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Come poco tempo fa, ancora una
volta una nota dell’autore insolitamente posta all’inizio di un capitolo
anziché alla fine.
A quanto pare ci ho preso gusto
con questi missingmoments,
queste storie brevi dedicate a personaggi che hanno avuto o hanno tuttora un
peso secondario all’interno della trama principale di TalesOf Celestis, ma le cui vite sono
importanti ciò non di meno ed aiutano a capire meglio quella società magico-tecnologica venutasi a creare su Celestis.
Il mondo che ho creato si presta
bene a questo tipo di storie brevi, nella fattispecie è perfetto per dare vita
a racconti che possono per i vari contest ai quali mi diletto a prendere parte.
Nello specifico questa storia
breve (che sarà divisa probabilmente in 4 parti) partecipa a due diversi
concorsi, ovvero Ritorno all’Infanzia,
indetto da Frantasy94, e Il Contest degli Ossimori, di Higurashishinko.
Come accaduto nel caso di I Love You,
Kyrador, questa storia è fondamentalmente distaccata dalle vicende che
appartengono alla trama principale, il che non rende necessario aver letto
l’originale TalesOf
Celestis per poterla leggere e comprendere.
Ecco, ho detto tutto.
Spero che vi piaccia.
A presto!^_^
Carlos Olivera
PARTE I
Sedeva da sola, in quella stanza di cui ormai conosceva ogni
angolo, ogni anfratto.
Anche se il titolo non era
ancora suo, l’avevano fatta accomodare nella stanza della quale, secondo molti,
si sarebbe rimpossessata prima di sera.
Non c’era stato bisogno di
sfrattare il suo avversario, visto che le zone assegnate a uomini e donne erano
comunque separate, ed ognuna delle due aveva la propria Stanza dei Campioni, ma
ovviamente a Warewolf la cosa non doveva fare molto
piacere.
Alla sua destra, l’armadietto,
dove per tanti anni aveva riposto i suoi oggetti prima di scendere in campo, e
subito accanto il rubinetto, per sciacquare via l’ansia alla partenza e lavare
il sudore al ritorno. A sinistra un simulatore, poco più di una lattina, in cui
provare le ultime combinazioni per accertarne l’efficacia. Alle sue spalle, la
Parete della Gloria, dove allineati l’una accanto all’altra capeggiavano le
gigantografie dei campionidegli ultimi
dieci anni, trofei al cielo e medaglie al collo.
C’era anche lei.
Il chandra era tutto questo.
Era sport sì, ma anche
spettacolo, esibizionismo e tanti, tanti soldi.
Non c’era sport in tutta
Celestis che avesse pari successo.
Chiunque entrava in una machina,
anche chi la magia non la possedeva di suo, per un istante poteva diventare
tutto ciò che aveva sempre sognato; poteva essere un prode guerriero, un abile
stregone, un promettente arciere, o un selvaggio lottatore.
Le fantasie che ognuno portava
nell’anima, il chandra le rendeva reali. E per chi vinceva, per chi arrivava
lassù in cima, c’erano fama, gloria e ricchezze.
Tutte cose che lei aveva
saggiato, dopo averle cercato più a lungo di quanto volesse ricordare, e che,
indipendentemente dall’esito di quell’incontro, sarebbero tornate a lei, se
solo lo avesse voluto.
Ma non sapeva se lo voleva.
Erano successe troppe cose.
Troppi eventi si erano accavallati negli ultimi mesi, troppe certezze erano
venute meno, troppe illusioni si erano sgretolate.
Non sapeva neppure per quale motivo
si trovasse lì. Perché avesse accettato la sfida che il campione, proprio lui,
le aveva lanciato.
Poteva scomparire, eclissarsi,
isolarsi dal mondo proprio nel cuore della più grande città del pianeta, ma lei
restava pur sempre Octavia.
Si chiamava Helena, ma per il
mondo era quello il suo nome.
Octavia. La Rosa di Kyrador.
La stampa aveva creato quel nome,
e la folla lo aveva fatto suo. Lo sentiva anche in quel momento, invocato senza
sosta dal piano di sopra, come un urlo di guerra di un esercito pronto alla
carica.
Una voce parve riecheggiare alle
sue spalle, misteriosa ma, al tempo stesso, famigliare, quasi amichevole.
«Li senti? Chiamano il tuo
nome.»
«Chiamano Octavia.»
«E non è forse la stessa cosa?»
«Octavia è solo una parte di
me.»
«Una parte della quale ormai non
ti puoi più liberare.»
«Una parte di cui farei
volentieri a meno.»
«Eppure, mi pare che un tempo
non desiderassi altro.»
«Già. Hai ragione. C’è stato un
tempo in cui non desideravo altro che questo.»
Helena Loyde era nata in un piccolo appartamento di un grande
complesso popolare nel settimo distretto.
Non
erano le stradacce dell’ottavo o del nono distretto, dove si poteva venire
assaliti per pochi kylis nel portafoglio, ma anche lì
la vita non era facile.
Suo
padre faceva il ferroviere, un mestiere abbastanza decoroso che garantiva alla
sua famiglia di che vivere, ma che lo costringeva a lunghi periodi lontano da
casa, sballottato da una corsa all’altra in giro per tutto il continente. Sua
madre lavorava occasionalmente in un centro per anziani, ma il più delle volte
se ne restava chiusa in casa, troppo persa dietro a sogni di gloria mai
realizzati per prestare attenzione a quanto accadeva attorno a lei.
I
primi anni, sotto il profilo dell’affetto, erano stati difficili, con un padre
gentile ma perennemente sempre assente e una madre che, già distratta di suo,
spesso la trascurava per il lavoro, e così capitava spesso che a prendersi cura
di lei fosse la famiglia Warner, dirimpettaia della famiglia Loyde.
Anche
i Warner avevano una figlia, Luna, della sua stessa età, e da che erano nate
erano più i giorni che avevano trascorso insieme di quelli spesi l’una lontana
dall’altra.
Si
consideravano in sorelle, e avevano nel chandra un interesse comune.
Come
molti altri bambini della loro età, fin da bambine avevano preso a seguire con
passione le sfide trasmesse alla televisione, rimanendo affascinate da ciò che
il chandra permetteva di fare a chiunque entrasse in una machina.
Combattere
sfide entusiasmanti, misurarsi in scontri all’ultimo sangue dai mirabolanti
effetti speciali, sprigionare poteri e abilità che persino il mago più
talentuoso nella realtà poteva solo sognarsi, erano tutte cose che accendevano
non solo la loro fantasia, ma più in generale quella di chiunque seguisse o praticasse
lo sport più popolare e seguito di Celestis.
Ma
con il passare degli anni, non fu più solo quello ad entusiasmarle.
Più
le due bambine crescevano, più agli occhi di entrambe, e di Helena in
particolare, diveniva chiaro come il chandra fosse ben più che un semplice
sport. Vedere tutti quegli atleti ricchi, famosi e perennemente al centro
dell’attenzione osannati dalle folle fece nascere in loro il comune il
desiderio di emergere, di ritagliarsi una fetta di quel mondo dorato che
potevano intravedere, in lontananza, tutti i giorni, dai balconi delle loro
semplici case.
Da
laggiù, i palazzi del centro sembravano un paradiso, un eremo di perfezione
dove era possibile conoscere la vera felicità, la stessa che aveva spinto i
loro antenati a giungere fin lì dalla Terra.
Tuttavia,
sia lei che Luna sapevano di avere un grande handicap; non sapevano usare la
magia.
In
un mondo come il loro, dove tutto ruotava in funzione della magia, appartenere
a quella ristretta minoranza di individui che sapevano servirsene senza
l’apporto di qualsivoglia strumento costituiva il primo e principale mezzo con
cui raggiungere il cuore di Kyrador, poiché solo a chi dimostrava di poter
contribuire alla grandezza e al benessere del mondo era concesso di entrare nel
giardino proibito.
La
magia era un dono con cui ci si nasceva, e per chi non la possedeva la strada
era tutta in salita.
Ma
non senza speranza.
Occorreva
impegnarsi, e molto, ma la storia gloriosa di Kyrador era piena di persone che,
pur non essendo maghi, avevano conquistato tutto quello che Helena e Luna
sognavano ogni giorno di riuscire un giorno ad ottenere.
Persino
molti chandristi tra i più amati conosciuti in tutto
il pianeta erano persone che come loro provenivano da realtà difficili,
estranee al mondo di cui un giorno erano riuscite a diventare parte. Era la
prova che non era impossibile, e che anche loro potevano avere la loro
occasione, se solo l’avessero cercata.
Helena,
ogni giorno, passava ore ad osservare quei palazzi, quei fili d’erba
bianchissimi che emergevano dalla parte più ricca e prospera di quel grande
giardino chiamato Kyrador, affacciata dal suo balcone. E spesso Luna era lì,
accanto a lei.
«Ce
la faremo, Helena.» disse un giorno Luna, quando avevano appena undici anni «Ce
ne andremo di qui, e avremo un futuro grandioso. Avremo fama e gloria.»
«Secondo
te è davvero possibile?» domandò Helena, che pur cercando di dimostrare il
contrario nel profondo del cuore non credeva sul serio che una cosa del genere
fosse alla loro portata
«Senza
dubbio. Questa non sarà la nostra vita. Diventeremo ricche e famose, e avremo
tutto quello che vogliamo.»
«Niente male per una ragazzina
delle scuole medie.»
«Allora ero fatta così. Se mi
dicevi che una cosa era impossibile da farsi, non mi fermavo fino a che non riuscivo
a dimostrare il contrario.
Del resto, quando vieni al mondo
in un luogo con così poche prospettive e senza nessunacertezza per il futuro, vuoi credere che là
fuori ci sia sempre qualcosa di meglio.»
«E lo hai trovato qualcosa di
meglio?»
«Immagino di sì.»
A causa delle
ristrettezze economiche della sua famiglia, Helena non aveva potuto permettersi
di ricevere regali di compleanno simili a quelli che venivano fatti alla
maggior parte delle ragazze della sua età, ma tenuto conto anche della buona
media scolastica suo padre, per i tredici anni, una volta tanto aveva voluto
regalarle qualcosa di speciale.
Così,
quello stesso giorno, lei e Luna erano salite in macchina per una destinazione
sconosciuta, e grande era stato il loro stupore quando si erano viste comparire
davanti l’ingresso della Magic Arena, il tempio
mondiale del chandra.
Sorvolando
sul fatto di averli ricevuti in regalo da un collega che era dovuto partire
all’improvviso per un lutto in famiglia, il signor Loyde
aveva messo le mani su tre biglietti per la finale del campionato mondiale
individuale professionistico, che si sarebbe svolto proprio quel giorno.
Per
le ragazze entrare nell’arena e sedere tra il pubblico fu un po’ come toccare
il loro sogno, anche se solo di sfuggita. Non importava che fossero posti
economici, talmente lontani dal ring da far fatica a vedere qualcosa;
l’importante era essere lì, nel cuore del giardino proibito, a vedere con i
loro stessi occhi quelle persone che, come loro, avevano alle spalle un passato
difficile, ma che in qualche modo erano riuscite ad emergere.
Luna
voleva trionfare nella vita proprio come loro, e se quello sport che tanto le
piaceva era uno dei mezzi per poterci riuscire sarebbe stato sicuramente tutto
più facile, oltre che appagante.
L’incontro
fu senza esclusione di colpi, assolutamente spettacolare, e vide prevalere Mida,
incoronando il primo campione del mondo non caldesiano
da tre anni a quella parte.
Ma
il meglio doveva ancora venire.
Per
poter aspirare sul serio al titolo di campione del mondo, il neovincitore
proveniente da Alepto doveva affrontare e sconfiggere l’attuale detentore del
titolo, il quasi imbattuto Bastion, chiamato a
difendere nuovamente la sua corona per la sesta volta in meno di un anno.
Helena
e Luna lo incontrarono mentre erano in coda alla caffetteria dell’arena,
circondato da giornalisti e fan in delirio, oltre che dal suo numeroso seguito
di agenti di scorta, manager e sponsor, e a forza di bracciate riuscirono a farsi
strada fino ad arrivargli davanti.
Anche
con lui non era stata particolarmente generosa. Era nato in una famiglia ricca,
ma il destino aveva voluto farlo venire al mondo affetto da una grave malattia,
tanto seria che ormai sia le sue braccia che le sue gambe erano artificiali.
Lui
più di chiunque altro incarnava ciò che il chandra e non solo poteva dare a chi
riusciva ad arrivare in alto a dispetto di tutto.
Così,
a bruciapelo, Helena sentì di dovergli fare una sola domanda.
«È
possibile per chiunque diventare un campione di chandra?»
«Certo
che sì.» rispose lui con un sorriso «Se hai forza di volontà, tanta dedizione,
e non ti spaventa la fatica, puoi diventare una grande campionessa».
Non
aveva bisogno di sentire altro.
Per
rabbonire i giornalisti, già propensi a considerarlo prossimo alla disfatta
viste le qualità dimostrate dal suo prossimo avversario, Bastion
si fece fare una foto assieme alla ragazzina, e da quel giorno quell’immagine,
custodita gelosamente tanto nel comunicatore virtuale quanto soprattutto nel
cuore, divenne per Helena uno dei suoi più grandi tesori.
Sarebbe
diventata una campionessa di chandra.
Senza
dubbio.
«La foga non ti ha mai fatto
difetto. E nemmeno l’intraprendenza. Questo bisogna riconoscertelo.»
«Due ore dopo, Bastion aveva perso il suo titolo. Ma non mi importava. Le
sue parole mi avevano toccato.
Potevo farcela.
Potevamo farcela.
Potevamo essere campionesse, e
andarcene da quel posto senza prospettive.»
«Tutto perfetto. Se non fosse
per un piccolo ma importante dettaglio. Per poter essere campionesse di
chandra, dovevate gareggiare. E per poter gareggiare, bisognava far parte di
una palestra.»
«E da quelle parti, per nostra
fortuna, ce n’era solo una.»
Da quel giorno,
Helena aveva preso il coraggio a quattro mani, e forte del suo proverbiale
spirito combattivo maturato in anni di zuffe per le strade si era decisa ad
iniziare la sua carriera di chandrista.
L’unica
palestra sufficientemente vicina era il Pugno d’Argento, proprio a metà strada
tra il liceo e la sua casa; poco più che uno sgabuzzino, con poche machina di
seconda mano per gli allenamenti e una sola arena virtuale, oltretutto con un
sistema operativo a dir poco preistorico, per i combattimenti.
La
gestiva Boniek, un butterato tutto muscoli con in testa una palla da bowling
costretto anni addietro a lasciare il chandra professionistico per un incidente
di percorso che ne aveva compromesso la carriera; per tirare al domani aveva
dato vita a quella specie di fucina di talenti, ma da che aveva aperto non era
mai riuscito a creare un solo campione.
Nel
vedere entrare nella sua tana due ragazzine poco più che quattordicenni, lui e
gli altri frequentatori della palestra, quasi tutti teppistelli
da strada o ragazzotti senza particolare talento, non riuscirono a trattenere
una risatina divertita.
Luna,
spaventata, corse quasi subito a nascondersi dietro la schiena dell’amica, che
di contro non esitò a camminare verso il proprietario in doppio petto e con le
mani appoggiate ai fianchi.
«Questo
non è un parco giochi, signorine.» disse il proprietario sovrastandole con la
sua figura spaventosa
«Vogliamo
iscriverci alla palestra».
L’affermazione
suscitò l’ilarità generale.
«Ma
avete idea di dove vi trovate? Ripeto, questo non è un parco giochi. Qui si fa
del chandra. Roba seria.»
«E
allora?» replicò Helena con aria di sfida
«E
allora!? E allora non è roba per signorine».
Helena
rise anche lei, ma in modo ironico.
«310.
Alice Mayer vince il campionato nazionale dilettanti. 316. Alice Mayer vince il
campionato nazionale professionisti. 318. Alice Mayer ottiene il titolo di
campionessa del mondo battendo il detentore del titolo. Sfida conclusa ai
punti, risultato finale 2500 a 2000. 320. EleonoreWinslow vince il titolo di campionessa di Fhirland. 323.
Judy March vince il titolo nazionale a Ebridan. 330. LingWatchins vince la prima
edizione della categoria femminile ai giochi olimpici di Blazov.
Vuoi che continui?».
Boniek
la guardò stizzito, masticando nervosamente la gomma che aveva in bocca.
«Hai
fatto i compiti, ragazzina. Questo te lo concedo.
Ma
teoria e pratica sono due cose diverse. Con quel fisico minuto e senza un
briciolo di magia in corpo, non resisteresti neanche un minuto sull’arena. E
non ho alcuna intenzione di allenare chi parte già sconfitto, né di starti a guardare
mentre ti fai rompere le ossa da avversari grossi il doppio di te.» quindi fece
un cenno ad uno dei suoi «Mettile alla porta».
Quello,
con modi non proprio da gentiluomo, allungò un braccio verso Helena nel
tentativo di afferrarla, ma lei, con uno scatto felino, gli afferrò il polso,
glielo storse, quindi, malgrado fosse il doppio di lei, lo scaraventò a terra
con una perfetta torsione della schiena.
Nella
palestra calò il silenzio, e Boniek non riusciva a credere ai suoi occhi.
Quando
si vide nuovamente guardare da Helena, poi, sorrise divertito.
«Sai
picchiare. Dove l’hai imparato?»
«Non
hai bisogno di saperlo. Allora, ci prendi nella tua palestra o no?»
«Fai
la voce grossa, per essere solo una mocciosa. Credi che saper menare le mani
sia l’unica cosa di cui hai bisogno in questo sport? Nel chandra ti serve
ben’altro.»
«Possiamo
imparare. Siamo qui per questo dopotutto».
Di
nuovo Boniek sorrise, e fatto qualche passo avanti portò nuovamente la sua
imponente figura a troneggiare sopra le due ragazze.
«Trecentocinquanta
kylis al mese. A testa, ovviamente.»
«Ma
è più del doppio di quello che viene chiesto abitualmente.» riuscì a dire Luna
«Senti
tappetta, avete idea di quello che succederebbe se mi
venisse un controllo e vi beccassero qui? Come minimo mi farebbero chiudere
bottega. Dovrò pur compensare il rischio.»
«Dalle
condizioni in cui versa questo porcile» obiettò velenosa Helena «Ho idea che un
controllo tu non sappia neanche cosa sia.»
«Non
infastidirmi coi dettagli. Allora, ci state o no?».
Helena
si prese qualche istante di riflessione. Quanto a Luna, lei le idee le aveva
già piuttosto chiare; tralasciando il fatto che quel posto non la ispirava per
nulla, più di ogni altra cosa quella che Boniek esigeva era una cifra che per
loro era quasi impossibile potersi permettere.
«Helena,
andiamo via.»
«Due
e cinquanta.» replicò invece la ragazzina senza starla a sentire
«Cos’è,
stiamo mercanteggiando?» replicò beffardo Boniek «Non sperare di fare la dura
con me, perché non attacca».
Ma
Helena non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro, e seguitò a fissare
l’uomo con sguardo di sfida.
Alla
fine, tra lo stupore dei suoi allievi, fu lui il primo a desistere, almeno in
parte.
«Tre
e quaranta.»
«Due
e settanta.»
«Tre
e quindici.»
«Trecento.»
«Andata.
Ma saltate il pagamento anche solo di un’ora, e vi butto fuori a calci.»
«Ci
stiamo.»
«Aspetta
Helena.» obiettò Luna «Sono un sacco di soldi.»
«Ce
la faremo, Luna.» rispose la ragazzina guardandola negl’occhi ed accendendoli
con il suo spirito «Questa è l’occasione che abbiamo sempre cercato».
Alla
fine, Luna desistette, come al solito del resto.
Non
ce la faceva. Non riusciva proprio a non fidarsi della sua migliore amica.
Il
tutto si concluse con una stretta di mano.
«Vediamo
che sapete fare.»
«Come ho già detto, niente male
per una ragazzina.»
«Sapevamo che sarebbe stata
dura. Quello che non avevamo ancora capito, era quanto potesse davvero essere
dura.»
Boniek infilò
subito le due ragazze all’interno delle machina dell’arena virtuale.
Non
era la prima volta che Helena e Luna provavano materialmente l’esperienza del
chandra, ma quella sarebbe stata la prima volta in cui avrebbero avuto la
possibilità di dare vita al proprio vessel, il proprio alter ego virtuale che
da allora sarebbe diventato il loro inseparabile compagno di avventure.
Helena
sentì un moto come di orgoglio nel momento in cui, sedutasi, vide il portello
della capsula chiudersi sopra di lei, e gli schermi guida di assistenza per la
costruzione del vessel accendersi uno dopo l’altro tutto attorno ai suoi occhi.
Finalmente,
la sfida che lei e Luna si erano poste anni prima poteva essere intrapresa.
Una
machina degna di questo nome avrebbe avuto a disposizione una infinita
possibilità di scelta e scrittura, ma i rottami che Boniek e la sua palestra
potevano permettersi avevano una tavolozza creativa ridotta quasi all’osso, che
limitava di parecchio la libertà creativa.
Entrambe
fecero del loro meglio per creare qualcosa che si avvicinasse il più possibile
a quanto si erano sempre immaginate, e a lavoro finito i loro vessel comparvero
all’interno dell’arena, esposti al pubblico ludibrio.
Luna
aveva deciso, contrariamente alla maggior parte dell’uso comune, di dar vita ad
un avatar completamente diverso da lei; capelli bianchi lunghi, raccolti in una
fluente coda di cavallo e lasciati cadere dietro la nuca, un abito come da
chierica bianco e rosso, sandali ai piedi e, come arma, una lancia.
Helena
invece sembrava essersi fotocopiata, poiché, nei limiti imposti da
quell’obsoleto programma di creazione, aveva creato il proprio vessel ad
immagine e somiglianza di sé stessa. Come arma, aveva scelto una spada, una
sciabola non troppo lunga con una elaborata impugnatura destinata a proteggere
la mano, molto simile a quella che era diventata il marchio di fabbrica del
deposto campione Bastion.
Dal
momento che la machina era programmata per replicare fedelmente la stazza
fisica e la massa muscolare del chandrista facendone
l’ossatura del vessel, tanto Luna quanto Helena avevano dato vita a degli
avatar che ben testimoniavano tanto la giovane età quanto il fisico non
esattamente palestrato, cosa che inevitabilmente costituiva agli occhi degli
spettatori un ulteriore motivo di scherno.
«Aspettate
a ridere.» disse Boniek vedendo che nessuno dei suoi allievi riusciva a
trattenersi dal farlo «Il divertimento inizia ora».
Gli
fu sufficiente azionare un comando, e da un istante all’altro Helena e Luna
ebbero come l’impressione di venire letteralmente strattonate via dalle
poltrone cui erano assicurate, una sensazione alla quale avrebbero finito con
l’abituarsi molto presto.
Istintivamente
chiusero gli occhi, e quando li riaprirono erano all’interno del proprio vessel
al centro dell’arena.
Era
qualcosa di stranissimo, quasi inconcepibile.
Sapevano
bene che quello in cui si trovavano era un corpo fasullo, un ammasso di dati
digitali, eppure non sembrava avere nulla di diverso da uno fatto di carne e
muscoli; sentivano l’aria sul viso, la pelle carezzata dai vestiti, la terra
sotto i propri piedi.
Prodigi
di una tecnologia che era stata capace di fondere gli arcani segreti della
stregoneria con i più moderni ritrovati scientifici.
«Allora,
avete finito la passerella?» le richiamò Boniek azionando il cronometro «Non è
una sfilata di moda. Forza, dateci dentro. Avete dieci minuti per convincermi a
non sbattervi fuori».
Quella
prima prova di chandra propriamente detto fu, per usare un eufemismo, un
colossale disastro.
Helena
e Luna si resero conto quasi subito di essere come dei burattinai che
cercavano, senza riuscirci, di far muovere un pupazzo dall’interno. I loro
corpi erano legnosi, scoordinati, impossibili da controllare.
Tra
il momento in cui pensavano ad un’azione e quello in cui effettivamente la
compivano passavano anche diversi secondi, e il più delle volte questa non
riusciva neppure bene. Se cercavano di colpire ad un braccio finivano senza
volerlo per mirare alla spalla, se cercavano di camminare a destra si
spostavano invece a sinistra.
Era
come essere prigioniere di un corpo mosso da una volontà altrui.
«Ma
le conoscete le basi almeno?» domandò spazientito Boniek cercando di sovrastare
le risate dei presenti «Più sciolte! Non state a farvi le seghe mentali! Quello
che la mente pensa, il corpo esegue! Non è così difficile».
Invece,
era anche troppo difficile, almeno per chi un vessel non l’aveva neanche mai
comandato.
Il
principio infondo era lo stesso che regolava il movimento di un qualunque corpo
umano. Nel momento in cui un combattente formulava un pensiero questo veniva
interpretato dal computer, il quale lo convertiva nell’azione desiderata.
Tuttavia, per quanto la simulazione desse l’impressione che mente reale e corpo
digitale fossero virtualmente uniti all’interno dell’arena, si trattava pur
sempre di far muovere in sintonia due entità molto distinte, che comunicavano
tra loro solo tramite il computer.
A
meno di non possedere una mente reattiva, capace di reagire prontamente agli
stimoli provenienti dall’esterno, e con sufficiente esperienza da permettere
alla macchina di interpretare alla perfezione ogni singolo pensiero in modo
praticamente istantaneo, era un po’ come voler insegnare ad un neonato a
guidare.
Se
si perdeva troppo tempo a formulare un pensiero, o questo non era
sufficientemente nitido, il computer perdeva tempo ad analizzarlo, o altre
volte finiva per reinterpretarlo a modo suo, con risultati facilmente
prevedibili.
Tutto
ciò non toglieva che il dolore fosse molto reale.
Le
spade, le lance e qualunque altra arma passavano attraverso il corpo senza
provocare reali ferite, all’infuori di quelle ricreate dal computer per
esigenze sceniche, ma la sensazione di venire colpiti era incredibilmente
realistica, ed il suo effetto principale era di rendere il contatto tra la
mente e il vessel ancor più debole.
In
fin dei conti, era così che si vinceva. Spezzando il legame.
Boniek
era talmente deluso che non aspettò nemmeno lo scadere del cronometro, o che
una delle due prevalesse sull’altra; già dopo cinque minuti, sbuffando come un
gettodi vapore scaraventò le due
ragazze fuori dalle machina con l’arresto di emergenza.
«Se
non fosse che ci rimetterei seicento kylis, vi darei
una caramella, un calcio nel didietro, e vi metterei fuori dalla porta.»
«Miglioreremo.»
si affrettò a dire ansimante Helena «Ci alleneremo con tutte le nostre forze. Noi
vogliamo diventare delle campionesse.»
«Se
i presupposti sono questi» replicò l’allenatore passandosi una mano sulla testa
pelata «Il massimo che potrete aspirare a vincere saranno le esibizioni
gratuite della domenica nei centri commerciali.»
«La
prego.» disse Helena quasi con le lacrime agli occhi, gettando via per la prima
volta quella sua aria spavalda e sicura di sé «Non la deluderemo più,
promesso».
Di
fronte a quell’espressione supplichevole, ma comunque ferma nelle proprie
posizioni, indipendentemente dalle difficoltà, Boniek intravide per la prima
volta quella determinazione propria di un vero chandrista,
restandone atterrito. Chissà, forse in quelle due ragazze, e nella irruente
castana dall’aria sbarazzina in particolare, aleggiava davvero lo spirito di
una coppia di potenziali campionesse.
Soffiando,
prese un fazzoletto dalla tasca, passandoselo sulla fronte sudata.
«Pare
proprio che qui dovremo cominciare dal principio».
«Non esattamente quello che ti
eri immaginata, o mi sbaglio?»
«Ripensandoci adesso, ammetto
che all’epoca ero molto arrogante, e avventata. Troppo sicura di me. Credevo
che bastasse entrare in una machina per poter aspirare a diventare una grande chandrista. Non mi ero accorta che scendere nell’arena
senza avere alcuna preparazione era come avere una bicicletta e non saperci
andare.»
«Non ti eri accorta, o fingevi
di non vedere?»
«Immagino entrambe le cose. In
quel momento il mio sogno era troppo importante per me perché potessi realmente
rendermi conto della portata delle difficoltà che avrei dovuto affrontare per
raggiungerlo.»
«E andarci a sbattere il naso
non deve essere stato molto piacevole, suppongo.»
«Più di una volta mi sono
trovata a chiedermi se fossi davvero in grado di farcela. Invece che avvicinarsi,
c’erano momenti in cui il mio sogno mi appariva sempre più lontano.
Praticamente irraggiungibile.
Ogni volta che ripenso a quegli anni, non so mai se sorridere o piangere.»
L’anno che seguì
fu per Helena e Luna, senza mezzi termini, un vero inferno.
Nessuna
delle due se la sentiva di chiedere aiuto alla famiglia per pagare la quota di
partecipazione della palestra, e per molto tempo a venire i genitori delle due
ragazze non avrebbero neppure mai saputo a cosa le loro figlie si stessero
dedicando con tanta passione.
Non
poter contare sulle famiglie, però, significava dover trovare i soldi in altro
modo, ad esempio lavorando.
Il
lavoro part-time a Caldesia era illegale prima dei sedici anni di età, ma in un
distretto come il loro c’era sempre qualcuno disposto a chiudere un occhio
sulle leggi, a condizione di tenere la bocca chiusa e accettare quello che
capitava, sia in termini di impiego che di salario.
Gelaterie,
ristoranti, caffetterie, negozi di sartoria, piccoli supermercati e persino
pompe funebri.
In
oltre cinque anni Helena e Luna si fecero ogni possibile attività lavorativa
del Settimo Distretto, diventando quasi delle leggende metropolitane per la
dedizione che mettevano nel lavoro; lavoravano principalmente nei
finesettimana, quando la palestra rimaneva chiusa, o la sera, fino a tardi.
Quasi
tutti i loro guadagni finivano nel fondo per la retta mensile, e con quello che
avanzava entrambe cercavano di aiutare economicamente le rispettive famiglie,
che di certo non navigavano nell’oro.
E
ovviamente, né Luna né Helena volevano saperne di rinunciare allo studio per lo
sport.
Tutte
le mattine andavano a scuola. Tre pomeriggi alla settimana, alle volte quattro,
andavano in palestra, lavorando in quelli che restavano, e rientrando comunque
a casa ben oltre il tramontare del sole. E poi c’erano i compiti, da farsi
ovviamente dopo cena, terminati i quali potevano finalmente andare a letto,
quasi sempre dopo mezzanotte.
Boniek
dal canto suo si rivelò ben presto peggio di qualunque sergente istruttore; ma la
cosa più incredibile, è che per i dodici mesi successivi le due ragazze non
videro più neanche l’ombra di una machina.
Come
l’allenatore aveva detto all’atto di accettarle nel suo piccolo regno,
bisognava ricominciare tutto daccapo. Corpo, mente e volontà dovevano essere
temprate a dovere, e solo in seguito si sarebbe potuto iniziare a parlare di
addestramento al chandra vero e proprio.
Nell’anno
che seguì Helena e Luna provarono sulla loro pelle interminabili maratone di
corsa in giro per la città, sollevamento pesi, dolorose prove di lotta,
allucinanti sessioni di meditazione ed esercizio mentale per affinare
l’intuito, oltre a sorbirsi ore e ore di materiale video di vecchi incontri,
molti dei quali non gli erano nuovi, ma che ora erano tenute ad imparare
pressoché a memoria per capire l’importanza della coordinazione ed apprendere
le mosse più comuni.
Diventare
chandriste, e solo ora lo stavano capendo, era molto
più che entrare in una machina e muovere il proprio vessel, soprattutto se come
loro non si aveva il dono della magia, che in certi casi poteva costituire un
indubbio vantaggio.
Bisognava
avere grande esperienza sia nella lotta che nelle discipline mentali, ma anche
molta resistenza fisica e una soglia del dolore il più possibile alta; non solo
tutto ciò aumentava l’abilità di un chandrista, ma
accresceva anche e soprattutto la sua soglia di resistenza, rendendolo più
difficile da sconfiggere.
Fatica
massacrante a parte, allenare il corpo era relativamente facile.
Il
problema era allenare la mente. Ed era anche per questo che Helena e Luna non
avevano voluto mettere da parte lo studio.
Anzi,
quando potevano si intrufolavano di nascosto ai corsi di magia dell’università,
per cercare, oltre che di affinare l’intelligenza e le capacità mnemoniche, anche
di apprendere le basi di un’arte che loro non potevano usare, ma che invece era
alla portata dei loro vessel.
Ma
era dura.
Molto
dura.
Dopo
sei mesi, Helena sentiva di essere già arrivata al suo limite.
Più
volte si ritrovò a piangere, soprattutto la sera, nascosta sotto le coperte, al
pensiero che la giornata appena trascorsa si sarebbe ripetuta anche il giorno
dopo, e il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Per
tutto quel tempo non era mai entrata in una machina, né aveva davvero avuto la
possibilità di apprendere i rudimenti del chandra, al punto che aveva preso a
domandarsi se ne valesse la pena.
Più
di tutto, però, il dubbio che maggiormente l’assillava era quello relativo alle
sue reali capacità.
Era
davvero in grado di farcela? Di diventare una chandrista
professionista?
Non
lo sapeva più.
Sapeva
che Luna aveva un livello di resistenza molto superiore al suo, e la necessità
di apparire sempre inamovibile nelle sue posizioni per non correre il rischio
che la sua migliore amica gettasse la spugna era un ulteriore elemento di
stress.
Così,
si teneva i pianti e i rimpianti per quanto era sola, ma più il tempo passava
più questo le veniva difficile.
In
realtà, Luna si era accorta già da tempo del disagio che Helena stava
attraversando, e proprio per darle la forza di non mollare aveva deciso di non
farlo lei stessa, non per prima almeno; se avessero deciso di rinunciare lo
avrebbero fatto insieme, come insieme avevano fatto ogni altra cosa da che si
erano conosciute.
Nessuna
delle due confidò mai all’altra di sapere, e questo, per un curioso scherzo del
destino, fu l’unica cosa che per molti mesi impedì a quella specie di tortura
di venire interrotta.
Helena
non mostrava debolezze in presenza di Luna per non sminuire il senso di
ammirazione che l’amica nutriva per lei, e Luna rifiutava di arrendersi
facendosi forte di quella grandezza che lei stessa, non gettando la spugna,
seguitava a preservare.
Poi,
accadde qualcosa.
Un
pomeriggio, al loro primo anno di scuola superiore, le ragazze si ritrovarono
ad assistere ad un episodio di bullismo condotto da una nutrita gang di
ripetenti ai danni di una loro compagna di classe all’uscita da scuola, e senza
esitazione si misero in mezzo dando vita ad una violenta zuffa.
Erano
da sole e armate di bastoni raccolti da terra contro una decina di energumeni
molto più grandi di loro, eppure la ebbero vinta, e con una facilità che
sorprese anzitutto proprio loro.
Non
solo non subirono neanche un pugno, ma ebbero ragione di tutti quei bulli senza
quasi fare fatica; i loro corpi, che per mesi avevano sentito pesanti sotto la
spinta inarrestabile degli esercizi loro imposti dall’allenatore, si erano di
colpo fatti leggeri come l’aria.
I
muscoli erano sempre gli stessi, ma si erano tonificati, rafforzati, così come
la tecnica, fattasi raffinata e precisa, volta a sottomettere l’avversario
senza dargli il tempo o la possibilità di reagire.
Restarono
sorprese di loro stesse.
Ci
stavano riuscendo.
Senza
rendersene conto, avevano tramutato le maratone infinite, gli esercizi in
palestra, le flessioni e tutto il resto in uno stile collaudato, che una mente
affinata dall’osservazione e dagli sforzi profusi tanto nello studio quanto
nell’assimilazione di concetti all’apparenza senza alcuna importanza sfruttava
in modo quasi meccanico, senza esitazioni o sbavature.
«Che
cosa abbiamo fatto?» domandò Luna con gli occhi sbarrati.
Helena
in quel momento non riuscì a risponderle, ma dentro di sé provò un’immensa
gioia.
Non
potevano saperlo, né mai lo avrebbero saputo, ma i bulli che avevano ripassato
davanti alla scuola non si erano trovati a passare da quelle parti per puro
caso.
Boniek
aveva molti amici, e negli ultimi tempi aveva iniziato a domandarsi per quanto
quelle due ragazze così testarde, ma allo stesso tempo così emotivamente
fragili, avrebbero retto.
Dentro
di sé era sicuro che tutto quell’allenamento fosse servito, ma dovevano esserne
convinte anche loro, per non parlare dell’iniezione di morale.
Gli
costò parecchio, quasi metà dei soldi che aveva intascato in quell’anno e passa
di allenamenti, e che da un momento all’altro avevano preso a fargli quasi
schifo, ma alla luce dei risultati erano stati soldi ben spesi.
E
il giorno dopo, quando Helena e Luna si presentarono in palestra già pronte per
la sgambata di quattro chilometri che apriva tradizionalmente gli allenamenti,
trovarono il loro allenatore intento a sputare bestemmie contro il tecnico che
aveva appena aggiornato l’arena virtuale, e che ovviamente non si era fatto
mancare nulla all’atto di presentare la fattura.
«È
questa l’ora di arrivare?» sbraitò anche contro di loro «Avanti, dentro! Ne
abbiamo di lavoro da fare!».
Le
due ragazze rimasero un momento basite, ma appena si capacitarono di quanto
stava accadendo non ci pensarono due volte e si precipitarono all’interno delle
machina, riassaporando finalmente dopo tanto tempo l’emozione di scendere
nell’arena.
Come
la prima volta, fu chiesto loro di dare sfoggio del proprio repertorio, ma
stavolta lo spettacolo fu molto diverso rispetto a quello di soli dodici mesi
prima.
Helena
e Luna non furono troppo sorprese da ciò che seppero sfoggiare in quel loro
nuovo incontro amichevole, perché, passato lo stupore, avevano realizzato
quanto quei duri allenamenti fossero serviti: quella fu la conferma. La
conferma che nulla era stato vano, e che la fatica era stata pienamente
ripagata.
Di
nuovo, come quando avevano messo piede per la prima volta in quella piccola e
angusta palestra, sentirono un po’ più vicino quel sogno così a lungo
custodito.
Lo
scontro, che terminò nuovamente in parità, fu così appassionante che uno degli
allievi volle riprenderlo con il suo comunicatore; di lì a pochi anni quel
video sarebbe diventato celebre come IlPrimo Combattimento di Octavia,
diventando una pietra miliare degli appassionati di chandra di tutto il mondo.
«Dunque, alla fine ne è valsa la
pena.»
«Non lo credevo. Ma a quanto
pare è così.
Il dopo fu ugualmente difficile,
ma dentro di noi ci eravamo convinte di due cose importanti. Che tutto quello
che avevamo fatto in quell’anno di lavoro, inclusi i molti sacrifici, non era
stato inutile. Ma soprattutto, che potevamo davvero farcela.»
Da quel giorno,
Luna ed Helena dissero addio alle maratone e alle flessioni, se non come fase
di riscaldamento per sciogliersi i muscoli prima di entrare nella machina, e l’allenamento
nel chandra propriamente detto divenne la colonna portante della loro
formazione.
Quando
erano entrate, Boniek aveva detto di volerle buttare fuori a calci. Invece,
furono la maggior parte degli altri suoi sedicenti allievi ad essere buttati fuori,
gente che non aveva mai sfondato e mai lo avrebbe fatto, dando modo al burbero
allenatore di poter concentrare su quelle due ragazze tutti suoi sforzi.
Da
ragazzine sprovvedute con sogni troppo grandi per loro, ai suoi occhi si erano
tramutate di giorno in giorno nella sua più grande speranza; la speranza di
poter tornare a far parte di un mondo dal quale si era dovuto allontanare
troppo presto.
Gli
anni presero a passare, molto più dolci ma non meno faticosi del primo.
Per
Helena e Luna non era cambiato molto.
Scuola
al mattino, lavoro o allenamento la sera. Unica nota positiva, un aumento del
tempo libero nel finesettimana, visto che con il tempo la retta per la palestra
si era sensibilmente e, almeno per loro, inspiegabilmente ridotta, passando da 300
kylis a soli 110.
Per
Helena e Luna le cose divennero progressivamente sempre più facili; ogni giorno
che passava cresceva la loro affinità con il chandra, e sotto l’attenta
supervisione di Boniek si stavano progressivamente trasformando, ed erano loro
le prime a rendersene conto, in due vere macchine da guerra dell’arena, letali
e aggraziate al tempo stesso.
I
pochi iscritti sopravvissuti all’epurazione di Boniek avevano tutti almeno
cinque anni più di loro, ma già sul finire del secondo anno di lezione se non
ve n’era nessuno capace di misurarsi ad armi pari con nessuna delle due, tanto
da venire usati all’occorrenza solo come sparring per farle scaldare.
Per
questo, il più delle volte erano costrette a combattere l’una contro l’altra,
cosa che in realtà non faceva che rafforzare sempre di più quel legame che per
loro era la cosa più importante.
Poi
arrivarono i sedici anni, e con essi il regalo più ambito: una tessera di
metallo argentato, finalmente intagliata e con il proprio nome inciso a grandi
lettere, subito sopra a quello della palestra di appartenenza.
Da
quel momento, erano ufficialmente iscritte alla CFC, la CaldesianFederationof Chandra.
Entrambe
sentirono un enorme moto di orgoglio nell’istante in cui Boniek, cercando
vanamente di nascondere la propria personale soddisfazione, consegnò ad ognuna
delle due la propria tessera come suo personale regalo di compleanno, giunto
nel caso di Helena con un leggero ritardo, ma non per questo meno gradito.
«Ci
siamo riuscite.» disse Luna fissando incredula la targhetta che aveva tra le
mani.
«Sì,
Luna. Ci siamo riuscite. Ora siamo ufficialmente delle chandriste.»
«Non
volate troppo con la fantasia, signorine.» si affrettò a dire Boniek per farle
tornare sulla terraferma «Questo è solo l’inizio».
Ed
era vero.
La
tessera del CFC era, in linea teorica, un requisito indispensabile per potersi
dedicare al chandra, ma per ottenere la qualifica di atleta vero e proprio era
necessario entrare nella graduatoria ufficiale della propria regione.
In
base alle regole ufficiali, il CFC era composto da tre federazioni distinte,
una per ognuna delle tre prefetture principali di Caldesia: Kyrador, Midgral ed Eldkin. Ciascuna di
esse aveva un certo numero di graduatorie ufficiali, tra le quali una unificata
per i professionisti e un numero variabile di altre riservateai principianti.
Entrambe
potevano essere scalate vincendo incontri con avversari la cui posizione fosse
superiore alla propria, ma ciò che davvero contava erano i punti che si
potevano ottenere vincendo i propri incontri, i quali venivano attribuiti dai
giudici al termine di ogni combattimento in base alle prestazioni.
E
poi c’erano i tornei, che mettevano in palio per i primi classificati un
considerevole numero di punti, abbastanza da permettere di scavalcare in un
solo colpo fino a dieci posizioni.
La
sola prefettura di Kyrador, contava quattro diverse graduatorie per
principianti, una ogni tre distretti, più una quarta che raggruppava tutti i
partecipanti del resto della provincia.
Sapevano
che non sarebbe stato facile.
Il
loro percorso verso la gloria era solo al primo passo.
«Eri felice?»
«Così tanto che sentivo il cuore
scoppiarmi nel petto.»
«Il dopo fu facile, non è così?»
«Il signor Boniek era un grande
allenatore, e i tre anni di fatiche passati con di lui si rivelarono ben spesi.
Al momento del nostro ingresso ufficiale nella lega dilettanti, eravamo già ad
un livello molto più alto rispetto alla maggior parte dei chandristi
della nostra età.
Cominciammo a scalare posizioni
su posizioni, vincendo anche alcuni tornei, e in meno di un anno eravamo
entrambe entro i primi otto classificati nella graduatoria della nostra
federazione.»
«E la tua in particolare fu una
carriera fulminante, se non sbaglio.
Quindici vittorie e zero
sconfitte. Quelli che hanno raggiunto un simile record si contano sulle dita di
due mani.»
D’un tratto, un’ombra si
materializzò sul volto della giovane campionessa, scura ed intangibile come la
voce effimera con la quale seguitava a richiamare e rievocare i propri ricordi,
mentre dall’alto giungeva senza sosta il rumoreggiare della folla.
Alzò gli occhi al cielo, come a
voler afferrare al volo qualcuna di quelle grida.
Erano sempre state in due, ma il
nome che veniva chiamato a gran voce era uno solo.
Un nome. Il suo.
«Poi, però, le cose presero
un’altra piega.»
«Dentro di me, sapevo che
sarebbe potuto accadere. Dicono che un legame possa durare tutta la vita se si
ha la forza e la volontà di preservarlo.»
«Un concetto quasi astratto in
un mondo come questo, a mio modo di vedere.»
«Infatti. Ma come già accaduto
altre volte, ho dovuto andarci a sbattere contro per capirlo. Anche se in
questo caso non fui io quella che si fece male.»
Una volta l’anno,
i primi otto classificati della propria federazione locale di appartenenza andavano
a giocarsi l’accesso al VirtualIronTournament, la competizione che riuniva i 32 migliori
principianti della nazione e che avrebbe messo in palio per il vincitore il
premio più ambito: la promozione tra i professionisti.
Per
poter essere ammessi al torneo, però, gli otto finalisti erano tenuti a
sottoporsi ad un’ultima, difficile selezione, basata su di una serie di scontri
diretti da svolgersi nell’arco di una sola giornata, al termine della quale
sarebbero rimasti solo in quattro.
Una
possibilità su due. Chi si classificava tra i primi quattro accedeva
automaticamente al VirtualIron;
per gli altri, se ne riparlava l’anno successivo.
Di
recente poi era stata introdotta una nuova regola, che prevedeva anche per il
secondo classificato al torneo la possibilità di rimediare alla sconfitta
“rubando” il titolo all’ultimo classificato della graduatoria dei
professionisti, a condizione ovviamente di riuscire a sconfiggerlo.
Questo
significava che per Helena e Luna vi era, complice una buona dosa di fortuna,
la possibilità di poter riuscire insieme, e di accedere mano nella mano
all’agognata strada del professionismo.
Alla
fine dell’anno sportivo, avendo raggiunto rispettivamente la seconda e la sesta
posizione nella propria federazione, Helena e Luna avevano ottenuto entrambe
l’accesso alla fase finale volta a sorteggiare i partecipanti al VirtualIron; tuttavia, i
presupposti con i quali le due ragazze si preparavano ad entrare nell’arena in
quella calda mattina d’estate erano quasi agli antipodi.
Con
i suoi 120410 punti racimolati in quindici incontri e quattro tornei, e il
secondo posto ben stretto tra le mani, la qualificazione di Helena era ormai
cosa fatta, salvo disastrosi scivoloni che nessuno dei presenti, a cominciare
dal suo allenatore, riteneva possibili.
Luna
invece, complice un calo delle ore spese ad allenarsi per fare fronte alle
difficoltà economiche della famiglia, aveva inanellato negli ultimi periodi una
serie di prestazioni mediocri, e dati i suoi 92938 punti la sua qualificazione
era tutt’altro che scontata.
Per
avere la certezza matematica di qualificarsi Luna doveva vincere almeno sei dei
sette incontri che l’attendevano, mentre vincendone dai tre ai cinque il suo
destino sarebbe stato nelle mani degli altri avversari e dei loro piazzamenti.
Così,
mentre Helena poteva già permettersi il lusso di prendersela comoda, Luna
invece era ancora sulle spine, e quella mattina sembrava sulla graticola tanto
appariva nervosa.
Malgrado
si trattasse di un evento teoricamente poco degno di nota, il pubblico presente
al palazzetto era quello delle grandi occasioni.
Tutti
i posti disponibili erano occupati, e guardandosi intorno non era difficile
scorgere anche molti procuratori, cacciatori di teste venuti a sondare i potenziali
campioni e ad accaparrarsi i migliori.
Anche
Helena e Luna erano state avvicinate da diversi talent scout e agenti sportivi,
alcuni anche piuttosto famosi, ma avevano rimandato ogni discussione in tal
momento al momento in cui fossero riuscite a conquistarsi il posto tra i
professionisti.
C’erano
anche le loro famiglie.
Dal
giorno in cui avevano detto la verità, rivelando la ragione dietro al loro
improvviso cambiamento distante ormai quasi quattro anni, contrariamente alle
loro stesse previsioni sula Helena che Luna avevano potuto contare su di un
inaspettato quanto caloroso appoggio da parte dei rispettivi genitori.
Il
fatto che non avessero trascurato lo studio o la famiglia per inseguire il loro
sogno era un punto a loro favore, e la dedizione che profondevano in ogni singolo
incontro era stata per i rispettivi genitori la prova che quello era davvero il
futuro giusto per loro.
Vedere
sua madre e suo padre però, invece che rincuorarla, costituiva per Luna un
ulteriore motivo di pressione. L’idea di fallire in loro presenza, dopo tutte
le speranze che entrambi avevano riposto in lei, la spaventava a morte.
«Non
essere così tesa.» le fece forza Helena cercando di consolarla
«Non
ci riesco. Sono già due mesi che le mie prestazioni sono in calo, e non ho
potuto allenarmi come avrei voluto. Se anche oggi dovessi sbagliare qualcosa…»
«Vedrai
che ce la farai. Lotta come sai, e nessuno di questi ragazzetti presuntuosi
sarà capace di stati dietro».
Luna
alzò gli occhi, incrociando quelli di Helena, caldi e ridondanti di energia
come li aveva sempre visti.
«Te
lo ricordi, vero? Ci siamo promesse di diventare entrambe delle chandriste professioniste.
Ci
siamo quasi, Luna. Il nostro sogno è a due passi da noi. Quello per cui ci
siamo tanto impegnate in questi quattro anni.
Serve
solo un altro piccolo sforzo. Un ultimo passo.»
«Helena…».
Ancora
una vola, Luna non riuscì a non farsi contagiare dalla forza d’animo della sua
migliore amica, che nonostante tutte le prove e le sfide che entrambe avevano
dovuto affrontare fin lì non aveva perso per nulla la sua determinazione.
Helena aveva il potere di scaldarle il cuore e l’animo anche quanto questi
erano avvolti dal più freddo pessimismo; lo aveva sempre fatto, e ogni volta
Luna si sentiva rinascere al caldo tepore di quella bellissima sensazione.
«Hai
ragione.» disse rincuorata «In fin dei conti, come dice sempre il signor
Boniek, è tutto nelle nostre mani.»
«Ben
detto. E questa sera, dopo esserci qualificate per il VirtualIron, andremo insieme a spendere tutti i soldi del
premio partita alla boutique in Rue de Avenir, come
abbiamo sempre sognato».
Luna
sorrise, stuzzicata dal pensiero di poter spendere soldi una volta tanto come
più le piaceva, e a suggello di quell’impegno si scambiarono il loro solito
gesto di amicizia, incrociando le dita della mano destra a formare un reticolo
all’apparenza inestricabile.
«Sempre
insieme.» disse Helena
«Fino
alla fine».
Prima
che venisse annunciato l’ordine dei combattimenti, Boniek chiamò a sé le due
ragazze.
«Comunque
debba andare» disse loro trattenendosi dal piangere di gioia «Vi faccio fin da
ora i miei più vivi complimenti. Avete regalato a questo vecchio iracondo una
serie infinita di gioie, e voglio che sappiate che io sono estremamente fiero
di voi.
Siete
le allieve migliori che un allenatore potrebbe desiderare.»
«Siamo
noi ad essere fiere di essere sue allieve, allenatore.» disse Helena per tutte
e due «Senza di lei non saremmo mai arrivate fino a qui».
Né
lei né Luna potevano saperlo, ma per Boniek quello era molto più del solito
augurio prima di una sfida importante o difficile.
Ormai
era sicuro.
In
realtà, quel male che anni prima lo aveva allontanato dal chandra non aveva mai
smesso di consumarlo, e di lì a qualche tempo si sarebbe portato via la sua
vita.
Per
questo si era ripromesso che prima di andarsene voleva sapere quelle che ormai
considerava quasi delle figlie in mano alle persone migliori, perché potessero
continuare a fare ciò che amavano senza venire fagocitate da quel mondo di
squali e cannibali che era il chandra professionistico.
Aveva
già preso dei contatti in tal senso.
E
poi c’era la palestra, pronta per essere ceduta ad uno dei suoi tanti ex
allievi, un pivello senza avvenire ma con le giuste qualità di manager per
farla prosperare.
La
sorte scelse di favorire Luna, assegnandole come primi due sfidanti
rispettivamente il penultimo e l’ultimo degli otto finalisti; un’ottima
occasione per racimolare subito parecchi punti senza stancarsi troppo,
conservando le energie per sfide più impegnative.
Di
tutt’altro genere fu invece il sorteggio di Helena, che invece si trovò subito
a dover difendere la sua posizione dalle mire del terzo in classifica, Pride, che tuttavia mise al suo posto liquidandolo in meno
di cinque minuti tra gli applausi generali.
Il
secondo incontro, invece, la vide opposta al primo classificato in persona,
nonché tra i favoriti per la promozione tra i professionisti, Sigfried. Non si
erano mai affrontati, ma Helena aveva avuto più volte l’occasione di osservare
i suoi precedenti incontri, così si presentò sull’arena con un bagaglio di
informazioni già considerevole.
Di
contro, era impossibile per chiunque riuscire a prendere le misure ad una come
lei. Il suo chandra era troppo eterogeneo, troppo anticonvenzionale, perché
qualcuno abituato a quegli schemi prestabiliti usati dalla maggior parte degli
atleti fosse in grado di prevederla.
Lo
Schermidore era una classe poco usata, poiché notoriamente povera di talenti
speciali e priva di un’abilità particolarmente sviluppata, ma grazie agli
allenamenti di Boniek e alle ore passate ad osservare allenamenti di scherma
Helena vi aveva dato una nuova dimensione, tramutando in punti di forza le
supposte debolezze, e ciò la rendeva ancora più pericolosa.
Il
combattimento contro Sigfried fu assolutamente avvincente, e si concluse senza
un vero vincitore. Furono i giudici ad attribuire la vittoria ad Helena,
assegnandole 2300 punti contro i 1600 dello sfidante, cosa che di fatto, unita
ad una clamorosa seconda sconfitta patita dal campione a causa dello sforzo da
poco sostenuto, costò a Sigfried il primo posto, il quale già a metà giornata
era ormai saldamente in mano ad Helena.
Anche
Luna partì molto bene, rifilando due sonore sconfitte a Golem e Draxer che le fruttarono
oltre cinquemila punti, e con essi il passaggio dalla sesta alla quinta
posizione. Un contributo importante alla sua causa lo diede Sigfried, che
riscattò le prime due cadute malmenando a dovere il quarto classificato,
Claymore, e riducendo così sensibilmente il distacco tra Luna e quel quarto
posto che valeva l’ingresso al VirtualIron.
Nel
terzo incontro la bruna regolò la pratica con Malicious,
l’atleta a cui aveva rubato il quinto posto, estromettendolo in pratica dai
giochi per la corsa alla qualificazione, mentre nel quarto perse, pur nelle
previsioni, l’incontro con Sigfried, uscendone però a testa e rosicando altri
punti a Claymore, che malmenato anche da Helena si ritrovò con il fiato di Luna
praticamente sul collo.
In
uno scatto di orgoglio Claymore riuscì a prevalere su Pride
nell’ultimo incontro della mattinata, consolidando il proprio quarto posto, ma
alla luce della vittoria ottenuta anche da Luna contro il terzo classificato i
giochi di fatto erano ancora tutti aperti.
All’ora
di pranzo, la classifica proiettata sul tabellone tridimensionale che
sovrastava l’arena principale recitava.
1.HELENA: 138012
2.SIGFRIED: 135103
3.PRIDE: 129828
4.CLAYMORE: 114181
5.LUNA: 112002
6.MALICIOUS: 106581
7.GOLEM: 99817
8.DRAXER: 96113
Con i primi tre
classificati ormai irraggiungibili e gli ultimi tre di fatto tagliati fuori da
qualsiasi speranza di rimonta, il duello per il quarto posto, con tre incontri
ancora da disputare, rimaneva una lotta a due tra Luna e Claymore.
Alla
luce della buona prestazione tenuta durante la mattinata Luna appariva molto
più sollevata, tanto che riuscì persino a mangiare il pranzo al sacco preparato
appositamente da sua madre. Helena e i suoi genitori furono invitati a sedere
con loro, e così le due famiglie spesero la prima parte del pomeriggio a
campeggiare amichevolmente nel parchetto attiguo allo stadio, godendosi in
serenità il piacevole sole estivo.
Ad
un certo punto Helena, desiderando condividere con il signor Boniek quel
momento di relax, volle andare a cercarlo, trovandolo intento a parlottare
vicino all’ingresso con un giovanotto di bell’aspetto vestito elegantemente,
capelli biondi ben pettinati e lenti ovali da vista.
«Helena.
Capiti a proposito. Volevo presentarti una persona.»
«Piacere
di conoscerla.» disse educatamente il giovane porgendole la mano «Mi chiamo
James Morales.»
«James
è un procuratore sportivo, nonché il figlio del mio vecchio agente. E si è
offerto di occuparsi di voi.
Ho
pensato che vi avrebbe fatto piacere far parte della stessa squadra. Se sarete
legate ad un unico sponsor, sarà quasi impossibile che vi chiedano di battervi
tra voi».
Così,
di colpo, Helena rimase spiazzata, non sapendo cosa dire.
Il
signor Boniek aveva sicuramente molta fiducia in loro, ma iniziare a parlare di
procuratori e sponsor così, senza neanche il passaggio di categoria già in
tasca, suonava un po’ prematuro, soprattutto dopo che proprio lui aveva preso
letteralmente a calci tutti quelli che negli anni si erano presentati alla palestra
per chiedere informazioni sulle due ragazze-prodigio.
«Signor
Boniek, non sarà un po’ presto? Voglio dire, non siamo ancora certe di…»
«Non
dire sciocchezze!» esclamò Boniek facendosi una grossa risata «Hai dimostrato
ampiamente che per te la vittoria nel VirtualIron sarà solo una formalità, e anche Luna a conti fatti ha
buone possibilità di farcela.
Certo,
potrebbe capitare che non riusciate ad ottenere il primo e il secondo posto che
valgono la promozione, ma mi sembra chiaro che anche se una delle due non
dovesse farcela le basterà attendere un anno per riuscirci.
Alla
luce di tutto ciò, preferisco sapervi nelle mani di una persona fidata che tra
le fauci di quegli squali bastardi del Primo Distretto.
James
è giovane, ma ha già una discreta esperienza, e saprà tutelarvi al meglio».
Helena
non era del tutto sicura, e di colpo cominciò ad avvertire il peso di ciò che
l’attendeva in caso di vittoria.
Per
un attimo si immaginò nel mondo del professionismo, un mondo molto diverso
dalla piccola realtà quasi paesana che aveva conosciuto fino a quel tempo,
fatto di lusso, sfide importanti, viaggi e, soprattutto, tanta malignità.
Ebbe
quasi paura.
Ma
poi si ricordò che era quello ciò che aveva sempre inseguito. Lei voleva
diventare una campionessa. Lei voleva il titolo di campionessa del mondo. Voleva
diventare famosa.
«Allora.»
si risolse a dire stringendo la mano al suo futuro rappresentante «Spero che
presto avremo occasione di lavorare insieme.»
Al pomeriggio,
con i risultati più importanti ormai fuori questione, parte del pubblico della
mattinata se n’era andato, ma nel palazzetto vi era ancora comunque molta
gente.
Luna
scese in campo per prima, opposta a Pride, uno scontro virtualmente deciso in
partenza, ma che invece si rivelò avvincente come quasi tutti quelli che
l’avevano preceduto. La bruna si fece valere, e complice anche il fatto che
Pride, con i primi due posti ormai irraggiungibili e il terzo saldamente tra le
mani, non aveva grandi stimoli, al termine dei quindici minuti regolamentari
non vi furono vincitori. Come già accaduto in un paio di occasioni si andò al
verdetto dei giudici, che assegnarono ai due contendenti quasi lo stesso
punteggio: 2100 punti per Pride, 2000 per Luna.
Dopo
questa battaglia il distacco tra Luna e Claymore era di appena duecento punti,
ma vincendo il nervosismo il quarto in classifica riuscì ad allungare
nuovamente strapazzando, pur senza quello strapotere che ci si sarebbe aspettato,
un ormai avvinto Golem, riportando la differenza oltre i millecinquecento
punti.
Il
che non era una buona notizia.
Teoricamente
i giochi erano ancora aperti, tenendo conto anche del fatto che lo scontro
diretto tra i due doveva ancora essere disputato, ma secondo i più ormai le
speranze per Luna di agguantare il quarto posto erano pressoché azzerate;
questo per il semplice fatto che, prima ancora di affrontare Claymore nel
faccia a faccia decisivo, le restava ancora da combattere la sfida più ardua,
quella con Helena, mentre di contro il suo avversario aveva ormai esaurito gli
avversari impegnativi.
Luna
era comprensibilmente preoccupata, perché sapeva di avere ben poche speranze di
rosicare punti ad un’avversaria che, pur conoscendo a menadito, era stata in
grado di sconfiggere pochissime volte, ma cercava di consolarsi pensando che in
ogni caso perdere proprio contro la sua migliore amica era infondo il male
minore.
Poi,
però, accadde qualcosa.
Nel
suo primo incontro del pomeriggio Helena era opposta a Draxer, una sfida senza
storia che infatti la vide in vantaggio dall’inizio alla fine.
Tuttavia,
proprio nell’atto di assestare il colpo di grazia, la neo campionessa federale
volle esagerare, esponendosi più del dovuto con un assalto di sicuro effetto
scenico ma che la lasciò pericolosamente scoperta, e Draxer, per non cadere
senza combattere, contrattaccò con tutta la sua forza. Il risultato fu che
Helena, pur vincendo senza appello, riportò uno shock energetico non
indifferente, che pregiudicò seriamente la sua salute.
Anche
se le machina erano pensate per smorzare la sensazione del dolore, ma i colpi
troppo diretti o particolarmente violenti facevano comunque male, e anche per
chi non possedeva poteri magici il contraccolpo a livello a livello spirituale
poteva essere molto provante.
Per
un attimo si temette il peggio quando, all’apertura della machina, non fu in
grado di scendere da sola, ma per fortuna il personale medico in forza alla
manifestazione appurò che non era nulla di serio, anche se la gara per lei era
purtroppo finita.
«Helena.»
disse Luna correndole incontro mentre veniva portata via a spalla dai
paramedici
«Non
è niente.» la rassicurò lei guardandola amorevolmente «Mi dispiace. Sembra che
la nostra ennesima sfida dovrà attendere».
In
base al regolamento Helena avrebbe potuto chiedere ed ottenere subito il ritiro
per infortunio, cosa che non avrebbe minimamente pregiudicato il suo punteggio
né tanto meno la sua qualificazione, ma forse peccando di superbia ritardò
oltre il tempo consentito la sua decisione, magari nella speranza di poter
comunque disputare almeno una delle due sfide che le restavano.
Ciò,
per Luna, si tradusse in una vera e propria manna dal cielo. Sempre secondo il
regolamento, infatti, se un concorrente non si presentava nell’arena senza che
vi fosse un valido motivo ciò si traduceva per lui in una sconfitta a tavolino,
e per il suo avversario nell’assegnazione automatica del massimo punteggio
ottenibile, ovvero 3000 punti.
Così,
da un istante all’altro, si ebbe un clamoroso quanto inatteso ribaltone, con il
quarto in classifica che, dopo essere stato inseguito per tutta la mattina, si
ritrovò infine esautorato di quella posizione che aveva difeso con le unghie e
con i denti.
Ora
era Claymore a dover inseguire. In linea teorica, avendo da affrontare solo
Draxer, aveva ancora tutti i mezzi necessari non solo per effettuare un
controsorpasso, ma anche per rimettere una certa distanza tra sé e la sua
instancabile, oltre che molto fortunata, inseguitrice.
Ma
con l’ansia arrivò la disattenzione, e così nel suo penultimo incontro Claymore
racimolò la misera cifra di 1500 punti, che in pratica, pur restituendogli il
quarto posto, rese quasi inesistente il distacco da Luna.
Prima
dell’ultimo incontro, quello decisivo, la situazione era di 117310 punti per
Claymore contro i 117098 di Luna.
Dall’esito
della loro sfida dipendeva il nome del quarto candidato che avrebbe preso parte
all’Iron Virtual Tournament, così gli organizzatori pensarono bene di
riservarselo come incontro conclusivo della manifestazione, in un gioco della
suspense che ebbe l’unico effetto di far salire sempre di più l’ansia nel petto
di Luna.
Finalmente,
quasi alle otto della sera, venne il momento di scendere nell’arena.
Un
attimo prima di entrare nella machina Luna si vide venire incontro Helena,
appoggiata gioco forza ad un bastone ma in buone condizioni, e ancora una volta
strinsero le mani in segno di amicizia.
«Fatti
forza, amica mia. Io sono qui a sostenerti.»
«Grazie,
Helena».
Nel
momento in cui fu faccia a faccia col suo avversario al centro dell’arena, Luna
avvertì come non mai la sensazione di avere in mano le redini del proprio
destino.
In
base alle statistiche, Luna partiva decisamente avvantaggiata. Come il suo nome
lasciava intendere, infatti, Claymore brandiva un pesante spadone a due mani,
che garantiva un tremendo potere di attacco a discapito tuttavia di rapidità e
capacità difensive, e pertanto un vessel rapido come il lanciere, difetti che
potevano permettere ad un personaggio rapido come il lanciere, nonostante la
differenza in abilità offensive, di vere gioco facile.
Claymore
era consapevole di questa gap, e per i primi minuti del combattimento optò per
una strategia difensiva; il suo non era un grande vantaggio, ma a saperlo
gestire poteva essere sufficiente, quindi all’inizio lasciò a Luna
l’iniziativa, sperando in un suo eventuale passo falso per lanciare un
contrattacco.
Poi,
però, Luna a darci troppo dentro, rivelando un bagaglio tecnico tale da poter
aggirare la difesa di Claymore senza troppe difficoltà, piazzando una serie di
affondi vincenti che fecero pericolosamente pendere la bilancia in suo favore.
Luna
danzava come una libellula, colpiva e si allontanava, forte della sua agilità e
rapidità, guadagnandosi ben presto i favori di buona parte del pubblico che
prese a tifare per lei.
A
metà incontro Claymore finalmente realizzò che restare in copertura era un
suicidio e si decise a rispondere. Dal canto suo Luna, volendo approfittare
dell’iniziale indecisione del nemico per racimolare quanti più punti possibile,
aveva finito per stancarsi presto, così alcuni degli attacchi di Claymore
riuscirono ad andare a segno.
Dal
dodicesimo minuto in poi lo scontro si fece più equilibrato, ma fu chiaro che
nessuno dei due, con già sei incontri sulle spalle, aveva le forze necessarie
per chiudere la sfida. Gli ultimi due minuti furono lasciati correre senza
fallo, con i due contendenti che si tennero prudentemente a distanza l’uno
dall’altro, nella certezza, o nella speranza, di aver fatto meglio l’uno dell’altro.
Allo
scadere del gong, Helena corse alla machina di Luna senza neanche aspettare che
questa si riaprisse, e per i successivi, interminabili minuti, stettero mano
nella mano, gli occhi fissi al tabellone assieme al resto del palazzetto,
racchiuso in un irreale silenzio.
Finalmente,
dopo un tempo quasi doppio rispetto al normale, comparvero sul monitor i
risultati dello scontro.
WHITE ROSE: 1800
CLAYMORE: 1593
4)CLAYMORE: 118903
5)WHITE ROSE: 118898
Il pubblico
rimase ammutolito.
Cinque
punti. Cinque miseri punti.
Luna
lasciò andare senza accorgersene la mano di Helena, lasciando scivolare la
propria, tremante, lungo il corpo.
Dal
canto suo Claymore, passato lo stupore, si prese i peggiori fischi della sua
carriera di chandrista, e altrettanto i giudici, ma questo non avrebbe cambiato
il verdetto.
Ma
delle due, quella che sembrava maggiormente sconvolta era proprio Helena.
Non
voleva crederci.
Non
poteva esistere una cosa del genere.
«Questo…
è uno scherzo…» balbettò serrando i pugni «Cinque punti?».
Era
come essere inciampati ad un metro dal traguardo.
Erano
cose che succedevano una volta in una carriera, e nel caso di Luna era accaduto
nel momento peggiore.
Il
signor Boniek dovette essere trattenuto a forza dalsuo amico James dall’avventarsi sui giudici
per riempirli di botte, e si accontentò di coprirli di insulti mentre questi
scivolavano fuori dal campo di gara quasi scappando.
Quanto
a Luna, non riuscì a trattenere le lacrime, lasciandosi andare ad un pianto
liberatorio sulla spalla dell’amica, che la strinse a sé come a volerla
proteggere, e a poco servirono gli applausi scroscianti che il pubblico le
riservò per tentare di consolarla.
Poteva
aver perso la qualificazione, ma per tutti la vincitrice morale era lei; ma
questo di certo non la faceva sentire meglio.
Quella sera, come
al solito, le due ragazze tornarono a casa insieme, al seguito delle rispettive
famiglie, ma l’atmosfera che albergava era diametralmente opposta.
Da
una parte c’era l’entusiasmo della famiglia Loyde, che ormai vedeva sicura
davanti a sé la meta tanto inseguita, dall’altra la frustrazione e delusione
dei Warner, che quella meta se l’erano vista scivolare dalle dita proprio
quando stava per stringerla.
Le
due famiglie si conoscevano da troppo tempo perché i Loyde potessero gioire
pienamente senza tener conto dello stato d’animo dei Warner, e lo stesso si
poteva dire delle loro figlie, con Helena che non aveva alcuna voglia di
festeggiare e Luna che camminava a testa bassa come una penitente, delusa con
il mondo e con sé stessa.
«Su
con la vita.» cercò di farle forza il signor Loyde, che la vedeva quasi come
una seconda figlia «Ti rifarai senza dubbio l’anno prossimo. Vedrai, al torneo
Helena riempirà di botte quel bastardo e ti vendicherà dell’affronto subito, ho
ragione?»
«La
seconda parte potevi risparmiartela, caro.» lo rimproverò la moglie.
Luna
ed Helena però non avevano alcuna voglia di vedere il bicchiere mezzo pieno.
Dentro
di sé sapevano che poteva accadere una cosa del genere.
Anzi,
era quasi scontato che accadesse.
Anche
ammesso che fossero riuscite a conquistare entrambe l’accesso al Virtual Iron
sarebbero dovute arrivare entrambe in finale per potersi giocare a pari
opportunità il passaggio di categoria, con l’ulteriore pressione per la
perdente di dover vincere un secondo scontro.
A
conti fatti, cercò di pensare Helena, forse era meglio così. Perdere la
qualificazione tra i professionisti al torneo, magari perdendo sia la finale
che l’incontro salvezza con l’ultimo dei professionisti, sarebbe stato
sicuramente più doloroso e frustrante che venire tagliati fuori durante la fase
finale del campionato.
Ma
questo la obbligava a vincere.
Se
avesse perso la possibilità di qualificarsi, l’anno prossimo sarebbero state
punto e a capo, in lotta per un traguardo che raggiungere mano nella mano si
stava rivelando, nella realtà dei fatti, impossibile.
Cercò
di farsi forza, e di trasmetterla come ogni volta alla sua migliore amica.
«Vedrai,
è solo un altro anno. Ce l’avevi quasi fatta. La prossima volta, ci riuscirai
di sicuro».
Questa
volta, però, Luna non riuscì proprio a farsi contagiare.
Forse
perché, dentro di sé, quella foga battagliera che mai le aveva fatto difetto
per la prima volta era venuta meno, sopraffatta dalla realtà della vita.
Non
sempre si poteva avere tutto, e la maggior parte delle volte le cose sfuggivano
al controllo. Ed era un concetto al quale si sarebbero dovute abituare presto.
Si
erano illuse per troppo tempo che il chandra fosse la soluzione a tutti i
problemi. Forse era vero, ma di certo riuscire a risolverli tutti in un colpo
solo forse era pretendere troppo.
Due
settimane dopo, come da pronostici, alla United Arena di Midgral, Helena
sollevava al cielo il trofeo del Virtual Iron Tournament, e con esso la tessera
d’oro zecchino che valeva l’ammissione nell’olimpo dei grandi.
Sentire
gli applausi del pubblico, stringere nelle sue mani quel traguardo così a lungo
inseguito, era un qualcosa che la sua mente ancora quasi non riusciva a
concepire.
Luna
era lì, in tribuna, che la guardava sorridendo, e cercando per quanto possibile
di nascondere dietro ad un sorriso, per quanto sincero, tutta l’amarezza che
stava provando al pensiero che avrebbe potuto esserci anche lei lì, sull’arena,
a giocarsi le sue carte.
Dal
canto suo, Helena era così felice da poter toccare il cielo con un dito.
Ce
l’aveva fatta.
Si
era guadagnata la sua grande occasione, l’aveva sfruttata, e ora ne godeva i
frutti.
Quella
di Luna, invece, doveva aspettare, ma sarebbe arrivata.
Sarebbe
venuto il momento in cui i loro posti si sarebbero invertiti, con la bruna
trionfante nell’arena e la rossa seduta tra il pubblico invocante il suo nome.
Ne
era sicura.
«E invece?»
«E invece le cose sono andate
diversamente.
Ce l’avevo fatta.
Ero diventata qualcuno.
In quel momento ero così felice,
così fuori di me al pensiero di esserci riuscita, che ogni altra cosa mi parve
secondaria.
Da quel giorno, per me è stato
come entrare in un altro mondo.
Tutto è cambiato.»
«In meglio o in peggio?»
«Dipende dai punti di vista.
Allora, per quanto mi vergogni ad ammetterlo, credevo in meglio».
Solo una
settimana dopo aver vinto il Virtual Iron, venne per Luna il momento di
trasferirsi.
James
curava già gli interessi un paio di professionisti, la maggior parte ancora
semisconosciuti, e oltre all’ufficio disponeva anche di alcuni appartamenti nel
secondo distretto, un po’ più vicino agli interessi veri.
I
genitori di Helena erano troppo integrati nella realtà del loro quartiere, e
comunque troppo spaventati da ciò che li attendeva in quel mondo scintillante
per seguire la figlia, così, da un giorno all’altro, Helena si ritrovò quasi
sola, in un appartamentino senza pretese ma di buon pregio a gestire
autonomamente la sua vita.
Di
lavorare non se ne parlava, e comunque non era necessario.
Per
poter mantenere lo status di professionista bisognava partecipare ad un numero
minimo di combattimenti l’anno tra tornei e incontri individuali, e se da
dilettanti tutto quello che si poteva ottenere erano i punti per salire in
graduatoria da professionisti vincere voleva dire intascare un bel po’ di
soldi.
Helena
quasi non ci credeva: era pagata per fare ciò che più le piaceva.
Non
erano i compensi faraonici degli incontri di prima categoria, ma ce n’era
abbastanza per pagarsi di che vivere, e con quello che avanzava riusciva persino
a divertirsi, tra discoteche e gite pomeridiane in qualcuno dei molti centri
commerciali attorno a casa sua.
In
media Helena combatteva uno o due incontri a settimana, quasi sempre in città o
comunque entro i confini nazionali, e circa una volta al mese prendeva parte ad
uno dei molti tornei organizzati dalla federazione, da circoli sportivi o
persino da privati, miliardari pieni di soldi che per rendere speciali i propri
eventi mondani offrivano ai loro ospiti l’ebbrezza di un combattimento personalizzato
visto a vicino.
Quando
non doveva combattere Helena si allenava, se non altro per tenere il passo con
i propri avversari, che stavano rivelandosi di giorno in giorno ben più ostici
di quelli che aveva conosciuto finora. Avrebbe voluto allenarsi nella sua
palestra, anche per tenere d’occhio l’andamento di Luna, ma c’era decisamente
troppa strada a separarla dall’ormai riabilitata e molto ricercata Pugno
d’Argento, e così il più delle volte si esercitava in qualcuna delle palestre
del circondario.
Ogni
tanto Luna andava a trovarla, ed insieme passavano piacevolmente le ore
ricordando gli anni passati, o fantasticando il momento in cui avrebbero potuto
nuovamente stare insieme con più regolarità.
Forse
per via dello shock dovuto anche alla morte improvvisa del signor Boniek, le
prestazioni di Luna erano un po’ calate a sei mesi dalla delusione nella fase
finale del campionato, ma nonostante ciò il suo terzo posto nella classifica
della propria federazione rendeva la sua partecipazione al prossimo Virtual
Iron relativamente sicura.
Lentamente,
Helena stava iniziando ad adattarsi a quel mondo che aveva tanto inseguito, e
che, a guardarlo dall’interno, non sembrava poi così diverso da quello in cui
era vissuta per tutti quegli anni.
Forse
era più sfarzoso, più elegante, e magari anche più ipocrita, ma la gente era
sempre quella, eccezion fatta per i vestiti raffinati, le belle macchine, i
divertimenti e tutto il resto, e così la routine quotidiana, divisa tra
allenamenti, qualche incontro e un po’ di svago.
Indubbiamente
il tempo libero era molto aumentato, così tanto che Helena quasi non sapeva che
farsene.
I
ritrovati tecnologici per il divertimento bene o male finivano sempre per
stancarla in fretta, e non era ancora così famosa da avere le giornate perennemente
occupate da conferenze stampa e incontri con i sostenitori.
Così,
si allenava, molto e con costanza, aumentando sempre più il suo bagaglio di
esperienza.
Ma
ora Yuppie, quel vessel che negli anni era diventato come una sua seconda
pelle, era solo un ricordo.
Ora
c’era Octavia, la bella e leggiadra soldatessa che infilzava avversari a colpi
di fioretto, letale come un serpente e aggraziata come una rosa selvatica.
Dapprincipio
non aveva gradito per nulla la richiesta del suo agente di cambiare il proprio
vessel, e anzi aveva minacciato di fare coriandoli del contratto appena firmato
se non le avessero permesso di continuare a combattere nei panni di Yuppie.
«Cerca
di capire, Helena.» le aveva dunque spiegato James «Il chandra professionistico
è tutta un’altra cosa. Il pubblico vuole personaggi che ispirino fiducia, e
belli da vedere.
Non
dico che Yuppie non lo sia, ma è un po’… come posso dire… troppo sopra le
righe».
Difficile
capire se per sopra le righe James intendesse il trucco un po’ pesante, i capelli
laccati, l’abbigliamento leggermente succinto o tutte queste cose insieme;
stava di fatto che era buona norma per chiunque intendesse puntare in alto
evitare personaggi troppo appariscenti e originali, se non altro per non dare
alla stampa scandalistica e ai paparazzi più materiale di pettegolezzo di
quanto già non ve ne fosse.
Alla
fine, pur con qualche riserva, Helena si era dovuta adeguare, anche in ragione
del fatto che ottenere i favori del pubblico e della stampa era l’unico modo
per poter sperare in un avvenire; era la folla a scegliere i suoi campioni, e
solo i campioni potevano aspirare ai traguardi più importanti, quelli che lei
voleva assolutamente raggiungere.
Così
Yuppie se n’era andata, con tutti gli onori ed il rispetto dovuto a chi aveva
contribuito così tanto a renderla grande, e al suo posto Helena aveva dato vita
ad Octavia; fluenti capelli biondi, occhi verdi e luminosi, espressione
austera, ovale leggermente appuntito, portamento elegante, veste bianca e rossa
da cavallerizza e qualche scampolo di armatura senza grande importanza, così,
per renderla più accattivante.
Come
arma, uno stocco, più efficace di una comune sciabola per chi come lei faceva
dell’agilità la propria arma principale.
«Capisci ora perché odio tanto
Octavia?»
«Non incolpare il tuo Vessel.
Sei tu che ti sei voluta confermare.»
«Quando ho creato Yuppie,
l’avevo pensata come una parte di me. Era l’altra me stessa, la mia immagine
allo specchio. Selvaggia. Ribelle. Sempre pronta a combattere, a prescindere
dagli ostacoli.
Octavia, invece… lei non era che
una maschera. Un fantoccio dentro al quale mi nascondevo, buono solo per
suscitare gli applausi del pubblico mettersi in posa per i fotografi.»
«Eppure, ti piaceva se non
sbaglio. Essere come lei.»
«Effettivamente, forse è così.
In qualche modo mi faceva sentire parte di quel mondo. Potevo vestirmi bene,
indossare belle scarpe, arredare la mia casa, camminare per quelle strade, ma
in qualche modo mi sentivo sempre un’estranea. Quando diventavo Octavia, invece
ero come loro.
E con il tempo, Octavia ha fatto
il lavoro per me. Octavia piaceva alle folle, quindi piacevo anch’io. Così, ho
finito per farci l’abitudine.»
«Poi, è arrivato Monagan.»
«Già. È arrivato Monagan. Ha
schioccato le dita, e tutto è cominciato.
O forse, è finito.»
I campionati per
professionisti funzionavano in modo diverso rispetto a quelli destinati ai
principianti.
Anzitutto
esistevano due classifiche ufficiali; la prima, di livello mondiale, veniva
stilata in base al punteggio totale che ogni chandrista accumulava nel corso di
tutta la propria carriera fino al momento del ritiro, mentre la seconda,
diversa da nazione a nazione, aveva cadenza annuale.
Ed
era la classifica annuale quella che contava maggiormente, perché solo chi alla
fine dell’anno primeggiava nel proprio campionato nazionale veniva ammesso al Chandra World Championship, il
campionato mondiale di lega che incoronava il più grande chandrista del mondo,
a condizione ovviamente che questi riuscisse in ultima battuta ad avere la
meglio sul suo predecessore.
Ciò
faceva sì che non sempre chi svettava nella classifica internazionale fosse
anche l’attuale campione del mondo in carica; ciò serviva a rendere la lega
mondiale più dinamica, e virtualmente aperta a tutti, o quantomeno a chiunque
avesse la forza per arrivare fino al più ambito dei traguardi.
Nel
suo primo anno da professionista Helena totalizzò diciassette vittorie e otto
sconfitte a livello individuale, e sette medaglie, di cui tre d’oro, nei dodici
tornei ai quali prese parte, concludendo il campionato al quarantatreesimo
posto.
Oltre
ai confini nazionali era ancora fondamentalmente sconosciuta, ma a Caldesia il
pubblico era già pazzo di lei, ed il suo nome cominciava ad essere accostato
dalla stampa sportiva a quello delle grandi promesse della sua generazione, che
avanzando a larghi passi scalciavano per scaraventare gli ormai attempati
campioni dell’ultimo decennio giù dai loro piedistalli.
James
fu sempre molto premuroso nei suoi confronti, sforzandosi di procacciarle buoni
incontri senza per questo darla in pasto allo sciacallo di turno, e ciò aveva
contribuito a rafforzare la sua nomea di campionessa pura, non intaccata da
quello sporco che infangava, ed era una cosa nota a tutti, la maggior parte dei
chandristi di alto profilo.
Era
inevitabile che una come lei, una delle poche chandriste donne ad aver
conquistato le prime pagine, attirasse l’attenzione della gente che contava.
Un
giorno, nell’ufficio di James si presentò un uomo di mezza età, basso e
grassoccio, in testa pochi capelli nerastri, faccia butterata e labbra piccole.
Monagan
Raius.
L’agente
dei grandi campioni.
Nell’ambiente
lo chiamavano Il Re D’Oro, perché aveva la fama di cavar fuori denaro da
qualunque cosa toccasse, a cominciare dai giovani e promettenti chandristi.
Helena
non ebbe modo di ascoltare per intero la conversazione, perché James la invitò
fermamente a lasciarli soli in ufficio, ma poté udire distintamente una cifra:
sedici milioni di kylis.
Tanto
era disposto a sborsare il Re D’Oro per avere tra le mani le sorti e la
carriera della Rosa di Kyrador, come la stampa l’aveva soprannominata, e farne
la più grande campionessa che il mondo avesse mai visto.
Qualunque
procuratore o agente si sarebbe prostituito per un’offerta simile, ma non
James.
Aveva
fatto una promessa a Boniek, e non voleva gettare Helena in pasto a quella
marmaglia affamata di soldi, così buttò letteralmente il Re d’Oro fuori dal suo
ufficio, intimandogli di stare lontano da uno qualsiasi dei suoi ragazzi se non
voleva passare dei guai.
«Non
preoccuparti,Helena.» rassicurò la
ragazza «Non permetterò a quegli squali di metterti le mani addosso».
Rassicurazione
inutile.
James
era una brava persona, onesta e rispettosa, e per questo fuori luogo in un
mondo come quello del chandra professionistico.
In
base al contratto firmato dai suoi ragazzi lui prendeva il 10% di tutte le
vincite come compenso retributivo, ma i soldi veri, quelli per mandare avanti
la baracca, arrivavano soprattutto dalle commissioni e dagli sponsor.
Così,
quando il suo principale finanziatore, il gruppo industriale Kleiner, fu
travolto ed affossato da uno scandalo di proporzioni colossali, la stabilità
economica del giovane procuratore andò da un momento all’altro gambe all’aria.
Per
un po’ James riuscì a tirare avanti in qualche modo, destreggiandosi tra
piccole corporazioni che di quando in quando scucivano un po’ di soldi, ma
nessun grande gruppo industriale dimostrò di voler avere qualcosa a che fare
con qualsivoglia realtà collegata al presidente del gruppo Kleiner, il cui nome
era stato trovato tra quelli dei principali fiancheggiatori dell’ormai
dimenticato gruppo sovversivo Avalon.
James
era disperato.
Da
un momento all’altro aveva visto quella posizione così faticosamente costruita
crollare come un castello di sabbia, e il futuro per lui, ma soprattutto per i
suoi ragazzi, si presentava nero come la notte: nessuno avrebbe scritturato per
un incontro un chandrista associato ad un ufficio coinvolto in uno scandalo e
prossimo al fallimento.
E
fu allora che Monagan si ripresentò nel suo studio, pomposo e sicuro di sé come
la prima volta.
Il
Re d’Oro aveva capito con che tipo di persona aveva a che fare, ed era sicuro
che riproporre la medesima offerta sarebbe stato del tutto inutile, ma stavolta
aveva altri progetti.
L’assegno
che James si era visto sventolare sotto al naso la prima volta gli fu
nuovamente mostrato, ma stavolta aveva uno zero in più. Centosessanta milioni
di kylis per avere tutto, l’intera baracca, ovviamente compresa di atleti, fin
anche alla stessa persona del giovane procuratore.
Monagan
aveva molti amici, e qualunque società avrebbe fatto carte false per lavorare
con lui; la sua reputazione, almeno quella ufficiale, era impeccabile, e
nessuno avrebbe fatto caso ai trascorsi di una delle molte società che lui ed
il suo gruppo controllavano.
In
realtà, più che di un’offerta si trattava di un ricatto, per non dire di una
presa in giro. Una società di chandra professionistico con una decina di atleti
che messi insieme facevano quasi tre milioni di punti nella classifica di lega
mondiale e che mai una volta erano scesi sotto la centesima posizione in quella
nazionale valeva ben di più di 160 milioni; a condizione ovviamente di non
essere ad un passo dalla bancarotta.
James
poteva scegliere: piegare la testa e mantenere il suo posto, e con esso un
minimo di autorità nella gestione dei suoi atleti, o fare il moralista e andare
a fondo lasciando quei ragazzi al loro destino, prede facili per individui
molto più spregiudicati e pericolosi del Re d’Oro.
Così,
James firmò, e da un giorno all’altro la Morales Talent Scout divenne parte del
colossale gruppo sportivo Raius.
Teoricamente
James poteva ancora esercitare una qualche forma di autorità nei confronti dei
suoi ragazzi, e di Helena in particolare, ma di anno in anno la sua figura
venne sempre più messa ai margini del progetto che il Re d’Oro aveva in mente,
fino a diventare nulla più che un fantasma, una presenza insignificante
assimilata ed inglobata in una realtà fatta apposta per lasciarlo fuori.
Dal
canto suo, per Helena fu come percorrere nuovamente il passo che portava
dall’anonimato alla gloria.
Aveva
un piccolo appartamento senza pretese, e da un momento all’altro si vide
regalare dal suo nuovo agente, quale segno di buon augurio per una proficua e
felice collaborazione diceva, un attico all’Heaven’s Gate, il nuovissimo
grattacielo del quartiere di Pleinarth, distante meno di un miglio
dall’acropoli.
Neanche
la parola superlusso bastava a indicare ciò che vi era lì dentro.
I
tavoli, le sedie e i mobili erano in avorio o in legno pregiato, gli infissi
laccati e i pomelli delle porte placcati in oro, e la vasca da bagno sembrava
più una piscina. Nel salotto, poi, la parete accanto al tavolino da tè era
interamente in vetro, una porta aperta su quello skyline che per tanti anni
Helena aveva potuto vedere solo da lontano, e che ora invece quasi sovrastava.
L’unico
neo era il colore delle pareti, con il nero e i toni scuri in generale che la
facevano da padroni.
«È…
è stupendo.» disse quasi senza parole
«Ti
piace?» le disse Monagan «Questa sarà la tua casa.»
«Ma
è un complesso così lussuoso. E io, non sono ancora nessuno…»
«Tu
sei troppo modesta, ragazza mia. Fidati di me, da qui a meno di due anni sarai
tra le dieci persone più famose al mondo. Farò di te la più grande stella mai
vista nella storia del chandra».
Maciò non serve a diminuire il senso di
disgusto che ripensandoci adesso sento di provare nei suoi confronti.»
«Non cambi mai. Perché dai la
colpa solo a lui? Sei tu che hai accettato quella situazione.»
«E che altro potevo fare? Tenevo
troppo al mio sogno.»
«Ancora con questo sogno. Non
sarà che lo usi come un pretesto? Se ci pensi, è sempre stato così. Tu non
volevi vincere perché combattere ti piaceva, volevi vincere perché quello che
avevi non ti bastava mai. Volevi sempre di più. Guardavi quelle persone ricche,
pompose e inondate di lusso. Da una parte ti disgustavano, ma dall’altra eri
gelosa. Volevi quello che avevano loro. Alla luce di tutto ciò, non credi sia
giusto definire quel sogno di bambina solo un pretesto? Soprattutto se pensi a
quello che è successo nei due anni a venire.»
Helena fu gettata
in un mondo che non avrebbe mai immaginato.
Fino
a poco tempo prima era nessuno, uno dei tanti professionisti o presunti tali
che si facevano in quattro nella speranza di diventare qualcuno.
Ora,
invece, aveva al proprio servizio un esercito di attendenti tra guardie del
corpo, agenti, pubblicitari e persino fan a pagamento pagati per applaudire, e
quelle volte che usciva all’esterno per conto proprio aveva sempre una specie
di corteo alle proprie spalle.
Non
la lasciavano uscire spesso; obbedendo alla strategia pensata da Monagan, agli
occhi del pubblico Helena, ma soprattutto Octavia, dovevano apparire come
figure quasi soprannaturali, che apparivano solo in occasione di mirabolanti
incontri per poi scomparire inghiottite dall’anonimato, almeno fino alla sfida
successiva. Tutto ciò risultava accattivante per il pubblico, generando
interesse e curiosità, che si traduceva in un numero sempre crescente di
ammiratori.
Ai
suoi ordini, poi, aveva nientemeno che il leggendario Mister Keith, il
preparatore atletico dei grandi campioni, che aveva preparato per lei un
programma speciale volto a renderla sempre più letale e inarrestabile, fatto di
uno stile di vita strettamente regolamentato, molta teoria e poca pratica, ma
non per questo meno efficace.
Quando
aveva un po’ di tempo, e non le andava di avere qualcuno intorno, Helena il più
delle volte se ne restava a casa, con la sola compagnia, a volte preziosa altre
insopportabile, della sua spectre.
L’aveva
chiamata Francine, come la cameriera protagonista di
una sitcom che guardava sempre da bambina, per quell’abito nero da servetta,
quella vocina sottomessa e rispettosa e quel portamento austero.
Sapeva
bene che si trattava solo di uno spettro, un fantasma digitale creato per dare
al proprietario della casa un volto umano al quale rivolgersi, ma sapeva bene
che si trattava solo di un ologramma, la cui parvenza di umanità era mero
frutto di una programmazione che poteva essere riscritta in qualsiasi momento.
Lei
badava all’abitazione, controllandola come una mente controllerebbe il proprio
corpo, lasciando ad Helena il mero piacere di godersi quella specie di castello
delle fate dove tutto era a portata di voce, e dove bastava un comando per
avere qualunque cosa desiderasse.
Con il passare
dei mesi, però, il tempo libero divenne per lei un lusso sempre più raro.
James
era un bravo procuratore, ma limitato nelle possibilità dai propri scarsi
mezzi.
Monagan
invece era il Re d’Oro. Non c’era niente che non potesse ottenere.
Helena
prese a viaggiare per tutto il mondo, visitando luoghi dei quali aveva solo
sentito parlare o visto alla televisione.
Da
Eyban ad Alepto, da Fhirland a New Aalborg, fino ad Amara e alle nazioni più
distanti, e ovunque andasse trovava frotte di campioni pronti a sfidarla. E non
si trattava di mezze tacche, o degli sconosciuti professionisti per caso che
aveva affrontato fino a quel momento, ma del meglio del meglio che ogni singola
nazione avesse da offrire, i campioni dei campioni.
Ma
nessuno di loro era capace di reggerle il confronto.
L’addestramento
speciale preparato da mister Keith la stava rendendo, giorno dopo giorno, una
macchina inarrestabile, un uragano che spazzava via senza pietà chiunque le si parasse
davanti. Non importava in quale posizione il suo nemico si trovasse, perché lei
puntualmente ne faceva scempio.
E
se anche qualche volta le capitava di perdere, al momento della rivincita le
sorti immediatamente si capovolgevano, tramutando una prima, bruciante
sconfitta in una seconda gloriosa vittoria.
Il
pubblico prese a conoscere sempre più il nome della Rosa di Kyrador: tutti o
quasi la adoravano, e nel momento in cui posava i piedi all’interno di un’arena
stadi interi crollavano sotto le grida assordanti, il battere di mani e le
esclamazioni entusiaste degli speaker.
Helena,
per ogni giorno che passava, ci capiva sempre meno.
Era
come trovarsi all’interno di un vortice, che per quanto ci provasse non
smetteva un momento di trascinarla sempre più in alto, verso l’olimpo.
Stadi
interi che chiamavano il suo nome, folle di ammiratori, e ragazze in particolar
modo, che impazzivano al solo vederla, e la sua immagine proiettata a
dimensioni titaniche in ogni angolo di ogni singola città, come una sorta di
nuova divinità del chandra al cospetto della quale tutti si prostravano.
Era
questo che stava diventando.
Una
dea.
E
un po’ le piaceva. Non capiva gran parte di quello che le succedeva intorno, ma
una cosa la sapeva: le piaceva essere amata, ammirata, e le urla esaltate del
pubblico divennero presto per lei come una droga, un qualcosa di cui non poteva
fare a meno.
Ma
per essere davvero una dea doveva vincere, così, un giorno, decise che da quel
momento non aveva mai perso.
Del
resto, Monagan l’aveva avvertita. Per quanto potesse diventare grande,
l’affetto del pubblico era un qualcosa che mutava spesso, e che rischiava di
andare perduto anche con un solo passo falso.
Per
questo continuò a combattere, e a vincere, senza mai fermarsi, lasciandosi
trasportare ovunque vi fossero nuove sfide da combattere, fino al giorno in cui
mise piede nella Magic Arena, stavolta come chandrista, per prendere parte alla fase finale del
campionato mondiale.
Un
attimo prima di scendere in campo per il primo incontro, promise a sé stessa
che non sarebbe uscita da lì senza quel titolo che ormai sentiva già come suo,
e che ora doveva solamente reclamare; dopotutto, le apparteneva. Nessuno lo
meritava più di lei.
E
così accadde.
Uno
dopo l’altro, i suoi avversari caddero sconfitti, fino a che non ne rimase
solamente uno; un solo ostacolo, ultimo, da superare, e tutto sarebbe stato suo.
Mida
ormai era storia passata.
Il
suo regno era durato solo un anno, cosi come quello di quasi tutti coloro che
lo avevano seguito, ma da due anni il titolo apparteneva all’unica persona che
dai tempi di Bison era stato capace di conservarlo
per più di una stagione: Viking.
Era
un avversario pericoloso, il più pericoloso che avesse mai affrontato, ma ciò
nonostante Octavia non si tirò indietro.
Doveva
vincere.
Come
suonò il gong la ragazza si lanciò all’attacco, forte della superiorità che
sentiva di aver acquisito visionando ore e ore dei precedenti combattimenti di
Viking.
Quell’accozzaglia
di muscoli era un vero esibizionista. Amava mettersi in mostra, e durante tutti
i suoi incontri aveva fatto sfoggio di ogni possibile tecnica e strategia,
dando modo ad Octavia, ovviamente con l’aiuto di mister Keith, di assimilarne
la tattica e studiare le opportune contromosse.
Fu
una sfida incredibilmente facile, anche troppo facile per l’importanza che
aveva, tanto che parte del pubblico prese persino a fischiare, delusa
dall’apparente pochezza di uno dei contendenti.
Viking
andò al tappeto in meno di cinque minuti, dopo aver passato praticamente
l’intero match a difendersi disperatamente dai continui assalti della sua
avversaria, che non paga della sua evidente superiorità volle ridicolizzare
l’avversario concedendogli l’umiliazione del ring out, ovvero il lancio del
vessel oltre i bordi dell’arena per provocare la disconnessione e la
conseguente sconfitta.
Un
vero smacco, soprattutto in una finale per il titolo, perché farsi scagliare
fuori dal campo di gara era indice di manifesta inferiorità.
E
allora, fu il trionfo.
«Popolo
di Kyrador!» annunciò il presentatore «Sembra proprio che il nostro re sia
stato detronizzato! Da questo momento, il regno del chandra ha la sua nuova
sovrana!
Signori
e signori, la nuova campionessa del mondo!
La
Rosa di Kyrador!
Octavia!».
Lo
stadio andò in tripudio.
«Octavia!
Octavia! Octavia!».
Octavia
si guardava attorno, come in trance, mentre uno stadio intero chiamava il suo
nome.
Ci
era riuscita.
Aveva
vinto.
Tutto
ciò che aveva desiderato. Quel sogno di bambina, quella fantasia apparentemente
irrealizzabile, era diventato realtà. Aveva reso reale l’impossibile, tramutato
il sogno in realtà.
Era
la più grande. La più grande di tutte.
E
adesso?
«E adesso?»
«Bella domanda. Ricordo che
passai la notte in bianco a domandarmelo.»
«È il piccolo inconveniente dei
sogni. Quando li realizzi, subito dopo ti senti perduto.
Dopo averli inseguiti per così
tanto tempo, perderli significa spesso perdere ciò per il quale si è
combattuto.»
«Ogni volta mi proponevo un
traguardo più grande. Prima volevo diventare una chandrista,
poi una professionista, poi una campionessa, poi la campionessa del mondo.
Sconfiggendo il pretendente che
si presentò l’anno successivo, poi, ottenni anche l’ultimo traguardo che ancora
mi mancava, quello di conservare il mio titolo.
Piansi la notte dopo aver
mantenuto il possesso della mia corona. Perché sentivo di non avere più alcun
traguardo da raggiungere.
L’anno che seguì, pensandoci
ora, fu come un film dell’orrore, anche se allora mi sembrava una bellissima
fiaba.
Quasi non combattei. Chiunque
teoricamente avrebbe potuto sfidarmi per reclamare il titolo, ma dopo
l’umiliazione che avevo inflitto a Viking nessuno o quasi ebbe il coraggio di
farlo.
La mia vita era tutta una
mondanità. Incontri con i fans, conferenze stampa,
interviste, feste esclusive.
Ho persino recitato una piccola
parte in un film.
Ogni giorno che passava
diventavo più ricca, più famosa, e sempre più grande. Dopo averlo inseguito, di
quel sogno, o quel pretesto, che mi aveva tenuta sveglia per dieci anni, presi
a nutrirmi. Senza sosta. Senza respiro. Più mangiavo, più aumentava la mia
fame.
Era come una maledizione.»
«Eppure, non eri felice.»
«Sentivo che mi mancava
qualcosa. Qualcosa di elementare, e insieme di importantissimo. Ma per quanto
mi sforzassi, non riuscivo proprio a capire cosa fosse.
A pensarci, era così strano da
sembrare impossibile. Come poteva mancarmi qualcosa, se potevo avere tutto?»
«Non mi risulta che cuore e
sentimenti si possano comprare.»
«Infatti. E grazie al cielo, un
giorno, quella benda che mi ero messa sugli occhi come una stupida venne
finalmente squarciata.»
Tutto cambiò, o
tornò come prima, con una lettera.
Era
una mattina di inizio primavera. Dopo tante settimane spese tra incontri, cene
di gala, occasionali allenamenti ed impegni vari, Helena era riuscita finalmente
a ritagliarsi una giornata di riposo, ma come ogni volta si era ritrovata a
spenderla nel suo appartamento, seduta davanti al computer a leggere
distrattamente i messaggi di ammiratori e spasimanti nel tentativo di far
scorrere le ore.
Di
uscire non se ne parlava. Ormai, a meno di non camuffarsi da capo a piedi era
impossibile ormai per lei frequentare un qualsiasi luogo pubblico senza venire
notata, e di conseguenza accerchiata, da chiunque le passasse accanto. Con il
tempo quell’appartamento così a lungo sognato aveva finito per tramutarsi in
una gabbia dorata, l’unico al posto sulla faccia del pianeta in cui la giovane
donna potesse trascorrere un po’ di tempo con sé stessa.
A
prima vista sembrava una mail come tante altre, ma questa aveva qualcosa di speciale,
perché era indirizzata ad una certa Yuppie.
Un nome che Helena conosceva fin troppo bene.
Chiunque
ne fosse il mittente doveva essere una persona molto speciale, qualcuno diverso
dagli altri, perché solo chi l’aveva conosciuta nella sua infanzia poteva
conoscere quel nome, uno dei suoi pochi segreti che la stampa e le riviste di
gossip non erano riuscite a disseppellire.
Leggendola,
Helena per un attimo sentì una fitta al petto.
Era
di Lynne Warner, la madre di Luna, che le chiedeva di
fare visita alla figlia in ospedale, dove era stata ricoverata in seguito ad un
non meglio specificato malore.
Helena
avrebbe voluto sprofondare per la vergogna, nel momento in cui si rese conto da
quanto e quale divario avesse finito per generarsi tra lei e quella che
teoricamente era la sua migliore amica, ora che appartenevano a due mondi
diversi.
Chissà
in quanti altri modi Lynne doveva aver tentato senza
successo di mettersi in contatto con lei, se per riuscire ad attirare la sua
attenzione era stata costretta ad usare quell’espediente.
Senza
pensarci sopra un momento salì in macchina e raggiunse l’ospedale St.Julius, nel quartiere popolare dove era nata e
cresciuta.
Nel
momento in cui rivide le vecchie strade, le umili case, le viuzze sporche e
poco curate, fu come se un velo fosse stato improvvisamente sollevato da sopra
i suoi occhi, rammentandole tante cose che nell’ebbrezza del successo aveva
dimenticato.
Lei
proveniva da lì.
Era
quello il suo mondo, il mondo dove era nata e cresciuta. Non i palazzi
scintillanti o i salotti buoni di quell’aristocrazia supponente e ipocrita che
dentro di sé aveva sempre detestato.
Forse,
si disse entrando nel piccolo ospedale di periferia dove Luna era stata
ricoverata, era questo ciò che sentiva le fosse sempre mancato.
Quando
la vide venirle incontro, la signora Warner quasi pianse di gioia.
«Per
fortuna sei qui.» le disse abbracciandola «Ho cercato così tante volte di
contattarti.»
«Mi
dispiace. Che cosa è successo a Luna?».
La
donna spiegò ogni cosa, e ad ogni sua parola lo sguardo di Helena divenne
sempre più segnato dallo stupore e dallo sgomento.
Luna,
a sentire la madre, era stata colta da un malore durante una sessione di
allenamento in vista del campionato che avrebbe potuto segnare, finalmente, il
suo passaggio tra i professionisti, che negli ultimi anni aveva sempre ed
spiegabilmente mancato, quasi fossero venute meno quella forza e quella grinta
che l’avevano guidata nell’inizio della sua carriera, e già da due settimane
era ricoverata in ospedale per disintossicarsi dalle scorie magiche prodotte
dalla continua permanenza nella machina.
All’inizio
era sembrato un normale esaurimento, come succedeva di tanto in tanto agli
atleti troppo spregiudicati, ma poi, impietoso, era arrivato il giudizio finale
dei medici.
Lo
scompenso era stato tale da avere effetto sul fisico di Luna, minando in
maniera forse definitiva la sua soglia di resistenza al contatto con lamagia.
In
altre parole, Luna quasi sicuramente avrebbe dovuto dire addio al chandra.
«Ma
ne sono sicuri?» domandò non volendo crederci.
«Le
ho parlato. Le hanno parlato anche i medici. Ma tu la conosci. È testarda e
ostinata. Ma forse, se le parlassi te, riusciresti a farla ragionare».
Helena
entrò nella stanza dopo molte esitazioni, temendo in modo in cui sarebbe stata
accolta, ma ciò che si trovò di fronte la lasciò senza parole.
Quella
che era distesa sul letto, attaccata ad una macchina per il drenaggio
dell’energia, non sembrava neanche lontanamente la Luna che aveva conosciuto, e
di cui si era finalmente ricordata. La rivelazione ricevuta dai medici e dalla
madre aveva svuotato il suo sguardo di quella ostinata determinazione che
l’aveva portata fino a lì, e il suo stesso corpo appariva segnato dall’enorme
stress che era stato costretto a subire, scavato nella carne e debilitato nel
fisico.
«Ciao,
Luna.» disse Helena quasi balbettando.
Lei
la guardò, e la giovane donna sentì quasi una fitta di dolore vedendosi
piantare addosso quegli occhi spenti e senza vita.
«Mia
madre ti ha mandato qui per convincermi a mollare tutto?» domandò dopo una
breve quanto scarna risposta al saluto
«Luna,
cerca di capire.» replicò Helena tentando di recuperare la freddezza e
l’autocontrollo «Questa volta ti è andata bene, ma la prossima potresti morire,
o anche peggio. E tu sai di cosa parlo, vero?»
«Sei
tu che non capisci.» rispose Luna mordendosi le labbra «Non importa cosa possa
darmi o dove possa condurmi.
Io
amo il chandra. È tutta la mia vita. Ogni volta che salgo sul ring, sento di
trovarmi nel posto che più mi si addice. Mi sento me stessa».
Helena
si sentì morire dentro, comprendendo finalmente ciò che la sua coscienza aveva
continuato insistentemente a cercare di rammentarle.
Il
chandra era uno sport. Lo sport più bello del mondo. Sia lei che Luna lo
avevano amato fin da bambine, trascorrendo l’infanzia a sognare il giorno in
cui avrebbero potuto finalmente praticarlo loro stesse.
Si
diede della stupida.
Quando
la passione si era tramutata in semplice strumento? Quando il volgare profitto,
la necessità di dover essere sempre la migliore, aveva preso il posto del puro
e semplice agonismo al fine di migliorarsi?
Le
lacrime di rabbia e di dolore che bagnavano il volto di Luna furono per Helena
più dolorose di un coltello piantato nel cuore.
In
lei, per un attimo, rivide sé stessa, al tempo in cui il chandra non era un
dovere ma una passione, e ogni battaglia non una guerra da dover vincere ad
ogni costo per restare grande ma un’occasione per migliorare e puntare in alto.
Non
se la sentì di distruggere i suoi sogni.
Forse,
pensò, Luna poteva arrivare ad essere una campionessa vera, pura, non come lei,
corrotta da quel mondo di soldi e notorietà che aveva inseguito per tutti
quegli anni. Non le importava che il successo per la sua migliore amica potesse
segnare la fine per lei e il suo prestigio, come non le era mai importato per
tutto il tempo in cui avevano lottato spalla a spalla.
In
quel momento voleva solo che Luna potesse continuare a sperare.
C’era
un modo per far sì che il suo sogno potesse proseguire.
«E invece?»
«Credevo di fare la cosa giusta.
Luna amava il chandra. Poteva diventare grande, ma soprattutto migliore. Molto
migliore di quanto mi fossi rivelata io.
Se non era mai riuscita a
diventare una professionista, era solo perché l’avevo lasciata sola.
Ero così impegnata ad inseguire
quel maledetto falso sogno che avevo finito per lasciarla indietro. Ero venuta
meno alla promessa che ci eravamo scambiate, e lei ne aveva sicuramente
sofferto molto. Per questo non era più stata la Luna che conoscevo. Per questo
si allenava come una matta senza tuttavia conseguire alcun apparente
risultato.»
«Per questo è successo ciò che è
successo.»
La giovane donna si accorse che
le sue mani tremavano, senza che potesse fare nulla per impedirlo.
«Che cosa ho fatto? Non avevo
già fatto abbastanza danni? Perché sono stata così stupida e cieca?»
La Magic Arena e le sue apparecchiature all’avanguardia erano
inavvicinabili per chiunque non fosse un professionista tesserato, ma alla
grande Octavia non si negava mai un favore.
Grazie
ad esse, e ad un programma d’allenamento sviluppato direttamente da mister
Keith, Luna poté tornare ad esercitarsi in relativa sicurezza, sotto la guida
della sua migliore amica, perennemente monitorata per tenere sotto controllo i
suoi sbalzi onde evitare nuove ricadute.
I
medici, nell’autorizzare con molte riserve la prosecuzione dell’attività
agonistica, avevano raccomandato sedute brevi e poco estenuanti, per non
sottoporre l’organismo ad inutili stress eccessivi, e per i primi mesi tutto
andò alla perfezione.
Luna
si sentì rinascere, ed Helena con lei, perché per la prima volta in tanti mesi
stava ricominciando ad amare sinceramente il chandra, e a riscoprire emozioni
troppo a lungo dimenticate.
Forse
fu anche per questo, soprattutto per questo, e per la volontà di non calpestare
i sogni della sua migliore amica, che Helena vide, o finse di non vedere, dei
segni che avrebbero dovuto metterla in allarme. Nei tre mesi in cui si
sottopose allo speciale allenamento in vista del torneo che avrebbe potuto
portarla al professionismo Luna alternò momenti di iperattività ad altri di
cronica debolezza.
Un
giorno era dilaniata da una fame insaziabile, l’altro non aveva quasi appetito.
Una volta poteva allenarsi e correre per un giorno intero senza fatica, quello
dopo era costretta a bere fino a star male per placare una sete senza fine.
Convinta,
o forse illusa, della assoluta sicurezza del programma sviluppato appositamente
per lei dal miglior preparatore atletico del mondo, Helena lasciò le cose come
stavano, impaziente come la sua amica che arrivasse quel momento così a lungo
atteso.
Poi
finalmente, venne l’ultimo giorno.
L’ultimo
tramonto prima che si alzasse il sipario sul VirtualIronTournament, che si sarebbe
tenuto eccezionalmente proprio nella Magic Arena, ed
al quale Luna si era classificata senza quasi fare fatica, tanto l’aver
ritrovato la propria migliore amica le aveva restituito tutte le energie e
l’agonismo perduti.
Ancora
una volta, era tutto nelle sue mani.
«Ci
siamo.» disse Luna osservando dall’alto degli spalti l’arena in cui il giorno
dopo avrebbe avuto in mano il suo destino «È domani».
Helena
era al suo fianco, come era stato per ogni singolo giorno degli ultimi tre
mesi. Per poterle stare accanto aveva cancellato o posticipato incontri
pubblici, contratti pubblicitari, interviste e anche alcuni incontri, gettando
al fumo contratti da milioni di kylis, ma questo era
niente in rapporto alla possibilità di recuperare il tempo perduto.
«Promettimi
una cosa.» disse Luna dopo un breve silenzio carico di emozione
«Che
cosa?»
«Promettimi
che se domani sarò io a vincere, torneremo in palestra e ci batteremo ancora
come una volta. Me lo prometti?»
«Certo.»
rispose Helena sorridendo gentile «Te lo prometto».
Si
strinsero la mano, come avevano fatto ogni volta fin da bambine per ribadire il
legame speciale che le univa, poi Luna propose alla sua migliore amica di fare
un ultimo incontro amichevole. Così, per riscaldamento.
Dapprincipio
Helena pensò di rifiutare, se non altro perché il giorno dopo Luna avrebbe
necessitato di tutte le sue forze per potersi misurare nel torneo, ma data
l’insistenza della ragazza alla fine si lasciò convincere.
«D’accordo.»
disse avviandosi giù per la scaletta «Ma solo dieci minuti».
Normalmente
serviva un attendente per poter manovrare le apparecchiature dell’arena, ma
Helena ovviò impostando il timer per limitare la durata dell’incontro, quindi
lei e Luna entrarono nelle machina ricomparendo sul terreno di gioco al comando
dei rispettivi vessel.
«Non
ti trattenere.» disse Luna roteando la sua lancia
«Sta
tranquilla, non intendevo farlo.» rispose beffarda Helena.
Fu
effettivamente un incontro acceso, senza esclusione di colpi, scandito dallo
scorrere dei minuti sul cronometro che sovrastava l’arena.
Luna
sembrava aver assimilato bene i frutti dell’allenamento, si batteva con
efficacia senza apparentemente risentire della fatica o dello stress. Aveva
solo un po’ di fiatone, ma a quei livelli e con un tale sforzo Helena pensò che
fosse una cosa normale.
A
metà della sfida, l’esito era ancora incredibilmente incerto, come era naturale
che fosse per due avversarie che si conoscevano a memoria.
Quello
che iniziò a non sembrare naturale, però, era il continuo ansimare di Luna.
D’accordo che si stavano battendo senza tregua, ma non era normale essere così sfiatati
dopo soli cinque minuti di battaglia.
Helena
iniziò a preoccuparsi.
«Qualcosa
non và?» domandò all’amica in un momento di tregua «Possiamo fermarci se vuoi.»
«Non
ce n’è bisogno.» rispose Luna appena riuscì a trovare il fiato «Devo aumentare
la resistenza, o domani non durerò a lungo.»
«Nessuno
degli avversari che incontrerai sarà al tuo livello. Non avrai difficoltà a
qualificarti. Ora però è meglio che ti fermi.»
«È
impossibile.» replicò Luna con una insolita ira «Se non riesco a reggere un
incontro di dieci minuti contro di te che ti conosco a menadito, come farò
quando sarò una professionista e dovrò affrontare avversari fortissimi di cui
non so nulla?
Andiamo
avanti!».
Helena
non sapeva cosa stava facendo, fatto sta che ancora una volta scelse di avere
fiducia nella sua amica e assecondò il suo desiderio, riprendendo lo scontro.
Il
fiatone non smise per un attimo, ignorato per quanto possibile da Luna, ma nel
momento in cui a questo andrò ad unirsi una furia aggressiva assolutamente non
comune Helena si rese finalmente conto che le cose stavano prendendo una brutta
piega.
«Adesso
basta, Luna.» disse tentando di farla ragionare «Dobbiamo smettere.
Disconnettiti».
Ma
era come parlare al muro. Luna non voleva saperne di arrendersi prima che
l’incontro fosse finito, e visto che nessuno poteva forzarla dall’esterno a
terminare la simulazione l’unica cosa da fare era sconfiggerla ponendo fine
all’incontro.
Helena
tentò alcuni dei suoi assalti più noti e letali, ma in quella specie di furia
da battaglia in cui era caduta Luna respinse buona parte degli attacchi, ai
quali rispose con insolita ed incontrollabile violenza. Guardandola negli
occhi, Helena quasi stentò a riconoscervi la propria amica.
«Basta
Luna!» continuava a dire nel tentativo di farla ragionare «Ti prego,
smettila!».
Mancavano
ancora due minuti alla fine dell’incontro, e quel punto l’unica cosa da fare
per Helena era lasciarsi sconfiggere, nella speranza che Luna in quella specie
di pazzia in cui sembrava essere sprofondata non esitassea colpire un’avversaria rinunciataria.
Helena
aveva già gettato la spada a terra offrendo la gola per ricevere il colpo di
grazia, quando Luna d’improvviso prese a dimenarsi come una dannata, urlando e
dimenandosi come se l’avessero trafitta migliaia di lame.
«Luna!».
Tentò
di correrle incontro, ma un attimo prima che potesse afferrarla il suo vessel
le si dissolse tra le mani. Un pessimo auspicio. Poteva significare solo che
qualcosa nella mente di Luna si stava deteriorando.
Per
fortuna Helena fece in tempo a gettarsi sulla lancia un attimo prima che
scomparisse dissolvendosi a sua volta, ma grande fu la sua angoscia quando, una
volta tornata nella machina, si accorse di non poterne comunque uscire.
Tutta
colpa della fretta con cui aveva programmato l’arena, che le aveva fatto
dimenticare di programmare l’arresto preventivo con conseguente apertura delle
machina prima che il tempo si fosse esaurito.
«Avanti
apriti, stramaledetta!».
A
forza di spinte riuscì a far saltare i cardini che serravano il portello, e uscita
raggiunse di corsa la capsula ancora chiusa di Luna attivando l’apertura
d’emergenza. Le luci che lampeggiavano ad intermittenza non erano per niente un
buon segno.
Come
la machina si aprì, una strana sostanza verde acqua simile a gel prese a colare
dall’interno del vano, e appena Helena poté guardare all’interno il suo
sguardo, da sgomento, si fece di puro terrore.
La
sua amica Luna era completamente avvolta da quella sostanza, i vestiti
sembravano essersi come liquefatti, e gli occhi erano completamente vuoti, due
biglie bianche la cui pupilla era a malapena visibile.
Avrebbe
voluto aiutarla, cercare di tirarla fuori, ma era talmente terrorizzata da
restare immobile. E anzi, quando Luna, trascinandosi, uscì dalla machina,
rantolando come moribonda sul pavimento freddo dello stadio, tutto quello che
inizialmente Helena riuscì a fare fu camminare all’indietro, cercando
ossessivamente di togliersi di dosso il gel che aveva sulle mani e sui vestiti.
Solo
in un secondo tempo, quando si vide guardare da quelle sfere bianche invocanti
aiuto, riacquistò l’autocontrollo.
«Luna!»
gridò inginocchiandosi e cercando di sollevarla.
La
ragazza alzò il capo, tremante, e dalla sua espressione, per quanto
parzialmente nascosta da quella poltiglia disgustosa che sembrava scaturire
direttamente dal suo corpo, era chiaro che sapeva cosa le stesse succedendo.
Era
il triste destino che attendeva chi osava più del dovuto nel giocare con la
magia. Anche chi non era un mago, in fin dei conti, possedeva i geni della
stregoneria, e se quei geni impazzivano il risultato era la perdita della
propria umanità, sia a livello fisico che, soprattutto, mentale.
Si
diventava come degli animali, bestie senza volontà la cui sorte era una sola.
«Helena…» disse con una voce che di umano non aveva quasi
nulla «Aiutami…».
Furono
le sue ultime parole.
Colpita
da una specie di violento conato, Luna prese a vomitare altro gel, facendo
arretrare Helena inorridita. Quella sostanza la ricoprì sempre di più, fino a
che il suo stesso corpo non parve mutarsi a sua volta in qualcosa di viscido,
senza una vera forma, gocciolante di poltiglia fangosa.
Ma
i suoi occhi, quelli, sembravano ancora gli stessi, per quanto vuoti, ridotti
ormai a due vetrini senza espressione. In essi, Helena riconosceva ancora la sua
amica che aveva conosciuto fin dall’infanzia, con cui era andata a scuola,
aveva fatto i compiti, giocato. La persona con cui aveva deciso di iniziare un
sogno condiviso, fatto di speranze, e della promessa di vivere sempre l’una per
l’altra.
Luna,
o quello che restava di lei, lanciò un urlo terrificante, quasi a voler
espellere la poca umanità che le rimaneva, e dopo qualche attimo nell’arena
arrivarono tutte le guardie di sicurezza dell’edificio, allertate dalle
immagini riprese dalle telecamere.
Si
trattava di una trasformazione di classe inferiore, poco più che un’inezia, e
loro dato l’incarico che svolgevano erano armati con proiettili speciali.
«Sparate!
Sparate!» ordinò il loro capo.
Helena,
trattenuta e tirata indietro a forza da due delle guardie, non poté fare altro
che osservare, urlante e impotente, gli altri uomini della sicurezza circondare
Luna e spararle contro senza esitazioni. La creatura quasi non tentò di
difendersi, come non chiedesse altro che venire uccisa, e dopo aver incassato oltre
cinquanta colpi, accasciatasi, emise un ultimo gemito per poi spirare.
Helena non riuscì a trattenersi,
e nascosto il viso dietro le mani si lasciò andare ad un pianto disperato,
gettando fuori quel dolore la dilaniava ogni qualvolta quelle immagini
tornavano a ripresentarsi nella sua mente.
«Perché piangi? Non è mica stata
colpa tua.»
«Dovevo fermarla! Non dovevo
permetterglielo! Se avessi avuto un briciolo di giudizio, se non fossi stata
così cieca, lei non sarebbe diventata quella… quella
cosa! Non sarebbe morta!
Ho spezzato il legame che avevo
promesso di mantenere per tutta la vita! Ho ucciso la mia migliore amica! L’ho
uccisa, io! Con queste mie mani!»
«Ognuno è artefice del suo
destino. Lo dicevi spesso una volta.»
«Questo dovrebbe farmi sentire
meglio?»
«È per questo che dopo quella
volta Helena, scusa, Octavia, è sparita dal mondo?»
«Con che coraggio avrei potuto
farmi rivedere in giro? Ora che finalmente avevo capito in che razza di mondo
ero finita? Da un istante all’altro, tutto mi sembrò inutile.
Il mio prestigio, la mia fama, i
miei soldi. Persino quel sedicente, maledetto sogno. Era tutta spazzatura! Io
ero spazzatura!»
«Finché non è arrivata lei.»
La giovane donna parve calmarsi,
e spalancò gli occhi in un senso come di stupore.
«Già. Lei. Ancora mi domando
come sia stato possibile».
Il mondo rimase
di stucco quando Octavia, la campionessa in carica, mancò all’ultimo la
partecipazione allo scontro per la difesa del suo titolo al termine dell’ultimo
campionato mondiale, perdendo di fatto la sua corona senza neppure essere scesa
nell’arena.
Ma
questo all’interessata non importava. Helena non voleva avere più nulla a che
fare con quel mondo.
Ma
d’altra parte, non poteva neanche tornare nel vecchio, al quale ormai non
apparteneva più.
Non
sapeva più niente. Non aveva certezze, né idee, né sensazioni.
Si
sentiva vuota. Come la sua casa, quel castello delle fiabe nel quale, da un
giorno all’altro, si rinchiuse, isolata dal mondo, lontana da tutto ciò che
aveva inseguito e cercato per tutta la vita, dagli affetti morali e materiali.
Sola.
Come sentiva di essere rimasta al mondo.
Passò
molto tempo, non sapeva quanto esattamente.
Era
un pomeriggio come tutti gli altri.
Helena
sedeva nel suo salotto, le tende tirate e le luci accese, gli occhi come persi
nel vuoto, che di tanto in tanto andavano a posarsi senza attenzione sul libro
che la ragazza aveva poggiato sulle ginocchia. Non ricordava neppure di che
libro si trattasse, tanto distrattamente lo aveva recuperato dal ripiano
appoggiato alla parete alle sue spalle.
D’un
tratto, Francine comparve al centro della stanza. I
suoi tratti erano cambiati; Helena aveva voluto cambiarli, anche se il perché
lei stessa non riusciva a comprenderlo: forse voleva illudersi che tutto fosse
ancora come prima, almeno un po’, o forse non voleva correre il rischio, semmai
fosse stato possibile, di dimenticare il suo peccato.
«Signorina,
hanno suonato alla porta.»
«Non
voglio vedere nessuno.» rispose Helena girandosi dall’altra parte «Né giornalisti
né nessun altro. Se è Monagan, poi, digli pure di andare al diavolo.»
«Come
desidera».
La
ragazza mora scomparve, per poi ricomparire qualche secondo dopo.
«Non
si tratta di ammiratori o giornalisti. È un agente della MAB. Una signorina. O
almeno così dice, visto che non ha potuto esibire il proprio distintivo».
Helena
ebbe come un momento di stupore: che cosa voleva da lei la forza di polizia
internazionale, che qualcuno definiva in realtà una vera e propria
organizzazione militare con funzioni civili, incaricata di vigilare sulla
prosperità del mondo assicurando il corretto uso della magia?
«Non
mi interessa.» sentenziò stizzita «Mandala via.»
«Ci
ho provato, ma dice che è molto urgente. Deve conferire assolutamente con lei».
Helena
si passò una mano tra i capelli, sbuffando contrariata.
«E
va bene, falla entrare».
Pochi
attimi dopo, dinnanzi a lei si palesò una ragazzina dall’aria spesata,
abbastanza minuta ma non per questo gracile, capelli marrone chiaro tagliati
piuttosto corti e grandi occhi verdi.
A
guardarla così, quasi tremante di soggezione, tutto sembrava meno che un
poliziotto.
Cercando
di non darlo a vedere, senza in verità riuscirci, la nuova arrivata si guardò
attorno; tutte le tende erano tirate, le luci ridotte al minimo indispensabile.
Sembrava la dimora di un vampiro, che rifuggiva il sole per timore di venirne
consumato.
«Scusi
il disturbo.» disse quasi a volersi giustificare «Sono l’agente Carmy O’Neill, della polizia militare.»
«So
chi siete.» tagliò corto Helena fissandola dritta in volto «Ha detto di dovermi
parlare con urgenza. Di che si tratta?».
Carmy
temporeggiò, colta dall’imbarazzo.
Il
suo silenzio parve incuriosì Helena, che si alzò dalla poltrona per avvicinarsi
e guardarla più da vicino.
«Certo
non sembra davvero un agente di polizia.»
«Me
lo dicono spesso.» replicò d’istinto Carmy, non sapeva se per sdrammatizzare o
cercare di calmare l’imbarazzo.
Helena
continuò a fissarla, e infine tornò sui propri passi.
«Francine.» disse sedendosi, e facendo accomodare anche la
sua ospite.
La
donna virtuale comparve nuovamente.
«Desiderate,
signorina?»
«Prepara
del caffè.»
«Come
volete.»
«Uno
spectre.» disse un po’ incredula Carmy vedendo la
proiezione sparire e la caffettiera che, subito dopo, si metteva in funzione da
sola.
«Non
sono mai stata brava nelle faccende domestiche. E ultimamente, come può
immaginare,non ho molta voglia di avere
gente che gira per casa. Lei lavora al posto mio.»
«Potessi
avercela anch’io un’aiutante così. La mia coinquilina ha il disordine nel
sangue, e spesso devo sistemare la casa per tutte e due ogni domenica.»
Il
fischio della caffettiera interruppe il discorso, ed Helena si alzò dalla
poltrona per andare in cucina.
Quando
rientrò in salotto, trovò la sua ospite in piedi accanto alla libreria, con in
mano quella foto ormai sbiadita che il signor Boniek aveva assistito per fare
alle sue allieve preferite nel giorno in cui aveva consegnato loro le tessere
CFC.
«È
una chandrista?»
«In
un certo qual modo».
Carmy
guardò un’altra volta l’immagine.
«Io
non seguo molto il chandra, ma non mi pare di averla mai vista. È da molto che
pratica questo sport?»
«Abbiamo
iniziato insieme. Ma ormai è da circa sei mesi che non è più in grado di
calcare l’arena».
Solo
allora Carmy si accorse che le mani di Helena tremavano.
«Mi
dispiace.» si affrettò a dire «Non sono affari miei, dopotutto».
Non
capiva cosa le stesse succedendo, ma sentiva qualcosa dentro di lei, come una
specie di calore. Era una sensazione famigliare, e ogni qualvolta le capitava
di incrociare gli occhi spauriti ma gentili della giovane agente la sentiva un
po’ più forte; posato il vassoio sul tavolino, si avvicinò alla vetrata e
scostò leggermente la tenda, quanto bastava per far entrare nella stanza pochi
raggi di luce.
Ormai
si appressava il tramonto, e quanto rimaneva del sole aveva già iniziato a
scomparire dietro i grattacieli, che avvolgevano Heaven’sGate come le sbarre di una gabbia, proiettando lunghe
ombre sulle strade sottostanti e i marciapiedi affollati di pedoni.
«Siamo
cresciute insieme.» disse cercando di scorgere il sole oltre i palazzi
«Vivevamo nello stesso quartiere. Immagino sappia a che cosa mi riferisco.»
«Credo
di sì.» rispose timidamente Carmy.
Fu
a quel punto che accadde qualcosa che Helena non avrebbe mai immaginato.
Non
capiva perché, e non riuscì a capirlo per tutti i minuti successivi, ma parlò.
Come
se una chiave invisibile avesse aperto il lucchetto del suo cuore, lasciò
uscire tutte quelle parole, quei pensieri, quei ricordi che aveva accumulato in
tutta la sua vita, e che per tanti anni si era gelosamente tenuta dentro, un
bagaglio emotivo che pensava non avrebbe mai condiviso con nessuno.
Perché
lo fece, non le era dato di comprenderlo.
Quella
ragazza, Carmy, per un attimo le era sembrata come lei. Nei suoi occhi, oltre
alla semplicità e alla gentilezza, aveva letto anche l’indecisione: quella
specie di ombra che si addensa solitamente negli occhi dei nuovi adulti, ancora
insicuri della vita e non del tutto certi della strada da percorrere.
Proprio
come si era sentita lei quando il mondo le era caduto addosso.
Raccontò
tutto, persino ciò che nessun’altro sapeva, persino il suo segreto più nero,
come se una parte di lei non aspettasse altro che trovare qualcuno con cui
dividere quei tremendi ricordi, per alleggerirsi la coscienza ed evitarle di
impazzire.
Carmy
ascoltò, senza commentare né giudicare in alcun modo il contenuto di quella
specie di confessione, e quando il racconto ebbe fine stette a lungo ad
osservare Helena che, come sotto ipnosi, fissava senza sosta le proprie mani tremanti.
«Non
ho mai saputo nulla di questa storia.» disse Carmy cercando di trovare le
parole «Ero alla Magic Arena solo poche ore fa, e
nessuno ne ha mai fatto parola.»
«È
naturale.» rispose Helena con la più ironica rassegnazione «Anche se nessuno a
parte Luna teoricamente ne aveva colpa, se una cosa del genere si fosse venuta
a sapere sarebbero stati in molti a pagarne le conseguenze. La società che
gestisce lo stadio. Quelle che finanziano i grandi tornei. I gruppi industriali
che hanno creato i sistemi informatici, le machina e l’arena virtuale. Persino
i miei sponsor».
Le
sue mani, da tremanti che erano, si irrigidirono di colpo, facendosi come di
pietra, e serrandosi con tale vigore attorno alla tazza da farla scricchiolare.
«Prima
di allora non avevo mai visto tutte quelle serpi maledette andare così
d’accordo su cosa fare e come.
Tutta
la vicenda fu fatta passare sotto silenzio. Ufficialmente nessuno seppe mai
cosa era accaduto in quell’arena. Fu come se Luna Warner non fosse mai
esistita. Quanto a me, non ebbi il coraggio neanche di andare al suo funerale.
Mi
sarebbe sembrato il più ipocrita dei gesti. Non sono mai riuscita neanche ad
andare al cimitero».
Helenasentì il cuore iniziare a battere un po’ più
forte, accompagnato da una sensazione di freddo.
«Da
quel giorno, non me la sono più sentita.» disse rassegnata posando la tazzina
«Ho tagliato ogni ponte, ogni legame. E sono venuta qui, da sola. A fare o ad
aspettare che cosa, non lo so».
Fece
una pausa, nascondendo un momento il volto dietro una mano.
«Spesso
si passa così tanto tempo ad inseguire le proprie aspirazioni che non si tiene
conto del fatto che ogni cosa, anche i sogni che rincorriamo a volte per tutta
la vita, hanno il loro rovescio della medaglia.
Denaro.
Fama. Gloria. Ammiratori. Quando mi allenavo in una palestra sgangherata con
machina tenute insieme per miracolo sono arrivata al punto da non pensare ad
altro che al giorno in cui avuto tutto questo. E ora che ce l’ho, quasi non so
che cosa farmene.
Luna
era diversa. Anche lei voleva ascendere, ma a differenza di me non è mai
arrivata a considerare il chandra solo uno strumento. Anzi, probabilmente
sarebbe stata disgustata dal vedere quello che è in realtà lo sport per il
quale ha faticato fino a rimetterci la vita.»
Carmy
sembrava a disagio, ed Helena lesse nel suo sguardo ciò che in realtà aveva già
intuito: l’indecisione di chi non sa quali decisioni prendere e si domanda il
senso di quelle già prese. Eppure, a differenza di lei, non sembrava esservi
rassegnazione o sconforto nei suoi occhi, ma solo tanta speranza.
«Anche
io sono venuta in questa città per realizzare un sogno. Anche per me non è
stato facile, ma a differenza di lei la mia è una famiglia abbastanza
benestante, con delle ideologie piuttosto intransigenti. Mio padre ha sempre
contestato il sistema in cui viviamo, e nonostante i miei tentativi non sono
mai riuscita a fargli comprendere che se avevo accettato di farne parte non era
perché lo approvassi, ma perché volevo cercare di migliorarlo.»
«E
ci è riuscita?»
«Non
credo. E onestamente, dubito di riuscirci mai».
Seguì
un lungo silenzio. Le due ragazze si osservarono l’un l’altra, cercando di
cogliere i rispettivi pensieri.
«Comunque,
io non ho intenzione di tornare indietro sulla mia decisione. Che mio padre lo
accetti o meno, e per quanto difficile possa essere, non posso gettare al vento
tutto quello che ho fatto per arrivare fino a qui.
E,
se posso permettermi, non dovrebbe farlo neanche lei.»
«Come?»
replicò Helena interdetta
«Non
credo di poter comprendere davvero quello che prova, ma da come me ne ha
parlato è evidente che il chandra le piace ancora, così come piaceva a Luna. Ha
passato tutta la sua vita ad inseguire l’obiettivo che si era prefissata, e ora
che ha finalmente ottenuto quello che desiderava non le sembra stupido gettare
via tutto?».
Helena
batté violentemente il pugno sul tavolino, colta da una furia improvvisa.
«Tu
non capisci. Con che coraggio potrei far finta che non sia successo niente e
tornare alla mia vecchia vita? Dopo quello che ho fatto? Dopo quello che sono
diventata?»
«Nessuno
ha detto che deve dimenticare.» rispose Carmy per nulla intimorita «Farlo
sarebbe il vero crimine. Il fatto che questa storia la faccia soffrire così
tanto è la prova che i suoi sentimenti e il suo animo non sono così avvizziti
come lei crede».
Detto
questo Carmy prese fuori dalla tasca della giacca una piccola scheda virtuale
contente la versione documentario del secondo campionato del mondo al quale
aveva partecipato, quello in cui aveva difeso con successo il suo titolo di
campionessa del mondo in carica.
«Ci
sono molte persone, molti ragazzi pieni di sogni come i suoi, che la ammirano e
credono in lei. Pensa davvero che la adorerebbero così tanto se la vedessero
sotto la luce in cui lei si vede ora? Persino Luna ha continuato a credere in
lei fino all’ultimo, senza mai dubitare del vostro legame o della sua forza
d’animo».
Helena
rimase in silenzio, gli occhi spalancati e l’espressione attonita.
Era
incredibile. Si stava facendo dare lezioni di vita da una ragazzina più giovane
di lei, e la cosa più incredibile era il dover ammettere che quella specie di
agente per caso aveva ragione.
«Sono
consapevole che la sua è stata un’esperienza terribile. Chiunque ne sarebbe
rimasto schiacciato. Il consiglio che mi sento di darle è, invece che
permettere al senso di colpa e al rimorso di sopraffarla, provi a fare tesoro
di quanto successo per riscoprire ciò che realmente l’ha portata fin qui».
Carmy
guardò nuovamente la foto, e anche Helena fece altrettanto.
«Non
pensa che Luna lo avrebbe voluto? In fin dei conti, ora sta a lei portare
avanti ciò in cui entrambe avete creduto».
Ci
fu un nuovo, lungo silenzio, poi Helena si alzò dalla poltroncina, si avvicinò
nuovamente alle tende e spinse un pulsante, aprendole. In lontananza si
intravedeva la Magic Arena, una cupola specchiata che
si stagliava al centro di un grande parco.
«Come
ha fatto una come te a finire nella MAB?» domandò in tutta schiettezza, e
riuscendo perfino ad abbozzare un sorriso «Sembri davvero troppo semplice e
onesta per accompagnarti a gente simile.»
«Nella
MAB ci sono persone indegne del ruolo che ricoprono. Ma è così in ogni
istituzione, come immagino lei saprà molto bene. È nella natura umana che
qualcuno anteponga sempre e comunque i propri interessi al bene della
collettività o al proprio dovere. Ma può credermi se le dico che c’è anche
tanta gente perbene, che ama il proprio lavoro e si adopera davvero per aiutare
questa società.»
«Sembra
quasi impossibile. Ma vedendo te, mi viene da pensare che forse potresti anche
avere ragione».
Carmy
sorrise, alzandosi a sua volta.
«Allora?»
disse nuovamente Helena «Se non sbaglio non mi hai ancora detto per quale
motivo sei venuta qui.»
«Accidenti,
è vero!» esclamò Carmy cadendo dalle nuvole «Effettivamente, avrei bisogno di
una piccola cortesia da parte sua.»
«E
cioè?».
Helena,
sentendo di che si trattava, quasi sorrise.
Tutto
per colpa di un autografo.
Quella
ragazza era così svampita e fuori dal mondo da essersi dimenticata del
compleanno di sua sorella, e non avendo altre idee aveva pensato bene di
regalarle la cosa che più di ogni altra l’avrebbe resa felice.
Ne
aveva firmati tantissimi, ma quello che impresse sulla copertina di quella
scheda, accompagnato da una dedica personale vergata velocemente su di un foglietto
per una potenziale futura campionessa, ebbe un sapore speciale.
Non
era come le migliaia di altri che aveva firmato; farlo le fece piacere.
«La
ringrazio infinitamente.» disse Carmy, che subito dopo corse via veloce come il
fulmine, lasciando Helena sola a riflettere sulla sua vita.
«Un incontro voluto dal destino,
si potrebbe dire.»
«Mi avevano sempre detto che la
MAB era la polizia dei potenti. I cani sciolti di questo sistema in cui viviamo
che si finge perfetto ma esalta e premia il peggio dell’essere umano.
Vedendo lei, mi sono chiesta se
a volte la gente non tenda un po’ troppo a giudicare senza conoscere davvero.»
«Più o meno come avevi fatto con
te stessa, dico bene?»
La giovane donna sussultò,
quindi, sorridendo ironica, si ritrovò a fissare il pavimento, le mani
incrociate come in preghiera e poggiate sulle ginocchia e le gambe accavallate.
«Di certo, non ero esente da
colpe. Ma avevo passato tanto di quel tempo ad auto commiserarmi, da aver
smarrito qualsiasi obiettivo. Non sapevo più niente.
Dapprincipio non cambiò nulla. O
meglio, credevo non fosse cambiato nulla. Ma in realtà, quella ragazza aveva
acceso qualcosa in me. Mi aveva fatto capire che non era tutto da buttare via.
Potevo recuperare i cocci della mia vita e andare avanti.
Lì per lì, però, non me ne resi
conto subito. Ci voleva qualcosa di più. Un’ultima spinta.
E fu così bello provare di nuovo
quella sensazione».
Per giorni, le
parole della giovane agente della MAB non smisero un momento di risuonare nella
mente di Helena.
Da
un lato, voleva credere che anche per lei ci fosse una seconda possibilità, un
modo per raddrizzare la propria vita, dall’altra sentiva di non meritarla, non
dopo essersi lasciata corrompere e aver ucciso la sua migliore amica.
Ma
qualcosa dentro di lei sembrava essere scattato.
Una
mattina, quasi mossa da una forza sovrannaturale più grande di lei, dopo una
notte passata in bianco a sfogliare l’album delle vecchie foto ritrovato chissà
come sepolto in un armadio, si alzò, si coprì, infilò un cappello dalla fodera
larga, un paio di occhiali, si sciolse i capelli, si abbottonò un cappotto ed
uscì.
Quella
forza che la guidava seguitò ad agire per lei, facendola prima perdere per gli
affollati marciapiedi e poi scivolare silenziosa a bordo prima di un treno e
poi di una corriera, restituendole il raziocinio solo quando fu dinnanzi al
cimitero del villaggio di Jakup, paese natale della
famiglia Warner.
Quasi
non riuscì a credere di trovarsi proprio lì, ma pur sentendosi nuovamente
padrone della sua volontà varcò comunque il cancello, scrutando con gli occhi
le lapidi più recenti fino a fermarsi dinnanzi ad una un po’ più piccola delle
altre, sovrastata dalla statuetta di un angelo con una mano rivolta al cielo e
l’altra stretta attorno ad una lancia la cui punta arrivava quasi a lambire il
terreno.
Non
dovette leggere il nome inciso sopra per capire che era quella la tomba che
stava cercando.
Vi
sostò davanti per molte ore, senza proferire parola, e per quanto ci provasse
non le riuscì di piangere.
Sembrava
che qualcuno, forse la stessa forza che l’aveva condotta lì, le impedisse di
farlo, quasi a volerle rammentare che quello non era il momento del pianto, ma
del riscatto.
Una
vita era andata perduta. Ma la sua, forse, era ancora recuperabile.
Poteva,
anzi, doveva riprenderla nelle sue mani; perché ora la vita che stava vivendo
non era più solo la sua. Da quel giorno per lei sarebbe stato come condurre due
esistenze parallele, e la seconda in particolare aveva ancora troppe cose da
fare per lasciarsi andare senza reagire.
Come
riuscirci, però, non lo sapeva.
Per
quanto ci provasse, Helena non riusciva a capire in che modo potesse riuscire
ad andare avanti.
E
nuovamente, il destino ci mise del suo.
Deposto
sulla tomba un fiore raccolto da terra, la giovane donna lasciò in silenzio il
cimitero, ed incamminatasi senza meta per le strade del paese in cerca di una
risposta i suoi passi la condussero fuori da quella che aveva tutta l’aria di
essere una festa campagnola, poco più di una sagra, che qualcuno aveva voluto
rendere speciale aggiungendovi un piccolo torneo di chandra.
La
competizione doveva essersi appena conclusa, perché a sentire la voce del
presentatore il vincitore a breve sarebbe stato chiamato sul palco per ritirare
il suo premio, e di nuovo quella sensazione di calore si accese nel petto di
Helena.
Una
serie di immagini le passarono come d’incanto davanti agli occhi, immagini
lontane di un passato felice, fatto di duro allenamento, tanta fatica, ma anche
molte speranze, speranze ingenue forse, ma sincere e pure, come quelle dei
giovani che sicuramente avevano partecipato a quella piccola competizione.
Qualche
momento dopo, la coppia di locali che sedeva all’ormai chiuso banchetto delle
iscrizioni si vide venire incontro uno strano individuo completamente nascosto
dietro ai suoi ingombranti vestiti, che chiese di poter partecipare a sua volta
al torneo sfidando il vincitore in un incontro amichevole.
«Non
si può fare, mi dispiace.» rispose uno dei due.
Al
che lo sconosciuto si liberò del proprio fardello, rivelando un volto che
lasciò i due uomini con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa per lo
stupore.
«Non
potreste fare un’eccezione per me?».
Come già detto
più volte, alla grande Octavia non si negava mai un favore.
E
così, la sparuta folla riunitasi per assistere a quel piccolo torneo regionale
di periferia ebbe il grande onore e piacere di veder comparire, per la prima
volta dopo sei mesi, la leggendaria Octavia, ricomparsa dal nulla come un
fantasma proprio un attimo prima che avesse inizio la premiazione.
La
vincitrice, una ragazzina appena adolescente, non ci pensò due volte ad
accettare la sfida, che sapeva persa in partenza, ma che nonostante tutto la
eccitava al solo pensiero.
Inspiegabilmente,
un attimo prima di entrare nella machina, la campionessa tergiversò, seguitando
ad armeggiare per un po’ con la scheda di memoria contenente i dati del suo
vessel, e quando finalmente comparve nell’arena quasi nessuno fece caso al suo
improvviso quanto pittoresco cambiamento di look; i capelli, fluenti e
biondissimi come tutti li ricordavano, erano ora racchiusi in una elegante e
ricercata coda di cavallo, annodati sopra la nuca da una cordicella nera da cui
pendeva una sorta di fermaglio a forma di punta di lancia.
Lo
scontro fu breve, e dall’esito praticamente scritto, ma ciò che Helena trovò
davvero speciale furono le emozioni che, già pochi attimi dopo il via dato
dall’arbitro, presero come un fiume a scorrere dentro di lei.
Si
stava divertendo.
Era
felice.
Era
questo che significava praticare il chandra.
Finalmente
se ne era ricordata.
Ricordò
i massacranti allenamenti, le notti in bianco, le maratone di studio, le
interminabili corse, le fatiche dei lavori part-time, e dal profondo dell’animo
sentì sgorgare un’esplosione di gioia, seguita subito dopo da una di profonda,
totale serenità.
La
battaglia finì nell’unico modo auspicabile, ma Helena, pur senza mancare di
rispetto alla sua giovane avversaria, volle farla durare il più a lungo
possibile; non voleva che quelle sensazioni bellissime l’abbandonassero, o
voleva quantomeno imprimerle con forza nella sua mente, così da non
dimenticarle mai più.
E
quando la battaglia terminò, con la folla nuovamente raccolta attorno alla sua
eroina preferita, Helena strinse la mano alla ragazza che aveva appena battuto,
la quale, per nulla arrabbiata o delusa, era anzi ebbra di gioia.
«Riuscirò
mai a diventare come lei?» le chiese
«Certo.»
rispose Helena con un sorriso «Ma se vuoi diventare una grande chandrista, la cosa importante è non dimenticare mai chi
sei.» e quale segno di buon augurio le regalò, imprimendone i dati sulla sua
scheda di memoria, Etoile, il suo famoso stocco da battaglia, facendosi
promettere che un giorno si sarebbero incontrate nuovamente per farselo
restituire.
Qualche giorno
dopo, Monagan, alla ricerca di un modo per far tornare in sé quella testa di
legno che da settimane non voleva saperne di incontrarlo, si risolse ad entrare
con la forza dentro casa sua, usando un passepartout che teneva con sé.
Entrato,
però, non trovò nessuno, e fu sufficiente per lui guardarsi attorno per
accorgersi che i libri, i suppellettili, e ogni altro effetto personale erano
spariti.
L’appartamento
era intonso, come il giorno in cui l’aveva regalato ad Helena, il letto fatto,
le tende tirate e il pavimento pulito.
Ma
soprattutto, era deserto.
L’uomo
rimase basito, restando per alcuni minuti immobile al centro del salone,
immerso in un silenzio assordante. Poi, Francine
comparve alle sue spalle.
«Benvenuto,
signor Raius. Ho un messaggio per lei dalla mia ex padrona.
Trovati un’altra campionessa».
«Avrei pagato per vedere la
faccia di quel pallone gonfiato.»
«Immagino non gli abbia fatto
piacere.»
«E adesso sei felice?»
«Diciamo che sto cercando di
ricordarmi cosa significhi essere felici.»
«Sembri sulla buona strada. Se
non altro, hai finito di piangerti addosso.
Ora combatti secondo le tue
regole, senza che nessuno te lo imponga.
Hai pensato che aiutare le altre
persone a non diventare come te, anche a costo di perdere tutto quello che
possedevi, e che intimamente avevi sempre cercato, fosse il modo migliore per
espiare alle tue colpe.
Ma d’altra parte, non puoi
smettere di fare quello che ti appassiona, soprattutto ora che ti sei ricordata
quanto ti piaccia.»
La folla, che in tutto quel tempo non aveva smesso un
momento di rumoreggiare, di colpo si acquietò, comenella calma che precede la tempesta.
Poi, una lucina rossa si accese
sopra la porta d’ingresso.
Ancora una volta, l’ennesima,
era giunto il suo momento. Il momento di scendere nell’arena.
Quanto a lungo Helena aveva
aspettato di risentire quella specie di fastidioso, ma allo stesso tempo
rassicurante, nodo allo stomaco, quell’ansia che una volta la colpiva ogni
qualvolta si appressava il momento di combattere, e che negli ultimi anni aveva
quasi dimenticato, tanto la sensazione di essere invincibile e l’aver scordato
cosa fosse davvero per lei il chandra le avevano annebbiato il giudizio.
«Alla fine non era così
difficile, vero?
Restituire dignità e significato
a quel sogno.»
«Può darsi. Però, ora che ci
penso, non mi hai ancora detto chi sei.»
«Solo qualcuno a cui piace
ricordare e far ricordare.»
Senza esitazioni, la giovane donna si risolse finalmente a
guardare alle proprie spalle, cercando di dare un volto a quella voce eterea
con la quale aveva appena terminato di compiere quel suo lungo, e allo stesso
tempo brevissimo, viaggio tra i ricordi di una vita, come alla ricerca di un
modo per ricordare a sé stessa gli eventi che l’avevano condotta lì, in quel
luogo così famigliare, ma che da un giorno all’altro aveva assunto ai suoi
occhi un altro significato.
Giusto il tempo di riconoscere
un paio di vispi occhi chiari, un’espressione sbarazzina, un volto
piacevolmente ovale incorniciato da una folta ma abbastanza corta chioma scura,
che un inatteso quanto inopportuno bussare alla porta la distrasse, e quando
guardò nuovamente in quella direzione appoggiato alla parete, con quel fare
sornione e sicuro di sé, non vi era più nessuno.
In quella stanza era sola.
Forse lo era sempre stata. O
forse no.
Eppure, si sentiva felice.
«Signorina, è ora.»
«Sì.» disse con un sorriso sulla
bocca e una lacrima negl’occhi «Arrivo».
La folla era
quella delle grandi occasioni.
In
fin dei conti, era pur sempre un incontro valido per il titolo mondiale.
Senza
contare poi che non capitava spesso che fosse proprio il campione a mettere in
gioco la propria corona proponendo egli stesso una sfida.
Dal
canto suo, Warewolf, già in piedi accanto alla sua
machina, ne aveva abbastanza.
Non
ne poteva più di vivere all’ombra di chi l’aveva preceduto, o di essere
additato come colui che aveva rubato il titolo senza meritarlo per il semplice
fatto che il legittimo proprietario, al momento fatidico, aveva marcato visita
sparendo nel nulla.
C’era
un solo modo in cui poteva rivendicare il proprio ruolo di campione, ed era
annichilire davanti agli occhi di tutto il mondo quella leggenda che per lui
era come un’ombra diabolica della quale non riusciva a liberarsi.
Sapeva
di non avere molte speranze, né tantomeno il sostegno del pubblico, ma
confidava nei propri mezzi, come ogni chandrista
degno di questo nome, e in caso di sconfitta era pronto ad accettarla con
onore. Sarebbe voluto dire che non era ancora pronto per quel traguardo.
Il
pubblico rumoreggiava, mentre le luci psichedeliche dell’arena viaggiavano
nervosamente in ogni direzione, e quando queste si concentrarono tutte sul
presentatore vi fu, per un istante, il silenzio più assoluto.
«Buonasera,
signore e signori! Benvenuti alla Magic Arena! Questo
è il momento che tutto il mondo aspettava da tempo! Finalmente, scopriremo chi
è il solo, unico e vero campione del mondo in carica!
I
due pretendenti stasera saranno l’uno di fronte all’altro, e tra quindici
minuti esatti incoroneremo il solo e vero re del chandra!
Per
il titolo mondiale! Alla mia sinistra, nell’angolo rosso, lo sfidante, nonché
attuale campione in carica! Lo spietato uomo lupo! Warewolf!».
Vi
furonomolti applausi ed acclamazioni;
dopotutto si trattava comunque di un grande campione, dalle indubbie qualità
umane, e lo provava il fatto che avesse avuto il coraggio di mettersi in gioco
proponendo lui stesso quella sfida.
Ma
poi, tutto tornò improvvisamente silenzioso.
«E
alla mia destra! Nell’angolo blu! Dopo sei mesi di oscuro oblio! Come uno
spettro dimenticato che torna da un passato lontano ma anche molto vicino! L’eroina
delle giovani generazioni! La campionessa perduta! La Rosa di Kyrador!
Signore
e signori, Ooooooctaviaaaaaaa!».
Le
luci si spensero un istante, e come si riaccesero tutte insieme sull’ingresso
del tunnel la folla minacciò di far crollare lo stadio sotto il fragore
assordante delle urla.
Octavia
era lì, di nuovo in mezzo a loro, con quella sua aria sprezzante e sicura,
quell’andatura fiera, e quel portamento da vera campionessa.
Eppure,
c’era qualcosa di diverso; per chi poté o volle guardarla negli occhi, la sua
espressione aveva un che di malinconico, per non dire di umile; ricordava
l’Octavia dei primi anni, quella che era nelle memorie solo dei veri
ammiratori, che l’avevano seguita fin dai suoi esordi nel professionismo,
quando ancora non era nessuno, e si trovava spesso ad affrontare avversari
molto più famosi e preparati di lei.
Ma
non importava. L’importante era che lei fosse lì, tutta per loro. La folla era
impazzita; soprattutto il pubblico femminile, ed in particolare quello
appartenente ai suoi numerosi fan club, non smetteva un momento di evocare il
suo nome, quasi che chiamarla volesse dire possederla.
«O-cta-via! O-cta-via! O-cta-via!».
La
giovane si approssimò all’arena, ritrovandosi a tu per tu con quell’avversario
che a suo tempo aveva ignorato, e che la guardò con un misto di sfida ed
ammirazione, porgendole infine la mano.
«È
un onore conoscerti.» le disse.
Lei
lo fissò un momento stupita, poi, sorridendo, ricambiò la stretta.
«Anche
per me. Ti chiedo scusa per come mi sono comportata l’ultima volta.»
«Non
importa.» scherzò lui «Recupereremo stasera. È per questo che siamo qui,
dopotutto.»
«Già».
A
quel punto, venne il momento di combattere.
Helena
entrò nella machina, e mente il portello si richiudeva sopra di lei ripensò per
un attimo alla prima volta, in quella palestra scalcinata; le tornarono in
mente la determinazione e le speranze, ma anche l’ansia, la paura di non
farcela, e quella mano sempre pronta a sostenerla, che le dava il coraggio e la
forza di andare avanti senza neanche, forse, rendersene conto. E allora, le
venne da sorridere.
Quando
fu al centro dell’arena, alzò gli occhi verso l’alto, verso le stelle, appena
visibili oltre il soffitto trasparente dello stadio e le infinite luci di
Kyrador, alla ricerca della sua stella, quel puntino luminoso che apparteneva
solo a lei e che sapeva essere lassù, da qualche parte. Era passato tanto
tempo, e molte cose erano successe. Ma non avrebbe più dimenticato. Non voleva più
dimenticare.
«E
ora, signore e signori!» annunciò esaltato il presentatore «Let’s
chandra!».
Nota dell’Autore
Eccoci dunque alla fine di
questa storia (si fa per dire) breve.
Effettivamente è molto più lunga
di quanto mi fossi inizialmente immaginato, ma pensandoci ora devo ammettere
che se l’avessi sviluppata interamente come appariva di volta in volta nei miei
pensieri man mano che scrivevo ne sarebbe venuto fuori un romanzo parallelo,
tanti e tali erano gli argomenti e le tematiche da trattare.
Di certo non sarà l’unica storia
con protagonista Helena, o comunque in cui la campionessa non svolga un ruolo
di una certa rilevanza, così come senza dubbio vi saranno altri racconti
dedicati al mondo del chandra.
Ora sto lavorando ad altre due
storie, sempre nell’ambito dei vari contest cui sto partecipando.
E mi raccomando, fatemi sapere sempre
cosa pensate!^_^