1975

di Timcampi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jean Kirschstein ***
Capitolo 2: *** Debito ***
Capitolo 3: *** Identità ***
Capitolo 4: *** Ceneri ***
Capitolo 5: *** Capovolgimento ***
Capitolo 6: *** Alleati ***
Capitolo 7: *** Volare ***



Capitolo 1
*** Jean Kirschstein ***


Jean Kirschstein



Vedere il suo nome mutato in quello di Jean Kirschstein su tutti i documenti e le scartoffie che l'avrebbero accompagnato nel suo cambio di vita lo turbava, ed era più che sicuro che quel mutamento di identità a cui gli eventi l'avevano condotto avrebbero inciso molto negativamente sulla sua vita sociale e sulla sua forza d'animo.

Aveva cambiato città, era stato costretto ad abbandonare l'idea di studiare nel tranquillo e comodo ateneo a pochi passi da casa per iscriversi alla grande, caotica università di Sina, e s'era lasciato alle spalle la sua famiglia e i suoi amici per trovare collocazione in una piccola villa alle porte della città, di norma data in affitto a studenti universitari.

Esitò un istante, prima di suonare il campanello della sua nuova casa.

Preceduto da un notevole frastuono, corse ad aprirgli un ragazzo di statura abbastanza minuta, pelato, con indosso dei guanti di gomma e con la fronte imperlata di sudore.

«Scusami se ci ho messo tanto, amico, oggi toccava a me dare una pulita al cesso. Sei quello nuovo, eh? Io sono Connie, Connie Springer» si presentò il giovane, tendendogli la destra con un accomodante sorriso sghembo.

Valutò con cura la situazione, prima di stringerla con cautela, come se temesse di scottarsi: per quanti gabinetti avesse potuto sturare con quella mano, iniziare con il piede sbagliato sarebbe stato senza dubbio una pessima mossa per qualcuno che stesse cercando di rifarsi una vita dopo averla messa gravemente a repentaglio.

«Jean Kirschstein»

Era la prima volta che sfoderava quel nome, ma quando Connie lo ripetè ad alta voce, come per soppesarlo, si scoprì a pensare che non gli calzava poi tanto male.

Connie lo invitò frettolosamente ad entrare, chiudendo la porta alle sue spalle e facendosi carico di una delle due valigie.

«Urca, quant'è pesante! Che accidenti hai, qua dentro? Un cadavere?» borbottò, prima di fargli cenno di seguirlo. Si sentì sollevato nel realizzare quanto, già a primo impatto, si respirasse aria di casa: il piccolo salotto era arredato in modo un po' kitsch ma molto accogliente; libri sparsi sul tavolo, un vaso colmo di brutti fiori finti, un pouf d'un arancio sgargiante; l'odore invitante di pollo allo spiedo, di patatine e di qualcosa di dolciastro che non riuscì a indentificare; uno stereo acceso al piano di sopra.

Per accedere alla sua stanza era necessario passare per la cucina.

«È il ragazzo nuovo?» pigolò la ragazza che trovarono alle prese con un impasto che Jean sperava sarebbe diventato più invitante, da cotto. Era da lì che quell'odore indefinito proveniva.

«Lui è Jean. Jean, ti presento Sasha. Dovrai attraversare il suo regno ogni volta che andrai in camera tua»

Quando Jean strinse la seconda mano della giornata, la trovò sorprendentemente forte e ruvida, e piacevolmente fresca.

«Spero ti piaccia il cheesecake, Jean» sorrise Sasha.

Cheesecake. Ecco cos'era.

La sua stanza, l'unica rimasta libera, era piccola, ben illuminata e abbastanza spoglia da stimolare la sua creatività latente: già immaginava le pareti colme di poster e post-it, la radio accesa, una lava lamp sul comodino.

Forse era stato un po' precipitoso, nel bocciare la prospettiva di una nuova vita prima ancora di cominciarla.

«Di un po', amico, dov'è che ti sei iscritto?» domandò Connie, abbandonando la valigia oltre la soglia.

«Ingegneria»

«Woh, Marco mi ha detto che è tosta. Io sono di Legge, come Sasha. A proposito, ti andrebbe di venire a conoscere gli altri?»

Nella prima stanza in cui s'imbatterono, una volta al piano di sopra, regnava un ordine maniacale: libri e quaderni ordinatamente impilati sugli scaffali, manubri dall'aria molto pesante ordinatamente allineati accanto alla scrivania, un poster su cui erano disegnati in modo impeccabile la struttura scheletrica e il sistema muscolare incollato a una parete, un piacevole profumo di pulito. Seduto alla scrivania e chino su un tomo proporzionato alla sua notevole altezza, vi era un ragazzo dall'aria malinconica e un tantino emaciata, che si presentò come Berthold Fubar; disteso sul letto, con un paio di spessi occhiali da lettura sulla punta del naso e un bloc notes ricolmo d'appunti tra le mani, c'era invece quello che doveva essere il proprietario di quei manubri: un giovane dalla stretta di mano letale ma dai modi cordiali, tale Reiner Braun.

La seconda stanza -Jean fu lieto di constatarlo- era occupata da tre ragazze. Il piano inferiore del letto a castello, attorniato da fotografie, riserve di cibo e vestiti ammucchiati disordinatamente, era quello destinato a Sasha, la ragazza del cheesecake; dal piano superiore scese invece una ragazza dai tratti orientali, dal fisico atletico e dotata di una magnifica chioma corvina.

«Jean Kirschstein» dichiarò Jean, entusiasta, allungando una mano che l'altra ignorò.

«Mikasa Ackerman» tagliò corto, prima di rivolgersi a Connie: «Reiner ha ancora bisogno dei miei manubri o posso riprendermeli?» domandò, oltrepassando Jean e dirigendosi verso la stanza accanto senza aspettare una risposta.

La terza inquilina era comodamente stesa sul letto addossato alla parete opposta, con i capelli biondi raccolti dietro la nuca e un grosso libro aperto sull'addome.

«Annie, lui è Jean»

«Incantata» bofonchiò, tuffandosi nuovamente nelle sue letture.

Connie richiuse la porta con una scrollata di spalle e l'accenno d'una risata.

«Ah, amico, fidati di me: il vantaggio di queste qui è che almeno sai che ti lasceranno studiare in pace, se capisci quel che intendo; sai, a volte fanno un po' paura, e non hai ancora visto il peggio. Ma sta' tranquillo, qua siamo tutti okay»

«Il... peggio?» mormorò Jean, a mezza voce, cercando di non figurarsi un'energumena dallo sguardo assassino, con un bilanciere tra le mani e un coltello tra i denti.

La musica che aveva udito entrando in casa proveniva proprio dalla stanza di fronte a quella delle ragazze, ed era tanto assordante che Jean si domandò tra sé come mai nessuno se ne lamentasse.

«Ci abbiamo fatto il callo. Se ci lamentiamo lei alza il volume. Stiamo prendendo in considerazione l'idea fracassarle lo stereo sulla testa, però» spiegò Connie, quasi leggendogli nel pensiero e aprendo la porta senza bussare.

Forse non era un'energumena, quella seduta sul quel letto sfatto, con indosso soltanto una maglietta dei Led Zeppelin e un paio di boxer, intenta a scarabocchiare qualcosa, ma Jean non riuscì a non pensare di non esserci andato tanto lontano.

Mentre il lato destro della stanza era tappezzato di disegni e fotografie, stemmi e pupazzi, su quello sinistro facevano bella mostra di sé poster ritraenti gruppi musicali dai nomi illeggibili, molti dei quali sconosciuti a Jean, schizzi disordinati, e indumenti gettati alla rinfusa ovunque. Il tutto era condito da una massiccia quantità di libri, dischi e fumetti che, a giudicare dalla loro collocazione, dovevano appassionare entrambe le coinquiline.

«Che cazzo, Connie, non t'hanno insegnato a bussare? Qua ci sono delle signore!» sbraitò la ragazza, cercando di sovrastare il frastuono della musica. «E lui sarebbe...? Quello nuovo? M'aspettavo peggio»

«Quello nuovo?»

Un'altra ragazza era sbucata da dietro un'anta aperta dell'armadio. Minuta, pallida, dai tratti raffinati: tutto ciò che la sua compagna di stanza non era. «Christa Renz, piacere. Spero ti troverai bene, qui; siamo una specie di famiglia un po' sgangherata» trillò, andando a stringere la mano di Jean. Profumava di spezie e di cacao.

«Che accidenti è questa roba?» sbottò Connie, portandosi le mani alle orecchie.

«ACϟDC, ragazzo»

«E chi cazzo sono?»

«Ah, sta' zitto e pussa via, pelato. Tornatene ai tuoi Bee Gees e non rompere» sentenziò, balzando giù dal letto per schioccare un sonoro bacio sulla guancia dell'amica e sbattere di malagrazia la porta.

«Ymir» sospirò Connie. E Jean non volle sapere altro.

Poi gli mostrò la sua stanza.

«Eren e Armin non sono in casa, li conoscerai a cena» disse, additando il letto a castello dove dormivano i due compagni.

Quando scesero nuovamente al piano di sotto, Jean fece per congedarsi e tornare in camera propria, quando Connie lo fermò: «Ce n'è ancora uno».

«Ha voluto questa stanza perchè non ama la confusione e ha bisogno di concentrarsi. Te l'ho detto, Ingegneria qui è bella tosta» gli spiegò, mentre scendevano gli scalini che, dal salotto, portavano al seminterrato e alla stanza del ragazzo che gli era stato indicato con il nome di Marco.

Jean non faticò a comprendere cosa avesse portato il ragazzo a scegliere quella stanza: nonostante non fosse ben illuminata, era silenziosa, e non vi giungeva assolutamente nulla, né il profumo del cibo, né gli ACϟDC. Era un posto assolutamente perfetto per studiare in pace. Chino sulla scrivania, curvo su di uno spesso tomo dalle pagine ingiallite, c'era il ragazzo dall'aria più pacifica che avesse mai incontrato.

«Marco, lui è Jean... Come hai detto che ti chiami?»

«Kirschstein. Jean Kirschstein» scandì Jean, in modo quasi meccanico.

Verso di lui si tese una mano lievemente olivastra, morbida e affusolata.

«Marco Bodt. È un vero piacere conoscerti, Jean» replicò il giovane, sollevando le gote tempestate di lentiggini in un sorriso sereno. «Spero ti ambienterai, e che diventeremo buoni amici»

«Ti conviene. Seguiremo gli stessi corsi, suppongo sarebbe utile a entrambi avere un'altra testa su cui contare» disse Jean, augurandosi in cuor suo di non aver bisogno troppo spesso di approfittare della gentilezza di quel tizio, e sperando al contempo che quest'ultimo non prendesse la sua affermazione come un invito a ronzargli troppo intorno.

«Non fare complimenti, sentiti pure libero di fare affidamento su di me ogni volta che vuoi» rispose Marco.

Forse, si disse Jean, ricominciare non era affatto male.

Forse.

 

 






Innanzitutto, grazie. Grazie a tutti coloro che leggeranno questa storia, grazie a chi mi darà un parere a riguardo, grazie a chi continuerà a seguirla.
Questo racconto è nato in una notte, mentre ero stremata da una giornata di preparativi prenatalizi ma proprio non avevo voglia di dormire, e così mi sono ritrovata a sfornare pensieri malsani che ho raccolto qui, nella trama che ha appena iniziato a snodarsi. 
Se siete sorpresi dal netto contrasto tra la presentazione della storia -rating, avvertimenti, eccetera- e quanto è scritto in questo breve capitolo introduttivo, non temete... anzi, fatelo: questo è soltanto l'inizio.
Un abbraccio a tutti voi,

Timcampi

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Capitolo 2
*** Debito ***


Debito



Sebbene avesse i suoi inconvenienti, vivere in quella casa non era affatto male, a patto che si rispettassero alcune regole: non fare troppo casino, a meno che il casino non fosse collettivo (come Jean non tardò ad apprendere, Ymir sembrava autorizzata a violare questa norma, e lui non poteva negare che la cosa non gli stesse esattamente a genio); non bere direttamente dal cartone del latte; non occupare il bagno troppo a lungo; rispettare i turni per quanto riguardava la cura degli spazi comuni, la cucina e la spazzatura; considerare segreto professionale tutte le confessioni ricevute da compagni sbronzi. C'era, poi, la tacita regola sul non fare commenti sul naso di Annie, sul non cercare il contatto ravvicinato con Christa e sul non attaccar briga con Eren Jaeger, figlio del loro affittuario, ma questa era più un promemoria per Jean che una vera regola.

In quanto ai vari componenti della “famiglia un po' sgangherata”, una punta d'orgogliosa serenità illuminava il cuore di Jean quando si ritrovava a pensare a quanto, nel mese trascorso a Sina, aveva appreso di loro: cose come il contrasto tra la mole possente e l'indole genuina di Reiner, l'ossessione di Sasha per il cibo, le rosee cicatrici che ricoprivano il corpo di Ymir e di cui la ragazza sembrava restia a parlare, la falsa quiete che trapelava dal volto di Mikasa e la passione per i libri che caratterizzava Armin, con cui non aveva avuto difficoltà a legare, erano ormai entrati nelle sue giornate, permeandole a tal punto che ben presto il ragazzo decise che era giunto il momento di liberarsi del fardello del proprio passato e di procedere speditamente in avanti.

Quel che, però, maggiormente lo spronava e gli riempiva il cuore di una speranza fino ad allora sconosciuta era la rincuorante, rinfrescante presenza del ragazzo con le lentiggini, alias Marco Bodt.

Se la maggior parte dei suoi compagni era chiassosa, attaccabrighe e sempre pronta a seminar zizzania, Marco era il pacificatore, colui che poneva fine alle risse ancor prima che cominciassero, che si faceva carico degli oneri altrui se questo rendeva felice qualcun altro, quello per cui lo studio era sacro quanto l'amicizia. E se, in un primo momento, Jean aveva avuto qualche dubbio a proposito della sua sincerità e della sua natura da perfetto buon samaritano, buon capofamiglia e talentuoso compagno di studi, questi si erano ben presto dissipati del tutto, lasciando il posto a un legame decisamente migliore di quanto, anche prima d'essere posto di fronte alla sconfortante prospettiva di un radicale stravolgimento di vita, avesse osato sperare.

Bussò alla porta, mordendosi nervosamente il labbro inferiore.

Il volto gentile di Marco comparve sulla soglia, le sottili lenti da lettura davanti ai languidi occhi scuri, un intramontabile sorriso e un largo pigiama a righe colorate.

«Stai studiando?»

Magari uno “scusami il disturbo” sarebbe stato più carino, ma questo genere di idee gli sovvenivano sempre troppo tardi. Marco scosse energicamente la testa, sollevando il numero di Daredevil che stringeva in una mano, con l'indice infilato nel mezzo per tenere il segno.

«No, voglio concedermi qualche giorno di pausa» asserì. «Se hai qualche difficoltà, però, sarei felice di aiutarti. Ho già dato quell'esame e non ho granchè da fare, al momento»

Era incredibile come la sua cordialità riuscisse sempre a colpirlo. Sebbene sembrasse troppo buono, amichevole e carismatico per essere vero, Marco aveva saputo conquistare la fiducia di Jean forse anche per via del fatto che, in qualche modo, riusciva quasi a... intenerirlo. C'era quella strana sensazione che gli inondava lo stomaco, come un fiotto caldo, quando era con Marco, che lo confondeva, ma che non gli dispiaceva affatto: per quanto detestasse riconoscere le proprie difficoltà tanto nello studio quanto nelle attività domestiche e anche se non l'avrebbe mai e poi mai ammesso, monopolizzare la compagnia, il supporto e le attenzioni di quella sorta di angelo dal volto picchiettato gli piaceva, lo faceva sentire felice, abbastanza felice che non erano mancate le volte in cui aveva ringraziato i guai che l'avevano portato in quella casa.

«No, no, non si tratta di questo» mugugnò, chinando lo sguardo e massaggiandosi distrattamente la nuca. «Ho bisogno di concentrarmi, manca poco all'esame e quegli idioti non mi lasciano studiare in pace...»

Marco lo interruppe, sollevando una mano e sfiorando le sue labbra con la punta delle dita.

«Ho capito, ho capito. Ti cederò volentieri la mia stanza fino a quando non avrai superato l'esame, Jean»

«Sei il mio salvatore. Se posso sdebitarmi in qualche modo...»

«Troveremo un modo per farti sdebitare, Jean» sorrise Marco, e Jean colse in quel sorriso qualcosa che fece salire una paurosa quantità di sangue al suo viso.

«Vado a prendere le mie cose» tagliò corto, indugiando sulla soglia soltanto per mormorare un grato “grazie”.

«Hai un debito» lo congedò Marco.

 

I passi che si accavallarono oltre la porta furono tanto concitati e rumorosi da farlo svegliare ancor prima che la porta si spalancasse di colpo, rivelando il volto trafelato e terrorizzato di Connie.

Si era addormentato mentre studiava, con la luce della lampada puntata sulla sua guancia e un rivolo di saliva che scivolava sulle pagine del libro.

«Muovi il culo, Jean!» abbaiò Connie. «Questo posto va a fuoco!»

Ebbe bisogno d'una frazione di secondo per recepire la notizia, prima di schizzare in piedi e di seguire Connie su per le scale.

«Ma che cazzo...?» mormorò in un soffio, gli occhi inchiodati alla vista che gli si parò di fronte.

Una nube di denso fumo scuro, guizzanti lingue di fuoco, cenere e scintille si propagavano dalla cucina, e poco mancava prima che estendessero il proprio dominio al salotto.

Uno strattone di Connie e uno scaffale della cucina che rovinò a terra in uno sbuffo di fuoco lo destarono dal suo stato di trance.

«Marco!» sussurrò, schizzando attraverso il fulcro dell'incendio, ignorando le accese proteste di Connie e il calore che bruciava sulla sua pelle molle di sudore.

«Jean, via di lì!»

Marco.

«Vieni fuori, deficiente!»

Marco non può essere morto.

«Che cazzo fai?!»

Non giocarmi brutti scherzi.

Marco è vivo.

«Vado a cercare aiuto, non muoverti!»

Vieni avanti, ti aiuto a uscire da questo inferno.

Io ho un debito con lui.

Non avvertì il suo corpo farsi sempre più debole, ma solo il mondo diventare, a poco a poco, grigio.

Marco, come potrò mai sdebitarmi?

 

Quando aprì gli occhi, per un attimo gli parve di aver sognato tutto. Scattò a sedere, il nome di Marco cucito sulle labbra e le fiamme ancora marchiate negli occhi.

Non diede neppure a se stesso il tempo di realizzare di essere steso su una barella, dietro le porte di un'ambulanza che stavano per chiudersi, prima di gettarsi oltre di esse sotto gli sguardi attoniti dei paramedici che l'avevano caricato a bordo.

I pompieri erano già all'opera, e le fiamme s'erano ormai tramutate in una silente colonna di fumo che s'alzava contro il cielo notturno come un serpente incantato.

Di fronte alla casa, fortunatamente quasi del tutto intatta e circondata da una piccola folla di vestaglie, pigiami e fastidiosi mormorii, si stagliavano le figure dei suoi compagni. Inermi, silenziosi, fragili e spenti come foglie autunnali zuppe di pioggia.

Non erano abbracciati, frignanti, chini sulle macerie di quell'idillio ridotto in cenere: erano fianco a fianco.

Connie a denti stretti, il volto ingrigito dal fumo.

Sasha con il volto rigato da lacrime silenziose.

Mikasa a braccia conserte, tra Armin in ginocchio sull'asfalto ed Eren a pugni stretti.

Christa sembrava ipnotizzata da quell'orrido spettacolo, Ymir le teneva gli occhi inchiodati addosso e stringeva la sua mano come se faticasse a credere che fosse davvero là.

«Dov'è Marco?»

La sua voce era arrocchita, e parlare gli graffiava la gola. Non riuscì a trattenere un potente attacco di tosse.

Sasha lo guardò per un istante, come avrebbe guardato un fantasma, prima di precipitarsi sul suo petto, singhiozzando contro il suo pullover.

«Dove sono gli altri? Bert, Reiner, Annie...? Marco. Marco dov'è?»

I ragazzi si guardarono tra di loro, e fu Connie a prendere la parola: «Quando sei svenuto sono uscito a chiamare Reiner. Ha portato fuori te ed è riuscito a recuperare Annie; l'ha trovata in cucina, ma ora l'hanno portata via. È in coma, Reiner e Berthold sono andati con lei»

«Dov'è Marco?» ripetè Jean. La sua voce era ridotta a un basso ringhio gutturale.

Gli sguardi s'abbassarono.

«Jean, Marco è morto» esordì Mikasa, a testa alta. «È cenere»

«Non è possibile. Marco non può...»

«Sta' calmo, Jean» scandì Connie. «Tutti noi siamo sconvolti quanto te»

«Significa che non l'hanno trovato?»

«Jean, datti una calmata» intervenne Eren, ma Jean non ascoltava.

Si accasciò sulle ginocchia con il capo stretto tra le mani scosso da forti singulti, i denti serrati sul labbro inferiore, gli occhi gonfi di pianto.

«È colpa mia, è soltanto colpa mia.» latrò. «Ma Marco non può essere morto. Piantatela di sparare cazzate, ditemi do-»

Prima che potesse accorgersene, una mano schioccò sulla sua guancia umida.

«Qui l'unico che sta sparando cazzate sei tu, ragazzo. Magari non era esattamente la sua massima aspirazione, e lo capirei, ma Marco è morto salvandoti la vita: dovevi esserci tu, al suo posto, perciò cerca di mostrare quel briciolo di gratitudine di cui sei capace e tirati su, se non vuoi che ti dia un buon motivo per piagnucolare»

La faccia di Ymir era a un palmo dalla sua: torva, scura, una distesa di lentiggini e cicatrici.

«Sta' zitta. Parli così solo perchè lei è tutta intera» ringhiò, facendo cenno a Christa e asciugandosi il volto con il dorso della mano. Ymir si rimise in piedi.

«Reiner ha detto di averti trovato poco oltre la porta della cucina» sibilò, incrociando le braccia al petto. «Io non mi sarei fermata lì»

Soltanto allora Jean si rese conto d'aver paragonato sé e Marco a Ymir e a Christa.

Qualcun altro si fece avanti, accovacciandosi di fronte a lui e posandogli una mano sopra una spalla.

«Ce la faremo, Jean» sussurrò Armin, prima di avvicinare le labbra al suo orecchio. «Io non credo che una fuga di gas abbia ucciso Marco» aggiunse, e la fugace occhiata che lanciò all'indirizzo dei compagni gli fece intendere che la pensavano alla stessa maniera.

Deglutì, tirandosi in piedi proprio mentre le sue gambe vacillavano.

Qualunque cosa avesse fatto fuori Marco, Marco era andato per sempre, così come la sua vita passata.

Questo, almeno, era ciò che Jean Kirschstein credeva.





Grazie, grazie a tutti voi che recensite e seguite questa storia, davvero grazie di cuore.
Grazie a voi che, se prima vi eravate chiesti dove fosse il vostro thriller, ora state probabilmente marciando verso casa mia armati di torce e forconi: sarò lieta di farvi trovare la porta aperta, prego.
Spero continuiate a darmi il vostro supporto e i vostri pareri, e che ciò che scrivo sia stimolante per voi quanto scriverlo lo è per me.
Un abbraccio,

Timcampi

 

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Capitolo 3
*** Identità ***


Identità

 

 

Jean se ne stava in disparte, a braccia conserte, la schiena premuta contro la ruvida parete d'una cappella. La pioggia scrosciante gl'inzuppava gli abiti e copriva le parole del pastore che, pochi metri più avanti, recitava il suo tedioso rito funebre.

In mezzo alla foresta di lunghi cappotti neri e di ombrelli dalle tinte smorte era riuscito appena a scorgerla mentre veniva calata dentro la terra umida, la bara vuota del suo migliore amico.

L'omelia non gl'interessava; non aveva neppure il fegato di fare le sue condoglianze ai signori Bodt né di assistere da vicino all'epilogo di quel brevissimo e spensierato periodo della sua vita.

Se una parte di lui gli suggeriva che non gli restava che ricominciare di nuovo daccapo, com'era già stato in grado di fare in passato, l'altra parte gridava di rimando che non ne sarebbe stato capace, non di nuovo, non se si trattava di lasciarsi alle spalle il ricordo di Marco Bodt.

Non se, prima, le ceneri disperse di Marco Bodt non avessero avuto pace.

Quando la piccola folla radunatasi per le esequie cominciò lentamente a disperdersi, si vide attorniato dai volti emaciati dei suoi compagni. Tra loro, vi era anche un uomo dall'aspetto distinto, alto, con un paio d'occhialetti che gli conferiva un'aria vagamente intellettuale.

«Ci tenevo a porgere le mie più sentite condoglianze anche a te, Jean» scandì, tendendogli la lunga e ossuta mano destra. «Non ci conosciamo, perciò permettimi di presentarmi: sono il dottor Grisha Jaeger, il padre di Eren». Accanto a lui, il figlio si strinse nelle spalle: Eren, spavaldo e ipercinetico, gli sembrava ora terribilmente piccolo.

Strinse quella mano senza curarsi di dosare la propria forza: quella cordialità affettata non gli piaceva, lo faceva sentire ancora più perso e intrappolato di quanto le circostanze l'avessero reso.

E così, lui era il proprietario della casa, l'uomo fidato che le autorità sovvenzionavano perchè desse rifugio, tra i suoi inquilini, alla scomoda presenza ribattezzata con il nome di Jean.

Ancora una volta, tra i denti, ripetè quel nome.

«Mi rincresce profondamente per la scomparsa del vostro compagno. Come avrete notato, comunque, ho già provveduto a farvi arrivare i nuovi elettrodomestici e incaricato un'impresa di ristrutturazione di occuparsi della cucina e del salotto, li riavrete come nuovi entro pochi giorni: in quanto alla stanza...»

«Ci lasci il tempo necessario per dirgli addio» l'interruppe Armin, lanciando a Jean uno sguardo che egli non potè equivocare. «La lasci così com'è, almeno per un po'»

Grisha Jaeger annuì, la fronte lievemente aggrottata.

«Non ho fretta di occuparmene: è improbabile che mi giunga qualche richiesta per quella stanza, almeno per i prossimi tempi» dichiarò l'uomo. «Ora vogliate scusarmi, ma il dovere chiama e io desidero andare a controllare personalmente come procedono i lavori, prima di tornare al mio ambulatorio. Buona giornata, ragazzi» si congedò, salutandoli con un cenno del capo prima di allontanarsi.

«Grazie, Armin» sospirò Jean, non appena l'uomo ebbe messo alcuni passi dietro di sé.

«Cosa sperate di trovare, esattamente?» biascicò Eren. Benchè anch'egli fosse convinto che qualcosa fosse sfuggito loro, a proposito dell'incendio, la sua cieca e ingenua fiducia nel genere umano sembrava non bastasse a renderlo meno scettico a proposito delle loro possibilità di scovare qualche traccia di dolo o di un possibile omicidio. «Marco è morto. Qualcosa non quadra, ne sono sicuro quanto voi, e non esiterei a vendicarlo con le mie stesse mani, se avessi davanti il suo assassino» puntualizzò, sollevando le dita per rimarcare il concetto «ma...»

«Dacci un taglio, Eren. Se qualcosa non quadra, allora Armin capirà di cosa si tratta» lo rimbeccò Connie, e Armin annuì. Da che Jean era arrivato a Sina, mai una volta Armin aveva deluso le loro aspettative: era tanto posato quanto geniale, e su questo non ci pioveva.

«Questo lo so. Ho solo paura di quello che potrebbe succedere se non riuscissimo a trovare nulla: mi chiedo se vedremo Jean tirare pugni al fuoco, pur di non accettare l'idea che non ci sia un vero colpevole»

«Maledetto bastardo!» ringhiò Jean, mentre un potente gancio raggiungeva la guancia di Eren. «Non te ne fotte un cazzo, non è così? Somigli proprio a tuo padre, Jaeger: ti frega soltanto di riavere la tua bella casa sistemata come si deve, non è così?»

«Non t'azzardare a sparare boiate né su di me né su mio padre. Ha detto che gli dispiace, che altro può fare, razza d'idiota?!» replicò Eren, facendo appena in tempo a rispondere all'attacco prima che le braccia di Mikasa lo tirassero indietro, mentre quelle di Connie e Armin trattenevano Jean.

«Vi siete bevuti il cervello. Tutti e due» brontolò Connie. «Marco era il solo a riuscire a tenervi a bada»

«Marco è andato, Connie, dovremo trovargli un'altra babysitter» sibilò Eren, cercando inutilmente di divincolarsi dalla stretta della ragazza.

«Brutta testa di...!»

«Basta così!» saltò su Sasha, frapponendosi tra i due compagni a braccia aperte. Quando non aveva qualcosa tra i denti, finiva sempre per mostrare un carattere sorprendentemente audace.

«Che bambini» fu il secco commento di Ymir, prima che Christa, accanto a lei, prendesse la parola.

«Non sappiamo perchè Marco è morto, ma... se qualcuno l'ha ucciso, state pur certi che si sta divertendo un mondo a vederci qui a litigare. Gli stiamo soltanto dimostrando di non essere abbastanza uniti e intelligenti da tenergli testa»

A quelle parole, Jean tirò un lungo sospiro e si portò le dita alle tempie. Connie e Armin lasciarono la presa, imitati da Mikasa un istante più tardi.

«A proposito di restare uniti» mormorò «Qualcuno di voi sa che fine hanno fatto gli altri?»

In coro, tutti scossero la testa.

Christa schioccò la lingua.

«Ieri siamo andate a far visita ad Annie in ospedale, ma...»

«Non ci hanno lasciate passare. Da quel che abbiamo capito, però, non c'è nulla di nuovo» concluse Sasha.

«Reiner e Bert?»

«Di loro non sappiamo nulla» mormorò Armin.

«Non si sono neppure degnati di venire al funerale» aggiunse Eren, fulminando Jean di sottecchi: era chiaro che non gli era andata a genio la sua idea di restarsene in un angolo, durante il rito.

Era tutto molto, troppo strano.

Lasciò che gli altri lo precedessero: desiderava restare un po' da solo con Marco, disse, prima di tornare a casa.

Non accettò neppure l'offerta di Armin di tenere il suo ombrello.

Benchè sapesse perfettamente che non c'era nulla, di Marco, sotto quella terra nuda, vedere la sua fotografia sorridergli dalla lapide, quel suo volto dolcemente disteso così com'era l'ultima volta che s'erano parlati, lo aiutò a distendere un po' i nervi.

S'inginocchiò sull'erba fradicia, e chiuse gli occhi.

C'erano troppe cose che non quadravano, troppe domande senza risposta.

Non si sarebbe sorpreso se Sasha si fosse trovata in cucina in piena notte, ma Annie? Che motivo aveva di accendere il gas?

Dove s'erano cacciati Berthold e Reiner?

Com'era possibile che, di Marco, non fosse rimasto altro che cenere? Né un indumento, né un arto, neppure un singolo osso.

E poi era assurdo dare per scontato che l'incendio si fosse propagato dalla cucina: come poteva aver raggiunto la stanza di Marco e ucciderlo ma lasciare in vita Annie?

Inoltre, l'idea che Annie si fosse accorta dell'incendio e si fosse avventurata da sola tra le fiamme per salvare Marco era assolutamente da non considerare. Anche se ci avesse fatto caso, avrebbe dato l'allarme, e forse Reiner sarebbe riuscito a salvare Marco in tempo. Dopotutto, aveva salvato entrambi...

Come poteva non aver fatto caso a Annie, prima di svenire?

C'era qualcosa, infine, che tutti pensavano ma che nessuno aveva il coraggio di dire ad alta voce: prima della tragedia, Connie era il solo a sapere che Jean e Marco avevano fatto uno scambio di stanze, e questo stava a significare che, salvo che Connie non fosse un assassino a sangue freddo, l'obiettivo di chiunque fosse l'artefice del disastro non era Marco.

Era Jean.

E ora Marco era morto, e Jean era in ginocchio sulla sua tomba: se, da una parte, sentiva una mole immensa gravare sulle sue spalle, dall'altra quel che stava vivendo gli sembrava surreale, come una specie di incubo.

Tutto ciò che gli restava di lui era quella stanza nel seminterrato, insieme a un debito mai estinto.

Portò le dita alla ruvida pietra della lapide e la percorse fino alla liscia superficie della fotografia.

L'avrebbe vendicato, a costo di far davvero a botte col fuoco. Chiunque fosse responsabile della sua morte avrebbe pagato, non soltanto perchè Marco era suo amico, non solo perchè era quanto di più importante avesse al mondo, ma anche perchè glielo doveva.

«Capisco il tuo voler trovare un modo per farmi ripagare il favore, ma non credi di essere stato un tantino drastico?» mugugnò. In quel momento, si accorse di star piangendo.

Istintivamente fece per asciugarsi il volto già zuppo di pioggia con la manica fradicia dell'impermeabile, proprio un attimo prima che una presenza alle sue spalle lo costringesse a voltarsi.

Un cappotto nero, un ombrello dello stesso colore, uno sguardo pietoso quanto una lama avvelenata.

«E lei chi accidenti è?» borbottò, scattando in piedi in una posizione lievemente ricurva, quella che assumeva d'istinto quando era sulla difensiva, quando si sentiva minacciato. Quando aveva a che fare con estranei, estranei che non gli piacevano.

«Erwin Smith, ispettore capo del Distretto di Polizia di Sina. E tu devi essere Jean Kirschstein» si presentò l'uomo. Ah, già, la polizia.

Quando la Scientifica aveva effettuato il sopralluogo, il giorno dopo il rogo, Jean s'era rifiutato di mostrare la propria faccia in giro, ed era rimasto chiuso dentro la stanza di Marco -come si ostinava a chiamarla- fino a che non furono andati via. Non avevano lasciato alcun segno del loro passaggio, e da allora la sua vecchia stanza era rimasta vuota. Al posto della porta incenerita dal fuoco, Sasha aveva inchiodato un telo, un lungo drappo che dividesse il regno dei vivi da quello dei morti.

«Come sa il mio nome?»

«Oh, io so molte cose di te, Jean, anche che questo non è il tuo vero nome. Ma non agitarti: nel mio campo, se un uomo ha accesso a informazioni riservate significa che è in grado di far sì che restino tali»

Mostrò a Jean il proprio distintivo, del tutto certo che bastasse a tranquillizzare un ragazzino, ma quello continuò a scrutarlo in cagnesco.

«Perchè la Polizia? Perchè fare tanto casino per una fuga di gas?»

«È la procedura. Oh, e a questo proposito... pregherei te e i tuoi amici di stare tranquilli, di rilassarvi e di godervi la vostra vita universitaria: in fondo, perchè fare tanto casino per una fuga di gas?»

Il cuore di Jean perse un battito, ma cercò di non dare a vedere il proprio stato d'animo.

Era così lampante che la soluzione dell'incidente fosse molto lontana dal convincerli? E che cosa aveva da nascondere, la Polizia di Sina?

«Non si disturbi a preoccuparsi per noi, ce la stiamo spassando alla grande» rispose. Per sua sorpresa, l'uomo gli sorrise e posò sulla sua spalla una mano guantata.

«Bene, allora ti lascio alle tue preghiere, Jean. Non c'è bisogno che ti chiami con il tuo vero nome, vero? No, sono certo che preferisci “Jean”» Portò una mano alla falda del cappello in un sobrio gesto di saluto. «Arrivederci, Jean. Speriamo per te non troppo presto» gli lanciò un ultimo sorriso troppo cordiale, prima di allontanarsi a passo svelto verso un'auto color amaranto parcheggiata sul ciglio della strada. A un cenno di Erwin Smith, l'uomo alla guida mise in moto.

Poi il capo si voltò a guardare nuovamente Jean.

«Quasi dimenticavo la ragione della mia visita» disse «Le mie condoglianze, ragazzo»

E poi lo sportello si chiuse e la macchina svanì nel grigiore della pioggia.

«Le tue condoglianze, eh? Fanculo»

 

Quando fu a casa, come se la pioggia non fosse stata sufficiente, restò sotto la doccia fino a quando non fu ora di cena, e nessuno ebbe il coraggio di protestare.

Cenarono seduti intorno al tavolo del salotto, insolitamente sgombro dalla solita catasta di libri e cianfrusaglie d'ogni tipo, e Jean raccontò quant'era accaduto con l'ispettore capo Smith.

Contare sull'aiuto della polizia era del tutto fuori discussione, ma almeno una certezza, ora, l'avevano: se c'era qualcosa in cui non dovevano ficcare il naso, allora quel qualcosa aveva a che vedere con la morte di Marco.

E se c'era qualcosa riguardo la morte di Marco che ancora non sapevano, questo voleva inconfutabilmente dire che no, non era stato un incendio causato da una fuga di gas, non era stato un banale incidente domestico a ucciderlo.

Quella sera, per la prima volta dopo quella notte, sebbene stremato e con una gran quantità di pensieri che gli brulicava dentro la testa, Jean riuscì ad addormentarsi.

Non appena i suoi occhi si chiusero, però, sotto le sue palpebre ombre di fantasmi e lingue di fuoco cominciarono a danzare: coloro da cui era fuggito lo uccidevano, prendendo l'aspetto di Grisha Jaeger e quello di Erwin Smith; l'intera casa veniva inghiottita dal fuoco, ed era costretto ad assistere al macabro spettacolo dei suoi compagni arsi vivi uno dopo l'altro; un Jean che non conosceva spingeva Marco tra le fiamme.

Ogni volta si svegliava di soprassalto, ansimante e coperto di sudore, con le dita artigliate alle lenzuola quasi in un inquietante rigor mortis.

Era quasi l'alba quando accadde.

Quando si svegliò di colpo, dopo aver visto Marco bruciare ancora una volta dentro la sua mente, non trovò la rassicurante presenza dei poster dei Led Zeppelin e di Blondie, né la sua amata lava lamp. C'era qualcosa, a ostruirgli la vista. Qualcosa che stava a cavalcioni sopra di lui, che lo sovrastava, qualcosa la cui vista lo paralizzò.

L'essere aprì la bocca.

«Chi sono io?»









Ora, finalmente, la storia inizia a prendere vita.
Grazie a coloro che l'hanno seguita, grazie a coloro che continueranno a seguirla. Grazie a chi inizierà a farlo. Grazie a chi avrà la bontà di recensire questo capitolo, di farmi sapere cosa ne pensa, cosa spera, cosa desidera. 
Grazie a Mattie, alla mia splendida migliore amica, per la sua capacità di spronarmi a fare del mio meglio anche quando mi sento del tutto incapace di battermi e troppo a corto di pazienza per fronteggiare il mondo. 
Spero di rivedervi tutti qui, al prossimo capitolo.
Un abbraccio,

Timcampi

 

 

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Capitolo 4
*** Ceneri ***


Ceneri

 

Jean strinse le dita tremanti intorno alla tazza di cioccolata che Christa gli porgeva, prendendo a osservare con aria assente il nastro di fumo che fluttuava su di esso e sorseggiandone poi il contenuto senza neppure curarsi della temperatura ancora troppo elevata.

Armin, seduto di fronte a lui, emise un lungo verso gutturale, aggrottando la fronte e prendendosi il volto tra le mani.

«Jean, mi sembra tutto troppo incredibile. Con questo non intendo dire che non sia accaduto assolutamente niente, ma immagino tu capisca che sei ancora sotto shock...»

«Stai esattamente dicendo che non è accaduto niente, invece» gracchiò Jean. Fece correre lo sguardo sui suoi compagni, appuntandolo a turno su ognuno di loro. «Voialtri siete liberissimi di non credere a una sola delle mie parole, ma io so quel che ho visto! Sotto shock un cazzo. E magari qualcuno di voi pensa anche che ci sia io, dietro la morte di Marco, non è così? Specialmente dopo questo. Fate come vi pare, io me la caverò da solo» abbaiò, issandosi bruscamente in piedi e facendo per lasciare il salotto.

«Questo cosa, ragazzino?»

Ymir era appollaiata sul corrimano, in cima alle scale che portavano al piano di sopra, il capo reclinato da un lato e un sopracciglio sollevato in un'espressione curiosa. Si lasciò scivolare in basso, atterrando con un balzo leggero di fronte a Jean.

«E tu dove accidenti eri finita?» ringhiò Connie. «Non puoi andartene a zonzo di notte, non dopo quello che è successo!»

«Stando agli ultimi eventi, a me pare che andarmene a zonzo durante la notte sia una scelta molto più saggia che restare in questa casa, non credi?»

Sulla ragnatela di cicatrici che decorava il suo volto era comparsa la curva d'un candido sorriso. Attraversò il salotto ad ampie falcate e si accomodò sul tavolo, attraendo di malagrazia Christa tra le proprie gambe e circondandola con tutti e quattro gli arti, cosa che non sembrò destare il dissenso della ragazza.

Se prima le attenzioni di quel diavolo di donna verso la più giovane potevano apparire normali, in seguito all'incendio erano divenute incredibilmente spasmodiche e morbose, condite d'una preoccupazione tangibile e febbrile che, sebbene si trattasse di una persona placida e indifferente quale era Ymir, aveva iniziato a trapelare con innegabile chiarezza; in compenso, Christa era diventata molto più tollerante e accondiscendente nei confronti di quella spaventosa possessività, e l'impressione che Jean aveva era che, ad aver bisogno più che mai di sostegno e sicurezza, fosse Ymir, e che l'altra si limitasse a farle capire che tutto ciò non le sarebbe mancato.

Non di rado provava, verso il loro rapporto, una sorta di solleticante invidia. L'unica persona al mondo presso la quale avrebbe mai osato ricercare una tale sensazione di sicurezza, però, se n'era andata.

O almeno così aveva creduto.

Nel momento in cui aveva aperto gli occhi, però, quel poco ch'era rimasto di tutte le sue certezze, che riguardassero Jean Kirschstein o il giovane di periferia che l'aveva preceduto e che era ormai morto, almeno per il mondo che s'era lasciato alle spalle, era crollato.

Ymir studiò Jean per alcuni istanti, poi s'incupì.

«Hai la morte negli occhi» osservò.

«Non dargli corda, ha solo avuto un incubo» intervenne Mikasa, scrutando Jean in cagnesco. Roteò gli occhi quando Armin la redarguì con un'occhiata torva. Ma tutto ciò di cui Armin si preoccupava era di non ferire i sentimenti di un ragazzo scosso e spaventato, e Jean lo sapeva; trovava frustrante che neppure Armin desse credito alle sue parole.

«Ci puoi giurare» mormorò.

«E aspetterai che io muoia di sonno, prima di mettermi al corrente dei tuoi incubi, ragazzino? Avanti, illuminami» sussurrò, affondando il naso nella lunga chioma bionda della compagna.

Eren emise un grugnito. Non aveva fatto che scuotere il capo e sbuffare con aria teatralmente scettica fin dall'inizio.

«Oh, andiamo, non vale la pena perdere il sonno per avere il resoconto dettagliato, per me basta e avanza il fatto che dice di aver visto...»

«Se non t'interessa, Eren, puoi sempre andartene a dormire» disse Ymir «Oppure credi davvero nei fantasmi

Eren sprofondò nella sedia, a braccia conserte.

Benchè nessuno ammettesse di credere alla confusa testimonianza di Jean, nessuno lasciò il salotto. Jean si lasciò cadere sul divano, tra Connie e Sasha, che sgranocchiava rumorosamente patatine fritte.

Inspirò a fondo, prima di rievocare nei dettagli quanto era accaduto poco prima. Immagini spaventose erano rimaste incise sui suoi occhi, come una nenia sulla superficie irregolare d'un vinile scheggiato, quando...

 

...di fronte a lui, s'era materializzato un mostro.

Dall'ombra sorgeva una figura fuggita dall'incubo di un pazzo, coperta di cenci e dall'odore acre di carne bruciata. Ne scorgeva la sagoma del lato sinistro, debolmente illuminata dalla luce lunare che filtrava attraverso la piccola finestrella della stanza nel seminterrato: qualche ciuffo di capelli, una guancia spigolosa, il luccichio d'uno sguardo piangente.

Ma era il lato destro a inquietarlo davvero: sebbene celato dal buio, se ne intuivano le forme butterate, rigonfie, irregolari, come d'un gargoyle scolpito da una mano frettolosa e maldestra o semplicemente lasciato a metà quando era poco più che una spigolosa forma umanoide fatta di bozzi di pietra; la mandibola sembrava curvarsi verso il basso e sporgere in avanti, e la bocca ospitava una schiera di grossi denti irregolari; la luce fredda d'una cornea vuota sembrava studiarlo con intensità, pur senza vederlo davvero.

«Chi sono io?» domandò il mostro.

Ma Jean era divenuto pietra.

«Ti prego, Jean. Di' il mio nome» supplicò ancora. Una lacrima tiepida si staccò dall'occhio buono e atterrò sulla guancia del ragazzo.

Jean cominciò a urlare.

Urlò con quanto fiato aveva in corpo, incapace di muovere un solo muscolo se non per tirare fuori tutta la forza della sua voce, e d'un tratto, come inghiottito dall'oscurità, il mostro svanì proprio un attimo prima che Armin irrompesse nella stanza, e così...

 

 

«...questo è quanto»

Intrecciò le dita in grembo, quando s'accorse che gli tremavano le mani.

Il resto del gruppo lo guardava con espressioni attonite, incredule, pensose. E poi c'era Ymir.

La ragazza scoppiò a ridere sguaiatamente, il che contribuì in qualche modo a rendere quello scenario ancor più tetro.

«Sì, ragazzino» saltò su, cercando di soffocare le risate. «Non c'è dubbio che si tratti del nostro piromane, dobbiamo scovarlo prima che decida di nascondersi di nuovo sotto il tuo letto!»

Jean si alzò in piedi, un'espressione dura in volto e i pugni stretti lungo i fianchi.

«Non mi stupisce, neppure io ci crederei. Anzi, sapete che vi dico, teste di cazzo? Spero che decida di nascondersi sotto i vostri, di letti» asserì, dirigendosi verso la propria stanza. Per quanto fosse sopraffatto dalla paura, l'idea di avere ancora tutti quegli occhi scettici puntati addosso lo infastidiva molto più di quanto potesse sopportare. Almeno, pensò, se quella bestia l'avesse fatto a pezzi, tutti gli altri non avrebbero più potuto dargli torto. Non del tutto, magari.

«Jean»

La voce di Christa, svincolatasi dalla presa di Ymir, lo fece voltare.

«Io ti credo» pigolò la ragazza, e Jean notò che aveva uno strano bagliore negli occhi, come se fosse sul punto di scoppiare in lacrime. Annuì appena.

«Allora faresti bene a dare un'occhiata sotto il tuo letto, d'ora in poi, prima d'andare a dormire»

 

Voleva vederci chiaro, in quella faccenda.

Nelle due notti seguenti, nessun mostro era giunto a porgergli i propri omaggi, a parte quelli che pullulavano dentro i suoi incubi.

Era seduto al tavolo nuovo della cucina, le dita strette convulsamente intorno a una tazza di latte caldo, quando il suo sguardo s'impigliò per l'ennesima volta su ciò che c'era alla sua destra, un telo d'un vivace color vermiglio teso a sbarrare la strada ai fantasmi che abitavano oltre di esso. Istintivamente, la sua mano guizzò alla guancia destra, là dove quella lacrima era scivolata lasciando una traccia invisibile ma che, a volte, bruciava.

Era come se una voce lo stesse chiamando, la voce ovattata e distante d'un fantasma, d'un'ombra sepolta sotto la cenere.

Lasciò la presa sulla tazza, abbandonandola sul tavolo mentre si allontanava da esso, muovendo alcuni passi incerti verso il muro di stoffa. Era immobile, silente, eppure vibrante, come se vi fosse qualcosa imprigionato dietro. Vi passò una mano come per esaminarlo, come per decidere se fosse saggio proseguire. Qualcosa, dentro la sua testa, gli disse che no, non lo era.

Ma la sua mano stava già divellendo la puntina da disegno in basso a sinistra.

Cosa c'era da temere?

Aveva sempre detto che erano i vivi, a dover essere temuti, e non i morti. Non c'è posto, per i fantasmi, in una realtà tanto crudele.

Perchè una realtà che decide di toglierti una persona che ami non ha la bontà di lasciarti il suo fantasma a farti compagnia.

Sollevò il lembo e fu dentro.

Gli agenti della Scientifica avevano lasciato ogni cosa come l'avevano trovata -resti di mobili, tendaggi sbrindellati, la carcassa spolpata del materasso- ma rivedere quella stanza per la prima volta dalla notte del rogo gli fece meno effetto di quanto credesse. Non svenne, né pianse. Tutto ciò che fece fu portarsi una mano alla bocca, per difendersi almeno in parte dall'odore di plastica e legno bruciati. Avrebbero almeno dovuto aprire le finestre, si disse.

D'un tratto, qualcosa catturò il suo sguardo. Arretrò d'un passo. Due. Tre. Arretrò fino a quando non sussultò sentendo la schiena sfiorare la parete.

E poi chiamò.

Armin doveva vedere.








 



Ho paura, sul serio. Non dovrei scrivere "1975" quando sono al buio, sola, avvolta nel silenzio più totale. 
La storia inizia a intricarsi sempre di più, e la matassa deve ancora finire di ingarbugliarsi, perciò non sperate di poter tirare le vostre conclusioni adesso: questo è il momento delle congetture, e mi farebbe piacere se condivideste le vostre con me, insieme ai vostri pareri. Siete fantastici, davvero, mi fate sentire appagata e orgogliosa di questa storia che sto amando proprio con tutto il mio cuore. Siete perfetti, vi abbraccerei uno per uno. 
Intanto, tutto ciò che posso fare per voi è continuare a scrivere questo racconto e a dare il massimo per regalarvi una storia che meriti le vostre attenzioni e il vostro affetto. 
Spero davvero di riuscire a lasciare in voi una traccia di me, spero che prendiate questa storia e la facciate vostra, spero siate entusiasti di come procede quanto lo sono io.
Al prossimo capitolo, splendori!

Timcampi
 

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Capitolo 5
*** Capovolgimento ***


Capovolgimento

 

«Quello... non era là, quando c'è stato il sopralluogo»

Armin era pietrificato. Osservava la parete dinanzi a sé come se avesse visto con i propri occhi un cadavere riprendere vita.

E forse, forse descrivere in questi termini ciò che vide non sarebbe del tutto errato.

Oltre lo scheletro metallico della scrivania, oltre i brandelli superstiti che restavano di una florida collezione di libri e il relitto d'una chitarra elettrica, vi era uno specchio: un angolo era irrimediabilmente annerito, ma la fuliggine che vi si era posata era stata sommariamente spazzata via di recente, e questo sarebbe stato sufficiente a metterli in allarme anche ignorando la presenza dell'oggetto posato accanto ad esso.

Lunghi brividi si susseguivano lungo la spina dorsale di Jean, immobile di fronte a quell'orrido, inquietante spettacolo.

Lo sollevò con cautela tra le dita, come se potesse prender fuoco o dissolversi in polvere da un momento all'altro, e l'osservò da vicino: un foglio di carta in parte bruciacchiato, sul quale una mano esperta ma tremante aveva tracciato con una matita la metà destra d'un volto umano, un occhio vacuo, capelli scuri, una fitta picchiettatura sulla guancia, ma aveva scarabocchiato in modo quasi rabbioso sopra tutto il lato sinistro, rendendo impossibile definirne i tratti.

«Jean...» mormorò Armin, una patina di lucida inquietudine negli occhi

«Marco» annuì Jean, stringendo la presa sul foglio fino a spiegazzarlo. Armin glielo sfilò con garbo dalle mani, studiandolo con aria perplessa.

Non vi erano dubbi che molto, di quel volto abbozzato, riportasse alla mente l'immagine di colui che, per ultimo, aveva dimorato in quel luogo divenuto la sua tomba. In quanto alla metà sinistra, però, non riusciva a spiegarsi per quale motivo l'artista avesse tanto infierito su di essa.

«Inizio a pensare che avessi ragione, Jean: abbiamo sempre saputo che qualcosa di sinistro è accaduto all'interno di questa stanza, ma... ora credo che stia continuando ad accadere»

«Non capisco più niente, accidenti» ringhiò tra i denti, ravviandosi la folta chioma castana in un gesto nervoso. Per un attimo, soltanto per un attimo, si domandò se non sarebbe stato più saggio lasciar perdere, dimenticare ogni traccia che facesse pensare a qualcosa di più complesso d'un semplice incidente domestico; non fu il timore d'essere, come in passato, nel mirino di qualcosa di più grande e più forte di lui, bensì il desiderio inalienabile di conoscere la verità riguardo la morte di chi aveva di più caro al mondo, a farlo rinsavire e tornare sui suoi passi.

«Pensi che dovremmo parlarne con gli altri?» domandò. Armin scosse il capo.

«Detesto dirlo, ma... non credo sarebbe saggio parlarne con tutti. Conosco Eren e Mikasa da quando eravamo bambini, ma gli altri...» rispose, lasciando cadere nel vuoto l'ultima parte della frase. Neppure a Jean piaceva granchè l'idea di non poter riporre la propria fiducia nel resto del gruppo. «Berthold e Reiner sono spariti dalla notte dell'incendio, e anche la faccenda di Annie non mi è molto chiara: è parecchio strano che non lascino avvicinare nessuno» aggiunse.

«Questa faccenda puzza da qualunque prospettiva la si annusi. Puzza di bruciato quanto questa stanza» asserì Jean, in un chiaro invito a uscirne al più presto, prima che qualcuno facesse caso alla loro assenza e li raggiungesse. Ma Armin sembrava ancora del tutto assorbito dai suoi pensieri: continuava a fissare il foglio di carta come se celasse un qualche arcano.

«Jean?» chiamò. «Magari ti sembrerà sciocco, ma voglio chiedertelo: cosa ricordi di quel che hai visto due notti fa? Riusciresti a riconoscere la sua faccia?»

Jean sentì chiaramente il sangue gelarglisi nelle vene. «Cristo, Armin, era un mostro. Certo che lo riconoscerei»

«Parlo della sua faccia. Hai detto che non era del tutto un mostro, non è così?»

«Era buio, non sono riuscito a vederlo bene»

«Però hai parlato di un occhio del tutto bianco e dei suoi denti sporgenti. È strano che non ricordi nulla della sua metà umana»

Un groppo gl'intasò la gola.

«Cosa vorresti dire, Armin?»

In tutta risposta, Armin gli avvicinò il foglio al viso.

«Dì la verità, Jean: è questo che hai visto?»

«Era buio»

«La verità, Jean»

«Cazzo, Armin, ti ho detto che-!»

«JEAN»

Allontanò lo sguardo dal foglio, come inorridito. Come avrebbe potuto fornire un identikit preciso della creatura che l'aveva aggredito? Era troppo preso dalla metà mostruosa, per far caso a quella umana.

Ma parlare d'un'aggressione, si disse poi, non era neppure appropriato: una voce disperata, distorta, gli aveva posto un semplice quesito, per poi sparire come uno sciame di moscerini nella notte.

Chi sono io?

E Armin non aveva tutti i torti: era sconvolto, logorato dalla morte del suo migliore amico, e se Armin fosse stato a conoscenza del suo passato avrebbe certamente imputato l'accaduto anche ad esso.

Come potevano gli occhi di Jean Kirschstein essere ancora ritenuti affidabili?

«Quel coso era umano nel lato sinistro» silurò la domanda, affibbiando un colpetto al foglio, ancora stretto tra le dita di Armin, e volgendosi per lasciare la stanza: ci aveva trascorso fin troppo tempo, e l'orrenda sensazione che le pareti si stessero stringendo intorno a lui stava diventando sempre più insopportabile.

Era sulla soglia quando Armin lo chiamò ancora.

Sul suo volto troneggiava un'espressione talmente trionfante da far quasi paura.

«È un autoritratto» sibilò, additando la parete alle sue spalle. «Ed è stato fatto dentro questa stanza»

Jean seguì con lo sguardo l'indice dell'amico.

«Sei un genio, Armin. Un fottutissimo genio»

Finalmente ogni cosa cominciava ad avere un briciolo di senso.

Finalmente sentì di poter dare un'identità alla figura che s'era affacciata dal buio, e che l'aveva cercata nel proprio volto, il proprio volto allo specchio.

Con questa consapevolezza, però, ne giunse anche un'altra, forse ancor più inquietante: il suo passato non aveva mai smesso di dargli la caccia.

 

Se avessero voluto farlo fuori, dubitava che il fatto d'essere addormentato o meno potesse fare la differenza; eppure, quella sera s'era coricato con la consapevolezza che, per quanto avesse potuto provarci, non sarebbe riuscito a prender sonno. Scrutava l'oscurità come se si aspettasse che fosse soltanto questione di tempo, prima che qualcosa ne sbucasse di colpo.

Per quante ore si avvicendassero, però, non arrivò nulla d'imprevisto, se non un paio di ampi sbadigli. La luna, oltre i vetri della piccola finestra, era già alta, quando Jean decretò di non avere alcuna voglia di restare ancora sotto le coperte ma soltanto un gran bisogno d'un caffè.

 

In circostanze normali avrebbe supposto di non essere il solo a non riuscire a prender sonno.

Dati gli eventi degli ultimi giorni, però, la presenza dell'ombra che, nel momento in cui fece capolino dallo scantinato, attraversò silenziosamente il salotto, assunse un significato ben diverso.

La figura sgusciò rapida giù dalle scale e schizzò verso la porta, che aprì senza il minimo rumore e che si richiuse alle spalle, avventurandosi nella notte.

«E adesso che cazzo faccio?» sussurrò tra sé. Qualcuno s'era infiltrato in casa di soppiatto e ne era uscito altrettanto silenziosamente, certo di non essere visto né udito: ma perchè?

Per quanto ne sapeva, tutti i suoi compagni potevano essere stati soffocati nel sonno. L'aria poteva essere stata avvelenata, e a quel punto a poco sarebbe valso il suo tentativo di accertarsi che tutti fossero ancora vivi e vegeti, perchè non avrebbe fatto altro che subire la stessa fine.

O forse avevano mandato qualcuno per scoprire quale stanza egli occupasse, per colpire senza rischiare di fallire, come in precedenza.

Soppesò le alternative: andare al piano di sopra e controllare di persona, mandando al diavolo quel poco di buonsenso che possedeva, oppure pedinare l'ombra, scelta certamente ancor più rischiosa.

Doveva scegliere in fretta, tenendo conto che sarebbe stato sufficiente che girasse l'angolo, perchè la perdesse di vista per sempre.

«Devo essere pazzo» borbottò, prima di infilare la porta, maledicendosi per avere indosso null'altro che pigiama e pantofole.

Non si stupì nel constatare che l'ombra aveva già messo una considerevole distanza tra sé e la casa, e che procedeva a passo spedito verso ovest. Non era sicuro bazzicare la periferia di Sina nel cuore della notte: non una luce illuminava le strade, se non quelle sparute e fugaci delle rare auto in corsa; non una voce infrangeva la notte, a parte lo sbraitamento concitato di qualche vagabondo ubriaco.

Il freddo e la paura gli facevano martellare i denti, ma gli spessi calzini attutivano il rumore dei suoi passi.

Esitò un istante, quando l'ombra varcò la soglia cigolante d'un vecchio edificio in rovina. Doveva essere stato la sede d'una piccola testata giornalistica, se la memoria non lo ingannava.

Inspirò a fondo, poi entrò.

Ad accoglierlo trovò il malinconico e ritmico ticchettio di gocce sul pavimento, e la più totale oscurità.

Aveva appena preso ad imprecare mentalmente, sforzandosi di trovare un modo per recuperare l'orientamento, quando la luce d'un accendino scattò a pochi centimetri dal suo volto, facendolo sobbalzare.

«Sei proprio rumoroso, sai, ragazzino?»

Riconobbe quella voce ancor prima di abituarsi alla luce, che rischiarò un volto rigato di cicatrici e un ghigno sbilenco.

Arretrò fino a premere la schiena contro il muro gelido. Si sentiva come un animale braccato, un topo nella cui tana avessero versato del veleno, ma si sforzò di non darlo a vedere.

«Non è un po' tardi per una passeggiata, Ymir









Grazie. Grazie, dal più profondo del cuore, a quanti continuano a seguire questa mia storia nella quale sto mettendo davvero tutta me stessa, le mie forze, la mia anima e il mio cuore; grazie a quanti mi hanno contattata qui e su Facebook, grazie a coloro che hanno scelto di comunicarmi il loro parere tramite una recensione: non so proprio come ringraziarvi, siete fantastici, non avrei mai sperato d'avere dei lettori tanto splendidi, dolci e affezionati. 
E soprattutto, non c'è gioia più grande, per una scrittrice, dell'attirare i malumori dei propri seguaci: vi ringrazio anche per questo.
Se ora credete che la nebbia stia iniziando a dissiparvi, è con orgoglio e malvagità che v'informo che no, siete ben lontani dalla soluzione finale di questo racconto. Tuttavia, spero continuiate a farmi compagnia in questa esperienza: non ce la farei, senza il vostro supporto.
Un abbraccio, un abbraccio per ognuno di voi.

Timcampi

 

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Capitolo 6
*** Alleati ***


Alleati

 

Ymir scosse lievemente la testa, mentre il sibilo d'una risata maligna sfiorava la sottile curva delle sue labbra.

«Ah, stai rendendo il mio compito alquanto difficile» bofonchiò, passandosi nervosamente una mano tra i capelli scuri.

«Certo, avresti preferito farmi fuori mentre dormivo, non è così? Sarebbe stato molto più semplice» ringhiò Jean, già pronto all'offensiva. Faceva guizzare lo sguardo dalla ragazza alla porta, meditando se fosse più saggio scattare verso quest'ultima in un momento in cui Ymir non se l'aspettava oppure affrontare faccia a faccia e corpo a corpo la propria rivale, ignaro delle possibili armi che poteva nascondere sotto il lungo cappotto.

In tutta risposta, però, l'altra si limitò a portare le mani ai fianchi e a sollevare un sopracciglio, scrutandolo con aria al tempo stesso infastidita e sinceramente curiosa.

«Sei veramente stupido» sospirò infine, sconsolata, come se avesse davvero soppesato con attenzione la sua figura da capo a piedi. «e hai mandato a monte il nostro piano. Ma tutto sommato sono contenta, cominciavo a stufarmi delle tue lagne da “hanno ammazzato il mio migliore amico”»

Seppure non consapevolmente, Jean aveva abbassato la guardia. La osservava con aria interrogativa, del tutto incapace di comprendere con certezza se rappresentasse o meno una minaccia.

«Allora, Jean» continuò Ymir «Hai intenzione di continuare a starmi alle costole, immagino. Oppure te la sei già fatta sotto e vuoi andare a casa a cambiarti? Non c'è problema, ti aspetto qui» biascicò.

«Non ho paura» mormorò Jean, abbastanza incerto della veridicità di quelle parole ma più che sicuro che mostrarsi timorosi di fronte a un potenziale nemico fosse alquanto controproducente.

«E allora piantala di tremolare incollato al muro e seguimi» tagliò corto la ragazza. «Ah, a proposito: bel pigiamino, ragazzino» sghignazzò. Soltanto in quel momento Jean ricordò d'essere in pigiama: probabilmente stava per affrontare la morte e tutto ciò che riusciva a pensare era che l'avrebbe fatto in pigiama.

Ymir lo precedette lungo una traballante scalinata metallica, e Jean la seguì senza fiatare e cercando inutilmente di non soffermarsi troppo sui molteplici pensieri che gli affollavano la testa, dal macabro ritrovamento di sole poche ore prima fino alle parole appena udite. La luce emanata dallo zippo era tanto fioca che Jean non tardò a realizzare che Ymir doveva già conoscere quel luogo abbastanza bene da non aver bisogno d'illumare i propri passi.

Ogni volta che terminavano una rampa percepiva il proprio cuore fare una capovolta. Dovevano essere saliti di tre o quattro piani, quando la sua guida si voltò a guardarlo con la coda dell'occhio.

«Non fare stronzate, ragazzino» mormorò, e benchè il senso di quelle parole suonasse come una minaccia il tono in cui erano state espresse aveva un che di cortese, quasi implorante.

Quando giunsero finalmente a destinazione, Jean potè chiaramente avvertire l'aria addensarsi.

Ymir gli lanciò un'ultima, eloquente occhiata, prima di tirare la cordicella che fece scendere con uno stridente cigolio la scaletta che conduceva al sottotetto. Poi, con uno scatto, lo zippo si chiuse.

 

Il pavimento del sottotetto emise un lamento, quando riuscì a riassumere la posizione eretta. Ne aveva avuto abbastanza, di scale, per quella notte.

Ymir era in piedi accanto a lui.

«Ci sei?» domandò la ragazza

Ma qualcosa, forse nell'intonazione con cui pronunciò quella frase, o forse semplicemente nel modo in cui essa vibrò nell'aria, lo indusse a pensare che non era rivolta a lui.

La risposta giunse un istante più tardi e gli sembrò quasi di sentirne l'eco sconquassargli la gabbia toracica.

«Chi c'è con te, Ymir?»

Era una voce di stoffa strappata, di forbici schioccanti e di noci frantumate, di pioggia contro i vetri e pagine accartocciate, quella che provenne dall'oscurità e che gli congelò il sangue nelle vene. La debole luce delle stelle che penetrava dai vetri dell'unica finestra s'abbatteva sul suo proprietario, rischiarando appena i contorni d'una figura rincantucciata dall'altra parte della stanza.

«Qualcuno a cui piacerebbe vederti» rispose Ymir. Jean udì lo scatto d'un interruttore, poi il ronzio della lampadina che pendeva dal soffitto: una luce giallognola rischiarò l'ambiente, lampeggiando diverse volte prima di stabilizzarsi.

E allora, per la prima volta, potè vederlo.

A una manciata di passi da Jean, con la schiena contro il muro e le ginocchia al petto, c'era qualcuno che non assomigliava affatto a un mostro.

A osservarlo con un mesto languore negli occhi -uno bruno, l'altro completamente candido, la bocca -da un lato della quale sporgeva una irregolare, minacciosa dentatura- socchiusa in un'espressione di puro stupore, la pelle -da un lato butterata, livida, agglomerata in calli e bitorzoli- ornata da un tiepido rossore, c'era un giovane uomo.

Un uomo chiamato Marco Bodt.

«Mi ha seguita» si giustificò Ymir, incrociando le braccia al petto e lanciando a Jean un'occhiata che egli non potè vedere: i suoi occhi erano cuciti sulla figura di fronte a lui, inondati di lacrime completamente diverse da quelle che ne erano sgorgate nei giorni precedenti. Lacrime calde, e dolci.

«Desideravo non venisse coinvolto» mormorò Marco, e a Jean non importava che quella voce gli graffiasse i timpani: era felice di ascoltarla, avrebbe desiderato ascoltarla finchè non fosse sopraggiunta l'alba, soltanto per riuscire a convincersi che Marco era davvero là, che non se n'era mai andato. Che avrebbe potuto finalmente lasciargli scegliere come ripagare il suo debito.

Attraverò la stanza a pugni stretti, per poi chinarsi sugli avampiedi per osservarlo da vicino.

A ben vedere, constatò con amarezza, ben poco era rimasto del suo reale aspetto: l'intero lato destro del suo volto sembrava plasmato da lava infernale, e così la gola, e la mano nodosa e chiazzata che sbucava dalla manica della camicia.

Marco si lasciò studiare con rassegnata costernazione.

«Non era previsto che lo vedessi» ridacchiò, ma non fece in tempo a terminare la frase che le braccia di Jean lo strinsero con una forza disperata. Soltanto quando sentì la camicia bagnarsi sopra la spalla sinistra realizzò che Jean stava singhiozzando.

«Ho visto la tua tomba, Marco, che vuoi che sia questo?» mugugnò Jean. Non aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo attorno a sé, del perchè Marco -viste le proprie certezze a proposito del mandante dell'incendio- fosse ridotto in quello stato e non ridotto in cenere, di quale fosse il motivo di tutta quella segretezza.

«Avresti dovuto dirci che eri vivo invece di piombare nella mia stanza in piena notte, dannazione, per poco non ci sono rimasto secco» asserì, lasciando la presa soltanto per poter abbracciare i suoi occhi con i propri.

«Mi dispiace. Non ero in me. Scusami, Jean»

Il volto martoriato di Marco s'illuminò d'un lieve, dolce sorriso.

Per quanto parte di esso fosse ormai stato trasformato in una terrificante smorfia di dolore, ciò che quel sorriso gli trasmetteva non era cambiato affatto.

«Non eri... in te? Ma ora va tutto bene, non è vero?» rantolò Jean, ma Marco rifuggì il suo sguardo, chinando il proprio sulle travi marce del pavimento e andando a morsicare quel poco che restava delle sue labbra.

«La sua memoria va e viene»

Nulla della sua solita, onnipresente e insopportabile sfrontatezza era presente nella voce e nel volto di Ymir, in quel momento, quando gli parlò. Marco si portò le mani al viso, la più profonda e agghiacciante mortificazione resa uomo.

«Che accidenti significa?» La voce di Jean suonò come una cantilena smorzata.

«Nient'altro che ciò che ho detto. Dimentica tutto: chi è, dove si trova, che faccia ha. Dimentica anche perchè è ridotto in quel modo... Ah, sopportarlo diventa un inferno, in quei momenti. Soltanto di una cosa, non si dimentica mai» brontolò Ymir, enfatizzando l'ultima frase con una nota decisamente canzonatoria.

«E... di cosa si tratta?»

«Di te, Jean» disse Marco. La triste ombra d'un triste sorriso non accennava a lasciare il suo volto.

«Ti cerca. Ogni volta. Come un povero disperato» sospirò Ymir, e a Jean parve quasi che tutta quella faccenda le apparisse divertente.

«E perchè non hai lasciato che venisse da me? Magari durante il giorno»

Ymir sollevò le spalle. Fu Marco a rispondergli.

«Non volevo mi vedessi. Non desideravo forzarti ad accettare qualcuno che non sono»

I riflessi di Jean non furono abbastanza pronti da fermare la gamba di Ymir, prima che il colpo si abbattesse sul lato sinistro del volto di Marco, tanto forte da atterrarlo. E quando, un attimo dopo, balzò in piedi, pronto a colpirla di rimando, non fu abbastanza rapido da sferrare la propria risposta prima che la ragazza gli immobilizzasse entrambe le mani con le proprie. Era forte, incredibilmente forte.

«CHE CAZZO FAI?» ringhiò, ma Ymir si limitò a scuotere il capo, aggrottando la fronte e stringendo la presa fino a che non percepì la collera di Jean farsi sempre più debole tra le sue dita. Fu soltanto quando Marco parlò, che si decise a lasciarlo andare.

«No, Jean, Ymir ha ragione. “Entrambi siamo il frutto di azioni di cui dobbiamo esser fieri”: è così che hai detto, no?»

Ymir annuì.

«Più o meno»

«E comunque non ti ho ancora ringraziata come si deve»

«Te lo dovevo. Dai vecchi tempi»

«Argh!» Jean si frappose tra i due, massaggiandosi energicamente la fronte. Non si era mai sentito tanto confuso in vita sua. «Vi dispiacerebbe spiegarmi di che cazzo state parlando, voi due? “Azioni di cui dobbiamo esser fieri”? Non ci capisco più un tubo»

Ancora una volta, Marco sembrò stringersi in se stesso.

«Vedi, Jean...»

«Ymir» implorò Marco, ma Jean desiderava sapere e Ymir desiderava che sapesse.

«È stato il tuo amico...»

«Ymir!»

«...il qui presente Marco Bodt...»

«Ymir, così gli prenderà un colpo»

Ma quando Ymir apriva la bocca per seminare discordia o confusione o insulti che fosse, non c'era verso di fargliela chiudere: e neppure quella volta vi furono eccezioni.

«...ad appiccare quell'incendio»









 

...Dopo questo capitolo, mi sorprenderei di vedervi ancora seguire questa storia.
Comunque, come vi avevo già avvertito, il mistero continua a infittirsi invece di districarsi, e spero davvero desideriate scoprirne le soluzioni e la fine insieme a me che, dal canto mio, mi scopro sempre più innamorata di questa fanfiction e orgogliosa e felice d'aver cominciato a dedicarmici. 
Ognuna delle vostre recensione, ognuno dei vostri commenti e delle vostre dimostrazioni di supporto verso di me e d'apprezzamento verso questa storia è preziosa, è un tesoro di inestimabile valore, per me. Grazie d'essere qui, grazie se ci resterete.
Vi abbraccio; ovunque voi siate, da qualsiasi città stiate leggendo questa mia storia, sappiate che vorrei essere là ad abbracciarvi. 
A presto,

Timcampi

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Capitolo 7
*** Volare ***


Volare

 

Jean impiegò un istante per recepire quella notizia.

«Che razza di stronzate vai farneticando, demonio che non sei altro?» ringhiò all'indirizzo dell'altra. Marco si rimise in piedi con un sospiro arreso, posando dolcemente una mano sulla spalla di Jean.

«Non sono stronzate. Ma per favore... Per favore, Jean, lascia che ti spieghi, posso ben immaginare cosa ti passa per la testa, ma ti assicuro che, se mi lascerai spiegare...!»

«Spiega, avanti. Che aspetti?» sospirò, incrociando le braccia al petto e guardandolo con un misto di rabbia e curiosità.

Marco non fece in tempo ad aprire la bocca, che lontani rumori li fecero trasalire: dapprima Ymir, che rizzò il capo e tese le orecchie, in un modo che a Jean ricordò una bestia braccata; poi Marco, che volse lo sguardo verso la botola; soltanto un istante più tardi, Jean fece caso ai rumori sommessi che provenivano dabbasso, passi pesanti che il silenzio della notte rendeva facilmente distinguibili, benchè ancora distanti.

«Merda» sillabò Ymir tra i denti, serrando i pugni. Jean sentiva il proprio cuore esplodergli nel petto, e si sorprese nel notare la placida destrezza che regnava sul volto di Marco.

«Non perdiamo la calma. Dobbiamo andarcene di qui» scandì quest'ultimo, spostando lo sguardo da Jean a Ymir e viceversa, in un debole tentativo di placare gli animi.

«Che... Che sta succedendo?» mormorò Jean, artigliando il polso dell'altro che, in tutta risposta, gli sorrise, prendendogli dolcemente il viso tra le mani.

«Ti spiegheremo ogni cosa quando saremo a casa, te lo prometto» dichiarò. Jean potè percepire chiaramente il proprio cuore... o qualcosa, qualcosa dentro di lui fare una piroetta, o un salto, quando le dita del ragazzo si posarono sulle sue guance ossute. Erano differenti, al tatto: una morbida, tiepida, e l'altra grinzosa, ruvida, pulsante, caldissima. Marco la ritrasse dopo un attimo, mordendosi le labbra. Era ben chiara, ormai, la sua intenzione di fargli conoscere il meno possibile di quel nuovo aspetto di sé che doveva odiare molto più di quanto il suo viso sereno e imperturbabile facesse credere. «Sarebbe troppo, Jean, chiederti di fidarti ancora di me?»

Jean inspirò a fondo, come se, tutt'a un tratto, l'aria intorno a lui e dentro i suoi polmoni si fosse rarefatta.

Probabilmente si trattava di una grande, titanica, colossale follia.

Alla quale, sciaguratamente o forse per sua stessa volontà, non poteva in alcun modo sottrarsi.

«Mi fido di te» affermò, con voce tremante e solenne, afferrando con i propri occhi quelli dell'altro, entrambi, del tutto incapace di compiere distinzioni tra ciò che Marco era stato e ciò che Marco era adesso.

Qualunque cosa fosse accaduta, chiunque fosse alle loro costole, qualsiasi disgrazia si fosse abbattuta sulla sua testa, lui si fidava di ogni singolo brandello di quel giovane uomo di nome Marco Bodt.

Un rauco colpetto di tosse alle spalle di Marco lo riscosse.

«Che ne dite di piantarla e di rimandare questo nauseante teatrino a dopo? Io vorrei filarmela, ora» gracchiò Ymir, additando la finestra della mansarda.

«Mi stai dicendo che...?»

Un forte pugno della ragazza s'abbattè contro il vetro, mandandolo in frantumi e lasciando a metà la domanda di Jean. La mano di Ymir sanguinava copiosamente, ma quella continuò a rimuovere pezzi si vetro con aria assorta, la fronte aggrottata e le labbra serrate.

«Avresti dovuto lasciarlo fare a me» disse Marco, ma l'altra lo zittì bruscamente, scivolando nell'oscurità della notte ormai inoltrata senza il minimo rumore.

Marco si voltò a guardare Jean, la bocca semispalancata e lo sguardo fisso sul punto un cui Ymir era scomparsa dalla sua vista. Si accucciò quasi carponi sulla finestra, come una grossa rana in procinto di saltare.

«Jean, sali sulle mie spalle» comandò. Benchè il suo tono fosse delicato come di consueto, quelle parole suonarono come un vero e proprio ordine, che Jean si sentì decisamente troppo confuso e imbarazzato per eseguire.

«No. No, no. Non ci tengo, a sfracellarmi da qualche parte. E non mi sembra il genere di cosa che...»

Un rumore stridente l'avvertì qualcuno stava calando la scaletta: un attimo, un attimo soltanto e chiunque fosse alle loro costole sarebbe stato là. E se si fosse trattato semplicemente della polizia? Se fosse stato Marco, quello verso cui avrebbe fatto bene a nutrire timore?

«Jean. Fidati di me» implorò il ragazzo.

Non c'era tempo, pensare era un lusso che non poteva permettersi.

«Me ne pentirò» borbottò, issandosi sulle spalle di Marco e stringendo le gambe intorno alla sua vita.

Era caldo, più caldo di qualunque creatura vivente avesse mai toccato, e quella vicinanza accentuava spaventosamente quel piacevole tepore. Era come essere avvinghiati a un termosifone o allo sportello del forno.

Ringraziò il cielo che Marco non potesse vedere il rossore che sentiva diffondersi a poco a poco sul suo volto.

«Reggiti forte, Jean» ordinò Marco.

Benchè non potesse constatarlo, Jean seppe che l'altro stava sorridendo.

Nell'istante in cui una figura massiccia comparve dal varco d'accesso, spiccarono il volo.

Perchè era esattamente come volare.

Un appiglio su una tubatura, uno sulla grondaia, e furono in cima al tetto. Benchè l'edificio non fosse molto alto, il fatto di essere in bilico sulle spalle di Marco gli provocò un forte capogiro e un lieve attacco di nausea.

Marco correva.

Fendeva l'aria, la tagliava come un aereo di carta perfettamente aerodinamico, leggero, silenzioso come un'ombra sospinta dal vento.

Un davanzale, una tubatura, ed erano sulla cima dell'edificio accanto, attaccato per un fianco al loro punto di partenza.

Le mani di Jean, strette intorno alle spalle della sua insolita cavalcatura, sudavano a tal punto che mantener salda la presa si rivelò un compito sempre più arduo.

«Vuoi spiegarmi che diavolo significa tutto questo?!» ruggì. Nessuna risposta.

Ancora pochi metri, e sarebbero piombati nel vuoto.

Quando se ne accorse, stava già gridando, del tutto certo che si dì lì a un istante si sarebbero schiantati al suolo. Ma questo non accadde, perchè l'istante che seguì, al contrario, vide Marco atterrare come una immensa falena sul tetto più vicino, tanto leggero che Jean percepì a stento il contraccolpo. E poi, furono di nuovo di corsa.

Fu allora che, finalmente, la risposta arrivò.

«La Reiss Corporation non ha mai smesso di darti la caccia, Jean»

Per un attimo, Jean fu sul punto di lasciare la presa.

«Allora... Allora c'entra davvero. Maledetti figli di...»

«Devo proteggerti»

«Cosa c'entri, tu, con loro? Perchè hai appiccato l'incendio?» mormorò. «E perchè... Perchè questo, Marco?» domandò ancora, serrando le dita intorno alla spalla destra del ragazzo.

«Non è il momento, Jean, ti prego» esalò Marco, lanciandosi un'occhiata fugace alle spalle e accelerando il passo. Jean l'imitò: dietro di loro, tanto vicini che avrebbero potuto raggiungerli in poche falcate, se Marco si fosse fermato, c'erano due figure maestose, familiari sebbene avvolti dal buio, silenziose, leggere nonostante le loro notevoli dimensioni.

Berthold Fubar e Reiner Braun si facevano sempre più vicini.

«Ti sto rallentando»

«A casa saremo al sicuro» assicurò Marco. Benchè certamente facesse del suo meglio perchè Jean non vi facesse caso, la sua voce era innegabilmente incrinata.

«Nessuno ti ha chiesto di salvarmi la vita, Marco!» ribattè, mentre volavano ancora una volta da un tetto all'altro. Questa volta, fu per un pelo che giunsero dall'altra parte.

Quando si voltò, non si sorprese nel constatare che anche i loro inseguitori avevano superato quell'ostacolo, e che il loro fiato sul suo collo si faceva sempre più pressante.

«La porta di casa non li fermerà!»

«Sì, invece!» dissentì Marco. «Devi fidarti di me!»

In tutta risposta, Jean assicurò la presa. Mancava poco a casa, e mancava poco al sorgere del sole: lo si intuiva dall profilo dorato delle case che popolavano l'orizzonte e della strada oltre di esse, là dove la città terminava. Ancora pochi isolati, e sarebbero stati a casa.

Sentiva le membra di Marco lievemente affaticate, i suoi passi appesantirsi fino a che non riuscì a notarne la sottile irregolarità. Si domandò se provasse dolore, se la fatica gli procurasse una sofferenza più grande di quanto gli lasciasse intendere, ma non osò fare domande.

Dietro di loro, i passi di Reiner e Berthold si facevano sempre più vicini. Ora, la fioca luce dell'alba rischiarava appena i loro volti, tesi e concentrati, imperscrutabili. Sembravano due ombre grosse e mute, quasi due automi, in perfetta, spaventosa sincronia.

«Ci siamo» sentenziò Marco.

In un balzo furono sul marciapiedi. Le dita e le gambe di Jean erano convulsamente strette intorno al suo corpo, ma Marco non osava lamentarsene, e Jean quasi trovava tedioso il pensiero di doversene separare.

Quando furono sulla soglia di casa, Jean si voltò: alle loro spalle, in bilico su un cornicione, le due sagome li osservavano, impotenti. Benchè non riuscisse ancora a comprendere le dinamiche di quell'assurda vicenda, realizzò che Marco aveva ragione.

Il ragazzo si chinò per permettergli di scendere, e Jean vide per qualche attimo il mondo girargli attorno vorticosamente, quando posò nuovamente i piedi al suolo. Marco fece per bussare, quando la mano di Jean intercettò la sua, a pochi centimetri dal campanello.

«Tutto a posto, Jean?» domandò, accorato. «Stai bene?»

Jean annuì bruscamente.

«Sì, sì. Sto bene, non preoccuparti. Solo...»

«Sì?»

Jean si morse l'interno di una guancia. Non era il momento per i convenevoli. Erano nel bel mezzo di una guerra.

«Sono felice che tu sia sano e salvo. Tutto intero. Vivo, ecco. Sì, sono felice di rivederti» mugugnò. Marco non tentò di nascondere il rossore che si allargò sulle sue guance tempestate di lentiggini.

Entrambe le sue guance.

Ogni suo gesto, ogni sguardo coinvolgeva il suo corpo nella sua interezza: poco importava quel che pensava o affermava, per Jean non c'era nulla, nel suo aspetto, che non gli appartenesse, che sembrasse essere estraneo.

Marco restava Marco, e il pensiero d'avere di nuovo di fronte il giovane sulla cui tomba aveva versato tutte le sue lacrime era tanto potente da rimuovere ogni traccia di paura dal suo cuore.

Dentro di lui, c'era spazio soltanto per la voglia di lottare, quella che aveva serpeggiato sul fondo del suo animo fin dall'inizio, fin da quando il suo destino era stato stravolto per la prima volta, a Trost, e che ora pretendeva spazio e attenzioni.

«Ehi, credevi davvero che me ne sarei andato, con un debito da farti saldare?» ribattè Marco, scuotendo platealmente il capo e afferrandogli amichevolmente un braccio.

Poi, suonò il campanello.

Fu in quel momento, quello in cui aveva il braccio di Marco stretto intorno al proprio, e in cui quel suono si unì alla debole eco di se stesso che riaffiorò dai suoi primi ricordi di Sina, che uno strano pensiero colse Jean, un pensiero che riuscì a farlo sorridere.

Ancora una volta, la sua vita stava ricominciando.

 

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