Non c'é due senza tre

di lulubellula
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordicesimo ***
Capitolo 15: *** The Nightmare Before Christmas ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo Diciassettesimo ***
Capitolo 18: *** Capitolo Diciottesimo ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciannovesimo ***
Capitolo 20: *** Capitolo Ventesimo ***
Capitolo 21: *** Capitolo Ventunesimo ***
Capitolo 22: *** Capitolo Ventiduesimo ***
Capitolo 23: *** Capitolo Ventitreesimo ***
Capitolo 24: *** Capitolo Ventiquattresimo ***
Capitolo 25: *** Capitolo Venticinquesimo ***
Capitolo 26: *** Capitolo Ventiseiesimo ***
Capitolo 27: *** Capitolo Ventisettesimo ***
Capitolo 28: *** Capitolo Ventottesimo ***
Capitolo 29: *** Capitolo Ventinovesimo ***
Capitolo 30: *** Capitolo Trentesimo ***
Capitolo 31: *** Capitolo Trentunesimo ***
Capitolo 32: *** Trentaduesimo capitolo ***
Capitolo 33: *** Capitolo Trentatreesimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


Non c'è due senza tre




Capitolo Primo



Il telefono squilla, parole, fiumi di parole si preparano a invadere l'atrio del Seattle Grace Mercy West Hospital, ospedale famoso negli States per la qualità dei programmi di ricerca in campo neurochirurgico e cardiochirurgico.

E' quasi mattina e uno specializzando annoiato del primo anno risponde al telefono, dalle parole che provengono dall'altro capo del ricevitore, capisce che é successo qualcosa di grave, di veramente grave e decide di cercare il Dottor Hunt, capo di chirurgia dell'ospedale.
 
Hunt é seduto alla sua scrivania, aspetta notizie dall' équipe chirurgica, notizie che tardano ad arrivare, l'aereo che trasportava alcuni tra i migliori medici dell' ospedale, Yang, Grey, Piccola Grey, Sloan e Robbins, non é ancora atterrato, sembra come inghiottito nel nulla.
 
 Mentre rimane lì, assorto e accigliato, uno specializzando entra nel suo ufficio ansimando: "Dottor Hunt, mi scusi per l'entrata, ma non c'é tempo per le formalità. Ho appena ricevuto una chiamata da parte di una squadra di soccorso, c'é stato un incidente aereo, c'é stato un morto, una ragazza, e ... no, non ce la faccio a proseguire, posso sedermi un attimo?"
 
 "Prego, siediti e continua il tuo discorso" lo incalza Owen che ha paura di quello che potrebbe sentire.
 
"Pare che a bordo ci fossero dei medici, medici del Seattle Grace, dei nostri" lo specializzando inizia a singhiozzare.
 
"Chi é morto? Sai chi é morto?" gli urla contro Hunt.
 
"Una donna è morta, non so nulla di più".
 
 Hunt è sconvolto, pensa a sua moglie, a Cristina e inizia a scrollare il povero specializzando: "Non è possibile che tu non sappia nulla di più, sei una persona inutile, dovevi chiedere informazioni, sei un piccolo idiota incompetente" gli urla contro.
 
 "So solo che due di loro sono gravi, hanno bisogno di un cardiochirurgo e di un chirurgo ortopedico" dice il poveretto quasi sussurrando.
 
 Hunt cerca di calmarsi e di riprendere in mano la situazione: "Ora vai e cerca di saperne di più, ricordati di chiedere quisquilie tipo: 'Chi è ferito? Chi è morto? Da quanto è successo l'incidente?'; sai ti possono sembrare piccolezze ma non lo sono!" commenta sarcastico Owen, con qualcosa di più di un tono di odio e di disprezzo nella voce.
 
"Vado, mi scusi, vado" risponde lo specializzando, anche se probabilmente ciò che vorrebbe è un badile con cui scavarsi una fossa e sprofondare dalla vergogna e dall'umiliazione.
 
 Owen alza il ricevitore e compone il numero di Callie Torres, genio creativo della chirurgia ortopedica nonché moglie di Arizona Robbins e migliore amica di Mark Sloan, da cui ha avuto una figlia Sofia Robbin.
 
 "Pronto, pronto chi è?" dall' altro capo del ricevitore un voce calda e squillante.
 
 Owen esita, non sa cosa dire.
 
 "Arizona, sei tu?".
 
 "No, sono Owen".
 
 "Ciao, come mai mi chiami alle cinque del mattino? C'è stata un'emergenza?".
 
 "No, sì, no, cioè, vedi è arrivata una telefonata, l'aereo su cui viaggiavano i nostri ha avuto un guasto".
 
 "Niente di grave spero".
 
 "Veramente sì, si parla di feriti e di un morto, una donna, non sappiamo chi".
 
 "Arizona?".
 
 "Non so altro mi dispiace, so che abbiamo bisogno del tuo aiuto, vieni in ospedale il prima possibile, ok?".
 
 Callie lascia cadere il ricevitore e scivola contro i braccioli del divano, è disperata, possibile che la vita sia di nuovo così crudele con lei?
 
 Un alito di vento, il lancio di una moneta, una porta che sbatte, una luce che acceca, il tempo che accada tutto questo e la tua vita non sarà più la stessa.
 
 
Nda:
*Un grazie speciale a _Trixie_ che sta preparando i banner per la mia storia
 

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Secondo


Dopo aver affidato la piccola Sofia ad una vicina di casa, Callie sale in auto.
 
Accende la macchina, ingrana la marcia e si avvia verso l' ospedale, dal lettore parte il cd di Sofia, quello delle canzoni della buonanotte, cd che aveva comprato per lei Arizona quando aveva scoperto che l' unico modo per riuscire ad addormentarla era proprio quello: un giro per l' isolato cullata dalla musica in compagnia delle due mamme e a volte anche di papà Mark.
 
La musica confonde Callie e la innervosisce, spegne il lettore con tanta forza da rischiare di romperlo e inizia a piangere, un pianto misto a dolore e rabbia, il pianto di un' anima disperata che si trova in un limbo e brama notizie, spera in buone notizie, incrocia le dita per Arizona e Mark, sentendosi egoista nello sperare che il morto sia qualcun altro.
 
Non Arizona, la donna che aveva scelto e che l' aveva scelta per trascorrere insieme il resto della vita, non Mark, l' amico che non l' aveva mai tradita, né lasciata e che le aveva dato la gioia più grande della sua vita, che aveva esaudito il suo desiderio, quello di diventare madre.
 
E ora Callie è qui, non sa se è vedova, non sa se Sofia è orfana, ma prega con tutte le sua forza affinché nessuna di queste due prospettive sia reale.
 
La disperazione e la sofferenza accompagnano il suo tragitto fino all' ospedale; appena uscita dall' auto, sente il cercapersone che suona e con le mani tremanti controlla.
 
"Owen: 911, vieni qui al più presto!".
 
Lei non se lo fa ripetere due volte e inizia a correre, prima verso l' atrio, poi si precipita al pronto soccorso. Ad attenderla Owen con un' espressione sollevata e rammaricata al tempo stesso: "Fermati un attimo, Callie!".
 
"Owen, non fermarmi, ho diritto di sapere se lei, se A ...".
 
E ad un tratto la vede, bianca, pallida, con i capelli una volta biondi e ora sporchi, incrostati di polvere e sangue, sembra ridotta male ma ... ma almeno è viva.
 
Fa per avvicinarsi e la osserva, distrutta e così piccola e fragile da stringerle il cuore.
 
Arizona piange e tiene una bacinella tra le mani, la sua bocca e i suoi denti una volta bianchissimi sono macchiati di sangue.
 
"Cosa le è successo Owen, perché Arizona vomita sangue?" domanda Callie.
 
"Non lo sappiamo, Callie, potrebbe essere un corpo estraneo, una scheggia forse oppure una lieve emorragia interna. Quello che mi preoccupa di più è la sua gamba sinistra" ammette l' uomo, sulle sue spalle vent' anni di più della sera prima.
 
"La sua gamba?".
 
Poi la vede, vede Arizona che osserva la sua gamba e piange, al suo posto un arto malridotto, sangue e carne, una gamba che nemmeno Callie, brillante chirurgo ortopedico, è sicura di salvare.
 
Decide di avvicinarsi a lei, ma Hunt la ferma.
 
"Ci sarebbe Mark, è grave, più grave di Arizona, ha avuto un tamponamento cardiaco ed ha il cuore infranto".
 
"Ci sono speranze per lui?".
 
"Crediamo di poterlo salvare, ma Callie, tu devi essere pronta al peggio, devi prepararti a tutto, potresti non riuscire a salvare la gamba di Arizona e Mark ... bè Mark, probabilmente senza Lexie non sarà più lo stesso".
 
"Lexie è morta? Lei è morta?".
 
Callie si mette le mani tra i suoi lucenti capelli corvini e gli dice: "Come potrò sopravvivere a tutto questo? Come farò a ricucire i brandelli della mia famiglia?".
 
"Sono vivi, questo è già qualcosa, è un punto di partenza da cui iniziare" le dice Owen dandole una pacca sulla spalla.
 
"Già, sono vivi - pensa Callie - ma sarai tu ogni mattina a svegliarli, a dare loro una ragione per continuare a vivere, a dar loro almeno un motivo in più della sola Sofia, a trascinarli fuori da questo baratro che li ha inghiottiti ?".
 
Pensando ciò si avvia verso il letto di Arizona, la donna la vede e abbozza un sorriso o meglio una smorfia prima di ricominciare a sputare sangue; il suo viso rigato di lacrime miste a polvere e terrore, i suoi occhi sbarrati dalla paura, che non possono fare a meno di indugiare verso il basso, verso le sue ferite.
 
"Callie sei qui finalmente" e l' abbraccia, nelle sue parole dolore, quasi rimprovero e sollievo, perché quando siamo sull' orlo di un precipizio i nostri sentimenti, le nostre emozioni sono tutto fuorché razionali.
 
O forse perché sono sempre così, dopotutto quanto di razionale può esserci in un sentimento?
 
"Sì sono qui, sono qui per te e farò di tutto, anche gettarmi nel fuoco, se sarà necessario, per alleviare il tuo dolore" la rassicura Callie.
 
"E Mark?".
 
"Lo stanno operando, è grave, ma Hunt mi ha detto che ci sono buone possibilità che si riprenda del tutto" le dice Callie con un tono decisamente poco convincente.
 
"Povero Mark, ha perso Lexie proprio adesso che si erano ritrovati, è stato un colpo durissimo per lui, non so se e come riuscirà a superarlo".
 
"Non so come - pensa Callie - ma farò di tutto per aiutarvi, vi strapperò al dolore e alla morte, vi tenderò la mano per uscire da queste sabbie mobili, sarò la vostra ancora di salvezza nelle tempeste della vita e se per fare tutto ciò, dovrò annullarmi, sono pronta a tutto, sono pronta a fare la mia parte".
 
 
 
Note dell' autrice:
 
Grazie infinite a voi lettori, a paulag, sil83 e Ceci Weasley che con le loro recensioni e i loro consigli mi aiutano a migliorano e mi spronano a continuare, a ronhermione che ha aggiunto la mia storia alle seguite. Spero che questo nuovo capitolo sia di vostro gradimento
 

lulubellula

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


Non c'è due senza tre

 Capitolo Terzo






Due settimane dopo.
 
Callie sale in auto, sistema Sofia sul seggiolino e si prepara a riportare a casa Arizona e Mark, che dopo la degenza in ospedale, hanno davanti mesi e mesi di riabilitazione l'una e controlli e cardiogrammi l'altro.
 
A dire la verità non è la prima volta che loro lasciano l'ospedale dopo l'incidente, ma è la seconda; la prima è stata per l' ultimo addio a Lexie.
 
Una bara bianca in mogano e tante rose bianche che la ornavano, bianche com'era il suo sorriso, limpide come il suo cuore, innocenti come lei, fresche come l'amore che provava per Mark e che lui ricambiava da tempo.
 
E Mark ... bè non c'erano state ragioni per trattenerlo in ospedale: Derek aveva provato a dissuaderlo in mille modi, Meredith, lei non aveva detto niente, era troppo rinchiusa nel suo dolore per vedere quello degli altri e Callie non aveva nemmeno osato provare a convincerlo, il dolore di Mark era troppo forte e troppo sincero per meritare il tradimento di un'amica.
 
E così in quel mattino funesto lei aveva dato una mano a Cristina a prepararlo all'ultimo saluto dell'unica donna che lui avesse mai amato veramente.
 
Era entrata nella sua camera con una sedia a rotelle e, con l'aiuto della donna, l'aveva adagiato con molta delicatezza sul mezzo, poi era andata nella camera di Arizona e aveva fatto lo stesso con lei.
 
Tutti e tre insieme erano poi andati alla cerimonia, Mark con quegli occhi di ghiaccio che sembravano due enormi laghi di montagna in cui perdersi, non aveva versato una lacrima, era ormai ben oltre la soglia del dolore, ben oltre l'umano soffrire, ormai sembrava aver smarrito ogni tipo di attaccamento alla vita.
 
Arizona invece stava metabolizzando l'accaduto in un modo completamente diverso, sussultava ad ogni minimo rumore, piangeva per un nonnulla ed era diventata capricciosa e irritabile come una bambina di due anni, tanto che Sofia a volte sembrava più matura e responsabile di lei.
 
Callie sapeva che non sarebbe stato facile aiutare i due, soprattutto perché negavano di aver bisogno di una qualsiasi forma di appoggio, sia fisica sia psicologica.
 
Mark, nonostante avesse passato la maggior parte delle notti in ospedale da insonne, disteso sul letto a fissare il soffitto o meglio a fare uno screening completo del muro tanto era il tempo che impiegava ad osservarlo,  si comportava come se la mancanza totale di sonno fosse normale, quasi esaltante.
 
Arizona invece alternava il suo tempo tra crisi di panico, pianti isterici e momenti di autocommiserazione, momenti nei quali Callie cercava di starle vicina e nei quali la rassicurava, la calmava e la scrollava a seconda della situazione.
 
Il fisico di Mark, dopo il tamponamento cardiaco, si era dimostrato forte e reattivo all' intervento e alle successive cure; il paziente invece un po’ meno, alle notti insonni aggiungeva piani e piani di scale percorsi a ritmo sostenuto che per niente si addicevano al suo stato di convalescente.
 
La gamba di Arizona, dopo l'operazione eseguita da Callie, stava migliorando molto più lentamente del previsto, le ferite si stavano rimarginando con molta fatica e la riabilitazione si faceva sempre più lontana.
 
Inoltre Callie non era ancora del tutto certa del fatto che sarebbe tornato tutto come prima, ma quello che la preoccupava di più era la certezza che Mark e Arizona non sarebbero più stati quelli di prima.
 
Quelli che la svegliavano al mattino portandole la colazione a letto, una bomba calorica con tanto di croissant al cioccolato, quelli che portavano a spasso Sofia e che parlavano di lei con gli altri genitori al parco come di una bambina prodigio, quelli che cucinavano per lei cibi francesi dal nome impronunciabile e li accompagnavano con vini altrettanto improbabili, quelli con cui aveva condiviso la gioia di diventare madre, moglie e amica.
 
E mentre pensa a tutto questo arriva all'ospedale e li vede pronti nell' atrio con la sacca in mano, fa loro un cenno e si avvicina con la piccola Sofia, entusiasta nel rivedere mamma e papà.
 
Ma loro non sembrano vederla e non sembrano notare più di tanto nemmeno Callie, le affidano le valige come se fosse un facchino e salgono in auto.
 
"Sorridi, pensa positivo Callie" la donna cerca di autoconvincersi.
 
"Pensa ad oggi come ad un nuovo inizio, tutto andrà bene perché ci sei tu, c'è Sofia, ci sono Arizona e Mark, oggi puoi finalmente ricomporre la tua famiglia.
 
Inoltre il fatto che Mark abbia accettato di vivere con voi è ottimo, così potrai tenerlo sempre d'occhio" cerca di ripetersi Callie durante il tragitto verso casa, che viene interrotto solo da qualche parola della figlia.
 
Giunti a destinazione, Callie, con in braccio Sofia e i bagagli, apre la porta ed esclama: "Bentornati a casa!".
 
Arizona e Mark esclamano: "Già, a casa".
 
E Arizona: "Se mi cerchi sono in camera nostra".
 
"Ed io in camera mia" le fa eco Mark.
 
"Ma è quasi l'ora di cena e ho ordinato la pizza" esclama Callie.
 
"Io non ho fame, vado a letto" le risponde Arizona.
 
"Nemmeno io" la dice Mark.
 
"Davvero un ottimo inizio" pensa Callie addentando una fetta di pizza.
 
 
 
 
 
 
 
Note dell' autrice:
 
Grazie a tutti quelli che leggono, a quelli che recensiscono, a chi ha aggiunto la mia storie tra le seguite e a chi l' ha aggiunta tra le preferite
 
Grazie a tutti voi
 
lulubellula

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Quarto






"Alzati Arizona, alzati che è tardi, sono già le 7, hai appuntamento tra due ore dal fisioterapista" esclama Callie aprendo la finestra per lasciar entrare la luce in camera.
 
"Appunto, tra due ore, lasciami in pace, voglio dormire", risponde stizzita Arizona, mettendo la testa sotto il cuscino e premendolo forte contro il letto con le mani.
 
"Arizona svegliati! "
 
Callie comincia a togliere le lenzuola dal letto e a buttarle per terra.
 
"E' tardi, ho un milione di cose da fare oggi, devo accompagnare Sofia all'asilo, devo preparare la colazione per tutti, correre in ospedale, organizzare il lavoro dei miei specializzandi, portare te e Mark a fare i controlli" le dice Callie scostando con una leggera stizza i capelli dal volto.
 
"Ok mi alzo, però smettila di fare la mamma apprensiva e rompiscatole. Sono maggiorenne e vaccinata, non ho bisogno della mammina che mi imbocchi e che mi allacci le scarpe. Me la cavo benissimo da sola" dicendo ciò inizia a cambiarsi e tenta di infilarsi senza successo un paio di jeans che non vogliono saperne di entrare.
 
"Lascia che ti aiuti" si offre Callie e le da una mano a vestirsi.
 
Arizona inizia a piangere: "Mi sento così stupida e inutile, non riesco più a fare una cosa semplice come occuparmi di me stessa da sola, come farò a riprendere a lavorare come prima? ", le lacrime e le parole sgorgano a fiotti, sono come un fiume in piena, libere e incontrollate di scorrere dove meglio credono.
 
Callie le si avvicina e l'abbraccia, nel suo cuore un senso infinito di tristezza e impotenza, la consapevolezza di trovarsi a svuotare il mare con un cucchiaio, l'incertezza del domani e dell' oggi e un peso, un peso estremamente greve per una persona sola, piantato sulle sue state spalle.
 
"Su, cerca di calmarti Arizona, è solo un momento, passerà, io sono qui, lo sai questo vero?" e la fissa negli occhi, quegli occhi azzurri e limpidi che l' avevano fatta innamorare.
 
Inizia così a ripensare a quella preghiera fatta tanto tempo prima in Chiesa, con l'amica Addison: "Signore, ho bisogno della tua guida, ho baciato un chirurgo pediatrico, non avrei mai pensato di amare una donna, Signore, ma non fino a qualche tempo fa, ma questo non è il punto. Il punto è che la pediatra ... lei è dinamica e ha le farfalle sulla cuffietta, ma è anche sexy, tanto sexy, perciò aiutami a superare il fatto delle farfalle. Amen".
 
E le viene da sorridere per quella richiesta assurda, le viene da sorridere al pensiero che quella donna bionda, con gli occhi azzurri, con la cuffietta con le farfalle, con i pattini a rotelle, il sorriso magico e tutto il resto, si fosse innamorata proprio di lei, della ragazza seduta all'ultimo banco in fondo alla classe, che si nascondeva dietro uno spesso strato di eyeliner nero e che inseguiva il miraggio di un amore sbagliato.
 
Eppure era così, era stato così, la dolce  e limpida Arizona aveva scelto lei, l'incasinata e sconclusionata Calliope Iphegenia, come compagna di vita e lei, in questo momento così difficile, non se ne dimenticava.
 
"Sì, sì lo so, ti amo, perdonami" e affonda la testa sulla spalla sinistra di Callie.
 
"Dove sei Arizona? Dov'è la tua voglia di reagire, di combattere, di difendere la tua famiglia?
 
Non lo sai nemmeno tu, l'hai lasciata su quelle dannate montagne, sui brandelli di quello stramaledetto aereo che ti ha strappato alla tua vita.
 
E vorresti reagire ma non riesci, non puoi, non ne sei capace, vorresti solamente rinchiuderti nella tua stanza e piangere tutte le tue lacrime fino allo stremo delle forze, finché il tuo fisico regge, finché il tuo cervello non collassa.
 
E lo fai, certo che lo fai, nonostante tu sappia quanto sia sbagliato, nonostante la visione di Callie che si consuma per te, per Mark, per Sofia, per tutti voi insomma, ogni giorno sempre di più.
 
E la vedi di notte, la vedi che esce e va in salotto, si siede per terra contro il divano e piange, si chiude la bocca con le mani per non farsi sentire da nessuno, per non farsi sentire da te.
 
Perché siete così egoisti?
 
Certo, Mark ha perso Lexie e tu hai perso te stessa, due ottime motivazioni per esserlo, ma ciò non giustifica il vostro totale disinteresse per lei, i vostri capricci, i vostri sfoghi, le parole usate come coltelli scagliati contro la vostra roccia, contro la vostra Callie, l'unica che vi ama e che vi sostiene con un coraggio e con una dignità da ammirare.
 
Lei sta zitta e finge che tutto sia ok, sorride ai vostri insulti, consola il vostro dolore e vi scuote quando siete a terra.
 
In questa storia le vittime sono tre, non due, tu e Mark siete come quei feriti che urlano e si disperano, che piangono, litigano e fanno stupidaggini, mentre lei è come quel ferito che aiuta e si fa in mille per gli altri, che afferma di stare bene, dopotutto in caso contrario non si affannerebbe tanto, e infine si accascia sotto il peso di un male lento e mortale, un male diverso dagli altri e ben più forte, perché agisce a lungo nel silenzio e nell' ignoranza prima di manifestarsi al mondo con la furia distruttrice.
 
Questo male sta divorando Callie dall' interno, non è un cancro, né un’infezione, non è qualcosa che si può vedere o toccare, è un peso metaforico che la sta spingendo sott'acqua e che le corrode l'anima, un peso che ve la sta portando via.
 
Lei resterà qui con voi, questo è vero, ma qualcosa di lei se ne andrà per sempre logorato dall'angoscia, dal senso di colpa, dalla sensazione di fallimento e di inutilità.
 
Voi lo sapete, Mark e Arizona, sapete questo, ma non potete comportarvi altrimenti e, così facendo, state lasciando via libera a quel male che distruggerà Callie proprio per questo: perché voi vi siete chiusi in voi stessi e avete gettato la chiave, impedendo così a lei di salvarvi e di salvare se stessa".
 
 
 
 
 
Note dell' autrice:
 
* La preghiera di Callie non è mia, ma è stata presa da un episodio di Grey's Anatomy, 5x15 "Prima e dopo", vi invito a rivederla se vi va
 
* Grazie a tutti voi che leggete, recensite e seguite questa mia storia, spero che sia di vostro gradimento
 
lulubellula

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Quinto






Callie è giunta alla fine di una lunga, lunghissima giornata di lavoro, consulti interminabili, visite senza fine, due interventi chirurgici piuttosto complessi, uno, apparentemente di routine, che aveva portato con sé diverse complicazioni, l'altro, una ricostruzione ossea, quella di un ragazzo che si era lanciato dal tetto di casa con lo skateboard per impressionare una sua compagna di scuola e che si era procurato diverse fratture multiple scomposte.
 
"Come si fa ad essere così idioti?" pensa Callie.
 
"Come si fa a fare una cosa così pericolosamente stupida per amore?" pensa lei, dimostrando di avere una memoria a breve termine piuttosto labile.
 
"Non eri forse tu quella che per amore è andata contro tutto e contro tutti, contro la tua stessa famiglia, contro i tuoi stessi genitori? Non eri forse tu quella che, a seguito di questa scelta, eri stata diseredata e costretta a fare turni su turni in pronto soccorso per avere abbastanza denaro per vivere? Non sei forse tu quella che ora si sta consumando per Arizona, per Mark, che lavora e si preoccupa per tutti, senza mostrare alcun segno di cedimento, anche se sai di essere ben oltre il limite?"
 
"Tu, Callie, non ti sei lanciata dal tetto di casa con uno skateboard, non stai facendo niente di così eclatante, però ti stai spegnendo ogni giorno sempre più e la luce che una volta illuminava i tuoi occhi è scomparsa e ha lasciato spazio al vuoto, al nulla, alla tristezza e allo sconforto. Stai facendoti scivolare via la voglia di vivere, di lottare, di amare e di sperare. Vedi che Arizona e Mark si stanno riprendendo e ne sei cosciente, riesci quasi ad esserne felice, ma non puoi fare a meno  di continuare a percorrere la strada che hai imboccato e lasci che il male di vivere prenda possesso del tuo corpo, della tua anima e ti odi per questo, ti odi con tutta te stessa, ma non ti opponi perché non hai più forze, sei stremata, non provi più nulla , niente sonno, fame o sete, niente caldo o freddo, niente bianco o nero, solo grigio, un mare di grigio in cui affogare la tua vita e provare finalmente un senso di pace".
 
 
 
"Dr. Torres, il Dr Shepherd ha richiesto un consulto, ha a che fare con un caso piuttosto complicato e mi ha chiesto di avvertirla" davanti a lei April Kepner, rossa specializzanda del V anno.
 
"A quanto pare questa lunghissima giornata non è ancora finita" pensa la Torres.
 
"Arrivo subito, avverti Shepherd".
 
E si avvia verso il reparto di neurochirurgia dell' ospedale, le gambe molli e stanche, il cervello in subbuglio per la mancanza di sonno e i troppi caffè.
 
Giunta nell'ufficio di Shepherd, si siede dall'altro capo della scrivania e inizia a sentire quello che Derek ha da dirle.
 
Nella testa solo una gran confusione, la mente annebbiata, fatica a concentrarsi alle parole dell'uomo e quando lui le chiede un'opinione risponde: "Sono d'accordo con la tua decisione, assolutamente d'accordo", anche se in realtà ha colto poco o niente di quello che lui le ha appena detto.
 
Si alza e viene colta da un capogiro, si aggrappa alla sedia per non crollare a terra.
 
"Ti senti bene Callie?" Derek si alza e le si avvicina.
 
"Sì, sto benissimo" e si avvia verso la porta.
 
Un secondo e più intenso giramento di testa la coglie impreparata e il mondo intorno a lei comincia a girare e a girare sempre più veloce, poi più nulla solo il buio.
 
Quando si sveglia, si trova in sala visite con Karev che le sta provando la pressione arteriosa e Derek che la fissa con un' aria stanca e preoccupata.
 
"Cosa mi è successo? Come mai mi trovo qui? Non ricordo nulla, ricordo solo che stavo parlando con te e poi il vuoto" domanda Callie con un tono di voce flebile.
 
"Sei svenuta ed hai battuto la testa contro lo stipite della porta, non sono riuscito a sorreggerti in tempo" la informa Shepherd.
 
Callie si tocca al fronte e sente un cerotto e un bruciore all'altezza del sopracciglio sinistro.
 
"Bè sarà stato un calo di zuccheri o un abbassamento di pressione" Callie cerca di minimizzare.
 
"Francamente non sono d'accordo con te, ti ho osservata attentamente in queste settimane, sei stanca, sei esausta, credo che tu abbia avuto un crollo nervoso" le dice Derek.
 
"No, non può essere, io sto bene, non sono mai stata così in forma come adesso" mente Callie.
 
Shepherd non l'ascolta nemmeno: "Per questo ho avvertito Mark e Arizona, so benissimo che sono sconvolti, stanno male e tutto il resto, ma questo non giustifica il loro comportamento nei tuoi confronti".
 
E li vede entrare, preoccupati e spaventati, che la guardano, che la guardano come non facevano da molto tempo, che vedono il suo dolore e non il loro.
 
"Sto bene, non c'era bisogno che arrivaste, non mi è successo niente, Derek ha esagerato, ho avuto solo un banale mancamento".
 
Loro la fissano come se dovesse rompersi o esplodere da un momento all'altro, poi convinti dalle parole di Callie si tranquillizzano e riprendono il solito atteggiamento di sempre.
 
Derek li vede allontanarsi e tornare a casa e riflette, si ripromette di stare vicino a Callie e di monitorare il suo comportamento, conscio del fatto che dei tre è lei la più vulnerabile e la più esposta alla solitudine e allo smarrimento.
 
"Quando ti trovi aggrappato al ciglio di un burrone, accertati di avere qualcuno pronto a tenderti una mano e trarti in salvo, perché nessuno si salva da solo. Diffida degli amici che ti stanno vicino solo nella buona sorte, perché è in quella cattiva che ti serviranno veramente".
 
 
 
 
 
Note dell' autrice:
 
* Grazie a tutte le persone che leggono, recensiscono, seguono e aggiungono la mia storia tra i preferiti, il vostro affetto e il vostro sostegno mi fanno molto piacere
 
A presto
 
lulubellula

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


Non c’ è due senza tre

Capitolo Sesto


 

 
 
Callie si sveglia e, per la prima volta dopo tanto tempo, si sente finalmente riposata e tranquilla, apre gli occhi e cerca Arizona, girandosi verso il suo lato del letto, ma non la vede.
 Allora si volta a guardare la sveglia, sono le 10: 30, si alza in tutta fretta e corre in cucina.
 
“Oddio è tardissimo, dovevo essere al lavoro più di quattro ore fa, dovevo preparare Sofia per l’asilo e pensare a Mark e ad Arizona”.
 
Al pensiero dei due, viene colta come da una fitta al fianco, una sorta di  dolore psicosomatico e ripiomba nell’ angoscia, ha paura di vederli come al solito, l’uno ciondolante sul divano a guardare la televisione e l’altra in bagno, davanti allo specchio a provare l’ultimo fondotinta comprato per cercare di nascondere la cicatrice sulla coscia sinistra.
 
Quando finalmente si decide ad entrare in salotto, li vede in cucina intenti a preparare una vera e propria colazione all’ inglese:  bacon e uova, succo d’ arancia, fette dorate di pane tostato spalmate di burro e confettura alla fragola, la sua preferita, e un profumo inebriante di crostata appena sfornata.
 
Loro la vedono, si accorgono della sua presenza e corrono da lei.
 
“Non saresti dovuta arrivare proprio ora, abbiamo fatto pianissimo, volevamo prepararti una sorpresa” le dice Mark.
 
“Ma avreste dovuto svegliarmi, ho il turno in ospedale” protesta Callie.
 
“Niente turno oggi, Hunt ti ha dato un paio di giorni di riposo, dopotutto ti sei sentita male due giorni fa. Inoltre non ci abbiamo messo molto a convincerlo” le risponde Arizona.
 
“E Sofia?” chiede Callie.
 
“E’ da Zola, si divertirà tantissimo, non preoccuparti” le rispondono in coro.
 
“Bene, vedo che mi avete preso in ostaggio” Callie sorride divertita.
 
“Vieni, assaggia tutte queste buonissime leccornie” la invitano a tavola.
 
“Oggi non dovrai fare assolutamente nulla, noi due saremo al tuo completo servizio”.
 
“Ehm, grazie” risponde Callie, abbassando lievemente il sopracciglio sinistro per cercare di capire se è tutto uno scherzo oppure no.
 
Callie assapora tutto con gusto, dal cibo alla conversazione, le sembra di essere in un sogno, in un bellissimo sogno, e se è così non vuole più svegliarsi, vuole continuare a dormire tutta la vita.
 
Finita la colazione, Callie si alza da tavola e si avvia verso la sua stanza, ma Mark e Arizona la fermano.
 
“Noi vorremmo parlarti, ti va di ascoltarci? Però  prometti che ci ascolterai  attentamente prima di reagire in qualunque modo?”.
 
Callie si fa sempre più inquieta e preoccupata ma alla fine risponde: “Sì, d’accordo, ascolterò attentamente tutto quello che mi direte prima di dare di matto”.
 
“Ok – inizia Arizona – devi sapere che in questi ultimi giorni abbiamo riflettuto molto, ci siamo resi conto di aver sbagliato tutto con te, di essere stati egoisti e prepotenti come dei bambini viziati, abbiamo sempre anteposto i  nostri problemi alle tue esigenze”.
 
“Ma eravate sconvolti, è comprensibile” la interrompe Callie.
 
“Lasciaci finire prima” le risponde Mark.
 
“Perciò dopo il tuo malore abbiamo capito che avevamo esagerato a comportarci male con te e che ti avevamo dimenticato, che avevamo dimenticato di fare parte della tua famiglia. Però ora siamo qui per rimediare a tutto questo”.
 
Callie si fa sempre più sospettosa e incuriosita.
 
“Una volta ti avevo promesso amore eterno, avevo promesso che avrei avuto dieci figli con te e tu mi hai sorriso e mi hai abbracciato” le dice Arizona.
 
“E con questo, cosa volete dirmi?” domanda Callie con un certo tremore nella voce.
 
I due si guardano negli occhi e poi si voltano verso Callie.
 
“Vorremmo avere un altro figlio con te”.
 
Callie spalanca gli occhi e apre la bocca, come per dire qualcosa, poi la richiude, si alza e se ne va in camera.
Arizona e Mark la seguono preoccupati, Callie prende il giubbotto di pelle e lo indossa, poi si lega i capelli e prende le chiavi della macchina.
 
Si dirige così verso la porta con Mark e Arizona cha aspettano una sua reazione.
 
“Dove stai andando?” le urla Mark.
 
Nessuna risposta.
 
Callie apre la porta.
 
“Dicci almeno qualcosa” le dice Arizona.
 
Nessuna risposta.
 
“Callie?” la chiamano i due.
 
Lei si volta ed esclama: “ Cosa vi aspettate che vi dica? Vi ho osservato a lungo negli ultimi tre mesi, eravate vuoti, eravate egoisti, eravate persi e io vi sono stata vicina, vi ho abbracciato, vi ho amato, ho asciugato le vostre lacrime, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Ora sono stanca, sono stufa, sono prosciugata, non riesco più a dormire per una notte intera e quando mi sveglio, il cuscino è bagnato, le lacrime mi scendono persino durante il sonno. Credete che sia facile per me vedervi sprofondare ogni giorno un po’ di più in quel baratro, è difficile, è talmente difficile che ci sono caduta anch’io ed ora fatico a rialzarmi. E voi cosa fate? Fate finta di nulla e mi chiedete di avere un altro figlio? Voi siete pazzi!”.
 
Ed esce sbattendo la porta.
 
Mark esce sul pianerottolo e le urla: “Vai almeno a prendere Sofia alle sette, noi ci saremo”.
 
Callie sale in auto e inizia a guidare, guida per molti chilometri, fuori città, pian piano i palazzi e le strade scompaiono lasciando il posto a villette unifamiliari, chiese e scuole.
 
Verso le due del pomeriggio, Callie si ferma in un bar, un locale piuttosto antiquato, per bere un caffè e mangiare qualcosa, nel parcheggio deserto solo la sua auto e qualche bicicletta sgangherata.
 
Entra nel locale e le viene incontro una donna giovane, con indosso un grembiule a righe che le chiede: “Buongiorno, cosa desidera?”.
 
“Un caffè e un toast, per favore”.
 
“Un attimo, li preparo subito”.
 
A quel punto arriva un bambino che grida alla donna: “ Mamma, Molly mi ha rubato il mio peluche”.
 
La donna gli risponde: “Fai giocare anche tua sorella con i tuoi giocattoli!”.
 
“Ma quello me lo aveva regalato papà per Natale” protesta il bambino.
 
“Vai, è un ordine”.
 
Il bambino se ne va indispettito con la coda tra le gambe.
 
“Mi scusi – dice rivolgendosi a Callie – ma i miei figli sono molto vivaci e – si porta le mani al ventre – la famiglia è in aumento”.
“Auguri allora, a lei e a suo marito” le dice Callie.
 
Il sorriso della donna si spegne: “Purtroppo sono vedova da poco, mio marito è morto in un incidente d’auto”.
 
“Oh, mi dispiace moltissimo” Callie si sente sprofondare dalla vergogna.
 
“Lei ha figli?” le chiede la donna cambiando argomento.
 
“Sì, una figlia di due anni, Sofia”.
 
“Allora potrà capire perché, nonostante tutto il mio dolore, posso essere felice”.
 
“Sì, credo di sì” paga ed esce dal locale.
 
Sale in auto e comincia a pensare a Sofia, al giorno in cui ha scoperto di essere incinta ed ha lasciato che il mascara misto a lacrime le colasse sul viso, alla prima volta che l’ha vista in ospedale, piccola e disseminata di tubicini ma forte e sua, di quando l’ha riportata a casa con Mark e Arizona che le facevano mille moine e ricordava di averli guardati con il sorriso sulle labbra e il cuore colmo di commozione.
 
Ricorda la prima volta che le ha detto mamma e le ha mandato un bacino con la manina e poi ha riso, i suoi primi passi e la gioia di sentirsi finalmente viva e madre, la consapevolezza di non essere mai più sola.
 
Pensa alle parole di Mark e Arizona, ora non le trova più stupide e nemmeno irresponsabili, ora le sente sue, sente il desiderio di maternità mai del tutto sopito che riprende possesso della sua persona, lo sente vitale come un respiro o un battito del cuore.
 
“Io sono ancora viva, loro sono ancora vivi e vogliono avere un altro figlio con me. Come potrei negarlo? Passerei il resto della mia vita ad odiarmi se non acconsentissi. Io stessa ora riprovo questo desiderio e non ho intenzione di oppormi per una stupida questione di principio” pensa Callie.
 
Sono ormai le otto e Callie decide di andare direttamente a casa senza passare dagli Shepherd perché ormai è tardi.
 
Entra e li vede, Sofia, Arizona e Mark, seduti per terra a dipingersi mani e piedi con le tempere, per poi stampare le loro impronte su un enorme foglio bianco, sorridenti e felici come una vera famiglia.
 
E così Callie comprende di aver preso la decisione giusta ed entra in casa pronta a comunicarla ai suoi cari.
 
Note dell’ autrice:
·Grazie a tutti coloro che hanno recensito la mia storia, conoscere le vostre opinioni mi fa piacere e mi aiuta a crescere e a migliorare
·Grazie anche a chi legge, spero che vi piaccia quello che scrivo
Al prossimo capitolo
 
lulubellula

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Settimo


 


 
Callie apre la porta di casa cercando di fare meno rumore possibile, abbassa lentamente la maniglia ed entra in salotto in punta di piedi.
 
"Callie!".
 
Arizona e Mark si voltano e la guardano con aria interrogativa e rimangono in attesa di conoscere la risposta alla loro tanto complicata domanda.
 
"Mi avete beccato" sospira lei, abbozzando un mezzo sorriso.
 
"Cercavo di non fare troppo baccano, vi ho visto tutti e tre insieme felici con le mani sporche di tempere e non vi volevo disturbare" ammette lei.
 
"Non ci stavi disturbando" le dice Mark, pulendosi le mani contro la camicia nuova.
 
"Oh, cavolo, che idiota! Ho appena rovinato una camicia da 200 dollari".
 
Arizona gli dà una gomitata e gli intima di stare zitto.
 
"Vedi Callie, noi ci abbiamo pensato, abbiamo pensato a te tutto il giorno, abbiamo riflettuto riguardo alla domanda che ti abbiamo posto, alla tua reazione, alla tua fuga" incomincia Mark.
 
"Io non sono fuggita" ribatte Callie.
 
Arizona inarca il sopracciglio sinistro.
 
"Bè, forse solo un pochino, ma andiamo, che cosa vi aspettavate da me? Che saltassi dalla gioia e cominciassi a sferruzzare pigiamini e copertine? Che mi sciogliessi come neve al sole e iniziassi a preparare Sofia per l'arrivo di un fratellino o di una sorellina?".
 
"Capisco la tua reazione Callie e ammetto che siamo stati un po’ precipitosi nel proporti di avere un altro figlio; ma dopotutto non sei tu quella che ha sempre voluto una famiglia numerosa con tanti bambini che corrono da una parte all'altra della casa?" le dice Arizona.
 
Callie si culla beata in quest’ immagine e capisce di aver tenuto Mark e Arizona già abbastanza sulle spine.
 
"Hai perfettamente ragione, entrambi avete ragione".
 
Mark e Arizona si guardano negli occhi con aria stupefatta.
 
"Cosa intendi dire?" le chiede Mark.
 
"Ho riflettuto molto quest' oggi. Quando me ne sono andata stamattina ero furiosa, maledettamente furiosa e anche sconvolta e sconcertata. Ho deciso così di fare un giro in auto, ho guidato per molte miglia, fino a quando ho incontrato qualcuno che mi ha aiutato a riconsiderare le mie priorità nella vita. Ho capito che sono fortunata ad avervi, ad avere Sofia, la mia piccola adorata figlia, ad avere te, Mark, amico per la vita, ad avere te, Arizona, mia anima gemella".
 
Mark abbassa lo sguardo e pensa a Lexie, alla sua piccola e fragile Lexie, alla sua Lexiepedia, alla persona che se n'era andata via troppo presto portandosi via una parte di lui, la parte migliore, portandosi via il suo cuore.
 
Callie lo osserva e riprende: " Perciò ho iniziato a pensare a ciò che voglio nella vita, alle cose a cui non voglio rinunciare, al figlio a cui non voglio rinunciare. Perciò ho deciso di ... ho deciso di avere questo bambino con voi".
 
Mark e Arizona si guardano e la guardano esterrefatti per qualche secondo, poi le saltano al collo e l'abbracciano.
 
"Calmi, calmi, così mi strozzate!" dice loro Callie, raggiante e sorridente come mai prima.
 
"Sofia, vieni", Mark la prende in braccio.
 
"Avrai un fratellino, sei felice?", la bambina sorride, batte forte le manine e dà un bacio sulla guancia al suo papà.
 
Callie e Arizona li osservano divertite.
 
"Chi l'ha detto che sarà un maschio? Potrebbe essere una bambina" ribatte Arizona.
 
"No, no sarà un maschietto, me lo sento" dice Mark.
 
"Su, non litigate e poi non sono nemmeno incinta, quindi state calmi, dovete avere pazienza", Callie cerca di fermare il loro battibecco.
 
"Venite, ho ordinato la pizza, aiutatemi ad apparecchiare".
 
"Sì, la pizza, avevo proprio voglia di mangiarla stasera!" le dice Mark.
 
"Anch’io, la adoro" gli fa eco Arizona.
 
E tutti insieme si siedono a tavola pronti a dare una svolta alla loro vita.
 
 
 
 
 
Six weeks later (Sei settimane dopo)
 
Callie è nel bagno di casa, i lunghi capelli corvini raccolti in uno chignon, gli occhi scuri e grandi, colmi di lacrime, il naso un po’ arricciato, la bocca aperta in una smorfia di stupore e il sorriso stampato sulle labbra.
 
Lì vicino uno stick bianco e otto lettere che ti cambiano la vita: "Pregnant".
 
“Lancia in aria una moneta, testa o croce, vita o morte, felicità o disperazione; il tuo destino è questo, tutto nelle mani di un capriccio della sorte.
Ora puoi fare solo due cose: dare un calcio alla tua vita e mandare tutto all'aria, oppure accettare stoicamente il tuo destino e corrergli incontro a braccia aperte.
E forse il segreto è proprio questo: accettare quello che succede e andare avanti, facendosi beffa del fato, perché se siamo deboli lui vince e ci distrugge, ma se siamo forti, nulla potrà fermarci, avremo tutta una vita davanti e il mondo intero ai nostri piedi”.
 
 Note dell' autrice:
 
* Ringrazio tutti quelli che mi seguono, chi mi recensisce ( a voi un grazie particolare), chi legge questa mia storia e tutti quelli che recensiranno questo capitolo, perché sapere che qualcuno apprezza ciò che scrivo mi aiuta a migliorare e a completare questa storia nel migliore dei modi.
 
Grazie a tutti voi
 
lulubellula

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Ottavo



 

Callie esce dal bagno e va in cucina, le lacrime che le colano lungo il viso, l'eyeliner che le macchia il volto e l' attaccatura dei capelli.
 
Si pulisce il viso con le mani, si tampona la faccia con un asciugamano pulito e sorride, non riesce a fare a meno di sorridere.
 
Piange e sorride, lacrime di gioia che le sgorgano libere e selvagge, specchi dell' anima che si infrangono nei suoi occhi.
 
Le cure, le iniezioni, le ansie, i timori, la paura di tentare e ritentare la fecondazione in vitro senza successo erano scomparse come per magia alla vista di quell'unica parola, di quella scritta impersonale e asettica su di un test di gravidanza trafugato in ospedale.
 
Quel test fatto di nascosto, senza dire nulla a Mark e ad Arizona, che erano in allerta, pronti a captare qualche segnale rivelatore di una gravidanza come sbalzi d' umore, malesseri sospetti o nausee mattutine.
 
Quel test fatto senza pensarci troppo, perché le delusioni fanno male, le delusioni bruciano e dividono le persone.
 
"Non ora - pensava - non ora che siamo riusciti a raccogliere i cocci delle nostre vite".
 
"Questo bambino è la nostra ancora di salvezza, la mia ancora di salvezza"  pensava Callie.
 
E così era stato, il test si era rivelato positivo, lei era incinta, aspettava un bambino e nulla al mondo poteva rovinare questo momento, nulla poteva turbare la sua felicità.
 
Nel frattempo, Mark e Arizona si trovavano nell'appartamento dell' uomo, intenti a sistemare i nuovi mobili, con l'intenzione di sfruttare quello spazio in più per ricevere ospiti e creare uno spazio ricreativo per la piccola Sofia, in modo da riuscire a ricavare una stanzetta in più per il bambino che avevano deciso di avere.
 
"Dammi una mano a portare questo mobiletto in bagno" Arizona chiede aiuto a Mark per trasportare un armadietto ingombrante da montare sopra il lavabo.
 
"Aspettami, arrivo subito" le fa eco Mark e corre in suo aiuto.
 
I due portano il mobile nel bagno padronale e iniziano a sistemarlo.
 
"Guarda che hai sbagliato a mettere i tasselli nel muro, sembra storto questo armadietto" gli dice Arizona tenendo la testa leggermente inclinata, l' espressione accigliata e poco convinta e una mano appoggiata sul fianco destro.
 
"Ma che dici? Non è storto, bè forse sono un pochino, ma non si nota nemmeno" dice Mark, fissando il mobile con lo specchio al muro.
 
"Ecco, perfetto, oltre ad essere storto ora traballa pure. Io, Sofia, non la lascio entrare in questa stanza, è troppo pericoloso. Domani chiamiamo degli operai e facciamo assemblare a loro il resto degli arredi. Bagno compreso" taglia corto lei.
 
"Ma non è necessario ..." inizia lui.
 
"Discorso chiuso" lo zittisce lei.
 
I due chiudono la porta dell' appartamento e vanno in quello in cui vivono con Callie.
 
La donna è uscita e ha lasciato un biglietto sul frigo: "Sono andata al lavoro, penso io a Sofia. Buona giornata! Ci vediamo stasera". Callie".
 
"Dammi una mano a riordinare la casa!" Arizona inizia a raccogliere vestiti e giocattoli sparsi per tutto l'appartamento.
 
"Non c' è bisogno di fare ordine, a me sembra tutto perfettamente sotto controllo" le risponde Mark, osservando il frigorifero semivuoto.
 
"Certo, sotto controllo" ironizza Arizona.
 
"Il divano è pieno di pop corn e polvere, nemmeno al cinema ce ne sono così tanti" gli dice iniziando a passare l'aspirapolvere.
 
"Ok, d'accordo, hai ragione, perfettamente ragione. Io comincio a riordinare le camere mentre tu pensi al salotto e alla cucina", Mark mette in mostra il suo lato pratico.
 
Mark inizia a pulire e a spolverare, a rifare i letti e a riordinare gli armadi.
 
Dopo aver sistemato le camere inizia a fare ordine in bagno.
 
Apre un cassetto per cercare uno strofinaccio e trova qualcosa di inaspettato: un test di gravidanza.
 
Le mani gli tremano, una gocciolina di sudore freddo gli attraversa il viso, fa un respiro profondo e prende il test.
 
"Positivo - deglutisce - è positivo" e si commuove, inizia a singhiozzare, è felice ed entusiasta all'idea di diventare di nuovo padre.
 
"Staremo per sempre insieme, tu starai bene, ci sposeremo ed avremo tre figli, due maschi e una femmina che giocheranno con Sofia. Starai bene e saremo felici insieme, invecchieremo insieme, perché noi siamo destinati".
 
Quelle parole gli ritornano alla mente, gelide e pungenti come la pioggia d' inverno. Voleva un figlio, lo voleva più di ogni altra cosa.
 
Voleva un figlio ed ora c'era, ma non era andata come aveva previsto, non era Lexie la donna con cui avrebbe avuto un figlio, ma Callie, la sua migliore amica, non la donna che amava.
 
Non avrebbe mai potuto ascoltare le mille domande angosciate che Lexie gli avrebbe posto sul parto, né l'avrebbe mai potuta accompagnare alle visite prenatali e nemmeno l'avrebbe potuta vedere mentre stringeva un bambino al cuore, suo figlio, il bambino che non sarebbe mai nato.
 
E non ce l'aveva con Callie, né con Arizona o con Lexie, ma ce l'aveva con se stesso perché aveva realizzato troppo tardi che Lexie era la donna della sua vita, la persona con cui condividere la sua esistenza.
 
L'aveva capito solo mentre le stringeva le mani gelide in quel bosco, quando cercava di strapparla alla morte, mentre lei lo implorava di starle vicino e tenerle la mano perché ormai era l'unica cosa che potesse fare per lei.
 
Mark è seduto contro il muro a piangere nella semioscurità, tiene la testa tra le ginocchia e piange senza sapere cosa prova, dolore, nostalgia, gioia, amore, rammarico e tristezza, tutte queste sensazioni gli rimuginano nel cuore.
 
E piange perché è felice all'idea di stringere un neonato tra le braccia, piange perché Lexie non è più in vita, perché si sente uno stronzo ad avere un figlio con un'altra donna, un codardo, un vigliacco, uno smidollato, piange perché sa che non è del tutto vero, perché dopotutto, prima o poi dovrà continuare a vivere senza di lei.
 
E se ne frega degli esami clinici, della polvere sui mobili, di quella dannata specchiera che traballa e penzola nel bagno di casa, se ne frega dei pop corn sul divano, dei calzini sporchi e spaiati disseminati per le stanze vuote.
 
Perché lui si sente così, vuoto come il suo appartamento, come i suoi reni, il suo fegato, il suo stomaco, come il suo cuore, come una spiaggia al chiarore dell'alba, solo come un albero secolare nel bel mezzo di una tempesta.
 
Vuoto perché l'unica donna che è riuscita a farlo sentire completo non c'è più, al suo posto una lapide come tante, "Alexandra Caroline Grey, beloved daughter and sister", dei fiori sempre freschi, una lapide in un prato vicino a tante altre, la sua Lexie, sperduta nel nulla, in mezzo a tanti altri, solo un nome inciso sulla pietra.
 
E mentre si trova lì, disperato, ma finalmente sincero con se stesso, con i suoi sentimenti, comincia a pensare al bambino, ad Alexander, Lex, un piccolo frugoletto rosa e paffutello, il figlio che stava per nascere.
 
"Sono cero che Lexie avrebbe approvato" pensa lui.
 
"Sono sicuro che lei approvi, lei mi ha detto di continuare a vivere, di continuare ad amare anche senza di lei. Questo figlio è il mio nuovo inizio".
 
Arizona entra e lo trova seduto nel bagno, vicino alla doccia e si preoccupa, si avvicina a lui e Mark le tende un oggetto.
 
Lei lo prende tra le mani e legge: "Pregnant", rimane come inebetita per qualche secondo, poi inizia a saltare e a scrollare Mark, che nel frattempo si è alzato in piedi.
 
"Avremo un bambino, avremo un bambino!" lo abbraccia commossa, asciugandosi le lacrime.
 
"Sì, sì lo so, è incredibile, è ..." inizia Mark.
 
"E' un miracolo, un piccolo miracolo" risponde Arizona.
 
"Dobbiamo preparare una sorpresa per Callie, corriamo a fare la spesa, ci vuole una cena speciale stasera e lo champagne non può mancare".
 
"Hai perfettamente ragione, andiamo".
 
E si avviano insieme a preparare la cena, ad accogliere Callie che torna dal lavoro, ad abbracciare la madre del loro figlio, la donna che li ha risollevati dal baratro.
 
"Mano nella mano, un passo alla volta, qualunque cosa accada, saremo lì pronti a farti rialzare, perché siamo una famiglia, una famiglia fuori dagli schemi, ma pur sempre una famiglia. E ti aiuteremo sempre e ovunque, sempre e comunque, perché il nostro legame oltrepassa i vincoli di sangue e quelli giuridici, il nostro legame è per la vita e oltre la morte".
 
 
 
Note dell' autrice:
 
* Come sempre ringrazio tutti coloro che leggono e soprattutto recensiscono la mia storia
 
* Se questo capitolo vi è piaciuto o anche se non vi è piaciuto mi piacerebbe sentire cosa ne pensate
 
lulubellula

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Capitolo 9
*** Capitolo Nono ***


Non c'è due senza tre

Capitolo nono




 
 
"Forse dovresti comprare qualche altro pigiamino - osserva Mark - non credo che due bastino. E anche qualche giocattolo per Sofia, non voglio che si ingelosisca troppo per l'arrivo del fratellino. Lei è e resterà per sempre la mia principessina" dice Mark con un sorriso esagerato stampato sulle labbra.
 
"Mark, mi spieghi come hai fatto a trascinarmi in questo negozio di articoli per bambini? Non avevamo parlato di champagne e di una cena con i fiocchi per stasera? Sono già le sei, è tardissimo!" dice Arizona.
 
"Ah, comunque due pigiamini bastano e avanzano, non puoi comprare tutta questa roba per il bambino, è ancora presto, abbiamo tempo. E poi smettila di acquistare indumenti e copertine azzurri e blu, giocattoli da bambino e ... mi sembra un po’ presto per comprare un canestro e un pallone da basket. Ancora non sappiamo se sarà un maschietto, potrebbe essere una bambina, io rimarrei sui toni pastello del giallo del verde, al massimo qualcosa di rosso. E ... metti giù quei pattini a rotelle, ora stai proprio esagerando!" lo sgrida lei.
 
"Non è mai troppo presto per imparare a giocare a basket e nemmeno per i pattini!" ribatte Mark.
 
"E poi l'azzurro è un colore bellissimo, andrà bene anche per una bambina, ma sono sicuro che sarà un maschio, perciò la questione non si pone nemmeno" continua lui.
 
Arizona lo guarda, storce il naso e lo costringe a spingere il carrello strapieno fino alla cassa.
 
Intanto al Seattle Grace Mercy West Hospital, Callie sta finendo di controllare i pazienti del post- operatorio.
 
E' stanca, ha avuto una giornata pesantissima ed ha una gran voglia di caffè, di una vagonata di caffè espresso forte senza zucchero e anche di una ciambella con lo zucchero a velo.
 
"No - dice a se stessa - al massimo una ciambella, ho già ampiamente sforato la dose giornaliera di caffeina. Potrei prendere un centrifugato di carote e arancia, un toccasana vitaminico" e si compiace del suo comportamento responsabile.
 
"Oddio - pensa - sto diventando come Arizona, con le tabelle alimentari, le proteine, le vitamine e tutto il resto. Vada per la ciambella, ma niente centrifugato".
 
Si avvia verso il bar dell' ospedale e incrocia il Dottor Shepherd.
 
"Ciao Callie. Hai tempo per un consulto veloce?" le chiede Derek.
 
"Consulto veloce? - pensa Callie – cos’è, uno scherzo? Quando mai un consulto è veloce? Praticamente è un ossimoro!".
 
"Veramente stavo andando al bar ... " inizia lei.
 
"Non ci vorrà molto, devo operare un ragazzo di 18 anni, affetto da una paralisi progressiva degli arti inferiori. La TAC e la Risonanza magnetica non hanno dato un responso molto chiaro. Siamo ancora in alto mare, abbiamo fatto l' anamnesi famigliare, ma non è emerso nulla, nessun precedente simile in famiglia, non so più dove cercare. Pensavo che magari potessi dargli un'occhiata" la informa lui, con il suo solito fascino da Dottor Stranamore.
 
"Praticamente mi ha messa con le spalle al muro!" pensa Callie.
 
"D'accordo, arrivo. Andiamo nel tuo studio?" chiede lei.
 
"Sì e grazie per il consulto".
 
"Di nulla".
 
Giunti nello studio di Shepherd, lui inizia ad illustrarle il caso mostrando immagini della RMN, con e senza liquido di contrasto, esami ematici, responsi del genetista, dell' oncologo e dell' immunologo dell'ospedale, tutti negativi. Callie ascolta Derek con molta attenzione, cerca di concentrarsi sul caso, ma non si sente affatto bene, le gira la testa, sente le ginocchia molli e tremule e viene colta da un fastidioso senso di malessere, di nausea.
 
Derek continua a parlare e ad argomentare, ma Callie ormai non lo sente più da molto, ormai il senso di nausea ha pervaso il suo corpo, l'ha avvolta completamente.
 
"Callie, mi segui? Ti vedo un po’ persa, va tutto bene? " chiede Derek preoccupato.
 
"Veramente no" Callie esce dallo studio e corre verso il bagno delle donne.
 
Derek la segue preoccupato, bussa alla porta - nessuna risposta - ed entra.
 
Trova Callie aggrappata al lavandino, pallida e madida di sudore, i capelli corvini sempre in ordine, sono ora distribuiti in modo disordinato, ai lati della testa, lei si gira verso Derek e lo fissa con uno sguardo vuoto.
 
"Vieni qui - le dice Shepherd - siediti un minuto" e la prende per mano.
 
Callie obbedisce docilmente e lo segue, scosta una ciocca di capelli dal volto e si siede per terra.
 
"Ti sente un po’ meglio?" chiede Derek.
 
Callie fa cenno di sì con la testa e respira profondamente.
 
"Vuoi che chiami Mark e Arizona?".
 
"No, non c'è bisogno di allarmarli" risponde Callie.
 
"E' la seconda volta che accusi un malore nel giro di nemmeno due mesi. Credo che dovresti consultare uno specialista e sottoporti a qualche analisi clinica" le dice Shepherd.
 
"Non serve, so benissimo il motivo del mio malessere, non c'è bisogno di allarmarsi" dice Callie.
 
"Ah, sì? Sentiamo" Derek si incuriosisce.
 
"Nulla che non si possa curare in nove mesi" risponde Callie abbozzando un sorriso.
 
"Vuoi dire che ... che tu ... che voi ...".
 
"Sì" dice Callie.
 
"Oh, ma è meraviglioso, è bellissimo. Hai già fatto la prima visita dalla Dottoressa Stewart? E' la nuova ginecologa dell' ospedale, è molto brava, sta seguendo anche noi, cioè Meredith. Noi speriamo tanto di poter allargare presto la famiglia" le dice Derek con gli occhi colmi di speranza.
 
"Ve lo auguro con tutto il cuore" dice Callie di rimando.
 
"Forse si è fatto un po’ tardi, dovrei andare a casa, ma prima ho un vecchio conto in sospeso con una ciambella" dice Callie.
 
"Cosa?" chiede Derek.
 
"Nulla, mi accompagneresti al bar e poi a casa?" chiede Callie.
 
"Certo, andiamo".
 
Nel frattempo, i due soliti noti stanno appendendo festoni, palloncini e coccarde per tutta la casa, hanno riempito la stanza del bambino di regali per il nascituro e per Sofia e stanno preparando una cena speciale per Callie.
 
"Vieni Mark, dammi una mano ad apparecchiare la tavola" gli dice Arizona.
 
"Arrivo subito, lasciami finire di appendere i festoni".
 
Mark sta sistemando le decorazioni e i regali con molto impegno.
 
"Io sono sempre del parere che avremmo dovuto comprare qualcosa in più, insomma, non si può essere tirchi quando ci sono di mezzo i bambini!" le dice Mark.
 
"Punto numero uno: io non sono tirchia, sei tu che hai esagerato nel fare shopping. Punto numero due: se anche Callie dovesse partorire quattro gemelli, avremmo abbastanza giocattoli e vestitini per tutti" puntualizza Arizona.
 
Suonano alla porta.
 
"Su, su sbrigati a finire di sistemare tutto" Arizona si sta facendo prendere dal panico.
 
"Vieni qui!".
 
Mark si precipita alla porta con Arizona e insieme la aprono.
 
"Sorpresa!".
 
Il sorriso di entrambi si spegne.
 
"Colonnello?".
 
"Cosa ci fai qui? E' tutto ok?".
 
"No, figlia mia, ho qui qualcosa per te da parte del tuo amico Nick. Lui se n'è andato stanotte, non ce l'ha fatta più a lottare contro il cancro, ha vinto lui".
 
Fa una pausa e riprende.
 
"Sii forte Arizona, forte come un marinaio nelle tempeste" le dice suo padre.
 
"Nick?" dice Arizona.
 
Poi più nulla, solo dolore.
 
"Cosa succede quando sei sola ed è buio e non vedi dove vai, quando stai annegando e vorresti risalire, ma respiri solo acqua, cosa accade quando, dopo tanto soffrire, sei felice e in un istante la tua vita si ritrasforma in un incubo? Cosa fai quando le tue più grandi aspettative vengono puntualmente deluse? Nulla, resti lì a fissare il buio finché non diventa la tua luce, a inghiottire acqua fino a riempirti i polmoni, ad assorbire il dolore finché non ti ha corroso l' anima".
 
 
 
Note dell' autrice:
 
* Grazie mille a voi, miei fedeli lettori e recensori, che amate la mia storia tanto quanto l'amo io.
 
lulubellula

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Capitolo 10
*** Capitolo Decimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Decimo



 
“Morto? Come è possibile che lui sia morto? Io … lui … io non l’ho nemmeno più rivisto da prima dell’incidente. Io non l’ho più abbracciato un’ultima volta, io non gli ho più detto che gli volevo bene.”
 
Arizona è in camera da letto, rinchiusa ormai da più di sei ore.
 
Il Colonnello se n’è andato poco dopo averle riferito la triste e terribile notizia, dopo averle scagliato addosso la morte del suo migliore amico, di Nick.
 
“E’ morto”, due sole parole, due stupide e insignificanti parole che avevano avuto un immenso potere su di lei, che avevano saputo strapparle il cuore dal petto e dilaniarlo in tanti stupidi brandelli.
 
“Il cuore è un organo muscolare cavo che costituisce la pompa dell’apparato circolatorio".
 
Ma è davvero solo questo?
 
E’ solo un muscolo, un muscolo involontario per giunta?
 
Una sorta di motore a quattro tempi?
 
“Il cuore è suddiviso in quattro cavità: due atri (destro e sinistro) superiori e due ventricoli sottostanti”.
 
Stupide, stupide nozioni di medicina le confondevano la mente e il cuore, la distraevano e la innervosivano, non le permettevano di essere lucida e di pensare razionalmente con il suo cervello.
 
“Il cervello è una struttura del sistema nervoso centrale ed è formata da due emisferi cerebrali, destro e sinistro, separati medialmente da una scissura, fino ad un nucleo di sostanza bianca detto corpo calloso.”
 
“Il suo corpo, chissà come sarà il suo corpo? Magro, cereo, consumato; fragile, distrutto e dilaniato, una pallida ombra di quello che lui era, di quello che lui era stato” pensa Arizona, asciugandosi le lacrime con la manica dl pullover.
 
E in questo momento di dolore profondo e di terrore puro, Arizona inizia a ricordare i momenti felici.
 
“Ascoltami attentamente, questo è un momento solenne e sacro. Siamo qui, io e te, insieme a Tim, qui dinnanzi a Dio e agli uomini e sono pronto a sposarti, a giurarti amore eterno. E eterno vuol dire per sempre, non finché tu ne avrai voglia, ma per sempre sempre” disse Nick.
 
Lei annuì, nascondendo tra i denti una risatina che non voleva saperne di tornare indietro, i lunghi capelli biondi scompigliati dal vento e illuminati da un pallido sole primaverile.
 
L’ abbigliamento era semplice e curato, una ghirlanda di mughetti appena colti le ornava la testa, un vestito bianco trafugato dall’armadio di sua madre e un paio di décolleté rosa antico comprate con i suoi risparmi, di qualche numero più grande.
 
Nick invece indossava un paio di jeans e una maglietta bianca o forse gialla – ora non ricordava – ed era di una bellezza abbagliante e disarmante al tempo stesso.
 
Bastava che lui le sorridesse o che le parlasse per scioglierla completamente e mandarla in estasi.
 
Nessun altro ragazzo riusciva a farla sentire così e nessun altro ci sarebbe mai riuscito in futuro.
 
Terminata la cerimonia, un commosso Reverendo Timothy li aveva uniti in matrimonio e li aveva benedetti lanciando in aria tanti coriandoli colorati e petali di margherite colte nei campi vicino casa.
 
Insieme, lei e Nick, erano partiti per la luna di miele in sella ad una bicicletta a cui avevano legato dei barattoli di alluminio.
 
Di fronte a quel ricordo felice, Arizona sorride e si commuove, per poi ripiombare nello sconforto.
 
“Tim aveva detto che ci stava unendo in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, ma io non ne sono stata capace, l'ho ignorato quando stava bene e l'ho abbandonato nella lotta contro il cancro e nella morte” pensa Arizona, triste e angosciata.
 
“So che il matrimonio tra noi due era solo un gioco, il gioco di due bambini di dieci anni e che non aveva alcuna importanza. Ma se è così, perché mi sento così male? Perché soffro come se fossi diventata una vedova, come se avessi perso mio marito?”.
 
E si volta a osservare Callie, sua moglie, che dorme profondamente al suo fianco, che l’ha consolata ed ha pianto con lei e poi ha ceduto al sonno, spossata dal troppo lavoro e dalla gravidanza.
 
Lei sta dormendo di un sonno disturbato, è girata sul fianco sinistro e respira ad intervalli regolari, la sottile rotondità del suo ventre si muove all’unisono con il petto.
 
Arizona la osserva con attenzione, Callie le sembra così infinitamente bella e indifesa in questo momento, in balia totale degli eventi esterni.
 
E’ fragile e materna, ha la bocca un po’ corrucciata, forse per via delle nausee insistenti che l’affliggono ultimamente.
 
“Credo che tu non mi meriti in questo momento, anzi sono io a non meritarmi di avere accanto una donna forte e decisa, piena di complessi eppure così deliziosamente autoironica. Disarmante e protettiva come una tigre con i suoi cuccioli, ambiziosa e costante in tutto ciò che fai, così incantevolmente perfetta nei tuoi difetti, nei tuoi sbagli, nelle tue scelte. Così incredibilmente devota, che non mi basterà una vita sola per ringraziarti” pensa Arizona scostandole dolcemente i capelli dal volto.
 
Poi entra in camera di Sofia e la guarda respirare e dormire nel lettino con la copertina rosa con le farfalle e gli orsetti che giocavano a nascondino.
 
“Piccola mia, dolce e bellissima figlia, non credo di meritare nemmeno il tuo affetto e i tuoi baci, le tue risate e i tuoi passi verso di me. Ti amo più di me stessa e forse è per questo che vederti qui mi fa così paura, perché mi sembra di non essere capace di crescerti come vorrei, di volerti bene abbastanza, di essere una buona madre. E tutto ciò mi fa male, incredibilmente male, mi toglie il fiato, mi taglia le gambe, mi strappa i capelli, mi dilania l’anima” sussurra Arizona alla figlia.
 
“Ti voglio bene Sofia, forse non quanto vorrei, né quanto ti meriti, ma questo è tutto ciò che riesco a fare”.
 
Esce e chiude lentamente la porta, poi si volta e va verso la camera di Mark.
 
Lui dorme rannicchiato in un angolino del letto matrimoniale, come se volesse occupare il minor spazio possibile, come se volesse scomparire da questo mondo e lasciare posto a qualcun’ altro.
 
“Ciao Mark. Non mi sei stato mai troppo simpatico, sai? Anzi, posso sinceramente dirti che, in qualche occasione, ti ho odiato, ti ho odiato veramente e sono persino arrivata ad immaginarti morto come ad una liberazione. Ma tutto questo è accaduto molto tempo fa, quando né tu né io potevamo dire di conoscerci veramente. Sofia ci ha cambiato, Callie ci ha cambiato, lei ci ha saputo rendere amici, renderci una famiglia, proprio noi due che, insieme, siamo azzeccati come la senape sul gelato alla vaniglia. Eppure lei ha saputo creare qualcosa di buono, qualcosa di speciale. E anche se io non me la sento più di portarla avanti, tu devi continuare per me, per le nostre ragazze, per le nostre due, anzi tre, piccole ragioni di vita. Non ti chiedo di perdonarmi per quello che sto facendo, ma solo di aiutarle, di aiutarle dove io non ho saputo, dove non sono stata capace” scrive Arizona e lascia quest’ ultimo biglietto sul comodino nella stanza di Mark.
 
Poi prende pochi effetti personali e un po’ di denaro e li infila in un borsone, chiude la porta ed esce dal loro appartamento, chiude la porta ed esce dalle loro vite.
 
“Non sono mai stata molto brava con le parole, non sono un’abile oratrice e sono anche una frana nelle relazioni, riesco sempre a rovinare tutto. Ora che anche Nick se n’è andato e con lui una parte di me, non ho intenzione di mandare all’ aria tutto quello che ho costruito con te, con voi, perciò me ne vado prima di distruggere anche le vostre vite, perché ormai la mia non ha più lo stesso sapore di prima. Non cercarmi perché non mi troveresti, nemmeno io so dove mi sono smarrita. Sappi solo che continuerò ad amarvi e a pensarvi ad ogni mio respiro, ad ogni mio battito di ciglia perché siete una parte di me, la mia parte migliore”.
 
Note dell’ autrice:
*Ringrazio tutti i miei lettori e i recensori
* Un ringraziamento particolare a _Elizabeth_ perché mi sostiene sempre con profondo affetto
 
lulubellula

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Capitolo 11
*** Capitolo Undicesimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Undicesimo



 

Callie si sveglia di buon mattino, è stanca e anche un po’ nervosa, non è riuscita a dormire bene quella notte.
 
Ha consolato Arizona e ha pianto con lei a lungo, prima di cedere al sonno, ad un sonno tormentato e difficoltoso.
 
Si stropiccia gli occhi, sfregando le nocche contro le palpebre e poi li apre.
 
Fuori è già giorno, la luce le accarezza dolcemente il viso e le regala tiepidi e timidi raggi di piacevole tepore.
 
Callie si gira verso il lato del letto dove è solita dormire Arizona, ma nota che è intatto, le lenzuola sono in ordine e non ci sono segni che lascino intendere il passaggio della donna.
 
Callie si alza dal letto e indossa una vestaglia, poi comincia a cercare Arizona per l'appartamento, prima entra in bagno e nota che manca il suo beauty case, preoccupata continua a camminare e a vedere se riesce a trovarla.
 
Nulla, Arizona non c'è, sembra come inghiottita nel nulla.
 
Callie comincia a farsi prendere dal panico, non ha la più pallida idea di cosa fare, non sa dove cercarla, chi chiamare perché il suo cellulare è rimasto in camera.
 
Disperata, comincia a frugare nei cassetti del comodino della donna, ma non trova nulla, sono completamente vuoti, manca anche la fotografia di loro quattro al ritorno dall' ospedale dopo l'incidente e la nascita di Sofia.
 
Callie comincia a sentirsi male, è preoccupata e non riesce a capire cosa Arizona possa aver fatto, cosa le possa essere successo.
 
Mentre butta per aria praticamente tutto ciò che le capiti sotto mano, si volta verso il suo lato del letto, verso il suo comodino e vede un foglio piegato a metà e il suo nome scritto con la calligrafia di Arizona.
 
Si precipita a leggere con un po’ di ansia e paura nel cuore, apre il foglietto e inizia a scorrere quella scrittura così amata e famigliare.
 
Ogni parola la ferisce, le fa male, le dilania l'animo.
 
" ... Non mi merito di avere accanto una donna dolce e bellissima come te ... così incantevolmente perfetta nei tuoi difetti ... non mi basterà una vita sola per ringraziarti ... ormai la mia vita non ha più lo stesso sapore di prima".
 
Quelle parole la colpiscono forte, vanno dritte al cuore e la fanno sentire inutile, irresponsabile, incapace.
 
"Scusami Arizona, scusami se non sono stata capace di capirti, di starti vicino, di consolarti, scusami se non sono stata la roccia a cui avevi bisogno di aggrapparti, ma solo fragile ed effimera sabbia che, alla prima folata di vento, vola via senza lasciare traccia. Scusami se ti ho lasciato sola con il tuo dolore, ma non ho avuto il tempo per aiutarti a leccare le tue ferite, è successo tutto così in fretta, così presto che, non ho nemmeno avuto la possibilità di accorgermene e reagire, perché nel frattempo tutto era già andato a rotoli, tutto era già andato a male, tutto era già perduto".
 
Callie è seduta contro il muro a piangere, non sa proprio cosa fare e pensare, la sua mente non è lucida, il suo corpo è frastornato dagli eventi e da quei piccoli e grandi cambiamenti che l'arrivo di un bambino porta con sé.
 
Rilegge una delle ultime frasi che sua moglie le ha scritto nella lettera le lacrime le scendono sempre più copiose e incessanti lungo il volto.
 
"Non cercarmi perché non mi troveresti, nemmeno io so dove mi sono smarrita".
 
"Come farò a trovarti Arizona? Come farò?" si chiede Callie.
 
"Questa è la solita storia che si ripete. La solita dannatissima storia della mia vita: ogni qualvolta mi sembra di aver toccato il cielo con un dito, tutto si complica, tutto si rovina, prima con George, poi con Erica, ora con te, Arizona. Sai, a volte mi piacerebbe non alzarmi dal letto, per un giorno soltanto e vedere che il mondo, dall' alba al tramonto, è andato avanti lo stesso, anche senza dime, forse meglio, forse peggio, non so. Sicuramente non avrei combinato pasticci, non avrei ferito gli altri, non mi sarei messa in imbarazzo o in ridicolo davanti a loro, in quel solo, unico giorno" pensa Callie.
 
La donna è lì, a terra, contro il muro, ormai da diversi minuti in attesa di qualcuno o di qualcosa, di Arizona che bussi alla porta e le dica: " Mi dispiace, ho sbagliato, avevo solo bisogno di un po’ di tempo per rielaborare il lutto" e di un abbraccio.
 
Ma sa che è impossibile, perché sua moglie impiega sempre molto tempo a tornare sui suoi passi e quindi è conscia del fatto che, probabilmente, non riuscirà a vederla presto.
 
 
 
Mark, intanto, si è appena svegliato, oggi per lui è il primo giorno di lavoro dopo l'incidente, dopo Lexie.
 
Si alza e va in cucina a prepararsi un caffè, come ogni mattina.
 
"Strano - pensa - di solito Callie e Arizona sono già qui a quest' ora".
 
"Callie, sbrigati! Faremo tardi al lavoro! Non mi vorrai far arrivare tardi proprio oggi" le urla Mark.
 
Dalla camera di Callie e Arizona non proviene alcuna risposta, solo una sorta di mugolio indistinto.
 
Mark si preoccupa e si precipita nella loro stanza.
 
Il letto è sfatto solo da un lato, ci sono oggetti sparsi per tutto il pavimento, vestiti, monete, biancheria, scarpe e c'è Callie a terra, sdraiata, in preda ad un pianto disperato e pieno di panico.
 
Mark corre da lei spaventatissimo, ha paura che possa essere successo qualcosa di brutto a lei o al bambino.
 
"Callie, cosa è successo? Stai male? Vieni" e l'aiuta a sedersi, l' abbraccia e tiene la testa della donna contro il suo petto, le accarezza i capelli con dolcezza.
 
Callie continua a piangere disperata, il suo respiro è corto e affannoso, i suoi occhi sono vitrei e vuoti, senza espressione, si aggrappa a Mark con tutte le sue forze, come se fosse la sua ancora di salvezza.
 
"Callie, dimmi qualcosa, qualunque cosa" le dice Mark.
 
Ma Callie non risponde, parlare le fa troppo male, respirare le fa male, persino il fatto di essere al mondo le provoca un dolore quasi fisico. Preferisce farsi cullare dolcemente da Mark  e respirare all'unisono con lui, le sembra di essere di nuovo piccola tra le braccia di suo padre, del suo caro e amato padre.
 
Rimangono così abbracciati l'uno all'altra per circa venti minuti, nei quali Callie non riesce a calmarsi nemmeno un po’, continua a respirare con affanno e a singhiozzare, vicino a lei si accumulano fazzolettini di carta colmi di lacrime.
 
"Cerca di tranquillizzarti, Callie - le dice Mark - cerca di respirare più lentamente o andrai in iperventilazione e allora sarò costretto a prenderti tra le mie braccia e a portarti in ospedale dalla Dottoressa Stewart, che, senza dubbio, ti terrebbe in osservazione tutto il giorno e ti tratterrebbe lì anche la notte. Vuoi forse che io ti porti in ospedale, è questo che vuoi?".
 
Mark si preoccupa sempre di più per Callie, la quale non parla e fa solo cenno di no con la testa.
 
"Vuoi che chiami qualcuno? Vuoi che chiami Arizona?".
 
Al sentire quel nome, Callie comincia a piangere sempre più forte ed ha difficoltà nel respirare.
 
"Vieni qui, vieni alla finestra, hai bisogno di respirare una boccata d' ossigeno. Respira, respira solamente, dimenticati tutto il resto" le dice Mark, sorreggendola fino alla finestra.
 
"Ossigeno, mi serve ossigeno, ho bisogno di respirare aria pura. Ho bisogno di te, Arizona, mai come in questo momento ho la necessità di sentirti qui, vicino a me, a Sofia, al nostro bambino. Perché te ne sei andata? Perché mi hai lasciata sola a portare questo enorme peso? Perché non mi hai lasciato modo e tempo per aiutarti a superare questo dolore? Perché hai preferito scegliere la strada dell' incertezza alle certezze della famiglia? Perché mi hai spezzato il cuore?", pensa Callie in preda alla sofferenza più viva, più sincera, in totale balia dei suoi sentimenti, delle sue emozioni.
 
"Ecco, così, brava, respira profondamente, così va bene, stai andando alla grande" le dice Mark che non la sta perdendo di vista neanche un secondo.
 
"Io - fa un respiro - io ho trovato una lettera sul mio comodino, una lettera di Arizona, lei dice ... dice che lei non mi merita e non ce la fa più a vivere con noi e ... dice di non andare a cercarla e io ..." Callie continua a piangere.
 
Mark l' abbraccia e la consola.
 
"Non preoccuparti, probabilmente ha solo bisogno di riflettere, di rielaborare il suo dolore. Sono certo che lei non commetterà sciocchezze, è una donna in gamba, con la testa sulle spalle, molto responsabile, ha solo bisogno di tempo per pensare, per decidere, per soffrire sola e in silenzio. Ma io sono qui, lo sai vero? Sono con te, certo non sarò affascinante ai tuoi occhi come Arizona, non avrò gli occhi azzurri e i capelli biondi, ma sono comunque uno schianto, no?" le dice Mark per sollevarle il morale.
 
Callie abbozza un debole sorriso.
 
"Vieni, andiamo in salotto, stamattina affogheremo il dolore mangiando schifezze sul divano. Sono un vero e proprio toccasana per i cuori infranti".
 
"Ma tu non dovevi iniziare oggi a lavorare in ospedale?" chiede la donna.
 
"Sì, ma per oggi l'ospedale dovrà sopravvivere senza di me, oggi sono tutto tuo. Avverto Webber e ti preparo qualcosa di appetitoso".
 
"Grazie" gli dice Callie.
 
"Di nulla".
 
Mark entra nella sua stanza e legge il biglietto che Arizona gli ha lasciato: "Non ti chiedo di perdonarmi per quello che sto facendo, ma solo di aiutarle, di aiutarla dove io non sono stata capace".
 
Le parole di Arizona lo colpiscono al cuore e lo lusingano al tempo stesso; lei ha pensato di affidargli i suoi affetti più cari nel momento in cui non se l'è più sentita di occuparsene.
 
Esce dalla camera e sbircia Sofia che dorme beatamente nel suo lettino, e poi Callie, che, sdraiata sul divano, piange tutte le sue lacrime e si massaggia la pancia sconsolata.
 
"Farò quello che mi hai detto, Arizona, le aiuterò, le sosterrò, le amerò, senza giudicarti, né biasimarti. Asciugherò le loro lacrime e le farò sorridere, perché sono la mia vita, la nostra vita e ti ringrazio per questo, per avermi permesso di farne parte.
 
Ti ringrazio perché mi hai accolto anche se non ne eri convinta, anche se all'inizio non ti piacevo, ti ringrazio per avermi dato una chance. E non ti deluderò, amerò la nostra famiglia più di me stesso e la proteggerò fino al mio ultimo respiro, fino a quando non tornerai".
 
 
 
 
 
Note dell' autrice:
 
* Ringrazio tutti voi che mi seguite e recensite con tanto affetto
 
* Ho aggiunto due capitoli questa settimana perché tra due giorni parto e per una settimana non potrò aggiornare
 
A presto
 
lulubellula

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodicesimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Dodicesimo


 
Arizona è in macchina, è stanca e priva di energie, ha passato gli ultimi due giorni a piangere e a disperarsi per la morte di Nick, ora è senza lacrime, non ha più né la voglia, né la forza di soffrire.
 
Sta guidando verso il cimitero, vuole esserci per Nick, un'ultima volta, anche se lui non c'è più, anche se non può fare più niente per lui, anche se non serve più a nulla.
 
"Vorrei avere la fede che ha Callie - pensa - vorrei averla qui vicino a me, vorrei non essermene mai andata, vorrei non averla abbandonata di nascosto, di notte, come se fossi una ladra. Una ladra, forse è proprio quello che sono, ho rubato una vita che non è la mia, una vita che non mi merito, un'esistenza che ho rifiutato più volte, proprio quando lei, anzi loro avevamo più bisogno di me".
 
Arizona è giunta a destinazione, parcheggia l'auto e si avvia verso il cimitero, dove, nel frattempo, è già iniziata la cerimonia funebre.
 
La ghiaia dei viottoli le sporca le décolleté rosa antico, scolorite dal tempo e un pochino strette, ma lei non ci fa caso, è troppo concentrata sul suo dolore e sulla necessità di non farsi notare da nessuno.
 
Vede il Reverendo Samuel che officia alla cerimonia, che sta terminando le esequie funebri, poi il padre e la madre di Nick, alcuni suoi amici e vecchi compagni di scuola e quasi tutti i suoi colleghi, o almeno quelli con cui aveva stretto amicizia.
 
Vede Meredith e Derek, Cristina e Owen, Alex, Jackson e April, Webber e la Bailey, infine Mark e Callie.
 
La donna è ridotta ad uno straccio, è pallida e sofferente, ha le occhiaie molto pronunciate  e si aggrappa a Mark durante gli ultimi scampoli della cerimonia.
 
Vederla così fa male ad Arizona, la colpisce duramente e la ferisce.
 
Vorrebbe tanto andare da lei, abbracciarla, chiederle perdono e dirle che non la lascerà mai più, ma non lo fa, è troppo presto, troppo presto per il suo dolore, troppo presto per lei, per Callie, troppo tardi per tornare sui suoi passi.
 
Semplicemente troppo.
 
Terminato il funerale, la bara di Nick viene adagiata nel terreno, in attesa di essere ricoperta di terra e fiori.
 
Le persone, dopo averlo salutato un' ultima volta, cominciando a diradarsi e ad uscire dal cancello principale.
 
Callie inizia a guardarsi attorno con ansia e preoccupazione, spera di vederla, di vedere la sua Arizona da qualche parte, nell'immenso prato verde o tra le fronde dei cipressi.
 
Mark si accorge immediatamente del suo comportamento e si avvicina a lei, mettendole un braccio attorno alla spalla.
 
"Vieni Callie, andiamo a casa, la cerimonia è terminata e Sofia ti aspetta. Inoltre non hai una bella cera, è meglio se ti stendi un po’ sul divano, tutte queste emozioni insieme non ti fanno per niente bene e non fanno bene neanche al bambino" le dice Mark.
 
"Sto bene - dice Callie spostandosi stizzita -  sto solo guardandomi attorno, sto solo ...".
 
"Cercando Arizona?" le chiede Mark.
 
Callie fa cenno di sì con la testa.
 
"Pensavo che sarebbe venuta, pensavo che sarebbe venuta a salutarlo, pensavo che ..." inizia Callie, ma le parole le muoiono sulle labbra, una lacrima le riga il volto tirato e preoccupato.
 
"Forse non se l'è sentita di venire" dice Mark.
 
"Ma era il suo migliore amico, lei sarebbe dovuta venire".
 
"Andare al funerale di qualcuno non significa aver amato sinceramente quel qualcuno. Spesso chi soffre di più non lo manifesta nemmeno" le dice saggiamente Mark.
 
"Hai ragione, andiamo da Sofia" Callie se ne va.
 
Arizona li vede allontanarsi e, dopo essersi accertata di essere rimasta sola, si avvicina al luogo in cui il suo amico è stato sepolto getta un mazzo di rose bianche sopra la sua bara, poi si toglie le scarpe e le rende a lui.
 
"Tieni - dice - queste non mi servono più, sono gli ultimi resti del nostro matrimonio, voglio che li tenga tu. Non so nemmeno perché sono qui a parlarti, ora che tu non puoi più nemmeno sentirmi, ora che il tuo cuore ha cessato di battere, che i tuoi polmoni sono collassati, che i tuoi muscoli hanno ceduto all'incedere inesorabile del rigor mortis, che i tuoi occhi non possono più vedermi, che le tue braccia non possono più stringermi. Però io lo faccio lo stesso, anche se non credo che dopo la morte possa esserci un'altra vita, lo faccio perché Callie mi ha insegnato a farlo, perché lei crede a tutto questo, perché pensa che la morte sia solo una barriera d'accesso a un' altra esistenza, più bella, più vera, più spensierata. Una vita in cui tutti gli affanni terreni ci sembreranno solo sciocchezze, una vita in cui lo scorrere del tempo sarà lento come l'eternità e veloce come un battito di ciglia, una vita in cui non ci saranno litigi, preoccupazioni o esami, una vita in cui si gioirà e basta, si sarà felici dalla mattina alla sera, una vita in cui le lacrime saranno bandite perché non ci sarà motivo per piangere" dice Arizona, cercando di scacciar via le lacrime che continuano a rigarle il volto.
 
"Avrei dovuto fare qualcosa per aiutarti, non so cosa, ma, dopotutto, qualunque cosa sarebbe stata meglio del mio niente. Avrei dovuto chiamarti più spesso e non solo per il tuo compleanno e per Natale, ti avrei dovuto scrivere più lettere, rispondere alle tue cartoline, farmi coinvolgere in qualcuna delle tue pazze ed esilaranti avventure in giro per il globo" continua Arizona, cercando di schiarirsi la voce.
 
Nel frattempo, nel cimitero deserto si alza un leggero venticello autunnale, che preannuncia l'arrivo di una stagione più rigida e senza vita, che annuncia al mondo intero che l'inverno è ormai alle porte.
 
Arizona però non sembra notare nulla di tutto ciò, è troppo concentrata sul suo discorso a Nick.
 
"Spero tanto che esista una vita oltre la vita, perché tu ti meriti di avere una seconda chance, perché tutti la meritiamo. Un'esistenza perfettamente semplice e semplicemente perfetta, un' esistenza senza malattie e disgrazie, malumori e incertezze, un'occasione unica per riscoprire se stessi e ritrovare gli altri, quegli affetti che, gli affanni della Terra, ci impediscono di coltivare come vorremmo".
 
Arizona fa una breve pausa e conclude.
 
"Questo e molto altro è quello che mi auguro per te, quello che ti sei guadagnato con fatica durante il tuo percorso e che meriti di avere. Ora devo andarmene, devo tagliare il cordone ombelicale che mi lega a te perché mi sta impedendo di vivere la mia vita, mi sta impedendo di essere serena, di amare e di stare vicino a Calliope, alla mia piccola Sofia e al figlio che deve ancora venire alla luce. Ora devo recidere questo legame se voglio andare avanti, anche se è difficile, anche se fa male, anche se preferirei morire piuttosto di essere costretta a farlo. Devo reciderlo perché mi impedisce di crescere, di andare avanti, devo farlo perché io sono ancora viva, respiro, soffro, provo emozioni, amo. Perciò ti dico addio, in questa mattinata di fine novembre, ti lascio andare in pace e me ne vado con il cuore addolorato ma più leggero, sapendo che occuperai per sempre un posto speciale nella mia mente e nei miei ricordi".
 
Arizona si allontana e cammina lungo il sentiero di ciottoli, sino alla sua auto, apre la portiera e sale, la chiude e si avvia verso Seattle.
 
Ha intenzione di chiedere ad Hunt un periodo di aspettativa per poter mettere ordine nella sua vita, nella sua incredibilmente complicata esistenza.
 
Ha bisogno di starsene lontana per un po’ da Seattle, le serve tempo per riflettere e per rielaborare il lutto, tempo per capire cosa vuole fare e dove vuole andare.
 
E tutto questo da sola, senza Callie, senza la donna a cui aveva promesso amore e fedeltà eterni, senza la madre dei suoi figli, la sua amante, la sua migliore amica.
 
"Cara Callie, ora ti lascio sola e vado via, lo faccio per evitarti un dolore, per alleviarti la sofferenza di vedermi nuovamente a pezzi, nuovamente spenta, cupa e triste, perché non c'è niente di peggio nel veder soffrire qualcuno che ami e sapere che non puoi fare nulla per aiutarlo, per farlo sentire meglio. C'è chi dice che un peso è più leggero se lo si porta in due, ma questo peso devo sorreggerlo da sola, tu non puoi dividerlo con me. E anche se sono conscia del fatto che la mia partenza continuerà a procurarti un dolore immenso, ti prego di capirmi e di perdonarmi. Ti prego di lasciare le porta di casa nostra sempre socchiusa perché, presto o tardi, tornerò e spero che tu avrai la forza di riammettermi nella tua vita. Ti amerò per sempre, tutta la vita e un po’ di più. Aspettami, tua Arizona".
 
Preme il tasto "Invio" sul cellulare e se ne va, sola, in cerca di risposte, senza sapere a quale domanda.
 
 
 
Note dell' autrice:
 
* Grazie mille a chi leggerà e recensirà questo nuovo capitolo e a chi sta seguendo l'intera storia
 
lulubellula

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Capitolo 13
*** Capitolo Tredicesimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Tredicesimo

 
"Credi che dovremmo comprare la carta da parati con gli orsacchiotti o quella con le fatine?" chiede Mark, rivolgendosi a Callie.
 
La donna fissa un punto indistinto all'interno del megastore di bricolage e fai da te, luogo in cui era andata su espressa di volontà di Mark, il quale l'aveva accompagnata o per meglio dire trascinata per cercare di distrarla un po’.
 
"Callie!"
 
Nessuna risposta.
 
"Callie!"
 
La donna si volta.
 
"Ma mi stavi ascoltando? Hai sentito quello che ti ho chiesto? Hai udito quello che ti ho detto nell'ultima mezz'ora?" chiede Mark, con un'espressione a metà tra il seccato e il preoccupato.
 
"No, veramente no. Scusami, è solo che in questo periodo ha la testa da tutt'altra parte. Stavo pensando, stavo solo pensando a ..." incomincia la donna, con gli occhi lucidi e velati di umide gocce di sale, con la timidezza e la paura di chi si imbarazza ad esternare i propri sentimenti di fronte agli estranei, di chi ha paura di vedere la propria vita privata di nuovo di dominio pubblico, sulla bocca di tutti, la notizia del momento, il pettegolezzo del quartiere.
 
"Stavi pensando a lei, vero?" chiede Mark, dandole un abbraccio fraterno.
 
"Sì, scusa" si stropiccia gli occhi con le nocche per scacciare le lacrime.
 
"Ora basta, vedi, sto già meglio" mente Callie.
 
"Ti aiuterò a cercare la carta da parati per il nostro bambino" dice lei, abbozzando un sorriso.
 
"Ok. Allora, hai deciso cosa preferisci? Orsacchiotti o fatine?".
 
La carta con gli orsacchiotti aveva uno  sfondo verde translucido e tante immagini divertenti e tenere di quegli stupendi mammiferi, impegnati in svariate attività, come pescare, inseguire farfalle o divorare con golosità vasi di miele.
 
La carta con le fatine era su sfondo celeste, tanti piccoli esserini la animavano, esserini magici e vivaci che correvano insieme, formulavano incantesimi e roteavano leggere come libellule sui pattini a rotelle.
 
Callie le osserva entrambe con attenzione mentre Mark attende speranzoso una risposta della donna, tenendo tra le mani i due rotoli.
 
Entrambe le decorazioni sono carine, adatte ai bambini e dipinte con colori ad acqua e lavabili, assolutamente atossiche e pratiche e semplici da applicare al muro.
 
Alla fine, la donna sceglie la seconda carta da parati, forse perché sa che le fatine bionde piaceranno anche alla piccola Sofia, forse perché quegli esserini fatati che si muovono con grazia e leggerezza sui pattini a rotelle, sono così simili alla sua Arizona e, la loro vicinanza, la fa sentire al sicuro, come se una parte di lei fosse ancora lì con loro.
 
"Ottima scelta - dice Mark - la carta con le fate è proprio bella, anche se spiccatamente da bambina e noi non sappiamo ancora il sesso del nascituro. Comunque, al massimo, possiamo usarla per rifare la cameretta di Sofia e tornare a comprare qualcosa d'altro, nel caso si tratti di un bambino" esclama Mark.
 
"D' accordo, direi che non ci manca altro. Possiamo andare?" chiede speranzosa.
 
"Fammi prima dare un' occhiata alla mia lista".
 
Estrae un foglio a quadretti piegato a metà dalla tasca dei pantaloni.
 
"Allora, chiodi, carta da parati, colla, puntine, cacciaviti, mensole... Abbiamo quasi tutto, ci manca solo una latta di vernice azzurra e poi possiamo andare a pagare alla cassa" la informa Mark.
 
Giunti al reparto vernici, Mark chiede a Callie quale tonalità di celeste preferisca per tinteggiare le pareti.
 
"Questa" dice lei prendendo una latta da 10 litri e mettendola nel carrello.
 
"Mmm, vediamo cosa hai scelto... Blu oltremare, un po’ più scuro del previsto, ma è un'ottima scelta, se lo sfumiamo con una parte di bianco, si può schiarire" afferma lui pensandoci un po’ su.
 
"No, va benissimo così. Il blu oltremare è perfetto così com'è, non c'è bisogno di nient' altro" dice Callie.
 
"Non ha bisogno di nessun altro" pensa lei, focalizzando la sua mente sugli occhi di Arizona, di un azzurro limpido e pulito, che la sera assumevano curiosamente una tonalità più scura, tendente proprio a quello splendido colore, al blu oltremare.
 
 
 
A molte miglia di distanza, Arizona si trova seduta sulla spiaggia a fissare il mare, ad ammirare la sua magnificenza e grandiosità durante l' inverno, quando nessuno, se non i gabbiani e qualche raro passante, osa avventurarsi.
 
La donna indossa abiti pesanti e un paio di scarponcini, un maglione di lana che sua madre aveva confezionato per lei e che le aveva regalato per Natale, un paio di pantaloni color petrolio in pile e un berretto blu che aveva comprato insieme a Callie, circa due anni prima, durante un romantico week end passato in montagna.
 
Arizona ha guidato per una settimana senza sapere bene la sua destinazione, macinando miglia su miglia, percorrendo tratti di costa e zone dell'entroterra, fermandosi a mangiare in qualche tavola calda o al fast food, un pasto precotto e non esattamente sano, consumato in una manciata di minuti e poi via, di nuovo a guidare e a spostarsi.
 
Finché la tiepida e pressoché assente luce del sole di quell'insolitamente mite mese di dicembre le accarezzava il volto, poteva dirsi tranquilla, o perlomeno distaccata dai problemi che le riempivano le lunghissime nottate, passate in hotel da pochi soldi, scelti appositamente per dare meno nell'occhio, dove 50 dollari in più valevano come una carta d'identità.
 
I letti di quegli hotel a due stelle o meno erano insolitamente e tremendamente scomodi, troppo molli e informi, troppo grandi, troppo vuoti per lei sola.
 
La notte era decisamente il momento più difficile della giornata, i pensieri che cercava di mantenere in stand by durante il giorno, le si ripresentavano alla mente proprio allora, nel buio della notte, disturbato dalla luce e dal ronzio dell'insegna al neon dell' hotel.
 
Allora, tutte le ombre della sua vita si affollavano per impaurirla, sconfortarla, quasi a voler riscuotere un vecchio conto, mai del tutto dimenticato.
 
"Nick si è ammalato".
 
Una lacrima le riga il volto.
 
"Mi ha chiesto aiuto troppo tardi".
 
Prende un fazzoletto dal cassetto del comò.
 
"Abbiamo avuto un incidente aereo".
 
Si asciuga le lacrime.
 
"Lexie è morta e con lei una parte di noi".
 
Pensa a Mark che l'ha persa per sempre.
 
"Eravamo sconvolti e a pezzi e tu ci hai aiutati".
 
Pensa a Callie che sta soffrendo con lei, per lei, a causa sua.
 
"Nick è morto".
 
Scosta una ciocca di capelli dal viso.
 
"E io me ne sono andata".
 
Si alza, prende in mano il borsone, chiude la porta dietro di sé, va al parcheggio e riprende il suo viaggio disperato.
 
"Però, forse non è tutto perduto".
 
Pensa Arizona, facendo inversione di marcia e tornando sui suoi passi.
 
 
 
"Cerchiamo risposte, pretendiamo risposte, dopo i classici "Mamma e papà", una delle prime parole a cui i bambini si affezionano è "Perché?". Perché fuori piove e non c'è il sole? Posso non posso mangiare io tutto il gelato? Perché le persone soffrono? Perché la gente muore? Perché quelli che amiamo ci lasciano e se ne vanno via? Passiamo tutta la vita a cercare di rispondere a questi interrogativi della nostra mente. Scriviamo e leggiamo per dare sfogo a questa nostra necessità, viaggiamo, studiamo, ci informiamo, nella speranza di poter esaurire questa nostra incessante curiosità, questa nostra brama di conoscenza. Ma falliamo perché, per ogni risposta trovata, ci sono moltissime nuove domande che ci impegnano la mente. E quando ci rendiamo conto di aver sprecato la nostra esistenza ad inseguire chimere, castelli in aria, forse è troppo tardi perché l' abbiamo buttata via in questo modo. O forse no, perché, dopotutto, una vita senza la ricerca continua di quel qualcosa che ci manca, dello slancio dei sogni, delle aspirazioni, delle domande che ci martellano la mente è davvero una vita veramente vissuta? E alla fine ci accorgiamo che, dopo tanto peregrinare, forse, la risposta che cercavamo era proprio lì, dove non ci saremmo mai aspettati, proprio davanti ai nostri occhi".

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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordicesimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Quattordicesimo


 
21 Dicembre 2012
 
"Hai già invitato Derek, Meredith e Zola al Cenone della Vigilia?" chiede Mark, trasportando due pesanti buste della spesa nel suo appartamento.
 
"Sì, sì, li ho invitati, così come ho già avvertito gli altri, Cristina e Owen, Alex, Richard, la Bailey, Jackson e April. In tutto saremo in tredici" afferma Callie.
 
"In tredici? Spero che tu stia scherzando? Non lo sai che il tredici è probabilmente il numero più funesto sulla faccia della Terra?" chiede Mark spazientito.
 
"Se vuoi, posso invitare qualcun altro. Joe, ad esempio, sono anni che ci serve dell'ottimo alcool e ascolta tutte le nostre storie senza senso, tutti i nostri amori falliti, tutte le nostre cazzate. C'è un piccolo problema però, dovremmo invitare anche il suo compagno e la sua anziana madre e anche suo suocero, così saremmo in diciassette. Ma credo che nemmeno il diciassette sia il tuo numero preferito" risponde Callie divertita.
 
"No, hai ragione, nemmeno il 17 è il mio numero preferito. Credo che il 13 andrà benissimo" risponde Mark sorridendo.
 
"Ok, allora è deciso, saremo in 13 al Cenone della Vigilia, festeggeremo qui, nel tuo appartamento. Hai già comprato tutto il necessario?" chiede Callie all' uomo.
 
"Sì, direi di sì. Mancano solo le decorazioni dell' albero e il vino" dice Mark.
 
"Stai prendendomi in giro? Non hai ancora comprato le decorazioni? Lo sai benissimo che Sofia adora le luci di Natale, le decorazioni in vetro, i dolcetti di pandizenzero appesi sull' albero e mangiucchiati ad uno ad uno di nascosto, le caramelle alla frutta e gli orsetti gommosi. Come hai fatto a dimenticare qualcosa di così importante per Sofia, per tua figlia?" chiede Callie in preda ad un palpabile nervosismo e alzando la voce.

La donna inizia a camminare avanti e indietro per la stanza, è tesa e triste, indossa un'adorabile (a detta di April) o per meglio dire orribile abito prémaman color rosa confetto che le fascia le forme morbide e aggraziate, che sottolinea il punto vita da donna ormai giunta al fatidico quarto mese di gravidanza, quello in cui le nausee e gli sbalzi ormonali dovrebbero essere un lontano e spiacevole ricordo.
 
Ma non per lei, non per Callie.
 
Quando aveva scelto di avere un altro figlio, aveva immaginato un'esperienza totalmente diversa, si aspettava di avere davanti nove mesi di coccole e attenzioni, di calzine gialle e verdi sferruzzate con amore, di gelato al cioccolato mangiato nel cuore della notte e di una persona amata che le appoggiasse un orecchio sulla pancia e parlasse con il bambino raccontandogli le favole.
 
Quello che stava vivendo lei era infinitamente diverso dalle sue aspettative, la sua gravidanza era più complicata di quanto avesse previsto, le nausee la accompagnavano per l'intera giornata, lasciandole solo brevi e inaspettati momenti di tregua di tanto in tanto, le notti sembravano avere spazio solo per l' insonnia o per gli incubi, crudi e senza via d' uscita che la conducevano fino al risveglio, uno schiaffo in pieno volto, una doccia ghiacciata, sullo sfondo di un cuscino candido e madido di sudore e lacrime.
 
"Calmati Callie! Stai ferma! Mi stai facendo venire il mal di testa a furia di guardarti camminare per la casa e di ascoltare il tuo sfogo. E poi ... ehi, un attimo, gli insulti in spagnolo non valgono, lo sai che sono a malapena un principiante!" Mark tenta invano di calmarla.
 
Callie si ferma e riprende fiato, poi si porta la mano ad un fianco e fa una strana smorfia, quasi di dolore.
 
Mark le si avvicina immediatamente, preoccupato e spaventato, teme che lei possa sentirsi poco bene e che tale disturbo, aggiunto alla tensione emotiva di Callie, possa aver fatto male al piccolo.
 
"Vieni qui - si avvicina alla donna - siediti sul divano e rilassati. Come ti senti? E' tutto ok? E' forse il bambino? Callie, rispondimi per favore. Devo portarti in ospedale? No, forse è meglio che io chiami la Dottoressa Stewart e poi ti porti lì" si gira e cerca il numero di telefono.
 
"Ma dove diavolo l'avrò messo?" continua a cercare la sua agenda.
 
"Ah, sì, l'avevo memorizzato sul cellulare - sul suo volto compare un'espressione soddisfatta e lievemente tranquillizzata - oh, caspita, ma ora dove avrò messo il mio cellulare? C'è un tale caos in questo appartamento che potrei impiegare delle ore a ritrovarlo!".
 
L' uomo è sempre più palesemente in preda al panico e non sa più che cosa fare o chi chiamare, quando qualcosa o meglio qualcuno lo riporta alla realtà.
 
"Papà".
 
Mark si volta.
 
Sofia si avvicina a lui, malferma sugli arti inferiori e gli porge l' oggetto.
 
"Guarda, cellare, papà!".
 
Il volto di Mark si illumina di gioia alla vista dei primi passi della piccola Sofia, della sua principessina adorata e prende il cellulare tra le mani, lo appoggia sul tavolo e poi la stringe tra le braccia e le dà un bacio sulla guancia
 
"Brava, principessina mia, sai camminare da sola come una bambina grande e mi hai anche ritrovato il cellulare - sorride - ora andiamo a dirlo alla mamma - si ferma un secondo e impallidisce - oh mio Dio, la mamma!" corre in salotto con Sofia in braccio.

 
Callie è sul divano, pallida e triste, si accarezza la pancia e piange.
 
Mark poggia Sofia per terra, vicino alla casetta delle bambole, e va da Callie.
 
"Cosa c'è? Che cosa è successo?" Mark le si avvicina preoccupato.
 
Callie si volta verso di lui.
 
"Nulla, ho solo avuto una fitta al fianco, credo che il bambino abbia fatto il suo primo maldestro tentativo di tirarmi un calcio" si asciuga le lacrime e abbozza un timido sorriso.
 
"Lo hai sentito muoversi? E' bellissimo - si commuove - ma allora perché piangi?" le chiede Mark.
 
Callie si asciuga il volto e risponde: " Ti è mai capitato nella vita di avere l'esigenza impellente di dare una bella notizia agli altri e che, per quanti tu riesca ad informare, ti basterebbe dirlo solo ad una persona, a quella persona, per essere felice, per toccare il cielo con un dito? Eppure non riesci, non puoi perché quella persona non c' è, non c' è più o non vuole ascoltarti, non vuole farsi trovare da te. E allora che senso ha avere qualcosa di così stupendo da raccontare, da dire al mondo intero se non puoi condividerlo con lei, che senso ha sentire il bambino che scalcia nella pancia, se lei non è qui con te a percepire il movimento delle sue gambine o il tuo battito del cuore lievemente accelerato per l' emozione?".
 
Mark la guarda e la abbraccia con affetto fraterno.
 
"Dillo a me, cerca di dirmi quello che provi, quello che senti in questo momento, dimmi tutto ciò che hai dentro fino a che non hai svelato anche l' angolo più recondito del tuo cuore" le dice Mark.
 
Lei annuisce e lo guarda intensamente negli occhi, il buio della notte che si getta a capofitto nel mare.
 
"Sai che cosa penso in questo preciso momento? Penso che se anche oggi fosse veramente l' ultimo giorno della mia vita, l'ultimo giorno delle vite di tutti noi, per me non cambierebbe molto. Penso che il mio mondo sia già finito da un po’, che si sia sgretolato un pezzo alla volta, prima George che non voleva dirmi che mi amava ma poi mi ha illusa e tradita, gettandomi via come un vecchio calzino spaiato, poi Erica, che mi aveva mostrato un nuovo volto dell'amore, dell'amare e che se n'era andata lasciandomi lì, a rischiare il fondo di un barile vuoto e al tempo stesso pieno di risentimento, autocommiserazione e di sogni infranti. E poi è arrivata Lei, la mia Lei, Arizona, e tutto mi è sembrato di colpo così semplice e bello, così pulito e fresco, come lo sguardo di un bambino appena nato, avvolto in un vestitino lindo e bianco, così innocente e speciale, che a volte, ho avuto paura di rovinare tutto solo sfiorandolo con le dita. Eppure alla fine, si è disintegrato tutto lo stesso, anche lei se n'è andata, non mi ha ritenuta alla sua altezza, non sono stata abbastanza per lei, non sono stata capace di cancellare il suo dolore, di asciugare le sue lacrime, di ricordarle il nostro "Nella buona e nella cattiva sorte". Nemmeno questa volta sono riuscita a mettere in salvo qualcosa, ho lasciato andare il mio amore alla deriva e mi sto facendo annegare per il dispiacere. Sto trascurando Sofia, il bambino, te, me stessa, sto lasciandomi sfuggire via questi momenti così importanti e significativi perché il mio mondo è già finito. Il mare si è prosciugato, le montagne sono franate, le foreste andate a fuoco, il cielo si è oscurato, le stelle e il Sole si sono spenti e io mi sono seduta su una roccia aspettando la mia fine" conclude Callie piangendo.
 
Mark, dopo aver ascoltato l'intero discorso di Callie, la consola e poi le dice: "Anche il mio mondo non c'è più, se n'è andato via con l'ultimo respiro di Lexie, con quel lamento dolce e disperato con cui lei si è congedata da questa vita. Per giorni, settimane, mesi, ho pregato di morire anch'io, che qualcosa o qualcuno ponesse fine al mio dolore e mi riportasse da lei. Ma poi ho capito, ho compreso che questo mio comportamento stava uccidendo anche gli altri, non me lo ha detto esplicitamente nessuno, ma mi è bastato vedere la sofferenza negli occhi di Derek, lo sguardo assente di Meredith, il dolore di Arizona, le tue spalle curve che trasportavano i nostri macigni interiori, il sorriso spento di Sofia. Tutto ciò mi ha fatto capire che il mio mondo esisteva ancora, era lì, sepolto da qualche parte, sotto ammassi di dolore e angoscia, di odio e di desiderio di morte, lì sotto, nascosta, c'era ancora la mia speranza. Una volta ritrovata, mi sono aggrappato a lei come ad un'ancora di salvezza e non l'ho più lasciata da quel giorno. E pian piano, il cielo aveva nuovamente il sole e le stelle, il mare scorreva limpido e colmo d' acqua, le montagne si ergevano alte e maestose e le foreste mi rifocillavano con le loro ombra. Poi mi sono voltato e c'eravate tutti, tu, Sofia, Arizona, il bambino e anche gli altri e, in un posto speciale nel mio cuore e nella mia mente, c' era anche lei, Lexie, non se n'era mai andata.
 
E anche se ora stai soffrendo, sappi che quel bagliore di speranza c'è ancora in te, si è intrufolato da qualche parte, ma è ancora lì, devi solo ritrovarla e ritrovare te stessa. Vedrai che riuscirai a risollevarti e che Arizona tornerà da te e dal bambino, noi tutti staremo bene e saremo felici".
 
Callie si volta e con aria riconoscente gli dice: "Grazie. Da dove ti sono uscite tutte queste belle parole, tutta questa fiducia nelle persone e nel futuro?".
 
"Sai, una volta qualcuno mi ha detto che nella vita bisogna avere fede. Ci ho messo un po’ a capire cosa intendessi, ma ora ho fatto tesoro delle tue parole" le dice sorridendo.
 
"Credi che oggi finirà il mondo?" chiede lei.
 
"No".
 
"E domani sarà un nuovo giorno?".
 
"Sì. E splenderà il sole, comprerò le decorazioni dell' albero e il vestito da Babbo Natale" le dice Mark.
 
"Davvero?".
 
"Sì, davvero".
 
 
 
"Cerchiamo di essere i migliori per tutta la vita, nessuno aspira alla mediocrità o alla normalità, tutti vogliono primeggiare, essere straordinari, dimostrare agli altri quanto valgano. Passiamo ore ed ore sui libri, in ospedale, ad esercitarci, sacrifichiamo anni e anni della nostra vita per diventare i migliori, eppure questo non ci basta, questo non ci riscalda il cuore la sera, né ci conforta o ci risolleva il morale quando siamo tristi.
 
Alla sera, ciò di cui abbiamo bisogno, è una spalla amica su cui piangere tutte le nostre lacrime, di un volto amato da baciare, di qualche amico, un divano e una pizza, una valanga di confidenze.
 
Alla sera, tutto il resto, non conta.
 
 
 
 
 
Note dell' autrice:
 
 * Scusate per l'immenso ritardo con cui aggiorno ma sono tornata da poco dalle vacanze e ora sono sommersa dallo studio.
 
* Aspetto con ansia i vostri pareri, spero che siano numerosi
 
Al prossimo capitolo
 
lulubellula

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Capitolo 15
*** The Nightmare Before Christmas ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Quindicesimo

“The Nightmare Before Christmas”

 
Portland, 24 Dicembre 2012, 3 p.m.
 
Arizona tiene saldamente le mani sul volante, assaporando le centosettantaquattro miglia che la separano da casa sua, dalla sua famiglia, da Callie.
 
Sono ormai alcuni giorni che guida quasi senza sosta, ha praticamente attraversato tutta la West Coast, macinando miglia su miglia per ritornare in quel nido accogliente, in quel posto chiamato casa.
 
Su di lei, “Le avventure del mago di Oz” avevano sempre suscitato stupore e interesse, meraviglia e un trepido e profondo senso di magia; aveva storto un pochino il naso di fronte alla sprovveduta Dorothy, la protagonista del la pellicola, quella ingenua e a tratti un po’ petulante ragazzina, che si sentiva come una bestiola in gabbia a casa sua, ma che, dopo aver visitato la Città di Smeraldo e aver vissuto molteplici e mirabolanti avventure, non poteva fare a meno di provare la nostalgia di quel luogo, arrivando ad esprimere il desiderio di farvi ritorno.
 
Arizona, in fondo, non era poi così diversa da lei, da Dorothy, aveva passato gran parte della sua esistenza tra lavoro e brevi relazioni sentimentali senza troppa importanza, aveva lasciato il nido, la sua famiglia, alla ricerca della sua Città di Smeraldo e, alla fine, l’ aveva trovata, Seattle, “The Emerald City”, era proprio il luogo che cercava da tempo.
 
E insieme a lei, a Seattle, aveva trovato l’ amore, l’ amore con la A maiuscola, quello che fa battere il cuore, che fa sentire le farfalle nello stomaco, la mente annebbiata e fa venire il latte alle ginocchia.
 
Il suo non era stato il solito e stupido innamoramento a cui era abituata, non era la banale e un po’ squallida storiella da bar, non aveva trovato il caro vecchio e un po’ sopravvalutato principe azzurro ad attenderla sul suo cavallo bianco, lui non era mai stato il suo tipo ideale.
 
Aveva trovato una donna giovane e indipendente, per nulla indifesa e senza la pretesa di salvare o di farsi salvare da essere umano alcuno, una donna forte, orgogliosa e bella, incredibilmente bella, con quegli occhi grandi e pieni di speranza che le illuminavano il volto.
 
Di fronte a lei, la Città di Smeraldo scompariva, il suo sguardo era la sua luce, i suoi occhi erano la sua alba e il suo tramonto, le sue labbra il suo angolo di Paradiso, la usa voce la melodia che voleva sentire fino all’ estinguersi dei suoi giorni.
 
Stava ritornando da lei per questo, perché la sua Città di Smeraldo era diventata la sua casa, perché la sua casa era ovunque ci fosse anche lei, Callie.
 
Se il prezzo da pagare per tornare da lei fosse stato alto, l’ avrebbe pagato volentieri, a costo di chiedere perdono ogni giorno della sua vita per essersene andata via, a costo di restarsene fuori, sulla porta di casa, accucciata e infreddolita, solo per vederla entrare e uscire dal loro appartamento, a costo di dormire tutte le notti sul divano finché Callie l’ avesse perdonata.
 
Avrebbe fatto qualunque cosa pur di riavere indietro quel sorriso, quegli occhi scuri e luminosi al tempo stesso, quelle pizze riscaldate e i suoi caffè leggendari, quelle ciambelle mangiate piangendo abbracciate sul divano, quei baci teneri, dolci, vitali e disperati che la tenevano in vita più di ogni altra cosa.
 
“Ancora centosettantaquattro miglia e sarò a casa, solo centosettantaquattro miglia mi separano da te, Callie. Aspettami, sto arrivando!” pensa Arizona premendo più forte l’ acceleratore.
 
Seattle, 24 Dicembre 2012, 6 p.m., appartamento di Mark.
 
Mark è intento a preparare il cenone della Vigilia, mescola, impasta, assaggia, controlla il libro delle ricette ed esegue le indicazioni con la meticolosità di un chirurgo con in mano un bisturi da 10, piuttosto che un cucchiaio di legno.
 
Controlla l’ arrosto in forno, è quasi pronto, la pasta che lo avvolge è calda e dorata, le patate al cartoccio aggiunte all’ ultimo momento stanno assorbendo l’ aroma delle spezie che lui ha introdotto, la salvia, il rosmarino, il dragoncello.
 
“Ci sto mettendo il dragoncello … non che io abbia idea di cosa sappia, ma penso che quando le persone lo usano, sembra sempre che sappiano cosa stanno facendo”.
 
Ricorda queste parole come se le avesse sentite pochi minuti prima, come se al suo fianco ci fosse ancora Lexie, intenta a cucinargli qualcosa di appetitoso e invitante, come se lei dovesse entrare da quella porta da un momento all’ altro e baciarlo, avvolgendolo in un caloroso abbraccio.
 
Intanto, in salotto, Callie e Sofia stanno addobbando l’ albero di Natale con dolcetti e gocce di vetro decorate con penne glitter, con bastoncini di zucchero, stelle e fiocchi di neve in carta, ritagliati a mano.
 
La bambina è felice e si impegna a svolgere il compito assegnatole con molta costanza e curiosità, il volto e le sopracciglia aggrottate le donano un’ espressione seria e buffa al tempo stesso, che ricorda moltissimo quella di sua madre Callie.
 
Calliope invece sembra assente e pensierosa, ritaglia cartoncini colorati e appende decorazioni senza troppa convinzione, svolgendo il tutto in modo automatico e quasi meccanico.
 
Negli ultimi due giorni si è sentita poco bene, le nausee sono aumentate, sono comparsi anche capogiri e senso di vertigine, oltre ad un’ insolita e quasi cronica stanchezza.
 
Ovviamente ha deciso di non tacere e di tenere tutto dentro, tutto per sé, per non rovinare l’ atmosfera quasi magica e fiabesca che lei e Mark stavano cercando di ricreare in casa per regalare a Sofia un Natale il più sereno e gioioso possibile, nonostante la mancanza di Arizona e la morte di Lexie.
 
“Callie, puoi venire un momento in cucina?” urla Mark.
 
Callie si alza e invita Sofia a restarsene lì in salotto a dipingere i cartoncini con i pennarelli.
 
“Arrivo! Un attimo”.
 
Giunta in cucina, il profumo e la vista di cibi e pietanze diversi, sapientemente cucinati la assale, le attanaglia lo stomaco e le viscere, ridestando nuovamente in lei il suo malessere.
 
“Eccomi, Mark. Hai bisogno di aiuto?” chiede Callie, cercando invano di trattenere il respiro.
 
“Ho bisogno di un parere da parte tua. Cosa ne dici del menù che ho preparato per la Vigilia di Natale?” le chiede l’ uomo speranzoso.
 
Il tavolo è pieno di ogni leccornia, di antipasti e crudité di ogni tipo, a base di verdure, carne e pesce al centro della tavola vi è una zuppiera d’ argento da cui proviene un profumo buonissimo, poi un’ arrosto di vitello con contorno di patate, infine i dessert, un Christmas pudding, la mousse al cioccolato e una magnifica crostata alla crema di vaniglia guarnita con frutti di bosco, una vera e propria delizia per la vista ed il palato.
 
Callie è sorpresa e stupefatta per ciò che Mark è riuscito a preparare da solo in così poco tempo, gli è grata per quello che lui sta facendo per lei, per loro.
 
“E’ tutto assolutamente perfetto, magnifico … Veramente non ho parole per descrivere quello che hai fatto, che stai facendo e non mi riferisco solo al cibo o al Natale. Mi stai vicino, ti preoccupi per noi, pensi a noi, vegli su di noi,su di me” Callie lo fissa dritto negli occhi, una lacrima salata le sgorga lungo la guancia destra, gli occhi le brillano.
 
Mark le asciuga le lacrime e la abbraccia forte, un abbraccio caldo e pieno di sentimento, l’ abbraccio sincero di un amico che non ti lascia sola, né ti abbandona, che ti sta vicino, come può, come riesce, che ti risolleva quando sei a terra e sa come farti ritornare il sorriso sulle labbra.
 
“Non ti preoccupare, gli amici servono a questo, no? E poi sai che amo cucinare per le persone che amo, per i miei amici, per  Sofia” Mark le sorride e scioglie lentamente l’ abbraccio.
 
“Sì, hai ragione, lo so” conclude Callie.
 
“Vieni, prendi il cappotto, dobbiamo uscire” le dice Mark con un’ espressione indecifrabile dipinta sul volto.
 
“Perché dobbiamo uscire? Gli ospiti arriveranno per le nove, che senso ha uscire ora, mancano solo poco più di due ore, dobbiamo finire di decorare l’ albero e apparecchiare la tavola nel salone” dice Callie con aria interrogativa.
 
Mark sorride e con aria colpevole, ammette: “Ok, ora vuoto il sacco e confesso: Ho dimenticato di comprare il vino”.
 
Callie lo osserva e poi sorride: “Sei sempre il solito incorreggibile. Non ti smentisci mai!”.
 
Mark ride e dice: “Lo so, ma è per questo che mi ami”.
 
Insieme escono a fare quest’ ultimo acquisto prima del Cenone della Vigilia.
 
Portland, 24 Dicembre 2012, 9: 30 p.m.
 
Arizona esce dall’ auto e si dirige verso un vigile, intorno a lei ci sono automobili in coda e passanti infreddoliti che si affrettano a tornare nelle loro case con gli acquisti dell’ ultimo minuto.
 
“Mi scusi, come mai siamo in colonna? Ormai siamo fermi da ore e io avrei una certa fretta di ritornarmene a casa per la cena della Vigilia” chiede Arizona all’ uomo.
 
“Signora, lei non è l’ unica che deve tornarsene a casa, non vede che l’ intera corsia è bloccata? Più  avanti c’ è stato uno spaventoso incidente che ha coinvolto diversi automezzi, ci sono auto della polizia e mezzi di soccorso ovunque. Perciò mi dia retta, ritorni nella sua auto e non intralci il nostro lavoro”.
 
Nel frattempo, Arizona se n’ è già andata, sta incamminandosi verso il luogo dell’ incidente, dopotutto è un medico ed è suo preciso dovere prestare soccorso a chiunque ne abbia bisogno.
 
Il vigile cerca invano di fermarla: “Signorina, si fermi! Dove sta andando? Intralcerà il lavoro dei Vigili del fuoco, dei medici e dei paramedici!”.
 
Arizona si volta e risponde: “Sono un medico anche io, un chirurgo pediatrico per la precisione, le vittime dell’ incidente potrebbero avere bisogno delle mie competenze e del mio aiuto”.
 
“Una donna rimasta coinvolta è ferita ed è in travaglio, è alla trentatreesima settimana di gestazione, potrebbe aver bisogno di lei” la informa il vigile.
 
“Bene, allora cosa stiamo aspettando?” chiede Arizona.
 
Seattle, 24 Dicembre 2012, 10: 45 p.m.
 
Mark si alza in piedi, di fronte agli invitati e propone un brindisi.
 
“Allora miei cari, se mi è concesso, vorrei proporre un brindisi alla nostra salute. Vorrei brindare oggi perché il Natale per me ha sempre avuto un significato speciale, per me significava poter sgattaiolare a casa di Derek dopo il pranzo glaciale con i miei e giocare a Monopoli, bevendo una tazza di cioccolata calda con la sua famiglia”.
 
Poi si volta verso l’ amico e continua: “Per me è fondamentale ricordare tutti noi che siamo qui e anche chi non c’ è più – fa una breve pausa in memoria di Lexie -  è fondamentale accettare ciò che si è perduto e ringraziare per ciò che ho, cioè voi, amici e colleghi, Callie, Sofia  e il piccolo che deve ancora nascere e a cui voglio già bene. Voglio brindare alle coppie storiche – si volta verso Meredith e Derek, Owen e Cristina – a quelle appena sbocciate – guarda April e Jackson che si baciano teneramente – a voi colleghi che siete anche i miei amici e la mia famiglia. Voglio brindare a questa cena e al periodo di Natale perché  doni a tutti voi speranza, salute e fiducia nel futuro e nel prossimo” conclude ed alza il calice verso l’ alto, imitato anche dagli altri.
 
“A noi!”.
 
“A noi!”.
 
“Bene, ora mi sembra il momento adatto per servire il dolce!” esclama Mark.
 
Callie si alza un attimo e dice: “Scusatemi solo un momento, vado un attimo in bagno, torno subito”.
 
Mark si volta e le chiede: “Tutto bene? Hai bisogno di qualcosa?”.
 
“Sì, è tutto ok, non preoccuparti, torno subito. Incominciate a tagliare la torta!” risponde Callie con un sorriso forzato.
 
Seattle Grace Mercy West Hospital, 10: 55 p.m.
 
Arizona esce dalla sala parto, si toglie la cuffia e i guanti ed esce.
 
In sala d’ aspetto ci sono due bambini di otto e cinque anni, Charlie e Molly.
 
“Allora, come sta la mamma? Sta bene, vero?” chiedono i bambini preoccupati.
 
“Sì, ma è molto stanca ora, abbiamo fatto nascere la vostra sorellina ed entrambe sono stabili, ma devono riposare, perciò dovete avere pazienza e aspettare un altro po’. Non c’ è nessuno che vi possa accompagnare a casa?” chiede Arizona.
 
“No, nessuno, noi siamo di Boston, ci siamo trasferiti a Portland da poco, dopo che il papà è morto e la mamma ha comprato una tavola calda in città. I nostri parenti vivono là, noi abbiamo solo lei. Dottoressa Robbins, tu devi farla stare bene perché noi abbiamo solo lei”.
 
I due bambini la fissano imploranti e spaventati.
 
“Ok, la farò stare bene, ve lo prometto, in pochi giorni, la vostra mamma sarà come nuova”.
 
“Davvero?”.
 
“Davvero”.
 
Seattle, 24 Dicembre 2012, 10: 57 p.m.
 
Ormai Callie si trova in bagno da più di cinque minuti, la sua fronte è madida di sudore, il suo volto pallido e cereo lascia trasparire la sofferenza provata in questo momento, la paura, l’ angoscia, il terrore di perdere tutto in pochi secondi.
 
Lo specchio del bagno riflette il suo viso, i suoi occhi, le sue labbra increspate in una smorfia di dolore, quel dannato mobiletto con la specchiera riflette la sua ansia più grande, la sua paura più viva e nascosta.
 
Una lacrima le scende e le riga il volto, una e più gocce di sangue le macchiano la gonna e un nuovo e più intenso crampo la assale e la costringe ad aggrapparsi al mobile.
 
“E’ solo di diciotto settimane, non può sopravvivere, è solo di diciotto settimane!”.
 
Le sue ultime parole prima di aggrapparsi di nuovo e svenire, lo specchio che si stacca dal mobile malfermo e si infrange pesantemente a terra, rilasciandosi in mille pezzi sul pavimento, sulle tende, sugli asciugamani, conficcandosi nella pelle di Callie, lacerandole la stoffa dei vestiti a macchiando ovunque di schizzi di sangue.
 
E lei riversa a terra, priva di sensi, gravemente ferita nel corpo e nell’ anima, aspetta lì, che qualcosa o qualcuno salvi lei e il suo bambino, che qualcosa o qualcuno li porti via con sé in un posto sicuro e senza morte, in un luogo senza pianto e senza dolore, in un luogo in cui poter essere semplicemente se stessa, senza dover mentire a nessuno.
 
Note dell’ autrice:
 
Ringrazio tutti coloro che seguono, preferiscono, leggono e recensiscono la mia storia
 
Il nuovo capitolo vi ha sconvolto e vi ha emozionato, vi è piaciuto oppure no? Fatemelo sapere, sarò felice di sentire le vostre impressioni
 
A presto
 
lulubellula

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Capitolo 16
*** Capitolo Sedicesimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Sedicesimo


 
Seattle Grace Mercy West Hospital, 24 Dicembre 2012, 11:23 p.m.
 
Arizona è nel reparto di terapia intensiva neonatale e sta monitorando la piccola Catherine, la bambina che è venuta alla luce con un parto cesareo d'urgenza poche ore prima.
 
Lei e sua madre Nancy, insieme agli altri due figli Charlie e Molly, hanno rischiato di morire in un terribile incidente d'auto, che quel giorno aveva coinvolto più automezzi.
 
Arizona controlla che la saturazione d'ossigeno, i battiti cardiaci e la pressione arteriosa siano nella norma per la piccola, nata prematura alla trentatreesima settimana di gestazione, ma che, tutto sommato, godeva di buona salute.
 
Dopo aver visitato la bambina ed essere stata informata dall'infermiera di turno sugli ultimi arrivati in reparto, Arizona dà un'occhiata alle cartelle cliniche dei suoi piccoli pazienti, pronta per mettere la parola 'Fine' al suo periodo di aspettativa.
 
Uscita dal reparto, lei va nello spogliatoio e apre il suo armadietto, prende un maglione e un paio di jeans che ha lasciato lì per ogni evenienza, una confezione di salviettine umidificate e si dà una rinfrescata, in modo da lavare via lo stress e l'apprensione di quella giornata senza termine.
 
E' sveglia ed elettrizzata, non vede l'ora di rivedere la sua bambina, la sua Sofia, il suo 'Piccolo muffin ai mirtilli', come le piaceva chiamarla; anche la piccola sembrava apprezzare quel soprannome affettuoso, ricolmando la sua mamma con abbracci, baci e risate di gioia.
 
Non vede l'ora di rivedere Calliope, Callie, sua moglie e amica, la luce dei suoi occhi, la sua dolce metà, ma al tempo stesso ha paura, una tremenda e viscerale paura, quasi terrore del momento della verità, del momento in cui lei le aprirà la porta, per poi (forse) richiudergliela in faccia.
 
Si sciacqua il viso, cercando di schiarirsi le idee, è confusa ed euforica, ma anche preoccupata e terrorizzata da morire.
 
Uscita dallo spogliatoio, si avvia verso l'ascensore e preme il bottone per il piano terra.
 
Prima che esso si apra, sente qualcuno che la chiama in lontananza e si volta.
 
 
 
Appartamento di Mark, 24 Dicembre 2012, 11:29 p.m.
 
L' appartamento di Mark è invaso dalla musica, dalle chiacchiere e dalle risate dei medici che stanno aspettando la mezzanotte per scambiarsi gli auguri di Natale.
 
Sofia e Zola giocano insieme e ammirano l'albero agghindato e luccicante.
 
Entrambe si strofinano gli occhi e sbadigliano, poiché è passato da molto l'orario in cui sono solite andare a dormire.
 
Nell' appartamento i presenti brindano e scherzano felici, osservano le bambine inteneriti oppure si scambiano dolci e appassionati baci sotto il vischio.
 
Tutti, eccetto Mark e Callie.
 
Ad un certo punto, una porta si apre e nella sala cala il silenzio, poi si sentono dei rumori strani, inusuali, quasi un borbottio sommesso.
 
Zola e Sofia cercano un volto amico tra i presenti, impaurite per ciò che sta accadendo; Zola nasconde il volto dietro le gambe di Meredith e cerca con lo sguardo suo padre Derek, mentre Sofia si volta e non trova nessuno.
 
Non ci sono le sue mamme, non c'è Arizona, la sua mamma con gli occhi azzurri e i capelli biondi che la fa divertire inventando storie buffe con dei semplici calzini infilati nelle sue mani, non c'è Callie che la coccoli e l'abbracci forte, che riesca a calmarla con il suono melodioso della sua voce, che la tranquillizzi stringendola a sé, con il semplice e regolare battito del suo cuore.
 
Non c'è il suo papà, Mark, che la chiami 'Principessina' e la prenda tra le sue braccia forti e la faccia volare.
 
Il volto della bambina si rattrista, continua a guardarsi attorno spaventata, ha gli occhi lucidi e stanchi, che sembrano sul punto di straripare, come un fiume in piena, un fiume di lacrime.
 
Cristina avverte immediatamente il suo disagio e si avvicina a lei, cercando goffamente di prenderla in braccio.
 
"Vieni, Sofia, vieni dalla tua madrina. Andiamo a vedere cosa è successo e chi sta arrivando".
 
Sofia si avvicina timidamente a lei, mantenendo però le distanze.
 
Owen intanto osserva la scena commosso, sente come una fitta al cuore, consapevole del fatto che lui non potrà mai stringere tra le braccia un figlio loro, ma speranzoso che, prima o poi, Cristina possa cambiare idea.
 
La porta si apre e uno strano individuo vestito di rosso, con un pesante sacco di tela marrone sulle spalle, entra in casa.
 
Mark avanza verso la sala, cercando di imitare l'andatura pomposa di Santa Claus e di sorridere ed augurare 'Buon Natale' al tempo stesso.
 
"Allora, vediamo, mi hanno detto che in questa casa ci sono due bambine che quest’anno sono state molto buone. Perciò io ho portato per loro un sacco pieno di doni" inizia Mark.
 
Zola saltella felice tra le braccia di Derek.
 
"Mi hanno anche detto che queste due bambine si chiamano Zola e Sofia".
 
Mark si gira verso la piccola Shepherd porgendole un regalo, poi si volta cercando con lo sguardo Sofia.
 
"Sofia, Sofia, dove sei?".
 
Nessuna risposta.
 
Preoccupato, Mark riprova a chiamarla.
 
"Sofia, c'è un sacco pieno di giocattoli per te".
 
Nulla da fare, Sofia non si trova.
 
Mark si rivolge ai presenti: "Ma dov'è Sofia?".
 
"Era qui un minuto fa" risponde Cristina.
 
"Dove può essere finita? E poi dove è finita Callie?" chiede Mark.
 
"Non lo sappiamo, credevamo fosse venuta a darti una mano con il costume da Santa Claus" risponde Owen.
 
"No, io non la vedo da più di mezz'ora" afferma Mark.
 
 
Seattle Grace Mercy West Hospital, 24 Dicembre 2012, 11:36 p.m.
 

Arizona si volta e vede che la piccola Molly la sta chiamando.
 
Aspetta, Dottoressa Robbins. Ti devo parlare. Voglio che tu mi faccia una promessa".
 
Molly osserva Arizona dritta negli occhi, intenta a scrutarla nel fondo, come se riuscisse a leggere il suo cuore e la sua mente, come se riuscisse a farla sentire piccola, indifesa e fragile.
 
La donna si avvicina alla bambina e la guarda con dolcezza, poi le dice: " Sì, Molly, dimmi pure, c'è forse qualcosa che non va? Qualcosa che ti turba? A me puoi dirlo, lo sai? Prometto che sarà un segreto tra noi due. Non devi avere timore".
 
Molly annuisce ed allunga un orsacchiotto di peluche verso la Dottoressa Robbins.
 
"Tieni Dottoressa, ti prometto che ti darò il mio Nappy, se farai guarire la mia mamma completamente. E' colpa mia se lei ora sta male e soffre e anche se Cathy deve stare in quella scatola di plastica con tutti quei tubicini - si asciuga le lacrime e tira su con il naso. Io e Charlie litighiamo sempre, per qualunque motivo, per i giocattoli, per il dolce, per le coccole della mamma".
 
La bambina inizia a singhiozzare e Arizona cerca di consolarla.
 
"Molly, è perfettamente normale che tu e Charlie litighiate per qualunque cosa, essere in disaccordo è esattamente quello che fanno due fratelli. Non devi colpevolizzarti, d'accordo? Tu ne hai nessuna colpa, nemmeno Charlie e la tua mamma ne hanno. Molly, gli incidenti capitano, le persone salgono su un aereo per salvare la vita di qualcuno e poi si ritrovano in un bosco in mezzo alle macerie fumanti del mezzo. Le persone soffrono, Molly, stanno male e muoiono e non sempre qualcuno ne ha colpa".
 
Molly alza gli occhi verso Arizona e le chiede: "Non è stata colpa mia allora? Non sono stata io?".
 
"No, Molly, noi sei stata tu e nemmeno Charlie" afferma Arizona.
 
"Tu hai un fratello, Dottoressa Robbins?" le chiede Molly.
 
"Sì," risponde Arizona, abbassando lo sguardo.
 
"E hai mai litigato con lui?".
 
"Sì, molte volte." risponde Arizona, visibilmente turbata.
 
"E poi avete fatto pace?".
 
"Sì, quasi sempre" risponde la donna e cambia argomento.
 
"Molly, vieni con me, ti accompagno in sala- relax e ti offro un tè caldo".
 
 
 
Appartamento di Mark, 24 Dicembre 2012, 11:41 p.m.

 
 
"Sofia, Sofia, dove sei? Vieni dalla zia Cristina. Se vieni da me, ti offrirò dolci, un mucchio di dolci".
 
Cristina e Meredith, insieme agli altri, stanno cercando la piccola Sofia.
 
"Cristina, non dire così, la spaventi con quel tono di voce. Sembri la strega mangiabambini di Hansel e Gretel, non la sua madrina!" la rimprovera Meredith.
 
"Bè, questa è la mia voce e questo è il tono più dolce e gentile che riesco ad avere in questo momento. Perciò credo proprio che si dovrà accontentare" afferma Cristina.
 
Nel frattempo, anche gli altri stanno cercando Sofia nell'appartamento, la chiamano e provano ad attrarla in ogni modo, aprono armadietti, persino i cassetti delle scrivanie (come se davvero una bambina possa entrarci), le promettono dolci e giocattoli, ma senza risultato.
 
Intanto Owen, che come gli altri la sta cercando, riesce a scovare il suo nascondiglio: Sofia si è nascosta nella cesta dei giocattoli della sua cameretta.
 
Entra nella stanza facendo piano e con molta nonchalance, dice: "Chissà dove si sarà nascosta Sofia - comincia a cercare la bambina in posti assurdi - allora, vediamo un po' se è qui - apre l'armadio dei vestiti - no, non c' è, allora deve essere per forza qui - apre la casa delle bambole - no, nemmeno qui, allora sarà - apre la cesta dei giocattoli - eccoti, ti ho trovata!" si avvicina a lei e la prende in braccio.
 
"Adesso tocca a te, devi nasconderti!" dice Sofia.
 
"Come? Stavi giocando a nascondino? Ecco perché non ti trovava nessuno. Eravamo preoccupati, sai?" le chiede Owen.
 
Sofia abbassa lo sguardo e chiede scusa.
 
"Ok, d'accordo, però prometti che la prossima volta dirai che vuoi giocare, prima di nasconderti?".
 
"Sì, lo prometto" risponde Sofia.
 
 
 
Seattle Grace Mercy West, 24 Dicembre 2012, 11:43 p.m.

 
 
Arizona e Molly sono in sala- relax e la donna ha appena preparato un tazza fumante di tè al limone per la piccola, nella speranza di riuscire a tranquillizzarla un po'.
 
Porge la tazza alla bambina e si prepara una tazza di caffè forte, consapevole del fatto che la aspetta una nottata lunghissima, quasi interminabile.
 
"Va un po' meglio, Molly?" chiede Arizona.
 
La bambina annuisce e beve un sorso di tè caldo.
 
"Vuoi qualche biscotto?" Arizona le allunga una scatola di latta piena di biscotti allo zenzero.
 
Molly ne prende un paio e ne addenta uno, poi fa una domanda ad Arizona.
 
"Credi davvero che andrà tutto bene?".
 
Arizona si avvicina alla bambina e la stringe a sé, accarezzandole i capelli.
 
"Certo che andrà tutto bene. Questa è la Notte di Natale, è un momento magico, quasi fiabesco. Nulla può andare storto la Notte di Natale, davvero".
 
La bambina la osserva e annuisce convinta.
 
 
 
Appartamento di Mark, 24 Dicembre 2012, 11:45 p.m.
 
 
Mark cerca Callie per le stanze vuote dell'appartamento che condividono con Arizona, entra in salotto, in cucina e in camera da letto, infine apre la porta del bagno.
 
Nulla, Callie non c' è, eppure era convinto che lei gli avesse detto che sarebbe andata proprio in quella stanza.
 
"Un momento - pensa -forse è andata in quello del mio appartamento, dopotutto il Cenone si sta tenendo lì".
 
Esce di fretta, attraversa il breve lasso di spazio che divide i due luoghi.
 
Entrato in casa, Owen accorre informandolo del fatto che ha ritrovato Sofia.
 
"Sì, sì, grazie, scusami solo un momento" lo liquida Mark e corre verso il bagno.
 
Owen lo segue preoccupato.
 
Mark apre la porta e dinnanzi a sé si trova una scena spaventosa e agghiacciante.
 
Callie è riversa a terra, priva di sensi, ha lacerazioni più o meno profonde lungo tutto il corpo e, presumibilmente, anche un trauma cranico causato dalla caduta.
 
Inoltre più e più gocce di sangue le macchiano la gonna, segno che anche il bambino si trova in grave pericolo.
 
La stanza è disseminata di schegge, molte delle quali hanno ferito la povera Callie.
 
Mark si avvicina a lei e cerca con angoscia il battito, mentre Owen lo blocca e lo allontana.
 
"Faccio io" dice Owen.
 
"Ma ..." risponde Mark.
 
"Niente ma, tu sei troppo coinvolto. Lei è la tua migliore amica e la madre dei tuoi figli. E' un tuo famigliare, non puoi. Sei troppo coinvolto!" gli urla Owen di rimando.
 
"Ok, allora chiamo gli altri e un'ambulanza!" dice Mark.
 
 
 
Seattle Grace Mercy West Hospital, 25 Dicembre 2012, 00:12
 
 
Arizona e Molly sono nel piazzale del Pronto Soccorso, vestite con abiti pesanti.
 
Sono uscite per sentire sulla loro pelle l'aria frizzante che preannuncia l'arrivo della prima neve.
 
"Credi che oggi nevicherà, Dottoressa Robbins?" chiede Molly, speranzosa.
 
"Non lo so, può essere" risponde la donna distrattamente.
 
"Ah" dice Molly delusa.
 
Arizona osserva la bambina e capisce di aver assunto l'atteggiamento e le parole sbagliate.
 
"Anzi, sai cosa ti dico? Credo proprio di sì, anzi ne sono certa, stanotte nevicherà sicuramente" risponde lei, vedendo il volto della bambina ridipingersi di gioia.
 
Poco dopo, Molly tira un lembo della giacca di Arizona e le dice: "Entriamo, ora fa freddo".
 
"Ok, vieni".
 
Insieme si incamminano lentamente verso l' entrata del Pronto Soccorso.
 
"Dottoressa Robbins, tu credi che riuscirò a vedere Santa Claus questa notte? Non sarebbe bellissimo se riuscissimo a vederlo?" chiede la bambina.
 
"Sì, immagino di sì" le risponde Arizona, osservando il luccichio negli occhi di Molly.
 
Le porte del Pronto Soccorso si aprono con forza ed entrano due uomini che spingono una barella.
 
"Guarda, Arizona! C'è Santa Claus! Sapevo che, prima o poi, sarei riuscita a vederlo" esclama Molly.
 
Arizona si volta e vede Owen e poi Mark, vestito da Santa Claus, che trasportano una donna gravemente ferita sulla barella.
 
La donna si avvicina a loro e riconosce quella donna.
 
"Callie!" esclama e poi li segue, dimenticandosi di tutto il resto.
 
 
 
Le parole pronunciate prima le sembrano ora una beffa.
 
 
 
"Questa è la Notte di Natale, è un momento magico e meraviglioso, di gioia, condivisione e affetto. La Notte di Natale non può accadere nulla di brutto".
 
 
 
"Ne sei proprio sicura?"
 
 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo Diciassettesimo ***



Non c'è due senza tre

Capitolo Diciassettesimo


 
Arizona corre verso di lei, non riesce a credere a ciò che vede.
 
Callie, la sua Callie, è distesa su una barella, priva di sensi, piena di tagli.
 
"Cosa le è successo? Perché Callie è ferita, Mark?" chiede la donna voltandosi verso di lui.
 
Mark le si avvicina e le dice: "Non lo so, Arizona, l'ho trovata nel bagno di casa mia, stavamo festeggiando la Vigilia di Natale là. Lei era ... lei era riversa a terra, nella stanza c'era il caos più totale, l'armadietto ha ceduto e lo specchio si è staccato ...".
 
L' uomo si ferma per inghiottire un boccone amaro, si ferma lasciando che le parole appena dette vengano metabolizzate da Arizona.
 
"Callie è ridotta così per colpa di quel dannato mobile? Mi stai dicendo che lei è in questo stato, perché tu non hai chiamato gli operai come io ti avevo detto?" le parole di Arizona sono pesanti come macigni, sono portatrici di accuse e di sentimenti inespressi.
 
A sentire ciò, Mark si infiamma: “Ah, adesso sarebbe colpa mia? Certo, bè, è così facile dare la colpa a quel buono a nulla di Mark Sloan. E' facile perché io sono uno scavezzacollo, una prostituta, uno che non sa fare altro che combinare casini! Ebbene, sai che cosa ti dico? Io questa volta non ci sto, non ci sto ad assumermi responsabilità che non mi appartengono. Questa volta non lascerò che tu mi vomiti addosso accuse e sentenze ingiuste. E sai perché? Perché tu hai la stessa percentuale di colpe che ho io, anzi forse tu ne hai persino di più. Tu te ne sei andata, tu l'hai lasciata sola, tu le hai rovinato la vita!" le urla contro.
 
"Smettetela! - urla Owen - aiutatemi a trovare una sala operatoria piuttosto! Urlare e insultarvi a vicenda non le salverà la vita".
 
L' uomo osserva i loro volti adirati e mortificati al tempo stesso.
 
"D'accordo" risponde Arizona, avvicinandosi ad Owen.
 
I tre entrano in sala uno ed iniziano a visitare Callie.
 
"Ha molte lacerazioni di diversa entità lungo tutto il corpo - inizia Owen - fortunatamente nessuna delle schegge di vetro le ha reciso la carotide, altrimenti ogni intervento da parte nostra sarebbe stato vano. Non avremmo potuto fare niente per lei, se non dichiararne il decesso".
 
Arizona rabbrividisce al pensiero, si sente coinvolta e colpevole, sente di averla lasciata sola e di non averla supportata a sufficienza.
 
La donna non è stata all'altezza dell'educazione che ha ricevuto, invece di essere un marinaio nelle tempeste, lei è stata un mozzo indisciplinato e sovversivo, la classica pecora nera che infiamma gli animi e conduce l'intera ciurma all' ammutinamento.
 
"Com'è la pressione, Mark?" chiede Owen che sta controllando le lacerazioni e segnandole con un pennarello per non dimenticarsi di estrarre nemmeno una scheggia appuntita.
 
"E' ancora bassa, è 95 su 60, le pulsazioni sono un po' accelerate, sono 85 al minuto. Ha perso molto sangue, Owen, non dovremmo somministrarle una sacca di A positivo?" risponde l' uomo.
 
"Sì, manda una specializzanda alla Banca del sangue, chiedile di portarci due sacche di A positivo e una di plasma congelato. Chiama la Wilson, ci metterà poco perché non parla troppo e corre veloce".
 
"Ok, la chiamo immediatamente" gli risponde Mark.
 
"Ah, dimenticavo, avverti la Stewart al cercapersone. Bisogna far sì di mantenere le perdite ematiche sotto controllo. Potrebbe avere una minaccia di aborto in corso. Inoltre, quando sarò in sala operatoria la voglio al mio fianco a monitorare lo stato di salute del feto. Callie e il bambino stanno subendo uno stress fortissimo e ancora non sono in grado di determinare l'entità dei danni e la durata dell'intervento. Purtroppo non posso ancora escludere che non abbia alcune schegge in corpo, che si siano immesse nelle vie circolatorie. Se così fosse, dovremmo sbrigarci perché le pareti dei vasi sanguigni potrebbero venire lacerate da un momento all' altro. Se intervengo troppo tardi, potrei non riuscire a salvarli" esclama Owen.
 
"Corro, corro a cercarli!" dice Mark prima di sparire nei corridoi dell' ospedale.
 
"Non credi che dovremmo chiamare anche Shepherd?" chiede Arizona al Dottor Hunt.
 
"L' ho avvertito al cercapersone, è già al corrente di ciò che è successo a Callie, eravamo tutti lì a festeggiare. Gli ho detto di fare presto" risponde Owen, controllando le lacerazioni ad una ad una e cercando di estrarre le schegge più superficiali.
 
Arizona controlla la saturazione d'ossigeno, le ausculta il cuore, poi le apre la bocca per vedere se non ci sono frammenti di vetro, infine le solleva le palpebre e inizia a gridare.
 
"Owen, chiama Shepherd! Digli di correre al più presto!" gli dice Arizona.
 
Owen alza immediatamente gli occhi e si volta verso di lei.
 
"Che cosa c'è? Cosa le è successo?".
 
"Gli occhi!".
 
"Li ho controllati prima, non ci sono schegge e sembrano del tutto normali" risponde lui.
 
"Guardali!".
 
Owen si volta e vede che la pupilla dell'occhio sinistro è molto più dilatata di quella dell'occhio destro.
 
"Come ho fatto ad essere così idiota? Dovevo tenerla  monitorata invece di concentrarmi solo sulle schegge da estrarre!" Owen urla e si colpevolizza.
 
"Ha avuto un trauma cranico causato dalla caduta, che non ha dato segni evidenti di sofferenza cerebrale all' inizio. Owen, non serve che tu te ne faccia una colpa, ok? Mi servi lucido ed ho bisogno di Derek, qui, subito!" gli dice Arizona.
 
Nel frattempo, Mark torna con la Dottoressa Stewart, la nuova ginecologa dell'ospedale, e con le sacche di sangue e di plasma.
 
"Come sta Callie? Siete riusciti ad estrarre parte dei vetri e a tenere sotto controllo l'emorragia?" chiede Mark, il quale è ancora vestito da Babbo Natale ed ha i segni della stanchezza e della preoccupazione sul volto.
 
Arizona si volta e si avvicina a lui: "Ha un'ematoma cerebrale, non ce ne siamo accorti prima perché i sintomi sono comparsi da poco. Potrebbe essere un'ematoma epiteliale oppure subdurale, ma non sono un neurochirurgo, abbiamo bisogno di Derek".
 
Intanto la Dottoressa Stewart sta visitando Callie per accertarsi dello stato di salute del suo bambino.
 
"A mio parere, Calliope è stata esposta ad un forte stato di  stress ultimamente. Succede a molte donne in gravidanza di avere delle perdite, ne sono colpite circa il 30%. Tuttavia le perdite, unite ad eventuali crampi e a svenimenti mi portano a diagnosticare una minaccia d'aborto, perciò le devo somministrare farmaci spasmodici, i quali abbassano notevolmente il rischio di interruzione di gravidanza. Viste le condizioni generali della paziente, sarò in sala operatoria insieme a Derek Shepherd per accertarmi che non ci sia sofferenza fetale".
 
Arizona e Mark si guardano negli occhi preoccupati, poi si voltano indietro e vedono che finalmente Derek li ha raggiunti.
 
L'uomo si avvicina a Callie e le fa una tempestiva visita neurologica, poi si volta verso Owen e gli dice: "Voglio che le facciate subito una risonanza magnetica all'encefalo e al tronco cerebrale, senza liquido di contrasto e poi qualcuno prenoti la Sala 2 immediatamente perché devo fare uno svuotamento chirurgico, c' è del sangue fermo che deve essere drenato il prima possibile!".
 
Owen annuisce e insieme ad Arizona porta Callie a fare la risonanza.
 
Mark si avvicina al suo migliore amico e gli chiede: "Non è rischioso sottoporre ad un esame di questo tipo una donna in stato di gravidanza?".
 
"Prenderemo tutte le precauzioni necessarie, Mark. Farò tutto il possibile per lei e per il bambino. Ora, fammi un favore, lasciami andare da lei e cambiati, mettiti dei vestiti puliti e bevi qualcosa di caldo, un decaffeinato magari".
 
Mark osserva il vestito di Babbo Natale imbrattato di sangue e poi dice a Derek: "D' accordo, ma tienimi informato sul suo stato di salute".
 
Mark si avvia verso lo spogliatoio e Derek va in radiologia.
 
Giunto in sala RMN, vede il tecnico indicare ad Owen e ad Arizona il punto in cui  è sorta l' emorragia.
 
"Vedete qui? C'è una formazione di sangue tra la dura madre e l' encefalo. Si tratta di ...".
 
"E' un’ematoma subdurale - continua Derek - è necessario intervenire in modo tempestivo, effettuare uno svuotamento chirurgico e drenare il sangue in eccesso".
 
Arizona si volta verso Derek e gli chiede: "Farai tu l'intervento, vero? Permettimi di assistere, non credo di riuscire a sopportare la tensione e l'attesa come una parente qualunque, digiuno di nozioni mediche. Sono un dottore, conosco sin troppo bene i rischi e i tempi chirurgici, non sarei capace di restare fuori ad aspettare".
 
Derek lo guarda e le risponde: " Mi renderai tutto più difficile, sapere che tu, sua moglie, nonché mia collega e conoscente, sia lì, mi complicherà le cose. Ho bisogno di calma e di concentrazione, devo sapere che tu sei in sala d'attesa con Mark  per riuscire a fare il mio lavoro. Mi dispiace, ma non ti posso accontentare".
 
Arizona apre la bocca per protestare: "Ma ...".
 
"Niente  'ma', Arizona, non ti negherei di assistere all'intervento se non sapessi che è la cosa giusta da fare. Io devo fare ciò che è meglio per i miei pazienti, devo seguire il loro interesse. Il mio paziente è Callie, non tu, perciò se voglio far sì che sopravviva, non posso avere sua moglie che mi fissa implorante mentre le trapano il cranio, proprio non posso".
 
Arizona scruta Derek negli occhi, poi annuisce : "D'accordo, farò come dici tu, ma devi promettermi, anzi, tu e Hunt mi dovete promettere, che ci terrete costantemente informati".
 
"Certo, manderò uno specializzando in sala d' attesa, ogni mezz'ora per farvi avere notizie".
 
Arizona gli sorride e firma i moduli relativi al consenso all'intervento, poi si china verso Callie e la bacia.
 
"Mi raccomando Calliope, non lasciarmi sola, ok? Sai che non potrei sopravvivere nemmeno un minuto se ti perdessi, non potrei perché tu sei la luce che ha rischiarato la mia vita e io, al buio, non posso sopravvivere, tu sei la linfa che nutre la mia esistenza, senza di te io non ho più senso di esistere, tu sei la mia alba quando io penso che tutto sia ormai al tramonto. Tu sei la mia metà e senza di te, io sono incompleta, non ho motivo di vivere e vago senza meta, alla ricerca della mia parte mancante. Tu sei Callie e senza di te, io non sono nemmeno più Arizona".
 
Poi Arizona si volta e guarda Derek: "Lei è tutta la mia vita, è tutto ciò non ho mai chiesto ma di cui ho avuto sempre bisogno. Fai tutto il possibile per salvarla, la sua salute è più importante di tutto il resto. Salvala perché noi possiamo avere un altro bambino, ma non possiamo avere un' altra Callie".
 
Derek le mette una mano sulla spalla: "Farò tutto il possibile per salvarle la vita. Ora però dobbiamo andare, il tempo in questi casi è prezioso".
 
Arizona annuisce e li segue fino all'entrata del blocco operatorio, dove Mark li sta aspettando.
 
I due salutano Callie e poi si avviano verso la sala d' attesa.
 
Ormai sono le 2:15 del 25 Dicembre, quella notte sembra interminabile per loro.
 
Arizona e Mark si siedono nella saletta e trascorrono alcuni minuti in silenzio, senza guardarsi in faccia.
 
"Mi dispiace per prima - inizia Arizona - non intendevo addossarti tutte le colpe dell'incidente, ero spaventata e impaurita, non sapevo che cosa fare".
 
Mark la osserva e risponde: "Nemmeno io avrei dovuto dirti quelle brutte parole, né rinfacciarti la tua partenza. Non intendevo fartene una colpa. E' solo che Callie e il bambino sono in pericolo e noi non possiamo fare nulla per loro. Possiamo solo aspettare e sperare, pregare e farci coraggio. Però è difficile, perché questa notte mi sembra infinita, sembra che il tempo si sia fermato e che anche lui sia qui con noi ad aspettare, prima di riprendere a scorrere normalmente".
 
Il tempo continua a passare, le lancette dell' orologio segnano le 3:24 e nessuno è uscito dalla sala operatoria per informarli.
 
Arizona ha consumato il pavimento della saletta, poi è scesa al bar, al piano terra, per prendere un caffè espresso.
 
Mark è stravolto e assonnato, continua a fissare le ore e a mettersi le mani tra i capelli sospirando.
 
D' un tratto la Dottoressa Stewart esce dalla sala operatoria, le porte bianche si spalancano e poi si richiudono meccanicamente.
 
Mark si alza e le si avvicina: "Ci sono novità, Agnes? Come sta Callie? E il bambino?".
 
La donna fissa Mark negli occhi, poi scuote la testa.
 
"Abbiamo iniziato ad operare Calliope concentrandoci sull'ematoma subdurale, Derek ha drenato il sangue che aveva invaso la zona compresa tra la dura madre e l'encefalo, completando l'operazione con successo. Poi, qualcosa ha cominciato ad andare storto, Callie ha iniziato ad avere una profonda emorragia addominale. L' abbiamo dovuta aprire ed abbiamo capito troppo tardi che alcune schegge di vetro le avevano perforato l' intestino tenue e l' arteria uterina. Abbiamo cercato di tamponare l'emorragia ma era troppo forte, il bambino era in sofferenza fetale da diversi minuti e non siamo riusciti a salvarlo. Abbiamo dovuto asportarle il feto morto e l'utero, nella speranza di riuscire a salvare almeno lei. Qualche minuto dopo, Callie è andata in arresto cardiaco e abbiamo provato a rianimarla con le piastre, ma è stato tutto inutile, il sangue ha iniziato a colarle copioso da tutti gli orefizi del corpo, dal naso, dalla bocca, dalle orecchie. L' emorragia è stata troppo forte, non siamo riusciti a rianimarla, è morta sotto i nostri occhi. Mi dispiace, Mark".
 
Mark sente il mondo esterno farsi sempre più confuso, le orecchie ronzargli forte e sente un urlo provenirgli sin dentro le viscere e attraversargli la gola, spezzando il silenzio assordante e il senso di vuoto che lo avvolgono.
 
 
 
Note dell' autrice:
 
*Eccomi giunta al diciassettesimo capitolo, motivo per cui non ho resistito a infierire così tanto
 
Alla prossima
 
lulubellula

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Capitolo 18
*** Capitolo Diciottesimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Diciottesimo


"Pioveva quando loro arrivarono a casa mia, quella notte, sarà stata mezzanotte, forse l'una, mi sono sempre chiesta perché non abbia controllato l'orologio in quel momento.
 
Pioveva e mi sono alzata dal letto, con il pigiama e una vestaglia leggerissima indosso e i capelli leggermente spettinati, la guancia sinistra lievemente segnata dalla pressione del cuscino.
 
Pioveva quando sentii mio padre abbassare lo sguardo e mia madre soffocare i singhiozzi di fronte ai militari, di fronte a quella lettera, di fonte a quella stramaledettissima lettera, a quella missiva che ci avrebbe riconsegnato una bara vuota, una bandiera americana e qualche inutile onorificenza con cui immagino avremmo dovuto riempire il vuoto incolmabile lasciato dalla sua assenza, dall'assenza di mio fratello.
 
Pioveva e mi sono lasciata scivolare contro le pareti del muro del corridoio al piano superiore sino a quando le lacrime e il dolore hanno annebbiato i miei sensi, sino a quando mi sono annullata totalmente con lui, sino a quando qualcuno mi ha obbligata ad alzarmi, trascinandomi fuori a respirare aria fresca e pulita, senza lasciarmi lì a marcire con il mio dolore folle e la mia angoscia incurabile".
 
"Nevica, nevica questa notte, nella sala d' attesa bevo un caffè, l'ennesimo caffè, il quinto, anzi no, il sesto per la precisione e neanche un decaffeinato, ma un espresso forte senza zucchero, praticamente una soluzione di caffeina alla stato puro.
 
Nevica e lei è dentro con il nostro bambino in grembo come l'altra volta, è lì dentro e io non posso entrare, posso solo restarmene fuori ad aspettare ed attendere e camminare, bere caffè e impazzire. Ecco quello che posso fare, solo aspettare e sperare, nulla di più, restando fuori, qui fuori e incrociando le dita, nella speranza che, di qui a poco, Derek esca da quella stanza e mi raggiunga, che ci raggiunga e ci sorrida, facendoci un semplice cenno con la testa, null' altro.
 
Giuro, potrei anche abbracciarlo, in un'occasione simile e invitarlo a venire a cena a casa nostra un giorno sì e uno no, potrei fare qualunque cosa se lui riuscisse a riportarcela indietro.
 
A riportarmela indietro.
 
Nevica e sono nervosa, immagino che dovrei amare la neve, in fondo è così, io adoro la neve, Callie la ama, anche Sofia saltella felice facendo i pupazzi di neve, insomma siamo persone che sorridono quando vedono i primi fiocchi scendere timidi dal cielo, come se fosse la prima volta, come se fosse una specie di magia che si ripete e non un noioso ed abbastanza prevedibile fenomeno atmosferico.
 
Ora però sento di odiarla, io odio la neve, sono così arrabbiata e mi sento così inutile a tal punto che, se fosse possibile, inizierei a spalarla per strade, fino a che le mie dita diventino viola e le mie labbra bluastre, qualunque cosa ma non questa attesa snervante.
 
Nevica e mi sento morire, sento di non riuscire a sopportare più tutto questo dolore che mi scorre impetuoso nelle vene, questa rabbia, quest' angoscia che non mi abbandonano mai, queste sensazioni che non mi lasciano più da allora, la pioggia, la morte, la neve, l' attesa, le lacrime, il dolore, la notte, la disperazione.
 
Nevica e sono seduta per terra, il pavimento non è particolarmente immacolato nella sala ristoro, anzi forse dovrei proprio evitare di restare qui ed alzarmi al più presto, ma non ce la faccio, restarmene, qui, seduta per terra è più semplice.
 
Inoltre non ho alcun motivo per alzarmi, nessuno ci avverte, non ci danno segni di vita.
 
O almeno non ci hanno dato segni di vita finora".
 
Sento un urlo che squarcia il silenzio, un urlo strano, un urlo disperato, un urlo diverso o forse è un urlo come tanti altri ma sono io che non riesco più a tollerare gli imprevisti dolorosi che mi tocca sopportare.
 
Mi alzo e inizio a correre, noto che indosso un camice macchiato di caffè, del caffè che stavo bevendo ma non mi importa perché sapere il motivo e la persona che ha lanciato quel grido sono di vitale importanza per me.
 
E' Mark, deve essere per forza lui, sono sicura che sia lui, spero che non sia lui, spero che non sia per loro.
 
Percorro l'ultimo corridoio che mi separa da lui e lo ritrovo a piangere silenziosamente sulla panchina, a premersi le mani contro le tempie con forza e a strofinarsi gli occhi arrossati con la manica della camicia.
 
Mi avvicino a lui e inizio a fargli domande, a scuoterlo un po' e noto che è palesemente in uno stato confusionario, è sotto shock, palesemente sotto shock.
 
“Cosa è successo, Mark?” gli chiedo con il cuore in gola, con il respiro mozzato dal correre, dalla troppa caffeina, ma soprattutto dalla paura.
 
Lui alza lievemente il volto nella mia direzione e poi riprende a piangere sommessamente, le sue spalle sono scosse dai singhiozzi, la sua camicia è un mare di lacrime.
 
Alzo il suo mento verso di me con la mia mano destra.
 
“Guardami Mark, guardami, respira, respira! E' un ordine! Ora dimmi perché piangi, dimmi che cosa è successo. E' uscito qualcuno? Derek? La Stewart? La Wilson? Hanno notizie? Cosa è successo Mark? Io non posso leggere nella tua mente, me lo devi dire!” grida Arizona, disperata.
 
Mark si asciuga le lacrime e poi dice:” E' uscita la Stewart, ha detto che Derek aveva appena completato l'operazione di drenaggio per ridurre l' ematoma subdurale, ma poi qualcosa è andato storto, Callie ha cominciato a perdere molto sangue, si sono accorti troppo tardi che una scheggia aveva lacerato l'arteria uterina, non sono riusciti a salvare il bambino e le hanno dovuto praticare un'isterectomia d'urgenza nella speranza di salvare almeno lei ma – soffoca il dolore nei singhiozzi – ma lei non ce l'ha fatta, è morta qualche minuto fa”.
 
Il mio mondo comincia a girare e girare, la mia vista ad annebbiarsi, i miei sensi ad alterarsi.
 
“Arrivi sempre tardi, Arizona- mi diceva sempre Tim – quando dobbiamo andare da qualche parte, arriviamo sempre in ritardo per colpa tua”.
 
“Però alla fine arrivo sempre” gli rispondevo io con aria di scherzosa sfida.
 
“Ci sono volte in cui arrivare tardi, vuol dire troppo tardi, ci sono volte in cui scusarsi non basta, perché non si può più rimediare” mi disse lui saggiamente una volta, poco prima di arruolarsi.
 
Questa è una di quelle volte, questo tardi è già divenuto un 'troppo tardi', quelle sue labbra da baciare e quelle sue braccia da stringere forte sono già divenute fredde e senza vita, senza che io sia riuscita a baciarle ed a stringerle un'ultima volta.

 
E' tardi, ma non troppo tardi, la devo baciare, vedere, piangere, prima che le stacchino quei tubicini, quelle macchine, prima che la trasportino su una barella, coperta da un lenzuolo bianco e la portino in quel freddo e tetro obitorio, insieme a tanti altri morti amati e ad altri dimenticati.
 
Mi giro ed entro da quelle porte bianche, mi lavo di fretta le mani fino ai gomiti, mi cambio in modo da essere sterile per il nostro ultimo saluto anche se ormai non servirà più a nulla esserlo.
 
Apro le porte della sala ed entro come una furia, piangendo e gridando come un' ossessa.
 
Derek sente il frastuono con cui entro nella sala e mi fa sbattere fuori da due specializzandi, senza lasciarmi vedere Calliope.
 
La Wilson e Carter mi osservano e mi tengono strette le braccia, impedendomi ogni movimento e ogni tentativo di fuga.
 
“Si calmi, Dottoressa Robbins!” mi grida la Wilson.
 
Comincio ad urlarle contro una serie di insulti, molti dei quali irripetibili: “Come fai a dirmi di calmarmi, come fai solo a chiedermelo? Mia moglie e il mio bambino sono morti, mia moglie e mio figlio sono appena morti e probabilmente ora la sala operatoria sarà piena del suo sangue e ci sarà mio figlio, lì da qualche parte, senza vita. Non credi che tutto questo sia abbastanza per far impazzire chiunque?”.
 
Le vomito addosso una serie di accuse e di parole molto forti, impedendo ad entrambi di ribattere alle mia accuse.
 
“Stia zitta, Dottoressa Robbins, con rispetto parlando, ma stia zitta!” mi grida contro Carter, osservando la mia reazione, pronto a difendersi in caso di attacco.
 
Inaspettatamente obbedisco docilmente al suo ordine.
 
“Io non ho la più pallida idea del motivo per cui lei stia dando i numeri, sua moglie e suo figlio non sono morti, Callie non ha mai avuto bisogno di un'isterectomia e il Dottor Shepherd ha condotto un drenaggio del sangue fermo tra l' encefalo e la dura madre in un modo esemplare”.
 
Io lo fisso con lo sguardo perso e pieno di confusione e di speranza.
 
“Che cosa stai dicendo? Non è possibile, Mark mi ha detto che ... la Dottoressa Stewart gli ha detto che … Oddio non ci sto capendo più niente!” gli dico io.
 
“La Dottoressa Stewart non si è mai mossa dalla sala operatoria, anche Jo può confermarlo – la ragazza annuisce – e inoltre, circa venti minuti fa, sono uscito dalla sala per darvi informazioni e lui non c'era. Il Dottor Sloan stava dormendo, così ho deciso di non svegliarlo e di aspettare un'altra mezz'ora prima di aggiornarlo sul loro stato di salute”.
 
“Mi stai dicendo, tu mi stai dicendo che Mark stava dormendo e poi tu sei rientrato e che Callie e il bambino stanno bene?” gli chiedo con le lacrime agli occhi.
 
“Sì, è proprio quello che abbiamo tentato di dirle io e Jo, più di una volta” mi dice Julian Carter.
 
Io comincio a ridere e a piangere e ad abbracciarli.
 
“Credo che dovrei dirlo a Mark, starà impazzendo là fuori. Mi sapete dire quando potremo vederla?”.
 
“Tra qualche minuto la porteremo fuori dalla sala operatoria e la metteremo in una camera singola, dove potrete vederla, ma solo per qualche istante per il momento, il suo corpo ha comunque subito un forte stress” mi dice Julian.
 
“D' accordo, ora esco e vi lascio finire il vostro lavoro, scusatemi per prima”.
 
“Lei non ha nulla di cui scusarsi” mi risponde Jo.
 
Esco da quelle porte bianche che avevo spalancato con forza e disperazione, solo pochi minuti prima, con il cuore leggero e sollevato, mi sembra quasi di camminare a qualche centimetro da terra.
 
Mark è sempre seduto su quella panchina, con le mani che sorreggono la sua testa e le spalle ancora scosse da singhiozzi.
 
Mi avvicino a lui e mi ci siedo accanto.
 
“Stavi dormendo, Mark” gli dico.
 
Lui alza la testa e mi chiede: “Cosa?”.
 
“Prima, quando hai iniziato ad urlare, ti eri appena svegliato. Tu stavi dormendo, la Dottoressa Stewart non si è mai mossa dalla sala, lei non ti ha mai parlato, non ti ha mai detto che Callie e nostro figlio non ce l'avevano fatta. Tu hai avuto un incubo, Mark. Loro sono vivi e l'operazione è andata bene, Callie è salva, l'emorragia è sotto controllo e tra poco uscirà dal blocco operatorio e la potremo vedere”.
 
“Davvero? - mi chiede – era tutto un incubo? Allora io ..., io ti … , tu ... , oddio, scusami, non volevo spaventarti, io non mi sono accorto di essermi addormentato, sembrava tutto così tremendamente reale” Mark si gira verso di me e mi chiede scusa con le lacrime agli occhi, ma questa volta sono lacrime diverse, non di dolore, ma di gioia.
 
Mi avvicino e gli do una pacca sulla spalla: “E' stata una lunga nottata, Mark, non ti devi scusare con me. Non sai quanto io sia felice che tu abbia avuto un incubo, per una volta tanto la realtà non mi è mai sembrata così rassicurante”.
 
“Già” mi risponde ed inizia a ridere.
 
“Veramente” gli rispondo ed ora siamo in due, seduti su una panchina di un ospedale, la notte di Natale, a ridere come due disperati.
 
“Vieni a prendere un caffè con me intanto che aspettiamo che Callie esca?” mi chiede Mark.
 
“Una camomilla, magari? Credo che non berrò un caffè per un bel po'” gli rispondo io.
 
“Andata!” mi dice.
 
Insieme ce ne andiamo verso la sala ristoro con il cuore infinitamente più sollevato di qualche ora prima e la consapevolezza che, a Natale, qualche volta, i miracoli accadono veramente.
 
 
 
NdA:
 
Eccomi qui con il Diciottesimo Capitolo della storia, di questa storia che sto portando avanti da cinque mesi ormai e che mi sta dando molte soddisfazioni nello scriverla.
 
Continuerò, nonostante il calo delle recensioni, tuttavia, spero che qualcuno di nuovo, oltre ai soliti che ringrazio con tutto il cuore, mi scriva qualche riga, giusto per capire se a qualcun altro piace.
 
Comunque grazie a chi ha messo questa long nei preferiti, nelle seguite, nelle ricordate.
 
A presto
 
lulubellula
 

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Capitolo 19
*** Capitolo Diciannovesimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Diciannovesimo



"Apro gli occhi con fatica, sento dolore dappertutto, anzi, non proprio dolore fisico, più che altro un senso di fastidio e di malessere che mi avvolgono. Cerco di muovermi ma non riesco, non capisco dove mi trovo, sento qualcosa che mi preme contro la bocca, ma fatico a mettere a fuoco, sento le palpebre pesanti e stanche, le braccia che ricadono grevi lungo i fianchi e che non riesco a far reagire ai miei comandi.
Mi spavento, mi spavento e anche molto, inizio a farmi prendere letteralmente dal panico, fatico a respirare e mi accorgo di avere le vie aeree ostruite da qualcosa, inizio ad iperventilare, mi manca l'aria e mi sento soffocare.
Riesco a percepire attorno a me alcune persone che mi si avvicinano e parlano tra di loro, ma è solo un insieme di parole e di suoni confusi che si mescolano gli uni con gli altri, è tutto un “Callie, respira”, un “Estubatela”, un “Respira, non iperventilare!”, un fastidioso e sempre più incessante “Bip” dei macchinari che mi lacera le orecchie.
Vedo una donna con i capelli biondi che mi tiene la mano, assomiglia ad Arizona, ma non può essere lei, non può perché se n'è andata via, via da me. La vedo che mi stringe la mano con forza ma io non sento il suo tocco sulle mie dita, sulle mie nocche, sui miei polpastrelli, io non sento proprio un bel niente.
Ad un certo punto la sento piangere, vedo le lacrime che le scendono lungo il viso, sembrano lacrime di gioia al primo impatto, ma non lo so, forse non lo sono. Forse sto solo sognando tutto, forse sono morta e non ne sono nemmeno consapevole. Si può morire senza rendersene conto?
Forse sì, forse si può o forse no, dopotutto, prima di adesso non me n'ero nemmeno posta il problema.
Mi sento osservata, vedo delle persone vicino a me, c'è qualcuno di famigliare, un uomo con un camice bianco e dei folti e lucenti capelli neri, sembra Derek, oppure è tutto un sogno o uno stupido scherzo della mia mente. Chi lo sa? Io, no di certo. Vedo la donna bionda che piange sempre più forte e sento una serie di suoni provenire da non so dove, sono come delle vocali e delle consonanti messe nel posto sbagliato, in maniera del tutto casuale e scoordinata e proprio non riesco a capire chi le stia pronunciando.
Non è l'uomo con i bei capelli neri, neanche la donna bionda che mi sta stritolando la mano a furia di stringermela, nemmeno l'uomo con i capelli castani e gli occhi chiari che si trova vicino a loro e che assomiglia incredibilmente a Mark. Ma, se non sono loro, allora chi è che sta gridando?".
 
 
“Derek, che diavolo le sta succedendo? Perché Callie sta reagendo in questo modo all'operazione? Riesce a respirare da sola ma non è più lei! Non riesce a parlare, non riesce ad esprimersi, che cosa diavolo le hai fatto?” gli grida contro Arizona, che viene trattenuta da Mark, il quale non proferisce parola, se ne sta zitto e fissa Calliope con lo sguardo vuoto, come se tenerla sott'occhio in continuazione fosse quasi di vitale importanza, quasi una questione di vita o di morte.
 
Derek guarda Callie impietosito, le solleva le palpebre, le prova i riflessi e non riscontra alcuna anomalia neurologica, segno evidente che l' intervento da lui eseguito, è stato svolto in maniera del tutto impeccabile.
 
“Calmati, Arizona! Cerca di rimanere lucida, tutto questo trambusto potrebbe far male a Callie, ancora non sappiamo se sia parzialmente cosciente oppure no. Questa notte le abbiamo dovuto somministrare degli antipiretici perché le era salita la temperatura. Lei ha tutt'ora la febbre e il disorientamento cognitivo e motorio potrebbe essere dovuto in gran parte a quello. Tuttavia queste sono solo delle supposizioni per ora, finché non sarà cosciente e sfebbrata, nemmeno io potrò dirvi molto di più.
Vai a casa, Arizona, hai bisogno di staccare un po', di dormire qualche ora e di farti una doccia calda. Non voglio vederti qui prima di sei ore e questo vale anche per te, Mark, avete entrambi bisogno di riposare, è stata una lunga notte” dice Derek.
 
“Ma ...”iniziano entrambi.
 
“Niente ma, qui la situazione è sotto controllo e voi due siete svegli da più di ventiquattro ore, avete bisogno di una pausa e di stare con Sofia per un po', sarà spaventata e vi starà cercando” taglia corto Derek.
 
“D' accordo, torniamo a casa nostra per un po', ma, se succede qualcosa, prometti che ci chiamerai subito?” chiede Mark.
 
“Certamente, non appena ci saranno novità, sarete i primi a saperlo” afferma Derek.
 
“Andiamo, Arizona, vieni a casa” le dice Mark.
 
La donna annuisce debolmente e lo segue controvoglia sulla via di casa.
 
I due decidono di percorrere a piedi la breve distanza che li separa dall'appartamento 502, così da riuscire a schiarirsi le idee e cercare di rielaborare l'accaduto.
 
Il tragitto scorre silenziosamente, Mark ed Arizona non parlano, la donna è profondamente scossa ed ha lo sguardo colpevole e perso nei meandri più reconditi della sua mente, l' uomo invece si è lavato più e più volte le mani, ma le sente ancora intrise del sangue della sua migliore amica, una macchia che nemmeno il detersivo o il sapone più efficace del mondo riusciranno a mandare via.
 
Arrivati davanti alla porta del loro appartamento, Arizona si blocca, non riesce ad abbassare la maniglia e a entrare, sente i muscoli di tutto il suo corpo che si oppongono al tentativo di muoversi e la mente che sembra ben propensa nell' assecondarli.
 
Si volta e vede una macchia di sangue sullo zerbino dell'appartamento dell' uomo, la porta è socchiusa e lei la apre.
 
Mark cerca di fermarla e di evitarle un dispiacere di troppo, ma lei percorre con passo sicuro le mattonelle del pavimento, il parquet che ha calpestato più e più volte e che ora le sembra freddo ed ostile.
 
Spalanca la porta del bagno e vede le macchie di sangue sul tappeto, sulle piastrelle decorate a mano, sui bordi della doccia, vede le forbici che qualcuno deve aver usato per tagliarle la stoffa del vestito ed aprire un varco per tamponarle le ferite e poi vetro, vetro dappertutto, frammenti di piccole dimensioni e freddo, il freddo che le stava entrando nelle viscere, nel cuore, che le stava gelando le vene.
 
“Centocinquantotto” dice lei.
 
“Cosa?” chiede Mark che si trova vicino a lei e cerca di aiutarla e di non farle fare stupidaggini.
 
“Centocinquantotto, le hanno tolto centocinquantotto schegge in tutto il corpo, due di queste erano incredibilmente vicine al cuore, una le avrebbe potuto lacerare il sacco amniotico da quanto era tremendamente in sede, da quanto era vicino al bambino. Centocinquantotto schegge che le entravano nel corpo e io dov'ero?, stavo pensando alla mamma di qualcun altro, alla moglie di qualcun altro, alla figlia di qualcun altro e prima ancora dov'ero?, ero a curare me stessa, il mio dolore, la mia rabbia. E della rabbia di Callie, mi sono mai preoccupata della sua rabbia, del suo dolore, delle sue paure? No, io me ne sono andata senza pensarci ed ora lei, lei … io non so nemmeno se sarà più la persona di prima e se tornerà ad esserlo, non so nemmeno se mi vorrà più vicino. Non lo so nemmeno perché io stessa non mi vorrei più vicino, sono stata stupida ed egoista, sono stata un' irresponsabile ed ora lei sta lottando in un letto d'ospedale ed io sono tornata a casa a dormire? Ti rendi conto di come io faccia schifo come persona, ma che razza di donna sono diventata? Se mi vedesse mio padre, si vergognerebbe di me” dice Arizona singhiozzando.
 
Mark le si avvicina e la fa' alzare: “Alzati, alzati in piedi, perché stanotte ho quasi perso la mia migliore amica e Sofia ha rischiato di perdere la sua mamma e che io possa essere dannato se lascerò andare via anche te. Devi uscirne, Arizona, devi superare il tuo senso di colpa e rialzarti, perché io da solo, non posso farcela, ho bisogno che tu ti rialzi, ho bisogno che tu lo faccia per me, perché io sono stato di parola quando te ne sei andata, ho cercato di sorreggerla e proteggerla meglio che tu potuto e non ce l'ho fatta, ma ci ho provato con tutte le mie forze. Ora è il tuo turno, ora tocca a te dimostrare che anche il marinaio più coraggioso si spaventa durante la tempesta, perché è un essere umano, ma poi si rialza perché è nella sua natura reagire e proteggere le persone che ama. E tu, Arizona, sei il marinaio più coraggioso e dedito agli altri che io abbia conosciuto ed è un onore per me, condividere il timone della nave con te”.
 
Arizona si alza in piedi e lo abbraccia :”Grazie, Mark, grazie per quello che hai fatto per me e per loro, non è stata colpa tua, gli incidenti succedono e noi lo sappiamo meglio di molti altri. Sappi che non avrei potuto affidare la mia nave a nessun altro, perché tu sei la persona giusta. Tu sei la persona giusta, Mark”.
 
Mark alza lo sguardo e le chiede: “Davvero?”.
 
“Certo, non mentirei mai su questioni così importanti” risponde Arizona.
 
“Andiamo da Sofia, sono sicuro che sarà felicissima di vederti e di riabbracciarti”, le dice lui.
 
“Lo spero tanto, spero che non sia arrabbiata con me”.
 
 
 
"Sono in ospedale, deve per forza essere così, qui è tutto bianco e c'è un forte odore di disinfettante e di lenzuola fresche di bucato. Riesco a percepire gli odori e i suoni di ciò che mi circonda, riesco a sentire la preoccupazione nella voce di Derek, quando parla c'è una sorta di tremore nella pronuncia, quasi impercettibile a dire la verità, ma che, con una certa attenzione si riesce a percepire a miglia di distanza o perlomeno io ci riesco. Sento il profumo del tè al limone che sta bevendo l'infermiera nella stanza di fianco, a dire il vero non so come ciò sia possibile, sento i miei sensi molto più amplificati del normale, ma ancora non riesco ad aprire gli occhi. Ad essere sincera anche pensare sta diventando sempre più doloroso e difficile, mi sembra di dover risolvere un algoritmo difficilissimo ogni volta che non riesco a ricordarmi una parola oppure il significato della stessa, la parole "soluzione fisiologica", "conta dei globuli" e "Tac" mi sembrano quasi pronunciate in un'altra lingua, sono sicura di sapere cosa significhino, eppure non sarei in grado di spiegarli, nemmeno di pronunciarli, ad essere sincera. Credo che dovrei smettere di pensare e di lottare, c' è un fiume bellissimo laggiù, anzi sono quasi sicura che non ci sia, ma chi sono io per fare a cazzotti con la mia mente? Dopotutto quel fiume luccicante è molto più rassicurante dell'antibiotico che entra, goccia dopo goccia, nel mio sistema circolatorio e che dovrebbe farmi stare meglio, quel fiume è così simile a quello in cui io e papà andavamo insieme a pescare, è così rassicurante, le proiezioni della mia mente sono così rassicuranti, molto più della fredda e cruda realtà. Non credo che sia un buon segno che io sogni fiumi e acqua, però non ho alcuna intenzione di smettere, perché se mi ci abbandono la testa non mi fa' più male e non devo nemmeno pensare a nulla, perché la mia mente vaga da sé. Ed io, credo proprio che vagherò con lei".
 
 
“Sofia, dov'è?” chiede Arizona ad April che sta preparando una tazza di caffè per tutti.
 
“E' con Cristina e Meredith, stanno dormendo assieme a Zola nel lettone, Sofia era molto irrequieta, non ha lasciato la mano di Cristina nemmeno per un momento, credo che abbia percepito un po' della nostra tensione, poverina. Poi ha cercato te, Mark, continuava a chiedere del suo papà e della sua mamma, solo Cristina è riuscita a calmarla. Proprio lei che ha l' istinto materno di un bollitore da tè” risponde lei.
 
“Ha chiesto di me?” chiede timidamente Arizona.
 
April scuote la testa imbarazzata.
 
“Ok, visto che la piccola dorme mi farò una doccia e poi la prenderò in braccio e mi addormenterò vicino a lei, sono già stata lontana per troppo tempo”.
 
Mark intanto beve una tazza di caffè e va a vedere la piccola che dorme nel lettone.
 
Meredith si alza e si stropiccia gli occhi.
 
“Come sta Callie?”.
 
Mark abbassa lo sguardo e scuote la testa: “Dopo l'operazione sembrava che stesse meglio, ma ora ha la febbre alta ed ha il sonno molto agitato, ha provato a parlare ma niente che fosse comprensibile. Ho paura, Meredith, e se fosse in stato comatoso e se non si svegliasse più?”.
 
Meredith mi da una pacca sulla spalla, non è certo il tipo di persona che dice “Andrà tutto bene” quando nulla sta veramente andando per il verso giusto, tuttavia il suo tocco sembra riuscire a rassicurarmi un po'.
 
 
"Il fiume è così limpido, ho una gran voglia di buttarmici e di lasciarmi trasportare dalla sua corrente, cullata da una brezza dolce e salubre. Sto così maledettamente bene, potrei stare seduta per molti, moltissimi anni sulle sponde di questo fiume. Potrei, se non fosse che qualcosa o qualcuno mi sta prendendo per i capelli e mi sta trascinando via, via da questa mia isola felice".
 
 
Arizona è uscita dalla doccia da qualche minuto, si sta asciugando i lunghi capelli biondi mentre osserva la sua bambina dormire tranquilla nel letto, quando sente squillare il cercapersone.
 
“Dottor Shepherd, Dottor Shepherd, venga subito, subito!” grida Jo Wilson, la specializzanda che sta seguendo il caso di Callie.
 
Mark sta cucinando qualcosa per colazione, un paio di uova strapazzate e del bacon, quando sente squillare il suo cellulare.
 
“Dovete venire immediatamente, tu e Arizona! Si tratta di Callie!”.
 
Il piatto e le uova gli cadono di mano, l' asciugacapelli viene scagliato a terra e la porta viene socchiusa con forza.
 
 
E tutto il loro mondo, le loro speranze, il loro futuro è contenuto in quell'unica, breve telefonata.
 
NdA:
Ecco qui il nuovo capitolo, spero che vi sia piaciuto, io ho adorato scriverlo, i commenti sono ben accetti
A presto
lulubellula

P.S. Oggi è il mio compleanno

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Capitolo 20
*** Capitolo Ventesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Ventesimo



Arizona e Mark entrano nella hall dell’ospedale e si avvicinano all’ascensore, poi aspettano per una manciata di secondi che le porte si aprano, senza alcun risultato.
 
Spazientiti e spaventati, decidono di non attendere nemmeno un istante di più e si precipitano verso le scale.
 
Percorrono i piani che li separano da Callie in modo forsennato e disperato, con il cuore a mille, la paura e la speranza che li animano.
 
Arrivati nei pressi della sua stanza, si fermano, come trattenuti da una forza che si oppone al loro movimento, che li blocca e li spaventa, che si oppone di fronte alla resistenza di ogni singolo muscolo del loro corpo.
 
E’ la paura, la paura che ti mozza il respiro, che ti impedisce ogni azione e reazione, è il panico di fronte all’ignoto, quella forza misteriosa e terrificante che li trattiene.
 
Tuttavia l’ angoscia è troppa, la curiosità esasperante per impedire loro di sapere cosa sia successo a Callie.
 
Avendo notato il loro arrivo, Derek si avvicina ai due per cercare di informarli sulle condizioni della donna e far sì che siano preparati e perfettamente consci del suo stato di salute psico-fisica.
 
“Coma sta Callie? Per favore, dimmi che sta bene, che è ancora viva. Dimmi che lei e il bambino stanno bene. Ho bisogno di sentirmelo dire, perché mi sento già in colpa, mi sento già a pezzi e so benissimo di aver commesso un errore imperdonabile andandomene via. Ho bisogno di sentire una buona notizia, ho bisogno di sapere che lei è lì, in quel letto, che sta bene e che si riprenderà. Non mi importa nulla se lei sarà arrabbiata con me, se ce l’avrà a morte con me per quello che ho fatto. Non mi importa perché sentire lei che si sfogherà contro di me, sarà uno dei momenti più belli della mia vita” gli dice Arizona.
 
Mark invece fissa Derek cercando di captare il minimo segnale che gli faccia capire che cosa lui stia per dire loro.
 
Dopo aver ascoltato lo sfogo di Arizona, Derek sorride loro e li avverte: “Si è svegliata poco fa, è ancora un po’ confusa e disorientata, ma è Callie, la Callie che conoscete. Ha chiesto di Sofia e di Mark, per questo motivo ho deciso di chiamarvi, perché lei ha proprio un disperato bisogno di vedere qualcuno di famiglia, perciò entrate, anche se sarebbe meglio che entraste uno alla volta, per non inondarla di troppe emozioni in una volta sola”.
 
Arizona abbassa la testa e si lascia sfuggire una lacrima, è tremendamente felice di sapere che sua moglie sia viva e in buona salute, ma al tempo stesso, sa che, nel momento in cui lei varcherà la soglia di quella stanza, la reazione della donna non sarà per nulla positiva.
 
Derek le metto una mano sulla spalla e cerca di tranquillizzarla: “Vieni, Arizona, credo che sia preferibile lasciar entrare prima Mark, tu hai bisogno di calmarti un po’ e di schiarirti le idee. Vieni con me, ce ne andiamo qualche minuto alla caffetteria, ci prendiamo qualcosa e parliamo oppure se non ti va, puoi comunque startene zitta a pensare, ok?”.
 
Derek si volta per osservare la reazione della donna, che annuisce e lo segue verso la caffetteria.
 
Mark invece entra nella stanza di Callie e la vede, distesa su quel letto, dove l’aveva lasciata poche ore prima, agonizzante e febbricitante, una Callie decisamente diversa dalla migliore amica a cui aveva imparato a voler bene.
 
Callie lo vede e abbozza un sorriso, gli fa cenno di avvicinarsi e lo saluta.
 
“Ciao, Mark. Ti ho fatto preoccupare, non è vero? Derek mi sembrava incredibilmente sollevato quando mi sono risvegliata e gli ho chiesto un bicchiere d’acqua, perché avevo sete. Mi ha detto che ho avuto un incidente domestico, forse dovuto ad un malore, ma i miei ricordi dell’accaduto sono ancora piuttosto confusi. Ricordo che stavamo festeggiando la Vigilia di Natale con gli altri, nel tuo appartamento e che tu stavi per tagliare la torta che noi due avevamo comprato in quella pasticceria dal profumo celestiale sulla Fifth Avenue. Per il resto ho solo qualche vado ricordo, brandelli di immagini più che altro, ricordo un dolore sordo all’ addome e del sangue, poi di essermi aggrappata da qualche parte, poi più nulla, solo il buio.
Mark le si siede accanto e cerca di fare un po’ di chiarezza nella confusione mentale della donna: “Ti sei aggrappata al mobiletto del bagno, quello che io ed Arizona abbiamo sistemato lì, tempo fa, la specchiera ha ceduto di fronte al peso e tu sei caduta, sbattendo a terra la testa con una violenza inaudita, le schegge di vetro sono cadute ovunque, vicino alla finestra, sul tappeto, sul lavandino, molte di queste ti hanno ferita. Centocinquantotto per la precisione”.
 
“Centocinquantotto? Wow, ma sono tantissime! Immagino di dover essere grata a qualcuno, a Dio forse, se sono ancora viva e se il bambino sta bene. Deve essere stata la mia giornata fortunata” afferma Callie.
 
Mark la fissa sbalordito e poi replica: “La tua giornata fortunata? Stai scherzando, spero? Io la potrei definire in almeno un milione di modi, ma devo dire che, fortunata, non rientrerebbe tra gli aggettivi che utilizzerei. Una giornata davvero degna di questo appellativo sarebbe andata diversamente, Callie!”.
 
“Che cosa intendi, Mark? Perché ti stia scaldando così tanto?” chiede la donna incuriosita.
 
Mark si mette le mani tra i capelli e cerca di assumere un’espressione meno stanca e provata di quella che ha avuto negli ultimi periodi.
 
“In una giornata fortunata o perfetta, o come la si voglia chiamare, io e te avremmo festeggiato insieme agli altri ed avremmo atteso la mezzanotte con trepidazione, aspettando con ansia l’arrivo della neve e dei regali, in un clima festoso di impazienza e allegria. Io mi sarei vestito da Santa Claus e avrei consegnato i doni alle bambine e loro li avrebbero scartati con aria sognante. Tu avresti preso in braccio Sofia e avremmo fatto una fotografia, noi tre insieme.
In una giornata fortunata, Arizona avrebbe bussato alla porta dell’ appartamento 502 e, non trovandoti, sarebbe venuta a cercarti nel mio, tu le avresti aperto la porta e, tra voi due, le parole non sarebbero servite, le emozioni le avrebbero sostituite, voi due sareste state di nuovo felici insieme.
Questa è quella che io considero una giornata fortunata.
Non è entrare in casa vestito da Santa Claus, cercare Sofia per darle i regali e trovate te, distesa nel bagno in fin di vita, in un lago di sangue e impazzire per il dolore. Stavo impazzendo, Callie, sarei impazzito se Owen non fosse riuscito a farmi mantenere un briciolo di lucidità per permettermi di portarti qui in ospedale. Una volta arrivati qui, sembravo un pazzo, una specie di Santa Claus uscito da un qualche film dell’orrore, un Santa Claus assassino, imbrattato di sangue, del tuo sangue, dalla testa ai piedi, spingevo la tua barella, con Owen al mio fianco, ero letteralmente in preda al panico!
Ho gridato contro chiunque mi capitasse a tiro, contro i paramedici, le infermiere, contro Arizona.
Perciò, per favore, dì qualsiasi cosa, qualsiasi, ma non che quella è stata una giornata fortunata!” afferma Mark, visibilmente sconvolto.
 
Callie sorride all’uomo e prende la sua mano: “Calmati, Mark, stai tranquillo, ora sono qui, siamo qui – si porta una mano sulla pancia – stiamo bene, siamo vivi, non credi che questo sia uno dei migliori regali di Natale che tu abbia mai ricevuto?”.
 
L’ uomo annuisce e si asciuga gli occhi velati dall’emozione.
 
“Prima mi hai detto che … forse mi sono sbagliata, forse ho capito male, ma mi è sembrato che …” inizia Callie, che non riesce a trovare le parole giuste con le quali esprimersi.
 
Mark le dice: “ No, non hai capito male, Callie, Arizona è tornata, Arizona stava venendo da te e non ti ha lasciata sola nemmeno per un istante, se n’è  andata solo per qualche ora, quando Derek ci ha praticamente obbligato a tornarcene a casa a riposare un po’ e a riabbracciare Sofia. Era distrutta, Callie, entrambi lo eravamo”.
 
Callie se ne sta zitta per qualche istante, poi dice all’uomo: “ E’ tornata davvero questa volta? Non ha intenzione di andarsene di nuovo, vero? Insomma lo ha già fatto per ben due volte. L’ha detto lei stessa che è una donna che se ne va quando le cose si complicano. Sinceramente non riesco ad immaginare una vita più complicata di così, Mark, proprio non ne sono capace. Se lei non è tornata per restare, io … io non la voglio nemmeno vedere, voglio, voglio che lei se ne ritorni da dove è venuta. Io non potrei sopportarlo, io non posso sopportarlo, non un’ altra volta, non adesso”.
 
Mark la osserva preoccupato e poi risponde: “ Cerca di calmarti, Callie, tutta questa tensione non ti fa bene, non vi fa bene, sei tachicardica, cerca di rilassarti, di fare dei respiri profondi e ascoltami attentamente”.
 
Callie annuisce e prova a tranquillizzarsi un pochino.
 
Mark le sorride e riprende: “Ok, così va già decisamente meglio. Senti, ascoltami Calliope, Arizona è tornata, non se n’è andata via per colpa tua. Ora lei è spaventata almeno quanto te, si sente tremendamente in colpa, perché lei crede che tu potresti non volerla più nella tua vita. E’ tesa, veramente tanto, crede che tu la taglierai fuori dalla tua vita, che non riuscirai a perdonarla, che la incolperai per quello che è successo. Lei crede che, una volta varcata questa porta, tu comincerai a vomitarle addosso parole piene di odio e di risentimento, che le scaglierai mesi e mesi di sentimenti inespressi, che peseranno sulle sue spalle come dei macigni impossibili da portare.
E’ spaventata, Callie, ha paura, non ha intenzione di andarsene via, non lo farà mai più, puoi starne certa, ha solo paura di non essere più in grado di ritrovare ciò che ha lasciato, andandosene via.
E’ davvero terrorizzata, ora è in caffetteria con Derek, ha deciso di portarla lì, perché stava dando i numeri, davvero continuava a piangere e a sussurrare e poi di nuovo a piangere. Derek ha preferito farci due chiacchiere prima di farla parlare con te”.
 
Callie inizia a piangere, dopo aver sentito le parole di Mark, prima piano, quasi un sussurro, poi via via sempre più forte.
 
“Lei non se ne andrà? Non mi lascerà di nuovo sola, sola con il mio senso di colpa e le mie debolezze? Sola a dover raccontare una montagna di bugie a nostra figlia, sola a sentire i calcetti del bambino che deve ancora nascere e che ancora non la conosce?”.
 
Mark si avvicina e la abbraccia: “No, Callie, lei non ti lascerà, starà qui con te e prenderà Sofia sulle sue ginocchia per raccontarle le favole, poi metterà una mano sul tuo grembo e sentirà il bambino dare calci, poi ti bacerà pensando di essere la donna più fortunata sulla faccia della terra. Poi si sentirà molto in colpa, di tanto in tanto il rimorso tornerà a farsi sentire, ma ci sarai tu a far tacere quella maledetta voce, dandole un bacio e mandando via le sue paure. Perché se lei c’è, tu non avrai mai più paura di restare sola e se ci sei tu, lei non avrà mai più timore del buio”.
 
Callie sorride: “Come farei senza di te, Mark? Come potrei affrontare tutto questo?”.
Mark le risponde: “ Eh, già saresti persa, senza di me, smarrita. Tuttavia troveresti un modo, Callie, perché tu sei più in gamba e più forte di quello che credi e questo ti rende quella che sei. Questo ti rende una delle persone migliori che io conosca”.

 
“Hai ragione, Mark, non devo avere paura, posso farcela, posso avere una nuova chance con lei, posso farle capire quello che sento, quello che penso, posso far sì che lei si senta di nuovo al sicuro qui, con noi”.
 
Nel frattempo, Arizona e Derek tornano dalla caffetteria.
 
Arizona fa per avvicinarsi alla porta, ma poi si ferma e si volta verso Derek.
“E’ la cosa giusta da fare, secondo te? Forse sto sbagliando tutto, forse dovrei tornarmene indietro, sarebbe la cosa migliore per loro” inizia la donna.
 
“Non ti ho mai detto che sarebbe stato semplice o che ti avrebbe fatto sentire meglio fare questo passo. I momenti più importanti della nostra vita, quei tasselli fondamentali, non sono mai semplici da compiere, sono incredibilmente difficili il più delle volte, eppure sono il sale che da sapore ai nostri giorni, sono quello che ci fa alzare presto al mattino e andare a dormire tardi alla sera, sono tutto ciò per cui vale la pena lottare. E per questo tu devi lottare, non puoi arrenderti, non puoi permettere di perdere tutto ciò per cui hai lottato così tanto solo per paura, non puoi perché sarebbe quanto di più sbagliato esista al mondo. Sarebbe come voltare la faccia alle persone che una seconda occasione nella vita non l’hanno mai avuta. Sinceramente, come chirurgo, non posso pensare che un mio pari si possa arrendere, insomma, Arizona, non sfidiamo l’impossibile tutti i santi giorni, sfidiamo la morte, la povertà, i tumori inoperabili, noi cambiamo le carte in tavola ogni giorno che Dio manda su questa Terra, perché tu vuoi arrenderti proprio adesso”.
 
La donna ascolta il discorso di Derek con attenzione, poi annuisce: “ Hai ragione, Derek, dopotutto, cosa mai potrebbe farmi Callie? Al massimo uccidermi”.
 
Derek le sorride: “Questo è lo spirito giusto, Arizona, ora entra e stendili tutti!”.
“Cosa? “ chiede lei sbigottita.
 
“Si dice sempre così alle persone che stanno per affrontare il discorso più importante della loro vita”.
 
Arizona apre la porta ed entra.
 
Non appena Mark la vede, saluta Callie e mette una mano sulla spalla di Arizona per incoraggiarla.
 
“Ciao, Callie. Come ti senti, stai meglio?” chiede Arizona con un filo di voce.
“Sono un po’ indolenzita, ma viva a quanto pare, Mark mi ha detto che vi ho fatto preoccupare moltissimo”.
 
“Già, lui …, io …, noi eravamo molto preoccupati per te, per fortuna si è risolto tutto per il meglio”.
 
Callie annuisce, poi le dice: “Potremmo stare qui a parlarci come due estranee per delle ore, per quanto mi riguarda. Tuttavia non credo che sia quello di cui abbiamo bisogno in questo momento. Io volevo solo dirti che …”.
 
“Io ti volevo dire che ho sbagliato, io avevo paura e la morte di Nick mi ha fatto impazzire, non ce la facevo a restarmene entro quelle quattro mura, stavo troppo male, la stanza era così buia, ho passato delle ore quella notte a pensare al buio e avevo paura e niente e nessuno sembrava darmi pace. Me ne sono andata perché avevo paura del buio, Callie, avevo paura che il mio buio arrivasse a te e a Sofia, non volevo coinvolgervi nel mio dolore, non potevo”.
 
“Io ho paura di restarmene sola, la solitudine mi spaventa, quasi più della morte, a volte. La casa mi sembrava così vuota e triste, così inospitale, c’erano Mark e Sofia, questo è vero, però mi mancava qualcosa, mi mancavi tu, Arizona”.
 
“Ho paura, Callie, ho ancora paura del buio, ho passato intere notti in hotel da due soldi, con la sola compagnia di una luce accesa e dei miei pensieri. Ho avuto paura di aver perso tutto, di averti persa e ho avuto paura di tornare e di trovare la conferma ai miei timori”.
 
“Ho paura di ritornare sola, non potrei sopportare di riaverti qui con me e di perderti di nuovo, non voglio ritornare a vivere nel mio terrore dell’ abbandono, nella mia solitudine forzata, morirei nel tentativo di oppormi”.
 
Arizona le si avvicina e la bacia: “Non devi avere paura di restare sola, io ti terrò per mano, quando ti sentirai perduta e senza nessuno”.
 
Callie risponde con passione al bacio della moglie: “Non devi aver paura del buio, io sarò la tua luce in fondo alle tenebre, ti terrò per mano e non ti lascerò camminare nell’ oscurità”.
 
Arizona si avvicina ulteriormente a sua moglie ed appoggia la sua mano sul ventre della donna.
 
“Come sta il piccolino?”.
“Credo sia felice di risentirti, sta scalciando!”.
“Dove?”
“Vieni, metti la tua mano qui”.
“Sta scalciando, sta scalciando!”.
“Sì, sta scalciando e tu sei qui a sentirlo con me”.
“Avremo un altro bambino, Callie”.
“Sì, un altro figlio insieme e sarà fantastico, come noi due, del resto”.
 
Le due si avvicinano, baciandosi nuovamente.
 
Da lontano, Derek e Mark le osservano.
 
“Abbiamo fatto proprio un bel lavoro, non è vero, Mark?”.
“Vorrai dire che io ho fatto un ottimo lavoro, Derek”.
“Hai capito cosa intendevo”.
“Sì, credo di sì, abbiamo fatto la cosa giusta”.
 
 
NdA:
Rieccomi qui con il nuovo capitolo
Innanzitutto vorrei ringraziare coloro che seguono e che manifestano il loro affetto alla sottoscritta, tutti voi mi spronate continuamente a scrivere e mi rallegrate la giornata.
Un infinito grazie a chi recensisce e inserisce la storia tra le preferite/ seguite /ricordate.
Fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo
Un abbraccio
lulubellula
 

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Capitolo 21
*** Capitolo Ventunesimo ***


Non c'è due senza tre

Capitolo Ventunesimo


Dieci giorni dopo
 
"Allora, abbiamo preso tutto, Mark? Sei sicuro di non aver dimenticato nulla?" chiede Arizona, in evidente stato d' ansia, all' uomo.
 
Mark controlla per l' ennesima volta che non sia rimasto qualcosa nell' armadietto, sul letto oppure sulla poltrona della stanza d' ospedale nella quale Callie ha trascorso gli ultimi giorni di degenza.
 
"Sì, Arizona, abbiamo preso tutto, non preoccuparti. Oggi possiamo tornare a casa con lei, voi potete tornare nel vostro appartamento insieme, come prima, come se nulla fosse successo, come se nulla vi avesse divise" risponde Mark facendole un sorriso incoraggiante.
 
Arizona gli risponde con un semplice cenno della testa e un pallido e poco convinto sorriso, che sottolinea la sua poca fiducia.
 
"Callie è già stata visitata dalla ginecologa?" chiede lei, tormentandosi nervosamente le maniche del maglione.
 
"Arizona, stai tranquilla. Callie è entrata venti minuti fa e stava bene, mi sembrava rilassata e positiva, perciò cerca di mantenere la calma e soprattutto smettila di iperventilare, non vorrai di certo svenire e far spaventare tua moglie!" le dice Mark, nel tentativo di confortarla.
 
Arizona fa un bel respiro e annuisce.
 
"Ecco, così va meglio, ora io vado a chiedere notizie sulla visita e tu cerca di restare calma e impassibile e preparati a sfoderare uno dei tuoi sorrisi migliori all' arrivo di Callie, mi raccomando, non deludermi" le dice Mark prima di uscire dalla stanza.
 
 
 
"Perché lei ha questo sorriso super magico e quando ti fa questo sorriso, tutto va meglio".
 
 
 
Le ritornano in mente le parole di Callie, pronunciate durante la sparatoria all' ospedale, lei non aveva perso la calma, la sua voce non aveva tremato, non aveva esitato, aveva consegnato le bende e le garze direttamente nelle mani di Gary Clark senza battere ciglio, anche se lei sapeva benissimo che Calliope doveva aver comunque provato una gran paura.
 
Callie non era fuggita, non l' aveva lasciata, era rimasta impassibile anche se si sentiva sciogliere l' anima dalla paura.
 
Non l' aveva fatto, era riuscita a pronunciare quelle parole per tranquillizzare una piccola paziente spaventata, parole per lei, per Arizona, una frase che le era arrivata dritta al cuore e aveva sciolto il sottile strato di ghiaccio e risentimento che si era costruito tra di loro.
 
Callie aveva bisogno del suo sorriso super magico, del suo amore, delle sue parole dolci e amorevoli, di farsi sentire amata anche adesso che il suo corpo era trasformato, stravolto, in preda ad uno squilibrio ormonale molto intenso, dovuto alla gravidanza.
 
Quel sorriso super magico avrebbe fatto bene sia a lei sia a Callie.
 
 
 
"Eccomi di ritorno!" dice Callie entrando nella stanza e portando con sé una ventata di cauto ottimismo.
 
Arizona si alza in piedi e si avvicina a sua moglie.
 
"Allora, che cosa ha detto la Dottoressa Stewart? E' tutto ok? Tu e il bambino state bene? La pressione? E' troppo alta o troppo bassa? La glicemia? Ti ha provato il livello di zuccheri nel sangue?" chiede Arizona dimenticando tutti i buoni propositi formulati poco prima.
 
Callie la ferma e le dice: "Arizona, stai tranquilla, sembri molto agitata, cerca di calmarti. La visita è andata bene, la mia pressione è nella norma, la glicemia è 98 mg/100 ml, quindi anch' essa nel range di valori. Inoltre ho fatto l'ecografia e queste sono le foto del nostro bambino, vuoi vederle?" le dice Callie emozionata e speranzosa.
 
Arizona la abbraccia e le sfiora la guancia destra con un bacio veloce.
 
"Certo, Callie, scusa per l' apprensione, ma negli ultimi mesi le cose non sono andate quasi mai per il verso giusto, perciò ultimamente penso sempre al peggio. Certo, voglio vedere le fotografie del nostro bambino".
 
Callie apre una busta bianca e mostra le immagini dell' ecografia a sua moglie, che la guarda con gli occhi lucidi.
 
"Guarda, Arizona, questo è il nostro bambino" le dice Callie, visibilmente felice, con la voce rotta dall' emozione.
 
"E' ..., il bambino è così ..., così bello, avremo un bambino Callie, noi due stiamo per avere un altro figlio, la nostra bolla rosa sta per crescere, sta per diventare ancora più perfetta" le dice Arizona baciandola sulle labbra con passione.
 
Callie ricambia il bacio di sua moglie e poi le sorride, dicendole: "Non male per una storia iniziata nel bagno di un bar e proseguita con te che mi dici che sono una poppante".
 
Arizona ride all' affermazione della moglie e le dice: "Come potrei dimenticarmelo, Callie. Ho fatto una stupidaggine dicendoti quella frase, però poi mi ha colpito il tuo carattere, il tuo essere matura sotto altri punti di vista, le tue esperienze di vita, le tue figuracce e il tuo andartene via con un sorriso storto bevendo tequila tutta d' un fiato. Sei così sexy, quando scopri di aver fatto una figuraccia, così vulnerabile e bella, da togliere il fiato".
 
Callie sorride abbassando lo sguardo a terra.
 
"Anche adesso che sto per lievitare come una mongolfiera, insomma, non sono proprio la donna più desiderabile del mondo, con il ventre ingrossato e i piedi gonfi. Sono come una macchina sforna bambini, non ho più il mio vecchio fisico, ho dovuto persino togliere l' anello perché avevo paura di non riuscire più a sfilarmelo" le dice con tono sincero.
 
Arizona le prende le mani e le dice: "Guardami Callie, guardami negli occhi. Io ti amo, ti ho sempre amata, ti amavo quando avevi preso la varicella ed eri piena di bolle e febbricitante, ti ho amato quando eri in crisi perché avresti dovuto parlare in pubblico dei tuoi casi clinici del passato ed eri in bagno con i gomiti appoggiati al gabinetto a vomitare, ti ho amato persino quando ci siamo lasciate e non facevamo altro che litigare. Come potrei smettere? Non puoi chiedere ai miei polmoni di farmi smettere di respirare o comandare al mio cuore di non battere più, loro non ti darebbero retta, continuerebbero a svolgere il compito per il quale sono destinati. Io sono così, io ti amo, non puoi chiedermi di smettere perché io non posso cessare di volerti bene, di amarti, di voler trascorrere tutto il tempo che ci resta insieme, io sono destinata ad amarti, noi due siamo destinate, non lo vedi? Quante volte abbiamo rischiato di buttare via tutto? Quante volte ci siamo trovate di fronte ad un bivio e abbiamo imboccato strade diverse per poi tornare sui nostri passi? Noi ci apparteniamo, Callie, il nostro rapporto è destinato ad essere, perciò ora non venirmi a dire che tu ti senti grassa, informe e poco presentabile e che io dovrei amarti di meno per questo. Non è così, Callie, non è così. Tu sei bellissima, il tuo ventre è ingrossato perché sarai madre, mi donerai un altro figlio, un altro bambino bellissimo, come te, del resto. Appena tornate a casa, prenderò un po' di quel favoloso olio di mandorle e ti massaggerò le caviglie e i piedi, così troverai un po' di sollievo e non ti faranno più male, poi preparerò una delle mie favolose torte alle fragole per te e per la nostra principessina e ne mangeremo una fetta sedute vicine sul divano guardando un cartone animato insieme a lei, probabilmente "Peter Pan", visto che le piace così tanto. Infine chiederò a Mark di tenere Sofia per questa notte e noi due dormiremo insieme nel nostro letto, vicine, come non facciamo da molto, troppo tempo, Callie. Ti amo, Callie, ogni giorno un po' di più".
 
Callie ha le lacrime agli occhi, alcune gocce salate le rigano il volto, sono lacrime di gioia, sono tutti quei sentimenti e quelle paure che aveva tenuti nascosti in una piccola scatola dentro di sé, nascosti perché facevano male, le ricordavano i giorni passati, i giorni normali, quei giorni felici, perfetti, che appaiono come tali solo quando sono passati, quando perfino i momenti di noia appaiono desiderabili perché quello che rimane di quei momenti è solo un ricordo sbiadito e irraggiungibile rispetto al dolore e allo sconforto del presente.
 
"Oggi è un giorno perfetto, Arizona, oggi è il nostro giorno perfetto. Vieni, torniamo a casa, Mark ci sta aspettando nel parcheggio" le dice la donna, porgendole una mano.
 
" A casa" ripete Arizona, come se pronunciare ad alta voce quelle parole le facesse sembrare più vere.
 
 
 
"A volte vorremmo essere più ricchi, più belli, più popolari, più intelligenti degli altri. Vorremmo essere tutto ciò che non siamo e probabilmente non saremo mai. Lottiamo, calpestiamo, gridiamo, piangiamo e corriamo più veloce degli altri. Non dormiamo la notte, non troviamo pace di giorno, sorridiamo quando vorremmo piangere e ci nascondiamo dietro ad una maschera, La maschera ci piace, ti rassicura, ci tiene caldo come la coperta di Linus o il pupazzo di pezza che ci trascinavamo in giro per la casa da piccoli. In fondo non siamo cambiati per niente, siamo dei bambini che giocano a fare gli adulti, che fingono di essere quello che gli altri vorrebbero che fossimo. Lasciamo indietro i nostri sentimenti, ciò che vogliamo veramente, perché nove volte su dieci non è quello che gli altri si aspettano da noi. Ci vuole uno shock, qualcosa di forte per spezzare questo circolo vizioso, un disastro, una morte, un fallimento. La nostra maschera cade a terra, ci abbandona e ci lascia in balia del vento e del dolore, della solitudine e dello smarrimento.
 
Questo però non è necessariamente un male. Non è un male se riscopriamo noi stessi e gli affetti autentici, non è male se l' appartamento affittato dopo il fallimento del tuo matrimonio diventa casa tua e la sconosciuta incontrata in un bar, tua moglie".
 
 
NdA:
Ringrazio _ Trixie_ che sta preparando i banner per la mia storia, chi legge, le 14 persone che hanno aggiunto la storia nei preferiti, le 3 nelle ricordate, le 29 che la seguono e ringrazio te che leggi e che mi dirai che cosa ne pensi.
Un abbraccio
lulubellula

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Capitolo 22
*** Capitolo Ventiduesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Ventiduesimo


 
Arizona apre la porta di casa, reggendo con la mano libera il trolley di Callie contenente indumenti e il beauty case utilizzati durante la degenza in ospedale.
 
Calliope la segue ed entra nell’appartamento sfoderando un sorriso raggiante.
 
“Peccato che Mark non sia potuto venire qui, era così emozionato all’idea del tuo ritorno a casa che, quando è stato trattenuto in ospedale per un’emergenza, mi è sembrato piuttosto deluso” le dice Arizona, appoggiando la valigetta a terra e voltandosi verso di lei.
 
Callie le si avvicina e le dice: “Già, peccato che lui non sia qui, tuttavia, credo che troveremo di certo qualcosa da fare noi due sole –fa qualche passo avanti e le sfiora i capelli biondi e lucenti con la punta delle dita- non trovi, Arizona?”.
 
Arizona le sorride di rimando e replica: “Sofia sarà qui tra poco, è già stata lontana da noi per un bel po’, chissà come sarà felice di vederci. Forse potremmo aspettare stasera, non credi, Callie? Qualche ora di attesa non ci ucciderà di certo”.
 
Per tutta risposta, Callie inizia a baciarla sulle labbra, prima dolcemente, poi con passione, sfiorandole nuovamente i capelli, scostandoli dal suo viso e iniziando a sbottonare il primo bottone della camicetta.
 
Dopo lo sbigottimento iniziale, Arizona ricambia sua moglie con un tiepido entusiasmo e si lascia trascinare in quel momento di semplice, romantica e pura follia fino a quando …
 
“Driin, driin!”.
 
Arizona si rialza disorientata e sussurra a sua moglie: “Il campanello, Callie, hanno suonato alla porta! Te l’avevo detto che sarebbe stata una sciocchezza, che avremmo potuto aspettare qualche altra ora!”.
 
La donna mostra un leggero turbamento misto ad un malsana dose di euforia.
 
“Shhh, non urlare! Fai finta di nulla, Arizona, se fingiamo di non esserci, se ne andranno. Dunque, dove eravamo rimaste? Ah, sì, io ti stavo baciando e tu mi stavi ricambiando con un certo entusiasmo” inizia Callie.
 
“Non posso, Callie, di sicuro sarà Derek con le bambine, dobbiamo aprire” le dice di rimando, aggiustandosi la camicetta e cercando di pettinarsi i capelli, passando le dita tra una ciocca e l’altra.
 
“Sei proprio esagerata, Arizona. Potrebbe benissimo essere un venditore porta a porta oppure un ladro. Sei sicura di voler lasciare entrare un bandito in casa nostra?” le domanda.
 
Arizona le lancia un’occhiata sconcertata e sospira: “Un ladro, Callie? Da quando in qua, i ladri suonano il campanello prima di svaligiare gli appartamenti?”.
 
Callie riflette un istante e poi comincia a ridere: “”Hai ragione, probabilmente non si tratta di un ladro”.
 
Qualcuno inizia a bussare alla porta: “Callie? Arizona? C’è qualcuno? Sono Derek, ho riaccompagnato Sofia”.
 
Arizona si volta e le sussurra: “Che ti avevo detto? Sono loro!”.
 
La donna si alza e corre ad aprire, lasciando entrare Derek e le bambine all’interno dell’appartamento.
 
Sofia corre ad abbracciarla e poi va da Callie e le salta al collo, stampandole un bacio sulla guancia, infine scende e corre dalla sua amichetta, pronta per giocare a nascondino.
 
“Ho interrotto qualcosa?” chiede Derek ad Arizona, mentre Callie è in cucina a preparare i caffè.
 
Arizona impallidisce e con la voce lievemente tremante, risponde: “N-no, che cosa te lo fa pensare?”.
 
Derek sorride e le sussurra piano: “Hai una vistosa macchia di rossetto sul colletto della camicia, forse è il caso che tu vada a cambiarti, prima che Sofia e Zola inizino a farti strane domande”.
 
Arizona avvicina il lembo di stoffa a sé e balbetta: “Sì, grazie, ora corro a cambiarmi, torno tra qualche istante” e va a passo spedito verso la camera da letto.
 
Intanto, nell’attesa, Derek raggiunge Callie in cucina.
 
“Posso darti una mano?” le chiede.
 
La donna si volta e risponde: “Non è necessario, Derek, è quasi pronto”, poi si porta le mani al grembo e contrae il viso con una leggera smorfia di dolore.
 
Derek si alza dalla sedia e le si avvicina: “Stai bene? Credo che tu debba sederti un attimo” e la conduce verso il divano in soggiorno.
 
“Non è necessario, Derek, non preoccuparti, ho avuto solo delle fitte, probabilmente il bambino è un po’ agitato oggi, è stata una mattinata stressante, sono appena uscita dall’ospedale ed è il primo giorno, dopo tanto tempo, che varco la soglia di casa con Arizona. Stiamo cercando di riprovare ad essere una coppia normale, Derek, ma non è semplice, non è per nulla tutto rose e fiori, diciamo che tutto è più complicato del previsto. Ci stiamo riprovando, Derek, ma siamo come ingessate, abbiamo paura, non riusciamo a lasciarci andare come una volta, forse non ci riusciremo mai” ammette Callie, abbassando lo sguardo a terra.
 
Derek si siede sul divano con lei: “Pensavo che le cose fossero tornate a posto tra voi due, a giudicare la camicetta di Arizona”.
 
Callie alza lo sguardo con aria interrogativa: “La sua camicetta?”.
 
Derek sorride e le dice: ”La nuance del tuo lucidalabbra, è stato impossibile non notarla. Oltretutto le macchie di rossetto sono praticamente indelebili”.
 
Nel frattempo, Arizona entra in salotto, indossando un maglione celeste a coste a collo alto.
 
“Eccomi qui, purtroppo non mi posso fermare perché il mio cercapersone ha appena squillato. Devo correre in ospedale, altrimenti Karev darà i numeri, mi ha già chiamato al cellulare e ha fatto tre squilli nel giro di nemmeno cinque minuti. Mi dispiace per il caffè, sarà per un’altra volta”.
 
Si avvicina a Callie e la bacia velocemente sulle labbra.
 
“Ci vediamo stasera, credo che staccherò piuttosto tardi, tu e Sofia andate pure a dormire, non aspettatemi alzate”.
 
Callie annuisce debolmente e abbassa lo sguardo, Arizona afferra le chiavi dell’appartamento e chiude la porta dietro di sé.
 
Derek nota il turbamento di Callie e cerca di risollevarle il morale: “Ha avuto un contrattempo, sono sicuro che sarebbe stata felicissima di restare qui con noi a bere il caffè e a chiacchierare”.
 
Callie tiene lo sguardo basso e si sfrega le nocche contro le palpebre, cercando di rimandare indietro le lacrime che si preparano a scendere lungo le sue guance.
 
“Forse abbiamo sopravvalutato la nostra possibilità di rimettere insieme i cocci, dopotutto è bastato un solo giorno nella vita vera, qui a casa, non più in ospedale, per riportare a galla le debolezze del nostro rapporto. Non sono certa che sia stata la cosa giusta ritornare a vivere insieme, in questo appartamento, dopotutto, se non avessi rischiato di morire la notte di Natale, non le avrei permesso di ripiombare così facilmente nella mia vita. Lei mi ha lasciato, Derek, lei mi ha già abbandonata in passato, si è lasciata quella porta alle spalle senza pensarci due volte. Ho rinunciato a tutto per lei, non ho più una madre, mia sorella finge che io non esista più e mio padre fa quello che può per tenere insieme i brandelli della nostra famiglia. Lei si sente in colpa, lei è qui, vicino a me, solo perché si sente un macigno pesantissimo che le schiaccia la coscienza. Non mi ama, non come prima, non mi desidera, mi bacia per inerzia, mi abbraccia per abitudine, crede che io non me ne accorga, ma non sono una sciocca, capisco che nulla è più come prima, che nulla potrà mai esserlo”.
 
Derek lascia sfogare Calliope e la ascolta pazientemente, senza interromperla mai.
 
“Credo che voi due abbiate paura di amarvi di nuovo, Callie, credo che abbiate affrontato tanti problemi, dispiaceri e sciagure da riempire una vita intera. Capisco che voi siate in crisi e che i buoni propositi formulati in ospedale siano sfumati una volta ritornate nella vita vera, ma non vi dovete arrendere, non adesso. Avete sconfitto mostri ben peggiori e vi siete rialzate, non lasciare che la vostra paura di scottarvi di nuovo, vi impedisca di vivere la vita in pienezza, non adesso che siete arrivate sino a qui. Avete una famiglia splendida, una figlia che amate e che vi ama, un figlio in arrivo, non lasciate che la paura del viaggio, vi impedisca di raggiungere la meta che vi siete faticosamente guadagnate”.
 
Callie guarda Derek e lo abbraccia: “Ti hanno mai detto che sei un uomo molto persuasivo? Che riesci a far credere a chiunque ogni singola parola che pronunci? Sei riuscito a farmi stare meglio, a darmi un barlume di speranza, a farmi capire che ho perso tanto nella mia vita, ma che, se mi fermo e lascio perdere, ho davvero molto altro a cui dire addio. Non voglio che la mia famiglia vada in pezzi, non ora e nemmeno tra un giorno, un mese o vent’anni. Sei un uomo speciale, Derek, Meredith è davvero una donna fortunata”.
 
Derek le sorride: “Sono fortunato ad avere lei e Zola ed ora posso dirti che mi sento di poter toccare il cielo con un dito, perché ho ritrovato la felicità che pensavo di aver smarrito”.
 
Callie lo osserva perplessa, poi gli domanda: “A cosa ti riferisci? Ci sono novità? La Dottoressa Stewart è riuscita a darvi qualche speranza?”.
 
Derek annuisce: “Sì, direi di sì, tra sei mesi, Zola avrà un fratellino o una sorellina!”.
Callie lo abbraccia: “Derek, è una bellissima notizia, sono davvero felice per voi, i nostri figli saranno coetanei! Forse hai ragione tu, le cose si sistemeranno con il tempo e tutto andrà lentamente a posto”.
 
 
Intanto al Seattle Grace Mercy West …
 
“Dottoressa Robbins, per fortuna è arrivata! La situazione non è per nulla sotto controllo, il Pronto Soccorso è pieno di casi pediatrici ed è appena arrivata una bambina di cinque anni, affetta da una grave cardiopatia, siamo riusciti a mantenere i valori cardiaci ad un livello a malapena accettabile, ma ha bisogno di un trapianto al più presto. Inoltre suo padre sembrava impazzito, continuava ad entrare in sala mentre cercavamo di salvare la vita a sua figlia, sono stato costretto a chiamare la vigilanza dopo che ha tentato di aggredire Jo!”.
 
Arizona sospira e richiede la cartella clinica ad Alex: “Charlotte Davies, cinque anni, affetta da una grave insufficienza cardiaca congenita. Hai messo la bambina sulla lista dei trapianti di cuore? Ha bisogno di un cuore nuovo al più presto, prima che gli altri organi comincino a cedere assieme a lui, creando un rovinoso ed irreversibile effetto domino”.
 
Alex annuisce e le chiede: “Crede che riuscirà a cavarsela, Dottoressa? Lei è così piccola, così delicata”.
 
Arizona lo osserva e risponde: “Sono sempre piccoli e delicati e pieni di sogni, Alex, noi possiamo solo cercare di tenerli in vita e di non nuocere, ma non possiamo fare miracoli, non possiamo guarirli, non più di tanto”.
 
 
 
“Sei qui, sei quasi arrivata, manca ancora poco, solo una manciata di metri, qualche passo, pochi giorni al raggiungimento della meta, della felicità che avevi sognato. Manca poco, pensi, mentre vedi il tuo obiettivo allontanarsi davanti ai tuoi occhi, mentre devi la via restringersi e la rupe diventare sempre più lontana e impervia. Allora ti fermi e decidi di smettere di lottare, ti siedi su una roccia e decidi che non farai nemmeno un passo avanti, perché è inutile e doloroso, ma soprattutto senza fine. Ti fermi finché non ti accorgi che nemmeno questa è una soluzione, almeno non quella definitiva. Il destino assomiglia al vento, poiché ci spinge rapidamente in avanti, oppure ci rigetta all'indietro; contro di ciò poco possono fare le nostre fatiche e i nostri sforzi. Tuttavia abbiamo la possibilità di ribellarci ad esso, anche se è inutile, controproducente e faticoso.
Ci ribelliamo al nostro destino perché arrenderci segnerebbe la fine della nostra vita, della nostra dignità, dei nostri sogni.
La perdita non sarà una sconfitta, ma solo una nuova sfida da affrontare a testa alta, il vero perdente è colui che si lascia piegare senza opporre resistenza”.
 
NdA:
Ecco il nuovo atteso (almeno spero) capitolo di “Non c’è due senza tre”, spero che sia all’altezza delle vostre aspettative.
Fatemi sapere che cosa ne pensate, lasciandomi le vostre impressioni.
La frase in corsivo è del filosofo Arthur Schopenhauer
A presto
lulubellula

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Capitolo 23
*** Capitolo Ventitreesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Ventitreesimo

 
La serata scorre in fretta, Arizona corre da un capo all’altro del reparto a causa della moltitudine di casi che le sono stati assegnati, tre neonati nati prematuri da monitorare, la piccola Charlotte Davies che ha presentato diverse difficoltà respiratorie accompagnate ad aritmie persistenti e difficili da tenere sotto osservazione in quanto imprevedibili e una valanga di scartoffie da firmare, a completare il tutto.
 
Inoltre, come se non bastasse, si sente in colpa per quanto è successo al mattino con Callie, per la sua tiepida reazione di fronte alla richiesta di attenzioni da parte di sua moglie.
 
Si interroga sulle motivazioni che l’abbiamo portata a non sentirsi propriamente a suo agio nel vivere il primo momento di intimità dopo tanto tempo con lei, le incertezze, l’esitazione mascherata goffamente e salvata in extremis dal suono del campanello.

 
Tutti sintomi di un imbarazzo che lei sentiva che si era ricreato tra loro due, non appena avevano messo piede fuori dall’ambiente protetto dell’ospedale, perché, un conto era andare a trovarla e sedersi accanto a lei per un paio di ore al giorno, un altro era dover ricominciare a vivere la loro vita coniugale da dove l’avevano interrotta.
 
E questo si stava rivelando più complicato del previsto.
 
Probabilmente dovevano considerare l’idea di una serie di sedute da un consulente matrimoniale, da sole e in seguito in coppia, per poter estirpare i loro problemi alla radice e riprendere la loro vita nel modo più sereno e normale possibile.
 
Nella speranza di riuscire a riabbracciare un briciolo di normalità, di riavere indietro un brandello di quella noiosa e rassicurante routine, che lei aveva imparato ad apprezzare solo quando se l’era lasciata alle spalle, sostituita da altri problemi, come l’Africa, l’incidente d’auto, il disastro aereo, la morte di Nick.
 
Inoltre, per rendere la giornata ancora più complicata e per certi versi sgradevole, si era aggiunta l’insistenza e la maleducazione di Robert Davies, il padre della piccola Charlie, il quale non faceva altro che inseguirla da un capo all’altro del reparto di chirurgia pediatrica, assillandola con le domande più inopportune e per certi versi seccanti, come se lei si divertisse a vedere una bambina di cinque anni spegnersi a poco a poco e non facesse nulla di concreto per salvarla, argomentazioni che la infastidivano e offendevano più di ogni altra cosa.
 
Del resto era abituata a dover far fronte a dei genitori ansiosi, nevrotici e arroganti, che le rendevano la vita un vero e proprio inferno, tuttavia, questa volta aveva difficoltà a trattenersi di fronte al caratteraccio di quel padre, che, più di una volta nel corso della giornata, aveva maltrattato il personale di reparto e fatto scoppiare in lacrime una povera specializzanda, colpevole unicamente di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato.
 
Arizona non sapeva il motivo per cui Robert Davies le suscitasse un velo di sospetto e antipatia, al di là dell’umana comprensione del suo comportamento da genitore preoccupato e spaventato per le condizioni critiche in cui versava la sua unica figlia.
 
Forse era per la parvenza di superiorità che emanava da ogni singola poro e che, suo  malgrado, era costretta a respirare e sopportare, forse erano quegli occhi scuri e severi, strafottenti, che lo rendevano automaticamente poco amichevole, anzi decisamente una persona da cui tenersi alla larga.
 
Ma Arizona era ben preparata a tutto questo, altrimenti non avrebbe mai potuto intraprendere la carriera di chirurgo pediatrico con tanto successo, oltre allo studio e alla sua bravura innata, aveva coltivato nel tempo una buona dose di empatia e di accondiscendenza, unita ad una pazienza e una comprensione del prossimo decisamente sopra la media, che le permettevano di sorvolare in queste situazioni e di dedicarsi completamente ai suoi piccoli angeli, anima e corpo.
 
Entrata nella stanzetta di Charlotte, Charlie, come la piccola preferiva essere chiamata, Arizona viene accolta con un tiepido sorriso dalla piccola, sorriso che le costa fatica e affanno, ma che non lesina a donarle.
 
La saturazione di ossigeno è a malapena sopra i livelli di guardia e la piccolina inizia a mostrare difficoltà respiratorie, che, unite all’affaticamento cardiaco, preoccupano la Dottoressa e le fanno temere un’ aggravamento delle condizioni di salute della bambina.
 
Arizona le ausculta il cuore e sente il battito veloce e irregolare, tachicardico e poi prende nota del pallore eccessivo e della sudorazione anomala della piccola, conseguenze dirette del suo malessere.
 
Dopo aver brevemente discusso con suo padre e segnato sulla sua cartella clinica la terapia da seguire, riferisce all’infermiera di guardia gli sviluppi del caso e fa un ultimo giro del reparto, prima di fare una breve pausa caffè e cambiarsi nello spogliatoio degli strutturati.
 
Beve una tazza di caffè espresso bollente e sgranocchia nervosamente un muffin al cioccolato, comprato al bar diverse ore prima, poi perde tempo a fissare le poche auto che corrono lungo le strade a quell’ora di notte, le tre ormai, tamburellando le dita contro il bicchiere.
 
Infine, si avvia verso lo spogliatoio e si toglie il camice con lentezza,  come per allontanare da sé il più possibile il momento del suo ritorno a casa, poi si leva le calzature ortopediche e apre l’ armadietto da cui estrae il maglione blu, a collo alto, a coste, che aveva indossato in tutta fretta nel pomeriggio, prima di iniziare il suo turno e correre in ospedale il più in fretta possibile.
 
Afferra la sciarpa e il berretto, indossa la giacca e si avvia verso la porta dello spogliatoio, l’ascensore, l’atrio.
 
Giunta al piano terra, incrocia Mark, che la raggiunge e le chiede: “Hai terminato solo ora il tuo turno? Credevo che ti fossi presa un giorno di permesso per restare con Callie, immagina la mia reazione quando ho saputo da Karev che stavi staccando solo ora dopo un turno di ben tredici ore. Avresti potuto avvertirmi almeno, avrei cercato di liberarmi al più presto e di tornare a casa, invece di dormire sulla branda in sala medici, un paio di ore. Non si era parlato di cercare di stare più vicino a lei, dopo tutti i casini che avevamo combinato?”.
 
L’uomo, palesemente furioso, aveva riversato tutte le sue angosce su Arizona, che era già stanca, spossata e preoccupata di suo.
 
“Bè, Mark, non credi di esagerare, Calliope è una donna adulta e può benissimo restarsene a casa da sola senza l’ausilio di una baby sitter, perciò non credo che tu mi debba rimproverare proprio per nulla. Inoltre penso che dovresti smettere di impicciarti nei nostri affari, perché lei è mia moglie, è la madre dei miei figli, perciò spetta a me decidere se e come risolvere e gestire la mia vita con lei. Oltretutto non sono venuta in ospedale per togliermi uno sfizio e lasciarla sola a casa, ma perché il reparto di chirurgia pediatrica era nel caos, in delirio ed ho appena terminato uno dei turni più pesanti e impegnativi della mia carriera, perciò non ho nulla per cui dover chiedere scusa e di certo non a te. Perciò chiudi quella boccaccia e lasciami tornare a casa a dormire. E non aggiungere altro perché potresti farmi dire cose di cui domani potrei pentirmi, anzi, stamattina, visto che sono le tre e trenta del mattino”.
 
Detto questo, Arizona se ne va, lasciando Mark a bocca asciutta e incredulo, senza parole e basito.
 
La donna percorre a piedi la distanza tra l’ospedale e casa sua, trascinando a tratti le scarpe contro l’asfalto e preferendo le scale all’ascensore, camminando con calma e arrivando alla porta dell’appartamento, davanti alla quale ha un attimo di esitazione.
 
Entrata in casa, trova le luci accese e la coperta di lana a terra, ai piedi del divano, si avvicina al frigorifero ed estrae una bottiglia di succo di frutta, versandosi parte del contenuto in un bicchiere e bevendone un sorso.
 
Con la bevanda in mano, si avvia verso la cameretta di Sofia e trova il lettino vuoto, incredula e preoccupata si reca nella camera matrimoniale e trova il letto sfatto e le lenzuola buttate a terra nel lato dove Callie è solita riposare.
 
Preoccupata e spaventata, comincia a chiamarle, senza ricevere alcuna risposta, percorre il corridoio sino in bagno, dove trova l’armadietto dei medicinali aperto ed alcuni flaconi in disordine, l’astuccio del termometro digitale nel lavandino e le pantofole di Sofia vicino alla vasca da bagno.
 
Stanca e poco lucida, cerca di vedere se, per caso, Callie le abbia lasciato un biglietto o il più piccolo indizio a cui appigliarsi, ma non trova nulla, anche se, in un secondo tempo, nota che le chiavi dell’appartamento di Mark non sono al solito posto ed esce di corsa in direzione di casa sua, sullo stesso pianerottolo.
Apre la porta con facilità, utilizzando le chiavi di scorta, lasciate in una crena tra il muro e la porta ed entra nell’appartamento.
 
Trova Calliope che cammina avanti e indietro lungo il corridoio, con la piccola Sofia tra le braccia che piange, cullata dai movimenti di sua madre, che non sembrano in grado di tranquillizzarla.
 
Arizona tira un sospiro di sollievo e si avvicina a loro, informandosi sull’accaduto e manifestando le sue paure.
 
“Che cosa è successo, Callie? Perché siete qui? Come mai Sofia sta piangendo in quel modo, sta forse male?”.
 
“Sono venuta qui perché la bambina mi ha svegliato nel cuore della notte piangendo, allora mi sono precipitata da lei e ho sentito che aveva la febbre, così sono andata a controllare l’armadietto dei medicinali in cerca di paracetamolo, ma non l’ho trovato, perciò ho preso il termometro e le chiavi dell’appartamento di Mark e sono venuta a cercare se per caso aveva ancora il flacone in gocce. Ma, arrivata alla porta del bagno di casa sua, mi sono bloccata, non sono riuscita ad entrare subito. Ho aspettato una manciata di minuti ed ho provato la temperatura di Sofia, ha 38,3° C, inoltre continua a toccarsi le orecchie, credo che abbia l’otite”.
 
Arizona, dopo aver ascoltato, l’intero discorso, le chiede: “Allora, alla fine non sei entrata a cercare il paracetamolo? Sei rimasta sulla porta?” le chiede, con un velo di rimprovero.
 
Callie, indignata, le risponde: “Certo che no, per chi mi hai preso? Sono entrata ed ho preso il medicinale per Sofia, le ho somministrato le gocce e l’ho cullata sinora, visto che non c’era nessun altro che potesse occuparsi di lei, all’infuori di me. Sono almeno quaranta minuti che continuo a camminare e a cantarle una ninna nanna, ma lei piange lo stesso perché ha male alle orecchie. Comunque sia, non ti permetto di insinuare che io abbia aspettato troppo tempo per timore di tornare lì, sul luogo dell’incidente, perché, nonostante abbia rischiato di morire dissanguata, non avrei esitato a gettarmi nel fuoco per fare stare meglio nostra figlia!”.
 
Arizona abbassa lo sguardo e si sente in colpa, sia per averla lasciata sola ad affrontare il primo giorno a casa, sia per via delle accuse ingiuste che le aveva mosso.
 
“Mi dispiace, Calliope, non avevo alcun diritto di dirti quelle cose. Dopotutto, è comprensibile che tu abbia avuto un attimo di esitazione prima di entrare, hai rischiato la tua vita e quella del piccolo l’ultima volta che hai messo piede in quella stanza. Tuttavia sei entrata lo stesso per il bene di Sofia, da sola, senza che nessuno ti incoraggiasse, perciò io non ho la facoltà per dirti quello che, ingiustamente, ti ho appena gridato contro”.
 
Callie annuisce poco convinta e ,ignorandola, va nel loro appartamento, stringendo forte a sé sua figlia, che, nel frattempo, si è addormentata tra le sue braccia.
 
La donna la porta in camera sua, nel suo lettino, poi chiude la porta e si massaggia la schiena dolorante.
 
Si avvia verso il divano e si siede, togliendosi le ciabatte e le calze, appoggiando i piedi contro la stoffa dei cuscini e mascherando a fatica una smorfia di dolore e affaticamento.
 
Arizona le si avvicina e le chiede premurosa, mossa in gran parte dal senso di colpa per la scenata di prima: “Non ti senti bene, Callie?”.
 
Calliope alza lo sguardo e, palesemente risentita, ribatte: “Tu che cosa ne dici, Arizona? Pensi che aver trascorso le ultime venti ore, praticamente a digiuno, per via delle nausee, mi faccia sentire bene? Aggiungi il fatto che ho problemi d’insonnia e che, appena sono riuscita ad addormentarmi, verso le tre, Sofia mi ha svegliata piangendo, facendomi alzare e costringendomi a cullarla per quasi quarantacinque minuti senza sosta, dodici chili a pesare sulle mie braccia, sulla mia schiena e sulle mia caviglie, già di per sé deboli per la mancanza di sonno, cibo e tranquillità. Direi di no, Arizona, non sto per niente bene e come se questo non bastasse devo anche sorbirmi delle accuse da parte tua che non mi merito. Non sto bene e le cose non vanno bene, Arizona, ormai è inutile fingere il contrario. Forse è il caso che noi due ci prendiamo una pausa di riflessione, che per un po’ ce ne stiamo lontane, potrai stare qui e vedere Sofia, in modo che lei non rimanga turbata da questa situazione, ma per quanto mi riguarda è meglio che dormiamo in due stanze diverse e che limitiamo i contatti allo stretto necessario, almeno finché non riusciremo a capire come uscire da questa condizione”.
 
Arizona inghiotte un boccone amaro: “Ne sei proprio sicura? Non credi che potremo parlarne con qualcuno che sappia come aiutarci ad uscirne indenni?
Non pensi che la tua proposta sia troppo radicale, Callie? Insomma, ne abbiamo passate tante, noi due insieme, guarda cosa ci è successo negli ultimi mesi, ci siamo rialzate, l’abbiamo superato, possiamo farcela, di nuovo”.
 
Callie scuote la testa e lascia che le lacrime che righino il volto: “Non questa volta, Arizona, non così, non possiamo semplicemente passarci sopra.
Io ci ho provato, ma non mi fido, tu ci hai provato, ma non riesci a lasciarti andare. Io ho bisogno di essere serena, per Sofia, per quel piccolo lui o lei che verrà alla luce tra qualche mese, non posso permettere che tutto questo caos faccia male a loro due. Sono una madre, Arizona, devo proteggerli e devo proteggere anche me stessa, visto che nessun altro può porre rimedio a questa situazione”.
 
Arizona inizia a piangere.
 
“Non c’è proprio nulla che io possa fare per rimediare a questo?”.
 
“Ci stiamo facendo del male, Arizona. Dobbiamo fermarci prima che sia troppo tardi”.
 
“Ma io ti amo!”.
 
“Lo so. Anche io”.
 
“Questo non basta?”.
 
“Non questa volta”.
 
“Cosa possiamo fare, Callie? Come possiamo aggiustare quello che si è rotto?”.
 
“Dobbiamo tornare indietro e comprendere che cosa si sia rotto, prima di capire come aggiustarlo e c’è un solo modo: prenderci una pausa”.
 
“Anche se fa male?”.
 
“Soprattutto perché fa male”.
 
“E servirà a sistemare le cose, ad aggiustarci?”.
 
“Lo spero, Arizona, più di ogni altra cosa”.
 
NdA.
Ecco un capitolo sofferto, figlio di una notte insonne.
E’ stato necessario decidere di fare una pausa, di fermare la loro storia, prima che tutto si rovinasse tramite litigate, malintesi, ripicche.
Tuttavia ammetto che, mentre scrivevo la loro discussione, ero un po’ dispiaciuta per loro due, anche se, alla fine, ha prevalso la mia vena drammatica ed ho deciso di pubblicare tutto, sino all’ultima riga.
Spero ci leggere un po’ di recensioni, visto che ultimamente sono calate parecchio.
Comunque spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi invito a scorrere i capitoli iniziali, fino al nono, per vedere gli stupendi banner che _Trixie_ ha pensato per la mia storia e che personalmente adoro.
A presto
lulubellula
 
 

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Capitolo 24
*** Capitolo Ventiquattresimo ***


Non c’è due senza tre

 Capitolo Ventiquattro


La mattinata seguente non è per nulla piacevole per le due donne, che cercano disperatamente una via per comunicare tra di loro nel modo più distaccato e meno doloroso possibile, soprattutto di fronte a Sofia che ha ancora mal di orecchie e qualche linea di febbre.
 
Calliope è uscita presto di casa e ha affidato Sofia ad Arizona, che, dopo una nottata passata a riflettere e a piangere sul divano, in salotto, ha avuto a malapena la forza di annuire e di alzarsi.
 
La situazione sembra essere più complicata del previsto e l’idea iniziale di continuare a dividere l’appartamento 502 come delle semplici coinquiline non è di certo la soluzione migliore per porre rimedio alla spinosa condizione nel quale il loro rapporto versa in questo momento.
 
Di certo, avevano vissuto periodi migliori e di questo erano convinte entrambe.
Callie cammina distrattamente per la strada, indossando un paio di pantaloni prémaman in jersey blu ed un cardigan leggero, un giaccone dal taglio maschile e portando i lunghi capelli corvini lasciati sciolti lungo le spalle.
 
L’aria pungente di fine gennaio le gela le guance e il vento le fa lacrimare gli occhi o forse questi ultimi lacrimano da soli, dopotutto ha ben più di un motivo per cui piangere e ben più di una preoccupazione celata nel cuore.
 
Si sente impotente di fronte all’incedere degli eventi, così veloci, così drammatici e disarmanti e non sa come reagire, come affrontarli, perché sente di essersi persa, che tutti i propositi e tutte le certezze su cui ha fatto affidamento da bambina, sono andati, oltre, lontano, senza di lei e non ha la più pallida idea del modo in cui ricucire gli strappi, riempire le falle che stanno minando la sua vita privata.
 
Cammina per la strada, senza fare troppo caso a dove le gambe la stanno portando e si ritrova davanti al bar di Joe, ancora chiuso a quell’ora del mattino.
 
Arriva davanti alla porta e rimane a fissarne ogni più piccolo e insignificante dettaglio, i doppi vetri, le abrasioni ai lati, conseguenza dell’ultimo tentativo di rapina andato fallito, l’insegna al neon con due lettere spente.
 
Resta ferma ad osservare uno dei luoghi di Seattle nei quali si sia sentita di più a casa, ai primi tempi del suo arrivo.
 
Allora aveva sette anni in meno sulle spalle, aveva meno responsabilità, era molto più incosciente e viva, molto più felice, per certi versi, e disperata, per altri.
 
Era solo una figlia, ricca, viziata, amata, una donna votata alla chirurgia ortopedica, senza legami, con la prospettiva di diventare una dei migliori nel suo campo, una donna forte e senza paure, per certi versi troppo impulsiva e passionale.
 
Ed ora di tutto questo è rimasto ben poco, se non una folta e lucente chioma di capelli neri, troppe insicurezze e notti insonni, un’irrazionale paura di perdere tutto.
 
Le è rimasto addosso solo il peggio delle sue prospettive, del suo carattere, solo le fragilità e i timori atavici che la tormentano ogni istante della giornata e che la rendono nient’altro che l’ombra di se stessa.
 
“Sono sempre chiusi quando si ha bisogno di una sbronza”.
 
Callie si volta e vede un uomo affascinante e sulla quarantina che la sta osservando a pochi metri di distanza.
 
“Cosa?” chiede lei incuriosita.
 
L’uomo si avvicina di qualche passo.
 
“I bar, sono sempre chiusi quando si ha bisogno di ubriacarsi, è come un’ assioma, non si dimostra, si da per scontato che sia così”.
 
“Già, ha ragione, quando ci serve qualcosa, non è mai a portata di mano. Comunque, anche se volessi, non potrei, sa, sono incinta, niente alcol per i prossimi tre mesi, se si esclude l’allattamento, altrimenti, direi che per almeno un anno, dovrò limitarmi ai succhi di frutta e al thè freddo”.
 
L’uomo le sorride e le chiede: “Sta aspettando qualcuno?”.
 
Callie riflette brevemente e poi risponde: “In realtà no, avevo bisogno di una boccata d’aria, di allontanarmi qualche ora da casa mia e adesso che il piccolo mi ci fa pensare, visto che non sta facendo altro che scalciare, anche di un cappuccino e di una fetta di torta al cioccolato”.
 
L’uomo annuisce e le dice: “Allora siamo in due”.
 
Callie incuriosita, gli chiede: “Ad aver bisogno di zuccheri di prima mattina?”.
 
L’altro fa cenno di no con la testa.
 
“No, ad aver bisogno di una boccata d’aria e di fare due passi. Le dispiace se sono così sfacciato da invitarla al bar qui di fronte per un caffè o per qualunque altra cosa le vada per colazione? Sono qui a Seattle per lavoro solo da un paio di mesi e la mia unica figlia è ricoverata in ospedale, non ho avuto occasione di parlare con qualcuno che non fosse un medico o un’infermiera ultimamente”.
 
Callie, perplessa per la richiesta, ma, incuriosita al tempo stesso accetta ed attraversa la strada con lo sconosciuto.
 
Invece di optare per il bar dell’ospedale, decidono di andare in una tavola calda poco lontana.
 
L’uomo le apre la porta e la invita ad entrare.
 
“Grazie, vedo che la cavalleria non è ancora morta” gli dice, abbozzando un sorriso.
“Certo che no, finché ci saranno delle fanciulle così affascinanti continuerà a vivere”:
Callie abbassa lo sguardo lusingata.
 
“Mi scusi, forse sono stato troppo sfacciato, probabilmente suo marito non gradirebbe la mia condotta”.
 
Callie risponde: “Non c’è nessun marito geloso, non più almeno. Comunque è una storia lunga e molto più complicata di quello che creda, se non le dispiace, preferirei non parlarne”.
 
L’uomo annuisce e si scusa: “Sono stato troppo invadente, mi scusi, è solo che quando l’ho vista, ho letto nei suoi occhi una sofferenza che mi è famigliare, forse perché la conosco personalmente. Comunque non intendevo metterla in imbarazzo, in alcun modo, Signorina ...”.
 
“Torres, Callie”.
 
L’uomo le porge la mano e si presenta a sua volta.
 
“Robert Davies, ingegnere. Invece lei, qual è la sua professione?”.
 
“Per ora faccio la mamma a tempo pieno, visto che ho avuto qualche problema di salute ultimamente. Comunque sono un medico”.
 
“Mi faccia indovinare. Lei è un cardiochirurgo?”.
 
Callie sorride all’idea e scuote la testa.
 
“No, sono un chirurgo ortopedico”.
 
“Peccato!”.
 
“Perché?” chiede Calliope con aria interrogativa.
 
“Perché avrei avuto piacere che mia figlia fosse curata da lei, sembra una donna in gamba”.
 
“Immagino che sua figlia sia in ottime mani, è in cura al Seattle Grace?”.
 
“Sì, è ricoverata nel reparto di pediatria da qualche giorno ormai, ma non sono sicuro che sia stata la scelta giusta quella di restare qui e non tornare in Texas per le cure”.
 
“Il nostro centro è all’avanguardia, non credo che sua figlia possa trovarsi in mani migliori”.
 
Robert annuisce con scarsa convinzione.
 
“Sarà, ma non riesco a sentirmi sicuro sapendo che la vita di Charlie sia in mano a quella Dottoressa”.
 
Callie beve lentamente il cappuccino e chiede: “Quale Dottoressa?”.
 
“Arizona Robbins. La conosce?”.
 
Callie cerca di mascherare i suoi pensieri e i suoi sentimenti: “Sì, ne ho sentito parlare e parlare bene. So che è un ottimo medico, per quanto mi sia stato riferito”.
 
Robert cambia discorso e glissa la conversazione .
 
“Ha altri figli oltre a quello in arrivo?”.
 
“Una figlia di due anni, Sofia, un vero e proprio terremoto”.
 
“Deve essere la sua unica ragione di vita, come la mia è Charlotte, perciò forse potrà capire il mio sfogo di prima. Lei è l’unico brandello di famiglia che mi sia rimasto, non ho più nulla, né nessuno all’infuori di lei”.
 
“La madre di Charlie?”.
 
“E’ morta di setticemia, tre anni fa, era incinta di diciassette settimane”.
 
Callie abbassa lo sguardo imbarazzata.
 
“Mi dispiace, io non lo sapevo”.
 
“Non si preoccupi, lei non poteva esserne al corrente”.
 
Trascorrono alcuni interminabili secondi di silenzio.
 
“Mi dispiace di averle rovinato la giornata con le mie preoccupazioni, probabilmente ora starà pensando che sono un pazzo. Mi sento così sciocco ad averla importunata.
Forse è meglio che paghi il conto e torni da Charlie. Mi scusi tanto”.
 
Robert fa per alzarsi e Callie afferra un lembo della sua giacca.
 
“Non si deve scusare, Robert, io non credo che lei sia un pazzo. E’ un uomo solo che sta affrontando una situazione difficile, in una città che non è la sua, in fondo riesco a capirla. Non si deve scusare”.
 
“Davvero”.
 
Il volto dell’uomo si illumina.
 
“Ora devo tornare da Charlie in ospedale, non mi va che si svegli senza vedermi accanto al suo letto”.
 
L’uomo si volta, poi fa qualche passo indietro.
 
“Sono troppo indiscreto se le chiedo di vederci qualche altra volta per parlare? Sa, è difficile trovare una persona come lei, con cui sfogarsi. Non mi ha giudicato, né interrotto, nemmeno una volta, mi ha fatto sentire capito come non mi capitava da molto tempo”.
 
Callie annuisce.
 
“Certo. Mi farebbe piacere. Potremmo vederci qui sabato mattina verso le sette, se per lei non è un problema”.
 
“Alle sette, sarebbe perfetto. Grazie mille, signorina Torres”.
 
“Mi chiami Callie, Signor Davies”.
 
“Solo se lei mi chiama Robert”.
 
“D’accordo, Robert, a sabato, porti i miei saluti alla piccola Charlie”.
 
Calliope osserva arrossendo l’uomo uscire dalla porta e percorrere la manciata di metri che lo separano dall’ospedale.
 
Esce dal locale qualche minuto dopo, accertatasi del fatto che la colazione è stata offerta da Robert, così prova a raggiungerlo in ospedale, ma nell’atrio trova Mark.
 
“Cosa ci fai qui, Torres? Non dovresti essere a casa a riposare un po’?”.
 
“Di tempo per riposare ne avrò in abbondanza quando sarò morta, Mark. Avevo solo bisogno di fare due passi per schiarirmi le idee”.
 
“Perché, è successo qualcosa?” le chiede l’uomo, avviandosi verso il palazzo dove entrambi vivono.
 
“Io e Arizona ci siamo lasciate. Lei vivrà ancora con me per il momento, perché sarebbe traumatico per Sofia un distacco troppo repentino. Comunque noi due ci limiteremo all’indispensabile, letti separati, vite separate, contatti ridotti al minimo”.
 
“Mi dispiace, Callie. Se c’è qualcosa che posso fare…”.
 
“Grazie, Mark, ma non credo che tu possa fare qualcosa per cambiare ciò che è stato e che abbiamo deciso io e lei”.
 
“C’è sotto qualcosa, Callie? Sai che non puoi nascondermi nulla”.
 
Callie scuote la testa.
 
“Allora perché stai sorridendo. Tu non mi stai dicendo tutta la verità”.
 
“E’ solo una tua impressione, Mark , sai che non ti potrei nascondere alcunché, sono come un libro aperto”.
 
“Hai ragione, Torres, tu non riesci a mantenere un segreto”.
 
Allora perché ti mordi il labbro inferiore per tacere e non riesci a dirgli nulla di quello che ti è appena successo?
 

 
 
 

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Capitolo 25
*** Capitolo Venticinquesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Venticinquesimo


 
Callie cammina piano per la strada, mano nella mano con Sofia, che è ben felice di trascorrere del tempo extra con la sua mamma.

Il vento è piuttosto forte e pungente e le nuvole scure minacciano pioggia o neve.

Le strade sono deserte a quell’ora della mattina, due giorni dopo l’incontro di Callie con Robert, quell’uomo gentile e misterioso al tempo stesso, che aveva turbato l’equilibrio già di per sé precario della donna.

Sono le dieci del mattino e lei ha deciso che, nonostante il freddo e il clima ventoso e del tutto invernale, non ha di certo voglia di tornarsene a casa così presto.

Arizona è ancora nell’appartamento e ci resterà sino alle undici inoltrate, prima dell’inizio del suo turno in ospedale, perciò Calliope ha preferito cogliere al volo la scusa di uscire al parco con Sofia e di passare a comprarle dei vestiti nuovi per non dover trascorrere del tempo con lei, a litigare o quantomeno discutere animatamente o peggio ancora in silenzio, fingendo indifferenza come se loro due, improvvisamente fossero diventate due perfette estranee.

Sofia sta rimirando con aria civettuola le sue scarpette nuove di vernice rossa e la salopette con una fantasia a quadri, frutto di una mattinata di shopping convulso con la sua adorata mammina.

“Andiamo a comprare il gelato, mamma?” le chiede con aria speranzosa e con quell’espressione furba e irresistibile che era di certo un retaggio degli Sloan.

Callie la osserva e poi le dice: “Fa piuttosto freddo oggi per prendere un gelato, potresti stare male, meglio un tè caldo o un bicchiere di succo. Che cosa preferisci, Sofia?”.

La bambina riflette un istante e poi opta per un succo alla pesca e un cornetto caldo.

Insieme, madre e figlia, si incamminano verso la tavola calda, poco distante dall’ospedale.

Nel tragitto tra il parco e il bar, il cellulare di Callie suona.

La donna, dopo aver letto il mittente della chiamata, risponde perplessa.

“Papà, ciao. E’ tutto ok?”.

“Certo Calliope, perché dovrebbero esserci problemi? Volevo solo sentire mia figlia, è forse un reato?”.

“No, papà, però tu non chiami mai a quest’ora, solo alla sera e nei weekend. Come mai questa telefonata?”.

“Volevo venire a trovarvi, a Seattle, è passato parecchio tempo dall’ultima volta”.

Callie si morde un labbro perplessa, pensando alla situazione disastrosa del suo matrimonio e della sua vita in generale in quel momento.

“Ah, sì. Sai, io e Arizona siamo piuttosto impegnate, Sofia, il lavoro, il bambino in arrivo, Mark, forse non è un bel momento, cosa ne dici se ci vediamo quest’estate?”.

“Calliope?”.

“Sì, papà?”.

“Sono nell’atrio del Seattle Grace, sono già venuto a farti visita. Sei di turno?”.

“No, veramente sono a fare spese con Sofia, però sono poco lontano. Ti raggiungo e poi andiamo a fare due chiacchiere al bar”.

“D’accordo”.

Callie è agitata, nervosa, con i nervi a fior di pelle, suo padre è a Seattle, proprio ora che la sua vita è in un momento di disastroso stallo e lei non sa come evitare di far capire all’uomo che tra lei e Arizona i rapporti sono giunti al capolinea.

“Devo avvertire Arizona – pensa – chiederle di fingere a cena, questa sera, che il nostro matrimonio vada a gonfie vele, che le  cose tra noi non potrebbero andare meglio di così”.

Intanto attraversa la strada e raggiunge suo padre.

“Calliope!”.

“Papà!”.



Intanto, a casa di Mark …

“Posso entrare?” chiede Arizona dopo aver bussato alla porta ed aver atteso una risposta.

“Certo, Arizona. Accomodati pure” le risponde lui, facendole strada.

“Ti disturbo? Dovevi forse uscire oppure fare qualcos’altro?”.

“No, non proprio. In realtà stavo per andare a dormire qualche ora. Il turno di ieri e di stanotte è stato interminabile. Avevo l’impressione di trovarmi in reparto da un’eternità e, credimi, non è una bella sensazione!”.

Arizona annuisce debolmente, si alza dalla sedia e fa per uscire.

“Forse dovrei lasciarti riposare. Scusa se ti ho dato qualche disturbo, non era mia intenzione”.

Mark le appoggia una mano sulla spalla, come a fermarla, e la donna si volta.

“Fermati Arizona. Non ti ho detto di andartene e se questa è l’impressione che ti ho fatto, mi dispiace. Per quale motivo sei venuta qui?”.

Arizona attende qualche istante, poi si volta con gli occhi lucidi.

“Arizona, che cosa ti sta succedendo?”.

La donna abbassa lo sguardo e tace, strofinandosi le palpebre umide con le nocche, lasciando intravedere gli occhi arrossati e lucidi.

Mark la osserva e le chiede: “E’ per via di Callie? Stai piangendo per lei?”.

Lei annuisce e scoppia a piangere.

“L’ho persa, Mark, è finita. Ci siamo lasciate, lei mi ha detto che stiamo attraversando un brutto periodo e che abbiamo bisogno di una pausa di riflessione, ma io non sono una stupida, so benissimo che è un modo come un altro per rompere con qualcuno. Sono sua moglie, Mark, sua moglie e non riesco più nemmeno a guardarla negli occhi, non riesco più a trovarmi nella stessa stanza con lei senza provare l’impulso irrefrenabile di fuggire lontano, non riesco a parlarle.
Questa non è una semplice pausa, è la fine del nostro matrimonio, la fine di noi due insieme!”.

Arizona ha la voce rotta dal pianto e gli occhi rossi e sofferenti.

Mark, dal canto suo, si sente inappropriato, fuori posto e inadeguato, non sa come poter aiutare Arizona e non ferire Callie, è conteso tra due fuochi e non vuole schierarsi con nessuna delle due, non vuole rovinare l’amicizia che lega loro tre.

Riesce solo a starle vicino e sentirla piangere nel silenzio di quelle mura fredde e fragili che avevano racchiuso amore, paura, amicizia, morte.

”Su, Arizona, cerca di tranquillizzarti, sono certo che voi due riuscirete a chiarirvi, magari non subito, non oggi, né domani, ma un giorno, presto o tardi vi guarderete negli occhi e capirete”.
Arizona alza lo sguardo e scosta un ciocca di capelli biondi dal viso.

”Cosa? Che cosa capiremo?”.

”Capirete che avete sprecato talmente tanto tempo e energie a non comprendervi, a evitarvi, odiarvi da dimenticare il motivo per cui avete iniziato a soffrire, ad allontanarvi. Ricorderete così tanti momenti tristi e dolorosi da faticare a pensare a quelli felici e perfetti che vi hanno condotte fin qui. E vorrete riprovarli, Arizona, la gioia, l’amore, la fatica di alzarsi presto al mattino con il sorriso sulle labbra e vedere l’altra che mugugna nel sonno e tira i calci nel letto, che ti bacia prima ancora di aprire gli occhi. Li rivorrete indietro questi momenti, vorrete riaverli così tanto che il vostro riavvicinamento non sarà qualcosa di lento e graduale, come le goccioline di neve sciolta che cadono a poco a poco dai rami degli alberi, no, Arizona, la vostra seconda chance sarà più simile ad rompersi di una diga, ad una valanga di inizio primavera, sarà impetuosa, forte e folle, vi travolgerà senza che voi possiate rendervene conto, senza che voi possiate opporvi alcuna resistenza. Tornerete felici, ne sono sicuro. Ma fino ad allora, ricorda che hai un amico, un vero amico, a due passi dalla porta di casa tua. Io ci sarò, di giorno, di notte, per sentirti ridere, piangere, aiutarti a rialzarti in piedi, sempre, perché un vero amico, un amico con la A maiuscola, c’è in qualunque istante della vita, anche quando è troppo stanco, triste o a terra per sostenere persino se stesso. Mi prometti che te ricorderai?”.

La donna annuisce e lo abbraccia forte, lasciandolo solo dopo essersi accorta di un nuovo messaggio sul cellulare.

Mittente: Callie
Carlos è a Seattle, per una visita di “cortesia” e vuole restare a cena da noi questa sera. Non sa nulla di noi due, della nostra pausa, non ho intenzione di dirgli niente.
Assecondami per favore
Callie
P.S.  Sofia resta con me e mio padre tutto il giorno, ci vediamo a casa verso le otto, chiedi a Mark se riesce a rimediare qualcosa per la cena.


”Perfetto, ci mancava solo il padre di Callie e la messinscena della famigliola felice” ripete la donna a bassa voce.

Mark nota il nervosismo di Arizona, che dopo aver scorso i messaggi sul cellulare, continua a camminare avanti e indietro per il soggiorno.

“Arizona, che cosa c’è? Mi sta venendo il mal di testa a furia di vederti consumare il parquet. Hai intenzione di rendermi partecipe dei tuoi pensieri o quanto ti ho appena detto è stato vano?”.

La donna si ferma e annuisce.

“Scusa, Mark, hai perfettamente ragione. Si tratta di Callie: suo padre è in città!”.

“Carlos Torres è a Seattle! Wow! Non si vedeva da queste parti da un bel po’. Ripartirà subito oppure ha intenzione di fermarsi qui per qualche giorno?”.

Arizona sbuffa e si aggiusta la coda di cavallo con una nota di stizza.

“Non lo so. Callie, nel messaggio, parlava di una cena, stasera, qui. Lui non sa niente della nostra, chiamiamola pausa di riflessione, e lei mi ha chiesto categoricamente di non fargli capire niente. Niente! Hai capito, ora ci tocca persino recitare alla famigliola felice. Credo di non poterci riuscire, che sia troppo, davvero troppo. Non riesco a sopportarlo. Mentire a suo padre sul nostro matrimonio, non ce la faccio, Mark, ho problemi a dire le bugie, a tenere sotto controllo le mie difficoltà con le autorità in generale e qui non si tratta di chiedermi di dire una bugia a chicchessia, qui si tratta di mentire sul nostro matrimonio al padre di mia moglie! E’ troppo, troppo, io non ce la faccio!”.

“Arizona, fermati! Stai calma! Tutta questa agitazione non ti fa bene, per niente! Ora cerca di darti un tono e di respirare. Hai ancora quindici minuti prima dell’inizio del turno, perciò abbiamo davvero poco tempo per pensare ad un piano”.

“Un piano?”.

“Un piano, no, anzi il piano, il più incredibile, perfetto e senza intoppi piano che si sia mai visto”.

“Ah, sì. E in che cosa consisterebbe questo piano incredibile, megagalattico e senza intoppi?” chiede Arizona perplessa.

“E’ semplice. Noi prepariamo qualcosa di poco elaborato, una cena gustosa e dell’ottimo vino, poi lo assecondiamo in tutto ciò che dice, glissiamo sugli argomenti spinosi e nel peggiore dei casi faremo entrare in scena Sofia vestita da ape”.

“Da ape?”.

“Già, il costume da principessa è macchiato di birra!”.

“Birra? E come diavolo è possibile che il vestitino di Sofia sia sporco e poi che cosa centra il vestirla da ape con la cena di stasera?”.

“E’ un ottimo diversivo in caso di imbarazzo pre-scenata apocalittica e poi Sofia è così carina vestita così”.

“Ok, ci dovremo accontentare”.

“Di cosa?”.

“Del tuo piano sgangherato e che fa acqua da tutte le parti. Preoccupati del cibo e del vino, il mio turno finisce già poco prima del suo arrivo”.

“Sgangherato? Il mio piano è a prova di bomba!”.

“D’accordo Mark, come vuoi tu. Ora devo scappare in ospedale! A stasera!”.

“A stasera, non preoccuparti per il cibo e il vino, penso a tutto io”.

“Grazie, Mark. Sei un uomo speciale”.

“Lo so, Arizona, lo so. E sono anche bello, affascinante, intelligente e ricco, nonché acqua e sapone come un perfetto uomo della porta accanto”.

Arizona sorride e gli dà una pacca sulla spalla.

“Che scemo che sei!”.

“Vedi, sono anche dotato di uno spiccato e irresistibile sense of humour” gli risponde lui, strappandole un altro sorriso.

“A stasera!”.



 
“Allora, Calliope, come va?” chiede Carlos a sua figlia, dopo aver preso in braccio la nipotina e averla riempita di regali di ogni genere.

“B-bene, papà, tutto a posto. Io e Sofia stavamo facendo due passi e stavamo per andarcene a mangiare qualcosa in una tavola calda qua vicino. Ti va di accompagnarci?”.

“Certo, Calliope”.

Il breve tragitto dall’atrio dell’ospedale sino alla tavola calda scorre lento, interrotto solo dal chiacchiericcio di Sofia che è entusiasta a causa dell’arrivo del nonno.

Callie è palesemente nervosa e preferisce starsene in silenzio piuttosto che intavolare un discorso con suo padre, lì per strada, si limita ad annuire e a dare qualche cenno di tanto in tanto.

“Eccoci arrivati!” esclama davanti al locale, tirando un lieve sospiro di sollievo all’idea di essere arrivata in un territorio del tutto neutrale e nel quale lei si sente in qualche modo a suo agio, pur essendoci stata solo una volta.

I tre si accomodano a un tavolino vicino alla finestra, la tovaglia a quadri rossi e bianchi, pur sembrando spartana ed essenziale, contribuisce a creare l’immagine di un luogo rassicurante e famigliare al tempo stesso.

Una cameriera dall’aria stanca e annoiata si avvicina a portare loro i menù, attende qualche istante le loro ordinazioni e poi si allontana verso il bancone.

“Curioso questo locale” inizia Carlos.

“Carino, non trovi?”.

“Accettabile, nulla di più”.

“Cosa intendi?”.

“E’ un po’ pacchiana come tavola calda, un po’ vecchiotta”.

“A me non dispiace”.

“Contenta tu, Calliope”.

“Perché papà, che cosa c’è che non va?” chiede Callie seccata.

Intanto la cameriera arriva al tavolo con le loro ordinazioni.

“Due caffè, un succo alla pesca, un cornetto alla crema, un toast. In tutto sono 8 dollari e 50 cent”.
Callie prende il portafoglio dalla borsetta, ma suo padre la batte sul tempo e porge alla cameriera una banconota da venti.

“Tenga pure il resto”.

“Grazie mille”.

La cameriera si allontana verso il bancone con un’aria soddisfatta.

“Sei mio ospite, ti avrei offerto volentieri io la colazione” dice Callie.

“Ti ho fatto un’improvvisata, perciò non sono un ospite e comunque mi fa piacere essere con voi due”.

“Non mi sembrava il caso di lasciare tutta quella mancia, papà, forse hai esagerato” gli fa notare.

“Dimmi un po’ Calliope, hai forse problemi di soldi? Il lavoro non ti permette di condurre la vita a cui eri abituata quando vivevi da noi?”.

“No, papà, che cosa te lo fa pensare?”.

“Mi hai portato in un locale di seconda categoria, fuorimano, sei schiva, non parli, tieni la testa bassa, eviti il mio sguardo. Non puoi nascondermi nulla, Calliope, sei la mia bambina, anche se hai più di trent’anni, anche se sei a tua volta genitore, resti sempre la mia piccola Callie e ti conosco come le mie tasche. Capisco al volo quando hai un problema”.

Callie se ne sta zitta per qualche istante, poi replica: “Non ho alcun problema finanziario, il lavoro mi permette di condurre una vita serena e agiata, di togliermi qualche sfizio. Sono solo …, solo un po’ stanca, nient’altro, Sofia e il bambino che porto in grembo assorbono molte delle mie energie”.

Inizia a piangere e cerca con una mano un fazzoletto all’interno della borsa, cercando di non farsi notare da Sofia che è totalmente assorbita dalla bambola appena ricevuta in regalo, che sembra proprio non voler mangiare nemmeno un boccone della sua brioche alla crema.

“Sono solo stanca, papà, esausta”.

Il padre di Calliope le prende una mano e la stringe forte, poi continua: “E’ perfettamente normale che tu ti senta stanca, stai attraversando un periodo delicato della tua vita, che assorbe molte delle tue energie, dovresti rallentare un po’ il ritmo e dovresti chiedere la maternità anticipata, invece di rientrare dalla convalescenza tra dieci giorni”.

Callie si asciuga le ultime lacrime.

“Sto meglio, è quasi passato. Probabilmente saranno gli ormoni, il minestrone di ormoni dal quale sono avvolta. Dovrò farmene una ragione, suppongo, come per le nausee mattutine, che durano fino a tarda notte, l’insonnia, il mal di schiena e i piedi gonfi”.

Il padre di Callie annuisce e beve un sorso di caffè.

Intanto entra nella tavola calda Robert.

Ordina un caffè espresso e un cornetto alla marmellata di ciliegie.

Si accorge della presenza di Callie e si avvicina al tavolo.

“Buongiorno!”.

La donna si volta e sorride.

“Buongiorno, Mr. Davies. Tutto bene?”.

“Insomma, Charlie è ancora in ospedale e non sembra migliorare molto, è stabile perlomeno, per ora la situazione non è peggiorata, questo è già qualcosa”.

“Già” annuisce Callie.

“Posso unirmi a voi per la colazione?”.

Callie osserva preoccupata suo padre, il quale però sposta una sedia e lo invita a sedersi accanto a loro.

“Buongiorno, lei deve essere…”.

“Suo padre, Carlos Torres”.

L’uomo porge la sua mano e la stringe cordialmente.

“Robert Davies”.

“E questa deve essere tua figlia o sbaglio?”.

“Sì, è Sofia. Sofia saluta il Signor Davies”.

La bambina lo saluta con la manina prima di tornare ad imbrattare la bambola di crema.

“E’ davvero una bambina molto bella, come la madre, del resto”.

Callie abbassa lo sguardo e si sente morire a causa dell’imbarazzo di questo complimento a caldo, dinnanzi a suo padre, ma, al tempo stesso, si sente lusingata dalle sue attenzioni.

Il padre di Callie mantiene un tono freddo e distaccato per il resto della permanenza di Robert, che, peraltro, si trattiene una manciata di minuti prima di fare ritorno da Charlotte in ospedale.

Non appena l’uomo se ne va, chiudendosi la porta alle spalle, per Callie inizia un vero e proprio interrogatorio.

“Interessante questo, Robert Davies. E’ molto che lo conosci?”.

“In realtà no, ci siamo visti solo una volta, questa è la seconda”.

“E come lo hai conosciuto?”.

“Per caso, davanti al bar di Joe, qualche giorno fa”.

“E tu hai iniziato a parlare con uno sconosciuto, davanti ad un bar, nelle tue condizioni?”.

“Papà, non esagerare. Sono incinta, non malata, e poi non vedo perché ti sembri così strano, dopotutto, tutte le persone importanti della mia vita sono state delle perfette sconosciute prima di approfondire la loro conoscenza, Perciò non ci vedo nulla di strano”.

“Invece io sì. Dannazione, Calliope, io ho visto come ti guardava, le parole che ti ha detto. E’ sconveniente che un uomo parli in quel modo ad una donna sposata, madre e per giunta in dolce attesa!”.

“Calmati, papà, non ha detto nulla di male. Mi ha solo detto che sono bella e che Sofia mi somiglia. Non mi sembra che  abbia fatto nulla di sbagliato, voleva solo cercare di essere gentile, anche se tu gli hai reso il tutto molto più difficile!”.

“Lo sa almeno che sei felicemente sposata?”.

“Papà!”.

“Ripeto la domanda: ‘Lo sa o non lo sa che sei felicemente sposata?’”.

“No” ammette.

“No?”.

“No, io non gli ho detto niente. Credo che lui pensi che sono separata o qualcosa di simile”.

“E perché mai dovrebbe crederlo? Callie, perché?”.

“Non lo so, papà, forse sono stata io a non fargli credere il contrario”.

“Arizona sa di lui?”.

“No, perché dovrebbe? E’ solo uno sconosciuto qualunque incontrato una mattina qualunque davanti ad un bar come tanti”.

“Spero per te che sia così, Callie, perché per quanto mi riguarda lui non la pensa allo stesso modo e non vorrei che si mettesse in mezzo e rovinasse il rapporto con tua moglie!”.

“Come se non fosse già abbastanza rovinato” pensa Callie sorseggiando il caffè ormai freddo e amaro, come quella giornata di inizio febbraio, iniziata male e dalle premesse per nulla rosee.

“Andiamo allo zoo con Sofia?” chiede Callie per chiudere definitivamente il discorso e far tacere suo padre, infervorato a causa di Robert.

“D’accordo Callie, ma il discorso non è chiuso”.

“Per quanto mi riguarda sì, anzi non è mai esistita nemmeno la questione, perciò vedi di non ingigantirla e di non farne parola con Arizona”.

“Come vuoi tu, figlia mia, ma non dimenticarti che io ti avevo avvertito”.


 
“Te l’avevo detto, io ti avevo avvertito”, quante volte nella vita l’abbiamo detto o l’abbiamo sentito dire. Queste parole dovrebbero esserci da monito, dovrebbero frenarci in qualche modo, eppure, chissà perché sortiscono l’effetto contrario.
Forse è la stupidità del momento che ci fa andare controcorrente, l’impulsività, la voglia di trasgredire alle regole, di fare di testa nostra.
Oppure è lo slancio passeggero, la certezza fugace ed effimera che sia la cosa giusta anche se ci sono molte prove del contrario.
O il correre verso alla luce come le falene d’estate, anche se è sbagliato, stupido e da pazzi, nonché pericoloso e senza senso, inseguiamo la luce, nonostante l’evidenza dei fatti che ci consiglia di starle lontano.
Allora camminiamo sospesi su di un filo, oltrepassiamo i limiti, viviamo pericolosamente, giochiamo sporco e dormiamo lo stretto necessario per sopravvivere.
Anche se è una sciocchezza, se tutte le prove dicono il contrario, noi sbagliamo, anzi scegliamo di sbagliare, perché, in fondo, facciamo di tutto per sentirci dire quel “Te l’avevo detto”.
Corriamo verso la luce trasgredendo il più elementare istinto di sopravvivenza, sperando di non soffrire troppo e di avere la forza di ritornare sui nostri passi, dopo esserci scottati.
Sperando che, al nostro ritorno, ci sia qualcuno a salvarci da noi stessi e leccare le nostre ferite.
 
NdA:
Grazie mille a tutte quelle meravigliose persone che aspettano gli aggiornamenti di questa mia storia e che mi sostengono con tanto affetto
Alla prossima
lulubellula

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Capitolo 26
*** Capitolo Ventiseiesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Ventiseiesimo

 
Arizona era appena arrivata in reparto e la tensione si faceva già sentire, eccome se si faceva sentire.
 
Era preoccupata, anzi dire semplicemente che fosse preoccupata era un eufemismo, perché era molto di più che tensione accumulata quella che stava provando, era terrore, terrore puro, la paura di fare un passo falso, di nuovo e ritrovarsi a brancolare nel buio era tanta, davvero tanta e niente e nessuno riusciva a rassicurarla, almeno non in quel momento.
 
Erano le dodici e venti e il suo turno era iniziato da poco più di un’ora.
 
La situazione in reparto era sotto controllo.
 
Katie aveva superato brillantemente l’intervento di asportazione dell’appendice avvenuto un paio di giorni prima.
 
Julia cominciava a respirare in modo autonomo e perciò non le era più necessario essere intubata, la saturazione d’ossigeno era ottima e lei era praticamente fuori pericolo.
 
E poi c’era Charlie.
 
Charlotte stava peggiorando, la sua insufficienza cardiaca congenita era grave e la situazione precipitava di giorno in giorno.
 
Aveva sempre più difficoltà a restarsene seduta e, mentre al suo arrivo riusciva ad alzarsi di tanto in tanto e a fare due passi sino alla sala giochi, ora persino parlare e tenere gli occhi aperti sembrava costarle enorme fatica.
 
Arizona sapeva di poter fare davvero ben poco per lei, solo un trapianto cardiaco avrebbe potuto compiere un miracolo, perché, stando così le cose, persino l’idea che la piccola arrivasse a compiere sei anni sembrava una sorta di miraggio e a quel giorno mancavano solo otto settimane.
 
“Charlie, come ti senti oggi?”.
 
Arizona entra nella stanzetta della bambina con il Dottor Karev.
 
La bambina accenna un tiepido sorriso e cerca di sedersi, con evidente sforzo e con l’aiuto di suo padre Robert.
 
“Mi sento stanca, Dottoressa, tanto stanca. Quand’è che arriva il cuore nuovo? Io non ce la faccio più, sono sfinita, non riesco nemmeno a giocare con le bambole”.
 
Arizona la guarda con dolcezza e le dice: “Presto, Charlie, sei tra i primi della lista dei trapianti, non credo che dovrai aspettare ancora molto. Devi solo avere pazienza e startene buona nel tuo lettino in modo da risparmiare il più possibile le forze e non affaticare il tuo cuoricino. D’accordo, Charlie, mi prometti che avrai ancora un po’ di pazienza?”.
 
La bambina annuisce sorridendole.
 
Arizona appunta i dati raccolti e aggiusta la terapia farmacologica di Charlotte, poi fa per uscire.
 
Il padre di Charlotte si alza e la ferma, prendendola per un braccio.
“Le posso parlare, Dottoressa Robbins?” le chiede con fare secco, velato da un tono minaccioso e che non ammette repliche.
 
“Certo” risponde piccata Arizona, cercando di mascherare la tensione per non allarmare la bambina.
 
“Io e il tuo papà parliamo un attimo, Charlie, tu restatene qui buona buona con il Dottor Karev, torniamo subito”.
 
La bambina annuisce e rimane con Alex, discutendo con lui sul desiderio da esprimere, sfogliando un opuscolo dell’associazione “Make a wish”, che permetteva ai bambini gravemente malati e affetti da patologie allo stadio terminale di esprimere una richiesta, un desiderio, un’attività da svolgere per riuscire a distrarli, anche se solo per pochi attimi, dal loro status di ammalati.
“Cosa ne pensi di un viaggio in mongolfiera, Charlie? Oppure di partecipare ad uno spettacolo di mangiatori di fuoco? Sembra forte, no?”.
 
La bambina ride debolmente alle proposte del giovane pediatra.
 
“No, Alex, sono solo sciocchezze, sogni irrealizzabili, io ho una richiesta semplicissima” afferma la piccola con fare serio e determinato.
 
“Che cosa?”.
 
“Un aquilone, anzi tanti aquiloni”.
 
“Aquiloni?”.
 
“Già, io voglio vederli volare di nuovo, un’ultima volta, prima che…” si ferma e fa una pausa, la voce rotta dall’emozione e due occhi grandi e pieni di consapevolezza, due occhi grandi e innocenti e la maturità di un’adulta nel corpo di una piccola e fragile bambina di cinque anni.
 
“Charlotte, non devi dirlo e soprattutto non devi pensarlo, ok? Noi troveremo un cuore, d’accordo, tu devi farti forza e tenere duro, perché noi lo troveremo, dovessi andartelo a prendere al Polo Sud o in cima al Kilimangiaro, io ti prometto che ci andrò. Hai capito, Charlie? Io e la Dottoressa Pattini a rotelle faremo del nostro meglio per permetterti di diventare grande!”.
 
L’uomo ha gli occhi lucidi e la voce tremante, le parole che pronuncia provengono dal suo cuore, non dalla sua mente e sa che sta parlandole come un padre, non come un chirurgo e che le sta facendo una promessa che non è certo di poter mantenere, parlando più a se stesso per convincersi, che non a lei.
 
Intanto, a pochi passi da loro, Arizona e Mr. Davies stanno discutendo animatamente.
 
“Non sono d’accordo con lei, Robert”.
 
“Ah, no, non è d’accordo con me? Lei è una sprovveduta, Dottoressa Robbins, un pivellina, un’incapace, parlare così ad una bambina di cinque anni! Chiederle di avere pazienza! Pazienza, capisce, è assurdo, assurdo! Lei dovrebbe cercare di salvarla, di fare qualcosa, non di parlarle e basta! Dannazione, non le serve una psicologa da quattro soldi! Le serve un medico preparato, un chirurgo!”.
 
“Signor Davies, si calmi!”.
 
“E non mi dica di calmarmi! Non me lo dica! Lei è una mentecatta, un medico che non vale nulla, dovrei portarla via, in un ospedale vero, da dei medici che la curino sul serio, invece di monitorarla e basta!”.
 
Alex, che osserva la scena dal vetro, assieme alla piccola, rassicura Charlie e si alza.
 
“Torno subito, piccola, stai tranquilla”.
 
“Ha solo paura”.
 
“Cosa? Chi ha paura?”.
 
“Il mio papà, ha solo paura, è per questo che urla, non è cattivo, ha solo paura e quando è spaventato  reagisce così, urlando”.
 
Alex le si avvicina e le sfiora i capelli.
 
“Lo so, Charlotte, lo so. Ora devo andare, stai qui buona e tranquilla”.
 
Nel corridoio, Robert sta letteralmente dando spettacolo e Arizona ha finito le parole, non sa più cosa dire e sente che le lacrime sono prossime a scenderle, impetuose come il minestrone emotivo che sta irrompendo nel suo cuore.
 
“Mi ascolti, Robert …”.
 
“Non mi chiami Robert, io per lei sono il Signor Davies!”.
 
“Sì, mi scusi, Signor Davies, ma lei si deve calmare, sta disturbando gli altri degenti, alcuni di loro sono molto ammalati, hanno bisogno di tranquillità”.
 
“Ammalati? Mia figlia è ammalata, a me non interessa nulla degli altri, lei si deve occupare della mia bambina, non sta facendo abbastanza, la sta lasciando morire, la sta uccidendo!”.
 
Arizona resta senza parole, spiazzata dalle accuse dell’uomo, attorno a loro si è radunata una piccola folla, infermiere che fingono di fissare con eccessivo interesse delle cartelle e captano ogni minima affermazione, genitori di piccoli degenti che si fermano sull’uscio delle stanze.
 
“Io, lei, io, non mi può, lei non può dirmi queste cose” dice Arizona con la voce spezzata, rotta, con il cervello in subbuglio e un nodo al petto.
 
“Eccome, certo che posso! Lei non sta offrendo le migliori cure a Charlotte, non sta spendendo tutte le sue energie per salvarla!”.
 
Arizona deglutisce e ribatte con fare incerto: “Sto facendo del mio meglio, Signor Davies, tutto ciò che è in mio potere, ma Charlotte soffre di una grave forma di insufficienza cardiocircolatoria e io posso solo tenerla in vita in attesa di un cuore, non c’è altro che io possa fare. Mi creda quando le dico che farei qualunque cosa pur di cancellare la sofferenza della piccola e di vederla in salute, ma non posso. Posso solo tenerla in vita e aspettare che arrivi quella telefonata e un cuore per Charlie, non posso di certo strapparmi il cuore dal petto e darlo a lei!”.
 
“Forse dovrebbe!” afferma Robert con insolenza.
 
“Adesso, basta!” urla Alex, a pochi passi di distanza da Arizona.
 
“Non sto parlando con lei, stia zitto!” ribatte l’uomo.
 
“No, invece ora lei mi starà a sentire! Capisco che lei sia spaventato, ne ha tutte le ragioni del mondo, ma stare qui ad urlare nel bel mezzo di un reparto di chirurgia pediatrica creando scompiglio non servirà a far sentire meglio sua figlia, né le farà avere un cuore prima del tempo. La Dottoressa Robbins è il miglior chirurgo pediatrico della costa ovest e sta facendo del suo meglio, l’intero reparto sta facendo del suo meglio per sua figlia e per gli altri pazienti, perciò le sue accuse sono del tutto prive di fondamento, nonché infamanti! Charlie ha bisogno di un padre che le stia vicino, non di un pazzo che urli contro tutto e contro tutti. Si calmi e vada da lei invece di attaccare il personale medico!”.
 
Il Signor Davies tace e torna nella stanza della piccola, visibilmente infastidito dal discorso del medico.
 
Alex appoggia un braccio attorno alla spalla destra di Arizona.
 
“Va tutto bene?”.
 
La donna annuisce stancamente e se ne va, tenendo lo sguardo basso.
 
Percorre l’intero corridoio, sino all’ascensore, poi corre verso la zona caldaie, dove potersi rifugiare e sfogare le pressioni subite in silenzio e in pace.
 
Apre la porta e sente il rumore delle ventole e i getti d’aria che provengono da alcune grate poste sul pavimento.
 
Inizia a piangere, prima piano, poi sempre più forte, inspirando ed espirando ad intervalli regolari e trattenendo il respiro a tratti, come per fermare il tempo, per mettere la sua vita in “stand by” ed evitare che l’incedere inesorabile degli eventi la travolga del tutto.
 
Gli occhi sono lucidi, arrossati, le guance madide di lacrime e di goccioline di acqua e tracce di vapore acqueo, le ginocchia portate al petto, i gomiti incrociati a stringere la sua figura esile e vittima degli eventi, sola a proteggersi dal nulla e da tutto, senza punti fermi, né vie d’uscita o spalle su cui piangere.
 
Il suo cercapersone suona più volte e lei, dopo aver cercato di ignorarlo inutilmente, si dirige verso il Pronto Soccorso dell’ospedale, dove è stato richiesto un suo celere intervento.
 
 
 
Intanto Mark sta cercando di mettere insieme gli ingredienti per la cena di quella sera, che, se lo sente, sarà amichevole, quanto un interrogatorio della Santa Inquisizione.
 
Nel frigorifero gli ingredienti non mancano, c’è il necessario per preparare una ratatouille, un filetto di vitello al pepe verde e una Caesar salad.
 
Ma non è il cibo a preoccuparlo, piuttosto sono i commensali che lo spaventano.
 
Lo spaventa Callie e il suo comportamento evasivo e fin troppo rilassato, lo preoccupa come la quiete prima della tempesta.
 
Per non parlare di Arizona, delle sue paure, delle sue spalle piegate dal rimorso, dalla sofferenza, dal dolore di una famiglia distrutta e di un matrimonio a pezzi.
 
Si concentra sui cibi da preparare per evitare l’annebbiarsi della mente di fronte alla mole di preoccupazioni che lo avvolgono come una fitta e densa coltre di nebbia.
 
Mette la carne a marinare e si versa un bicchiere di vino rosso, poi accende la tv, in cerca di un documentario, un notiziario, persino di una scialba e sconclusionata soap opera brasiliana che gli infarcisca il cervello di parole vuote, insulse, inutili.

 
Inutili perché ogni tentativo è vano, senza speranza, perché lui non può salvare un matrimonio che non sia il suo, perché il suo matrimonio e sua moglie non li avrà mai.
 
 
 
Al parco, intanto, Calliope, Sofia e Carlos stanno facendo due passi.
La bambina lecca un cono gelato alla frutta, nonostante il freddo e le deboli lamentele di sua madre, nonno Carlos ha ceduto alle richieste della sua pupilla.
 
Il cielo di Seattle è sempre più grigio, fosco, minaccioso, così come le nuvole che minano il rapporto tra la donna e Arizona.
 
Callie cammina piano, osservando le vetrine dei negozi dall’altra parte della strada, ha le mani in tasca e un’espressione triste e rassegnata sul volto.
“Adesso ce ne andiamo nel negozio di giocattoli e ti compro una nuova casa delle bambole, eh, Sofia? Ti va di venire con il nonno a comprarti tanti bei giocattoli nuovi?”.
 
La bambina sorride felice ed annuisce con molta convinzione alle proposte del nonno.
 
Callie appare invece infastidita dai continui regali di suo padre a Sofia.
 
“Non dovresti riempirla di regali, papà. Non voglio che la piccola diventi troppo viziata e cominci a fare i capricci per qualunque cosa. Io e, io e sua madre vogliamo che cresca con dei sani principi e si attenga a delle regole ferree”.
 
“Mi sembra che tu stia esagerando, Calliope, in fondo Sofia ha solo poco
più di due anni e ora che c’è un altro bambino in arrivo, non voglio che si senta trascurata in alcun modo”.
 
“Papà, per favore, non rendermi le cose più difficili di quanto già non siano!” ribatte la donna, visibilmente infastidita e stanca.
 
“Perché difficili, Calliope? Cha cos’hai? Cosa mi nascondi?”.
 
“Niente, papà, però oggi Sofia ne ha avuto abbastanza di regali e stravizi, ora è meglio tornare a casa!”.
 
Carlos annuisce e dice alla nipotina: “Niente casa delle bambole, Sofia, non hai sentito la mamma?”.
 
La bambina inizia a intristirsi e a piangere, dapprima piano, poi sempre più forte.
 
“Calmati, Sofia, non piangere, ora si torna a casa!”.
 
Sofia non da retta a sua madre e persiste nel puntare i piedi a terra e nel fare i capricci.
 
“Sofia, stai tranquilla! Andiamocene a casa, sono stanca, viene anche il nonno con noi”.
 
Non c’è nulla da fare, la piccola non sembra smuoversi dalla sua idea.
 
“Sofia, per favore, io sono molto…”.
 
Callie si porta le mani al ventre, scossa da un dolore piuttosto forte all’addome.
 
“Calliope? Cosa c’è?”.
 
La donna si porta le mani sul pancione e si appoggia ad una panchina.
 
“Ho paura che … -respira forte – che ci sia qualcosa che non va”.
 
“Ti porto in ospedale?” chiede suo padre preoccupato.
 
“No, sto già meglio” afferma Callie mentendo, ma una nuova ondata di dolore molto forte la scuote violentemente, tanto da costringerla ad affondare le unghie nel legno della panchina.
 
“Ti porto in ospedale, Calliope, tu non stai affatto bene!” afferma convinto suo padre.
 
“Sono solo delle contrazioni uterine, nulla di preoccupante, può succedere, sono solo alla ventiquattresima settimana di gestazione, succede che…”.
 
Il dolore si fa quasi lancinante.
 
“Calliope!”.
 
La donna barcolla e si aggrappa a suo padre, prima di perdere i sensi.
 
 
NdA:
Rieccomi qua con gli aggiornamenti della storia.
Cosa ne pensate? Vi piace? Fatemelo sapere, il calo di recensioni mi sta un po’ preoccupando …
Anyway, spero di riuscire a scrivere un nuovo capitolo, senza farvi aspettare troppo.
Ah dimenticavo, ecco Robert Davies (Julian McMahon, nonché Cole Turner in “Streghe”)


 
Alla prossima
lulubellula

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Capitolo 27
*** Capitolo Ventisettesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Ventisettesimo

Calliope ritornò a casa verso le otto di sera, le mani rintanate nelle tasche del maglione, suo padre al suo fianco con la bambina addormentata tra le braccia e uno stuolo di borse e pacchetti.

La donna aveva avuto un malore poche ore prima, un accumulo di stress e di stanchezza che avevano pesato sul suo organismo sino ad annebbiarle del tutto i sensi e a costringerla ad una corsa al pronto soccorso dove era stata sottoposta ad esami clinici di vario genere per constatare, con estremo sollievo da parte di Carlos, che il bambino stava bene e che la madre avrebbe fatto meglio a riposare e a restarsene a letto, a riposo forzato, per qualche giorno, in maniera tale da riprendere le forze e proseguire la gravidanza, già di per sé complicata, con tutte le cautele necessarie.

Arizona era rientrata in casa da poco e stava apparecchiando la tavola, del tutto ignara della disavventura della donna.

Aveva scelto con cura la tovaglia, bianca e di lino, con dei raffinati bordini blu, calici di vetro per l’acqua e per il vino, dei piatti in fine porcellana ricamati a mano, tovaglioli in tinta a fare pendant con il resto delle stoviglie.

Era passata a comprare il vino, un rosso corposo e nobile nel caso in cui Mark avesse cucinato della carne, un bianco frizzante nel caso di pesce o crostacei, uno spumante secco da servire con il dolce.

Aveva comprato anche del pane alle olive, delle schiacciatine, un paio di filoni di pane fresco da servire con affettati e cruditees.

Era pronta a tutto, meno che alla conversazione e , dentro si sé, sperava di riempire momenti di silenzio imbarazzanti con sottaceti, verdure e gelato alla vaniglia.

Anche se, di fronte a tutto ciò, era conscia del fatto che non sarebbe potuta restare zitta per l’intera serata e che, l’autorità del suocero l’avrebbe messa a dura prova, obbligandola a trattenere le lacrime il più a lungo possibile, preferibilmente dopo la sua partenza.

Aveva disposto le posate secondo le regole del bon ton ed era andata in camera sua a cambiarsi, optando per un look sobrio e semplice, ma deciso e raffinato al tempo stesso.

Aveva scelto una camicetta azzurra, a mezze maniche, una gonna sopra al ginocchio e aveva raccolto i capelli in uno chignon e, con un velo di trucco, si era avviata ad aprire la porta.

Callie e Carlos entrarono evitando di fare rumore, l’uomo camminò verso la stanza della nipotina con lei tra le braccia per sistemarla a dormire nel suo lettino.

Calliope appoggiò alcuni dei pacchetti sul divano e sbuffò con aria stanca appoggiandosi ad uno dei braccioli.

“C’è qualcosa che non va, Calliope? Ti vedo strana, stanca” le disse Arizona, scostandole una ciocca di capelli dal volto.

Callie volse lo sguardo altrove per un istante.

“No, niente, Arizona. E’ stata solo una giornata stancante, tutto qui. Sofia ha fatto i capricci e mio padre le ha comprato un mucchio di sciocchezze inutili, giocattoli, pupazzi, persino quell’enorme casa delle bambole che c’è in vetrina, nel negozio di giocattoli e videogames del centro. Avresti dovuto vedere i commessi, erano tutti un ‘Ti piace, Sofia?’, ‘Vuoi anche questo, Sofia?’ e ‘A presto, Signor Torres’. Credo che in un solo pomeriggio di shopping abbia mandato all’aria oltre due anni di tentativi di educarla come si deve”.

“Non ti sembra di esagerare, Calliope? Dopotutto è suo nonno e non la vede spesso, i nonni servono a questo: a viziare i nipoti e a far sembrare ancora più cattivi i genitori, è così dall’alba dei tempi. Piuttosto, Callie, sospetta qualcosa per caso?”.

Carlos entra nella stanza, socchiudendo la porta.

“Sofia dorme come un angioletto. Deve essere molto stanca, poverina, è stata una giornata pesante, prima il giro per negozi, poi la sua mamma che sviene davanti al negozio di giocattoli e viene portata in ospedale.

E’ stata una giornata piena di emozioni per la piccolina!”.

Arizona si volta verso sua moglie.

“Sei svenuta? Sei finita in ospedale e non mi hai detto nulla?” le chiede con fare preoccupato ma anche risentito.

Callie annuisce.

“E’ stato solo uno svenimento dovuto allo stress, ho avuto anche delle contrazioni però e la Dottoressa mi ha prescritto dei farmaci e riposo assoluto per evitare un parto eccessivamente prematuro. Inoltre mi ha fatto una ramanzina che non dimenticherò facilmente, puoi starne certa”.

Arizona riprende a respirare normalmente e annuisce debolmente.

“Ti senti meglio ora?”.

“Sì, sono solo stanca ed ho mal di schiena, però sto meglio. Sono un po’ affamata a dire la verità. Che cosa c’è per cena?”.

Arizona le sorride.

“Lo chef, ossia Mark, si è superato stasera. Ci ha preparato una ratatouille come antipasto, un filetto di manzo al pepe verde cotto al forno ed io ho comprato una cheesecake per concledere il pasto in bellezza. Il tutto innaffiato con degli ottimi vini, ovviamente”.

“Bene, che cosa aspettiamo?” domanda Carlos, accomodandosi a tavola.

La cena scorre in modo piuttosto tranquillo, anche se estremamente formale, i discorsi fluttuano dal tempo atmosferico, alle vacanze, al nome del bambino e alla carta da parati per le pareti della cameretta

“Pensavo ad una carta da parati con dei fiori, della farfalle o dei folletti, qualcosa di fantasioso, insomma” inizia Arizona.

“Anche delle paperelle e degli orsacchiotti, o magari dei gattini” propone Carlos.

“Non serve” puntualizza Callie.

“Che cosa?” chiede Arizona.

“Non serve parlarne. Il bambino ha già la carta da parati per la sua cameretta, deve solo essere fissata alle pareti”.

Arizona rimane basita.

“Non sapevo che avessi già pensato a questo particolare” afferma risentita.

“L’abbiamo comprata io e Mark, non ricordi? Proprio qualche giorno prima di Natale? Strano che te ne sia dimenticata” le rimprovera, conscia del fatto che Arizona se ne starà zitta e farà finta di nulla per non dover ammettere di fronte a suo suocero che, in quel momento si trovava a molte miglia di distanza a cercare di rimettere insieme i brandelli della sua vita.

“Già, tu e Mark, prima di Natale. Pensavo solo che avresti aspettato e saresti venuta a far compere con me per nostro figlio”.

“Mark è suo padre, lui può benissimo comprarle tutta la carta da parati che vuole, chilometri di carta, con le fate, gli orsacchiotti e tutte le dannate macchinine di questo mondo!” ribatte Calliope alzando la voce.

Arizona addenta un boccone e annuisce arrabbiata e sul colmo delle lacrime.

“Bè, se la pensi così, il tuo discorso non fa una grinza!”.

La donna appoggia il tovagliolo sul tavolo e si alza.

“Scusatemi” e si dirige verso la camera da letto.

Calliope si schiarisce la voce e continua a mangiare come se nulla fosse, fingendo maldestramente che l’accaduto non le importi.

“Callie!”.

“Callie!”.

Suo padre cerca di catturare la sua attenzione.

“Cosa c’è, papà?”.

“Credo che si sia fatto tardi. Forse dovrei tornarmene in albergo”.

“Non devi, papà, davvero. Non abbiamo nemmeno servito il dessert” dissente debolmente.

“Non importa, Calliope, sono molto stanco e tu …”.

“Per favore, non intrometterti tra noi”.

“Tu e Arizona dovreste parlarvi, non voglio che Sofia ci vada di mezzo. Litigate, urlate, fate quello che è necessario, ma chiarite, chiarite tutto, non c’è nulla di peggio che giocare agli estranei in casa propria. Credimi, figlia mia, parlale, parlane con lei e cercate di capirvi, di venirvi incontro”.

“Grazie, papà, ma non è  così semplice e …” una lacrima argentea le riga il volto stanco e tirato e muore sulle sue labbra.

“E non credo che basterebbe a salvare il nostro rapporto, semplicemente parlarne”.

“Però sarebbe un inizio, Calliope, sarebbe già qualcosa, non credi?”.

La donna annuisce e gli sorride, gli occhi velati dal pianto e arrossati, spenti, pieni di dolore e di paura.

“Ora vado in albergo, mi raccomando, ricordati di quello che ti ho detto”.

Calliope si asciuga le lacrime e si avvia verso la camera da letto, dove trova Arizona sdraiata, rannicchiata sopra il piumone d’oca, con le ginocchia portate al petto, in posizione fetale.

“Se n’è andato?” chiede a bassa voce.

“Sì”.

“Bene, così potremmo smettere di giocare alla famiglia perfetta, anche perché, a quanto pare, non ci riesce un granchè bene. Abbiamo fatto crollare il nostro castello di bugie a metà tra l’antipasto e la prima portata”.

“Arizona …”.

“No, Callie – si alza dal letto – non facciamo finta che vada tutto bene, che sia tutto ok, perché non è così. Non è così” sussurra debolmente.

“Avresti fatto meglio a non parlare della cameretta del bambino!”.

“Per il fatto della carta da parati?”.

“Sì, anche per quello!”.

“Spiegami il motivo per cui io non ne sapevo niente, il motivo per cui ho fatto la figura dell’idiota davanti a mio suocero! Spiegamelo, Callie, perché io non lo capisco, io non ti capisco più!”.

“Non c’eri, Arizona, tu non c’eri ed io non sapevo più cosa fare, cosa pensare. Ho comprato una carta che ti assomigliasse, Arizona, guardala, guardala e dimmi chi ti ricorda!”.

Callie prende il rotolo di carta dall’armadio in cameretta.

Azzurro, blu, fate bionde, pattini a rotelle, nuvole.

Arizona rimane basita e senza parole.

“Calliope! Io, io …”.

“Tu, Arizona, sei tu, loro, loro sono te, io cercavo disperamente, io ti cercavo disperatamente e tu non c’eri, non c’eri!”.

Calliope comincia a singhiozzare forte, a piangere e a soffocare i gemiti con le mani.

Arizona si avvicina a lei e l’abbraccia.

“Callie”.

“Arizona”.

“Che cosa ci è successo?”.

“Ci siamo perse”.

“Dove? Quando? Perché?”.

“Non lo so, se lo sapessimo, non saremmo qui ad urlarci contro in casa nostra come se fossimo le nostre peggiori nemiche”.

“Forse abbiamo preteso troppo da noi stesse, forse è troppo presto o …”.

“Non dirlo!”.

“Forse è troppo tardi”.

Sofia si sveglia e non vede nessuno vicino a lei, così inizia a piangere.

“Vado dalla bambina” le dice Calliope.

“Ok” annuisce Arizona.

Callie esce dalla stanza e Arizona va in salotto.

Il cellulare di Calliope squilla, le è arrivato un messaggio.

Arizona esita qualche istante, poi si avvicina alla borsa di sua moglie, estrae il telefono e legge.

“Sabato alle 7, mi raccomando. Solito posto. Io ci sarò e tu?

R.D.”.

Arizona rimette velocemente il cellulare nella borsa e rimane ferma, sotto shock e senza parole.

Le cose si rompono in continuazione.

Bicchieri, piatti, unghie.

Automobili, contratti, patatine fritte.

Si può rompere il ghiaccio.

La giornata si rompe, le onde si infrangono, talvolta la voce è rotta.

Le catene si possono rompere.

Anche il silenzio e la febbre.

Le promesse si rompono.

I cuori si rompono.

 

NdA:

Rieccomi qua e scusate per il ritardo.

Le righe conclusive in corsivo sono tratte da “La bambina di vetro” di Jodi Picoult, scrittrice che personalmente adoro e di cui ho letto praticamente tutti i libri.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se forse ora mi starete un po’ odiando.

Fatemelo sapere con una recensione

Un abbraccio a chi segue questa storia.

Luisa

 

 

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Capitolo 28
*** Capitolo Ventottesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Ventottesimo


Calliope uscì di casa presto quel sabato mattina, ignorando le raccomandazioni del suo medico che le aveva fatto promettere che si sarebbe presa maggiore cura di sé, a cominciare dal riposo notturno e da una diminuzione delle sue “vagabondaggini quotidiane”, come amava riferirsi alle ore che trascorreva, sola o con Sofia, in giro per Seattle, per svagare un po’ la mente dagli avvenimenti dell’ultimo anno.

E quella mattina non avrebbe di certo fatto eccezione, a cominciare dalle quattro/cinque ore di pseudo - sonno che aveva invano tentato di accumulare quella notte e le notti precedenti, incrementando con essa, le occhiaie e una malsana dose di cattivo umore.

Tuttavia si sentiva anche eccitata, come un’adolescente che fuggiva di casa al mattino presto e correva a tessere trame e intrighi con le sue migliori amiche.

L’euforia di quella decisione, della colazione che l’aspettava, alla tavola calda poco distante all’ospedale, la faceva sentire di nuovo viva, viva come non si sentiva ormai da molto tempo.

Sapeva che si sarebbe dovuta sentire in colpa, almeno un pochino perlomeno, perché stava facendo tutto alle spalle di sua moglie, eppure non ci trovava nulla di male, nulla di così sbagliato e riprovevole.

Si trattava solo di un innocuo breakfast, dopotutto, no?


 
Dall’altra parte c’era Arizona, che aveva aspettato qualche manciata di secondi prima di alzarsi dal letto, vestita di tutto punto, e aveva portato Sofia da Mark, con la precisa intenzione di seguire Calliope e scoprire qualcosa in più su quel messaggio ricevuto sul cellulare di sua moglie la sera prima.

Si sentiva un po’ sciocca a dire la verità a seguire Callie per le strade di Seattle, vestita con una giacca pesante, un cappello e un paio di occhiali scuri, rischiava quasi di dare nell’occhio ancor di più invece di passare inosservata.

Sentiva le labbra secche e la gola arsa, la terra quasi scottarle sotto i piedi, eppure sapeva in cuor suo che se non avesse chiarito questo suo dubbio, sarebbe impazzita nel giro di pochi giorni, una settimana al massimo.

Non riusciva a capirlo, dentro di sé non poteva arrivare nemmeno a concepire l’idea che Calliope si potesse vedere con un’ altra persona, che qualcun altro al di fuori di lei potesse arrivare a corteggiarla e a farla capitolare al punto tale da metterla nella condizione di sgattaiolare di soppiatto al mattino presto dal suo appartamento per flirtare a colazione con un bel moro o una rossa prosperosa.

La vedeva camminare poco lontano, sicura di sé, a testa alta, senza esitazione.

Indossava un paio di jeans premaman e una giacca pesante, aveva i capelli sciolti, lunghi e neri che le abbracciavano dolcemente le spalle e le davano un’aria materna e rassicurante.

Ed era così bella, come aveva potuto dimenticarsene?

Così bella che chiunque sarebbe rimasto senza fiato nel vederla, quegli occhi scuri e dolci, quell’incarnato dorato e brillante, le sue dita affusolate e il suo sorriso smagliante e sincero che la faceva sciogliere come neve al sole.

Come erano potute arrivare a questo punto? Che cosa avevano fatto per  perdersi di vista fino a non vedersi più?

Arizona non riusciva a trovare una spiegazioni soddisfacente agli sbagli e alle sciocchezze che avevano commesso, che lei stessa aveva commesso.

E non riusciva a biasimare sua moglie che aveva cominciato a guardarsi intorno e a cercare qualcuno che la meritasse davvero.

“Ma io ti voglio ancora, io non ti merito, ma voglio ricominciare tutto da capo. Riprendere da dove abbiamo interrotto, magari qualche istante prima, in modo da riuscire a rimediare ai nostri sbagli e ritornare ad essere noi, solo noi due” pensò lei, asciugandosi una lacrima fuggitiva dovuta al vento.

E mentre stava continuando il suo pedinamento, si ritrovò a scontrarsi contro un passante.

“Mi scusi” disse lei prima di alzare lo sguardo.

“Farebbe meglio a stare più attenta a dove mette i piedi” le rispose seccato l’uomo.

“Signor Davies” disse Arizona, lievemente turbata.

“Ah, è lei, Dottoressa Robbins” esclamò lui seccato “ci ritroviamo anche per strada ora, come se già non bastasse vederci in ospedale”.

Arizona trattenne a stento la rabbia, cercando di mitigare la sua reazione.

“Sono appena passato da Charlie, ha avuto una notte piuttosto difficile, le hanno messo la mascherina dell’ossigeno, faceva fatica a respirare”.

“Mi dispiace per Charlotte, Signor Davies, farò tutto quello che è in mio potere, ma finchè non avrà un cuore nuovo, posso solo cercare di …”.

“Di tenerla in vita. Sì, lei me l’ha già detto. Però non mi sembra che stia facendo più di tanto, stanotte non era nemmeno in reparto, a monitorarla. C’erano infermiere, specializzandi, quel suo collega strafottente, ma lei non c’era” le disse a mo’ di rimprovero.

“Non ero di turno. Ho una vita privata anche io, sa? Una casa, una figlia, una famiglia” gli rispose risentita, ponendo l’accento su “famiglia”, non essendo sicura di averne ancora una di cui far parte.

“Certo. Immagino. Spero che lei vada in ospedale ora, nel suo reparto e faccia qualcosa di concreto per mia figlia. Perché lei è una bambina meravigliosa e merita di vivere, di avere una vita lunga e felice, di crescere e di diventare grande. E se lei non è disposta a lottare con tutte le sue forze per far ciò, io sarò costretto a trasferire mia figlia altrove, dove ci sia qualcuno veramente intenzionato a riportarla ad una vita felice ed il più possibile normale”.

“Sto andando in reparto, Signor Davies, stavo proprio per andare là” mentì Arizona, trattenendo un’espressione di pura stizza e disappunto e dovendo lasciar perdere i suoi propositi di pedinamento.

“Bene, spero di trovarla là, non appena sarò ritornato dalla mia colazione”.

“Mi troverà sicuramente. Può starne certo”.




 
Intanto, alla tavola calda, Calliope stava osservando con aria annoiata il menù, cercando di trovare la brioche più golosa e meno sana di tutto il menù, in modo da annegare i malumori della sera precedente in un cappuccino al cacao fumante e in un cornetto al doppio cioccolato.

Aveva appena controllato il suo aspetto nello specchietto che teneva all’interno del suo piccolo beauty case, nella sua borsetta e aveva notato con disappunto che il correttore non aveva fatto il suo dovere e che le occhiaie non erano sparite del tutto, lasciandole un’aria vagamente stanca e spossata ad incorniciarle il suo bel viso.

Si sentiva un po’ a disagio in quel locale, man mano che aspettava Robert, che passava il tempo, sentiva di essere andata ad un incontro clandestino, di fare qualcosa di non propriamente corretto nei confronti di sua moglie e poi passava gli istanti successivi ad autoconvincersi che non sarebbe accaduto nulla di male durante quella innocente e del tutto amichevole parentesi mattutina.

Sfogliò ancora brevemente il menù, più che altro un paio di fogli plastificati tenuti insieme con del nastro adesivo e macchiati qua e là di zucchero a velo e bruciature di sigaretta, finchè la solita cameriera annoiata e molto poco socievole si avvicinò a lei per prendere la sua ordinazione.

“Desidera qualcosa?”.

“Per il momento prenderò una spremuta di arance bionde. Può portarmi anche una bustina di zucchero, per favore?”.

La cameriera appuntò l’ordinazione su un block notes e annuì di fronte alla semplice richiesta di Callie, poi girò sui tacchi e si avvicinò al bancone.

Calliope riprese a studiare con aria annoiata il menù e poi il contenuto della sua borsetta: il piccolo beauty, le chiavi di casa, qualche bustina di zucchero per contrastare i cali glicemici e cianfrusaglie di ogni tipo e sorta, che si riprometteva in continuazione di buttare via e immancabilmente lasciava all’interno.

“Buongiorno”.

Robert si avvicinò al suo tavolo e Calliope si alzò a stringergli la mano.

“Buongiorno Robert” esclamò lei, con un leggero imbarazzo e arrossendo eccessivamente.

“Vedo che diventate più bella ogni giorno che passa” le disse lui, lasciando che l’effetto dei suoi complimenti centrasse il bersaglio.

Calliope arrossì violentemente ed abbassò lo sguardo, mormorando un “grazie” a voce bassa.

La cameriera arrivò al tavolo con la spremuta ordinata da Callie, togliendo la donna dall’imbarazzo del momento.

“Ecco qui, una spremuta d’arance bionde, come lei aveva ordinato ed un paio di bustine di zucchero. Desiderate altro?”.

“Sì – cominciò Calliope – un cappuccino con tanta schiuma e un velo di cacao, una brioche al cioccolato e un muffin ai mirtilli” disse quasi senza fiato.

La cameriera appuntò tutto, inarcando le sopracciglia a causa dell’abbondante ordinazione della donna.

Robert sorrise tra sé e sé, osservando Calliope che fissava attorno a sé con aria distratta.

“Io prendo solo un caffè, nero, forte, senza zucchero” disse Robert senza alcuna esitazione e con una nota di sicurezza nella voce.

La donna annuì e torno per la seconda volta verso il bancone.

“Ti mantieni leggero, stamattina?” gli chiese Callie, dopo aver assaporato un sorso di spremuta.

Robert sorrise e la guardò intensamente, dritto negli occhi.

“Già, solo un caffè. Preferisco così, non mi va di mangiare un granchè in questo periodo, sono preoccupato per Charlotte”.

“Mi dispiace, Robert, non ci sono segni di miglioramento?”.

L’uomo scosse la testa.

“E’ sempre più debole, parla con fatica, si stanca facilmente e passa molto tempo con la mascherina per l’ossigeno. Sono preoccupato e spaventato”.

Callie lo guardò negli occhi, ricambiando il suo sguardo, avvicinò le mani alle sue e gliele strinse.

“Vedrai che i medici riusciranno a trovare una cura, vedrai che riusciranno a trovarle un cuore”.

L’uomo annuì,  le mani strette a quelle di Calliope, l’azzurro e il nocciola dei loro occhi, i loro sguardi a perdersi in un luogo dove nemmeno loro sapevano di essere.

In un luogo, un’isola, un luogo dove si sarebbero voluti a trovare in quel momento, un posto in Charlie non sarebbe stata ammalata, un luogo in cui lei e Arizona sarebbero rimaste felici insieme e Mark avrebbe vissuto con Lexie.

Un’ isola che non c’era, che non ci sarebbe mai stata, ma sulla quale si stavano perdendo insieme, loro due soli.

E nemmeno loro sapevano quello che sarebbe accaduto, dove li avrebbe portati quella mattina, ma i loro problemi  li avevano fatti naufragare insieme, da sconosciuti che erano solo una settimana prima.

“Grazie, Calliope. La tua vicinanza mi conforta”.

“Chiamami Callie, Robert. Gli amici mi chiamano così”.

“Callie, forse dovremmo iniziare a fare colazione” le disse, dal momento che la cameriera aveva portato loro il cibo e le vivande.

“Già – sorrise – io dovrei iniziare a mangiare il muffin e la brioche e tu dovresti bere il tuo tristissimo caffè”.

Robert le sorrise.

“Tristissimo caffè, dici?”.

“Sì, è proprio triste. Vuoi un po’ di croissant al cioccolato? E' buonissimo”.

“Mi hai convinto, ne prenderò una anche io!”.

“Così mi piaci, Rob! Al diavolo le calorie!” gli disse sorridendogli, come non faceva da tempo.

“Al diavolo le calorie!” ripeté lui, sorridendole di rimando.

“Mmm, anche questo muffin è celestiale!”.

“Immagino. E’ talmente buono che hai fatto assaggiare il ripieno caldo ai mirtilli anche alla tua faccia”.

“Cosa?”.

“Ti sei sporcata. Proprio qui” le disse indicando con il dito la sua guancia sinistra.

“Qui?” gli chiese lei.

“No, aspetta”.

Lui prese un tovagliolo di carta e si avvicinò pericolosamente al suo volto.

“Aspetta, ci penso io” le disse.

“Ok” balbettò Callie che sentiva il suo respiro vicino alla sua pelle, al suo collo, i suoi occhi e le sue labbra vicini, troppo vicini.

“Fatto” disse lui, dopo averle pulito la guancia con il fazzolettino.

“Grazie”.

“Di nulla, Callie”.

“Comunque hai ragione, questa brioche è buonissima”.

“S-sì, lo è davvero” ripeté la donna rapita da quegli occhi così azzurri e belli, di un azzurro torbido e intricato, un azzurro che l’attirava a sé, ogni istante di più.

La colazione continuò in modo informale e piacevole, le chiacchiere e le risate, seppure meste, non mancarono e il brillio negli occhi di entrambi aumentò sempre di più.

“Ora si è fatto tardi, dovrei andare da Charlie”.

“S-sì, dovresti”.

“Mi ha fatto piacere, davvero piacere incontrarti di nuovo, Callie”.

“Lo stesso è per me, Rob. Provo la stessa cosa anche io”.

“Sì?” chiese lui incuriosito.

“Dovremo vederci ancora, se ti va”.

“Sì, mi va” le disse mentre stavano uscendo dalla tavola calda e passeggiando per la strada.

“Perfetto”.

“Perfetto” disse lei di rimando.

“Ora dovremmo salutarci”.

“Già”.

Robert si avvicinò ad abbracciarla e lei si lasciò avvolgere da quella stretta forte e salda.

I loro occhi si incrociarono per un istante, un solo istante ed accadde l’inevitabile.

Le loro labbra si avvicinarono, si sfiorarono, si baciarono, in un crescendo di intensità, finchè Callie si oppose a quello sbaglio.

“No, non posso, mi dispiace, non posso”.

“Callie!”.

“No, Robert. E’ uno sbaglio, un grosso sbaglio, non posso, non sono pronta, non dovremmo …”.

Robert l’afferrò per il polso.

“D’accordo. E’ stato uno sbaglio, mi dispiace che per te sia stato così. Io invece non rinnego nulla. Non mi sei indifferente, ma non ti voglio perdere, perciò, se tu vuoi che non nasca nulla tra di noi, non nascerà nulla. Però non lasciare che il nostro rapporto si tronchi qui, che non ci sia spazio per un’amicizia. Non tagliarmi fuori dalla tua vita” le disse con un tono di voce disperato.

“Non lo so, Robert. Tu provi qualcosa per me e io non posso, non devo”.

“Dici che non puoi, che non devi, però non dici che non vuoi, Callie. Anche tu provi lo stesso?”.

“Non mi tentare, Robert. Non buttare via le premesse di quella che potrebbe essere una buona amicizia”.

“Callie”.

“Non farlo, Robert! Non costringermi a dirti addio!” gli disse con le lacrime agli occhi.

“D’accordo – disse – ora farei meglio a tornare da Charlie”.

“Sì, torna da tua figlia”.

L’uomo si allontanò in direzione dell’ospedale, lasciandosi alle spalle quella mattina, quel bacio sbagliato ma voluto, quella donna confusa che non riusciva a credere a quello che le era appena successo, a quello che aveva fatto.

E quelle mani, quelle dita affusolate, a toccarsi le labbra che bruciavano ancora, di impulsività, passione e di shock, che avevano il sapore dell’inferno e del Paradiso, del tradimento e della rinascita e l’avevano colta alla sprovvista, come un fulmine a ciel sereno.
 

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Capitolo 29
*** Capitolo Ventinovesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Ventinove


“Sei già di ritorno, Callie? Credevo che avessi una commissione piuttosto urgente da compiere, mi sarei aspettato di vederti rientrare più tardi” le disse Mark, aprendole la porta di casa sua.

“Ho fatto prima del previsto in effetti, alle poste c’erano poche persone” iniziò lei, togliendosi il cappotto e appoggiandolo su una sedia.

“Alle poste? Cos’avevi di così urgente da spedire per uscire di casa così presto questa mattina? E poi, un momento, le poste non sono ancora chiuse a quell’ora?”.

“No. Sì. In realtà sarei dovuta andarci, ma poi ho avuto un imprevisto” cominciò lei titubante.

“Un imprevisto?” chiese Mark, mettendola con le spalle al muro con quella domanda.

“Un imprevisto” ripeté lei, come a convincerlo, anzi a convincersi.

“Che tipo di ‘imprevisto’?”.

Callie si sedette sulla sedia e poi si alzò, indecisa su come continuare.

“Non è importante, Mark. Quello che conta è che si sia risolto tutto” rispose tamburellando nervosamente le dita sul tavolino del soggiorno.

“Io non direi. Mi sembri strana, Callie, ed è un po’ che l’ho notato. Tu mi stai nascondendo qualcosa, qualcosa di importante. Mi sfugge cosa sia al momento, ma, presto o tardi, me lo dovrai raccontare, Torres. Presto o tardi avrai bisogno di qualcuno con cui sfogarti, me lo sento. E chissà se io sarò qui ad ascoltarti”.

“Non ti nascondo nulla. Niente di niente, Mark. Puoi starne certo. E poi perché non ti dovrei trovare qui, se dovessi aver bisogno di sfogarmi? Sei forse intenzionato ad andartene?” domandò lei incuriosita.

Mark abbassò lo sguardo e tacque per qualche istante.

“No, per il momento no. Ma non ti nascondo di aver ricevuto delle proposte di lavoro interessanti e stimolanti. Nulla di fatto, comunque. La mia vita è qui, ora, in questo appartamento, a Seattle, con Sofia e con il piccolino” disse appoggiando piano la mano sul grembo di Callie.

Callie gli sorrise e strinse le mani dell’uomo con le sue.

“Non ti devi preoccupare, Mark. I bambini non ti devono fermare, in alcun modo. Se quello che vuoi nella vita, quello che vuoi veramente sono degli stimoli nuovi, un lavoro in un luogo diverso, delle sfide mediche a cui partecipare, io ti appoggio. Io ti appoggio al cento per cento, ok? Non devi sentirti legato a me in alcun modo, non voglio essere la responsabile della tua infelicità. Non voglio che tu, tra cinque, dieci, vent’anni, guardandoti indietro, possa provare rimpianti per luoghi che non hai visitato, scelte che non hai preso, premi che non hai vinto, tutto questo perché ti senti troppo legato a me e ai bambini, troppo responsabile. Sei libero di correre dei rischi, Mark, sei libero di scegliere e di sbagliare, di fare quello che senti, di vedere Sofia e il piccolo, ogni volta che lo vorrai. Preferisco che loro abbiano un padre felice ma fisicamente distante che uno vicino a loro, ma che veda in loro in ogni singolo minuto della giornata, il motivo della sua infelicità. Promettimi che ci penserai, promettimi che non saremo noi l’unico motivo che ti spingerà a restartene qui” gli chiese, quasi implorandolo.

Mark annuì e la rassicurò: “Te lo prometto, a patto che tu ricordi sempre che tra noi due non esiste alcun tabù, che tu puoi e potrai raccontarmi in qualsiasi momento, qualunque cosa, senza essere in alcun modo giudicata, ok? Ricordatelo sempre. Ed anche se adesso non te la senti, non vuoi, non puoi dirmi che cosa ti passa per la testa, promettimi che mi permetterai di starti vicino lo stesso”.

Callie fece cenno di sì con la testa.

“Hai voglia di qualcosa? Un caffè, magari? Un cappuccino?”.

“Un caffè, grazie. Ho già fatto una colazione piuttosto abbondante, meglio che non esageri”.

“Ah, sì? – domandò l’uomo – sei riuscita a trovare il tempo per coccolarti al bar, nonostante l’imprevisto?”.

Callie arrossì violentemente.

“No. Sì. Solo un po’” rispose abbassando lo sguardo e giocherellando eccessivamente con i capelli.

“Callie, calmati! Non devi dirmi nulla, se non vuoi. La mia era sono una battuta, stai tranquilla, non agitare il mio campione di basket!” le disse ridendo.

“Campione di basket? La settimana scorsa non era il tuo futuro Presidente degli Stati Uniti?” rispose, massaggiandosi dolcemente la pancia.

“Una cosa non esclude l’altra” le fece notare, portandole il caffè bollente sul tavolino.

“Sono d’accordo. Anche se credo che tu stia caricando questo piccolino o piccolina di eccessive aspettative. Non vorrei che crescesse schiacciato da tutti questi progetti”.

“Non ti preoccupare, è uno Sloan, noi Sloan non sentiamo il peso delle aspettative, noi le oltrepassiamo!” disse fieramente.

“Bene, allora non si pone nemmeno il dilemma!” gli rispose, sorseggiando lentamente il suo caffè amaro.



 
 
“Dottoressa Robbins, il Dottor Karev la sta cercando” le disse un’infermiera di turno, una giovane donna gentile e timida che lavorava in reparto da qualche tempo.

“Grazie, Lucy. Sai dirmi dove si trovi?”.

“Sì, dalla piccola Davies. Mi ha detto che era piuttosto urgente, in effetti”.

“Vado immediatamente!” le disse e cominciò a correre verso la stanzetta della bambina.

Arrivata lì, trovò Alex piuttosto preoccupato e Charlie che respirava a fatica, i battiti accelerati e le saturazione d’ossigeno a livelli a malapena accettabili.

“Cosa le è successo, Karev?” gli chiese, invitandolo ad uscire in corridoio.

“La avevamo appena estubata, sembrava che rispondesse bene alla terapia farmacologica. La pressione era buona, non perfetta, ma nemmeno preoccupante, le pulsazioni erano regolari, il respiro meno faticoso rispetto al solito. Lei aveva persino chiesto la colazione ed era rimasta con suo padre a parlare un po’. Sembrava che la crisi di questa notte fosse alle spalle e invece no. Suo padre era uscito un paio d’ore, per prendere una boccata d’aria, o almeno mi ha riferito così, e sembrava tutto sotto controllo, nella norma. Così ho continuato con il giro delle visite, finché, una decina di minuti fa, sono dovuto correre qui perché Charlotte era cianotica, non riusciva nuovamente a respirare in modo autonomo, il cuore era in fibrillazione, stava andandosene, stava per …, Charlie stava per …”.

Arizona gli appoggiò una mano sulla spalla.

“Calmati, Alex, adesso non è il momento adatto per perdere la calma, non davanti a lei, non ora. Adesso resti qui fuori finché non sarai ritornato lucido e non riavrai i tuoi invidiabili nervi saldi. Charlie è spaventata, molto più di te e ha bisogno di essere rassicurata, di qualcuno che non la faccia sentire in pericolo, ma al sicuro. Ora entrerò io e la visiterò, poi tu la seguirai durante la giornata”.

L’uomo annuì e se andò verso la caffetteria in cerca di qualcosa di forte da bere, un espresso magari, e di un trilione di calorie da ingerire, da cui trarre le forze e la determinazione necessarie per affrontare quella lunghissima ed ennesima giornata pesante al Seattle Grace.

Intanto, la Dottoressa Robbins era entrata nella stanzetta di Charlie, cercando di mantenere un’espressione positiva e rassicurante, in modo da non spaventare troppo la piccola e di non farla soffrire ulteriormente.

“Buongiorno, Charlotte. Il Dottor Alex mi ha appena riferito che hai avuto ancora dei problemini con la respirazione e che il tuo cuoricino è un po’ stanco. Per questo motivo ti abbiamo dovuto inserire un tubicino nella tua gola, per permetterti di respirare meglio” le disse nel tentativo di farle capire cosa le stesse accadendo senza traumatizzarla troppo.

La piccola avvicinò le sue manine pallide e ceree al tubo endotracheale e provò a toglierselo, cercando di comunicare con la dottoressa, le pulsazioni cardiache aumentarono di conseguenza, sospinte dalla paura della bambina, che piangeva in silenzio e chiudeva le palpebre con estrema rassegnazione.

Arizona afferrò quelle mani infantili e le asciugò le lacrime con un fazzoletto di carta.

“Non devi cercare di togliere quel tubicino, Charlie! Ti farai solo del male!”.

La bambina continuò a cercare di dimenarsi, seppur con fatica, seppur debolmente, mettendo in ogni suo tentativo di sottrarsi al suo dolore ogni singola briciolo di forza che era rimasto nel suo giovane corpicino malato.

“Stai tranquilla, Charlie! Stai calma, buona, Shhh! Non opporti al tubicino che hai nella gola. Serve a farti respirare, piccola. Ti serve per stare meglio” le disse la pediatra, rassicurandola e avvicinandosi ad accarezzarle i capelli castani e ricci.

Charlie continuò a piangere, più silenziosamente, come se avesse capito che lottare non servisse più a nulla, come se si fosse arresa al suo dolore, alla sua malattia, al mondo intero e avesse esposto la sua piccola bandierina bianca di fronte alla quale sembrava gridare a pieni polmoni: “Mi arrendo! Basta! Lasciatemi andare! Lasciatemi! Perché la cura alla mia malattia fa più male della malattia stessa?”.

Arizona osservava la piccola con un nodo al petto, vedendo una creatura così bella e fragile, come di vetro, forte ed eterna, ma così fragile ed effimera che sarebbe bastato un soffio di vento, un urto, uno stupido sbaglio per lasciare che le si disintegrasse di fronte ai suoi occhi.

La donna si avvicinò alla piccola, tolse le calzature ortopediche e si fece spazio nel suo lettino, scostando le lenzuola bianche e asettiche e infilandosi sotto le coperte, lasciando che il calore del suo corpo, il suo tepore, la sua vicinanza aiutassero la bambina a calmarsi un po’.

“Sai, Charlie, io ho una bambina. Si chiama Sofia e ha due anni. Anche lei a volte è triste, proprio come te, a volte piange di notte e mi sveglia. La sento dal divano sul quale dormo. Allora sai che cosa faccio? Mi alzo facendo piano, camminando sulle punte come una ballerina di danza classica e vado nella sua stanza. Lei mi vede e si alza, agitando le sue manine verso di me per farsi prendere in braccio e io la sollevo e la abbraccio. Lei si calma quando sono con lei, allora comincio a camminare con mia figlia tra le braccia e le canto una ninna nanna per farla tranquillizzare e, indovina un po’? Funziona sempre perché lei si addormenta, allora la appoggio sul divano, sul mio cuscino e mi addormento con lei. Vuoi che ti canti la ninna nanna preferita di Sofia, lo vuoi, Charlotte?” le chiese, mentre la guardava negli occhi e osservava le pulsazioni cardiache della piccola che si stavano regolarizzando.

La bambina annuì piano, allontanando le mani dal tubo endotracheale.

Them that's got shall get
Them that's not shall lose

So the Bible said and it still is news
Mama may have, Papa may have
But God bless the child that's got his own
That's got his own” continuo osservando la piccola che si stava addormentando a poco a poco.

“Money, you've got lots of friends
Crowding round the door
When you're gone, spending ends
They don't come no more
Rich relations give
Crust of bread and such
You can help yourself
But don't take too much
Mama may have, Papa may have
But God bless the child that's got his own
That's got his own

Mama may have, Papa may have
But God bless the child that's got his own
That's got his own
He just worry 'bout nothin'
Cause he's got his own” continuo Arizona addormentandosi a sua volta.

Fu svegliata, poco dopo, da una mano maschile.

“Dottoressa Robbins! Si svegli! Sono Alex, deve continuare il giro delle visite!” le disse l’uomo, aiutandola a scendere dal letto.

“Mi sono addormentata. Addormentata, capisci Karev! Non mi era mai successo, mai capitato in tutta la mia vita, in tutta la mia carriera medica! Scusami, stavo cantando una ninna nanna a Charlie per cercare di calmarla e devo aver chiuso gli occhi anche io, sono così esausta ultimamente, così stanca!”.

“Ha funzionato anche troppo la ninna nanna, Arizona. Comunque non è della mia reazione che ti dovresti preoccupare, ma di quella di suo padre. Sono venuto qui perché mi ha fatto chiamare lui, era semplicemente furioso”.

“Fantastico! – esclamò Arizona – non vedo l’ora di sentire cos’altro avrà da rinfacciarmi. Come se non stessi facendo abbastanza, come se mi divertissi a vedere sua figlia spegnersi ogni giorno di più, come se fossi un’incapace che non sa nemmeno come fare il suo lavoro!” disse quasi gridando la donna, sospinta fino alle lacrime.

“Arizona, calmati! Parlerò io con suo padre e chiarirò tutto. Penso che tu debba tornare a casa un po’, staccare per qualche ora, non preoccuparti, ci penso io a farti sostituire” le disse, mettendole una mano sulla spalla con fare fraterno.

“Grazie, Alex. Forse ho davvero bisogno di staccare un po’, ho davvero bisogno di tornarmene un po’ a casa” gli rispose, uscendo dalla stanzetta.

Percorse il corridoio in tutta la sua lunghezza, poi entrò nello spogliatoio e si cambiò con lentezza, misurando i gesti con estrema cautela e rimanendo seduta per una manciata di minuti a piangere, senza sapere dove andare, che cosa fare.

Attese ancora qualche istante, poi si diresse verso l’ascensore, poi l’atrio e infine casa sua, dove trovò Mark e Callie con Sofia che stavano preparando il pranzo, mentre la bambina stava nuovamente fingendo di essere Peter Pan, lanciandosi dal divano sul tappeto in salotto.

Appese la borsa e la giacca sull’attaccapanni e si lasciò scivolare sul divano, aspettando cha sua figlia le saltasse al collo e l’abbracciasse.

“Sei tornata prima, come mai?” le chiese Callie.

“Oggi ho avuto una mattinata pesante, devastante, orribile” disse, senza cercare di nascondere le sue lacrime alla moglie.

Callie fece cenno a Mark di portare Sofia nel suo appartamento.

L’uomo colse il segnale al volo e prese la piccola in braccio, con la scusa di insegnarle a preparare i cupcake.

Rimaste sole a casa loro, calò il silenzio tra le due donne.

Arizona continuava a piangere senza smettere, anzi aumentano di intensità, mentre Calliope se ne stava lì, senza ben sapere il da farsi, provando ad avvicinarsi a lei, scostandole una ciocca di capelli di lato.

“So che non stiamo più insieme, che ci siamo prese una pausa, che ho fatto un mucchio di stupidaggini durante quest’ultimo anno, ma, non potresti abbracciarmi?Solo abbracciarmi. Per favore, Calliope! Per favore” le chiese implorandola.

Callie annuì e le si avvicinò, le due si guardarono negli occhi e Arizona sfiorò le sue labbra contro quelle di sue moglie.

“Arizona!” le disse Callie, sconcertata per la reazione.

“Per favore - la implorò di nuovo – solo adesso, solo oggi, per favore!”.

Calliope ricambiò quel bacio e quello dopo e quello dopo ancora, consapevole che fosse prematuro, consapevole che fosse sbagliato.

Consapevoli di essere sul filo di un rasoio.
 
NdA:
Spero che il nuovo capitolo sia stato di vostro gradimento.
La canzone che Arizona canta a Charlie è “God bless the child”, la stessa che la Bailey ha cantato al piccolo Tuck al telefono.
Alla prossima
Lulubellula
p.s. è scientificamente provato che le recensioni giovino alla salute mentale delle autrici …

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Capitolo 30
*** Capitolo Trentesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Trentesimo



La giornata continuò a scorrere in modo sereno, Callie e Arizona sembravano aver trovato una sorta di equilibrio precario e discontinuo, ma pur sempre funzionale.

Quel bacio e quelli che ne erano seguiti, le avevano messe nella condizione di complicare ulteriormente le cose tra di loro, ma le avevano anche smosse, fatte uscire da una situazione di stallo che aveva fatto soffrire entrambe nel corso dei giorni e delle settimane precedenti.

Non erano ancora giunte a perdonare e a perdonarsi degli sbagli che avevano commesso, ma avevano firmato una sorta di dolce tregua, un armistizio lungo quanto una giornata e avevano intenzione di godere di quel dono sino all’ultimo scampolo.

Perciò, dopo essersi assicurate che Mark non avesse altri impegni per la giornata e che potesse continuare a badare a Sofia, le due donne decisero di regalarsi un pomeriggio da trascorrere insieme, tra massaggi, manicure e oli essenziali.

Uscirono di casa con il sorriso sulle labbra e guardandosi negli occhi in modo diverso rispetto al solito, in una maniera che loro stesse avevano dimenticato di possedere, come se la tempesta, una volta tanto, avesse deciso di allontanarsi per qualche ora dalle loro vite.

Arrivate alla macchina, Arizona si sedette alla guida e Calliope vicino a lei, sul posto del passeggero, iniziò a trafficare con l’impianto stereo installato in auto, scegliendo “I will show you love”, una delle loro canzoni preferite, una canzone che erano trascorse secoli dall’ultima volta che avevano ascoltato insieme.

“Sicura che non stiamo correndo troppo?” le chiese Arizona prima di mettere in moto, spaventata dalla piega positiva che aveva improvvisamente preso quella giornata, elettrizzata e impaurita di fronte a quel momento che aveva aspettato così a lungo, tanto a lungo che la voglia di darsi un pizzicotto per verificare che fosse tutto vero, che non si trattasse di uno stupido sogno, la allettava parecchio.

Callie avvicinò le sue mani a quelle della moglie.

“Stiamo facendo un tentativo, stiamo provando ad essere felici, come prima” le disse guardandola intensamente negli occhi.

Come prima, quando non sembrava così difficile vivere sotto lo stesso tetto, quando dividere il tavolo della colazione e la stessa aria respirata sembrava così semplice, così naturale, quando il pronome ‘noi’ sembrava avere ancora un senso.

Quando il letto non era diviso da una cortina di silenzio e di lacrime, quando il divano era solo un componente d’arredo sul quale vedere dei film insieme e non un vero e proprio letto, sul quale misurare la distanza che le separava.

“Come prima” ripeté Arizona piano assaporando quelle parole, come se avessero assunto un significato del tutto nuovo per lei, diverso, inaspettato, strano.

La donna iniziò a guidare, dirigendosi verso un centro benessere ad una ventina di miglia da casa loro, in modo da staccare un po’ dalla frenesia di Seattle, dalla sua capacità di cambiamento continua, che sembrava usurare gli oggetti e le persone ad una velocità allarmante.

La musica accompagnava in loro viaggio, scandito da qualche chiacchiera, considerazioni, qualche piccolo e innocuo pettegolezzo proveniente dal bancone delle infermiere del Seattle Grace Mercy West.

“Manca molto?” le chiese ad un tratto Calliope.

“Non molto, sei o sette miglia. Perché?”.

“Non potresti fermarti? Non mi sento bene. Mi gira la testa. Ho bisogno di prendere una boccata d’ossigeno”.

“Ok. D’accordo. Potremmo fermarci tra due o tre minuti, qui vicino c’è un parco e un parcheggio a poca distanza. Credi di resistere ancora un po’?” le domandò preoccupata.

Calliope annuì e aprì il finestrino, cominciando ad inspirare ed espirare, perché ai giramenti di testa si era aggiunta anche la nausea.

Arizona iniziò a cercare quel parco con gli occhi e quando scorse il cartello che indicava l’area di sosta per le auto, cercò un posteggio e aiutò Callie a scendere dall’automobile.

“Siamo arrivate, Callie. Vieni, ti aiuto”.

La donna si fece aiutare docilmente e scese. Poi si incamminò con la moglie sino alla prima panchina libera e si sedette.

“Come si senti?”.

“Mi gira la testa e ho la nausea, forse non è stata una trovata geniale quella di decidere di andare in un centro benessere, non credo che potrei sopportare tutto quel vapore, quei profumi che una volta amavo così tanto e che ora mi massacrano l’olfatto. Ti dispiace se ce ne stiamo un po’ qui, sono io e te, a fissare questo laghetto artificiale e le anatre che nuotano?” le chiese.

“No” rispose sua moglie con convinzione.

“No?”.

“No. Ora io ritorno alla macchina”.

“Come? Hai intenzione di lasciarmi qui e tornare a Seattle?”.

“No. Ora ritorno alla macchina, apro il bagagliaio e prendo una coperta”.

“Una coperta?”.

Arizona annuì.

“E una volta che avrai preso una coperta? Cosa hai intenzione di fare?”.

“Ho intenzione di andare in quel chiosco di panini, a due passi da qui, e di comprare qualcosa per pranzo, solo per noi due, perché la nausea e i giramenti di testa probabilmente sono dovuti al fatto che non hai mangiato praticamente nulla a pranzo. Perciò ora andrò in macchina e prenderò una coperta, poi io e te ci avvicineremo alle sponde del fiume, la appoggeremo a terra e staremo sedute vicine, mangeremo un trancio di piazza calda e getteremo le briciole alle anatre”.

“Non ti dispiace dover rinunciare ai massaggi, alla manicure e ai trattamenti di bellezza?” le chiese Calliope, sentendosi un po’ in colpa.

“Mi dispiace di più vedere che stai male, che non ti senti a tuo agio, che mi nascondi ciò che provi” le disse, aspettando che le parole facessero effetto.

Callie abbassò lo sguardo a terra, osservando i piedi, tacendo e non dicendo nulla.

“Vado a comprare un po’ di pizza. Hai qualche preferenza?”.

“Una semplice margherita e una bottiglia di acqua minerale andranno benissimo per me. La dottoressa mi ha consigliato di non eccedere con il cibo e limitare il sale e i dolci, perché potrei avere problemi pressori nei prossimi mesi di gravidanza. Preferirei evitare, vorrei che questo bambino nascesse a termine, sano e forte, perché di complicanze ne ho avute già abbastanza ultimamente”.

“D’accordo – prenderò una margherita anche io per farti compagnia. Non vuoi niente come dessert? Nemmeno un gelato alla frutta? Non credo che peggiorerà la situazione e apporta una dose limitata di zuccheri, che comunque ti servono”.

“Magari più tardi. Potrei prendere un cono al limone e alla fragola. Non penso che mi farebbe troppo male, non credi?”.

“No, è decisamente meglio di un caffè. Potresti sostituirlo con quello oggi”.

“Troppo tardi”.

“Perché?”.

“Mark me ne ha offerto uno a metà mattina”.

“Mark! Dovrò scambiare due paroline con quell’uomo!”.

“Non essere troppo dura con lui. Almeno finché resterà qui”.

“Cosa intendi?” le chiese.

“Sta pensando di andarsene, forse non oggi, neanche domani, ma sono sicura che presto o tardi accetterà un lavoro altrove e allora non lo rivedrò più tutti i giorni e cominceremo a sentirci per telefono o per e-mail, prima tutti i giorni, poi spesso, poi qualche volta e pian piano ci sentiremo sempre meno e avremo poco o niente da dirci” le disse con la voce rotta.

“Immagino che prima o poi sarebbe dovuto succedere. Non possiamo legarlo a noi e ai bambini, Mark ha diritto di rifarsi una vita, qui o altrove, e credo che vivere a Seattle e lavorare ogni giorno nell’ospedale in cui ha conosciuto Lexie lo stia logorando lentamente”.

“Infatti non gli ho detto che non sono d’accordo, ma che lo appoggio, che non si deve preoccupare per Sofia e per il piccolo, che deve seguire il suo cuore, le sue aspirazioni, fare quello che crede, quello che sente. Eppure, nonostante sappia di avergli detto le parole giuste, di essermi comportata da amica, mi sento malissimo, mi sento persa, distrutta, sento che lo sto perdendo, mi sento sola” ammise davanti alla donna, davanti a se stessa.

Arizona annuì e girò sui tacchi, andando verso il chiosco, stanca, sola, a pezzi, perché la consapevolezza della solitudine di Callie l’aveva spiazzata, perché non c’è niente di peggio di sentirsi soli quando ci si trova con la persona che si credeva di amare e che ha appena ammesso che la tua presenza vicino a lei, non la fa sentire meglio, non la fa sentire amata.

“Arizona?” la chiamò Callie.

La donna non si voltò e continuò a camminare nella direzione opposta a quella della moglie.

Calliope si asciugò inutilmente una lacrima e prese il cellulare dalla borsa, lo accese e vide il messaggio che aveva ricevuto.

“Sono stato un idiota questa mattina. Ho affrettato le cose, non volevo obbligarti, non voglio obbligarti a fare nulla che tu non voglia. Voglio solo scusarmi con te. Spero che tu abbia ancora bisogno di un buon amico. Rob”.

Callie rimase a fissare il cellulare per qualche istante e poi cancellò il messaggio, cercando di allontanare da sé l’immagine di quella mattina, cercando di dimenticare le parole che aveva appena detto ad Arizona, il casino che aveva combinato baciandola sul divano e poi accettando di uscire con lei quel pomeriggio, quel sms cancellato che continuava a riecheggiare nella sua testa.

Arizona tornò poco dopo con la pizza e si sedettero sulla coperta, alle due estremità, mangiando silenziosamente e bevendo a piccoli sorsi, lasciando che il rumore dell’acqua e lo starnazzare delle anatre e degli anatroccoli riempisse il vuoto lasciato dalla loro mancanza di comunicazione.

La donna mangiava e piangeva insieme, le lacrime le scendevano piano lungo le guance e le morivano all’altezza del mento.

“Cosa c’è, Arizona?” le chiese sua moglie, quando non poteva più semplicemente fingere di ignorare i suoi singhiozzi.

“Niente”.

“Stai piangendo. Non si piange per nulla, c’è sempre un motivo, magari non lo si vuole ammettere, però c’è”.

“Le cose non funzionano, Callie. Non si stanno aggiustando. Tu ti senti sola, io mi sento sola. Come è possibile provare questi sentimenti con la persona che si è scelta per tutta la vita? Come è possibile tenere a galla un matrimonio in cui l’amore sembra non bastare per tenere insieme tutto il resto?”.

“Io ho solo detto che mi sentirei sola senza Mark, non che la tua presenza vicino a me mi faccia sentire in solitudine. Non lo direi mai, non l’ho mai nemmeno pensato, Arizona. Tu sei mia moglie, lui è il mio migliore amico, non chiedermi di scegliere tra voi due, io gli voglio bene, ma io ti amo” le disse senza fiato.

“Mi ami?” le chiese Arizona, abbozzando un sorriso tra le lacrime.

“S-sì, ti amo!”.

“Mi ami” ripeté la donna.

“Anche io ti amo, Calliope. Non ho mai smesso”.

“Nemmeno io, Arizona. Nemmeno io”.

“Ci stiamo riprovando? Stiamo provando a ricostruire il nostro rapporto, Callie?”.

“Un passo alla volta, piano, senza fretta. Ma sì, ci stiamo provando, Arizona, stiamo tentando di ritornare come prima”.

“Come prima?” le chiese, come per avere una conferma.

“Come ora, come vogliamo, come sentiamo di voler essere, come coppia, come donne”.

“Sì, sono perfettamente d’accordo con te. Perfettamente”.

“Perfettamente” ripeté Callie, avvicinandosi le sue labbra a quelle di Arizona.

“Sai che cosa vorrei in questo momento, cosa vorrei più di ogni altra cosa?” domandò Callie.

“No, ma qualunque cosa tu voglia, chiedi e ti sarà dato”.

“Bene, la cosa che desidero di più in questo momento è un gelato al cioccolato”.

“Ti è passato il senso di malessere di prima?”.

“Sì, è svanito per fortuna”.

“Bene, allora vada per un gelato alla frutta”.

“Al cioccolato!”.

“Nah! Niente cioccolato, solo frutta”.

“Ti prego, Arizona! Esaudisci il mio desiderio, chiedo solo del dolce, fresco, goloso gelato al cioccolato. Non vorrai lasciarmi morire di fame, sono anche incinta, non ricordi? Non vorrai negare alla tua povera mogliettina incinta un misero, semplice gelato?” le chiese, prendendola scherzosamente in giro.

“Come potrei ora? Dopo che me lo hai chiesto con tanta enfasi. Ti prenderò un gelato al cioccolato a patto che stasera tu accetti di mangiare petto di pollo ai ferri e zucchine al vapore”.

“Cosa non si fa per un gelato? Andata, e vada per la cena da ospedale, Arizona. Ora mantieni la tua promessa e portami il mio gelato”.

“Ai  tuoi ordini, Principessa Calliope” le disse con un inchino.

Callie sorrise e rimase a fissare il laghetto, quando sentì il telefono suonare nuovamente.

“C’è posto per un amico nella tua vita, allora? Non credo che riuscirei ad affrontare tutto questo da solo. Rob”.

La donna continuò a fissare il laghetto pensando tra sé e sé.

“C’è sempre posto per un amico” rispose al messaggio.

E aspettò che Arizona tornasse con il dolce, fissando l’acqua che descriveva dei cerchi concentrici e osservando le prime gocce di pioggia che scendevano piano, a ricordarle che la primavera era ancora ben lontana.

 
NdA:
Come promesso, ho aggiunto il capitolo trenta in anticipo rispetto al solito, perché oggi è il primo anniversario di questa storia, che è stata anche il mio esordio nel fandom di Grey’s Anatomy.
Sono davvero felice di poter continuare a condividerla con voi lettrici/lettori e di avere dei riscontri così positivi.
Spero di leggerne ancora molti altri.
Grazie mille a tutti
lulubellul
a

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Capitolo 31
*** Capitolo Trentunesimo ***


Non c'è due senza tre
Capitolo Trentunesimo


Il ritorno a casa e i giorni che ne seguirono furono sereni, tranquilli, perfetti.
La mattina si svegliava accanto a sua moglie, la sera si addormentava vicino a lei, facevano colazione e cenavano allo stesso tavolo, pranzavano di nuovo insieme alla mensa dell’ospedale, dal momento che Callie era rientrata dal periodo di malattia.
Stavano bene, andava tutto bene.
Non avrebbero potuto desiderare di meglio.

La gravidanza di Calliope era giunta alla ventisettesima settimana e, malgrado i mal di schiena e piccoli malesseri passeggeri, procedeva tutto secondo i piani.
L’armonia ritrovata sembrava quasi irreale a volte, il fatto di aver ripreso a vivere serenamente, di essersi lasciate alle spalle alcuni brandelli degli eventi passati, lasciava le due donne tranquille, anche se il senso di inquietudine, di paura che l’incanto si potesse spezzare da un momento all’altro non le aveva abbandonate del tutto.

Ritornata al lavoro, Callie aveva riassaporato l’ebbrezza perduta di riallineare ossa e articolazioni, di stare in sala operatoria e respirare il profumo dell’ospedale, calpestare il suolo di nuovo da chirurgo, da strutturato e non più da paziente.
Le piaceva tutto questo, lo adorava, come se tutto d’un tratto avesse ripreso in mano le redini della sua vita, redini che aveva lasciato a loro stesse per troppo tempo, per quanto la riguardava.

Venne accolta calorosamente dai suoi colleghi, che non smettevano di occuparsi e preoccuparsi che tutto andasse per il meglio, che il suo ritorno sulle scene ospedaliere fosse più naturale e semplice possibile.
Arizona adorava che sua moglie fosse tornata al lavoro, sapeva quanto la sua professione, l’amore e la dedizione per la chirurgia ortopedica contassero nella vita di Calliope, perciò la sosteneva in tutti i modi, rendendole la ripresa del tutto priva di attriti.
Dal canto suo, Mark era riuscito a destreggiarsi tra turni ed interventi in modo che Sofia dovesse trascorrere del tempo con volti familiari, che fossero il suo, quello di Arizona o di Callie.

“Abbiamo trascurato Sofia in questo periodo” disse a metà della prima settimana di ripresa dell’amica.
“Trascurato?” domandò Arizona, sorseggiando un frappé, seduta al solito tavolino della mensa, con sua moglie al suo fianco.
“Sì, l’abbiamo trascurata. Ha passato un’infinità di tempo sballottata da un luogo all’altro, da una persona all’altra. All’inizio, durante la nostra degenza e in seguito durante la convalescenza, è stata divisa tra l’asilo nido e Callie, mentre noi due pensavamo solo alle nostre ferite, soprattutto a quelle che non erano visibili dall’esterno”.
“Ma poi ci siamo ripresi ….” Iniziò Arizona.
“Sì, per qualche tempo le cose sono tornate al loro posto, finché …”.
“Nick. Vuoi davvero rinfacciarmi di nuovo la storia di Nick e la mia fuga?” gli chiese Arizona, giocherellando nervosamente con il cucchiaino di plastica.
“Non ti rinfaccio nulla, però in quel periodo, Sofia è rimasta parecchio tempo solo con me, perché Callie era distrutta, devastata. Per fortuna, Derek e Meredith si sono resi disponibili più di una volta a lasciarla giocare a casa loro con Zola”.
“Sarebbe colpa mia ora?” domandò Callie.
“Non è colpa tua, ma le cose sono andate così e dopo il tuo incidente, Sofia ci ha visti nuovamente assenti e preoccupati. Ha solo due anni, ha diritto ad avere una vita normale, dei genitori presenti, di vedere dei volti felici e non tirati o preoccupati. Dovremmo pensare a lei”.
“Ci pensiamo in continuazione. Ci penso in continuazione, Mark” sbottò Arizona, spaccando in due parti il cucchiaio di plastica.
“Lo so, Arizona, sto solo dicendo che dobbiamo trovare una soluzione. La maestra di Sofia mi ha mandato a chiamare stamattina e non è nemmeno la prima volta”.

“Non ce ne avevi mai parlato” disse preoccupata Callie.
“Avevate già i vostri problemi da risolvere, c’era una totale e assoluta mancanza di dialogo fra di voi, fino a qualche giorno fa, non mi andava di peggiorare la situazione, solo che ora credo che ci stia sfuggendo di mano, che mi sia sfuggita di mano”.
“Cosa è accaduto? Qualcosa di grave?” domandò Arizona nervosamente.
“L’insegnante di nostra figlia ha notato che, da qualche tempo, Sofia ha dei comportamenti strani, tende ad isolarsi dagli altri bambini, a schivare le conversazioni, se ne sta da sola in un angolo a giocare”.
“E’ un comportamento comune a quell’età, soprattutto tra i figli unici, i bambini che hanno contatti prevalentemente con adulti” osservò Arizona.
“Sofia parla, parla moltissimo”.
“Non è un bene il fatto che lei parli?” domandò Callie.
“Con questo suo amico immaginario, non con gli altri bambini. L’insegnante mi ha detto che se ne sta delle ore a parlare, apparentemente da sola, che racconta delle storielle inventate da lei, perlopiù favolette e piccoli racconti. Parla da sola in un angolino del nido. Io non credo che sia sano per lei, penso che dovremmo fare qualcosa”.
“Che cosa proponi di fare, Mark? Mi sembra del tutto innocuo questo suo amichetto immaginario”.
“Sarebbe innocuo, Arizona, se non fosse che questo suo amico si chiama Jerry e sa pilotare un aereoplano”.
“Jerry” Arizona si portò una mano sulla bocca.
“Il pilota dell’aereo non si chiamava in quel modo?” chiese Callie.
“Siamo degli idioti!” sussurrò piano Arizona.
“Sofia ha assorbito più informazioni del dovuto, si è trovata troppo spesso tra due fuochi ed ora sta rielaborando l’accaduto con gli unici e pochi mezzi che ha, principalmente attraverso la fantasia e Jerry. La maestra ti ha descritto altri comportamenti strani di nostra figlia?” gli domandò Calliope.
“Lei se ne sta da sola o meglio in compagnia di Jerry, passa intere ore a disegnare boschi, alberi, forse deve averci sentito parlare dell’incidente, della radura in cui siamo rimasti per un’intera settimana, prima che ci ritrovassero e ha reagito così, creando una figura che la aiutasse a capire, ad avere delle spiegazioni. Inoltre si comporta come se Jerry fosse reale, pretende di ricevere due merende, una per sé e una per lui, se la maestra cerca di negare la sua esistenza o di non darle la doppia merenda, lei si innervosisce e comincia a fare i capricci”.
“E’ successo qualche episodio in particolare che ha destato attenzione nelle sue maestre?”.
“Questa mattina Sofia ha spinto una bambina”.
“Davvero? Ma è una bambina così dolce e timida, non farebbe mai male a niente e a nessuno, nemmeno ad una mosca”.
“Eppure questa mattina lo ha fatto. I bambini erano seduti in cerchio, sulle loro seggioline di plastica colorate e Sofia se ne stava seduta con gli altri, tenendo vicino a sé una sedia vuota, quando una bambina del nido si è avvicinata e ha preso posto, accanto a lei, occupando lo spazio di Jerry. A quel punto Sofia si è infuriata e ha spinto la bambina giù dalla sedia con forza, fortunatamente la piccola non si è ferita, né ha battuto la testa, però suo padre, che è anche un collega che non sopporto, è infuriato e vuole che vengano presi dei provvedimenti nei confronti di Sofia. Dannazione! Cosa crede che possiamo dirle? Ha solo due anni! Non possiamo di certo proibirle di parlare con Jerry, non servirebbe a nulla, né chiederle di smettere di tenergli il posto e di pretendere la doppia merenda, sarebbe come distruggere il suo piccolo mondo sicuro, le poche certezze che è riuscita a mettere insieme in questi periodi difficili”.
“Che si fa ora?” domandò Arizona, visibilmente preoccupata.
“Vado a prendere Sofia al nido!” annunciò Callie convinta.
“Non credo che sia la cosa più giusta da fare, Callie” le fece notare Mark.
“Non mi importa. E’ sola, spaventata, in totale balia di Jerry, non riesce a rielaborare l’accaduto e non ho intenzione di lasciarla lì in questo momento”.
“Cerca di stare calma, Callie! Faresti solo dei danni se la riportassi a casa prima del tempo, mancano ancora tre ore alla fine del tuo turno, resisti e non peggiorare la situazione. Sofia non deve pensare che siamo eccessivamente preoccupati per lei, sarebbe sbagliato e controproducente, si rinchiuderebbe in se stessa e penserebbe di essere nel torto, che vedere e parlare con Jerry sia proibito e ciò rafforzerebbe il suo legame in negativo”.
Callie sospirò e si alzò dalla sedia.
“Devo visitare i pazienti del post operatorio ed ho un paio di consulti. Ascolterò il tuo consiglio, però, finito il mio lavoro, andrò all’asilo nido a prendere Sofia e la porterò a fare due passi al parco con me. Su questo non transigo”.
“Ok. Sono d’accordo, è stata una giornata difficile per lei, cerca di non sgridarla troppo, ma piuttosto di parlarle, di farla ragionare con calma. Ha solo due anni e ha paura, si sente sola, si sente in colpa, cerca di non peggiorare le cose”.
“Non ti preoccupare, starò attenta, non farò danni” rispose Calliope, alzandosi dalla sedia e tornando in reparto.
“Torno dai miei pazienti anche io” disse Arizona.
“D’accordo. A stasera”.


 
Callie riuscì a finire il giro delle visite prima del previsto e non erano nemmeno le cinque del pomeriggio, così, tenendo fede alla promessa fatta a Mark, girò alla larga dal nido e si diresse verso il reparto di ginecologia e ostetricia.
Restò incantata di fronte al vetro, vedendo tutti quei fagottini rosa e azzurri che dormivano, piangevano, venivano cullati dalle infermiere oppure si succhiavano il pollice.
Ripensò alla piccola Sofia e a tutte le traversie che entrambe avevano avuto prima di riunirsi in un abbraccio madre-figlia, a tutte le difficoltà che avevano attraversato insieme negli ultimi due anni, al nuovo problema che la presenza di Jerry comportava, a quanto avesse paura di vederla soffrire, di essere uno dei motivi che l’avevano spinta  a rifugiarsi nella sua fantasia.
Aveva sentito più del dovuto, aveva assimilato passivamente tutti i veleni nocivi dell’ultimo anno, senza riuscire a capirli, data la tenera età, e aveva dato loro un senso, costruendosi un’amicizia immaginaria con Jerry, il pilota d’aerei, che nella sua mente doveva avere pressappoco la sua età.
Tutti questi pensieri, avevano trasportato Callie in uno stato di inquietudine e angoscia, stato che aveva reso irrequieto anche il piccolo che aveva in grembo, che era piuttosto agitato e continuava a muoversi, dandole un leggero senso di noia e di stanchezza.
“Sono bellissimi, non trovi? Sono il lato migliore dell’umanità”.
“Sì” rispose Callie, senza pensarci troppo, voltandosi poi per vedere negli occhi il suo interlocutore.
“Signor Davies!” esclamò lievemente imbarazzata.
“Robert, Callie avevi cominciato a chiamarmi con il mio nome di battesimo. Stai forse facendo un passo indietro? Pensavo che noi ci fossimo chiariti”.
“Sì – disse lei, stancamente, scostando una ciocca di capelli dal volto – scusa, non è un buon momento. Perdonami”.
“Ok, mi dispiace. Posso esserti d’aiuto?”.
“No, no, ma grazie per esserti offerto di aiutarmi, significa molto per me”.
“Vuoi parlarne?” domandò Robert, mettendole una mano sulla spalla.
Callie si spostò istintivamente, come se fosse stata colta di sorpresa, come se avesse preso la scossa.
“C’è qualcosa che mi nascondi, Calliope?”.
La donna scosse la testa, infastidita e attratta al tempo stesso dalla voce dell’uomo, dalla sua ostinazione a chiamarla “Calliope”, il suo nome per intero, invece del diminutivo “Callie”, che preferiva di gran lunga.
“E’ tardi, devo andare, Robert, ci vedremo un’altra volta. Scusami”.
La donna fece per andarsene, ma Robert l’afferrò per un braccio.
“Calliope”.
“Robert”.
“Non andartene!”.
“Devo, ne parleremo un’altra volta. Mia figlia mi sta aspettando”.
“Anche la mia. Ascoltami solo per qualche istante”.
Callie si fermò, pensò, riflettè un istante e poi annuì.
“Grazie, grazie per aver acconsentito ad ascoltarmi. Ci ho pensato e ripensato, giorno e notte. Non riesco a smettere, non riesco a smettere di pensarti, hai cambiato la mia vita, mi hai cambiato. Dopo la morte di mia moglie sono diventato freddo, spento, morto dentro, ho pensato solo a Charlie e al mio lavoro, ho chiuso il mio cuore agli altri, ho chiuso il mio cuore all’amore. Ho promesso a me stesso che non avrei mai più sofferto così tanto per qualcuno, per qualcuno che prima o poi avrei potuto perdere. E per qualche tempo è andata così, finchè non ti ho vista, davanti a quel bar, di mattina, finchè non ho incrociato il tuo sorriso, i tuoi occhi, le tue labbra. Calliope, so che ti perderò dicendoti queste parole, so che probabilmente non mi vorrai più vedere, ma non posso fare a meno di pensarle, non posso fare a meno di amarti con tutto me stesso”.
Callie rimase come impietrita di fronte al discorso di Robert e prese a camminare nella direzione opposta, con decisione, a passo spedito, fino all’ascensore.
L’uomo la seguì ed prese l’ascensore con lei, aspettando che le porte si chiudessero.
“Ascoltami!”.
“Non c’è nulla da ascoltare, Rob. Mi avevi promesso che saresti restato accanto a me come amico ed ora mi dici questo, ora mi dichiari il tuo amore, non posso, non posso …” iniziò Callie, premendo nuovamente il pulsante del piano terra, nella speranza di arrivare presto, sottraendosi da quella imbarazzante situazione.
Robert fu più svelto e bloccò l’ascensore tra il terzo ed il quarto piano, avvicinandosi alla donna, che aveva tentato di accelerare la discesa.
Il suo volto si avvicinò pericolosamente a quello di Callie e l’uomo non riuscì a resistere all’impulso di baciarla, di sfiorare le sue labbra contro quelle della donna, memore del bacio a bruciapelo dell’ultima volta.
Callie si bloccò, mai come in quel momento si era sentita tanto fragile e vulnerabile, tanto insicura e desiderata, oggetto di attenzioni, attenzioni che provenivano dalla persona sbagliata.
“Non posso, Robert. E’ uno sbaglio, uno sbaglio colossale” disse Callie, allontanandolo da sé.
“Non puoi farmi questo, non puoi allontanarmi”.
“E’ la cosa più giusta da fare”.
“Io ti amo”.
“Io no”.
“Calliope”.
“Non chiamarmi in quel modo!”.
“Perché? Perché mi respingi?”.
“Io sono innamorata di un’altra persona, la amo, non posso tradirla, non così, non ora”.
“Eri uno straccio”.
“Cosa?”.
“Quando ti ho raccolta da terra, eri uno straccio, a pezzi, l’ombra di te stessa. La persona che ami, che dici di amare non ti merita, non si merita il tuo amore”.
“Non sai nulla di me, non mi conosci”.
“Forse no, però i tuoi occhi contraddicono le tue parole, i tuoi occhi non mostrano il brillio tipico di una donna felice e innamorata”.
“Sblocca l’ascensore!”.
“Callie” sussurrò l’uomo, avvicinandosi.
“Sblocca l’ascensore!” gridò la donna, cominciando a piangere.
“Callie, calmati, non ti farei mai e poi mai del male. Non devi aver paura di me, non ti torcerei nemmeno un capello” le disse, annullando la distanza tra loro due.
“Non piangere” le disse accarezzandole i capelli ed inspirando il suo profumo.
“Robert”.
“Shh! Non piangere, non farei mai nulla contro la tua volontà, nulla per ferirti” le disse, premendo il pulsante per far ripartire l’ascensore.
“Quello che è successo, oggi, qui, non è accaduto” disse Callie, asciugandosi gli occhi.
“Il bacio”.
“Non c’è mai stato”.
“Le tue parole, le mie”.
“Non abbiamo parlato”.
“Le tue lacrime, questo discorso”.
“Non ci siamo visti noi due, non ci siamo nemmeno mai conosciuti”.
“E’ un addio”.
“Sì, no, forse” disse Callie, mordendosi le labbra.
“Cosa facciamo?”.
“Io vado a prendere Sofia al nido, mentre tu andrai da Charlie”.
“E poi?”.
“Poi si vedrà”.
“D’accordo” rispose Robert, uscendo dall’ascensore dopo di lei.
“Non mi conosci, non ci siamo mai visti prima d’ora, siamo solo due perfetti sconosciuti che hanno condiviso lo stesso ascensore per un paio di minuti” sussurrò l’uomo osservando la Dottoressa Torres che si allontanava da lui, misurando i passi che lo separavano da lei.
 
NdA:
Scusate per l’imperdonabile ritardo, ma il tempo e l’ispirazione scarseggiano ultimamente.
Spero che sia la valsa la pena aspettare,
Fatemelo sapere
lulubellula
p.s. è incredibile quanto mi senta ispirata tra mezzanotte e le tre del mattino

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Capitolo 32
*** Trentaduesimo capitolo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo trentaduesimo


Calliope era appena uscita dall’asilo di Sofia, dopo aver avuto un’accesa discussione con la maestra che aveva rimarcato nuovamente il comportamento anomalo della figlia.
Dopo aver farfugliato una serie di parole dal dubbio senso per zittire la donna, aveva preso con sé lo zainetto della piccola su una spalla e aveva teso la mano a Sofia, trascinando fuori da quel luogo il suo cucciolo indifeso.
“Ora ce ne andiamo a fare un giro in centro, ok, Sofia?” le domandò, aggiustandole il cappottino rosso e aiutandola ad infilarsi sciarpa, guanti e berretto.
Nonostante marzo fosse ormai alle porte, la città di Seattle era ancora stretta nella morsa del gelo e, nevischio e piogge ghiacciate, ma anche vento e temperature in picchiata, rendevano l’arrivo della primavera sempre più desiderabile.
“Mamma, mamma, mamma!”.
Sofia stava strattonando un lembo della giacca della sua mamma da qualche istante, chiamandola insistentemente, senza che quest’ultima se ne accorgesse.
“Mamma!”.
Callie si voltò in direzione della figlia.
“Che cosa c’è Sofia?”.
“Voglio andare a prendere la cioccolata!”.
“D’accordo, Sofia, ma solo per oggi, non ti ci abituare” le rispose Callie, sperando di riuscire a far uscire allo scoperto anche il suo amico immaginario.
Camminarono ancora per un paio di isolati, stringendosi le vesti pesanti addosso e schivando le pozzanghere ai lati delle strade sino a giungere ad una famosa pasticceria di Seattle, una delle più rinomate della città.
Appena entrate nel locale, si sedettero a un tavolino vicino alla vetrina e Callie iniziò a sfogliare il menù dei dolci e delle cioccolate; vi erano più di cinquanta tipi diversi di aromi e farciture tra cui scegliere, ma lei si limitò ad una fondente con panna vegetale e una spolverata di cacao, mentre Sofia cominciava a dare segni di insofferenza.
“Hai già scelto, Sofia? Prendi la solita cioccolata al latte in tazza piccola? Oppure ne vuoi una con un po’ di panna?” le domandò lei per metterla alla prova.
La bambina scosse la testa e mise il broncio.
“Cosa c’è che non va? Non ti va più? Preferisci un tè caldo oppure latte al cacao?”.
“Voglio due cioccolate! Una fondente con panna montata e chicchi di caffè e una al latte con la panna!” rispose Sofia.
“Due sono troppe per te e poi niente caffè, sei ancora troppo piccola, non hai ancora compiuto tre anni” le disse Callie, nel tentativo di farla ragionare.
“Quella con i chicchi di caffè non è per me, è per Jerry!” rispose Sofia con aria di sfida, ben conscia dell’effetto devastante che il solo nome del suo amichetto di giochi suscitasse sugli adulti.
“Qui non vedo nessun Jerry, Sofia. E’ un tuo compagno dell’asilo?” le chiese Callie, cercando di mantenersi lucida e di non perdere la calma e la lucidità necessarie per cercare di capire cosa stesse passando per la testa della sua piccolina.
“Jerry è un mio amico e adesso è andato via sul suo aereo, ma poi torna e quando ritornerà vorrà la sua cioccolata. Me la devi comprare, mamma!” ribattè Sofia puntando i piedi a terra.
“Niente cioccolata per Jerry. Non se ne parla. O il tuo amichetto si degna di venire a berla con noi o se ne resterà a bocca asciutta!”.
“Ma mamma!” protestò la bambina.
“Niente mamma, ora prendiamo le cioccolate da asporto invece di berle qui e ce ne andiamo a casa” le rispose Calliope, perdendo la calma per qualche istante.
Callie si avvicinò al bancone e prese le bevande bollenti, poi aiutò la figlia a vestirsi e uscì dal negozio.
Camminarono insieme in silenzio verso la strada di casa, ignorandosi a vicenda, anche se entrambe di tanto in tanto in tanto si scambiavano occhiate e occhiatacce di nascosto, nella speranza che l’altra non notasse nulla.
Arrivate a casa, Sofia bevve la cioccolata molto lentamente seduta sul suo sgabello preferito e se ne andò nella sua cameretta a giocare con le costruzioni.
Non aprì bocca, si mostrò estremamente tenace nel portare avanti lo sciopero del silenzio con la sua mamma.
“Per fortuna – pensò – tra poco tornerà a casa Mama e mi consolerà lei. Non capisco che cosa ci sia di tanto sbagliato in Jerry. Lui è il mio unico amico e lo conoscono anche loro, ne parlano spesso. Che cosa avrà fatto di così sbagliato per non meritarsi la cioccolata?”.
 




Respirava affannosamente, di nuovo.
Arizona aveva esaurito le forze e anche le parole da spendere con il padre di Charlotte.
La bambina peggiorava a vista d’occhio, il suo cuore era affaticato e i polmoni erano sul punto di collassare, un catetere drenava liquido polmonare in continuazione, il rischio di edema non era da sottovalutare ed era reale e spaventoso.
Il suo organismo era allo stremo delle forze, il sistema immunitario seriamente compromesso dai continui cicli di cure a cui veniva sottoposta nell’attesa di un trapianto cardiaco.
Un trapianto che sembrava ben lontano per la piccola, che stava spegnendosi a poco a poco come un flebile fiammella che si estingue nel buio della notte.
Arizona era esausta ed erano solo le sei del pomeriggio.
La giornata era ancora lunga, il turno sarebbe terminato circa tre ore dopo, per poi ricominciare nuovamente l’indomani, con la speranza che un cuore compatibile arrivasse di lì a poco, che la piccola Charlie tornasse a sorridere come una volta.
Era terrorizzata dall’idea di una telefonata in piena notte, atterrita dal pensiero che Alex la destasse dal suo sonno con la notizia agghiacciante del decesso della piccola.
Aveva gli incubi, la sognava spesso, sognava di vederla nella sala giochi, in disparte rispetto agli altri.
Se la immaginava avvicinarsi a lei, tirandole un lembo del camice e indicandole in silenzio di seguirla nel corridoio colorato del reparto di pediatria.
Camminava sui suoi passi, ripercorrendo la stessa strada tutte le notti, seguendo quella bambina pallida e bella, che le indicava la via, sempre la stessa, quella della sua stanzetta d’ospedale.
Entrava facendo piano, Charlie le faceva segno di restarsene zitta  e vedeva un lenzuolo bianco disteso, sopra una figura esile e spenta.
La bambina toglieva tutte le notti il lenzuolo candido, mostrandosi alla donna, mostrandole lei stessa morta, cerea e bianca, con le manine infantili giunte al petto.
Si girava verso di lei, con aria di ingenuità, mista ad un velato rimprovero, dicendole: “Come hai potuto dormire sonni tranquilli, mentre io ero sola nel mio lettino?”.
Ed ogni notte, prima che lei riuscisse a trovare le parole per risponderle, Arizona si svegliava di soprassalto, terrorizzata, impaurita, con il cuore in gola e, facendo meno rumore possibile, per non destare sua moglie e sua figlia dal sonno, indossava una vestaglia e afferrava il telefono in salotto, chiamando Karev e sperando che il brutto sogno non fosse un incubo reale.
 




 
“Pronto. Sì, buongiorno, sono Mark Sloan. Un mio collega mi ha dato il suo numero. Avery di chirurgia plastica. Ecco, io la chiamavo perché mia figlia ha degli strani comportamenti ultimamente. Nulla di troppo allarmante. Però la sua insegnante all’asilo nido, ci ha contattati per via di un suo amichetto immaginario. Sì, sì, non aveva mai avuto simili comportamenti prima. Ha quasi tre anni ed è figlia unica, anche se la madre aspetta un secondo figlio. Come le dicevo, la bambina, Sofia, manifesta un attaccamento morboso alla figura di questo fantomatico compagno di giochi, Jerry, si chiama così. Mia figlia pretende che le venga assegnata una doppia merenda per sfamare anche l’amichetto e che lei possa tenergli il posto durante l’attività didattica. Ha persino spinto una bambina giù da una sedia e, nonostante non le abbia fatto particolarmente male, sono preoccupato. Vorrei prendere un appuntamento da lei al più presto se fosse possibile. Come dice? Domani alle cinque del pomeriggio le si è liberato un posto? Perfetto, cercherò di liberarmi per quell’ora e di far sì che anche le sue mamme siano presenti. La ringrazio. A domani”.

Mark abbassò il ricevitore, era meno teso ora che aveva ottenuto l’appuntamento dalla Dottoressa King, una neuropsichiatra infantile molto conosciuta e stimata nell’ambiente medico.
Tuttavia c’era ancora qualcosa che lo turbava in quell’esatto istante, ma non sapeva bene che cosa fosse, era più una sensazione, una premonizione che lo inquietava, ma non ci fece caso più di tanto, in quel momento aveva problemi più seri a cui pensare.
Stava lavorando su un innesto di pelle da impiantare sul volto di una donna di trent’anni che aveva subito un incidente sul lavoro ed aveva il settanta percento del volto ustionato.
Erano passati ormai due anni dalla data dell’infortunio e la donna, Katie Joyce, aveva subito quattordici interventi di chirurgia ricostruttiva, che le avevano permesso nel corso del tempo di riprendere a nutrirsi, a sorridere, a tenere gli occhi aperti.
Tuttavia ora Mark voleva ridarle il piacere di riflettere la sua immagine nello specchio senza che la donna scoppiasse inevitabilmente in lacrime, nel vedere la cute rossastra e raggrinzita, in parte tirata, l’attaccatura dei capelli troppo alta, le labbra che avevano perso la forma e la consistenza originaria.
Aveva impiegato molto tempo a convincere la donna a sottoporsi a quello che per lei risultava essere l’ennesimo, inconcludente e dolorosissimo intervento di chirurgia maxillofacciale ricostruttiva, perciò non poteva permettersi un risultato che fosse meno che perfetto.
Vicino a Katie, per tutto quel tempo era rimasto il suo fidanzato George, che non aveva mai smesso di supportarla e di infonderle coraggio e le aveva chiesto più volte di sposarla, ottenendo come risposta un secco rifiuto da parte della giovane, troppo provata dal peso delle conseguenze fisiche ed emotive dell’infortunio.
Lui però aveva aspettato pazientemente con lei momenti migliori e la prospettiva di un miglioramento estetico, che la aiutasse a sopportare e ad uscire dal baratro nel quale era sprofondata negli ultimi ventiquattro mesi.
Era proprio per questo motivo che il Dottor Sloan non poteva permettersi di fallire, perché sapeva che in caso di fallimento, Katie avrebbe gettato la spugna e smesso di lottare, allontanando da sé, tutte le persone che tenevano a lei, George per primo.
Mentre osservava quel lembo di epidermide rosea, Mark non stava semplicemente attirando a sé quello strato di pelle con uno strumento chirurgico sterile, lui stava tenendo tra le sue mani l’intera esistenza di quella giovane donna.
La prospettiva di una vita felice era tutta nelle sue mani da chirurgo plastico e questo gli pesava come non mai, un macigno di responsabilità, accumulatesi sulle sue spalle stanche e spossate.
 




 
Callie stava ascoltando un cd di musica classica, seduta sul divano in salotto, leggendo un thriller molto interessante, tuttavia non riusciva a concentrare la sua attenzione né sulla melodia verdiana, né sulle pagine di carta stampata, né sulla stoffa confortevole del sofà.
Era ancora preoccupata per Sofia, sapeva di aver reagito in un modo molto brusco e di aver esagerato, ma questa nuova situazione, questo nuovo “problema” che si era presentato, accumulandosi agli altri, le opprimeva il cuore e le impegnava la mente, togliendo spazio a tutto il resto.
Forse avrebbe fatto meglio a comprare la cioccolata anche per Jerry e ad osservare le reazioni di Sofia e le sue interazioni con la sua psiche infantile in preda all’ansia e alla creatività.
Forse avrebbe fatto meglio a farsi aiutare da Arizona, aspettando il suo ritorno a casa, oppure a lasciar parlare a Mark, che aveva un forte ascendente sulla figlia.
Calliope era confusa, sentiva che ogni sua mossa fosse sempre e comunque quella sbagliata: se spostava un pedone più in là, la Regina sarebbe rimasta scoperta e liberandosi dell’alfiere nemico, avrebbe avuto qualche speranza in più di dare Scacco al Re.
Non era mai stata una giocatrice di scacchi abile e nemmeno una brava stratega.
Era troppo impulsiva, passionale, una persona troppo di cuore e di pancia, per decidere solo ed esclusivamente con la testa.
Non era Cristina, odiava ed invidiava la freddezza e il calcolo che la donna sapeva applicare anche alla sua vita.
Invece Calliope ne era totalmente incapace.
Non sapeva mettere il cervello prima del cuore la maggior parte delle volte.
E questa volta si trattava di decidere il da farsi sulla pelle, sulla felicità di sua figlia.
E questo cambiava decisamente le carte in tavola.
 




 
Arizona aveva appena finito il suo turno in ospedale ed era esausta.
Il lavoro le procurava moltissime soddisfazioni ma anche tante delusioni e amarezze.
Per fortuna, la maggior parte delle volte, i bambini che ritornavano a sorridere e a vivere erano di più di quelli che non ce la facevano.
Ma per quante vite lei fosse riuscita a salvare durante la sua carriera, in momenti come quello, le ritornavano in mente solo i bambini che aveva lasciato andare, che aveva accompagnato nelle braccia della morte.
Come Jessica o Ross, come Rachel o Keith.
Ogni nome inciso sulla pietra era un chiodo piantato nel suo petto che, di tanto in tanto, sanguinava più forte, più intensamente.
E quella sera di marzo, una come tante, Arizona sentiva che oltre agli occhi, anche il suo cuore stava lacrimando.
Non aveva perso nessuno quel giorno, ma la paura che accadesse, il terrore dell’incubo notturno, la stava consumando lentamente.
La prospettiva di tornare a casa, quella sera e di baciare sua moglie ed abbracciare sua figlia era tutto quello che le permetteva di reggersi ancora in piedi.
 
 


 
L’intervento era riuscito.
Le suture perfette, impeccabili, da maestro.
La pelle aveva aderito al volto nel modo più naturale possibile e, nonostante i tempi necessari per la cicatrizzazione e la ripresa, i rischi di rigetto erano piuttosto bassi e quelli di infezione minimi, con un’adeguata e attenta medicazione quotidiana.
Dopo aver informato il fidanzato di Katie, George, ed essersi cambiato nella stanza dei medici, Mark si avviò verso il suo appartamento.
Aveva intenzione di invitare Callie, Arizona e Sofia a cena, di preparare loro un primo sfizioso e di giocare al principe azzurro e alla principessa Sofia con la figlia.
Passò alla gastronomia vicino a casa a prendere gli ingredienti e poi bussò alla porta dell’appartamento 502, invitando le tre donne della sua vita a cena.
Iniziò a preparare un soffritto per il primo, facendosi aiutare da Callie, mentre Sofia e Arizona leggevano un libro insime sul divano.
Mangiarono insieme silenziosamente e poi Sofia indossò il suo abito rosa da Principessa e passò la spada di cartone a Mark.
Giocarono insieme finchè suonò il campanello dell’appartamento dell’uomo.
Mark si alzò da terra e andò ad aprire, poi sbattè la porta rumorosamente.
Callie e Arizona si voltarono insieme e videro rientrare in salotto Mark visibilmente rabbuiato in volto.
“Chi era Mark?” domandò Calliope, avvicinandosi a lui.
“Nessuno” rispose l’uomo tagliando corto.
“Nessuno?” ripetè Callie insospettita.
Nel frattempo Arizona andò ad aprire la porta.
“Mark?”.
“Non ne voglio parlare, Callie”.
Arizona rientrò in salotto con un uomo sulla settantina, curato e distinto nei modi e nell’aspetto.
“Quest’uomo dice di essere tuo padre, Mark” disse la donna.
“Appunto, che ti avevo detto, Callie? Nessuno” tagliò corto l’uomo, prendendo la giacca ed uscendo dal suo appartamento.

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Capitolo 33
*** Capitolo Trentatreesimo ***


Non c’è due senza tre

Capitolo Trentatreesimo


Mark era sconvolto come non mai, era uscito di casa in tutta fretta e senza voltarsi indietro, le mani nelle tasche della giacca a vento, i piedi che camminavano troppo veloci e quasi asincroni, la porta sbattuta con rabbia come se in mancanza della possibilità di sfogarsi con suo padre, avesse preferito prendersela con un pezzo di legno verniciato.

Calliope era corsa in corridoio per fermarlo, per provare a farlo ragionare, ma ogni tentativo era stato vano; con il solito gesto d’intesa, Mark le aveva fatto capire che aveva bisogno di stare da solo e di far sbollire la sua rabbia, perciò la donna l’aveva lasciato andare, del resto non aveva nemmeno la più pallida idea di ciò che dirgli.

Sapeva molto poco della famiglia dell’uomo, poche parole colte qua e là nel corso degli anni, telefonate imbarazzate e formali per Natale, finché cessarono persino quelle e restarono telefoni lasciati suonare a vuoto e biglietti di auguri prestampati buttati in tutta fretta nel caminetto.

 “Provengo da una famiglia molto ricca e altrettanto fredda, Callie, ti basti sapere questo. La famiglia di Derek, quella sì, è stata quanto di più simile abbia avuto ad un legame parentale” le aveva detto una volta Mark in occasione della festa della mamma, mentre acquistava un regalo per Carolyn Shepherd, la madre del suo amico d’infanzia.

Nell’appartamento era crollato il silenzio. Il padre di Mark, Samuel Sloan, se ne stava poco lontano dall’uscio e squadrava la casa del figlio come se stesse cercando di farle una radiografia e di catturare anche il più piccolo particolare.
Era un uomo sulla settantina, distinto, curato nei modi e nel vestire, la classica persona che sapeva stare al mondo e trovarsi a proprio agio nelle situazioni più disparate. Aveva gli occhi azzurri, di un azzurro torbido e indecifrabile, ma vivi, un lampo di luce sembrava attraversarli in continuazione, i capelli, una volta probabilmente di un castano piuttosto chiaro, erano ora argentei. Indossava un completo di colore grigio antracite e calzava dei mocassini che con ogni probabilità costavano alcuni mesi di stipendio di una persona qualunque, pur portandoli tuttavia con una naturalezza e uno savoir faire tutt’altro che comuni.

Il padre di Mark osservava con attenzione ogni angolo della casa, ogni quadro, suppellettile, tonalità delle tende, della stoffa dei divani, la tinteggiatura delle pareti.

L’atmosfera iniziava a farsi glaciale, le due donne erano piuttosto imbarazzate; lo shock generale per arrivo dell’uomo aveva lasciato il posto al silenzio e a sguardi che si spostavano dal pavimento al soffitto senza dare alcun segnale apparente del fatto che la situazione si potesse sbloccare in alcun modo.

L’unica che sembrava non essere per nulla turbata era la piccola Sofia che continuava a canticchiare e a colorare, sempre gli stessi disegni, gli stessi colori, le medesime ambientazioni: lei, Jerry e un aeroplano che volava nel cielo.
Ad essere insoliti erano i colori utilizzati dalla bambina: il cielo violaceo e con nubi nerastre, il prato blu, i fiori grigi e l’aereo color rosso acceso; di sicuro la Dottoressa King, la psicologa infantile avrebbe avuto molto materiale su cui lavorare il giorno seguente.

L’attenzione del padre di Mark si spostò ben presto sulla bambina, ero intento a riconoscere nella piccola delle somiglianze, degli atteggiamenti simili ai suoi, a quelli di suo figlio.

D’un tratto, Samuel ruppe il silenzio, parlando con voce insolitamente incerta, quasi rotta e malferma.
“Lei è …” iniziò.
Callie e Arizona annuirono anticipando le sue parole.
“E’ Sofia, è sua nipote, la figlia di Mark” disse Callie a bassa voce per non farsi sentire da lei.

L’uomo si ricompose quasi subito, l’emozione che l’aveva tradito prima, sembrava come svanita nel nulla, volatilizzata, lasciando spazio alla sua freddezza ed eccessiva compostezza nei modi, nei pensieri.

“Gli assomiglia – constatò l’uomo – ha preso molto dei tratti somatici di sua madre, ma i suoi modi, la sua decisione nello scegliere i pennarelli e il suo tratto sicuro … Ha il nostro piglio, la nostra sicurezza – poi si corresse – quella di Mark intendevo”.
Sofia parve non accorgersi dell’elettricità che stava invadendo la stanza, lei era diventata il fulcro delle attenzioni dei tre adulti, senza esserne consapevole.

I suoi capelli castani erano legati con una semplice coda di cavallo, un fermaglio verde e arancione con un fiore come decorazione ad incorniciarle il viso infantile, un sorriso assorto dipinto sulle sue labbra, la dentatura bianca e incompleta e un paio di manine intente a completare l’opera.

Agli occhi dei tre appariva come una creatura perfetta, una bambina ancora piccola e forse fragile, ma che, tuttavia, aveva conosciuto prima del dovuto alcune amarezze della vita.

Arizona cercò di fare del suo meglio per sbloccare la situazione invitando l’uomo a bere una bevanda calda nel salone, bevanda che il padre di Mark accettò di buon grado, cogliendo al balzo l’occasione di conquistare l’attenzione, se non del figlio, perlomeno quella delle madri della nipotina.

Callie si sedette al tavolo e Samuel, a sua volta, fece lo stesso.

La donna tentò di intavolare un discorso con lui, ma ben presto le sfuggì di mano e la conversazione cadde irrimediabilmente su Mark e sul bambino in arrivo.

“Vedo che Sofia avrà presto un fratellastro o una sorellastra” iniziò l’uomo, ponendo volutamente l’accento sul suffisso delle due parole.

Calliope, indignata per il tono e per la supponenza dell’eloquio di Samuel, ribattè infervorata:” Sofia avrà un fratello o una sorella, perché sia lei che il piccolo hanno gli stessi genitori biologici. Ma, ciò  non toglie che, se in futuro Arizona volesse avere un figlio, quest’ultimo non sarebbe considerato un fratellino o sorellina di seconda categoria per Sofia rispetto al piccolo che nascerà tra breve. Io e mia moglie abbiamo tutte le intenzioni di avere una grande famiglia piena di amore, affetto e di bambini!”.

L’uomo non battè ciglio di fronte allo sfogo della donna, piuttosto soffermò la sua attenzione su ciò che lei aveva detto in principio.
“Dunque – iniziò – immagino che dovrei rallegrarmi del fatto che entro pochi mesi avrò un nuovo nipote, un nuovo erede” constatò con sufficienza, quasi con leggero tedio.

“Immagino di sì” tagliò corto lei, sollevata per l’arrivo di Arizona con caffè e tè caldi.

“Ecco. Caffè espresso per lei – porse la tazza a Sam - e per me. Ti ho preparato un tè zuccherato con miele di tiglio, Callie, sono già un paio di notti che hai il sonno agitato; ho pensato che qualcosa di caldo e senza caffeina ti potesse aiutare” le disse porgendole amorevolmente una piccola teiera di porcellana, dipinta a mano, fiori minuscoli, ghirigori e fili d’erba ad ornarla.

“Grazie, hai fatto bene, è stato un pensiero gentile”.

L’uomo alzò le sopracciglia e aprì la bocca con l’intento espresso di ferire con le sue parole:” Quando avrete finito con la fiera delle smancerie, una di voi due potrebbe prestare attenzione a mia nipote e preparare anche a lei qualcosa da mangiare o da bere, invece di continuare a pensare egoisticamente ai vostri comodi”.

Arizona rimase molto offesa dalle sue frasi e si preparò a reagire, pensò di ribattere qualcosa dapprima, ma poi sentì quel fastidioso e famigliare formicolio agli occhi che precedevano le lacrime e si limitò ad alzarsi da tavola e a prendere in braccio la piccola.

“Porto la bambina nel nostro appartamento, è stanca, è passata da un po’ l’ora della messa a letto. Poi sono stanca anche io. Mi raggiungi?” le chiese con un tono di voce fin troppo calmo e piatto, ma con lo sguardo che comunicava ben altro.

Calliope si ritrovò in mezzo a due fuochi, da una parte Arizona e Sofia, sua moglie e sua figlia, dall’altra Samuel e per esteso anche Mark, perché capire le motivazioni dell’arrivo improvviso dell’uomo aveva conseguenze che sarebbero ricadute anche sul suo migliore amico.

La scelta di restare lì o di tornare nel suo appartamento non era così semplice e scontata ed implicava un certo margine di errore in entrambi i casi.



Intanto, là fuori, Mark stava camminando senza avere una meta ben precisa, cercava solo di dar sfogo attraverso ai suoi passi all’arrivo inaspettato di suo padre, del resto avevano passato gli ultimi anni delle loro vite ad ignorarsi completamente e potevano benissimo continuare così ancora. O forse no?

Faceva ancora freddo, erano quasi le undici ormai, era stato lontano da casa per un po’, scappando dai suoi problemi e riversandoli sulle spalle di Callie e di Arizona e per questo si sentiva in colpa, ma sapeva anche che in questo modo aveva risparmiato loro di assistere ad un litigio furioso e acceso con il suo vecchio, litigio che, purtroppo, era stato solo momentaneamente rimandato.

Non erano mai stati migliori amici loro due, nemmeno quando lui era fanciullo e il papà rappresentava una sorta di modello a cui ispirarsi, una figura forte da imitare e da seguire; suo padre non c’era mai, non per lui almeno, c’era per i suoi collaboratori, per gli amici del circolo del golf, per sua madre e nemmeno più di tanto e per la segretaria di turno, ma praticamente mai per lui.

Allora lui aveva imparato a cercare l’affetto di cui aveva bisogno altrove e l’aveva trovato a casa di Derek, in una famiglia decisamente più modesta e meno abbiente ma che aveva qualcosa che nella sua mancava del tutto: amore, fiducia, rispetto, laddove sembrava che mancasse tutto per via della condizione economica, aveva trovato quello che i soldi non gli avrebbero mai permesso di ottenere.

Suo padre era tornato da lui, ma era in ritardo di oltre quarant’anni, quello di cui aveva bisogno da bambino non gli serviva più ora, aveva trovato amore e amicizia in luoghi inaspettati, aveva amato e voluto bene persone con cui non condivideva nemmeno una goccia di sangue, persone che lo avevano fatto sentire uno di famiglia più dei suoi stessi genitori.

Quarant’anni di niente e di silenzi non si potevano cancellare così, d’un tratto, in una sola serata, sempre ammesso che il perdono fosse quello di cui era in cerca quell’uomo in cui stentava a riconoscersi, in cui faceva fatica a credere di assomigliare, pur essendone figlio, pur sentendosi estraneo.

Mark continuava a camminare imperterrito per le vie semideserte e buie di Seattle, un passo davanti all’altro, destro, sinistro, di nuovo destro, concentrarsi sul rumore dei suoi passi sull’asfalto bagnato sembrava riuscire a sgombrargli la mente, a non permettergli di pensare a nulla.

Distratto, stanco, arrabbiato, questi erano gli aggettivi che meglio parevano descrivere il suo stato d’animo, a questi si sarebbe potuto aggiungere anche deluso, se solo gli fosse ancora importato qualcosa di suo padre, di tutti quegli anni infantili che lui aveva preferito trascorrere lontano e assente verso l’unico figlio che avesse al mondo.

Gli unici pensieri che gli giravano per la testa erano quello del padre a casa sua e del fatto che dovesse smetterla di pensare al fatto che quest’ultimo fosse piombato sulla porta di casa sua e nella sua stessa vita.

Era così distratto da non notare che un uomo stava provenendo dalla parte opposta alla sua, malfermo sulle gambe e che si stavano letteralmente scontrando, l’uno troppo assorto nei suoi problemi, l’altro troppo brillo, per non dire letteralmente ubriaco.

Lo scontro fu inevitabile e sembrò risvegliare Mark dalla stato di nervosismo, tensione e ricordo in cui era piombato da oltre un’ora.

“Mi scusi” disse lui mostrandosi mortificato per non essersi accorto prima dell’uomo.

“Mi scusi un accidente! Lei non stava nemmeno guardando dove mettesse i piedi e mi è venuto addosso! Guardi come ha rovinato la mia giacca!” rispose lui in modo arrogante e scortese, arroganza e scortesia che sembravano comparire in gran parte a causa del suo stato dell’ebbrezza.

“Io mi sono scusato con lei già una volta e non intendo farlo una seconda. Inoltre lo stato della sua giacca non è di certo colpa mia … che si scolato? Rum, gin, tequila? Mi lasci indovinare un mix di tutti e tre a giudicare dal suo stato mentale” ribattè prontamente il chirurgo plastico.

“Come si permette di darmi dell’ubriacone? Sono un ingegnere stimato, un padre di famiglia, mi ha forse preso per un alcolizzato?”.

“Nemmeno immagina quanti stimati professionisti, quanti padri di famiglia riempiano le sale degli alcolisti anonimi, le camere delle cliniche per disintossicarsi anche da altre sostanze”.

“Non sono un alcolizzato, né un drogato, ho solo bevuto un bicchierino di troppo stasera, ma questo non le dà alcun diritto per etichettarmi in questo modo!” disse aggrappandosi al bordo di una panchina.

“Paranoia, irritabilità e anche ansia a quanto pare, lei deve aver bevuto un bel po’”.

“Mi lasci stare! Se ne vada!”.

L’uomo si dovette sedere e iniziò a portarsi le mani alla testa.
Mark gli si avvicinò.
“Si sente male? Sono un medico, posso aiutarla, mi dica quanto alcol ha ingerito!”.
“St-sto bene! Ho solo un po’ di mal di testa, qui c’è troppa, troppa luce!” disse indicando una strada semideserta e scarsamente illuminata.
“Mi senta, signore, sarebbe meglio che la accompagnassi a casa e ancora meglio che la portassi in ospedale, visto che cominciano a preoccuparmi le sue condizioni psico-fisiche, come il mal di testa e l’eccessiva intolleranza alla luce che lei ha appena manifestato per farne un paio di esempi”.

“Non c’è nessuna casa”.
“Ma lei mi ha appena detto di essere uno stimato ingegnere”.
“Sì, ma non c’è nessuna casa perché non sono di qui, vivo in una stanza d’hotel e dubito mi farebbero entrare in questo stato, ho il conto in banca già all’asciutto per via delle spese mediche”.
“Ha qualche patologia particolare di cui dovrei essere a conoscenza?”.
“Io no, ma mia figlia è ricoverata da diverse settimane nel reparto di chirurgia pediatrica e sembra solo peggiorare, solo peggiorare!”.

“E ora arriva il pianto …”.
“Non è colpa dell’alcol però, piangerebbe anche lei se avesse una figlia nelle condizioni della mia!”.
“Sì, certo” disse Mark imbarazzato.
“Io la accompagno all’ospedale lo stesso, sua figlia è degente al Seattle Grace Mercy West?”.
“Sì, l-lì”.
“Le do una mano ad alzarsi, non credo che lei abbia granchè equilibrio ora come ora”.
“G-grazie”.

“Pensa di riuscire a camminare? Mancano solo un paio di isolati all’ospedale”.
“Credo di sì, insomma, dovrei riuscirci, nonostante mi giri incredibilmente la testa”.

Entrambi si avviarono verso l’entrata del Pronto Soccorso dell’ospedale, Mark non se la sentiva di lasciar solo quell’uomo tanto ebbro, spaventato, solo in quella notte così fredda e triste e non voleva nemmeno tornare a casa, vista la situazione che si era lasciato alle spalle.

Camminò con passo incerto e la vista sfocata l’uomo incontrato dal plastico, dovendosi fermare di tanto in tanto a prendere enormi respiri, boccate d’aria fredda che per qualche istante gli alleviavano il senso di nausea e la secchezza della gola.

“Ho appena avvertito una specializzanda con il cercapersone in modo che al suo arrivo si possa occupare di lei, preferirei che entrasse in reparto su una sedia a rotelle, è incredibilmente pallido e sudato, non sono proprio dei buoni segnali, mi creda”.

L’altro annuì.

“Mi servono nome e cognome per compilare poi la sua cartella clinica”.
“Davies, sono Robert Davies”.
Mark si appuntò nome e cognome.
“Ok, siamo quasi arrivati. Murphy, vieni qui”.

La specializzanda si avvicinò a lui con la sedia a rotelle.
Robert si fece improvvisamente ancora più bianco e pallido.
“Credo, credo di sentirmi … m-male” disse prima di imbrattare le scarpe ortopediche e i pantaloni della specializzanda.
A Mark scappò un sorrisetto:” Bè, se non altro la lavanda gastrica potrebbe non essere più necessaria a questo punto” disse osservando la faccia di Leah che era a metà tra il disgustato e il sorpreso.

“La accompagnerà dentro ora, lei ha bisogno di riposare, di essere monitorato per la notte e idratato a dovere”.

“Ma mia figlia …” iniziò Rob.

“Sua figlia starà bene questa notte, non si preoccupi, cerchi di pensare a rimettersi in forze lei al più presto”.

“Grazie”.
“Non c’è di che”.

La Murphy lo fece salire sulla sedia a rotelle e fece per accompagnarlo, ma venne interrotta da Sloan.

“Mi raccomando Murphy, tienilo sotto controllo, che non faccia sciocchezze di  cui ti riterrei diretta responsabile”.

“D’accordo, Dottor Sloan” .


Mark si voltò e fece qualche passo in direzione del bar di Joe, quando sentì il tocco di qualcuno sulla sua spalla sinistra, conosceva quel tocco, ragion per cui avrebbe evitato di voltarsi se solo ne avesse avuta l’opportunità e avrebbe iniziato a correre verso casa di Derek come faceva quando aveva undici anni, solo che ormai era cresciuto e la casa del suo migliore amico era troppo lontana per essere raggiunta a piedi in un lasso di tempo ragionevole.


 
NdA:
Rieccomi qui, dopo molto tempo dalla pubblicazione dell’ultimo capitolo di questa long.
Non disperate, prometto che non ne passeranno altrettanti per il prossimo e che la narrazione si sta avviando lentamente a chiudere il cerchio (mancano ancora alcuni capitoli alla fine però).
Spero che vi sia piaciuto quanto avete appena letto e che abbiate voglia di scriverlo (anche per confrontarvi con me, dirmi se c’è qualcosa che non va, non vi convince).
Come avrete notato mi sono tolta un sassolino dalla scarpa per la parte in cui compare Leah … (spero che non abbia dato fastidio a qualcuno).
Alla prossima miei cari lettori.
Lulubellula
E vi ricordo la pagina fb: https://www.facebook.com/pages/Greys-anatomy-italia-fanfiction-Lulubellula-2calzona3/396998680414584
 

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