Poe

di Nahash
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il corvo ***
Capitolo 2: *** Il cuore rivelatore ***



Capitolo 1
*** Il corvo ***


Note: Questa raccolta sarà una traspostizione di alcune storie di Edgar Allan Poe, dove verrano rielaborate per adattarle ai personaggi e ai contesti, lievemente ritrattate. Verranno fatte aggiunte o sottrazioni, anche se i dialoghi, almeno quelli presenti in questa storia, poi di storia, in storia, vi dirò, sono stati lasciati invariati i dialoghi della traduzione fatta da:Corinzia Monforte.

Le parole presenti nel testo come Nepente o Gilead sono sostante sedative che per lo meno si usavano all'epoca in cui il racconto è stato scritto.
A parte qualche parole riutilizzata come "intatto" riprese dal testo, nient'altro è stato copiato dalla traduzione, ma è tutta farina del mio sacco(?) XD Eccetto ovviamente i dialoghi, che, come ho detto prima, sono stati lasciati come l'originale per non far perdere al racconto la giusta dose di antichità e oscurità, sebbene in qualche modo l'abbia voluta riadattare a un contesto più contemporaneo. Lo stile usato è si moderno, ma comunque "aulico" visto e considerando di cosa si sta parlando. E' un AU in quanto il contesto è diverso da Saiyuki e alcune cose variano per contestualizzare il tutto al meglio.
Spero che vi possa piacere l'idea e la storia in se, anche se so che Allan Poe è uno scrittore controverso e poco compreso o apprezzato.

Ps: Ringrazio particolarmente Deep Chaos che ha sottratto a se un po' del suo prezioso tempo per betarmi questa storia.
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Se ne stava lì, nel suo studio, quando ormai la notte rendeva la luna ben visibile nel cielo: quella sera, Ukoku era molto triste e memore della morte del suo amato Komyo, si stava dilettando nella lettura dei tomi più vari per scongiurare la tortura interiore.
Non era solo però, perché a fargli compagnia c'era la sua ombra riflessa nel pavimento.
Immerso nei suoi pensieri, improvvisamente venne scosso da qualcosa: un rumore – sembrava che qualcuno stesse bussando alla porta.
Quei suoni, oltre a destarlo, lo fecero allarmare al punto che non poté trattenersi dal chiedere a se stesso chi mai potesse essere a quell'ora tarda: chi bussava alla sua camera?
«Sarà qualche visitatore», mormorò tra sé e sé, cercando di non allarmarsi in alcun modo – per quanto potesse spaventarsi.
C'era da dire, però, che quella situazione appariva molto strana ai suoi occhi: dopo tutto, come al solito, la notte era il suo selvaggio e incontaminato territorio, pertanto nessuno osava addentrarsi eccetto una sola persona.
«Signore o signora, davvero imploro il vostro perdono,» disse istintivamente «ma il fatto è che mi stavo appisolando e così voi, dolcemente, siete venuti a battere», continuò, desideroso di tornare presto al suo trastullo. «Così piano siete venuti a bussare e bussare alla porta di camera mia, che io a stento vi ho sentito.»
La sua tattica risposta, semplicemente, fu data per allontanare da sé qualsivoglia intromissione, ma nonostante ciò, Ukoku si avvicinò ugualmente al luogo incrinato e, aprendo l'uscio, non vide nulla: buio e nient’altro.
Sorrise beffardo per quello strano scherzo del destino che, chissà per quale sciocco motivo, sembrava volergli far tornare alla mente la scomparsa di Komyo; dopodiché cercò di sbirciare in fondo alle tenebre, ma non scorse nulla, tant’è vero che rimase a guardare a lungo e forse riuscì anche a provare un po' di timore, a dubitare, a sognare sogni che nessun mortale si sarebbe mai augurato di fare.
Il silenzio era intatto, concreto, come lo era sempre quando nell'ombra si agitavano le membra di Ukoku; fu così che, per nostalgia o per prova, sussurrò nell'oscurità una sola parola: «Komyo.»
Mormorò il nome dell’amato e in tutta risposta il buio gli rispose con l'eco: «Komyo.»
Ukoku chiuse la porta dietro di sé, poggiandosi contro di essa per qualche istante, sospirando appena; poi, non appena riuscì a mettersi l'anima in pace, malgrado il suo cuore fosse ancora in pieno tumulto, sentì di nuovo bussare.
«Sicuramente si tratta di qualcosa che batte contro la finestra», disse tra sé e sé, avvicinandosi al vetro della stessa per accettarsi della veridicità di quel nuovo mistero, per esplorarlo, sperando che il suo cuore potesse calmarsi da quel turbinante delirio; nonostante tutto, però, questo scalpitava senza sosta e non accennava a diminuire la galoppata furiosa. «È il vento e nulla più», convenne dolorosamente, prima di chiudere anche la finestra e sorridere con scherno, amareggiato, mentre vi si poggiava contro.
Era come se stesse nutrendo una qualche speranza nel rivedere il volto del suo amato anche solo per una volta, nonostante complice della realtà avesse ben inteso che si trattasse solo di una vana aspettativa.
Spalancò di nuovo la finestra, voltandosi crucciato e ansioso, come animato da una frenesia interiore; allorché, con suo grande stupore, un corvo maestoso entrò nella stanza, sbattendo le ali ampie, e senza presentazioni, senza essere invitato, si appollaiò sul busto della statua di Buddha che Ukoku teneva in camera come cimelio.
Allora, notando la sua voglia restia di sorridere, quel corvo curvò appena la testa e con il suo portamento tanto severo quanto decoroso, lo ascoltò quando Ukoku, prontamente, restrinse di poco lo sguardo, deciso a muovere i suoi passi verso l'ignoto.
Ormai raggiunto il caos, nella sua follia, si mise a parlare con il pennuto:
«Anche se la tua cresta è tagliata e rasa, tu…» si fermò appena, ponderando per poi proseguire il suo discorso con il corvino volatile «… di sicuro non sei un vile, spettrale, sinistro e antico uccello che vaghi dalla riva della Notte», disse, umettandosi poi le labbra, prima di arrivare al dunque in un tonante ordine: «Dimmi quale è il tuo signorile nome sulla riva della notte plutoniana!»
«Mai più.»
Il corvo rispose mai più.
A quel punto Ukoku si trovò nel dubbio, non sapendo se fosse davvero impazzito o se quegli animali potessero essere veramente affini alla sua figura: Komyo aveva ragione, si disse, Ukoku era davvero un corvo.
Mai più, riecheggiava nella sua testa come se fosse il sibilo della coscienza, mai più.
Il nero uccello, nefasto e indesiderato, pareva volergli ricordare l’atto più vile e insensato che mai avesse osato commettere con le proprie mani: aveva ucciso il suo amore – e nonostante tutto, quasi con villania, continuava a stare appollaiato su quel busto.
Non disse più una parola, non si mosse neppure, finché Ukoku non decise di parlare nuovamente:
«Molti tuoi amici sono volati fin qui, ma al mattino anche tu mi lascerai, come le mie speranze che sono volate via, ormai», disse, riferendosi all'eco che l’aveva cullato nella speranza di poter rivedere Komyo nel travolgente, o forse no, rammarico del suo gesto.
«Mai più.»
Il corvo continuava a mormorare quel suo nome tanto strano e lui sussultò dinnanzi a quella risposta che, come un disco rotto, gracchiava ancora una volta, ripetuta verso l’infinito.
«Senza dubbio», fece Ukoku al corvo, guardandolo con aria mesta – chiaro segno di chi gli aveva arrecato offesa nello spingersi così impudentemente all'interno della sua anima; poi però, per rasserenarsi, cominciò a dire tra sé e sé: «Ciò che dice sarà la sua unica frase ripetuta, attinta da un qualche padrone infelice che un’ impietosa disgrazia ha seguito veloce e inseguito più veloce, finché le sue canzoni avevano un solo ritornello, finché i funerei canti della sua speranza, quel malinconico ritornello, avevano di un mai, mai più
Il corvo, mentre cercava di far sorridere ironicamente a Ukoku, lo vide muoversi velocemente verso di lui, avvicinando con se una poltrona per sedere sulla stessa e cominciare a fissarlo intensamente.
Pensò, rifletté a lungo sul motivo che aveva spinto quel corvo a starsene lì: come mai continuava a insistere con quelle parole terribilmente seccanti? Si chiese, cominciando a perdersi nelle sue congetture, mentre non osava dir nulla al pennuto.
Lui lo guardava e i suoi occhi fissi e ardenti gli bucavano il centro del petto.
Anche la lampada della stanza era sua nemica, dal momento che si puntava sulla fodera di velluto della poltrona, poltrona sulla quale si era poggiato anche Komyo.
Ah! Mai più!
Ukoku riuscì ad arrivare alla conclusione, l'aria gli sembrò farsi più pesante, mista ai pensieri, al rimorso e alla pesantezza della colpa che si portava dietro.
«Maledetto!» Gemette. «So perché sei qui: il tuo Dio ti ha condotto da me per lenire i pensieri costanti di Lui. Vuoi sollevarmi, ma tracanno questo tipo di nepente e dimentico questo perduto Komyo.»
«Mai più», disse il corvo in tutta risposta, ancora una volta.
«Profeta!» Sibilò «Cosa malefica, profeta ancora, se uccello o demonio! Qualunque sia il Tentatore che ti ha mandato, o qualunque tempesta ti abbia sbattuto in questi lidi, desolati eppure così pieni di presenze, su questa terra deserta eppure incantata, c’è un balsamo in Gilead? Dimmi, dimmi, ti imploro!»
Ukoku stava dando in escandescenza per quella tragica situazione che, per un attimo, gli aveva fatto rivivere l'incubo dell'omicidio: non riusciva più a capire se il corvo fosse un emissario di una qualche benevola creatura, oppure del più spietato tra gli Dei, ma a ogni modo gli si appellò.
Il corvo, però, ancora una volta, impervio rispose: «Mai più.»
«Profeta», disse Ukoku, ormai alla stregua delle sue forze, inveendo contro il corvo e alzandosi dalla sua poltrona. «Cosa malefica, profeta ancora, se uccello o demonio! Per il cielo che si piega su di noi, per quegli Dei che entrambi adoriamo, di’ se quest'anima pesante di dolore, se, nel lontano Eden, stringerà un uomo chiamato Komyo», supplicò quasi. «Stringerà un uomo radioso che gli dei chiamano Komyo?» Domandò.
Il corvo, ancora una volta, rispose: «Mai più.»
«Sia la tua parola il segno del nostro addio, uccello o dio maligno!» Urlò, ringhiando contro quell’uccello, mentre camminava vorticoso per la stanza, andando a inveire con il dito sempre contro il corvo che, ovviamente, se ne stava ancora immobile e appollaiato sulla statua.
«Non lasciare piuma nera come segno di quella bugia che la tua anima ha proferito: lasciami alla mia intatta solitudine, vattene dal busto della mia statua, togli il becco dal mio cuore, togli la tua forma dal busto!» Sibilò furibondo nei riguardi del corvo che, nefasto e punitivo, senza pietà, senza muovere nulla del suo nero corpo determinato, rispose ancora una volta: « Mai più.»
Il corvo non volò mai, deciso di rammentare la colpa di Ukoku, seppur sembrasse che volesse rassicurarlo al contempo: sedeva ancora sul dorato busto del Buddha, mentre gli arguti e piccoli occhietti prendevano le sembianze di quel tanto citato demone maligno che sognava il moro, con la luce della lampada che si estendeva verso di lui, gettando la sua ombra sul pavimento, dove l'anima di Ukoku, fluttuante, non si sarebbe sollevata.
Mai più.

 

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Capitolo 2
*** Il cuore rivelatore ***


Note: Questo è il secondo capitolo della raccolta basata sui racconti di Edgar Alla poe. Come la scorsa volta ci tengo a precisare che i racconti vengono adattati al contesto di Saiyuki (sebbene sia un Au in questo caso) come viene adattato anche lo stile di scrittura, sicuramente più moderno rispetto a quello di Poe. L'unica cosa invariata sono i dialoghi eccetto una parola (Miserabili che è stata sostituita con Maledetti) per rendere il contesto, appunto più fluido.
Se volete leggere la storia originale potete visitare questo sito: http://www.edgarallanpoe.it/racconti/il-cuore-rivelatore/
Ps: Visto che stiamo in procinto delle vacanza di Natale, non ho voluto rompere le scatole a nessuno per farmi betare o che. Sicuramente ci saranno degli errori e per questo mi scuso, spero che riusciate comunque ad apprezzare la storia.
Il personaggio protagonista del "Cuore rivelatore" è anche sta volta Ukoku, perché mi sembrava il più adatto tra i vari pg di Saiyuki.
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Sono nervoso, tremendamente nervoso e in un certo senso lo sono stato sempre. Perché volete che sia pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti e quello più sviluppato era l'udito. Ci sentivo così bene da percepire ogni tipo di suono anche quelli provenienti dall'inferno. Dite che sono pazzo? State attenti allora e apprestatevi a vedere con quale accuratezza racconterò questa storia.
Come mi fosse venuto in mente non saprei proprio spiegarlo, davvero, mi è difficile ancora concepirlo. Non c'entrava nulla, sembrava tutto così insensato. L'amavo quell'uomo e non mi aveva mai fatto del male, mai offeso, mai arrecato dolore. Non desideravo il suo potere né tantomeno il suo denaro, ma i suoi occhi mi turbavano: quegli occhi scuri e attenti indagavano nel profondo della mia anima scrutandomi sempre dall'interno. Non sopportavo più quella situazione, non sopportavo più i suoi occhi.
Adesso voi senz'altro mi crederete pazzo, ma ditemi i pazzi non sanno nulla di nulla e spiegatemi come un folle riuscirebbe a fare con maestria il seguente procedimento: entravo nella sua stanza ogni giorno a mezza notte, sempre alla stessa ora, per sette giorni.
Ero sempre molto cauto per infiltrarmi nella sua camera per osservarlo, aprivo la porta, piano ed entravo avvicinandomi a lui, che dormiva beato sul letto. Non riuscivo a vedere i suoi occhi mentre dormiva, ma sapevo che erano li e che questi incalzanti mi osservavano, scrutandomi nel profondo.
L'ottava notte fui ancora più prudente entrai nella stanza, mai prima di quella notte ─ vedendomi così abile, mi meravigliai della mia intelligenza e della mia maestria nell'entrare così prudentemente, nell'ingannare il tempo con la mia velocità.
A quell'idea mi scappò una risata, una di quelle soddisfatte e fiere. Sembrò che mi sentisse considerando che lo vidi scattare seduto sul letto come se, improvvisamente, si fosse svegliato.
Voi penserete senza dubbio che io me ne fossi andato e invece no, rimasi lì. La sua stanza era scura come la notte che gentilmente era calata dal cielo. Tutto era buio e per l'altro fu impossibile vedermi.
Ero riuscito appena a far passare la testa dall'uscio quando era sul punto di accendere la lanterna e il dito mi scivolò sulla serratura di latta. L'altro mi sentì e rizzandosi sul letto gridò.
«Chi è la?»
A quel punto rimasi immobile, per un'ora non mossi un muscolo rimanendo così, come se fossi una statua. Non lo sentii ricoricarsi, lui era sempre vigile e attento, seduto sul letto, pronto a scorgere qualsiasi rumore come io avevo fatto per tutte quelle notti.
Improvvisamente scorsi nel silenzio un gemito di terrore, era l'uomo che come me durante tutte quelle notti, veniva avvolto da quella terribile oscurità di paura che adesso lo aveva fatto trasalire, quella paura che aveva invaso tutte le mie nottate mentre tutti dormivano ed io ero là. Lo capivo, sapevo cosa stava provando e la paura era sincera, come quando si riscosse al primo rumore da lui percepito.
Non è altro che vento nel camino, un topo che attraverso il soffitto, un grillo che ha cantavo.
Si disse tra sé cercando di rincuorarsi con quelle stesse sue convinzioni, ma non aveva sentito rumori, era la percezione dell'ombra della morte stessa, di quell'oscurità impietosa che non gli dava tregua a farlo tremare di paura, a renderlo vulnerabile così da percepire che io ero li, nella sua camera e ancora non dicevo nulla.
Dopo aver aspettato pazientemente mi apprestai ad accendere la lanterna, ma la luce che feci emanare da questa era pochissima, fievole, un raggio finissimo come fosse stato un unico filamento d'oro.
E ora lui aveva gli occhi spalancati che mi guardavano con  terrore e mi ammonivano allo stesso tempo e io avevo puntato il raggio di luce involontariamente proprio sui quei occhi che tanto mi spaventavano da ossessionarmi.
Ricordate la storia dei sensi? Ora non prendetela come una pazzia, ma sappiate che improvvisamente presi a sentire il battito accelerato del suo cuore, galoppava imperioso sempre più velocemente e questi suoni raggiungevano alle mie orecchie ferendole.
Cercai ancora di trattenermi rimanendo immobile puntando il raggio di luce ancora verso i suoi occhi,ma ecco che improvvisamente divenni preda di un altro dubbio: e se il battito del suo cuore lo potesse udire qualche vicino? Si, pensavo che qualcuno potesse sentirlo, perché il suo cuore sembrava marciare, sembrava che dovesse esplodere da un momento all'altro e fu in quel momento che decisi che l'ora di quell'uomo era giunta.
Lui era morto. Gli poggiai una mano sul petto non sentendo più alcun movimento e sopratutto non sentendo più nessun rumore. Non sentivo nessun forte battito, nessun rumore molesto.
Mi accertai della sua morte anche esaminandolo quel corpo ed era a tutti gli effetti stecchito. Continuate a pensare che io sia fuori di testa, che sia matto, ma non sapete cosa ho fatto.
Sollevai tre assi di legno e nascosi al di sotto di queste il corpo dell'uomo, richiudendo il tutto, liberatomi così definitivamente dello sguardo di quell'uomo.
Ci avevo messo un po', erano le quattro di mattina, fuori era ancora buio proprio come a mezza notte. Qualcuno mi bussò alla porta, era la polizia─qualche vicino deve aver sentito un grido tanto da insospettirlo da chiamare i poliziotti.
Mi apprestai ad aprire la porta e sorrisi, sicuro del fatto che non avrebbero mai trovato il corpo di quell'uomo.
Li feci accomodare intrattenendoli, dicendo a loro che non era certo possibile fondare i loro sospetti, poiché nella stanza dell'uomo tutto era rimasto come prima, per tanto dissi loro che probabilmente l'altro se ne era andato in vacanza senza averlo detto a nessuno.
Sfacciato feci accomodare i poliziotti nella stessa stanza, facendoli camminare su quelle stesse assi che io precedentemente avevo sollevato e poi richiuso per nascondere il cadavere.
Li intrattenevo con banale chiacchericcio mentre a un tratto sentì ancora il battito di quel cuore. Era una persecuzione ignobile, priva di alcun senso, ma io lo sentivo, lo sentivo così forte che mi perforava le orecchie. Continuavo a parlare con loro, non sospettavano di nulla, ma più andavo avanti e più mi chiedevo come fosse possibile che quei dannati poliziotti non sentissero nulla.
Sicuramente divenni pallido, senza ombra di dubbio, mentre quel battito diventata spasmodico e frenetico, parlavo, parlavo e dentro mi dannavo, cercando una soluzione plausibile nell'udire quel suono sciagurato.
A quel punto sentii che bisognava parlare o morire, diventata forte, sempre più forte, dannatamente forte.
Così mi alzai  gridando in preda all'angoscia e al terrore indicando le assi di quel maledetto pavimento.
«Maledetti! Non fingete più! Confesso! Strappate quelle tavole è la! E' il battito del suo orribile cuore.

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