Vita e Morte a Venezia di JoiningJoice (/viewuser.php?uid=66539)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Introduzione ***
Capitolo 2: *** II - Incontri ***
Capitolo 3: *** III - Maschera ***
Capitolo 4: *** IV - La Volpe ***
Capitolo 5: *** V - Egoismo ***
Capitolo 6: *** VI - Sacrificio ***
Capitolo 7: *** VII - Verità ***
Capitolo 8: *** VIII - Uccidi ***
Capitolo 9: *** IX - Limite ***
Capitolo 10: *** X - Umanità ***
Capitolo 11: *** XI - Lo so ***
Capitolo 12: *** XII - Morire soli ***
Capitolo 13: *** XIII - Epilogo - Ancora Qui ***
Capitolo 1 *** I - Introduzione ***
Vita
e Morte a Venezia
Jean osservò il corpo martoriato del proprio migliore
amico bruciare in mezzo a decine di altri corpi.
'Siamo
fortunati.', mormorò Connie, sistemandosi la benda attorno
alla bocca. 'Se Marco sapesse che siamo vivi, non ce ne vorrebbe.'
Jean
annuì distrattamente. Non era nuovo alle violenze, ai
cadaveri, ai bubboni, alla mano nera che si portava via i tuoi cari;
nessuno di loro lo era, in quel periodo, ma non avrebbe mai pensato
che la peste si sarebbe portata via anche Marco, Marco che era sempre
sorridente e allegro, che cercava di porre fine alle loro monellate.
Marco
che era morto a soli undici anni.
Jean
strinse i denti, sentendo le lacrime salirgli agli occhi. Aveva
impresso davanti agli occhi il momento in cui uno dei pochi dottori
rimasti vivi in città, il tedesco Dottor Jaeger, aveva
adagiato Marco su uno dei tavoli dell'improvvisato ospedale. Era
febbricitante, e quando il Dr. Jaeger aveva spostato il sudario che
Marco aveva iniziato a portare sul volto da qualche giorno a quella
parte, rivelando le tumefazioni della peste, Jean era svenuto.
Al
suo risveglio si trovava nella casa di Antonio, l'uomo che li aveva
presi sotto la propria protezione da che Jean avesse memoria. Connie
piangeva in un angolo vicino al fuoco.
'Gli
ha tagliato la faccia...', aveva singhiozzato. 'Quel diavolo di
dottore gli ha infilato qualcosa nel braccio e gli ha tagliato la
faccia...'
'Sta
zitto, Connie.', lo aveva rimbeccato Sasha, sconvolta. 'Tu e la tua
maledetta lingua da inglese.'
Jean
era rimasto sdraiato, lo sguardo rivolto al soffitto, cercando di non
pensare al volto di Marco distrutto dalla peste, al volto di Marco
che si divideva a metà.
Non
ci era riuscito.
*
'Jean,
tu hai idea di quanto sia cinquantamila?'
Jean
appoggiò i mattoni bianchi accanto ai recipienti di
calcestruzzo e guardò Connie, asciugandosi il sudore sulla
fronte.
'No.',
rispose sincero. 'Perchè me lo chiedi?'
'Ho
sentito qualcuno dire che per la peste sono morte cinquantamila
persone.', affermò Connie. 'Dev'essere un sacco.'
Davanti
agli occhi di Jean si formò l'immagine delle pire che avevano
illuminato a giorno il sestiere anche nelle ore più buie della notte, fino a qualche settimana prima. La cenere cadeva ancora, più
lenta e rada in quel momento, ma cadeva. Fu assalito da un pensiero
improvviso, malato.
(Stiamo
respirando cadaveri.)
'Non
mi piacciono questi discorsi, Connie.', esclamò. Lui e Connie,
come gran parte dei ragazzini ancora vivi del sestiere di Dorsoduro,
erano stati impiegati per la costruzione della Chiesa del Redentore,
nella Giudecca, chiesa che secondo il Doge sarebbe stata un
ringraziamento a Dio per aver liberato Venezia dalla peste.
(Dovremmo
ringraziare Dio anche dei cinquantamila morti.)
Un
nitrito e l'avvicinarsi di una carrozza tolse a Connie la possibilità
di replicare; il carretto di un cerusico si era fermato a pochi metri
da loro, e da esso scese il Dr. Jaeger, che andò a sistemarsi
sul volto la maschera tipica dei cerusici, atto ad evitare che
venissero contagiati dalle malattie su cui andavano ad operare. Il
dottore era un uomo diplomato e istruito, ma questo non gli impediva
di sporcarsi le mani con strumenti chirurgici per il bene dei propri
concittadini. I lavori vennero interrotti mentre il Dr. Jaeger apriva
i bancali del carretto e vi sistemava sopra le erbe, le fiale e gli
aghi che erano la sua arma.
'Andiamo,
Jean.'.
Connie
si avviò prima di lui verso il carretto del cerusico. Jean lo
seguì poco dopo, moscio e poco incline ad avvicinarsi all'uomo
che, per quanto fosse meritevole di aver salvato molti di loro era
anche colpevole della morte di Marco.
(Era
un ragazzo così buono.)
'Altro
che Chiesa del Redentore, dottore, dovrebbero intitolare a voi questa
chiesa!'
Il
dottor Jaeger conservava poco del suo originale accento germanico; si
era trasferito a Venezia da molti anni, ormai, e aveva preso moglie
proprio a Venezia. Sorrise all'uomo che aveva parlato,
controllandogli gli occhi con un vetro speciale.
'Esagerate,
Mastro Hannes.', sorrise. 'Faccio solo il mio dovere.'
Jean
sentì il sangue ribollirgli nelle vene. 'È vostro
dovere tagliare a metà giovani innocenti, dottor Jaeger?'
Seguirono
lunghi attimi di imbarazzante, attonito silenzio; attimi in cui Jean,
per quanto in imbarazzo, non riuscì a pentirsi dell'aver
urlato quella frase davanti a tutti coloro che lo stavano fissando.
Il
dottor Jaeger si alzò in piedi e si levò la maschera
per osservarlo meglio. Jean arrossì.
'Tu
sei uno dei protetti di De Magianis, non è così?'
'E
lei è un assassino.'
Qualcuno
mormorò parole di sdegno; il dottore fece un passo avanti e
alzò una mano. Jean si ritrasse istintivamente, convinto che
l'uomo gli avrebbe mollato un ceffone per intimargli di tacere.
La
mano del dottor Jaeger si posò tranquilla e amorevole sulla
sua testa.
Jean
rimase immobile mentre il dottore si abbassava per poterlo guardare
negli occhi.
'Dimmi,
qual è il tuo nome?'
'...Jean.'
'Jean,
tu sai chi siano i tuoi genitori?'
Jean
ci pensò su un attimo. Di suo padre non sapeva quasi niente,
mentre sua madre era morta quando lui era molto, molto piccolo. 'No,
dottor Jaeger.'
'E
sei consapevole di quanta gente quest'epidemia si sia portata via?'
Jean
ricordò le parole di Connie. 'Cinquantamila persone.', ripeté,
nonostante non avesse la minima idea della reale portata di quel
numero.
Il
dottor Jaeger annuì. 'Circa cinquantamila, sì. Un terzo
degli abitanti della laguna. Compresa mia moglie Carla.'
Jean
rabbrividì all'improvviso, guardando verso il carretto del
dottore. Non conosceva Carla Jaeger, ma suo figlio, Eren, era uno
scapestrato ragazzino coi capelli scuri che in genere accompagnava il
padre nelle sue visite, approfittandone per scappare e andare a fare
a botte con i ragazzini delle calle. Più di una volta Jean e
Eren si erano picchiati per il semplice gusto di farlo, o si erano
sfidati tra le grida e gli applausi degli altri ragazzi.
A
Jean venne in mente solo in quel momento che quel giorno Eren non era
sceso dal carretto, non aveva aiutato il padre a sistemare i
medicinali per poi correre via ridendo. Si voltò verso il
dottore.
'Dottor
Jaeger, Eren...'
'Eren
sta bene. È a casa, a prendersi cura di Mikasa. Sai chi è
Mikasa?'
A
Jean quel nome suonò esotico, il più strano che avesse
mai sentito. 'No.'
'Mikasa
è figlia di un mio caro amico e di una donna proveniente dalla
lontana Asia. Entrambi i suoi genitori sono morti, vittime della
peste. Mikasa è sotto la mia custodia, ora. È un
orfana, come lo sei tu, come lo era la persona che immagino tu mi
stia incolpando di avere ucciso.', a questo punto, il dottor Jeager
si alzò in piedi e alzò la voce. 'In queste ore buie
dobbiamo rimanere uniti. Io ho potuto offrire alloggio a una bambina,
ma molti di noi si trovano spaesati, soli, abbandonati. Dobbiamo
avvicinarci e saperci perdonare.'
Dette
queste parole, il dottor Jaeger rivolse a Jean un ultimo sorriso, per
poi tornare al suo lavoro. Quando fu il suo turno di far controllare
al medico che il suo corpo non portasse addosso i sintomi della morte
nera, Jean rimase in silenzio; fu Grisha Jaeger a prendere parola.
'Jean
è un nome francese. Hai origini francesi, Jean?'
Lui
annuì, poi scosse la testa. 'Mia madre mi raccontava di mio
padre, un commerciante di vini di Marsiglia. Lei era di una città
chiamata Monaco di Baviera. Fu lui a portare me e la mamma qui a
Venezia, per poi abbandonarci. Aveva già un'altra famiglia.'
Il
dottor Jaeger annuì. 'Capisco. Non dev'essere stato facile per
la tua mamma. Hai un nome molto religioso, sai? Jean significa 'Dio è
grazioso' in francese. Sei cristiano, Jean?'
(Non
più.)
'Mia
madre lo era molto.', rispose sinceramente. Aveva ricordi molto vaghi
di lei; il profumo dei suoi capelli, le sue mani che ripetevano il
gesto della croce, le lacrime quando parlava dell'uomo che aveva
amato.
'Allora,',
concluse Grisha. 'Che ne dici se ti trovassi un cognome? È
importante averne uno, sai? Ti da un senso di appartenenza. Che ne
dici di Krishtein? Significa “cristiano” in tedesco.'
E
per quanto Marco stesse ancora bruciando tra la cenere e nella sua
anima, Jean si sentì per qualche attimo felice.
___________________________________________________________________________
Lo so, lo so.
Chi ha letto le mie precedenti one-shot starà pensando 'Ehi, ci avevi promesso una KristaYmir, dov'è la nostra KristaYmir?!'
Chi ha letto l'anteprima della storia (ssssh, fate finta di non aver capito chi è il misterioso ragazzo con la maschera) starà pensando 'DOVE' IL NOSTRO SHONEN AI?!'
Chi mi conosce personalmente starà pensando 'Azz, ti sei rimessa a scrivere fan fiction AU, eh? Traditrice fedifraga!'
Io sto pensando 'Ma che cazz, questa non doveva essere una one-shot con solo due personaggi?!'
E' che 'sto fandom prende troppo.
E' che la KristaYmir arriva, arriva.
Ma quesa storia chiamava, e per quanto non scrivessi AU da anni per il principio del 'basta estrapolare i personaggi dal loro contesto!', SNK si è più volte confermato come il vaffanculismo di tutti i miei principi narrativi.
E' che la JeanMarco chiama, io rispondo.
COMUNQUE!
Le ricerche per far sì che questa storia abbia un senso logico sono estenuanti; spero di non aver fatto nessun errore storico troppo evidente D:
Nel prossimo capitolo (in stesura già nel momento in cui scrivo queste parole) avremo l'ingresso in scena di un sacco di personaggi, compreso Levi (che so che quando si nomina Levi il fandom esplode, ghgh) e si entrerà molto di più nel vivo della storia.
Che mi sta veramente sfuggendo di mano.
HO TREMILA IDEE.
E VI TOCCHERA' SORBIRVELE TUTTE.
A parte gli scherzi, godetevi la storia e recensite, che ogni volta che non lo fate Isayama uccide un personaggio :3
ALLA PROSSIMA!
P.S.: Un grazie per tutte le visualizzazioni, i preferiti e le recensioni a 'Lei Esiste' e 'Bright Future'. Siete meravigliosi e vi adoro tutti :3
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Capitolo 2 *** II - Incontri ***
Vita
e Morte a Venezia
'SI
FOTTA QUELLA LURIDA CAGNA DI TUA MADRE, JAEGER!'
Jean
sfondò la porta della casa di Antonio con un calcio e vi fece
irruzione dentro, maledicendo a gesti il mondo. Connie lo seguì
a ruota.
Sasha,
un attimo prima seduta al tavolo nella stanza, notando il sangue che
colava sul volto del compagno saltò in piedi agitata e si
fiondò ad afferrare delle pezze.
'Che
diavolo è successo?'
Jean
sbattè il pugno sul tavolo in legno, i denti stretti. 'Quel
figlio di una pezzente di Eren Jaeger mi ha di nuovo fatto fare la
figura dello scemo. E davanti alla Principessa, poi!'
La
Principessa era il soprannome che i ragazzi del sestiere di Dorsoduro
avevano appioppato a Mikasa, la figliastra del dottor Jaeger; un
soprannome contorto, dato che di principesco Mikasa aveva solo
l'aspetto esotico. La ragazzina si era dimostrata subito un osso
duro, una gran lottatrice e il timore di tutti i bulletti delle
calle.
'Sai
benissimo di non avere nessuna possibilità contro Eren,
Jean.', mormorò Sasha, appoggiando una pezza bagnata contro al
taglio sul sopracciglio di Jean e tamponando.
'Sì,
beh, grazie per il supporto.', Jean tolse la pezza dalle mani di
Sasha, nervoso.
Sasha
gli gettò un'occhiata infastidita, poi si rivolse a Connie.
'Cosa si sono detti, questa volta?'
'Eravamo
in Campo della Carità.', spiegò Connie. 'Jean, io e i
ragazzi. Jean stava raccontando di quella volta che ha fatto che ha
fatto cadere Eren nel Canal Grande...'
'Intendi
quella volta in cui Eren se l'è tirato dietro?'
'Quella
volta in cui c'è caduto solo lui.', sottolineò
Jean stizzito.
'...e
Eren e la Principessa sono usciti dalla stamperia di Mastro Arlert,
insieme al nipote dello stesso.', continuò Connie. 'I più
piccoli del gruppo hanno cominciato a ridacchiare nella loro
direzione. Eren si è infastidito e ha attaccato verbalmente
Jean. Lui ha risposto, sono andati avanti così per un po' fino
a quando Eren non ha chiesto a Jean se fosse così fissato con
Mikasa da essersi tagliato il cazzo per somigliarle di più.'
Sasha
strabuzzò gli occhi, rivolgendosi a Jean. 'E tu che hai
risposto?'
'Che
poteva andare a farsi fottere.'
'Al
che lui ha replicato...'
'Che
forse mi sarebbe piaciuto avere l'onore.', concluse Jean. 'A quel
punto qualcuno ha tirato fuori una fionda e hanno cominciato a volare
i sassi.'
Nella
stanza calò il silenzio. Sasha e Connie si scambiarono uno
sguardo allarmato.
Erano
cresciuti insieme a Jean; insieme a lui e agli altri orfani, ai ladri
e agli stranieri del sestiere di Dorsoduro. Insieme erano
sopravvissuti agli arresti, agli inseguimenti delle guardie della
città, ad un'epidemia che era stata fatale per molte delle
persone con le quali erano cresciuti. Entrambi rispettavano Jean, e
non erano gli unici; ma le voci circolavano, e se erano arrivate
addirittura alle orecchie del figlio di un rispettabile dottore,
circolavano molto rapidamente...
'Lascia
perdere quell'idiota, Jean.', mormorò Sasha, riprendendo
delicatamente la pezza dalle mani di Jean. Il sangue non voleva
smettere di scorrere dal taglio. 'Penso sarà il caso di
cauterizzarla.'
Connie
si alzò. 'Vado a prendere la polvere da sparo.'
Mentre
Connie usciva dalla stanza, Sasha si rilassò sulla sedia. Il
silenzio era sceso su di loro, imbarazzante e traditore; Jean si
ritrovò a parlare senza nemmeno pensarci.
'Subito
dopo sono arrivate le guardie. Mi sono distratto, e un sasso lanciato
da uno di quei maledetti succhiacazzi che stanno dalla parte di
Jaeger mi ha colpito.'
'Non
Eren stesso.'
'Non
lui.'
'Va
bene. C'era il Francese?'
Jean
annuì, rabbrividendo. 'Il Francese' era il soprannome del
Caporale Rivaille. Rivaille era un uomo che si era fatto strada tra
grado per grado a forza di vittorie contro i malviventi della città;
nonostante la statura modesta e l'aspetto tranquillo, non esitava a
far ricorso alla violenza.
'Siamo
scappati subito, sparpagliandoci.', ammise Jean. 'Non credo che Eren
e i suoi abbiano fatto lo stesso, e se c'è una soddisfazione
che posso trarre da tutto questo è l'idea di Eren Jaeger che
viene preso a calci in faccia dal caporale. Quello non si farebbe
scrupoli a picchiare la figlia del Doge, se la beccasse a rubare un
pezzo di pane da un bancale.'
'Ce
la vedi, la figlia del Doge che ruba un pezzo di pane?'
Sasha
e Jean scoppiarono a ridere, mentre Connie rientrava nella stanza.
Erano
passati cinque anni dalla fine dell'epidemia.
Il
Carnevale era alle porte.
*
'Cosa
stai facendo, ragazzo?!'
Tre
giorni dopo l'incidente, Jean stava sfiorandosi la cicatrice sulla
tempia con un dito, bighellonando per il mercato in cerca di prede
facili quando l'urlo lo portò a voltarsi, così come
gran parte della gente che si aggirava tra i bancali. Inizialmente
preoccupato che la guardia si fosse rivolto a lui, si rilassò
quando vide che l'uomo aveva inveito contro un ragazzino il cui volto
era nascosto da un cappuccio, che sembrava aver prelevato senza
permesso un tocco di pane da una bancarella.
'Io...ah...ho
fame.', mormorò il ragazzino con voce sottile.
Jean
trattenne una risatina. Se il ragazzo stava facendo da diversivo per
un amico tagliaborse, quella era davvero un'idea rischiosa. Poi però
notò che nei paraggi non c'era nessuno che somigliasse a un
complice, e aggrottò la fronte. Possibile che si fosse fatto
beccare così facilmente, e per una pagnotta soltanto?
'Mi
prendi in giro?'
La
gente, abituata a quel genere di scena, aveva smesso di osservare. Il
borsello della guardia dondolava invitante. Jean si avvicinò,
sfilando un taglierino dalla cinta dei pantaloni; con un gesto
leggero, esperto, fece cadere il portamonete nella propria mano. Si
allontanò con calma, senza farsi notare, ma un urlo lo fece
girare d'istinto.
'BRUTTO
PICCOLO SORCIO, ORA TI FACCIO VEDERE IO!'
La
guardia aveva estratto lo spadino. Jean sentì qualcosa di
molto simile al senso di colpa formarsi dentro di lui; il ragazzo
sembrava un novellino, e lui stesso da piccolo aveva rischiato spesso
di prenderle dalle guardie. In quel caso, quasi sempre qualcuno
interveniva a salvarlo.
(Marco,
solitamente)
Corse,
scivolando tra la guardia e il ragazzo e afferrando la mano di
quest'ultimo.
'Seguimi,
mammoletta!', urlò al ragazzino, che non se lo fece ripetere.
Corsero
lontano dalle guardie, slittando tra calle e calletti, fino a che la
guardia non fu abbastanza lontana. Quando si fermarono ansimavano
entrambi. Jean iniziò a ridere; la cicatrice sul sopracciglio
gli pulsava, l'intero corpo era ricoperto di sudore, avvolto
nell'adrenalina. Il ragazzo, invece, era piegato in due dalla fatica.
Jean prese il borsello appena rubato e lo aprì.
'Sai
una cosa, ragazzino?', sorrise, estraendo dalla saccoccia un paio di
monete. 'Sei un maldestro, ma queste te le sei proprio meritate. Se
ti interessa imparare qualche trucco, chiedi di Jean Kirschtein. Ci
vediam...'
Jean
si interruppe bruscamente. Al tintinnare delle monete, il ragazzo
aveva alzato di scatto la testa; il cappuccio era scivolato giù,
rivelando una zazzera di capelli biondi. Ma le sorprese non finivano
lì: la persona che Jean aveva continuato a credere un
ragazzino per tutto quel tempo aveva il volto più dolce,
femminile e indiscutibilmente bello su cui Jean avesse mai posato gli
occhi, anche più bello di quello della Principessa.
'Vi
ringrazio!', esplose la ragazza, afferrando le monete. Sorrise, e il
suo sorriso raccontava di brezza marina e campi di fiori illuminati
dal sole. La sua voce non suonava più come quella di un
ragazzino, ora: era la voce di un angelo.
'Pre...go...',
mormorò Jean, confuso nel profondo.
In
quel momento, la ragazza si accorse di non avere più il volto
nascosto; sobbalzò nervosa e si affrettò a coprirsi
nuovamente il volto, lasciando in bella vista solo due grandi occhi
azzurri. Si avvicinò a Jean.
'Devo
scappare, ora: mi cercano! Vi prego, se qualche guardia dovesse
fermarvi e chiedervi di una ragazza bionda, non dite di avermi
vista!', supplicò. Alzò le monete verso Jean. 'Ve ne
sarò eternamente grata...Jean. Siete il mio salvatore. Ecco,
non posso vendere questo per ricavarvi dei soldi, ma posso darlo a
voi in segno di riconoscenza. Verrò a cercarvi.', gli occhi si
socchiusero: stava sorridendo. 'Forse potreste davvero insegnarmi
qualche trucco del mestiere.'
Pose
nelle mani di Jean qualcosa che si era tolta dal dito e scappò
via, prima ancora che lui avesse la possibilità di fermarla.
Nel vicolo c'era un silenzio innaturale; i rumori della città
arrivavano attenuati, soffusi. Ad un tratto, Jean si sentì
osservato. Guardò dietro di sé, ma non c'era nessuno.
Gli sembrò di scorgere un'ombra sui tetti. Alzò lo
sguardo, ma non c'era nulla.
(A
pensarci bene, l'idea era abbastanza ridicola)
(E
quella ragazzina dev'essere qualche pazza scappata da un manicomio)
Jean
abbassò lo sguardo sulla propria mano. La ragazza vi aveva
lasciato un anello, su cui sembrava essere inciso qualcosa. Jean alzò
l'anello verso gli occhi per osservarlo meglio.
Effettivamente
sull'anello c'era un'incisione, anzi, più di una; la scritta
“Aeterna florida virtus” e
uno stemma ritraente un ponte dorato in campo azzurro.
Lo
stemma dell'attuale Doge.
Quando
Jean abbassò l'anello e si voltò nella direzione verso
la quale era scappata la ragazza, scoprì che a dieci
centimetri dal suo naso era fermo un uomo. Indossava un lungo
mantello scuro e in volto aveva una maschera di un nero più
nero della notte stessa.
'Ciao,
Jean.', sussurrò.
'AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!'
________________________________________________________
E mentre voi leggete questo, io inizio il capitolo 5 *faccina malefica*
Ragazzi, che dire. Siete...siete meravigliosi. Non mi aspettavo tanto feedback positivo, tante views...un grazie a cuore aperto a tutti coloro che hanno recensito, seguito, preferito, ricordato. VI VOGLIO BENE!
Riguardo al capitolo, invece...ehi, ora sì che potete parlarne. C'è un po' di gente il cui ruolo qui è a malapena abbozzato, e nonostante mi fossi detta che non avrei inserito tutti i personaggi, la storia si prospetta lunghina e cercherò di inserire tutti; per ora vi dico con sicurezza che tutti i membri della 104th Squad hanno un ruolo fisso chiave nella storia, e questo dovrebbe far pensare che... (evito gli spoiler ghghgh)
Facciamo un gioco: se recensite, ditemi chi credete fosse il personaggio che Jean ha avuto l'impressione di vedere sul tetto.
Io vi aspetto al prossimo, atteso, rompicuore capitolo, che posterò non prima di mercoledì 20 novembre! (。◕‿◕。)
E poi ci rivediamo dopo il cinquantesimo di Doctor Who! WHHOOOO-OOOO-OOOOOH! (momento di sclero random)
ALLA PROSSIMA!
Perchè riesco ad aggiornare solo a notte fonda, urgh...
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Capitolo 3 *** III - Maschera ***
Vita
e Morte a Venezia
'AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!'
Jean
cadde all'indietro, atterrando con la schiena sulle mattonelle.
L'uomo che gli stava di fronte inclinò lievemente la testa
d'un lato; impossibile dire quali fossero i suoi pensieri, dato che
la maschera gli ricopriva l'intero volto.
'M...mi
avete spaventato, amico.', sorrise Jean, cercando di calmarsi.
'Non
era mia intenzione.', l'uomo estrasse la mano guantata di nero da
sotto il mantello e gliela porse. Jean la afferrò saldamente e
si tirò su da terra. Si spolverò i calzoni e controllò
furtivo di avere ancora l'anello in mano.
'Non
è un po' presto per andare in giro con...ah...una maschera?'
L'uomo
rise. Aveva una risata gentile, eppure Jean sentì brividi
scendergli lungo la schiena.
'La
Maschera è ciò che sono, Jean. Dammi del tu, ti prego.'
Jean
lo guardò fisso, nel punto in cui la maschera era forata; gli
occhi dell'uomo – la cui voce, in contrapposizione con la
corporatura adulta, suonava più come quella di un ragazzo non
troppo più vecchio di Jean – erano in ombra, nascosti
dal cappuccio posto sulla sua testa.
'Come
conosci il mio nome?'
'Ti
ho cercato a lungo, Jean.', continuò lui. Non disse altro.
Jean
sentì di aver sopportato abbastanza strambi per un solo
giorno. 'Senti, amico, se sei uno degli amici di Eren ti conviene
vivamente allontanarti. Non sono in vena di scherzi del cazzo.'
L'uomo
con la maschera abbassò la testa; emanava un enorme senso di
tristezza e delusione. 'Davvero non mi riconosci, Jean?'
Jean
stava per rispondere, ma un rumore improvviso lo fece voltare. Del
fumo saliva lento in cielo, a circa cinquecento metri di distanza
rispetto a dove si trovavano loro.
'Oh,
no.', sentì esclamare l'uomo con la maschera. Jean si protese
in avanti e lo afferrò per il bavero del mantello.
'Prima
quella ragazzina e ora voi! Chi siete? Cosa diavolo volete?'
'Jean,
lasciami!'
C'era
una punta di disperazione nella voce dell'uomo. Jean afferrò
la maschera e fece per strapparla via, ma l'uomo lo colpì al
fianco destro con un calcio; fu costretto a mollare la presa.
'Non...non
farlo, ti prego. Devi fidarti di me!', implorò l'uomo.
E
per un lungo, inspiegabile attimo, Jean lo fece. Qualcosa nella voce
gentile di quell'uomo gli impedì di muoversi; un ricordo
seppellito sotto anni di solitudine, qualcosa che aveva l'impressione
di aver dimenticato, qualcosa di importante.
(una
famiglia)
L'uomo
con la maschera si rialzò da terra.
'So
che hai incontrato qualcuno di importante, poco fa. Ti stavo seguendo
da un po', ma non avrei mai pensato che le cose si sarebbero
complicate così tanto.', ansimò. 'Ho bisogno di
continuare a parlarti. Va sull'isola della Giudecca, questa sera,
poco dopo il crepuscolo. Recati alla locanda dello Zudeo e chiedi
della Volpe. Lei ti dirà di più.'
'Di
più su cosa?!', sbottò Jean.
L'uomo,
che già si era allontanato di qualche metro, si voltò
indietro. Alla luce del sole, Jean si rese conto che la maschera che
gli copriva il volto non era completamente nera; la metà
destra era rossa, un rosso tanto cupo che era quasi impossibile
distinguere i due colori.
'Di
più su di me.', rispose. 'Chiedi della Maschera.'
Dopodichè
scomparve tra i vicoli.
*
Dal
suo rifugio in una piccola casa nell'isola della Giudecca, anche la
Volpe potè sentire l'esplosione, e se ne compiacque. Agli
occhi di chiunque, quell'esplosione sarebbe passata come uno degli
incidenti che accadevano di frequente durante la settimana del
carnevale; opera di vandali, o incidente pirotecnico. Ma per lei e
per gli uomini che la pagavano, quell'esplosione rappresentava
l'inizio di qualcosa di grosso.
Si
alzò agile sul bordo della finestra e vi rimase in piedi per
qualche secondo; saltò, afferrando saldamente la sporgenza del
tetto e issandosi. I muscoli delle braccia, allenate da anni di
esercizio, le dolevano piacevolmente. Si sdraiò sulle tegole
del tetto, in qualche modo felice. Si sentiva più a suo agio,
quando sopra la sua testa c'era il cielo al posto di un tetto.
Senza
volerlo, si ritrovò a pensare al fortuito incontro appena
avuto. Stava controllando la principessina nei pressi del mercato, ed
era sul punto di seccare la guardia che l'aveva attaccata con un
lancio di pugnale, quando la ragazza era stata portata via da un
ladruncolo. Allarmata, li aveva seguiti correndo e saltando agilmente
tra i tetti della città, pronta a intervenire nel caso il
ragazzo si fosse rivelato uno scagnozzo del Doge. Quando poi si erano
fermati e il ragazzino aveva estratto due monete da una sacca che
doveva aver sottratto alla guardia, la Volpe si era rilassata ed era
rimasta in silenzio ad assistere alla scena. Christa era scappata, e
lei l'aveva lasciata andare. Se la sarebbe cavata.
'Serena
quanto la nostra città.'
La
Volpe alzò la testa; la Maschera era seduta accanto a lei.
'Non
smetterai mai di darmi i brividi. Sei imprevedibile, ragazzo.',
ammise.
'Dissero
i passi più felpati dell'intera Venezia.', replicò lui.
'Come sta la nostra bastarda?'
'Dovrebbe
riuscire a sopravvivere qualche giorno senza combinare disastri. Il
tuo amichetto le ha dato una mano.', sorrise, e il suo volto si
contrasse in una smorfia canina, uno dei tanti motivi dietro al suo
soprannome.
'Jean
verrà a cercarti stasera. L'ho indirizzato a te.'
A
quella notizia, la Volpe parve innervosirsi. 'Per quale motivo
dovrebbe cercarmi?'
La
Maschera si alzò, spolverando il mantello. 'Per trovare me,
Ymir, che domande.'
Si
tolse la maschera e rivolse il volto alla luce del sole. Ymir era una
donna di mondo e ne aveva viste tante, durante la sua vita, ma poche
cose la spaventavano quanto quel volto. La Maschera aveva molti
soprannomi: l'Urlatore, il Macellato, l'Ombra, ma solo uno gli si
addiceva veramente, ed era Ymir stessa ad averglielo appioppato.
'Fantasma.',
mormorò, e il ragazzo si voltò. Nonostante tutto, Ymir
sapeva di trovarsi di fronte a occhi sinceri; vuoti, privi di vita,
ma sinceri e gentili. 'Non ho mai capito perchè li aiuti. Io
lo faccio per i soldi, ma tu?'
Lui
non rispose. 'Siamo a febbraio, ma il sole è bellissimo, non
trovi?', si beava di quella luce. 'Sono contento di essere riuscito a
parlare con Jean, anche se per così poco.'
Si
risistemò la maschera nera sul volto, allacciandola con mani
tremanti. Ymir ebbe l'impressione di sentirlo emettere dei
singhiozzi, ma evitò di parlarne. Lui alzò il cappuccio
sulla testa e si voltò verso di lei.
'Lo
faccio per mia volontà quanto è vero che tu lo fai per
i soldi, mia cara.'
Lei
sorrise, arricciando il naso. La Maschera saltò giù dal
tetto, svanendo, solo un'ombra tra le ombre della città.
_________________________________________________________________________________
Ed ecco un altro capitolo che va u.u
Avrete notato che raziono le novità, capitolo per capitolo; questo capitolo è il primo vero e proprio punto di svolta nella storia. Se il capitolo precedente vedeva l'introduzione della fuggiasca Christa, questo capitolo vede l'introduzione ufficiale ed ufficiosa di due dei miei quattro personaggi preferiti di SNK: Ymir e...e. E la Maschera. >:3
(per la cronaca, gli altri personaggi preferiti sono Jean, che per quanto io scriva di lui non renderò mai giustizia al fantastico personaggio che è e...e. Lo vedrete :D)
In ogni caso, questo è un capitolo che, sì, lascia un sacco di domande e qualche risposta; il quarto capitolo ha dalla sua una scena iniziale con un sacco di personaggi finora abbozzati (leggi: Shiganshima Trioooo...) e l'incontro decisivo tra Jean e la Volpe (approposito; no, nonostante questa serie presenti un bel po' di riferimenti alla saga di Assassin's Creed la Volpe è semplicemente un soprannome che ho sempre attribuito ad Ymir e che mi pareva abbastanza suggestivo)...
Dio quanto vi lovvo quando recensite <3
PERCHE' RECENSITE, VEEEEEEEEERO? Muahahahaha.
E dai, bimbi belli u.u
AL PROSSIMO CAPITOLO!
- Joice
|
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Capitolo 4 *** IV - La Volpe ***
Vita
e Morte a Venezia
La
tensione nella stanza sul retro della stamperia Arlet era così
palpabile che un artigiano se ne sarebbe potuto servire per
realizzare una statua dall'espressione pregna di intenso odio. Connie
osservava curioso il modellino in legno di una gondola, sfiorandola
con un dito; Sasha osservava i dorsi dei libri, curiosa. Mikasa
Ackermann se ne stava seduta in un angolo. Armin era chino
sull'anello, un vetrino speciale praticamente incollato all'occhio.
Da
una parte all'altra della stanza, Jean e Eren si fissavano in
cagnesco.
'Non
sono un esperto.', ammise Armin, alzando la testa verso Jean. 'Ma non
credo sia un falso. Dove hai detto di averlo trovato?'
'Giù
per terra.'
Armin
alzò gli occhi al cielo. Eren strinse i pugni.
'Lo
ha rubato, ecco dove lo ha trovato! Maledetto tagliaborse!'
'Nella
prossima vita cercherò di uscire anch'io dalla figa della
moglie di un dottore, va bene, Jaeger? Per questa vita è
andata così, non rompere.'
'Cos...non
toccare mia madre, stronzetto!'
'Mio
nonno è nell'altra stanza, e se ha sentito solo metà
delle vostre battute da bambini non rivolgerò più la
parola a nessuno dei due.', esclamò secco Armin. 'Anzi, andrò
direttamente a denunciare il furto al Francese, Jean.'
Eren
ridacchiò; Armin gli lanciò un'occhiata di sbieco. 'E
dirò che tu lo hai aiutato, Eren.'
'Ma
noi siamo amici, Armin!'
'Sarebbe
tutto inutile, Armin.', intervenne Mikasa, tranquilla. 'Quell'anello
Jean non l'ha rubato. Non è così, Jean?'
Jean
sorrise nella direzione di Mikasa, rilassato. 'Giusto. Sono un uomo
onesto, io.'
Armin
sospirò, sedendosi. 'Se vuoi che ti aiuti, ho bisogno che tu
mi dica tutto.'
Jean
guardò fuori dalla finestra. Era appena pomeriggio; aveva
tutto il tempo di raccontare, e Armin era il ragazzo più
intelligente che conoscesse, nonostante la cattiva abitudine di
frequentare idioti del calibro di Eren Jaeger. Ma il suo più
grande timore era proprio la presenza di Eren e ciò che
sarebbe uscito da quella stanza. Lanciò un'occhiata a Sasha e
Connie, che sembravano perfettamente a loro agio, e si grattò
la cicatrice sul sopracciglio.
'Ho
bisogno di sapere se posso parlare liberamente.', disse.
A
quelle parole, Armin guardò Eren; quest'ultimo si alzò
dalla libreria a cui era appoggiato e si avvicinò a Jean.
'Spero
per te che questa non sia tutta una perdita di tempo.'
'Sul
mio onore di tagliaborse.'
'Ci
sputo, sul tuo onore.'
Jean
sorrise, perfido. 'Allora non hai niente da perdere, giusto, Jaeger?'
La
curiosità negli occhi di Eren era evidente. Gli porse la mano,
e Jean la strinse. Nella stanza, qualcosa sembrò rilassarsi.
'Va
bene, allora.'
Jean
afferrò uno sgabello e cominciò a raccontare. Sasha e
Connie, che avevano ascoltato una versione più ridotta della
storia, si misero ad ascoltare interessati. Nessuno osò
interrompere Jean per almeno mezz'ora.
Terminato
il racconto sul ragazzo che si era fatto conoscere come la Maschera,
Armin prese parola.
'Non
ho mai sentito di un personaggio del genere, ma molta gente gira con
maschere nere. Sicuro che non fosse semplicemente uno scherzo?
Jean
scosse la testa. 'Ho cercato di spiegarvelo. Non era nera,
era...buia. Qualcosa che non avevo mai visto prima. E alla luce del
sole, la parte destra sembrava rossa. E inoltre, se fosse stato uno
scherzo, perchè invitarmi a contattare una terza persona?'
'Io
non centro.', puntualizzò Eren, alzando entrambe le mani.
'Non
ho mai sentito parlare di volpi o maschere...', mormorò
Connie, grattandosi la testa.
Armin
fissava Jean, rapito. 'E questa ragazza bionda, la ragazza
dell'anello...'
Gli
sguardi di tutti i presenti si posarono sul piccolo anello poggiato
sul tavolo. Rimasero in religioso silenzio, finchè un
brontolio sommesso li fece sobbalzare tutti.
Sasha
era arrossita. 'Colpa mia, scusate...'
'In
ogni caso, inutile rimuginarci sopra.', Armin prese l'anello e lo
porse a Jean. 'Potrebbe essere pericoloso, ma credo tu debba andare a
questo incontro, stasera.'
'Ci
sarei andato comunque.', rispose Jean. 'Grazie dell'aiuto, Armin.'
Fece
un gesto a Connie e Sasha e si avviarono verso l'uscita.
'Jean.'
Jean
si voltò; Mikasa lo fissava, i sottili occhi neri spalancati.
'Hai
detto che il ragazzo con la Maschera ti ha chiamato per nome. Non hai
proprio idea di chi possa essere?'
Jean
fu sul punto di rispondere, ma si bloccò. C'era un nome da
qualche parte nella sua mente che avrebbe potuto associare a quella
voce, ma non riusciva a pronunciarlo. Scosse la testa lievemente.
'Devo
andare.'
Mikasa
annuì, rivolgendogli un piccolo sorriso d'incoraggiamento.
Jean arrossì lievemente, poi uscì dalla stanza.
*
'Devo
parlare con La Volpe.'
Nella
testa di Jean, il tono era molto più spavaldo e sicuro; aveva
parlato come un agnellino. Si morse la lingua, maledicendosi. Il
barista, in ogni caso, si limitò a guardarlo sottecchi, prima
di fare un cenno con la testa verso le scale superiore.
'Seconda
stanza a destra.', grugnì. Jean si chiese se fosse il caso di
lasciare una moneta sul bancone come ringraziamento; ma dimostrarsi
tanto generosi avrebbe potuto attirare attenzioni indesiderate, ed
evitò di farlo.
Sotto
la cappa che si era poggiato sulle spalle, in parte per ripararsi dal
freddo di febbraio e in parte per nascondere la saccoccia contenente
l'anello e una lama affilata pronta per qualsiasi evenienza, Jean
strinse le mani nervoso. Il fatto che il locale fosse pieno di gente
in maschera non contribuiva a migliorare il suo umore.
Si
avviò verso le scale; mentre le stava salendo sbattè
per sbaglio contro una figura molto più alta di lui.
'Chiedo
venia.', disse la figura; Jean si rese conto che doveva essere un
ragazzo non molto più anziano di lui. Ma fu il pensiero di un
attimo, e subito dopo i due sconosciuti erano scivolati l'uno a
fianco all'altro.
Rumori
di baldorie e cori festosi arrivavano ora soffusi alle sue orecchie,
mentre voci sommesse, borbottii e gemiti lussuriosi riempivano i
corridoi del piano superiore della locanda. Jean deglutì
nervoso, bussando con una mano alla porta indicatogli dal barista.
'Entra.'
Jean
abbassò la maniglia ed aprì la porta; la stanza era
composta da un letto a due piazze, un comò e un lavabo in un
angolo. Era scarsamente illuminata, e Jean non riuscì a
scorgervi nessuno all'interno. Nervoso, entrò nella stanza e
richiuse la porta dietro di sé.
'So...sono
venuto per la Maschera.', esclamò al vuoto.
Ci
fu una risata, poi un rumore secco: le finestre della stanza si
spalancarono di botto, e l'aria gelida della notte spense le già
fiacche candele, lasciandolo al buio. Seduta sul davanzale della
finestra c'era una donna illuminata dalla luce della luna. Portava i
calzoni, aveva i capelli scuri molto corti. Sogghignava, e se quella
era la Volpe, Jean non aveva pià bisogno di chiedersi a cosa
fosse dovuto il suo soprannome.
'Non
conosco nessuna maschera. Mai avuto il piacere di parlare con un
oggetto.', sorrise in direzione di Jean. Il ragazzo arrossì,
offeso.
'Non
una maschera. La Maschera. Non so chi sia,', ammise. 'Ma mi ha detto
che avreste potuto aiutarmi a saperne di più sul suo conto.'
La
donna si alzò in piedi; Jean strinse d'istinto la mano
sull'elsa del pugnale. Lei gli girò attorno, lui la seguì
con lo sguardo. Infine, braccia incrociate, si appoggiò al
muro vicino a lui.
'E
perchè vorresti saperne di più?'
Jean
fu colto alla sprovvista. La donna aveva ragione; avrebbe potuto
gettare l'anello nel Rio Grande, dimenticare tutto ciò che era
successo. Sarebbe potuto rimanere a casa tranquillo con Sasha e
Connie e tutti gli altri ragazzi che avevano bisogno della sua guida
per sopravvivere; invece si trovava in una piccola stanza con una
donna che aveva tutta l'aria di non aver bisogno di armi per
ucciderlo.
'La
volpe ti ha mangiato la lingua, ragazzino?', lei si morse il labbro
inferiore, divertita. 'Dato che non vuoi rispondere, risponderò
io per te. Potrai anche non volerne sapere di più, ma ormai
sei qui. Consegnami l'anello di Christa e potrei scucirmi la lingua.'
Jean
impallidì. Strinse l'anellino, sotto il mantello.
'Non
so di cosa parlate.'
Scattò
fulminea; il suo avambraccio si posò sulla gola di Jean, e
facendo leva su quello lei lo fece cadere a terra. Jean si sentì
soffocare; lei gli bloccò entrambe le mani dietro la schiena
con la presa che avrebbe potuto avere un energumeno grosso quattro
volte lei.
'Non
sai niente, Jean.', sibilò. 'Non sai in che guaio il tuo amico
mascherato ti abbia cacciato. Sarebbe più facile se mi
consegnassi l'anello ora e la facessimo finita, che ne pensi?'
Jean
aprì la bocca e le morse il braccio. Lei urlò e lo
lasciò andare, dolorante. Jean si tirò a sedere,
affannato ma libero.
'Riguarda
qualcosa che ho dimenticato!', urlò all'improvviso, sentendosi
un'idiota. Lei, sul punto di rischiacciarlo a terra, si bloccò.
'Io...ah, dannazione...non ho idea di cosa mi sia successo oggi, ma
c'è qualcosa che continua a sfuggirmi, qualcosa di importante
che dovrei ricordare.'
Ymir
rimanette in silenzio, rimuginando sulle parole appena pronunciate
dal ragazzino. Sembrava sincero. Si lasciò cadere seduta sul
letto.
'Tira
fuori l'anello.', ripetè tranquilla. Lui la fissò
furioso per qualche secondo, poi mise la mano sotto la cappa,
recuperò l'anello e glielo porse. Ymir lo prese con mani
tremanti, si alzò e lo andò ad osservare alla luce
della luna.
Era
autentico. Stemma, motto...era proprio l'anello che cercava. Ymir
sentì il magone salirle in gola, ma si guardò bene dal
manifestare qualsiasi emozione.
Nessuno
degli uomini per cui lavorava sospettava nulla riguardo alle sue
reali intenzioni; per loro, lei era semplicemente una spia e
un'informatrice in cerca di denaro. Certo, più brava, devota e
avara delle altre, ma sempre soltanto una spia.
'La
Maschera è un ragazzo come te.', mormorò senza guardare
nella direzione di Jean. 'Ci sono delle persone potenti, in questa
città; persone che non si espongono. La Maschera è il
lato oscuro di queste persone. È un messaggero, un
avvertimento, una spia. Non lo fa per sua volontà, però.
Ha perso la propria volontà anni fa, per quanto ho sentito
dire. Non si sa molto di lui; né chi fosse, né chi sia.
Alcuni pronunciano il suo nome con riverenza, altri credono si tratti
solo di una leggenda. È abile a muoversi, conosce la città
come se vi fosse cresciuto, e se vuole trovarti, sta certo che lo
farà.'
Ymir
si voltò. Jean era fermo in piedi di fronte a lei; non c'era
più paura nei suoi occhi, solo cieca determinazione.
'Ti
è stato in qualche modo d'aiuto, ciò che ti ho detto?'
Jean
annuì, poi scosse la testa. 'No, ma ora so che devo fare.',
ammise.
'Sarebbe?'
'Aspettare.'
'Bravo
ragazzo.', Ymir lanciò l'anello verso Jean, che lo afferrò
per un soffio.
'Credo
proprio che la tua casa diventerà un luogo parecchio
affollato, nei prossimi giorni. Un ultimo consiglio, prima che tu
vada: guardati le spalle. In una città come questa, chissà
mai cosa potrebbe saltare fuori dalle torbide acque dei canali per
accoltellarti...'
La
sua risata seguì Jean per tutto il ritorno verso casa.
______________________________________________________
Oh, Vita e Morte a Venezia, cosa devo fare con te, che sembri espanderti in ogni direzione del mio cervello?
Questa storia mi sta regalando un sacco di soddisfazioni. Gente che mi aggiunge per parlarne e si complimenta, addirittura una ragazza (che ormai considero un'amica, davvero, la lovvo) si è offerta di disegnare la cover della storia! (e la posterò una volta finita, credo non prima del capitolo 10 in ogni caso)
Davvero, GRAZIE. Grazie delle recensioni, delle visualizzazioni, dei preferiti. Grazie per le condivisioni e i complimenti. Grazie perchè mi avete ridato un motivo per tornare a scrivere.
GRAZIE.
/fine momento dolcioso ehehehehe
SUUUU DAI SBIZZARRITEVI NELLE RECENSIONI AMO QUANDO LO FATE <3
E, ehi, nel caso abbiate tempo, sul mio profilo trovate il link al canale italiano di Lownly da me gestito. Sto traducendo una delle più belle fiction JeanMarco che esistano, davvero.
La vita è bellissima.
Vi amo tutti.
- Joice
|
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Capitolo 5 *** V - Egoismo ***
Vita
e Morte a Venezia
Le
parole di Ymir riguardo l'affollarsi in casa di Jean si rivelarono
veritiere con l'arrivo dell'alba.
Era
tornato a casa in piena notte, stanco, spossato e lievemente
spaventato dalla svolta degli eventi; aveva spiegato a Connie e Sasha
l'accaduto, omettendo le ultime parole riguardo la possibilità
di venire ucciso da un momento all'altro. Questo non aveva impedito a
Sasha di impallidire, turbata; né a Connie di afferrarle
saldamente la mano e carezzarla con noncuranza, senza che lei
avanzasse la minima protesta.
Jean
non era rimasto sorpreso di fronte a quel gesto: conosceva Connie da
che erano ancora due neonati ed era facile intuire i suoi sentimenti
verso la compagna. Al pensiero di quella casa senza loro due, di
quelle stanze piene solo della sua rabbia nei confronti del mondo,
Jean si era sentito all'improvviso incredibilmente solo.
La
notte era passata senza che il sonno potesse avere la meglio sulla
sua angoscia. La mattina dopo, all'alba, seduto sul molo vicino alla
propria casa, Jean era stato raggiunto da una figura incappucciata.
Si
era seduta vicino a lui, slacciandosi la cappa e abbandonandola al
proprio fianco, rivelando il volto della misteriosa ragazza del
giorno prima – ma era davvero passato un giorno, poi? Sembrava
fosse passata un'eternità.
Rimase
lì, senza presentarsi o salutarlo. Si voltò in
direzione del sole che illuminava timidamente la laguna. 'Sembra un
bel posto in cui vivere. O crescere.'
Jean
afferrò un sassolino dal selciato e lo lasciò cadere in
acqua. 'Suona strano, detto da una principessa.'
Lei
aggrottò le sopracciglia. '...come?'
'Ho
i miei informatori.'
Annuì,
preoccupata. 'Non sono una principessa. Solo una figlia bastarda.'
Jean
annuì, troppo stanco persino per sorprendersi. 'Christa,
giusto?'
Christa
sorrise. 'Hai dei bravi informatori. Spero solo che queste persone
non stiano dalla parte sbagliata.'
Jean
non aveva idea di quale fosse la 'parte sbagliata', ma aveva
l'impressione che la donna chiamata la Volpe non stesse da nessuna
parte in particolare. 'Credo di sì.', rispose comunque, dato
che sarebbe stato complicato spiegare. 'Cosa ci fai qui? Perchè
sei scappata?'
Lo
sguardo di Christa si posò su Jean. 'Egoismo.'
Lui
la guardò, curioso. Lei continuò. 'Ho vissuto la mia
intera vita circondata da mura e persone che hanno tentato di
convincermi che servivano per proteggere me e chi mi stava attorno.
Ma essere una figlia bastarda in una famiglia come la mia significa
dover innalzare le proprie personali mura contro le discriminazioni,
fino a non poter vedere più la luce, per paura di essere
attaccati da un momento all'altro.', fece una pausa. 'Volevo vedere
la luce del sole.'
Rimase
in silenzio. Jean si accorse di starla fissando. 'Sembra molto
fiabesco, ma il mondo non è...il sole. Non è fatto di
sola luce.'
'Lo
so.', sorrise. 'Ma voglio vedere anche le ombre. Una volta ho
conosciuto un'ombra, e lei era una persona...buona, nonostante
fingesse il contrario.'
Jean
non sentì il bisogno di ulteriori spiegazioni. La voce della
Volpe e i suoi avvertimenti sul non immischiarsi negli affari delle
persone che avevano a che fare con quella strana, svagata ragazza gli
rimbombavano nella testa.
Ma
non era mai stato il genere di persona che dava veramente retta agli
avvertimenti.
'Quindi...Christa,
ce l'hai un posto in cui vivere?
*
Si
mormorava che le urla dei prigionieri nei pozzi dei Piombi, il
carcere sotto il Palazzo Ducale, avrebbero fatto impazzire chiunque
di terrore; l'uomo dietro la Maschera non dubitava della veridicità
di quella frase.
Di
fatto, probabilmente era pazzo anche lui.
(perchè
diavolo ho avvicinato Jean ed Ymir? Questo potrebbe farli
insospettire)
Camminando
in mezzo alle braccia tese e ai volti smunti dei carcerati, ripensava
all'incontro con Jean, la mattina prima. Era stata sfortuna o destino
che proprio lui avesse trovato e salvato la ragazza che i suoi capi
cercavano tanto disperatamente?
(quanto
ci metteranno a capire che la ragazzina tornerà da Jean in
cerca di riparo?)
(quanto
ci vorrà prima che li uccidano tutti?)
Non
ne aveva idea; l'organizzazione per cui era costretto a lavorare era
grande e potente, ma estremamente riservata riguardo le proprie
intenzioni. Per quanto fossero stati selettivi nell'assumere spie
alla ricerca della bastarda del Doge, finora la Maschera era sicuro
che lui e Ymir fossero gli unici ad averla rintracciata. Lui non
avrebbe sicuramente parlato, e se mai avesse dovuto riporre quel
genere di certezza a qualcuno l'avrebbe riposta nelle mani di Ymir.
La donna era una traditrice di prim'ordine, ma la Maschera era
consapevole del debito che Ymir aveva nei confronti della piccola.
Non avrebbe rivelato la sua posizione.
'Ah,
eccoti qui.'
Al
suono di quella voce, persino i prigionieri sembrarono abbassare i
propri toni. La Maschera si voltò in direzione della donna che
aveva parlato. Ne conosceva bene sia il volto che la voce.
'Dama
Leonhardt.', sorrise, inchinandosi lievemente. Lei lo raggiunse e lo
sorpassò senza rispondere.
'Tracce
della ragazza?' chiese, impassibile.
'Poco
o niente. Credo che al momento si trovi da qualche parte sull'isola
della Giudecca.'
Sperò
di suonare abbastanza convincente; d'altronde, Annie Leonardt
conosceva ogni singola, disperata sfumatura della sua voce, avendo
assistito e partecipato in prima persona alle sue torture. Doveva
aver fatto un buon lavoro, comunque, perchè lei annuì.
Il suo volto non minacciava la minima preoccupazione per l'assenza di
risultati effettivi.
Un
uomo venne incontro ad Annie dal fondo del corridoio, passi pesanti
sul pavimento costantemente bagnato dei Piombi. Si abbassò il
cappuccio, rivelando un volto squadrato, incorniciato da cortissimi
capelli biondi.
'Ohi,
Annie.', esclamò, e Annie lo salutò con un cenno della
testa. Poi, l'uomo si voltò verso La Maschera. 'Ciao anche a
te, Fantasma.'
La
Maschera rispose con un mezzo inchino. Del trio che per tutti quegli
anni si era 'preso cura' di lui, Reiner Braun era ciò di più
vicino a un amico che potesse vantare di avere; non per sua volontà,
però. Il ragazzo, che dall'aspetto imponente si sarebbe detto
un uomo dai principi rigidi, tendeva a prendere i propri doveri poco
seriamente sia a causa della sua indole pacifica che a causa di
alcuni traumi subiti durante l'infanzia, che in particolari momenti
lo rendevano poco più di un demente vulnerabile. Il terzo
membro del gruppo, un ragazzo di nome Bertholdt, non era una persona
particolarmente violenta, ma la determinazione che poneva nei propri
obiettivi lo rendeva spesso pericoloso.
Ma
no, chi spaventava davvero la Maschera era Annie. Piccola,
all'apparenza fragile e facile da mettere al tappeto, la dama
nascondeva non pochi talenti per ciò che concerneva le arti
dell'indurre dolore. La Maschera era sicuro che, nonostante ciò
che legava tutti loro, Dama Annie non avrebbe esitato un attimo ad
ucciderlo, se fosse stato necessario.
'Bertholdt
torna ora da un colloquio con la nostra amica Volpe.', annunciò
Reiner. 'Si direbbe che non vi stiate sforzando abbastanza, eh,
Fantasma? La principessina ancora non si trova.'
'Mi
dispiace.', la Maschera sorrise, nascosto dal resto del mondo. 'Ne ho
perso le tracce sulla Giudecca. La ragazza è brava a
nascondersi, evidentemente.'
'Non
quanto tu dovresti essere bravo a trovarla. Reiner, manda un
messaggio alla Volpe: la ragazza potrebbe essersi inserita in qualche
comunità di mendicanti, più probabilmente ladruncoli da
strada. Meno possibilità di subire violenze di sorta, e meno
domande da parte delle guardie. Dille di tenere d'occhio la Giudecca
e la costa.'
Il
sorriso svanì dietro alla Maschera, sostituito da
un'espressione preoccupata. Come aveva fatto Annie a capire, e in
così poco tempo? La tentazione era quella di correre sui
propri passi, trovare Jean, dirgli di nascondersi; ma ormai era sera,
e uscire la sera gli sarebbe stato concesso solo durante la settimana
del Carnevale. Queste erano le regole, e lui le conosceva anche
troppo bene. Erano marchiate a fuoco nella sua anima.
Si
avviò a testa bassa verso la propria stanza, un semplice
locale lì nelle segrete, quando notò con la coda
dell'occhio una mano raggrinzita e sporca sporgersi fuori dalle barre
e afferrare il collo di Annie, tirandola verso le sbarre. Lei non
urlò di spavento, né allora né quando il
carcerato cominciò a urlarle sconcerie e minacce di morte.
Reiner rimase a guardare, un sorriso malcelato sul volto.
Fu
questione di qualche secondo prima che Annie, occhi di ghiaccio
puntati verso i suoi, si decidesse a dare l'ordine.
Lei
pronunciò il suo nome lentamente, scandendo ogni lettera con
attenzione. Seguita da un solo ordine.
'Uccidi.'
La
Maschera sentì la propria mente obliarsi, la sua coscienza
ritirarsi in un angolo dentro di sé. Potè recepire il
movimento del suo braccio, che era scattato verso il fianco sinistro
– quello dove teneva il pugnale -, ma non era lui a comandarlo.
Mosse i propri passi verso Annie, alzò il pugnale e tagliò
di netto il braccio del prigioniero.
Una
persona normale lo avrebbe rotto, spezzato, ferito; tornando in sé,
la Maschera si sorprese lievemente della propria forza – si
sorprendeva ogni volta -, osservando il braccio mozzato di netto
irrigidirsi per terra e una macchia di sangue farsi largo tra i sassi
della pavimentazione irregolare.
Dama
Annie si risistemò. 'Grazie per la collaborazione, Fantasma.'
(NON
SONO STATO IO, SEI STATA TU)
'Prego,
dama.'
Si
voltò verso la propria stanza. Il prigioniero urlava
agonizzante dalla sua cella. Una volta dentro, gettò via la
propria finta faccia e scoppiò a piangere, cadendo a terra.
Le
urla dell'uomo gli ricordavano fin troppo le proprie.
*
Da
che avesse memoria, Jean non aveva goduto di un solo attimo di
silenzio da quando era stato preso in custodia da Antonio De
Magianis. La sua casa era un viavai di farabutti, piccoli
delinquenti, marinai in cerca di qualcosa di bere, vecchi amici.
Ma
nell'istante in cui Christa fece il suo ingresso nella casa non una
sola parola volò via dalle bocche degli avventori. Sasha,
Connie, alcuni marmocchi, un paio di loschi figuri con addosso più
coltelli di quanto Jean avrebbe mai immaginato sarebbe stato
possibile portarne e quattro marinai in procinto di appoggiare sul
tavolo della casa uno scrigno dall'aria abbastanza pesante; tutti
loro rimasero in silenzio, ad osservare la ragazza che, leggiadra,
abbassava il cappuccio e si sistemava i capelli, sorridendo.
Fu
Sasha ad interrompere l'imbarazzo, squittendo.
'Oh
mio dio, un angelo.'
Jean
si morse il labbro inferiore. Forse nascondere la ragazza era davvero
una pessima idea.
'Oh...oh,
salve.', sorrise Christa. 'Io sono...'
'Decisamente
qualcuno che deve imparare a stare zitta.', la interruppe Jean. Poi,
in un lampo di genio – qual'è il modo più
semplice per far sì che la smettano di studiarle il volto?
- la prese per un braccio e la strattonò in malo modo,
trascinandola verso le stanze in cui dormivano. 'Giusto, donna?',
continuò, imbarazzato.
'Ma
cos...oh, giusto! ...giusto.', l'ultima parola fu un sospiro ben poco
angelico, e Jean divenne completamente rosso dall'imbarazzo. Si
affrettò ad entrare in una stanza, per poi richiudere la porta
dietro di sé e appostarsi dietro di essa, le orecchie tese a
captare ogni suono. Per un po' nessuno parlò, poi...
'…
Beh, sembra che le voci sul ragazzo fossero sbagliate, dopotutto,
eh?'
'Già.'
'Ha
solo gusti difficili da soddisfare...'
'L'esuberanza...l'età...'
'Ah!
Ah! Ah!'
'Dov'eravamo?'
'A...allo
scrigno.', mormorò Connie.
Jean
si rialzò ed emise un sospiro di sollievo. Christa tirava gli
angoli della cappa, nervosa.
'Mi
dispiace, io...'
'Tranquilla,
è tutto a posto.'
(Sarebbe
potuta andare molto peggio)
'Per
favore, non provare mai più a dire il tuo nome. È...è
pericoloso.'
Christa
annuì. Jean si sistemò la camicia, ancora un po' troppo
nervoso per dire di più. Riuscì comunque ad invitarla a
fare un giro della zona notturna della casa, spiegandole come
funzionava il tutto; c'erano stanze per loro tre – quattro ora
-, alcune stanze per i ragazzini dei vicoli – si perse per un
attimo, pensando a quando aveva diviso una di quelle camere con
Connie e Marco -, delle altre piccole camere ai piani superiori per i
clienti. L'intera struttura occupava un palazzo, dismesso e
scalcinato ma comunque in grado di mantenere tutta quella gente.
L'ingresso era nascosto, un vicoletto quasi invisibile –
Christa stessa spiegò di esserselo fatto indicare da un
ragazzo a cui aveva fatto il nome di Jean – e un piccolo
porticello consentiva l'ingresso di imbarcazioni di dimensioni
ridotte provenienti dalla costa. C'erano poi i magazzini in cui
tenevano le armi, l'orgoglio di Antonio, che se ne era andato da
qualche anno per seguire un uomo che aveva riconosciuto come suo
comandante.
'Prima
di andarsene, disse che Venezia era la sua città. Lui era nato
qui, ma i bambini che era solito prendere sotto la sua ala spesso
sono bastardi figli di stranieri, che non appartengono a Venezia.
Così ci prese da parte e disse questo: Venezia è la mia
città. E anche la vostra.'
Jean
si voltò verso Christa, che lo ascoltava rapita. Frugò
nella saccoccia appesa al fianco destro fino a trovare l'anello e
glielo porse.
'E
credo sia anche la tua.', concluse. Christa sorrise, accettando
l'anello e infilandoselo al dito.
'Credo
di non averti detto del tutto la verità.', mormorò.
'Jean, devo sapere se posso fidarmi di te. Posso davvero?'
Jean
la osservò a lungo. Qualcosa dentro di sé gli diceva
che ascoltarla avrebbe significato dare inizio a qualcosa di molto,
molto complicato.
Ma
anche lui era stato solo a lungo. Un tempo, qualcuno aveva voluto
ascoltarlo, dargli retta. Era ora di ripagarlo moralmente.
'Certo
che puoi.'
'Va
bene. Il mio non è stato solo un atto di egoismo. Jean, ho
paura.', gli occhi le si riempirono di lacrime. 'Ho sentito cose che
non avrei dovuto sentire, a palazzo. Sta per succedere qualcosa.
Siamo nei guai!'
La
porta del magazzino cadde con uno schianto che li fece saltare
entrambi dallo spavento; dall'ingresso entrò un uomo che Jean
riconobbe immediatamente, e il terrore più assoluto si
impossessò di lui. Proiettata sul pavimento davanti ai suoi
piedi, l'ombra di Rivaille, 'Il Francese', risultava molto meno
spaventosa del suo proprietario, il cui volto era una maschera di
freddo senso del dovere.
Jean
tremò visibilmente, ponendosi d'istinto di fronte a Christa e
ricordando le sue ultime parole.
(Siamo
nei guai)
Rivaille
indicò entrambi. 'Voi due, seguitemi immediatamente. Siete in
arresto.'
(Non
sai neanche quanto, Christa. Non sai neanche quanto.)
*
Rigida
e immobile sul tetto più adiacente all'uscita dell'edificio,
Ymir aspettava paziente. Il Francese sarebbe uscito presto.
Strofinò con il dito
indice la lama del pugnale che stringeva nella mano destra.
Non
vedeva l'ora di poter abbracciare Christa.
_______________________________________________________
La stesura della storia procede spedita. Siamo a poco meno che metà storia, e credetemi: nel prossimo capitolo arrivano le botte.
Oh, le soddisfazioni.
OH.
Io ci tengo a ringraziare TANTISSIMO tutte/i voi che recensite; con alcuni ho avuto occasione di parlare, come ad esempio Monica (Timcampi, andate a leggere le sue storie!), e siete delle persone meravigliose. Non sono parole di circostanza, siete MERAVIGLIOSI, e state facendo tanto per me. Grazie per il supporto, sempre e comunque <3
Vi voglio bene <3
Al prossimo capitolo!
- Joice
|
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Capitolo 6 *** VI - Sacrificio ***
Vita
e Morte a Venezia
C'era
un'immagine nascosta da qualche parte nella mente di Jean.
(se
solo riuscissi a ricordare)
A
lui sarebbe importato, lui non si sarebbe sospreso. Lui avrebbe fatto
esattamente quello che Jean stava facendo in quel momento.
(lui
mi avrebbe protetto, indipendentemente da chi si parasse davanti a
noi)
(e
forse lo ha già fatto una volta)
*
Sentiva
il polso di Christa sotto la propria stretta. Strinse i denti verso
il Francese, i cui compagni bloccavano l'unica via d'uscita; uno di
loro teneva Connie per un braccio, trattenendolo dal gettarsi verso
Jean. La sola vista di Connie nelle mani di un soldato bastò
per convincere Jean di star facendo la cosa giusta.
'Perchè
dovremmo essere in arresto?', sbraitò contro il Caporale.
Quest'ultimo
non si mosse, né sembrò turbato dall'esordio di Jean.
Si limitò ad accarezzare la spada al suo fianco. Christa
lasciò andare un gemito di sconforto.
'Per
tutti i traffici illeciti che faccio finta di non vedere per impedire
a voi stronzetti ignoranti di vivere di qualcosa, fottuto ingrato. E
perchè il comandante Erwin mi ha ordinato di venire a
cercarvi, e tendo a fare il mio dovere, nel caso tu non te ne sia
accorto. Temo siate incappati in qualcosa di più grande di
voi.'
Il
suo sguardo indugiò su Christa. Jean ne approfittò per
esaminare la stanza: una sola uscita, due finestre. L'armeria era al
primo piano.
(non
ce la faremo mai)
Ma
cosa sarebbe successo se li avessero catturati e portati davanti al
comandante della guardia cittadina?
(pensa,
Jean, pensa)
Christa,
la piccola sognatrice che voleva vedere il mondo, si sarebbe
ritrovata di nuovo incatenata alla sua vita di bastarda in una casa
in cui il sole della laguna non sarebbe mai arrivato ai suoi occhi;
lui, Connie e Sasha sarebbero finiti prigionieri, magari anche
impiccati. Forse sarebbero risaliti fino ad Eren, Mikasa ed Armin;
forse li avrebbero accusati di coinvolgimento. Forse sarebbero stati
uccisi anche loro.
Jean
non avrebbe esitato un secondo a consegnarsi; codardo, vile e persino
divertito all'idea di mettere nei guai Eren.
Ma,
che gli piacesse o meno, Jean Kirschtein era diverso. E
nonostante i litigi con Eren, nonostante si rifiutasse di riconoscere
che, per Connie, una vita con Sasha lontani dalla sua cattiva
influenza sarebbe stata migliore, nonostante in certe giornate
riuscisse soltanto ad odiare il mondo, a Jean Kirschtein
importava.
(Marco
sarebbe fiero di me)
Corse
verso la finestra; tutto rallentò attorno a lui. Esisteva solo
la finestra, la fuga, la libertà. Corse e urlò 'SALTA!'
alla ragazza dietro di lui, spingendola verso l'esterno, senza
donarle il beneficio del dubbio. Sarebbe sopravvissuta, lo sapeva.
Lui
non saltò. Non poteva abbandonare Connie.
Christa
si dette lo slancio verso la finestra appoggiando un piede su una
scatola di pistole; avvicinò le braccia al volto,
incrociandole, e si gettò impavida verso il vetro.
*
Ymir
vide una figurina bionda cadere attraverso la finestra del primo
piano. Presa alla sprovvista, lasciò cadere il pugnale e si
affrettò a prendere la rincorsa per saltare fino a terra.
Per
sua fortuna, Christa era atterrata senza quasi farsi del male; potè
sentire i soldati del Francese avvicinarsi, però. Questo
avrebbe significato esporsi, rivelarsi al mondo.
Ma
per salvare Christa sarebbe stata pronta anche a gettarsi nella
mischia completamente nuda.
'Dannato,
piccolo idiota.', ebbe il tempo di sibilare prima di gettarsi nel
vuoto.
*
Jean
non fece in tempo a voltarsi, né a parare il calcio che il
Caporale Rivaille gli indirizzò in quell'attimo di
distrazione. Potè soltanto piegarsi in due, dolorante, mentre
la gamba del Caporale si alzava per atterrarlo a terra e di nuovo
tornava alla carica, inesorabile, violenta. Aveva l'impressione che
Connie stesse urlando da qualche parte, ma il dolore gli impediva di
pensare logicamente.
Ma
no, c'era sicuramente qualcuno che urlava, e non si trattava di
Connie; si rese conto di aver ragione nel momento in cui il Francese
smise di prenderlo a calci.
'Signore!
I soldati là fuori...'
'Schultz,
mi stai interrompendo.'
'Ma,
signore! I soldati sono...sono a terra!'
Questo
catturò l'attenzione del Francese, e di Jean stesso.
(com'è
possibile...?)
'Com'è
possibile?', sibilò il Caporale.
'Una
donna, signore, una donna con capelli corti e scuri. Ha ferito gran
parte della squadra e portato via la ragazza che si è gettata
dalla finestra.'
Jean
rise istericamente; il Francese gli indirizzò un altro calcio
verso la collottola, colpendo in pieno.
Un
urlo stridulo riempì la stanza; il soldato che tratteneva
Connie stringeva la spalla destra, su cui era comparsa una freccia
nera. L'attimo dopo, Sasha entrò nel campo visivo di Jean.
'Jean!
Io...'
Da
qualche parte, nell'intervallo di tempo che il Francese impiegò
ad estrarre la propria spada, Jean capì che c'era una sola
cosa da fare. Un pensiero gli attraversò la mente.
(che
giornata del cazzo)
'SCAPPA,
SASHA! PRENDI CONNIE E ANDATEVENE!'
Sasha
singhiozzò, portandosi la mano alla bocca. Un solo dolorso
scambio di sguardi fu necessario perchè entrambi capissero;
lei non era una codarda, e lui non stava cercando di fare l'eroe. Si
stavano comportando semplicemente da compagni.
Jean
ebbe un capogiro, che lo costrinse ad accasciarsi a terra. Quando
riaprì gli occhi, qualche secondo dopo, l'intero squadrone del
Caporale era impegnato a trasportare da un medico l'uomo ferito da
Sasha e quest'ultima e Connie erano scomparsi. Il Caporale si abbassò
ad osservarlo, la spada conficcata a terra.
'Questa
è l'ultima volta che mi causi problemi.'
Jean
sorrise. 'Col cazzo.'
Il
piede del Caporale si mosse rapido come la luce verso il suo volto.
*
'Cena.'
Jean
mosse lievemente la testa verso le sbarre della cella. Il soldato di
turno abbandonò a terra un piatto, e Jean vide almeno tre o
quattro topi avventarvisi sopra famelici.
'Grazie,
non ho appetito.', sibilò, ma il soldato era già
passato alla cella successiva. Jean scivolò un altro po'
contro il muro.
Una
piccola finestra sbarrata, posta due metri sopra la sua testa, lo
avvisava del fatto che la sera era già arrivata, e che i
veneziani si erano riversati nelle strade per festeggiare l'inizio
del Carnevale, chiassosi e allegri. Si chiese dove fossero Sasha e
Connie, la Volpe e Christa, e se tutti loro stessero bene.
Lui
non stava bene, affatto. Aveva dolore ovunque sul corpo, ma ciò
che più doleva era il naso, completamente rotto. Il Caporale
si era assicurato che sputasse e tossisse più sangue possibile
prima di consegnarlo ai suoi soldati ancora in piedi e farlo portare
ai Piombi. Era stato un viaggio lungo e doloroso, ma Jean aveva
mantenuto in volto un sorriso isterico, i denti sporchi di sangue,
per far sì che nessuno gli si avvicinasse. In parte però
aveva davvero motivo di sorridere: aveva causato guai al Francese,
Sasha aveva ferito uno dei loro, la Volpe – poteva quindi
considerla un'alleata? - aveva salvato Christa... su questo punto
tendeva a non essere molto sicuro, ma cercava di evitare di
immaginarsi Christa in mano a degli schiavisti, rinchiusa in un
qualche bordello, o qualsiasi cosa lei e la Volpe intendessero con
'pericolo' e 'uomini potenti'.
Una
figura si contrappose tra lui e la luce della luna; qualcuno si era
fermato davanti alla sua cella, da fuori.
'Amico,
levati. Non ho voglia di discutere.'
'...Jean,
cosa diavolo hai combinato?'
Con
un sussulto, Jean riconobbe la voce della Maschera. Strinse i denti e
i pugni, nonostante continuassero a fargli male.
(TU.)
'TU.'
sibilò, furioso. 'Che cosa ho combinato io?! Che cosa hai
combinato TU, semmai!'
'Aspettami,
sto arrivando.', mormorò la Maschera, ignorando il suo tono di
voce.
'Non
ti azzardare a scendere qua sotto!', sbraitò Jean, alzandosi a
fatica. Il ragazzo si era già allontanato, ma Jean continuò
ad urlare. 'Io non centravo niente, pezzo di sterco infame! Mi hai
messo tu nei casini! Tu e le tue stupide parole e concetti del cavolo
e chi cazzo sei?!'
Saltò,
incurante delle ferite, infilando i piedi nelle fessure del muro,
cadendo e graffiandosi, arrancando fino a riuscire ad aggrapparsi
alle sbarre con entrambe le mani.
'IO
NON HO FATTO NIENTE!', urlò alla strada praticamente deserta.
'E COME DIAVOLO PENSI DI ENTRARCI QUI, EH?'
'Ho
le chiavi.', mormorò una voce dietro di lui. Jean si voltò;
la Maschera era nella cella, immobile. Si lasciò cadere a
terra, senza neanche tentare un atterraggio indolore.
La
Maschera gli si avvicinò, si inginocchiò e gli afferrò
una gamba con mani guantate e gentili. Jean lo lasciò fare, a
malapena in grado di respirare.
'Sei
conciato male, eh? Cos'è successo?'
Jean
fece un gesto vago con la mano. 'Il Francese ha fatto irruzione in
casa mia. Qualcosa a che fare coi traffici di armi.'
'Ah-ah.',
mormorò il suo interlocutore, alzando i pantaloni di Jean fino
al ginocchio ed osservando i lividi. 'Fai proprio schifo a dire
bugie. Aveva a che fare con la principessina, giusto?'
Jean
grugnì indignato. 'Forse.'
La
Maschera rimase in silenzio, il volto in ceramica fisso su quello di
Jean. 'Come stanno Sasha e Connie?'
'Che
sai tu di Sasha e Connie?', sibilò lui.
'Jean...davvero
non ricordi?'
Jean
scrutò nelle cavità dove avrebbero dovuto trovarsi gli
occhi del ragazzo di fronte a lui, perdendosi nei propri ricordi. Si
rese conto di star lentamente muovendo la testa in un cenno di
diniego, e che faticava a parlare. Abbassò lo sguardo.
'Connie
e Sasha sono riusciti a scappare. Anche la ragazza. L'ha portata via
quella pazza della tua amichetta Volpe.'
La
Maschera annuì senza parlare.
'Non
credi di dovermi una spiegazione?', sbottò Jean, nervoso.
'L'ultima persona che voleva darmi spiegazioni sono stato costretto a
buttarla giù da una finestra per salvarla da un pazzo
violento. Sono finito nelle mani di una donna che non ci avrebbe
pensato due secondi ad uccidermi, e i miei migliori amici sono in
fuga chissà dove. Quei due imbranati potrebbero
essere...ovunque.'
(A
dire il vero probabilmente sono da Armin, ma non sono dettagli che io
sia tenuto a divulgare)
'Sono
orgoglioso di te, Jean.'
C'era
una nota di sincera felicità in quella frase. Jean si sentì
schiacciato da quell'unica, piccola intonazione.
'Chi
diavolo sei?', sussurrò.
'Te
l'ho detto, sono solo una maschera.', il ragazzo si alzò.
'Devo portarti fuori di qui.'
'Come
hai fatto ad entrare, innanzitutto?'
'Te
l'ho detto, ho le chiavi.', estrasse un mazzo di chiavi da sotto il
mantello.
Jean
aggrottò le sopracciglia. 'Cosa sei, un carceriere?'
'Più
una specie di incarcerato con permessi molto speciali.'
Jean
e la Maschera si voltarono; qualcuno stava arrivando e, a giudicare
dalla voce concitata, non era solo. La Maschera guardò Jean.
'Devi
fidarti di me.'
'Considerata
l'alternativa, non devi neanche chiederlo.'
Si
alzò in piedi, aiutato dalla Maschera. Quest'ultimo si
irrigidì.
'Qualcosa
non va?'
Aveva
riconosciuto le voci. Una era quella concitata e nervosa di Bertholdt
Fubar; l'altra apparteneva a Reiner.
'Dobbiamo
andare.', esclamò. 'Non possiamo farcela.'
'Non
con me conciato così, no...'
'No,
non capisci.', afferrò Jean per un polso e lo trascinò
fuori dalla cella. 'Non ce la faremmo nemmeno se tu fossi del tutto
integro. Se non ci sbrighiamo, morirai.'
Jean
tremò. 'Dimmi cosa devo fare.'
'Corri.'
Lo
fece; corse come non avi fatto in vita sua, nonostante le gambe
doloranti e le ferite aperte. Corse nell'ombra della Maschera, la
persona di cui aveva deciso di fidarsi incondizionatamente.
Da
che parte stava la Maschera? Jean tentò di riflettere,
scivolando sul pavimento bagnato.
Gira
a destra.
Christa,
Sasha e Connie, Eren e il suo gruppo.
Ancora
a destra.
La
Maschera e la Volpe.
Ora
a sinistra.
Il
Caporale Rivaille e Erwin, comandante della guardia cittadina.
Diritto,
verso le scale.
Qualcuno
di potente.
'CHE
DEVO FARE?', sbraitò Jean all'improvviso. La Maschera si
voltò, forse sorpreso. Inaspettatamente, si avvicinò a
Jean e gli posò una mano sulla tempia.
'Calmarti,
Jean.', sussurrò. 'Cercare di capire chi è buono e chi
è cattivo. Cercare di ricordare.'
'Perchè
non puoi spiegarmi?'
'Perchè
è troppo tardi.', le voci si stavano avvicinando, e la
Maschera era sempre più irrequieta. 'Va. Nasconditi. Il
Carnevale è iniziato, puoi mescolarti tra la folla. Sarai al
sicuro.'
Lo
spinse verso l'uscita ed estrasse una spada dal fianco. Jean fu
assalito dall'opprimente sensazione che non lo avrebbe mai più
rivisto.
'Maschera...tu
sei...?'
'Non
dire quel nome!', sbraitò lui. 'Va via!'
Jean
rimase ad osservare la figura della Maschera; di spalle incuteva un
timore reverenziale, etereo. La mano della spada era tesa, il pugno
chiuso attorno all'elsa.
Sarebbe
bastato abbassare il cappuccio. Jean era spaventato da cosa vi
avrebbe trovato, da ciò che anche solo il retro del suo capo
avrebbe potuto rivelargli; ma non c'era davvero più tempo.
'Mi
dispiace.', disse soltanto, correndo verso la porta che lo avrebbe
condotto fuori dai Piombi.
'Sì,
anche a me.', sussurrò la Maschera.
_______________________________________________________________________________
Guarda come ti butto lì un capitolo 6 a sorpresa.
Il capitolo 8 è in stesura e non voglio assolutamente rimandare, piuttosto metto da parte il progetto di traduzione. D'altronde questa è la mia storia.
E non sono mai stata così orgogliosa di dirlo.
Per Dobe, la magnifica donna che sopporta e recensisce, capitolo dopo capitolo: le età sono quelle canoniche, quelle dell'anime; conseguentemente, Jean ha quindici anni, Eren quindici, Reiner ne avrà 17 e così via dicendo, mentre nel primo capitolo Jean ne aveva 10 e così via u.u
E per tutti gli altri, come sempre, GRAZIE. GRAZIE. GRAZIE.
Questa storia volge a quello che in una struttura narrativa classica verrebbe definito 'punto di non ritorno', e che arriverà nel prossimo capitolo. Conto sulla vostra presenza e, vi prego, se provate qualcosa leggendo questa storia recensite. Anche solo con due parole buttate lì a caso; io apprezzo, davvero.
Vi amo tutti.
Scusate in anticipo per il prossimo capitolo.
- Joice
|
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Capitolo 7 *** VII - Verità ***
Di solito non faccio nulla del genere ma, vi prego, durante la lettura di questo capitolo mettetevi comodi, stringete un cuscino e ascoltate della musica rilassante. Buona lettura.
Vita
e Morte a Venezia
La
porta della stanza si aprì, e una figura incappucciata ne
scivolò dentro, silenziosa. Abbassò il cappuccio, tolse
la maschera che gli nascondeva il volto e scrollò la testa.
'Là
fuori è il delirio più puro.'
I
quattro occupanti della stanza si voltarono a guardarlo in
apprensione. Jean avanzò verso il tavolo, afferrò un
carboncino e tracciò delle X su vari punti di una mappa della
città. L'unica ragazza presente, una coetanea di Jean con
lunghi capelli neri, gettò un'occhiata alla mappa.
'Sembra
incredibile che ci siano in città così tante guardie,
durante le settimane in cui la città è in festa.'
'Sì,
beh, credo sia normale, considerate le circostanze.', mugugnò
Jean, slacciandosi la cappa di dosso e abbandonandola su uno
sgabello.
Avvicinandosi
alla finestra, Jean sentì gli sguardi insistenti di Mina,
Thomas, Nack e Mylius posarsi sulla sua schiena. Si fidava abbastanza
da chiedere loro aiuto ed asilo, ma non abbastanza da parlare di
Christa, o della Maschera.
(non
è mancanza di fiducia, è paura di coinvolgerli)
D'altronde,
quei quattro erano stati suoi compagni per un breve periodo di tempo,
quando erano molto piccoli. Avevano preso le loro decisioni e si
erano allontanati dalla vita dei traffici, ma erano comunque suoi
amici.
E
Jean Kirschtein non metteva gli amici in pericolo.
'Credo
che andrò oggi.', disse voltandosi. 'Non ha senso aspettare
ulteriormente, uh? Le cose potrebbero soltanto peggiorare.'
Fu
sollevato nel vedere che nessuno di loro pareva avere un'opinione
diversa.
'Ti
aiuteremo noi.', esclamò Thomas, entusiasta.
Jean
sorrise debolmente.
*
Erano
passati tre giorni da quando era scappato dai Piombi, tre giorni che
aveva trascorso a casa dei suoi quattro amici, tra escursioni
notturne nel sestiere di Dorsoduro, alla ricerca di Sasha e Connie.
Aveva avvicinato Armin di soppiatto durante il secondo giorno,
chiedendo informazioni. Il ragazzo, felice e sollevato nel vederlo,
gli aveva però rivelato che non aveva idea di dove Sasha e
Connie potessero trovarsi.
Jean
era piombato nella più nera delle disperazioni. Quei due
idioti... dov'erano finiti? Aveva contattato chiunque gli fosse
possibile contattare in un periodo di confusione e baldoria come
quello del Carnevale, sempre attento a portare con sé una
maschera bianca procuratogli da Mylius, ma non c'era traccia di
nessuno dei due.
L'unico
posto in cui non era riuscito a controllare era l'isola della
Giudecca, dato che gli spostamenti tra la baia e l'isola erano
controllati rigidamente dalla guardia cittadina...e Jean non aveva
fretta di rivedere il Francese.
Non
aveva avuto più notizie neanche da parte della Maschera, e
quel pensiero lo tormentava la notte. E se fosse morto? Se i due
uomini che li avevano seguiti nei Piombi l'avessero ucciso senza
pietà, e se in quel momento stessero pianificando di uccidere
anche lui?
Non
avrebbe dovuto importargli tanto, ne era consapevole; la Maschera lo
aveva davvero cacciato in tutto quel casino, ma lo aveva anche
salvato da morte certa, sia dai loro inseguitori che dalla condanna
che gli sarebbe spettata.
La
scomparsa di Christa non era più del tutto un segreto, ma
trattandosi di una figlia bastarda la sua fuga non aveva fatto
granchè scalpore; era più probabile sentirne parlare
dalle donne al mercato che dai personaggi influenti.
Jean
sistemò la propria maschera sul volto, ansioso, le spalle
appoggiate al muro. Una donna gli si avvicinò, gli occhi
celati da una maschera piena di piume rosse, e gli si appoggiò
addosso.
'Vuoi
farmi compagnia?', sorrise, avvenente.
Jean
la spostò dal proprio petto, gentile. 'Sto aspettando un
amico.'
La
donna alzò gli occhi al cielo. 'Il tuo amichetto non verrà,
ragazzino. Ma mi ha detto di riferirti che casa tua rimane
incustodita tre ore dopo il mezzodì. E che sarebbe stato
divertente vederti imbarazzato di fronte a queste.'
Abbassò
la veste per mettere in mostra il proprio seno. Jean boccheggiò,
spingendola via e maledicendo Eren Jaeger e le sue idee idiote.
Almeno era servito a qualcosa contattarlo.
Mina
lo aspettava all'angola, un sorrisetto idiota sul volto.
'Non
sei cambiato di una virgola, eh?'
'Sta
zitta.', esclamò sibillino. Questo fece ridere Mina anche di
più. 'Libera tre ore dopo il mezzodì. Se controllano la
casa, significa che non hanno spostato la merce. Possiamo creare una
distrazione.'
'Perfetto.'
'Mina.',
mormorò Jean. 'Potrebbe essere pericoloso.'
'Sarà
una passeggiata, invece.', esclamò lei. 'Erano anni che non ci
divertivamo un po' così. Tranquillo.'
Jean
si chiese quanto a lungo avrebbe dovuto contare sugli altri. Una
volta, qualcuno gli aveva detto che aveva la stoffa del leader e del
comandante, ma lui continuava a sentirsi inadatto a dare ordini.
*
Il
primo piano di quella che era stata la casa di Jean, Sasha e Connie
esplose tre ore e dieci minuti dopo il mezzodì. Dal suo posto
nel campiello vicino alla banchina, Jean potè sentirlo
chiaramente. Sentì di aver reciso qualcosa di estremamente
importante e si ritrovò a sperare che Mina, Thomas e gli altri
stessero bene.
Non
era il momento di distrarsi, in ogni caso; le guardie stavano già
correndo verso l'esplosione. Sentì qualcuno di loro lamentarsi
dell'entusiasmo degli avventori del Carnevale, qualche passante
menzionare l'esplosione avvenuta qualche giorno prima, che Jean
ricordava chiaramente: era successo durante il suo primo incontro con
la Maschera.
La
banchina era quasi vuota, ora; solo una guardia era rimasta al suo
posto, e Jean sentì di poterla mettere tranquillamente al
tappeto. I lividi erano quasi scomparsi, e il naso – l'unico
punto che gli facesse ancora un male cane – era riparato dalla
maschera. Prese la rincorsa verso l'uomo, ma dovette interruppersi a
metà strada, superato a destra da qualcuno di molto più
veloce di lui.
Mikasa
era scivolata in mezzo alla folla, leggera, rapida e silenziosa, e si
era gettata sull'uomo, colpendolo sul collo e facendolo collassare
prima ancora che Jean potesse realizzare cosa stava succedendo; la
raggiunse, preoccupato.
'Cre...credevo
che non sareste venuti.'
Mikasa
si sistemò la sciarpa, tranquilla. 'Non so chi sia più
idiota, se tu che pensi di potercela fare da solo o Eren che mi ha
trattenuta fino all'ultimo dall'intervenire perchè riteneva
che sarebbe stato divertente vedere Armin svenire dall'ansia.'
Jean
la guardò, grato che esistesse. 'Principessa, ho come
l'impressione che tutto ciò ti importi molto più di
quanto dovrebbe.'
Se
quella constatazione le avesse dato fastidio, Mikasa non lo dimostrò;
si limitò a guardarlo con occhi neri e profondi. 'Jean, cerca
di ricordare. Potrebbe valerne della tua sanità mentale.'
Jean
la guardò allontanarsi. 'Io non...perchè dovresti dire
una cosa del genere?'
Mikasa
si voltò. 'Perchè, dopo aver sentito il tuo racconto
sull'anello, io e Armin ci siamo resi conto di non riuscire a
ricordare quasi nulla degli eventi di cinque anni fa, o
dell'epidemia. E tu, Jean? Tu ricordi?'
Jean
fu tentato di risponderle con un “Sì, maledizione,
perchè non dovrei?”, ma la verità era che Mikasa
aveva ragione. C'era qualcosa di confuso e contorto, riguardante
l'epidemia di peste.
'Io...ricorderò.
Te lo prometto, Principessa.'
'Non
chiamarmi così.', sospirò Mikasa, prima di sparire in
mezzo alla folla.
*
'Chi
non muore si rivede, eh!'
Jean
fu tentato di avanzare nella stanza e soffocare la Volpe sul posto.
Una volta arrivato sulla Giudecca aveva deciso che chiederle
informazioni sarebbe stato un buon modo per iniziare la ricerca di
Sasha e Connie, ma non si era certo aspettato di trovarli tutti
lì.
'Jean!',
esclamò Sasha, alzandosi con un salto dal letto per corrergli
incontro ad abbracciarlo. 'Credevamo fossi morto!'
'Vi
stavate struggendo, vedo.', sibilò lui, fulminando Connie con
lo sguardo. Quest'ultimo alzò le mani in un gesto protettivo,
e nel farlo si dimenticò di avere una bottiglia di vino tra le
mani, il cui contenuto gli cadde sui pantaloni.
'Non
lamentarti, Kirschtein. Tre giorni sono lunghi da passare rinchiusi
in una stanza. Salute!', esclamò la Volpe, alzando un
bicchiere verso di lui.
'Ymir,
non dovresti bere a quest'ora!', la rimbeccò Christa. Ymir,
eh? E così era quello il nome di quella diavolessa con le
lentiggini.
Trattenendolo
dal picchiare violentemente Ymir, Sasha, Connie e Christa
raccontarono a Jean gli eventi successivi alla loro fuga. Christa e
Ymir erano incappati in Sasha e Connie mentre questi pensavano ad un
riparo, e Christa aveva insistito perchè Ymir li portasse con
loro. Avevano raggiunto la Giudecca gettando un pescatore giù
dalla sua barca – Christa si era lamentata con Ymir per tutto
il tempo, e qui avevano raggiunto la stanza di Ymir all'osteria.
Quest'ultima raccontò che le persone che l'avevano assoldata
conoscevano quel posto, ma che non si erano fatte vedere perchè
rivelarsi ai militari sarebbe stato complicato e quello per loro era
un momento delicato.
'Chi
sono queste persone?'
Persone
potenti, aveva spiegato Ymir, che rispondevano ad un capo la cui
identità era sconosciuta anche a lei, e si servivano di tre
individui – due ragazzi e una ragazza – per comunicare
con le varie spie e muoversi inosservati per la città. La
Maschera rispondeva a loro, ma Ymir aveva solo una vaga idea del
legame che il ragazzo aveva con i suoi aguzzini.
'Si
dice che l'abbiano catturato, torturato o cose del genere.'
Jean
sentì un brivido scendergli lungo la schiena. 'E tu e Christa
come vi conoscete?'
Christa
aveva preso parola, raccontando di come avesse conosciuto Ymir
durante la sua prima escursione fuori dal palazzo, anni prima, e di
come l'avesse aiutata a tornare a casa, senza però riuscire a
ritrovarla negli anni successivi. Durante il racconto, l'espressione
di Ymir si fece incerta, e Jean si chiese se in realtà Ymir
conoscesse Christa da più tempo.
'Stavi
per dirmi qualcosa, prima che arrivasse il caporale. Che genere di
pericolo?', si interrogò Jean.
Christa
scosse la testa. 'Tutto ciò che so riguarda ciò che
Ymir ti ha già detto. Ci sono uomini potenti all'opera, uomini
che vogliono riportare qualcosa a Venezia. Credo siano molto vicini
alla riuscita dei loro piani.'
Ymir
ammise di non sapere nulla di più, ma spiegò che
l'esplosione di qualche giorno prima era stato un diversivo, esattamente ciò
che aveva fatto Jean.
'Solo
che questo è servito dall'allontanare le guardie da una
struttura sacra, questo è tutto ciò che so.'
'Jean...'
Jean
si voltò Connie stava seduto in un angolo in silenzio, lo
sguardo perso nel vuoto.
'Cosa
c'è?'
'So
che non mi prenderai sul serio perchè sono...hic...ubriaco.',
sorrise Connie. 'Ma volevo dirti che il sogno della mia vita è
diventare un gondoliere.'
'...oh.',
mormorò Jean.
'Sì,
dico sul serio! Immagina che roba! Al servizio di qualche ricco, in
giro per la laguna, a vedere volti sempre nuovi! E poi, una volta
messi da parte abbastanza soldi, potrò sposare Sasha!'
'Eeeeeeh?!',
esplose Sasha, rossa in volto. Connie le si avvicinò e le
prese le mani tra le sue.
'Non
mi interessa quanto mangi, Sasha, voglio stare con te!', si voltò
verso Jean, gli occhi lucidi. 'Ci darai la tua benedizione, Jean?'
Lui
sospirò, spazientito. 'Quello che volete.'
Connie
lanciò un urlo di felicità e abbracciò Sasha,
che continuò a balbettare per un po'. Jean evitò di
guardarli. Si sentiva il cuore vuoto e la testa troppo piena di
complotti e preoccupazioni. Una mano gentile si posò sul suo
braccio, e Jean si ritrovò a guardare gli splendidi, grandi
occhi azzurri di Christa.
'Li
terremo d'occhio finchè questa storia non sarà
finita.', promise.
'E
dire che dovresti essere tu quella preoccupata.', sospirò
Jean. 'Ti stanno cercando.'
'Diciamo
che sono abituata ad essere seguita.', sorrise lei. Ymir la guardò,
e nei suoi occhi Jean lesse qualcosa che non aveva mai letto prima, e
che lo colpì come nessuno dei calci del caporale era riuscito
a fare: amore, puro e incondizionato.
'Ci
nasconderemo da un'altra parte.', lo informò Ymir. 'Ti farò
sapere dove tramite un qualche informatore.'
Jean
annuì. 'Un'ultima cosa, Volpe.'
'Sarebbe?'
Jean
sentì le proprie viscere annodarsi.
'Ho
bisogno di sapere se la Maschera è vivo. Ho bisogno di
incontrarlo.'
*
Piazza
San Marco era illuminata a giorno dalle lanterne e dalle candele. In
passato, Jean aveva già festeggiato il Carnevale lì, e
si era fatto prendere dall'euforia e dalle danze sfrenate. I
Veneziani erano un popolo esuberante e festoso, e il Carnevale era
per loro motivo di giubilio più di ogni altra cosa al mondo.
Era durante il Carnevale di tre anni prima che Jean aveva dato il suo
primo bacio, proprio in quella piazza.
Quella
sera però la festa, l'allegria e il vociare erano cose a lui
estranee. Quando la Maschera gli si sedette accanto, silenziosa come
sempre, Jean sentì il proprio cuore saltare più di un
battito.
'Sei
vivo.', constatò.
'A
cosa ti riferisci?'
Jean
non rispose. Fu la Maschera a riprendere parola, qualche attimo dopo.
'Jean,
ti prego, balliamo. Sono anni che non vedo questo spettacolo. Voglio
viverlo in prima persona. Con te.'
Si
alzò e gli si parò davanti, allungando una mano. Da
sotto la maschera bianca, Jean si morse il labbro inferiore, posando
la propria mano in quella del ragazzo.
Si
persero in mezzo alla folla in silenzio, tremanti e insicuri. Jean si
rese conto che stava portando lui, e strinse forte la propria mano
sul fianco del suo compagno.
'Credo
di essermi ricordato.', sussurrò.
La
Maschera non rispose.
Continuarono
a ballare, incuranti del resto del mondo, incuranti dei sorrisi e dei
brindisi, delle luci e dei baci rubati. Jean si fermò a metà
sonata, togliendo la maschera dal volto. Dai suoi occhi scivolavano
calde lacrime di disperazione. Si afferrò i capelli con una
mano, folle.
'Leva
quella maschera. Ho bisogno di sapere che non sto parlando con un
fantasma.', sibilò. 'LEVA QUELLA MASCHERA.'
E
ad un tratto si ritrovò tra le sue braccia, e il mondo intero
scomparve. C'era solo lui, le sue braccia, il suo odore –
sepolto nella sua memoria -, il nero della sua maschera contro il
volto di Jean, fredde labbra di ceramica contro le sue. E Jean si beò
di quella stretta finchè le dita del ragazzo non si strinsero
contro la sua schiena con troppa forza.
'Cosa
c'è?'
Jean
avrebbe potuto giurare di averlo sentito ridere.
'È
buffo.', esclamò. 'L'uomo che mi ha ucciso è dietro di
te in questo preciso istante.'
Jean sentì una mano posarsi sulla sua spalla, ma non ebbe il
coraggio di voltarsi. Attorno a lui, centinaia di persone ballavano
perse nei propri sogni; con quella mano sulla spalla, lui si sentì
scivolare in un incubo.
Si
voltò lievemente.
Grisha
Jaeger lo osservava, un'espressione di blanda follia a deformargli il
volto.
Jean
si voltò nuovamente verso la Maschera, in tempo per vedere la
maschera cadere a terra, in tempo per intravedere una bassa, bionda
ragazza sorridere da dietro la spalla del ragazzo.
Il
volto di lei si increspò in un sadico sorriso. Jean udì
chiaramente le uniche due parole che pronunciò.
'Marco,
uccidi.'
E
Marco scattò in avanti, un pugnale nella mano destra, la mano
che non avrebbe dovuto essere lì. Jean sentì la
lama affondare nella propria carne, la mano di Marco poggiata contro
il suo ventre stringere l'elsa del pugnale.
Dal
suo occhio sinistro cadevano, incessanti, le lacrime. Il resto del
volto e del corpo era fermo, rigido, immobile.
'M-marco...eri
davvero tu...'
Dopodichè,
un'oscurità ancora più buia di quella dipinta sulla
Maschera si impadronì della sua mente.
_____________________________________________________________________________________________
Ciao.
Se sei arrivato fin qui e riesci ancora a leggere, e non stai prendendo a pugni il cuscino dalla rabbia, nè ti sei tolto le cuffie indignato scappando nella stanza a fianco, allora permettimi di dirti che mi dispiace.
Sì, mi dispiace di avervi presi in giro, e mi dispiace delle settimane passate da voi a speculare sull'identità della Maschera.
Ma mi dispiace di aver ucciso Jean? No. E poi capirete perchè.
Così come capirete il perchè Marco è vivo e perchè se ne va in giro con una Maschera.
Capirete tutto.
Nel prossimo capitolo.
- Joice
Qui trovate qualcosa da fare per calmare la rabbia. Chiedo ancora scusa.
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Capitolo 8 *** VIII - Uccidi ***
Vita
e Morte a Venezia
Pioveva
fitto, il giorno in cui morì.
Nei
giorni di pioggia, tutti gli abitanti della città sembravano
innervosirsi, incupirsi; forse perchè a Venezia, in genere, di
acqua ce n'era già abbastanza.
Ma
a Marco la pioggia piaceva. Gli piaceva sentire l'acqua scivolare sul
suo volto, gli piaceva perdersi nel cercare di seguire il tragitto di
una singola goccia. Era fermo in mezzo a una calle deserta, perso nei
pensieri più profondi che un undicenne possa generare, quando
sentì l'urlo.
Un
unico pensiero gli attraversò la mente, rapido. Jean.
Si
mise a correre in direzione della richiesta d'aiuto, cercando di non
scivolare sulle mattonelle bagnate, la rabbia che gli montava dentro
come una tempesta. Nessuno, soldato o coetaneo che fosse, poteva
permettersi di toccare Jean senza pagarne le conseguenze. Marco era
un ragazzino dall'indole pacifica, quasi passiva, ma per Jean era
diverso. Lui era suo fratello, il suo compagno, la sua spalla. E ora
stava chiamando e chiedendo aiuto.
Estrasse
il pugnale dal fianco sinistro, il pugnale che Antonio gli aveva
regalato quando aveva compiuto dieci anni. Quella volta, il suo
tutore e patrigno lo aveva guardato quasi spazientato, sospirando che
una mente e una gentilezza come la sua erano doti sprecati per un
ladruncolo di strada, ma a Marco non importava.
(Finchè
potrò stare con Sasha e Connie e Jean non mi importerà)
Ricordava
con dolorosa chiarezza il giorno in cui i suoi occhi avevano
incrociato per la prima volta quelli ambrati del ragazzo più
piccolo. All'epoca, Jean aveva solo sette anni, Marco otto. Jean era
un bambino spaesato, sconvolto dalla morte dell'unica persona che gli
avesse mai voluto bene. Marco non aveva mai avuto una madre, ma aveva
un patrigno che lo aveva cresciuto con amore, e potè capirlo.
Era stato suo compito far ambientare il ragazzino, insegnargli i
trucchi del mestiere, fargli conoscere la città in cui erano
nati.
Con
gli anni, Jean era passato dall'essere un piccolo frignone all'essere
una piccola peste. Marco era mente, studio e gentilezza; Jean era
braccio, esperienza e violenza.
Si
completavano; era l'unica spiegazione possibile.
Gira
a destra.
'MARCO!'
Ancora
a destra.
Erano
usciti a giocare, lo aveva perso di vista. Non sarebbe dovuta andare
così.
Ora
a sinistra.
Lo
avrebbe protetto.
Diritto,
verso le sua voce.
Era
il suo dovere.
C'era
Jean, il braccio alzato in un debole tentativo di proteggersi
dall'uomo che lo sovrastava; e quest'ultimo, una spada in pugno verso
il ragazzino accasciato a terra.
Marco
avanzò correndo, senza donare a se stesso il beneficio del
dubbio; per una volta avrebbe fatto quello che in circostanze diverse
avrebbe fatto Jean: non avrebbe pensato alle conseguenze.
Si
gettò tra l'uomo e il suo amico, il pugnale teso, pronto ad
attaccare.
In
quel preciso momento, l'uomo fece calare la spada.
La
lama spezzò in due il pugnale di Marco, poi attraversò
il suo corpo come se fosse fatto d'acqua.
*
Faceva
freddo.
Gocce
di pioggia gli scivolavano addosso, instancabili; solo che non era
più piacevole: faceva male. Ovunque le gocce di pioggia
cadessero, faceva male.
'Marco...'
Il
suo campo visivo era sfocato, distorto. Ebbe l'impressione che
qualcosa si fosse appoggiato sulla sua mano destra, ma era come se la
sua mano destra non fosse lì.
Qualcuno
lo stava guardando. Due persone, una nettamente più vicina al
suo volto rispetto all'altra. Marco sapeva che doveva essere successo
qualcosa di brutto, ma non riusciva a ricordare che cosa fosse
successo.
Poi
la sua vista si fece più nitida; Jean era chino su di lui, il
volto una maschera di orrore, le mani imbrattate di sangue
(il
sangue di chi?)
e
Grisha Jaeger sopra di lui.
'Marco...Marco...'
Marco
voleva alzarsi. Alzarsi, abbracciare Jean, dimenticarsi del dolore e
del dottor Jaeger, dimenticarsi della pioggia e di Venezia.
Abbracciare Jean, tirarlo verso di sé e spiegargli che per lui
ci sarebbe sempre stato, che non lo avrebbe mai abbandonato. Ma non
poteva, e ora sapeva il perchè.
(Perchè
sono morto)
Il
dottor Jaeger afferrò Jean per il bavero della giacca e lo
tirò verso di sé; Jean non protestò nemmeno.
'Avrebbe
funzionato bene se non fosse andato così in profondità.
Avrebbe funzionato meglio con te.', gettò la spada a terra.
'Dannati ragazzini.'
'Marco...'
'Il
tuo amico è morto, ragazzino! Morto! ANDATO! FINITO!', aveva
gettato Jean a terra, estratto qualcosa da sotto la giacca.
'No...no!
Che volete farmi?!'
'Povero
Marco. Ha sofferto così tanto, durante questi ultimi giorni,
col morbo della peste che martoriava il suo corpo...'
'LO
AVETE UCCISO VOI! LO AVETE UCCISO!'
'NO!',
sbraitò il dottore. 'TU LO HAI UCCISO, JEAN!'
Si
era buttato su Jean, in mano una siringa contenente un liquido verde.
La siringa era penetrata nel braccio di Jean, e il ragazzo aveva
urlato. Spasmi avevano attraversato il suo corpo per qualche secondo,
poi si era accasciato a terra, svenuto.
'Ti
riporterò a casa e racconterai a tutti di come hai visto il
tuo amico Marco morire tra i dolori della peste.', aveva mormorato il
dottor Jaeger, sereno.
Marco
aveva fatto ricorso a tutte le sue forze per alzare una singola mano
verso Grisha Jaeger. Questi si era girato verso di lui, un guizzo di
sorpresa sul volto.
'Come
diavolo...'
Si
era chinato su di lui, tastandogli il polso, le pulsazioni del cuore.
Le deboli dita di Marco si erano posate sul suo braccio e avevano
stretto la presa.
Si
era alzato; c'era stato un orribile rumore, come un risucchio, e il
lato destro del suo volto si era strappato, brandelli di carne e
sangue ovunque.
'Come
puoi essere ancora vivo?!'
'Jean...',
la sua bocca era a metà, la sua mascella non c'era quasi più,
ma qualcosa nella sua espressione orripilata gli diceva che il
dottore era riuscito a capirlo. 'Non...toccare...Jean.'
Dopodichè
lasciò la presa, ricadendo in una pozza del suo stesso sangue.
Continuò a guardare il cielo, troppo debole per alzare la
testa e vedere cosa il suo assassino stesse facendo, ma non
abbastanza debole da chiudere gli occhi e morire.
Si
sentì sollevato di peso.
La
pioggia non ne voleva sapere di smettere di cadere.
Bruciava.
*
Jean
tornò a casa come in trance. Era sporco da capo a piedi di
sangue, e venne accolto dalle urla di Antonio e dai pianti isterici
dei più piccoli.
Quando
il dottor Jaeger arrivò per il suo giro di controllo, quella
sera, gli si avventò contro senza nemmeno sapere il perchè.
Antonio lo sentì urlare qualcosa riguardo all'aver tagliato a
metà Marco, ma non gli diede retta. Il ragazzo era
evidentemente sconvolto, e la sua testa scottava, come se avesse
preso la febbre. Lo mise a letto e si mise a parlare col dottore,
preoccupato.
Il
dottor Jaeger aprì la propria valigetta e ne tirò fuori
gli strumenti medici; spiegò ad Antonio che Marco aveva
contratto il morbo e che lui vi aveva operato sopra sotto lo sguardo
di Jean. Sì, aveva dovuto incidere il volto, ma per il ragazzo
non c'era stato niente da fare.
'Ma
Marco non aveva la peste...non l'ha mai avuta!', aveva protestato
Antonio.
Il
dottor Jaeger aveva infilato la siringa nel braccio di Antonio. Il
liquido verde gli era scivolato dentro le vene come acqua.
'Ne
è proprio sicuro, Antonio?'
Quando
Jean si era svegliato, in preda ai deliri della febbre, era stato a
malapena in grado di cogliere frammenti di conversazioni. Connie
sedeva in un angolo, il volto tra le mani.
'Cos'ha
detto Jean? Che gli ha tagliato la faccia?'
'Connie,
ho mal di testa. Sta zitto!', aveva urlato Sasha.
'Ma...ha
detto così...ha infilato qualcosa nel braccio di Antonio...e a
Marco...quel diavolo di un dottore gli ha tagliato la faccia...'
'Sta
zitto, Connie! Tu e quella tua maledetta lingua da inglese!'
Era
svenuto di nuovo.
*
Marco
aveva aperto l'occhio sinistro, poi aveva tentato di aprire il
destro.
(Qualcosa
non va.)
Il
soffitto che stava osservando non era quello di casa sua, ma un
soffitto in pietra, come quello di una caverna; nell'aria mancavano
il russare sommesso di Jean e Connie e i mugugni disturbati di Sasha,
ed era sdraiato sulla superficie più comoda su cui avesse mai
dormito.
Tentò
di alzarsi, ma il lato destro del suo corpo non si muoveva; anzi, si
rese conto con orrore, gli impediva di alzarsi.
Si
voltò verso destra, spaventato; spalla e braccio non c'erano
più. No, realizzò subito dopo, c'erano, ma non erano le
sue.
'È
titanio modificato.'
Marco
si voltò; il dottor Jaeger era seduto a due metri di distanza
da lui. Marco rimase a fissarlo, apatico. Non sentiva di avere la
forza necessaria ad arrabbiarsi.
'Cos'è
il titanio modificato?', si ritrovò a chiedere, piano.
'Un
elemento che probabilmente verrà scoperto tra un paio di
secoli, ma che io ho già isolato e modificato a mio
piacimento.'
L'espressione
orgogliosa di Grisha fece salire a Marco la nausea.
'Cosa
mi è successo?'
'Sei
morto.'
'E
poi?'
'E
poi sei resuscitato. E hai dormito per dieci giorni, durante il quale
ho creato il tuo braccio.'
Marco
rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole.
'Non
capisco.', mormorò.
'L'intento
era di ferire il tuo amico Jean con questa.', prelevò una
boccetta piena di liquido rossastro, estremamente simile a sangue, da
dentro la giacca. 'Di modo che gli entrasse in circolo. I soggetti su
cui sperimentare scarseggiano, ultimamente, e il ragazzino stava in
giro da solo...non c'era nessuno in giro.', sorrise. 'Ma poi sei
arrivato tu. La mia spada è un piccolo gioiello; giapponese,
il regalo di una cara amica. Estremamente sottile e letale. Ti sei
messo in mezzo, e la spada si è portata via metà del
tuo corpo.', ridacchiò. 'Non avevo idea che il liquido ti
sarebbe comunque entrato in circolo, né che saresti
sopravvissuto. Hai la potenza di un dio in corpo.'
'Può
riprendersela. Mi lasci andare.'
Grisha
Jaeger aveva sorriso. 'Non credo proprio, mio caro ragazzo.'
Se
ne era andato, ignorando bestemmie, richieste d'aiuto e preghiere.
*
Il
dottor Jaeger aveva omesso un paio di cose, che Marco ebbe il tempo
di scoprire nei giorni di prigionia successivi.
Primo:
il titanio modificato era un materiale vivo, in grado di adattarsi e
di rispondere agli impulsi del suo sistema nervoso; come un
parassita, ma estremamente intelligente. Marco non era in grado di
comandarne i movimenti, non del tutto; ma riusciva comunque a piegare
le dita della sua nuova mano, o a flettere lievemente il polso.
Secondo:
il braccio non era stata l'unica parte che il dottor Jaeger aveva
ricreato per lui. C'era uno specchio nella cella, e Marco non dormiva
la notte pensando a ciò che vi aveva visto: il proprio volto,
per metà carne umana e per metà composto da
quell'odioso materiale.
Era
diventato un mostro.
Terzo:
qualunque fosse il suo intento, Grisha Jaeger non lo aveva tenuto in
vita per niente. Vennero a prenderlo dopo giorni, forse settimane. Lo
trascinarono per i corridoi di quella che Marco riconobbe come una
prigione.
Lo
sistemarono in un'altra cella; tre ragazzi gli stavano di fronte, i
volti impassibili e freddi.
'N-non
voglio farlo...', aveva mormorato il più alto dei tre,
guardando il suo vicino, un ragazzo dalle spalle larghe, con corti
capelli biondi. Questi non aveva avuto alcuna reazione, e si era
limitato a fissare il pavimento con gli occhi di un pazzo.
Si
era fatto avanti il terzo componente del gruppo, una ragazza. Marco
l'aveva guardata negli occhi e vi aveva letto l'orrore di un'infanzia
distorta, sbagliata.
'Ci
hanno detto che è nostro compito fare in modo che tu non possa
più parlare di ciò che hai visto.', aveva spiegato lei.
'Non
lo farò in ogni caso.'
'Permettimi
di dubitarne.'
Dopodichè
aveva estratto un pugnaletto e aveva cominciato a ferirlo; colpiva in
punti strategici, aveva capito Marco in seguito, dove poteva
provocargli più dolore possibile senza ucciderlo.
Aveva
continuato per minuti che a Marco erano parsi giorni, ignorando le
lacrime del ragazzo più alto e l'assenza mentale dell'altro.
Si era fermata, ansimante.
'Come
ti chiami?'
'Ma...rco...'
'Bene,
Marco. Cosa vuoi di più in questo momento?'
Marco
era sul punto di svenire; la sua voce era resa rauca dalle troppe
urla, ma il solo pensiero di poter pronunciare quel nome lo aveva
reso potente.
'Jean.',
aveva sussurrato. 'Voglio Jean.'
'Sbagliato.',
la ragazza lo aveva tirato su per il bavero della maglia. 'Tu vuoi
uccidere, Marco.'
Marco
ci aveva pensato, e non gli era sembrata affatto una cattiva idea.
*
Quella
era stata la sua vita per i tre anni successivi. Il dottor Jaeger lo
veniva a controllare per dieci minuti ogni mattina, dopodichè
se ne andava, lasciandolo nelle mani di Annie e del suo gruppo.
Lentamente, Marco era diventato sempre più insensibile alle
botte e alle ferite, e sempre più consapevole di quale fosse
il suo scopo nella vita.
Jean.
Jean.
Uccidere.
Jean.
Uccidere.
Uccidere.
Ma,
Jean...
Uccidere.
Uccidere.
Uccidere.
UCCIDERE.
Raramente
aveva tentato una fuga; il suo unico tentativo di uccidere Grisha
Jaeger gli era costato due interi giorni di crocefissione.
Aveva
capito che ciò che il dottor Jaeger gli aveva somministrato
aveva in qualche modo potenziato la sua soglia del dolore, e lo aveva
anche reso più forte. Non conosceva lo scopo o la reale
potenzialità di quel siero, ma sapeva una cosa: anche Annie,
Bertholdt e Reiner ne erano 'infetti', e altrettanto probabilmente
loro erano gli unici bambini sopravvissuti a quel trattamento.
E
poi, verso i quattordici anni, era arrivata la Maschera.
Il
dottor Jaeger l'aveva fatta fare apposta per lui; una maschera di
carnevale in ceramica, di un nero che sembrava composto dalle notti
passate nel carcere dei piombi e di un rosso che avrebbe potuto
benissimo essere scambiato per sangue, il suo sangue. Gli
aveva spiegato che presto il siero avrebbe raggiunto il suo effetto
definitivo, ma che ci sarebbe voluto ancora un po' di tempo; nel
frattempo, data la disponibilità da lui mostrata negli anni
passati, era libero di uscire.
Con
la Maschera.
L'aveva
odiata. Oh, se l'aveva odiata.
Ma
presto si era fusa col suo volto. Presto aveva preso a indossarla
anche nella sua cella, anche mentre dormiva.
Presto,
la Maschera era diventata lui e lui era diventato la Maschera.
E
il dottor Jaeger lo aveva guardato con occhi pieni di folle orgoglio.
*
*
*
Da
qualche parte nel carcere dei Piombi, circondato da cadaveri in via
di putrefazione, Jean aprì gli occhi, si alzò di
scatto e inalò più aria di quanta gli fosse possibile,
avido.
Era
vivo.
_________________________________________________________________________________
Sono sopravvissuta al linciaggio post-settimo capitolo, quasi non ci credo.
E anche Jeanhihihihihihihihih
Ragazzi, il contatore di visite domenica sera E' IMPAZZITO. DUECENTO VISITE IN UN'ORA?
Ma perchè non lasciate una parola per recensire, una sola? Voglio sapere come vi sentite riguardo la mia storia e il suo sviluppo, davvero, ci tengo veramente!
E ora sono a scuola...
E ho già caricato il primo capitolo tradotto di His Beating Heart, andatela a leggere se shippate JeanMarco, è...BELLISSIMA! (e non lo dico solo perchè la sto traducendo io, giuro)
E la gente mi guarda male ahahahahah
Al prossimo capitolo!
Ah, riguardo il titanio modificato...mia personalissima licenza. Il titanio, numero atomico 22, è stato scoperto nel 1789. Ma riguardo al 'titanio modificato' saprete di più nei prossimi capitoli!
- Joice
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Capitolo 9 *** IX - Limite ***
Vita
e Morte a Venezia
Si
sentiva come se lo avessero fatto a pezzi e avessero festeggiato
ballando sulla sua tomba. Pensieri confusi e dolorosi gli
attraversavano la mente a velocità massima, cercando di
scappare, di farlo concentrare sul dolore.
Ma
non era il dolore fisico ciò che in quel momento Jean temeva
di più, per quanto avesse portato d'istinto una mano verso il
torace – per trovarvi una cicatrice fresca; no, a ferirlo era
il nome che più di tutti in quel momento suonava come una
minaccia di morte, due cose che mai avrebbe pensato di associare.
(Marco)
L'essere
vivo gli parve strano, ma in quel momento non aveva importanza; ciò
che contava era la vita di Marco e, sì, il fatto che avesse
tentato di ucciderlo.
O
forse lo aveva ucciso, e ciò in cui si trovava ora era
l'inferno.
Ma,
rifletté, l'inferno non ha torce alle pareti. Si issò
in piedi a fatica, dolorante, ripensando agli ultimi istanti che
avesse vissuto prima di collassare.
Grisha
Jaeger. Al solo pensare al tocco viscido della sua mano che si posava
sulla sua spalla Jean ebbe un tremito di violenta rabbia. Eccolo,
il vostro beniamino.
La
Maschera aveva levato il travestimento, rivelando il volto
dell'ultima persona a cui Jean avrebbe mai pensato. No, si corresse
mentalmente, ci aveva sperato, specie la notte in cui la Maschera lo
aveva aiutato a scappare dai Piombi, ma la razionalità aveva
ucciso quel pensiero. E invece eccolo lì, vivo e vegeto.
Mutilato, il volto ridotto nella macabra ombra di ciò che era
stato, ma vivo.
Cosa
gli avevano fatto? Perchè era bastata una parola di quella
strana ragazzina bionda per far sì che Marco arrivasse a
ucciderlo? Quale orrori era stato costretto ad affrontare?
Il
pensiero di tutte le convinzioni sbagliate che le droghe del dottor
Jaeger avevano creato nella sua mente lo invase, lasciandogli una
forte sensazione di nausea addosso. Non aveva mai visto il corpo di
Marco bruciare, non c'era mai stato nessun fazzoletto sotto il cui
Marco avesse nascosto il proprio volto, spaventato dalla peste;
neanche il suo nome era vero, perchè era il diavolo in persona
ad averglielo dato.
Più
ci pensava, più si convinceva che la priorità, in quel
momento, era uscire da quella fossa e capire la situazione. La ferita
si era già cicatrizzata, quanto tempo poteva essere passato da
quando lo avevano gettato lì dentro?
Si
diresse verso le pareti della fossa, scavalcando cadaveri e
sforzandosi più di una volta di mantenersi lucido. Il puzzo e
la spossatezza fisica misero a rischio la sua vista più di una
volta. Dovette arrivare alla parete di fango e appoggiarvisi,
chiudendo gli occhi per qualche minuto, per assicurarsi di non
svenire.
Nonostante
l'umidità, il terreno in cui la fossa era stata scavata
sembrava essere in grado di reggere una scalata. Erano solo tre metri
e, nonostante tutto, Jean si sentiva abbastanza vivo e motivato da
poter affrontare anche quello.
Infilò
le mani nel terreno e si issò, muovendo rapido il braccio
libero verso un punto più in alto e sperando di non sentirsi
scivolare la terra da sotto le dita; più di una volta fu
sicuro che sarebbe caduto, e più di una volta lo rischiò
veramente, ma riuscì ad uscire dalla fossa quasi illeso.
Si
distese a terra, per niente sorpreso di scoprire di trovarsi da
qualche parte nel carcere dei Piombi. Una parte in disuso o
abbandonata, a giudicare dalla scarsità di torcie alle pareti
e di prigionieri nelle celle. Attraverso le sbarre di una finestra,
Jean potè vedere la luna illuminare il paesaggio circostante.
Era la seconda volta che si ritrovava a dover fuggire da
quel posto in piena notte, e la prima volta non era andata a finire
bene.
Jean
afferrò una torcia dal proprio supporto e si guardò
attorno il più silenziosamente possibile; il corridoio
proseguiva in entrambe le situazioni, e c'erano due stanze,
all'apparenza vuota. Decise di perlustrarle, alla ricerca di un'arma
con cui farsi strada fuori dal carcere.
La
prima stanza doveva essere stata l'ufficio di un qualche boia
disgraziato; era piena di coltelli e lame, tutte usurate e
arrugginite dal tempo, troppo deboli per reggere in duello. Jean
prese con sé solamente una daga scalcinata; il solo osservarla
gli riportò alla mente i suoi primi allenamenti con
quell'arma.
Era
stato Marco ad insegnargli a usarla, sotto lo sguardo vigile e le
urla di rimprovero di Antonio. In quanto agli allenamenti con la
spada, Marco peccava di voglia di fare, e Jean ne eccedeva: non
esattamente la combinazione perfetta per un duello, ma avrebbero
potuto essere un'accoppiata fantastica contro qualcun altro, Jean lo
aveva sempre pensato.
Si
chiese con una fitta al cuore come avesse fatto a dimenticarlo per
così tanto tempo, come il suo nome avesse potuto sbiadirsi
nella sua memoria. Il senso di colpa gli strinse la gola ed era sul
punto di mettersi a piangere, quando un rumore di passi in lontananza
lo fece irrigidire.
Rapido,
estrasse la daga dalla propria custodia e si posizionò in
prossimità dell'entrata della stanza, pronto ad attaccare. I
passi si facevano sempre più vicini; strinse le dita sull'elsa
con tanta forza da perdere la sensibilità.
Un'ombra
entrò nella stanza; Jean scattò veloce, fendendo la
mano armata verso il nuovo arrivato, ma invece di affondare nella
carne dell'uomo, la lama cozzò contro qualcosa di duro e
metallico e Jean quasi perse l'equilibrio a causa del contraccolpo.
L'uomo
alzò una lampada ad olio, rivelando il volto della Maschera.
'Jean!',
sussurrò preoccupato.
Jean
gli si precipitò contro, gettandolo a terra; lottarono per
qualche secondo, in silenzio, mentre Jean cercava di togliere la
maschera dal volto dell'altro.
'Leva
quella maschera, bastardo! Levatela!'
'Lo
avrei fatto se...unf...me lo avessi chiesto!'
'Come
faccio a sapere che non sei un...argh...nemico?!'
'Ti
ho riportato in vita...ah...non ti basta?'
Jean
bloccò il proprio pugno a metà strada.
'Come?',
esclamò sorpreso.
La
Maschera ansimò. 'Fammi alzare e fai silenzio. È un'ala
abbandonata, ma non si è mai abbastanza prudenti.'
Jean
lo fissò per qualche secondo, poi si alzò, porgendogli
una mano ed aiutandolo ad alzarsi. Una volta in piedi, la Maschera
fece scivolare una mano guantata verso il proprio volto, scostandolo.
Tremava visibilmente, quando rialzò lo sguardo su Jean.
Dal
canto suo, Jean rimase a fissare il volto di Marco in silenzio,
attonito.
Una
cicatrice correva rapida quasi nella metà esatta della faccia,
proseguendo sul collo e probabilmente ancora più in basso; nel
lato sinistro, la faccia era quella che Jean ricordava: il volto
sereno e cordiale del suo migliore amico, con dolci occhi scuri e una
spruzzata di lentiggini sulle guance, solo invecchiato dall'età
e da ciò che aveva dovuto patire. Ma il lato destro era una
massa metallica di cui Jean non avrebbe potuto indicare il nome,
modellata in modo da ricordare un volto con una maestria inquietante.
Dove ci sarebbe dovuto essere un'occhio definito, però, era
come se l'autore di quella...protesi avesse deciso di non donare a
Marco la possibilità di rivedere del tutto il proprio volto
umano.
L'occhio
destro di Marco era quello di una maschera.
'La
Maschera è ciò che sono...', sussurrò Jean,
ricordando le parole pronunciate da Marco durante il loro primo
incontro. 'Ora capisco cosa intendevi.'
'Sono
un mostro.' mormorò Marco.
'No.
Non lo sei. Non tu.'
Jean
lo abbracciò e lo strinse fino a farsi mancare il fiato,
felice di poter sentire accanto a sé il corpo di una delle
poche persone che mai avesse amato al mondo. Dopo qualche momento di
incertezza, Marco ricambiò l'abbraccio.
'Mi
sei mancato, Marco.'
'A...anche
tu.'
Jean
sciolse l'abbraccio, un sorriso commosso sul volto.
'E
ora spiegami perchè cazzo mi hai ammazzato e come faccio ad
essere ancora vivo.', sibilò.
'Vieni,
dobbiamo fare in fretta. Sono passate poche ore da quando ti
ho...ucciso, ma potrebbero comunque insospettirsi e venire a
controllare.'
Marco
gli fece cenno di seguirlo; Jean rinfoderò la daga e lo seguì
fuori dalla stanza e lungo il corridoio, fino a raggiungere un'altra
stanza buia. Marco aprì la lanterna e inclinò lo
stoppino infiammato verso una, due, quattro candele. Man mano che
l'ambiente si illuminava, Jean sentì la salivazione azzerarsi
e i nervi tendersi fino allo spasmo.
C'era
un letto, nell'angolo a destra, ma era l'unica cosa umana in tutta la
stanza. Appese alle pareti c'erano armi, coltelli, strumenti di
tortura di cui Jean non conosceva esistenza o utilizzo, né
desiderava conoscerli. Su un tavolo erano poggiate siringhe e piccoli
coltellini chirurgici dall'aria letale, nonché varie mappe e
strumenti di misurazione.
Il
pavimento in mattoni era impregnato di chiazze di sangue.
Marco
appese la lampada ad olio ad una catena in mezzo alla stanza e,
tramite un sistema di carrucole, alzò la lampada fino a che
essa non illuminò la stanza; legò la catena ad un
gancio a terra e si voltò verso Jean, soddisfatto.
'Casa
mia.', pronunciò solamente, alzando le spalle.
Lo
sguardo di Jean passò in rassegna le decine di armi alle
spalle di Marco.
'Cosa
diavolo ti hanno fatto, Marco?', sussurrò, paralizzato
dall'orrore.
L'espressione
di Marco si addolcì. 'Nulla che valga la pena raccontare,
credimi. E poi è da due anni a questa parte che mi ci alleno,
con quelli.'
'Tu
ti alleni con...' Jean lo oltrepassò veloce e proseguì
verso la parete, afferrando la prima arma che gli capitò in
mano, un corto coltello ricurvo dall'aria letale. '...questa roba?!'
Marco
alzò l'occhio al cielo. 'Quello è un Karambit e, sì,
lo so usare. Non ho avuto molto da fare tra una sessione di tortura e
l'altra, in questi cinque anni.'
Jean
lasciò cadere il Karambit. '...cos'hai detto?'
Marco
lo fissò a lungo, cupo. Poi, in silenzio, si slacciò la
cappa, levò i guanti e slacciò i bottoni della camicia.
Quando ebbe finito, rialzò lo sguardo su Jean.
Non
era solo il suo volto ad essere composto da quell'odioso materiale;
parte della cassa toracica e tutto il braccio destro erano fatti allo
stesso modo, modellati allo stesso modo del lato sinistro del suo
corpo, con la sola differenza che se su quel braccio le cicatrici che
solcavano tutto il corpo di Marco erano solo curve e tagli nel
metallo, nella parte sinistra erano vere, rosse e pulsanti. Jean si
lasciò cadere a terra, sul punto di svenire. Marco si
riappoggiò addosso la cappa e si diresse verso di lui,
sedendosi a pochi centimetri di distanza.
'Il
titanio modificato è una scoperta di Grisha Jaeger. È
un materiale metallico estremamente resistente e leggero. Non so cosa
lui abbia aggiunto alla formula che lo compone, ma so che ha creato
un'arma letale, un simbionte in grado di modellarsi in base ai
pensieri dell'individuo a cui si attacca. È così che
sono sopravvissuto, cinque anni fa. Jaeger stava per ferirti con una
spada contente una boccetta di titanio modificato. Ti sarebbe entrata
in circolo, poi lui ti avrebbe fatto dimenticare il vostro incontro e
sarebbe rimasto ad osservarti in attesa di risultati. Ma io mi sono
messo in mezzo e sono morto. Il titanio modificato si è
mischiato al mio sangue e mi ha mantenuto in vita, ma sarei morto
dissanguato se Jaeger non avesse creato questo per me.' sfiorò
il lato destro del volto con dita tremanti. 'Il titanio modificato
accresce la resistenza fisica, inibisce la soglia del dolore, dona
forza o agilità in base alla tua personalità. È
incredibile, e incredibilmente orribile. Esistono altri come me,
altri che sono stati costretti a farmi del male in tutti questi anni.
Per testare le mie capacità fisiche. E le loro.
Quando
sei fuggito dai Piombi, l'altra notte, sono riuscito a raggiungere il
laboratorio di Jaeger e ho rubato una fiala di titanio modificato,
prima che riuscissero a prendermi. Sapevo che mi avrebbero costretto
a ucciderti, per cui, appena ho ripreso conoscenza, ho sistemato la
boccetta di titanio modificato nella spada.'
Jean
guardò dritto nell'occhio di Marco. 'Sono vivo grazie a te.
Per la seconda volta.'
'Jean,
io...'
'Ho
creduto che fossi morto. Per così tanto, tanto tempo...'
La
mano di Marco, quella vera, si strinse a quella tremante di Jean.
'Ma
sono qui. Sono vivo.'
Jean
sciolse la stretta e sfiorò il lato destro del volto di Marco.
Il metallo era freddo sotto le sue dita.
'Non
c'è sensibilità da quella parte. Non posso sentirti.',
sussurrò Marco.
Le
dita di Jean si strinsero sui suoi capelli; lo tirò verso di
sé con violenza, poggiando le proprie labbra sulle sue. Marco
non reagì, limitandosi a fissarlo dapprima sorpreso, poi
coinvolto. Chiuse gli occhi mentre la presa di Jean si addolciva,
trasformandosi in una carezza.
'Non
dovresti.', sospirò Marco, a pochi millimetri dalle labbra di
Jean. 'Potrebbero costringermi a ucciderti da un secondo all'altro.
Non ho controllo del mio corpo, lo hai visto.'
'Non
mi importa.'
'Ma
potresti morire...'
'Marco.',
esclamò, e fu come se il suo nome avesse infranto
definitivamente la barriera invisibile tra loro. 'Sai quanto io sia
un egoista. Finchè sei con me qui, vivo, non mi importa. Non.
Mi. Importa.'
*
*
*
[Qualche
ora prima]
'LASCIAMI
ANDARE! LASCIAMI ANDARE, HO DETTO!'
Ymir
strinse la presa contro il petto di Sasha, che era aggrappata allo
stipite della porta. Un altro po' e le avrebbe involontariamente
rotto un paio di costole. Forse non proprio involontariamente.
'Sasha,
ti prego, basta!' intervenne Connie, cercando di allontanare Sasha
dall'uscio. 'Ti prego, per favore, piantala. Ci farai uccidere
tutti!'
Sasha
si voltò verso Connie, il volto una maschera di rabbia. 'Jean
è morto, Connie! MORTO!'
'Appunto
per questo dovresti smetterla di comportarti così! Non puoi
andare là fuori a cercare chi lo ha ucciso, non sai nemmeno
chi sia stato!'
Questo
sembrò convincere Sasha; smise di lottare lentamente, e Ymir
la sistemò nell'unico letto presente nella stanza, dove si
raggomitolò tremante. Connie si affrettò a sedersi
accanto a lei e a stringerle la mano, nonostante lui per primo fosse
quello in preda alle lacrime e al tremore.
Ymir
si voltò verso l'altra occupante della storia e un moto di
fiero orgoglio montò dentro di lei. Non una lacrima era scesa
dagli occhi di Christa, seduta rigidamente di fronte al tavolo in
mezzo alla stanza. Ymir afferrò una sedia e le si posizionò
accanto, in silenzio. Christa si prese un lungo momento, prima di
parlare.
'Non
c'è stato nulla da fare?'
Ymir
scosse il capo. 'Se anche l'enormità della folla mi avesse
permesso di avvicinarmi a loro senza essere rallentata, non sarei
riuscita a combatterli. Loro sono in quattro, e sono forti. La
Maschera lo ha accoltellato, gli hanno rimesso la maschera bianca per
nascondergli il volto agonizzante e sono spariti rapidamente in mezzo
alla folla, verso i Piombi.'
Christa
fissava dritto davanti a sé, dando l'impressione di ignorarla;
ma le sue piccole dita flessuose si strinsero a quelle callose e
rovinate di Ymir sotto il tavolo, in cerca di affetto e sostegno.
Ymir strofinò il naso contro i suoi capelli.
'Non
è giusto.', sussurò Christa, la voce resa quasi
stridula dall'ondata di emozioni che la travolgeva in quel momento.
'È colpa mia. L'ho coinvolto io.'
'Tu
non centri.' Ymir alzò lo sguardo verso Connie. 'Ehi,
pelatino. Dici di non sapere chi sia stato, ma io un'idea vaga ce
l'avrei, e non ha senso tacere a riguardo. Saresti pronto a vendicare
il tuo amico?'
Connie
si voltò verso di lei. Non c'erano più lacrime nei suoi
occhi, solo un furore cieco. 'Dimmi tutto.'
Ymir
spiegò ciò che sapeva: che erano in quattro, e
rispondevano ad un capo di cui non conosceva l'identità, e che
erano tutti ragazzini. Bertholdt, forte e agile ma molto facilmente
malleabile; Reiner, estremamente forte fisicamente e reso ancora più
pericoloso dall'instabilità mentale; Annie, letale e sicura
dei propri intenti.'
'E
poi la Maschera. L'uomo che ha ucciso Jean.' dichiarò Connie
secco.
Ymir
scosse la testa. 'Lui è diverso. Non ha una propria volontà,
ma risponde agli altri tre. È una specie di sicario. E sono
sicura che non abbia ucciso Jean di propria volontà, perchè
lo conosceva.'
Anche
Sasha si voltò, improvvisamente più interessata; Ymir
pronunciò lentamente il nome di Marco, spiegando loro che era
vivo, mutilato ma vivo.
'Vorrei
che voi due la smetteste di piangere.', mormorò inacidita
quando Connie Sasha, in preda a una crisi di pianto di gioia, avevano
deciso di improvvisare un balletto attorno al tavolo, con tanto di
coretti 'Marco è vivo!'. 'Mi date la nausea.'
Christa
aveva sorriso divertita, e Ymir rimase a guardarla incantata. Lei si
voltò curiosa.
'Cos'è
quell'espressione?'
'Paura.',
ammise Ymir, mordendosi la lingua subito dopo averlo detto. Le dita
di Christa si strinsero tra le sue.
'Non
finchè siamo insieme.'
Ymir
ripensò alla prima volta che aveva visto Christa; all'epoca,
lei aveva tredici anni, e Christa era una neonata in fasce. L'aveva
osservata a lungo, nascosta dentro un baule pieno di gioielli e sete,
in attesa che l'uomo entrato nella stanza della bambina si
allontanasse per poter rubare ciò che poteva e scappare dal
palazzo.
Aveva
ucciso per la prima volta, per salvare quella neonata dall'uomo, le
cui intenzioni le erano state chiare nell'attimo in cui lo aveva
visto estrarre un pugnale e puntarlo verso la culla. Dopodichè
l'aveva presa e l'aveva portata nelle cucine, supplicando la cuoca di
tenere la bambina e vegliando su di lei per i primi cinque anni della
sua vita.
(Un
giorno avrò la forza necessaria a parlare di noi, della nostra
differenza d'età, degli anni che ho passato a far sì
che non ti ammazzassero solo per ciò che sei, di quanto sei
diventata bella)
Portò
le dita di Christa vicino alle labbra e le baciò.
(Un
giorno)
*
Armin
pensava e ripensava continuamente al gioco in cui si erano
immischiati, seppure in parte. Stava pensandoci anche durante la
notte in cui Jean era morto, nonostante fosse immerso in una folla di
centinaia di persone impegnate a festeggiare, far casino e lasciarsi
andare agli atti più impuri e lussuriosi.
Sentì
Eren rifiutare l'invito di Mikasa a ballare, sottolineando come
avrebbe fatto una figuraccia nel momento in cui lei, decisamente più
portata di lui per il ballo, avrebbe involontariamente iniziato a
portare. Non vide Jean venire accoltellato, a soli cento metri di
distanza, ma fu felice nel vedere il volto sereno di Grisha Jaeger
apparire tra la folla pochi minuti dopo.
'Ragazzi,
che fate qua seduti? I giovani come voi dovrebbero divertirsi.',
esclamò raggiante.
Eren
borbottò qualcosa, Mikasa rimase in silenzio – la sua
espressione quasi omicida parlava per lei, Armin osservò
Grisha Jaeger con rinnovato interesse.
'Ho
come l'impressione che ce ne andremo presto.', sospirò Armin.
'Non siamo esattamente in vena di festeggiamenti.'
L'espressione
di Grisha si fece preoccupata. 'È successo qualcosa?'
Armin
soppesò le parole. 'Nulla di che. Solo la possibilità
che un nostro amico si sia cacciato nei guai.'
'Capisco.
Beh, io ho un appuntamento con un caro amico, tra poco.', il dottor
Jaeger sfilò una maschera da sotto il mantello e se la portò
al volto.
Armin
lo osservò. 'Dottor Jaeger, la vostra maschera...è
storta. Permettete?'
'Cos...oh,
certo.'
Armin
si alzò e con mani abili sistemò il laccio dietro al
capo di Grisha Jaeger. Quegli gli sorrise e salutò, perdendosi
tra la folla.
Armin
si voltò; sia Eren e Mikasa lo osservavano preoccupati.
Armin
alzò verso i suoi compagni le dita che avevano sfiorato capo e
guancia di Grisha Jager nel sistemare la sua maschera sul volto; come
aveva previsto, erano sporche di sangue. Sangue fresco.
Mikasa
rimase impassibile, fredda; gli occhi di Eren si aprirono in
un'espressione di puro orrore.
'Cosa
diavolo...?'
'Eren
Jaeger?', mormorò una voce tranquilla da dietro le spalle di
Eren. Il ragazzo si voltò: c'era un uomo, notevolmente più
alto di chiunque Eren conoscesse, il volto coperto da una maschera
dorata. Scostò il mantello con disinvoltura, mostrando
contemporaneamente l'elsa di uno spadino e lo stemma della guardia
cittadina.
'...Sì?',
rispose Eren.
'Sono
il Comandante Erwin Smith. È il caso che voi e i vostri amici
mi seguiate. Senza fare resistenza.'
Armin
deglutì, nervoso; Mikasa strinse i pugni. Eren si limitò
ad annuire.
'Posso
sapere dove avete intenzione di accompagnarci, signore?'
Un
sorriso inquietante si fece largo sul suo volto. 'Soltanto a farvi
alcune domande. Ma quello non è compito mio. Il Francese muore
dalla voglia di vedervi.'
Allontanandosi
dalla piazza dietro la figura imponente e autoritaria del comandante
Smith, Armin non potè fare a meno di sentirsi osservato.
Una
cinquantina di metri dietro di lui, Annie Leonhardt cominciò a
correre in direzione del palazzo più vicino su cui fosse
possibile arrampicarsi. Aveva una preda da seguire.
*
*
*
[Qualche
ora dopo]
Tornare
a guardarsi senza arrossire o voltare lo sguardo fu un'impresa in cui
non riuscirono completamente, neanche quando si appoggiarono al
tavolo in cui Marco aveva raccolto le sue mappe, schemi e appunti.
'Questi
a che servono?', chiese Jean.
L'indice
di Marco si posò su una mappa ritraente la Serenissima; alcuni
punti erano indicati con una 'x'. 'Non sono mai stato reso partecipe
dei piani di Grisha Jaeger; so che il suo obiettivo riguarda quella
che lui definisce 'La Morte di Venezia', e so che ha amici potenti
che lo aiutano in tutte le parti d'Italia, e anche nel resto
d'Europa.'
'Significa
che intende scappare, no?'
Marco
annuì. 'Esatto. Il titanio modificato ha un periodo
d'incubazione di cinque anni, così ci è stato detto, ma
non credo che neanche Grisha Jaeger sappia effettivamente cosa
succederà terminato il periodo d'incubazione. E siamo in
troppi pochi...'
Jean
si grattò il mento, pensieroso. 'Aaaaah, questo piano sembra
far acqua da tutte le parti.'
'In
effetti sì. Ma credo che ci sia un'arma nascosta da qualche
parte in uno di questi posti, che Grisha Jaeger intende avviare in
caso di fallimento.'
'Che
genere di arma?'
'Non
lo so.'
'Marco.',
mormorò Jean, pensoso. '...Perchè siete così
pochi?'
La
guancia di Marco assunse una colorazione rossastra. 'Ah,
io...ecco...il titanio modificato non reagisce bene a chiunque.'
Ci
volle un momento perchè Jean realizzasse; impallidì
improvvisamente, poi divenne rosso di rabbia. Fece il giro del tavolo
fino a raggiungere Marco, che indietreggiò, e gli puntò
un dito contro il petto.
'Tu...tu...non
posso credere che tu l'abbia fatto!', esclamò furioso.
'Era
l'unico modo!'
'Potevi
non ammazzarmi!'
'Non
controllo il mio corpo in quelle occasioni, te l'ho già
detto!', ribattè Marco. 'Cosa volevi che facessi, che ti
lasciassi morire?'
'Sempre
meglio che assicurarmi una morte lunga e dolorosa, perchè è
di questo che si tratta, no?'
Marco
scosse la testa. 'Non ne ho idea. Sono stato l'ultimo esperimento di
Grisha Jaeger. Non ho mai saputo cosa fosse stato degli altri.'
Jean
aprì la bocca per dire qualcosa, ma si bloccò subito
dopo; si voltò, diede un calcio alla sedia di Marco e si buttò
giù per terra, le mani incrociate appoggiate al collo. Scosse
la testa.
'Mi
dispiace.', mormorò.
'No,
hai...tutti i motivi del mondo per comportarti così.'
Jean
sospirò. 'Mi manca Armin. Lui saprebbe cosa fare.' alzò
la testa. 'Il periodo di incubazione di cinque anni. Suppongo sia
quasi terminato, se siete in giro a fare danni.'
Marco
annuì. 'Ecco...a dire il vero, la scadenza è prevista
per domani.'
Jean
strabuzzò gli occhi. 'Dimmi che scherzi.'
'Vorrei
tanto.'
Jean
alzò le mani al cielo, agitandole e stringendo i denti, come
per sfogare tutta la frustrazione, poi si strofinò la faccia,
stanco. 'Dio santo. Che situazione. Che facciamo?'
'Semplice.
Ci posizioniamo il più vicino possibile a dove credo sia
nascosta l'arma segreta di Jaeger e aspettiamo.'
Jean
annuì distrattamente. 'E se...e se mi attaccassi?'
Marco
sorrise amaramente. 'Temo dovrai cavartela da solo.'
Jean
si alzò da terra e si spolverò i pantaloni. Si sentiva
stanco e spossato da tutte quelle emozioni. 'E dove sarebbe
quest'arma?'
Marco
indicò il punto sulla mappa. Jean lo osservò bene, alzò
la mappa e se la portò vicina al volto, come a volersi
accertare di ciò che Marco stava indicando.
'Ha
senso.', sorrise. 'Maledetto bastardo vanaglorioso...'
'Lo
conosci?'
Jean
alzò lo sguardo dalla mappa. Marco era accanto a lui, e il
solo sentire il suo fianco contro il proprio, il solo vederlo lì
accanto a sé gli ricordò quanto fosse fortunato.
Sorrise.
'Altrochè
se lo conosco. Ma prima di andare lì dobbiamo passare a
prendere un paio di persone.'
*
*
*
Christa
sobbalzò, quando una mano possente bussò alla porta, la
mattina dopo.
'Ymir...',
sussurrò, stringendo il coltello che aveva in mano.
'Ci
sono.', rispose Ymir, estraendo un pugnale dalla cintura. Connie
afferrò un bastone dall'aria pesante e Sasha il cuscino.
Connie la guardò perplesso.
'Glielo
buttiamo addosso appena entra.', spiegò lei soddisfatta.
Connie alzò le spalle e si concentrò sulla porta.
Christa
avanzò verso la porta brandendo il coltello; la aprì di
scatto e si fece indietro. Sasha gettò il cuscino, urlando,
mentre Connie si gettava addosso al nuovo arrivato. Ymir ritirò
il coltello sospirando.
'Ahi...azz...Connie,
piantala! Sono io, Jean!'
'Jean?!'
Sasha si precipitò verso di lui e gli tolse la maschera dal
volto. 'Oddio...oddio, Jean, sei vivo!'
'Come
corrono in fretta le voc...ouff!' Sasha lo stava stritolando di
gioia. Jean le carezzò i capelli, intenerito.
'Entrate,
svelti. Idioti...' mormorò Ymir. Non fu sorpresa di vedere un
uomo seguire Jean dentro la stanza. Sorrise sardonicamente.
'Avvisa,
la prossima volta che passa. Stavo quasi cominciando a preoccuparmi
di aver perso il fiuto per i nascondigli.'
Marco
scostò la maschera dal volto. 'Sai benissimo che non c'è
nulla che Venezia possa nascondere a una Maschera.'
Il
silenzio cadde nella stanza mentre gli sguardi dei presenti si
posavano sul volto di Marco; Connie si portò le mani alla
bocca e iniziò a singhiozzare, mentre Sasha rimase a fissarlo
agghiacciata. Christa si avvicinò a Ymir in cerca di conforto.
'Mi
dispiace.' mormorò Marco, mortificato. 'Me...me ne vado.'
Si
voltò, e fu allora che Connie corse ad abbracciarlo, seguito a
ruota da Sasha.
'Troppe
emozioni in un giorno solo, scusate.', sbuffò Connie,
asciugandosi le lacrime. 'Marco, non riesco a credere che tu sia
vivo. Oddio... ora dovrò chiedere a te il permesso per sposare
Sasha?'
'Ancora
con questa storia?!'
Marco
scoppiò a ridere di gusto, ricambiando l'abbraccio di Connie
col braccio buono. Ymir gettò un'occhiata a Jean, in piedi
poco distante da dove si trovavano lei e Christa, sul volto
un'espressione pensierosa.
'Che
ti passa per la testa, ragazzino?' esclamò, ridendo. A
dispetto di ciò che Ymir credeva avrebbe risposto, Jean
abbassò la testa, pensieroso.
'Dobbiamo
muoverci.' disse soltanto. Ymir annuì.
'Capisco.'
'E
comunque...', e per un attimo Jean sembrò di nuovo il
ragazzino che avrebbe dovuto essere. '...non lo vedevo ridere a quel
modo da almeno cinque anni.'
Ymir
sorrise.
*
Jean
si avvicinò ad Armin appena questi uscì dalla libreria.
'Continua
a camminare.' sussurrò, posizionandosi accanto a lui. 'Come
stai?'
'Io...
non proprio bene.' Armin deglutì a fatica. 'Com'è andata
alla fine?'
'Oh,
bene. Benissimo. Mi hanno ammazzato, gettato in mezzo ai cadaveri,
sono resuscitato e così il mio migliore amico di quando avevo
dieci anni...roba di tutti i giorni, no? Continua a camminare,
Armin!'
Armin
accellerò il passo; era rimasto indietro a 'resuscitato'.
'Cos...Jean! Che diavolo stai dicendo?'
'La
verità. E sai l'altra cosa? Ad ammazzarmi è stato...'
'Grisha
Jaeger.'
Questa
volta fu Jean a rimanere indietro; si fermò del tutto, anzi.
Armin si voltò verso di lui.
'Ieri
sera lo abbiamo incontrato in piazza San Marco. Era sporco di
sangue.' Armin abbassò la testa. 'Non riesco a credere a ciò
che sono venuto a sapere nelle ultime ore. Non me ne capacito.'
'Cos...cosa
sei venuto a sapere nelle ultime ore?' balbettò Jean.
Armin
alzò lo sguardo verso di lui; Jean si sentì trafiggere
dalla sincerità di quegli occhi. 'Mi dispiace, Jean.'
Ci
fu un rumore secco; Jean si voltò, in tempo per schivare una
freccia diretta verso di lui, partita da una balestra. Chi l'aveva
lanciata era una donna, corti capelli castani, in piedi dietro di
lui.
'Scusa,
ragazzino, ma tu vieni con noi.', esclamò, ridendo.
'Armin!'
ruggì Jean. 'Maledetto traditore!'
'Hanno
preso Eren!' si giustificò lui, urlando. 'Lo avrebbero ucciso!
Non avevo scelta!'
E
Jean seppe che era vero, e che al suo posto avrebbe fatto la stessa
cosa. Si concentrò sulla donna, che in quel momento stava
ricaricando e prendendo la mira verso la sua spalla.
Un
uomo saltò giù da un tetto e si pose tra lei e Jean,
alzando le mani.
'Suvvia,
Zoe, che modi. Noi vogliamo solo parlare col nostro amico, non è
così?'
'Non
mi pare proprio.' sbottò Jean, 'E non sono vostro amico.'
L'uomo
si voltò verso di lui e abbassò le mani, rivolgendone
una nella sua direzione. 'Permettimi di presentarmi. Erwin Smith,
comandante della Guardia Cittadina. E prima che tu possa fare altri
passi falsi, sappi che abbiamo in custodia non solo il ragazzo
Jaeger, ma anche la banda di ragazzini che si è divertita a
farci saltare in aria un palazzo qui a Dorsoduro, l'altro giorno. Sai
di chi parlo, non è così?'
Jean
abbassò la spada che aveva estratto, digrignando i denti.
'...Cosa volete?'
A
un cenno del comandante, una decina di uomini scesero dai tetti. Tra
loro c'era Rivaille, che non smise per un attimo di guardare Jean con
un'espressione di puro disgusto. La donna chiamata Zoe si fece
avanti, senza abbassare la balestra.
'Conoscere
l'ubicazione dell'uomo chiamato la Maschera.' rispose Erwin Smith.
'Abbiamo ragione di credere che questi sia implicato in un piano per
far cadere la Serenissima Repubblica di Venezia. Dev'essere
giustiziato.'
Dopo
ben 9 capitoli, credo sia arrivato per me il momento di ammettere il
mio fallimento come autrice. VeMaV è una storia che io mi
limito a scrivere: l'avete creata voi, col vostro affetto, le vostre
recensioni, le vostre aspettative e l'entusiasmo che mettete in ogni
visualizzazione. Non sono mai stata così orgogliosa di me
stessa, o lo sono stata raramente; voi accrescete il mio spirito e di
questo sono grata ogni secondo.
Il
finale della storia si avvicina, certi personaggi entrano in scena,
rientrano o scompaiono, ma non temete: nessuno verrà lasciato
a se stesso. Non riesco a credere di star gestendo così tanta
gente contemporaneamente, e mi chiedo se sto rendendo giustizia a
chiunque; ci provo, se non altro.
Ragazzi,
se non ve la sentite di recensire, sappiate che non me la prenderò;
ma se avete voglia di buttare un pensiero a riguardo, hashtaggate
#VeMaV su Tumblr o scrivetemi su Facebook. Il mio pensiero di estrema
gratitudine e affetto va a chi lo ha fatto, perchè nulla è
più soddisfacente di 'BASTARDA COME HAI POTUTO UCCIDERE MARCO
MI E' VENUTO UN INFARTO!', credetemi. <3
Come
sempre, vi amo. Smetterò mai di farlo? No. <3
Sono
la vostra maledizione.
Al
prossimo capitolo,
-
Joice
|
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Capitolo 10 *** X - Umanità ***
Vita
e Morte a Venezia
A
poche centinaia di metri di distanza, Marco iniziò a tossire.
'Tutto
a posto?' si fece avanti Christa, preoccupata. Marco alzò una
mano.
'Tutto
bene.' la assicurò, asciugandosi furtivamente il muso. 'Torno
subito.'
Si
sistemò la Maschera sul volto, alzò il cappuccio e si
incamminò verso il palazzo lì vicino; da quando si era
mostrato a Jean, la notte prima, era come se portare la maschera che
tanto gli era stata cara e familiare fosse più un peso che un
sollievo, un modo per nascondersi al mondo.
Guardandosi
intorno per accertarsi che nessuno lo stesse osservando, si infilò
in un vicolo e saltò agile tra una finestra e l'altra, fino ad
arrivare al tetto.
Ymir
era in piedi sul ciglio del tetto, pronta a scattare, la
personificazione del proprio soprannome; Sasha era poco dietro di
lei, l'arco incoccato. Un moto di orgoglio aveva invaso Marco,
vedendo come Sasha e Connie erano cresciuti, maturati e migliorati in
ciò che da bambini erano a malapena in grado di fare.
'Notizie?'
chiese, abbassando il cappuccio.
'Ancora
nulla.' Ymir scosse la testa. 'Non mi piace questa situazione. L'idea
di dividerci mi pareva pessima fin dall'inizio.'
Neanche
a volerle dare ragione, in quel momento videro arrivare Connie di
corsa; raggiunse Christa e le riferì qualcosa, agitato.
Discretamente, Christa fece cenno a Ymir di scendere.
'Jean!',
esclamò Connie, quando furono abbastanza vicini da sentirlo.
'Lo ha preso il Francese, insieme a una donna coi capelli castani e a
un uomo alto e biondo! Lo stanno portando via! Era una trappola!'
'...una
donna coi capelli castani e un uomo alto e biondo?' Ymir si voltò
verso Marco. 'Hanji Zoe e il Comandante?'
'Probabile.'
concordò Marco, pensieroso. 'Non capisco... perchè il
Comandante dovrebbe prendere in custodia Jean? È a me che
puntano.'
'Ed
è te che avranno, Fantasma. Non pensarci nemmeno, di andare a
buttarti lì in mezzo.' esclamò Ymir irritata. Marco
rimase in silenzio, incupendosi dietro la maschera.
'Armin
è andato con loro.' continuò Connie. 'Parlava di Eren.
Possibile che lo abbiano preso? Per cosa, poi?'
'Per
attirare Jaeger in trappola. E per mettere Armin in una posizione
scomoda. Non può abbandonare Eren, no? Sono amici.' riflettè
Christa. 'Il comandante gioca sporco. Tiene tra le mani carte che
possono servire ad altri giocatori. Che facciamo?'
Marco
tossì nuovamente. Seguirono infiniti attimi di silenzio, poi
Sasha parlò.
'Scusate...'
mormorò. 'Ma se Eren è in mano alla guardia cittadina e
Armin è con Jean, Mikasa dov'è?'
*
Mikasa
Ackermann sentiva di essere nata per la caccia. Al diavolo i costumi
e le buone maniere; se era per la giusta causa, non si sarebbe tirata
indietro nel menare le mani. Nemmeno contro un individuo inquietante
come il Francese.
Abbiamo
un conto in sospeso io e te, pigmeo, pensò, lanciandosi
tra un tetto e l'altro e ricordando il modo in cui il Francese aveva
malmenato Eren, quel giorno in piazza, dopo la rissa con Jean. Non
era presente la sera prima, quando il comandante Erwin Smith aveva
dichiarato lei ed Eren in arresto per cospirazione contro la
Repubblica, ma sapeva che se anche il Francese fosse stato lì
in quel momento sarebbe comunque riuscita a sfuggirgli.
(fottuto
nano)
E
ora seguiva Armin e Jean dritto dritto da Eren, ripensando alle
parole del comandante, alle sue spiegazioni in merito ai crimini di
cui Grisha Jaeger era colpevole.
Mikasa
non si era mai affezionata troppo al patrigno; le era grata per
essersi preso cura di lei, ma nulla di più. C'era sempre stato
un alone di misteriosa superiorità attorno a Grisha Jaeger, e
i suoi sorrisi le davano il voltastomaco. Senza contare che, se non
fosse stato per portare a Grisha ciò di cui aveva avuto
bisogno cinque anni prima, i suoi genitori non si sarebbero mai
ammalati di peste, né sarebbero mai morti.
Ma
Eren...Eren era sconvolto, paralizzato dall'idea che l'uomo che era
stato il suo universo dopo la morte della madre potesse essere un
cospiratore e un assassino. Si era messo a urlare, erano quasi
arrivati alle mani quando aveva chiesto – no, ordinato a lei e
Armin di scappare. Lo avevano fatto a malincuore, voltandosi e
rivoltandosi, pregando che nulla di male potesse succedergli, come il
comandante aveva promesso loro. Mikasa aveva pianto per la prima
volta dalla morte di sua madre.
Stava
andando a riprenderselo, consapevole che il proprio patrigno li aveva
in qualche modo ingannati tutti, curiosa di conoscere la reale
posizione della guardia cittadina e del Senato in merito agli
esperimenti di Grisha Jaeger.
Con
la coda dell'occhio vide il drappello composto dal comandante Erwin e
i suoi svoltare verso il sestiere di San Marco.
Portò
lo sguardo davanti al drappello, in tempo per vedere, fermo su un
ponte che il comandante e i suoi sarebbero stati costretti a
oltrepassare, un ragazzo alto, coi capelli scuri.
Aveva
l'impressione di averlo già visto; ma dove? E perchè se
ne stava fermo in mezzo al ponte?
Il
comandante Erwin urlò qualcosa nella sua direzione,
chiedendogli di spostarsi.
Il
ragazzo alzò un piede.
Mikasa
si fermò all'improvviso; ricordava quel volto. Lo aveva già
visto prima, da qualche parte, in piedi dietro a Grisha Jaeger. Molto
tempo prima.
'ARMIN!
JEAN! ANDATEVENE!'
Il
ragazzo abbassò il piede a terra; crepe si dipanarono nel
punto in cui si era appoggiato, e la terra iniziò a tremare.
Mikasa perse l'equilibrio e rotolò giù dal tetto,
riuscendo ad aggrapparsi alla grondaia per un soffio. Si lasciò
scappare una bestemmia quando vide lo spadino che impugnava poco
prima cadere fuori dalla sua portata.
Ebbe
la fugace visione del ponte su cui il ragazzo stazionava a pezzi, di
pezzi di marmo immersi nel canale, di soldati che annaspavano,
cercando di tornare in superficie. Chiuse gli occhi e si lasciò
cadere, pregando sottovoce.
Atterrò
di schiena. Aprì gli occhi, ringraziando il cielo che la
caduta non fosse stata fatale, né l'avesse ferita. Si rimise
in piedi e si guardò attorno alla ricerca di Armin e Jean, e
di un'arma. La gente iniziava a riversarsi nelle strade, spaventata.
Individuò
una spada abbandonata a qualche metro di distanza; si precipitò
a raggiungerla.
La
sua mano e quella di qualcun altro si posarono contemporaneamente
sull'elsa della spada; alzò lo sguardo, ritrovandosi faccia a
faccia con l'ultima persona che avrebbe voluto vedere in quel
momento.
...beh,
quasi l'ultima.
'Vous!
Diable d'une petite fille!' esclamò il Francese. 'Ne
prenez pas cette épée, fuir, c'est dangereux!'
Mikasa
ebbe l'impressione che il Francese le stesse suggerendo di scappare.
Gli rivolse una smorfia di diniego e strappò la spada da
terra, correndo via. Il Francese la raggiunse in fretta, afferrandola
per un braccio e strattonandola indietro.
'Dico
sul serio, ragazza, fermati ! Là dentro è
l'inferno, dammi quella spada !'
Mikasa
lo guardò qualche secondo, gli occhi sbarrati dall'orrore.
Lentamente, gli porse la spada. 'Armin e Jean sono lì dentro.'
'Lo
so.' rispose il Francese, afferrando la spada e sistemandosi il
cravattino al collo. 'Fermare questo abominio e trovare la Maschera è
comunque la mia priorità. Se proprio vuoi renderti utile,
allontana i civili dalla zona.'
Mikasa
annuì fermamente. Si guardarono un'ultima volta, poi ognuno di
loro andò ad eseguire il compito che si era prefissato.
*
*
*
'Mi
dispiace.' gli aveva sussurrato Armin, avvicinandosi. Jean aveva
scosso la testa.
'Tutto
a posto. Ma se sperano che gli dica dove'è Marco si sbagliano
di grosso.'
'Marco ?
Che stai dicendo ?'
Jean
aveva guardato Armin con gli occhi spalancati, portandosi un indice
alla bocca a fatica – le mani erano legate da un nodo stretto -
e facendogli cenno di avvicinarsi.
'La
Maschera. L'uomo che cercano. Ricordi Marco ?
'Marco
è mor...'
'Armin,
concentrati. Ricordi Marco ?
E
Armin si era concentrato, pensando per la prima volta al ragazzino
chiamato Marco Bodt dopo anni ; era stato come essere colpiti in
pieno da una trave : frammenti di ricordi, preoccupazioni e idee
erano affiorati nella sua mente. Si era voltato verso Jean.
'Marco...'
aveva mormorato. 'Che fine ha fatto ? Perchè è
scomparso ?'
'Grisha
Jaeger lo ha ucciso. Il padre di Eren.' Jean aveva evitato di
proseguire il discorso, in parte perchè la sola idea di
parlare di Grisha lo disgustava, in parte perchè la donna con
la balestra aveva iniziato a fissarli in maniera inquietante.
'Chi
è la tizia stramba con la mira scarsa?'
Armin
aveva dato un'occhiata alla direzione indicata da Jean. 'Caporale
Hanji Zoe. Ieri sera, quando il comandante ci ha preso in disparte
per parlarci, lei era lì.'
'Una
donna nella guardia cittadina ?'
'Pare
che il Francese le debba un favore in particolare, e che si sia fatta
valere per le sue doti mediche.'aveva spiegato Armin. 'Credono che il
dottor Jaeger abbia inventato una formula per mantenere le persone in
vita e cose così. Lei intende studiarlo.' Armin aveva guardato
Jean, che era impallidito visibilmente. 'Jean, è così ?
È davvero di questo che si tratta ?'
Jean
si era guardato attorno, poi aveva rivolto ad Armin un breve cenno
d'assenso. Armin si era portato e mani alla bocca.
'Biondino,
guarda avanti. Rischi di inciampare.' aveva esclamato Hanji Zoe. Jean
si era voltato completamente, rivolgendole un sorriso spavaldo.
'E
se anche fosse, cosa potresti farmi ? Spararmi con quella bella
balestrina ?'
'Non
tentarmi. Ci servi vivo, anche se...'
Jean
aveva aggrottato le sopracciglia. 'Anche se ?'
L'espressione
di Hanji Zoe era mutata rapidamente, passando dal cordiale
all'inquietante. 'Ho passato la vita a studiare ciò che hai in
corpo in questo momento, ragazzo. Raccogliere il tuo sangue e
analizzarlo, quella sì che sarebbe una bella idea.'
Brividi
avevano scosso la sua spina dorsale. 'Non so di cosa parli ?
Il
volto di Hanji Zoe era tornato ad essere quello di una donna cordiale
e pacifica. 'Ma il tuo amico Maschera sì, vero ? Oh,
Jean, non ingannarmi. So riconoscere il portatore di una sostanza
chimica tanto letale, quando lo vedo.'
Col
senno di poi, Jean si sarebbe maledetto per aver intrattenuto il
Caporale Hanji Zoe in quella discussione ; se non si fosse
fermata a parlare con lui, Hanji Zoe avrebbe visto il ragazzo sul
ponte. Avrebbe compreso, preso in considerazione l'idea di essere
caduta in trappola. Forse la vista che vantava di avere avrebbe fatto
centro, e avrebbe ordinato la ritirata.
Forse
il mondo intero non sarebbe crollato.
Accadde
in un attimo. Il secondo prima, il comandante Smith urlava a qualcuno
sul ponte davanti a loro di spostasi ; l'attimo dopo tutti loro
erano caduti a terra sotto la forza del terremoto. Jean aveva avuto
il tempo di vedere Armin e il caporale Zoe cadere a terra prima che
il frammento di qualcosa lo colpisse alla testa, stendendolo.
(cazzo,
fa male)
Aprì
gli occhi su un mondo in rovina ; calcinacci riempivano le
strade, tegole e mattoni sparsi ovunque. E le persone che spingevano,
lo calpestavano, urlavano...
'Aaaaarmueeein.'
urlò, ingoiando il sangue che era sul punto di sputare.
'AAAAARMIIIIN !'
'Jean !
Sono qui !'
Armin
era a pochi metri di distanza da lui, incolume. Jean ringraziò
mentalmente qualsiasi dio ci fosse da ringraziare e corse verso di
lui, barcollando e inciampando ogni tanto.
'È
ferita !' spiegò Armin una volta che Jean gli fu vicino,
indicando il corpo inerme di Hanji Zoe. 'Jean, dobbiamo aiutarla !'
'Sì.
Dobbiamo aiutarla.' mormorò Jean, non del tutto convinto. Non
aveva detto di volerlo praticamente dissanguare ?
Si
abbassò comunque per aiutare Armin ; ci volle un po' per
mettersi in una posizione abbastanza comoda da consentire a entrambi
di trasportarla, specie considerata la differenza d'altezza che c'era
tra i due, ma riuscirono a sfuggire al caos in un tempo relativamente
breve. Jean non ebbe il tempo di accasciarsi a terra : una mano
lo afferrò per la camicia, prepotente e in qualche modo
perfino familiare.
'Dov'è
il comandante ?' chiese inquisitorio il Francese, spada alla
mano. Jean scosse la testa, incapace di formulare una frase di senso
compiuto, figuriamoci una risposta sarcastica. Ansimando, indicò
il corpo di Zoe, di cui Armin si stava minuziosamente prendendo cura,
tastandone le pulsazioni. Il Francese sbuffò.
'Ve
ne devo una. Un seul.' fece per correre verso il ponte, completamente
distrutto, ma si fermò un momento. 'Una ragazza ha chiesto di
voi. Capelli corti, neri. Orientale.'
Mikasa
è qui, pensò Jean. 'Come sta ?'
Il Francese
si voltò un'ultima volta. 'Cette
fille ne pouvait pas être tué, même par le diable.
Cela me rappelle de moi.'
Jean
lo guardò interrogativo, ma il Francese se n'era già
andato. Scosse la testa e si alzò per raggiungere Armin. Si
voltò.
Davanti
a lui era fermo un ragazzo alto, con corti capelli neri e
un'espressione terribilmente addolorata in volto. Pensieri
affollarono la mente di Jean.
(Il
ragazzo della locanda dello Zudeo)
(Conosce
Ymir)
(E'
UNO DI LORO)
Cercò
di allontanarsi, ma era troppo tardi ; il braccio forte,
allenato e disumanamente potente si strinse attorno al suo collo come
un cappio. Jean sentì l'aria mancargli ed iniziò ad
annaspare, agitandosi nella stretta dello sconosciuto.
'Il
comandante Smith è morto. Del Francese si occuperà
Annie. Raggiungiamo gli altri tuoi amici, ti va ?'
Stava
sorridendo, il bastardo ? Jean smise di agitarsi, senza forze.
Sentiva l'odio montargli dentro.
Odio
per Grisha Jaeger.
Odio
per se stesso, la sua debolezza.
Odio
per Marco.
No,
quello mai.
Chiuse
lentamente gli occhi.
(Marco...)
Ebbe
l'impressione che la stretta attorno al suo collo si fosse allentata
di colpo ; ma non ebbe la possibilità di controllare.
Quando successe, i suoi occhi erano già chiusi, la sua mente
già distante.
*
*
*
Marco
iniziò a tossire sempre più forte, con maggiore
frequenza. Christa lanciava ad Ymir
occhiate di sincera preoccupazione, e si fermava ad assisterlo
nonostante lui le ripetesse di non aver bisogno d'aiuto.
'Davvero...cough !
È tutto a posto.' le disse per l'ennesima volta. Christa alzò
lo sguardo da Marco a Ymir.
'Yyyym...'
mormorò. Ymir alzò gli occhi al cielo, fece cenno agli
altri di fermarsi e tornò indietro, verso Christa e Marco.
Alzò la gamba e tirò a Marco un calcio dritto sul
petto, sotto lo sguardo orripilato di tutti gli altri. Marco non si
mosse di un millimetro. Ymir lo afferrò per il bavero della
cappa.
'Se
ti faccio quello
è
tutto a posto, ma un po' di tosse ti rallenta addirittura ?
Avanti, Fantasma, non siamo tutti idioti qui. Che diavolo sta
succedendo ?'
Lo
sguardo che Marco le rivolse le fece quasi venire voglia di ritirare
il tutto e farsi indietro, e non era una sensazione che Ymir fosse
abituata a provare ; ma l'unico occhio che Marco possedesse era
tanto pregno di paura e orrore che Ymir lasciò andare
istintivamente la presa.
Un
attimo prima che Marco tossisse nuovamente, sputando una
consistente quantità di sangue.
'Ma
che cazzo... ?!' sentì esclamare a Connie. Marco tornò
a tossire, sempre più debolmente. Si accasciò contro il
muro.
'È
inutile.' mormorò. 'Non posso...andate. Vi prego. Andate..'
'Noi
non andiamo da nessuna cazzo di parte, Marco, almeno finchè
non spieghi cosa sta succe...'
La
terra tremò sotto i loro piedi ; Ymir cadde e sbattè
le ginocchia contro la strada. Una fitta di dolore le percorse la
spina dorsale, mozzandole il fiato.
'Historiaaa...'
urlò, poggiando i gomiti a terra e cercando di rialzarsi.
'His...Historia...'
Mani
delicate e forti si posarono sotto le sue braccia ; alzò
il volto a fatica. Christa era di fronte a lei, il volto ricoperto di
sangue.
(la
mia Christa, la mia Historia, la mia principessa)
'Ymir...
Marco...'
Non
fece in tempo a terminare la frase. Accanto a loro, qualcuno urlò,
un urlo che non aveva nulla di umano, che lacerava i sensi.
Voltandosi, Ymir sapeva che ciò che avrebbe visto avrebbe
messo in secondo piano la presenza di gente che correva verso
l'epicentro, sapeva che l'avrebbe messa in posizione di dover
proteggere Historia, Connie e Sasha e chiunque altro. Ma sapeva anche
di doverlo all'uomo chiamato la Maschera, l'uomo che per primo
l'aveva avvicinata chiedendole se desiderasse rivedere il suo angelo
e che l'aveva ricondotta da lei.
Non
c'era nulla che ricordasse Marco nell'espressione di folle terrore
che sfigurava il suo volto ; nulla, nella bocca aperta e
congelata nell'attimo in cui aveva urlato di dolore, nè
nell'occhio sbarrato, che andava arrossandosi sempre più
rapidamente. Ymir sentì Historia tirarla indietro, implorarla
di andarsene, ma non riusciva a muoversi, nè a parlare.
E
poi Sasha si avvicinò a Marco, la faccia sconvolta dalla
paura, e provò a sfiorarlo. E lui si voltò.
I
nervi del collo erano tesi, i movimenti simili a quelli di un animale
pronto a cacciare. L'unico occhio sano era rosso, e venuzze grigie
attraversavano l'intero volto.
Per
un secondo, un lungo, infinito secondo, Ymir fu certa che Sasha
sarebbe morta lì, uccisa dall'essere che Marco era diventato –
l'esperimento finale di Grisha Jaeger, la sua più grande
ambizione.
Fu
sul punto di alzarsi e correre verso Sasha,
(stupida
ragazzina)
poi
però accadde qualcosa di inaspettato. Marco si alzò in
piedi e allontanò Sasha con la mano buona, spingendola
cautamente via dalla propria strada. Si voltò verso Ymir e la
fissò. Gocce di sangue cadevano dai suoi occhi, simili a
lacrime. Ymir vide che tremava visibilmente, come se si stesse
trattenendo dal fare qualcosa.
(Dall'ammazzarci
tutti, probabilmente)
'Ymir...sei
lì ?'
'...sì.'
sussurrò.
'Io...
sto morendo, Ymir. L'ho già provato una volta, so come ci si
sente.', una pausa. I muscoli sembrarono sul punto di esplodere. 'C'è
una cosa che devo fare finchè ho ancora controllo del mio
corpo. Promettimi che cercherai di scappare da Venezia. Porta tutti
via con te. Ora so quali siano le intenzioni di Grisha Jaeger.'
Ymir
annuì. Non era spaventata ; più sconvolta dalla
capacità con cui Marco stava governando il proprio istinto da
assassino, ciò per cui Jaeger lo aveva fatto rinascere.
'Lo
farò.' promise, alzandosi in piedi ; Historia fu subito
accanto a lei, pronta a sostenerla. 'Ma devi dirmi cosa Jaeger
intende fare.'
Il
colorito di Marco era pallido, emaciato ; sembra quasi fondersi
con la parte del suo volto che era stata la Maschera. 'Farla
affondare. Vuole far affondare Venezia. Distruggerne le fondamenta.
Cancellarla dalla superficie. Ucciderne gli abitanti...'
Le
dita di Historia si erano strette attorno alla sua. Marco aveva
portato la mano tremante alla spada al suo fianco e l'aveva estratta.
'Devo...proteggerlo.'
Lo
sguardo di Ymir si era posata sul capo di Historia. 'Sì. Lo
capisco.'
'Scappa.'
'Lo
farò, l'ho già detto una volta. Non farmelo ripetere.'
Per
un attimo, Ymir ebbe l'impressione che Marco avesse sorriso. Righe di
sangue gli macchiavano il volto, rendendolo una visione più
che inquietante, ma sì, c'era stato un sorriso. 'Ci vediamo
all'inferno, Volpe.'
'All'inferno,
Fantasma.'
Marco
era corso via, a una velocità che rasentava l'impossibile ;
Ymir si era voltata verso Connie e Sasha. Entrambi erano sconvolti,
sporchi, sanguinanti. Il cielo sopra di loro aveva assunto una
colorazione rossastra, come a voler sottolineare ulteriormente il
dramma in cui si trovavano.
'Andiamocene.'
mormorò. Le tremavano le ginocchia, ma mosse i primi passi
sicura, motivata.
Fu
allora che qualcosa la colpì allo stomaco con la forza di una
decina di mattoni, togliendole il fiato e sbalzandola indietro. Ymir
cadde di nuovo sulla schiena e rotolò per qualche metro, nelle
orecchie l'urlo di Historia. Alzò lo sguardo in tempo per
vedere qualcuno, qualcuno di grosso, correrle incontro. Fece ricorso
a tutta la propria buona volontà per girare sul proprio
fianco, allontanandosi dalla direzione presa dall'energumeno, che la
attraversò e la superò di qualche metro prima di
fermarsi.
Ymir
si alzò e tirò fuori la daga che aveva al fianco,
arricciando il naso.
'Adesso
mi avete veramente rotto il cazzo.', borbottò, sputando
sangue.
Di
fronte a lei, il suo assalitore alzò la testa. Due grandi
occhi ciechi, fin troppo simili a quelli di Marco, la fissavano. I
corti capelli biondi che Ymir ricordava di aver visto erano quasi
bianchi, ora, e il corpo era straordinariamente tozzo e grosso per un
essere umano. Anche un essere umano dalla prestanza fisica di Reiner
Braun.
'Fatti
sotto, scimmione.' mormorò Ymir, sorridendo.
*
*
*
Stava
implodendo. Pensieri, volti, formule, urla, verità :
tutto nella sua testa. E davanti ai suoi occhi, un mondo colorato di
rosso, rosso sangue.
(Jean)
Era
l'unico pensiero che valesse la pena avere, si disse, l'unico
pensiero che valesse la pena tenere saldo. Vi si aggrappò come
aveva fatto in passato.
Marco
non c'era più. Non c'era più da anni. Non potevano
ordinargli di uccidere. Non più.
(Jean)
La
gente scappava, spaventata. Come poteva dargli torto ? Si
sarebbe fermato ad aiutare ognuno di loro nonostante ogni centimetro
del suo corpo gli ordinasse il contrario, nonostante ogni suo senso
gli imponesse di uccidere.
C'era
un fattore che Grisha Jaeger non aveva considerato ; il titanio
modificato era un elemento malleabile, un simbionte, un parassita in
grado di donare forza e agilità...e di adattarsi ai mutamenti
emotivi della persona ospite.
C'era
un fattore che Grisha Jaeger non aveva considerato, e Marco stava
correndo dritto dritto nella sua direzione.
Non
si sentiva così libero e forte da anni.
Lo
vide in lontananza calciare per sfuggire alla presa di Bertholdt ;
si avvicinò rapido, più rapido di quanto avrebbe
creduto possibile, e calò la spada sul braccio di Bertholdt
prima di concedere a se stesso il beneficio del dubbio.
Lo
aveva già fatto una volta, ma questa volta sarebbe andata
diversamente.
Bertholdt
urlava di dolore, ma il suo braccio stava già ricrescendo. La
peculiarità donatogli dal titanio modificato, pensò
Marco.
Raccolse
Jean da terra e lo guardò. Aveva gli occhi chiusi, il volto
sereno dei sognatori.
(Sarai
la mia morte, ma morirò felice)
Rivolse
a Bertholdt il sorriso più candido e aperto che gli
riuscisse ; del sangue gli scivolò tra i denti.
Era
un mostro, ed era libero.
Ho
come l'impressione che dovrei alzare il rating a rosso ma,
ehi...giudicate voi. X°
E,
sì, Armin è ESATTAMENTE dove state pensando che sia.
Povero cucciolo, mi occuperò di te nell'undici. Anche se forse
questa frase è più preoccupante di 'lasciamolo lì
dov'è' x°D
Ragazzi,
che dire ? Non avrò l'occasione di aggiornare domani,
probabilmente, quindi ecco a voi un buon vecchio capitolo notturno.
Che se lo leggete ora addio sonno.
Tremavo,
scrivendo questo capitolo ; tremo tutt'ora. Ma tutto avrà
una fine. Nulla verrà lasciato al caso, credetemi. NULLA.
Nel
bene e nel male.
C'è
bisogno che lo ripeta ? Sì, perchè ve lo meritate,
tutti voi e cinque recensori fidati che ogni tanto cambiate o vi
scambiate ; tutti voi fantastici ragazzi che mi aggiungete per
chiacchierare, di VeMaV, di SNK, di tutto in generale. Grazie,
grazie, mille volte grazie. Per le parole. Per i disegni. Per le
sensazioni.
Vi
amo.
Questo
capitolo è per Giulia, dolce artefice su carta delle mie
fantasie, e Monica, folle e geniale come sei, e adorabile. Vi voglio
bene, ve ne voglio davvero. A tutti voi.
Anzi,
sapete che vi dico ? Questo capitolo è per tutti VEMAV E'
PER TUTTI.
Siete
meravigliosi e non finirò mai di pensarlo.
Al
prossimo capitolo, ragazzi.
Manca
poco ormai.
Già
mi piange il cuore.
P.S. :
Scusate i feels pesanti. <3
|
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Capitolo 11 *** XI - Lo so ***
Vita
e Morte a Venezia
C'era
qualcosa nell'aria, qualcosa a cui non erano abituati.
Armin
Arlert aveva sempre ritenuto la propria esperienza noiosa, semplice,
semplicemente ignorabile. Adorava vivere con suo nonno, amava le
giornate trascorse con Eren e Mikasa, impazziva per la lettura,
nonostante l'unica altra persona in grado di leggere che conoscesse
fosse suo nonno.
Semplicemente
ignorabile.
Non
avrebbe mai creduto che un giorno Jean Kirschtein sarebbe entrato
bruscamente nella loro vita, portando con sé un anello e la
fine del mondo. E stentava a crederci anche nel momento in cui,
davanti ai suoi occhi, il corpo esanime di Jean venne raccolto dal
ragazzo che aveva creduto morto per cinque anni. Anche quando
suddetto ragazzo tagliò via di netto il braccio del loro
assalitore, e sorrise di fronte a quello spettacolo, piangendo
sangue.
'M-Marco...'
si ritrovò a sussurrare, sotto shock.
Marco
non lo sentì, ovviamente; come avrebbe potuto, tra le urla
della gente e dei soldati ancora impegnati a salvarsi? Corse via,
invece, Jean stretto tra le braccia. Armin alzò una mano
tremante nella sua direzione, ma la ritirò subito; qualcosa si
era mosso accanto a lui.
Hanji
Zoe aprì gli occhi e lo guardò, sussurrando qualcosa
che Armin non potè sentire. Aveva lo sguardo di chi ha visto
un fantasma.
Armin
si abbassò, tendendo l'orecchio verso le sue labbra.
'Dietro
di te.'
Armin
si voltò di scatto. Il ragazzo alto, il fautore del disastro
che li circondava, l'uomo a cui Marco aveva mozzato via il braccio,
lo sovrastava.
Entrambe
le braccia erano al loro posto.
Armin
si abbassò a terra svelto, proteggendo Zoe d'istinto. Si rese
conto che il ragazzo stava piangendo.
'Vorrei
avere una scelta.' esclamò, alzando la spada. 'Mi dispiace.'
Fu
allora che una lama gli spuntò dal petto, all'altezza del
cuore. L'uomo la guardò, gli occhi e la bocca aperti,
congelati in un'espressione di un intenso stupore. Per un attimo, un
sorriso di
sollievo
gli comparve sul volto; poi cadde a terra.
Mikasa
era in piedi dietro di lui, l'elsa dell'arma insanguinata ancora
stretta tra le mani.
'Mikasa!'
urlò Armin; come risvegliandosi da una fase di trance, Mikasa
alzò gli occhi verso di lui e lasciò cadere la spada.
Si abbracciarono; Armin stava ancora piangendo sulla sua spalla
quando lei iniziò a parlare.
'Ero
solo una bambina quando i miei genitori arrivarono a Venezia per
donarmi a un loro amico e collega ricercatore per degli esperimenti.
C'erano altri tre ragazzini con me, nella stanza...lui era uno di
loro. Ora ricordo. Mio dio, ora ricordo.'
Armin
vide Hanji Zoe alzarsi in piedi. 'Non sei infetta dal titanio
modificato. Sbaglio?'
Mikasa
scosse la testa. 'I miei genitori morirono di peste. Grisha Jaeger si
sentì tanto in colpa da decidere di prendermi in custodia.'
Zoe
scosse la testa. 'Dubito che quell'uomo abbia a cuore il destino di
una bambina. Probabilmente aveva piani diversi per te.'
Armin
sciolse l'abbraccio con Mikasa. 'Vi sentite bene?'
Zoe
sorrise. 'Magnificamente. Devo tornare al quartier generale delle
guardie e fare rapporto, ora. Possiamo ancora fermarlo.'
Armin
fu tentato di dirle di Marco, ma si morse la lingua. Non riusciva a
fidarsi completamente di quella donna. La guardò correre via,
silenzioso, ripensando alle parole di Mikasa.
'Eren
è ancora in quella torre.', mormorò.
Mikasa
sorrise. 'Questo è quello che credono loro.'
*
Reiner
saettò in avanti, incredibilmente veloce per qualcuno della
sua stazza; Ymir lo scansò nuovamente, un torero e il proprio
toro, restia a combatterlo nonostante la provocazione. Doveva
studiare un piano, inventarsi qualcosa. Gettarsi in avanti e
attaccare sarebbe stato stupido.
'Sasha!'
urlò all'improvviso. 'Ci sei?'
Con
la coda dell'occhio, vide Sasha annuire, poi urlarle in risposta.
Reiner
la mancò di un soffio con un cazzotto sul fianco; non
combatteva armato, perchè lo avrebbe semplicemente rallentato.
Ymir appoggiò la mano sul suo capo, rapida, e utilizzò
la sua stessa forza per issarsi oltre lui ed atterrargli dietro.
'L'arco
e le frecce, Sasha! Ci sono?'
'Sì...sì!'
Reiner
rimase un attimo interdetto dalla scomparsa del proprio obiettivo, ma
la reindividuò immediatamente. I suoi sensi sembravano essere
quelli di un animale. Non parlava, limitandosi a fissare Ymir con
occhi bianchi e ciechi.
'Devi
colpirlo!'
'D-dove?'
'ABBASSATI,
YM!', si intromise la voce di Historia.
Ymir
seguì il consiglio, rapida, stringendo i denti; non lo avrebbe
ammesso nemmeno con se stessa, ma le gambe le erano praticamente
cedute. Reiner strinse i pugni e li abbassò sulla sua schiena,
costringendola a terra a sputare sangue. Si tirò su a fatica,
scivolando; Connie era dietro Reiner, un pugnale in mano.
'Connie,
no!'
Quell'attimo
di distrazione le fu fatale. Reiner le arrivò addosso con la
forza di una decina di tori, aggrappandole il busto e spingendola
contro il muro.
La
vista le si stava annebbiando. Non andava bene, non andava bene
affatto. Sentiva dolore ovunque, e aveva un'immensa voglia di
accasciarsi su quel muro e svenire, ponendo fine a tutte quelle
sofferenze. Non andava bene affatto, no. Lei aveva qualcuno da
proteggere.
Non
poteva permettersi di dormire.
'AGLI
OCCHI!' urlò, raccogliendo quel poco di fiato che i polmoni
fracassati le consentirono.
Vide
il volto di Sasha passare dall'essere quello di una ragazzina
spaventata a quello di una cacciatrice, mentre incoccava la freccia.
Spinse via il braccio di Reiner, che la bloccava al muro, e si gettò
di lato, ormai quasi insensibile all'urto contro la strada. Reiner si
voltò e le si lanciò contro...
...e
fu allora che Sasha scoccò. La freccia si infilò
nell'occhio destro di Reiner, e la bestia che era stato il ragazzo
urlò di dolore, afferrandone il fusto.
Ymir
si ritrasse orripilata, approfittandone per respirare grandi boccate
d'aria. Reiner urlò nuovamente, mentre la seconda freccia che
Ymir non aveva chiesto colpiva l'occhio sinitro. Persino i suoi versi
di dolore erano più simili a quelli che può emettere un
orso o un lupo che a quelli di un essere umano.
'Sasha,
fermati!' urlò Connie, da qualche parte.
Sasha
abbassò l'arco, una terza freccia già incoccata. Sul
volto aveva un'espressione di intenso dolore, come se tutto l'orrore
del mondo si fosse mostrato ai suoi occhi all'improvviso. Ymir la
guardò mormorare qualcosa.
'Questo
è per Marco.'
L'arco
si alzò e la freccia corse rapida verso il collo di Reiner. Le
urla del mostro si interruppero di botto, mentre collassava in
silenzio, a terra.
Per
un po' l'unica cosa che fu possibile udire, oltre alle urla dei
passanti, fu il respiro affannato di Ymir. Si alzò in piedi,
presto sostenuta da Connie, che le corse incontro gettando a terra
l'arma.
'Sei
conciata male.' constatò.
'Andiamocene.'
borbottò lei.
Dita
fredde come il soffio della morte si strinsero attorno alla sua
caviglia.
Prima
che potesse rendersene conto, la sua testa aveva picchiato contro il
terreno, stordendola. Sentì Connie urlare, Sasha gridare
aiuto, poi un urlo isterico, una dolce voce familiare resa folle
dalla rabbia. La presa di Reiner si allentò e Ymir, semi
incosciente, si voltò.
C'era
Christa, in piedi sul cadavere di ciò che Reiner era stato;
aveva un pugnale in mano, insanguinato fino all'elsa. Reiner mosse un
braccio, e lei alzò entrambe le mani e conficcò
nuovamente il pugnale nella sua schiena, ripetutamente.
Gettò
il pugnale a terra e si voltò a guardarla. Il suo candido
volto da angelo era sporco di sangue, gli occhi sbarrati dal terrore.
Ymir
svenne.
*
'Il
Caporale Rivaille rientra! Il Caporale Rivaille rientra!'
'Dio,
fate tacere quell'idiota.' esclamò Rivaille, fermandosi nel
cortile. Una donna gli corse incontro. Riconobbe con una smorfia i
capelli cenere e lo sguardo duro di Rico Brzenska.
'Rapporto.'
richiese, secca. Rivaille si voltò verso il proprio cavallo e
ne tirò giù qualcosa, che porse a Rico.
'Il
Comandante è morto. Questo è ciò che sono
riuscito a recuperare.'
Il
volto di Rico si trasformò in un'espressione d'orrore; lasciò
cadere ciò che Rivaille le aveva consegnato, portando le mani
alla bocca. 'Starai scherzando! Un braccio, Francese? Un braccio?!'
'Va
a chiamare Pixis, Brzenska. Non ho tempo per i tuoi attacchi isterici
da primadonna.'
Rico
ingoiò una risposta saccente, voltando le spalle al Francese e
rientrando nella caserma per cercare Pixis, il secondo in comando
della guardia cittadina. Rivaille si concesse un attimo di pausa,
respirando a fatica. Uscire dall'inferno scatenatosi poco prima era
stata un'impresa, e doveva ancora riprendersi del tutto dall'idea che
Erwin fosse morto.
Guardò
la caserma; Pixis camminava verso di lui, tranquillo. Lo salutò
con un cenno della testa.
'Dovremmo
pensare ai civili, Caporale. Possibile che ci stiate procurando una
preoccupazione in più?'
'Erwin
è morto, nel caso quell'angioletto con la gonorrea del tuo
secondo si sia dimenticato di riferire.' sbruffò Rivaille.
'Che ne è della famiglia del doge?'
'Se
ne sta occupando Nile. Dov'è la Maschera, Rivaille? Dov'è
Grisha Jaeger?'
Rivaille
fece una smorfia stizzito. 'In giro a divertirsi, a giudicare dal
terremoto. Non abbiamo il minimo indizio su dove sia, Pixis. Niente
di niente. Devo vedere il ragazzo Jaeger.'
Fece
per oltrepassarlo, ma Pixis lo fermò; era sul punto di tirare
fuori la spada e chiedergli di spostarsi con tutta la gentilezza di
cui non era capace, quando un urlo li fece voltare entrambi.
'Il
Caporale Zoe rientra! Il Caporale Zoe rientra!'
'Hanji.'
sussurrò Rivaille, affrettandosi verso l'entrata.
Hanji
era conciata male, ma il suo volto era eccitato, illuminato. Rivaille
la sostenne prima che lei potesse gettarsi a terra a prendere fiato.
'L'attentatore...morto.'
annunciò. 'Ucciso. Dobbiamo trovare gli altri.'
'Tu
non vai da nessuna parte, idiota. Me ne occupo io.'
Hanji
scosse la testa. 'Abbiamo bisogno dell'aiuto di tutti. Dov'è
il ragazzo Jaeger?'
'E'
quello che stavo cercando di capire anch'io.' mormorò
Rivaille, infastidito.
Pixis
li guardò entrambi con la solita flemma. 'Il ragazzo Jaeger è
scappato, Rivaille. Ed ecco perchè il mio secondo ti è
apparso particolarmente innervosito. Quei diavoli di ragazzini hanno
fatto una breccia nelle mura e si sono lanciati di sotto. E sono
sopravvissuti!'
Rivaille
sgranò gli occhi. 'Je vais tou vou teur.' sillabò,
alzandosi e fronteggiando Pixis. 'Come diavolo fate ad essere dei
tali incompententi? Zoe!' Hanji si alzò, spolverandosi di
dosso la polvere. 'Prendi gli uomini che ti servono e va a cercare
Jaeger. E Jaeger padre, se ti riesce. E portameli. Vivi.'
Hanji
annuì. Pixis alzò un sopracciglio in direzione di
Rivaille.
'Cosa
pensi di fare, caporale? Devo ricordarti chi è il tuo
comandante, al momento?'
'Nessuno.'
Un
sorriso percorse il viso di Rivaille. Tutti i presenti, Pixis
compreso, tremarono impercettibilmente.
In
dieci anni di servizio, non era mai accaduto che il Francese
sorridesse. Slacciò la cappa e la consegnò a Pixis.
'Erwin
è morto, e voi siete solo degli idioti. Me ne vado.'
*
La
prima cosa che vide, aprendo gli occhi, fu un immenso bianco. Solo
bianco.
Jean
sbattè più volte le palpebre,
(sono
morto? Di nuovo?)
prima
di rendersi conto che quella che stava osservando era la cupola di
una chiesa e non la porta del paradiso.
Gli
ultimi ricordi prima di perdere coscienza gli tornarono in mente,
colpendolo come un pugno allo stomaco; si alzò di scatto,
guardandosi intorno. Non c'era traccia dell'energumeno che lo aveva
soffocato, né di nessun altro. Si alzò in piedi a
fatica, passeggiando in mezzo alla navata.
Ma,
sì, qualcuno c'era; in ginocchio di fronte all'altare,
impegnato a mormorare preghiere in latino. Jean si mosse nella sua
direzione, felice di constatare che era lì, era vivo.
Poi
Marco si voltò verso di lui.
La
mente di Jean si congelò di fronte all'immagine del suo
migliore amico, gli occhi ridotti a due pozze di sangue e lacrime
dello stesso impegnate a corrergli giù dal volto e sulle
vesti. Scosse la testa, in parte spaventato, e in gran parte
arrabbiato.
'Cosa
ti hanno fatto stavolta?'
'Ha
funzionato.' spiegò Marco, e Jean si rese conto che stava
tremando. 'Il piano di Jaeger.'
Parlava
a fatica, ma questo non gli impedì di urlargli di fermarsi
quando Jean fece per avvicinarsi; non gli diede retta, ovviamente, e
si afficinò fino ad averlo di fronte.
Jean
afferrò l'angolo della propria cappa e lo strofinò
dolcemente sulle sue guance, levando via il sangue. Marco rimase con
lo sguardo fisso su di lui, preoccupato e privo di parole.
'Perchè
siamo qui, se il suo piano ha funzionato?'
'Perchè
il suo non era un secondo piano. Era parte integrante del primo
piano.'
Jean
annuì distrattamente. Le labbra di Marco, no, tutto il suo
corpo tremava visibilmente.
'Insomma,
hai intenzione di parlarmi o no?' sbottò Jean. 'I miei amici
sono ancora là fuori. Potrebbero essere morti. Mi devi delle
spiegazioni.'
Marco
chiuse gli occhi, alzando la mano buona e sfiorando le dita di Jean
vicino al suo volto. Annuì.
'Posso
vedere tutto, Jean. Tutto ciò che è successo, parte di
ciò che succederà se Jaeger vince. Le strade che
abbiamo perso, quelle che perderemo. E le voci di tutti quelli come
me che si spengono, lentamente. Bertholdt è morto. Reiner
anche. Ed è un bene, perchè altrimenti avrei dovuto
ucciderli io.' sospirò. 'Siamo qui perchè qui è
nascosta la miccia di una catena di bombe piazzate strategicamente in
tutta la laguna, e io ne sono la miccia. Io, o Annie.'
'Quindi
stai aspettando questa Annie per ucciderla?'
'Sì.'
'E
uccisa Annie?'
'Tu
dovrai uccidere me.'
Jean
ritrasse la mano lentamente; sul volto apparve un sorriso isterico,
tirato. Scosse la testa e si portò le mani al volto, sfuggendo
al tocco di Marco.
La
sua espressione mutò rapidamente in un'esplosione di rabbia;
scattò in piedi, i denti stretti e lo sguardo fisso su ciò
che era rimasto del volto di Marco.
'Jean.'
sussurrò lui. 'Sto già morendo. Evitami un'agonia.
Ascolta...'
'No.
TU ASCOLTAMI!'
La
voce di Jean rimbombò, amplificata dall'acustica della chiesa.
Marco lo guardò in silenzio.
'Io
dovrei impedirti un'agonia? E chi impedirà la mia agonia? Chi
cazzo lo farà? Come credi che fare a vivere consapevole di
aver ucciso il mio migliore amico un'altra volta?!'
'Jean...'
'Jean
un cazzo! Non lo farò, Marco! Non pensarci neanche!'
La
sua voce si ruppe sull'ultima parola, costringendolo ad inghiottire
le lacrime. Marco si alzò; la sua massa fisica sembrava essere
tornata normale, come se stesse indebolendosi. Si gettò
addosso a Jean, abbracciandolo.
'Mi
dispiace. Non può farlo nessun altro...'
Le
mani di Jean si strinsero a pugno e batterono sulla schiena di Marco,
sempre più deboli, i suoi lamenti sempre più simili a
un pianto nervoso, finchè non si rese conto di essersi
aggrappato alla sua veste con una forza che non credeva di avere, e
di aver affondato il volto nell'incavo tra il collo e la spalla di
Marco. Singhiozzò in quella posizione, restio ad abbandonare
il calore delle braccia di Marco, per quanto infuriato si sentisse
nei suoi confronti.
'Non
puoi...farlo da solo?' borbottò, mordendosi la lingua subito
dopo, conscio di quanto suonasse egoista.
Marco
non sembrò farci caso; fece scivolare la mano sinistra verso i
capelli di Jean, prendendo a carezzarli. 'Non credi che lo farei, se
fosse possibile? Non credi che ti leverei questa maledizione di
dosso? Ma non posso. Rischierei di ferirmi senza morire. Dobbiamo
farlo prima che Grisha Jaeger arrivi.'
Jean
alzò riluttante la testa dalla spalla di Marco per guardarlo.
Gli occhi avevano smesso di piangere sangue, e le sue labbra erano
inclinate in un sorriso rassegnato. Sembrava di nuovo una persona
normale, volto ricostruito a parte. Alzò un dito a sfiorare le
sua guancia, scivolando da una lentiggine all'altra, ancora stretto
tra le sue braccia.
'Marco?'
'Mmm?'
'Hai
detto di poter vedere le strade che abbiamo perso, no?' alzò
gli occhi ad incontrare i suoi. 'Cosa sarebbe successo se quel giorno
non avessi incontrato Jaeger?'
Marco
chiuse gli occhi, concentrato. 'Saremmo cresciuti assieme. Un giorno,
Antonio avrebbe lasciato a me, te, Sasha e Connie la gestione dei
traffici. Tu ci avresti guidato, sai benissimo che sarebbe stato
così.' riaprì gli occhi un poco, lo sguardo basso. 'Ne
sarei stato felice. Nulla mi rende più felice del guardarti
diventare forte.'
Jean
appoggiò la fronte alla sua, gli occhi chiusi, in cerca di
contatto fisico. Marco lo strinse a sé.
'Avrei
voluto vederti crescere.'
'Lo
so.'
'Jean,
non dovrei, ed è stupido dirlo ora, ma credo di essermi
nuovamente innamorato di te.'
'…Lo
so.'
Poggiò
le labbra su quelle di Jean, tirate in un piccolo sorriso malizioso,
assaporando la sua pelle, il suo profumo, il modo in cui muoveva la
testa per far sì che si accomodasse al meglio nella sua bocca,
la mano di lui che saliva a carezzargli nuovamente la guancia. Lo
strinse ancora, più forte, godendo della sensazione di calore
emanata dal suo corpo, della sua presenza.
Un
attimo per respirare, per guardarsi negli occhi; un altro, per esser
certi di star facendo la cosa giusta.
Un
terzo attimo, per smentire le loro convinzioni e fregarsene.
Le
labbra si ritrovarono, affamate, ansiose di recuperare gli anni e le
possibilità perdute. Come per il ballo, Jean si rese conto di
avere in mano la situazione, e impose a Marco la propria presenza
mordendone il labbro inferiore con rabbia. L'altro ridacchiò
sorpreso e tornò a baciarlo con dolcezza.
'Dovremmo
davvero smettere.' mormorò Marco, lo sguardo preoccupato.
'Mm-mm.'
rispose Jean, sporgendosi in avanti alla ricerca delle labbra
dell'altro.
'No,
Jean. Dovremmo davvero smettere.' Marco sciolse l'abbraccio da
Jean e lo costrinse a voltarsi.
Sulla
soglia della chiesa era ferma una bassa ragazza bionda, che Jean
riconobbe come la principale fautrice della sua morte di neanche un
giorno prima. Strinse i denti.
'Tu!
Fece
per correre nella sua direzione, ma Marco gli posò una mano
sulla spalla e lo oltrepassò.
'Quella
è Annie, Jean.' slacciò la cappa e la gettò di
lato; Jean la raccolse al volo. Sotto la cappa, Marco indossava
solamente una maglia nera. La sua schiena, che Jean non aveva mai
osservato con attenzione fino a quel momento, era quella di un
combattente allenato alla guerra. Deglutì.
'È
meglio che ti trovi un posto in cui nasconderti. Non voglio rischiare
di farti del male.' si voltò a guardarlo, sorridendo. 'Hai una
promessa da mantenere, ricordatelo.'
Jean
sentì una smorfia farsi strada sul suo volto. 'Col cazzo.'
Marco
corse verso Annie; Jean nella direzione opposta.
Sul
volto di entrambi faceva capolino uno stupido sorriso speranzoso.
Ehilà,
belle donne/uomini/qualunque cosa desideriate essere, buongiorno!
E'
l'una e mezza mentre scrivo, e probabilmente dirò meno di
quanto voglio dire. Nulla di nuovo, quindi!
L'ho
già detto che sono davvero molto, molto, MOLTO felice del
feedback ricevuto da questa storia? Sì, l'ho già detto,
ma fanculo, lo ripeto. Non basta mai sentirlo dire, ed è tutto
merito vostro che visualizzate, recensite, seguite (un sacco di
persone in più, tra il precedente capitolo e questo!)...Beh,
grazie. Grazie di cuore. Lo ripeto sempre, ma grazie.
Passiamo
alla storia. Mancano due capitoli – entrambi saranno molto più
lunghi di questo, credo –, poi l'epilogo. Non so dirvi quando
aggiornerò, ma state pur certi che non l'abbandono. E non
abbandono voi.
L'epilogo
sarà farcito dalle fan-art (Sì, HO DELLE FAN ART!) di
VeMaV, quindi se mai vi salti su il pallino di disegnare
qualcuno/qualche scena, fatemelo sapere! Potete mandarmi un messaggio
privato, contattarmi su Facebook o Tumblr...Dove desiderate!
E
per coloro che lo hanno già fatto, SIETE LE PERSONE PIU' BELLE
DEL MONDO. <3
La
scena del bacio. Ragazzi scusate se sembro una verginella ma scrivere
quella scena è stato un tentativo di salvarsi dall'epistassi
dopo l'altro. Continuavo a immaginarmi le cose più idiote e
porche del mondo. Ne approfitto per dirvi che posterò una
one-shot il giorno di Natale, per il bene dei vostri cuoricini. Una
fluff. Indovinate su chi <3
'Gesù
Cristo shippa questi due.' [cit.]
Spero
vi sia piaciuto. Ancora una volta, verso la fine della nostra
avventura.
Con
affetto, amore e prosciutto crudo (?),
<3
|
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Capitolo 12 *** XII - Morire soli ***
Vita
e Morte a Venezia
'Ymir!
Ymir!'
Ymir
aprì gli occhi su un mondo azzurro e lacrimoso; ci volle
qualche secondo prima che si rendesse conto di star guardando gli
occhi di Historia da vicino, più vicino di quanto non le fosse
mai capitato.
'Ehilà,
principessa...' sospirò, sfoggiando il sorriso più
forte che le riuscì. La mano di Historia era poggiata sulla
sua guancia, morbida e delicata.
'Stai
bene.' esclamò Historia, la voce rotta dal pianto. 'Stai
bene...'
'Ovvio
che sto bene...ouf!'
Ymir
lasciò che Historia la abbracciasse, cercando di ignorare il
fastidioso dolore al petto che la sua presenza le provocava. Le passò
una mano sui capelli biondi, carezzandola.
La
stretta divenne più forte man mano che Ymir fu in grado di
mettere gli ultimi pezzi della propria memoria insieme. L'immagine di
Historia in piedi sul cadavere di Reiner la colpì bruscamente,
e la presa si fece intensa, dolorosa.
'Ymir,
che succede?'
Ymir
la guardò, lo sguardo disorientato, scuotendo lievemente la
testa. 'Non fare mai più...tu...hai ucciso, Historia.'
'Ti
stava...'
'Historia'
rimarcò, 'Hai ucciso. Non...non farlo mai più.'
Historia
fece per aprire la bocca, ma la richiuse subito, stringendo i denti.
'Non...'
Ymir
scosse la testa. 'Ascoltami. Questa relaz...noi, non abbiamo bisogno
di essere entrambe maledette dall'immagine di un cadavere tra le
mani. Basto io per entrambe.'
Questa
volta, quando Historia le si gettò addosso, l'abbraccio fu
molto più intenso e vero. Ad occhi chiusi, prima di potersene
pentire, Ymir si ritrovò a sussurrare all'orecchio di Historia
la verità sulla notte di quindici anni prima.
La
testa di Historia si mosse sul suo petto. 'Non mi importa chi tu sia,
né quanto vecchia tu sia.'
Ymir
la costrinse a guardarla negli occhi. 'Principessa, rimani così
come sei per tutta la vita.'
Historia
sorrise, triste.
Le
loro labbra si incontrarono e intrecciarono; Ymir sentì il
nodo che le legava il cuore sciogliersi e cadere da qualche parte
fuori dalla sua anima. Sorrise ogni volta che Historia si separava da
lei per una breve pausa, non il suo solito sorriso furbo, ma qualcosa
di dolce e naturale.
Quando
Connie e Sasha arrivarono, stavano ancora baciandosi, appoggiate a
quel muro.
*
'Non
può finire bene.' mormorò Mike, raggiungendo Hanji in
prima fila. 'I ragazzi hanno sentito le dimissioni di Rivaille.
Possiamo contare sull'aiuto di Gunther, Eld, Auruo è ancora
ferito alla mano da quella maledetta freccia...chi altro?'
'Moblit.'
mormorò Hanji, pensierosa. 'Nanaba. Darius. Dita. Manda i
preoccupati ad aiutare i civili che stanno evacuando, e dì
loro di mandarci chiunque abbia abbastanza palle da volerci aiutare.
Il ragazzino e il padre li conosci; descrivili, qualcuno potrebbe
portarci informazioni.'
Mike
annuì e passò alle retrovie per diffondere le
informazioni necessarie. Hanji sudava freddo; sarebbe stato molto più
semplice se Mike fosse stato al comando e lei a bacchettare i
soldati, ma dovevano seguire gli ordini di Rivaille. Gli ordini del
comandante Smith. Persino all'interno della Guardia Cittadina c'erano
delle evidenti discrepanze tra i soldati, e loro erano la branca che
sarebbe morta sotto il comando di Erwin Smith.
La
raggiunse nuovamente, annuendo senza parlare; Hanji si voltò
appena. Erano la metà di quanti avrebbe sperato sarebbero
rimasti. Sorrise, alzando la spada.
'ANDIAMO
A TROVARE QUEL BASTARDO!'
Un
non troppo forte ma entusiasta ruggito replicò al suo urlo.
Afferrò le redini del cavallo e saettò in avanti.
*
La
colpì sull'anca con tutta la forza che aveva in corpo. Lei non
tentò nemmeno di scansarlo; incassò il colpo, cadendo
sulle proprie mani e rimettendosi in piedi con una ruota, agile.
Tolse il mantello che le copriva le spalle, sul volto un'espressione
infastidita.
'Non
hai intenzione di inseguire Jean, vero, Annie? Vuoi farla finita con
me.' la provocò Marco, sorridendo.
Lei
non rispose. Alzò i pugni verso il volto, in attesa.
Marco
conosceva il suo modo di combattere. In teoria, sarebbe rimasta ad
aspettare che lui l'attaccasse fino a poter trarre vantaggio dalla
sua stessa azione. Non aveva idea di cosa sarebbe successo se fosse
rimasto fermo. Non aveva mai visto nessuno che fosse stato tanto
furbo da capire di non dover approfittare dell'aspetto fragile di
Annie.
E
lui, tristemente, non poteva concedersi il lusso di scoprire cosa
sarebbe successo.
Si
avvicinò a lei, mirando al suo volto. Parò, tirandogli
contemporaneamente un calcio sul fianco e facendolo cadere in avanti.
Marco riuscì a parare l'impatto contro il pavimento con
entrambe le mani. I palmi iniziarono a bruciargli.
Girò
su se stesso, evitando un altro calcio, questa volta mirato a
schiacciarlo a terra. Si tirò su, abbassandosi in tempo da
evitare un pugno alla testa.
Annie
si rimise in posizione di difesa. Marco digrignò i denti.
Sentiva di nuovo in bocca il sapore del sangue; il titanio cercava di
riprendersi il suo corpo, assecondando il suo istinto di difendersi,
il suo bisogno di vincere, il suo desiderio di uccidere...
(no!)
Si
prese la testa tra le mani; l'attimo di distrazione fu fatale. Il
calcio di Annie questa volta lo raggiunse, facendolo ruzzolare a tre
metri di distanza. Alzò lo sguardo, ansimando.
Era
un sorriso, quello sul volto di Annie? Era questo che il titanio le
faceva? La faceva sorridere?
Grisha
Jaeger era davvero in grado di fare miracoli.
'Veramente
era quello che avevo intenzione di fare fin dall'inizio.'
Marco
realizzò un secondo troppo tardi; Annie era già partita
verso l'interno della chiesa, veloce, più veloce di quanto lui
sarebbe mai stato. Si lasciava dietro una cortina di vapore che gli
annebbiò la vista.
'JEAN!'
urlò, sputando sangue. Si rialzò in piedi tremante; per
qualche secondo incespicò in direzione di Annie, barcollante a
causa della botta.
Non
vedeva più dall'occhio destro. Il suo corpo non stava
collaborando. Si afferrò il lato destro del volto e lo strinse
fino a sentirlo quasi mallearsi sotto le sue dita.
'Non
adesso, ti prego, non adesso.' mormorò, cercando inutilmente
di rilassarsi. Riaprì l'occhio; la vista era tornata, sfocata,
ma era tornata. Annie stava salendo la scala in legno che portava al
tetto.
(non
può essere... di tutti i posti...)
'No!'
urlò, correndo dietro a Annie con rinnovata determinazione.
Arrivò
alla base delle scale quando Annie era praticamente già alla
fine delle stesse. Con un gesto rapido del polso afferrò un
pugnale dal fianco e glielò lancio contro, mancandole la
caviglia di pochi centimetri. Imprecò a bassa voce, iniziando
a salire le scale.
Arrivata
all'ultimo scalino, lei si voltò e gli restituì la
mossa; non lo colpì, ma il dover schivare il coltello gli fece
perdere l'equilibrio. Rimase aggrappato al piolo con la sola mano
destra, e tentò in ogni modo di ignorare il colpo secco che il
suo osso emise, rompendosi.
Era
solo titanio, no? Quanto ci avrebbe messo a guarire?
(abbastanza
perchè lei lo uccida)
'No,
no, no, NO!'
Si
tirò su a denti stretti, affrontando il resto della scalata
cercando di non pensare al polso rotto.
La
sua mano sinistra si aggrappò al tetto; si diede un'ultima
spinta verso l'alto e uscì all'aria fresca.
E
nel momento in cui alzò gli occhi davanti a sé, seppe
che tutto era perduto.
*
'Signora!
Da questa parte!'
Hanji
fermò il cavallo, piantandogli i piedi sui fianchi per non
farlo impennare e voltandolo verso la voce che l'aveva chiamata.
C'era una ragazza, in piedi su delle macerie, che si sbracciava per
attirare la sua attenzione; scendendo dal cavallo e camminando nella
sua direzione, Hanji si chiese come avesse potuto non notare quella
zazzera di capelli rossi.
'Che
c'è?' chiese bruscamente.
La
ragazza indicò dietro di sé. 'Ho ricevuto le istruzioni
dai vostri soldati di avvisarvi nel caso vedessi il ragazzo che state
cercando. È al porto, insieme a un'altra combriccola di
ragazzini. Stanno cercando di lasciare la città insieme a
un'altra marea di disperati.'
Hanji
strinse gli occhi, sospettosa. 'Come faccio a sapere che non stai
mentendo?'
Senza
aspettare una risposta, Hanji chiamò Moblit e gli consegnò
le redini del suo cavallo. Estrasse la spada.
'Vengo
con te, ragazza. Se Eren Jaeger è dove tu dici che sia, sei
salva. Altrimenti questa potrebbe accidentalmente scivolare sul tuo
collo.' l'espressione folle fu presto sostituita da un sorriso. 'Come
ti chiami, capelli rossi?'
'P-Petra...'
mormorò lei, esitante.
Ci
misero tre minuti ad arrivare al porto, dove centinaia di persone
spingevano verso le barche; dopo altri due minuti, il sottile collo
di Eren Jaeger era sotto il braccio forte di Hanji, che lo stava
stritolando nella sua presa.
'Soffoco!'
si lamentò.
'Ti
conviene non provarci.' sospirò Hanji. 'Ragazzo Jaeger, non ho
il potere di riportarti nel posto da dove sei scappato. E a tal
proposito, i miei complimenti ai tuoi amichetti dinamitardi, a cui
chiederò spiegazioni quando tutto questo sarà finito.
Ti chiedo una pausa e una collaborazione.'
Eren
smise di agitarsi; Hani allentò la presa e lo guardò
negli occhi, scoprendovi una determinazione che prima d'ora non aveva
avuto modo di notare.
'Eren,
tuo padre minaccia di uccidere tutti quelli che ami. Davvero non puoi
aiutarmi?'
'Io...'
Eren mormorò qualcosa riguardo il non ricordare. Hanji annuì;
caratteristica che accomunava gran parte di chiunque fosse venuto a
contatto con Grisha, a quanto pare.
'Non
ti viene in mente nulla? Un qualsiasi indizio su dove tuo padre
avrebbe potuto nascondere la propria arma? Un luogo in cui era solito
recarsi?'
Eren
scosse la testa per qualche secondo, prima di illuminarsi. 'A dire il
vero, un posto del genere ci sarebbe...una chiesa.'
Hanji
sentì il volto deformarsi in un sorriso eccitato. Annuì.
'Perfetto. È un inizio.' afferrò il polso di Eren,
sentendo una scossa d'adrenalina attraversarle il corpo.
Si
voltò verso la ragazza che l'aveva aiutata. 'Ehi, Petra?'
Lei
alzò lo sguardo. 'Sì?'
'Hai
mai considerato la possibilità di arruolarti?'
*
'Che
c'è, Marco?'
Le
mani di Jean strette attorno al collo di Annie. Gli occhi azzurri di
lei, per nulla preoccupati, e un sorriso sbilenco.
Marco
sentì la propria mente svuotarsi ancora prima che Annie
potesse aprire bocca. Chiuse gli occhi istintivamente, alla ricerca
di una protezione presente solo nella sua immaginazione.
Nella
sua mente, dietro i suoi occhi, Jean non era sul bordo del tetto di
una chiesa, non era sul punto di strangolare una ragazza. Nella sua
mente, Jean era un bambino di dieci anni sbalordito di fronte al
pugnale regalatogli dal suo patrigno, un ragazzino che correva via
dalle guardie tendendogli la mano eternamente piena di graffi.
Un
occhio nero curato da un bacio sulla guancia, una camicia strappata
da non mostrare ad Antonio e da cucire di notte, cercando di fare
silenzio.
'Ma...rco...'
Nella
sua mente erano tutti vivi. Nella sua mente, la morte non era mai
arrivata.
Ma
non si può vivere di sogni.
Marco
aprì gli occhi, pronto.
'...uccidi!'
La
speranza che il comando non funzionasse lo colpì per un
attimo; il secondo dopo, però, si sentì trascinato in
un angolo della propria coscienza. Ma c'era qualcosa di diverso,
questa volta. Ne era consapevole.
Ed
era di fronte a Jean, la mano stretta attorno al suo collo, la
mano tesa oltre il bordo del tetto.
Gli
occhi di Jean si spalancarono, terrorizzati. Marco lasciò la
presa.
Non
rimase a guardare Jean cadere; si voltò verso Annie,
ubbidiente. Lei sorrideva.
'Ben
fatto, Mar...'
Marco
estrasse la spada, tracciando un arco dal basso verso l'alto lungo il
petto di Annie. Per un attimo, il suo volto si contrasse in
un'espressione di pura sorpresa, rapidamente sostituita da folle
rabbia.
Cadde
in ginocchio. Il sangue sgorgava rapidamente dallo squarcio sul
petto. Troppo rapidamente per il fattore di guarigione del titanio
modificato. Allungò una mano verso Marco.
'Io
non...cadrò...debole e fragile.'
Parte
di Marco, la sua parte umana, razionale e caritatevole, avrebbe
voluto stringerla, mostrare compassione, dire che comprendeva ciò
che era stata costretta a fare. Purtroppo per Annie, al momento
quella parte di Marco era ritirata da qualche parte dentro lui
stesso, ed era colpa sua.
Strinse
la mano attorno all'elsa e la conficcò nel cuore di Annie;
questa volta, la sorpresa durò molto più a lungo, e
lacrime sincere andarono a formarsi nei suoi occhi azzurri
spalancati.
'Dimmi,
Annie.' sussurrò la Maschera. 'Cosa vuoi di più in
questo momento?'
Annie
non rispose. Non che lui si aspettasse una risposta da parte sua. Era
orgogliosa, altezzosa, più dura di chiunque avesse mai
incontrato. Era diamante, impossibile da spezzare.
Girò
il polso; la lama ruotò nel buco che era stato il cuore di
Annie.
'Annie...muori.'
E
lei lo fece. In silenzio, gli occhi rivolti al cielo. Un singolo
rivoletto di sangue le colava dalla bocca verso il mento. Marco la
adagiò a terra, asciugò il sangue caduto dalla bocca e
le chiuse gli occhi.
Avrebbe
dovuto portare il cadavere via dal tetto, o Annie sarebbe diventata
presto cibo per corvi.
Ma
Marco non era tanto caritatevole e umano. Non più.
*
Quando
Marco era corso verso di lui e lo aveva afferrato per il collo e lo
aveva gettato giù dal tetto, Jean aveva capito che era finita.
Per sempre. Aveva chiuso gli occhi e si era abbandonato alla gravità.
Era
già morto una volta per mano di Marco. Non aveva paura.
Ma
poi era arrivata l'acqua. Fredda, glaciale, più dura del
cemento.
Era
andato a fondo per cinque metri buoni prima di rendersi conto di non
essere morto – il dolore non era poi tanto diverso. Poi però
la logica aveva avuto la meglio, e Jean, nuotatore provetto, si era
affrettato a risalire in superficie in cerca di aria.
Era
riemerso annaspando, nel panico; poche bracciate lo avevano
ricondotto sulla banchina, su cui si era gettato, bagnato, stremato e
quasi impossibilitato a respirare dal tuffo imprevisto e dalla paura
provata. Perchè, sì, aveva avuto paura, a dispetto di
ciò che aveva pensato cadendo.
E
il pensiero che Marco non lo avesse fatto apposta e non fosse
consapevole della presenza di un canale sotto la chiesa lo aveva
colpito più duramente della massa d'acqua in cui era
atterrato.
Aveva
scacciato via il pensiero, spostando le proprie preoccupazioni su ciò
che ne era stato del suo...come avrebbe dovuto chiamarlo, dopo quel
bacio? Amico? Compagno? Fratello? Amante?
(quasi
assassino?)
(non
t'azzardare.)
Si
era rialzato in piedi, le gambe non esattamente stabili e il cuore
ancora in tachicardia a causa della caduta, quando un nitrito lo
aveva costretto a voltarsi. A pochi metri da lui c'era la tizia pazza
armata di balestra che l'aveva arrestato. Solo che non era armata di
balestra, e c'era Eren con lei.
(Eren?!)
Improvvisamente
ristabilitosi, Jean era corso nella direzione del caporale e di
Jaeger, estraendo la daga dal fianco con un urlo indemoniato. Eren si
era voltato, spaventato.
La
direzione presa dalla sua lama era stata deviata da un'altra lama,
appartenente al caporale Zoe. Jean era stato sbalzato lievemente
indietro.
'Sei
impazzito, ragazzino?!'
'Tu!'
aveva urlato, indicando Eren con la punta della daga. 'Jaeger.
Pagherai per tuo padre. Assassino. Assassino!'
Eren
era scattato in avanti, arrabbiato. 'Ma che diavolo stai dicendo?'
'Non
voglio sentire scuse!'
Era
corso nuovamente verso di lei, ed era stato nuovamente sbalzato via
dalla difesa di Hanji che, a questo punto, doveva aver compreso di
dover intervenire. Gli era andata incontro, puntandogli la lama
contro il volto.
'Eren
Jaeger non centra nulla con ciò che ha fatto suo padre. È
una vittima tanto quanto te, Kirschtein.'
'Una
vittima tanto quanto me?! Ehi, Eren! Tuo padre ha ricucito il tuo
migliore amico e ha fatto in modo che ammazzasse? Perchè
l'ultima volta che ho visto Armin mi sembrava stesse benone!'
'...cosa?'
Jean
si ammutolì; gli occhi di Eren erano spalancati, pieni di
paura. Gli ci vollero due secondi buoni per ricordarsi che all'epoca
della morte di Marco Eren aveva dieci anni, e altri due secondi per
capire che no, non centrava davvero nulla con ciò che suo
padre aveva fatto.
'Jean.'
mormorò Eren, la voce resa acuta dal pianto. 'Di chi stai
parlando? Che è successo?'
Zoe
si voltò verso di lui. 'Capisci cosa intendo? Non dovrebbe
nemmeno essere qui, ma è l'unico che conosce il padre
abbastanza bene da condurci alla sua arma.'
'L'arma.'
sussurrò Jean, voltandosi. La Chiesa del Redentore era a pochi
metri da loro. 'Marco.'
Afferrò
la balestra dal fianco del cavallo del Caporale e si mise a correre
in direzione del portone della chiesa.
*
C'erano
due sole cose al mondo che spaventavano davvero Marco.
Una
era l'idea di Jean morto. L'altra gli si parò davanti quando
ridiscese la scala a pioli della chiesa, atterrando con un piccolo
salto sull'altare della chiesa.
Grisha
Jaeger non stava pregando. Per lui esisteva un solo dio: se stesso.
Sotto
il suo sguardo freddo, Marco sentì le poche forze rimaste
scivolare via dal suo corpo; si gettò in ginocchio,
arrendevole, orripilato. Era arrivato così lontano. Mancava
così poco.
Sarebbe
bastato che morisse, ancora una volta, solo un'altra volta.
'Mio
figlio.' sorrise Grisha, orgoglioso. 'La mia opera migliore.'
'Non
sono opera tua.' si ritrovò a sussurrare. 'E non lo erano
neanche loro.'
'Ma
certo che sì, Marco. Perchè negare l'evidenza? Ti ho
riportato in vita, ho fatto lo stesso con loro.'
Il
sorriso dolce di Grisha fu rapidamente sostituito da un'espressione
crudele.
'Perchè
negare l'evidenza?'
La
sua voce rimbombò per tutta la chiesa, potente. Fu quando
l'ultimo eco fu sparito che Marco si rese conto di avere le mani
sulle orecchie, e di essersi ritirato in un angolo come l'ultimo dei
codardi.
E
ancora una volta, come anni prima, Grisha Jaeger lo sovrastava.
'Possiamo
ancora farcela.' sorrideva, di nuovo tranquillo. 'Dammi il braccio,
Marco. Il braccio in titanio.'
'No.
No, no, no...ti prego...'
Un
sorriso grottesco deformò il volto dell'uomo. 'Sì.
Pregami.'
Marco
non vide calare la spada, non sentì dolore quando quella
trafisse la carne. Ebbe solo la fugace visione del suo braccio destro
sul pavimento della chiesa, poi tra le mani di Grisha, poi gettato
nell'armadietto in cui il prete conversava le ostie consacrate.
L'attimo
dopo Grisha era di nuovo di fianco a lui, le mani strette attorno ai
suoi capelli.
'Non
è fantastico?' rise. 'Ho perso, eppure ho vinto. Questo posto
esploderà. Esploderà insieme al resto di Venezia.
Moriremo.'
Una
prima esplosione scosse le fondamenta della chiesa. Marco guardò
Grisha, implorante.
'Fallo
smettere. Ti prego. Ti prego.'
Grisha
si alzò in piedi, allargando le braccia.
'Pregami.
Pregami.'
Una
macchia di sangue comparve sul suo petto. Marco la guardò,
sorpreso.
Altre
due macchie, altri due piccoli sbalzi in avanti. Grisha Jaeger cadde
in ginocchio, rivelando a Marco il proprio assassino.
Jean.
Bagnato, tremante, il volto sconvolto dall'ira, stava fermo in mezzo
alla navata, balestra alla mano. Camminò in avanti a stento,
incurante dalle scosse causate dalle esplosioni. Non degnò il
cadavere di Grisha di un'occhiata, limitandosi a calciarlo via dalla
propria strada.
'Sei
vivo.' mormorarono quasi all'unisono. Jean sorrise, piegandosi verso
Marco e sollevandolo a fatica.
'Ti
porto fuori di qui.' affermò Jean, tranquillo. Marco scosse la
testa.
'Sono
troppo pesante. Non farai in tempo.'
Come
a sottolineare le sue parole, le fiamme iniziarono a propagarsi lungo
tutta la navata, veraci. Jean grugnì un dissenso, sistemando
meglio Marco tra le sue braccia.
'Ti
porto fuori di qui.' ripetè.
Marco
non potè che rimanere a guardarlo, semicosciente, ancora
dolorante per il braccio perduto.
'Sei
un idiota, Jean.'
Lui
sorrise. Una fiamma gli colpì il braccio, ma sembrò non
farci caso.
'Ti
amo.'
'Anche
io.'
Erano
a metà navata. Con la coda dell'occhio, Marco vide la
struttura dell'altare crollare su se stessa.
'Dovresti
uccidermi.' mormorò.
'Ormai
ha usato l'arma. Non servirebbe più a nulla. Sei libero di
vivere.'
'Ho
ucciso Annie.'
Jean
non rispose; si fermò, in preda a un attacco di tosse.
Fu
in quel momento che una lingua di fuoco si propagò attraverso
il pavimento, stringendosi attorno alla sua gamba. Jean cadde in
ginocchio. Mancavano meno di due metri all'uscita.
'...stanco.'
tossì. Guardò Marco negli occhi.
'No.'
sussurrò, improvvisamente preoccupato dalla luce folle negli
occhi ambrati di Jean. 'No.'
Con
uno sforzo che rasentava il disumano, Jean alzò Marco e lo
lanciò lontano da sé, verso l'uscita della chiesa.
Marco rotolò via, colpendo più volte la testa contro il
cemento duro della strada.
Non
riusciva ad alzarsi. Non riusciva a muoversi. Non riusciva a fare
niente.
Piegò
la testa, rivolgendola verso l'interno della chiesa. Il fuoco
riempiva il portone. Sembrava la bocca dell'inferno.
E
in mezzo a quell'inferno c'era Jean, sdraiato a terra,
impossibilitato ad alzarsi dalla gamba ustionata.
Il
suo nome scivolò attraverso le labbra di Marco, debole. Come
se avesse potuto sentirlo, Jean alzò la testa nella sua
direzione.
C'erano
parole non dette, tra loro. Pensieri felici. Il fantasma degli anni
persi.
'Ti
amo' sillabò Marco, nuovamente.
Jean
sorrise.
L'attimo
dopo la chiesa crollò su se stessa, seppellendolo sotto fiamme
e macerie.
'JEAAAAAAAAAN!'
Ci
vediamo all'epilogo.
-
Joice
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Capitolo 13 *** XIII - Epilogo - Ancora Qui ***
AUTORI E IMMAGINI COMPLETE
1, da Mokona. Tumblr e EFP. (Capolavoro. GRAZIE.)
2, da Muffin. Tumblr. Ne sta realizzando una versione completa CINQUANTA PER SETTANTA!
3 e 4, da TimCampi, Tumblr, DeviantArt e Efp. Andate a leggere quei diamanti delle sue storie e godetevi quelle perle dei suoi disegni. E leggete il suo libro, se potete. Non ve ne pentirete.
5, Marco disegnato da me. Senza vergogna, proprio.
Il capolavoro senza tempo disegnato da Giulia, aka LifYeah, che ha disegnato quest'opera d'arte e di cui pubblicizzerei anche l'ANIMA se ne conoscessi l'indirizzo. Per ora, accontentatevi del DeviantArt, Tumblr, secondo Tumblr dedicato alle proprie opere d'arte. <3
Non
sono brava con le parole - ironia della sorte -, ma ci proverò.
Ciao,
fidato lettore.
Oddei,
non ho idea se tu sia o meno un fidato lettore; magari sei capitato
qui per caso.
In
qualunque caso, ti prego, rimani. Rimani almeno perchè io
abbia il tempo di dirti grazie. Di dirti che mi dispiace. Di dirti
che ti voglio bene per aver letto – che te ne vorrò
sempre.
Mi
avete resa migliore. Mi avete fatto tornare la voglia di scrivere.
Vi
voglio bene.
Grazie
a Giulia – soprattutto a Giulia, creatrice di questo mini mini
mini mini micro fandom -, a Monica, a Silvia, a Muffin, Mattie,
Mokona, Elena, Zazzy, ANCORA a Giulia (...ho sentito bene? COSPLAY?),
a tutti gli altri. A tutti coloro che hanno creduto in me e che hanno
fatto sì che provassi sulla mia pelle cosa vuoldire far
provare dei sentimenti a qualcuno.
È
tempo del gran finale. Delle ultime rivelazioni. Degli ultimi dolori.
Grazie.
Per Marco. Per Jean. Per Ymir. Per la Maschera.
Per
tutti gli altri.
Per
Venezia.
Vita
e Morte a Venezia
Nel caso vogliate sentire ciò che ho ascoltato scrivendo questo finale.
Il
cappuccio alzato sul volto, svoltò l'angolo passeggiando
tranquillo sotto i portici.
Mancavano
pochi metri a Ponte Sant'Angelo.
*
In
quei giorni, non era comune che a Venezia arrivassero visitatori. La
città era ancora debole, ferita, e solo recentemente i
cittadini avevano finito di spostare via dalle strade principali le
macerie causate dalle esplosioni di cinque mesi prima.
Ma
nessuno fece domande vedendo l'uomo camminare attraverso la Giudecca;
il suo non era il volto di uno sconosciuto. Alcuni marinai e
commercianti azzardono addirittura un saluto nella sua direzione, e
un sorriso. Entrambi vennero restituiti cordialmente.
L'uomo
si diresse verso la locanda dello Zudeo; era sceso dalla nave da
poco, e sentiva il bisogno di bere. La sua meta non sarebbe
scappata.
Una
graziosa ragazzina, armata di ramazza, sostava di fronte alla
locanda, impegnata a giocherellare con un gatto nero. Vedendolo
arrivare, il gatto scappò via. La ragazza si voltò.
'Un
soldo per i pensieri di questa belle giovane.' sorrise l'uomo.
Lei
alzò un sopracciglio. 'Sarebbe un soldo sprecato. Siete
approdato da poco?'
'Torno
ora dalla bella Istanbul, dopo una breve sosta a Roma per accertarmi
della salute di un caro amico. Come lo avete capito?'
Il
volto della ragazza si illuminò quando sorrise. 'Ho occhio per
queste cose. Profumate di sale e d'avventura.' si alzò,
spolverando il grembiale. 'Conosco solo un'altra persona che profumi
d'avventura, ma lei non sa di sale. Lei sa dei tetti di Venezia. Di
sudore e sacrificio. Siete qui per vedere Ymir, non è così?'
'Un
altro sì.' sorrise lui, compiaciuto. 'E voi sareste?'
La
ragazza aprì la porta della locanda. 'Historia.' arricciò
il naso in un modo che gli ricordò anche troppo la sua amica
Volpe. 'La sua amata.' aggiunse, con una punta d'orgoglio. 'E voi siete Antonio.'
'Di
nuovo corretto.'
Historia
entrò nella locanda, seguita da Antonio. Ymir stava dietro al
bancone insieme a un grosso uomo, impegnato a tagliare bruschette.
Avvicinandosi, Antonio si rese conto che il coltello le scivolava fin
troppo spesso dalle mani, risultando in tagli e imprecazioni sempre
più frequenti. Sorrise. Non sembrava essere passato un giorno
da quando l'aveva conosciuta, sfrontata e orgogliosa e terribilmente
sola.
Alzò
il volto verso di loro, succhiando il dito ferito e rivolgendo un
sorriso a Historia.
No,
decise Antonio; almeno la solitudine era scomparsa. Le rivolse un
inchino divertito.
'Devo
chiamarti dama?'
'Non
azzardarti, vecchio.' Ymir conficcò il coltello nel legno del
bancone e vi girò attorno, raggiungendolo per un abbraccio
rispettoso e qualche pacca sulla spalla.
'Come
va la vita?' chiese Antonio, sorridente.
Ymir
strinse un braccio attorno al fianco di Historia, affondandole il
muso nei capelli. La ragazza sorrise. 'Tranquilla. Noiosa. Stiamo
mettendo da parte il denaro necessario a partire. Per andare dove,
non lo sappiamo.' si incupinì. 'Sei tornato per...?'
Antonio
annuì, serio. Il sorriso sparì rapido dal volto di
Historia.
'Ci
siamo scritti per tutto questo tempo. Ho fatto il prima possibile, ma
affari mi hanno trattenuto un po' a Roma. Ve ne parlerò nel
dettaglio più avanti. Nel frattempo, vi prego, servitemi del
buon vino. Ho bisogno di recuperare le forze prima di affrontare un
incubo durato cinque anni.'
*
Scoprire
che c'era ancora qualcuno che trasportasse le persone in gondola fu
una piacevole sorpresa. Il ragazzo che Antonio fermò aveva
un'aria vagamente familiare, ma era troppo giovane per essere uno
qualsiasi dei gondolieri di cinque anni prima. Gli chiese di
trasportarlo a Dorsoduro.
Durante
la traversata, il ragazzo gli lanciò occhiate sempre più
frequenti e inquisitorie.
'Tutto
bene?' chiese Antonio.
'Io...sì.
Tutto a posto.' rispose, calando il cappello sul volto.
'Non
sei un po' giovane per fare il gondoliere?'
Il
ragazzo sorrise. 'Non siete un po' vecchio per andarvene in giro
senza rischiare di spaccarvi l'osso del collo?'
Antonio
si strinse nelle spalle, poi scoppiò a ridere. 'Ah! Quanto mi
è mancata questa città! Voi giovani peggiorate di
generazione in generazione. Ma davvero, cosa ti spinge a fare questo
lavoro? Alla tua età io non facevo altro che ubriacarmi e fare
a botte.'
'Sbagliato.
Alla mia età sei scappato dalla casa di tuo padre per
intraprendere una vita da trafficante di merci.'
Antonio
rimase in silenzio, esaminando quel volto abbronzato dall'esposizione
al sole. Il ragazzo non smise di remare.
'Faccio
questo.' mormorò a un certo punto. 'Per sposare la donna che
amo e vivere con lei. Una ragazza con gli occhi color tramonto e i
capelli come corteccia d'albero. E non riesco a rivolgere queste
parole a lei perchè sono l'ultimo degli imbranati.'
'Non
lo sei.' rispose Antonio. 'Sei un uomo.' e poi, dopo qualche attimo:
'Tu e Sasha avete la mia benedizione.'
Connie
sorrise, tirando una corda contro un piolo e avvicinandosi alla
terraferma.
*
Antonio
passò di fronte alla libreria dell'anziano Arlert, ancora vivo
e vegeto nonostante il grande spavento provato, lanciando un'occhiata
distratta al ragazzo biondo seduto lì fuori intento a divorare
un libro e una mela.
Passò
anche davanti allo studio del dottor Jaeger, trattenendo il fiato e
osservando i resti della casa rasa al suolo dal terremoto e dalle
fiamme.
'Mi
scusi.' chiese alle guardie che passarono in quel momento. 'Che...ne
è stato degli abitanti di questa casa?'
Una
delle guardie si voltò; era una ragazza con corti capelli
rossi. Guardò la casa, poi sorrise triste.
'I
ragazzi che vi abitavano sono andati via dopo la morte del padre.
Qualcosa riguardo a Bologna...o era Firenze? Auruo, era Firenze?'
Auruo
si massaggiò la mano destra. 'Informazioni confidenziali.
Andiamo, Petra, o il Comandante Rivaille ci farà pulire quel
suo maledetto ufficio. Un'altra volta.' grugnì, per poi
proseguire per la sua strada.
Antonio
scosse la testa, riflettendo su come certe cose cambino troppo
rapidamente.
Ed
eccola lì, la cosa che non era cambiata; il piccolo vicolo
quasi invisibile all'occhio che portava nella casa che aveva abitato
per anni. Lo percorse con calma, misurando i passi, nella speranza
che lui non fosse lì ad aspettarlo.
Ma
lui c'era. Seduto di spalle di fronte al portone d'ingresso, proprio
come aveva detto in quell'ultima lettera non scritta nella sua
grafia. Si voltò verso Antonio, silenzioso, triste.
'Padre.'
sussurrò Marco.
'Hai
ancora la forza di chiamare padre l'uomo che ti ha dimenticato per
cinque anni.' rispose Antonio, commosso. 'Quanto è grande il
tuo cuore, figliolo?'
Marco
si alzò per andargli incontro e stringerlo in un doloroso
abbraccio silenzioso. Antonio lo strinse a sé, quasi in
lacrime.
'Mio
figlio.' lo scostò, guardando il volto diviso a metà.
'Che ti hanno fatto? Come ho potuto dimenticare?'
'Non
fa nulla.' un piccolo sorriso comparve sul volto di Marco mentre
scioglieva l'abbraccio. 'Non fa nulla.' ripetè a se stesso.
Antonio
fece un cenno con la testa in direzione della piccola banchina. Si
sedettero entrambi con le gambe penzoloni verso l'acqua.
'Ho
ricevuto la tua ultima lettera.' spiegò Antonio. 'So che ti è
impossibile scrivere. Chi ti aiuta?'
Marco
guardò il moncherino grigio per qualche secondo, prima di
rispondere. 'Armin. Armin Arlert. Siamo...siamo buoni amici.'
'Capisco.'
annuì Antonio.
Dopodichè
iniziarono a parlare, e a parlare degli argomenti più
disparati. L'incontro con Ymir e Historia. Con Connie. Sasha. Il
destino toccato a Eren e Mikasa. Marco spiegava e Antonio ascoltava,
bevendo ogni sua parola e rispondendo come solo un padre può
fare.
'Marco.'
iniziò a un certo punto. 'Tu sai che faccio parte di una
confraternita i cui membri sono sparsi su tutta la penisola, non è
così?'
Marco
annuì.
'Alcuni
di loro si sono resi utili dopo il disastro di cinque mesi fa,
aiutando i civili e salvando vite, e me lo hanno fatto sapere. Un
caporale in buoni rapporti con la mia confraternita ha fatto sì
di passarci sotto banco tutte le scoperte che siamo riusciti a
sottrarre dal laboratorio di Grisha Jaeger prima che questo fosse
raso al suolo dalle fiamme.'
Frugò
nella tasca interna del mantello sotto lo sguardo vigile di Marco, e
ne estrasse una fiala contenente un liquido verde. Marco si ritrasse
istantaneamente.
'Vedo
che ricordi la piccola bastarda infame.' sorrise Antonio. 'La
principale responsabile di tutti i nostri guai, più del
titanio modificato.'
'Perchè
l'avete portata?' esclamò Marco, stridulo.
Antonio
sospirò. 'Mi guardi con occhi che non sono tuoi, Marco. So
riconoscere gli occhi di mio figlio, e questi sono quelli di un uomo
che ha di mio figlio solo l'aspetto. So cosa ti è successo.
Non lo hai detto una sola volta nelle tue lettere, ma non sei l'unico
con cui ho mantenuto corrispondenza.'
Marco
non rispose, lo sguardo rivolto all'acqua.
'Marco.'
continuò Antonio. 'Vuoi parlarmi di Jean?'
Un
singhiozzò salì dalla gola di Marco. Le spalle
iniziarono a tremare, e la testa si abbassò contro il suo
petto. Non disse nulla. Pianse soltanto.
'Marco...'
insistè Antonio.
'È
morto!' urlò Marco. 'Morto per salvare me...'
Antonio
scosse la testa. 'No, Marco, no...non per salvare te.'
'Sì.
È morto e sorrideva e non ho potuto fare niente. Non ho potuto
fare niente...'
Le
parole si trasformarono in balbettii e singulti confusi. Antonio
strinse un braccio attorno alle sue spalle.
'Marco,
io so quanto possa essere duro perdere qualcuno che si ama. Ti offro
una scelta.'
Gli
porse la fiala.
'La
decisione sta a te.'
Marco
guardò il liquido verde con occhi pieni di paura.
*
Ponte
Sant'Angelo si apriva davanti ai suoi occhi. Marco alzò la
testa, osservando le decine di persone che attraversavano il ponte.
Guardò
con attenzione, nella testa gli echi della conversazione avuta con
Antonio settimane prima.
*
'No!'
urlò Marco, spingendo via la mano del padre. 'Siete impazzito?
Che vi hanno fatto a Istanbul, padre?'
'Per
il tuo bene, Marco, prendi la fiala.'
'No.'
sussurrò. 'No.' scosse la testa, deciso. 'Non posso
dimenticare Jean. Non posso. Non mi aspetto che capiate.'
'L'ultima
possibilità, Marco. Poi spedirò questa fiala in fondo
alla laguna.
Marco
si protese in avanti, afferrò la fiala con la mano sinistra e
la lanciò verso il canale.
Quando
si voltò verso Antonio, sul volto del padre c'era un sorriso
pieno, orgoglioso.
'Marco.'
esclamò. 'Devo dirti una cosa...'
*
C'erano
troppe persone. Marco alzò il cappuccio, spaventato all'idea
che potessero vederlo.
Il
cuore. Sentiva il cuore esplodergli.
('durante
gli scavi per estrarre i corpi delle macerie, mi ha scritto un mio
consanguineo della confraternita, hanno trovato qualcosa di molto
particolare. Il corpo di un ragazzo, apparentemente morto, mantenuto
in vita da qualcosa all'interno del suo sangue')
Voltati
a destra.
('il
ragazzo era in condizioni disastrose. Lo hanno trasportato,
identificato grazie all'aiuto del caporale Zoe')
Ancora
a destra.
('abbiamo
convenuto che sarebbe stato meglio se fosse sparito dalla
circolazione per un po'. Il tempo di rimettersi. Il tempo perchè
la guardia cittadina veneziana potesse dimenticarsi della sua
esistenza')
Ora
a sinistra.
('lo
abbiamo trasportato a Roma. Si è svegliato dal coma qualche
giorno fa.')
Diritto
davanti a te.
Eccolo
lì.
('padre,
non capisco... cosa state dicendo?')
(il
sorriso sul volto di Antonio.)
('Hai
superato la prova, Marco. Jean è sopravvissuto grazie al
titanio modificato nel suo sangue. È vivo e ti sta aspettando
a Roma')
Gli
corse incontro, non badando al cappuccio scivolatogli indietro, non
badando agli sguardi delle persone, dimenticandosi persino di
esistere.
Cadde
nelle sue braccia aperte, rifugiandosi in quel calore, toccandolo e
tirandolo a se prepotentemente, come un bambino possessivo.
Jean.
Jean. Jean.
La
sua testa sulla spalla. Le sue mani attorno alla schiena. Jean. Jean
e il suo profumo. Jean e il suo debole sorriso idiota.
E
all'improvviso sentì di avere di nuovo undici anni e si
protese verso di lui per baciarlo con forza.
Per
sentire che era vivo.
Per
sapere che era suo.
'Quella
cosa della fiala per farmi dimenticare di te.' sussurrò.
'Tutta una bufala?'
'Ovviamente.'
'Sei
un idiota.'
'Mmm-mmm.'
'Ti
amo.' fu l'unica cosa che fu in grado di dire, tra le lacrime. 'Ti
amo, ti prego non lasciarmi.'
'Mai
più.' rispose Jean, e Marco potè sentire il sorriso che
gli illuminava il volto sulle sue labbra. Mai, mai più.
FINE
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