Do you believe in Fairies?

di BlackDawn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Megalopolis ***
Capitolo 3: *** Cambiamenti ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Mamma...tu credi nelle fate?
Come un’eco lontano, ogni notte quella domanda tornava nei suoi sogni.
Ed ogni notte, i suoi grandi occhi viola si spalancavano nel buio a scrutare un mondo che nessuno poteva vedere.
Nessuno tranne lei.
Da bambina, vedeva dei piccoli esserini volanti, colorati e con delle alucce talmente piccole da poter essere spezzate con una carezza.
Ma già da ragazzina, quelle creature non erano più dolci e fragili figlie dei fiori.
Erano demoni, messaggeri del buio, creature devote al piacere dei sensi, contro ogni ostacolo.
Un piacere. Una condanna.
Sabine era cresciuta con quel peso nel cuore, freddo ed opprimente, che non le aveva mai dato un attimo di pace.
A volte si trovava a chiedersi dove fosse iniziato tutto.
Dove la sottile linea tra realtà e finzione svaniva.
Ma nascevano tante, troppe domande, che generavano poche, inesistenti risposte.
Nell’oscurità del suo chalet di legno di Stonebury, Sabine capì che non v’era via d’uscita.
V’era una sola ed unica possibilità.
Fuggire.
...Tu credi nelle fate?

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Capitolo 2
*** Megalopolis ***


Capitolo 1- Megalopolis

Le auto sfrecciavano, la gente urlava, il caos cresceva ad ogni secondo.
Sabine si guardò attorno, spaesata.
Non era mai stata a New York, prima d’ora. La immaginava come un passaggio obbligato, una tana di gente troppo di fretta per soffermarsi a guardare le cose belle della vita.
Ma non era così. New York era molto peggio.
Era un ammasso informe di smog e inquinamento acustico, vetrine agghindate e gioielli troppo costosi per essere comprati. Dischi pirata nascosti in ventiquattrore di pelle, Mercedes tirate a lucido, borsette false e falsi griffati.
Niente a che vedere con la calma e monotona routine di Stonebury.
Fuori dall’aeroporto, un taxi a scacchi giallo e bianco, sparava musica funky nel parcheggio.
Sabine si avvicinò al finestrino, bussò al conducente e chiese, sillabando con la bocca: -E’ libero?-.
Il tassista, un africano con cappellino colorato e rasta attorno al viso, sorrise e le fece cenno di salire.
Lei salì sul sedile posteriore ed affondò nella pelle bianca dell’auto.
-Allora, dove ti porto, dolcezza?- le chiese il ragazzo.
-All’Ottantanove di Franklin Road.-
-Ma è dall’altra parte della città!- protestò lui.
-Non preoccuparti, ho i soldi con me.- rispose calma lei.
Fuori dal finestrino, i colori della città sembravano alternarsi come stagioni; il grigio dell’inverno sugli edifici di mattoni, il verde primaverile sulle insegne fluorescenti, l’arancione del sole d’agosto sugli scooter abbandonati, ed infine il rosso delle foglie sulla coperta di un barbone.
C’era qualcosa, di quella fretta, di quel caos, che la affascinava. Forse il coraggio degli uomini che riuscivano a vivere una vita intera con un metro quadro di cielo sulla testa, o forse la tenacia dei bambini che si riducevano a giocare con palloni sgonfi e reti sfondate.
O forse semplicemente il fatto che lì sarebbe stata libera dalla sua pena.
Forse quegli spiritelli maligni avevano paura del grigiore della città, o solo era troppo frenetica per loro; comunque, nelle favole non c’erano mai delle fate in giro per New York.
Sabine sapeva che prima o poi l’avrebbero ritrovata, ma un briciolo di speranza la incitava ancora a continuare la sua fuga.
Quei demoni le avevano distrutto la vita, le avevano negato ogni possibilità di raggiungere i suoi sogni, avevano cancellato tutte le sue aspirazioni con un battito d’ali.
La stavano ancora cercando, per renderla regina di un mondo di dannati.
Ma lei continuava a fuggire, impaurita, da quegli esseri spietati e lussuriosi che cercavano il suo potere.
Mentre si perdeva nei ricordi, un locale attirò la sua attenzione.

The Fairy Dancer – Tutto per la Magia

Sotto la scritta, una fatina al neon con minigonna e bacchetta magica agitava le sue alucce a intermittenza con uno sguardo ammiccante.
-Si fermi qui per favore!- gridò al tassista.
-Ma...mancano cinque chilometri!-
-Non fa niente. Ecco- disse, gettando una banconota da cinquanta $ sul sedile anteriore. –Tenga il resto-.
Uscì talmente in fretta dall’auto che non sentì nemmeno la sua risposta.
Rimase immobile a fissare la vetrina del negozio.
Un manichino di ferro indossava un vestito più unico che raro, di quelli che trovi solo nelle favole: il bustino di velluto rosso e pizzo nero, la gonna rossa di seta, le maniche a sbuffo e foglie d’edera appassita sparse su tutto l’abito.
I suoi occhi si spalancarono ; era sicura di aver già visto quell’abito. Né su un libro, né su una rivista di moda, ma l’aveva visto, da qualche parte.
Scrollò la testa per scacciare quella sensazione.
Con una mano spinse la porta di vetro del negozio, e vi entrò dentro.
Scaffali di legno traboccanti di libri la circondavano, formano un corridoio che finiva poi in una sala più grande e circolare.
Lì, su vari tavolini, bacchette, sfere di cristallo, amuleti e pietre preziose si mettevano in bella mostra sopra a cartellini dei prezzi.
Dietro a un bancone di vetro, una donna anziana leggeva un grosso volume verde, reggendosi gli occhiali sulla punta del naso.
Quando Sabine fece il suo ingresso, la donna alzò gli occhi e le sorrise.
-Benvenuta!- disse, alzandosi.
-Sei nuova di qui, vero? Non ti ho mai vista in questo quartiere.- le disse la donna.
-Mi sono appena trasferita.- rispose Sabine, imbarazzata.
Bé, ragazza, qui c’è tutto ciò di cui hai sempre sentito parlare nelle leggende; solo che qui è reale.- le disse ancora, ridendo.
Sabine annuì, e si diresse verso un espositore di anelli.
Ce n’erano di tutti i tipi; grandi, piccoli, spessi, sottili.
Uno in particolare catturò la sua attenzione; non era grande, non aveva pietre preziose, ma era straordinariamente bello.
Un cerchietto d’argento, una sottile striscia violacea s’intrecciava al metallo, e al suo interno recava la scritta Gael Lidyum Thea.
Sabine non conosceva assolutamente il significato di quelle parole, ma l’anello l’aveva stregata.
Lo prese in mano e si diresse verso l’anziana donna.
-Prendo questo.-

Fuori, sotto il sole e tra le mani pallide della ragazza, l’anello scintillava irradiando sulla sua pelle candida tante piccole scaglie di luce.
Sabine lo guardava, rapita, e allo stesso tempo si chiedeva cosa l’avesse spinta a comprare quel monile.
Non era mai stata vanitosa, anzi, c’era un baule in casa sua, pieno zeppo di gioielli regalatele da parenti ed amici e mai indossati.
Era strano però come quell’anello l’avesse attirata, strano come si potesse essere trasportato magicamente dall’espositore alla sua mano.
Non ci badò molto; ormai era tardi, e non aveva la più pallida idea di come raggiungere l’appartamento del padre.
Proprio mentre si scervellava alla ricerca di una soluzione, il cellulare squillò.
-Pronto?-
-Sabine!- Disse una voce roca e stanca, dall’altro capo della cornetta.
-Papà!- rispose lei, sollevata. –Papà sono sull’ottantunesima!-
-Santo cielo, Sabie, come fai a tornare?- chiese lui, allarmato.
Lei si mosse il labbro e non rispose.
-D’accordo, ho capito. Passo a prenderti. Se vedi una Cinquecento verde, alza le mani.-
-Grazie papà! Sei il migliore!- Il padre chiuse la conversazione, il fantasma di una risatina che aleggiava nella cornetta.
Sabine sorrise e si appoggiò ad una pensilina dell’autobus, ricoperta di scritte e volantini colorati.
Con gli occhi seguiva le scie di fumo delle auto, o il gocciolare ininterrotto delle grondaie ai muri.
Quella città, ai suoi occhi, appariva incredibile.
Un fagotto di emozioni represse, grida e urla di bambini che non avevano nemmeno il tempo di vivere la propria infanzia.
Una donna, nel marciapiede di fronte a lei, spingeva un passeggino avanti e indietro piangendo, ingombra di borse e buste.
Un altro uomo di colore, all’angolo, si teneva il braccio con una mano per impedire alla ferita grondante di sangue di infettarsi.
Era così strano, tutto quel movimento, quella fretta ostentata, quell’obbligo di essere indaffarati.
Dal suo arrivo a New York, Sabine aveva visto almeno un centinaio di persone che parlavano concitate al telefono.
A Stonebury, se a una signora squillava il cellulare, si guardava attorno gridando “Oh Gesù!”.
Sorrise, a quelle considerazioni. Ancora non si era resa conto di essere stata catapultata in un altro mondo.
Nel mezzo dei suoi pensieri, un Maggiolino verde smeraldo sfrecciò sulla strada sbuffando nubi di polvere nera.
-Papà!- Gridò, e si sbracciò per essere notata dal padre.
L’auto accostò una decina di metri più avanti, e Sabine corse a salutare l’uomo che per più di dieci anni era stato un fantasma della sua vita.
-Sabine!- Gridò lui, sorridente, e anche visibilmente emozionato, correndole incontro.
Lei gli saltò al collo, quasi commossa. Erano anni che non si rivedevano, e quel momento era pregno della commozione del ritrovarsi.
Il padre le strinse la testa, ammirandola.
-Quanto sei cresciuta...identica sputata a tua madre...- ammise con un filo di tristezza.
Fece cenno alla ragazza di salire sull’automobile, e lei non se lo fece ripetere due volte.
Gettò la sacca da viaggio sui sedili posteriori, e si fermò a contemplare il disordine che regnava nell’abitacolo; pacchi di sigarette, fazzolettini usati, lattine di coca cola e bustine di tabacco.
David Cellington, giovane e attraente professore di Fisica, tre lauree e quattro attestati, e la macchina più lurida di New York.
Storse il naso, e mentre la macchina ripartiva scrutò il paesaggio fuori dal finestrino.
-E così, come va la vita lassù a Stonebury?- chiese David.
-Mah, si tira avanti...Meg...ehm, la mamma...si sta vedendo con un tipo...-mormorò.
Lo sguardo del padre si fece subito attento.
-Che tipo è?-
-Mi pare si chiami Alvin...è un tipo strano...Fa il pompiere.-
Con sua grande sorpresa, il padre scoppiò a ridere.
-Tua madre...era una delle sue fantasie, un pompiere...mi diceva sempre che dovevo lasciare il lavoro per entrare nell’Arma.- disse, sempre ridendo.
Sabine sorrise, imbarazzata, e tornò a guardare fuori.
D’improvviso, si rese conto che il grigiume e la tristezza di New York erano spariti. Ora c’erano prati verdi e casette di pietra...dopo una mezz’ora di viaggio.
-Ehm...scusa papà, ma dove siamo?-
-Stiamo andando a casa Sab!- rispose lui con naturalezza.
Le lo fissò, interrogativa, e lui ricambiò, ma con uno sguardo sbalordito.
-Andiamo, pensavi davvero che abitassi a New York? Ti sembro il tipo?- le chiese sorridendo.
-Beh...no, in effetti no...Ma non sapevo abitassi in un posto così! Come si chiama?-
-Cornell! Abito a Cornell.-
Gli occhi della ragazza erano completamente presi dal panorama.
Valli, promontori...grandi e vasti boschi di sequoie e rocce, montagne rosse e verdi che si fondevano in un unico, naturale colore.
La paura e la consapevolezza arrivarono insieme, violente come uno schiaffo in pieno volto.
Con tanti boschi, e tante valli, senza nemmeno un accenno di smog, il suo incubo sarebbe tornato.
Anzi, i suoi incubi. Quelle vocine insistenti e fastidiose, quei fruscii d’ali sarebbero tornati a popolare le sue notti.
La speranza se n’era andata. Ma aveva mai davvero sperato? Si era mai augurata che quella tortura potesse aver fine, un giorno?
No.
Perché quelle creaturine gliel’avevano detto, non c’era scampo. Le leggevano i pensieri, le vergogne e le paure, e in silenzio le avevano promesso che quella tortura non avrebbe mai avuto fine.
Sabine si sentì annegare nello sconforto.
Probabilmente suo padre la notò, perché le chiese: -Tutto a posto?-
-Sì, sì, papà, non preoccuparti, solo un po’ di mal d’auto.- Rispose lei, poco convinta.
-Vuoi che ci fermiamo?-
-No no, non ti preoccupare.-
Restò ancora un secondo incerto a guardarla, poi tornò a prestare attenzione alla strada.
Dopo un’ora e mezza complessive di viaggio, la macchina si arrestò davanti a una piccola costruzione di pietra, quadrata e a due piani, circondata da un sottile lembo di prato ricoperto dall’erica.
Tutto si prospettò in po’ meno orribile.
Sabine rimase incantata da quella visione, dalle finestre piccole e rosse, e dalla panchina di legno bianco accanto alla porta d’ebano.
Si ridestò solo quando una mano le sfiorò la spalla.
Dietro di lei, David le porgeva la sacca sorridendo.
-Benvenuta a casa!-


Sabine è sola, nel giardino.
E’ una bimbetta di poco più di sei anni, un bel viso rotondo e le guance rosse, e lunghi capelli corvini che sono l’invidia di tutte le mamme delle sue amiche.
I rami di una quercia secolare la sovrastano,minacciosi, eppure lei non si sente intimorita.
Sente che quella è la sua casa, che la linfa che corre in quei fiori, in quelle foglie, è la stessa che le dona il respiro e le fa battere il cuore.
I piedini nudi si muovono leggeri sul prato di foglie secche, cauti, quasi a non voler disturbare la calma centenaria di quel luogo.
Un brusio.
Un volo d’alette impercettibile le sibila nell’orecchio.
Si volta, di scatto, ma ciò che vede è sempre il verde smeraldo della natura.
Allora, una risatina furba.
Sabine si volta ancora, allarmata, a cercare la fonte di quei rumorini insolenti che le si annidano nella mente con prepotenza.
-Chi c’è?- sussurra.
Poi, lentamente, un mormorio agitato, prima flebile e lontano, poi sempre più ritmico e vicino.
E’ un coro di voci, angeliche e terribili, che salgono dalla terra e le attraversano il cuore, le braccia, il volto, gli occhi, fino a raggiungere la testa e lì scatenare la loro potenza.
Un fascio di voci incomprensibili, che tutte insieme chiamano un unico nome: Sabine...
Sabine piange, chiama la mamma, ma non risponde nessuno.
Le voci urlano, gridano, la reclamano.
Qualcuna, adesso, si fa più forte delle altre: Vieni con noi...
-No!- urla la piccola, e si getta a terra, le mani alle orecchie, per non sentire più quel fracasso infernale che le agita il cuore.

-No!- Sabine urlò, eco dei suoi sogni, saltando sul letto, ansimante.
Protetta dalla nuova ombra persistente della casa, volse lo sguardo verso i led lampeggianti della sveglia: le sei e un quarto.
Non perse tempo ad imprecare e a bestemmiare qualcuno che di sicuro non le avrebbe risposto; si trascinò a fatica nel bagno di porcellana che la delicata villetta di Cornell le offriva.
Di fronte allo specchio, non trovò la solita vecchia Sabine, la bambola di vetro dai capelli corvini.
Gli occhi viola, carichi, erano inespressivi; le guance rosse erano sparite, lasciando il posto a delle occhiaie bluastre.
Inghiottì la paura in un solo suono sordo.
Nel silenzio della casa, sotto il russare di un uomo giovane già diventato vecchio, una lacrima sottile corse sulla guancia di Sabine.


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Capitolo 3
*** Cambiamenti ***


Capitolo II- Cambiamenti

La strada era vuota, e il maggiolone sfrecciava innocuo sotto la nube di gas della grande metropoli.
Il verde delle praterie di Cornell, così tenero e soave, era una terribile minaccia agli occhi di Sabine.
Cercò di non pensarci, alla guida della macchina; suo padre gliel’aveva ceduto, forse per i sensi di colpa per aver ignorato il compleanno di una figlia per diciassette anni.
La scuola era un edificio rettangolare, alto e ricoperto di mattoni chiari; il tetto era un piano rosso in obliquo, sopra a schiere irregolari di finestre disastrate.
Sabine scese dalla macchina coprendosi col cappuccio, rimanendo attenta a non far cadere la massa informe di libri che reggeva tra le braccia.
Il parcheggio era già pieno di macchine; le lezioni erano iniziate da due ore, ma lei era autorizzata ad entrare in ritardo, perché era la nuova arrivata.
Di fianco alla porta principale, una porta di metallo più piccola recava il cartello “Segreteria”.
Sabine vi entrò cauta, guardandosi attorno.
Le orecchie risuonavano di un sottile sibilo, come un fischio in lontananza. Scosse la testa, cercando di eliminarlo, ed entrò dentro.
La segreteria non era certo come se l’era immaginata; era un quadrato ricoperto di granito, un bancone giallo a dividere la stanza e svariati avvisi colorati appesi alle pareti.
Una donna dall’aria vissuta, circa una cinquantina d’anni, batteva un testo sul computer.
-Ehm...Salve!- disse Sabine.
La donna spostò gli occhi su di lei e le sorrise, cordiale.
-Ciao. Serve aiuto?- le domandò.
La ragazza avanzò verso il bancone.
-Sono la nuova ragazza, sono appena arrivata da Stonebury e non so dove...- non terminò la frase, perché la donna la interruppe.
-Ah sì! Tieni.- le diede un foglio pieno di numeri e scritte, e una busta con la divisa scolastica.
-Questa la devi indossare ogni giorno, tranne nelle ore di educazione fisica. Il professor Hanson te ne darà un’altra per le sue ore. Invece questa- disse prendendole un altro foglio. –E’ una mappa della scuola. Ci sono indicate tutte le aule e il tuo armadietto, dovresti riuscire ad orientarti bene da sola.-
Le sorrise, e Sabine cercò di risponderle col sorriso più convincente che poté. Ma le uscì solo una smorfia.
-Benvenuta alla Cornell High!- le disse la donna, prima di sparire dietro a un paravento azzurro.
Sabine sospirò, rassegnata. Cosa ci trovava di bello, la gente, in quell’insulso paese?
La risposta arrivò subito. Quello che lei non avrebbe più potuto apprezzare.
Il vento, la natura, la libertà di una corsa tra gli elementi con il mondo nelle orecchie.
Tutti elementi che la riportavano alla sua condanna.
Scosse la testa, cercando di scacciare le lacrime.
A passo svelto, uscì dalla segreteria e percorse le poche scale che la separavano dall’ingresso della scuola.
Diede un’occhiata all’orario che aveva appena ricevuto, e notò che la sua prima lezione era quella di Letteratura Inglese. La sua materia preferita.
Sospirò, un po’ più sollevata. Poi s’intrufolò nel bagno delle ragazze, per poter indossare la nuova divisa.
Nel bagno , di fronte alla finestra, tre ragazze bionde molto poco naturali ridevano e si scambiavano i cellulari per leggere dei messaggi.
Quando Sabine fece il suo ingresso, la più alta delle tre –una di quelle svampite dei film adolescenziali- si voltò e la squadrò da capo a piedi. Alzò un sopracciglio, contrariata.
-E tu, chi saresti?- le chiese, acida, sotto i risolini delle altre due.
Sabine cercò di mantenere un comportamento decente, sorridendo e porgendole la mano.
-Piacere, io sono Sabine e mi sono appena trasferita...-
La ragazza la fissò come si fissa un malato di mente, le sopracciglia inarcuate e la bocca contratta in una smorfia di disapprovazione.
Si avviò verso l’uscita, ignorando la mano della ragazza e strattonandola, mentre le altre due bionde le riservavano lo stesso trattamento.
Sabine rimase a bocca aperta. Incredibile. Era solo alla prima ora di un intero anno, e già sentiva di odiare qualcuno.
Sbuffò, e si chiuse in una delle cabine per cambiarsi.
La divisa era il capo d’abbigliamento più anonimo che potesse mai essere stato creato: una maglia a collo alto bianca, un golfino azzurro con la zip, e una gonnellina blu a pieghe.
Sabine sbuffò ancora, mentre indossava il completo.
Quando uscì, i corridoi erano pieni di ragazzi che si recavano alle lezioni della terza ora.
Lei si recò spedita verso l’aula che portava la targhetta “Mr. Pretton – Letteratura Inglese”.
L’aula era quasi piena; il professore stava sistemando dei libri sulla cattedra, ma quando la ragazza mise piede nella stanza, alzò subito lo sguardo.
Sabine sorrise, e si presentò a bassa voce.
-Ehm...salve, sono Sabine Marshall...-mormorò.
Il professore le sorrise e le si avvicinò.
-Benvenuta Sabine. Preferisci che ti presenti alla classe?- le domandò.
Lei scosse subito la testa. –No, grazie.-
-Bene. In tal caso, puoi sederti qui.- disse, indicando uno dei primi banchi, poggiati alla parete.
La ragazza obbedì senza fare un fiato; per sua fortuna il banco era ancora vuoto.
Il professore si spostò davanti alla lavagna, una macchia sovrappeso sul nero della parete;
-Bene ragazzi.- annunciò. –Oggi si parla di poesia-

-Shakespeare! Senza dubbio il più famoso poeta nella storia della Letteratura. Anche se più che poeta, stiamo parlando di drammaturgo...chi non conosce le sue opere? Romeo e Giulietta, Re Lear, Otello...chi non ha mai recitato la frase “Essere o non essere, questo è il dilemma”?-
Il professore declamava il proprio discorso a gran voce, accompagnandolo con larghi gesti e sguardi appassionati.
La classe era per lo più distratta, alcuni guardavano fuori dalla finestra, altri si scambiavano bigliettini sottobanco.
Solo Sabine seguiva i gesti del professore con sguardo ammirato, pendendo dalle sue labbra; aveva seguito miliardi di volte quei discorsi, nella sua mente, ma ogni volta si emozionava come la prima.
Adorava la poesia. Adorava quell’armonica combinazione di suoni e sillabe insensate, che combinate insieme rendevano splendido ogni suono.
Adorava vibrare di piacere mentre recitava i suoi canti preferiti, e non si vergognava degli sguardi sprezzanti che le giungevano ogni volta che dichiarava la sua passione.
Semplicemente li ignorava, ignorava i commenti sarcastici mentre decantava i suoi versi preferiti dei poeti latini, rinchiusa nel suo piccolo mondo personale, che era così diverso dalla realtà...la poesia, insieme alla musica, era uno dei pochi appigli a cui si era potuta aggrappare per una vita; quando le voci si facevano più insistenti e fastidiose, la sua cura era una poesia sussurrata a mezza voce, o una canzone intonata tra sé e sé.
-Signorina Marshall?- disse il professore, picchiettando le dita sul banco della ragazza.
Lei sussultò, presa alla sprovvista. –Sì?-
-Qual è il suo poeta preferito?- le chiese, curioso.
Sabine sorrise. –Ehm...William Blake, signore. Ed Emily Brontë.-
Lo sguardo dell’uomo si accese. –Ah, senza dubbio due ottimi poeti. Gradirebbe recitarci una poesia?-
La ragazza avvampò. Sorrise, timida, sperando che il professore si rimangiasse le parole.
Ma lui accennò un sorriso, e la sollecitò: -Suvvia, qui tutti fremiamo per sentirla recitare una poesia.-
Lei si guardò attorno; non si poteva certo dire una classe di estimatori della poesia.
Tanto che ho da perdere? Pensò.
Prese un grosso sospiro, e cominciò:

Mese per mese, anno dopo anno,
la mia arpa ha versato un canto triste;
ora una nota vivace la rallegra
e il piacere intona le sue corde.
Che importa se le stelle e il bel chiaro di luna
Si estinguono nel grigio del mattino?
Sono soltanto emblemi della notte,
e questo, anima mia, è il giorno.

Il professore sorrise, entusiasta.
-Splendida poesia. Ottima scelta.- Commentò.
Sabine sorrise imbarazzata, senza badare ai commenti dei nuovi compagni, dietro di lei.
Qualche fila più in fondo, notò una delle tre biondine che l’avevano derisa nel bagno.
La campanella suonò, e gran parte degli alunni cominciarono ad alzarsi e a correre fuori dall’aula.
Il signor Pretton richiamò l’attenzione della classe alzando il tono di voce: -Per venerdì voglio un saggio breve sul vostro poeta preferito. E se non ce l’avete, trovatelo.-
Detto questo, si dileguò fuori dalla porta, mentre Sabine stava ancora cercando di raccogliere i libri caduti a terra.
-Ehm..scusa?- Una voce dolce e squillante la chiamò da sopra la sua spalla.
La ragazza alzò lo sguardo, e si trovò davanti una ragazzina bassa e minuta, un morbido caschetto castano attorno al viso roseo, e un sorriso brillante stampato sul volto.
-Ciao! Mi chiamo Lily...volevo dirti che ho trovato fantastico il modo in cui hai recitato la poesia, è bellissimo, sei stata bravissima!- parlò a raffica, con l’entusiasmo di una bambina, mentre Sabine avvampava di rossore.
-Beh...grazie, ma non è niente di speciale...-
-Oh, ti sbagli...-
-Sabine.- le disse la ragazza. –Mi chiamo Sabine.-
L’altra sorrise, e riprese a parlare. –Sai, sembri simpatica. Posso accompagnarti alla prossima lezione? Io ho tedesco, ma posso accompagnarti alla tua aula...-
Sabine sorrise. –Certo. Io ho Chimica.-
Le due ragazze si avviarono fuori dall’aula, percorrendo il corridoio pieno di ragazzi e ragazze, in un’unica macchia bianca e blu.
Sabine si trovò a pensare che Lily era davvero una persona simpatica, seppur petulante come tante altre, ma era una delle rare persone che oltre a parlare, sanno ascoltare.
Di fronte all’ aula di chimica, le due si salutarono con la promessa di rivedersi a pranzo.
La ragazza entrò nell’aula discreta e silenziosa come nell’ora prima, parlando con il professore a bassa voce e andando a sedersi al solito primo banco.
Trascorse la lezione a guardare distrattamente la lavagna, prendendo qualche appunto e continuando a scarabocchiare sui margini del libro.
Due occhi, affilati, un viso minuto ed appuntito, un corpo snello e due grandi ali affusolate. Quando si rese conto di cosa aveva disegnato, sobbalzò.
Cancellò la fata con il correttore, cercando di concentrarsi sulla lezione.
Ma il professore si alzò e a tradimento andò a spalancare la finestra, un quadrato di vetro che si affacciava proprio sul punto più verde del cortile.
Sabine impallidì. In una frazione di secondo, le voci tornarono, intense e beffarde, sovrastando la voce dell’uomo e riempiendo le orecchie della ragazza, che non vedeva più nemmeno davanti a sé.
Non rinunciavano, quelle maledette. Erano sempre impegnate a cercare di corrompere la ragazza, a costringerla nel loro mondo, a convincerla ad unirsi a loro per non avere più un nemico a piede libero.
Le sussurravano proposte allettanti ed insulti beffardi nelle orecchie, sibilando le offese più aspre e svolazzandole attorno alla mente.
Sabine poggiò la testa sul tavolo, ansimante.
Vieni con noi...unisciti a noi...
Scattò in piedi, senza ascoltare le proteste del professore.
Corse fuori dalla classe, in cerca di un luogo buio, completamente buio. Da qualche mese, aveva scoperto che nei luoghi chiusi e senza luce, non poteva più sentire le voci.
Il caso le diede una mano, perché davanti ai suoi occhi si presentò una porta rossa con scritto “Ripostiglio”.
Si augurò che fosse proprio come lo aveva visto nei film, e vi entrò senza preoccuparsi di non essere vista.
Si richiuse la porta alle spalle, e si gettò a terra, di schiena alla parete.
Ansimava e il sudore le aveva impregnato i capelli, come ogni volta.
Il buio l’avvolgeva, paradossalmente una protezione per lei.
Avrebbe mai avuto fine, quest’incubo?

La mensa era già affollata, quando Sabine entrò nello stanzone.
Il vociare dei ragazzi rimbombava tra le pareti, e la ragazza provò sollievo nel constatarlo. Per lo meno lì le voci non si sarebbero fatte sentire.
Si avviò verso il bancone dei dolci, ignorando le altre vetrine colme di prodotti da fast-food e sporcizie industriali.
Prese una fetta di torta alle fragole, tutta ricoperta di panna e pezzetti di frutti rossi. Si avviò tranquilla verso il tavolo dove l’aspettava Lily, ma quando camminò affianco al tavolo delle tre biondine, una le lanciò uno sguardo furbo ed allungò la gamba per farla inciampare.
Sabine cercò di attenuare la caduta, ma finì inevitabilmente addosso a un ragazzo che era in coda per pagare il pranzo, gettandogli tutta la panna della torta sulla giacca di pelle nera.
Un boato di risate fragorose esplose, mentre il ragazzo si girò con aria stizzita.
Sabine non lo vide, troppo impegnata a guardare le tre arpie con astio. Quando poi si voltò per chiedere scusa alla sua ‘vittima’, si trovò di fronte il ragazzo più bello che avesse mai visto: pelle chiarissima, alto, le sopracciglia contratte in un’espressione confusa, una macchia di capelli neri che coprivano due occhi di una sfumatura cristallina di verde.
Rimase a bocca aperta, incapace di proferir parola. Quando si rese conto dell’espressione da ebete che le si era dipinta in faccia, scosse la testa e balbettò qualche parola spiacente. –Scusa...io...sono caduta...-
Lui rispose con un gesto noncurante della mano, togliendosi la giacca e passandosi una mano tra i capelli.
-Capita...- disse, semplicemente. Poi si girò dall’altra parte, diede i soldi alla commessa del bancone e si diresse verso l’angolo più remoto della stanza.
Sabine restò ad osservare la scena, stranita. Quando una mano le toccò la spalla, sussultò.
-Ehi, Sabine, stai bene? Dai, non è successo niente...- la voce di Lily la ridestò, e lei si ritrovò ad arrossire fino alla punta dei capelli.
-Sì, sì...andiamo a sederci, per favore...- rispose, andando verso il tavolo che prima occupava l’amica.
Mentre mangiavano la porzione di patatine di Lily, Sabine scorse le occhiate beffarde dal tavolo delle sue nuove ‘amiche’.
-Chi sono quelle?- domandò alla compagna.
Lei rispose con una smorfia. –Courtney Catchmore, Carrie Becks e Deede Michigan. Insieme al loro club di biondine assatanate. Sono la crème de la crème della società di Cornell.- disse, ironica.
Sabine annuì ed abbassò la testa. Poi le venne un’altra domanda.
-E il ragazzo su cui sono caduta?-
Lily rise. –Il ragazzo su cui hai rovesciato una torta.- precisò. –E’ Daniel Morgance. Il più bello della scuola, ed il più solo. Mi stupisco che ti abbia rivolto la parola.-
Lo sguardo di Sabine corse verso il tavolo a cui era seduto Daniel Morgance.
Con una mano reggeva un libro, con l’altra agitava la forchetta giocherellando con un hamburger. Aveva un che di mistico, un qualcosa che lo rendeva diverso da tutti gli altri ragazzi nella scuola.
Quanto meno, un ragazzo così bello sarebbe dovuto essere il più popolare, circondato da cheer-leaders e macchine di lusso.
Invece se ne stava in disparte, non cercava la compagnia d’altri e ne tantomeno qualcuno gliela offriva.
-Sabine?- una mano si agitava di fronte ai suoi occhi. La ragazza si ridestò all’istante, e si voltò verso Lily.
-Come, il primo giorno di scuola e sei già stata folgorata?- la prese in giro, lei avvampò e abbassò lo sguardo sul tavolo.
La campanella suonò dopo qualche minuto.
-Bè io ho educazione fisica ora...sai la strada per la tua aula? Devo accompagnarti?- le chiese cortesemente Lily.
-No, no, grazie...ho un’ora di buco, penso che farò un giro per la scuola...- rispose sorridendo.
L’amica annuì e scomparve tra la folla. Sabine rimase seduta finché non fu l’ultima nella mensa, poi si avviò di malavoglia verso l’uscita.
Aspettò che le vie si svuotassero, e prese a girovagare per i corridoi; scorreva le aule senza soffermarcisi tanto...Chimica, Fisica, Biologia, Informatica, Palestra...Teatro.
Si arrestò di fronte ad una porta ricoperta di velluto rosso, dove era appeso un avviso su un foglio bianco:
Il corso di canto del professor Dexter riprenderà venerdì 24 marzo nell’Aula teatrale della scuola, alle 14.30.

Sabine si fece un rapido calcolo mentale. Era venerdì. Ed era il 24. Ma erano già le quindici.
Sbuffò, delusa. Fece per andarsene, ma si trattenne...non poteva certo lasciarsi sfuggire quell’occasione, e aveva ancora la scusante della nuova alunna...
Sospirò, e socchiuse la porta quel tanto che bastava per vedere ciò che succedeva dentro. Sul palco, vari strumenti musicali venivano strimpellati da ragazzi e ragazze di diversa età, mentre alcune ragazze sedute in platea, ripetevano a bassa voce il testo di una canzone.
Quando la porta si aprì, un professore si girò verso l’entrata a guardare Sabine.
-Desidera?- le chiese in tono formale.
-Ehm...mi scusi, ho letto l’avviso sulla porta...spero di essere ancora in tempo per il corso...-
Il sorriso dell’uomo si spalancò. Si avvicinò, alto e magrolino, coi segni di un tempo non troppo clemente portati orgogliosamente sul volto.
-Ma certo, venga, venga! E’ nuova della scuola?-
-Già...mi chiamo Sabine Marshall-
-Oh! La figlia di David?- le chiese lui, curioso.
-Sì, è mio padre...-
-Oh, ho sentito molto parlare di te. David è un caro amico di famiglia...ma vieni, lascia che ti presenti al gruppo.-
La trascinò ai piedi del palco, rossa dalla testa ai piedi, mentre tutti la scrutavano con diffidenza.
-Ragazzi, questa è Sabine.- decretò. Il pubblico non si scaldò pi ù di tanto, rimase a guardare impassibile e riprese a suonare i propri strumenti, o a ripassare la parte.
-Stiamo organizzando un musical...sei arrivata proprio al punto giusto, stavamo per allestire le audizioni dei vari personaggi. Hai lezione nelle prossime ore?-
Sabine scosse la testa, felice. Finalmente le si presentava la sua occasione.
-Perfetto. Ti farò cantare una canzone, dopo, e vedremo che personaggio potremmo affidarti.-
La ragazza sorrise, entusiasta, e si gettò su una delle poltroncine della platea.
Su una sedia non poco lontana da lei, v’era un Block notes tutto scarabocchiato e pieno di appunti.
Si guardò attorno, circospetta, e sbirciò le scritte. Erano molto disordinate, perciò riuscì a comprendere molto poco.
Quello che capì, però, la elettrizzò.
Le parole <>, <>, <> spiccavano tra le altre.
Sabine si sentì morire di gioia. Il musical riguardava uno dei suoi miti preferiti, quello di Eco e Narciso, forse uno dei più tristi e dolorosi che avesse mai letto.
-Bene. Possiamo partire con le audizioni.- la voce tonante del professore risuonò nella sala.
Le ragazze nella platea scattarono in piedi.
Una avanzò fino a salire sul palco, consegnò un foglio ad un ragazzo al pianoforte e cominciò a cantare.
Aveva una voce forte e bellissima, e lei non era da meno. Una cascata di riccioli castani ed un abbigliamento da far invidia alle migliori modelle.
In più era molto sicura di sé. Passeggiava sul palco come se fosse nata lì, agitando le mani per enfatizzare i suoni.
Tutti i presenti la guardavano ammirati, tranne uno. Il professore la scrutava con diffidenza, quasi volesse negare le sue capacità.
La ragazza finì la sua esibizione con un acuto, e lasciò tutti a bocca aperta.
-Bene, Trisha, ti faremo sapere.- fu il laconico commento del professore.
Le altre ragazze si divisero il palco, chi tra atroci stecche ed altre con voci d’usignolo.
Poi il sig. Dexter si voltò verso Sabine e le sorrise.
-Bene, Sabine. Vuoi provare?-
Lei si guardò attorno, spaesata. Non aveva capito che doveva fare il provino quel giorno.
-Ehm...bè, non ho una canzone...-
-Non preoccuparti. Conosci “Sittin’ on the dock of the bay”?-
Annuì. Il padre gliel’aveva fatta ascoltare fino alla nausea.
Salì sul palco, mentre la ragazza si spostava dallo sgabello del pianoforte a una sedia imbottita, prendendo la chitarra.
Sabine sospirò e cominciò a cantare.
Cantò, ma non per quel pubblico ristretto che doveva stabilire se era brava o no.
Cantò per sé stessa, per scacciare via le paure, per dimenticare anche un solo minuto quella condanna che le gravava sulla testa come una spada di Damocle.
Cantò per sentirsi libera.
E mentre cantava la scuola scomparve, insieme alle paure e alle ansietà, lasciando il posto a oceani sconfinati e mondi dove sarebbe stata finalmente ciò che voleva.
La chitarra suonò le ultime note. Sabine tornò alla vita reale, sospirando.
Attorno al professore, una decina di studenti era radunata per decretare il vincitore di quella sorta di gara.
-Bene.- annunciò infine l’insegnante. –Penso proprio che abbiamo la nostra Eco.-

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