All that I am (under the mistletoe) di piuma_rosaEbianca (/viewuser.php?uid=62690)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 23.12 ***
Capitolo 2: *** 24.12 ***
Capitolo 3: *** 25.12 ***
Capitolo 4: *** 26.12 ***
Capitolo 5: *** 1368 ***
Capitolo 6: *** New year's eve. ***
Capitolo 7: *** Fine delle vacanze ***
Capitolo 1 *** 23.12 ***
2312
23
dicembre.
Iniziano oggi le vacanze in molte scuole, Hogwarts compresa. Grantaire
ed Enjolras sono in vacanza e anche io lo sono, non è
meraviglioso? *no*
Niente,
ok, vi lascio subito alla lettura.
Ci rivediamo giù.
▲
Grantaire si aggiustò la
cravatta rossa e oro e sospirò.
Si sentiva stranamente in
ansia. In teoria avrebbe dovuto essercisi abituato ormai, dopo cinque
anni. E, comunque, passare due settimane da solo non era un problema
così grosso per avere tutta quella preoccupazione.
Lui e gli altri avevano
evitato l'argomento per giorni, sin da quando il professor Paciock
era passato a prendere i nomi di chi sarebbe rimasto a scuola per le
vacanze. Non si era premurato di chiedere conferma a nessuno, ormai
abituato ad essere l'unico a non avere una famiglia che lo volesse a
casa, che sentisse la sua mancanza. L'unico per cui Hogwarts,
nonostante fosse una semplice scuola, era sempre e comunque meglio di
casa sua.
Sospirò di nuovo e scese
le scale, lentamente, per niente frettoloso di constatare quanto
deserta fosse la sala comune.
Nonostante si fosse alzato
tardi di proposito per evitare di intristirsi nel salutare i suoi
amici, lo amareggiava sempre un po' vedere di essere effettivamente
solo. Portava ancora fresco il ricordo della sera prima, vivo nel suo
mal di testa e nell'odore di alcool che permeava il dormitorio, e
voleva tenerselo stretto per il resto delle vacanze, fino a quando i
suoi amici non sarebbero tornati e avrebbero ripetuto l'esperienza.
Era così che superava la
malinconia: aggrappandosi ai ricordi. I pochi belli che aveva
appartenevano quasi tutti a quelle vecchie mura di pietra, a quelle
tende
di velluto rosso e ai sorrisi dei suoi migliori amici. Quei pochi che
riuscivano a fargli dimenticare cosa lo aspettava a casa, cosa
nascondeva dietro al suo sarcasmo e la sua sfacciataggine.
Caracollò nella sala
comune occupata solo da un paio di ragazzini del primo anno e un
gruppetto di
ragazze del terzo, e andò a sedersi in una delle poltrone
più
vicine al fuoco, pensando di rimanerci sprofondato fino all'ora di
pranzo.
«Gli altri ti salutano.»
disse all'improvviso una voce molto familiare dalla poltrona accanto.
Grantaire sobbalzò
girandosi di scatto. In un attimo, la sua ansia prese senso e
pesò
un po' di più sul suo cuore già stanco.
«Enjolras!» esclamò
stupidamente, rivelando si essersi completamente dimenticato che
anche lui sarebbe rimasto per le vacanze. O forse non l'aveva proprio
mai saputo, dopotutto non l'aveva chiesto.
Enjolras fece un mezzo
sorriso alla sua sorpresa prima di riportare la sua attenzione al
libro che teneva aperto sulle ginocchia.
Grantaire non riusciva a
capire se fosse o meno felice della presenza dell'amico. Certo, era
bello non essere completamente solo per una volta, ma, fra tutti, non
avrebbe mai scelto Enjolras come unica compagnia per quasi due
settimane.
Non che non gli facesse
piacere. Anzi. Diamine, gli faceva fin troppo piacere.
Nel tentativo di ignorare
l'orrenda torsione che il suo stomaco aveva appena deciso di
effettuare, decise di infastidire l'amico distraendolo dalla sua
lettura.
«Come mai sei rimasto?
Non mi ricordo di avertelo sentito dire nei giorni scorsi.»
disse in
tono che voleva essere casuale.
«Non l'ho fatto, infatti.
Non avrei dovuto, in teoria. L'ho deciso pochi giorni fa, e non mi
andava di darvi preoccupazioni inutili.» rispose l'altro
rivolgendogli un altro mezzo sorriso. Sospirò prima di
continuare.
«Mi hanno mandato una
lettera la settimana scorsa, i miei genitori, ricordandomi che a casa
ci sarebbe stata la famiglia al completo e che avrei dovuto
trattenermi dal litigare di nuovo con mio zio. Avrei dovuto, cito,
“tacere le mie stupide e infantili idee sull'uguaglianza, e
almeno
fingere di essere una persona ragionevole nel conversare con i miei
parenti”. Ho deciso che i miei ideali valgono di
più di loro. Se
non vogliono avere ogni parte di me, non ne avranno nessuna.»
disse,
infuocandosi un po' sulle ultime parole.
«Come se gli
interessasse, poi.» aggiunse poi in un sussurro amareggiato.
«Hai fatto bene.»
mormorò Grantaire in risposta, ed Enjolras lo
guardò sorpreso.
«Una volta che mi dai
ragione! Un miracolo di Natale, proprio.» scherzò,
alleggerendo la
tensione dell'argomento spinoso.
Grantaire fece una
smorfia, trattenendosi dal commentare.
«Tu, invece? I tuoi
ancora litigano?» chiese poi Enjolras, tornando serio.
«A dire il vero non ne ho
idea. Non li sento da mesi. Ho passato tutta l'estate al Musain, lo
sai. Solo che non mi sembra mai una buona idea tornare a casa, e
adesso non ho nessun altro posto dove andare. Ma sai anche
questo.»
rispose Grantaire, e sorrise. Ne avevano parlato e riparlato.
Il Musain era un campo
estivo completamente gratuito per giovani maghi, dove molti studenti
con problemi familiari passavano l'estate. Grantaire ci andava ogni
estate sin da quando aveva scoperto i suoi poteri e i litigi erano
cominciati. Aveva sette anni.
Dall'anno precedente era
passato da essere ospite a far parte dello staff come volontario. A
sorpresa, tutti i suoi amici si erano uniti a lui, sacrificando parte
delle loro estati potenzialmente tranquille e felici a lavorare
duramente.
Molti dei ragazzi che
frequentavano il campo avevano problemi dovuti allo stato di sangue.
Tantissimi, come Grantaire, avevano un genitore con poteri e uno
Babbano in continua disputa, altri erano Nati Babbani i cui genitori
non capivano o non accettavano la loro diversità. C'era
perfino una minoranza di Maghinò disprezzati ed emarginati
dalle
loro famiglie, incapaci di sostenere la tensione che si creava nelle
loro case.
Lavorare al Musain aveva
fomentato le idee di Enjolras sul dover cambiare la
società magica, sulla necessità di una completa
rivoluzione,
l'abolizione degli stati di sangue, la fusione del mondo magico con
quello babbano e la fine di quella auto ghettizzazione nel quale
l'intero mondo magico si rifugiava, ancora ferito dagli anni di
violenta persecuzione.
Grantaire, ogni tanto, ci
pensava, e quasi si sentiva in colpa per avere portato Enjolras a
discutere con la sua intera famiglia, tutta di Purosangue
estremamente conservatori, ma poi lo osservava fare uno dei suoi
infiammati discorsi alla sala comune affollata, vedeva la luce
brillare negli occhi dei suoi compagni di casa, sentiva il cuore
gonfiarsi di qualcosa così simile alla speranza, qualcosa
che non
aveva mai avuto modo di provare, e non c'era niente che potesse fargli
rimpiangere quello che Enjolras era diventato.
«Già, lo so.»
disse
amaramente e sospirò, giocherellando distrattamente con il
bordo
delle pagine del libro che teneva ancora aperto fra le mani.
«Non che importi
più di
tanto, ormai. Il Natale ad Hogwarts offre molto più di
quello che
sembra. Fosse anche solo per il banchetto, diamine. E la neve. E i
corridoi deserti.» disse Grantaire, e un pensiero
attraversò veloce
la sua mente, abbastanza veloce per far colorare le sue guance di un
rosso così lieve da poter essere imputato al calore del
fuoco.
«Me lo mostrerai.»
commentò Enjolras con un sorriso, ovviamente innocente, ma
il basso
ventre di Grantaire non riuscì a trattenere uno spasmo
piuttosto
violento.
Si
insultò mentalmente prima di tornare a sprofondare nella sua
poltrona, lasciando Enjolras al suo libro.
Sarebbero
state due settimane davvero, davvero lunghissime.
▲▲
Dopo pranzo, stranamente
privo di
silenzi imbarazzati, Grantaire avrebbe tanto voluto ritirarsi nel
dormitorio e giacere inerme sul letto per tutto il pomeriggio, magari
avrebbe anche tirato fuori dal baule una di quelle vecchie riviste
babbane che facevano sempre comodo nei momenti di solitudine, ma
sapeva quanto Enjolras avesse bisogno di compagnia. Non era abituato
al silenzio o alla solitudine, necessitava costantemente di un
pubblico, di un uditorio attento, di qualcuno che gli facesse eco o
che gli rispondesse.
O almeno, così Grantaire
sosteneva di credere, per non ammettere che le sue abitudini e le sue
voglie passavano tutte in secondo piano quando aveva la
possibilità
di star vicino ad Enjolras.
Così nidificarono intorno all'unico divano della sala
comune, Enjolras mezzo disteso a leggere il
solito libro della mattina e Grantaire seduto sul pavimento per
appoggiarsi al tavolino da caffè, con un blocco di carta
riciclata e
un astuccio pieno di matite.
C'era un silenzio opprimente,
infranto solo dallo scoppiettio del fuoco e dal respiro dei due
ragazzi.
«Sai,» proruppe Grantaire,
giusto per fare rumore. «Dovresti includere nei tuoi discorsi
il
bisogno che hanno i maghi di aprirsi agli oggetti babbani. Non
dispiacerebbe a nessuno poter avere uno stereo in questa cavolo di
scuola.»
«Ci stavo pensando giusto
qualche giorno fa. È così ridicolo, ci sono stati
un sacco di
esperimenti sulla modifica degli apparecchi elettronici, e hanno
visto che possono funzionare perfettamente con la magia, ma non ne
vogliono sapere. Dobbiamo andare avanti a gufi e grammofoni.»
commentò Enjolras con uno sbuffo.
«C'è da dire che mi
accontenterei anche di quaderni e penne a sfera, eh. Dovrebbero
rendersi un po' conto del limite fra vintage e antiquato. A volte mi
stupisco del fatto che usiamo libri stampati.» rise
Grantaire, e
anche Enjolras sorrise.
«Si sentono tutti tanto
superiori per i loro poteri e poi non sanno usare un telefono. O una
televisione.»
«O un computer.» aggiunse
Grantaire, lanciando un ghigno a Enjolras, che gli fece una
brevissima linguaccia. In quel campo anche lui era un completo
inetto. Al Musain si teneva sempre ben lontano dalla sala
informatica, quasi come se quelle macchine lo spaventassero.
«Anni fa qualcuno provò a far
passare una legge a riguardo, ma il Ministero non ne volle neanche
sentir parlare. Ignorò completamente tutte le prove
scientifiche e
continuò per la sua strada. Dei folli, a mio parere. Ma
prima o poi
ci arriveranno, giuro su Merlino.» Enjolras cambiò
argomento con
decisione. Grantaire sorrise dell'espressione tipicamente da mago che
gli era sfuggita, ma non commento.
«Lo spero proprio. Non hai idea
di quanto mi manchi la mia tavoletta grafica, ad esempio. Odio dover
colorare a mano.» disse poi, appuntando per l'ennesima volta
una
matita bianca consumatissima che continuava a sporcarsi prima di
averlo portato alla sfumatura che cercava.
«Cosa stai disegnando?» chiese
curioso Enjolras spostandosi di lato, lasciando il libro aperto sul
divano e accucciandosi al suo fianco.
Grantaire fece del suo meglio per
ignorare il suo fiato caldo che gli accarezzava il collo e gli
lanciava brividi lungo la schiena.
«Niente di che. Credo voglia
essere una scena apocalittica, ma non riesco a far risaltare le
fiamme sul verde e questi fulmini non saranno mai abbastanza
chiari.»
commentò noncurante, un po' infastidito dalla propria
inettitudine.
Enjolras aveva la bocca
spalancata. Portò una mano a sfiorare il disegno, tastando i
diversi
strati di colore e i solchi che matite troppo dure avevano lasciato
sulla carta, come a volersi accertare del fatto che fosse vero.
«È...è magnifico.»
mormorò,
facendolo arrossire.
«Non esagerare, andiamo. Non è
neanche finito.» ribatté l'artista con poca
convinzione, ma
Enjolras scosse la testa incredulo.
«Voglio proprio vedere cos'altro
puoi aggiungerci. A me sembra perfetto così.»
«Vedrai.» sorrise Grantaire,
prendendola come una sfida, e si chinò di nuovo a cercare di
dare la
giusta luminosità ai fulmini.
Enjolras tornò a sedersi sul
divano, cercando per un po' di riprendere la sua lettura, ma
ritrovandosi a fissare con sguardo vacuo il retro della testa di
Grantaire, pensando a tutt'altro.
Passò un'ora. Forse erano due.
Erano circa le quattro del
pomeriggio e fuori il sole stava già tramontando.
Un paio di ragazzini del primo
anno rientrarono coperti di neve, stettero un po' vicino al fuoco
senza rivolgergli neanche uno sguardo e salirono nel loro dormitorio.
Grantaire li guardò con
disprezzo mentre se ne andavano.
«Questi bambini...» mugugnò.
«Ti va di uscire?» disse
all'improvviso Enjolras, sconvolgendo l'amico. Di primo impatto
pensò
che intendesse tutta un'altra cosa e il cuore gli schizzò in
gola
per qualche istante, prima che capisse e riuscisse a impostare il suo
miglior sguardo da “Ma sei sicuro?”.
«Lo so che fa freddo, ma non ce
la faccio più a stare chiuso qui.» disse Enjolras,
quasi
implorando.
Grantaire sorrise, aspettò un
po', come se stesse ponderando la questione, come se fosse stato
davvero capace di dirgli di no, e poi si alzò deciso.
Il sorriso immenso che fiorì sul
volto dell'altro lo riscaldò abbastanza per permettergli di
affrontare l'uscita.
Raccolse i suoi strumenti e
salirono insieme nel dormitorio per indossare vestiti più
pesanti e
prendere i mantelli.
Mentre passavano davanti al
dormitorio del primo anno sentirono uno dei due ragazzini che diceva
qualcosa come “ma 'sti vecchi del quinto che non sanno
godersi la
vita” e non riuscirono a trattenere una risata. Continuarono
a
sparlare dell'arroganza dei primini di queste generazioni per tutta
la discesa dalla Torre di Grifondoro al portone d'ingresso.
Un puttino di vetro trasfigurato
uscito svolazzando dalla Sala Grande tentò di ammaliare
Grantaire
con una carola nella speranza di convincerlo a farlo stare sulla sua
testa, ma il ragazzo lo scacciò con una mano.
«Anche gli angeli sono
impertinenti al giorno d'oggi.» commentò, facendo
ridere Enjolras.
Per sfuggire ad eventuali altri
angioletti stregati attraversarono veloci il portone, ritrovandosi al
freddo.
Altra gente passeggiava fra la
neve. Qualcuno aveva acceso un falò clandestino in riva al
lago.
Qualcun altro si vedeva in lontananza fare cerchi sul campo da
Quidditch.
Uno stormo di uccelli si sollevò
all'improvviso da un albero nella Foresta Proibita e volò
verso il
lago, nel quale il sole si stava lentamente immergendo.
Nonostante tutti i difetti che
aveva, era innegabile che Hogwarts fosse bellissima.
I due ragazzi si incamminarono
lentamente verso il lago, parlando di decorazioni natalizie e
attività invernali.
Grantaire pensò che Enjolras
fosse adorabile immerso in conversazioni così frivole e
serene.
Enjolras trovò che fosse davvero
piacevole parlare con Grantaire senza discuterci, una volta tanto.
Si fermarono a un paio di metri
dal falò, non volendo avvicinarsi troppo al gruppo di
burberi
Tassorosso del settimo anno che l'aveva acceso, ma allo stesso tempo
desiderandone almeno un po' il calore.
Rimasero per un po' fermi rivolti
verso l'orizzonte ad osservare il ghiaccio, la neve e le nuvole che
si tingevano di oro e arancio e rosa.
«Come lo dipingeresti?» chiese
all'improvviso Enjolras, a bassa voce, come a non voler disturbare lo
spettacolo della natura.
Grantaire ci pensò un po',
ponderando varie tecniche, vari colori.
Poi rispose:
«Olio su tela bagnata. Prima il
bianco-azzurro del ghiaccio, e poi il tramonto sopra. Pesca, corallo,
oro, rosa antico, anche vermiglio, dipende. Non tutti i tramonti
hanno gli stessi colori. Sfumerei sul grigio chiaro le nuvole,
grigio-blu dove non arriva la luce. Poi dipende da quanto è
esteso
il campo visivo. Se deve arrivare ai monti, bisogna vedere quanta
luce colpisce gli alberi e scegliere i colori di conseguenza. E le
mura del castello, il fatto che siano bagnate dalla neve le rende
più
scintillanti del solito. Se la neve fosse vecchia, sarebbero di un
oro più opaco. È importante il
contesto.» mentre parlava
gesticolava molto, descrivendo l'ambiente in movimenti dolci, come se
già stesse proiettando le pennellate su una tela invisibile.
Enjolras lo guardava ammirato, nascondendo a fatica un sorriso
orgoglioso.
Era bello vedere Grantaire
appassionato a qualcosa che non fosse dargli torto. Vederlo sereno
nella concentrazione, sentirlo parlare in tono non di accusa
né
sarcastico.
«Potresti farmelo? Esattamente
così com'è adesso.» chiese prima di
riuscire a trattenersi.
Grantaire si voltò lentamente a guardarlo, un po' incredulo,
un po'
compiaciuto.
«Potrei.» sorrise. Enjolras
rispose al sorriso.
La conversazione cadde lì, ma il
silenzio che seguì non fu imbarazzante. In pace aspettarono
che il
sole sparisse, godendosi la vista, Grantaire così immerso
nei suoi
pensieri da dimenticarsi del freddo e Enjolras cercando di non
tremare troppo visibilmente.
I Tassorosso se ne erano andati
portandosi via il fuoco, così che la temperatura sembrava
scesa di
diversi, significativi gradi.
Quando anche l'ultimo raggio di
sole fu sparito e il tramonto ebbe lasciato spazio al crepuscolo,
Enjolras batteva i denti. Era chiaro che, essendo stato lui a
proporre di uscire, non voleva suggerire di rientrare. Grantaire rise
quando se ne accorse. Si sarebbe ammazzato, quel cretino, pur di non
risultare incoerente con se stesso.
Mosso a pietà alla vista della
sfumatura violacea che le labbra dell'amico avevano assunto,
Grantaire lo prese per mano, in silenzio, e lo tirò
delicatamente.
Quando si girò a guardarlo e capì che voleva
rientrare, il sollievo
sul suo volto quasi brillò nella penombra del crepuscolo.
Per qualche ragione non sciolse
la stretta per tutto il tragitto fino al castello. Forse
perché gli
rendeva più facile camminare nella neve alta, forse in cerca
di un
po' di calore, forse per qualche altro motivo che Grantaire non
riusciva a trovare, ma di cui era comunque molto, molto grato.
In Sala Grande la cena era già
sui tavoli, in porzioni ovviamente ridotte, e tutti gli studenti
presenti nella scuola erano già seduti a mangiare.
«Dovremmo....» mormorò
Enjolras, che chiaramente aveva solo voglia di tornare in sala comune
e rannicchiarsi vicino al fuoco.
«No, ho un'idea migliore.»
rispose Grantaire con un ghigno enorme. «Seguimi.»
disse e scartò
velocemente di lato per imboccare un corridoio a sinistra della
scalinata di marmo. Varcarono una porta alla fine di quel corridoio e
scesero veloci giù per una ripida scala di pietra fino a
ritrovarsi
in un ampio corridoio di pietra, illuminato da torce e decorato da
allegri quadri che raffiguravano soprattutto cibo.
Circa a metà del passaggio si
fermarono davanti a un grosso quadro raffigurante una gigantesca
ciotola d'argento piena di frutta.
«Dove siamo?» chiese Enjolras
confuso.
Grantaire si limitò a sorridere
mentre tendeva un indice e faceva il solletico a una grossa pera
verde, la quale prese subito a contorcersi, ridacchiando, e si
trasformò in una maniglia. Il ragazzo la afferrò
e spalancò la
porta, per poi attraversarla trascinandosi dietro Enjolras.
Subito un gruppetto di elfi
domestici gli venne incontro, tutti sorridenti e disponibili.
«Gavroche.» salutò Grantaire,
riconoscendo il piccolo elfo nella massa.
Aveva grandi occhi azzurri, il
naso piccolo che quasi si perdeva nella grande faccia sorridente, e
sulla testa alcuni ciuffi di peli biondi spuntavano da sotto un
cappellino. Era piuttosto giovane, ma figlio di una generazione
intera di elfi liberati a seguito della Riforma Granger,
così non
era mai stato costretto a servire una famiglia. Nonostante tutto,
nutriva un profondo rispetto per i maghi, e gli anni di lavoro ad
Hogwarts lo avevano formato all'obbedienza.
«Grantaire, signore! Ha bisogno
di qualcosa, signore? Gavroche è al suo servizio.»
squittì, gli
occhi acquosi fissi sul ragazzo.
«Vorremmo qualcosa di caldo da
portare in sala comune, se non vi dispiace.» disse Grantaire
con
gentilezza, sorridendo al piccolo elfo.
«Oh! Salve amico di Grantaire.»
esclamò Gavroche, accorgendosi solo in quel momento della
presenza
di Enjolras. «Devo raddoppiare le bottiglie
quest'anno, signore?» chiese l'elfo a Grantaire, che
arrossì
violentemente.
«No, no, niente bottiglie
quest'anno.» rise nervosamente, cercando di ignorare lo
sguardo
inquisitore di Enjolras. «Delle brocche di cioccolata calda
sarebbero più gradite da tutti, se poteste.» si
affrettò a
cambiare argomento.
«Ma certo.» squittì un elfo
che stava ascoltando la conversazione, prima di correre via verso i
fornelli.
«Possiamo farvela trovare tutte
le mattine in sala comune.» disse un altro, seguendo poi il
collega.
«E riempirla ogni volta che si
svuota.» aggiunse un terzo, raggiungendo gli altri due.
«Sarebbe grandioso.» sorrise
Grantaire.
Quelli che avevano parlato erano
tutti elfi liberati. Si distinguevano facilmente, se non
dall'abbigliamento, dal modo di fare. Quelli ancora a servizio
tendevano a evitare troppi contatti con gli studenti, servendoli
quando venivano nelle cucine ma non portando il cibo fuori dalla Sala
Grande. Gli altri, invece, se qualcuno, come Grantaire, era
abbastanza furbo da farseli amici da subito, diventavano estremamente
disponibili a fare qualsiasi cosa questi gli chiedesse, pure se
andava contro le regole della scuola.
Enjolras era più che sorpreso,
quasi sconvolto, nel vedere tutto quello.
Chiunque sapeva che nelle cucine
di Hogwarts lavoravano centinaia di elfi, e dall'inizio della
battaglia del Fronte di Liberazione degli Elfi Domestici, nel 2003,
tutti erano a conoscenza delle condizioni di sfruttamento in cui
erano sempre vissuti, ma vederlo con i propri occhi era tutta
un'altra cosa.
Per Enjolras, sopratutto, che
aveva vissuto in prima persona la ribellione di un elfo, in quanto il
vecchio elfo domestico di suo nonno era stato fra i primi ad unirsi
alla ribellione, era abbastanza sconvolgente vedere che alla fine
aveva ragione e che il suo gesto era stato più che giusto,
cosa che
non aveva pienamente capito al tempo.
Allo stesso tempo, il pensiero che
la sua famiglia era stata in torto anche su quello lo riempiva di una
sorta di perversa soddisfazione.
Prima che potesse anche solo
pensare a qualche domanda da fare ai piccoli rivoluzionari, Grantaire
gli mise in mano una borsa di cibo caldo e lo spinse fuori,
voltandosi per salutare le creaturine prima di richiudersi la porta
alle spalle.
Non appena fuori prese il
sacchetto dalle braccia di Enjolras, lo nascose sotto il mantello e,
ridendo, si avviò verso le scale.
Enjolras gli trotterellò dietro,
guardandolo come se non l'avesse mai davvero visto prima.
«Chi sei tu? Dove hai messo il
Grantaire che conosco?» disse mentre risalivano
lentamente il castello fino alla Torre di Grifondoro.
«Le feste mi mettono allegria,
credo.» rise Grantaire. Si sentiva euforico e non riusciva a
capire
perché. Aveva improvvisamente voglia di fare cose, di
parlare, di
ridere. Per un attimo si chiese se stare fuori tutto quel tempo non
gli avesse dato la febbre, arrivò perfino a mettersi una
mano sulla
fronte per sentire se era calda, ma niente.
Una parte di lui gli suggerì che
forse era la presenza di Enjolras, ma la ignorò.
«Raccontami un po', da quant'è
che frequenti le cucine?» chiese allora il biondo,
rinunciando a
capire l'amico e accontentandosi di spiegazioni più facili.
«Metà primo anno, credo. Mi ci
portò quella Tassorosso che ci provava con me, una certa
Smith mi
pare. Poi andò male, come sai, ma continuai a frequentare
gli elfi.
Erano meno appiccicosi di lei, dopotutto. E decisamente più
utili.»
spiegò Grantaire, imboccando una scorciatoia dietro un
arazzo al
terzo piano.
«Perché non ce l'hai mai
detto?» chiese allora Enjolras.
«In realtà l'ho fatto. Beh,
alla maggior parte di voi.» disse Grantaire. «Ok,
forse solo a
Courfeyrac.» ammise sotto lo sguardo accusatore di Enjolras.
«Ma capisci, non posso certo
rivelare i miei segreti a tutti. Non posso più tenervi
nascosto
neanche cosa faccio durante le vacanze, lasciami almeno il gusto di
non dire a tutti da dove prendo l'alcool.» disse, e sorrise,
e
Enjolras sorrise di rimando.
Arrivarono alla torre dopo un
altro paio di rampe di scale, dissero la parola d'ordine in coro e
entrarono nella sala comune deserta. Dovevano essere tutti ancora in
Sala Grande. Dopotutto durante le vacanze il coprifuoco veniva
spostato e si poteva stare in giro più a lungo.
«Mi sento un po' uno sfigato a
rientrare così presto.» mugugnò
Enjolras togliendosi sciarpa e
mantello e lasciandosi cadere sul divano.
«Preferiresti essere a prendere
gli spifferi in Sala Grande o in qualche aula a far casino? Il bello
delle vacanze ad Hogwarts è che puoi goderti il castello in
solitario.» disse Grantaire sedendosi al suo fianco.
Aprì il
sacchetto di carta degli elfi e tirò fuori dei panini al
tacchino
ancora caldi, porgendone uno all'amico, e una bottiglia di succo di
zucca, che appoggiò sul tavolo.
Mangiarono per un po' in silenzio
osservando il fuoco, e, di nuovo, Grantaire si stupì della
leggerezza di quel momento. Non era quasi mai successo prima che fra
loro ci fosse una tale pace, forse perché la presenza degli
altri
spingeva entrambi a comportarsi in modo diverso, forse
perché la
stanchezza e la fame e il freddo li avevano indeboliti abbastanza da
fargli cadere di mano l'ascia di guerra con la quale litigavano
sempre, o forse davvero era il Natale in arrivo.
In ogni caso, era incredibile. E
rimase incredibile per tutta la sera, mentre continuarono a mangiare
e a chiacchierare di niente e a sorridersi come mai prima.
Quando si diedero la buonanotte,
qualche ora più tardi, a Grantaire tremavano le mani nel
chiudere le
tende del suo baldacchino, e quasi si convinse a dar la colpa al
freddo, mentre il cuore, incurante dei suoi tentativi, saltava un
battito nel vedere Enjolras sorridere un'ultima volta.
▲▲▲
Ebbene
quindi, così inizia. Questa cosina che avete letto
è la
prima parte di un progetto che ho iniziato a scrivere un paio di
settimane fa e che non ho ancora finito, ma che inizio a postare oggi
con l'idea di postare un giorno al giorno, almeno fino al 29, per poi
riprendere probabilmente il 3.
Ma comunque.
Questa storia è ispirata a questo
post
trovato per caso sulla mia dashboard tumblr. Uno di quei post
che
ti fa brillare gli occhi e ti riempie il cuore di gioia e ti fa
allegramente svenare su qualcosa di immenso e insostenibile. Non
è stupendo?
Questa
fanfiction è un regalo per la mia Sammy,
perché la
mia ossessione per l'Enjoltaire è in gran parte colpa sua (e
di
George Blagden, ma non posso davvero incolpare lui, come si fa a dire
qualcosa a quel faccino? çwç ). Buon Natale,
giuro che un
giorno imparo a fare regali decenti.
Devo inoltre un ringraziamento alla mia compagna di banco e di
sventure, Valeria, che non so come riesce ancora a leggere la mia roba
dopo sei anni che la ossessiono, e che sono due settimane che sostiene
conversazioni praticamente monotematiche su whatsapp. Non so come fai,
davvero. Grazie ♥
E
poi ringrazio, ovviamente, chi è arrivato a leggere fino a
qua,
chi recensirà o seguirà o anche solo chi
avrà la
forza di aprire questa cosa.
Buone feste, spero di potervi accompagnare nelle vostre giornate di
ozio vacanziero come questi due scemi faranno per me.
A domani,
Piuma_
|
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Capitolo 2 *** 24.12 ***
2412
Come promesso, torno subito da voi. È la vigilia di Natale!
Buone feste, di nuovo. E buona lettura c:
▲▲▲
La mattina dopo, Grantaire, appena
sveglio, credette di essere solo.
Sentì l'acqua scorrere nel bagno, ma
lì per lì non ci diede peso, pensando che potesse essere un qualche
fantasma o anche la sua mente ancora mezza addormentata.
Poi ricordò, e una morsa di panico gli
afferrò lo stomaco.
Si sollevò a sedere di scatto per
aprire la tenda del suo baldacchino e constatare come il letto al suo
fianco fosse vuoto ma disfatto, segno che il giorno prima non era
stata una sua fantasia.
Respira, R, va tutto bene, si
ripeté mentalmente, mentre ricadeva pesantemente sul letto e
ascoltava l'acqua scorrere.
Poi, dal brusio, si levò una voce.
Enjolras stava cantando sotto la doccia.
Era qualcosa che Grantaire aveva
sentito fin troppo spesso alla radio durante l'estate, ma non aveva
la minima idea di quale fosse il titolo, né tanto meno l'autore.
Apparentemente Enjolras ne era un
grande fan, dato che la sapeva tutta, parola per parola. Quando
l'ebbe finita, passò a un medley di canzoni natalizie babbane e
Grantaire scoppiò a ridere, sentendo distintamente il panico
lasciare il suo corpo.
Rimase disteso ad ascoltare,
ridacchiando ogni tanto, forse riaddormentandosi per qualche minuto,
e pensò solo distrattamente a quanto Enjolras fosse bravo (anche in
quello, maledizione), e ancora più di sfuggita a quanto avrebbe
voluto essere sotto la doccia con lui.
Forse dormiva quando l'acqua si spense,
forse stava solo pensando ad altro, in ogni caso non ebbe modo di
prepararsi e sobbalzò quando Enjolras uscì dal bagno in
accappatoio, ancora canticchiando.
«Ah, buongiorno!» esclamò il biondo
non appena vide che l'amico era sveglio. «Non ti ho svegliato io,
vero?» chiese poi mentre si chinava sul suo baule per prendere dei
vestiti puliti.
«No, no. Anzi, il tuo concerto mi ha
conciliato qualche ora in più di sonno.» rispose Grantaire,
nascondendo un ghigno mentre Enjolras arrossiva violentemente,
assumendo lo stesso colore della tenda alle sue spalle.
«Tranquillo, non svelerò i tuoi punti
deboli al nemico. Anche se mi stupisce che in quattro anni nessuno se
ne sia mai accorto.» sorrise Grantaire, cercando di non fissare
l'amico mentre si vestiva.
«Di solito mi trattengo quando so che
c'è qualcuno. Infatti ero sicuro che tu dormissi.» spiegò, sempre
arrossendo, mentre si infilava la biancheria da sotto l'accappatoio
prima di toglierselo e appenderlo dietro la porta del bagno.
Lo stomaco di Grantaire fece una sorta
di capriola che somigliava più a un triplo salto mortale su una
voragine piena di lava, ma fu bravo a celare il profondo disagio che
quella situazione gli procurava.
«Non credo dovresti, hai una
bellissima voce.» si lasciò sfuggire, senza pensarci troppo. In
quel momento era tutt'altro che capace di controllare le sue parole.
Enjolras arrossì di nuovo e si
affrettò ad infilarsi un maglione per nascondere il sorrisetto
compiaciuto che gli era apparso sul volto. Grantaire portò lo
sguardo al soffitto.
«Potremmo mettere su degli spettacoli
per raccogliere fondi per il Musain.» disse, sovrappensiero, e non
notò lo sguardo dell'amico che si illuminava. «Marius sa suonare il
pianoforte, Jehan può scrivervi qualcosa, sarebbe bello.» continuò,
fantasticando su folle così ammaliate dalla loro musica, da donare
metà dei loro possedimenti all'associazione.
«Se quello che sogno per la nostra
società diventasse realtà, potremmo espanderci al mondo babbano per
cercare fondi. Sono sicuro che un sacco di associazioni si unirebbero
a noi.» intervenne Enjolras, spegnendo le fantasie dell'amico.
«O potremmo semplicemente non dire a
cosa vanno i proventi. Tanta gente fa beneficenza giusto per sentirsi
in pace con se stessa, senza neanche preoccuparsi di che fine
facciano i propri soldi. Abbiamo vissuto di questo per anni, solo che
vendere dolci porta a porta ultimamente serve più a tenere i bambini
impegnati, che a guadagnare seriamente.» ribatté Grantaire
cercando, come al solito, di tenere le cose sul reale.
«Preferisci fingere per quei bambini,
invece di combattere per dargli un futuro migliore?» domandò
Enjolras, accalorandosi, cercando una reazione da parte dell'amico.
Grantaire gli puntò addosso uno
sguardo severo.
«La maggior parte dei ragazzi che
passa l'estate lì non sogna, non ci riesce. Come puoi dare speranza
a qualcuno rifiutato dalla sua stessa famiglia? Come pretendi che
loro combattano quando hanno a malapena la forza di svegliarsi ogni
mattina? A te sembra tutto così facile, ma non hai davvero idea di
come ci si senta.» disse, con calma e amarezza, ed Enjolras abbassò
lo sguardo, un po' vergognandosi della sua insistenza da sognatore
contro l'esperienza dell'altro.
Grantaire approfittò del silenzio per
alzarsi, prendere i suoi vestiti e andare in bagno, mentre l'altro
rimase seduto a rimuginare.
Durante la colazione, e poi per tutta
la mattinata, Grantaire sparì con un gruppetto di Corvonero del
sesto anno che conosceva, ed Enjolras, rimasto solo, tornò in sala
comune, cercando di riprendere il libro del giorno prima, ma
continuando a distrarsi pensando alle parole dell'amico.
Era sempre così fra loro: Enjolras
parlava con il fuoco della ribellione che gli bruciava nel cuore, e
Grantaire gli rispondeva con il freddo scetticismo derivato dalla
propria esperienza. Per essere dei ragazzini, entrambi avevano dentro
fin troppo da sfogare, solo che Enjolras lo faceva con ardore, con
lunghi discorsi e piani di battaglia, e Grantaire se lo lasciava
sfuggire, quando ascoltare in silenzio gli diventava troppo
insopportabile, in aspri commenti e sguardi pesanti.
Grantaire era il suo Socrate, sempre a
porre domande, a insediare dubbi nella sua mente, a smontare passo
per passo le sue convinzioni. La domanda che a Enjolras rimaneva
sempre, alla fine, era la motivazione di tutto quello. Voleva fargli
da maestro, distruggerlo per aiutarlo a ricostruire su basi più
solide, o era una forma di inconscia vendetta, quell'infrangere sogni
altrui nello stesso modo in cui credeva che la vita avesse infranto i
suoi?
Era convinto che la risposta giusta
fosse la prima, che Grantaire, alla fine, volesse spingerlo a trovare
una vera soluzione senza mettersi apertamente dalla sua parte.
O, almeno, lo sperava.
Passò tutta la mattinata a rimuginarci
sopra e, quando si rividero a pranzo, voleva quasi chiederglielo, ma
riuscì a trattenersi.
«Cosa avete fatto di bello?» gli
chiese distrattamente, servendosi una porzione di lasagne al ragù.
Grantaire trattene una risata mentre si
voltava a guardarlo. «Niente di che, siamo stati in cortile a
perdere tempo.» rispose, e abbassò lo sguardo sul suo piatto,
sorridendo.
«Tu?» chiese poi, affondando in una
coscia di pollo.
«Uhm, niente, ho letto.» mentì
Enjolras, e il sorriso di Grantaire si allargò.
Silenzio. Mangiarono in silenzio per un
po'. Grantaire continuava a soffocare risatine nel suo piatto.
«Smettila di ridere, di grazia. O
almeno spiegami il perché.» disse Enjolras serio, pulendosi la
bocca con un tovagliolo.
«Di grazia?» rise Grantaire,
girandosi a guardarlo con uno sguardo ostentatamente incredulo.
«Eddai.» si lamentò Enjolras,
allungando la i finale in modo adorabilmente infantile.
«Rido perché fai ridere, Enjolras. Mi
sembra ovvio. Se non lo capisci da solo te lo spiego a cena, il
perché.» rispose Grantaire, sempre sorridendo, guardando Enjolras
con uno sguardo carico di affetto. Si ripulì la bocca e le mani,
prese un sorso d'acqua e si alzò, uscendo in fretta dalla Sala
Grande, lasciando l'amico solo, di nuovo, a guardarlo andare via con
un'adorabile espressione imbronciata. A cena avrebbero risolto la
cosa, decise il biondo.
Peccato che Grantaire non si fece
vedere, né per il pasto né per il resto della serata. Quando andò
a letto, intorno alle undici, Enjolras non riusciva a capire se fosse
più irritato o preoccupato.
Stava quasi per decidere di aspettarlo
alzato, anche solo per farsi spiegare il motivo di tanta ilarità a
pranzo e magari sgridarlo per aver infranto il coprifuoco,
assolutamente non per accertarsi che effettivamente tornasse e che
stesse bene, figuriamoci, cosa poteva importargliene.
Solo quando sobbalzò sentendo una
porta sbattere al piano di sotto decise che forse era meglio evitare.
Avrebbero fatto i conti al mattino,
decise mettendosi giù e chiudendo le tende del suo baldacchino.
Pochi minuti dopo già dormiva.
▲▲▲▲
Oooookay.
Ringrazio chiunque abbia letto il capitolo precedente e questo,
specialmente Dark Shines, che ha messo la storia fra le seguite.
Inoltre, rinnovo i ringraziamenti a Valeria, a Marta, e stavolta aggiungo Anna, la mia migliore amica, che ha betato questo capitolo.
Ah e sì, ho cambiato il titolo della storia. Non sono mai un
genio con i titoli e mi è venuto in mente solo oggi. Scusate per
l'eventuale disagio.
Spero che qualcuno sia così buono da farmi un bellissimo regalo
di Natale e lasciarmi una recensione, anche piccolina.
That's all, folks.
A domani,
Piuma_
|
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Capitolo 3 *** 25.12 ***
25.12
▲▲▲▲
Natale arrivò leggero e silenzioso,
come la neve, come le pennellate di un pittore su una tela, come i
passi dei piccoli elfi domestici che sistemavano i regali ai piedi
dei letti dei ragazzi, come i respiri dei suddetti ragazzi immersi in
sonni sereni.
Assolutamente non come Grantaire che
risalì le scale del dormitorio all'alba, dopo aver dormito in sala
comune per qualche ora, e si lasciò cadere a peso morto sul suo
letto in un concerto di cigolii e grugniti.
Quando si risvegliò, qualche ora dopo,
il sole invadeva il dormitorio ed Enjolras, seduto sul proprio letto,
lo fissava.
«Sei un coglione.» disse, ma sorrideva. Grantaire,
ancora non del tutto sveglio, rispose al sorriso e mormorò «Buon
Natale anche a te.»
Ai piedi del letto di entrambi stava una
piccola pila di regali ancora impacchettati. Enjolras ne aveva
scartato solo uno, un grosso dipinto che ora era appoggiato alle
colonne del suo baldacchino.
Raffigurava un lago ghiacciato
circondato da boschi e montagne e neve, e immerso in uno spettacolare
tramonto. Le nuvole, di mille sfumature di rosso, rosa e giallo, si
muovevano lentamente, così come le cime degli alberi, come se tutto
fosse accarezzato da una brezza leggera.
Nell'angolo in basso a
destra, una piccola R verde scuro, confusa in una macchia di alberi,
firmava e completava l'opera.
«Ti piace?» chiese Grantaire una
volta riscosso dal sonno, mettendosi seduto.
Enjolras sbuffò
incredulo. «Se mi piace, santo Cielo. È meglio di una foto!»
rispose, e sembrò arrossire nel dirlo.
Grantaire sorrise
compiaciuto, evitando inutile falsa modestia.
«Allora mi perdoni
per averti lasciato con te stesso ieri?» disse con un ghigno, e
stavolta Enjolras arrossì per davvero.
«Se tu mi perdoni per
essere stato uno stronzo.» rispose, abbassando lo sguardo.
«L'ho
già fatto, evidentemente.» rise Grantaire indicando il quadro.
Poi, per togliere entrambi da quell'imbarazzante conversazione,
esclamò «Apriamo gli altri regali!» e balzò giù dal letto.
Entrambi avevano ricevuto un pacco di dolci da parte dei loro
amici, era una tradizione.
Enjolras fece una smorfia nel trovare
una calzamaglia di lana pesante da parte di sua madre, e si affrettò
a nasconderla, ma Grantaire era troppo distratto per ridere di lui.
Teneva fra le mani una piccola valanga di biglietti di auguri,
tutti fatti a mano dai bambini e ragazzi del Musain. Una lettera
allegata, scritta da uno dei responsabili che Grantaire conosceva fin
da quando era piccolo, spiegava che quell'anno, grazie ai fondi
raccolti durante l'estate, erano riusciti ad aprire anche per le
vacanze di Natale, e che, per farsi perdonare di non essere riusciti
ad avvertirlo in tempo, i bambini avevano deciso di mandargli
qualcosa.
Grantaire sfogliò i biglietti, li aprì e lesse uno per
uno, quasi li accarezzò.
Enjolras lo sentì tirare su col naso,
rumorosamente, e lo vide passarsi il dorso di una mano sugli occhi,
ripetutamente.
Quando alzò il volto, Grantaire aveva
gli occhi arrossati e sorrideva come nessuno l'aveva mai visto.
Senza dire una parola rimise i
biglietti nella grossa busta con la quale erano arrivati e li ripose
sul fondo del suo baule, per poi concentrarsi sul pacco rimasto.
Sua nonna gli aveva mandato una
sciarpa, fatta a mano, di lana verde bottiglia, insieme a un
bigliettino di auguri e raccomandazioni. Non una parola sui suoi
genitori, neanche un minuscolo accenno.
Cercò di non farci caso. Si avvolse la
sciarpa al collo, inspirando forte il profumo di lavanda che emanava,
il preferito di sua nonna, e sorrise ad Enjolras che era rimasto a
fissarlo per tutto il tempo.
«I tuoi ti hanno mandato qualcosa?»
chiese.
«Mia madre mi ha mandato una
calzamaglia di lana, per paura che prenda freddo, e un biglietto di
auguri. Il resto della famiglia mi ignora completamente,
probabilmente sotto ordine di mio padre, ma ritengo di dover
ringraziare per l'assenza di lettere minatorie.» rispose Enjolras,
alzandosi dal letto per buttare via la carta da pacchi che avvolgeva
i regali.
Era chiaro che gli dispiacesse, che gli
mancasse la sua famiglia numerosa, le comodità di casa sua, ma non
l'avrebbe mai ammesso. Testardo come un mulo, avrebbe perfino negato
di averla mai avuta, una famiglia, se fosse stato per sostenere al
meglio la sua causa. Si impuntava ad ignorare il dolore che gli
causava, cercando di dimenticarsi di avere ancora solo sedici anni,
di avere difficoltà nel separarsi dalle sue abitudini, nascondendo
tutto dietro a uno sguardo triste quando pensava che nessuno lo
stesse guardando.
Grantaire sorrise con affetto e
amarezza nel vederlo strappare la carta con rabbia prima di gettarla,
e fece seriamente fatica a trattenersi dall’andare ad abbracciarlo.
«Scendiamo. Sto morendo di fame. Spero
che ci sia ancora della cioccolata giù.» disse Grantaire balzando
in piedi, la scatola di dolci in una mano e l'altra su una spalla di
Enjolras.
«È da ieri a pranzo che non mangi?»
chiese il biondo, scrollando la spalla distrattamente per allontanare
la mano e precedendolo giù per le scale.
«No. Mi sono fatto portare qualcosa
per cena da Gavroche, ma stare tutta la notte alzato mette fame. E
Hogwarts non ti abitua a saltare la colazione.» rispose Grantaire.
«Hai passato la notte in bianco per
finire il quadro?» domandò Enjolras sconvolto mentre l'altro si
fiondava sulla mensola sopra il camino dove stava una brocca di
cioccolata calda ancora fumante e una piccola pila di tazze. Se ne
riempì una, sorridendo, e si rannicchiò sul divano.
Enjolras si sedette al suo fianco,
fissandolo, aspettando una risposta.
Grantaire scrollò le spalle. «Non è
la prima volta che lo faccio.» disse semplicemente, concentrandosi
poi sulla sua colazione.
«Dove hai imparato a dipingere?»
chiese Enjolras, più curioso che inquisitorio.
«Nella mia stanza.» rise Grantaire.
Enjolras lo guardò male. «Già a quattro anni riempivo casa mia di
disegni stupidi. Uno dei miei primi incantesimi involontari credo sia
stato proprio animare un disegno. Terrorizzai mio padre.» continuò
affogando il suo sorriso nella cioccolata calda. Enjolras continuava
a non essere soddisfatto della risposta.
«Poi al Musain ho seguito corsi di
pittura per anni. C'era un tipo piuttosto fuori di testa che ci
insegnava. Un genio assoluto. Credeva di aver inventato un
incantesimo per estrarre i colori dagli oggetti. Quando ce lo
insegnò, un ragazzo si distrasse nell'estrarre il colore da un pezzo
di torta e nessuno riusciva a capire da dove provenisse quel
penetrante odore di cioccolata. Poi scoprimmo che l'incantesimo era
molto più potente di quello che sembrava e poteva estrarre molte più
proprietà di un oggetto, oltre che il colore. Anche la sua stessa
essenza, se usato nel modo giusto. Ci divertimmo per un'intera estate
a disegnare cibo e fiori. Nessun altro se n'è mai accorto, ma il
costante odore di cibo nella mensa non proviene dalla cucina.»
raccontò in tono casuale.
«E io chi mi chiedevo chi diamine
aveste assunto per cucinare ad ogni ora del giorno e della notte!»
esclamò Enjolras sorpreso, e Grantaire rise.
«Una volta disegnai un campo di
lavanda per mia nonna. Mi concentrai un po' troppo e tutt'ora l'odore
è quasi insopportabile, ma lei dice di adorarlo.» aggiunse il
pittore, prendendo l'ultimo sorso di cioccolata e posando la tazza
sul tavolino basso di fronte al camino.
Enjolras gli sorrise intenerito, e lui
gli tirò una gomitata per farlo smettere.
«Non guardarmi come se fossi un
cucciolo di foca, ti prego.» disse.
«Scusami, è solo che è strano
sentirti dire certe cose. Ho sempre pensato che tu fossi un cinico
anaffettivo di natura.» rivelò il biondo, un po' imbarazzato.
«Seriamente? Dopo tutto questo tempo?»
Grantaire era piuttosto sconvolto. Offeso, quasi.
«Beh sì. Non ti sei mai lasciato
andare a grandi effusioni di affetto, dopo tutto. Anche quest'estate
al Musain non ti ho visto particolarmente dolce con nessuno. Ma forse
sono io.» si affrettò a rispondere Enjolras vedendo le sopracciglia
dell'amico aggrottarsi sempre di più.
Grantaire scrollò le spalle, cercando
di mostrarsi disinteressato. «Va be'. Non che sia davvero sorpreso.
Credo sia la prima volta in cinque anni che mi chiedi qualcosa di
personale.».
Enjolras aprì e richiuse un paio di
volte la bocca, incerto su cosa rispondere.
«Non puoi neanche dire che abbiamo mai
intrattenuto una vera conversazione, dopotutto. Se non conti le
discussioni dell'ultimo anno.» si risolse a dire. Grantaire,
nonostante tutto, sorrise. «È un peccato. È bello sentirti parlare
come una persona normale.». Stavolta fu il turno del biondo di
sentirsi offeso.
«Io sono una persona normale! E come
ogni persona normale dovrebbe fare, combatto per i miei diritti e per
i diritti dei più deboli!» esclamò, e Grantaire sospirò
esasperato. «Intendevo come un normale ragazzo di sedici anni che
non si sente in colpa per la sua condizione sociale.» ribatté, e fu
abbastanza soddisfacente vederlo arrossire.
«Non combatto perché mi sento in
colpa, combatto perché so che è giusto farlo, perché non lo fa
nessun altro!» si infervorò.
«Fare il lavaggio del cervello a
greggi di studenti tu lo chiami combattere? Ma fammi il piacere.»
quasi sputò Grantaire, irritato all'inverosimile.
Enjolras avrebbe voluto rispondere a
tono, ma la rabbia nel tono e nello sguardo dell'amico lo spinse a
desistere. Non voleva litigare. Non voleva turbarlo di nuovo. Almeno
non per Natale.
Sospirò, abbassò lo sguardo sul
tappeto tarmato, sospirò di nuovo.
«Non posso fare altro. Sono solo un
normale ragazzo di sedici anni.» disse in tono sconsolato
Nonostante la sua irritazione,
nonostante non se lo meritasse, Grantaire non riuscì ad evitare di
dispiacersi per lui. Lentamente, ma senza pensarci troppo, portò una
mano sul retro della sua testa, invitandolo delicatamente a girarsi e
a guardarlo.
«È proprio quello che intendevo,
Enjolras. È bello sentirti parlare come un essere umano.» disse in
tono calmo e comprensivo, facendo del suo meglio per ignorare la
stretta allo stomaco che quel contatto gli provocava.
«Perché di solito cosa sembro?»
chiese l'altro, ora con un mezzo sorriso.
Rha. Apollo. L'arcangelo Michele.
furono le risposte che attraversarono la mente di Grantaire come
proiettili, schiantandosi contro il suo autocontrollo e facendolo
vacillare pericolosamente.
Ritirò lentamente la mano e pensò a
un'opzione meno compromettente.
«Non so. Qualcosa a metà fra Martin
Luther King e Gesù.» borbottò, stemperando l'indecisione in una
mezza risata.
Anche Enjolras rise, scuotendo la
testa. «Eviterò di chiedere ulteriori spiegazioni, è meglio per
tutti.» disse, rubando un dolcetto dalla scatola di Grantaire e
alzandosi per andare a prendere il suo libro, riposto da chissà chi
sulla mensola del camino.
Passarono un paio d'ore di ozio totale,
Grantaire pisolando sul divano, Enjolras leggendo.
Di tanto in tanto il biondo incappava
in un passaggio che gli piaceva talmente tanto da doverlo leggere ad
alta voce, aspettandosi ogni volta una risposta da parte dell'amico
che fosse più di un mugolio distratto, e rimanendo puntualmente
deluso.
Quando scesero per pranzo, però, erano
entrambi svegli e emozionati, pregustando il banchetto di Natale.
Fedele alle aspettative, la Sala Grande
era magnifica. I tavoli erano ricoperti di cibo dall'aria squisita,
tacchini ripieni, ciotole di purè, piselli al burro e salse dense e
saporite alla carne e al mirtillo. Era decisamente troppo cibo per le
poche persone che c'erano, ma nessuno ci fece troppo caso, distratti
dalle montagne di crackers magici che spuntavano fra un vassoio e
l'altro.
Grantaire li aveva sempre un po'
snobbati, non era così divertente dividerli con dei
semi-sconosciuti, ma quando Enjolras gli porse l'estremità di uno,
sorridendo come un bambino, la tirò con entusiasmo.
Ne uscirono un paio di pantofole a
forma di testa di unicorno, seguite da una nuvola di brillantini
arcobaleno. «Sei moralmente obbligato a indossarle costantemente per
il resto della tua vita, sappilo.» rise Grantaire mettendole in mano
ad Enjolras.
Il secondo cracker che scoppiarono si
aprì facendo il suono di una pernacchia e ne uscì un gattino
microscopico, accompagnato da una serie di gomitoli di lana dai
colori assurdi. Il gattino corse via prima che riuscissero anche solo
a guardarlo per bene, lasciando la lana in mano a Grantaire.
«Sembri una vecchietta.» lo prese in
giro Enjolras. «Ti ci farò una sciarpa.» rispose Grantaire,
scuotendogli un po' di brillantini addosso.
Continuarono a giocare come due
bambini, riempiendosi di cibo, oggetti assurdi e tanti, tantissimi
brillantini.
Alcuni dei Corvonero amici di Grantaire
li raggiunsero e festeggiarono tutti insieme. Le bottiglie di vino al
tavolo dei professori erano già tutte vuote, così nessuno si
accorse dei ragazzi che cambiavano tavolo né tanto meno delle
bottiglie di vino travestite da succo di zucca che uno aveva tirato
fuori e stava versando nelle coppe di tutti.
A fine pasto, per smaltire la leggera
sbornia, tutti si imbacuccarono in sciarpe, guanti e mantelli e
uscirono.
Enjolras aveva in testa un cappellino
di lana trovato in uno dei cracker, su cui erano cuciti grossi fiori,
mentre Grantaire indossava un paio di guanti pelosi di una tonalità
di verde improponibile che lo facevano sembrare il grinch.
Una delle amiche di Grantaire, una
certa Samantha, possedeva una macchina fotografica e si divertì a
scattar loro foto imbarazzanti. Enjolras storceva il naso ogni volta
che sentiva il suono dell'otturatore, e Grantaire mandava occhiatacce
all'amica, anche se in realtà era più che felice di poter avere
qualche prova del tempo passato con Enjolras, aspettandosi di vederlo
diventare solo un ricordo lontano a vacanze finite.
Ad ogni modo, approfittando della neve
fresca, i due ragazzi passarono il tempo a fare pupazzi di neve che
assomigliavano ai loro amici e li fecero fotografare a Samantha, già
ridendo delle facce che avrebbero fatto i ragazzi non appena avessero
ricevuto le foto.
Tornarono dentro quando iniziò a fare
buio, tremando, appena in tempo per la merenda di Natale, composta
dagli avanzi del pranzo e fiumi di tè.
Quando caracollarono fino alla Torre di
Grifondoro, esausti e infreddoliti, non avevano neanche la forza di
pensare.
Giusto il tempo di cambiarsi che si
rannicchiarono sotto le coperte, gli occhi che già si chiudevano.
Prima di addormentarsi, Enjolras si
ricordò di una cosa.
«Ah, comunque, buon Natale.» mormorò.
Grantaire ebbe appena la forza per uno sbuffo di risata prima di
abbandonarsi al sonno.
▲▲▲▲▲
Oggi
posso farvi gli auguri per davvero! Buon Natale a tutti che siete
arrivati fino a qui, avete il mio amore imperituro, seriamente.
Ringrazio di nuovo Dark Shines per aver recensito, mi hai resa una fanwriter più felice.
Non ringrazio invece la mia poca
ispirazione e la mia infiammazione alla gola che stanno lottando per
non farmi scrivere i prossimi capitoli. Spero di vincerli e di riuscire
a farveli arrivare tutti puntuali come promesso.
Ancora auguri.
A domani,
Piuma_
|
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Capitolo 4 *** 26.12 ***
2612
▲▲▲▲▲
Erano di nuovo sul divano. Alcune
ragazze del terzo anno li guardarono male, prendendo delle poltrone e
portandole vicino a una finestra. «Ma guarda questi che
monopolizzano la sala comune. Se ne andassero in dormitorio a fare i
piccioncini.» borbottò una. Enjolras neanche la sentì, leggeva, ma
Grantaire non poté che sorridere.
Sembravano una coppia. Il suo
sorriso si incrinò quando si ricordò che non lo sarebbero mai
stati.
Mosse pigramente la bacchetta, mormorando un incantesimo,
in direzione dei ferri da maglia che lavoravano a mezz'aria. Il filo
iniziò a cambiare colore a tratti, creando delle figure che
assomigliavano a renne, rosa su verde pistacchio.
Enjolras gli
lanciò un occhiata e si accigliò, in parte di nuovo sorpreso
dall'abilità di Grantaire con certi incantesimi, in parte
chiedendosi chi mai si sarebbe messo quella sciarpa orrenda.
Riabbassò lo sguardo sul libro prima che Grantaire si accorgesse
della sua distrazione e parlasse. Non aveva voglia di parlare, non
oggi.
Grantaire sbuffò, cambiando posizione sul divano. Si stava
annoiando e non c'era abituato affatto.
Era quasi tentato dal
prendere i ferri e continuare il lavoro a mano, ma i suoi incantesimi
erano più bravi di lui, non volendo rovinare il lavoro si risolse
nell'andare a prendere il suo album da disegno.
Quando tornò giù
dal dormitorio, una ragazza aveva preso il suo posto e stava parlando
con Enjolras, il quale stava perfino sorridendo.
Sentì una fitta allo stomaco, come se
qualcuno glielo stesse stringendo fra le mani.
Qualcosa gli suggerì che fosse
gelosia, tremenda gelosia, ma decise di rivolgerla al posto perduto
piuttosto che all'amico che lo aveva ignorato tutta la mattina e che
adesso era così loquace con questa sconosciuta appena arrivata.
Ad ogni modo, decise di ignorarla,
accettando la decisione del suo posto di accogliere il di dietro di
qualcun altro, pensando che si sarebbe seduto per terra, comunque, e
andò a prendere posto sul tappeto, appoggiando la sua roba al
tavolino.
Si sforzò di non guardare né sentire
i due che chiacchieravano appena sopra di lui.
Ci riuscì per una discreta quantità
di tempo, abbastanza per riuscire a concentrarsi sul disegno e quasi
a dimenticarli, quando Enjolras ebbe la pessima idea di ridere,
facendogli girare la testa di scatto.
La ragazza era seduta sul divano in un
modo oscenamente strategico che Grantaire studiò a metà fra il
disgusto e l'ammirazione. Teneva le gambe piegate in modo che la
gonna salisse il più possibile senza però essere volgare, il busto
girato per tre quarti, le spalle strette, a darle un'aria timida, una
mano sulle sue stesse gambe e l'altra appoggiata sul divano, protesa
verso quelle di Enjolras.
I capelli lunghissimi erano raccolti in
un'altrettanto lunga treccia che, portata davanti, scendeva lungo il
suo petto decisamente troppo scoperto per la stagione.
Grantaire la detestò con furore per
qualche secondo prima di notare la sua espressione: i suoi occhi
brillavano, le sue labbra erano piegate in un perenne sorriso che
poteva apparire dolce ad un occhio disattento, ma che, ad una seconda
occhiata, si riconosceva perfettamente come inebetito.
Ogni traccia di rabbia o gelosia
sparirono. La capiva perfettamente, la compativa anche un po'. Era
una compagna in quel dolore, un'altra povera vittima della perfezione
di Enjolras.
Rivolse allora lo sguardo e
l'irritazione all'amico. Quell'inconsapevole bastardo.
Enjolras sorrideva con gentilezza,
rideva con educazione, ma i suoi occhi erano vuoti. Grantaire lo
sapeva bene. L'aveva visto succedere decine di volte negli ultimi
anni. Niente toccava il cuore di Enjolras tranne i suoi ideali.
Niente era altrettanto bello ai suoi occhi, niente poteva
soddisfarlo.
La ragazza si stava complimentando con
lui per l'ultimo discorso fatto, dicendo che non aveva mai avuto
abbastanza coraggio per venire a parlare con lui, e lui stava
ridendo, dicendole che non doveva avere paura del cambiamento.
La povera fanciulla forse sentì lo
sguardo di Grantaire addosso, perché riuscì a distogliere il suo da
Enjolras per guardare il ragazzo seduto sul pavimento.
Enjolras guardava il suo libro,
inconsapevole, e i due si scambiarono una breve conversazione muta.
Grantaire scosse leggermente la testa, sinceramente dispiaciuto, e la
ragazza non sorrideva più. I suoi occhi erano imploranti, come a
chiedergli aiuto. Grantaire la guardò come a dire "non c'è
niente da fare". Lei rispose con un "e tu allora?" e
lui alzò le spalle, scuotendo di nuovo la testa, con un sorrisetto
triste.
Lei capì quello che c'era da capire.
«Va be', torno al mio posto. Credo che
mi fermerò più spesso a sentire i vostri comizi.» disse ad
Enjolras, di nuovo sorridendo. Lui neanche le rispose, limitandosi ad
annuire con una certa soddisfazione, come se avesse guadagnato
qualcosa, prima di tornare al suo libro.
Lei si alzò e, sconsolata, raggiunse
di nuovo le sue amiche, che si trattenevano a stento dal ridere.
«Enjolras, ti giuro, sei una persona
orribile.» commentò Grantaire, tornando al suo disegno. Enjolras si
degnò di guardarlo, per la prima volta nell'intera mattinata
«Che ho fatto stavolta?» disse,
acido. «Niente, niente, al solito. Un giorno capirai.» rispose
brevemente Grantaire.
Cadde il silenzio. Ognuno continuò a
farsi gli affari propri.
Enjolras voltò una pagina con forza,
quasi strappandola. Una voce nella sua testa gli urlò che era un
idiota. Lui le dette ragione.
Non voleva trattare male Grantaire.
Davvero, era l'ultima delle sue intenzioni. Avrebbe voluto strappare
via quello sguardo perennemente deluso dal suo volto. Avrebbe voluto
vederlo sorridere come nei giorni passati.
Ma ogni volta che anche solo pensava di
rivolgergli la parola, il suo stomaco si contorceva e sentiva caldo e
allora lasciava perdere. Era stressante. Si chiese quanto ci avrebbe
messo a fare pace con il suo subconscio e a lasciare che la realtà
gli ritornasse presente e sicura davanti agli occhi.
Se solo ci fosse stato un modo per
dimenticarsene o almeno per essere sicuro che fosse stato davvero
solo un sogno innocente, che non lo riguardasse.
Se solo non fosse stato così
realistico da tornargli in mente alla perfezione ogni volta che
guardava Grantaire.
Se solo avesse potuto tornare ad
ignorare i piccoli dettagli che neanche sapeva di conoscere prima di
quella notte.
Il lento ondeggiare dei suoi riccioli,
la ruga di concentrazione fra le sue sopracciglia, la tensione dei
muscoli delle sue mani nello stringere la matita, il modo in cui i
vestiti si tendevano sulle sue spalle e le sue labbra si arricciavano
inconsapevolmente quando era assorto in qualcosa.
Tutto era tornato alla perfezione nel
suo sogno, tutto gli era sembrato così vero.
Arrossì di nuovo nel ripensarci, il
suo stomaco si strinse di nuovo.
Se solo non gli fosse piaciuto così
tanto...
Grantaire dovette aspettare fino a metà
pomeriggio perché Enjolras gli rivolgesse di nuovo la parola.
Era sparito poco prima di pranzo senza
dire niente, lasciando Grantaire da solo con la sua noia e il
terribile dubbio di aver fatto qualcosa di orrendamente sbagliato.
Nel primo pomeriggio, appena risaliti dalla Sala Grande, la
sfortunata ragazza innamorata di Enjolras si avvicinò a Grantaire
con l'intenzione di chiedergli spiegazioni, ma quando si avvicinò e
vide il foglio che il ragazzo aveva davanti, pieno di bozze del volto
di Enjolras, non ebbe bisogno di domandare niente se non «Sai per
caso chi di noi due ha meno speranze?».
Grantaire si voltò di scatto a quelle
parole, ma sorrise con dolcezza non appena la vide.
«Non sono mai riuscito a capirlo. Ha
sempre rifiutato tutti nello stesso modo.» rispose con tranquillità.
Lei abbassò la testa e se ne andò
senza aggiungere altro.
Grantaire rimase da solo, seduto sul
tappeto, il fuoco come unica compagnia. Chiuse l'album e andò a
sdraiarsi sul divano.
A qualche decina di centimetri da lui,
fluttuanti a mezz'aria, ticchettavano ancora i ferri che aveva
stregato, instancabili, disegnando composizioni di fiocchi di neve,
renne e trecce di un ridicolo rosa confetto. La sciarpa era già
lunga quasi un paio di metri probabilmente, ma Grantaire non aveva
voglia di fermare il lavoro.
Osservò per un po' i due bastoncini di
ferro muoversi in perfetta armonia mentre i gomitoli, appoggiati sul
pavimento, quelli che erano usciti dal cracker magico del giorno
prima, diminuivano più in fretta di quanto sperato.
Il silenzio della sala comune era rotto
solo dallo scoppiettare del fuoco, il ticchettare dei ferri e il
sussurrare sommesso di un paio di studentesse dall'altra parte della
stanza.
Grantaire si addormentò senza neanche
accorgersene.
Qualche ora dopo, qualcuno lo scosse
per una spalla con delicatezza ma decisione, chiamandolo in tono
sommesso.
«Grantaire...Grantaire svegliati, dai.
È quasi ora di cena.» mormorava.
Il ragazzo aprì lentamente gli occhi,
sbadigliando rumorosamente, e per poco non gli prendeva un infarto a
trovarsi il volto sorridente di Enjolras così vicino.
«Ehi! Mi hai spaventato.» disse,
tirandosi su e stiracchiandosi. La schiena e il collo gli facevano un
male terribile. Maledì mentalmente i divani e la loro falsa comodità
prima di rivolgersi all'amico, il quale, nel frattempo, si era seduto
al suo fianco.
«Dove sei stato tutto questo tempo?»
domandò con la voce ancora impastata di sonno, strofinandosi gli
occhi.
«In giro.» ripose Enjolras, vago, con
un sorriso nella voce. Grantaire lo guardò male, facendolo ridere.
Dato che non aggiungeva altro,
Grantaire andò a sistemare il suo lavoro a maglia che, mentre lui
dormiva, era andato avanti fino a stancarsi e rifiutarsi di lavorare.
I gomitoli, che aveva scoperto essere praticamente infiniti,
giacevano per terra insieme ai ferri e a una sciarpa lunga diversi
metri.
La raccolse da terra, ripiegandola fino
a farla diventare un voluminoso gomitolo che appoggiò sul tavolo,
poi tornò a sedersi sul divano, dove Enjolras era stato tutto quel
tempo a fissare il vuoto, immobile.
«Senti.» proruppe il biondo, tradendo
un po' di indecisione nel tono tremante. Grantaire aspettò.
«Lo so che i regali non dovrebbero
portare nessun obbligo, che non ce n'era bisogno, che davvero non
importava, ma non mi sembrava giusto comunque. Non è niente di che,
niente di altrettanto bello, avrei voluto farti qualcosa a mano ma
non sono capace, non so fare niente tranne parlare, quindi ho risolto
nel darti qualcos'altro di mio, di me. Dio, sembro così egocentrico,
non so neanche perché ti dovrebbe interessare.» continuò,
incespicando nelle sue stesse parole, prendendo fiato troppo spesso.
Grantaire continuò ad aspettare, trattenendo a fatica un ghigno.
«Niente, okay. Buon Natale, di nuovo.
Questo è il mio regalo.» concluse tirando fuori da una borsa un
pacchetto e porgendolo a Grantaire, che si lasciò finalmente
sorridere.
La carta era decorata con piccoli
alberi di natale stilizzati, bianchi su rosso. Grantaire la strappò
senza troppe cerimonie, rivelando due volumi al suo interno. Uno era
un libro piuttosto vecchio, con la copertina leggera graffiata in più
punti e con gli angoli consumati, intitolato Rivoluzioni Francesi:
la magia del tricolore. L'altro era un quadernino a spirale dalla
copertina rigida e nera e le pagine completamente bianche di carta di
alta qualità. Attaccato ad esso mediante un elastico stava una
matita di una marca magica rinomata per le sue mine praticamente
indistruttibili.
Grantaire sfogliò il libro, inspirando
il delicato odore di carta stampata e sorridendo, scuotendo
leggermente la testa. C'erano un sacco di passaggi sottolineati o
evidenziati e di annotazioni a margine con svariate matite e penne
diverse.
«È uno dei miei libri preferiti. Ho
pensato che avrebbe potuto aiutarti a capirmi. È una cosa
terribilmente egocentrica. Sei autorizzato a bruciarlo. Mentre in
quaderno, beh, ho pensato potesse piacerti. Lo avevo comprato diverso
tempo fa prima di ricordarmi che non so né disegnare né scrivere.
Sta meglio in mano tua.» spiegò nervosamente Enjolras in assenza di
risposta da parte dell'amico.
Grantaire alzò lo sguardo sorridendo.
«Sei un coglione.» mormorò. Poi, d'impulso, agendo prima di
riuscire a pensare, lo abbracciò. Dopo un secondo di rigidità
Enjolras portò le braccia intorno alla vita dell'altro e si lasciò
andare, sciogliendosi nell'abbraccio.
Enjolras constatò
con soddisfazione di non sentirsi più in imbarazzo, nonostante non
potesse dimenticare il sogno. Era stato, appunto, solo un sogno. Uno
scherzo della sua stanchezza. Non sarebbe mai potuto succedere nella
vita reale, non era interessato a cose del genere con altri,
figuriamoci con Grantaire.
Concentrandosi sul suo non disagio fu
abbastanza facile ignorare l'ondata di calore che investì il suo
basso ventre non appena sentì il corpo dell'amico così vicino, e
ancora più facile incolpare la fame per la stretta allo stomaco che
ebbe quando Grantaire si staccò da lui.
Andava tutto bene. Ogni cosa era
assolutamente sotto controllo.
Entrambi si rilassarono sul divano,
osservando il fuoco, Enjolras immerso nella sua soddisfazione,
Grantaire sul punto di alzarsi e iniziare a cantare ballate
romantiche.
Dopo un po', Enjolras si riscosse e
indicò la pila di lana sul tavolino come se la vedesse solo in quel
momento.
«Cos'è quella...cosa?» domandò,
dubbioso.
«Ah! Il mio mantenere promesse. Più o
meno. Ti avevo detto ieri che ti avrei fatto una sciarpa.» rise
Grantaire, prendendola in mano. Enjolras ci mise un po' a ricordare,
poi collegò la lana ai cracker e rise anche lui. «Dai, sei
ridicolo. È orrenda!» commentò, scherzoso.
«Guarda che mi offendo. È solo un
po'... fuori misura.» disse Grantaire con un finto broncio,
svolgendola dal gomitolo in cui l'aveva pressata.
«Potresti dividerla e condividere la
mia vergogna.» propose Enjolras, ma ci sperava poco.
«Sei tu quello freddoloso qui. La
divido, ma non per me.» dichiarò seriamente Grantaire.
Eseguì una serie di complicati
movimenti con la bacchetta, borbottando un incantesimo dietro
l'altro. Tempo un paio di minuti e la sciarpa era stata accorciata di
diversi metri, diventando di una misura plausibile, mentre la lana
avanzata era di nuovo fra i ferri e stava velocemente diventando un
cappello.
Grantaire ghignò come un bambino che
ha appena fatto uno scherzo a una maestra, prese la sciarpa e iniziò
ad avvolgerla intorno al collo di Enjolras. Riuscì a fare quattro
giri completi e a chiuderla senza soffocarlo, cosa che ritenne una
grande vittoria.
«Ti sta benissimo.» disse, reprimendo
una risata. «Si sposa divinamente con i tuoi capelli.» dovette
premersi una mano sulla bocca per non ridere.
«Non voglio neanche immaginare.»
mugugnò la povera vittima, lottando per togliersi quell'orrore di
dosso.
Rimasero a becchettarsi in modo
scherzoso sulle rispettive scelte di stile fino a quando il cappello
non fu finito. Grantaire voleva che Enjolras se lo provasse, ma non
poté lottare per molto perché il biondo si alzò di scatto un
attimo prima di perdere.
«Devo andare in bagno. Porto questa
roba su e poi scendiamo a cena, sì? Perfetto.» disse in fretta,
prendendo il suo nuovo completo e il regalo fatto a Grantaire e
avviandosi verso le scale.
«Non sperare di liberartene! Posso
sempre rifarli!» gli gridò dietro Grantaire, ridendo.
Si lasciò andare contro lo schienale
del divano, sospirando profondamente, un sorriso ebete stampato sul
volto.
Sentì distintamente il rumoroso
singhiozzo che proruppe dall'altra parte della stanza e dei passi che
correvano su per le scale del dormitorio femminile, li associò con
facilità a quella povera ragazza probabilmente ferita a morte da
quanto appena visto, ma non riuscì davvero a sentirsi triste per
lei.
Dopotutto lui era arrivato prima, aveva
più diritti su Enjolras, se così poteva dire.
E, in ogni caso, non gli importava
davvero di nient'altro quando poteva stare con lui così vicino, così
sereno, ed essere felice della sua vita, una volta tanto.
Quando Enjolras tornò nella sala
comune e gli sorrise, aspettando che si alzasse per aprire il
ritratto e uscire, Grantaire si sentì per fino fortunato.
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Capitolo 5 *** 1368 ***
ifdhgjut
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Quella mattina, il solito
gruppo di ragazze del terzo anno si sorprese quando entrò nella sala
comune a metà mattinata e trovò il divano libero.
Se fossero andate in
biblioteca in quel momento, avessero svoltato a sinistra fino ad
arrivare al reparto di Babbanologia e lo avessero percorso fino
all'unico, sgangherato tavolo che c'era in quella zona, avrebbero
trovato Enjolras e Grantaire, assonnati e silenziosi, chini sui
libri.
A dire il vero, solo
Enjolras stava davvero studiando.
Aveva accanto una pila di
manuali di tecnologia babbana e si stava impegnando a scrivere mezzo
metro di tema.
Grantaire stava piuttosto
cercando di non addormentarsi sul suo dizionario di Rune Antiche, o
almeno di evitare di sbavare sulla traduzione che stava facendo.
Quella mattina, i due
ragazzi si erano alzati presto e si erano ricordati di essere al
quinto anno, a metà delle vacanze, e di non aver ancora aperto
libro.
I G.U.F.O. incombevano, e
c'erano appunti da sistemare, vecchi libri da rileggere, lezioni dei
primi anni da riguardare, e in più i compiti assegnati per le
vacanze.
I questionari simil-esame di
Trasfigurazione e Incantesimi non si sarebbero fatti da soli,
dopotutto.
«Quanto ti manca? Dovremmo
fare anche almeno uno dei tre temi di Pozioni.» chiese Grantaire,
scuotendo la testa nel tentativo di scacciare il sonno e cercando una
runa.
«Venti centimetri circa,
anche meno.» rispose Enjolras, prendendo un altro manuale.
Grantaire lo guardò e non
riuscì ad evitare di sorridere vedendolo così concentrato.
Enjolras era uno dei pochi,
pochissimi studenti nell'intera Hogwarts che davvero si impegnasse
nei temi, specialmente in quelli di Babbanologia.
Essendo nato e cresciuto in
una famiglia di maghi, nonostante i tanti amici Nati Babbani e
Mezzosangue, ci teneva davvero ad andare bene in quella materia che
la maggior parte della gente riteneva completamente inutile. Voleva
conoscere quello per cui combatteva, dopo tutto.
Delle altre materie
facoltative seguivano solo Cura delle Creature Magiche, giusto per
avere l'opportunità di distrarsi un po' fra le lezioni. Al terzo
anno avevano iniziato anche Aritmanzia, ma l'avevano mollata tutti
dopo poco, una volta constatato quanto difficile e decisamente poco
utile fosse.
Grantaire tornò un po' a
fatica alla sua traduzione.
Era già la quarta che
faceva, e l'aveva quasi finita. Dopo tre anni era diventato
abbastanza bravo, complice anche il fatto che fosse una delle poche
materie che lo interessassero davvero, e riusciva a tradurre interi
paragrafi senza guardare al dizionario neanche una volta.
Era come studiare Greco
antico e Latino classico insieme, cosa che faceva nel suo tempo
libero durante l'estate, serviva memoria, concentrazione e logica.
Doveva trascrivere le rune in alfabeto latino, ricostruire le frasi
secondo la sintassi inglese e poi tradurre. Un procedimento
macchinoso se fatto passo passo, ma una volta colto il sistema veniva
piuttosto facile, sopratutto con l'aiuto del suo quaderno di tabelle
e schemi, elaborato già al terzo anno e ormai indispensabile.
Finì la traduzione e la
spostò di lato ad asciugare, mentre iniziava la quinta. Enjolras
sembrava ancora lontano dalla conclusione, notò quando lo vide
cancellare con la bacchetta diverse righe e sfogliare freneticamente
un libro.
Sospirò. E meno male che
erano in vacanza.
Il pomeriggio Grantaire si
rifiutò categoricamente di tornare a rinchiudersi in biblioteca,
avevano già fatto ben due temi di Pozioni, e trascinò Enjolras
fuori dal castello.
Lo aveva costretto a
mettersi la sciarpa e il cappello regalati il giorno prima, e fu
felice di vedere che Enjolras non se la prese troppo quando i suoi
amici risero di lui.
L'accostamento dei colori
fluo con i suoi capelli dorati unito al rosso vivo del suo mantello
faceva quasi male agli occhi, ma Grantaire non riusciva a smettere di
guardarlo.
Iniziarono una battaglia di
palle di neve, e il povero innamorato se ne beccò fin troppe a forza
di distrarsi a guardare Enjolras sorridere con la neve fra i capelli,
e ridere spensierato, e giocare come un bambino ed essere
semplicemente l'essere più bello che Grantaire avesse mai visto.
Samantha cercava di sfuggire
alla battaglia e scattava foto a chiunque, ridacchiando ogni tanto
nell'incrociare lo sguardo di Grantaire.
Gli altri continuarono a
combattere, incuranti del freddo e della neve che si infilava sotto
ai mantelli e dei capelli e i vestiti bagnati.
Tutti persero il conto delle
cadute, dei colpi presi e mandati a segno, della neve mangiata nel
tuffarcisi dentro. Era un tutti contro tutti all'ultimo respiro.
Si fermarono solo quando si
fece buio e il cielo si aprì di nuovo, mandando altra neve. Allora,
tremanti ma felici, rientrarono tutti insieme per la cena.
Il calore della Sala Grande
non era niente rispetto a quello che trovarono quando risalirono
ognuno alle proprie torri.
Per quanto la neve fosse
bella e stare fuori fosse liberante, non c'era niente come
raggomitolarsi davanti al fuoco fino a sentire la pelle bruciare.
Andarono a dormire di nuovo
sfiniti e sorridenti, e perfino Enjolras non riuscì a pensare a
niente di serio o importante quella sera.
«Non pensavo che dei
Corvonero potessero essere così divertenti.» rise buttandosi sul
letto.
«Dovresti vederli fuori
scuola. Sono ancora più pazzi.» rispose Grantaire con un sorriso
affettuoso, infilandosi sotto le coperte e sbadigliando
rumorosamente.
«Vorrei che queste vacanze
non finissero mai.» mormorò Enjolras, già mezzo addormentato.
Grantaire non aveva la forza
di parlare, e forse fu una fortuna perché tutto quello che avrebbe
voluto dire era «Vorrei non dover tornare a condividerti con gli
altri.» e poteva rovinare l'atmosfera.
Si addormentarono senza
neanche chiudere le tende dei baldacchini.
Nel sonno, nella notte, una
mano di Enjolras scivolò da sotto le coperte e si tese per un attimo
verso Grantaire e strinse il vuoto, come a cercarlo, come a volerlo
afferrare, prima di ricadere a peso morto ed essere ritirata al caldo
sotto il piumone.
I giorni seguenti passarono
più o meno allo stesso modo.
La mattina studiavano,
riguardandosi appunti a vicenda, scambiandosi schemi, spiegandosi
vecchie lezioni.
In cinque anni Enjolras non
si era mai accorto davvero di quanto Grantaire andasse bene a scuola
e di quanto gli piacesse studiare. Si era aspettato una grande
confusione di appunti presi a metà e compiti fatti senza troppo
sforzo, rimase perciò basito davanti a interi quaderni di tabelle e
schemi precisi ai limiti dell'assurdo.
«Dove hai trovato il tempo
di fare tutta questa roba?» chiese, sfogliando estremamente
dettagliate relazioni su pozioni fatte in classe.
«Hai presente quando voi
fate finta di studiare e non vi zittite un secondo? Ecco, io in quei
momenti studio davvero.» disse, sorridendo.
Enjolras arrossì ed evitò
di rispondere.
Grantaire ebbe il piacere di
lasciarlo sbigottito fin troppe volte, correggendogli temi,
strappandogli intere pagine di appunti sbagliati o incompleti, o
interrompendolo almeno un centinaio di volte mentre ripeteva.
L'unica materia in cui
Enjolras andava meglio era Difesa contro le Arti Oscure e solo perché
Grantaire la reputava inutile per la vita reale.
«Dai, seriamente pensi che
quella roba serva a qualcuno se non agli Auror?» gli aveva chiesto,
ed Enjolras non aveva voluto rispondere.
Di pomeriggio Grantaire gli
proibiva di aprire un qualsiasi libro di testo, trascinandolo fuori.
Le altre persone non erano
che contorno, cornice alla loro serenità, quando giocavano nella
neve come due bambini, spintonandosi e infilandosi pezzi di ghiaccio
nei vestiti, insultandosi sorridendo e tirandosi palle di neve
Entrambi avrebbero potuto
giurare di non essersi mai visti così felici, di non essere mai
stati così a lungo senza discutere e urlarsi contro ed esasperarsi a
vicenda.
E la sera, di solito, la
passavano in sala comune, Enjolras sul divano a leggere e Grantaire
sul tappeto a disegnare.
Generalmente parlavano poco.
Enjolras leggeva qualche passaggio ad alta voce e Grantaire lo
commentava distrattamente. Grantaire di tanto in tanto imprecava, per
una matita spuntatasi all'improvviso o per un punto che non gli
veniva come doveva, e Enjolras si sporgeva a vedere, trattenendo i
complimenti.
Una sera fecero tardi a bere
cioccolata calda e a parlare, seduti di lato ai capi opposti del
divano, le gambe quasi intrecciate, le voci basse e il fuoco come
unica luce.
Grantaire aveva di nuovo
parlato di sé, spinto dalle domande dell'amico, e aveva osservato i
suoi occhi cambiare luce, cambiare modo di guardarlo.
Aveva raccontato della sua
infanzia, dei suoi genitori, di sua nonna. Dei litigi, della scoperta
dei suoi poteri, delle lacrime di sua madre davanti alle sue prime
magie involontarie, delle urla di suo padre ogni volta che lo vedeva.
Delle notti passate a piangere e a non capire, del sentirsi
sbagliato, del voler scappare. Della prima estate al Musain, dei
primi amici, del sentirsi per la prima volta nel posto giusto, di
capire che il suo era un dono, non un errore.
Enjolras ascoltava rapito
quel fiume di ricordi e confessioni che mai avrebbe potuto
immaginare, e si stupiva di continuo, e si commuoveva talvolta.
«Mia nonna avrebbe voluto
adottarmi definitivamente, ma mia madre non glielo permise.
Minacciava di suicidarsi se avesse chiamato i servizi sociali.
Sosteneva che io avevo bisogno di stare con i miei genitori, che papà
si sarebbe calmato col tempo, che avrebbe capito e saremmo stati
felici. Mi sono ritrovato a dover scappare di casa. A volte potevo
stare via per giorni prima che se ne accorgessero, dato che lei
beveva e lui non era altro che contento di non avermi fra i piedi.
Andavo da mia nonna con lo zaino di scuola e un cambio di vestiti e
stavo da lei, e potevo stare sereno per un po', prima che venissero a
riprendermi. Quando lo facevano, iniziavano ad urlare contro mia
nonna, dicendo che voleva rubarmi, privarmi della mia famiglia. Io
non potevo sopportarlo. Una volta feci saltare in aria la macchina
per la rabbia. Mio padre mi picchiò così a lungo che si slogò un
polso.»
Enjolras era allibito.
«Quando arrivò la lettera
da Hogwarts, mio padre non voleva mandarmi. Diceva che non aveva
alcuna intenzione di pagare per mandarmi in una scuola ad imparare ad
essere un mostro. Il Musain mi ha salvato. Il direttore andò a
parlare con mia nonna e, insieme, chiesero aiuto alla scuola. Lo sai
che Hogwarts ha un fondo per gli studenti in difficoltà? Sia di
soldi che di materiale. E aiuta anche a trovare lavori estivi per
metter da parte qualcosa. L'estate fra il primo e il secondo anno
l'ho passata a fare lo smista posta al Ministero. Fra i gufi e quei
maledetti aeroplanini di carta non so come ho fatto a non perdere
neanche un occhio. Però sono riuscito anche a fare pubblicità al
Musain, non era poi così difficile stregare fogli di carta e farli
volare, alla fine. Ho fatto l'inventario in quasi ogni negozio di
Diagon Alley, lavato piatti e pavimenti in qualsiasi bar e
ristorante. Nel mondo babbano non sarebbe stato molto legale, ma lì
nessuno ci ha mai fatto troppo caso. La cosa migliore è sempre stata
conoscere altri ragazzi come me, sentire le loro storie, cercare di
aiutarli attraverso la mia. E raccogliere fondi per il Musain,
costantemente.»
«Quel centro è casa mia.
Lo staff, i volontari, i ragazzi che lo frequentano da una vita, sono
la mia famiglia. Non vi ho mai davvero detto quanto è stato
importante avervi lì quest'estate. Hogwarts è l'unico altro posto
dove mi sento al sicuro, e vedere riuniti gli unici due punti saldi
della mia vita evo ammettere che è stato un colpo abbastanza forte.
Siete riusciti a farmi sentire fortunato, una volta tanto.» e
Grantaire distolse lo sguardo, imbarazzato. Enjolras sorrideva.
«Credo di iniziare a capire
il tuo punto di vista, perché sei così scettico verso i nostri
ideali, verso la mia voglia di rivoluzione. Ma so che sai che non
tutti sono come tuo padre. Alcuni dei nostri ne sono la prova, tipo
Cosette o Jehan. O anche tua nonna stessa. Capisco che dopo aver
sentito così tante storie e dopo tutto quello che hai vissuto in
prima persona ti sia difficile crederci, ma le persone possono
cambiare. La società può cambiare, se ci mettiamo d'impegno. Ma se
non iniziamo neanche come si può pretendere di arrivare a un
qualsiasi risultato? Poi, una volta iniziato, potrebbe anche fallire
tutto, ma cosa costa provare?» e, una volta tanto, Enjolras era
calmo.
Stava parlando da amico, non
da leader, con il cuore in mano, non attraverso il fuoco della
rivoluzione.
«Costa una vita di
delusioni» era la risposta di Grantaire, prevedibile.
«Ma tutto può cambiare. La
tua vita è cambiata quando hai conosciuto il Musain, poi quando hai
conosciuto Hogwarts. Potrà farlo di nuovo, se riesci a trovare il
coraggio di buttarti. Potresti provare una volta in più e magari
vedere che questa volta va finalmente bene. Ma se non provi neanche,
come puoi saperlo?» ribatté Enjolras, sporgendosi in avanti
appoggiandosi alle ginocchia di Grantaire e guardandolo dritto negli
occhi.
Lo scettico si sentì girare
la testa per un attimo. Aveva creduto di vedere un lampo negli occhi
dell'amico, di sentire qualcosa nella sua voce che, per un secondo
almeno, lo aveva fatto sperare in un senso nascosto nelle sue parole.
Ma si era chiaramente sbagliato.
Si sentì stupido e
improvvisamente molto stanco.
«È che non riesco davvero
a crederci.» rispose tristemente prima di accorgersi che si erano
fatte le tre e di proporre di andare a dormire.
Il giorno successivo fu come
se niente fosse successo. O quasi.
Non tirarono di nuovo fuori
l'argomento, ma Enjolras si comportava in modo strano.
Mentre studiavano si fermava
per interi minuti a fissarlo, in completo silenzio, e abbassava lo
sguardo ogni volta che Grantaire lo alzava per chiedergli cosa
volesse.
Fra metà mattinata e metà
pomeriggio riuscirono a finire tutti i compiti delle vacanze.
Rimandarono ulteriori ripassi all'anno nuovo, quando sarebbero
tornati i loro amici e avrebbero potuto confrontarsi meglio.
Quando uscirono dalla
biblioteca Grantaire tirò un sospiro di sollievo. Non aveva mai
sentito tanta tensione fra loro e non riusciva a capire se fosse
positiva o meno. Nel dubbio, fece di tutto per evitarla, andando nel
parco a cercare i suoi amici, ma Enjolras continuò ad essere
distratto per tutto il giorno, bloccandosi con lo sguardo perso nel
vuoto immerso in chissà quale lontano pensiero.
Grantaire fece del suo
meglio per non farci caso, richiamandolo ogni volta che lo vedeva
assorto, facendo di tutto per farlo parlare o ridere, o anche solo
reagire con qualcosa di più che un sorrisetto. A sera era spossato e
non aveva risolto niente.
«Com'è possibile che ti
conoscessi così poco fino ad una settimana fa?» gli domandò
Enjolras dopo ore intere di silenzio passate a fissare il suo libro,
sfogliandolo troppo raramente per dare davvero l'impressione di star
leggendo.
«Perché sei un idiota.»
rise Grantaire, cercando di provocargli una qualche reazione.
Tutto inutile. «Già.
Probabilmente lo sono, sì.» fu tutto quello che riuscì a tirargli
fuori.
Era ufficialmente
terrorizzato.
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Capitolo 6 *** New year's eve. ***
New year's eve.
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«No, non capisci!»
esclamò Enjolras, furioso.
«Non mi stai neanche
ascoltando!» rispose Grantaire, altrettanto arrabbiato.
I respiri di entrambi si
condensavano nell'aria fredda, facendoli assomigliare vagamente a due
tori pronti a caricare l'uno contro l'altro.
«Ho sentito abbastanza!
Tiri fuori sempre gli stessi argomenti del cazzo su come la gente non
abbia speranza, né forza di sognare e neanche la minima volontà di
combattere. E se non fosse vero? E se non tutti fossero come te?»
sputò con cattiveria Enjolras. Grantaire rimase un attimo spiazzato.
«Tu non sai...» cominciò
a rispondere, ma l'attivista lo bloccò subito.
«Io non so mai niente.
Davvero credi che non sappia cosa sia la povertà solo perché non
l'ho provata io stesso? Credi che la mia solitudine sia inferiore
alla tua? Che il rifiuto della mia famiglia sia solo uno scherzo? O
forse che io parli giusto per prendere aria? Non è così, Grantaire,
non ci sei solo tu al mondo e non solo tu hai problemi. Capiscilo una
volta per tutte.» stringeva forte i pugni, affondando le unghie
nella lana dei guanti, come se si stesse trattenendo dal prendere a
pugni l'avversario.
«Non ci sono solo io, no.
Ci sono altre decine di migliaia di persone esattamente come me,
però. Tu non riesci a concepire che esista qualcuno che non riesce a
credere in qualcosa come tu fai. Qualcuno reso scettico dall'evidenza
che il mondo fa schifo e continuerà a fare schifo, che le
rivoluzioni finiscono consumate dallo stesso fuoco che le aveva
iniziate, che potrai occupare anche tutte le piazze del mondo con i
tuoi cori e i tuoi striscioni, ma chi sta in alto ti sputerà sempre
addosso senza neanche dover prendere la mira.» gridò Grantaire per
tutta risposta. Aveva ancora sulle mani le tracce della palla di neve
che aveva iniziato quella discussione.
Voleva essere una battuta
innocente, la sua. Non ci aveva neanche pensato. Se solo Enjolras non
fosse stato così odiosamente suscettibile. Se solo Grantaire fosse
riuscito a chiedere scusa in tempo, prima di arrabbiarsi.
«No che non lo capisco,
per Dio. Come potrei? Mi risulta completamente inconcepibile che
qualcuno possa sottomettersi così tanto al proprio destino. Il tuo
passato dovrebbe essere una spinta a combattere, non un freno. Anche
se non serve a niente, non ti darebbe gioia sentire mille voci
gridare contro ciò che ti ha fatto male? Non ti riempirebbe di forza
unirti a quel coro e combattere per te stesso?» ribatté Enjolras,
adesso più calmo, quasi sicuro di aver trovato la strada giusta per
aggirare l'offensiva dell'amico.
«Per me? Chi mai
combatterebbe per me?» disse Grantaire con una risata senza gioia,
piena di amarezza e delusione.
«Le decine di migliaia di
persone di cui parlavi prima. Se davvero sono tutte uguali,
combattendo per loro stesse non sarebbe come se combattessero per
ciascun altro? Se dici di essere uno di loro, allora combatterebbero
anche per te.» rispose il rivoluzionario.
Grantaire ammutolì e
abbassò lo sguardo sulla neve. Enjolras si lasciò sorridere.
«Ma no.» mormorò dopo
un po', rialzando lo sguardo e incrociando quello dell'amico. «Io
non combatterei neanche per me stesso. So che non servirebbe a
niente, e a che pro dovrei illudermi, sforzarmi, rischiare forse la
vita, per qualcosa che non arriverà mai? No. Io non combatterei
proprio.» continuò, e il sorriso di Enjolras si spense. Scosse la
testa lentamente, incredulo, demotivato.
«Che ci fai fra i
Grifondoro, Grantaire? Dov'è il tuo coraggio? La tua cavalleria?»
tentò infine, come ultima speranza di suscitare in lui una qualche
reazione.
Per tutta risposta,
Grantaire ghignò. «Il coraggio e la cavalleria sono i valori che
più apprezzo al mondo, ma li cerco negli altri, proprio perché io
non ne sono in possesso.» disse, avvicinandosi all'amico. «Così
funziona lo smistamento, anche se pochi lo capiscono.» aggiunse,
sempre ghignando.
«E allora perché
disprezzi me?» domandò Enjolras, dando finalmente voce ai suoi
dubbi.
«Io non ti disprezzo.
Come puoi anche solo pensarlo?» rispose Grantaire con amarezza.
Lo intristiva avere la
conferma della cecità di Enjolras. In tutto quel tempo aveva pensato
che lui lo disprezzasse. Non si era mai reso conto della sconfinata
adorazione che Grantaire aveva nei suoi confronti, di quell'amore
stupido e testardo che lo consumava giorno giorno.
«Non fai altro che
contestare quello che dico, darmi contro, annullarmi. Non mi sembra
affatto apprezzamento.» risposte Enjolras, ma non ne era più così
convinto.
«Io non lo faccio per
annullarti. Io non...» e Grantaire non sapeva davvero cosa dire.
Erano vicini adesso e
avevano smesso di gridare. Molta della gente che si era avvicinata
per assistere allo scontro era adesso tornata a farsi gli affari
propri, e nessuno tranne Enjolras aveva sentito quelle parole, ma
Grantaire si sentì comunque scoperto, osservato.
«Lascia stare.» mormorò
e cercò di andarsene.
Si voltò e si incamminò
verso il castello, reso incapace di correre dalla neve alta e le
gambe tremanti, combattendo contro la voglia di rannicchiarsi per
terra e venire sepolto dal ghiaccio.
Non aveva fatto che pochi
passi quando sentì qualcuno che gli afferrava il braccio e lo tirava
con forza per farlo voltare.
Enjolras aveva le guance
arrossate per aver corso e sorrideva. Malgrado la situazione,
Grantaire non riuscì a non pensare a quanto fosse bello.
«Lo facevi per me
allora.» disse, e sembrava un bambino davanti alla sua prima
nevicata. «Non sei mai stato davvero contro la causa. Ci stavi
aiutando.»
Aveva lo sguardo fiero e
infuocato di quando qualcuno faceva eco ai suoi discorsi durante le
riunioni. Quello sguardo che Grantaire aveva spento innumerevoli
volte e di cui adesso, per la prima volta, era la causa.
Si guardarono e sembrò
che si vedessero per la prima volta.
Grantaire aveva ancora
voglia di correre, ma era indeciso sulla direzione.
«Come, come si chiama?
Socrate! Tu cercavi di essere Socrate e io ho fatto il sofista per
tutto questo tempo. Sono stato così stupido. Avrei dovuto prestare
più attenzione a quello che dicevi, piuttosto che a cosa
risponderti. Avrei dovuto pensare di più. Avrei dovuto, non so,
magari davvero ascoltarti, ogni tanto. Sono stato davvero, davvero un
idiota. Avrei potuto imparare così tanto e invece sono sempre il
solito coglione.» continuò Enjolras, scuotendo la testa, e
Grantaire riuscì a sorridere.
«Io non ho mai provato ad
insegnarti niente, Enjolras. Io volevo che tu pensassi, che vedessi
il quadro nella sua completezza. E ci sono riuscito, in questi
giorni. E sotto tua richiesta. Non ti sembra abbastanza?» rispose
con serenità e l'espressione di Enjolras cambiò. Si distese e lo
fece sembrare allo stesso tempo più grande, perché più
consapevole, e più piccolo, perché in un certo senso innocente,
rinnovato.
Grantaire alzò lo
sguardo, giusto per fare qualcosa che non fosse fissare l'amico e
sorridere come un ebete, e notò quasi per caso un rametto di vischio
attorcigliato intorno a uno dei rami dell'alta quercia sotto la quale
stavano.
«Guarda...» disse piano,
indicandolo.
Enjolras alzò lo sguardo
e sorrise incredulo. «Vischio...» mormorò scuotendo la testa,
senza riuscire a crederci. Era così stupido, così scontato.
Quando abbassò lo sguardo
e incrociò gli occhi di Grantaire, enormi, lucidi e quasi
spaventati, che lo guardavano fisso, si sentì per un attimo mancare
l'aria e la terra sotto i piedi e ogni sicurezza.
Gli sarebbe piaciuto dire
che fu improvviso, istintivo, che nessuno dei due riuscì a pensarci
su troppo, ma la verità era un'altra.
Fu lento. Così lento da
sembrare calcolato.
Grantaire posò una mano
sul collo di Enjolras, delicatamente, con il pollice che gli
accarezzava la guancia e i polpastrelli delle altre dita che
premevano sulla sua pelle fredda.
Fu calmo, almeno
all'apparenza.
Il cuore di entrambi
sembrava sul punto di spiccare il volo da quanto forte batteva, a
Grantaire tremavano le gambe, i suoi neuroni erano una melma fumante,
mentre Enjolras stava impazzendo, diviso fra l'urgenza di correre via
e la voglia di attaccare le labbra dell'amico.
Fu silenzioso.
Quando, dopo secondi
interminabili di avvicinamento e paura e brividi, le labbra di
Grantaire si appoggiarono su quelle di Enjolras, entrambi si
aspettavano che il mondo gli esplodesse intorno.
Non successe. Tutto rimase
al suo posto.
Grantaire premette finché
il suo labbro inferiore non scivolò in avanti e si aprì la strada
fra le labbra di Enjolras.
Nessuno riuscì ad andare
oltre.
Grantaire si staccò,
sempre molto lentamente, ma rimase lì. Il naso accanto a quello di
Enjolras, la fronte appoggiata contro la sua, i loro respiri
irregolari fusi in un'unica nuvola di calore umido che si attaccava
alla faccia di entrambi.
Calma. Silenzio.
Grantaire ridacchiò,
Enjolras sorrise.
Le loro labbra si
sfiorarono di nuovo, si toccarono, si scontrarono.
Una, due, tre volte, prima
di perdere il conto.
Grantaire non riusciva a
smettere di sorridere mentre anni di sogni bruciavano nella sua
testa, scoppiavano ad ogni nuovo unirsi di labbra impacciate,
brillavano contro le sue palpebre chiuse e tremanti.
Qualcuno, in lontananza,
rise. Qualcun altro applaudì.
Il ramo vischio ancora
pendeva sulle loro teste, con aria innocente, come se non avesse
appena cambiato la vita di forse un po' troppe persone, come se la
sua presenza lì fosse passata inosservata.
«Ho voglia di correre
via, gettarmi nel lago e affogarci dentro.» mormorò Grantaire
quando si fermarono, fronte contro fronte, labbra arrossate e
sorridenti, guance infuocate.
«Io ho voglia di correre
in sala comune e gettarmi nel fuoco, se ti consola.» rispose
Enjolras.
Risero. Sospirarono.
«E adesso?» chiese
Enjolras dopo un po', risvegliandosi e rendendosi conto di quanto era
appena successo.
«Non ne ho idea. Dipende
da te, credo.» rispose Grantaire, tornando anche lui alla realtà.
«Cosa intendi?» domandò
Enjolras confuso Ancora non capiva.
Dopo un attimo di
esitazione Grantaire decise che non aveva più senso trattenersi,
continuare a nascondersi.
A quel punto non aveva più
niente da perdere. Poteva solo giocare tutte le sue carte e sperare
per il meglio.
«Enjolras, sono
innamorato di te da più o meno la prima volta che ti ho visto. Sono
anni che sogno questo momento e, se fosse per me, non lo farei finire
mai. Quindi sta a te decidere cosa fare.»
Enjolras tacque, sguardo
al pavimento. Pensava, esitava.
Grantaire cercava di
ricordarsi come si facesse a respirare.
«No non so cosa provo.»
proruppe poi il biondo, alzando gli occhi sull'amico. «Mi sembra di
averti appena conosciuto, non capisco come sia potuto essere così
cieco per così tanto tempo, e penso che tu sia la persona migliore
che conosco. Mi piaci, ma non so in quale senso.» spiegò con una
sicurezza quasi fuori luogo.
Grantaire lo invidiò e lo
detestò per un attimo prima di assimilare le sue parole e sentire le
gambe cedere.
«Lo capirei se tu ne
avessi avuto abbastanza di aspettarmi, comunque.» aggiunse Enjolras
in tono grave.
Grantaire rise di nuovo,
di cuore.
«Dopo tanto, come potrei
smettere proprio adesso?» disse con leggerezza ed Enjolras sorrise
quasi timidamente.
Senza aggiungere altro
Grantaire si staccò da lui e riprese a camminare verso il castello,
con Enjolras indietro di pochi passi.
Risalirono tutto il
castello in completo silenzio, ma non c'era più imbarazzo o
tensione. Enjolras stava ancora pensando alle sue parole di poco
prima, e ad altre domande da potergli fare, quasi come se il bacio
non ci fosse stato. Grantaire era solo molto, molto felice.
Quando entrarono nella
sala comune la ragazza innamorata di Enjolras si girò a guardarli e
sul volto di Grantaire si allargò incontrollabile un ghigno
spaventoso, pieno di gioia selvaggia.
La ragazzina li fissò con
occhi sgranati e cuore a mille mentre si sedevano sul divano ed
Enjolras si rannicchiava contro Grantaire.
«Tutta questa tenerezza
improvvisa?» chiese il moro, sorridendo affettuosamente.
«Mi sembra appropriata.
Non ti pare?» disse Enjolras, ricambiando il sorriso.
Rimasero in silenzio per
un po', guardando il fuoco e ascoltandosi respirare.
«Continuerai ad aiutarmi,
anche se adesso lo so? Possiamo non dirlo agli altri e fargli credere
che sei sempre ostile a tutto quanto.» chiese poi il biondo.
«Tutti gli altri sanno
già tutto. Sei l'unico che non ci era arrivato.» risposte Grantaire
con un ghigno. «Ma comunque sì. Certo. Non posso mica lasciare che
tu dica stupidaggini. E adesso che lo sai, potrai farlo tu con gli
altri. Stai sicuro che arriverà qualcuno di più sveglio dei nostri
compagni di scuola che tenterà di controbattere più seriamente di
quanto io abbia mai fatto. E tu potrai smontare loro.» aggiunse.
«Credi davvero che ne sia
capace? Alla fine le discussioni fra noi due le hai sempre vinte tu.»
chiese Enjolras, mostrando una fragilità che la maggior parte delle
volte era solo intuibile.
«Lo diventerai. La scuola
serve per imparare, no? L'importante è perseverare.» rispose. Era
davvero strano ritrovarsi a fare un discorso del genere ad una
persona come Enjolras. Non si sarebbe mai immaginato, neanche nei
suoi sogni più incredibili, di potergli mai dire niente del genere.
Si sentì fuori dal suo
personaggio in quella dolcezza, in quel rassicurare.
Dovette pensarlo anche
Enjolras perché aggrottò le sopracciglia a quelle parole,
nonostante stesse sorridendo.
«Che sia chiaro, non è
che adesso sono d'accordo con quello che dici e mi vedrai mai a darti
ragione. Pensavo davvero quello che dicevo e lo penso ancora. Io non
credo davvero nella tua causa e non combatterò per essa, ma credo in
te, e posso sostenere te nelle tue follie.» disse, ed Enjolras non
poté trattenersi dal ridere.
«Se credi in me, credi
anche nella causa. Ma non ti preoccupare, continua pure a negare
l'evidenza.» scherzò. Anche lui non scherzava in quanto ad
incoerenza col personaggio.
Giusto per aumentare la
sensazione da pessimo spin-off, Enjolras ebbe la splendida idea di
stupire Grantaire.
Si girò verso di lui, gli
posò delicatamente una mano su una guancia per farlo girare, per
guardarlo negli occhi, e gli sorrise in modo così dolce, come non
gli aveva mai sorriso.
«Ho tanta voglia di
baciarti di nuovo. Posso?» chiese, a voce alta, senza curarsi delle
altre persone presenti nella sala comune.
Grantaire aveva quasi
voglia di tirarsi un pizzicotto per essere sicuro che non fosse un
sogno.
«Puoi baciarmi anche per
sempre, diamine.» rise, e si lasciò andare contro di lui, e fu
diverso da prima, più consapevole, più convinto, e lo fece tremare
da capo a piedi e lo riempì di un calore che non aveva davvero
niente a che fare con il fuoco.
Non gli importò di
niente, né della ragazza che se ne andava singhiozzando, né delle
risate delle sue amiche, né dei versi disgustati dei ragazzini del
primo anno.
Non gli importò di niente
che non fosse Enjolras e le sue labbra calde e la sua mano sulla sua
guancia e il suo stupido maglione a cui si stava aggrappando quasi
disperatamente.
«Credo di averti detto
una cazzata prima.» disse il biondo sorridendo imbarazzato quando si
separarono.
«Cioè?»
«Sul non sapere cosa
provo per te o in che modo mi piaci.» disse mordendosi il labbro
inferiore. «Ma devo comunque pensarci.» concluse, ma il sorriso di
Grantaire non si spense.
«Devo trattenermi dallo
stimolare i tuoi pensieri, allora?» chiese, a un soffio dalle sue
labbra.
«Sarebbe meglio.» rise
Enjolras, baciandolo di nuovo, a stampo.
«Ma andatevene in
dormitorio!» gli gridò uno dei ragazzini del primo, fallendo nel
cercare di farli arrabbiare.
Si separarono e fu
straordinario come, nel giro di qualche secondo, era tutto
esattamente come prima. Enjolras recuperò il suo libro, sempre sulla
mensola del camino, e Grantaire fece una corsa in dormitorio a
prendere il quaderno e la matita che lui gli aveva regalato pochi
giorni prima.
La prima cosa che disegnò
lì sopra fu un ritratto abbozzato dell'amico, o qualcosa di simile,
che leggeva. Non se ne stupì, era solo l'ennesimo ritratto di
Enjolras che gli capitava di disegnare quando era distratto o non
sapeva che altro fare.
Enjolras era seriamente
assorto nella sua lettura e non ci furono altri commenti, almeno fino
a cena.
Non appena entrarono in
Sala Grande, Samantha gli corse incontro e li abbracciò, entrambi
contemporaneamente, stretti stretti, congratulandosi con un
entusiasmo fuori dal normale.
Quando fu tornata al
tavolo gli altri Corvonero lanciarono occhiate e fischi di
approvazione dal loro posto. I professori non si preoccuparono
neanche di zittirli.
Dopo il pasto, leggermente
più abbondante del solito, agli studenti fu concesso rimanere fuori
fino a dopo la mezzanotte per riuscire a vedere i fuochi d'artificio
dalle colline dietro Hogsmeade e, subito dopo, di fare un brindisi
con vero champagne in Sala Grande.
Enjolras e Grantaire
rimasero nel cortile interno, illuminato e più riparato dal freddo
rispetto al parto, aspettando lo scoccare della mezzanotte.
Tutti si stupirono di
Enjolras che, diversamente dai giorni passati in cui stava per lo più
dietro a Grantaire e non parlava mai con nessuno in particolare,
adesso era felice ed espansivo, tanto dal fare perfino battute.
Samantha provò a
costringere i due a rispondere ad alcune domande spinose, ma a
nessuno interessava davvero così fu facile ignorarla.
Verso le undici e mezzo si
mossero tutti in massa verso il lago, punto migliore da dove
osservare lo spettacolo perché quando arrivavano ad una certa
altezza le luci si riflettevano sul ghiaccio, rendendo il tutto due
volte più bello.
Enjolras e Grantaire
stavano uno accanto all'altro in mezzo al gruppo festante.
«È un po' un segreto che
ci piace tenere questo dell'ultimo dell'anno. Credo che molta più
gente rimarrebbe qui per le vacanze se lo sapesse, ma quando siamo
più di un certo tot non ce lo permettono. Non è sicuro tenere
troppi ragazzi fuori fino a tardi, perché si rischia che qualcuno si
dispera e non rientri. Noi pochi eletti costretti a rimanere ad
Hogwarts ogni anno, comunque, siamo felici di non dirlo a nessuno.»
spiegò Grantaire, molto vicino al suo orecchio per farsi sentire
sopra la confusione generale.
«Quindi devo ritenermi
fortunato?» rise Enjolras, passandogli un braccio attorno alla vita
per tenerlo il più vicino possibile.
«Esattamente.» rispose
Grantaire con un ghignò, appoggiandosi a lui.
Proprio in quel momento un
primo scoppio risuonò da dietro la cittadina e calò il silenzio
sulla piccola folla di alunni e professori.
Una campana iniziò a
suonare i dodici rintocchi della mezzanotte, e tutti la
accompagnarono urlando il conto alla rovescia.
Sullo zero, mentre
l'ultimo rintocco ancora riecheggiava fra le montagne, il primo fuoco
d'artificio partì dalla collina ed esplose, illuminando il primo
vero, significativo bacio dei due ragazzi.
Fu lungo, approfondito e
immensamente dolce.
Ci fu un flash alle loro
spalle, confuso nella luce del fuoco, e una risatina, insieme a
qualche fischio.
Sentendosi stupidi e
melensi si staccarono ridendo l'uno a un soffio dalle labbra
dell'altro, e in quel momento non avrebbero scambiato la loro vita
con nient'altro, perché quella felicità così pura superava ogni
delusione e ogni sofferenza che li aveva accompagnati fino a lì.
Erano solo due ragazzini
ma si sentivano molto di più.
Abbracciati sotto quello
spettacolo, circondati da persone che non li giudicavano ma li
apprezzavano per il loro essere finalmente loro stessi, si sentirono
entrambi i ragazzi più fortunati sulla faccia della terra.
Per i dubbi e le
spiegazioni avevano il resto delle loro vite.
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Capitolo 7 *** Fine delle vacanze ***
Fine
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La mattina dopo
Grantaire si svegliò con il sole negli occhi e, mentre si girava
dall'altra parte strofinandoseli, pensò che il giorno prima fosse
stato un sogno.
Si alzò con
tutta calma senza quasi fare caso all'assenza di Enjolras e andò a
farsi la doccia, pensando solo che i suoi sogni stavano diventando
davvero troppo vividi e che forse aveva bisogno di aiuto.
Si lavò via il
freddo, il sonno e la stanchezza, lasciandosi coccolare a lungo
dall'acqua bollente.
Non pensava a
niente. L'acqua calda amplificava la quieta malinconia in cui amava
crogiolarsi quando era solo e zittiva ogni riflessione, bloccava la
sua testa in una bolla di calore e rilassamento, così che gli fosse
impossibile ragionare, divagare, far girare le rotelle poco oliate
del suo già stanco cervello.
Quando ne ebbe
abbastanza uscì. Si strinse nell'accappatoio. Si asciugò i capelli
con la magia. Rise per la narrazione noiosa che doveva essere la sua
vita.
Poi tornò in
stanza per vestirsi e quasi gli prese un colpo nel vedere Enjolras
seduto sul suo letto.
«Ehi! Avevo
quasi paura fossi entrato in coma. Lo sai che è quasi l'una?» disse
sorridendo e alzandosi e andandogli incontro.
Ci fu un
momento imbarazzante in cui Enjolras rimase in piedi immobile davanti
a lui, in attesa di qualcosa, che Grantaire non capiva.
«Ok, scusami.
Non siamo ancora a quel punto, vero? Non me ne intendo molto di
queste cose. Va be'. Ti aspetto giù.» disse allora dopo un po',
avviandosi verso la porta.
«Di cosa stai
parlando?» chiese Grantaire confuso.
Enjolras si
voltò aggrottando le sopracciglia. «Almeno non prendermi in giro.»
disse.
«Ti giuro che
non ho la più pallida idea di cosa stai parlando.» rispose
Grantaire facendo qualche passo verso di lui.
Una certa idea
stava bussando alla sua mente assonnata ma aveva così poco che senso
che non la prese minimamente in considerazione.
«Ieri,
Grantaire.» disse Enjolras, chiaramente contrariato. «Ti ricordi di
ieri?».
Un momento di
silenzio, quasi si poteva sentire il cervello di Grantaire processare
informazioni.
Poi,
all'improvviso, scoppiò a ridere. Rise fino a piegarsi in due,
inginocchiato sul pavimento. Rise fino a sentire male alla pancia.
Rise fino a seccarsi la gola.
Enjolras lo
osservò perplesso, aspettando che si riprendesse.
«Non l'ho
sognato!» esclamò Grantaire non appena ebbe abbastanza fiato.
Sì alzò dal
pavimento un po' a fatica e andò dall'amico, ancora perplesso.
«Non l'ho
sognato...» ripeté a voce più bassa, sorridendo come un completo
idiota.
Allora Enjolras
capì, e sorrise di rimando. «Sei un idiota.» disse e coprì la
distanza che li separava per baciarlo.
E in quel bacio
Grantaire ricollegò ogni cosa che aveva creduto di essersi
immaginato.
Ogni momento,
ogni parola andò al suo posto in quel puzzle di perfezione che era
stata la giornata precedente.
E quasi si
sentì esplodere il cuore, e aveva voglia di correre e di urlare e di
passare il resto della sua vita così, fra le braccia di Enjolras,
con le mani sui suoi fianchi e le sue labbra contro le proprie.
«Dovresti
vestirti.» mormorò Enjolras quando si staccarono.
«Dici?»
rispose Grantaire, ridendo contro la sua bocca, baciandolo di nuovo.
«Direi, sì.»
e rise, il biondo, abbassando lo sguardo sul punto in cui la spugna
sottile dell'accappatoio di Grantaire lasciava davvero poco
all'immaginazione.
«Ti direi che
mi dispiace, ma mentirei spudoratamente.» rise anche lui senza
neanche arrossire, baciandolo una terza volta.
«In realtà
non dispiace neanche a me.» aggiunse Enjolras, sporgendosi per il
quarto bacio. «Però è ora di pranzo, e ho fame. Quindi muoviti.»
concluse, e il quinto fu l'ultimo prima che Grantaire si separasse da
lui ridendo, scuotendo lievemente la testa, per prendere dei vestiti
puliti dal baule e andare in bagno per metterseli.
Passarono la
giornata ad oziare in sala comune, e Grantaire non riusciva a credere
alla sua fortuna ogni volta che Enjolras fermava qualsiasi cosa
stessero facendo per baciarlo, con una dolcezza che non avrebbe mai
creduto possedesse. Non riusciva neanche a capire come fosse
possibile che il giovanissimo rivoluzionario fosse cambiato così
tanto in così poco tempo. Gli erano bastati così pochi giorni per
aprire gli occhi, così pochi che Grantaire non riusciva a non
chiedersi quanto tempo avessero perso, quanto dolore si sarebbe
risparmiato se Enjolras gli avesse mai prestato ascolto, lo avesse
mai guardato davvero.
A vederli
adesso, nessuno avrebbe mai detto che giusto un paio di settimane
prima occupavano la stessa stanza urlandosi addosso e resistendo a
fatica alla voglia di prendersi a pugni.
Eppure,
Grantaire non riusciva a rimpiangere niente.
Era stato tutto
così naturale e così perfetto che non riusciva ad immaginare come
altro sarebbe potuto essere. Forse, si diceva, prima Enjolras non era
pronto. Forse se fosse successo in un altro momento sarebbe andato
malissimo, e avrebbero rovinato tutto per sempre.
Non che
Grantaire fosse davvero capace di credere che le cose sarebbero
andate bene in futuro, che sarebbe mai potuta durare, che Enjolras
non si sarebbe stancato di lui, ma per ora era tutto così bello che
riusciva quasi a non pensarci. Non costantemente almeno.
La ragazzina
innamorata di Enjolras non faceva altro che lanciargli occhiate
truci, ma gli occhi cerchiati di rosso la rendevano davvero poco
minacciosa.
Enjolras
continuava a non notarla, comunque, e Grantaire non riusciva davvero
a dispiacersi per lei.
Non quando
Enjolras aveva occhi solo per lui e gli sorrideva come se non ci
fosse altro di bello al mondo, non quando non riusciva a tenere le
labbra libere per più di dieci minuti, non quando la conversazione
fra di loro consisteva in confidenze e cazzate, sussurri e risate, ed
era così dolce e leggera e lo rendeva felice come quasi mai prima.
Andava tutto
bene, e, per quanto sembrasse impossibile, per il momento sembrava
bastare.
Quando gli
altri tornarono, nella tarda mattinata del due gennaio, Enjolras e
Grantaire erano ad aspettarli nella sala comune, perché rivedersi
nella folla della Sala Grande non andava mai a nessuno, e stavano
pomiciando.
Il primo ad entrare fu Bossuet, un manico del baule
in mano e un sorriso enorme.
«E bravo Grantaire! Dieci giorni da
soli e fai diventare un essere umano il nostro Enjolras.»
esclamò.
Grantaire ghignò e si alzò per andare ad abbracciarli.
Enjolras aspettò un secondo in più, nel vano tentativo di far
sparire l'imbarazzo.
Tutti batterono pacche sulla loro schiena e
si congratularono.
Combeferre strinse Grantaire in quasi un
minuto di abbraccio soffocante, e gli mormorò all'orecchio che era
davvero l'ora e che si meritava quella felicità e che era davvero
contento per loro. Quando lo lasciò, Grantaire aveva le lacrime agli
occhi, ma diede la colpa al respiro mancante.
Courfeyrac ed
Eponine furono i primi due stronzi ad iniziare a fare domande
inopportune. Jehan cercò di sviare il discorso con altre domande, più
sul lato romantico della cosa, ma era tutto comunque molto
imbarazzante.
Fu Marius, stranamente, a riportare tutti a terra
di colpo, spostando la conversazione sullo studio. Grantaire non
aveva mai apprezzato tanto la sua impossibile severità.
Fu chiaramente
ignorato da tutti, ma almeno riuscì a distogliere l'attenzione dalla
coppia e spinse tutti ad andare a sistemare i propri bagagli, per poi
tornare in sala comune e disporsi attorno al fuoco a raccontarsi le
loro vacanze.
Rivederli tutti
lì, sorridenti e rumorosi, era per Grantaire allo stesso tempo
strano e meraviglioso, dopo tutto quel tempo solo con Enjolras. Non
riusciva a smettere di sorridere mentre li ascoltava, stretto in un
angolo del divano con Enjolras che teneva le dita intrecciate alle
sue e la testa sulla sua spalla. Quando il biondo si permise di
alzare la testa per dargli un bacio ci fu un momento di imbarazzo,
brevissimo, in cui tutti si zittirono e li fissarono.
Quando scesero
per pranzo fu ancora più strano rivedere la Sala Grande piena di
gente, i tavoli affollati, le porzioni di cibo triplicate.
«Credo che
potrebbe mancarmi stare da solo con te.» sussurrò Enjolras
all'orecchio di Grantaire mentre prendevano posto su una panca.
Grantaire rise.
«Ti passerà
fra qualche giorno, fidati. A me succede sempre così.» gli disse
con tranquillità.
«Ne sono
certo. Ma ritengo che sarà necessario ritagliarci un po' di tempo,
ogni tanto, per stare da soli.» disse Enjolras, ed entrambi risero e
si baciarono e poi arrossirono quando si ricordarono che i loro amici
li stavano guardando.
«Dai ragazzi,
smettetela di stupirvi.» sbottò Courfeyrac, rivolto alle facce
divertite o lievemente imbarazzate dell'intero gruppo. «Sapevamo
tutti che prima o poi sarebbe successo.»
Grantaire
sorrise di gratitudine mentre Enjolras lo guardava storto.
«Cosa vuol
dire che lo sapevate?» domandò, e tutti risero.
«Sappiamo
tutti che Grantaire ti muore dietro da anni. Era solo questione ti
tempo prima che tu aprissi gli occhi e facessi qualcosa al riguardo.»
spiegò Courfeyrac.
«Non hai idea
di quante volte abbiamo dovuto rammendare il povero cuoricino
spezzato del nostro amico qui.» disse Combeferre battendo una pacca
sulla spalla di Grantaire.
«''Come può
essere così cieco?'' ''Possibile che non riesca neanche a guardarmi
negli occhi?'' ''Come faccio a dimenticarmelo, come cazzo faccio?''»
citò Bossuet in tono piagnucolante. Stavolta fu il turno di
Grantaire di arrossire, ma Enjolras non si unì alla risata degli
altri.
«Sono stato
così stupido. Sono felice che tu non abbia mollato, comunque.»
disse invece, con dolcezza, guardando dritto negli occhi.
Qualcuno,
probabilmente Joly, soffocò un gemito intenerito in una mano.
«Io pure.»
rispose Grantaire con una risata sommessa, dandogli un tenerissimo
bacio a labbra chiuse che fece squittire diverse ragazze al tavolo di
Corvonero.
«Okay,
piccioncini, siete naus...ehm, dolcissimi, adesso basta però.»
disse Eponine, mettendogli del cibo nel piatto.
«Grazie,
'Ponine.» disse Grantaire inforcando un broccolo e mangiandolo con
gusto.
L'argomento
cadde lì, e tutti continuarono a mangiare parlando d'altro.
Dopotutto, era
andata abbastanza bene. Grantaire sapeva che nessuno l'avrebbe presa
male, e sapeva anche che sarebbe stato difficile per tutti,
all'inizio. Era giustamente strano per tutti confrontare i
piccioncini che non si erano ancora stancati di essere con i due
quasi amici che non potevano parlare a lungo senza iniziare a
litigare.
Combeferre
aveva scherzato spesso sul chiuderli in una stanza e obbligarli a
parlare finché non avrebbero chiarito come stavano le cose fra loro,
e alla fine era stato davvero quello che li aveva fatti sbloccare.
Éponine aveva
sostenuto per così tanto tempo che erano decisamente perfetti l'uno
per l'altro, e che sarebbe bastato che Enjolras lo conoscesse giusto
un po' meglio perché si innamorasse di lui, e alla fine così era
andata.
Prouvaire gli
aveva detto milioni di volte che fra loro non poteva andare in modo
normale, che doveva succedere qualcosa di assurdamente
cinematografico per farli finire insieme, perché nient'altro poteva
essere abbastanza efficiente, e alla fine il provvidenziale ramo di
vischio era arrivato.
Courfeyrac
credeva fermamente che se fosse iniziata, fra loro, non sarebbe mai
finita. Grantaire poteva solo sperare che avesse
ragione anche lui.
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Ebbene, è finita. In terribile ritardo sulla tabella di marcia, ma a chi interessa davvero? (shh, shh, lo so, scusatemi)
Non posso dire di essere felice, perché MY BABIEEES, ma allo
stesso tempo lo sono perché questa è la prima long fic
che riesco a portare a termine. Giuro. E in più è venuta
anche esattamente come volevo che fosse e non in tempi biblici.
Probabilmente non succederà mai più, quindi gioisco
adesso.
Ma comunque, non è davvero finita. Potrebbe arrivare un qualche seguito, forse anche abbastanza presto.
Felici, eh? Vabbe'.
Mi sembra doveroso ringraziare tutte le persone che mi hanno seguita in
questa fatica, prima fra tutti Valeria, fidata compagna di banco e di
plotting e di sclero. Credo sia più felice di me che questa cosa
sia finita.
Poi Anna, che ha betato i primi capitoli, e Marta, per la quale questa
storia è stata scritta in first place. Aggiungo le altre povere
Les Mis dipendenti che so che mi hanno letta e mi hanno resa felice
così.
E, ultimi ma non meno importanti, tutti voi che avete anche solo aperto questa storia poco invitante.
Grazie a tutte, mi dispiace per i feels, vi voglio bene. ♥
La smetto, okay. Ci vediamo al sequel (presto?).
Piuma_
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