Wild

di Carooooool
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Danger. ***
Capitolo 2: *** Ricordi. ***
Capitolo 3: *** Primo incontro. ***
Capitolo 4: *** Addio. ***
Capitolo 5: *** Last breath. ***
Capitolo 6: *** Miranda ***



Capitolo 1
*** Danger. ***


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Grattai e scostai con le dita incrostate di terra il terriccio, scavando una piccola buca. Ci deposi poi piano le castagne che avevo trovato e ricoprii il tutto. Dovevo fare alla svelta, e compiere tutto il giro per controllare le trappole per conigli. Oramai era autunno, e dovevo accumulare parecchie scorte prima dell'inverno. Corsi veloce verso la prima trappola che avevo piazzato la prima mattina, ma la trovai vuota. Era dura attraversare a piedi nudi tutto il bosco, ma oramai le piante dei miei piedi erano decisamente più spesse. 
Fantastico, un'altra trappola vuota. Era così difficile riuscire a mangiare ultimamente.
Nella terza finalmente era rimasta incastrata una bella lepre, dal pelo morbido. Ero rincuorata, avrei potuto sfamarmi, e il pelo mi avrebbe aiutato contro il freddo mattutino. 
Un paio di ore dopo la mia cintura era piena di animali, incastrati sotto la testa. Rallentai la corsa, e mi concedetti un minimo di riposo. Oramai il pasto era assicurato, e avevo anche delle scorte. Presi a guardare il terreno fangoso in cui affondavano i miei piedi nudi. Era stranamente caldo, e dava sollievo al fastidio delle schegge conficcate nelle dita. 
Mi bloccai, quando vidi l'orma a terra. Il cuore si fermò, e cominciai a sudare. 
I ricordi mi balenarono nella mente, confusi, vividi, angoscianti. 
Le fauci, il panico, il sangue. La mia gamba, i buchi, larghi e profondi, che avevano lasciato i denti. La puzza, l'orrore. La sensazione lancinante della forza che metteva nel lacerare il mio polpaccio. 
Orme di lupo. Fresche. 
D'istinto mi arrampicai sul primo albero alto che trovai, e mi misi a scorgere in lontananza. Non vedevo bene, le foglie marce sul terreno mi confondevano la vista. Mi calmai, la puzza di paura si sentiva da chilometri. Scesi, cauta, e mi cosparsi il viso, il collo e la pelle di fango. Avrebbe tolto l'odore, e mi avrebbe aiutata a mimetizzarmi. 
L'adrenalina era tanta. Il cuore batteva, forte, rumoroso, e non potevo fare nulla per soffocare quel rumore così molesto, così individuabile.
Arrancai a quattro zampe, tenendo le gambe molleggiate, pronte a schizzare via. 
Mi diressi verso la trappola, ed era lì. Il muso sporco di sangue, arrossato dal pasto appena consumato. Ai suoi piedi c'erano i resti del corpicino della lepre, dilaniato. 
Indietreggiai, abbassandomi sempre di più a terra. Ma la mia mano finì sulle foglie secche, e il lupo si voltò verso di me. 
Eravamo distanti una cinquantina di metri. 
Rimasi immobile. Trattenni il respiro.
Fiutò l'aria. 
Il suo naso si muoveva sempre più forte, mi stava cercando, mi aveva sentita. 
Alzai solo un braccio...
Accadde tutto nel giro di un minuto.
Scattai all'indietro e cominciai a correre, mentre il lupo ringhiava dietro di me. Cercavo l'albero di salvataggio, quello che mi avrebbe permesso di arrampicarmi e di passare da un ramo all'altro. 
Ma il lupo si stava avvicinando, e dovevo scappare. 
Salii su uno molto alto, e mi spinsi fino a metà. Ero a 15 metri da terra. 
La bestia cominciò a ringhiare ed a ululare. Stava chiamando gli altri. Non c'erano rami abbastanza spessi da permettermi di spostarmi. 
Prima che arrivassero gli altri componenti del branco feci la prima cosa che mi saltò in mente. Staccai una lepre dalla mia cintura e, sporgendomi il più in la possibile, la lanciai con tutta la forza che avevo.
Il corpo cadde a una decina di metri da li. 
Il lupo fece quello che speravo. Si avventò sulla lepre e velocemente cercai di scendere dal lato opposto. 
Ebbi solo il tempo di trovare l'albero che mi avrebbe permesso di muovermi tra i rami e mi ci arrampicai il più velocemente possibile. 
Ero salva, almeno credevo.

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Capitolo 2
*** Ricordi. ***


Quella sera fece molto freddo. 
Quando ritornai alla tana il fuoco era spento, ed erano entrate delle foglie secche spinte dal vento. Cercai intorno, ma tra il muschio e le pellicce morbide non c'era nulla.
-May - sussurrai. Nulla. -May!-
Nulla si muoveva. 
Alzai la voce e chiamai di nuovo mia sorella. 
Cominciai a cercare, a perlustrare gli angoli della tana, ma niente.
Urlai, anche a costo di farmi sentire, quando finalmente una mano si posò sulla spalla da dietro di me. 
Il volto di May era tranquillo e pacato. 
-Ero qui fuori a raccogliere bacche, stai calma.
La strinsi, la paura provata quella mattina era tale da temere il peggio. 
Si liberò dalla presa e si accomodò sulle pelli. 
Scuoiammo i conigli e li cuocemmo anche per i giorni successivi, in modo da conservarli meglio.
-Hai la faccia stravolta - mi disse. -sei molto stanca. Dovrei occuparmi io della caccia. -
Al pensiero che May avrebbe potuto trovarsi faccia a faccia con il lupo, un brivido mi percorse. -Assolutamente no. Mai- ribadii.
Quando il sole era calato da un pezzo ci stendemmo e l'abbracciai, coperte dal muschio e dalle pellicce.
Quel corpicino di 13 anni era molto magro. Era più magra di me di quando avevo la sua età, e questo mi preoccupava molto. E aveva una specie di tosse perenne, tossicchiava leggermente ogni due o tre minuti. Era debole. 
Ma come poteva essere altrimenti...


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Ricordo i giorni successivi all'abbandono. Mangiammo uova. 
May mangiava solo passati di verdura, e la prima notte pensavo che sarebbe morta. Piangeva, e io volevo solo che la mamma arrivasse in fretta. 
Ero sempre stata sveglia con mia sorella, sapevo già cambiarla e prendermi cura di lei. 
Ma non ero pronta per diventare madre a 7 anni. In un deserto verde.
Ringraziavo papà, che mi aveva insegnato a riconoscere i funghi e le bacche buone. E poi vivevamo come gli uomini primitivi che avevo studiato a scuola. 
Il fuoco era troppo difficile da accendere, e per un bel po' mangiammo solo quello che trovavamo. Una volta avevo sbagliato, e avevo vomitato per una giornata intera. 
Parlava di già, May, quando Miranda ci abbandonò, ma feci del mio meglio per insegnarle a parlare e a camminare bene. Ora sapeva appena appena a fare di conto. 
Ma fu traumatico per entrambe, quando cominciarono le mestruazioni. 
Pensavo di morire, che sarei morta nel giro di poco. 
Oramai era un anno circa che a May era cominciato, ed non piangeva più come prima.
Il fuoco era stato una scoperta puramente casuale: mentre stavo sfregando due legni secchi per farci la punta cominciò a scaldarsi. Mi bruciai le dita e la giacchetta prese fuoco, ma almeno ci scaldammo. 
Qualunque cosa per me, avrebbe portato alla morte. La notte, il temporale, il cibo, il vento, il freddo. Solo la pioggia fu un ben di Dio, in quanto potevo finalmente lavarmi.
E mi stupivo ancora ogni giorno di essere viva, di poter stringere May, di sapere che era viva anche lei.  
Era maggio quando rimanemmo sole nel bosco. Non faceva freddo, e il nostro cappotto ci teneva caldo a sufficienza, così siamo sopravvissute.
Si, perché non fu tutto sempre facile. E più di una volta la vita l'avevamo rischiata per davvero.  

Si mosse e prese a tossire. Le alzai leggermente la testa in modo da darle sollievo. Si rigirò e riprese a dormire. 
Il piccolo viso di May era rilassato, la bocca leggermente socchiusa. 
Assomigliava terribilmente a nostra madre. Gli occhi leggermente allungati, gli zigomi sporgenti, l'iride di un color caldo nocciola, la piccola bocca dalle labbra rosa e carnose. 
I capelli arruffati erano di un freddo color paglierino, incrostati di fango e foglie secche. 
Nonostante la sporcizia e le profonde e violacee occhiaie, mi pareva bellissima. 
Avrei voluto avere una spazzola morbida per pettinarle i capelli come mamma faceva a me da piccola, una spugna e dell'acqua calda con cui lavarla. 
Una coperta soffice, una tazza di latte prima di andare a dormire. 
Un libro con cui insegnarle a scrivere, a leggere.
Io non sapevo nemmeno più come si facesse. 
E mi ero dimenticata la voce di mamma, di papà, dell'effetto che faceva un abbraccio di un genitore. 

A 18 anni mi sentivo ancora così piccola. 

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Capitolo 3
*** Primo incontro. ***


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"Camminavo tra le foglie secche e croccanti, alla ricerca di qualche castagna. Mi ero spinta molto in là rispetto alla tana, ma May era al sicuro, il fuoco era ben acceso e la manteneva al caldo. 
Non sapevo come mai fossi arrivata così lontano. Ero partita che il sole era alto, ed ora stava calando. Dovevano essere passate un paio di ore.
Sembrava che avessi appena attraversato il fiume, quando mi resi conto che non se ne sentiva nemmeno più il rumore. 
Gli alberi erano stranamente famigliari, come se li avessi già visti, come se fossi già stata qui. 
La vegetazione si diramava più avanti in una piccola radura. 
Ero sicura di esserci stata prima. 
Era piana ed accogliente, ben protetta e perfetta per un campeggio. 
Mi guardai intorno, rigirando sul confine e tastando la corteccia degli alberi con le dita.
Papà. 
Il volto sorridente di mio padre mi balenò in testa e mi fu tutto più chiaro. Era questo il luogo in cui ci aveva portate la prima volta e ci aveva insegnato a riconoscere le piante, i funghi, le bacche. 
Una sensazione terribile mi prese la gola, come una grossa cinghia che stringeva e spingeva. Un sasso pesante sullo sterno, un osso bloccato in gola impossibile da mandare giù. 
Le lacrime scesero lente lungo le mie guance, bruciandomi la pelle. 
Mi mancava così tanto, avevo così bisogno di lui.
Di una rassicurazione, del suo aiuto, anche solo di un bacio.
Non avrebbe voluto abbandonarci, lui, no. Ci avrebbe tenute strette ed amate come solo lui sapeva fare, qualunque cosa fosse successa. 
Mi asciugai rabbiosamente gli occhi arrossati.
Dunque, ragionai, avevamo impiegato circa mezz'ora per arrivare fin li a piedi con la mappa, e altrettanto per trovare la strada che portava poco dopo il confine del bosco. Alla mia velocità avrei anche potuto pensare di impiegarci un'ora, ma senza mappa e senza punti di riferimento, ci avrei sicuramente messo di più. 
Mi resi conto che il sole stava calando ad una velocità preoccupante, e nel giro di un'ora sarebbe stato buio. 
Avrei dovuto sfidare la sorte e buttarmi alla ricerca del confine o tornare verso la tana da May? 
Se avessi optato per la prima opzione avrei chiamato aiuto appena possibile e sarei andata a recuperarla. Ma era sicuramente in pensiero, e non volevo si mettesse in panico. 
Decisi che il giorno dopo saremmo partite. 
Strappai un lembo di pelliccia dalla mia veste e lo legai ad un ramo li vicino. 
Poi cercai punti di riferimento per tornare verso la tana. 
Doveva essere passata circa un'ora quando sentii il rumore del fiume. 
Mi misi a correre verso la fonte del gorgoglio, stanca ed estremamente sollevata. Ora era questione di una mezz'ora, e sarei stata di nuovo da May. 
Il sole era tramontato, e la notte incombeva, minuto dopo minuto, sempre più scura.
Era rischioso correre, ma altrettanto lo era rimanere fermi nel buio più totale. Il rumore delle foglie sotto i miei piedi nudi era individuabile anche da metri e metri di distanza, ma non importava, tra poco sarei stata a casa, era questo l'unico mio pensiero.
Per questo non mi accorsi dell'enorme bestia che mi correva dietro.
Delle sue fauci affamate.
Del suo alito così vicino al mio polpaccio. 
Ero la preda, inseguita da un cacciatore da cui era impossibile scappare.
Lupo.
Era la prima volta che mi trovavo a contatto con un'animale così feroce, non ne avevo mai visto uno abbastanza vicino da attirare la sua attenzione. 
Ma ora il mio polpaccio era il suo pasto, e sentivo il lacerarsi della carne ad ogni suo strattone.
I denti affilati erano ben conficcati nella cane, e li sentivo fino all'osso. 
Le mie urla strazianti e lancinanti si dovevano sentire da lontano.
Speravo solo che May non le udisse.
Il dolore era assurdo, mi impediva di respirare.
L'adrenalina mi corse in circolo, e cominciai a picchiare violentemente il muso della bestia.
La rabbia, mista alla sofferenza, si impossessò del mio corpo, rendendomi un essere stranamente selvatico.
Il lupo spalancò le fauci quanto bastava per liberarmi. 
Sapevo si sarebbe scaraventato su di me subito dopo, ma riuscii a spostarmi, trascinandomi dietro la gamba.
Le foglie e tutto ciò che mi circondava era cosparso di sangue, che usciva incessantemente dai fori nel mio polpaccio. 
Le mie braccia vagavano a vuoto, alla ricerca di qualcosa di utile da utilizzare per difendermi  dall'animale.
Il polso colpì un grosso sasso nascosto tra le foglie e senza pensarci lo alzai e lo scagliai con tutta la forza che avevo contro di lui. 
Il lupo guaì, e si ritrasse leggermente. 
Mi fissò, le fauci imbevute del mio sangue, gocciolante, in posizione d'attacco. 
Indietreggiai lentamente.
Vedevo a stento, oramai era notte, e la luce della luna illuminava fioca le sagome.
Continuavo a spingermi all'indietro, quando il mio piede scivolò e cominciai a rotolare lungo un lieve dirupo. 
La gamba pulsava, ma speravo solo che la bestia non mi seguisse.
Scivolai a lungo; quando pensavo di fermarmi, il mio corpo continuava a scendere.
Dopo 500 metri, andai a sbattere con la schiena contro un grosso tronco, che fermò la mia corsa.
Sentivo il lupo ululare da lontano, ma non mi avrebbe raggiunta. 
Il polpaccio era come un'enorme alveare attaccato alle ossa, lo sentivo gonfio, infettato, bollente e pulsante, come un cuore.
Volevo solo morire lì. 
Volevo solo che tutto questo fosse un brutto sogno. Ma non lo era affatto.
Rimasi lì inerme per non so quanto. 
Ad un certo punto cercai di alzarmi e, tra i rantoli, ci riuscii. 
Attorno era familiare, ero vicino alla tana, ne ero certa.
Vidi un fuoco, là vicino, una luce debole tra gli alberi.
Ero arrivata. Feci del mio meglio per camminare più veloce, invano.
-O mio Dio, Liza- urlò May -dove diavolo...-
Si accorse presto della ferita, e scoppiò a piangere.
-Come hai fatto!? - domandò mentre mi aiutava a sorreggermi, tra i singhiozzi.
- Un lupo. Ti prego, aiutami. - la implorai. 
Mi sdraiai sulle pellicce e svenni."

Dovevano essere passati un paio di anni dal primo incontro con il lupo. 
I flash che ogni tanto mi balenavano in mente erano micidiali, e mi rendevano la caccia molto difficile. Rimasi senza camminare per un mese, mentre May cercava di curarmi. Provvedeva al cibo raccogliendo piccoli frutti o funghi. 
Ma l'inverno dovetti rimettermi in piedi per catturare qualcosa. 

Mi ero completamente dimenticata della via di fuga e della radura. 
Ma non poté non tornarmi in mente quando accadde il peggio. 



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Capitolo 4
*** Addio. ***


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May era dimagrita tanto. 
Da un paio di mesi mi sembrava sempre più spenta, ed il ciclo non le veniva più. 
Le costole erano sporgenti, la bocca si era fatta più marcata, come le profonde occhiaie nere che le circondavano gli occhi.
L'inverno oramai era alle porte, e sarebbe stato sempre più difficile trovare del cibo. 
Ultimamente catturavo sempre meno lepri, e molto spesso la maggior parte erano malate. 
Presentavano nella carne macchie scure, o avevano un odore acre, pungente e fastidioso. 
Non sapevo più come procurarmi da mangiare. Saremmo state spacciate.
Avevo preso l'abitudine di aprire il corpicino della bestia appena catturata, in modo da accertarmi che non presentasse vermi o avesse qualche problema. 
Dopo di che, tornavo immediatamente alla tana per cuocerle, ed evitare il contatto con qualche insetto o batterio.
Non mi spostavo perciò di molto dall'area della tana, e facevo il possibile per non lasciare May sola troppo a lungo. 

Quel giorno di lepri ne avevo catturate solo un paio, di cui una morta già da tempo. 
Osservai meglio e notai le mosche che nidificavano nella bocca, così preferii liberare la trappola e gettare il corpo lontano. 
Demoralizzata mi avvicinai al torrente che passava poco distante dalla tana. Avrei potuto trovare qualche piccolo uccello, o qualche arbusto commestibile. 
Camminai cauta, cercando di non far rumore. 
Avvertivo la presenza di qualche animale. 
Era un animale grosso, solo. Un lupo non era, in questo periodo doveva trovarsi in branco. 
Sembrava più un grugnito, il suono che emetteva.
Mi accucciai e sbirciai da sopra la cunetta che si formava poco più su del letto del torrente. 
Un bel cinghiale stava lentamente bevendo l'acqua fresca, mentre sprofondava nel fango morbido.
Doveva essere un maschio in cerca di una compagna. 
Mi era già capitato di incontrarne qualcuno a Novembre, gli anni passati. 

Già immaginai il sapore della carne calda in bocca. Poteva pesare attorno ai 150 kg, sarebbe durato per un paio di settimane, o più. 
Doveva essere mio.

Raccolsi un masso pesante e cercai l'angolazione giusta in modo da colpirlo dritto dritto sul cranio.
Ero tesa. Se avessi sbagliato non avremmo mangiato quel giorno. E qualcosa mi diceva che se non l'avessimo fatto, May sarebbe morta.
Presi bene la mira e spinsi leggermente il masso. 
Colpii l'animale ad una spalla, impedendogli di fuggire. 
Preparai il mio piccolo pugnale e mi avvicinai per finirlo. 
Riuscii a malapena a trascinarlo sopra la collina, poi corsi da May per chiederle di aiutarmi. 
Tagliai la bestia in parti e cercai di levare quelle non commestibili più pesanti, come la carcassa e le ossa. 
Riportammo tutto alla tana e ordinai a mia sorella di far cuocere per bene la carne.
Io tornai dal torrente, e mi sbarazzai dei resti per non attrarre troppo vicino lupi o volpi. 
Al mio ritorno, May addentava famelicamente un pezzo di muscolo poco cotto.
-Perché lo mangi crudo?
-Ho troppa fame, Liza. Ho bisogno di mangiare. - mi implorò. 
Come potevo rimproverarla? Aveva ragione, e mi ero addirittura stupita non si fosse già ribellata alle quantità ridotte che avevo stabilito in vista dell'inverno.
Attesi che la mia porzione fosse cotta e addentai la carne succulenta. Era buona, e finalmente potevamo sfamarci. Potevamo mangiare abbastanza da non patire la fame già solo dopo un paio di ore dal pasto. 
Per le due settimane successive, May sembrava rifiorire. La carne del cinghiale stava per finire, ma i conigli non ci mancavano. 
Non mi arrabbiavo se la beccavo a mordicchiare gli ossicini di scarto o a strappare piccoli lembi crudi di muscolo dal cinghiale con impazienza.

Ma avrei dovuto. 

Due giorni dopo che il cinghiale finì, May cominciò a lamentarsi di spossatezza e stanchezza. L'avvolsi in qualche pelliccia e la tenni il più al caldo possibile, risparmiandole la ricerca delle bacche.
Nel giro di un paio di settimane le sue palpebre si gonfiarono terribilmente, e non riuscì più a vedere nulla. I suoi occhi erano lividi e spurgavano un liquido giallognolo.
Ma solo quando cominciò a perdere sangue, decisi che era il momento. 
Dovevo assolutamente portarla in salvo. Sarebbe morta dopo poco.
Forse era questione di giorni, o anche solo di ore. 
Ma il suo corpo esile e sottile soffriva, e non sarebbe durata a lungo.

La mattina dopo presi lo stretto necessario, mi caricai May sulle spalle e partii in direzione della radura. 
Poco lontano dal confine con il bosco doveva esserci una strada principale. Ci saremmo fermate solo una volta giunte li, in cerca di aiuto. 

-Liz, non ce la faremo.
-Taci, certo che ce la faremo. Guarirai. Ti salveranno.
-Liza non puoi portarmi sulle spalle per tre ore. Non ce la farai. Lascia stare, ti farò sprecare troppe energie. Moriremo in due.
-Per favore, May, taci. Ce la faremo.- insistetti.
Non perché fossi sicura delle mie capacità, bensì perché non vedevo nessun'altra possibilità. DOVEVAMO farcela. Per forza. Non c'era alternativa.
Proprio non c'era. 

Arrivai alla radura due ore dopo. La mia schiena era dolorante, non riuscivo più a muovermi. La spina dorsale era indolenzita, mi sentivo stanca e terribilmente male.
May si era addormentata da un pezzo, ma ogni quindici minuti circa mi fermavo per constatare che respirasse ancora. Rallentai e rimasi in ascolto.
Il soffio leggero della bambina si stava pian piano affievolendo. 
Avevo tanta voglia di piangere. 
Dovetti svegliare May e chiederle di proseguire a piedi almeno per un pezzo.
Fu dura vederla reggersi a malapena sulle gambine sottili, gli occhi impastati, la voce strozzata. 
Avrei voluto morire li, desiderai che mamma ci avesse ucciso invece di abbandonarci.
Si aggrappò al mio braccio e mi implorò di darle un po' di cibo. 
Non volevo fermarmi, ma feci una piccola eccezione. 
Ripartimmo dopo pochi minuti, e l'aiutai a sorreggersi.
Le piccole gambe erano tagliate e infestate da pustole. Sanguinava, non sapevo cosa fare.
Fu il viaggio più straziante di tutta la mia vita.
Più di quella volta nella macchina della polizia quando gli agenti mi erano venuti a prendere a scuola.
Più di quando mamma ci aveva portate nel bosco.
Più di quando i nostri vicini ci avevano invitate a dormire a casa loro perché mamma  si era di nuovo ubriacata.
Sapevo che mia sorella stava morendo. 
La stavo portando in un posto in cui nemmeno io sapevo se avremmo trovato aiuto. 
La stavo portando fuori dal luogo in cui è cresciuta, vissuta.
E più avanzavamo verso il confine, più May si affievoliva.
Era come se il bosco se la stesse riprendendo. 
Come se stessi infrangendo una regola vitale.

Vidi finalmente una luce bianca, poco lontano. Gli alberi si diramavano poco a poco, e lontano era come se ci fosse una grossa parete candida.
-Ce l'abbiamo fatta May! May ci siamo. Siamo arrivate! May, ci siamo. Sei salva, vita mia, sei salva. Sei salva.-
Mi voltai verso la mia sorellina, che si era accasciata a terra, inerme.
Era un insieme di ossa, un piccolo mucchietto di pelle. Come se la spina dorsale si fosse trasformata in gelatina.
-MAY!- urlai
La piccola aveva in viso rivolto verso il basso, mentre le pustole avevano ripreso a perdere sangue.
-MAY! Siamo arrivate, SVEGLIATI!- lanciai un grido straziante.
La strattonai un poco, e avvicinai il viso al suo. Il respiro era quasi assente. 
L'arteria sul collo si muoveva pigra, pompando sempre meno sangue.
Mi caricai il corpo tra le braccia e corsi il più veloce possibile.
May non poteva morire, ma a quanto pare, lo stava facendo.
Il confine era sempre più vicino.
Era a pochi passi da me. 
Sentivo l'odore di nebbia, potevo vedere chiaramente l'asfalto oltre l'ultima fila di arbusti. 
Eravamo lì, eravamo arrivate. May era salva ora.



Il cuore che tenevo tra le braccia smise di battere. 

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Capitolo 5
*** Last breath. ***


Inspira.
Espira.
Inspira.
Espira.


Fuori il cielo è bianco, come le tende che incorniciano la finestra, o come i muri che mi circondano.
Mi passo una mano nei capelli cortissimi, le ciocche sono irregolari e mancano in alcuni punti. Non riesco nemmeno più ad aggrapparmici, non riesco a strapparle neanche se volessi. Mi limito ad accarezzarle, infilandoci le dita in mezzo.
Sono cresciuti un po', ma la consistenza è ancora ruvida, come la pelliccia di una volpe o di un gatto selvatico.
La sedia su cui sono seduta è scomoda, dura e rigida. Le ossa poggiano contro lo schienale. 
Sento il continuo fastidio dell'ago nella piega braccio, il rumore insistente della goccia che scende dalla flebo. 
Ogni tanto una delle signore vestite di bianco viene a controllare come sto, e cerca di convincermi a spostarmi, a fare due passi, un giro.
Con il loro sudicio sguardo forzatamente gentile. 


"Tutto divenne ovattato.
Le grida strazianti che uscivano dalla mia gola erano attutite da uno spesso strato di cera.
Era come se una nebbia bianca stesse annientando i miei sensi, li rendesse fuori uso.
Poco lontano da dove era parcheggiato un pickup nero c'era una specie di capanno di legno scuro, con una veranda.
Il corpicino di mia sorella mi cadeva dalle braccia come pasta frolla mentre cercavo di correre verso l'entrata.
Un giovane con una divisa blu stava pigramente seduto sulla sua poltrona, con i piedi poggiati su di una scrivania.
Dovevo ricordarmi di respirare. Inspira ed espira. Di nuovo. 
Il panico mi sommergeva come le onde in tempesta sugli scogli. 
Una voce stridente gli urlò aiuto, e dovetti rielaborare il suono prima di rendermi conto che era la mia. 
Lo vidi alzarsi di scatto, mentre continuavo a ripetere che era morta, e che doveva fare qualcosa. Che doveva aiutarmi. 
Si muoveva così maledettamente piano. 
L'adrenalina scorreva nelle vene come un fiume in piena. 
Prese un apparecchio dal tavolo e mosse il dito velocemente su di esso. 
Il viso emaciato di May era immobile, l'espressione calma.
Non c'era emozione, aveva perso persino la bellezza che conservava mentre dormiva. Era un involucro vuoto, una crisalide senza farfalla, l'incarto trasparente di un ghiacciolo. 
May era morta. 
Strinsi le piccole dita nella mano, mentre il giovane in divisa spingeva ripetutamente contro il suo petto fragile. 
Chiusi gli occhi, e tremante, le baciai delicatamente le nocche.
Tutto si muoveva così lentamente, in slow motion, ogni respiro durava un'eternità.
Era strano come fuori tutto fosse quasi in mobile mentre dentro di me si scatenava la tempesta perfetta. 
Arrivò un grosso furgone e caricarono il corpo di May sul retro. 
Mi chiesero qualcosa che ignorai. Io dovevo stare con mia sorella, non potevano impedirmelo.
Quando mi chiusero nel retro di un altro veicolo cominciai a dare di matto. Mi sentivo rinchiusa, imprigionata. 
Dove diavolo stavamo andando, perché non potevo stare con May!?
Degli uomini vestiti di bianco e di arancione mi bloccavano, mentre schizzavo ovunque nel poco spazio attorno a me.
Doveva essere un'autoambulanza, o qualcosa di simile. 
Mancava l'aria, annaspavo. 
Spalancavo la bocca e cercavo di inghiottirne il più possibile. 
Poi un ago mi bucò il braccio, e non sentii più nulla."

Le croste ai lati delle labbra bruciano mentre bevo avidamente dal bicchiere che una mano grassoccia mi ha appena messo in grembo. 
Il sapore è acre, probabilmente nell'acqua vi sono disciolte le medicine che mi rifilano da circa un mese. 
Nel giro di poco la mia testa si fa più pesante, e mi sento terribilmente intorpidita. 
Sono detti 'calmanti', in quanto risulto un 'individuo possibilmente aggressivo'. 
Le sento quando bisbigliano tra di loro, quando rileggono la cartella con sopra il mio nome. 'Mentalmente instabile', 'incapace di intendere e di volere', 'pazza'.
Perché é proprio quello che tutti credano io sia. Pazza.
Mi imbottiscono di narcotici e mi lasciano in uno stato di dormiveglia costante, onde evitare attacchi di panico violenti come quello di qualche settimana fa. 
Non mi muovo da questa sedia da almeno cinque ore. 
E guardo fuori. Guardo il cielo, le piante, il marrone caldo delle cortecce.
Lo stesso colore degli occhi di May.


"Mi risvegliai in un lettino bianco. 
Nonostante fosse dannatamente comodo stare su un letto vero, non trovavo nulla di confortante in quella situazione. 
Avevo un soffitto sopra la mia testa, le pareti erano di un freddo e magnetico bianco, come quasi la maggior parte degli oggetti che mi circondavano.
Non era il bianco soffice della neve. Era qualcosa di chimico, innaturale.
Il bosco ed i colori che da sempre mi avvolgevano erano spariti, come se qualcuno li avesse presi e portati via. 
Il silenzio statico fu interrotto da una giovane che entrò nella camera.
-Salve signorina- mi salutò con voce calma ed un largo sorriso. -come si sente?-
Scrutai la sua espressione, ma non risposi.
Dopo alcuni secondi rinunciò e abbassò lo sguardo. -d'accordo... - sussurrò, ed aprì la cartelletta che teneva in mano. Fece scorrere il dito lungo il foglio, mentre leggeva qualcosa. Sollevò le sopracciglia in un'espressione stupita.
-Ma qui non c'è il suo nome!- disse mentre sfogliava le carte con una certa confusione. 
-Mi scusi,-domandò gentilmente- come si chiama?
Non sapevo se fidarmi oppure no. Il suo viso era visibilmente turbato dalla mia diffidenza, e dall'insistenza che dimostravo nel non rispondere.
-Insomma signorina, io ho bisogno di un nominativo. C'è qualcuno che può rispondere per lei? Un genitore, un conoscente, un parente?- 
Feci segno di no con la testa. 
Le spalle della giovane crollarono visibilmente. Sospirò e borbottò qualcosa sottovoce, prima di uscire dalla stanza con la cartelletta tra le mani.
Avevo il sospetto che sapessero qualcosa su May, dove si trovasse, cose la fosse successo, se fossero riusciti a salvarla.
Ma non potevo fidarmi di loro. 
Pochi minuti dopo un uomo sulla trentina con un lungo camice bianco entrò, seguito dalla giovane di prima.
La sua coda di cavallo si muoveva fluida e ondeggiava sulle spalle ad ogni suo passo.
Portai una mano al collo, in cerca della mia chioma, ma non trovai nulla. Risalii con le dita la pelle ruvida, fino all'orecchio, dove sentii l'attaccatura dei capelli. 
Erano corti.
L'uomo si avvicinò al letto, e si rivolse a me con la stessa voce calma che aveva utilizzato anche la ragazza. 
- Signorina, mi perdoni, ma non abbiamo nessun suo nominativo. - parlò in modo confortante e molto lentamente. -non c'è pervenuta nessuna informazione su di lei. Ora, potrebbe cortesemente dirmi qual'è il suo nome?-
Qualcosa nella mia testa mi ripeteva che se non avessi collaborato, non avrei potuto sapere nulla su May.
- Liza. - mi limitai a rispondere. Appuntò con una penna qualcosa a margine del foglio nella cartelletta.
- Liza...?- continuò. Non capivo. - Il suo cognome. Liza...?-
Cognome. Ricordavo vagamente che a scuola la maestra ci chiamava sempre con due nomi, il secondo era Liza. Ma il primo non lo ricordavo proprio.
- non lo so. - sussurrai. 
Il medico annuì, e continuò a scrivere.
- Va bene, per oggi va bene così. La signorina Murray le spiegherà tutto. Arrivederci.-
Mi salutò. 
Prima di uscire l'uomo si soffermò a fianco della giovane, che gli sussurrò qualcosa nell'orecchio.
Dopo che l'uomo ebbe varcato la soglia e fosse scomparso dietro all'angolo, Murray si avvicinò alla sacca che penzolava a lato del mio letto. Un lungo tubo finiva dritto dritto del mio braccio. 
D'istinto feci per strapparlo, ma la dottoressa mi bloccò la mano.
-No, la flebo deve restare li. Sopporta il fastidio. - mi indicò.
Decisi di fare quello che diceva, almeno per ora. Con un lungo ago iniettò qualcosa nella sacca, e dopo poco sentii bruciare il braccio.
-So che fa male, ma aspetta. - 
Attesi qualche secondo e il dolore iniziale sparì.
-Dov'è May? - chiesi finalmente con un filo di voce.
- Ti riferisci alla ragazzina con cui sei arrivata in ospedale?- chiese.
Annuii.
La dottoressa Murray deglutì, e inspirò rumorosamente. 
- May è stata colpita dalla trichinellosi, un infezione dovuta al consumo di carne infetta cruda o poco cotta. Inoltre le erano state riscontrate altre diverse infezioni, oltre alla massiccia denutrizione. L'autopsia ne ha definita la causa. 
Per quanto riguarda te, sei stata in coma farmacologico per una settimana. I capelli ti sono stati tagliati in quanto presentavi zecche, pidocchi e altri parassiti. La tua gamba... -
Smisi di ascoltare quello che la giovane stava dicendo. Non avevo capito nulla, e la mia espressione confusa la fece interrompere. 
May colpita da cosa? Consumo di che? Autopsia?
La Murray sospirò. 
- Dov'è May. Dov'è mia sorella. - ripetei. Ora non era una domanda. Era un ordine. 
- È morta. - disse - Quando è arrivata in pronto soccorso il cuore aveva già smesso di battere da una decina di minuti, e non siamo riusciti a fare nulla. Mi dispiace tanto.-
Non l'avevano salvata quindi. May non c'era più. Non c'era più per davvero.
Non c'era più speranza, soluzione, motivo di vivere. 
Mi strappai con violenza la flebo e corsi fuori dal letto. Sentii una terribile fitta alla gamba, il mio polpaccio era bendato. 
Scansai violentemente la dottoressa che cercò di bloccarmi, facendole sbattere forte la testa contro la porta. Si accasciò a terra, sanguinante. 
Cercai una via di uscita da quel labirinto bianco di luci artificiali e stanze. 
Mi sentivo soffocare. Finalmente trovai una porta ed uscii.
Il cielo era bianco, e davanti a me stava uno spiazzo coperto di cemento. I pochi alberi che ne indicavano il viale erano spogli e grigi, e una lunga distesa di macchine parcheggiate riflettevano lucide il bianco del cielo. 
I miei piedi erano freddi, aveva appena piovuto e le pozzanghere mi avevano bagnato. 
Non c'era più colore.
Io avevo portato via May dal bosco.
E lei aveva portato via il bosco dalla mia vita.
Due braccia robuste mi strinsero sotto le ascelle, e un ago mi punzecchiò sotto alla spalla. 
Caddi inerme sul cemento freddo."


-Forza Liza, andiamo a dormire. Sono le sette. - l'infermiera grassottella che mi porta il pasto mi incoraggia a tornare nella mia camera. 
La guardo inerme, e mette una mano sotto al mio gomito. Mi solleva delicatamente, e mi cinge la vita aiutandomi a stare in piedi. Con la mano sinistra mi aggrappo all'asta della flebo, e passo dopo passo cerco di attraversare tutto il corridoio dell'ospedale psichiatrico in cui sono rinchiusa da un mese.
Il medicinale smette di fare effetto, e sento tutto il dolore che provo.
Sto implodendo, come un tetto che cade, come un fiore che si richiude giunta la notte, come un edificio demolito. 
Devo ricordarmi di respirare.
Espira.
Inspira.
Espira.
Inspira.
Espira. 


Fine. 


                                                                Nota dell'autrice

Ringrazio tantissimo quelli che mi hanno seguita e tutti quelli che ci hanno anche solo dato una letta, mi avete fatta veramente felice!
Devo chiedere scusa però in quanto ho notato che assomiglia MOLTO ad Hunger Games; non era mia intenzione, ma mi sono fatta fin troppo trascinare. 
A chiunque dia fastidio, chiedo perdono. 
Grazie di nuovo. Davvero. 
Carol. 

 

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Capitolo 6
*** Miranda ***


Miranda si accese una sigaretta.
Inspirò avidamente ed espirò il fumo, creando una nuvoletta trasparente nell'aria di maggio. 
Le faceva veramente schifo, ma era un'abitudine nervosa che le era presa da un po'.
Erano le otto, era davanti al solito squallido supermercato aperto 24 ore, doveva comprare la cena. 
Non faceva freddo, il sole era già tramontato da un pezzo, e le stelle brillavano limpide nel cielo scuro. 
La luce gialla del neon illuminava l'asfalto, bagnato dalla pioggia del pomeriggio. 
Buttò la sigaretta e la pestò con la punta degli anfibi, prima di entrare. 
Prese due lattine di minestrone precotto, una confezione di pappa per bambini e un paio di bottiglie di gin.
Pagò in contanti e ignorò lo sguardo ammiccante del commesso, un uomo grasso e sporco, con una canottiera nera larga che aderiva alla pancia, impregnata di sudore.
Tornò sul pickup e ripercorse la strada verso casa. 
Quando fu sulla porta d'ingresso esitò un attimo, poi posò la mano sulla maniglia ed entrò.
Già da fuori si sentivano le grida di Liza, accompagnate dal rumore assordante della televisione. Trasmetteva un pupazzo rosa a forma di dinosauro che ballava e cantava con fare gioioso.
May, parcheggiata come sempre davanti allo schermo, batteva allegramente le manine. 
Appena entrò, andò subito a cercare la babysitter, Angela, che pomiciava come d'abitudine sul letto, con il suo fidanzato cannaiolo.
-20 per due ore.- disse la ragazza, mentre si sistemava il top e andava verso l'uscita. 
Miranda le allungò due banconote da dieci dollari e la lasciò.
Mentre nascondeva le bottiglie di gin sulla mensola in alto, notò i pacchi di lettere che stavano incassate a lato dell'armadietto, quasi nascoste. 
Scese dalla sedia su cui stava in piedi e analizzò il contenuto delle buste.
Tutti richiami per il ritardo nel pagamento delle tasse. Debiti. Prestiti bancari. 
Max, oltre a due figlie a cui badare da sola, una casa da tenere e senza uno stipendio, le aveva lasciato anche montagne di debiti. 
Si mise le mani nei capelli, e fu investita da una terribile sensazione di panico. 

Suo marito Max era il proprietario di un negozio di articoli da campeggio. Nella zona in cui abitavano era un buon lavoro, vicino ai boschi e alle montagne. I molti campeggiatori ed escursionisti fai-da-te erano la principale clientela. Non si potevano lamentare, lo stipendio non era dei migliori, ma sufficiente a portare avanti la baracca.
Miranda lavorava come parrucchiera in un salone scadente, in cui solo le vecchiette del posto andavano. 
Sette anni prima, quando rimase incinta di Mattew poco dopo averlo sposato, decise di lasciare il lavoro e di dedicarsi alla casa e alla maternità.
Nel giro di cinque anni, gli affari andavano benissimo. Il negozio di campeggio portava molti soldi, così decisero di allargarsi, prendendo in affitto uno spazio più grande. 
Era costoso, è vero, ma potevano permetterselo. Decisero di comprare una nuova casa, più adatta alla condizione di genitori. Le cose non potevano andare meglio.
Liza era una bambina bella ed in salute, l'anno dopo avrebbe cominciato scuola, così che Miranda avrebbe potuto dare una mano al marito nel nuovo negozio. 
Non poterono non gioire della notizia che un nuovo bimbo era in arrivo.
Nonostante fossero entrambi molto giovani, ventiquattro e ventinove anni, essere genitori li aveva resi felici. 
La loro vita era esattamente come la volevano, le cose andavano esattamente come dovevano andare.
Ma durò ben poco.
Le foreste divennero per metà una riserva protetta, e per metà un posto adibito alla caccia.
I clienti del posto non si interessavano più al campeggio, l'affitto del locale diventava sempre più alto, e al di fuori delle loro possibilità.
Inoltre, anche la casa cominciava a dare problemi. L'impianto elettrico era guasto, e spesso saltava la luce, o peggio ancora, rischiava di andare a fuoco tutto quanto.
May, la nuova arrivata, era intollerante al latte vaccino, e quello di soia costava molto. 
Max cominciò ad indebitarsi, tutto ad insaputa di Miranda.
Inizialmente chiedendo soldi ad amici, successivamente ricorrendo a prestiti bancari con interessi esorbitanti, mai restituiti.
Il conto in banca si era svuotato molto velocemente, e quello che guadagnava era sufficiente per due, tre settimane. 
Quando si ammalò decise di andarsene, non avendo un'assicurazione avrebbero dovuto pagare ogni singola visita. 
Un suo amico dottore gli aveva diagnosticato un cancro al pancreas, incurabile.
Decise quindi di lasciare tutti i soldi che aveva sotto al materasso, di scrivere una lettera alla moglie e di partire, con la sua vecchia moto, chissà dove.
Quel giorno Miranda rincasò alle 5, dopo essere andata a prendere Liza all'asilo. 
La casa era disabitata.
Non ebbe più notizie di Max.


Si riempì diversi bicchieri di gin, mentre apriva e leggeva una a una le lettere che aveva trovato.
Sentì una manina accarezzarle i capelli.
-Mamma perché piangi?- chiese la dolce vocina di Liza.
- No amore, non piango. - ripose pulendosi il viso con il dorso della mano. - forza, vieni qui -
Miranda prese il corpicino della figlia e lo mise a sedere sulle sue gambe. 
- Hai fame, vita mia? - chiese piano, mentre le accarezzava il viso.
Liza annuì, si voltò e le stampò un bel bacio sulla guancia, sorridendo.
La sua piccola creatura. Miranda la guardò, con un grande amore, e una gran sofferenza dentro. Come avrebbe fatto a darle da mangiare? Come sarebbero andate avanti?
La piccola tornò a scarabocchiare con i pastelli a cera un disegno di una principessa.
Di fianco, in grande e a caratteri disordinati era scritto 'MAMMA'.
La bambina che le stava in grembo era identica a suo padre, Max. Gli stessi occhi scuri, la stessa tonalità rossiccia dei capelli, la stessa grana della pelle, lo stesso sorriso luminoso.
- Forza allora, prendi May e portala qui, che prepariamo la zuppa. - esortò alla figlia.
Radunò le lettere e le legò con lo spago, poi le nascose di nuovo nell'armadietto.
Dopo qualche minuto, quando la zuppa era ormai calda, vide Liza entrare dalla porta con sua sorella in braccio. La teneva agganciata con le braccia strette sotto le ascelle, e gambine a penzoloni. 
- Nono, non si fa così! - corse subito Miranda.
- Devi tenere una mano sotto il sederino, così, e con l'altra le tieni la schiena. Ecco, bravissima. Vedi, non è difficile. -
Liza annuì contenta. Era una bambina così brava. Sapeva come imboccarla, e come cambiarle il pannolino, a soli sette anni. 
- Mettila nel seggiolone, la zuppa è pronta. -


Quella sera, dopo che le bambine erano già a letto, Miranda affogò il suo dolore nel gin, come era solita fare già da qualche mese, da quando Max era sparito. 
Lo stipendio misero del Salone non era sufficiente. Era tornata a fare la parrucchiera, in quanto i soldi di Max erano ben pochi. 
Sarebbe finita male, lo sapeva. Gli assistenti sociali avrebbero fatto a botte pur di portargliele via, li vedeva già a sgolosare, e sicuramente i vicini non avrebbero esitato a chiamarli. 
Quando il fondo delle bottiglie era diventato sempre più chiaro e limpido, Miranda si alzò e si trascinò verso la sua stanza con una pesantezza incredibile al cuore. 
Sapeva come agire, ma ciò avrebbe implicato quello che nessun genitore si sarebbe mai sognato si fare. 



Riempì con dei panini lo zainetto di Liza, e glielo infilò sulle spalle.
Fuori l'aria soffiava tiepida, il sole era intervallato da grosse nuvole bianche. 
May aveva appena finito di mangiare, la pappa era tanta e nutriente, e per circa cinque o sei ore era a posto. 
-Dove andiamo mamma? -chiese Liza.
-A fare un giro - disse Miranda con il cuore in gola. Deglutì rumorosamente, e inforcò gli occhiali da sole. 
Il tragitto era lunghissimo. Non ricordava quante volte aveva avuto l'impulso di invertire rotta, e di ricominciare una nuova vita con loro, o semplicemente di tornare a casa. 
Ma poi l'occhio cadeva sui pacchi delle lettere che stavano sul sedile del passeggero anteriore, e allora stringeva il volante fino a sbiancare le nocche, si mordeva la lingua e continuava sulla strada. 
Liza canticchiava una canzoncina che parlava di sole e risate. Era oramai mezz'ora che cantava sempre le stesse tre strofe, e ora May batteva le manine a ritmo, facendo qualche versino per accompagnare la sorella.
La testa di Miranda stava scoppiando.
-Liza basta per favore. - disse lei. Ma la piccola continuava, imperterrita, sempre più forte.
- Cristo Liza taci! - urlò.
La bimba si ammutolì, e la fissò dallo specchietto retrovisore. 
May scoppiò a piangere. 

Nel giro di un quarto d'ora tutto era ritornato normale, e la situazione tesa di poco prima si era fatta più sciolta. Liza canticchiava a bocca chiusa, mentre May si era addormentata.
C'erano quasi, mancavano pochi chilometri al bosco. 
In quel bosco le aveva portate qualche mese prima Max, nonostante la caccia e tutto il resto. Voleva insegnare a Liza in nomi delle piante, trasmetterle l'amore per la natura. 
-Mamma deve fare una cosa, poi andiamo nel posto speciale per fare il picnic. - disse con voce tremante. -scendiamo un secondo.
Andò a slegare May dal seggiolino nel sedile posteriore. Le mani le tremavano e quelle dannatissime cinghie non si slacciavano. Finalmente ci riuscì e fece il giro della macchina. 
Si era addentrata molto nel bosco, non pensava di essersi spinta così in là dal confine. 
Liza aveva un'espressione dubbiosa. 
-Aspettatemi qui, care. Sarò indietro tra un attimo- disse. La voce era flebile, ma doveva sembrare il più rassicurante possibile, o Liza l'avrebbe inseguita.
Per evitarlo le passò direttamente in braccio la piccola, posizionandole le mani come le aveva insegnato. 
-Tranquilla cara, giusto il tempo di due secondi- la tranquillizzò di nuovo.
La abbracciò ed inspirò tutto il suo profumo. Sapeva di lillà, gelsomino, borotalco e sole. 
Le lacrime spingevano contro le palpebre, la gola bruciava, un grosso masso si era fermato sul petto.
Baciò infine la testolina della piccola May. Quella piccola e dolce testolina coperta dai fini capelli biondi. 
Non l'avrebbe più rivista. 
Al solo pensiero le gambe le tremarono, e lo stomaco cominciò a contorcersi dentro di lei.
Ripercorse esattamente i suoi passi e salì in macchina.
Non seppe spiegarsi come l'auto si mise in moto e sfrecciò lontano.
'Non guardare indietro' continuava a ripetersi nella testa 'non guardare indietro'.
Ma le lacrime erano troppe e troppo abbondanti, e scendevano lungo il collo, bruciandole la gola. 
Era tornata sulla strada di montagna, e il pianto le rendeva impossibile guidare.
-le mie bambine... - sussurrò.
Presa dal panico fece una brusca inversione a U, ma la macchina che correva sull'altra corsia non la vide, e la spinse bruscamente verso destra. 
Verso il guardrail.
Verso il burrone.
La macchina precipitò a lungo, prima di accartocciarsi frontalmente contro un enorme masso. 

Nessuno denunciò la scomparsa di Miranda Lovedy. 
Nessuno cercò le bimbe scomparse della 17esima strada. 

              Nota dell'autrice.

Lo so che non si fa, che se una storia è completa allora non si aggiunge un capitolo extra.
Perdonatemi, ma non sono riuscita a resistere.
Prometto che questo è davvero l'ultimo. 
Infinitamente grata,
Carol. 

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