La patria del cuore di Rinalamisteriosa (/viewuser.php?uid=52428)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** -Epilogo- ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
[A
SunliteGirl]
***
La
patria del cuore
*La
famiglia italiana*
Capitolo
I
Ore sette del
mattino.
In casa Vargas,
al primo piano, in fondo all’umile corridoio entrambe le camere da letto erano
avvolte da un silenzio perfetto e dalla penombra per via delle imposte
semichiuse.
In quella di
destra, talmente disordinata da far pensare che al suo interno fosse passato un
ciclone, si mise in funzione la chiassosa radiosveglia, appoggiata sul comodino
accanto al letto, dove giaceva scomposto un giovane
addormentato.
Lui mugugnò
infastidito, voltandosi dall’altra parte, mentre la voce potente di Luciano
Pavarotti intonava la prima strofa di ‘O sole mio.
(Che bella cosa
‘na jurnata ‘e sole
n’aria serena
doppo ‘na tempesta)
“E che cavolo!”
borbottò, spingendo la testa sotto il cuscino.
Non aveva
nessuna voglia di alzarsi in piedi e di prepararsi per andare a lavoro, perché
se lo avesse fatto, allora avrebbe dovuto anche sorbirsi l’immancabile predica
di mamma Assunta, per non parlare delle lodi infinite rivolte alla sorellina
Flavia.
Lei era più
carina, più educata, più dolce, più ordinata e più creativa di quanto Romano
fosse mai stato in vent’anni: ecco cosa insinuava sua
madre.
(pe’ll’aria
fresca pare già ‘na festa
che bella cosa
‘na jurnata ‘e sole)
Si rigirò nel
materasso e tese il braccio nudo verso l’oggetto incriminato, tastandolo con le
dita più volte e tirando un sospiro di sollievo quando finalmente si
spense.
Si sistemò
nuovamente tra le calde coperte, ma il richiamo della donna dal pianterreno gli
precluse ogni tentativo di rilassarsi.
Si portò a
sedere mettendo su un broncio ostinato, era semiaddormentato, con i corti e
morbidi capelli scuri che ricadevano in ciuffi spettinati fino al collo, mentre
si aggiustava le spalline della canotta rossa.
Un altro
richiamo lo indusse a gridare: “E sì, ho capito, sono sveglio!”, a lasciare
subito il suo letto e a recuperare le ciabatte e un paio di
pantaloncini.
In attesa fuori
dal bagno trovò Flavia, una mano a strofinarsi l’occhio destro, i capelli più
chiari dei suoi e ugualmente spettinati a incorniciarne il grazioso
visino.
Indossava una
camicia da notte verde, che le ricadeva fino alle gambe
magre.
Si fissarono,
entrambi assonnati.
“Buongiorno…”
gli augurò poi in tono soave, sporgendosi per dargli un bacio sulla guancia
prima di superarlo ed entrare a sua volta in bagno, socchiudendo la porta di
legno.
Romano decise di
aspettarla nel corridoio, così sarebbero scesi insieme per la
colazione.
Sette minuti
dopo, Assunta, vedendo che i suoi due figli si erano degnati di arrivare in
cucina, posizionò le mani chiuse a pugno sui fianchi e li fissò
severa.
“Flavia, Romano,
buongiorno. Sbrigatevi a fare colazione, perché tu – indicò la più piccola – non
andrai a scuola e tu – indicò il maggiore – non ti recherai a lavoro”, spiegò la
donna in tono spiccio e categorico.
“Davvero?
Possiamo sapere come mai?” domandò perplessa Flavia, guardandola
confusa.
Romano invece
sgranò gli occhi, certo di aver capito male. Niente lavoro per lui…
Possibile?
Assunta annuì.
“Avrete tutta la mattina per prepararvi: alle undici in punto dovrete essere
all’aeroporto di Roma Ciampino. Mentre dormivate, ha telefonato Giulio e ha
chiesto espressamente che andiate ad accogliere vostro cugino Diego. È tutto
chiaro?” s’interruppe, per accertarsi che la notizia fosse stata recepita a
dovere dai figli.
Assistette a due
reazioni completamente opposte.
La figlia minore
esultò, levando le braccia al cielo ed esclamando candidamente: “Che bello! Lo
zio Giulio ci manda Diego, finalmente passeremo del tempo
insieme!”.
Il figlio
maggiore sembrò contrariato e dubbioso.
“Io non mi
fido…” mormorò a denti stretti, aggrottando le sopracciglia. “Per tutto questo
tempo non si è curato di noi, e oggi improvvisamente ci obbliga a ospitare suo
figlio?! Per me c’è sotto qualcosa”.
Romano chinò il
capo, per poi strizzare gli occhi e contrarre le labbra quando Flavia gli
domandò piano: “Fratellone… davvero non sei contento?”.
Non si sarebbe
voltato a guardarla dritto negli occhi, no, perché sapeva che altrimenti avrebbe
ceduto di fronte allo sguardo da cucciola bastonata che sicuramente l’altra gli
stava lanciando per convincerlo.
Anche quando si
sentì abbracciare, agitò energicamente il capo.
“Accidenti, non
voglio! Lasciami subito!” protestò.
“Ospitiamo il
cugino Diego, che ti costa? Per favore…” lo pregò,
stringendo.
“No. E
finiscila, non siamo più bambini!” la riprese.
“Niente storie,
Romano”, intervenne perentoria la donna. “Tu lo accetterai, che ti piaccia o no.
Non vi ho forse insegnato l’importanza dell’ospitalità? Ancor più se si tratta
di un membro della nostra famiglia?” ricordò loro.
“Sì, mamma”,
risposero all’unisono, uno con il tono scocciato, l’altra
accondiscendente.
“Nella mia vita
ho fatto tanti sacrifici, anche per tirarvi su… Non vorrete deludere le
aspettative mie e della buon’anima di vostro padre?”.
“No,
mamma”.
“E anche se loro
sono così distanti, non vuol dire che non tengano a noi
tre”.
“Hai ragione,
mamma”.
Con un sorriso
compiaciuto, Assunta tornò al lavello per continuare a lavare i piatti della
sera prima e per aspettare le tazze e i cucchiaini che entrambi avrebbero
utilizzato, di lì a poco, per il latte caldo e per il
caffè.
La colazione si
consumò in un’atmosfera pregna di sottintesi e di parole non dette, soprattutto
da parte di Romano.
Sapeva bene di
essere un figlio problematico, deludente sotto molti aspetti, pigro, che faceva
il commesso in un negozio d’abbigliamento soltanto perché costretto dalla
precaria situazione familiare, essendo l’unico che poteva contribuire alle
spese, portando uno stipendio a casa. Era modesta, la loro casetta, ma ci
vivevano bene.
Romano si
lamentava sempre, però il suo contributo manteneva le donne più importanti della
sua vita.
A suo modo ci
teneva e provava fastidio per se stesso, per quella sua natura tormentata e
orgogliosa da fare schifo.
E sparte adesso
si aggiungeva un’altra bocca da sfamare. Che bello.
“Mamma?” la
chiamò all’improvviso; esitò, ma dopo un cenno di incoraggiamento della donna,
dopo aver sbirciato con la coda dell’occhio Flavia e il suo sorriso lieve,
sentiva di doverlo dire.
“Grazie, ma’. Ti
prometto che non farò più storie”.
Incassò la testa
sulle spalle, strinse i pugni sotto al tavolo e le guance s’imporporarono per
l’imbarazzo, come se in una frase avesse concentrato tutto l’affetto e tutta la
stima che raramente le dimostrava.
Solo, era stata
una confessione pronunciata con un tono più basso del suo solito, quindi aveva
temuto per un attimo di dover ripetere, ma fortunatamente lei aveva sentito.
L’avevano udito entrambe, in realtà.
Sua madre lo
rassicurò, aggiungendo che pure lei da giovane era una testa calda come lui,
mentre Flavia continuò a sorridere, passandole il barattolo della marmellata di
ciliegie, per poi esclamare contenta: “Non potrei desiderare di meglio. In
famiglia siamo delle brave persone e ci vogliamo tanto
bene!”.
“Tu la metti
sempre su un piano troppo sdolcinato per i miei gusti”, aggiunse schiettamente
Romano. Però doveva ammettere che si sentiva un po’ più sereno, rilassandosi
sulla sedia e osservando la mamma che cingeva dolcemente le spalle dell’altra
con un braccio, invogliando loro a sbrigarsi e a salire nelle rispettive camere,
per poi lavarsi, per darsi una sistemata, soprattutto ai capelli, e per
prepararsi.
*
“Fratellone,
puoi aiutarmi con i lacci degli stivali?” chiese Flavia entrando tranquillamente
nella sua camera, mentre lui era intento a infilare gli ultimi bottoni nelle
asole della camicia bianca. Aveva perso tempo a contattare qualcuno che lo
sostituisse alla cassa per quel giorno, quindi stava cercando di vestirsi in
fretta.
“Che palle,
Fla’! Non hai ancora imparato a farlo da sola?” rispose seccato Romano, per poi
sospirare pesantemente alla vista del suo abbigliamento. La camicetta nera ci
poteva anche stare, ma secondo lui quella gonna blu era troppo corta, metteva in
evidenza le gambe snelle e chissà se in aeroporto sarebbero passate
inosservate.
Flavia abbassò
ingenuamente lo sguardo. “Devi solo allacciare questi e sono pronta. Nostra
madre mi ha già visto e ha detto che sto bene”, gongolò soddisfatta, la lunga
coda di cavallo che oscillava a destra e a sinistra come il pendolo di un
orologio.
Quando finì con
i bottoni, lui la fece sedere sul bordo del letto e si inginocchiò per
armeggiare con quei lunghi lacci, in un’operazione per nulla semplice,
intricata. La spuntò soltanto per abitudine, dato che la aiutava da quando erano
piccoli con tutti i tipi di scarpe, eccetto le ballerine.
“Certo che
questa stanza sembra proprio un campo di battaglia…” pensò ad alta voce Flavia,
osservandone il gran disordine che toccava ogni angolo.
“Sta’ zitta!”
esclamò lui. “Capirai che m’importa. Lascia che ci pensi mamma quando ce ne
saremo andati. È la giusta punizione per lei, perché… perché sì, cavolo!” gli
venne da dire con un certo nervosismo.
Poi si alzò in
piedi e trascinò la sua perplessa sorellina fuori da lì, sbattendo la porta e
precipitandosi di fronte all’armadio, alla ricerca dei pantaloni color
sabbia.
“Fatevi
guardare…” li incitò a mettersi vicini, uno accanto all’altra.
Il suo bambino e
la sua bambina erano diventati grandi.
Avevano gli
occhi e alcuni tratti molto simili, Romano e Flavia, a parte delle ovvie
eccezioni, come il colore dei capelli e il modo di acconciarli, poi un ricciolo
caratteristico – quello del primo pendeva a destra, quello della seconda a sinistra – e il fatto che uno era costantemente serio e svogliato, mentre l’altra
aveva un’allegria spontanea, naturale.
Molti le
chiedevano se fossero gemelli, per poi stupirsi quando specificava che in realtà
Romano era nato due anni prima di Flavia e che avevano rispettivamente venti e
diciotto anni.
“Per me state
benissimo”, fece sapere loro la donna, orgogliosa.
Romano diede una
veloce occhiata al proprio orologio da polso: erano le dieci e cinque.
“Speriamo che la
tua amica non tardi, Fla’. Mi sono già rott-”.
“Romano! Vedi di
non dire parolacce!” lo avvertì severamente la madre, addolcendosi quando la
piccola di casa annuì.
Assunta allargò
le braccia e l’accolse in un delicato abbraccio, depositando un bacio materno
sulla fronte liscia. “Mi raccomando cara, assicurati che tuo fratello si
comporti bene, sai com’è fatto…” le disse con un sorriso intenerito. L’altro
fece una linguaccia e si girò verso la porta, pronto ad
andarsene.
“Non mi saluti,
Romano?”.
“E piantala, ci
rivedremo presto!” pronunciò queste parole apparentemente scocciato, ma in
realtà sentiva delle lacrime birichine che premevano per uscire dagli
occhi.
“Dai, Romano,
unisciti all’abbraccio anche tu!” esortò Flavia.
Il giovane
sospirò, ma un attimo dopo si costrinse a tornare sui suoi passi,
assecondandole, ricevendo un bacio sulla frangia dalla loro mamma che lo fece
vergognare e chinare il capo.
La sorella
allargò il sorriso, per via del broncio imbarazzato che lui stava mostrando. “In
questo momento sei adorabile. Dovresti guardarti allo specchio,
fratellone”.
“Ma
smettila!”.
Dopo un po’ il
suono di un clacson fece trasalire la famigliola. Contemporaneamente diedero un
bacio, chi in una guancia chi nell’altra, alla mamma e sciolsero l’abbraccio. Si
affrettarono poi a prendere le rispettive giacche, a indossarle e a correre alla
porta d’ingresso dopo che Flavia aveva agguantato al volo la sua
borsa.
“Ciao,
mammina!”.
“Arrivederci”.
“Ciao!” li
salutò lei, ritornando alle sue faccende con la speranza che sarebbe andato
tutto bene.
Assunta era una
donna esigente e autoritaria, ma sapeva essere anche comprensiva, paziente e
amorevole quando serviva.
Inoltre era
forte e robusta, abituata a lavorare in casa fin da
piccola.
Aveva amato
molto e aveva perduto, crescendo da sola due figli piccoli e diversi tra
loro.
Il suo buonumore
si affievolì quando le toccò salire al piano superiore e aprire la porta della
camera del primogenito. Era messa ancor peggio del solito, ma si rimboccò le
maniche con decisione e si diede da fare.
A preparare una
bella ramanzina ci avrebbe pensato più tardi.
A proposito di
lui e di Flavia, si era offerta di accompagnarli con la macchina una giovane
donna dai capelli lunghi, mossi, color castano chiaro e dai brillanti occhi
verdi.
Si trattava di
una cara amica della sorellina, proveniva dall’Ungheria e anche se viveva in
Italia da cinque anni aveva imparato a padroneggiare quasi alla perfezione la
lingua italiana.
Romano si era
seduto sul sedile posteriore, limitandosi a un cenno sbrigativo con il capo,
mentre sua sorella aveva dato un saluto caloroso a Elisa – così era solita
chiamarla – occupando il posto accanto a lei e spiegandole la situazione mentre
la osservava guidare.
“Sono proprio
contenta, non vediamo Diego da qualche anno, sarà cresciuto! Mi chiedo se lo
riconosceremo…” aggiunse Flavia quando esaurì il discorso. Poi prese a
giocherellare con il portachiavi tricolore che pendeva dalla cerniera della
propria borsa.
“Ho capito. E il
signorino asociale dietro di te che pensa?” s’interessò Elizabeta, dal momento
che l’altro non aveva ancora aperto bocca.
“Che?” sbottò,
poiché l’avevano chiamato in causa mentre era sovrappensiero. “A cosa ti
riferisci?”.
“Mi chiedevo se
come tua sorella sei entusiasta per la visita improvvisa…” replicò pazientemente
l’ungherese.
“A dirti la
verità no, per niente. Dovrò adattarmi… Ho un brutto presentimento, accidenti!”
dichiarò, distogliendo l’attenzione dal paesaggio che scorreva dal finestrino:
tanto gli passavano davanti solamente abitazioni, cartelli, lampioni spenti,
macchine parcheggiate, strade asfaltate e qualche traccia di verde qua e
là.
“Romano pensa
che ci sia sotto qualcosa”, chiarì la sorella. “Secondo me non ha motivo di
preoccuparsi. Si tratta di un ragazzino, vero Elisa? Cosa potrebbe succedere di
male?”.
“Che pizza...”
mormorò lui assottigliando lo sguardo, scocciato di vederla sempre così
fiduciosa, ottimista e ignara.
“In questo caso
tenete gli occhi aperti”, suggerì solidale Elizabeta, per non contraddire
nessuno dei due.
Il breve viaggio
proseguì senza intoppi, finché non arrivarono a destinazione, entrando con il
veicolo nel parcheggio antistante l’ingresso
dell’aeroporto.
Continua…
***
Disclaimer:
A parte uno, i
personaggi citati non mi appartengono (ci ho semplicemente fantasticato
sopra) e non ho scritto a scopo di
lucro.
Note: Non avrei mai
dato una possibilità a quest’idea alternativa se la cara SunliteGirl non
mi avesse cortesemente incitato a scrivere. Se lo merita davvero, perciò ho
vinto la mia indecisione e ho pubblicato >.<
Questa, in
parole povere, è la prima di una serie di storie, che verteranno sulle varie
famiglie di Hetalia a cominciare dagli italiani.
Ho voluto una
madre per Italia Romano e Italia Veneziano, così è nata
Assunta.
Ho voluto
cambiare sesso al minore, ma capirete più avanti il motivo, se svelo tutto
subito non c’è gusto ;)
Inoltre qui non
rappresentano le nazioni e la fic è ambientata non proprio ai giorni nostri, ma
negli anni ’90.
Ah, il titolo
viene da una citazione di Giuseppe Mazzini, “La famiglia è la patria del cuore”.
Spero vi piaccia
questa premessa, anche se non ha molte pretese (personalmente preferisco i
prossimi capitoli, questo è soltanto l’inizio xD) e prometto all’autrice a cui è
dedicata che non dovrà aspettare molto per leggerla tutta. Anticipo che può
sembrare semplice e scontata, ma non sarà così, ho fatto il possibile
=)
Rina
Prossimo
aggiornamento: 29 dicembre.
Perciò ne approfitto per augurarvi una buona Vigilia e un Felice Natale!
=)
|
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Capitolo
II
Elizabeta
Héderváry
aveva conosciuto Flavia Vargas per puro caso.
Era
successo tre anni prima, quando aveva trovato lavoro come consulente
matrimoniale presso un’agenzia e si era potuta permettere l’affitto di un
appartamento dignitoso vicino alla scuola superiore che la più piccola
frequentava. Nei due anni precedenti l’ungherese, con una borsa di studio vinta
nel suo Paese, si era spostata tra Ungheria e Italia per seguire un corso
d’italiano, infatti questo le era servito molto. Era una giovane in gamba, che
si impegnava in ogni cosa che faceva.
Un
giorno, mentre passava dall’ingresso dell’istituto scolastico con le buste della
spesa in mano, dopo aver attraversato le strisce pedonali, aveva intravisto una
scena che l’aveva fatta indignare non poco.
Una
studentessa aveva subìto uno sgambetto da una sua compagna di scuola, e non
aveva reagito quando le altre avevano sghignazzato alle sue spalle per la caduta
improvvisa, come se a provocarla fosse stato un movimento goffo della stessa
ragazza.
Si
era subito sentita in dovere di intervenire in sua
difesa.
Avvicinandosi,
aveva imprecato nella sua lingua madre, dato che le veniva più naturale, con
l’intento di rimproverarle; probabilmente la colpevole del gesto l’aveva anche
presa per pazza, ma alla fine era riuscita a ottenere che chiedesse scusa a
Flavia, andandosene via poco dopo a capo chino.
L’italiana
l’aveva guardata con gratitudine e ammirazione, per poi dare sfogo alla sua
esuberante e tenera curiosità, parlando e facendo un sacco di domande. Allora
aveva indicato la sua scuola e aveva compreso che lì le insegnavano anche altre
lingue, e che quindi se aveva difficoltà a esprimersi in italiano potevano
provare con un’altra.
Elizabeta
aveva replicato cordialmente che no, era meglio se si abituava con
quella.
Fu
allora che le due divennero amiche.
Oh.
Se lo ricordava ancora come se fosse ieri.
Sostò
l’autovettura senza parcheggiare, in mezzo alla strada, vicino alle strisce a
pagamento.
“Siete
arrivati. Scendete qui, ci vediamo dopo”, li invitò Elizabeta. Proprio perché si
incontravano spesso, lei e Flavia, era venuta a sapere che la macchina di
famiglia, una vecchia Fiat 500, si
trovava momentaneamente dal meccanico per un guasto al motore. Quella mattina
aveva chiamato giusto per cortesia, per domandare alla signora Vargas se i figli
avessero avuto bisogno di un passaggio, il resto l’aveva scoperto
successivamente.
“Grazie!
Tu sei sempre così buona con me, Elisa. Sei sicura di non voler venire con noi?”
chiese gentilmente Flavia, slacciando la cintura di sicurezza, mentre Romano
apriva la portiera e scendeva per conto suo.
“No
cara, non serve. Io non faccio parte della famiglia, è giusto che vada via. Ho
una commissione da sbrigare, ma prometto che dopo le undici passo e mi
racconti”, la tranquillizzò, per poi darle un buffetto affettuoso sulla
guancia.
“Veh,
ci sto. Suona il clacson e io ti vedrò. Ciao ciao!” la salutò, sporgendosi per
darle un abbraccio veloce perché altrimenti l’altro avrebbe borbottato sul fatto
che si perdeva troppo in smancerie e convenevoli.
Quando
l’auto grigia dell’amica ripartì, si volse verso il fratello, scusandosi per
averlo fatto aspettare.
“La
prossima volta ricambiamo il favore, vero? Magari quando dovrà partire per le
ferie!” aggiunse, procedendo gaia verso quella che a suo parere era un’entrata
enorme, grigia e piena di cartelli con le indicazioni.
Romano
le camminò affianco senza rispondere, pensando che in fondo non gli importava
molto di favori e aeroporti. E più proseguivano all’interno dell’altissima
struttura, più trovò ironicamente spassoso il fatto di dover attendere
l’arrivo di qualcuno in un luogo simile. Se fino alle porte non trovarono anima
viva, più si avvicinavano al banco informazioni, più vedeva accalcarsi persone
di ogni tipo, tra italiani e stranieri, tra lavoratori e turisti, tra parenti e
amici. C’era un viavai fastidioso di gente, bisognava muoversi per forza a
zigzag. Esasperato, finì per prendere Flavia, che sorrideva a chiunque
incrociassero, dal polso e trascinarla con sé, per non perderla di vista, anche
se principalmente lo faceva per non dover fulminare con lo sguardo chi osasse
fissarla con insistenza.
Era
proprio dura, la vita del fratello maggiore.
I
due sostarono sotto il tabellone digitale degli orari, che elencava partenze e
arrivi dalle città d’Italia e del mondo.
“Da
Genova a Roma… È l’uscita numero quattro”, lesse Flavia dopo aver individuato le
informazioni che servivano per sapere dove esattamente
fermarsi.
Romano
stava fissando l’ora. Erano le undici meno venti del 30 settembre.
Sospirò.
“Andiamo
ad aspettarlo, allo-” si bloccò. Si stava rivolgendo a una vecchia suora che
passava di là giusto in quel frangente. Con quelle rughe marcate e quegli
occhialini gli fece impressione.
“Scusa?”.
“No,
niente. Ho sbagliato persona”, mormorò spaesato, guardandosi freneticamente
attorno.
Dove
sei?
Fortunatamente,
la sorella non era lontana, l’aveva intravista proprio mentre entrava in un
negozietto del posto.
“Ho
comprato il quotidiano di oggi e una rivista che parla di cucina. Così non ci
annoiamo!” affermò, porgendogli il giornale ripiegato e mostrando la copertina
colorata della sua, al centro vi era la foto di un bel piatto di
pasta.
“L’hai
presa per te o per la mamma? E comunque dovevi avvisarmi, maledizione! Mi è
quasi preso un colpo quando mi sono girato e non c’eri!” la biasimò, accettando
in modo brusco l’acquisto cartaceo.
Flavia
trasalì, indietreggiando di due passi.
“M-mi
dispiace, fratellone! Non era mia intenzione infastidirti, ti vedevo annoiato e
ho pensato…” si scusò: aveva l’espressione mortificata e il labbro inferiore che
tremolava un poco. Quella reazione intimorita lo fece pentire immediatamente di
essersela presa con lei.
Doveva
comprendere prima che la notizia improvvisa della visita non aveva colpito
soltanto lui. Ci mancava che lei si mettesse a piagnucolare a causa del suo
essere scontroso.
“No…
Dai, Fla’, non ti dispiacere. Veramente quello che dovrebbe chiedere scusa sono
io. Hai fatto bene”, le confessò, abbassando lo sguardo crucciato e
massaggiandosi la nuca con la mano libera.
“Veh,
non preoccuparti! Anzi, non parliamone più”, si sentì dire, prima che una mano
si appoggiasse, leggera e conciliante, sulla sua spalla.
*
“Eccolo!
È lui, vero?”.
Si
aggrappò emozionata e curiosa al suo braccio, indicando un gruppetto assortito
in avvicinamento.
“E
ti pareva…” sbuffò l’altro, senza sorprendersi più di tanto. “Tale padre, tale
figlio”.
Al centro della
calca di persone, circondato da quattro donne diverse e in apparenza carine,
frivole e civettuole, procedeva beato un ragazzo che da lontano poteva sembrare
la versione maschile di Flavia, con tanto di zainetto sulla
spalla.
“Diego, ciao!
Siamo qui, qui!” si sbracciò la sorellina, attirando inevitabilmente
l’attenzione su di sé, malgrado l’altro l’avesse avvertita, poco prima, di non
fare scenate simili in pubblico.
Romano assunse
la solita espressione imbronciata, tanto per cambiare, ripiegando il quotidiano
che stava leggendo per scacciare pensieri molesti.
Diego Vargas
ammiccò alla fanciulla vicina, indicando verso di loro e lasciando tutte e
quattro con una breve frase, probabilmente di scuse.
La cugina gli
andò incontro, abbracciandolo con fiducioso trasporto e venendo ricambiata con
altrettanto calore.
“Che piacere
rivederti, Flavia! Sbaglio o sei più femminile rispetto all’ultima volta?”
constatò gioviale il più piccolo dei tre, che evidentemente si era preso già di
confidenza.
“E invece tu ti
sei allungato, caro Diego, prima mi arrivavi più o meno… qui!” rincarò la dose
l’altra, staccandosi e ponendo la mano in orizzontale all’altezza del petto
formoso. Romano levò gli occhi al cielo e non riuscì più a trattenersi, a stare
in disparte.
“Credo che
rimetterò la colazione. Siete stucchevoli”, commentò
acidamente.
“Anche tu mi sei
mancato, Romi!” lo salutò.
Il cugino fece
per avvicinarsi con i suoi modi affabili, ma lui glielo
impedì.
“Ehi! Non
pensare che per questo ti abbraccerò anch’io, stupido Die’!” affermò, tirandosi
indietro.
“Neanche se ti
presento una delle mie nuove amiche?” replicò furbo, facendolo arrossire
vistosamente.
“Neanche per
sogno, non cederò ai tuoi ricatti, razza di dongiovanni!” sbottò, alzando la
voce e portando Flavia al riso.
“Diego, ma… ma
non hai anche una valigia con te?” si accorse lei con discreta perplessità,
mentre andavano insieme verso l’uscita dell’aeroporto romano.
“Oh. La valigia.
L’ho lasciata a mio padre: si trova a Roma da due giorni, non lo sapevate?” li
informò tranquillamente.
“Come?!”
domandarono in contemporanea Flavia e Romano, guardandolo
meravigliati.
“Non ne sapevo
nulla…” continuò lei a capo chino.
“Che bastardo”,
considerò l’altro, scuotendo il capo e l’ipotesi che l’uomo avesse qualcosa in
mente tornò ad affacciarsi prepotente dentro di lui.
“Beh… In tal
caso, che ne dite di andare alla sua ricerca, cari cugini?” propose Diego, gli
occhi verdi che brillavano alla prospettiva allettante di non andare subito a
chiudersi in casa.
“Mi piacciono le
ricerche. Magari…” approvò Flavia, intrecciando le dita dietro la
schiena.
“Eh?! Che caspita
ti sei fumato oggi? Cercare qualcuno a Roma è come andare a scovare un ago in un
pagliaio. È grandissima!” s’innervosì, corrugando la fronte. “E tu zitta e non
dargli corda”.
“Ma-”.
“Non starlo a
sentire. Da dove cominciamo?” lo ignorò Diego, con un cenno di noncuranza.
Romano
boccheggiò, lievemente offeso.
“Veh… Fammi
pensare…” si concentrò attentamente, la mano sul mento e il gomito appoggiato
all’altro braccio, finché non le venne l’illuminazione.
Esclamò gioiosa:
“Partiamo dalla Fontana di Trevi, è bellissima! Io conosco persino la storia, te
la racconterò volentieri, se vuoi!”.
Il quindicenne
accolse la sua opzione con un grande sorriso, mentre Romano sentì il forte
impulso di menare la testa contro il muro. O la propria o quella dell’altro, era
uguale.
Il cuginetto e
la sorellina si erano alleati contro di lui, pensò, seguendoli controvoglia
mentre confabulavano tra loro, d’altronde non poteva permettere che Flavia
girasse Roma da sola, in compagnia di una mente aperta ai piaceri della vita
come quella di Diego.
E poi, rifletté,
conoscendo lo zio, perché non avevano ancora considerato il Colosseo?
Mah.
“Sarà una lunga giornata, me lo sento. Che palle”.
Intanto si erano
già fatte le undici e mezza.
Continua…
***
Note: Non mi sento
bene oggi =.= e siccome non avevo testa per revisionare l’ultima sequenza di
questo capitolo, l’ho spostata nel prossimo, che come avrete capito sarà
dedicato all’inizio del giro turistico e sarà più incentrato sull’altro
protagonista, cioè Seborga xD qui l’ho soltanto introdotto e l’ho fatto
conversare un po’ con i suoi cugini, spero di non aver sbagliato con la sua
caratterizzazione <.<
Ringrazio
chiunque abbia letto e commentato (risponderò domani ai vostri pareri, sorry
^^’) e vi do appuntamento al 6
gennaio!
Rina
|
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Capitolo 3 *** Capitolo III ***
Capitolo
III
“Dobbiamo
prendere un taxi. Elisa era in compagnia di una giovane coppia, si è appena
scusata di non poterci dare un altro passaggio ed è andata via…” riferì loro
Flavia, sistemando la borsa penzolante sulla spalla destra, dopo essersi
allontanata un momento per parlare con l’amica dal finestrino aperto
dell’automobile.
“Ne sta
arrivando uno proprio adesso”, osservò tranquillamente Diego, muovendosi per
primo a richiamare il buon uomo alla guida del mezzo
pubblico.
Allora aprì lo
sportello posteriore e fece entrare Flavia, prima di salire a sua volta. Romano
aveva fatto il giro della macchina e si era accomodato dall’altra parte, forse
era ancora risentito per non essere stato consultato sul giro
turistico.
“Comunque non
preoccuparti, mi concederai il piacere di incontrare questa signorina nei
prossimi giorni della mia permanenza da voi. Dimmi, è bella?” aggiunse il più
piccolo, una volta all’interno dell’abitacolo.
Lei stava per
replicare semplicemente di sì, ma un secco: “lascia perdere. È già impegnata”,
da parte di Romano, la indusse a cambiare risposta.
“Non ne sappiamo
molto, in realtà non parla quasi mai delle sue relazioni private”, rivelò
Flavia, seduta tra i due ragazzi.
“Dove vi porto?”
domandò come da prassi il tassista, guardandoli dallo specchietto retrovisore.
Portava un paio di occhiali da sole e un berretto nero calato, celante i
capelli.
“Vicino alla
Fontana di Trevi, grazie”.
“E tu cugina? Ti
stai frequentando con qualcuno?” le chiese per pura curiosità mentre il taxi
partiva, il tassametro iniziava a girare e l’altro sbirciava con occhio critico
i vestiti da barbone dell’uomo alla guida: per non farsi sorprendere, talvolta
rivolgeva occhiate annoiate fuori dal finestrino.
“No, io aspetto
quello giusto”, disse con una spontaneità tale da dissipare ogni dubbio in proposito. “Diego, perché non ci parli di te?” s’interessò con un
sorriso dolce. “Era un pezzo che non avevamo più tue notizie… Se stai scomodo,
posso tenere io quello, non c’è problema!” sì offrì, ritenendo di poter
sostenere il peso sia della borsa capiente, sia del suo zaino sulle
gambe.
“Apprezzo la tua
gentilezza, Flavia, ma non preoccuparti!” la rassicurò, spostandolo piuttosto
dalla schiena al petto. “In quanto a me invece…” proseguì, accennando
sinteticamente alla sua vita, che scorreva tranquilla malgrado i suoi genitori
fossero separati da anni, malgrado la lontananza del padre archeologo che a
volte gli pesava, malgrado la reticenza di sua madre, una biologa marina, a non
lasciarlo partire da solo alla sua età.
“Eppure alla
fine l’ho convinta. Oggi ho preso il primo volo della mia vita, è stato
stimolante e sento che voglio essere sempre più indipendente!” affermò,
gongolando sul posto come un bambino a cui avevano promesso una caramella
gommosa.
“Forse hai
ragione, ma non dimenticare che finché soggiorni qui sei sotto la nostra
responsabilità”, gli ricordò pragmatico l’altro, che ogni tanto si faceva
sentire.
“Non essere così
duro, sono certa che Diego non ci causerà alcun problema!” ribatté lei,
decisamente più comprensiva e tollerante del fratello.
“Ben detto.
Romi, abbi più fede nella famiglia”, lo apostrofò soddisfatto, ricevendo in
cambio un’occhiataccia che poteva significare tutto e niente, ma a cui non badò
più di tanto. Girò la manovella per far abbassare il finestrino dal proprio
lato, per affacciarsi e per prendersi quel vento tiepido e piacevole in viso.
Avere il sentore
della libertà gli piaceva, gli piaceva immensamente.
*
“Ecco la Fontana…” mormorò piano,
muovendo qualche passo in avanti rispetto ai cugini.
Il tassista era
stato così discreto nel mantenere il silenzio mentre conversavano e così gentile
da lasciarli in Via San Vincenzo, così non avevano neanche dovuto camminare
molto prima di raggiungere Piazza di Trevi.
La celebre
fontana, una tra le più belle e le più visitate al mondo, non l’aveva mai vista
dal vivo, così vicina da poterla abbracciare con lo sguardo incantato. Era
veramente suggestiva, non riusciva più a distogliere gli occhi dall’intera
struttura marmorea, a fissarla a bocca aperta estasiato.
I raggi del sole
di mezzogiorno facevano brillare gli spruzzi d’acqua che fuoriuscivano come
piccole cascate.
A un certo punto
si sentì prendere sottobraccio da Flavia e si lasciò trascinare verso gli
scalini di pietra.
“Bellissima,
vero? Pensa che ai tempi dell’imperatore Augusto era solo l’elemento terminale
dell’acquedotto Vergine, uno dei più antichi e di estrema importanza per
rifornire d’acqua i cittadini romani”, partì con le spiegazioni da maestrina
paziente.
“Moltissimi
secoli dopo, nel Settecento, si deve a Papa Clemente XII il merito di aver
bandito un concorso per il restauro e il miglioramento del progetto originario,
a Nicola Salvi per aver vinto e agli altri scultori per aver contribuito alla
sua realizzazione. Pensa che ci hanno lavorato tutti con maestria e grande cura
dei particolari fino al 1762!” esclamò concitata, per poi indicare l’imponente
figura al centro della nicchia candida e proseguire: “Quello rappresenta Oceano,
che sembra sia trainato su un cocchio a forma di conchiglia da cavalli marini
guidati da Tritoni. E le due scenette raffigurate di lato, là, vicino a quelle
colonne corinzie, ricordano la storia antica della Fontana, mentre le due statue
femminili rappresentano l’Abbondanza e la Salubrità”.
Flavia avrebbe
voluto aggiungere altro riguardante questo spettacolare capolavoro
dell’architettura e scultura barocca con un tocco di neoclassico, integrato alla
perfezione con la facciata del Palazzo retrostante, soprattutto sul significato
simbolico della rappresentazione – ossia l’eterno, turbinoso e incessante divenire
dell’acqua, fluido vitale dai benefici effetti – e la grande vasca
rappresentante il mare… Non sapeva però se Diego si sarebbe annoiato oppure no,
dal momento che non aveva più aperto bocca.
“E il fatto
delle monetine sul fondo? Me lo spieghi?” domandò dopo qualche secondo,
sporgendosi lievemente per fissare l’acqua azzurrina e trasparente, reggendosi
con le mani sul bordo.
“Certo!”
acconsentì Flavia con un sorriso, sedendosi vicino a lui. “Si tratta di una nota
tradizione popolare e in un certo senso è come esprimere un desiderio, sai? Le
persone lanciano una moneta con la speranza di poter fare ritorno, un giorno, in
questa splendida città”, sostenne, allargando le braccia e levando gli occhi al
cielo sereno, rimanendo seduta in precario equilibrio. “Non è meraviglioso? Ma
bisogna esserne convinti, altrimenti non vale!” esclamò, per poi sbilanciarsi e
tornare in piedi con un balzo come se nulla fosse.
“Ho capito. Sei
davvero informata, ma se non ricordo male hai sempre preferito altre città…”
ricordò lui, cercando con lo sguardo il cugino Romano, che si era spostato dal
punto in cui l’avevano lasciato per avanzare.
“Hai proprio
ragione! Adoro quasi tutte le città del Nord e non riesco a dimenticare Venezia.
Cosa c’è?” chiese, vedendolo distratto.
“Dov’è finito
tuo fratello?” le fece notare, e insieme lo cercarono tra la gente di passaggio
e i turisti curiosi, che scattavano foto ricordo oppure si limitavano a
contemplare il vistoso monumento, fino a trovarlo accanto alla fontanella sul
lato sinistro, detta anche ‘degli
innamorati’ per via di un’altra credenza.
“Pare che zio
Giulio non sia nei dintorni. O mi cercavate soltanto per riavere le vostre
cose?” borbottò Romano, che reggeva la borsa di sua sorella, lo zaino di Diego e
anche la sua giacca, che si era tolto momentaneamente perché sentiva caldo ed
era ancora un po’ nervoso.
“Oh. D’accordo.
Dove possiamo cercarlo adesso?” pensò ad alta voce Flavia, mentre un bambino che
faceva i capricci passò con la madre, che udirono sospirare con tanta
pazienza.
“Aspettate,
prima vorrei scattare qualche fotografia!” li fermò Diego, facendo scorrere la
cerniera lampo per estrarre la sua macchina fotografica, riposta dentro un
sacchetto grigio tra le sue cose. La tirò fuori e incitò i due cugini a
seguirlo, a mettersi in posa in modo che dietro rimanesse lo sfondo della
fontana, almeno in parte nel caso in cui non fosse riuscito a prenderla
interamente.
“Fate un bel
sorriso…” consigliò divertito, poiché si rendeva conto che per Romano non
sarebbe stato affatto facile. Nella prima era rimasto serio, e persino con la
collaborazione gioiosa di Flavia, che le provò tutte per strappargliene almeno
uno, dal solletico alle dita sulle sue guance per tenderle all’indietro,
ottennero soltanto delle smorfie buffe per le altre cinque
fotografie.
Quando fu il suo
turno, invece, Diego non si risparmiò. Invitò persino due turiste a unirsi a
loro, ringraziandole calorosamente, mentre Romano inquadrava, scattava e
contemporaneamente provava invidia verso quel moccioso che si sentiva già
adulto.
Non si era
accorto della vicinanza della sorella, che non poteva certo intuire i suoi
pensieri, ma che lo pregò di non alterarsi dopo aver ascoltato la prossima
richiesta.
“Come?! Non ne
avete abbastanza?” sbottò, sobbalzando quando aveva visto che anche una delle turiste, quella bionda e
carina, si era avvicinata allungando la mano. Aveva un sorriso sornione e vivace.
Temette di avere fatto una brutta figura e si sentì
arrossire.
“Dalla a lei,
fratellone. Ci facciamo un’altra foto tutti insieme e poi abbiamo finito
davvero”.
Dopo l’ultima
posa a tre, passato il momento d’imbarazzo provato di fronte a quella ragazza
straniera, fu Romano a guidare il resto della famiglia per le innumerevoli vie
di Roma, con tanto di bisbigli e risate complici alle sue spalle e salutando
l’emicrania appena arrivata a rompere nella sua testa già colma di svariati
pensieri, verso la prossima meta turistica: Piazza di Spagna.
Il falso
tassista scese dal taxi andando incontro al vero autista del veicolo,
passandogli i soldi che aveva intascato dai tre ragazzi per il passaggio
richiesto.
“Sta andando
tutto secondo i piani?” s’informò lui, accettando le banconote e posandole
dentro a un borsellino.
L’uomo
misterioso con gli occhiali da sole, il berretto nero e i vestiti consunti
ghignò compiaciuto.
“Credo proprio
di sì, non mi hanno riconosciuto. Ti offrirei volentieri un caffè per
ringraziarti del favore, ma devo passare al prossimo travestimento. Sai dove
posso trovare un telefono pubblico?” chiese ostentando una certa fretta,
tendendo una mano per stringere subito la sua.
“Si figuri.
Provi a cinquanta metri da qui, su quella via”, gli suggerì cordialmente.
“Arrivederci, signor Vargas”.
“D’accordo.
Arrivederci!” lo salutò gaio, affrettandosi verso la direzione indicata e
lodandosi mentalmente per essere un attore nato e per aver resistito alla forte
tentazione di rivelare loro la sua vera identità.
Continua…
***
Note: Chiedo venia,
sono un poco in ritardo sulla tabella di marcia, ma prima di pubblicare ho
provato a migliorare una parte che non mi convinceva di questo capitolo
^^’
Avete capito chi
è comparso alla fine, vero? Un personaggio che avrà più spazio nel quinto
capitolo, per ora le sue intenzioni resteranno ancora avvolte nel mistero
=)
Come ho scritto
a SunliteGirl, sono stata a Roma
soltanto una volta e quindi ho attinto da internet a gran parte delle
informazioni riportate nella storia tramite Flavia, ma solo sui luoghi che mi hanno colpito di
più nel centro storico (anche perché so bene che in un giorno è impossibile
visitare tutta la Città eterna xD).
Io ci ho
provato, adesso non mi resta che incrociare le dita e ringraziare nuovamente chi segue questo mio progetto
^^ a presto!
Rina
Prossimo
aggiornamento: 20
gennaio.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo IV ***
Capitolo
IV
Era
snervante badare a quei due.
La
sua limitata pazienza traboccava da un vaso già colmo, poiché non bastava il
casino totale che occupava la sua mente di ipotesi, sospetti, impressioni e
sensazioni, no, ci si mettevano pure loro.
La
spensieratezza innata di Flavia, così amichevole con chiunque, non era affatto
d’aiuto, lo faceva sentire ancora più incompreso.
E
Diego, con sfacciata disinvoltura, gli aveva fatto presente che la prima
impressione contava molto e che tenere il muso come lui avrebbe allontanato le
fanciulle più timide.
Possibile
che non sapesse pensare ad altro che alle donne?!
“Ma
che me ne frega, ho altro per la testa!” si sfogò, la giacca sottobraccio e i
pugni ficcati nelle tasche dei pantaloni chiari. “E non credere che non ci
sappia fare con loro: le clienti del negozio in cui lavoro non si sono mai
lamentate del mio comportamento”.
Detto
questo, avevano proseguito in strade tutto sommato meno affollate rispetto ad
altri periodi stagionali in cui l’afflusso spropositato dei turisti impediva di
camminare liberamente. Non c’era rischio di urtare i passanti sul marciapiede e
questo lo consolava in parte. Dovevano solamente prestare attenzione,
attraversando da un lato all’altro, alle automobili, ai motorini e alle
biciclette che avanzavano nella carreggiata.
Non
mancavano però quelli che chiedevano informazioni spontaneamente, o che venivano
fermati dalla dolce Flavia, perché lei, vedendoli in difficoltà nel consultare
mappe pieghevoli, si fermava per indicare con le dita e gesticolando allegra la
via giusta per non perdersi.
Inoltre,
per quattro volte in quindici, venti minuti, qualche negozio aveva attirato la
loro attenzione, obbligando Romano a tornare sui suoi passi. L’ultimo era pieno
di souvenir.
“Insomma,
cosa avete visto di interessante adesso?” chiese, guardando esasperato verso
l’interno dell’ordinaria esposizione di oggetti fatti a mano, che ricordavano la
bella città.
“Diego
potrebbe comprare qualcosa per sua madre. Aspettaci qui, per favore!” lo pregò,
trascinando dentro il cugino senza aspettare la replica disinteressata del
fratellone.
E
sfortunatamente l’emicrania di Romano saliva: si portò tre dita sulla fronte e
strizzò gli occhi.
Cosa
diavolo aveva fatto di male?
Erano
state forse le divergenze con Assunta ad averlo condotto a quello? Per caso lei
aveva pensato sadicamente di fargli scontare tutto in una sola giornata, che tra
l’altro si prospettava ancora lunga e noiosa?
E
lo zio? A che gioco stava giocando? Perché doveva essere così… dannatamente
stravagante e imprevedibile? Perché cavolo non era atterrato insieme a suo
figlio, invece di costringerli a cercarlo per Roma?
E
se spendevano tutti i soldi che si erano portati dietro, come avrebbero fatto in
serata, per il ritorno a casa?
Flavia
uscì dal negozio ben assortito soddisfatta e felice di aver aiutato Diego a
scegliere un regalo che sarebbe sicuramente piaciuto alla
zia.
Era
una sfera di vetro piena d’acqua e appoggiata sopra il gesso, con un Colosseo in
miniatura circondato da questa bolla trasparente.
Era
molto semplice, ma in genere i souvenir facevano sempre piacere a chi li
riceveva.
Era
un modo per dire “sai, l’ho comprato
pensando a te” e nessuno aveva cuore di rifiutare un tale simbolo di
considerazione.
“Scusa,
fratellone, dove siamo diretti esattamente?” s’informò, dal momento che non ne
avevano ancora parlato. Diego ripose con cautela il pacchetto infiocchettato
nello zaino, per poi appoggiarlo su una spalla sola e fare l’occhiolino a una
passante.
“Questa
è Via Francesco Crispi. Se non facciamo più soste, possiamo proseguire in Via
Sistina fino ad arrivare alla Scalinata di Trinità dei Monti”, le spiegò,
sospirando quando lei aveva finalmente intuito le intenzioni del fratello con un
“Aaaah, sì!” riferito battendo le
mani, lieta di esserci arrivata. “Lui vuole passare da Piazza di Spagna, dove
vedremo un’altra fontana…” informò il cugino senza giri di
parole.
*
[Sarà
un cielo chiaro.
S’apriranno
le strade
sul
colle di pini e di pietra.
Il
tumulto delle strade
non
muterà quell’aria ferma.
I
fiori spruzzati
di
colori alle fontane
occhieggeranno
come donne
divertite.
Le scale
le
terrazze le rondini
canteranno
nel sole.
S’aprirà
quella strada,
le
pietre canteranno,
il
cuore batterà sussultando
come
l’acqua nelle fontane –
sarà
questa la voce
che
salirà le tue scale.
Le
finestre sapranno
l’odore
della pietra e dell’aria
mattutina.
S’aprirà una porta.
Il
tumulto delle strade
sarà
il tumulto del cuore
nella
luce smarrita.
Sarai
tu – ferma e chiara.]
Scendere
dai gradini della monumentale scalinata significava ripescare ricordi d’infanzia
che credeva ormai lontani e irraggiungibili. Due frammenti vaghi, per
l’esattezza.
Si
rivedeva come un bambino scapestrato, che strappava qualche fiore – tanto ce n’erano tantissimi – fino a
formare un mazzolino colorato, raggiungere saltellando una bambina dolcissima e
lasciandolo nelle sue piccole mani. Ovviamente si trattava della sorellina, che
ricambiava il gesto fraterno scoccandogli un bacino sulla guancia morbida quando
lui ormai aveva distolto lo sguardo altrove. Allora lui sgranava gli occhi
perché non se l’aspettava e subito borbottava su quanto gli facessero schifo
quelle cose, però poi non riusciva a evitare di arrossire.
Nel
secondo ricordo era un po’ più grandicello, sedeva nella pittoresca piazza che
stavano per raggiungere e stavolta accanto a lui non c’era Flavia. Aveva seguito
sua madre e lui si annoiava a morte: a pochi metri di distanza lo zio stava
conversando con un esimio collega, mentre Romano si era ritrovato vicino a un
ragazzo alto e curioso. Anche se non si conoscevano e non parlavano nemmeno la
stessa lingua, gli aveva offerto spontaneamente un cono gelato e aveva
insistito, senza mai perdere quell’ebete e incoraggiante sorriso, affinché lo
accettasse.
Solo
qualche anno dopo aveva intuito di che nazionalità fosse, ma tanto non l’avrebbe
più incontrato, perché probabilmente era stato a Roma solo di
passaggio.
Lui
sbuffò senza rendersene conto, richiamando l’attenzione di Flavia, intenta a
illustrare in modo chiaro ed elementare l’architettura del circondario lungo il
ripido pendio.
“A
cosa pensi?” domandò, fermandosi a metà strada, ma Romano non le avrebbe detto
nulla, tanto che importava?
Si
era trattato di un incontro casuale che non capiterà mai più. Era sua abitudine
tenere il broncio anche allora, quindi di sicuro quello spagnolo aveva ritenuto
un passatempo cercare di farlo sorridere, addolcendolo con la fresca bontà di un
gelato al pistacchio.
Avvertì
all’improvviso un gorgoglio nello stomaco e si stupì: possibile che ricordare
certe cose gli avesse messo appetito?
“Penso
di avere fame…” si giustificò, e lei ci credette.
“Anch’io!”
si aggiunse il cugino annuendo. “Vediamo di scendere, mostratemi ciò che volete
e poi andiamo subito in un ristorante. Ce ne saranno nelle vicinanze, no?”
propose.
“Che
bello, mangeremo pasta fino a scoppiare e una volta sazi riprenderemo la nostra
ricerca!” affermò Flavia illuminandosi per la contentezza e scendendo i gradini
a due a due, mentre entrambi la seguivano con relativa calma, persino Romano si
sentiva più leggero all’idea di un buon pranzo, seduti all’ombra di un locale
accogliente.
“Ha
una forma strana… Cosa rappresenta?” commentò perplesso Diego, girando intorno
alla vasca ovale.
“In
effetti è particolare, veh. So che per alcuni si trattava del relitto di una
barca trascinato dal Tevere in piena, ma secondo la versione più accreditata il
Bernini si era ispirato proprio alla ‘barcaccia’, un tipo di imbarcazione in
uso nell’Antica Roma per trasportare botti di vino”.
“Diciamo
che è semplicemente una barca semisommersa e facciamo prima”, si limitò a dire
Romano, fissando uno dei due soli con volto umano, ideato per gettare l’acqua in
conche che raggiungevano l’interno della piccola imbarcazione. “Questi fori
circolari invece sembrano bocche di cannone”, continuò assottigliando lo sguardo
e indicandone due a Diego.
“Forte!
Ora che ho capito, credo sia degna di essere immortalata in una foto, proprio
come quella di Trevi!” dichiarò quest’ultimo in tono lievemente solenne,
inginocchiandosi per ripescare la macchina fotografica.
“Se
ci pensavi prima, potevi farne una anche al bellissimo panorama che si vedeva in
cima alla scalinata”, gli suggerì candidamente Flavia a discapito della
ritrovata tranquillità del fratello, che guardò male
entrambi.
“Certo
che siete proprio fissati… Se volete stancarvi non coinvolgetemi, perché io 135
gradini in salita non li faccio manco morto!” brontolò, voltandosi e tirando un
calcio verso una delle tante colombe che talvolta zampettavano in cerca di
briciole. Non la prese, ma la osservò mentre volava fino al lato opposto, dove
c’erano altri suoi simili.
E
quell’istintiva diffidenza verso la gente un po’ la capiva, in un certo
senso.
Dopo
aver occupato un tavolo rustico, piccolo e già apparecchiato per quattro
persone, lei fece scivolare la borsa dal braccio alla sedia vuota e si appropriò
del menù, dando un’occhiata a tutte le portate e le specialità del ristorante
romano. Prima di prenderlo però si era sfilata la giacca e l’aveva sistemata sullo schienale,
coprendolo, e lo stesso aveva fatto anche il fratello. Il cugino no, dal momento
che lui indossava una maglia verde a maniche lunghe sopra una camicia grigia.
Fremeva all’idea di essere servito dalla cameriera che aveva adocchiato
all’entrata del locale in cui si erano potuti fermare – gli altri lungo la
strada erano pieni di prenotazioni.
“Avete
deciso? Possiamo ordinare?” incalzò.
Romano
levò gli occhi dal suo orologio e fece un cenno con la testa verso
Flavia.
“Sta
leggendo, non vedi?”.
Forse
avrebbe dovuto informarla che mancavano dieci minuti alle due del pomeriggio e
che quindi prima ordinavano, prima potevano riempirsi lo stomaco, pagare il
conto e riprendere il giro, ma l’idea di indispettire il cuginetto lo
allettava.
“Flavia?
Hai finito?” s’interessò Diego, richiamandola da quello che per lei costituiva
un momento sacro: quando si trattava di pasta, infatti, lei era intransigente e
non ammetteva di mangiare la stessa ricetta che aveva già gustato durante la
settimana. Romano sapeva in anticipo che amava variare, che stava ragionando e
perciò non si sorprese più di tanto. E per una volta che potevano mangiare fuori
dalla loro cucina, era anche un bisogno logico.
“Ci
sono quasi…” rispose in un sussurro la ragazza. E senza che l’altro potesse
anticiparla facendo venire chi diceva lui, Flavia sorrise, si alzò portando con
sé il menù e richiedendo il servizio di un giovane cameriere che stava passando
in quel momento.
L’espressione
contrariata di Diego era impagabile, pensò lui con quello che voleva sembrasse
un ghigno vittorioso.
Per
una volta gli era andata male.
Lei
tornò a sedersi e fu la prima a dettare tranquillamente le sue precise
ordinazioni, riguardo al primo piatto e al secondo, che vennero appuntate in un
semplice taccuino. Poi parlò
Romano e infine Diego.
“Da
bere?” s’informò l’uomo in divisa, dopo aver segnato tutto
rapidamente.
“Solo
acqua naturale, loro non possono bere”, tagliò corto il più
grande.
“Ma
fratellone, io veramente…” stava per replicare che lei non era più minorenne
come Diego e che in realtà poteva benissimo decidere se bere un goccetto o meno,
però Romano negò categoricamente, facendole capire con lo sguardo di stare
zitta.
“Bene…
Gradite qualche antipasto?”.
Romano
prese il menù e gli mostrò le bruschette miste sulla prima
pagina. “Queste”.
“Allora,
ricapitolando…” riassunse il cordiale cameriere, assolvendo uno dei compiti per il
quale veniva pagato, “Acqua naturale, bruschette miste, un piatto di penne
all’arrabbiata, due piatti di tagliatelle con gamberetti e panna,
un’insalata di mare e una bistecca alla fiorentina”.
Quando
ebbero riconfermato tutto, si allontanò spedito verso le
cucine.
“Grazie
mille!” affermò gioiosamente Flavia, che già immaginava il piatto fumante
davanti a sé, per poi rivolgersi alla sua destra.
“Sai
che la pasta ha origini etrusche? Ma non era certo variegata come quella che si
prepara e si mangia ai giorni nostri, no, no”.
“Dubito
che al momento gli interessi”, intervenne Romano dispiegando il tovagliolo di
stoffa.
“Eh?
Davvero?”.
“No,
non ascoltarlo, cara cugina”, la rassicurò, facendosi indietro con la sedia. “O
forse Romi ha capito che avevo intenzione di andare un attimo alla toilette.
Torno subito, così potrai continuare”.
“Sì,
certo, adesso sono diventato un veggente…” considerò con blanda ironia, mentre
l’altro si allontanava senza averlo sentito.
“Hai
detto qualcosa?” chiese Flavia, confusa dal comportamento strano di
entrambi.
Sospirò.
“Niente,
parlavo tra me. Guarda, ci stanno portando la brocca dell’acqua, vuol dire che
presto arriveranno le mie bruschette al pomodoro”, le rispose spiccio, infatti
si stava avvicinando lo stesso cameriere di prima.
Gli
antipasti vennero serviti loro in contemporanea al ritorno di Diego a
tavola.
Continua…
***
Note: Ecco che
pubblico anche il quarto capitolo. Siamo ormai a metà storia, poi per vostra
gioia (?) cambierò ambientazione e personaggi xD
Qui vi rimando alla
pagina di Wikipedia che parla di Piazza di Spagna e qui per la
Fontana della Barcaccia di Pietro Bernini, padre del più celebre Gian Lorenzo
Bernini.
Mi sono fatta
ispirare soltanto dalle informazioni che mi interessavano, come avevo fatto per
lo scorso capitolo.
La poesia tra
parentesi è “Passerò per Piazza di Spagna” di Cesare Pavese, che è stata persino
riportata integralmente in una targa vicino alla sala da tè Babington’s. Rende
sicuramente meglio di me l’atmosfera senza tempo che si respira attraversando
quei luoghi incantevoli… aww ** quanto vorrei tornare a
Roma!
Era d’obbligo
inserire un riferimento piccolino al caro Antonio, più avanti si scoprirà che…
no, vero, non posso svelare nulla x’D mi spiace.
Comunque se c’è
qualcosa che non va, non fatevi problemi a dirlo: essendo uscita da una specie
di blocco dello scrittore durato due anni, so di averne risentito nello stile e
di non essere perfetta ^^’
Ringrazio di
cuore chi legge, chi segue, chi commenta e vi do appuntamento alla prossima!
^_^
Baci,
Rina
|
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Capitolo 5 *** Capitolo V ***
Capitolo
V
Sedici
anni prima.
Stessa
città di sempre e lui, che aveva meno anni a pesargli sulle spalle e tanta
voglia di mangiarsi il mondo intero.
Quel
giorno non si sarebbe mai fermato al Cimitero Monumentale del Verano se non
fosse successo nulla.
Non
ci sarebbe mai entrato se non si fosse celebrata, due ore prima, una messa
funebre.
Sarebbe
già in viaggio… Invece era stato costretto a rimandare di qualche giorno la
partenza, lo doveva alla famiglia, non potendo più rimediare al tempo
perduto.
Suo
fratello Michele era venuto improvvisamente a mancare a causa di un infarto,
lasciando a tutti i suoi cari un vuoto incolmabile, un senso di sconfortante
abbandono e un’intima sofferenza.
Anche
dentro di lui. Anche se non avevano mai avuto un rapporto fraterno solido, anche
se erano incompatibili, anche se non si parlavano da
anni.
Sospirò
amareggiato.
Era
dura sorridere alla vita, quando dettava condizioni così
ingiuste.
Sì,
ingiuste, perché soltanto adesso che l’aveva perso, si rendeva veramente conto
del fatto che a modo suo Michele gli aveva sempre voluto
bene.
Doveva
accorgersene prima, passando sopra ai rimproveri e alle discussioni per ogni
singola cosa.
Giulio
spostò uno sguardo apatico tutto intorno: c’era il bianco delle statue ben
proporzionate e il grigio dei marmi levigati che abbellivano le tombe statiche e
i monumenti alla memoria; c’erano persino i vasi con semplici fiori e
crisantemi, o le aiuole piene di erbacce dal verde spento a rendere tutto più
reale e triste di quanto avesse elaborato fino a quel
momento.
Svoltato
l’angolo, era tornato nella vecchia cappella di famiglia, al centro della quale
una figura vestita interamente di nero stava china a pregare – o forse stava
solo conversando per l’ultima volta con il marito, prima di accettare di essere
rimasta vedova.
La
stimava. Davvero.
A
differenza del fratello maggiore, la sua compagna di vita era sempre stata una
buona amica, tollerante e indulgente di fronte ai capricci e alla vitalità di
Giulio.
Con
Assunta si poteva chiacchierare di tutto, da quando loro due si erano fidanzati
era come la sorella che non aveva avuto.
Lo
ascoltava e lo comprendeva.
E
a quei tempi, lo giustificava di fronte a Michele dicendo che era normale essere
così irrequieti alla sua età.
Giulio
la rispettava talmente tanto che non avrebbe mai pensato a lei come a una donna
da sedurre e da conquistare.
Quando
la vide alzare il capo coperto dal velo del lutto e riaprire gli occhi lucidi,
pensò che avesse finito.
“Gli
altri se ne sono andati. Quando vuoi, ti accompagno a casa”, si espresse in un
sussurro condiscendente.
Il
silenzio che seguì quelle parole, eloquente e pesante come se una cappa di
malinconia non ancora sfumata gravasse dal soffitto granitico in alto fino alle
mattonelle usurate in basso, non durò a lungo.
Giusto
il tempo che la giovane cognata impiegò a issarsi lentamente in piedi e a
voltarsi in modo da porsi faccia a faccia, e non solo di
profilo.
“Dovresti
pregare, ora. Gli farebbe piacere…” mormorò seria.
“È
inutile…” negò con malcelata rassegnazione.
“Giulio,
lui non ce l’aveva con te. Ti amava, eri il suo unico fratello…” si spiegò,
addolcendo la sua espressione.
“Non
lo odio, ma con una semplice preghiera non lo riporterò certo indietro. La
cerimonia in Chiesa è stata più che sufficiente. Ha scelto proprio un bel
momento per morire, lasciandoti sola con…” qui gli tremò la voce ed esitò un
attimo, “con due figli piccoli”.
“Già…
I nostri bambini. Mi faranno loro da pilastri, da adesso in avanti. Saranno la
mia ragione di vita”.
Assunta
si volse nuovamente a guardare il punto in cui era stata rinchiusa e murata la
salma dell’amato Michele, in attesa del marmo che avrebbe contenuto nome, date e
un piccolo ritratto in cornice.
Giulio
le si accostò. “Sarà contento di sapere che non speri di raggiungerlo tanto
presto. Lasciamolo riposare in pace e continuiamo il discorso fuori”, tentò di
sdrammatizzare senza risentimento, dimostrando che sarebbero andati avanti
comunque, che il brutto momento sarebbe passato e che solo il tempo avrebbe
lenito la sofferenza interiore di quella donna forte solo in
apparenza.
Finora
il suo modo di reagire composto e raccolto in preghiera era stato ammirevole, ma
sapeva che aveva passato anche una fase di disperazione molto intensa, dato che
il giorno precedente l’aveva trovata con gli occhi tutti arrossati per il pianto
e la voce rotta.
Romano
e Flavia non erano presenti, per fortuna. Una vicina di casa si era offerta
gentilmente di occuparsi di loro per tutto il tempo
necessario.
La
vide fare il segno della croce, la imitò e chinando la testa uscirono dalla
silenziosa cappella.
“Immagino
che avrai già deciso come comportarti con loro, quando chiederanno perché mio
fratello…” si bloccò, sicuro che aveva capito a cosa
alludesse.
Assunta
si aggrappò al suo braccio prima di rispondere.
“Sì.
Tra qualche anno dirò loro la verità, per il momento solo Romano potrebbe farmi
questa domanda e io inventerò che suo padre è andato a lavorare molto lontano da
noi… Del resto, tu tra qualche giorno lascerai l’Italia”.
“Mi
rincresce moltissimo, però ne ho bisogno. Devo assentarmi. E inoltre vorrei
arrivare in tempo all’apertura di un convegno internazionale che si terrà in
Germania tra cinque giorni: ho sentito che sarà interessante!” si scusò
sinceramente.
“Porterai
anche Claudia con te?”.
“No.
Non si è sentita bene ultimamente. Mi aspetterà in Liguria, dai suoi parenti”,
rispose con il broncio, poiché Assunta la considerava già parte della famiglia
pur sapendo che i diretti interessati non avevano ancora nemmeno accennato al
loro matrimonio.
Claudia
era semplicemente la sua attuale “compagna”. Non sapeva nemmeno se sarebbe
durata, la loro storia.
Non
erano mica come lei e Michele, che erano stati fidanzati per sei anni prima di
compiere il grande passo.
“Vedrai
che non sarà nulla di grave…” lo rassicurò la donna interrompendone i
pensieri.
Continuarono
a parlare in tono basso, per timore di mancare di rispetto ai morti e alle
croci, e a procedere sul percorso verso l’ingresso principale rimanendo vicini
per consolarsi a vicenda.
*
Il
giovane tassista che gli aveva accordato un piccolo favore aveva proprio
ragione: stava andando tutto secondo i suoi piani.
Gli
mancava un tassello, uno soltanto, prima di completare il puzzle che l’avrebbe
elevato moralmente a zio dell’anno.
Dipendeva
tutto da lei, dalla sua graziosa assistente.
Tante
volte aveva immaginato Michele, ancora vivo ed emotivo come soltanto lui sapeva
essere, che lo rimproverava aspramente per i vizi e per gli eccessi che con la
scusa del lavoro si concedeva.
Per
il suo vivere alla giornata, Carpe
diem che l’aveva spinto lontano dalla famiglia, a viaggiare, scoprire,
esplorare il vasto mondo.
A
farsi affascinare dallo studio, dall’arte e dalla cultura di antiche civiltà e
nel contempo a ubriacarsi di vino e a intrattenere le donne, incapaci di
resistere a cotanto fascino.
E
Caroline Grimaldi, donnina elegante e affidabile, sembrava esserne
immune.
Se
ne stava comodamente seduta al tavolino del bar in cui si era cambiato per
ricoprire il secondo e ultimo ruolo della giornata, un abbigliamento
assolutamente antico e originale che avrebbe stupito i suoi adorati nipotini,
degnandolo di una rapida occhiata annoiata prima di tornare a concentrarsi sui
fogli sparpagliati sulla sua superficie.
Teneva
in una mano un bicchiere di granita alla menta semivuoto, mentre con il dito di
quella libera scorreva i suoi appunti.
“Caroline,
devo ancora aspettare molto per ottenere un parere positivo? Non sono forse
perfetto in queste vesti storiche?” domandò, pavoneggiandosi impaziente di
uscire e di recitare la sua parte.
“Lo
siete, signor Giulio”, commentò. “Non riesco a comprendere il senso di questa
frase. Potete avvicinarvi?” gli chiese cortesemente.
Nel
mentre, lei ne approfittò per lisciarsi la gonna del tailleur rosa e per
controllare che i suoi lunghi capelli biondo scuro intrecciati lateralmente
fossero in ordine, sorridendo lieve.
Dietro
le lenti trasparenti degli occhiali, un paio di occhi blu scrutavano con velata
curiosità le azioni dell’uomo.
“Questa?
De gustibus non est disputandum*?”
lesse il signor Vargas, perplesso. Non era una frase complicata, perciò
s’insospettì un po’.
“Ehm…”
si schiarì la voce, “Caroline, non intendi aggiungere altro,
vero?”.
“No.
Ero sicura che avreste capito”, apprezzò fintanto che rimetteva in ordine tutti
i fogli scritti in latino e li riponeva nella valigetta
dell’archeologo.
Il
signor Vargas rise tranquillo, segno che non se l’era presa e che potevano
andare.
Lasciò
i soldi della granita sul bancone, ringraziò per avergli permesso di usare la
stanza sul retro del locale e uscì dopo la sua assistente.
“Dobbiamo
separarci. Hai capito quello che devi fare?” le chiese, accarezzandosi la
barbetta ispida sul mento, prima di lasciarla da sola nel suo compito
giornaliero.
Caroline
sospirò e annuì. “Oui. Percorro
questa via finché non incontro il calesse che avete noleggiato per loro. Mi
faccio condurre fino al fiume Tevere e li attendo a Ponte Cavour. Ho dimenticato
qualcosa, signore?”.
“No.
Sei bravissima come al solito”, la lusingò fiero.
“Merci…” ringraziò in francese. “Oh, ma è
sicuro che li incontrerò proprio in quel luogo? Non potrebbero scegliere
un’altra strada per la loro ricerca?” dubitò.
“Come
è vero che il mio nome completo è Giulio Cesare Vargas. Quando ho visto mio
figlio, gli ho consigliato di farsi portare al fiume e sono certo che se ne
ricorderà. Era tutto pianificato, quindi rilassati e goditi il tragitto, mia
cara”, le consigliò facendo l’occhiolino.
Avrebbe
voluto domandare un’altra cosa, ma lui, che era chiaramente su di giri per
chissà quale motivazione nota esclusivamente alla sua persona, si era già
avviato nella direzione opposta, alzando la mano in segno di
saluto.
Caroline
non se ne stupì più di tanto, in fondo gli faceva da assistente da circa due
anni e aveva imparato a convivere con la sua vistosa
eccentricità.
Si
erano conosciuti al celebre Casinò di Montecarlo, nel Principato di Monaco, dove
lei era nata e cresciuta.
Glielo
aveva presentato sua madre, che era un’attrice di teatro e che spesso veniva
invitata in quegli ambienti lussuosi e bellissimi.
Caroline
stava puntando le sue fiches alla roulette quando l’aveva presa da parte e aveva
incontrato, con logico disappunto per essere stata allontanata dai giochi,
l’archeologo romano.
Un
incontro forzato in un primo momento, successivamente aveva scoperto che
entrambi avevano in comune la passione per il gioco
d’azzardo.
Così,
tra una partita e l’altra, le aveva proposto più volte di essere la sua
assistente fidata.
E
le tornò alla mente la frase che l’aveva infine convinta ad accettare il lavoro:
“non cerco qualcuna che cada ai miei
piedi, di quelle se ne trovano tantissime. A me serve una ragazza di sani
principi, educata e professionale”.
Ed erano in
sintonia proprio perché avevano messo in chiaro dall’inizio che non si sarebbero
mai messi insieme.
“Potrebbe essere
mio padre. C’è troppa differenza d’età”, aveva replicato
una volta in tutta onestà, di fronte alla domanda inopportuna e indiscreta della
proprietaria di un albergo durante un soggiorno in
Francia.
Caroline scosse
la testa alzando gli occhi al cielo, anche perché a ripensarci era una cosa
stupida. Prenotavano sempre camere separate e quella volta c’era un’altra donna
in compagnia del signor Vargas.
Camminò a passo
sostenuto senza farsi prendere da altri ricordi e con la speranza che filasse
realmente tutto liscio come prospettato.
*
Al
ristorante, i piatti usati erano appena stati portati via.
Flavia
si toccava lo stomaco da due minuti buoni, contentissima di aver mangiato la
pasta che aveva ordinato personalmente.
Anche
Diego aveva fatto il suo stesso ordine, perciò gli chiese se era stata di suo
gradimento.
“Oh,
sì. Un piatto di pesce davvero buono. Avrei preferito la pasta al pesto, lo sai,
ma anche questa mi ha saziato”, rispose con celerità, per poi accorgersi dello
sguardo dubbioso di Romano.
“Cosa
c’è, cugino? Non sei soddisfatto?” s’interessò.
“Come?
Non erano buone le penne all’arrabbiata?” intervenne la ragazza, pronta a
consolare il fratello.
“Non
è per ciò che ho mangiato. Non saltate subito a conclusioni affrettate, per
carità!” si giustificò lui. Guardò in basso, per assicurarsi di aver rimesso
bene il tovagliolo sopra le sue gambe, perché se il pantalone si macchiava
allora sì che si sarebbe arrabbiato, chiaro com’era quel
tessuto.
“Posso
farti una domanda?” si rivolse subito a Diego, mettendosi comodo sullo schienale
della sedia e incrociando le braccia al petto. Forse lui poteva togliergli un piccolo
dubbio…
Quando
annuì sereno, riprese: “Tu devi aver parlato con quel folle di tuo padre;
all’aeroporto ci hai detto che si era portato dietro anche la tua valigia e
che-”.
“Esatto,
è così”.
“Va bene, ma non
interrompermi, accidenti!” sbottò, perdendo quella parvenza di serietà e
concentrazione che aveva assunto, al posto del suo solito nervosismo.
“Dicevo…”.
“Con calma
fratellone”, lo incoraggiò Flavia, versandosi un bicchiere d’acqua naturale
contenuta nella brocca di vetro.
“Sì, Fla’,
dicevo… Si era portato dietro la tua valigia ed è arrivato a Roma prima di te.
Due giorni prima di te… Ma deve averti accennato qualcosa, no? Ripensaci perché
questo potrebbe aiutare molto!” gli consigliò serio, per poi rilassarsi mentre
aspettava una risposta, che poteva rivelarsi utile o meno a seconda di quello
che avrebbe ricordato il signorino.
Toccò a Diego
concentrarsi, spostando lo sguardo talvolta sulla cugina, intenta a bere
tranquillamente dal proprio bicchiere, talvolta su Romano che guardava sotto il
tavolo.
“Il fiume…”
mormorò pensoso, attirando di nuovo la loro attenzione su di sé. Sorrise. “Sì,
il fiume di Roma. Mi aveva consigliato di vederlo. Mi pare che abbia nominato
anche un ponte, ma il suo nome mi sfugge…”.
Era tutto ciò
che ricordava. “Pensate che sia sufficiente?” volle sapere, visto il loro
silenzio perplesso.
Finché Flavia
non saltò quasi dalla sedia per la gioia che provava.
“Scherzi? Non
potevi darci indizio migliore, sei stato bravo!” si complimentò lei, sporgendosi
per stringergli la mano con le proprie. Il suo sorriso radioso lo fece arrossire
leggermente.
“Fratellone, hai
capito anche tu, non è vero? Il ponte è-”.
“Smettila di
urlare così, sembri una bambina!” la rimproverò Romano bloccandola. “E comunque
sì, stiamo pensando alla stessa cosa. Consumate i vostri secondi, paghiamo e ce
ne andiamo…” disse, ansioso di scoprire se lo zio fosse davvero andato in quella
direzione precisa.
Continua…
***
*Sui gusti non si
discute
Note: Sorvoliamo sul
ritardo, please. Questo mese ho avuto così tanti pensieri che preferisco evitare
di parlarne ^^’
Il quinto
capitolo è finalmente online, e come avevo anticipato parla di un altro
personaggio principale.
È stato
veramente difficile scriverlo, soprattutto la prima parte nel passato, poiché
non mi piace trattare di morti e funerali, ma quella scena era necessaria per
capire come mai Giulio si sia mosso in quella precisa direzione senza voltarsi
indietro.
Le sue vere
intenzioni con i nipotini non sono ancora state chiarite, lo so, ma come ha
detto Assunta tiene a loro e non vorrà che si ripeti la stessa storia di lui e
di suo fratello… Dovete immaginare quest’uomo come il suo opposto, provvisto di
occhiali, ma del tipo incompatibile e non complementare, perciò sono finiti così
ç_ç eh, a volte succede, e questa storia è incentrata sui vari aspetti di una
famiglia, quindi penso che vada bene…
Non svelo altro,
per il momento.
Il
Cimitero
Monumentale del Verano esiste davvero, ho
letto che è il più antico cimitero di Roma e vi sono seppelliti persone famose e
una volta, prima del 1980, anche gente comune… se sbaglio correggetemi, non è
che sono esperta xD
Ah, è comparsa
Monaco. Non mi appartiene, lei è un personaggio minore (che non aveva nome,
perciò l’ho chiamata Caroline
Grimaldi) e penso che sia
perfetta in coppia con Seborga, infatti ho già abbozzato le scene successive e
potrebbe nascere qualcosa in futuro (della serie: se non può esserci una storia
con il padre, vada per il figlio xD).
Capirete che per
mantenermi sul rating verde non ho potuto esagerare, quindi spero che Antica
Roma non sia troppo OOC ^^’
Del ponte che ho
scelto parlerò la prossima volta. L’aggiornamento è diventato mensile, quindi
non aspettatelo tanto presto, vorrei scrivere gli ultimi capitoli con calma e
soprattutto per bene, che mi soddisfino =)
Ringrazio la
cara SunliteGirl, che aspettava con ansia, e quanti hanno letto fin qui
^^
A presto
spero!
Baci,
Rina
|
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Capitolo 6 *** Capitolo VI ***
Capitolo
VI
Uscendo
dal complesso di alti edifici, situati ai due lati di una via trafficata che
stavano percorrendo a passo veloce per raggiungere quella che forse era la loro
meta finale, Flavia attraversò correndo la carreggiata e balzò sul marciapiede
fino ad affacciarsi sul muretto frontale, contemplando il paesaggio
circostante.
Non
era pervasa soltanto da un genuino buonumore, ma aveva anche lo stomaco pieno,
di una pesantezza salutare e per nulla fastidiosa.
“Diego,
eccolo!” esclamò, richiamando l’attenzione del cugino, rimasto indietro. “Ecco
l’anima della città, il suo fiume, il terzo più lungo d’Italia!” declamò,
indicandogli il Tevere, che scorreva placido sotto di
loro.
“Sembra un
quadro, guarda! Siamo in uno splendido pomeriggio soleggiato, con l’aria
tranquilla, con l’architettura perfetta dei palazzi intorno a noi, con
l’imponente cupola di San Pietro là in fondo…” mormorò estasiata, immaginando di
tracciarne i contorni con un pennello invisibile, mimando i gesti di un pittore
in procinto di realizzare qualcosa di meraviglioso, di unico e
raro.
Entrambi
sapevano della sua grande passione per l’arte e per il disegno, quindi non se ne
stupirono più di tanto. Mentre Diego le si fermava accanto dandole ragione,
Romano sospirò, sperando che non le balenasse in testa l’idea di controllare
nella borsa per vedere se avesse portato con sé album da disegno, matita e
gomma.
In effetti lei
manifestò il riflesso incondizionato di abbassare la mano verso la cerniera, ma
lui decise che era meglio farla desistere dal suo proposito
artistico.
“Non abbiamo
tempo da perdere, proprio adesso che siamo vicini a quel dannato ponte!” sbottò,
afferrandole il polso sottile e trascinandosela dietro. Flavia non la prese
male, anzi sorrise voltando la testa indietro, verso il
cuginetto.
“Ricordami di
disegnare questo bel paesaggio dopo, okay? Così avrai un felice ricordo della
giornata che abbiamo trascorso insieme!” gli promise
allegramente.
“Insomma, qui
non lo vedo! Dove cavolo si è cacciato? Vuole forse farci penare tutto il
giorno?!” borbottò per l’ennesima volta, irritato.
“Ahi!
Fratellone, stai stringendo troppo, lasciami…” si lamentò l’altra, cercando di
liberarsi dalla sua morsa con la mano libera.
Romano se ne
accorse e mollò la presa, incrociando le braccia al petto e ripetendosi come un
mantra “devo stare calmo, devo stare
calmo” per evitare di raggiungere un esaurimento nervoso con i
fiocchi.
“Ragazzi, penso
che sia meglio cercare un altro indizio, un qualcosa che ci faccia da guida”,
suppose lei, massaggiandosi il polso dolorante. Si guardarono
intorno.
Sopra Ponte
Cavour al momento non stava passando anima viva, l’unico mezzo di trasporto
presente nel loro campo visivo era una carrozza con due cavalli. Sostava a pochi
metri di distanza, sul lato sinistro della strada.
Flavia più di
tutti non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli splendidi
esemplari.
Le piacevano
tutti gli animali, tranne ovviamente quelli feroci e pericolosi, e si scioglieva
di fronte a quelli dolci e teneri.
“Veh… Vado a
osservarli da vicino…” mormorò incantata, dirigendosi tranquillamente verso il
calesse.
Diego invece
aveva notato chi vi sedeva sopra, per l’esattezza dietro il cocchiere. Prendendo
Romano da parte gli sussurrò: “Io mi
avvicinerei volentieri a lei. Hai visto che bella signorina, cugino?”.
“Già… Devo ammettere che hai ragione. Però
non credo sia qui per puro caso, secondo me sta aspettando qualcuno. E
conoscendo tuo padre, scommetto che si conoscono”, ragionò
sottovoce.
“Ne sei sicuro?”.
“No, ma non abbiamo alternative, arrivati a
questo punto”, replicò con un
debole sospiro, mentre Diego raggiungeva sua sorella.
Flavia stava
allungando la mano destra per accarezzare il fianco bruno di uno dei due
cavalli, quando una voce femminile pronunciò il suo nome e
cognome.
“Flavia Vargas?”
domandò la giovane donna seduta sul calesse, la bella signorina che il cugino e il
fratello avevano inquadrato prima di lei.
Le parve una
persona raffinata, composta ed elegante prima ancora di
conoscerla.
“Non mi sbaglio,
vero?” chiese seria, vedendo che l’altra la fissava alquanto
perplessa.
“Come…? N-no,
non sbagli, sono proprio io”.
“Bene. Vostro
zio mi ha parlato spesso e molto bene di lei, la sua adorata nipotina…” la
informò senza mutare espressione. Flavia invece si sentì
sollevata.
“Conosci zio
Giulio? Sai dove posso trovarlo? E comunque non c’è bisogno di essere così
formali, dammi del tu, signorina…?” esitò poiché non sapeva come
chiamarla.
“Oui. Je m’appelle Caroline. Io vengo da
Monaco, il Principato di Monaco per essere più precisi”, rispose prontamente
lei.
“Ooh… Capisco!
Quindi parli due lingue?”.
“Oui”.
“Affascinante…”
s’intromise Diego, come se fosse appena comparso accanto alla carrozza, discreto
e in silenzio. “Sei la prima monegasca che incontro e già mi hai colpito, chérie”.
Caroline gli
rivolse un’occhiata annoiata.
“Deduco che sia
tu il figlio del mio capo. Il tuo atteggiamento è abbastanza rivelatore”,
replicò piatta, per poi spiegarsi meglio. “Il signor Vargas sapeva che prima o
poi avreste raggiunto questo preciso luogo e ha incaricato me, la sua
assistente, di condurvi attraverso la città fin dove abbiamo
stabilito”.
“Non sei la
stessa assistente che mi ha presentato una volta…” ricordò Diego, assottigliando
pensoso lo sguardo.
“Questo perché
lavoriamo insieme da due anni. Non ho idea di chi abbia assunto prima di me,
onestamente non mi riguarda”, precisò. Poi qualcuno si fece bruscamente
sentire.
“Sai dirmi che
cosa vuole da noi? Perché non si è fatto vedere subito, invece di organizzare
tutto questo?”.
“Non essere così
scortese, fratellone. Caroline ha detto che ci porterà da lui e io mi fido della
sua parola”.
“Non c’è
problema. Una vera mademoiselle
rimane ferma e composta qualunque cosa accada”.
“Allora che
aspettiamo cugini? Per me possiamo anche andare!” suggerì divertito Diego, che
aveva approfittato della breve discussione per occupare il posto accanto alla
giovane straniera.
Romano
acconsentì controvoglia e Flavia fu molto felice di unirsi a loro, seguita a
ruota dall’imbronciato della situazione. Erano in quattro, quindi c’era posto
sufficiente per godersi comodamente e piacevolmente il
tragitto.
Il cocchiere,
seduto sul sedile nella parte anteriore, aveva atteso pazientemente prima di
impartire l’ordine ai suoi cavalli, muovendo fermamente le redini per guidare il
mezzo antiquato.
Frattanto
Caroline aveva afferrato una valigetta, la stessa che le aveva affidato
l’archeologo, dalla quale prese una fotografia in buone condizioni e la porse
alla ragazza. Flavia la riconobbe immediatamente: risaliva all’anno precedente e
la ritraeva a una mostra di pittura. L’aveva spedita allo zio insieme a una
lettera.
“Questa è la
prova che non vi sto prendendo in giro. Se volete tengo anche gli appunti di
vostro zio”.
“Non è
necessario”, puntualizzò, passando la sua foto al fratello sospettoso. “Sono
certa che Romano non volesse davvero dubitare di te”.
“Oggi Romi si è
stancato. Dovete capire che sta invecchiando…” lo giustificarono, chi in un modo
chi in un altro. Il diretto interessato sgranò gli occhi, soprattutto per
l’ultima parola.
“Cosa?
Invecchiando?!” borbottò, ammaccando leggermente l’istantanea. “Ringrazia che
non siamo soli, altrimenti ti avrei già scaraventato giù dalla carrozza,
insolente!”.
Vedendo che la
sorellina e il cugino ridevano complici, lui si schiarì la voce e provò a
calmarsi. Decisamente quella era una giornata in cui non tollerava nemmeno le
battute più innocue.
“Chiedo scusa
per il mio comportamento impulsivo, signorina assistente”, mormorò poi,
apprezzando che la donna con gli occhiali non si fosse fatta contagiare dalle
risate spensierate degli altri due e restituendole la fotografia. “Quando lo
incontrerò, gli rivolgerò personalmente i miei dubbi”.
“Scuse
accettate”, replicò, portandosi una ciocca chiara dietro l’orecchio. “Piuttosto,
ne avrei uno per te e per Flavia…”.
Entrambi le
rivolsero un’occhiata incuriosita, mentre Diego finiva di ridacchiare
sommessamente.
“C’è un ricordo
particolare legato a quel ponte?”.
Infatti si
stavano via via allontanando da Ponte Cavour, dalle sue cinque arcate in
muratura e dalla sua altezza ideale per i tuffi estivi.
Fu Flavia a
rispondere senza pensarci due volte.
“Un giorno,
quando ero piccola, passavamo da queste parti e gli stavo mostrando un semplice
disegno che avevo fatto apposta per lui, prima che partisse per uno dei suoi
lunghi viaggi. Ricordo che per colpa di un forte vento improvviso mi era volato
dalle manine e questo mi aveva fatto piangere. Allora zio Giulio mi aveva preso
in braccio e mi aveva consolato dicendo che sarei stata perfettamente in grado
di realizzarne un altro più bello”.
“E non è stato
l’unico. Da allora mia sorella ha continuato a disegnare e non ha più smesso…”
commentò Romano.
“Poi sappiamo
che Cavour è stato uno degli artefici dell’Unità d’Italia. Camillo Benso, conte
di Cavour. Lo zio ci ha sempre raccomandato di studiare e di tenere a mente
tutta la nostra storia, quindi non è stato difficile arrivarci, vero?” chiarì
Flavia, sorridendo lieta mentre cercava la mano del fratello per stringerla
nella propria.
Caroline annuì
piano, soddisfatta di come le aveva risposto. Quando però sentì lo sguardo
attento di Diego fisso su di sé, si voltò appena verso di
lui.
“Non è che
avresti una domanda anche per me? Magari riuscirò a farti sorridere…” provò ad
attaccare bottone.
“Davvero?”
mostrò un lievissimo accenno di sorriso, senza scomporsi di più. “Allora… Cosa
pensi del gioco d’azzardo?” chiese interessata.
Non per farlo
apposta, ma era uno degli argomenti che più l’affascinavano in tutto il
mondo.
Una vera e
propria passione, come quella appurata di Flavia per il disegno, dal momento che
aveva solo finto di non
sapere tale dettaglio.
E Caroline
aspettò, attese di vedere se lui avrebbe risposto oppure no, constatando che era
una ragazza troppo complicata per i suoi gusti, come già in molti le avevano
riferito in passato.
Non sapeva
ancora che di lì a poco Diego l’avrebbe lasciata di
stucco.
Continua…
***
Buonasera a
tutti! *O buongiorno. Dipende da quando leggerete queste note ^_^*
Questo è un
capitolo di transizione, quindi alla fine ho deciso di lasciarlo così com’è e di
non farvi attendere oltre x’D
Il prossimo
capitolo (che arriverà a maggio come stabilito) non sarà solo l’ultimo della
storia, ma anche il più lungo, quello in cui si concluderà il tour dei nostri
eroi (?) e verranno fuori tutti i chiarimenti del
caso.
E se mi sarà
possibile, a giugno aggiungerò anche un piccolo epilogo
=)
Oggi non mi
dilungo, lascio tutte le spiegazioni e i ringraziamenti alla prossima volta.
Baci,
Rina
|
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Capitolo 7 *** Capitolo VII ***
Capitolo
VII
“Sei ancora
arrabbiato?” si premurò di chiedere Flavia dedicandogli un’occhiata di riguardo,
vedendolo assorto in chissà quali elucubrazioni personali.
“Direi impaziente, piuttosto”, replicò
Romano sottovoce, la mano ancora stretta in quella della sorella. “Prima la
ricerca sotto il sole e adesso il giro comodo in carrozza. Non so davvero cosa
aspettarmi a questo punto… Perché, insomma, sono passati anni dall’ultima volta
che lui è venuto a trovarci! Mi ero ormai rassegnato all’idea che non gli
importasse più nulla di… di noi”.
Si era riferito
al plurale anche se non ne era per niente sicuro. Sarebbe stato meglio dire “di me”, in fondo Flavia era e restava la
nipotina preferita di Giulio. In qualche modo loro due erano rimasti in contatto
con lettere dettagliate e telefonate interurbane o internazionali, invece Romano
non si era quasi mai interessato a cosa facesse quell’uomo
giramondo.
“Non dire così…
Lui-”.
“Shh”.
“Cosa pensi del
gioco d’azzardo?” sentirono la domanda interessata di Caroline, questa volta
rivolta al cugino accanto a lei.
Diego aveva
mantenuto la stessa espressione amabile e curiosa.
“Oh. Gioco
d’azzardo. Davvero? Adesso capisco perché sei stata assunta da papà… Anche se
non sembra tu ami il rischio”, suppose in tutta
franchezza.
“Diciamo che amo
sfidare la fortuna. Io però vorrei una risposta precisa…” motivò a voce più
chiara e l’accento francese risaltava nella pronuncia di alcune
parole.
“Eh… Di fatto
sono ancora minorenne e mia madre darebbe in escandescenza se solo ci provassi.
Però sai una cosa? Tu insegnami: il gioco che vuoi, uno a caso. Poi facciamo una
partita innocua, io e te da soli, in cui scommettere qualcosa di più piacevole
di un mucchio di soldi”.
“E cosa dovremo
scommettere?” gli chiese inarcando le fini sopracciglia.
“Ma una cenetta
intima, naturalmente!”.
“Ah…” assentì
Caroline, sperando che non trapelasse il suo essere rimasta sorpresa dalla
reazione per nulla intimidita e piuttosto disinvolta, dalla proposta galante ed
entusiasta insieme di Diego.
Si finse
pensierosa. “Oui. On peut le
faire”.
Si poteva
tentare.
Solitamente le
davano della sofisticata e altera, poiché aveva imparato a trattare con uomini
più grandi come faceva con giocatori e avversari al casinò. Aveva visto tutti i
pretendenti che le aveva presentato la madre scappare a gambe levate dopo aver
capito che tipo fosse in realtà.
Era una ragazza
dalla risposta pronta che sapeva anticipare ogni mossa, che non si scomponeva
quasi mai, che doveva avere l’ultima parola, che non cadeva in rovina. Non si
era fatta scrupoli nemmeno a mentire sull’età, dal momento che quando aveva
iniziato con il gioco d’azzardo aveva sedici anni e fortunatamente il ruolo
influente di sua madre la copriva.
Difficilmente si
faceva fregare, tantomeno si lasciava coinvolgere in qualcosa di più grande di
lei, di sconosciuto nel suo mondo.
Il balletto, lo
studio e i giochi con il denaro erano non solo le sue priorità, ma anche i suoi
hobby. Delle passioni irrinunciabili nella monotonia delle sue giornate passate
a Monaco.
Diego era il
secondo che, forse per ingenuità o forse per sua stessa natura, la intrigava.
Un fatto
insolito, in fondo essendo ancora minorenne frequentava la scuola, mentre lei
aveva terminato gli studi al Liceo Tecnico di Monte-Carlo* poco prima di
accettare l’incarico di assistente per suo padre. Un fatto che forse la
indirizzava verso un altro cambiamento di opinione.
“Io ho solo diciannove anni e lui… Quasi
sedici se non ricordo male…” pensò. La differenza era minima e lui era pure
carino.
“Se posso
intromettermi, a casa abbiamo un mazzo di carte da gioco, potreste usare
quello!” suggerì immediatamente Flavia, allargando le braccia sporta in
avanti.
“In effetti non
mi dispiacerebbe giocare a briscola contro la signorina assistente…” considerò
il fratello, per poi intimare con uno sguardo alla sorella di abbassarle. “E
piantala di renderti ridicola!” la redarguì.
“Ahah. Non
dimenticate che ci sono prima io però!” fece presente Diego, alzando un dito al
fine di sottolineare il suo turno. “E spero tanto di poter ottenere un
appuntamento, almeno me ne tornerò in Liguria senza rimpianto
alcuno”.
E in quanto a
Caroline era rimasta di sasso, per i suoi stessi pensieri e per la
determinazione del più piccolo.
Con la velocità
moderata del pratico mezzo di trasporto in cui sedevano, ci vollero circa dieci
minuti per raggiungere Castel Sant’Angelo e il suo ponte
monumentale.
Caroline spiegò
loro che da lì la carrozza avrebbe proseguito fino a Piazza Venezia, notizia che
entusiasmò particolarmente la giovane Flavia, e che dopo la loro ultima meta
sarebbe stata il Colosseo. Era nelle sue vicinanze, infatti, che lei e il signor
Vargas avevano trovato ospitalità affittando due camere da una vecchia amica di
famiglia, Madame
Rocher**.
Stavano quindi
seguendo un percorso già concordato in precedenza e questo spingeva Romano a
lambiccarsi il cervello in cerca di una spiegazione plausibile, a rimproverarsi
perché – cavolo! – lui sarebbe
partito proprio dal Colosseo se non fosse stato per la scelta della sorella di
visitare subito la Fontana di Trevi.
Ed era
irrilevante il fatto che poi lui stesso avesse cambiato precipitosamente idea a
favore di Piazza di Spagna, chissà per quale assurdo motivo, anzi no, conosceva
la motivazione, ma faceva finta che era stato il sole a dargli alla testa e a
spingerlo nella direzione opposta.
Se avesse
potuto, avrebbe tirato un calcio alla sua coscienza.
Senza rendersene
conto erano caduti tutti nel tranello dello zio, assecondando ogni sua manovra
come sciocche marionette manovrate da fili invisibili.
“Anche vostra
madre era a conoscenza del suo piano, ma si è limitata a mandarvi all’aeroporto
senza accennare alla nostra presenza a Roma”, continuò a spiegare Caroline
mentre Diego cercava di scattare qualche altra foto-ricordo. Prima lei aveva
assistito in silenzio ai battibecchi vivaci, ai discorsi sereni dei tre e al
broncio del maggiore, provando simpatia e tenerezza verso di loro, inserendosi
di tanto in tanto nella conversazione con il garbo e la compostezza che la
caratterizzavano.
“Ah, bene.
Immaginavo fosse implicata nella faccenda. Allora non mi stupirei di trovarla al
Colosseo!” commentò scocciato Romano. “O ci attende forse un’altra persona con
quello?”.
“Fratellone, dai…” mormorò
Flavia.
“Dai un corno!”
replicò a braccia incrociate, comprimendo le labbra alterate in una
smorfia.
“Beh… Qualcosa c’è, ma il signor Vargas mi ha
raccomandato di non farne parola con nessuno. Come si dice in questi casi ho la bocca cucita, sono spiacente”, si
scusò la monegasca.
“Signorina
Caroline, ma è una cosa bella, vero? Veh, io mi fido dello zio, sono impaziente
di riabbracciarlo e sono curiosissima, ma sono anche molto contenta per questa
uscita piacevole e per il tempo che stiamo trascorrendo insieme in giro per la
nostra adorata Roma. Con la scuola e tutto il resto è sempre stato difficile per
me e per mio fratello rilassarci, lo sai? Perciò voglio ringraziare te, Diego e
quando lo vedrò pure zio Giulio!” si perse in un fiume di parole sentite
un’entusiasta Flavia, facendo sorridere il cugino e un po’ persino
Caroline.
“Non
ringraziarmi, faccio soltanto il mio dovere…” rispose l’altra distogliendo lo
sguardo, puntandolo in un punto imprecisato alla sua destra e Diego ne
approfittò per catturare la sua immagine di profilo in una fotografia,
ovviamente di nascosto da lei e pensando che non vedeva l’ora di far sviluppare
quel rullino.
Caroline
appariva quasi perfetta ai suoi occhi: aspetto raffinato, profilo elegante,
lineamenti delicati, nasino all’insù, un paio di occhiali alla moda che non
nascondevano dei meravigliosi occhi blu e lunghi capelli biondi che con
quell’acconciatura così ordinata le stavano d’incanto.
Però non l’aveva
vista sorridere se non lievemente, e questo era forse il suo unico
difetto.
Aveva sì una
parlantina disinvolta e un po’ strascicata, con la erre moscia tipica dei
francofoni, ma non si lasciava andare.
Non si
divertiva.
Quando
arrivarono al centro della famosa Piazza Venezia, il gentile cocchiere fece
fermare lentamente la carrozza senza tettuccio e lo scalpiccio rilassante dei
cavalli si mitigò.
Lui era un
corpulento signore di mezza età con capelli e baffi neri striati di grigio, che
consigliò loro, con tono simpatico e cordiale malgrado la stazza un po’
massiccia, di scendere e di godersi quei dieci minuti di tempo che avrebbe
concesso ai suoi due cavalli per riposarsi e per farli abbeverare alla
fontanella più vicina.
Flavia non se lo
fece ripetere due volte, era stata la prima a lasciare il calesse saltellando
sul posto e ad approfittarne per ammirare la sua piazza preferita, circolare e
grande in tutta la sua bellezza. In essa si incrociavano tre tra le strade più
importanti del centro storico ed era situata ai piedi del
Campidoglio.
Abbellita dalla
presenza del colossale e stupefacente monumento in onore di re Vittorio Emanuele
II, di Palazzo Venezia sul lato ovest e di Palazzo Bonaparte verso nord.
Nell’insieme
questi e altri elementi del paesaggio la rendevano dignitosa e sfarzosa come la
città importante da cui prendeva il nome.
Quanto le
mancavano le gite a Venezia! Zio Giulio che veniva a prenderla, il tragitto in
treno, le visite guidate, i giri in gondola!
“Senti Romi,
come mai la mia dolce cugina sprizza gioia ed emozione da ogni poro? Per caso
questo è un altro posto speciale per lei?” domandò incuriosito, porgendo
galantemente il braccio all’altra fanciulla per aiutarla a scendere dallo
scalino del mezzo di trasporto.
“Merci…” ringraziò, sperando di non
essere arrossita vistosamente per la gentilezza dimostratale e constatando che
era la più bassa tra i presenti. Anche Flavia la superava in
altezza.
“Perché non
glielo chiedi direttamente? Mica posso entrare nella sua testa…” rispose, per
poi sospirare pesantemente. “Io avrei preferito proseguire fino al Colosseo e
interrogare finalmente il bastardo”.
Per l’ultima
parola sgarbata ricevette un’occhiataccia severa da parte di Caroline, che
ancora si teneva al braccio di suo cugino, ma preferì
ignorarla.
Quando distolse
lo sguardo apatico, sgranò di colpo gli occhi alla vista di un furgoncino bianco
che stava per investire una distratta Flavia, persa con la testa tra le
nuvole.
Non l’aveva
presa per miracolo e sparte il suo proprietario aveva suonato il clacson per poi
andarsene, probabilmente perché contrariato da tanta
disattenzione.
Romano non ci
mise molto a raggiungerla e a farle la ramanzina, l’ennesima della giornata, e
Flavia cercò di rassicurarlo come al solito, scusandosi per lo spavento che gli
aveva fatto prendere.
“Non
innervosirti, fratellone. Se lo zio ha fatto questo per noi, io penso che deve
esserci un buon motivo dietro…” spiegò sorridendo, ispirata alla vista
dell’imponente Vittoriano. “E se si tratta di una sorpresa? Veh, perché lui non
ci ha detto niente, non abbiamo idea di cosa sia. Altrimenti come interpretare
tanto mistero?” ragionò.
“Per me non sarà
nulla di buono, altro che sorpresa!” esclamò scuotendo il capo esasperato,
poiché non ne poteva più di ipotesi e congetture, desiderava soltanto arrivare
al sodo.
“Cugini, perché
invece di preoccuparci non ci facciamo un’altra foto tutti insieme?” suggerì
svagato Diego, trascinando un’inespressiva Caroline con sé, lasciando l’utile
apparecchio nelle mani di Romano e sperando che scattare foto lo
calmasse.
“Credevo che il
rullino fosse terminato, accidenti!” sbottò lui, controllando i numerini che
giravano e che si erano fermati sul numero cinque. Mancavano ancora cinque
fotografie. Quasi quasi gliele consumava tutte in quel momento, per
dispetto.
Flavia, Caroline
e Diego si misero in posa, con la bionda in mezzo a loro due e lui che le
sussurrava di sorridere.
“Posso sperare
di conservare almeno una foto in cui sorridi apertamente?” disse poi e le mostrò
un’espressione eloquente, come se ci tenesse per davvero.
Diego non solo
era carino, con quel casco di capelli color castano chiaro e ordinati, lo strano
ciuffo seghettato e gli occhi che ricordavano un prato al sole. Le sembrava in
realtà molto più grande della sua età, e nella confidenza che si prese
circondandole le spalle con un braccio e facendole l’occhiolino le ricordava
molto il Signor Vargas.
Sarebbe
diventato un donnaiolo irrecuperabile come lui.
Lo sarebbe
diventato, ma forse, se un giorno si fosse innamorato di una donna capace di
metterlo in riga e di tenerselo stretto, forse allora…
Arrossì al
pensiero inusuale, non capendo perché un ragazzino appena conosciuto le stesse
facendo quell’effetto poco razionale.
“Allora?”
ritentò Diego inclinando la testa di lato, incerto se scuotere la vicina dalle
spalle oppure no. Si era distratta anche lei,
evidentemente.
“Cosa?”.
“Dai, Carolina,
sorridi!” intervenne Flavia, spezzando il momento imbarazzante e piazzandosi
davanti ai due. “Restiamo qui finché non ci fai un bel sorriso!” aggiunse
dolcemente, prendendole una mano tra le proprie.
Persino Flavia
era carina e con il suo carattere disinteressato, allegro e particolare avrebbe
rischiarato anche le giornate più grigie. Invidiava il suo sorriso così
spontaneo, perciò cercò di imitarlo, decisa ad
accontentarli.
“Evviva!
Fratellone, scatta la foto adesso!” lo esortò, tornando al proprio posto dopo
aver visto il miracolo compiuto.
“Va bene. Siete
sempre più stucchevoli, sapete?” brontolò Romano eseguendo
l’ordine.
Tre fotografie.
Stava pensando a come consumarle, ma poi vide che un soddisfatto e gongolante
Diego lo raggiungeva per riprendersi la macchina fotografica.
E addio
dispetto.
*
Era rassicurante
percepire che il fascino senza tempo della sua Roma perdurava e che essa non gli
dava mai noia o insoddisfazione.
Forse riusciva
ad apprezzarla proprio perché i suoi viaggi lo portavano molto lontano e la
lontananza non aveva spento affatto l’amore per la città
natale.
Aveva
passeggiato per le sue vie animate, attraversato le sue piazze pittoresche,
ammirato i classici monumenti, le chiese antiche o nuove e i palazzi vecchi di
un secolo o poco più.
Aveva respirato
di nuovo la sua aria, chiacchierato, aveva riso e amato.
Quel giorno
aveva perso persino la cognizione del tempo, poiché non era certo rimasto
immobile come una statua ad aspettare l’arrivo dei suoi nipoti, non sarebbe
stato da lui.
Per ammazzare il
tempo, si era prestato a intrattenere i turisti con aneddoti conosciuti durante
i suoi studi, oppure con le sue personali avventure e disavventure per
raggiungere determinati luoghi lontani.
Aveva giocato
con i bambini, aveva flirtato con qualche signorina di passaggio, aveva aiutato
a scattare foto oppure a farne il soggetto, a mettersi in una posa importante
considerato che indossava il suo travestimento storico e voleva immedesimarsi
perfettamente nella parte.
I suoi gesti
volontari e assolutamente gratuiti non stonavano affatto, non disturbavano
quelle persone, quegli artisti ambulanti che si piazzavano lì con lo scopo di
guadagnarsi il pane, anzi lui, nella sua grande generosità, si era persino
prestato ad aiutarne alcuni, ricevendo in cambio tutta la loro gratitudine più
sincera.
Si stava appunto
giustificando quando gli giunse alle orecchie un richiamo familiare, una voce
inconfondibile e chiara che lo chiamava. Si voltò alla sua sinistra e fu
sollevato nell’osservare che non si era sbagliato, poiché aveva inquadrato lei che avanzava frettolosamente,
andandole incontro di rimando.
“Ce l’avete
fatta!” si complimentò con un moto d’orgoglio, cambiando atteggiamento in un
istante quando l’allegra nipotina si era fiondata tra le sue braccia per
salutarlo con tutto il suo affetto incondizionato.
“Flavia! Mi
rendo conto che sei cresciuta, ma in fondo sei sempre una tenerona, nevvero?
Aww! La mia piccola Flavia! Lascia che ti abbracci come si deve!” affermò, con
tanto di lacrimuccia di commozione, stringendola a sé e strusciando una guancia
contro la sua.
Era andato in
brodo di giuggiole, ormai. L’avevano perduto.
Lei rise di
cuore.
“Caro zio, tu
invece non cambi mai. Hai la barba che punge proprio come allora…” replicò la
ragazza, che ovviamente era lietissima di rivederlo, ma provava anche un pizzico
di nostalgia per il passato, quando veniva più spesso a
trovarli.
“Lo so, lo so.
Modestamente sono ancora lo stesso zio giovane e affascinante dei tuoi ricordi.
Mi dispiace di non essermi fatto più vedere di persona,
però-”.
“Come diavolo ti
sei conciato? Accidenti, ma non ti vergogni?!” proruppe la voce scontrosa
dell’altro nipote, avvicinatosi per separare i due, che con le loro smancerie
stavano dando spettacolo.
“Anche tu mi sei
mancato, Romano. Non essere risentito e geloso, vieni qui!” lo pregò
Giulio.
“Geloso io?!
Stammi lontano!” sbottò, venendo poi trattenuto dalla traditrice di sua sorella,
che lo bloccò prima che riuscisse a sfuggire alla presa ostinata dello
zio.
Divenne paonazzo
per la rabbia e sicuramente per l’imbarazzo, dal momento che un gruppo di
passanti li stava fissando e stava persino applaudendo per la scena che stavano
offrendo loro, come se un abbraccio a tre fosse una scena magnifica e insolita,
certo.
L’uomo vestito
in toga candida e mantello magenta,
con quei tessuti lunghi, tutti attorcigliati e fissati con cura, si staccò dai
suoi nipoti per rispondere alle loro domande, soprattutto a quelle di Romano che
appariva davvero impaziente di conoscere il suo ingegnoso
piano.
“Oggi
rappresento un antico romano, precisamente un patrizio, un nobile di quei tempi.
Siccome mi avevate già visto anni fa nelle vesti di un valoroso soldato e di un
condottiero di epiche battaglie, oggi ho optato per questo: sarò il vostro oratore per il tempo che ci rimane”,
spiegò con un sorriso lieve e saputo.
“Oratore? Perché
devi parlarci?” dedusse Flavia, guardandolo annuire.
“Allora dicci a
che scopo farci girare Roma, quando potevi presentarti a casa nostra già da ieri
ed evitare tutta questa sceneggiata assurda davanti a un pubblico di curiosi.
Accidenti, mi piacerebbe strangolarti!” lo biasimò l’altro incrociando le
braccia al petto.
Più lo
osservava, più Giulio riconosceva il carattere testardo e tutt’altro che
affabile del fratello. Romano aveva preso decisamente da lui, anche se i capelli
scuri… quelli gli venivano dalla madre, sì.
“È per vostro
padre… Entrambi amavamo Roma e so che anche voi non siete indifferenti alla
città eterna. Non siete contenti di aver accompagnato Diego a visitarne la parte
più significativa?” li interrogò, puntando poi uno sguardo malinconico allo
sfondo dell’incontro.
“L’Anfiteatro
Flavio, meglio conosciuto come Colosseo… Simbolo suggestivo di un grande Impero.
Era il suo preferito, lui veniva sempre qui quando aveva bisogno di riflettere,
di stare da solo”.
“A me ha fatto
piacere rivedere il cugino Diego e accompagnarlo in questo giro turistico. Quanto a mio padre mi dispiace…” mormorò
in risposta, cercando lo sguardo del fratello. “Non me lo ricordo, ma la mamma
ci ha detto che era una persona speciale”.
“Non capisco…
Quindi l’avresti fatto per lui? Se volevi farti perdonare qualcosa, perché non
sei tornato prima? Tanto noi siamo cresciuti lo stesso anche senza di lui e
senza di te, quindi non ti capisco proprio…” rispose Romano, confuso e tuttavia
deciso a far valere il proprio parere in merito.
Che senso
aveva?
“Se sei venuto
per rimpiangere il fratello scomparso, non so se voglio ascoltarti. È passato,
ormai…” proseguì facendo per voltarsi, come se volesse tornare indietro. Fino a
quel momento Diego si era rivelato una compagnia per nulla deprimente e si
sentiva un po’ deluso da ciò che aveva ascoltato finora
dall’archeologo.
“Non è tutto.
Romano, tu stai saltando a conclusioni affrettate, esattamente come era solito
fare Michele. Non è mia intenzione deprimervi, non oggi. Io sono qui per voi,
per una sorpresa che sicuramente vi piacerà. Se rimpiango qualcosa è di non
essere stato presente al posto di mio fratello. Per vedervi crescere, proprio
come mi hai fatto notare con la tua risposta”.
“Hai visto,
fratellone? Ha davvero una sorpresa per noi!” esultò
Flavia.
“E sentiamo: di
che sorpresa si tratta?” indagò Romano, nuovamente
sospettoso.
E Giulio Cesare
Vargas sorrise a trentadue denti, più sollevato.
“Non abbiate
fretta e seguitemi, lo scoprirete dentro il Colosseo, così Romano non lamenterà
il fatto di avere occhi indiscreti puntati addosso”.
“Zio Giulio, non
dobbiamo chiamare Diego e Caroline? Non devono venire anche loro?” chiese
Flavia, procedendo al suo fianco.
“Non serve. La
mia graziosa assistente sarà perfettamente in grado di badare a vostro cugino,
sa già come comportarsi”.
“Perché stiamo
entrando da un’entrata secondaria? Maledizione, e se ci fanno la multa per aver
saltato la fila?” si preoccupò Romano guardandolo storto.
Giulio gli
mostrò una piccola tessera rettangolare.
“Quando sei uno
studioso puoi ottenere certi privilegi, non lo sapevate?” motivò con calma
conducendoli in una galleria usurata, che li avrebbe portati all’interno del
famoso anfiteatro.
Una volta
dentro, consigliò loro di scegliere un posto dove sedersi per poter parlare
tranquillamente. Flavia risalì le gradinate fino a sedersi in un posto in alto,
dal quale poteva ammirare i resti di quello che in passato doveva essere stato
un bellissimo luogo ludico. Romano e Giulio si limitarono a seguirla e ad
accomodarsi anche loro, per quanto una pietra potesse definirsi
comoda.
“Tornando al
vostro giro per Roma, vorrei sapere se per caso a un certo punto vi sono tornati
alla mente ricordi di quando eravate più piccoli. Siate sinceri, altrimenti me
ne accorgo!” li avvisò.
Flavia gli
confidò immediatamente il fatto del disegno volato giù dal
ponte.
“Bene. E tu
Romano?”.
Lo fissarono
entrambi, in attesa che parlasse.
“Ma cosa vuoi
che abbia ricordato? Sono luoghi che abbiamo visto spesso, ti ricordo che noi ci
viviamo, a Roma! Certo, stiamo più in periferia, ma è capitato che venissimo in
centro per vari motivi…” mentì fregandosene delle loro occhiate fisse e piene di
aspettativa.
“Uffa…
Fratellone, potresti collaborare!” si dispiacque Flavia gonfiando le
guance.
“Tua sorella ha
ragione. Non ci stai dicendo la verità…” suppose il più
grande.
“Che palle, zio.
Ti stai prendendo troppo di confidenza… Eppure siamo stati lontani per anni!”
brontolò.
“Appunto,
permettimi di recuperare. Comunque ho capito, non c’è bisogno che aggiungi
altro. Adesso chiudete gli occhi”, consigliò divertito.
Romano trovò la
richiesta strana e infantile, invece Flavia aveva già eseguito, senza
abbandonare il suo perenne sorriso e coprendosi gli occhi con le
mani.
“Va bene
così?”.
“Ma perché devi
sempre seguire tutto alla lettera, tu?! E poi perché cavolo dovrei chiudere gli
occhi? Cosa nascondi, bastardo?” sbottò, più esasperato che arrabbiato. La
rabbia e la brutta sensazione iniziale in realtà gli erano già sbolliti da un
pezzo, forse il tragitto in carrozza gli aveva giovato.
Però Giulio gli
diede delle leggere pacche sulla testa, facendolo alterare nuovamente, anche
perché si limitava a sorridere come un deficiente e a non dargli tutte le
risposte.
“Hai rotto, va
bene?! O parli o me ne vado, e stavolta non mi fermerete”.
“Non avevi forse
un amico che si chiamava Antonio?” proferì allora.
“Un amico che si chiamava…?” si ripeté
piano. “Che c’entra? Chi sarebbe Antonio?” domandò ancora, levandosi in piedi
per lo stupore. Non rammentava a chi potesse appartenere quel nome, ma ebbe uno
strano presentimento. Come se lo zio fosse a conoscenza di una cosa che lui
ignorava, o probabilmente più di una.
“Ma zio, Romano
ha pochi amici e non mi risulta che abbiano quel nome…” intervenne perplessa
Flavia riaprendo gli occhi ambrati.
“D’accordo, va
bene. Lasciamo perdere gli occhi chiusi e arriviamo al sodo, così tuo fratello
smette di preoccuparsi inutilmente”, decise serenamente l’uomo, scostando di
poco il mantello che indossava ed estraendo dal fianco destro due
lettere.
“Ho pensato di
rimediare alla mia assenza cercando e
trovando due ragazzi che avete conosciuto tanto tempo fa, quando le mie visite
erano più frequenti. E l’ho fatto perché possiate capire che non vi ho mai
dimenticato. Siamo una famiglia, dopotutto”, si giustificò porgendo la busta di
carta azzurra alla nipote e quella con carta gialla
all’altro.
“Li ho aiutati a
scrivervi. Inoltre vi darò un altro indizio: non sono italiani”, rivelò dopo aver
ritirato le mani, quando già la nipotina era sul punto di aprirla, interessata a
scoprire il mittente anonimo – infatti le due lettere si distinguevano soltanto
dal colore, non c’era scritto nulla fuori.
“Un momento!”
saltò su Romano, di nuovo. Ragionando e riconsiderando che il furbastro dello
zio aveva nominato un certo Antonio, che Flavia non conosceva e che non era
italiano… C’era un’alta possibilità che si trattasse proprio di lui.
Il ragazzo
incontrato a Piazza di Spagna.
Il tizio
spagnolo del gelato al pistacchio.
A preoccuparlo
però non era questo. Sua sorella Flavia teneva tra le mani una lettera
indirizzata a lei. Da uno straniero.
Lei. Uno
sconosciuto.
La sua
Flavia.
E uno zio
imprevedibile che sapeva tutto, ma giocava a fare il
misterioso.
“Ehi, aspetta,
fermi tutti!”.
“Io non mi muovo
da qui…” replicò candidamente Giulio.
Lui lo ignorò e
rivolse tutta la sua attenzione a lei, che non capiva.
“Io credevo che
l’unica straniera fosse quella tua amica, quella Elisa o come diavolo si chiama. Non mi avevi
detto che c’era un altro. Chi caspita è? Ci possiamo
fidare?”.
“Ehm… Non lo so.
Dovrei leggerla?” tentò di dissuaderlo lei.
“Per esserne
sicuri è meglio se la leggo prima io!” obiettò.
Detto questo,
ficcò la lettera gialla in una delle tasche dei pantaloni, fregandosene se si
spiegazzava un poco, e si sporse per recuperare l’altra, ma Flavia scosse
dispiaciuta il capo, allontanandola dalla mano del fratellone prima che la
prendesse. Romano però non si fece scoraggiare: più lei si ritraeva e negava,
più lui la inseguiva e finì che Giulio Vargas fu costretto a tenerli d’occhio
mentre gironzolavano liberamente nelle zone agibili del
Colosseo.
Era sì una scena
comica, ma era toccante constatare quanto i suoi adorati nipotini fossero uniti
addirittura nei loro diverbi.
Avrebbe dato
qualunque cosa per tornare indietro, perché anche suo fratello maggiore si fosse
interessato a lui allo stesso modo, con la stessa dedizione, lo stesso impeto e
affetto di quei due.
*
Alla fine, per
quanto la situazione si fosse rivelata più piacevole del previsto, il signor
Giulio fu caldamente invitato da un guardiano fiscale, che non aveva chiuso un
occhio di fronte all’inseguimento
innocente di Romano e Flavia, a scortarli fuori dal monumento, forse temendo
che avrebbero potuto fargli seri danni, o perché disturbavano la quiete pubblica
con le continue proteste e insistenze dovute alla lettera
azzurra.
Alla fine erano
stati costretti a giungere a un equo accordo: Romano avrebbe scoperto il
mittente segreto e ciò che conteneva una volta tornato a casa, a patto che
consegnasse la sua alla sorella.
Flavia
ovviamente fu d’accordo e anche se fremeva dalla curiosità ripose entrambe le
buste al sicuro nella sua borsa, promettendo di non toccarle fino a
sera.
Ritrovarono il
cugino Diego e l’assistente Caroline seduti su una panchina, nelle vicinanze dei
Fori Imperiali. Sembravano tranquilli.
“Ah, quasi
dimenticavo…” ricordò all’improvviso Giulio, rivolgendosi nuovamente ai nipoti.
“Il tassista di stamattina ero io”.
Assunta stava
per terminare le faccende domestiche, in attesa del ritorno della sua famiglia, ansiosa di accogliere in casa il nipote e
naturalmente di sapere tutto quello che avevano fatto in
centro.
E chiuse
l’aspirapolvere per rimetterlo al suo posto nel ripostiglio, fischiettando tra sé un motivetto a caso.
*è un liceo che
prepara a lavorare negli alberghi, nel commercio… L’istruzione nel Principato di
Monaco è simile a quella francese, quindi Caroline ha finito a diciassette
anni.
**è
un semplice tributo al Ferrero Rocher, la Ferrero è italiana anche se Rocher
sembra francese. Per un’amica della famiglia di Caroline ci stava, dai
xD
***
Note:
Lo
so, avevo detto che l’ultimo capitolo sarebbe arrivato in tempi brevi ^^’ chiedo
venia. In ogni caso è finita, gente.
In
realtà ci sarebbe un epilogo sul contenuto delle due lettere e su cosa ne
pensano Romano e Veneziano (Flavia), ma aspetterò un po’ prima di pubblicarlo, non ne sono ancora del tutto convinta (quando mai
xD).
Spero
vi sia piaciuto, qui ho decisamente messo da parte le descrizioni dettagliate
dei luoghi (che forse stavano annoiando i lettori) e mi sono concentrata più sui
personaggi principali, sui dialoghi, sui pensieri… Insomma, sulla narrazione in
generale, con pizzichi di comicità che ci stava, dai xD mi sono divertita,
soprattutto figurandomi le ultime scene con Nonno Roma (in questa AU zio) e
nipoti.
Spero
che la lettura leggera vi abbia intrattenuto piacevolmente per qualche minuto. Grazie a
quanti hanno letto, seguito, ricordato, preferito e commentato fin qui, anche se
pochi ho apprezzato davvero! =)
Un
grazie speciale alla cara SunliteGirl e ai suoi incoraggiamenti
preziosi, spero di non averti deluso per il fatto che tengo abbastanza sulle
spine >.< però sono contenta, ho realizzato il proposito di farti un
capitolo più lungo e più simpatico dei precedenti! *__* E poi è “tornato”
Antonio, hai visto? ^^ Seborga e Monaco ti sono piaciuti? Lei è stata
complicata... Vabbe’, ci ho provato.
Forse
questi tre compariranno in una storia extra ambientata in un futuro prossimo, chissà…
*fa la vaga*
Forse
la leggerai l’anno prossimo, conoscendo i miei tempi
ù.ù
Okay,
no. Come primo approccio-tentativo nel fandom mi sono divertita, dai, se l’ispirazione non
mi abbandona tornerò prima del previsto e ti farò una sorpresa
=)
Rina
|
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Capitolo 8 *** -Epilogo- ***
Disclaimer: A parte uno, i personaggi citati non
mi appartengono (ci ho semplicemente
fantasticato sopra) e non ho scritto a scopo di lucro.
Ogni riferimento a persone o a luoghi
reali è stato puramente casuale. Ho consultato internet per la maggior parte delle
informazioni riportate e per le due-tre
vie di Roma indicate.
Ogni riferimento all'anime è stato
messo apposta per essere colto xD le parentele sono state un po’ cambiate, è
vero, ma in sostanza mi è stato detto che i legami sono IC, quindi sto
tranquilla ^^
Ed ecco l'epilogo che chiude “La
patria del cuore” e che oggi dedico sempre a SunliteGirl per il suo compleanno **
ancora tanti auguri, darling! **
Grazie mille e alla prossima! ^__^
*corre a vedere la partita in tv*
Per
fortuna, Giulio Cesare Vargas aveva avuto la decenza di portarsi un cambio
d’abito. Lo stesso Romano si era offerto non proprio gentilmente di scortarlo
dentro un negozio di abbigliamento – uno a caso, non quello dove lavorava lui –
provvisto di camerini, di aiutarlo a cambiarsi, a spogliarsi di quelle vesti
ormai trapassate e al massimo utilizzate come costumi di scena in un film
d’epoca romana.
Davvero,
le sue idee stravaganti non le condivideva e Flavia sbagliava ogni volta ad
assecondarle, a essere così accondiscendente con lui.
Rincasarono
verso le otto di sera e la madre, aprendo la porta d’ingresso, subito aveva
accolto Diego con un bacio sulla guancia e con un sorriso genuino, invitandoli a
entrare tutti in cucina, anche Caroline era la benvenuta in casa
loro.
Sebbene
avesse lavorato ininterrottamente per quasi tutto il giorno, non recava segni
apparenti di stanchezza.
Romano
pensò bene di svicolare convenevoli inutili e discorsi privi di attrattiva
attorno al tavolo sgombro, di lasciare gli ospiti alle cure e alle attenzioni
della volenterosa Assunta trascinando letteralmente la sorellina, con la scusa
di aiutarla a finire i compiti per il giorno successivo, al piano
superiore.
“Io
veramente ho studiato ieri…” chiarì con perplessità Flavia, una volta che furono
da soli in corridoio.
“Non
ci arrivi? Non è per i compiti, stupida!” l’ammonì il fratello alzando gli occhi
al soffitto. “Dobbiamo scoprire chi
ha osato scriverti oppure no?!” insisté aprendo in quel momento la porta della
sua camera, brillante di ordine e pulito. Non c’era una sola cosa fuori posto,
sua madre aveva superato se stessa, pensò in un attimo. Fu appunto un solo
istante, dato che scosse la testa e tornò a concentrarsi sulla questione più
importante.
“Avanti.
Tirale fuori”, le ordinò senza tanti complimenti, slacciandosi i primi bottoni
della camicia bianca giusto per mettersi a suo agio in camera
propria.
“Veh,
hai ragione! Non sei l’unico curioso, non preoccuparti, le lettere sono qui…”
disse lei, riprendendo in mano le due buste di diverso colore, lanciando sul
letto la borsa che l’aveva accompagnata per tutto il giorno e raggiungendola
poco dopo, non prima di aver consegnato quella azzurra a Romano, che si era
lasciato cadere sulla sedia di vimini.
Non
avrebbe perso tempo a scollarla normalmente con le unghie, perciò prese un paio
di forbici dal cassetto della scrivania, ne tagliò il bordo e la agitò sul palmo
della mano finché non ne uscì un foglio bianco ripiegato con
cura.
“Sia
chiaro che non lo faccio per gelosia. È il mio dovere di fratello maggiore che
mi spinge a indagare…” esordì serio, prima di aprire il foglio e riferirle ciò
che vedeva, inquadrando dapprima il nome del mittente.
“Si
tratta di un certo Ludwig, ti dice niente?” si interessò, più per la reazione
della sorella che per reale interesse: si aspettava che non ne avesse alcuna,
che quel nome la lasciasse confusa o indifferente, invece Flavia
sussultò.
“Certo…
L’ho conosciuto tanto tempo fa, proprio come ha detto lo zio, però non è stato
qui!” rivelò assumendo un’aria assorta. “Ricordi quando mi portò a Venezia la
prima volta? Avevo sette o forse otto anni; è tutto molto vago in realtà, ma mi
è rimasto impresso questo timidissimo e rispettoso bambino con cui ho cercato di
stringere amicizia”.
A
questo punto lei rise, rise anche se si sentiva una sciocca per non aver capito
prima l’allusione del suo caro zio.
“Sei
sempre la solita…” sbuffò lui. “Avresti preferito essere lì per arrivarci, vero?
Ora capisco perché ci ha fatti fermare proprio a Piazza Venezia…” aggiunse
pensieroso.
“E
già. Io non sono intuitiva come te, fratellone. Effettivamente avevo pensato
alla città, ma non a Ludwig. Anzi, è strano sai? È strano perché sono certa che
lui e lo zio si conoscevano anche allora…” svelò un altro particolare che lo
lasciò sconcertato.
“Che
cosa?!”.
“Sì.
È il figlio minore del migliore amico di zio Giulio, hai presente? Mi riferisco
a quel professore di storia e filosofia che vive in Germania da sempre. Ora mi
sfugge il cognome, ma mi ha parlato spesso di loro nelle sue lettere passate…
Aspetta, fratellone, non interrompermi!” lo bloccò, poiché l’aveva intravisto
aprire bocca per ribattere. “Una volta mi ha confidato che Ludwig non aveva il
coraggio di scrivermi di suo pugno. Sono davvero contenta che finalmente si sia
deciso. Puoi leggermi la lettera, per favore?” lo pregò.
“Me
lo sentivo che c’era qualcosa sotto… Comunque non posso, dannazione!” borbottò
puntando uno sguardo fisso e contrariato al testo. “Non ho mai studiato la
lingua dei crucchi. Non ci capisco un accidente!” protestò ancora. “Quel folle
di tuo zio ci ha imbrogliato, appena scendiamo di sotto mi sente. Eccome se mi
sente!”.
Flavia
si accorse che per la foga stava accartocciando la suddetta lettera e pensò bene
di salvarla.
Batté
più volte il palmo sopra il materasso comodo, facendo cenno al fratello di
sedersi accanto a lei con un sorriso conciliante e per nulla dispiaciuto o
turbato.
“Non
c’è problema, fratellone. La tradurrò io per entrambi!”
decise.
“Dunque…
È datata quattro settembre, di quest’anno ovviamente. All’inizio si presenta,
poi dice che sta facendo la leva militare obbligatoria, che ha ricevuto qualche
giorno di congedo per tornare a casa e che è stato allora che ha rivisto nostro
zio…” gli riferì con molta pazienza mentre leggeva, dando una sua traduzione
personale anche se non era mai stata esperta in tedesco. Le parole difficili
infatti le aveva saltate con blando rammarico.
“Aggiunge
di aver appreso così del buon proposito di farmi una sorpresa, che soltanto lui
poteva rendere possibile. Poi…” si interruppe un momento per concentrarsi,
portando un dito sul mento.
“Ah,
è molto carino in questo punto: scrive che si sentiva in imbarazzo, perché c’era
lo zio che non lo perdeva di vista mentre pensava a cosa riportare nella
lettera. Io ammiro e rispetto la sua persona, credimi, ma qualche volta
è… Forse vuole dire che è intollerabile, però non ne sono sicura. E infine
mi invita, se vorrò e quando sarà possibile, a visitare… Oooh!”
trasecolò.
Sua
sorella si era meravigliata a tal punto da stringergli forte il braccio e lui
giustamente si insospettì.
“Sei
invitata dove?” incalzò.
“A-all’Accademia
delle belle arti di Monaco di Baviera! Se vorrò, nel mese di dicembre lui avrà
un altro congedo e potrà accompagnarmi personalmente a vederla. Penso che sia
un’idea fantastica, lo ringrazierò al più presto! Alla fine mi ha lasciato due
indirizzi, quello di casa sua e questo suppongo che sia del luogo in cui presta
servizio militare. Vedi?” gioì indicandoglieli entrambi.
“Ma
sei ammattita di colpo?! Tu non ci andrai, non mi fido. Anche in Italia abbiamo
università prestigiose che puoi frequentare dopo il diploma, perché dovresti
spostarti proprio lì? No, non se ne parla, è troppo distante!” si oppose
fermamente.
“Fratellone,
si tratta di una breve visita. Non mi sta obbligando nessuno. Un giorno deciderò
e non è detto che-”.
“Non
m’interessa, tu così lontana non ci vai!” continuò categorico alzando la voce.
“E adesso vediamo cosa scrive quell’altro, prima che mamma ci senta discutere e
salga a controllare”.
“Stai
discutendo tu, fratellone…” mormorò mettendo su un broncio
adorabile.
“Taci
e apri l’altra busta, diamine!”.
Si
era infastidito non poco.
Gli
aveva dato veramente fastidio che uno sconosciuto avesse portato la felicità in
quegli occhi familiari che raramente le aveva veduto così spalancati e così
accesi di emozione.
Certo,
Flavia era spesso contenta persino per delle sciocchezze che per lui non avevano
senso, ma in questo modo particolare no. La sua voce dolce e ingenua, però,
spostò i suoi pensieri in un’altra direzione.
“La
lettera del tuo amico è datata otto settembre. Questa è breve e si capisce,
fratellone, vuoi leggerla?” domandò. Effettivamente era scritta su un foglio di
quaderno e non era molto lunga.
“Non
è mio amico. Si vede come lo zio non tiene a me, altrimenti non pensi che
avrebbe chiesto a una bella ragazza di scrivermi?” replicò scocciato,
facendosela passare per poi stendersi con la testa appoggiata sulle gambe della
sorella. Tanto lui non aveva nulla da nasconderle, ormai gli incontri passati
erano venuti a galla.
“Suvvia,
fratellone. Cosa dice?” lo esortò tranquilla, le dita tra i suoi corti capelli
scuri.
“Mi
saluta e mi chiama Romanito. Poteva risparmiarselo. Chiede se mi ricordo
di lui e immagina che adesso sarò cresciuto; lui ha venticinque anni e sembra un
imbecille, sarà perché si sta sforzando di scrivere in italiano? Poi dice… Che
cosa?!” sbottò incredulo, mettendosi a sedere di scatto. Il suo atteggiamento
era mutato e in pochi secondi era passato da svogliato ad
agitato.
“Non
può essere, dannazione! Non ne ho alcuna voglia!” esclamò dopo essersi alzato in
piedi. Flavia si sporse abbastanza per riprendere in mano la lettera di Antonio
e lesse chiaramente la frase per lui scioccante e il resto: “Fra un mese
accompagnerò la mia bisnonna a Roma. Ha espresso il desiderio di trascorrere gli
ultimi anni della sua vida in Italia. Ella la adora mucho. Ci incontreremo nella
Piazza oppure verrò a farti visita. Tuo zio è stato così gentile a offrirsi di
aiutarci a trovare un appartamento conveniente, non lo ringrazieremo mai
abbastanza! Spero di conoscere la tua sorellina, lui è davvero orgoglioso.
Fratellone, sarò lieta di incontrarlo, mi sembra un tipo simpatico!” affermò
con candore. Era il ritratto vivente del buonumore, al contrario dell’altro che
dopo una breve agitazione si era incupito. Nemmeno fissare la parete laterale
con i poster delle squadre di calcio preferite, la Roma e il Napoli, riuscì a
tirarlo su.
Che
razza di giornata era stata, piena di sorprese sgradite e colpi di scena
imprevisti.
“Invece
né tu né io ci faremo trovare tra una settimana. E non accetto obiezioni!”
stabilì cocciuto come un mulo. Poi le mostrò un ghigno poco rassicurante, segno
che aveva già in mente un piano.
“Fratellone,
che intendi?” si preoccupò.
“Intendo
che proprio quel giorno saremo impegnati”.
“In
che senso impegnati?” si informò Diego, la cui testa aveva fatto capolino dalla
porta socchiusa, interrompendoli.
“Non
lo so cugino, non lo capisco. La mamma ha preparato da mangiare per caso?”
cambiò discorso lei, di nuovo sollevata. Lui aprì la porta e lo videro con una
valigia in mano.
“Sì,
c’è anche una teglia di pizza in forno ed è quasi pronta. Forza, scendiamo: mio
padre e Caroline ci mostreranno velocemente un gioco con le vostre carte”, li
invitò riponendola accanto all’armadio. Romano assottigliò lo
sguardo.
“Perché
la stai lasciando nella mia stanza?” chiese allora.
“Perché
la zia Assunta ha detto che dormirò qui. Si tratta di una sistemazione
momentanea: se ci sono lamentele in merito lei è sotto, vi attende per
parlarne”, chiarì senza scomporsi.
“Ah,
bene, ora mi sentono!” sbottò Romano uscendo di corsa, come era
prevedibile.
“Mi
dà l’impressione di essere più intrattabile di prima…” osservò stupito Diego.
“Per caso la sua ragazza lo ha scaricato?”.
“No,
no. Temo che abbia intenzione di scaricare il suo amico…” rispose Flavia facendo
spallucce, per poi aggiungere che più tardi gli avrebbe raccontato tutta la
storia delle lettere e che potevano scendere dagli altri.
La
loro riunione di famiglia doveva continuare e certamente il suo fratellone non
l’avrebbe rovinata per qualche rimostranza in più.
Non
se c’era la pizza, che fatta in casa era la più buona del
mondo.
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