Just smile

di Lady_Cassandra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuovi arrivi nella capitale ***
Capitolo 2: *** Rapporti di buon vicinato ***
Capitolo 3: *** Corse al supermercato e strane reazioni. ***
Capitolo 4: *** Confessioni difficili ***
Capitolo 5: *** Un doppio appuntamento...per caso. ***
Capitolo 6: *** Per il piacere di uccidere (parte 1) ***
Capitolo 7: *** Per il piacere di uccidere (parte 2) ***
Capitolo 8: *** New Orleans, I love you. ***
Capitolo 9: *** Purificazione ***
Capitolo 10: *** L'agente Derrick (parte 1) ***
Capitolo 11: *** L'agente Derrick (parte 2) ***
Capitolo 12: *** M. ***
Capitolo 13: *** Gli occhi pieni di te. ***
Capitolo 14: *** Qualcosa di nuovo. ***
Capitolo 15: *** Better with you. ***
Capitolo 16: *** La tempesta perfetta. ***
Capitolo 17: *** Be my valentine. ***
Capitolo 18: *** Happy b-day, doctor Reid! ***
Capitolo 19: *** L'equazione di Dirac. ***
Capitolo 20: *** 3 A.M. ***



Capitolo 1
*** Nuovi arrivi nella capitale ***


“Nuovi arrivi nella capitale”

 
Le luci di Washington D.C.. cominciavano lentamente ad accendersi mentre il cielo di settembre ormai inoltrato si tingeva di un rosso sempre più accesso; il sole sarebbe tramontato nel giro di pochi minuti, osservò Spencer Reid appoggiato alla finestra del suo appartamento intento a bere una tazza fumante di caffè. Guardò verso l’orologio, segnalava le 8,15, aveva ancora tre quarti d’ora prima che il suo amico, nonché collega, Derek Morgan venisse a prenderlo.
Non aveva alcun desiderio di uscire quella sera, come accadeva ormai da diverse sere, ma Derek aveva insistito particolarmente e sapeva che non avrebbe potuto opporgli un altro no, perciò fece un respiro profondo ed accettò l’invito dell’amico. Si disse che era meglio sbrigarsi altrimenti avrebbe fatto tardi, posò la tazza nel lavello della cucina e andò a farsi una doccia cercando di non pensare, per quanto gli fosse possibile, a Maeve.
Tre quarti d’ora dopo, il citofono suonò, era Derek in perfetto orario; Spencer s’infilò la giacca ed uscì dall’appartamento promettendosi di fare ritorno alla sua quiete al più presto.
“Dove andiamo?” chiese Spencer all’amico, che aveva un’aria alquanto entusiasta, dopo essersi sistemato la cintura di sicurezza.
“Andiamo al Jammer Planner” gli annunciò mentre faceva manovra per uscire dal parcheggio. Spencer gli lanciò uno sguardo interrogativo. “Tutto questo entusiasmo per andare in un pub sulla 34esima strada?” lo incalzò dopo una breve riflessione. Derek sorrise guardando l’amico  tramite lo specchietto retrovisore.
“Devo incontrare una mia amica” gli confessò facendo un sorriso un po’ malizioso. A quel punto Spencer si girò verso Derek, rosso in faccia per la rabbia. “Tu mi fai uscire di casa di domenica sera, quando sai che c’è Star trek in tivù”- fece una pausa per riprendere fiato-  “per portarmi  ad una seratina con una tua amichetta?”
“Hey, ragazzino! Calmati, ok?” esordì Morgan dopo la sfuriata dell’amico, “Non è quel tipo di amica..”aggiunse.
“Si è appena trasferita a Washington da New York e mi ha chiamato, non so nemmeno le motivazioni dato che non la sentivo da un po’, e mi è sembrato carino invitarla ad uscire per farla ambientare, per questo ti ho invitato, perché si facesse un amico in più” gli spiegò. “E ad ogni modo con noi ci sarà anche Garcia, quindi non preoccuparti” gli fece un occhiolino in segno d’intesa e parcheggiò. Erano arrivati al Jammer Planner poi si affrettò a scendere dalla macchina prima che il giovane potesse replicare.
Sulla porta del locale trovarono Garcia, che indossava un vestito rosa sgargiante con delle scarpe dal tacco vertiginoso e un fermaglio a forma di farfalla tra i capelli dello stesso colore del vestito. Derek rivolse un sorriso all’amica e le cinse le spalle con il braccio. “Siamo molto carine stasera” le disse facendo un sorriso che venne immediatamente ricambiato .
“Sì, Garcia, il tuo look è parecchio… vistoso” confermò Spencer dopo aver cercato le parole più adatte con cui descrivere il look dell’analista informatica.
“Ma la tua amica?” chiese Garcia a Derek ignorando le parole di Spencer e tentando di guardare oltre le spalle di Derek per capire se era con loro.
“Ci aspetta dentro. Sarà già arrivata” le rispose, poi aprì la porta del locale e iniziò a guardarsi intorno per cercare l’amica. Non furono necessari molti sforzi da parte dell’agente Morgan per individuarla, infatti dopo qualche secondo una ragazza si diresse verso di lui sfoggiando un sorriso a trentadue denti che Derek non esitò a ricambiare.
“Derek, da quanto tempo!” furono le sue prime parole mentre abbracciava Derek. Poi si staccò e rimase lì in piedi davanti a lui. Era una donna piuttosto giovane non molto alta e dalla corporatura alquanto esile, non dimostrava più di 30 anni, pensò Spencer mentre la osservava asserendo infine che erano certamente coetanei.
Aveva i capelli rossi un po’ mossi con una lunga frangia che le copriva gli occhi di un verde quasi accecante. Indossava una camicetta bianca con un pantaloncino blu notte a vita alta che le evidenziava  i fianchi e  una giacca abbinata, ai piedi portava un paio di stivali bassi in pelle nera.
“Madison, loro sono Penelope Garcia e Spencer Reid, due miei colleghi” li presentò Derek. Madison si avvicinò a Garcia presentandosi a sua volta e le strinse la mano, poi provò a fare lo stesso con Reid ma di fronte alla reazione del genietto del F.B.I. che agitava la mano in aria senza dare alcun segno di voler fare altrettanto, ritirò la mano e si adeguò al saluto del collega di Derek.
“Com’è avere Derek come collega?” chiese rivolgendosi ai due mentre si sedeva e invitando i suoi nuovi amici a fare altrettanto. “Il cioccolatino qui presente? E’ una gioia” esclamò con estrema convinzione Penelope, “Insomma guardalo!” le sussurrò all’orecchio suscitando le risa di Madison.
“E’ un bravo collega” fu tutto ciò che disse Spencer abbassando lo sguardo. Quella ragazza lo metteva in soggezione.
“Madison lavori sempre con l’agente Derrick?” le domandò Morgan, voleva sapere che ne era stato della vita della sua amica negli ultimi due anni, non l’aveva né vista o sentita dal loro ultimo incontro a Baltimora.
“Ehm..no, non lavoro più con lui” rispose quasi in un sussurro. “Sei un agente dell’F.B.I.?” le chiese Spencer improvvisamente curioso, non aveva l’aria di essere un agente, ma del resto nemmeno lui.
“Oh no no, io ero il medico legale assegnato alla squadra di Wayne” spiegò in fretta. Notando che i tre la osservavano in attesa di maggiori informazioni, aggiunse: “Ora lavoro al Georgetown university hospital, sono stata assunta nel reparto di diagnostica”
“Mmm… ma i medici legali lavorano con pazienti, insomma, non esattamente vivi…” esordì Spencer sempre più curioso. “Ottima deduzione, devi essere un genio” lo canzonò Madison, si stava infastidendo, non le piacevano tutte quelle domande.
Spencer si rabbuiò, improvvisamente si sentì stupido poi gettò un’occhiata ai suoi colleghi che impassibili sghignazzavano.
“Ho anche un dottorato in malattie infettive, è per via di quello che mi hanno assunta” gli disse infine sperando di porre fine a quell’interrogatorio irritante. Spencer annuì e costrinse se stesso a non fare più domande, nonostante ne avesse molte sulla punta della lingua.
“Andiamo a prendere qualcosa da bere?” suggerì Morgan per sciogliere quel silenzio imbarazzante che si era creato fra i commensali. Garcia si rivelò subito d’accordo ed insieme si avviarono verso il bar dopo aver domandato cosa gradissero gli altri due.
Spencer si pentì immediatamente di non essersi offerto per prendere da bere, era in tremendo imbarazzo, non sapeva cosa dire e quella ragazza, muta come un pesce, non gli facilitava di certo le cose. Si guardava intorno alla ricerca di un diversivo anche se ogni tanto gettava un’occhiata alla nuova compagna.
“Noo, questa è la mia canzone!” esclamò dopo aver riconosciuto le prime note di “Feel this moment”, si alzò in piedi e tese la mano a Spencer invitandolo a ballare. “Uh, io non so ballare, magari se aspetti Morgan, sarà di ritorno fra poco” le disse sperando che desistesse dall’invito.
“Ma io voglio ballare ora, dai, muoviti” lo incoraggiò tirando per il braccio il genietto che tentava di fare una malferma opposizione. “Spencer, io vengo da New York e noi Newyorkesi non siamo abituati a ricevere un no come risposta!” poi alzò il giovane genio di peso e lo trascinò in pista, volente o nolente avrebbe ballato con lei, pensò la rossa.
Arrivati in pista, Spencer rimase fermo di sasso, iniziava a sudare, si sentiva decisamente a disagio; Madison lo osservava divertita, non riusciva a credere che ci fosse qualcuno incapace di muoversi almeno un minimo. “Allora non sai ballare veramente!” affermò la ragazza ridendo, Spencer la guardò torvo, si stava  forse prendendo gioco di lui?
“Vieni qui!” disse poi avvicinandolo a sé e prendendolo per le mani, a quel punto l’imbarazzo del giovane stava completamente prendendo il sopravvento, avrebbe preferito sprofondare nel buio piuttosto che trovarsi lì.
“Guarda, ora vai indietro e poi avanti” gli spiegò indicando il movimento. Spencer la imitò, era più semplice di quel che pensava.
Gli ci  volle un po’ per sciogliersi, ma il risultato non fu da disprezzare, si stava divertendo, doveva ammetterlo. Nel frattempo Garcia e Morgan erano ritornati al tavolino con le ordinazioni, sorprendendosi di non trovare gli altri due.
“Ma dove saranno andati?” si chiese Garcia mentre posava i cocktail, “Dici che sono andati in bagno?” domandò a Derek.
“Mmm..a questo punto spero che siano nello stesso bagno!” la scherzò Derek bevendo dal suo bicchiere. Garcia gli lanciò un’occhiataccia e guardò verso la sala. “Eccoli!” esclamò dopo averli individuati e non nascondendo la sua sorpresa dopo aver visto Spencer ballare. Anche Derek rimase stranito, non lo aveva mai visto ballare, senza di lui che lo teneva fermo per le spalle per non farlo scappare.
“La tua amica ha compiuto un miracolo” disse Penelope dopo essersi ripresa dallo “shock” iniziale.
“Già, un brindisi in suo onore?” propose Derek, la donna annuì e avvicinò il bicchiere a quello del collega.
“A Madison!” esclamarono all’unisono mentre i loro bicchieri facevano cin cin. Stavano ancora bevendo quando i due ritornarono dalla pista, Spencer si precipitò sul suo bicchiere di vodka fragola e lemon e lo mandò giù quasi in un sorso.
“Hey, vacci piano! Non è succo di frutta!” gli ricordò Derek. “Ehm.. si lo so, è che il ballo mi ha messo una gran sete” si giustificò lui, tenendo fissi gli occhi sul bicchiere, era quasi finito.
Madison era sul punto di prendere in mano il suo quando il suo cellulare iniziò a squillare. “Pronto?” rispose facendo segno ai tre di scusarla mentre si allontanava.
Dopo meno di un minuto fu di ritorno, e prese con sé la sua borsa. “Scusatemi, ma devo andare. La mia collega si è data malata e io la dovrò sostituire” spiegò “Spencer, ti sei fatto un altro bicchiere”, aggiunse posandoglielo davanti
poi li salutò stampando un bacio sulla guancia di tutti e tre e uscì dal locale.
I tre rimasero a chiacchiera per un’altra ora, poi  Garcia annunciò ai due che si era fatto tardi e che preferiva tornare a casa così si salutarono dopo aver accompagnato l’amica alla propria auto e insieme si diressero verso l’auto di Derek.
“A che pensi, ragazzino?” gli domandò notando l’espressione un po’ assente del giovane collega, che scosse la testa dicendo che non era nulla, ma che era solo un po’ stanco. Poi salì in macchina e aspettò che il suo amico mettesse in moto il veicolo. In realtà pensava a Madison, quella ragazza gli era sembrata molto simpatica oltre che interessante e riconobbe che non gli sarebbe affatto dispiaciuto avere la possibilità di conoscerla un po’ meglio.
 
Spencer non dovette attendere molto perché il suo desiderio si avverasse. Era appena rientrato da Indianapolis dopo un caso che aveva richiesto tre giorni di duro lavoro, per fortuna si era concluso bene ed essendo tornati di sabato avrebbero avuto l’intera giornata di domenica a loro disposizione per riprendere fiato.
Stava salendo le scale del palazzo diretto verso il suo appartamento quando fu costretto a spostarsi per far passare due uomini in tuta blu, erano due impiegati di una ditta di trasloco. Una voce famigliare ringraziò i due che fecero un gesto con la mano in risposta prima di sparire giù per le scale. Spencer stava pensando che conosceva quella voce, anche se non riusciva a capire a chi appartenesse, quando si trovò Madison Thompson davanti che spingeva un grosso scatolone dentro l’appartamento.
“Madison” esclamò Spencer sorpreso nel vederla lì. La giovane si girò verso di lui facendogli un sorriso mentre si tirava su la frangia con una mano. “Che ci fai qui?” si chiesero all’unisono, i due risero per la coincidenza dopodiché Madison fece segno a Spencer di parlare per primo. “Io abito al 4° piano” spiegò indicando con un dito verso l’alto.
“Oh, anche io da oggi!” annunciò la ragazza piuttosto fiera. “Come puoi notare, sono nel pieno del trasloco” proseguì spostandosi per mostrare una quantità non indifferente di scatoli posati sul pavimento.
“Ti serve una mano?” le chiese nonostante la stanchezza, pensò che sarebbe stato carino da parte sua aiutarla per darle il benvenuto. Madison gli sorrise ma rifiutò, temeva di rovinare i suoi piani per quella serata perciò non poteva accettare, tuttavia nel vedere che Spencer insisteva per aiutarla, accettò ben volentieri. Aveva proprio bisogno di una mano, d’altronde.
Lo invitò a entrare dicendo di fare attenzione a non inciampare ed iniziarono a lavorare. Spencer la aiutò a portare alcuni scatoli che contenevano vestiti in quella che sarebbe diventata la camera da letto di Madison, poi sistemarono i mobili in salotto e insieme montarono la libreria.
Madison iniziò a disporre negli scaffali i propri libri e fotografie in piedi su una sedia mentre  Spencer seduto per terra  le prendeva dallo scatolone e gliele passava.
“Sei bionda oppure ti tingevi i capelli?” le chiese notando una fotografia della giovane che la ritraeva con i capelli biondi. “No, questo è il mio colore naturale” gli disse mentre sistemava la foto in un altro scaffale, il primo era ormai pieno.
“Sei molto più carina così” confessò Spencer senza pensarci, lei sorrise mentre scendeva dalla sedia che non le era più necessaria.
Continuarono a mettere in ordine l’appartamento per il resto del pomeriggio senza smettere di chiacchierare. Poi verso le nove, lo stomaco di Madison si ribellò iniziando a brontolare e anche Spencer si rese conto di avere una gran fame. “Ti inviterei pure a mangiare qualcosa, ma non ho nulla” disse gettando un’occhiata agli scaffali vuoti della cucina, avrebbe dovuto fare la spesa ma il trasloco le aveva rubato più tempo del previsto e ormai i supermercati erano chiusi.
“Se vuoi, possiamo ordinare una pizza!” gli propose la ragazza, “La linea telefonica è attiva”
“Che ne dici di un pasticcio di zucca invece? Ne ho uno ottimo in attesa di essere mangiato” chiese Spencer a sua volta.
“Mmm… mi sembra un’ottima idea”, adorava la zucca perciò non esitò nemmeno un attimo ad accettare poi disse a Spencer che si sarebbe fatta una doccia e che l’avrebbe raggiunto nel giro di dieci minuti. Spencer annuì, anche lui aveva bisogno di una doccia e salì a casa dopo averle detto di bussare all’interno 14c.
Dieci minuti più tardi, mentre Spencer con i capelli ancora bagnati apparecchiava la tavola, la sua nuova vicina bussò. “E’ aperto” disse rivolto alla ragazza che entrò timidamente nell’appartamento guardandosi intorno.
“Hai una quantità smisurata di libri!” esclamò lei notando la sua libreria e pensando alla sua che a mala pena ne contenevano una ventina. “Oh! beh, mi piace leggere” tagliò corto Spencer dicendole di sedersi, il pasticcio era pronto.
Si misero a mangiare senza smettere di chiacchierare, “Ho notato che hai studiato a Yale” disse Spencer ad una foto che ritraeva Madison insieme a quello che doveva essere suo fratello nel campus della rinomata università.
“Sì, ho studiato Medicina lì” confermò. “Ma il dottorato in malattie infettive l’ho preso alla Columbia” aggiunse.
“Tu? Non mi ricordo nemmeno se ti ho chiesto in cosa sei laureato” domandò al giovane mentre si versava un bicchiere di acqua. 
Spencer rimase per un attimo in silenzio fingendo di masticare un po’ di pane, era la parte che detestava di più quando stringeva nuove amicizie, quella in cui confessava all’interlocutore di essere un ragazzo prodigio.
Poi arresosi alla consapevolezza che era inutile nasconderlo, parlò. “Anche io ho studiato a Yale” stava per fare l’elenco delle lauree conseguite quando Madison lo interruppe. “Pure tu? Wow! Scommetto però che tu non hai avuto bisogno della raccomandazione di tua nonna” confessò lei essendo sicura che Spencer fosse molto bravo anche se nessuno glielo aveva detto. “Tua nonna ti ha raccomandata?” le chiese scordandosi per un secondo il suo elenco.
“Ehm..si. Lo so, non mi fa onore dirlo, ma è andata così. Però ti garantisco che la laurea è farina del mio sacco” affermò la ragazza portandosi una mano al cuore come se stesse facendo un giuramento. Spencer rise di fronte a quel gesto e le disse che non aveva di certo messo in dubbio le sue capacità. Pensava che il discorso fosse concluso quando la giovane gli domandò di nuovo in cosa fosse laureato, ormai non aveva scappatoie, doveva dirglielo.
“Ho una laurea in  psicologia e sociologia, un dottorato in chimica, matematica e ingegneria, e ho di recente ottenuto una terza laurea in filosofia. Mi sono diplomato a 12 anni in un liceo pubblico di Las Vegas, ho un Q.I. di 187.”
Dopo che il genio del F.B.I. ebbe concluso il suo elenco, Madison rimase a bocca aperta con la forchetta piena di pasticcio di zucca a mezz’aria. Non riusciva a credere alle sue orecchie, non aveva mai conosciuto prima d’ora qualcuno che avesse un Q.I. di 187.
“Ma tu sei un genio!” esclamò una volta ripresa. “Ed io che ti ho confessato di essere entrata a Yale con una raccomandazione” proseguì un po’ imbarazzata. “Scommetto che le università hanno a gara per averti fra i loro allievi”
“Non essere sciocca” le rispose. “Yale, come tutte le università private, spesso richiede qualche raccomandazione a prescindere dalla propria bravura,  ma scommetto che tu saresti entrata lo stesso” aggiunse il giovane genio, era sincero, non gliene faceva una colpa ed era convinto delle capacità della giovane ragazza seduta di fronte a lui.
“Ho visto il tuo diploma di laurea, ti sei laureata quasi con il massimo dei voti in Medicina e Chirurgia mentre hai ottenuto il massimo nella tua specializzazione in Medicina legale, senza contare il tuo dottorato.”
“Tutto indica che devi essere una ragazza intelligente, solo il 37% degli iscritti alla facoltà di Medicina di Yale ottiene simili risultati” concluse il giovane, d’altronde lui di statistica se ne capiva.
Madison annuì, non aveva considerato le cose da quel punto di vista. Continuarono a parlare del più e del meno, poi ad un certo punto Madison si girò verso l’orologio e notò che era l’una passata.
“Oddio, è tardissimo!” esclamò lei dopo aver visto l’orario. “Già..” le rispose Spencer, il tempo era volato senza che se ne accorgessero.
“E’ meglio che torni a casa” disse Madison, si offrì da aiutare Spencer a sistemare la cucina e lavare piatti, ma Spencer le disse di non preoccuparsi.
Dopo averla accompagnata alla porta, la salutò ricevendo un bacio sulla guancia e un abbraccio per l’ospitalità e l’aiuto che le aveva offerto. Spencer strinse le spalle dicendo che non era niente e dopo averla vista scendere le scale, chiuse la porta dell’appartamento. Andò in cucina con l’intenzione di lavare i piatti, ma finì per arrendersi alla stanchezza e decise di andare a dormire. Aveva proprio bisogno di un sonno ristoratore per riprendersi.

 

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Capitolo 2
*** Rapporti di buon vicinato ***


“Rapporti di buon vicinato”

 
Un bussare costante da oltre dieci minuti svegliò il dottor Reid la mattina successiva, si domandò chi di domenica presto potesse avere così tanta urgenza di parlare con lui. Si alzò di controvoglia strofinandosi gli occhi e si diresse verso la porta, nel raggiungerla controllò l’orologio e notò che erano quasi le undici di mattina, forse non era poi così presto, pensò.
Aprì la porta e rimase un attimo interdetto nel vedere il signor Chester, il suo anziano vicino di piano, davanti a lui.
“Ragazzo, non ti ho detto nulla quando i tuoi amici hanno riempito il piano di piante, trasformandolo in una specie di serra, ma per favore, i muffin portali dentro casa” lo rimproverò l’anziano. “Quali muf..?” non concluse nemmeno la frase che l’uomo gli porse una cesta con dei muffin e un bigliettino che riportava il suo nome.
“Ah, questi muffin!” esclamò annuendo il giovane e prendendo la cesta dalle mani del vicino che non sembrava molto contento di lasciarla andare.
“Ne vuole uno?” gli domandò porgendone uno all’uomo. “Oh no, tranquillo, ragazzo mio. Mi sono già servito e poi ad esserti sincero i muffin alle mele non mi entusiasmano, preferisco quelli al cioccolato” gli disse ed entrò nel suo appartamento lasciando Spencer sulla porta in pigiama e con la cesta in mano.
Rientrato in casa, prese il bigliettino e lo aprì scoprendo che era da parte di Madison. Si mise subito a leggerlo mentre prendeva un muffin della cesta.
 < PS: Non sarò a casa in tutto il giorno, sono in ospedale.
PPS: ti lascio sia il numero di casa che di cellulare…>>
Dopo aver finito di leggere, posò i muffin nel ripiano della cucina e  conservò il bigliettino in uno dei cassetti della scrivania, poi prese il cellulare  e compose il numero di Madison, che aveva ormai imparato a memoria con una sola lettura, con l’intenzione di ringraziarla per il pensiero. A rispondere alla sua chiamata fu l’originale messaggio della segreteria telefonica della giovane dottoressa; la voce di Madison risuonò negli orecchi di Spencer: “In questo momento sono intenta a salvare vite umane, tu però lascia un messaggio e sarai presto richiamato. Grazie.” poi seguì un beep. Spencer rimase un attimo in silenzio, non sapeva cosa dire perciò chiuse la chiamata e si promise di  richiamarla più tardi oppure di mandarle un messaggio.
A quel punto andò a farsi una doccia, aveva bisogno di svegliarsi.
 
Qualche ora prima del risveglio poco piacevole di Spencer, la sua nuova vicina usciva di casa diretta all’ospedale, aveva ricevuto una chiamata di urgenza da parte del suo nuovo capo, il dottor Christopher Brown.
Era il suo primo giorno nel reparto di diagnostica, aveva avuto modo di conoscere i suoi colleghi, la dottoressa Jennifer Andrews e il dottor Ronald Perkins in precedenza, mentre svolgeva le sue ore di pronto soccorso previste da contratto, ma il dottor Brown le era ancora ignoto e quella chiamata che aveva anticipato il giorno della loro conoscenza l’aveva spiazzata. Non era ancora pronta psicologicamente.
Entrò nel reparto e fu accompagnata da un’infermiera nello studio dello stimato dottore, la giovane collaboratrice annunciò l’arrivo della dottoressa Thompson ed uscì dopo aver augurato buona fortuna alla nuova collega.
Madison la osservò allontanarsi, infine fece un respiro per calmarsi ed entrò. “Buongiorno” disse prendendo posto nella sedia vuota davanti a lui. “E’ un piacere conoscerla” aggiunse tendendo la mano che fu stretta in modo vigoroso da Christopher.
“Signorina Thompson, benvenuta nel reparto di diagnostica del nostro ospedale. Volevo dirle due parole prima che inizi a svolgere i suoi compiti” esordì alzandosi in piedi. Madison osservò il dottor Brown, era un uomo sulla cinquantina alto e ben piazzato, portava i capelli neri corti e una barba  piuttosto folta, d’istinto gli guardò le mani alla  ricerca della fede nuziale che tuttavia non intravide. Non era sposato, o forse è divorziato, pensò la giovane donna.
 “Ho letto nel suo fascicolo che lei prima ha lavorato come medico legale quindi ha poca dimestichezza con i pazienti” continuò camminando su  e giù per lo studio. Madison annuì, ciò che diceva il suo capo era vero, a parte quella settimana di pronto soccorso, l’ultima volta che aveva lavorato con dei pazienti ‘vivi’ risaliva ai tempi dell’università.
“Vede, signorina, i pazienti spesso non dicono la verità” s’interruppe notando l’espressione stranita della giovane. “Beh è così per quanto possa sembrare strano” confermò lui, “Perciò mi aspetto che lei indaghi a fondo ogni volta senza mai dare nulla per scontato” concluse l’uomo, infine la invitò ad uscire dallo studio dopo averle dato la cartella del paziente che aveva preso in cura quella stessa mattina.
Thompson rimase per un attimo spaesata guardando la cartella che aveva in mano, poi scosse la testa per costringere se stessa a concentrarsi e raggiunse i suoi nuovi colleghi.
Una nuova avventura stava per iniziare e lei era pronta.
 
Più tardi quello stesso giorno, la dottoressa Thompson ritornò a casa carica di entusiasmo. Era stata una giornata incredibile, il dottor Brown aveva risolto il caso loro assegnato in pochissimi minuti nonostante loro tre, lei e suoi due colleghi, avessero eseguito numerosissimi analisi e studi dalla mattina senza giungere ad una conclusione plausibile.
Aveva capito che il male del tredicenne era dovuto ad una garza dimenticata dal chirurgo che lo aveva operato di appendicite qualche anno prima. Madison era rimasta stupida della sua bravura e capì immediatamente che avrebbe imparato moltissimo lavorando al suo fianco.
Arrivata al palazzo, gettò un’occhiata verso l’alto, o più precisamente verso la finestra dell’appartamento del dottor Reid; notò con piacere che la luce era accesa, il che significava che il suo vicino era in casa, aveva con chi dividere la cena a base di sushi che si era procurata prima di ritornare a casa.
Perciò salì le scale passando davanti al suo appartamento e si fermò davanti all’interno 14c aspettando che Spencer aprisse la porta. “Salve dottoressa” esclamò lui nel vederla indossare il camice bianco.
“Ciao, ti sono piaciuti i muffin? A proposito, ho visto la tua chiamata, dovevi dirmi qualcosa?” gli chiese entrando e accomodandosi nel soggiorno.
“No, no, cioè volevo ringraziarti per i muffin, appunto” rispose chiudendo la porta. “Comunque erano davvero buoni” aggiunse, a quel punto notò la busta con l’insegna del ristorante giapponese situato a pochi isolati da casa sua e domandò cosa ci facesse lì.
“E’ la nostra cena!” esclamò lei sfoggiando uno splendido sorriso. “Ricordi? Te ne dovevo una!” poi si alzò in piedi e si diresse verso la cucina portando con sé la busta. “Tu cosa hai fatto tutto il giorno?” domandò dalla cucina mentre prendeva i piatti dell’armadietto e apparecchiava la tavola. Si comportava come se fosse casa sua, cosa che non diede affatto fastidio a Spencer, anche se gli sembrava strano che qualcuno potesse entrare in confidenza così velocemente con un’altra persona. “Nulla, ho compilato dei rapporti e letto qualche libro” disse in risposta alla sua domanda.
“Letto qualche libro?” domandò lei strabiliata. “Ah, giusto! Sei un genio, e hai la memoria eidetica e tutto il resto!” aggiunse battendosi la testa con il palmo della mano destra. “Mangiamo?” si sedette, aspettò che Spencer facesse lo stesso poi prese le bacchette e addentò il primo morso di sushi. “Cavoli! È buonissimo, credevo che solo a New York sapessero cucinare il sushi, ovviamente dopo i ristoranti di sushi in Giappone, ma questo è ottimo” esclamò lei con evidente soddisfazione.
“Si, è buono, anche io lo ordino sempre qui” rispose il giovane. “Com’è andata a lavoro?” le domandò poi spostando la conversazione su un altro argomento.
“Benissimo! Sai oggi era il primo giorno nel reparto di diagnostica”
“Il tuo primo giorno? Credevo che stessi già lavorando in ospedale”chiese un po’ confuso senza smettere di darsi da fare con le bacchette.
“Sì, in questi giorni ho lavorato in pronto soccorso, ma lunedì, cioè domani, doveva essere il primo giorno. Però il dottor Brown mi ha chiamata dicendo che dovevamo anticipare il mio inizio” spiegò lei. “Anche se prima mi ha ben bene spaventato”
Spencer le domandò in che senso spaventato, Madison si schiarì la gola e parlò: “Ha iniziato dicendo che devo stare attenta, che i pazienti spesso mentono e che noi dobbiamo capirlo per essere bravi dottori”
“Ha ragione, le statistiche dicono che il 57-58% dei degenti in ospedale mentono ai propri dottori, principalmente per paura di essere giudicati- il 73% mente infatti riguardo a rapporti extraconiugali od omosessuali-, altri invece omettono dettagli noncuranti che possano essere importanti” sciorinò lui mentre Madison annuiva.
“Beh allora starò attenta soprattutto ai mariti che mi sembrano un po’ annoiati” disse lei ridendo.
Continuarono la serata a ridere e scherzare, si comportavano da buoni amici. Spencer si scoprì piacevolmente compiaciuto della cosa, era bello avere un’amica in più, ma soprattutto un’amica fuori dal lavoro.
 
 
Il giorno dopo Spencer tornò al lavoro, aveva un’aria piuttosto serena, si era rilassato parecchio in quei due giorni. Appena entrato nel bureau, andò a versarsi una tazza di caffè, non ne aveva ancora preso uno.
Era lì da pochi minuti quando il suo collega Derek Morgan fece ingresso nel cucinino dell’ufficio. “Come hai trascorso il weekend?” gli chiese dopo averlo salutato.
“Benissimo! Sono stato con Madison a cena sabato, e anche ieri, a dire il vero. L’ho aiutata con il trasloco” disse in risposta mentre sorseggiava la tazza di caffè, stava per dare ulteriori dettagli al collega ma questo lo interruppe. “Cosa? Hai aiutato Madison con il trasloco? Ma soprattutto sei stato a cena con lei?” chiese un po’ scandalizzato. Si aspettava che genietto avesse passato il weekend in compagnia di un libro, o peggio della serie di Star wars, non di certo di una sua amica.
“Sì, non mi hai fatto finire di parlare. Madison abita nel mio palazzo da sabato, infatti prima stava da un’amica, o almeno così mi ha detto” spiegò lui leggermente infastidito per la reazione di Derek. “Ecco, perché l’ho aiutata. Sabato quando siamo tornati, l’ho trovata nel pieno del trasloco” proseguì posando la tazza vuota di caffè nel lavandino.
“Non mi hai ancora spiegato il perché della cena però” lo provocò Derek con tono malizioso che imbarazzò Spencer non poco. “Dopo aver finito di aiutarla sabato, era tardi e lei non aveva nulla da mangiare così abbiamo cenato da me e poi ieri ha ricambiato la cortesia offrendomi la cena, e i muffin” rispose sperando che Morgan la smettesse con le sue insinuazioni, cosa che ovviamente non accadde.
“Lo sai come dice il detto, Reid?” chiese al giovane collega che scosse la testa dicendo che non conosceva nessun detto.
“La via più veloce per arrivare al cuore di un uomo passa per il suo stomaco” disse tutto d’un fiato. “Quindi stai attento a tutte queste cene e muffin, potresti trovarti in difficoltà ad allacciarti i pantaloni oppure a non avere affatto voglia di indossarli” mormorò vicino all’orecchio del collega perché nessuno li sentisse.
“Derek!” urlò Spencer con voce acuta, quell’insinuazione non gli era affatto piaciuta. Avrebbe voluto dirglielo, ma l’agente Morgan si era spostato prontamente nell’open space e preferì tacere prima che qualcuno potesse prendere parte a quella conversazione del tutto fuori luogo.
“Sala riunioni fra cinque minuti!” tuonò la voce di Aaron Hotchner distogliendo tutti dalle proprie attività. Spencer pensò che Hotch l’aveva appena salvato da un ulteriore momento imbarazzante, perciò si alzò subito in piedi per seguire l’agente supervisore della sua squadra. Morgan fece altrettanto mentre fingeva di lanciare baci nella sua direzione, a quel punto Spencer accelerò il passo. “Che gli prende?” chiese Alex Blake notando la reazione di Reid.
Morgan alzò le spalle fingendo di non sapere ma la sua espressione poco convinta incuriosì Blake che si promise di indagare in seguito.
“Adam Levinsky, 35 anni, trovato morto in un vicolo di Los Angeles da un passante sabato mattina. Questo è solo il primo corpo, oggi la polizia ha rinvenuto un altro cadavere, il cui nome è ancora ignoto” disse Garcia mentre distribuiva i tablet con tutti i dati ai suoi colleghi.
“Il collegamento fra i due è il modus operandi” esordì David Rossi dopo una breve esamina del fascicolo. “Alquanto preoccupante, sembra che siamo di fronte ad un altro caso di finti vampiri” aggiunse con evidente disgusto.
“Ne avete già affrontato uno?” domandò Blake essendo l’ultima arrivata non era ancora a conoscenza del caso a cui faceva riferimento l’agente Rossi.
“Sì, qualche anno fa. Ma il colpevole è stato preso e si trova in carcere e ad ogni modo non ha nulla a che vedere con questo caso” spiegò Hotch. “Tuttavia le conoscenze acquisite durante le indagini di quel caso potranno tornarci utili” proseguì, alzandosi e annunciando ai suoi colleghi che il jet diretto a L.A. sarebbe decollato fra mezz’ora.
 
Mentre erano sul jet, Hotch divise i suoi agenti, com’era solito fare. Blake e Reid sarebbero andati insieme dal medico legale, mentre Rossi e Morgan si sarebbero recati sulla scena del primo omicidio, JJ e lui nella stazione di polizia per ricevere maggiori informazioni, sul secondo omicidio soprattutto.
Giunti a Los Angeles, l’accoglienza dei poliziotti del distretto non fu delle migliori, erano infastiditi all’idea che i federali fossero stati interpellati. Avrebbero risolto benissimo i due omicidi senza bisogno del loro intervento, come fece presente uno dei detective con aria annoiata mentre mal volentieri consegnava le prove che la scientifica aveva raccolto sulla seconda scena del crimine. Informò anche i due agenti che l’identità della seconda era stata scoperta, il suo nome era Luke Sanders, residente nella città degli Angeli dalla nascita, e anche lui membro della comunità di vampiri a cui apparteneva la prima vittima.
Reid e Blake dal medico legale ebbero maggiore fortuna, entrambe le vittime erano morte dissanguate, uccise con un corpo contundente che sfortunatamente non fu rinvenuto né nella prima e né nella seconda scena del crimine.
Tuttavia su entrambi i corpi furono individuate tracce di schegge di legno che suggeriva che le vittime fossero state uccise da un paletto di legno. “Come veri vampiri” commentò Blake scioccata dopo che il medico legale espose la propria ipotesi.
Mentre ritornavano alla stazione di polizia per informare gli altri di quanto appreso dal coroner, Blake ne approfittò per chiedere al dottor Reid cosa fosse successo con Morgan.
Spencer sgranò gli occhi e deglutì prima di parlare, sapeva che era inutile mentire a dei profiler professionisti, perciò disse a Blake cosa era successo. “E’ fantastico Reid!” esclamò la donna dopo aver sentito la storia.
“Un’amica è proprio ciò di cui hai bisogno ora. Sono contenta per te” aggiunse senza fare alcun commento malizioso.
Il giorno dopo risolsero il caso dopo un’estenuante indagine che li condusse alla madre adottiva della prima vittima, Adam Levinsky.
Il figlio era venuto a conoscenza della bugia che la donna gli aveva raccontato riguardo la morte della madre biologica; sua madre non era scappata, bensì fu uccisa da lei stessa in un momentaneo raptus dopo che la donna si era rifiutata di darle il figlio che aveva appena dato alla luce, nonostante si fosse offerta di fare da madre surrogata in cambio di denaro. Così aveva ucciso il figlio a sangue freddo utilizzando il paletto di legno di modo che venissero incolpati i membri della comunità che frequentava; Luke Sanders l’aveva scoperta, ma fu ucciso a sua volta prima ancora che potesse recarsi alla polizia.
Ritornati a Quantico, il dottor Reid trascorse il resto della serata a compilare il rapporto  accompagnato unicamente da Aaron Hotchner e una tazza di caffè nel bureau dell’U.A.C.; non aveva alcuna fretta di tornare a casa, aveva bisogno di riflettere sulle parole dei suoi colleghi e su quell’amicizia appena nata, lontano il più possibile dalla dottoressa Thompson.

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Capitolo 3
*** Corse al supermercato e strane reazioni. ***


                                               “Corse al supermercato e strane reazioni”

 
La settimana di Reid e Thompson trascorse senza lasciar loro un attimo di tranquillità, furono completamente sommersi dal lavoro. Madison si trovò nella spiacevole situazione a dover dimostrare più volte di meritare il posto nel reparto che le era stato offerto mentre Spencer si era spostato varie volte negli States insieme alla sua squadra per la cattura di serial killer; la classica settimana in parole povere. Per fortuna era arrivato il venerdì che per entrambi significava una possibile pausa dai propri impegni che accolsero con piacere.
Madison era tornata a casa con una gran fame, si precipitò in cucina, aprì lo scaffale e a quel punto realizzò che non aveva altro che una scatola vuota di merendine.
“Fantastico” disse ad alta, “Dovrò andare al supermercato”. Allora riprese la borsa e le chiavi dell’auto, stava mettendosi il cappotto quando il suo pensiero andò a Spencer Reid. “Chissà se ha bisogno di qualcosa…” pensò, in fin dei conti è così che si comportano i vicini, si aiutano a vicenda.
Il cellulare di Reid squillò diverse volte a vuoto, Madison era sul punto di riattaccare quando la voce dell’agente risuonò dall’altro capo del telefono.
“Maddie, dimmi!” disse lui, una volta uscito dalla sala conferenze dello Smithsonian dove si era recato per assistere ad un dibattito sulla teoria darwiniana.
“Ciao..Stavo per andare a fare la spesa e mi chiedevo se avevi bisogno di qualcosa, non so un cartone di latte, un pacco di biscotti, la carta igienica, sai cose così” gli chiese la rossa.
“Al dire il vero, dovrei fare la spesa anche io quindi non preoccuparti, ci penso io. Grazie comunque”, era stato un pensiero carino da parte sua chiedergli se aveva bisogno di qualcosa.
“Allora andiamoci insieme, no?” gli propose lei con un tono un po’ infantile che fece ridere Spencer.
“Il fatto che è ora sono ad una conferenza allo Smithsonian” le spiegò Spencer con tono leggermente dispiaciuto.
Madison si scusò subito con lui per averlo disturbato, lo stava per salutare quando il dottor Reid gli chiese di aspettarlo. “Quindici minuti e andiamo. Il tempo di tornare a casa” .
“E la conferenza?”  
“Figurati, le cose più importanti sono già state dette e poi è importante anche mangiare, no?”, a quel punto riattaccò e si precipitò dentro la sala a prendere la giacca.
 
“Allora da dove iniziamo?” domandò Madison al suo vicino alzandosi in punte di piedi per avere una panoramica più chiara dei vari reparti. “Controlliamo la lista, no?” suggerì lui cercando nella giacca il foglietto che aveva scarabocchiato di ritorno dallo Smithsonian.
“Giusto!” esclamò lei annuendo, fu allora che prese il suo smartphone e cliccò sullo schermo. Il dottor Reid osservò la scena con espressione incerta chiedendole cosa stesse facendo.
“Controllo la mia lista della spesa, no? Ho scaricato un’app apposita per questo tipo di cose. Lo sapevi che c’è praticamente  un’app per tutto?” affermò lei divertita.
Spencer rise e disse che si sarebbe presto aggiornato sulle ultime novità nel campo del mobile, poi insieme si diressero verso il reparto “frutta e ortaggi”.
“Io ho i biscotti sulla lista” fece presente Madison mentre uscivano dal reparto. “Anche io”rispose Spencer.
“Mmm..vediamo, eccoli” annunciò la rossa prendendo due scatole di cookies. “E quella sarebbe la tua idea di biscotti?” domandò con espressione quasi schifata al dottor Reid vedendolo stringere una confezione di biscotti di soia.
“Cosa hanno di male? Sono leggeri e salutari” rispose alzando le spalle. Non capiva quale fosse il problema in quei biscotti.
Madison roteò gli occhi e tolse la confezione di mano a Spencer. “Appunto! Non sei mica a dieta, anzi dovresti pure prendere qualche chilo” fece lei, poi prese una scatola di cookies al cioccolato e la lanciò nel carrello del dottor Reid. “Ecco così va meglio” disse soddisfatta.
“La cioccolata fa bene, rende felici le persone quindi te ne prescrivo un po’ ”aggiunse sorridendo.  
“Lo so, il cioccolato, specialmente quello fondente, è un grande propulsore di serotonina, infatti quando si mangia un po’ di cioccolato fondente parte l’ormone del buonumore, tra l’altro...”affermò lui passando in modalità enciclopedia vivente.
Madison gli ricordò, che avendo conseguito una laurea in medicina, era perfettamente a conoscenza delle proprietà del cioccolato e dei suoi effetti sulla serotonina, Spencer annuì e smise subito di parlare.
Stavano andando verso il reparto dei latticini e derivati quando due ragazzini tagliarono loro la strada inseguendosi con i carrelli, Madison scoppiò a ridere di fronte alla reazione di Spencer che si era addossato contro lo scaffale sbiancato in viso dalla paura. “Avrebbero potuto romperci qualche osso” esagerò lui con tono stizzito notando Madison che stava quasi rotolandosi per terra dalle risate.
“E come? Spingendoci su una piramide di confezioni di zucchero semolato?” lo scherzò lei una volta riuscita a smettere di ridere.
“Dai! È divertente, anche io e mio fratello lo facevamo quelle rare volte che Nancy ci portava al supermercato con lei” continuò lei.
“Nancy? Credevo che tua madre si chiamasse Natalie” domandò all’amica.
“Si, infatti si chiama Natalie. Nancy era la nostra tata” tagliò corto Madison. “Allora ci stai? Gara all’ultimo carrello?” lo incalzò con espressione di sfida.
Spencer disse che non se ne parlava, che loro erano persone adulte e non due ragazzini e che era meglio finire di fare la spesa perciò si avviò verso il banco frigo convinto che la sua vicina lo seguisse. Fu allora che sentì una specie di urlo di battaglia provenire dalle sue spalle e vide Madison sfrecciargli accanto. “Prova a prendermi” gli disse voltandosi verso di lui dopo averlo superato.
A quel punto, Spencer prese la rincorsa e si lanciò nell’inseguimento senza pensarci, era stato sfidato e aveva il dovere di difendere il suo onore.
La stava quasi per raggiungere quando la guardia giurata del supermercato si piazzò di fronte a loro ponendo fine alla loro corsa. “Questo è un supermercato non una pista di go-kart” li rimproverò l’uomo con tono severo.
Spencer e Madison si scusarono con lui per il loro comportamento infantile, l’uomo annuì e si allontanò prima che  i due scoppiassero a ridere per la scena a cui aveva appena assistito.
Dopodiché si avviarono verso le casse, avevano finito la spesa e ad ogni modo la guardia giurata continuava a guardarli storto perciò pensarono che era meglio uscire il più in fretta possibile dal supermercato.
 
“Spencer, tu hai una laurea in psicologia, no? Psicanalizzami!” affermò lei convinta di ritorno dal supermercato. Si buttò sul suo divano e indicò la poltrona accanto a lei, se la doveva psicanalizzare, doveva farlo come un vero psicologo.
“Dovrei mettere a posto la spesa” tentò di giustificarsi Spencer, non aveva voglia di fare il profilo ad una sua amica, il subconscio lo faceva già senza che lo comandasse.
“Metti la spesa nel mio frigo e poi la porti su. Dai, ti prego!” insistette lei sbattendo le ciglia per risultare più persuasiva.
“Ok” si arrese, tanto non sarebbe riuscito a convincerla del contrario. Era evidente che fosse molto testarda.
Mise la proprio spesa nel frigo di Madison e si sedette accanto a lei dopo aver acceso lo stereo scegliendo della musica classica per far rilassare l’amica.
“Addirittura la musica? Facciamo le cose seriamente!” lo scherzò lei. Spencer sorrise e le chiese di chiudere gli occhi.
“Concentrati sulla musica e fai un respiro profondo” le suggerì, Madison obbedì e a quel punto Spencer le disse di immaginare di essere in un viale e descriverglielo.
“Sta tramontando il sole, alcuni raggi filtrano attraverso le chiome degli alberi. E’ autunno, ci sono tante foglie rosse e marroni per terra, io le calpesto. Però non sono io, cioè sono io da piccola” disse la rossa.
“Vedi qualcos’altro oltre gli alberi?” 
“Si, un immenso prato verde e dei fiori bianchi.”
“C’è qualcuno con te? Oppure sei da sola?” le domandò Spencer concentrandosi sulle parole dell’amica.
Madison sorrise tenendo sempre gli occhi chiusi e gli rispose che era con suo fratello, Brian.
“Perfetto, tuo fratello va via. Tu guardi per terra e trovi un rametto. Com’è e cosa fai?” chiese ancora una volta.
“E’ piccolo e coperto di muschio verde. Lo butto per terra dopo averlo spezzato”
Spencer annuì, poi le chiese di immaginare di vedere un tronco e di dirgli quale fosse la sua reazione.
“E’ grosso e ha delle spine, occupa tutto lo spazio sul viale. Non riesco a superarlo, mi faccio male. Mi siedo per terra, non sono più piccola, piango. Perché non riesco a superarlo?” domandò con tono concitato. Si stava agitando per qualche motivo che Spencer non riuscì a spiegarsi, perciò le disse di lasciare il viale.
“Ti trovi ora ad un bivio. Me lo descrivi?”
Madison descrisse il bivio dicendo che c’era un'unica strada diretta a sinistra, non era un vero e proprio bivio, spiegò all’amico.
Spencer le chiese di intraprendere la strada. “Sei arrivata in una piazza. C’è una statua, dov’è collocata e di chi è?
“E’ spostata un po’ verso sinistra, è una donna è in punta di piedi e tende le bracca in avanti. Sembra quasi che stia ballando” disse imitando il movimento della statua con le braccia.
Spencer le chiese di dire qualcosa alla statua, Madison rimase in silenzio e infine gli disse che non le veniva da dire nulla.
“Va bene. Davanti a te c’è muro, riesci a vedere al di là di esso?” 
“No, è molto alto, ma riesco sentire delle voci, sono voci di bambini. Non ho voglia di andare al di là del muro però” rispose la giovane donna aggrottando la fronte.
“Ci allontaniamo dal muro. Siamo su un’isola, è grande? Vedi altre isole?” le domandò Spencer, era quasi arrivato alla fine.
“Non è troppo grande, io sono sulla riva seduta, guardo il mare. Non vedo altre isole”
Infine Spencer le chiese di visualizzare un cubo, Madison ci pensò un attimo ma poi gli disse che il cubo lo teneva dentro la borsa che portava con sé.
“Apri gli occhi. Abbiamo finito” disse Spencer spegnendo lo stereo. Madison si mise a sedere e domandò all’amico se fosse pazza oppure no, il dottor Reid scosse la testa. “No, non sei pazza. Stai tranquilla” la rassicurò e iniziò a raccontarle cosa aveva capito da quel breve esercizio che avevamo appena fatto insieme.
“Hai immaginato un tipico paesaggio autunnale, significa che sei una persona un po’ malinconica, ma al tempo stesso romantica data la tua descrizione. Ti sei vista da piccola, il che significa che ricordi l’infanzia come un bel periodo” esordì Spencer mentre Madison ascoltava senza fiatare.
“Quando ti ho chiesto se eri in compagnia, mi hai detto che eri con tuo fratello, questo indica che tu e lui avete stretto un legame molto forte e che è importante per te la sua presenza. Per quanto riguarda la tua persona, vedi te stessa come un’artista, infatti la statua eri tu e tu vedi te stessa come una ballerina”
Quelle parole fecero ridere Madison che annuì dicendo che era vero. “Ti prego, continua” lo incoraggiò, quel profilo le piaceva.
“Sull’isola eri seduta sulla riva, ciò significa che sei molto socievole, ti piace stringere nuove amicizie e circondarti di persone, anche se non ami stare troppo al centro dell’attenzione infatti la tua statua era spostata leggermente verso sinistra. Il fatto che non vedessi altre isole intorno a te indica che sei soddisfatta dalle scelte che hai compiuto finora riguardo i tuoi studi e il tuo lavoro. Ti piace cambiare e sei pronta a metterti in gioco dato che non visualizzavi un bivio ma una strada a sinistra che implica che hai una certa propensione al cambiamento” continuò Spencer.
“Però quando ti ho chiesto di dire qualcosa alla tua statua, tu hai esitato ma alla fine non hai detto nulla, ciò sta a significare  che non hai dialogo con te stessa, non ti interroghi, e ti proteggi tantissimo anche, infatti quando ti ho chiesto se vedevi il cubo, tu mi hai detto che lo tenevi in borsa, questo vuol dire che spesso tendi a chiuderti a riccio o che forse non ti piace farti vedere vulnerabile” sottolineò Spencer osservando attentamente la reazione di Madison che annuiva senza dire nulla.
“Il muro rappresenta il tuo rapporto con la morte. Hai un rapporto sereno con essa, non ti fa paura, ma non ti senti ancora pronta e per qualche motivo la colleghi ai bambini. Hai subito qualche perdita da bambina? Magari è morto qualche persona a te cara quando era ancora un bambino?” le domandò Spencer, la giovane donna scosse la testa dicendo che non le era successo nulla dal genere e abbassò lo sguardo, stava mentendo. Tuttavia il dottor Reid preferì non indagare e continuò con la sua analisi.
“I piccoli problemi, rappresentati dal rametto, li affronti in modo decisivo, non ti pongono in difficoltà. Invece  i grandi problemi, simboleggiati dal tronco che ostruiva il passaggio, ti attanagliano, c’è qualcosa che ti tormenta, un grosso ostacolo che non riesci a superare. Forse è da quello che ti proteggi?”
A quel punto Madison si rabbuiò, la sua espressione cambiò repentinamente. “Forse è meglio che vai. È tardi.” gli disse mentre si alzava in piedi, il dottor Reid la fissò per qualche secondo senza riuscire a capire perché lo stesse cacciando di casa all’improvviso.
“Ho detto forse qualcosa che non va?” domandò lui con tono incerto. “No, non hai detto nulla. Ma è tardi e io mi sono ricordata che avevo delle cartelle da compilare, quindi...” rispose lei inventandosi una scusa che a cui Spencer non credé.
Madison lo salutò di fretta e si chiuse in bagno, lasciando Spencer da solo in salotto, che si sbrigò a prendere la propria spesa e ad uscire dall’appartamento dell’amica.
Stava per chiudere la porta di casa quando sentì l’acqua del rubinetto del bagno scorrere. Non seppe mai che l’amica lo avesse fatto perché non la sentisse piangere.



Salve gente, eccomi con un nuovo aggiornamento. Grazie per chi mi segue e soprattutto a chi recensisce :) volevo dirvi che il test psicologico, che avete letto in questo capitolo, è vero, è fatto da un vero psicologo. Un mio amico me lo ha insegnato. Le risposte ovviamente sono un po' romanzate, ma in linee generali, simili risposte condurrebbero ad un'analisi di questo tipo!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e alla prossima!

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Capitolo 4
*** Confessioni difficili ***


                                               “Confessioni difficili”

 
“Derek, capisci? E’ stato molto strana quella reazione” disse Reid all’amico dopo avergli raccontato del suo ultimo incontro con Madison. “Sinceramente non ne ho idea” ammise l’uomo, anche a lui era sembrata una reazione piuttosto esagerata, perciò rassicurò Spencer dicendogli che non era dovuta di certo a qualcosa che avesse detto.
“Tu che sai di lei? Insomma non siete amici? Saprai pure qualcosa!”insistette il giovane, gli sembrava davvero assurdo che di quella ragazza lui non sapesse nulla, Derek roteò gli occhi, Spencer sapeva irritarlo come nessun altro.
“Reid, te l’ho detto! Io non ne so nulla. Ho conosciuto Madison tempo fa quando lavorava con Derrick” gli raccontò per l’ennesima volta l’agente Morgan. “L’ultima volta che l’ho vista, eravamo a Baltimora per un caso a cui Derrick mi chiese di collaborare. Lei stava bene ed era fidanzata con un certo Mason. L’ho sentita per un po’ dopo quell’incontro e poi è sparita per quasi due anni finché non mi ha chiamato circa un mese fa per dirmi che si sarebbe trasferita a Washington.”
“Questo è tutto ciò che so. Ma poi scusami, Reid, cosa importa? E’ una tua amica, mica una sospettata su cui devi indagare. Se ha qualche segreto di cui non ti vuole parlare, sono affari suoi” commentò Morgan sperando di riuscire a dissuadere il dottor Reid dalla “sete” di sapere. Spencer abbassò la testa, forse Morgan ha ragione, pensò.
“Ora andiamo a prendere una delle tue tazze di zucchero con il caffè, magari sei in preda ad un calo di zuccheri” lo scherzò Derek prendendolo per le spalle perché venisse con lui e la smettesse di pensare al passato della dottoressa Thompson.
Poco più tardi l’agente Morgan lasciò il genio del F.B.I. da solo dopo averlo informato che aveva delle cose da sbrigare con l’agente Rossi, il dottor Reid annuì e l’agente si allontanò dopo avergli intimato di smetterla di pensare a Thompson.
Ma Spencer non ci riusciva, pensare per lui era come una droga, non poteva spegnere il cervello a piacimento. Ammetteva che non gli sarebbe affatto dispiaciuto, ma sapeva che era impossibile. Non ricordava un momento della sua, da quando aveva memoria, in cui non fosse stato accompagnato dai suoi pensieri; erano come ombre che lo seguivano, ombre irritanti e spesso dolorose.
In quegli istanti, il giovane provava una forte attrazione nei confronti del passato di Thompson, voleva sapere tutto della giovane dottoressa; avvertiva lo stesso desiderio di conoscenza che lo attraversava quando stringeva un nuovo pesante manuale preso in biblioteca. Solo che Madison Thompson non era un manuale e non poteva essere aperta.
Doveva concentrarsi su altro, era l’unico per distrarre i suoi pensieri della figura misteriosa della sua vicina di casa, perciò iniziò ad aggirarsi per l’open space, alla ricerca di qualcosa da fare.
Fu allora che passò di fronte all’ufficio vuoto dell’analista informatica Garcia, sapeva che se avesse inserito il nome dell’amica in quei motori di ricerca, avrebbe scoperto tutto in pochi sensi e Madison non sarebbe stata più punto interrogativo.
La tentazione era troppo forte, ma sapeva che era sbagliato. Era dibattuto fra il suo desiderio di conoscere e la consapevolezza che si trattava di violazione della privacy; aveva appena messo un piede nell’ufficio di Garcia quando questa apparve alle sue spalle. “Reid che diavolo stai facendo nel mio santuario?” le chiese la bionda lanciando lo sguardo cattivo di cui fosse capace. Spencer trasalì al sentire la sua voce e farfugliò che stava semplicemente passando di lì e si frettò ad andarsene, ma Garcia lo prese per un braccio e lo trascinò dentro.
“Che volevi fare? Qualcosa di illegale? Ci sono, volevi entrare nei database della CIA!” esclamò la donna puntandogli il dito indice contro.
“No, Garcia, nulla di illegale… Io volevo avere informazioni su una persona” mormorò Spencer con tono imbarazzato, si sentiva come un bambino sorpreso a rubare dei biscotti in un supermercato.
“Volevi sapere di tuo padre?” gli chiese lei mettendogli una mano sulla spalla per incoraggiarlo; Spencer scosse la testa e confessò che si trattava di Madison. L’amica lo guardò incerta e gli domandò perché fosse così curioso al punto da voler utilizzare il suo super computer per sapere qualcosa di più, Spencer fece spallucce e rimase in silenzio.
“Reid, il miglior modo per conoscere qualcuno è  dargli il tempo di svelarsi” gli spiegò Garcia con tono materno. “Vedrai che non esistesse nulla di più bello di qualcuno che si confida con te e ti racconta i suoi segreti e paure, proprio come tu hai fatto con noi” continuò la donna rivolgendogli un sorriso che fu ricambiato.
Spencer gli diede ragione e poi uscì dall’ufficio di Penelope; era ancora curioso ma si promise di non cedere. Avrebbe aspettato che fosse Madison a parlargli, anche se questo poteva significare non venire mai a conoscenza del suo passato.
 
Per diversi giorni successivi al loro ultimo incontro, Spencer tentò di contattare Madison senza successo. Provò persino a bussare alla sua porta, ma nessuno gli aprì; alla fine dovette cedere, era evidente che la giovane dottoressa non volesse vederlo o sentirlo perciò era inutile insistere nonostante la cosa lo rendesse piuttosto triste.
Una sera mentre leggeva un libro, qualcuno bussò alla sua porta.
“Madison!” esclamò con un po’ troppo entusiasmo che non lasciò alcun dubbio riguardo il piacere che aveva provato vedendola davanti a lui. “Ciao” farfugliò la ragazza rimanendo sulla porta, Spencer si fece da parte e la invitò ad entrare.
“Scusami” dissero entrambi all’unisono, sorrisero per l’accaduto. “Parlo prima io se non ti spiace” disse stavolta la giovane donna, Spencer annuì e rimase ad ascoltarla dopo essersi accomodato sul divano.
“Mi dispiace per l’altro giorno. Ho esagerato.” esordì lei, dal tono si capiva che fosse davvero dispiaciuta di quanto successo. “E’ solo che ciò che hai detto, ha risvegliato in me brutti ricordi, e..”
Spencer annuì e le disse che se ne voleva parlare, lui era disposto ad ascoltarla, Madison sorrise e accettò; si sentiva a suo agio con il dottor Reid perciò le venne quasi naturale, superata la ritrosia iniziale a lasciarsi andare, confidarsi con lui.
Fece una pausa e quando si sentì pronta, raccontò a Spencer cosa fosse successo. “Qualche anno fa, sono caduta in anoressia. Ne avevo sofferto anche al liceo, ma ero sempre riuscita a controllarmi, solo che quella volta la ricaduta fu molto forte e i miei genitori furono costretti a ricoverarmi in una clinica per disturbi alimentari, al Sara Tobin nello stato di New York” confessò la ragazza.
“Ero in preda ad una forte depressione, ricordo che i medici mi dissero che ero in pieno esaurimento nervoso, e che se avessi continuato a dare i numeri rischiavo di perdere la vita. Sapevano che, avendo una formazione medica, io fossi perfettamente in grado di capire a cosa stessi andando incontro punendomi in quel modo, ma pensavano che se mi avessero messo di fronte alla consapevolezza che pesavo a mala pena quaranta chili, avrei smesso di impormi quel digiuno forzato” continuò, Spencer notò che aveva gli occhi lucidi mentre parlava e inevitabilmente si commosse anche lui. Non riusciva ad immaginarsi una Madison così fragile, nonostante non la conoscesse da molto, gli era sembrato una persona molto sicura di sé e forte. D’istinto posò una mano sulla sua come per farle coraggio e la invitò a continuare il suo racconto se ne aveva ancora voglia.
Madison annuì e si schiarì la gola cercando di dissolvere il grappolo che le si era formato.
“Qualche mese dopo, uscii dalla clinica, non ero ancora guarita ma il peso non era più preoccupante e i medici pensarono che potesse essere una buona idea portarmi a casa. Ovviamente si rivelò un terribile sbaglio.- fece un’altra pausa per riuscire a controllare le proprie emozioni- Persi il controllo di nuovo e iniziai a bere, non ricordo un singolo giorno in cui non sia stata portata a casa in uno stato di semi incoscienza. I miei genitori furono costretti a portarmi nuovamente in clinica e fu allora che mi prese in cura il dottor Rhodes.”
“Mi è stato accanto in ogni momento, mi ha ascoltata fino alla nausea incoraggiandomi in ogni modo perché ritrovassi la voglia di vivere che avevo perso. Ci vollero altri sei mesi perché mi riprendessi, ma il dottor Rhodes non si smise di venirmi a trovarmi finché non trovai la forza di riprendere il controllo della mia vita e così uscii dalla clinica.”
“Non bevo da allora e non ho più avuto ricadute, è passato quasi un anno e ormai non faccio nemmeno la cura contro la depressione che mi era stata prescritta”concluse Madison.
“Scusami se non te ne ho parlato l’altro giorno, ma temevo che mi avresti giudicata e così..”si giustificò con la voce tremava, aveva paura di averlo deluso. Spencer la interruppe dicendole che non lo avrebbe mai fatto e che la considerazione che aveva di lei non era cambiata di una virgola, anzi si era fortificata. Fu allora che Madison con un gesto impulsivo abbracciò il dottor Reid, che rimase per un attimo interdetto, ma rispose all’abbraccio e strinse la giovane che appoggiò la testa sul suo petto.
Spencer chiuse gli occhi e sentì un profumo dolce di pesca e miele invadergli le narici. Rimasero in quella posizione per diversi secondi, poi Madison si staccò e sussurrò un grazie all’amico appena udibile.
“Ti va se andiamo a fare una passeggiata?” propose Spencer, pensò che prendere un po’ di aria avrebbe fatto bene ad entrambi.
Madison annuì e gli disse che le sembrava un’ottima idea, poi indossò il cardigan che Spencer le aveva prestato e uscirono di casa. Camminarono fianco a fianco per circa una ventina di minuti senza dirsi molto, si recarono al parco e senza accorgersi si presero per mano.
“Guarda un mago!” esclamò indicando una folla radunata attorno un giovane vestito come uno stregone dei film su Merlino e la tavola rotonda, la giovane accelerò il passo e lasciò andare la mano di Spencer che in quel momento realizzò di averla stretta.
Era sorpreso, si sentiva bene e per nulla imbarazzato, come se fosse una cosa normale e del tutto spontanea. “Quello non lo si può definire un mago” asserì il dottor Reid dopo aver osservato il presunto mago all’opera.
“Agente Reid, lei pensa di poter fare di meglio?” lo incalzò alzando un sopracciglio, Spencer si avvicinò e sussurrò al suo orecchio di sapere di poter fare meglio e poi fece apparire davanti un fiore finto di colore blu, Madison applaudì e si mise il fiore fra i capelli. Nel frattempo il mago aveva terminato il trucco e chiese se c’era un volontario per quello successivo, il mago scrutò la folla guardando i ragazzini che si sbracciavano per essere scelti, stava per prendere uno di loro quando Spencer si fece avanti chiedendogli di prendere lui.
“Costui vi vuole sfidare, mio giovane mago, perciò dovrà accettare l’offerta se non vuole perdere l’onore” esclamò la rossa rivolgendo un sorriso accattivante alla folla che si era girata verso di lei, convinta che si trattasse di una recita. Il mago sgranò gli occhi, non capiva cosa volessero quei due, ma concludere lo spettacolo in quel momento significava perdere le offerte perciò decise di lasciarli fare.
“Bene, bene. Chi sei? Ti prego, presentati alla folla” domandò il mago con un gesto teatrale. “Sir Reid, a suo servizio” si presentò Reid e fece un inchino alla folla e presentando l’amica, che s’inchinò a sua volta, come lady Madison.
“Non so che intenzioni abbiate, ma spero che non roviniate il mio spettacolo. Per te sarà solo un modo di colpire la ragazza, ma per me è la cena di stasera” sussurrò il giovane a Spencer quando si avvicinò. “Stai tranquillo, il tuo spettacolo è salvo e anche la cena” lo rassicurò Spencer, poi gli diede delle indicazioni che il giovane eseguì.
Terminata l’esibizione, la folla esplose in un grande applauso, i due maghi si inchinarono. Mentre il mago passava fra la folla con il cappello per raccogliere le offerte, Spencer si allontanò per raggiungere l’amica che si complimentò con lui per la sua performance. “Grazie” disse ad entrambi il giovane mago, sollevò per qualche secondo il cappello che indossava e poi se ne andò.
“Lady Madison le andrebbe di andare a cena? Conosco una taverna a pochi passi da qui” le chiese con tono cavalleresco. “Con immenso piacere, accetto il suo invito, sir Reid” gli rispose la rossa. Spencer offrì il braccio e insieme si avviarono verso il ristorante.
 
Mentre rientravano dal ristorante furono sorpresi dalla pioggia che li costrinse a correre fino al palazzo.
Madison giunta al portone si fermò a prendere fiato, stava ansimando. “Sono decisamente fuori allenamento” riconobbe quando fu in grado di parlare mentre Spencer la guardava divertito.
In quel momento il cielo s’illuminò quasi fosse giorno e dei forti tuoni rimbombarono su tutta Washington. “Caspita, si è scatenato un brutto temporale” commentò Reid. “Meno male che siamo rientrati” aggiunse guardando fuori.
Madison rimase muta, stava quasi tremando, aveva una paura matta dei temporali fin da quando era piccola, ma non voleva ammetterlo perciò fece finta di niente e si avviò per le scale preceduta dal dottor Reid.
Giunti al secondo piano, il suo vicino la salutò, augurandole la buonanotte, ma Madison mentì dicendogli che aveva scordato le chiavi di casa nel suo appartamento e doveva salire a prenderle. “Sei sicura?” ribadì confuso l’amico. “Non mi pare di averle viste”
Madison gli rispose che era sicurissima che fossero di sempre e insieme si avviarono verso l’appartamento di Spencer, non aveva alcuna intenzione di rimanere sola finché il temporale non fosse passato.
“Le hai trovate?” domandò l’amico, Madison le fece cadere dalla tasca sul divano e poi le alzò facendo finta di averle trovate. “Erano finite fra i cuscini” spiegò.
Reid le sorrise e le augurò nuovamente la buonanotte convinto che la sua vicina se ne sarebbe andata, Madison rimase sulla porta senza muoversi mentre il genio la guardava. “Qualcosa non va?” le chiese.
“Posso dormire con te stanotte?” gli domandò tutto d’un fiato, poi si portò una mano alla bocca; Spencer deglutì e per poco non gli andò la saliva di traverso, una domanda del genere non se l’aspettava minimamente.
“No, Spencer, aspetta. Non in quel senso…” spiegò la rossa mettendo una mano avanti. “Io ho paura dei temporali. Posso restare qui finché passa?”
Spencer tirò un respiro di sollievo. “Certo, comunque dai, è solo della pioggia, che vuoi che succ..” non finì di dire la frase, che l’appartamento sprofondò nel buio, il temporale aveva fatto saltare la corrente nell’intero isolato.
Reid lanciò un urlo e scattò in avanti verso Madison. “Che vuoi che succeda, eh?” protestò lei. “A quanto pare, il grande Reid non-ho-paura-dei-temporali ha paura del buio invece” lo accusò lei, non le piaceva essere presa in giro.
Reid si scusò e le chiese di accompagnarlo in cucina a prendere delle candele, stavano raggiungendo la cucina quando sentirono un rumore alle spalle, d’istinto Madison si aggrappò a Reid che fece altrettanto, aveva decisamente troppo paura pure lui per fare lo spavaldo alla Derek Morgan. “Che cos’è stato?” domandò la rossa con un filo di voce. “Non lo so, ma propongo di rimanere in questa posizione finché non sarà tornata la luce” rispose lui, Madison annuì e strinse ancora di più al dottor Reid.
Fu in quel momento la luce si accese, Reid si staccò da Madison che teneva gli occhi ancora chiusi. “Hey, era solo un libro. È caduto dalla libreria” le disse lui per farla calmare mostrandole il libro.
“Posso comunque restare un altro po’ oppure mi cacci?” gli domandò facendo gli occhi da cucciola.
Reid non riuscì a resistere a quello sguardo, e le disse che poteva restare finché il temporale non fosse passato, Madison gli stampò un bacio rumoroso sulla guancia e si lanciò sul divano. “Che facciamo? Ci guardiamo un film?” propose la ragazza.
“Mmm...si! Star wars? Ti piace?”, l’amica fece una smorfia di disgusto sottolineando che odiava quella saga, cosa che dispiacque a Spencer, fan appassionato qual era.
“Che ne dici se guardiamo  qualcosa in streaming? Così scegliamo quello che vogliamo!” affermò Madison, sicura che fosse un’ottima idea.
“Maddie, è illegale” ribadì Spencer. “Ma dai! Neanche fossimo della polizia!” protestò lei.
“No, sono un agente del F.B.I., che, guarda caso, ha chiuso Megavideo qualche anno fa!” le ricordò lui, a quel punto Madison scoppiò a ridere e cedette. Dopo qualche minuto, Spencer si ricordò del dvd che gli era stato regalato qualche anno prima. “Ho un dvd. Dovrebbe essere una commedia, “Tutti pazzi per Mary” mi pare...”
“Perfetto, Cameron mi piace!” esclamò lei accomodandosi i cuscini dietro la schiena. “Cameron?”
“Si, Cameron Diaz, l’attrice del film! Charlie’s Angels, The Mask, la voce della principessa Fiona in Shrek …” citò i nomi i film della famosa attrice nella speranza che all’amico si accendesse una lampadina, ma questo continuò a non capire di chi si stesse parlando, Madison roteò gli occhi ed infine gli disse di mettere il film. Spencer obbedì e si sedette vicino a lei mentre fuori continuava a piovere a dirotto.
Spencer rise e si girò verso Madison commentando la battuta e si rese conto che l’amica si era addormentata, perciò spense la tv  e le diede una leggera scossa perché si svegliasse. “Maddie… Il temporale è passato, vuoi che ti accompagni giù?” le domandò una volta che la rossa aprì gli occhi.
“E’ finito il film?” gli domandò con la voce impastata dal sonno. “Non proprio, ma tu eri più interessata a intrattenere rapporti con Morfeo che a guardarlo, perciò ho spento” rispose divertito Spencer aggiungendo che si era addormentata proprio sulla scena più bella.
Madison si alzò dal divano e con gli occhi ancori chiusi gli diede un bacio sulla guancia  per augurarle la buonanotte sfiorando involontariamente troppo da vicino l’angolo della bocca di Reid, le cui guancia avvamparono, provocando una risata alla vicina.
“Sembri un ragazzino che ha ricevuto il suo primo bacio” lo scherzò lei.
Spencer la guardò storto. “Torna nel mondo di Morfeo, stai dicendo troppe cavolate” replicò risentito.
Madison rise ancora una volta e si avviò verso la porta. “Comunque Mary sceglie Ted alla fine” disse lei svelando il finale prima di lasciare l’amico, che le tirò un cuscino addosso accusandola di avergli rovinato il film, colpendo però la porta che era stata velocemente chiusa dalla ragazza.

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Capitolo 5
*** Un doppio appuntamento...per caso. ***


                                                                               " Doppio appuntamento...per un caso"

“E’ arrivato un ragazzo questa mattina, Tom Collins, ha 27 anni, fa il cameriere in un ristorante di classe “Chez Martin” dichiarò il dottor Brown entrando nella sala in cui erano riuniti i suoi collaboratori.
“Caspita! Si farà delle belle mance in quel posto” commentò Perkins, attirando su di sé gli sguardi storti dei colleghi, era solito interrompere per fare dei commenti del tutto fuori luogo, il dottore alzò le mani in segno di scusa e promise di non dire più nulla.
“Il ragazzo è stato portato in pronto soccorso dalla sua fidanzata dopo che ha vomitato sangue per una buona mezz’ora” continuò Brown mentre i tre lo ascoltavano prestando la massima attenzione.
 “Qual è la diagnosi dei medici del PS?” domandò la dottoressa Andrews riportando la conversazione su Tom Collins.
“Il medico del PS che lo ha visitato non ha la più pallida idea di cosa possa averlo colpito.” riferì Brown mostrando la cartella che il medico del PS aveva scarabocchiato.
“Andate lui e cercate di scoprire quanto più possibile.” continuò l’uomo, i tre scattarono in piedi e si avviarono verso la porta. Prima che Madison potesse uscire dalla sala, il dottor Brown si rivolse a lei: “Thompson, tu rimani qui. Ho un altro caso per te”.
“Un caso da sola?” domandò stranita lei, era entrata a far parte del team da poco più di mese, non si sentiva ancora in grado di affrontare un caso senza il supporto dei suoi colleghi. “Sono sicuro che te la caverai” affermò con sicurezza il dottor Brown, infine consegnò la cartella a Madison, che ancora incredula continuava a fissarlo, e uscì anche lui per raggiungere i suoi collaboratori.
Madison si sedette sul tavolo e aprì la cartella; la paziente era una ragazzina di 14 anni residente nella città di Washington, era stata portata in ospedale in preda a forti allucinazioni e febbre alta.
“Si tratterà di qualche malattia infettiva” pensò Madison ad una prima lettura delle analisi del sangue. Uscì dalla sala anche lei e si recò dalla giovane paziente.
“Salve, sono la dottoressa Thompson” si presentò entrando nella stanza, subito i genitori si avvicinarono e le chiesero se sapeva cosa avesse.
“Purtroppo no, le analisi ancora non sono arrivate. Ma ho il sospetto che si tratti di qualche infezione, vedrete che sarà una cosa da nulla” li tranquillizzò Madison, poi controllo i parametri della ragazzina che le sembrarono apparentemente normali e si congedò dopo aver fatto qualche domanda alla ragazzina, che la raccontò di essere stata in campeggio di recente. Mentre raggiungeva di nuovo la sala,  un’infermiera la raggiunse consegnandole il resto delle analisi, “Il dottor Brown gliele manda, ha detto che si era scordato di portargliele” spiegò prima di allontanarsi.
Madison le diede un’occhiata alle altre analisi che lo stesso dottor Brown aveva ordinato quella mattina stessa, che le confermarono quanto aveva dedotto; si trattava di un’infezione da batterio che poteva essere stato contrattato facilmente  durante la sua escursione. Tuttavia le allucinazioni erano un sintomo anomalo che non riusciva ancora a spiegarsi, stava ricostruendo la cartella che aveva letto un’ora prima nella sua testa quando entrò nella sala dove i suoi colleghi discutevano del caso loro assegnato.
“Abbiamo fatto ogni possibile analisi, non riesco a capire”  disse Brown continuando a rileggere la cartella “Non so, c’è qualcosa che non mi convince” sottolineò Perkins. 
“Thompson, tu che ne pensi? Cosa può essere?” chiese alla nuova collaboratrice che in aria assente continuava a pensare al suo caso. “Uh, non saprei. Un tumore?” ipotizzò lei, Jennifer spiegò che quell’ipotesi era stata scartata. “E se fosse avvelenamento da radiazioni?”
“La sua fidanzata non presenta alcun sintomo, come può essere lui soggetto ad avvelenamento da radiazioni, e lei no?” insistette Jennifer.
“Magari è dovuto all’ambiente in cui lavora” suggerì Madison, a quel punto il dottor Brown inviò i due collaboratori a visitare il noto ristorante francese.
 “Come va con il caso?” le domandò il dottor Brown non appena rimasero da soli. “Bene, ho scoperto che si tratta di un’infezione da batterio. Insomma, un po’ di medicine e starà bene” rispose Madison, anche se non era convinta, non era ancora riuscita a dare una spiegazione alle allucinazioni.
“Ma le allucinazioni? A cosa sarebbero dovute? Non può essere solo a causa della febbre alta” replicò il dottor Brown, la giovane dottoressa rispose che anche lei era dubbiosa e così il dottor Brown le suggerì una tac, “Se si tratta di un problema a livello neurologico, di sicuro così lo saprai” poi uscì, aveva un appuntamento con il direttore dell’ospedale.
 
Madison spiegò ai genitori che doveva sottoporre la figlia ad una tac, descrisse il tipo d’esame alla ragazzina, che non ne aveva mai sostenuto uno e la condusse nella sala mentre i genitori aspettavano fuori.
“Ci siamo, che il cervello ci illumini la strada” disse il tecnico che svolgeva lo studio insieme a Madison, un uomo molto strano ma simpatico. “Stai ferma, mi raccomando. Ci vorranno solo pochi minuti” raccomandò la dottoressa Thompson alla ragazzina che urlò un “ok” da dentro il macchinario.
Dopo circa cinque minuti, la causa delle allucinazioni della paziente fu chiara. “Oh no” affermò Madison non appena si accorse che si tratta di tumore al cervello in fase terminale.
Il tecnico spense il microfono e fece uscire la ragazzina che fu accompagnata dai genitori da un’infermiera. “Difficile dare le brutte notizie, eh?” le domandò l’uomo notando l’espressione rammaricata di Madison.
“Difficile soprattutto quando si tratta di una ragazzina di 14 anni e tu non lo hai mai fatto” rispose lei, appoggiò la testa contro il muro, si sentiva sconfitta anche se sapeva che non era di certo colpa sua.
“Dovrai occupartene tu per forza? Oppure magari il dottor Brown può dare la notizia alla famiglia?”
“Non so, forse il dottor Brown può farlo, anche se il caso è mio.” Si illuse Madison, poi si congedò dal tecnico e andò a parlare con il dottor Brown evitando i genitori della ragazzina affinché non le venissero rivolte altre domande.
 
“Avevi ragione tu Thompson. Si trattava di avvelenamento da radiazioni. A quanto pare il ristorante francese non aveva alcun problema, ma il paziente era stato di recente licenziato dal ristorante dopo un litigio con un cliente e, di nascosto dalla fidanzata, si era procurato un altro lavoro a nero, poco sicuro in una fabbrica, dove è entrato in esposizione alle radiazioni” le riferì il dottor Brown non appena la vide.
“La mia paziente ha un tumore al cervello, le rimangono circa 2 settimane di vita” disse lei ignorando quanto le aveva detto il dottor Brown.
“Brutto affare. I genitori come l’hanno presa?” le domandò l’uomo, Madison gli confessò che non aveva ancora parlato con loro e che sperava che fosse lui a farlo.
“Non si può fare Thompson, questo è il tuo caso e la tua paziente. Te ne dovrai occupare tu” rispose freddo il suo capo. Fu in quel momento che Madison capì che il dottor Brown era a conoscenza del tumore della sua paziente. “Tu lo sapevi!” lo accusò.
“No, non lo sapevo. L’ho pensato, ma non ne avevo la certezza” ammise lui. “Thompson, il nostro lavoro a volte ci richiede di dare notizie che mai vorremmo dare, ma purtroppo noi siamo i dottori e non ci possiamo tirare indietro” la confortò notando l’espressione smarrita di Madison.
“Madison non sarà né la prima e né l’ultima, purtroppo, paziente a cui dovrai fare una simile comunicazione. Ti ci dovrai abituare perciò ora vai e parla con loro”
Madison sospirò, sapeva che era discutere con il dottor Brown quindi smise di provarci e gli disse che lo avrebbe fatto. “In ogni caso, ottimo lavoro. Hai risolto due casi oggi” si complimentò l’uomo prima che uscisse dalla sala.
Madison si girò e abbozzò un sorriso. “Uno avrei preferito non risolverlo” rispose, poi chiuse la porta e  si avviò a passo sostenuto verso la stanza della quattordicenne.
Intravide la propria immagine riflessa alla vetrata della stanza; “Sembro un fantasma!” si disse guardandosi, si ravvivò i capelli e si pizzicò le guancie perché avessero un colorito diverso dal bianco pallido, infine fece un respiro profondo e richiamò l’attenzione dei genitori affinché uscissero dalla stanza.
“Dottoressa? Qualcosa non va?” domandò il padre della paziente notando l’espressione sconsolata della giovane.
“Signori Field, mi dispiace, non è facile quello che sto per dirvi. Vostra figlia ha un tumore al cervello, è in fase terminale. Non possiamo fare più nulla”
Madison poté vedere come possa per qualcuno crollare tutto in pochi secondi, e si sentì colpevole dell’accaduto, come l’antagonista di una fiaba che cospira contro la coppia per impedire il lieto fine. Tutto si svolse rapidamente, la madre scoppiò in singhiozzi, le mancava il respiro perciò fu costretta ad allontanarsi con il sostegno di un’infermiera, che si prese subito cura della donna. Il padre rimase in silenzio davanti a Madison, che provò a dargli in qualche modo conforto sottolineando più volte che loro non avevano colpe e che c’era alcun modo per loro di venirne a conoscenza prima di quel momento. L’uomo annuì con scarsa convinzione e si scusò dicendole che doveva raggiungere la moglie; Madison sentì i suoi occhi inumidire e una mano posarsi sulla spalla, era il dottor Brown. “Non è colpa tua, anzi non è colpa di nessuno” la confortò l’uomo, capiva come si potesse sentire in quei momenti. Aveva esperienza sul campo, ma dare la brutta notizia che cambia la vita non diventa mai facile, neanche dopo anni di esperienza.
“Ora vado a casa” gli comunicò Madison poi consegnò la cartella che il dottor Brown prese subito in custodia ed infine lo salutò.
Non si preoccupò nemmeno di cambiarsi, voleva solo uscire dall’ospedale. Era seduta sul sedile della sua auto, con le mani posate sul volante e lo sguardo fisso in avanti quando il suo cellulare prese a squillare. Controllò il display e lesse il nome della sua vecchia compagna del college, Paget, che l’aveva ospitata nelle sue prime settimane a Washington.
“Hey dolcezza” la salutò con tono un po’ smorto. “Maddie, tutto ok? Sembri un po’, come dire, morta?” risuonò la voce squillante dell’amica.
“Ehm.. si. È stata una lunga e brutta giornata, tutto qui” spiegò velocemente. “Bene, allora la mia proposta non potrà che farti piacere”. Madison rimase un attimo incerta, le proposte di Paget avevano sempre a che fare con due cose: lo shopping e le feste.
“Andiamo ad una festa” annunciò vittoriosa confermando la seconda ipotesi della giovane dottoressa, che immaginò l’amica mentre faceva il suo solito sorriso malizioso. Per Paget andare ad una festa significava anche rimorchiare.
“Non so se sono dell’umore adatto”. Provò a giustificarsi, ma non c’era nulla da fare, l’amica aveva deciso: quella sera sarebbero uscite e non avrebbe rinunciato finché Madison non avesse accettato.
Dopo diversi minuti d’insistenze, Thompson accettò. “Mi passi a prendere tu alle dieci? La mia macchina languisce dal meccanico” chiese Paget prima di chiudere la conversazione.
“Certo”. Riattaccò e mise in moto il veicolo.
 
Era appena scesa dall’auto quando vide il dottor Reid intento a rovistare nella sua tracolla alla ricerca di qualcosa davanti al portone del palazzo. “Perso qualcosa?” gli domandò arrivata dietro alle sue spalle.
Spencer si girò e le sorrise. “Le chiavi, mi sa che le ho scordate” le disse senza smettere di cercarle.
“Dai, ti apro io”. Aprì il portone ed insieme si avviarono per le scale. “Tutto bene?” domandò lui dopo aver notato l’ espressione assente della vicina.
“Ho detto ad una ragazzina di 14 anni che ha due settimane di vita” rispose d’un fiato. Spencer annuì e non fece commenti, anche lui detestava dare quel genere di notizie, per sua fortuna nella maggior parte dei casi, se ne occupava JJ, ma quelle poche volte che era toccato a lui dare la brutta notizia si era sentito a pezzi dopo.
Arrivati al secondo piano, Madison si scusò con lui dicendogli  che aveva un appuntamento e che doveva essere pronta nel giro di due ore. “Un appuntamento?” chiese Spencer curioso. Non pensava che si frequentasse con qualcuno e quell’annuncio lo sorprese.
“Si, con un’amica” riferì la giovane, a quel punto lo salutò nuovamente ed entrò nel suo appartamento.
Spencer continuò a salire le scale, senza smettere di pensare al presunto appuntamento della vicina; gli aveva detto che si trattava di un’amica, e se gli avesse mentito?
“Che importa se mi ha mentito? Sono affari suoi se ha una storia” disse a se stesso mentre cercava la chiave di riserva sotto uno dei vasi di piante che teneva nell’ingresso. “Parli da solo, ragazzo?” gli domandò il signor Chester divertito mentre tirava una boccata di fumo dalla pipa, stava annaffiando le proprie piante. Spencer trasalì al sentire la sua voce e rimase in silenzio, il vecchio vicino lo metteva sempre in imbarazzo.
L’uomo scosse la testa e tirò un sospiro. “Le donne, eh? Difficile vivere con loro, ma forse è ancora più difficile vivere senza” dichiarò il signor Chester con tono un po’ malinconico.
“Lei è sposato signor Chester?” si trovò a domandargli Spencer, fu una domanda di getto. Non aveva mai parlato con il vicino, a parte quella volta dei muffin.
“Si, lo ero. Con Sue, una donna meravigliosa la mia Sue”. Spencer notò una punta di nostalgia nella voce del vicino, doveva averla amata moltissimo. “E’ morta cinque anni fa. La leucemia me l’ha portata via”
“Mi dispiace” gli disse il giovane. Il signor Chester fece spallucce e gli rivolse un sorriso.
“Allora è la misteriosa giovane dei muffin a darti problemi?”
Il dottor Reid aprì la bocca per negare, ma le parole gli rimasero intrappolate in gola, perciò annuì, d’altronde che senso aveva negare la cosa?
 Il vecchio gli fece l’occhiolino. “E’ molto carina, dovresti provarci”, infine gli disse che era arrivato il momento della medicina e rientrò in casa, seguito da Spencer che entrò nel suo appartamento.
Posò la tracolla sul divano e si precipitò sul telefono. “Morgan, hai impegni stasera?” domandò all’agente senza dargli nemmeno il tempo di rispondergli.
“Wow, che è successo?” lo scherzò incredulo Derek, una simile iniziativa non era usuale da parte del dottor Reid.
“Allora usciamo?” ripeté Reid ignorando la domanda di Derek, che accettò informandolo che sarebbe passato a prenderlo per le dieci.
“Chissà che intenzioni ha” si chiese Derek dopo aver chiuso la telefonata, poi andò a farsi una doccia. Doveva mettersi in tiro, aveva ottimi presentimenti per quella serata.
 
Un’ora dopo la bizzarra chiamata di Spencer al suo collega, Madison bussava alla porta dell’amica con una ciocca di capelli in mano. “Sei in anticipo di mezz’ora” le disse l’amica dopo averle aperto in accappatoio.
“Lo so, mi devi applicare queste”. Scosse le extensions davanti al viso ed entrò.
“Meglio il vestito rosso con lo scollo a v o quello nero paillettato?” le domandò Paget mostrando i due vestiti appoggiati sul letto all’amica.
“Paillette” affermò Madison, che si accomodò sulla sedia davanti alla toeletta dell’amica mentre questa si cambiava.
Si guardò allo specchio, non era molto soddisfatta del modo in cui si era truccata, ma non aveva voglia di rifarlo perciò decise di accontentarsi. “Ho esagerato con il trucco?” chiese all’amica quando apparve dietro di lei.
“Sei perfetta”. Le sorrise e iniziò a spazzolare i capelli dell’amica all’indietro per racchiuderli in una coda di cavallo.
Le applicò le extensions e poi la voltò verso di lei. “Sai che cosa ti ci vuole? A parte un uomo, ovviamente”
Madison fece una smorfia, odiava Paget quando s’intrometteva nei suoi love affairs, anche se ammetteva che non aveva tutti i torti.
“Un po’ di rossetto rosso!” esclamò l’amica, poi prese il rossetto e con un pennellino glielo applicò sulle labbra.
“Magnifica”  le fece un sorriso malizioso e l’aiutò ad alzarsi. “Oggi vedrai che il mondo sarà ai tuoi piedi, anzi ai nostri” dichiarò mentre Madison rideva.
“Che la serata abbia inizio” disse  Madison mentre metteva in moto l’auto. Paget accese lo stereo e lanciò uno sguardo d’intesa all’amica. “No, tesoro, che la caccia abbia inizio” la corresse.
 
Non appena arrivarono alla festa, furono adocchiate da un gruppetto di tre trentenni che si avvicinarono offrendo loro qualcosa da bere, che entrambe rifiutarono. “Allora ragazze di dove siete?” chiese uno di loro, non erano intenzionati a mollare la presa.
Paget rispose per entrambe dicendo che abitavano a Washington ma che in realtà nessuna di loro due era nativa del posto, la conversazione andò avanti per un po’ senza la partecipazione di Madison che scrutava il locale alla ricerca di una via di fuga; quel gruppetto non le ispirava affatto simpatia.
Fu in quel momento che intravide l’agente Morgan e il suo vicino entrare nel locale, che notarono  subito la dottoressa a loro volta. “Proprio nel momento giusto!” pensò, entrambi la salutarono da lontano e Madison fece segno di avvicinarsi con un cenno del capo. Derek intuì immediatamente che doveva intervenire per allontanare gli ospiti indesiderati.
“Ragazze qualcosa non va?” domandò Derek con tono protettivo quando fu davanti a loro. Il trio non appena vide l’agente Morgan si scusò dicendo che non stavano facendo nulla per poi dileguarsi rapidamente fra la folla. 
“Hey chi vi ha chiamato?” urlò Paget, poi si voltò per continuare la ramanzina che le morì in gola quando fu davanti all’agente Morgan. “Chi sono i tuoi amici, Maddie?” domandò all’amica lanciando uno sguardo malizioso all’agente di colore. “Lui è Derek Morgan, il mio amico, ricordi? E lui è il mio vicino di casa, Spencer. Sono colleghi, lavorano entrambi per l’F.B.I.” li presentò Madison.
Paget offrì la mano all’agente Morgan che gliela baciò ignorando del tutto Spencer, sul cui volto si dipinse un’espressione stranita che fece ridere Madison. “Piacere” sussurrò Derek con voce suadente.
“Io sono Paget, una ex compagna di college di Madison” si presentò da sola la giovane donna senza dare il tempo a Madison per farlo. “Anche tu sei un medico?” le domandò Spencer ignorando gli sguardi intensi fra i due.
“Oh no, ho abbandonato il college, ora faccio l’educatrice di bambini” disse in risposta alla domanda del dottor Reid senza smettere però di fissare il suo collega. “Soprattutto di bambini cattivi” aggiunse mordicchiandosi le labbra mentre l’agente Morgan che le sorrideva.
“Ok, forse è meglio che andiamo a prendere qualcosa da bere” affermò Madison dopo aver notato gli sguardi che si lanciavano i due, prese per un braccio il dottor Reid che protestava perché lui non voleva nulla da bere.
“Va bene, non bere niente però lasciali da soli” gli disse all’orecchio Madison quando furono lontani dai due che nel frattempo si erano spostati verso uno dei tanti divani che arredavano la sala.
“Perché?”. Non capiva il motivo di quella riservatezza, non si conoscevano nemmeno.
“Davvero non lo hai capito?” domandò lei scandalizzata. Possibile che non avesse capito?
Reid scosse la testa, rivelando di essere più confuso di prima. “Paget ci ha provato spudoratamente con Derek e lui sembra che ci sta” gli spiegò incredula che non avesse colto le intenzioni dell’amica, era stata così esplicita. “Davvero non lo avevi capito?”
Spencer annuì riconoscendo che non era molto bravo a decifrare quei tipi di comportanti, Madison rise. “Svegliati allora!” lo scherzò dandoli una leggera spinta, poi si sedette ad uno degli sgabelli del bancone del bar invitandolo a seguirla e ordinò una birra per entrambi.
“Vedi la tizia seduta al terzo sgabello? Ti sta fissando da quando ti sei seduto!” gli disse mentre sorseggiava la birra indicandola il mignolo in modo che la donna non se ne accorgesse.
“Ma chi quella mora?” le chiese sporgendosi in maniera troppo evidente e attirando su di sé gli sguardi della donna.
Madison lo guardò storto e lo rimproverò . “Si, lei. Non ti sporgere troppo però”
“Secondo me pensa che stiamo insieme” disse divertita. “Facciamoglielo credere, sempre se non ti interessa”
Spencer scosse la testa, e le domandò cosa intendesse fare. “Ora vedrai” rispose la rossa e si alzò diretta verso la donna che la guardava di sottecchi.
Madison le porse una fotocamera che prese dalla borsa. “Scusami, ti spiace fare una foto una foto a me e al mio fidanzato?”
“Certo, nessun problema”. Le strappò la fotocamera di mano e si alzò dallo sgabello.
“Amore, vieni” lo chiamò Madison, Spencer scosse la testa pensando che la sua vicina fosse una pazza.
Quando fu accanto a lei, la giovane dottoressa gli prese un braccio e lo posò attorno alle spalle, mentre lei lo abbracciava in vita. “Vado?” domandò stizzita la donna sbattendo un piede come per sottolineare che aveva fretta.
Madison annuì e, non appena la donna scattò la foto, stampò un bacio sulla guancia di Reid; “Va bene?” chiese ai due porgendo la fotocamera a Madison che si era sciolta dalla posa assunta.
“E’ perfetta, grazie”. La donna fece un cenno con la mano e tornò a sedersi.
“Andiamo via?” propose Madison mentre rimetteva la fotocamera dentro la pochette.
“Ma io sono in macchina con Derek”
“Non credo che ti convenga aspettarlo. Ti darò un passaggio io”.
Uscirono insieme dal locale e si avviarono verso il corso principale.
“Ho davvero una gran fame” disse Madison mentre passeggiavano. “Ho voglia di dolci” aggiunse.
“Mmm, ci dovrebbe essere un bar aperto tutta la notte a pochi isolati di qui, se vuoi, ci andiamo” le propose Spencer, Madison annuì entusiasta e lo prese a braccetto.
 
“Secondo te passeranno la notte insieme?” domandò Spencer all’amica pentendosi quasi subito di averlo fatto mentre aspettavano le loro ordinazioni seduti ad un tavolino. Madison fece spallucce. “Può darsi, chi lo sa”
Nel frattempo, la cameriera posò sul tavolino due fette di cheesecake al cioccolato guarnito con sciroppo di fragole.
Madison prese la forchetta e l’affondò subito nel dessert. “Gnam! E’ squisito” esclamò dopo aver dato il primo morso.
Spencer le sorrise, sembra una bambina in quel momento. “Certe volte mi chiedo come faccia, io non ci riesco” disse il giovane, Madison gli domandò se stesse sempre parlando di Derek e il suo vicino annuì.
Madison posò la forchetta abbandonando per un attimo lo squisito dessert. “Spencer, prima hai avuto la dimostrazione che anche tu fai colpo! E chissà quante volte sarà successo senza che tu te ne accorgessi”
Notò l’espressione poco convinta dell’amico che continuava a giocare con il proprio cheesecake, allora si alzò e si sedette accanto a lui, che abbassò la testa evitando di guardarla negli occhi.
“Hey, guardami”, Spencer si girò e Madison le mostrò la fotografia  che aveva scattato prima al locale.
“Guardati! Sei carino e hai davvero un bel sorriso, più bello di quello di Derek” gli disse, non stava mentendo, lo pensava veramente.
Spencer arrossì, non riceveva un complimento dai tempi delle telefonate con Maeve, ricordo che lo rattristì, ma preferì fare finta di nulla. Non voleva parlarne con Madison in quel momento.
 “Anche tu sei molto bella”. Le fece un complimento a sua volta.
“Ma quello lo sapevo già” lo scherzò lei, tornando a sedersi al suo posto. “Ora possiamo goderci questa delizia senza farci più ingrippi mentali?”.
Spencer annuì divertito e promise che avrebbe fatto del suo meglio, poi prese la forchetta e assaggiò il dolce. “Hai ragione, è buonissimo!” esclamò deliziato. “Dobbiamo ordinare assolutamente un'altra fetta”
Convennero entrambi che quello era il cheesecake più buono di sempre, e che quel bar d’ora in avanti sarebbe diventato il loro preferito. “Sarà il nostro posto” disse Madison mettendogli un abbraccio attorno al collo mentre uscivano dal locale, e infine s’incamminarono verso casa insieme.

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Capitolo 6
*** Per il piacere di uccidere (parte 1) ***


Scusate ci prendiamo una pausa della storia, ma questa è una FF su CM quindi un caso ci sta :) alla prossima!  

                                      “Per il piacere di uccidere (parte 1)”

 
“Che diavolo di suoneria hai?” domandò Paget a Derek mentre questi con gli occhi ancora chiusi cercava il cellulare tastando il comodino. “Rispondi, ti prego” lo esortò la donna; la mattina era il momento della giornata che odiava di più ed essere svegliata da una suoneria improbabile non lo rendeva di certo migliore.
Avevano passato una magnifica notte insieme e Derek  progettava di passare un’altra magnifica mattinata, ma quella chiamata di sabato mattina aveva rovinato i suoi piani. Aprì gli occhi rassegnato e si alzò di controvoglia offrendo lo spettacolo di se stesso con indosso soltanto i boxer a Paget che in quel momento pensò che forse quella mattina non era poi così male.
“Agente Morgan” rispose serio l’uomo di colore dopo che riuscì a trovare il cellulare nascosto sotto i suoi stessi vestiti. “Arrivo”. Riattaccò e iniziò a vestirsi. “Hey, cosa fai? Mi piaceva guardarti” affermò la mora mordendosi un labbro.
“Mi dispiace, piccola. Ma devo scappare”. Finì di vestirsi e lanciò un bacio in direzione di Paget che continuava a lamentarsi.
“Chiamami!” urlò lei per poi tornare a sonnecchiare mentre l’agente Morgan usciva dalla casa della sua nuova conquista.
 
Le porte dell’ascensore si aprirono su un’open space vuoto e silenzioso, Morgan gettò un’occhiata verso l’ufficio di Hotch e notò la figura del loro agente supervisore china sulla scrivania. In quel momento le porte dell’ascensore si aprirono nuovamente, erano Reid e l’agente Rossi. “Fatto le ore piccole ieri?” domandò l’agente di origini italiane notando l’espressione assonnata dell’agente di colore che annuì. “Una notte senza precedenti, ma forse non sono stato il solo” aggiunse, indicò Spencer e fece l’occhiolino a Rossi che rise guardando il dottor Reid che arrossì violentemente e scappò dicendo ai due che aveva bisogno di una tazza di caffè.
“Reid, che ti prende? Scappi?” domandò Morgan seguendolo in cucina. “No, nulla. Volevo il caffè, vedi?” indicò la tazza e cominciò a sorseggiare il caffè che era bollente e gli bruciò la lingua.
Derek rise. “Dalla tua reazione sembrerebbe il contrario. E in ogni caso sei sparito ieri sera, non che non mi abbia fatto piacere, se mi capisci… -fece una breve pausa e Spencer annuì- ma mi chiedevo che fine avessi fatto”
Reid posò la tazza sul tavolino. “Siamo andati via, abbiamo mangiato del cheesecake e siamo tornati a casa. Tutto qui”
“Tutto qui?” domandò poco convinto l’uomo di colore fissando l’amico per cercare di capire se mentiva. Il dottor Reid fece spallucce e ribadì quanto aveva riferito.
“La richiamerai?” gli domandò Spencer mentre si recavano nell’0pen space. “Penso di si, mi piace Paget”
“Ragazzi, dobbiamo correre in sala riunioni, Hotch e JJ sono già lì” li informò Rossi interrompendo la loro conversazione.
Penelope fece il suo ingresso in sala riunioni sfoggiando un vestito di un insolito colore giallo e con fiore abbinato fra i capelli. “Allora, queste sono le foto che sono state scattate poco fa della polizia di Las Vegas. Io mi rifiuto di guardarle” dichiarò rimanendo sempre di spalle al proiettore.
“Sono stati trovati tre corpi finora. Abby Brooks, 35 anni, insegnante nella scuola elementare O’ Roarke di Las Vegas, Mark Humphrey, 53 anni, cardiologo nell’ospedale Sunrise della città e Jonathan Ramirez, 27 anni, cameriere in uno dei tanti casinò” introdusse il caso JJ mentre scorrevano le immagini sul proiettore.
“La vittimologia è confusa. Queste persone non sembrano avere nulla in comune, se non la città di residenza” commentò Reid, leggendo velocemente le informazioni ricavate sulla vita delle tre vittime.
“Sembra che vengano scelte a caso. Quindi lo scopo potrebbe essere uccidere per il piacere di farlo?” ipotizzò il giovane.
“Può darsi. Del modus operandi che sappiamo?” domandò Rossi. “Annie Brooks è stata uccisa con un colpo di pistola alla tempia dopo essere stata torturata e picchiata, riportava segni di bruciature di sigaretta, nonché lividi, su tutto il corpo, specialmente sui seni” illustrò JJ mostrando lei le immagini del corpo deturpato di Brooks. Garcia fece un’espressione di disgusto e uscì dalla sala.
“Mark Humphrey è morto dissanguato dopo che si è amputato un braccio” continuò la bionda, stava per terminare la propria narrazione con il caso di Ramirez quando Derek la interruppe.
“Aspetta, si è amputato un braccio?” domandò l’agente Morgan  con evidente stupore, JJ annuì e spiegò che era stato dedotto dal medico legale dopo aver considerato l’angolazione con cui era stata compiuta l’amputazione.
“Questo è pure sadismo. Magari la vittima sperava che amputandosi il braccio sarebbe riuscito a fuggire?” suggerì Blake dopo una breve riflessione, ipotesi che sembrò trovare l’accordo dei suoi colleghi.
“Infine Jonathan Ramirez è morto per asfissia. È stato soffocato con una busta di plastica, come potete vedere. Il medico legale nel rapporto ha aggiunto che non ha rilevato alcun segno di tortura sul corpo” terminò il proprio racconto JJ.
Reid rabbrividì. “A parte Ramirez, le altre due vittime sono state evidentemente uccise da un soggetto violento, che prova piacere nell’infliggere dolore. Ma qualcosa mi dice che non si tratti della stessa persona. La prima vittima è stata torturata, mentre la seconda è stata costretta ad auto infliggersi dolore. L’SI in quel caso era  spettatore e carnefice, mentre nel primo caso era solo il carnefice” espose la propria tesi il giovane agente.
“Non può trattarsi della stessa persona. Anche il modo in cui è stato uccisa la prima vittima è strano; un colpo di pistola è molto impersonale, dopo una simile tortura. Come se provasse piacere nella tortura, ma non nell’uccisione in sé e per sé. Invece la seconda vittima si è spenta poco a poco e se la teoria di Reid è valida, molto probabilmente l’SI era rimasto lì a guardarla.” dedusse Rossi.
“Quindi siamo di fronte a trio di assassini?” domandò JJ stupita.
“E’ probabile. Decolliamo fra un quarto d’ora” annunciò Hotch.
 
 
“I nostri assassini sembrano invece avere un punto d’accordo nel modo in cui si sbarazzano dei corpi. Tutte e tre le vittime sono state rinvenute nella propria auto nel posto in cui sono state viste vive per l’ultima volta questa  mattina” spiegò Rossi mentre erano seduti sui divani del jet privato diretto a Las Vegas.
“Quindi i nostri assassini le catturano e una volta uccise le riportano nel luogo della cattura. Dove sono state trovate le vittime?” chiese Hotch a Garcia che era in collegamento con loro.
“Ramirez nel parcheggio del casinò dove lavorava, Brooks fuori da un supermercato, dentro la sua auto sono state trovate le buste della spesa, e infine Humphrey è stato trovato fuori da un teatro. E’ stato rinvenuto  un biglietto della spettacolo “Madame Bovary”, attualmente in scena nel teatro e opera che io detesto, a dire il vero non sopporto proprio quel tipo di..”
“Garcia” la richiamò Hotch distogliendola dal suo monologo. “Scusi signore. Dicevo che è stato trovato un biglietto nella sua giacca” concluse la donna. “Secondo le dichiarazioni dei parenti delle vittime, Brooks era solita fare la spesa il venerdì dopo il lavoro, usciva ogni giorno alle 18,30, ma ieri dei colleghi hanno riferito che è rimasta almeno fino alle venti in ufficio, mentre Ramirez aveva finito il proprio turno di lavoro alle 22,30 e lo spettacolo di Humphrey era finito alle 21,40” lesse Blake.
“Bene, Garcia fatti mandare le registrazioni possibili dei luoghi del ritrovamento e analizzale, magari riusciamo ad individuare qualcosa di strano.” ordinò Hotch all’analista informatica che si mise subito al lavoro.
“JJ dovrai parlare con i parenti delle vittime, chissà che loro non sappiano qualcosa di più che magari è sfuggito in un primo colloquio” disse Hotch, la donna annuì.
“Reid e Rossi, voi due andate dal medico legale, mentre Morgan e Blake andranno sulla scena del ritrovamento del corpo. Cominceremo dalla prima vittima” finì di smistare i propri agenti e rimase in silenzio.
Un brutto presentimento s’insinuava nella testa dell’agente supervisore della B.A.U.
 
Nel frattempo, lontano dalla squadra della B.A.U e degli oscuri pensieri che si facevano strada nella mente di Aaron Hotchner, la dottoressa Thompson si versava una tazza di caffè. Si era svegliata da poco, quella mattina era intenzionata a fare un po’ di jogging; la corsetta del giorno del temporale con il suo vicino l’aveva messa di fronte alla consapevolezza che era decisamente fuori allenamento quindi doveva assolutamente rimediare.
Aveva appena finito di cambiarsi quando il citofonò suonò. “Chi è?” chiese con stupore, non riceveva molte visite nel suo appartamento.
“Sono Paget, Thompson. Mi apri?” rispose l’amica mora con la sua solita voce squillante. “Subito” e premette il tasto per l’apertura del citofono.
Cinque minuti dopo, l’amica entrò nell’appartamento e saltò sulla poltrona. “Io adoro i tuoi amici” esclamò una volta ottenuta l’attenzione totale di Madison.
“Nottata piacevole?” dedusse Madison dato l’entusiasmo percepibile nella voce dell’amica che annuì.
“Stamattina però è fuggito di tutta fretta” si lamentò la donna incrociando le braccia per evidenziare la sua delusione.
“Sarà andato a lavorare. E’ un agente dell’F.B.I., per loro non esistono i festivi” rispose andando in cucina.
“Vuoi una tazza di caffè?” urlò dalla cucina, Paget accettò e si alzò per raggiungere l’amica.
“Tu invece che hai fatto? Sei stata con il biondino?” le domandò con un tono leggermente malizioso.
“No, Paget, non sono stata con il biondino” rispose stizzita la rossa.
Paget rise e le domandò se per caso aveva lei la sua fotocamera. “Si, si. È qui” confermò Madison e andò a prenderla nella pochette. “Eccola” gliela porse e tornò a sedersi sulla sedia di fronte all’amica.
“Hai scattato una foto! Sai, siete carini insieme” affermò l’amica guardando la fotografia che avevano scattato i due la sera prima. “C’è qualcosa in ognuno di voi che ricorda qualcosa dell’altro” proseguì concentrandosi sulla fotografia.
Madison rise. “Come sei poetica” la scherzò, Paget fece una smorfia e mise la fotocamera nella borsa.
“Credi che mi chiamerà il tuo amico?” le domandò tornando seria.
“Derek? Perché non dovrebbe?”
“Non lo so, magari non gli interesso. Tu sei sua amica! Che tipo è? Non è che sei stata insieme a lui, vero?” chiese sporgendosi verso di lei con espressione minacciosa.
“No, tranquilla. Tra me e Derek non c’è stato mai niente, a parte una sincera amicizia. Ci siamo conosciuti qualche anno fa quando io lavoravo con Derrick” spiegò l’amica.
Paget sospirò pensando a Derrick. “Ah, l’agente Derrick! Un gran figo”.
Madison scosse la testa, ammettendo però che aveva ragione. “Dovevi metterti insieme a lui e non insieme a quel bastardo di Van der Meer” sottolineò l’amica che ancora nutriva un profondo odio nei confronti dell’ex fidanzato della giovane dottoressa.
“Mason è stato un errore” riconobbe Madison, che si era rabbuiata pensando al suo ex. “Ma ormai è tutto passato, e comunque Derrick non faceva a caso mio” ribadì sperando che con quell’affermazione la conversazione si sarebbe conclusa.
Paget annuì e non disse più nulla intuendo che l’amica non gradiva che s’intraprendesse di nuovo l’argomento.
“Andiamo a correre?” le propose Madison che non si era dimenticata dei suoi buoni propositi per quella mattinata.
“Mai!” disse l’amica quasi scandalizzata per la proposta di Thompson.
“Dai, una passeggiata almeno” insistette la rossa facendo un sorriso che sperava fosse abbastanza persuasivo.
“Che ne dici di una colazione al bar?” propose a sua volta l’amica, Madison rise e accettò la proposta, dopo tutto non aveva così tanta voglia di correre.
 
“Quindi la nostra vittima è stata catturata qui, l’SI probabilmente l’ha sorpresa alle spalle mentre sistemava la spesa nel bagagliaio” ipotizzò Blake imitando il gesto che la donna avrebbe potuto fare prima di venire rapita.
“Magari l’SI le ha puntato una pistola per costringerla ad andare con loro, forse la stessa con cui è stata uccisa” suggerì a sua volta l’agente Morgan, Blake annuì.
il cellulare di Morgan prese a squillare, era Garcia con delle informazioni sul caso. “Bambolina, illuminami” disse l’agente una volta risposto al telefono.
“Cioccolatino, ho qualcosa per te. Dopo aver passato a rassegna le registrazioni dei video sorveglianza del supermercato e del casinò, posso dirti che ho notato qualcosa di strano. Entrambe le vittime sono seguite all’uscita da due uomini che, a mio avviso, sono gli stessi” lo informò Garcia. “Purtroppo nessuna delle due videocamere inquadra il parcheggio, quindi non so dirvi nulla su come sia avvenuta l’aggressione” aggiunse rammaricata.
“Sei sicura, Garcia?” le domandò Blake dopo averla ascoltata attentamente. “Sicurissima, mia cara agente” affermò l’analista informatica. “Ho già inviato sui vostri tablet i video. Ora continuo le mie ricerche sul teatro. A dopo, amori miei”. Derek riattaccò. “Chiamiamo Hotch” disse alla collega e si mise subito in comunicazione.
“Hotch , forse sappiamo chi sono due dei tre rapitori” esordì Morgan non appena riuscì a rintracciare Hotch al cellulare mentre Blake guidava il veicolo di ritorno alla centrale.
“Garcia ha individuato una coppia seguire sia Ramirez che Brooks mentre si recavano alla propria auto. Anche a me sembrano le stesse persone” spiegò Derek che aveva finito di guardare i video.
“Perfetto, sappiamo altro?” domandò Hotch con tono serio dopo aver appresso le informazioni dei due agenti.
Morgan rispose che per il momento non sapevamo nient’altro e Hotch riattaccò dopo aver detto loro che li aspettava alla centrale.
“Agente Hotchner, è arrivata la perizia balistica.” Un agente gli porse una busta gialla e si allontanò lasciando Aaron a leggere il documento.
“Di che pistola si tratta?” domandò Rossi che nel frattempo era rientrato dalla visita al medico legale insieme a Reid.
“Sembra una pistola a tamburo dei primi del ottocento” rispose l’agente senza nascondere il suo stupore per la stranezza dell’arma utilizzata.
“Si tratta del primo “revolver”, fu prodotto  da Samuel Colt, che prendendo spunto dalle multicanna “Pepperbox” presentò il brevetto di un’arma “a rotazione del tamburo” nel 1836” spiegò Reid ai due. “E’ da collezione, ricercatissima dai collezionisti moderni e di sicuro molto difficile, penso impossibile, da procurarsi ricorrendo al mercato nero. Gli S.I. dovevano avere a disposizione ingenti somme di denaro e averla ottenuta per vie legali” ipotizzò il giovane.
 “Quindi è un’arma che può essere stata acquistata rivolgendosi ad un collezionista  di antiquariato oppure tramite un’asta magari?” domandò Rossi, Spencer annuì dicendo che era un’ipotesi del tutto probabile.
“Chiama Garcia e dille di cercare se si è tenuta un’asta o se qualche negozio di antiquariato ha venduto una simile arma di recente” ordinò Hotch a Spencer che si allontanò per chiamare l’analista informatica .
“Dal medico legale cosa avete saputo?” chiese Hotch a Rossi.
“Non molto. A quanto pare, il medico legale ha rinvenuto del DNA femminile sul corpo di Ramirez, è probabile che abbia un rapporto sessuale prima di morire. Purtroppo non è stato possibile identificare di chi sia il DNA, ma non combacia con quello della fidanzata di Ramirez”
“Quindi il terzo S.I. potrebbe una donna?” dedusse Hotch, l’agente Rossi fece spallucce, quel caso cominciava a diventare complicato.
“Garcia ha trovato qualcosa!” annunciò Reid tornando dai due. Mise in vivavoce la donna e l’esortò a parlare.
“Allora la bella pistola che avrebbe sparato a Brooks dal costo di 90.000 dollari sarebbe stata venduta nella casa d’asta Hastings mercoledì pomeriggio, insieme ad una lista di oggetti improbabili e dal valore, a quanto pare, inestimabile” comunicò ai tre. “Hai l’indirizzo?” le domandò Hotch.
“Si, l’ho inviato ora stesso, chiedete di Ronald Mills”. Chiuse la conversazione e tornò a digitare sulla tastiera.
“Rossi, Reid andate a parlare con il signor Mills sicuramente avrà una qualche ricevuta della vendita. Magari avremo un nome” disse ai due che uscirono dalla centrale diretti alla casa d’asta Hastings.
 
 
“Certo che ricordo quella pistola” affermò Ronald Mills, il proprietario della casa d’asta, dopo aver inforcato gli occhiali e guardato la fotografia. “E’ valsa alla mia cliente 90.000 dollari, eravamo partiti da un’offerta iniziale di 15.000” aggiunse mentre si dirigeva verso il proprio ufficio seguito dai due agenti.
“Ricorda a chi l’ha venduta?” domandò Rossi prendendo posto in una delle comode poltrone in pelle vera che arredavano il suntuoso ufficio del signor Mills. “Certo, è quella è la parte più curiosa” rispose l’uomo che si versò un bicchiere di scotch, l’offrì anche ai due agenti che però rifiutarono. “Siamo in servizio” si giustificò Rossi.
“Bene, vi dicevo. Ad avere acquistato la pistola sono due uomini, sui 35 anni presumo. Hanno pagato in contanti e avevano fretta ad impossessarsi della pistola. Uno di loro è rimasto al telefono per tutto il tempo. Credo che non fossero loro i reali acquirenti” spiegò l’uomo, Reid gli chiese se era frequente una simile situazione.
“Al dire il vero, si. Sa, gli oggetti che noi mettiamo all’asta vengono spesso acquistati da importanti famiglie, i cui patrimoni dovevano essere oggetto ad una dichiarazione molto dettagliata, soprattutto perché si tratta oggetti il cui acquisto sarà registrato necessariamente quando compiuto dal proprietario vero, se invece ad acquistare è un’altra persona, l’oggetto non compare e nessuno può ricondurlo al reale proprietario” chiarì l’uomo, seguito attentamente dai due agenti.
Rossi annuì. “La ringrazio. Sa dirmi il nome del soggetto che ha acquistato la pistola?”
L’uomo prese un foglio e dopo aver dato una breve occhiata, riferì il nome in questione. “Finn Emerson”
I due uomini si congedarono dopo aver nuovamente ringraziato il signor Mills.
“Garcia, abbiamo un nome per te. Finn Emerson” le riferì Reid mentre salivano nuovamente in auto.
“Perfetto. Vediamo… Finn Emerson” fece una breve pausa “Mmm, mi sa che l’unico modo a vostra disposizione per interloquire con il signor Emerson è tramite una tavola ouija. Emerson è morto cinque anni in un incidente d’aiuto”
Il dottor Reid la ringraziò e riattaccò. “Hanno dato un nome falso”
“Prevedibile” affermò Rossi, che si mise in contatto con Hotch per informarlo di quanto appresso.
“Hotch, mi dispiace, ma è stato un buco nell’acqua. Hanno dato un nome falso alla casa d’asta Hastings” riferì velocemente Rossi.
“Forse noi abbiamo una pista. Blake ha parlato con un testimone al supermercato, ha detto che le sembrava che i due uomini siano scesi da un furgone bianco” spiegò Hotch. “Ho già chiamato Garcia per dirle di procurarsi le video registrazioni della banca all’angolo della strada, chissà che riusciamo ad individuare il veicolo”
 “Perfetto, teneteci informati. Noi stiamo rientrando in centrale”
 
“Garcia ha individuato la targa del furgone tramite le registrazioni messe a disposizione dalla banca. Ci sta mandando i dati” annunciò Blake quando i due agenti rientrarono in centrale.
“Daniel Smith, 36 anni, originario di Little Rock, Arkansas. Precedenti per rapina a mano armata, estorsione e furti con scasso” lesse JJ. “Un curriculum di tutto rispetto” commentò ironico Rossi.
“Attualmente abita al numero 17 di Fremont st assieme a suo fratello Timothy di 31 anni “ li informò JJ.
“Lui ha precedenti?” le chiese Rossi. “A quanto pare è pulito” rispose la bionda dopo una breve occhiata.
 “Andiamo a prenderli” affermò Morgan che fu accompagnato da Rossi.
“Spencer tutto bene?” gli domandò Blake quando rimasero soli. Aveva notato che il giovane era piuttosto taciturno quando erano arrivati nella città del peccato. “Si, tutto ok. Venire qui ha sempre questo impatto su di me, non è mai facile” le spiegò alludendo al suo passato.
Blake annuì e gli chiese se ne voleva parlare, Spencer scosse la testa, preferiva evitare di intraprendere quel discorso e andò a versarsi un’altra tazza di caffè.
 
“Siete stati ripresi nelle video sorveglianza di due posti diversi inseguendo due delle tre vittime ritrovate questa mattina, mentre il vostro furgone compare nella registrazione di una banca vicino al teatro dove è stata visto Humphrey vivo per l’ultima volta, io direi che non è una coincidenza” affermò Morgan con tono sufficientemente serio per intimorire i due uomini.
“Quindi? Questo è un paese libero” lo sfidò Daniel fissando imperterrito l’agente di colore; il fratello teneva lo sguardo basso e muoveva nervosamente il piede sinistro, comportamento che non sfuggì all’agente Hotchner che osservava l’interrogatorio al di là del vetro.
“Da Daniel non otterremo molto, l’anello debole è suo fratello”commentò all’agente Blake. “Dobbiamo separarli” suggerì la donna all’agente che entrò nella stanza.
“Possiamo andare?” domandò Daniel sul cui viso si dipinse un’espressione beffarda.
“Non ancora, dobbiamo verificare i vostri alibi” lo informò Hotch mantenendo un tono calmo. “Suo fratello però viene con me”
Timothy sgranò gli occhi e deglutì, il fratello gli mise una mano sulla coscia per incoraggiarlo. “Stai tranquillo, noi non abbiamo fatto nulla”
“Questo lo vedremo, signor Smith” disse Hotch mentre con suo fratello usciva dallo stanzino.
“Siete fuori strada se pensate che noi abbiamo a che fare con gli omicidi di questi tre” insistette Daniel quando fu rimasto da solo con l’agente Morgan.
“Scommetto però che se portiamo una tua foto al proprietario della casa d’asta Hastings verrai sicuramente identificato come acquirente di questa pistola” lo intimidì Derek mostrando una foto dall’arma a Smith che cambiò espressione. “Non avete la pistola. Non potete dimostrare che a sparare sia stato io o mio fratello” si tradì Smith svelando un dettaglio che l’agente non aveva riferito.
“Io non ti ho mai detto che non avevamo l’arma del delitto” rispose Derek con soddisfazione. A quel punto si alzò e uscì dalla stanza.
“Non abbiamo niente. Anche se possiamo dimostrare che loro hanno acquistato la pistola, non possiamo dimostrare che abbia sparato uno di loro” disse Morgan a Blake.
“Con il fratello come sta andando? Hotch ha ottenuto qualcosa?”
“Niente, per il momento. Hotch prova a metterlo sotto pressione, ma non dice nulla. È muto” le riferì la donna.
“Ragazzi, venite. Garcia ha trovato un video interessante. Potrebbe essere l’omicidio di Brooks” li richiamò Reid.
I tre agenti riconobbero subito Abby Brooks, era legata con delle catene che stringevano i piedi e le mani  ad una sedia completamente nuda, aveva gli occhi bendati.
“Ti prego, ho due bambini piccoli. Ti prometto che non dirò nulla. Non mi uccidere” lo implorò la donna fra i singhiozzi. Si sentì la voce di un uomo che rideva dicendole che era troppo tardi per lei, poi apparve un figura nera davanti alla donna che sparò un colpo secco alla tempia. Il video s’interrompeva in quell’istante.
“Mio dio”  disse Blake che si portò una mano alla bocca dopo aver visto la scena. “Dove l’ha trovato?” chiese Morgan al dottor Reid.
“Stava incrociando dei dati alla ricerca di qualche notizia sugli omicidi ieri notte, quando ha trovato questo. Purtroppo non le è stato possibile rintracciare l’indirizzo ip di chi ha caricato il video, ma ha detto di dare un’occhiata al sito”. Il giovane prese il pc che aveva con sé e digitò l’indirizzo che le aveva fornito l’analista informatica.
“E’ una chat?” domandò Blake mentre osservava le scritte comparse sullo schermo. “Commentano l’omicidio. Che cos’è questo “the dying game”?”
“Chiamo Garcia, vediamo cosa sa dirci” rispose prontamente Morgan.
“Dolcezza, sapevo che mi avresti chiamato. “The dying game” è un gioco di ruolo terrificante, ispirato al film ‘Hostel’ probabilmente” spiegò la donna prima ancora che Derek potesse chiederle qualcosa.
“I partecipanti acquistano delle persone per poter fare quello che desiderano, incluso ucciderle. Comprano la loro vita in pratica” continuò la donna.
 “Credevo che queste cose accadessero solo nei film di Tarantino” commentò uno dei poliziotti della centrale che aveva assistito alla chiamata.
“Hostel, il film a cui si ispira questo gioco, è tratto da una storia vera comunque” disse Spencer attirando su di sé lo sguardo disgustato del poliziotto.
“Come si partecipa a questo ‘gioco’?” domandò Derek all’analista incerto di poter definire gioco quell’atrocità.
“I partecipanti acquistano le proprie vittime tramite un sito online, che è stato oscurato momentaneamente, le cifre arrivano a sfiorare anche i 250.000 mila dollari” riferì la donna che continuava a leggere dati sul terribile gioco.
“Non capisco, che ruolo hanno i fratelli Smith? È evidente che non sia stato uno di loro ad uccidere Abby Brooks e non credo che siano loro ad organizzare questa sorte di olocausto” affermò il dottor Reid evidentemente confuso.
“Devono lavorare per qualcuno. Forse loro devono incaricarsi di catturare le vittime” ipotizzò Morgan, che interruppe la conversazione con Garcia dicendola di continuare a cercare ulteriori informazioni su “the dying game”.
Infine si recarono da Hotch e Rossi per riferire gli ultimi agghiaccianti dettagli appresi. Il caso sembrava lontano da una possibile e la giornata stava volgendo a termine.

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Capitolo 7
*** Per il piacere di uccidere (parte 2) ***


“Per il piacere di uccidere (parte 2)”

 
L’agente Hotchner guardava fisso il muro davanti a sé, ripensava alle informazioni ottenute, cercava di assegnare un ruolo ai fratelli Smith in quella strana faccenda, senza successo però.
Aveva bisogno di un loro aiuto, ma Daniel Smith, il fratello maggiore, si rifiutava di parlare se non fosse stata garantita loro l’immunità mentre Timothy era troppo spaventato per confessare.
“Dobbiamo metterlo ancora di più sotto pressione. Facciamogli vedere il filmato dell’uccisione di Abby Brooks, magari riusciamo a farlo parlare” suggerì Rossi mentre ricostruiva in mente una possibile dinamica degli omicidi.
“Hotch, Rossi. Garcia ha trovato un’altra pista” annunciò Blake entrando nella stanza dove i due agenti erano riuniti, Reid entrò mettendo in vivavoce la bionda. “Sei in vivavoce, Garcia” l’avvisò il dottor Reid.
“Signori” esordì la donna. “Chattando con quelli che erano collegati sul sito, gente davvero malata, se mi permettete, ho scoperto che l’organizzatore sarebbe un certo S.C., lo chiamano “Caronte” anche. Nessuno sa il suo nome però”
“Caronte?” domandò Rossi non riuscendo a capire cosa c’entrasse il nome del famoso personaggio di Dante.
“Si, come Caronte, lui traghetta le vittime verso l’Inferno, o almeno così lo hanno descritto” spiegò.
“Azzeccato, direi” fu il commento del dottor Reid. “Bene, cerca altre informazioni su questo S.C., noi intanto vediamo se il nome di questo soggetto ricorda qualcosa ai fratelli Smith” le ordinò Hotch, l’analista informatica disse che avrebbe fatto del suo meglio e riattaccò.
“Andiamo a parlare con Timothy” disse a Rossi che lo seguì nello stanzino degli interrogatori mentre il dottor Reid rimase fuori ad ascoltare l’interrogatorio assieme ad Alex.
“Smith, abbiamo qualcosa da farti vedere” gli disse Rossi, dispose il portatile davanti al sospettato e aspettò che si avvisasse il filmato dopo aver premuto il tasto play.
La reazione del minore dei fratelli Smith fu esattamente quella che i due agenti si aspettavano: Timothy si portò la testa fra le mani e scoppiò in singhiozzi quando il filmato si concluse. “Che cosa ho fatto?” ripeté più volte.
“Timothy, se collabori, ti promettiamo che faremo qualcosa per te. Ma devi dirci chi c’è dietro tutto questo” lo rassicurò l’agente Hotchner, dalla reazione dell’uomo si capiva che voleva uscire da quella terribile situazione.
“Se io ve lo dico, lui mi ucciderà. Conosce troppe persone”
“Avrai la nostra protezione” affermò Rossi per invogliarlo a parlare. Il giovane si lasciò sfuggire una risatina isterica. “E quando sarò dentro? Come vi proteggerete?” chiese ai due agenti. “Mi dispiace, io non vi dirò niente”
“Timothy, so che tu non volevi che succedesse nulla di tutto questo. Lo vedo nei tuoi occhi, ma se ti ostini a non parlare, questo gioco-fece una pausa per vedere la reazione del giovane che trasalì- non avrà mai fine e altre persone moriranno. È questo che vuoi?” provò a convincerlo l’agente supervisore della B.A.U., il giovane fece un respiro profondo che fece capire ai due che era pronto a parlare.
Iniziò il proprio racconto con la voce e le mani tremanti. “Noi dovevamo catturare le vittime. Non avevamo idea di cosa facessero con loro, pensavamo che volessero solo spaventarle oppure avere rapporti sessuali con loro” fece una breve pausa per riprendere fiato. “Io avevo bisogno di soldi e Daniel mi disse che così avrei risolto tutti i miei problemi. Dovevo solo guidare, lui catturava”
“Quando capii cosa c’era dietro, provai a tirarmi fuori, ma lui mi disse che ormai era troppo tardi, sapevo troppo, capite? Ero senza via d’uscita” urlò Timothy disperato senza smettere di singhiozzare.
“Lui chi?” gli domandò Rossi, l’uomo scosse la testa, non lo poteva dire.
“E’ S.C.?”, al sentire quelle iniziali l’uomo alzò la testa e guardò i due agenti. “Voi non sapete con chi avete a che fare” provò a intimorirli.
“Credimi, è lui che non sa con chi ha a che fare” rispose Rossi, mentre Aaron fissava il giovane con espressione seria. “Dì il suo nome, ci penseremo noi”
Timothy rimase in silenzio per qualche secondo. Gettò un’occhiata all’ultimo fotogramma dell’atroce filmato e infine parlò. “Si chiama Scott Cusack, è lui che organizza tutto mentre i suoi uomini scaricano i corpi. Per questo non sapemmo da subito cosa succedesse una volta che consegnavamo le vittime. Lo abbiamo capito guardando il telegiornale” confessò l’uomo.
“Dove possiamo trovarlo?”
“Non lo so, io non ci ho mai parlato. Era mio fratello a fare tutto. Mi aiuterete, vero?” li implorò Smith prima che i due uscissero dalla stanza.
“Faremo il possibile” disse Rossi e uscì dalla stanza lasciando l’uomo da solo che si abbandonò ad un lungo pianto.
Hotchner si diresse verso la stanza dell’interrogatorio dove veniva torchiato Daniel dall’agente Morgan da oltre mezz’ora. “Sappiamo tutto di Scott Cusack, ti conviene parlare” interruppe Hotch irrompendo nella stanza.
Sul volto di Daniel si dipinse un’espressione di odio. “Quell’idiota ci farà ammazzare” urlò scattando in piedi e riferendosi al fratello minore.
“Daniel, ti conviene calmarti. Non costringerci a fare qualcosa di brutto” lo minacciò Morgan.
Daniel si risedette. “E quale sarebbe la differenza? Credi che Cusack sarà meno clemente? Forse mi conviene farmi uccidere da voi”
Hotchner si sedette davanti a lui e lo costrinse a guardarlo. “Dove possiamo trovarlo?” ripeté la domanda fatta già al fratello Timothy.
“Anche se riuscirete a trovarlo, non potrete fermarlo. Troppe persone sono invischiate per lasciarvi indagare. I pezzi grossi vi fermeranno subito” riferì l’uomo.
“Sono invischiati dei politici nella faccenda?” domandò Hotchner. L’uomo annuì e disse loro che coinvolgeva gran parte della società bene di Las Vegas.
“Dicci dove possiamo trovarlo, ci pensiamo noi al resto” lo invogliò Hotch.
“Se ve lo dico, tirerete fuori dai guai mio fratello? Lui non c’entra nulla, io mi assumo tutta la colpa” richiese Smith in cambio dell’informazione. “Parlerò con il procuratore. Hai la mia parola” garantì Hotch, certo che avrebbe incontrato l’appoggio del procuratore Richardson.
“Uno dei suoi scagnozzi gestisce un casinò sul boulevard.  Tutte le notti organizza un torneo di poker, lo troverete certamente, ma non arriverete a lui facendo irruzione, scapperebbe molto prima che voi possiate mettere piede nel casinò. Per potergli parlare dovrete giocare con loro” suggerì Smith, poi diede il nome del casinò e i due agenti si congedarono promettendogli che avrebbero fatto il possibile perché il fratello venisse liberato.
“Reid, stasera dovrai giocare” lo informò l’agente Hotchner dopo che riferì quanto confessato da Smith.
Il dottor Reid deglutì. “Io? Scherzate vero?”
Hotch spiegò che avrebbe dovuto garantirsi di giocare con lui faccia a faccia, quindi serviva qualcuno che sapesse giocare.
“Hai anche l’accento del posto, questo faciliterà la tua copertura” aggiunse.
“JJ sarà il tuo portafortuna” gli disse Rossi che concluse la spiegazione dell’operazione informando che anche lui e Morgan sarebbero entrati nel casinò fermandosi nel bar mentre Blake e Hotch assieme ad una squadra di SWAT avrebbero aspettato nel retro del casinò nel caso qualcosa fosse andato storto.
Reid sospirò e annuì. “Posso farcela, o almeno lo spero”
Stilarono gli ultimi dettagli dell’operazione, ultimando la copertura tanto di Reid quanto di JJ e partirono alla volta del casinò in una berlina nera.
“Sei nervoso?” gli domandò JJ mentre Reid guidava in direzione del casinò. Reid si voltò verso di lei e non proferì parola. “Ok, sei nervoso” dedusse la bionda. “Andrà tutto bene, sei un genio. Il poker non sarà un problema” lo rassicurò poi.
Arrivati al casinò, consegnarono le chiavi dell’auto ad uno dei parcheggiatori e fecero il loro ingresso. Mentre Morgan e Rossi arrivarono dieci minuti più tardi come progettato. “Abbiamo individuato il gruppo di scommettitori” informò JJ ai due tramite un microfono nascosto.
Come stabilito, JJ si avvicinò a questi. “Vorremmo giocare” affermò la donna mettendo in mano ad uno di loro 25.000 dollari, la cifra minima per accendere al tavolo.
L’uomo passò la mazzetta al suo compare, che annuì sottintendo che si trattasse di soldi veri dopo averli esaminati. Gettò un’occhiata ai due agenti, soffermandosi sulla scollatura di JJ, che strinse la mano di Reid per assicurarsi che mantenesse la calma. “Chi gioca dei due?”
“Lui è il genio. Io sono il suo portafortuna” rispose maliziosa e fece un occhiolino all’uomo che con un gesto della mano li invitò ad accomodarsi al tavolo.
“Chi abbiamo qui?” domandò un uomo dai capelli brizzolati ben vestito, puntò gli occhi celesti sulla coppia e chiese informazioni ad uno dei suoi uomini. JJ dedusse che doveva essere Scott Cusack, e gli sorrise.
L’uomo annuì alle parole dell’uomo e poi si rivolse alla coppia. “Benvenuti. Iniziamo?”
I partecipanti annuirono e le carte furono distribuite. L’aria si fece tesa, JJ scrutava l’ambiente alla ricerca di una via d’uscita nel caso la situazione fosse precipitata, mentre Spencer si concentrava sulla partita tentando di pensare il meno possibile alla sua condizione. Gli sudavano le mani, costrinse sé stesso a non perdere il controllo, era indispensabile ai fini della riuscita del piano che arrivasse in fondo alla partita.
Man mano che il gioco procedeva, i partecipanti abbandonarono la partita e il tavolo finché non rimasero Spencer e Cusack, come progettato.
“Adesso siamo solo io e te” disse Cusack per mettere pressione a Reid che deglutì.
Il dottor Reid si fece coraggio e spostò tutte le fiches in avanti. “All in”
Cusack si abbandonò ad una leggera risata. “Coraggioso” mosse anche le sue fiches e scoprì le proprie carte, certo di aver vinto. “Scala reale”
“Mi dispiace, piccola” disse rivolgendosi a JJ che sgranò gli occhi, Cusack rise. A quel punto Spencer scoprì le carte, mostrando una scala a colori minima che batté la scala reale di Cusack, il quale rimase a bocca aperta, mentre JJ tirava un respiro di sollievo.
“Complimenti” disse l’uomo dopodiché chiamò uno dei suoi uomini. “Accompagna i vincitori nel mio ufficio” gli ordinò, l’uomo annuì. Spencer e JJ balzarono in piedi, quella mossa non era stata prevista. Avrebbero dovuto improvvisare.
“Il suo ufficio? Signore, quale onore ci riserva” disse JJ per dare un segnale a Morgan che lanciò un’occhiata a Rossi, era il momento di entrare in azione.
I due si mossero lentamente, cercando di non dare troppo nell’occhio, pagarono il conto del bar e infine si diressero verso l’ingresso del privè dove si teneva il torneo, dopo aver informato Hotchner del cambio di piano.
“Dovremmo vedere i nostri amici” comunicò Rossi alla guardia del corpo di Cusack.
“Non credo sia possibile” rispose l’uomo mantenendo ferma la sua posizione.
“Io invece dico di si” affermò Morgan poi lo atterrò con un colpo alla nuca, stendendo l’uomo che cadde in avanti svenuto.
Il colpo sferrato da Morgan non sfuggì al secondo scagnozzo di Cusack che sguainò la pistola, puntandola verso JJ. “Fate un passo e la vostra amica è morta”  minacciò Cusack.
“Io non ne sarei così sicura” affermò JJ che colpì l’uomo con una gomitata allo stomaco, questi perse l’equilibrio e lasciò cadere la pistola che fu presto raccolta da Spencer, Cusack sparò un colpo in aria per attirare l’attenzione dei suoi uomini che si precipitarono nella stanza, e approfittando della distrazione dei federali tentò la fuga, che fu bloccata sul nascere dalla squadra di SWAT che entrò nella stanza seguito da Hotchner e dal capo del distretto di polizia.
“Sei circondato, Cusack, ti conviene costituirti” gli disse Hotchner.
L’uomo alzò le mani e fu presto ammanettato dal poliziotto, in seguito fu scortato in centrale dove ebbe inizio il suo interrogatorio.
 
“Vi darò tutti i nomi che volete. Ma prima dovete garantirmi l’immunità” affermò Cusack con espressione beffarda.
Morgan s’infuriò e scattò in piedi, Hotch lo fermò mentre il criminale rideva della reazione dell’agente.
“Ne riparleremo più tardi” disse Hotchner e uscì dalla stanza portandosi con sé Morgan.
“Dammi il via e ti giuro che lo faccio a pezzi” esclamò l’agente di colore guardando dentro la stanza.
“Non sarà necessario. Possiamo incriminarlo grazie alla confessione dei fratelli Smith, al procuratore basterà” rispose l’agente Hotchner senza tuttavia placare la rabbia di Morgan.
“Garcia ha trovato uno stabilimento a nome di Cusack, abbiamo inviato una squadra per verificare se quello è il luogo della casa delle torture” annunciò Rossi.
 I due agenti annuirono. “Dobbiamo avere i nomi, Hotch” insistette Morgan.
L’agente supervisore si sedette nell’ufficio assegnatogli e si posò il mento fra le mani. “Se gli concediamo l’immunità, sarà liberato e uscirà da quest’ufficio come se nulla fosse successo”
“Ma i nomi ci servono. Qualcuno dovrà rispondere dei tre omicidi” commentò Blake. “Controlliamo movimenti dei principali politici e impresari di Las Vegas” suggerì Reid.
“Non possiamo farlo senza un mandato” fece presente Hotchner.
Morgan fece spallucce. “Facciamoglielo fare a Garcia”
“Non possiamo. Si tratta di facoltosi uomini di affari, avranno i migliori avvocati dalla loro parte, non potremo nemmeno trattenerli quando verranno a scoprire il modo in cui ci siamo procurati le prove incriminanti” chiarì Hotch.
“Incastriamoli per qualcos’altro. Magari portandoli in centrale, Smith li potrà riconoscere e avremo un testimone” suggerì Rossi. Hotch si trovò d’accordo con la proposta dell’anziano agente e diede ordine all’analista informatica di mettersi al lavoro.
Nel frattempo l’agente Hotchner andò a parlare con il procuratore per negoziare la libertà del fratello minore di Daniel, Timothy Smith. Non potevano fare nulla  per il momento se non aspettare notizie da Penelope e sperare di aver qualcosa su cui lavorare dopo.
Morgan assieme a JJ e Blake andarono a prendere qualcosa da mangiare, invitarono anche Rossi e Reid che rifiutarono l’invito dicendo che preferivano ritirarsi in albergo.
Reid entrato nell’albergo si fece una lunga doccia, aveva bisogno di rilassarsi; era stata una missione piuttosto impegnativa, quella che l’aveva visto protagonista nelle ore precedenti.
Era in piedi davanti alla finestra che fissava il viavai instancabile di turisti che da sempre contraddistingueva Las Vegas quando il suo cellulare iniziò a squillare.
Rispose alla telefonata senza controllare chi fosse. “Pronto”
“Spencer? Sono Madison. Tutto bene?” domandò la rossa, qualcosa nel tono dell’amico le suggerì che qualcosa non andava.
“Al dire il vero no” rispose sincero. Aveva bisogno di sfogarsi e quella chiamata cascava a pennello.
Spencer le raccontò del caso e dell’operazione che avevano condotto, mentre l’amica lo ascoltava attentamente.
“Mio dio, ma è orribile” esclamò Madison dopo che Reid concluse il suo racconto. “Quei bastardi non la devono passare liscia” aggiunse.
Spencer sospirò. “Non so se sarà così semplice” le confessò lui, l’esperienza acquisita nei suoi anni di lavoro gli aveva insegnato che i soldi possono coprire ogni cosa.
“Troverete un modo” disse l’amica per incoraggiarlo, Spencer a quel punto le disse che era parecchio stanco e che aveva bisogno di dormire, si scusò con la giovane che lo rassicurò ancora una volta dicendo che sarebbe andato tutto bene, infine riattaccò e cadde immediatamente addormentato sul letto.
 
La mattina dopo Hotch comunicò a suoi agenti che Garcia era riuscita ad individuare tre persone della società bene di Las Vegas, il cui alibi per la notte dell’omicidio era piuttosto incerto, e che erano state attirate in centrale con l’accusa  di frode al fisco.
“Sono Paul Stewart, futuro candidato del partito democratico al congresso, Grace Keller, una delle donne più potenti di tutta Las Vegas, possiede alcuni degli hotel più lussuosi della città e Colin Lee, uno dei principali azionisti della Chrysler” riferì Hotcher.
In quel momento uno dei poliziotti del distretto annunciò che i tre sospettati erano arrivati in centrale scortati dai loro avvocati, Spencer si affacciò per vedere in faccia i responsabili di quella strage e fu allora che vide qualcosa che lo lasciò senza parole.
“Papà” farfugliò dopo aver visto su0 padre seguire il suo cliente Paul Stewart. “Che ci fa lui qui?”
“Reid, tuo padre è un avvocato. Cosa che vuoi ci faccia qui? Una partita a guardie e ladri?” rispose l’agente Morgan c0n tono sarcastico.
Reid lo ignorò e si diresse verso suo padre. “Non vorrai sul serio difendere un assassino?” lo incalzò apparendo davanti a lui e indicando Stewart che si girò verso il giovane rivolgendogli un’occhiata di disprezzo.
“Reid, faccia presente all’agente che io non sono un assassino” disse al suo avvocato, William Reid deglutì e prese per il braccio il figlio. “Spencer, non scelgo io chi difendere” chiarì l’uomo sperando invano che suo figlio fosse comprensivo. “La tua posizione non cambia. Puoi sempre rifiutare” ribadì freddo Spencer svincolandosi dalla presa di suo padre.
Suo padre scosse la testa di fronte alla reazione del figlio. “Credi che sia così facile?”
“Si, lo è. Sai a volte ti penso e per qualche minuto mi viene voglia di chiamarti per chiederti come stai, ma poi mi vengono in mente tutte le tue mancanze di questi anni e mi rendo conto che chiamarti non ha proprio senso.” Quelle parole ferirono suo padre che per qualche secondo vacillò.
“Se considero poi che ogni volta che ti incontro, mi dai un motivo in più per tenerti fuori dalla mia vita, beh a questo punto, sto decisamente meglio senza di te”.
Detto ciò, Spencer se ne andò senza dare il tempo al padre di replicare, William provò ad andargli incontro ma l’agente Rossi lo richiamò dicendogli che il suo cliente si rifiutava di iniziare l’interrogatorio senza il suo avvocato, l’uomo annuì, fece un respiro profondo e seguì l’agente Rossi.
 
Spencer uscito di corsa dalla centrale di polizia andò nell’unico posto dove in quella città poteva sentirsi al sicuro, ma soprattutto dall’unica persona che in tutta la sua vita, nonostante tutti gli spiacevoli momenti, lo aveva fatto sentire al sicuro: sua madre.
Entrò nella clinica che ospitava sua madre da oltre un decennio e aspettò che un’infermiera lo accompagnasse dalla loro degente. “Spencer, che piacere vederti! Era da un po’ che non ci facevi visita, vero?” esclamò lo psichiatra di sua madre, Wyatt Crossman. “Salve, dottor Crossman. In effetti è un po’ che non vengo..” mormorò, non aveva molta voglia di conversare con lo stimato psichiatra, voleva solo parlare con sua mamma.
“Ti accompagno io da Diana” gli disse l’uomo mettendo un braccio sulle spalle. “Sai, tua madre ha trovato un ottimo passatempo: scrivere. Ha riempito un sacco di quaderni ormai, io sono curioso di sapere cosa scrive, ma non lo vuole far vedere a nessuno” gli raccontò mentre raggiungevano la sala comune dove i pazienti trascorrevano la loro giornata impegnati in diverse attività.
Spencer sorrise, gli fece piacere sapere che sua madre aveva ritrovato la voglia di scrivere come un tempo; erano anni che non scriveva nulla, a parte le lunghe lettere che erano soliti scambiarsi. “Vediamo se io riesco a leggere qualcosa” disse al dottor Crossman.
“Eccola” affermò lo psichiatra avvicinandosi alla donna che era di spalle seduta su una sedia a dondolo guardando fuori la finestra. “Guardi, chi è venuto a trovarla” annunciò alla signora Reid che nel voltarsi s’illuminò vedendo il figlio.
“Spencer!” lo chiamò, si alzò in piedi, ma il suo figlio la trattenne. “Stai pure seduta”
“Bene, io vi lascio. Ci vediamo più tardi, signora Reid. Arrivederci Spencer” li salutò il dottore, Spencer ricambiò e avvicinò una sedia per stare accanto a sua madre.
“Ti trovo meglio” disse alla madre che lo guardava senza smettere di sorridere. Era sempre felice quando Spencer veniva a trovarla; i giorni in quel luogo trascorrevano molto lentamente ed erano sempre contraddistinti da una stancante monotonia. Le visite del figlio, per suo spiacere poco frequenti, la rallegravano, erano il suo modo di ricordarle che fuori da quella clinica, che era ormai diventata la sua casa, esisteva un mondo e qualcuno che l’aveva a cuore. “Il dottor Crossman mi ha detto che hai ripreso a scrivere”
Diana annuì e si sporse verso il figlio per sussurrarle qualcosa all’orecchio. “Lui è molto curioso, sbircia sempre quando passa davanti ai fogli. Io non voglio che legga”
Spencer  rise per quell’atteggiamento più adatto ad una cospirazione che ad una banale confessione.
“Comunque si tratta di un romanzo” gli disse la donna tornando a comportarsi normalmente.
“Di che parla?” domandò curioso Spencer. Ricordava ancora come fosse ieri i giorni trascorsi sul lettone di sua madre a leggere qualsiasi genere di storie, a parlare per ore; spesso sua madre le raccontava storie inventate che lo vedevano come protagonista, avventure ambientate in luoghi inesistenti, ricchi di storia e di emozioni.
“Parla di un bambino prodigio e di una mamma un po’ problematica” gli rispose scombinandoli i capelli castani come quando era piccolo. Spencer sorrise, avrebbe dovuto intuire che si trattava di una storia che parlava di loro.
Sua madre non poté fare a meno di notare che il figlio aveva un’aria triste. “Cosa hai Spencer?”
Spencer provò a parlare, ma gli si formò un grappolo in gola che glielo impedì. Improvvisamente sentì il respiro bloccarsi e gli occhi inumidirsi, provò a ricacciare indietro le lacrime ma non ci riuscì. Si buttò tra le braccia di sua madre, che senza esitare lo strinse, e pianse tutte le lacrime che da tempo reprimeva.
Pianse per suo padre, per Maeve, anche per sua madre, ma soprattutto per se stesso. Si sentiva sconfitto, solo, per la prima volta in tutta la sua vita nemmeno sua madre riuscì a colmare quel vuoto che lo divorava.
“Perché deve essere tutto così difficile?” domandò a Diana fra le lacrime, la donna inevitabilmente si commosse nel vedere suo figlio così indifeso e vulnerabile.
“Bambino mio, si sistemerà tutto. A tutto c’è un rimedio” lo incoraggiò sua madre. Prese il suo viso fra le mani e con i polpastrelli delicatamente asciugò le lacrime calde che scivolavano lungo il viso. “Ti manca tanto?” chiese sua madre alludendo a Maeve, di cui sapeva tutto. Suo figlio spesso gli aveva scritto di lei e della loro storia che sua madre aveva paragonato alla tragedia di Romeo e Giulietta.
Spencer annuì, ma disse che non era solo per lei che si sentiva così triste, le raccontò dell’incontro con William e di quanto gli facesse male ogni volta vederlo.
Diana sospirò, sapeva che per il figlio suo padre era una ferita inguaribile e si sentiva colpevole di non aver potuto far nulla per aiutarlo a superare la sua perdita, o per impedirla.
“Io volevo soltanto che mi volesse bene” confessò Spencer tirando fuori quella verità che si trascinava dietro da quella notte in cui suo padre andò via senza una spiegazione. La madre gli posò un bacio sui capelli e lo trattenne ancora fra le sue braccia. “Lo so, Spencer”
Rimasero abbracciati per ore, o forse solo per pochi minuti, Spencer non avrebbe saputo dirlo. Quando si calmò, salutò suo madre promettendole che sarebbe tornato presto.
“Ti voglio bene” le disse prima di andare via, la madre gli diede un altro bacio. “Anche io, e così sarà per sempre”
 
“Reid dove eri finito? Stai bene?” gli chiese Derek non appena lo vide entrare nella hall dell’albergo. Aveva provato a rintracciarlo per ore al cellulare senza ricevere una risposta o un sms.
“Sto bene. Ero da mia madre”. Morgan annuì e rimase incerto davanti a lui senza sapere cosa dire o fare; gli era molto affezionato, lo considerava come parte della sua famiglia e in quanto tale il suo benessere gli stava davvero a cuore, ma spesso non sapeva come dimostrarglielo. Si domandava se fosse il caso di abbracciarlo, ma Spencer sciolse tutti i suoi dubbi.
“Morgan non preoccuparti, non c’è bisogno che mi abbracci”, Derek rise per quell’affermazione. “Lo so, magari vorresti un abbraccio da una certa dottoressa Thompson” lo stuzzicò, Spencer sbuffò. “E’ solo un’amica, Derek”
“Com’è finita con il caso?” gli chiese spostando la conversazione su un altro argomento.
“Abbiamo incastrato la Keller con l’esame del DNA, anche Colin Lee non ha avuto scampo. Il suo alibi non ha retto e abbiamo trovato le sue impronte sulla pistola, la scientifica l’ha trovata abbandonata nello stabilimento, ricordi che Garcia ne aveva trovato uno a nome di Cusack?”
Spencer annuì. “E per Paul Steward?”
Derek scosse la testa lasciando capire a Reid che non c’era stato modo di incastrarlo. “Purtroppo il suo alibi è solido, e non c’era alcuna impronta o prova che confermasse la sua presenza nello stabilimento”
Spencer sospirò, se non altro, nessuno avrebbe potuto dire che suo padre non fosse un bravo avvocato.
“Tuo padre ti ha lasciato questa. È venuto qui in albergo poco fa” gli consegnò una lettera, riconobbe la scrittura di suo padre che somigliava vagamente alla sua e mise la lettera in tasca.
“Sbrigati comunque, Hotch aveva fretta di tornare a Quantico. Si parte fra un’ora” gli riferì l’agente di colore, Spencer scattò in piedi e andò in camera a raccogliere i propri bagagli.
Un altro caso era stato risolto, si tornava a casa. Che strana la parola “casa”.  Si chiese se quella fosse veramente casa sua o se fosse solo un posto in cui posare le proprie cose in attesa di arrivare finalmente a casa?
A quella domanda il dottor Reid non seppe rispondere.
Durante tutto il viaggio di ritorno rimase seduto in disparte, nessuno dei suoi colleghi lo disturbò. Sapevano che voleva essere lasciato da solo e rispettavano la sua volontà. Arrivò nel suo appartamento intorno a mezzanotte, il suo stomaco implorava per ricevere del cibo che non riceveva da quasi ormai 12 dodici ore. Aprì il frigorifero che trovò praticamente vuoto, il contenuto era ridotto ad una scatoletta di tonno e una carota spezzata a metà; si chiese quando era stata l’ultima volta che aveva fatto la spesa; l’ultima volta risaliva all’uscita con Thompson, Spencer rise ripensando alla corsa con i carrelli e prese la scatola di tonno.
La aprì e mangiò il suo contenuto direttamente dalla scatola, non aveva la forza nemmeno di svuotarla in un piatto, trovò sul tavolo una confezione di un pan bauletto e mangiò l’ultima fetta rimasta.
Terminata la “cena”, si fece una doccia e andò a dormire.
Prima di chiudere gli occhi ripensò alla lettera di suo padre che era rimasta nella tasca dove l’aveva lasciata senza essere letta, fu tentato dall’alzarsi per andarla a prendere, ma si sentiva troppo stanco per affrontarla e rimandò all’indomani. Infine, senza nemmeno accorgersi si addormentò.
 
Madison si svegliò intorno alle sei di mattina, si sorprese di essere già in piedi a quell’ora dato che il suo turno in ospedale iniziava alle 9, e approfittò dell’occasione per andare a fare una corsetta.
Bevve velocemente un bicchiere di succo d’arancia, mangiucchiò una mela e uscì. Fece un po’ di stretching prima di buttarsi nella corsa e poi partì, limitandosi a fare il giro dell’isolato un paio di volte seguendo un gruppetto di uomini e donne che presto la lasciarono indietro.
“Basta per oggi” si disse inspirando a fondo e si avviò verso casa. Erano appena le sette e quarto quando finì di farsi la doccia, si sedette sulla poltrona senza sapere cosa fare, aveva ancora a disposizione più di un’ora prima di dover andare in ospedale.
“Chissà Spencer …” si domandò, sapeva che il dottor Reid era rientrato perché aveva ritirato la posta, a quell’ora doveva essere certamente a casa perciò andò a disturbarlo.
Bussò alla sua porta diverse volte senza che nessuno l’aprisse, era quasi tentata di riscendere a casa quando l’anziano vicino di casa di Spencer si affacciò dalla porta. “Oh! la ragazza dei muffin” esclamò l’uomo, Madison lo guardò stranita e Chester rise. “Ti ho vista il giorno che hai portato i muffin” spiegò, la dottoressa sorrise e gli disse che si ricordava anche lei.
“Guarda, sotto quel vaso c’è la chiave di riserva” le riferì indicando il vaso in questione. Madison si sorprese per quella proposta e s’imbarazzò.“Oh, io non credo sia il caso di entrare in casa sua così. Insomma io non sono mica la sua fidanzata …”
Il vecchio rise, quella ragazza gli stava simpatica. “E ti piacerebbe esserlo?”
Thompson sentì le sue guance avvampare, come non capitava da quando andava al liceo. “Io.. io..” farfugliò senza sapere cosa dire.
Il signor Chester ancor di più rise di fronte a quella reazione. “Entra in casa, scommetto che quel giovanotto non avrà nulla da ridire”
Dopo averle parlato, rientrò in casa lasciando Madison da sola sul pianerottolo. “Il signore ha ragione, non sto facendo nulla di male” si convinse la dottoressa, poi prese la chiave e aprì. “Spencer?” lo chiamò quando fu dentro.
Tutte le finestre dell’appartamento erano chiuse, sul tavolino del salotto trovò la tracolla aperta, la prese e la sistemò nell’appendiabiti, fu allora che sentì il dottor Reid muoversi nel letto che cigolò leggermente. “Sta dormendo” disse a voce alta, fu tentata dallo andare a svegliare, ma non le sembrava giusto perciò decise di tornare a casa sua, si girò per andarsene quando sbatté contro il tavolino. “Maledizione” urlò massaggiandosi il piede dolorante.
Spencer si svegliò di soprassalto all’urlo della dottoressa. “Chi c’è?” domandò spaventato e prendendo la pistola che teneva nel cassetto del comodino, si sollevò leggermente per vedere se notava qualcuno e vide Madison che a quel punto entrò nella sua stanza, ormai era sveglio.
“Maddie” disse incredulo di vederla lì, posò di nuovo la pistola nel cassetto e si mise a sedere sul letto.
“Scusami se mi sono permessa, non avrei dovuto, insomma ora sei libero di denunciarmi, magari mi prendi pure per una pazza stalker, ma il tuo vicino mi ha detto che non ti saresti arrabbiato, io mi sono fidata, in fin dei conti ho pensato, che male c’è?” parlò in fretta senza scandire le parole per via del nervosismo, Spencer scoppiò a ridere e la rassicurò dicendole che non l’avrebbe né denunciata e né considerata una “pazza stalker”.
Madison si tranquillizzò e si sedette anche lei sul letto dopo aver chiesto il permesso al dottor Reid.
“Com’è finita con il caso?” gli domandò. Spencer sospirò e le raccontò come si fossero svolti gli eventi, parlandole anche del padre, William.
“Beh, Spence, tuo padre è un avvocato. Lo sai, anche il mio lo è, quindi figurati, capisco la sua situazione” provò a giustificarlo Madison.
“Non lo dovresti giustificare” ribatté il dottor Reid con troppa enfasi che incuriosì Madison.
“Mmm.. qualcosa mi dice che non sei arrabbiato con lui per questo caso” dedusse, il dottor Reid riconobbe che era vero.
“Tra me e mio padre le cose non vanno molto bene…” esordì il giovane sistemando i capelli dietro l’orecchio come faceva sempre quando aveva difficoltà a raccontare qualcosa.
“Lui è andato via quando io avevo dieci anni e da allora l’ho visto solo due volte: ieri e quattro anni fa” confessò, si sentì un po’ più sollevato.
Madison sgranò gli occhi. “Caspita, frequenti le sue visite. Scusami, se sono indiscreta, ma perché è andato via?”
“E’ andato via perché non riusciva a reggere la situazione, o almeno così ha detto” tagliò corto Spencer.
“Reggere la situazione? Quale situazione?”
Reid sospirò, fu tentato dal non dirle nulla ma la verità era che aveva bisogno di parlarne con qualcuno e Madison era una sua amica dopotutto.
“La situazione con me, io non ero un bambino come gli altri, e lui non sapeva come gestirmi”
Madison si scioccò nel sentire quell’affermazione, addirittura avvertì rabbia. “Non sapeva come gestirti? Ma stai scherzando? Cosa c’è da gestire in te? E poi sei esattamente come tutti gli altri!” esclamò.
Spencer si sorprese nel vedere la reazione di Madison e capì che doveva starle molto più a cuore di quello che pensava.
“Tua madre?” gli domandò la giovane dottoressa, voleva sapere se almeno un genitore si fosse comportato come si deve. “Mia madre mi è sempre stata vicino, ma purtroppo soffre di schizofrenia. Quando ho compiuto 18 anni, l’ho costretta a ricoverarsi, io le volevo bene, ma non potevo più prendermi cura di lei.”
Madison annuì, aveva fatto la cosa giusta, ma suo padre …
“Quindi tuo padre ti ha lasciato da solo pur sapendo che tua mamma non si sarebbe potuta prendere cura di te pienamente?”. A quel punto era decisamente arrabbiata, come può un padre fare qualcosa di simile?
“Spencer, tuo padre ha sbagliato e fai bene ad esserti arrabbiato. Tu eri suo figlio e ti ha lasciato da solo pur sapendo che tu avevi bisogno di lui e non è giusto”
Spencer sentì le lacrime pungergli gli occhi ma le ricacciò indietro, Madison si accorse del suo stato e gli andò vicino.
“Un padre non dovrebbe mai abbandonare suo figlio, neanche se è “difficile” da gestire, cosa che tu non sei” gli disse prendendogli il viso fra le mani. Spencer sorrise timidamente, e rimase immobile.
“Mi ha scritto una lettera” le riferì, Madison sollevò un sopracciglio. “Che ti ha scritto?”
Il dottor Reid alzò le spalle confessando di non averla ancora letta.
“Dovresti farlo” lo incoraggiò lei. “Sai, anche io sarei arrabbiata e farei esattamente come te, ma nella vita a volte bisogna anche saper perdonare”
Spencer le disse che lo sapeva, e le promise che l’avrebbe letta. A quel punto la dottoressa dovette salutarlo, doveva correre in ospedale, Spencer le disse che non doveva preoccuparsi e Madison gli stampò un bacio sulla guancia promettendogli che l’avrebbe chiamato nel pomeriggio prima di uscire dall’appartamento.
 
Più tardi quella stessa mattinata, Madison prese il cellulare e compose il suo numero di suo padre, James Elliot Thompson. “Mads! Che bello sentirti! Come stai?” le rispose entusiasta il padre, da quando era a Washington lui era quello che soffriva di più della sua mancanza. “New York non è la stessa senza di te, quando torni? Le nostre paperelle ti aspettano!”disse alludendo alle papere del laghetto del Central Park a cui davano da mangiare tutte le domeniche.
“Solo le paperelle?” lo stuzzicò la figlia. “Anche io” confessò l’uomo ridendo.
“Verrò presto, promesso. Ma ti chiamavo per un’altra questione” rispose tornando seria. Il padre gli disse che era tutto orecchie e la invitò a parlare.
“Ho uno scoop e ti piacerà. Riguarda uno dei futuri candidati del partito democratico al congresso …” iniziò il racconto la giovane. Quella storia doveva saltare fuori e suo padre era la persona giusta.
 
James E. Thompson non fu l’unico padre a ricevere una chiamata quella mattina. Anche Spencer decise di telefonare a suo padre dopo aver letto la lettera che William gli aveva scritto, in cui confessava che anche lui soffriva per la sua assenza, che capiva quanto lui dovesse essere arrabbiato perché non si era comportato come un padre, e perché nonostante glielo avesse già detto in precedenza, non aveva fatto nulla per rimediare. “Ora ho capito che io voglio essere presente nella vita e voglio che tu sia presente anche nella mia. Mi manchi Spencer, per quanto possa essere difficile crederlo, mi fa male vedere coppie di padri e figli camminare per strada sapendo che anche io potrei essere come loro, ma che per colpa mia non è così. Spero che tu possa perdonarmi, e che mi consenta di venire da te qualche volta..”
Queste erano le parole con cui aveva deciso di concludere quella lettera che commosse Spencer nonostante si fosse promesso che doveva rimanere impassibile, vinse la ritrosia che provava nel telefonargli e alla fine compose il suo numero.
“Pronto” rispose suo padre con voce stanca. “Sono Spencer” si presentò il giovane facendo una lunga pausa.
“Ho letto la tua lettera, io credo che vada bene, cioè va bene se tu vuoi venire qui a Washington, io..” pronunciò la frase in modo piuttosto confuso. Non sapeva bene cosa dire.
Suo padre si emozionò nel sentirglielo dire. “Grazie” fu tutto ciò che gli disse, non aveva bisogno di dirgli più nulla.
Suo figlio gli aveva dato una seconda opportunità ed era tutto ciò che contava.
 

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Capitolo 8
*** New Orleans, I love you. ***


 Scrivere la tesi e la storia contemporaneamente è un po' difficile, sto cercando di fare del mio meglio :) spero che mi perdonerete se noterete qualche errore di battitura oppure se ho saltato qualche parola, anzi fatemelo notare! Vi ringrazio e spero che questo capitolo vi piaccia! A presto!

                                           “New Orleans, I love you”

 
 
Erano passati diversi giorni dal ritorno della squadra della B.A.U da Las Vegas, Hotch non aveva avuto modo di parlare con Spencer da allora e quando lo vide da solo nell’open space seduto alla propria  scrivania ne approfittò per fare una chiacchierata con il più giovane dei suoi agenti.
“Buongiorno Spencer” lo salutò l’uomo sorprendendo Reid nel sentirlo chiamarlo per nome, non lo aveva mai fatto prima. “Mi sta per licenziare?” fu il primo pensiero che balenò in testa al giovane, d’altronde Hotch non era il tipo da quattro chiacchiere in compagnia quindi non immaginava altre motivazioni per quell’improvvisa comparsa.
L’agente Hotchner notò il disagio del genio del F.B.I. che stava cominciando a sudare e si sforzò di sorridere per apparire un po’ più amichevole, cosa che rese ancora più nervoso Spencer che si convinse di essere davvero sul punto di essere licenziato.
“Tranquillo, Reid, non è nulla di grave. Volevo sapere solo come stavi, il fatto di tuo padre ti aveva parecchio scosso perciò mi chiedevo se andasse tutto bene. Sai, tu non chiedi mai una pausa, io non ho problemi se ti prendi un giorno o due” gli disse Hotch.
“Mmm, credevo di aver esaurito tutte le mie ferie con la mia assenza per il fatto di Maeve..” mormorò il giovane incredulo che l’agente supervisore gli avesse offerto una giornata libera a spese del bureau.
“Reid, non hai esaurito nulla. Ti sarai assentato forse per due settimane, mica per mesi” gli disse Hotchner facendogli un sorriso, che fu ricambiato da Spencer che ancora  lo fissava stranito.
“Sai, diverse persone qui vorrebbero essere nella tua posizione e avere una giornata libera” gli ricordò l’agente supervisore, Spencer riconobbe che Aaron aveva ragione, insomma si trattava di un solo giorno, che c’era di male?
“Domani sarò qui alle sette in punto” affermò Spencer che si affrettò a raccogliere le sue cose prima che l’agente supervisore si pentisse. All’improvviso si bloccò, “Non è una prova per capire quanto ci tenga a lavorare, vero? Perché io ci tengo moltissimo, Hotch, cioè non ho alcun problema qui, anzi mi piace..”
Hotchner roteò gli occhi, il dottor Reid sapeva essere molto fantasioso. “Reid, vai” lo esortò e poi tornò nel suo ufficio dopo avergli augurato di trascorrere una bella giornata.
 
Era appena sceso dalla metropolitana, quando ricevette una chiamata che rese quella giornata ancora più assurda.
“Spencer, vecchio mio, che fai di bello? Catturi qualche criminale impazzito?”, era Ethan, il suo vecchio amico dei tempi dell’accademia, che attualmente viveva a New Orleans dopo aver abbandonato l’accademia per dedicarsi alla musica.
“Al dire il vero, ho appena avuto la giornata libera” rispose Spencer ridendo, era ancora incredulo e temeva che Hotch potesse richiamarlo da un momento all’altro per dirgli di tornare indietro.
“Perfetto, non avresti potuto darmi notizia migliore. Sono a Washington, ci vediamo per un caffè?” gli chiese, Spencer accettò di buon grado, gli faceva piacere rivedere il suo vecchio amico.  “Dove ci vediamo?” gli chiese, Ethan gli rispose che era in un bar sulla settima. “Arrivo subito”
Fu lì in meno di 20 minuti, quando riconobbe Ethan corse per andargli incontro, i due si abbracciarono.
“Hey, hai cambiato taglio di capelli” gli disse l’amico dopo averlo scrutato per bene. Spencer rise, “Anche tu”.
Poi prese posto nel tavolino dove Ethan si era seduto e furono subito serviti da un cameriere, ordinarono due cappuccini.
“Che racconti di bello? Non ti sento da molto. È successo qualcosa di nuovo nella tua vita?” gli domandò Ethan mentre sorseggiava il suo cappuccino. Spencer aggrottò la fronte e si passò una mano per i capelli, da dove doveva cominciare?
“Beh mi è successo di tutto in questo periodo, credimi, incluso un avvicinamento con mio padre” confessò il giovane. “Reid è perfetto” esclamò, ogni tanto gli piaceva chiamarlo per cognome come faceva quando erano due cadetti. “Ma qualcosa è andato storto?” gli chiese poi, aveva un’espressione triste, non poteva essere tutto ok.
Spencer a quel punto gli raccontò di Maeve e della sua morte, Ethan rimase stupito. Si chiese come fosse possibile che quel ragazzo avesse tanto sfortuna.
“Spence, mi dispiace, davvero. Spero che ora tu stia meglio, per quanto sia possibile esserlo” lo consolò l’amico, Spencer gli sorrise. “Piano piano tutto passa” lo rassicurò.
Ed era vero, cominciava a sentirsi un po’ meno solo, ma soprattutto si sentiva meno triste.
I due continuarono a chiacchierare del più e del meno per tutta la mattinata, Ethan gli svelò la motivazione della sua visita a Washington: doveva esibirsi al Blue Bell quella sera, un locale di Washington molto frequentato.
“Mi esibisco insieme alla mia nuova fidanzata, Marisol. Ti piacerà, ne sono sicuro, è argentina, ma è cresciuta qui perciò il suo accento è perfettamente inglese, ed ha una voce pazzesca” gli raccontò gesticolando come al suo solito.
“Non vedo l’ora di conoscerla” rispose Spencer, infine insieme si avviarono per fare una passeggiata per le strade di Washington.
Stavano camminando per Rhode Island Avenue quando un odore di pesca e miele invase le narici di Spencer, era il profumo di Madison, lo avrebbe riconosciuto fra mille, si voltò alla ricerca della sua vicina di casa e vide una chioma rossa venire verso di loro.
Indossava gli occhiali da sole perciò pensò che non lo avesse visto, era appena uscita da Starbucks come dedusse riconoscendo il frappuccino della nota catena di caffè.
“Chi guardi?” domandò Ethan voltandosi a sua volta dopo essersi accorto che non stava camminando. “Oh, la deliziosa fanciulla laggiù” esclamò dopo aver notato Madison che nel frattempo si era fermata davanti a una vetrina di un negozio. Ethan diede una gomitata a Spencer per indurlo a chiamarla, il giovane annuì. “Maddie”
Thompson si girò, alzò gli occhiali sistemandoli fra i capelli a mo’ di cerchietto, e quando riconobbe Spencer gli rivolse un grande sorriso. “Spence” disse andandogli incontro, indossava uno spolverino nero da cui si intravedevano solo le gambe coperte da un paio di calze blu elettrico abbinate a dei ricami del medesimo colore che ricorrevano nella sciarpa che le avvolgeva il collo, ai piedi portava un paio di tronchetti neri.
“Lui è il mio amico, Ethan” lo presentò Spencer, i due si strinsero la mano. “Piacere” disse il giovane sorridente.
“Anche tu lavori per l’F.B.I.?” chiese Madison ad Ethan, che scosse la testa facendo una smorfia. “Ci ho provato, ma non faceva per me. Sono un’artista, infatti mi esibisco stasera al Blue Bell, se ti vuoi unire” la invitò il musicista, invito che fece piacere al dottor Reid, avrebbe avuto compagnia.
“Certo! Mi fa piacere, oggi è il mio giorno libero quindi va benissimo!” accettò la giovane, poi si girò verso Spencer. “Ma tu non dovresti essere al lavoro?” gli domandò, Spencer gli raccontò che era stato Hotch a invitarlo a prendersi una giornata libera e lui aveva accettato senza pensarci.
Madison alzò il sopracciglio sorpresa, doveva essere proprio un bel tipo quel Aaron Hotchner.
“Ti ha mai detto nessuno che hai gli occhi più belli di tutta la East Coast?” si complimentò Ethan, non voleva sedurre la giovane dottoressa ma fare complimenti faceva parte del suo modo di essere.
“Addirittura? Mi hanno detto che avevo gli occhi più belli di New York, ma addirittura dell’intera East Coast mai” affermò Madison divertita per quello stravagante complimento.
“Perché non avevi mai conosciuto un uomo in grado di apprezzarli veramente” la stuzzicò lui con un gesto molto galante, che un po’ lusingò Maddie.
Spencer assistette a quello scambio di battute senza proferire parola, non ne era felice anzi gli aveva dato leggermente fastidio che l’amico fosse entrato così tanto in confidenza con la sua amica, perciò decise di mettere fine a quel giochino. Ethan stava per fare un altro dei suoi complimenti quando intervenne. “Andiamo a questa mostra?” domandò ai due, mostrò ai due un volantino in cui si parlava della mostra di un certo Yang, un fotografo e sculture cinese. Aveva visto il volantino mentre usciva dalla metro e sarebbe andato a vederla quella stessa mattina, ma poi Ethan lo aveva chiamato e se n’è scordato.
Madison annuì dicendo che per lei andava bene, Ethan alzò le spalle, lui era d’accordo con qualsiasi iniziativa.
Si stavano per avviare diretti verso la galleria d’arte dove si teneva la mostra quando Ethan con un gesto della mano bloccò la loro andatura. “Prima devo sapere una cosa, indossi qualcosa sotto quel cappotto?” domandò alla giovane dottoressa che rise guardando Spencer. “Al dire il vero, sotto il cappotto ho solo l’intimo” lo scherzò lei per stare al gioco. Ethan fece un  occhiolino al dottor Reid, “Dobbiamo sbrigarci ad andare in un posto dove faccia caldo così si toglie il cappotto” suggerì facendo finta che Madison non ascoltasse, questa prese i due per il braccio mettendosi in mezzo e li trascinò verso la galleria prima che Ethan dicesse altre idiozie.
 
“Mmm.. definiamo il concetto di arte” affermò schifato Ethan di fronte a quello scempio che avevano osato definire “scultura”.
“Secondo voi che cos’è? Secondo me è una nuvola!” disse Madison girando intorno alla scultura.
Spencer aggrottò la fronte e si posò una mano sul mento. “No, secondo me è una pecora, più precisamente una Scottish Blackface. Lo sapevate che è l’esemplare più comune della razza ovina nel Regno Unito?”
Madison roteò gli occhi, ancora non era abituata alle uscite da “enciclopedia” del dottor Reid.“Io non sapevo nemmeno che esiste una pecora con un nome simile”
Ethan si mise a ridere. “Secondo me l’artista, se così lo possiamo definire, ha voluto rappresentare una scimmia in posizione fetale”
Madison lo guardò perplessa. “Ok, fra i tre io sono quella con meno fantasia” riconobbe dopo aver sentito le ipotesi dei due.
Uscirono dalla sala in cui erano esposte le sculture di Yang ed entrarono nel vivo della mostra fotografica; le fotografie, che ritraevano per la maggiore paesaggi caratteristici del continente asiatico, piacquero molto ai tre che convennero che sebbene come scultore Yang non volesse gran che, come fotografo invece emozionava.
“Andiamo a mangiare? Io sto morendo” propose la giovane che quella mattina non avevo fatto colazione, ad eccezion fatta per il frappuccino di Starbucks.
I due accompagnatori furono d’accordo, anche loro avvertivano un certo languorino. “Tortillas?” suggerì dopo una breve riflessione.
Spencer arricciò le labbra. “Mmm… non mi va la cucina messicana. Cinese?”
Ethan fece una smorfia, il cinese lo evitava dall’ultima volta che ebbe un’intossicazione alimentare. “Io direi di mangiare una bella pizza!”
I due si trovarono subito d’accordo e andarono alla pizzeria all’angolo della strada.
 
Erano intenti a mangiare il loro pranzo, avevano quasi divorato un’intera pizza in pochi minuti, quando Ethan ricevette una chiamata, era Marisol. Il viso del giovane musicista si illuminò quando vide il nome della sua fidanzata lampeggiare sul display del suo cellulare; “E’ Marisol” disse ai due scusandosi per la momentanea assenza, i due annuirono ed Ethan s’allontanò.
“Com’è andata con tuo padre?” gli domandò Madison approfittando dell’assenza di Ethan, non sapeva se Spencer avrebbe gradito che si parlasse dei suoi fatti privati apertamente perciò aveva evitato di domandarglielo prima.
“Il prossimo weekend dovrebbe venire a trovarmi qui” gli rispose, aggiunse che era fiducioso che dopo tanti anni avrebbero potuto trovare un punto d’incontro. Madison gli sorrise e gli strinse la mano che aveva posato sul tavolo, “Hai fatto la cosa giusta” lo incoraggiò. In quel momento Ethan concluse la propria telefonata e tornò al tavolo con un’espressione rammaricata, si buttò sulla sedia e sbuffò. “Marisol non è riuscita a partire per via dello sciopero dei treni. Sono senza cantante, ora come faccio?”

“Le probabilità di trovare una cantante disponibile in una città dove non conosco praticamente nessuna è più bassa di quella di trovare uno scoiattolo canterino[1]
Spencer alzò le spalle e rise. “Io di sicuro non posso aiutarti. Sono stonatissimo, forse sarebbe meglio davvero uno scoiattolo”
Madison alzò timidamente il dito indice. “Forse io potrei aiutarti”
Ethan fu entusiasta subito di quell’affermazione. “Davvero? Oddio, Madison, mi salvi la vita. Chi conosci?”
La giovane si ravvivò i capelli con una mano e si morse un labbro. “Me stessa” disse dopo una breve pausa, Spencer la guardò stranito, non aveva idea che cantasse.
L’entusiasmo di Ethan si spense altrettanto velocemente, era un ingaggio importante per lui e non se la sentiva di affidare la sua buona riuscita ad una dilettante, però valeva la pena tentare perciò le disse di intonare qualcosa.
“Qui?” domandò imbarazzata la rossa guardandosi intorno, il locale era pieno.
Ethan annuì sottolineando che quella sera eventualmente il locale sarebbe stato altrettanto pieno, quindi sarebbe stata la stessa cosa. Madison si schiarì la gola e intonò le prime note di “No One” di Alicia Keys, una delle sue canzoni preferite.
Ethan gradì molto la voce della sua nuova amica, e  da quel momento, cantante provvisoria; anche Spencer rimase stupito, cantava abbastanza bene.
“Bene, allora muoviamoci, dobbiamo provare” affermò alzandosi e trascinandosi con sé la dottoressa Thompson che non aveva ancora finito di mangiare la sua pizza.
 
“Sono Ethan, dovrei esibirmi stasera. Lei è Madison, la cantante” si presentò al proprietario del locale, facendo altrettanto con la sua accompagnatrice.
“Avevi scritto che si chiamava Marisol la tua cantante!”ricordò l’uomo ripensando alla conversazione che avevano avuto al telefono nemmeno una settimana prima.
“Madison, Marisol. Siamo lì, no?” mentì Ethan, sperava non avere troppi problemi, quella serata doveva riuscire.
L’uomo sollevò un sopracciglio, pensò che il musicista lo stessa raggirando, ma non gli interessò più di tanto. “Il palco è tuo, più tardi arriverà il tecnico del suono e controllerete tutto il resto” spiegò poi andò via alludendo ad un incontro con sua moglie.
“Ok, Madison, dovremmo suonare “Mercy”di Duffy? La conosci?” le domandò Ethan mentre prendeva posto al piano, per il resto degli strumenti avrebbero usato una base.
Madison annuì, ma rammentò di non ricordare bene il testo perciò suggerì di utilizzare momentaneamente il cellulare, a furia di leggere, le sarebbe venuto in mente.
Ethan suonò le prime note della canzone per aiutare Madison a prendere il ritmo e la giovane lo seguì con non poca fatica. La prima prova fu un completo disastro, tra Madison, che non ricordava le parole e saltava qualche riga leggendo dal suo smartphone, e Ethan che sosteneva che il piano era scordato.
Spencer scoppiò a ridere osservando i due battibeccare su chi sbagliasse. “Tu parti prima” la accusò Ethan.
“Niente affatto. Sei tu che sbagli l’intro!” replicò Thompson.
Dopo un’oretta passata a ripetere sempre le stesse note e a discutere, finalmente trovarono l’armonia e poterono concentrarsi sugli altri pezzi per la serata. Avrebbero suonato tre pezzi insieme: “Mercy” di Duffy, “Princess of China” dei Coldplay, che erano le canzoni che aveva scelto Ethan in accordo con Marisol, e “Acapella” di Karmin, suggerita da Madison che avrebbe suonato la chitarra mentre Ethan si sarebbe occupato delle percussioni.
“Madison, dovresti cambiarti” l’avvisò Ethan alla giovane mentre ridefinivano gli ultimi dettagli della loro performance.
“Cambiarmi? E come faccio? Non ho il tempo di andare a casa!” protestò lei pensando che dovevamo essere pronti nel giro di un’oretta e che per arrivare al suo appartamento sarebbero stati necessari almeno 40 minuti.
“Indossa il vestito di Marisol, avete la stessa taglia. Forse ti andrà un po’ più corto però” suggerì lui osservando la figura dalla giovane.
Madison annuì con poca convinzione e gli disse di darle il vestito ed Ethan la invitò seguirlo nel camerino dove aveva posato tutto il materiale per la serata.
 
 
“Io non ho alcuna intenzione di uscire con questo coso addosso sul palco” affermò Madison mentre si mostrava davanti a Ethan. “E’ scandaloso” aggiunse alludendo alla lunghezza che a mala pena le copriva il sedere.
Ethan alzò le spalle, non vedeva il problema, avrebbe solo garantito l’attenzione del pubblico maschile, ma preferì non esprimere a voce alta quel pensiero. “Secondo me è perfetto” ribadì.
“Non se ne parla io non lo indosso. Quindi o indosso il mio tubino nero oppure dovrai cantare da solo” lo minacciò la ragazza entrando di nuovo in camerino senza dare il tempo di replicare ad Ethan, che nel frattempo fu chiamato dal tecnico del suono per gli ultimi dettagli.
Spencer vide uscire l’amico e gli domandò se fosse tutto a posto. “Domandalo a lei” tagliò corto Ethan che andava di fretta, l’agente decise di farsi gli affari suoi e rimase fuori dal camerino.
“Ethan si è incastrata la cerniera del vestito, mi dai una mano?” urlò Madison da dentro il camerino.
“Ethan è andato dal tecnico del suono, ti do io una mano” disse Spencer entrando nel camerino, la giovane annuì e si voltò sollevando i capelli. “Riesci?” domandò all’amico che stava avendo un po’ di difficoltà, anche se non era chiaro se fosse per la cerniera incastrata o per la situazione in sé e per sé.
“Ok, ci sono riuscito” le rispose mentre tirava su la cerniera. “Perfetto” esclamò lei voltandosi dopo essersi ravvivata i capelli.
“Augurami buona fortuna” disse all’amico mentre si ritoccava il trucco. “Rompiti una gamba” rispose Spencer, Madison lo guardò stranita. “Hai fatto teatro?”
Spencer scosse la testa e iniziò con la storia dell’origine di quel famoso modo di dire, Madison fece una smorfia e lo stoppò. “Reid, la lezione più tardi, ok?” gli diede un bacio sulla guancia e uscì dal camerino per raggiungere Ethan.
 
 
La serata andò benissimo, il pubblico applaudì ai due performer e il proprietario rimase molto soddisfatto. “Sarai il benvenuto qui, Ethan, quando vorrai esibirti” gli disse mentre Ethan riceveva il compenso per la propria esibizione.
“Madison, io non so come ringraziarti, permettimi di dividere con te parte dell’incasso” gli disse Ethan quando raggiunse i due che erano rimasti fuori.
Madison scosse la testa e gli sorrise. “Mi sono divertita tanto stasera, quindi non devi assolutamente preoccuparti” “Vi posso  almeno offrire qualcosa per sdebitarmi?” propose Ethan ai due, Madison però si scusò dicendo ai due che doveva proprio scappare.
“Domani mattina devo essere in ospedale molto presto. Però la prossima volta che torni, volentieri!” aggiunse.
Reid pure si scusò con l’amico ricordandogli che doveva essere al bureau alle sette in punto l’indomani, a quel punto il musicista chiese a Spencer di accompagnarlo al suo albergo e Madison prese un taxi di ritorno a casa dopo averli salutati.
“E’ davvero molto simpatica e carina. Quanto tempo dovrà passare prima che tu ammetta che ti piace?” gli domandò Ethan quando rimasero soli incrociando le braccia.
Spencer rimase a bocca aperta e abbassò lo sguardo, l’amico scoppiò a ridere. “Sei sempre il solito” lo rimproverò bonariamente mentre gli dava una leggera pacca sulla spalla. “Su, andiamo. È tardi”
I due si avviarono diretti verso l’albergo che avrebbe ospitato Ethan quella notte; come ai tempi dell’accademia, camminavano spensierati per le strade di Washington, godendosi gli ultimi istanti del loro incontro, mentre la notte calava sulla città.
 
Lontano dalla vivacità della capitale, in una vecchia cittadina dello Stato del North Dakota, qualcuno si muoveva nell’ombra, tra scaffali zeppi di antichi tomi impolverati; con i polpastrelli sfiorava i vecchi manuali fischiettando.
“Eccolo” esclamò prendendo dalla libreria un pesante volume, soffiò sulla copertina provocando una nube di polvere che si diffuse nell’ambiente illuminato da una vecchia lanterna ad olio.
“E’ un vecchio cimelio di famiglia, è molto prezioso” disse accarezzando la copertina, dal fondo della stanza si sentì un gemito. L’uomo si avvicinò lentamente, si sedette di fronte alla sua prigioniera, che con gli occhi sgranati, pieni di paura, lo scrutava legata ad una sedia.
L’uomo le accarezzò la guancia lungo cui scivolava una lacrima. “Questo ti aiuterà a guarire”
La donna gemette e scoppiò in singhiozzi implorando di lasciarla andare. “Io non devo guarire. Sono sana, ti prego, liberami”
L’uomo scosse la testa, e iniziò a pronunciare strane formule che leggeva dal manuale. Accese una candela e versò la cera calda sulla mano della donna che urlò dal dolore.
“Il male, che vive in te, andrà via, non opporti” affermò l’uomo senza smettere di versare la cera bollente sul corpo della sua vittima. “Ammetti i tuoi peccati”
“Io non ho fatto niente, ti prego, lasciami stare” continuò a implorarlo fra i singhiozzi.
Fu allora che una seconda voce femminile si levò nell’ombra.  “E’ un’anima persa ormai. Non puoi fare nulla per lei”
“Ma madre, magari la possiamo ancora salvare” rispose con tono dispiaciuto, si girò verso la madre che scosse la testa. “Fai quello che devi” rispose la donna sparendo nel buio.
L’uomo prese un bisturi che aveva in tasca, la piccola scintillò alla luce fioca della stanza. “Mi dispiace. Non hai bisogno del tuo cuore.”
“Che stai facendo? Che vuoi fare? Oddio, ti prego, non farlo” lo pregò la donna, ma ormai non lui non si poteva più fermare.
Diverse urla ruppero il silenzio nella stanza in quei frangenti finché in silenzio non calò di nuovo.
 
[1] E’ un riferimento al film “Alvin e i chipmunks” in cui Matthew Gray Gubler, l’attore che interpreta Spencer Reid, doppia Simon Seville, uno dei fratelli di Alvin. 

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Capitolo 9
*** Purificazione ***


“Purificazione”

 
 
“Ti sei riposato, Reid?” gli domandò l’agente Morgan con un tono che non mascherò affatto la sua disapprovazione per la “mini vacanza” decisa da Hotch.
Reid sorrise nel vedere la sua reazione. “Certo, mi sono riposato anche per te”
Morgan alzò un sopracciglio sorpreso per la risposta dell’amico. “Stiamo diventando più ironici, eh?”
Spencer alzò le spalle e si sedette alla sua scrivania mentre l’agente di colore continuava a fissarlo. “Ragazzino, non mi piace quest’atteggiamento. Mi manchi di rispetto” lo scherzò.
In quel momento arrivò JJ di corsa ad interrompere il dialogo fra i due. “Avete visto Hotch?”
I due agenti scossero la testa, Morgan ricordò di non averlo proprio visto passare quella mattina e Spencer confermò quanto già affermato dall’amico.
“Cosa succede?” domandò Derek incuriosito dall’urgenza che evidentemente provava la collega per vedere l’agente supervisore.
“Ci è arrivata questa oggi” mostrò ai due il fascicolo che aveva ricevuto quella mattina. “Le ho dato un’occhiata e credo sia il caso di intervenire”
Reid prese il fascicolo e cominciò a leggerlo velocemente. “Credo che tu abbia ragione” affermò il giovane passando il fascicolo aperto sulla fotografia scattata dagli inquirenti sul luogo del ritrovamento del corpo a Derek.
Morgan distolse lo sguardo. “Ha fatto quello che penso?” domandò ai suoi colleghi nella speranza che loro negassero l’incontrastabile verità.
“Temo di si” rispose JJ. “Il medico legale lo ha confermato, le ha asportato il cuore. Prima che me lo chiediate: si, era viva” aggiunse mentre un brivido le percorse la schiena.
 “Richiamo Hotch, voi tenetevi pronti” consigliò ai due allontanandosi nel proprio ufficio.
Mentre i due cominciavamo a raccogliere le proprie cose pronti per la partenza, Rossi fece il suo ingresso accompagnato da Blake ed un altro uomo sulla sessantina. “Chi è quello?” domandò Derek indicandoli con un leggero cenno del capo.
“Credo che il sostituto della Strauss, il nuovo capo sezione” ipotizzò Spencer senza tuttavia riconoscere di chi si trattasse.
I tre si diressero verso l’ufficio dell’agente Rossi seguiti da JJ che li raggiunse pochi minuti più tardi. “Che diavolo sta succedendo?” chiese Morgan nel notare quello strano atteggiamento, Spencer alzò le spalle, non ne aveva idea nemmeno lui.
Il mistero durò molto poco, dopo una breve riunione l’agente Rossi uscì dall’ufficio accompagnati dai tre che con passo concitato si diressero verso i due agenti. “Vi presento Simon Donnelly, loro sono l’agente Morgan e il dottor Reid” disse Rossi non appena li raggiunse, l’uomo offrì la mano all’agente Morgan che gliela strinse, mentre Reid fece il suo classico saluto con la mano. “L’agente Donnelly sarà momentaneamente il nuovo capo sezione” lo presentò Rossi velocemente. Morgan e Reid guardarono l’agente con espressione interrogativa.
“Non ho ancora accettato l’incarico” rispose l’uomo con tono rilassato.
“Comunque siamo in partenza. Discuteremo il caso sul jet” annunciò Rossi .
“Hotch?” domandò Spencer scattando comunque in piedi. L’agente Rossi lo informò che li avrebbero raggiunti più tardi e invitò i due agenti a fare in fretta.
 
“La polizia di Valley City è rimasta così sconvolta dopo il ritrovamento del corpo sulle sponde del fiume Sheyenne che non ha esitato a contattarci” introdusse il caso JJ mentre tutti prendevano posto sulle comodo poltrone del jet.
“Mai avevano avuto a che fare con una simile atrocità” aggiunse.
Reid annuì. “Valley City è al quarto posto fra le città con il minor tasso di criminalità negli Stati Uniti” disse a conferma di quanto detto da JJ.
“Credete che l’SI sia del luogo?” chiese Blake. JJ annuì. “La polizia crede di si, non tutti avrebbero saputo raggiungere quel punto del fiume senza una minima conoscenza del posto” spiegò all’agente.
“A dare l’allarme è stato un pescatore che era solito pescare in quelle zone. Dite che l’SI potesse conoscere il posto per lo stesso motivo?”  suppose Spencer.
“Potrebbe essere.” opinò Blake. L’agente Rossi chiamò l’analista informatica, Penelope Garcia, per darle le ultime indicazioni, che rimase in collegamento con loro.
“Cosa sappiamo della vittima?” chiese Donnelly rimasto in silenzio fino a quel momento mentre osservava l’interazione fra gli agenti della squadra dell’unità di analisi comportamentale di Quantico.
“Si chiama Jenna May, 36 anni, laureata in Lingue e letterature straniere, insegnava lingua spagnola in un liceo di Valley City, ed è originaria di Orem, nello Utah. Abitava in città da pochi mesi” lesse JJ.
“Il fatto che fosse in città da pochi mesi non esclude che l’SI non possa conoscerla, frequentava qualcuno in città?” chiese Rossi a Garcia che nel frattempo digitava sulla tastiera.
“La nostra amica non faceva molto, era un tipa tutta casa e scuola. Ho davanti i movimenti della sua carta di credito negli ultimi mesi: ha acquistato un biglietto andata e ritorno ogni settimana per ritornare a casa da quando è a Valley City, grandi quantità di croccanti per cani, e un biglietto per il cinema venerdì scorso, è andata da sola. Lo conferma anche il suo status su facebook, sembra anche che fosse single”illustrò Garcia in brevissimo tempo.
“Bene, non si tratta di un tradimento finito male” ironizzò Reid attirando su di sé gli sguardi interrogativi dei suoi colleghi. “Che ho detto di male? La percentuale di delitti passionali è aumentata del 14,7% negli ultimi anni”
“Ignoralo Simon” suggerì Rossi al collega che sorrise a Spencer, rabbuiatosi per quella risposta.
“Garcia, tienici informati. Noi ci aggiorniamo più tardi. Meglio rilassarsi un attimo prima di arrivare alla centrale” propose l’agente dopo aver spento la comunicazione con la loro analista.
Reid prese il libro dalla tracolla che si era portato con sé e iniziò a leggere mentre Morgan con gli occhi socchiusi appoggiò la testa contro lo schienale della poltrona ascoltando, come al suo solito, della musica accanto al genio del F.B.I.
Spencer era immerso nella lettura quando Garcia riaprì il collegamento. “Reid, ci sei?”
Il giovane alzò la testa e aggrottò la fronte. “Qualcosa non va?” domandò all’amica che aveva un’espressione che non riuscì a decifrare. “Tutto ok, qualcuno voleva augurarti di trascorrere una bella giornata”
L’espressione interrogativa del dottor Reid che piegò la testa a destra fece capire a Garcia che non aveva idea di cosa stesse parlando, la bionda rise. “E’ Madison, ti augura una bella giornata”
“E tu che ne sai?”gli chiese curioso, non sapeva che le due si tenessero in contatto. “Me lo ha detto. Non è solo amica tua” gli disse e chiuse il collegamento senza permettere a Reid di domandare altro.
 
 
“Benvenuti a Valley City, sono Roy Stevens” si presentò il capitano del distretto alla squadra non appena questa giunse in centrale.
“Lieto di conoscerla. Loro sono l’agente speciale Derek Morgan e il nostro capo sezione Simon Donnelly, lei è l’agente speciale Jennifer Jereau, credo che già la conosca ”li presentò Rossi assumendo in quel momento le veci di Aaron.
“Il resto della squadra, il dottor Reid e l’agente speciale Blake, sono momentaneamente dal medico legale, ci raggiungeranno più tardi”
Il capitano annuì. “E’ arrivata questa nel frattempo” disse mostrando una busta gialla spiegazzata ai tre agenti.
Donnelly la prese  e la aprì. “E’ colpa sua. Non voleva ammettere i suoi peccati. Gli ha fatto del male, così male” lesse l’uomo. “E’ una sorte di giustificazione? Si crede forse un giustiziere?”
Rossi alzò le spalle. “Gli ha fatto del male? A chi avrebbe fatto del male?”rifletté a voce alta l’agente.
“JJ, parla con la coinquilina della vittima. Magari lei sa qualcosa di più” suggerì Morgan alla bionda che si precipitò a parlare con il possibile testimone.
“Morgan, vai sulla scena del crimine assieme a Blake, ti raggiungerà lì. Io aspetto Reid, magari lui riesce a capire qualcosa di più” affermò Rossi alludendo alla lettera ricevuta. L’agente di colore obbedì e si avviò per raggiungere la collega verso il fiume Sheyenne.
“Chi ha portato la lettera?” domandò Donnelly al capitano. “Il postino quindi sarà difficile ricavare le impronte. È molto inquinata come prova” rispose.
“Qui, sulla busta c’è un altro indirizzo però, è sicuro che fosse diretta qui?” chiese l’uomo notando solo in quel momento l’indirizzo riportato sulla busta.
“Si,  l’indirizzo è quello della nostra vecchia stazione di polizia, per questo il postino l’ha portata qui” spiegò.
“Quindi il nostro uomo non sapeva che la stazione di polizia fosse situata in un’altra via- disse Donnelly a Rossi che aggrottò la fronte, era molto ancora più confuso. “Da quanto tempo vi siete trasferiti?”chiese ancora al capitano.
“Un paio di anni, non di più” disse che poi si scusò dicendo che doveva raggiungere uno dei suoi agenti.
Rossi prese un pennarello e iniziò a scrivere sulla lavagna magnetica messa a disposizione dal dipartimento. “Sappiamo che Jenna May abitava qui da circa cinque mesi, il nostro SI però sembra che non lo abbia abitato qui negli ultimi due anni. Questo rende più difficile il loro collegamento” illustrò l’agente Rossi a Donnelly.
“Se fosse stato in galera? Magari in un’altra città, è tornato e non sapeva che la stazione di polizia avesse cambiato indirizzo” suppose l’altro.
Rossi annuì, era un’ipotesi del tutto plausibile. In quel momento rientrò JJ. “Jenna non si vedeva con nessuno, non aveva stretto amicizie con nessuno qui, a parte Beth, la sua coinquilina, e la sorella di Beth, Amanda” disse, poi si soffermò a leggere la lavagna.
“E se Jenna fosse una sostituta di qualcuno?” ipotizzò lei, Rossi e Donnelly si trovarono d’accordo con ipotesi. Tuttavia non avevano sufficientemente elementi per capire di chi potesse essere la sostituta.
Erano intenti a discutere fra di loro quando arrivò Reid. “Eccoti, leggi questa. Pensiamo che Jenna May fosse una sostituta” affermò Rossi porgendogli la lettera.
Il dottor Reid restò in contemplazione della lettera per qualche minuto. “Credo che l’SI si riferisca a se stesso, piuttosto che ad un'altra persona, questo spiegherebbe il modo in cui è scritta la lettera, dalla grafia si può dedurre che fosse anche un po’ spaventato, turbato. Se consideriamo giusta quest’ipotesi, il fatto che ribadisca che è non stata colpa sua  potrebbe indicare che l’SI fosse affezionato alla vittima, molto probabilmente lo ha ferito, e la sua mancanza di ammissione del peccato ammesso ha scatenato questa pulsione, che non ha saputo controllare. ” sciorinò il dottor Reid.
“Le ha strappato il cuore perché forse l’avrà tradito. L’SI ha scambiato Jenna May per la sua ex compagna” suppose Donnelly, gli altri tre furono d’accordo con l’ipotesi dell’uomo.
“Facciamo fare una ricerca a Garcia. Cerchiamo nativi del posto che abbiano manifestato qualche segno d’instabilità dopo una separazione, magari è stato denunciato per stalking” disse l’agente Rossi, che si mise in comunicazione con l’analista informatica subito dopo.
 
 
Nel frattempo nella città di Washington, Aaron Hotchner si recava al Georgetown University hospital per accompagnare il piccolo Jack, reduce da una bruttissima notte insonne.
“La dottoressa Thompson si prenderà cura del vostro bambino” gli disse un’infermiera indicando una delle stanzine con la tenda blu dove la rossa stava facendo ambulatorio quel giovedì mattina.
“Buongiorno. Siamo qui per lui” si presentò Aaron con espressione seria mentre posava le mani sulle piccole spalle di suo figlio in piedi davanti a lui con la testa bassa.
Madison sorrise e si piegò sulle ginocchia. “Cos’hai, piccolo?”
Jack rimase in silenzio, era molto imbarazzato e dispiaciuto, aveva fatto perdere una giornata di lavoro al suo papà, anche se da una parte la cosa lo rendeva felice, avrebbe trascorso una giornata con lui.
“Ha avuto un forte mal di pancia tutta la notte e ha rimesso più di una volta” parlò il padre al posto del figlio.
Madison si alzò in piedi e disse ad Aaron di sistemare il piccolo sul lettino perché potesse visitarlo meglio, l’uomo prese il bambino in braccio e lo sedette dicendogli di sdraiarsi.
La dottoressa delicatamente premette con le mani sullo stomaco di Jack, che strinse i denti, gli faceva male. Poi passò le mani sul basso ventre per assicurarsi che non ci possono altri gonfiori.  “Vediamo un po’” disse la rossa mentre utilizzava lo stetoscopio per l’auscultazione.
“Non è nulla. È solo un’indigestione, ma ormai il peggio è passato” comunicò Madison ad Aaron che tirò un respiro di sollievo.
“Bene, ti do queste. Prendile ora e poi stasera di nuovo prima di cena, va bene?” disse al piccolo che prese la pillola che Madison le tendeva assieme ad un bicchiere.
“Le dovrà prendere per una settimana” aggiunse rivolgendosi ad Aaron. “Le faccio la prescrizione, mi dia i dati di suo figlio”
Aaron le passò i documenti richiesti alla dottoressa che nel leggere il cognome del piccolo paziente rimase un po’ incerta. “Hotchner? Lei è Aaron Hotchner?” domandò a Hotch che annuì senza cambiare la propria espressione.
“Conosco due dei suoi agenti della squadra di analisi comportamentale: Derek Morgan e Spencer Reid” gli spiegò mentre le tendeva la prescrizione appena compilata. “E anche Penelope”
Aaron sorrise alla dottoressa. “Si, sono in squadra con me” confermò.
“Certo che deve essere difficile far coincidere gli impegni di genitore con quelli di un agente del F.B.I.” affermò Madison, l’agente fece un piccolo sospiro, come darle torto? A quel punto Jack fu di nuovo accanto a suo padre e lo tirò per una manica. “Andiamo a casa?” lo pregò suo figlio imbronciato.
Madison sorrise di fronte a quella reazione. “Jack, ti regalo un lecca-lecca, però mi prometti che lo mangerai quando starai meglio?”
Jack annuì e prese il lecca-lecca che la rossa gli offrì dopo averla ringraziata. Aaron ringraziò a sua volta la dottoressa che aria gioviale continuava a sorridere.  “È stato un piacere” disse ai due mentre riponeva la cartella fra quelle dei pazienti già visitati.
Hotch prese per mano il figlio e uscì dallo stanzino dopo aver salutato la dottoressa, che ricevette un altro paziente.
 
“E’ stato ritrovato un altro corpo, in altro punto isolato del fiume da un altro pescatore. Crediamo che sia lo stesso assassino” annunciò il capitano alla squadra riunito per stilare il profilo. “Si tratta di Geoffrey Duncan, 77 anni, abitava qui da molti anni. Questa volta ha lasciato un biglietto sul corpo, ha scritto  “Dovevo, lui non poteva essere purificato” ” proseguì l’uomo mentre con una puntina appendeva la fotografia del corpo ritrovato sulla lavagna.
“L’SI gli ha tagliato le mani post mortem, credo che sia il suo trofeo, ma l’ha sottoposto ad una tortura per diverse ore. Duncan ha lottato, sulle braccia e sul corpo sono state riportate diverse abrasioni. L’SI lo ha pugnato diverse volte al ventre” lesse il rapporto del medico legale l’agente Blake.
“E’ molto personale, il fatto che l’SI abbia letto di pugnalare la sua vittima implica che la conoscesse. Anche questa volta avrà utilizzato un sostituto?” affermò Morgan dopo una breve riflessione.
Rossi si mise in collegamento con Penelope per domandarle ulteriori informazioni sulla vittima. “Geoffrey Duncan non era un santo. È stato denunciato più volte in passato per violenze domestiche ed è stato anche indagato per l’omicidio della sua compagna, Tamara Cundy. Il caso si è chiuso senza il ritrovamento di un colpevole. L’unico testimone dell’assassinio era il figlio della vittima, Harry Cundy, avuto in una precedente relazione, ma era stato dichiarato mentalmente instabile e di conseguenza era stato internato in una clinica psichiatrica, ma dimesso pochi mesi dopo. Gli era stata prescritta una cura e imposto dei controlli periodici” li informò l’analista informatica. “Sembra però che non andasse dal suo psichiatra da almeno sei mesi”
“Quanto tempo fa è morta Cundy?” domandò Spencer. “Circa cinque anni fa, il figlio Harry abitava con loro dopo la separazione dalla moglie, Lisa Hart” rispose la bionda. “Oh oh, la donna era bruna ed aveva all’incirca l’età di Jenna May all’epoca, dopo la separazione si trasferì a Seattle, non è più tornato qui.”
“E’ lei, la donna che Jenna May sostituiva. Il nostro assassino è Harry Cundy, corrisponde anche al profilo” affermò Rossi. “Il nostro SI avrà interrotto la cura, sarà in preda ad un delirio psicotico e questo l’ha portato a confondere Jenna con Lisa. Ha punito tutte le persone che gli hanno fatto male: Lisa e il suo patrigno. Ha punito Duncan per aver fatto del male alla madre, per questo le ha amputato le mani, la picchiava” continuò.
“Cosa sappiamo di Cundy? E del suo vero padre?” chiese Morgan a Garcia. “Non molto, Harry ha vissuto con la madre e il suo compagno, il padre biologico è morto per embolia quando lui aveva tredici anni”
“Lo hanno ritrovato seduto sulla sponda del fiume Sheyenne appoggiato ad una roccia” aggiunse l’analista consentendo ai nostri profiler di incastrare  l’ultimo pezzo del puzzle.
“Forse il padre era un pescatore, questo spiega la sua conoscenza del luogo” affermò JJ. “Dove è stato ritrovato il corpo?”
Il capitano della squadra stava per dare le informazioni richieste, quando Reid li interruppe.“Non porta le vittime sulla sponda del fiume perché vuole nasconderle, ma perché crede che il fiume sia sacro e che possa purificarli dai loro peccati” 
“Jenna May non ha ammesso la sua colpa perché non era stata lei ad averlo tradito, perché per Duncan non c’era salvezza, lui non ha potuto purificarlo” continuò il giovane agente mentre tutti li puntavano gli occhi addosso.
Rossi annuì, l’ipotesi di Spencer era del tutto plausibile. Tuttavia non sapevano ancora come trovarlo.
“Garcia, c’è qualche proprietà a nome di Cundy?” chiese ancora Rossi. “Spiacente, non c’è niente a nome di Harry Cundy e nemmeno del padre”
“Cerca qualcosa su sua madre Tamara invece” le consigliò Morgan. L’analista informatica iniziò a digitare sulla tastiera velocemente, dopo qualche minuto si pronunciò:“Trovato. La Cundy era proprietaria di un casale appartenente alla famiglia di sua madre, Harry ha ereditato la casa alla morte di sua madre, ma il passaggio di proprietà non è stato mai completato e la casa è rimasta abbandonata”
“Dove si trova, Garcia?” domandò Rossi. Era più che sicuro che quella casa li avrebbe portati dritti dal loro S.I.
“Indovinate un po’? Sulle sponde del fiume Sheyenne. Vi invio le coordinate sul tablet”
Pochi secondi più tardi, i tablet s’illuminarono e si aprì una cartina riportando l’esatta posizione del casale della Cundy, Reid gettò un’occhiata alla cartina dove erano stati appuntati i luoghi dei ritrovamenti dei corpi, era esattamente a metà strada fra i due estremi.
“Sicuramente è lì che l’SI si nasconde.” disse il giovane al resto della squadra che concordò con lui. Rossi organizzò velocemente le squadre per la cattura di Harry Cundy. Lui, il capitano Stevens, l’agente Morgan e Donnelly salirono sulla prima auto mentre il resto della squadra sulla seconda seguiti da una volante della polizia a cui fu ordinato di non accendere le sirene.
Lungo la strada Garcia, che nel frattempo aveva proseguito con le sue ricerche, li richiamò. A rispondere alla chiamata fu JJ. “Garcia, sei in vivavoce” disse la bionda che era seduta accanto all’agente Blake al volante dell’auto.
“Miei bei agenti, ho un’informazione per voi. Scavando nel passato della Cundy, ho scoperto che anche lei era un po’ strana” esordì la bionda creando un po’ di suspence. “Era un’adepta di una religione esoterica riconducibile alla tribù indiana Mandan”
Reid in quel momento s’illuminò. “Madan hai detto? Questa tribù era molto attaccata al fiume Missouri, a cui erano dedicati tutta una serie di rituali. Purtroppo oggi i Mandan non esistono più, sono stati sterminati da una serie di epidemie di vaiolo, però le tradizioni sono rimaste vive fra le persone del posto. Sicuramente la madre di Cundy se n’è innamorata e ha deciso di unirsi a questa religione portando con sé il figlio Harry”
“Bene, ecco il nostro collegamento al fiume. Grazie Garcia”. JJ attaccò la telefonata e si mise in comunicazione con Rossi per dargli gli ultimi aggiornamenti.
 
“Dobbiamo avvicinarci con attenzione. Non sappiamo come l’SI potrebbe reagire alla nostra vista. Ricordiamoci che è in pieno delirio psicotico, potrebbe avere delle allucinazioni” ricordò Rossi ai suoi agenti che sarebbero entrati, scortati dalla squadra del capitano Stevens, nel casale della famiglia Cundy.
Gli agenti annuirono e Morgan, ricevuto il segnale di David, aprì la porta con uno dei suoi soliti calci, irrompendo nel salotto della casa.
“F.B.I.” urlò mentre velocemente si mosse nella casa alla ricerca di Cundy. JJ assieme a Blake si diressero verso la cucina, mentre Morgan e Rossi salirono lungo le scale per perquisire il piano superiore. “Libero” dissero all’unisono le due donne. “Anche qui” urlò Rossi dal piano superiore.
In quel momento Reid che assieme all’agente Donnelly si era recato nel retro della casa, sentì un rumore provenire dalla cantina a cui era possibile accedere dall’esterno.
Fece un segno all’agente Donnelly, che estrasse la pistola dalla fondina, e insieme scesero nella cantina. Reid avvertì Derek dei loro intenti, dicendo di rimanere fuori senza fare il minimo rumore.
Non appena riuscì ad abituarsi al buio, Spencer si rese conto di essere nella scena del crimine, notò diverse macchie di sangue secco nel pavimento e il bisturi con cui era stato asportato il cuore a Jenna May. Si mosse in avanti e fu in quel momento che vide la figura di Harry Cundy seduta in un angolo abbracciato alle sue ginocchia che singhiozzava.
“Non voglio farti del male. Sono un’agente del FBI, sono qui per aiutarti” si presentò Reid tenendo una mano in alto mentre con l’altra mostrava il distintivo.
L’uomo alzò lo sguardo verso Spencer che gli rivolse un timido sorriso.
La solita voce femminile si levò nella stanza. “Ti sta mentendo. Non vuole aiutarti, come non l’ha fatto con me”
L’uomo rabbrividì e scoppiò in singhiozzi ancora più disperati. “Lasciami stare, è colpa tua. Solo tua”
L’agente Donnelly fino a quel momento rimasto dietro la figura di Reid mentre puntava la pistola su Cundy si avvicinò a Reid, non c’era nessuno, oltre a loro tre, constatò.
“Lei mi ha costretto. Diceva che era giusto così, che mi dovevo vendicare” si giustificò l’uomo mentre si dondola con la testa fra le mani. “Uccidili” gli ordinò la voce nella sua testa, l’uomo si rifiutò di farlo. “Hanno ucciso me, come puoi farmi questo, piccolo ingrato? Aiutami”
“Non ti hanno ucciso loro. Lasciami in pace, ti prego” urlò Cundy nascondendo il viso fra le mani. Reid si abbassò e provò a mettere una mano sulla spalle dell’uomo che bruscamente si mosse rivolgendo uno sguardo carico di odio all’agente. “Harry, non c’è nessuno qui. Tua madre è morta, è solo un’allucinazione” provò a spiegargli Spencer con tono calmo.
“Sparirà presto, io ti aiuterò. Sono qui per te, ti possiamo curare” lo incoraggiò il giovane. “Ti sta mentendo. Non ti aiuterà, ti lascerà morire” insistette la voce che mandò ancora di più in confusione Harry che cominciò a colpirsi la testa.
“Vai via, vai via” supplicò a sua madre. Fu allora che prese dalla tasca del pantalone il pugnale impregnato dal sangue del suo patrigno e lo diresse verso di sé,  Reid con una mossa scattò verso di lui riuscendo a bloccare il movimento dell’uomo che si abbandonò fra le braccia dell’agente lasciando cadere il pugnale.
Harry iniziò a piangere convulsivamente e Reid ordinò a Donnelly di iniettargli l’antipsicotico che aveva portato con sé perché si calmasse.
A quel punto l’agente Donnelly avvertì il resto della squadra di chiamare i paramedici e insieme attesero il loro arrivo.
 
“Vi ringrazio, senza di voi sarebbe stato difficile catturare Cundy” ammise il capitano Roy mentre l’agente Rossi lo salutava. “E’ il nostro lavoro, non c’è bisogno di ringraziare” rispose David mentre stringeva la mano del capitano.
Infine dopo che il resto della squadra salutò il capitano e i suoi agenti, si partirono alla volta di Quantico.
Nel jet mentre gli agenti dalla squadra dell’unità di analisi comportamentale si rilassavano, Rossi si sedette vicino all’agente Donnelly e gli offrì un bicchiere di scotch che l’uomo accettò.
“Come ti è sembrato questo primo giorno?” domandò al collega, aveva già avuto modo di conversare con lui in precedenza e in qualche occasione avevano anche lavorato insieme. Simon Donnelly era a capo della squadra anti-terrorismo del F.B.I, gli era stato offerto il posto di capo sezione della B.A.U. grazie alla sua amicizia con la Strauss che in più di un’occasione lo aveva designato come un ottimo sostituto.
“Non credo che accetterò” confessò mentre dava un sorso al suo scotch. Rossi annuì, riusciva a capire in un certo senso le motivazioni che riuscivano a spingere l’agente al rifiuto, nonostante per lui non fossero a sufficienza.
“Non sarei un buon capo per te, o per il resto della squadra, e credo nemmeno per Hotchner” continuò.
“Secondo me il ruolo di capo sezione dovrebbe prenderlo uno di voi. Tu sei molto più adatto di me, la vostra interazione è perfetta e siete degli ottimi agenti, non avete bisogno di qualcun altro ”
Rossi gli sorrise, pensò che la Strauss non avrebbe concordato con quell’affermazione. “Ritorni dalla tua squadra quindi?”
L’uomo annuì. “Hanno più loro bisogno di me” poi versò un altro bicchiere di scotch per entrambi e brindarono alla squadra e ai suoi ottimi agenti, che ancora una volta erano riusciti nel loro compito.


Scusate se vi ho fatto attendere, ma queste due settimane le ho dedicate a singhiozzi alla storia. Comunque appena sarà passato tutto, tornerò più presente! Spero vi piaccia, e a presto :) Grazie anche a chi mi segue e recensisce ogni volta, e anche a chi legge soltanto :)

 

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Capitolo 10
*** L'agente Derrick (parte 1) ***


L’agente Derrick (parte 1)

 
 
Morgan si era appena svegliato da un lungo sonno ristoratore, aveva dormito a casa di Paget quella notte;  aprì gli occhi e notò il lato sinistro del letto vuoto, mentre un odore di pancakes gli penetrava nella narici, la mora si era alzata prima di lui ed era già in cucina per preparare la colazione.
Si stiracchiò e fece piccoli movimenti circolari con il collo, come ogni mattina. Più per abitudine, che per reale necessità, indossò il pantalone e infilò il distintivo dentro la tasca, infine andò in cucina per raggiungere l’attuale fidanzata.
“Buongiorno” disse mentre cingeva la vita di Paget che si voltò verso Derek e gli stampò un bacio sulle labbra.
“Credo che ti abbia chiamato qualcuno prima” accennò lei mentre posava due tazze di caffè sul tavolo.
Derek annuì e prese il cellulare che aveva dimenticato in soggiorno la sera prima, il nome che lesse sul display lo sorprese. “Wayne?” pensò stranito mentre avviava il messaggio lasciatogli da questi in segreteria.
Wayne Derrick, agente della polizia di New York, un uomo tutto d’un pezzo, difficile da gestire, impassibile e testardo. In più di un’occasione Derek aveva potuto constatare la determinazione di quell’uomo, amante del rischio, oltre ogni dire, incapace di ammettere i propri errori. Era un ottimo agente, svolgeva il suo ruolo con estrema dedizione e austerità, sul campo si confermava sempre come il migliore, ma non era abituato a dividere il proprio palcoscenico con altri, motivo per cui stranamente e, soprattutto a malincuore, si rivolgeva all’F.B.I, quindi le sue richieste erano sempre di certa serietà.
“Morgan, ho bisogno di te. Il caso mi è sfuggito di mano, ho quasi perso uno dei miei agenti. Ti invio il resto del fascicolo. Fammi sapere.”. Il sintetico messaggio non sorprese Derek, abituato a quelle brevi descrizioni da parte dell’amico Wayne, ma non ebbe dubbi sull’importanza della richiesta.
Paget lo osservò mentre prendeva il tablet e leggeva il fascicolo ricevuto. “Devi proprio farlo ora? È domenica mattina, non può aspettare?”
Derek posò il tablet, ripromettendosi di guardarlo più tardi. “E’ tutto buonissimo” disse per farsi perdonare ammiccando, la mora lo guardò di sottecchi e rimase in silenzio, la colazione era rovinata ormai.
A quel punto si alzò, mise la tazza nel lavandino. “Controlla pure il tuo fascicolo tanto io non ho fame”
Derek scosse la testa e la guardò mentre usciva dalla cucina diretta verso la camera da letto; non la fermò, era stanco di doversi giustificare ogni volta. Finì di leggere il fascicolo e provò a rintracciare Hotch per proporgli il caso.
“Agente Hotchner” si presentò l’uomo rispondendo al telefono, stava facendo jogging nel parco come ogni domenica mattina assieme a Beth, la donna si fermò e ne approfittò per fare una pausa.
“Hotch, ho bisogno di vederti. Sono stato contattato da un mio amico, il detective Derrick di New York, ha chiesto la nostra collaborazione” spiegò in fretta. Hotchner gli diede un appuntamento per quella mattina stessa per analizzare il caso e decidere se fosse necessario intervenire, dopodiché riattaccò e riprese la sua corsa, mentre Derek finiva di vestirsi e usciva dalla casa di Paget senza essere nemmeno salutato.
 
 
Madison stava sistemando il proprio guardaroba, aveva ancora diversi vestiti chiusi nelle valigie, e nessun spazio nell’armadio dove riporli. “Ok, o elimino vestiti oppure sarò costretta a comprare un nuovo armadio” pensò la rossa, stava ancora studiando il modo per sistemare tutti i suoi vestiti quando il cellulare prese a squillare.
Era uno dei suoi  vecchi colleghi del dipartimento di polizia di NY, Dylan Campbell; Madison sorrise, le faceva sempre piacere ricevere le telefonate del vecchio amico, anche se non erano soliti vedersi spesso. “Campbell, mi hai telefonato per annunciarmi il tuo fidanzamento ufficiale con Kelly, vero?”
L’uomo rise, la vecchia collega insisteva sempre perché trasformasse quello che lui definiva un felice fidanzamento di oltre un decennio in un prevedibile matrimonio. “No, ma credimi, preferirei darti questa notizia” esordì.
“Si tratta di Trevor” aggiunse riferendosi all’altro suo collega che lavorava nella squadra di cui il detective Wayne Derrick era a capo. “Che gli è successo?” domandò la giovane trattenendo il fiato.
“Gli hanno sparato, i medici hanno detto che ormai è fuori pericolo, ma la convalescenza sarà lunga”
Madison tirò un respiro di sollievo, se non altro, non avrebbe dovuto piangere nessuno. “Vi vengo a trovare, sarò a New York entro stasera”
Campbell le disse di non preoccuparsi, che era tutto a posto, ma Madison insistette. Si trattava di un suo amico, oltre che di un suo ex collega, e voleva rendersi utile in qualche modo. Salutò l’amico aggiungendo che lo avrebbe richiamato non appena fosse arrivata nella Grande Mela e riattaccò.
Dopo una veloce doccia, chiamò prima i suoi per avvisarli che sarebbe andata a trovarli, annuncio che fu accolto con gioia da James, suo padre che desiderava da tempo una visita della figlia, dopodiché telefonò il suo capo, il dottor Brown, per prendersi qualche giorno di ferie. Sistemò  la borsa , prese le chiavi della sua auto e uscì di casa dopo essersi assicurata di aver chiuso tutto.
Il viaggio verso New York durò molto più del previsto, lungo la strada trovò infinite code di traffico che bloccarono la dottoressa per oltre due ore. Giunta alle porte della città, la situazione non fece altro che peggiorare, ma dopo circa un’ora riuscì ad attraversare il Manhattan Bridge che collega Lower Manhattan con Brooklyn e s’inoltrò per le strade della caotica città. Nonostante ci fosse cresciuta, vedere New York era sempre un colpo al cuore, le mancava molto la sua città, la sua gente, camminare per il Central Park o per i suoi diversi quartieri, l’emozione della mille luci di Times Square o la vista dell’Empire State Building, il suo posto preferito nella Grande Mela . Mai avrebbe pensato che un giorno l’avrebbe lasciata e farlo era stata una decisione molto sofferta.
Giunta all’Upper east side, si sentì a casa, imboccò Lexington Avenue ed infine svoltò verso la 63esima strada giungendo davanti all’ingresso del suo palazzo. Entrò la macchina in garage e salì al terzo piano dove ad accoglierla fu la cameriera di casa, Wendy. “Signorina Madison” disse la donna saltandole al collo, le era molto affezionata, lavorava in quella casa da quando Madison aveva 6 anni e suo fratello Brian appena 8 mesi. “Wendy!” urlò lei ricambiando l’abbraccio, le mancava moltissimo, la considerava quasi come una sorella maggiore dato che aveva appena 21 anni quando era stata assunta.
“Mia madre dov’è?” chiese sciogliendosi dall’abbraccio e precipitandosi sulle caramelle che sua madre teneva sempre nel tavolino d’ingresso. “Sua madre è al lavoro,  è stata chiamata in tutta urgenza da Marissa Webb per sistemare il nuovo punto vendita a SoHo. A quanto ho capito, parte dell’arredamento non è arrivato” le spiegò Wendy, la giovane fece spallucce; la vita di sua madre era un continuo scappare dai suoi clienti fin da quando aveva memoria al punto che la figlia non ci faceva più caso ormai. Sua madre Natalie Esther Fitzgerald, laureata in Design e comunicazione visiva nell’università inglese di Oxford ed esperta in visual merchandising, era richiestissima per il lancio di nuovi store o galleria d’arte nell’ambiente newyorkese e non solo.
“Papà?” domandò in seguito, sperava di poter vedere almeno uno dei suoi genitori prima di andare a trovare il suo amico in ospedale.
La donna le riferì che si trovava al piano di sopra nel suo studio e la rossa salì di corsa le scale per raggiungerlo. “Papà!” lo chiamò aprendo la porta, l’uomo alzò lo sguardo verso la figlia e sorrise a trentadue denti, si alzò immediatamente per salutarla e l’abbracciò. “Piccola” le disse mentre la stringeva a sé, le posò un bacio sulla fronte scompigliandole i capelli rossi. “Sei sempre più bella” si complimentò suo padre mentre guardava la figura della figlia.
Madison sorrise. “Tu sei sempre più vecchio” lo stuzzicò lei prendendolo in giro. Poi si sedette sulla poltrona di fronte a suo padre e gli chiese del fratello Brian. “Torna da Providence verso il 22 dicembre. Questo forse è l’ultimo anno” la informò il padre poi prese il telefono e chiamò sua moglie per avvisarla che Madison era arrivata.
La donna rispose con la voce affannata riattaccando con un veloce “perfettissimo”, come al suo solito.
“Papà a cena alle sette e mezza o facciamo più tardi?” gli domandò, voleva andare dall’amico Trevor prima di cena perciò desiderava sapere come poteva organizzarsi. Il padre le rispose di tornare quando voleva, lui l’avrebbe aspettata e la figlia uscì dopo avergli dato un bacio sulla guancia.
 
Morgan era chiuso nell’ufficio del capo del dipartimento della polizia di  NY assieme all’agente supervisore Hotchner.
“La collaborazione è stata chiesta da un suo agente, il detective Derrick. Ha affidato a noi il caso, direi che è sufficiente per giustificare la nostra presenza qui” lo aggredì l’agente di colore infastidito dai sospetti mostrati dall’uomo nei loro confronti. L’agente Hotch rivolse uno sguardo di rimprovero al suo agente, non erano lì per imporre la loro presenza, ma per collaborare ed era fondamentale partire con il piede giusto, perciò chiese al suo agente di uscire dalla stanza e continuò il colloquio con l’uomo privatamente.
Dopo diversi minuti, il capo della polizia Robert Gray acconsentì alla collaborazione al caso, Hotch uscì dalla stanza e si recò presso i suoi agenti ai quali veniva illustrato il caso da parte di Dylan Campell, l’unico dei detective che seguiva il caso presente nel dipartimento.
“Dobbiamo fare attenzione alla stampa, sta dando troppa importanza al killer. Lo chiamano il “pistolero di Nueva York” riferì l’uomo alla squadra dell’unità di analisi comportamentale.
“Come mai gli hanno affibbiato un nome ispanico?” domandò Spencer continuando a guardarsi intorno, sapeva che a capo della squadra c’era il detective Derrick, l’ex capo di Madison, provava una curiosità indefinibile nei confronti di quell’uomo. Voleva scoprire come fosse fisicamente e caratterialmente, Derek sembrava nutrire una profonda stima nei suoi confronti, lo aveva descritto come uno dei migliori detective con cui avesse collaborato.
Ma la curiosità del dottor Reid doveva attendere, l’agente Derrick era momentaneamente assente e il suo collega aveva fatto intendere che aveva lasciato il caso nelle loro mani.
“Le vittime, sparate con un colpo di pistola alla fronte, compaiono tutte in quest’area che è conosciuta in città come il quartiere ispanico” spiegò. “Sono tutte di origini ispanica tra l’altro”
“L’agente Fisher è stato colpito dopo un avvertimento di abbandonare il caso. È stato proprio Trevor a proporci il caso, la prima vittima era il cugino della sua fidanzata, Danielle, John Rodriguez.” continuò.
“Quindi il nostro S.I. colpisce le persone di origini ispanica, sappiamo altro delle vittime?” domandò Blake.
“Erano tutte e cinque regolarmente residenti negli Stati Uniti, avevano studiato presso un’università americana, svolgevano un ottimo lavoro ed erano di buona estrazione sociale”
 “Come avevano avuto accesso all’istruzione universitaria?” intervenne l’agente Morgan. Il detective fece spallucce, non avevano pensato che quella potesse essere una pista.
Morgan annuì e si mise in collegamento con la loro analista informatica. “Bambolina, voglio che tu faccia una delle tue magie. Riesci a scoprire come hanno avuto accesso all’istruzione universitaria le vittime?”
“Certo, cose da nulla”. Garcia iniziò a digitare velocemente sulla tastiera. “Bene, belli miei, vi informo che le nostre vittime hanno avuto tutte una borsa di studio per studenti stranieri, si erano distinti in diversi ambiti e avevano avuto la possibilità di frequentare i nostri college”
“L’SI potrebbe essere quindi risentito per questo motivo, forse è un patriota che mal vede la possibilità di dare spazio a stranieri” suppose Rossi, gli agenti annuirono, era molto plausibile come supposizione.
In quel momento, squillò il telefono dell’agente Campbell. Era una chiamata dall’ospedale, Fisher si era appena svegliato dopo l’operazione per la rimozione del proiettile. L’agente Hotchner inviò Morgan e il detective della omicidi di NY per parlare con l’uomo nella speranza che rivelasse qualche dettaglio sull’aspetto del S.I., mentre il resto della squadra rimase in dipartimento per stilare un profilo.
 
Madison Thompson era appena entrata nella stanza del degente, Trevor Fisher, quando all’improvviso questa fu invasa dall’agente Morgan e dal detective Campbell.
“Tempismo perfetto, io e Trevor nemmeno due minuti di chiacchiere in santa pace ché voi già siete qui” scherzò lei i due uomini, mentre Trevor rideva. Madison riusciva sempre a metterlo di buon umore.
Campbell si avvicinò alla dottoressa e l’abbracciò. “Thompson ti trovo molto meglio” le disse facendole l’occhiolino, l’altro aggiunse che era proprio quello che le stava dicendo.
Derek lasciò i tre amici chiacchierare per qualche minuto, non voleva mettere pressione al detective Fisher; aveva subito un grosso trauma, era meglio che si rilassasse, a mente fredda avrebbe ricordato senz’altro di più.
“Trevor te la senti di dirci com’è andata?” gli domandò Campbell riportando la conversazione sul vero motivo della loro visita.
Il detective chiuse gli occhi, su consiglio dell’agente Morgan, avrebbe favorito la sua concentrazione e il fluire dei ricordi. “Non ricordo molto. Ero di guardia nel quartiere dentro l’auto, era tutto tranquillo. Il collega che mi accompagna si era allontanato dicendo che doveva pisciare. Due donne sulla trentina attraversano la strada, non sembrano sospette, una si ferma, dice qualcosa all’altra che si allontana, si volta verso di me e si avvicina. Sento il rumore dello sparo e subito dopo il sangue fluire; il mio collega mi chiama più volte, perdo conoscenza e mi risveglio qui” descrisse la scena in modo piuttosto lacunoso, ma era l’unica testimonianza diretta.
“Il killer è una donna?” chiese Madison, i due agenti fecero spallucce, fino a quel momento non avevano preso in considerazione quella possibilità.
Il cellulare di Morgan vibrò, era un messaggio dell’agente Jareau che lo avvertiva che era stato trovato l’ennesimo corpo. “Dobbiamo andare, abbiamo un’altra vittima” annunciò l’agente di colore al detective.
“Derrick sarà già sulla scena” disse Madison pensando alla meticolosità dell’agente che non permetteva a nessuno di esaminare la scena di un delitto senza la sua presenza.
“Derrick si è tirato fuori, Thompson. Ha lasciato il caso a noi e a Derek” le riferì Dylan, la giovane sgranò gli occhi, una simile decisione non era solita da parte del detective perciò decise di andarlo a trovare.
Uscì insieme ai due agenti dopo aver augurato a Fisher una pronta guarigione e si avviò verso la dimora del detective Wayne Derrick lasciati i due uomini che dalla fretta nemmeno si preoccuparono delle intenzioni della dottoressa.
 
Wayne Derrick era sdraiato sul divano in pelle del suo soggiorno, ripensava ai dettagli del caso per l’ennesima volta. C’era qualcosa che gli sfuggiva, aveva raccolto sufficienti informazioni sulle vittime senza trovare un collegamento. Era chiaro che il killer detestasse le vittime, le aveva strappate alla vita con un colpo di pistola sferrato con una precisione millimetrica, come se fosse la sua personale esecuzione.
Era certo che quel modus operandi fosse riconducibile ad un uomo, eppure le sue convinzioni erano crollate quando ricevette il messaggio del collega, Dylan Campbell, in cui veniva riportata la testimonianza di Trevor Fisher. Non poteva trattarsi di una donna, doveva esserci dell’altro.
Completamente immerso nei suoi pensieri, non si accorse del citofono suonare, trasalì al suono prolungato del campanello e si alzò dal divano. Sperava fossero i testimoni di Geova, aveva voglia di scaricare la propria tensione su qualcuno, ma la persona che visualizzò davanti al portone del suo palazzo lo destabilizzò.
Avrebbe riconosciuto quella capigliatura a distanza di chilometri in una giornata di nebbia fitta: Madison Thompson, l’ex medico legale assegnato alla sua squadra.
Ricordava ancora il giorno in cui il capo del dipartimento, Roberto Gray, l’aveva presentata alla squadra; a prima impressione, l’aveva colpito: era una giovane molto sveglia e perspicace, poco adatta al ruolo di medico legale per via del sua leggerezza nell’affrontare ogni cosa, ma molto preparata. Ad oggi non aveva ancora conosciuto qualcuno con la sua abilità e rapidità nel notare dettagli che ad altri erano sfuggiti, era un ottimo elemento nel dipartimento e perderla gli era molto dispiaciuto.
Tuttavia il giorno in cui la dottoressa Thompson diede le sue dimissioni, Wayne Derrick, rimasto seduto alla sua scrivania, si sentì sollevato. Nel corso degli anni di collaborazione con il medico legale si era accorto che i sentimenti che nutriva per la giovane erano molto più che stima professionale, non ne aveva mai parlato con nessuno, e mai nessuno se n’era accorto. Aveva cercato di mascherare la sua affezione con una freddezza disarmante, riducendo i suoi rapporti con la dottoressa ai limite del possibile. Aveva deciso di reprimere i sentimenti nel profondo di se stesso, consapevole che quella decisione  avrebbe inevitabilmente allontanato la giovane dalla sua vita.
Negli ultimi due anni, aveva provato a rintracciarla infinite volte senza mai portare a conclusione le sue intenzioni, qualcosa lo bloccava. La paura del rifiuto oppure la consapevolezza di non essere la persona giusta? Non avrebbe saputo dirlo.
Ora però quella donna, che pensava di non rivedere, aveva appena bussato alla sua porta, fu tentato dal non aprire ignorando il campanello e aspettare che Thompson andasse via, ma il desiderio di rivederla era più forte, perciò aprì il portone e le permise di salire.
“Derrick dormivi oppure avevi deciso di lasciarmi fuori al freddo di novembre?” lo stuzzicò lei appena entrata.
Wayne le lanciò una veloce occhiata e le sorrise.  “La verità? Non volevo aprirti” rispose acido come al suo solito.
Thompson fece una smorfia. “Tanto lo so che ti manco”
Il detective ignorò quell’affermazione, come avrebbe potuto darle torto?
“Perché non sei sulla scena del crimine?” domandò lei piazzandosi a braccia conserte davanti alla sua figura.
“Se ne occupano Campbell e Morgan, senza contare l’intera squadra di profiler di Quantico” rispose secco. Aveva preferito abbandonare il caso perché si sentiva eccessivamente coinvolto; quell’assassino, uomo o donna che fosse, aveva colpito uno dei suoi agenti. Mai era successo prima d’ora, in tutta la sua carriera nessun assassino era sopravvissuto abbastanza a lungo per riuscire a colpirlo così da vicino.
“Derrick muoviti, il caso è tuo e so che te ne pentirai se permetterai che sia l’F.B.I. a risolverlo. Per quanta stima tu possa provare nei confronti di Derek, sai bene quanto me che a risolvere il caso devi essere tu” replicò la rossa con fermezza. Conosceva l’agente Derrick al punto da sapere che l’orgoglio era una caratteristica innata nella sua persona.
“Questione di orgoglio professionale” disse lui confermando quanto pensato dalla giovane che gli rivolse un sorriso malizioso.
Madison si sporse sul vaso che ornava il mobile d’ingresso e pescò le chiavi  della moto del detective. “Era sicura di trovarle qui” affermò facendole tintinnare nelle sue mani.
L’uomo si appropriò delle chiavi con un gesto veloce e piuttosto brusco che non sorprese Madison, abituata ai suoi modi di fare. “Guido io” prese il giubbotto di pelle e passò il casco del passeggero alla dottoressa che gli fece l’occhiolino.
Si avviarono ad altissima velocità per il traffico newyorkese della sera, sorpassando più volte e senza rispettare i semafori, diretti verso il quartiere ispanico dove Morgan assieme al dottor Reid e il detective Campbell esaminavano la sesta vittima del pistolero di Nueva York.
 
“Avete identificato la vittima?” chiese con tono serio Derrick irrompendo nella scena senza salutare. Campbell si girò verso l’uomo e scosse la testa, doveva aspettarselo che il detective si sarebbe riappropriato del caso.
Morgan lo salutò con una pacca sulla spalla. “Finalmente ti fai vedere”
Derrick ricambiò il saluto. “Avresti dovuto prevedere che non ti avrei lasciato tutta la gloria” lo stuzzicò il detective.
Spencer osservò l’uomo interagire con l’amico; come aveva già previsto, l’agente mostrava un tipico atteggiamento da maschio alpha.
In quel momento spuntò da dietro la figura dell’uomo, Madison con il casco della moto in mano, sorprendendo il dottor Reid che aggrottò la fronte, perché erano insieme?
La rossa allungò le chiavi della moto al detective  e salutò i presenti. Poi si scambiò un sorriso con Spencer nel momento in cui i loro sguardi s’incrociarono, cosa che non sfuggì al detective Wayne, certo ormai che fra i due ci fosse una certa familiarità.
“Avrei dovuto prevedere che era stata Thompson a convincerti a tornare” asserì Campbell rivolgendo un ampio sorriso alla dottoressa che fece un occhiolino. “Ho ancora un certo ascendente” scherzò lei.
Derrick ignorò l’affermazione dell’ex medico legale e domandò notizie sulla vittima agli agenti sulla scena.
“Abbiamo trovato il suo portafoglio, la vittima si chiama Felipe Alvarez, 38 anni, cubano di nascita, residente negli Stati Uniti da circa 6 mesi” disse Campbell.
Il medico legale, finora chino sul cadavere si sollevò, per parlare con l’agente. “Quando siamo arrivati il corpo era ancora caldo, sicuramente è morto fra le 18 e 19 di questa sera, una volta eseguiti gli altri accertamenti, saprò essere più preciso”
“Non è il vostro assassino” affermò con sicurezza Thompson attirando su di sé gli sguardi dei presenti e in particolare quello del medico legale che alzò un sopracciglio.
“Di grazia, signorina, perché non dovrebbe essere lui?” domandò il medico legale con tono scocciato, il foro del proiettile sembrava essere uguale a quello rinvenuto sulle precedenti vittime.
Madison esitò a rispondere e lanciò un’occhiata a Derrick che con un accenno del capo la invitò a parlare. “Il proiettile con cui è stato ucciso è lo stesso, tuttavia a suggerirmi che non si tratta dello stesso assassino è il foro d’entrata del proiettile. Ho visto le foto delle precedenti vittime e sono certa che la traiettoria percorsa dal proiettile sia diversa. Il vero assassino spara le proprie vittime mentre sono inginocchiate” spiegò lei imitando il killer. “Dal modo in cui il proiettile ha perforato la fronte, è facile dedurre che la vittima molto probabilmente non lo era” aggiunse.
“Il fatto che la vittima non fosse inginocchiata non significa che non sia il nostro assassino.” ribadì Wayne, rimasto deluso dall’ipotesi della dottoressa.
“Non sono d’accordo” esordì d’un fiato Spencer. Morgan si voltò verso il collega con espressione sorpresa, non era tipico di Reid contraddire le persone così apertamente; il detective gli lanciò un’occhiataccia e si morse le labbra per non offenderlo, sapeva che si trattava di un collega di Derek perciò decise di dare spazio alle sue confabulazioni.
“La tipologia di assassino che abbiamo di fronte è molto organizzata e metodica, ha un suo schema ben definito per uccidere le proprie vittime. Non è interessato a sperimentare nuovi modus operandi, per cui è molto più probabile che non si tratti dello stesso assassino”
“Come dice l’agente Reid” affermò Madison dando la conferma a Derrick che si conoscessero dato che l’agente Reid non si era presentato. “Dottor Reid semmai” la corresse Derek divertito.
La rossa represse una risata e lanciò uno sguardo interrogativo a Spencer che annuì farfugliando un “mi chiamano così”
“Bene, Morgan hai portato lo stagista con te per fargli fare pratica?” domandò Derrick con tono offensivo. Spencer lo guardò torvo, quell’uomo iniziava a infastidirlo seriamente. Derek era sul punto di parlare, ma Spencer lo interruppe.
“Al dire il vero, lavoro nell’unità analisi comportamentale da circa 8 anni, ho diversa esperienza sul campo oltre due lauree in Psicologia e Sociologia, per cui so perfettamente di cosa sto parlando” replicò Reid con fare stizzito.
Derrick lo fissò e fece una smorfia, ignorando quanto detto dal dottor Reid, si rivolse a Morgan nuovamente per informarlo che sarebbe tornato in centrale con la loro auto.
“Thompson, accompagna il dottor Reid” ordinò alla giovane rivolgendo uno sguardo con aria di superiorità a Spencer che continuava a guardarlo di sottecchi. Infine lanciò le chiavi della moto a Madison che le acchiappò al volo e s’incamminò verso il veicolo insieme all’agente Morgan e il detective Campbell lasciando i due da soli mentre la scientifica rimuoveva il cadavere. 




Scusate per il ritardo, l'idea era di completare il caso in unico capitolo, ma stava diventando decisamente troppo lungo, per cui li ho divisi :D spero vi piaccia, grazie ancora a chi recensisce sempre e mi legge, e a chi ha messo la mia storia fra quelle "da seguire" A presto, Antos.

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Capitolo 11
*** L'agente Derrick (parte 2) ***


L’agente Derrick (parte 2)

 
 
Madison si voltò verso Spencer ancora rosso in faccia, sia per l’imbarazzo che per la rabbia. “Wow” disse la giovane. “Non sei così calmo come vuoi far credere allora”
Il dottor Reid rimase in silenzio ed espirò nel tentativo di riuscire a rilassarsi un minimo . “Dobbiamo andare” fu tutto ciò che le disse avviandosi verso la strada senza sapere dove fosse parcheggiata la moto.
Madison lo osservò per qualche istante, trattenendo una risata, poi lo prese per un braccio e gli indicò la direzione giusta. “E’ di là”
I due s’incamminarono verso il motoveicolo l’uno dietro all’altra, Madison allungò verso l’amico il secondo casco, che rimase interdetto in piedi davanti alla moto, mentre lei si posizionava sul posto di guida accedendo il motore.
“Guidi tu?” chiese timidamente Spencer senza nascondere il proprio timore.
“Ho già guidato una moto in precedenza e in ogni caso conosco le strade di New York meglio di te” rispose acida lei, le dava fastidio quando le persone mettevano in dubbio le sue capacità in fatto di guida.
Spencer farfugliò un “ok” e salì sulla moto. L’amica s’immise in strada a tutta velocità sfiorando da vicino una delle tante automobili circolanti per la Grande Mela, che fece cacciare un urlo acuto al dottor Reid.
“Tranquillo, era tutto calcolato” affermò lei sfrecciando per le strade di NY fra le automobili imbottigliate nel traffico.
“Madison, puoi rallentare?” la implorò Reid chiudendo gli occhi per la paura. La giovane rise e accelerò ancor di più quando il semaforo passò dal verde al giallo, a quel punto Spencer si abbracciò senza molti preamboli a Madison che dallo specchietto gli gettò un’occhiata e sorrise.
Nel guardare il dottor Reid, si distrasse scordandosi di svoltare verso sinistra giunta all’incrocio, perciò fece un’inversione ad U, dopo aver informato il vicino di casa di tenersi ben stretto, che obbedì immediatamente scoppiando a ridere per il nervosismo subito dopo, mentre gli altri veicoli suonavano il clacson urlando contro Madison che, ignorando tutti, proseguì il rettilineo verso la centrale di polizia.
Giunti in dipartimento, Spencer, bianco cadaverico in viso, con ancora il casco indosso scese di corsa dalla moto senza rivolgere una parola a Madison che rideva per l’aspetto dell’amico.
“Spence, dai, non è successo nulla. Un po’ di adrenalina ci sta” si giustificò lei fra le risate mentre entravano in centrale. “Un po’ di adrenalina? Abbiamo quasi rischiato la morte, Madison” fece la partaccia lui chiamandola per nome, cosa che non aveva mai fatto prima da quando si conoscevano, ragion per cui la dottoressa dedusse che fosse veramente arrabbiato e perciò chiese scusa offrendogli la mano come segno di pace. “Mi perdoni?”
Spencer sorrise e annuì stringendo la mano a sua volta, in quel momento si accorse che Blake li stava guardando con espressione sorpresa, ma al tempo stesso compiaciuta. “Reid, ti stavamo aspettando e, credo, anche a te, sei il medico legale, giusto?” chiese l’agente rivolta a Madison che annuì con aria gioviale dicendo che era proprio lei.
La donna li guidò verso il luogo dove il detective Derrick metteva a punto gli ultimi dettagli del caso mentre aspettavano Thompson e Reid di ritorno dalla scena del crimine. “Ah, siete ancora vivi. È la sua giornata fortunata, dottor Reid” affermò con la sua consueta acidità Derrick non appena scorse la coppia arrivare.
Spencer fece un sorriso di circostanza e si sedette sulla scrivania davanti a JJ, che gli gettò un’occhiata capendo subito dall’espressione del collega che provava una marcata antipatia nei confronti del detective.
“Lei è Thompson, il medico legale” la presentò Derrick ai profiler quando questa gli fu accanto. “Anzi, ex medico legale” precisò poi il detective  guardando fissa Thompson che fece spallucce.
 Blake, JJ e Rossi, gli unici che ancora non la conoscevano, si presentarono a loro volta, ricambiati dalla dottoressa che strinse la mano di tutti e tre.
“Dottoressa, ci dica quanto ha dedotto sul presunto S.I.” le chiese Hotchner riportando l’attenzione di tutti sull’ex medico legale che sentì gli occhi dei presenti puntati addosso. “L’S.I.?” domandò la giovane incerta  di aver capito bene.
Aaron le spiegò che era l’acronimo per “soggetto ignoto”, ovvero il nome con cui veniva indicato l’assassino.
Madison annuì, espirò per placare la tensione e infine parlò. “Il vostro S.I. uccide le proprie vittime mentre queste sono inginocchiate, è questo che mi ha portata a capire che non si trattava dello stesso assassino. L’ultima vittima, Felipe Alvarez, è stata sparata a questa distanza -fece una pausa per mostrare il movimento-; molto probabilmente il vero assassino ha sparato un colpo frontale con la stessa pistola, convinto che, una volta scoperto il vero assassino, non sarebbe stato incriminato, tuttavia ha commesso un errore perché non era a conoscenza di come uccidesse le vittime” spiegò lei assumendo un tono professionale, come era solita fare quando lavorava.
“Perfetto. Morgan, chiama Garcia e chiedile di cercare informazioni su Alvarez, è probabile l’S.I. sia fra le sue conoscenze. JJ, tu contatta i familiari della vittima, forse loro conoscevano qualcuno che potesse avercela per qualche motivo con Alvarez” ordinò Hotch, i due agenti annuirono e si misero subito al lavoro.
“Se non è un problema per lei, detective, vorremmo che la dottoressa Thompson analizzi i corpi delle precedenti vittime”  richiese l’agente Hotchner a Wayne, che acconsentì alla richiesta senza problemi.
“Reid, vai con la dottoressa all’obitorio” disse poi rivolto a Spencer che annuì debolmente. “Credo che Thompson sarebbe più a suo agio con uno dei miei agenti” obiettò Derrick designando Campbell come possibile sostituto del dottor Reid. Hotchner si scusò per la sua insistenza, ma ribadì che preferiva fosse uno dei suoi agenti a recarsi all’obitorio con la dottoressa, dato che avevano stilato un profilo e anche l’agente Campbell doveva ascoltarlo.
Derrick strinse i denti, non poteva contraddire un’altra volta l’agente supervisore, quindi a malincuore acconsentì alla richiesta di Hotch per la seconda volta; lanciò un’occhiataccia al dottor Reid, che lo fissò a sua volta saltando giù dalla scrivania, poi, mentre il detective continuava a guardare le sue mosse con la coda dell’occhio, si avviò verso l’obitorio insieme a Madison, ignara dello sguardo di sfida che si erano scambiati i due.
 
“Il nuovo me non ama l’odore della lavanda” esclamò la giovane non appena ebbe messo piede nell’obitorio, ancora buio.
“Lavanda?” domandò Reid che la seguiva a tentoni. “Si, lavanda. Io mettevo sempre il deodorante alla lavanda” spiegò lei mentre premeva l’interruttore della corrente elettrica.
La luce diafana, tipica di ogni obitorio od ospedale che si rispetti, illuminò la stanza mostrando il corpo di Felipe Alvarez, l’ultima vittima rinvenuta. Thompson, osservata da Reid che seguiva ogni sua mossa, indossò il camice bianco e i guanti in lattice, e iniziò l’autopsia per determinare l’ora della morte della vittima.
“Mmm, povero.” affermò scuotendo la testa dopo circa cinque minuti. Reid le domandò a cosa si riferisse.
Madison le mostrò una fattura, che segnalava il nome di una gioielleria sulla 45esima, caduta dalla tasca della camicia mentre lo spogliava; l’uomo aveva acquistato un gioiello poco prima di morire. “Però il portafoglio è stato trovato sulla scena del crimine e sembrava non mancare nulla” ricordò con sorpresa la giovane.
“Non è stata una rapina, l’SI lo avrà preso volontariamente. Sicuramente lo conosceva e sapeva del gioiello”, a quel punto prese il telefono e informò gli altri degli ultimi dettagli appresi.
Madison determinò l’ora della morte di Alvarez e passò ad esaminare le vittime del pistolero di Nueva York. Era in piedi fra le vittime a braccia conserte; Reid la osservava stranito, che cosa stava facendo?
“Il vostro S.I. sarà alto più o meno fra i 172 e 175 cm, corporatura probabilmente esile” sentenziò lei.
Spencer aggrottò la fronte. “Tutti questi dettagli  da cosa li hai dedotti?” domandò, piazzandosi davanti alle vittime anche lui. A quel punto fu chiaro anche a lui cosa avesse visto la dottoressa.
“L’inclinazione del foro d’entrata per l’altezza” spiegò Madison seguita da Reid che completò la sua frase.
“Le abrasioni sulle vittime meno robuste, l’SI non lotta con tutte le proprie vittime, ma solo con quelle che sa che può combattere”
Madison annuì e rimase pensante per qualche secondo. “E se fossero in due? Trevor ricordava di aver visto una donna avvicinarsi prima dello sparo, forse lei è il braccio destro dell’S.I.”
“Questo spiegherebbe come riesca l’S.I. a catturare anche vittime più robuste di lui. La sua collaboratrice sarà una sorta di esca” dedusse Reid confermando i sospetti di Madison, che continuò a esaminare i corpi alla ricerca di altri dettagli.
“Torniamo in centrale” disse Spencer, una volta finito il lavoro, mentre l’amica riponeva i corpi nelle celle frigorifere dell’obitorio.
Dopodiché Madison si levò il camice e i guanti, si lavò le mani e insieme uscirono dopo aver spento le luci. “Come mai hai scelto questa specialistica?”  le domandò Reid mentre tornavano in dipartimento. Non glielo aveva mai chiesto prima, era evidente che fosse molto brava nel suo lavoro, oltre che appassionata. Avrebbe voluto anche domandarle perché lo avesse lasciato e deciso trasferirsi a Washington, ma sapeva che non erano domande a cui la dottoressa Thompson rispondesse volentieri, perciò si fermò alla prima domanda.
“Grazie al professore Moore. Avevo seguito un seminario poco prima della scelta della specialistica sulla medicina legale. Lui ci parlò del lavoro che avremmo svolto e dell’importanza che esso assumeva per le indagini. Ci disse che il nostro lavoro contribuiva a far trovare pace alle vittime, offrendo alle famiglie il conforto, per quanto possibile, di sapere che l’assassino dei loro cari era stato incarcerato”  spiegò lei camminando di fianco a Spencer che ascoltava in silenzio.
Giunti davanti al portone del dipartimento di polizia, Madison salutò Spencer dopo aver consegnato una busta contenenti i referti delle autopsie. “Ci vediamo domani” gli disse, gli stampò un bacio sulla guancia e si avviò verso la fermata della metro a pochi passi da lì.
“E’ lei la tua amica, vero?” chiese Alex, uscita un attimo per telefonare al marito, al dottor Reid, che fissava il traffico di NY con lo sguardo perso nel vuoto. A quel punto scosse la testa, come se la voce della collega lo avesse riportato alla realtà, e annuì.
“Sembra molto simpatica” affermò sorridente la donna. “Lo è” confermò Spencer che sorrise a sua volta e insieme rientrarono in centrale.
 
 
“Trevor ricorda una donna che si avvicinava al suo finestrino poco prima dello sparo, il suo collega non è riuscito ad identificare il soggetto che ha sparato, ma è sicuro che non si trattava di una donna. Chi diavolo c’è dietro questa storia?”
Il detective Derrick era parecchio scosso, non riusciva a trovare un collegamento. Dalle ricerche condotte da Garcia non era emersa alcuna soluzione, troppi nomi da scartare e nessun elemento per restringere il campo.
“Forse si tratta di una coppia. La donna, che il detective Fisher ha visto, potrebbe essere complice del S.I.” asserì Reid mentre entrava nella stanza seguito dall’agente Blake.
“Un’esca” dedusse Morgan, a quel punto Spencer consegnò il referto dell’autopsia all’agente Hotchner. “La dottoressa Thompson ha dedotto l’altezza del S.I., pensa che sia alto fra i 172 e 175 cm e dalla corporatura piuttosto esile” continuò riferendo quanto supposto dal medico legale.
“Questo può aiutarci a restringere il campo” affermò Hotch che richiamò Garcia per darle ulteriori informazioni.
“Bimbi miei, siete collegati con il vostro guru informatico. Avete nuovi dettagli per me?” rispose l’analista informatica, il detective Derrick fece una smorfia, non era abituato a simili battute, che riteneva vere e proprie “mancanze di professionalità”.
“Si. La dottoressa Thompson crede che il nostro uomo sia alto fra i 172 e 175 cm, probabilmente è sposato o convive” la informò Hotch. “Thompson? Madison vi sta aiutando?” domandò mentre il rumore dei tasti si diffondeva dall’altra parte della cornetta.
Morgan rispose che si trattava proprio di lei. “Sapevo che era in gamba. Ok, forse ci siamo. Samuel Murray, 40 anni, sposata con Jessie Murray, 36 anni. La descrizione fisica di Madison sembra combaciare, vi invio una foto dei coniugi Murray” disse Penelope, pochi secondo più tardi comparvero le immagini che ritraevano i due coniugi sui tablet dei profiler.
“Sentite qui, Murray è stato fermato più volte dalla polizia quando era ancora adolescente per atti vandalici a danno di una famiglia di origini messicane nel suo quartiere. Gli è stata revocata la borsa di studio dall’università del Michigan dopo che era stato tacciato di razzismo da alcuni suoi colleghi del college, borsisti anche loro e di origine ispanica” aggiunse la bionda.
“Sembra che sia il nostro uomo” disse Rossi dopo aver ascoltato il racconto di Penelope. “Della moglie cosa sappiamo?” domandò sempre l’agente Rossi.
“Su Jessie Murray non abbiamo nulla per il momento, aspettate… Si, ecco, anche lei è stata licenziata dal proprio lavoro segreteria in uno studio legale dopo che aveva aggredito verbalmente una cliente additandola di essere una sporca immigrata” illustrò Garcia. Era sufficiente, la coppia cercata dai profiler erano sicuramente i Murray.
“Ragazzi, sentiti qui.” esordì il detective Campbell accendendo la televisione e sintonizzandola sul telegiornale.
“Nuovi risvolti nelle indagini sul pistolero di Nueva York. L’omicida dell’ultima vittima, Felipe Alvarez, potrebbe non essere il noto assassino. La polizia non ha rilasciato alcuna dichiarazione a conferma di quanto trapelato, ma non è giunta alcuna smentita. Intanto le indagini della squadra di analisi comportamentale di Quantico continuano..” riferiva la voce seria del giornalista di turno sulla scena del crimine.
“Come diavolo hanno fatto? Dannati giornalisti! Li eliminerei con le mie stesse mani” urlò di rabbia Derrick. Nel profilo della coppia, e in particolar modo di Samuel Murray, era stato sottolineato più volte l’orgoglio come principale caratteristica del S.I., la diffusione di una simile notizia non avrebbe fatto che fomentare la rabbia del soggetto, portandolo al limite.
“Cosa possiamo fare? Rilasciamo una dichiarazione in cui smentiamo la notizia?” domandò JJ all’agente supervisore Hotchner che con espressione seria ripensava alle parole dei giornalisti, stava cercando un modo per riuscire a sfruttarle a loro favore.
“Se rilasciamo una dichiarazione ora, non otterremmo alcunché” ribadì Hotch. “Se la tipologia di assassino è quella che pensiamo, sarà lui stesso a venire da noi” continuò.
L’agente Hotchner non fece in tempo a completare la frase che il telefono della centrale squillò. Un silenzio tombale scese fra i presenti che rimasero sull’attenti mentre il detective Campbell rispondeva alla telefonata dopo aver avviato la procedura per rintracciare la telefonata.
“Voglio parlare con il detective Derrick” annunciò l’uomo con la voce camuffata non appena udì la voce del detective Campbell. Wayne senza attendere il bene placito dell’agente supervisore della B.A.U. si precipitò sulla cornetta.
“Bastardo, consegnati tanto ti troverò” rispose il detective con tono rabbioso.
“Smentisci la notizia. Io sono l’unico che New York deve temere, altrimenti..” minacciò l’uomo con tono tenebroso che provocò un brivido lungo la schiena agli agenti presenti.
“Altrimenti che fai? Murray, sappia chi sei e ti troveremo” lo minacciò a sua volta Derrick pronunciando il nome appositamente perché sapesse che erano sulle sue tracce.
“Lo avete voluto voi” concluse l’uomo riattaccando. Il detective sbatté la cornetta del telefono contro la scrivania per la rabbia. “Siamo riusciti ad individuare il punto da dove chiamava?” chiese Rossi tentando  di non fare attenzione alla reazione del detective Derrick. Campbell scosse la testa, la telefonata era stata troppo breve; tuttavia erano riusciti ad individuare un’area nella città di New York.
“Murray sa che lo prenderemo, ma vuole vendicarsi. Avrà deciso di fare un ultimo colpo magistrale, molto probabilmente ci chiamava dal luogo dove si compirà la strage” osservò Reid mentre fissava la cartina in cui veniva segnalato l’area di provenienza della telefonata.
“Aspettate, questa sera ci sarà una grossa manifestazione organizzata dalla comunità messicana ad Harlem, che rientra nella zona. Non ricordo cosa festeggiano..”
“Certo! Come ho fatto a non pensarci? È il 20 novembre” esclamò Reid dopo aver ascoltato quanto riferito da Campbell tra gli sguardi increduli dei profiler. “Si celebra la Festa della Rivoluzione Messicana oggi, si commemora l’anniversario dell’inizio della Rivoluzione del 1910.” completò la frase il dottor Reid.
“Bene, è sicuramente lì che andrà Murray” asserì Hotch e subito dopo organizzò le squadre per la cattura di Murray e consorte promettendo a Derrick che sarebbe stato lui a catturare il killer.
 
“Derrick non ti sta tanto simpatico, eh?” domandò Morgan a Reid mentre guidava verso Harlem. Il collega rimase in silenzio, avrebbe voluto insultare Derrick ma era consapevole che si trattava di un amico di Derek perciò si morse le labbra e provò a mentire. “No, perché dici questo?”
Derek gli lanciò un’occhiata e scoppiò a ridere. “Reid, sei poco credibile! Ti si legge in faccia che non lo sopporti” ribatté l’agente. Reid abbassò lo sguardo e arrossì. “Ok, lo trovo un irritante e insopportabile pallone gonfiato” ammise Reid sentendosi subito più leggero.
“Lui pensa che tu sia un bimbetto impaurito che non sa dove si trova invece” confessò Morgan ridendo per la descrizione che i suoi amici avevano fatto l’uno dell’altro.
Reid strinse le mascelle. “Bimbetto impaurito? Che non sa dove si trova? Ma come si permette?” s’infuriò il giovane agente. “Hey, ragazzino! Tranquillo, il parere di Derrick non è poi così importante. Madison è tua” provò a calmarlo pronunciando il nome della dottoressa che fece infuriare Spencer ancor di più.
“Che c’entra Madison? Morgan, te lo ripeto per l’ultima volta: Madison ed io siamo solo amici” replicò arrabbiato Reid che scandì per bene la parola “amici”. “E non chiamarmi più ragazzino” aggiunse sperando che il tono fosse sufficientemente convincente. 
“Ok, ragazzino” rispose Morgan facendo un occhiolino mentre Spencer bonariamente gli dava una spinta.
 
Giunti nel luogo dove si svolgeva la manifestazione, la squadra della B.A.U. e quella del detective Derrick si divisero per cercare di coprire l’intera piazza provando a confondersi fra i manifestanti ridenti che inneggiavano alla propria nazione.
Derrick seguiva l’agente Morgan che scrutava attentamente i presenti alla ricerca di Murray, sapeva di essere vicino. Poteva avvertire l’adrenalina scorrere nelle sue vene, come prima di ogni cattura.  Fu allora che lo notò: l’uomo era incappucciato, ma reggeva una pistola calibro 45, la stessa con cui erano stati compiuti gli altri omicidi, per cui il detective Derrick era più che sicuro che si trattasse di lui. Lo seguì senza risultare troppo evidente dopo aver informato il resto degli agenti di aver individuato il sospettato.
“Ti copro le spalle, Wayne” lo rassicurò Derek aggiungendo di tenere l’S.I. sotto tiro.
“E’ finita, Murray. Chiama la mogliettina, si parte per una vacanza nella comoda prigione di New York” gli disse Derrick puntando la pistola alla nuca.
“Butta giù la pistola e voltati” gli consigliò il detective. L’uomo posò la pistola e si voltò sostenendo lo sguardo di Wayne, che continuava a puntargli la pistola contro. “Ora arriva la parte che preferisco: quella in cui ti metto le manette ai polsi” affermò con convinzione Derrick. Un ghigno si dipinse sul volto di Murray. “Io non ne sarei così sicuro”
Non appena ebbe pronunciato quelle parole, si udirono due spari, Morgan si precipitò sull’S.I. riuscendo a bloccarlo con una presa nonostante questi si dibattesse mentre Derrick rimasto in piedi osservava il sangue scorrere di Jessie Murray, la cui pistola aveva sparato un colpo in aria. Il detective si voltò per capire chi gli avesse salvato la vita e la persona che individuò lo lasciò senza parole.
“Tu?” fu tutto ciò che riuscì a dire. “Sì. A quanto pare, non sono un bimbetto impaurito che non sa dove si trova” rispose acido Spencer. “Hey, voi due! Potete continuare a battibeccare più tardi? Dovremmo portare questo qui in centrale” ricordò Morgan mentre alzava di peso Murray che urlava il nome della moglie ormai esamine.
Il resto della squadra raggiunse i tre agenti, complimentandosi per l’azione svolta mentre la scientifica rimuoveva il corpo di Jessie Murray e altri agenti della polizia sgomberavano la piazza per allontanare i curiosi.
“Torniamo in dipartimento. Abbiamo ancora del lavoro da svolgere” affermò serio Hotchner ricordando a tutti che non era stato ancora trovato un colpevole per l’omicidio di Felipe Alvarez.
 
Più tardi quella stessa sera mentre i profiler  si riposavano dopo quella giornata stressante ad eccezion fatta di Hotchner che continuava a lavorare al caso di Alvarez e di Reid che si aggirava per la centrale di polizia alla ricerca di un buon caffè, Derrick ricevette una telefonata.
“Wayne, sei stato bravo. Sapevo che non mi avresti delusa” disse Madison non appena il detective ebbe risposto alla telefonata. “Non ho fatto nulla io, hanno fatto tutto i profiler” replicò lui abbassando la voce. Era deluso da se stesso, non solo non era riuscito a catturare il sospettato, ma per giunta quel biondino rinsecchito, il nuovo epiteto che aveva attribuito a Spencer, gli aveva salvato la vita.
“So com’è andata, Morgan mi ha riferito tutto, ma questo  non toglie che tu non mi abbia delusa. Sei tornato e hai portato a termine il caso” spiegò lei. Derrick sorrise e si voltò dall’altra parte dando così le spalle a Spencer, che nel frattempo era rientrato con un caffè bollente in mano, soffermandosi sulla scrivania a pochi metri da quella di Derrick. Non voleva ascoltare la conversazione del detective, ma quando sentì pronunciare il nome della dottoressa Thompson fu inevitabile.
“Madison, torna a lavorare con noi. Sei un ottimo elemento, lo hai dimostrato anche oggi. Hai spodestato Baker con una frase” le propose Derrick ricordando la velocità con cui aveva capito che non si trattava dello stesso assassino.
Thompson rimase in silenzio, non aveva preso in considerazione la possibilità di tornare a lavorare con la squadra di Derrick; le mancava moltissimo il suo lavoro da medico legale, riprenderlo per quel breve frangente era stato piacevole ma tornare a New York...
Spencer trattenne il fiato, mandò giù un sorso di caffè bollente ustionandosi la lingua. “Ahia” esclamò il giovane posando il caffè sulla scrivania. Derrick si voltò verso di lui e sollevò un sopracciglio, stava forse origliando la conversazione?
 “Ci vediamo domani, Thompson” disse alla dottoressa riattaccando. “Dottor Reid, desiderava qualcosa?” domandò Derrick con il tono di voce più cortese che riuscì a mantenere.
 “Si, vorrei che richiamassi Madison e gli dicessi che la tua proposta era uno scherzo e che può tornarsene a Washington” pensò il dottor Reid, ma ovviamente non lo disse. Non tanto per la reazione che quella frase avrebbe provocato a Derrick, quanto piuttosto per le conseguenze che avrebbe provocato in lui pronunciare quella frase. Pronunciarla significava ammettere quello che continuava a negare se stesso, ovvero che era innamorato di Madison,  e semplicemente lui non poteva.
Sapeva che per qualcuno poteva sembrare assurdo e stupido da parte sua, ma si sentiva come se tradisse Maeve e non poteva farlo. Il ricordo del suo primo amore era ancora vivo in lui per riuscire ad ignorarlo.
“Dottor Reid?” lo richiamò Derrick notando che aveva lo sguardo perso nel vuoto. Spencer scosse la testa dicendo che non voleva nulla e salutò il detective Derrick che tuttavia non si decideva a lasciarlo andare. “Ehm.. io prima non ti ho ringraziato.. insomma mi hai salvato la vita..” farfugliò Wayne poco contento di doverlo ringraziare.
Spencer annuì rispondendo che non aveva nulla da ringraziare e infine uscì dalla centrale di polizia. Avviandosi a piedi verso l’albergo assegnato alla squadra, aveva bisogno di riflettere e una passeggiata cascava a pennello in quel momento.
 
La mattina dopo la squadra della B.A.U. riuscì ad individuare il colpevole per l’omicidio di Alvarez, ovvero l’ex fidanzata Romina Suarez decisa a vendicarsi dell’uomo dopo aver scoperto che aveva intenzione di sposare un’altra donna, e grazie ad un’abile interrogatorio da parte dei detective Campbell e Derrick che la costrinsero a confessare, la donna fu incarcerata.
Wayne era appena uscito dalla stanzino degli interrogatori quando vide Madison entrare nel dipartimento, si avviò subito verso di lei e la condusse nell’ufficio di Gray, il capo del dipartimento, dove i tre si trattennero a colloquio per una buona mezz’ora.
Spencer non riusciva a staccare gli occhi dalla porta dell’ufficio, desiderava ardentemente sapere cosa avesse deciso Madison, sarebbe rimasta a New York?
La sua impazienza era evidente: continuava a sbattere nervosamente i piedi contro il pavimento. “Reid, hai deciso di sfondare il pavimento?” lo stuzzicò Morgan che si sedette sulla sedia accanto alla sua.
“Derrick ha proposto a Madison di tornare a lavorare qui” disse d’un fiato. L’agente di colore annuì, ora era chiaro perché fosse così nervoso. “E lei ha accettato?”
Spencer fece spallucce, non ne aveva idea, ma sperava con tutto se stesso che non accettasse. “Dalle un buon motivo per restare a Washington, se non vuoi che vada via” affermò il collega rialzandosi in piedi, doveva ultimare di compilare le ultime carte.
Reid guardò l’amico, ma non rispose. Sapeva che aveva ragione, ma lui non riusciva a prendere una decisione ed era inutile continuare a discuterne con Morgan, non avrebbe mai capito.
In quel momento la porta dell’ufficio di Robert Gray si aprì e Madison uscì accompagnata dal capo del dipartimento che la teneva a braccetto e Wayne che li seguiva senza proferire parola; la rossa salutò i due stringendo la mano di entrambi dicendo qualcosa che Spencer non riuscì a capire e si avviò verso l’uscita.
Era arrivata a metà strada quando Spencer spuntò alle sue spalle posando una mano sul braccio per fermarla. “Spence, non ti avevo visto. Dove ti eri nascosto?” gli domandò sorridendogli. Reid indicò la sedia dove era seduto fino a poco prima. “Stai andando via?” chiese lui trattenendosi dal domandarle cosa si fossero detti i tre, non voleva sapere.
Madison annuì dicendo che stava tornando a casa e Spencer si offrì di accompagnarla; la rossa acconsentì con piacere avvisandolo che sarebbe stata una lunga passeggiata e insieme uscirono dalla stazione di polizia.
 
Erano giunti in prossimità dell’Empire State Building quando Madison propose a Spencer di visitare l’edificio. “Io amo l’Empire, non c’è posto più bello su questa terra” confessò consapevole di esagerare, ma era affezionatissima a quell’edificio per tanti di quei motivi che non riusciva nemmeno più ricordarli tutti.
Stranamente la fila per accendervi era molto corta e nel giro di mezz’ora si trovarono in cima all’edificio. “Non è magnifica?” gli domandò alludendo alla vista di cui si poteva godere dall’Empire, Spencer sorrise dicendo che era effettivamente molto bella.
“E’ molto meglio di sera. Un giorno ti ci porterò” aggiunse lei e si appoggiò al cornicione dell’edificio, il vento le scompigliò i capelli costringendola  voltarsi, e fu allora che notò l’espressione triste del dottor Reid.
 “Spence che hai? È successo qualcosa?” si preoccupò, aveva notato anche prima che era piuttosto taciturno, solitamente non smetteva di parlare nemmeno un attimo, ma pensava fosse per la stanchezza.
Spencer deglutì e distaccò lo sguardo da Madison puntando fisso uno dei tanti grattacieli di NY. “Resterai a New York, vero?” le domandò.
Madison aggrottò la fronte sorpresa. “Restare qui? Aspetta, tu che ne sai?”
“Ho sentito Derrick mentre ti proponeva di riprendere il tuo vecchio lavoro” spiegò lui cercando di non guardarla per non farle capire quanto gli dispiaceva che andasse via.
“Non ho accettato” rispose la giovane, Spencer si voltò verso di lei incredulo. Cosa era andata a fare in centrale quella mattina allora?
Madison sciolse i suoi dubbi raccontando la vera motivazione della sua visita. “Sono andata in centrale stamattina per ringraziare Gray e Derrick dell’offerta, anche se ero intenzionata a rifiutare. Volevo salutarli di persona, non mi andava di farlo al telefono”
Spencer sorrise, la sua espressione si rilassò immediatamente, non si preoccupò nemmeno di nascondere quanto fosse felice che avesse deciso di tornare a Washington. Madison si avvicinò a lui pericolosamente e gli spostò i capelli dal viso. “Ti sarebbe dispiaciuto se fossi rimasta qui?”
Spencer trattenne il fiato e annuì debolmente, non riusciva a parlare. Erano così vicini che i loro nasi si sfiorarono, era chiaro cosa sarebbe successo. Madison chiuse gli occhi e inclinò leggermente la testa verso sinistra, imitata da Reid che fece altrettanto. Schiuse le labbra, sfiorando quelle di Spencer, pronta a ricevere quel bacio che da tanto aspettava, quando il cellulare del dottor Reid squillò; a quel punto il genietto si distaccò da Madison che maledisse quel dannato cellulare, e rispose alla telefonata.
“Arrivo” disse al proprio interlocutore. “Era Morgan, devo andare” informò Madison che sembrò non ascoltare.
“Ci vediamo a Washington?” domandò lui mentre era sul punto di andare via, la sua vicina annuì, decisa anche lei di ignorare l’accaduto proprio come il dottor Reid.
“Spencer?” lo chiamò lei mentre scomparisse giù per le scale. Il giovane si voltò di lei e ricevette un bacio sulla guancia. “Vai” sussurrò all’orecchio del profiler che annuì meccanicamente, poi si allontanò sfiorandosi più volte la guancia.
 
Madison ritornò a casa dopo circa un’oretta, non riusciva a smettere di pensare a quel bacio non dato. Aveva forse sbagliato? Forse non si sarebbe dovuta buttare, e se Spencer non volesse sapere di lei?
No, non era possibile. Ma allora cosa o chi lo tratteneva? E se ci fosse una fidanzata? Magari lontana.. oppure si era lasciato da poco? Doveva parlare con Derek. Era l’unico che potesse svelargli l’arcano e farle capire qualcosa.
Erano questi i pensieri che occupavano la mente della giovane quando entrò nel suo appartamento, era talmente tanto concentrata che non sentì nemmeno suo padre chiamarla.
“Madison!” la richiamò il padre per la terza volta, a quel punto la figlia si destò dai suoi pensieri. “Dimmi” disse al padre sorridendo.
“A chi o a cosa pensavi?” la stuzzicò James, sicuro che avesse qualcuno per la testa, e certo di sapere chi. La giovane mentì dicendo che non stava pensando proprio a nessuno, ma si tradisse quando il padre le sorrise maliziosamente facendola arrossire in viso. “Pensavi a Spencer Reid?” domandò il padre certo di aver colpito nel segno nel vedere sua figlia sgranare gli occhi e diventare ancor più rossa in viso.
“Come fai a saperlo?” domandò lei, non aveva mai nominato il nome di Spencer, aveva sempre parlato di lui in termini del suo vicino di casa.
“Mads, sono un avvocato. Mi informo sui soggetti con cui dovrei collaborare, e guarda caso, il figlio di William Reid abita nel tuo palazzo a Washington. Non può essere mica un caso che tu mi abbia chiesto di contattare proprio lui! Sicuramente dovevi conoscere il figlio” spiegò lui con lo stesso tono convincente con cui teneva le arringhe in tribunale.
La figlia scoppiò a ridere, suo padre era decisamente molto più bravo di un investigatore privato. “Avete una storia?” le domandò a quel punto il padre.
Madison scosse la testa, confessando che non gli sarebbe dispiaciuto. “E’ un ragazzo un po’ particolare, no?”
La figlia lo guardò torvo. “Te lo ha detto William? Perché non è affatto vero! Il problema non è Spencer..”
Il padre la fermò. “Madison, William non mi ha detto nulla di negativo su suo figlio. Sono sicuro che sia un bravo ragazzo e anche intelligentissimo, ma non negare che sia un po’ diverso dalla media”
“E’ proprio per questo che me ne sono innamorata, perché non è come tutti gli altri. Poi io sono felice quando sono con lui..” ammise Madison, suo padre l’abbracciò e le posò un bacio sulla fronte.
“Scusami, stellina. Io voglio solo che tu sia felice, e non vorrei che aspettassi qualcosa che non accadrà mai” le svelò la sua paura il padre, mentre la teneva ancora stretta. Madison si accucciò e non rispose, confermando tacitamente che era anche la sua paura.
 
Doveva capire, sapere se Spencer avrebbe mai fatto quel passo che lei era pronta a fare ad occhi chiusi da tempo, per tale motivo di ritorno a Washington la sera del giorno dopo non andò subito nel suo appartamento, ma bussò alla porta di Derek Morgan.
“Madison, che ci fai qui?” gli chiese sorpreso, da quando abitava a Washington non si era mai recata nel suo appartamento senza avvisare, si domandò se fosse successo qualcosa. “Tranquillo, sto bene. Non è successo proprio nulla” lo tranquillizzò l’amica dopo aver notato l’espressione leggermente impaurita dell’amico.
Morgan la invitò ad entrare e lei si accomodò sulla poltrona del salotto, era evidentemente nervosa. L’agente aspettò qualche secondo prima di incitarla a parlare di modo che si calmasse, infine Madison prese coraggio dopo aver fatto un bel respiro.
“Sono innamorata di Spencer” confessò d’un fiato, aspettandosi un’espressione di sorpresa da parte dell’amico che tuttavia non giunse. “Lo sapevi già?” gli domandò lei notando che Derek era tutt’altro che stranito.
Lui annuì e le versò un bicchiere di whiskey, forse l’avrebbe aiutata a digerire quanto stava per dirle. “Madison, non dovrei essere io a dirtelo, ma visto che sei mia amica e che si parla comunque di una persona che io reputo parte della famiglia, mi sento in dovere di dirtelo.” esordì Derek con tono serio mettendo in evidenza l’importanza di quanto le avrebbe riferito. Madison annuì e rimase in silenzio, forse finalmente avrebbe saputo quale fosse l’impedimento del dottor Reid.
“Fino a qualche mese fa, Reid era fidanzato con Maeve. Non so molto riguardo al modo in cui si fossero conosciuti, avevano una storia un po’ particolare” introdusse la storia Derek; la giovane sorrise, non poteva che essere particolare una storia se coinvolgeva il dottor Reid, pensò.
“Per diversi mesi si sono soltanto telefonati, senza mai vedersi.”continuò il profiler, l’amica sollevò un sopracciglio: come era possibile che non si fossero mai visti?
“Maeve temeva per Spencer per via delle continue minacce di uno stalker, e faceva bene” spiegò lui a Madison, che iniziava a non seguirlo. “Lo stalker di Maeve era in realtà  una donna, o meglio la fidanzata del suo ex. Quella donna odiava Maeve al punto da voler essere lei. Desiderava distruggerla, prendere la sua vita”
“Per questo si era fidanzata con l’ex, voleva togliere a Maeve tutto ciò che amava” continuò. A quel punto fu chiaro a Madison che quella donna avesse preso di mira anche a Spencer. “Quindi quando capì che in realtà Maeve amava Spencer ha provato a fargli del male?” domandò con la voce tremante, anche se sapeva che Spencer stava bene, fu inevitabile per lei provare timore per ciò che l’amico le stava per svelare.
“Ha rapito Maeve e ucciso il suo ex dopo averlo torturato. Spencer capì subito che Maeve era in pericolo e ha chiesto a noi di aiutarlo a trovarla. Eravamo quasi riusciti a salvarla, sai?”
“Non siete arrivati in tempo?” domandò Madison, che ormai aveva capito la triste fine della storia fra Maeve e Spencer.
Derek scosse la testa, ancora non riusciva ad accettare quanto successo. “Siamo arrivati in tempo. Spencer ha affrontato la donna, dicendole tutto quello che lei voleva sentirsi dire: che l’amava, che in realtà non voleva Maeve, ma lei. L’ha persino costretto a baciarla e lui ha accettato.”
“Tuttavia non puoi fingere quello che non provi e lei lo aveva capito -fece una pausa per prendere fiato-. È successo tutto molto velocemente, sembrava che fosse pronta ad arrendersi quando all’improvviso sparò a se stessa uccidendo anche Maeve con lo stesso colpo” concluse Morgan sperando che quel racconto aiutasse l’amica a capire perché Spencer fosse così impaurito di iniziare una nuova storia.
Madison rimase in silenzio, provava una profonda tristezza per Spencer e non riuscì a trattenere una lacrima che scivolò lungo il viso. “Dagli tempo, non ti arrendere. Io sono sicuro che anche lui prova lo stesso per te, solo che ha paura” la incoraggiò Derek prendendola per mano. Madison sorrise, ma il suo sorriso era triste.
“Aspetterò e gli darò tutto il tempo di cui ha bisogno, ma non posso aspettare tutta la vita” ammise lei, Derek la rassicurò dicendole che sarebbe andato tutto bene, che con il tempo tutte le ferite di Spencer si sarebbero guarite; la giovane pensò che Spencer non era l’unico ad essere ferito, anche lei si trascinava dietro ferite inguaribili, ma non lo disse, non voleva parlarne con Derek.
Era sul punto di andare via, quando Derek le domandò perché si fosse innamorata del dottor Reid. Era consapevole che era una questione molto personale e che probabilmente non avrebbe risposto, ma era davvero curioso di sapere cosa avesse visto l’amica in Spencer.
Madison arrossì, si sentì come una liceale che stava per raccontare all’amica della prima cotta. Si appoggiò alla poltrona abbracciando un cuscino, provò a parlare ma scoppiò a ridere per il nervosismo. Non sapeva bene come formulare una risposta. “Spencer mi sa d’infanzia, di tutte le cose belle, come le lunghe passeggiate al tramonto in spiaggia o i baci sotto le coperte la mattina presto” affermò la rossa senza smettere di sorridere.
“Quando sono con lui è tutto così diverso, è tutto migliore. Mi sento davvero a casa, al sicuro, capisci? È da molto che non mi sentivo così.” confessò all’amico che l’osservava divertito, era evidente che volesse stare con lui più di ogni altra cosa.
Derek annuì, capiva i sentimenti dell’amica; anche era stato innamorato e conosceva quella sensazione di sicurezza e fiducia che si provava quando si era con la persona amata.
“Ora ho bisogno di bere” esclamò Madison evidentemente in imbarazzo e scoppiò a ridere seguita da Derek che riconobbe di averne bisogno anche lui. 




Mmm, so che mi odierete. Insomma ci eravamo quasi, e invece alla fine non è successo nulla. Però spero che capiate che Maeve è stata ed è importante per Spencer, per cui non può essere scordata da un giorno all'altro. Ne approfitto per ringraziare chi ha messo la mia storia fra quelle seguite in questa settimana. Fa sempre piacere sapere che qualcuno apprezza la tua storia. Al prossimo aggiornamento :D e spero che vi piaccia questo capitolo.

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Capitolo 12
*** M. ***


M.

 
Le settimane successive alla conversazione fra Derek e Madison trascorsero senza nessuna novità. Giunse la settimana prima di Natale, le vetrine dei negozi sfoggiavano mille decorazioni e luci colorate, l’atmosfera era di festa, per tutti tranne che per il dottor Reid che tentava di evitare il più possibile l’interno 5b.
Temeva che Madison avrebbe preteso una spiegazione, e lui cosa le avrebbe potuto dire?
‘Vorrei stare con te, ma non posso’? Come poteva pretendere che Madison accettasse una simile spiegazione?
“Per quale motivo? Per chi?”. Poteva già sentire la sua voce domandarle spiegazioni.
Non lo meritava, lei meritava molto di più di questo. “Perché, diavolo, continuo a complicarmi la vita così?” pensò, mentre calciava una lattina vuota di Coca-Cola buttata da qualche passante per strada.
Era tutto così semplice: bastava tornare indietro, bussare alla porta di Madison e restituire quel bacio che gli aveva negato. Eppure perché non ci riusciva? Non aveva bisogno di domandarsi perché; l’unica motivazione era lei: Maeve, il cui nome era scritto in maniera indelebile nel suo cuore.
Si sedette su una delle tante panchine del parco dove qualche mese prima era stato con Madison, si voltò e notò una coppia di fidanzati sdraiati su un plaid: lui leggeva un libro e lei giocava con i suoi capelli. Pensò che quello poteva essere lui, ma lei chi? Madison o Maeve?
Non avrebbe saputo rispondere a quella domanda. I due si baciarono, Spencer s’infastidì e si alzò, non riusciva a sostenere la loro vista.
S’incamminò verso casa borbottando qualche frase incomprensibile che attirò su di sé gli sguardi sconcertati dei passanti. “Ok, sto decisamente peggiorando” pensò e scoppiò a ridere da solo per la situazione, anche se c’era poco da ridere. Stava ancora ridendo quando il suo cellulare iniziò a squillare, era il suo collega Derek Morgan.
Spencer senza smettere di ridere rispose al telefono. “Pronto?”
“Reid sei allegro oggi oppure sei ubriaco?” domandò l’altro sentendolo ridere. “Nessuna delle due. Posso fare qualche cosa per te?” rispose lui controllando la propria risata isterica.
Derek fece spallucce, pensando che era meglio non domandare oltre. “Tra due giorni è il compleanno di Madison, le organizziamo una festa a sorpresa, o meglio Paget la organizzerà. Tu verrai, vero?” domandò con un tono che non sembrava tanto alludere ad un invito quanto piuttosto ad un ordine.
Reid rimase per qualche secondo in silenzio. Accettare l’invito significa vedere Madison e lui la stava evitando molto candidamente, tuttavia non voleva mancare al suo compleanno. “Ok, verrò”
Derek le rivelò i dettagli della festa: doveva recarsi a casa di Paget per le nove e mezza, puntuale; cosa che non doveva riuscirgli difficile dato il largo anticipo con cui era stato avvisato; Madison sarebbe arrivata assieme a Paget per le dieci, e quando la festeggiata avrebbe aperto la porta avrebbe trovato la sorpresa.
“Hai capito, Reid?” domandò Derek quando ebbe finito di spiegargli come si sarebbe svolta la serata, poi gli riferì l’indirizzo di casa di Paget e riattaccò.
A quel punto Spencer si trovò di fronte a un nuovo dilemma: cosa le avrebbe regalato?
Pensò a qualche conversazione precedente alla ricerca di qualche dettaglio che gli potesse svelare qualcosa che Madison volesse, ma a parte un pianoforte, riguardo a cui Spencer convenne che fosse un regalo eccessivamente impegnato, non gli veniva in mente nulla.
Stava dando un’occhiata alle vetrine senza notare nulla che lo colpisse quando all’improvviso si fermò davanti ad una gioielleria. Esitò per qualche secondo decidendo di proseguire, ma poi tornò indietro.
Aprì la porta e iniziò a dare un’occhiata ai gioielli esposti, nel giro di qualche secondo fu raggiunto da una commessa che con tono cortese gli domandò se avesse bisogno di una mano. Spencer gli fu subito grato, in effetti non aveva idea di che tipo di gioiello regalare.
“E’ un regalo per una mia amica” riferì alla commessa mentre questa iniziava a mostrargli i primi gioielli.
“Che tipo di amica? Un’amica amica o un’amica speciale?” domandò la donna facendogli l’occhiolino.
Spencer arrossì per l’imbarazzo, possibile che tutti saltassero a quella conclusione?
“E’ solo un’amica” provò a sottolineare Spencer, la donna rise. “Ok, è un’amica che non deve restare amica?”
Ok, quella donna era decisamente irritante, il dottor Reid si morse un labbro. “Le ripeto, è un’amica. Ora mi faccia vedere qualche collana, per favore”
La donna annuì e iniziò a mostrargli diversi ciondoli in pietre preziose spiegandogli la qualità e la tipologia di pietra, che ovviamente Spencer conosceva.
Fu allora che gli mostrò un ciondolo in azzurrite contornato da un filo di oro bianco che colpì molto Spencer, trovava che fosse perfetto per l’occasione. “Mi piace questo” disse indicando, la commessa si complimentò per l’ottima scelta e incartò la collana, racchiusa dentro una scatolina color rosso, avvolgendola con una carta regalo blu scintillante mentre il fiocco era dello stesso rosso della scatolina.
Spencer ringraziò la commessa e uscì dalla gioielleria, soddisfatto del regalo appena acquistato che ripose nella tracolla. Mentre tornava a casa, pensava a cosa avrebbe scritto nel bigliettino; voleva che il suo bigliettino fosse originale, non i soliti auguri di compleanno del tutto scontati che finivano dimenticati in fondo al cassetto della scrivania.
Aprì il portone del palazzo e si avviò per le scale quando sentì una voce che ben conosceva, ovvero la voce di Madison che cantava “Girls just want to have fun” di Cyndi Lauper. D’istinto accelerò la sua andatura, salendo i gradini a due a due, e intravedendo la figura della rossa in camice bianco, che rientrava dall’ospedale, la chiamò scordandosi per un attimo che desiderasse evitarla.
“Sei allegra stamattina?” le domandò, Madison si girò di scatto e sorrise. “Hey, allora vivi sempre qui! Pensavo ti fossi trasferito” esclamò nel vederlo, aspettò che il vicino la raggiungesse e gli offrì una guancia su cui Spencer posò un bacio. “No, per tua sfortuna sono sempre qui” rispose lui, la rossa gli diede una leggera spinta.
“Allora come mai sei così tanto allegra oggi?” chiese nuovamente Spencer mentre salivano le scale. “Tra due giorni  è il mio compleanno” gli rispose. “Al dire il vero, doveva essere questo martedì, ma io non avevo molta voglia di uscire dalla pancia” aggiunse ridendo.
Anche Spencer rise, la sua risata era molto contagiosa. “Farai qualcosa?”
L’amica scosse la testa dicendogli che al massimo sarebbe uscita con Paget. “Nel caso verresti?”
Spencer si trovò un attimo in difficoltà, non sapeva bene cosa dirle perciò s’inventò una cena fra colleghi. “Ogni tanto ci riuniamo” provò a giustificarsi con finto tono dispiaciuto.
Madison annuì dicendogli di non preoccuparsi. A quel punto era arrivata alla porta del suo appartamento, lo salutò con un altro bacio sulla guancia e rientrò in casa. 
Non appena chiuse la porta, si precipitò sul telefono di casa e chiamò Paget. “Pa ma tu sai qualcosa di una cena fra colleghi prevista per questo sabato?” le domandò piuttosto perplessa, Spencer sembrava averle apertamente mentito.
La donna aggrottò la fronte. “Cena fra colleghi?” disse a voce alta guardando Derek in cerca di una spiegazione che fece spallucce. “Sì, me lo ha detto Spencer” spiegò Madison.
“Aaah, si! Hai ragione! Anche Derek me lo aveva accennato” mentì Paget capendo subito che doveva trattarsi di una scusa del dottor Reid. “Mi scordo sempre tutto” aggiunse per rendere il suo stupore più credibile.
A quel punto Madison, ancora poco convinta della spiegazione ricevuta, riattaccò avvisando all’amica che sabato era libera a partire dalle venti e trenta.
Chiusa la telefonata, Paget scoppiò a ridere. “Ma questa cena? Ci voglio venire anche io!” scherzò Derek che rise a sua volta, dandole un bacio sulle labbra.
 
“Quindi questo sabato noi dovremmo andare a cena?” domandò Derek a Spencer, che rileggeva dei fascicoli, non appena arrivò nell’open space.
Il dottor Reid fece una smorfia. “Era la prima cosa che mi è venuta in mente” si giustificò.
L’agente di colore scosse la testa. “Quando ti inventi una balla, avvisa così evitiamo di rimanere spiazzati”; poi gli diede una pacca sulla spalla e andò nel suo ufficio.
Blake si avvicinò al dottor Reid. “Cosa succede questo sabato?” domandò curiosa, li aveva ascoltati mentre parlavano prima.
Reid si voltò verso di lei e la salutò. “Organizziamo una festa a sorpresa a Madison” spiegò lui arrossendo leggermente, sapeva che la donna avrebbe fatto una battuta.
Blake gli lanciò un’occhiata molto esplicita senza dire nulla e andò a prendersi una tazza di caffè.
“Tutti in sala riunioni. Abbiamo un caso” annunciò Aaron Hotchner procedendo a passo spedito verso la sala dove Garcia aveva già preparato il materiale per illustrare il caso.
“Questa volta è un po’ meno cruento” esordì Garcia mostrando le immagini dei corpi ritrovati. “Tre uomini sono stati trovati impiccati questa mattina in un parco a Fairfax. Nicholas Green, 37 anni, Steve Hill, 39 anni e Peter Bell, 34 anni, sono stati trovati impiccati questa mattina nel parco” illustrò il caso l’analista informatica.
“Ok, non può trattarsi di suicidio” affermò Rossi. “Veramente per quanto strano e improbabile potrebbe. La probabilità è del 0,037 per cento” ribadì Reid, Derek roteò gli occhi. “Reid, per favore” lo esortò il collega.
“E se si fosse trattato di un suicidio collettivo?” domandò Blake.
“Indotto da cosa?” chiese JJ. “Magari le vittime facevano parte di qualche setta, ne esistono diverse che predicano la fine del mondo e inducono i propri adepti al suicidio” suppose Spencer.
“Garcia fai ricerche sulla vita delle vittime. Scopri se erano coinvolte in questo genere di setta” ordinò Hotch a Penelope che tornò di corsa nel suo ufficio. “Morgan, Reid, voi andate dal medico legale. È stato già avvertito del nostro arrivo” diede le istruzioni l’agente Hotchner.
“JJ,  parla con i parenti, magari scopriamo qualcosa di più” continuò. “Rossi invece andrà sulla scena del crimine”
A quel punto i profiler  si alzarono di scatto e partirono verso Fairfax.
 
“Si tratta senza dubbio di suicidio. Si sono impiccate in contemporanea. Non posso essere molto preciso, ma di sicuro si sono suicidate intorno alle 22,40. ” sentenziò il medico legale scostando il telo bianco dal corpo delle vittime.
“Non c’è traccia di droga per cui sembra che fossero consapevoli di quello che stavano facendo” aggiunse l’uomo prima che i due profiler domandassero.
“Nello stomaco di tutti e tre ho trovato questo”. Mostrò un amuleto con una strana incisione, sembravano degli ideogrammi.
“E’ un ideogramma giapponese significa libertà” spiegò il dottor Reid mentre lo esaminava. Poi racchiuse i tre amuleti in una busta di plastica per portarli dagli altri.
“Bene, la ringrazio. Arrivederci” salutò l’agente Morgan il medico legale, seguito dal dottor Reid che uscì dalla stanza chiudendo la porta.
Mentre tornavano verso l’automobile, Derek richiamò Hotch per riferirgli gli ultimi dettagli appresi dal medico legale.
“Hotch, nello stomaco delle vittime è stato trovato un amuleto con una scritta. Reid dice che si tratta dell’ideogramma giapponese; significa libertà” sciorinò l’uomo in fretta.
“Perfetto. Anche Garcia forse ha trovato qualcosa. Vi aspettiamo in centrale” rispose l’uomo riattaccando.
 
Nel frattempo che i due agenti tornavano in centrale, JJ era a colloquio con l’ex moglie di Steve Hill assieme a Blake.
“Quando è stata l’ultima volta che ha visto Steve?” le domandò la bionda. La donna sospirò, non ricordava l’ultima volta che aveva parlato con il marito. “Steve ed io abbiamo divorziato a febbraio dell’anno scorso e da allora non ci siamo visti molto. Saranno almeno quattro mesi che non ci vediamo”
“Se posso chiedere, è stato un divorzio difficile?” chiese Blake cercando di non sembrare troppo invadente.
“Al dire il vero, abbiamo semplicemente capito di non essere compatibili e senza figli lasciarsi è stato più facile” spiegò la donna. “Steve era un uomo piuttosto schivo, credo che non mi abbia mai amata. Stava con me solo perché non voleva rimanere solo” aggiunse con rammarico.
“Come mai ne è così sicura?” domandò JJ. “Ci sono cose che in una coppia si capiscono. Quando era fuori per lavoro, cosa che accadeva spesso, non chiamava mai. Non si è mai ricordato del nostro anniversario in cinque anni di matrimonio”
Blake sollevò il sopracciglio. “Non ha mai pensato che potesse avere un’amante?”
La donna rise e scosse la testa. “Certo che l’ho pensato, ma non ne ho mai avuto la prova o conferma che fosse così e credo che a questo punto non la avrò più”
JJ e Blake si scambiarono uno sguardo, quella donna sembrava non provare proprio alcuna pena per la fine dell’ex marito. “Sapete non è sempre stato così. All’inizio del nostro fidanzamento, era un uomo piuttosto premuroso. Poi ad un certo punto è cambiato. Spesso gli ho domandato se fossi io la causa ma lui continuava a ribadire che io non c’entravo. Forse era depresso e io non l’ho mai capito” disse la donna sperando che le due donne capissero che lei non aveva nulla a che vedere con il suicidio dell’ex marito.
JJ rassicurò la donna sottolineando che sicuramente il suicidio del marito non aveva a che fare con lei. A quel punto le due donne si congedarono dicendole che l’avrebbe aggiornata nel  caso di novità.
 
“Anche Steve cambiò improvvisamente” affermò Blake mentre entrava nella stanza dove Hotch veniva aggiornato  dal dottor Reid e Morgan appena ritornati dal colloquio con il medico legale.
“Non si vedevano molto spesso. Non ha saputo dirci quando lo ha visto l’ultima volta” aggiunse JJ.
“Garcia ha trovato qualcosa. È probabile che le vittime si siano conosciute  dallo psicologo Flores” riferì Hotch. “Ho mandato Rossi a parlare con lo psicologo. Blake raggiungilo” aggiunse rivolgendosi all’agente che obbedì immediatamente.
“Per quanto tempo le vittime hanno frequentato il dottor Flores?” domandò Reid.
“Sono in cura con lui da circa 7 mesi” rispose Hotch. “Hill e Green venivano curati per depressione, mentre Bell per un disturbo post-traumatico da stress”
“Quindi erano soggetti piuttosto inclini al suicidio” asserì Morgan. “La percentuale dei suicidi nei malati di depressione è del 34,58%” confermò Reid.
In quel momento richiamò Garcia con novità sul caso.  “Belli miei, ho scavato nel passato di Flores e quello che ho scoperto scommetto non vi stupirà” esordì l’analista informatica. “Flores è stato sospeso dall’albo circa tre anni fa per maltrattamenti dei propri pazienti. Da quel momento non c’è stata traccia dello psicologo fino a circa un anno fa quando ha aperto lo studio a Fairfax, che non è registrato”
“Ho trovato anche una dichiarazione di Flores fra la documentazione del tribunale. Lo psicologo ha negato il maltrattamento dei propri pazienti sostenendo di aver semplicemente assecondato le loro inclinazioni naturali.” aggiunse. “Leggete la testimonianza di una paziente”
“Il dottor Flores ci ha sempre detto che l’unico modo per guarire era assecondare i nostri pensieri, anche quelli più pericolosi. Io soffro di disturbi d’ansia, spesso mi ha indotto attacchi di panico. Una volta mi ha chiuso in una stanza bianca senza finestre  per capire quanto potevo resistere” lesse Reid.
Mentre gli agenti discutevano su Flores asserendo che doveva senza dubbio trattarsi di un psicopatico, Blake richiamò per informarli che l’uomo non era nello studio, che corrispondeva anche alla casa dello psicologo. Dentro trovarono la conferma che si trattava dell’assassino, erano state rinvenuti gli stessi amuleti trovati nello stomaco delle vittime esposti nel mobile d’ingresso.
“Bambolina, cerca qualche altra proprietà a nome di Flores” chiese Morgan. La bionda iniziò a digitare velocemente sulla tastiera. “Cioccolatino, non c’è niente”
“E se fosse andato a casa di uno dei suoi pazienti? Forse si aspetta che la polizia si metta sulle sue tracce!” esclamò Reid.
“Richiamiamo Blake e Rossi e vediamo se riescono a trovare qualche informazione” affermò l’agente supervisore.
 
Il suggerimento di Reid si rivelò giusto, lo psicologo fu raggiunto a casa di una delle sue pazienti. Voleva liberare anche lei dalle sue paure inducendola al suicidio. I profiler erano arrivati appena in tempo per impedire a Flores di portare a termine il suo piano.
“Solo così saranno liberi. Devono andarsene” urlava l’uomo mentre veniva portato via in manette.
Di ritorno a Quantico, la squadra dell’unità analisi comportamentale fu impegnata nella redazione dei rapporti. Reid s’immerse nel lavoro cercando di fare il prima possibile; aveva pensato di festeggiare insieme a Madison a mezzanotte e doveva procurarsi ancora la torta e le candeline. Non aveva dubbi sulla torta che avrebbe scelto: il loro cheesecake.
Finì di compilare il rapporto e andò di fretta da Hotch posandoglielo sulla scrivania. “Come mai così di fretta?” domandò l’agente supervisore alzando gli occhi dal rapporto che stava leggendo.
Reid si portò i capelli dietro all’orecchio. “Ho un appuntamento” farfugliò. Hotch annuì e congedò il giovane profiler augurandogli un buon fine settimana.
Uscito dal bureau, andò al supermercato alla ricerca delle candeline. Aveva girato mezzo supermercato senza trovarle quando s’imbatté in Paget piuttosto indaffarata, stava facendo la spesa per la festa.
“Ciao Paget” la salutò sorridendole, non l’aveva più vista dal giorno in cui era uscito con Morgan, però la riconobbe subito, quel taglio di capelli alla Cleopatra era inconfondibile.
“Reid? Ciao! Anche tu stai facendo la spesa?” domandò guardando il cestello vuoto del giovane. Reid annuì, a quel punto notò che la donna aveva nel proprio carrello le candeline e le domandò dove fossero.
“Che ci devi fare con le candeline?” domandò lei con lo sguardo insospettito. Spencer  arrossì, avrebbe dovuto raccontare del suo piano.
“Pensavo di fare gli auguri a Madison a mezzanotte” confessò imbarazzato guardandosi le scarpe.
Paget trattenne una risata. “Ok, sono di là, accanto agli ingredienti per i dolci” spiegò lei poi lo salutò ricordandogli che l’indomani doveva essere a casa sua per le nove e mezza e proseguì con la sua spesa.
Trovate le candeline, il dottor Reid uscì dal supermercato e andò a comprare il cheesecake; per fortuna, ne era rimasto uno.
Tornò a casa e andò a farsi una doccia; una volta finita, si asciugò i capelli con calma, scelse con cura i propri vestiti e il paio di calzini da spaiare, controllò l’orario erano appena le dieci passate. “Che faccio fino a mezzanotte?” si domandò, si guardò intorno cercando qualche libro con cui passare il tempo.
Il primo libro che gli capitò sotto mano fu “Il rosso e il nero” di Stendhal; non avevo mai amato la letteratura francese più di tanto, per cui quel libro non lo ricordava e decise di leggerlo per ammazzare il tempo.
Era immerso nella lettura quando sentì un suono acuto provenire da fuori, era un clacson.
D’istinto come Julien, alzò lo sguardo verso l’orologio. Mancavano circa tredici minuti a mezzanotte, indossò le scarpe e scese le scale.
Bussò alla porta e rimase in attesa, sembrava che nessuno fosse intenzionato ad aprire. Bussò di nuovo e sentì dei passi dietro la porta. Con voce assonnata, la rossa domandò chi fosse.
“Sono Spencer” disse lui con tono impaziente. Madison aprì la porta e si trovò davanti il dottor Reid che trillò un “buon compleanno”.
“Grazie Spence” rispose entusiasta dandogli un bacio sulla guancia poi si spostò per farlo passare e richiuse la porta.
“Stavi già dormendo?” le domandò notando che aveva i capelli arruffati e che indossava il pigiama.
Madison rise riflettendo sull’aspetto sexy che doveva avere in quel momento. “Mmm, si.”
Spencer si scusò per essere piombato all’improvviso nel suo appartamento, l’amica gli disse di non preoccuparsi lasciandosi cadere sul divano accanto a Spencer che le ordinò di chiudere gli occhi.
Madison obbedì e rimase con gli occhi chiusi mentre il dottor Reid sistemava la candelina sul cheesecake e l’accendeva. “Aprili” le disse, la giovane sorrise vedendo Spencer che teneva in mano il loro cheesecake, lo trovò un gesto carinissimo. “Esprimi un desiderio” sussurrò lui.
Madison rifletté un secondo, anche se non ne aveva bisogno, tutto ciò che voleva era lì davanti a lei poi soffiò la candelina; a quel punto posò un dito sul cheesecake per prendere un po’ di sciroppo di fragola e se lo portò alla bocca. “Come fanno a farlo così buono?” esclamò mentre lo assaporava.
Spencer rise e andò in cucina a prendere un coltello per tagliare le fette. Madison gli urlò di prendere il vino dal frigo, cosicché avrebbero potuto brindare. Il giovane versò il vino nei primi due bicchieri che trovò e ritornò in salotto.
“Tanti auguri Maddie” le disse mentre i loro bicchieri tintinnavano, mangiarono il cheesecake e rimasero a parlare fino alle 3,30 del mattino.
A quel punto, Madison sbadigliò e si appoggiò al divano, aveva gli occhi socchiusi. “Io vado” le disse il dottor Reid notando che l’amica era sul punto di crollare addormentata.
“Buonanotte Maddie” sussurrò al suo orecchio dandole un bacio sulla guancia mentre la giovane si sistemava sul divano.
 
Il giorno dopo Spencer venne svegliato dall’agente Morgan. “Ragazzino, abbiamo bisogno di te” gli disse con tono concitato. “Devi andare a prendere gli amici di Madison che vengono da New York, arrivano verso le sette e mezza di sera alla stazione. Si chiamano Daniel e Hannah” gli spiegò.
“Ok, tutto bene?” domandò Spencer che sentiva l’amico un po’ strano. “Sì sì, tutto ok. Stiamo impazzendo a preparare tutto, però tranquillo” lo rassicurò, avere il dottor Reid con la sua goffaggine fra i piedi non avrebbe giovato affatto.
Spencer fece spallucce. “Ok.. allora a dopo” e riattaccò.
Si cambiò il pigiama e fece colazione, doveva ancora scrivere il biglietto di auguri per Madison, perciò si mise all’opera.
Prese carta e penna e si sedette alla sua scrivania; fissò prima il foglio bianco senza righe davanti a lui poi il muro, scarabocchiò qualcosa. “Maddie, tanti auguri..”
“Non va bene” si disse accartocciando il foglio che buttò nel cestino sotto la scrivania. Si appoggiò con i gomiti alla scrivania, posando il viso sul dorso delle mani e rimase pensieroso.
Si rese conto di essere una frana nel fare gli auguri, non gli veniva in mente nulla, nessuna frase ad effetto, anzi nessuna frase, a parte il banalissimo “tanti auguri” che anche un bimbo di quattro anni sarebbe riuscito a pensare.
“Un Q.I. di 187 e poi non so scrivere nemmeno un biglietto di auguri” pensò a voce alta, a quel punto si collegò su Internet alla ricerca di qualche frase simpatica da scrivere.
Leggendo le frasi proposte da Google si scandalizzò. “ Ti auguro un compleanno felice, ma così felice... che più felice non si può”, ma che frase era?
Accantonò l’idea di Internet e riprovò a spremere di nuovo le meningi, ricevendo infine l’illuminazione: sarebbe stato semplicemente sincero.
“Ci ho provato a scriverti un biglietto di auguri, ma credimi non ne sono proprio capace; il meglio che riesco a fare è questo. Tanti auguri, Maddie.
Ps: Lo so che fa schifo, ti accontenterai vero?”
“Di sicuro degli auguri così brutti non possono che rimanere impressi” si disse rileggendo il bigliettino con la sua pessima calligrafia. Prese il bigliettino che mise dentro una bustina da lettera e la spillò al pacco regalo.
Il resto della giornata trascorse lentamente, sembrava che le sette di sera, l’orario in cui doveva uscire per andare a prendere Hannah e Daniel, non arrivassero mai.
Alle sette meno un quarto uscì di casa, non ne poteva più di aspettare. Arrivò alla stazione con largo anticipo, controllò il binario di arrivo del treno proveniente da New York city e si sedette ad un panchina.
Alle sette e mezza spaccate, spuntò una coppia che litigava spingendosi a vicenda. “Come hai fatto a scordati il regalo di Mads? Ma sei un cretino!” urlava lei imbronciata.
Spencer si alzò e andò al loro incontro. “Scema, figurati se l’ho scordato! È normale che lo abbia portato, è la prima cosa” disse lui ridendo. “Rimani comunque un idiota” rispose lei mentre s’infilava un cappellino di lana rosso in testa e i guanti abbinati.
“Scusate voi siete gli amici di Madison?” domandò il dottor Reid leggermente in imbarazzo, come era solito accadere quando conosceva nuove persone. I due annuirono all’unisono. “Io sono Hannah e lui è Daniel. Tu devi essere Spencer, giusto?” domandò la giovane con tono cordiale, Reid le faceva tenerezza.
Spencer annuì e rimase in silenzio fissando la coppia che lo fissava a sua volta. “Ehm… andiamo?” domandò Daniel.
“Certo”esclamò il dottor Reid e si avviarono verso le scale.
La coppia che seguiva Spencer lo fissava per cercare di capire che tipo fosse, sapevano che Madison lo considerava più che un amico e volevano ben inquadrare il tipo.
Mentre erano in auto, Spencer provò a conversare con loro che erano eccessivamente loquaci per i suoi gusti, praticamente parlavano solo loro. “Sei di Las Vegas, scommetto!” disse Hannah riconoscendo l’accento del dottor Reid.
Spencer annuì. “Non pensavo che si sentisse così tanto” ammise lui, la giovane gli disse che era particolarmente brava a decifrare gli accenti.
Arrivarono a casa di Paget più tardi del previsto, avevano incontrato molto traffico sulla strada. Erano quasi le 9 quando riuscirono a imboccare lo stradone diretto a casa della mora.
I tre scesero dall’auto e trovarono la porta aperta, s’infilarono dentro e trovarono Garcia scalza che sistemava i tavoli con Jennifer, la collega di Madison. “Ti serve una mano?” le chiese Hannah dopo essersi presentata assieme a Daniel.
Garcia la ringraziò e diede ai tre qualche istruzione per finire di preparare il tutto.
Finirono di sistemare tutto poco prima dell’arrivo delle due amiche, sentirono la voce di Paget dire alla festeggiata che aveva scordato il cellulare, insospettendo Madison che sapeva che Paget si portava il cellulare persino in bagno.
La mora aprì la porta e trovò l’appartamento al buio, aspettò che Madison fosse dietro di lei e accese le luci.
“Sorpresa” urlarono tutti all’unisono. “Lo sapevo” esclamò lei imbarazzata, le feste a sorpresa la imbarazzavano sempre.
Abbracciò Paget, sicura che fosse stata lei ad organizzare il tutto. “Grazie tesoro” le mormorò all’orecchio mentre l’altra la sbaciucchiava. Era ancora abbracciata a Paget quando notò Hannah e Daniel che tesero le braccia, la giovane si staccò dall’amica e corse dai due. “Ci siete pure voi? Che bello” trillò la rossa mentre baciava sulle  guancie Daniel e poi Hannah.
“Si, anche se non dovremmo, visto che sei venuta a NY e non ci hai avvisati” la rimproverò Hannah incrociando le braccia.
Madison rise. “Non è stata una piacevole visita, credimi”
Li riabbracciò stritolandoli contro la loro volontà, e infine salutò il resto dei presenti con un abbraccio per ringraziarli, a quel punto Penelope, risalita sui suoi tacchi vertiginosi, accese lo stereo facendo partire la musica.
Trascorsero tutta la serata a ridere e scherzare, Madison ne fu molto felice. Non aveva festeggiato il compleanno negli ultimi tre anni e le mancavano le feste di compleanno.
Paget e Hannah organizzarono anche un balletto come ai tempi del college coinvolgendo anche Madison che si trascinò dietro il suo vecchio compagno di scuola, Daniel.
Verso mezzanotte Paget fece il suo ingresso in salotto con la torta, cucinata da lei stessa, ovvero un pan di Spagna al cioccolato ripieno di crema alla nocciola e glassato con delle decorazioni di pasta di zucchero a forma di farfalla; Madison soffiò le candeline per la secondo volta e stappò una bottiglia di spumante facendo finire il tappo della bottiglia contro il soffitto che poi cadde in testa a Derek. “Scusami” gli disse mentre gli accarezzava la testa rasata.
Dopodiché aprì i regali, Hannah e Daniel le avevano comprato un bauletto di colore blu, Penelope invece il suo profumo preferito, Miracle di Lancôme, Jennifer e Ron un’agenda in pelle. “Ci siamo stancati di vederti con quel cellulare in mano” dissero i due ridendo, mentre Derek e Paget, oltre la festa, le regalarono due biglietti per la mostra di Monet al National Gallery of Art. “Magari trovi qualcuno con cui andare” disse Paget sottovoce mentre glieli mostrava facendole un occhiolino.
La festa continuò finché verso le due, Penelope, Jennifer e Ron, l’altro collega di Madison, si ritirano, seguiti dalla coppia Hannah e Daniel, che avevano un bed and breakfast per una notte, per i quali Derek aveva prenotato un taxi.
“Ci vediamo domani, amore” le disse Hannah abbracciandola insieme a Daniel prima di salire sul taxi.
“Spencer l’accompagni tu a Madison?” domandò Paget a Reid, che annuì. Madison ringraziò ancora una volta tanto Paget quanto Derek per la bella sorpresa che le avevano organizzato e uscì di casa portandosi le buste con i regali.
Durante il tragitto, Madison accese la radio e beccò una delle sue preferite di Bon Jovi, “It’s my life”; “Nooo, posso alzare il volume? Ti prego”
Spencer non fece nemmeno in tempo a rispondere che lei aveva già alzato il volume e iniziato a cantare a squarciagola, sotto lo sguardo divertito dell’altro. “Sei completamente pazza” le disse dopo aver assistito alla performance della dottoressa che adoperò il suo cellulare come microfono.
Arrivati a casa, Madison salì di corsa le scale, non aveva affatto sonno. “Tu vai a letto?” domandò all’amico, che scosse la testa, mentre lei apriva la porta. “Devo darti una cosa” farfugliò e s’infilò in casa.
Madison sollevò il sopracciglio. “Che mi devi dare?”, l’amico infilò una mano nella tracolla ed estrasse il pacco regalo che lo allungò verso di lei.  “Un altro regalo? Wow! Non dovevi” disse lei, l’amico le rispose che era il minimo e poi la invitò ad aprirlo.
“No, prima il biglietto” ribatté lei, aprì il foglio e lo lesse. “E’ perfetto così” disse ridendo.
A quel punto scartò il proprio regalo. “E’ bellissima” affermò mentre la sollevava, si girò alzandosi i capelli e gli chiese di mettergliela.
“Sai, dicono che l'azzurrite sia una pietra misteriosa e magica: ai tempi degli Egizi e dei Romani era considerata sacra perché favoriva il contatto diretto con gli Dei e l'interpretazione dei loro messaggi. Ancora oggi è usata come pietra per la meditazione e come talismano porta fortuna” le spiegò mentre  chiudeva il gancetto della collana. “Dicono anche che faciliti la consapevolezza di sé e delle proprie idee”
Madison si girò di nuovo verso di lui e gli sorrise mentre Spencer continuava a blaterare sulle proprietà dell’azzurrite.
“Spencer, tu vuoi stare con me, vero?” disse d’un fiato senza pensarci, era stanca di aspettare.
Reid sgranò gli occhi e deglutì, era finalmente arrivata la domanda che da tempo cercava di evitare. “Madison, io..”
La dottoressa lo interruppe. “So tutto di lei, Spencer. Credimi, ti capisco, ma continuare così non ha senso. Lei non tornerà più, io invece sono qui ora” disse provando a prenderlo per mano.
Spencer si scostò. “Non posso” disse a bassa voce. “Mi dispiace”
Madison sentì le lacrime pungerle gli occhi, ma le ricacciò indietro. “Non la posso accettare” aggiunse mentre gli restituiva la collana.
“Ora per favore, vai via” pronunciò quelle parole dure e fredde che non lasciavano alcun addito a possibili repliche e andò a chiudersi nella sua camera di letto mentre Spencer usciva da casa sua senza poterla nemmeno salutare.
 
Durante la notte Madison non riuscì a prendere sonno, continuava a rigirarsi nel letto ripensando alla conversazione di qualche ora prima. “Bel compleanno di schifo” disse a voce alta buttando i cuscini per terra.
Si alzò dal letto, prese carta e penna e iniziò  a scrivere una lettera per lui. Scrisse di getto, voleva che sapesse tutto della sua storia, era l’ultimo tentativo che si riservava prima di rinunciare per sempre.
Spencer, forse avrei dovuto dirtelo diversamente, ma ci sono cose che io non riesco a dire a voce alta perciò ho deciso di scriverti questa lettera. Spero che tu la legga fino in fondo.
Il giorno in cui ti ho parlato della mia anoressia, non ti ho detto tutto, tu non hai chiesto e io ho preferito non raccontarti tutto ciò che volevo semplicemente dimenticare, ma ora voglio che tu sappia.
Poco dopo che ho iniziato a lavorare come medico legale, ho conosciuto un uomo, Mason.
Siamo stati insieme per più di due anni. Dopo un anno di fidanzamento, eravamo così felici insieme ché abbiamo deciso di andare a convivere. Per mesi andò tutto bene, litigavamo ogni tanto ma erano i normali litigi di una coppia, un giorno però Mason cambiò. Non ho mai capito cosa fosse scattato in lui, ma iniziammo a litigare sempre più spesso, anche senza un’apparente motivazione.
Tuttavia pensai che fosse solo stress, che fosse sotto pressione a lavoro, quindi decisi di non farci caso. Per qualche mese la situazione si calmò, e fu allora che ricevetti la più bella notizia della mia vita, scoprii di essere incinta, non potevo essere più felice. Ricordo che corsi a casa per raccontarlo a Mason, pensando anche lui sarebbe stato contento quanto me, ma non fu così.
Reagì molto male alla notizia, mi disse che ero stata un’incosciente perché non ero stata attenta, e uscì di casa sbattendo la porta. Dopo quella prima reazione, avrei dovuto capire che dovevo andarmene, ma non lo feci. Pensavo che avrei potuto recuperare il rapporto, mi sbagliavo. La situazione non fece che peggiorare, i nostri litigi si fecero sempre più accesi, al punto che Mason iniziò a mettermi le mani addosso.
Dopo ogni eccesso di rabbia, si prostrava chiedendomi perdono, io avevo paura e stavo zitta; non saprei dirti perché glielo ho permesso, sapevo che era giusto andarmene ma non ci riuscivo.
Arrivai al sesto mese di gravidanza, cercavo di resistere come meglio potevo. Evitavo i miei e gli amici perché non si accorgessero di quello che stava accadendo finché un giorno successe ciò che mai avrei voluto accadesse.
Mason rientrò a casa ubriaco, mi tirò giù dal letto e iniziò a insultarmi pesantemente, provai a farlo ragionare, ma tutto ciò che ottenni fu una reazione ancora peggiore. Mi spinse facendomi cadere contro il tavolino in vetro del salotto; non ricordo molto su cosa successe dopo, persi conoscenza.
Mi svegliai in una pozza di sangue, Mason era scappato. Chiamai subito i miei, ma ormai era troppo tardi. Avevo perso il bambino.
Nei mesi successivi, tutto ciò che desideravo era scomparire, volevo che il mio ventre si seccasse per sempre, non doveva esserci alcuna vita in me. Ero convinta che fosse la cosa giusta, che io non meritassi di vivere e fu così che caddi in anoressia e in depressione.  Il resto della storia la sai già, dopo due anni sono riuscita ad uscire da quel buco nero in cui ero caduta e ancora oggi vedere bambini mi fa stare male. Non so se questo possa cambiare qualcosa, ma volevo che lo sapessi.
Volevo anche che sapessi che, grazie a te, in questi ultimi mesi sono stata felice, ora so che prendere la decisione di trasferirmi qui è stata quella giusta perché ho conosciuto te.
Mi sono resa conto che ti amo, e spero che un giorno anche tu proverai lo stesso per me.”
Finì di scrivere la lettera e scoppiò in lacrime, per se stessa ma soprattutto per il suo bambino; pensare a quel bimbo che non aveva mai visto la luce la rattristava e le faceva male. Avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro, ma questo non era più possibile.
 
Qualche giorno più tardi, si recò nell’appartamento di Derek per salutarlo per le feste, trovò lì anche Paget che si stava preparando psicologicamente per il primo incontro con la famiglia dell’agente di colore.
“Mads, ciao! Sei di partenza?” le domandò, sapeva che avrebbe trascorso le ferie a New York in compagnia della famiglia.
“Sì, parto oggi” confermò lei. L’indomani sarebbe stata la vigilia di Natale, per cui preferiva partire con calma. “Volevo augurarvi un buon Natale, vi ho anche portato un pensierino” disse ad entrambi.
Aveva regalato un soggiorno per due in una spa per un weekend. “Wow! Altro che pensierino!” esclamò Paget dopo averla ringraziata. Madison fece spallucce. “Mi avete organizzato una festa di compleanno, ve lo siete meritati”
Rimasero a chiacchiera per un altro po’, poi Paget che doveva finire ancora le valigie, si scusò e tornò in camera a sistemare dopo aver salutato l’amica.
“Derek, senti, avrei un favore da chiederti” esordì lei. “Potresti fare in modo che Spencer abbia questa?” domandò mostrandogli la lettera che aveva scritto. “Gliela devo dare?” chiese lui.
Madison scosse la testa. “Infilala nella giacca o nella tracolla, ma non gliela dare in mano” gli ordinò, Derek la guardò stranito. Quei due sono davvero strani, pensò; tuttavia disse che avrebbe fatto come lei aveva richiesto.
La dottoressa lo ringraziò, gli augurò nuovamente di trascorrere delle belle vacanze e partì per New York.
 
Il giorno dopo, Derek prima di partire fece una piccola deviazione passando per l’appartamento del dottor Reid, che aveva deciso di trascorre tutte le ferie a Washington.
“Reid, sono passato per augurarti buon Natale” si annunciò Derek una volta salito insieme a Paget.
Approfittando di un momento di distrazione di Reid, che era andato in cucina a prendere un bicchiere d’acqua per la fidanzata dell’amico, infilò la lettera nella prima giacca che gli capitò a tiro.
Dopodiché i tre si salutarono. “Mi raccomando, ragazzino” gli disse poco prima di andare via, Spencer lo rassicurò dicendogli che stava bene e dopo aver augurato alla coppia di passare un buon Natale e un felice anno nuovo, si rinchiuse nel suo appartamento, dove aveva deciso di trascorrere da solo tutte le feste, senza accorgersi minimamente della lettera. 

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Capitolo 13
*** Gli occhi pieni di te. ***


Se potete, leggetela mentre ascoltate "Le tasche piene di sassi" di Jovanotti, la canzone che fa sfondo alla storia e da cui è tratto il titolo del capitolo. Buona lettura!

“Gli occhi pieni di te”

 
Volano le libellule, 
sopra gli stagni e le pozzanghere in città, 
sembra che se ne freghino, 
della ricchezza che ora viene e dopo va, 
prendimi non mi concedere, 
nessuna replica alle tue fatalità, 
eccomi son tutto un fremito, ehi. 

Giunse l’ultimo giorno dell’anno, Spencer era seduto sulla sua poltrona davanti alla finestra abbracciato al libro che gli aveva regalato Maeve nella semi oscurità del suo appartamento. Si sentiva solo e svuotato mentre ascoltava il suono delle risate delle persone che passavano per le strade senza tuttavia vederle. Pensò che in mezzo a tutte quelle persone che festeggiavano l’inizio del nuovo anno doveva esserci anche lei. Avrebbe festeggiato?
“Mi stai pensando?” si trovò a domandare ad un’ipotetica lei. La poteva immaginare ridere e scherzare con i suoi, ballare con i suoi amici. E lui cosa avrebbe fatto senza lei?

 
Passano alcune musiche, 
ma quando passano la terra tremerà, 
sembrano esplosioni inutili, 
ma in certi cuori qualche cosa resterà, 
non si sa come si creano, 
costellazioni di galassie e di energia, 
giocano a dadi gli uomini, 
resta sul tavolo un avanzo di magia. 

Seduta a davanti allo specchio di camera sua, Madison sentiva il padre cantare alla madre la loro canzone mentre si truccava per la festa. Provò un po’ d’invidia nei confronti dei suoi, un giorno avrebbe festeggiato anche lei così?
Le sembrò di sentire la voce di sua nonna Rosemary sussurrarle all’orecchio: “L’amore verrà”. Un tempo ci avrebbe creduto, ora non più; troppe delusioni aveva ricevuto per portarci credere.
Si alzò e scese di sotto per accogliere gli invitati fingendo un sorriso.

 

Sono solo stasera senza di te, 
mi hai lasciato da solo davanti al cielo 
e non so leggere, vienimi a prendere,
mi riconosci ho le tasche piene di sassi. 

Il telefono di casa squillò, Spencer si alzò di scatto dalla poltrona facendo cadere il libro. “Spencer” era la voce di sua madre. “Buon anno” 
“Buon anno anche a te, mamma” rispose con la voce triste che non sfuggì a sua madre. “Perché non sei da lei?” domandò Diana a suo figlio, che rimase in silenzio, non sapeva come rispondere a quella domanda.
“Spencer, andare avanti non significa dimenticare” gli ricordò la madre. “Prova ad essere felice per una volta” e riattaccò.

Sono solo stasera senza di te, 
mi hai lasciato da solo davanti a scuola, 
mi vien da piangere, 
arriva subito, 
mi riconosci ho le scarpe piene di passi, 
la faccia piena di schiaffi, 
il cuore pieno di battiti 
e gli occhi pieni di te. 
 
Riprese il libro da terra e lisciò la copertina; con un gesto automatico lo aprì e lesse la dedica che gli aveva scritto Maeve, non poteva essere più azzeccata, pensò. Se era vero che l’amore è il vero destino di ognuno di noi, sarebbe sbagliato correre da lei?
Posò il libro sulla libreria accanto agli altri, lo sguardo cadde sulla sua giaccia posata sulla poltrona. Non aveva notato prima un foglio piegato spuntare dalla tasca. Lo prese e lo aprì, era la lettera di Madison.

 
Sbocciano i fiori sbocciano, 
e danno tutto quel che hanno in libertà, 
donano non si interessano, 
di ricompense e tutto quello che verrà, 
mormora la gente mormora 
falla tacere praticando l'allegria, 
giocano a dadi gli uomini, 
resta sul tavolo un avanzo di magia. 



Madison si unì alle cugine e al fratello che stavano brindando all’anno nuovo; sollevò il calice verso l’alto. “A noi e all’anno che verrà” disse lei distrattamente. Suo fratello l’abbracciò e le diede un bacio sulla guancia. “Ti voglio bene” mormorò Brian, poi le offrì la mano per invitarla a ballare.
Madison fece un inchino e accettò l’invito. “Anche io ti voglio bene” rispose mentre poggiava la testa sulla spalla di suo fratello.  Sul suo viso nascosto scivolarono due lacrime mentre tutti si divertivano.

 
Sono solo stasera senza di te, 
mi hai lasciato da solo davanti al cielo 
e non so leggere, vienimi a prendere 
mi riconosci ho un mantello fatto di stracci. 

Nell’aprire la lettera, quel profumo inconfondibile misto di miele e di pesca gli invase le narici. Gli sembrò di sentire la sua voce mentre la  leggeva. Inevitabilmente si commosse. 
Quella lettera era tutto ciò di cui aveva bisogno, ora sapeva cosa doveva fare.
Prese le chiavi dell’auto e uscì di casa.

 
 
Sono solo stasera senza di te, 
mi hai lasciato da solo davanti a scuola, 
mi vien da piangere, 
arriva subito, 
mi riconosci ho le scarpe piene di passi, 
la faccia piena di schiaffi, 
il cuore pieno di battiti 
e gli occhi pieni di te. 

 
Il telefono di Madison squillò svegliandola, con gli occhi ancora chiusi rispose. “Maddie, scendi giù?” 
Riconobbe la voce di Spencer immediatamente, si alzò dal letto e si affacciò alla finestra notando la figura del dottor Reid in strada, che guardava verso l’alto, non aveva idea di quale fosse la sua finestra.
Indossò un cardigan e scese di corsa le scale.
Fu come incontrarsi per la prima volta. I loro sguardi s’incrociarono, lei sorrise, lui sorrise. “Ciao” sussurrò Madison accarezzandogli il viso. Spencer le prese per  mano e l’attirò a sé con delicatezza. “Scusami, se ci ho messo tanto” le
disse mentre le posava un bacio sulla fronte.
“Non importa” rispose Madison che  appoggiò il viso nell’incavo del collo. Senza smettere di accarezzargli i capelli, gli sfiorò dolcemente il collo con le labbra.
 
Sono solo stasera senza di te, 
mi hai lasciato da solo davanti al cielo 
vienimi a prendere 
mi vien da piangere, 
arriva subito, 
mi riconosci ho le scarpe piene di passi, 
la faccia piena di schiaffi, 
il cuore pieno di battiti 
e gli occhi pieni di te.
 
Rimasero abbracciati mentre pian piano le strade di NY s’illuminavano con i raggi del sole che sorgeva sulla città senza muoversi. “Mi prometti che sarà per sempre?” domandò lei alzando lo sguardo verso di lui che annuì.
Spencer le prese il viso fra le mani, poteva sentire il battito del suo cuore contro il petto accelerare. Le sfiorò le labbra morbide con le dita e l’avvicinò ancora di più a sé.
“Per sempre” sussurrò restituendole quel bacio, carico di speranza e di amore, che le aveva negato.
 
 

 Finita qui? No, no potrei mai. Dopo tutto questo tempo, meritate di sapere di più. Ci sono ancora tante cose da raccontare su Spencer e Maddie.
Spero che vi piaccia, se ho esagerato con la lunghezza, mi scuso. Al prossimo aggiornamento e grazie per seguirmi :D

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Capitolo 14
*** Qualcosa di nuovo. ***


Scusate se ci ho messo tanto, ma ho avuto due settimane di fuoco. Mi sono laureata questo venerdì e ho dovuto organizzare il ritorno a casa; traslocare è tremendo, sopratutto quando casa tua è a 9 ore dalla tua città universitaria XD il solo pensiero che dovrò rifare tutto daccapo per andare a Roma, mi fa rabbrividire. Comunque voi non siete qui per sentire la mia storia, quindi vi lascio alla lettura del nuovo capitolo! A presto e spero vi piaccia!


“Qualcosa di nuovo”

 
Mentre si baciavano, Spencer avvertì una sensazione diversa, qualcosa di nuovo, di mai provato. Tutti i suoi pensieri svanirono, esistevano solo loro due, avrebbe voluto che quel momento non finisse mai.
Madison si sciolse dall’abbraccio  senza smettere tenerlo per mano. “Ma da quanto tempo non dormi?” gli domandò notando lo sguardo stanco di Spencer che sembrava non dormire da giorni.
Spencer si grattò il capo per temporeggiare, da quanto tempo non dormiva?
“Sto soffrendo d’insonnia ultimamente” le rispose mordicchiandosi il labbro. “Anzi da sempre soffro d’insonnia” confessò ridendo.
Madison fece un mezzo sorriso e gli diede un bacio a fior di labbra. “Vieni con me” gli disse portandolo dentro casa. Salirono le scale ed entrarono in camera di lei, che richiuse la porta alle sue spalle, si tolse il cardigan e le scarpe e saltò sul letto in un unico slancio. “Dovrei sdraiarmi anche io?” chiese lui ingenuamente.
Madison rise. “Certo, scemo!” esclamò facendogli spazio sul letto. Spencer si sdraiò accanto a lei e l’abbracciò posando la sua testa sul seno di lei.
“Mi sei mancata tanto” le confessò con un filo di voce mentre lei gli dava un bacio sulla testa. “Anche tu” sussurrò Madison, che riprese ad accarezzargli dolcemente i capelli morbidi.
“Mi dispiace per quello che ti è successo” aggiunse Spencer alludendo al contenuto della lettera che lei gli aveva scritto. Madison soffocò un singhiozzo, ogni volta che si parlava di quel tragico incidente le era quasi impossibile non rattristirsi, era ancora una ferita troppo grande. “Si sarebbe chiamata Rachel. Era una bambina”
Pronunciò quel nome con non poche difficoltà, a nessuno prima di quel momento lo aveva detto; dopo la scomparsa di Rachel, Madison non aveva mai più pronunciato il suo nome, o parlato della sua gravidanza con qualcuno che non fosse il dottor Rhodes. Fu uno dei tanti meccanismi di difesa che la sua mente aveva elaborato per consentirle di sopravvivere conducendo una vita normale, per quanto fosse possibile.
Spencer si sollevò verso di lei e le diede un bacio sulle labbra. “Lo sai che io non potrei mai farti del male?” sussurrò all’orecchio di lei che annuì.
Madison ricambiò il bacio e si accucciò contro la figura del dottor Reid che l’abbracciò di nuovo; si sentiva sfiancato ma felice, improvvisamente tutta la stanchezza accumulata in quegli ultimi giorni gli crollò addosso, le palpebre si fecero pesanti, socchiuse gli occhi e senza accorgersene si addormentò cadendo in un sonno profondo senza sogni.
 
Come ogni domenica o giorno festivo, Brian, il fratello di Madison, si svegliò e si precipitò nella stanza della sorella per svegliarla, trovando però la porta chiusa. “E da quando chiudi la porta?” domandò a voce alta sorpreso, si ricordò che Wendy aveva la chiave di riserva per aprire le stanze e decise di prenderla momentaneamente in prestito.
Dopo poco meno di un minuto fu di ritorno e aprì la porta. “E questo chi è?” disse a voce bassa diventando rosso per l’imbarazzo dopo aver visto Spencer abbracciato alla sorella che dormiva beatamente. Richiuse immediatamente la porta e scese di corsa le scale recandosi in cucina dove trovò il padre intento a fare colazione con la moglie Natalie ancora in pigiama. “Papà ma tu sei a conoscenza di chi sia il tizio che dorme con Madison?” domandò al padre con espressione ancora turbata.
I genitori sollevarono la testa all’unisono e fissarono straniti Brian. “Ma di chi parli?” chiese la madre, non ricordava che Madison avesse portato qualcuno alla festa e né tantomeno che avesse conosciuto qualcuno la sera precedente, cosa che non era affatto nelle abitudini di sua figlia, tra l’altro.
Brian fece spallucce e invitò i suoi a seguirlo perché vedessero con i loro occhi l’ignoto ospite. Salirono le scale di fretta e aprirono la porta lentamente cercando di non fare rumore per sbirciare dentro.
“Vedete!” esclamò Brian indicando Spencer, Natalie aggrottò la fronte, quel giovane non somigliava a nessuno che conoscesse, mentre il padre James non ebbe bisogno di alcun indizio per capire di chi si trattasse.
“E’ Spencer” comunicò James ai due mentre richiudeva la porta della stanza e si riappropriava della chiave di riserva. “Aah, giusto! Spencer!” finse di ricordarsene Natalie. “Di grazia, di chi diavolo stiamo parlando?” domandò al marito stizzita, come se il nome di quel giovane dovesse conoscerlo per forza.
Suo marito scosse la testa, sua moglie non sopportava essere all’oscuro di quanto accadeva nella vita dei loro figli, nonostante fosse sempre di corsa, era costantemente informata dei loro movimenti. “E’ il figlio di William, ricordi?” chiese suo marito, gli aveva parlato tanto di William Reid quanto di suo figlio, sottolineando che era il vicino di casa di Madison.
La donna annuì. “Il tuo cliente. Ma il figlio non dovrebbe essere a Washington?” chiese al marito.  James alzò le spalle, non aveva idea di come fosse arrivato nel letto della loro figlia.
“Ma scusa non mi avevi detto nemmeno che stavano insieme!” ribatté  Natalie imbronciata, non era affatto contenta delle scarse informazioni che aveva ricevuto. Suo marito roteò gli occhi, facendo ridere Brian che aveva assistito all’intera conversazione senza fiatare. “Natalie, non lo sapevo nemmeno io che stessero insieme, quando si svegliano li tartassi di domande. Ora per favore, potremmo andare di sotto per finire la nostra colazione?”
Natalie fece una smorfia e scese di sotto seguita dal figlio, che stava morendo di fame, mentre James riponeva la chiave di riserva al suo posto.
 
Madison aprì gli occhi e sorrise vedendo Spencer addormentato profondamente, si stiracchiò per prendere il telefono, non aveva idea di che ore fossero; nel muoversi, provocò un mugolio in Spencer che si girò dall’altro lato senza aprire gli occhi.
“Scusa” sussurrò lei mentre prendeva il telefono. “Oddio! È tardissimo” esclamò lei notando che erano le dodici passate, tutti gli ospiti per il pranzo di capodanno sarebbero arrivati verso l’una.
Scosse Spencer per svegliarlo che si lamentò di nuovo tirandosi le coperte sulla testa. “Amore, ti devi alzare. È tardi!” lo esortò tirando giù le coperte, a quel punto Spencer aprì gli occhi che però richiuse subito, troppa luce illuminava la stanza.
Si girò verso di lei e con gli occhi ancora chiusi cercò la bocca di Madison, che però saltò giù dal letto e aprì l’armadio, doveva vestirsi in fretta.
Spencer si sedette sul letto e l’osservò mentre buttava i vestiti per terra alle sue spalle, nonostante i mille vestiti appesi non riusciva a trovarne uno. “Che ne dici di questo?” domandò lei lanciandogli addosso un vestito blu cobalto leggermente svasato.
“E’ perfetto” le rispose riponendolo con cura sul letto. “Ora ti calmi un secondo e vieni qui?” la pregò facendole il broncio, non lo aveva minimamente calcolato fino a quel momento.
Madison sorrise e si sedette sul letto accanto a lui. “Scusami, ma è tardi. Dobbiamo andare” provò a spiegargli mentre lui la sdraiava delicatamente dandole dei baci sul collo che provocarono il solletico a Madison che scoppiò a ridere.
“Spencer, seriamente, dobbiamo andare. Tra poco arriveranno tutti.” ribadì con tono poco convinto, a quel punto Spencer si allarmò, tutti chi?
“Chi intendi con tutti?” le domandò staccandosi da lei.
Madison si sedette di nuovo sul letto. “I nonni, zii, cugini, ecc” lo informò lei mentre si alzava, Spencer deglutì, non era affatto  pronto per conoscere l’intera famiglia di Madison, non sapeva nemmeno come doveva presentarsi.
Madison senza curarsi dell’espressione di terrore, che si era dipinta sul volto del suo nuovo fidanzato, sparì in bagno per finire di prepararsi. “E se io non scendessi? Magari vado via..” tentò di proporre lui, sperava che Madison capisse il suo imbarazzo.
“Che cosa?” urlò lei dalla stanza da bagno. “Tu scendi con me!” gli ordinò ritornando in camera da letto, indossò il
vestito e lo costrinse ad alzarsi per prepararsi a sua volta.
“I miei ti adoreranno e anche tutti gli altri” gli disse dandogli un bacio sulle labbra per incoraggiarlo, Spencer annuì con poca convinzione e andò in bagno per prepararsi. Se proprio doveva conoscerli per forza, avrebbe provato a fare una buona impressione.
Provò a pettinarsi i capelli con scarsi risultati, ormai sembravano avere vita propria; si guardò allo specchio, aveva un aspetto più riposato rispetto al solito, nonostante le solite occhiaie.
Madison entrò in bagno e lo abbracciò da dietro. “Sei bellissimo” sussurrò lei sorridendo, Spencer si voltò verso di lei e si baciarono di nuovo.
“Su, andiamo giù, sicuramente mia madre starà dando i numeri” disse lei divertita prendendolo per mano e trascinandolo fuori dalla stanza.
 
Non appena scesero le scale, s’imbatterono nella cugina di Madison, Mary Jane, attrice di una piccola compagnia teatrale di Broadway, che era intenta a provare una scena per il prossimo spettacolo. “Quando ti ho visto per la prima volta, mi sono innamorato..” recitò lei girandosi verso di loro e invitandoli a continuare la battuta.
“E tu mi hai sorriso perché lo sapevi” completò la battuta Spencer che venne applaudito da Mary Jane. “Bravo! Reciti anche tu o conosci Shakespeare?” domandò lei.
“Nessuna delle due. In realtà, nonostante questa frase sia attribuita a Shakespeare, non è lui l’autore, il vero autore è Arrigo Boito che ha scritto il libretto per l’opera italiana Falstaff, inscenata nel..” esordì Spencer nel suo solito tono enciclopedico interrotto subito da Madison che lo presentò. “Jane, lui è Spencer, il mio..” s’interruppe un attimo e guardò il dottor Reid sotto lo sguardo attonito di Mary Jane che non capiva che cosa avesse la cugina.
“Il suo fidanzato” proseguì lui con tono incerto, era quello l’epiteto giusto?
Mary Jane annuì entusiasta e lo abbracciò lasciando spiazzato Spencer che non si aspettava un’accoglienza così calorosa. “E’ un piacere conoscerti, Spencer!”
Madison sorrise, sua cugina era una persona molto affettuosa con tutti. “Jane, scusami, ma papà dov’è?” le domandò per distrarla di modo che Spencer si ricomponesse.
“Lo zio è in cucina con Brian” rispose lei, a quel punto i due salutarono l’affettuosa cugina che continuò a provare le scene e si recarono in cucina.
“Maddie, aspetta” la fermò lui prima di entrare in cucina; era parecchio nervoso e quando era nervoso parlava troppo e diceva stupidaggini, e se avesse detto qualcosa di sbagliato? E se suo padre avesse un’impressione negativa di lui?
Madison si voltò verso di lui e lo prese per mano. “Stai calmo, andrà tutto bene” lo tranquillizzò lei ed entrò in cucina seguita da Spencer che provava a nascondersi dietro di lei.
“Buongiorno” esclamò lei  dando un bacio sulla guancia tanto al padre quanto al fratello. “Ti sei finalmente svegliata, anzi vi siete finalmente svegliati” la stuzzicò Brian gettando un’occhiata a Spencer che in quel momento avrebbe preferito sprofondare, seguito da Madison imbarazzata quanto lui.
“Non ci presenti il tuo accompagnatore?” domandò il padre con tono cortese alla figlia che annuì nervosamente. “Si, certo… lui è Spencer” affermò spingendo il suo fidanzato in avanti. “Ora tocca a te” gli sussurrò lei, Spencer deglutì e si morse il labbro.
“Piacere Spencer, io sono James” si presentò il padre offrendo la mano al dottor Reid pietrificato davanti alla figura del padre di Madison. “Sai, ragazzo, quando qualcuno ti offre la mano, è buona educazione stringerla. Guarda, è semplice, fai così” gli disse prendendo la mano leggermente sudata di Spencer che sembrava prossimo a un attacco di panico.
“Visto? Fatto! Veloce e indolore” affermò James mentre Spencer continuava ad annuire senza proferire parola e Madison e suo fratello sghignazzavano. “Tranquillo, Spencer, io sono a posto così. Sono Brian comunque” si presentò il fratello scoppiando a ridere più rumorosamente assieme a Madison che si era trattenuta.
In  quel momento entrò Natalie che guardò i presenti in cucina che continuavano a ridere ad eccezion fatta di Spencer. “Vedo che siamo finalmente entrati in un clima di festa” esordì con entusiasmo Natalie rivolgendo un sorriso in particolare a Spencer, non vedeva l’ora di conoscerlo meglio.
“Mamma, lui è Spencer” lo presentò la figlia, Natalie si avvicinò e offrì la mano al dottor Reid. “Natalie, il ragazzo ha un problema con le strette di mano, ma ci stiamo lavorando, vero Spencer?” lo prese in giro James dandogli una pacca sulla spalla mentre sua moglie aggrottava la fronte e ritirava la mano.
A quel punto Spencer, che cominciava a rilassarsi, guardò più attentamente la madre della sua fidanzata ed ebbe un sussulto. “Ma lei è Natalie Fitzgerald!”esclamò lui sgranando gli occhi, non riusciva a credere che quella donna fosse la madre di Madison. “Ho visto i suoi lavori alla Tate Modern  gallery e al MoMa, anche nelle diverse riviste di architettura, io ammiro moltissimo i suoi lavori! Lei è un genio!” parlò velocemente Spencer.
La donna annuì compiaciuta, era lusingata dal fatto che conoscesse i suoi lavori. “Un genio? Addirittura! Beh, quando vorrai, arrederò più che volentieri la tua casa, caro”
Spencer si scostò la ciocca di capelli dal viso e sorrise.“Mi piacerebbe moltissimo, ma non credo di poter permettermi i suoi servigi”
Natalie scoppiò a ridere, quel giovane le stava davvero simpatico. “Scherzi, vero? I famigliari non pagano e non darmi del lei” gli disse sorridendogli ricambiata dal dottor Reid che sorrise a sua volta; Madison gli mise il braccio attorno al collo e gli diede un bacio sulla guancia. “Visto, Spence? Te l’avevo detto che i miei ti avrebbero adorato”
“Ma certo! Sai, Madison non ci ha mai portato nessuno al nostro pranzo di Capodanno quindi devi essere davvero speciale per lei” gli confidò James, in quel momento suonò il campanello e Natalie ordinò al marito di andare ad aprire.
“Brian, tu aggiungi un posto a tavola, mi raccomando” ordinò invece al figlio minore. “Ora scusatemi, ma devo andare. Ho ancora diverse cose da sistemare. A dopo” si congedò Natalie che doveva uscire per comprare le ultime cose.
“Sono tutti molto simpatici e cortesi” affermò Spencer non appena rimasero soli. “E tu sei adorabile” rispose lei mentre lo baciava sul naso.
“Andiamo di là, ancora devi conoscere i nonni” aggiunse trascinandolo nel salotto.
 
 “Devi capire, caro George, che non tutti ragionano come te. Non tutti amano il tuo modo di vivere così bucolico” punzecchiava la nonna Eleanor il suo consuocero George, nonché nonno paterno di Madison.
Spencer non ebbe bisogno di molte presentazioni per capire che si trattasse dei nonni di Madison; Eleanor era identica alla figlia Natalie, mentre James ricordava moltissimo il padre George.
“Il solito discorso. Quanto sei materiale! Per te tutto passa dal danaro” rispose a tono l’uomo facendo una smorfia.
“Ci siamo..” borbottò Madison, i suoi nonni erano soliti battibeccare ad ogni festa sullo stesso discorso.
Natalie e James, i genitori  di Madison, non potevano essere di origini più diverse; Natalie, figlia di Edward Fitzgerald, un ricco imprenditore edile londinese, e Eleanor Fitzgerald, la cui famiglia era tra le principali finanziatrici del British museum, era cresciuta in una famiglia benestante della società bene londinese. Al contrario della moglie Natalie, James Thompson non aveva avuto altrettanta fortuna; i suoi genitori, originari di Brooklyn, avevano gestito per tutta la vita una sartoria, ormai chiusa, nel medesimo quartiere, non erano mai stati  particolarmente ricchi, ma con enorme piacere e soprattutto non pochi sacrifici, erano riusciti a sostenere il figlio nella scelta della carriera universitaria, grazie alla quale conobbe l’attuale moglie, Natalie, che aveva completato il suo percorso universitario negli Stati Uniti, più precisamente alla Columbia university, frequentata anche dal marito James.
“Beh, è grazie al danaro che tu sei qui oggi” ribadì  acida Eleanor, George era sul punto di risponderle per le rime quando Madison li interruppe. “Nonnini cari” disse la giovane attirando su di sé gli sguardi dei due.
“Madison!” esclamarono i due alzandosi per venire al suo incontro. “Nonnini, vi presento Spencer, il mio fidanzato” annunciò orgogliosa lei mentre stringeva la mano di Spencer che sussurrò un “salve” appena udibile.
“Ooh! Ma che piacere!” affermò George abbracciando Spencer che ormai non si sorprendeva più dei modi affettuosi dei Thompson, Eleanor invece rimase in disparte ad osservare il giovane, che trovava eccessivamente magro.
“Dovresti mangiare di più, ragazzo mio” gli disse infatti, George la guardò torvo, possibile che sapesse solo criticare?
“Spencer, non farci caso. Eleanor è fatta così, la vecchiaia l’ha inacidita” ironizzò George facendo ridere Spencer che però riconobbe che anche la madre gliela diceva sempre.
“Ma nonna Rosemary dov’è?” domandò Madison ai due mentre Spencer prendeva posto a tavola. “Sarà andata in un attimo fuori, ha ancora l’abitudine della sigaretta, anche se non fuma più” spiegò George; a sua moglie Rosemary, fumatrice accanita per più di 30 anni, le era stato imposto di smettere di fumare a seguito a dei problemi respiratori piuttosto seri e da allora girava con una sigaretta finta che si portava dietro ovunque andasse.
“Sai, Spence, mia nonna è italiana. Infatti il suo vero nome è Rosa Maria, però vive qui da più di 60 anni e ormai tutti la chiamano Rosemary” gli accennò lei sedendosi sulle gambe di Spencer. “Anche Rossi è italiano, penso che si capisca anche dal cognome” disse lui sorridendo, era una precisazione inutile d’altronde.
“Non sei newyorkese, di dove sei?” gli domandò George, era evidente che non fosse originario di New York.
“Di Las Vegas, però vivo ormai da un po’ a Washington” rispose Spencer prontamente.
“Las Vegas? Ottimo! Allora saprai giocare a poker!” affermò Eleanor. “E’ una nostra tradizione la partita a poker ad ogni pranzo di Capodanno. Madison non gioca mai, non è affatto brava” gli confidò la nonna ridacchiando.
“E’ vero! Perdo sempre tutto” confermò lei. “Sarò felice di giocare al posto suo allora” si propose Spencer facendo l’occhiolino a Madison, si sarebbero pentiti di averglielo proposto.
“In compenso, Madison è un prodigio a briscola, vero George?” esordì la nonna Rosemary rientrata in quel momento. “Nonna” esclamò la nipote alzandosi per andare al suo incontro. “Quanto sei bella” le disse Rosemary sorridente mentre l’abbracciava.
“Nonna, ti presento Spencer” lo presentò Madison mentre si alzava anche lui per conoscerla. L’anziana lo fissò per qualche secondo a bocca aperta,  dopodiché parlò. “E’ un piacere conoscerti”
“Il piacere è mio” rispose il dottor Reid mentre stringeva la mano di Rosemary. Non appena strinse la sua mano, gli sembrò di essere pervaso da una strana sensazione di pace, aveva qualcosa di famigliare quella donna, nonostante non l’avesse mai vista in vita sua.
I tre nonni intavolarono subito una conversazione con Spencer, erano desiderosi di conoscere quel giovane, appena arrivato, il più possibile; rimasero molto entusiasti di Spencer, soprattutto il nonno George che avrebbe potuto vantare tra i suoi famigliari un agente del F.B.I.
Erano intenti a chiacchierare quando fecero ingresso James e Natalie in salotto annunciando che il pranzo era sul punto di essere serviti e invitando tutti a prendere posto.
Il pranzo trascorse velocemente, tutti si rivelarono gentili con Spencer, a cui domandavano in continuazione se fosse a suo agio o se avesse bisogno di qualcosa.
“Sei sazio? Basta dirlo e ti porto qualcos’altro” gli domandò Natalie mentre gli offriva il dolce, un’abbondante fetta di torta caprese.
“Sono a posto, era tutto buonissimo” la rassicurò lui leggermente imbarazzo.
“Natalie, ma lo vedi quanto è magro? Ti sembra che mangi molto? Sicuramente sarà sul punto di scoppiare” lo scherzò Eleanor, entrata ormai in confidenza con Reid; come già detto più volte,  gli ispirava fiducia.
I festeggiamenti terminarono con la famosa partita a poker, durante la quale Spencer batté tutti portandosi a casa una copiosa vincita. “Lui con noi non gioca più” esclamò Eleanor ancora scioccata dall’abilità di Spencer con le carte francesi.
Madison scoppiò a ridere seguita da Spencer che si offrì come maestro per insegnarle qualche trucco, mentre i tre chiacchieravano Natalie chiamò la figlia perché salutasse la zia Cecile e la cugina Mary Jane.
A quel punto anche Eleanor ne approfittò per salutare Spencer dicendogli che andava a riposarsi, lasciandolo da solo a fare un solitario con le carte.
“Ti ho sognato tempo fa. Avevi i capelli più lunghi, vero?” domandò Rosemary al giovane che la guardò stranito, di cosa stava parlando?
“Spesso nella mia vita ho avuto sogni premonitori e ho sognato anche te. L’avevo scambiato per un normale sogno, ma quando ti ho visto, mi è tornato subito in mente” le spiegò la donna con tono piuttosto calmo, era abituata alle reazioni di sorpresa delle persone a cui confessava di avere sogni premonitori.
“Sai, nessuno può sostituire quello che abbiamo amato, ma questo non significa che non possa guadagnarsi un posticino speciale nel nostro cuore” affermò Rosemary posando la sua mano su quella di Spencer che capì subito che l’anziana si riferisse a Maeve.
Avrebbe voluto farle altre domande, ma fu interrotto da Madison che arrivò portandosi dietro Brian che voleva uscire per fare una passeggiata nel Central park. “Vuoi venire, Spence?” gli domandò Brian, lui annuì e si alzò gettando un’ultima occhiata a Rosemary che gli ricordò che avrebbero avuto tante altre occasioni per parlare, avendo intuito che il giovane volesse farle altre domande.
“Di cosa parlavate tu e la nonna?” gli chiese Madison mentre indossava il cappotto. “Mi raccontava delle tradizioni italiane” mentì lui mettendole un braccio attorno al collo, Maddie lo guardò dubbiosa ma non domandò altro; era evidente che Spencer preferiva non raccontarle della conversazione avuta e lei rispettava la sua decisione.
 
Ritornati dal parco, Madison propose a Spencer di tornare a Washington. “Se partiamo ora, riusciremo ad essere lì prima delle undici” gli propose. “Sempre se tu non vuoi restare ancora a casa mia”
Spencer si trovava molto a suo agio a casa di Maddie, ma preferiva trascorrere un po’ di tempo da solo con lei perciò accettò la sua proposta più che volentieri.
“Vado a prendere la valigia allora” affermò lei salendo di corsa le scale. “Ma andate già via?” domandò Natalie con tono dispiaciuto, avrebbe voluto che si fermassero un po’ di più.
“Purtroppo le mie ferie non durano molto, anzi penso che già domani dovrò essere in ufficio” provò a giustificarsi Spencer promettendole che sarebbero tornati presto senza alcun dubbio.
Natalie annuì e andò a chiamare James perché li salutasse prima che partissero, nel frattempo Madison scese trascinandosi dietro una valigia pesantissima. “Ma quante cose ti eri portata dietro?” gli domandò Spencer che salì qualche scalino per aiutarla a scendere il trolley.
“Un po’ di cose” disse lei ridendo, ogni volta che partiva si portava dietro mezzo armadio.
“Ci dovrai fare l’abitudine, Spencer. Di sicuro non potrete partire con compagnie aeree low-cost” scherzò James.
“Lo terrò a mente” rispose il dottor Reid ridendo. A quel punto Madison salutò i suoi e il fratello Brian seguita da Spencer che ringraziò James e Natalie per l’ospitalità.
“Non devi affatto ringraziare. È stato un piacere averti con noi” gli rispose Natalie  dandogli un bacio sulla guancia.
Anche James confermò quanto già detto dalla moglie. “La porta di casa nostra è sempre aperta per te, Spencer” gli ricordò l’uomo.
Si salutarono nuovamente ed infine uscirono di casa. “Guido io!” esclamò Madison rubando le chiavi dell’automobile a Spencer che non oppose resistenze.
Era rimasto un po’ sorpreso dell’accoglienza della famiglia di Madison, non si sarebbe mai aspettato tanta gentilezza; finalmente si sentì parte di una famiglia che, nonostante l’affetto incondizionato di sua madre, gli era mancata nella sua vita.
“Sei felice, amore?” gli chiese Madison notando il sorriso a trentadue denti di Spencer che annuì. “Tanto” ammise lui dandole un bacio sulle labbra poco prima che partissero per tornare a casa.
 

 

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Capitolo 15
*** Better with you. ***


“Better with you”

                                                                                             
 
“Avrei dovuto prevedere che l’autostrada è un luogo pericoloso quando ci sei tu al volante” ironizzò Reid ripensando ai mille sorpassi che la sua fidanzata aveva fatto nel tragitto di ritorno a casa. Madison fece spallucce e parcheggiò in unica manovra. “Vuoi criticare anche il mio modo di parcheggiare?” protestò con finto tono offeso.
Spencer scosse la testa, nei parcheggi era particolarmente brava, molto più di lui.
“Spence, te l’ho detto, nella vita un po’ di adrenalina ci sta” gli ripeté mentre scendeva dalla macchina, Spencer prese le chiavi di casa, aprì e lasciò socchiuso il portone aspettando che Madison lo raggiungesse.
“Io preferisco provare l’adrenalina in altri modi” la provocò in modo malizioso, Madison sollevò il sopracciglio. “Dove vuoi andare a parare, dottor Reid?” pensò.
Si avvicinò a lui che era rimasto appoggiato al portone, e non appena giunse a pochi metri, Spencer lo chiuse e urlandole di provare a prenderlo.
Madison allungò subito le mani verso il portone, ma non riuscì a bloccarlo e questo si chiuse costringendola a cercare le chiavi nella borsa, cosa che diede un notevole vantaggio a Spencer, che nel frattempo saliva le scale diretto verso il quarto piano.
Madison entrò e prese l’ascensore al volo grazie all’inquilina del 3° piano che era appena scesa quando lei apriva il portone.
“Ora ti becco” si disse premendo il pulsante del 4° piano, era sicura che lo avrebbe beccato nelle scale.
Gli sportelli dell’ascensore si aprirono proprio mentre Spencer percorreva l’ultima rampa di scale. “Beccato” gli disse apparendo davanti a lui che ormai aveva il fiato corto per la corsa.
“Ti arrendi?” domandò lei convinta ormai di averlo in trappola. “Giammai” ribadì il dottor Reid che le rubò le chiavi di casa e si precipitò di nuovo lungo le scale.
“Hey! Così non vale” urlò lei correndo per le scale dietro di lui, che si rivelò essere molto più veloce di lei; infatti arrivò alla porta di casa di Madison in un baleno, entrò dentro lasciando andare la porta che fu presa al volo da Madison prima che si chiudesse.
Nel frattempo Spencer si era sdraiato sul divano e Madison gli saltò addosso. “Ora ti ho preso!”
“Mi sono fatto prendere, vorrai dire” sottolineò lui mentre spostava i capelli di Madison che le ricadevano sul viso tutti da un lato. “Dettagli” replicò lei facendogli la linguaccia; si abbassò leggermente e sfiorò le labbra del dottor Reid con le sue. “Sai di fragola” sussurrò Spencer,  “A me piace un sacco la fragola” aggiunse dandole un altro bacio.
Madison si drizzò di nuovo e guardò il dottor Reid, che si sollevò aiutandosi con i gomiti, si sistemò e le cinse la vita con le braccia mentre lei rimase a cavalcioni su di lui.
Le bastò un solo sguardo per capire che la desiderasse quanto lei desiderava lui. “Ti fidi di me?” gli domandò sotto voce mentre prendeva fra le mani il viso di Spencer che annuì.
“Dovrei essere io a dirlo a te” aggiunse sorridendo, Madison ricambiò il sorriso, si alzò in piedi e lo prese per mano guidandolo verso la camera da letto.
Entrati nella stanza, Spencer la prese in braccio e la sdraiò sul letto, la spogliò lentamente, voleva assaporare ogni secondo di quella prima volta con lei; baciò ogni centimetro del suo corpo provocandole più volte il solletico, giunse alla bocca e la baciò più volte mentre lei lo spogliava.
Si liberò degli ultimi strati di stoffa che lo separavano da lei che non smetteva di accarezzarlo con la stessa dolcezza con cui lo aveva cullato quella stessa mattina. Le loro mani si strinsero, poté sentire il battito di lei accelerare mentre lui, perdendo tutta la sua insicurezza e timidezza, la fece sua; come poche altre volte nella sua vita, sentì uomo nel sentirla fremere sotto il suo corpo.
I loro corpi si unirono in uno solo così come i loro respiri; la sensazione che Spencer provò fu qualcosa che non avrebbe mai saputo descrivere, che trascendeva ogni schema razionale che si era imposto mentalmente.
Fu come perdersi per poi ritrovarsi in un’altra persona. Lì accanto a lei, avvertì un calore nuovo che gli esplose dentro, e solo allora seppe dare un nome a tutte quelle emozioni che si erano susseguite rapidamente e che aveva solo sfiorato in quei dieci mesi di corrispondenza con Maeve: l’amore.
“Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata” mormorò lei al suo orecchio mentre lui giocava con i suoi capelli.
“Anche tu” rispose dandole un bacio sul naso che la fece ridere, in quel momento pensò che adorava vederla ridere.  
Rimasero sdraiati l’una affianco all’altro mano nella mano per diversi minuti senza dirsi nulla, poi Spencer si girò su un fianco e allungò la mano verso il viso di lei che sorrideva. “Te la posso fare una domanda?” le chiese, Madison annuì e si girò anche lei su un fianco nella sua direzione.
“Ma tu perché vuoi stare con me?” glielo domandò senza nascondere l’imbarazzo che provava, la rossa rise. “Perché fai domande come queste” esordì lei, Spencer aggrottò la fronte, che voleva dire?
“Tu non hai minimamente idea di quanto tu sia speciale, semplicemente non ne sei consapevole, anzi quando ti fanno un complimento, arrossisci. Non conosco nessuno che sia ancora capace di arrossire” continuò dandogli un buffetto sulla guancia. “Anche tu arrossisci!” la accusò il dottor Reid. “Non sempre, però lo fai...”
“E’ vero. Siamo in due allora”ammise lei sorridendo. “Non sai quanto tutto fosse noioso prima di te. Da quando ci sei tu, la mia vita è cambiata, hai reso tutto più bello” gli confessò con lo stesso entusiasmo con cui aveva parlato con Derek di lui poco più di un mese prima.
“Sento che non succederà nulla di male finché tu sarai con me” aggiunse, sperava che con quelle parole capisse quanto fosse importante per lei. “Vieni qui” gli disse allargando le braccia, Spencer non se lo fece ripetere due volte e si buttò fra le sue braccia, ricevendo un bacio sulla guancia. “Anche tu hai reso tutto più bello” ammise lui mentre la stringeva, poi si sistemò per consentirle di appoggiare la testa sul suo petto.
“Hai sonno?” le domandò dopo averla sentita sbadigliare, Madison annuì, in effetti era stanchissima, a quel punto Spencer le diede un bacio sulla testa dopo averle augurato buonanotte.
“Buonanotte” gli rispose con voce assonnata e si addormentò velocissimamente seguita dal suo fidanzato che prese sonno altrettanto velocemente.
 
Quella notte Spencer sognò qualcuno che non sognava da tempo: Maeve. L’ambientazione del sogno cambiò, non era la solita biblioteca, ma un molo sul cui margine si ritrovò seduto.
La brezza marina gli scompigliò i capelli mentre i suoi polmoni si riempivano di aria fresca e pulita. “E’ uno dei miei posti preferiti” gli disse una voce che ben conosceva, Spencer si voltò verso Maeve e le sorrise. “Ti avrei voluto portare qui, ma non c’è stata occasione” aggiunse lei con rammarico.
“E’ molto bello” affermò lui guardandosi intorno, un gabbiano volteggiò sulle loro teste per poi posarsi su uno scoglio poco lontano dal molo. “Perché sei tornata?” le domandò; per mesi si era chiesto perché fosse sparita, tantissime notti si era addormentato nella speranza che lei comparisse, senza tuttavia che la sua richiesta venisse accolta.
Maeve si avvicinò a lui, aspettò qualche secondo e infine parlò. “Sai, all’inizio lei non mi piaceva affatto, la trovavo chiassosa, un po’ infantile e poco adatta a te. Pensavo che non fosse alla tua altezza e non riuscivo a capire perché ti piacesse, ma poi l’ho capito”
“Lei è tutto ciò che tu non sei, siete complementari. Avevi bisogno di una persona come lei, forse è più adatta lei a te di quanto lo potessi essere io” continuò facendo un sorriso spento.
Spencer scosse la testa. “Non dire così, sai quanto io ti amassi” ribadì con tono dispiaciuto.
“Non sto mettendo in discussione i tuoi sentimenti, ma me stessa” chiarì lei con fermezza. “Lei ti rende felice, vero?” gli domandò anche se conosceva la risposta.
Il dottor Reid annuì e inevitabilmente sorrise pensando alle precedenti ore. “Sì, Maddie mi fa ridere e…”
“Annulla tutti i tuoi pensieri” completò la frase Maeve. “Anche con te era così, però con lei è diverso” riconobbe lui.
Maeve fece segno affermativo con la testa dicendo che lo sapeva. “Sono contenta per te, Spence. Hai finalmente ritrovato il sorriso”, a quel punto si alzò e Spencer la imitò. “Vai via?”, forse dopotutto non era ancora pronto a lasciarla andare per sempre.
“Tornerò” lo rassicurò, poi gli diede un bacio sulla guancia indugiando per qualche secondo, improvvisamente venne una folata di vento che costrinse Spencer a chiudere gli occhi e Maeve sparì di nuovo, ma questa volta fu meno doloroso.
 
 
Spencer si svegliò a seguito delle mille scosse che la sua fidanzata gli dava, Madison si sedette a gambe incrociate sul letto e lo fissò mentre lui apriva gli occhi. “Buongiorno” le disse con la voce ancora impastata dal sonno.
“Buongiorno a te, bello addormentato” rispose lei, a quel punto Spencer si mise a sedere anche lui sul letto e la guardò per qualche secondo.
“Ethan aveva proprio ragione” affermò il dottor Reid avvicinandosi a lei sul cui volto si dipinse un’espressione interrogativa. “Hai degli occhi bellissimi, di sicuro i più belli che abbia mai visto” spiegò lui, Madison gli buttò le braccia intorno al collo e lo baciò. “Vuoi venire in un posto con me?” gli chiese, Spencer annuì, sarebbe andato ovunque purché lei fosse con lui.
“Allora dobbiamo sbrigarci” gli consigliò, dopodiché si alzò e iniziò a vestirsi; indossò un jeans e una maglietta a maniche lunghe a righe bianco e blu, stava allacciandosi ai piedi le sue sneakers quando si girò verso Spencer che nel frattempo era andato in bagno e la guardava sulla soglia della porta con in mano i vestiti del giorno precedente.
“Non ti vesti?” chiese lei passandogli accanto per andare in bagno. “Dovrei cambiarmi, praticamente indosso questi vestiti da oltre 24 ore” rispose lui mentre lei si raccoglieva i capelli in una coda. “Tecnicamente non li hai indossati tutto il tempo” lo stuzzicò lei facendo l’occhiolino dallo specchio del lavabo.
Spencer sorrise e scosse la testa. “Dammi dieci minuti. Salgo a casa, mi cambio e riscendo”
Indossò di nuovo i vestiti del giorno prima e salì a casa dopo aver recuperato le chiavi dalla tracolla che era rimasta sul divano, intanto che Madison preparava la colazione, essendo già pronta.
Come promesso, il suo fidanzato fu di ritorno in meno di dieci minuti, la rossa gli allungò una tazza di caffè e due fette di pane tostato con della marmellata di ciliegie che Spencer divorò in un baleno, stava morendo di fame.
“Andiamo?” domandò con impazienza, non vedeva l’ora di portarlo dai suoi bambini. “Ma dove andiamo?” chiese il dottor Reid a sua volta incuriosito dall’impazienza mostrata della giovane, che aveva già indossato il cappotto.
“E’ una sorpresa” rispose lei mantenendo l’alone di mistero, Spencer farfugliò un “ok” e si affrettò ad infilarsi la giacca.
 
“Siamo alla casa di famiglia ‘Hope’ ” osservò lui leggendo l’insegna. “Hai intenzione di adottare un bambino? Forse è un po’ presto, non credi?” le domandò non nascondendo il suo timore, non aveva proprio considerato la possibilità di diventare padre.
Madison rise e gli diede una leggera spinta. “Ma sei scemo? Non siamo qui per adottare un bimbo” esclamò lei mentre salivano i gradini, ma come gli era saltato in mente?  A quel punto specificò cosa ci facessero lì: “Siamo qui per lo spettacolo”
“Lo spettacolo?” chiese lui incerto di aver capito bene, la sua fidanzata annuì e gli disse di seguirlo.
“Hey, Mads! Sei finalmente arrivata, pensavamo ti fossi presa un giorno di ferie” affermò un uomo sulla quarantina che venne in loro incontro; era completamente pelato e un po’ in sovrappeso, ma aveva un’espressione gentile in volto che ispirò subito fiducia a Spencer. “Spence, ti presento Albert, lui è il proprietario di questo magnifico posto” lo presentò all’uomo che annuì compiaciuto. “Albert, lui è il mio fidanzato” aggiunse con un po’ di imbarazzo, le sembrava ancora strano pronunciare la parola ‘fidanzato’.
“E’ un piacere conoscerti, Spencer. Sei un uomo fortunato, Madison è una donna speciale” si complimentò Albert come al suo solito, il dottor Reid annuì dicendo che ne era consapevole.
“Spencer assiste allo spettacolo oppure partecipa?” domandò l’uomo ritornando sulla motivazione della presenza della coppia nella casa famiglia.
“Amore, hai qualche trucco nella manica?” gli chiese, Spencer fece un cenno affermativo con la testa e tolse un fazzoletto colorato che trasformò in un quadrifoglio con un gesto della mano. “Oooh! Perfetto! I bambini adorano la magia” annunciò l’uomo entusiasta, poi li condusse nel retro della sala comune che era stata improvvisata a teatro per l’occasione, come tutti i sabati mattina; ogni sabato Albert e i suoi collaboratori si svegliavano alle sei per riuscire a montare il palco e allestire la scena al meglio che potevano, sapevano quanto fosse importante per i loro bambini la rappresentazione del sabato che attendevano con ansia tutta la settimana perciò non saltavano mai una volta.
Il progetto era nato qualche anno prima su consiglio della moglie di Albert, Judith, che presentava lo spettacolo e che interpretava qualche volta un ruolo nella rappresentazione, nonostante la sua totale incapacità a recitare; Madison si era avvicinata alla coppia dopo aver conosciuto Judith e la loro bambina, Stacy, durante una visita in ambulatorio.
Non appena Judith le raccontò del progetto, Madison ricordò del gruppo di volontari di cui aveva fatto parte, il gruppo si chiamava i “Maestri del sorriso”e si impegnava  a girare i reparti di pediatria degli ospedali della Grande Mela assieme a degli esperti di clown terapia, offrendo spettacoli gratuiti, oppure come preferiva dire Madison, offrendo sorrisi.
Per lei era importante aiutare i bambini in difficoltà, lo faceva fin da quando era piccola; infatti quando era piccola metteva parte della propria paghetta da parte per devolverla in beneficienza, così come anche i suoi. James e Natalie da sempre si erano impegnati perché i loro figli capissero quanto fossero fortunati, ma soprattutto perché non fossero indifferenti a coloro che non avevano avuto altrettanta fortuna, per questi motivi li avevano sempre coinvolti nelle iniziative sociali dell’associazione di cui facevano parte, portandoli negli ospedali, case di cura per anziani e case famiglia perché vedessero con i loro occhi realtà diverse dalla loro e potessero prenderne parte offrendo il loro aiuto nei limiti delle loro possibilità; perciò quando Judith le aveva spiegato quanto bisogno avessero di una mano, la giovane non esitò a offrirsi come volontaria.
In quel momento spuntò la moglie di Albert che era vestita da regina di cuori. “Tanti auguri di buon anno” disse la donna non appena scorse Madison che le presentò immediatamente Spencer.
“Vedo che quest’anno è iniziato bene per te” affermò lei sorridendo, era contenta per Madison, a cui si era molto affezionata.
Spiegarono a Spencer velocemente lo spettacolo che avrebbero messo in scena di lì a breve e il ruolo che lui avrebbe interpretato; portavano in scena una rivisitazione di “Alice nel paese delle meraviglie”: Madison avrebbe interpretato Alice, Albert il Brucaliffo, ovviamente Judith la Regina di cuori, come era chiaro dal costume che indossava, e Spencer avrebbe interpretato il Cappellaio Matto, che non avevano potuto inserire nel copione scritto a causa dell’assenza di collaboratori, infatti essendo ancora in vacanza, molti non erano rientrati dalle ferie.
Reid, che ricordava a memoria il libro di Lewis Carrol, si lanciò in una sua personale interpretazione del suo personaggio, rivelandosi un perfetto nonché divertentissimo Cappellaio Matto, andando oltre ogni aspettativa di Madison che appena finita la rappresentazione lo applaudì più dei bambini, rimasti estasiati dai trucchi di magia del Cappellaio.
“Spencer, devi assolutamente tornare! I bambini ti adorano” dichiarò entusiasta Albert mentre usciva dai panni del Brucaliffo. Madison annuì mostrando lo stesso entusiasmo dell’amico, si era divertita un mondo a recitare insieme a Spencer e voleva assolutamente rifarlo.
“Tornerò più che volentieri!” disse lui, d’altronde i  trucchi di magia erano una sua passione; Albert ringraziò entrambi di essere venuti e di aver preso parte allo spettacolo dopodiché li salutò augurando a tutti e due una bella settimana.
Judith li raggiunse poco prima che uscissero con in braccio una bimba che non poteva avere più di quattro anni. “Mads, scusami, ma Sarah vuole dare un bacio ad Alice” spiegò lanciando uno sguardo d’intesa alla rossa che s’intenerì. “Vieni qui” disse alla bimba che le diede un bacio sulla guancia quando la prese in braccio.
“Te ne posso dare io uno a te?” domandò alla bambina che le offrì la guancia morbida su cui Madison posò un bacio, dopodiché mise per terra la bimba che tornò in braccio a Judith. Infine la donna salutò nuovamente la coppia con la mano mentre socchiudeva il portone d’ingresso.
“Sarai una mamma eccezionale” le confessò Spencer quando rimasero da soli, era rimasto colpito da come si rapportava con i bambini, aveva visto l’espressione di lei illuminarsi quando Sarah le aveva dato il bacio sulla guancia. Madison arrossì e si toccò le punte dei capelli dopodiché si avvicinò a Spencer; “Anche tu sarai un bravo papà” gli disse, lo prese per mano e lo portò al parco a pochi passi da lì, era una bellissima giornata di sole e  voleva godersela fino in fondo.
 
Stavano camminando nel parco quando improvvisamente Spencer fu bloccato da un ometto dai capelli biondissimi che si attaccò alla sua gamba. “Henry ciao! Dov’è la mamma?” gli domandò preoccupato mentre lo prendeva in braccio, in quel momento spuntò JJ che aveva corso all’inseguimento del figlio.
“Ah, meno male! Aveva visto te!” esclamò la bionda cercando di riprendere fiato. “Sei venuto dal tuo padrino?” chiese al bimbo che annuì abbracciando il dottor Reid.
 “Quindi tu sei il padrino di questo bimbo bellissimo?” domandò Madison che non staccava gli occhi da Henry, lo trovava carinissimo, molto più bello di diversi bimbi delle pubblicità. Fu allora che JJ si accorse della sua presenza e la salutò con tono gioviale, chiedendosi subito cosa facessero insieme, per avere una risposta non dovette aspettare molto, infatti ci pensò suo figlio Henry. “Lei chi è?” chiese al suo padrino con la vocina bassa indicando la  figura della dottoressa Thompson. “Lei è la mia fidanzata, Henry. Si chiama Madison” la presentò al suo figlioccio, JJ sgranò gli occhi, non se lo aspettava minimamente. “Dici davvero?”
“Sì” esclamarono entrambi all’unisono; JJ ne fu felice, soprattutto per Spencer, finalmente avrebbe trovato un po’ di serenità. “State insieme come mamma e papà?” domandò ancora Henry, non era soddisfatto della risposta ricevuta, il suo padrino annuì e gli disse che era proprio così.
“Posso prenderti in braccio, ti va?” gli chiese Madison, poi si voltò verso la madre domandole il permesso. “Certo che puoi” rispose JJ sorridente.
Il bimbo si spostò nella braccia della dottoressa che gli accarezzò i capelli biondi. “Sei troppo carino!” gli sussurrò dandogli un bacio sulla guancia. “Oggi sta facendo un sacco di capricci però” affermò JJ tornando seria.
“Vuole andare a tutti i costi sulla giostra. Io lo porto sempre, ma oggi mi sono svegliata con la schiena a pezzi e quando gli ho detto che lo avrei portato un’altra volta mi ha messo il broncio” spiegò la bionda.
“Lo porto io” si propose Madison con piacere, JJ accettò la proposta più che volentieri, così suo figlio avrebbe smesso di fare capricci.
I due si avviarono verso la giostra di corsa lasciando Spencer e JJ seduti ad una panchina ad aspettare. “Sono molto contenta, Spencer, davvero. È una bella notizia” disse al collega con tono sincero, era sicura che anche il resto della squadra avrebbe reagito con altrettanto entusiasmo alla notizia.
Spencer sorrise a JJ, non sapeva cosa dirle, in effetti non avrebbe saputo nemmeno descrivere come si sentisse; “Raccontami un po’, ma quando è successo?” domandò curiosa JJ, sapeva che Spencer fosse una persona poco propensa a raccontare della propria vita privata, soprattutto se si trattava delle sue relazioni, ma non poté resistere, doveva sapere come si fossero svolti gli eventi.
Il dottor Reid scese a patti con il suo imbarazzo e le raccontò cosa fosse successo, parlandole anche della famiglia di Madison. “Mi sono sentito davvero in famiglia, nonostante li avessi conosciuti praticamente quella mattina, cioè ieri” disse divertito ripensando agli ultimi due giorni, non gli sembrava ancora vero.
L’agente Jereau gli spettinò i capelli affettuosamente e gli raccontò delle sue ferie, stavano chiacchierando del Natale appena passato, quando Madison e Henry furono di ritorno dalla giostra. “Vuole comprare lo zucchero filato, io gli ho detto di no perché è praticamente ora di pranzo” informò Madison a Jennifer che confermò le parole della giovane. “Henry, papà ci aspetta per il pranzo, infatti mi sa che è il caso di tornare a casa, dovrebbe essere già pronto” disse guardando l’orologio, invitò la coppia ad unirsi a loro per il pranzo, ma Spencer rifiutò cortesemente l’invito dicendo a JJ che avevano altri progetti, Madison lo guardò stranita. “Quali progetti?” gli chiese infatti.
“Ora vedrai” la rassicurò Spencer, a quel punto JJ riprese Henry in braccio e li salutò dicendo a Spencer che si sarebbero visti il lunedì.
“Allora quali progetti?” chiese di nuovo Madison impaziente mentre tirava il suo fidanzato per la manica della giacca.
“Ti ricordi quando mi hai detto che volevi qualcuno che ti facesse da Cicerone per la città? Bene, hai trovato il tuo Cicerone” annunciò con fervore, non vedeva l’ora di farle visitare i suoi posti preferiti a Washington.
Madison scoppiò a ridere. “Spence, ti ho detto questa cosa tre mesi fa, ormai Washington l’ho vista”
Spencer si avvicinò a lei e le mise un braccio attorno alle spalle. “Hai girato Washington in bicicletta con una guida turistica in un giorno?”
La rossa scosse la testa, si preannunciava una giornata interessante. “Bene, allora andiamo, abbiamo meno di 627 minuti prima di mezzanotte” affermò lui guardando l’orologio. Madison lo guardò divertita, in quel momento ricevette un messaggio . “Veramente dovrei essere in ospedale entro le 10 di sera, ho il turno di notte oggi”gli comunicò dopo averlo letto. “Allora abbiamo 507 minuti, anzi 505, a disposizione”affermò, a quel punto la prese per mano e la trascinò all’ingresso del parco dove avrebbero potuto noleggiare le biciclette.
 
“Sei pronta?” le chiese una volta salito sulla bicicletta, si voltò verso Thompson che annuì e partirono alla volta di Washington. Si avventurano per le strade della capitale, Madison seguiva Spencer che le dava indicazioni: la loro gita sarebbe iniziata dalla Union Station, la bellissima stazione in stile neoclassico di Washington D.C.
“E’ stata inaugurata nel 1908, precisamente il 27 ottobre,e progettata per divenire l’accesso principale alla capitale. Ad incaricarsi del progetto è stato l’architetto Daniel Burnham, che si ispirò a diverse fonti classiche, tra cui l’Arco di Costantino e la Basilica di Massenzio” spiegò alla sua fidanzata mentre passavano davanti alla celebre stazione.
“Quello invece è il Monumento di Cristoforo Colombo e, come puoi vedere tu stessa, in lontananza possiamo ammirare il Capitol, sede ufficiale del Congresso, anch’esso progettato in perfetto stile neoclassico da William Thornton” proseguì nella spiegazione. “Il Campidoglio è il punto focale che divide in quadranti il territorio della città”
Continuarono il loro itinerario passando davanti alla Corte Suprema e alla Biblioteca del Congresso, su cui Reid sciorinò altre curiosità storiche, che convinsero Madison di essersi fidanzata con la versione umana di Wikipedia fusa con Google.
“Fermiamoci qui” le disse scendendo dalla bici che parcheggiò davanti alla National Gallery of Art, Madison parcheggiò la sua bici e lo raggiunse all’ingresso del museo. In quel momento si ricordò dei biglietti che le erano state regalati da Jane e Derek per il compleanno e rimpianse di non averli con sé.
“E’ un peccato, vero?” disse a Spencer mentre entravano, in quel momento Reid ebbe un’illuminazione, forse sarebbero riusciti a recuperarli lo stesso. Si avvicinò alla biglietteria e spiegò la situazione all’addetta che si rivelò molto disponibile; infatti i biglietti erano nominali quindi bastò inserire il nome dell’intestatario per poterli recuperare.
Nel giro di pochi minuti, Spencer ritornò con i biglietti ed entrarono nel museo. “Lo sapevi che questo museo è fra i più i vasti e importanti del mondo? Con le sue opere copre quasi settecento anni di storia dell’arte, comprendendo sia capolavori dell’arte europea che americana” spiegò Reid mentre si addentravano fra le diverse collezioni della National Gallery.
La prima sala che visitarono fu quella dedicata all’Impressionismo, il movimento artistico prediletto da Madison. “Questo è uno dei miei dipinti preferiti” affermò lei di fronte a “Le Pont-Neuf” di Renoir, uno degli artisti che più adorava fra gli Impressionisti. Spencer si lanciò in una descrizione dell’opera, ma fu subito interrotto da Madison che lo sorprese facendole una lettura dell’0pera con i fiocchi.
“Sai, il quadro non è pienamente impressionista, tuttavia la sua mano anche ad un primo sguardo è riconoscibile, infatti le figure sono state delineate con poche pennellate piuttosto rapide, mentre i volti delle persone e i loro abiti sono pure macchie di colore e luce. La tecnica utilizzata è quella del ‘colore locale’, per cui il colore viene steso a macchie, per l’appunto”
Proseguirono la loro visita durante  la quale poterono ammirare alcuni dei più bei capolavori della scuola italiana, tra cui ‘La Madonna col bambino’ di Giotto e la ‘Adorazione dei magi’ di Botticelli.
Si fermarono nel bar del museo per fare uno spuntino e riposarsi un attimo per poi riprendere la loro visita ritornando alla sala dedicata agli Impressionisti su richiesta di Madison che voleva rivedere ‘Le Pont-Neuf’ e ‘La Passeggiata’ di Monet.
Uscirono dal museo e con le bici percorsero il viale del National Mall giungendo al Washington Monument, l’alto obelisco bianco che sorge al centro del Mall. “E’ peccato non poterci salire, è il punto massimo di elevazione sulla città, c’è un panorama stupendo da lassù”si rammaricò Spencer, infatti dopo il terremoto del 2011, che colpì lo Stato della Virginia, l’attrazione era stata chiusa.
Continuarono la loro passeggiata visitando due bellissimi memorial: uno era dedicato alla Seconda Guerra Mondiale mentre l’altro alle vittime cadute nel Vietnam, ma il monumento più celebre, come sottolineò lo stesso Reid, era il Lincoln Memorial. Non visitarono il sottostante museo dato Madison l’aveva già visto, ma si soffermarono sulla storica vista sulla piscina, il luogo dove Martin Luther King fece il suo storico discorso ‘I have a dream’.
“Ci pensi che qui in piedi poco più di 50 anni fa c’era Martin Luther King?” disse Madison a Spencer con la voce emozionata, al solo pensarci rabbrividì, le sembrava di fare un tuffo nel passato.
Lasciarono il Lincoln Memorial, attraversando il Korean War Veteran Memorial, e fecero una sosta sul Tidal Basin, da cui era possibile ammirare il Jefferson Memorial, il tempio costruito in prossimità di un laghetto artificiale.
A quel punto, proseguirono fino alla Stazione di Metropolitana Smithsonian, dove si concluse la loro gita; parcheggiarono per l’ultima volta le biciclette e si fermarono a cenare in uno dei tanti locali prima che Madison si avviasse verso l’ospedale.
“E’ stato davvero bellissimo” ammise Madison che, nonostante la stanchezza, avrebbe voluto continuare a camminare per tutta Washington assieme a lui. “Lieto che ti sia piaciuto” rispose lui dandole un bacio sulle labbra.
“Ci vediamo domani pomeriggio?” gli domandò prima di andare a prendere la metro, Spencer aggrottò la fronte. “Perché domani pomeriggio?”
Madison gli spiegò che smontava alle sette del mattino e che sicuramente si sarebbe messa a dormire appena arrivata a casa dato che le notti in Pronto Soccorso raramente erano calme e quindi si prospettava per lei una notte in bianco.
Spencer fece spallucce. “Quando torni sali a dormire da me. Le chiavi sai dove sono” le propose come se fosse qualcosa di ovvio, Madison accettò volentieri la proposta e gli promise che avrebbe fatto piano per non svegliarlo.
Infine, accortasi che era in ritardassimo, lo salutò di nuovo, baciandolo un’altra volta, e si avviò per scale di corsa della fermata della metro lasciando Spencer che salì di nuovo sulla bici guidandola con una mano mentre con l’altra reggeva la bici che aveva usato Maddie e ritornò indietro al parco, prendendo qualche scorciatoia per fare presto.
 
Verso le sette e mezza del mattino, Madison mise finalmente piede nel suo palazzo dopo una notte stressantissima in Pronto Soccorso: c’erano stati due grandi incidenti automobilistici quella notte che si erano sommati al solito via vai di persone che caratterizzava normalmente il PS. Era talmente stanca che non riusciva nemmeno a fare un passo, perciò prese l’ascensore e salì al secondo piano, voleva farsi una doccia prima di salire da Spencer.
Finita la doccia che le rubò a malapena dieci minuti, indossò una vecchia t-shirt e un pantalone di tuta e salì a casa del dottor Reid; cercò la chiave di riserva nel solito vaso ed entrò nell’appartamento.
Si diresse in punta di piedi verso la camera da letto di Spencer, salì sul letto e s’infilò sotto le coperte cercando di non svegliare il suo fidanzato, che dormiva profondamente, o almeno così credeva; lo abbracciò, appoggiò la testa sul cuscino e si addormentò nel giro di un secondo. Spencer, che in realtà l’aveva sentita entrare, si girò verso di lei e le diede un bacio sulla guancia per augurarle la buonanotte, inconsapevole di aver compiuto un gesto che avrebbe fatto tante altre volte nella sua vita da quel momento.



Due comunicazioni di servizio! 
1) L'itinerario di Maddie e Spence è reale, dunque se voi foste a Washington potreste farlo anche voi :) non credo sia possibile farlo in bici, a piedi è più indicato. A me però piaceva l'idea che andassero insieme in bici e non ho saputo resistere. Vere sono anche tutte le delucidazioni storiche di Spencer e la lettura dell'opera di Madison :D
2)Dal prossimo capitolo si ritorna seri, con questo intendo: nuove indagini per i nostri profiler. Non disperate, non faccio sparire Maddie XD
Infine, mi sono resa conto che per tutto questo tempo non avevate idea di come fosse Madison, ad eccezion fatta per la breve descrizione che io vi ho scritto, perciò vi posto un link dove potrete trovare la foto del soggetto a cui s'ispira esteticamente il personaggio di Madison :D 
http://i42.tinypic.com/34pcmye.jpg Detto questo, vi lascio e al prossimo capitolooo!

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Capitolo 16
*** La tempesta perfetta. ***


“La tempesta perfetta”

 
 
Madison affettava una zucchina sul tavolo della cucina mentre in salotto risuonava la voce monocorde di uno dei tanti reporter del notiziario delle 18,30. Aveva acceso la televisione per compagnia, si sentiva un po’ sola; infatti, quella settimana aveva visto Spencer in pratica due volte per un totale di tre ore scarse, sapeva che doveva iniziare a farci abitudine giacché il lavoro svolto dal suo fidanzato presso l’unità di analisi comportale di Quantico non sarebbe diventato meno impegnativo solo perché lei lo desiderasse, tuttavia nonostante tale consapevolezza continuava a domandarsi se i serial killer si sarebbero mai presi una pausa. “In ferie voi non ci andate mai?” si trovò a chiedere a voce alta a un immaginario killer puntando il coltello in aria.
In quel momento la sigla del meteo attirò la sua attenzione e tornò in salotto. “In tarda serata sulla città di Washington e zone limitrofe sono previsti forti temporali. I meteorologi stimano che la tempesta, che fra poche ore colpirà la città, sarà tra le più devastanti degli ultimi cinquanta anni” sciorinava il reporter mentre illustrava diversi grafici a conferma della notizia appena diffusa.
“Bene, la tempesta del secolo si sta per abbattere su Washington e io sono da sola a casa” si lamentò Thompson terrorizzata, infatti, la sua paura dei temporali non faceva che peggiorare più andava avanti nel tempo.
Prese il cellulare e scrisse un lungo messaggio a Spencer chiedendogli se quella sera avrebbe avuto il piacere di vederlo; il messaggio recitava così: ‘A.A.A cercasi fidanzato perduto di nome Spencer Reid. L’ultima volta che è stato avvisato risale a martedì 21 gennaio nel suo appartamento. Prima di uscire promise alla sua fidanzata che sarebbe tornato il prima possibile, da allora la suddetta fidanzata lo avrebbero visto due volte per un totale approssimativamente di 169 minuti (sì, ho fatto il conto!). Sappiamo che è vivo grazie ai messaggi mandati e fugaci telefonate effettuate, ma il dubbio sul suo ritorno permane.
Spence, tornerai oggi oppure devo stampare una tua fotografia a dimensione naturale per fare finta che ci sei?’
Premette il tasto ‘invio’ e rimase in attesa di una risposta, che sperava vivamente fosse positiva.
 
Nel frattempo che Madison rimpiangeva l’assenza del suo fidanzato, il dottor Reid, che in quel momento si trovava assieme alla squadra della BAU nel Iowa, era sdraiato su uno dei divani del dipartimento e con gli occhi chiusi cercava di fare mente locale sul caso che stavano seguendo; sentiva che era vicino alla conclusione, tuttavia un dettaglio gli sfuggiva e non riusciva a capire quale fosse. Il suo cellulare vibrò deconcentrandolo, pensò di leggere il messaggio ricevuto più tardi ma sapeva che era sicuramente della sua fidanzata e non riuscì a trattenersi dalla curiosità.
Non appena lesse il messaggio, scoppiò a ridere, pensando che Maddie non mancava di fantasia oltre che d’ironia. Stava scrivendo una risposta in cui accennava alla possibilità di non riuscire a rientrare nemmeno quella sera quando ebbe un’illuminazione; aveva finalmente trovato la connessione che li avrebbe condotti alla chiusura delle indagini. ‘Torno stanotte, promesso. Non stampare nulla’: le scrisse come risposta e raggiunse il resto della squadra nell’altra sala per comunicare quanto scoperto.
L’intuizione di Reid si mostrò subito valida e la squadra riuscì finalmente a portare a termine il caso con grande sollievo da parte di tutti che non vedevano l’ora di tornare a casa dopo quella settimana di fuoco che non aveva lasciato a nessuno nemmeno un attimo di respiro.
“Non so se riusciremo a rientrare questa sera. Sono previsti forti temporali nella zona di Washington per cui ci saranno diversi problemi di visibilità” accennò l’agente Hotchner al resto della squadra; aveva parlato con il pilota del loro jet privato che aveva proposto di partire l’indomani mattina se erano tutti favorevoli.
“Ma io ho promesso a Maddie che sarei tornato stanotte” protestò Spencer con tono un po’ infantile, facendo sorridere il resto della squadra che si stava abituando lentamente alla trasformazione del dottor Reid. Infatti da quando era tornato dalle ferie, ma soprattutto da quando si era fidanzato con Madison, il suo atteggiamento era completamente diverso: era più sorridente, più vivace, un po’ più spigliato e sicuro di sé; era decisamente migliorato, come avevano sottolineato i suoi colleghi, che avevano accolto la notizia con grande piacere, in particolar modo Morgan che era consapevole di quanto Madison tenesse a Spencer, perciò fu certo che fra i due sarebbe nata una bellissima storia d’amore.
“Beh, se lo hai promesso a Maddie, sono sicuro che Harry partirà senza alcun dubbio” lo scherzò Derek dandogli una pacca sulla spalla, il dottor Reid si voltò verso di lui e gli lanciò un’occhiataccia.
“Sinceramente non dispiacerebbe nemmeno a me tornare. Vorrei vedere Henry..” disse a sua volta JJ, anche Blake si unì alla richiesta dei due sostenendo di non poterne più di dormire in alberghi.
Hotchner che, dal canto suo desiderava ritornare a casa almeno quanto i suoi colleghi, promise di fare il possibile per convincere il pilota a partire quella sera e andò a parlare con quest’ultimo.
Dopo circa un quarto d’ora, Hotch fu di ritorno nella hall dell’albergo dove il resto della squadra era rimasto in attesa. “Siamo in partenza” annunciò sorridente ai suoi colleghi che si alzarono immediatamente dai divani; ognuno recuperò il proprio bagaglio e in meno di mezz’ora il jet fu in volo verso Quantico.
Una volta sistemato sul jet, Spencer scrisse un altro messaggio a Thompson:  ‘Sono appena partito. Fra massimo tre ore sarò a casa’ , che fece molto piacere a Madison che non vedeva l’ora di rivederlo.
 
Come aveva previsto il pilota, l’arrivo nello Stato di Virginia non fu dei più accoglienti; la tempesta, battezzata dai meteorologi con il nome di Florence, era in pieno regime e fu necessaria tutta l’abilità ed esperienza dei due piloti, oltre che una buona dose di fortuna, per riuscire ad atterrare.
Arrivarono a Quantico con un’ora di ritardo non a caso e, appena scesero dal jet, la pioggia a dirotto li inzuppò fino alle ossa nonostante avessero percorso la breve distanza che separava la pista di atterraggio dagli uffici del bureau di corsa.
Morgan si offrì di dare un passaggio a Spencer per tornare a casa dato che era diretto verso l’appartamento di Paget e sarebbe dovuto passare davanti al palazzo del dottor Reid, che accettò senza indugi.
Si cambiarono velocemente negli spogliatoi per togliersi i vestiti bagnati e infine si avviarono verso casa. “Tra me e Paget la situazione sta decisamente peggiorando” affermò Derek di colpo mentre erano in viaggio. Spencer si voltò verso di lui sorpreso, era strano che il suo collega si confessasse così repentinamente.
“Come mai?” gli domandò, Derek scosse la testa dicendo che non ne aveva idea. “Pensavo che portandola a casa mia si sarebbe calmata, ma la verità è che non è mai contenta. Si lamenta sempre” spiegò concitato l’agente di colore lanciandosi in un monologo per sfogarsi. “Io non capisco. E’ vero, il nostro lavoro è impegnativo: spesso siamo fuori casa e a volte anche se sono a casa sono impegnato a compilare qualche rapporto, ma cosa dovrei fare? Licenziarmi?”
“L’altro giorno mi ha scritto che si era scocciata e che forse era meglio prendersi una pausa. Io non vorrei, però forse è meglio così, tu che ne pensi? ” concluse Derek domandando un parere al dottor Reid che aveva ascoltato l’amico senza fiatare e che non poté non stupirsi del fatto che Derek Morgan stesse chiedendo un parere a lui in fatto di donne.
“Sei sicuro che vuoi sapere cosa ne penso?” gli chiese infatti, gli sembrava troppo strano, Derek annuì.
“Fra noi due direi che quello che ha una relazione perfetta sei tu quindi sì, voglio sapere cosa ne pensi” disse l’uomo.
Spencer rise. “Madison ed io non abbiamo affatto una relazione perfetta. Anche a noi capita di discutere e a volte anche lei si lamenta del fatto che sono sempre in viaggio. Tuttavia, alla fine, riusciamo a trovare sempre un punto d’accordo e cerchiamo di sfruttare al massimo il tempo che passiamo insieme” tentò di spiegare Spencer con tono serio.
Derek gli lanciò un’occhiatina maliziosa. “Chissà come lo sfruttate il vostro tempo”
Spencer, contrariamente a quanto avrebbe fatto meno di un mese fa, non s’imbarazzò della frecciatina ricevuta e rispose per le rime. “Forse è proprio per quello che non litighiamo per ogni cosa, magari se voi..”
“Alt, ragazzino!” lo bloccò Derek prima che potesse concludere la frase. “Non sono pronto psicologicamente a parlare di certe cose con te”
I due si scambiarono un’occhiata divertita. “Comunque credo che sia la decisione giusta, quella di prendersi una pausa, intendo. Magari riuscirete a schiarirvi le idee e capirete cosa è meglio per voi” affermò Spencer tornando sull’argomento principale della conversazione. Derek rispose che anche lui pensava che fosse la cosa migliore da fare ed infine salutò Spencer che era arrivato a destinazione augurandogli di trascorrere una bella serata.
 
 
Spencer aprì il portone il più in fretta che riuscì e salì di corsa le scale diretto al secondo piano. Bussò alla porta della sua fidanzata e dopo nemmeno un minuto si trovò davanti Madison che cacciò un urlo e gli saltò addosso facendogli quasi perdere l’equilibrio. “Finalmente sei arrivato” esclamò elettrizzata mentre tentava ancora di aggrapparsi meglio al dottor Reid. 
“Come ti avevo promesso” le rispose dandole un bacio sulle labbra. Si stavano ancora baciando quando spuntò la figlia dark 16enne in piena fase di abnegazione verso il mondo di una delle inquiline che si lamentò non appena li vede. “Ma quanto amore! Non potete entrare in casa invece di stare qui a sbattere in faccia la vostra felicità alle persone?” commentò acida la ragazzina, Spencer si girò verso di lei intenzionato a risponderle male, ma Madison scoppiò a ridere dicendogli di lasciar perdere.
“Che brutta categoria i fidanzatini felici” commentò ancora la ragazza mentre apriva la porta del suo appartamento.
“Che brutta categoria gli adolescenti arrabbiati” ribadì Madison a voce alta, la ragazza fece una smorfia senza nemmeno girarsi ed entrò in casa.
“Io quando avevo la sua età non ero così”disse Spencer scioccato ancora dalla sfacciataggine della 16enne. “Chissà perché ma non ne avevo dubbi!” esclamò invece Madison dandogli un buffetto sulla guancia, a quel punto il suo fidanzato la mise giù e insieme entrarono in casa anche loro.
“Sto morendo di fame!” dichiarò Spencer non appena fu dentro, Madison gli disse prontamente che aveva già riscaldato la sua porzione di risotto con zucchine e gamberetti e di accomodarsi a tavola.
Mise davanti a lui il piatto che non aspettò nemmeno un secondo e cominciò a mangiare; nel frattempo la sua fidanzata riaccese lo stereo iniziando a cantare e ballare per tutta casa mentre rimetteva in ordine.
Spencer ogni tanto le gettava un’occhiata divertito, ormai era più che certo di essere fidanzato con una pazza, ma era la sua pazza e lui la adorava così come era.
Finì di cenare, lavò subito il piatto e le posate usate per evitare di farsi rimproverare da Madison e la raggiunse in salotto.
“Cenerentola, smettila di pulire” la scherzò lui cingendole la vita, lei si voltò e gli scoccò un bacio sulle labbra.
“Hai lavato i piatti?” domandò con tono accusatorio, Spencer annuì dicendole che era stato il suo primo pensiero.
“Bravo, impari in fretta” commentò lei soddisfatta. In quel momento un fulmine correlato da un rumoroso tuono illuminò il cielo di Washington, Madison scattò in avanti aggrappandosi al dottor Reid, che l’afferrò subito, stava tremando.
“Ecco perché eri così desiderosa che io tornassi a casa stanotte, non volevi dormire da sola!” la incalzò lui che non ancora non riusciva a capacitarsi della paura dei temporali che provava Madison.
“Non è vero” replicò lei. “Volevo soprattutto rivederti, poi se tornavi questa notte era ancora meglio” specificò mordendosi il labbro inferiore.
Spencer scosse la testa. “Sai, Maddie, il tuono è provocato dall’enorme spostamento d’aria causato dal fulmine nell’atmosfera a seguito dell’improvvisa espansione termica del plasma nel canale ionizzato. Non c’è proprio niente di cui avere paura”  provò a spiegarle, ma la dottoressa Thompson non ne voleva sapere.
“Sì, lo so. Ho studiato fisica anche io, ma mi fa paura, ok? E’ come per i palloncini. So che non c’è nulla di pauroso nei palloncini, ma mi fanno paura” ribadì lei sedendosi sulle gambe di Spencer che nel frattempo si era accomodato nella poltrona.
“Ti fanno paura i palloncini?” domandò lui divertito dalla confessione di Madison che annuì aggiungendo che quasi non riusciva nemmeno a prenderli in mano.
Spencer scoppiò a ridere. “Ma quanto sei pillola”
“Pillola? Piccola semmai!” lo prese in giro mentre lui si giustificava dicendo si era confuso per la stanchezza.
“Però mi piace ‘pillola’, d’ora in poi sarò la tua pillola” affermò lei decisa ridendo per il buffo soprannome, anche Spencer rise.
“Pillola, che ne dici se andiamo a dormire?” le propose Spence che stava morendo di sonno, Madison annuì sostenendo di aver sonno anche lei.
Fecero a gara per chi entrava per primo in bagno e, come accadeva ogni volta, a spuntarla fu Madison.
Un quarto d’ora dopo, Spencer s’infilò sotto le coperte e guardò Madison che era seduta sul letto con lo sguardo fisso sulla finestra. “Hai intenzione di rimanere in quella posizione tutta la notte?”
“Secondo te ci saranno altri tuoni, fulmini e compagnia bella?” chiese invece lei ignorando la sua domanda.
Spencer si sedette sul letto, era chiaro che la sua fidanzata non aveva intenzione di mettersi a dormire. “E’ probabile che ce ne siano, però avverranno fuori e noi siamo dentro …” la rassicurò Spencer sperando che bastasse per convincerla a mettersi a dormire. “E poi tu hai me” aggiunse dandole un bacio sulla fronte, a quel punto Maddie si convinse e s’infilò sotto le coperte.
Dopodiché il dottor Reid si stiracchiò per spegnere la lampada del comodino, si accomodò e venne prontamente abbracciato da Madison, che nonostante tutte le rassicurazioni del giovane continuava ad avere paura.
“Buonanotte, pillola” le sussurrò dopo averle dato il bacio della buonanotte e si addormentarono.
 
Qualche ora più tardi mentre Florence continuava a imperversare sulla città, qualcuno per le strade deserte della capitale implorava aiuto.
“C’è nessuno? Vi prego, aiutatemi!” implorò più volte mentre correva. Sapeva che era vicino, percepiva la sua presenza. Non aveva tempo, doveva mettersi al riparo.
Provò a correre più veloce, ma ormai il suo corpo stremato non riusciva a sostenere lo sforzo. Sentì le forze venire meno, scivolò cadendo sull’asfalto. Provò ad alzarsi, i suoi muscoli sembravano non rispondere.
Guardò i suoi piedi scalzi insanguinati e il vestito strappato. Si toccò la nuca, le aveva rasato i lunghi capelli color miele.
Non restava nulla di lei.
Sapeva che la fine era ormai arrivata. I suoi piedi non sarebbero guariti, i capelli non sarebbero ricresciuti.
Udì qualche passo alle sue spalle e le sue narici furono penetrate da quel forte odore di naftalina e vodka che aveva contraddistinto i suoi ultimi giorni.
L’ultimo odore che avrebbe sentito, gli ultimi rumori che avrebbe udito, dopodiché sarebbe scesa la notte eterna che trascinava con sé dolore e desolazione. Sarebbe stata vendicata?
Una consapevolezza s’insinuò nella sua mente, un ultimo baluardo di lucidità. Il suo ultimo pensiero. “Mai più sole per te, Carol”
Infine, il suo pugnale si accanì squartando la debole carne mentre una scia di sangue colorava le strade di Washington.
 
 
Il cellulare dell’agente Hotchner squillò quando ancora il sole non era sorto sulla città. Fissò l’orologio sul comodino, segnalava le 5,25.
“Agente Hotchner” rispose assumendo il suo solito tono professionale. Una voce pacata e spenta lo informò dell’omicidio avvenuto nelle ore precedenti.
“L’omicidio è uguale a quello avvenuto circa una settimana fa” illustrò l’agente  a capo della squadra omicidi del 3° dipartimento di polizia di Washington. “Le ho inviato tutta la documentazione via fax”
Hotchner sentì il rumore del suo telefono segnalante l’arrivo di un nuovo documento. “Saremo sulla scena il prima possibile”lo  informò Aaron, dopodiché chiuse la telefonata e rintracciò Penelope Garcia. Bisognava contattare il resto della squadra.
 
“Mi prendi in giro? Sono le 5,40!” esclamò Madison dopo che il suo fidanzato la svegliò per informarla che doveva recarsi negli uffici del bureau. La squadra aveva appena assunto un nuovo caso.
Spencer fece spallucce, per lui era routine. “Ci sono i tuoi vestiti nell’armadio. Sono puliti” gli riferì rassegnata, aveva lavato i vestiti che Spencer aveva lasciato l’ultima volta che era stato lì.
“Sei proprio una brava fidanzata” le disse lui dandole un bacio sulla testa. “Dove vai questa volta?” domandò lei sedendosi sul letto mentre lui si vestiva. “Da nessuna parte, il caso è a Washington” rispose, dopodiché sparì in bagno per finire di prepararsi.
Ritornò in camera, prese distintivo e  cellulare. “Ci vediamo stasera, ok?” la rassicurò, Madison annuì e gli offrì una guancia su cui Spencer posò un bacio. “Te l’ho detto che sei bellissima?” le domandò mentre l’abbracciava.
“Me lo avrai detto più di cento volte in meno di un mese” lo scherzò lei, dopodiché rimase un attimo pensierosa.
“Fra poco fa un mese!” esclamò lei realizzando che era il 29 gennaio. “Già! Il primo febbraio” ricordò lui.
“Niente regali, ok? Io sono contraria ai mesiversari” lo rabbonì, non lo aveva mai festeggiato con nessuno.
“Ok, niente regali” memorizzò lui, a quel punto la salutò di nuovo dandole un altro bacio e partì alla volta di Quantico.
 
“Stavo facendo un sogno bellissimo. Sognavo la mia prima moglie che mi chiedeva scusa e mi restituiva il mio vecchio giradischi” raccontava l’agente David Rossi a JJ mentre entravano nell’open space.
 “Mi diceva: ‘Sono stata una stupida, David!’. Magari fosse accaduto davvero” aggiunse con tono divertito mentre JJ rideva. “Io invece non stavo sognando proprio nulla, ma non avevo molta voglia di svegliarmi lo stesso” accennò Derek con un tono brusco che non lasciò dubbi sul suo pessimo umore.
JJ e Rossi lo fissarono mentre l’agente di colore si recava nel proprio ufficio per sistemare le proprie cose. “E’ successo qualcosa?” domandò la bionda a Reid che nel frattempo era ritornato dalla cucina con una tazza di caffè in mano, il giovane alzò le spalle anche se immaginava cosa fosse successo.
Infine si avviarono verso la sala riunioni dove Penelope era pronta per riferire i dettagli del caso.
“Mary Sarandon, 26 anni, studentessa di Giurisprudenza della Georgetown University, prossima alla laurea e Caroline Lynn, 28 anni, biologa marina in cerca di un’occupazione, entrambe originarie di Washington” presentò Garcia le due vittime del caso appena assunto. “Sono state trovate entrambe sul ciglio di una strada nella stessa posizione”
“Le vittime sono coperte da un telo bianco, molto probabilmente il nostro S.I. prova rimorso dopo averle uccise” osservò Blake dopo aver dato un’occhiata alle fotografie. “Ha anche rasato loro la testa, sta cercando di depersonalizzarle? Forse vuole annullare la personalità” ipotizzò la donna.
“In effetti, i capelli sono da sempre considerati un simbolo di femminilità oltre di seduzione”confermò Reid facendo un cenno affermativo con il capo.
“Quando è stata trovata la prima vittima?” domandò Morgan. “Una settimana fa. Secondo il medico legale era morta quella notte stessa intorno alle tre del mattino” riferì Garcia.
“Lo stesso orario in cui è stimato l’ora della morte della seconda vittima” commentò Rossi che leggeva i rapporti del medico legale. “Mary Sarandon è stata uccisa con un unico colpo secco di pistola alla nuca, mentre Caroline Lynn è stata pugnalata a morte” lesse Reid. “Sta esperimentando nuovi modus operandi e si sta evolvendo in modo piuttosto veloce, forse sta acquisendo più fiducia in se stesso” suppose il giovane.
“Oppure sta diventando sempre più rabbioso. È evidente che le vittime siano il sostituto di qualcuno, magari si tratta di una precedente fidanzata” suggerì Derek.
“Il fidanzato di Caroline aveva denunciato la scomparsa della donna il giorno del ritrovamento del corpo di Mary Sarandon, dunque è molto probabile che il nostro S.I. abbia già per le mani una nuova vittima”affermò l’agente Hotchner con il suo solito tono serio. “Dobbiamo muoverci in fretta”
“Reid, Morgan voi andate dal medico legale, JJ contatta i famigliari delle vittime, Blake e Rossi andranno sulla scena del crimine” divise i propri colleghi Hotch, che si misero prontamente all’opera.
 
 
 
Durante il tragitto in macchina verso il medico legale, Derek e Reid non si dissero molto. Spencer non aveva bisogno di domandargli nulla per capire cosa fosse successo, tuttavia ad un certo punto Derek, mosso da un impeto che non seppe trattenere, si sfogò ancora una volta. “E’ finita. Abbiamo discusso per più di due ore, sembra che in questi mesi io non abbia fatto altro che complicarle la vita. Ti rendi conto? Io avrei complicato la vita a lei!” esclamò stizzito, non riusciva ancora a crederci.
Spencer lo fissò per qualche secondo aspettando che si calmasse prima di parlare. “Magari è stato solo il momento, era arrabbiata e avrà detto cose che non pensava” provò a giustificarla Reid. Aveva avuto modo di conoscere meglio Paget in quel mese grazie a Madison, che le era molto affezionata, ed era convinto che, nonostante il suo essere troppo impulsiva e spesso incontentabile, non fosse affatto una cattiva persona.
“E’ solo una capricciosa egoista” replicò Derek, che era rimasto molto scottato dalla chiusura di quella fugace relazione. Era da tempo che non aveva una relazione fissa, non aveva trovato nessuno di sufficientemente interessante al punto da riuscirlo a coinvolgerlo pienamente; Paget con il modo di essere sbarazzino e provocante lo aveva completamente travolto, però qualcosa non aveva funzionato.
“Mi dispiace che sia andata a finire così. Forse dopotutto non era quella giusta” aggiunse l’agente di colore rassegnato, Spencer lo guardò stupito. “Stai cercando quella giusta? E da quando?” lo stuzzicò, pensava che il suo amico avesse intenzione di continuare a fare il Casanova per almeno altri dieci anni.
“Reid, non hai bisogno di qualcuno accanto soltanto tu” ribadì leggermente offeso. “E’ piacevole tornare a casa e sapere che c’è qualcuno che ti sta aspettando” continuò. In quel momento si rese conto che più che Paget quello che gli sarebbe più mancato di quella relazione era l’idea di quello che Paget rappresentava.  
“E che ti lava i vestiti” completò la frase Reid sorridente. “Madison ti ha lavato i vestiti?” domandò Derek incredulo, gli sembrava strano pensare a Madison come ad una brava casalinga.
Spencer annuì entusiasta e allungò il braccio verso il collega perché odorasse la manica del cardigan. “Ci ha messo anche l’ammorbidente profumato!”
Derek scosse la testa. “Beh, sarà una brava mogliettina allora” commentò divertito, a quel punto scesero dalla macchina. Erano appena arrivati dal medico legale.
 
“Buongiorno, sono l’agente speciale Morgan e lui è il dottor Reid” presentò Derek entrambi non appena fecero ingresso nell’obitorio.
L’uomo strinse la mano offertagli da Derek e si adeguò al consueto saluto con la mano di Spencer. “Ho determinato l’ora del decesso con più accuratezza, Caroline Lynn è morta alle due e quarantacinque circa”
“L’orario combacia con quello del primo decesso. La vittima è stata pugnalata 23 volte, ma solo due di queste 23 sono state mortali” spiegò il medico legale mostrando le pugnalate a cui faceva riferimento.
“E’ probabile che sia stato un caso oppure l’S.I. sapeva che solo quelle due pugnalate potevano essere mortali?” chiese Reid per conferma, era convinto che il killer sapesse perfettamente quali pugnalate avrebbero causato la morte alla vittima. Conferma che non tardò ad arrivare: “A mio parere, il vostro killer sapeva che solo queste due avrebbero causato la morte alla povera Caroline”
“Dunque il nostro uomo ha una formazione medica?” domandò Derek, l’uomo annuì sostenendo che era un’ipotesi del tutto probabile.
“Ho trovato qualcos’altro di piuttosto curioso. Guardate qui” disse ai due agenti voltando la vittima sulla cui schiena era stata tatuata una frase: ‘bianca come il latte, rossa come il sangue’.
“Anche sulla prima vittima ho rinvenuto la stessa frase e nello stesso punto, tuttavia non ci avevo fatto caso. Mary Sarandon aveva diversi tatuaggi per cui non pensai che fosse stato il suo assassino a tatuarla” accennò l’uomo mostrando il corpo della prima vittima.
“Il nostro S.I. potrebbe essere un tatuatore quindi” affermò Derek pensieroso. “Oh, no! Io non credo” obiettò il medico legale. “Vede, ho confrontato l’inchiostro usato dal vostro assassino con quello dei tatuaggi della Sarandon”espose l’uomo. “Ho riscontrato diverse irregolarità nell’inchiostro utilizzato. È piuttosto grezzo, di sicuro non può essere usato da un professionista” concluse mostrando due campioni per rendere più chiara la sua ipotesi.
“Bene, la ringrazio” lo salutò Derek prima di uscire seguito da Spencer che fece altrettanto.
Infine, dopo aver aggiornato l’agente Hotchner di quanto appena appreso, si avviarono verso la sede del F.B.I. di Quantico.
 
Nel frattempo la dottoressa Thompson si preparava per recarsi al lavoro, quella mattina l’aspettavano cinque ore di ambulatorio.
Aveva acceso la televisione mentre faceva colazione, ancora una volta aveva beccato la trasmissione del telegiornale.
“Questa mattina alle prime luci dell’alba è stato rinvenuto un secondo corpo..” esponeva la giornalista intanto che le fotografie delle vittime venivano mostrate.
“Il caso di Spence” pensò la rossa mentre ascoltava la notizia. “In mattinata la squadra dell’unità di analisi comportale del F.B.I. rilascerà una dichiarazione sul presunto killer, ora vediamo le altre notizie.. ”sciorinò la donna passando ad un’altra notizia riguardante una manifestazione nazionale a favore dei diritti dei cittadini omosessuali.
Madison finì la colazione e scappò in ospedale, era in ritardo ancora una volta e il traffico di Washington non avrebbe certo agevolato la situazione; pensò, infatti, di prendere la metro ma il temporale, che non accennava a smettere, la scoraggiò perciò prese la sua auto e s’immise nel traffico sperando di non fare troppo tardi.
Arrivò in ospedale con quasi venti minuti di ritardo e fu subito richiamata dal responsabile dell’ambulatorio, Jonathan Finley. “Thompson, pessima giornata per arrivare in ritardo!” affermò l’uomo trascinandola dentro il consultorio.
“Stamattina l’ospedale è nel caos. Tre infermiere e due dottori si sono dati malati e il temporale di questa notte ha causato diversi incidenti per cui  il pronto soccorso è gremito, per non parlare della pazza che è arrivata stanotte” la aggiornò Finley.
“La pazza?” domandò Madison incuriosita. “Si, la tengono al reparto di Psichiatria. Credono sia malata di schizofrenia, non faceva che delirare mentre la visitavano. Ci sono voluti tre infermieri per riuscire a tenerla” le raccontò l’uomo.
“Com’è arrivata qui?” chiese la rossa decisa a voler scavare a fondo in quella curiosa storia.
L’uomo fece spallucce. “E’ arrivata da sola qui”, a quel punto la salutò dicendole che le avrebbe mandato il primo paziente e sparì.
Le visite si susseguirono una dopo l’altra senza darle un attimo di tregua. Verso le undici si concesse una piccola pausa, dopo aver chiesto ad una sua collega di prendere il suo posto in ambulatorio.
La curiosità di vedere la famosa pazza di cui parlavano tutti in PS era troppo alta per cui si recò al reparto di Psichiatria; “Russell, ciao!” salutò uno degli psichiatri che era fuori dal reparto, aveva appena finito di discutere con il famigliare di una paziente. “Ciao Madison” ricambiò l’uomo mentre passava il proprio cartellino perché le porte del reparto si aprissero.
“Fammi indovinare! Sei qui per vedere la nuova celebrità del nostro reparto” disse l’uomo con tono divertito, infatti, Madison non era la prima che si era recata al reparto di Psichiatria quella mattina.
“Beh, sinceramente la storia mi ha incuriosita. Siete riusciti ad identificarla?” indagò Madison, aveva un strano presentimento riguardo quella donna.
L’uomo scosse la testa. “No, purtroppo no. Dice di chiamarsi Patty, abbiamo contattato la polizia per sapere se era stata denunciata la scomparsa di qualche Patty, ma nulla” le riferì lo psichiatra.
“Posso vederla?” chiese il permesso la dottoressa, anche se non era una psichiatra, voleva provare a parlarle.
“Prego! È nella stanza 104” rispose l’uomo, dopodiché la salutò, doveva iniziare il suo giro di visite mattutino.
Madison aprì la porta della stanza che trovò immersa nel buio ed entrò lasciando la porta aperta perché filtrasse un po’ di luce. La donna era seduta sul letto, si dondolava avanti e indietro mentre cantava una ninna nanna, non sembrava essersi accorta della presenza della giovane.
Thompson prese una sedia e si sedette di fronte a lei. “Ciao! Io sono la dottoressa Thompson, tu come ti chiami?” le chiese con tono gentile, la donna alzò lo sguardo verso di lei. “Patty, Patty” ripeté più volte senza interrompere la propria cantilena. “Un bellissimo nome Patty” disse Madison per guadagnarsi la sua fiducia.
La donna allungò una mano verso i capelli di Madison e glieli sfiorò. “Rosso” farfugliò, poi si alzò in piedi.
“Si, ho i capelli rossi” ripeté Madison alzandosi in piedi anche lei. “Rosso, rosso …” continuava a farfugliare, poi s’interruppe e rimase a fissare il muro, a quel punto Thompson accese le luci. “Bianco” disse con la voce ferma.
“Bianca come il latte, rossa come il sangue”disse ancora con chiarezza, sembrava avesse appena avuto un momento di lucidità.
Madison aggrottò la fronte. “Chi è bianca come il latte e rossa come il sangue?” le domandò andandole vicino.
“Lei” rispose allontanandosi dalla dottoressa. “Tante urla sentiva Patty” aggiunse spaventata, poi si rannicchiò per terra e iniziò a dondolarsi di nuovo. “Urlava sempre”
“Patty, chi urlava?” provò a domandarle, ma la donna entrò in uno stato di agitazione, cominciò ad urlare e battersi la testa, in quel momento entrarono due infermieri che sedarono la donna e Madison fu costretta ad uscire dalla stanza.
“Ok, questo è davvero strano” pensò mentre continuava ad osservare la donna che si dibatteva per liberarsi.
Dopodiché  uscì dal reparto di Psichiatria e chiamò subito Spencer. Era convinta che il suo fidanzato avrebbe trovato la storia interessante.
 
 
Spencer era nell’open space intento ad ascoltare quanto riferiva l’agente Rossi quando il suo cellulare squillò, lesse il nome che lampeggiava sul display e sorrise, era Maddie.
Rossi, che nel frattempo aveva ultimato il proprio racconto, gli disse che poteva rispondere e il giovane si allontanò facendo segno di scusarlo. “Maddie!” la salutò rispondendo alla telefonata.
“Amore, ho una storia stranissima da raccontarti” annunciò la dottoressa piuttosto eccitata. “Stanotte è arrivata in ospedale una donna, dice di chiamarsi Patty. È in uno stato confusionale, molto probabilmente soffre di schizofrenia” riferì, Spencer fece spallucce. “Vuoi che chieda a Penelope di cercarla?” le domandò, non capiva perché dovesse interessargli.
“Hanno già contattato le autorità e dicono che non sia stata denunciata la scomparsa di nessuna Patty” rispose. “Beh, in effetti, Patty come sola indicazione è un po’ poco” commentò Reid.
“Sì, ma non è questo il punto della situazione. Sono andata a parlarle prima e ha iniziato a fare un discorso strano sul fatto che sentiva sempre urla” parlò d’un fiato Madison, quella storia la metteva in agitazione.
“Pillola, se soffre di schizofrenia ed è scappata, è probabile che abbia allucinazioni oppure semplicemente ricorda l’esperienza in clinica. È frequente che i degenti urlino” ribadì Spencer.
“Sì, ok, ma poi si è fissata con il rosso dei miei capelli e ha detto una frase stranissima ‘rossa come il sangue, bianca come il latte’ ” insistette Madison, era sicura che avesse qualcosa di strano quella donna.
“Rossa come il sangue, bianca come il latte?”domandò Spencer, forse Madison aveva ragione ad insistere sul fatto che quella donna avesse qualcosa di strano, la sua fidanzata confermò la frase.
“E’ la stessa frase che è stata tatuata sulle vittime” le spiegò lui. “Vedi! Te l’avevo detto che c’era qualcosa di strano” affermò con evidente soddisfazione, adorava avere ragione. “Forse è una vittima, magari è scappata..” ipotizzò Spencer parlando più con se stesso che con la sua fidanzata.
“Non credo sia una vittima. La vittimologia non corrisponde” replicò lei, aveva visto le fotografie delle vittime ed era certa che Patty, se era questo il suo vero nome, non avesse nulla a che fare con loro.
“La vittimologia non corrisponde? Ma tu che sai?” domandò lui divertito. “Ho visto le fotografie, le vittime hanno un’altezza media intorno ai 170 cm, occhi chiari e capelli biondi” chiarì lei.
“Patty è alta circa 162 cm e ha gli occhi e i capelli scuri. Senza contare l’età, è molto più grande delle vittime” concluse sperando di risultare convincente.
Spencer annuì. “Beh, in tal caso potresti avere ragione, ma qualche connessione dovrà averla con l’S.I.”sottolineò lui. “Il profiler sei tu, che ne so io! Ora scusami, Spence, ma devo scappare. Fammi sapere se vieni qui” lo salutò frettolosamente e riattaccò.
Spencer rimase in ascolto mentre dall’altro capo del telefono risuonava un ‘tuu, tuu, tuu’, non gli aveva dato nemmeno il tempo di salutarla, come al suo solito, tuttavia, nonostante la cosa lo irritasse un po’, non la rimproverava mai. Nessuno è perfetto, d’altronde.
Ritornò dagli altri e riferì quanto gli aveva raccontato Madison dopo aver richiamato anche Hotch. “Dovremmo provare a parlare con questa Patty. Blake, Reid andate all’ospedale”
“Garcia, tu prova a cercarla, magari siamo più fortunati” ordinò all’analista informatica che annuì dicendo che avrebbe portato a termine il compito vittoriosamente. “Mi chiamano il mago del computer non a caso” aggiunse e si ritirò nel suo santuario.
“Bene, Reid, andiamo a fare un giro all’ospedale allora” commentò Blake facendogli l’occhiolino. “Mi raccomando, chiama la fidanzatina così le dici cosa hai mangiato finora di persona” lo prese in giro Derek.
“Madison ed io non ci diciamo cosa abbiamo mangiato” replicò Spencer leggermente imbarazzato. Tutti i presenti lo fissarono sollevando un sopracciglio che fece avvampare Reid. “Ci raccontiamo solo quello che abbiamo mangiato a pranzo” confessò. “Ora, per favore, potremmo andare?” implorò Blake che trattenne una risata.
La donna annuì e si avviarono verso l’uscita mentre Derek lanciava finti baci in aria fra le risate di JJ e Rossi.
 
“Quando ce la presenterai?” domandò Blake a Reid non appena questi si rilassò. Il giovane si voltò verso di lei stranito. “Ma voi la conoscete già!” replicò. “Intendevo ufficialmente! Sai, come la tua fidanzata” chiarì la donna.
Spencer socchiuse le labbra, stava replicare di nuovo, ma si bloccò. “Farebbe piacere anche a me che voi la conosceste meglio. Sono convinto che vi piacerà tantissimo” esclamò sorridente.
“Ne sono sicura” rispose Blake sorridendo a sua volta. Nel frattempo erano arrivati al Georgetown university hospital e chiesero del responsabile. “Salve, sono l’agente speciale Blake e lui è il dottor Reid” si presentò Alex.
“Siete qui per Patty?” domandò l’uomo, i due agenti fecero un cenno col capo e furono accompagnati nella stanza della degente presso il reparto di Psichiatria.
“Prego! È tutta vostra!” disse un’infermiera che non nascose la propria fretta ad allontanarsi dalla stanza, infatti, non appena i due agenti furono dentro, sparì.
Blake e Reid si scambiarono una veloce occhiata e si avvicinarono alla donna sdraiata sul letto con lo sguardo fisso sul soffitto. “Patty, siamo due agenti del F.B.I., vorremmo farti qualche domanda. Vuoi aiutarci?” le domandò Blake tenendo un tono piuttosto cortese, non voleva irritarla.
La donna si voltò verso di lei e rimase a fissarla. “Io non ho fatto nulla” disse fredda d’un tratto.
“Lo sappiamo, Patty. Noi non vogliamo incolparti di nulla, vogliamo solo parlarti. Da dove vieni?” le chiese il dottor Reid.
La donna non rispose, sembrava essere ritornata nel proprio stato catatonico. “Patty, chi urlava nel posto dove stavi?” domandò ancora Reid, sperando che quella frase risvegliasse dei ricordi nella donna.
“Lei. Tante urla, soprattutto di notte” rispose la donna con tono leggermente spaventato. “Lei chi?” chiese a sua volta Blake. Forse sarebbero riusciti a interagire con la donna.
“Soffriva molto. Io pregavo però non stava meglio” disse Patty, fu allora che si alzò dal letto e si piazzò davanti la finestra. Il dottor Reid si avvicinò, facendo segno a Blake di restare dov’era. “Era malata oppure qualcuno le faceva del male?”
“Il suo sangue era malato” rispose la donna con voce malferma, poi scosse la testa e sfregò gli occhi. “No, piangere no”
“Patty, tu ti prendevi cura di lei?” le chiese Reid; ormai gli era chiaro di cosa avesse sofferto la donna di cui parlava Patty: leucemia. La frase ‘bianca come il latte, rossa come il sangue’ alludeva proprio alla suddetta malattia, tuttavia avevano ancora diversi lacune da colmare. Chi era questa donna? Come era relazionata con Patty e con gli omicidi?
Patty scosse la testa. “Io non mi avvicinavo mai. Lui non voleva” rispose con tono triste. Prese una bambola che le era stata lasciata dallo psichiatra che l’aveva visitata e iniziò a lisciarle i capelli.
“Lui le spazzolava i capelli. Io volevo farlo, ma lui si arrabbiava” aggiunse. “Perché si arrabbiava?” domandò Blake. La donna guardò Blake e scosse la testa. “Jim diventò molto triste quando non c’erano più”
Spencer e Blake si scambiarono un’occhiata, la donna stava ricordando finalmente. “Chi è Jim?” chiese Reid.
La donna socchiuse le labbra e poi scosse la testa. Lanciò la bambola contro il muro e iniziò ad urlare. Blake e Reid sconvolti ebbero un momento di esitazione, in quel momento entrarono due infermieri che immediatamente sedarono la donna. “Forse è meglio chiudere l’interrogatorio qui” consigliò lo psichiatra accorso assieme ai due infermieri. I profiler annuirono e si allontanarono dalla stanza, infine, dopo aver raccomandato l’uomo di avvisali nel caso la paziente desse maggiori informazioni in un momento di lucidità, uscirono dal reparto.
Spencer camminava dietro a Blake quando ricevette un messaggio da parte di Madison su Whatsapp; la sua fidanzata lo aveva convinto a cambiare cellulare dopo essersi lanciati in un estenuante dibattito sui presunti pregi della tecnologia, durante il quale lo costrinse anche a scaricare l’applicazione, infatti, Spencer aveva accettato solo perché che non ne poteva più di sentirla parlare, nonostante ancora non capisse perché non potessero ricorrere ai normali messaggi, come aveva sottolineato. “Sei bellissimo anche sotto le luci al neon dell’ospedale”
Reid bloccò la propria andatura e si voltò, non c’era nessuno alle spalle.  Dove si era cacciata?
“Torna indietro ed entra nel primo stanzino” scrisse la dottoressa svelando la sua posizione. Spencer rimase per un attimo immobile, non sapeva cosa dire a Blake.
“Dì a Blake che vai in bagno, ce n’è uno all’inizio del corridoio” suggerì la sua fidanzata tempestivamente facendo pensare a Spencer che Maddie fosse in grado di leggerlo nel pensiero. “Blake, scusami, io andrei un attimo in bagno” accennò alla donna con un tono nervoso che la insospettì. “Sì, certo. Non metterci troppo, ok?” gli disse con un sorriso leggermente malizioso e se ne andò.
Spencer entrò nello stanzino, che fungeva da ripostiglio per le uniformi delle infermiere, e fu ‘assalito’ da Madison che gli saltò al collo. “Un giorno di questi mi verrà il colpo della strega” disse il giovane genio con tono scherzoso, la sua fidanzata fece la linguaccia. “Ti sono mancata?” gli chiese facendo un grosso sorriso. “Tanto” rispose nonostante fossero passate poco più di sei ore dall’ultima volta che si erano visti. Madison stampò un bacio sulle labbra a Spencer spostandosi poi sul collo candido del giovane genio, cosa che ogni volta gli faceva perdere l’autocontrollo; “Maddie, per favore. Devo andare” le disse senza tuttavia accennare di volersi scostarsi da lei. A quel punto la giovane dottoressa si abbandonò ad una risata e lo lasciò andare. “Ok, rispetto la tua volontà” affermò abbozzando un mezzo sorriso. Spencer si sporse verso di lei e le diede un bacio a fior di labbra. “Ci vediamo dopo?” domandò.
“Vado da Paget prima, però ci vediamo lo stesso” lo informò sorridente. Aprì la porta dallo stanzino, sbirciò sul corridoio assicurandosi che non ci fosse nessuno ed uscì dicendo a Spencer di aspettare un paio di secondi prima di uscire. Spence obbedì e uscì poco dopo, beccando però un’infermiera che lo guardò con aria scandalizzata avendo visto uscire prima Madison; “Non è come pensa, noi due non..” farfugliò provando a giustificarsi nonostante risultasse poco credibile giacché aveva i capelli arruffati e un’espressione leggermente colpevole.
La donna borbottò un “che schifo” e si allontanò lasciando Spencer in mezzo al corridoio che fece spallucce e uscì. Francamente non gli interessava molto quello che pensavano gli altri.
 
 
Nel frattempo che Madison ritornava alle sue normali occupazioni nel reparto di medicina diagnostica, Spencer Reid fissava la lavagna magnetica su cui aveva annotato alcune parole solo a lui comprensibili.
Hotch, alle sue spalle con le braccia conserte, aspettava il momento in cui il giovane profiler avrebbe reso partecipe il resto dei presenti delle sue confabulazioni. Momento che tardava a giungere.
“Sinceramente non ne ho idea” affermò ad un certo punto Spencer, Hotch lo fissò sollevando un sopracciglio. Che significava che non ne aveva idea?
“Patty! Non riesco a collegarla. La donna di cui parla Patty è morta di leucemia e sembrerebbe essere un’ipotesi de tutto coerente con la frase tatuata. Abbiamo cercato donne con la stessa descrizione fisica delle vittime che siano morte di leucemia nell’ultimo mese, ma non abbiamo trovato nulla. Anche il nome Jim non porta a nessuno” sbottò il giovane genio.
“Credo che stiamo sbagliando a cercare. Magari la donna non è morta ancora” ipotizzò Aaron.
“Quale dovrebbe essere allora la motivazione che ha indotto l’S.I. ad uccidere le proprio vittime? Abbiamo convenuto che l’S.I. stesse rivivendo la morte di questa donna tramite le proprie vittime” s’intromise Rossi.
“O forse uccide le proprie vittime perché non può ucciderla” sottolineò l’agente Hotchner, Spencer aggrottò la fronte. “Questo spiegherebbe perché sta diventando sempre più rabbioso. Lei sta peggiorando e lui non sa come farla stare meglio, vorrebbe che morisse, tuttavia non può ucciderla. Questa situazione lo rende estremamente frustrato e allora uccide donne che le somiglino” suppose il giovane. I due agenti più anziani annuirono, non era un’ipotesi priva di fondamenti.
“Reid, vai da Garcia e cambia i parametri della ricerca” ordinò l’agente Hotchner mentre lui assieme al resto della squadra si recava nel dipartimento della polizia. Erano pronti per il profilo.
Spencer obbedì e raggiunse Garcia che continuava a cercare connessioni fra il nome Patty, Jim e la presunta malata di leucemia. 
“Hey, Jack. Cosa posso fare per te?” lo accolse offrendogli un lecca-lecca che Spencer accettò senza fare complimenti.
“Jack?” le domandò il giovane, Garcia annuì. “Sì, come Jack e Sally, i protagonisti di ‘The Nightmare before Christmas’. Tu sei Jack e Mads è Sally”
Il giovane si passò una mano fra i capelli. “Mhm.. ed è una bella cosa?” le chiese, non aveva idea di chi o che cosa fossero Jack e Sally perciò gli sembrò d’obbligo chiedere maggiori delucidazioni. Garcia si abbandonò ad una risata. “Sì, Reid. È una bella cosa”, a quel punto gli domandò di nuovo cosa volesse e insieme cominciarono la ricerca.
“Sai, io non credo di essere l’unico in grado di poter leggere 20.000 parole al minuto. Secondo me, tu ne leggi almeno 10000” affermò Spencer dopo aver assistito alla performance di Penelope che rise. “Ma che dici? Comunque io l’ho sempre detto di essere un genio non riconosciuto” rispose la bionda dandogli una leggera scossa.
“Reid, forse ho trovato qualcosa. Senti qui, Sandra Green: le è stata diagnosticata la leucemia circa un anno fa, da allora la donna è stata sottoposta a diversi cicli di chemioterapia e radioterapia, tuttavia la malattia è avanzata. La Green è sposata con James Allen, laureato in scienze infermieristiche, la cui sorella è una frequentatrice accanita di cliniche psichiatriche. Il suo nome? Patrice Allen” illustrò puntando la matita con la cima contornata dal peluche rosa contro il viso di Spencer che annuì.
“E’ decisamente lei” disse infatti, a quel punto telefonò il resto della squadra per informarli dei dettagli appresi.
 
Il resto della giornata dei nostri profiler fu incentrata sulla ricerca di James Allen; l’uomo aveva impegnato i suoi risparmi nell’inutile tentativo di guarire sua moglie, investendo somme consistenti nella ricerca di terapie alternative e visite con i più importanti specialisti degli Stati Uniti.
Era completamente accecato dal dolore, non riusciva ad accettare che sua moglie non avesse possibilità di guarire, al punto da non poter più a sopportare la sua vista.
Vederla peggiorare giorno dopo giorno rimanendo impotente davanti a quel declino lo aveva spinto al limite, arrivando a desiderare addirittura di ucciderla. Diverse notti si era alzato dal proprio letto matrimoniale dove per diciotto lunghissimi anni aveva dormito con la sua Sandra e si era diretto nella sterile stanza dove sua moglie, il cui viso era ormai sfigurato in una smorfia di dolore, con i suoi profondi occhi blu lo aveva implorato di porre fine a quella sofferenza infinita senza tuttavia riuscire in quella richiesta estrema.
La frustrazione di James Allen, avvelenato da quel sangue che si rifiutava di tornare rosso e nauseato dal biancore cadaverico del corpo sciupato di Sandra, si era alimentata giorno dopo giorno con ogni rantolo di sua moglie, conducendolo a desiderare la morte, a volerla causare.
Lo aveva capito dopo aver colto quel lampo nei suoi occhi guardandosi nello specchio, lui doveva uccidere. Sfogando la propria furia contro quelle donne aveva ritrovato un’insana pace che si contrapponeva al lerciume e disperazione, a cui si era abituato, dal sapore di vodka e naftalina.
Si stava accanendo contro la sua ultima preda quando la squadra dell’unità comportamentale di Quantico supportata dagli SWAT entrava nella sua cantina. Seguirono degli spari dal suono lontano e confuso, una scia di sangue rosso macchiò il muro bianco, un corpo pesante si accasciava a terra.
I singhiozzi che impedivano il respiro s’impadronirono del fragile corpo di Mackenzie Evans, l’ultima vittima di Allen. “Sei salva, tesoro” la rassicurò una voce materna che la prendeva per le spalle trascinandola via da quello squallore.
Mackenzie si voltò un’ultima volta incontrando lo sguardo di quello che sarebbe stato il suo carnefice, poté vedere la luce spegnersi nei suoi occhi. Aveva visto la vita abbandonare il suo corpo lentamente mentre tutto attorno si muoveva freneticamente.
Quell’esperienza l’aveva cambiata, nulla poteva essere come prima, ci sarebbe stata una nuova Mackenzie.
Della vecchia Mackenzie solo una vecchia cicatrice sarebbe rimasta: quel tatuaggio sulla schiena, quella frase apparentemente senza significato. Bianca come il latte, rossa come il sangue.
Un’altra donna sarebbe uscita da quella putrida cantina e ritornata nel mondo dopo aver visto l’inferno. Dopotutto, anche lei aveva visto la morte quel giorno. “Ma non la mia” fu il primo pensiero di Mackenzie Evans.
 
“Dave, sai di cosa avrei bisogno? Di uno dei tuoi piatti ricchi di carboidrati e salse!” dichiarò Blake mentre la squadra rientrava negli uffici del bureau.
“Chiedi e ti sarà dato” affermò l’uomo, poi si rivolse al resto della squadra. “Cena da me?”
JJ e Derek si mostrarono subito d’accordo, d’altronde rientrava anche nei loro desideri una buona dose di carboidrati.
“Jack è andato da un amichetto quindi io accetto volentieri l’invito” rispose Aaron con un sorriso. “Anche io, anche io” si sbracciò Penelope aggiungendo che stava morendo dalla fame. “Reid, che fai? Ti unisci a noi?” domandò a quel punto il più anziano membro del team al giovane genio che finora non si era espresso.
“Io.. dovevo andare da Madison..” balbettò fissandosi le scarpe, nonostante avesse acquistato un po’ di sicurezza, ogni volta che pronunciava il nome della sua fidanzata gli sembrava di tornare all’asilo.
Dave si strinse le spalle. “Porta anche lei” suggerì, a quel punto si congedò dando appuntamento a tutti nella sua dimora per le nove e mezza. I membri del team lo seguirono a ruota. Avevano tutti bisogno di una lunga, calda e rilassante doccia.
Spencer, che era arrivato con la sua auto quel giorno, diede un passaggio a Penelope. “Sappi che se non ti vedo arrivare con Mads, me la prenderò con te quindi vedi di portarla” lo avvisò lei.
“Farò il possibile per convincerla” la rassicurò, la bionda gli fece un occhiolino, chiuse la portiera ed entrò in casa mentre Spencer ripartiva. “Spero solo di riuscirci” pensò a voce alta.
 
Spencer non appena arrivò al secondo piano fu sicuro che la sua fidanzata fosse in casa. Sentiva la musica a tutto volume provenire da dietro la porta dell’interno 5b già da quando saliva le scale al primo piano.
Suonò il campanello premendo il pulsante a lungo e rimase in attesa. “Come mai tutta quest’insistenza?” gli chiese Maddie non appena aprì. “Temevo non mi sentissi” rispose alzando la voce per cercare di ‘scavalcare’ la musica.
La rossa scosse la testa. “Risposta errata” sussurrò al suo orecchio, Spencer le lanciò uno sguardo interrogativo. “Qual è la risposta giusta?”
“Non vedevo l’ora di rivederti. È scritto anche questo nel manuale del bravo fidanzato” lo scherzò alzandosi sulle punte per dargli un bacio sulla guancia. “Devo procurarmi questo manuale” le disse, dopodiché l’afferrò e l’avvicinò a sé, sollevandole la frangia per scoprire i suoi occhi verdi che, a detta del giovane, brillavano di una luce particolare, anzi il dottor Reid si era convinto che l’intero mondo nei suoi occhi diventasse più luminoso.
Chinò la testa e sfiorò le labbra rosse con le sue avvertendo il solito brivido lungo la schiena, nonostante il fugace contatto.
Anche Madison era convinta che nei grandi occhi color nocciola del dottor Reid ci fosse un altro mondo in attesa di essere esplorato. Ci si poteva perdere in quegli occhi un po’ malinconici e pieni di curiosità; a lei era successo tante volte, anche prima di iniziare quella relazione che non smetteva di sorprenderla. Stava vivendo il suo momento magico, era questo il pensiero fisso della dottoressa Thompson che si mordicchiava le labbra ogni volta che il dottor Reid la sfiorava.
“Vieni con me da Rossi? Oggi ci ha invitato a casa sua” le domandò interrompendo quello scambio di sguardi.
Madison deglutì. “Non lo so” mormorò spegnendo lo stereo. “Perché?”
“Perché mi vergogno! Insomma ci sarà un intero team di profiler che studierà ogni mia mossa per decretare se sono la persona giusta per te!” esclamò con la voce leggermente alterata. Spencer scoppiò a ridere, per la prima volta in vita sua rise dell’insicurezza di un’altra persona.
“Pillola, innanzitutto Morgan e Garcia sono già tuoi amici e JJ pensa che tu sia carinissima. Ma in ogni caso, io sono sicuro che a loro piacerai un sacco e sai perché?” la interrogò, Madison scosse la testa. “Perché solo un idiota potrebbe non adorarti e i miei amici non sono idioti” rispose facendo un sorriso.
“Ok, verrò” si convinse la dottoressa abbozzando anche lei un sorriso. “Ci vediamo fra mezz’ora, ok? Dobbiamo essere da Rossi per le nove e mezza” la raccomandò e scappò nel suo appartamento.
Non era nemmeno arrivato davanti alla porta quando ricevette un messaggio. “Sei sicuro che mi adoreranno, vero?”
“Sicurissimo” rispose prontamente, d’altronde per il dottore Reid non poteva essere diversamente.
 
 
Madison e Spencer scesero dall’automobile e percorsero lentamente il vialetto che separava la casa dell’agente David Rossi dalla strada. Il giovane genio sfiorò diverse volte la mano della sua fidanzata che continuava a torturarsi le dita.
“Pillola rilassati, è solo una cena non un’operazione chirurgica” provò a tranquillizzarla, aveva l’impressione che la sua fidanzata stesse andando in iperventilazione.
“Credimi, preferirei eseguire un’operazione a cuore aperto in questo momento” confessò lei facendo un timido sorriso, Spencer la prese per mano e bussò alla porta.
“Cucciola!” trillò Penelope, accorsa ad aprire la porta, non appena si trovò la figura di Madison davanti; l’analista l’abbracciò e le diede un rumoroso bacio sulla guancia, ricambiata da Madison che fece altrettanto. Spencer osservò la scena divertito e stupito al tempo stesso, non pensava che le due fossero così amiche.
“Siete finalmente arrivati” commentò Derek parlando con Spencer che si scusò per il ritardo.
“Sì, scusateci. È colpa mia” confermò Madison mettendosi i capelli dietro le orecchie. “Tranquilla, Spence è sempre in ritardo” la rassicurò JJ che si era sposata in salotto per accogliere la coppia.
“Beh, in tal caso, è colpa sua” affermò indicando Spencer che si voltò verso di lei socchiudendo le labbra per replicare. “Ah ah! Non si contraddice mai la propria fidanzata in pubblico. Altra regola del manuale del bravo fidanzato” lo bloccò lei muovendo un dito in aria e facendo ridere i presenti.
Il giovane genio avvertì un leggero imbarazzo nel vedere gli occhi dei presenti puntati su di loro; in effetti, l’intero quadretto era un’assoluta novità per Spencer. Era la prima volta che presentava qualcuno alla squadra e non si trattava di una persona qualunque, ma della sua fidanzata. Considerazione che lo rendeva ancora più nervoso.
Madison, dandogli la conferma che fosse in grado di leggerlo nel pensiero, tirò fuori la bottiglia di vino rosso che aveva in borsa per spostare l’attenzione dei presenti su un altro oggetto dando a Spencer un attimo di respiro.
Rossi, che si era unito ai commensali avendoli sentiti ridere, prese la bottiglia in mano e fece un segno col capo di approvazione. “Un Chianti e anche di ottima annata” commentò l’uomo leggendo l’etichetta.
“L’abbiamo portato per farci perdonare per il ritardo. Sa, Spence mi ha detto che lei ha origini italiane e ho pensato che avrebbe assolutissimamente gradito questo regalo” affermò entusiasta gesticolando come al suo solito. D’altronde si stava rilassando al punto da non preoccuparsi più di contenere il proprio entusiasmo; se le stavano facendo il profilo, bisogna ammettere che erano parecchi discreti.
Rossi annuì compiaciuto. “Hai pensato bene”, a quel punto invitò la giovane a stappare la bottiglia e a versare il vino nei bicchieri facendo gli onori di casa. Madison eseguì il proprio compito volentieri e dopo essersi assicurata che tutti i presenti avessero il proprio calice pieno, invitò il padrone di casa a fare un brindisi.
“A noi e alla nuova arrivata. Benvenuta in famiglia, Madison” le disse rivolgendo un caldo sorriso che la giovane non esitò a ricambiare.
La serata proseguì in modo del tutto naturale; come accade nelle vere famiglie riunite a cena, non mancarono le risate e gli aneddoti. Derek, infatti, raccontò alcuni degli episodi più divertenti del giovane genio di quegli otto anni di lavoro insieme che imbarazzarono terribilmente Spencer, il quale più volte implorò l’agente di colore di smetterla, fra le risate della sua fidanzata che invece implorava Derek del contrario.
Stavano aiutando Rossi a sparecchiare quando Madison notò il pianoforte abbandonato in fondo alla sala. “Dave, suoni il piano?” gli domandò dandogli del tu, in effetti, aveva smesso di dargli del lei a metà della  cena.
L’agente dalle origini italiane scosse la testa. “E’ un ricordo della mia seconda moglie”
Madison sollevò un sopracciglio. “Seconda moglie? E quante ce ne sono?” domandò la giovane mentre si avvicinava al piano. Blake che aveva notato l’espressione sorpresa della giovane, prese in giro David dicendole che il numero delle mogli di Rossi era sconosciuto anche a loro.
“Vuoi suonarlo?” le domandò a quel punto l’anziano profiler, notando Madison che sfiorava i tasti dello strumento con le punte delle dita come se stesse accarezzando un bambino. La giovane si voltò verso di lui e gli rivolse un sorriso radioso. “Posso?” chiese per conferma, l’uomo annuì e la dottoressa si sedette allo sgabello mentre tutti i presenti si disponevano a cerchio attorno a lei.
Madison chiuse gli occhi, come faceva ogni volta che suonava il piano, quello strumento divino che l’accompagnava da quando aveva sei anni, con una sola mano sfiorò i tasti facendo una leggera pressione, doveva entrare in confidenza. Avvertì l’emozione impossessarsi di sé quando suonò le prime note. Le bastò un solo suono per rendersi conto di quanto le mancasse suonare. “Ci siamo” sussurrò, aprì gli occhi e lasciò le sue mani scorrere velocemente sulla tastiera. Man mano che la melodia si diffondeva per la stanza, avvertì una sensazione di libertà  e sorrise.
Il piano sarebbe rimasto sempre il suo primo amore.
La melodia si sfumò nelle note finali lasciando lo spazio ad un applauso. “Caspita, cucciola. Ma sei bravissima!” esclamò Penelope esprimendo in quelle poche parole i pensieri dei presenti. Madison si voltò verso di loro e sorrise lusingata dal complimento, le faceva sempre piacere sapere che le persone apprezzassero il suo modo di suonare, che riteneva essere la forma di comunicazione più perfetta che lei conoscesse. Si alzò e andò vicino a Spencer che sembrava entrato in uno stato di trance.
“Quella canzone io la conosco” affermò scuotendo la testa, non riusciva a ricordare dove l’avesse sentita, eppure ne era sicuro che l’aveva ascoltata in precedenza.
“E’ una famosa sonata di piano, la conoscono in tanti” spiegò al suo fidanzato facendo spallucce. Ma Reid non ne era convinto, non era la sonata ma il modo in cui era stata suonata. “Yale. La sentivo ogni pomeriggio quando andavo al dipartimento di scienze naturali, mi stavo prendendo il dottorato in chimica” esclamò Reid.
“Passando davanti al dipartimento di filosofia, c’era sempre questa ragazza che suonava. Era bravissima” ricordò lui, non l’aveva mai vista o conosciuta, si era sempre limitato ad ascoltarla anche se ricordava ancora quel piacevole suono come fosse ieri.
Madison aggrottò la fronte, lei aveva sempre suonato nella sala musica vicino al dipartimento di filosofia ogni pomeriggio, ma erano gli stessi pomeriggi del dottor Reid?
“Quando ti sei preso il dottorato in chimica?” gli domandò infatti.
“Che domande! Molto probabilmente all’età di otto anni” disse Derek scherzando, Spencer scosse la testa dicendo che aveva circa venti anni quando si era preso il suddetto dottorato.
Madison a quel punto scoppiò a ridere. “Io so chi era questa ragazza e lo sai anche tu” affermò scettica, non riusciva a crederci. Spencer le lanciò uno sguardo attonito sottolineando che non l’aveva mai conosciuta.
“Ero io” disse sorridendogli, anche Spencer sorrise. “Beh, era destino allora” dichiarò Blake che stringeva un bicchiere di vino. “Io proporrei un altro brindisi” suggerì Aaron incontrando i pareri concordanti dei presenti.
“Al destino” disse l’uomo guardando la giovane coppia che continuava a ridere di quella inaspettata scoperta.
 
Qualche giorno più tardi, più precisamente il primo febbraio, Madison ricevette una sorpresa. Qualcuno bussò al citofono, la giovane domandò chi fosse, non aspettava nessuno.
“Salve, sono il fattorino di Aliflora. Ho una consegna per lei” le comunicò una voce squillante. “Scendo subito” rispose lei che immaginava di cosa si trattasse. Scese e si trovò un ragazzo che le tendeva un piccolo bouquet di tulipani gialli e bianchi dai petali arruffati. Il tulipano era il suo fiore preferito.
“Ecco il bigliettino” aggiunse il ragazzo consegnando un piccolo cartoncino dentro una busta di colore rosso cremisi.  Madison ringraziò il ragazzo prima che ripartisse sul motorino, offrendogli una mancia che questi accettò senza indugi, e si sedette sulle scale. Ammirò quel prezioso bouquet che sembrava essere il frutto di una ricerca molto accurata, lo annusò e lo posò delicatamente sul gradino accanto a sé.
Prese il bigliettino e lo lesse. “Potremmo vivere come Jack e Sally se lo vogliamo, dove tu mi puoi sempre trovare. Festeggeremo Halloween a Natale. E nella notte ci augureremo che questo non finisca mai”
Madison si sorprese nel leggere la frase della canzone I miss you dei Blink. “E questa dove l’hai scovata?” pensò infatti divertita.
“Penelope ci ha paragonati a Jack e Sally, ho fatto le mie ricerche e sono d’accordissimo, siamo proprio loro.  Festeggeremo Halloween a Natale, ma anche Capodanno, il Ringraziamento, persino Hanukkah, tutte insieme.
Grazie per questo bellissimo mese.
PS: So che non volevi regali, ma non ho saputo resistere. So anche mi perdonerai”

Madison sorrise, certo lo avrebbe perdonato. Lo avrebbe perdonato cento volte.

 
 
 
 
 
 Salve, eccomi di nuovo qui. Prima di tutto, ringrazio chi ha inserito la mia FF fra le preferite. E' bello sapere che ci sono persone che apprezzano davvero la mia storia, ovviamente ringrazio anche chi recensisce sempre e chi legge anche senza commentare. Una storia senza lettori non è una storia :D

Tornando a noi. Ho provato a calarmi nella mente del S.I. per riuscire a spiegarvi come mai fosse giunto ad uccidere. E' la prima volta che lo faccio, dunque, se ho fatto schifo, vi prego, ditelo! Stessa cosa vale per i pensieri delle vittime :D criticatemi se non vi è piaciuto; se, invece, pensate che non sia pessimo, fatemi un fischio! Magari ci riprovo!
Parlando di Maddie e Spence, stanno diventando troppo appiccicosi, quindi credo che prima o poi li farò litigare XD (sì, sono un po' psicopatica!)
Credetemi però, quando vi dico che certe uscite mi vengono spontanee, per esempio quella del piano XD nemmeno ci pensavo quando ho iniziato a costruire la loro storyline, perchè voi non la sapete ma io l'ho già scritta tutta nella mia testa :D
Se ritenete che stiano esagerando con la stranezza dei vicini, sappiate che è solo l'inizio XD la 16enne, ispirata ad una mia amica, tornerà :p
Bene, vi lascio e alla prossima!

 
 
 
 

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Capitolo 17
*** Be my valentine. ***


 

“Be my valentine”

 
 
Greg Adamson si convinse che quella serata fosse perfetta per rimorchiare qualcuno mentre sorseggiava il suo margarita appoggiato di spalle al bancone di uno dei locali più frequentati di Miami. Si respirava sesso quella sera, pensò. 
Guardò un gruppetto di ragazze dagli abiti succinti che si scatenava in un balletto provocante senza curarsi dei tanti che palpavano i loro corpi; qualcuno indugiava nel farlo senza ricevere alcun rimprovero, qualcuno altro fu trascinato addirittura nel bagno dove si potevano sentire i gemiti di chi stava godendo.
Sì, una di quelle ragazza sarebbe andata a letto con lui quella sera, non ne aveva dubbi. All’improvviso notò una donna con indosso un abito piuttosto trasparente ballare da sola, decise che era lei la sua preda. Si avvicinò cauto ballando attorno a lei che non si scostò, anzi, si girò di spalle e cominciò a strusciare il suo corpo contro quello di Adamson che senza perdere un solo minuto prese a toccarla ovunque. 
Infilò una mano sotto il suo vestito trovandovi una sorpresa: non indossava lo slip; anche la donna di spalle fece scivolare la propria mano in basso toccando il sesso di lui costretto nei pantaloni. Adamson si stava decisamente eccitando. 
La donna si voltò verso di lui senza smettere di palparlo e si avvicinò al suo orecchio che morse leggermente facendo impazzire Adamson che cercò avidamente le sue labbra. Le loro lingue si incontrarono compiendo dei piccoli movimenti circolari mentre le loro mani non smettevano di toccare l’altro.
“Vieni da me” sussurrò lei al suo orecchio, lo prese per mano e lo guidò fuori dal locale. Camminarono per qualche minuto, infine entrarono in un palazzo a cinque piani, lei stava al terzo piano. Nell’ascensore ripresero il giochino che avevano cominciato nel locale, le loro mani erano sempre più impazienti.
Le porte dell’ascensore si aprirono e la coppia entrò nell’appartamento di lei che prontamente lo guidò verso la camera da letto. Lo spinse sul letto, si mise a cavalcioni su di lui, che la spogliò velocemente, e si sporse in avanti leccando il viso di Greg mentre sbottonava la sua camicia.
Si abbassò e leccò il petto nudo di lui, la cui eccitazione era ormai palpabile, giunse alla cintura e la slacciò, gli sfilò i pantaloni, giocò per qualche secondo con l’elastico dei boxer e infine lo spogliò completamente liberando la sua eccitazione. A quel punto la donna si alzò in piedi e andò vicino alla cassettiera; Adamson, che non poteva più aspettare, si sollevò sui gomiti. “Piccola cosa fai? Ora arriva il bello” ammiccò lui. 
Lei rise e annuì. “Lo so” rispose con voce suadente, poi aprì il cassetto e prese una pistola che l’uomo non notò.
Si voltò verso di lui che la fissò stranito, l’espressione di lei era completamente cambiata. La donna salì di nuovo sul letto, Adamson sentì un corpo freddo che lo sfiorava. “Cos’è?” domandò lui che con la mente andò a ricreare un gioco sadomaso. Lei non rispose, si avvicinò ancora di più al suo volto e ficcò ancora una volta la sua lingua nella bocca di Greg, che ormai aveva completamente perso il proprio autocontrollo.
L’uomo stava toccando il seno di lei quando sentì qualcosa premuta contro il suo stomaco, abbassò lo sguardo e vide la pistola. “Cosa vuoi fare con quella? È scarica, vero?”
La donna rise, lui deglutì sempre più spaventato. “Addio, verme” mormorò al suo orecchio e sparò un colpo che uccise Greg nell’immediato.
 
“Buongiorno, miei cari Valentini” annunciò Garcia entrando nella sala riunioni. Una scia di profumo piuttosto melenso si diffuse subito nella stanza, era tipico di Garcia immergersi nel profumo. La donna si sistemò la gonna leggermente pieghettata e accese i monitor dietro di sé mostrando le fotografie dell’omicidio di Greg Adamson scattate nella scena del crimine.
Purtroppo nemmeno il giorno di San Valentino, ovvero il giorno in cui si dovrebbe consacrare l’amore romantico, i nostri profiler poterono rilassarsi. Un altro S.I. aveva colpito, un’altra vita era stata strappata senza apparenti motivazioni e in modo brutale, un’altra famiglia avrebbe pianto un proprio caro.
E per loro che significava tutto ciò? Un altro caso? No, era troppo poco pensare che per la squadra della B.A.U quello fosse solo un altro omicidio. 
Per Derek quel caso significava un’altra giornata di lavoro che gli avrebbe impedito di uscire, conoscere nuove persone, ridere, telefonare la sua famiglia.
Per JJ quel caso significava un’altra giornata di lavoro che le avrebbe impedito di stare con suo figlio Henry e con suo marito, dopotutto San Valentino era una festa anche per lei.
Anche per Aaron Hotchner quel caso significava un’altra giornata lontano dal piccolo Jack e una serata romantica con Beth in meno. E per Rossi? Beh, lui non festeggiava San Valentino da tempo, non gli importava molto di non poterlo farlo di nuovo, però con la propria mente andò alle tante telefonate compiute il giorno di San Valentino in cui annunciava che non sarebbe arrivato, e si sentì male di nuovo. 
Blake fissò i monitor e si concentrò sulla foto di Greg Adamson, aveva lo stesso colore di capelli di suo marito. Si rese conto che non aveva ancora mandato un messaggio per augurargli buon San Valentino, chissà quante volte aveva mancato di fargli gli auguri.
Anche Penelope avrebbe voluto essere a casa, o anche nel suo santuario, però a fare nulla, magari facendo ricerche solo per divertirsi, eppure era lì ancora una volta a contemplare l’orrore di cui l’uomo poteva essere capace e di cui ancora lei non riusciva a capacitarsi.
Infine, per Spencer cosa significava quel caso? Poche volte nella sua vita aveva avvertito il desiderio di mollare, scappare e fare qualcosa di diverso. Sapeva perfettamente che grazie al suo Q.I. avrebbe potuto fare qualunque cosa, ma sapeva che era giusto lavorare in quella squadra. Era giusto essere lì in quel momento, fare il profilo a quel pazzo omicida, far trovare la pace a quella vittima innocente. 
Ecco, cosa significava per loro quel caso: un modo per ringraziare della fortuna che avevano fatto nella vita, che li aveva fatti incontrare fra di loro e con quelle persone che ora li aspettavano a casa, perciò non si lamentarono quando ricevettero la chiamata del capitano della polizia di Miami, ma con determinazione si sedettero ancora una volta nella sala riunioni pronti a risolvere un nuovo caso.
“Come mai ci hanno chiamato? È solo un omicidio” domandò Reid notando che le fotografie e i rapporti della polizia si riferivano ad un unico omicidio. 
“L’omicidio è identico a quello compiuto un anno fa, sempre a Miami” esordì la donna, spostando l’attenzione su un altro corpo. “La vittima di allora fu Nate Sprouse, 28 anni, single, residente a Miami” continuò lei.
“Come Nate, anche Greg è stato visto l’ultima volta lasciare il locale, dove si era recato per trascorrere la serata, assieme ad una donna” continuò la bionda. “La polizia aveva interrogato i presenti di quella serata, o per lo meno, quelli che riuscirono a rintracciare, chiedendo se avessero visto la donna, ma gli identikit dei presenti erano piuttosto discordanti perciò quella ricerca non portò a nulla” 
“Alla fine, il caso è stato chiuso per mancanza di indizi e nessuno lo ha più ricordato finché stamattina non è stato trovato un nuovo corpo” concluse Garcia lasciando la parola all’agente supervisore Aaron Hotchner.
“Il nostro S.I. uccide le proprie vittime in case di persone sconosciute, forse convince le proprie vittime che sia casa sua” dichiarò Hotch. 
“Secondo i rapporti della polizia, Adamson è stato trovato questa mattina dalla coppia, proprietaria dell’appartamento, appena ritornata da un viaggio di lavoro. Sprouse, invece, fu trovato dal proprietario del loft quando ritornò da una vacanza a Cuba” riferì l’agente al resto della squadra
“Quindi il nostro S.I. sa che queste case sono vuote. Potrebbe lavorare per un’agenzia di viaggi?” ipotizzò Rossi.
Gli altri membri della squadra annuirono, era probabile. “Garcia prova a cercare a quale agenzia di viaggio si siano rivolti i proprietari di queste case e cerca fra i loro dipendenti” ordinò Aaron all’analista informatica che si mise subito al lavoro.
“JJ, appena arriviamo a Miami, dovremo interrogare queste persone per capire se magari hanno idea su chi poteva sapere che non ci sarebbero stati” disse alla bionda che annuì. “Morgan, Reid voi due andrete sulla scena del crimine mentre Rossi e Blake al locale dove è stato catturato Adamson, la polizia ha già radunato alcuni dei presenti. Potrebbe essere di nuovo un buco nell’acqua ma dovremmo provarci” concluse Hotch, dopodiché si alzò e si diresse al jet, pronto alla partenza, seguiti dal resto dei nostri profiler.
 
Morgan e Reid si recarono nella scena del crimine dove la scientifica stava facendo gli ultimi rilevamenti.
Derek si guardò intorno, l’S.I. aveva rimosso tutti gli indizi che potessero suggerire a Adamson che non si trattava di casa sua, infatti aveva tolto le fotografie dei Jenkins appese ai muri e anche quelle sui comodini, che la scientifica aveva trovato buttate nel fondo dell’armadio.
Sul letto videro la macchia di sangue che impregnava le lenzuola della coppia, l’S.I. aveva sparato un colpo molto ravvicinato perciò fu possibile per la scientifica rilevare le tracce della polvere da sparo molto facilmente, cosa che si sarebbe rivelata piuttosto utile per le indagini. Grazie a Garcia avrebbero potuto risalire al proprietario nel caso l’oggetto fosse stato registrato.
“Se succedesse una cosa del genere a casa mia, io traslocherei all’istante” commentò Reid mentre pensava alla signora Jenkins che aveva trovato il corpo esanime di Adamson quando entrò in camera.
Derek si voltò verso di lui e sorrise. “E poi molto probabilmente avresti continuato a dormire con la luce accesa anche nella casa nuova dato che avresti paura che il fantasma della vittima possa venire a trovarti” lo prese in giro l’agente di colore, Spencer lo guardò torvo. Lui non aveva paura dei fantasmi, non esistevano.
“Allora Adamson era sdraiato sul letto, l’S.I. lo aveva completato spogliato. Lui era pronto a colpire nel segno, ma poi la donna lo ha sparato” ripercorse in mente Derek la possibile dinamica dell’omicidio.
“Come mai non si è accorto della pistola?” domandò Reid. “Forse era distratto, avrà pensato che si trattasse di un oggettino di qualche sexy shop e quando si è accorto che si trattava di una pistola, era ormai troppo tardi” suppose Derek.
Spencer annuì, dopodiché si avvicinò alla cassettiera e aprì il primo cassetto. Notò che gli indumenti erano leggermente sgualciti e in disordine, cosa molto strana poiché nella casa dei Jenkins regnava un ordine immacolato. “Credo che l’S.I. abbia messo qui la pistola. Per questo Adamson non l’ha notata, era di spalle” riferì Reid al collega.
Poi notò un foglio caduto per terra, era un calendario in cui erano stati annotati degli orari diversi per ogni giorno della settimana con accanto lettere puntate e numeri, Spencer lo prese e la racchiuse in una busta di plastica.
“Cos’è?” domandò Morgan. “Forse il nostro S.I. si è lasciata dietro un indizio” si limitò a dire il giovane genio, a quel punto uscirono dalla casa dei Jenkins, ormai non c’era più nulla da analizzare.
 
“Le chiedo scusa, signor Stewart, se la disturbiamo ancora con quest’omicidio, ma questa notte ne è avvenuto uno identico e per noi è fondamentale capire se lei possa essere in qualche modo a conoscenza di chi sapesse della sua momentanea assenza” spiegò JJ all’uomo che aveva sbuffato. La polizia lo aveva mortalmente annoiato per più di mese dopo il ritrovamento di Sprouse, con la chiusura delle indagini aveva pensato che non sarebbe stato più disturbato.
Quell’omicidio gli aveva rovinato l’esistenza, la sua fidanzata aveva infatti preteso che cambiasse casa, lui adorava quel loft e per colpa di quella pazza omicida lo aveva dovuto abbandonare. C’era tutta la sua vita là dentro.
“Agente, le ripeto ciò che ho detto alla polizia un anno fa. Io e la mia fidanzata avevamo vinto quella vacanza in un concorso a premi due settimane prima della partenza, perciò non c’era modo che qualcuno potesse sapere con largo anticipo che saremmo partiti” riferì con tono scocciato l’uomo.
JJ si sforzò di non rispondere male, odiava quando le persone si rifiutavano di essere collaborative; si trattava di un omicidio, diavolo, come potevano essere così egoisti?
“Nessuno quindi sapeva che sarebbe partito?” domandò la bionda mantenendo il proprio tono calmo.
L’uomo scosse la testa. “Nessuno, a parte i miei genitori. Io faccio lo scrittore di professione, perciò non avevo bisogno di avvertire nessuno” chiarì.
“Ci rifletta, magari lo ha detto di sfuggita a qualcuno: al barista del locale sotto casa, oppure all’uomo dell’edicola dell’angolo della strada” provò a farlo ragionare JJ.
Stewart scosse la testa di nuovo. “Non dico mai nulla del genere a nessuno” tagliò corto, a quel punto JJ si apprestò a chiudere quel colloquio, tanto quella chiacchiera non avrebbe portato a nulla.
L’uomo si alzò e si diresse fuori dalla stanza dove la sua fidanzata lo stava aspettando, la donna però bloccò JJ. “Agente, scusi. Io credo di ricordare qualcosa” le disse, JJ la invitò a parlare.
“Qualche giorno prima della nostra partenza, Alan ha ricevuto la sua rivista preferita, la riceve ogni settimana. Io avevo beccato il fattorino e gli aveva detto di non portarla la settimana dopo dato che Alan non ci sarebbe stato” ricordò la donna un po’ dubbiosa, non aveva idea se quella informazione potesse essere di qualche utilità.
“Ottimo. Questo può esserci utile” la rassicurò JJ, a quel punto la coppia si congedò e la bionda si recò dai Jenkins che erano in quel momento a colloquio con il capitano della polizia.
“Signori Jenkins, sono l’agente Jennifer Jareau. Per caso voi siete abbonati a riviste o giornali?” domandò la bionda interrompendo il colloquio del capitano. La signora Jenkins annuì stranita, come faceva a saperlo?
“Si, io sono abbonata ad una rivista di moda.” confermò la donna, a quel punto JJ le chiese se avesse riferito al postino che non sarebbe stata in casa la settimana del viaggio. “Sì, sapevo che il nostro viaggio sarebbe durato più di una settimana e perciò disse al postino di non portarla quella settimana” riferì la donna, era esattamente ciò che aveva fatto la fidanzata di Stewart.
“Perfetto” disse JJ. “Signori Jenkins, potete andare” annunciò alla coppia che si alzò titubante al pari del capitano. “Anche la fidanzata di Stewart aveva fatto la stessa cosa” concluse la bionda rivolgendosi al capitano.
Dopodiché andò da Hotch per riferirgli ultimi dettagli.
 
“La ricerca fra le agenzie di viaggi è stato un buco nell’acqua” annunciò Rossi che aveva appena chiuso la telefonata con Garcia. “Lo so, Stewart aveva vinto la vacanza in un concorso a premi” rispose JJ.
“Però abbiamo lo stesso un indizio. A quanto pare, tanto la fidanzata di Stewart quanto la signora Jenkins avevano avvertito il postino di non portare la rivista che erano soliti ricevere perché non ci sarebbero stati”riferì JJ all’agente dalle origini italiane.
L’uomo sollevò un sopracciglio. “L’S.I. è una donna” obiettò. “Però..” aggiunse.
JJ lo guardò, però cosa? Odiava quando aveva una delle sue intuizioni e le teneva per sé. “Credo che la nostra assassina lavori alle poste, forse è lei che organizza il giro dei postini” disse.
“Così ha un senso. Il postino riferisce al S.I. che quella settimana non recapiteranno la posta a casa di quella data famiglia e lei memorizza, tanto essendo colei che organizza il giro può facilmente reperire tutte le informazioni necessarie” ipotizzò l’uomo.
In quel momento entrò Blake che si era trattenuta nel locale un’altra mezz’ora da sola. “Abbiamo un riscontro. Il barista e una ragazza sembravano aver visto la stessa donna parlare con Greg. Le descrizioni combaciano”annunciò la profiler. “Ho chiamato anche Garcia per vedere se riesce a trovarla fra le registrazioni video del locale, in questo momento le sta esaminando” 
I due annuirono e riferirono quanto avevano appena ipotizzato. “Reid, mi ha chiamato prima. Mi ha detto che sulla scena aveva trovato un bigliettino con scritto una tabella con una serie di orari, lettere e numeri. Forse si tratta proprio dei giri dei postini” ricordò la donna. Forse l’ipotesi di Rossi stava acquistando forma.
In quel momento arrivò Aaron Hotcher che con espressione seria seguì gli aggiornamenti degli altri membri della squadra. “Dall’esame balistico invece è stato confermato che si tratta della stessa pistola con cui è stato Sprouse” li informò Hotch, a quel punto aveva elementi a sufficienza per elaborare un profilo.
“Morgan e Reid hanno già iniziato a lavorare sul profilo” riferì al resto della squadra che prontamente si spostò nello stanzino dove i due agenti erano completamente immersi nell’elaborazione del profilo. 
Una volta ultimato, radunarono gli agenti per esporlo. Una volta ottenuta la massima attenzione, gli agenti della B.A.U cominciarono la loro esposizione, il primo a parlare fu Hotch.
“Crediamo che il nostro S.I. sia una donna fra i 30 e i 40 anni, di bell’aspetto, affabile, di sicuro non ha problemi a relazionarsi.” esordì l’agente supervisore.
“Non a caso, crediamo che lavori alle poste come responsabile dell’ufficio, tuttavia il lavoro svolto non la soddisfa e questo la rende frustrata” continuò Morgan che cedette la parola al dottor Reid. “Il nostro S.I. deve aver subito un qualche trauma, probabilmente è stata una vittima della violenza domestica da parte del suo partner. Ciò ha scatenato in lei un forte disprezzo nei confronti del genere maschile” 
“Vuole vendicarsi dell’uomo che considera a livello intellettuale inferiore a lei. E’ certa che un uomo cadrà nella sua trappola, questo la rende sicura, le fa credere di avere il controllo” aggiunse Rossi.
“E’ probabile che l’evento traumatico abbia scatenato nell’S.I. questo bisogno di violenza sia legato alla ricorrenza di San Valentino. Questo spiegherebbe perché colpisce solo una volta l’anno” concluse Blake.
La squadra fornì ulteriori dettagli utili per la cattura e furono contattati da Garcia.
 
“Miei adorati combattenti del crimine, ho qualcosa per voi. Dalle registrazioni del locale purtroppo non ho ricavato molto, l’unica telecamera attiva purtroppo non riprende la pista nella sua interezza, perciò ho visto la vedova nera solo di spalle. Tuttavia ho una buona notizia” esordì la bionda che dal suo santuario picchettava sulla tastiera.
“L’intuizione dell’agente Rossi si è rivelata giusta. La vostra donna lavora alle poste come responsabile dell’ufficio nell’area di Park West. Il suo nome è Ellen McLane, 35 anni, laureata in Scienze Politiche all’Università di Miami.” illustrò ai profiler.
“In quest’area rientrano tanto le case quanto i locali in cui sono state avvistate le vittime l’ultima volta” commentò Reid che guardava la cartina.
“McLane è stata vittima di violenze domestiche da parte del suo partner che, udite udite, l’avrebbe lasciata il giorno di San Valentino di due anni fa” concluse Garcia con tono soddisfatto. Quello era decisamente l’evento scatenante che cercavano.
“Ottimo lavoro, Garcia” si complimentò Hotch. “Grazie, signore. Nei vostri tablet ho già inviato l’indirizzo della McLane. Stando al suo orario di ufficio dovrebbe essere nel suo appartamento” li informò l’analista.
“Bambolina, sei sempre la migliore” le disse Derek. 
“Lo so, mio re di cioccolata. Fate attenzione” li raccomandò e riattaccò. La B.A.U aveva un arresto da compiere.
 
 
Mentre i nostri profiler si recavano nell’appartamento della McLane, trovandovi al suo interno la pistola con cui erano stati compiuti gli omicidi di Sprouse e Adamson, Garcia, che ciondolava ancora per gli uffici del bureau, ricevette una telefonata.
“Cucciola, cosa posso fare per te?” rispose prontamente alla telefonata di Madison. “Penny, aiuto!” esordì la rossa concitata. “Sai che giorno è oggi, vero?”
Garcia annuì. “E’ San Valentino. Qualche problema con il regalo per Reid? Perché io non so come esserti d’aiuto. Ma poi scusami, non avevate deciso di non festeggiarlo? Cosa di cui mi meraviglio ancora, insomma siete una coppia e questo è il vostro primo San Valentino insieme, lo dovete festeggiare” parlò velocemente mettendo molta enfasi sulla considerazione finale. 
Penelope adorava San Valentino e le dispiaceva moltissimo non poterlo festeggiare, il quattordici febbraio era, infatti, uno di quei giorni in cui rimpiangeva maggiormente l’assenza d Kevin. Motivo per cui non poté che dispiacersi quando dopo aver torchiato Reid  per una buona mezz’ora per sapere cosa avrebbero fatto, il giovane le aveva confessato che non lo avrebbero festeggiato. 
“Sì, avevamo deciso così, però poi mi ha detto che non l’aveva mai festeggiato, io ho pensato che non era giusto non farlo senza contare che ha anche fatto gli occhi da cuccioli e io non so resistere agli occhi da cucciolo” rispose Maddie parlando altrettanto velocemente. Garcia scoppiò a ridere ammettendo che gli occhi da cucciolo di Reid erano effettivamente molto efficaci al momento di ottenere qualcosa.
“Quindi cosa vuoi fare?” domandò Penelope che sentì Madison sospirare rumorosamente dall’altra parte del telefono. “Non ne ho idea. È una grande responsabilità! È il primo San Valentino della sua vita, lo ricorderà per sempre, quindi deve essere speciale” affermò Madison che si stava spremendo le meningi da due giorni.
Garcia rimase pensierosa, l’amica aveva ragione, anche lei avrebbe voluto renderlo speciale, ma soprattutto Spencer meritava un San Valentino unico. “Prova a pensare a qualcosa che Reid non ha mai fatto” suggerì Penelope.
“Penny, ci sono un sacco di cose che non ha mai fatto! Non è mai andato a un concerto rock, non ha mai fatto il bungee jumping, non ha mai giocato a paintball..” ribatté Madison che avrebbe potuto continuare l’elenco per una buona mezz’ora.
“Tra tutte queste cose ci sarà qualcosa che può trasformarsi in una bellissima sorpresa di San Valentino, no?” la incoraggiò Penelope, a quel punto sentì la giovane dottoressa esultare. 
“Trovato! Grazie mille Penny! Ti amo!” urlò elettrizzata e riattaccò senza dare il tempo a Garcia di salutarla, dopotutto non aveva il vizio di chiudere le telefonate in fretta solo con Spencer.
 
 
Spencer entrò nel suo palazzo e salì le scale, anche se non ne aveva alcuna voglia, tuttavia la sua diffidenza nei confronti degli ascensori superava di gran lungo la stanchezza e perciò non desistette; era talmente stanco che si convinse di andare al rallentatore, sembrava la slow motion di se stesso.
Arrivò davanti alla porta dell’interno 14c, la sua dimora negli ultimi otto anni, e trovò un post-it arancio fluorescente attaccato alla porta, la calligrafia era quella di Madison. “Sistemati e vieni qui: 1615 New Hampshire Avenue”
Spencer sollevò un sopracciglio, che intenzioni aveva? Tuttavia non aveva molta voglia di scervellarsi tanto lo avrebbe scoperto di lì a breve, perciò con calma iniziò a cercare le chiavi di casa nella tracolla. 
“Perdi sempre le chiavi, eh?” domandò divertito il signor Chester che era appena rientrato, aveva un borsone da viaggio a tracolla con sé. “Oh, no! Ho trovato il portone aperto e quindi non le avevo cercate prima. È stato in vacanza?” domandò a sua volta, aveva appena trovato le chiavi però voleva trattenersi lo stesso a chiacchiera con l’anziano. “Vacanza? Magari!” esclamò l’uomo con tono ironico. “Sono stato da mio fratello a Denver. Ogni tanto ci facciamo visita, questo era il mio turno” gli spiegò. “Ragazzo, ti lascio. Oggi è San Valentino e di sicuro avrai qualcosina da fare” ammiccò il signor Chester. Spencer rise. “Sì, a quanto pare ho qualcosa da fare” affermò sventolando il post-it trovato.
Salutò cortesemente il suo vicino ed entrò in casa. Si fece una lunga doccia, massaggiandosi a lungo le tempie mentre si passava lo shampoo, quel dannato mal di testa lo stava uccidendo.
Uscì dalla doccia e fissò il proprio riflesso allo specchio della toelette, si strofinò gli occhi leggermente arrossati per la stanchezza e si passò una mano sul viso. Gli era cresciuta leggermente la barba in quei giorni, guardò il rasoio elettrico, avrebbe dovuto adoperarlo, ma il solo pensiero di quel rumore fece aumentare il suo mal di testa ancora di più, perciò optò per sbarbarsi un altro giorno. Tanto a Maddie così non dispiaceva, pensò.
Indossò l’accappatoio e andò in camera da letto. Aprì l’armadio e iniziò ad ispezionare i suoi vestiti alla ricerca di un abbinamento consono all’occasione, nonostante non avesse idea di cosa sarebbe successo. Tuttavia si convinse che era il caso di vestirsi bene e per tale motivo si sforzò di trovare un look adatto; in fin dei conti pensò che era sicuramente quello che la maggior parte dei fidanzati stava facendo in attesa della serata romantica in quel preciso istante.
Mentre scartava i suoi vestiti, si ritrovò a pensare alle origini di quella festa: San Valentino fu istituita come festa nel 496 da Papa Gelasio I sostituendo l’antica festa pagana delle lupercalia, ovvero dei riti dedicati dai romani alla fertilità e non all’amore romantico. In età moderna la celebrazione della festa si incentrò sullo  scambio di messaggi d'amore e regali fra innamorati; pratica che si diffuse probabilmente nell'alto medioevo e potrebbe essere in particolare riconducibile al circolo di Geoffrey Chaucer in cui prese forma la tradizione dell'amor cortese.
Oggi, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, il tratto più caratteristico della festa di San Valentino è lo scambio di valentine, ovvero bigliettini d'amore; la Greeting Card Association stima infatti che ogni anno vengano spediti il 14 febbraio circa un miliardo di biglietti d'auguri, numero che colloca questa ricorrenza al secondo posto, come numero di biglietti acquistati e spediti, dopo Natale.
Mentre ragionava sull’assurda commercializzazione che aveva visto protagonista la festa, si ricordò della gentile signora  che gli aveva suggerito il biglietto perfetto. 
Spencer nei giorni precedenti aveva infatti girato quasi tutte le cartolibrerie di Washington, ma anche i supermercati, insomma qualsiasi negozio dove si potessero vendere quei dolci bigliettini d’amore che ogni Valentina si aspetta di ricevere senza trovarne uno che lo soddisfacesse. Era sul punto di arrendersi all’evidenza che quel biglietto non esistesse e ormai rassegnato all’idea di doverne comprare uno qualsiasi, tanto erano tutti uguali, quando entrò in una piccola cartolibreria. Si era precipitato subito sui biglietti spulciandone uno alla volta e scartandoli ad una velocità tale che l’anziana proprietaria del negozio si chiese se il criterio con cui li scartasse fossero i colori. 
“Giovanotto, ma li stai leggendo quei biglietti?” gli aveva domandato infatti la donna. Aveva circa una settantina d’anni, i capelli lunghi e grigi raccolti in un treccia morbida e tante piccole rughette di espressione che le contornavano gli occhi castani ancora piuttosto vivaci. Spencer si era voltato verso di lei e sorriso dell’espressione corrugata che si era disegnata sul volto dell’anziana. “Sì, leggo piuttosto velocemente” spiegò, la donna sollevò un sopracciglio e si avvicinò.
“Cosa stai cercando?” chiese a Spencer che nel frattempo sbuffò rumorosamente. Non c’era nulla, neppure in quel negozio. “Vorrei un biglietto per San Valentino che non dica le stesse cose degli altri!” sbottò lui, doveva esserci qualcosa che corrispondesse alle caratteristiche da lui ricercate. La donna rise, quel giovanotto le stava simpatico, era da tempo che non s’imbatteva in qualcuno che volesse davvero regalare un biglietto speciale. 
“Oh, lì non troverai nulla allora. Sai, ai miei tempi, i bigliettini si facevano a mano. E’ così che un bigliettino diventa speciale” gli raccontò prendendo un cartoncino rosso che piegò e ritagliò a forma di cuore con le forbici che portava nel cardigan, poi gli fece segno di avvinarsi al bancone. “Ecco, il tuo bigliettino. Prendi questa penna, è una stilografica e scrivi qualcosa” suggerì la donna, Spencer fissò quel cartoncino a forma di cuore e si umettò le labbra. “Non so cosa scriverci” confessò banalmente mettendosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. 
“Se pensi a lei, qual è la prima cosa che ti viene in mente?” lo interrogò la signora. “Penso che lei è l’arcobaleno dopo la tempesta, o forse tutte e due le cose insieme” rispose indeciso Spencer. 
“Scrivilo” affermò puntando il dito sul bigliettino, in quel momento entrò una ragazza e la donna si allontanò un secondo mentre Spencer scarabocchiava quelle poche parole sul biglietto. L’anziana ritornò e il giovane le restituì la penna dopo aver messo il suo bigliettino al sicuro nella tracolla. “Quanto è?” le aveva domandato, la donna aveva sorriso dicendogli che non era nulla. “Buon San Valentino, caro” gli aveva augurato prima che uscisse.
Sorrise pensando alla signora, a quel punto aveva già trovato il completo perfetto; avrebbe indossato un pantalone grigio, più stretto rispetto a quelli che era solito indossare, con giacca abbinata mentre la camicia era di una tonalità che sfumava sul bianco. Aprì il cassetto contenente le cravatte ordinate in base al loro colore e tessuto, ne prese una mano e rimase pensieroso, era il caso di metterla?
Prese il cellulare e chiamò Morgan, lui sicuramente sapeva come ci si dovesse vestire. “Ragazzino, in cosa posso esserti utile?” rispose immediatamente Derek che guardava una partita di baseball alla tv. 
“Tu indosseresti stasera la cravatta?” gli domandò. Sentì Derek ridere dall’altra parte del telefono, il piccolo Reid si preoccupava di cosa indossare. “Dipende. Dove andate?” chiese tornando serio. Spencer si rese conto di non ricordarsi dove Maddie gli aveva dato appuntamento, perciò riprese il biglietto e  lo lesse nuovamente. “1615 New Hampshire Avenue” 
Derek aggrottò la fronte, non si ricordava che ci fosse un ristorante su quella via, o un locale dove poter festeggiare San Valentino, infatti domandò a Spencer che cosa ci fosse lì.
“Credo sia una biblioteca” affermò Spencer dopo una breve riflessione. “Thompson, ti ha dato appuntamento in una biblioteca?” si scandalizzò l’agente di colore. “Ha intenzione di trascorrere una notte folle di studio?” scherzò.
Spencer fece spallucce. “Sicuramente sarà qualcosa di folle” disse sicuro il genietto.
“Bah, indossa pure la cravatta. Ricorda, deve essere più scura dell’abito” gli diede la dritta e riattaccò.
Spencer prese la cravatta della tonalità grigia più scura che trovò e la indossò. Si sistemò di nuovo i capelli allo specchio del bagno, recuperò il biglietto che aveva nascosto nel cassetto e uscì. 
 
Quando fu davanti all’American Association library telefonò Madison per capire dove fosse, infatti le luci della biblioteca erano tutte spente e nessun indizio indicava che fosse aperta, il cellulare della giovane però squillò diverse volte a vuoto. Stava per richiamarla quando ricevette un messaggio in cui Maddie lo invitava ad entrare. 
Spinse il pesante portone in legno che si aprì lasciando posto ad una vista piuttosto curiosa: per terra c’erano delle candele disposte in fila che percorrevano tutto il corridoio conducente alla sala più grande della biblioteca, vi entrò e trovò Madison dietro il bancone per il prestito libri. “Salve, come posso aiutarla?” trillò la giovane non appena lo vide. Spencer sorrise e si avvicinò a lei. “Pillola, che ci facciamo qui?”
La sua fidanzata rise della sua espressione un po’ impaurita. “Tranquillo, non siamo qui per una notte folle di studio” disse ripetendo le parole che Derek le aveva scritto in un messaggio. “Derek?” domandò Spencer sicuro che ci fosse lui dietro a quella frase, Madison annuì e fece il giro da dietro il bancone.
“Sei bellissimo” affermò lei non appena poté ammirare interamente la sua figura. “Anche tu sei bellissima” si complimentò Spencer. Indossava un vestito di pizzo bianco che seguiva il contorno della sua figura lasciando la schiena completamente scoperta, mentre ai piedi portava un paio di decolleté di colore blu; aveva raccolto i lunghi capelli in un chignon così da scoprire il collo adornato con il ciondolo di azzurrite che Spencer le aveva regalato, lasciando comunque qualche ciocca libera che ricadeva delicatamente sul viso leggermente truccato con un ombretto blu.
Rimasero in piedi l’uno davanti all’altra ad ammirarsi per qualche secondo, poi Spencer domandò di nuovo cosa facessero lì, stava morendo dalla curiosità.
Madison si umettò le labbra prima di parlare. “Ricordi quando mi hai raccontato del sogno con Maeve, quello in cui ballavate..” esordì un po’ esitante, aveva paura che Spencer si arrabbiasse, in effetti.
Il giovane annuì, forse aveva capito cosa volesse fare la sua fidanzata. “So che io non sono lei, ma ho pensato che sarebbe carino che tu lo facessi davvero, sempre se tu vuoi” continuò, all’improvviso si sentì una stupida, come le era venuto in mente?
Le labbra di Spencer si allargarono in un enorme sorriso, era la cosa più dolce che qualcuno avesse fatto per lui, come avrebbe potuto rifiutare? Si avvicinò ancora di più a lei e le prese entrambe le mani.
“Certo che voglio ballare con te. Ti ricordo però che sono un pessimo ballerino” le disse, Madison sorrise dicendogli che non doveva preoccuparsi, poi lo condusse al centro dalla sala.
La luce era soffusa, nell’aria si poteva respirare l’odore delle pagine ingiallite e un po’ umide dei libri, di cui le pareti erano gremite. “Come hai fatto ad avere questo posto?” gli domandò il suo fidanzato mentre ammirava quel luogo, che somigliava davvero a quello del suo sogno. “Il gestore è un amico di papà” rispose lei velocemente, poi premette il telecomando per avviare lo stereo e lo posò su uno dei tanti tavolini della sala. 
La musica si diffuse riempiendo il silenzio che normalmente caratterizzava quel luogo dedicato allo studio, Spencer posò le mani sui fianchi di Madison che posò le proprie a sua volta attorno al collo di Spencer. Ci volle più di qualche secondo perché il giovane entrasse in confidenza con la musica ma, alla fine, si lasciò andare facendosi guidare da lei, senza smettere di guardarla negli occhi. 
Maddie appoggiò la testa nell’incavo del collo del dottor Reid che la strinse ancora di più a sé.
 Era tutto così perfetto: la musica, la biblioteca, lei; si sentì la persona più fortunata del mondo in quel momento, non si sarebbe mai aspettato qualcosa di simile. “Grazie” sussurrò a Madison che sollevò un attimo la testa per dargli un bacio sulle labbra. 
E fu così che ballarono insieme per la prima volta: in una biblioteca il giorno di San Valentino.









Salve gente! Come va? Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, so che vi avevo promesso una lite, ma nessuno litiga a San Valentino, giusto? Ma prima o poi la avrete, forse nemmeno nel prossimo.. o nell'altro ancora XD 
Come potete vedere, siamo lontani da una possibile fine, spero che a voi faccia piacere la cosa :D Altrimenti sarà un bel problema ahahah 
Bene, alla prossima! E recensite anche solo per dire: "oddio, che p****!" 

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Capitolo 18
*** Happy b-day, doctor Reid! ***


“Happy b-day, doctor Reid”

 
 
                                                                                                                                                                                                       Las Vegas, 9 marzo 1981.
                                                                                                                                                                       
Las Vegas era sempre stata una città particolarmente calda, dove gli inverni rigidi e i paesaggi autunnali con tanto di foglie rosse e marroni secche erano solo un’immagine che campeggiava nei film proiettati nei tanti cinema, spuntati come funghi negli ultimi anni, assieme ai casinò e agli hotel a cinque stelle che quella città, sorta in mezzo al deserto del Nevada, ospitava. Il sindaco ne era certo, Las Vegas sarebbe diventata il centro del mondo e i suoi cittadini iniziavano a migrare verso la periferia, lontani dalle tentazioni del gioco d’azzardo.
Tuttavia quel giorno faceva troppo caldo per essere una normale giornata di inizio primavera, si respirava un’aria calda e soffocante. Sembrava l’inizio di un film su un tornado, quando tutto è calmo ma qualcosa sta già cambiando in maniera impercettibile.
Diana Reid in piedi davanti al grosso finestrone del salotto di casa sua ne era sicura: qualcosa di eccezionale sarebbe accaduta quel giorno e lei sapeva cosa.
“Diana, io vado al lavoro” la informò suo marito, la donna si voltò verso di lui e si accarezzò il pancione. “Tornerai in tempo?” domandò. Suo marito aggrottò la fronte, in tempo per cosa?
“In tempo? Per cena, dici? Sì, tornerò in tempo” rispose frettolosamente mentre sistemava delle pratiche dentro la sua ventiquattrore.
Diana rise. “Non per cena, Will. Per vedere nascere nostro figlio” lo corresse mostrando una strana calma.
Quello fu il turno per William di ridere. “Diana, il dottore ha detto che il bimbo nascerà per metà, se non proprio, fine mese. È presto ancora” ribadì.
“Succederà oggi” affermò con convinzione Diana, suo marito sospirò. Certe volte sua moglie si comportava davvero in modo eccentrico. “Ok, se dovesse succedere, arriverò in tempo” disse decidendo di accontentarla. Dopodiché la salutò con un bacio sulla fronte e scappò al lavoro.
Diana continuò a ciondolare per casa cantando canzoni degli anni ’40, poi verso metà mattinata uscì fuori nel giardino.
“Signora Reid, buongiorno” esclamò la sua vicina che assieme al marito annaffiava le piante. “Cosa sta facendo?” le domandò notando che era scalza nonostante il prato fosse bagnato.
“Sento il contatto con il suolo. È importante camminare scalzi, aiuta a prendere consapevolezza di sé stessi e della terra che ci circonda” rispose lei con gli occhi chiusi come se fosse qualcosa di normale. Il marito della vicina si voltò verso sua moglie e si picchiettò la testa mimando un “è pazza” che fece ridere la donna.
“Diana, quando nasce il bimbo?” cambiò argomento la vicina. “Oggi” affermò Diana aprendo gli occhi.
I suoi vicini sgranarono gli occhi. “Oggi?” dissero all’unisono. “Ha le contrazioni?” domandò l’uomo, aveva il compito di accompagnare Diana Reid all’ospedale nel caso fosse stata sul punto di partorire e William non fosse stato presente.
“Non ancora, però il bambino nascerà oggi. Una mamma le sente certe cose” ripeté con la voce sognante. I due si scambiarono una veloce occhiata, Diana Reid era decisamente fuori di testa.
“Beh, signora Reid, nel caso dovessero iniziare sul serio le contrazioni, butti un urlo” le consigliò la vicina e a quel punto la coppia entrò in casa.
“Povero bambino” affermò l’uomo, sua moglie gli lanciò un’occhiata di rimprovero. “Non dire così. Diana ama quel bimbo alla follia” disse la donna in difesa della futura neo mamma.
“Sì, ma sua madre è, diciamo, non molto normale e, stai sicura che suo padre non vincerà il premio per il ‘papà più presente dell’anno’ ” replicò l’uomo. Conosceva i Reid da tempo e quel bambino, a suo avviso, avrebbe avuto problemi. Molti problemi.
“Beh, in tal caso, spero che sia sufficientemente intelligente per imparare a cavarsela da solo” rispose sua moglie e ritornò alle proprie faccende.
Avevano appena finito di pranzare quando sentirono Diana Reid urlare i loro nomi, i due si precipitarono in giardino. “Signora Reid, cosa succede?” domandò la donna leggermente agitata.
“Mi si sono rotte le acque” rispose lei respirando ad intervalli come le aveva insegnato il suo ginecologo. “Oddio! Dobbiamo correre in ospedale. Richard, sbrigati, prendi la macchina” ordinò al marito che corse fuori seguito da sua moglie e da Diana Reid che uscì di casa con il borsone in mano e li fissava con un’espressione insolitamente serena.
Sembrava quasi che non avvertisse alcun dolore, cosa che sorprese i suoi vicini.
“Hai avvertito William?” domandò Diana a Richard mentre si dirigevano verso l’ospedale il più velocemente possibile. L’uomo scosse la testa. “Lo chiamerò da un telefono pubblico”
 
Era passata meno di un’ora quando William Reid con il fiato corto per la corsa appena compiuta spuntò nella sala d’attesa dell’ospedale. “William, sei finalmente qui” esclamò la sua vicina. L’uomo, che aveva quasi gli occhi fuori dalle orbite, annuì. “Dov’è?” domandò quando riuscì a prendere fiato.
“Dove sono, vorrai dire” lo corresse la donna. “Tuo figlio è già nato. Un parto incredibilmente veloce” asserì la donna ripetendo le considerazioni delle ostetriche. “Sono nella stanza 125” gli disse, William Reid rimase fermo con la bocca aperta, suo figlio era già nato? Come poteva essere possibile?
“Will, sai cosa dovrebbe fare un padre? Andare a vedere suo figlio! Dai, muoviti!” lo incoraggiò la donna costringendolo a reagire, a quel punto il signor Reid iniziò a camminare lentamente nel corridoio sotto gli sguardi attoniti dei suoi vicini.
“Mi sa che hai ragione” affermò la donna rivolgendosi a suo marito. “Buona fortuna, Spencer” aggiunse con tono ironico. “Spencer?” domandò suo marito incerto di aver capito bene.
“Sì, lo hanno chiamato Spencer. Spencer Reid” ribadì la donna dopodiché si avviò verso l’uscita e uscì a braccetto con suo marito.

 
                                                                                                                                                                                  
                                                                                                                                                                                 
                                                                                                                                                                                  Washington, 7 marzo 2014                                                                                                                                                                                             
 
Spencer Reid era seduto sul divano di casa della sua fidanzata mentre sfogliava velocemente un grosso manuale di fisiologia che aveva trovato fra i libri di Madison. Ogni tanto alzava lo sguardo interrompendo la lettura per gettare un’occhiata alla sua fidanzata che trotterellava per tutta casa facendo le valigie. Sarebbe andata a New York quel fine settimana.
In realtà il dottor Reid non stava affatto leggendo, o meglio leggeva, ma non stava  capendo nulla di quello che c’era scritto, rimuginava sulla conversazione di poco fa.
“Quando torni?” le aveva domandato. La sua fidanzata aveva fatto spallucce. “Domenica sera, al massimo lunedì mattina” aveva risposto con noncuranza continuando a mettere i vestiti in valigia.
Nella mente del giovane genio un solo pensiero si fece strada: “Si è scordata del mio compleanno”. Già, Spencer Reid  n’era più che convinto, la sua fidanzata non lo ricordava altrimenti sarebbe tornata in tempo, no?
E se invece avesse deciso di non dargli importanza? Forse lo sapeva, ma non se ne curava. Mmm.. non era da Madison, ricordava che per il compleanno di Paget aveva persino chiesto un permesso di un’ora per uscire prima dal lavoro, oltretutto lo aveva anche costretto a girare per più di una settimana per andare alla ricerca del regalo perfetto.
“Ma se torni domenica, a che ora arrivi?” aveva insistito, forse gli voleva fare una sorpresa! Già, fare le sorprese era decisamente da Madison. “Mmm.. non so. Penso dopo cena, tanto lunedì mattina non ho ambulatorio e qui non ho nulla da fare domenica. Vorrei stare un po’ con i miei” aveva risposto mentre richiudeva la valigie. Sembrava sincera.
Ok, era ufficiale! La sua fidanzata si era scordata del suo compleanno, forse glielo doveva ricordare lui. “No, se lo deve ricordare da sola” pensò, lui le aveva persino fatto gli auguri a mezzanotte.
Si stava comportando come un bambino nonostante stesse per compiere 33 anni. “Cavolo.. 33. Il
tempo scorre troppo velocemente” rifletté ad alta voce.
Madison si voltò verso di lui. “Amore che dici? Non ho capito” gli chiese, lo aveva solo sentito borbottare. Spencer scosse la testa e richiuse il manuale. “Nulla, riflettevo sul tempo”
La dottoressa annuì, era tipico di Spencer fare strani ragionamenti perciò non se ne curò. “Credo di avere tutto” affermò mettendosi una mano sul mento, rifletteva sul contenuto della valigia, poi si girò verso Spencer.
“Io vado. Non mi vieni a salutare?” gli domandò notando che sembrava intenzionato a non alzarsi dal divano.
Spencer si alzò mal volentieri, non meritava il suo saluto. “Non preoccuparti, tornerò domenica sera” lo rassicurò, il giovane alzò un sopracciglio e sorrise, forse se lo ricordava dopotutto.
“So che ti mancherei troppo” disse invece lei dandogli un buffetto sulla guancia. Spencer si rabbuiò di nuovo, non tornava per il suo compleanno.
Aprì la porta e uscì con la valigia. “Mmm.. Spencer?” lo chiamò da fuori, il giovane genio la guardò perplesso, perché non stava andando via?
“Sei a casa mia. Se vuoi, puoi restare, ma a me servono le chiavi..” disse esitante, Spencer arrossì.
Uscì immediatamente di casa e la sua fidanzata chiuse la porta e gli rivolse un’occhiata preoccupata. “Beh, allora io vado..”
Spencer annuì. “Ci vediamo domenica o lunedì” le disse con tono inespressivo. Madison gli sorrise e chiamò l’ascensore. “Ciao amore!” lo salutò quando le porte dell’ascensore si aprirono e s’infilò nella cabina, dopodiché lo salutò di nuovo con la mano e premette il bottone del piano terra lasciando Spencer che salì a casa sua borbottando frasi sconclusionate sulla scarsa memoria della sua fidanzata.
 
 
Il giorno dopo Penelope Garcia assieme alla sua collega Jennifer Jareau girava con un carrello per la spesa nel Wal-Mart vicino casa sua, dovevano procurarsi tutto l’occorrente per preparare la torta a Spencer.
Quell’anno, contrariamente a quanto facevano solitamente, avevano deciso di preparare loro stesse la torta di compleanno per il loro genietto preferito.
Avevano passato una settimana intera a discutere su quale fosse torta perfetta per festeggiare il compleanno di Reid facendo in modo di incontrare i gusti di tutti, ma soprattutto facendo attenzione ai gusti del festeggiato.
Non era stato facile, Spencer dopo ben quasi 9 anni nella B.A.U una cosa l’aveva capita: i suoi colleghi non scordavano mai il suo compleanno, perciò ogni volta che li aveva visti parlare sottovoce si era messo sull’attenti cercando di captare qualche informazione, costringendoli a trovare infiniti espedienti per non farsi scoprire.
“Madison che fa?” domandò JJ a Penelope mentre riponeva nel carrello un cartone da latte. “Mads è andata a New York” rispose l’analista informatica mordicchiandosi il  labbro inferiore.
JJ sgranò gli occhi. “Ma sa che domani è il compleanno di Reid, vero?”
L’analista fece spallucce. “Non ne ho idea”, in effetti quando Spencer le aveva detto che Madison sarebbe partita per New York proprio quel fine settimana, si era stupita e il pensiero che la dottoressa Thompson avesse scordato il compleanno di Spencer l’aveva sfiorata effettivamente.
“Oddio! Se lo ha scordato, Spence ci rimarrà malissimo” esclamò JJ, dovevano fare qualcosa. “La chiamo?” suggerì Penelope, che nel frattempo si era procurata le tavolette di cioccolato fondente e le bustine di lievito chimico.
JJ annuì facendo segno con le mani di darsi una mossa e l’amica compose subito il numero di Madison che non tardò a rispondere.
“Penny, mon amour” disse con tono allegro la giovane dottoressa che stava giocando a carte assieme a sua nonna Rosemary. “Ciao Mads! Che fai di bello?” domandò Penelope che evitò di saltare subito alla motivazione della telefonata nonostante JJ le avesse lanciato un’occhiata di rimprovero.
“Sto a casa di mia nonna, stasera vado con i miei a vedere uno spettacolo a Broadway però” rispose entusiasta, quel fine settimana lo aveva dedicato interamente ai suoi, cosa che le fece davvero piacere. Le mancavano moltissimo.
“Bello.. Senti Mads, tu sai che domani è il compleanno di Spencer, vero?” chiese Penelope un po’ titubante.
Sentirono Madison scoppiare a ridere assieme a sua nonna, le due si scambiarono una veloce occhiata, perché ridevano?
“Certo che so che domani è il compleanno dell’amore della mia vita. Non avrei mai potuto scordarlo” affermò tornando seria. “Davvero pensavate che lo avessi scordato?” domandò alle due leggermente offesa, che considerazione avevano di lei?
“Oh, cucciola! Scusaci, è solo che Reid ci ha detto che tu tornavi domenica sera e ci era sembrato strano. Quindi ci sei per la nostra sorpresa?” le chiese. “No, perché devo organizzare la mia di sorpresa, di cui Derek sa tutto. Non te l’ho raccontato perché temevo che magari te lo facessi sfuggire” spiegò Madison facendo ridere la bionda che convenne con lei di non essere affatto brava a tenere segreti.
“Che sorpresa gli fai?” domandò JJ dopo che Penelope aveva messo Maddie in vivavoce. “Non si dice, ma visto che lo sapete, vi chiedo un favore. Me lo tenete occupato finché io non avverto Derek? L’ho già detto anche lui, ma due persone in più che lo distraggono non fanno male” chiese cortesemente, sapeva che i colleghi di Spencer non avrebbero avuto problemi ad aiutarla.
Le due si mostrano subito entusiaste. “Non ci vuoi proprio raccontare nulla della sorpresa?” insistette JJ, dopo la storia di San Valentino, che ovviamente erano riuscite a farsi raccontare dal dottor Reid dopo tre snervanti ore di insistenze, si aspettavano qualsiasi cosa da Madison. “E’ una caccia al tesoro” confessò la rossa facendo un occhiolino a sua nonna Rosemary che l’aveva aiutata ad escogitare il tutto.
“Ooh! Spencer adora le cacce al tesoro!” esclamò Penelope. Madison fece un sospiro e le ricordò che lo sapeva.
A quel punto spiegò loro come si sarebbe mossa l’indomani e cosa dovevano fare. Derek avrebbe avuto con sé una busta gialla con il primo indizio che avrebbe dovuto dare al festeggiato una volta ricevuto il suo messaggio.
“Perfetto! Finché non ti fai viva, noi lo teniamo impegnato” confermò Penelope passata in modalità ‘mission impossible’
Madison le ringraziò e riattaccò dopo aver augurato alle due buona fortuna per la torta.
 
 
Sul tardi quella stessa sera, dopo lo spettacolo a Broadway, Madison raggiunse i suoi vecchi colleghi del dipartimento di polizia che si erano riuniti in un pub fra la 33esima e la 34esima strada.
“Thompson! Chi non muore, si rivide!” esclamò Campbell non appena vide entrare la dottoressa Thompson che si avvicinò al loro tavolo.
“Sapevo che vi avrei trovato qui, le vecchie abitudini non muoiono mai” affermò lei sorridendo, poi salutò sia Campbell che Fisher con un abbraccio mentre Derrick si limitò a sollevare la bottiglia di birra a mo’ di saluto abbozzando un sorriso.
“Vado a prendere qualcosa da bere” riferì ai tre che le lanciarono un’occhiata preoccupata. “Tranquilli! Solo un drink” li rassicurò mettendo le mani avanti e scoppiando a ridere subito dopo, le sembrava di avere tre papà.
Dopodiché si recò al bancone del bar dove incontrò TJ, l’amico barista. “Mads! Che fine avevi fatto? Sei sparita!” le  chiese TJ mentre iniziava a  prepararle un Cosmopolitan senza nemmeno chiederle cosa volesse, quello era il suo drink preferito.
“Mi sono trasferita a Washington, sono qui in visita infatti” rispose sporgendosi sul bancone per rubargli un’oliva.
“Davvero? Peccato! Tu eri l’unica cosa buona di quei tre”scherzò il barista facendole l’occhiolino.
Madison rise dandogli ragione, dopodiché TJ le porse il drink che la giovane afferrò prontamente, lo ringraziò e ritornò al tavolo.
“Allora che stai combinando in quel di Washington?” le domandò Fisher quando si accomodò.
“Uh, solite cose. Continuo a lavorare nel reparto di Medicina Diagnostica e in Pronto Soccorso. Mi sono unita ad un gruppo di volontari, suono sempre la chitarra, per il piano non ho spazio nel mio appartamento, il che è un vero peccato, sapete quanto mi piace suonarlo” divagò lei come quando doveva dire qualcosa di cui si vergognava un po’. “Penso infatti che prima o poi cambierò appartamento, così lo posso comprare, o al massimo mi porto quello di casa mia, ma il trasporto di sicuro mi costerebbe un sacco”continuò a blaterare sotto gli sguardi divertiti dei suoi ex colleghi.
“Mads, sputa il rospo! Cos’è che non ci stai dicendo?” la incalzò infatti Campbell.
“Oh, nulla! Figuratevi..” rispose lei evitando il contatto visivo con i tre che la stavano guardando come se fosse un sospettato, si sentiva parecchio in soggezione. “Ah, si! Mi sono fidanzata..” farfugliò la giovane mentre si attorcigliava attorno al dito indice una ciocca di capelli rossi.
Trevor e Dylan la fissarono attoniti. “E con chi?” le domandò infatti Trevor.
Derrick roteò gli occhi. “Fisher, con chi vuoi che si sia fidanzata? Ovviamente con il biondino rinsecchito” affermò acido l’uomo mentre dava un sorso alla birra  e facendo ridere gli altri due.
Madison sgranò gli occhi. “Tu come lo sai?” gli chiese, non avevamo nemmeno parlato di Spencer l’ultima volta che si erano visti. “Intuizioni da detective” affermò Derrick facendo spallucce.
“Davvero ti sei fidanzata con il dottor Reid?” le chiese Campbell tra il divertito e il sorpreso, Madison annuì sorridente.
“Io non mi sorprendo. Ho sempre  saputo che Pel di carota aveva pessimi gusti in fatto di uomini” commentò Derrick con il suo solito tono beffardo, Madison gli lanciò un’occhiataccia.
“Se vi interessa, io sono felice” disse lei in difesa della sua relazione. “Tanto felice” sottolineò rivolgendosi in particolar modo a Wayne che sbuffò.
“Il biondino rinsecchito è un bravo fidanzatino?” ironizzò il detective intenzionato a prenderla in giro. “Sì, è un bravo fidanzato. Non chiamarlo biondino rinsecchito comunque” gli rispose lasciandosi sfuggire una leggera risata.
Fisher e Campbell si congratularono con lei sostenendo che, se lei era felice, erano felici anche loro.
Madison sorrise e si alzò per andare ad abbracciarli. “Mi mancate un sacco” affermò mentre li stringeva. “Anche tu” dissero i due uomini all’unisono. “Su, Derrick non fare l’antipatico e unisciti all’abbraccio” lo rimproverò Fisher.
Il detective scosse la testa. “No, grazie. L’unica donna che ho intenzione di abbracciare stasera è questa bella bionda” rispose alludendo alla sua birra.
I tre si girarono verso di lui lanciandogli uno sguardo di rimprovero, riusciva sempre a rovinare tutti i loro momenti di affetto. “Comunque Pel di carota, anche io sono contento per te” le disse abbozzando un sorriso che Madison non esitò a ricambiare mimando un “grazie”.
 
 
Il dottor Reid si svegliò il giorno del suo compleanno il più tardi che riuscì. Non aveva alcuna voglia di alzarsi quella domenica mattina.
Si mise a sedere sul letto abbracciato alle proprie ginocchia, era di pessimo umore. Prese il cellulare e controllò se avesse ricevuto messaggi. Trovò i messaggi dei suoi colleghi, persino Aaron Hotchner gli aveva scritto un messaggio di buon compleanno aggiungendo che anche il piccolo Jack gli faceva i suoi auguri. Tutti tranne l’unica persona che avrebbe voluto che glieli facesse.
Si alzò e iniziò a sistemare il letto, fra le lenzuola trovò un calzino di Maddie, li perdeva sempre.
“Te lo dovrei buttare” affermò arrabbiato come se parlasse con lei, a quel punto si ricordò che doveva buttare la spazzatura. La domenica era il giorno di raccolta della carta e lui ne consumava parecchia.
Si lavò i denti continuando a sbuffare, si vestì facendo scarsa attenzione a cosa indossava e uscì di casa. Mentre ritornava verso l’appartamento, s’imbatté in Alice, la figlia dark della vicina di Madison che era appoggiata al portone, aspettava sua madre per andare a fare shopping. Spencer le passò davanti senza salutarla e con un’espressione decisamente furiosa.
“Mmm, problemi in paradiso, Romeo?” lo stuzzicò la ragazzina con un’espressione maliziosa dipinta sul volto. Spencer si voltò verso di lei e gli lanciò un’occhiataccia. “Oggi è il mio compleanno. Per favore, potresti evitare di prendermi in giro?” le domandò tentando di tenere un tono cortese. Madison, a differenza sua, aveva stretto amicizia con la ragazzina, sostenendo che le ricordava lei quando aveva la sua età, infatti, spesso suonavano insieme.
L’ultima volta che Spencer aveva visto Alice, l’aveva trovata a casa di Madison a cantare a squarciagola ‘One way or another’ dei Blondie in piedi sul divano mentre la sua fidanzata si scatenava in un assolo di chitarra elettrica degno di un cantante punk.
“Davvero? Auguri, Romeo!” esclamò lei facendo un mezzo sorriso, in fin dei conti, la giovane coppia le piaceva; trovava che fossero perfetti insieme, nonostante lei non credesse affatto nel vero amore.
“Allora, scusami, perché sei inca oggi?” gli domandò perplessa, lei era sempre contenta il giorno del suo compleanno.
Spencer la guardò stranito, che significava ‘inca’? La ragazzina roteò gli occhi platealmente, Spencer era decisamente fuori dal mondo. “Arrabbiato, Romeo. Perché sei arrabbiato?” domandò nuovamente aggiungendo che si augurava che la sua fidanzata gli avesse regalato un manuale di aggiornamento sul linguaggio giovanile del 2014.
Spencer fece una smorfia. “Forse se si fosse ricordata che oggi è il mio compleanno, lo avrebbe fatto!”
Alice alzò un sopracciglio, ecco perché era arrabbiato, e trattenne una risata. “Vedrai che non se l’è scordato” lo rassicurò, a quel punto spuntò sua madre e lo salutò.
 
Verso le due del pomeriggio un gruppetto piuttosto curioso fece ingresso nel palazzo del dottor Reid. “Siamo sicuri che non ha deciso di uscire, vero?” domandò Blake, a cui avevano affidato il compito di portare la torta.
Derek annuì. “Secondo Reid, Thompson è a New York e noi siamo tutti qui, a meno che non abbia deciso di uscire da solo, sicuramente sarà a casa” sostenne l’agente di colore.
La donna fece spallucce mormorando uno “speriamo”, a quel punto chiamarono l’ascensore dove salirono Penelope, JJ, che aveva portato anche Henry, e Blake mentre il resto della squadra si avviò lungo le scale.
Stavano salendo le scale, quando incontrarono Alice e sua madre, Monica, di ritorno dalla loro giornata di shopping; la signora si voltò verso di loro e li salutò cortesemente. “Uh! Siete venuti a fare gli auguri a Romeo? Avete fatto bene, oggi è decisamente di pessimo umore” affermò Alice ridacchiando.
Rossi e Hotch si scambiarono un’occhiata incuriosita. “Oh, scusate! Io sono la vicina di Madison, quindi ho conosciuto Romeo, cioè Spencer” spiegò velocemente la ragazzina. “Siamo venuti a fargli auguri” confermò Derek sorridendo. “Sai se è in casa?” le domandò successivamente.
La ragazzina annuì informandoli che lo aveva incontrato circa tre ore prima mentre saliva a casa.
“Un caro ragazzo Spencer” disse la madre della ragazza con tono gioviale. I tre agenti sorrisero e Derek le invitò a prendere una fetta di torta, le due accettarono senza indugi e salirono.
“Ok, ora ci siamo tutti” disse Blake quando li vide spuntare dalle scale gettando in seguito un’occhiata alle due nuove aggiunte. “Sono le vicine di Madison” le riferì Derek.
“Forse dovremmo suonare anche al signor Chester” propose la ragazzina ai profiler prima che questi bussassero alla porta. “Sicuramente gli farà piacere salutare Romeo” aggiunse, poi si fiondò sul campanello di casa dell’anziano.
“Signorina Alice, che ci fa qui?” domandò l’uomo una volta aperta la porta. “Venga, facciamo gli auguri a Romeo. È il suo compleanno” spiegò la ragazza trascinando fuori l’anziano che si rivelò subito contento della proposta.
“Ah, voi siete quelli delle piante!” esclamò appena riuscì ad inquadrare il gruppetto di profiler.
“Vi confesso che qualche pianta l’ho presa io, il ragazzo le aveva abbandonate lì” ammise con aria colpevole, Garcia scoppiò a ridere. “Ha fatto benissimo” lo rincuorò, a quel punto, essendo al completo, bussarono alla porta del dottor Reid che domandò da dietro la porta chi fosse senza ricevere risposte.
“Chi è?” chiese di nuovo, controllò dallo spioncino e vide il signor Chester. “Chester, tutto bene?” gli chiese aprendo.
“Sorpresaaa!” urlò il resto del gruppo sporgendo la torta con sopra il numero 33.  Il giovane genio sorrise, doveva aspettarselo che i suoi colleghi non si sarebbero limitati a dei semplici messaggi di testo.
“Grazie mille” li ringraziò leggermente commosso, poi si fece da parte per farli entrare. Penelope accese le candeline, iniziando a intonare il tanto beneamato ‘tanti auguri a te’ seguita dal resto della banda che si lanciò alla fine della canzone in un lungo applauso, e Spencer leggermente rosso in viso, il ‘tanti auguri’ lo faceva sempre arrossire, soffiò le candeline dopo aver espresso il suo desiderio.
A quel punto le tre donne, aiutate da Monica e Alice, si spostarono in cucina per iniziare a tagliare le fette.
Henry  tirò Spencer per una manica per farsi prendere in braccio, facendo sorridere il suo padrino. “Ci sei pure tu?”
Il bimbo annuì facendo scuotere i biondi capelli che gli ricaddero sul viso. “Tu ci vieni al mio compleanno?” gli domandò con la sua solita vocina che intenerì Spencer. “Certo che ci vengo al tuo compleanno” esclamò lui, gli diede un bacio sulla guancia e lo sedette sulla sedia.
“Dada dov’è?” domandò il bimbo che si guardava intorno alla ricerca della rossa.
“Intendi Maddie? Non c’è oggi” rispose rabbuiandosi, per un momento si era dimenticato di Madison, il bimbo annuì, scese dalla sedia e andò da sua madre.
“Come mai Madison non c’è?” si sorprese il signor Chester. “È andata dai suoi” tagliò corto Spencer lasciando intendere all’anziano che non aveva voglia di parlarne.
Derek, che aveva ascoltato la conversazione per allentare la tensione, gli porse la bottiglia di spumante, Spencer l’afferrò e la scosse con violenza puntandola in direzione dell’agente di colore che sgranò gli occhi. “Hey ragazzino! Che intenzioni hai con quella bottiglia?” gli domandò indietreggiando di qualche passo.
“Oh! Un piccolo bagno, nulla di che!”
Fece un sorriso leggermente malizioso, stappò la bottiglia facendo finire il tappo contro il soffitto e bagnò Derek dalla testa ai piedi che iniziò a insultarlo fra le risate dei presenti.
“Ragazzino, questa me la paghi” lo minacciò ridendo a sua volta. “Vieni qui” lo chiamò allargando le braccia, il giovane indietreggiò a sua volta ma finì contro il tavolo del salotto perciò non sfuggì a Derek che lo abbracciò bagnandolo a sua volta.
Nel frattempo Rossi si era impossessato della bottiglia di spumante, versò il suo scarso contenuto nelle coppe che il dottor Reid aveva tirato fuori per l’occasione, senza riuscire a riempire nemmeno la metà, cosicché ne aprì un’altra.
Una volta che tutti ebbero i propri bicchieri riempiti, i presenti iniziarono ad acclamare Spencer costringendolo al famigerato discorso. “Ok, ok. Lo faccio” rispose lui facendo un gesto con la mano perché la smettessero.
“Sapete quanto io sia negato a parlare in pubblico, quindi vi prego, accontentatevi” esordì il festeggiato. “Innanzitutto, vorrei ringraziarvi. Sapete, quando ero piccolo, mia madre spesso si è dimenticata del mio compleanno, perciò non l’ho sempre festeggiato. Da quando vi ho conosciuto invece ho una certezza: il mio compleanno non passerà mai inosservato ed io non vi ringrazierò mai abbastanza per questo”
L’emozione nella voce del giovane era palpabile e Penelope e JJ intenerite lo abbracciarono, anche Derek si unì all’abbraccio scompigliando i capelli a Spencer.
“Ovviamente grazie anche a voi di essere venuti” disse ai suoi tre vicini sorridendo. Era sincero, gli faceva molto piacere sapere che anche nel suo palazzo aveva persone che gli volevano bene.
“Figurati, Romeo. Comunque io sono venuta solo per la torta” lo prese in giro Alice, facendo scuotere la testa a Spencer.
Trascorsero il resto del pomeriggio a ridere e scherzare, poi verso le cinque Rossi e Hotchner salutarono il festeggiato, anche il signor Chester si ritirò nel suo appartamento.
Blake invece si scusò con il festeggiato poco più tardi dicendogli che doveva assolutamente rincasare, seguita da Monica, la vicina di Madison, che doveva scendere a preparare la cena per suo figlio. “Alice, su, scendiamo!” richiamò la figlia che si intratteneva a parlare con Morgan.
“Mamma, sto parlando del mio futuro lavoro” protestò la ragazzina. “L’agente Morgan mi farà da tutor” aggiunse compiaciuta.
“Alice, l’unico tutor che ti serve per ora è uno di matematica” ribadì sua madre, che la prese per un braccio trascinandola fuori dall’appartamento del dottor Reid  nonostante Alice continuasse a protestare.
“Spence, credo che anche io e il piccolo Henry ti salutiamo. Will sarà già tornato dal lavoro” gli riferì JJ sorridente mentre metteva il cappottino al figlio.  Spencer annuì e ringraziò di nuovo l’amica abbracciandola. “Ti voglio bene” le sussurrò. “Anche io” rispose la bionda ricambiando l’abbraccio.
A quel punto l’appartamento del dottor Reid si era quasi completamente svuotato, rimanevano solo Penelope e Derek che aspettavano il messaggio della dottoressa Thompson.
Garcia iniziò a lavare i bicchieri per temporeggiare mentre Derek continuava a prendere in giro Spencer dando ogni tanto una veloce occhiata al suo cellulare. “Oh, Garcia! Non preoccuparti, ci penso io” la rassicurò il giovane genio notando che l’analista informatica si stava dando da fare con detersivo e spugnetta.
Penelope scosse un dito in aria sottolineando che il festeggiato non doveva lavare i piatti e lo cacciò dalla cucina; il genietto uscì senza replicare e iniziò a raccogliere i piatti e le posate di plastica sporche buttandole dentro un sacchetto nero dalla spazzatura.
Penelope aveva appena finito di lavare tutti i bicchieri, quando Derek le fece un cenno, Madison si era fatta finalmente viva. “Ragazzino, abbiamo una cosa per te” gli riferì l’amico tirando fuori dalla giacca la busta gialla contenente il primo indizio.
Spencer aggrottò la fronte e aprì la busta. “Se stai leggendo questo significa che Derek ha portato a buon fine il suo compito. Benvenuto alla primissima edizione di ‘Una caccia al tesoro per Spencer’ organizzata dalla Pillola’s events” Non appena finì di leggere quella prima riga, scoppiò a ridere; quella ragazza era completamente fuori di testa. Anche Penelope e Derek, che sbirciavano il foglio da sempre le spalle di Spencer, risero.
“Il tuo primo indizio è il seguente:
‘Redatta da Jefferson, trentatré son i miei padrini. Fonte d’ispirazione gli Illuministi, in me grandi principi si son misti. Se leggere mi vorrai, dove dovrai andar?’
Quando arriverai a destinazione, riceverai un altro indizio. In bocca al lupo e buon divertimento!” si concludeva il messaggio.
“Sai dove devi andare?” gli domandò Penelope certa che il giovane genio sapesse indubbiamente dove doveva andare, ed infatti non si sbagliava.
“Allora ragazzino, muoviti. Hai da fare” lo incoraggiò Derek. Spencer s’infilò la giacca e uscì di casa assieme a Penelope e Derek; infine, giunti all’angolo della strada si separarono lasciando il festeggiato alla sua caccia al tesoro dopo avergli augurato buona fortuna.

 
Spencer prese la metro e scese nei pressi del Mall, camminò velocemente fino ai National Archives, il luogo dove era custodita la Dichiarazione d’Indipendenza Americana, l’oggetto a cui si riferiva l’indizio, e trovò seduta sugli scalini Paget che lo salutò dandogli il suo regalo oltre al secondo indizio.
“Auguri Spence!” trillò la mora, il giovane le sorrise e la ringraziò per il regalo. “Oh! È una sciocchezza!” disse lei sorridente. Spencer aprì il pacchetto: era una sciarpa gialla, un colore piuttosto insolito per i gusti del giovane genio, che rimase un attimo perplesso. “Ho pensato che un tocco di vivacità non ti facesse male e Mads era d’accordo” controbatté lei con un tono che non lasciava spazio a possibili repliche, Spencer rise e la posò dentro la tracolla.
“Che dice l’indizio?” gli chiese Paget. “Grande centro di smistamenti son stato in passato e ancora oggi da migliaia di persone son attraversato. Di sicuro se un regalo vuoi far, da me verrai” lesse Spencer che capì subito che si riferiva all’Old Post Office.
“Ora devo scappare, ti prometto che la prossima volta che mi vedrai, indosserò la sciarpa” la rassicurò e si rimise subito in cammino. Doveva prendere un’altra volta la metro.

“Corri, agente Reid, corri” lo canzonò la mora ridendo prima che scomparisse dalla sua vista.
 
Quando arrivò a destinazione, si trovò davanti alcuni dei ragazzini della casa di famiglia ‘Hope’ assieme a Judith e Albert.
“Auguri!” trillarono tutti facendo arrossire Spencer, che non si aspettava minimamente che la sua fidanzata avesse coinvolto anche loro.
Successivamente notò che i ragazzini avevano in mano dei cartoncini bianchi con dei simboli disegnati e domandò subito di cosa si trattasse. “Allora i simboli dei cartelli che hanno in mano i ragazzi corrispondono a delle lettere, noi ti diamo trenta secondi per memorizzarli. Ovviamente dovrai anche ricordare l’ordine in cui sono disposti” esordì Albert, poi sollevò una busta. “Qui troverai un foglio dove sono riportate le lettere a cui corrispondono. Componi la parola e troverai il tuo ultimo indizio” concluse l’uomo facendogli l’occhiolino.
“Pronto?” gli chiese Judith che stringeva un cronometro fra le mani, il giovane annuì e la donna fece scattare il tempo. Inutile dire che in meno di trenta secondi, il festeggiato aveva già memorizzato sia l’ordine che i simboli, aspettò comunque lo scadere dei trenta secondi per assicurarsi di aver memorizzato tutto in maniera corretta. Dopodiché prese la busta che Albert custodiva e formò la parola ‘ciliegio’.
“C’è un solo posto in tutta Washington, dove puoi trovarlo” disse Judith dandogli un ulteriore indizio, Spencer aggrottò la fronte, non sapeva minimamente dove fosse. Stava per dirlo a Judith quando improvvisamente gli venne in mente, Madison stessa glielo aveva detto.
A quel punto salutò l’allegro gruppetto e partì alla volta del Franciscan Monastery Gardens.

 
Arrivato al bellissimo parco, considerato una delle gemme nascoste della capitale, Spencer chiese ad uno dei custodi dove fosse il ciliegio.
L’uomo molto gentilmente lo accompagnò alla parte del giardino dove poteva essere ammirato il nostro albero, destinazione finale della caccia al tesoro, e dove Madison lo aspettava seduta su una panchina sotto l’ampia chioma dell’albero dai piccoli fiori bianchi.
“Non è ancora fiorito, ma vedrai che bellezza che sarà quando succederà” gli disse non appena lo vide, poi si alzò e gli porse un grosso pacchetto con un fiocco rosso. “Auguri!” trillò la rossa rivolgendogli uno splendido sorriso.
Il giovane prese il pacchetto e lo ripose nuovamente sulla panchina di modo da accorciare le distanze fra di loro, si avvicinò alla sua fidanzata e la prese fra le braccia, tenendola così stretta che riusciva a sentire il battito del suo cuore nonostante i diversi strati di stoffa che li dividevano.
“Mi stai stritolando” si lamentò lei scherzosamente, Spencer rise e allentò leggermente la presa. “Allora non ti sei scordata del mio compleanno” mormorò lui puntandole addosso i suoi grandi occhi color nocciola.
Madison rise dandogli un buffetto sul naso. “Non avrei mai potuto dimenticare il tuo compleanno”
“A proposito, ti salutano anche i miei. Forse ti chiameranno più tardi” aggiunse sorridente.
Il giovane genio sorrise a sua volta e si sporse verso di lei, facendo sfiorare i loro nasi, e mordicchiò dolcemente le labbra della rossa che ridacchiò mentre le sue mani accarezzavano la nuca di Spencer affondando le dita nei suoi capelli.
Le loro labbra si cercarono, assaporando quell’istante senza fretta; Spencer sentì la lingua della sua fidanzata stuzzicargli il palato mentre le sue mani, diventate ormai piuttosto intraprendenti, scivolarono verso il fondoschiena della rossa. “Che sta facendo dottor Reid?” gli domandò con espressione leggermente maliziosa.
“Non posso?” ribadì lui continuando a darle piccoli baci sul collo. “Mmm.. visto che è il tuo compleanno te lo consento” rispose lei scherzosamente. “Ma il mio regalo non lo vuoi proprio aprire?” chiese e si voltò per riprendere il regalo.
Il festeggiato le cinse la vita da dietro. “L’unico regalo che volevo eri tu”
“Lo terrò a mente. L’anno prossimo mi infiocchetto e vengo da te” propose lei voltandosi di nuovo verso di lui. “Prometto che indosserò solo il fiocco” sussurrò con voce suadente all’orecchio di Spencer che rise.
A quel punto il giovane cedette alle insistenze della giovane dottoressa e si accinse a scartare il suo regalo trovandovi al suo interno una polaroid. “Visto il tuo limitato rapporto con la tecnologia, ho pensato che catapultarti nel mondo delle reflex fosse eccessivo quindi come prima fotocamera una polaroid poteva fare a caso tuo” gli spiegò.
“Insomma per cambiare cellulare abbiamo consultato oltre trenta siti internet e visitato cinque grandi negozi di elettronica” ricordò la rossa.
“Se mi avessi regalato il Nokia Lumia io non avrei protestato” la prese in giro Spencer scattandole una fotografia che immortalò lo sguardo di rimprovero di Madison all’affermazione del suo fidanzato.
“Sai, all’interno di questa fotocamera è stata inserita una cartuccia contenente una serie di fogli fotosensibili, coperti da una pellicola che dal lato a contatto con il foglio è impregnata di una sostanza reagente. Quando separi questi fogli fotosensibili dal foglietto reagente, scopri così l’immagine impressa” spiegò il giovane genio compiendo il gesto descritto e porgendo a Maddie la sua fotografia che si stabilizzò nel giro di un qualche minuto.
Poi si avvicinò a lei e si auto scattarono una fotografia. “Deduco che ti piace il tuo regalo” affermò soddisfatta la rossa che rubò un secondo la polaroid per scattare a sua volta una fotografia a Spencer che sorrideva.
“Sì, ho sempre voluto una polaroid da piccolo. Sai, le polaroid venivano considerate le fotocamere del ‘fotografo della domenica’ dato la loro scarsa capacità di immagazzinamento” sciorinò altre notizie Spencer, facendo scuotere la testa a Madison che a quel punto prese la torta.
“So che hai già spento le candeline, ma lo fai lo stesso con me, vero?” domandò con un tono un po’ infantile, il suo fidanzato annuì divertito e si sedette sul prato.
Madison aprì lo scatolo svelando il suo contenuto: il famoso cheesecake. “Credo che se continuiamo a mangiarlo, un giorno ci verrà da rimettere al sentire solo la parola cheesecake” disse Spencer mentre la sua fidanzata accendeva le candeline.
La giovane alzò lo sguardo verso di lui e sollevò un sopracciglio. “Hai ragione, non ci stancheremo mai di mangiarlo” affermò lui, poi soffiò le candeline senza esprimere alcun desiderio questa volta.
Stavano mangiando il cheesecake seduti a gambe incrociate l’uno di fronte all’altra quando Maddie si sporse in avanti sporcando la punta del naso del genietto con un po’ di sciroppo di fragola.
Spencer la guardò perplesso mentre lei ridacchiava, come avrebbe fatto una bambina, ma non si arrabbiò, anzi scoppiò a ridere anche lui e con il suo cucchiaino sporcò il naso della rossa.
Poi posò il suo piatto sul prato e tolse di mano anche a Madison il suo; prese le mani della giovane e le baciò le nocche, si avvicinò al suo viso e la baciò sul naso gustando lo sciroppo di fragola.  Anche Maddie fece lo stesso e gettò le braccia attorno al collo di Spencer che si sdraiò trascinandola giù con sé e si baciarono di nuovo.
Questa volta fu un bacio lento e dolce dal gusto di cioccolato e fragola che li proiettò in una dimensione unicamente loro, annullando i loro sensi. Come accadeva ogni volta, la mente del giovane profiler si spense, tutte le sue preoccupazioni, le sue paure scomparsero; d’altronde, gli bastava un solo luminoso sorriso di quella ragazza per colmare quel vuoto che spesso nella sua vita lo aveva sopraffatto e scoraggiato.
“Hai espresso il desiderio prima?” gli domandò Madison sotto voce, il suo fidanzato scosse la testa. “Non ne avevo bisogno” rispose accarezzandole delicatamente la guancia.
Spencer la strinse ancora di più a sé lasciandosi cullare da quell’adorabile profumo di pesca e miele mentre una sola consapevolezza s’impadroniva della sua brillante mente: non avrebbe permesso mai a nulla e a nessuno di portargliela via.  

 
 
 



Hey you!:D rieccomi, forse stavolta ho esagerato con la fantasia, ma la scena iniziale era quasi un dovere XD diciamo un tributo alla signora Reid ;D

Comunque ho appena sentito sul tg che a Las Vegas sta per nevicare o_O io ho sempre pensato che non esistesse l'inverno, quindi vi chiedo scusa se mi sono sparata quella cazzata u.u spero mi perdonerete, ma mi scocciava cancellare tutto e riscrivere qualcosa di diverso, dunque facciamo finta che sia così, intesi?:p
Alla prossima! E Buon Albero di Natale per chi lo fa oggi!:)

 

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Capitolo 19
*** L'equazione di Dirac. ***


“L’equazione di Dirac”


 Derek Morgan sapeva come far divertire le persone, come coinvolgerle, farle scatenare. Riusciva sempre a trascinare nelle sue serate chiunque sentisse le sue proposte. Tutti tranne una persona: il dottor Spencer Reid.
Per ben otto anni si era impegnato ad infrangere le barriere dietro cui il suo giovane amico si nascondeva, straniandosi volontariamente dalla realtà per vivere nel suo mondo dove lui non era ancora cresciuto, dove le responsabilità non esistevano, dove sua madre non era schizofrenica e suo padre era persona su cui poter contare.
Quel ragazzo non era un mistero per Derek Morgan da tempo. Aveva capito che Spencer non aveva solo paura degli altri e di essere ferito, ma aveva soprattutto paura della sua mente, di sé stesso. Glielo aveva confessato a parole, ma anche nei gesti, nel timore dei suoi occhi nocciola che scrutavano il mondo alla ricerca di appiglio, di qualcosa a cui afferrarsi.
Glielo aveva confessato anche quel lontano 30 novembre davanti a casa sua sotto una leggera pioggia quando gli aveva raccontato di quel bacio non dato e di quanto avrebbe voluto invece che fosse successo. “Io ho paura, Derek, una fottutissima paura perché ogni volta che ho amato qualcosa, mi è stata portata via” aveva riconosciuto dopo che l’amico gli aveva chiesto cosa stesse aspettando.
Derek aveva potuto guardarlo negli occhi, leggere la sua espressione e capire quanto si sentisse a pezzi e provato. La vita non era stata affatto gentile con Spencer, il destino nefasto e la sorte spesso traditrice.
E il suo collega, ormai più un confidente e un amico, che aveva deciso di proteggerlo ad ogni costo come si conviene ad un fratello minore, lo sapeva, perciò per anni lo aveva spronato, incoraggiato, sostenuto affinché un giorno finalmente potesse incontrare quella serenità che tanto si meritava.
Sapeva che tutto quel dolore doveva avere fine e che presto il mondo sarebbe diventato un bel posto dove stare per il giovane genio e quando lo vide entrare nel locale, dove si erano riuniti quella sera, sorridente e appagato mano nella mano con Madison Thompson non poté fare a meno di sorridere nel constatare che finalmente il mondo non spaventava più Spencer Reid.
“Qualcuno di voi può spiegare a Spence che i soprannomi non saltano fuori come funghi?” esclamò la rossa mentre si accomodava al tavolo.
Derek e Penelope sollevarono un sopracciglio, di cosa parlava?
“Spence vuole che gli trovi un soprannome solo perché lui ne ha trovato uno a me” spiegò d’un fiato. “Solo che si scorda che il mio soprannome è frutto di un suo momento di dislessia” soggiunse incrociando le braccia e gettando una finta occhiata di disappunto al suo fidanzato.
“In realtà, non è corretto parlare di dislessia perché..” provò a correggerla Spencer, Madison gli tappò la bocca con un bacio a stampo. “Ti prego!” lo esortò. “Siamo in un locale non in un’aula universitaria”
Spencer annuì e non aggiunse altro.
“Wow, era così facile zittirlo” commentò Penelope mentre sorseggiava un bicchiere dal contenuto azzurrino.
“Chissà come mai non ci abbiamo pensato prima” disse invece Derek ridendo.
“Io poi ho trovato la nostra canzone, ho dato un contributo alla nostra intimità” ribadì Madison agitando un dito in aria contro Spencer. Al suono della parola ‘intimità’, Derek riprese a sghignazzare.
“Secondo me, il ragazzino avrebbe gradito anche un altro tipo di contributo” li stuzzicò dando una gomitata a Spencer che avvampò.
“Uuuh, che bellooo! E qual è la vostra canzone?” chiese l’analista desiderosa di saperne di più e ignorando la battuta di Morgan.
“Consequence dei Notwist. Anche la musica di quella canzone parla di noi” raccontò Madison entusiasta. “C’è una base di elettronica che si ripete ed è sconnessa, ma poi parte il suono del piano che riporta l’ordine e l’armonia. Esattamente come succede a noi quando siamo insieme” continuò a spiegare la rossa mordendosi il labbro inferiore.
Penelope si lasciò sfuggire un prolungato “oh” mentre Derek si schiarì la gola cercando di impedire a se stesso di fare una battuta su quella spiegazione decisamente troppo smielata.
I due fidanzatini continuarono a battibeccare per un altro po’ tirando fuori argomentazioni astruse, tra cui una statistica secondo la quale i soprannomi vengono coniati massimo entro i primi due mesi e loro ormai erano arrivati al terzo mese, mentre Morgan e Garcia li osservavano. “Dio li fa e poi li accoppia” osservò la bionda facendo ridere la coppia.
Stavano chiacchierando su cosa avrebbero fatto quel finesettimana, quando i cellulari dei tre collaboratori del F.B.I. suonarono. Era un messaggio dell’agente supervisore Aaron Hotchner, la squadra aveva assunto un caso nel Nebraska.
“Beh, se vi consola, io vi avrei comunque lasciato tra poco” disse Thompson facendo spallucce.
“Ma oggi non hai la notte” ricordò Spencer che aveva memorizzato gli orari di lavoro della sua fidanzata da tempo.
“Sì, ma sarei comunque andata in ospedale” spiegò lei. “In questi giorni ho notato che il dottor Brown era distratto, cosa che non è affatto da lui, così ho indagato e ho scoperto che la sua ex moglie è ricoverata al reparto di oncologia, è all’ultimo stadio di un tumore al pancreas. Lui la va a trovare ogni giorno e credo che ormai siamo arrivati alla fine perciò ho pensato che questa notte avrebbe gradito un po’ di compagnia” raccontò ai suoi amici.
I tre annuirono sostenendo che sicuramente il dottor Brown avrebbe apprezzato il gesto, a quel punto, dovendo raggiungere Quantico al più presto, si accinsero a salutare la dottoressa.
Madison diede un bacio sulla guancia sia a Penelope che a Derek e abbracciò Spencer. “Abbi cura di te” sussurrò all’orecchio del giovane profiler prima di sciogliersi dall’abbraccio.
“Anche tu” rispose Spence dandogli un buffetto sul naso che fece sorridere Garcia e Derek ed infine si lasciarono.
 
“Queste chiamate improvvise cominciano a darmi sui nervi” dichiarò Blake esprimendo a voce alta il pensiero di tutti i profiler presenti in sala riunioni.
“Non dirlo a me. Con Will saremmo partiti domani assieme a Henry, volevano portarlo un po’ al mare” raccontò rassegnata JJ; avevano organizzato quel finesettimana nei dettagli per compensare alla mancata vacanza sulla neve che anche quell’inverno non erano riusciti a fare.
“Il prossimo weekend andrà meglio” affermò Aaron Hotchner con tono serio mentre prendeva posto in sala riunioni.
“Lincoln, Nebraska. Sono stati trovati tre corpi finora, il primo fu trovato sei settimane fa, il secondo due settimane fa e l’ultimo stasera” esordì Garcia mentre con il telecomando accedeva i monitor per far scorrere le immagini.
“Sta accorciando i tempi” commentò Reid che teneva d’occhio il rapporto dove erano inserite le principali informazioni.
“La prima vittima è Amber Wernick, 33 anni. Suo marito denunciò la sua scomparsa una settimana prima il ritrovamento del corpo” illustrò Penelope. “La cosa stessa vale per la seconda vittima, Gabrielle Kellet, 31 anni, era scomparsa già da una settimana al momento del ritrovamento, mentre la denuncia di Selena Emerson, 29 anni, risale a quattro giorni fa” aggiunse.
“Le prime due vittime le ha tenute in ostaggio per una settimana, forse con l’ultima qualcosa è andato storto” suppose David. “Magari la vittima ha fatto infuriare il nostro assassino, o forse non corrispondeva alle caratteristiche ricercate”
“Le vittime presentano ustioni di primo livello su tutto il corpo, però questo tipo di ustioni non sono mortali e il nostro S.I. ha ricorso ad una busta di plastica per ucciderle. Le ustioni saranno una specie di tortura?” ipotizzò JJ.
“A temperature sopra i 44° C, le proteine cominciano a perdere le loro forme tridimensionali e si rompono, provocando danni ai tessuti e alle cellule, fra gli effetti diretti abbiamo: l’interruzione del tatto e l’incapacità di controllare la temperatura corporea” sciorinò nozioni il dottor Reid.
“Il nostro S.I. potrebbe essere considerato come un piromane?” si domandò Blake.
“No, non combacia con il profilo. Il piromane ha piacere a vedere le reazioni delle persone di fronte alle loro azioni, vogliono leggere ciò che scrivono sui quotidiani, e tendono a visitare il luogo dell’incendio. Nulla in questo S.I. fa pensare che le bruci per eccitazione o per euforia che l’ustione  genera in sé e per sé” replicò Morgan
Blake annuì. “Dai rapporti della polizia, emerge un’incongruenza fra il trattamento riservato alle vittime prima dell’uccisione e quello post mortem” evidenziò la donna. “L’S.I. si prende cura delle vittime, le pettina, le trucca, le veste con tessuti pregiati ”proseguì.
“Per poi sbarazzarsi dei loro corpi come se fossero spazzatura” osservò Rossi, le fotografie parlavano chiaro: l’S.I. non aveva alcuna pietà dei corpi delle defunte che venivano lanciati in una discarica molto probabilmente da un veicolo in corsa, secondo quando veniva riferito dal rapporto della scientifica.
“Avrà a che vedere con il rituale di morte. Le vittime sono preziose per il nostro S.I. finché sono in vita, da morte non costituiscono alcun fulcro d’interesse per lui” espose la propria teoria il dottor Reid, il cui cervello iniziava ad elaborare teorie su come potessero rappresentare quelle donne per l’S.I.
“Garcia cerca qualche connessione fra le vittime. Magari frequentavano gli stessi posti, facevano la spesa nello stesso supermercato, qualsiasi cosa che possa accomunarle di modo da capire come l’S.I. possa essersi avvicinato a loro” ordinò Hotch alla bionda che annuì ed uscì dalla stanza.
“Reid, Rossi voi andrete dal medico legale. Morgan, Blake, voi vi recherete sulla scena del crimine. JJ, voglio che parli con i famigliari delle vittime e con la stampa. È probabile che l’S.I. colpisca nelle prossime ore, è importante diramare un comunicato stampa al più presto domani mattina” diede le proprie direttive l’agente supervisore Aaron Hotchner, infine la squadra si apprestò a salire sul jet. Dovevano arrivare nel Nebraska al più presto.
 
Erano ancora sul jet quando Garcia li contattò per informarli sui risultati della ricerca svolta. “Brutte notizie, mes amis. Ho incrociato ogni aspetto delle vite delle nostre vittime per capire se fossero in qualsiasi modo relazionate, ma non ho trovato nulla. Abitavano in zone diverse della città, avevano hobby differenti e non frequentavano gli stessi posti. Sono praticamente agli antipodi” illustrò la bionda. “Non avevano nemmeno gli stessi gusti musicali”
I profiler fissarono l’analista perplessi, quell’informazione non era rilevante in alcun modo. “Oh, ho dato un’occhiata ai loro profili facebook, a volte può essere utile per ricavare qualche informazione” spiegò lei provando a giustificarsi.
“Garcia,  analizza gli ultimi movimenti delle loro carte di credito. Forse potremmo ricavare qualche informazione su dove fossero prima della cattura” ordinò Hotch a Penelope che chiuse il collegamento con il suo solito ‘sissignore’.
“Reid, a che pensi?” domandò Blake al giovane genio che aveva lo sguardo perso nel vuoto, stava sicuramente pensando a qualcosa.
“Pensavo al caso che abbiamo risolto qualche anno fa, quello di Samantha ad Atlantic City” rispose Reid. Quel caso aveva qualche analogia, nonostante in apparenza si muovessero su piani differenti, l’S.I. in qualche modo giocava con le sue vittime.
“La ragazza delle bambole viventi” ricordò Morgan mentre un brivido percorreva la sua schiena. La sua mente aveva archiviato quel caso come uno dei più inquietanti.
“Esatto. La cura spasmodica, che l’S.I. ha delle vittime quando sono ancora in vita, me lo ha ricordato. È come se fossero un suo giocattolo, altrimenti perché le avrebbe truccate, pettinate e vestite?” suppose il giovane profiler.
“Le vittime sono anche state sparse con diverse lozioni. Sui loro corpi sono state ritrovate tracce di cera d’api, di vaselina, di lanolina, argilla in polvere, anche tracce di oli essenziali: tutti ingredienti con cui vengono elaborati questi tipi di cosmetici” ricordò mentre ripensava ai referti del medico legale.
“Credi che l’S.I. li abbia preparati in casa? Oppure deve per forza aver acquistato questi cosmetici?” domandò Rossi al dottor Reid.
“Oh, sicuramente se ha una preparazione nel campo delle scienze erboristiche può averli realizzati lui stesso, però sono necessari diversi ingredienti, molto costosi, tra l’altro. Gli oli essenziali utilizzati sono molto rari e il loro costo ammonta a oltre un centinaio di dollari l’uno” riferì al resto della squadra.
Hotch compose il numero dell’analista informatica. “Chiamo Garcia e chiedo di cercare fra i laureati di scienze erboristiche e i dipendenti di aziende operanti nel settore dei cosmetici naturali”
“Anche i negozi che vendono questi tipi di cosmetici possono avere questi ingredienti. Spesso preparano i profumi o le creme vendute” aggiunse il giovane genio.
Dopodiché ne approfittarono per rilassarsi un attimo, avevano ancora un’ora di volo prima di arrivare nel Nebraska.
 
Nel frattempo che i nostri profiler riposavano la mente prima di affrontare una lunga notte d’indagini, Madison Thompson con due caffè in mano entrava nel reparto di oncologia del Georgetown University hospital.
“Si può?” si annunciò mentre bussava piano alla stanza dove Chris Brown seduto su una sedia teneva la mano alla sua ex moglie. “Ho portato anche il caffè”
L’uomo alzò lo sguardo rimanendo stupito di vedere la giovane collaboratrice nella stanza. “Thompson, che ci fai qui? E come facevi a saperlo?” le domandò infatti. Madison notò che aveva gli occhi arrossati dal pianto, anche la voce era piuttosto malferma.
“Ricorda il mio primo giorno in reparto? Lei mi ha detto che dovevo imparare ad indagare. Io ho seguito il suo consiglio ed eccomi qui” spiegò con leggerezza facendo un sorriso al dottor Brown per tirargli su il morale.
L’uomo sorrise. “Credo che tu abbia fatto un buon lavoro” riconobbe, in seguito si alzò e uscirono dalla stanza. Camminarono lungo il corridoio poco illuminato, passando davanti a due infermiere del turno di notte che guardavano con aria distratta una soap opera alla tv, e si recarono nel cortile esterno dell’ospedale dove il personale solitamente trascorreva le pause pranzo.
Il dottor Brown fece un  lungo respiro e si sedette su una delle panche di legno che arredavano il cortile, Madison lo imitò e appoggiò i due caffè; l’uomo tolse un pacchetto di sigaretta dalla tasca e ne offrì  una alla giovane dottoressa che scosse la testa.
“Io non fumo più e neanche lei dovrebbe” rifiutò Madison, il dottor Brown fece spallucce e sospirò di nuovo.
“In questo momento ne ho bisogno” si giustificò, la giovane annuì e accettò la sigaretta. “Farò un’eccezione” gli disse mentre se l’accendeva anche lei.
Christopher tirò una boccata di fumo. “Sally era una moglie eccezionale”
Thompson capì che il dottor Brown voleva sfogarsi perciò rimase in silenzio, aspirò una boccata di fumo anche lei e incoraggiò il suo interlocutore a parlare facendo un cenno con il capo.
“Non ricordo nemmeno più perché ci siamo lasciati. Forse l’amore era semplicemente finito, ma in questo momento non ne sono molto convinto” le confessò. Gli occhi gli brillavano per la commozione, ripensava a tutti i bei momenti che aveva vissuto con sua moglie, l’unica donna della sua vita, ma soprattutto a tutti i momenti che non aveva vissuto e ora non avrebbe mai più potuto vivere.
“Sal voleva tanti bambini, io non ho mai voluto figli, ma per lei ero disposto ad averli. Ci abbiamo provato a lungo, ma Sal non rimaneva incinta”
“Abbiamo passato dieci lunghissimi anni consultando medici su medici per capire quale fosse il problema, anche se lo sapevamo fin dal principio, Sal era sterile. Non è mai riuscita a superarlo, si sentiva in colpa. Pensava che per causa sua io non avrei mai avuto la famiglia che tanto desideravo, ma la verità era che a me bastava lei” le confidò facendosi sfuggire una lacrima.
Thompson gli mise una mano sulla spalla per confortarlo. “Mi dispiace Chris”
Rimasero fuori per un’altra ora in silenzio guardando i fari delle automobili del traffico notturno di Washington che illuminavano debolmente il cortile, infine quando rientrarono il dottor Brown si recò nella stanza della sua Sally che tossiva sempre più fievolmente nel sonno e Madison si sedette su una barella con la schiena appoggiata contro il muro del corridoio.
Verso le tre e mezza del mattino, la donna si svegliò e chiamò Christopher; la giovane dottoressa notò i due parlare per qualche minuto mentre Chris stringeva entrambe le mani a Sally. L’uomo appoggiò la testa sul letto abbandonandosi ad un leggero pianto mentre lei con le ultime forze che le erano rimaste gli accarezzava la nuca.
Quello fu l’ultimo gesto di Sally, poi la sua mano cadde senza vita nel vuoto e subito dopo il silenzio fu rotto dal suono dell’ECG segnalante l’assenza di battito cardiaco.  
Madison si alzò e annotò sulla cartella l’ora del decesso che in seguito consegnò alle due infermiere ed uscì dal reparto.
 
 
“Io non posso crederci” affermò il fidanzato di Selena Emerson, l’ultima vittima del S.I., mentre si nascondeva il viso fra le mani.
“Quando è stata l’ultima volta che ha visto la sua fidanzata?” chiese JJ mentre allungava verso di lui una tazza di the caldo perché si tranquillizzasse.
Il giovane rifiutò il the offertogli ringraziando l’agente del pensiero e tirò su con il naso. “Ci siamo sentiti lunedì sera per l’ultima volta al telefono verso le cinque e mezza del pomeriggio. Mi ha detto che sarebbe venuta da me quella sera, ma non è mai arrivata” raccontò alla bionda che annuì.
L’S.I. aveva catturato la Emerson sicuramente nelle prime ore della sera. “Per caso le ha detto se andava da qualche parte prima?” domandò ancora l’agente.
Ripensò all’ultima conversazione che aveva avuto con la sua fidanzata. “Sì, mi ha detto che doveva passare prima da una sua amica, Jess Sullivan” le riferì, poi bloccò l’agente Jareau prendendola per un braccio.
“Agente, sia sincera, ha sofferto molto?” domandò con gli occhi lucidi e deglutì, voleva sapere come se fosse morta la sua fidanzata, ma aveva tuttavia paura di quello che avrebbe potuto sentire.
JJ posò una mano sulla spalla del giovane per confortarlo. “Selena è stata soffocata con una busta di plastica” lo informò. “Se ha bisogno di parlare, non esiti a chiamarmi” aggiunse ed infine si congedò dopo essersi scusata.
 
Nel frattempo che JJ era a colloquio con il fidanzato di Selena Emerson, Reid e Rossi venivano aggiornati dal medico legale.
“Questa volta c’era qualcosa di diverso” dichiarò il medico legale inforcando gli occhiali. “Sulla vostra vittima ho rinvenuto tracce di grasso di  rognone di maiale e di bue” riferì ai due profiler che rimasero perplessi.
“Credo che sia stato il contatto con il grasso di maiale a provocare le ustioni alle vittime” disse ancora l’uomo.
“Ustioni con il grasso di maiale?” domandò Rossi esterrefatto, cosa faceva il nostro S.I. con le vittime?
“Sì, è la prima volta che mi capita qualcosa di simile” ammise il medico legale che contemplava il corpo della vittima, leggermente arrossato. “Molto probabilmente la temperatura raggiungeva i 60°-70°” aggiunse.
Il dottor Reid fissava le ustioni della vittima pensando al collegamento con l’uso del grasso di maiale, improvvisamente sgranò gli occhi; Rossi, che ormai lo conosceva da tempo, sapeva che il suo cervello stava macchinando qualcosa perciò lo invitò a renderli partecipe delle sue confabulazioni.
“Credo di sapere cosa fa l’S.I. con le vittime” dichiarò il giovane profiler. “Ricava la loro essenza” affermò mentre rabbrividiva per l’aver solo pronunciato quelle parole ad alta voce.
“Vuole ricavare cosa?” domandò Rossi perplesso. “Realizza oli essenziali con l’odore delle vittime. Il processo si chiama infusione nei grassi a caldo, oppure macerazione, e consiste nell’immergere i fiori, in questo caso i corpi, nel grasso per un tempo variabile, anche fino a 48 ore, dopodiché si realizza la centrifugazione con cui si spreme il grasso dai fiori” spiegò.
Rossi e il medico legale fecero una smorfia di disgusto al sentire quelle parole; la psiche umana poteva giungere a tali livelli di psicosi e pazzia che non si sarebbero riusciti a concepire nemmeno dopo anni di esperienza sul campo.
L’uomo era un essere malato nel profondo, aveva un lato oscuro che poco aveva a che vedere il peccato originale perché era molto peggio e quando quel lato fuoriusciva, ciò di cui sarebbe stato capace non avrebbe mai potuto trovare perdono o anche solo una spiegazione.
Avendo concluso il colloquio con il medico legale, i suoi agenti ritornarono al dipartimento di polizia per rivelare gli inquietanti dettagli appresi al resto della squadra.
 
 
“A quanto pare, Selena doveva andare da una sua amica Jess Sullivan che però ha riferito agli agenti che non ha visto la vittima, dunque l’S.I. deve averla catturato in un lasso di tempo fra le diciassette e trenta e le diciannove, l’orario in cui sarebbe dovuta andare a casa della Sullivan” riferì JJ al resto della squadra.
“Dai movimenti della carta di credito è stato rivelato che ha acquistato una maglietta in un negozio su West Bond Street, che è abbastanza vicino a casa della Sullivan” comunicò Morgan che aveva appena chiuso la telefonata con Garcia.
“Reid ha capito cosa fa l’S.I. con le vittime” annunciò Rossi entrando nella stanza e passò la parola al giovane profiler affinché informasse gli altri profiler. Spencer riferì quanto aveva capito, lasciando tutti a bocca aperta.
“Quindi in sostanza il nostro S.I. vuole creare dei profumi con l’odore della pelle delle vittime?” ricapitolò Morgan che voleva rassicurarsi di aver capito bene, il giovane genio annuì.
“Questo rende più che certo che il nostro S.I. abbia a disposizione i mezzi necessari per la realizzazione dei cosmetici. Avrà bisogno di diverse attrezzature per realizzare un olio essenziale” dedusse Hotch.
“Sì, per la centrifugazione è necessario avere a disposizione idroestrattori oppure presse idrauliche. Si tratta di impianti piuttosto costosi” spiegò il dottor Reid. “L’S.I. ricava così il cosiddetto ‘olio profumato’ oppure ‘huile française’, che può essere messo in commerciale tale quale, altrimenti si procede con l’alcool ad alta gradazione e otteniamo così l’olio essenziale” concluse Spencer.
“Bene, dovremmo tenere d’occhio tutte le botteghe dove è possibile l’acquisto di oli essenziali prodotti artigianalmente. Morgan, chiama di nuovo e dille di restringere il campo” ordinò all’agente di colore che ubbidì.
“JJ, tu terrai una conferenza stampa, abbiamo già avvisato le principali emittenti radiotelevisive e testate giornalistiche. Sottolinea che il nostro S.I. può sembrare una persona per nulla sospetta, va molto fiero dei suoi profumi, soprattutto quelli realizzati personalmente. Avrà certamente manifestato interesse nello scoprire quale fosse il profumo delle vittime, avrà  un olfatto molto sviluppato” disse invece alla bionda che memorizzò quanto riferito.
“Noi invece riferiremo il profilo agli agenti” annunciò ai restanti agenti che annuirono. Aveva appena concluso il proprio discorso quando Morgan ritornò con la lista di Garcia. “Garcia ha individuato quindici potenziali sospettati” illustrò l’agente di colore al telefono con Penelope.
“Quanti sono quelli nei dintorni di West Bond Street?” domandò Hotch. “Sono tre” rispose l’analista e Morgan appuntò su una cartina la localizzazione delle tre botteghe.
“Selena Emerson ha acquistato una maglietta alle 18,14 , sappiamo che era piedi e avrebbe dovuto impiegare circa venti minuti per arrivare a casa dell’amica, quindi era in anticipo perciò magari si è fermata nella bottega dell’S.I., io direi di restringere a queste due. L’altra si trova in direzione opposta a casa della Sullivan” consigliò il dottor Reid che riferì a Penelope i nomi dei potenziali negozi sospetti.
“Bene, mio caro genietto. Iniziamo da Erbolario, la proprietaria e unica dipendente è Susan Aldrin, 38 anni, ha conseguito un master in Fitoterapia tre anni fa e da allora gestisce questo negozio, tuttavia a realizzare gli oli essenziali non è lei. Dai dati della contabilità leggo che intrattiene rapporti con un’azienda fuori città” spiegò I’analista. “Dunque la Aldrin mente ai propri clienti” osservò Rossi. “Dell’altro cosa ci sai dire?” chiese Blake.
“Il proprietario di Floralia è un certo Owen Mosby, un tipo a posto. Nessun tipo di precedente, ha frequentato la Business School laureandosi con un voto piuttosto mediocre, ha lavorato per qualche tempo in un’azienda di esportazioni a Chicago da cui è stato licenziato nel 2008 e da allora gestisce l’attività di famiglia che ha ereditato da sua zia Barbara Collins” riferì Garcia. “Mosby non ha conoscenze nell’ambito delle scienze erboristiche, chi realizza i prodotti?” domandò Rossi. Gli agenti sentirono il picchiettio dei tasti dall’altro capo del telefono.
“Bingo” esclamò la bionda. “Allora ha una dipendente, il suo nome è Nadia Winchester, originaria di Lincoln, laureata in scienze erboristiche. È stata licenziata dal suo lavoro presso una nota azienda del settore dopo che è stata beccata a rubare del materiale, da allora lavora con Mosby ed è a carico del laboratorio” riferì l’analista.
“Potrebbe essere lei” osservò Reid, gli agenti annuirono. “Ottimo Garcia” disse Hotch che la ringraziò prima di chiudere la telefonata.
“Andremo nelle prime ore del mattino ad interrogare Nadia Winchester. Nel frattempo, potete riposarvi, non abbiamo nulla da fare per il momento” annunciò l’agente Hotchner ai profiler che si ritirarono nell’albergo loro assegnato dal dipartimento di polizia.
 
Arrivato nella sua stanza, Reid buttò la tracolla e si frugò le tasche alla ricerca del suo cellulare, voleva chiamare Madison.
“Amore, tutto ok?” risuonò la voce di Madison dall’altro capo del telefono, che se ne stava sdraiata in una delle camere vuote del reparto di Medicina Diagnostica, aveva deciso di passare la restante parte della notte in ospedale, alle sette e mezza attaccava il proprio turno in PS e le scocciava tornare a casa per poco tempo.
“Sì, come al solito” rispose il giovane che si era sdraiato a sua volta nel letto. “Tu?”
Madison gli raccontò della morte di Sally e della conversazione con il dottor Brown. “Mi ha messo una tristezza infinita questa storia. A noi non deve succedere mai nulla del genere, me lo prometti?” chiese la giovane dottoressa a Reid, intanto che questo si sdraiava a pancia in giù. “No, non succederà” rispose sicuro.
“Me la canti una canzone?” le domandò poi, la voce della sua pillola lo faceva sempre addormentare, sentì Madison ridere.
Poco dopo la rossa iniziò a cantare e Spencer chiuse gli occhi, si fece cullare dai versi della rossa e senza pensarci s’addormentò con il cellulare attaccato all’orecchio.
 
Il telegiornale della bottega Floralia era sintonizzato sulla conferenza stampa dell’agente Jareau nel frattempo che Nadia Winchester sistemava assieme alla sua giovane praticante le ultime consegne ricevute. Quella settimana ad aver gestito l’attività di Owen Mosby, partito per un corso di aggiornamento, fu proprio Nadia.
“Questo tipo di pubblicità ci voleva per negozi come il nostro. Già con la crisi, le persone hanno sempre meno voglia di acquistare i nostri cosmetici, aggiungeteci il pazzo criminale che odora le vittime ed è fatta: addio clienti” commentò sarcastica Winchester.
La sua giovane collaboratrice abbozzò un sorriso mentre riempiva lo scaffale come richiesto da Nadia. “Non si rinuncia mai al profumo perfetto” rispose lei con il solito tono trasognato.
“Aah, Molly, Molly! Tu sei affezionata ai profumi, ai loro odori delicati, ma la gente non ha il tuo olfatto sopraffino” ribadì Winchester scuotendo la testa.
“A proposito, come va con la tua creazione?” cambiò argomento la donna. “E’ quasi pronto” esclamò la giovane con una strana luce negli occhi, Winchester annuì. I profumi creati dalla sua giovane amica erano fra i più apprezzati e venduti da Floralia, averla assunta come collaboratrice temporanea era stata un’ottima decisione da parte del signor Mosby. “Torno in laboratorio, ci vediamo dopo” la informò la giovane ed uscì dalla bottega diretta verso il laboratorio per completare la sua opera.
Nel frattempo che la giovane si allontanava dalla bottega, l’agente Hotchner accompagnato dall’agente Blake bussavano alla porta. “E’ chiuso ancora. Apriamo fra un’oretta” riferì ai due Winchester credendoli due potenziali clienti.
“Siamo gli agenti federali Hotchner e Blake, siamo qui per porle alcune domande” si annunciò Hotch, la donna con la fronte corrugata aprì la porta. “Ha visto qualcuna di queste donne?” domandò l’agente Blake.
“Solo lei, ma noi non c’entriamo nulla con la sua morte. Non vorrete mica dirmi che sospettate del signor Mosby” esclamò esterrefatta Nadia.
“No, non è del signor Mosby che sospettiamo, ma di lei” rispose pacata Blake.
La donna scoppiò a ridere. “Siete fuori di testa, io sono una semplice dipendente non una psicopatica omicida” si difese la donna.
“Siamo qui per scagionarla, signora Winchester” la rassicurò Hotchner. “Ci dica dov’era lunedì sera fra le 18,15 e le 19” domandò l’agente supervisore.
“Lunedì è il giorno di chiusura del negozio, perciò ero al cinema con il mio fidanzato. Può chiedere a lui, ho anche il biglietto dello spettacolo ancora in borsa” riferì la donna che frugò la borsa alla ricerca del biglietto. “Ecco vedete” mostrò il biglietto ai due, Blake si allontanò un secondo per verificare l’alibi con l’agente che aveva rintracciato il fidanzato della Winchester.
“E’ a posto” comunicò Blake all’agente Hotchner. “Signora Winchester, lei è l’unica che si occupa della realizzazione degli oli essenziali?” chiese Blake alla donna.
Nadia scosse la testa. “No, sono circa sei mesi che Owen ha assunto una praticante. Al dire il vero, è molto più brava di me e le sue creazioni si sono rivelate preziose per la nostra attività. Ora sta creando un nuovo profumo” riferì la donna entusiasta, i due agenti si scambiarono un’occhiata e il sorriso della Winchester si spense.
“Non crederete che possa essere lei, vero?” d0mandò ai due. “Beh, tutti gli indizi conducono a lei” replicò Blake.
“Come si chiama la sua praticante?”le chiese Hotch.
“Molly Waldman” riferì la donna. “Ora dovrebbe essere nel laboratorio. Lei ha le chiavi, io non ci vado più da almeno due mesi” aggiunse. Blake si allontanò per verificare i dati sulla Waldman insieme all’analista informatica. “La signorina Waldman le è sembrata cambiata in questo ultimo mese?” domandò Hotch.
Winchester fece un respiro profondo e scosse la testa. “E’ sempre stata un po’ strana, ma..” lasciò la frase in sospeso, ripensava a quanto aveva sentito al telegiornale.
La donna sgranò gli occhi. “L’altro giorno quando è entrata lei- indicò la fotografia di Selena Emerson- c’era anche Molly nel negozio e le ha chiesto quale profumo usasse” ricordò che in quel momento visualizzò la scena della Waldman che annusava l’ultima vittima nella mente.
“Hotch, credo che la nostra donna sia proprio Molly Waldman” annunciò Blake di ritorno, l’agente supervisore annuì.
“Dove possiamo trovare Molly?” domandò in seguito, la donna riferì l’indirizzo del laboratorio e rimase con due agenti della polizia nel caso l’S.I. fosse tornata in bottega.
 
Una pattuglia della polizia con le sirene spente seguita da due SUV si dirigeva verso il numero 40 di Adams Street, il luogo dove era situato il laboratorio di Owen Mosby in direzione opposta al posto dove Molly Waldman, che aveva visto gli agenti della BAU entrare nella bottega, s’incamminava.
“Non rovineranno il mio profumo perfetto” dichiarò camminando a passo spedito per le strade di Lincoln. Ormai era quasi pronto, manca quell’ultimo delizioso odore che lei aveva già annusato, quel prezioso profumo di ciliegie mischiato ad erba fresca appena tagliata che quella ragazza aveva addosso.
Svoltò l’angolo e s’introdusse in un locale abbandonato frequentato da drogati nelle ore notturne dove lei aveva nascosto la sua ultima scoperta. Il laboratorio non era più sicuro ormai.
“Cosa vuoi da me?” domandò la ragazza spaventata intanto che Waldman odorava i suoi capelli. Le rivolse i suoi occhi pieni di terrore nella speranza che quella pazza la lasciasse andare.
“Voglio il tuo odore” rispose accecata dal desiderio la sua carnefice. Prese una forbice e le tagliò una ciocca.
“E’ perfetto” farfugliò, nel suo naso si mischiavano quegli odori unici ed inimitabili. Il  profumo perfetto da lei creato, confezionato, da lei che aveva scoperto quei gradevoli profumi prima di chiunque altro.
“Lasciami andare” la supplicò la vittima. “Non ti denuncerò. Ti prego” disse fra le lacrime.
Un ghigno si dipinse sul volto della sua assassina. “Non potrei mai lasciarti andare”
La prese per un braccio e la fece entrare in una stanza dove aveva preparato un letto. Doveva ricavare la sua essenza prima che fosse troppo tardi.
 
“Libero” risuonò la voce dell’agente Reid che aveva appena perlustrato l’ultima stanza del laboratorio di Mosby.
“E’ fuori di alcun dubbio che qui avvengano le uccisioni” commentò in seguito. Aveva attorno a sé contenitori di grasso di rognone e diverse boccette vuote buttate alla rinfusa sul tavolo, fu chiaro al dottor Reid che l’S.I. avesse avuto fretta a mettere in salvo la sua creazione, dall’odore delle boccette poteva dedurre che contenessero oli profumati.
“Dove può essere andata?” si domandò l’agente Morgan. Reid fece spallucce, quegli odori lo avevano annebbiato.
Erano deliziosi, pensò che Madison avrebbe adorato quel profumo. “E’ buono” espresse il suo parere infatti.
Morgan sollevò un sopracciglio. “Ti ricordo la sua provenienza” replicò l’agente di colore.
“Già..” mormorò Spencer posando le boccette. “JJ, terrà un’altra conferenza stampa” riferì ai due Rossi.
“Forse qualcuno ha visto la Waldman” proseguì informandoli che a casa della donna non avevano trovato nessuno.
“Hanno trovato i vestiti delle vittime, li aveva conservati nel suo armadio” aggiunse mentre ritornavano verso il SUV.
“Forse sono come dei trofei per l’S.I.” ipotizzò Reid ed infine i tre agenti salirono sulla vettura assegnata loro.
 
Nel frattempo l’agente Jareau rilasciava il secondo comunicato stampa della mattina riferendo davanti alle telecamere l’identikit del S.I. e il numero del centralino dove avrebbe dovuto telefonare per riferire eventuali segnalazioni riguardo Molly Waldman chiunque l’avesse vista.
Le telefonate non tardarono ad arrivare, gli agenti addetti scartavano velocemente eventuali false testimonianze, erano immersi nel lavoro, quando entrò un uomo sulla sessantina con gli occhi rossi e un’espressione addolorata.
“Ha preso mia figlia, ha preso mia figlia” urlò disperato, l’agente Morgan si avvicinò a lui. “Si calmi. Cos’è successo?”
“Charlie ieri sera non è venuta a casa, l’altra sera mi aveva chiamato spaventata dicendomi che le sembrava di essere seguita. Io l’ho tranquillizzata e lei mi ha detto che sarebbe venuta a cena ieri ma non è venuta” spiegò cercando di controllare i singhiozzi.
“Dove abita sua figlia?” chiese Rossi. “In un appartamento sulla Dodicesima strada, vicino al Easton Telecom Services” riferì.
“Rientra sempre nell’area dove opera l’S.I.” commentò l’anziano profiler, Derek annuì. “Manderemo una pattuglia a casa di sua figlia” disse all’uomo.
Reid che aveva ascoltato la conversazione in disparte fissava la cartina, con le sue amate funzioni matematiche cercava di rintracciare il possibile nascondiglio dell’S.I., a quest’ora doveva essere già al corrente che era la principale sospettata; sapeva che Molly Waldman non aveva la patente perciò dedusse che non poteva essersi allontanata molto assieme all’ultima vittima. Dove avrebbe potuto portarla per ultimare il suo capolavoro?
“Garcia, cosa c’è in quest’area?” domandò all’analista riferendole un indirizzo. “Un vecchio edificio mai finito di essere costruito. La sera diventa covo per i tossicodipendenti” rispose Garcia.
“Capito, grazie Penelope” ringraziò la donna. “Di nulla, Jack” disse lei che aveva deciso di adottare quel soprannome in maniera definitiva e riattaccò.
“Credo che dovremmo andare qui” comunicò agli altri agenti presenti nella stanza.
 
Arrivarono in tempo, Molly Waldman non aveva ancora portato a termine la sua opera quando i profiler fecero irruzione nell’edificio salvando  l’ultima sua vittima ormai quasi comparsa dal grasso di rognone.
La ragazza si sentì chiamare da una bionda che la rassicurò di essere un agente del F.B.I., la sua voce era rassicurante e si lasciò guidare fuori dall’edificio dove un gruppo di parametrici si prese immediatamente cura di lei.
“No, no. Non portatela via, vi prego” li implorò l’S.I. “Devo realizzare il profumo perfetto” dichiarò lei che iniziò ad elencare una serie di odori che sentiva in quel momento, era in pieno delirio psicotico.  Non era più in grado di distinguere la realtà dalle sue fantasie.
“Io mi prendevo cura di loro, in cambio volevo solo il loro odore” confidò all’agente Reid che le metteva le manette ai polsi. “Anche tu hai un buon profumo” gli disse annusando il suo cardigan.
“Sai di pesca bianca e miele, anche lavanda. Lo vorrei per me” dichiarò sgranando gli occhi, Spencer la guardò esterrefatto e rabbrividì.
“Cosa hai, ragazzino?” gli domandò Morgan.
Il giovane profiler scosse la testa. “Era il profumo di Madison quello che ha sentito” affermò il dottor Reid leggermente spaventato.
Con quella cattura il caso di Lincoln si concluse. Potevano finalmente rientrare nella sede della B.A.U., a Quantico.
Durante il viaggio in jet, la squadra dormì d’una tirata, avevano ancora sonno da recuperare, tuttavia giunti a destinazione dovettero rimettersi al lavoro per concludere con la compilazione dei rapporti pretesi dal capo sezione.
Spencer riuscì a rientrare a casa dopo mezzanotte, buttò la tracolla sul divano e mandò un messaggio alla sua fidanzata per informarla che era tornato. Aveva evitato di telefonarle perché temeva che stesse dormendo, dopotutto anche lei aveva trascorso una notte insonne, aspettò qualche minuto per vedere se rispondeva, ma il suo cellulare rimase muto perciò s’infilò il pigiama e andò a dormire. L’avrebbe vista sicuramente l’indomani mattina.
 
 
Madison si svegliò prima del suono della sveglia anche quella domenica mattina, allungò il braccio verso l’odioso aggeggio che avrebbe iniziato a squillare fra pochi minuti per spegnerlo e si alzò.
Notò che il display del suo cellulare segnalava un messaggio non letto, lo lesse e si salì di corsa verso l’interno 14c dopo essersi infilata un paio di pantofole e una felpa.
Entrò in casa del dottor Reid utilizzando la solita chiave di riserva che ormai era più sua che del suo fidanzato ed in punta di piedi si diresse verso la camera del giovane genio che dormiva tutto scomposto a pancia in giù.
Saltò sul letto e scostò le coperte scoprendo Spencer che si lasciò sfuggire un mugolio senza decidersi ad aprire gli occhi e costringendo Madison a ricorrere alle maniere forti.
La dottoressa si chinò su di lui e iniziò a dargli fugaci baci sul collo che fecero piacere a Spencer che per qualche secondo sembrò fare le fusa.
“E’ piacevole svegliarsi così” disse con la voce ancora impastata dal sonno il giovane che si girò verso di lei e aprì gli occhi incontrando quelli verdi della sua fidanzata che gli sorrise. “Buongiorno pillola” la salutò.
Madison si mise a cavalcioni su di lui e si abbassò di nuovo per dargli un bacio sulle labbra. “Ti ho trovato il soprannome” annunciò vittoriosa.
Spencer sollevò un sopracciglio. “Cioè?” le domandò curioso, voleva sapere cosa si fosse inventata.
“Pigi” rispose ridendo. “Pigi?”
La giovane dottoressa annuì. “Pi come p di piccolo, pazzo, pesante” iniziò a spiegargli, fece una piccola pausa per dargli altri baci sul collo che fecero dimenticare al genietto quali aggettivi avesse usato per descriverlo.
“Gi come g di grazioso, gentile, geniale” concluse la spiegazione Thompson che riprese con i baci.  “Tutti aggettivi che ti descrivono pienamente” aggiunse ammiccando.
Spencer si lasciò sfuggire una risata. “Mi piace Pigi” riconobbe, poi si ribaltò facendo finire Maddie sotto di lui; questa volta fu lui a darle dei piccoli baci sul collo.
“Ti amo” sussurrò Madison provocando un sobbalzo a Spencer che rimase paralizzato, incapace di emettere alcun tipo di suono. Non glielo mai detto prima, certo glielo aveva scritto in quella lettera, ma sentirlo faceva tutt’altro effetto.
La saliva divenne un miraggio nella sua gola completamente secca, avrebbe voluto risponderle, dirle ‘ti amo anche io’ ma quelle quattro semplici parole gli rimasero intrappolate in gola.
“Non c’è bisogno che me lo dici se ancora non te la senti” lo rassicurò Madison che aveva capito  il disagio del suo fidanzato, poi si alzò dal letto informandolo che andava a preparare la colazione, ma Spencer la bloccò per un braccio costringendola a sedersi di nuovo sul letto.
“Hai mai sentito parlare del Entanglement quantistico?” le domandò, ovviamente Madison scosse la testa. Lei di fisica quantistica non ne sapeva un bel niente.
“L’equazione di Dirac lo descrive. Il principio dell’Entanglement afferma che se due sistemi interagiscono fra di loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono essere più descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema” le spiegò mentre Madison lo guardava sbalordita.
“In poche parole, quello che accade ad uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se sono distanti chilometri o anni luce” aggiunse facendo sorridere la sua fidanzata; era la cosa più carina e allo stesso tempo più nerd che avesse mai sentito.
“Certo, tu potresti obiettare che l’equazione è valida solo su scala quantistica poiché contrasta con il principio della località per cui..” provò a spiegarle, ma non finì la frase.
Madison infatti si chinò su di lui e gli diede un bacio a fior di labbra. “Farò finta che il principio della località non esiste” gli disse e  lasciò Spencer nel letto sorridente a pensare che l’essere nerd per una volta aveva avuto un effetto positivo.
 

 
 
 Buongiorno! Eccomi di nuovo qui :D come stanno procedendo le vacanze? Sempre se per voi sono già iniziate! Per quanto mi riguarda, io ho iniziato a studiare seriamente :/ 
Comunque ne approfitto per augurarvi di trascorrere un buon Natale :D spero che vi divertiate e passiate del tempo piacevole in famiglia! Mangiate tanto, mi raccomando, io dal mio canto lo farò ahahah
Bene, grazie ancora a tutti quelli che leggono la mia storia e chi ha intenzione di farlo in futuro!

 

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Capitolo 20
*** 3 A.M. ***


“3 a.m.”

                                        
 
“Se non ti spaventerai con le mie paure,
un giorno che mi dirai le tue, troveremo il modo di rimuoverle.
In due si può lottare come dei giganti contro ogni dolore,
e su di me puoi contare per una rivoluzione.
Tu hai l’anima che io vorrei avere.”
 
En e Xanax- Samuele Bersani.
 
 
Spencer ciondolava per casa senza un’apparente motivazione, fissava ogni tre secondi l’orologio che segnalava lo stesso orario e sbuffava. Era annoiato, tremendamente annoiato.
La cosa lo colse di sorpresa, d’altra parte nel corso della sua vita si era abituato a trascorrere molto tempo da solo, tuttavia negli ultimi mesi la presenza invasiva di Madison che piombava all’improvviso in casa sua, senza chiedere permesso dal primo giorno in cui si erano conosciuti, facendogli le proposte su proposte per portarlo fuori, lo avevano abituato al contrario.
Controllò il cellulare di nuovo per vedere se avesse ricevuto nuovi messaggi, ma nulla. L’ultimo messaggio risaliva alle sette di sera e tre minuti del giorno precedente: ‘Tutto ok in quel di New York, mio fratello è ormai fuori dall’università a tutti gli effetti. A proposito, Providence è bellissima! Mia madre ha organizzato una mega festa di laurea a casa stasera, è un vero peccato che tu non ci sei L  comunque torno domani pomeriggio, un bacino”
Spencer maledisse il suo lavoro che lo aveva bloccato a Washington anche quel fine settimana nonostante avesse in programma di andare a New York dalla famiglia Thompson per festeggiare la laurea in Architettura di Brian.
Tuttavia si rincuorò pensando che sicuramente la sua fidanzata sarebbe arrivata a momenti; non finì nemmeno di formulare quel pensiero quando sentì il campanello suonare.
Si precipitò alla porta, certo che si trattasse di Madison, con un sorriso a trentadue denti che si spense subito quando aprendo la porta vide la giovane dottoressa in lacrime.
“Pillola, cosa è successo?” le domandò abbracciandola mentre lei si abbandonò ad un pianto agitato bagnando la camicia del dottor Reid che provava a consolarla.
Aspettò che i suoi singhiozzi  si calmassero, sollevò con due dita il mento della sua fidanzata e le domandò di nuovo cosa fosse successo.
Madison affondò di nuovo il viso nel magro petto del dottor Reid che le diede un bacio sulla testa, cominciava seriamente ad agitarsi. “Ho visto Mason al Central Park” gli raccontò con la voce roca per via del pianto.
“Ti ha fatto del male?” si preoccupò Spencer, provò un impulso di rabbia nei confronti di quell’uomo, nonostante non sapesse nemmeno che aspetto avesse, avrebbe volentieri voluto fargli del male.
Madison si staccò dal giovane profiler e scosse la testa. “Non mi ha nemmeno vista”, poi si lasciò cadere sul divano del dottor Reid, che al sentire quelle parole si sentì sollevato.
“Giocava con un bambino. Era suo figlio” disse scoppiando di nuovo in lacrime, Spencer provò a parlare ma si bloccò; sapeva che in quel momento tutta la psicologia del mondo non sarebbe bastata per consolarla, perciò evitò di abbandonarsi ad un ingorgo di parole e si sedette vicino a lei stringendola a sé.
“Perché quel bambino sì e la mia bambina no? Cosa gli ho fatto io di male?” urlò fra le lacrime, Spencer le prese il viso fra le mani e asciugò le lacrime che bagnavano le sue guancie.
“Amore, tu non hai colpe. Non hai fatto nulla” la confortò e l’abbracciò di nuovo dandole un altro bacio sulla fronte.
“Vuoi una tazza di the?” le domandò, pensò che una bevanda calda l’avrebbe aiutata a calmarsi un po’, la giovane annuì e Spencer andò in cucina a mettere il bollitore sul fuoco.
 
“Ho avuto due attacchi di panico prima” confessò quando il suo fidanzato fu di ritorno con la tazza di the fumante.
La notizia non allarmò il dottor Reid, sapeva che Madison ne aveva sofferto subito dopo la scomparsa di Rachel e che aveva fatto anche una cura a base di ansiolitici, nonostante fossero diversi mesi che non ne aveva uno, vedere Mason dopo molto tempo e per giunta con un bambino aveva causato brutti ricordi nella giovane che scatenarono come reazione gli attacchi di panico.
“Hai preso lo xanax?” le domandò, ricordava anche che l’ansiolitico prescrittole era appunto lo xanax.
La dottoressa fece una smorfia e scosse la testa. “No e non ho intenzione di prenderlo” dichiarò fredda.
“Maddie, lo devi prendere. Sai che non c’è nulla di male” ribadì provando a farle un sorriso.
Madison si alzò e iniziò ad urlargli contro diventando sempre più rabbiosa ad ogni rimprovero di Spencer che non riusciva a concepire quale fosse il suo problema.
Il giovane profiler chiuse gli occhi, gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo quando sua madre si rifiutava di seguire la cura e lui la doveva imboccare, fece un respiro profondo e si sedette sulla poltrona. “Madison, calmati. Si può sapere perché non li vuoi prendere?”
“Perché mi ero ripromessa che non li avrei più presi e invece sono sempre al punto di partenza” spiegò fra le lacrime. La scena che seguì dopo fu qualcosa che Spencer non pensava che avrebbe mai visto: il respiro di Thompson si fece sempre più affannoso, il battito cardiaco accelerò improvvisamente, il suo corpo tremava.
La tazza di the cadde frantumandosi a terra, Spencer scattò in avanti e afferrò la sua fidanzata che s’irrigidì. “Maddie guarda verso l’alto” le consigliò mentre lei tentava di fare ampi respiri, le sembrava che la gola si stesse chiudendo in una morsa.
Ansimava, non riuscì a trattenere le lacrime, la sua mente si affollava di ricordi che le sembrava di aver rimosso, ma invece erano sempre lì, lei era sempre lì e quei maledetti attacchi di panico non sarebbero mai finiti.
Spencer la tenne stretta accarezzandole i capelli finché la crisi non fu del tutto passata. “Non ce la faccio più” gli disse battendo i pugni contro il petto del dottor Reid.
“Stai tranquilla, è tutto passato” la confortò poi la condusse in camera da letto perché si riposasse. “Ti farà bene dormire un po’ ”
Si sdraiarono sul letto, Madison si stese su un fianco e fu abbracciata da Spencer che le sussurrava parole dolci perché si calmasse. “Rimani con me?” gli domandò lei con un filo di voce.
“Non vado da nessuna parte, amore” le promise, avvicinandosi di più a lei perché sentisse il suo calore e le rimase accanto finché non si addormentò, dopodiché si alzò e andò in bagno.
Fissò il suo riflesso allo specchio del lavabo, era ancora troppo scosso, appoggiò entrambe le mani sulla ceramica fredda del suo lavandino e fece un lungo sospiro, infine  aprì il rubinetto e si lavò il viso.
Prima di ritornare in salotto, diede un’occhiata a Madison che continuava a dormire, si chinò su di lei e le diede un bacio sulla testa.
 
 
 “I came in like a wrecking ball,
I never hit so hard in love.
All I wanted was to break your walls…
 
…I never meant to start a war,
I just wanted you to let me in.”
 
Wrecking ball- Miley Cyrus
 
 
Quando fu in salotto raccolse i vari pezzi in cui si era rotta la tazza e spazzò via i restanti residui, poi si lasciò cadere sulla poltrona e chiuse gli occhi massaggiando le palpebre per diversi minuti.
Sentì il rumore dell’acqua del rubinetto del bagno scorrere e si alzò per raggiungere Madison che se ne stava appoggiata contro il lavandino. “Pillola, tutto ok?” le domandò entrando nel bagno.
“Ti ho sporcato l’asciugamano con il trucco” rispose, Spencer fece spallucce dicendole che non era un problema.
Si avvicinò a lei e l’abbracciò di nuovo, voleva farle capire che era lì solo per lei, non gli importava nulla del resto, contava solo che lei stesse bene; le baciò anche le guancie, il naso ed infine la bocca, e la riportò in salotto.
Si sedettero sul divano, Madison appoggiò la testa sulla spalla del giovane genio che cinse le sue con il braccio.
“E’ stato per colpa degli attacchi di panico che ho iniziato a bere. Non li sopportavo più, non riuscivo a fermarli” iniziò a sfogarsi la dottoressa.
“Gli ansiolitici non mi aiutavano, gli antidepressivi nemmeno. L’alcool invece rendeva tutto più facile, entravo in quello stato ovattato dove nulla poteva raggiungermi e stavo meglio, nessun attacco di panico, nessun pensiero.
Sai quante volte Wayne mi ha portato a casa perché io non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi?” gli raccontò, Spencer deglutì, non riusciva nemmeno ad immaginarla una scena del genere.
“Mi diceva sempre che dovevo reagire, che io ero meglio di così. Sapevo che aveva ragione, ma non ce la facevo. Quando sono entrata in clinica, mi è sembrato che il mondo mi fosse crollato addosso, gli attacchi di panico erano sempre più frequenti e io non sapevo come fare. Non potevo bere, ero in trappola, capisci? Ero costretta a pensare” fece una pausa per prendere fiato, si voltò verso Spencer che si era rabbuiato, quelle parole anche in lui avevano risvegliato diversi ricordi, destato le ombre assopite della sua mente.  
“L’anoressia fu solo l’unica mia consolazione a quel punto” continuò e sospirò, ripensando a quel periodo che sembrava lontano anni luce ormai, ma forse non lo era poi tanto, realizzò quanto fosse stata stupida a permettere a quel bastardo di rovinarle la vita.
“Era il mio rifugio, mi aiutava a concentrarmi su altro e mi dava la possibilità di evadere. Io non volevo sentire più, volevo il vuoto e lei me lo dava. Passavo intere giornate a fissarmi allo specchio contemplando il degrado del mio corpo e mi sentivo felice” gli confessò. “Pensavo che rifiutando  il cibo, avrei dimostrato a me stessa di essere una persona forte e perciò continuavo a buttare le porzioni che mi portavano. Ovviamente i medici m’imposero il sondino naso gastrico per alimentarmi. Non so quante volte avrei voluto strozzarmi con quel maledetto sondino”
“Capii presto che dovevo uscire da quella clinica perciò m’imposi di mangiare e recuperai peso. Sembrava che stessi meglio, ma in realtà fingevo soltanto. Quando uscii, ripresi con l’alcool, di nuovo al punto di partenza. Il fondo l’ho toccato una sera, ero così ubriaca al punto da non rendermi nemmeno conto di essere caduta, avevo sbattuto la testa talmente forte da perdere completamente conoscenza. Quando mi svegliai la mattina dopo, ero già in clinica”
“Ripresi con l’anoressia, era come una dolce punizione. Il dottor Rhodes non sapeva più come riprendermi, io non volevo ascoltare. Io volevo semplicemente morire”
Al suono di quelle parole, Spencer sentì le lacrime pungergli gli occhi ma s’impose di non scomporsi, non voleva che Madison si preoccupasse.
“Un giorno il dottor Rhodes portò sua figlia Quinn. Voleva che io la conoscessi, mi portò fuori nel giardino e giocammo a nascondino tutta la mattina, poi Ewan la fece portare via da un’infermiera e mi portò di nuovo nella mia stanza, prima di andarsene mi disse che sarei stata una brava mamma se solo mi fossi data un’altra possibilità e mi lasciò una barretta di cioccolato” riprese il raccontò Thompson.
“La mangiai tutta nonostante la sensazione di nausea, ad ogni morso mi sembrava di avere mille spilli che mi si conficcavano in gola ma non mi fermai. Quella è stata la cioccolata più buona della mia vita perché avevo vinto, perché avevo deciso di darmi una possibilità, di vivere di nuovo.. e ora eccomi qui” concluse Madison facendo spallucce, si sentiva molto meglio dopo aver parlato con Spencer, sapeva che lui l’avrebbe capita senza sorprendersi o giudicarla per quanto aveva sentito.
Spencer rimase in silenzio dopo quel lungo racconto, meditando sulla sua storia, sentiva le parole che cercavano di uscire copiose dalla sua bocca e questa volta non volle fermarle. Si portò i capelli dietro l’orecchio, era teso come una corda di violino.
Doveva parlarne, perciò si umettò le labbra e iniziò a raccontarle di Tobias Hankel e del suo sequestro, della sua tossicodipendenza dal Dilaudid, di quanto fosse stato difficile uscirne, dei suoi continui incubi in cui scavava la sua stessa tomba, di tutte le volte che anche lui aveva semplicemente desiderato di morire. Le parlò anche di Gideon e di quanto si fosse sentito solo e perso dopo il suo allontanamento, ma soprattutto abbandonato per la seconda volta da una persona che aveva considerato quasi come un padre.
Madison sbatté le ciglia incredula, ora riusciva a dare una spiegazione ai suoi sogni agitati, a tutte le volte che lo aveva sentito alzarsi la notte e piangere in bagno; improvvisamente si sentì tradita, non si capacitava del perché avesse aspettato così tanto per raccontarle qualcosa di così importante. “Perché non me lo hai raccontato prima?” gli domandò con tono serio.
Spencer abbassò lo sguardo. “Non me la sentivo di dirtelo”
In quel momento Madison si alzò di scatto. “Che cazzo significa che non te la sentivi di dirmelo? Tu pensi che io non ti abbia mai sentito piangere la notte?” gridò. “Ogni volta ho aspettato che tu mi svegliassi per parlare perché è quello che io avrei fatto”
“E sai perché? Perché io ne sento il bisogno. Io voglio raccontarti tutto e renderti partecipe di ogni mia paura, di tutto quello che provo. È evidente però che questo bisogno lo avverto solo io, a te non fotte proprio nulla di rendermi partecipe della tua vita” lo accusò.
Spencer rimase paralizzato di fronte a quella reazione, non sapeva come gestirla. “Non è vero, non è questo il problema” si giustificò.
Quella semplice giustificazione non fece altro che incrementare la rabbia della giovane dottoressa. “E qual è? Dimmelo perché io voglio saperlo”
Nessuna risposta giunse. “Tu non ti fidi di me, questo è il problema” affermò, dal tono di voce amareggiato il dottor Reid realizzò quanto fosse delusa dal suo comportamento.
“Pillola, io mi fido di te” ribadì Reid, provò ad avvicinarsi a lei per rassicurarla ma fu respinto.
Quella mancanza di fiducia l’aveva ferita profondamente, pensava che il loro rapporto fosse solido e invece anche questa volta a darsi completamente era stata solo lei. “Non mi toccare. Sei solo un bugiardo!” urlò contro il giovane profiler. “Ho solo una cosa da chiederti. A lei lo avevi raccontato?”
Spencer sospirò, sapeva che per evitare il disastro avrebbe dovuto mentire, ma gli sembrava ingiusto nei confronti di Madison perciò ammise che a Maeve aveva raccontato tutto.
“Io non ci credo. Come fai? Io e te dormiamo insieme ogni sera e non mi merito di saperlo? Cosa cazzo avrei dovuto fare perché tu ti fidassi di me?”chiese urlando. Era furiosa, sentiva il sangue pulsarle alle tempie, la testa stava per scoppiarle, non riusciva a credere che anche Spencer fosse riuscito a ferirla.
In quel momento si sentì una semplice sostituta di una persona che con cui non avrebbe mai potuto avere un confronto, e si sentì tradita anche da Maeve nonostante non avesse nulla a che fare con la loro storia, semplicemente la detestava perché aveva rovinato tutto.  “Cosa aveva quella stronza in più rispetto a me per guadagnarsi la tua fiducia?”
Quando la sentì chiamare Maeve stronza, anche Spencer s’infuriò. “Non ti azzardare più a dire che è una stronza” urlò freddo.
Vedere Spencer così arrabbiato fece capire a Madison che per lui quella donna significava ancora troppo, era più importante di quanto lei sarebbe mai potuta essere e scoppiò a piangere. “Tu non mi vuoi veramente nella tua vita, per questo non ti confidi con me. Non ami e non mi amerai mai perché io per te non sono nient’altro che la seconda scelta”
Si girò dando le spalle al giovane genio, intenzionata ad uscire immediatamente da quella casa; Spencer provò a bloccarla ma lei lo strattonò. “Lasciami in pace” urlò, prese la borsa e uscì dall’appartamento sbattendo la porta.
Il dottor Reid rimase fermo davanti alla porta senza riuscire a muoversi, sentì anche il portone del palazzo chiudersi e si precipitò alla finestra.
Vide la vettura della dottoressa Thompson sfrecciare nel traffico. “Dove sta andando?” si domandò, sapeva che Paget era andata da sua sorella a Memphis perciò dedusse che sicuramente sarebbe andata da Penelope e le telefonò.
“Garcia, scusami se ti disturbo, ma devo chiederti un favore..” esordì quando la collega ebbe risposto.
La bionda si allarmò, dal tono di voce comprese che era successo qualcosa. “Dimmi, Reid”
“Io e Madison abbiamo litigato a morte, lei è uscita e penso che verrà da te. Mi avvisi quando arriva?” le chiese, voleva rassicurarsi che stesse bene.
Penelope gli disse di non preoccuparsi e che lo avrebbe avvisato subito, il giovane genio le chiese anche di convincerla a prendere il suo ansiolitico e infine riattaccò dopo averla ringraziata.
 
Come aveva dedotto il dottor Reid, Madison andò a casa dell’analista informatica della B.A.U.,  aveva bisogno di parlare e Penelope era un’ottima ascoltatrice.
Ovviamente la bionda non si sorprese quando sentì bussare il campanello, mandò subito un messaggio al dottor Reid e aprì la porta allargando le braccia per accogliere la dottoressa Thompson che si fece abbracciare senza esitazioni.
“Cucciola, cosa è successo?” le domandò Penelope mentre richiudeva la porta. “Perché non mi ama?” domandò a sua volta Madison mentre due lacrime le bagnavano il viso.
“Perché dici così? Io sono sicura che lui ti ama” la consolò e ne era davvero convinta. In quei mesi aveva visto Reid sempre più sorridente, più sereno; la presenza di Madison nella sua vita aveva un impatto straordinariamente positivo e faceva bene al giovane profiler che ogni volta che riceveva un messaggio da parte della rossa s’illuminava.
“E allora perché non riesce a dirmelo? Perché lei continua ad essere la persona più importante della sua vita?” domandò  ancora mentre tirava su con il naso.
Garcia le diede un fazzoletto e si offrì di prepararle una tazza di the che Madison accettò.
“Cucciola, Maeve sarà sempre nei suoi pensieri, ma questo non fa di lei la persona più importante della sua vita. Non potrai mai cancellare il suo ricordo, devi farci la pace con questo fatto e provare a superarlo” tentò di farla ragionare la bionda mentre le faceva scegliere il gusto del the dalla sua collezione.
Madison le passò una bustina di the ai frutti rossi e le rispose. “Hai idea di quanto sia difficile far innamorare di te una persona soltanto con delle telefonate? Spencer non sapeva nemmeno che aspetto avesse e avrebbe dato persino la vita per lei”
Penelope fece un respiro, anche lei avrebbe reagito esattamente come Madison al suo posto. “Darebbe la vita anche per te”
“Anche io, ma non posso fare a meno di pensare che lui in realtà non sia felice” si sfogò. “Io so qual è la differenza fra Spencer e tutti gli altri perché l’ho potuta constatare. So che non potrei mai essere più felice di così, lui invece no. Non sa cosa significhi svegliarsi, dormire accanto a lei, non sa come sarebbe stato un bacio. Non l’ha potuta nemmeno tenere per mano”
Mentre parlava, pensava a quanto fosse assurda quella conversazione, mai avrebbe pensato che qualcuno potesse vivere una storia simile. “Io ho paura che un giorno si svegli e si renda conto che io non sono sufficiente per lui e vada via” confessò.
Penelope annuì e le posò una mano sulla spalla per confortarla. “Quel giorno non arriverà mai, Mads. Credimi, lui è felice e ti ama, a prescindere da Maeve e da tutto il resto”
Madison abbozzò un sorriso e bevve il contenuto dalla sua tazza. “Posso restare qui stanotte?”le chiese.
Garcia sorrise e annuì. “Cucciola, mi casa es tu casa” disse e insieme andarono a preparare il letto nella stanza degli ospiti.
 
 
 
Reid non riusciva a darsi pace dopo quel litigio, si maledisse per la sua totale incapacità di mantenere una normale relazione con una persona, per non essere riuscito ancora una volta a dirle che l’amava.
Perché era vero, lui amava quella piccola, pazza e lunatica ragazza che era entrata nella sua vita come un uragano stravolgendo ogni cosa.
L’amava perché in pochissimo tempo era riuscita a farlo sentire amato e al sicuro, perché lei non era soltanto la sua fidanzata, ma era soprattutto la sua migliore amica, perché grazie a lei aveva iniziato a vivere davvero, perché lei lo faceva ridere a crepapelle come mai nessuno ci era riuscito prima.
Perché gli aveva restituito l’infanzia che nella sua vita gli era mancata, con lei poteva fare tutte quelle cose stupide che non aveva mai fatto, come lanciarsi in una battaglia di cuscini o andare sull’altalena.
Semplicemente l’amava perché con lei poteva smettere di essere Spencer Reid, il plurilaureato ragazzo prodigio del F.B.I. con un Q.I. di 187 ed essere semplicemente Spencer.
Non glielo aveva mai confessato, ma era quello che il giovane genio pensava di lei e ora mentre le mandava numerosi messaggi per farsi perdonare, non poteva fare altro che pensare che ancora una volta era riuscito a rovinare tutto.
“Ti prego, parliamone” le scrisse nell’ennesimo messaggio, voleva che ritornasse da lui perché aveva bisogno di lei.
Perché si era reso conto che era pronto a svegliarla ogni notte con i suoi incubi, ad annoiarla a morte con le sue paranoie, a raccontarle tutto senza esclusioni.
Non aveva più paura, ora era pronto a darsi completamente. Non ricevette alcun messaggio di risposta, come nemmeno nessuna risposta alle sue chiamate.
Buttò il cellulare sul divano e tornò in camera sua. Quando si sdraiò sul letto appoggiando la testa sul cuscino, sentì il profumo di Madison e si ritrovò a piangere abbracciato al cuscino.
Gli sembrò di sentire la voce di Morgan dirgli che era patetico e per qualche minuto lo pensò veramente, ma non riusciva a trattenere le lacrime.
Quando si calmò, si distese a pancia in su a fissare il soffitto per ore senza muoversi mentre pian piano il sole calava lasciando spazio al buio, dalla finestra della sua stanza filtrava soltanto la luce del lampione della strada che illuminava scarsamente l’abitazione.
Nel buio distinse la sua amata tracolla, diventata quasi una compagna di avventure ormai, e ripensò al giorno in cui l’aveva comprata. Quante cose erano cambiate da allora? Quanto era cambiato lui da allora?
L’ultima volta che si erano visti, suo padre gli aveva detto che era maturato molto,  ‘hai fatto un ottimo lavoro con te stesso, migliore di quello che avrei fatto io’ aveva ammesso ridendo. Vedendolo ridere si rese conto che in realtà si somigliavano, sorridevano allo stesso modo e anche suo padre aveva lo stesso suo vizio di toccarsi i capelli quando doveva raccontare qualcosa.
Ci erano voluti ben quattro incontri prima che l’imbarazzo sparisse e riuscissero finalmente ad abbracciarsi, ma ricevere quell’abbraccio fu vitale per entrambi perché li fece sentire di nuovo padre e figlio nonostante i litigi e i diversi anni di assenza.
I suoi pensieri iniziarono a confondersi l’uno con l’altro ed infine vinto dalla stanchezza emotiva si addormentò.
 
Spencer sentiva qualcuno che lo strattonava chiamandolo per nome e aprì gli occhi. “Certo che per svegliarti ci vuole un esercito” esclamò la giovane accanto a lui seduta a gambe incrociate.
“Maeve? Sto sognando?” si chiese sedendosi a sua volta, la genetista annuì. “Purtroppo sì” si rammaricò.
“Ma si può sapere che hai combinato? Insomma io iniziavo ad affezionarmi a lei” lo rimproverò, il dottor Reid sgranò gli occhi, la sua mente era decisamente troppo fantasiosa.
“Spencer, devi riprendertela perché -fece una pausa per avvicinarsi a lui- i boss di lassù non ti concederanno un’altra possibilità” gli sussurrò all’orecchio.
“I boss di lassù avrebbero dovuto pensarci meglio prima. Non ci sarebbe stato bisogno di alcuna altra possibilità se tu fossi qui” affermò lui e si sdraiò di nuovo.
Maeve sollevò un sopracciglio. “E non saresti dispiaciuto di non aver incontrato la tua pillola?”
Il dottor Reid fece un sorriso nel sentire quel soprannome. “Non so, il me di allora avrebbe semplicemente voluto che tu uscissi da quella casa con me” confessò.
“E il te di adesso? Non sarebbe dispiaciuto?” lo incalzò, Spencer annuì. “Sì, sarei dispiaciuto” riconobbe.
Maeve si abbassò e appoggiò la testa sul petto del dottor Reid, che esitò un attimo prima di stringerla. “Spencer, noi avremo sempre Thomas Merton, ma avremo solo quello. Tu con lei puoi avere tutto il resto: una vera famiglia, dei bambini e una persona con cui poter invecchiare. Vuoi davvero rinunciare a tutto questo?” affermò lei sotto voce.
Non aspettò che rispondesse, si sollevò sui gomiti puntando i suoi occhi blu nei suoi. “Io non tornerò più. Ricordati che  ti amerò per sempre” mormorò, infine si chinò su di lui e posò un bacio sulle labbra, per poi sparire per sempre.
Spencer aprì gli occhi e deglutì, guardò verso l’orologio della sua sveglia che segnalava  le tre del mattino e si alzò.
Andò in cucina e si versò un bicchiere d’acqua, sapeva che non sarebbe riuscito a dormire quella notte, perciò rimase a contemplare la finestra sdraiato in pigiama sul divano del suo salotto.
Su quello stesso divano che avrebbe potuto raccontare tante storie se solo avesse avuto il dono della parola;  era il divano su cui aveva letto mille libri, immaginato e sognato per mesi quel tanto atteso incontro che mai giunse, e pianto la morte di Maeve. Era anche il divano su cui aveva guardato dozzine di film con Madison, dormito assieme a lei la domenica pomeriggio, sul quale l’aveva baciata infinite volte e non solo.
Maeve aveva ragione, non poteva rinunciare ad una vita felice, alla possibilità di costruirsi una famiglia. Non poteva rinunciare a Madison.
Si alzò di nuovo e andò verso la sua libreria, prese la cornice con la fotografia che aveva scattato con la sua pillola il giorno del suo compleanno e accarezzò il vetro.
Ritornò a sdraiarsi sul  divano  con la cornice in mano e rimase abbracciato alla fotografia aspettando che il sole sorgesse su Washington.
 
 
Quella mattina non appena mise piede nell’open space, si precipitò nell’ufficio della loro analista informatica che però trovò vuoto. “Cosa volevi dalla mia bambolina?” domandò Morgan alle sue spalle.
Spencer si voltò verso di lui mostrando gli occhi leggermente arrossati e le occhiaie marcate per la notte insonne e Morgan aggrottò la fronte. “Ragazzino, tutto bene? Sembra che ti abbia investito un treno”
Spencer abbassò lo sguardo e si scricchiolò le dita. “Madison ed io abbiamo litigato e lei è andata da Garcia, volevo accertarmi che stesse bene”
Morgan annuì. “Come mai avete litigato?”domandò con tono serio, era chiaro che si fosse trattato di una brutta litigata.
“Quale parte vuoi sapere? Quella dell’attacco di panico? Quella in cui ha dato matto quando ha saputo della mia ex tossicodipendenza? O quella in cui ha detto che io non l’ho mai amata?” si sfogò il giovane genio, poi si passò una mano fra i capelli abbandonandosi ad un lungo sospiro.
Derek stava per rispondergli quando apparve Garcia. “Penelope, come sta Madison?” le chiese il dottor Reid.
“Ha avuto giorni migliori. Comunque stai tranquillo, si è calmata e l’ho anche convinta a prendere il suo ansiolitico” rispose mentre lo guardava da sopra i suoi occhiali sorridendogli.
Spencer annuì, era una buona notizia che avesse deciso di prendere lo xanax. “Credi che riuscirò a parlarci oggi?” chiese, aveva un’aria così triste che a Penelope le si spezzò il cuore.
“Non lo so, però secondo me hai buone possibilità” rispose sorridendogli, anche Spencer sorrise e si sentì subito meglio.
Quel giorno non furono interpellati per alcun caso e trascorsero una normale giornata d’ufficio, Spencer ringraziò il cielo, non sarebbe riuscito a concentrarsi su un eventuale caso considerato il suo stato d’animo.
Passò il resto della giornata a bere caffè e pensare alle parole che avrebbe rivolto a Madison se fosse riuscito a parlarle, più volte s’incantò fissando il vuoto facendosi richiamare dai suoi colleghi che ogni tanto gli gettavano qualche occhiata preoccupata, infine alle cinque era talmente tanto ansioso di ritornare a casa che chiese all’agente supervisore Hotchner se poteva uscire prima, l’uomo non ebbe nulla da obiettare e Spencer ritornò a casa.
Prima di entrare nel palazzo, controllò se l’automobile di Thompson fosse parcheggiata in strada e si precipitò subito al secondo piano quando la vide.
Sentì la sua fidanzata suonare la chitarra confermando la sua presenza in casa e bussò alla porta della rossa che però non gli aprì. Lo aveva visto dallo spioncino e non voleva parlargli, non ancora.
“Maddie, so che sei in casa. Per favore, aprimi, parliamone” la implorò. “Io non me ne vado finché non mi apri” dichiarò con fermezza.
Si sedette sul pavimento appoggiando le spalle contro la porta dell’appartamento di Madison e ricominciò a parlare.
“Maddie, mi dispiace davvero. Ho sbagliato e tu hai ragione, io non ti ho reso completamente partecipe della mia vita, ma era solo perché avevo paura” riconobbe.
“Avevo paura perché ogni volta che mi sono affezionato a qualcuno, svelandogli tutto di me, l’ho perso. Ho creato così tanti muri attorno a me per proteggermi e farli cadere non sarà facile, ma so che io e te insieme ci riusciremo perché tu non sei solo la mia fidanzata, sei soprattutto la mia migliore amica” le confidò sorridendo, anche la rossa sorrise al sentire quelle parole.
“Sei la mia pazza amica. Sai di essere pazza, vero? Ricordi quando hai fatto le marionette con dei calzini attaccandoci due bottoni per gli occhi e lo spago per i capelli? Volevi  interpretare la tua personalissima scena della finestra di ‘Romeo e Giulietta’ ” la prese in giro e scoppiò a ridere pensando a quel pomeriggio, non aveva mai riso così tanto.
“Ho capito però che tu eri la mia migliore amica il giorno che mi hai costruito la scatola dei ricordi. Io mi stavo scervellando per riuscire ad aggiustare quello stupido walkman che mi aveva regalato mia mamma in uno dei suoi scarsi momenti di lucidità nonostante sapessi che fosse una causa persa, tu hai capito che quello era molto più di semplice walkman per me e mi hai suggerito la scatola dei ricordi dove avrei potuto conservare tutto ciò da cui non mi volevo separare. Abbiamo usato la scatola delle mie vecchie converse e l’abbiamo rivestita con della carta regalo che avevo in casa, poi abbiamo parlato tutta la notte mangiando i cereali, che ti eri portata da casa, dalla scatola. Quello è uno dei più bei ricordi che ho di te” le raccontò.
“Sai invece quando ho capito di essermi innamorato di te? È stato il giorno che siamo andati a pattinare, io non facevo altro che scivolare e tu ridevi a più non posso, ti ho detestata in quell’occasione, insomma mica era colpa mia se non avevo mai pattinato prima! Tu eri avvantaggiata, andavi da quando eri piccola al Rockefeller center! Poi mi hai preso entrambe le mani e mi hai guidato piano piano al centro della pista cercando di non farmi perdere l’equilibro. È stata la prima volta che ti ho guardata davvero e mi sono innamorato” le confessò. “Pillola, io non so bene cosa sia la felicità, ma se esiste, sono sicuro che ti somiglia perché..” riprese, ma si  bloccò subito, aveva sentito dei passi dietro la porta e si alzò.
“Anche io ti chiedo scusa per quello che ho detto. Il problema è che io non voglio che tu sia felice a metà” affermò la dottoressa Thompson aprendo la porta.
“Ma che dici? Io non sono affatto felice a metà, non potrei essere più felice di così” ribadì divertito, poi la prese per mano.
“So che è difficile per te superare la storia di Maeve, ma la verità è che se qualcuno oggi mi dicesse che, rinunciando a te, potrei riaverla indietro, io semplicemente non accetterei perché non ci può essere nulla dopo di te, nemmeno lei” le confidò, Madison sorrise.
“E perché io ti amo” aggiunse, la rossa gli saltò addosso e Spencer la strinse a sé. “Davvero mi ami?” gli domandò.
Il dottor Reid le scoccò un bacio sulle labbra. “Sì, ti amo” rispose e si baciarono di nuovo.
Sentì il sapore amaro delle medicine mentre accarezzava la lingua della rossa con la sua. “Sai di medicina, però profumi sempre di pesca e miele” le disse ridendo senza smettere di baciarla.  “E tu di caffè e di acqua di colonia francese” disse lei e si staccò un secondo dalla bocca del dottor Reid per scostargli le ciocche di capelli ribelli dagli occhi e lui la posò per terra.
“Ma io non uso acqua di colonia” rispose lui divertito. Madison fece spallucce. “Boh, allora sarà l’odore della genialità!” esclamò. “Dici che la genialità ha a che vedere con la Francia?” si chiese con espressione seria posandosi con una mano sul mento. “Farò una ricerca” disse annuendo.
Spencer rise e la baciò di nuovo, poi la prese in braccio e la sdraiò sul divano, si distese su di lei che cominciò a fargli i grattini sulla schiena e sul collo che tanto adorava, il suono delle loro scarpe cadute per terra ruppe il silenzio.
 Lui  le sollevò la maglietta baciandole la pancia, il contatto con la morbida pelle della dottoressa Thompson gli provocò un brivido.
 Alzò lo sguardo verso di lei che sorrideva e le tolse la maglietta, con la punta delle dita percorse il suo addome mentre lei gli sbottonava la camicia che andò a fare compagnia alla sua maglietta sul pavimento.
Si sollevò sulla schiena per consentire a Spencer di slacciare il suo reggiseno di cui il giovane si liberò piuttosto in fretta.
Lui con le labbra accarezzò i suoi seni, sentì lei che si lasciò sfuggire un gemito e continuò quel giochino usando la lingua mentre lei slacciava la cintura dei suoi pantaloni.
Anche Spencer con una mano le sbottò i jeans diventati decisamente troppo ingombranti, si alzò e si tolse i pantaloni, anche lei fece lo stesso lasciandosi addosso lo slip perché lui lo togliesse, sapeva quanto gli piaceva farlo.
Spencer ormai completamente nudo ritornò ad occupare la sua posizione sul divano, si liberò dello slip della rossa e scivolò lentamente in lei, che avvolse i suoi fianchi con le sue gambe per tenerlo più stretto.
L’eccitazione era palpabile nell’aria, Madison gli mordicchiò le orecchie intanto che con una mano gli accarezzava i capelli, i movimenti di Spencer dentro di lei si fecero sempre più frenetici mentre lei gemeva di piacere aggrappandosi alla sua schiena.
I loro corpi erano sempre più sudati, la loro eccitazione era ormai al culmine, gli affondi sempre più forti e veloci.
 Anche lui ansimava mentre le mani della rossa lo palpavano ovunque, le loro bocche si unirono soffocando i gemiti.
L’orgasmo era sempre più vicino, i loro gemiti sempre più intensi mentre i loro corpi ondeggiavano all’unisono; Spencer diede una spinta più forte delle altre e l’orgasmo li colse avvinghiati lasciandoli senza fiato.
Le loro bocche si cercarono di nuovo incontrandosi in un altro bacio più tenero e lento. I loro respiri si fecero più regolari mentre i muscoli si rilassavano.
Madison increspò le labbra e ridacchiò. “Cosa c’è?” le domandò Spencer curioso.
“E’ già finito” disse mordicchiandosi le labbra, il giovane profiler si avvicinò di più a lei. “Possiamo rifarlo” sussurrò al suo orecchio.
Madison sollevò un sopracciglio. “Wow, mi sorprendi sempre” lo prese in giro, Spencer sospirò e si accoccolò. “Sai cosa penso?”
La rossa scosse la testa, non aveva idea di cosa stesse passando per la testa del dottor Reid. “Dovremmo vivere insieme” esclamò dandole un buffetto sulla guancia.
“Dici davvero? Vuoi che mi trasferisca da te?” si sorprese la rossa, ma l’idea la faceva impazzire. Il giovane genio annuì sorridente, voleva che si trasferisse da lui.
“Possiamo comunque tenere il mio appartamento?” gli domandò, Spencer aggrottò la fronte. “Perché?”
“Per i miei vestiti, altrimenti, considerando tutti i tuoi libri, non ci entreremo mai tutti e due nel tuo appartamento” scherzò ridendo, anche lui scoppiò a ridere e la baciò di nuovo.
Passare da una litigata furibonda ad una convivenza era una pazzia che solo loro avrebbero potuto fare, ma sicuramente una pazzia di cui non si sarebbero pentiti mai perché loro erano migliori amici, fidanzati, confidenti, amanti. E presto sarebbero diventati anche marito e moglie, oltre che genitori.
Semplicemente non si sarebbero pentiti perché loro erano Spencer e Madison ed insieme avevano capito che nella vita tutto passa, basta solo sorridere.
 
 
 
 
“Baby, please don’t break my heart,
‘cause you’re the only one I love.
And I’ll be by your side till the very end,
‘cause you’re my only friend.”
 
Kiss the grrl- Kate Nash.
 
 
 
 

 Fine.

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Epilogo

Spencer e Madison si sposarono a fine settembre di quello stesso anno, scegliendo come data per le loro nozze: il ventidue settembre, ovvero il giorno in cui si sono incontrati per la prima volta, e come destinazione del loro viaggio di nozze scelsero Parigi.
Al loro matrimonio non mancò nessuno.
Tutti i loro amici furono lì per festeggiare la giovane coppia in quello che Madison definì il primo dei quattro giorni più felici della sua vita, gli altri tre sono quelli delle nascite dei suoi figli: Elizabeth, Jules e Thomas.
Il testimone di nozze di Spencer fu Derek, a cui sfuggì qualche lacrima quando il 'ragazzino' pronunciò le parole: "Sì, lo voglio", la damigella d'onore fu la cugina di Madison, l'attrice Mary Jane, che durante la festa recitò un suo monologo, poco apprezzato dagli invitati.
Le altre tre damigelle della sposa furono: Paget, Hannah e Penelope, tutte e tre vestite con un abito corto a mono spalla verde acqua e con un enorme fiore bianco fra i capelli.
Penelope si commosse più volte, costringendo Paget a rifarle il trucco tre volte, e Hannah suonò il violino che fece da sottofondo alla camminata di Madison verso l'altare.
Al loro matrimonio fu presente anche Emily Prentiss, venuta da Londra per l'occasione, non poteva perdersi un evento, che considerava fra i più improbabili della sua agenda, e lei lavorava all'Interpol.
Anche Derrick scese a patti con la sua ritrosia e andò al matrimonio di Pel di Carota, offrendosi, durante il brindisi, come possibile sostituto di Spencer in caso di una sua prematura dipartita; in fin dei conti, come sottolineò anche lui, la promessa recita: "finché morte non ci separi"
Il brindisi di Spencer lo avrebbe dovuto fare Garcia che però non riuscì a concluderlo per via della commozione e alla fine toccò a Derek. La parte del brindisi di Derek più bella fu questa:
"Spencer, penso di parlare a nome di tutti i presenti quando dico che se esiste una persona che merita questo giorno sei tu, perché nonostante la vita con te non sia stata affatto facile, tu non ti sei mai arreso dimostrando a tutti quanto sei coraggioso e determinato. Sei più forte di quello che pensi, ragazzino.
In questi anni sei maturato tanto, ma soprattutto ci hai insegnato tanto e noi siamo orgogliosi di te, per questo oggi ti auguriamo tutta la felicità di questo mondo assieme a quella donna, che è riuscita a farti ballare fin dal primo giorno. Congratulazioni, dottor Reid"
C'erano ovviamente i genitori di Madison, James e Natalie, che regalarono le chiavi della loro casa a Santa Barbara ai neo sposini, ma anche i genitori di Spencer, William e Diana, che per la prima volta dopo tanti anni si sedetterono allo stesso tavolo e mangiarono insieme.
William, dopo aver violato il segreto professionale consegnando le prove incriminanti per l'arresto di Paul Stewart al F.B.I., fu licenziato, si trasferì a New York e divenne socio di James.
Diana invece si fermò per qualche settimana a casa dei coniugi Reid dopo la nascita dalla sua prima nipotina. Durante le quali, svelò la sua anima punk confessando di essere stata a Woodstock durante la sua giovinezza e insegnò a Madison a ballare il charleston.
Anche Brian, il fratello minore di Madison, si trasferì nella dimora Reid per ristrutturare la casa che Spencer aveva acquistato nonostante stesse cadendo a pezzi. "E' uguale alla casa dei miei sogni" disse al cognato quando lui, leggendo la valutazione del perito, dichiarò che era la
peggiore catapecchia di tutta Washington D.C.
Alla fine, Brian si affezionò cosi tanto a quella casa che ci visse per oltre due anni, con enorme piacere di Spencer che sosteneva che così la sua pillola sarebbe stata meno sola.
Madison fu licenziata dal suo impiego presso il Georgetown University Hospital  poco dopo il suo matrimonio e aprì, su consiglio del marito, uno studio medico, frequentato da molti dei pazienti conosciuti durante le ore di ambulatorio.
Dopo la nascita di Elizabeth, i nostri due sposini persero più di nove settimane di sonno, che sarebbero state molte di più se non fosse stato per Brian, che trovava ispirazione per i suoi progetti solo di notte, il momento della giornata che la piccolina preferiva di più.
Il loro raggio di sole nacque il ventuno Giugno del 2015, il giorno del solstizio d'estate, che è anche il giorno con più ore di luce dell'anno.
I suoi padrini furono Paget e Derek che il giorno della sua nascita litigarono nella stanza d'ospedale per chi la prendeva in braccio per primo. Penelope ci rimase molto male per non essere stata scelta, ma fu la madrina di Jules mentre Ethan, il nostro musicista di New Orleans, il padrino.
Elizabeth inizialmente non fu molto contenta dell'arrivo della sua sorellina che, a suo avviso, le aveva rubato i suoi genitori, ma alla fine divennero ottime amiche, proprio come voleva la loro mamma.
Thomas, l'ultimo dei loro figli, nacque al settimo mese di una gravidanza molto complicata e rimase in incubatrice per quasi otto settimane, durante le quali, i coniugi Reid si trasferirono in ospedale per badare al loro piccolo ometto.
La madrina di Thomas fu Blake, che trasmise la sua passione per i cruciverba
al suo figlioccio, il cui nome completo era Thomas Wayne Reid, in ricordo del detective Derrick, amico della rossa, morto qualche anno prima della sua nascita in una sparatoria.
I figli di Spencer e Madison erano pazzi e curiosi, esattamente come i loro genitori. Thomas ebbe un periodo di fissazione con Indiana Jones e per un mese girò con un cappello, uguale a quello del suo eroe che non toglieva nemmeno per dormire, andando alla scoperta del suo giardino e si ruppe un dente cadendo da un albero dopo aver tentato di aggrapparsi a quella che lui definì una liana.
Elizabeth si appassionò al "piccolo chimico" e all'età di otto anni regalò a sua madre per il compleanno l'arcobaleno in bottiglia, esperimento realizzato grazie a suo padre, che adorava la chimica quanto la sua bambina.
Jules invece conobbe il primo amore all'età di cinque anni, ovvero la danza classica, grazie sua zia Hannah, direttrice d'orchestra, che la portò alla prima del "Lago dei Cigni" al Kennedy Center di Washington D.C.

La vita di Spencer fu tanto felice e piena di sorprese, il  giorno che il nostro caro piccolo genio preferiva di più era la domenica, perché poteva stare a casa e dormire fino a tardi, o almeno fino a quando i suoi bambini non sarebbero saltati sul letto per svegliarlo.
Casa sua non fu mai vuota, ad ogni festa comandata si riempiva con i suoi pazzi parenti, ovvero la famiglia della sua pillola e anche i suoi genitori che non mancarono a nessun Natale, Ringraziamento, o Capodanno della vita del loro figlio.

Aveva finalmente una famiglia, quella che aveva tanto desiderato, magari un po' stramba e decisamente imprevedibile, rumorosa e del tutto irrazionale, ma era la sua famiglia e lui non avrebbe potuto chiedere di meglio.
Durante la sua vecchiaia si trasferì a Parigi, in un appartamento a Montmatre con vista sul Moulin de la Galette, fonte d'ispirazione per gli Impressionisti, dove visse con la sua pillola suonando insieme il loro pianoforte a coda, mangiando cheesecake, e leggendo libri fino all'ultimo dei suoi giorni.







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Rieccomi, come avete potuto leggere voi stesse, la mia storia è finita; non so quanti di voi avevano fatto caso alla segnalazione che era completa, normalmente io avverto sempre quando la mia storia si sta per concludere, ma la verità è che questa volta non lo sapevo nemmeno io, perciò vi ho lasciato leggere senza esserne consapevoli, esattamente, come lo ero io, quando scrivevo quest'ultimo capitolo.
Avrei voluto, infatti, raccontarvi di più, ovvero del matrimonio e della nascita di Elizabeth, ma quando sono arrivata alle ultime righe, mi sono accorta che era già sufficiente tutto quello che vi avevo raccontato.
Tuttavia vi ho voluto lasciare un piccolo assaggio e così mi sono messa d'impegno e vi ho scritto l'epilogo, che, spero, voi abbiate gradito. 

Dedico questo capitolo finale a chi ha sempre avuto belle parole per la storia, ovvero Estelle Holly, Zavarix e ovviamente anche JJK che tramite la messaggistica privata mi ha sempre sostenuta, mi auguro che questo finale piaccia a voi quanto piace a me.

Ringrazio ovviamente anche i restanti di voi, che mi leggete e avete messo la mia storia fra le seguite, e vi dico che non vi siete liberati di me, perchè io tornerò con altre storie. Non so quando, ma tornerò e mi auguro di avervi sempre come i miei lettori.

Detto questo, vi auguro un felice anno nuovo e ogni bene per quest'anno che inizia. Grazie mille per avemi seguita!

Con affetto,
Anto.  

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