Throne of Thorns - Trono di Spine

di Carlos Olivera
(/viewuser.php?uid=4135)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***
Capitolo 4: *** Parte IV ***
Capitolo 5: *** Parte V ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Nota dell’Autore

Eccomi qua^_^

Come poco tempo fa, ancora una volta una nota dell’autore insolitamente posta all’inizio di un capitolo anziché alla fine.

A quanto pare ci ho preso gusto con questi missing moments, queste storie brevi dedicate a personaggi che hanno avuto o hanno tuttora un peso secondario all’interno della trama principale di Tales Of Celestis, ma le cui vite sono importanti ciò non di meno ed aiutano a capire meglio quella società magico-tecnologica venutasi a creare su Celestis.

Il mondo che ho creato si presta bene a questo tipo di storie brevi, nella fattispecie è perfetto per dare vita a racconti che possono per i vari contest ai quali mi diletto a prendere parte.

Nello specifico questa storia breve (che sarà divisa probabilmente in 4 parti) partecipa a due diversi concorsi, ovvero Ritorno all’Infanzia, indetto da Frantasy94, e Il Contest degli Ossimori, di Higurashishinko.

Come accaduto nel caso di I Love You, Kyrador, questa storia è fondamentalmente distaccata dalle vicende che appartengono alla trama principale, il che non rende necessario aver letto l’originale Tales Of Celestis per poterla leggere e comprendere.

Ecco, ho detto tutto.

Spero che vi piaccia.

A presto!^_^

Carlos Olivera

 

PARTE I

 

Sedeva da sola, in quella stanza di cui ormai conosceva ogni angolo, ogni anfratto.

Anche se il titolo non era ancora suo, l’avevano fatta accomodare nella stanza della quale, secondo molti, si sarebbe rimpossessata prima di sera.

Non c’era stato bisogno di sfrattare il suo avversario, visto che le zone assegnate a uomini e donne erano comunque separate, ed ognuna delle due aveva la propria Stanza dei Campioni, ma ovviamente a Warewolf la cosa non doveva fare molto piacere.

Alla sua destra, l’armadietto, dove per tanti anni aveva riposto i suoi oggetti prima di scendere in campo, e subito accanto il rubinetto, per sciacquare via l’ansia alla partenza e lavare il sudore al ritorno. A sinistra un simulatore, poco più di una lattina, in cui provare le ultime combinazioni per accertarne l’efficacia. Alle sue spalle, la Parete della Gloria, dove allineati l’una accanto all’altra capeggiavano le gigantografie dei campioni  degli ultimi dieci anni, trofei al cielo e medaglie al collo.

C’era anche lei.

Il chandra era tutto questo.

Era sport sì, ma anche spettacolo, esibizionismo e tanti, tanti soldi.

Non c’era sport in tutta Celestis che avesse pari successo.

Chiunque entrava in una machina, anche chi la magia non la possedeva di suo, per un istante poteva diventare tutto ciò che aveva sempre sognato; poteva essere un prode guerriero, un abile stregone, un promettente arciere, o un selvaggio lottatore.

Le fantasie che ognuno portava nell’anima, il chandra le rendeva reali. E per chi vinceva, per chi arrivava lassù in cima, c’erano fama, gloria e ricchezze.

Tutte cose che lei aveva saggiato, dopo averle cercato più a lungo di quanto volesse ricordare, e che, indipendentemente dall’esito di quell’incontro, sarebbero tornate a lei, se solo lo avesse voluto.

Ma non sapeva se lo voleva.

Erano successe troppe cose. Troppi eventi si erano accavallati negli ultimi mesi, troppe certezze erano venute meno, troppe illusioni si erano sgretolate.

Non sapeva neppure per quale motivo si trovasse lì. Perché avesse accettato la sfida che il campione, proprio lui, le aveva lanciato.

Poteva scomparire, eclissarsi, isolarsi dal mondo proprio nel cuore della più grande città del pianeta, ma lei restava pur sempre Octavia.

Si chiamava Helena, ma per il mondo era quello il suo nome.

Octavia. La Rosa di Kyrador.

La stampa aveva creato quel nome, e la folla lo aveva fatto suo. Lo sentiva anche in quel momento, invocato senza sosta dal piano di sopra, come un urlo di guerra di un esercito pronto alla carica.

Una voce parve riecheggiare alle sue spalle, misteriosa ma, al tempo stesso, famigliare, quasi amichevole.

 

«Li senti? Chiamano il tuo nome.»

«Chiamano Octavia.»

«E non è forse la stessa cosa?»

«Octavia è solo una parte di me.»

«Una parte della quale ormai non ti puoi più liberare.»

«Una parte di cui farei volentieri a meno.»

«Eppure, mi pare che un tempo non desiderassi altro.»

«Già. Hai ragione. C’è stato un tempo in cui non desideravo altro che questo.»

 

Helena Loyde era nata in un piccolo appartamento di un grande complesso popolare nel settimo distretto.

Non erano le stradacce dell’ottavo o del nono distretto, dove si poteva venire assaliti per pochi kylis nel portafoglio, ma anche lì la vita non era facile.

Suo padre faceva il ferroviere, un mestiere abbastanza decoroso che garantiva alla sua famiglia di che vivere, ma che lo costringeva a lunghi periodi lontano da casa, sballottato da una corsa all’altra in giro per tutto il continente. Sua madre lavorava occasionalmente in un centro per anziani, ma il più delle volte se ne restava chiusa in casa, troppo persa dietro a sogni di gloria mai realizzati per prestare attenzione a quanto accadeva attorno a lei.

I primi anni, sotto il profilo dell’affetto, erano stati difficili, con un padre gentile ma perennemente sempre assente e una madre che, già distratta di suo, spesso la trascurava per il lavoro, e così capitava spesso che a prendersi cura di lei fosse la famiglia Warner, dirimpettaia della famiglia Loyde.

Anche i Warner avevano una figlia, Luna, della sua stessa età, e da che erano nate erano più i giorni che avevano trascorso insieme di quelli spesi l’una lontana dall’altra.

Si consideravano in sorelle, e avevano nel chandra un interesse comune.

Come molti altri bambini della loro età, fin da bambine avevano preso a seguire con passione le sfide trasmesse alla televisione, rimanendo affascinate da ciò che il chandra permetteva di fare a chiunque entrasse in una machina.

Combattere sfide entusiasmanti, misurarsi in scontri all’ultimo sangue dai mirabolanti effetti speciali, sprigionare poteri e abilità che persino il mago più talentuoso nella realtà poteva solo sognarsi, erano tutte cose che accendevano non solo la loro fantasia, ma più in generale quella di chiunque seguisse o praticasse lo sport più popolare e seguito di Celestis.

Ma con il passare degli anni, non fu più solo quello ad entusiasmarle.

Più le due bambine crescevano, più agli occhi di entrambe, e di Helena in particolare, diveniva chiaro come il chandra fosse ben più che un semplice sport. Vedere tutti quegli atleti ricchi, famosi e perennemente al centro dell’attenzione osannati dalle folle fece nascere in loro il comune il desiderio di emergere, di ritagliarsi una fetta di quel mondo dorato che potevano intravedere, in lontananza, tutti i giorni, dai balconi delle loro semplici case.

Da laggiù, i palazzi del centro sembravano un paradiso, un eremo di perfezione dove era possibile conoscere la vera felicità, la stessa che aveva spinto i loro antenati a giungere fin lì dalla Terra.

Tuttavia, sia lei che Luna sapevano di avere un grande handicap; non sapevano usare la magia.

In un mondo come il loro, dove tutto ruotava in funzione della magia, appartenere a quella ristretta minoranza di individui che sapevano servirsene senza l’apporto di qualsivoglia strumento costituiva il primo e principale mezzo con cui raggiungere il cuore di Kyrador, poiché solo a chi dimostrava di poter contribuire alla grandezza e al benessere del mondo era concesso di entrare nel giardino proibito.

La magia era un dono con cui ci si nasceva, e per chi non la possedeva la strada era tutta in salita.

Ma non senza speranza.

Occorreva impegnarsi, e molto, ma la storia gloriosa di Kyrador era piena di persone che, pur non essendo maghi, avevano conquistato tutto quello che Helena e Luna sognavano ogni giorno di riuscire un giorno ad ottenere.

Persino molti chandristi tra i più amati conosciuti in tutto il pianeta erano persone che come loro provenivano da realtà difficili, estranee al mondo di cui un giorno erano riuscite a diventare parte. Era la prova che non era impossibile, e che anche loro potevano avere la loro occasione, se solo l’avessero cercata.

Helena, ogni giorno, passava ore ad osservare quei palazzi, quei fili d’erba bianchissimi che emergevano dalla parte più ricca e prospera di quel grande giardino chiamato Kyrador, affacciata dal suo balcone. E spesso Luna era lì, accanto a lei.

«Ce la faremo, Helena.» disse un giorno Luna, quando avevano appena undici anni «Ce ne andremo di qui, e avremo un futuro grandioso. Avremo fama e gloria.»

«Secondo te è davvero possibile?» domandò Helena, che pur cercando di dimostrare il contrario nel profondo del cuore non credeva sul serio che una cosa del genere fosse alla loro portata

«Senza dubbio. Questa non sarà la nostra vita. Diventeremo ricche e famose, e avremo tutto quello che vogliamo.»

 

«Niente male per una ragazzina delle scuole medie.»

«Allora ero fatta così. Se mi dicevi che una cosa era impossibile da farsi, non mi fermavo fino a che non riuscivo a dimostrare il contrario.

Del resto, quando vieni al mondo in un luogo con così poche prospettive e senza nessuna  certezza per il futuro, vuoi credere che là fuori ci sia sempre qualcosa di meglio.»

«E lo hai trovato qualcosa di meglio?»

«Immagino di sì.»

 

A causa delle ristrettezze economiche della sua famiglia, Helena non aveva potuto permettersi di ricevere regali di compleanno simili a quelli che venivano fatti alla maggior parte delle ragazze della sua età, ma tenuto conto anche della buona media scolastica suo padre, per i tredici anni, una volta tanto aveva voluto regalarle qualcosa di speciale.

Così, quello stesso giorno, lei e Luna erano salite in macchina per una destinazione sconosciuta, e grande era stato il loro stupore quando si erano viste comparire davanti l’ingresso della Magic Arena, il tempio mondiale del chandra.

Sorvolando sul fatto di averli ricevuti in regalo da un collega che era dovuto partire all’improvviso per un lutto in famiglia, il signor Loyde aveva messo le mani su tre biglietti per la finale del campionato mondiale individuale professionistico, che si sarebbe svolto proprio quel giorno.

Per le ragazze entrare nell’arena e sedere tra il pubblico fu un po’ come toccare il loro sogno, anche se solo di sfuggita. Non importava che fossero posti economici, talmente lontani dal ring da far fatica a vedere qualcosa; l’importante era essere lì, nel cuore del giardino proibito, a vedere con i loro stessi occhi quelle persone che, come loro, avevano alle spalle un passato difficile, ma che in qualche modo erano riuscite ad emergere.

Luna voleva trionfare nella vita proprio come loro, e se quello sport che tanto le piaceva era uno dei mezzi per poterci riuscire sarebbe stato sicuramente tutto più facile, oltre che appagante.

L’incontro fu senza esclusione di colpi, assolutamente spettacolare, e vide prevalere Mida, incoronando il primo campione del mondo non caldesiano da tre anni a quella parte.

Ma il meglio doveva ancora venire.

Per poter aspirare sul serio al titolo di campione del mondo, il neovincitore proveniente da Alepto doveva affrontare e sconfiggere l’attuale detentore del titolo, il quasi imbattuto Bastion, chiamato a difendere nuovamente la sua corona per la sesta volta in meno di un anno.

Helena e Luna lo incontrarono mentre erano in coda alla caffetteria dell’arena, circondato da giornalisti e fan in delirio, oltre che dal suo numeroso seguito di agenti di scorta, manager e sponsor, e a forza di bracciate riuscirono a farsi strada fino ad arrivargli davanti.

Anche con lui non era stata particolarmente generosa. Era nato in una famiglia ricca, ma il destino aveva voluto farlo venire al mondo affetto da una grave malattia, tanto seria che ormai sia le sue braccia che le sue gambe erano artificiali.

Lui più di chiunque altro incarnava ciò che il chandra e non solo poteva dare a chi riusciva ad arrivare in alto a dispetto di tutto.

Così, a bruciapelo, Helena sentì di dovergli fare una sola domanda.

«È possibile per chiunque diventare un campione di chandra?»

«Certo che sì.» rispose lui con un sorriso «Se hai forza di volontà, tanta dedizione, e non ti spaventa la fatica, puoi diventare una grande campionessa».

Non aveva bisogno di sentire altro.

Per rabbonire i giornalisti, già propensi a considerarlo prossimo alla disfatta viste le qualità dimostrate dal suo prossimo avversario, Bastion si fece fare una foto assieme alla ragazzina, e da quel giorno quell’immagine, custodita gelosamente tanto nel comunicatore virtuale quanto soprattutto nel cuore, divenne per Helena uno dei suoi più grandi tesori.

Sarebbe diventata una campionessa di chandra.

Senza dubbio.

 

«La foga non ti ha mai fatto difetto. E nemmeno l’intraprendenza. Questo bisogna riconoscertelo.»

«Due ore dopo, Bastion aveva perso il suo titolo. Ma non mi importava. Le sue parole mi avevano toccato.

Potevo farcela.

Potevamo farcela.

Potevamo essere campionesse, e andarcene da quel posto senza prospettive.»

«Tutto perfetto. Se non fosse per un piccolo ma importante dettaglio. Per poter essere campionesse di chandra, dovevate gareggiare. E per poter gareggiare, bisognava far parte di una palestra.»

«E da quelle parti, per nostra fortuna, ce n’era solo una.»

 

Da quel giorno, Helena aveva preso il coraggio a quattro mani, e forte del suo proverbiale spirito combattivo maturato in anni di zuffe per le strade si era decisa ad iniziare la sua carriera di chandrista.

L’unica palestra sufficientemente vicina era il Pugno d’Argento, proprio a metà strada tra il liceo e la sua casa; poco più che uno sgabuzzino, con poche machina di seconda mano per gli allenamenti e una sola arena virtuale, oltretutto con un sistema operativo a dir poco preistorico, per i combattimenti.

La gestiva Boniek, un butterato tutto muscoli con in testa una palla da bowling costretto anni addietro a lasciare il chandra professionistico per un incidente di percorso che ne aveva compromesso la carriera; per tirare al domani aveva dato vita a quella specie di fucina di talenti, ma da che aveva aperto non era mai riuscito a creare un solo campione.

Nel vedere entrare nella sua tana due ragazzine poco più che quattordicenni, lui e gli altri frequentatori della palestra, quasi tutti teppistelli da strada o ragazzotti senza particolare talento, non riuscirono a trattenere una risatina divertita.

Luna, spaventata, corse quasi subito a nascondersi dietro la schiena dell’amica, che di contro non esitò a camminare verso il proprietario in doppio petto e con le mani appoggiate ai fianchi.

«Questo non è un parco giochi, signorine.» disse il proprietario sovrastandole con la sua figura spaventosa

«Vogliamo iscriverci alla palestra».

L’affermazione suscitò l’ilarità generale.

«Ma avete idea di dove vi trovate? Ripeto, questo non è un parco giochi. Qui si fa del chandra. Roba seria.»

«E allora?» replicò Helena con aria di sfida

«E allora!? E allora non è roba per signorine».

Helena rise anche lei, ma in modo ironico.

«310. Alice Mayer vince il campionato nazionale dilettanti. 316. Alice Mayer vince il campionato nazionale professionisti. 318. Alice Mayer ottiene il titolo di campionessa del mondo battendo il detentore del titolo. Sfida conclusa ai punti, risultato finale 2500 a 2000. 320. Eleonore Winslow vince il titolo di campionessa di Fhirland. 323. Judy March vince il titolo nazionale a Ebridan. 330. Ling Watchins vince la prima edizione della categoria femminile ai giochi olimpici di Blazov. Vuoi che continui?».

Boniek la guardò stizzito, masticando nervosamente la gomma che aveva in bocca.

«Hai fatto i compiti, ragazzina. Questo te lo concedo.

Ma teoria e pratica sono due cose diverse. Con quel fisico minuto e senza un briciolo di magia in corpo, non resisteresti neanche un minuto sull’arena. E non ho alcuna intenzione di allenare chi parte già sconfitto, né di starti a guardare mentre ti fai rompere le ossa da avversari grossi il doppio di te.» quindi fece un cenno ad uno dei suoi «Mettile alla porta».

Quello, con modi non proprio da gentiluomo, allungò un braccio verso Helena nel tentativo di afferrarla, ma lei, con uno scatto felino, gli afferrò il polso, glielo storse, quindi, malgrado fosse il doppio di lei, lo scaraventò a terra con una perfetta torsione della schiena.

Nella palestra calò il silenzio, e Boniek non riusciva a credere ai suoi occhi.

Quando si vide nuovamente guardare da Helena, poi, sorrise divertito.

«Sai picchiare. Dove l’hai imparato?»

«Non hai bisogno di saperlo. Allora, ci prendi nella tua palestra o no?»

«Fai la voce grossa, per essere solo una mocciosa. Credi che saper menare le mani sia l’unica cosa di cui hai bisogno in questo sport? Nel chandra ti serve ben’altro.»

«Possiamo imparare. Siamo qui per questo dopotutto».

Di nuovo Boniek sorrise, e fatto qualche passo avanti portò nuovamente la sua imponente figura a troneggiare sopra le due ragazze.

«Trecentocinquanta kylis al mese. A testa, ovviamente.»

«Ma è più del doppio di quello che viene chiesto abitualmente.» riuscì a dire Luna

«Senti tappetta, avete idea di quello che succederebbe se mi venisse un controllo e vi beccassero qui? Come minimo mi farebbero chiudere bottega. Dovrò pur compensare il rischio.»

«Dalle condizioni in cui versa questo porcile» obiettò velenosa Helena «Ho idea che un controllo tu non sappia neanche cosa sia.»

«Non infastidirmi coi dettagli. Allora, ci state o no?».

Helena si prese qualche istante di riflessione. Quanto a Luna, lei le idee le aveva già piuttosto chiare; tralasciando il fatto che quel posto non la ispirava per nulla, più di ogni altra cosa quella che Boniek esigeva era una cifra che per loro era quasi impossibile potersi permettere.

«Helena, andiamo via.»

«Due e cinquanta.» replicò invece la ragazzina senza starla a sentire

«Cos’è, stiamo mercanteggiando?» replicò beffardo Boniek «Non sperare di fare la dura con me, perché non attacca».

Ma Helena non aveva alcuna intenzione di tirarsi indietro, e seguitò a fissare l’uomo con sguardo di sfida.

Alla fine, tra lo stupore dei suoi allievi, fu lui il primo a desistere, almeno in parte.

«Tre e quaranta.»

«Due e settanta.»

«Tre e quindici.»

«Trecento.»

«Andata. Ma saltate il pagamento anche solo di un’ora, e vi butto fuori a calci.»

«Ci stiamo.»

«Aspetta Helena.» obiettò Luna «Sono un sacco di soldi.»

«Ce la faremo, Luna.» rispose la ragazzina guardandola negl’occhi ed accendendoli con il suo spirito «Questa è l’occasione che abbiamo sempre cercato».

Alla fine, Luna desistette, come al solito del resto.

Non ce la faceva. Non riusciva proprio a non fidarsi della sua migliore amica.

Il tutto si concluse con una stretta di mano.

«Vediamo che sapete fare.»

 

«Come ho già detto, niente male per una ragazzina.»

«Sapevamo che sarebbe stata dura. Quello che non avevamo ancora capito, era quanto potesse davvero essere dura.»

 

Boniek infilò subito le due ragazze all’interno delle machina dell’arena virtuale.

Non era la prima volta che Helena e Luna provavano materialmente l’esperienza del chandra, ma quella sarebbe stata la prima volta in cui avrebbero avuto la possibilità di dare vita al proprio vessel, il proprio alter ego virtuale che da allora sarebbe diventato il loro inseparabile compagno di avventure.

Helena sentì un moto come di orgoglio nel momento in cui, sedutasi, vide il portello della capsula chiudersi sopra di lei, e gli schermi guida di assistenza per la costruzione del vessel accendersi uno dopo l’altro tutto attorno ai suoi occhi.

Finalmente, la sfida che lei e Luna si erano poste anni prima poteva essere intrapresa.

Una machina degna di questo nome avrebbe avuto a disposizione una infinita possibilità di scelta e scrittura, ma i rottami che Boniek e la sua palestra potevano permettersi avevano una tavolozza creativa ridotta quasi all’osso, che limitava di parecchio la libertà creativa.

Entrambe fecero del loro meglio per creare qualcosa che si avvicinasse il più possibile a quanto si erano sempre immaginate, e a lavoro finito i loro vessel comparvero all’interno dell’arena, esposti al pubblico ludibrio.

Luna aveva deciso, contrariamente alla maggior parte dell’uso comune, di dar vita ad un avatar completamente diverso da lei; capelli bianchi lunghi, raccolti in una fluente coda di cavallo e lasciati cadere dietro la nuca, un abito come da chierica bianco e rosso, sandali ai piedi e, come arma, una lancia.

Helena invece sembrava essersi fotocopiata, poiché, nei limiti imposti da quell’obsoleto programma di creazione, aveva creato il proprio vessel ad immagine e somiglianza di sé stessa. Come arma, aveva scelto una spada, una sciabola non troppo lunga con una elaborata impugnatura destinata a proteggere la mano, molto simile a quella che era diventata il marchio di fabbrica del deposto campione Bastion.

Dal momento che la machina era programmata per replicare fedelmente la stazza fisica e la massa muscolare del chandrista facendone l’ossatura del vessel, tanto Luna quanto Helena avevano dato vita a degli avatar che ben testimoniavano tanto la giovane età quanto il fisico non esattamente palestrato, cosa che inevitabilmente costituiva agli occhi degli spettatori un ulteriore motivo di scherno.

«Aspettate a ridere.» disse Boniek vedendo che nessuno dei suoi allievi riusciva a trattenersi dal farlo «Il divertimento inizia ora».

Gli fu sufficiente azionare un comando, e da un istante all’altro Helena e Luna ebbero come l’impressione di venire letteralmente strattonate via dalle poltrone cui erano assicurate, una sensazione alla quale avrebbero finito con l’abituarsi molto presto.

Istintivamente chiusero gli occhi, e quando li riaprirono erano all’interno del proprio vessel al centro dell’arena.

Era qualcosa di stranissimo, quasi inconcepibile.

Sapevano bene che quello in cui si trovavano era un corpo fasullo, un ammasso di dati digitali, eppure non sembrava avere nulla di diverso da uno fatto di carne e muscoli; sentivano l’aria sul viso, la pelle carezzata dai vestiti, la terra sotto i propri piedi.

Prodigi di una tecnologia che era stata capace di fondere gli arcani segreti della stregoneria con i più moderni ritrovati scientifici.

«Allora, avete finito la passerella?» le richiamò Boniek azionando il cronometro «Non è una sfilata di moda. Forza, dateci dentro. Avete dieci minuti per convincermi a non sbattervi fuori».

Quella prima prova di chandra propriamente detto fu, per usare un eufemismo, un colossale disastro.

Helena e Luna si resero conto quasi subito di essere come dei burattinai che cercavano, senza riuscirci, di far muovere un pupazzo dall’interno. I loro corpi erano legnosi, scoordinati, impossibili da controllare.

Tra il momento in cui pensavano ad un’azione e quello in cui effettivamente la compivano passavano anche diversi secondi, e il più delle volte questa non riusciva neppure bene. Se cercavano di colpire ad un braccio finivano senza volerlo per mirare alla spalla, se cercavano di camminare a destra si spostavano invece a sinistra.

Era come essere prigioniere di un corpo mosso da una volontà altrui.

«Ma le conoscete le basi almeno?» domandò spazientito Boniek cercando di sovrastare le risate dei presenti «Più sciolte! Non state a farvi le seghe mentali! Quello che la mente pensa, il corpo esegue! Non è così difficile».

Invece, era anche troppo difficile, almeno per chi un vessel non l’aveva neanche mai comandato.

Il principio infondo era lo stesso che regolava il movimento di un qualunque corpo umano. Nel momento in cui un combattente formulava un pensiero questo veniva interpretato dal computer, il quale lo convertiva nell’azione desiderata. Tuttavia, per quanto la simulazione desse l’impressione che mente reale e corpo digitale fossero virtualmente uniti all’interno dell’arena, si trattava pur sempre di far muovere in sintonia due entità molto distinte, che comunicavano tra loro solo tramite il computer.

A meno di non possedere una mente reattiva, capace di reagire prontamente agli stimoli provenienti dall’esterno, e con sufficiente esperienza da permettere alla macchina di interpretare alla perfezione ogni singolo pensiero in modo praticamente istantaneo, era un po’ come voler insegnare ad un neonato a guidare.

Se si perdeva troppo tempo a formulare un pensiero, o questo non era sufficientemente nitido, il computer perdeva tempo ad analizzarlo, o altre volte finiva per reinterpretarlo a modo suo, con risultati facilmente prevedibili.

Tutto ciò non toglieva che il dolore fosse molto reale.

Le spade, le lance e qualunque altra arma passavano attraverso il corpo senza provocare reali ferite, all’infuori di quelle ricreate dal computer per esigenze sceniche, ma la sensazione di venire colpiti era incredibilmente realistica, ed il suo effetto principale era di rendere il contatto tra la mente e il vessel ancor più debole.

In fin dei conti, era così che si vinceva. Spezzando il legame.

Boniek era talmente deluso che non aspettò nemmeno lo scadere del cronometro, o che una delle due prevalesse sull’altra; già dopo cinque minuti, sbuffando come un getto  di vapore scaraventò le due ragazze fuori dalle machina con l’arresto di emergenza.

«Se non fosse che ci rimetterei seicento kylis, vi darei una caramella, un calcio nel didietro, e vi metterei fuori dalla porta.»

«Miglioreremo.» si affrettò a dire ansimante Helena «Ci alleneremo con tutte le nostre forze. Noi vogliamo diventare delle campionesse.»

«Se i presupposti sono questi» replicò l’allenatore passandosi una mano sulla testa pelata «Il massimo che potrete aspirare a vincere saranno le esibizioni gratuite della domenica nei centri commerciali.»

«La prego.» disse Helena quasi con le lacrime agli occhi, gettando via per la prima volta quella sua aria spavalda e sicura di sé «Non la deluderemo più, promesso».

Di fronte a quell’espressione supplichevole, ma comunque ferma nelle proprie posizioni, indipendentemente dalle difficoltà, Boniek intravide per la prima volta quella determinazione propria di un vero chandrista, restandone atterrito. Chissà, forse in quelle due ragazze, e nella irruente castana dall’aria sbarazzina in particolare, aleggiava davvero lo spirito di una coppia di potenziali campionesse.

Soffiando, prese un fazzoletto dalla tasca, passandoselo sulla fronte sudata.

«Pare proprio che qui dovremo cominciare dal principio».

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte II ***


PARTE II

 

«Non esattamente quello che ti eri immaginata, o mi sbaglio?»

«Ripensandoci adesso, ammetto che all’epoca ero molto arrogante, e avventata. Troppo sicura di me. Credevo che bastasse entrare in una machina per poter aspirare a diventare una grande chandrista. Non mi ero accorta che scendere nell’arena senza avere alcuna preparazione era come avere una bicicletta e non saperci andare.»

«Non ti eri accorta, o fingevi di non vedere?»

«Immagino entrambe le cose. In quel momento il mio sogno era troppo importante per me perché potessi realmente rendermi conto della portata delle difficoltà che avrei dovuto affrontare per raggiungerlo.»

«E andarci a sbattere il naso non deve essere stato molto piacevole, suppongo.»

«Più di una volta mi sono trovata a chiedermi se fossi davvero in grado di farcela. Invece che avvicinarsi, c’erano momenti in cui il mio sogno mi appariva sempre più lontano.

Praticamente irraggiungibile. Ogni volta che ripenso a quegli anni, non so mai se sorridere o piangere.»

 

L’anno che seguì fu per Helena e Luna, senza mezzi termini, un vero inferno.

Nessuna delle due se la sentiva di chiedere aiuto alla famiglia per pagare la quota di partecipazione della palestra, e per molto tempo a venire i genitori delle due ragazze non avrebbero neppure mai saputo a cosa le loro figlie si stessero dedicando con tanta passione.

Non poter contare sulle famiglie, però, significava dover trovare i soldi in altro modo, ad esempio lavorando.

Il lavoro part-time a Caldesia era illegale prima dei sedici anni di età, ma in un distretto come il loro c’era sempre qualcuno disposto a chiudere un occhio sulle leggi, a condizione di tenere la bocca chiusa e accettare quello che capitava, sia in termini di impiego che di salario.

Gelaterie, ristoranti, caffetterie, negozi di sartoria, piccoli supermercati e persino pompe funebri.

In oltre cinque anni Helena e Luna si fecero ogni possibile attività lavorativa del Settimo Distretto, diventando quasi delle leggende metropolitane per la dedizione che mettevano nel lavoro; lavoravano principalmente nei finesettimana, quando la palestra rimaneva chiusa, o la sera, fino a tardi.

Quasi tutti i loro guadagni finivano nel fondo per la retta mensile, e con quello che avanzava entrambe cercavano di aiutare economicamente le rispettive famiglie, che di certo non navigavano nell’oro.

E ovviamente, né Luna né Helena volevano saperne di rinunciare allo studio per lo sport.

Tutte le mattine andavano a scuola. Tre pomeriggi alla settimana, alle volte quattro, andavano in palestra, lavorando in quelli che restavano, e rientrando comunque a casa ben oltre il tramontare del sole. E poi c’erano i compiti, da farsi ovviamente dopo cena, terminati i quali potevano finalmente andare a letto, quasi sempre dopo mezzanotte.

Boniek dal canto suo si rivelò ben presto peggio di qualunque sergente istruttore; ma la cosa più incredibile, è che per i dodici mesi successivi le due ragazze non videro più neanche l’ombra di una machina.

Come l’allenatore aveva detto all’atto di accettarle nel suo piccolo regno, bisognava ricominciare tutto daccapo. Corpo, mente e volontà dovevano essere temprate a dovere, e solo in seguito si sarebbe potuto iniziare a parlare di addestramento al chandra vero e proprio.

Nell’anno che seguì Helena e Luna provarono sulla loro pelle interminabili maratone di corsa in giro per la città, sollevamento pesi, dolorose prove di lotta, allucinanti sessioni di meditazione ed esercizio mentale per affinare l’intuito, oltre a sorbirsi ore e ore di materiale video di vecchi incontri, molti dei quali non gli erano nuovi, ma che ora erano tenute ad imparare pressoché a memoria per capire l’importanza della coordinazione ed apprendere le mosse più comuni.

Diventare chandriste, e solo ora lo stavano capendo, era molto più che entrare in una machina e muovere il proprio vessel, soprattutto se come loro non si aveva il dono della magia, che in certi casi poteva costituire un indubbio vantaggio.

Bisognava avere grande esperienza sia nella lotta che nelle discipline mentali, ma anche molta resistenza fisica e una soglia del dolore il più possibile alta; non solo tutto ciò aumentava l’abilità di un chandrista, ma accresceva anche e soprattutto la sua soglia di resistenza, rendendolo più difficile da sconfiggere.

Fatica massacrante a parte, allenare il corpo era relativamente facile.

Il problema era allenare la mente. Ed era anche per questo che Helena e Luna non avevano voluto mettere da parte lo studio.

Anzi, quando potevano si intrufolavano di nascosto ai corsi di magia dell’università, per cercare, oltre che di affinare l’intelligenza e le capacità mnemoniche, anche di apprendere le basi di un’arte che loro non potevano usare, ma che invece era alla portata dei loro vessel.

Ma era dura.

Molto dura.

Dopo sei mesi, Helena sentiva di essere già arrivata al suo limite.

Più volte si ritrovò a piangere, soprattutto la sera, nascosta sotto le coperte, al pensiero che la giornata appena trascorsa si sarebbe ripetuta anche il giorno dopo, e il giorno dopo, e quello dopo ancora.

Per tutto quel tempo non era mai entrata in una machina, né aveva davvero avuto la possibilità di apprendere i rudimenti del chandra, al punto che aveva preso a domandarsi se ne valesse la pena.

Più di tutto, però, il dubbio che maggiormente l’assillava era quello relativo alle sue reali capacità.

Era davvero in grado di farcela? Di diventare una chandrista professionista?

Non lo sapeva più.

Sapeva che Luna aveva un livello di resistenza molto superiore al suo, e la necessità di apparire sempre inamovibile nelle sue posizioni per non correre il rischio che la sua migliore amica gettasse la spugna era un ulteriore elemento di stress.

Così, si teneva i pianti e i rimpianti per quanto era sola, ma più il tempo passava più questo le veniva difficile.

In realtà, Luna si era accorta già da tempo del disagio che Helena stava attraversando, e proprio per darle la forza di non mollare aveva deciso di non farlo lei stessa, non per prima almeno; se avessero deciso di rinunciare lo avrebbero fatto insieme, come insieme avevano fatto ogni altra cosa da che si erano conosciute.

Nessuna delle due confidò mai all’altra di sapere, e questo, per un curioso scherzo del destino, fu l’unica cosa che per molti mesi impedì a quella specie di tortura di venire interrotta.

Helena non mostrava debolezze in presenza di Luna per non sminuire il senso di ammirazione che l’amica nutriva per lei, e Luna rifiutava di arrendersi facendosi forte di quella grandezza che lei stessa, non gettando la spugna, seguitava a preservare.

Poi, accadde qualcosa.

Un pomeriggio, al loro primo anno di scuola superiore, le ragazze si ritrovarono ad assistere ad un episodio di bullismo condotto da una nutrita gang di ripetenti ai danni di una loro compagna di classe all’uscita da scuola, e senza esitazione si misero in mezzo dando vita ad una violenta zuffa.

Erano da sole e armate di bastoni raccolti da terra contro una decina di energumeni molto più grandi di loro, eppure la ebbero vinta, e con una facilità che sorprese anzitutto proprio loro.

Non solo non subirono neanche un pugno, ma ebbero ragione di tutti quei bulli senza quasi fare fatica; i loro corpi, che per mesi avevano sentito pesanti sotto la spinta inarrestabile degli esercizi loro imposti dall’allenatore, si erano di colpo fatti leggeri come l’aria.

I muscoli erano sempre gli stessi, ma si erano tonificati, rafforzati, così come la tecnica, fattasi raffinata e precisa, volta a sottomettere l’avversario senza dargli il tempo o la possibilità di reagire.

Restarono sorprese di loro stesse.

Ci stavano riuscendo.

Senza rendersene conto, avevano tramutato le maratone infinite, gli esercizi in palestra, le flessioni e tutto il resto in uno stile collaudato, che una mente affinata dall’osservazione e dagli sforzi profusi tanto nello studio quanto nell’assimilazione di concetti all’apparenza senza alcuna importanza sfruttava in modo quasi meccanico, senza esitazioni o sbavature.

«Che cosa abbiamo fatto?» domandò Luna con gli occhi sbarrati.

Helena in quel momento non riuscì a risponderle, ma dentro di sé provò un’immensa gioia.

Non potevano saperlo, né mai lo avrebbero saputo, ma i bulli che avevano ripassato davanti alla scuola non si erano trovati a passare da quelle parti per puro caso.

Boniek aveva molti amici, e negli ultimi tempi aveva iniziato a domandarsi per quanto quelle due ragazze così testarde, ma allo stesso tempo così emotivamente fragili, avrebbero retto.

Dentro di sé era sicuro che tutto quell’allenamento fosse servito, ma dovevano esserne convinte anche loro, per non parlare dell’iniezione di morale.

Gli costò parecchio, quasi metà dei soldi che aveva intascato in quell’anno e passa di allenamenti, e che da un momento all’altro avevano preso a fargli quasi schifo, ma alla luce dei risultati erano stati soldi ben spesi.

E il giorno dopo, quando Helena e Luna si presentarono in palestra già pronte per la sgambata di quattro chilometri che apriva tradizionalmente gli allenamenti, trovarono il loro allenatore intento a sputare bestemmie contro il tecnico che aveva appena aggiornato l’arena virtuale, e che ovviamente non si era fatto mancare nulla all’atto di presentare la fattura.

«È questa l’ora di arrivare?» sbraitò anche contro di loro «Avanti, dentro! Ne abbiamo di lavoro da fare!».

Le due ragazze rimasero un momento basite, ma appena si capacitarono di quanto stava accadendo non ci pensarono due volte e si precipitarono all’interno delle machina, riassaporando finalmente dopo tanto tempo l’emozione di scendere nell’arena.

Come la prima volta, fu chiesto loro di dare sfoggio del proprio repertorio, ma stavolta lo spettacolo fu molto diverso rispetto a quello di soli dodici mesi prima.

Helena e Luna non furono troppo sorprese da ciò che seppero sfoggiare in quel loro nuovo incontro amichevole, perché, passato lo stupore, avevano realizzato quanto quei duri allenamenti fossero serviti: quella fu la conferma. La conferma che nulla era stato vano, e che la fatica era stata pienamente ripagata.

Di nuovo, come quando avevano messo piede per la prima volta in quella piccola e angusta palestra, sentirono un po’ più vicino quel sogno così a lungo custodito.

Lo scontro, che terminò nuovamente in parità, fu così appassionante che uno degli allievi volle riprenderlo con il suo comunicatore; di lì a pochi anni quel video sarebbe diventato celebre come Il Primo Combattimento di Octavia, diventando una pietra miliare degli appassionati di chandra di tutto il mondo.

 

«Dunque, alla fine ne è valsa la pena.»

«Non lo credevo. Ma a quanto pare è così.

Il dopo fu ugualmente difficile, ma dentro di noi ci eravamo convinte di due cose importanti. Che tutto quello che avevamo fatto in quell’anno di lavoro, inclusi i molti sacrifici, non era stato inutile. Ma soprattutto, che potevamo davvero farcela.»

 

Da quel giorno, Luna ed Helena dissero addio alle maratone e alle flessioni, se non come fase di riscaldamento per sciogliersi i muscoli prima di entrare nella machina, e l’allenamento nel chandra propriamente detto divenne la colonna portante della loro formazione.

Quando erano entrate, Boniek aveva detto di volerle buttare fuori a calci. Invece, furono la maggior parte degli altri suoi sedicenti allievi ad essere buttati fuori, gente che non aveva mai sfondato e mai lo avrebbe fatto, dando modo al burbero allenatore di poter concentrare su quelle due ragazze tutti suoi sforzi.

Da ragazzine sprovvedute con sogni troppo grandi per loro, ai suoi occhi si erano tramutate di giorno in giorno nella sua più grande speranza; la speranza di poter tornare a far parte di un mondo dal quale si era dovuto allontanare troppo presto.

Gli anni presero a passare, molto più dolci ma non meno faticosi del primo.

Per Helena e Luna non era cambiato molto.

Scuola al mattino, lavoro o allenamento la sera. Unica nota positiva, un aumento del tempo libero nel finesettimana, visto che con il tempo la retta per la palestra si era sensibilmente e, almeno per loro, inspiegabilmente ridotta, passando da 300 kylis a soli 110.

Per Helena e Luna le cose divennero progressivamente sempre più facili; ogni giorno che passava cresceva la loro affinità con il chandra, e sotto l’attenta supervisione di Boniek si stavano progressivamente trasformando, ed erano loro le prime a rendersene conto, in due vere macchine da guerra dell’arena, letali e aggraziate al tempo stesso.

I pochi iscritti sopravvissuti all’epurazione di Boniek avevano tutti almeno cinque anni più di loro, ma già sul finire del secondo anno di lezione se non ve n’era nessuno capace di misurarsi ad armi pari con nessuna delle due, tanto da venire usati all’occorrenza solo come sparring per farle scaldare.

Per questo, il più delle volte erano costrette a combattere l’una contro l’altra, cosa che in realtà non faceva che rafforzare sempre di più quel legame che per loro era la cosa più importante.

Poi arrivarono i sedici anni, e con essi il regalo più ambito: una tessera di metallo argentato, finalmente intagliata e con il proprio nome inciso a grandi lettere, subito sopra a quello della palestra di appartenenza.

Da quel momento, erano ufficialmente iscritte alla CFC, la Caldesian Federation of Chandra.

Entrambe sentirono un enorme moto di orgoglio nell’istante in cui Boniek, cercando vanamente di nascondere la propria personale soddisfazione, consegnò ad ognuna delle due la propria tessera come suo personale regalo di compleanno, giunto nel caso di Helena con un leggero ritardo, ma non per questo meno gradito.

«Ci siamo riuscite.» disse Luna fissando incredula la targhetta che aveva tra le mani.

«Sì, Luna. Ci siamo riuscite. Ora siamo ufficialmente delle chandriste

«Non volate troppo con la fantasia, signorine.» si affrettò a dire Boniek per farle tornare sulla terraferma «Questo è solo l’inizio».

Ed era vero.

La tessera del CFC era, in linea teorica, un requisito indispensabile per potersi dedicare al chandra, ma per ottenere la qualifica di atleta vero e proprio era necessario entrare nella graduatoria ufficiale della propria regione.

In base alle regole ufficiali, il CFC era composto da tre federazioni distinte, una per ognuna delle tre prefetture principali di Caldesia: Kyrador, Midgral ed Eldkin. Ciascuna di esse aveva un certo numero di graduatorie ufficiali, tra le quali una unificata per i professionisti e un numero variabile di altre riservate  ai principianti.

Entrambe potevano essere scalate vincendo incontri con avversari la cui posizione fosse superiore alla propria, ma ciò che davvero contava erano i punti che si potevano ottenere vincendo i propri incontri, i quali venivano attribuiti dai giudici al termine di ogni combattimento in base alle prestazioni.

E poi c’erano i tornei, che mettevano in palio per i primi classificati un considerevole numero di punti, abbastanza da permettere di scavalcare in un solo colpo fino a dieci posizioni.

La sola prefettura di Kyrador, contava quattro diverse graduatorie per principianti, una ogni tre distretti, più una quarta che raggruppava tutti i partecipanti del resto della provincia.

Sapevano che non sarebbe stato facile.

Il loro percorso verso la gloria era solo al primo passo.

 

«Eri felice?»

«Così tanto che sentivo il cuore scoppiarmi nel petto.»

«Il dopo fu facile, non è così?»

«Il signor Boniek era un grande allenatore, e i tre anni di fatiche passati con di lui si rivelarono ben spesi. Al momento del nostro ingresso ufficiale nella lega dilettanti, eravamo già ad un livello molto più alto rispetto alla maggior parte dei chandristi della nostra età.

Cominciammo a scalare posizioni su posizioni, vincendo anche alcuni tornei, e in meno di un anno eravamo entrambe entro i primi otto classificati nella graduatoria della nostra federazione.»

«E la tua in particolare fu una carriera fulminante, se non sbaglio.

Quindici vittorie e zero sconfitte. Quelli che hanno raggiunto un simile record si contano sulle dita di due mani.»

 

D’un tratto, un’ombra si materializzò sul volto della giovane campionessa, scura ed intangibile come la voce effimera con la quale seguitava a richiamare e rievocare i propri ricordi, mentre dall’alto giungeva senza sosta il rumoreggiare della folla.

Alzò gli occhi al cielo, come a voler afferrare al volo qualcuna di quelle grida.

Erano sempre state in due, ma il nome che veniva chiamato a gran voce era uno solo.

Un nome. Il suo.

 

«Poi, però, le cose presero un’altra piega.»

«Dentro di me, sapevo che sarebbe potuto accadere. Dicono che un legame possa durare tutta la vita se si ha la forza e la volontà di preservarlo.»

«Un concetto quasi astratto in un mondo come questo, a mio modo di vedere.»

«Infatti. Ma come già accaduto altre volte, ho dovuto andarci a sbattere contro per capirlo. Anche se in questo caso non fui io quella che si fece male.»

 

Una volta l’anno, i primi otto classificati della propria federazione locale di appartenenza andavano a giocarsi l’accesso al Virtual Iron Tournament, la competizione che riuniva i 32 migliori principianti della nazione e che avrebbe messo in palio per il vincitore il premio più ambito: la promozione tra i professionisti.

Per poter essere ammessi al torneo, però, gli otto finalisti erano tenuti a sottoporsi ad un’ultima, difficile selezione, basata su di una serie di scontri diretti da svolgersi nell’arco di una sola giornata, al termine della quale sarebbero rimasti solo in quattro.

Una possibilità su due. Chi si classificava tra i primi quattro accedeva automaticamente al Virtual Iron; per gli altri, se ne riparlava l’anno successivo.

Di recente poi era stata introdotta una nuova regola, che prevedeva anche per il secondo classificato al torneo la possibilità di rimediare alla sconfitta “rubando” il titolo all’ultimo classificato della graduatoria dei professionisti, a condizione ovviamente di riuscire a sconfiggerlo.

Questo significava che per Helena e Luna vi era, complice una buona dosa di fortuna, la possibilità di poter riuscire insieme, e di accedere mano nella mano all’agognata strada del professionismo.

Alla fine dell’anno sportivo, avendo raggiunto rispettivamente la seconda e la sesta posizione nella propria federazione, Helena e Luna avevano ottenuto entrambe l’accesso alla fase finale volta a sorteggiare i partecipanti al Virtual Iron; tuttavia, i presupposti con i quali le due ragazze si preparavano ad entrare nell’arena in quella calda mattina d’estate erano quasi agli antipodi.

Con i suoi 120410 punti racimolati in quindici incontri e quattro tornei, e il secondo posto ben stretto tra le mani, la qualificazione di Helena era ormai cosa fatta, salvo disastrosi scivoloni che nessuno dei presenti, a cominciare dal suo allenatore, riteneva possibili.

Luna invece, complice un calo delle ore spese ad allenarsi per fare fronte alle difficoltà economiche della famiglia, aveva inanellato negli ultimi periodi una serie di prestazioni mediocri, e dati i suoi 92938 punti la sua qualificazione era tutt’altro che scontata.

Per avere la certezza matematica di qualificarsi Luna doveva vincere almeno sei dei sette incontri che l’attendevano, mentre vincendone dai tre ai cinque il suo destino sarebbe stato nelle mani degli altri avversari e dei loro piazzamenti.

Così, mentre Helena poteva già permettersi il lusso di prendersela comoda, Luna invece era ancora sulle spine, e quella mattina sembrava sulla graticola tanto appariva nervosa.

Malgrado si trattasse di un evento teoricamente poco degno di nota, il pubblico presente al palazzetto era quello delle grandi occasioni.

Tutti i posti disponibili erano occupati, e guardandosi intorno non era difficile scorgere anche molti procuratori, cacciatori di teste venuti a sondare i potenziali campioni e ad accaparrarsi i migliori.

Anche Helena e Luna erano state avvicinate da diversi talent scout e agenti sportivi, alcuni anche piuttosto famosi, ma avevano rimandato ogni discussione in tal momento al momento in cui fossero riuscite a conquistarsi il posto tra i professionisti.

C’erano anche le loro famiglie.

Dal giorno in cui avevano detto la verità, rivelando la ragione dietro al loro improvviso cambiamento distante ormai quasi quattro anni, contrariamente alle loro stesse previsioni sula Helena che Luna avevano potuto contare su di un inaspettato quanto caloroso appoggio da parte dei rispettivi genitori.

Il fatto che non avessero trascurato lo studio o la famiglia per inseguire il loro sogno era un punto a loro favore, e la dedizione che profondevano in ogni singolo incontro era stata per i rispettivi genitori la prova che quello era davvero il futuro giusto per loro.

Vedere sua madre e suo padre però, invece che rincuorarla, costituiva per Luna un ulteriore motivo di pressione. L’idea di fallire in loro presenza, dopo tutte le speranze che entrambi avevano riposto in lei, la spaventava a morte.

«Non essere così tesa.» le fece forza Helena cercando di consolarla

«Non ci riesco. Sono già due mesi che le mie prestazioni sono in calo, e non ho potuto allenarmi come avrei voluto. Se anche oggi dovessi sbagliare qualcosa…»

«Vedrai che ce la farai. Lotta come sai, e nessuno di questi ragazzetti presuntuosi sarà capace di stati dietro».

Luna alzò gli occhi, incrociando quelli di Helena, caldi e ridondanti di energia come li aveva sempre visti.

«Te lo ricordi, vero? Ci siamo promesse di diventare entrambe delle chandriste professioniste.

Ci siamo quasi, Luna. Il nostro sogno è a due passi da noi. Quello per cui ci siamo tanto impegnate in questi quattro anni.

Serve solo un altro piccolo sforzo. Un ultimo passo.»

«Helena…».

Ancora una vola, Luna non riuscì a non farsi contagiare dalla forza d’animo della sua migliore amica, che nonostante tutte le prove e le sfide che entrambe avevano dovuto affrontare fin lì non aveva perso per nulla la sua determinazione. Helena aveva il potere di scaldarle il cuore e l’animo anche quanto questi erano avvolti dal più freddo pessimismo; lo aveva sempre fatto, e ogni volta Luna si sentiva rinascere al caldo tepore di quella bellissima sensazione.

«Hai ragione.» disse rincuorata «In fin dei conti, come dice sempre il signor Boniek, è tutto nelle nostre mani.»

«Ben detto. E questa sera, dopo esserci qualificate per il Virtual Iron, andremo insieme a spendere tutti i soldi del premio partita alla boutique in Rue de Avenir, come abbiamo sempre sognato».

Luna sorrise, stuzzicata dal pensiero di poter spendere soldi una volta tanto come più le piaceva, e a suggello di quell’impegno si scambiarono il loro solito gesto di amicizia, incrociando le dita della mano destra a formare un reticolo all’apparenza inestricabile.

«Sempre insieme.» disse Helena

«Fino alla fine».

Prima che venisse annunciato l’ordine dei combattimenti, Boniek chiamò a sé le due ragazze.

«Comunque debba andare» disse loro trattenendosi dal piangere di gioia «Vi faccio fin da ora i miei più vivi complimenti. Avete regalato a questo vecchio iracondo una serie infinita di gioie, e voglio che sappiate che io sono estremamente fiero di voi.

Siete le allieve migliori che un allenatore potrebbe desiderare.»

«Siamo noi ad essere fiere di essere sue allieve, allenatore.» disse Helena per tutte e due «Senza di lei non saremmo mai arrivate fino a qui».

Né lei né Luna potevano saperlo, ma per Boniek quello era molto più del solito augurio prima di una sfida importante o difficile.

Ormai era sicuro.

In realtà, quel male che anni prima lo aveva allontanato dal chandra non aveva mai smesso di consumarlo, e di lì a qualche tempo si sarebbe portato via la sua vita.

Per questo si era ripromesso che prima di andarsene voleva sapere quelle che ormai considerava quasi delle figlie in mano alle persone migliori, perché potessero continuare a fare ciò che amavano senza venire fagocitate da quel mondo di squali e cannibali che era il chandra professionistico.

Aveva già preso dei contatti in tal senso.

E poi c’era la palestra, pronta per essere ceduta ad uno dei suoi tanti ex allievi, un pivello senza avvenire ma con le giuste qualità di manager per farla prosperare.

La sorte scelse di favorire Luna, assegnandole come primi due sfidanti rispettivamente il penultimo e l’ultimo degli otto finalisti; un’ottima occasione per racimolare subito parecchi punti senza stancarsi troppo, conservando le energie per sfide più impegnative.

Di tutt’altro genere fu invece il sorteggio di Helena, che invece si trovò subito a dover difendere la sua posizione dalle mire del terzo in classifica, Pride, che tuttavia mise al suo posto liquidandolo in meno di cinque minuti tra gli applausi generali.

Il secondo incontro, invece, la vide opposta al primo classificato in persona, nonché tra i favoriti per la promozione tra i professionisti, Sigfried. Non si erano mai affrontati, ma Helena aveva avuto più volte l’occasione di osservare i suoi precedenti incontri, così si presentò sull’arena con un bagaglio di informazioni già considerevole.

Di contro, era impossibile per chiunque riuscire a prendere le misure ad una come lei. Il suo chandra era troppo eterogeneo, troppo anticonvenzionale, perché qualcuno abituato a quegli schemi prestabiliti usati dalla maggior parte degli atleti fosse in grado di prevederla.

Lo Schermidore era una classe poco usata, poiché notoriamente povera di talenti speciali e priva di un’abilità particolarmente sviluppata, ma grazie agli allenamenti di Boniek e alle ore passate ad osservare allenamenti di scherma Helena vi aveva dato una nuova dimensione, tramutando in punti di forza le supposte debolezze, e ciò la rendeva ancora più pericolosa.

Il combattimento contro Sigfried fu assolutamente avvincente, e si concluse senza un vero vincitore. Furono i giudici ad attribuire la vittoria ad Helena, assegnandole 2300 punti contro i 1600 dello sfidante, cosa che di fatto, unita ad una clamorosa seconda sconfitta patita dal campione a causa dello sforzo da poco sostenuto, costò a Sigfried il primo posto, il quale già a metà giornata era ormai saldamente in mano ad Helena.

Anche Luna partì molto bene, rifilando due sonore sconfitte a Golem e Draxer che le fruttarono oltre cinquemila punti, e con essi il passaggio dalla sesta alla quinta posizione. Un contributo importante alla sua causa lo diede Sigfried, che riscattò le prime due cadute malmenando a dovere il quarto classificato, Claymore, e riducendo così sensibilmente il distacco tra Luna e quel quarto posto che valeva l’ingresso al Virtual Iron.

Nel terzo incontro la bruna regolò la pratica con Malicious, l’atleta a cui aveva rubato il quinto posto, estromettendolo in pratica dai giochi per la corsa alla qualificazione, mentre nel quarto perse, pur nelle previsioni, l’incontro con Sigfried, uscendone però a testa e rosicando altri punti a Claymore, che malmenato anche da Helena si ritrovò con il fiato di Luna praticamente sul collo.

In uno scatto di orgoglio Claymore riuscì a prevalere su Pride nell’ultimo incontro della mattinata, consolidando il proprio quarto posto, ma alla luce della vittoria ottenuta anche da Luna contro il terzo classificato i giochi di fatto erano ancora tutti aperti.

All’ora di pranzo, la classifica proiettata sul tabellone tridimensionale che sovrastava l’arena principale recitava.

 

1.       HELENA: 138012

2.       SIGFRIED: 135103

3.       PRIDE: 129828

4.       CLAYMORE: 114181

5.       LUNA: 112002

6.       MALICIOUS: 106581

7.       GOLEM: 99817

8.       DRAXER: 96113

 

Con i primi tre classificati ormai irraggiungibili e gli ultimi tre di fatto tagliati fuori da qualsiasi speranza di rimonta, il duello per il quarto posto, con tre incontri ancora da disputare, rimaneva una lotta a due tra Luna e Claymore.

Alla luce della buona prestazione tenuta durante la mattinata Luna appariva molto più sollevata, tanto che riuscì persino a mangiare il pranzo al sacco preparato appositamente da sua madre. Helena e i suoi genitori furono invitati a sedere con loro, e così le due famiglie spesero la prima parte del pomeriggio a campeggiare amichevolmente nel parchetto attiguo allo stadio, godendosi in serenità il piacevole sole estivo.

Ad un certo punto Helena, desiderando condividere con il signor Boniek quel momento di relax, volle andare a cercarlo, trovandolo intento a parlottare vicino all’ingresso con un giovanotto di bell’aspetto vestito elegantemente, capelli biondi ben pettinati e lenti ovali da vista.

«Helena. Capiti a proposito. Volevo presentarti una persona.»

«Piacere di conoscerla.» disse educatamente il giovane porgendole la mano «Mi chiamo James Morales

«James è un procuratore sportivo, nonché il figlio del mio vecchio agente. E si è offerto di occuparsi di voi.

Ho pensato che vi avrebbe fatto piacere far parte della stessa squadra. Se sarete legate ad un unico sponsor, sarà quasi impossibile che vi chiedano di battervi tra voi».

Così, di colpo, Helena rimase spiazzata, non sapendo cosa dire.

Il signor Boniek aveva sicuramente molta fiducia in loro, ma iniziare a parlare di procuratori e sponsor così, senza neanche il passaggio di categoria già in tasca, suonava un po’ prematuro, soprattutto dopo che proprio lui aveva preso letteralmente a calci tutti quelli che negli anni si erano presentati alla palestra per chiedere informazioni sulle due ragazze-prodigio.

«Signor Boniek, non sarà un po’ presto? Voglio dire, non siamo ancora certe di…»

«Non dire sciocchezze!» esclamò Boniek facendosi una grossa risata «Hai dimostrato ampiamente che per te la vittoria nel Virtual Iron sarà solo una formalità, e anche Luna a conti fatti ha buone possibilità di farcela.

Certo, potrebbe capitare che non riusciate ad ottenere il primo e il secondo posto che valgono la promozione, ma mi sembra chiaro che anche se una delle due non dovesse farcela le basterà attendere un anno per riuscirci.

Alla luce di tutto ciò, preferisco sapervi nelle mani di una persona fidata che tra le fauci di quegli squali bastardi del Primo Distretto.

James è giovane, ma ha già una discreta esperienza, e saprà tutelarvi al meglio».

Helena non era del tutto sicura, e di colpo cominciò ad avvertire il peso di ciò che l’attendeva in caso di vittoria.

Per un attimo si immaginò nel mondo del professionismo, un mondo molto diverso dalla piccola realtà quasi paesana che aveva conosciuto fino a quel tempo, fatto di lusso, sfide importanti, viaggi e, soprattutto, tanta malignità.

Ebbe quasi paura.

Ma poi si ricordò che era quello ciò che aveva sempre inseguito. Lei voleva diventare una campionessa. Lei voleva il titolo di campionessa del mondo. Voleva diventare famosa.

«Allora.» si risolse a dire stringendo la mano al suo futuro rappresentante «Spero che presto avremo occasione di lavorare insieme.»

«Lo spero anch’io».

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte III ***


PARTE III

 

Al pomeriggio, con i risultati più importanti ormai fuori questione, parte del pubblico della mattinata se n’era andato, ma nel palazzetto vi era ancora comunque molta gente.

Luna scese in campo per prima, opposta a Pride, uno scontro virtualmente deciso in partenza, ma che invece si rivelò avvincente come quasi tutti quelli che l’avevano preceduto. La bruna si fece valere, e complice anche il fatto che Pride, con i primi due posti ormai irraggiungibili e il terzo saldamente tra le mani, non aveva grandi stimoli, al termine dei quindici minuti regolamentari non vi furono vincitori. Come già accaduto in un paio di occasioni si andò al verdetto dei giudici, che assegnarono ai due contendenti quasi lo stesso punteggio: 2100 punti per Pride, 2000 per Luna.

Dopo questa battaglia il distacco tra Luna e Claymore era di appena duecento punti, ma vincendo il nervosismo il quarto in classifica riuscì ad allungare nuovamente strapazzando, pur senza quello strapotere che ci si sarebbe aspettato, un ormai avvinto Golem, riportando la differenza oltre i millecinquecento punti.

Il che non era una buona notizia.

Teoricamente i giochi erano ancora aperti, tenendo conto anche del fatto che lo scontro diretto tra i due doveva ancora essere disputato, ma secondo i più ormai le speranze per Luna di agguantare il quarto posto erano pressoché azzerate; questo per il semplice fatto che, prima ancora di affrontare Claymore nel faccia a faccia decisivo, le restava ancora da combattere la sfida più ardua, quella con Helena, mentre di contro il suo avversario aveva ormai esaurito gli avversari impegnativi.

Luna era comprensibilmente preoccupata, perché sapeva di avere ben poche speranze di rosicare punti ad un’avversaria che, pur conoscendo a menadito, era stata in grado di sconfiggere pochissime volte, ma cercava di consolarsi pensando che in ogni caso perdere proprio contro la sua migliore amica era infondo il male minore.

Poi, però, accadde qualcosa.

Nel suo primo incontro del pomeriggio Helena era opposta a Draxer, una sfida senza storia che infatti la vide in vantaggio dall’inizio alla fine.

Tuttavia, proprio nell’atto di assestare il colpo di grazia, la neo campionessa federale volle esagerare, esponendosi più del dovuto con un assalto di sicuro effetto scenico ma che la lasciò pericolosamente scoperta, e Draxer, per non cadere senza combattere, contrattaccò con tutta la sua forza. Il risultato fu che Helena, pur vincendo senza appello, riportò uno shock energetico non indifferente, che pregiudicò seriamente la sua salute.

Anche se le machina erano pensate per smorzare la sensazione del dolore, ma i colpi troppo diretti o particolarmente violenti facevano comunque male, e anche per chi non possedeva poteri magici il contraccolpo a livello a livello spirituale poteva essere molto provante.

Per un attimo si temette il peggio quando, all’apertura della machina, non fu in grado di scendere da sola, ma per fortuna il personale medico in forza alla manifestazione appurò che non era nulla di serio, anche se la gara per lei era purtroppo finita.

«Helena.» disse Luna correndole incontro mentre veniva portata via a spalla dai paramedici

«Non è niente.» la rassicurò lei guardandola amorevolmente «Mi dispiace. Sembra che la nostra ennesima sfida dovrà attendere».

In base al regolamento Helena avrebbe potuto chiedere ed ottenere subito il ritiro per infortunio, cosa che non avrebbe minimamente pregiudicato il suo punteggio né tanto meno la sua qualificazione, ma forse peccando di superbia ritardò oltre il tempo consentito la sua decisione, magari nella speranza di poter comunque disputare almeno una delle due sfide che le restavano.

Ciò, per Luna, si tradusse in una vera e propria manna dal cielo. Sempre secondo il regolamento, infatti, se un concorrente non si presentava nell’arena senza che vi fosse un valido motivo ciò si traduceva per lui in una sconfitta a tavolino, e per il suo avversario nell’assegnazione automatica del massimo punteggio ottenibile, ovvero 3000 punti.

Così, da un istante all’altro, si ebbe un clamoroso quanto inatteso ribaltone, con il quarto in classifica che, dopo essere stato inseguito per tutta la mattina, si ritrovò infine esautorato di quella posizione che aveva difeso con le unghie e con i denti.

Ora era Claymore a dover inseguire. In linea teorica, avendo da affrontare solo Draxer, aveva ancora tutti i mezzi necessari non solo per effettuare un controsorpasso, ma anche per rimettere una certa distanza tra sé e la sua instancabile, oltre che molto fortunata, inseguitrice.

Ma con l’ansia arrivò la disattenzione, e così nel suo penultimo incontro Claymore racimolò la misera cifra di 1500 punti, che in pratica, pur restituendogli il quarto posto, rese quasi inesistente il distacco da Luna.

Prima dell’ultimo incontro, quello decisivo, la situazione era di 117310 punti per Claymore contro i 117098 di Luna.

Dall’esito della loro sfida dipendeva il nome del quarto candidato che avrebbe preso parte all’Iron Virtual Tournament, così gli organizzatori pensarono bene di riservarselo come incontro conclusivo della manifestazione, in un gioco della suspense che ebbe l’unico effetto di far salire sempre di più l’ansia nel petto di Luna.

Finalmente, quasi alle otto della sera, venne il momento di scendere nell’arena.

Un attimo prima di entrare nella machina Luna si vide venire incontro Helena, appoggiata gioco forza ad un bastone ma in buone condizioni, e ancora una volta strinsero le mani in segno di amicizia.

«Fatti forza, amica mia. Io sono qui a sostenerti.»

«Grazie, Helena».

Nel momento in cui fu faccia a faccia col suo avversario al centro dell’arena, Luna avvertì come non mai la sensazione di avere in mano le redini del proprio destino.

In base alle statistiche, Luna partiva decisamente avvantaggiata. Come il suo nome lasciava intendere, infatti, Claymore brandiva un pesante spadone a due mani, che garantiva un tremendo potere di attacco a discapito tuttavia di rapidità e capacità difensive, e pertanto un vessel rapido come il lanciere, difetti che potevano permettere ad un personaggio rapido come il lanciere, nonostante la differenza in abilità offensive, di vere gioco facile.

Claymore era consapevole di questa gap, e per i primi minuti del combattimento optò per una strategia difensiva; il suo non era un grande vantaggio, ma a saperlo gestire poteva essere sufficiente, quindi all’inizio lasciò a Luna l’iniziativa, sperando in un suo eventuale passo falso per lanciare un contrattacco.

Poi, però, Luna a darci troppo dentro, rivelando un bagaglio tecnico tale da poter aggirare la difesa di Claymore senza troppe difficoltà, piazzando una serie di affondi vincenti che fecero pericolosamente pendere la bilancia in suo favore.

Luna danzava come una libellula, colpiva e si allontanava, forte della sua agilità e rapidità, guadagnandosi ben presto i favori di buona parte del pubblico che prese a tifare per lei.

A metà incontro Claymore finalmente realizzò che restare in copertura era un suicidio e si decise a rispondere. Dal canto suo Luna, volendo approfittare dell’iniziale indecisione del nemico per racimolare quanti più punti possibile, aveva finito per stancarsi presto, così alcuni degli attacchi di Claymore riuscirono ad andare a segno.

Dal dodicesimo minuto in poi lo scontro si fece più equilibrato, ma fu chiaro che nessuno dei due, con già sei incontri sulle spalle, aveva le forze necessarie per chiudere la sfida. Gli ultimi due minuti furono lasciati correre senza fallo, con i due contendenti che si tennero prudentemente a distanza l’uno dall’altro, nella certezza, o nella speranza, di aver fatto meglio l’uno dell’altro.

Allo scadere del gong, Helena corse alla machina di Luna senza neanche aspettare che questa si riaprisse, e per i successivi, interminabili minuti, stettero mano nella mano, gli occhi fissi al tabellone assieme al resto del palazzetto, racchiuso in un irreale silenzio.

Finalmente, dopo un tempo quasi doppio rispetto al normale, comparvero sul monitor i risultati dello scontro.

 

WHITE ROSE: 1800

CLAYMORE: 1593

 

4)      CLAYMORE: 118903

5)      WHITE ROSE: 118898

 

Il pubblico rimase ammutolito.

Cinque punti. Cinque miseri punti.

Luna lasciò andare senza accorgersene la mano di Helena, lasciando scivolare la propria, tremante, lungo il corpo.

Dal canto suo Claymore, passato lo stupore, si prese i peggiori fischi della sua carriera di chandrista, e altrettanto i giudici, ma questo non avrebbe cambiato il verdetto.

Ma delle due, quella che sembrava maggiormente sconvolta era proprio Helena.

Non voleva crederci.

Non poteva esistere una cosa del genere.

«Questo… è uno scherzo…» balbettò serrando i pugni «Cinque punti?».

Era come essere inciampati ad un metro dal traguardo.

Erano cose che succedevano una volta in una carriera, e nel caso di Luna era accaduto nel momento peggiore.

Il signor Boniek dovette essere trattenuto a forza dal  suo amico James dall’avventarsi sui giudici per riempirli di botte, e si accontentò di coprirli di insulti mentre questi scivolavano fuori dal campo di gara quasi scappando.

Quanto a Luna, non riuscì a trattenere le lacrime, lasciandosi andare ad un pianto liberatorio sulla spalla dell’amica, che la strinse a sé come a volerla proteggere, e a poco servirono gli applausi scroscianti che il pubblico le riservò per tentare di consolarla.

Poteva aver perso la qualificazione, ma per tutti la vincitrice morale era lei; ma questo di certo non la faceva sentire meglio.

 

Quella sera, come al solito, le due ragazze tornarono a casa insieme, al seguito delle rispettive famiglie, ma l’atmosfera che albergava era diametralmente opposta.

Da una parte c’era l’entusiasmo della famiglia Loyde, che ormai vedeva sicura davanti a sé la meta tanto inseguita, dall’altra la frustrazione e delusione dei Warner, che quella meta se l’erano vista scivolare dalle dita proprio quando stava per stringerla.

Le due famiglie si conoscevano da troppo tempo perché i Loyde potessero gioire pienamente senza tener conto dello stato d’animo dei Warner, e lo stesso si poteva dire delle loro figlie, con Helena che non aveva alcuna voglia di festeggiare e Luna che camminava a testa bassa come una penitente, delusa con il mondo e con sé stessa.

«Su con la vita.» cercò di farle forza il signor Loyde, che la vedeva quasi come una seconda figlia «Ti rifarai senza dubbio l’anno prossimo. Vedrai, al torneo Helena riempirà di botte quel bastardo e ti vendicherà dell’affronto subito, ho ragione?»

«La seconda parte potevi risparmiartela, caro.» lo rimproverò la moglie.

Luna ed Helena però non avevano alcuna voglia di vedere il bicchiere mezzo pieno.

Dentro di sé sapevano che poteva accadere una cosa del genere.

Anzi, era quasi scontato che accadesse.

Anche ammesso che fossero riuscite a conquistare entrambe l’accesso al Virtual Iron sarebbero dovute arrivare entrambe in finale per potersi giocare a pari opportunità il passaggio di categoria, con l’ulteriore pressione per la perdente di dover vincere un secondo scontro.

A conti fatti, cercò di pensare Helena, forse era meglio così. Perdere la qualificazione tra i professionisti al torneo, magari perdendo sia la finale che l’incontro salvezza con l’ultimo dei professionisti, sarebbe stato sicuramente più doloroso e frustrante che venire tagliati fuori durante la fase finale del campionato.

Ma questo la obbligava a vincere.

Se avesse perso la possibilità di qualificarsi, l’anno prossimo sarebbero state punto e a capo, in lotta per un traguardo che raggiungere mano nella mano si stava rivelando, nella realtà dei fatti, impossibile.

Cercò di farsi forza, e di trasmetterla come ogni volta alla sua migliore amica.

«Vedrai, è solo un altro anno. Ce l’avevi quasi fatta. La prossima volta, ci riuscirai di sicuro».

Questa volta, però, Luna non riuscì proprio a farsi contagiare.

Forse perché, dentro di sé, quella foga battagliera che mai le aveva fatto difetto per la prima volta era venuta meno, sopraffatta dalla realtà della vita.

Non sempre si poteva avere tutto, e la maggior parte delle volte le cose sfuggivano al controllo. Ed era un concetto al quale si sarebbero dovute abituare presto.

Si erano illuse per troppo tempo che il chandra fosse la soluzione a tutti i problemi. Forse era vero, ma di certo riuscire a risolverli tutti in un colpo solo forse era pretendere troppo.

Due settimane dopo, come da pronostici, alla United Arena di Midgral, Helena sollevava al cielo il trofeo del Virtual Iron Tournament, e con esso la tessera d’oro zecchino che valeva l’ammissione nell’olimpo dei grandi.

Sentire gli applausi del pubblico, stringere nelle sue mani quel traguardo così a lungo inseguito, era un qualcosa che la sua mente ancora quasi non riusciva a concepire.

Luna era lì, in tribuna, che la guardava sorridendo, e cercando per quanto possibile di nascondere dietro ad un sorriso, per quanto sincero, tutta l’amarezza che stava provando al pensiero che avrebbe potuto esserci anche lei lì, sull’arena, a giocarsi le sue carte.

Dal canto suo, Helena era così felice da poter toccare il cielo con un dito.

Ce l’aveva fatta.

Si era guadagnata la sua grande occasione, l’aveva sfruttata, e ora ne godeva i frutti.

Quella di Luna, invece, doveva aspettare, ma sarebbe arrivata.

Sarebbe venuto il momento in cui i loro posti si sarebbero invertiti, con la bruna trionfante nell’arena e la rossa seduta tra il pubblico invocante il suo nome.

Ne era sicura.

 

«E invece?»

«E invece le cose sono andate diversamente.

Ce l’avevo fatta.

Ero diventata qualcuno.

In quel momento ero così felice, così fuori di me al pensiero di esserci riuscita, che ogni altra cosa mi parve secondaria.

Da quel giorno, per me è stato come entrare in un altro mondo.

Tutto è cambiato.»

«In meglio o in peggio?»

«Dipende dai punti di vista. Allora, per quanto mi vergogni ad ammetterlo, credevo in meglio».

 

Solo una settimana dopo aver vinto il Virtual Iron, venne per Luna il momento di trasferirsi.

James curava già gli interessi un paio di professionisti, la maggior parte ancora semisconosciuti, e oltre all’ufficio disponeva anche di alcuni appartamenti nel secondo distretto, un po’ più vicino agli interessi veri.

I genitori di Helena erano troppo integrati nella realtà del loro quartiere, e comunque troppo spaventati da ciò che li attendeva in quel mondo scintillante per seguire la figlia, così, da un giorno all’altro, Helena si ritrovò quasi sola, in un appartamentino senza pretese ma di buon pregio a gestire autonomamente la sua vita.

Di lavorare non se ne parlava, e comunque non era necessario.

Per poter mantenere lo status di professionista bisognava partecipare ad un numero minimo di combattimenti l’anno tra tornei e incontri individuali, e se da dilettanti tutto quello che si poteva ottenere erano i punti per salire in graduatoria da professionisti vincere voleva dire intascare un bel po’ di soldi.

Helena quasi non ci credeva: era pagata per fare ciò che più le piaceva.

Non erano i compensi faraonici degli incontri di prima categoria, ma ce n’era abbastanza per pagarsi di che vivere, e con quello che avanzava riusciva persino a divertirsi, tra discoteche e gite pomeridiane in qualcuno dei molti centri commerciali attorno a casa sua.

In media Helena combatteva uno o due incontri a settimana, quasi sempre in città o comunque entro i confini nazionali, e circa una volta al mese prendeva parte ad uno dei molti tornei organizzati dalla federazione, da circoli sportivi o persino da privati, miliardari pieni di soldi che per rendere speciali i propri eventi mondani offrivano ai loro ospiti l’ebbrezza di un combattimento personalizzato visto a vicino.

Quando non doveva combattere Helena si allenava, se non altro per tenere il passo con i propri avversari, che stavano rivelandosi di giorno in giorno ben più ostici di quelli che aveva conosciuto finora. Avrebbe voluto allenarsi nella sua palestra, anche per tenere d’occhio l’andamento di Luna, ma c’era decisamente troppa strada a separarla dall’ormai riabilitata e molto ricercata Pugno d’Argento, e così il più delle volte si esercitava in qualcuna delle palestre del circondario.

Ogni tanto Luna andava a trovarla, ed insieme passavano piacevolmente le ore ricordando gli anni passati, o fantasticando il momento in cui avrebbero potuto nuovamente stare insieme con più regolarità.

Forse per via dello shock dovuto anche alla morte improvvisa del signor Boniek, le prestazioni di Luna erano un po’ calate a sei mesi dalla delusione nella fase finale del campionato, ma nonostante ciò il suo terzo posto nella classifica della propria federazione rendeva la sua partecipazione al prossimo Virtual Iron relativamente sicura.

Lentamente, Helena stava iniziando ad adattarsi a quel mondo che aveva tanto inseguito, e che, a guardarlo dall’interno, non sembrava poi così diverso da quello in cui era vissuta per tutti quegli anni.

Forse era più sfarzoso, più elegante, e magari anche più ipocrita, ma la gente era sempre quella, eccezion fatta per i vestiti raffinati, le belle macchine, i divertimenti e tutto il resto, e così la routine quotidiana, divisa tra allenamenti, qualche incontro e un po’ di svago.

Indubbiamente il tempo libero era molto aumentato, così tanto che Helena quasi non sapeva che farsene.

I ritrovati tecnologici per il divertimento bene o male finivano sempre per stancarla in fretta, e non era ancora così famosa da avere le giornate perennemente occupate da conferenze stampa e incontri con i sostenitori.

Così, si allenava, molto e con costanza, aumentando sempre più il suo bagaglio di esperienza.

Ma ora Yuppie, quel vessel che negli anni era diventato come una sua seconda pelle, era solo un ricordo.

Ora c’era Octavia, la bella e leggiadra soldatessa che infilzava avversari a colpi di fioretto, letale come un serpente e aggraziata come una rosa selvatica.

Dapprincipio non aveva gradito per nulla la richiesta del suo agente di cambiare il proprio vessel, e anzi aveva minacciato di fare coriandoli del contratto appena firmato se non le avessero permesso di continuare a combattere nei panni di Yuppie.

«Cerca di capire, Helena.» le aveva dunque spiegato James «Il chandra professionistico è tutta un’altra cosa. Il pubblico vuole personaggi che ispirino fiducia, e belli da vedere.

Non dico che Yuppie non lo sia, ma è un po’… come posso dire… troppo sopra le righe».

Difficile capire se per sopra le righe James intendesse il trucco un po’ pesante, i capelli laccati, l’abbigliamento leggermente succinto o tutte queste cose insieme; stava di fatto che era buona norma per chiunque intendesse puntare in alto evitare personaggi troppo appariscenti e originali, se non altro per non dare alla stampa scandalistica e ai paparazzi più materiale di pettegolezzo di quanto già non ve ne fosse.

Alla fine, pur con qualche riserva, Helena si era dovuta adeguare, anche in ragione del fatto che ottenere i favori del pubblico e della stampa era l’unico modo per poter sperare in un avvenire; era la folla a scegliere i suoi campioni, e solo i campioni potevano aspirare ai traguardi più importanti, quelli che lei voleva assolutamente raggiungere.

Così Yuppie se n’era andata, con tutti gli onori ed il rispetto dovuto a chi aveva contribuito così tanto a renderla grande, e al suo posto Helena aveva dato vita ad Octavia; fluenti capelli biondi, occhi verdi e luminosi, espressione austera, ovale leggermente appuntito, portamento elegante, veste bianca e rossa da cavallerizza e qualche scampolo di armatura senza grande importanza, così, per renderla più accattivante.

Come arma, uno stocco, più efficace di una comune sciabola per chi come lei faceva dell’agilità la propria arma principale.

 

«Capisci ora perché odio tanto Octavia?»

«Non incolpare il tuo Vessel. Sei tu che ti sei voluta confermare.»

«Quando ho creato Yuppie, l’avevo pensata come una parte di me. Era l’altra me stessa, la mia immagine allo specchio. Selvaggia. Ribelle. Sempre pronta a combattere, a prescindere dagli ostacoli.

Octavia, invece… lei non era che una maschera. Un fantoccio dentro al quale mi nascondevo, buono solo per suscitare gli applausi del pubblico mettersi in posa per i fotografi.»

«Eppure, ti piaceva se non sbaglio. Essere come lei.»

«Effettivamente, forse è così. In qualche modo mi faceva sentire parte di quel mondo. Potevo vestirmi bene, indossare belle scarpe, arredare la mia casa, camminare per quelle strade, ma in qualche modo mi sentivo sempre un’estranea. Quando diventavo Octavia, invece ero come loro.

E con il tempo, Octavia ha fatto il lavoro per me. Octavia piaceva alle folle, quindi piacevo anch’io. Così, ho finito per farci l’abitudine.»

«Poi, è arrivato Monagan.»

«Già. È arrivato Monagan. Ha schioccato le dita, e tutto è cominciato.

O forse, è finito.»

 

I campionati per professionisti funzionavano in modo diverso rispetto a quelli destinati ai principianti.

Anzitutto esistevano due classifiche ufficiali; la prima, di livello mondiale, veniva stilata in base al punteggio totale che ogni chandrista accumulava nel corso di tutta la propria carriera fino al momento del ritiro, mentre la seconda, diversa da nazione a nazione, aveva cadenza annuale.

Ed era la classifica annuale quella che contava maggiormente, perché solo chi alla fine dell’anno primeggiava nel proprio campionato nazionale veniva ammesso al Chandra World Championship, il campionato mondiale di lega che incoronava il più grande chandrista del mondo, a condizione ovviamente che questi riuscisse in ultima battuta ad avere la meglio sul suo predecessore.

Ciò faceva sì che non sempre chi svettava nella classifica internazionale fosse anche l’attuale campione del mondo in carica; ciò serviva a rendere la lega mondiale più dinamica, e virtualmente aperta a tutti, o quantomeno a chiunque avesse la forza per arrivare fino al più ambito dei traguardi.

Nel suo primo anno da professionista Helena totalizzò diciassette vittorie e otto sconfitte a livello individuale, e sette medaglie, di cui tre d’oro, nei dodici tornei ai quali prese parte, concludendo il campionato al quarantatreesimo posto.

Oltre ai confini nazionali era ancora fondamentalmente sconosciuta, ma a Caldesia il pubblico era già pazzo di lei, ed il suo nome cominciava ad essere accostato dalla stampa sportiva a quello delle grandi promesse della sua generazione, che avanzando a larghi passi scalciavano per scaraventare gli ormai attempati campioni dell’ultimo decennio giù dai loro piedistalli.

James fu sempre molto premuroso nei suoi confronti, sforzandosi di procacciarle buoni incontri senza per questo darla in pasto allo sciacallo di turno, e ciò aveva contribuito a rafforzare la sua nomea di campionessa pura, non intaccata da quello sporco che infangava, ed era una cosa nota a tutti, la maggior parte dei chandristi di alto profilo.

Era inevitabile che una come lei, una delle poche chandriste donne ad aver conquistato le prime pagine, attirasse l’attenzione della gente che contava.

Un giorno, nell’ufficio di James si presentò un uomo di mezza età, basso e grassoccio, in testa pochi capelli nerastri, faccia butterata e labbra piccole.

Monagan Raius.

L’agente dei grandi campioni.

Nell’ambiente lo chiamavano Il Re D’Oro, perché aveva la fama di cavar fuori denaro da qualunque cosa toccasse, a cominciare dai giovani e promettenti chandristi.

Helena non ebbe modo di ascoltare per intero la conversazione, perché James la invitò fermamente a lasciarli soli in ufficio, ma poté udire distintamente una cifra: sedici milioni di kylis.

Tanto era disposto a sborsare il Re D’Oro per avere tra le mani le sorti e la carriera della Rosa di Kyrador, come la stampa l’aveva soprannominata, e farne la più grande campionessa che il mondo avesse mai visto.

Qualunque procuratore o agente si sarebbe prostituito per un’offerta simile, ma non James.

Aveva fatto una promessa a Boniek, e non voleva gettare Helena in pasto a quella marmaglia affamata di soldi, così buttò letteralmente il Re d’Oro fuori dal suo ufficio, intimandogli di stare lontano da uno qualsiasi dei suoi ragazzi se non voleva passare dei guai.

«Non preoccuparti,  Helena.» rassicurò la ragazza «Non permetterò a quegli squali di metterti le mani addosso».

 

Rassicurazione inutile.

James era una brava persona, onesta e rispettosa, e per questo fuori luogo in un mondo come quello del chandra professionistico.

In base al contratto firmato dai suoi ragazzi lui prendeva il 10% di tutte le vincite come compenso retributivo, ma i soldi veri, quelli per mandare avanti la baracca, arrivavano soprattutto dalle commissioni e dagli sponsor.

Così, quando il suo principale finanziatore, il gruppo industriale Kleiner, fu travolto ed affossato da uno scandalo di proporzioni colossali, la stabilità economica del giovane procuratore andò da un momento all’altro gambe all’aria.

Per un po’ James riuscì a tirare avanti in qualche modo, destreggiandosi tra piccole corporazioni che di quando in quando scucivano un po’ di soldi, ma nessun grande gruppo industriale dimostrò di voler avere qualcosa a che fare con qualsivoglia realtà collegata al presidente del gruppo Kleiner, il cui nome era stato trovato tra quelli dei principali fiancheggiatori dell’ormai dimenticato gruppo sovversivo Avalon.

James era disperato.

Da un momento all’altro aveva visto quella posizione così faticosamente costruita crollare come un castello di sabbia, e il futuro per lui, ma soprattutto per i suoi ragazzi, si presentava nero come la notte: nessuno avrebbe scritturato per un incontro un chandrista associato ad un ufficio coinvolto in uno scandalo e prossimo al fallimento.

E fu allora che Monagan si ripresentò nel suo studio, pomposo e sicuro di sé come la prima volta.

Il Re d’Oro aveva capito con che tipo di persona aveva a che fare, ed era sicuro che riproporre la medesima offerta sarebbe stato del tutto inutile, ma stavolta aveva altri progetti.

L’assegno che James si era visto sventolare sotto al naso la prima volta gli fu nuovamente mostrato, ma stavolta aveva uno zero in più. Centosessanta milioni di kylis per avere tutto, l’intera baracca, ovviamente compresa di atleti, fin anche alla stessa persona del giovane procuratore.

Monagan aveva molti amici, e qualunque società avrebbe fatto carte false per lavorare con lui; la sua reputazione, almeno quella ufficiale, era impeccabile, e nessuno avrebbe fatto caso ai trascorsi di una delle molte società che lui ed il suo gruppo controllavano.

In realtà, più che di un’offerta si trattava di un ricatto, per non dire di una presa in giro. Una società di chandra professionistico con una decina di atleti che messi insieme facevano quasi tre milioni di punti nella classifica di lega mondiale e che mai una volta erano scesi sotto la centesima posizione in quella nazionale valeva ben di più di 160 milioni; a condizione ovviamente di non essere ad un passo dalla bancarotta.

James poteva scegliere: piegare la testa e mantenere il suo posto, e con esso un minimo di autorità nella gestione dei suoi atleti, o fare il moralista e andare a fondo lasciando quei ragazzi al loro destino, prede facili per individui molto più spregiudicati e pericolosi del Re d’Oro.

Così, James firmò, e da un giorno all’altro la Morales Talent Scout divenne parte del colossale gruppo sportivo Raius.

Teoricamente James poteva ancora esercitare una qualche forma di autorità nei confronti dei suoi ragazzi, e di Helena in particolare, ma di anno in anno la sua figura venne sempre più messa ai margini del progetto che il Re d’Oro aveva in mente, fino a diventare nulla più che un fantasma, una presenza insignificante assimilata ed inglobata in una realtà fatta apposta per lasciarlo fuori.

Dal canto suo, per Helena fu come percorrere nuovamente il passo che portava dall’anonimato alla gloria.

Aveva un piccolo appartamento senza pretese, e da un momento all’altro si vide regalare dal suo nuovo agente, quale segno di buon augurio per una proficua e felice collaborazione diceva, un attico all’Heaven’s Gate, il nuovissimo grattacielo del quartiere di Pleinarth, distante meno di un miglio dall’acropoli.

Neanche la parola superlusso bastava a indicare ciò che vi era lì dentro.

I tavoli, le sedie e i mobili erano in avorio o in legno pregiato, gli infissi laccati e i pomelli delle porte placcati in oro, e la vasca da bagno sembrava più una piscina. Nel salotto, poi, la parete accanto al tavolino da tè era interamente in vetro, una porta aperta su quello skyline che per tanti anni Helena aveva potuto vedere solo da lontano, e che ora invece quasi sovrastava.

L’unico neo era il colore delle pareti, con il nero e i toni scuri in generale che la facevano da padroni.

«È… è stupendo.» disse quasi senza parole

«Ti piace?» le disse Monagan «Questa sarà la tua casa.»

«Ma è un complesso così lussuoso. E io, non sono ancora nessuno…»

«Tu sei troppo modesta, ragazza mia. Fidati di me, da qui a meno di due anni sarai tra le dieci persone più famose al mondo. Farò di te la più grande stella mai vista nella storia del chandra».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Parte IV ***


PARTE IV

 

«E  Monagan mantenne la parola data?»

«Fece molto di più.

Ma  ciò non serve a diminuire il senso di disgusto che ripensandoci adesso sento di provare nei suoi confronti.»

«Non cambi mai. Perché dai la colpa solo a lui? Sei tu che hai accettato quella situazione.»

«E che altro potevo fare? Tenevo troppo al mio sogno.»

«Ancora con questo sogno. Non sarà che lo usi come un pretesto? Se ci pensi, è sempre stato così. Tu non volevi vincere perché combattere ti piaceva, volevi vincere perché quello che avevi non ti bastava mai. Volevi sempre di più. Guardavi quelle persone ricche, pompose e inondate di lusso. Da una parte ti disgustavano, ma dall’altra eri gelosa. Volevi quello che avevano loro. Alla luce di tutto ciò, non credi sia giusto definire quel sogno di bambina solo un pretesto? Soprattutto se pensi a quello che è successo nei due anni a venire.»

 

Helena fu gettata in un mondo che non avrebbe mai immaginato.

Fino a poco tempo prima era nessuno, uno dei tanti professionisti o presunti tali che si facevano in quattro nella speranza di diventare qualcuno.

Ora, invece, aveva al proprio servizio un esercito di attendenti tra guardie del corpo, agenti, pubblicitari e persino fan a pagamento pagati per applaudire, e quelle volte che usciva all’esterno per conto proprio aveva sempre una specie di corteo alle proprie spalle.

Non la lasciavano uscire spesso; obbedendo alla strategia pensata da Monagan, agli occhi del pubblico Helena, ma soprattutto Octavia, dovevano apparire come figure quasi soprannaturali, che apparivano solo in occasione di mirabolanti incontri per poi scomparire inghiottite dall’anonimato, almeno fino alla sfida successiva. Tutto ciò risultava accattivante per il pubblico, generando interesse e curiosità, che si traduceva in un numero sempre crescente di ammiratori.

Ai suoi ordini, poi, aveva nientemeno che il leggendario Mister Keith, il preparatore atletico dei grandi campioni, che aveva preparato per lei un programma speciale volto a renderla sempre più letale e inarrestabile, fatto di uno stile di vita strettamente regolamentato, molta teoria e poca pratica, ma non per questo meno efficace.

Quando aveva un po’ di tempo, e non le andava di avere qualcuno intorno, Helena il più delle volte se ne restava a casa, con la sola compagnia, a volte preziosa altre insopportabile, della sua spectre.

L’aveva chiamata Francine, come la cameriera protagonista di una sitcom che guardava sempre da bambina, per quell’abito nero da servetta, quella vocina sottomessa e rispettosa e quel portamento austero.

Sapeva bene che si trattava solo di uno spettro, un fantasma digitale creato per dare al proprietario della casa un volto umano al quale rivolgersi, ma sapeva bene che si trattava solo di un ologramma, la cui parvenza di umanità era mero frutto di una programmazione che poteva essere riscritta in qualsiasi momento.

Lei badava all’abitazione, controllandola come una mente controllerebbe il proprio corpo, lasciando ad Helena il mero piacere di godersi quella specie di castello delle fate dove tutto era a portata di voce, e dove bastava un comando per avere qualunque cosa desiderasse.

 

Con il passare dei mesi, però, il tempo libero divenne per lei un lusso sempre più raro.

James era un bravo procuratore, ma limitato nelle possibilità dai propri scarsi mezzi.

Monagan invece era il Re d’Oro. Non c’era niente che non potesse ottenere.

Helena prese a viaggiare per tutto il mondo, visitando luoghi dei quali aveva solo sentito parlare o visto alla televisione.

Da Eyban ad Alepto, da Fhirland a New Aalborg, fino ad Amara e alle nazioni più distanti, e ovunque andasse trovava frotte di campioni pronti a sfidarla. E non si trattava di mezze tacche, o degli sconosciuti professionisti per caso che aveva affrontato fino a quel momento, ma del meglio del meglio che ogni singola nazione avesse da offrire, i campioni dei campioni.

Ma nessuno di loro era capace di reggerle il confronto.

L’addestramento speciale preparato da mister Keith la stava rendendo, giorno dopo giorno, una macchina inarrestabile, un uragano che spazzava via senza pietà chiunque le si parasse davanti. Non importava in quale posizione il suo nemico si trovasse, perché lei puntualmente ne faceva scempio.

E se anche qualche volta le capitava di perdere, al momento della rivincita le sorti immediatamente si capovolgevano, tramutando una prima, bruciante sconfitta in una seconda gloriosa vittoria.

Il pubblico prese a conoscere sempre più il nome della Rosa di Kyrador: tutti o quasi la adoravano, e nel momento in cui posava i piedi all’interno di un’arena stadi interi crollavano sotto le grida assordanti, il battere di mani e le esclamazioni entusiaste degli speaker.

Helena, per ogni giorno che passava, ci capiva sempre meno.

Era come trovarsi all’interno di un vortice, che per quanto ci provasse non smetteva un momento di trascinarla sempre più in alto, verso l’olimpo.

Stadi interi che chiamavano il suo nome, folle di ammiratori, e ragazze in particolar modo, che impazzivano al solo vederla, e la sua immagine proiettata a dimensioni titaniche in ogni angolo di ogni singola città, come una sorta di nuova divinità del chandra al cospetto della quale tutti si prostravano.

Era questo che stava diventando.

Una dea.

E un po’ le piaceva. Non capiva gran parte di quello che le succedeva intorno, ma una cosa la sapeva: le piaceva essere amata, ammirata, e le urla esaltate del pubblico divennero presto per lei come una droga, un qualcosa di cui non poteva fare a meno.

Ma per essere davvero una dea doveva vincere, così, un giorno, decise che da quel momento non aveva mai perso.

Del resto, Monagan l’aveva avvertita. Per quanto potesse diventare grande, l’affetto del pubblico era un qualcosa che mutava spesso, e che rischiava di andare perduto anche con un solo passo falso.

Per questo continuò a combattere, e a vincere, senza mai fermarsi, lasciandosi trasportare ovunque vi fossero nuove sfide da combattere, fino al giorno in cui mise piede nella Magic Arena, stavolta come chandrista, per prendere parte alla fase finale del campionato mondiale.

Un attimo prima di scendere in campo per il primo incontro, promise a sé stessa che non sarebbe uscita da lì senza quel titolo che ormai sentiva già come suo, e che ora doveva solamente reclamare; dopotutto, le apparteneva. Nessuno lo meritava più di lei.

E così accadde.

Uno dopo l’altro, i suoi avversari caddero sconfitti, fino a che non ne rimase solamente uno; un solo ostacolo, ultimo, da superare, e tutto sarebbe stato suo.

Mida ormai era storia passata.

Il suo regno era durato solo un anno, cosi come quello di quasi tutti coloro che lo avevano seguito, ma da due anni il titolo apparteneva all’unica persona che dai tempi di Bison era stato capace di conservarlo per più di una stagione: Viking.

Era un avversario pericoloso, il più pericoloso che avesse mai affrontato, ma ciò nonostante Octavia non si tirò indietro.

Doveva vincere.

Come suonò il gong la ragazza si lanciò all’attacco, forte della superiorità che sentiva di aver acquisito visionando ore e ore dei precedenti combattimenti di Viking.

Quell’accozzaglia di muscoli era un vero esibizionista. Amava mettersi in mostra, e durante tutti i suoi incontri aveva fatto sfoggio di ogni possibile tecnica e strategia, dando modo ad Octavia, ovviamente con l’aiuto di mister Keith, di assimilarne la tattica e studiare le opportune contromosse.

Fu una sfida incredibilmente facile, anche troppo facile per l’importanza che aveva, tanto che parte del pubblico prese persino a fischiare, delusa dall’apparente pochezza di uno dei contendenti.

Viking andò al tappeto in meno di cinque minuti, dopo aver passato praticamente l’intero match a difendersi disperatamente dai continui assalti della sua avversaria, che non paga della sua evidente superiorità volle ridicolizzare l’avversario concedendogli l’umiliazione del ring out, ovvero il lancio del vessel oltre i bordi dell’arena per provocare la disconnessione e la conseguente sconfitta.

Un vero smacco, soprattutto in una finale per il titolo, perché farsi scagliare fuori dal campo di gara era indice di manifesta inferiorità.

E allora, fu il trionfo.

«Popolo di Kyrador!» annunciò il presentatore «Sembra proprio che il nostro re sia stato detronizzato! Da questo momento, il regno del chandra ha la sua nuova sovrana!

Signori e signori, la nuova campionessa del mondo!

La Rosa di Kyrador!

Octavia!».

Lo stadio andò in tripudio.

«Octavia! Octavia! Octavia!».

Octavia si guardava attorno, come in trance, mentre uno stadio intero chiamava il suo nome.

Ci era riuscita.

Aveva vinto.

Tutto ciò che aveva desiderato. Quel sogno di bambina, quella fantasia apparentemente irrealizzabile, era diventato realtà. Aveva reso reale l’impossibile, tramutato il sogno in realtà.

Era la più grande. La più grande di tutte.

E adesso?

 

«E adesso?»

«Bella domanda. Ricordo che passai la notte in bianco a domandarmelo.»

«È il piccolo inconveniente dei sogni. Quando li realizzi, subito dopo ti senti perduto.

Dopo averli inseguiti per così tanto tempo, perderli significa spesso perdere ciò per il quale si è combattuto.»

«Ogni volta mi proponevo un traguardo più grande. Prima volevo diventare una chandrista, poi una professionista, poi una campionessa, poi la campionessa del mondo.

Sconfiggendo il pretendente che si presentò l’anno successivo, poi, ottenni anche l’ultimo traguardo che ancora mi mancava, quello di conservare il mio titolo.

Piansi la notte dopo aver mantenuto il possesso della mia corona. Perché sentivo di non avere più alcun traguardo da raggiungere.

L’anno che seguì, pensandoci ora, fu come un film dell’orrore, anche se allora mi sembrava una bellissima fiaba.

Quasi non combattei. Chiunque teoricamente avrebbe potuto sfidarmi per reclamare il titolo, ma dopo l’umiliazione che avevo inflitto a Viking nessuno o quasi ebbe il coraggio di farlo.

La mia vita era tutta una mondanità. Incontri con i fans, conferenze stampa, interviste, feste esclusive.

Ho persino recitato una piccola parte in un film.

Ogni giorno che passava diventavo più ricca, più famosa, e sempre più grande. Dopo averlo inseguito, di quel sogno, o quel pretesto, che mi aveva tenuta sveglia per dieci anni, presi a nutrirmi. Senza sosta. Senza respiro. Più mangiavo, più aumentava la mia fame.

Era come una maledizione.»

«Eppure, non eri felice.»

«Sentivo che mi mancava qualcosa. Qualcosa di elementare, e insieme di importantissimo. Ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a capire cosa fosse.

A pensarci, era così strano da sembrare impossibile. Come poteva mancarmi qualcosa, se potevo avere tutto?»

«Non mi risulta che cuore e sentimenti si possano comprare.»

«Infatti. E grazie al cielo, un giorno, quella benda che mi ero messa sugli occhi come una stupida venne finalmente squarciata.»

 

Tutto cambiò, o tornò come prima, con una lettera.

Era una mattina di inizio primavera. Dopo tante settimane spese tra incontri, cene di gala, occasionali allenamenti ed impegni vari, Helena era riuscita finalmente a ritagliarsi una giornata di riposo, ma come ogni volta si era ritrovata a spenderla nel suo appartamento, seduta davanti al computer a leggere distrattamente i messaggi di ammiratori e spasimanti nel tentativo di far scorrere le ore.

Di uscire non se ne parlava. Ormai, a meno di non camuffarsi da capo a piedi era impossibile ormai per lei frequentare un qualsiasi luogo pubblico senza venire notata, e di conseguenza accerchiata, da chiunque le passasse accanto. Con il tempo quell’appartamento così a lungo sognato aveva finito per tramutarsi in una gabbia dorata, l’unico al posto sulla faccia del pianeta in cui la giovane donna potesse trascorrere un po’ di tempo con sé stessa.

A prima vista sembrava una mail come tante altre, ma questa aveva qualcosa di speciale, perché era indirizzata ad una certa Yuppie. Un nome che Helena conosceva fin troppo bene.

Chiunque ne fosse il mittente doveva essere una persona molto speciale, qualcuno diverso dagli altri, perché solo chi l’aveva conosciuta nella sua infanzia poteva conoscere quel nome, uno dei suoi pochi segreti che la stampa e le riviste di gossip non erano riuscite a disseppellire.

Leggendola, Helena per un attimo sentì una fitta al petto.

Era di Lynne Warner, la madre di Luna, che le chiedeva di fare visita alla figlia in ospedale, dove era stata ricoverata in seguito ad un non meglio specificato malore.

Helena avrebbe voluto sprofondare per la vergogna, nel momento in cui si rese conto da quanto e quale divario avesse finito per generarsi tra lei e quella che teoricamente era la sua migliore amica, ora che appartenevano a due mondi diversi.

Chissà in quanti altri modi Lynne doveva aver tentato senza successo di mettersi in contatto con lei, se per riuscire ad attirare la sua attenzione era stata costretta ad usare quell’espediente.

Senza pensarci sopra un momento salì in macchina e raggiunse l’ospedale St.Julius, nel quartiere popolare dove era nata e cresciuta.

Nel momento in cui rivide le vecchie strade, le umili case, le viuzze sporche e poco curate, fu come se un velo fosse stato improvvisamente sollevato da sopra i suoi occhi, rammentandole tante cose che nell’ebbrezza del successo aveva dimenticato.

Lei proveniva da lì.

Era quello il suo mondo, il mondo dove era nata e cresciuta. Non i palazzi scintillanti o i salotti buoni di quell’aristocrazia supponente e ipocrita che dentro di sé aveva sempre detestato.

Forse, si disse entrando nel piccolo ospedale di periferia dove Luna era stata ricoverata, era questo ciò che sentiva le fosse sempre mancato.

Quando la vide venirle incontro, la signora Warner quasi pianse di gioia.

«Per fortuna sei qui.» le disse abbracciandola «Ho cercato così tante volte di contattarti.»

«Mi dispiace. Che cosa è successo a Luna?».

La donna spiegò ogni cosa, e ad ogni sua parola lo sguardo di Helena divenne sempre più segnato dallo stupore e dallo sgomento.

Luna, a sentire la madre, era stata colta da un malore durante una sessione di allenamento in vista del campionato che avrebbe potuto segnare, finalmente, il suo passaggio tra i professionisti, che negli ultimi anni aveva sempre ed spiegabilmente mancato, quasi fossero venute meno quella forza e quella grinta che l’avevano guidata nell’inizio della sua carriera, e già da due settimane era ricoverata in ospedale per disintossicarsi dalle scorie magiche prodotte dalla continua permanenza nella machina.

All’inizio era sembrato un normale esaurimento, come succedeva di tanto in tanto agli atleti troppo spregiudicati, ma poi, impietoso, era arrivato il giudizio finale dei medici.

Lo scompenso era stato tale da avere effetto sul fisico di Luna, minando in maniera forse definitiva la sua soglia di resistenza al contatto con la  magia.

In altre parole, Luna quasi sicuramente avrebbe dovuto dire addio al chandra.

«Ma ne sono sicuri?» domandò non volendo crederci.

«Le ho parlato. Le hanno parlato anche i medici. Ma tu la conosci. È testarda e ostinata. Ma forse, se le parlassi te, riusciresti a farla ragionare».

Helena entrò nella stanza dopo molte esitazioni, temendo in modo in cui sarebbe stata accolta, ma ciò che si trovò di fronte la lasciò senza parole.

Quella che era distesa sul letto, attaccata ad una macchina per il drenaggio dell’energia, non sembrava neanche lontanamente la Luna che aveva conosciuto, e di cui si era finalmente ricordata. La rivelazione ricevuta dai medici e dalla madre aveva svuotato il suo sguardo di quella ostinata determinazione che l’aveva portata fino a lì, e il suo stesso corpo appariva segnato dall’enorme stress che era stato costretto a subire, scavato nella carne e debilitato nel fisico.

«Ciao, Luna.» disse Helena quasi balbettando.

Lei la guardò, e la giovane donna sentì quasi una fitta di dolore vedendosi piantare addosso quegli occhi spenti e senza vita.

«Mia madre ti ha mandato qui per convincermi a mollare tutto?» domandò dopo una breve quanto scarna risposta al saluto

«Luna, cerca di capire.» replicò Helena tentando di recuperare la freddezza e l’autocontrollo «Questa volta ti è andata bene, ma la prossima potresti morire, o anche peggio. E tu sai di cosa parlo, vero?»

«Sei tu che non capisci.» rispose Luna mordendosi le labbra «Non importa cosa possa darmi o dove possa condurmi.

Io amo il chandra. È tutta la mia vita. Ogni volta che salgo sul ring, sento di trovarmi nel posto che più mi si addice. Mi sento me stessa».

Helena si sentì morire dentro, comprendendo finalmente ciò che la sua coscienza aveva continuato insistentemente a cercare di rammentarle.

Il chandra era uno sport. Lo sport più bello del mondo. Sia lei che Luna lo avevano amato fin da bambine, trascorrendo l’infanzia a sognare il giorno in cui avrebbero potuto finalmente praticarlo loro stesse.

Si diede della stupida.

Quando la passione si era tramutata in semplice strumento? Quando il volgare profitto, la necessità di dover essere sempre la migliore, aveva preso il posto del puro e semplice agonismo al fine di migliorarsi?

Le lacrime di rabbia e di dolore che bagnavano il volto di Luna furono per Helena più dolorose di un coltello piantato nel cuore.

In lei, per un attimo, rivide sé stessa, al tempo in cui il chandra non era un dovere ma una passione, e ogni battaglia non una guerra da dover vincere ad ogni costo per restare grande ma un’occasione per migliorare e puntare in alto.

Non se la sentì di distruggere i suoi sogni.

Forse, pensò, Luna poteva arrivare ad essere una campionessa vera, pura, non come lei, corrotta da quel mondo di soldi e notorietà che aveva inseguito per tutti quegli anni. Non le importava che il successo per la sua migliore amica potesse segnare la fine per lei e il suo prestigio, come non le era mai importato per tutto il tempo in cui avevano lottato spalla a spalla.

In quel momento voleva solo che Luna potesse continuare a sperare.

C’era un modo per far sì che il suo sogno potesse proseguire.

 

«E invece?»

«Credevo di fare la cosa giusta. Luna amava il chandra. Poteva diventare grande, ma soprattutto migliore. Molto migliore di quanto mi fossi rivelata io.

Se non era mai riuscita a diventare una professionista, era solo perché l’avevo lasciata sola.

Ero così impegnata ad inseguire quel maledetto falso sogno che avevo finito per lasciarla indietro. Ero venuta meno alla promessa che ci eravamo scambiate, e lei ne aveva sicuramente sofferto molto. Per questo non era più stata la Luna che conoscevo. Per questo si allenava come una matta senza tuttavia conseguire alcun apparente risultato.»

«Per questo è successo ciò che è successo.»

 

La giovane donna si accorse che le sue mani tremavano, senza che potesse fare nulla per impedirlo.

 

«Che cosa ho fatto? Non avevo già fatto abbastanza danni? Perché sono stata così stupida e cieca?»

 

La Magic Arena e le sue apparecchiature all’avanguardia erano inavvicinabili per chiunque non fosse un professionista tesserato, ma alla grande Octavia non si negava mai un favore.

Grazie ad esse, e ad un programma d’allenamento sviluppato direttamente da mister Keith, Luna poté tornare ad esercitarsi in relativa sicurezza, sotto la guida della sua migliore amica, perennemente monitorata per tenere sotto controllo i suoi sbalzi onde evitare nuove ricadute.

I medici, nell’autorizzare con molte riserve la prosecuzione dell’attività agonistica, avevano raccomandato sedute brevi e poco estenuanti, per non sottoporre l’organismo ad inutili stress eccessivi, e per i primi mesi tutto andò alla perfezione.

Luna si sentì rinascere, ed Helena con lei, perché per la prima volta in tanti mesi stava ricominciando ad amare sinceramente il chandra, e a riscoprire emozioni troppo a lungo dimenticate.

Forse fu anche per questo, soprattutto per questo, e per la volontà di non calpestare i sogni della sua migliore amica, che Helena vide, o finse di non vedere, dei segni che avrebbero dovuto metterla in allarme. Nei tre mesi in cui si sottopose allo speciale allenamento in vista del torneo che avrebbe potuto portarla al professionismo Luna alternò momenti di iperattività ad altri di cronica debolezza.

Un giorno era dilaniata da una fame insaziabile, l’altro non aveva quasi appetito. Una volta poteva allenarsi e correre per un giorno intero senza fatica, quello dopo era costretta a bere fino a star male per placare una sete senza fine.

Convinta, o forse illusa, della assoluta sicurezza del programma sviluppato appositamente per lei dal miglior preparatore atletico del mondo, Helena lasciò le cose come stavano, impaziente come la sua amica che arrivasse quel momento così a lungo atteso.

Poi finalmente, venne l’ultimo giorno.

L’ultimo tramonto prima che si alzasse il sipario sul Virtual Iron Tournament, che si sarebbe tenuto eccezionalmente proprio nella Magic Arena, ed al quale Luna si era classificata senza quasi fare fatica, tanto l’aver ritrovato la propria migliore amica le aveva restituito tutte le energie e l’agonismo perduti.

Ancora una volta, era tutto nelle sue mani.

«Ci siamo.» disse Luna osservando dall’alto degli spalti l’arena in cui il giorno dopo avrebbe avuto in mano il suo destino «È domani».

Helena era al suo fianco, come era stato per ogni singolo giorno degli ultimi tre mesi. Per poterle stare accanto aveva cancellato o posticipato incontri pubblici, contratti pubblicitari, interviste e anche alcuni incontri, gettando al fumo contratti da milioni di kylis, ma questo era niente in rapporto alla possibilità di recuperare il tempo perduto.

«Promettimi una cosa.» disse Luna dopo un breve silenzio carico di emozione

«Che cosa?»

«Promettimi che se domani sarò io a vincere, torneremo in palestra e ci batteremo ancora come una volta. Me lo prometti?»

«Certo.» rispose Helena sorridendo gentile «Te lo prometto».

Si strinsero la mano, come avevano fatto ogni volta fin da bambine per ribadire il legame speciale che le univa, poi Luna propose alla sua migliore amica di fare un ultimo incontro amichevole. Così, per riscaldamento.

Dapprincipio Helena pensò di rifiutare, se non altro perché il giorno dopo Luna avrebbe necessitato di tutte le sue forze per potersi misurare nel torneo, ma data l’insistenza della ragazza alla fine si lasciò convincere.

«D’accordo.» disse avviandosi giù per la scaletta «Ma solo dieci minuti».

Normalmente serviva un attendente per poter manovrare le apparecchiature dell’arena, ma Helena ovviò impostando il timer per limitare la durata dell’incontro, quindi lei e Luna entrarono nelle machina ricomparendo sul terreno di gioco al comando dei rispettivi vessel.

«Non ti trattenere.» disse Luna roteando la sua lancia

«Sta tranquilla, non intendevo farlo.» rispose beffarda Helena.

Fu effettivamente un incontro acceso, senza esclusione di colpi, scandito dallo scorrere dei minuti sul cronometro che sovrastava l’arena.

Luna sembrava aver assimilato bene i frutti dell’allenamento, si batteva con efficacia senza apparentemente risentire della fatica o dello stress. Aveva solo un po’ di fiatone, ma a quei livelli e con un tale sforzo Helena pensò che fosse una cosa normale.

A metà della sfida, l’esito era ancora incredibilmente incerto, come era naturale che fosse per due avversarie che si conoscevano a memoria.

Quello che iniziò a non sembrare naturale, però, era il continuo ansimare di Luna. D’accordo che si stavano battendo senza tregua, ma non era normale essere così sfiatati dopo soli cinque minuti di battaglia.

Helena iniziò a preoccuparsi.

«Qualcosa non và?» domandò all’amica in un momento di tregua «Possiamo fermarci se vuoi.»

«Non ce n’è bisogno.» rispose Luna appena riuscì a trovare il fiato «Devo aumentare la resistenza, o domani non durerò a lungo.»

«Nessuno degli avversari che incontrerai sarà al tuo livello. Non avrai difficoltà a qualificarti. Ora però è meglio che ti fermi.»

«È impossibile.» replicò Luna con una insolita ira «Se non riesco a reggere un incontro di dieci minuti contro di te che ti conosco a menadito, come farò quando sarò una professionista e dovrò affrontare avversari fortissimi di cui non so nulla?

Andiamo avanti!».

Helena non sapeva cosa stava facendo, fatto sta che ancora una volta scelse di avere fiducia nella sua amica e assecondò il suo desiderio, riprendendo lo scontro.

Il fiatone non smise per un attimo, ignorato per quanto possibile da Luna, ma nel momento in cui a questo andrò ad unirsi una furia aggressiva assolutamente non comune Helena si rese finalmente conto che le cose stavano prendendo una brutta piega.

«Adesso basta, Luna.» disse tentando di farla ragionare «Dobbiamo smettere. Disconnettiti».

Ma era come parlare al muro. Luna non voleva saperne di arrendersi prima che l’incontro fosse finito, e visto che nessuno poteva forzarla dall’esterno a terminare la simulazione l’unica cosa da fare era sconfiggerla ponendo fine all’incontro.

Helena tentò alcuni dei suoi assalti più noti e letali, ma in quella specie di furia da battaglia in cui era caduta Luna respinse buona parte degli attacchi, ai quali rispose con insolita ed incontrollabile violenza. Guardandola negli occhi, Helena quasi stentò a riconoscervi la propria amica.

«Basta Luna!» continuava a dire nel tentativo di farla ragionare «Ti prego, smettila!».

Mancavano ancora due minuti alla fine dell’incontro, e quel punto l’unica cosa da fare per Helena era lasciarsi sconfiggere, nella speranza che Luna in quella specie di pazzia in cui sembrava essere sprofondata non esitasse  a colpire un’avversaria rinunciataria.

Helena aveva già gettato la spada a terra offrendo la gola per ricevere il colpo di grazia, quando Luna d’improvviso prese a dimenarsi come una dannata, urlando e dimenandosi come se l’avessero trafitta migliaia di lame.

«Luna!».

Tentò di correrle incontro, ma un attimo prima che potesse afferrarla il suo vessel le si dissolse tra le mani. Un pessimo auspicio. Poteva significare solo che qualcosa nella mente di Luna si stava deteriorando.

Per fortuna Helena fece in tempo a gettarsi sulla lancia un attimo prima che scomparisse dissolvendosi a sua volta, ma grande fu la sua angoscia quando, una volta tornata nella machina, si accorse di non poterne comunque uscire.

Tutta colpa della fretta con cui aveva programmato l’arena, che le aveva fatto dimenticare di programmare l’arresto preventivo con conseguente apertura delle machina prima che il tempo si fosse esaurito.

«Avanti apriti, stramaledetta!».

A forza di spinte riuscì a far saltare i cardini che serravano il portello, e uscita raggiunse di corsa la capsula ancora chiusa di Luna attivando l’apertura d’emergenza. Le luci che lampeggiavano ad intermittenza non erano per niente un buon segno.

Come la machina si aprì, una strana sostanza verde acqua simile a gel prese a colare dall’interno del vano, e appena Helena poté guardare all’interno il suo sguardo, da sgomento, si fece di puro terrore.

La sua amica Luna era completamente avvolta da quella sostanza, i vestiti sembravano essersi come liquefatti, e gli occhi erano completamente vuoti, due biglie bianche la cui pupilla era a malapena visibile.

Avrebbe voluto aiutarla, cercare di tirarla fuori, ma era talmente terrorizzata da restare immobile. E anzi, quando Luna, trascinandosi, uscì dalla machina, rantolando come moribonda sul pavimento freddo dello stadio, tutto quello che inizialmente Helena riuscì a fare fu camminare all’indietro, cercando ossessivamente di togliersi di dosso il gel che aveva sulle mani e sui vestiti.

Solo in un secondo tempo, quando si vide guardare da quelle sfere bianche invocanti aiuto, riacquistò l’autocontrollo.

«Luna!» gridò inginocchiandosi e cercando di sollevarla.

La ragazza alzò il capo, tremante, e dalla sua espressione, per quanto parzialmente nascosta da quella poltiglia disgustosa che sembrava scaturire direttamente dal suo corpo, era chiaro che sapeva cosa le stesse succedendo.

Era il triste destino che attendeva chi osava più del dovuto nel giocare con la magia. Anche chi non era un mago, in fin dei conti, possedeva i geni della stregoneria, e se quei geni impazzivano il risultato era la perdita della propria umanità, sia a livello fisico che, soprattutto, mentale.

Si diventava come degli animali, bestie senza volontà la cui sorte era una sola.

«Helena…» disse con una voce che di umano non aveva quasi nulla «Aiutami…».

Furono le sue ultime parole.

Colpita da una specie di violento conato, Luna prese a vomitare altro gel, facendo arretrare Helena inorridita. Quella sostanza la ricoprì sempre di più, fino a che il suo stesso corpo non parve mutarsi a sua volta in qualcosa di viscido, senza una vera forma, gocciolante di poltiglia fangosa.

Ma i suoi occhi, quelli, sembravano ancora gli stessi, per quanto vuoti, ridotti ormai a due vetrini senza espressione. In essi, Helena riconosceva ancora la sua amica che aveva conosciuto fin dall’infanzia, con cui era andata a scuola, aveva fatto i compiti, giocato. La persona con cui aveva deciso di iniziare un sogno condiviso, fatto di speranze, e della promessa di vivere sempre l’una per l’altra.

Luna, o quello che restava di lei, lanciò un urlo terrificante, quasi a voler espellere la poca umanità che le rimaneva, e dopo qualche attimo nell’arena arrivarono tutte le guardie di sicurezza dell’edificio, allertate dalle immagini riprese dalle telecamere.

Si trattava di una trasformazione di classe inferiore, poco più che un’inezia, e loro dato l’incarico che svolgevano erano armati con proiettili speciali.

«Sparate! Sparate!» ordinò il loro capo.

Helena, trattenuta e tirata indietro a forza da due delle guardie, non poté fare altro che osservare, urlante e impotente, gli altri uomini della sicurezza circondare Luna e spararle contro senza esitazioni. La creatura quasi non tentò di difendersi, come non chiedesse altro che venire uccisa, e dopo aver incassato oltre cinquanta colpi, accasciatasi, emise un ultimo gemito per poi spirare.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Parte V ***


PARTE V

 

 

Helena non riuscì a trattenersi, e nascosto il viso dietro le mani si lasciò andare ad un pianto disperato, gettando fuori quel dolore la dilaniava ogni qualvolta quelle immagini tornavano a ripresentarsi nella sua mente.

 

«Perché piangi? Non è mica stata colpa tua.»

«Dovevo fermarla! Non dovevo permetterglielo! Se avessi avuto un briciolo di giudizio, se non fossi stata così cieca, lei non sarebbe diventata quella… quella cosa! Non sarebbe morta!

Ho spezzato il legame che avevo promesso di mantenere per tutta la vita! Ho ucciso la mia migliore amica! L’ho uccisa, io! Con queste mie mani!»

«Ognuno è artefice del suo destino. Lo dicevi spesso una volta.»

«Questo dovrebbe farmi sentire meglio?»

«È per questo che dopo quella volta Helena, scusa, Octavia, è sparita dal mondo?»

«Con che coraggio avrei potuto farmi rivedere in giro? Ora che finalmente avevo capito in che razza di mondo ero finita? Da un istante all’altro, tutto mi sembrò inutile.

Il mio prestigio, la mia fama, i miei soldi. Persino quel sedicente, maledetto sogno. Era tutta spazzatura! Io ero spazzatura!»

«Finché non è arrivata lei.»

 

La giovane donna parve calmarsi, e spalancò gli occhi in un senso come di stupore.

 

«Già. Lei. Ancora mi domando come sia stato possibile».

 

Il mondo rimase di stucco quando Octavia, la campionessa in carica, mancò all’ultimo la partecipazione allo scontro per la difesa del suo titolo al termine dell’ultimo campionato mondiale, perdendo di fatto la sua corona senza neppure essere scesa nell’arena.

Ma questo all’interessata non importava. Helena non voleva avere più nulla a che fare con quel mondo.

Ma d’altra parte, non poteva neanche tornare nel vecchio, al quale ormai non apparteneva più.

Non sapeva più niente. Non aveva certezze, né idee, né sensazioni.

Si sentiva vuota. Come la sua casa, quel castello delle fiabe nel quale, da un giorno all’altro, si rinchiuse, isolata dal mondo, lontana da tutto ciò che aveva inseguito e cercato per tutta la vita, dagli affetti morali e materiali.

Sola. Come sentiva di essere rimasta al mondo.

Passò molto tempo, non sapeva quanto esattamente.

Era un pomeriggio come tutti gli altri.

Helena sedeva nel suo salotto, le tende tirate e le luci accese, gli occhi come persi nel vuoto, che di tanto in tanto andavano a posarsi senza attenzione sul libro che la ragazza aveva poggiato sulle ginocchia. Non ricordava neppure di che libro si trattasse, tanto distrattamente lo aveva recuperato dal ripiano appoggiato alla parete alle sue spalle.

D’un tratto, Francine comparve al centro della stanza. I suoi tratti erano cambiati; Helena aveva voluto cambiarli, anche se il perché lei stessa non riusciva a comprenderlo: forse voleva illudersi che tutto fosse ancora come prima, almeno un po’, o forse non voleva correre il rischio, semmai fosse stato possibile, di dimenticare il suo peccato.

«Signorina, hanno suonato alla porta.»

«Non voglio vedere nessuno.» rispose Helena girandosi dall’altra parte «Né giornalisti né nessun altro. Se è Monagan, poi, digli pure di andare al diavolo.»

«Come desidera».

La ragazza mora scomparve, per poi ricomparire qualche secondo dopo.

«Non si tratta di ammiratori o giornalisti. È un agente della MAB. Una signorina. O almeno così dice, visto che non ha potuto esibire il proprio distintivo».

Helena ebbe come un momento di stupore: che cosa voleva da lei la forza di polizia internazionale, che qualcuno definiva in realtà una vera e propria organizzazione militare con funzioni civili, incaricata di vigilare sulla prosperità del mondo assicurando il corretto uso della magia?

«Non mi interessa.» sentenziò stizzita «Mandala via.»

«Ci ho provato, ma dice che è molto urgente. Deve conferire assolutamente con lei».

Helena si passò una mano tra i capelli, sbuffando contrariata.

«E va bene, falla entrare».

Pochi attimi dopo, dinnanzi a lei si palesò una ragazzina dall’aria spesata, abbastanza minuta ma non per questo gracile, capelli marrone chiaro tagliati piuttosto corti e grandi occhi verdi.

A guardarla così, quasi tremante di soggezione, tutto sembrava meno che un poliziotto.

Cercando di non darlo a vedere, senza in verità riuscirci, la nuova arrivata si guardò attorno; tutte le tende erano tirate, le luci ridotte al minimo indispensabile. Sembrava la dimora di un vampiro, che rifuggiva il sole per timore di venirne consumato.

«Scusi il disturbo.» disse quasi a volersi giustificare «Sono l’agente Carmy O’Neill, della polizia militare.»

«So chi siete.» tagliò corto Helena fissandola dritta in volto «Ha detto di dovermi parlare con urgenza. Di che si tratta?».

Carmy temporeggiò, colta dall’imbarazzo.

Il suo silenzio parve incuriosì Helena, che si alzò dalla poltrona per avvicinarsi e guardarla più da vicino.

«Certo non sembra davvero un agente di polizia.»

«Me lo dicono spesso.» replicò d’istinto Carmy, non sapeva se per sdrammatizzare o cercare di calmare l’imbarazzo.

Helena continuò a fissarla, e infine tornò sui propri passi.

«Francine.» disse sedendosi, e facendo accomodare anche la sua ospite.

La donna virtuale comparve nuovamente.

«Desiderate, signorina?»

«Prepara del caffè.»

«Come volete.»

«Uno spectre.» disse un po’ incredula Carmy vedendo la proiezione sparire e la caffettiera che, subito dopo, si metteva in funzione da sola.

«Non sono mai stata brava nelle faccende domestiche. E ultimamente, come può immaginare,  non ho molta voglia di avere gente che gira per casa. Lei lavora al posto mio.»

«Potessi avercela anch’io un’aiutante così. La mia coinquilina ha il disordine nel sangue, e spesso devo sistemare la casa per tutte e due ogni domenica.»

Il fischio della caffettiera interruppe il discorso, ed Helena si alzò dalla poltrona per andare in cucina.

Quando rientrò in salotto, trovò la sua ospite in piedi accanto alla libreria, con in mano quella foto ormai sbiadita che il signor Boniek aveva assistito per fare alle sue allieve preferite nel giorno in cui aveva consegnato loro le tessere CFC.

«È una chandrista

«In un certo qual modo».

Carmy guardò un’altra volta l’immagine.

«Io non seguo molto il chandra, ma non mi pare di averla mai vista. È da molto che pratica questo sport?»

«Abbiamo iniziato insieme. Ma ormai è da circa sei mesi che non è più in grado di calcare l’arena».

Solo allora Carmy si accorse che le mani di Helena tremavano.

«Mi dispiace.» si affrettò a dire «Non sono affari miei, dopotutto».

Non capiva cosa le stesse succedendo, ma sentiva qualcosa dentro di lei, come una specie di calore. Era una sensazione famigliare, e ogni qualvolta le capitava di incrociare gli occhi spauriti ma gentili della giovane agente la sentiva un po’ più forte; posato il vassoio sul tavolino, si avvicinò alla vetrata e scostò leggermente la tenda, quanto bastava per far entrare nella stanza pochi raggi di luce.

Ormai si appressava il tramonto, e quanto rimaneva del sole aveva già iniziato a scomparire dietro i grattacieli, che avvolgevano Heaven’s Gate come le sbarre di una gabbia, proiettando lunghe ombre sulle strade sottostanti e i marciapiedi affollati di pedoni.

«Siamo cresciute insieme.» disse cercando di scorgere il sole oltre i palazzi «Vivevamo nello stesso quartiere. Immagino sappia a che cosa mi riferisco.»

«Credo di sì.» rispose timidamente Carmy.

Fu a quel punto che accadde qualcosa che Helena non avrebbe mai immaginato.

Non capiva perché, e non riuscì a capirlo per tutti i minuti successivi, ma parlò.

Come se una chiave invisibile avesse aperto il lucchetto del suo cuore, lasciò uscire tutte quelle parole, quei pensieri, quei ricordi che aveva accumulato in tutta la sua vita, e che per tanti anni si era gelosamente tenuta dentro, un bagaglio emotivo che pensava non avrebbe mai condiviso con nessuno.

Perché lo fece, non le era dato di comprenderlo.

Quella ragazza, Carmy, per un attimo le era sembrata come lei. Nei suoi occhi, oltre alla semplicità e alla gentilezza, aveva letto anche l’indecisione: quella specie di ombra che si addensa solitamente negli occhi dei nuovi adulti, ancora insicuri della vita e non del tutto certi della strada da percorrere.

Proprio come si era sentita lei quando il mondo le era caduto addosso.

Raccontò tutto, persino ciò che nessun’altro sapeva, persino il suo segreto più nero, come se una parte di lei non aspettasse altro che trovare qualcuno con cui dividere quei tremendi ricordi, per alleggerirsi la coscienza ed evitarle di impazzire.

Carmy ascoltò, senza commentare né giudicare in alcun modo il contenuto di quella specie di confessione, e quando il racconto ebbe fine stette a lungo ad osservare Helena che, come sotto ipnosi, fissava senza sosta le proprie mani tremanti.

«Non ho mai saputo nulla di questa storia.» disse Carmy cercando di trovare le parole «Ero alla Magic Arena solo poche ore fa, e nessuno ne ha mai fatto parola.»

«È naturale.» rispose Helena con la più ironica rassegnazione «Anche se nessuno a parte Luna teoricamente ne aveva colpa, se una cosa del genere si fosse venuta a sapere sarebbero stati in molti a pagarne le conseguenze. La società che gestisce lo stadio. Quelle che finanziano i grandi tornei. I gruppi industriali che hanno creato i sistemi informatici, le machina e l’arena virtuale. Persino i miei sponsor».

Le sue mani, da tremanti che erano, si irrigidirono di colpo, facendosi come di pietra, e serrandosi con tale vigore attorno alla tazza da farla scricchiolare.

«Prima di allora non avevo mai visto tutte quelle serpi maledette andare così d’accordo su cosa fare e come.

Tutta la vicenda fu fatta passare sotto silenzio. Ufficialmente nessuno seppe mai cosa era accaduto in quell’arena. Fu come se Luna Warner non fosse mai esistita. Quanto a me, non ebbi il coraggio neanche di andare al suo funerale.

Mi sarebbe sembrato il più ipocrita dei gesti. Non sono mai riuscita neanche ad andare al cimitero».

Helena  sentì il cuore iniziare a battere un po’ più forte, accompagnato da una sensazione di freddo.

«Da quel giorno, non me la sono più sentita.» disse rassegnata posando la tazzina «Ho tagliato ogni ponte, ogni legame. E sono venuta qui, da sola. A fare o ad aspettare che cosa, non lo so».

Fece una pausa, nascondendo un momento il volto dietro una mano.

«Spesso si passa così tanto tempo ad inseguire le proprie aspirazioni che non si tiene conto del fatto che ogni cosa, anche i sogni che rincorriamo a volte per tutta la vita, hanno il loro rovescio della medaglia.

Denaro. Fama. Gloria. Ammiratori. Quando mi allenavo in una palestra sgangherata con machina tenute insieme per miracolo sono arrivata al punto da non pensare ad altro che al giorno in cui avuto tutto questo. E ora che ce l’ho, quasi non so che cosa farmene.

Luna era diversa. Anche lei voleva ascendere, ma a differenza di me non è mai arrivata a considerare il chandra solo uno strumento. Anzi, probabilmente sarebbe stata disgustata dal vedere quello che è in realtà lo sport per il quale ha faticato fino a rimetterci la vita.»

Carmy sembrava a disagio, ed Helena lesse nel suo sguardo ciò che in realtà aveva già intuito: l’indecisione di chi non sa quali decisioni prendere e si domanda il senso di quelle già prese. Eppure, a differenza di lei, non sembrava esservi rassegnazione o sconforto nei suoi occhi, ma solo tanta speranza.

«Anche io sono venuta in questa città per realizzare un sogno. Anche per me non è stato facile, ma a differenza di lei la mia è una famiglia abbastanza benestante, con delle ideologie piuttosto intransigenti. Mio padre ha sempre contestato il sistema in cui viviamo, e nonostante i miei tentativi non sono mai riuscita a fargli comprendere che se avevo accettato di farne parte non era perché lo approvassi, ma perché volevo cercare di migliorarlo.»

«E ci è riuscita?»

«Non credo. E onestamente, dubito di riuscirci mai».

Seguì un lungo silenzio. Le due ragazze si osservarono l’un l’altra, cercando di cogliere i rispettivi pensieri.

«Comunque, io non ho intenzione di tornare indietro sulla mia decisione. Che mio padre lo accetti o meno, e per quanto difficile possa essere, non posso gettare al vento tutto quello che ho fatto per arrivare fino a qui.

E, se posso permettermi, non dovrebbe farlo neanche lei.»

«Come?» replicò Helena interdetta

«Non credo di poter comprendere davvero quello che prova, ma da come me ne ha parlato è evidente che il chandra le piace ancora, così come piaceva a Luna. Ha passato tutta la sua vita ad inseguire l’obiettivo che si era prefissata, e ora che ha finalmente ottenuto quello che desiderava non le sembra stupido gettare via tutto?».

Helena batté violentemente il pugno sul tavolino, colta da una furia improvvisa.

«Tu non capisci. Con che coraggio potrei far finta che non sia successo niente e tornare alla mia vecchia vita? Dopo quello che ho fatto? Dopo quello che sono diventata?»

«Nessuno ha detto che deve dimenticare.» rispose Carmy per nulla intimorita «Farlo sarebbe il vero crimine. Il fatto che questa storia la faccia soffrire così tanto è la prova che i suoi sentimenti e il suo animo non sono così avvizziti come lei crede».

Detto questo Carmy prese fuori dalla tasca della giacca una piccola scheda virtuale contente la versione documentario del secondo campionato del mondo al quale aveva partecipato, quello in cui aveva difeso con successo il suo titolo di campionessa del mondo in carica.

«Ci sono molte persone, molti ragazzi pieni di sogni come i suoi, che la ammirano e credono in lei. Pensa davvero che la adorerebbero così tanto se la vedessero sotto la luce in cui lei si vede ora? Persino Luna ha continuato a credere in lei fino all’ultimo, senza mai dubitare del vostro legame o della sua forza d’animo».

Helena rimase in silenzio, gli occhi spalancati e l’espressione attonita.

Era incredibile. Si stava facendo dare lezioni di vita da una ragazzina più giovane di lei, e la cosa più incredibile era il dover ammettere che quella specie di agente per caso aveva ragione.

«Sono consapevole che la sua è stata un’esperienza terribile. Chiunque ne sarebbe rimasto schiacciato. Il consiglio che mi sento di darle è, invece che permettere al senso di colpa e al rimorso di sopraffarla, provi a fare tesoro di quanto successo per riscoprire ciò che realmente l’ha portata fin qui».

Carmy guardò nuovamente la foto, e anche Helena fece altrettanto.

«Non pensa che Luna lo avrebbe voluto? In fin dei conti, ora sta a lei portare avanti ciò in cui entrambe avete creduto».

Ci fu un nuovo, lungo silenzio, poi Helena si alzò dalla poltroncina, si avvicinò nuovamente alle tende e spinse un pulsante, aprendole. In lontananza si intravedeva la Magic Arena, una cupola specchiata che si stagliava al centro di un grande parco.

«Come ha fatto una come te a finire nella MAB?» domandò in tutta schiettezza, e riuscendo perfino ad abbozzare un sorriso «Sembri davvero troppo semplice e onesta per accompagnarti a gente simile.»

«Nella MAB ci sono persone indegne del ruolo che ricoprono. Ma è così in ogni istituzione, come immagino lei saprà molto bene. È nella natura umana che qualcuno anteponga sempre e comunque i propri interessi al bene della collettività o al proprio dovere. Ma può credermi se le dico che c’è anche tanta gente perbene, che ama il proprio lavoro e si adopera davvero per aiutare questa società.»

«Sembra quasi impossibile. Ma vedendo te, mi viene da pensare che forse potresti anche avere ragione».

Carmy sorrise, alzandosi a sua volta.

«Allora?» disse nuovamente Helena «Se non sbaglio non mi hai ancora detto per quale motivo sei venuta qui.»

«Accidenti, è vero!» esclamò Carmy cadendo dalle nuvole «Effettivamente, avrei bisogno di una piccola cortesia da parte sua.»

«E cioè?».

Helena, sentendo di che si trattava, quasi sorrise.

Tutto per colpa di un autografo.

Quella ragazza era così svampita e fuori dal mondo da essersi dimenticata del compleanno di sua sorella, e non avendo altre idee aveva pensato bene di regalarle la cosa che più di ogni altra l’avrebbe resa felice.

Ne aveva firmati tantissimi, ma quello che impresse sulla copertina di quella scheda, accompagnato da una dedica personale vergata velocemente su di un foglietto per una potenziale futura campionessa, ebbe un sapore speciale.

Non era come le migliaia di altri che aveva firmato; farlo le fece piacere.

«La ringrazio infinitamente.» disse Carmy, che subito dopo corse via veloce come il fulmine, lasciando Helena sola a riflettere sulla sua vita.

 

«Un incontro voluto dal destino, si potrebbe dire.»

«Mi avevano sempre detto che la MAB era la polizia dei potenti. I cani sciolti di questo sistema in cui viviamo che si finge perfetto ma esalta e premia il peggio dell’essere umano.

Vedendo lei, mi sono chiesta se a volte la gente non tenda un po’ troppo a giudicare senza conoscere davvero.»

«Più o meno come avevi fatto con te stessa, dico bene?»

 

La giovane donna sussultò, quindi, sorridendo ironica, si ritrovò a fissare il pavimento, le mani incrociate come in preghiera e poggiate sulle ginocchia e le gambe accavallate.

 

«Di certo, non ero esente da colpe. Ma avevo passato tanto di quel tempo ad auto commiserarmi, da aver smarrito qualsiasi obiettivo. Non sapevo più niente.

Dapprincipio non cambiò nulla. O meglio, credevo non fosse cambiato nulla. Ma in realtà, quella ragazza aveva acceso qualcosa in me. Mi aveva fatto capire che non era tutto da buttare via. Potevo recuperare i cocci della mia vita e andare avanti.

Lì per lì, però, non me ne resi conto subito. Ci voleva qualcosa di più. Un’ultima spinta.

E fu così bello provare di nuovo quella sensazione».

 

Per giorni, le parole della giovane agente della MAB non smisero un momento di risuonare nella mente di Helena.

Da un lato, voleva credere che anche per lei ci fosse una seconda possibilità, un modo per raddrizzare la propria vita, dall’altra sentiva di non meritarla, non dopo essersi lasciata corrompere e aver ucciso la sua migliore amica.

Ma qualcosa dentro di lei sembrava essere scattato.

Una mattina, quasi mossa da una forza sovrannaturale più grande di lei, dopo una notte passata in bianco a sfogliare l’album delle vecchie foto ritrovato chissà come sepolto in un armadio, si alzò, si coprì, infilò un cappello dalla fodera larga, un paio di occhiali, si sciolse i capelli, si abbottonò un cappotto ed uscì.

Quella forza che la guidava seguitò ad agire per lei, facendola prima perdere per gli affollati marciapiedi e poi scivolare silenziosa a bordo prima di un treno e poi di una corriera, restituendole il raziocinio solo quando fu dinnanzi al cimitero del villaggio di Jakup, paese natale della famiglia Warner.

Quasi non riuscì a credere di trovarsi proprio lì, ma pur sentendosi nuovamente padrone della sua volontà varcò comunque il cancello, scrutando con gli occhi le lapidi più recenti fino a fermarsi dinnanzi ad una un po’ più piccola delle altre, sovrastata dalla statuetta di un angelo con una mano rivolta al cielo e l’altra stretta attorno ad una lancia la cui punta arrivava quasi a lambire il terreno.

Non dovette leggere il nome inciso sopra per capire che era quella la tomba che stava cercando.

Vi sostò davanti per molte ore, senza proferire parola, e per quanto ci provasse non le riuscì di piangere.

Sembrava che qualcuno, forse la stessa forza che l’aveva condotta lì, le impedisse di farlo, quasi a volerle rammentare che quello non era il momento del pianto, ma del riscatto.

Una vita era andata perduta. Ma la sua, forse, era ancora recuperabile.

Poteva, anzi, doveva riprenderla nelle sue mani; perché ora la vita che stava vivendo non era più solo la sua. Da quel giorno per lei sarebbe stato come condurre due esistenze parallele, e la seconda in particolare aveva ancora troppe cose da fare per lasciarsi andare senza reagire.

Come riuscirci, però, non lo sapeva.

Per quanto ci provasse, Helena non riusciva a capire in che modo potesse riuscire ad andare avanti.

E nuovamente, il destino ci mise del suo.

Deposto sulla tomba un fiore raccolto da terra, la giovane donna lasciò in silenzio il cimitero, ed incamminatasi senza meta per le strade del paese in cerca di una risposta i suoi passi la condussero fuori da quella che aveva tutta l’aria di essere una festa campagnola, poco più di una sagra, che qualcuno aveva voluto rendere speciale aggiungendovi un piccolo torneo di chandra.

La competizione doveva essersi appena conclusa, perché a sentire la voce del presentatore il vincitore a breve sarebbe stato chiamato sul palco per ritirare il suo premio, e di nuovo quella sensazione di calore si accese nel petto di Helena.

Una serie di immagini le passarono come d’incanto davanti agli occhi, immagini lontane di un passato felice, fatto di duro allenamento, tanta fatica, ma anche molte speranze, speranze ingenue forse, ma sincere e pure, come quelle dei giovani che sicuramente avevano partecipato a quella piccola competizione.

Qualche momento dopo, la coppia di locali che sedeva all’ormai chiuso banchetto delle iscrizioni si vide venire incontro uno strano individuo completamente nascosto dietro ai suoi ingombranti vestiti, che chiese di poter partecipare a sua volta al torneo sfidando il vincitore in un incontro amichevole.

«Non si può fare, mi dispiace.» rispose uno dei due.

Al che lo sconosciuto si liberò del proprio fardello, rivelando un volto che lasciò i due uomini con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa per lo stupore.

«Non potreste fare un’eccezione per me?».

 

Come già detto più volte, alla grande Octavia non si negava mai un favore.

E così, la sparuta folla riunitasi per assistere a quel piccolo torneo regionale di periferia ebbe il grande onore e piacere di veder comparire, per la prima volta dopo sei mesi, la leggendaria Octavia, ricomparsa dal nulla come un fantasma proprio un attimo prima che avesse inizio la premiazione.

La vincitrice, una ragazzina appena adolescente, non ci pensò due volte ad accettare la sfida, che sapeva persa in partenza, ma che nonostante tutto la eccitava al solo pensiero.

Inspiegabilmente, un attimo prima di entrare nella machina, la campionessa tergiversò, seguitando ad armeggiare per un po’ con la scheda di memoria contenente i dati del suo vessel, e quando finalmente comparve nell’arena quasi nessuno fece caso al suo improvviso quanto pittoresco cambiamento di look; i capelli, fluenti e biondissimi come tutti li ricordavano, erano ora racchiusi in una elegante e ricercata coda di cavallo, annodati sopra la nuca da una cordicella nera da cui pendeva una sorta di fermaglio a forma di punta di lancia.

Lo scontro fu breve, e dall’esito praticamente scritto, ma ciò che Helena trovò davvero speciale furono le emozioni che, già pochi attimi dopo il via dato dall’arbitro, presero come un fiume a scorrere dentro di lei.

Si stava divertendo.

Era felice.

Era questo che significava praticare il chandra.

Finalmente se ne era ricordata.

Ricordò i massacranti allenamenti, le notti in bianco, le maratone di studio, le interminabili corse, le fatiche dei lavori part-time, e dal profondo dell’animo sentì sgorgare un’esplosione di gioia, seguita subito dopo da una di profonda, totale serenità.

La battaglia finì nell’unico modo auspicabile, ma Helena, pur senza mancare di rispetto alla sua giovane avversaria, volle farla durare il più a lungo possibile; non voleva che quelle sensazioni bellissime l’abbandonassero, o voleva quantomeno imprimerle con forza nella sua mente, così da non dimenticarle mai più.

E quando la battaglia terminò, con la folla nuovamente raccolta attorno alla sua eroina preferita, Helena strinse la mano alla ragazza che aveva appena battuto, la quale, per nulla arrabbiata o delusa, era anzi ebbra di gioia.

«Riuscirò mai a diventare come lei?» le chiese

«Certo.» rispose Helena con un sorriso «Ma se vuoi diventare una grande chandrista, la cosa importante è non dimenticare mai chi sei.» e quale segno di buon augurio le regalò, imprimendone i dati sulla sua scheda di memoria, Etoile, il suo famoso stocco da battaglia, facendosi promettere che un giorno si sarebbero incontrate nuovamente per farselo restituire.

 

Qualche giorno dopo, Monagan, alla ricerca di un modo per far tornare in sé quella testa di legno che da settimane non voleva saperne di incontrarlo, si risolse ad entrare con la forza dentro casa sua, usando un passepartout che teneva con sé.

Entrato, però, non trovò nessuno, e fu sufficiente per lui guardarsi attorno per accorgersi che i libri, i suppellettili, e ogni altro effetto personale erano spariti.

L’appartamento era intonso, come il giorno in cui l’aveva regalato ad Helena, il letto fatto, le tende tirate e il pavimento pulito.

Ma soprattutto, era deserto.

L’uomo rimase basito, restando per alcuni minuti immobile al centro del salone, immerso in un silenzio assordante. Poi, Francine comparve alle sue spalle.

«Benvenuto, signor Raius. Ho un messaggio per lei dalla mia ex padrona.

Trovati un’altra campionessa».

 

«Avrei pagato per vedere la faccia di quel pallone gonfiato.»

«Immagino non gli abbia fatto piacere.»

«E adesso sei felice?»

«Diciamo che sto cercando di ricordarmi cosa significhi essere felici.»

«Sembri sulla buona strada. Se non altro, hai finito di piangerti addosso.

Ora combatti secondo le tue regole, senza che nessuno te lo imponga.

Hai pensato che aiutare le altre persone a non diventare come te, anche a costo di perdere tutto quello che possedevi, e che intimamente avevi sempre cercato, fosse il modo migliore per espiare alle tue colpe.

Ma d’altra parte, non puoi smettere di fare quello che ti appassiona, soprattutto ora che ti sei ricordata quanto ti piaccia.»

 

La folla, che in tutto quel tempo non aveva smesso un momento di rumoreggiare, di colpo si acquietò, come  nella calma che precede la tempesta.

Poi, una lucina rossa si accese sopra la porta d’ingresso.

Ancora una volta, l’ennesima, era giunto il suo momento. Il momento di scendere nell’arena.

Quanto a lungo Helena aveva aspettato di risentire quella specie di fastidioso, ma allo stesso tempo rassicurante, nodo allo stomaco, quell’ansia che una volta la colpiva ogni qualvolta si appressava il momento di combattere, e che negli ultimi anni aveva quasi dimenticato, tanto la sensazione di essere invincibile e l’aver scordato cosa fosse davvero per lei il chandra le avevano annebbiato il giudizio.

 

«Alla fine non era così difficile, vero?

Restituire dignità e significato a quel sogno.»

«Può darsi. Però, ora che ci penso, non mi hai ancora detto chi sei.»

«Solo qualcuno a cui piace ricordare e far ricordare.»

 

Senza esitazioni, la giovane donna si risolse finalmente a guardare alle proprie spalle, cercando di dare un volto a quella voce eterea con la quale aveva appena terminato di compiere quel suo lungo, e allo stesso tempo brevissimo, viaggio tra i ricordi di una vita, come alla ricerca di un modo per ricordare a sé stessa gli eventi che l’avevano condotta lì, in quel luogo così famigliare, ma che da un giorno all’altro aveva assunto ai suoi occhi un altro significato.

Giusto il tempo di riconoscere un paio di vispi occhi chiari, un’espressione sbarazzina, un volto piacevolmente ovale incorniciato da una folta ma abbastanza corta chioma scura, che un inatteso quanto inopportuno bussare alla porta la distrasse, e quando guardò nuovamente in quella direzione appoggiato alla parete, con quel fare sornione e sicuro di sé, non vi era più nessuno.

In quella stanza era sola.

Forse lo era sempre stata. O forse no.

Eppure, si sentiva felice.

«Signorina, è ora.»

«Sì.» disse con un sorriso sulla bocca e una lacrima negl’occhi «Arrivo».

 

La folla era quella delle grandi occasioni.

In fin dei conti, era pur sempre un incontro valido per il titolo mondiale.

Senza contare poi che non capitava spesso che fosse proprio il campione a mettere in gioco la propria corona proponendo egli stesso una sfida.

Dal canto suo, Warewolf, già in piedi accanto alla sua machina, ne aveva abbastanza.

Non ne poteva più di vivere all’ombra di chi l’aveva preceduto, o di essere additato come colui che aveva rubato il titolo senza meritarlo per il semplice fatto che il legittimo proprietario, al momento fatidico, aveva marcato visita sparendo nel nulla.

C’era un solo modo in cui poteva rivendicare il proprio ruolo di campione, ed era annichilire davanti agli occhi di tutto il mondo quella leggenda che per lui era come un’ombra diabolica della quale non riusciva a liberarsi.

Sapeva di non avere molte speranze, né tantomeno il sostegno del pubblico, ma confidava nei propri mezzi, come ogni chandrista degno di questo nome, e in caso di sconfitta era pronto ad accettarla con onore. Sarebbe voluto dire che non era ancora pronto per quel traguardo.

Il pubblico rumoreggiava, mentre le luci psichedeliche dell’arena viaggiavano nervosamente in ogni direzione, e quando queste si concentrarono tutte sul presentatore vi fu, per un istante, il silenzio più assoluto.

«Buonasera, signore e signori! Benvenuti alla Magic Arena! Questo è il momento che tutto il mondo aspettava da tempo! Finalmente, scopriremo chi è il solo, unico e vero campione del mondo in carica!

I due pretendenti stasera saranno l’uno di fronte all’altro, e tra quindici minuti esatti incoroneremo il solo e vero re del chandra!

Per il titolo mondiale! Alla mia sinistra, nell’angolo rosso, lo sfidante, nonché attuale campione in carica! Lo spietato uomo lupo! Warewolf!».

Vi furono  molti applausi ed acclamazioni; dopotutto si trattava comunque di un grande campione, dalle indubbie qualità umane, e lo provava il fatto che avesse avuto il coraggio di mettersi in gioco proponendo lui stesso quella sfida.

Ma poi, tutto tornò improvvisamente silenzioso.

«E alla mia destra! Nell’angolo blu! Dopo sei mesi di oscuro oblio! Come uno spettro dimenticato che torna da un passato lontano ma anche molto vicino! L’eroina delle giovani generazioni! La campionessa perduta! La Rosa di Kyrador!

Signore e signori, Ooooooctaviaaaaaaa!».

Le luci si spensero un istante, e come si riaccesero tutte insieme sull’ingresso del tunnel la folla minacciò di far crollare lo stadio sotto il fragore assordante delle urla.

Octavia era lì, di nuovo in mezzo a loro, con quella sua aria sprezzante e sicura, quell’andatura fiera, e quel portamento da vera campionessa.

Eppure, c’era qualcosa di diverso; per chi poté o volle guardarla negli occhi, la sua espressione aveva un che di malinconico, per non dire di umile; ricordava l’Octavia dei primi anni, quella che era nelle memorie solo dei veri ammiratori, che l’avevano seguita fin dai suoi esordi nel professionismo, quando ancora non era nessuno, e si trovava spesso ad affrontare avversari molto più famosi e preparati di lei.

Ma non importava. L’importante era che lei fosse lì, tutta per loro. La folla era impazzita; soprattutto il pubblico femminile, ed in particolare quello appartenente ai suoi numerosi fan club, non smetteva un momento di evocare il suo nome, quasi che chiamarla volesse dire possederla.

«O-cta-via! O-cta-via! O-cta-via!».

La giovane si approssimò all’arena, ritrovandosi a tu per tu con quell’avversario che a suo tempo aveva ignorato, e che la guardò con un misto di sfida ed ammirazione, porgendole infine la mano.

«È un onore conoscerti.» le disse.

Lei lo fissò un momento stupita, poi, sorridendo, ricambiò la stretta.

«Anche per me. Ti chiedo scusa per come mi sono comportata l’ultima volta.»

«Non importa.» scherzò lui «Recupereremo stasera. È per questo che siamo qui, dopotutto.»

«Già».

A quel punto, venne il momento di combattere.

Helena entrò nella machina, e mente il portello si richiudeva sopra di lei ripensò per un attimo alla prima volta, in quella palestra scalcinata; le tornarono in mente la determinazione e le speranze, ma anche l’ansia, la paura di non farcela, e quella mano sempre pronta a sostenerla, che le dava il coraggio e la forza di andare avanti senza neanche, forse, rendersene conto. E allora, le venne da sorridere.

Quando fu al centro dell’arena, alzò gli occhi verso l’alto, verso le stelle, appena visibili oltre il soffitto trasparente dello stadio e le infinite luci di Kyrador, alla ricerca della sua stella, quel puntino luminoso che apparteneva solo a lei e che sapeva essere lassù, da qualche parte. Era passato tanto tempo, e molte cose erano successe. Ma non avrebbe più dimenticato. Non voleva più dimenticare.

«E ora, signore e signori!» annunciò esaltato il presentatore «Let’s chandra!».

 

 

Nota dell’Autore

Eccoci dunque alla fine di questa storia (si fa per dire) breve.

Effettivamente è molto più lunga di quanto mi fossi inizialmente immaginato, ma pensandoci ora devo ammettere che se l’avessi sviluppata interamente come appariva di volta in volta nei miei pensieri man mano che scrivevo ne sarebbe venuto fuori un romanzo parallelo, tanti e tali erano gli argomenti e le tematiche da trattare.

Di certo non sarà l’unica storia con protagonista Helena, o comunque in cui la campionessa non svolga un ruolo di una certa rilevanza, così come senza dubbio vi saranno altri racconti dedicati al mondo del chandra.

Ora sto lavorando ad altre due storie, sempre nell’ambito dei vari contest cui sto partecipando.

E mi raccomando, fatemi sapere sempre cosa pensate!^_^

A presto!^_^

Carlos Olivera

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2362737