguardo su di me, guardandomi in modo strano. «L'ha chiamato dicendogli che era una cosa urgente.»
«Questo Janis non me l'ha detto. Mi ha detto di aver avuto un contrattempo e che saresti venuto a prendermi tu.»
«Non ti preoccupare.»
Aggrottai la fronte, cominciando a stuzzicarmi le unghie. Perché Janis non mi aveva detto che doveva passare da Gaia? Non ci sarebbe stato nulla di male. Il giorno in cui ero tornata, dopotutto, mi aveva detto chiaramente che non era venuto alla stazione perché era da lei. Mi ricordai improvvisamente che quel giorno mi ero anche ripromessa di non chiedergli mai se stessero insieme o se fossero stati insieme durante l'inverno, non volevo saperlo. Ero sicura che ci fosse stato qualcosa tra loro, perché non poteva essere altrimenti: erano rimasti in buoni rapporti nonostante tutto, Freddie un giorno aveva detto che  Janis era l'unico a vederla e al cimitero, appena l'aveva vista, aveva sciolto la stretta delle nostre mani, anche se io stupidamente gliel'avevo ripresa due minuti dopo. Sapevo che qualcosa durante l'inverno era successo per forza, ma sentire la conferma di qualcuno mi avrebbe solo fatta stare male.
Quando ero tornata in città per i primi giorni avevo addirittura pensato che stessero ancora insieme, ma quella supposizione era andata piano piano scemando perché, anche se io non avessi chiesto niente a nessuno, la voce in qualche modo mi sarebbe arrivata. 
E poi Gaia non avrebbe permesso che io e Janis ci vedessimo e lui non era il tipo da fare le cose di nascosto. Ormai avevo appurato quanto fosse stato pesante per lui, l'estate precedente, intraprendere quella relazione segreta con me.
La voce di Freddie mi riscosse dai miei pensieri.
«Non stanno insieme, se è quello che stai pensando» disse.
Nonostante lo sapessi, un'ondata di sollievo mi pervase. «Gaia è ancora molto arrabbiata con me» dissi.
«La conosci. Lei è una che porta rancore... nel bisogno estremo c'è sempre, anche per il suo peggior nemico, ma quando le cose tornano normali si dilegua. Per un po' di tempo è stata arrabbiata anche con Janis.»
«E perché?» chiesi, un po' sorpresa. Dopotutto, solo io sapevo che quando Janis l'aveva baciata era stata solo una vendetta nei miei confronti. In generale, lui non aveva fatto niente per farla arrabbiare.
«Ha detto che si è sentita presa in giro.»
Scrollai le spalle. Gaia e le sue stupide manie di persecuzione, anche se quella volta erano fondate. Allontanai il piatto da me, dato che quella sera avevo lo stomaco chiuso, e mi accesi una sigaretta. Lanciai un'occhiata fuori dalla finestra per controllare se stesse arrivando Janis, ma non lo vidi.
«Tempo fa Janis si è ubriacato come non aveva mai fatto e mi ha raccontato tutto quello che è successo l'anno scorso» buttò lì Freddie. Era tipico di lui custodire questi segreti per lungo tempo e confessarli solo quando era sicuro che non avrebbero fatto del male a nessuno.
Io provai un profondo senso di vergogna e non dissi nulla.
«Hai parlato con lui?» chiese allora.
«Ancora no» risposi. «Ma conto di farlo al più presto.»
«E cosa gli vuoi dire?»
«Che ho cambiato idea.»

 

Estate 1988


I giorni successivi al litigio nel vicoletto di fronte al Sottomarino, non vidi Janis. Non mi aspettavo che sarebbe venuto da me a chiarire quella situazione, anzi, quindi non mi stupì il fatto che non mi avesse cercata. La cosa che mi stupì di più fu la totale assenza di Febri. Come in quei giorni che mi ero chiusa in casa, troppo angosciata e triste per uscire, lui semplicemente sparì.
«Hai visto Febri in questi giorni?» chiesi, spezzando in tante piccole parti il fusto di un fiore che avevo staccato dal terreno.
Erano le nove e mezza di una soleggiata mattina di fine agosto e c'era un caldo asfissiante. Sul retro dell'officina in cui lavoravano Freddie e Janis c'era un po' d'ombra data dalla struttura, e io ero andata lì per cercare di far trascorrere più velocemente quelle ore che altrimenti sarebbero state vuote. Da quando io e mio cugino avevamo avuto quella discussione, passavo le giornate aspettando che finissero e questo lo facevo soprattutto perché, anche se non me ne rendevo totalmente conto, non potevo più contare neanche sulla compagnia di Febri, che era diventato una specie di fantasma in quell'ultimo mese.
Freddie si era fatto scivolare con una specie di carrello sotto un'auto dall'aria decisamente malconcia e in quel momento stava armeggiando con degli attrezzi, sudato e sporco d'olio.
«No» disse, con un tono alto e affaticato. «Non lo vedo da quattro giorni. Ho provato a chiamarlo tre giorni fa, ma sua madre mi ha detto che erano appena andati due ragazzi a prenderlo. Pensava fossimo io e Janis.»
«E chi diavolo erano?» chiesi, dubbiosa. «Non mi risulta che di solito esca con persone che non siamo noi.»
«Infatti mi è sembrato un po' strano. Appena lo vedo glielo chiedo.»
«Forse erano amici di quella ragazza?» azzardai.
Freddie si fece scivolare col carrello da sotto l'auto, appoggiando gli strumenti per terra e togliendosi gli occhialini.
Rimase lì seduto e si tolse i guanti lentamente, dopodiché strofinò le mani sui suoi jeans già abbastanza sudici.
«Lenticchia, non credo che Febri stia vedendo una ragazza» rivelò, serio.
Io alzai un sopracciglio, dubbiosa. «E perché mai allora avrebbe dovuto raccontarci una storia del genere? Non ha senso. Non è da Febri.»
«Negli ultimi giorni ci ho pensato molto. Verso maggio spariva di continuo e quando abbiamo cominciato a fare domande ha tirato fuori questa storia della ragazza. Ti sembra normale che siano passati tutti questi mesi e noi, i suoi migliori amici, di questa tizia non conosciamo neanche il nome?»
«No, non è normale» ammisi, cominciando ad agitarmi un po'. «Ma che senso ha?»
«Credo che ci stia nascondendo qualcosa» disse. «Ma non fare quella faccia! Sto già cercando di scoprire di cosa si tratta, e poi sicuramente è solo un periodo nero per lui... appena lo vedo gli faccio un bel discorsetto.»
«Una di quelle paternali che ti piacciono tanto?» chiesi, cercando di smorzare la tensione che sentivo crescere.
«Esatto!» esclamò, sorridendo. 
In quel momento si era pentito di avermi confessato i suoi sospetti e stava cercando di deviare la mia attenzione, solo che all'epoca non potevo saperlo. Non potevo sapere che da un paio di giorni era riuscito a fare due più due come io e Janis non avevamo fatto per quattro mesi. Presa com'ero dai miei problemi e da quella situazione con mio cugino che ormai andava avanti dall'inizio di luglio, non avevo prestato sufficiente attenzione al mio amico che si era calato in quel baratro infernale. Freddie, invece, da quando aveva scoperto che Febri vedeva altre persone, aveva cominciato ad associare tutti i suoi strani comportamenti con quelli di cui tanto spesso avevamo sentito parlare quando andavamo in città. In un piccolo paese di seimila persone, quelle cose non succedevano. Non c'erano spacciatori nei vicoli e nemmeno ragazzi che chiedevano spiccioli per strada con le scuse più assurde. Non eravamo preparati perché, da quelle cose, ci eravamo sempre tenuti lontani.
«Tu come stai, Lenticchia?» mi chiese, alzandosi e appoggiandosi al muro vicino a me.
«Ti riferisci a Janis?» domandai, sapendo perfettamente che il momento delle spiegazioni sarebbe arrivato, prima o poi.
«Beh, sì» ammise.
«Non l'ho più visto né sentito» confessai. «E nemmeno Gaia.»
«Gaia è molto arrabbiata.»
«Lo sospettavo.»
«C'è qualcosa che posso fare per farti tornare il sorriso?»
Freddie non si schierava quasi mai. Solitamente parlava con entrambe le parti per farle riappacificare, quindi da lì a poco mi aspettavo uno dei suoi discorsi molto pacati e gentili su come secondo lui avrei dovuto cercare di parlare con Gaia. Lo guardai di traverso, accorgendomi che mi stava osservando con l'espressione di un padre che deve consolare il figlio perché ha perso una partita di pallone. Istintivamente sorrisi, facendolo scoppiare a ridere.
«Ecco, intendevo proprio questo» disse.
Improvvisamente la porta sul retro dell'officina si aprì e cominciammo a sentire delle voci, due maschili e una femminile. Freddie, mormorando un'imprecazione, si rimise velocemente un guanto per non farsi trovare con le mani in mano dal suo titolare. Quando però sentì quello che stavano dicendo, gli attrezzi che aveva appena preso gli caddero per terra.
«Un incidente d'auto...»
«Sì, il figlio del Signor Galea, il giardiniere, gli altri non erano di qui...»
«Tutti e tre i ragazzi avevano assunto massicce dosi di stupefacenti.»
«Fabrizio Galea era un così bravo ragazzo... ma si sa cosa succede con le cattive compagnie.»
Proprio in quel momento, vedemmo Janis, che aveva il giorno libero, girare l'angolo di corsa e venire verso di noi.
«Siete qui» disse solamente, fermandosi.
Gli uomini stavano continuando a parlare, ma io ormai non li ascoltavo più. Stavo osservando attentamente il viso di Janis e contemporaneamente pensavo a qualcosa che potesse giustificare il fatto che quelle persone stavano dicendo il falso.
Quando mi accorsi però che mio cugino si avvicinava a noi con l'espressione peggiore che gli avessi mai visto, capii che era vero, anche se lui non aveva ancora detto niente.
Freddie si alzò e si avvicinò lentamente a lui, con la fronte corrugata e i pugni stretti. Janis aprì la bocca un paio di volte, ma poi la richiuse immediatamente, non riuscendo a dirci quello per cui era venuto. Distolse lo sguardo e prese fiato, ma quando fece di nuovo per parlare, Freddie tirò un pugno talmente forte al muro di cemento che si ritrovò per terra con tutta la mano insanguinata. Janis allora si rese conto che in qualche modo l'avevamo capito.
Febri era morto.

 

Estate 1989

Guardavo insistentemente la foto appoggiata sul mio comodino, mentre Lenticchia Due respirava lentamente con la testa appoggiata sulla mia pancia. Quella foto ci ritraeva allegri e sorridenti al compleanno di Febri di due anni prima. In quel momento mi stupii pensando che fosse passato così poco tempo eppure nella mia mente sembravano trascorsi mille anni. Ormai avevo imparato ad accettare che niente sarebbe tornato più come prima, che i rapporti che erano nati e poi si erano distrutti sarebbero stati persi per sempre insieme agli occhi di Febri, alle sue battute sarcastiche e al suo sorriso storto. Ma c'era ancora qualcosa che potevo recuperare.
Se avevo passato tutta la vita lasciando che gli avvenimenti mi scivolassero addosso come olio, affrontando i problemi apaticamente e senza provare neanche una volta a reagire, quello era il momento giusto per svegliarmi. Nonostante avessi un carattere fondamentalmente passivo, in quegli ultimi tempi qualcosa dentro di me si era svegliato; era una piccola fiammella, una luce in fondo al tunnel, era la speranza che forse qualcosa poteva essere salvato. E quel qualcosa era Janis.
Ci misi un'infinità di tempo a svegliare Lenticchia Due, alzarmi dal letto e scendere le scale. Erano le sette del pomeriggio, quindi i miei genitori erano impegnati al ristorante e non mi avrebbero chiesto come mai avevo deciso di andare a casa dei miei zii proprio a quell'ora. Mi affacciai alla finestra e mi accorsi che l'apriscatole di mio cugino c'era, mentre l'Alfa 90 di mio zio non era nei paraggi. Feci un profondo sospiro e uscii di casa procedendo lentamente verso quella di Janis.
Durante il brevissimo tragitto mi guardavo intorno controllando che non ci fosse nessuno. Mi sentivo ancora colpevole nonostante ore di riflessioni incessanti mi avessero convinto che tutte le mie paure erano in parte stupide e infondate, mentre per quanto riguarda quelle giustificabili, avevo deciso che le avrei accantonate.
“Se l'avessi fatto un anno fa adesso sarebbe tutto diverso”, mi ritrovai a pensare, maledicendomi un po'. Ancora non sapevo quanto avessi ragione.
Janis mi aprì la porta un po' perplesso.
«Ciao» dissi, guardandomi la punta delle scarpe di tela.
«Ciao» mi disse lui, abbassando la testa abbastanza perché io potessi guardarlo in faccia. Era confuso ma allo stesso tempo un po' divertito. «Che ci fai qui, Lenticchia?» chiese, con un sorriso.
«Ti disturbo?» chiesi, alzando la testa. «Cosa stavi facendo? Sei da solo?»
«Una domanda alla volta» rise lui, spostandosi dall'ingresso per lasciarmi passare. Entrai e lo seguii in cucina.
«Sono solo» riprese lui, sedendosi su una sedia. «Stavo per prepararmi la cena e non mi disturbi. Vuoi mangiare?»
Scossi la testa, rendendomi conto di avere lo stomaco chiuso. Mi guardai intorno e notai che sul ripiano della cucina c'era ancora la boccia con uno dei pesci rossi che avevamo comprato anni prima alla festa del paese. Mi avvicinai ad osservarlo attraverso il vetro.
«Dove sono gli altri pesci?» chiesi, ricordando che si chiamavano Doc, Lif e Tritti.
«Morti» disse mio cugino. «Mi piace pensare che sia rimasto Tritti. Era il mio preferito, anche se non lo distinguevo dagli altri.»
Annuii, voltandomi verso di lui. Era in attesa che io dicessi qualcosa o che quantomeno gli spiegassi il motivo per cui ero andata a casa sua. Quel silenzio cominciava a diventare un po' imbarazzante, specialmente perché erano finiti i tempi in cui ci cercavamo l'un l'altra senza motivo, e l'insistenza con cui mi stava fissando non contribuva ad abbassare il mio livello di agitazione. Cominciai a torturarmi le mani, cosa che facevo sempre quando ero profondamente nervosa, e lui si alzò dalla sedia sospirando e si avvicinò a me.
«Che cosa c'è, Lenticchia?»
“Ora o mai più”, mi dissi. Presi fiato e parlai. «Ho cambiato idea.»
«Riguardo cosa?» chiese, perplesso.
«Riguardo...» tentai di dire, rendendomi conto che la pelle del mio viso stava sicuramente prendendo una pericolosa sfumatura rossa. «Riguardo la cosa dell'anno scorso.»
«La cosa dell'anno scorso» ripeté lui, annuendo scettico. «Vieni qui a dirmi che hai cambiato idea, ma contemporaneamente chiami il nostro rapporto “la cosa dell'anno scorso”.»
Aveva ragione. Ero stata decisamente orribile. Però non potevo farci nulla: è una cosa comune nelle persone che come me sono bloccate, timide, timorose e deboli. A volte certe cose proprio non riusciamo a dirle. Ci richiede più sforzo questo che sollevare cento chili di pesi.
Ma io dovevo riuscirci, perché dopotutto ero lì per questo. Liberarmi e finalmente cominciare a vivere.
«Forse è meglio che torni sui tuoi passi» mormorò Janis, appoggiandosi con le mani al ripiano della cucina.
«Perché?» chiesi, in un sussurro.
«Lascia le cose come stanno» rispose. «Non dire niente. Se parlassi adesso caricheresti entrambi di un peso che non riusciremmo a sopportare.»
«Non sembri tu mentre dici queste cose.»
Janis sollevò poco la testa e mi guardò negli occhi. Riuscivo a capire dal suo sguardo che dentro di sé viveva una profonda tristezza e desiderai con tutte le mie forze di poterlo liberare.
«Non stiamo più seduti e in silenzio» mormorai, ripetendo ciò che lui mi aveva detto un anno prima. «Io ho capito quello che voglio.»
«Io ho sempre saputo quello che volevamo entrambi. Ma non sono mai riuscito a fartelo capire. Adesso non posso più ascoltarti parlare.»
Janis si mise in posizione eretta e tolse le mani dal ripiano della cucina, guardandomi.
Sgranai un po' gli occhi, non capendo cosa volesse dirmi con quelle parole. Decisi di non arrendermi e di continuare quello per cui ero andata da lui.
«Smettila. Non è da te fare così» mormorai. «Tu non ti arrendi mai ed è anche per questo che sono così legata a te. L’importante è questo: accettarti totalmente ed incondizionatamente. E io lo faccio già, però non devo più pensare che così facendo e che stando vicino a te finirai per assorbirmi.»
«Mara, sei tu che non sei così. Se ti dico di lasciar perdere devi lasciar perdere. Mi hai sempre dato retta, perché ora non lo fai? Non riesco a capirti.»
«Neanche io riesco a capirti a volte. Non posso più sopportare di saperti lontano, Janis. Il solo pensiero mi distrugge... Prima ci riuscivo, ma era comunque straziante... prima avevo paura.»
«Adesso hai paura?»
«Non ho più paura.»
«Ma adesso è troppo tardi.»
Mio cugino mi lanciò uno sguardo pieno d’ira e d’odio, come se mi stesse incolpando per tutti i mali del mondo. Si passò una mano sulla fronte, sfinito, e poi incatenò i miei occhi ai suoi, facendomi perdere in quelle piccole sfumature verdognole, ma facendomi soprattutto desiderare di scomparire all’istante. Sospirò e distolse lo sguardo, come se stesse decidendo se fosse il caso di dirmi qualcos’altro o no. Quando sentii quello che aveva da dirmi, dopo attimi che parvero secoli, passai i successivi trenta secondi a guardarlo senza ricordarmi di dover respirare.
«Gaia è incinta.»





Bene, gente, dopo tutti questi bei colpi al cuore (non avete idea di quanto sia stato difficile scriverli...) vi informo che siamo in dirittura d'arrivo. L'ottavo capitolo, cioè l'ultimo, verrà pubblicato il 20 dicembre. Non posso pubblicarlo prima perché ho un esame il 18 e vorrei avere la mente abbastanza lucida per fare tutte le considerazioni del caso :) 
Ringrazio tutte le persone che leggono, che mettono la storia tra le preferite e tra le seguite! Siete degli angioletti!
Un ringraziamento speciale va ad Holls e ad ale93, che ad ogni capitolo mi fanno sapere sempre cosa ne pensano. Grazie, grazie, grazie.
Un abbraccio grandissimo a tutti!
 

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto ***


Capitolo otto
Voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi. - Francesco Guccini

 

 

 
Estate 1989

«Che cosa vuoi dire?» chiesi in un sussurro.
«Gaia è incinta» ripetè Janis, adesso rabbiosamente. «Io e Gaia aspettiamo un bambino.»
Sentivo il sangue affluire al mio volto e le guance pizzicarmi; senza rendermi conto di quello che facevo mi spostai dal centro della stanza e andai a sedermi su una sedia, chinando di poco la testa e cominciando a fissarmi le ginocchia, nella speranza che da un momento all’altro avrei cominciato a pensare lucidamente e mi sarei resa conto di qualche particolare che avrebbe reso tutta quella situazione impossibile. Perché un errore doveva esserci per forza.
«Non dici sul serio» mormorai, più a me stessa che a lui.
Il suo sospiro profondo giunse chiaro alle mie orecchie. «Dico sul serio» disse. «Non metterti a piangere.»
Sentii che il mostro somigliante a mio cugino che abitava nel mio stomaco cominciava a scalpitare. Le lacrime si stavano facendo strada pizzicandomi gli occhi e premendo per uscire.
Stavo piano piano realizzando la situazione, ma una parte di me si rifiutava di credere che tutto quello potesse succedere veramente, si rifiutava anche solo di immaginare che avrei trascorso il resto della mia vita senza Janis.
«Da quanto» dissi.
«Da quanto cosa?»
«Da quanto lo sai.»
«Da subito… due mesi, due mesi e qualcosa…»
Spalancai gli occhi e alzai la testa, cercando qualcosa sul suo volto che potesse ancora farmi pensare che tutto quello era un pessimo scherzo. Non trovai nulla. Alla domanda che gli avevo posto mi aspettavo una risposta decisamente diversa: avevo pensato che lo sapesse da qualche giorno, al massimo una settimana, perché altrimenti me l’avrebbe detto. Dopotutto avevo ogni diritto di essere informata riguardo ad una cosa del genere. Avevo il diritto di sapere che avevo perso una delle persone più importanti della mia vita. Era un suo dovere informarmi del fatto che da quel momento in poi non ci sarebbe più stato, che da quel momento avrebbe dovuto stare accanto ad un’altra ragazza.
«Due mesi…» ripetei confusamente. «Lo sai da due mesi e me lo stai dicendo solo adesso! Tra una settimana parto!»
«Avrebbe fatto differenza dirtelo prima?» sputò Janis, assottigliando gli occhi.
«Se non fossi venuta qui, oggi, chissà quando me l'avresti detto!»
«Te l'avrei detto più in là» confessò. «E non fare questa faccia. Ti ho aspettata per mesi! Non sei mai tornata, non mi hai mai telefonato… Febri era morto e io non sapevo cosa fare! Ero a terra! Ero solo.»
Mi asciugai gli occhi con le mani, noncurante che da lì a poco sarebbero stati bagnati esattamente allo stesso modo. «Neanche tu mi hai mai chiamata.»
«Io non ti ho chiamata per rispettare la tua decisione!» urlò mio cugino, livido di rabbia. Era la seconda volta in tutta la mia vita in cui lo vedevo arrabbiato in quel modo. L’avevo visto quasi sempre felice, qualche volta triste e tormentato, raramente a terra, ma arrabbiato quasi mai. E faceva paura. 
«Che cosa credi, Mara? Credi che non avrei preferito mille volte stare con te? Credi che non mi sia costato nulla imparare a fare a meno di te? Ti sbagli!» gridò ancora, e ogni sua parola era come ricevere un’ulteriore coltellata. «Questo è stato l’anno più lungo della mia vita!»
Camminava velocemente per la cucina, con le mani nei capelli e un'espressione orribile, come se proprio in quel momento anche lui si stesse rendendo conto che ormai era tutto finito e che da quel momento in poi nella sua vita ci sarebbero state priorità differenti da quelle che aveva avuto fino a quel momento.
«La situazione è questa e io non posso farci nulla!» sbottò. «E la colpa è mia, Mara, ma lo è a causa tua.»
«Perché hai lasciato che ti baciassi?» chiesi, con un filo di voce.
Janis si voltò verso di me, facendo scomparire l’espressione rabbiosa e frustrata dal volto per far spazio ad una decisamente impotente e abbattuta. «Perché...» esitò. «Perché ti amo.»
Le sue parole ebbero l'effetto di destabilizzarmi a tal punto che mi alzai, andai da lui e cominciai ad urlare e a piangere con una tale violenza da rendermi probabilmente irriconoscibile ai suoi occhi. 
«Perché mi hai fatto questo?» gridai, sbattendo i pugni sul petto di mio cugino. «Perché?»
«Che cosa avrei dovuto fare?» urlò, afferrandomi i polsi per impedirmi di picchiarlo ancora. «Avrei dovuto continuare ad aspettarti?»
Sussultai, continuando a piangere disperatamente. Avvicinai il volto alle mie mani, strette dalla presa di mio cugino, e cercai di asciugarmi qualche lacrima senza risultato.
«Non mi importa nulla sapere che sei stato con un’altra ragazza. Ma perché l’hai messa incinta…» dissi tra i singhiozzi. Janis mi liberò i polsi e io mi coprii istantaneamente il volto con le mani. «Perché non sei stato attento?»
Mio cugino mi abbracciò e mi strinse forte a sé, accarezzandomi i capelli. Con questo gesto ottenne solo che i miei singhiozzi aumentassero. In quel momento mi sentivo tradita e abbandonata, non riuscivo in nessun modo a pensare al fatto che se tutto quello era successo la colpa era solo mia. Era mia perché avevo aspettato così tanto prima di far luce dentro di me, era mia perché avevo dato Janis per scontato. Mi ero sempre comportata come se lui per me ci sarebbe stato sempre e anche se avesse deciso di frequentare altre ragazze durante la mia assenza, avevo pensato che una volta che fossi tornata a casa sarebbe venuto dritto da me. E di fatto si era comportato così, ma quella sarebbe stata l’ultima volta. Per me non ci sarebbe stato mai più.
«Perché non sei stato attento…» ripetei, mentre Janis continuava ad abbracciarmi e ad accarezzarmi i capelli. Sentivo il suo cuore battere velocemente da sotto la sua camicia e ogni tanto il suo petto sussultava. Pensai che non avevo mai visto mio cugino piangere e che non era quello il momento giusto per farlo, quindi non alzai lo sguardo. Rimasi accucciata sul suo petto tenendomi le mani sul volto, continuando a chiedergli una spiegazione che naturalmente non esisteva, continuando ad incolparlo per qualcosa a cui non avrebbe potuto rimediare anche se avesse voluto. 
Aspettammo lì finché entrambi non ci fummo calmati e poi tornai come un fantasma a casa mia.

 

 
Estate 1988


Mi sentivo morta.
Ero caduta in una specie di trance che durò per alcuni giorni. Non parlavo, non mangiavo, non pensavo. Ricordo che la mia mente era completamente annebbiata, i pensieri che mi passavano in testa erano pochi e terribili, e trascorrevo tutti i momenti liberi seduta sugli scalini del pianerottolo di casa mia a guardare il vuoto e a fumare. Ogni tanto Janis o Freddie venivano a sedersi accanto a me in silenzio e poi, dopo un po', si alzavano e andavano via. Gaia e Marco mi telefonarono, ma io li ignorai senza neanche sentirmi in colpa per non essermi preoccupata per loro. In quei giorni era come se le altre persone non esistessero, ero incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Non riuscivo neanche a piangere.
Mia madre, con il solito tatto che la contraddistingueva, mi disse che era passato a trovarmi il figlio del dottor Serli e che avrei dovuto uscire con lui, se avessi voluto, per svagarmi un po'. Non ebbi la forza di arrabbiarmi e allora lo fece mio padre, per la prima volta da quando ero nata, dato che solitamente ignorava i comportamenti insensibili di mia madre per non litigare. Quella volta non riuscì a trattenersi.
Andai al funerale di Febri con Janis, Freddie, Marco, Gaia e Rob, ma non rivolsi la parola a nessuno di loro. Passai quell'ora in chiesa ascoltando i singhiozzi di Gaia mentre tenevo la testa appoggiata sulla spalla di Freddie che con la sua mano sana mi accarezzava il braccio.
I successivi tre giorni li passai seduta sul pianerottolo di casa mia. Freddie venne da me, una volta, e dopo momenti di silenzio cominciò a parlare, dicendomi che aveva scoperto tutto. Io lo ascoltai passivamente.
Venne fuori che ad aprile dello stesso anno Febri una sera era uscito con il figlio di alcuni suoi cari amici di famiglia ed era andato in città con questo ragazzo, dove aveva conosciuto i suoi amici. Freddie disse che sapeva che quelle persone erano tutte tossicodipendenti, quindi ipotizzò che quel giorno Febri si fosse fatto trascinare e per la prima volta avesse fatto uso di qualche sostanza; non sapeva di preciso quale. Da quel giorno in poi, anche senza quel suo amico, Febri aveva cominciato a vedere più spesso tutti quei ragazzi, finché loro non avevano iniziato addirittura a venire in paese qualche volta. La cosa che più mi stupì fu che però Febri era stato bravo a nascondere i segni fisici. Quelli comportamentali c'erano tutti: era diventato scostante, bugiardo e menefreghista. E nessuno di noi se ne era accorto. Il nostro amico era morto e nessuno aveva fatto niente per impedirlo.
Mi scossi da quella situazione di trance solo quando la madre di Febri telefonò a casa, chiedendomi se potevo andare da loro perché aveva un compito da affidare a me e Janis. Aveva la voce rotta dal pianto. Tempo dopo scoprii che suo padre, invece, non aveva pianto neanche una volta. Riuscivo a capirlo.
Quando entrai in casa di Febri mi voltai istintivamente a sinistra, dove c'era il salotto, aspettandomi di vedere il mio amico che come al solito stava sdraiato sul divano a leggere uno dei suoi libri classici con quelle canzoni romantiche a tutto volume che, alla fine, piacevano anche a me. Quando non lo vidi distolsi subito lo sguardo, socchiusi gli occhi e continuai a camminare sentendo un'improvvisa ondata di freddo nonostante settembre fosse appena cominciato.
Trovai sua madre seduta al tavolo della cucina intenta ad accendersi una sigaretta con un'altra sigaretta e un posacenere strapieno davanti a sé. Mi disse che Janis era al piano di sopra e che mi avrebbe spiegato lui.
Non appena salii le scale, l'inconfondibile erre moscia di Guccini raggiunse le mie orecchie. Il volume era basso, quasi impercettibile, e veniva dalla stanza di Febri.
«Ed io ti canterò questa canzone, uguale a tante che già ti cantai... ignorala come hai ignorato le altre, che poi saran le ultime oramai» cantava. E, come al solito, le parole dello speaker alla fine, che ormai conoscevo a memoria: «e questa era Eskimo, grande successo del 1978...»
Io e Febri avevamo l'abitudine di registrare le cassette direttamente dalla radio, quindi non era raro che lo speaker cominciasse a parlare prima che la musica della canzone fosse finita e che noi lo registrassimo per sbaglio. Rimasi per un attimo ferma nel corridoio, in attesa che cominciasse la canzone successiva. Era di De Gregori.
«Da qualche parte dicono che vive bene, che relativamente non gli manca niente: può bere, camminare, scrivere e respirare... fantasma senza catene.»
Improvvisamente mi riscossi dallo stato di apatia in cui mi trovavo e feci qualcosa che, ancora oggi, mi fa venire i brividi ogni volta che ci penso. Mi misi a correre lungo il corridoio e spalancai la porta della camera del mio amico. Non so bene chi o cosa mi aspettavo di trovarci, ma quando vidi che seduto sul letto di Febri c'era Janis, la mia mano scivolò lentamente dalla maniglia della porta e fui pervasa da un'ondata di delusione.
«Sei tu» mormorai. «Certo. Lo sapevo.»
Janis mi rivolse uno sguardo strano, spento, come se non mi stesse vedendo per davvero. Si spostò dal centro del letto per andare a sedersi un po' più vicino al cuscino e farmi spazio. Mi accomodai vicino a lui.
«Non ti piacciono queste canzoni» sussurrai.
«Già» disse lui.
«Che cosa dobbiamo fare?»
«La signora Galea vuole che siamo io e te a scegliere la frase... sai, per la lapide.»
«Perché stai ascoltando queste cassette?»
«Non lo so.»
Appoggiai la schiena al muro contro il quale era posto il letto e Janis mi imitò, invitandomi con un gesto della mano ad avvicinarmi di più a lui. Mi sistemai in modo che le nostre braccia si toccassero.
«Continua a parlare, Lenticchia» disse.
«Che cosa devo dire?»
«Qualsiasi cosa. Non stiamo più seduti e in silenzio. Non voglio più che stai in silenzio.»
Parlai. Dissi a Janis le cose che mi aveva detto Freddie qualche giorno prima, gli raccontai di mia madre che aveva provato a combinarmi un appuntamento col figlio del dottor Serli e gli annunciai che nel giro di una settimana sarei partita per una città molto lontana. Janis interrompeva quello che dicevo ogni tanto per fare qualche considerazione e poi mi chiedeva di ricominciare a parlare, e allora io lo facevo, dicendo qualsiasi cosa, mentre le canzoni di Febri ci facevano da sottofondo.
Non dicemmo una parola su come ci sentivamo adesso che il nostro amico era morto, nemmeno una. Probabilmente ancora non eravamo pronti.
Poi, ad un certo punto, Janis la trovò. «E' questa» disse. «E' questa la frase che voglio scrivere. Porta indietro la canzone.»
Feci quello che mi chiedeva e ascoltai.
«Ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini

 
Estate 1989


Mancava un'ora alla mia partenza e ai piedi del mio letto c'era ancora una piccola valigia aperta. Di solito quella la usavo per mettere le cose più particolari come i miei libri preferiti o le cassette musicali, e l'anno precedente era rimasta mezza vuota. Non avevo voluto portare quasi nulla.
Quell'anno, invece, mi ritrovai a fare un giro della stanza per osservare attentamente ciò che tenevo negli scaffali, per decidere se valeva la pena portare qualcos'altro o no. Presi meccanicamente la scatola di legno chiusa da un lucchetto che conteneva il mio diario e la lanciai malamente dentro la valigia. Non scrivevo là sopra da circa un anno.
Poi presi una cassetta che Febri e Janis mi avevano regalato quando feci ventun'anni; insieme alla lista delle canzoni c'era una frase scritta con la calligrafia disordinata di mio cugino: “lascia perdere la roba sdolcinata che ha messo quello scemo e ascolta solo le cose mie”. Infilai anche quella nella valigia.
«Questa non la porti?»
La voce di Freddie mi riscosse dai pensieri che mi volteggiavano in testa. Era seduto sul mio letto e aspettava paziente che finissi di raccogliere le mie cose prima di accompagnarmi alla stazione. Era ora di pranzo e i miei genitori erano impegnati al ristorante e, dato che era domenica, non erano riusciti a liberarsi. Freddie aveva dovuto convincere suo padre a prestargli la macchina per accompagnarmi, sotto giuramento che almeno per quella volta avrebbe rispettato i limiti di velocità.
Aveva in mano la foto del compleanno di Febri e la guardava con un misto di nostalgia e tristezza. Distolsi lo sguardo dal suo viso per non scoppiare in lacrime. Quello che solo qualche giorno prima avevo creduto si potesse salvare, adesso era andato perso proprio come tutto il resto.
«Sì» dissi. «Mettila tu in valigia, per piacere.»
Feci un altro giro per la stanza e poi, rendendomi conto che non c'era nient'altro che volessi portare con me, andai a sedermi vicino al mio amico.
«Possiamo chiudere» decisi, facendo scattare le serrature della valigia.
Ci scambiammo un'occhiata rendendoci conto che quello era il momento dell'ultima sigaretta. Quando qualcuno di noi partiva, prima dei saluti avevamo quel nostro rituale che prevedeva una sigaretta in assoluti tranquillità e silenzio. Riusciva a rilassarci e a non pensare che saremmo stati lontani per molto tempo. Ma quella volta non poteva andare così. Io dovevo per forza capire.
«Tu lo sapevi?» gli chiesi, avvicinando il fiammifero acceso alla mia sigaretta. «Quando mi hai detto che non stanno insieme. Lo sapevi?»
Freddie mi guardò tristemente. «No, Mara, non lo sapevo» disse, ignorando il tono accusatorio con cui gliel'avevo chiesto. «Ho saputo della gravidanza solo ieri. Ma non mentivo, l'altra volta. Gaia e Janis non stanno insieme. Non più, almeno.»
«A questo punto dimmi tutto.»
«Sono stati insieme qualche mese d'inverno. Poi lui ha rotto, ma si sono visti qualche volta a giugno.»
Annuii. Rimanemmo in silenzio a fumare finché Freddie non si alzò e andò alla finestra.
«Janis è di sotto» disse, buttando la sigaretta ormai finita in un bicchiere che avevamo usato a mo' di posacenere. «Dovresti andare a salutarlo. Io intanto faccio un giro per controllare che tu abbia preso tutto.»
Mi alzai meccanicamente, gettai anch'io il mozzicone e andai di sotto dove ad attendermi fuori dalla porta c'era mio cugino appoggiato al muro, con Lenticchia Due che cercava di attirare la sua attenzione saltandogli addosso.
Mi chiusi la porta alle spalle e rimasi lì, in attesa che dicesse qualcosa. Notai che aveva messo gli occhiali scuri e mi sentii sollevata: non volevo guardarlo negli occhi.
«Che cosa ne vuoi fare del cane?» mi chiese, dopo un po' di silenzio, lanciando un’occhiata a Lenticchia che scodinzolava felice ai suoi piedi.
«Vorrei portarlo con me, se per te va bene» risposi.
«Non c’è problema. L'idea iniziale era questa.»
Pausa. Raccolsi quanta più aria possibile nei polmoni prima di parlare.
«Allora ci vediamo l’anno prossimo» dissi, passandomi una mano tra i capelli. «Oppure a Natale.»
Janis si sistemò meglio gli occhiali da sole sul naso. 
«Immagino di sì» disse, con un tono alto e sicuro. «Facciamo come l’anno scorso.»
«E cioè?» chiesi, alzando lo sguardo su di lui.
«Non ci sentiamo mai. Nemmeno una volta.»
Non mi si strinsero le viscere, non provai l’impulso di piangere e non mi arrabbiai con lui. Semplicemente annuii continuando a guardarlo in faccia e notai che strinse quasi impercettibilmente la mascella, prima di distogliere lo sguardo da me.
«Va bene» dissi. «Ti porterò sempre con me, nonostante tutto.»
«Anche io.»
Fu così che ci salutammo. E anche se io sapevo che ci sarebbe sempre stato qualcosa ad unirci, anche se lui sapeva che quello che era stato non l’avrebbe in nessun modo potuto cancellare e nonostante sapessimo entrambi che i ricordi ci avrebbero accompagnato per tutta la vita, quando ci voltammo per tornare a casa nessuno dei due ebbe il coraggio di girarsi.
Eravamo stati ingenui, spesso stupidi, e avevamo vissuto gran parte delle nostre vite con la convinzione che niente fosse irreversibile. E io magari lo sono ancora, perché spesso penso che quei momenti passati insieme, che all’epoca sembravano persi per sempre, possano in qualche modo ritornare. E spero che lo pensi anche lui.

"Non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d'estate
con qualcosa di fragile come le storie passate. Forse un tempo poteva commuoverti,
ma ora è inutile credo perché ogni volta che piangi e che ridi
non piangi e non ridi con me."
Farewell - Guccini



Informo tutti i poveri sventurati che sono arrivati fino a questo punto, che ho pubblicato due capitoli di epilogo. Ecco Ragazzo Sorriso e Lenticchia: l'epilogo di un viaggio iniziato male! (e finito peggio, aggiungo io) http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2675155&i=1

Ci siamo. E' finita. E' la seconda volta che concludo una storia qui su EFP quindi mi sento un po' strana... come se se ne andasse un pezzetto di me! Allora, partiamo con ordine: non ho mai nutrito grosse speranze per questa storia, sono consapevole del fatto che è confusionaria, che io sono distratta e quindi non è perfetta, ci sono errori (che ho corretto, me li hanno segnalati in un concorso), ci sono frasi strane eccetera, ma ogni volta che cerco di modificarla in qualche modo non ci riesco. Ho cominciato a scrivere questa storia verso maggio e l'ho finita un paio di mesi fa, più o meno, e in tutto questo tempo ho cambiato tantissime cose e adesso non riesco neanche a modificare una frase! Dico a voi quello che ho detto alle organizzatrici del contest: la riprenderò in mano tra un annetto e vedrò cosa ne uscirà fuori. Magari la ripubblicherò, o non la vorrò vedere mai più, non lo so. Ma per il momento è questa.
Per quanto riguarda la fine... la storia ha avuto questo finale per due motivi: perché le cose non sarebbero in nessun modo potute andare diversamente e perché uno dei miei obblighi nel concorso era farla finire male (botta di culo, perché davvero non avrei mai potuto immaginare un finale diverso da questo). So che a molte di voi non piacerà e vi dirò la verità: anche io avrei voluto che Janis e Mara stessero insieme, ma non era possibile.
Ho scritto questa storia lasciandomi ispirare, oltre che da tutte le cose riguardanti la mia vita e tutte quelle sottoelencate, da due canzoni in particolare che sono Farewell e Quattro Stracci di Guccini. Se non le conoscete vi consiglio di ascoltarle :)

E ora passiamo ai chiarimenti:
  • La frase scritta sulla lapide di Febri appartiene alla canzone “La collina dei ciliegi” di Battisti;

  • il soprannome “Rob” sta per “Roberto”;

  • il soprannome “Lenticchia” è un omaggio a mio padre che tra i tanti soprannomi da piccolo aveva anche questo, sempre per le lentiggini.

  • i genitori di Mara sono un riferimento a quelli di Elizabeth in Orgoglio e Pregiudizio;

  • l'attaccamento di Janis alla sua macchina è un riferimento a Dean Winchester in Supernatural;

  • la frase “gli uomini sono arroganti o stupidi, e se sono amabili si lasciano condizionare al punto di non essere consapevoli di sé” è una citazione da Orgolio e Pregiudizio;

  • la frase “era compito mio insegnare al mio fratellino come si fa” è una citazione di Supernatural;

  • registrare lo speaker alla fine delle canzoni alla radio è una cosa che, per distrazione, faceva sempre mio padre da giovane, quindi questo è un altro omaggio a lui;

  • il nome “Sottomarino” è un riferimento alla canzone “Yellow Submarine” dei Beatles, e tutto il locale, Rob compreso, sono ispirati al posto di ritrovo mio e dei miei amici;

  • la frase “smettila di fumare così tanto, che sei in età fertile” è della madre della mia ex coinquilina; gliela ripeteva praticamente in ogni telefonata.

Poi poi poi... i ringraziamenti! Ringrazio infinitamente tutte le persone che hanno messo la storia tra preferiti, ricordati e seguiti :) ringrazio in particolare holls e ale93 che mi fanno sempre sapere cosa ne pensano <3
Ringrazio phoenix_esmeralda, Slappy, Gaea e darllenwr che hanno messo su dei giudizi ricchi e precisi :)
E ringrazio tutti i lettori silenziosi!
E niente... metto qui il banner del contest :)
Vi informo intanto che tornerò presto con una storia sovrannaturale e che ho in mente di scrivere un seguito di Ragazzo Sorriso e Lenticchia! 
A presto!




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