La fine è il mio inizio

di Nymeria90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio ***
Capitolo 2: *** Sasha ***
Capitolo 3: *** Un nemico da odiare ... ***
Capitolo 4: *** ... e un amico da amare ***
Capitolo 5: *** Polvere ***
Capitolo 6: *** Ed è subito sera ***
Capitolo 7: *** La strada dei sogni infranti ***
Capitolo 8: *** Il sangue degli eroi ***
Capitolo 9: *** Lontano da ogni dove ***
Capitolo 10: *** Nome e Cognome ***
Capitolo 11: *** Il soldato perfetto ***
Capitolo 12: *** In missione ***
Capitolo 13: *** Game over ***
Capitolo 14: *** Dietro le linee nemiche ***
Capitolo 15: *** La resa dei conti ***
Capitolo 16: *** Comandanti e soldati ***
Capitolo 17: *** Persone normali ... ***
Capitolo 18: *** … che vivono una vita normale ***
Capitolo 19: *** Passato e Futuro ***
Capitolo 20: *** Tutto e niente ***
Capitolo 21: *** Salto nel buio ***
Capitolo 22: *** Segreti ... ***
Capitolo 23: *** ... e bugie ***
Capitolo 24: *** La fine di un'era ***
Capitolo 25: *** Tutto il tempo del mondo ***
Capitolo 26: *** Demoni ***
Capitolo 27: *** Hannah ***
Capitolo 28: *** Orgoglio ***
Capitolo 29: *** Ti avrei risparmiato tutte queste parole ***
Capitolo 30: *** Resta ***
Capitolo 31: *** Vivi, rischia, scegli ***
Capitolo 32: *** Qui vivono i mostri ***
Capitolo 33: *** Nessuna via d'uscita ***
Capitolo 34: *** Muore la speranza ***
Capitolo 35: *** Chi resta e chi se ne va ***
Capitolo 36: *** Questione di giustizia ***
Capitolo 37: *** Comandante Shepard ***
Capitolo 38: *** L'ultimo addio ***
Capitolo 39: *** La fine è il mio inizio ***



Capitolo 1
*** L'inizio ***


[x] 

Prologo
 
Atene, dicembre 2153
 
Lo adescò fuori da una bettola di Atene.
Era un locale d’infimo rango, nella periferia di una città tanto grande da dimenticarsi di buona parte dei suoi abitanti, soprattutto di quelli che pativano la fame.
C’erano i ricchi, da qualche parte, nelle loro lussuose ville, intenti a progettare chissà quali metodi strampalati per spendere i loro soldi. Viaggiare nello spazio era diventato il loro principale obiettivo, un modo per spendere tempo, energie, denaro.
Come se non ci fosse abbastanza da fare lì, sulla Terra.
Ma nessuno di quegli uomini si sarebbe spinto fin laggiù, nelle viscere della città, dove le stelle erano solo puntini lontani che a stento si vedevano tra i fumi delle fabbriche e i prefabbricati che si ammassavano l’uno sull’altro fino ad oscurare il cielo, nella grottesca parodia di quei palazzi che i ricchi amavano costruire per farsi chiamare visionari o futuristi.
Nella città bassa non c’erano né visioni né futuro, solo puttane e ubriachi che si contendevano la notte assieme ai ratti e ai cani randagi.
Lei era una di loro, una puttana dai capelli rossi che adescava gli ubriachi usciti dal bar.
Non passava inosservata, con i fluenti capelli rossi lunghi fino in vita, il viso cosparso di lentiggini e gli occhi color ambra. Tutti la chiamavano Lily, il suo protettore amava dirle che era il fiore più raro di tutta la sua serra: un giglio in mezzo ai tulipani.
Dalla taverna uscì una compagnia di militari con la divisa sgualcita e le gambe rese malferme dal vino, come sempre le ragazze si avvicinarono ancheggiando e ammiccando, dispensando sorrisi e baci: attrici senza talento, stanche di recitare sempre il solito copione. Alcuni soldati, pochi, le scansarono infastiditi, gli altri accolsero i loro servigi con sorrisi lascivi e consumata esperienza, insinuarono le mani sotto le vesti e baciarono le scollature abbondanti, senza nemmeno prendersi la briga di alzare lo sguardo ed incrociare i loro occhi.
Solo uno si fermò ad osservarle, gli occhi verdi annebbiati dal vino, le labbra sottili strette in un’espressione di sorpresa curiosità. Guardava i suoi compagni abbandonarsi tra le braccia di quelle donne rumorose e stanche, con l’ingenuità di chi non conosce niente del mondo.
Anche Lily si fermò a guardarlo, sorpresa ed affascinata, come di fronte ad un animale raro e sconosciuto. Non aveva mai visto nessuno comportarsi in quel modo. C’erano quelli che le scansavano con aria disgustata, altri ostentavano disprezzo in pubblico per poi tornare, strisciando tra le ombre della notte, a reclamare i loro servigi, terrorizzati all’idea di essere scoperti, e poi, ovviamente, c’erano quelli che accettavano volentieri, affamati e lussuriosi: usavano i loro corpi, le pagavano e poi se ne andavano, senza voltarsi indietro, come se nulla fosse accaduto, come se loro e ciò che facevano non fosse nemmeno reale. Invece quel ragazzo le guardava, l’aria divertita e un sorriso spensierato sulle labbra, quasi volesse imprimersi nella memoria quei volti così nuovi, così strani, eppure così reali.
Incuriosita, si avvicinò a lui, notando i capelli biondi che gli ricadevano scomposti sulla fronte, la fossetta appena accennata del mento, gli incisivi leggermente accavallati. Aveva sempre immaginato che la bellezza si trovasse nella perfezione, eppure fu sul volto imperfetto di quel ragazzo che la vide per la prima volta.
Si domandò se, dopotutto, non fosse quello l’aspetto che poteva avere un dio.
Quando gli fu di fronte si ritrovò a corto di parole, la bocca secca e le mani sudate, mentre la sicurezza acquistata in anni d’esperienza svaniva dentro a un paio di occhi verdi. Le sembrò di essere tornata indietro nel tempo, quando la fame e la disperazione l’avevano spinta sul ciglio di una strada.
Lui le sorrise, teso quanto lei, ma il suo sguardo era illuminato dall’ardore dei sogni e dell’avventura.
Lily allungò una mano e lui l’afferrò.
L’abitudine condusse i suoi passi verso uno squallido edificio che un’insegna fatiscente denominava “Hotel”, non appena varcarono la soglia e l’odore di cibo stantio e piscio aggredì i loro sensi, si pentì di quella scelta incauta. All’improvviso tutto lo squallore della sua esistenza le ripiombò addosso: era solo una puttana che teneva per mano un bel ragazzo nell’androne di un albergo a ore.
Lasciò andare la mano del ragazzo e cercò di assumere un’aria professionale, ma lui le accarezzò la guancia, sfiorandole i capelli – Non importa.- disse in un inglese pronunciato a fatica. Si chinò su di lei e la baciò, con una dolcezza che non credeva esistesse.
Nessuno l’aveva mai trattata così.
Salirono in camera e anche se era squallida, sporca, con il letto macchiato e le pareti mezze rivestite di piastrelle, ai loro occhi parve la Chambre Royale del più bell’albergo del mondo.
Quella notte capì di non aver mai vissuto.
Ogni uomo che era entrato nel suo letto l’aveva sempre disgustata; faceva quello che doveva fare, talvolta capitava che provasse piacere, ma anche quando succedeva non faceva altro che sperare che finisse tutto in fretta, che l’uomo si rivestisse, la pagasse ed uscisse dalla stanza senza farle del male. Poi veniva il turno di qualcun altro. Aveva sempre pensato che quella fosse la normalità, non aveva mai immaginato una vita diversa, non pensava potesse esistere una vita diversa. Non lì, non per lei.
Ma quella notte le cose furono diverse.
Abbandonò ogni cautela e si diede a lui completamente, sfiorando le sue labbra con baci incerti e poi sempre più frenetici, mentre scopriva sentimenti mai provati prima. Stretta tra le braccia di un giovane dio, si sentì immortale.
Quando, sfiniti, si separarono, accasciandosi sui cuscini malconci, la realtà la colpì con prepotenza: ora che avevano finito lui l’avrebbe pagata, si sarebbe alzato, rivestito e, senza guardarla, sarebbe uscito da quella stanza squallida e sporca. Sul letto macchiato sarebbe rimasta solo una puttana col cuore spezzato.
Invece lui si girò su un fianco, appoggiò il capo sulla mano e le passò le dita tra i capelli, guardandola come se fosse la più bella cosa del mondo – Non conosco nemmeno tuo nome …- sussurrò, come per scusarsi.
Aveva uno strano accento, che dava ad ogni parola una melodia gentile e potente insieme, a stento capì quello che le diceva.
Lui notò la sua esitazione e un’ombra di dubbio oscurò quei lineamenti gentili, mentre i timori che l’avevano assalita pochi istanti primi diventavano i suoi: era una prostituta, forse non desiderava altro che lui la pagasse e se ne andasse.
Gli prese la mano mentre lui l’allontanava, intrecciò le dita con le sue, trattenendolo accanto a sé: non voleva che la sua esitazione fosse attribuita ai motivi sbagliati.
In realtà non sapeva cosa rispondergli: Lily non era il suo vero nome. Era quello che il suo protettore aveva scelto per lei, il suo giglio tra i tulipani.
Ma Lily era il nome di una puttana e lei, quella sera, non lo era – Sophie. Mi chiamo Sophie.-  nessuno la chiamava più così da quando sua madre era morta, tredici anni prima, a stento ricordava come si pronunciasse.
Abbassò lo sguardo perché lui non notasse gli occhi un po’ troppo lucidi.
Lui le posò un bacio leggero, delicato, sulla sommità del capo – Sophie …- lo pronunciò a modo suo, con quell’accento che assomigliava ad una melodia. Non aveva mai sentito nulla di più bello, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentì di nuovo una persona e non più solo una puttana.
Chiuse gli occhi e appoggiò la fronte al suo petto, lui le accarezzò i capelli, dicendo qualcosa che non capì, quando gli chiese di ripetere ridacchiò, divertito – È mio nome. - spiegò – Pronuncia non essere semplice: amici mi chiamano Sasha … anche tu, se vuoi ... -
Lei sorrise, alzò il capo e gli posò un bacio lieve sulle labbra – Sasha … mi piace.-
Sfiorò la medaglietta che portava al collo, la sollevò senza riuscire a decifrare quello che c’era scritto sopra. Non aveva mai imparato a leggere, tuttavia persino lei conosceva il significato di quella medaglietta.
- Che cosa ci fa un marine dell’Alleanza in questo posto?-
Lui si umettò le labbra, in evidente difficoltà – Io non essere solo soldato: io astronauta. Tra pochi giorni io parte per missione tra le stelle: staremo lontani tre anni per scoprire se c’è vita lassù.-
I suoi occhi verdi brillavano di pura estasi: capì che aspettava quel momento da tutta la vita. Invidiò quella passione che gli faceva tremare la voce.
Sophie si strinse nelle spalle – Gli uomini esplorano la galassia da anni: non hanno mai trovato niente.- si mise seduta, stringendosi le ginocchia contro il petto – E se troverete davvero degli alieni che cosa farete?- non gli disse che secondo lei si trattava solo di energie sprecate e soldi buttati. C’era una Terra di cui occuparsi, persone che avevano bisogno di aiuto. Perché tutti guardavano in alto senza preoccuparsi di chi giaceva sul fondo di quella Terra che sprofondava nella miseria?
Sasha non si accorse del suo tono polemico, si chinò verso di lei, sussurrando come un cospiratore – Sei anni fa, su Marte, noi scoperto antiche rovine: rovine aliene. Loro studiavano noi, quando eravamo ancora in caverne. Migliaia di anni fa, alieni viaggiavano per galassia e possedevano tecnologie che noi non abbiamo nemmeno oggi. Poi scomparsi.- suo malgrado Sophie si ritrovò a pendere dalle sue labbra, affascinata dalla storia di quell’antico popolo che aveva assistito alla nascita dell’umanità – Dentro rovine c’erano dati: tanti dati. Noi tradotto qualcosa e in 2149 dati ci hanno portato davanti a …- scosse il capo, alla ricerca della parola giusta - … portale.- sorrise, fiero – Funziona come scorciatoia. Da “Portale di Caronte” noi possiamo raggiungere posti che prima non riuscivamo nemmeno a pensare. In quelle rovine ci sono informazioni che possono cambiare mondo: ora noi possiamo viaggiare più veloci di luce. Per questo creato Alleanza.- gli occhi di Sasha brillavano e Sophie non poté fare a meno di sentirsi contagiata dal suo entusiasmo: era come ascoltare una favola dal lieto fine scontato. – Nazioni di tutto mondo che prima si facevano guerra ora unite, con obiettivi comuni: elevare uomo sopra stelle e trovare risposte a tutte domande di mondo. –
Sophie distolse lo sguardo e i suoi occhi si ritrovarono a fissare la squallida stanza da cui si era illusa di poter fuggire. Non importava quanto lontano avrebbe potuto spingersi l’umanità, per lei la vita non sarebbe cambiata.
- E che cosa cambierà, Sasha, una volta che avrete le vostre risposte? Gli alieni non sfameranno gli affamati, non porteranno giustizia agli sfruttati, né toglieranno le puttane dalla strada.- strinse i pugni attorno alla coperta lisa – Che senso ha partire alla ricerca di altri mondi quando il vostro sta morendo? L’Alleanza dovrebbe occuparsi della Terra, dell’umanità, non del cielo e dei suoi abitanti immaginari.- si asciugò le lacrime con un gesto secco, rabbioso, odiando lui per averla illusa e se stessa per averci creduto anche solo per un istante. Lui se ne sarebbe andato da quella stanza per non farvi più ritorno, lei sarebbe stata costretta a ritornarci ogni giorno se non voleva morire di fame.
Sasha le prese il mento tra le dita, costringendola a guardarlo – Due anni fa Alleanza trovato pianeta abitabile. Stanno costruendo colonia, Demeter. Tu hai ragione: Terra troppo piccola per tutti noi, ma galassia abbastanza grande per umanità intera. È questo che noi stiamo cercando: una casa per chi non può averla su questo mondo.-
Sophie sapeva bene, per esperienza, che la realtà sarebbe stata diversa, che, anche con l’intera galassia a disposizione, ad alcuni sarebbe stato dato tutto e ad altri niente, ma gli occhi di Sasha erano così sinceri, la sua fede così profonda, che non poté fare a meno di desiderare che lui avesse ragione – Stai dicendo che ci potrebbe essere un posto per me lassù?- domandò con voce strozzata.
Lui annuì sorridendo dolcemente – C’è posto per tutti, tra le stelle.-
Sophie sospirò, accarezzando delicatamente quel viso che la vita non aveva avuto il tempo d’indurire, si perse in quegli occhi innocenti da bambino – Mi piacerebbe credere nei tuoi sogni, mio dolce astronauta. –
Lui si accigliò ma Sophie lo attirò a sé prima che potesse replicare, baciandolo con così tanta passione da fargli dimenticare ogni altra cosa.
Si concesse a lui con gratitudine, lo ringraziò, nell’unico modo che conosceva, per averle mostrato la bellezza dei sogni. Fin da bambina era stata troppo impegnata a sopravvivere per trovare il tempo di concedersi una piccola parentesi in cui credere che il mondo potesse cambiare.
Lo amò per quel dono inaspettato, per averle insegnato che se non era possibile avere una vita diversa, la si poteva almeno sognare.
L’alba li sorprese ancora abbracciati e la realtà fece irruzione nella stanza assieme ai raggi di un sole lontano ma non più irraggiungibile.
Si guardarono, consapevoli entrambi che la notte era finita e che con essa finiva quel “noi” che si erano illusi di aver creato.
Sasha si mise seduto e cominciò a rivestirsi con movimenti lenti e aggraziati, man mano che i vestiti tornavano al loro posto e il ragazzo si trasformava di un nuovo in soldato, i suoi occhi diventavano sfuggenti e la sue espressione indecifrabile.
Era come se si rendesse conto, improvvisamente, del luogo in cui si trovava e della persona con cui aveva passato la notte.
Sophie capì, dal mondo in cui sfuggiva il suo sguardo, che ai suoi occhi era tornata ad essere una puttana e probabilmente si stava domandando se la notte passata insieme fosse solo un’illusione costruita dalla più brava delle attrici la cui prestazione, ora, doveva pagare.
Prima che facesse, o dicesse, qualcosa che umiliasse entrambi, contaminando il ricordo di quella notte straordinaria, Sophie sfiorò la sua mano, invitandolo ad incontrare il suo sguardo – Quando lavoro mi faccio chiamare Lily. Questa notte ero Sophie, solo Sophie.-
Il viso di Sasha si aprì un sorriso sollevato e le sue spalle si rilassarono sotto la divisa blu ed oro che sfoggiava con orgoglio – Grazie.-
- Ho un’unica richiesta, se possibile.- arrossì come non aveva mai fatto, nemmeno da bambina – Vorrei una tua fotografia, non voglio dimenticare il tuo viso. –
Quella richiesta parve lusingarlo e, dopo aver preso il portafoglio dalla tasca, lo aprì, estraendo una piccola fotografia che lo ritraeva fiero, in divisa, probabilmente il giorno in cui si era arruolato.
Le mise la foto in mano e la strinse tra le sue – Se potessi io portare te via di qui, adesso, ma troppo tardi per tirarmi indietro, io sono soldato e devo partire.-
Sophie annuì, avrebbe voluto dirgli che capiva, che non si aspettava niente, sapeva bene qual era il suo posto, ma lui la zittì con un cenno, improvvisamente serio.
- Missione dura tre anni, ma non appena tornato io verrò qui, per te. Primo giorni di anno 2158 io sarò davanti a Parlamento, in piazza Syntagma, e aspetterò te tutto giorno, dall’alba al tramonto. Se non verrai io tornare l’anno dopo e quello dopo ancora, finché non avrò ritrovato te.- si portò la sua mano alle labbra e la fissò così intensamente che non dubitò delle sue parole nemmeno per un istante – Io prometto che ti porterò via di qui, Sophie. -
E lei, ingenua per la prima volta nella sua vita, credette alla promessa di un ragazzo che sognava di vivere tra le stelle.
Si chinò su di lui, posandogli le labbra sulla fronte – E io ti aspetterò, Sasha, promesso.-

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Capitolo 2
*** Sasha ***



Atene, agosto 2154
 
Mentre un ragazzo vestito da soldato solcava i cieli su una nave spaziale alla ricerca di un nuovo mondo da chiamare casa, sul suo vecchio mondo, la Terra, la donna che aveva promesso di salvare urlava, sdraiata su vecchie coperte macchiate, nella squallida stanza di una casa chiusa.
Era una limpida notte d’estate, folle di persone sciamavano lungo le vie del centro, bevendo e ballando fino alle prime luci dell’alba, e lì, nei recessi più oscuri di una città troppo antica per resistere all’incedere del tempo, giovani in cerca di avventure e vecchi che sognavano di avere vent’anni, si contendevano i favori di donne che fingevano di amarli in cambio di denaro. Il mestiere più antico del mondo era l’unica certezza su quel pianeta che continuava a mutare volto.
L’unica certezza assieme alla vita e alla morte.
Ed erano vita e morte che lottavano l’una contro l’altra, aggrappate alle spalle di una ragazza cresciuta troppo in fretta.
Le mani strette attorno alle lenzuola, gli occhi sgranati e cerchiati di nero, Sophie lottava contro qualcosa che non riusciva a capire: le avevano detto che creare la vita era qualcosa di meraviglioso, eppure, in quel momento, le sembrò la cosa più orrenda mai affrontata.
Sul volto pallido e madido di sudore le narici frementi spiccavano nere e profonde come quelle dei teschi.
- Vedo la testa!- urlò la donna china tra le sue gambe – Un ultimo sforzo, Lily, ci siamo quasi!-
Sophie, mi chiamo Sophie!
Ma quei pensieri eruppero in un grido inarticolato e senza senso, mentre qualcosa le squarciava il ventre con artigli di fuoco.
Infine, con un’ultima spinta e un ultimo rantolo, il bambino nacque.
La donna lo prese tra le braccia, avvolgendolo in un lenzuolo, gli pulì il naso e la bocca con mani tremanti, gli occhi offuscati dalle lacrime.
- È una bambina …- annunciò, con voce spezzata, mentre l’esserino che teneva tra le braccia iniziava a piangere. La donna rise – Senti che voce! È una combattente, questo è certo.-
Sophie tentò di sorridere, allungando stancamente una mano; la donna le mise la bambina tra le braccia, dolcemente, attenta a non far male ad entrambe. Sophie scostò il lembo del lenzuolo e sotto la stoffa scorse un piccolo viso di cartapesta sporco e arrossato.
Deglutì cercando di parlare, mentre la vita l’abbandonava assieme al sangue che, inarrestabile, fluiva dalle sue gambe.
La donna notò la chiazza rossa che si allargava sotto il suo corpo e sgranò gli occhi – Io … io vado a chiamare il dottore …-
Sophie la fermò con un cenno del capo – Se non è venuto per aiutare un bambino a nascere, non verrà di certo per salvare una puttana …- si passò la lingua sulle labbra secche e screpolate – Ascolta, Louise …-
La donna scattò verso la porta – Gli offrirò il doppio: deve venire.-
- Louise, ti prego …- sentì la testa ciondolare di lato ma si obbligò a rimanere lucida, almeno per un po’ – Devi prenderti cura della mia bambina, va bene? Non permetterle che le venga fatto del male …-
Un sorriso falso sbocciò sul viso della donna – Certo, tesoro …-
Sophie scosse il capo, stringendosi la bambina al petto – Ricordi quando saldai i tuoi debiti con gli strozzini? Hai detto che ti avevo salvato la vita …- ansimò, parlare stava diventando sempre più difficile - … una vita per un vita, Louise: è tempo di ripagare il tuo debito. –
Il viso della donna divenne improvvisamente serio e s’inginocchiò al suo fianco, accarezzandole i capelli – Hai ragione, amica mia. Ti devo tutto … io la proteggerò, come se fosse sangue del mio sangue.-
Era sincera, Louise era una brava donna, a modo suo, non avrebbe mentito ad una madre morente – Nella mia giacca c’è la fotografia di un uomo. Il primo giorno dell’anno 2158 vai davanti al parlamento: lo troverai lì, a qualsiasi ora. E se non ci sarà, torna l’anno dopo e quello dopo ancora finché non lo incontrerai, allora gli dirai che avrei voluto mantenere la mia promessa, che negli ultimi mesi è stata l’unica cosa che mi ha impedito di crollare … digli di portare sua figlia lontano da questo posto, digli di portarla tra le stelle …- si abbandonò contro i cuscini, sfinita, la bambina pesava come un macigno tra le sue braccia. Louise gliela tolse con dolcezza, lo fece per lei, per aiutarla, ma la odiò per quel gesto. La sua bambina … non voleva che gliela portassero via, ma non aveva la forza di combattere ancora.
- Come la vuoi chiamare?-
Sophie si umettò le labbra, il capo abbandonato di lato, il respiro pesante, le gambe intorpidite … non sentiva più dolore, solo un grande vuoto che rischiava d’inghiottirla – Sasha …- sussurrò - … si chiama Sasha, come suo padre.- il mondo stava diventando sfocato, sbatté piano le palpebre – Non permettere che diventi come me …-
Louise le strinse forte la mano, cercò di parlare ma non ci riuscì, incapace di fare una promessa che non era certa di poter mantenere.
Una singola lacrima scivolò lungo la guancia di Sophie, la bambina emise un debole vagito, ma sua madre non la sentì. Nella luce gelida di una lampada al neon, la puttana dai capelli rossi che aveva sognato una vita tra le stelle, morì.
 
Kobe Lapierre amava definirsi un uomo d’affari. Non era certamente un uomo buono, ma non era nemmeno un uomo malvagio. Una volta qualcuno gli aveva detto che un uomo marcio per metà è marcio tutto, per tutta risposta aveva piantato a quel qualcuno un coltello nella coscia, dicendogli che se fosse stato marcio tutto l’avrebbe pugnalato nella pancia e lasciato lì a morire.
Era un uomo marcio per metà. Solo per metà.
Si guadagnava da vivere comprando e vendendo droga che smerciava nei vari locali notturni disseminati per la città, locali che riforniva anche di alcol e belle ragazze. Aveva un piccolo esercito alle sue dipendenze, fatto di spacciatori, picchiatori e puttane. Da ragazzo si era unito a qualche banda per poi tirarsene fuori, riuscendo a non farsi nemico nessuno. Ben presto aveva capito che l’unico modo per sopravvivere in un mondo come quello, era non schierarsi.
Mentre bande rivali si scannavano per il controllo di questo o quel quartiere lui rimaneva a guardare, senza negare droga, puttane e armi a nessuno. La sua lealtà andava solo al denaro.
Il potere non gli interessava, il protagonismo nemmeno, era uno dei tanti criminali dei bassifondi, rispettato, forse, ma non temuto. Lo lasciavano in pace per il semplice motivo che faceva comodo a tutti.
C’era un’unica cosa, oltre al denaro, che gli stava a cuore: i suoi dipendenti.
Erano l’unica famiglia che avesse mai avuto e faceva in modo che non mancasse loro niente, li teneva al sicuro, per quanto possibile in un mondo come quello.
Se lavoravi per Kobe Lapierre non diventavi ricco, ma vivevi di più.
Quando gli giunse notizia che una sua ragazza era morta si rattristò, quando scoprì che quella ragazza era Lily, il suo giglio tra i tulipani, si scoprì a versare una lacrima, una sola.
Era morta in una delle case chiuse da lui gestite, sdraiata sul letto sgualcito di una squallida stanza.
Era morta creando la vita.
Quando, in lacrime, gli aveva confessato di essere incinta, le aveva permesso di rimanere anche se non poteva più lavorare.
Kobe sapeva che tutti gli altri, al suo posto, l’avrebbero cacciata o costretta ad abortire. Ma lui non era come tutti gli altri: era marcio solo per metà.
Eppure, nonostante tutto, non era riuscito a salvarla.
Nel 2154 il cancro era stato debellato e l’AIDS sconfitta, ma nei bassifondi di una città perduta le puttane morivano ancora.
I governi parlavano di giustizia, uguaglianza, libertà. Dicevano che era per tutti.
Per tutti certo, tranne alcuni.
Quando entrò nella stanza la vide sdraiata sul letto, scomposta, gli occhi vitrei fissi su di lui, carichi di rimprovero.
Il medico sarebbe venuto se fosse stato lui a chiamarlo, ma non l’aveva fatto, troppo preso dai suoi affari per occuparsi di una puttana che non poteva lavorare.
Era convinto di aver già fatto abbastanza per lei. Ora si rendeva conto di non aver fatto niente.
“Un uomo marcio per metà è marcio tutto” dicevano quegli occhi e, questa volta, non trovò niente da replicare.
Il pianto di un neonato lo riscosse, distolse lo sguardo dal corpo inanimato della madre e lo posò sul piccolo fagotto che Louise teneva tra le braccia.
Un lampo di rabbia attraversò il suo sguardo: che se ne faceva del figlio di una puttana morta?
Louise intuì la sua collera e fece un passo indietro, spaventata – Che ne facciamo della bambina, signor Lapierre?-
La fredda logica gli diceva di disfarsene, gettarla in un cassonetto e non pensarci più. Con un po’ di fortuna qualcuno l’avrebbe trovata, altrimenti … il mondo era già abbastanza affollato, un disperato in più, uno in meno, chi se ne sarebbe accorto?
Si avvicinò a Louise pallida e spaventata, immaginò che Lily le avesse chiesto di prendersi cura della figlia, ma, alla fine, Louise avrebbe fatto quello che voleva Kobe.
La vita di quella bambina dipendeva da lui. Solo da lui.
Scostò la coperta che copriva il viso della neonata, era sveglia, gli occhi spalancati, incredibilmente verdi, fissi su di lui.
Non piangeva né si muoveva, lo guardava con aria solenne … era sciocco pensare che un neonato potesse avere un’aria solenne, eppure fu quella l’impressione che gli diede: la vita di quella bambina dipendeva da lui e lei lo sapeva.
Prese un respiro profondo – Trova qualcuno che possa farle da balia. La terremo con noi.- Louise non riuscì a trattenere un sorriso di sollievo e la strinse al petto, felice.
- Non dovremo occuparci di lei a lungo.- lo rassicurò Louise – Solo tre anni o poco più, poi suo padre tornerà e la porterà via.-
Kobe voltò le spalle alla donna e alla bambina che teneva in braccio, si avvicinò al letto su cui giaceva il suo giglio, affondò le dita in quei capelli rossi che l’avevano resa tanto speciale – Nessuno se ne va da questo posto. Dovresti saperlo, Louise.-
- Lo so, ma Lily era convinta che …-
- Sophie.- la interruppe, bruscamente – Si chiamava Sophie. E qualunque cosa credesse non ha più importanza ormai.-
Louise non replicò e uscì dalla stanza portando via la vita e lasciando solo la morte.
Kobe incrociò quegli occhi color ambra su cui sembrava essere scesa, finalmente, un po’ di pace – Sono un uomo marcio per metà .- dichiarò con orgoglio – Solo per metà. –

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Capitolo 3
*** Un nemico da odiare ... ***



Atene, gennaio 2158
 
Il primo giorno dell’anno 2158 sembrava annunciare la fine del mondo. Pioveva ormai da tre giorni, ininterrottamente, la pioggia tanto fitta da impedire allo sguardo di scorgere ciò che si nascondeva dietro all’acqua incessante. Il vento, gelido vento, s’insinuava nelle strade, facendo tremare gli alberi e investendo col suo sinistro ululato le case buie e silenziose. I festeggiamenti per il nuovo anno si erano finalmente conclusi e, per le strade, c’erano solo vuote bottiglie di vino e festoni fradici che si perdevano in una mattina buia come la notte.
Piazza Syntagma era vuota, sul selciato rimanevano solo i rifiuti dei pochi coraggiosi che si erano spinti fin lì per festeggiare l’arrivo di un nuovo anno, ma persino i festaioli più irriducibili infine si erano dovuti arrendere di fronte alla tempesta che, sola, era rimasta padrona della piazza.
Nel silenzio di una città addormentata due figure si muovevano, rapide e silenziose, due ombre appena accennate nel pallido riverbero dei lampioni.
Attraversarono la piazza a passo rapido, una donna minuta avvolta in un mantello troppo grande e sgualcito, seguita dappresso da una piccola figura, gracile e sottile come un folletto, il viso nascosto da una brutta sciarpa di lana e da una cuffia tanto larga da scendere a coprirle gli occhi.
La donna si avvicinò ai gradini del Parlamento, osservò l’edifico con aria polemica, una smorfia di disgusto dipinta sul viso, poi distese un foglio di plastica sui gradini e vi si sedette, attirando a sé la bambina, incurante della pioggia che scendeva fitta a bagnarle fin nelle ossa.
Estrasse una fotografia dalla tasca e la fissò a lungo, come per imprimersi l’immagine nella memoria, la strinse al petto, per proteggerla dalla pioggia, e cominciò a scrutare i dintorni, in attesa.
La bambina si appoggiò a lei, il pollice in bocca e l’aria confusa, ma non disse niente né si lamentò del freddo e dell’acqua; rimase immobile nei suoi vestiti troppo grandi che ben presto diventarono zuppi.
Il tempo scorse lento, con il grande orologio a segnare le ore sempre uguali a se stesse. La città cominciò a rianimarsi, ma nessuno pareva intenzionato ad affrontare la pioggia e il vento, i pochi che si avventurarono in piazza l’attraversarono di corsa, i visi sprofondati nel collo dei giubbotti, gli sguardi bassi che mai si posavano sulla donna e la bambina ferme sotto la pioggia.
Un paio di volte la donna si alzò, lasciando la bambina di guardia al telo di plastica, e si avvicinò a un passante nascosto nella sciarpa. Entrambe le volte domandò loro qualcosa, mostrò la fotografia, ma ricevette solo sguardi diffidenti e secchi cenni di diniego e lei tornava al suo posto, a capo chino, il viso pallido e smunto, si sedeva sul telo e tirava a sé la bambina per proteggerla e proteggersi dal vento implacabile.
Per tutto il giorno rimasero sedute sotto la pioggia, la donna con la fotografia in mano e la bambina con il dito in bocca. Nessuno si fermò, nessuno le guardò e l’uomo ritratto nella fotografia non arrivò.
Infine, prima che il giorno finisse, la donna scosse il capo, rassegnata, e si alzò. Raccolse il telo, prese la bambina per mano e, dopo aver gettato un’ultima, lunga, occhiata alla piazza deserta se ne andò.
L’anno dopo fece ritorno e quello dopo ancora e anche il successivo. La donna e la bambina rimasero ferme sui gradini del Parlamento in piazza Syntagma ad Atene mentre la vita scorreva davanti a loro che aspettavano, l’una con la fotografia in mano e l’altra col pollice in bocca, qualcuno che non arrivò mai.
 

Atene, gennaio 2170
 
Quando Sasha compì dieci anni Louise si arrese: quell’uomo che forse era suo padre non sarebbe arrivato. Forse era morto, o, più probabilmente, si era dimenticato della promessa fatta ad una puttana greca; ma se Louise era convinta che nessuno sarebbe arrivato a prendere quella bambina orfana per portarla tra le stelle, Sasha non si diede per vinta. Quando Louise decise che non l’avrebbe più accompagnata in piazza Syntagma per incontrare un uomo che non sarebbe mai arrivato, Sasha decise che ci sarebbe andata da sola. Con le dita strette attorno alla fotografia dell’unico padre che poteva sperare di avere, andò a sedersi sui gradini del Parlamento, il primo giorno di ogni anno.
Il primo gennaio 2170 era lì, in attesa di un uomo che non sarebbe arrivato nemmeno quell’anno, lo sguardo fisso sulle lancette dell’orologio che stava per scoccare la mezzanotte. Era rimasta seduta su quei gradini tutto il giorno, come ogni anno, e lui, il padre che stava aspettando da tutta la vita, non era arrivato.
Quando l’ultimo rintocco della mezzanotte risuonò nella piazza ormai deserta, rimise la fotografia in tasca e si alzò, il viso mesto e gli occhi bassi.
Mentre sopra di lei le astroauto sfrecciavano sopra quella città antica come antico era il mondo, camminò a testa bassa, le mani sprofondate nelle tasche, lungo strade che diventavano via via più misere, mentre il progresso si trasformava in degrado e la civiltà sprofondava nella barbarie.
Nessuno osò importunare quella ragazza smilza coi capelli rossi tagliati corti e lo sguardo adombrato; nei quartieri ricchi la gente la scansava guardando con diffidenza gli anfibi pesanti e il giubbotto militare, macchiato e strappato, nei quartieri poveri borseggiatori e tagliagole la riconoscevano come una di loro: un’anima sporca come le strade che attraversava.
I suoi passi la condussero davanti a un bar sgangherato con la saracinesca semi abbassata e l’insegna accesa per metà, passò sotto l’inferriata e spinse la porta a vetri sporca e appannata. Una zaffata calda che puzzava di fumo, alcol e sudore stantio la investì, assieme alle risate di uomini ubriachi e al vociare indistinto di donne sguaiate.
Si fermò sulla porta a braccia conserte, contemplando, con un misto di affetto e disgusto, quel luogo che era il suo mondo.
Il pavimento di linoleum, che era stato giallo negli anni di gloria, ora aveva assunto un colorito marrone che rendeva difficile capire dove iniziasse la sporcizia e finisse il pavimento. Il lungo bancone di legno era graffiato e scrostato, sulle traballanti sedie spaiate, davanti a boccali stracolmi di densa birra scura, erano seduti uomini senza età, gli uni uguali agli altri, con i bicipiti coperti di tatuaggi e le nocche graffiate dalle risse. Tra le donne c’era più varietà, alcune sfoggiavano cicatrici e nasi rotti, i capelli rasati e i volti induriti dalla vita; le cameriere passavano tra i tavoli, ignorando le mani che si alzavano a toccarle, stanche e trasandate nelle corte divise macchiate di birra e caffè; poi c’erano le altre, tutta una varietà di donne che orbitavano attorno a uomini violenti, convinte di non meritare nulla di meglio, che scambiavano la gentilezza per debolezza, certe che il loro unico scopo nella vita fosse quello di ancheggiare tra i tavoli, strette in pantaloni elasticizzati o in vestiti coperti di lustrini.
Dalla stanza sul retro provenivano i colpi delle stecche che colpivano le palle da biliardo, sovrastando i suoni di uno sgangherato televisore che da dietro il bancone dominava la sala con immagini che parlavano di una realtà che non esisteva.
C’era qualcosa di ributtante in quelle immagini patinate di navette spaziali, mondi lontani e alieni sconosciuti, era stomachevole osservare le meraviglie della Cittadella immersi in una nuvola di fumo acre, in piedi sulla soglia di una sgangherata bettola senza finestre.
Sasha non dubitava che quei mondi intravisti alla televisione esistessero davvero, la Cittadella, le colonie, le navi spaziali e gli alieni erano reali come gli ubriachi accasciati sul bancone di quel bar. Erano reali per alcuni, ma non per lei. Loro avevano le stelle e lei aveva quello.
C’era il loro mondo e il suo.
Mondi che non si sarebbero mai incrociati né sfiorati, troppo diversi e lontani per curarsi l’uno delle sorti dell’altro.
A sedici anni Sasha aveva già capito qual era il suo posto e se anche continuava a sperare che suo padre, un giorno, arrivasse per portarla via, era ben consapevole che si trattava di un sogno e nient’altro, una piccola parentesi che si apriva e si chiudeva il primo giorno dell’anno.
Se voleva cambiare il suo futuro, se voleva diventare altro che una teppista da quattro soldi, era da lì che doveva cominciare, da quella bettola con le luci spente a metà, senza finestre e satura di fumo. Le stelle erano solo un miraggio lontano.
Scrollò le spalle e si scostò dalla porta, avvicinandosi a un tavolino in disparte occupato da due tizi che si spartivano un hamburger e bevevano birra.
- Come va, stupidi bestioni?- li salutò Sasha. Fece pugno contro pugno con entrambi e scostò una sedia, sedendosi tra loro.
Curt Weisman era un irlandese talmente pieno di lentiggini da sembrare abbronzato, anche le mani chiare erano completamente chiazzate e Sasha sapeva per esperienza che non aveva un centimetro di pelle che non fosse coperto di efelidi; ma lentiggini e capelli rossi erano tutto quello che avevano in comune. Di tipi come Curt, più violenti che intelligenti, ce n’erano a bizzeffe in quell’angolo oscuro di mondo; lui sarebbe rimasto Curt Weisman, lo spacciatore del quartiere, finché qualcuno di più grosso e scaltro di lui non gli avesse piantato un coltello in pancia lasciandolo a marcire per strada. Si erano divertiti insieme per un po’, ma se Sasha voleva diventare qualcosa di più che la sgualdrina di un fallito non era certo con Curt che doveva allearsi.
Diòs Gianniotis era diverso; poco più grande di lei, con spalle e braccia larghe, i capelli neri trattenuti in una coda e gli occhi di due colori diversi, era certamente più intelligente e astuto di Curt, e per questo, molto più pericoloso. Solo un idiota si sarebbe fidato di un tipo come lui.
Le sorrise quando si sedette e l’aiutò a togliersi il giubbotto, Curt storse il naso di fronte a quel gesto d’incomprensibile galanteria.
Diòs ignorò il compagno e si sporse verso di lei, il sorriso spavaldo che non accennava a sparire – Dov’eri finita, ragazzina?- le lanciò un’occhiata complice - Sogni ancora di scappare tra le stelle?-
Lei allungò le braccia nude sul tavolo, sull’avambraccio spiccava lo stesso tatuaggio che gli altri due sfoggiavano, l’uno sul collo, l’altro sul dorso della mano: il numero dieci scritto in caratteri romani.
- Fatti i cazzi tuoi, Diòs. Dove vado e caso faccio non ti deve interessare.-
- Ma interessa a me. –
Raul Castillo appoggiò un sacchetto di plastica sul tavolo e si sedette sull’unica sedia rimasta vuota. Aveva appena allungato le lunghe gambe sotto il tavolo che una cameriera arrivò, quasi di corsa, con una bottiglia di rum e un bicchiere, li posò davanti all’uomo che la squadrò in silenzio, con quei suoi occhi neri, inquietanti e spietati.
Quando la cameriere se ne fu andata, Raul si portò il bicchiere alle labbra e posò il suo sguardo su Sasha in attesa di una risposta.
Tutto in lui, dal suo aspetto, alla postura, fin tanto al modo in cui era vestito, trasudava potere e ferocia. Aveva il volto scavato, fiero e austero, le sopracciglia sottili ed arcuate sui grandi occhi neri e impetrabili. I capelli neri, appena spruzzati di grigio, avevano iniziato a retrocedere sulle tempie, formando una punta di lancia affilata come il suo naso.
Nessuno sano di mente avrebbe mai osato sfidare Raul Castillo.
Sasha deglutì, a disagio, mentre tutta la spavalderia di poco prima sfumava e lei si ricordava di non essere che una ragazzina di sedici anni con nulla da offrire se non la sua vita – Sono solo andata a farmi un giro. – borbottò, abbassando lo sguardo sulle proprie mani intrecciate.
Raul si sporse verso di lei e appoggiò l’indice sul tatuaggio che le marchiava l’avambraccio – Nessuno ti porterà via di qui, ragazzina. Nessuno, tranne me. Io sono la tua unica …- guardò gli altri - … la vostra unica possibilità di avere una vita diversa. – strinse le dita intorno al suo braccio e la tirò a sé piantando quegli occhi senza fondo nei suoi – Sono l’unico padre che mai avrai, quando hai deciso di far parte della mia banda sei diventata una mia proprietà. È a me, e a me soltanto, che devi la tua fedeltà: non all’uomo che ti ha generato, né a Kobe e alle sue puttane. Mi hai capito, ragazzina?-
Sasha sfuggì il suo sguardo, incapace di sostenerlo – Sì, capo, ho capito.-
Lui le lasciò andare il braccio e si portò il bicchiere alle labbra – Brava la mia ragazza. Fai come ti dico e diventerai una regina, disobbediscimi e questo posto ti sembrerà il paradiso in confronto all’inferno in cui ti spedirò. – il viso cesellato dell’uomo si aprì in un sorriso smagliante che però non raggiunse gli occhi, quelli rimasero duri e spietati come quelli di una bestia selvatica – Bene, ora che ci siamo chiariti, direi di passare alle cose serie.- indicò con un cenno il sacchetto sul tavolo – Forza Diòs, aprilo: vediamo cosa c’è dentro.-
Il ragazzo finì di bere la sua birra con aria insolente, Raul inarcò un sopracciglio ma non disse niente. Castillo detestava gli insolenti, ma con Diòs faceva un’eccezione. Qualcuno sosteneva che fosse perché gli ricordava se stesso da giovane.
Sasha non sapeva se fosse vero o no, ma non le riusciva difficile immaginare Diòs a capo della banda. Una ragione in più per farselo amico e tenerlo d’occhio.
Diòs posò il boccale vuoto e ruttò poderosamente, poi, finalmente, prese il sacchetto e lo aprì, gli si illuminarono gli occhi quando ne vide il contenuto.
Come un prete di fronte a una reliquia sacra, estrasse dalla borsa tre pistole di ultima generazione, piccole e compatte, e le mise in fila sul tavolo.
Non tentò nemmeno di essere discreto, in quel locale tutti, in un modo o nell’altro, appartenevano a Castillo.
Curt fischiò, ammirato, e persino Sasha non riuscì a soffocare un’esclamazione di sorpresa – Per la puttana, Raul, dove hai preso questa roba?- mormorò, sgranando gli occhi, prese una pistole e se la rigirò tra le mani, con riverente timore – Questa è una Striker X, è un equipaggiamento da Forze Speciali!-
Raul sorrise, compiaciuto, incrociando le braccia al petto – Vedo che hai fatto i compiti, ragazzina. Questa roba ce l’ha solo l’esercito … e noi.-
Diòs appoggiò i gomiti sul tavolo – Cosa dobbiamo fare, capo?- domandò, a bassa voce. Che gli altri sapessero delle armi era un conto, ma nemmeno Castillo si poteva permettere di far sapere a tutti i suoi piani.
La Banda della Decima Strada non era l’unica banda della città.
Una cameriera passò accanto al tavolo e Raul attirò la sua attenzione con una pacca sul sedere, la donna sobbalzò e un lampo infastidito attraversò il suo sguardo, ma si costrinse a sorridere – Cosa posso portarle, signor Castillo?-
- Ho voglia di ascoltare una canzone, Rose, perché non ci allieti con la tua splendida voce?- non era una richiesta.
La donna sorrise, appoggiò il vassoio sul tavolo vicino e, dopo essersi rassettata i capelli, salì sul piccolo palco in fondo al locale, un’altra ragazza si sedette al pianoforte e, quando la musica partì, Rose iniziò a cantare.
Aveva davvero una splendida voce.
Mentre l’attenzione di tutti era concentrata sulla donna che cantava, Raul si chinò verso di loro, la voce appena udibile, coperta dalle note del pianoforte – Ho saputo di uno scambio, domani sera alle dieci, in uno degli hangar dell’astroporto: armi aliene in cambio di eezo e droga terrestre. –
Curt si accigliò – Armi aliene?-  Raul lo fulminò con lo sguardo: odiava essere interrotto. Ma Curt non capì l’antifona e sputò per terra – Ne ho abbastanza degli alieni e delle loro stronzate. Non dovresti interessarti di quella roba, capo. -
Castillo scosse il capo, esasperato – Guarda lì, idiota.- strinse il suo collo in una morsa e lo costrinse a rivolgere lo sguardo verso il televisore che, ignorato, continuava a trasmettere immagini di mondi sfavillanti e meraviglie tecnologiche – Quello è il futuro e se vogliamo farne parte dobbiamo giocare a questo gioco, che ci piaccia o no. Gli alieni sono più avanzati di noi, questi … giocattoli ... - sollevò la pistola con aria disgustata - … è il massimo che la nostra tecnologia può realizzare. Gli alieni ridono di noi!- ringhiò spingendo in avanti la testa del ragazzo prima di lasciare la presa.
Curt si massaggiò il collo – Non facevano tanto gli splendidi durante la Guerra del Primo Contatto.- biascicò, troppo stupido per capire quando tacere – Gli abbiamo fatto il culo …-
Raul picchiò il pugno sul tavolo, il suo viso non tradì nessuna emozione, rendendo ancora più inquietanti quei suoi occhi neri come la fossa dell’inferno – I Turian avrebbero conquistato la Terra se il Consiglio …- pronunciò quella parola come un insulto - … non li avesse fermati. E ora noi saremmo i loro schiavi … oh sono certo che l’umanità non si sarebbe fatta schiavizzare molto facilmente, avremmo reso la vita dura per quei maledetti Skullface, ma loro avrebbero vinto e noi perso.- si passò la lingua sulle labbra, come un lupo che si appresta a divorare la preda – Gli alieni ci hanno dato una possibilità, ci considerano parte della galassia. Si sbagliano: noi la domineremo, ma non è ancora il momento. Dobbiamo sfruttare l’ingenuità degli alieni: prenderemo le loro armi, ci introdurremo nei loro commerci, in tutti i loro commerci, scaleremo i vertici del potere galattico e quando saremo arrivati in cima, allora, solo allora, li colpiremo con tutto quello che abbiamo. – si sporse sul tavolo, il viso a un millimetro da quello di Curt che lo fissava, immobile e terrorizzato – Hai capito, adesso, perché quella roba ci interessa?-
L’altro si affrettò ad annuire.
Castillo si rilassò sulla sedia, facendo circolare lo sguardo sugli altri due, invitandoli a interromperlo di nuovo, nessuno si azzardò a fiatare – Quella roba però non interessa solo a me. La Banda del Teschio Rosso, quei luridi pezzenti, hanno deciso di fare il grande balzo.- strinse le mani a pugno - Vyalov, quel coglione, pensa di fregarmi rivolgendosi direttamente ai Turian e immettendo armi aliene sul mercato.- mostrò i denti in un sorriso simile a un ringhio – Io sono un uomo tollerante e paziente, ho sopportato Vyalov e la sua ridicola banda abbastanza a lungo, ma la mia pazienza è finita. Voglio che andiate in quell’hangar, voglio che facciate una strage e che prendiate quelle armi. Le mie armi.-
Curt annuì, senza capire nemmeno perché lo faceva, ma Diòs e Sasha si scambiarono uno sguardo preoccupato, finché Diòs non trovò il coraggio di parlare – Vuoi che ammazziamo tutti? Anche gli alieni?-
Gli occhi di Raul brillarono – Soprattutto gli alieni.-
Rose smise di cantare e, quando i fischi e gli applausi cessarono, nella sala calò un inquietante silenzio, come se tutti avessero capito che, al tavolo nell’angolo, stava succedendo qualcosa di grosso.
- Il locale è chiuso.- annunciò Raul senza voltarsi né alzare troppo la voce – Andate da un’altra parte.-
Nessuno lo smentì, né le cameriere né, tantomeno, il barista, nei pochi minuti che furono necessari per svuotare il bar si udì solo il rumore delle sedie che scostavano e dei passi che si dirigevano all’uscita.
Infine rimasero soli.
Diòs si umettò le labbra, a disagio, mentre tutta la spavalderia di poco prima svaniva di fronte a quell’innocente sfoggio di potere: nessuno contraddiceva Raul Castillo.
L’uomo si versò un altro bicchiere di rum e si rivolse a Diòs con gentilezza - Avanti, ragazzo, parla. Che cosa non ti convince?-
Diòs si guardò intorno, spaventato e preoccupato, Sasha poteva vedere il sudore imperlargli la fronte.
Debole pensò.
Incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo schienale della sedia – Se vuoi diventare amico degli alieni, che senso ha ucciderli?-
Raul la terrorizzava, ma nascose la paura dietro la spavalderia. Castillo era come un cane rabbioso: se fiutava la paura diventava implacabile.
Un sorrisino compiaciuto increspò le labbra sottili dell’uomo – Hai fegato, ragazza.- constatò, appoggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi verso di lei – Molto più di questi due.-
Curt tenne lo sguardo basso, ma negli occhi asimmetrici di Diòs passò un lampo d’ira; Sasha si domandò se si fosse appena fatta un nuovo nemico.
- Ti sbagli, Sasha, io non voglio la loro amicizia: voglio il loro rispetto. - affermò l’uomo, ignorando la piccola faida che si era appena aperta tra i suoi uomini – Voi ucciderete tutti gli alieni che troverete nell’hangar, tutti, tranne uno. Non importa chi sia, basta che possa trasmettere un semplice messaggio: questa città è mia.- strinse le mani a pugno, gelido e altero come le statue che amava collezionare nella sua villa sul mare – I Turian si sono rivolti al Teschio Rosso e questo è inaccettabile. Che portino pure droga, armi e mercenari, ma è con me che devono trattare. Non con il governo, non con le altre bande: solo ed esclusivamente con me. Nella mia città, valgono le mie regole: se fai affari con altri, muori. – si strinse nelle spalle con noncuranza – Non è un concetto difficile, persino i Turian dovrebbero capirlo.-
Sasha sapeva che al quel punto avrebbe dovuto annuire e aspettare istruzioni, ma la lode di Castillo l’aveva resa spavalda e non riuscì a frenare la lingua – E se, invece, non accettano le tue regole? Se preferiscono andarsene da un’altra parte e fare affari con qualcun altro? – bevve un sorso di birra per darsi coraggio – Lo hai detto tu, no? Loro ci servono più di quanto noi serviamo a loro.-
Diòs l’afferrò per il gomito, rosso in volto come se avesse appena proferito il peggiore degli insulti – Dovrei strapparti la lingua, ragazzina!-
Inaspettatamente, però, Raul scoppiò a ridere – Non ti agitare, Diòs. Non sarà certo una ragazzina, per quanto sveglia, a mettermi in difficoltà: strappare la lingua a qualcuno non serve a niente, se non a dimostrare che hai paura di quello che potrebbe dire.- lanciò a Diòs uno sguardo di benevolo compatimento – Fortunatamente non ho bisogno di tali espedienti per farmi rispettare. – riportò la sua attenzione su Sasha e qualcosa nel suo sguardo le disse che non avrebbe tollerato altre obiezioni – Se si trattasse di qualcun altro ti darei ragione, ma sono Turian e i Turian rispettano la forza più di qualunque altra cosa. La forza, non la violenza. Non sono selvaggi assetati di sangue, non amano torture e carneficine, la violenza gratuita li offende, ma capiscono, direi anzi che apprezzano, le punizioni. Casa mia, regole mie: se violi le mie regole è alla mia giustizia che devi rendere conto; se fai affari con i miei nemici, io ho tutto il diritto di punirti.- incrociò le braccia al petto, appoggiandosi allo schienale, soddisfatto – I Turian non si offenderanno, anzi, mi rispetteranno per questo. –
Nel bar deserto scese il silenzio, persino Curt sembrava impressionato da quel discorso. Sasha si scoprì ad ammirare la fredda logica di Raul, quando aveva dato quell’ordine aveva pensato che agisse sospinto dalla rabbia nei confronti di chi aveva osato sfidarlo, ora capiva che c’era molto di più dietro al suo desiderio di vendetta. Forse era stato persino lui a spingere quelli del Teschio Rosso nella braccia dei Turian, Vyalov non era uno stupido, non avrebbe mai sfidato apertamente Castillo, a meno che non avesse avuto l’impressione di riuscire a farla franca.
Rivolse a Raul uno sguardo che rasentava l’adorazione: era così che voleva diventare, astuta e spietata, con il potere di vita e di morte su chiunque si fosse messo sulla sua strada. Era la cosa più simile alla libertà che riuscisse a concepire.
Castillo colse il suo sguardo e il suo volto, solitamente imperscrutabile, parve ammorbidirsi, bonariamente compiaciuto. Capì che non si sarebbe offeso se gli avesse fatto un’altra domanda, aveva imparato da tempo che gli uomini non era molti diversi dai cani: se lusingato perfino il più feroce dei mastini smette di ringhiare.
- Come sai tutte queste cose sui Turian?- domandò, cercando di mostrarsi deferente e impressionata, non dovette sforzarsi troppo. Lo ammirava davvero.
Diòs grugnì, infastidito e Curt le tirò un calcio d’avvertimento, sotto il tavolo, ma lei non si fece intimidire e sostenne lo sguardo greve di Castillo. Infine l’uomo che era a capo della più potente banda della città sorrise.
Non il sorriso compiaciuto che si era aspettata, un altro tipo di sorriso. Era il sorriso di uno uomo che non si lasciava circuire da deboli lusinghe – Tu mi piaci Sasha, ma stai attenta: chi si avvicina troppo al fuoco finisce col bruciarsi.- versò un piccolo sorso di rum nel bicchiere e lo spinse verso di lei – Ma il coraggio, di tanto in tanto, va premiato.- il viso di Diòs era una maschera di disgusto e Sasha gli scoccò uno sguardo trionfante mentre si portava il bicchiere alle labbra – Come so tutte queste cose sui Turian mi chiedi? Non sarei qui se non avessi imparato a conoscere i miei nemici. Una volta qualcuno mi disse che la conoscenza è potere.- si strinse nelle spalle – Si sbagliava: il potere è potere. Ma la conoscenza aiuta sempre. Se imparerai a rispettare il tuo nemico, a conoscerne forza e debolezze, allora sarai più vicina a sconfiggerlo. – appoggiò le mani sul tavolo e si alzò, segno che, questa volta, la conversazione era davvero finita.
Si frugò nelle tasche ed estrasse tre rotoli di banconote che lanciò sul tavolo con noncuranza – Questo è il vostro compenso per il lavoro dell’altra sera. Diòs, vuoi accompagnarmi? – chiaramente non era una domanda e Diòs si affrettò ad alzarsi, il viso volitivo adombrato da un’espressione solenne.
Raul si avviò verso l’uscita, ma sulla porta si fermò – Un’ultima cosa, Curt.- ogni traccia di gentilezza era scomparsa dalla sua voce – Deve essere un lavoro pulito. Voglio quei Turian morti, certo, ma dignitosamente. Sai cosa significa questa parola?-
Curt contrasse la faccia ma annuì – Sì, capo.-
Senza dire altro l’uomo uscì dal locale con Diòs alle calcagna.
Non appena se ne furono andati Sasha sentì la tensione allentarsi, si stiracchiò e intascò i soldi con aria compiaciuta, la prospettiva di partecipare finalmente alla vera azione l’elettrizzava. Fino a quel momento aveva sempre svolto solo lavoretti secondari, qualche furtarello e un paio di pestaggi, nulla di particolarmente eccitante. Ma questa volta … questa volta potrò dimostrare il mio valore e avrò il rispetto della Banda.
- Questa storia non mi piace.- bofonchiò Curt alzandosi goffamente, col boccale vuoto in mano.
Sasha sobbalzò, si era completamente dimenticata di lui – Perché non puoi divertirti a strappare i tentacoli degli alieni?-
Curt sbuffò – I Turian non hanno tentacoli. Però mi sarebbe piaciuto strappargli via qualcuna di quelle creste.-
Sasha distolse lo sguardo, a disagio.
Non aveva mai visto Curt in azione, ma aveva sentito i resoconti degli altri e, una volta, lui stesso gli aveva parlato dell’impresa di cui andava più fiero. Gli aveva descritto ogni cosa, nei dettagli.
Era stato dopo quel racconto che aveva deciso di rompere con lui, non che avesse mai avuto bisogno di molti incentivi per farlo.
Curt era un violento, non passava giorno senza che venisse coinvolto in qualche rissa e persino i poliziotti avevano imparato a temerlo ma non era la violenza a turbare Sasha. Non quella violenza.
Ci era abituata; cazzotti e morti ammazzati erano all’ordine del giorno in quella parte della città. Lei stessa non disdegnava una bella scazzottata di tanto, e se talvolta saltava fuori un coltello e qualcuno non si rialzava … beh l’unica persona che aveva lasciato sull’asfalto, in una pozza di sangue, se l’era andata a cercare. Era la guerra.
Non una guerra dichiarata, non c’erano campi di battaglia ed eserciti schierati, ma loro, soldati senza vessilli di una guerra senza ideali, cadevano comunque, a centinaia.
Alzò lo sguardo verso il televisore che stava trasmettendo una pubblicità dell’Alleanza: “Unisciti alla flotta”, diceva la scritta a caratteri cubitali che lampeggiava sullo schermo “difendi l’umanità”.
Sasha storse la bocca. Non aveva mai visto nessun soldato dell’Alleanza da quelle parti, non avevano il fegato di scendere fin lì, in quel mondo dimenticato che puzzava di piscio e merda. Eppure l’umanità era anche quello, lei era umana ma nessun soldato si era mai battuto per lei, aveva dovuto imparare a difendersi da sola. Nemmeno suo padre era venuto a salvarla.
Riportò l’attenzione su Curt che si stava servendo da solo al bancone del bar, le ritornò in mente il suo sguardo eccitato e lascivo, mentre le raccontava quello che aveva fatto; per la prima volta aveva capito la differenza tra sadismo e violenza.
Curt godeva del dolore degli altri, per lui era eccitante come e più del sesso, e si era sentita contagiata dalla sua depravazione come da una malattia infetta. Ancora adesso non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di essere uguale a lui, per il semplice fatto di esserci andata a letto.
- Castillo non dovrebbe fare affari con quelle aragoste. Sono degli abomini.-
Lo sei anche tu.
Non lo disse, non era così stupida.
Nemmeno lei andava matta per gli alieni, ma l’odio di Curt, quella follia sanguinaria che lo colpiva quando vedeva gli alieni, la terrorizzava. Si chiese se l’indomani sarebbe riuscito a trattenersi …
“Ho cominciato con gli occhi. Ne aveva quattro perciò è stato un lavoro lungo. Molto lungo. Dovevi sentire come urlava.”
Strinse le dita attorno al bordo del tavolo – Da dove viene tutto quest’odio, Curt? Cosa ti hanno fatto gli alieni?-
Curt bevve un lungo sorso di birra – I miei genitori abitavano a Shanxi, mi mandarono sulla Terra, da degli zii, durante la Guerra del Primo Contatto. Loro rimasero sul pianeta, potevano permettersi un solo biglietto.- si asciugò le labbra con il dorso della mano mentre il suo sguardo rimaneva fisso nel vuoto, aggrappato a ricordi che nemmeno il tempo aveva reso più sopportabili. Sasha abbassò lo sguardo: sapeva poco di quella guerra combattuta tra le stelle, e non sapeva niente della vita di Curt prima di diventare quello che era – Quando i Turian attaccarono Shanxi non fecero distinzioni tra civili e soldati, uccisero tutti, indistintamente; dei miei genitori non ebbi più notizie.- le rivolse uno sguardo torbido, appannato dall’alcol e dall’ira – Non ho potuto salvarli, ma posso vendicarli.-
Sasha distolse lo sguardo, incapace di sostenere tutto quell’odio, tutto quel dolore. Non aveva mai considerato Curt come un uomo capace di provare qualcosa, non si era mai chiesta cosa ci fosse nel suo passato, troppo impegnata a contemplare quello che non c’era stato nel suo.
Si chiese che uomo sarebbe diventato sei Turian non fossero mai comparsi nei cieli di Shanxi.
Ma ormai era tardi per pensare ai “se” o ai “ma”, Curt era diventato un uomo malvagio e Shanxi il simbolo dell’umanità sconfitta.
- Questo spiega il tuo odio per i Turian, ma tu non fai differenza tra loro e gli altri abitanti della galassia.-
- E perché dovrei?- ringhiò Curt con voce impastata – Nessuno fece differenza tra i miei genitori e i soldati. E non mi pare che le Asari, i Salarian o i Batarian fecero qualcosa per proteggere Shanxi. – il ragazzo fece il giro del bancone e si avvicinò a lei, ondeggiando sulle gambe malferme, si appoggiò al tavolo, prendendole le mani tra le sue – Ricordati questo, Sasha, quando sarai di fronte a uno di loro: gli alieni non sono umani. Loro non sono come noi, non dimenticarlo mai, perché altrimenti prenderanno tutto ciò che ami e se lo porteranno via.-
Curt era ubriaco eppure non l’aveva mai visto così serio, credeva ciecamente in ogni parola che gli usciva dalle labbra ed era convinto, assolutamente ed irrimediabilmente convinto, che ciò che i Turian avevano fatto alla sua famiglia giustificasse gli indicibili orrori che aveva compiuto in nome di una vendetta corrotta. Sasha sapeva che nulla avrebbe mai giustificato le sue azioni, eppure, da qualche parte nei recessi oscuri del suo spirito trovò un briciolo di comprensione per quel ragazzo che era entrato nel suo letto e mai nel suo cuore.
Si chiese che cosa sarebbe diventata lei al suo posto: una madre morta e un padre assente erano bastati per trasformarla in una criminale, di fronte a una famiglia sterminata in guerra che cosa sarebbe diventata?
Si concesse una scrollata di spalle e un finto sorriso spavaldo – Se è come dici non ho da temerli: che cosa possono portarmi via? Non ho niente e nessuno.-
Gli occhi sottili, slavati, di Curt incrociarono i suoi – Tu credi di non avere nessuno solo perché tua madre è morta e non conosci tuo padre, ma ti sbagli: le persone come te hanno molto da perdere. Louise, quella vecchia puttana che ti ha fatto da madre, o Kobe che ti ha lasciato vivere quando avrebbe potuto gettarti nel mare …- Sasha si accigliò: era un avvertimento o una minaccia? - … tu hai ancora tutto da perdere, ragazzina.- si sporse verso di lei, posandole un bacio umido, viscido, sull’angolo della bocca. Sasha si scostò con una smorfia – Vattene, Curt.-
Un lampo d’ira distorse quei lineamenti ordinari, cosparsi di lentiggini, e Sasha temette che l’avrebbe colpita. D’istinto la mano corse al coltello che portava alla cintura, ma non dovette usarlo. Curt si raddrizzò, le fece l’occhiolino e ruttò poderosamente, andando a riempirsi nuovamente il boccale che svuotò con un’unica, ampia, sorsata; poi liberò la vescica contro la parete e caracollò verso l’uscita, non prima di aver ripulito minuziosamente la cassa.
Sasha lo guardò andarsene con sollievo. Stare accanto a lui, parlare con lui, la faceva sentire sporca e corrotta … troppo spesso si scopriva a condividere le sue parole, spingendola a chiedersi se, dopotutto, non erano uguali loro due.
Si passò una mano tra i capelli, così corti che a stento riusciva ad infilarci le dita, sotto i polpastrelli sentì i bozzi e le cicatrici di una vita passata per le strade.
Ripensò alle parole di Curt, all’espressione di Curt. L’odio, il dolore, la rabbia … riusciva a capirli e questo le faceva paura. Quanto tempo le rimaneva prima di diventare come lui? Prima di non avere altro che l’odio a sostenerla …
- Interrompiamo il programma per un’edizione speciale del telegiornale galattico.- Sasha alzò lo sguardo verso la televisione, dove il programma di musica era stato bruscamente interrotto dal notiziario – È appena giunta notizia di un attacco pirata contro la colonia umana di Mindoir.- annunciò il mezzobusto con voce tetra – In mattinata gli schiavisti Batarian hanno assaltato il pianeta, radendo al suolo la colonia e massacrando o deportando i suoi ventimila abitanti. Le navi dell’Alleanza sono giunte sul pianeta hanno trovato solo cadaveri e macerie. – Sasha affondò le dita nel legno morbido del tavolo mentre il giornalista fissava la telecamera con aria sconsolata – La colonia di Mindoir e i suoi abitanti non esistono più.  – dopo una breve pausa e un sospiro l’uomo continuò – Le immagini che stiamo per trasmettere sono estremamente cruente, ne sconsigliamo la visione ad un pubblico impressionabile.-
Lentamente le immagini cominciarono a scorrere sullo schermo, dapprima i campi bruciati e le fattorie distrutte, il fumo che saliva piano dai tetti diroccati. Doveva essere stato un luogo pacifico, sereno, un luogo perfetto da chiamare casa. Ma questo prima. Prima dei Batarian. Prima degli alieni.
Man mano che la telecamera si addentrava tra le case le immagini divennero sempre più brutali, persino Sasha che era abituata al sangue e alla violenza sentì la bocca riempirsi di fiele.
Le strade erano lastricate di cadaveri e brandelli umani. I morti erano … dappertutto, così tanti da non poter essere contati. I soldati si aggiravano tra i corpi, pallidi fantasmi in cerca di redenzione.
Sasha strinse le mani a pugno, affondando le unghie nei palmi: come avevano potuto permettere che un simile orrore accadesse? L’Alleanza aveva promesso di proteggere l’umanità, ma l’unica cosa che sapeva fare era rimanere a guardare mentre gli alieni si prendevano i loro mondi, uccidendo e schiavizzando la loro gente.
L’inquadratura si fermò sul corpo di una ragazza, miracolosamente integro in mezzo a tutta quella distruzione; era abbandonata sui gradini di una casa, la sua casa, appoggiata alla ringhiera. Sembrava che la morte l’avesse colta di sorpresa, sulla soglia di casa, mentre aspettava il ritorno di qualcuno. Doveva avere all’incirca la su età, i capelli biondi raccolti in una morbida treccia, le labbra leggermente dischiuse, gli occhi azzurri, vitrei, rivolti verso le stelle. Qualunque cosa stesse aspettando, chiunque stesse aspettando, alla fine non era arrivato. Dalle stelle era giunta solo la morte. Guardandola, Sasha sentì come se la parte migliore di sé fosse morta assieme a quella ragazza sconosciuta.
Picchiò i pugni sul tavolo e si alzò, voltando le spalle a quelle immagini che non riusciva più a sopportare, a quegli occhi pieni di sogni che assomigliavano ai suoi.
Gli alieni, pensò, sono stati gli alieni.
E quell’odio che non credeva di poter provare s’impossessò di lei: loro erano i mostri e giurò a se stessa che li avrebbe spazzati via.

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Capitolo 4
*** ... e un amico da amare ***


Swan Lake


Atene, 2170
 
Il vento le sferzò le guance e i lembi del cappotto le picchiarono sulle cosce come ali stanche di un uccello che non sapeva più volare.
Faceva freddo lassù, sul tetto piatto del vecchio edificio sgangherato che chiamava casa, ma era il luogo più accogliente che conoscesse, lontano dalla strada, dalle risse e dalle puttane.
L’aria aveva un altro odore e quando il cielo era terso si riusciva a scorgere la luna e qualche stella; ma quella notte nulla brillava nell’alto dei cieli e lei fu grata di questo: non aveva voglia di guardare le stelle.
Sasha si avvicinò al bordo, guardando in basso dove la vita scorreva sempre uguale a se stessa. Era tardi e il buon senso le diceva di andare a letto, ma sapeva già che non sarebbe riuscita a riposare nel suo lettino traballante appoggiato alla parete da cui si sentivano tutti i rumori di quella casa che non era che il bordello in cui era nata e cresciuta.
- Serata tranquilla.-
Sasha rimase immobile ad osservare le, poche, persone, che transitavano sulla strada sotto di lei mentre la persona che aveva parlato si sedeva sul cornicione, lasciando penzolare le lunghe gambe a trenta metri da terra.
- Ci sono solo serate tranquille qui.- mormorò a denti stretti – Se Kobe continua ad impuntarsi presto non ci sarà più nessuno.-
- E cosa dovrebbe fare? Unirsi ad una banda, come te? Svendere le sue ragazze a tipi come Castillo?- non le sfuggì il sarcasmo con cui furono pronunciate quelle parole.
- Quelle ragazze sono già in vendita, con Castillo almeno mangerebbero.-
Sua madre era stata una puttana e Sasha sapeva bene che un altro al posto di Kobe l’avrebbe costretta ad intraprendere la medesima carriera. Invece, le era stata data la possibilità di scegliere tra il vendere e il rubare e aveva scelto di rubare.
Kobe non era un brav’uomo, ma aveva una morale, per quanto corrotta e deforme, un tempo era stato un uomo discretamente rispettato in quell’ambiente, ma adesso era solo un vecchio che aveva fatto il suo tempo. Non c’era più spazio nel mondo per uomini come lui.
- Parli di loro come se fossero bestiame, non persone. Vendere o rubare … sembra quasi che tu non voglia vedere altre scelte, un’altra vita. -
Sasha scrollò le spalle, allontanandosi dal vuoto che si apriva sotto di lei, quante volte aveva provato l’impulso di saltare solo per scoprire se era in grado di volare?
- Non esiste un’altra vita. - sibilò.
Sapeva bene che, se avesse provato a saltare, si sarebbe sfracellata sull’asfalto trenta metri più in basso: gli uomini non volano.
- Solo perché non la vedi non vuol dire che non esista.-
Sasha sbuffò – Perché non te ne vai a dormire, Daario? È tardi e questo non è il tuo posto.-
Il ragazzo non si mosse, rimase seduto sul cornicione a guardare il mondo che si stendeva ai suoi piedi.
Erano cresciuti insieme, lei e Daario, bambini di strada in un mondo senza leggi. La famiglia di Daario aveva una rosticceria lì di fronte e facevano affari proprio con le ragazze del bordello e i loro clienti, ma il declino di Kobe aveva condannato anche loro. Presto o tardi avrebbero chiuso il loro squallido bugigattolo e se ne sarebbero andati a cercare fortuna da qualche altra parte e Daario sarebbe partito con loro, lasciandola sola un’altra volta.
Era il suo unico, vero, amico e l’idea di perderlo la turbava più di quanto gli piacesse ammettere. Daario era l’unica cosa che le impediva di diventare come Curt.
Fu per questo che le parole che gli uscirono dalle labbra, seppur attese, la distrussero – Io me ne vado, Sasha: sono venuto a dirti addio.-
Si sentì sbiancare e gli voltò le spalle, per impedirgli di scorgere qualcosa, qualunque cosa, sul suo viso – Non ci credo. I tuoi genitori non possono chiudere da un giorno all’altro.-
- Infatti.- replicò il ragazzo senza scomporsi – Parto solo io. Loro rimangono qui, almeno finché non avrò abbastanza soldi per aiutarli a trasferirsi.-
- E dove vai?- ringhiò – Credi che farai fortuna semplicemente andandotene? Ti ritroverai in un tugurio peggiore di questo e senza nessuno a coprirti le spalle!-
Lo sentì sospirare mentre si alzava e si avvicinava a lei … il vento non era mai stato così freddo, la notte così buia, all’improvviso odiò quel luogo e tutto quello che rappresentava: era solo il tetto di un bordello, niente di più.
- Mi sono arruolato nell’Alleanza.- mormorò con voce incerta, ben consapevole di quello che la sua confessione avrebbe scatenato.
Sasha si voltò di scattò rossa in viso per l’indignazione e l’odio: l’Alleanza, ancora e sempre l’Alleanza.
- Come diavolo ti è saltato in mente? L’Alleanza non è posto per gente come noi.-
Un lampo d’ira distorse i lineamenti del ragazzo – E quale sarebbe il mio posto? Vorresti che mi unissi ad una banda come hai fatto tu? –
Sasha si strinse nelle spalle – Perché no? Almeno combatteresti per qualcosa di più concreto delle aspirazioni dei politici.-
Daario scoppiò a ridere, i denti bianchi che spiccavano nel buio – E tu per chi credi di combattere? Sei sul libro paga di uno degli uomini più pericolosi della città, un uomo che non si farebbe scrupoli nel vendere la sua gente per un grammo d’oro in più.-
Sasha lo fulminò con lo sguardo – Castillo combatte per abbattere questo regime corrotto, per impedire a quelli dell’Alleanza di svendere la Terra agli alieni e portare un po’ di giustizia a chi non ne ha mai avuta.-
- E questo chi te l’ha detto? Lui? Ogni giorno che passa lui diventa più potente e voi più miseri, sfrutta le paure della gente per volgerle a proprio vantaggio.- si avvicinò a lei, stringendole piano il braccio – Ti spremerà finché di te non rimarrà più niente, nemmeno quell’odio con cui ti riempi la bocca, e quando non avrà più bisogno di te ti abbandonerà, perché non gliene importa niente né di te né di quello per cui combatti e allora ti renderai conto che Castillo non ha altro Dio che il denaro.-
Sasha si liberò dalla sua presa, digrignando i denti contro parole che non riusciva a smentire ma che non aveva intenzione di accettare – Io so soltanto che quando la mia unica prospettiva era vendere me stessa per non morire di fame, Raul è stato l’unico a darmi un’alternativa, nella banda ho trovato una famiglia. Dov’era l’Alleanza?- strinse i pugni – Dov’era mio padre? Loro hanno scelto le stelle …- gli rivolse un’occhiata di disgusto - ... e a quanto pare lo hai fatto anche tu. -
Daario sospirò, passandosi una mano tra i folti capelli ricci, gli occhi castani che si perdevano nel buio – Tu combatti un nemico che non esiste, Sasha: non siamo soli nell’universo: o accettiamo questo fatto o soccombiamo cercando di negarlo. Il nostro futuro è tra le stello e questo, che ti piaccia o no, è un dato di fatto. Possiamo colonizzare nuovi pianeti per dare sollievo al nostro, comunicare con altre specie per accrescere il nostro sapere!- per un istante, mentre gesticolava con passione, Sasha s’illuse che quello che stava dicendo potesse essere vero - Prima di trovare gli alieni eravamo sull’orlo della distruzione, ora tutte le nazioni sono unite sotto un’unica bandiera: quella umana. Nell’Alleanza lavorano persone di ogni nazionalità che fino a qualche anno fa erano nemiche e ora lavorano fianco a fianco per traghettare la Terra nell’universo. È la nostra occasione di trasformare questo mondo in luogo migliore di quanto non sia mai stato.-
Il silenzio calò su di loro e Sasha si dimenticò per un istante del luogo in cui si trovavano, le sembrava di essere sospesa nel vuoto, da qualche parte di quell’infinito universo, a contemplare un sogno che le parole appassionate di un ragazzo avevano trasformato in realtà.
Si chiese se anche suo padre avesse condiviso quella frenetica passione, quella fede sconfinata in un umanità migliore e in idealizzate creature aliene.
Ma quando incrociò gli occhi di Daario, vibranti di passione, alle mente le tornarono altri occhi, occhi azzurri e vitrei pieni di sogni irrealizzati. Occhi morti.
Fece una smorfia e tornò sulla Terra, una Terra ben lontana da quel paradiso che Daario sognava di creare - E Mindoir?- domandò, la voce piena di veleno – Gli alieni hanno arricchito parecchio i coloni, in effetti, soprattutto con ferro e piombo. È questa la collaborazione che cerchi con loro?-
Daario sospirò – Mindoir è stata una tragedia ma …-
- Ma cosa?- ribatté, galvanizzata dall’esitazione di Daario – E cosa mi dici della Guerra del Primo Contatto? Le cose che i Turian hanno fatto a Shanxi, tutte le persone che hanno ucciso … - le ritornarono in mente le parole di Curt – Loro non sono umani, Daario, non lo saranno mai.-
Il viso di Daario era impassibile – Forse è per questo che confido in loro.- sussurrò.
Sasha scosse il capo e allargò le braccia, lasciandosi sfuggire una risata tra l’incredulo e il sarcastico, era pronta ad annientarlo di parole ma Daario la interruppe con un mezzo sorriso e l’aria stanca – Potremmo andare avanti tutta la notte e non saremmo mai d’accordo.- sospirò – Immagino che sia inutile chiederti di arruolarti insieme a me … anche se hai due anni meno di me potresti …- la voce gli morì in gola quando incrociò il suo sguardo.
Daario abbassò gli occhi, sconfitto – Avevo immaginato un addio diverso, ma avrei dovuto saperlo che avresti reagito così.- allungò una mano verso di lei che si scansò, Daario lasciò cadere il braccio, ferito – Bene, suppongo che questo risolva tutto … allora addio, Sasha: spero che tu possa trovare quello che stai cercando.-
Lei non rispose e si voltò per nascondere gli occhi pieni di lacrime, rabbiose e disperate. Lo sentì allontanarsi, mentre il vento, gelido vento, le aggrediva il viso quasi a schiaffeggiarla. Infilò le mani in tasca e le sue dita sfiorarono qualcosa di liscio e sottile, strinse le dita attorno alla fotografia, accartocciandola nel palmo della mano, si voltò, singhiozzando come la ragazzina che era.
- Ecco, prendi questa!- ringhiò mentre lui si voltava, sorpreso e speranzoso, al suono della sua voce. Gettò la fotografia accartocciata ai suoi piedi – Scappa tra le stelle come ha fatto lui, forse lo incontrerai e potrete continuare a sognare insieme, senza di me. -
Daario chiuse gli occhi – Oh, Sasha …- si chinò a raccogliere la fotografia mentre lei gli dava nuovamente le spalle vergognandosi delle lacrime che scendevano incontrollate sul suo viso; ma questa volta Daario non aveva intenzione di cedere, la prese per le spalle, costringendola a voltarsi e la strinse in abbraccio che, inconsciamente, aspettava da sempre.
- Io non ti sto abbandonando, sto solo crescendo.- le sussurrò all’orecchio – E se tu non fossi così testarda lo capiresti.- si staccò leggermente da lei per guardarla negli occhi – Nessuno verrà a salvarti, nessuno verrà a prenderti: se vuoi cambiare la tua vita fallo e basta.- le premette la fotografia nella mano – Hai passato tutta la vita ad aspettare un uomo che non sa nemmeno che esisti. Lui non arriverà e se lo vuoi trovare devi andare tra le stelle a cercarlo.-
Sasha deglutì e abbassò lo sguardo sulla fotografia logora e stropicciata che teneva in mano – Io … io ci penserò, non posso prometterti altro.-
Daario le sollevò il mento con le dita, non era mia stata così vicina a lui, profumava di sole e spezie, la pelle scura e il naso aquilino, aveva passato la vita accanto a lui e solo adesso si accorgeva di quanto stesse perdendo.
- Non metterci troppo, ragazzina, hai imboccato una strada pericolosa e presto sarà tardi per tornare indietro.-
Si chinò su di lei, sfiorandole le labbra con un bacio che sapeva di occasioni perdute e tempo sprecato.
Quando se ne fu andato rimase sola, in balia del vento, il cielo nero sulla testa, un fotografia sgualcita in mano e, sulle labbra, il sapore del rimpianto.
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 5
*** Polvere ***



Atene, Terra, 2172
 
Le luci giallognole delle lampade al neon illuminavano l’hangar, conferendo un colorito malsano agli uomini che si erano raccolti all’interno per commerciare e, anche se non lo sapevano ancora, morire.
Per gli alieni era diverso, la loro pelle dura, metallica, era priva di sfumature, sano o malato il loro colorito non cambiava, né sotto la luce del sole né nel bagliore dei neon.
Ma quando i proiettili iniziarono a fischiare e i corpi si contorsero in grotteschi balletti di morte, quei volti di pietra si tinsero di colori sgargianti: il blu del loro sangue e il rosso di quello degli umani.
Infine i morti furono più numerosi dei vivi.
Il pavimento di cemento era viscido di sangue, il blu e il rosso si erano mischiati fino a creare una buffa sfumatura violetta: che razza di colore era il viola per ornare un campo di battaglia?
Mentre avanzava gli scarponi affondavano in quella melma violacea, un’infame palude che minacciava d’inghiottirla e intrappolarla nelle sue spire impietose, ogni passo era accompagnato dal risucchio del sangue.
I suoi “fratelli” erano accanto a lei; uomini violenti con le nocche graffiate e gli occhi iniettati di sangue, non riusciva a scorgerne i visi, sfocati da una bruma sottile che pervadeva l’intero hangar. Da dove venisse o cosa la producesse non lo sapeva.
I suoi passi la condussero davanti all’unico nemico sopravvissuto, un Turian ferito, inginocchiato nel sangue dei suoi compagni, le braccia alzate e una pistola puntata alla testa. Non riusciva a vedere il volto dell’uomo che lo minacciava, ma quello del Turian lo distingueva alla perfezione, nei minimi dettagli.
Non ne aveva mai visto uno così da vicino: le letali creste proiettate all’indietro, gli occhi infossati, piccoli e luminosi, rossi come l’odio con cui la fissavano, le mandibole che lasciavano scoperti denti affilati come zanne, fatti per dilaniare la carne umana.
Era un abominio.
Si fissarono, ognuno pensando lo stesso dell’altro, l’odio dell’umana che si rifletteva negli occhi dell’alieno. Quando lei aprì la bocca per parlare, per spiegargli il motivo per cui era stato risparmiato, non un suono le uscì dalle labbra. Il Turian fece schioccare le mascelle, le narici del piccolo, piatto, naso seghettato, fremettero appena e poi parlò.
Non si espresse nella lingua raschiante della sue gente, né si barcamenò tra parole umane che padroneggiava a fatica, parlò fluentemente la lingua degli uomini, con voce sicura ed arrogante, senza esitazioni né paura, come se fosse stata lei prigioniera di lui – Tu non sai niente, umana. Non sei niente.-
Gli altri erano scomparsi, l’uomo che lo teneva sotto tiro era svanito, ma il Turian era ancora in ginocchio, con le mani intrecciate dietro la nuca, il suo viso era alzato, lo sguardo fiero, i denti snudati.
Lei fece un passo indietro, la mano cercò la pistola, ma incontrò solo il duro cuoio e le borchie della sua cintura.
Il Turian rise, una risata raschiante fatti di ringhi e schiocchi, simile allo sferragliare delle catene di un condannato a morte.
- Che cosa non so?- riuscì infine a dire, con la voce esile di una ragazzina.
Il Turian voltò il capo, fissando le casse che ingombravano l’hangar. La ragazza esitò, si avvicinò ad una cassa, insinuò le dita sotto il coperchio, quando tirò venne via facilmente, come se non fosse mai stato chiuso.
Dentro, ammassati e contorti, incastrati gli uni negli altri, c’erano esseri umani incatenati, le ossa sporgenti, i visi esangui, gli occhi enormi sprofondati nei teschi.
Dietro di lei il Turian si alzò, rise di nuovo, un latrato che la raggelò fino al midollo – Tu non sai niente.- ripeté.
 

Sasha si svegliò di scatto, sudata e tremante, gli occhi sbarrati e le labbra contratte in una smorfia di orrore. Le ci volle qualche secondo per capire che era stato solo un sogno e la risata del Turian non era altro che il cigolio dell’imposta mossa dal vento.
Prese dei respiri profondi, imponendosi di calmarsi, mentre continuava a ripetersi che era stato solo un sogno. Erano passati due anni dalla missione che l’aveva consacrata nella banda, il Turian che avevano catturato era una creatura vile e sottomessa, le casse requisite contenevano solo armi ed eezo; non le aveva controllate tutte, ma erano in ogni caso troppo piccole per contenere schiavi.
Rabbrividì: schiavi. Non si parlava d’altro.
I cieli erano infestati di pirati e schiavisti, non solo alieni. Sempre più umani avevano iniziato a vendere la propria gente per ricchezza e potere. Ma Raul questo non lo faceva, non l’avrebbe mai fatto: lui odiava gli alieni, più di quanto amasse il potere.
Sasha scese dal letto, caracollando fino al lavandino scheggiato dall’altra parte della stanza, si bagnò il viso col filo d’acqua puzzolente che scendeva dal rubinetto arrugginito e osservò il suo riflesso nello specchio macchiato.
Se Daario fosse tornato sulla Terra non l’avrebbe riconosciuta. La ragazzina forte e orgogliosa di due anni prima aveva lasciato posto a una donna spezzata, con gli occhi infossati e il colorito grigiastro. A diciotto anni sembrava già vecchia: i capelli opachi e sfibrati, le occhiaie bluastre, quasi nere, la pelle tanto tirata da lasciar intravedere il contorno del teschio.
Chiuse il rubinetto e si allontanò dalla sua immagine riflessa: cosa le importava di Daario? Se ne era andato e non era più tornato. Perché avrebbe dovuto farlo? Non c’era nulla per cui tornare, solo dolore, odio e disperazione. Malgrado la promessa fatta sul tetto, Sasha aveva proseguito lungo la strada imboccata a sedici anni e ora era giunta tanto lontano da non ricordare più come si faceva a tornare indietro. Di tutti consigli che Daario le aveva dato ne aveva seguito solo uno: non era più andata in piazza Syntagma. Aveva rinunciato ad una salvezza che non sarebbe mai giunta.
Trovò i suoi vestiti ammonticchiati in una angolo, vecchi stracci logori, macchianti di birra, sperma e sangue. Li infilò senza guardarli, vestendo con essi il ruolo che il mondo le aveva cucito addosso. Un flacone di pillole le scivolò dalla tasca, tintinnando sul pavimento. Lo raccolse, se lo rigirò tra le dita e lo aprì, facendo cadere due pillole sul palmo aperto: una per dimenticare, due per morire.
Esitò, sarebbe bastato un gesto, uno soltanto, per porre fine a un’esistenza che non aveva senso … una morte dolce, più facile che addormentarsi.
Si portò la mano alla bocca, sentì un gusto amaro sulla lingua e inghiottì.
Chiuse gli occhi per un istante, poi rimise la pillola che le era rimasta in mano nel flacone.
Non riusciva né a morire né a scappare, incastrata in un’esistenza che disprezzava ma dalla quale non riusciva a liberarsi, costretta da catene che non riusciva a vedere, a cui non sapeva dare un nome, ma che la vincolavano a quel mondo dal quale non riusciva a fuggire.
- Ehi, vacci piano con quella roba, bambolina. È ancora presto per sballare.-
Diòs era seduto sul bordo del letto, i capelli sparsi sulle spalle, gli occhi di due colori diversi che la fissavano con una punta di derisione.
Sasha si strinse nelle spalle e si avvicinò al letto, restituendogli il suo stesso sguardo – È droga, Diòs. Importa davvero quando la prendo?-
Diòs sorrise e accettò il flacone che gli porgeva – Un punto per te.- mormorò buttando giù una pillola, la squadrò con un ghigno lascivo – Sai, una volta inghiottita questa roba, sembri di nuovo bella.- la prese per un braccio attirandola a sé.
- Tu invece sei sempre stronzo uguale.- sibilò, ricacciandolo indietro.
Dopo due anni passati a calarsi qualunque cosa, nemmeno la droga degli alieni le faceva più effetto: stava diventando insensibile a qualunque cosa.
- E dai, ieri sera non facevi tanto la difficile …-
Colpì la mano che tentava di afferrarla e prese i suoi vestiti dal pavimento, gettandoglieli in faccia – Sei in un bordello, Diòs, vatti a cercare una ragazza se vuoi farti una scopata.-
I suoi occhi le promisero che si sarebbe vendicato, in un modo o nell’altro, per quell’affronto, ma, saggiamente, decise di rimandare quel momento a un altro giorno.
- Parli delle vecchie sdentate o delle storpie che il tuo padrone raccatta per la strada? Quelle farebbero passare la voglia perfino ad un cane arrapato.- sibilò, infilandosi i pantaloni.
- Kobe non è il mio padrone.- era l’unica affermazione che poteva contestare.
Un sorriso perfido si dipinse sulle labbra di Diòs – Però sei la sua puttana migliore. Dovresti cominciare a farti pagare, magari riusciresti a saldare i suoi debiti.-
Stava per mandarlo al diavolo, ma quell’ultima affermazione la bloccò – Quali debiti?-
Diòs le rivolse uno sguardo maligno - Sei davvero così ingenua? Come credi che tiri a campare? Con quali soldi pensi che nutra e vesta i casi umani che raccatta dalla strada? Kobe si è indebitato con mezza città e presto o tardi qualcuno verrà a riscuotere.-
- I soldi delle ragazze …-
- Quali soldi, quali ragazze? Non c’è più un cliente da mesi. Kobe si è scavato la fossa da sola, permettendo alle vecchie di restare e alle giovani di fare come gli pare. Ha permesso loro di scegliersi i clienti, di tenersi parte dei guadagni e riposare quando erano stanche, ed ecco il risultato: i clienti se ne sono andati e la baracca cade a pezzi.-
Sasha si morse le labbra – Ha permesso loro di vivere con un po’ di dignità.-
Diòs ridacchiò – E a cosa serve la dignità ad una puttana?-
Sasha lo squadrò con una smorfia di disgusto – Dubito che tu possa capirlo. Con chi si è indebitato Kobe?-
Diòs si alzò – Cosa vuoi che ne sappia?- si strinse nelle spalle - So solo che deve dodicimila dollari a Castillo e lui sta perdendo la pazienza.- si avviò verso la porta – Kobe è un uomo morto, Sasha, e quando gli sciacalli verranno a spartirsi le sue spoglie ti conviene non farti trovare accanto a lui.-
- Vattene.-
Quando la porta si fu richiusa dietro le sue spalle, strisciò sotto al letto, sollevò un’asse del pavimento e v’infilò una mano dentro. Ne estrasse una mazzetta di banconote, i guadagni di tutta la sua vita, li aveva nascosti lì, una banconota dopo l’altra, senza sapere bene a cosa le sarebbero serviti.
Li aveva messi da parte nella speranza che un giorno l’avrebbero aiutata a comprarsi una nuova vita, una vita dai contorni sfocati e nebulosi, che non riusciva nemmeno a immaginare ma che sapeva essere là, in attesa, da qualche parte. Ma ora quei soldi le servivano a salvare ciò che rimaneva della sua vecchia vita infame.
Infilò la mazzetta nella tasca interna del giubbotto e scese nella sala comune semi-deserta.
Louise era seduta in un angolo della sala, su un divano rococò rosa e scrostato, intenta a rammendare un vecchio abito da sera, memoria di altri tempi.
La sua seconda madre era invecchiata prima del tempo, i lunghi capelli, un tempo biondi, erano diventati bianchi e le ricadevano sulle spalle come un groviglio di sterpi, il viso era cosparso da una ragnatela di piccole rughe e al suo sorriso mancava qualche dente.
Sasha la guardò mestamente: forse, dopotutto, sua madre era stata fortunata, era morta ancora giovane e bella, con la speranza di una vita migliore e gli occhi pieni di sogni. Che cosa rimaneva, invece, a Louise? Che cosa succede ad una puttana vecchia?
La donna sollevò lo sguardo dal suo lavoro e le sorrise, chinando il capo di lato, gli occhi che brillavano sotto le sopracciglia sottili.
Aveva ancora degli splendidi occhi azzurri.
- Eccoti qui, non ti ho vista tornare questa notte.-
Sasha si avvicinò – Era molto tardi.-
Louise strinse le labbra e tornò al suo lavoro – Il tuo amico è appena uscito. Non mi piace quel ragazzo.-
Sasha non riuscì a reprimere un sorriso, mentre uno strano, flebile calore, le scaldava il cuore: era quello il significato dell’avere una famiglia? Avere qualcuno che si preoccupa per te?
- Diòs è pericoloso, ma non per me. -
Louise le lanciò un’occhiata d’ammonimento – Questo è quello che credi.-
Sasha ridacchiò, posandole un bacio sulla sommità del capo – Non ti preoccupare, so cavarmela.-
La porta in fondo si aprì e Kobe entrò nella stanza. Nei suoi ricordi era un uomo imponente, con braccia grosse come tronchi e la pancia che premeva sui bottoni delle camice. L’amore per il cibo e la birra avevano trasformato l’uomo imponente in un uomo enorme.
Quando la vide, si fermò sulla soglia, socchiudendo gli occhi per metterla a fuoco – Oh, sei tu …- esclamò dopo qualche secondo – Pensavo te ne fossi andata.-
Lo diceva sempre, con lo stesso tono stupito e compiaciuto insieme.
- Non me ne andrò finché non avrò ripagato il mio debito.- rispose, come aveva risposto centinaia di volte prima di allora. Era diventata una sorta di rito, un gioco tra loro due. Era la cosa più simile all’affetto che riuscissero ad esprimere.
Kobe annuì, facendo tremolare gli svariati doppi menti e sorrise sotto i folti baffi che gli incorniciavano le labbra. – Cerca di non dimenticarlo.- stava per allontanarsi ma Sasha lo trattenne.
- Aspetta, devo parlarti.-
Si fissarono per un istante, poi Kobe fece un cenno a Louise che raccolse le sue cose e li lasciò soli.
L’enorme vecchio attraversò la stanza con passo pesante e si lasciò cadere sul divano rosa con uno sbuffo, Sasha notò che aveva la fronte imperlata di sudore: era bastato quel breve tragitto per sfinirlo.
Si sedette accanto a lui, sul bordo del divano, dovevano apparire assai buffi, il grassissimo uomo nero e la smunta ragazzina coi capelli rossi, appollaiati su un ridicolo divano rosa coi piedi di leone.
Ma invece di ridere aveva voglia di piangere.
Rimasero a contemplarsi in silenzio per secondi lunghi come ore, mentre Sasha cercava le parole per iniziare il suo discorso, “cosa si dice a un uomo che ha perso tutto, un uomo a cui non resta altro che la sua gigantesca ombra proiettata su un muro rotto?”
Si infuriò con se stessa, non avrebbe dovuto farsi intenerire da Kobe: anche lui, come gli altri, non era altro che uno sfruttatore.
Tutto ciò che aveva lo doveva alle ragazze che aveva sfruttato eppure, per quelle stesse ragazze, ora, stava perdendo tutto.
Sasha prese un respiro profondo – So che hai dei debiti.-
Kobe sbuffò – Tutti hanno debiti, anche tu. -
Le sue dita sfiorarono le banconote che aveva in tasca: aveva un debito sulla sua vita, e, finalmente, stava per saldarlo. Aprì la bocca per dirglielo, ma Kobe l’anticipò - Ormai tutti vogliono le Asari, sono la novità, capisci? Aliene blu che ti fanno cose che prima non potevi nemmeno immaginare …- scosse il capo mestamente – Sono troppo vecchio per queste stronzate e non c’è spazio per le cose vecchie in questo mondo.- sospirò – Sei mai stata su alla città vecchia? Hai mai posato i tuoi bei occhi verdi sulle antiche rovine dei nostri antenati? – Sasha scosse il capo – Temo che non potrai più vederle. Mentre parliamo le stanno buttando giù, per costruire alte torri di vetro e acciaio come quelle che ci sono su Thessia.- strinse i grossi pugni e lacrime di rabbia gli colarono lungo le guance lisce e paffute, Sasha non l’aveva mai visto tanto turbato – Sono solo vecchi sassi, dicono, gli alieni non ne saranno impressionati; ma se costruiamo grattacieli, colonizziamo nuovi mondi, creiamo stazioni spaziali e gigantesche astronavi, allora sì che li stupiremo.- fece una smorfia sarcastica - Quelle vecchie pietre erano tutto ciò che distingueva noi da loro, erano la nostra storia, la nostra identità e li abbiamo cancellati, per essere che cosa? Delle squallide imitazioni? Su nessun altro mondo troverai quello che c’era su questo, nessun altro popolo avrà costruito quello che abbiamo costruito noi. E la stessa cosa vale per tutti gli altri: ogni pianeta, ogni popolo ha qualcosa di unico, inimitabile, qualcosa che appartiene solo a lui, qualcosa che vale la pena di vedere, ma noi stiamo distruggendo tutto ciò che siamo per diventare qualcosa che nessuno vorrebbe mai essere: uguale a tutti gli altri. - Sasha abbassò il capo e il vecchio le prese delicatamente una mano – So cosa sei venuta a dirmi, che ho sbagliato a non sottomettermi a Castillo, che avrei dovuto cedergli l’attività due anni fa, quando me l’ha chiesta, che sono stato stupido a non farlo e ora questo posto sarebbe pieno di Asari e musica aliena, come tutti gli altri locali della galassia.  – si alzò a fatica, guardandosi intorno con aria mesta – Questo posto non è un bel posto, non lo è mai stato, era un bordello, dove belle ragazze si svendevano a uomini laidi come me. Quando questo posto sarà scomparso nessuno lo piangerà o ne sentirà la mancanza, e lo stesso accadrà quando io sarò morto. Ma nel bene o nel male questo posto era reale, era vivo, era il simbolo di una parte di umanità, un’umanità sporca, corrotta e perversa che molti detestano ma che, innegabilmente, ha forgiato ciò che siamo. Noi siamo le vecchie pietre e i bordelli sgangherati, siamo il caos e la follia, la bellezza e la perdizione …- tacque all’improvviso, abbassando il capo contro il petto, si portò le mani dietro la schiena e si allontanò, bofonchiando e barcollando sulle sue povere gambe stanche, in mezzo ai suoi borbottii, prima che uscisse dalla stanza, Sasha riuscì a cogliere solo una parola: “cemento.”
Si ritrovò sola in quella grande stanza pieni di cimeli polverosi, i suoi occhi si posarono sul vecchio pianoforte a coda, sulle pesanti tende mangiate dalle tarme e i candelabri alle pareti … davanti agli occhi le passarono le immagini di tutti i locali in cui era stata, coi tavoli di plastica e le luci stroboscopiche, le pareti lucide come specchi e ballerine dalla pelle blu che si contendevano la pista, alcune erano aliene, altre erano umane che si erano fatte tingere la pelle per assomigliare a loro; era stata in centinaia di locali ma non riusciva a distinguere l’uno dall’altro e le persone sulla pista avevano i volti tutti uguali.
Passò una mano sul divano e la sollevò piena di polvere, sorrise, mesta: quanto ancora prima che qualcuno trovasse il modo per far sparire anche quella?
Si alzò, mise le mani nelle tasche e sfiorò le banconote con le dita; si guardò intorno e, questa volta, un vero sorriso le illuminò il viso: sapeva cosa fare.
 
 
 
Note
 
Nei miei progetti questa parte sarebbe dovuta essere decisamente più corta, ma alla fine mi è uscito un capitolo intero … non mi convince pienamente, forse sono stata un po’ prolissa, ma ci ho messo così tanto a scriverlo che cancellarlo mi fa male al cuore, perciò ve lo cuccate!
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** Ed è subito sera ***


[x]


Atene, 2172
 
L’aria fresca del mattino e il sole tiepido sulla pelle le schiarirono la mente dal debole torpore della droga. La prima volta che aveva provato l’Hallex si era sentita inebriata, i colori erano diventati più accesi, la musica l’aveva avvolta come i tamburi di una grande caccia, si era sentita in grado di dominare l’universo … ma quando l’effetto era finito il mondo si era spento, come se qualcuno avesse girato l’interruttore della luce; il bisogno di riprovare quelle sensazioni era diventato impellente, vitale come l’aria, ma la magia era ormai svanita e, per quante pasticche si calasse, non era mai riuscita a riprovare quelle sensazioni e, alla fine, era arrivata al punto di non provare più nulla, con o senza droghe. L’unica sensazione che provava adesso era un debole piacere, ovattato e distante, come il ricordo di un sogno, ma persino quello, ormai, stava scomparendo.
Quando raggiunse il bar il sole era ormai alto nel cielo e lei completamente lucida. Ignorò il barbone accucciato accanto all’entrata e spinse la porta a vetri; dentro sembrava già sera, le luci accese, il fumo, il rumore delle stecche da biliardo che colpivano le palle … sembrava che quel luogo fosse stato congelato in un limbo perenne, un luogo in cui era sempre sera e il sole non brillava mai.
Sasha si diresse verso il bancone, saltò su uno sgabello e si liberò del giubbotto, appoggiando gli avambracci sul legno scrostato. Il bar era praticamente deserto, fatta eccezione per un paio di tizi al tavolo da biliardo e un tipo solitario appollaiato in fondo al bancone. Si chiese da dove venisse tutto quel fumo, immaginò fosse sempre lo stesso che ristagnava nel locale da tempo immemore, dopotutto non c’erano finestre dal quale potesse uscire.
Il barista si trascinò fino a lei, con aria svogliata e la fronte corrucciata sotto i capelli unti – Cosa vuoi?- gracchiò.
- Una birra.- ordinò – E …- spostò lo sguardo sul suo avambraccio, dove spiccava il tatuaggio della banda - … devo parlare col capo. Subito.-
L’uomo seguì il suo sguardo, fece un sorrisetto untuoso e si strinse nelle spalle – Raul è impegnato.-
- Digli che è urgente.-
Lentamente riempì il boccale di birra – Non sono una maledetta segretaria.- sibilò – Il capo sa che sei qui, verrà quando e se vorrà parlarti.- le sbatté malamente la birra davanti e si allontanò, bofonchiando e strascicando i piedi.
Sasha non poté fare altro che ingoiare il rospo e bersi la brodaglia che aveva nel boccale.
Le ore trascorsero lente, gli avventori entravano e uscivano dal bar, i boccali tintinnavano e si svuotavano, la gente parlava, beveva, rideva e se ne andava, ma lei rimase lì, ferma davanti al boccale mezzo vuoto, la schiuma ormai svanita e il retrogusto acido di quella birra scadente incollato sulla lingua. L’attesa non le pesava, era abituata ad aspettare.
- Bel tatuaggio.-
Sasha sobbalzò, strappata dal torpore nel quale era sprofondata, si voltò lentamente, squadrando il suo interlocutore con aria guardinga.
Era il tizio che aveva notato quand’era arrivata, non si era accorta che, come lei, era rimasto seduto al bancone per tutte quelle ore.
Era un uomo senza età, sotto la barba non rasata il suo viso appariva rude e sciupato, come un dipinto rovinato dall’umidità e dall’incuria. I capelli biondi gli ricadevano sul viso, sporchi e spettinati, gli occhi verdi erano circondati da rughe profonde e teneva un braccio fermo lungo il fianco, rigido e inutilizzabile.
Sul volto e il corpo portava i segni dell’inferno e nei suoi occhi c’era la consapevolezza di non esserne mai uscito.
Sasha si toccò nervosamente il braccio, lì dove la sua pelle era marchiata, come una bestia destinata al macello – Cosa vuoi?-
L’uomo fece cenno al barista di riempirgli nuovamente il bicchiere e si sedette sullo sgabello accanto al suo, arrancando come un vecchio – È il simbolo di una banda, vero?- Sasha s’irrigidì, ma l’uomo parve non accorgersene, gli occhi stanchi fissi sul liquido trasparente che riempiva piano il suo bicchiere, quando il barista accennò ad andarsene gli fece segno di lasciare lì la bottiglia – Anch’io facevo parte di una banda, una volta.- sussurrò, parlando più con se stesso che con lei – A loro non piacerebbe sentirsi chiamare così, ma non sono diversi da quelli che frequenti tu. Mi unii a loro perché sognavo di cambiare il mondo.- sorrise al suo bicchiere, facendolo ruotare tra le dita – È cambiato tutto, tranne il mondo.- svuotò il bicchiere in un sorso e tornò a riempirlo.
Sasha avrebbe voluto alzarsi ed allontanarsi da quell’uomo che le metteva i brividi, ma qualcosa la tenne inchiodata al suo posto, le mani che si aprivano e chiudevano nervosamente – Cos’hai fatto al braccio?- domandò, suo malgrado.
Lui si guardò il braccio con aria assente, come se appartenesse a qualcun altro – Avrei potuto farmelo rimettere a posto, sai? Hanno imparato a guarire qualunque ferita, qualunque malattia, ma nessuno, né umano né alieno, sa come rimettere insieme un uomo spezzato. Perché dovrebbero guarirmi fuori se sono morto dentro? Ovunque tu vada, qualunque mondo visiti, questa … - sollevò il bicchiere - … questa è l’unica cura. -
Lo osservò svuotare il bicchiere e riempirlo di nuovo e svuotarlo e riempirlo e svuotarlo ancora, senza che nulla in lui cambiasse, senza che l’alcool facesse alcun effetto, il suo sguardo rimase lucido, le mani ferme, l’espressione immutata.
Sentì una strana affinità con quell’uomo: erano entrambi sul fondo dell’oceano, incapaci di affondare ancora, incapaci di risalire, intrappolati in un lucido limbo di follia.
- Non hai risposto alla mia domanda.- insisté Sasha dopo alcuni minuti di silenzio.
- È una lunga storia.-
Gli sorrise, per la prima volta – È una lunga notte.-
Lui ricambiò il sorriso e, sotto la barba e le cicatrici, Sasha intravide il fantasma del ragazzo che un tempo era stato. Quel viso, sconosciuto e familiare insieme, assomigliava a un ricordo che forse era solo un sogno.
- Ricordo il giorno in cui m’imbarcai, con la divisa sfavillante e le scarpe tanto lucide che mi ci sarei potuto specchiare dentro. Quelle scarpe erano il mio orgoglio.- abbassò lo  sguardo sulle scarpe che indossava adesso, lacere e macchiate, sospirò – Vedo ancora la mia nave, lì davanti a me come sei tu adesso, il suo nome era: Indipendence. Era bella da togliere il fiato. – chiuse gli occhi e sul suo viso si dipinse un sorriso rapito, mentre frugava nella sua mente alla ricerca di ricordi quasi dimenticati.
Sasha si sporse verso di lui, dimentica della sua diffidenza – Eri un pilota?-
Lui riaprì gli occhi, la fissò, smarrito, stordimento e rabbia si affastellarono nel suo sguardo per poi lasciare il posto ad una rassegnata malinconia.
Qualunque cosa stesse ricordando, ovunque la sua mente l’avesse portato, la sua voce l’aveva ricondotto alla realtà, lì, sulla Terra, in quel bar saturo di fumo.
- No, non ero un pilota.- rispose, con la voce impastata di chi si è appena svegliato da un lungo sonno – Ero un soldato. La nostra missione era esplorare la galassia e scoprire se c’erano altri come noi nell’universo. A bordo c’era di tutto: scienziati, antropologi, archeologi, medici, linguisti … e altri soldati, come me. - tacque per un istante, il tempo di riempire e svuotare nuovamente il bicchiere. Sasha lo guardò con occhi nuovi, mentre un terribile sospetto si faceva strada nella sua mente: i vestiti che indossava erano slavati e sporchi, acqua e sole avevano lavato via i colori, ma si riusciva ancora ad intuirne gli echi … erano blu e oro. La divisa dell’Alleanza.
Quando i loro sguardi s’incrociarono notò che la sfumatura verde delle sue iridi era identica alla sua.
Sentì un vuoto in fondo allo stomaco, accompagnato dalla paura che quel pensiero vagabondo che le si era affacciato alla mente potesse essere reale … o che invece non lo fosse affatto.
Ricacciò ogni cosa, la paura come la speranza, in un angolo buio, dimenticato, della sua mente, lì dove da anni giacevano i suoi sogni.
- E poi, cos’accadde?- domandò con voce tremante.
Lui si morse il labbro inferiore, un gesto che riconobbe per averlo fatto mille e mille volte – Accadde che trovammo ciò che stavamo cercando.- rispose, roco – Il Portale 314 … fu la nostra flotta a trovarlo, cercammo di attivarlo ma … i Turian ci furono addosso.- rabbrividì – Eravamo partiti in cerca degli alieni e fummo accontentati, ma non fu proprio l’incontro idilliaco che ci eravamo aspettati.- si guardò le mani, dure e piene di calli – La Guerra del Primo Contatto, l’abbiamo iniziata noi.-
Sasha lo fissava con la bocca spalancata, incapace di credere a ciò che stava sentendo eppure sapeva, da qualche parte dentro di sé sapeva, che era tutto vero.
- L’ Indipendence fu abbattuta.- proseguì lui, stringendo i denti e i pugni – Buona parte dell’equipaggio morì nell’impatto, ci salvammo in pochi, quasi tutti soldati. Quando le navi dell’Alleanza ci trovarono stavamo prendendo in seria considerazione l’idea di mangiare i nostri morti.- lo disse in tono piatto, come se stesse parlando del tempo; forse era l’unico modo in cui riusciva a parlarne.
Sasha fece la faccia feroce – Maledetti Turian!- sibilò, picchiando il pugno sul tavolo – Maledetti alieni.-
Lui sollevò lentamente lo sguardo, aggrottò le sottili sopracciglia bionde e chinò il capo di lato, studiandola – Perché?-
Sgranò gli occhi – Tu mi chiedi perché? Hanno abbattuto la tua nave, ucciso i tuoi compagni e quasi ucciso te … non ti sembrano motivi sufficienti per odiarli?-
- Sufficienti per me, ma non per te.-
Sasha boccheggiò, incapace di ribattere, domandandosi, per la prima volta, per quale motivo continuasse ad assecondare quel tipo.
Conosceva la risposta, si rifiutò di ascoltarla.
- Conosco la storia.- mormorò, ostentando una sicurezza che non aveva – So cos’hanno fatto i Turian, ho visto i filmati di Shanxi.-
Il liquido trasparente nel bicchiere ondeggiò mentre lui se lo portava alle labbra: gli tremavano le mani – Sai cos’hanno fatto loro.- concesse – Ma non sai quello che abbiamo fatto noi.-
Sasha si accigliò – Intendi quello che non abbiamo fatto. Tutti hanno sentito parlare del generale Williams e di come si è arreso senza combattere.-
Accostò il bicchiere alla bocca, ma non bevve, un sorriso appena accennato sulle labbra – Shanxi, il generale Williams … sembra che la guerra sia stato solo quello, che Shanxi sia stata l’unica battaglia e lui l’unico soldato.- sbatté il bicchiere sul tavolo, il liquido traboccò, bagnandoli la mano – Ci sono state altre battaglie, altri soldati, ma di loro non leggerai mai niente, né su extranet né sui libri di storia. L’Alleanza nega l’esistenza di quelle battaglie, di quei soldati.- digrignò i denti, fissando la bottiglia davanti a sé come se fosse stata lei a negare quegli avvenimenti – Dimmi, ragazza, se non è mai esistito, perché io ricordo?-
Sasha tacque, non aveva niente da dire, nessuna risposta da dare. L’evidenza le suggeriva che quell’uomo era pazzo, il cervello bruciato dall’alcool, ma non riusciva a smettere di ascoltarlo, perché se lei non aveva alcuna risposta, lui, lui le aveva tutte.
- Quando ci trovarono, nei rottami dell’Indipendence, eravamo sopravvissuti in quattro, tre soldati e un medico. Quando capimmo che saremmo sopravvissuti, che non saremmo morti alla deriva nello spazio, la paura e la disperazione lasciarono posto alla rabbia e all’odio. Avevamo perso tutto e tutti, l’Indipendence era la nostra casa, l’equipaggio la nostra famiglia: ci rimaneva solo la vendetta.- le parole fluivano leste dalle sue labbra, come un veleno che finalmente spurgava, i ricordi erano un fardello di cui liberarsi e abbandonare sulle spalle di qualcun altro – I nostri superiori furono abili a sfruttare la rabbia e la follia che ci animava: crearono squadre di gente come noi, animali assetati di sangue alieno. Ci dissero che potevamo vendicarci, che potevamo fare ai Turian quello che loro avevano fatto a noi.- la sua voce era un sussurro impercettibile e Sasha dovette sporgersi in avanti per udire il resto della storia – Mentre Shanxi era sotto assedio, noi esploravamo lo spazio Turian alla ricerca del loro pianeta natale o delle loro colonie. Non trovammo mai Palaven ma alcuni di noi trovarono le colonie: non so cos’accadde alle altre squadre, probabilmente furono abbattute prima ancora di atterrare, ma so cos’accadde alla mia squadra. Noi completammo la nostra missione. Quando sbarcammo su Aephus i nostri ordini erano chiari: dovevamo fare ai Turian quello che loro stavano facendo a noi. Bruciare le loro case, sterminare la loro gente, radere al suolo le loro città. I nostri superiori erano convinti, assolutamente convinti, che se avessimo minacciato le loro case sarebbero tornati indietro a proteggere la loro gente, rompendo l’assedio di Shanxi. Una tattica che con altri umani avrebbe funzionato, ma i Turian …-
- … non sono umani.- concluse per lui Sasha, con voce roca.
Gli occhi verdi di quell’uomo, che diceva di essere un soldato, erano pieni di un dolore che le lacrime non riuscivano a spurgare, di una vergogna che l’alcool non riusciva a cancellare – Era quello che continuavamo a ripeterci, per giustificare quello che stavamo facendo. Era il nostro mantra mentre bruciavamo quelle loro strane case e versavano il sangue blu di donne e bambini: sono alieni, non sono umani, sono i mostri che minacciano il nostro mondo, la nostra gente.- deglutì a vuoto, aveva la bocca secca e impastata, guardava la bottiglia di whiskey con bramosia, eppure non accennò a prendere il bicchiere, non voleva concedersi quel piccolo sollievo – L’esercito Turian non accorse a proteggere Aephus, la Gerarchia non si preoccupò minimamente della sua colonia sotto attacco e nessun Turian s’indignò per questo. Se avessimo conosciuto un po’ meglio il nostro nemico, avremmo saputo che la nostra strategia era assolutamente, totalmente, inutile. Non ci sono indifesi tra i Turian, non ci sono cittadini inermi, su Aephus ci diedero battaglia: donne, bambini, vecchi, chiunque era in grado di reggere un fucile, ci combatté, con una furia, un ardore che non posso descrivere. Noi eravamo i mostri, giunti a distruggere le loro case. – tacque per un istante, il volto scavato dai ricordi di cose che aveva visto e fatto, cose che non avrebbe mai dovuto vedere, né fare -  Ma questo lo capii quando era troppo tardi, quando ormai mi ero spinto troppo in profondità per poter tornare in superficie. Per tutto il tempo che rimasi su Aephus fui dominato dalla paura, in ogni casa, in ogni anfratto o curva del sentiero, poteva celarsi un nemico, chiunque poteva essere un membro della resistenza. Non potevamo fidarci di niente o di nessuno, nemmeno dei bambini. E loro erano così mostruosi, così alieni … all’inizio ucciderli era semplice, naturale. Poi, in un piccolo villaggio, poco lontano dalla capitale, tutto cambiò. – fece una smorfia, come di dolore, e si toccò il braccio inerte – Eravamo sul pianeta da diversi mesi ormai, ed era chiaro che il nostro brillante piano non aveva funzionato. Cercavamo solo di sopravvivere, in attesa che l’Alleanza si ricordasse di noi e mandasse qualcuno a tirarci fuori da lì. Durante la nostra permanenza sul pianeta si erano formate diverse sacche di resistenza, loro davano la caccia a noi e noi a loro. Ogni volta che attraversavamo un villaggio, ogni volta che passavamo davanti ad una casa, il rischio di cadere in un’imboscata era altissimo, perciò ogni volta che dovevamo fermarci per riposare o quant’altro, ispezionavamo ogni casa, ogni anfratto, facevamo uscire tutti gli abitanti e li spingevamo in un angolo del villaggio per tenerli sotto costante osservazione. Non saremmo sopravvissuti altrimenti.- Sasha ascoltava, proiettata su quel pianeta alieno, insieme a quei soldati, in mezzo alle privazioni, alla paura, allo smarrimento e, come loro, anche lei cominciava a porsi un’unica domanda: perché? Non riusciva più a capire il senso di quella guerra. – Ricordo di aver gridato, dentro una casa, gridai di uscire, uscire tutti. Venne fuori un Turian, un vecchio, in tutti quei mesi avevo imparato a distinguerli, inconsapevolmente avevo iniziato a dar loro delle classificazioni umane. Urlai al vecchio di allontanarsi, ricordo che avevo una paura terribile: dovevo fare in fretta, bisognava sempre fare in fretta. Estrassi una granata e tirai la sicura, il vecchio iniziò ad urlare, agitarsi, farfugliava cose che non capivo, corse verso di me, un mio amico lo atterrò e io lanciai dentro la granata. In quel momento sentii il pianto di un bambino che proveniva da dentro. Piangono esattamente come noi.- solo in quel momento Sasha si accorse che stava piangendo, le lacrime gli scivolavano silenziose lungo le guance, dentro rughe che sembravano canali scavati dal lento, continuo, scorrere di quelle lacrime intrise di impotenza – Ormai non c’era più nulla che potessimo fare. Dopo l’esplosione trovammo la madre, due bambini e un neonato. Capimmo solo allora cosa aveva cercato di dirci il vecchio. Ci guardammo in viso e bruciammo la casa, il vecchio era lì, in ginocchio, davanti alla sua vita che andava in fumo. Non piangeva: mi fissò e disse qualcosa nella sua lingua raschiante, qualcosa che non capii. Ce ne andammo, lasciandolo là. -*
Sasha era immobile, pietrificata sul suo sgabello, il respiro mozzo e le mani che tremavano, il bar con tutti i suoi rumori, i suoi odori, era scomparso, rimanevano solo lei e quell’uomo, inghiottiti in quei ricordi che raccontavano morti senza senso e colpe che nessuno, né uomo né dio, avrebbe mai potuto perdonare.
Che cosa poteva dire a quell’uomo che non era più un uomo?
- Hai mai saputo cosa ti disse il vecchio?-
Gli occhi verdi incrociarono i suoi, così disperati, così terribilmente colpevoli che le venne voglia di urlare e scappare via: come si poteva vivere con quella colpa cucita sulla pelle?
- Sì, anni dopo un amico me la tradusse.- distolse lo sguardo e fissò la bottiglia – “Che tu possa vivere per sempre”.- si passò la mano sul viso – Quando siamo tornati a casa eravamo … come potevamo vivere dopo quello che avevamo fatto? Dopo quello che avevamo scoperto di essere? Quando andavamo agli incontri dei veterani di guerra, sentivamo i racconti di chi aveva combattuto su Shanxi, rievocavano le atrocità compiute dai Turian e l’eroismo dei nostri soldati … e noi, noi cosa potevamo raccontare? Che su Aephus gli alieni eravamo noi? Che, ancora oggi, quando le madri Turian raccontano ai figli storie di mostri venuti dallo spazio, è a noi che pensano? Su Aephus i malvagi, gli invasori, eravamo noi.- scosse il capo – Non avevamo niente in comune con i veterani di Shanxi, niente in comune con nessuno. – era pallido, gli occhi enormi sul viso scarno – Poco dopo scoprimmo che non esistevamo più, l’Alleanza ci congedò, dicendoci che, malgrado l’ottimo lavoro svolto …- storse le labbra in una smorfia sarcastica - … noi non esistevamo, ai Turian dissero che le azioni su Aephus erano opera di sbandati e terroristi, che l’Alleanza non aveva mai dato l’ordine di attaccare la colonia. Non so dirti se i Turian ci credettero oppure no, probabilmente no, ma avevano compiuto abbastanza atrocità su Shanxi da pareggiare ciò che noi avevamo fatto su Aephus. E così noi siamo stati messi da parte, dimenticati e abbandonati, e tutto quello che abbiamo fatto, il sangue che abbiamo versato, le persone che abbiamo ucciso, non è servito a niente. Non è mai servito a niente.- si strinse nelle spalle – I miei compagni, i pochi che sono tornati insieme a me, sono crollati, l’uno dopo l’altro: si sono ficcati una pistola in bocca e hanno premuto il grilletto. Rimango solo io. “Che tu possa vivere per sempre” mi disse il Turian, per questo non seguo i miei amici nella tomba: io devo vivere e ricordare. È questa la mia punizione.-
Rimasero in silenzio, intrappolati l’uno accanto all’altra, lui a chiedersi perché aveva raccontato quella storia ad una teppistella incontrata in un bar e lei a domandarsi i motivi che l’avevano obbligata ad ascoltare, col fiato sospeso e la bocca asciutta. Forse perché lui aveva bisogno di raccontare e lei di ascoltare.
Era bastato guardarsi negli occhi, quegli occhi dall’identica sfumatura verde, per capire più di quanto si potesse dire.
Sasha coprì il suo tatuaggio col palmo della mano, all’improvviso non riusciva più a sopportare di vedere quel simbolo marchiato sulla sua pelle, le tornarono in mente le parole che il Turian le aveva detto in sogno “Tu non sai niente”.
Aveva ragione, lei non sapeva niente. aveva passato la vita ad osservare il mondo attraverso il buco della serratura, convinta che ci fosse solo il bianco e il nero, il bene e il male, incapace di capire che nulla è chiaro, nulla è giusto.
Le storie di guerra che aveva sentito fino ad allora avevano tutte una morale, c’erano i buoni e i cattivi, i vincitori e i perdenti, ma una vera storia di guerra non ha mai una morale.
Non è istruttiva, non incoraggia alla virtù, non ispira eroi e punisce il male, alla fine di una storia di guerra, una vera storia di guerra, rimane solo l’idea di un enorme, grande spreco.
Nessuna giustizia. Nessuna virtù.
E lei aveva sprecato la sua vita ad odiare solo per il gusto di farlo, a giudicare senza sapere niente, ad aspettare qualcuno che non poteva arrivare.
- Non sei mai stato in piazza Syntagma, vero?-
Se quella domanda lo stupì non lo diede a vedere, si limitò a serrare la mascella con uno scricchiolio doloroso – Perché sarei dovuto andare? Il ragazzo che fece quella promessa non esiste più, da molto tempo. Se c’è ancora qualcuno che aspetta, in quella piazza, non è me che sta aspettando.-
Sasha tremò, le guance chiazzate di rosso, il cuore che le batteva all’impazzata nel petto, infilò una mano in tasca e strinse le dita attorno a una fotografia lisa e stropicciata che non aveva mai avuto il coraggio di buttare via – Nemmeno chi ascoltò quella promessa esiste più. In quella piazza avresti trovato me e io, io stavo aspettando proprio te.-
Lui spalancò gli occhi, mentre il sospetto che era rimasto nascosto nella sua mente dal momento in cui l’aveva vista diventava certezza, socchiuse le labbra per dire qualcosa, qualunque cosa, ma la voce gli morì in gola e, un istante dopo, il momento era passato.
Il barista arrivò strascicando i piedi, disse alla ragazza di seguirlo e lei, dopo avergli rivolto un’occhiata indecifrabile, si alzò in piedi e sparì dietro al bancone.
Di lei rimase solo il ricordo di due occhi verdi come i suoi, capelli rossi come i petali di un giglio e un nome sussurrato nella notte: Sasha.
 

* Vorrei poter dire di essermi inventata questo episodio, vorrei davvero che una cosa del genere non sia mai successa, purtroppo non è così. Ho scritto questo passaggio ispirandomi ad una lettera che un soldato americano spedì ai suoi genitori, dal Vietnam e che fu pubblicata sui giornali dell’epoca. Da quando l’ho letta non riesco a dimenticarla, forse ho sbagliato ad usarla in questo modo, all’interno di un contesto che è comunque ludico … ma sono dell’idea che qualunque cosa si scriva (un libro, un articolo o soltanto una fan fiction) bisogna avere qualcosa da dire, qualcosa che, in qualche modo, faccia riflettere. È per questo che mi sono permessa d’inserire questo passaggio, perché il racconto di questo soldato spiega la guerra meglio di mille trattati e discorsi, perché credo che ciò che è accaduto allora non debba essere dimenticato od ignorato. Naturalmente ho adattato alcuni passaggi affinché potessero collimare con la mia storia, spero che questa libertà che mi sono presa non sia considerata una mancanza di rispetto, l’ho fatto con le migliori intenzioni.
 

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Capitolo 7
*** La strada dei sogni infranti ***



Atene, 2172
 
Le sembrava di camminare in un sogno, dove nulla era reale e tutto possibile.
Aveva passato tutti i diciotto anni della sua giovane vita ad aspettare invano il ritorno di suo padre e adesso, che aveva smesso di sperare, lui era arrivato.
Per anni si era detta che era morto o che si era dimenticato di sua madre e della promessa che le aveva fatto… erano giustificazioni che poteva accettare, che poteva capire o tollerare.
Si era preparata per tutta la vita ad affrontare la sua morte o il suo disinteresse, ma quello che aveva trovato in fondo ai suoi occhi … quello non era in grado di affrontarlo.
L’uomo seduto al bancone del bar era solo un guscio vuoto, incapace di vivere, incapace di morire e lei non riusciva ad accettare che quello fosse suo padre.
Aveva sempre avuto la certezza che, il giorno in cui lui fosse comparso, ogni cosa sarebbe andata a posto, tutti i problemi sarebbero svaniti e avrebbero iniziato una nuova vita insieme. Una vita felice.
Ma non c’era nulla di felice, nulla di bello, nel padre che aveva appena ritrovato.
Il rumore di una porta che si apriva la distrasse e scoprì di aver seguito il barista fin nel retrobottega, dove Raul aveva il suo ufficio. Oltrepassò l’uomo che la guardava con aria insofferente ed entrò nella stanza, guardandosi intorno, smarrita; l’interno era rischiarato solo da una debole lampada appoggiata su una scrivania, dell’uomo seduto dietro si intuivano solo i contorni del corpo e le mani intrecciate sul piano del tavolo.
Alle sue spalle la porta si richiuse.
- Vieni avanti, Sasha, non ti mangio.-
Una risatina femminile accompagnò quelle parole e, quando Sasha venne avanti, notò una ragazza mezza nuda seduta sulle gambe dell’uomo dietro la scrivania. La guardava con un mezzo sorriso sulla faccia e l’aria inebetita.
Raul accarezzò languidamente la coscia della ragazza – Hai intenzione di stare lì in silenzio ancora per molto?- c’era un sorriso sul suo viso, ma la voce era tagliente come la lama di un rasoio.
Sasha notò la piega della sua bocca: l’aveva sempre definita forte ora le sembrava crudele; gli occhi, sottili e affilati, non erano penetranti, solo malevoli; il naso sembrava il rostro di un avvoltoio piuttosto che quello di un’ aquila. Fu come vedere Raul per la prima volta e, quello che vide, le fece paura.
“Tu non sai niente” le aveva detto il Turian nel sogno e suo padre gliel’aveva ripetuto col suo racconto. Si chiese se la sua ignoranza non raggiungesse l’apice proprio lì, in quella stanza.
- Volevo parlarti di Kobe.- riuscì infine a dire; quando aveva immaginato quel dialogo la sua voce era risuonata forte e risoluta, dalle sue labbra, invece, era appena uscito un pigolio.
Raul inarcò un sopracciglio mentre la ragazza la fissava, immobile, come una statua di sale – E allora parla.-
Si schiarì la voce – So che ha un debito con te.-
- Gli ho già detto come saldarlo.- la interruppe Raul con aria infastidita – Deve solo cedermi la proprietà. Mi sembra un’offerta più che generosa, quel suo squallido tugurio non vale nemmeno un decimo di quello che mi deve.-
Sasha sospirò – Quel posto è la sua casa, capo. È tutto ciò che ha: non te lo cederà mai.-
Raul si strinse nelle spalle e posò le labbra sul collo della donna – Allora me lo prenderò.-
Sasha incrociò lo sguardo della ragazza e dentro non vi lesse nulla, i suoi occhi erano quelli di un cadavere, vitrei e senza vita. Era solo un bel pupazzo che si muoveva quando qualcuno ne tirava i fili.
- Se io saldo il suo debito smetterai di tormentarlo? Kobe è solo un vecchio che vuole essere lasciato in pace. - aveva la bocca secca e parlare era difficile, soprattutto con quello sguardo morto piantato addosso: quanto ancora prima di diventare come lei? - Non ti sta sfidando né minacciando, non è niente, non è nessuno: lascia che finisca la sua vita con dignità.-
Qualunque cosa Raul stesse pensando non riuscì a intuirlo, i suoi occhi, neri come la fossa dell’inferno, erano impenetrabili.
- E come pensi di saldare il suo debito?- c’era qualcosa di raccapricciante nella sua espressione, mentre faceva scorrere piano le dita sulla coscia della donna.
Sasha infilò la mano in tasca, strinse le dita attorno alle banconote e le appoggiò sulla scrivania, accorgendosi solo allora di quanto piccola e misera apparisse quella mazzetta.
Raul rimase immobile, il mento appoggiato sulle nocche – E quello cosa sarebbe?- domandò, la voce venata di disgusto.
Sasha si torse le mani – Sono ventimila dollari …- avrebbe dato qualunque cosa per un bicchiere d’acqua, tentò di deglutire, ma la saliva era scomparsa - … più che sufficienti a saldare il debito di Kobe.-
Capì in quell’istante di aver sbagliato tutto: negli occhi di Raul lesse la sua fine.
- Ventimila dollari?- un sorriso di scherno si dipinse sul viso dell’uomo - Dollari, sei seria? Mi hai preso per un pezzente, come te?- in altri tempi si sarebbe offesa, troppo orgogliosa e stupida per accorgersi di altro. “Tu non sai niente”, eppure, adesso, stava imparando. Ma forse era troppo tardi.
 – Tu davvero credi che nella galassia, il dollaro, conti ancora qualcosa? I dollari possono andare bene per quelli come te, che non sono mai usciti dal buco in cui sono nati, gente che a malapena fa la differenza tra il commercio e il baratto.- fece una smorfia – Con quelle banconote io mi ci pulisco il culo, tesoro. I tuoi ventimila dollari sono carta straccia, persino Zoe, qui …- la donna voltò piano il capo verso di lei, come un automa - … ci sputerebbe sopra. Avanti, bambolina, dì a Sasha quanto valgono i suoi soldi.-
Con voce piatta e incolore Zoe rispose – Ventimila dollari corrispondono all’incirca a duecento crediti.-
Sasha sentì il sangue defluirle dal volto, mentre tutti suoi sospetti diventavano certezza: stupida, era stata così incredibilmente stupida.
Il suo primo istinto fu quello di voltarsi e fuggire via ma capì subito che sarebbe stata solo l’ennesima, enorme, idiozia.
Raul fiutò la sua paura come un cane rabbioso - Kobe mi deve duecentomila crediti ed è giunto il momento che questa farsa finisca. Ho aspettato un giorno di troppo.-
Negli occhi della donna, immobile sulle ginocchia del suo protettore, balenò qualcosa che forse era pietà. Fu quello sguardo, più di tutte le parole pronunciate da Raul, che la fece capitolare.
Il panico le ostruì la gola e, malgrado tutte le sue buone intenzioni, si sorprese ad arretrare, in cerca di una via di fuga.
Ma la sua ritirata si arrestò in fretta, contro la gelida canna di una pistola premuta contro le scapole.
Deglutì a vuoto mentre alzava piano le mani – Raul …- implorò: mai avrebbe pensato che la sua voce potesse suonare così supplice – Io volevo solo aiutare Kobe …-
- Aiutarlo?- Raul si alzò, scostando malamente la donna dalle sue ginocchia, la sedia strisciò sul pavimento di legno – Come potevi pensare di aiutarlo, tu, stupida nullità? Vieni qui a darmi ordini, a dirmi cosa fare …- per la prima volta ebbe paura, una paura autentica, mai provata, che blocca il respiro e congela il sangue - … tu non sai niente, ragazzina.-
Sasha chiuse gli occhi: ancora quella frase, quelle parole. Su cos’altro si era sbagliata, quanto ancora aveva da imparare?
- Ascolta, capo …-
Uno schiaffo le ricacciò le parole in gola, facendola barcollare, quando riaprì gli occhi vide Castillo incombere su di lei, furioso – Ho sopportato la tua arroganza abbastanza a lungo.- fece un cenno e delle mani l’afferrarono, trascinandola via, nell’oscurità.
Sotto la luce della lampada rimase solo lui, Castillo – Di che cosa hai paura, ragazzina?-
Sasha tentò di divincolarsi, morse e scalciò, ma non servì a niente.
Nulla di tutto quello che aveva fatto nella sua vita era mai servito a niente.
Qualcosa la colpì alla nuca e il buio divenne assoluto.
 

Si svegliò col sangue che le martellava nelle tempie e un sapore acido sulla lingua, aveva sete, un sete intollerabile.
Alzò faticosamente il capo e si guardò intorno, abbagliata dalla luce che le feriva gli occhi.
Era in uno scantinato, circondata da scatoloni di varie dimensioni, legata mani e piedi ad una sedia di metallo, la luce che l’aveva così abbagliata proveniva da una modesta lampadina che dondolava tristemente sopra la sua testa.
Non dovette sforzarsi molto per ricordare quello che era successo, dubitava che, se mai fosse sopravvissuta a quella notte, avrebbe dimenticato la bruciante umiliazione che aveva subito.
Aveva paura per quello che Castillo le avrebbe fatto ma, più di tutto, erano la leggerezza e l’ingenuità delle sue azioni a tormentarla. Si era sempre creduta più furba, più intelligente e più abile degli altri … invece era solo una come tanti. Non c’era nulla di speciale in lei, era vissuta miseramente e, altrettanto miseramente, sarebbe morta. Stava per trovare la fine davanti alla bocca di una pistola come molti altri prima di lei e come molti altri dopo.
Si era creduta la regina della scacchiera e, invece, ero solo un pedone.
La porta si aprì con un rumore di legno che gratta sul legno, l’uomo che entrò dovette faticare parecchio per far passare il corpo possente attraverso il piccolo spiraglio che aveva aperto.
Curt Weisman non era cambiato negli ultimi due anni. Sempre grosso e lento, pesante e stupido … Sasha non riuscì a trattenere un sorriso sarcastico: si era sempre creduta migliore di lui, ma ormai era evidente che, anche su quello, si era sbagliata.
Non poteva più permettersi simili pensieri.
- Ti sei cacciata in un bel casino.-
Sasha sbuffò – Me ne sono accorta.-
Curt fece una smorfia infastidita – Credo che la tua aria di superiorità sia un po’ fuori luogo, adesso.-
Erano sempre stati così crudeli i suoi occhi?
All’improvviso ricordò quello che Curt faceva ai prigionieri.
Rabbrividì e abbassò il capo, umile come mai era stata – Che cosa succede, adesso?-
- Immagino che Raul abbia in serbo qualcosa di davvero speciale per te.- stava sorridendo, lo intuiva dal tono della voce. Si domandò quando avesse cominciato ad odiarla così tanto – Al momento si sta occupando di Kobe e delle sue puttane.-
Sasha alzò la testa di scatto, così in fretta da farsi dolere il collo – Cosa?-
Le rivolse uno sguardo colmo di compatimento - Pensavi davvero che non ci sarebbero state ripercussioni? Kobe sfida Castillo da troppo tempo e tu sei stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.-
Sentì che il respiro le si bloccava in gola: tutto quello che aveva fatto le si era ritorto contro.
- Kobe non c’entra niente, lui nemmeno sapeva quello che avevo intenzione di fare!- gemette – Curt, per favore …-
Lui scoppiò a ridere – Mi piace sentirti implorare … ma stai solo sprecando fiato. Tu non sei mai riuscita a capire qual è il tuo posto, noi non siamo niente: conta solo Castillo. Mentre Kobe …- sollevò le spalle - … Kobe è una nullità, una nullità che si è rifiutata d’inchinarsi: ha sfidato l’autorità di Castillo per troppo tempo, troppo stupidamente. Non incolparti per quello che gli succederà: si è scavato la fossa da solo tanto tempo fa. -
Sasha strinse i pugni tentando inutilmente di liberarsi dalle corde che le serravano i polsi: tutto ciò che ottenne fu la pelle scorticata e un’occhiata di compatimento.
- Che cosa gli succederà?- mormorò infine.
Curt si strinse nelle spalle e accese una sigaretta – Immagino che saranno venduti.-
Sasha lo fissò, inebetita – Venduti?- aveva sentito male, doveva aver sentito male.
Curt prese un’ampia boccata – Sì.- sbuffò il fumo verso di lei – Venduti, come schiavi, probabilmente i Batarian li spediranno a lavorare in qualche miniera o li useranno per i loro esperimenti.-
Sasha si accasciò sulla sedia: la Banda della Decima Strada non aveva mai venduto schiavi, non avevano mai commerciato in esseri umani. La Banda della Decima Strada combatteva per l’umanità, non la schiavizzava.
- Curt, ma cosa stai dicendo?- boccheggiò – Vendere schiavi ai Batarian … non è vero, non l’abbiamo mai fatto, Castillo non …- s’interruppe.
Davvero Castillo non l’avrebbe mai fatto? Era l’uomo più potente e ricco della città, possibile che non si fosse mai sporcato le mani col sangue dei suoi simili?
“Ci introdurremo nei loro commerci” aveva detto, tanto tempo prima “in tutti i loro commerci”.
Sentì una fitta alla bocca dello stomaco, come se qualcuno le avesse afferrato le viscere con una tenaglia rovente, strattonò invano le corde, sentì il sangue scivolarle tra le dita, denso e appiccicoso, un ringhio che forse era un singhiozzo le uscì dalle labbra.
Come aveva potuto essere così cieca? Quante persone erano state vendute anche grazie a lei?
Le ritornarono alla mente le immagini di Mindoir, le case bruciate, i campi devastati, i corpi straziati …
Tu non sai niente.
- Come puoi accettare una cosa del genere?- sibilò – Curt come fai a …-
Il fumo le pizzicò le narici, insinuandosi nei suoi polmoni, come i vapori dell’inferno.
- È lavoro, Sasha, solo lavoro.-
Tentò di alzarsi, dimentica di lacci che la tenevano incatenata, un gemito le uscì dalle labbra quando la corda raschiò sulla carne viva, ma il dolore fisico non era niente in confronto al fuoco vivo e bruciante che la divorava da dentro – Ti rendi conto di quello che dici, di quello che fai? Parli di vendere esseri umani come se fossero bestiame! Hai dimenticato chi sei? Shanxi, i tuoi genitori …-
- Sono morti!- Curt si alzò con tale veemenza da farla ripiombare sulla sedia, immobile – Sono morti e non importa più a nessuno. Importo solo io adesso, e se devo vendere esseri umani per sopravvivere …- fece una smorfia, come a dire che nemmeno quello aveva importanza. Nulla l’aveva.
- E la vendetta?- Sasha spinse il mento in fuori, sfidandolo – Nemmeno quella importa?-
- Raul dice che l’otterremo così, che tutto quello che stiamo facendo servirà a vendicarci …-
- Come? Uccidendo altri esseri umani?-
Curt ridacchiò – È questo il tuo problema: t’importa delle cose sbagliate. Non m’interessa di quello che succede agli altri: gli alieni vogliono degli schiavi? Che se li prendano, non è un problema mio, anzi, sono disposto a vendergli chiunque se il prezzo è quello giusto.- si portò la sigaretta alla bocca e aspirò – Questo non fa di me un amico degli alieni. Continuerò ad ammazzarli perché è ciò che amo di più al mondo.- si sporse verso di lei – Capisci adesso, ragazzina?-
Sasha tirò leggermente indietro la testa, d’istinto, come se allontanarsi da lui servisse a rinnegare ciò che erano stati, ciò che avevano fatto e l’aveva aiutato a fare – Sì, ho capito che t’importa solo di te stesso e del tuo tornaconto.- tentò di riprendere il controllo della situazione, doveva farlo se voleva andarsene e salvare le uniche persone che aveva al mondo dalla schiavitù – Ma il tuo capo ti sta fregando, se non te ne sei accorto: ci paga in dollari e i dollari non valgono niente.-
Un lampo di trionfo attraversò gli occhi di Curt – Raul stava fregando solo te, ragazzina.-
Per l’ennesima volta quel giorno si sentì incredibilmente stupida.
Un rumore all’esterno li fece sobbalzare, Curt si guardò intorno, spaesato e la mano corse alla pistola, le fece cenno di stare zitta mentre si avvicinava alla porta.
Sasha scoppiò a ridere – Che cosa c’è, Curt? Che cosa senti?-
- Zitta!- sibilò mentre fuori il rumore si ripeteva, più vicino.
- Hai paura? Forse dovresti, forse stanno venendo a prendere anche te …-
- Stai zitta!- urlò, puntandole la pistola contro – Stai zitta o …-
La porta si spalancò colpendolo così duramente da farlo crollare a terra, la pistola gli scivolò dalle dita, arrancò per prenderla, un’ombra comparve sull’uscio accompagnata dal rumore secco di uno sparo.
Curt si afflosciò al suolo, urlando e imprecando, le mani strette attorno alla coscia mentre il sangue gli sfuggiva dalle dita.
L’ombra alzò la pistola, la bocca di fuoco puntata tra gli occhi dell’uomo riverso a terra … - Aspetta!- il dito sul grilletto tremò poi, dopo una lieve, impercettibile, pressione, si allontanò.
Occhi di un’identica sfumatura verde s’incontrarono mentre l’ubriacone che un tempo era stato un soldato abbassava la pistola – Spero che tu abbia un buon motivo per non ammazzarlo.-
- Chi ha detto che non lo farò?- Sasha diede un piccolo strattone alle corde che ancora la tenevano ferma – Che ne dici di darmi una mano?-
Una volta libera, Sasha si alzò, massaggiandosi i polsi sanguinolenti, si passò una mano sulla nuca, dove era stata colpita, non trovando nulla di più grave che un grosso bernoccolo che andava ad aggiungersi agli altri.
Raccolse la pistola da terra e si avvicinò a Curt che si lamentava, riverso su un fianco; sembrò non accorgersi di lei finché non udì il cane armarsi, solo in quel momento la guardò.
Non c’era paura nel suo sguardo, o sfida, solo quell’indifferenza, profonda, insondabile, che l’aveva tanto turbata mentre le parlava.
Le aveva detto che nulla era importante e ora non sembrava importargli né della vita, né della morte.
Si avvicinò, finché la canna della pistola non aderì alla sua fronte, finché non riuscì a sentire il calore del suo fiato sulla pelle e l’odore pungente del suo sudore.
- Fallo.- la incitò lui – Io lo farei.-
Posò il dito sul grilletto, sentì il gelo del metallo sulla pelle e il potere scorrerle nelle vene. Un minimo gesto, un minimo sforzo e lui sarebbe morto.
Lui perdeva e lei vinceva: di nuovo regina e non più pedone.
Sentì lo sguardo di suo padre su di sé, quegli occhi tristi che avevano visto tutto, fatto tutto. Lui avrebbe capito, lui lo avrebbe fatto, perché era un uomo morto e morto era il suo cuore.
Si alzò, tolse il dito dal grilletto e abbassò la pistola, voltando le spalle all’uomo che stava per uccidere.
- Perché?- le domandò.
Sasha lo guardò, lo guardò fisso negli occhi – Perché sono migliore di te.- lo colpì con il calcio della pistola, tramortendolo.
Gli ispezionò le tasche, trovando le chiavi della sua astroauto.
- Sai guidare una di queste?- domandò all’uomo in piedi dietro di lei, mostrandogli le chiavi. Lui annuì.
- Andiamo, allora.-
Si avviò verso la porta ma l’altro non si mosse.
- Avrei una certa fretta.- sbottò.
Lui accennò a Curt, riverso in terra, sotto di lui si era formata una pozza di sangue – È molto probabile che muoia dissanguato.- constatò.
Sasha si strinse nelle spalle – Non l’ho ammazzato. Questo non vuol dire che lo salverò.-

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Capitolo 8
*** Il sangue degli eroi ***



Atene, 2172
 
Quando scese dall’astroauto per un attimo pensò che avessero sbagliato strada. L’edificio che, per anni, aveva chiamato casa, non esisteva più. Al suo posto solo macerie fumanti e un campanello di curiosi che guardava la scena con aria allibita.
L’aria le uscì dai polmoni con un gemito roco.
Corse verso il cratere, spintonando la gente e ignorando i richiami di suo padre, un paio di mani cercarono di ghermirla ma si divincolò con tale furia, con tale forza, che poi più nessuno tentò di fermarla.
Scalò le macerie della sua casa, ignorando i detriti che le ferivano i palmi e la polvere che le bruciava gli occhi.
- Kobe!- chiamò – Louise!- come se potesse esserci ancora qualcuno di vivo, come se la carne potesse essere più resistente della pietra.
L’edificio era esploso dall’interno, aprendosi come una scatola di latta con dentro un petardo … era l’effetto di una fuga di gas o … o di una bomba.
Cadde in ginocchio tra i detriti della sua vita, riconobbe il divano coi piedi di leone squarciato a metà e i resti del vecchio lampadario sparsi sui calcinacci – Kobe, Louise!- le rispose solo l’eco della sua stessa voce.
- Sasha …- si voltò di scatto, al suono di quella voce maschile, ma era solo l’uomo che diceva di essere suo padre che, fermo a pochi metri da lei, guardava qualcosa tra le macerie di fronte a lui, un’espressione dolente sul viso.
Sasha lo raggiunse, arrancando tra i detriti, la polvere che le faceva lacrimare gli occhi – Cosa c’è? Hai …- la voce le morì in gola quando i suoi occhi si posarono su ciò che lui stava guardando.
Kobe era lì, raggomitolato sotto i calcinacci, il capo riverso di lato, gli occhi spalancati, vitrei, le mani protese in avanti, aggrappate alle macerie della casa che l’aveva ucciso.
Sasha si premette le mani sulla bocca, soffocando il grido che le era salito alle labbra, si avvicinò lentamente, inginocchiandosi piano al suo cospetto, come una penitente in cerca di assoluzione.
- Mi dispiace …- sussurrò allungando una mano tremante, accarezzò i crespi capelli bianchi del vecchio, macchiati di sangue, abbassò le dita e gli chiuse delicatamente le palpebre. Socchiuse le labbra per dire qualcosa, qualunque cosa, ma la voce si rifiutò di uscire, di formulare parole che nessuno avrebbe ascoltato e che non avrebbero reso meno grave ciò che aveva fatto.
In lontananza giunse l’eco delle sirene.
Una mano si serrò sulla sua spalla – Dobbiamo andare.-
Sasha abbassò il capo – Perché? Dovrei lasciarmi arrestare: ho causato io tutto questo, l’ho ucciso io.-
- E tutti gli altri? Le ragazze della casa, quelle che il tuo capo vuole vendere ai Batarian …-
- Forse sono qui anche loro, forse Curt mi stava mentendo e quella degli schiavi è solo l’ennesima trappola.-
Lo sentì sospirare mentre s’inginocchiava al suo fianco – O forse puoi ancora salvarle. Che cos’hai da perdere se non quello che hai già perso?-
Alzò lo sguardo su di lui, occhi verdi dentro occhi verdi, avrebbe voluto dirgli che temeva di perdere anche lui, ma guardando dentro ai suoi occhi capì che l’aveva già perso e che, forse, non l’aveva mai avuto. Quell’uomo era uno spettro e lei apparteneva a un passato che non aveva il diritto di ritrovare.
Si rimise in piedi, spazzolandosi la polvere dai pantaloni, controllò che la pistola fosse carica e annuì – All’astroporto.-
 

Il terminale era deserto, come se, all’improvviso, tutti i passeggeri e gli addetti avessero deciso di farsi un giro da un’altra parte.
Due anni prima un singolo gesto di Castillo era stato sufficiente a svuotare un bar ora, quello stesso gesto, svuotava gli astroporti.
Entrarono in silenzio, le pistole spianate e i passi leggeri sul pavimento rischiarato dalle luci della città.
Dopo le macerie, il fumo e la polvere, l’asettica modernità di quel luogo la fece sentire aliena su un pianeta alieno. Non riconosceva nulla di terrestre, nulla di umano nelle pareti lineari e spoglie, nei fiori cristallizzati nei loro vasi di metallo o nelle porte senza maniglia che si aprivano con un fruscio al loro passaggio.
Passarono da una stanza all’altra, attraverso interminabili corridoi ed immense sale d’attesa, oltrepassarono negozi sbarrati e chioschi vuoti, illuminati dalla debole luminescenza delle insegne, in un silenzio ultraterreno, nella solitudine più assoluta.
Sembrava che un cataclisma avesse colpito la Terra lasciando due soli superstiti che si barcamenavano in un mondo troppo vasto e troppo vuoto.
Poi, finalmente, sentirono rumore di passi e il suono roco di voci aliene.
Si fermarono all’imbocco dell’ultimo corridoio, quello che portava alle piste, si rifugiarono dietro due grossi vasi, nascosti solo dalle felci che si protendevano rigogliosamente verso l’alto.
Sasha sbirciò oltre il suo rifugio e sbarrò gli occhi: gli individui di guardia all’uscita non erano umani, non avrebbero mai potuto essere scambiati per umani. I corpi possenti, mastodontici, erano coperti da armature blu e bianche, nelle mani scure stringevano fucili di ultima generazione e sotto i caschi s’intravedevano volti grotteschi, nasi rincagnati e bocche con troppi denti sotto due paia di occhi privi di palpebre.
- Batarian …- sussurrò suo padre con una smorfia di disgusto.
Sasha gli lanciò una fuggevole occhiata: il braccio inutilizzabile gli pendeva lungo il fianco, inutile appendice di un corpo stanco ed emaciato, nella flebile luce dei neon il suo colorito era verdastro, le guance scavate e gli occhi infossati nelle orbite … che minaccia potevano rappresentare loro due contro i Batarian e l’intera banda di Castillo? Lui, un vecchio soldato ubriaco e lei, una ragazzina scheletrica consumata da una vita di eccessi.
Per un istante desiderò potersi voltare e tornare indietro.
Se mi guardo indietro sono perduta.
Strinse più forte le dita attorno alla pistola – E quelli sono …?- indicò le bestie sedute al fianco dei due Batarian, non le aveva mai viste dal vero, sembravano molto più grosse e micidiali che alla televisione.
- Varren.-
Suo padre si rintanò di nuovo dietro al vaso, controllando con cura la sua pistola – Sono nervosi, è solo questione d’istanti prima che ci fiutino. Non c’è un altro modo per raggiungere le piste?-
Sasha sospirò – C’è il gate principale, immagino che Castillo sia passato da lì. Ma se qui è sorvegliato là sarà …- fece un gesto eloquente – Avremo più fortuna qui, sono solo due.-
Lui scosse il capo – Se pensi che sia facile ammazzare un Batarian commetti un errore. Sono più resistenti di noi, inoltre hanno corazze, scudi, Varren e fucili semi-automatici. Ingaggiarli in uno scontro diretto sarebbe un suicidio.- si sporse leggermente per studiare la situazione – Quella porta dove conduce?- domandò, accennando a un piccola porta di servizio una trentina di metri più avanti.
- Alle piste, la usano gli addetti, ma non vedo come possiamo raggiungerla.-
- Conosci il codice per sbloccarla?-
Sasha annuì – Sì, ma …-
- Ascolta.- la interruppe, voltandosi verso di lei – Insieme non ce la faremo mai, ma …- estrasse una piccola granata fumogena dalla tasca - … posso darti il tempo per aprire quella porta.-
Sasha si accigliò – Possiamo andare insieme, il fumo ci coprirà e …-
- … e comincerebbero a darci la caccia, loro e tutti gli altri. Ma se rimango e gli darò battaglia nessuno sospetterà che c’era qualcun altro con me… almeno non subito. Posso darti un po’ di tempo.-
- Non ti lascerò morire qui!- sibilò, infuriata.
Lui sospirò – Io sono già morto e lo sai. Se non sarà una pallottola ad uccidermi lo farà una bottiglia, domani, tra un mese o tra un anno … non importa. – appoggiò la pistola per terra e le sfiorò la guancia, con l’unica mano che gli rimaneva – Ho fatto tante cose cattive nella mia vita, tante scelte sbagliate … ma questa, questa è giusta.-
Sasha si morse le labbra – E le parole del vecchio? Le hai forse dimenticate?- era meschino da parte sua usare quel ricordo per tenerlo in vita, ma l’idea di veder morire anche lui, di perderlo il giorno stesso in cui l’aveva ritrovato, le era insopportabile.
Lui non parve ferito dalle sue parole, chinò il capo di lato e le sorrise con dolcezza – Lui voleva che ricordassi e ho ricordato, voleva che soffrissi e ho sofferto, voleva che facessi ammenda e sto per farlo. Se la mia morte servirà a salvare te e le persone che ami dalla schiavitù, come potrebbe essere sbagliata? – appoggiò la testa contro la parete e chiuse gli occhi – Il vecchio capirà, so che lo farà.-
Sasha abbassò il capo, sconfitta: non c’era niente che potesse dire, nulla da replicare.
- Mi dispiace per averti condotto a questo.- mormorò, evitando il suo sguardo.
- Non mi hai condotto a niente: è stata una mia scelta e non mi pento. Voglio dirti un’ultima cosa, da soldato a soldato.- Sasha alzò lo sguardo, era sereno e sul volto finalmente rilassato riuscì a intravedere l’ombra dell’uomo che sua madre aveva amato – Non importa contro chi combatti, non importa per chi … quando viaggi lontano per combattere in terra straniera, il più grande conforto per un soldato è avere gli amici a portata di mano. Le bandiere, gli ideali …- fece una smorfia - … sul campo di battaglia non contano niente. Noi combattiamo per l’uomo alla nostra sinistra e combattiamo per l’uomo alla nostra destra. Su Aephus ho combattuto per i miei uomini, i miei amici: è l’unica cosa di cui non mi pento.-
Sasha si sporse verso di lui, posandogli un bacio leggero sulla guancia ispida – Grazie, papà. - sussurrò.
Lui distolse lo sguardo, forse per nascondere gli occhi un po’ troppo lucidi, sollevò la granata – Pronta?-
Sasha alzò la pistola – Sì.-
Il resto accadde in fretta.
Nascosta dal fumogeno Sasha corse verso la porta, mentre le pallottole crepitavano attorno a lei e i Varren ringhiavano e guaivano, accecati.
Con mano tremante inserì il codice, per alcuni terribili istanti temette che l’avessero cambiato o si fosse sbagliata, poi con un sospiro appena udibile, la porta si aprì.
Si gettò un’ultima occhiata alle spalle, verso suo padre che, accucciato dietro le felci rispondeva al fuoco nemico, sparando nel fumo.
Si portò due dita alla fronte, in cenno di commiato che lui non vide, prima di varcare la soglia e abbandonarlo per sempre.
 
Oltrepassata la porta le sembrò di essersi spinta oltre confini che mai avrebbe pensato di valicare: il confine tra l’illusione e la realtà, tra la vita passata e quella futura.
Nel cielo nero di una notte senza luna brillavano le stelle, lontane e misteriose, ma non più lontane e misteriose di quanto le apparisse ora la Terra. In un mondo senza più certezza e verità assolute poteva finalmente guardare alle stelle senza più odiarle né temerle.
Si chiese se da qualche parte, lassù, ci fosse anche per lei una famiglia per cui lottare, vivere e morire; una famiglia di fratelli, non di sangue, di spirito; fratelli cui affidare la propria esistenza, la propria vita e la propria morte.
Il rumore di un motore la riscosse e fece appena in tempo a nascondersi nell’ombra che un veicolo militare le passò davanti; riconobbe i due occupanti del fuoristrada, Finch e Roland, due membri della banda.
Mantenendosi a distanza seguì i fari del veicolo finché non capì dov’era diretto: l’hangar più lontano della pista, lo stesso dove, due anni prima, aveva fatto strage di alieni senza saperne il motivo. Il vero motivo.
Aveva voluto credere a quello che Castillo le aveva detto, ai falsi ideali della banda, a parole che aveva accettato perché era più semplice crederci che mettere in discussione tutto.
Era facile, piacevole, vivere senza farsi domande per non avere risposte.
Raggiunse l’hangar scivolando tra le ombre, come le era stato insegnato, pistola spianata e passo furtivo, esattamente come aveva fatto quella notte di due anni prima.
Trovò due uomini di guardia ai veicoli, annoiati e assonnati, fumavano e chiacchieravano, i fucili abbandonati sul fianco, i movimenti lenti e impacciati di chi è troppo sicuro: chi mai avrebbe osato attaccare Castillo nella sua tana?
Sasha si avvicinò, studiando la situazione: non poteva sparare, il rumore avrebbe richiamato altre guardie, aveva il coltello ma come fare ad eliminarli senza che uno dei due riuscisse a dare l’allarme?
Esaminò attentamente il problema finché non giunse all’unica soluzione possibile ma, perché funzionasse, doveva sperare che la notizia della sua diserzione non si fosse già diffusa, altrimenti sarebbe stata catturata di nuovo e, questa volta, nessuno sarebbe arrivato a salvarla.
Se mi guardo indietro sono perduta.
Rinfoderò la pistola e si alzò, entrando nel cono di luce che illuminava il parcheggio; le guardie scattarono sull’attenti, imbracciando i fucili – Chi va là?-
Sasha avanzò senza scomporsi, le mani sprofondate nelle tasche, l’aria sicura di chi ha il mondo ai suoi piedi – Oh, andiamo, siate seri.- continuò ad avanzare, ignorando i fucili spianati – Prometto che non dirò al capo che vi stavate grattando le palle, però dovete offrirmi una sigaretta.- disse, sfoderando il suo miglior sorriso.
I due uomini esitarono, per secondi lunghi come ore, si guardarono con aria circospetta ed ebbe la certezza di essere spacciata: loro sapevano.
Era sul punto di estrarre la pistola per salvarsi la vita ma ecco che uno dei due scoppiò a ridere e abbassò il fucile, subito imitato dall’altro – Sempre la solita scroccona, Sasha.-
Lei si avvicinò, nascondendo il sollievo dietro il sorriso spavaldo, le dita strette attorno all’elsa del pugnale – Le cattive abitudini sono dure a morire …- lo afferrò per il polso, mentre le porgeva la sigaretta, lo tirò verso di sé affondando la lama nello spazio tra le costole, appena sotto lo sterno, lo sentì sussultare sotto le dita, inclinò la lama verso l’alto, aprendogli il cuore.
Si afflosciò come un burattino cui erano stati tagliati i fili, gli occhi azzurri spalancati sul cielo nero.
L’altra guardia spalancò la bocca, esterrefatta, le sue mani scivolarono sul calcio del fucile, ma prima ancora di capire cos’era realmente successo si ritrovò riverso in terra, le mani strette sulla gola tagliata, gorgogliando grida che nessuno poteva udire.
Sasha s’inginocchiò al suo fianco, gli prese le mani tra le sue, lasciando che il sangue scivolasse via da lui insieme alla vita – Mi dispiace.- sussurrò, ricacciando indietro lacrime che non aveva il diritto di versare.
Quando le mani che stringeva divennero inerti tra le sue, si rialzò, asciugando i palmi fradici di sangue sui pantaloni, ben consapevole che nulla avrebbe mai potuto lavare via quel sangue; ma le cose erano andate in quel modo e lei non poteva più cambiarle, aveva imboccato una strada che andava in un’unica direzione: avanti.
Se mi guardo indietro sono perduta.
Raccolse un fucile da terra, controllò che fosse carico e se lo mise in spalla.
Riusciva a vedere la porta dell’hangar, un rettangolo di luce che l’avrebbe portata alla morte o alla redenzione. Si domandò se fosse rimasto qualcuno da salvare.
Non incontrò altre guardie mentre si avvicinava e fu grata di questo: il più grave difetto di Castillo era sempre stato l’arroganza. Credeva di essere invincibile, intoccabile: lei aveva intenzione di dimostrargli il contrario.
A cinquanta metri dall’hangar riuscì a scorgerne l’interno: vide una navetta , i motori già accesi, pronta al decollo. Stavano caricando la merce.
Solo che, la merce in questione, erano esseri umani. Sasha intravide la chioma bianca di Louise fare capolino tra decine di altre teste, riconobbe alcuni volti, altri le erano totalmente sconosciuti, ma tutti avevano in comune qualcosa: le catene che li legavano tra loro, serrandone i polsi e attorcigliandosi lungo i loro corpi, e l’aria da reietti.
Non era difficile immaginare da dove venissero quelle persone: dal nulla, come lei. Nessuno si sarebbe accorto della loro assenza, nessuno sarebbe mai andato a cercarli.
Sasha strinse più forte il fucile, acquattandosi contro la lamiera dell’hangar; contò una decina di uomini armati e quattro Batarian coi loro Varren, in mezzo a loro scorse l’inconfondibile sagoma di Castillo.
Non aveva speranze, questo l’aveva già capito da un pezzo, ma se fosse riuscita ad uccidere Castillo allora sarebbe morta sapendo di aver fatto almeno una cosa giusta.
Controllò per l’ultima volta il fucile, lo alzò, rivolgendo una muta preghiera ad un Dio in cui non credeva, per il semplice fatto che non voleva morire da sola.
Prese un respiro profondo e … - Sasha?-
Sobbalzò, puntando il fucile nell’ombra alle sue spalle, da dove era uscito quel sussurro che portava il suo nome.
Diòs uscì dalle tenebre, mani alzati ed espressione preoccupata – Ti ho cercata ovunque …- sussurrò.
Sasha sollevò il fucile e appoggiò il dito sul grilletto – Dammi un solo motivo per cui non dovrei spararti. Mi hai ingannata, Diòs.-
Lui scosse il capo – Ti sbagli, siamo stati ingannati tutti e due.- gli occhi di due colori diversi erano fissi su di lei, quello azzurro era sincero e il nero mentiva: quale dei due diceva la verità?
- Perché dovrei crederti?-
Lui accennò un sorriso – Sei ancora viva, no? Se fossi con Castillo avrei dato l’allarme, non credi?-
Sasha esitò, il dito sul grilletto tremò: “non fidarti” le diceva il suo cuore, ma la sua mente sapeva che, per fare quello che voleva fare, aveva bisogno di aiuto.
- Io sono dalla tua parte, Sasha.- sussurrò – Sono qui per aiutarti.-
Ricordò la tenerezza dei suoi baci e il calore del suo corpo sul suo, si chiese se, a modo loro, non si fossero amati in quelle notti passate insieme per paura di rimanere soli.
Abbassò il fucile, senza nemmeno accorgersi di averlo fatto, lo abbassò e lui sorrise.
Un sorriso cattivo, un sorriso da lupo, l’occhio nero brillò di trionfo, quello azzurro si perse nel buio.
Il dolore arrivò prima del suono, un pugno dritto nel petto, il boato dello sparo le giunse ovattato mentre già la bocca le si riempiva di sangue e le ginocchia colpivano il suolo.
Ecco, si disse, nemmeno questo ho capito.
Guardò dentro l’hangar: il portellone della navetta era chiuso, gli schiavi non c’erano più, Louise era perduta assieme a tutti i suoi compagni: non era riuscita a salvarli, né a vendicarli. Stava morendo e, nella vita come nella morte, non era riuscita a trovare un senso.
Di nuovo, il dolore arrivò prima del rumore. Questa volta fu la spalla ad esplodere in una nuvola di fiamme e cenere, il sangue le schizzò il viso e si sentì cadere all’indietro, un corpo morto in un mondo morto.
Riversa sulla schiena, le braccia sparse in terra come spighe di grano recise, osservò il cielo nero e le stelle brillare sopra di lei, rimpianse i giorni passati ad odiarle.
“Vieni con me” le aveva detto Daario, si chiese se quel ragazzo, l’unico amico che avesse mai avuto, fosse davvero esistito o era solo l’illusione di una bambina che sognava di essere amata.
“Vieni con me” le aveva detto lo spettro di un amico lontano, “Vieni con me” e non lo aveva fatto.
E adesso era tardi, troppo tardi per qualunque cosa, i sogni svaniti davanti alla bocca di una pistola, i proiettili erano l’unico pegno d’amore che avrebbe mai ricevuto.
Daario le aveva offerto le stelle, ma lei aveva scelto Diòs e i proiettili.
Forse non meritava altro.
Il volto di Diòs comparve sopra di lei, era bello come gli dèi di cui portava il nome – Niente di personale, ragazzina.-
Questa volta udì distintamente lo sparo.
La navetta passò, con un rombo, sopra il suo corpo martoriato. Oscurò il cielo e le stelle, come quei mostri venuti dallo spazio che tanto aveva temuto. Ma il vero mostro, solo ora lo capiva, giungeva dalla Terra.
L’odore di terra e gasolio le punse le narici, sfiorò con le dita il suolo su cui era riversa: non cemento, terra.
Terra di Grecia.
Un soffio caldo le accarezzò il viso.
Sorrise, o almeno immaginò di farlo, mentre il suo sangue andava a mischiarsi al sangue degli eroi che, molto, molto tempo prima, aveva fatto grande la sua patria.
 

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Capitolo 9
*** Lontano da ogni dove ***



Atene, 2172
 
Sognò un soffitto di luce, bianco e abbagliante, nell’aria c’era un odore dolciastro, un odore che sapeva di morte; ma era una morte ben mascherata, una morte nascosta. Sentì delle voci attorno al suo corpo, voci stanche e concitate, voci che urlavano e sussurravano, udì il rumore del ferro e il ronzio di macchine sconosciute.
Sognò di cadere nel vuoto, in un nero oblio senza fondo né appigli, cercò di allungare le braccia e all’improvviso si accorse di non sentire più il corpo, solo un dolore pulsante che l’avvolgeva, come un amante. Cercò di divincolarsi, boccheggiò, ansimò, tentò con tutta se stessa di sentire qualcosa di diverso da quel dolore sordo in fondo alla mente, ma non accadde nulla che le desse la conferma di essere ancora viva, ancora reale.
- Libera!- urlò qualcuno o qualcosa.
Qualcosa penetrò nel suo dolore, una scarica elettrica che la fece sussultare, una scossa che fermò per un istante la sua caduta, le parve di sentire il battito del proprio cuore, da qualche parte di quel nulla che era il suo mondo.
Lo sentì accelerare, impennarsi e poi rallentare fino a diventare più flebile di un sussurro.
- La stiamo perdendo!-
Avrebbe voluto dire a quella voce di non agitarsi: lei era già persa.
Ricominciò a cadere, sempre più in basso, e, questa volta, nulla più la trattenne.
Il buio l’avvolse e non rimase null’altro.
 
Sognò una battaglia, una grande battaglia tra uomini e mostri, in una città senza luce, in una città morta. Ascoltò il ringhio delle bestie e i gemiti di uomini morenti, vide palazzi crollare e un soldato correre tra le macerie, l’armatura ammaccata, un fucile tra le dita, il capo scoperto.
Vide il soldato accucciarsi, sparare, correre e saltare, i capelli rossi come le fiamme che lambivano la città.
C’era la morte in quel sogno, seguiva il soldato come un’ombra, talvolta si allungava a sfiorarlo, esitava e ritraeva la mano: “non ancora” sembrava dire quel gesto.
Qualcuno urlò nell’aria sterile e ferma, attraverso le lacrime scorse un soffitto di luce, lo stesso che aveva già sognato … ma era stato davvero un sogno?
Aveva caldo sotto le coperte che la coprivano, stava sudando e si sentiva spiacevolmente bagnata … la vescica aveva ceduto.
Aiuto! la testa le pulsava orribilmente Aiutatemi, qualcuno mi aiuti … Daario, Kobe, padre  … qualcuno mi aiuti …
Nessuno venne, nessuno udì. Da sola, nella bianca luce di una lampada al neon, ricadde nel sonno intriso dell’odore di piscio.
 
Si svegliò in una stanza dalle pareti immacolate, assetata e stanca come dopo una lunga corsa, c’era un semplice lenzuolo sul suo corpo ed era stata lavata, gli occhi stavano aperti a fatica.
Non sentiva dolore, solo un formicolio indistinto lungo tutto il corpo, ogni cosa era ovattata, i sensi annebbiati: il mondo attorno a lei era sfocato, sulla lingua sentiva un sapore nauseante di vomito e sangue, un ronzio indistinto le sfiorò le orecchie e le parve di essere sospesa nel vuoto.
Voltò appena il capo, arricciando il naso per l’odore dolciastro che aleggiava nell’aria, notò un piccolo tubicino trasparente uscirle dal braccio, collegato a un sacca piena di sangue e liquidi strani, appena dietro, seduto composto su una sedia pieghevole, in attesa, scorse l’indistinta sagoma di un uomo che non conosceva.
Non riuscì a distinguerne i tratti, ma riconobbe i colori dei suoi abiti: indossava una divisa blu e oro.
Quando vide che era sveglia l’uomo cominciò a farle delle domande, con voce monotona e incolore.
Le chiese il suo nome, da dove veniva, per chi lavorava, la bersagliò di “come, quando e perché”, ripetendo la stessa domanda, come un disco rotto, finché lei non gli dava una risposta.
E Sasha rispose. Le parole fluirono veloci dalle sue labbra, senza che potesse fare nulla per trattenerle, come se a parlare fosse un’altra persona che si era impadronita del suo corpo. Parlò come non aveva mai fatto in tutta la sua vita, parlò finché non le si inaridì la bocca e chiusero gli occhi.
L’uomo annuiva, incalzandola quando s’interrompeva con quella sua voce senza età e senza tempo che sembrava appartenere al mondo dei sogni.
Quando il silenzio calò nella stanza e l’uomo ebbe ottenuto tutte le risposte che cercava si alzò, figura indistinta sulla bianca parete della stanza, rimise a posto la sedia e se ne andò nel silenzio più assoluto, lasciandola col dubbio, mentre sprofondava di nuovo nell’incoscienza, che fosse esistito davvero.
 
Quando riaprì gli occhi era sola: nessun uomo sconosciuto seduto accanto al letto, nessuno che si muoveva attorno al suo corpo lanciando esclamazioni concitate.
Era sola e le sembrò di esserlo sempre stata.
Chi avrebbe dovuto esserci in quella stanza bianca e vuota?
Gli amici che aveva tradito o quelli che avevano tradito lei?
Coloro che aveva lasciato morire o chi aveva ucciso lei?
Mosse appena il capo, con la vaga intenzione di alzarsi e andare via, ma un dolore lancinante l’aggredì, immobilizzandola sul letto, facendole spalancare gli occhi e digrignare i denti. D’istinto strinse i pugni attorno alle lenzuola e lingue di fuoco le lambirono la carne, lapilli incandescenti eruttarono dalla sua spalla per spargersi lungo il suo corpo, trasformandola in un ammasso di carne agonizzante.
Cercò di calmarsi, di focalizzare la sua attenzione su qualcosa che non fossero quegli artigli che la dilaniavano da dentro, ma non c’era nulla di rassicurante nella stanza in cui si trovava, solo bianche pareti e una finestra con gli scuri abbassati. Era sola, perduta e tradita, non più padrona del suo corpo, né del suo destino.
Rivide la pistola nelle mani di Diòs, rivide la sua espressione di gelida indifferenza mentre premeva il grilletto e si liberava di lei come di una fastidiosa escrescenza.
Castillo aveva venduto la sua gente ai Batarian e forse anche lei aveva subito lo stesso destino, dopotutto non era nello stile di Castillo concedere una rapida morte a chi lo tradiva.
Si chiese che cosa i Batarian avrebbero fatto di lei.
Cominciò ad agitarsi, il cuore che batteva frenetico, pompando sangue e paura nelle sue vene; e con la paura cresceva anche il dolore.
Il panico le ostruì la gola, i muscoli si contrassero, strappò il tubo che aveva infilato in vena, convita che fosse solo il preludio dei terribili esperimenti che avrebbero condotto su di lei.
Nella follia che le pervadeva la mente persino il dolore delle ferite scomparve.
Si alzò, le gambe cedettero e crollò in terra, ma non si arrese, trascinandosi sul ventre seguita da una scia di sangue, denso e rosso sul pavimento immacolato.
Da qualche parte risuonò un allarme.
Passi risuonarono nel corridoio, le porte si spalancarono, voci concitate l’aggredirono. Urlò mentre mani avvolte da guanti di lattice l’afferravano, scalciò, morse e sputò mentre la costringevano di nuovo sul letto, si aggrappò ai camici bianchi, strappò le mascherine che coprivano i volti e si fermò.
I suoi aggressori erano umani.
Quell’attimo di esitazione le fu fatale, l’ago di una siringa le bucò la pelle e l’oblio tornò ad avvolgerla.
 

Si risvegliò stesa nel letto, la flebo di nuovo infilata nel braccio, polsi e caviglie assicurati al letto, sentiva la testa pesante e i sensi ovattati, come dopo una serata passata a imbottirsi di droga.
- Spero che non ripeterai la crisi isterica di questa mattina.-
Sobbalzò al suono di quella voce sconosciuta, voltò appena il capo e scorse un uomo seduto accanto al suo letto. Se fosse lo stesso che l’aveva riempita di domande in un tempo indefinito, non riusciva a ricordarlo.
Ma indossava la stessa divisa blu e oro.
Sasha tentò di deglutire, ma inghiottì solo aria che le raschiò la gola riarsa – Dove sono?- gracchiò – Cosa volete da me?-
L’uomo parve stupito – Sei in ospedale.-
Sasha si accigliò, cercando di liberarsi dalle cinghie che la serravano, sentiva ancora dolore, ma era distante e ovattato come se l’avesse solo sognato - Cosa volete farmi?- ringhiò – Perché mi avete legata?-
Lui si accigliò – Per evitare che ti facessi del male. Di nuovo. I medici stanno cercando di salvarti la vita, ma tu non sei molto collaborativa.-
Gli rivolse un sorriso amaro – Certo che vogliono salvarmi la vita, è difficile fare esperimenti su una cavia morta.- si divincolò – Non ho nessuna intenzione di collaborare.-
L’uomo sembrò sinceramente confuso – Cavia? Esperimenti?- scosse il capo – Dove credi di essere?-
- Non cercare di fregarmi.- sibilò – So di essere in mano ai Batarian.-
- Batarian?- l’uomo allargò le braccia – Ti sembro forse un Batarian?-
Sasha lo squadrò con una smorfia di disgusto dipinta sul viso – Non è stato un Batarian a spararmi, eppure era dalla loro parte.-
L’uomo sospirò prima di alzarsi e avvicinarsi alla finestra, premette il palmo della mano su un ologramma verde e, con un ronzio sordo, la tapparella iniziò ad alzarsi – Non sei sul pianeta dei Batarian.- mormorò – Sei a casa.-
Il sole entrò nella stanza, abbagliandola per un istante, Sasha sbatté più volte le palpebre cercando d’indovinare ciò che le si mostrava alla vista.
Poi, vide.
Enorme davanti a lei vide una grossa rocca levarsi a picco sulla città prostrata ai suoi piedi, sulla rocca, illuminato dal sole del tramonto, c’era l’edificio più maestoso che avesse mai veduto. I grattacieli di cristallo sbiadivano di fronte alle bianche colonne e alla scalinata di marmo, Sasha trattenne il fiato: mai nella sua vita aveva scorto qualcosa di altrettanto meraviglioso.
- Quello è …-
- Il Partenone.- concluse per lei l’uomo alla finestra.
Sasha boccheggiò e per un istante, un solo istante, sentì le lacrime pungerle gli occhi. Le ricacciò indietro senza troppa fatica: aveva passato la vita ad inghiottirle.
- Posso … posso avvicinarmi?-
Gli occhi scuri dell’uomo passarono dal tempio a lei per poi tornare al tempio, forse si stava chiedendo se quella vista valesse il rischio, infine decise che sì, lo valeva.
- Stai attenta.- l’ammonì – Sei ancora debole.- si avvicinò al letto e slacciò le cinghie che la trattenevano.
Sasha si massaggiò i polsi, stando attenta a non muovere la spalla, sapeva che il dolore era lì, in agguato, appena imbrigliato dai tranquillanti, pronto ad aggredirla di nuovo. Si stupì che gli antidolorifici avessero ancora un qualche effetto su di lei, dopotutto il suo corpo si era assuefatto a cose ben peggiori.
Quando espresse quei dubbi ad alta voce, l’uomo sorrise mentre l’aiutava ad alzarsi – Hanno usato una dose da Krogan.-
Sasha vacillò, assalita da un capogiro, ma rifiutò di tornare a stendersi, usando il suo misterioso accompagnatore come stampella raggiunse la finestra, dove finalmente poté guardare ciò che non aveva mai guardato, poté ammirare il meglio che l’umanità aveva da offrire.
- Mi era stato detto che volevano distruggerlo.- mormorò, incapace di distogliere lo sguardo da quello spettacolo che toglieva il fiato e annebbiava la mente.
Lui indicò due alti gru che troneggiavano sopra il Partenone, non le aveva nemmeno notate – Dovevano raderlo al suolo tre giorni fa, ma tu lo hai salvato.-
Sasha si accigliò – Io?-
- Quelle gru appartengono alle imprese Castillo, tutti sapevano chi era quell’uomo e cosa faceva, ma senza prove non c’era possibilità di fermarlo.- le posò una mano sulla spalla – Ciò che è accaduto allo spazioporto e la tua confessione ci hanno fornito le prove che cercavamo da tempo: è stato emesso un mandato d’arresto per Castillo e ogni sua attività è stata bloccata e posta sotto sigillo.- indicò le gru – Comprese le “imprese edili Castillo”: hai salvato il Partenone, Sasha.-
Lei deglutì a vuoto: desiderava disperatamente credere a quelle parole, credere di aver fatto qualcosa di buono, di aver salvato e non solo distrutto. Ma come poteva aver fatto qualcosa che non ricordava?
- Io non ho mai confessato.- sussurrò.
Lui arrossì – Lo hai fatto. Eri ancora sotto morfina e teoricamente la cosa non è legale, ma eri in bilico tra la vita e la morte, rischiavamo di perdere l’unica occasione di incastrare Castillo … - guardò il Partenone – Abbiamo approfittato della tue debolezza per estorcerti una confessione, ma se non l’avessimo fatto ora staresti guardando un enorme ammasso di macerie che un tempo era stato il gioiello del mondo. –
Sasha si morse un labbro – Mi è stato permesso di salvare qualcosa.- sospirò – Grazie. Che ne è di …- strinse i pugni – Che ne è di Castillo?-
- Fuggito con buona parte della banda e un numero imprecisato di schiavi.- Sasha chiuse gli occhi – Ma lo prenderemo, tutta la galassia ora sa chi è e che cosa ha fatto. Non può nascondersi.- lo sentì stringere le dita attorno alla sua spalla – Salveremo i tuoi amici, fidati di me, hai la mia parola.-
Lo guardò attentamente per la prima volta: non era più un ragazzo, più vicino ai quaranta che ai trenta, indossava la sua divisa blu e oro come se ci fosse nato dentro, come se il solo fatto di indossarla lo portasse a conoscere il mondo meglio di chiunque altro. Si sbagliava: lui non sapeva niente del mondo, lei invece sì.
- Conosco Raul e i suoi metodi: a quest’ora si sarà già liberato di loro. – si divincolò dalla stretta, appoggiandosi al bordo della finestra – Non c’è più nessuno da salvare.-
L’uomo si accigliò – Erano tuoi amici … dovresti avere speranza, almeno quella.-
Sasha fece una smorfia amara – Che cosa me ne faccio della speranza? Le persone che conoscevo sono morte …- sventolò una mano - … o schiave, non c’è differenza. In che cosa dovrei sperare? Nell’Alleanza o nel buon cuore dei Batarian? La speranza è per i bambini e io non sono più una bambina.-
Lui parve offendersi – L’Alleanza …-
- Mi hanno raccontato che cosa fa l’Alleanza.- lo interruppe lei, gelida.
Si guardarono in cagnesco per qualche istante finché una fitta al costato non le ricordò ciò che era accaduto, a quel punto una risatina sarcastica le sfuggì dalle labbra: stava di nuovo cadendo nello stesso, vecchio, errore, quello di credere di sapere tutto solo perché le avevano raccontato qualcosa.
Tutto ciò che sapeva dell’Alleanza lo aveva appreso dalle parole disilluse di un uomo spezzato, lui stesso le avrebbe detto, con quella sua aria malinconica, che se lui aveva ottimi motivi per odiare l’Alleanza, lei non ne aveva alcuno.
Un’altra fitta la fece sobbalzare e Sasha si guardò intorno, improvvisamente frenetica, come se suo padre potesse apparire d’incanto per tenerle la mano e dirle che andava tutto bene.
- Che ne è stato dell’uomo che era con me allo spazioporto?- domandò, odiandosi per non averlo fatto prima.
L’altro esitò – Quale uomo?-
Sasha fissò il suo interlocutore – Mio padre, un veterano dell’Alleanza, l’ultima volta che l’ho visto stava distraendo i Batarian per darmi una possibilità di raggiungere le piste.-
Lui sembrò chiedersi se lo stesse prendendo in giro oppure no, infine decise che meritava una risposta: - Non c’era nessun’altro con te. Eri sola.-
Sasha impallidì – Come sarebbe a dire “nessuno”? C’era un uomo con me, un soldato …- si morse le labbra – Devono averlo portato via …-
La risposta tardò ad arrivare, come se l’uomo in piedi davanti a lei, non fosse in grado di trovare le parole per dire quello che doveva dire – Abbiamo guardato le registrazioni, i video di sorveglianza … ecco …- accese uno strano marchingegno che aveva attorno al braccio, una specie di guanto virtuale, arancione e luminescente, che proiettò delle immagini sul suo schermo fatto di aria e polvere; Sasha vide se stessa in quei filmati, una ragazzina smunta che si aggirava per i corridoi deserti dello spazioporto, pistola spianata e volto risoluto: sola. Continuò ad osservare mentre le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, in attesa che comparisse quel padre che, finalmente, era arrivato da lei.
Non comparve nessuno. Suo padre non apparve sullo schermo né sull’uscio della stanza d’ospedale, era sola e forse lo era sempre stata.
- Non capisco …- distolse lo sguardo dal filmato e lo fissò negli occhi neri di quello sconosciuto che era l’unica persona rimastale al mondo – Lui era con me.-
- Mi dispiace.- mormorò l’altro spegnendo il proiettore – L’uomo di cui parli non esiste.-
Un’altra voce si sovrappose a quella del soldato che le stava parlando, una voce malinconica e stanca che raccontava di promesse tradite e uomini abbandonati: “l’Alleanza ci congedò, dicendoci che, malgrado l’ottimo lavoro svolto noi non esistevamo.”
Sasha si appoggiò alla finestra osservando le antiche meraviglie che aveva contribuito a salvare, si domandò se l’uomo alle sue spalle fosse consapevole di ciò che i suoi superiori avevano fatto: cancellare l’esistenza di un uomo e negarne persino il ricordo.
- Sì.- mormorò, cercando di nascondere il tremito della sua voce – Immagino di averlo sognato.-
L’ufficiale le posò una mano sul braccio – È normale, hai subito un grave trauma.- c’era condiscendenza nella sua voce e pietà – Cerca di riposare e quando sarai guarita tutto questo ti sembrerà solo un brutto sogno.-
Sasha non lo guardò, se l’avesse fatto non sarebbe riuscita a trattenere le parole velenose che le erano salite alle labbra, ma per quanto vuote e insensate fossero le parole di quell’uomo lui non aveva colpa per quello che era accaduto. Solo lei l’aveva.
- Hai reso un grande servizio all’umanità.- concluse lui – Addio, Sasha e buona fortuna.- esitò, in attesa di una risposta che non giunse, dopo qualche secondo lo sentì sospirare e allontanarsi. Quando la porta si richiuse alle sue spalle Sasha si ritrovò sola. Di nuovo.
Si chiese cosa ne sarebbe stato della sua vita, adesso che tutto ciò che conosceva era andato perduto.
La sua esistenza era stata misera e squallida, ma era sua e pensava che nulla avrebbe mai potuto togliergliela. Kobe, Louise e la Banda erano i pilastri su cui aveva costruito tutto ciò che era, senza di essi si sentiva come un naufrago in balia della tempesta. Dove l’avrebbero portata le onde?
Guardò il Partenone dominare la città, i secoli erano scivolati sulle sue colonne come il vento sulle montagne, lo avevano eroso ma non abbattuto, mai abbattuto. E persino ora che l’era degli uomini sembrava giunta al termine lui resisteva.
I suoi occhi scorsero le morbide linee delle colonne e l’eleganza delle sue forme, si disse che era stata lei, nella sua follia, a salvarlo, lei che aveva sfidato Castillo e abbandonato i suoi amici.
Morte e schiavitù avevano pagato il prezzo del Partenone. Si chiese se ne valeva la pena.
Socchiuse le labbra, mentre il sole tramontava lentamente ad ovest, illuminando l’Acropoli e le sue meraviglie – Sì.- rispose a se stessa – Ne valeva la pena.-
L’essenza dell’umanità risiedeva in quelle pietre rese immortali dal sangue di chi, per secoli, aveva combattuto ed era morto per esse.
Il ricordo è l’unica cosa che importa davvero, l’unica immortalità che gli uomini possono desiderare.
Sasha strinse i pugni mentre pensava a suo padre e al suo destino, l’Alleanza aveva compiuto il più atroce dei crimini, la più efferata crudeltà che si può infliggere ad un uomo: l’oblio.
Rabbrividì: no, non lo avrebbe permesso.
Il monumento di fronte ai suoi occhi gridava al mondo che la memoria degli uomini non poteva essere cancellata, che senza il passato non poteva esserci alcun futuro, perché il fine ultimo dell’umanità altro non è che scrivere la storia: si può essere perduti, ma non dimenticati.
Lei aveva perduto suo padre, ma non l’avrebbe dimenticato. Lui aveva salvato la sua vita, lei ne avrebbe salvato il ricordo e per farlo doveva ricalcarne le tracce.
Si alzò barcollando, ritornò a letto e si sdraiò con una smorfia di dolore. Mentre gli ultimi raggi del sole le sfioravano il viso, sorrise: per la prima volta da quando era nata aveva uno scopo. Non morte, non distruzione, nemmeno vendetta, doveva concludere la missione di suo padre: cambiare il mondo.
Estrasse la foto sgualcita dalla tasca – Tu esisti e io lo dimostrerò.- promise fissando quegli occhi verdi come i suoi.
Solo l’Alleanza poteva fornirle le prove dell’esistenza di suo padre e per averle doveva diventare una di loro.
Si abbandonò sui cuscini e mentre scivolava nel sonno si domandò come le sarebbe stata quella divisa blu e oro.

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Capitolo 10
*** Nome e Cognome ***



Atene, 2172
 
Si fermò davanti alle porte dell’ospedale, inspirò a fondo accogliendo con gioia l’odore del mare e il calore del sole sulla pelle. Era rimasta bloccata tra quelle asettiche pareti bianche per tre settimane, soltanto ora, col cielo azzurro sopra la testa, si sentiva finalmente guarita. Era bello tornare alla vita.
Il vociare dei passanti e il ronzio delle astroauto sopra la testa la riportò al presente, estrasse dalla tasca il piccolo foglietto su cui un infermiere gentile le aveva segnato le indicazioni che aveva chiesto, sospirò preparandosi ad una lunga camminata.
Quando arrivò a destinazione, due ore dopo, era sfinita. Il fianco e la spalla bruciavano, e aveva la gola riarsa, si disse che doveva solo stringere i denti e resistere ancora per poco, finché la sua nuova vita non fosse cominciata.
Ma quando fu in vista del Centro di Reclutamento dell’Alleanza dovette ricredersi. L’infermiere l’aveva avvertita che ci sarebbe stata molta gente, ma in quel contesto il termine “molto” era assolutamente riduttivo.
Davanti a lei si dipanava una lunga, tortuosa, fila di persone che, dalle porte spalancate dell’edificio fatiscente, si srotolava lungo la strada per più di cento metri. Boccheggiò e raggiunse l’inizio della coda, tra le occhiate malevole di chi aspettava, lì la ressa era tale che non si riusciva nemmeno a vedere quello che c’era dentro.
- Cosa credi di fare, ragazzina?- l’apostrofò un tipo butterato con i capelli rasati e il collo tatuato.
Sasha gli rivolse uno sguardo opaco – È qui che ci si arruola?- domandò con un filo di voce.
- Sì. - ruggì l’altro prima di indicare il fondo della fila – E ora mettiti in coda come tutti gli altri. Non cercare di fare la furba o ti stacco la testa.-
Era stata oggetto di minacce ben peggiori e la smorfia cattiva dell’uomo non la impensierì, tuttavia seguì lo stesso il suo gentile consiglio e risalì la fila finché non giunse alla fine; si fermò dietro una ragazza ossuta, poco più grande di lei, e si predispose ad una lunga, lunghissima, attesa.
Le ore passarono e la fila si mosse lentamente, dietro di lei si ammucchiarono altre persone mentre, davanti, tutto sembrava immutato.
Il sole ardeva sopra le loro teste e il sudore le scendeva lungo il collo come acqua piovana, un paio di persone si sentirono male e vennero portate via a braccia, Sasha se ne rallegrò, mentre, a piccoli passi, chi era dietro riempiva i vuoti che si erano creati.
Nei momenti più caldi della giornata alcune persone passarono a distribuire bottigliette d’acqua e lei vi si aggrappò come a un’ancora di salvezza, non aveva mai patito tanta sete e caldo in tutta la sua vita; le ferite pulsavano e le bende la stringevano insopportabilmente, eppure si costrinse a stare ferma al suo posto, ad aspettare, perché non c’era nient’altro che potesse fare.
Se avesse rinunciato persino all’Alleanza che cosa le sarebbe rimasto?
Niente.
Era sola. Era perduta.
Osservò la gente in coda che, rassegnata, aspettava di varcare quella porta alla ricerca di una vita migliore. Non aveva mai pensato che nella città, nella sua città, ci fossero così tanti disperati. Si era creduta unica nella sua sfortuna, aveva sempre pensato che la sua storia avesse qualcosa di speciale, qualcosa che la rendeva diversa dal resto del mondo: lei aveva passato il peggio. Chi altri poteva dire altrettanto?
Ma ancora una volta si era sbagliata e la realtà delle cose le si era presentata nel più brutale dei modi. Quel serpente di gente disperata che si dipanava di fronte a lei le urlava in faccia che c’erano migliaia, milioni, di persone che avevano passato il peggio. Come lei c’era tutto un mondo.
Sopra le loro teste stanche il sole descrisse il suo arco e poi tramontò dietro i palazzi scintillanti della città dei ricchi.
Una sirena ululò e un coro di protesta si levò dalle persone in attesa, ci furono bestemmie e lanci di bottiglie, ma alla fine anche quel piccolo moto di ribellione si placò e la gente cominciò a sedersi lì dove era rimasta in piedi fino a quel momento.
Sasha si guardò intorno, sbigottita, senza capire cosa stesse succedendo.
La ragazza davanti a lei notò il suo sguardo e le sorrise invitandola a sedersi – Orario di chiusura, tesoro.- prese un pacco di biscotti dallo zaino e lo aprì – Riaprono domani mattina.-
Sasha si accigliò – E quindi cosa succede? Ce ne dobbiamo andare?-
L’altra rise – Andare dove? E per cosa? Per tornare domani e ricominciare tutto da capo? – le porse un biscotto – Dormiamo qui e vediamo come va domani, ho dormito in posti anche peggiori. Tu no?-
Sasha non poté fare altro che darle ragione, si sedette con una smorfia, rimpiangendo il letto morbido dell’ospedale e i pasti caldi, accettò con gratitudine il biscotto che le veniva offerto.
- Non pensavo che tanta gente volesse arruolarsi.- constatò dopo qualche istante passato ad osservare la strada che si trasformava in un accampamento.
La ragazza si strinse nelle spalle, spostando i capelli tinti di biondo che le erano ricaduti sul viso – Per molti è l’unica alternativa al morire di fame, per strada.-
- E l’Alleanza accetta tutti?- domandò Sasha, allibita.
La ragazza scoppiò a ridere e le rivolse un’occhiata strana, quasi di commiserazione – Ma dove diavolo hai vissuto fino adesso?- Sasha si sentì quasi offesa dal suo tono, avrebbe voluto rimbeccarla e dirle che aveva fatto e visto molto più di lei, ma si morse la lingua e le fece cenno di proseguire: era stata smentita già troppe volte nell’ultimo mese. Forse quella ragazza aveva ragione: chiusa nel suo quartiere non aveva mai nemmeno alzato gli occhi verso il cielo, che ne sapeva, lei, della vita? Conosceva solo la morte e persino quella si faceva beffe di lei, adesso.
- Credi che entrare lì dentro e mettere una croce su un datapad ti rende un soldato?- proseguì la sua compagna con un sorrisetto ironico – No, quello è solo il primo passo. Poi ci sono test, controlli medici e chissà quali altre diavolerie … li vedi tutti ‘sti sfigati? Beh poco più di una manciata passeranno i test e a quel punto non saranno ancora soldati, no signora, saranno solo reclute da addestrare. – si appoggiò al muro e affondò la mano nel pacchetto di biscotti – Ci vuole una bella guerra, te lo dico io, allora quelli dell’Alleanza si fanno andare giù anche noi, altrimenti … anche la vita del soldato è per pochi eletti, al giorno d’oggi.-
- E allora perché sei qui, se sai che non c’è speranza?-
L’altra le lanciò un’occhiata penetrante che la costrinse ad abbassare lo sguardo – Sono qui per lo stesso motivo tuo e scommetto che è uguale per tutti: preferisco tentare tutte le strade, anche questa, prima di tornare a batterle.-
Sasha lasciò vagare lo sguardo lungo strada che diventava via via più buia, a malapena illuminata dalle debole luminescenza dei lampioni e dalle luci alle finestre. Si chiese che cos’avrebbe fatto lei se l’Alleanza l’avesse rifiutata. Si morse il labbro: sciocca, era stata sciocca per l’ennesima volta, convinta che bastasse mettere una firma da qualche parte per salvarsi da una vita di miseria.
- Hai detto che persino l’esercito è per pochi eletti …- argomentò con quella ragazza che sembrava sapere tutto senza dover chiedere niente – Eppure non ce li vedo i ricchi a patire questo per indossare una divisa.-
- Tsk.- l’ennesimo sorriso sarcastico e accondiscendente – A loro basta accendere un terminale e collegarsi a extranet, compili un modulo, lo invii e loro ti dicono dove e quando andare a fare tutti i maledetti esami.- una smorfia – E qualcosa mi dice che loro l’esame per i pidocchi non lo devono fare.-
Sasha si fissò le unghie reprimendo la voglia di darsi una grattatina alla testa – Come fai a sapere tutte queste cose?-
L’altra distese le lunghe gambe e chiuse gli occhi – Semplice: mi sono scopata un ufficiale. Ora piantala con le domande.- sbadigliò – Cerca di dormire.-
Sasha tacque mentre il respiro della sua compagna diventava sempre più regolare, non aveva sonno e così riprese a studiare la gente che la circondava, le sarebbe piaciuto fare due passi per sgranchirsi le gambe ma non osava allontanarsi per poi scoprire che le avevano rubato il posto. Aveva peccato d’ingenuità molte volte, si ripromise di non farlo più.
Mentre sulla strada scendeva la quiete e i respiri si regolarizzavano si chiese se non fosse il caso di sgattaiolare in avanti e infilarsi silenziosamente all’inizio della coda. Molti stavano dormendo e al mattino nessuno avrebbe avuto la certezza che lei non fosse mai stata lì. Si era quasi decisa e stava per scattare avanti quando uno scoppio di voci lacerò la notte silenziosa, risuonarono insulti e poi volarono i pugni in una rissa in piena regola.
Qualcuno aveva avuto la sua stessa idea.
Incrociò gli occhi grigi della sua compagna – Eh sì …- ammiccò prima di rimettersi a dormire, o a fingere di farlo.
Rassegnata a stare al suo posto Sasha lasciò che i pensieri scorressero a briglia sciolta e s’incastrassero l’un l’altro come i pezzi di un puzzle.
Si chiese se anche Daario, due anni prima, avesse patito tanto: probabilmente no.
Daario non era certo ricco e nemmeno benestante, ma non viveva nella miseria e nella povertà, persino lui, nella sua misera stanzetta incastrata in un sottotetto, possedeva un computer. Daario che andava a scuola e giocava a pallone e cenava insieme ai genitori.
Lo aveva invidiato per tutta la vita.
Sorrise, senza accorgersi di farlo, mentre ricordava il tempo trascorso insieme al suo unico amico, quell’amico che, ogni volta che tornava da scuola, la raggiungeva sul tetto per insegnarle quello che aveva imparato, e lei lo ascoltava, rapita, mentre le parlava di storia e letteratura, mentre le mostrava come si risolvevano le equazioni e le svelava i segreti delle lettere. Daario con i suoi occhi neri e … e … si accigliò: il ricordo del suo volto le sfuggiva dalla mente. Che forma avevano il suo naso e la sua bocca? Di che colore erano i suoi capelli?
Due anni erano passati da quel bacio sul tetto, due anni dal giorno in cui si erano detti addio. Lui non era tornato e ora non avrebbe più saputo dove trovarla. Si erano perduti e non si sarebbero più ritrovati, lui aveva dimenticato il suo viso come lei stava dimenticando il suo.
Uno spicchio di luna illuminò il cielo e Sasha piantò gli occhi su di essa, lasciandosi abbagliare dalla sua debole luminescenza, sperando che potesse scacciar via i ricordi e l’amarezza insieme. Non voleva più ricordare chi aveva perduto, per la prima volta voleva solo dimenticare.
Daario, Kobe, Louise, Diòs e Castillo … persino suo padre.
Sobbalzò: aveva promesso alla fotografia di suo padre che lei non l’avrebbe dimenticato, ma ora persino quella promessa le sfuggiva tra le dita.
Perché ricordare qualcosa che non aveva mai avuto? Perché soffrire per chi era morto e se ne era andato? Lei voleva solo dimenticare e ricominciare tutto da capo, una nuova vita in un nuovo mondo.
Forse si era appisolata perché quando guardò di nuovo il cielo la luna era scomparsa per lasciare il posto al flebile chiarore dell’alba, Sasha si riscosse chiedendosi per l’ennesima volta cosa ci facesse lì. Una fitta alla spalla le diede la risposta: era lì perché non sapeva dove altro andare, era lì perché non voleva più rimanere sola.
Non era la vendetta a muoverla e nemmeno una sciocca promessa: era la disperazione, solo quella.
La sirena risuonò nell’aria e, come molle, tutti balzarono in piedi, nella speranza che quello fosse davvero un buon giorno.
 
Entrò nell’edificio sul far della sera, quando ormai cominciava a disperare di farcela prima della chiusura. Dentro faceva quasi più caldo che fuori, con il calore dei corpi che si mescolava a quello dell’aria. Lentamente, un piccolo passo dopo l’altro, fu in vista del bancone, infine fu finalmente il suo turno.
L’uomo seduto dietro lo schermo sembrava stanco quasi quanto lei, la pelle grigia e gli occhi segnati da profonde occhiaie. Le lanciò un’occhiata opaca prima di tornare a fissare il terminale – Documenti.- disse, con tono annoiato.
Sasha sbiancò: non aveva documenti.
Quando, con voce tremante, glielo disse, l’uomo sbuffò, come se non si fosse aspettato altro – Allora dammi le tue generalità.-
Sasha si guardò intorno, spaesata: che cos’erano le “generalità”?
- Nome, cognome, data di nascita … quelle robe lì.- sbottò l’uomo con aria disgustata, come se non avesse fatto altro che ripeterlo tutto il giorno.
Sasha trattenne a stento un insulto: quell’uomo sapeva benissimo che le persone che aveva davanti non erano affatto istruite, eppure non faceva il minimo sforzo per venir loro incontro, si divertiva a usare le sue parole difficili per rimarcare la differenza tra loro e lui.
- Mi chiamo Sasha …- esitò, per l’ennesima volta: lei non aveva nemmeno un cognome! Si sentì sprofondare e all’improvviso desiderò non essere mai andata in quel posto, a subire lo sguardo disgustato di quell’ometto che credeva di essere migliore di lei.
- Nessun cognome, eh?- sibilò lui, sarcastico, prima di sospirare come se tutte le sfortune fossero capitate a lui – Beh non resta che trovartene uno, a chi vuoi che importi? – Sasha strinse i pugni e digrignò i denti mentre, con orrore, sentiva lacrime di umiliazione pungerle gli occhi. S’impose di ricacciarle indietro, l’ultima cosa che voleva era mettersi a piangere davanti a quell’individuo spregevole.
Gli occhietti neri dell’uomo si posarono sui suoi capelli e le rivolse un sorriso beffardo sotto i baffetti perfettamente curati – Sasha Red, andrà bene.- annunciò, inserendo i dati nel terminale ed ignorando la sua espressione furente.
- No, aspetta …-
Lui zittì la sua protesta con un’occhiata rabbiosa – Data e luogo di nascita: forza c’è gente che aspetta.-
Sasha inghiottì fiele – Atene, il …- ruotò gli occhi: nemmeno la data sapeva, solo l’anno. Disse la prima cosa che le veniva in mente – Il 4 maggio 2154.-
Lui inserì i dati e sogghignò – Buon compleanno allora.- le porse un datapad – Ecco metti pure un croce qui, dove c’è quella linea …-
- Dove c’è scritto “firma”?- lo gelò lei prendendo con rabbia il pennino che le porgeva. Mise la sua firma un po’ tremante e incerta. – Nessuna croce per me. - sibilò con aria di sfida.
Lui fece un sorrisetto accondiscendente – Guarda qui.- indicò un barra di metallo appoggiata in verticale sul bancone, una piccola luce l’abbagliò – Perfetto. Esci dalla porta alle mie spalle, sali sulla prima navetta disponibile. Ti porterà a fare i test e i controlli medici. Ecco.- le porse un cartellino appena stampato – Benvenuta nel programma di Reclutamento dell’Alleanza, Sasha Red. – distolse lo sguardo tornando a fissare il terminale – Il prossimo!- sbraitò.
Sasha fece appena in tempo a prendere il cartellino prima di essere spintonata via, si guardò intorno, alla ricerca della ragazza con cui aveva parlato la sera prima: voleva almeno salutarla. Ma di lei non c’era traccia.
Era ancora una volta sola, in mezzo a visi sconosciuti.
Si sentì mancare il fiato: dove sarebbe andata? Che cosa avrebbe fatto?
Un addetto alla sicurezza la prese per un braccio – Muoviti, ragazzina, stai ostruendo il passaggio.- la spintonò verso la porta che le aveva indicato l’uomo al bancone.
Sasha la varcò con passo incerto, barcollando come un’ ubriaca: le sembrava di essere stata catapultata in un incubo, confuso e frenetico, dove non aveva più il controllo né del suo corpo né dei suoi pensieri.
Fu spintonata in avanti e in qualche modo si ritrovò a bordo di una  navetta strapiena, non riuscì nemmeno a chiedere dove stessero andando che le porte si chiusero e la navetta decollò.
Si ritrovò a fissare il cartellino che aveva in mano, dove campeggiavano la sua foto e le sue “generalità”. Il suo sguardo era opaco, il viso smorto, i capelli rossi le ricadevano scomposti sulla fronte, non si riconobbe, come non riconobbe ciò che c’era scritto sotto.
Era Sasha Red adesso, e non sapeva chi diavolo fosse.
 
 
 
 
 
Nota
 
Questi sono capitoli di transizione, spero di non annoiarvi troppo, chiedo perdono!
Ne approfitto per ringraziare tutti quelli che mi leggono e mi supportano: grazie!
 
Un abbraccio e a presto.
 

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Capitolo 11
*** Il soldato perfetto ***


 
Stazione X35, 2174
 
Si affacciò al piccolo oblò rotondo della sua stanza, erano passati due anni dalla prima volta in cui il suo sguardo si era posato sull’infinita oscurità che alcuni chiamavano universo, eppure ancora non riusciva ad abituarsi al nero pece punteggiato di tenui bagliori che circondava la scatola di metallo in cui era confinata. Osservò le stelle brillare pigramente, lontane e misteriose, si domandò dove fosse quel Sole che in un tempo quasi dimenticato aveva riscaldato la sua pelle e accarezzato il suo viso.
Erano passati solo due anni da quando aveva lasciato la Terra per sfuggire alla miseria e all’oblio, ma le sembrava di aver trascorso nello spazio la sua intera esistenza. Di che colore erano il cielo e il mare? Che sapore aveva la pioggia?
Scosse il capo e si allontanò dall’oblò, raccogliendo la divisa blu e oro accuratamente ripiegata sulla sedia, l’indossò senza provare niente, né orgoglio né soddisfazione, solo indifferenza, come il giorno in cui l’Alleanza l’aveva accolta tra le sue fila.
Era solo un pezzo di stoffa che rappresentava qualcosa in cui lei non riusciva ancora ad immedesimarsi. Le avevano detto che l’Alleanza sarebbe stata la sua famiglia, la sua nuova famiglia. Qualunque cosa quel termine significasse, lei non l’aveva ancora compreso.
L’addestramento era stato duro, sfibrante, reso ancora più insopportabile dalle crisi di astinenza che l’avevano tormentata per i primi sei mesi. Non si era mai resa conto di quanto in basso fosse sprofondata nei suoi diciotto anni di vita e persino ora che di anni ne aveva venti, aveva sconfitto droga e alcol,  e ottenuto un posto nel cuore della galassia, beh persino ora non aveva idea di ciò che il destino le avrebbe riservato né era in grado di desiderare per sé qualcosa che andasse oltre la mera sopravvivenza.
Aveva un nuovo nome, dei nuovi abiti, una nuova casa, aveva persino un grado e un conto corrente, ma era ancora la stessa piccola mendicante che si accontentava di vivere ai margini del mondo, senza essere in grado di aspirare a qualcosa di più.
Le ritornò in mente il giorno in cui aveva affrontato la prova che l’aveva sradicata dalla Terra per gettarla nei meandri della galassia, il giorno in cui era diventata un soldato senza che nessuno le avesse prima insegnato ad essere donna.
Grigio, ora lo ricordava: era quello il colore del cielo sopra il centro di addestramento “Leonov 3” dell’Alleanza. Quando aveva guardato fuori dalla finestra aveva pensato che una lastra di metallo si fosse stesa sull’erba giallastra e i cespugli spinosi che circondavano l’edificio solitario, una steppa che si estendeva fin dove l’occhio riusciva a guardare, immota e sempre uguale a se stessa.
Aveva indossato la sua grigia divisa da recluta con la stessa indifferenza con cui ora si abbottonava quella blu e oro dei soldati.
Oggi come allora l’indifferenza era l’unica cosa che riusciva a provare. La paura, la rabbia e l’odio che l’avevano spinta in seno all’Alleanza erano solo echi lontani e sbiadite pennellate di colore sepolte sotto il manto grigio della sua esistenza.
Come in trance aveva lasciato la sua camera e percorso i corridoi del centro d’addestramento, aveva ascoltato distrattamente gli ultimi consigli che il maggiore Jack Davis aveva da dare alle quattro reclute che stavano per affrontare la prova decisiva, quella che avrebbe cambiato per sempre le loro vite. Aveva osservato i suoi compagni preparare le armi e indossare le divise col volto terreo e le mani tremanti, non li aveva degnati di una parola d’incoraggiamento quando erano scoprasi nell’arena, l’uno dopo l’altro, e quando dall’altoparlante era stato chiamato il suo nome per qualche minuto era rimasta ferma a chiedersi chi fosse quella “Sasha Red” che non si faceva avanti nonostante i ripetuti appelli. Solo quando il maggiore era entrato nella sala d’attesa chiedendole cosa diavolo stesse aspettando si era resa conto che stavano chiamando lei.
Sasha Red era lei.
Le sfuggì un’imprecazione quando un bottone ostinato si rifiutò di entrare nell’occhiello della divisa, lo strattonò brutalmente finché andò al suo posto. Sospirò lisciandosi la divisa e infilando nel colletto la medaglietta di metallo su cui era inciso il suo nome, con la coda dell’occhio scorse la sua immagine riflessa nello specchio.
A stento riusciva a riconoscersi.
Il soldato semplice Red non aveva niente in comune con la pallida, emaciata, ragazzina che infestava le strade di Atene.
I capelli ormai cresciuti erano raccolti in una crocchia serrata, i pasti regolari avevano donato al suo corpo forme che prima non esistevano e il duro addestramento aveva ingrossato i suoi muscoli, la lontananza da alcol e droghe aveva ridato colore al suo viso e sollievo ai suoi lineamenti.
Solo gli occhi erano rimasti uguali: verdi e grandi ma stanchi, come quelli di una vecchia.
Le avevano dato una divisa e un grado, la chiamavano “signora” e le parlavano con rispetto, ma sotto la maschera del perfetto soldato c’era ancora la stessa teppista senza radici che si era fatta le ossa nella periferia di Atene.
Voltò le spalle al suo riflesso e uscì, abbandonando ricordi e rimpianti nella stanza dietro di sé.
Un’inserviente l’accompagnò fino ad una piccola sala riunione che si affacciava sul piccolo parchetto artificiale posto al centro della stazione spaziale. Si disse che era ridicolo abbandonare il proprio mondo solo per poter ricreare lo stesso squallore da qualche altra parte.
L’inserviente le disse che poteva accomodarsi, ma lo ignorò, come faceva con tutti, e rimase alla finestra ad osservare il via vai di gente che popolava quella squallida stazione a margini della galassia.
Si concesse un flebile, amaro, sorriso: l’Alleanza condivideva la proprietà di quella stazione con le Repubbliche Asari ed era stupefacente considerare come le due specie riuscissero ad essere simili nello squallore.
Sentì la porta aprirsi ma non si girò finché non udì qualcuno schiarirsi la voce; si allontanò dalla finestra portando la sua attenzione sull’uomo al centro della stanza, visibilmente infastidito dalla sua scarsa considerazione del protocollo.
Decise di accettare il suo invito a sedersi solo perché era stanca di stare in piedi.
L’uomo si accomodò dall’altra parte della scrivania, spingendosi gli occhiali sul naso mentre accendeva il suo terminale.
- Soldato semplice Sasha Red.- lesse quando il suo viso pallido fu illuminato dalla malsana luminescenza dello schermo – Sasha, posso chiamarti Sasha?- lei annuì con aria svogliata - Qui leggo che hai superato brillantemente la prova d’ammissione, uno dei migliori risultati di sempre.- per un istante si ritrovò catapultata di nuovo nel simulatore, la luce, il rumore, le pallottole che fischiavano, l’adrenalina che le scorreva nelle vene come droga pura, la totale assenza di emozioni – Hai il potenziale per diventare un soldato eccezionale.- continuò l’uomo con voce lamentosa – Eppure in questi due anni di te non c’è quasi traccia: nessuna promozione, nessun elogio ma nemmeno nessuna lamentela … hai portato a termine una decina di missioni di varia entità e ogni volta con una squadra diversa. I comandanti dicono che sei un ottimo soldato, efficiente, senza paura, disciplinata e obbediente ma poi la collaborazione finisce lì. Nessuno chiede più di te, nessuno insiste per tenerti in squadra …- esitò, forse per timore di ferirla - … nessuno vuole tenerti in squadra, Sasha.- lei rimase impassibile, come se quelle parole non la riguardassero e in parte era così: tutto ciò che veniva detto in quella stanza, tutto ciò che accadeva fuori da quella stanza, ogni cosa … non c’era niente che la riguardasse.
Lui la guardò, incuriosito dalla sua mancanza di reazione – Tu sai spiegarmi perché?-
Sasha si strinse nelle spalle – Lo chieda ai miei superiori. –
- L’ho già fatto. Nessuno è riuscito a darmi una spiegazione concreta, parlano di sensazioni, d’istinto: non si fidano di te, dicono che non hai cuore.- sospirò, intrecciando le dita sotto il mento - E ora che ti ho qui davanti a me … beh sto iniziando a capirli.-
- Cosa vuole che le dica, signore?- mormorò con voce piatta.
Lui sembrò esasperato – Vorrei sapere perché sei qui, ad esempio. Perché sei entrata a far parte dell’Alleanza?-
- Era la mia unica opportunità di sopravvivere, signore.- ammise.
Fece una smorfia sorpresa – Tutto qui? Non c’è null’altro a motivarti? Ho letto il tuo curriculum, il tuo passato: droga, violenza, bande criminali. So che cosa hai fatto e cosa ti hanno fatto e so anche con non si esce dal fango con l’indifferenza.- si adombrò – Ci dev’essere qualcosa a motivarti: ambizione, rabbia, paura, odio. -
Si concesse un sorriso sarcastico – Paura e odio sono forse meglio dell’indifferenza, signore?-
Lui picchiò il pugno sul tavolo con tanta forza che la targhetta da capitano cadde in terra, fu l’unica cosa a muoversi nella stanza – Qualunque cosa è meglio dell’indifferenza!-
Sasha non si scompose – Qui è pieno di aspiranti eroi, capitano, di gente che lotta per un qualche ideale, per salvare il mondo o dominarlo, ma di soldati come me non c’è n’è nessuno e lei lo sa, altrimenti non si scomoderebbe a parlare con un soldato semplice.-
- Hai ragione: tu sei un soldato eccezionale, ma non so cosa farmene di un soldato che nessuno vuole.-
Rise, una risata che suonò vuota e metallica persino alle sue orecchie – Non sa cosa farsene di un soldato implacabile e senza paura? Può mandarmi ovunque, a fare qualunque cosa: non ho un codice morale o ideali da difendere, non ho paura di morire né una famiglia a cui rendere conto del mio destino.- si sporse verso di lui e per un istante le parve di scorgere paura in quegli occhi chiari e slavati – Io sono il soldato perfetto capitano e lei sarebbe un pazzo a cacciarmi via.-
Lui si alzò – No.- sibilò guardandola dall’alto in basso – Tu sei un’arma, nulla di più. Le armi uccidono ma non salvano niente.- piegò le labbra in una smorfia amara - Tu non salverai mai niente.-
Per un istante, mentre quelle parole riportavano in vita i fantasmi di chi non era riuscita a salvare, si sentì vacillare, poi si riscosse, fece un sorrisetto e si alzò a sua volta – Allora perché non mi rimanda a casa, capitano?-
Le rispose con uno sguardo ostile – Sei assegnata alla squadra del comandante Cross per una missione ... particolare. Se tornerai a casa oppure no, Sasha, dipende tutto da te.- le passò un datapad – Fatti trovare all’Hangar D-24 tra mezz’ora, dai questo al capitano, lui ti spiegherà i parametri della missione, ti servirà un equipaggiamento standard, l’armeria è già stata informata.-
Sasha raccolse il datapad e si diresse verso l’uscita senza dire una parola.
- Sasha …- per la prima volta dopo molto tempo riconobbe il suono del suo nome e si voltò, il capitano era in piedi davanti alla vetrata e nella luce artificiale di quella piccola stazione sperduta tra le nebulose parve assomigliare a suo padre – Hanno tentato di costruire un soldato perfetto, una volta, si è rivelato essere una perfetta macchina di morte, nulla di più. Nemmeno il più sofisticato dei computer è in grado di ricreare sentimenti ed emozioni, non ancora almeno, non si può costruire un’anima in laboratorio, non si possono insegnare pietà ed amore ad una macchina. Non sono mira e resistenza a rendere perfetto un soldato, nemmeno la forza.- la guardò così intensamente da costringerla a distogliere lo sguardo.
- E allora cosa, signore?-
- Il cuore Sasha, il cuore.-
 

Aveva lasciato lo studio del capitano ostentando la stessa indifferenza che aveva mostrato entrandoci ma qualcosa, qualcosa di minuscolo e impercettibile, era cambiato in lei. Le parole del capitano erano rimaste aggrovigliate in un piccolo angolo della sua mente e non riusciva a liberarsene; continuava a pensarci, mentre camminava, mentre indossava l’armatura e preparava le armi, si sentiva come intorpidita e perse la cognizione del tempo, quando uscì dall’armeria si accorse che mancavano solo dieci minuti alla partenza della navetta.
Corse fino all’hangar, come se avesse paura, sì: paura!, che quella navetta partisse senza di lei, all’improvviso salire su quel trasporto le parve una questione di vita o di morte.
- Ehi tu, dove chiedi di andare?- l’apostrofò un armadio in armatura quando irruppe nell’hangar avventandosi verso la navetta coi motori accesi.
- Sono stata assegnata a questa squadra, ho qui l’autorizzazione del capitano.- spiegò, ansimando e armeggiando coi lacci dell’armatura per sganciare il datapad dalla cintura. Si fermò a fissare stupita le mani che tremavano: erano anni che il suo corpo non tradiva un’emozione.
- Senti dolcezza, noi siamo in partenza: ce l’hai questa autorizzazione o no?-
Rivolse al soldato un’occhiata gelida – Dovrei parlare con il comandante …-
- Infatti lo stai facendo.- le strappò il datapad dalle mani – Forza, non abbiamo tutta la mattina.-
Sasha lo fissò, stupida: quell’uomo sembrava più un galeotto che un’ufficiale decorato dell’Alleanza.
Grosso quasi quanto la porta della navetta, tutto muscoli e tatuaggi, i capelli acconciati in una cresta alla moicana e il viso cosparso di cicatrici, solo le rughe intorno agli occhi e il sigaro tra i denti ingialliti tradivano la sua non più giovanissima età.
- Soldato semplice, eh?- sbuffò squadrandola dall’alto in basso con aria disgustata – Tipico del capitano: appiopparmi una novellina a due minuti dalla partenza. Quell’uomo mi odia.-
- Sono nell’Alleanza da due anni, signore.- puntualizzò, pentendosene immediatamente.
- E non ti hanno ancora promossa?- alzò gli occhi al cielo – Complimenti, tesoro, ti sei impegnata. Forza, sali e non fare casino.- diede un’occhiata all’orologio – A causa tua siamo già in ritardo di due minuti, fantastico.- aprì il portellone imprecando – Muovi le chiappe Cenerentola, ti spiegherò tutto mentre andiamo.- la spintonò all’interno seguendola nella piccola navetta già stipata di soldati.
- Eh no capitano, il sigaro no!- si lamentò qualcuno dal fondo.
- Oh taci, Hulk, solo a sentirti mi viene il mal di testa!- picchiò contro il vetro del pilota – Cosa stai aspettando Gengis Khan? Puoi aspettare qui tutta la vita ma a quell’Asari non spunterà il cazzo, avanti, parti!-
Il pilota bofonchiò qualcosa mentre gli altri sghignazzavano, con un lieve tremito la navetta partì. Sasha si guardò intorno, provando un vago senso di nausea.
- E questa meraviglia dove l’hai scovata, comandante? In effetti ci serviva della carne fresca, le nostre donne sono un po’ sciupate.- esclamò il soldato più vicino a lei, squadrandola con un sorriso smagliante, avrebbe voluto tirargli un pugno invece, sorprendentemente, arrossì.
- Piantala C.J., sei il solito villano.- lo riprese la biondina seduta accanto a lui, con un pesante accento francese – Non arrossire, chérie, i nostri ragazzi sono solo un po’ a corto di buone maniere.-
Sasha deglutì a vuoto, incapace di trovare qualcosa da replicare.
- Il capitano ce l’ha appioppata per la missione.- spiegò il comandante, lasciandosi cadere pesantemente su una panca – La solita novellina a cui bisogna fare da balia.- aspirò una boccata di fumo mentre lei decideva che era meglio non insistere sul fatto che fosse nell’Alleanza già da due anni , il capitano la fissò con aria polemica – Vuoi stare in piedi tutto il tempo, Cenerentola? Zar, sposta un po’ le chiappe così si siede anche lei.-
Sasha deglutì a vuoto mentre il soldato seduto dietro di lei si spostava di lato per farle spazio, si sedette sulla panca maledicendosi per la figura da idiota che aveva appena fatto, lei non era mai stata né timida né impacciata, sapeva come rivolgersi alla gente e non si era mai lasciata intimidire dall’autorità o dall’arroganza, ma l’ironia e gli scherzi la spiazzavano.
Le sembrava di essere incappata in una navetta di compagni di bevute invece che di soldati e non aveva la più pallida idea di come comportarsi.
- Non lasciarti ingannare dalle apparenza, sotto quei tatuaggi è il comandante è un tenerone.-
- E tu sei un leccaculo, Zar.- lo rimbrottò il comandante – Lascia stare Cenerentola, lei non è il tuo tipo.-
Il ragazzo lo ignorò e le sorrise.
Aveva degli incredibili occhi azzurri.
- Temo che quel soprannome ti resterà incollato addosso.- ammiccò – Poteva capitarti di peggio, te lo assicuro.- le porse la mano – Io sono Alexander Shepard, ma puoi chiamarmi Alex.-
Aveva la bocca arida e le mani paralizzate, ma in qualche modo ricambiò la stretta – Sasha.- balbettò, come una sciocca ragazzina qualunque.
In fondo alla navetta qualcuno ridacchiò – Colpita e affondata.-
Sperò che la navetta prendesse fuoco, poi si ricordò che sopra c’era anche lei.
- Benvenuta nella squadra, Sasha.-
 

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Capitolo 12
*** In missione ***



Dumat, 2174
 
Sulla navetta ebbe modo di conoscere quella squadra eterogenea e sgangherata che pareva averla accolta senza troppi problemi, la familiarità con cui le si rivolsero la disorientò, insospettì persino: non vi era abituata.
Si presentarono ad uno ad uno quei soldati uniti come una famiglia, ognuno con il proprio ruolo e il proprio soprannome: l’ingegnere e pilota Jin Jeong, soprannominato Gengis Khan per le sue origini orientali; il mastodontico Hulk, all’anagrafe Dario Cortese, un soldato tutto d’un pezzo specializzato nell’uso di armi pesanti; Nadine Dupuis, la femme fatale del gruppo, esperta in infiltrazioni, conosciuta anche come BB per la straordinaria somiglianza con la diva francese; C.J., tutto sorrisi e sfrontatezza, forse per questo gli era stato affibbiato l’appellativo di Iena; Einstein, l’altro ingegnere del gruppo, un ragazzino timido appena uscito dall’accademia che rispondeva al nome di Jake MacCoy; la sentinella, un iraniano dal nome impronunciabile che tutti chiamavano Habib e Tiger l’unico membro del gruppo a non avere un altro nome o, perlomeno, a non volerglielo dire; infine i due biotici del gruppo: Abigale, un’afroamericana muscolosa col sorriso schietto e l’aria gentile, Gunny per gli amici, e Alexander, appena promosso tenente, gli altri si rivolgevano a lui chiamandolo lo Zar, ma non aveva voluto dirle perché.
Solo il comandante sembrava sfuggire alla grandinata di soprannomi che aveva fatto piovere su quella squadra di cui era padre e fratello allo stesso tempo.
- Immagino vogliate sapere cosa stiamo andando a fare.- esordì il comandante dopo qualche minuto di silenzio, rotto solo dal rombo dei motori e dal suono dei loro respiri.
- Potrebbe essere utile, sì. – ribatté qualcuno dal fondo della navetta.
Il comandante lanciò un’occhiataccia generale e si alzò, appoggiandosi al soffitto della navetta.
- Due ore fa è arrivato un messaggio di soccorso da Dumat, una delle nostre colonie esterne: sembrerebbe siano stati attaccati dai pirati Batarian anche se non ce n’è la certezza.-
Sasha sussultò, stringendo istintivamente i pugni. Si stupì di quella reazione: le era già successo di dover affrontare dei pirati e lo aveva fatto senza lasciarsi coinvolgere, indifferente, come sempre. Eppure, adesso, quell’indifferenza sembrava scomparsa per lasciare posto a una rabbia sorda e implacabile che la spaventava e inebriava insieme.
Da qualche parte dentro di lei l’odio era tornato e con esso il desiderio di vendetta.
- Due ore?- esclamò, attirando su di sé sguardi sorpresi – Perché abbiamo lasciato che passasse così tanto?-
Il comandante si portò il sigaro alle labbra, aspirando un’ampia boccata, concedendosi qualche istante per studiarla con aria pensosa – Einstein le rispondi tu?- disse infine facendo un cenno vago con la mano.
Jake fece capolino da dietro l’incredibile mole di Hulk, i capelli scuri che gli ricadevano sugli occhi, dimostrava a malapena diciotto anni  – Il messaggio di soccorso era danneggiato.- spiegò, balbettando leggermente – Inoltre, essendo ai margini dei sistemi Terminus, abbiamo dovuto aspettare il nullaosta del Consiglio per intervenire.-
Sasha si rabbuiò: burocrazia, sempre e solo burocrazia. Aveva sperato che allontanandosi dalla Terra sarebbe scomparsa invece aveva scoperto che persino gli alieni non potevano farne a meno. Per lei che non si era mai curata delle regole era esasperante non poter fare un passo senza chiedere l’autorizzazione di chicchessia.
- Stronzate.- sibilò a denti stretti – A quest’ora se ne saranno già andati con il loro carico di schiavi. Questa missione è inutile.-
- Tieni le tue opinioni per te, soldato semplice.- ringhiò il comandante abbandonando la sua burbera bonarietà, all’improvviso l’atmosfera giocosa della navetta si fece glaciale – La nostra è una missione di ricognizione e soccorso, dobbiamo scoprire cos’è accaduto su Dumat e cercare eventuali superstiti. –
- Le regole d’ingaggio, signore?- domandò Alex.
- I nostri ordini sono chiari: nessun ingaggio a meno che non ci sparino addosso. Siamo ai confini del Terminus, l’Alleanza non è benvenuta qui: una mossa sbagliata e rischiamo di scatenare una guerra.- li fissò uno ad uno soffermandosi in particolare su di lei – Sono stato chiaro?-
- Sissignore.- risposero in coro.
Sasha si limitò ad annuire.
Il comandante le rivolse un’occhiata penetrante, ma qualunque cosa stesse per dire venne interrotto dalla voce del pilota – Due minuti all’atterraggio comandante, state pronti.-
- Ricevuto.-
 
Ad attenderli trovarono uno spettacolo desolante. La navetta era atterrata presso la torre di comunicazione della colonia, da dove sarebbe stato più facile individuare l’origine della trasmissione di soccorso, non c’era traccia di battaglia nei dintorni, in effetti non c’era traccia di niente.
Mentre scendeva dalla navetta schermandosi gli occhi dalla luce implacabile del sole di Dumat si chiese se tutto il pianeta avesse quell’aspetto squallido e morto o se avessero scelto il posto peggiore in cui atterrare.
Di certo la distesa di parabole nella piana desertica non erano quanto di più accogliente si potesse immaginare.
- Posticino accogliente.- si lamentò qualcuno, dando voce ai suoi pensieri.
Il commento fu accompagnate da risatine nervose mentre il plotone si sparpagliava attorno alla navetta per una rapida ricognizione.
In breve tempo divenne evidente che il centro comunicazioni era deserto anche se non abbandonato; qua e là si scorgevano tracce di passaggio umano, nulla più di impronte nella sabbia e attrezzi abbandonati, ma pur sempre qualcosa.
- Dumat è principalmente una colonia mineraria.- spiegò Jake, accucciandosi nella sabbia mentre accendeva il Factotum per proiettare una mappa olografica del pianeta sul terreno brullo – Noi siamo qui.- un puntino luminoso si accese sulla mappa in quello che, a tutti gli effetti, sembrava il luogo più desolato del pianeta – Kavalan è l’insediamento principale, dovrebbe distare poco più di una cinquantina di chilometri, direzione nord-ovest. Più o meno oltre quelle colline.- precisò indicando un punto alle sue spalle, dove si scorgevano dei bassi ed indistinti declivi.
- Quanti abitanti?- domandò il comandante.
- Qualche migliaio, Dumat non è certo una meta ambita dai nostri coloni. Si tratta per lo più di lavoratori stagionali.-
- Altri insediamenti?-
- Nessuno, comandante.- Jake fece ruotare la mappa, zoomando su una zona montuosa qualche chilometro a est – C’è solo un piccolo avamposto scientifico della Exogeni tra le montagne. Da quello che ho letto fanno ricerche biologiche sulle specie endemiche del pianeta.-
Il comandante annuì distrattamente – Riesci a stabilire da dov’è partita la richiesta di soccorso?-
Jake si passò una mano tra i capelli scuri – Ci vorrà tempo, signore.-
- Comandante Cross?- li interruppe Nadine, il binocolo incollato alle orbite – Ci sono delle costruzioni a un paio di chilometri, direzione sud-ovest, inizialmente pensavo fossero rocce, invece …- gli porse il binocolo – Sembra un insediamento provvisorio, tuttavia …-
Il comandante puntò il binocolo nella direzione indicata, Sasha si schermò gli occhi per osservare meglio, in effetti, nell’aria tremolante del deserto, si intravedevano sagome rettangolari e allungate, troppo regolari per essere semplici rocce.
- Cosa sono quelle cose che spuntano dal terreno? Sembrano … piloni?-
- No, sono …- Cross abbassò il binocolo e lanciò un’occhiata perplessa al suo ingegnere – Possibile che siano rovine Prothean?-
Jake aggrottò le sopracciglia mentre trafficava col suo factotum – Ha ragione comandante, in effetti c’è una piccola squadra archeologica Asari sul pianeta, sono arrivate meno di una settimana fa, per questo non erano menzionate nel rapporto. E il loro sito di scavo è esattamente …- la mappa ruotò di nuovo e un puntino luminoso si accese poco distante da loro – Tre chilometri a sud-ovest della nostra posizione.-
- Ottimo intuito, caporale.- annuì Cross restituendo il binocolo alla francese – Einstein, tu e Gengis Khan rimanete qui per individuare quel dannato segnale, tenete la armi a portata di mano e la navetta pronta al decollo. Hulk e Gunny vi forniranno copertura. Il resto della squadra viene con me allo scavo, magari troviamo qualcosa di utile.- nessuno mise in discussione i suoi ordini.
Dopo aver controllato le armi e l’equipaggiamento, la squadra si mise in marcia verso l’accampamento delle Asari, sotto il torrido sole di Dumat, lasciandosi alle spalle la navetta e i due ingegneri del gruppo.
Mentre si allontanavano Sasha si voltò a guardare la navetta, già ricoperta dalla polvere del deserto giacere all’ombra di un’enorme parabola, Jake e il pilota cinese erano scomparsi al suo interno, i due soldati erano appostati sui lati, le tute mimetiche che si confondevano con la sabbia. Provò una strana sensazione all’idea di lasciarli indietro, qualcosa che poteva assomigliare alla preoccupazione. Scosse la testa e distolse lo sguardo, controllando che l’arma fosse carica e la sicura sganciata: i sentimenti erano una debolezza che non si poteva permettere, l’unica cosa importante era sopravvivere. A qualunque costo.
Alex, accanto a lei, l’osservò controllare le armi e le sorrise, alzando i pugni avvolti dall’energia biotica – Coprimi le spalle laggiù e io farò lo stesso.-
C’era una sicurezza nella sua voce che la tranquillizzò, come se avesse il dono di prevedere il futuro e avesse visto che sarebbe andato tutto bene. Senza accorgersene si ritrovò a restituirgli il sorriso – Ti copro le spalle.- assicurò. Poi si rese conto che non sapeva cosa volesse dire.
 

Raggiunsero il campo Asari in un tempo sorprendentemente breve, come la stazione di comunicazione anche il sito archeologico era assolutamente deserto, non c’era traccia di combattimento ma sembrava che le Asari lo avessero abbandonato in fretta e furia.
Il campo era piccolo: due spartani prefabbricati simili a container e una piccola antenna satellitare, il tutto sovrastato dalle maestose e aliene rovine Prothean.
Sasha rimase a fissarle incantata: non aveva mai visto nulla di simile in vita sua. Sapeva che su Marte erano stati recuperati degli interi archivi e che la Cittadella era opera di quegli antichi ed estinti alieni, ma non vi era mai stata. In quelle maestose colonne di metallo verde, accarezzate dalla luce del sole che disegnava rivoli di lava sulla superficie abbagliante, le parve di leggere il suo destino.
Mosse un passo in quella direzione, come ipnotizzata, dimentica dei soldati intorno a lei e del pericolo mortale che stavano correndo, c’erano solo quelle rovine e le promesse di gloria inscritte sotto la superficie sfavillante.
Una mano si strinse sul suo gomito, facendola sobbalzare, Alex la fissava con aria severa e confusa allo stesso tempo – Non ti avvicinare.- sibilò, scrutando le rovine come se lo stessero minacciando – Non mi piace questo posto, l’aria è cattiva qui.- fece una smorfia, il verde delle rovine riflesso nell’azzurro dei suoi occhi – Prima ce ne andiamo meglio è. -
Sasha si divincolò dalla presa, pensando che stesse delirando poi … poi se ne accorse: un ronzio impercettibile, una vibrazione malvagia che saturava l’aria, sussurri inafferrabili come pensieri.
Deglutì a vuoto e voltò le spalle alle colonne, il cuore che martellava nel petto.
- Ci sono dei veicoli parcheggiati qui.- sbraitò C.J. da dietro uno dei prefabbricati, spazzando via i sussurri con la sua voce squillante; qualunque cosa avesse oppresso i suoi pensieri scomparve e l’aria apparve improvvisamente meno densa, il sole tornò a brillare e i contorni delle cose smisero di essere sfumati. Le sembrava di essersi appena svegliata dopo un sogno dalle sfumature confuse. Scosse la testa, cercando di schiarirsi le idee e vide che Alex, accanto a lei, sembrava altrettanto turbato.
Gli altri, invece, non parvero essersi accorti di nulla, mentre ispezionavano i due prefabbricati.
- L’antenna satellitare è stata disattivata.- constatò Tiger armeggiando sul terminale – Probabilmente non volevano essere individuate. Aspettate!- fece scorrere le dita sui comandi – Comandante, qui c’è una registrazione.-
Cross si precipitò fuori dal prefabbricato – Avviala.- ordinò affiancandosi al suo sottoposto.
Pochi istanti dopo una voce tremante ruppe il silenzio.
“ Qui squadra archeologica Dumat 1, capo ricerca Lanaya Ossani, quarto giorno. Oggi abbiamo avuto la conferma che le rovine di Dumat non sono Prothean, le rivelazioni al carbonio riportano una datazione molto più anticha, chiunque abitasse Dumat era qui da prima dell’Impero. Da quando siamo arrivate Leila soffre di terribili mal di testa, siamo riuscite a convincerla ad andare a farsi visitare, in città, Nadira l’ha accompagnata. Ora che sono sola comincio a sentirmi inquieta. C’è qualcosa di sbagliato in questo posto, spero che tornino presto, non mi piace rimanere qui da sola.”
La registrazione s’interruppe, sprofondando il campo nel silenzio. Si guardarono l’un l’altro, inquieti, mentre assimilavano le informazioni che avevano appreso. Sasha non poté impedirsi di lanciare un’occhiata apprensiva alle rovine alle sue spalle: improvvisamente le parve che fossero diventate ancora più grandi.
- C’è altro?- domandò il comandante.
Tiger annuì – Questa registrazione era di ieri, ce n’è un’altra, di circa due ore fa. Forse scopriremo cosa le è successo.-
Di nuovo la voce incerta di Lanaya Ossani li avvolse “ Non sono tornate. Passare la notte qui da sola è stato un inferno, c’erano delle cose che si muovevano nella notte, strisciavano sulle pareti, sussurravano … o forse era tutto nella mia testa, non lo so. Questo posto fa strani scherzi …” si sentì una forte scarica e Lanaya smise di parlare, ci furono alcuni minuti di silenzio, poi la voce dell’Asari singhiozzò fuori dagli altoparlanti “C’è stata un’esplosione. Ho visto una colonna di fumo levarsi dalla città, tutti i sistemi di comunicazione sono saltati, posso solo registrare. Devo andare a vedere cosa succede, Leila e Nadira sono ancora là, forse hanno bisogno di me. Capo Ossani chiudo.”
Nessuno osò dar voce al pensiero comune: se Lanaya aveva raggiunto la città difficilmente era ancora viva.
- È stata molto coraggiosa.- sussurrò Sasha.
- O molto stupida.- la corresse il comandante, pratico come sempre – Tiger fai una copia della registrazione poi disattiva il terminale, non vogliamo che i Batarian vengano a indagare da queste parti.- si portò due dita all’orecchio per attivare la radio – Einstein sei riuscito a rintracciare quel segnale?- ascoltò la risposta e annuì – Bene, caricate tutti e portate qui il culo. –
In quel momento la terra tremò e, in lontananza si sentì il boato di un’esplosione, da nord si levò una colonna di fumo.
- In città si combatte ancora.- constatò Alex, stupito.
Sasha guardò in quella direzione, sentendo le mani prudere dalla voglia di sparare a qualche Batarian: non erano arrivati troppo tardi, potevano ancora fermare gli schiavisti!
Pregò che la navetta facesse in fretta.
Come rispondendo alla sua muta preghiera il rombo della navetta invase l’aria e, in uno sbuffo di polveri e detriti, Jin fece atterrare il mezzo a pochi passi da loro.
- Il segnale proviene dalla stazione della Exogeni, sono riuscito a comunicare con i superstiti, sono una trentina tra scienziati e personale di servizio, stanno tutti bene.- li informò Jake sporgendosi dal portellone aperto.
Il comandante si caricò il fucile in spalle, facendo segno agli altri di salire sulla navetta – I Batarian hanno intercettato il segnale?-
- Dubito signore, era crittato coi codici dell’Alleanza, è impossibile che riescano a localizzarlo in meno di tre ore.-
Cross guardò l’orologio – Ne sei sicuro?-
Jake esitò, ma quando rispose non c’era insicurezza nella sua voce – Assolutamente signore.-
Cross annuì, soddisfatto – Bene, l’attacco è cominciato due ore e mezzo fa, abbiamo trenta minuti per prelevare i superstiti e andarcene senza scontrarci coi Batarian. Muoversi!-
Sasha rimase impietrita: “andarcene”? Stava davvero dicendo che avrebbero abbandonato la città al suo destino?
- E che ne sarà delle persone che sono in città, signore? A Kavalan si combatte ancora.-
Alex le lanciò un’occhiata ammonitrice da dietro le spalle del comandante, ma lo ignorò: non era arrivata fin lì per lasciare degli innocenti tra le grinfie degli schiavisti, non di nuovo.
Il comandante s’irrigidì – Non discutere i miei ordini, soldato semplice. Muovi le chiappe e sali su quella navetta!-
Fu la risposta sbagliata e, in un istante, prese la sua decisione.
Chinò il capo, celando la rabbia, passò davanti al comandante come un cagnolino bastonato, lui la seguì a bordo e chiuse il portello.
I motori si accesero e la navetta iniziò a salire, Sasha contò lentamente fino a dieci poi scattò in avanti, spalancò il portellone e si buttò fuori, atterrando agilmente sulla sabbia morbida.
Corse dietro il prefabbricato dov’erano parcheggiati un veicolo pneumatico e una motocicletta da sterrato, prese la seconda, l’accese e schizzò via in un istante: direzione nord-ovest.
La navetta rimase sospesa nei cieli sopra di lei, congelata, non si attardò a guardarla né prestò ascolto alle imprecazioni che la radio vomitava fuori, se la strappò dall’orecchio e la gettò a terra, nella sabbia.
Accelerò e in un attimo si lasciò dietro tutto: le rovine, la navetta e la sua squadra. 

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Capitolo 13
*** Game over ***



Dumat, 2174
 
Cross vomitò una quantità incredibile di imprecazioni e, mentre spostava con veemenza la sua mole da una parte all’altra della navetta, tutti temettero che li avrebbe fatti schiantare.
Alex non lo aveva mai visto così infuriato e aveva ragione: il comportamento di Sasha rischiava di compromettere irrimediabilmente la missione oltre che la sua vita.
Shepard sapeva che la scelta del comandante sarebbe stata quella di abbandonare la ragazza al suo destino e, infatti, pochi istanti dopo diede ordine a Jin di proseguire come stabilito.
Alex scattò in piedi, imbracciando il fucile – Chiedo il permesso di scendere a terra, signore.-
Cross gli lanciò un’occhiata di fuoco – Permesso negato.-
- Insisto, signore: non è nostra abitudine abbandonare un membro della squadra.-
- Ha scelto lei di abbandonare noi, Shepard!- gli urlò contro, a un centimetro dal suo viso – Quella stupida ragazzina sta andando incontro a morte certa, non è mia intenzione compromettere la vita dei miei soldati a causa sua!-
- Lo ha detto lei signore: è una ragazzina, vuole davvero lasciarla morire?- non aveva intenzione di cedere e lo sapevano entrambi – Inoltre potrei riuscire a fermarla prima che raggiunga la città e allerti i Batarian.-
Cross fece un passo indietro e Shepard seppe di averla spuntata – Fai quello che vuoi, tanto lo fai sempre. Hai poco più di mezz’ora per recuperarla, poi abbandoniamo il pianeta.-
Shepard sorrise – Agli ordini signore.-
C.J. si alzò prendendo la mitragliatrice – Non ti lascio andare da solo, Zar.-
Alex lanciò un’occhiata incerta a Cross, che alzò gli occhi al cielo e fece solo un cenno affermativo.
I due soldati si scambiarono un cenno d’intesa e uscirono dal portellone lasciato aperto da Sasha, atterrando sulla sabbia morbida.
Un terzo sbuffo di sabbia si alzò accanto a loro e, mentre la navetta si allontanava a velocità iperluce, osservarono sorpresi Nadine spazzolarsi via la sabbia dalla tuta – C’era bisogno di una presenza femminile.- spiegò con un’alzata di spalle.
C.J. fece una smorfia scettica – Pensavo fosse un’operazione di soccorso, non una sfilata di moda. – sibilò a denti stretti.
- Ti ho sentito, Iena.- ribatté Nadine, avvicinandosi al veicolo pneumatico, Sasha evidentemente aveva preso la moto.
Alex si avvicinò a lato del guidatore ma C.J. lo fermò – Non ci pensare nemmeno, lo so come guidi.- saltò sul sedile e armeggiò col blocchetto di accensione, dopo qualche istante il veicolo emise un poderoso ruggito.
- E chi ci ferma più, adesso?- esultò C.J. mentre gli altri saltavano nell’abitacolo – Ho sempre sognato di guidare un coso del genere.-
Strappando un gemito a Nadine lanciò il mezzo attraverso il deserto.
 
Non aveva la più pallida idea di quello che stava facendo ma, per una volta, sapeva che era la cosa giusta; il computer di bordo era impostato per raggiungere la città, o almeno così sperava: c’era un puntino luminoso che lampeggiava sulla mappa in direzione sud-ovest, Jake aveva detto che Kavalan si trovava in quella direzione e, secondo la logica che due più due fa quattro, Sasha aveva puntato l’astro-moto in quella direzione.
Non aveva mai guidato un veicolo simile prima d’ora, tranne che in un simulatore ma, dopo le prime sbandate e accelerate brusche era riuscita a ottenere una discreta padronanza del mezzi: non avrebbe mai vinto una gara ma almeno volava dritto.
Immaginò che il suo colpo di testa avrebbe compromesso irrimediabilmente la sua carriera, se fosse sopravvissuta ad aspettarla ci sarebbe stata la corte marziale ma, se questo era il prezzo da pagare per salvare degli innocenti dalla schiavitù e ammazzare qualche schiavista, ebbene era disposta al sacrificio.
Nel profondo sperava di imbattersi nei suoi ex compagni di banda, ma era un desiderio che non avrebbe ammesso neppure con se stessa, aveva passato troppo tempo a cancellare il suo passato per confessare che aveva condizionato tutta la sua vita.
La città comparve davanti ai suoi occhi come un miraggio mentre sotto di lei il deserto lasciava gradualmente il posto a una vegetazione bassa e spinosa, simile, per certi versi, a quella che si era lasciata alle spalle, sulla Terra.
“Atene.”
In un istante rivide i sobborghi in cui era cresciuta, sporchi e maleodoranti, le case grigie e scrostate, i cornicioni rotti e le finestre sbarrate, i vicoli tortuosi che si perdevano tra le case, con la loro intrigante decadenza
La moto sbandò pericolosamente e fece appena in tempo a riprenderla prima che si schiantasse contro il terreno brullo, dietro di lei si sollevò una nuvola di polvere.
Sentiva le mani tremare attorno al manubrio e vedeva ogni cosa appannata, si disse che era il vento a farle lacrimare gli occhi, solo il vento.
S’impose di concentrarsi sulla missione e sul luogo in cui si trovava, ma era difficile non farsi sopraffare dai ricordi alla vista di quella città che assomigliava alla sua vecchia casa: in fondo, oltre i tetti dei palazzi, si scorgeva uno spicchio di mare. Il cuore le fece un balzo nel petto: il mare … quanto le era mancato. Sentì l’aria salmastra appiccicarsi alla sua pelle, appena un velo leggero che si stendeva su di lei come una coperta calda e rassicurante, il vento che le sferzava il viso era diventato più denso e, spingendo la lingua appena fuori dalle labbra, poteva sentire il sapore del sale.
La città era stata costruita lungo una baia frastagliata, dove onde cobalto s’infrangevano sui piloni di cemento del porto, aveva un aspetto antico, malgrado fosse stata fondata all’epoca della colonizzazione di Dumat, pochi anni prima.
Le strade erano poco più di vicoli tortuosi, su cui si affacciavano palazzi alti e sottili, stretti gli uni contro gli altri, come a voler cercare un po’ di conforto su quel pianeta alieno, ai balconi e alle finestre c’erano tende colorate, verdi, arancioni, gialle, dipinte a strisce o a pois, tra un balcone e l’altro, da un capo all’altro della strada, erano stesi fili con appesa la biancheria ad asciugare e Sasha dovette volare rasoterra per non rimanervi impigliata.
Si guardò intorno a bocca aperta, strabiliata da quella città in cui il tempo sembrava essersi fermato, era stata costruita tra le stelle, ma era più autentica di qualunque luogo sulla Terra avesse mai visto; forse fu per quel motivo che l’assenza di forme di vita non la turbò. Kavalan era un luogo di memorie, non di vita.
Atterrò in una piccola piazza, con un vecchio e contorto albero al suo centro, una fontanella ad ogni lato e qualche panchina un po’ scrostata.
Spense il motore e il rumore delle onde arrivò fin lì: tutto vuoto, tutto silenzioso.
Le strade erano spazzate dal vento e disabitate, le finestre aperte erano dei buchi neri che si affacciavano sulla piazza e il grande, grasso, sole bianco che splendeva nel cielo rendeva sbiadite e fredde le tinte allegre che adornavano i balconi.
Kavaln sembrava abbandonata da anni, non da ore.
Imbracciò il fucile e si guardò intorno, sentendosi spaventata per la prima volta dopo molto tempo: più di ogni altra cosa desiderava sentire il suono di una voce umana.
Si pentì di aver gettato la radio.
Accese il Factotum, cercando di mettersi in contatto con il resto della squadra, le rispose solo un fruscio indistinto: gli altri erano lontani e lei sola.
Aprì la mappa che Jake aveva trasmesso alla squadra e si concentrò sulla pianta della città, un puntino luminoso indicava la sua posizione.
Immaginò che i pirati fossero atterrati all’astroporto, il luogo più semplice da cui controllare l’attività aerea del pianeta mentre raggruppavano e caricavano gli abitanti; non era molto lontano dal luogo in cui si trovava, un paio di chilometri al massimo. Decise che si sarebbe avvicinata il più possibile con moto per poi coprire la distanza rimanente a piedi, per poter meglio studiare la situazione.
Una volta che ebbe un piano si sentì più tranquilla: questa volta era addestrata, si disse, non l’avrebbero colta di sorpresa.
Salì sulla moto e, silenziosamente, riprese la missione.
 
L’astroporto si rivelò essere una torretta di controllo che svettava su un largo spiazzo di cemento circondato da una rete sgangherata. Le ultime case erano separate dalla rete solo da una modesta strada mentre l’altro lato della pista dava sul mare: primitivo, ma funzionale, come ogni altra cosa in quella città.
Forse era proprio l’arretratezza dell’astroporto a rendere ancora più aliena e mostruosa l’enorme navicella spaziale ferma al centro della pista, i portelloni aperti come le fauci di un enorme mostro volante che inghiottiva, l’uno dopo l’altro, i disperati abitanti di Kavalan.
Nei pochi chilometri che aveva percorso la serena desolazione che aveva incontrato al suo arrivo si era trasformata in rovinoso abbandono. Le case avevano le porte sfondate e i segni dei proiettili sui muri, le tende colorate erano striate di rosso e lungo le strade polverose aveva iniziato a incontrare i cadaveri di chi non si era sottomesso al giogo dei pirati.
Gli abitanti di Kavalan avevano resistito, resistito strenuamente, ma alla fine si erano dovuti arrendere all’inevitabile.
Li osservò marciare in fila indiana, polsi e caviglie avvolti da catene, sorvegliati dai pirati nelle loro armature bianche e blu, i caschi sulla testa e i fucili mollemente abbandonati tra le braccia.
La maggior parte erano Batarian, ma tra di essi scorse qualche umano e, persino, alcuni Turian.
Fece un sorriso sarcastico, i pirati riuscivano laddove persino il Consiglio falliva: unire le specie in nome di un bene superiore, il denaro.
Dall’angolo in cui era appostata studiò la situazione, mentre l’ironia del momento le appariva sempre più evidente: era di nuovo al punto di partenza, lei, sola, contro i malvagi della galassia.
Ma questa volta era pronta ad affrontarli.
Voltò le spalle ai pirati e ai loro schiavi ed entrò nel palazzo alla sua sinistra, salì tutte le scale fino all’ultimo piano, contò quattro porte, come le finestre che si affacciavano sulla strada, ed entrò nella quinta, la porta era aperta perciò fu sufficiente una leggera spinta per entrare.
Il minuscolo appartamento era sottosopra, il letto ribaltato, il tavolo sfasciato e le sedie completamente a brandelli; sulla parete c’era uno spruzzo di sangue rosso ma non vide nessun corpo e di questo fu grata.
Si avvicinò all’unica finestra della stanza e si complimentò da sola per l’ottima scelta.
Tornò indietro, nel corridoio, lo percorse tutto fino ad arrivare alla porta antincendio che si apriva in fondo, uscì e vide che la scala scendeva in una piccola strada laterale che si perdeva nei meandri della città: sorrise, soddisfatta, forse poteva farcela.
Tornò all’appartamento e si posizionò alla finestra, appoggiò il fucile d’assalto contro il muro e sganciò il fucile di precisione che portava sulla schiena, avvitò il silenziatore poi incollò l’orbita al mirino, la canna appoggiata al parapetto.
Contò una ventina di pirati sulla pista, immaginò che ce ne fossero altrettanti dentro la nave spaziale, alzò il fucile verso la torre di controllo e vide due uomini impegnati a monitorare i cieli di Kavalan. I vetri della torretta erano stati infranti dal loro attacco e questa era un’ottima notizia. Premette due volte sul grilletto e i due uomini si afflosciarono sui comandi senza che nessuno, in basso, si accorgesse dell’esecuzione appena avvenuta.
Sasha aggiustò la mira e cominciò ad abbattere i pirati a terra: uno, tre, cinque. Gli altri si fecero prendere dal panico vedendo i loro amici cadere senza apparente motivo, quando capirono che si trattava di un cecchino ne aveva già abbattuti altri due, ma nel tempo che impiegò a ricaricare molti si erano messi al riparo mentre altri usavano i prigionieri come scudi umani.
Sasha imprecò a denti stretti: non aveva previsto quell’eventualità.
In basso sentì i pirati imprecare e scambiarsi avvertimenti: c’era un cecchino, o forse più di uno, che sparava dai palazzi, il problema era capire da quale palazzo.
Un uomo tentò un corsa per raggiungere la strada ma Sasha fu lesta ad abbatterlo, a quel punto i suoi compagni si rannicchiarono dietro le loro coperture.
I prigionieri erano in piedi al centro della pista, davanti alla nave pirata, le braccia alzate sopra la testa, a formare uno scudo umano dietro i quali gli schiavisti si erano rifugiati.
Sasha si asciugò una goccia di sudore che le scendeva sulla fronte: la situazione era di stallo e sapeva bene che questo giocava a favore dei suoi nemici.
Lei aveva puntato tutto su velocità e sorpresa ma aveva sbagliato i calcoli e ora gli schiavisti si stavano riorganizzando.
Uno sparo risuonò nell’aria e uno dei prigionieri si afflosciò a terra, colpito alla fronte da un proiettile sparato dalla stiva della nave.
Sasha fece un balzo indietro, gli occhi sgranati, incapace di comprendere quello che stava succedendo, incollò di nuovo l’occhio al mirino giusto in tempo per vedere un uomo scendere dalla nave, allo scoperto, un megafono in mano e una pistola puntata contro i prigionieri. Sembrava convinto che lei non avrebbe sparato e, infatti, non sparò.
- Cecchino!- urlò l’uomo volgendo lo sguardo verso i palazzi in cui era appostata.
Il cuore le si fermò nel petto mentre metteva a fuoco due occhi di colore diverso: aveva Diòs Giannotis nel mirino.
Il dito tremò sul grilletto, ma le parole di Diòs precedettero lo sparo – Uccidi un altro dei miei uomini e due prigionieri muoiono. – puntò la pistola contro la tempia di una ragazza che doveva avere all’incirca la sua età, nel mirino, scorse distintamente le lacrime che le rigavano le guance.
- Hai dieci minuti per uscire allo scoperto e consegnarti.- annunciò Diòs – Ogni minuto di ritardo è un prigioniero che muore.- gli occhi del suo vecchio amico incontrarono i suoi, come se avesse capito perfettamente chi e dove fosse – Decidi in fretta cecchino, il tempo scorre.-
Sasha si staccò dalla finestra con un gemito d’orrore: aveva fallito, di nuovo.
E questa volta non avrebbe avuto una seconda possibilità: Diòs l’avrebbe uccisa o buttata nella stiva assieme agli altri prigionieri e, quel che è peggio, gli schiavisti avrebbero scoperto che c’era una squadra dell’Alleanza nei paraggi e si sarebbero messi a caccia.
Maledì se stessa e Cross che non aveva voluto darle ascolto: se solo tutta la squadra fosse venuta con lei …
Scosse e il capo e si alzò: non c’era tempo per le recriminazioni, si era scelta da sola il suo destino.
Stava per voltarsi per scendere in strada e consegnarsi (nessun altro sarebbe morto per lei!) quando una mano si strinse sulla sua spalla, una morsa dura e dolorosa come una tenaglia, Sasha sbiancò: game over.


 

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Capitolo 14
*** Dietro le linee nemiche ***



Dumat, 2174
 
Che fosse finita l’aveva già capito, ma si era illusa che in quel poco tempo rimasto le sarebbe venuta una brillante idea che l’avrebbe tirata fuori dai guai, invece l’avevano scoperta e ogni residua speranza di salvezza era svanita nel nulla. Si voltò, rassegnata a trovarsi di fronte il grugno di un Batarian o la testa ossuta di un Turian, di certo non era preparata ad incrociare due gelidi occhi azzurri.
Alexander Shepard era furioso o, perlomeno, aveva tutto l’aspetto di esserlo.
Il ragazzo gentile che l’aveva accolta nella squadra era scomparso per lasciare il posto ad un uomo che incuteva timore.
- Come …?- aveva la bocca arida per la sorpresa e la paura, spostò lo sguardo su Nadine e C.J. alle spalle di Shepard – Come mi avete trovata?-
Fu un sollievo quando Shepard allentò la morsa sulla sua spalla e tolse la mano, sperò distogliesse anche lo sguardo, ma non accadde, quello rimase piantato su di lei, come una lancia d’acciaio – C’è un segnalatore di posizione nell’armatura.- la sua voce scricchiolava come ghiaccio secco.
Sasha distolse lo sguardo, imbarazzata dalla facilità con cui l’avevano trovata.
Shepard si avvicinò alla finestra e guardò nella piazza, dove Diòs scandiva ad alta voce i minuti che passavano, inesorabili.
- Cosa credevi di fare?-
Sasha non osò girarsi a guardarlo e i suoi occhi incrociarono quelli di Nadine che le fece un lieve cenno d’incoraggiamento, quasi a dirle che il suo silenzio avrebbe solo peggiorato le cose – Io … - sentì la voce spezzarsi e questo la fece infuriare: da quando si faceva intimidire dal primo bell’imbusto che giocava a fare il duro? Raddrizzò le spalle e strinse i pugni, voltandosi a fronteggiarlo – Non potevo lasciare che li portassero via.- lo guardò dritto negli occhi, sfidandolo a prendersi gioco di lei.
Shepard non parve impressionato, ma il suo sguardo si ammorbidì – Questo l’avevo capito, quello che voglio sapere è: cosa pensi di fare adesso?-
Sasha scrollò le spalle – Cos’altro posso fare?- indicò l’esterno, da dove la voce di Diòs le ricordava che rimanevano solo cinque minuti. – Non posso stare a guardare.-
Shepard si accigliò guardando nuovamente fuori dalla finestra, valutando la situazione – No.- disse, deciso, mentre sganciava le armi – Non puoi, ma non ti lascerò andare là fuori.-
Sasha fece un sorrisetto e gli lanciò un’occhiata di sfida – Blatera pure quanto ti pare, Shepard, io vado.- si diresse verso la porta ma C.J. le sbarrò la strada, aveva una mano sul calcio del fucile, non sembrava minaccioso, ma qualcosa nella sua postura le suggerì che non l’avrebbe lasciata passare, a nessun costo.
- Vuoi salvare quelle persone?- le domandò Shepard, a bruciapelo.
Sasha inspirò a fondo – Sì.- rispose infine, senza distogliere lo sguardo da C.J.
- Allora, da questo momento in avanti, farai quello che dico io.- era un ordine, non lo disse, ma lo era. Sasha odiava prendere ordini, eppure, questa volta, sapeva di non avere altra scelta.
- Andrò io là fuori, non tu. – Sasha si voltò di scatto, fissando Shepard come se fosse impazzito, aprì la bocca per dirgli che era una follia ma bastò uno sguardo a zittirla – Dopo che mi sarò consegnato manderanno una squadra a perquisire l’edifico, cercheranno dei complici, perciò non appena sarò uscito dovrete andarvene, immediatamente. – con un cenno indicò la porta – Hai controllato che ci fosse una via di fuga?- mentre parlava continuò ad armeggiare coi lacci dell’armatura, Nadine corse a dargli una mano e Sasha si stupì che nessuno degli altri facesse domande o cercasse di fermarlo – Che cosa credi di fare?- gli urlò contro.
Da fuori Diòs annunciò che mancavano solo cinque minuti e che la sua pazienza stava per esaurirsi, l’espressione di Shepard fu abbastanza eloquente da convincerla a desistere – C’è una scala antincendio in fondo al corridoio.- rispose, mesta - Porta ad una strada laterale, era deserta quando ho controllato.-
Shepard fece un cenno d’approvazione mentre si liberava degli ultimi pezzi della corazza, rimase vestito solo della leggera tuta sintetica che portava sotto l’armatura – Bene.- ispirò a fondo e iniziò a spiegare il suo piano.
Era folle e geniale allo stesso tempo, le probabilità di successo quasi inesistenti eppure, guardando in quegli occhi azzurri e senza fondo, così sicuri, così implacabili, ebbe la certezza che ce l’avrebbero fatta.
Si ritrovò ad approvare quel folle piano, assieme a C.J., solo Nadine espresse qualche perplessità – Rischi grosso senza corazza, anche se non ti sparassero a vista, cosa di cui dubito, quando cominceranno a piovere pallottole sarai incredibilmente vulnerabile.-
Shepard fece un sorrisetto – Non posso certo presentarmi con addosso una corazza dell’Alleanza, non credi?- sollevò i pugni avvolti da una leggero alone bluastro – E ho i miei assi nella manica.-
Nadine annuì, riluttante. Mentre Shepard esponeva il piano avevano raccolto tutte le prove del loro passaggio, la corazza, le sue armi e persino i bossoli che Sasha aveva lasciato sul pavimento.
- Dovremmo lasciare il mio fucile, lo cercheranno.-
- No.- Shepard controllò rapidamente l’orologio, mancavano meno di tre minuti – È un fucile troppo avanzato, sospetterebbero. Non sanno da che stanza sono partiti i colpi, penseranno che l’ho nascosto e non vorranno perdere altro tempo. Devo andare.- si avviò verso la porta – Ricordatevi: seguite il piano e torneremo tutti a casa, sani e salvi. Ve lo prometto.-
C.J. e Nadine risposero con l’indice e il medio alzati, a formare la V della vittoria.
Sasha rimase immobile, il cuore bloccato nel petto, mentre lui le rivolgeva un breve cenno di saluto e si apprestava ad andare incontro alla morte al posto suo, avrebbe voluto fingersi indifferente, ma non ci riuscì: era maledettamente in ansia  per quel pazzo presuntuoso che le stava salvando la vita – Stai attento.- si sentì dire, di getto – Diòs è un maledetto figlio di puttana.-
Shepard la fissò in modo strano, prima di sparire nella penombra del corridoio.
C.J. prese il comando della situazione – Andiamo.-
Mentre seguiva i suoi compagni fuori dall’edificio non poté fare a meno di chiedersi quanti sarebbero morti per lei questa volta. Si disse che si sarebbero salvati ma, in cuor suo, sapeva che non sarebbe tornato a casa nessuno.
 

Mentre attraversava la strada per consegnarsi agli schiavisti, Alexander Shepard dovette ammettere che, forse, la sua non era stata un’idea così brillante. Disobbedire agli ordini, rischiare la vita dei suoi amici, mettere in pericolo l’Alleanza … non era da lui, ma c’era qualcosa in quella ragazza sconosciuta, qualcosa nel suo sguardo, nella rabbia a malapena celata sotto un’incrinata maschera d’indifferenza, che lo spingeva a rischiare più di quanto avesse mai fatto.
Si chiese se era un bene o un male.
In quel momento, mentre avanzava con le mani intrecciate dietro la testa davanti alla bocca di decine di fucili, decise che era un male.
Individuò in fretta il capo dei pirati, un idiota con un megafono in mano e una pistola nell’altra; lo squadrò da capo a piedi, senza nascondere il disgusto per quel tipo che sembrava appena uscito da una rivista d’alta moda, con quegli occhi di due colori diversi che senza dubbio dovevano farlo sentire incredibilmente speciale.
- Bene bene.- commentò l’idiota, togliendo la pistola dalla tempia del suo ostaggio per puntarla contro di lui – E così abbiamo il nostro coraggioso cecchino.-
Smentendo platealmente ogni sua congettura l’idiota sparò. Un dolore lancinante gli esplose nella spalla, mentre la pallottola attraversava senza intralcio stoffa, carne, muscoli e andava a impiantarsi nell’articolazione: quella che era iniziata come una bella giornata si stava tramutando in un vero e proprio incubo.
Era la prima volta che veniva ferito in azione: faceva male, dannatamente male. Si afflosciò su se stesso con un grido strozzato, da dietro la canna fumante l’idiota rise.
- Sai, sono indeciso.- gongolò avvicinandosi a lui e premendogli la pistola sulla fronte – Hai ucciso molti miei uomini e questo mi mette in una posizione spiacevole: da una parte vorrei farti un bel buco in fronte e lasciarti qui a marcire, dall’altra …- gli diede una pacca sulla spalla ferita strappandogli un altro lamento – Un ragazzo forte e robusto come te … sarebbe un vero spreco ammazzarti ora.- avvicinò il viso al suo, come per confidargli un segreto – E io odio gli sprechi.-
Shepard tenne lo sguardo basso, concentrandosi sul dolore alla ferita per evitare che la rabbia prendesse il sopravvento e, con essa, l’energia oscura che sentiva formicolare sulle dita: non era ancora il momento di svelare i suoi trucchi.
La radio dell’idiota sfrigolò mentre una voce dall’altra parte annunciava che l’edificio era pulito.
- Eri solo soletto, quindi.- sorrise, sfregandogli la canna della pistola contra la fronte – Ne sono felice.-
Shepard represse un sospiro di sollievo e cercò di mostrarsi mite e sottomesso, come se, di fatto, quell’uomo lo avesse definitivamente sconfitto – La prego signore, non mi uccida.-
Evidentemente la carriera di attore non faceva per lui, dalla sua bocca uscì qualcosa di molto più simile a una sfida che ad un’implorazione.
L’idiota non apprezzò.
La canna della pistola impattò violentemente contro il suo zigomo, l’osso scricchiolò sinistramente e lui crollò al suolo, sulla spalla ferita, si vergognò del grido che gli uscì dalle labbra.
- Non fare giochetti con me, amico, non ti conviene.- gli occhi asimmetrici del pirata si piantarono nei suoi, famelici – Lo sai, credo di aver deciso che cosa fare con te.- gli confidò ammiccando, fece un cenno ai suoi uomini – Mettetelo con gli altri, gentilmente per favore, non voglio che si rovini troppo, è un esemplare prezioso, conosco qualcuno che pagherà molto bene per lui.- gli diede un buffetto sulla guancia – Vedrai, “eroe”, ti piacerà.- lo tirarono su senza troppe cerimonie, sentiva già lo zigomo gonfiarsi e la spalla sembrava sul punto di esplodere, non dovette sforzarsi troppo per sembrare completamente inoffensivo; si lasciò spingere fino agli altri prigionieri, barcollando un paio di volte per cambiare direzione e farsi trascinare dove voleva: quello fu il primo errore dei suoi carcerieri, il secondo fu di non ammanettarlo.
L’idiota tornò a disinteressarsi del suo carico umano e, dopo aver ordinato di riprendere lo stivaggio, svanì a bordo della sua nave.
Shepard cercò di riacquistare una certa lucidità mentre guardava le facce stravolte delle persone che lo circondavano, quella prima parte del piano era andata più o meno come previsto, sperò che la seconda parte avesse migliore fortuna.
Girò lentamente la testa fino a incrociare lo sguardo della donna in piedi accanto a lui, guardando fuori dalla finestra da cui Sasha aveva sparato aveva notato la sua pelle blu in mezzo alla folla di prigionieri ed era su di lei, sulla speranza che fosse forte abbastanza, che aveva costruito il suo piano.
Mentre attirava la sua attenzione sillabando silenziosamente ciò che le chiedeva di fare, sperò di non aver puntato la sua vita sulla persona sbagliata.
 
Ci sta mettendo troppo tempo.- ripeté Sasha, osservando la pista di atterraggio da dentro il veicolo pneumatico; il carico dei prigionieri procedeva tranquillo, senza che nessuno intralciasse quella che, ai suoi occhi, era una mietitura. Stava iniziando a perdere la pazienza.
- Non ho intenzione di stare qui a guardare.- avvertì i suoi compagni – Se Shepard non si da una mossa, io vado.-
La mano di Nadine si chiuse sulla sua spalla – Non fare niente di avventato, lui conta su di noi, su di te, non deluderlo.-
Si voltò ad affrontarla, gli occhi ridotti a fessure – Per quello che ne sappiamo potrebbe essere stato scoperto!-
- Tu non lo conosci.- la interruppe C.J. senza guardarla, gli occhi incollati alla pista, le mani strette sul volante, pronto a scattare – Fidati di Shepard, la parola fallimento non esiste nel suo vocabolario.-
Sasha fece una smorfia scettica: era proprio quello il punto, sapeva bene a quale errori una simile presunzione poteva condurre.
Shepard giocava a fare la guerra, era facile vincere con l’Alleanza a coprirti le spalle, ma questa volta era diverso, erano soli in un mondo senza regole, e non era certa che lui fosse in grado di affrontarlo.
Si disse che gli avrebbe dato ancora tre minuti, non uno di più.
Non aveva ancora finito di formulare quel pensiero che, dalla pista, giunse un boato assordante, accompagnato dalla familiare luminescenza bluastra di un’esplosione biotica.
- Ora!- urlò C.J., facendo ruggire il motore e spingendo l’Hammer a folle velocità attraverso la strada, la recinzione si divelse come un muro di carta e il veicolo piombò sulla pista; Nadine e Sasha si sporsero dai portelloni, ognuna con un fucile d’assalto in mano, falcidiando i pirati in preda al panico, mentre i prigionieri correvano sferragliando verso gli hangar in fondo alla pista.
Erano lenti, troppo lenti, stanchezza e catene intralciavano loro la corsa e, malgrado la protezione biotica di Shepard, erano incredibilmente esposti, dopo l’iniziale sorpresa i pirati si riorganizzarono rendendosi immediatamente conto di essere in netta superiorità numerica.
C.J. si sforzò di mantenere l’Hammer in movimento, a copertura dei fuggitivi, mentre le pallottole sfrecciavano tutte intorno a loro, per due volte Sasha sentì gli scudi sfrigolare mentre deviavano colpi che l’avrebbero uccisa.
Con la coda dell’occhio vide che i prigionieri avevano raggiunto l’hangar più vicino: aveva sottovalutato il potere dell’adrenalina – Sono dentro.- urlò facendo cenno a C.J. di invertire la marcia e raggiungerli.
Il soldato dell’Alleanza non se lo fece ripetere due volte e, con una curva che rischiò di ribaltarli, lanciò il veicolo attraverso la pista, entrarono nell’hangar proprio mentre la paratia iniziava a chiudersi.
Vide Shepard in piedi davanti al pannello di controllo, una mano premuta sul pannello di chiusura, l’altra abbandonata lungo il fianco, un’espressione preoccupata sul viso.
Sasha e Nadine scesero mentre C.J. piazzava il veicolo davanti all’ingresso: quando i pirati fossero riusciti a sfondare le porte avrebbero avuto un’ultima copertura prima di essere travolti. Sperò che quella misura estrema non si rivelasse necessaria.
Le porte dell’hangar si chiusero con un tonfo sordo: erano salvi, per ora.
 

Guardando la gente ammucchiata sul fondo dell’hangar Shepard si chiese se la sua idea fosse stata davvero così geniale o se li avesse condannati tutti a morire in quella scatola di sardine, si disse che la risposta sarebbe arrivata presto, quando C.J. si fosse finalmente messo in contatto con il resto della squadra. Non che avesse molte speranze: Cross era stato chiaro, dovevano cavarsela da soli.
Si avvicinò all’archeologa Asari che stava aiutando gli altri prigionieri a liberarsi dalle manette, alcuni erano stati feriti durante la sparatoria e un paio di essi non ce l’avevano fata, si disse che erano stati fortunati, sarebbe potuta andare peggio.
- Grazie per il tuo aiuto.- disse inginocchiandosi accanto all’Asari – Sei Lanaya Ossani, vero? Abbiamo trovato la tua registrazione al campo base. -
Lei annuì, sorridendo alla ragazza che aveva appena finito di liberare deformando le manette con l’energia oscura – Pensavo di essere spacciata.- affermò – È la prima volta che uso i miei poteri in combattimento, non pensavo fossero tanto potenti.-
Le sorrise appoggiandole una mano sulla spalla – Sei stata molto coraggiosa.-
Si alzò per raggiungere gli altri ma la voce dell’Asari la fermò – Aspetta!- i suoi grandi occhi viola erano pieni di lacrime – Le mie compagne sono sulla nave assieme a molte altre persone … che ne sarà di loro? Li aiuterete, vero?-
Shepard fece vagare lo sguardo sui volti che lo circondavano, fissandolo speranzosi: credevano che li avrebbe salvati insieme alle loro famiglie mentre lui non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a salvare se stesso.
Distolse lo sguardo, a disagio, non voleva essere un eroe, farsi carico di una simile responsabilità … non era tagliato per il ruolo di salvatore – Faremo il possibile.- rispose, senza guardarli.
Era il massimo che poteva fare.
Raggiunse i suoi compagni appostati dietro il veicolo che sbarrava l’entrata, da fuori giungevano i rumori dei pirati che premevano per entrare, sapeva che era solo questione di minuti prima che le porte cedessero.
C.J. era attaccato alla radio, nel disperato tentativo di mettersi in contatto con il resto della squadra mentre Nadine controllava minuziosamente armi e munizioni – Come siamo messi?- le domandò sedendosi al suo fianco.
Nadine si agganciò una ciocca bionda dietro l’orecchio, scuotendo la testa – Abbiamo quattro fucili d’assalto, un fucile di precisione, quattro pistole, una mitraglietta e un pompa.- gli rivolse un’occhiata penetrante, di quelle che, fino a non molto tempo prima, gli facevano sciogliere le gambe – Abbiamo una discreta scorta di munizioni, ma non so dirti quanto dureranno.-
Lui annuì distogliendo in fretta lo sguardo – Fai un giro tra i nostri ospiti, vedi se riesci a convincere qualcuno a impugnare un’arma e darci una mano. - fece una smorfia mentre una fitta alla spalla gli ricordava che non era al massimo della forma – E chiedi all’Asari se se la sente di fornirci un po’ di artiglieria biotica, io non credo di essere in grado di fare molto.-
Nadine lo guardò con espressione preoccupata – Lascia che ti dia un’occhiata prima.-
La fermò con un gesto – Non c’è tempo, metterò un po’ di medigel, non ti preoccupare.-
Nadine annuì, poco convinta – La tua armatura è nel veicolo.- lo informò prima di andare dai coloni.
Alex si abbandonò contro il veicolo con un gemito roco, mentre i vani tentativi di C.J. di contattare qualcuno gli rimbombavano nelle orecchie, sobbalzò quando una donna si sedette accanto a lui.
Sasha appoggiò le braccia sulle ginocchia, i capelli rossi che le ricadevano scomposti sulle spalle, gli lanciò una breve occhiata – Grazie per aver preso il mio posto e … per essere venuto ad aiutarmi.-
Scosse il capo – Non sono venuto da solo.- minimizzò.
- Ma è stata un’idea tua, C.J. me l’ha detto.-
Classico, C.J. non si faceva mai gli affari suoi – Non potevo permetterti di compromettere la missione.- era vero solo in parte, ma non aveva voglia di confessarle che non aveva avuto il coraggio di lasciarla morire, quella decisione gli stava costando molto, forse tutto, e non voleva fingere di non rimpiangerla.
- Sei ferito.- constatò lei dopo un attimo di silenzio – Lascia che ti dia un’occhiata.-
Avrebbe voluto dirle di lasciar perdere ma la spalla gli faceva troppo male e non poteva permettere all’orgoglio di compromettere le sue capacità, non in un momento come quello. Così la lasciò fare, guardandola di sottecchi mentre esaminava la ferita con aria grave.
C’era qualcosa in quella ragazza che lo lasciava completamente disarmato e, anche se era furibondo con lei per averli cacciati in quel guaio, non poté fare a meno di essere felice di averla salvata.
- La pallottola è ancora dentro.- gli disse estraendo un coltello – Mi dispiace, devo tirarla fuori.-
Annuì digrignando i denti e stringendo i pugni, suo malgrado non riuscì a trattenere un grido strozzato mentre la lama gli frugava nelle carni fino a incontrare qualcosa di duro che Sasha estrasse con un’esclamazione di trionfo; Alex si accasciò contro l’Hammer, fradicio di gelido sudore, il petto che si alzava e abbassava freneticamente. Per essere la sua prima ferita, pensò, si stava comportando bene: non era svenuto.
- Ora ti metto un po’ di medigel, vedrai, ritornerai come nuovo.-
Lui le sorrise mentre gli spalmava il gel sulla spalla, tutta la sua rabbia era sfumata davanti a quel viso spruzzato di lentiggini – Non dirmi che hai messo su quella faccia triste per me, è solo una spalla.-
Sasha sospirò appoggiandosi sulla ruota accanto a lui, da fuori giungevano raffiche di mitra e colpi di armi più pesanti – Vi ho messo in un bel guaio, non è così?- fece una smorfia – Io … mi dispiace, pensavo di fare la cosa giusta, invece …- accennò alle persone spaventate in fondo all’hangar – Non solo non li ho salvati, ma ho condannato anche voi e messo nei guai l’Alleanza.-
Avrebbe dovuto odiarla, urlarle contro che sì, aveva fatto un bel casino, ma non ci riuscì. Aveva voluto salvare delle vite, come poteva essere un male?
- Beh devo dire che per essere appena entrata nella squadra, non sei di certo passata inosservata.- ammiccò sorridendo stancamente – Vedrai, ce la caveremo.-
Per un attimo, quando i loro occhi s’incrociarono, le sembrò quasi di averla convinta, gli sorrise persino, ma quando parlò la sua voce era stanca e priva di speranza – Tu non conosci l’uomo che c’è dall’altra parte, Diòs è un uomo crudele e, quel che è peggio, è maledettamente in gamba. Non ci lascerà andare via.-
Fece una smorfia – A me è sembrato un idiota però …- si raddrizzò: era la seconda volta che chiamava il capo dei pirati per nome – Tu lo conosci?-
Sasha sospirò, probabilmente maledicendosi per essersi lasciata scappare quel nome – Sono cresciuta sulla Terra.- confidò, abbassando lo sguardo sulle sue mani intrecciate – Non ero una brava persona. Facevo parte di una banda e Diòs era uno di noi. Quando ho scoperto chi erano veramente, degli schiavisti, ho cercato di fermarli, ma Diòs mi ha tradita e mi ha sparato. Tre volte.- quando rialzò gli occhi aveva di nuovo indossato la sua maschera di gelida indifferenza ma nel suo sguardo c’era una rabbia che ardeva fino a consumarla – I medici si stanno ancora chiedendo come è possibile che io sia sopravvissuta, evidentemente era destino che finissi ammazzata da lui.-
Aprì la bocca per dirle qualcosa, rassicurarla forse, ma qualsiasi cosa uscì dalle sue labbra fu coperto dallo stridio di lamiere lacerate e dalle raffiche di mitra che si riversarono nell’hangar attraverso il buco che si era aperto nella paratia.
I civili urlarono, Nadine si affrettò a distribuire le armi e loro si buttarono sui fucili, rispondendo al fuoco.
C.J. schizzò fuori dall’abitacolo, porgendogli la trasmittente – Hanno risposto, Shepard! Hanno risposto!-
Incredulo, Alex afferrò la trasmittente. 

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Capitolo 15
*** La resa dei conti ***


Team


Dumat, 2174
 
Cross si sedette al posto del copilota, ripensando all’operazione appena conclusa. Era andato tutto alla perfezione, avevano trovato la struttura ed evacuato i civili senza allertare nessuno, sarebbe stata una missione perfetta se non fosse stato per quel piccolo dettaglio che portava il nome di tre, anzi quattro, suoi soldati.
La mezz’ora che aveva concesso a Shepard era passata da un pezzo e nessuno aveva chiamato; aveva tergiversato più del dovuto, imponendosi di non violare quel silenzio radio che li manteneva nascosti ai pirati, ma alla fine si era dovuto arrendere all’evidenza che i suoi uomini erano dispersi chissà dove.
Si sarebbe lanciato alla loro ricerca fregandosene dei suoi superiori e degli ordini, il resto della squadra non aspettava altro, ma aveva dei civili da portare in salvo e non poteva ignorare questa realtà. Così aveva ordinato a Jin di decollare e spegnere tutte le riceventi, la fase di volo era il momento più pericoloso e non poteva rischiare che il loro segnale, seppur latente, venisse intercettato.
Solo quando furono fuori dalla spazio aereo di Dumat, al sicuro, ordinò al pilota di riattivare la radio: nello stesso istante la voce di C.J. eruttò dagli altoparlanti, accompagnata da raffiche di mitra.
- Qui squadra Delta, siamo sotto attacco, Aquila Uno, mi ricevete? Passo.-
Cross si avventò sul microfono – Qui Aquila Uno, vieni avanti ragazzo.-
- È un piacere risentirla, signore, le passo lo Zar.-
Cross e Jin si scambiarono un’occhiata preoccupata e sollevata insieme, era un piacere risentire la voce di C.J. seppur accompagnata da una musica così inquietante – Parla Shepard, comandante, abbiamo bisogno del vostro aiuto.-
Cross imprecò a denti stretti – Niente nomi, ragazzo! Siamo su una linea non protetta.- si passò una mano sulla fronte – Com’è la situazione?-
Il segnale sfrigolò – Di merda eccome com’è: siamo bloccati in un hangar alla pista d’atterraggio, abbiamo dei civili con noi, siamo circondati.-
Cross trattenne il respiro – Siete stati identificati?-
La pausa dall’altra parte gli fece temere il peggio, poi la voce di Shepard tornò a riempire l’abitacolo – No, signore.- dal suo tono dedusse che anche lui aveva capito: se fossero stati uccisi l’Alleanza poteva cavarsela dicendo che erano sbandati senza autorizzazione, cosa che erano, ma se avessero inviato una squadra di supporto allora la situazione sarebbe cambiata e la posizione del Consiglio nei Sistemi Terminus compromessa.
Jin lo fissò – Signore, non avrà intenzione di abbandonarli, vero?-
Cross si strinse la fronte tra le dita, la situazione era critica e, per la prima volta nella sua carriera, non sapeva cosa fare: a chi doveva la sua lealtà, all’Alleanza o alla squadra?
- Quanto alla base?- domandò al suo pilota.
- Sei minuti.-
Cross annuì gravemente prima di afferrare la trasmittente – Sei ancora lì, ragazzo?-
La voce di Shepard gli giunse appena distinguibile sotto le raffiche delle mitragliette – Sì, sono qui.-
- Abbiamo dei civili a bordo, dobbiamo portarli al sicuro.- con la coda dell’occhio vide Jin digrignare i denti ma sapevano entrambi che non potevano fare altrimenti – Saremo alla base tra sei minuti, scarichiamo i civili e torniamo a prendervi. Dovete resistere, mi hai sentito ragazzo? Resistete! Tra venti minuti saremo lì.-
La radio sfrigolò e la voce di Shepard uscì, tetra, dalla trasmittente – Mi dispiace comandante, ma non credo che ce li abbiamo venti minuti.-
La trasmissione s’interruppe, sprofondando l’abitacolo nel silenzio.
Alla fine fu Jin a rompere il silenzio, con la voce ridotta a un sussurro - Lo sa, vero, che se atterriamo non possiamo più ripartire.-
- E che cosa vuoi che faccia?- reagì – Non posso certo portarmi dietro trenta civili!-
– Cos’ha intenzione di fare?-
Cross sospirò – Convincerò il capitano a rimandarci sul pianeta.-
Jin fece una smorfia rassegnata – Che Dio li protegga allora.-
 
Uscì dal portellone prima ancora che la navetta toccasse terra, lasciando all’equipaggio il compito di scaricare i passeggeri e a Jin l’ordine di spiegare la situazione al resto della squadra e mantenere i motori accesi.
S’imbatté nel capitano a pochi passi dalla zona d’atterraggio – Vedo che avete portato a termine la missione senza intoppi.- constatò, compiaciuto – Ottimo lavoro comandante …-
- Mi ascolti bene capitano, non ho tempo per i convenevoli: ho quattro uomini bloccati a terra, dietro le linee nemiche, chiedo il permesso di tornare sul pianeta.-
Il capitano passò da compiaciuto a infuriato più velocemente di un battito di ciglia – Siete forse impazziti? Ha idea di quello che c’è in gioco …-
- Lo so benissimo cosa c’è in gioco: la vita dei miei uomini!-
L’altro scosse il capo, inflessibile – Non se ne parla: gli ordini erano chiari, i suoi uomini sapevano che non sarebbero state autorizzate missioni di recupero!-
Avrebbe voluto dirgli che a combinare quel casino era stata la novellina che gli aveva appioppato, ma gli era stato insegnato che il dovere di ogni comandante era quello di proteggere i suoi uomini, anche i novellini che volevano fare gli eroi.
- C’è Shepard sul pianeta.- annunciò, felice di vedere l’espressione del suo superiore trasformarsi in panico – Vuole davvero lasciar morire il figlio di due eroi dell’Alleanza, il figlio di Hannah Shepard?-
Bastò pronunciare quel nome per far sudare freddo il capitano che deglutì a vuoto – La Shepard è un soldato, sono sicuro che capirà la necessità di proteggere la posizione dell’Alleanza all’interno …-
- Sono sicuro che comprenderà che lei ha lasciato morire suo figlio senza pensarci due volte, capitano.- lo interruppe minacciosamente – Sono sicuro che lo capirà molto bene.-
Si fissarono in cagnesco per secondi lunghi come ore e, alla fine, quando ormai Cross era sul punto di estrarre la pistola e puntargliela addosso, il capitano cedette – E va bene, vada a riprendesi i suoi preziosi uomini, ma le assicuro che non la passerà liscia, comandante!-
Senza degnarlo di una risposta Cross sfrecciò verso la navetta che decollò, rapida, nel cielo nero della galassia. Sperò che non fosse troppo tardi.
 
I nemici dovevano aver trovato la formula delle munizioni infinite formula che loro, purtroppo, non avevano.
Il fucile di precisione aveva finito i colpi già da un pezzo quando si scaricarono anche i fucili d’assalto e la mitraglietta. Rimanevano le pistole e il fucile a pompa.
Due dei coloni che li avevano aiutati a respingere i pirati giacevano in terra, senza vita, C.J. era ferito ad una gamba e oltre alla ferita alla spalla Shepard ne contava una alla coscia e al fianco, i suoi poteri biotici avevano cominciato a perdere potenza fino ad esaurirsi del tutto e anche la coraggiosa archeologa Asari ormai era sfinita.
Avevano resistito strenuamente tenendo gli schiavisti lontano dall’hangar, ma dall’altra parte della barricata sembrava ci fosse una riserva infinita di uomini e colpi. Shepard aveva detto loro di resistere per venti minuti, ne erano passati dodici e non ce la facevano più.
Sasha si sporse dal veicolo ormai crivellato di colpi sparando contro chiunque tentasse di avvicinarsi mentre accanto a lei Nadine faceva altrettanto.
Dall’altra parte della barricata, al sicuro, coperto dai suoi uomini, le parve di scorgere Diòs e una rabbia sorda, implacabile, s’impossessò di lei: l’aveva sconfitta una volta, non gli avrebbe permesso di sconfiggerla ancora. Sull’onda di quei pensieri le venne un’idea, una folle, malsana idea: le bastava arrivare a portata di tiro, ucciderlo e forse i pirati, privi del loro capo, si sarebbero ritirati. Se si sbagliava l’avrebbero uccisa, ma a quel punto cosa importava? Era disposta a morire pur di vedere Diòs morto a sua volta.
Decise che valeva la pena rischiare: afferrò salda la pistola, controllando di avere ancora qualche colpo, prese un respiro e si preparò a scattare. Era quasi in piedi quando qualcuno l’afferrò da dietro sbattendola a terra, si trovò il viso di Shepard a un centimetro dal suo, furibondo – Che cosa stai facendo?- le sputò addosso.
- Diòs è allo scoperto, posso prenderlo.-
Lui non provò neanche a controllare che avesse ragione, si limitò a fissarla col viso distorto dalla rabbia – Nessuno ti ha ordinato di farlo. Il tuo compito è difendere questa posizione, non c’è posto per le vendette personali.-
Gli rivolse uno sguardo di commiserazione mentre si divincolava dalla sua presa – Io non prendo ordini da nessuno, di certo non da te.-
Lo schiaffo la colse assolutamente alla sprovvista e mentre si portava una mano alla guancia dolorante fissò quell’uomo che era, a tutti gli effetti, un estraneo; si chiese se non avesse fatto un enorme errore di valutazione quando aveva scelto di fidarsi di lui.
Shepard si chinò su di lei – Ho rischiato la mia vita e quella dei miei amici per venirti a salvare il culo. Muoviti da questa posizione, metti in pericolo la mia squadra un’altra volta e io ti sparo.-
Non ebbe dubbi che lo avrebbe fatto.
Sasha deglutì a vuoto: era da tanto tempo che non aveva più paura di qualcuno.
Senza dire una parola si voltò e ricominciò a sparare ai pirati, mentre i suoi propositi di vendetta sfumavano davanti a quello sguardo implacabile.
Nel breve lasso di quella conversazione i pirati si erano fatti più vicini, ormai poteva scorgere i lineamenti dei loro volti, umani o alieni che fossero, prese di mira un Batarian grande e grosso armato di fucile a pompa, premette l’indice sul grilletto e le rispose solo il click del caricatore vuoto: le munizioni erano finite assieme alle loro speranze.
Uno dopo l’altro i loro fucili tacquero e rimase solo l’assordante mitragliare di quei nemici che non avevano sconfitto. Lentamente il rumore degli sparì sfumò, lasciando il posto a grida di giubilo quando i pirati capirono di averli ormai in pugno. Si chiese cosa preferiva: morte o schiavitù?
Suo malgrado cercò lo sguardo di Shepard e vide che la stava fissando, accigliato, aveva l’unico braccio sano avvolto attorno alle spalle di Nadine che guardava la morte avvicinarsi con un’espressione atterrita sul viso perfetto.
L’enormità della sua colpa la colpì come un pugno: era entrata nella vita di quelle persone e l’aveva distrutta, non per altruismo, non per fare del bene, ma solo perché voleva sentirsi utile a qualcosa, perché voleva dimostrare a se stessa di essere qualcosa di più di una semplice teppista di strada. Invece aveva dimostrato di essere quello che era sempre stata: una sciocca arrogante, nulla di più.
Ormai i pirati avevano smesso di sparare, poteva sentire i loro passi rimbombare a pochi metri da loro, chiuse gli occhi sperando che finisse tutto in fretta.
Sentì il rombo di una navetta, grida indistinte e poi, di nuovo, raffiche di mitra. Le ci volle qualche istante per capire che non stavano sparando a lei.
Quando riaprì gli occhi vide Shepard, Nadine e C.J. in piedi, esultanti, mentre i coloni si guardavano intorno speranzosi.
Guardò fuori per capire cosa stava accadendo e la vide: una navetta dell’Alleanza sollevata a pochi metri da terra, che scaricava soldati e proiettili sui pirati bloccati al suolo.
Solo più tardi si rese conto che i volti di quei soldati le erano familiari: erano i compagni a cui aveva volto lo spalle, i commilitoni che aveva abbandonato senza troppi riguardi. Si chiese se erano venuti per lei, poi, guardando i sui tre compagni che, abbracciati, festeggiavano l’arrivo della squadra, ebbe la sua risposta: no, non erano lì per lei. Erano la loro squadra, non la sua.
Si sentì sola come non era mai stata.
Distolse lo sguardo e notò qualcosa che le gelò il sangue nelle vene.
Dimenticata da tutti la nave schiavista si apprestava al decollo con il suo carico di schiavi … e Diòs.
Senza pensare scattò in avanti, ignorando gli spari, sempre più rari, e le grida festose, sempre più acute.
Si precipitò fuori dall’hangar, agguantando un lanciamissili abbandonato dai pirati, se lo issò in spalla e lo puntò verso la nave: non poteva farli scappare, non di nuovo.
- Sasha!- di nuovo lui, di nuovo Shepard; cominciò ad odiare le sue continue intromissioni.
- Stai indietro, Shepard, per favore!- non voleva implorare, ma lo fece.
- Se spari quel razzo ucciderai centinaia di persone, persone innocenti!-
La nave era sempre più veloce, presto si sarebbe alzata in volo per poi sparire, per sempre.
- Sono già morti, Shepard, anzi no, molto peggio: sono schiavi.- stava perdendo la mira, le mani le tremavano e aveva gli occhi offuscati dalle lacrime – Gli faccio solo un favore, solo un favore.-
Lui era accanto a lei adesso, poteva sentire l’odore pungente del suo sudore mischiato al sangue delle sue ferite – Hai ragione, ma tu non lo stai facendo per loro, lo fai per te. Tu cerchi vendetta, non giustizia. Se spari quel razzo sarai uguale a lui. – se avesse cercato di toglierle l’arma avrebbe sparato, ma non lo fece e il suo dito rimase sospeso sul grilletto, mentre la nave decollava lentamente – Se lo fai non potrai più tornare indietro, li avrai uccisi e basta.-
Le lacrime scendevano incontrollate ora, mentre il lanciarazzi tremava tra le sue mani, la nave era sempre più piccola, sempre più lontana, ma poteva ancora farcela.
Urlò, urlò tutto l’odio che aveva in corpo, tutta la rabbia che aveva accumulato per anni. Urlò e scagliò l’arma lontano da sé.
La nave sparì nel cielo grigio di Dumat, portandosi via Diòs, gli schiavi e la sua vendetta.
Crollò in ginocchio, piangendo senza ritegno come non si era mai permessa di fare e Shepard fu lì ad abbracciarla, l’uomo che l’aveva colpita minacciando di spararle ora la stringeva tra le braccia e le diceva che aveva fatto la cosa giusta, che sarebbe andato tutto bene.
Si abbandonò contro il suo petto, incurante del sangue e del sudore che impregnavano la sua tuta, incurante di tutto tranne che della meravigliosa sensazione di avere qualcuno che si prendeva cura di lei.
 

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Capitolo 16
*** Comandanti e soldati ***


Runaway

Stazione X35, 2174
 
Altri trasporti dell’Alleanza erano arrivati sul pianeta dopo che lo scontro si era concluso, avevano evacuato i coloni terrorizzati che, malgrado tutto, non riuscivano ad essere felici per essersi salvati, ognuno di loro aveva un amico, un familiare, un conoscente che era stato portato via dagli schiavisti. La loro vita non sarebbe stata più la stessa, mai più.
Shepard e C.J. erano stati caricati su una navetta medica mentre lei e Nadine, miracolosamente incolumi, si ricongiungevano col resto della squadra.
Il viaggio di ritorno fu silenzioso, nessuno le disse niente, nessuno la rimproverò, tranne Tiger che la fissava in cagnesco dal fondo della navetta con Nadine stretta a sé. Avrebbe voluto dirgli che gli dispiaceva, che non avrebbe mai voluto metterli in pericolo, ma le parole le si incastrarono in gola e rimase seduta nel suo angolo, a capo chino.
Tuttavia, quando la navetta atterrò e sbarcarono nella base, accadde qualcosa di strano, qualcosa che non riuscì a spiegarsi: Habib le strinse gentilmente una spalla e le sorrise prima di allontanarsi, anche Jake e Dario le rivolsero dei sorrisi gentili e Abigale l’abbracciò … beh più che altro la stritolò.
Stretta al corpo morbido della biotica, incapace di spiegarsi cosa stesse accadendo, rimase immobile, rigida, completamente spiazzata da un simile comportamento.
Quando Abigale la lasciò andare e le rivolse il sorriso più gentile che avesse mai incontrato gli occhi cominciarono a pizzicarle, senza ragione apparente.
- Non devi preoccuparti, è andato tutto bene.- la rassicurò la biotica, stringendo una grossa mano nera sulla sua – I ragazzi se la caveranno e tu sei tornata a casa sana e salva, non conta altro.-
Scosse il capo, incapace di trovare le parole, consapevole di non meritare tanta gentilezza: si chiese se ci fosse un inganno da qualche parte.
- Io non …- distolse lo sguardo mentre la voce le si spezzava: ogni parola che le saliva alle labbra era di una banalità sconcertante.
- Tutti prima o poi facciamo dei casini, il tuo è stato bello grosso …- Abigale ridacchiò dandole un buffetto sulla guancia - … ma, dopotutto, cosa importa? Tutto questo fa già parte del passato.-
Sasha si morse le labbra mentre con la coda dell’occhio scorgeva il comandante avvicinarsi con aria grave – Credo che sia un po’ più complicato di così. -
Abigale seguì il suo sguardo, ma non parve troppo preoccupata dal cipiglio di Cross – Ti darà una bella strigliata, di quelle che si ricordano, ma io sono dell’idea che è meglio essere sgridati che ignorati. Si preoccupa per te, come per tutti noi.- le diede una rapida stretta per farle coraggio, poi si allontanò rivolgendo un breve cenno di saluto al comandante.
Sasha cercò di non sembrare troppo agitata mentre si asciugava i palmi sudati sui pantaloni. Si chiese che fine avesse fatto il soldato gelido ed indifferente che era salito su quella navetta solo poche ore prima, che cosa l’aveva tramutata in quella creatura vulnerabile e fragile di cui vestiva i panni: non aveva risposta.
- Mi dispiace, signore.- si sentì dire quando Cross fu a portata di voce – Ho disobbedito agli ordini, messo in pericolo la squadra e la missione, me ne assumo la piena responsabilità.- distolse lo sguardo – Immagino che il capitano mi stia aspettando: non si preoccupi non ho intenzione di mentire e non voglio causarvi altri guai …-
- Basta così.- Cross si fece passare il sigaro da un angolo all’altro della bocca mentre la studiava con espressione accigliata, assurdamente si ritrovò a domandarsi se era lo stesso sigaro che aveva in bocca quando erano partiti – Vieni con me, soldato.-
Lo seguì docilmente mentre la conduceva fuori dalla zona di atterraggio e percorrevano le passerelle sopraelevate che dominavano l’area di carico dove era stato allestito un temporaneo centro di accoglienza per i coloni che avevano liberato. Cross si fermò, appoggiando i gomiti sulla balaustra.
- Kavalan era un città di cinquemila abitanti, raccoglieva l’intera popolazione del pianeta o quasi. – accennò alle persone sotto di loro, tra di esse Sasha scorse la pelle blu di Lanaya Ossani – Sotto di noi sono raccolte 243 persone: tutto ciò che resta degli abitanti di Dumat.-
Sasha annuì, aveva capito anche lei che la nave di Diòs non era stata l’unica ad atterrare sul pianeta ma solo l’ultima a partire.
- Signore io …-
Cross la interruppe con un gesto brusco della mano – Se non fosse stato per te di persone ne avremmo salvate ventinove. – annuì gravemente – Quando sei nell’Alleanza da tanti anni finisci per dimenticare i motivi che ti hanno spinto ad arruolarti. Oggi tu me li hai ricordati.-
Sasha esitò, cercando di capire quando sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe cominciato ad urlarle contro, immaginò fosse una trappola, un modo per farle abbassare la guardia e colpirla più duramente: beh qualunque fosse la strategia di Cross decise che non ci sarebbe cascata.
- Signore, lo sappiamo tutti e due che quello che ho fatto va contro le leggi dell’Alleanza. Ho disobbedito agli ordini, messo a repentaglio la missione e le vite dei miei compagni, non faccia giochetti con me, comandante, se ha qualcosa da dirmi me lo dica e basta.- se doveva essere la fine non voleva andarle incontro a testa bassa, con la coda tra le gambe: l’Alleanza era stata la sua casa per due anni, era durato fin troppo.
Cross sogghignò – Questa è la novellina che ricordavo, l’aria da martire non ti si addice, Cenerentola. Ti dirò quello che vuoi sapere.- si tolse il sigaro dalle labbra e lo esaminò brevemente prima di rimetterselo in bocca – Non ci sarà nessun provvedimento disciplinare contro di te, nessun congedo con disonore: sono stato io a mandarvi a Kavalan disobbedendo agli ordini, questo è ciò che sa il capitano.-
Le ci volle qualche secondo per capire ciò che le aveva detto; quando, finalmente, la sua mente elaborò le parole del comandante si ritrovò completamente disorientata e l’unica cosa che riuscì a dire fu: - Perché?-
L’angolo della bocca di Cross si alzò lievemente – La risposta non è né semplice né corta, hai la pazienza di ascoltarla?-
Lei annuì aspettandosi una predica ma, quando parlò, la voce di Cross non era quella di un padre che insegna le buone maniere alla figlia, ma quella di un fratello che confessa un arcano segreto – Quando avevo più o meno la tua età ero convinto di sapere tutto, un po’ come te. Puntualmente venivo smentito, facevo la figura dello stupido, mi ripromettevo che non avrei più agito in quel modo, dando per scontato di aver capito ogni cosa, ma poi ricadevo sempre nello stesso, arrogante, errore.- si aggrappò alla balaustra come se temesse di cadere giù – Prima di entrare nell’Alleanza ero un poliziotto, un poliziotto di New York. Nella mia divisa, col distintivo e la pistola d’ordinanza mi sentivo indistruttibile, ero convinto che le cose brutte accadessero solo agli altri, mai a me. - sospirò – Un giorno ero di pattuglia assieme al mio superiore, il mio comandante. È buffo sai: non riesco più a ricordare perché diavolo era con me. – sventolò la mano – Ma questo, questo non ha importanza. So solo che quel giorno arrivò una chiamata: c’era stata una rapina a due isolati di distanza e il fuggitivo veniva proprio nella nostra direzione, tre secondi dopo ci sfrecciò davanti un’astroauto nera, lanciata a folle velocità in mezzo al traffico dell’ora di punta. Non ci pensai due volte e mi lanciai all’inseguimento: era la mia occasione, pensai, nessun agente aveva mai acciuffato un criminale al quinto giorno di servizio. – socchiuse gli occhi – Già me li vedevo i titoli sui giornali, le interviste alla televisione, i servizi fotografici sulle riviste patinate, ero l’eroe che il mondo stava aspettando. Inseguii quel folle in mezzo al traffico, senza curarmi delle conseguenze, ignorai gli ordini del comandante che mi urlava di rallentare, di lasciar stare. Valeva la pena fare una strage per acciuffare un ladro? Non lo ascoltai, pensai che era solo un vecchio rammollito, scambiai saggezza per debolezza.- guardandolo Sasha non poté fare a meno di pensare a suo padre, alla confessione che le aveva fatto il giorno in cui si erano incontrati e che era morto – Un’auto sbucò dal nulla davanti a noi, la evitai per un soffio ma persi il controllo, impattammo al suolo e il veicolo si mise a rimbalzare come una pallina impazzita; una, dieci, cento non lo so quante volte si capottò, so solo che venimmo sbalzati fuori dall’abitacolo, entrambi. Quando mi risvegliai ero all’ospedale, me l’ero cavata bene: qualche osso rotto e un trauma cranico. Davis, il mio superiore, fu meno fortunato: frattura della colonna vertebrale. I medici dissero che era operabile, ma non con lo stipendio di un poliziotto, così dovette arrendersi all’evidenza che non avrebbe più camminato.- la sua voce era priva di inflessioni, quasi indifferente, ma Sasha conosceva troppo bene quell’indifferenza figlia della vergogna e del rimorso per non riconoscerla – Quando mi dimisero e incontrai il capitano della polizia sapevo cosa mi aspettava: la radiazione, come minimo. Invece scoprii che Davis si era immolato al mio posto, di nuovo. Ci avevano trovati sull’asfalto, in fin di vita, sbalzati fuori dal veicolo, non c’era modo di sapere chi fosse alla guida. Lo sapevamo solo io e lui. Davis mentì, disse che era lui al volante, che era stata colpa sua, si prese tutte le colpe per il salvare il culo all’uomo che l’aveva ridotto sulla sedia a rotelle.- deglutì a vuoto – Quando andai da lui all’ospedale non lo ringraziai, né gli chiesi come stava, l’unica cosa che gli dissi fu: “perché?”. La mia risposta alla tua domanda è la risposta che mi diede Davis quel giorno.- tornò a guardarla, gli occhi scuri gravati dal rimorso – Sono il tuo comandante: i tuoi errori sono i miei errori, il tuo fallimento è il mio. Io sono responsabile della tua vita, delle tue azioni, delle vittorie come delle sconfitte. Sono il tuo comandante e il mio compito è proteggerti. Sempre.-
Solo quando Cross ebbe finito di parlare si accorse di aver trattenuto il respiro tutto il tempo, l’aria uscì dalle sue labbra con un sospiro tremulo e dovette aggrapparsi alla balaustra per evitare di scivolare a terra, tradita dalle gambe simili a gelatina, il comandante la guardò con gentilezza – Lo so come ti senti, è umiliante farsi salvare il culo così. - le appoggiò una grossa mano sulla spalla, stringendo appena – Per un intero anno non sono riuscito a guardarmi allo specchio e non ho più avuto il coraggio di incontrare Davis, mi vergognavo troppo. Ma per te è diverso: nulla d’irreparabile è accaduto a causa tua, anzi … hai salvato delle persone, hai reso onore alla divisa che indossi. – si chinò su di lei, invitandola a incrociare il suo sguardo – Volevo solo che capissi che ogni azione comporta una reazione, che ogni scelta ha delle conseguenze: non sei più sola a questo mondo, Sasha Red.-
Sasha assimilò piano quelle parole, timorosa di fraintenderne il senso, cercando un inganno, una trappola, dietro una gentilezza cui non era abituata, lei conosceva il tradimento, solo quello.
Allontanò la mano dell’uomo con decisione, come per dirgli che non ci cascava, che non credeva alle sue parole, al suo racconto: sapeva come andava il mondo, l’altruismo di cui parlava esisteva solo nelle favole - Non voglio che finisca nei guai a causa mia, ho già arrecato abbastanza danno alla squadra, se dovessero perdere il loro comandante per via delle mie azioni non potrei perdonarmelo.-
Cross scoppiò a ridere, una risata piena, rombante, come il fragore delle onde del Mar Egeo – Sei appena arrivata al ballo, Cenerentola, mentre io sono un veterano: conosco bene i passi di questa danza, fidati, non perderò la scarpetta.- le porse un datapad – Abbiamo un posto vacante nella squadra, credo di parlare a nome di tutti quando dico che vorremmo che restassi con noi. Devi solo mettere una firma.-
Sasha si accigliò fissando prima il datapad e poi il comandante – Va bene: ci rinuncio.- incrociò le braccia al petto in un gesto di sfida che le riusciva molto bene – Dov’è la trappola? Non mi bevo questa storia da filmaccio di serie B, cosa vuole da me? –
Di nuovo quella risata, così inaspettata e gradevole in un uomo dall’aria così feroce – Non sono tipo da giochetti, Cenerentola: sono bravo in molte cose, ma non ad ingannare. Quello che ti ho detto è tutto vero, se crederci o no la scelta è tua, è della tua vita che si parla. Non della mia.- gettò il sigaro a terra e lo spense con il tacco, mentre appoggiava il datapad sulla balaustra – È un invito al ballo Cenerentola e se accetti ti prometto che, dopo mezzanotte, la carrozza non tornerà zucca.-
Prese il datapad con circospezione mentre lui si allontanava, rifletté su cosa potesse esserci dietro, quali inganni celasse, poi, d’istinto, decise che non le importava, non voleva saperlo, se anche era una trappola desiderava cascarci dentro.
- Prima di partire per Dumat credevo di essere il soldato perfetto.- disse a voce abbastanza alta da fermare Cross – Insomma, se ha visto i miei punteggi saprà che non mento. Quando lo dissi al capitano mi rispose che anche le macchine sono perfette e che se volevo essere davvero un bravo soldato, una brava persona, non servivano i punteggi: serviva il cuore.- si umettò le labbra, muovendo qualche passo verso il comandante, fermo a pochi metri da lei, il datapad pesava come un macigno tra le sue mani – Su Dumat ho deciso di seguire il suo consiglio, di seguire l’istinto, il cuore, di non essere più un soldato perfetto, ma solo Sasha. Ho perso il controllo e ho compromesso la missione, ho sbagliato e vorrei poter tornare indietro, poter essere di nuovo un soldato di testa, non di cuore, un soldato perfetto. Ma non posso.- era accanto a lui adesso e gli porse il datapad, senza nemmeno averlo acceso – Non sono più un soldato perfetto, sono solo Sasha.-
Cross le rivolse un’occhiata penetrante, la fronte leggermente aggrottata – Te l’ha detta il capitano quella cosa del cuore?-
- Sì.-
L’ombra di un sorriso aleggiò sulle labbra del comandante – La prima cosa sensata che gli abbia mai sentito dire.- accennò all’area di carico sotto di loro, dove erano temporaneamente alloggiati i superstiti di Dumat – Chiedi loro che cosa preferiscono: la testa o il cuore?- ignorò il datapad e si allontanò, lasciandola sola e immobile in mezzo al corridoio, l’armatura dell’Alleanza ancora indosso e, nel cuore, l’inaspettata certezza che sarebbe andato tutto bene.
 

The Blower's Daughter


Fissò il contenuto del suo piatto con una smorfia, mentre la fame cedeva il posto al disgusto. Aveva mangiato molte cose rivoltanti ma il cibo di quella mensa li batteva tutti. Punzecchiò con la forchetta la poltiglia di dubbia provenienza che aveva davanti (“sformato di patate” l’aveva chiamato la cuoca) e si ritrovò a rimpiangere il rancio del centro di addestramento: mai l’avrebbe creduto possibile.
Con uno stridio la sedia davanti a lei si spostò mentre un vassoio entrava nella sua visuale sormontato da un viso che le era ormai famigliare.
Shepard si lasciò cadere sulla sedia, un braccio legato al collo, il viso pallido attraversato da una smorfia di sofferenza rivolta al vassoio che aveva davanti: il contenuto del suo piatto aveva un aspetto persino peggiore del suo.
- Passata di verdure, ci crederesti?- commentò con aria afflitta, senza distogliere lo sguardo dalla brodaglia marrone che gli ondeggiava davanti – In effetti sembra essere passata dallo stomaco di un Krogan.- vi intinse il cucchiaio con circospezione – Sarò felice quando ce ne andremo da questo posto.-
Sasha fissò le bende che facevano capolino da sotto i vestiti e il vistoso livido che gli copriva metà del volto – Come stai? Pensavo ti tenessero in osservazione … e C.J.? Sta bene?- gli domandò, con fin troppa solerzia.
Lui la guardò di sottecchi, con un mezzo sorriso, prima di dedicare nuovamente le sue attenzioni alla zuppa – Starei bene se non dovessi mangiare questa roba.- si lamentò – E non preoccuparti per C.J., si sta facendo consolare da una sua “amica”.-
Sasha tentò di portarsi un boccone alle labbra ma, sentito l’odore, ci rinunciò – Si è trovato una ragazza in questo posto?- domandò, dandosi un’occhiata significativa attorno. La base X35 dell’Alleanza era uno dei luoghi più deprimenti che avesse mai visto, e ne aveva visti parecchi: un tempo avamposto di colonizzazione Umana – Asari, ora era poco più di una stazione di rifornimento galleggiante dove le uniche forme di vita erano l’esiguo personale di servizio e le sempre più rare pattuglie di soldati, come loro.
Shepard ammiccò - C.J. ha una ragazza in ogni porto. È il suo unico talento.-
Sasha si rilassò sulla sedia, incrociando le braccia al petto e studiando il ragazzo seduto davanti a lei – E tu? Hai anche tu una ragazza in ogni porto?-
Shepard inarcò appena un sopracciglio mentre un lampo di malizia attraversava i suoi occhi chiari – Forse. O forse no.- aprì la lattina di birra che aveva sul vassoio e se la portò alle labbra – Perché, sei gelosa?-
- Dell’uomo che mi ha puntato una pistola addosso dopo avermi schiaffeggiata?- si sporse verso di lui, gli occhi ridotti a fessure – No, direi di no.-
Shepard appoggiò la birra sul tavolo, la fronte leggermente aggrottata – Non vado fiero di quello che ho fatto e ti chiedo scusa, ma non me ne pento.- sollevò lo sguardo su di lei e capì che erano tutte le scuse che le avrebbe concesso: si scusava per il gesto, non per le motivazioni dietro di esso – Era necessario fermarti, immagino che tu possa capirlo.-
Sasha si concesse qualche istante di silenzio, in cui sondò le profondità di quegli occhi azzurri e imperscrutabili, era difficile, quasi impossibile, non farsi ammaliare da quello sguardo.
- Sì, lo capisco.- rispose infine, cercando di non mostrarsi troppo turbata.
Il viso di Shepard si aprì in un sorriso, mentre si portava di nuovo la birra alle labbra e si rilassava sulla sedia – E così Cross ti ha fatto la proposta.- accennò al datapad sul tavolo accanto a lei – Hai già deciso?-
Sasha fissò il dispositivo elettronico come se fosse sul punto di aggredirla – Forse.- gli lanciò un’occhiata indagatrice - Sei venuto per farmi cambiare idea?-
Shepard le porse la lattina – Vuoi?-
L’odore dell’alcol le punse le narici facendole gorgogliare lo stomaco, provò l’impellente desiderio di strappargli la lattina dalle mani e trangugiarla tutta d’un fiato, ma sapeva che se avesse cominciato poi non sarebbe più stata in grado di smettere: dalla birra sarebbe passata a qualcosa di più pesante e poi … distolse in fretta lo sguardo – No, ti ringrazio.-
Lui si strinse nelle spalle e svuotò la lattina in un sorso, l’accartocciò e la lanciò, mandandola a finire nella pattumiera dall’altro lato della sala, con un canestro perfetto.
- Sei straordinaria, lo sai?- Sasha gli rivolse uno sguardo interrogativo: non era di certo quello che si aspettava di sentire. Un lieve rossore colorò le guance di Shepard e d’improvviso le sembrò più umano, imperfetto e, per questo, ancora più attraente  – Sul campo intendevo, non che tu non lo sia …- si schiarì la voce, imbarazzato – Quello che volevo dire è che ho visto come ti muovi, come affronti il nemico: sei rapida, lucida, senza paura, sai adattarti alle situazioni e improvvisare. – il rossore era scomparso assieme ad ogni traccia di debolezza, l’uomo che aveva di fronte adesso era quello accanto al quale aveva combattuto su Dumat – È raro trovare un soldato con una sola di queste doti, quasi impossibile che le possegga tutte insieme. Non posso negare che saresti un’aggiunta preziosa, inestimabile, per la nostra squadra.-
Sasha non si fece imbambolare da tutti quei complimenti, conosceva Shepard da poche ore ma una cosa l’aveva capita: non era tipo da perdersi in moine  - Immagino che ci sia un “ma” in arrivo.-
Si sporse verso di lei, appoggiandosi sui gomiti – Ma sei inaffidabile.-
Sasha sussultò, come se l’avesse schiaffeggiata di nuovo.
- Noi siamo una squadra, una famiglia, sul campo ci copriamo le spalle a vicenda: tu non sai nemmeno cosa voglia dire.- continuò lui, impietoso, la voce gelida come il suo sguardo – Su Dumat ho visto una ragazzina arrogante ed egoista, incapace di mettere da parte i suoi desideri personali per il bene degli altri.- con una smorfia si toccò il costato, dove era stato ferito – Io e C.J. eravamo feriti, ci stavano accerchiando da tutte le parti e il tuo unico pensiero è stato per la vendetta.-
Sasha sentì la bocca inaridirsi, presa alla sprovvista da quella conversazione che non sapeva gestire – Ti sbagli, io volevo …-
- Volevi ammazzare il figlio di puttana che ti ha tradito.- la durezza del suo sguardo si ammorbidì appena – Ascolta io ti capisco, davvero. Non ho idea di quello che hai passato, di quello che hai perso, non so cosa ti ha fatto davvero quell’uomo e io non ho il diritto di giudicare le tue azioni …-
- Allora perché lo fai?- ringhiò lei, abbandonando ogni scrupolo.
Shepard si accigliò – Perché questa storia adesso mi riguarda, perché se entrerai a far parte della squadra metterò la mia vita nelle tue mani, tutti lo faremo. Io devo potermi fidare di te, devo avere la certezza che non partirai in quarta ad affrontare una crociata personale lasciandomi col culo per terra …- abbassò il tono della voce, come per rivelarle un segreto – Sul campo siamo una cosa sola, Sasha, disobbedire è come tradire, se uno sbaglia muoiono tutti. Se tu non riesci a capirlo, se non accetti di mettere da parte la tua vendetta per il bene della squadra, io te lo giuro: non sopravvivrai alla prima missione.-
Di nuovo quello sguardo, lo stesso che aveva su Dumat, quando aveva minacciato di ucciderla.
Adesso come allora seppe che non stava scherzando.
- Arriveresti a tanto? Uccideresti un altro soldato per il bene della tua squadra?-
Lui non esitò – Morirei per ognuno di quei ragazzi.- allungò una mano e prese la sua – E se diventerai una di noi, se ci darai ogni parte di te, compresa la tua vendetta, allora sarò disposto a morire per te, ognuno di noi lo sarà e, un giorno, quando verrà il momento, andremo a prenderci la tua vendetta: insieme, come una famiglia.-
Sasha deglutì a vuoto: erano promesse che aveva già sentito, quando le avevano tatuato sul braccio il marchio di una banda. Aveva dato loro tutto e in cambio aveva ricevuto solo pallottole.
Ma la Banda della Decima Strada non era l’Alleanza, Cross non era Castillo e Shepard non era Diòs … guardando in quegli occhi azzurri, limpidi come il mare d’estate, non ebbe dubbi su questo.
Ogni fibra del suo essere le gridava di fidarsi di quel ragazzo senza macchia e senza paura, che aveva l’ingenuità di un bambino non ancora corrotto dal mondo.
Lasciò che le sue difese vacillassero, decise di compiere un atto di fede e permettere che quell’uomo sconosciuto la vedesse per quello che era: una ragazza spaventata e nient’altro - Se stai mentendo, se questo è un inganno, una burla ai miei danni, io ne morirei, Shepard.-
La sua espressione non mutò, rimase quella di un uomo che sta facendo la cosa più importante del mondo, alzò una mano e la posò sulla sua guancia, calda e leggera – Non potrei mai farti una cosa del genere. Mai.-
Le sue ultime, scricchiolanti, difese crollarono e si aggrappò alla sua mano come se temesse di crollare a sua volta – Non ti deluderò, Shepard. Non lo farò.  -
- Lo so. - le sorrise – Mi fido di te.- la sua mano indugiò ancora qualche istante prima di abbassarsi e spingere il datapad verso di lei – Non sei più sola adesso: hai una famiglia.-
Senza più esitazioni allungò una mano, ferma e decisa, afferrò il datapad e, finalmente, lo accese.

 

 

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Capitolo 17
*** Persone normali ... ***



Stazione Arcturus, 2175
 
Persino a quell’ora della sera la stazione era piena di vita, persone indaffarate che andavano e venivano, i loro passi che riecheggiavano sul pavimento lucido, respiri e voci che si mescolavano tra loro, colori di mille mondi, suoni di mille galassie, odori di mille terre e mille soli.
C’erano i viaggiatori solitari, senza bagaglio e legami, che si dirigevano alle navette a testa bassa, cercando di non sparire tra la folla; famiglie rumorose, cariche di bagagli e speranze per il futuro; coppiette che avanzavano abbracciate, i volti sorridenti e gli occhi pieni di sogni; viaggiatori d’affari incollati agli schermi di dispositivi elettronici di ultima generazione, eroici salvatori della galassia in doppio petto e pantaloni gessati, moderni Atlanti convinti di portare sulle spalle il peso di ogni mondo, terrorizzati all’idea di fermarsi un solo istante e rendersi conto di essere completamente inutili.
Persone normali che vivevano vite normali.
Sasha si spostò una ciocca rossa dalla fronte, mentre lasciava vagare lo sguardo sui pendolari della galassia, che attraversavano la stazione Arcturus senza vederla, diretti chissà dove a fare chissà cosa.
Ripensò agli ultimi sei mesi, ai posti che aveva veduto, le persone che aveva incontrato. Ripercorrendo quell’ultimo periodo arrivò alla conclusione di essere serena, forse addirittura felice, per la prima volta nella sua vita.
La squadra 33 era diventata la sua famiglia, la prima vera famiglia che avesse mai avuto, i suoi compagni erano persone eccezionali, straordinarie, di quelle che si incontrano poche volte nella vita e non poteva fare a meno di sentirsi una privilegiata per averli conosciuti. Andava d’accordo con tutti, beh tranne Tiger, ma Tiger andava d’accordo solo con Nadine, e poi … poi c’era Shepard.
Era come se si conoscessero da sempre, sul campo di battaglia avevano un’alchimia perfetta e non c’era situazione che non riuscissero ad affrontare, nemico che non potessero sconfiggere. A volte le sembrava che fossero una cosa sola: le due facce della stessa medaglia.
Abbassò lo sguardo sulle sue mani intrecciate, sfiorò i calli che aveva sulle dita, la sottile cicatrice sul palmo della mano destra, retaggio di chissà quale battaglia, si ripeté che era felice, che tutto stava andando per il verso giusto, che le sue sofferenza erano finalmente terminate …
Stronzate pensò, cogliendo di sorpresa persino se stessa.
Chiuse gli occhi cercando di scacciare quel pensiero mentre la malinconia nascosta nel suo petto minacciava di sopraffarla, prepotente. Alla fine si arrese all’evidenza: c’era ancora qualcosa da sistemare prima di essere felice, felice per davvero.
Muovendosi da sola la sua mano corse alla tasca della divisa, s’infilò dentro e ne venne fuori tenendo tra le dita un pezzo di carta, una lisa fotografia consumata dagli anni.
Per più di due anni aveva cercato di disfarsene, assieme ad ogni frammento della sua vecchia vita, aveva cercato di disintossicarsi dai ricordi come dall’alcol e dalla droga ma non ce l’aveva fatta: i ricordi erano lì, annidati nella sua mente come i germi di una malattia, velenosi come quella promessa ingombrante da cui non riusciva a svincolarsi. La promessa fatta da una ragazza morta ad un uomo morto.
Sapeva cosa l’aveva spinta a rinnegare ogni suo desiderio di giustizia, a smentire platealmente se stessa: la paura.
Paura di scoprire che quell’ufficiale dell’Alleanza incontrato in una stanza d’ospedale potesse avere ragione e che l’uomo conosciuto al bancone di un bar fosse solo un’ illusione.
Voleva davvero scoprire la verità su suo padre? Non era forse più decoroso lasciare che i morti riposassero in pace?
Si strinse il viso tra le mani, ripetendo quella conversazione fatta mille e mille volte nel silenzio della sua mente: era giusto che l’uomo che l’aveva salvata venisse dimenticato, condannato al perpetuo oblio? E se era vivo, se tutto ciò che lei credeva di sapere fosse stato falso, non aveva forse il diritto di avere finalmente delle risposte?
Abbassò lo sguardo sulla fotografia, il tempo aveva sbiadito i colori e il verde degli occhi di suo padre … si chiese che cosa avrebbe fatto lui.
- Eccoti.- una voce profonda la fece sussultare – Ti ho cercata ovunque, stavo iniziando a preoccuparmi.-
Sasha sforzò le labbra in un sorriso, mentre nascondeva velocemente la fotografia nelle pieghe della giacca e i suoi occhi andavano ad incontrare quelli di Shepard – Avevo voglia di stare un po’ da sola.- si scusò, cercando di dare alla sua voce un’inflessione normale.
Lui fece vagare lo sguardo sulle persone che andavano e venivano – Hai intenzione di tagliare la corda?-
- Non ancora.- gli rispose, un po’ scherzando, un po’ seria – Come hai fatto a trovarmi?-
- Non è stato facile.- ammise lui – Prima sono stato all’osservatorio, so che ti rilassa, ma non c’eri. Poi sono andato all’accademia di volo, ci vai sempre quando veniamo qui, per guardare i piloti che si allenano ma …- si strinse nelle spalle - … non eri nemmeno lì. Infine mi sono ricordato che anche la “stazione”, come la chiami tu, ti piace. “Persone normali che vivono una vita normale”.- chinò leggermente la testa, mentre tutte quelle “persone normali” sfrecciavano davanti a loro – E così ti ho trovata.-
Lo fissò, stupita – Come facevi a sapere queste cose?-
- Beh, perché me le hai dette tu. - rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Sasha scosse il capo, incredula – Non ci credo, mi hai ascoltata e te lo sei ricordato.-
Si strinse nelle spalle, fingendo grande interesse per una coppia di turiste Asari – Io ricordo tutto.-
Sasha si morse il labbro, desiderando poter fare quello che disperatamente aveva voglia di fare, ma c’erano regole, divieti e … e non era certa che lui volesse le stesse cose.
Era stata ingenua per tutta la vita e sapeva per certo che il suo cuore non avrebbe retto un’altra batosta.
- Perché mi cercavi?-
- Un semplice comunicato.- rispose, con noncuranza – Abbiamo una nuova missione tra qualche giorno, penso saremo affiliati alla seconda flotta, non conosco i parametri. Domani abbiamo un briefing con Cross e un qualche alto papavero …- appoggiò le braccia sulle ginocchia, chinandosi in avanti, come se fosse ordinaria amministrazione – Volevo solo avvisarti.-
Sasha imitò la sua posa – Beh, bastava un messaggio.-
Le lanciò un’occhiata di sottecchi mentre un sorrisetto faceva capolino sulle sue labbra – Avevo fame e mi è venuto in mente che non abbiamo mai mangiato insieme. La mensa non conta.-
Sasha gli rivolse un’occhiata indagatrice – Mi stai chiedendo di uscire?-
Alex si chinò su di lei, le prese le mani, così serio che si sentì mancare il respiro – Ascolta, lo so che potrebbe essere pericoloso, soprattutto per te.- si accigliò – Ti inseguiranno. Donne soprattutto, di tutte le specie, di qualsiasi età. Riscuoto parecchio successo anche tra gli Hanar, ma finché ti tieni lontano dall’acqua dovresti essere al sicuro. – fece un sospiro drammatico – Ti sto chiedendo molto, lo so …-
Lo spintonò scoppiando a ridere – Sei un imbecille, Alex! E io che ti stavo addirittura a sentire!-
- Guarda che sono serio, sono lo scapolo più ambito della galassia, in migliaia moriranno se accetti di uscire con me!-
Continuò a sghignazzare ma il cuore le batteva più forte del normale e uno strano calore le salì alle guance – Quindi è un invito.-
Lui fece una smorfia, oscillando lievemente la testa – Tecnicamente è un approvvigionamento, ma se vuoi chiamarlo invito allora sì, è un invito.- si alzò e le porse una mano – Vuole venire a cena con me, signorina Red?-
Finse di esitare prima di afferrare la sua mano e rivolgergli un sorriso smagliante – Con piacere.-
 

Mezz’ora dopo erano seduti al piccolo tavolino di un altrettanto piccolo ristorante, la vetrata che si affacciava sul nero della galassia, illuminata dal chiarore di Arturo, la nana rossa da cui la stazione prendeva il nome.
- Mi manca la luce del sole. Del nostro sole.- mormorò Sasha appoggiando la mano sul vetro, a sfiorare la stella lontana – Sei mai stato sulla Terra?- domandò puntando su di lui i due smeraldi che aveva al posto degli occhi.
Rimase imbambolato a fissarla, come un ragazzino alla prima cotta, finché lei non gli sorrise, perplessa – Shepard?-
- Sì!- si riprese, con voce leggermente roca – Sì ci sono stato, una volta da ragazzino.- il ricordo di quel giorno riaffiorò alla sua memoria, mentre gli occhi tristi di sua madre si sovrapponevano a quelli di Sasha – Non ricordo molto.-  aggiunse, distogliendo lo sguardo – Pioveva e …- rivide la folla di persone ammassata sotto un cielo grigio, su un prato grigio, vestiti neri striati di pioggia e visi pallidi sotto ombrelli neri - … non ho un buon ricordo.-
Sasha giocherellò con le posate mentre lo studiava con aria assorta, le labbra leggermente dischiuse, il capo impercettibilmente chinato di lato – È un peccato. Il pensiero di casa non dovrebbe renderti così triste.-
– Sono nato e cresciuto sulle navi spaziali. La mia casa è la galassia.-
Un’espressione assorta si dipinse su quel viso da ragazzina impertinente – E non ti mancano? Un cielo sopra la testa, la terra sotto i piedi, il vento sulla pelle e il sole nelle sguardo …-
Bevve un sorso di vino – Come può mancarmi qualcosa che non conosco?-
Lei fu sul punto di replicare, come sempre, ma fu interrotta dalla cameriera con la loro ordinazione, Shepard accolse con un sorriso raggiante il piatto fumante che gli si presentò davanti, mentre Sasha faceva una faccia scettica.
Non poté fare a meno di scoppiare a ridere quando la vide punzecchiare il contenuto del suo piatto come se temesse che volesse aggredirla.
- Che razza di roba mi hai fatto prendere, Shepard?- sibilò lanciandogli un’occhiata velenosa.
- Rilassati, è un pesce che vive su Thessia, fidati, è buonissimo.-
- Più che un pesce mi sembra una medusa.- mosse il piatto e il contenuto iridescente ondeggiò come un budino – Sicuro che sia commestibile?-
Scosse il capo esasperato, mentre tagliava un pezzo del suo e se lo infilava in bocca, davanti al suo sguardo diffidente – La cucina Asari è la migliore, credimi, una volta provata non potrai più farne a meno.-
Non sembrava convinta – Bah, se lo dici tu. – tagliò un pezzetto con circospezione e se lo infilò in bocca, masticò per un istante e deglutì – Non male.- concesse – Ma niente paragonato ad una bella grigliata di pesce, come quello di Georgius.- fece un verso sognante – Non me ne vogliano le Asari ma hanno ancora molto da imparare.-
Shepard alzò gli occhi al cielo – E dove sarebbe questo ristorante?-
Per poco non si strozzò – Io al ristorante?- bevve un lungo sorso d’acqua – Georgius era il cuoco del b …- s’interruppe lanciandogli un’occhiata preoccupata - … bar in cui vivevo. Ad Atene.-
- Vivevi in un bar?-
All’improvviso parve incredibilmente a disagio – Non esattamente, c’era una mansarda al piano di sopra e il proprietario mi permetteva di rimanere in cambio di …- arrossì violentemente - … qualche lavoretto.-
Preferì non chiedere di che lavoretti si trattava, lei parve leggergli nel pensiero perché rischiò di strozzarsi di nuovo – No, non quei lavoretti. Quelli sono sempre riuscita ad evitarli per fortuna.- gli lanciò un’occhiata ammonitrice, invitandolo a non dire niente, poi si appoggiò sui gomiti e lo guardò con aria assorta – Sai credo ti piacerebbe Atene, è decadente e selvaggia ma il suo fascino è proprio lì: nell’umanità corrotta che la popola, nei vicoli tortuosi, nei palazzi fatiscenti e poi …- gli occhi le si illuminarono - … le rovine. Dovresti vedere il Partenone, Shepard: non esistono parole che possano descriverlo.-
Le poche volte che gli aveva parlato della Terra, accennando al suo passato, la sua espressione era sempre disgustata, sofferente, ma questa volta il suo viso era illuminato dai ricordi, dallo splendore di antiche genti.
- Mi ci dovrai portare allora.- non poté fare a meno di sorriderle – A vedere il Partenone e mangiare il pesce di Georgius.-
Seppe subito di aver detto qualcosa di sbagliato perché Sasha s’incupì, lo sguardo rivolto al piatto che aveva davanti – Non credo che Georgius cucini più.- sforzò le labbra in un sorriso, ma il momento era passato e il suo viso era tornato ad essere quello di sempre: duro e angosciato – Però c’è un ristorante, in Piazza Syntagma, ogni volta che ci passavo davanti sognavo di poterci entrare, sedermi al tavolo e ordinare tutto quello che c’era nel menu.- gli lanciò un’occhiata rapida come le parole che seguirono – Se verrai ad Atene con me, sarò il primo posto in cui ti porterò.-
- È un invito?- la punzecchiò lui, versandosi del vino.
Sasha ridacchiò – Una ricognizione, diciamo.-
Ripresero a mangiare in silenzio, lei persa in chissà quali pensieri, lui incapace di concentrarsi su altro che non fossero le sue mani sottili, la ciocca rossa che le ricadeva sul viso a sfiorare il naso coperto di lentiggini, l’osso dello sterno lasciato scoperto dalla divisa leggermente aperta.
Cercò di portare la sua attenzione sul piatto che aveva davanti, ma era impossibile pensare ad altro che non fosse lei.
- Sai ora che ci penso, non mi hai mai raccontato niente di te, Alex.- disse Sasha cogliendolo di sorpresa  – Non so nemmeno da dove vieni, come sei arrivato qui.-
Lui si prese qualche istante, in cui finì di mangiare e bevve un lungo sorso di vino – Non c’è molto da dire. Sono nato su una nave spaziale, nel 2154. Sì, siamo coetanei. – le sorrise – Che entrassi a far parte dell’Alleanza era scontato, come figlio di due ufficiali avevo la strada spianata e per un biotico non ci sono molte altre alternative. Non legali per lo meno.- si strinse nelle spalle – Tutto qui, davvero.-
- E non ti dispiace?-
- Cosa?-
– Non avere avuto scelta. Fare il soldato per dovere …-
Scosse il capo – Ho sempre desiderato essere un soldato, come mio padre.- si appoggiò sullo schienale, guardando lo spazio galleggiare fuori dalla vetrata – Far parte dell’Alleanza, combattere per l’umanità: ho sempre voluto questo. Viaggiare nello spazio, scoprire nuovi pianeti, incontrare culture diverse, persone diverse … il lavoro che facciamo mi fa sentire importante, utile. Non potrei mai rinunciarci, a meno che …- s’interruppe perdendosi in quegli occhi verdi che avevano il potere di stravolgere ogni sua certezza.
Sasha si umettò le labbra, due chiazze rosse sul viso pallido – A meno che?-
Esitò, finire la frase significava mettere in discussione tutto ciò che erano, amici e fratelli d’arme, significava infrangere ogni regola e rischiare di compromettere tutto ciò che avevano. Lei era così fragile sotto quella corazza da dura, che l’idea di farle del male, in qualsiasi modo, lo paralizzava.
Era troppo immaturo, troppo arrogante per potersi prendere cura di lei. Prima o poi le avrebbe spezzato il cuore, lo faceva sempre. Non poteva permettere che accadesse anche con lei.
- A meno che niente.- tornò a guardare fuori dalla vetrata – Non riesco ad immaginare una vita diversa. E tu?-
- Ho vissuto così intensamente fino adesso, ho fatto così tante cose, combattuto così duramente … mi piacerebbe credere che questa è la mia ultima fermata.- rispose dopo una lieve pausa, c’era qualcosa nella sua voce che forse era delusione … o forse non era niente, solo stanchezza – Ma so di non poter vivere per sempre questa vita, di non volerla vivere. Vorrei solo deporre le armi ed essere felice. Felice e basta.-
Annuì, evitando di guardarla – Una casa in riva al mare, un marito affettuoso, un paio di bambini scatenati e un cane sdraiato sul tappeto … è questo che vorresti?- lo aveva detto per prenderla in giro ma, per un istante, l’idea piacque anche a lui.
- Perché no? Sarebbe così terribile?-
Si esibì nel suo sorriso più arrogante – Sarebbe noioso.-
Sasha scosse il capo, esasperata, ringraziando la cameriera che era venuta a sparecchiare il tavolo, si era tolta la giacca della divisa e, mentre porgeva il piatto alla ragazza, Shepard notò il tatuaggio sull’avambraccio. Non era la prima volta che vedeva quel dieci scritto in numeri romani e, se anche lei non l’aveva mai detto esplicitamente, ne conosceva la storia. Si era sempre accontentato di quelle poche, vaghe, spiegazioni, ma quella sera desiderò saperne di più.
Voleva sapere chi era la donna che faceva vacillare ogni sua certezza.
- Visto che è la serata delle confidenze perché non mi racconti qualcosa di te?- azzardò, un po’ goffamente.
Sasha incrociò le braccia al petto – Non c’è niente da raccontare.-
Si sporse verso di lei – Facciamo così: se riesco a indovinare qualcosa su di te, mi racconti tutta la storia.-
Ridusse gli occhi a fessure e per un istante temette che si sarebbe alzata e l’avrebbe lasciato lì ma, alla fine, cedette – Va bene, spara.-
- Facevi parte di una banda …-
- Questo te l’ho detto io. -
Sbuffò e si mise comodo, concentrandosi – Non hai mai conosciuto i tuoi genitori e sei cresciuta per strada, hai cominciato con piccoli reati: vandalismo, furtarelli, risse. Poi, crescendo, sono cresciuti anche i tuoi crimini.- Sasha era impallidita ma lui proseguì, imperterrito – Hai cominciato a frequentare le persone sbagliate, i posti sbagliati, hai iniziato a bere e …-
- Basta così. - gli occhi verdi erano enormi, sgranati, sul viso pallido, sembrava terrorizzata e lui si sentì immediatamente un idiota – Come hai saputo queste cose?-
- Sasha, mi dispiace, non avrei …-
- Come le hai sapute?-
Scosse appena il capo – Guardandoti. Si capiscono molte cose da piccoli dettagli …- indicò il suo bicchiere pieno d’acqua, era l’unica cosa che beveva, sempre - … come quello.-
Sasha fissò il bicchiere come se l’avesse tradita, un’espressione disgustata sul viso.
- Non avrei dovuto dirti quelle cose, scusami, sono stato insensibile …-
- L’Hallex.- lo interruppe Sasha, evitando il suo sguardo – Era il mio veleno, la mia droga … bevevo, anche, ma era l’Hallex la mia vera dipendenza.- appoggiò i gomiti sul tavolo e lo guardò – Vuoi davvero che ti racconti la mia storia?-
Lui non mosse un muscolo – Sì, per favore.-
Prese un respiro profondo e cominciò a parlare. Gli raccontò ogni cosa e, facendolo, sembrò liberarsi da un enorme fardello, grammo dopo grammo, parola dopo parola.
Era bella con gli occhi lucidi e le guance rosse … la creatura più meravigliosa che avesse mai incontrato ma anche la più triste. Si domandò come avesse potuto sopravvivere a tutto quello che aveva passato, alla solitudine, ai tradimenti, alla droga, alla violenza … aveva passato il peggio e non solo era rimasta in vita, ma l’aveva fatto senza perdersi per sempre, senza corrompere irrimediabilmente il suo animo.
Era straordinaria.
Quando finì di parlare, la voce leggermente incrinata, le mani tremanti attorcigliate su loro stesse, gli rivolse un debole sorriso, quasi a volersi scusare per la lunghezza di quel racconto. Guardando le due fossette ai lati delle guance capì di essersi fatalmente, disperatamente, innamorato di lei.
- Non dici niente?- lo incalzò infine, preoccupata dal suo silenzio.
Era senza parole, letteralmente, gli venivano in mente solo frasi di una banalità sconcertante o … - Non ho mai conosciuto nessuno come te. Sei incredibile.-
Erano rimasti solo loro due nel ristorante ma nemmeno se ne accorsero, la galassia intera sembrava essersi ridotta a quel tavolino e a loro, ultime creature viventi dell’intero universo.
Sasha arrossì, abbassò lo sguardo per poi rialzarlo, magnetico – Non so se prenderlo per un complimento oppure no …-
Un piatto cadde, da qualche parte dietro il banco, sobbalzarono entrambi, si guardarono in tondo, il momento passò e tornarono ad essere quelli di sempre: compagni d’arme, nulla di più.
- Dovremmo andare.- mormorò Sasha, accennando ad alzarsi.
- Aspetta.- la fermò – Le cose che mi hai detto su tuo padre, che cosa sai di lui?-
- Te l’ho detto.- rispose scuotendo il capo – Non so niente di lui e l’uomo del bar … forse non esiste nemmeno. Ho solo …- prese qualcosa dalla tasca - … ho solo questa fotografia.-
Gliela porse, vi era ritratto un ragazzo poco più che ventenne, fiero della divisa che indossava, i capelli biondi pettinati all’indietro e il viso ben rasato.
Un soldato qualsiasi di un esercito qualsiasi.
- Non sai proprio niente di lui? Che so: la data di nascita, il paese di provenienza, il cognome … -
Gli rispose con un sorriso mesto – Non so nemmeno la mia di data di nascita. L’unica cosa che posso dirti è che si chiamava Sasha, ma da quello che mia madre disse a Louise era solo un soprannome. Il nome completo non riusciva a pronunciarlo.-
Si accigliò osservando più attentamente la fotografia e quel soldato dagli occhi verdi come sua figlia – Faceva parte dell’armata russa …-
- Cosa? Come fai a dirlo?-
- Guarda.- spostò la sedia affiancandosi a lei, le indicò un dettaglio della divisa – Quando nacque, l’Alleanza era una federazione di stati, il corpo d’armata era uno solo ma diviso in tante sezioni quanti erano gli stati membri. Ogni sezione aveva un suo simbolo e questo era quello della sezione russa.-
Sasha strinse gli occhi per mettere a fuoco la spilla appuntata sopra il petto di suo padre – Sembra … che uccello è?-
- Un usignolo.-
- Come fai a sapere queste cose?-
- Potrei dirti che le ho studiate a scuola ma sarebbe una bugia.- sospirò – A mio padre diedero la stessa spilla quando si arruolò, a San Pietroburgo.-
Sasha si passò una mano tra i capelli – Va bene, sappiamo che era russo e allora? Siamo allo stesso punto di prima … non sappiamo nemmeno il suo nome. -
- Sasha è un diminutivo comune in Russia.- mormorò – A dire la verità è il diminutivo di Aleksandr.-
Lei s’irrigidì, fissandolo con un’espressione confusa – Vuoi dire che mio padre …-
- Si chiamava come me, sì. La versione russa del mio nome. - tentò un sorriso forzato – Abbiamo più cose in comune di quanto credessimo.-
Vennero interrotti da una cameriera vistosamente a disagio che, dopo molti giri di parole, chiese loro di andarsene dal momento che l’orario di chiusura era passato da un pezzo.
Si scusarono, imbarazzati, pagarono il conto e uscirono senza osare guardarsi per non scoppiare a ridere davanti ai camerieri esasperati.
Quando furono fuori portata iniziarono a sghignazzare senza ritegno per poi interrompersi di colpo, entrambi, ricordando dove si era interrotto il loro discorso; rispondendo ad un comune pensiero camminarono in silenzio fino alla stazione, dove tutto aveva avuto inizio, si sedettero alla solita panchina, evitando accuratamente di sfiorarsi, sia con le mani che con lo sguardo.
Alla fine fu Sasha a rompere il silenzio, rivolgendogli uno sguardo così penetrante che parve volergli bucare l’anima – Sai ultimamente ho pensato spesso una cosa, a proposito di te e … e di me.- si morso e il labbro – Di noi.-
Quel monosillabo lo colpì come un pugno: “noi”. Nemmeno nei suoi pensieri più segreti aveva mai osato usare quella definizione. In quelle tre, misere, lettere c’era tutto: promesse e minacce, speranze e delusioni, presente e futuro.
Gli parve di aver perso del tutto la capacità di parlare, aveva la bocca talmente secca che dubitava sarebbe riuscito ad articolare mai più una parola.
Ci provò lo stesso e, straordinariamente, dalle sue labbra uscì una specie di gracidio – Che cosa hai pensato?-
Per un istante parve sul punto di ripensarci, ma non era donna da rimangiarsi le sue parole così, seppur controvoglia, gli rispose – Che siamo le due facce della stessa medaglia.-
Fu come essere investito da una luce abbagliante. Sì, ci aveva pensato anche lui, senza mai riuscire a tradurre quella sensazione in parole.
Le due facce della stessa medaglia …
Non avrebbe potuto pensare a una definizione migliore per descrivere il loro rapporto: erano simili in tutto ma diversi in ogni cosa.
Forse ci mise una vita a elaborare quei pensieri, forse la sua espressione impassibile la intimidì, fatto sta che Sasha non aspettò una sua risposta, scrollò le spalle, distolse lo sguardo e tornò al discorso di prima, come se non fosse successo niente – Dunque mio padre era russo e si chiamava Aleksandr … non mi pare che tutto questo ci sia di grande aiuto. Quanti soldati russi con quel nome ci saranno?-
Il suo tono sbrigativo lo riscosse, ancora troppo intontito per approfondire quel discorso appena accennato, accettò con gioia quella via di fuga che gli dava un po’ di tempo per riordinare le idee - Parecchi.- ammise seppur cercando di essere  fiducioso – Però sappiamo altre cose che potrebbero restringere il cerchio.-
Sasha fece una smorfia scettica – Ad esempio?-
Sembrava sfinita e Alex non poté evitare di sentirsi in pena per lei, avrebbe voluto prendersi carico dei suoi fardelli e portarli al posto suo, ma era qualcosa che nemmeno lui poteva fare, l’unica cosa che poteva fare era cercare di rendere quel peso più sopportabile.
- Sappiamo che era ad Atene nell’inverno 2153 per intraprendere una missione scientifico-esplorativa nello spazio. Sappiamo che s’imbarcò su una nave dell’Alleanza, l’Indipendence, che faceva parte della flotta che attivò il Portale 314 dando inizio alla Guerra del Primo Contatto.- si sporse verso di lei – Sappiamo anche che l’Indipendence venne abbattuta e che fu uno dei pochi sopravvissuti …- sospirò - … per quanto riguarda la missione di cui mi hai parlato, su Aephus, dubito che troveremo qualcosa, non subito almeno. Se è andata davvero come lui ha raccontato l’Alleanza avrà nascosto molto bene quelle informazioni e sarà difficile scoprire qualcosa.- le sorrise, incoraggiante – Ma per il momento accontentiamoci di scoprire qualcosa di più su tuo padre.-
Sasha scosse la testa, angosciata – L’Indipendence, la missione su Aephus: nemmeno so se esistono, forse mi sono inventata tutto, forse l’incontro con quell’uomo è accaduto solo nella mia testa … non sarebbe strano dato le droghe che prendevo.-
- No.- la interruppe lui, sicuro – La tua storia ha senso, conosco bene l’Alleanza e non è inverosimile che abbiano fatto sparire le prove dell’esistenza di tuo padre per coprire dei crimini di guerra. Non sarebbe la prima volta.-
Lei non sembrava convinta, all’improvviso appariva terrorizzata, come se l’idea di scoprire veramente chi fosse e da dove venisse fosse diventata intollerabile. Le prese la mano, cercando di essere il più rassicurante possibile.
- Ascolta, non posso essere io a dirti cosa fare, se non vuoi scoprire la verità su tuo padre a me sta bene, ma lascia che ti dica una cosa: se non vai in fondo a questa storia non te ne libererai mai, il dubbio rimarrà lì, piantato nella tua testa come un tarlo. Che tu lo voglia o no, diventerà una tua ossessione. L’uomo che hai incontrato nel bar è reale oppure no? Che ne è stato di lui? E se era solo frutto della tua immaginazione, allora dov’è tuo padre, perché non è mai andato in piazza Syntagma? Queste domande ti perseguiteranno. Sempre.-
Le dita di Sasha erano fredde tra le sue, il suo volto era smunto e tirato, sembrava invecchiata di cento anni, lo guardò, gli occhi verdi enormi sul viso pallido e si sentì un bastardo per averle detto quelle cose, ma tacere non era forse un crimine altrettanto grave?
Conosceva l’ossessione e sapeva quanto male poteva fare.
- Come farai a trovare le informazioni su mio padre?-
- Sono nato nell’Alleanza, so dove cercare, a chi chiedere. In poco più di una settimana posso scoprire chi era tuo padre … chi è tuo padre. Ma non posso farlo se tu non sei d’accordo.-
Si morse il labbro inferiore – E se quello che scoprirai non dovesse piacermi?-
- Almeno sarebbe finita, ti toglieresti ogni dubbio, saresti in pace. Che ti piaccia o no. – strinse più forte la sua mano – E io sarò con te, in ogni istante. Non ti lascerò sola.-
Distolse lo sguardo e lo fissò sulle persone che andavano e venivano, davanti a loro. Passò una famiglia, padre, madre e due bambine. Il padre teneva la più piccola in braccio e le raccontava qualcosa, qualcosa d’importante perché lei lo ascoltava seria, un’espressione concentrata sul piccolo viso da bambina, lo guardava come se fosse la persona più importante del mondo, l’unico di cui fidarsi.
- Facciamolo.- decise Sasha, svincolandosi dalla sua presa e alzandosi in piedi – L’uomo che ho incontrato nel bar esiste, lo so, non importa cosa dica l’Alleanza. Mi ha salvato la vita, non c’è prova più convincente di questa.-
Alex si alzò in piedi a sua volta – Non ti deluderò.-
Lei gli sorrise, era uno dei suoi sorrisi speciali, di quelli con le fossette – Grazie, Shepard.-
Si allontanarono lungo la banchina, camminando fianco a fianco, come due persone normali; ogni tanto le loro mani si sfioravano, ma nessuno dei due cercò di spostarsi. Andava bene così.

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Capitolo 18
*** … che vivono una vita normale ***



Cittadella, 2175
 
La porta a vetri tintinnò quando se la chiuse alle spalle e Sasha si fermò un attimo a contemplare l’insegna sgargiante del negozio di tatuaggi dal quale era appena uscita. Era la prima volta che spendeva soldi solo per il gusto di farlo e si sentì incredibilmente normale.
- Allora, fa vedere!- Nadine si alzò dalla panchina, venendole incontro con una sottile sigaretta stretta tra le labbra carnose. Coi lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e il corpo voluttuoso avvolto in un leggero abitino estivo, sembrava davvero una diva d’altri tempi.
Sasha si scoprì l’avambraccio e glielo fece vedere – Un vero capolavoro.- si vantò, incapace di trattenere un sorriso radioso.
Nadine vi passò sopra le lunghe dita affusolate annuendo, soddisfatta – Un bel lavoro, non c’è che dire. Finalmente il tuo braccio è tornato ad essere quello di una signora.-
Sasha fece un verso scettico, ma non poté fare a meno di fissare estasiata il suo avambraccio immacolato, su cui non c’era più traccia del tatuaggio della banda. Era un’altra macchia della sua vecchia vita che veniva lavata via.
Dopo tanti anni era pronta a ricominciare. Per davvero questa volta.
- Che effetto fa?- domandò Nadine seguendo il corso di quei pensieri.
Sasha ritrasse il braccio, guardandosi intorno, le vie della Cittadella erano percorse da un’infinità di razze diverse, persone provenienti da ogni angolo della galassia che vivevano fianco a fianco, come fratelli. Se qualcuno le avesse detto che sarebbe arrivata fin lì, sulla Cittadella, una persona rispettabile che combatteva per l’umanità, sarebbe scoppiata a ridere. Nemmeno nei suoi sogni più sfrenati o nei deliri della droga, era arrivata ad immaginare tanto.
- Tutto ciò che ero sembra un ricordo sbiadito, un ricordo di qualcun altro.- si passò una mano sull’avambraccio, dove solo un leggero rossore era rimasto al posto del tatuaggio della Banda della Decima Strada – È una nuova vita, in un nuovo mondo.-
Nadine aspirò una lieve boccata di fumo, prendendo la sigaretta tra le lunghe dita sottili – Io credo che ci sia ancora una cosa da fare, perché la trasformazione sia completa.- affermò, buttando la sigaretta e schiacciandola sotto i tacchi alti.
- E cosa?-
La squadrò dall’alto in basso, soffermandosi sui pantaloni della tuta infilati in un paio di anfibi militari con la suola spessa – Un po’ di shopping.- rispose, afferrando un lembo della sua t-shirt grigia con l’aria di chi non ammette repliche.
Sasha fece una smorfia – Avevi detto che eravamo qui per divertirci, pensavo saremmo andate al simulatore di combattimento o …-
- Oh ti prego, Sasha, siamo in licenza! E tu hai bisogno di vestiti nuovi, non vorrai venire vestita così, stasera!-
Guardò in basso allargando le braccia – Fino adesso non ha mai dato fastidio a nessuno.-
- Siamo sulla Cittadella chérie, nel cuore della galassia, dobbiamo festeggiare la riuscita dell’ultima missione e la tua promozione, caporale Sasha Red.- il tono di Nadine non lasciava scampo – Non permetterò che tu venga vestita come una stracciona.-
“Caporale Sasha Red”, non riusciva a credere che si trattasse proprio di lei.
interpretando la sua esitazione come un assenso, Nadine la trascinò lungo le strade affollate di … di tutte le specie della galassia. Non aveva mai visto così tanti alieni in un posto solo e, suo malgrado, si sorprese a guardarsi intorno a bocca aperta, come una turista incredula.
Da ragazza si era obbligata ad odiare gli alieni, doveva odiarli, doveva dare la colpa a qualcuno per la miseria in cui viveva, ma ora si rendeva conto che c’erano stati così tanti colpevoli, per così tanto tempo, che era inutile puntare il dito su qualcuno e dire “è colpa tua”. L’umanità aveva fatto le sue scelte e gli alieni non c’entravano niente, non era colpa loro se gli uomini avevano distrutto la Terra e loro stessi.
L’unica cosa che le importava davvero, adesso, era riuscire a fare qualcosa, qualunque cosa, per migliorare il suo piccolo angolo di mondo.
E c’era riuscita, almeno nell’ultima missione.
In una base schiavista, su un pianeta dimenticato da Dio, avevano arrestato una ventina di pirati e, soprattutto, liberato un centinaio di schiavi. Tra di essi ce n’era qualcuno che veniva da Dumat, compresa una delle due archeologhe Asari rapite.
Era una piccola vittoria, ma aveva il sapore del trionfo.
Per la prima volta aveva avuto la conferma che non premere quel grilletto, a Kavalan, era stata la scelta giusta. Aveva salvato almeno una vita.
- Eccoci.- Nadine si era fermata davanti ad un’imponente negozio dalle vetrine sgargianti. Nel riflesso del vetro scorse le loro figure affiancate: l’alta e statuaria francese appena uscita da un film cult e la minuta ragazzina dai capelli rossi coi vestiti sformati e l’aria spaesata.
Dovevano apparire molto buffe, l’una accanto all’altra, come un cigno accompagnato da un corvo.
Nadine spinse la porta a vetri – Non fare quella faccia, Sasha. Quando uscirai di qui sarai davvero un’altra persona.-
Suonava un po’ minaccioso ma la seguì comunque all’interno, fu come entrare in un altro mondo.
La musica, gli odori, i colori … quante volte, da ragazza, percorrendo le vie del centro, con un coltello in tasca e le peggiori intenzioni in mente, si era fermata ad osservare le vetrine dei negozi, desiderando segretamente di poterci entrare, insieme alle sue amiche inesistenti e indossare vestiti che non fossero macchiati di sangue, sperma e sudore?
Nadine si muoveva tra gli scaffali come su una pista da ballo, in meno di tre minuti era già carica di vestiti e l’aveva spinta verso i camerini incitandola a provarli.
- Non dirmi che devo provare tutta quella roba?-
Sotto le lunghe ciglia gli occhi azzurri di Nadine brillarono di malizia – Vuoi fare colpo su Shepard o no?-
Colta completamente alla sprovvista non seppe cosa replicare e Nadine ne approfittò per metterle la pila di abiti in mano e spingerla nel camerino, richiudendo la porta.
- Non voglio fare colpo su Shepard!- mentì, attraverso la porta chiusa, cercando di capire da che parte si infilasse il primo abito che aveva scelto.
- Oh lo so. Dicevo così per dire.-
Sasha si tolse maglietta e pantaloni, sempre guardando il pezzo di stoffa con aria dubbiosa – E comunque l’Alleanza ha le sue regole.- precisò, contorcendosi per infilarsi in quella specie di tubo di pelle incredibilmente stretto – Se anche fossi interessata, cosa che non sono, rischieremmo di finire nei guai. - si guardò allo specchio, perplessa – Credo che tu abbia dimenticato un pezzo del vestito …-
Nadine infilò la testa nella porta e le sorrise – Ti sta che è un incanto, chérie. E no: non ho dimenticato niente.-
- Lo immaginavo.- guardandosi allo specchio, fasciata da quell’abito in finta pelle dalle dimensioni di un asciugamano, un piccolo asciugamano, pensò che il suo vecchio tatuaggio non avrebbe sfigurato affatto con quella mise – Sai alcune ragazze che conoscevo, ad Atene, indossavano cose del genere.-
Nadine ridacchiò – Se preferisci il genere “brava ragazza” ti conviene guardare in fondo al mucchio.-
- Ti ringrazio.-
- Sai riguardo a quello che dicevi, sull’Alleanza e le sue regole.- interloquì la voce di Nadine quando ebbe richiuso la porta – Credo che dovresti essere un po’ più elastica, non si è sempre sul campo di battaglia, quando deponi le armi e smetti di combattere capisci che certe regole sono solo stupidaggini, niente di più.-
- Dovrei fare come te e Tiger? Infischiarmene?-
- Si nota così tanto?-
Sasha uscì fasciata di un abito azzurro che faceva a pugni coi suoi capelli, Nadine lo bocciò con una smorfia.
- Non siete proprio il massimo della discrezione.- asserì tornando dentro e scegliendo un paio di pantaloni dal mucchio – Se la cosa uscisse dalla squadra, se qualcun altro a parte noi vi scoprisse, verreste separati, spediti dalla parte opposta della galassia … non hai paura di questo?-
- Credi che non ne abbiamo parlato? Se accadesse lasceremmo l’Alleanza e non saremmo noi a rimetterci, ma loro.-
- Ti sbagli, sarebbe la squadra a rimetterci, tutti quanti noi.-
- Vedo che hai imparato bene la lezione di Shepard sull’importanza della squadra.- sembrava divertita, ma anche malinconica – Ci abbiamo provato, all’inizio, a fare finta di non provare niente l’uno per l’altra … è stato un disastro, non solo per noi, ma per tutti. Evitavamo di toccarci, di guardarci, persino di parlarci, eravamo come due estranei sul campo di battaglia e per poco non abbiamo rischiato di fare ammazzare tutti. La verità è che noi siamo bravi in quello che facciamo proprio perché siamo insieme, perché ci amiamo: è questo sentimento a renderci forti. – fece una leggera pausa – E non vale solo per noi, Sasha.-
Uscì indossando dei pantaloni a vita alta e una maglia senza maniche, Nadine fece un sorriso d’approvazione che le restituì un po’ a fatica – E se un giorno fossi costretta a scegliere tra salvare lui o tutti gli altri? – si morse il labbro – C’è un motivo se esiste quella regola.-
Nadine accavallò le lunghe gambe – Perché non provi qualcos’altro, chérie?-
Ritornò dentro, un po’ a malincuore, aveva sperato che Nadine avesse una risposta anche a quello, una risposta che la convincesse ad infischiarsene, come faceva lei.
- Sai, facendo questo lavoro, le scelte prima o poi arrivano sempre.- Sasha si fermò a metà del movimento, attenta a non perdersi nemmeno una parola – Cominci ad immaginare tutte le possibilità, i bivi di fronte ai quali ti troverai e ti rendi conto che ogni affetto è una debolezza: genitori, fratelli, amici, coniugi, figli. Il rischio che qualcuno li usi contro di te è enorme ma se non avessi nessuno, nessuna famiglia, nessun amico, nessun amore, per cosa combatteresti? Per che cosa vivresti? – la sentì sospirare – Tu dici che quella regola esiste per un motivo, io invece ti rispondo che è ridicola: viviamo insieme e moriamo insieme, di chi altri dovremmo innamorarci? Tiger mi conosce meglio di chiunque altro, mi ha salvato la vita così tante volte e io la sua … e se un giorno arrivasse il momento di scegliere tra lui e tutto il resto, so che mi semplificherebbe le cose, facendo lui quella scelta al posto mio. Siamo soldati, Sasha, conosciamo i rischi.-
Rimase in silenzio, fissando la sua immagine nello specchio, così diversa da quella che ricordava. Si sciolse i capelli che le ricaddero sulle spalle, leggermente ondulati, aveva vissuto tutta la vita senza niente e nessuno, ma alla fine aveva perso tutto, anche quello che non sapeva di avere. Seguendo le regole forse avrebbe tenuto il suo cuore al sicuro, almeno per un po’, ma sarebbe stata ancora la solita, vecchia, Sasha. Quella che viveva senza niente e alla fine perdeva tutto.
Guardò i suoi vestiti ammucchiati per terra, poi osservò il suo riflesso, chiedendosi quale delle due donne voleva essere.
Senza esitare uscì dalla cabina, Nadine la fissò, a bocca aperta, chinò la testa di lato e si alzò – Ecco.- mormorò – Questa è la vera te.-
La portò davanti a uno specchio, mettendosi alle sue spalle. Il vestito le arrivava appena sopra il ginocchio, la gonna le scendeva morbida lungo i fianchi con una delicata stampa a fiori, la parte superiore era di un verde chiaro, delicato, leggermente olivastro, chiusa sul davanti da una fila di bottoni, il tessuto morbido che arrotondava le spigolosità del suo corpo.
Per la prima volta nella sua vita, si vide bella, persino con Nadine accanto.
- Qual è la cosa che desideri di più al mondo, Sasha?-
Si sentì arrossire ma continuò a fissare il suo riflesso e non fu più sulla Cittadella, ma sulla terra, in riva al mare, insieme a lui.
- Shepard.- ammise infine – Voglio Shepard.-
- E allora fregatene delle regole, abbiamo una vita sola, Sasha, e tu hai già sprecato tanto di quel tempo …-
Distolse lo sguardo – L’Alleanza è tutta la sua vita.- mormorò – Non voglio metterlo nella condizione di rischiare di perdere tutto.-
Nadine ridacchiò – Shepard è un ragazzino viziato che non ha mai rischiato niente in tutta la sua vita, lui crede che l’Alleanza sia tutto il suo mondo. Ma si sbaglia.- le diede un buffetto sulla guancia – E presto se ne accorgerà.-
- E se non dovesse accadere?-
- Allora vuol dire che è un idiota e tu non avrai perso niente.-
Sasha sorrise, girando su se stessa e ammirandosi nello specchio – Sai che ti dico: mi sa che hai ragione.-
Nadine rise di cuore – Io ho sempre ragione, dovresti saperlo. Che ne dici?- indicò verso la cabina – Continuiamo?-
Stava iniziando a divertirsi, così rientrò senza protestare – Posso farti una domanda senza che tu ti offenda?- domandò alla porta chiusa.
- Spara.-
- Perché, tra tutti, ti sei innamorata di Tiger? Insomma non è il più gentile, né il più simpatico o il più carino …-
Il silenzio dall’altra parte le fece temere di averla offesa, ma quando parlò Nadine sembrava trattenere a stento l’ilarità – Dì pure che è uno stronzo egocentrico che sta iniziando a perdere i capelli e il suo naso potrebbe essere più dritto.- fece una risatina – Sono entrata nella squadra un paio d’anni prima di te, un mese dopo Shepard, al posto di Jin e Jake c’erano due veterani, tipi davvero tosti, gli altri li conosci tutti … la prima volta che li incontrai …- gemette – Dio fu imbarazzante: non voglio fare la diva, ma non esagero quando dico che caddero letteralmente ai miei piedi. -
- Anche Shepard?- domandò lei, più piccata di quanto avesse voluto.
La voce dall’altra parte era divertita – Soprattutto Shepard. Ma stai tranquilla: non mi ha mai guardata come guarda te.-
Arrossì stupidamente e fu felice che non ci fosse nessuno a vederla.
Nadine continuò - Fatto sta che erano tutti lì a sbavare come lumaconi. Tutti, tranne uno.-
Sasha sorrise – Tiger.-
- Esatto, era insopportabile. Più gli altri erano gentili con me e più lui mi maltrattava, criticava ogni cosa che facevo, dal modo in cui impugnavo il fucile a come mi allacciavo l’armatura; la cosa buffa è che aveva ragione: ero un vero disastro ad allacciare l’armatura e tenevo il fucile con la punta delle dita, per paura di rovinarmi le unghie. Ero un’incompetente ma non importava a nessuno, a loro bastava solo che sorridessi e io ero ben felice di accontentarli.- Sasha fece capolino dalla porta e la guardò mentre si osservava allo specchio con aria di rimprovero – Ma con Tiger era diverso, non si faceva impressionare dal mio bel faccino, lui voleva un soldato, non una bambola. All’inizio lo odiai, non avevo mai conosciuto qualcuno immune ai miei sorrisi e mi misi in testa di conquistarlo per poi spezzargli il cuore. – si girò verso di lei, gli occhi che brillavano- Alla fine fu lui a conquistare me e quando alla fine capii qual’era il mio vero valore, quando smisi di essere una bambola e diventai un soldato, solo allora mi diede una possibilità.-  le fece cenno di uscire – Avanti fatti vedere. –
Sasha uscì girando su se stessa e sorridendo al suo riflesso – Ora che mi hai convinta a vestirmi da femmina mi dici che la bellezza è una maledizione?-
Nadine fece una smorfia – Mai detto questo. La bellezza è un dono inestimabile e un’arma estremamente potente; la natura è stata generosa con me, lo so bene, e non me ne lamento, anche se mi fa un po’ paura.-
- Paura? Perché?-
- Non si ottiene mai niente per niente.- rispose con voce grave – Guardandomi allo specchio non posso fare a meno di pensare che, prima o poi, dovrò ripagare il mio debito.- si strinse nelle spalle – Ma questi non sono discorsi da fare adesso. – ammiccò – Quel vestito è uno schianto, se fossi in te lo prenderei per stasera.-
Sasha si mise di lato e rivolse a se stessa un sorriso malizioso – Oh sì, credo proprio che lo indosserò.-
 

Shepard sorseggiò lentamente la sua vodka, liscia naturalmente, mentre attorno a lui il locale si riempiva velocemente; la musica stava aumentando il ritmo, la pista cominciava ad animarsi e il suo livello di sopportazione stava già raggiungendo il culmine. Odiava i posti affollati, rumorosi e poco illuminati: troppe persone da tenere d’occhio, troppe distrazioni, troppi potenziali nascondigli. Scrutò la folla con attenzione, cercando qualcosa di sospetto, in effetti c’erano un paio di Batarian dall’aria losca.
- Piantala di guardare male tutti quelli che passano, Shepard.- gli urlò Abigale nell’orecchio, posandogli una mano sul braccio – Rilassati, siamo in licenza: nessuno vuole farci la pelle.-
Fece una smorfia scettica, negli ultimi tempi avevano pestato un po’ di piedi a un sacco di persone sbagliate – Voglio solo assicurarmi che sia tutto a posto.-
Lei gli sorrise, con la sua aria di condiscendenza materna che le veniva così bene – Smettila di preoccuparti, tenente, cerca di divertirti anche tu questa sera. -
Ricambiò il sorriso, alzando leggermente il bicchiere – Lo sto già facendo, non vedi?-
Lei scosse il capo rassegnata e tornò a chiacchierare con Dario e Habib, seduti accanto a lei; poco più in là Jake e Jin erano chini sul factotum del cinese a parlare di chissà quali diavolerie elettroniche mentre Tiger fissava torvo il suo bicchiere come se gli avesse rivolto il peggiore degli insulti. Spaziò il locale con lo sguardo cercando di individuare C.J., non impiegò molto a trovarlo, impegnato a fare il cascamorto con la barista Asari.
Sasha e Nadine non erano ancora arrivate, notò con un leggero senso di apprensione, mentre Cross non sarebbe venuto, come al solito. A suo avviso non c’era niente da festeggiare nell’aver compiuto il proprio lavoro; loro non erano d’accordo: c’era sempre da festeggiare quando riportavi a casa la pelle.
Sorrise tra sé e sé, mentre osservava i suoi compagni divertirsi e rilassarsi, malgrado non fosse né il più vecchio né il più alto in grado della squadra si sentiva responsabile per loro, erano le uniche persone al mondo di cui gli importasse davvero qualcosa. Gli piaceva pensare di essere un po’ il loro angelo custode, il membro del gruppo che si prendeva cura degli altri, che li teneva al sicuro e faceva in modo che tutti andassero d’accordo. Sapeva che anche Cross la pensava così. Era a lui che si affidava quando doveva delegare il comando e sperava che, un giorno, avrebbe affidato a lui il compito di sostituirlo. Non che desiderasse che Cross se ne andasse, tutt’altro, ma sempre più sovente il comandante lasciava trasparire segni di stanchezza, lamentando di essere troppo vecchio per quel lavoro: non si poteva rimanere in prima linea per sempre.
E, quando Cross avesse deciso che il suo tempo sui campi di battaglia era finito, lui sarebbe stato pronto a prendere il suo posto. Si preparava a quel momento da tutta la vita; i suoi genitori, i professori all’accademia, Cross stesso, tutti coloro che aveva conosciuto, non avevano fatto altro che educarlo al comando. “Sei un leader nato” gli dicevano, ed era vero.
Quando aveva scelto di diventare un soldato, quando aveva indossato per la prima volta la divisa, aveva creduto, come tutti del resto, che sarebbe andato a combattere per la Terra e l’umanità intera, ma sul campo di battaglia, quando i proiettili ti sfrecciano attorno e tutto ciò che conta è sopravvivere, la patria è il pezzo di terra su cui sei arroccato e l’umanità intera si riduce al soldato accovacciato alla tua sinistra e a quello accovacciato alla tua destra.
Proteggere i suoi compagni significava proteggere l’umanità, perderli sarebbe stato come perdere il pianeta natale.
Desiderava guidarli in battaglia più di qualunque altra cosa al mondo, ma aveva il terrore di fallire, vederli morire uno dopo l’altro e, alla fine, rimanere lui solo.
C’erano due sole cose che aveva il potere di terrorizzarlo e, sotto certi aspetti, erano collegate l’una all’altra: sopravvivere a tutti i suoi compagni, vederli morire, uno dopo l’altro senza poter fare niente, e vivere per l’eternità con quel fallimento impresso a fuoco sulla pelle.
Rabbrividì e tornò a concentrarsi sulle persone che lo circondavano, sui volti famigliari di quegli amici che sperava di non perdere mai: non avrebbe permesso che accadesse, promise a se stesso.
Con la coda dell’occhio notò un movimento a pochi metri dal loro tavolo, si voltò in quella direzione, la mano che, istintivamente, si appoggiava sul calcio della pistola da cui non si separava mai, ma era solo Nadine che si faceva largo tra la folla, al suo passaggio molte teste si girarono.
Quella sera era ancora più bella del solito, le lunghe gambe nude, i capelli biondi raccolti in una coda alta, il viso leggermente imbronciato mentre tentava faticosamente di raggiungerli. Un tempo non sarebbe più riuscito a distogliere lo sguardo da quel volto così perfetto da sembrare scolpito, invece i suoi occhi scivolarono rapidi su di lei, registrando il suo arrivo e passando oltre, alla ricerca di una testa rossa e occhi verdi come smeraldi.
Cercava una ragazzina minuta, coi capelli scompigliati e il corpo magro fasciato da una tuta sformata, per questo non riconobbe la donna che seguiva Nadine o, almeno, non la riconobbe subito.
I capelli rossi sciolti sulle spalle, il vestito bianco che scendeva morbidamente fino a terra, semplice e leggero come un velo bianco, stretto sotto il seno da un sottilissimo filo d’oro. Fu come vedere apparire una divinità, una di quelle dee che popolavano la Terra in cui era nata.
Guardandola le venne in mente l’immagine di un’antica statua custodita sulla Terra, che lui non aveva mai avuto il privilegio di vedere dal vivo: la Nike di Samotracia; il che era assurdo, visto il posto in cui si trovavano e le persone da cui erano circondati, assurdo ma non per questo meno vero.
Quando arrivarono vennero accolte dai saluti rumorosi del resto della squadra, tutti piacevolmente sorpresi dalla metamorfosi di Sasha.
Shepard non riuscì a dire una parola, né a distogliere lo sguardo, rimase cristallizzato al suo posto, il bicchiere dimenticato nella mano e l’espressione da ebete.
Sasha si sedette davanti a lui, rivolgendogli un’occhiata perplessa – Ti sei incantato, Alex?-
Non ricordava più come si facesse ad articolare una frase.
L’arrivo tempestivo di C.J. lo salvò dall’imbarazzo di balbettare qualcosa, ma il sollievo durò poco quando si accorse che il suo amico aveva iniziato a provarci spudoratamente proprio con Sasha.
In quel momento arrivò la seconda folgorazione della serata: non avrebbe sopportato di vederla tra le braccia di qualcun altro.
- E io che pensavo non potesse esistere un’umana in grado di superare la bellezza delle Asari.- stava blaterando C.J., un braccio appoggiato sullo schienale della poltrona dietro di lei e il suo sorriso più impertinente stampato sulle labbra.
Sasha gli sorrise, dolce come non avrebbe mai voluto vederla – Ci stai provando con me, C.J.?-
Lui ammiccò – Spudoratamente.-
Aveva voglia di vomitare.
Paralizzato sulla sua poltrona non riusciva a fare niente, se non guardare e maledire se stesso per la propria idiozia.
Accolse con gioia l’interruzione della cameriera con le loro ordinazioni, dopo che se ne fu andata Sasha osservò diffidente i bicchieri pieni appoggiati sul tavolo.
- Ho ordinato io per te.- riuscì a dire, porgendole un cocktail colorato ma innocuo – L’analcolico della casa.-
Gli rivolse un’occhiata delle sue, di quelle penetranti e imperscrutabili, prima di prendere il bicchiere e portarselo alle labbra – Grazie, Alex.-
C.J. sogghignò – L’analcolico della casa? La prendi per una recluta dell’Accademia?- le posò una mano sulla gamba, chinandosi verso di lei – Non ti preoccupare, tesoro, ti ordino io qualcosa di serio.- per la prima volta nella sua vita desiderò picchiare il suo migliore amico. E forse l’avrebbe fatto se Sasha non avesse posato bruscamente il bicchiere sul tavolo, voltandosi verso C.J., il viso vicinissimo al suo.
- Sai, c’è una cosa che volevo dirti …- mormorò con voce morbida.
Alex sentì il sangue defluirgli dal volto mentre C.J. sorrideva, speranzoso – Dimmi tutto, tesoro.-
Le labbra di Sasha si curvarono in un sorriso pieno di promesse e un bagliore invitante attraversò i suoi occhi – Se non togli quella mano entro tre secondi la uso per prendere a schiaffi quella tua bella faccia da idiota.- sibilò, gelida – E se mi chiami “tesoro” un’altra volta, C.J., ti strizzo le palle così forte da fartele salire al posto degli occhi, capito?- prese il bicchiere e si rilassò sul divano – Posso bere il mio cocktail, adesso?-
Sul tavolo era sceso il silenzio mentre tutti la fissavano increduli, il primo a riaversi fu proprio C.J. che, dopo aver frettolosamente ristabilito le distanze, scoppiò in una fragorosa risata – E questo mi ricorda perché non ci provo mai con le colleghe.- alzò le mani in segno di resa – Mi arrendo signora, la prego, non mi spari.-
Sasha ridacchiò – Questa volta sarò clemente, caporale.-
L’ilarità tornò intorno al tavolo e mentre gli altri cominciavano a bersagliare C.J. di battute anche Alex iniziò a rilassarsi, ancora una volta l’aveva sottovalutata, pensando che si sarebbe lasciata abbindolare dal primo dongiovanni di passaggio.
Da quel momento in avanti la serata procedette decisamente meglio.
Molto più tardi, quando Nadine e Tiger erano scomparsi già da un bel pezzo e il resto della compagnia era ormai decisamente su di giri, C.J. saltò su con un’ uscita delle sue.
- Questa serata mi ricorda quella su Thessia di qualche anno fa.- biascicò, spiaggiandosi sul divanetto accanto a Shepard – Scommetto che te la ricordi anche tu, Zar.-
Era difficile non ricordarsi della serata più imbarazzante della sua vita, finse di non aver sentito la domanda, sperando che C.J. si distraesse e se ne dimenticasse.
- Io me la ricordo.- intervenne Habib con un risolino, vanificando ogni sua speranza – Che serata! Come si chiamava quella spogliarellista?- si voltò verso di lui e gli fece l’occhiolino – Scommetto che tu te lo ricordi, Shepard.-
- Stronzo.- sillabò, mentre Sasha drizzava la testa e si metteva all’ascolto, improvvisamente attenta.
C.J. batté le mani, felice di avere finalmente un pubblico per uno dei suoi tanti aneddoti, peccato che, quella sera, avesse scelto lui come vittima sacrificale.
- O andiamo.- bofonchiò, cercando di cambiare argomento – A chi vuoi che interessi? È una storia che conoscono tutti.-
- Io no.- intervenne Sasha.
- E nemmeno noi.- si intromisero Jake e Jin, sbucati da chissà dove.
Si passò una mano sul viso, con un gemito – Lo sapevo che me ne sarei dovuto andare ore fa. -
- Sì, me la ricordo quella sera.- interloquì Abigale, per nulla intimidita dalla sua occhiata assassina – Quanti anni avevi, Shepard?-
- Diciotto.- rispose, mesto – E voi eravate dei bulli del cazzo.-
Dario si riscosse dal torpore dell’alcol – Eri persino più pivello di Jake, balbettavi ogni volta che parlavi con una ragazza.- ricordò – Volevamo solo aiutarti.-
Lo fulminò con lo sguardo – Portandomi in uno strip-club Asari?-
Dario si strinse nelle grosse spalle – Beh da allora sei migliorato.-
A quel punto C.J. si lanciò in uno sproloquio dei suoi, raccontando nel dettaglio ogni avvenimento della serata, con qualche aggiunta della sua immaginazione, purtroppo, però, quando arrivò a descrivere la scena cruciale, rimase tristemente fedele alla versione originale.
- Era una creatura divina, Venere in persona, se Venere avesse avuto la pelle blu.- ricordò, sognante – Avrei ucciso per un suo sguardo e invece lei va dritta da questo pivello, iniziando a ballargli sopra, e quando dico “sopra”, intendo proprio sopra!-
Suo malgrado Shepard ridacchiò al ricordo – Io sono ancora convinto che fosse un Hanar travestito, mi si avvinghiò addosso come un polpo: avevo le sue mani ovunque.-
Notò che Sasha sorrideva, ma c’era una sorta di fissità nella sua espressione, come se s’imponesse di fare quello che facevano tutti, senza divertirsi realmente. Non osò sperare che fosse gelosa.
- Insomma a quel punto qualunque persona normale si sarebbe appartata con Venere.- commentò Abigale facendo un gesto eloquente – Persino io ci sarei stata con quella.-
- Invece questo idiota salta su come una molla, più rosso del culo di un Varren e quasi la fa cadere, traumatizzandola a vita, secondo me.- esclamò Habib scuotendo il capo, decisamente schifato – “Mi sono dimenticato di cambiare le guarnizioni della mia corazza.” sbraitò, sembrava in preda ad un attacco epilettico …- Dario stava ridendo fino alle lacrime e Abigale non era da meno, mentre lui faceva del suo meglio per rimanere serio - … e poi si smaterializzò, ve lo giuro: un secondo prima era lì davanti a noi, tutto sudato, e l’attimo dopo era scomparso, puf, svanito nel nulla. -
- Lo cercammo ovunque, tutta la sera.- rammentò C.J. tra una risatina e l’altra – Impossibile trovarlo, riapparve solo il pomeriggio successivo, sostenendo di non ricordare nulla di quello che era successo.-
Il sorriso di Sasha aveva perso la sua fissità e adesso anche lei se la rideva, assieme agli altri, perfettamente integrata col resto della squadra. Era bello vederla così felice anche se a farne le spese era la sua reputazione.
- Non siamo mai riusciti a scoprire che fine avevi fatto.-
- E mai lo scoprirete, Dario. Mi porterò il segreto nella tomba.-
Jin gli rivolse un’occhiata perfida – La tua reputazione è rovinata, tenente.-
Shepard scosse il capo, sconsolato – A questo punto immagino che dovrò uccidervi tutti, non posso permettere che questa storia arrivi alle orecchie delle signore.-
Sasha chinò il capo di lato, rivolgendogli uno dei suoi sorrisi speciali, di quelli con le fossette – Non sarei così precipitosa se fossi in te: alle donne piacciono i guerrieri imbranati dal cuore tenero.-
Fece una smorfia scettica – Ah sì? E a quali donne?-
Sasha sorseggiò il suo cocktail, cercando di darsi un’aria indifferente – A me per esempio.-
Shepard si drizzò a sedere mentre tutti gli altri scoprivano immediatamente di avere impegni altrove, in un istante svanirono tutti.
Sasha osservò quel fuggi fuggi generale con espressione divertita – Vedo che gli hai insegnato bene.-
- Non cercare di cambiare discorso, caporale Red, non questa sera. –
Forse la serietà del suo tono la spaventò, forse anche lei era giunta alla conclusione che non si poteva più aspettare, perché il sorriso scomparve sostituito da un’aria grave – Alex …- mormorò mentre lui si chinava su di lei, certo di non poter più rimandare quel momento o rischiare che qualcun altro si accorgesse di che donna meravigliosa fosse. Erano le due facce della stessa medaglia, gli aveva qualche settimana prima, e solo ora capiva quanto avesse ragione.
“Tu sei mia ed io sono tuo”: questo le avrebbe detto dopo averla baciata.
Ma accadde qualcosa.
Sasha s’irrigidì a metà del movimento, gli occhi fissi su un punto alle sue spalle, il suo viso cosparso di lentiggini impallidì e gli occhi verdi si sgranarono. Si alzò di scatto come se ne andasse della sua stessa vita, mormorò qualcosa che forse erano delle scuse e lo lasciò lì, solo, su un divanetto di un locale della Cittadella.
La seguì con lo sguardo, cercando di capire dove stesse andando, che cosa avesse visto di così sconvolgente; la vide avvicinarsi ad un uomo, appoggiato al bancone del bar che chiacchierava tranquillo con i suoi amici. Era un bel tipo, arabo all’apparenza, il naso adunco e il portamento fiero; la divisa dell’Alleanza gli cascava a pennello.
Vide Sasha avvicinarsi a lui, posargli una mano sul braccio e dirgli qualcosa. Il viso dell’uomo passò dalla confusione, alla sorpresa e infine alla gioia man mano che ascoltava le parole di Sasha, infine si abbracciarono.
Fu come se gli avessero sparato di nuovo, si afflosciò sul suo divanetto, colpito a morte.
Li vide parlare, come vecchi amici, vide Sasha rivolgergli uno dei suoi sorrisi speciali, di quelli che si era illuso fossero riservati a lui solo, poi da qualche parte, un sadico deejay mise una canzone di altri tempi, accompagnata dalle dolci note di una chitarra; i balli sfrenati si trasformarono in romantici lenti e l’uomo del bar trascinò Sasha sulla pista.
A quel punto Shepard decise che il suo livello di sopportazione era stato ampiamente superato.
Si alzò e, senza salutare nessuno, se ne andò dal locale.

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Capitolo 19
*** Passato e Futuro ***



Cittadella, 2175
 
Un attimo prima Shepard stava finalmente per baciarla, l’attimo dopo il passato tornava prepotente alla sua porta.
Aveva semplicemente sollevato lo sguardo e l’aveva visto lì, uguale al giorno in cui gli aveva detto addio; quel viso che non riusciva più a ricordare ora spiccava nitido in mezzo alla folla.
Si sentì impallidire mentre il fiato le si bloccava in gola e tutti i ricordi che aveva cercato di seppellire tornavano a galla.
Mai avrebbe pensato che si sarebbero incontrati di nuovo.
In un istante Sasha Red scomparve e tornò ad essere la teppistella di strada che era sempre stata, si allontanò da Shepard, bofonchiando scuse distratte, e si avvicinò all’uomo appoggiato al bancone del bar.
Si sentiva a disagio nel vestito bianco e coi lunghi capelli sciolti sulle spalle; le sembrava di essere finita nel corpo di qualcun altro, qualcuno che fingeva di essere lei.
Lui era lì davanti, bello come lo ricordava, così fiero nella sua divisa dell’Alleanza, mentre rideva e scherzava con persone che non conosceva.
Ebbe paura che si fosse dimenticato di lei.
Sfacciata come solo lei sapeva essere, gli posò una mano sul braccio e gli sorrise, sfrontata.
Lui la squadrò con i suoi occhi neri come la notte, osservò stupito e compiaciuto quella ragazza che lo abbordava in un bar. Una ragazza come tante in una notte come tante – Ci conosciamo?- le domandò.
Come aveva potuto pensare di averlo dimenticato? La sua voce, il suo profumo … era tutto lì, avvinghiato alla sua memoria.
- Come potrei non conoscere il turco più famoso di Atene?- era una vecchia frase dei tempi in cui bazzicavano per le strade di Atene, prendendosi cura l’uno dell’altra.
Daario sobbalzò, per un istante parve paralizzato, poi quegli occhi che l’avevano guardata senza vederla, finalmente, la misero a fuoco, il suo sguardo le accarezzò il viso – Sasha …- esalò, come se non credesse a ciò che aveva di fronte.
- Sì. - rispose, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime – Sì sono io. - gli sorrise. Uno di quei sorrisi che riservava solo a lui.
Daario deglutì a vuoto, incredulo – Dio mio …- l’abbracciò di getto, come non aveva mai avuto il coraggio di fare – Sasha … non ci credo: sei proprio tu?-
Era sul punto di scoppiare a piangere come una bambina, e lui con lei, si ritrovò a ridere contro la sua spalla, stretta in quell’abbraccio che aveva il sapore di cose perdute e occasioni sprecate – Non pensavo che ti avrei mai rivisto.-  mormorò, cercando di trattenere le lacrime: una o due le sfuggirono, avevano uno strano sapore sulle labbra.
Lui la stringeva e rideva, rideva e piangeva, come lei – Non posso credere che tu sia qui!- si staccò da lei per guardarla – Ma guardati, sei uno spettacolo! Che ne è della ragazzina terribile che ho lasciato sulla Terra?-
Quelle parole le fecero uno strano effetto, s’irrigidì mentre, da qualche parte, giungeva il rumore di vetri infranti – Molte cose sono cambiate in questi ultimi anni, Daario: non sono più quella di prima. Ora sono un soldato dell’Alleanza.-
Lui parve estasiato – Non pensavo che avresti seguito il mio consiglio.-
Distolse lo sguardo, fissandolo sulla pista da ballo dove persone di tutte le razze si dimenavano al ritmo di una musica inascoltabile – Infatti non l’ho seguito.-
Daario fece una smorfia perplessa, ma prima che potesse parlare la musica cambiò e i martellanti brani da discoteca vennero sostituiti da note più leggere e parole intrise di malinconia. Sordo alle sue proteste, Daario la trascinò sulla pista, convinto, chissà, di riportare indietro il tempo e fingere che nulla fosse cambiato; ma si sbagliava: tutto era cambiato e, cosa più importante, lei non voleva tornare indietro nel tempo, non lo voleva affatto.
- Cos’è successo, Sasha?- aveva un modo di dire il suo nome che la faceva ritornare bambina, quando le insegnava le cose che aveva appreso a scuola e lei lo ascoltava come se fosse la persona più intelligente del mondo.
- È accaduto quello che avevi predetto.- mormorò, stringendosi a lui – Sono andata a fondo e ho trascinato tutti con me: Castillo mi ha tradita, Diòs mi ha tradita e si sono presi tutto. Hanno ucciso Kobe e venduto gli altri ai Batarian. Mi hanno quasi uccisa, Daario, e quando mi sono ripresa ero sola come non ero mai stata.- si asciugò rapidamente una lacrima sfuggita al controllo – L’Alleanza era l’unico posto dove potevo andare.-
Lo sentì tremare tra le sue braccia – Mi dispiace di non essere rimasto al tuo fianco, Sasha.-
Dispiaceva anche a e lei. Per anni lo aveva biasimato, per essersene andato lasciandola sola, ma ora non più: Daario aveva fatto ciò che era più giusto per lui, per la sua famiglia, aveva scelto di andare avanti mentre lei rimaneva ferma a guardare.
Alzò gli occhi fino ad incrociare i suoi, guardandolo con sincero affetto: era stata innamorata di lui, perdutamente, solo ora se ne rendeva conto.
- Potremmo ricominciare da capo.- sussurrò Daario e, per un istante, desiderò credergli.
- Io ricordo tutto.- ammise – Eri la cosa migliore della mia vita, insieme a te ero felice, lo ero davvero … ma non sono più una bambina, Daario.- tentò un sorriso che non le riuscì – Tutto ciò in cui credevo, le certezze che ero convinta di avere … ho vissuto nella menzogna per tutta la vita. - scosse il capo, cercando di ignorare la sua espressione via via più ferita man mano che capiva il senso delle sue parole – Potrei dirti che nulla è cambiato, che ti amo come quando eravamo bambini e che non ti ho odiato per avermi lasciata là, ma mentirei.- non riusciva più a trattenerle, adesso, le lacrime, e persino lui che mai aveva visto piangere, aveva gli occhi lucidi e le labbra serrate in una smorfia silenziosa – Tu te ne sei andato e io ho dovuto arrangiarmi con quello che avevo. La persona che sono diventata, le cose che ho fatto, nemmeno puoi immaginarle. Tutto ciò che eravamo è scomparso e non si può tornare indietro.-
- Ti sbagli.- singhiozzò lui, stringendola a sé – Possiamo ricominciare da capo, conoscerci di nuovo e tornare ad essere quelli di un tempo: io non ti ho mai dimenticato, ragazzina terribile.-
Sorrise, nonostante tutto, davanti a quel nomignolo che solo lui aveva il permesso di usare e una parte di lei avrebbe voluto credergli, disperatamente, perché per sedici anni Daario era stato l’unica certezza della sua vita, fino al giorno in cui le aveva voltato le spalle.
Guardò in fondo a quegli occhi neri dentro i quali aveva sempre trovato tutto ciò che cercava: sicurezza, desiderio, amore … ora non c’era più niente.
Erano azzurri gli occhi in cui voleva perdersi, non neri, non più.
- Ma io ho dimenticato te.- confessò con voce spezzata – Ti vorrò bene per sempre e sei il mio amico più caro, ma la ragazza che ti amava non esiste più: è morta ad Atene tre anni fa. Da sola. Io e lei non abbiamo più niente in comune, nemmeno te.-
Lo sentì trattenere il respiro, rigido tra le sue braccia, ma nonostante la smorfia dipinta sul viso scuro si accorse, guardando in quegli occhi neri, che aveva capito – Vorrei poter tornare indietro, cambiare le cose …-
- No.- lo interruppe – È giusto che sia andata così: hai fatto le tue scelte ed io le mie, scelte che in un modo o nell’altro ci hanno trasformato in quello che siamo ora. Mi piace la persona che sono diventata, ho uno scopo, una famiglia, sono felice.- e mentre lo diceva capì di esserlo davvero, tentò di sorridere di nuovo e, questa volta, ci riuscì – Quello che è perduto non si può riavere ma ho intenzione di tenermi ben stretto ciò che ho conquistato. –
Le passò una mano tra i capelli, agganciandole una ciocca ribelle dietro l’orecchio – Sì …- sussurrò – Sei cambiata. – le sfiorò la guancia col palmo della mano e lei vi si appoggiò sopra, consapevole che quello era davvero un addio – Te la caverai, ragazzina terribile?-
- Troverò un modo, come sempre.-
La musica finì e capirono entrambi che quello era il momento di lasciarsi andare: si erano detti tutto quello che c’era da dire.
- Stai attenta là fuori, mi raccomando.-
Gli sfiorò il naso con la punta delle dita – Anche tu, stupido turco.-
Risero entrambi, poi lui si chinò e le sfiorò le labbra con le sue in un bacio che sapeva di cose perdute ed occasioni sprecate.
Lo lasciò andare, come aveva già fatto in passato, chiedendosi se lo avrebbe mai rivisto.
In fondo al cuore sapeva bene qual era la risposta.
Intorno a lei la pista si animò di nuovo, mentre quella piccola parentesi di antiche melodie si richiudeva bruscamente e la martellante musica da discoteca si portava via ogni cosa.
Le venne il dubbio che fosse stato tutto un sogno.
Si voltò verso il tavolo a cui erano seduti i suoi compagni, improvvisamente consapevole di quello che era successo e di come dovesse apparire agli occhi di chi non aveva ascoltato la loro conversazione. Pregò che Alex non avesse visto niente.
Al tavolo c’erano tutti, tranne Shepard. Colse l’occhiata di rimprovero di Abigale e si sentì sprofondare.
Raggiunse il tavolo facendosi largo a spintoni tra la folla – Lui dov’è?- domandò alla biotica quando fu a portata d’orecchio.
- Secondo te?- fu la risposta, acida, che ottenne.
Era la prima volta che vedeva Abigale arrabbiata.
Si allontanò dal tavolo, senza dire una parola, e attraversò il locale di corsa, aprendosi malamente la strada fino all’uscita.
Fuori la notte artificiale era buia, come una qualsiasi notte terrestre. Cercò Shepard nell’oscurità, invano.
Sperò che fosse tornato agli alloggi e si guardò intorno, cercando di ricordare quale fosse la via per tornare al quartier generale. Le parve di riconoscere un’insegna sulla sua destra e si avviò in quella direzione.
Camminò per alcuni minuti prima di rendersi conto di essersi completamente smarrita: non aveva la più pallida idea di dove stesse andando.
Cercò di ritornare sui suoi passi ma sembrava che il locale fosse scomparso e che tutte le strade fossero diventate l’una identica all’altra.
Che situazione assurda, pensò, esasperata.
Svoltò in una strada, poi in un'altra e in un’altra ancora, sperando d’imbattersi in qualcosa di famigliare. Man mano che avanzava la gente si diradava e l’illuminazione diminuiva, sempre più quei posti le ricordavano Atene. La sua Atene, quella dei bassifondi, delle puttane e …
- Ti sei persa, bambolina?-
 

Era arrabbiato. Avrebbe anche potuto sopportare il fatto di essere arrabbiato, ma non era solo arrabbiato: era schifato, deluso, esasperato e … e aveva il cuore spezzato.
Erano sensazioni mai provate prima e le odiò.
Non era tipo da farsi spezzare il cuore, se per questo non era nemmeno tipo da innamorarsi.
Da quando aveva conosciuto Sasha stentava a riconoscersi: per lei aveva infranto le regole, deluso Cross, rischiato la vita dei suoi compagni e messo in gioco i suoi sentimenti più di quanto avesse mai fatto in tutta la sua vita.
Forse era meglio che fosse andata così, che gli avesse spezzato il cuore adesso, che poteva ancora sopportarlo, piuttosto che dopo quando ne sarebbe morto.
Era ancora in tempo per dimenticarla, si disse, ma era una menzogna e lo sapeva bene.
La sola idea di averla lasciata là, tra le braccia di uno sconosciuto, gli faceva tanto male da impedirgli di respirare.
Voleva davvero che finisse così? Senza fare niente, senza nemmeno provare a lottare? Non era da lui: Alexander Shepard non fuggiva senza combattere.
Tornò sui suoi passi, deciso a fare qualcosa, non sapeva nemmeno lui cosa, per soffocare quel dolore sordo che sentiva in fondo al petto; non sapeva ancora se una volta tornato al locale si sarebbe attaccato alla bottiglia o avrebbe affrontato il suo rivale.
Si accorse che la rabbia lo aveva portato lontano, nei meandri della Cittadella, in quei luoghi che non si vedevano nelle pubblicità galattiche o negli olofilm ambientati sulla stazione più famosa della galassia. Ma, per quanto ben nascosti fossero, il degrado e l’abbrutimento esistevano in ogni luogo e accumunavano tutte le specie nella sporcizia e nell’abbandono.
Per un attimo temette di aver perso la strada, ma conosceva abbastanza bene la Cittadella da riuscire ad orientarsi, riconobbe alcuni palazzi dall’aria abbandonata e si avviò in quella direzione, svoltando a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra; riconobbe strade da cui era già passato e accelerò il passo.
Uno scoppio di voci e un grido soffocato attirò la sua attenzione; veniva da una strada alla sua sinistra.
Fatti i fatti tuoi, si disse, ma lo spirito del boy scout era fin troppo radicato in lui per lasciar stare.
Era un soldato dell’Alleanza, dopotutto.
Si avviò nel vicolo stretto e maleodorante, chiedendosi chi potesse essere stato tanto idiota da infilarsi in quel posto.
Dopo una curva s’imbatté in un gruppo di quattro persone, tutti umani. Due tenevano ferma una ragazza, la schiena contro il muro, le braccia immobilizzate dai suoi aggressori, il terzo era in piedi davanti a lei, coprendola alla sua vista, una mano premuta sul naso spaccato, l’altra che si alzava a schiaffeggiarla.
- E così sei una tipa tosta, bambolina. Ti assicuro che quando avremo finito con te piangerai.-
Per tutta risposta lei gli sputò in faccia.
L’uomo la schiaffeggiò con violenza e il colpo le fece voltare il viso; Shepard non poté non riconoscerla, coi capelli rossi e il vestito bianco strappato sul seno.
Per un istante, un rapidissimo, orribile, istante, provò l’impulso di voltarsi  e andarsene, convinto che se la sarebbe cavata comunque: quelle come lei se la cavavano sempre.
Ovviamente quelli rimasero solo pensieri che il suo corpo non prese nemmeno in considerazione, l’energia oscura gli vorticò attorno alle nocche.
- Ehi, figli di puttana, perché non provate a fare piangere me?- li provocò, con la sua migliore espressione da duro.
Quelli si voltarono, il tipo col naso spaccato aveva in mano un coltello, ma non gli diede neanche il tempo di pensare di usarlo che lo colpì al petto con una spinta biotica che lo mandò a sbattere contro la parete della stazione, tre metri più indietro; l’altro lasciò andare Sasha, avventandosi su di lui, non ebbe fatto due passi che l’energia biotica lo afferrò, lanciandolo contro la parete di fronte.
Al terzo ci pensò Sasha.
- Stai bene?- le domandò, avvicinandosi e osservando preoccupato il sangue che le colava dal labbro.
- Sì. - ringhiò lei, lo spinse da parte e prese la pistola che aveva nella fondina, nella concitazione del momento se ne era completamente dimenticato – Ehi tu, tipo tosto.- il tale col naso spaccato si stava rialzando, ma Sasha gli fu addosso come un animale da preda, lo colpì al volto con la canna della pistola, facendogli schizzare fuori dalle labbra sangue, bava e denti – Chi è che piange adesso?-
Non l’aveva mai vista così, dura e selvaggia come un animale feroce, nella fioca luce dei lampioni, il suo viso non era più così bello come lo ricordava, le ombre ne accentuavano le spigolosità rendendolo affilato come un coltello.
Colpì il tipo di nuovo, una, due, tre volte, la cosa non lo scandalizzò, se fosse stato per lui quel tale si sarebbe già preso una pallottola in mezzo agli occhi: non meritava altro. Era l’espressione sul viso di Sasha a sconvolgerlo, la persona che aveva di fronte era una sconosciuta, piena d’odio e rabbia, che bramava la violenza come una droga. Davanti ai sui occhi c’era la piccola criminale cresciuta su Atene.
Avrebbe picchiato quell’uomo fino ad ucciderlo, perché non poteva fermarsi, perché non voleva fermarsi, ma Shepard sapeva che dopo non sarebbe più stata la stessa, la conosceva abbastanza bene da essere certo che, una volta passata la follia di quel momento, quell’omicidio compiuto d’istinto l’avrebbe perseguitata per il resto dei suoi giorni.
- Basta così, specialista.- afferrò la mano che stringeva la pistola e le tolse l’arma.
Lei lo fissò, nella fioca luce della strada i suoi occhi erano neri, non verdi.
- Non vorrai lasciarlo andare?- gli abbaiò contro.
- Che c’è, bambolina? Hai paura che torni a cercarti?- ansimò l’uomo tra le labbra spaccate e martoriate.
Probabilmente lo avrebbe finito a mani nude, ma Shepard non glielo permise, la bloccò con un gesto perentorio, poi si voltò a guardare l’uomo riverso sulla strada gelida. Sapeva di fare paura, lo lesse sul viso di quel bastardo, nel gelido terrore che offuscò quegli occhi slavati.
- No, amico, tu non la toccherai più.- alzò la pistola e, senza la minima esitazione, premette il grilletto.
Lo sparo riecheggiò secco nella via deserta.
Sasha alzò gli occhi sgranati su di lui, erano verdi e lei era quella di sempre – Shepard …- era come se lo vedesse per la prima volta.
Lui fissò il cadavere ai suoi piedi, non provò niente, né colpa, né compassione, sapeva che quella morte non l’avrebbe tormentato, né quella notte né mai. Per quello che lo riguardava la “cosa” che aveva ucciso non era una persona, né un uomo. Aveva semplicemente abbattuto una bestia idrofoba.
- Nessuno minaccia i miei amici.- era semplice come bere un bicchier d’acqua, naturale come respirare, le sfiorò il labbro gonfio con la punta delle dita, attento a non farle del male – Nessuno minaccia te. Sarei dovuto arrivare prima, mi dispiace.-
Lei si tirò su il vestito, cercando di coprirsi, l’ espressione indecifrabile, gli occhi insondabili, qualunque cosa stesse pensando non aveva nessuna intenzione di rivelarglielo – E loro?- indicò i due uomini svenuti – Hai intenzione di ammazzare anche loro?-
- Se lo meriterebbero.- nemmeno li degnò di uno sguardo – Ma non questa sera. Mando un avviso all’SSC.- accese il factotum e compose rapidamente il numero delle emergenze – Ci penseranno loro.- inviò il messaggio e spense il dispositivo.
Sasha non aveva fatto un passo, tremava con le braccia strette attorno al petto, si sfilò la giacca e gliela mise sulle spalle, incerto se stringerla o meno tra le braccia.
- Vieni, andiamo via di qui.-
Lei annuì piano, le labbra che iniziavano a tremare, il viso pallido e l’espressione angosciata – Non avrei dovuto picchiarlo …- gemette infine, mentre si allontanavano e tornavano alla luce della strada principale – Non avresti dovuto ucciderlo, così si comportano i criminali, non noi.-
Si chiese quale assurdo meccanismo scatenasse il senso di colpa in una persona che aveva rischiato di essere violentata, malgrado tutto Sasha provava compassione per l’uomo che l’aveva aggredita.
- Quell’uomo ti avrebbe ammazzato dopo averti fatto tutto quello che voleva, ti avrebbe ammazzato e poi sarebbe andato a cercarsi qualcun’altra. Ha avuto solo quello che meritava.-
- Ma tu non sei un assassino!-
- Davvero? Uccido persone ogni giorno, è il mio mestiere. Lo facciamo tutti.-
- Non è la stessa cosa! Non eravamo su un campo di battaglia, quell’uomo era disarmato!-
Le sirene dell’SSC risuonarono dietro di loro, Shepard accelerò il passo, non per paura della giustizia, quelli dell’SSC avrebbero chiuso un occhio per l’assassinio di uno stupratore da parte di un soldato dell’Alleanza, tuttavia non aveva voglia che Sasha passasse una notte in caserma a raccontare ciò che era accaduto, voleva portarla a casa e farle dimenticare quella notte.
- La morte è sempre uguale, che tu uccida sul campo di battaglia o per strada non fa differenza, ammazzi e basta. Credi che tutte le persone che abbiamo ammazzato in giro per la galassia se lo meritassero? Che fossero tutti psicopatici schiavisti assetati di sangue?- fece una smorfia – La maggior parte dei mercenari che abbiamo ammazzato erano ragazzi che non si rendevano nemmeno conto di quello che facevano, degli stupidi, certo, ma non dei pazzi criminali. Prova pietà per loro, non per quel miserabile.-
La vide accigliarsi mentre camminava accanto a lui, la giacca stretta attorno al corpo minuto – E allora perché non mi hai permesso di ucciderlo? Lo avrei fatto, in quel momento lo avrei fatto.-
- Lo so, te l’ho letto negli occhi. Ma un pezzo di te sarebbe morto con lui: tu sei buona, Sasha, anche se credi di non esserlo e se lo avessi ucciso non te lo saresti più perdonata. Non potevo permettere che ti facesse ancora del male.-
- E tu? Tu potrai mai perdonarti?-
Si strinse nelle spalle – Non ho fatto niente che io debba perdonarmi. Non sono una cattiva persona, Sasha.- erano arrivati al QG dell’Alleanza, Shepard si fermò, girandosi a guardarla – Ma non sono buono.-
Sasha parve combattuta per qualche istante, quello che aveva visto in quel vicolo le aveva fatto paura ma non l’aveva sorpresa, sapeva bene cos’era disposto a fare pur di proteggere i suoi compagni, i suoi amici: avrebbe ucciso per loro, sarebbe morto per loro. E per lei avrebbe fatto qualunque cosa.
- Tu sei Shepard.- disse infine, alzando una mano e posandola sulla sua guancia – E sei la persona migliore che abbia mai incontrato.-
Dovette farsi violenza per non baciarla lì, in mezzo alla strada, davanti al quartier generale dell’Alleanza. Erano successe molte cose quella sera, e l’episodio di violenza di cui erano stati protagonisti era solo la coronazione di una serata assai strana che aveva messo in discussione tutto ciò che erano e sarebbero stati.
Come al solito lei gli lesse nel pensiero – Grazie per avermi aiutata e …- si morse le labbra, come faceva sempre quando era in imbarazzo - … e qualunque cosa tu abbia visto al locale, non ha importanza. Daario era un pezzo del mio passato e tale è rimasto, tu … tu invece …- gli appoggiò una mano sul petto, lì dove il suo cuore stava facendo un casino del diavolo, il battito frenetico che sentì sotto il palmo parve incoraggiarla, perché quando alzò il viso, di nuovo splendido nella luce fioca della stazione addormentata,  ogni traccia d’incertezza era sparita – Vorrei che tu fossi il mio futuro.-
E a quel punto ogni esitazione scomparve, gettò all’aria ogni cautela, i dubbi, le stupide regole dell’Alleanza, non gli importava di niente tranne che di lei.
La baciò e nulla gli parve più buono e giusto di quelle labbra premute sulle sue, che sembravano disegnate apposta per lui.
Lui baciò lei e lei baciò lui, aggrappati l’uno all’altra come se ne andasse della loro vita.
Shepard si strinse a lei, una mano premuta sulla sua nuca, l’altra attorno alla vita, come se staccarsi da lei significasse perderla, come se perderla significasse morire.
Entrarono nella sua camera sbattendo la porta, caddero sul letto in un groviglio di braccia e vestiti strappati, come fossero arrivati fin lassù senza farsi scoprire da nessuno e riuscendo persino a trovare la stanza giusta in quei corridoi tutti uguali non sarebbe mai riuscito a spiegarselo.
Ma non aveva importanza. L’unica cosa cui riusciva a pensare erano i suoi capelli rossi che gli solleticavano il viso, le labbra premute sulle sue, il leggero retrogusto di sangue e spezie che aveva la sua bocca, il corpo spigoloso e fragile stretto tra le braccia.
Non ci furono esitazioni o incertezze mentre esploravano l’uno il corpo dell’altra, nessun imbarazzo nelle mani che sapevano già cosa fare, dove toccare. Era come se si conoscessero da tutta la vita, come se sapessero esattamente cosa volessero l’uno dall’altra.
Si vedevano per la prima volta dopo essersi conosciuti nei sogni di entrambi.
Le sfiorò il seno con le labbra e la sentì tremare sotto il suo tocco, allora la baciò piano, dal seno ai fianchi, mentre Sasha affondava le dita nei suoi capelli, il respiro spezzato.
Alzò lo sguardo su di lei, quasi a chiederle il permesso, c’era qualcosa nei suoi occhi verdi che assomigliava alla paura ma che aveva tutta la meraviglia dei sogni; vi fu un’esitazione quasi impercettibile e poi un abbandono quale non avrebbe mai osato sognare.
 
 
 
 
 
 
 
Nota
 
Immagino abbiate notato l’aggiunta a inizio capitolo, credo che l’inserimento della data sia utile per una maggiore comprensibilità degli eventi e la loro scorrevolezza, mi sono accorta che l’assenza di riscontri cronologici precisi può portare a confusione.
A breve, se non subito, apporterò questa correzione anche ai capitoli precedenti.
A presto!
 
P.S. se notate qualche incongruenza nelle date non esitate a farmelo sapere!
 

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Capitolo 20
*** Tutto e niente ***


Dirty Little Secrets

Cittadella, 2175
 
Quando aprì gli occhi provò uno strano senso di smarrimento: la camera in cui si trovava era identica alla sua, i mobili, le finestre, persino i lampadari erano come li ricordava, ma erano i dettagli ad essere sbagliati: la tazza vuota sul comodino, ad esempio, o la divisa perfettamente stirata appesa all’attaccapanni accanto alla porta o il modellino di una nave militare appoggiato sul davanzale della finestra … si stropicciò gli occhi, stordita, notando solo in quel momento di essere raggomitolata dalla parte sbagliata rdel letto, nuda per di più. Un terribile sospetto le balenò nella mente, assieme a immagini sfocate di corpi nudi e sudati intrecciati in un groviglio di braccia e gambe. Si voltò, trattenendo il respiro: al suo fianco Alexander Shepard dormiva tranquillo e sereno come un neonato.
Guardandolo, il capo voltato nella sua direzione, le labbra leggermente socchiuse e la schiena che si muoveva seguendo il ritmo del respiro, non poté fare a meno di pensare alla sua espressione quando aveva ucciso quell’uomo nel vicolo, alla sua indifferenza di fronte a una vita che si spegneva per mano sua e la freddezza con cui le aveva spiegato quel gesto.
Si chiese se anche lei, un giorno, sarebbe riuscita ad essere così distaccata e razionale, a decidere della vita e della morte con la stessa naturalezza con cui respirava. I volti delle persone che aveva ucciso tornavano, di notte, a tormentare i suoi sogni, non c’era nessun fantasma, invece, che tormentava Shepard.
La sua assoluta sicurezza, quella certezza di poter distinguere il bene dal male, il bianco dal nero, era invidiabile quanto ingenua.
“Un tempo ero nera anch’io, Shepard” avrebbe voluto dirgli “ Se mi avessi incontrata, ad Atene, mentre uccidevo e rubavo per conto della banda, avresti ucciso anche me.”
Non era una domanda, ma un’assoluta certezza.
Lui viveva tra le stelle, protetto dalle sue certezze, lei invece conosceva la Terra e le sue infinite sfumature.
Provò pietà per quel ragazzo spavaldo ed ingenuo addormentato al suo fianco: prima o poi il giorno del compromesso sarebbe arrivato, il giorno in cui bianco e nero si sarebbero fusi a creare il grigio, travolgendo ogni sua certezza, ogni sua convinzione morale e allora i fantasmi sarebbero arrivati a tormentare anche le sue notti.
Sperò che quel giorno arrivasse il più tardi possibile: non voleva vedere il ragazzo trasformarsi in uomo e l’ingenuità di quegli occhi azzurri diventare cieca disillusione.
Era bello illudersi che il mondo fosse come lo immaginava lui.
Sasha fece scorrere la mano lungo la sua schiena, seguendo la linea della colonna vertebrale, soffermandosi su ogni neo, su ogni piccola macchia o imperfezione di quella schiena da soldato.
Non c’erano cicatrici, non ancora.
La sua pelle era morbida e calda sotto le dita, avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre, che lui continuasse a dormire e lei a guardarlo; non voleva che si svegliasse, non voleva che dicesse ad alta voce quello che continuava a ripetersi nella mente: è stato un errore, solo un errore.
Era la verità, ma se lui l’avesse detto ne sarebbe morta.
Si chiese se era quello il significato della parola “amore”: non sopportare l’idea di doversi separare.
Nella debole luce che filtrava dalle tende socchiuse Sasha si strinse a lui, inebriandosi del suo odore, del tepore della sua carne, del contatto con la sua pelle.
Era la prima volta che provava qualcosa di così travolgente per un altro essere umano.
Senza riuscire a trattenersi lo baciò sulla spalla, lo baciò e lui si svegliò.
Si staccò da lui come se si fosse scottata, terrorizzata all’idea che quell’attimo di tenerezza tradisse i suoi reali sentimenti. Era stata un’avventura di una notte e nient’altro … questo doveva dirgli.
Shepard si mise su un fianco, stiracchiandosi e rivolgendole un sorriso pigro – Allora non si è trattato solo di un bel sogno.- la guardò come se non riuscisse a credere di averla accanto – Avevo paura che svanissi con le prime luci dell’alba, come le principesse delle favole.-
- Io non sono una principessa.- rispose, più dura di quanto avesse voluto, immobile dalla sua parte del letto, aspettando che lui dicesse le fatali parole.
Alex rise, allungandosi verso di lei – Infatti sei ancora qui.- s’insinuò tra le sue braccia come un gatto, immergendo il viso tra i suoi capelli, mordendole l’orecchio – E non ho nessuna intenzione di lasciare che tu vada via.-
Avrebbe voluto trovare la forza di spingerlo via, di dirgli che non l’ingannava, che lei sapeva che quelle parole erano solo finzione, che era uguale a tutti gli altri, che alla fine si sarebbe liberato di lei.
L’Alleanza era più importante, il loro giuramento era più importante.
Ma l’unica cosa che riuscì a dire fu il suo nome, sussurrato a mezza bocca,  e l’unica cosa che riuscì a fare fu stringersi a lui, abbandonandosi alle sue carezze, ai suoi baci, al sapore del suo sudore sulle labbra e al calore del suo respiro sulla pelle.
E quell’esile voce che continuava a ripeterle di non fidarsi, che era tutto un errore, un gigantesco, distruttivo, errore, alla fine non divenne che un’eco lontana e, infine, non parlò più.
 
- Alex …- mormorò più tardi, stretta al suo petto, le dita che seguivano il contorno delle costole, mentre lui giocherellava con le ciocche rosse che gli solleticavano il viso – Cosa succede se ci scoprono?-
Ricordò le parole di Nadine: lei e Tiger erano pronti a lasciare l’Alleanza pur di stare insieme, ma Shepard?
La squadra, l’Alleanza, erano le sue ragioni di vita, sarebbe stato disposto a rinunciarvi per lei? Non sapeva nemmeno se era disposta a farlo lei stessa, dopotutto l’Alleanza era la sola cosa che aveva.
- Ci penseremo quando e se ci scopriranno.- lo sentì sospirare, le labbra appoggiate contro la sua testa – Approfittiamo di questo momento, del tempo che possiamo trascorrere insieme, giorno dopo giorno. Il futuro può aspettare, non credi?-
Sasha annuì, stringendosi a lui, non osò parlare né guardarlo, per paura di tradire la sua delusione, si era aspettata una risposta diversa, una risposta che non conosceva, ma che non era quella. Era stanca di vivere alla giornata, di non sapere che cosa il futuro le avrebbe riservato, di avere continuamente paura di perdere tutto ciò che aveva così faticosamente conquistato.
Ma Shepard, evidentemente, non la pensava così.
- Mi hai detto che i tuoi genitori sono entrambi ufficiali dell’Alleanza, come hanno fatto ad avere un figlio e rimanere insieme?-
Lo sentì irrigidirsi impercettibilmente – Erano entrambi già famosi quando sono nato, in modi diversi sono stati tra i protagonisti della Guerra del Primo Contatto e l’Alleanza li ha sempre considerati preziosi.- c’era una vena polemica nella sua voce, come se tutti quei riconoscimenti lo infastidissero – Inoltre non facevano parte dello stesso equipaggio, prestavano servizio su navi diverse, in flotte diverse, non hanno mai fatto una missione insieme, il loro rapporto non ha mai compromesso niente. Non è stato difficile convincere quelli della disciplinare a chiudere un occhio.-
- E tu? Tu dov’eri in tutto questo?-
- Sballottato come pacco postale tra una nave e l’altra, anche se per lo più stavo con mia madre.- parlava con voce neutra, ma Sasha aveva imparato a cogliere quei piccoli segnali che tradivano emozioni più profonde: le mani fredde, le parole misurate, il cuore che accelerava leggermente i battiti – Poi si è scoperto che ero un biotico e sono finito all’Accademia; mia madre ha fatto in modo che sfuggissi a Jump Zero, credo di doverle essere grato per questo. L’addestramento non è stato semplice, ma nel complesso non posso lamentarmi della mia vita, di certo non con te.-
Avrebbe voluto alzarsi e guardarlo negli occhi, ma sapeva che ne sarebbe stato infastidito, non era ancora pronto a mostrarsi debole di fronte a lei; forse non lo sarebbe mai stato.
- Non è una gara tra chi ha avuto l’infanzia più infelice, Alex … la mia storia, la tua storia, non ce n’è una più importante dell’altra e non mi offendi se ti lamenti dell’assenza dei tuoi genitori: non c’è nulla di cui vergognarsi.-
Le accarezzò piano la testa, con dolcezza – Non c’è davvero niente da raccontare, tranne i capricci di un bambino viziato.-
Mentiva e neanche molto bene, Sasha sospirò, esasperata: non aveva mai conosciuto qualcuno così incredibilmente restio a parlare di sé. Era come se si vergognasse di aver avuto un’infanzia all’apparenza normale.
- Mi parli sempre di tua madre, ma di tuo padre non so quasi niente.-
La scostò con gentilezza e si alzò, avvicinandosi alla finestra; osservando quel corpo nudo e muscoloso in controluce non poté fare a meno di provare un brivido di desiderio.
Shepard prese il modellino appoggiato sul davanzale e se lo rigirò tra le mani – La Shangai.- disse, mostrandoglielo - Era la sua nave, il suo unico vero amore.- fece una smorfia – Ho odiato quella nave: me lo portava sempre via. Ero geloso di quell’amore che non era rivolto a me e mi dicevo che un giorno avrei trovato anch’io una nave come quella, sarei stato il suo comandante e l’avrei amata con tutto me stesso, come lui aveva amato lei.- posò il modellino e alzò gli occhi su di lei, quegli occhi azzurri e trasparenti come il mare di casa sua – Poi ho trovato te e l’idea di amare una nave, adesso, mi sembra una terribile idiozia. Come si può preferire un pezzo di metallo ad una persona? Come potrei amare qualcosa che non sei tu?-
Quando comprese il significato di quelle parole, quando capì ciò che le stava realmente dicendo, ebbe un attimo di vertigini; le sembrava di essere diventata senza peso e pensò che sarebbe bastata una folata di vento per farla fluttuare via. Ebbe paura perdersi nel nero della galassia e non riuscire più a tornare, paura di vederlo scomparire e non poterlo più trovare, paura di non riuscire più a parlare e dirgli che lo amava di un amore sconosciuto e mai provato.
- Shepard …- fu l’unica cosa che riuscì a dire e lui le sorrise, quasi a dirle che quelle parole che aveva incastrate nella gola, lui le conosceva già per averle lette nel verde dei suoi occhi.
- Ho una cosa per te.- disse, prendendo una busta che aveva lasciato sul tavolino all’ingresso – Non l’ho aperta, è giusto che lo faccia tu.- gliela porse, sedendosi sul letto accanto a lei.
Si accigliò prendendo la busta con mani incerte – Che cosa c’è dentro?- domandò, anche se lo sapeva già.
- Risposte, spero, su tuo padre.-
Si morse il labbro, sentendosi terribilmente tesa, aprì la busta con circospezione, aspettandosi quasi che ne saltasse fuori un mostro, pronto ad azzannarla alla gola; ma dentro c’era solo un datapad uguale a mille altri.
- Alex …-
- Che c’è?-
Cercò i suoi occhi e, quando li trovò, allungò una mano a prendere la sua – Rimani qui, vero? Qualunque cosa ci sia scritto, tu sei con me?-
Affondò una mano nei suoi capelli, sentì le due dita contro la nuca mentre l’avvicinava a sé, gli occhi azzurri tanto chiari da sembrare trasparenti – Io sarò sempre con te, piccola.-
Se qualcun altro l’avesse chiamata così l’avrebbe ucciso, invece lo baciò.
- Bene.- sussurrò quando si furono separati, riportando la sua attenzione sul datapad – Bene, vediamo cosa c’è scritto qui dentro.-
Lo accese e, nel riverbero azzurrognolo dello schermo, trovò tutto … e niente.
 

Osservò l’espressione di Sasha cambiare man mano che leggeva: prima curiosa, poi impassibile, infine terribilmente delusa.
Fece una smorfia e lanciò il datapad sul letto, alzandosi di scatto e andando alla finestra, le braccia incrociate al petto.
- Che cosa c’è?- domandò, un po’ incerto, raccogliendo il datapad.
Lei non si voltò nemmeno – Leggilo.-
Lo accese, aggrottando leggermente le sopracciglia, mentre le righe bianche scorrevano davanti ai suoi occhi, sormontate dalla stessa fotografia che Sasha aveva tenuto in tasca per vent’anni.
- Tenente Aleksandr Peter Vlasov.- lesse – Nato a Tbilisi, in Georgia, da padre russo e madre georgiana, il 4 aprile 2130. All’età di dieci anni si trasferisce con la famiglia a Mosca e nel 2152 si laurea in Ingegneria Cosmologica.- con la coda dell’occhio notò la schiena di Sasha irrigidirsi, lei che non aveva mai frequentato nemmeno un giorno di scuola – Subito dopo la laurea si arruola volontario nell’armata russa, da poco integrata nell’Alleanza; viene assegnato al progetto ricerche speciali e trascorre un periodo di addestramento militare in una base fuori Atene, in Grecia. Nei primi mesi del 2154 viene assegnato alla corazzata Indipendence che compone la flotta esplorativa dell’Alleanza impegnata in una missione scientifica di durata triennale. Nel 2157 la flotta è protagonista dell’Incidente de Portale 314, causa scatenante della guerra del Primo Contatto.- scorse velocemente il resto del documento, poi alzò gli occhi su di lei, che non si era mossa dalla sua posizione.
- Finisci di leggere, Shepard.-
Sospirò – L’Indipendence viene abbattuta da una fregata Turian il 22 maggio 2157, l’esplosione del nucleo motore provoca la morte di tutto l’equipaggio, compreso il tenente Vlasov.- concluse con voce incolore.
- Immagino di averlo sempre saputo.- mormorò Sasha dopo un attimo di silenzio – Quante probabilità c’erano d’incontrare mio padre nella bettola più sperduta di Atene? È stata solo una bella favola che mi sono raccontata.-
Shepard non rispose, fissando il datapad con aria dubbiosa: c’era qualcosa in quella storia che non quadrava – Avevi mai sentito parlare dell’Indipendence prima di quel giorno?-
Sasha scrollò le spalle – Ne dubito.-
Si alzò, affiancandola – Se quell’uomo nel bar ti avesse detto di essersi imbarcato su una nave che non esiste a compiere una missione di cui non c’è traccia allora sarei d’accordo con te: eri fatta e ti sei immaginato tutto. – le mise il datapad davanti – Ma lui ti ha parlato di cose reali, Sasha, l’Indipendence, il suo coinvolgimento nell’incidente del Portale, la sua distruzione: coincide tutto. È impossibile che tu te lo sia immaginato.-
Scosse il capo – E allora come ti spieghi il fatto che sia morto su quella nave, nel 2157?-
- Oh, è molto semplice, Sasha: lui non è morto quel giorno e il rapporto è falso.-
- Stronzate: questo è un rapporto ufficiale!-
- Che cos’è più incredibile: che l’Alleanza abbia simulato la morte di tuo padre per coprire crimini di guerra o che tu ti sia inventata una storia che coincide esattamente con episodi militari accaduti vent’anni fa?-
Sasha si passò una mano sul viso, confusa, i complotti e gli intrighi non facevano per lei, lei sparava e basta – E quante possibilità ci sono che quell’incontro al bar sia avvenuto per caso?-
Shepard le passò un braccio attorno alle spalle, stringendola a sé – Nessuna.- la sentì tremare, ma non per il freddo o il desiderio, era paura la sua e persino lui cominciava a sentire un vago senso di pericolo – Sei certa che quell’uomo fosse tuo padre?-
Lei fece un verso scettico – Shepard, di lui ho solo una fotografia di quando aveva vent’anni, io posso solo immaginare come possa essere adesso, a quarant’anni, e l’uomo del bar corrispondeva a quell’immagine. Aveva l’età giusta, i capelli giusti, i lineamenti persino e … e gli occhi. Erano verdi come i miei.- osservò la foto sul datapad, cercando di far coincidere il volto di Aleksandr Vlasov con quello dell’uomo che aveva incontrato anni prima – Io non lo so …- balbettò - … ma chiunque fosse mi ha salvato la vita, chi altri lo avrebbe fatto se non mio padre?-
Shepard le posò un bacio sulla testa – Non ne ho idea, ma posso aiutarti a scoprirlo.-
La sentì sospirare contro il suo petto, combattuta tra la paura di scoprire segreti pericolosi e il desiderio di andare fino in fondo a quella storia.
Lo squillo del comunicatore la esentò dal ribattere, Shepard si staccò da lei e andò a rispondere.
La voce dall’altra parte era spaventata e carica d’urgenza – Sono io, hai ricevuto la mia busta?-
Lui si accigliò, faticando a riconoscere quella voce – Mandy …?-
- Niente nomi!-
D’istinto si guardò intorno, preoccupato – Sì l’ho ricevuta, stavamo leggendo il contenuto proprio ora.- con la coda dell’occhio vide Sasha avvicinarsi e azionò il vivavoce perché potesse sentire anche lei.
- Quei dati sono stati falsificati, non vi serviranno a niente.- rivelò la voce dall’altra parte, carica d’urgenza – Ho fatto delle ricerche e ho scoperto qualcosa di strano, non posso parlarne al telefono anzi …- ci fu un attimo di silenzio - … non dovrei parlarne affatto.-
- Aspetta!- stava per riattaccare, l’aveva capito dal modo in cui aveva pronunciato quelle ultime parole: si pentiva di aver fatto quella telefonata – Sono sulla Cittadella, possiamo incontrarci dove e quando vuoi, nessuno saprà che ci hai aiutato, te lo prometto.-
Dall’altra parte giunse solo un sospiro: Shepard sapeva a cosa stava pensando, ci stava pensando anche lui. La persona al lato opposto della linea aveva un debito con lui, un debito bello grande, e se fosse stato necessario glielo avrebbe ricordato, ma non voleva arrivare a tanto.
- Vediamoci all’Antro di Chora, tra un’ora. Te lo devo.- disse infine la voce dall’altra parte - Porta solo lei.- riattaccò.
Shepard spense il comunicatore sotto lo sguardo perplesso di Sasha – Chi era?-
- Amanda Philips.- rispose – Abbiamo fatto l’Accademia insieme, io lei e C.J., eravamo amici …- colse l’occhiata di Sasha - … beh un po’ più che amici. Fatto sta che alla fine ci siamo lasciati, lei si è sposata e ha avuto un figlio. Ha scelto di fare lavoro d’ufficio, sai la vita del soldato in giro per la galassia non è il massimo quando hai una famiglia, e siccome è molto in gamba le hanno proposto di lavorare all’Archivio della Cittadella. Non ci sentiamo molto, anzi non ci sentiamo affatto, però sappiamo di poter contare l’uno sull’altra in caso di necessità, perciò mi sono rivolto a lei per trovare informazioni su tuo padre.- prese un paio di jeans dall’armadio e se li infilò, notò che Sasha non aveva nient’altro da mettersi se non l’abito strappato della sera prima, così le lanciò una sua vecchia tuta, le sarebbe stata incredibilmente larga ma non era tipo da farsi problemi per quello.
- Quando ti ha detto che te lo doveva, che cosa voleva dire?-
- Tempo fa suo marito è finito nei guai con l’SSC, lui gestiva un’impresa di import export che trattava anche coi Sistemi Terminus; venne accusato di aver contrabbandato roba illegale sulla Cittadella. Lui ha sempre sostenuto di essere stato incastrato dal suo socio, che nel frattempo si era volatilizzato con tutti i fondi della ditta, lasciandolo sul lastrico.- ripensandoci si sentiva ancora a disagio, era stata una storia strana con strane conseguenze – Mandy era convinta della sua innocenza e mi chiese di aiutarlo, naturalmente non ero in grado di fare nulla per suo marito, quello che voleva era l’intervento di mia madre.- fece una smorfia – All’inizio mi rifiutai, ma aveva il bambino piccolo, il marito in prigione, il lavoro che non andava. Così coinvolsi mia madre e in poco tempo riuscì a tirarlo fuori.- si allacciò la giacca – Quindi sì: mi deve un favore bello grosso.-
Sasha raccolse i capelli in una coda, guardandolo con la coda dell’occhio – E lo sprechi così, per me?-
Le diede una pacca sul sedere avviandosi verso la porta – Sono certo che troverai il modo per sdebitarti.-
Era spavaldo e sicuro di sé, perché non avrebbe dovuto esserlo? Era giovane, bello e vincente ed era convinto di avere il mondo ai suoi piedi.
Mai avrebbe pensato di trovare un problema più grande di lui, di certo non quella sera.
Ma, forse, per la prima volta nella sua vita il tenente Alexander Andreji Shepard stava sopravvalutando se stesso.

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Capitolo 21
*** Salto nel buio ***


O'Children

Cittadella, 2175
 
Appoggiata al bancone dell’Antro di Chora Sasha si guardò intorno, incuriosita, quel locale non aveva niente da invidiare a quelli cui era abituata, sulla Terra; l’unica differenza erano gli alieni.
Shepard ordinò un succo di frutta per entrambi, suscitando la perplessità della barista, ma una rissa in fondo al locale sviò la sua attenzione.
Rimasero in silenziosa attesa centellinando le loro bevande, leggermente imbarazzati ora che erano tornati alla realtà e anche preoccupati per quell’incontro che preannunciava solo guai.
Il suo istinto le diceva di lasciar perdere quella stupida ricerca, di dimenticarsi di suo padre e del mistero che lo circondava, ma non poteva né voleva farlo; ora che i ricordi erano tornati a galla non aveva più la forza di ricacciarli indietro di nuovo. Doveva andare in fondo a quella storia, a qualsiasi costo.
- Arriva.- le sussurrò Shepard all’orecchio, guardando il locale alle loro spalle riflesso nello specchio dietro al bancone.
Un’umana vestita sportiva si appoggiò accanto a loro - Una birra Batarian, per favore.- ordinò alla barista, senza degnarli di uno sguardo.
Sasha rivolse uno sguardo interrogativo a Shepard che scosse impercettibilmente il capo, continuando a scrutare il locale nello specchio.
La donna bevve un lungo sorso di birra, le dita che tamburellavano sul bancone di metallo – C’è una porta accanto al bagno delle signore.- disse al boccale davanti a lei – Porta al magazzino. Vi aspetto lì tra cinque minuti.- pagò la consumazione e si allontanò, confondendosi tra gli altri clienti.
Sasha sospirò, amareggiata, quell’atteggiamento la riportava indietro di quattro anni, quando doveva continuamente guardarsi le spalle dalla polizia e dalle altre bande. Credeva che quel periodo della sua vita fosse finito, ora che era dalla parte giusta, si era illusa di non dover più fuggire, nascondersi e violare la legge.
- Ha paura.- constatò Alex, continuando a scrutare nello specchio – Crede che la stiano seguendo.-
Sasha finì il suo bicchiere e lo prese per mano – Da quando siamo arrivati non è entrato nessuno a parte lei e i clienti che erano già qui non ci hanno degnati di uno sguardo. Dovremmo essere al sicuro.-
Alex la seguì con aria perplessa – Come …?-
- Ehi sono una criminale, ricordi? Fare il palo era la mia specialità.-
Non fu difficile trovare la porta del magazzino e quando entrarono la trovarono seduta ad aspettarli.
Non era carina come si aspettava. Quel pensiero competitivo la sorprese mentre si accorgeva di considerare quella donna una minaccia, non per le informazione potenzialmente pericolose che possedeva, ma perché, tempo prima, Alex era stato innamorato di lei.
Arrossì, imbarazzata dalla sua stessa gelosia mentre continuava a esaminare la donna cercando di non darlo a vedere.
Amanda era una donna minuta, dai tratti orientali, i capelli neri tagliati a caschetto, le sopracciglia sottili sotto la frangia ben definita, era … carina, ma il naso troppo schiacciato e gli zigomi pronunciati conferivano al suo viso una rudezza che mal si sposava con la raffinatezza di quegli occhi a mandorla.
- Vi hanno seguiti?- domandò, alzandosi e scrutando la porta con aria spaventata.
- Diavolo, Mandy: che ti prende?- esclamò Shepard, preoccupato – Comunque siamo stati attenti, puoi stare tranquilla.-
Lei si passò una mano sul viso pallido e Sasha notò che tremava: quella donna era spaventata a morte – Non dovrei essere qui.- bofonchiò.
- Ascolta Mandy non voglio metterti in pericolo.- Shepard le si avvicinò, mettendole una mano sulla spalla – Se non te la senti lascia stare, troveremo un altro modo.-
Lo sguardo che Amanda gli rivolse rasentava l’adorazione e Sasha provò una fitta di gelosia al pensiero di quello che doveva esserci stato tra loro due.
Per un attimo la donna parve sul punto di accettare quella via di fuga, poi scosse il capo e tornò a sedersi sulla cassa da cui si era alzata – No.- mormorò con voce atona – È troppo tardi, non avrei dovuto indagare ma l’ho fatto e ora non posso più tornare indietro.- per la prima volta parve accorgersi di lei – Tu devi essere Sasha …- accennò un sorriso che non riuscì a raggiungere gli occhi – Non pensavo che qualcuno sarebbe riuscito a conquistare il suo cuore.- si tormentò le dita – Ammetto di essere un po’ gelosa.-
Sasha rivolse a Shepard un’occhiata di rimprovero, infastidita dall’idea che fosse andato a raccontare in giro quello che provava per lei, ma Amanda la rassicurò con una risatina – Oh no, non è stato lui a dirmelo, non lo farebbe mai, ma ho sempre sognato che mi guardasse in quel modo.-
Shepard si schiarì la voce, imbarazzato, e Amanda tornò improvvisamente seria, mentre quell’attimo di spensieratezza svaniva e tornava la paura.
- Che cos’hai trovato, Mandy?-
Lei continuò a tormentarsi le dita, scavando nella pelle accanto alle unghie – Non è stato difficile trovare notizie del tenente Vlasov, anzi è stato fin troppo facile considerati i pochi indizi che avevo. Inizialmente non ho avuto sospetti, controllando il file mi sembrava tutto normale, ma quando ho copiato il dati sul datapad ho notato degli sfarfallii, delle interferenze, come se quei dati fossero criptati o monitorati.- deglutì – Erano delle interferenze impercettibili, attribuibili ad un malfunzionamento della linea, cose che succedono, ma non all’Archivio della Cittadella. Lavoro lì da sei anni e non c’è mai stato il più piccolo problema, mai.- si schiarì la voce – Mi sono preoccupata: la sicurezza è altissima, quando vieni assunto ti istruiscono a notare anche i problemi più insignificanti e segnalarli; credo sia comprensibile dal momento che in quegli archivi sono contenuti dati di inestimabile valore militare, commerciale, finanziario, politico …- lanciò loro una timida occhiata, quasi a volersi scusare per la lunghezza di quella premessa – Avrei dovuto fare rapporto al mio superiore, ma mi ero trattenuta oltre l’orario di lavoro, i responsabili erano già andati a casa e quelli del turno successivo dovevano ancora arrivare. Così ho deciso di controllare da sola: ho lanciato una diagnostica ed ho aspettato. –
- E …-
- Quei dati sono sotto controllo e vengono monitorati dall’interno. Ora non starò ad annoiarvi con dettagli tecnici, vi basti sapere che quando ho copiato quei dati qualcuno lo ha saputo, qualcuno che è dentro il sistema. Questa è una procedura standard con le informazioni top secret, è un sistema di sicurezza per evitare che qualcuno copi illegalmente informazioni sensibili. Ma quei dati non sono riservati, avevo persino chiesto l’autorizzazione prima di fare quelle ricerche, la presenza di quel sistema di controllo non ha alcun senso!-
- E così hai indagato …-
- Tu cos’avresti fatto, Alex?- sulle sue guance c’erano due chiazze rosse, adesso – Ho cominciato ad analizzare i dati e ho scoperte delle lacune … no …- scosse il capo mentre Sasha tirava fuori il datapad dalla tasca – No, il testo è perfettamente coerente, ma è il modo in cui è stato immesso nella banca dati ad essere sospetto.- notò che non capivano e sospirò – Non vi è mai capitato di fare un buco nei pantaloni e mettere una toppa dello stesso colore per coprirlo?- loro annuirono, un po’ spiazzati da quella spiegazione poco ortodossa – Con quei dati hanno cercato di fare la stessa cosa: coprire un buco con un surrogato, dei dati falsi in questo caso. Un po’ grossolano, ma abbastanza efficiente da ingannare un occhio distratto; se non ci fosse stato quello sfarfallio non me ne sarei mai accorta.-
- Stai dicendo che qualcuno ha falsificato le informazioni su mio padre?-
Annuì – E c’è di più; non ho saputo trattenermi, lo sai che la curiosità è il mio peggior difetto, vero Alex?- non aspettò una risposta – Il mio capo è una persona gentile, ma un po’ sbadata. Ho scoperto il suo codice d’accesso il secondo giorno di lavoro, non l’avevo mai usato fino a ieri. Lui ha il livello di accesso massimo, può accedere ad ogni informazione, anche quelle ultra top secret. Mi ci è voluta quasi tutta la notte ma alla fine ho trovato qualcosa.-fece una pausa teatrale – Mai sentito parlare del Progetto “Cerca e Distruggi”?-
Sasha scosse subito la testa, Shepard esitò un attimo poi negò a sua volta.
- Pare che Vlasov vi fosse coinvolto, ci sono dei riferimenti cronologici che fanno riferimento al periodo della guerra e proseguono oltre, fino al 2172.-
Sasha sussultò – È l’anno che l’ho incontrato.-
L’espressione di Alex era imperscrutabile – Che cos’è questo progetto?-
- È questo il bello: non lo so. Qualunque cosa sia è stata eliminata dai registri, completamente cancellata, l’unica cosa che sono riuscita a trovare, persino col massimo livello di accesso, è stato il nome. Capisci che cosa vuol dire, Alex?-
Lui annuì piano, mentre Sasha li guardava, confusa – Che non avremmo mai dovuto scoprirlo.-
- Esatto! Si tratta di un progetto segreto dell’Alleanza avviato durante la Guerra del Primo Contatto, un progetto di cui è stata cancellata ogni traccia dagli archivi galattici.- sgranò gli occhi, sconvolta – In quegli archivi sono contenute le prove della genofagia, con nomi e cognomi dei responsabili; prove che potrebbero scatenare una guerra galattica. Questo mi fa pensare che il progetto “Cerca e Distruggi” è persino peggio della genofagia.-
In che guaio ci siamo cacciati? pensò; alla luce di quelle informazioni il terrore di Amanda appariva più che giustificato.
- Chi può dare l’ordine di cancellare le informazioni dagli archivi?- domandò Shepard, Sasha ammirò la sua capacità di rimanere concentrato.
- Solo il Consiglio, talvolta vengono coinvolti anche i governi interessati, in ogni caso deve esserci la piena unanimità. Sono eventi assai rari, Alex, da quando faccio questo lavoro non è mai accaduto.-
Sasha sgranò gli occhi – Stai dicendo che il Consiglio è coinvolto in questa storia?-
Amanda fece per rispondere ma Shepard l’anticipò – Ne dubito. Il progetto riguarda l’Alleanza, credo che siano stai loro a far sparire i dati, senza passare dai canali legali.-
Amanda scoppiò in una risata isterica – Stai dicendo che qualcuno si è introdotto nei nostri sistemi? È impossibile, Shepard!-
Shepard misurò la stanza a grandi passi, riflettendo – I dati come vengono eliminati? –
– Accedendo ai server.- fece una smorfia esasperata – Ascolta so cosa stai pensando: ci vuole un accesso di massima sicurezza, si tratta di un codice di sette cifre e altrettanti numeri che utilizzano tutti gli alfabeti conosciuti. Nemmeno un super computer può decrittare quei codici.-
- E tu come li hai ottenuti?-
- Sono entrata nella stanza mentre il mio capo digitava la sua password e ho una memoria fotografica.- scosse il capo – La mia è stata solo fortuna.-
Lui non si diede per vinto – Allora c’è una talpa all’interno.-
- No, me ne sarei accorta. Per accedere ai server di massima sicurezza bisogna andare nei sotterranei, in una stanza blindata che registra ogni attività compiuta su quei terminali. Chiunque entri viene identificato: controllo del Dna, scanner vocale e identificazione della retina. Impossibile passare inosservati. L’ultima volta che qualcuno ha avuto accesso a quei terminali per cancellare dei dati aveva l’autorizzazione del Consiglio e risale a più di vent’anni fa, prima della nascita del Progetto.-
- Ma tu hai usato un terminale qualsiasi.-
- Io ho fatto un accesso passivo alla rete, dovevo solo consultare i dati, non manipolarli. Qualsiasi utilizzo attivo del sistema prevede i controlli che ti ho descritto.-
Sasha li interruppe – Aspettate, mi sono persa un pezzo: perché l’Alleanza dovrebbe introdursi nell’Archivio della Cittadella e sabotare delle informazioni? Quando mio padre mi ha parlato della missione su Aephus, beh immagino si trattasse di questo Progetto …- guardò Shepard in cerca di una conferma, ma lui rimase impassibile – Sono stati commessi crimini di guerra è vero, ma di certo non peggiori della genofagia … e secondo mio padre era un po’ il segreto di Pulcinella: lo sapevano tutti. Non c’è nulla che giustifichi una simile violazione delle leggi galattiche.-
Shepard si stropicciò gli occhi, lasciandosi cadere sulla cassa accanto ad Amanda, sembrava stremato – Per come la vedo io ci sono due possibilità: o la missione in cui era coinvolto tuo padre era molto più grande e ambiziosa di quanto ti abbia detto o …- scambiò una fuggevole occhiata con Amanda - … o il Progetto “Cerca e Distruggi” è ancora attivo.-
Sasha arretrò di un passo – Cosa stai insinuando? Che l’Alleanza progetta di attaccare colonie Turian?-
– Non ho idea di cosa sia questo Progetto, Sasha!- sbottò – Non so se è ancora attivo, non so se coinvolge tutta l’Alleanza o solo una sua frangia estremista, non so che obiettivi abbia. So solo che è abbastanza pericoloso da giustificare quello che hanno fatto negli Archivi. Pensaci … da quello che ha detto Amanda sono vent’anni che qualcuno non ha l’autorizzazione di cancellare dei dati dall’archivio eppure i dati sul Progetto sono scomparsi … chi li ha cancellati? Perché? E, soprattutto, come diavolo ha fatto?- si rivolse ad Amanda – Conosci qualcuno in grado di eludere quei sistemi di sorveglianza, un qualche super scienziato magari …-
Lei non esitò neppure un istante – No, non esiste nessuno in grado di violare quei sistemi di sicurezza. I dati si possono modificare solo dal bunker e nel bunker non si può entrare senza autorizzazione …-
- Magari un hacker …-
- No.- ribatté lei, perentoria – Non esiste nessun essere vivente in tutta la galassia in grado di violare quella rete, a meno che …- esitò, poi scosse il capo - … no, nessuno può violarla.- ma sembrava meno convinta di prima.
- A meno che cosa, Mandy?-
Amanda si alzò, camminando ansiosamente per la stanza – Quello che sto per dire non ha senso, Shepard!-
- Niente ha senso in questa storia.-
Prese un respiro profondo, poi li guardò uno ad uno, come a prepararli ad affrontare quello che stava per dire – Nessun organico può violare quel sistema; ma un’IA sì.-
Seguì un silenzio sconcertato. IA: intelligenza artificiale. Un computer in grado di pensare da solo … persino nel 2174 le IA erano ancora fantascienza o almeno questo era quello che credeva lei, guardando l’espressione di Shepard, più accigliata che stupita, Sasha si chiese se non si fosse persa qualche episodio di storia galattica.
- I Geth non si vedono oltre il Velo da secoli e …-
- I Quarian non sono i soli a saper creare delle IA, Shepard.- Amanda sventolò una mano come per scacciare quel pensiero – È un’assurdità, non avrei neanche dovuto pensarci.-
- Che cosa sono i Geth?- domandò Sasha, sentendosi come una bambina al primo giorno di scuola o, per lo meno, immaginando che una bambina al primo giorno di scuola si sentisse così.
- Nel XIX secolo i Quarian hanno creato macchine senzienti da usare nei lavori che loro non volevano più fare, peccato che con il passare del tempo quelle macchine si siano evolute da sole, hanno sviluppato una coscienza, un’intelligenza e quando i Quarian hanno tentato di disattivarle si sono ribellate.- le spiegò rapidamente Shepard – I Geth hanno scacciato i Quarian dal loro pianeta natale e lì sono rimasti o così crediamo. Nessuno che è andato ad indagare è più tornato indietro e, se lo ha fatto, i Quarian si sono ben guardati dal comunicarlo.-
Sasha sentì la bocca inaridirsi – Mi stai dicendo che le IA esistono?-
- Sì, o perlomeno esistono oltre il Velo di Perseo. Nello spazio del Consiglio qualunque esperimento sulle IA è severamente vietato.- guardò Amanda come in cerca di conferma – Ma anche violare l’Archivio della Cittadella è severamente vietato, a questo punto non mi stupirei più di niente …-
L’analista lo interruppe con un gesto perentorio – Io ne sono fuori, Shepard. Se voi volete continuare ad indagare fate pure, ma io non ne voglio più sapere niente.- armeggiò coi lacci della borsa e ne estrasse un foglio scritto a mano – Ho dovuto fare alla vecchia maniera per non venire intercettata. Sono i nomi di alcune persone collegate in vario modo al progetto …- spiegò mentre Shepard prendeva il foglio – Principalmente si tratta di soldati, come il padre di Sasha, gente che non sapeva nemmeno per chi lavorava. – fece un sorrisetto nervoso - Naturalmente sono morti tutti, tranne …-
- Edouard Marchand.- lesse Sasha sbirciando da sopra la spalla di Shepard: era l’unico nome evidenziato – Mai sentito nominare …-
Amanda si strinse nelle spalle – Sottotenente dell’Alleanza dei Sistemi dove operava come psicologo, la sua specialità era il reintegro dei soldati feriti in azione.- lanciò loro un’occhiata eloquente – Si è congedato quattro anni fa e ora opera privatamente, potrete trovarlo all’Huerta Memorial Hospital. Aleksandr Vlasov fu un suo paziente.-
Sasha si sentì vacillare, una parte di lei aveva sperato che la pista che conduceva a suo padre s’interrompesse, dandole una scusa per sospendere le sue ricerche senza infrangere la promessa, ma ora … era suo dovere andare avanti.
- È tutto quello che posso fare per voi.- concluse Amanda mettendosi la borsa in spalla – Vi prego, non contattatemi più.-
- Possono risalire a te? Scoprire cos’hai fatto agli archivi?-
- Non sono una novellina, Shepard, so fare il mio lavoro. Ho confuso le acque, anche piuttosto bene, ma se sono bravi come sembra prima o poi scopriranno quello che ho fatto.- era talmente pallida da sembrare trasparente, nella penombra della stanza appariva quasi evanescente – Penso di aver guadagnato un po’ di tempo, non mi resta altro da fare che sparire dalla circolazione e sperare che non riescano mai a trovarmi.-
Sasha sentì una fitta in fondo allo stomaco all’idea che le loro indagini avessero distrutto la vita di Amanda, lanciò un’occhiata a Shepard nella speranza che lui minimizzasse dicendole che stava esagerando, che non c’era ragione di fuggire e abbandonare tutto – Credo che sia la cosa migliore.- disse invece, e dall’espressione di Amanda capì che anche lei aveva sperato in una risposta diversa – Prendi la tua famiglia e vattene il più lontano possibile. Vai su Horizon o Freedom Progress: sono colonie ai confini del Terminus dove l’Alleanza non ficca troppo il naso. Lì sarete al sicuro.- abbassò lo sguardo – Mi dispiace, Mandy.-
Lei non disse niente, si limitò ad annuire e ad alzarsi sulla punta dei piccoli piedi per dargli un bacio sulla guancia, poi si voltò verso di lei e, cogliendola alla sprovvista, fece lo stesso.
- Non fatevi ammazzare.- mormorò, prima di andarsene.
Soli, nella penombra di quel magazzino, si presero per mano, consapevoli di avere imboccato una strada pericolosa, ma decisi a percorrerla fino in fondo. Insieme.
 
I lunghi capelli rossi ondeggiavano, come i tentacoli di una medusa, scossi dalle vigorose spazzolate di Sasha. Guardandola lì, in piedi nel bagno della sua stanza, si stupì della naturalezza con cui le cose tra loro si erano evolute. Passare la notte insieme, svegliarsi l’uno accanto all’altra, prepararle il caffè mentre si vestiva gli pareva naturale come respirare. Nell’arco di due giorni aveva rimesso in discussione tutte le sue certezze, le sue priorità, ora diventare comandante di un nave non sembrava più così importante, le sue ambizioni nell’Alleanza lentamente sfumavano e l’unico futuro che riusciva ad immaginare, adesso, era accanto a lei.
Sasha era la sua unica ambizione, il suo solo desiderio, passare la vita al suo fianco era l’unico obiettivo che desiderava raggiungere. Al diavolo l’Alleanza, il comando, i gradi militari … svegliarsi accanto a lei ogni mattina, osservare i suoi capelli rossi ondeggiare davanti allo specchio, incontrare il suo sorriso da sopra una tazza di caffè fumante … questo era l’unico futuro che desiderava.
- Hai finito di spiarmi dall’angolo della porta come un maniaco?-
Rise mentre colmava la distanza che li separava e la cingeva da dietro, insinuando il viso tra quei tentacoli rossi.
- Sei sicura di voler incontrare questo psicologo? Forse sarebbe più saggio lasciar perdere …-
La vide cercare il suo sguardo nello specchio – Lo hai detto tu: questa storia deve essere chiusa.-
- L’ho detto prima di sapere quanto pericolosa fosse.- rispose, cercando di essere ragionevole.
Sul viso di Sasha si dipinse un’espressione ostinata che conosceva bene – Amanda rischia la vita a causa nostra, questa storia le ha distrutto l’esistenza e io mi sento in debito con lei. – appoggiò la spazzola sul lavandino con un gesto brusco – Con lei e con l’uomo che mi ha salvato la vita ad Atene. Non importa chi sia. Per tutta la vita non ho fatto altro che voltarmi dall’altra parte, fingendo di non vedere quello che accadeva davanti ai miei occhi. Un tempo credevo nella banda e ho scoperto che erano degli schiavisti, non farò lo stesso errore con l’Alleanza. – cercava di nascondere la paura sotto la rabbia ma Shepard riusciva a vederla molto bene. Conosceva quella paura, la provava anche lui. Non paura per le loro vite, ma paura di essere stati ingannati, di scoprire di essere stati manipolati, come semplici pedine, per gli scopi dell’Alleanza: scopi di guerra, non di pace.
- Quando mi sono arruolata mi hanno detto che avrei protetto l’umanità e la pace galattica, mi hanno detto che sarei diventata parte di un progetto meraviglioso: rendere fratelli tutti gli abitanti della galassia.- continuò Sasha – Io pretendo di sapere per cosa combatto: perché la nostra specie si integri con le altre o perché ne diventi la tiranna? Non voglio diventare complice inconsapevole dei crimini dell’umanità, non permetterò che accada ancora …- esitò, il tempo di abbassare lo sguardo e risollevarlo, più determinato di prima – Tu sei con me?-
Avrebbe voluto prenderla, scuoterla, dirle che era follia, che la strada che stava per imboccare l’avrebbe portata alla rovina e se fosse stato certo di poterla convincere, con quelle semplici parole, a lasciar perdere, allora le avrebbe dette, anche se andavano contro tutto ciò in cui credeva.
Ma Sasha sarebbe andata avanti anche senza di lui, quella storia non riguardava più solo la verità su suo padre, ad essere messa in discussione, adesso, era l’Alleanza stessa. Trovare delle risposte non era più una questione di famiglia, non era più il dovere di una figlia verso il padre, ma era una questione morale, il dovere di un soldato nei confronti di coloro che aveva giurato di proteggere.
Si erano arruolati in nome dell’umanità e della pace galattica: era loro dovere scoprire la verità.
- Io sono sempre con te.- le rispose, stringendosi a lei – Ti direi di lasciarmi indagare da solo ma …-
- Vai al diavolo, Shepard! – si ribellò lei, voltandosi a fronteggiarlo, con faccia feroce – Noi siamo una squadra, ci copriamo le spalle a vicenda, ricordi?-
Per la prima volta desiderò che non fosse così maledettamente straordinaria, desiderò fosse codarda, egoista e sleale, desiderò non essersi innamorato di lei.
Le accarezzò una guancia prima di chinarsi a darle un bacio leggero sulle labbra – Io sono tuo e tu sei mia.- sussurrò – Andiamo in fondo a questa storia.-
 

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Capitolo 22
*** Segreti ... ***



Cittadella, 2175
 
Si fermarono davanti allo studio di Edouard Marchand, stimato psicologo dell’Huerta Memorial Hospital.
Indossavano entrambi la divisa, per dare una parvenza di ufficialità a quella visita, ma prima di bussare Shepard prese da parte la sua compagna – Vuoi davvero andare da sola?-
- Ne abbiamo già parlato, la tua presenza potrebbe intimidirlo.- ripeté lei per l’ennesima volta – Sei il figlio di due ufficiali dell’Alleanza, sei sufficientemente alto in grado da costituire un potenziale pericolo, il tuo coinvolgimento potrebbe fargli sospettare che sappiamo più di quanto diciamo. Io sono una semplice specialista che cerca informazioni su suo padre, non costituisco una minaccia.-
Il suo ragionamento non faceva una grinza, ma l’idea di lasciarla entrare da sola non gli piaceva.
- È solo uno psicologo, Alex: non mi mangerà.- lo rassicurò lei, dopo avergli letto nel pensiero, come sempre.
- Non sei un fenomeno con la diplomazia, Sasha.-
- Beh nemmeno tu. - ribatté, piccata – Non farò casini, tenente, promesso.-
Capì che era inutile discutere oltre – Ti aspetto all’ingresso.- controllò che il corridoio fosse vuoto e le diede un rapido bacio – Buona fortuna.-
Sasha alzò l’indice e il medio a formare la V della vittoria, dopodiché bussò.
Aspettò che entrasse poi si diresse verso l’ingresso, le mani affondate nelle tasche.
Notò alcune poltrone posizionate davanti alla vetrata e andò a sedersi, si ricordò di aver ricevuto un messaggio da C.J. pochi minuti prima, accese il factotum, lo lesse e cominciò a rispondere. Distratto, non si accorse della persona che gli si era avvicinata, finché non la sentì schiarirsi la gola – Mi scusi …- lo interruppe una voce femminile, lievemente esitante - … lei è il tenente Shepard?-
Alzò lo sguardo sulla sua interlocutrice: un’Asari vestita formale, leggermente impacciata.
- Sì.- rispose - Sono io.-
Lei gli sorrise, tendendogli la mano – Non credo si ricordi di me, sono Lanaya Ossani, ero su Dumat e lei …-
Scattò in piedi, ricambiando vigorosamente la stretta – Ma certo che mi ricordo, dottoressa! Il suo aiuto è stato decisivo contro gli schiavisti, come sta?- tornò a sedersi, invitando l’Asari a fare lo stesso.
- Io bene.- rispose Lanaya lisciandosi le pieghe del vestito – Ho ripreso il mio lavoro, cerco di andare avanti, anche se non riesco a darmi pace per Nadira.- lo guardò con aria ansiosa – Non avete notizie, vero?-
Shepard esitò, indeciso se darle un falsa speranza o un’impietosa verità. Optò per la seconda.
- Voglio essere sincero con lei, dottoressa: il mercato degli schiavi è talmente vasto e articolato che anche se catturassimo i responsabili dell’attacco su Dumat le possibilità di ritrovare Nadira sarebbero quasi nulle. – cercò le parole adatte per dire quello che doveva dire, ma non ce n’erano – La verità è che potrebbe essere ovunque, a fare qualunque cosa, in qualsiasi condizione. I rapimenti avvengono ogni giorno, nella galassia ci sono milioni di persone ridotte in schiavitù e di tanto in tanto qualcuno viene liberato, per i motivi più svariati; ma è solo fortuna, dottoressa, solo fortuna.- per quanto cercasse di nasconderlo era evidente che le sue parole l’avevano profondamente turbata e tentò di mitigare in qualche modo la durezza del suo discorso – Ascolti non le sto dicendo che deve perdere le speranze e smettere di cercare, tutt’altro; però deve accettare l’idea che molto probabilmente non la troverà mai, malgrado tutti gli sforzi compiuti, e non dovrà farsene una colpa. Il destino di Nadira, ciò che le è accaduto … non è stata colpa sua, Lanaya.-
Ciò che lo colpiva di più nelle Asari, al di là dell’ innegabile bellezza, era la compostezza dei loro gesti, la pacatezza dei loro modi. Lanaya Ossani accolse quel discorso con misurata partecipazione, seduta ben dritta, con le mani appoggiate sulle ginocchia, il viso composto ma non impassibile. Come tutti i membri della sua specie affrontava gli eventi con la saggezza di chi ha vissuto più a lungo degli altri e conosce bene le regole del gioco; un’umana lo avrebbe trattato da insensibile, Lanaya Ossani chinò il capo di lato e lo ringraziò – La sincerità è un dono raro nella vostra specie, lei è un umano molto strano, tenente Shepard.-
Era uno dei complimenti più belli che avesse mai ricevuto.
Lanaya sembrava volersi congedare ma lui la trattenne – Se non sono indiscreto, posso chiederle come sta la sua collega? Leila, se non sbaglio. Lei è stata davvero molto fortunata.-
La dottoressa Ossani non sembrava dello stesso avviso – È per lei che sono qui, è ancora ricoverata in ospedale.-
Si accigliò – Non ricordo fosse ferita quando l’abbiamo liberata.-
- Oh il suo corpo è perfettamente sano, non posso dire altrettanto della sua mente. All’inizio si pensava fosse il trauma dovuto al rapimento, ma la verità è che aveva iniziato a stare male prima dell’attacco pirata.-
Shepard annuì lentamente – Sì, ricordo che ne parlava nelle registrazione che trovammo su Dumat, alle rovine …-
- Leila aveva dei fortissimi mal di testa, sentiva delle voci, per questo Nadira l’aveva accompagnata in città il giorno prima dell’attacco …- sembrava perplessa – Dopo la sua liberazione, sembrava fosse guarita, poi dal nulla, senza apparente motivo, ha tentato di uccidermi, dicendo che ero un pericolo, che avrei sabotato l’avvento. Dopo aver fallito è piombata in uno stato catatonico. Ho chiamato l’SSC e l’hanno portata in ospedale. Si è risvegliata una volta sola ed era di nuovo la vecchia Leila, ma era completamente fuori di sé dalla paura. Diceva di averli visto, che stavano arrivando, che il loro esercito avrebbe oscurato i cieli di tutti mondi … poi, come se le avessero staccato la spina, è ripiombata nell’incoscienza. -solo una lieve contrattura delle labbra tradiva la sua preoccupazione – I medici dicono che è sanissima e non sanno spiegarsi il suo stato. È come se la sua mente fosse stata disconnessa.-
Shepard si accorse di avere la pelle d’oca: gli avvertimenti di Leila sembravano i deliri di una pazza, ma non riusciva a considerarli tali.
- Chi sta arrivando?-
Lanaya guardò fuori dalla vetrata, lo sguardo appannato – Me lo sono chiesta anch’io. -
- Ricordo la sua registrazione su Dumat, il giorno dopo essere rimasta sola.- mormorò Shepard dopo un attimo di silenzio - Parlava di strane sensazioni, rumori che sentiva solo nella sua testa, sussurri, fruscii che non riusciva a spiegarsi …-
- Ero sola nel deserto, a volte può capitare di farsi suggestionare …-
- No.- la interruppe lui – Li ho sentiti anch’io, prima ancora di ascoltare la registrazione. Ero vicino alle rovine e ho sentito qualcosa, come se ci fosse stato qualcuno nella mia testa che ascoltava i miei pensieri …- non aveva più ripensato a quel giorno, ma ora che tornava con la mente a quei momenti, sentiva la stessa sensazione di agghiacciante pericolo che aveva provato su Dumat - … era come se mi stessero studiando. E non sono stato l’unico a provare quelle sensazioni, anche un altro membro della squadra, Sasha, ha sentito le stesse cose … non ne abbiamo mai parlato ma gliel’ho letto in faccia.- incrociò gli occhi viola di Lanaya e capì che era spaventata quanto lui – C’era qualcosa in quelle rovine, qualcosa di pericoloso e malvagio.-
- Pensavamo fossero Prothean all’inizio.- sussurrò lei con un filo di voce – È stata Leila a fare le rivelazioni al carbonio, è stata a contatto con quelle cose molto più di noi … le ha toccate.- rabbrividì – Quelle rovine non sono Prothean, tenente, e questa è la sola cosa che so dirle al riguardo.-
- Non avete idea di chi possano essere?-
L’Asari sembrava confusa quanto lui – Una giovane ricercatrice di Thessia, mia vecchia allieva, tempo fa ha elaborato una teoria che ho sempre considerato assurda, come del resto ha fatto tutta la comunità scientifica … ma ora mi domando se Liara non abbia ragione.-
- Di cosa si tratta?-
- La dottoressa T’Soni è convinta che i Protehan non si siano estinti per ragioni interne. Gli studi condotti fino ad oggi avvalorano la tesi di una catastrofe interna, di sconosciuta natura, che li abbia lentamente portati all’estinzione. Secondo la dottoressa T’Soni, invece, i Prothean si sono estinti a causa di un fattore esterno: qualcosa o qualcuno ha distrutto l’Impero che dominava la galassia 50.000 anni fa.- si trattava di un’ipotesi in cui non aveva mai creduto, era evidente, eppure ora i fatti la costringevano a prenderla in considerazione – Non ci ho più pensato, finché Leila non ha fatto quello che ha fatto. In un primo momento ero convinta che Leila non avesse più il controllo del suo corpo, ma non è così. Lei sapeva cosa stava facendo, quando ha tentato di uccidermi era perfettamente cosciente, lucida, non era posseduta, piuttosto sembrava che le avessero fatto il lavaggio del cervello. Come se qualcuno avesse resettato la sua mente per poi riprogrammarla immettendo nuovi dati in cui io ero un pericolo da eliminare. Ripensando alle teorie sulla fine dei Protehan non posso fare a meno di pensare che siano vere entrambe: sono stati distrutti dall’interno e dall’esterno.-
Shepard rifletté su quelle parole – Sta dicendo che quelle cose trovate su Dumat potrebbero appartenere agli ipotetici carnefici dei Prothean?-
- Se mi sentissero le mie colleghe verrei radiata …- mormorò lei tentando un sorriso – Nel mio lavoro non si dovrebbero dare giudizi affrettati, le mie sono supposizioni bastate su semplici sensazioni, ma sono convinta che lei, tenente, non le troverà così assurde.-
- L’ ascolto.-
- I Prothean dominavano la galassia 50.000 anni fa, erano un popolo incredibilmente potente e le loro tecnologie erano persino superiori alle nostre; ma nemmeno loro avevano esplorato l’immensità dell’universo. Chissà cosa si nasconde al di là dello spazio conosciuto … – sospirò – Immaginiamo un popolo alieno sconosciuto, tecnologicamente all’altezza dei Prothean, che si affaccia sui confini dell’Impero e decide di conquistarne i territori … come fare? –
Shepard cominciò ad intuire dove voleva arrivare – Se questi alieni fossero in grado di controllare la mente delle persone …-
- Basterebbe catturare qualche viaggiatore solitario, prendere possesso di colonie isolate, fare il lavaggio del cervello ai prigionieri e trasformarli in propri agenti. Questi potrebbero introdurre nello spazio dell’Impero manufatti come quelli che abbiamo trovato su Dumat, Prothean all’apparenza, ma in grado di manipolare le menti e trasformare chiunque vi entri in contatto in agenti del nemico.- gli occhi di Lanaya brillavano, presa com’era dalla teoria che stava elaborando, dimentica del suo significato – E così mentre gli uni sabotavano l’Impero dall’interno, gli altri lo attaccavano dall’esterno.-
Per essere una teoria elaborata sulle poltroncine di un ospedale, basata su una semplice sensazione e il tracollo psicologico di un’archeologa rapita dai pirati, era straordinariamente credibile, almeno per lui. Ma lui era stato su Dumat, aveva provato sulla sua pelle la sensazione di essere osservato, studiato … profanato. Nessun altro ci avrebbe creduto.
- Dottoressa, se quelle rovine hanno avuto effetto su Leila, su di noi, significa che chi le ha costruite esiste ancora …-
L’Asari si accigliò – Non è detto, se noi ci estinguessimo i computer continuerebbero a funzionare, a fare quello per cui sono stati programmati.-
- Per 50.000 anni?-
- Non dimentichi che i Prothean hanno costruito la Cittadella, e quando le mie antenate l’hanno trovata era ancora perfettamente funzionante.-
Ci pensò su un attimo – Quando mi sono avvicinato a quelle rovine, ho percepito una presenza, una coscienza, dottoressa. Chiunque si sia infiltrato nella mia mente, ha compiuto una scelta: ha scelto me e Sasha invece di tutti gli altri. Io non credo che si trattasse di un programma …- la fissò - … e non lo crede nemmeno lei. A Leila è stata data una missione, una missione ben precisa: eliminare lei, Lanaya. E quando ha fallito è stata disattivata.- più ci pensava più quella storia non gli piaceva – Qualcuno la considera un pericolo, dottoressa, qualcuno che ha dei piani che non riguardano più i Prothean, ma noi.- si sentì gravare le spalle da un peso troppo grande per essere portato da una persona sola – Credo che gli avvertimenti di Leila non siano i vaneggiamenti di una povera pazza.-
- Tornerò su Dumat.- decise Lanaya con aria risoluta – Senza prove nessuno crederà a questa storia. –
Shepard sussultò – È forse impazzita? Non sappiamo di cosa si tratta, non sappiamo cos’è successo a Leila né come sia successo. Quelle rovine sono troppo pericolose, inoltre il pianeta è abbandonato, non può …-
Lanaya si alzò – Sia ragionevole, Shepard, lei stesso mi avrebbe dato della pazza se non fosse stato su Dumat e non avesse sentito quello che ho sentito io. Mi ha detto che non posso fare nulla per aiutare Nadira ed ha ragione, ma posso aiutare Leila scoprendo cosa diavolo è successo sul pianeta. Ho visto quello di cui è capace, tenente Shepard, l’ho vista rischiare la vita per salvare quella dei suoi compagni, se lei fosse al mio posto, cosa farebbe?-
Non aveva senso mentirle, così sospirò, si alzò e le tese la mano – Andrei su Dumat.- Lanaya gli sorrise e avvolse le sue forti dita blu attorno alle sue – Buona fortuna, dottoressa e se avrà bisogno di me non esiti a chiamarmi.-
- Addio, Shepard.-
Guardandola andare via ebbe la certezza che non l’avrebbe più rivista.
Qualcuno gli appoggiò una mano sulla schiena, facendolo sussultare, ma era solo Sasha che lo guardava con aria interrogativa – Era la dottoressa Ossani quella?-
Aveva una strana espressione sul viso, mentre scrutava la folla senza vederla realmente. Sembrava … sconfitta. Non ebbe il coraggio di gravare le sue spalle di un altro peso, in ogni caso non poteva fare nulla per risolvere il mistero di Dumat. Un problema alla volta, si disse.
- Sì, era qui per un controllo. Mi sembra che si stia riprendendo bene.- mentì.
Sasha guardò fuori dalla vetrata, distratta – Ne sono felice.-
- E tu? Scoperto qualcosa?-
Continuò a guardare fuori dalla finestra, evitando il suo sguardo – Un buco nell’acqua. Non sapeva niente di mio padre o del progetto.-
Non le credette nemmeno per un istante. Mentiva esattamente come lui aveva mentito a lei a malapena cinque secondi prima – Mi prendi in giro?-
- No.- rispose, impassibile – Mio padre non si è mai presentato alle sedute, non l’ha mai incontrato. Fine della storia.-
- Come sarebbe a dire “fine”? Dopo tutti i discorsi che hai fatto, vuoi arrenderti adesso?-
- E che cosa dovrei fare, Shepard?- sbottò, perdendo immediatamente la sua compostezza, improvvisamente arrabbiata – Me lo dici tu dove cercare? Perché io non lo so … quella era la nostra unica traccia e non vale niente, mi dispiace solo per Amanda.-
Non riuscì a trattenersi – Immagino dispiaccia più a lei che a te.-
Si era aspettato un’altra esplosione d’ira, invece Sasha lo guardò con aria afflitta, implorandolo con lo sguardo di non dire altro, per un terribile istante temette che sarebbe scoppiata a piangere, invece abbassò la testa, si strinse nelle spalle e si diresse all’uscita – È così che va il mondo, Alex.- la sentì sussurrare mentre andava via.
Solo, davanti alla vetrata, si chiese se voleva davvero scoprire il significato di quelle parole.
 

 
 

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Capitolo 23
*** ... e bugie ***



Cittadella, 2175
 
L’Huerta Memorial Hospital le ricordava l’ospedale in cui era stata ricoverata, ad Atene, dopo che Diòs l’aveva quasi uccisa: stesse pareti metalliche, stessi corridoi insonorizzati, persino stessi odori e stessi rumori. Ma forse erano gli ospedali ad essere tutti i uguali, morte e malattia avevano gli stessi odori e gli stessi suoni ovunque, per chiunque.
Shepard si avvicinò alla reception e disse che avevano un appuntamento con il dottor Marchand, il Turian al bancone annuì e indicò loro dove andare.
Sasha squadrò il Turian con attenzione, il cranio ossuto, le creste acuminate, gli occhi infossati che brillavano come gemme nell’oscurità, i denti da predatore che la bocca senza labbra lasciava scoperti. Un tempo aveva provato orrore e ripugnanza per quella specie, un tempo li aveva considerati i peggior nemici dell’umanità. Ora non provava niente, se non un tenue, ovattato, rispetto, per coloro che un tempo aveva considerato suoi nemici.
Turian, Asari, Salarian, Batarian, Krogan … Umani: aveva visto il peggio e il meglio di entrambi, li aveva visti ridere e urlare, amare e odiare, vivere e morire. Era per tutti la stessa cosa, che fossero rivestiti di scaglie, ossa o pelle i loro cuori battevano per lo stesso, identico scopo: vivere.
Per poco non andò a sbattere contro Shepard che si era fermato davanti ad una porta di metallo affiancata da una targhetta luminosa che rivelava l’identità di chi si celava oltre i suoi battenti.
Solo pochi centimetri di acciaio la separavano dall’uomo che forse sapeva la verità su suo padre.
Provò un vago senso di nausea.
- Vuoi davvero andare da sola?- le sussurrò Shepard, prendendola da parte.
L’apprensione che lesse nei suoi occhi la commosse, ma non lasciò trasparire nessuna debolezza mentre gli spiegava, per la terza volta, perché era meglio che andasse da sola.
Shepard protestò un po’ ma alla fine dovette ammettere che era meglio fare come diceva lei.
Notò che non gli piaceva prendere ordini e, malignamente, se ne compiacque: per una volta era Shepard a doversi fare da parte, non lei.
- Ti aspetto all’ingresso.- si arrese lui e, dopo aver rapidamente controllato i dintorni, le diede un rapido bacio – Buona fortuna.-
Le sue premure la coglievano ogni volta alla sprovvista, lasciandola spiazzata, come una ragazzina al primo appuntamento. Si schiarì la gola, fece il gesto della vittoria e bussò due volte alla porta. L’uscio scivolò di lato con un leggero sospiro, Sasha trattenne il respiro e, come un naufrago che si getta in mare mentre la nave s’inabissa, varcò la soglia.
Edouard Marchand la aspettava seduto dietro un’imponente scrivania di un legno di cui non avrebbe saputo dire il nome, era un uomo grigio in un abito grigio. Notò che aveva gli occhi incavati come quelli dei Turian, ma nessuna gemma brillava nelle profondità di quelle orbite scure, solo due pozzi neri che la scrutavano da sopra un lungo naso a becco. Sembrava un grosso uccello appollaiato sul bordo di una sedia troppo piccola per lui.
Sasha si fece avanti, timidamente, mentre dietro di lei la porta si richiudeva con un sibilo, lanciò un’occhiata inquieta all’uscio sigillato, chiedendosi se si sarebbe più riaperto, l’idea di andare da sola, ora, non le sembrava più così geniale.
“Non mi mangerà” aveva detto a Shepard, spavalda, eppure, guardando quelle mani ossute giunte sotto al mento appuntito non ne fu più così sicura.
- Lei deve essere la specialista Red. - aveva una voce calda e gentile, l’esatto opposto di come se l’era aspettata – Il suo messaggio mi sembrava piuttosto urgente, anche se vago.- appoggiò le lunghe braccia sulla scrivania e si alzò. Era alto e scheletrico, leggermente curvo, simile a un grosso airone grigio. Le tese una mano, la sua stretta era calda e vigorosa, se ne stupì – Dottor Edouard Marchand, ma immagino lo sappia già.-
Finalmente ritrovò la voce – La ringrazio per avermi ricevuta così rapidamente, dottor Marchand.-
Lui le sorrise, tornando a sedersi, un sorriso pacato che la tranquillizzò – La prego, mi chiami Ned.- incrociò nuovamente le dita sotto il mento - A cosa devo la visita di un soldato dell’Alleanza, specialista Red? -
- Non sono qui in veste ufficiale.- lo rassicurò, accettando il suo invito a sedersi – E mi chiami pure Sasha, nemmeno a me piacciono i titoli.-
Lo psicologo accettò quella puntualizzazione con un cenno del capo, invitandola a continuare.
- Sto facendo delle indagini su mio padre.- prese la fotografia dalla tasca e gliela porse – Non so molto su di lui, tranne che si chiamava Aleksandr Peter Vlasov e che è stato suo paziente nel 2157.-
L’uomo studiò a lungo la fotografia, il viso di nuovo in ombra, più simile ad un avvoltoio che ad un airone, adesso.
- Temo di non poterle dire niente su quest’uomo. - concluse infine, restituendole la fotografia – Non l’ho mai visto.-
Sasha si sentì impallidire. Non era preparata ad una simile risposta, non dopo Amanda aveva rischiato tanto per farle avere quelle informazioni.
- Dottor …- si corresse – Ned, ci sono dei documenti in cui è riportato che mio padre fu suo paziente.-
- Me li faccia vedere, allora.- era come se sapesse che lei non poteva provare niente, ed aveva ragione.
- Sono documenti classificati, non ho il permesso di mostrarli a un civile. -bluffò.
Lui sorrise, non un sorriso cattivo o sarcastico, al contrario, sembrava dispiaciuto per lei – Sappiamo entrambi che esistono documenti che né io né lei abbiamo il permesso di vedere. Sospetto che lei stia facendo qualcosa che non dovrebbe fare.-
Aveva la bocca arida e i pensieri confusi, non era in grado di gestire una situazione del genere, di fare giochetti o strani inganni, forse Shepard aveva ragione: la diplomazia non faceva per lei.
- Mi dispiace averle fatto perdere tempo …- bofonchiò, accingendosi ad uscire. Era già sulla porta quando all’improvviso prese una decisione, se Alex avesse saputo quello che voleva fare si sarebbe infuriato ma Alex non era lì e lei non sapeva quali altre carte giocare. Era pericoloso e incosciente, ma non vedeva altra scelta – Ha ragione, Ned.- ammise, voltandosi a fronteggiarlo, lui chinò la testa, incuriosito, simile a un vecchio uccello saggio – Durante le mie indagini mi sono imbattuta in informazioni che non avrei dovuto trovare. Informazioni sul Progetto “Cerca e distruggi”. Non ho idea di cosa sia, ma sono convinta che lei lo sappia.-
Edouard Marchand scattò in piedi, facendo cadere la cornice appoggiata alla sua scrivania, l’impatto sul pavimento risuonò come uno sparo.
- Se ne vada.- sibilò lo psicologo completamente fuori di sé, nel pallore del viso le orbite sporgenti spiccavano come quelle dei teschi.
Sasha aveva visto molti uomini terrorizzati, ma mai così.
Quello scatto la spiazzò, voleva scappare a gambe levate, invece si chinò a raccogliere la cornice - Ned, nessuno sa che sono qui.- Shepard non faceva testo, lui era parte di lei – Quello che ci diremo non uscirà da questa stanza.-
Lui sembrò non sentirla nemmeno – Se ne vada.- ripeté.
Sasha fece per rimettere la cornice al suo posto, ma quando posò gli occhi sul soggetto della fotografia si bloccò.
La fotografia ritraeva una ragazzina bionda, non doveva avere più di sedici anni, aveva occhi azzurri pieni di sogni e il sorriso di chi crede di avere tutta la vita davanti.
Aveva già visto quel volto, quegli occhi … conosceva quella ragazza, ma non riusciva a ricordare dove l’avesse vista.
- È sua figlia?-
Quasi le strappò la cornice di mano, la rimise al suo posto, con religiosa cura, le rughe attorno alla bocca simili a crepacci.
- Mia nipote, la figlia di mia sorella.-  evitò il suo sguardo – Le volevo bene come a una figlia.-
Non le sfuggì l’uso del tempo passato e all’improvviso ricordò dove aveva visto quella ragazza. Non l’aveva incontrata da qualche parte nella galassia, né vi aveva mai parlato, i loro occhi non si erano mai incrociati. Non da vivi.
Erano vitrei gli occhi azzurri che ricordava, vitrei e pieni di sogni simili a quelli che aveva lei. La nipote del dottor Marchand era morta su Mindoir più di cinque anni prima e lei aveva visto il suo volto in televisione, il volto di una bambina morta mentre guardava le stelle. Con quella ragazzina sconosciuta era morta la parte migliore di lei, quella che sapeva sognare, quella che sperava in un futuro migliore.
- Mindoir …- sussurrò – La sua famiglia era su Mindoir.-
Lui non parve sorpreso da quell’affermazione, forse vi era abituato, più probabilmente non gli interessava niente – Si dimentichi di suo padre, del progetto, si dimentichi di avermi conosciuto. Non voglio essere responsabile di altri morti.-
L’attacco a Mindoir, la distruzione della colonia … se Marchand diceva il vero allora non era stato un semplice attacco schiavista, ma qualcosa di diverso, qualcosa di molto più oscuro.
- Le è rimasto qualcuno?-
- No. La famiglia di mia sorella è l’unica famiglia che ho mai avuto, la mia ragione di vita. Tutto ciò che avevo mi è stato portato via.-
Si avvicinò alla scrivania e vi si appoggiò, sporgendosi verso di lui – Allora non ha più nulla da temere. Che cos’altro possono farle?- lo vide indietreggiare, spaventato – Come si chiamava sua nipote?- domandò, mitigando la durezza della sua voce.
- Émilie.- sussurrò lui dopo un attimo di silenzio – Era la mia Émilie Jolie*.- aveva amato quella bambina con ogni fibra del suo essere.
- Non lasci che Émilie sia morta invano.- era dovere di entrambi vendicare la morte di quella ragazzina che per qualche, misteriosa, ragione, sentiva parte di sé – Mi dica ciò che sa sul progetto, Ned, mi aiuti a scoprire la verità e le prometto che la morte di Émilie non rimarrà impunita.-
Era la seconda promessa che faceva ad un uomo morto.
Lui tornò a sedersi, il mento appoggiato al petto, le mani congiunte davanti al viso, rimase in silenzio, immobile, per così tanto tempo, che arrivò a chiedersi se non si fosse inspiegabilmente addormentato.
Stava per dire qualcosa quando lui, finalmente, parlò: - Fui coinvolto nel Progetto Cerca e Distruggi nel 2157, la guerra era appena iniziata ma era già chiaro che l’avremmo persa. Il Progetto nacque per combattere i Turian nel loro territorio, per seminare il terrore presso la loro gente. L’obiettivo era cercare le loro colonie e distruggerle.-
- Chi fu l’ideatore del progetto?-
Scosse il capo – Non conosco i dettagli. Durante la guerra l’Alleanza si servì di mercenari umani, forze paramilitari, per combattere i Turian. La situazione era critica: l’Alleanza era disorganizzata, Shanxi perduta … si crearono delle task force con il compito di elaborare dei progetti che ci facessero vincere la guerra.- si passò una mano davanti agli occhi – Erano del tutto indipendenti gli uni dagli altri, segreti, per evitare fughe di notizie. C’era la massima libertà di azione.-
- Queste forze paramilitari esistono ancora?-
Ned si strinse nelle spalle – Non ufficialmente. In teoria le associazioni militari extragovernative sono vietate, nella pratica sappiamo tutti cosa succede là fuori. –
- Crede che l’Alleanza cooperi ancora con loro?-
- Che cos’è l’Alleanza?- si sporse verso di lei, assumendo un atteggiamento professionale – Una persona, un gruppo di individui, un governo? Chi la controlla, chi decide? L’Alleanza è un organismo complicato ed articolato, con tante teste che fanno quello che vogliono. Lei fa parte di una squadra, specialista?-
- Ovviamente.-
- Chissà quante battaglie avete combattuto … contro mercenari, pirati, forze paramilitari … cosa mi direbbe se affermassi che quasi tutti coloro che ha combattuto erano finanziati da qualche altra sezione dell’Alleanza? Magari qualche sezione occulta.-
Sasha deglutì a vuoto, abbassò lo sguardo, fissandolo sulle maniche della divisa che indossava, rivide il tatuaggio della banda, quello che un tempo le marchiava la pelle come un animale. Shepard credeva ciecamente nell’Alleanza e nella sua onestà, ma lei non era Shepard – Le direi che probabilmente ha ragione.- rispose con voce piatta.
Questa volta riuscì a sorprenderlo, si appoggiò allo schienale con aria compiaciuta – Lei è più sveglia di molti altri, specialista. Immagino di dover tener d’occhio la sua carriera d’ora in poi.-
- Lei com’è entrato a far parte del Progetto?- voleva andare in fondo alla questione, il più in fretta possibile.
Fece un gesto vago – Non vi feci mai realmente parte a dire la verità. Possiamo dire che collaboravo al Progetto.- tamburellò con le dita sul bordo della scrivania – Durante la guerra il mio compito era quello di fornire supporto psicologico ai soldati feriti in battaglia. Dovevo valutarne le condizioni psichiche e stabilire se fossero nelle condizioni di ritornare sul campo. Fui contatto da un membro del Progetto, tale Fitzgerald … no, non se lo segni.- bloccò il suo intento di annotare il nome – È morto anni fa, in un “incidente”, e comunque ne sapeva quanto me. Il Progetto era fatto a scomparti: ognuno conosceva esclusivamente il suo compito, quello che doveva fare, nessuno era al corrente del quadro completo. – si schiarì la voce – Tornando a noi … Fitzgerald mi contattò, era un sergente dell’Alleanza, mi diede delle istruzioni: se avessi avuto dei pazienti che rientravano in determinati parametri comportamentali avrei dovuto segnalarglieli; era la prima volta che sentivo parlare di quel Progetto, lui non mi disse molto, probabilmente sapeva poco o niente, mi comunicò solo che si trattava di un progetto segreto dell’Alleanza e che avevano bisogno di soldati qualificati. Sul momento ne fui alquanto sorpreso …-
- Perché?-
- Vede, i miei pazienti avevano subito dei gravi traumi, spesso erano gli unici superstiti della loro squadra, alcuni avevano vissuto il dramma della prigionia o provato sulla loro pelle la ferocia dei Turian. Alcuni potevano essere rispediti sul campo di battaglia, altri avevano subito turbe psichiche tali da rendere difficile persino la loro reintegrazione nella società civile. – sollevò lo sguardo su di lei – Era di loro che avevano bisogno per il Progetto.-
- Di che genere di turbe parla?-
- Psicosi, paranoia, disturbo della personalità, violenza. Molti provavano per i Turian un odio viscerale, irrefrenabile. Una delle domande ricorrenti era “Cosa faresti a un prigioniero Turian?”- rabbrividì – Alcune di quelle risposte non mi fanno ancora dormire la notte.-
Sasha annuì lentamente: suo padre le aveva parlato di quell’odio senza limiti, un odio che l’aveva spinto fin su Aephus a compiere le peggiori atrocità che la mente umana poteva concepire.
- Mio padre è stato un suo paziente.-
- Sì. Lo ricordo bene.- prese un ampio respiro – Sopravvissero in quattro allo schianto dell’Indipendence. All’inizio erano in sei, ma due di loro furono catturati e … - cercò le parole giuste - … credo che uccisi sia riduttivo per descrivere ciò che gli fecero. Suo padre era nascosto tra i rottami. Vide tutto, sentì tutto … io non so che persona fosse prima, so solo che l’uomo che incontrai era psicologicamente devastato.- sembrava dispiaciuto all’idea di rivelargli la vera natura di suo padre – Forse anni di terapie avrebbero potuto mitigare quell’odio che lo consumava, ma non gli venne concesso nemmeno un mese. Lo scelsero per il progetto e sparì. – si passò una mano davanti agli occhi, come per cancellare quei ricordi, quei volti  – Ovunque sia adesso spero che possa riposare in pace.-
Sasha ricordò l’uomo che le aveva raccontato la sua storia, quella storia, appoggiato al bancone di un bar, ricordò la disperazione nei suoi occhi, la colpa che lo tormentava, lo rivide accucciato in un corridoio dell’astroporto di Atene, l’espressione risoluta di chi ha finalmente preso la decisione giusta.
“Ho fatto tante cose cattive nella mia vita, tante scelte sbagliate … ma questa, questa è giusta” aveva scelto di aiutarla, di morire per una ragazza che non conosceva, una ragazza che aveva i suoi stessi occhi e credeva di essere sua figlia. E quella scelta, finalmente, gli dava pace.
Con la coda dell’occhio vide lo psicologo fissare la fotografia di Émilie.
- Che cos’è successo, Ned? Perché se ne è andato dall’Alleanza?-
Prese un ampio respiro – Tuo padre non fu l’unico che ributtai sul campo di battaglia. Ce ne furono molti, tutti ragazzi della tua età, ragazzi che meritavano di tornare a casa, dalle loro famiglie e che invece rispedii all’inferno. Mi dicevo che era necessario, che era il prezzo da pagare per vincere la guerra e salvare la Terra.- strinse i pugni – Poi la guerra finì e io chiesi a Fitzgerald notizie di quei ragazzi. Volevo sapere se erano ancora vivi, se erano tornati a casa. Lui disse di dimenticarli, di fare come se non li avessi mai conosciuti, perché non esistevano.- gli si spezzò la voce – Non potei sopportarlo. Decisi di lasciare l’Alleanza; questo accadeva diversi anni fa, subito dopo la fine della guerra.-
- Ma lei ha lasciato l’Alleanza solo cinque anni fa.-
- Prima di poter dare le dimissioni degli uomini vennero da me. Non ho idea di chi fossero, non li avevo mai visti prima e non tentai mai di scoprire la loro identità.- parlava con voce atona, come se stesse raccontando cose accadute a qualcun altro – Mi dissero che non potevo lasciare l’Alleanza, che sapevo troppe cose e che non avrebbero permesso che quei segreti uscissero dall’organizzazione. Mi invitarono a dimenticare il Progetto Cerca e Distruggi, la verità su quei soldati non valeva la vita delle persone che amavo, così mi dissero.- Sasha non faticava ad immaginarsi quella conversazione – Avevano delle fotografie di mia sorella, di suo marito, del figlio appena nato e di …- di nuovo gli si spezzò la voce, nell’oscurità di quelle orbite nere le parve d’intravedere il luccichio di una lacrima - … di Émilie. Stracciai la lettera di dimissioni e tornai al lavoro come se nulla fosse.-
- Poi cosa accadde?-
- Poco dopo quella conversazione ricevetti un’altra visita: era un maggiore dell’esercito, stava indagando su dei gravi crimini commessi durante la guerra. Stava investigando su un progetto che aveva come obiettivo quello di cercare e distruggere colonie Turian, un progetto avviato durante la guerra …- fece una pausa ad effetto - … ma che non terminò con essa.-
Sasha s’irrigidì – Che cosa le disse?-
- Non molto, fu piuttosto criptico. Lui sospettava, perlomeno fu quello che dedussi io, che una frangia estrema dell’Alleanza avesse continuato a operare in segreto, finanziando eserciti ed organizzazioni private per il proseguimento di questo progetto avviato durante la guerra. Obiettivo del Progetto non erano più solo i Turian, ma tutte le specie aliene.-
- Lei mi sta dicendo che avevano intenzione di applicare il Progetto su scala galattica?-
Ned era incredibilmente serio – Non “avevano”: hanno.- si alzò, le mani intrecciate dietro la schiena, l’aria grave sul viso da uccello – È un progetto a lungo termine, Sasha, scoprire l’ubicazione degli insediamenti alieni, le loro vulnerabilità, l’importanza strategica … non è roba da poco.-
Chiuse gli occhi, cercando di cogliere l’ampiezza di quel discorso: era tradimento. Se il Consiglio avesse saputo di quel Progetto … forse l’Alleanza non era direttamente coinvolta, ma sapeva e taceva … coprivano i crimini dell’umanità e, per questo, la condannavano.
- Cosa disse al maggiore?-
C’era un’espressione disgustata sul viso di Ned, disgusto per se stesso e le sue azioni – Niente, non gli dissi niente. Avevo troppa paura.-
- Lui scoprì qualcosa?-
- Immagino di sì.- un sorriso amaro distorse le labbra sottili dello psicologo – Morì eroicamente due mesi dopo, per salvare una colonia da un attacco terroristico. Ufficialmente fu un sacrificio volontario, come andarono realmente le cose io posso solo immaginarlo.-
Poteva immaginarlo anche lei. Se fino a quel momento aveva avuto paura ora era terrorizzata: faceva già parte di chi sapeva troppo.
Si disse che l’unico modo per proteggersi era andare avanti, stare un passo davanti a loro e scoprire la verità il più velocemente possibile.
- Ma se lei non disse nulla al maggiore, perché Mindoir?-
- Per dieci anni non seppi più niente, tentai di dimenticare, poi, un giorno, mentre tornavo a casa, a Benning, vidi un uomo sdraiato sul marciapiede di fronte alla mia porta.- guardò fuori dalla finestra un paesaggio che non vedeva – Quasi non lo degnai di un’occhiata, pensavo fosse un barbone. Ma quando gli passai davanti lui si alzò e mi chiamò: mi chiamò Ned. Quell’uomo era tuo padre.- Sasha sussultò rumorosamente, ma lui nemmeno si voltò – Mi raccontò di Aephus e del suo ritorno nel mondo dopo la fine della guerra. L’Alleanza non poteva riconoscere l’esistenza del Progetto, non ora che la pace coi Turian era stata fatta. Gli dissero che ufficialmente era morto sull’Indipendence nel 2157 e che per l’Alleanza non esisteva più. “Rifatti una vita” dissero “Dimentica il tuo passato da soldato, ricomincia.”- rise senza gioia – Dopo quello che aveva visto, dopo quello che aveva fatto, come potevano pensare che potesse ricominciare? Lui aveva dato loro tutto e non gli dissero nemmeno grazie. Non aveva lavoro, né soldi, né un posto dove andare, per il resto della galassia era morto. I suoi compagni s’infilarono una pistola in bocca, ma lui non poteva.-
“Che tu possa vivere per sempre” … no, il suicidio non era un’opzione per lui.
- Così fece la sola cosa possibile: tornò indietro, dal suo vecchio superiore, l’uomo che lo aveva accolto nel Progetto.- concluse Ned.
- Come si chiamava?-
- Harper. Jack Harper. Di lui non troverai niente, tutte le mie ricerche mi hanno portato in vicoli ciechi. Era un mercenario che lavorò con l’Alleanza su Shanxi nel 2157, dopo quella data è letteralmente scomparso.-
Sasha si morse il labbro: tutti quegli indizi e nessuna traccia. Le sembrava di dare la caccia ai fantasmi.
- Quindi mio padre tornò a lavorare per il Progetto.-
- Il Progetto Cerca e Distruggi era solo uno dei tanti che quell’organizzazione aveva in cantiere: falsificazione di documenti, produzione di nuove armi, esperimenti su bambini biotici … tutto in nome della supremazia umana. - man mano che parlava le spalle gli si incurvavano come se fossero gravate da segreti troppo grandi – Tuo padre tentò di ricominciare una vita: cambiò nome, identità, divenne un loro agente, conobbe una donna, una scienziata, la sposò …- esitò - … ebbero un figlio; sembrava che le cose si fossero messe a posto.- Sasha non mosse un muscolo, pietrificata sulla sua seggiola, l’idea che suo padre avesse creato una famiglia … avrebbe dovuto essere felice per lui, ma non poteva fare a meno di odiarlo per aver avuto una famiglia in cui lei non c’era – Poi ci fu l’incidente.- la voce cupa di Ned la riportò alla realtà.
- Quale incidente?-
- Un esperimento andato male. Ci fu un’esplosione in un laboratorio, era un piccolo complesso su un pianeta disabitato, fatta eccezione per gli scienziati e le loro famiglie; tra di esse c’era anche quella di tuo padre. L’esplosione devastò la colonia e quando Aleksandr rientrò dalla sua missione non trovò altro che cenere laddove c’era la sua casa.- Sasha deglutì a vuoto, immaginando quelle che lui doveva aver pensato: era la sua punizione per i crimini commessi su Aephus. Non meritava di essere felice.
- Il mondo gli crollò addosso, di nuovo. La sua famiglia era tutto ciò che gli  aveva impedito di soccombere ai crimini che aveva commesso e continuava a commettere, ma senza di loro … se ne andò, lasciandosi ogni cosa alle spalle. Voleva tornare all’Alleanza, raccontare tutto, ma non sapeva dove andare, cosa fare, poi si ricordò di me …- scosse mestamente il capo - … ero stato gentile con lui, conoscevo il Progetto, sapevo che non era morto nel 2157, pensava che potessi aiutarlo a riavere il suo nome, la sua vecchia vita. Dopotutto erano passati più di dieci anni, la pace non era più a rischio e l’Alleanza poteva permettersi di riconoscere il suo vecchio sbaglio, in cambio delle informazioni che lui gli avrebbe dato.-
- Lo aiutò?-
- Sì. Pensai che poteva farcela, aveva informazioni in grado di distruggere quell’organizzazione e io finalmente sarei uscito dall’incubo del ricatto. Ero convinto che nell’Alleanza ci fossero ancora persone integre come quel maggiore morto per scoprire la verità.- sospirò sconsolato – Ma ci rivolgemmo alle persone sbagliate. In dieci anni quell’organizzazione aveva messo radici profonde nell’Alleanza e vennero a conoscenza del nostro piano. Riuscii a far fuggire Aleksandr sulla Terra, ma non arrivai in tempo per salvare la mia famiglia.- si coprì gli occhi con una mano – Immagino avrebbero potuto ucciderli in monti altri modi, invece scelsero la distruzione dell’intera colonia. Era un messaggio, capisce? Possono arrivare ovunque, fare qualunque cosa, distruggere un’intera colonia e non subirne le conseguenze.-
Tutti i tasselli cominciavano ad incastrarsi ma il disegno che stava apparendo era più orribile e pericoloso di qualunque altra cosa avesse immaginato.
Se avevano distrutto una colonia per far tacere uno psicologo ficcanaso, che cos’avrebbero fatto a lei?
- A quel punto mi permisero di lasciare l’Alleanza. Tanto che cosa avrei potuto fare?-
- Quello che sta facendo: rivelare la verità.- affermò, con una spavalderia e una sicurezza che non provava – L’organizzazione di cui parla, come si chiama?-
Lui non era convinto – Se glielo dico la sua vita cambierà per sempre. Se glielo dico finirà come me.-
- Mio padre, sua sorella, gli abitanti di Minodir … Émilie … vuole davvero che chi li ha uccisi la faccia franca?-
Ned tornò alla finestra, abbassò la tapparella elettrica, si guardò intorno, come se temesse che ci fosse qualcuno accucciato sotto la scrivania. Quando ebbe la certezza che nessuno li stava spiando, prese un respiro profondo – Cerberus. Si tratta di Cerberus.-
Aveva sentito parlare di quel gruppo xenofobo con manie di grandezza, ma non avrebbe mai creduto che fosse in grado di fare ciò che Ned le aveva raccontato. Tuttavia non dubitò nemmeno per un istante della verità di quelle parole.
- La ringrazio, Ned. Vedrà: scoprirò la verità.- gli tese la mano per congedarsi ma lui la ignorò.
- No, non lo farai.- nell’oscurità della stanza quelle parole risuonarono come una condanna – Tu sei giovane, Sasha, e credi di essere invincibile. Ma immagino tu abbia degli amici, forse sei persino innamorata … quando scopriranno quello che sai …- alzò una mano per interromperla – Lo scopriranno, Sasha, lo fanno sempre. Quando capiranno cosa stai facendo, uccideranno tutte le persone che ami e anche quelle che non credevi di amare. Te le porteranno via e non potrai impedirlo.-
Ritirò la mano, come scottata: aveva già vissuto quei momento, aveva già perso le persone che amava. L’idea di perdere Nadine, C.J., Abigale e tutti gli altri nello stesso modo in cui aveva perso Louise e Kobe … l’idea di perdere Alex …
Fece un passo indietro e desiderò non aver mai varcato quella soglia.
- Ned, io …-
- Lo so, non c’è bisogno che tu dica niente. Hai già fatto abbastanza.- le si avvicinò, posandole le grandi mani sulle spalle, simili ad ali – Tocca a me adesso. Scoprire la verità, vendicare la mia famiglia …  per questo sono ancora vivo, lo capisco solo ora.-
- Se dovessero scoprirla …-
Sorrise, di un sorriso senza gioia – Che cosa potrebbero farmi che non mi hanno già fatto? –
Appoggiò una mano sulla sua, stringendola – Vorrei poterla aiutare.-
- Lo hai fatto. Dimentica questa storia, Sasha.-
Annuì: desiderava scoprire la verità, ma più di ogni altra cosa desiderava essere felice, con Shepard, con i suoi amici … non voleva più avere paura.
- Ho un’ultima domanda, Ned, poi giuro che dimenticherò questa storia e non ne farò più parola.-
- Sentiamo.-
- Il Maggiore che indagava su Cerberus, quello che hanno ucciso, come si chiamava?-
Una lunga pausa, poi la risposta – Dolgorukov, Maggiore Boris Dolgorukov.-
Non lo conosceva.
Sorrise a Ned prima di sciogliersi delicatamente dalla sua presa e avvicinarsi alla porta  – Faccia attenzione.-
- Ricorda, Sasha: tu non sai niente.-
Annuì, pensando che forse era meglio così.
Uscì dallo studio con una strana sensazione, sollievo per essersi liberata di quel fardello che minacciava di schiacciarla, paura di aver fatto qualche passo falso e disgusto per ciò che aveva appreso.
L’Alleanza, Cerberus … tutti quegli intrighi. Le sembrava di essere tornata indietro quando le bande lottavano per il controllo di pochi quartieri, di questo o quel locale. Quel mondo fatto di morti ammazzati e innocenti sacrificati in nome del potere… quel mondo le faceva ribrezzo.
Si fermò sulla soglia dell’atrio dell’ospedale, individuò Alex che parlava animatamente con un’Asari dall’aria famigliare. Si chiese che cos’avrebbe fatto se glielo avessero portato via … non aveva intenzione di scoprirlo.
Avrebbe ripreso a vivere la sua vita di sempre, fatta di missioni e battaglie, si sarebbe illusa di nuovo di combattere dalla parte dei buoni poi, quando finalmente, avesse trovato il coraggio, lo avrebbe preso per mano e gli avrebbe comunicato la sua decisione.
Quella vita non faceva per lei, l’Alleanza non faceva per lei.
Un giorno se ne sarebbe andata, ma quel giorno non era oggi.
Colmò la distanza che li separava e andò da lui.
 

* Se qualcuno ha letto e si ricorda della mia One-shot “Fino alla fine del cielo” immagino si sia chiesto se questa Emilie è quella Emilie. La risposta è sì, sono la stessa persona, con un’unica differenza: una muore e una vive. E qui entrano in campo le mie personali seghe mentali, che, dal momento che sono sadica (qualcuno tempo fa mi aveva anche incoronata, vero S.?) ho deciso di tenermi per me ancora per un po'. Sappiate solo che questo passaggio non è qui per caso. Raramente inserisco cose per caso. Perciò ... stay tuned!

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Capitolo 24
*** La fine di un'era ***



Benning, 2176
 
Sasha si sedette sul bordo del letto sbadigliando sonoramente, fece scrocchiare il collo ancora intorpidito dal sonno poi, dopo aver lanciato un’occhiata diffidente al pavimento freddo, si decise ad alzarsi.
Si avvicinò alla finestra che si apriva sul piccolo parco che spezzava il grigiore della città. Non le piaceva Benning, era una città senz’anima, senza storia, le costruzioni si ammassavano le une sulle altre, senza alcun criterio, era un luogo di passaggio, come ce n’erano tanti in quella galassia dove tutto e tutti andavano di fretta, dove più nessuno sembrava interessato a ciò che lo circondava. Tutto doveva essere rapido, immediato, non c’era più tempo per fermarsi a guardare le cose belle e, di conseguenza, le cose belle sparivano, sostituite da cose veloci, che si costruivano in fretta e, altrettanto in fretta, si distruggevano.
Appoggiò una mano sul vetro leggermente appannato dal suo respiro: quel piccolo parco oltre la finestra era l’unico luogo che le piaceva di quella città.
All’ombra di giganteschi alberi secolari, il tempo pareva fermarsi.
A quell’ora del mattino una leggera bruma turbinava attorno ai rami nodosi di quegli alberi alieni, donando loro un aspetto fatato, avvolgendoli in veli opachi che nascondevano segreti di tempi antichi e misteriose genti.
Sospirò, togliendo la mano dal vetro, sentendo in fondo al petto una malinconia a cui non sapeva dare un nome: la malinconia di chi sa di vivere fuori dal tempo.
Andò verso il piccolo angolo cottura incastrato dall’altra parte della stanza, cercando di non fare troppo rumore si mise a preparare il caffè; mentre aspettava che l’acqua si scaldasse andò a raccogliere lo zaino che aveva lasciato all’ingresso ne estrasse una tuta stropicciata e l’infilò sul corpo nudo, nel movimento urtò lo zaino che si rovesciò, svuotando rumorosamente il suo contenuto sul pavimento metallico.
Sasha lanciò un’occhiata colpevole al letto, aspettandosi i brontolii di protesta di Alex, invece lui continuò a dormire beato come se nulla fosse successo.
Ridacchiò, scuotendo il capo esasperata, nemmeno un’invasione Krogan sarebbe riuscito a svegliarlo; invidiava la sua capacità di dormire sempre e in qualunque posto.
Si chinò a raccogliere il contenuto dello zaino e si ritrovò tra le mani un datapad sepolto lì dentro da chissà quanto tempo, quando l’accese la sua espressione s’incupì. Gli occhi verdi di suo padre la fissavano carichi di rimprovero dallo schermo che aveva in mano, sembravano chiederle perché era ancora un soldato dell’Alleanza.
Spense il datapad e lo infilò di nuovo nello zaino, sperando di dimenticarsene per un altro anno ancora.
Dalla cucina arrivò il segnale che il caffè era pronto e andò a versarsene una tazza mentre la sua mente riesumava propositi che aveva accantonato.
Un anno. Era passato un anno dalla sua visita al Dottor Marchand, un anno da quando aveva scoperto la verità su suo padre e sul Progetto, un anno da quando si era promessa di lasciare l’Alleanza.
Non era brava a mantenere le promesse, questo ormai l’aveva capito.
Sorseggiò lentamente il caffè, storcendo le labbra quando si accorse di aver dimenticato lo zucchero.
Quel caffè era amaro come i suoi pensieri.
Perché era ancora nell’Alleanza? Perché era ancora lì, a combattere battaglie di cui non comprendeva il senso?
La risposta arrivò assieme a un mugugno di Shepard; lo guardò rigirarsi nel letto, ancora addormentato, la testa affondata nel cuscino.
Non riusciva ad immaginare di rifarsi una vita senza di lui e aveva il terrore di chiedergli di lasciare l’Alleanza insieme a lei, per paura che lui scegliesse la divisa. Dopo quella notte, la loro prima notte, sulla Cittadella, non avevano più parlato dell’eventualità di essere scoperti e separati, si erano limitati a vivere giorno dopo giorno, beandosi l’uno della presenza dell’altro.
Col tempo si erano fatti più temerari, ormai tutta la squadra e persino Cross sapeva cosa c’era fra loro, ma nessuno si era sognato di denunciarli, al massimo li prendevano spudoratamente in giro. Solo la sera prima C.J. le aveva chiesto se non volesse provare qualche altro membro della squadra ( e aveva calcato l’accento sulla parola membro) … per poco Alex non l’aveva strozzato.
Ridacchiò al ricordo, mentre mescolava lo zucchero: i ragazzi della squadra erano l’altro motivo che le impediva di tradurre in fatti i suoi propositi. L’idea di lasciarli le spezzava il cuore: loro non erano l’Alleanza, erano la “33”, la sua “33”. La squadra più dannatamente in gamba di tutta la galassia.
Sorseggiò con cura il suo caffè cercando una soluzione a quel problema che sembrava non averne, l’aveva cercata per un anno, senza riuscire a trovarla.
Si chiese se Ned avesse proseguito le indagini, con un coraggio che a lei era mancato, si chiese se avesse scoperto qualcosa, si accorse di non volerlo sapere.
Il Progetto, Cerberus … sarebbe stata più che felice se non ne avesse più sentito parlare per il resto della sua vita.
Il verso di un animale agonizzante la riportò alla realtà, ma era solo Shepard che sbadigliava senza ritegno e si alzava con l’agilità di un ultracentenario.
Caracollò fino al tavolo per poi abbattersi sulla sedia come un’atleta alla fine della maratona – Caffè?- ragliò.
Sasha indicò la caffettiera alle sue spalle – Prendilo pure.-
Parve scandalizzato mentre valutava la distanza che lo separava dal fornello – Non ce la posso fare …-
- Problema tuo.- lo canzonò, alzandosi e ritirando la tazza, passò davanti alla caffettiera ma la ignorò deliberatamente – Scommetto che troverai il modo per affrontare anche questa missione impossibile, tenente Shepard.-
- Dovrei denunciarti per violazione dei diritti umani.- si lamentò lui, con aria afflitta.
Sasha fece il giro del tavolo e gli posò un bacio sulla guancia ispida – Se sopravvivi alla fatica, ricordati che abbiamo il briefing tra mezz’ora. Io vado in camera a mettere la divisa, tu cerca di renderti presentabile …- gli scompigliò i capelli che non vedevano le forbici da un bel po’ di tempo - … sembra che hai in testa un gatto morto.-
Sbuffò prendendola per la vita e tirandola a sé – Non dovresti più andare in giro con Nadine, stai diventando una fanatica della cura del corpo …-
Sasha fece finta di soffocare, scansando i suoi baci – Si chiama igiene Alex, un po’ di sapone non ha mai ucciso nessuno.- gli pizzicò il naso e si divincolò dalla sua presa, raggiungendo la porta – Se non sbaglio C.J. si fa la barba ogni mattina e ha i capelli sempre in ordine, potrei prendere in considerazione il suo invito a provare qualcosa di nuovo.-
Alex scattò in piedi tanto in fretta da rovesciare la sedia – Se solo quell’idiota si azzarda ancora …-
La risata di Sasha lo interruppe – Mi sa che non hai più bisogno del caffè. Briefing tra venti minuti Shepard e ti conviene sbrigarti …- aprì la porta e si fermò sulla soglia – C.J. è sempre puntuale, non vorrai lasciarmi sola con lui …- richiuse la porta sulla sua imprecazione.
 
La sala briefing era un loculo scuro nel seminterrato del palazzo che l’Alleanza usava come caserma, una specie di scantinato dove la cosa più tecnologicamente avanzata erano le sedie pieghevoli.
Quando Sasha entrò c’erano già tutti, tranne Shepard ovviamente. Per un attimo fu tentata di andare a sedersi accanto a C.J., poi decise che era meglio non esagerare e si accomodò accanto a quell’ammasso di muscoli che rispondeva al nome di Dario; l’ingombrante italo australiano le rivolse un sorriso smagliante mentre lei inveiva contro la sedia che minacciava di piegarsi con lei dentro.
Stava ancora lottando contro quell’aggeggio infernale quando Shepard si sedette compostamente al suo fianco, perfettamente sbarbato e pettinato, senza nemmeno una piega sulla divisa, si sporse verso di lei e, dopo aver agganciato la sicura della sedia, le ravviò i capelli scarmigliati – Le sembra questo il modo di presentarsi, specialista Red?-
Sasha gli lanciò un’occhiata di fuoco mentre si sistemava la giacca della divisa – Vai al diavolo, tenente.-
L’arrivo di Cross gli impedì di ribattere; l’espressione grave del comandante fece passar loro la voglia di scherzare e il brusio della sala si quietò immediatamente.
- Mi dispiace aver interrotto la vostra licenza così bruscamente.- esordì Cross – Sarò breve, non preoccupatevi.-
Erano altre le loro preoccupazioni e lui lo sapeva bene, si soffermò su ognuno di loro, quasi a imprimersi quei volti nella memoria, prima di proseguire.
- Faccio il mestiere del soldato da più di trent’anni. - esordì, bastarono quelle parole perché capissero quale sarebbe stato il seguito – Ho vissuto gli anni più straordinari della storia umana, quando il mondo è cambiato e lo spazio si è aperto dinanzi a noi, gravido di speranze, sogni e promesse. Ho visto quelle speranze diventare cenere nelle nostre mani e i sogni trasformarsi in incubi durante gli orrori della Guerra del Primo Contatto, ma la promessa di una vita migliore, di un futuro migliore, quella non è mai venuta meno.- si accese il solito sigaro e aspirò una lunga boccata, mentre ascoltavano, ligi come scolaretti, l’ultimo discorso dell’uomo che era stato padre e maestro per tutti loro – Non le promesse vuote dell’Alleanza o del Consiglio, non quella baggianate su una galassia in pace e l’amore tra i popoli; quelle stronzate le lascio volentieri ai politici. – sotto le palpebre pesanti i suoi occhi erano magnetici e il suo sguardo parlava ad ognuno di loro, senza eccezioni – Siete voi quella promessa. Voi che date tutto in cambio di niente, che versate il vostro sangue in battaglie che l’universo ha dimenticato ma che pretende siano combattute. Se morirete diranno che avete fatto solo il vostro dovere, se vivrete vi riterranno inutili. Eppure, nonostante tutto, voi siete qui, guardiani di una galassia che finge di non vedervi.- raddrizzò le spalle, ergendosi in tutta la sua statura - Siete il mio orgoglio e la mia speranza. Sono fiero di voi, degli uomini e delle donne che siete diventati, e ora so di potermi ritirare con la consapevolezza di aver compiuto il mio dovere, di aver realizzato lo scopo della mia vita: voi. – per un istante parve perdere la voce mentre loro lo fissavano, quasi senza respirare, pietrificati da quelle parole che non potevano sorprenderli me che li gettavano lo stesso nel più assoluto sconforto - Siete la squadra più straordinaria che io abbia mai avuto l’onore di comandare e gli esseri umani più meravigliosi che abbia mai incontrato. Non posso aspirare a nulla di più grande di quello che già siete: il mio compito è finito, spero possiate capirlo. – si portò le mani dietro la schiena, il dorso eretto, il mento sollevato, l’incarnazione stessa del comando – È con il cuore spezzato che vi annuncio il mio ritiro, da questo momento in avanti non sono più il vostro comandante.-
Seguì un silenzio più eloquente di mille discorsi, il silenzio di chi si arrende all’inevitabile ma non per questo lo apprezza.
La prima a riscuotersi fu Abigale, si alzò in piedi e si portò una mano alla fronte, nel saluto militare; uno dopo l’altro, nel silenzio più assoluto, la imitarono tutti.
Per la prima volta apparve qualcosa di simile alla commozione negli occhi stanchi del loro comandante.
- Comandante …- mormorò infine Nadine rompendo il silenzio - … ci mancherà, comandante.-
- Anche voi.- rispose Cross, riprendendosi da quel piccolo istante di debolezza – Mi mancherete tutti. – sospirò, mentre la sacralità di quel momento s’infrangeva e tutti loro tornavano a sedersi, in attesa di nuove istruzioni – Non temete, il mio successore sarà più che all’altezza del compito …- tutta la stanza parve trattenere il respiro mentre gli occhi di Cross andavano a posarsi su uno solo, seduto in mezzo agli altri - … tenente Alexander Shepard, vieni avanti.- Sasha percepì distintamente il fremito che attraversò il corpo di Alex mentre si alzava e andava ad affiancare il comandante - … da questo momento in avanti ti cedo il comando.-
La sala si sciolse in applausi festanti e fischi scherzosi mentre tutti si alzavano per festeggiare il nuovo leader. Solo lei rimase inchiodata alla sedia, le sembrava di essere seduta davanti a un film, ad osservare scene di vita che non le appartenevano. Sapeva di doversi alzare e festeggiare con gli altri, sapeva di dover almeno fingere di essere felice, ma non ci riuscì.
Era il sogno di Shepard che si realizzava ma non il suo … lei che voleva lasciare l’Alleanza, vivere felice e in pace con lui accanto, lontano da battaglie, responsabilità e complotti … a stento riuscì a trattenere le lacrime: come poteva chiedergli di abbandonare tutto, di lasciare la squadra ora che ne era il nuovo comandante?
- Dobbiamo chiamarti “comandante” adesso? – la voce beffarda di C.J. gli arrivò ovattata, quasi venisse da un altro mondo.
Si accorse di essersi alzata anche lei, chissà come e chissà quanto, e di avere una specie di sorriso incollato sulle labbra mentre si univa agli altri che facevano ressa attorno a Shepard.
- Non ancora.- precisò Cross, circondando il suo pupillo con un braccio – Tecnicamente sei ancora tenente, Shepard, otterrai il grado di comandante solo dopo la prima missione da caposquadra, è la prassi.-
L’unica che sembrava sforzarsi quanto lei a festeggiare quella promozione era Abigale, Sasha sapeva che ambiva a quel ruolo quasi quanto Shepard; poteva solo immaginare la sua delusione.
Si scoprì a maledire Cross: se solo avesse scelto Abigale invece di Alex … si vergognò di quei pensieri che la fecero sentire meschina, la felicità di Shepard avrebbe dovuto essere la sua priorità, invece non riusciva a pensare ad altro che al dilemma che l’attanagliava: voleva cambiare vita, ma non poteva farlo senza di lui.
Cross chiese un attimo di silenzio – Un’ultima cosa e prima che iniziate a protestare vi assicuro che non si può fare altrimenti. Fa parte del regolamento dell’Alleanza che al cambio del comandante la squadra passi un periodo di valutazione …- zittì le loro proteste con un’occhiataccia – Niente storie. È una prassi che io stesso ritengo indispensabile. Ho fatto io il nome di Shepard perché conosco le sue capacità e in passato mi ha sostituito con ottimi risultati. Tuttavia è necessario testare la nuova squadra prima di ributtarla sui campi di battaglia, è una precauzione per essere sicuri che la transizione avvenga nel miglior modo possibile.-
- Come verremo valutati?- domandò Shepard.
Sasha cercò di decifrare la sua espressione, era fiero del risultato ottenuto, questo era evidente, eppure non era raggiante come si era aspettata che fosse …
- Rimarrete sulla stazione Arcturus per qualche mese, fino alla fine dell’anno, verrete sottoposti a valutazioni psicologiche e fisiche.- Cross ridacchiò di fronte alle loro espressioni disgustate - Una specie di checkup completo.-
- Dovremo fare la fila per pisciare nella provetta assieme alle reclute?- esclamò C.J., scandalizzato.
Cross lo ignorò – Poi ci saranno delle sessioni nel simulatore di combattimento, per testare l’affiatamento della squadra. Prendetelo come un corso di aggiornamento, ragazzi.- ammiccò – Vi faranno anche vedere qualche giocattolo nuovo, ne sono sicuro.-
Quell’ultima frase ottenne il risultato sperato e le proteste si spensero subito, Dario sembrava un bambino alla notizia che il Natale sarebbe arrivato in anticipo.
Cross sospirò mentre li guardava con sincero affetto – Non fatemi fare brutta figura, ragazzi.-
L’entusiasmo per la nomina di Shepard sfumò, Cross era stato il miglior comandante che avessero potuto desiderare, sarebbe mancato a tutti.
- Un’ultima bevuta ce la concede, comandante?- domandò Abigale dando voce al pensiero di tutti. Cross le rivolse un’occhiata colpevole, consapevole della delusione che le aveva arrecato – Gunny …- iniziò, ma lei lo interruppe con un lieve cenno.
- Non ci provi nemmeno a giustificarsi, comandante. – un sorriso genuino spuntò sul viso rotondo – Va bene così.-
Cross annuì, come se non si fosse aspettato nulla di diverso da lei – Penso che, per una volta, farò uno strappo alla regola. Ma senza esagerare.- puntualizzò, smorzando le esclamazioni entusiaste - Vi vogliono su Arcturus domani a quest’ora, vi accompagnerò fin là e poi ci diremo addio.-
Shepard gli porse la mano, serio – Non importa quello che succederà: questa sarà sempre la sua squadra, comandante.-
Gli si strinsero tutti intorno, mentre Cross afferrava la mano di Shepard e li guardava, commosso, Sasha gli strinse delicatamente il braccio, appoggiando la testa sulla sua spalla – Grazie comandante, per tutto.-
Lui le passò un braccio attorno alle spalle e le diede una rapida stretta, prima di divincolarsi – Volete farmi piangere a tutti i costi? – brontolò, spostando il sigaro da una angolo all’altro della bocca – Non vi darò questa soddisfazione. Ci vediamo più tardi, ragazzi.- si congedò.
- Ma se non sa nemmeno dove vogliamo andare!- protestò Habib.
Cross si fermò sulla soglia – Io so sempre dove trovarvi.- rispose prima di uscire.
Soli in quella stanza che sembrava improvvisamente immensa si sentirono abbandonati. L’idea di andare in battaglia senza Cross, di perdere quella presenza rassicurante che li aveva guidati per tutti quegli anni conducendoli sempre alla vittoria … Cross comandava la squadra “33” da dieci anni e non aveva mai perso un soldato. Certo la squadra era cambiata e solo Abigale rimaneva a ricordare il suo esordio al comando, alcuni avevano lasciato l’Alleanza o cambiato squadra e mansioni, ma tutti dovevano a quello straordinario comandante la loro vita, tutti, nessuno escluso.
Si guardarono l’un l’altro, imbarazzati, con Shepard che rimaneva in disparte, l’espressione di chi si sente responsabile della fine di un’era.
- Solita ora, solito posto?- domandò C.J.
Gli altri annuirono poi, lentamente, se ne andarono tutti, ognuno per conto suo.
Mancavano ancora molte ore prima di ritrovarsi per festeggiare la fine di un ciclo e l’inizio di un altro, ore che volevano trascorrere ognuno per conto suo, a ripensare a quello che era stato e che non c’era più.
- Ehi …- Abigale si avvicinò a Shepard stringendogli le mani con fare materno – Sarai un grande comandante, Alex, migliore di quanto io potrò mai essere. Lo so io, lo sai tu e lo sa Cross. Non devi farti problemi per me.-
Lo sentì sospirare – Grazie, Gunny.-
Lei gli diede un buffetto sulla guancia e se ne andò, dopo aver rivolto un cenno di saluto a Sasha.
Solo quando la porta si fu richiusa alle spalle della biotica, Sasha si rese conto che erano rimasti soli, nella piccola sala che diventava sempre più grande e vuota, ad ogni minuto che passava.
Immaginò dovesse fare le congratulazioni ad Alex, fingersi felice per quella promozione che distruggeva tutti i suoi progetti, ma lui non gliene diede il tempo.
- Che ne dici di andare a fare una passeggiata?- le propose – Solo io e te …-
Il tono della sua voce le fece presagire il peggio, era inquieto per qualcosa e lei temeva di sapere cosa. Fino a quel momento si erano limitati a vivere giorno per giorno, ma le cose erano cambiate, lui era cambiato, e non potevano più andare avanti come se nulla fosse.
Era tempo di fare una scelta.
Evitò il suo sguardo giocherellando con la medaglietta che portava appesa al collo, pesava come un macigno – Vado a cambiarmi …- bofonchiò.
Lo sentì passare accanto a lei, percepì il suo sguardo sulla pelle – Ti aspetto fuori.-
Quando sollevò lo sguardo era sola nella stanza, ed era una piccola e maleodorante stanza che le si chiudeva attorno come un sarcofago.
Sentì le pareti stringersi attorno a lei e il fiato le si fermò in gola: era stata felice per due anni, immaginò fosse arrivato il momento di pagarne il prezzo.

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Capitolo 25
*** Tutto il tempo del mondo ***


Immagini che lasciano il segno


Benning, 2176
 
Shepard si sedette su una panchina davanti all’ingresso del palazzo che fungeva da caserma per i soldati dell’Alleanza. Chiuse le dita attorno al freddo oggetto quadrato che si portava in tasca da più di due mesi … si sentiva stordito; l’annuncio di Cross lo aveva colto completamente alla sprovvista e ora non sapeva bene come comportarsi. O meglio: lo sapeva ma ne temeva le conseguenze.
Aspettava quella promozione da tutta la vita; erano ventun’anni che si preparava a quel momento, dal giorno in cui era nato.
Immaginò l’orgoglio di sua madre: il più giovane caposquadra della storia dell’Alleanza con un brillante futuro davanti. Da lì a diventare capitano di una nave, una nave sua, il passo era breve. Cercò di figurarsela, quella nave destinata a lui, immaginò il suo scafo e … e non riuscì a vedere oltre. Nei suoi occhi c’era spazio solo per un viso cosparso di lentiggini e una massa di capelli rossi.
Tutto ciò che aveva sognato sin da bambino, tutti i desideri che aveva espresso guardando le stelle tra cui era nato, sfumavano, trasformandosi negli occhi, nella voce e nella risata di Sasha.
La carriera militare, una nave da comandare, quelli erano i sogni di sua madre, non i suoi. I desideri che aveva espresso erano le parole che sua madre gli ripeteva nelle orecchie ogni sera prima di addormentarsi.
“Sarai un grande comandante, Alexander.” gli diceva “Sarai un eroe, come tuo padre.”
E lui si era convinto, giorno dopo giorno, notte dopo notte, di voler essere un comandante, un eroe. Strinse più forte le dita attorno all’oggetto che teneva in tasca … gli ci erano voluti vent’anni per realizzare che i suoi desideri non combaciavano affatto con quelli di sua madre.
Fare il soldato, essere un eroe, dover decidere della vita e della morte di interi popoli … rabbrividì: non aveva mai voluto simili responsabilità.
Passare la vita accanto alla donna che amava, viaggiare per la galassia, visitare quei luoghi che aveva visto solo dall’oblò di una nave spaziale o attraverso la feritoia di una casco da combattimento, parlare con le persone invece di sparargli, fermarsi da qualche parte per più di due giorni … erano quei pensieri a dargli pace, a renderlo felice.
Per la prima volta in vent’anni desiderava fermarsi in un luogo e chiamarlo casa.
Prese un respiro profondo, mentre la mente lentamente si schiariva e i pensieri tornavano a posto, finalmente limpidi ed inequivocabili: aveva dovuto realizzare il suo sogno per accorgersi di non desiderare nulla di ciò che aveva conquistato.
Sasha uscì dall’edificio, bella come un dipinto antico; indossava un vestito a fiori, abbottonato sul davanti, così improbabile in quel mondo di navi spaziali e realtà simulate che per un attimo dubitò fosse reale.
Come poteva esistere qualcosa di così puro in un mondo come quello?
Lei che veniva dalla sporcizia e dal fango, lei che aveva tradito ed era stata tradita, che aveva ucciso ed era stata uccisa, era la creatura più integra che avesse mai incontrato. E seppe che la voleva al suo fianco fino alla fine dei giorni.
- Vieni con me .- le disse, alzandosi e porgendole la mano.
Era preoccupata, glielo leggeva negli occhi, forse temeva che si sarebbe sbarazzato di lei ora che aveva l’Alleanza ai suoi piedi; sembrava restia a prendere la sua mano, per la prima volta fu lui a poter leggere i suoi pensieri: “e se ci scoprissero?”.
La baciò.
La baciò senza curarsi delle conseguenza o di chi poteva vederli, la baciò perché lei era la sola cosa che contava al mondo.
Non l’Alleanza, non l’umanità né la pace galattica, nemmeno la squadra.
Solo lei.
- Alex …- si scansò, turbata – Potrebbero vederci.-
- Vieni con me. - ripeté contro le sue labbra, prendendola per mano.
La condusse tra gli alberi del parco, sotto quelle fronde che sembravano esistere da milioni di anni e che ci sarebbero state, ancora, milioni di anni dopo la loro morte.
La vide guardarsi intorno con le labbra socchiuse e gli occhi pieni di meraviglia, una piccola creatura fatata in un mondo fatato.
- Guarda …- rise lei, indicando un piccolo spiazzo davanti a loro – Altalene!- esclamò, correndo verso quegli strani pali di cui non capiva la funzione.
Sasha si mise davanti ad una di quelle seggiole appese a una traversa di legno e lo guardò con un sorriso impertinente su quel viso da bambina – Cosa c’è, tenente, mai vista un’altalena?-
- E a cosa serve?-
Sasha chinò il capo di lato e afferrò una delle corde – Sono giochi, Alex, solo giochi.-
“Giochi” parola bandita dal suo vocabolario in cui esisteva solo il dovere.
Si avvicinò a quegli strani aggeggi guardandola sedersi su una di quelle seggiole, le punte dei piccoli piedi puntellate a darsi la spinta, notò con una punta di tenerezza che si era messa una fascia colorata tra i capelli, piccolo vezzo di una ragazzina che aveva passato tutta la vita a fare la dura.
- Avanti, dammi una spinta!- lo incitò.
E lui l’assecondò, portandosi alle sue spalle, spingendola sempre più in alto, sempre più veloce, beandosi del suono della sua risata.
Era così che voleva fosse la sua vita: felice, insieme a lei.
Comunque andassero le cose, si sarebbe ricordato di quei momenti per sempre.
- Più in alto Alex! Spingi più in alto!-
Sasha rideva, i capelli rossi sparsi sulle spalle, la gonna a fiori che si gonfiava lasciando scoperte le gambe affusolate proiettate verso il cielo.
- Guarda Alex, sto volando!- Sasha sembrava una bambina, con il suo vestito a fiori e i nastri nei capelli. Si lanciò dall’altalena con un gridolino bellicoso rotolando malamente sul prato, ridendo come una matta.
Alex la raggiunse, placcandola a terra e torturandola con il solletico, sentendosi bambino per la prima volta nella sua vita.
Sasha rise ancora più forte, tentando di divincolarsi e colpendolo con pugni che avrebbero steso chiunque, ma non un soldato.
- Non vale usare i poteri biotici, Alex!-
- E chi lo dice?-
L’attirò a sé, baciandola e scompigliandole i capelli.
Si chiese se era normale amare così tanto una persona.
- Mi manca il cinguettio degli uccelli.- sussurrò improvvisamente Sasha, fissando il cielo con aria malinconica – Non ci sono uccelli su questo pianeta.-
Alex si era appoggiato su un gomito, giocherellando con quelle ciocche rosse che sembravano dipinte – Non ci ho mai fatto caso. - ammise.
- Sei cresciuto nello spazio. Non puoi sapere cosa vuol dire svegliarsi la mattina con gli uccelli che cantano.-
No, non lo sapeva, conosceva solo il ronzio dei motori e il debole fischio dei freni iperluce. Aveva trascorso la sua vita sulle navi spaziali, per poter essere un soldato degno dei suoi genitori.
- I soldati non hanno tempo per queste sciocchezze.- decretò, imitando il tono deciso di sua madre.
Si accorse che era una cosa incredibilmente stupida da dire.
Sasha dovette pensare la stessa cosa perché sorrise con la bocca, ma non con gli occhi. Quelli rimasero malinconici – E non c’è il rischio che si dimentichino di quello per cui combattono?- si era messa a sedere, abbracciandosi le ginocchia sbucciate – Non facciamo altro che saltare da un pianeta all’altro, sempre più lontano, alla ricerca di nuove sfide, di nuovi mondi … che cosa stiamo cercando, Alex?-
Era tutta la vita che si faceva quella domanda, così le diede la sola risposta che era riuscito a trovare – Un posto tra le stelle …- un tempo gli era parsa una bella risposta, ora gli sembrava un’idiozia.
Gli occhi di Sasha brillarono – Ma la Terra è tra le stelle. Basterebbe solo alzare gli occhi al cielo … ma temo che l’umanità si renderà conto dell’importanza della Terra solo quando la perderà.-
Alex l’attirò a sé, baciandole il naso lentigginoso – Se mai dovesse accadere io la riconquisterei: per te.-
Sasha ridacchiò, ma ancora una volta i suoi grandi occhi verdi rimasero malinconici – Lo so che lo faresti, Alex. Ma mi piace illudermi che non sarà mai necessario.-
- Come fai ad amare così tanto un luogo che ti ha portato solo dolore?-
- Non è stata la Terra a farmi del male. Sono stati gli uomini.- si rannicchiò contro il suo petto, alla ricerca di un po’ di quell’affetto che non le era mai stato dato – Se tu potessi rivederla, capiresti: è così perfetta.-
Alex sentì il cuore accelerare i battiti; erano mesi che aspettava quel momento, ma c’era sempre una missione da compiere, riunioni a cui andare, documenti da compilare: non poteva più aspettare.
 – Rinunceresti a fare il soldato per tornare sulla Terra?-
Sasha si girò, seria come non l’aveva mai vista – Sì. –
Alex deglutì a vuoto, la bocca improvvisamente arida – E se ti dicessi che è quello che voglio anch’io? Mandare al diavolo l’Alleanza e farci una nuova vita, sulla Terra, a … a casa. -
Lei non sorrise ma la malinconia che velava i suoi occhi scomparve di colpo, sostituita da una luce che non aveva mai visto, una luce che era pura felicità – Cosa mi stai dicendo, Shepard?-
Lui allungò la mano, porgendole quella scatoletta che aveva martoriato per ore dentro la sua tasca, dentro c’era un semplice anello d’argento, l’unica cosa che si era potuto permettere.
- Vuoi sposarmi, Sasha?-
Lei fissò l’anello come se si trattasse di una trappola esplosiva, vide la sua espressione passare dall’estasi più pura al timore più profondo, no, dovette correggersi quando alzò gli occhi su di lui, non timore: rabbia.
- Mi prendi per il culo, Shepard?-
Lui boccheggiò, preso completamente alla sprovvista, di tutte le reazioni previste quella non era stata contemplata.
- Sasha io …-
- Vuoi farmi credere che dopo aver ottenuto tutto quello che volevi, dopo essere diventato il comandante di quella squadra che è la tua ragione di vita, molleresti tutto per me?- sembrava sul punto di alzarsi e scappare via, ma lui la trattenne per un polso.
- Sì, è esattamente quello che ti sto dicendo.-
Lo scrutò, con quegli occhi verdi che sembravano non sapere se credere o meno a quelle parole, si sentì ferito per quella mancanza di fiducia. Lo credeva davvero capace di un simile inganno?
- Ma ti rendi conto di cosa significa? Lasciare la squadra, l’Alleanza …- abbassò gli occhi sulla scatola che lui teneva ancora stupidamente in mano, dire quelle cose sembrava costarle uno sforzo sovrumano – Forse adesso ti può sembrare una buona idea, ma te ne pentirai per il resto della tua vita. Non posso chiederti di cambiare tutto solo per me …-
Le prese il viso tra le mani, costringendolo a guardarlo – Ma tu hai già cambiato tutto. Tutte le cose che credevo importanti, le mie ambizioni … erano solo stronzate, Sasha. Tu sei importante, solo tu. – appoggiò la fronte sulla sua – Sto per diventare comandante e non me ne frega niente, potrebbero anche regalarmi una nave e dirmi che diventerò l’ammiraglio di tutte le flotte e non cambierebbe la mia decisione. – sospirò – Certo, non è facile decidere di lasciare la squadra, di abbandonare i miei, i nostri, fratelli. Ma so che Abigale sarà un comandante degno di quel nome, se lo merita. Credi che sia una decisione così, presa d’istinto? Ci penso da un anno, da quando ci siamo baciati per la prima volta e ho capito di non poter vivere senza di te. L’annuncio di oggi ha precipitato le cose ed è chiaro che non possiamo più aspettare: è la nostra unica occasione per andarcene senza tradire gli altri. Sta cambiando tutto, Sasha, e dobbiamo cambiare anche noi, sta a noi scegliere come.-
La mani di Sasha si chiusero sulle sue – E se un giorno te ne dovessi pentire, se ti stancassi di me e …?-
- Non è solo per te.- le soffiò sulle labbra – Questa vita non fa più per me. Sono vent’anni che non faccio altro che muovermi, che passo da un’astronave all’altra, da un pianeta all’altro senza fermarmi da nessuna parte, senza che esista un posto che io possa chiamare “mio”. Dico di combattere per la Terra ma non so nemmeno che aspetto abbia … l’unico ricordo che ho del pianeta natale è un cimitero e la lapide di mio padre.- digrignò i denti – Per tutta la vita ho fatto solo quello che dovevo, ora è tempo di fare quello che voglio. Io voglio vedere il mare, Sasha, e le montagne, voglio sentire il calore del nostro sole e sapere che suono ha il cinguettio degli uccelli.- lasciò vagare lo sguardo sul parco che li circondava, bellissimo, ma alieno, era stanco di visitare mondi che raccontavano la storia di qualcun altro – Voglio andare in Grecia, vistare il Partenone, mangiare una grigliata di pesce e …-
Non poté finire la frase, le labbra di Sasha si chiusero sulle sue, in un bacio violento, dove paura e speranza si mischiavano a costruire una certezza: la certezza di essere insieme e di volerlo essere per sempre.
Quando si separarono erano entrambi senza fiato, quasi intimiditi dalla violenza di quel bacio che aveva sorpreso entrambi – È un sì?- domandò lui, incerto.
Sasha rise. Aveva la risata più bella che avesse mai sentito.
 – Certo che è un sì, stupido.-
Tolse l’anello dalla scatola con mani tremanti e glielo infilò al dito, lei si guardò la mano come se non riuscisse a credere che fosse proprio la sua, la guardò e rise di nuovo, come una bambina.
Quella bambina che non era mai stata e che finalmente aveva il permesso di uscire a giocare.
Inclinò il capo di lato, gli occhi verdi che brillavano – “Sasha Shepard” …- sussurrò - … mi sembra che suoni bene.-
- Sì.- mormorò lui chinandosi a baciarla, ancora e ancora e ancora - È perfetto.-
Erano belli, giovani, felici e, persi tra le stelle di un pianeta lontano, s’illudevano di avere tutto il tempo del mondo.

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Capitolo 26
*** Demoni ***


 

Benning, gennaio 2176
 
Attraversarono il parco con la leggerezza di chi sa di avere tutto il tempo del mondo e desidera godersi ogni secondo; camminavano felici, l’uno accanto all’altra, le mani intrecciate e il riso sulle labbra, indifferenti al mondo che li circondava.
Si avviarono spediti verso gli alloggi, decisi a non sprecare nemmeno un secondo di quella loro eterna giovinezza, chi incrociava la loro strada non poteva fare a meno di notarli.
Lei che portava cucita addosso una sottile malinconia riflessa negli occhi verdi che sembravano tornare alla luce dopo anni passati nell’oscurità, lui che non aveva occhi che per le sua bellezza e si chinava a parlarle all’orecchio sussurrandole parole che solo lei aveva il diritto di ascoltare e lui di pronunciare.
La pioggia li sorprese a pochi passi dall’ingresso, una pioggia scrosciante e improvvisa che strappò loro esclamazioni di meraviglia, mentre Alex accennava passi sgraziati tra le pozzanghere e Sasha inondava il mondo della meraviglia della sua risata, il vestito a fiori incollato alle gambe e i capelli rossi gocciolanti sulle spalle. Ridevano e danzavano, danzavano e ridevano nel più bel giorno della loro vita.
Entrarono nell’atrio dell’edificio quasi senza fiato, prendendosi in giro per i capelli scompigliati e i vestiti fradici di pioggia, erano così presi l’uno dall’altra che si accorsero della terza persona solo quando per poco non ci sbatterono contro.
- Ehi …- bofonchiò Shepard, ubriaco di felicità – Che ci fai qui, C.J.?-
Si accorse subito che qualcosa non andava; il viso strafottente di C.J. era pallido e nei suoi occhi grigi non c’era traccia di quella luce maliziosa che li animava sempre.
- Non ci saremo mica persi la festa?- domandò Sasha, preoccupata.
- Non ci sarà nessuna festa stasera.- replicò C.J., serio come non l’aveva mai visto – Ho chiesto di rimandarla, non me la sentivo di festeggiare.-
- Cos’è successo?-
Lo vide esitare mentre si passava una mano tra i capelli biondi – Hai la tua solita bottiglia di vodka in camera, Shepard? Credo proprio che ci servirà.-
Sentì un brivido attraversargli la schiena, un brivido che non aveva niente a che fare coi vestiti fradici di pioggia -  Certo, saliamo.-
Gli parve di metterci una vita a salire le scale e trovare la porta della sua stanza, quando finalmente furono dentro si rese conto di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo. Lasciò andare lentamente il fiato mentre prendeva tre bicchieri e la bottiglia, ne riempì due di vodka e uno d’acqua.
Mentre spingeva il bicchiere verso C.J. alzò gli occhi a cercare quelli del suo amico, non li trovò. C.J. guardava fuori dalla finestra una pioggia che non vedeva.
- Ci vuoi dire cos’hai?-
C.J. prese il bicchiere, rigirandoselo tra le mani – Ricordi Quentin? Il nostro vecchio amico dell’Accademia, quello con cui hai litigato all’ultimo anno …-
Shepard fece una smorfia, si ricordava bene di quell’idiota anche se non riusciva a capire che cos’avesse a che fare con tutti loro – Certo che me lo ricordo.-
- Poco fa mi ha mandato un messaggio, mi chiede se ho visto i notiziari. Gli rispondo di no, chiedendogli cos’è successo; l’unica cosa che mi dice è “accendi la televisione”.- bevve un lungo sorso, prima di alzarsi, andare verso il televisore alla parete e premere l’accensione – Forse è meglio se ci dai un’occhiata anche tu.-
Shepard guardò confuso C.J. che dava le spalle allo schermo e tornava alla finestra, a guardare la pioggia senza vederla, il bicchiere stretto tra le dita.
“Poche ore fa un trasporto Quarian si è imbattuto in una nave alla deriva nello spazio profondo, nel sistema Exodus, molto lontano da ogni pianeta abitato.” Shepard portò la sua attenzione sul mezzobusto dalla faccia diafana che parlava alla telecamera “Per pura casualità, in seguito ad un guasto che li ha fatti uscire dalla velocità iperluce, i Quarian hanno rilevato il flebile segnale di soccorso proveniente dalla nave alla deriva. La nave in questione è un veicolo privato, partito dalla Cittadella quasi un anno fa e mai giunto alla destinazione impostata sul computer di bordo: la colonia umana di Freedom Progress.” Shepard sentì un campanello d’allarme suonare da qualche parte nella sua mente, lanciò una rapida occhiata a Sasha e notò che anche lei si era irrigidita “ A bordo i Quarian si sono imbattuti nei corpi senza vita dei passeggeri, una famiglia di tre umani: padre, madre e il figlio di cinque anni. L’Alleanza ha identificato i corpi pochi minuti fa: si tratta dell’analista Amanda Philips, impiegata presso l’archivio della Cittadella, suo marito Ryan Philips e il figlio Samuel …”
Il resto dell’annuncio si perse in un borbottio indistinto, Shepard si sentiva stordito, come se qualcuno avesse lanciato una flash bang in mezzo alla stanza, credeva che Mandy fosse al sicuro, era certo che si fosse rifatta una vita in una colonia remota, invece era morta su una nave spaziale, chissà quando, chissà come …
C.J. andò a spegnere la televisione, terreo in volto, ricordò che Mandy era stata anche amica sua.
- Come …- la voce di Sasha sembrava provenire dall’oltretomba - … come sono morti? Si è trattato di un guasto, un incidente ...?- sapeva meglio di lui che non si era trattato di un incidente, ma se C.J. le avesse detto di sì ci avrebbe creduto, perché era quello a cui voleva disperatamente credere.
- Quello che non dicono al telegiornale è che la nave è stata dirottata di milioni di chilometri, che i motori sono stati manomessi, così come tutti i sistemi di comunicazione …- C.J. parlava alla pioggia, il viso rigato di lacrime - … non dicono che i corpi sono stati trovati nella stiva, legati l’uno all’altro, senza possibilità di fuga e che li hanno lasciati lì a morire di fame.- picchiò il palmo aperto contro il vetro – Come si può essere così bestiali? Non avere nemmeno la pietà di piantare loro un proiettile in testa …- sembrava sul punto di vomitare – Sam aveva cinque anni, come puoi fare una cosa simile a un bambino?-
Guardò Sasha che ricambiò il suo sguardo, in fondo ai suoi occhi vide lo stesso gelido terrore che gli faceva tremare le mani. Sapevano entrambi perché Amanda e la sua famiglia erano dovuti morire così. Chiunque li aveva uccisi voleva mandare un messaggio forte e chiaro: potevano trovare chiunque, ovunque, fare qualunque cosa e passarla liscia.
Avevano lasciato una famiglia a morire di fame, perché potevano e volevano farlo, perché nessuno era in grado di impedirglielo.
C.J. continuò a inveire, ignaro di quello che passava per la testa dei suoi amici, convinto che il loro silenzio fosse dovuto alla tristezza o all’indignazione, mentre era la paura a farli tacere. Paura per quello che sapevano e non avrebbero dovuto sapere.
- Sono riusciti a risalire al periodo della morte?- domandò Shepard ritrovando la voce, da qualche parte.
C.J. deglutì a vuoto – Il computer di bordo ha smesso di funzionare poche ore dopo la partenza e anche lo stato ...- chiuse gli occhi - … lo stato dei corpi sembra confermare che la morte sia avvenuta quasi un anno fa.-
Amanda pensava di aver guadagnato qualche mese coi suoi trucchetti informatici, probabilmente non aveva guadagnato nemmeno qualche ora.
Se fosse stata lì immaginò gli avrebbe detto che nessun organico poteva scoprirla così in fretta.
Shepard strinse i pugni: nessun organico, ma un sintetico sì.
Sentì la mano di Sasha stringersi sul suo pugno chiuso, negli occhi verdi lesse un profondo sconforto, come se quella notizia le avesse fatto crollare addosso il muro di illusioni che si era costruita intorno.
Sapeva che Sasha aveva sperato disperatamente che quella storia si fosse conclusa.
- Hanno idea di chi possa essere stato?- la sentì domandare con voce incerta.
C.J. scosse il capo – Mandy era solo un’analista, che cosa può aver fatto di così terribile da meritare una morte del genere?-
Non si guardarono per paura di tradirsi: Amanda sapeva troppo, come loro.
C.J. appoggiò il bicchiere sul tavolo – Mi dispiace averti dato questa notizia, Shepard. Ho … bisogno di stare un po’ da solo, buonanotte ragazzi.- si avvicinò alla porta e premette il pulsante per aprirla – Non perdete la navetta, domani.- raccomandò prima di uscire.
Nel silenzio assoluto della stanza si sentiva solo il ticchettare della pioggia e il battito incontrollato dei loro cuori.
 

Sasha guardò Alex versarsi altra vodka, lo sguardo perso in chissà quali pensieri. Le sembrava trascorsa un’eternità da quando le aveva chiesto di sposarlo e abbandonare l’Alleanza, un’eternità da quando si era illusa di aver trovato finalmente la pace.
- Cosa credi che sia successo?- si sentì domandare.
Lo vide sorseggiare lentamente il suo drink, Sasha sentì la bocca inaridirsi, anche lei avrebbe voluto affogare le sue preoccupazioni in quel liquido trasparente, invece bevve un sorso d’acqua che non riuscì a dissetarla.
- Credo siano stati intercettati poco dopo il decollo.- ipotizzò Shepard con voce piatta, come se stesse esponendo un rapporto di missione – Devono averli costretti a seguirli nel Sistema Exodus con la minaccia delle armi, poi sono saliti a bordo, li hanno legati, hanno disattivato motori e radio, e se ne sono andati, chiunque fossero, lasciandoli lì a morire.-
“Chiunque fossero” … Sasha sapeva chi erano, sapeva cos’erano in grado di fare.
Cerberus … si chiese se quel nome avrebbe mai finito di perseguitarla.
- Immagino che non si aspettavano che li trovassimo …- sussurrò, giusto per dire qualcosa e non cedere alla tentazione di rivelare tutto ciò che sapeva, non voleva che Shepard si ributtasse in quella storia per vendicare la sua amica. Lei era morta e loro dovevano restare vivi.
- Tu credi?- non aveva mai sentito la sua voce così gelida, così determinata – Non ti sembra un po’ strano che abbiano disattivato tutto tranne il segnale di soccorso?-
Scrollò le spalle – Devono aver commesso un errore …-
- Oppure volevano che qualcuno trovasse la nave, non abbastanza in fretta da salvarli, questo spiega il sistema remoto in cui li hanno trasportati, ma in tempo per trasmettere un messaggio.-
- Un messaggio, a chi?-
Alzò gli occhi azzurri su di lei, quegli splendidi, gelidi, occhi azzurri che le mettevano una paura dannata – A noi. Non penso che sappiano chi siamo, ma sanno che Mandy ha parlato con qualcuno, e vogliono farci sapere che quello che hanno fatto a lei possono farlo anche a noi.- strinse così forte i pugni che le nocche divennero bianche – Ecco perché li hanno uccisi in quel modo, perché non hanno avuto pietà nemmeno per un bambino: era un messaggio, capisci? Un messaggio per noi.-
Fu grata di essere già seduta, altrimenti sarebbe crollata a terra, nelle sua mente alla voce di Shepard si sovrappose quella del dottor Marchand “Possono arrivare ovunque, fare qualunque cosa, distruggere un’intera colonia e non subirne le conseguenze.”
- Possono risalire a noi? – c’era un tremito nella sua voce che avrebbe voluto nascondere – La chiamata che Amanda fece in camera tua …-
Shepard le prese le mani, mentre il gelido fatalismo di poco prima lasciava il posto a un pallido ottimismo; la sua premura la commosse: stava cercando di proteggerla, anche dalla paura.
- Le chiamate vengono filtrate da un centralino interno, Mandy conosceva già il numero della mia camera perciò non ha mai fatto il mio nome.-
- Ma ci saranno dei registri cui possono risalire all’assegnazione della camera …-
Shepard le agganciò una ciocca ribelle dietro l’orecchio – L’Alleanza assegna un piano delle sue strutture ad ogni squadra ma è la squadra stessa poi a decidere l’assegnazione delle camere in maniera assolutamente informale. Possono sapere che camera ha chiamato ma non chi la occupava.-
Invece di rassicurarla quella notizia la gettò nel panico – Però possono sapere a che squadra apparteniamo.- si coprì la bocca con la mano – Abbiamo messo in pericolo tutti.-
Alex le afferrò il viso con entrambe le mani – Ascolta: un conto è uccidere un’analista, ma far fuori un’intera squadra è un’altra storia. La morte di Mandy verrà presto archiviata e nessuno indagherà mai a fondo, ma se morisse la “33” si solleverebbe un vespaio.- sembrava così sicuro che per un istante ci credette anche lei .
Poi ricordò le parole di Ned.
Si liberò dalla presa di Alex e si alzò, avvicinandosi alla finestra, fuori era scesa l’oscurità e l’unica cosa che riusciva a vedere era il suo riflesso, pallido e sconfitto, così diverso dalla ragazzina felice che aveva giocato sull’altalena solo poche ore prima.
- Ti ho mentito.- ammise, chiudendo gli occhi, poteva immaginare l’espressione confusa di Alex anche senza vederla
- Cosa stai dicendo?-
- Quando sono andata a parlare col dottor Marchand ti dissi che non mi aveva detto niente. Mentivo.-
Sentì la mano di Shepard chiudersi sulla sua spalla – Perché?-
Si girò ad affrontarlo, risoluta – Per noi. Ned mi ha raccontato la sua storia, quello che gli hanno fatto …- s’impose di trattenere le lacrime e ci riuscì – Lo hanno distrutto e io non volevo accedesse anche a noi. Pensavo che saremmo stati al sicuro, che ci fossimo fermati in tempo.- deglutì a vuoto – Mi sbagliavo.-
Avrebbe voluto baciarlo, fare l’amore con lui e dimenticarsi di quella storia, dimenticarsi di ogni cosa tranne che di loro due; ma chi era là fuori non si sarebbe dimenticato di loro. Mai.
- Perché mi dici queste cose?-
- Quando Ned iniziò a indagare sul Progetto minacciarono di uccidere la sua famiglia se non si fosse fermato. Lui obbedì, ma dieci anni dopo cedette alla tentazione di aiutare mio padre e smascherarli; a quel punto le minacce divennero realtà. – tornò ad osservare il loro riflesso nel vetro, sembravano fantasmi sospesi nel nero della galassia – La sua famiglia abitava su Mindoir. Hanno distrutto una colonia per uccidere quattro persone e far tacere uno psicologo.-
Sentì Shepard rabbrividire poi le sue labbra si posarono sulla sua nuca – Ammetto che non li avrei creduti capaci di tanto, ma se ci pensi non è difficile attaccare una colonia e farla franca. Sei stata anche tu su Dumat, nessuno indaga a fondo su un attacco pirata: sono cose accadono. – la strinse forte a sé – Uccidere Mandy e distruggere Mindoir sono azioni disumane ma fattibili. Eliminare una squadra dell’Alleanza e pensare di farla franca non è fattibile.-
Avrebbe voluto credergli, disperatamente – E se ti dicessi che hanno ucciso un maggiore dell’esercito, facendolo persino passare per un sacrificio volontario?-
Sentì i muscoli di Shepard tendersi, mentre si staccava da lei e la costringeva a voltarsi, quasi brutalmente, l’espressione sconvolta del suo viso la spaventò – Dimmi il suo nome. -
Tentò di divincolarsi - Alex …-
- Dimmi il suo nome!- la stringeva tanto forte da farle male.
- Dolgorukov …- sussurrò – maggiore Boris Dolgorukov.-
Ogni colore scomparve dal viso di Shepard mentre la lasciava andare e barcollava fino al tavolo appoggiandosi allo schienale di una sedia per sostenersi.
- Alex …- esitò, ancora spaventata dalla follia di poco prima - … lo conoscevi?-
Chiuse gli occhi per un istante, poi li rialzò su di lei, implacabili – Era mio padre.- in quel momento seppe che non ci sarebbe stato nessun futuro per loro, nessuna fuga dall’Alleanza, nessuna casa in riva al mare, solo un buco nero che, lentamente, avrebbe inghiottito ogni cosa.
- Che cosa pensi di fare adesso?- sussurrò.
- C’è un’unica persona che può darci delle risposte …- sembrava che quella prospettiva lo disgustasse – Il capitano Hannah Shepard. Mia madre.-
 

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Capitolo 27
*** Hannah ***



Stazione Arcturus, gennaio 2176
 
Shepard si fermò ad osservare Sasha, appoggiata alla ringhiera che separava i moli dagli Hangar d’attracco, davanti a lei riposavano, pigre, le navi dell’Alleanza. Per un attimo ebbe paura che una di quelle navi la portasse via da lui, lontano, tra quelle stelle che non riusciva più ad amare.
La guardò tormentare l’anello che portava al dito, poteva quasi sentire i suoi pensieri, confusi e spaesati quanto quelli che vorticavano nella sua mente.
Egoista, ecco come si sentiva, guardando quel corpo minuto ancora avvolto nella divisa blu e oro. Le aveva promesso una vita lontano dalla guerra per poi smentirsi subito dopo, chiedendole di aspettare che lui vincesse la sua personale battaglia contro il passato.
Se non fosse stata così tragica quella situazione gli sarebbe parsa ridicola: erano arrivati fin lì seguendo la pista del padre di Sasha e ora tra le mani si ritrovava il mistero della morte di suo padre.
Non sapeva nemmeno lui cosa desiderasse scoprire, sapeva solo che per anni suo padre era stato la sua ossessione. Non per la morte che si era scelto, per vent’anni aveva creduto di sapere come e perché suo padre era morto.
No, non era la morte del Maggiore Dolgorukov ad ossessionarlo ma ciò che il Maggiore era stato.
Un eroe dell’Alleanza, un soldato incorruttibile, un comandante idolatrato, un marito devoto e un padre gentile, anche se fugace. Per tutta la vita aveva vissuto con l’ombra di suo padre cucita sulla pelle, sua madre aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per crescere il figlio ad immagine e somiglianza del padre.
E ci sarebbe riuscita se Alex non avesse incontrato Sasha sulla sua strada; lei che gli aveva insegnato a ribellarsi, a non fidarsi delle apparenze, a mettere in discussione ogni sua certezza.
Ironia della sorte non era stato l’integerrimo esempio del padre e il desiderio di emularlo a fargli rimandare i suoi propositi di libertà, ma il dubbio che Boris Dolgorukov non fosse l’uomo che gli era stato raccontato.
Per nulla al mondo si sarebbe lasciato sfuggire la possibilità di conoscere veramente suo padre, di sapere che anche lui era un uomo fatto di carne, ossa e sangue, un uomo che poteva sbagliare.
Si appoggiò sulla balaustra accanto a Sasha osservando la linea morbida degli scafi parcheggiati di fronte a lui, un brivido gli attraversò la spina dorsale, come se in quelle fiancate di metallo fosse scritto il suo, il loro, destino.
- Non ho dimenticato la mia promessa.- le assicurò, mentre Sasha smetteva immediatamente di tormentare l’anello, come per paura che potesse accorgersi di quel gesto e darne un’interpretazione sbagliata – Ho solo bisogno di avere delle risposte, quali che siano. Non m’interessa sapere perché mio padre è morto, voglio solo sapere come è morto.-
La smorfia di Sasha era eloquente – E hai bisogno di indossare una divisa per parlare con tua madre?-
- Evidentemente non conosci mia madre.- sospirò – Non rivelerebbe mai informazioni riservate ad un civile, nemmeno se quel civile è suo figlio.-
Non le disse che probabilmente, una volta rivelata la sua volontà di lasciare l’Alleanza, sua madre gli avrebbe tolto il saluto.
- Ancora non capisco perché tu sia convinto che tua madre possa avere delle risposte.-
- Secondo il rapporto ufficiale mio padre rimase a bordo di una nave dirottata dai Batarian per impedire che precipitasse su una città densamente popolata.- spiegò con voce incolore – Il pilota automatico era stato sabotato, l’unica possibilità di impedire lo schianto era che qualcuno rimanesse a bordo e facesse schiantare la nave in mare. Mio padre si offrì volontario.- quante volte aveva immaginato quella scena, rievocando l’eroico sacrificio di suo padre e chiedendosi se sarebbe mai stato in grado di fare lo stesso.
Ma se suo padre non si era sacrificato volontariamente, se era stato costretto a rimanere sulla nave … l’opinione che aveva di lui non sarebbe cambiata, ma i limiti che imponeva a se stesso … quelli sì, quelli sarebbero stati cambiati.
Guardò quelle navi che erano state tutto il suo mondo per vent’anni – Sappiamo entrambi che i rapporti ufficiali non sempre corrispondono alla verità.- non era una risposta in grado di soddisfare la curiosità di Sasha, poteva sentire il suo sguardo insistente bruciargli la pelle – Ma la vera ragione per cui voglio parlare con lei è che mi sono ricordato una cosa.- prese un respiro profondo – Mi sono ricordato di una lite tra i miei genitori. La ricordo perché era raro vederli litigare, credo che mio padre fosse l’unica persona con cui mia madre non si arrabbiava mai, in effetti se ripenso a quella lite mi accorgo che non c’era rabbia nella voce di mia madre, ma paura. Il che è ancora più strano, ho sempre pensato fosse un sentimento che lei non potesse provare.-
- Perché stavano litigando?- dal tono della sua voce dedusse che aveva già capito dove voleva arrivare.
Si prese un attimo di pausa per rimettere a posto i pensieri e cercare di dare un senso a quello che stava per dire - Stavano litigando per via di un progetto su cui mio padre indagava: il Progetto “Cerca e distruggi.”-
Nel sospiro di Sasha c’era tutta la stanchezza di chi porta sulle spalle il peso del mondo e capisce di doverlo portare per cento anni ancora.
- Non avrà mai fine questa storia, vero?-
Cercò la sua mano e la strinse – Ti sbagli, non ti chiederò di pazientare ancora, dopo aver parlato con mia madre non ci saranno altre indagini o crociate alla ricerca della verità. Qualunque cosa ci dirà finirà qui, oggi.-
- E con la squadra come la mettiamo? Il nostro periodo di valutazione è quasi finito, sei il nostro comandante adesso, se molli ora li lascerai senza un capo.-
Nonostante tutto provò una punta di orgoglio per la donna che era diventata, così diversa dalla ragazzina strafottente che su Dumat aveva messo in pericolo la vita di tutti. Era lui adesso il ragazzino egoista che pensava solo a se stesso.
- Credi davvero che questi test servano solo a valutare la coesione della squadra?- osservò i magneti di ancoraggio dell’Hangar di fronte a loro sollevarsi, in attesa di una nave al ritorno di un lungo viaggio – Far parte di un plotone d’assalto è solo l’inizio della carriera di un soldato, queste prove sono dei colloqui, colloqui per decidere il nostro futuro. Cross ha aspettato che fossimo tutti pronti prima di mandarci in valutazione perciò le proposte che arriveranno ad ognuno di noi saranno di quelle che non si possono rifiutare.-
- Non ti seguo, Shepard.-
Shepard sospirò – Nessuno di noi è entrato nella squadra per rimanerci, Sasha, questo è solo un trampolino di lancio. – con un cenno indicò le navi ancorate attorno a loro – Essere assegnato ad una nave o entrare nel programma N7 … è questo quello che ogni soldato sogna; la 33 è una delle migliori squadre dell’Alleanza, immagino che arriveranno proposte di ogni tipo, a ognuno di noi. La squadra non esiste più, ci saranno ancora un paio di missioni, poi ognuno andrà per la sua strada, com’è giusto che sia. È tempo di cambiare e andare avanti.-
Sasha abbassò leggermente il capo, non sembrava sorpresa, solo amareggiata, come se sapesse già che le cose sarebbero andate così. Lo sapeva, ma aveva sperato di sbagliarsi.
- Che cos’è il programma N7?- domandò con lo stesso tono con cui gli avrebbe chiesto l’ora.
Shepard si appoggiò alla balaustra mentre, in lontananza, si cominciava a scorgere la sagoma di una nave in avvicinamento - È un programma di addestramento per soldati d’élite; gli N7 sono i soldati migliori, hanno l’addestramenti migliore e le missioni migliori. – incurvò leggermente le spalle - È il massimo riconoscimento dell’Alleanza.-
La nave era davanti a loro adesso, i motori ridotti al minimo, lo scafo lucido ed elegante nella luce soffusa della stazione – Tuo padre era un N7.- non era una domanda.
- Sì, lo era.-
- Ti chiederanno di far parte del programma.- nemmeno quella era una domanda.
Con un leggero stridio la nave attraccò e, con un tonfo secco, i magneti si chiusero sullo scafo sinuoso – Sì.-
Non osò guardare Sasha e sapeva che nemmeno lei aveva il coraggio di incrociare il suo sguardo – Immagino sia una proposta alla quale non si può rinunciare.-
Sulla fiancata della nave era vergato il suo nome, in grandi lettere bianche: Kilimangiaro.
Aveva la bocca arida – Ti sbagli. – si sentì rispondere – Io l’ho fatto appena due ore fa.-
Dal silenzio attonito che seguì intuì che, questa volta, era davvero riuscito a sorprenderla e, per la prima volta, a non deluderla.
La udì trattenere il respiro, poi percepì il miracolo della sua pelle sulla sua quando lei gli si strinse contro, il corpo caldo e tremante incastrato tra le sue braccia – Alex … che cos’hai fatto?-
Sprofondò il viso nei suoi capelli – Ho fatto la mia scelta.- si riempì i polmoni del suo odore, sapeva di tutte le cose che non aveva mai conosciuto e che ora, finalmente, avrebbe scoperto.
Dietro di loro il soffocato rumore di un boccaporto che si apriva lo riportò alla realtà, una realtà dalla quale sarebbe volentieri fuggito, ma la fuga non era mai stata un’opzione, non per lui.
Si staccò delicatamente da Sasha e, contro ogni buonsenso, la prese per mano.
- Vieni.- sussurrò, con lo stesso tono con cui un condannato pronuncia le sue ultime parole – Il capitano Shepard ci sta aspettando.-
 
Non era mai stata su una nave da guerra prima, al massimo era stata su qualche trasporto truppa o navi civili; non aveva mai pensato che, prima o poi, sarebbe salita su una fregata dell’Alleanza.
La Kilimangiaro era una bella nave, persino lei che non ne capiva niente poteva vederlo, con quelle fiancate affusolate e le grandi ali ripiegate lungo lo scafo sembrava promettere una libertà che pochi umani avevano il privilegio di assaporare. Si chiese come sarebbe stato prendere il comando di una nave come quella e partire all’avventura, circondata solo dagli amici più cari e senza una divisa a cui rendere conto.
Seguì Alex a bordo della nave, provando un reverente timore nei confronti di quelle sottili paratie, del rollio appena accennato che sentiva sotto i piedi, dell’impercettibile sfrigolio del nucleo motore.
Shepard si muoveva sulla nave come se fosse stato creato per quegli spazi, con una naturalezza che non aveva in nessun altro luogo.
I membri dell’equipaggio lo salutavano come se fosse uno di loro, qualcuno si avvicinava a stringergli la mano o gli rivolgeva battute scherzose; era la prima volta che si rendeva conto dell’abisso che li separava: lui era parte di quel mondo tra le stelle che lei non riusciva nemmeno a capire.
Con o senza divisa Shepard sarebbe rimasto un soldato dell’Alleanza, un comandante, per sempre.
Quando raggiunsero la cabina del capitano le parve di aver perso, lungo il ponte della nave, tutta la sicurezza conquistata in anni di battaglie, lei era pur sempre l’orfana di Atene e nessuna divisa, nessun grado militare, avrebbe mai cambiato quel dato di fatto.
Il capitano Hannah Shepard li aspettava in piedi davanti alla vetrata che dava sull’oscurità che circondava quella stazione costruita sulla via per nuovi mondi. C’era in quella donna tutta l’autorevolezza accumulata in anni al comando di una nave.
I capelli neri lasciati sciolti sulle spalle erano l’unica concessione ad una femminilità nascosta dietro una lastra di rigore. Hannah Shepard non era né madre, né donna: era un soldato punto e basta.
Il viso deciso aveva la stessa bellezza di quello del figlio, gli zigomi alti e la mascella volitiva, solo una piccola ragnatela di rughe intorno agli occhi tradiva gli anni trascorsi a compiere il proprio dovere. L’unica differenza tra madre e figlio erano gli occhi, non c’era traccia, negli occhi castani del capitano, dell’ingenuità che animava quelli del figlio. Negli occhi di Hannah Shepard non c’era né bianco, né nero, solo grigio.
Non appena mise piede nella cabina, Sasha seppe di non essere pronta ad incontrare quella donna.
- Alexander.- li accolse Hannah, senza alcuna traccia di entusiasmo nella voce – Ti trovo bene.-
Non si vedevano da tre anni, immaginò fosse il massimo dell’affetto che quella donna potesse dimostrare.
- Felice che tu sia tornata sana e salva a casa, capitano.-
Sasha non era un’esperta di rapporti famigliari, ma persino lei poteva rendersi conto che ciò cui stava assistendo era tutt’altro che normale.
Se il gelo nella voce del figlio la turbò, Hannah non lo diede a vedere – Io sono sempre a casa, Alexander.-
Vide la mascella di Alex contrarsi pericolosamente mentre il capitano si allontanava dalla finestra per andare a sedersi dietro la sua scrivania, senza mostrare il minimo interesse per Sasha che cominciava a sentirsi parte dell’arredamento.
- Lei è Sasha Red.- la presentò Alex – Fa parte della mia squadra.-
Sasha si avvicinò alla donna tendendogli la mano – È un onore conoscerla, capitano.-
Hannah incrociò le mani sotto il mento, guardando la sua mano come se si chiedesse cosa dovesse farci – Sì, Alexander mi ha parlato delle vostre ricerche in merito a tuo padre.- prese una sigaretta dalla tasca e se l’accese, aspirando una lunga boccata; Sasha si sentì leggermente rassicurata da quella piccola, umana, debolezza, perlomeno non era un robot.
- A cosa devo il piacere della vostra visita?-
Sasha avrebbe potuto giurare che in quella stanza ci fossero dieci gradi in meno che nel resto della nave.
- Com’è morto papà?-
La brutalità di quella domanda la fece sobbalzare, ma fu l’unica nella stanza ad avere una reazione.
Il viso di Hannah era una maschera d’indifferenza – Lo sai com’è morto.-
- Io so quello che mi hai detto tu, quello che mi ha detto l’equipaggio, ma non è la verità.-  ora che si trovava di fronte alla vera freddezza, capiva che quella che ostentava Shepard era solo un’abile messa in scena, voleva imitare i modi della madre, senza riuscirci – Papà stava indagando su un progetto segreto dell’Alleanza e l’hanno ucciso perché sapeva troppo.-
Hannah non batté ciglio, si limitò ad prendere una boccata dalla sua sigaretta – Chi ti ha messo in testa queste assurdità?-
Sasha sentì distintamente la mascella di Alex scricchiolare –Non fare finta di non sapere. Ricordo che litigasti con lui per una cosa su cui stava indagando, una cosa chiamata “Progetto Cerca e Distruggi”. Ricordo che avevi paura e che pochi giorni dopo lui è partito e non è più tornato.- picchiò il palmo aperto sulla scrivania – Quindi risparmiami le tue stronzate e dimmi com’è morto!-
Dietro il fumo della sua sigaretta il capitano Shepard fece una smorfia – Non essere così emotivo, Alexander.- quella donna le metteva addosso una paura dannata, dietro quel muro di gelida indifferenza c’erano nascoste troppe cose – Le scimmie picchiano i pugni e sbraitano. Tu non sei una scimmia.-
Si alzò dalla scrivania, con la tranquillità di chi sta parlando del tempo e non dell’assassinio del proprio marito – Tuo padre è morto da soldato facendo il suo dovere. Non sminuire il suo sacrificio appellandoti a cospirazioni e assassinii.-
Alex parve fare uno sforzo sovrumano per mantenere la calma -  E allora spiegami che cosa spinse il capitano Shepard ad urlare e picchiare i pugni come una scimmia.-
Hannah fece un sorrisetto – Come sei venuto a sapere del Progetto?-
Cominciava a darle sui nervi il fatto che si comportasse come se lei fosse stata invisibile.
- Sasha e io indagavamo su suo padre, si è scoperto che era coinvolto nel progetto.-
- Non insultare la mia intelligenza. Non sono informazioni che si scoprono per caso. -
Shepard fece una smorfia – Abbiamo chiesto aiuto ad Amanda Philips, lei ha trovato delle anomalie nei dati sul padre di Sasha e ha indagato.-
Sul viso di Hannah si dipinse un’espressione disgustata che mal si addiceva ai suoi lineamenti aristocratici – Pensavo avessi troncato i rapporti con quella sgualdrina.-
Tanta veemenza la sorprese, notò preoccupata che Alex era sul punto di esplodere – Mandy è morta.-
- Lo so, questo non fa di lei una persona migliore.-
Alex fece un passo avanti, furibondo – Alex, no!- sussurrò Sasha, trattenendolo per il braccio.
Il capitano parve finalmente accorgersi della sua presenza, le rivolse uno sguardo indagatore che la fece sentire completamente nuda – Scommetto che devo ringraziare lei, specialista, se mio figlio si è messo a fare il teorico della cospirazione.-
Shepard la prese per mano, gesto che non sfuggì a sua madre – Vieni, non saremmo nemmeno dovuti venire.-
Sasha non si mosse – So che cos’era il Progetto, capitano. So che è nato durante la Guerra del Primo Contatto, per opera di una cellula dell’Alleanza che collaborava con mercenari umani. So che aveva come obiettivo cercare e distruggere le colonie Turian, magari la stessa Palaven. Mio padre venne mandato su Aephus per sterminare la colonia nella speranza che i Turian abbandonassero la battaglia per proteggere la loro gente, ma i Turian non abboccarono e su Aephus venne compiuto un’inutile massacro. Dopo la guerra, l’Alleanza chiuse il Progetto, congedò i suoi soldati e si dimenticò di loro. O, almeno, questo fu quello che dissero al Consiglio.- lo sguardo implacabile di Hannah la metteva a disagio ma s’impose di non farsi intimidire – In realtà quel Progetto non è mai stato chiuso anzi, è stato ampliato. Voglio essere generosa e pensare che quella cellula occulta abbia continuato le sue ricerche all’insaputa dell’Alleanza, finché non hanno dato vita ad un’organizzazione indipendente che ora si occupa di applicare il Progetto “Cerca e Distruggi” a tutte le colonie aliene nello spazio del Consiglio. Cosa pensa che succederebbe, capitano, se il progetto venisse attivato?-
Hannah si prese tutto il tempo per rispondere, il piccolo bagliore della sigaretta che si rifletteva negli occhi privi di emozione – Con un’immaginazione così fervida dovresti dedicarti al cinema, non alla guerra.- socchiuse le labbra per far uscire il fumo – Fammi indovinare: hai parlato con Edouard Marchand?-
Sasha non riuscì a trattenere un sussulto che il capitano accolse con un sorriso di scherno – Volete sapere la verità sul Progetto? L’avrete.- tornò alla scrivania e accese il terminale.
- Come le avrà detto il dottor Marchand, il Progetto nacque durante la Guerra del Primo Contatto e aveva esattamente le funzioni che lei ha descritto. L’Alleanza non è fiera dei crimini compiuti in quel periodo perciò dopo la guerra il Progetto è stato chiuso e tutte le informazioni sulla sua esistenza occultate. La squadra che lavorò al Progetto venne smantellata e l’Alleanza troncò ogni collaborazione con i mercenari di cui si era servita per avviarlo.-
- Mercenari come Jack Harper*?-
Nello sguardo di Hannah passò un lampo che forse era paura, ma fu talmente rapido che Sasha pensò di averlo solo immaginato – Esatto.- confermò Hannah come se nulla fosse, digitò qualcosa al terminale, continuando a parlare - Anni dopo ci furono degli attriti tra il governo Turian e quello Umano, i Turian ne approfittarono per riesumare vecchi rancori ed accusare l’Alleanza di crimini di guerra. Partì un’indagine interna guidata da tuo padre, Alexander.- sospirò – Ci volle del tempo ma alla fine Boris scoperchiò il vaso di Pandora. Erano stati commessi crimini molto gravi durante lo svolgimento del Progetto, crimini che all’epoca le necessità di pace avevano messo a tacere ma, dieci anni dopo, il Consiglio non sarebbe stato così indulgente. Conosci tuo padre. – per la prima volta la sua espressione si addolcì mentre si rivolgeva al figlio – Era un uomo integerrimo e voleva denunciare quei crimini al Consiglio. Fu per questo che litigammo quella volta, io ero convinta, e lo sono tuttora, che i panni sporchi vanno lavati in casa. Non c’erano ragioni di minare il prestigio dell’Alleanza con una storia vecchia di decenni. Boris mi disse che ci avrebbe pensato, poi partì per quella maledetta missione e non tornò più.-
Alex fece una smorfia – Tempismo eccellente, non trovi?-
Anche la mascella di Hannah si contrasse, esattamente come accadeva al figlio quando si sforzava di mantenere il controllo – Non ti permettere, Alexander. Non osare insultare la memoria di tuo padre.-
Alex distolse lo sguardo, rosso in viso – Mi dispiace.- quelle parole la sorpresero, non era da lui essere così arrendevole  – Però non capisco perché papà ti rivelò i dettagli di un’indagine riservata.-
Hannah rispose senza distogliere lo sguardo dal terminale – Perché facevo anch’io parte del Progetto. Mi occupavo dell’addestramento delle reclute.-
Sasha e Alex si scambiarono uno sguardo attonito – Mi stai dicendo che sei stata coinvolta in quel porcaio, mamma?-
Hannah gli rivolse un’occhiata capace di far avvizzire una foresta intera – Era la guerra, Alexander, e in guerra si fa di tutto per sopravvivere.-
Sasha appoggiò di nuovo la mano sul braccio di Shepard, per trattenere la risposta velenosa che gli era salita alle labbra – Secondo il dottor Marchand suo marito sospettava che il Progetto fosse ancora attivo.-
- È stato Boris a dirglielo o Ned ha semplicemente tirato le sue conclusioni?-
Sasha abbassò lo sguardo – La seconda.-
- Ned era un brav’uomo. – si stupì della gentilezza con cui disse quelle parole – Era il migliore nel suo lavoro ma la distruzione di Mindoir lo annientò. Trovare i colpevoli di quell’eccidio era diventata la sua ossessione e quando non li ha trovati, se li è creati. Penso che attribuirsi la responsabilità di ciò che è accaduto fosse un modo per punirsi per i crimini che, indirettamente, aveva permesso fossero compiuti.-
Sasha scosse il capo – Lei mi sta dicendo che è pazzo, ma lo stimato psicologo dell’Huerta Memorial Hospital che ho incontrato era tutt’altro che pazzo.-
Hannah digitò qualcosa sul terminale e l’aria sopra la scrivania fu occupata dalla proiezione del fascicolo del dottor Edouard Marchand, Sasha non poteva non riconoscere quel viso scavato.
- Leggi.-
Sasha scorse in fretta le righe – Il dottor Edouard Marchand è stato congedato dall’Alleanza per comportamento paranoico e abuso di psicofarmaci.-
- Dopo Mindoir, Ned ha avuto un esaurimento; vedeva cospirazioni ovunque e alla fine non è più stato in grado di fare il suo lavoro. L’Alleanza lo ha congedato e lui si è ricoverato in una clinica per un paio d’anni. Quando ne è uscito era quasi quello di prima, per superare Mindoir si era creato una storia, quella che le ha raccontato, una storia che desse senso alla morte dei suoi cari. È una storia innocua che i medici hanno lasciato che si raccontasse dal momento che non faceva del male a nessuno e gli permetteva di sopravvivere.- si strinse nelle spalle – Le sue capacità erano rimaste invariate perciò aveva ripreso il suo lavoro, da privato cittadino.-
- Perché parla di lui al passato?-
Hannah sollevò lo sguardo su di lei – Non l’ha saputo?- sembrava sinceramente dispiaciuta – Lo hanno trovato impiccato nel suo studio una settimana fa.-
Sasha fece un passo indietro sentendosi impallidire.
- E tu non credi che possa essere stato assassinato?- domandò Alex.
Hannah fece un verso scettico – Perché qualcuno avrebbe dovuto ammazzarlo?-
Sasha si stropicciò le mani, nervosa – Quando sono andata da lui mi ha detto che avrebbe proseguito le ricerche, mi ha fatto il nome di un’organizzazione segreta …-
- So di chi stai parlando.- la interruppe Hannah con veemenza, le sembrò quasi che non volesse farle pronunciare quel nome – Ned espose anche a me le sue assurde teorie, tutte sciocchezze, naturalmente. Il giorno in cui quei fanatici xenofobi saranno in grado di organizzare qualcosa di così complesso come la distruzione di una colonia gli asini inizieranno a volare.- sospirò – La stanza era chiusa dall’interno e non c’erano segni di colluttazione. Edouard Marchand si è ucciso, forse proprio perché aveva scoperto che tutte le sue certezze non erano altro che fantasie.-
- E di Mandy cosa mi dici?- intervenne Alex – Anche lei è morta dopo aver indagato sul Progetto. E non dirmi che si è trattato di un incidente.-
Di nuovo una smorfia di disgusto distorse i bei lineamenti del capitano – Ricordo bene Amanda Philips, mi convincesti a salvare suo marito dal carcere e devo ammettere che nemmeno io, all’epoca, dubitai della sua innocenza. Ma Ryan Philips non era innocente. – arricciò le labbra – Due giorni fa un uomo si è presentato all’SSC accusandosi dell’omicidio della famiglia Rush. Quest’uomo, tale Gus Williams, era il socio in affari del compianto signor Philips il quale era effettivamente colpevole dei traffici illeciti di cui era stato accusato; quando Williams lo scoprì Ryan lo consegnò ai Batarian di modo che sparisse dalla circolazione e le accuse di contrabbando ricadessero su di lui.- premette un tasto del terminale e davanti a loro comparve il resoconto completo dei fatti che Hannah stava riassumendo a voce - Dopo essere fuggito Gus è rimasto qualche anno su Omega dove ha formato una banda di ex-schiavi con parecchi conti da saldare. La famiglia di Amanda non è stata l’unici ad incappare nella giustizia di questa banda e, come potete vedere …- accennò ai dati che scorrevano sullo schermo - … il modo in cui sono stati uccisi rientra nel loro modus operandi. -
Con la coda dell’occhio Sasha vide Alex vacillare e anche lei si sentiva completamente stordita; Hannah stava smontando, pezzo dopo pezzo, tutte le loro supposizioni ma, nonostante tutto, malgrado il dolore per la morte di Ned e Mandy, non poté fare a meno di sentirsi sollevata. Perché se Hannah aveva ragione loro erano salvi.
Alex si avvicinò al terminale, poteva quasi sentire gli ingranaggi della sua mente muoversi furiosamente, studiò le informazioni che sua madre gli aveva messo a diposizione poi alzò gli occhi su di lei, quegli occhi azzurri che avevano il potere di far crollare tutte le menzogne.
- Hai spiegato molte cose mamma e sarebbe tutto perfetto se non ci fosse una piccola crepa nel tuo muro di risposte.- appoggiò le mani sulla scrivania e si sporse verso di lei – Perché i dati sul tenente Aleksandr Peter Vlasov sono stati falsati?-
Per la prima volta Hannah parve esitare, ignorò il figlio e si rivolse direttamente a lei – Tu non lo vuoi sapere.-
Aveva ragione, ma era tutto così confuso, così complicato che si dimenticò di quanto poco desiderasse avere quelle risposte. Voleva solo che tutto finisse, che ogni cosa andasse a posto, chiudere quel capitolo della sua vita e aprirne finalmente un altro. Un capitolo in cui non ci fossero ombre tra le quali potessero nascondersi mostri.
- Ho bisogno di una risposta.- sussurrò.
Il capitano si alzò, tornando alla sottile vetrata che separava l’abitacolo pressurizzato della nave dal vuoto cosmico intorno a loro; sarebbe bastata una piccola crepa per risucchiare tutti quanti nell’oscurità.
- È stata l’Alleanza a sabotare quei dati. - ammise.
- Nessuno può manomettere l’Archivio della Cittadella.- sibilò Alex.
- Vero. L’Alleanza ha fornito dati falsi sin dall’inizio, accade più spesso di quanto voi possiate immaginare. Non c’era motivo per cui facessero dei controlli, perciò fino ad oggi nessuno ha mai saputo che quei dati sono fasulli.-
Sasha sentì la bocca inaridirsi – Che cosa volevate nascondere? Chi era mio padre?-
Gli occhi castani di Hannah Shepard incontrarono i suoi, dentro vi lesse milioni di verità taciute e un’infinita solitudine – Aleksandr Vlasov, tuo padre, era un terrorista.-
 
 

* Se volete sapere chi è Jack Harper leggete il fumetto “Mass Effect: Evolution”, chi l’ha già letto, invece, sa di chi sto parlando.

 

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Capitolo 28
*** Orgoglio ***



Stazione Arcturus, 2176
 
Alex vide Sasha fare un passo indietro, come colpita da un pugno nello stomaco; le strinse piano il braccio per farle capire che, qualunque cosa fosse successa, lui sarebbe rimasto al suo fianco.
- Spiegati.- ringhiò contro sua madre che li fissava con una strana espressione sul viso, compatimento e disgusto insieme.
Hannah inarcò leggermente un sopracciglio, infastidita dal suo tono – I soldati scelti per il Progetto erano stati selezionati tra coloro che avevano più ragioni di chiunque altro per volere i Turian morti. Si trattava di uomini a cui non era rimasto altro che l’odio e il desiderio di vendetta. Vlasov era uno di loro. Lo addestrammo perché fosse brutale e senza scrupoli, incapace di provare rimorso. Una volta sguinzagliato si rivelò un ottimo investimento.- sembrava non si rendesse nemmeno conto della gravità delle parole che le uscivano dalla bocca: quand’era diventata un soldato implacabile e senza scrupoli? Alex non lo sapeva.- Su Aephus la sua squadra fece ciò che doveva fare, ciò che gli avevamo ordinato di fare, ma una volta tornati indietro, la guerra era finita e loro azioni mettevano l’Alleanza in imbarazzo. Così ci liberammo di loro, li cancellammo dai registri, facemmo in modo che risultassero morti durante la guerra.-
- Questo lo sapevamo già.- la interruppe Sasha.
Hannah si portò la sigaretta alle labbra – Allora saprete anche che la maggior parte di quegli uomini si ficcò una pistola in bocca ponendo fine alla loro imbarazzante esistenza. Fecero un grosso favore all’Alleanza, tutti, tranne uno. Vlasov era un cane idrofobo senza padrone, tentammo di farlo fuori, ma l’avevamo addestrato bene e quel tentativo andato a vuoto ci costò caro.- Hannah digitò qualcosa sul terminale e davanti ai loro occhi passarono fotografie di edifici avvolti nelle fiamme, soldati massacrati, strade sventrate dalle bombe – Inizialmente agiva da solo, prendendo di mira strutture dell’Alleanza, poi si unì ad altri gruppi: pirati, terroristi Batarian, mercenari umani … poco importava, a lui interessava avere risorse sufficienti per continuare i suoi attacchi all’Alleanza, all’SSC, all’esercito Turian; prendeva di mira qualsiasi divisa, qualunque organizzazione militare. Eravamo tutti nel suo mirino.- spense la sigaretta – Il Consiglio mobilitò persino uno Spettro per catturarlo.- arricciò le labbra - Alla fine è morto in un astroporto terrestre, ucciso da dei pirati Batarian, per salvare la vita di sua figlia …-
Davanti a loro occhi scorsero le immagini di un lungo corridoio, un uomo e una ragazzina accovacciati fianco a fianco, la strada bloccata dai Batarian e dai loro Varren.
Gli ci volle qualche istante per riconoscere quella ragazza dai capelli rossi che sgattaiolava oltre una porta di servizio, mentre l’uomo rimaneva a fare da esca.
Accanto a lui Sasha era pietrificata – All’ospedale, quando chiesi notizie di mio padre e della sua sorte, mi dissero che me l’ero immaginato, che avevo fatto tutto da sola. Mi fecero vedere quel video e lui non c’era.-
Hannah si strinse nelle spalle – Quell’uomo, ufficialmente, non esiste. Il Consiglio sta ancora cercando un terrorista chiamato il “Fantasma”: di lui non sanno molto altro, tranne che è umano e odia i militari. L’Alleanza, invece, sapeva bene chi era, lo avevamo creato noi. Capirete che non potevamo permettere che si scoprisse la verità; lo scandalo sarebbe stato ingestibile e avrebbe svelato troppi scheletri nell’armadio dell’Alleanza. Abbiamo fatto scomparire tutte le tracce per evitare indagini pericolose: il tenente Vlasov è morto nello schianto dell’Indipendence, il “Fantasma” è ancora latitante e nell’astroporto di Atene c’è stata un’insignificante sparatoria tra bande di teppisti.- fece una smorfia – Se l’Alleanza venisse a sapere delle vostre indagini sareste nei guai.-
Alex incrociò le braccia al petto lanciandole un’occhiata di sfida – Non lo sa già?-
Hannah si agganciò una ciocca di capelli dietro l’orecchio - No, ho voluto dare a mio figlio la possibilità di mostrare un po’ di buon senso.- Hannah si alzò in piedi, visibilmente infastidita – Ora che sapete la verità voglio sperare che smetterete di mettere in imbarazzo l’umanità.-
Avrebbe voluto mettersi a ridere se la situazione non fosse stata così tragica – Non si è già messa in imbarazzo da sola? Avete preso dei ragazzini, vi siete approfittati del loro dolore, manipolando le loro menti, sbattendoli in mezzo al fango, costringendoli a fare crimini orrendi, per poi sbarazzarvi di loro neanche fossero equipaggiamento difettoso! E ti stupisci che uno di loro vi si sia rivoltato contro e abbia deciso di vendicarsi?- non riusciva nemmeno a guardarla, quella donna cinica e spietata non era la madre che ricordava – Dovresti vergognarti per aver contribuito a tutto questo.-
Se quelle parole la ferirono non lo diede a vedere anzi, sembrava stranamente sollevata, girò attorno al tavolo e gli si piazzò di fronte – Arriverà il giorno in cui l’umanità rischierà di essere spazzata via e allora dovrai decidere se sporcarti le mani per salvarla o guardarla bruciare nel vano tentativo di mantenere intatto il tuo onore.-
Sentì la mano di Sasha stringersi attorno alla sua – Andiamo via Alex, non voglio sentire altro.-
Non l’ascoltò, desiderava strappare quell’arrogante aria di superiorità dal viso di sua madre – L’Alleanza dovrà contare su qualcun altro per salvare l’umanità.- le sibilò in faccia – Perché io non voglio più averci niente a che fare.-
Ebbe la soddisfazione di vederla esitare, mentre un lampo di preoccupazione attraversava quegli occhi così diversi dai suoi – Che cosa stai dicendo?-
- Andiamo via, Alex.- ripeté Sasha tirandolo per il braccio, nella sua voce c’era un’urgenza che assomigliava al panico; ancora una volta non l’ascoltò, sapeva che quello che stava per dire avrebbe distrutto completamente la donna che aveva di fronte e non aspettava altro.
- Vuol dire che ci sposiamo, capitano, e lasciamo l’Alleanza.-
Con suo estremo sgomento il capitano Hannah Shepard scoppiò a ridere.
- Tu non sposerai la figlia di una puttana e di un terrorista.- ringhiò mentre l’ilarità lasciava il posto ad furia cieca – Non permetterò a mio figlio di infangare il suo nome. -
Se non fosse stata sua madre le avrebbe tirato un pugno – Non ti azzardare...-
Hannah sogghignò – Non devo dire la verità? Le conosco le tipe come te …- sibilò, rivolgendosi direttamente a Sasha - … nullità cresciute nella fogna terrestre. Ho letto il tuo dossier: droga, sesso, bande criminali. Sei il peggio che l’umanità possa offrire, c’è un motivo se abbiamo lasciato quelli come te a marcire sul quel pianeta morente, non siete altro che parassiti; ti aggrapperai alla nostra famiglia come una sanguisuga: pensi di poterti prendere il nostro nome, la nostra fama?- non l’aveva mai vista così feroce, così inesorabile, Sasha la guardava come se avesse di fronte un mostro dell’inferno – Non hai nemmeno un nome e hai la presunzione di voler sposare mio figlio?-
Era senza parole, ricordava sua madre come una donna severa e inflessibile ma non era mai stata cattiva … o forse era lui che non l’aveva mai conosciuta.
Sasha interpretò il suo silenzio nel modo sbagliato, aveva negli occhi il dolore di una donna ferita a morte mentre lottava contro lacrime di umiliazione che minacciavano di rigarle le guance – Mia madre era una puttana e mio padre un terrorista.- ammise, infine, rivolgendo ad Hannah uno sguardo di puro odio – Lei, capitano, crede di essere migliore?- non aspettò una risposta, girò sui tacchi e uscì dalla cabina senza dire un’altra parola.
Alex la guardò andarsene sapendo di non poter fare nulla per trattenerla, né voleva farlo – Perché?- fu l’unica parola che gli uscì dalle labbra. Non era nemmeno più arrabbiato, solo annichilito. Quella non era la madre che ricordava, non le assomigliava nemmeno.
- Non ti ho cresciuto perché gettassi al vento la tua vita, Alexander.-
- Hai ragione.- mormorò gli occhi fissi sulla porta da cui se ne era andata Sasha – Tu mi hai cresciuto perché sacrificassi la mia vita in nome di un bene superiore. Beh, sai qual è la novità?- girò lo sguardo su di lei ed ebbe la soddisfazione di vederla arretrare di un passo – Puoi prenderti il tuo “bene superiore” e infilartelo in un posto dove non batte il sole. Non ho bisogno del tuo permesso per sposarla.-
Il Capitano Hannah Shepard gli puntò un dito contro, minacciosa – Fallo e potrai dimenticarti di avere una madre.-
In altri tempi avrebbe chinato il capo e obbedito, ma i tempi erano cambiati e lui cresciuto – Non l’ho mai avuta una madre.- le voltò le spalle e aprì la porta – Fammi un favore, capitano: torna nello spazio e restaci.- uscì senza nemmeno voltarsi a guardarla.

 
Non era mai stata così felice di lasciarsi qualcosa, qualcuno, alle spalle; salendo su quella nave si era aspettata di incontrare una donna forte, decisa, capace di suscitare timore ma, soprattutto, rispetto. Aveva sperato di scorgere il volto della donna che sarebbe voluta diventare, invece il suo sguardo aveva incrociato gli occhi vuoti di una creatura meschina e arrogante. Si chiese se era quello che bisognava aspettarsi dagli Eroi dell’Alleanza.
Arrivò nel suo alloggio sbattendosi ferocemente la porta alle spalle, la luce si accese automaticamente e, nel vetro della finestra affacciata sull’oscurità, scorse il suo riflesso.
La prima volta che si era vista avvolta da quella divisa blu e oro aveva ancora il corpo di una ragazzina, ossuta e sgraziata, la figura mortificata dalle rigide linee della divisa; il tempo, l’allenamento e il buon cibo avevano trasformato l’adolescente scheletrica in una giovane donna dalle forme aggraziate. Si passò una mano tra i capelli rossi che le scendevano fin sotto le spalle, ricordando i giorni in cui le sue dita sfregavano direttamente sul cranio, alla ricerca dei bozzi e delle cicatrici che la vita le aveva inferto. Le sembrava passata una vita intera da quando aveva lasciato la Terra per diventare … quello che aveva creduto di diventare: un soldato, una donna da rispettare.
Si chiese come si sarebbe comportata la vecchia Sasha di fronte alle parole del capitano. Le avrebbe sputato addosso, come minimo: di certo non se ne sarebbe andata con la coda tra le gambe.
Ma quella Sasha non aveva mai avuto bisogno che qualcuno le sbattesse in faccia ciò che era o, meglio, non era. Adesso, invece … si era illusa che quella divisa potesse darle un’identità, una reputazione, un nome.
Invece era solo una nullità vestita di blu e oro: Hannah aveva ragione. Se ne era andata senza ribattere perché non c’era nulla da ribattere.
Era sempre la stessa, vecchia, storia.
Ricacciò le lacrime in gola, rifiutandosi di versarle: mettersi a frignare come una bambina viziata non avrebbe certo migliorato la sua autostima.
Si strappò di dosso quell’insulsa divisa e ripescò dal fondo dell’armadio la sua vecchia tuta sformata, sepolta sotto tutti i vestiti frivoli che Nadine le aveva fatto comprare e che ora avrebbe volentieri bruciato.
Le parve di rientrare nella sua vecchia pelle.
Le suole spesse degli anfibi rimbombarono per il piccolo appartamento quando attraversò la stanza per raggiungere il bagno: prese un paio di forbici dalla mensola, afferrò una ciocca di capelli e iniziò a tagliare.
Osservò le ciocche rosse ammucchiarsi sul fondo del lavandino mentre le parole di Hannah continuavano a rimbombarle nella mente. Quando la punta gelida e acuminata delle forbici arrivò a raschiarle il cranio alzò finalmente gli occhi sul suo riflesso. La chioma rossa che le aveva incorniciato il volto come una criniera era scomparsa, lasciando il posto a ispide ciocche poco più lunghe di una falange. Si passò le dita sulla cute: eccoli, i bozzi della sua esistenza. Cicatrici, bernoccoli, bruciature erano dove li aveva lasciati, pronti a ricordarle chi era e da dove veniva.
Piantò lo sguardo su quel volto duro e famelico riflesso nello specchio: il volto di una donna senza nome, senza niente. Un volto che chiedeva riscatto e giustizia. Avrebbe fatto inghiottire ad Hannah Shepard i suoi insulti e la sua arroganza, si sarebbe spinta più in alto di chiunque altro nella storia, sarebbe diventata il soldato più famoso della galassia.
- Parleranno di me mille anni dopo la mia morte.- promise allo specchio – Avrò un nome che farà tremare gli imperi.-
Il flebile segnale acustico del Factotum le segnalò che era arrivata posta, quando aprì la mail e la lesse, si chiese se, dopotutto, non esistesse un Dio che ascoltasse le sue preghiere.
Digitò una sola parola, senza esitare un secondo: Accetto.
Era l’inizio di una nuova vita.
Nemmeno per un istante pensò potesse essere uguale a quella vecchia.
 



N.A.

Sono consapevole che dopo tutto questo ritardo vi sareste aspettati un capitolo più consistente; in realtà nei miei progetti questa parte doveva essere inclusa nel precedente capitolo, ma veniva troppo lungo, da qui la mia decisione di spezzarlo. Perdonatemi se non era quello che vi aspettavate ;) Nonostante le pubblicazioni altalenanti sono fermamente intenzionata di finire la storia, perciò non disperate. Nel frattempo ne approfitto per fare gli auguri di buon Natale ai pochi coraggiosi che sono arrivati fin qui!
Grazie!


 

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Capitolo 29
*** Ti avrei risparmiato tutte queste parole ***


 

Stazione Arcturus, 2176
 
Quando rientrò agli alloggi Sasha non era da nessuna parte, né si era aspettato di trovarla. La conosceva abbastanza bene da sapere che avrebbe fatto qualcosa di stupido. La conferma dei suoi timori arrivò quando entrò nella sua stanza e, in bagno, trovò il lavandino pieno di ciocche rosse. I magnifici capelli di Sasha sembravano deriderlo, tagliati malamente da una mano rabbiosa, impulsiva.
Per quanto si sforzasse non riusciva a comprendere pienamente cosa le passasse per la testa. Appartenevano a due mondi che, nonostante i suoi sforzi, non riuscivano a incontrarsi.
Lui aveva avuto tutto, lei niente: era una realtà che non poteva cambiare né rinnegare. Più il tempo passava più si accorgeva che le differenze tra loro erano tante, forse troppe.
Uscì dalla stanza con un sospiro di frustrazione e cominciò a setacciare la stazione spaziale.
Sasha non era all’osservatorio, né alla stazione di transito; passò davanti al ristorante in cui avevano cenato, gli sembrava passata una vita intera, e non si stupì nel trovarlo chiuso e sbarrato; sulla vetrina un ologramma annunciava che il locale era in vendita. Se fosse stato superstizioso lo avrebbe interpretato come un pessimo presagio; invece si limitò ad aggrottare le sopracciglia mentre una strana sensazione gli chiudeva la bocca dello stomaco.
Si accorse di non aver più pensato a suo padre, e alle rivelazioni di sua madre, da quando Sasha era uscita sbattendosi la porta alle spalle. L’Alleanza, quell’assurdo Progetto, la morte di suo padre e quella di Mandy … gli sembrava tutto distante e incredibilmente insignificante. Si sentiva come un cane che si morde la coda, che gira a vuoto su se stesso senza saperne nemmeno il motivo. Aveva accampato mille scuse pur di non ammettere che, nonostante tutto, era terrorizzato all’idea di lasciare l’Alleanza.
Cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? Chi sarebbe stato?
Si era convinto che con Sasha accanto non gli sarebbe importato altro e in parte era vero; ma al di là di loro due insieme non riusciva a vedere altro. Non riusciva a concepire se stesso senza una divisa da soldato.
Sospirò: la priorità adesso era trovare Sasha, impedirle di fare una stupidaggine e lasciarsi alle spalle il veleno di sua madre. Poi avrebbero trovato un modo di cominciare una nuova vita, lontano da tutto quello; avrebbero dimostrato al mondo che nemmeno differenze inconciliabili erano in grado di separarli.
Trovò Sasha appoggiata al parapetto che dava sul centro addestramento dei piloti dell’Alleanza. Malgrado il cristallo che divideva loro dagli hangar, il rombo dei motori di caccia e navette era ben udibile. Era strano pensare che, una volta usciti dall’atmosfera artificiale della stazione, quei motori incredibilmente potenti non avrebbero fatto più alcun rumore, zittiti da uno spazio privo d’aria e suoni.
Si appoggiò accanto a lei, cercando di non mostrare risentimento per lo scempio che aveva fatto alla sua testa. La massa di capelli rossi che le scendeva fin sotto le spalle era solo un bel ricordo; il corpo minuto era nuovamente scomparso sotto uno strato di vestiti informi e mascolini.
Guardandola, di nuovo dura e inavvicinabile come il giorno in cui l’aveva conosciuta, ebbe la certezza che non ci sarebbero più stati abiti a fiori, giochi per bambini e nastri nei capelli. Sentì la bocca inaridirsi mentre nella sua mente si faceva strada un’ombra minacciosa, che scacciava via tutti i sogni di una vita da passare insieme.
Erano bastate poche, crudeli, parole per distruggere l’illusione del loro futuro.
- Non avresti dovuto dare così tanto peso alle parole di quella donna.- esordì, appoggiandosi accanto lei; il rumore dei motori non era così forte da impedire di sentirsi.
Le dita di Sasha si contrassero appena – Non dovrei dar penso alla verità?-
- Stronzate! Conosco il tuo passato e conosco te: non importa quale sia il tuo nome o il sangue che ti scorre nelle vene; le colpe di tuo padre non sono le tue, come non lo sono le disgrazie di tua madre. – avrebbe voluto che lo guardasse, ma non lo fece; i suoi occhi verdi rimasero inchiodati sui caccia che decollavano e volavano via – Di soldati come te ce ne sono pochi, di donne come te non ce n’è nessuna.-
Lei non parve sentirlo – Sai perché mi chiamo Sasha Red? Quando mi arruolai non avevo documenti, non avevo un cognome né una data di nascita: per il mondo io non esistevo.- sotto la corta zazzera rossa la vide aggrottare la fronte – Ero lì, al centro di reclutamento, che cercavo di balbettare qualcosa quando l’impiegato alzò gli occhi su di me, fece un sorrisetto beffardo, adocchiò i miei capelli e mi battezzò “Sasha Red”.- stringeva talmente forte il parapetto da avere le nocche bianche – Capelli rossi, nient’altro. In me quell’uomo vide solo quello. È tutto quello che ero, tutto quello che sono. Pensavo che, scoprendo la verità su mio padre, avrei trovato qualcosa che legittimasse la mia esistenza. Invece è stato persino peggio, no? “Il Fantasma”, un mostro di Frankenstein partorito dai campi di addestramento dell’Alleanza. – sospirò, scuotendo il capo – Tua madre ha ragione: non possiamo sposarci. Tu sei figlio di due eroi dell’Alleanza, io invece ... una puttana e un terrorista: è questo il mio retaggio.-
Si sporse verso di lei, tentò di prenderle la mano ma Sasha si scansò – Non siamo nel medioevo: chi sposo e cosa faccio è solo affar mio. Queste sono solo idiozie: non importano a me e non dovrebbero importare nemmeno a te! L’unico retaggio che conta è quello che ti costruisci con le tue mani. -
Finalmente si voltò a guardarlo, ma avrebbe preferito che non l’avesse fatto: nei suoi occhi c’era una rabbia che mai avrebbe pensato potesse essere rivolta contro di lui – Credi davvero che nome e famiglia non contino niente, comandante Shepard? – fece una smorfia – Sei un soldato eccezionale, non lo metto in dubbio: ma saresti arrivato così in alto, così giovane, se ti fossi chiamato in un altro modo? Abbiamo combattuto le stesse battaglie, dimostrato lo stesso valore, ma nonostante tutto è te che celebrano. Cross ha nominato te comandante, non Abigale o Habib che avevano più anni di servizio e più esperienza. È a te che hanno dato una medaglia per quello che è accaduto su Dumat: ma se non fosse stato per me, tu non avresti mosso un dito per salvare quella gente.- scoprì i denti come in un ringhio –  Prima d’incontrare te non ero niente e nonostante tutti i miei sforzi senza di te tornerei ad essere niente.-
- Non dire sciocchezze.- la interruppe con veemenza – È stato Cross a farti entrare nella squadra, non io. Ha visto il tuo valore e ha scelto di tenerti con noi.-
- Cross mi avrebbe lasciata là a morire.- gli si rivoltò contro con ferocia – La navetta non tornò indietro per me o C.J. o Nadine. Su Dumat, quel giorno, la navetta tornò indietro per te.-
Distolse lo sguardo, incapace di ribattere. Non sopportava l’idea che fosse proprio lei a muovergli quelle accuse. Avevano condiviso le stesse battaglie, versato sangue insieme, sopportato tutti i disagi della vita militare, l’uno accanto all’altra. Aveva combattuto per non essere un privilegiato, ma, evidentemente, non era sufficiente. Persino lei dubitava che non ci fosse altro che un nome famoso sotto la sua corazza.
Un nome: dopo tutto ciò che avevano passato, le promesse che si erano fatti, sembrava non contare altro.
Improvvisamente gli tornarono in mente tutti i motivi del perché voleva lasciare l’Alleanza.
- Che cosa ti aspetti che ti dica, Sasha?-
Lei fece una smorfia – Niente, non mi aspetto niente. Prima hai detto una cosa sensata. - conosceva quello sguardo ostinato, portava solo guai – Hai detto che l’unico retaggio che conta è quello che ci costruiamo. È quello che intendo fare, Shepard. Mi costruirò un nome, una reputazione, ma non posso farlo se continuo a vivere nella tua ombra.-
“Shepard”. Non era più Alex per lei, solo Shepard. Si chiese se era quello il suo destino: nient’altro che un cognome o un titolo. Non voleva essere solo un nome famoso eppure, malgrado tutti i suoi sforzi, lui rimaneva Shepard e nient’altro. Sasha desiderava disperatamente qualcosa che lui detestava.
Forse, dopotutto, le loro differenze erano davvero inconciliabili.
Trovò il coraggio di alzare lo sguardo e incrociare i suoi occhi. Il verde delle sue iridi non mitigò la durezza di quello sguardo. Uno sguardo dove non c’era più amore o ammirazione o rispetto ma solo profonda insoddisfazione. Nonostante tutto quello che c’era tra loro, nonostante l’amore che si erano professati, Sasha lo odiava. Non per chi era, non per quello che faceva, ma per ciò che rappresentava. Lui era diventato un ostacolo sulla strada lastricata di ambizione che Sasha si era imposta di percorrere.
Come se avesse letto nei suoi pensieri Sasha si tolse l’anello dal dito e glielo porse – Non posso sposarti, Shepard. Diventerei tua moglie e nient’altro. Non voglio essere la moglie di un uomo famoso. Io voglio la gloria, voglio l’immortalità.-
Un’altra donna, in un altro tempo aveva opposto quello stesso rifiuto all’uomo che le chiedeva di sposarlo. Sasha Red era più simile ad Hannah Shepard di quanto entrambe avrebbero tollerato. Si chiese se un giorno, negli occhi di Sasha, avrebbe rivisto la stessa insondabile freddezza che dominava quelli di sua madre.
Ignorò l’anello – Come posso competere contro tali ambizioni? Ma attenta a quello che desideri, Sasha, gloria e immortalità hanno un suono allettante, ma possono rivelarsi più insopportabili di una vita passata nell’anonimato.- si stupì lui stesso del gelo nella sua voce. Il suo cuore era appena andato in frantumi ma preferiva morire cento volte piuttosto che darle la soddisfazione di vederlo crollare.
Sasha distolse lo sguardo – Non parlare di cose che non conosci, Shepard.-
Mai avrebbe pensato che sarebbero finiti in quel modo, a sputarsi veleno l’uno contro l’altro come … come persone qualunque in un mondo qualunque.
- Immagino tu abbia già un piano per diventare …- roteò gli occhi - … qualunque cosa tu voglia diventare.-
Sasha si umettò le labbra, improvvisamente a disagio – Mi hanno proposto di entrare nel programma N7. Ho accettato.- si passò una mano sul viso.
Non riuscì a trattenere un verso di sdegno – Complimenti. Non hai perso tempo.-
Maledetta, impulsiva, ragazzina testarda.
Vide la sua espressione contrarsi – Tuttavia c’è un problema.- sospirò -È necessario avere cento missioni attive per accedere al programma. Io ne ho fatte novantanove. Devo andare in missione, Shepard, e posso farlo solo con la 33.-
Serrò la mascella tanto forte da sentire i denti scricchiolare – No, io ho chiuso con l’Alleanza: ho già detto ai ragazzi che non ci sarebbe più stata alcuna missione. La “33” non esiste più.-
- Una sola missione, Shepard, non ti chiedo di più.-
- Davvero?- fece una smorfia – Io credevo in te, credevo in noi. Pensavo fossi una persona speciale di quelle che s’incontrano una volta nella vita, invece guardati: mi odi per il nome che porto eppure mi chiedi di usarlo per soddisfare la tua ambizione. Dovrei lasciare che ti arrangi da sola, dopotutto non è quello che vuoi?-
La vide chiudere gli occhi – Shepard …-
- Dovrei lasciarti implorare.- sibilò, interrompendola – Ma voglio illudermi che tu sia migliore di così. Io ti amavo davvero, Sasha. – scosse il capo – Immagino di amarti ancora, non è un sentimento che può scomparire nell’arco di cinque minuti. La prima volta che ti ho visto ricordo di aver pensato che eri al di là di qualsiasi salvezza: eri un guscio vuoto, consumato dalla rabbia. Poi ho visto quel guscio riempirsi, ti ho vista piangere, ridere, urlare, sospirare e ho pensato che ci fosse ancora speranza per te. Mentre l’apatia lentamente ti abbandonava ho visto quello che stavi diventando. Una donna unica al mondo, di quelle che s’incontrano poche volte nella vita.- nonostante tutto, guardandola, il capo leggermente inclinato, le labbra socchiuse, così fragile sotto quella scorza di cicatrici, ebbe il desiderio di stringerla a sé, baciarla e dimenticarsi di ogni cosa. Se solo avesse fatto un passo verso di lui, l’avrebbe perdonata, perché l’amava più del suo stesso orgoglio, più della sua stessa vita. Ma Sasha non si mosse, un caccia partì rombando e il momento passò – Unica lo sei davvero, ma non nel modo in cui credevo io. - continuò, osservando il caccia sparire nell’oscurità – I tuoi incubi sono i miei sogni e i tuoi sogni sono i miei incubi. Se l’avessimo capito prima ci saremmo risparmiati tutte queste parole.-
Sasha aveva gli occhi lucidi ma non pianse. Era troppo orgogliosa per piangere. Amava il suo orgoglio più di quanto avesse mai amato qualunque altra cosa al mondo. Lui compreso.
 – Mi dispiace. La vita che sognavi per noi …- prese un profondo respiro - … mi ero convinta di volerla anch’io. Ho ingannato anche me stessa, Shepard.-
Era più di quanto potesse sopportare. Si allontanò da lei, incapace di guardarla – Avrai la tua missione, Sasha Red. Poi potrai fare quello che vuoi, diventare chi vuoi. – Sasha gli porse di nuovo l’anello, la mano che tremava leggermente; ancora una volta lui si rifiutò di prenderlo – No, tienilo. Me lo riporterai quando avrai ottenuto ciò che desideri e allora mi dirai se ne valeva la pena. -
Se ne andò, avevano già parlato abbastanza: era finita, cos’altro c’era da dire?
 

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Capitolo 30
*** Resta ***



Stazione Arcturus, 2177
 
Erano passati tre mesi da quella famosa discussione che aveva decretato la fine di quell’amore che avevano avuto l’arroganza di definire “eterno”. Tre mesi da quando Sasha aveva accettato di diventare un N7 per dare un senso alla sua esistenza.
Il percorso di valutazione della “33” era terminato e la squadra si apprestava a compiere la sua ultima missione al comando di quel giovane tenente che già tutti chiamavano “comandante”. Sasha non aveva più parlato con Shepard da quel giorno, quando il loro amore era naufragato sugli scogli della sua ambizione.
L’anello con cui lui le aveva chiesto di sposarlo, e che si era rifiutato di riprendere, era infilato nella catenina che portava al collo, ad ogni passo tintinnava contro la medaglietta di riconoscimento che le avevano dato il giorno in cui era diventata un soldato. Ad ogni passo quel tintinnio metallico le ricordava che le sole due cose che desiderava al mondo erano incompatibili l’una all’altra. Ogni giorno, ad ogni passo, doveva scegliere tra la sua ambizione e l’amore della sua vita. Ed ogni giorno, ad ogni passo, sceglieva l’ambizione.
La serenità dei momenti passati con Alex sbiadiva di fronte alla prospettiva di essere celebrata proprio da coloro che avevano gettato la sua vita nel fango.
Il solo pensiero dei volti fieri degli uomini e donne, che avevano sempre deriso le sue origini e disprezzato il suo sangue, chini davanti alla gloria che si sarebbe conquistata, era più allettante di qualunque promessa di anonimo amore. L’Alleanza le aveva negato un padre e una famiglia; l’Alleanza le aveva negato un nome: avrebbe strappato all’Alleanza un titolo in grado di far tremare le montagne di tutti i mondi.
Con sicurezza percorse i corridoi che l’avrebbero portata agli hangar d’imbarco, gli scarponi che risuonavano sul pavimento metallico, accompagnata dal tintinnio dei cimeli che portava al collo.
Quando entrò nell’hangar lo trovò decisamente affollato; un’innumerevole quantità di uomini e donne in divisa brulicavano attorno all’Incrociatore dell’Alleanza che li avrebbe portati a destinazione. Stavano ancora caricando i mezzi di trasporto che avrebbero assistito le truppe nel corso della missione.
Si attardò un istante ad osservare i lavori di carico, notò che alcuni soldati si aggiravano già per l’hangar in attesa di salpare, come lei. Fu con sollievo che constatò che nessuno della “33” era ancora arrivato: era stata lei a volere quella missione e, anche se si trattava del loro lavoro, non poteva ignorare il fatto che stava mettendo a repentaglio le vite dei suoi amici per la sua ambizione. Non era ancora così cinica da riuscire a guardarli negli occhi senza provare un fremito di colpa.
Sospirò, mentre osservava lo scafo malandato dell’incrociatore che, come tutti gli incrociatori della flotta dell’Alleanza, portava vergato sulle fiancate il nome di una città terrestre; “Adelaide” si chiamava la nave che li avrebbe condotti a compiere la loro ultima missione insieme.
Si aggirò tra i ponti di attracco, lasciando scivolare lo sguardo sugli scafi luccicanti delle navi a riposo; fortunatamente la Kilimangiaro era partita poco dopo il suo incontro con il capitano Shepard.
Immaginò se stessa a bordo di una di quelle navi, in piedi dietro il sedile del pilota, ad osservare le stelle confondersi in brillanti strisce luminose che spezzavano l’oscurità dello spazio. Eppure, nonostante tutte le sue fantasticherie, nessuna di quelle navi suscitava in lei la minima emozione. Non era ancora nata la nave capace di darle la certezza di aver fatto la scelta giusta.
Di fronte a lei il portellone di una malandata fregata si aprì con un sibilo; ne uscì un uomo in divisa che imprecava contro una cassa di munizioni che stava tentando invano di trascinare fuori. C’era qualcosa nella sua postura, nel modo in cui zoppicava attorno alla cassa, che le fece pensare ad una statua di cristallo sul punto d’infrangersi. Rimase interdetta ad osservarlo, finché lui non voltò il capo nella sua direzione: sotto un usurato berretto militare due vivaci occhi scuri la fissarono con aria polemica.
- Vuoi venirmi a dare una mano o aspetti che mi rompa qualcosa?- l’apostrofò a bruciapelo.
Sasha ebbe un attimo di esitazione che non passò inosservato.
- Sì, sto parlando proprio con te, tipa tosta.- sbottò, acido- Ti decidi a darmi una mano?-
Un po’ stordita attraversò la passerella, chinandosi a raccogliere la cassa, molto più leggera di quanto le sceneggiate dell’uomo facessero presagire.
 – Appoggiala pure sulla banchina. Ci penseranno i magazzinieri a ritirarla.- mentre ripercorreva la passerella al contrario sentì i passi irregolari dell’uomo dietro di lei – Ti starai chiedendo com’è possibile che io non riesca a sollevare una cassa che persino una ragazzina denutrita come te è in grado di portare in giro. -
Sasha si liberò del suo carico nel punto che le aveva indicato, si pulì le mani
sui pantaloni e si voltò a guardarlo, concedendosi pure un sorrisetto – In realtà mi sto chiedendo perché qualcuno non ti abbia ancora sparato.-
Lui ridacchiò, la spessa barba scura gli dava un’aria matura, ma doveva avere all’incirca la sua età: uno dei tanti ragazzi che sognava di far carriera nell’Alleanza.
- Nessuno mi spara perché sono il pilota più dannatamente bravo dell’Alleanza.- decretò, con tono solenne.
Sasha fece vagare lo sguardo da lui alla nave da cui era appena sceso – Sei il pilota di quella nave?-
- Quel catorcio?- fece un verso disgustato – Non spreco il mio talento su un rottame di quel genere.-
Sasha incrociò le braccia al petto, guardandolo con aria ironica – Scommetto che non hai ancora finito l’addestramento.-
Lui si strinse nelle spalle – E con questo? Sono migliore di chiunque altro all’Accademia, persino degli istruttori, ma non lo ammetteranno mai: a nessuno piace farsi battere da uno storpio.-
Non c’era compatimento o polemica nella sua voce, nessuna autocommiserazione: stava solo esprimendo un dato di fatto.
Qualunque fosse la malformazione che gli impediva di sollevare una cassa, non c’erano vergogna o arrendevolezza sul viso fiero del pilota, solo consapevolezza: la consapevolezza di quello che poteva o non poteva fare e di quanto in alto potesse arrivare.
Vide molto di se stessa in quell’uomo irriverente e cinico; un uomo che non aveva problemi a definirsi storpio ben sapendo di essere migliore di molti.
L’ironia di poco prima svanì - E tu continua a batterli.- lo guardò, parlandogli come avrebbe fatto al suo riflesso – Ricorda loro, ogni giorno, che sei il migliore di tutti.-
- Non ho nessuna intenzione di lasciare che se ne dimentichino.- girò lo sguardo sulla nave da cui era appena sceso – Non m’interessa pilotare una fogna come questa. Sono navi mediocri per piloti mediocri.-
- E che nave dovrebbe condurre il miglior pilota dell’Alleanza?-
Gli occhi scuri brillarono sotto la visiera del cappello – Gira voce di un progetto segreto: una collaborazione tra Turian e Umani per costruire una nave da guerra. Se quelle voci sono vere, se quella nave verrà davvero costruita, sarà la più potente e bella di tutta la galassia. – nella sua voce c’era la sicurezza di chi ha visto il futuro e non ha dubbi su quello che accadrà – Io piloterò quella nave. -
In un mondo perfetto quella nave sarebbe stata sua senza dubbio alcuno. Ma non vivevano in un mondo perfetto – Farò il tifo per te, miglior pilota.-
Un sorriso irriverente si dipinse sulle labbra sottili del ragazzo – Non ci sarà alcun bisogno di fare il tifo.-
Gli restituì un sorriso un po’ appannato, chiedendosi se anche le sue ambizioni risultassero così ingenue agli occhi di un estraneo.
Guardò in direzione dell’Adelaide e si accorse che era in procinto d’imbarcare le truppe; scorse Shepard e i ragazzi della “33” raggruppati davanti al portellone.
- Devo andare.-
Lui seguì il suo sguardo – Missione pericolosa?-
- Sembrerebbe di no.- si portò la mano alla fronte nel saluto militare – Quando presenteranno il pilota di quella nave spero di vedere il tuo viso. Addio, miglior pilota.- lui restituì il saluto e annuì.
Mentre si allontanava le gridò dietro – Ehi, tipa tosta!- Sasha gli rivolse uno sguardo interrogativo, lui sollevò la visiera del cappello con due dita e ammiccò – Non farti ammazzare, mi dispiacerebbe vedere la tua faccia tra le foto dei caduti.-
Ridacchiò – Sono anni che cercano di ammazzarmi. Non succederà nemmeno questa volta.-
Un brivido le percorse la spina dorsale mentre una voce nella sua testa le chiedeva se era davvero convinta dell’affermazione appena fatta.
Sei ancora in tempo, le sussurrò quella voce, resta, sposa Alex, fai dei figli, sii felice … se parti nulla sarà più come prima.
Scacciò con rabbia quei pensieri dalla mente, mentre osservava il pilota allontanarsi col suo passo incerto: se lui non si era arreso, non l’avrebbe fatto nemmeno lei.
Partire era l’unica soluzione: partire e realizzare il destino che si era scelta.
 
Fascia di Attica, 2177
 
La stiva della nave era fredda, scomoda e rumorosa. Cinque plotoni erano stati ingaggiati per quella missione; cinquanta uomini che respiravano, tossivano, parlavano e ridevano ammassati nella pancia di un incrociatore, come pesci inghiottiti da una grande balena bianca.
I soldati delle diverse squadre parlavano tra loro, scherzando e imparando a conoscersi, tutti, tranne i dieci uomini e donne della “33”. Loro se ne stavano riuniti in un angolo, raccolti attorno a quel tenente che chiamavano già “comandante”, silenziosi e schivi come animali chiusi in gabbia.
Shepard osservò i suoi amici, i suoi uomini, seduti attorno a lui, testa bassa e bocche serrate, chiedendosi a cosa stessero pensando, ben sapendo che il pensiero fisso di ognuno era uno ed uno soltanto: quella era la loro ultima battaglia. Ce ne sarebbero state altre, in futuro, per la maggior parte di loro: battaglie più prestigiose, per ambizioni più alte, per cause più nobili … ma senza i vecchi compagni a coprir loro le spalle.
Li guardò uno ad uno quei compagni destinati a glorie più grandi. Si sentì fiero di averli conosciuti e fu grato, nonostante tutto, di avere l’onore di poterli comandare, almeno una volta. Non poteva desiderare squadra migliore.
Solo su un soldato non riuscì a posare lo sguardo: Sasha.
Dura, fredda, inavvicinabile … si chiese se avrebbe più rivisto le adorabili fossette che le segnavano il viso quando gli rivolgeva uno dei suoi sorrisi speciali; si rispose che era da idioti continuare a pensare a lei in quel modo.
- Allora, capo …- C.J. ruppe il silenzio, sollevando su di lui uno sguardo indagatore - … parlarci della nostra ultima missione.-
Quando gli aveva confessato che aveva intenzione di lasciare l’Alleanza si era messo a ridere; quando gli aveva spiegato che lo faceva per poter sposare Sasha gli aveva dato dell’idiota. “Tu le darai tutto” gli aveva detto, con la schiettezza che solo un vecchio amico poteva avere “E in cambio avrai solo fumo”. Ed era quello che aveva avuto: fumo e nient’altro. Per una volta C.J. aveva avuto la decenza di non commentare; si era limitato a stringergli piano la spalla e dirgli che l’avrebbe seguito in quell’ultima missione. Non aveva nemmeno voluto sapere di che missione si trattasse. Nessuno glielo aveva chiesto fino a quel momento; tutti avevano accettato la sua richiesta a scatola chiusa, perché si fidavano di lui.
- L’Alleanza sta progettando un’operazione di terraformazione.- esordì – Il pianeta verso cui siamo diretti si trova ai margini della Fascia di Attica, nello squarcio di Caleston. Si tratta di un’importante area mineraria che interessa sia ai Volus che alle Asari. L’Alleanza vuole aggiudicarsi i diritti commerciali e minerari nel Sistema Aysur e il modo migliore è creare un avamposto prima di tutti gli altri.-
Abigale si accigliò – Perché imbarcarsi in un progetto complicato come la terraformazione? Non sarebbe più semplice costruire una stazione spaziale?-
Shepard annuì – In teoria sì, ma Turian e Batarian sostengo che gli umani sanno colonizzare soltanto pianeti-giardino. Ci considerano dei parassiti incapaci di piegare un pianeta alla nostra volontà.- fece una smorfia – Io lo considero un complimento ma sono il solo. Il nostro governo vuole dimostrare che l’umanità non è seconda a nessuno: vogliono creare una colonia umana su un pianeta inospitale solo per poter dire “possiamo farlo”.-
- E allora dovrebbero inviarci ingegneri, geologi, scienziati e biologi, di certo non dei soldati.- notò Nadine.
- È quello che avevano fatto.- asserì – Due mesi fa un gruppo di pionieri è stato inviato sul pianeta, alla ricerca dell’avamposto ideale. Pochi giorni fa abbiamo perso i contatti.- una leggera scossa li avvertì che l’incrociatore era appena saltato da un portale all’altro; entro pochi minuti sarebbero entrati nel sistema – L’intelligence ha individuato una trasmissione anomala sul pianeta: sospettano la presenza di una base mercenaria. Molto probabilmente si tratta del Branco Sanguinario, sono parecchio attivi nella zona. Ci sono buone probabilità che abbiano catturato gli scienziati … o peggio.- controllò che armi e armatura fossero funzionanti e in ordine, con la coda dell’occhio vide gli altri fare lo stesso – I nostri ordini sono di eliminare la minaccia, qualunque essa sia, rendere il pianeta sicuro e conquistarlo formalmente in nome dell’Alleanza.-
I suoi compagni si scambiarono uno sguardo scettico – Mandano cinquanta marines e due mezzi corazzati per un pugno di mercenari del cazzo?- esclamò Habib, allibito.
- L’Alleanza vuole andare sul sicuro: sai, motivi d’immagine.- la voce sintetica dell’IV annunciò che mancavano cinque minuti all’arrivo; i cinque plotoni cominciarono a distribuirsi sulle altrettante navette che li avrebbero portati a terra – Inoltre il Branco Sanguinario è formato in gran parte da  Krogan: meglio usare roba pesante.-
Salirono sulla navetta e, quando tutti furono imbarcati, chiuse il portellone; nel movimento la sua mano sfiorò il braccio di Sasha. I loro occhi si incrociarono per un istante, occhi verdi e occhi azzurri che non riuscivano ad ignorarsi.
- Regole d’ingaggio, signore?- gli domandò, come un qualsiasi soldato che si rivolge ad un qualsiasi comandante.
Shepard andò al suo posto, senza guardarla, sotto i piedi sentì il fremito della navetta che decollava – Sparate solo se vi sparano addosso. Come sempre.-
C.J. sbuffò – Di tanto in tanto vorrei essere io quello che spara per primo.-
Gli altri ridacchiarono e la tensione parve scomparire per un istante, poi ognuno tornò a raccogliersi in se stesso. Quel breve lasso di tempo, quei pochi minuti che separavano la battaglia da tutto ciò che c’era prima, era svincolato dalle normali definizioni di “passato, presente e futuro”; era il momento in cui la vita sembrava più bella e la morte ancor più spaventosa.
Dopo minuti che sembrarono eterni nella loro brevità, la navetta toccò il suolo di quel pianeta miliardi di chilometri lontano da casa.
- Casco.- ordinò, mentre i motori si spegnevano e loro si apprestavano ad uscire.
Il portellone si aprì su uno spettacolo desolante: tutto intorno a loro, fin dove l’occhio poteva guardare, c’era solo sabbia nerastra, sottile, punteggiata da radi arbusti contorti che, coraggiosi, cercavano di sopravvivere sotto il sole inclemente e il vento torrido. In lontananza si scorgevano vaghe colline sassose, nere e minacciose. Nessun segno di civiltà o vita, tranne le navette dell’Alleanza atterrate accanto a loro; dai portelloni aperti uscivano soldati all’apparenza tutti uguali, i caschi calati sul viso a proteggere i polmoni dalla sabbia che, soffocante, turbinava nell’aria torrida.
La prima cosa che Shepard pensò posando i piedi su quel pianeta fu che quel gesto andava contro natura. Gli umani non erano fatti per quel genere di posto e quel posto non era fatto per gli umani.
La voce tagliente di C.J. lo riscosse - Che merda è questo posto? E vogliono pure farci una colonia? Chi è il malato di mente che verrebbe ad abitare in ‘sto posto infame?-
- Si vede che non sei mai stato a Jump Zero, C.J., questo posto è un paradiso al confronto.-
- Mi spiace contraddirti, Abigale, ma io credo invece che sia l’inferno.-
Shepard si voltò verso i suoi ragazzi, le mani appoggiate sui fianchi e il petto stretto in un’inspiegabile morsa di angoscia – Benvenuti su Akuze, soldati, la chiave di volta della colonizzazione umana.-
Malgrado tutti i suoi buoni propositi, il suo sguardo incontrò quello di Sasha.
A malapena visibili sotto il casco che le copriva il volto, i suoi occhi verdi erano sgranati e sbarrati. Qualunque fosse il motivo, quell’angoscia che gravava sul suo cuore opprimeva anche lei. C’era qualcosa, nell’aria soffocante di Akuze, che parlava di sventura, distruzione e morte.
- Forza.- esordì, scrollandosi di dosso quelle sensazioni malsane – Vediamo che cosa Akuze ci può offrire.-
Armi in spalla seguirono i passi decisi dei loro compagni attraverso il deserto, alla ricerca di un posto dove stabilire il campo e pianificare la loro missione.

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Capitolo 31
*** Vivi, rischia, scegli ***



Akuze, 2177
 
Non era stato difficile trovare il rudimentale insediamento allestito dai pionieri scomparsi; per una volta le indicazione fornite dall’Intelligence erano risultate abbastanza precise. Avevano dovuto percorre solo pochi chilometri prima di giungere all’obiettivo.
La base, naturalmente, era deserta; gli squallidi prefabbricati avevano già accumulato la polvere del deserto e nessun piede umano, o alieno, aveva disturbato la sabbia da parecchio tempo.
Gli sembrava di rivivere l’esperienze di Dumat, quando avevano raggiunto lo scavo archeologico Asari solo per trovarlo completamente abbandonato. Ma questa volta non c’erano registrazioni che spiegavano l’accaduto o navi pirata all’orizzonte. C’era solo l’oscurità, che avanzava rapida, nel deserto di un pianeta che non era stato creato per gli esseri umani.
Il comandante della missione, tale Capitano Rahn, aveva ordinato ai marines di occupare il sito, stabilirsi per la notte e fare il punto della situazione. Ovunque fossero le persone che dovevano salvare avrebbero aspettato fino al mattino successivo.
La riunione dei cinque Comandanti di plotone si era svolta nella tenda del Capitano, tra riproduzioni olografiche del pianeta e coordinate più o meno accurate.
Stando ai dati dell’Intelligence la base nemica distava una decina di chilometri, ma una pattuglia di ricognitori aveva captato strani segnali, decisamente più vicini. Il Capitano Rahn aveva definito “paranoico” il rapporto stilato dalla pattuglia; Shepard era stato l’unico a protestare, un po’ troppo vivamente, definendo il Capitano un “cazzone coi paraocchi”. Per questo motivo era stato cortesemente invitato ad andare a prendersi una boccata d’aria e ora si aggirava per la base silenziosa, chiedendosi cosa l’alba avrebbe avuto in serbo per loro.
Osservò il limite dell’accampamento, dove Tiger e Jin montavano la guardia, addossati alla fiaccola artificiale che forniva loro luce e calore; un’altra delle meravigliose caratteristiche di Akuze era lo sbalzo termico: 40° centigradi di giorno, 10° centigradi di notte.
- Novità?- domandò una voce morbida alle sue spalle; non dovette girarsi per riconoscere il timbro di Nadine.
- Sì: Rahn è un coglione.-
La sentì avvicinarsi, i passi attutiti dalla sabbia del deserto – Non mi sembra una grande novità.- constatò, sarcastica.
- Una pattuglia di ricognizione ha individuato un’anomalia, a pochi chilometri di distanza, ma lui non vuole inviare nessuno a controllare perché il soldato che ha rilevato il segnale è “un paranoico compulsivo”. – scosse il capo, esasperato – Mi domando se Rahn ha mai partecipato ad una vera missione o se si sia limitato al simulatore.-
Con la coda dell’occhio vide il guizzo di un accendino, poi il fumo acre di una sigaretta gli pizzicò le narici; Nadine aspirò una lunga boccata – E tu cos’hai intenzione di fare?-
Alex si strinse nelle spalle, lo sguardo perso nell’aliena oscurità che li circondava – Cosa dovrei fare? È il mio superiore: prende lui le decisioni.-
La brace della sigaretta sfrigolò – Chissà perché questa risposta non mi sorprende …-
- Che cosa vorresti dire?-
Nadine gli lanciò un’occhiata di sottecchi, la sigaretta stretta tra le lunghe dita da pianista – Perché siamo qui, Shepard?-
Incrociò le braccia al petto, deciso a restituirle un po’ di sarcasmo – Io sono qui perché ho insultato un mio superiore; tu probabilmente perché non avevi niente di meglio da fare.-
Le labbra morbide di Nadine si piegarono nell’accenno di un sorriso – Non fare giochetti con me: sai benissimo cosa intendevo.-
- No, non lo so.-
Lei sospirò, facendo vagare i grandi occhi azzurri sull’oscurità priva di stelle che li circondava – Perché siamo venuti su questo pianeta deprimente? Perché hai accettato questa missione assurda? Onestamente non ci capisco più niente: nessuno ci capisce più niente.- lanciò la sigaretta nel buio, un piccolo arco di luce che si perse nella notte. – Meno di un anno fa dovevi sposarti, lasciare l’Alleanza e cominciare una nuova vita. E ora eccoti qui: a prendere ordini da un coglione per una missione che non ha senso. Quindi te lo chiederò di nuovo, amico mio: perché siamo qui?-
Aveva sperato che nessuno glielo chiedesse, perché la risposta a quella domanda era estremamente umiliante.
- Che cosa ti aspetti che ti risponda, Nadine?- sibilò, a denti stretti – Che vi ho portati qui per lei? Che sto rischiando le vostre vite solo perché Sasha me lo ha chiesto?- abbassò lo sguardo – Sì: è così.-
Sentì Nadine sospirare, poi percepì la sua mano leggera avvolgersi intorno al suo braccio – A volte mi domando come un uomo intelligente come te possa essere così stupido.- mormorò appoggiando la testa sulla sua spalla.
Sorrise, suo malgrado – Non sei l’unica che se lo domanda, fidati.-
- Ma tu che cosa vuoi, Alex? Te lo sei mai chiesto?-
- Me lo chiedo sempre, e ogni volta la risposta è diversa. – scosse il capo – Ho sempre lasciato che fossero altri a decidere che cosa volessi.-
- E non sei stanco di vivere la vita che altri hanno scelto per te?- domandò Nadine contro la sua spalla, gli occhi sollevati su di lui.
Lasciò che lo sguardo si perdesse tra le tenebre di quel pianeta ostile alla vita – Lo faccio da così tanto tempo che credo di esserci abituato. Mi sono arruolato nell’Alleanza perché lo voleva mia madre, vedermi in divisa era la cosa che desiderava di più al mondo e non volevo altro che farla felice; poi ho conosciuto Sasha e ho iniziato a vedere l’Alleanza attraverso i suoi occhi. Non desiderava altro che abbandonare la divisa, tornare sulla Terra, essere felice … e io non volevo altro che vederla felice.- fece una smorfia – Ora siamo qui … perché nonostante tutti i miei sforzi ho deluso entrambe e perché non riesco a realizzare l’unica cosa che m’importi veramente: rendere felici le persone che amo. -
Nadine sospirò – Ti preoccupi troppo degli altri, Shepard, è questo il tuo problema.-
- E che cosa dovrei fare, secondo te? Fregarmene degli altri come fai tu?-
Nadine lasciò la presa sul suo bracco, si posizionò di fronte a lui, prendendogli il viso tra le mani – Sì, dovresti farlo.- aveva le dita fredde ma il suo tocco lo confortò: era tanto tempo che qualcuno non si prendeva cura di lui – Non conosco tua madre abbastanza per giudicarla, ma conosco Sasha e ho capito una cosa su di lei: Sasha non ha idea di che cosa possa renderla felice. E come potrebbe? Non ha conosciuto altro che odio o disprezzo per tutta la vita. - gli accarezzò piano la fronte – Tu non hai agito, Shepard. Hai semplicemente lasciato che gli eventi ti fluissero attorno senza cercare in alcun modo di deviarne il corso. Le avevi promesso che avreste lasciato l’Alleanza, che l’avresti sposata e invece? Che cos’hai fatto?-
Alex si morse l’interno della guancia, sfuggendo lo sguardo inesorabile di Nadine: niente, non aveva fatto niente.
Aveva avuto paura, una banale, stupida paura del futuro, e si era aggrappato alla prima scusa che la vita gli aveva offerto per rimandare un passo troppo grande per i suoi ventitre anni.
- Io non lo so cosa sia accaduto tra di voi, cosa vi abbia allontanati così tanto di impedirvi persino di guardarvi, ma so come sei fatto tu e come è fatta lei. – proseguì Nadine costringendolo a guardarlo – Sasha non cambierà mai, Shepard, non può cambiare, ma tu sì.-
- Perché dovrei? Perché cambiare per lei?-
- Non ti sto dicendo di cambiare per lei, ma per te.- la sua espressione s’indurì, mentre la pressione delle sue mani sul suo viso aumentava – Prendi una decisione: scegli. Devi scoprire cosa vuoi e fare di tutto per ottenerlo. Vuoi Sasha? Allora fai di tutto per riaverla. Non la vuoi? Allora lasciala andare per la sua strada, dimenticala. Se non lo farai passerai il resto della tua vita intrappolato in posti come questo, a cercare di rendere felice qualcuno che non sa essere felice.-
Scosse il capo – Tu la fai facile Nadine.-
- È facile, Alex.- tolse le mani dal suo viso e gliele posò sulle spalle – Segui l’istinto: fai quello che ti va di fare quando lo vuoi fare. Nulla è più semplice di questo.-
- Le nostre azioni hanno delle conseguenze, Nadine …-
Per tutta risposta lei si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò; nulla di più di un contatto di labbra ma abbastanza da scatenare l’apocalissi se qualcuno li avesse visti. Eppure, nonostante tutto, non fece niente per impedirglielo: era bello baciarla.
- Perché lo hai fatto?- le disse quando si separò da lui.
- Per lo stesso motivo per cui tu non mi hai respinto: avevo voglia di baciarti e l’ho fatto.- gli sorrise e si accorse che quel bacio non aveva significato niente per nessuno dei due, eppure aveva cambiato tutto. Non tra di loro, ma dentro di lui. Se Sasha li avesse visti ne sarebbe rimasta ferita: si accorse che non gli interessava affatto. A prescindere da quello che facesse, da quanto si sforzasse, lei non era felice lo stesso: tanto valeva che facesse quello che gli andava di fare senza curarsi delle conseguenza.
- Lo capisci adesso, Shepard?- mormorò Nadine – Vivi, rischia … scegli. Se il modo in cui vanno le cose non ti piace fa in modo che cambino.-
Shepard respirò a pieni polmoni, trovando l’aria secca e polverosa di Akuze stranamente piacevole – Sai Nadine, credo che sia il primo consiglio decente che tu mi abbia mai dato.-
Lei ridacchiò – Forse perché è la prima volta che mi ascolti.-
Sorrise a sua volta mentre cominciava a formulare la sua prossima mossa; si accorse, non senza sorpresa, che nulla di quello che stava pensando riguardava lui e Sasha come coppia. Lei aveva fatto una scelta e lui, finalmente, faceva la sua.
- Vai a dare il cambio a Jin e manda nella mia tenda Sasha, Jake e Habib. Devo discutere con loro di una cosa.-
- Agli ordini, Comandante.- rispose lei, non senza una punta d’ironia.
- Nadine …- la richiamò mentre si allontanava, nel buio scorse la sua sagoma arrestarsi – Non mi baciare più.-
La sentì ridere – Non ho nessuna intenzione di rifarlo, Comandante.-
 

Sasha entrò nella tenda di Shepard con fare circospetto, chiedendosi cosa volesse da lei. Si rilassò appena quando si accorse che assieme a Shepard c’erano anche Jake e Habib.
Dunque si tratta di lavoro … constatò, non senza una punta di delusione sotto l’iniziale sollievo.
Sperava … non sapeva nemmeno lei cosa sperasse. Forse che lui non si arrendesse; che lottasse, in tutti i modi, per riaverla al suo fianco. Era un pensiero stupido, lo sapeva: era stata lei ad allontanarlo eppure, malgrado tutto, aveva sperato che si battesse per lei.
Invece Shepard non aveva fatto niente, se non assecondarla in ogni sua scelta.
L’aveva lasciata libera ma non l’aveva lasciata andare e ogni giorno doveva combattere il desiderio di lasciar perdere la sua ambizione e tornare da lui. Si disse che dopo quella missione le cose sarebbero state più semplici. Avrebbero preso strade diverse che probabilmente non si sarebbero più incrociate.
- Ti stavamo aspettando.- la accolse freddamente Shepard facendole cenno di avvicinarsi all’interfaccia olografica proiettata al centro della tenda.
- Perché mi hai fatto chiamare?- domandò, avvicinandosi. Gli altri stavano studiando attentamente la proiezione davanti a loro e Sasha notò che si trattava di una mappa, probabilmente della zona che avrebbero esplorato il giorno seguente.
- Ero in riunione prima ed è arrivata una strana segnalazione che il Capitano ha deciso d’ignorare.- spiegò brevemente Shepard – Io non sono d’accordo.- Sasha alzò lo sguardo su di lui, sorpresa; solo una volta lo aveva visto così risoluto, così fermamente deciso a disobbedire ad un suo superiore: su Dumat, quando era accorso in suo aiuto trasgredendo gli ordini di Cross.
- Il rapporto dei ricognitori segnalava attività anomale in questa zona.- la mappa s’ingrandì mostrando un piccolo complesso collinare più a nord, probabilmente le stesse alture che si scorgevano di giorno dal campo base – La cosa interessante è che il segnale, quello che l’Intelligence attribuisce alla base mercenaria, è posizionato esattamente nella conca sotto le colline dove i ricognitori hanno rilevato l’anomalia.-
Habib annuì, concentrato – Potrebbe trattarsi di un’altra postazione, forse una torretta di guardia. Se è così ci avvisteranno non appena entreremo nella piana sotto le colline.-
- Esatto.- concordò Shepard – Perderemmo l’effetto sorpresa e da quella postazione potrebbero farci molto male.-
Sasha si accigliò – Perché il Capitano non ha preso provvedimenti?-
- Qualunque cosa fosse l’anomalia che i ricognitori hanno rilevato è stato un semplice bip di pochi secondi dove non avrebbe dovuto esserci niente, poi il silenzio. Secondo il Capitano si è trattato di un semplice malfunzionamento.- Shepard si passò una mano sul viso – È l’ipotesi più plausibile, certo; ma se non è così sarebbe la catastrofe.-
- Che cosa vuoi fare, Comandante?- domandò timidamente Jake.
- Mandarvi ad indagare.- rispose – Siete i miei esploratori migliori e mi fido totalmente delle vostre capacità. Ecco …- digitò qualcosa sul factotum e una parte della mappa si illuminò – Ho già studiato il percorso. Sarete in cima in meno di sei ore, date un’occhiata in giro e fate rapporto: anche se ci sono dei mercenari lassù se farete bene il vostro dovere non sarete in pericolo.-
Sasha si umettò le labbra – Ti rendi conto che stai disobbedendo a un ordine? Potresti essere condotto davanti alla corte marziale per questo.-
Lui non la guardò nemmeno – Ho un nome che mi protegge, ricordi?-
Sasha si sentì arrossire, umiliata, e persino gli altri parvero imbarazzati.
Shepard sospirò – Siete i miei uomini, la mia squadra.- alzò lo sguardo su di loro e, di nuovo, i quegli occhi azzurri Sasha vide la cieca abnegazione che li aveva animati su Dumat – Non m’importa delle conseguenze. Non lascerò che un coglione senza cervello metta a repentaglio le vostre vite perché non vuole fare la figura dello stupido. Sono il vostro comandante, adesso, e vi devo proteggere. Anche dai miei superiori.-
Habib ghignò – Quando partiamo, comandante?-
- Non appena sorge il sole.-
In quel momento l’ingresso della tenda si scostò e fece il suo ingresso un tipo mai visto prima, con indosso l’armatura dell’Alleanza, un’espressione risoluta sul viso sgraziato.
- Comandante Shepard?-
Sasha si mosse in fretta, frapponendosi tra il nuovo arrivato e l’interfaccia olografica che Jake si affrettò a spegnere – Che cosa vuoi?-
- Caporale Toombs.- si presentò l’uomo – Del 3°Plotone. Non c’è bisogno di spegnere la mappa: so bene cosa stavate guardando.-
Shepard si avvicinò a loro – Ti è stata fatta una domanda, Caporale: rispondi.-
- Ho rilevato io l’anomalia, Signore.- rispose l’uomo, senza esitare – Mi hanno detto che il Comandante Shepard si è opposto all’ordine del Capitano di ignorare il nostro rapporto: per questo sono qui.-
- Continua a non essermi chiara la tua presenza qui, Caporale.- sibilò Sasha.
Lui si schiarì la voce – Volevo chiedere al Comandante l’autorizzazione per proseguire l’indagine.- fece vagare lo sguardo su Jake e Habib in piedi dietro di loro – E qualcosa mi dice che sono nel posto giusto.-
- Shepard non può autorizzare la tua squadra e lo sai.- intervenne Habib.
- Se vado là fuori di mia iniziativa verrei accusato di diserzione.- rispose prontamente l’uomo – Ma se Shepard mi autorizzasse allora starei eseguendo un ordine.-
- E nella merda ci finirebbe Shepard.- ribatté Habib, sprezzante.
Toombs fece una smorfia – Meglio un’accusa d’insubordinazione che di diserzione. Per come la vedo io, il gioco vale la candela …- azzardò un sorrisetto - … ma credo che questo l’abbiate già capito da soli.-
- Perché dovremmo far andare te e i tuoi uomini?- domandò Shepard.
Toombs si rilassò, probabilmente pensava che la parte più difficile fosse stata superata – Perché siamo già stati là fuori, sappiamo cos’aspettarci e, soprattutto, sappiamo riconoscere il segnale. Siamo la vostra opzione migliore e lo sapete.-
Osservò Shepard esitare, vide il dubbio dipingersi sul suo viso unito alla paura di prendere la decisione sbagliata.
Lo afferrò per un braccio, il loro primo contatto volontario da mesi, e lo spinse verso il fondo della tenda – Ha ragione lui, lo sai.- gli sussurrò.
- Sì.- ammise.
- Ma non lo conosci, non sai se è affidabile, se è un valido soldato.-
Shepard si morse il labbro – Credi che voi avreste più possibilità? Non conoscete il terreno …-
- Nemmeno lui! É stato fuori una volta sola.-
Lui sospirò – Meglio che nessuna.-
Dall’altra parte della tenda Jake si schiarì la voce, intervenendo per la prima volta – Perché sei venuto da Shepard, Caporale? Perché non rivolgerti al tuo Comandante?-
Un sorriso sarcastico si dipinse sulle labbra sottili dell’uomo – È il Capitano Rahn a comandare il mio Plotone. Non potevo certo rivolgermi a lui …-
Sasha e Shepard si scambiarono un’occhiata, giungendo alla stessa conclusione: se Toombs avesse scoperto qualcosa e salvato la missione, Rahn avrebbe comunque potuto prendersene il merito e questo, forse, lo avrebbe reso meno incline a spedire Shepard davanti alla corte marziale.
- Se non scopre niente sei fregato, Shepard.- gli sibilò a mezza bocca.
- Sì, ma almeno voi non finirete nei guai. Un’accusa di insubordinazione non gioverà né alla tua carriera né a quella degli altri.-
Sasha abbassò lo sguardo, combattuta. Shepard aveva ragione ma non le piaceva l’idea di mettere la loro vita nelle mani di un uomo che non conoscevano.
- Comandante.- si fece avanti Toombs, forse intuendo il loro dubbi – Sono un ricognitore esperto, non ho mai fallito una missione, i miei uomini sono dei veterani.-
- Veterani pronti a tradire il loro Capitano.- lo punzecchiò Habib.
Toombs fece una smorfia – Non l’abbiamo scelto noi. Rahn ci è stato appioppato dopo la morte del nostro Comandante e …- esitò - … beh l’avrete notato anche voi: è un coglione.-
Shepard sospirò, scambiandosi di nuovo un’occhiata con Sasha – Non voglio atti di eroismo là fuori, Caporale, nessuna dimostrazione di coraggio: andate su, guardate e fate rapporto. Scordatevi le iniziative personali.-
Toombs si mise sull’attenti – Non la deluderemo, Signore.-
Shepard fece un cenno a Jake – Jake sintonizzerà il tuo Factotum col segnale radio della “33”: qualunque cosa tu scopra farai rapporto a noi prima che a chiunque altro, intesi?-
- Sissignore.-
Mentre Jake trafficava col Factotum di Toombs, Shepard gli si avvicinò, afferrandolo per il bordo dell’armatura; ciò che il Comandante sussurrò al Caporale fu ben udibile a tutti – Metto la vita della mia squadra nelle tue mano, Caporale: non fare cazzate o giuro che te ne farò pentire per il resto della tua vita.-
Sasha conosceva quel tono, quell’espressione: non aveva dimenticato la sua conversazione con Shepard su Dumat, quando aveva minacciato di spararle se avesse messo in pericolo i suoi uomini un’altra volta.
Questa volta, però, lei era dall’altra parte dello schieramento: faceva parte di quella squadra che Shepard avrebbe difeso con la sua stessa vita. Si sentì invadere da un’infinita gratitudine.
Se le parole di Shepard avevano turbato Toombs, questi non lo diede a vedere: - Non si pentirà di avermi affidato questo incarico, glielo assicuro.-
Shepard lo lasciò andare e annuì, mentre Jake si rialzava annunciando di aver finito – Buona fortuna, Caporale Toombs: spero di avere presto tue notizie.-
Toombs strinse la mano che gli veniva porta – Le avrà. Grazie per essersi fidato di me, Signore.-
Lo osservarono allontanarsi nella notte con una strana angoscia in corpo. Quando Toombs si fu allontanato Shepard congedò i suoi uomini ma Sasha si attardò nella tenda, aspettando che gli altri se ne andassero.
- Che cosa vuoi?- le domandò lui, brusco.
- Parlarti.-
- Di cosa?-
Sasha esitò – Di noi. Del modo in cui ci siamo lasciati.-
Lui nemmeno la guardò, impegnato a smontare il suo fucile – Non c’è niente da dire.-
- Invece credo che ci sia molto da dire. Io vorrei …-
- Non m’interessa quello che vuoi.- la interruppe alzando su di lei quegli occhi azzurri che sapevano diventare più freddi di un lago ghiacciato – Non più. Tu hai la tua vita e io la mia. E dopo questa missione ognuno se ne andrà per la propria strada.-
Si sentì vacillare – Dunque finisce così? Nemmeno provi a farmi cambiare idea?-
Lui scoppiò a ridere, una risata aspra, sgradevole – Tu cambierai sempre idea e io non ho nessuna intenzione di passare la mia vita appresso ai tuoi capricci.- si strinse nelle spalle, tornando serio – Ora vai a riposare: domani sarà una lunga giornata.-
Provò a protestare ma lui la zittì con un’occhiata – È un ordine, Specialista.-
Sasha abbassò il capo – Signor sì, Comandante.-
Uscì dalla tenda sentendosi amareggiata, ma anche sollevata: non stava più a lei decidere, non era più solo una sua scelta. Shepard l’aveva lasciata andare.
Osservò l’oscurità rischiararsi dietro le colline, preludio di un nuovo giorno e di un nuovo inizio.
Sospirò: le cose stavano per cambiare davvero ma ancora non sapeva se in bene o in male.
Qualcosa le diceva che, quel giorno, avrebbe avuto la sua risposta.

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Capitolo 32
*** Qui vivono i mostri ***



Akuze, 2177
 
Erano partiti alle prime luci dell’alba, con il sole alieno e spettrale di quel pianeta sconosciuto che faceva capolino da dietro le colline aride e rocciose.
Si erano inerpicati su per il pendio, tre uomini curvi nella loro armatura nera e rossa. Non appena il sole era sorto, splendendo con tutta la sua bruciante potenza, la temperatura si era impennata; ben presto si erano ritrovati tutti e tre fradici di sudore, annaspando sulla morena scoscesa di colline invalicabili come montagne. Ma non si erano fermati, non potevano farlo.
Il Caporale Toombs e i suoi uomini erano nell’Alleanza da tredici anni e mai avevano fallito una missione. Non l’avrebbero fatto nemmeno quella volta.
- Rick.- sussurrò, felice che la radiotrasmittente inserita nel casco gli evitasse di sgolarsi per farsi sentire – Hai rilevato qualcosa?-
Vide il suo commilitone fermarsi, armeggiare col factotum e scuotere il capo – Calma piatta Toombs.-
Forse si era trattato davvero di un malfunzionamento. Non osava sperarlo.
- Spero che non troveremo niente.- blaterò Martin nel comunicatore, dando voce ai suoi pensieri. – Voglio andarmene in fretta da questo posto.-
Toombs aggredì l’ultimo pezzo di salita, raggiungendo l’agognata cima dopo poche curve; si fermò ansimando e guardò in basso, verso quell’infinita distesa desertica che politici deliranti s’illudevano potesse essere chiamata casa: non c’era vita su Akuze. Fin dove l’occhio riusciva a guardare c’erano solo oceani di sabbia sul quale infuriavano venti tempestosi. Sabbia, roccia e qualche arbusto contorto che si nutriva dell’umidità notturna: ecco che cosa avrebbe dominato l’Alleanza una volta impossessatasi di quel posto.
Ma Akuze era un crocevia tra i mondi e l’Alleanza lo voleva, anche se era solo un pezzo di roccia maledetto.
Regolò il visore del casco perché gli facesse da binocolo, mentre gli altri lo raggiungevano sbuffando e imprecando.
Guardò giù, da dove erano partiti: il campo dell’Alleanza brulicava di attività e notò che una colonna di uomini stava iniziando ad incamminarsi verso la piana dov’era segnalata la base mercenaria. Imprecò tra i denti: erano stati più lenti del previsto.
Scrutò il percorso che i soldati avrebbero dovuto compiere: una via obbligata che attraversava una stretta valle tra le colline e sfociava nel vasto pianoro ai loro piedi. Era lì che, secondo le stime dell’Intelligence, si sarebbe dovuta trovare la base mercenaria. Setacciò ogni metro quadro di quel maledetto spiazzo; ricontrollò per tre volte ogni sasso, cercando di distinguervi una qualsiasi costruzione, chiese ai suoi compagni di fare lo stesso, ma la conclusione rimase sempre la stessa: dove avrebbe dovuto esserci la roccaforte dei Branco Sanguinario non c’era assolutamente niente.
- Che cazzo di storia è questa?- imprecò Martin tra i denti, dando nuovamente voce ai pensieri del suo superiore.
Toombs scosse il capo, confuso – Avverto Shepard: c’è qualcosa che non va.-
Accese il factotum, sintonizzandosi sulla frequenza che gli aveva installato il ragazzino brufoloso del gruppo di Shepard; digitò il codice d’ingresso ma il bracciale elettronico innestato nella tuta non diede segni di vita.
- Il mio factotum ha qualcosa che non va.- ringhiò – Prova con il tuo, Rick.-
Non poteva vederlo in faccia ma riuscì ad immaginare il sorrisetto beffardo sul viso del suo compagno – Mai comprare robaccia Volus.- sentenziò, picchiettando sul suo factotum – Quante volte ti avrò ripetuto di prendere tecnologia Quarian? Ma tu non ascolti.-
Toombs continuò a scrutare l’orizzonte incontaminato – Quarian …- fece un verso sprezzante – Ti rubano quello che hai e te lo rivendono con qualche modifica. Presentami un Quarian onesto e forse ascolterò il tuo consiglio.-
- Sei un moralista del … - s’interruppe con un sorpreso gemito di dolore.
Toombs si voltò verso il compagno, preoccupato – Cos’è successo, Rick? Stai bene?-
- Una maledetta scarica elettrostatica. Mi ha trapanato il cervello.- gemette l’altro portandosi una mano alla testa, dimentico del casco – Qualcosa blocca le comunicazioni, Toombs.- lasciò ricadere la mano, armeggiando col factotum che lampeggiava in maniera inquietante – Non c’è altra spiegazione.-
- O forse i tuoi amici Quarian ti hanno rifilato un bidone.- ribatté, sarcastico.
- Ragazzi …-
- Per la cronaca questo factotum non mi ha mai dato un solo problema.- replicò Rick, ignorando senza riserve il flebile richiamo di Martin – Al contrario di quel tuo catorcio che s’impalla ogni cinque minuti.-
- Ragazzi …- tentò d’intromettersi nuovamente Martin, con più decisione.
Toombs lo ignorò a sua volta – Questo catorcio mi è costato la bellezza di …-
- Volete darmi ascolto, razza d’idioti?- sbraitò Martin: la sua voce alterata risuonò nei loro caschi come il rintocco di una campana – Sta succedendo uno stramaledetto “qualcosa” là davanti!-
Aveva ragione.
Quando riportarono lo sguardo sulle colline che li circondavano, videro che una di esse si stava scoperchiando.
La parte superiore della collina, piatta e sottile, si stava alzando lentamente, sollevando un leggero nugolo di polvere. Nessun cigolio accompagnò quella manovra, né il terreno sotto i loro piedi fu scosso da una sola vibrazione. Se non fosse accaduto davanti ai loro occhi non si sarebbero nemmeno accorti che stava succedendo qualcosa.
- Che diavoleria è mai questa?- sussurrò Toombs tra i denti.
- Nessuna diavoleria.- ribatté acidamente Rick, ancora offeso dallo scambio di poco prima – È una parabola satellitare. Volevi sapere cosa non va nelle nostre comunicazioni?- con la canna del fucile indicò l’enorme piatto grigio che si era bloccato in posizione semiverticale – Ecco la tua risposta, Caporale.-
Toombs si morse l’interno della guancia, preoccupato – Dobbiamo avvicinarci e capire cosa diavolo succede.-
- Shepard ha detto di non prendere iniziative.- gli fece notare Martin.
- E come glielo diciamo che stanno finendo in non so quale trappola? Sei forse un esperto di segnali di fumo, Martin?-
Il ragazzo distolse lo sguardo – No, Signore.-
Toombs annuì, togliendo la sicura alla sua arma: avevano trovato quello che stavano cercando – Andiamo: modalità stealth. Cerchiamo di non fare casini.- tutti e tre impostarono i loro factotum e le armature cambiarono colore, mimetizzandosi col territorio circostante – Ho paura che ci siamo infilati in un bel casino, ragazzi.-
 
- Ti rendi conto di quello che hai fatto, Shepard? Non la passerai liscia: ti spedirò davanti alla corte marziale, è una promessa.-
La voce di Rahn era sgradevole quasi quanto il suo aspetto e capace di raggiungere acuti talmente alti che veniva spontaneo farsi domande circa lo stato dei suoi attributi virili.
Shepard lo guardò dimenarsi con aria ironica, dicendosi che ogni secondo passato ad ascoltare gli strepitii di quell’idiota erano secondi che faceva guadagnare a Toombs e ai suoi uomini.
Non c’era voluto molto perché Rahn si accorgesse che tre dei suoi soldati mancavano all’appello e Shepard non aveva avuto problemi a confessare il suo coinvolgimento; se non altro per la curiosità di vedere come avrebbe reagito. Ora la sua curiosità era soddisfatta e la sua pazienza esaurita.
- Sergente contatti subito quei tre imbecilli e dia loro l’ordine di rientrare immediatamente!- sbraitò Rahn, rivolto al suo sottoposto.
Prima che questi potesse anche solo alzare un braccio Shepard lo bloccò – È solo tempo sprecato, Capitano.-
Rahn gli si rivoltò contro come una serpe – Sarà meglio che tu tenga la bocca chiusa d’ora in poi.-
Shepard incrociò le braccia al petto – Sono in silenzio radio. Può provare a contattarli tutto il giorno e non avrà risposta. Se e quando troveranno qualcosa mi chiameranno.-
- “Ti” chiameranno?- sibilò il Capitano, fissandolo con aria oltraggiata.
Shepard non si scompose – Crede davvero che lascerei a lei il compito di decidere cos’è importante e cosa non lo è? Mi ascolti bene, Capitano.- proseguì, alzando la voce per impedirgli d’interromperlo – Quando ce ne saremo andati lei potrà vendicarsi in tutti i modi che ritiene opportuni, ma ora deve arrendersi all’evidenza che quei ragazzi stanno eseguendo i miei ordini e non può fare nulla per impedirglielo. Quindi o restiamo qui un altro giorno a discutere di niente o portiamo a termine la missione e ce ne andiamo da questo pianeta dimenticato. – fece spallucce – A lei la scelta, Capitano.-
Rahn fece una smorfia, scoprendo i denti ingialliti dal tabacco – Me ne ricorderò, Shepard.-
- Allora si ricordi anche di questo, Rahn: farò qualunque cosa per riportare a casa i miei uomini sani e salvi. -
Il suo superiore assottigliò gli occhi, forse chiedendosi se era appena stato minacciato; Shepard non aveva nessuna intenzione di perdere altro tempo discutendo con quell’idiota: a quell’ora Toombs e la sua squadra dovevano essere arrivati in cima e presto avrebbero avuto loro notizie. Più stavano fermi più aumentavano le probabilità di venir scoperti e attaccati dai mercenari.
Uscì dalla tenda senza prendersi la briga di fare il saluto militare e andò a raggiungere il suo gruppo in attesa.
Pochi minuti dopo Rahn diede l’ordine di mettersi in marcia, ma quando la “33” gli passò davanti li bloccò.
- Ti voglio lontano dalla mia vista, Shepard.- squadrò i suoi compagni uno ad uno, soffermandosi a lungo su Sasha e la sua pettinatura da galeotta - Tu e i tuoi bifolchi starete nella retroguardia, a mangiare la polvere dei miei mezzi corazzati.-
Shepard non batté ciglio, fece dietrofront e ordinò agli altri di seguirlo – Avete sentito il Capitano, ragazzi? Vuole che gli copriamo il culo …- lanciò una breve occhiata all’uomo impettito alle sue spalle – Non sia mai che qualcuno glielo faccia saltare.-
Questa volta non c’era bisogno di chiedersi se la sua fosse una minaccia oppure no. Lo era.
Si allontanarono di qualche passo poi si fermarono, aspettando che la colonna in marcia li superasse – Notizie da Toombs?- domandò a Jake, fermo alle sue spalle.
- No, Signore.-
Sospirò. Non che si aspettasse una risposta diversa: Jake l’avrebbe avvertito non appena Toombs si fosse fatto vivo.
- Com’è il detto?- bofonchiò a denti stretti, senza rivolgersi a nessuno in particolare – Nessuna nuova …-
Abigale ridacchiò - … buone nuove. Cominci a ripetere le massime come i vecchi, Shepard?-
Sorrise suo malgrado – È il prezzo del comando, no? Invecchiare prima del tempo ...- lasciò vagare lo sguardo sulle colline immobili, chiedendosi cosa fosse giusto fare. Non che ci fosse molta scelta: o andavano avanti o tornavano indietro. Rimanere fermi al campo era come spararsi nelle palle da soli. E nessuno avrebbe mai accettato di tornare indietro. Forse nemmeno lui. C’erano delle persone la cui vita dipendeva da loro e andarsene per paura di qualcosa che forse neppure c’era non era nello stile dei soldati dell’Alleanza. E nemmeno nel suo.
Una nuvola di polvere si levò dalla sommità di una collina, proprio nella direzione dov’erano diretti, tra la polvere poté giurare di aver visto qualcosa scintillare. Mosse un passo avanti – Attento!- esclamò Tiger, trattenendolo per un braccio.
Un Mako passò rombando davanti a loro, le ruote cingolate che sollevavano la polvere del deserto; indietreggiò mentre un nuvolone di sabbia li investiva. Quando la polvere ricadde e la sua vista si rischiarò sollevò nuovamente lo sguardo verso le colline: qualunque cosa avesse creduto di vedere non c’era più.
- Muovi il culo, Shepard!- gridò uno dei suoi.
Si accorse di essere rimasto indietro, solo in mezzo al deserto. Il Mako chiudeva la colonna e gli altri si erano mossi per seguirlo.
Si chiese se era troppo tardi per tornare indietro, probabilmente no, ma non era uomo da tornare sui suoi passi. Non lo era mai stato prima e di certo non lo sarebbe diventato ora.
Imbracciò il fucile e s’incamminò per raggiungere i suoi uomini. C’era una sola via da percorrere: avanti.
 
La parabola era solo la punta dell’Iceberg: Toombs e i suoi uomini stentavano ancora a credere a ciò che avevano scoperto.
Dopo aver capito dove dovevano guardare si erano resi conto che la collina ospitava una struttura gigantesca scavata al suo interno. Quelle che ad un occhio distratto apparivano come fenditure della roccia erano in realtà ingressi blindati mimetizzati nella pietra nerastra di Akuze. Avevano contato ben quattro ingressi posizionati a debita distanza gli uni dagli altri in corrispondenza di smottamenti apparentemente naturali o dove il pendio non era così scosceso da impedire l’accesso ai mezzi cingolati. Davanti a quello che sembrava l’ingresso principale avevano intravisto tracce di cingoli, quasi completamente cancellati dal vento, ciò suggeriva che dovevano essere recenti. Avevano rischiato di pagare cara la loro curiosità: un drone di sorveglianza era passato ad un soffio dalle loro teste e se l’erano cavata solo rimanendo immobili, affidandosi al loro equipaggiamento stealth.
Per una volta a fortuna era stata dalla loro parte.
Avevano dovuto dar fondo a tutto il loro ingegno per riuscire a trovare un modo di penetrare in quel fortino: impossibile forzare uno degli ingressi. Le porte erano blindatissime, sorvegliate da droni e chissà cos’altro, e non c’era nessun’altra via d’ingresso visibile.
A parte la parabola.
L’idea di calarsi attraverso i meccanismi di sollevamento era venuta a Rick e, per quanto fosse sembrata una follia, aveva funzionato.
Si erano calati lungo gli enormi pistoni senza troppa fatica, rimpiangendo di non avere un camion di C4 con cui radere al suolo quel gigantesco problema.
Era parso subito evidente che chiunque avesse rapito i pionieri si trovava in quel bunker, intento ad attirare gli uomini dell’Alleanza in una trappola grazie ad un finto segnale. Nella piana non c’era niente e nessuno: era solo un’enorme arena in attesa che i gladiatori facessero i loro ingresso.
Dovevano avvertire Shepard al più presto, ma non c’era modo di contattarlo se prima non disattivavano quella maledetta parabola e per farlo dovevano penetrare nel bunker.
Quell’ultima parte del piano, almeno per il momento, sembrava funzionare.
Erano arrivati nella sala macchine senza far scattare nessun allarme ma, naturalmente, il terminale che disattivava il segnale non era in quella stanza; doveva esserci un centro di controllo, da qualche parte. Fortunatamente i cattivi non erano i soli a saper usare i droni.
Martin aveva mandato due dei suoi droni a perlustrare la struttura e, man mano che avanzavano in direzioni opposte, la mappa dell’edificio compariva sul factotum dell’ingegnere: era una struttura immensa ma, almeno nei dintorni, appariva deserta.
- Dove andiamo?- domandò Rick, sbirciando da sopra la spalla del suo compagno.
- Questa zona sembra un magazzino.- sentenziò Martin indicando la parte della mappa più vicina alla loro posizione – Dovremmo scendere di un livello e cercare nell’area che Gulliver sta mappando in questo momento.-
Rick fece una smorfia – Ti rendi conto che è da psicopatici dare un nome ai tuoi droni?-
- Parla quello che ha dato un nome ai suoi testicoli.-
- Piantatela voi due.- li zittì Toombs, perentorio – Non siamo in gita scolastica! Forza …- si fece strada tra i macchinari - … troviamo le scale.-
Rick fece una smorfia – Hai ragione capo, non è una gita: è una maledetta missione suicida. Mi sai dire che cazzo ci facciamo qui? Ammesso e concesso che esista ancora un “qui” … per quanto ne sappiamo potremmo essere nel palazzo reale del sovrano locale; il re di una nuova razza aliena che cammina con i denti … -
- Vuoi chiudere quella dannata bocca, Rick?- sibilò Toombs – Se non l’avessi capito siamo in pieno territorio ostile.-
- Magari scopriamo che è il posto dove le Asari hanno relegato i loro maschi.- continuò Rick, imperterrito – Io non ci credo a quella storia che possono fare tutto da sole.-
Toombs alzò gli occhi al cielo: era inutile tentare di zittire Rick. Fortunatamente le rilevazioni dei droni non avevano mostrato nessuna forma di vita nella zona in cui si trovavano. Nessuna forma di vita organica per lo meno. Dopo quello che avevano visto potevano aspettarsi di tutto.
- Per quello che ne sappiamo potrebbe sempre trattarsi del Branco Sanguinario.- si lasciò sfuggire a mezza bocca.
Rick fece un verso scettico – Se quelli del Branco Sanguinario avessero i soldi per costruire una cosa del genere la pianterebbero di rompere le palle in giro per la galassia. No, amico: questa storia è molto più grossa del Branco Sanguinario, più grossa di noi.-
Avevano trovato finalmente la porta d’uscita, l’aprirono con circospezione, uscendo su una scala metallica che scendeva nelle ventre della collina.
Guardarono in basso, in quella voragine oscura che sembrava sul punto di inghiottirli come un’enorme mostro preistorico. Potevano ancora tornare indietro, ma nessuno lo disse: la vita di cinquanta soldati dipendeva da loro.
Scesero le scale in silenzio, persino Rick sembrava finalmente a corto di parole. Livello dopo livello continuarono a scendere; i gradini metallici che risuonavano sotto i loro piedi. Infine si trovarono su un pianerottolo fiocamente illuminato, davanti ad una porta che sembrava un’uscita d’emergenza; la scala scendeva ancora, ma per quello che ne sapevano loro la sala controllo poteva trovarsi ovunque, o non esserci affatto.
Si fermarono, indecisi. Toombs guardò su, a stento riusciva a vedere il punto da cui erano partiti, circa duecento metri più in alto. Dovevano trovarsi all’incirca a metà della collina.
Guardò i suoi ragazzi, non poteva vedere i loro volti, celati dal casco, ma quegli occhi così diversi avevano la medesima risolutezza: sarebbero stati al suo fianco, fino alla fine.
Appoggiò la mano sulla maniglia e tirò leggermente, socchiudendo appena la porta – Spedisci Gulliver in avanscoperta.- sussurrò.
Martin annuì, digitò in fretta qualcosa sul factotum e un piccolo drone luminescente comparve nell’etere davanti a loro, tremolò per una frazione di secondo poi sfrecciò attraverso lo spiraglio della porta, come risucchiato da una corrente d’aria.
- Via libera.- bisbigliò Martin pochi istanti dopo.
Oltrepassata la porta capirono di essere sulla buona strada; si trovavano in un corridoio debolmente illuminato, su cui si affacciavano le porte a vetri di quelli che sembravano i normalissimi uffici di un normalissimo palazzo: scrivanie, computer, sedie con le rotelle e persino qualche pianta in vaso. Al posto delle finestre c’erano proiezioni virtuali che raffiguravano ciò che ogni impiegato desiderava vedere: chi la vista su altri palazzi, chi un tramonto sul mare o gli alberi di una foresta o ancora il nero della galassia punteggiato di stelle. Ce n’era per tutti i gusti. Nessuno aveva scelto come paesaggio quello che c’era là fuori: il torrido deserto di Akuze. Chiusi tra quelle pareti era facile dimenticarsi dell’inferno che c’era all’esterno.
Toombs provò un brivido lungo la schiena. Quel posto era troppo familiare, troppo poco alieno …
- Non credo che ci troveremo di fronte ad una nuova specie aliena o ai maschi delle Asari, Rick.- sussurrò Martin, angosciato – Però hai ragione: il Branco Sanguinario non c’entra niente con tutto questo. Abbiamo a che fare con degli umani.-
Aveva ragione, ogni singolo dettaglio di quel luogo gli urlava che era così, eppure non voleva crederci. Nella sua testa, contro ogni logica, gli umani non potevano essere i nemici.
- Come fai a dirlo?-
Prima che potessero fare qualcosa per fermarlo Martin si sganciò il casco, lo tolse e inspirò a pieni polmoni.
- Ossigeno.- disse semplicemente.
Toombs scosse il capo, cercando di negare l’evidenza – Tutte le specie a base di carbonio respirano ossigeno … questo non vuol dire niente.-
- Martin ha ragione.- intervenne Rick togliendosi a sua volta il casco – Faccio sempre fatica a respirare, all’inizio, nei posti che non sono stati costruiti per gli umani. Persino sulla Cittadella, i primi giorni, mi gira la testa … non qui. Qui è perfetto.-
Non c’era niente che potesse dire per contraddirli. Si tolse il casco a sua volta, senza poter fare altro che constatare la veridicità di quanto sostenevano: quel luogo era stato costruito dagli umani per gli umani. Ma quegli umani volevano i soldati dell’Alleanza morti. Non aveva dubbi su quello.
Imbracciò il fucile e si avviò lungo il corridoio, gli altri lo seguirono.
- Certo che quei coglioni dell’intelligence hanno proprio capito tutto.- sentì bofonchiare Rick alle sue spalle – Come al solito.-
Si fermarono in fondo al corridoio, davanti a una porta scorrevole di metallo; Toombs fissò il pulsante verde dell’apertura con un misto di ansietà e disgusto: una volta aperta quella porta non ci sarebbe più stato modo di tornare indietro.
Sei ancora in tempo, si disse, gira i tacchi e vattene.
Ma aveva fatto una promessa a Shepard e alla sua squadra: si erano fidati di lui, avevano messo la sua vita nelle sue mani. Non poteva ignorare tutto questo.
- Io credo invece che loro abbiano capito tutto, Rick.- sussurrò, alzando la mano e avvicinandola al pulsante – Guardati intorno: i coglioni che non capiscono mai niente siamo noi.-
Su quelle parole il Caporale Toombs abbassò la mano premendo il pulsante.
L’uscio si aprì e varcarono la soglia: una luce abbagliante li investi mentre la porta, lentamente, si chiudeva alle loro spalle come il coperchio di una tomba.
 
Sasha sudava copiosamente sotto la corazza pesante, arrancando nella sabbia di quel deserto che sembrava volerli inghiottire tutti.
La nuvola di polvere sollevata dai Mako li accecava, tanto da non riuscire a distinguere la colonna di soldati che marciava davanti a loro.
Seguivano la polvere e il radar sul factotum. Da quello che poteva capire dovevano essere  vicino al luogo da dove partiva il segnale mercenario.
Difficile dirlo: da qualche ora le radio avevano smesso di funzionare e tutte le apparecchiature elettroniche avevano cominciato a dare problemi. Un bel casino.
Istintivamente si portò accanto a Shepard. Nonostante tutto quello che c’era stato tra loro era suo dovere continuare a coprirgli le spalle e sapeva che lui avrebbe fatto lo stesso con lei.
Erano stati compagni di battaglia prima che compagni di vita.
Il mezzo corazzato davanti a loro si fermò con uno stridio dei cingoli.
- Che cosa succede?- sentì urlare Habib dietro di loro: con le radio rotte dovevano sgolarsi per comunicare gli uni con gli altri.
Shepard fece cenno a tutti di fermarsi e, mentre la polvere si diradava, si tolse il casco.
Gli altri li imitarono; Sasha se lo tolse lentamente, trattenendo il respiro, poi, senza fretta, prese piccoli respiri, acclimatando il suo corpo all’atmosfera di Akuze, meno densa di quella cui era abituata.
Si sentì girare leggermente la testa all’inizio, ma il malessere passò quasi immediatamente: era stata su pianeti con un’aria molto meno respirabile di quella. Ma i pregi di quel sasso finivano lì.
Quando tutti si furono acclimatati, Shepard li condusse oltre i Mako per ricongiungersi con il resto delle loro forze.
Li trovarono schierati, immobili, a fissare la piana davanti a loro. Sembravano tanti bersagli pronti per essere colpiti.
- Ma cosa diavolo gli dice la testa?- ringhiò Shepard facendosi largo tra i soldati per raggiungere la testa della spedizione ma, quando vide ciò che gli altri stavano guardando, si bloccò a sua volta.
Sasha lo affiancò, osservando stralunata il paesaggio davanti a loro: si trovavano all’imbocco di una pianura circondata su tre lati dalle nere colline di Akuze; non i dolci declivi che aveva visto sulla terra, ma cinquecento metri di nera roccia acuminata e scoscesa.
L’unico passaggio per uscire da quella che sembrava una vera e propria arena era la stretta gola da cui erano arrivati; ma la cosa davvero sconvolgente era che dove avrebbe dovuto esserci la base nemica non c’era assolutamente nulla, solo rocce staccatesi dalle colline.
- Che cosa significa?- sussurrò.
Vide un rivolo di sudore scendere lungo il viso di Shepard, seguendo la linea dura della mandibola – Non lo so.- le rispose, quasi senza muovere le labbra.
D’istinto cercò la sua mano e, sorprendentemente, lui la strinse.
- Il segnale …- disse qualcuno.
- Che c’è? Parla!- ringhiò un uomo in armatura rossa che riconobbe essere il Capitano Rahn.
- … il segnale si è spento, Capitano.-
Sasha notò che Shepard guardava le alture alla loro destra, lì dove aveva spedito Toombs e la sua squadra. Non avevano avuto più notizie del Caporale e qualcosa le diceva che non le avrebbero ricevute nemmeno in futuro.
- Dovremmo tornare indietro.- sentì dire Shepard al Capitano – Questa storia non finirà bene.-
Il Capitano fece un sorrisetto di scherno – Non mi avevano detto che eri un codardo, Shepard.-
Lo vide digrignare i denti, ma quella fu l’unico sfogo che concesse alla sua rabbia – Dobbiamo tornare indietro.- ripeté.
Il Capitano non lo ascoltò. Nessuno lo ascoltò.
- In marcia.- sbraitò Rahn – L’Alleanza ci ha detto di conquistare questo pianeta.- lanciò a Shepard un’occhiata di sfida – E noi lo conquisteremo.- imbracciò il fucile e lo puntò con noncuranza nella sua direzione – Dopo di te, Shepard.-
Lui fece una smorfia – Sta facendo un errore, Capitano.-
- Vuoi che accusi la tua squadra di diserzione, Shepard? Finiranno davanti alla corte marziale, nella migliore delle ipotesi verranno radiati dall’Alleanza.-
Sasha trattene il respiro, sentendosi impallidire. I suoi occhi incontrarono quelli di Shepard e lo supplicò silenziosamente di non fare sciocchezze.
Lui sostenne il suo sguardo per un istante, poi abbassò gli occhi e la testa
– Andiamo, squadra: in marcia.-
Superarono un tronfio Capitano Rahn mentre, dietro di loro, i Mako ricominciarono ad avanzare, i cingoli che artigliavano il terreno con un suono sordo.
Non fecero più di cento metri.
La terra iniziò a tremare, come se tutto il pianeta avesse iniziato a ribollire, feroce, imprevedibile, furioso. Era come se Akuze stessa si stesse risvegliando per cacciarli via dalle sue terre.
Con un boato simile ad un’esplosione un masso alle loro spalle si staccò dalla collina, precipitando nella gola che avevano appena attraversato, bloccandola completamente.
Non fecero nemmeno in tempo a comprendere cosa stava accadendo che il terreno sotto il loro piedi cominciò a frantumarsi; una voragine si aprì davanti ai loro occhi sbarrati. Sabbia e terra cominciarono a franare, risucchiate da quel gorgo sempre più grande, sempre più terrificante.
Un uomo perse l’equilibrio e scivolò, urlando, verso quell’abisso senza fondo. Grida scomposte risuonarono nella piana, mentre i veterani di cento battaglie scappavano come ragazzine di fronte a qualcosa che non potevano uccidere né comprendere.
Poi dall’abisso uscì qualcosa.
Con un’eruzione di sabbia, terra e pietra, un essere immondo, figlio degli inferi, s’innalzò sopra di loro. Era una creatura enorme, famelica e aliena ma, soprattutto, furiosa.
Sentì Shepard urlare qualcosa d’incomprensibile mentre lei rimaneva immobile a fissare quella cosa uscita dai suoi peggiori incubi.
Le tornarono in mente le storie che Louise le aveva raccontato, antiche storie che gli antichi popoli amavano tramandare.
Erano storie che raccontavano di uomini che si erano avventurati fino ai confini del mondo, spinti dal desiderio di conoscere o dalla brama di conquista. Quegli avventurieri erano arrivati fino all’ultima frontiera: lì avevano scoperto che esistevano luoghi dove gli uomini morivano, perché in quei luoghi vivevano i mostri. 
Sasha fissò pietrificata quelle fauci grondanti veleno: infine avevano trovato l'ultima frontiera della galassia. 
Akuze era il luogo dove vivevano i mostri.

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Capitolo 33
*** Nessuna via d'uscita ***



Non si era mai chiesto com’era l’inferno. Non aveva mai creduto alle stronzate che gli raccontavano a scuola. In realtà non aveva mai creduto a nulla che non fosse in grado di vedere. E quello cui stava assistendo ora … beh, mai avrebbe creduto di vedere una cosa del genere. Tutte le storie più orribili su mostri mangiatori di uomini ed esseri infernali sbucati dalle viscere della terra impallidivano a confronto di quello che stava accadendo davanti ai suoi occhi.
Dopo che il deserto di Akuze era letteralmente franato sotto i loro piedi un essere gigantesco, un enorme verme coperto di scaglie, era fuoriuscito dalle ventre del pianeta.
Gli uomini si erano fatti prendere dal panico mentre quella cosa si avventava su di loro, le fauci spalancate e il corpo vermiforme che apriva solchi profondi chilometri tutt’intorno a loro.
Quanti erano morti in quel primo attacchi? Shepard non ne aveva idea. Aveva visto soldati urlanti precipitare nelle voragini aperte dal corpo di quell’essere, uno era crollato al suolo colpito da un fiotto di veleno, l’armatura e la carne che si fondevano l’una nell’altra, disciolte dall’acido. Dopo lo shock iniziale alcuni temerari avevano iniziato a sparare contro il mostro, ma i proiettili rimbalzavano sulla sua pelle di roccia come sassi lanciati dalla fionda di un bambino.
- Riparatevi dietro quelle rocce!- urlò indicando ai suoi uomini un gruppo di massi poco lontani – Toglietevi dalla sua visuale!-
Sasha non si mosse, pietrificata dall’orrore. L’afferrò per un braccio mentre lei si voltava a guardarlo con gli sbarrati: persino lei che aveva visto il peggio non era pronta ad affrontare quella cosa.
- Via di qui!- sbraitò.
La vide sgranare gli occhi prima di gettarsi su di lui e buttarlo a terra; la coda dell’essere saettò a pochi centimetri dalle loro teste.
- Maledizione…- la sentì sussurrare mentre si rimetteva in piedi – Cosa crede di fare?-
Seguì il suo sguardo e scorse Dario, in piedi in mezzo a una nuvola di polvere, incurante del terreno che gli franava intorno, un lanciarazzi appoggiato sulla spalla, l’occhio premuto contro il mirino.
Era talmente concentrato sulla preda da non accorgersi delle crepe sempre più grandi che gli lambivano le scarpe.
Shepard scattò in piedi - Via, via, via! Per la puttana Dario: vieni via di lì!-
Lui non lo degnò nemmeno di uno sguardo, cocciuto come sempre - Ce l’ho nel mirino, capo! Dammi cinque secondi e il bastardo si beccherà un razzo nel culo!-
Dietro di lui qualcosa cominciò a sbucare dalla sabbia del deserto.
- Dario ce n’è un altro!- urlò, slanciandosi nella sua direzione - Questo è un ordine, cazzo, vieni via!-
Sentì Sasha afferrarlo per un braccio, impedendogli di frapporsi tra Dario e l’enorme bestia che emergeva alle sue spalle.
Dario non si voltò ad affrontare il mostro che incombeva su di lui, né fece un passo per scappare: i suoi occhi rimasero fissi sull’obiettivo - Fanculo …- disse, premendo il grilletto. il razzo s’involò verso il primo mostro, ma Dario non poté fare nulla per evitare che quello alle sue spalle si abbattesse su di lui. Il coraggioso italo australiano scomparve in una nuvola di polvere, trascinato negli abissi da una creatura partorita dal ventre di un pianeta che non voleva umani sul suo suolo.
- DARIO!- urlò Shepard, inutilmente.
Con un boato il razzo andò a segno e, mentre il mostro colpito emetteva strida di dolore senza tuttavia rinunciare alla lotta, Sasha lo trascinò verso le rocce tra cui avevano trovato riparo gli altri.
C.J. corse loro incontro per aiutarla a trattenerlo - Dario è andato, capo, è andato … - gli sibilò nell’orecchio - … non possiamo restare qui!-
Suo malgrado fu costretto a dargli ragione: Dario era morto, ora doveva pensare a salvare il resto della squadra.
Il mostro colpito da Dario sembrava essersi ritirato, ma sarebbe stato troppo sperare che fosse morto. In ogni caso ce n’era un altro con cui fare i conti.
I massi dietro i quali si erano rifugiati offrivano loro una relativa copertura; il mostro rimasto era distratto dagli uomini di Rahn che insistevano nel volerlo abbattere con pistole e fucili a pompa. Si guardò intorno, alla ricerca dei Mako: i due autoblindi erano l’unica cosa che potevano portarli via da lì.
Uno stava dando battaglia, l’altro invece si era portato assieme a un gruppo di superstiti davanti alla frana che bloccava la loro unica via d’uscita; forse quegli uomini credevano di poter aprirsi la strada tra le macerie a colpi di cannone.
- Che cosa facciamo, Shepard? Che cosa cazzo facciamo adesso?- non aveva mai visto Abigale così spaventa; lei che diceva sempre che dopo Jump Zero nulla avrebbe più potuto farle paura.
Ma solo un pazzo non avrebbe avuto paura quel giorno.
Shepard le posò una mano sulla spalla - Non perdere la calma Abigale, resta concentrata.- fece vagare lo sguardo su di loro: erano raccolti a semicerchio e lo guardavano come se lui solo avesse il potere di salvarli. Persino Sasha, lei che non perdeva mai occasione per far sentire la sua voce, lo fissava spaventata e sperduta. Si umettò le labbra, spingendo i pensieri più veloci della paura. Era il loro comandante e doveva trovare una soluzione. Si rivolse al pilota cinese - Jin, la radio funziona?-
- No, signore, quelle dannate colline bloccano le comunicazioni.-
Un boato sinistro riecheggiò nella valle mentre uno dei Mako apriva il fuoco contro i resti della frana. Fu una follia: non appena il Mako iniziò a sparare un’altra creatura uscì dalle viscere del pianeta. Trecento tonnellate di acciaio volarono nell’aria torrida di Akuze come un dado lanciato da uno scommettitore.
In gioco, quel giorno, c’era la vita di cinquanta uomini.
Il mezzo corazzato si diresse volteggiando nella loro direzione; Shepard si alzò in piedi, l’energia biotica finalmente libera di essere sprigionata.
- ATTENTI!- urlò qualcuno, forse Sasha, alle sue spalle.
Un secondo dopo, mentre il Mako si schiantava a pochi metri dai loro piedi, una cupola biotica si propagò dalle sue braccia tese, avvolgendoli completamente. Frammenti di roccia, terra e acciaio s’infransero contro la barriera bluastra.
- E quello cosa cazzo era?- bofonchiò C.J.
- Il blindato, l’hanno lanciato in aria come un giocattolo …- sentì Jin rispondere, col tono di chi non crede ai propri occhi.
Shepard abbassò le barriere, barcollando leggermente per lo sforzo; Sasha accorse al suo fianco – Stai bene?-
Sembrava preoccupata per lui e forse lo era davvero. In altre circostanze se ne sarebbe compiaciuto.
- Dobbiamo allontanarci da qui.- gracchiò, asciugandosi il sudore dalla fronte e girandosi a guardare gli altri – Dobbiamo … GIU!-
Afferrò Sasha, gettandola a terra mentre il secondo Mako andava a fare la fine dell’altro, mancando di poco il punto in cui si erano rifugiati. Ma questa volta non c’era nessuna barriera biotica a proteggerli.
Abigale ci provò, gettandosi davanti al gruppo, l’energia biotica che si sprigionava dalle sue dita: ma fu troppo poco, troppo tardi.
Il Mako colpì il terreno simile al pugno ferrato di un gigante; i serbatoi pieni di eezo non sopportarono il colpo e, questa volta, esplosero con un boato e una lingua di fuoco.
Shepard strinse Sasha a sé e insieme rotolarono nella sabbia, sfuggendo alla grandine di metallo che minacciava di seppellirli; tutt’intorno risuonavano le grida dei loro compagni.
Qualcosa lo colpì in tesa e, per un istante, il mondo divenne sfocato e confuso.
- Alex!- le mani di Sasha gli si strinsero sul viso; tra la nebbia che gli appannava la vista scorse i suoi occhi verdi spalancati. Si chiese se la paura che leggeva nel suo sguardo fosse davvero per lui  – Alex, maledizione!-
Assurdamente pensò che adorava il modo in cui diceva il suo nome.
La mano di Sasha impattò con violenza contro la sua guancia e la sua mente si schiarì di colpo. Tossendo si mise seduto, bloccando la mano di Sasha pronta a colpire un’altra volta – Sto bene.- ragliò, tastandosi la nuca con la mano e ritirandola coperta di sangue – Solo un graffio. Tu?-
Sasha annuì, aiutandolo a rialzarsi – Sembra che l’esplosione li abbia fatti ritirare, per il momento.-
Shepard si rimise faticosamente in piedi, cercando con lo sguardo il resto della squadra: erano tutti malconci, ma vivi. Vide Nadine china su Tiger che mostrava una brutta ferita alla gamba – State bene?-
C.J. si tastò il  costato con un gemito – Sembrerebbe che tutto sia al suo posto. Per ora.- accanto a lui Habib e Jake fecero cenni di assenso mentre aiutavano Jin a rialzarsi.
Poi un urlo di agghiacciante dolore squarciò l’aria.
Mentre la polvere dell’esplosione si diradava scorsero Abigale distesa sulla schiena, le mani strette al ventre orribilmente squarciato.
Non avrebbe mai pensato che Abigale potesse piangere in quel modo, che potesse urlare di dolore e disperazione. Lei era quella che non aveva mai paura; la donna che gli aveva insegnato ad andare avanti, sempre: più testarda e forte di chiunque altro avesse mai incontrato. Cross si divertiva a dire che sotto la corazza non aveva carne, ma acciaio.
Shepard cadde in ginocchio accanto a lei, nella sabbia viscida di sangue; si tolse i guanti e li lanciò lontano. Prese una mano di Abigale nella sua mentre con l’altra tentava di arginare il sangue che sgorgava dalla voragine aperta nel suo ventre.  Le interiora esposte emanavano un odore nauseabondo e il sangue fluiva denso tra le sue dita: era scuro quasi quanto la pelle della donna.
Dopotutto Cross si sbagliava: c’era carne sotto l’armatura di Abigale. Debole, fragile carne.
Ma Cross si era sbagliato su molte cose. Su di lui, ad esempio.
Habib si inginocchiò al suo fianco, urlandogli di fare pressione sulla ferita, mentre cercava inutilmente di salvare qualcuno che non poteva essere salvato.
Lo sapevano tutti, lo sapeva anche Abigale. Gli occhi neri della biotica erano fissi nei suoi e chiedevano una sola cosa: pace. Si chiese quanti occhi agonizzanti avrebbe dovuto incrociare, quante mani irrigidite dal terrore avrebbe dovuto stringere, quanti amici avrebbe dovuto ascoltare morire prima che giungesse il suo turno.
Forse nessuno. Forse tutti.
Abigale si contorse sotto le sue dita, i denti digrignati, il viso fradicio di sudore.
Habib stava ancora cercando di fare qualcosa, una siringa di medigel in una mano e inutili bende nell’altra. Gli disse di continuare a premere sulla ferita, di darle ancora un po’ di tempo.
Shepard alzò gli occhi per un istante e incrociò quelli di Sasha, inginocchiata di fronte a lui. Bastò uno sguardo.
I suoi occhi tornarono da Abigale, si posarono su quel viso scuro che tante volte era stato capace di tranquillizzarlo nei momenti di paura. Abigale socchiuse le labbra in quello che, forse, era un sorriso – Portali …- sussurrò - …portali …via d-d-di qui.-
Shepard tolse la mano dalla ferita,la posò sul suo viso e continuò a guardarla finché la vita, lentamente, non scivolò via da lei. Rimase con lei fino alla fine, ma non disse niente, non fece alcuna promessa. Non poteva dirle ciò che voleva sentire. Non poteva mentire ad una donna morta.
Le chiuse gli occhi con due dita e si alzò.
- Forza.- disse – Ci hanno concesso un attimo di tregua: cerchiamo un modo per andarcene di qui.-
Ci sarebbe stato tempo per piangere i morti, ma, in quel momento, l’unica cosa importante era sopravvivere.
Sasha fu la prima a rialzarsi ed affiancarlo, il viso cosparso di lentiggini contratto in una smorfia di colpevole dolore. Sapeva bene a cosa stava pensando, lo aveva fatto anche lui, ma solo un uomo meschino avrebbe trasformato in parole quei pensieri.
Lui era molte cose, ma non meschino.
Sasha notò il suo sguardo e fece per dire qualcosa, ma Shepard la zittì – Non c’è tempo per fare il mea culpa. – le disse, più duramente di quanto intendesse fare – Mio è il comando, mia è la responsabilità.- guardò gli altri e alzò la voce, per farsi sentire da tutti – Io vi ho portato su questo pianeta e io ve ne tirerò fuori, ma ho bisogno del vostro aiuto: se vogliamo uscirne vivi dobbiamo rimanere uniti. Insieme possiamo affrontare qualsiasi cosa: anche la morte.- li fissò uno ad uno imprimendosi quei volti nella memoria; per ultima guardò Sasha: era suo il viso che voleva ricordare fino all’ultimo dei suoi giorni. Si mise di fronte a quei compagni di cento battaglie: non erano solo i suoi uomini, erano i suoi fratelli – Siete con me?-
Uno dopo l’altro gli si strinsero attorno; Sasha esitò più a lungo degli altri, abbassò il capo, quasi a chiedersi se fosse giusto rimanere con loro. Fu Nadine ad allungare la mano verso di lei – Sei con noi?- le chiese.
Gli occhi verdi di Sasha brillarono; fece un passo, poi un altro, infine fu insieme a loro – Fino alla fine.- non un’ombra attraversò il suo sguardo; le labbra morbide si piegarono in un sorriso triste e due piccole fossette comparvero agli angoli della sua bocca.
Quando il loro occhi s’incrociarono pensò che erano di nuovo insieme. Si chiese se sarebbe bastato.
La terra sotto i loro piedi tremò leggermente: la tregua era finita e, presto, avrebbe avuto la sua risposta.
 
La porta si era spalancata su un corridoio bianco e asettico, identico a quello di un ospedale se non fosse stato per la totale assenza di porte. Lo avevano attraversato col cuore in gola, consapevoli di essere tremendamente esposti, senza un posto dove nascondersi. Le suole degli scarponi emettevano un cupo rimbombo mentre i tre uomini camminavano senza giungere mai ad una fine. Pensarono di essersi addormentati: quello era solo uno strano sogno, inquietante ed incomprensibile. L’intero universo si era ridotto a quel corridoio bianco senza più un inizio né una fine.
Poi erano giunti ad una porta. Dietro la porta avevano trovato una scala e alla fine della scala si erano imbattuti in un’altra porta con un altro corridoio e un’altra scala e un'altra porta e così via in un ripetersi apparentemente infinito.
Non parlavano più, camminavano e basta, spaventati e confusi, chiedendosi quando sarebbero giunti alla fine di quel labirinto che si ripeteva sempre uguale a se stesso.
Infine, dietro l’ennesima porta, trovarono qualcosa di diverso. E si scoprirono a rimpiangere il corridoio.
Entrarono in una stanza, bianca come tutto il resto: pareti bianche su un pavimento bianco e, lungo le pareti, c’era una lunga fila di letti bianchi. Una dozzina o forse qualcuno di più. Sui letti giacevano delle cose. Cose che un tempo erano stati esseri umani.
Toombs e i suoi uomini attraversarono la stanza come fantasmi, rifiutandosi di credere a ciò che i loro occhi vedevano.
Ciò che era stato fatto a quei corpi andava al di là dell’umana immaginazione.
Alcuni avevano l’epidermide ricoperta di bolle verdastre, altri la carne talmente corrosa da lasciare lo scheletro esposto, altri ancora erano a tal punto gonfi da chiedersi come potesse la pelle tendersi tanto da non lacerarsi. Alcuni presentavano deformità abominevoli al posto degli occhi o delle mani o del cranio.
- Toombs …- sussurrò Rick con un filo di voce: si trovavano all’incirca a metà della stanza- … sono ancora vivi, Toombs.-
Aveva ragione: c’erano delle macchine a tenerli in vita. Quegli uomini erano cavie: preziose cavie che non potevano morire.
Dietro di lui sentì Martin vomitare sul pavimento.
Rick gli lanciò una rapida occhiata – Sono i tizi che stavamo cercando, non è così?-
Toombs continuò ad avanzare, desideroso di andarsene da quella stanza il prima possibile – È probabile.- sibilò tra i denti.
- Chi può aver fatto una cosa del genere?- balbettò Martin – Perché?-
Finalmente giunsero di fronte all’uscita, si fermarono davanti e, come avevano fatto tutte le altre volte, mandarono un drone in esplorazione, per scoprire cosa ci fosse dall’atra parte,
Toombs lasciò vagare lo sguardo su quella stanza degli orrori, ancora più abominevole nella sua candida immobilità – Potevano farlo e nessuno li ha fermati: ecco perché l’hanno fatto.- dietro la porta c’era una stanza apparentemente vuota, Toombs premette il pulsante che apriva l’uscio – Andiamo, non voglio rimanere qui un minuto più del necessario.-
Finalmente trovarono ciò che stavano cercando. La stanza dall’altra parte era piena di computer e terminali operativi; Martin non impiegò molto a individuare quello che controllava la parabola.
Si avvicinarono al terminale e, mentre Toombs e Rick gli guardavano le spalle, Martin iniziò ad armeggiare coi comandi.
Dopo pochi minuti si bloccò, imprecando a denti stretti.
- Che succede?- domandò Toombs, preoccupato: erano lì dentro da ore e il fatto di non sapere cosa stesse accadendo fuori lo impensieriva quasi quanto l’apparente abbandono di quei luoghi. Dov’erano finite le persone che avevano torturato gli uomini nell’altra stanza? Perché non avevano ancora incontrato nessuno?
Le risposte a quelle domande erano l’una meno rassicuranti delle altre.
- Non c’è modo di disattivare la parabola senza far scattare l’allarme.- spiegò Martin.
- Non puoi bypassare discretamente il sistema?-
Martin scosse il capo – Non senza i codici, o un’IA.- fece un sorrisetto nervoso – Non è che ne avete una a portata di mano?-
Toombs scosse il capo e prese un respiro profondo, chiedendosi se quella sarebbe stata la loro tomba – Fai quello che devi fare, Martin.- estrasse la pistola – Dopo che avrai finito mi assicurerò che nessuno possa usare ancora questo terminale.-
Nessuno dei due protestò. Quando avevano accettato quella missione erano entrambi consapevoli che, forse, non ci sarebbe stato ritorno.
Quando Martin disattivò il segnale una sirena assordante cominciò a riecheggiare per la base; Toombs mise fuori uso il terminale prima di seguire gli altri lanciati verso l’uscita.
Ma, prima che giungessero vicini alla porta, dal soffitto coiminciarono a scendere spesse lastre di vetro che, in pochi minuti, li intrappolarono. Provarono a sfondarle coi pugni e i proiettili: nemmeno un graffiò scalfì quei vetri insuperabili.
Dal soffitto e dal pavimento cominciò a filtrare fumo: in pochi secondi cominciarono a tossire, piegandosi su se stessi, cercando invano di agganciare nuovamente i caschi. Ma le mani tremavano e gli occhi lacrimavano; le ginocchia cedettero sotto il loro peso e i tre uomini cominciarono a rantolare, i volti premuti contro il vetro.
Il primo a perdere i sensi fu Martin, seguito poco dopo da Rick, sconfitti da un nemico invisibile che non aveva avuto neppure il coraggio di affrontarli.
In un ultimo sprazzo di lucidità Toombs accese la radio: doveva avvertire Shepard, doveva dirgli di andare via.
La radio sfrigolò – Qui Toombs …- ansimò - …andate via … andate via …questo pianeta è una trappola …- non avrebbe saputo dire se quelle parole erano uscite davvero dalle sue labbra o se le avesse solo immaginate.
Mentre il mondo diveniva sempre più sfocato, scorse un movimento dietro il vetro; alzò debolmente lo sguardo e vide due persone, un uomo e una donna, che lo fissavano. Vestivano camici bianchi con un simbolo cucito sopra: un esagono nero e giallo.
- Chi siete?- esalò, mentre l’oscurità lo sopraffaceva.
Se gli risposero il caporale Toombs non li udì; il suo ultimo pensiero andò alla luce delle stelle: sarebbe passato molto tempo prima che potesse rivederle ancora.
 
Tre. I guardiani di Akuze erano tre, come le teste di Cerbero, il cane custode degli inferi.
Esplosero dal terreno simili alla lava eruttata dai vulcani, attirati dalle urla e dai proiettili che i pochi sopravvissuti al primo attacco ancora riversavano sui detriti della frana che impediva loro la ritirata.
Il capitano Rahn era vivo quel tanto che bastava per continuare a sbraitare i suoi insulsi ordini, a riprova che gli dèi avevano uno strano senso dell’umorismo
Quando i tre mostri si schiantarono sul gruppetto di uomini raccolto attorno alla frana, Shepard intravide una via d’uscita per lui e la sua squadra.
Quelle creature erano attratte dal rumore e scatenavano la loro furia su qualunque cosa osasse infastidirle: la carta della furtività era l’unica rimasta da giocare. Le urla e gli spari dei soldati dell’Alleanza morenti sarebbero serviti da ottimo diversivo, a quel punto la domanda era: per fare cosa?
Erano intrappolati in quell’arena desertica senza alcuna via d’uscita, le navette erano fuori portata, le radio inservibili e le loro armi inutili.
La risposta alle sue domande arrivò inaspettata, sottoforma del gracidio della sua radio.
Tra le scariche elettrostatiche riuscì a udire solo poche lettere – Q … Toom …an … ia …-
- Che cos’era?- domandò Tiger seduto accanto a lui, la gamba ferita rozzamente fasciata.
Shepard si asciugò il sudore dalla fronte: aveva riconosciuto la voce di Toombs, nient’altro. Poco importava il significato di quella chiamata: che quel posto fosse pericoloso l’avevano ormai capito. La cosa importante era che le radio funzionavano di nuovo, qualunque fosse il motivo che avesse interrotto il segnale.
- Jin …- fece cenno al pilota di avvicinarsi - …cos’hai detto prima, a proposito delle colline?-
il giovane cinese prese una manciata di sabbia nera e gliela mostrò – Questa è ferrite.- spiegò – Blocca qualunque segnale radio, non importa quanto sia potente. Ma da là in cima …- indicò la sommità del declivio alle loro spalle – Là in cima potremmo riuscire a contattare l’Alleanza.-
Poco distante da loro il massacro proseguiva, ma ben presto non ci sarebbe stato più nessun soldato a distrarre quegli enormi mostri mangiatori di uomini.
- Ci serve una radio satellitare.- puntualizzò Jake – La base dell’Alleanza più vicina è lontana migliaia di chilometri.-
C.J. indicò il Mako sfracellato pochi metri davanti a loro – Ogni veicolo è dotato di due postazioni radio-satellitari mobili; dal momento che uno dei Mako è esploso possiamo solo sperare che le altre non si siano rotte nello schianto.-
Spari e urla si affievolivano sempre più: se volevano sopravvivere dovevano agire.
Shepard annuì, deciso – Non avremo seconde occasioni: io, Jin e Jake ci occuperemo delle radio, voialtri cercate un modo per salire.-
Sasha lo bloccò – Io vengo con voi.-
Cercare di farle cambiare idea sarebbe stata solo un’inutile perdita di tempo, perciò si limitò ad annuire.
- Non sparate.- ricordò loro – Non dobbiamo attirare l’attenzione.-
Seguiti dallo sguardo preoccupato dei loro compagni attraversarono di corsa lo spazio scoperto che li separava dal Mako, ignorando i rottami fumanti dell’altro veicolo sulla loro destra.
All’orizzonte si scorgevano solo due dei torreggianti vermoni che stavano sterminando il contingente dell’Alleanza, del terzo, quello ferito da Dario, non c’era traccia.
Shepard notò che un gruppo di superstiti cercava di scalare la parete di roccia nera, incalzati da vicino da uno dei due mostri: nei pochi secondi che occorsero loro per raggiungere il Mako metà di quegli uomini si era sfracellata al suolo e l’altra metà stava per andare incontro al medesimo destino.
L’armatura rossa del Capitano Rahn spiccava sulla pietra nera della parete.
Raggiunsero il veicolo senza incidenti, ma le portiere deformate dall’urto erano inamovibili; Shepard dovette far ricorso ai suoi poteri biotici per scardinarne una, in un’assordante stridio di lamiere.
- Muoviamoci!-
Sasha e Jake s’infilarono nell’abitacolo, scavalcando il corpo straziato del pilota, mentre lui e Jin rimanevano ad assistere al massacro degli uomini del Capitano Rahn.
Con la coda dell’occhio notò che Jin stava piangendo – Dovremmo aiutarli.- lo sentì sussurrare.
Shepard lanciò una breve occhiata in quella direzione, prima di riprendere a perlustrare i dintorni: l’assenza del terzo mostro lo impensieriva.
- La loro stupidità li ucciderà.- constatò, senza scomporsi – Ma forse salverà noi.-
- Li stiamo usando come esca?-esclamò Jin, scandalizzato.
Shepard si strinse nelle spalle – Si sono gettati in pasto a quelle bestie da soli. Non possiamo aiutarli, Jin.-
Non disse che se anche avesse intravisto la possibilità di salvarli non l’avrebbe fatto. In palio c’era ben più della sua vita: c’era la vita dei suoi uomini, i suoi amici … Sasha. Erano loro quelli che doveva salvare, nessun altro.
Sasha uscì dall’abitacolo con una delle radio, se aveva sentito il loro scambio di battute non lo diede a vedere. Gli occhi verdi si posarono per un istante sui pochi uomini che ancora cercavano di sopravvivere e passarono oltre.
 – Cosa diavolo sta facendo Jake?- le domandò.
Sasha fece una smorfia – Ha detto qualcosa a proposito dei cannoni. Credo stia provando a ravviarli.-
- Maledizione!- scivolò all’interno dell’abitacolo: Jake era seduto al posto di guida, il capo chino sul pannello di controllo, aveva la radio appoggiata accanto – Jake, prendi la radio e andiamo via: non abbiamo tempo per le stronzate!-
- Aspetta! Posso riavviare le armi, possiamo colpire uno dei mostri, distrarli abbastanza per dare a quegli uomini intrappolati il tempo di fuggire!-
Il Mako cominciò a ridare segni di vita, le luci si accesero e i cannoni iniziarono a portarsi in posizione – Sei impazzito, Jake? Se spari diventeremo noi l’obiettivo di quei mostri!-
L’ingegnere si voltò verso di lui, determinato come non l’aveva mai visto: non c’era più traccia del ragazzino acerbo e timoroso che aveva conosciuto.
Gli lanciò la radio – Prendetela e tornate dagli altri. Io rimango qui, a fare il mio dovere di soldato.- un tonfo metallico annunciò che i cannoni erano di nuovo attivi.
Sasha si sporse all’interno – Dobbiamo andare!-
- Prendi le radio: tu e Jin raggiungete gli altri.-
- Shepard …-
- Questo è un ordine! Andate!-
La sentì imprecare a denti stretti, ma, per una volta nella vita, obbedì.
Shepard strinse la mano sulla spalla di Jake – Non puoi aiutare quegli uomini: puoi morire per loro, se vuoi, ma non li salverai.-
- Stai dicendo che dobbiamo abbandonarli, lasciarli macellare?-
Fuori sentì Sasha e Jin che discutevano, immaginò stessero affrontando la stessa discussione che era in corso all’interno del veicolo. Sperò che lei avesse il buon senso si andarsene senza di loro. Lo stesso buon senso che avrebbe dovuto avere anche lui.
- Sto dicendo che quei soldati sono una causa persa: o cerchi di salvarli e moriamo tutti o ce ne andiamo e sopravviviamo.-
Jake fece una smorfia – Allora vattene, Shepard: anch’io sono una causa persa.- il suo palmo calò sul pulsante e i due cannoni del Mako aprirono il fuoco.
Shepard imprecò, cercando di smuovere il ragazzo dalla sua postazione, ma Jake era inamovibile; fece appena in tempo a scorgere i colpi del Mako che andavano a segno e i due vermoni ritirarsi nelle viscere della terra, probabilmente diretti propri lì, dov’erano loro.
- Shepard!- c’era panico nella voce di Jin.
Voltò le spalle al suo ingegnere e strisciò fuori dal veicolo, Jin gli tese una mano, aiutandolo a rialzarsi – Dov’è Sasha?-
Jin indicò la direzione da cui erano venuti e scorse Sasha che attraversava di corsa il deserto con entrambe le radio appese alla cintura; gli sfuggì un sospiro di sollievo: fortunatamente c’era ancora qualcuno con un po’ di buon senso.
- Dobbiamo andare via di qui!- sbraitò, afferrando Jin per un gomito.
- E Jake?-
- Jake ha fatto la sua scelta.- cominciò a correre, trascinando il pilota con sé – Se restiamo siamo morti.-
Jin aprì la bocca per protestare ma, in quel momento, una delle creature emerse dalla terra dritto davanti a loro. Shepard vide le sue fauci spalancarsi e, in quell’attimo, pensò che era finito tutto; tentò di raccogliere le forze per erigere una barriera biotica, ma sapeva bene che sarebbe stato tutto inutile.
Quando l’essere sputò il suo veleno riuscì solo a pensare che stava andando incontro ad un morte orribile, in quel momento Jin gli si avventò contro. Shepard rovinò a terra e, invece di colpire lui, il veleno centrò Jin in pieno petto, trapassandolo da parte a parte.
Il giovane pilota fece appena in tempo a portarsi le mani tremanti verso il foro slabbrato e fumante che gli si era aperto nel corpo prima di cadere riverso nella sabbia, gli occhi vitrei piantati in quelli del suo comandante.
Stordito, Alex cercò di rialzarsi mentre il muso senza occhi del suo carnefice si voltava verso di lui, d’istinto estrasse la pistola, ben sapendo di non poterla usare per salvarsi; ma forse poteva usarla per evitare una morte atroce.
Il Mako sparò di nuovo, un boato che deflagrò nella valle. Il proiettile esplose lontano dal suo bersaglio, ma tanto bastò a distrarre la creatura: perso qualsiasi interesse verso Shepard il verme puntò al veicolo.
- Jake!- urlò Alex, mettendosi finalmente in piedi, la pistola stretta in pugno – Esci subito da lì!-
Scorse Jake affacciarsi dal portellone e saltare fuori un secondo prima che la stazza immensa della bestia si abbattesse sul veicolo, accartocciandolo.
Shepard corse in quella direzione, consapevole di non poter abbandonare Jake un’altra volta.
Dove prima c’era il Mako si era aperta una voragine in cui la sabbia si riversava a fiotti: Jake era riuscito ad aggrapparsi al bordo del cratere, ma le sue dita scivolavano inesorabilmente sul terreno instabile.
Shepard infilò la pistola nella fondina e si gettò a terra, il ventre aderente al terreno, le gambe divaricate per una presa migliore, gettò le braccia oltre il precipizio, giusto in tempo per afferrare la mano di Jake che mollava la presa.
- Ti tengo, amico, ti tengo: cerca di afferrarti anche con l’altro braccio!-
Si sentiva scivolare, centimetro dopo centimetro, nell’abisso che stava inghiottendo Jake.
Il ragazzo cercò di sollevare l’altro braccio, ma i suoi tentativi non fecero altro che accelerare la lenta caduta di entrambi: Shepard puntellò i piedi nella sabbia, ma già la testa e le spalle sporgevano oltre il bordo.
- Resisti!- Jake lo fissava coi grandi occhi sgranati. Ora che l’adrenalina era evaporata e non rimaneva che la paura della morte era tornato ad essere un ragazzo. Erano entrambi dei ragazzi: troppo giovani per morire in quel modo, lontani milioni di chilometri dal cielo di casa loro.
Il peso di Jake gli gravava interamente sulle braccia, cominciò a tirarle verso l’alto; sentì la dolorosa pressione del sangue che gli fluiva alla testa, unita al lacerante bruciore dei suoi muscoli e alla consapevolezza di star scivolando, poco a poco, verso la morte.
- Cadremo tutti e due!- singhiozzò Jake – Devi lasciarmi andare, Shepard.-
Non rispose, non aveva fiato da sprecare, si limitò a scuotere il capo rimanendo aggrappato a Jake, come se i ruoli si fossero invertiti e fosse stato lui quello a penzoloni nel vuoto.
Sarebbero caduti ma non l’avrebbe lasciato andare.
Improvvisamente sentì qualcosa premere sulle sue gambe, fermando quella rovina che sembrava ormai inevitabile – Sono qui, Alex!-
Era tornata indietro, dopotutto.
 - Sasha …- esalò – Non …-
- Le radio sono al sicuro.- lo interruppe lei – Ora pensa a tirare su Jake, ti tengo io.-
Il corpo di nuovo fermo, Shepard riprese ad issare Jake, lentamente, centimetro dopo centimetro. Malgrado il duro allenamento cui si sottoponeva tutti i giorni, cominciò a sentire i muscoli della braccia bruciare come se l’intera corazza avesse preso fuoco. Sembrava quasi che il sangue nelle vene fosse stato sostituito da acido puro. Alex ebbe l’impressione che tendini e muscoli si stessero staccando dalle sue ossa; era convinto che di lì a poco non sarebbe rimasto che il suo scheletro e poi anche quello sarebbe andato in frantumi, precipitando verso il basso assieme al corpo urlante di Jake.
Eppure, nonostante tutto, Jake continuava a risalire e lui stringeva i denti imponendosi di resistere: era l’unica cosa che doveva fare. Gli occhi gli bruciavano per il sudore che gli colava dalla fronte. Li chiuse e li riaprì, mentre iniziavano a lacrimare: non vedeva più niente.
- Forza …- gemette - …ci sei quasi, Jake.- sentì l’altra mano del ragazzo stringersi intorno al suo polso.
Jake era quasi in salvo quando la terra riprese a tremare. Attraverso gli occhi appannati Shepard scorse una sagoma sfocata muoversi negli abissi sotto di loro.
Il terreno intorno al suo corpo iniziò a cedere.
- Alex!- urlò Sasha – Sta per crollare tutto!-
Jake si contorse, staccando la mano dal suo braccio per aggrapparsi al bordo che si sgretolava tra le sue dita e sotto il corpo di Shepard: dal basso un boato sordo annunciò l’arrivo della morte.
- È finita, Shepard!- singhiozzò Jake – È finita. Devi lasciarmi andare.- aprì la mano e Alex sentì il suo braccio scivolargli tra le dita.
- No: io non ti lascio!-
- Moriremo tutti e tre se non lo farai.- piangeva, le lacrime che lasciavano segni più chiari sulle guance sporche di terra – È stata una mia scelta, comandante. Lasciami andare: sono una causa persa, ricordi?-
Sentì le mani di Sasha aggrapparsi alle sue caviglie – Non riesco più a tenervi!-
Jake aveva ragione. Se ci fosse stata solo la sua vita in gioco probabilmente sarebbe rimasto con lui fino alla fine: ma c’era Sasha lì con loro. Non poteva salvare Jake: qualunque cosa facesse lui era spacciato. Per Sasha invece c’era ancora speranza. Ma la verità era che se i ruoli fossero stati invertiti, se ci fosse stata Sasha al posto di Jake, nulla gli avrebbe impedito di stare con lei fino alla fine, nemmeno la sopravvivenza dei suoi amici. Lo sapeva lui e lo sapeva Jake, ma non c’era niente che potesse o volesse fare per eliminare quella debolezza: la sua unica debolezza. Dopotutto era umano anche lui.
Sasha era l’unica cosa al mondo che non poteva sacrificare in nome di un bene superiore.
- Mi dispiace.- sussurrò. Aprì la mano e Jake cadde urlando nell’abisso, dritto tra le immonde fauci del nemico più terribile che avessero mai incontrato.
 

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Capitolo 34
*** Muore la speranza ***


Stand Strong, Stand Together


Non c’era stato tempo per pensare alla morte di Jake, per piangerlo o chiedersi se si sarebbe potuto fare di può per salvarlo; non c’era tempo nemmeno per respirare: o fuggivano o morivano.
Si ritrovarono in piedi, a correre per la loro vita, senza nemmeno sapere come fossero riusciti ad evitare il destino di Jake. L’unica cosa certa erano le gambe che si muovevano da sole, i polmoni che esplodevano nel petto, i muscoli che bruciavano, la mente svuotata da qualsiasi altro pensiero che non fosse l’imperativo ordine di sopravvivere, a qualunque costo, in qualunque modo. Dietro di loro il cratere che aveva inghiottito Jake diventava sempre più ampio mentre il mostro che vi abitava s’innalzava nell’alto dei cieli, così grottesco e surreale da sembrare un brutto effetto speciale di un film di quart’ordine. Ma non c’era nulla di finto nella sua furia assassina.
Sasha e Shepard correvano, per andare dove non lo sapevano: non c’era luogo su quel pianeta in cui rifugiarsi, nessuna arma da poter usare contro quegli esseri, nessuna speranza di sopravvivere.
Forse la cosa più giusta da fare era fermarsi, girarsi e affrontare la bestia faccia a faccia, le braccia spalancate ad accogliere una morte inevitabile.
Forse dovevano solo arrendersi.
Nessuno dei due lo fece.
Sarebbe stato troppo facile morire in quel modo.
Shepard doveva vivere per salvare i pochi amici ancora in vita … Sasha, invece: “che tu possa vivere per sempre” era stato l’augurio di un vecchio Turian all’uomo che aveva assassinato l’intera sua famiglia, ed era l’augurio che si faceva lei ora, per aver portato al massacro la sua di famiglia.
L’ombra del mostro oscurò il sole lontano di quel pianeta maledetto; Sasha sentì la presenza dell’essere sopra di loro, non osò alzare lo sguardo, sapeva che se l’avesse fatto sarebbe morta.
- Più veloce, Sasha! Più veloce.-
Alex era accanto a lei, il viso imperlato di sudore, lo sguardo segnato dalle morti che non aveva potuto evitare: persino nella disperazione di quegli attimo ebbe la certezza che lui l’avrebbe protetta. Che sarebbe rimasto al suo fianco a scapito di tutto il resto.
Uno spruzzo di terra e sabbia si sollevò davanti ai loro piedi, mentre un fiotto di veleno li mancava per un soffio; cambiarono bruscamente direzione, ma l’ombra della bestia continuò a sovrastarli mentre una ragnatela di crepe compariva sotto i loro piedi. Si chiese perché quell’essere non li aveva ancora uccisi, si rispose che non lo faceva perché stava giocando con loro: erano il criceto che corre sulla ruota e lui il gatto che si fa beffe dei loro sforzi per sfuggirgli.
Entrambi sapevano che il mostro non aspettava altro che si fermassero: per qualche ignota ragione, prima di ucciderli, voleva che si arrendessero.
O forse era lei che, nella follia di quegli attimi, attribuiva a quell’essere una coscienza che probabilmente non esisteva. Era solo una questione di vita o di morte.
Erano giunti entrambi allo stremo delle forze quando nell’aria immobile di Akuze risuonò uno sparo, cui ne seguirono altri due, in rapida successione; uno stridio agghiacciante li assordò, seguito dal boato sordo di un palazzo di dieci piani che si sfracellava al suolo.
Le spire del verme si abbatterono una cinquantina di metri alla loro sinistra, alzando una nuvola di polvere e detriti che minacciò di sopraffarli; solo i riflessi di Shepard, che usò le poche forze rimastegli per erigere una barriera biotica, impedirono che finissero sepolti vivi sotto l’onda di sabbia che il crollo del loro inseguitore aveva sollevato.
Quando la polvere si diradò, Shepard abbassò la barriera: davanti a loro uno dei guardiani di Akuze giaceva morto.
Come gli eroi delle antiche leggende, dalla devastazione che li circondava, emersero quattro figure, illuminate dagli ultimi raggi di un sole morente.
Nadine si fermò davanti a loro, il fucile di precisione appoggiato contro la gamba: una dea della guerra giunta a salvarli.
Habib e C.J. li aiutarono a rialzarsi, medicandogli le poche ferite superficiali che avevano riportato; Tiger si accasciò al suolo con una smorfia di dolore, una mano stretta sulla coscia che aveva ripreso a sanguinare.
- Come hai fatto ad abbatterlo?- domandò Shepard, sbalordito, mentre Nadine rinfoderava la sua arma.
Lei scrollò le spalle – Era il mostro che Dario ha colpito con lanciarazzi: ho solo finito il suo lavoro. È stato sufficiente mirare alla ferita.- si guardò intorno, accigliata – Jin e Jake?-
Il viso di Shepard si contrasse – Non ce l’hanno fatta.- gli altri accusarono il colpo; prima di quel giorno non avevano mai perso compagni di squadra in battaglia: in poche ore quattro di loro erano morti. Eppure stavano cominciando a farci l’abitudine. Ognuno di loro, segretamente, stava pensando la stessa cosa: chi sarà il prossimo? E, altrettanto segretamente, speravano di non estrarre la pagliuzza corta.
- Dovresti mettere del medi-gel su quella ferita, Tiger.- mormorò Sasha vedendo il compagno che non riusciva a reggersi in piedi.
Tiger scosse il capo – Non ne è rimasto abbastanza per rimettermi in sesto. Inutile sprecarlo.-
- Questi sono discorsi da uomo morto, Tiger.- controbatté Sasha prima che gli altri potessero intervenire – Tu non sei ancora morto.-
Per la prima volta da quando lo conosceva il viso di Tiger tradì un’emozione: rassegnazione.
- Guardati introno, Sasha: noi siamo già morti.-
- No.- intervenne Shepard duramente – Finché respireremo saremo vivi e finché non ci arrenderemo noi respireremo. – prese l’ultima fiala di medi-gel e gliela porse – Usalo.- intimò – Non potrai partecipare ad una maratona, ma almeno camminerai.-
Tiger non mosse un muscolo – Potrebbe servire a qualcun altro; usarlo per me è uno spreco: io sono andato.-
- Tiger!-
- Risparmiami le sceneggiate, Nadine, sai che ho ragione.- l’uomo assottigliò gli occhi e fissò il suo superiore – E se tu fossi davvero un comandante, Shepard, sapresti che il tuo compito è lasciarmi indietro.-
Tiger era sempre stato il più duro della compagnia, il più cinico, quello che non si faceva problemi a dare voce alle verità più scomode; ma quello che stava chiedendo ora era più di quanto i suoi compagni fossero disposti ad accettare.
Sasha guardò Shepard trattenendo il fiato, chiedendosi quale sarebbe stata la sua scelta; aveva abbandonato Jake perché non c’era più speranza ma adesso era diverso. Tiger non era spacciato. Non ancora.
- Non so cosa farebbe un vero comandante.- rispose Shepard – Ma so cosa farebbe un amico.-
- E cosa farebbe?-
- Ti direbbe di non rompere le palle e usare quel cazzo di medi-gel.-
L’ombra di un sorriso passò sul viso di Tiger che prese la fiala dalle mani del suo comandante senza ulteriori proteste; Nadine riprese a respirare e si precipitò ad aiutare il suo uomo.
- Le radio funzionano?- domandò Shepard scrutando la desolazione che li circondava. Sembrava che l’uccisione di uno di loro avesse spinto le altre bestie a ritirarsi, ma tutti sapevano che si trattava di una tregua momentanea.
Quei mostri non li volevano sul loro pianeta e non avrebbero avuto pace finché non li avessero cacciati tutti o uccisi.
- Sì. – rispose Tiger con un gemito, mentre Nadine gli applicava la medicazione; dopo la morte dei due ingegneri era l’unico tecnico rimasto – Ma si sentono solo fruscii. Jin aveva ragione: dobbiamo salire.-
Sasha lanciò un’occhiata rassegnata alle pareti impervie che li circondavano; i declivi di Akuze erano bassi, tra i due e i trecento metri al massimo, ma estremamente scoscesi.
C.J. si avvicinò, porgendo il binocolo a Shepard – Abbiamo individuato due vie che ci sembrano percorribili: una, la più vicina, è trecento metri più avanti lungo la parete dietro di noi.-
Il comandante guardò nella direzione indicata e fece una smorfia – È parecchio esposta.- constatò – E i primi metri sono praticamente in verticale.- abbassò il binocolo e scosse il capo – Anche con la gamba rattoppata Tiger non potrebbe mai farcela.- sussurrò a denti stretti, per non farsi sentire dagli altri.
Sasha si morse il labbro, guardando C.J. in cerca d’aiuto – E l’altra strada?-
Il ragazzo sospirò, spostandosi i capelli che gli erano ricaduti sugli occhi – La parete di fronte a noi è meno scoscesa, ci sono più appigli ed è meno alta, ma prima di raggiungerla bisogna attraversare mezzo chilometro di deserto, senza nessun riparo.-
Non disse quello che pensavano tutti e tre: quale che fosse la loro scelta difficilmente Tiger ce l’avrebbe fatta.
Sasha spostò il peso da un piede all’altro, gli occhi fissi sull’enorme carcassa distesa davanti a loro – Potremmo usarlo come copertura.- propose mentre un’idea si affacciava nella sua mente.
Shepard fissò il cadavere, perplesso – Non ti seguo.-
- Per quello che ne sappiamo sono rimasti in due: se puntiamo tutti nella stessa direzione ci si scateneranno contro come hanno fatto con le altre squadre. Ma se ci sparpagliamo forse qualcuno di noi potrebbe farcela.-
C.J. annuì – Abbiamo due radio e due strade. Potrebbe essere un’idea. Basta una sola persona per chiedere aiuto.-
Shepard si passò una mano sulla fronte – Due con le radio e gli altri a fare da diversivo: due mostri e tre bersagli.-  sospirò – Se seguiamo questo piano qualcuno morirà.-
Sasha sospirò – Non è detto: se non facciamo rumore, se siamo silenziosi, forse non si accorgeranno di noi. Ora che non spara più nessuno si sono ritirati. Se non compariranno non sarà necessario alcun diversivo e nessuno morirà.- si era mostrata più ottimista di quanto lei stessa non fosse.
Shepard esitò qualche secondo poi dovette rassegnarsi all’evidenza: non avevano altre alternative – Andiamo a dire agli altri che abbiamo un piano.-
 

War


Avevano appena finito di esporre la loro strategia quando la situazione degenerò nuovamente.
Dopo quello che aveva visto dal Mako, Shepard si era convinto che lui e i suoi uomini fossero i soli sopravvissuti della spedizione. Ma con il suo folle intervento Jake aveva raggiunto il suo scopo: alcuni degli uomini che avevano visto assediati dai mostri erano riusciti a sopravvivere. Ed ora, di nuovo, stavano tentando di mettersi in salvo.
Shepard non aveva idea di quale fosse il loro piano di fuga ma, ancora una volta, fallirono, attirando l’attenzione di una di quelle creature. Si chiese quanto tempo sarebbe trascorso prima che l’altro mostro si unisse alla festa.
- Non abbiamo più tempo. Bisogna salire su quelle stramaledette colline!-
- Ci hanno già provato, Alex!- intervenne Tiger con veemenza - Quelli della 16 e della 124 … hai visto che fine hanno fatto! Se quella cosa si accorge di noi, siamo fottuti.-
- Rispettiamo il piano: due salgono con le radio e, se sarà necessario, gli altri faranno da esca. -
C.J. fece una smorfia - Per le esche non mi preoccuperei, capo. Quei coglioni lo stanno già facendo senza che nessuno glielo chieda.-
In altri tempi si sarebbe limitato a pensare quello che quel giorno disse ad alta voce: – Bisogna solo sperare che sopravvivano abbastanza a lungo.-
- Stai diventando orribilmente cinico, capo.-
Preferì non rispondere, cercando di non pensare a nulla che non fosse la semplice valutazione tecnica delle loro capacità. Chi era il più veloce? Il meno stanco? Il più resistente? A chi poteva affidare la vita di tutta la sua squadra?
- Habib … te la senti di occuparti di una delle radio?-
Il soldato iraniano aveva tutte le carte in regola: veloce, instancabile, furbo abbastanza da sopravvivere anche nelle situazioni più estreme e sufficientemente coraggioso da non tirarsi indietro.
- Agli ordini capo. –
- Chi prende l’altra radio?- domandò Tiger.
In condizioni normali la scelta più ovvia sarebbe stato lui, l’unico in grado di far fronte ad un eventuale problema tecnico; ma la gamba ferita lo escludeva automaticamente dai giochi.
C.J. non era un’opzione: riusciva ad incasinare i tasti anche di un walkie talkie. Rimanevano Nadine, Sasha e lui stesso.
Prima che potesse dire qualcosa Nadine si fece avanti.
- Andrò io.-
- Sei impazzita?- esclamò Tiger.
- Sono la scelta più ovvia, Tiger.- scattò Nadine – Tu sei ferito, C.J. farebbe esplodere la radio, senza offesa, e corro più veloce di Sasha.-
- Sono io la scelta più ovvia, Nadine.- s’intromise Shepard – Tocca a me.-
Sasha gli afferrò il braccio – Alex rifletti: sei il nostro comandante, non possiamo rischiare di …-
- Dovrei nascondermi mentre altri rischiano la vita per me?-
- Sasha ha ragione: se noi dovessimo fallire, comandante, ci sarà bisogno di un altro piano. Ci sarà bisogno di te. Il tuo posto è con il gruppo e i tuoi poteri biotici saranno più utili qui che lassù.- Nadine gli prese il viso tra le mani, obbligandolo a guardarla – È una mia scelta, Alex.-
- È una follia, Shepard.- ringhiò Tiger alle sue spalle – Non darle retta …-
Nadine aveva ragione: non poteva scappare sulle colline e abbandonare i suoi uomini. Comunque andassero le cose sarebbe stato l’ultimo a lasciare il pianeta o non l’avrebbe lasciato affatto. Era il loro comandante.
- Va bene, ma state attenti. Non guardatevi indietro: qualunque cosa accada, qualunque cosa sentiate continuate a salire.-
Sentì Tiger imprecare, ma Nadine gli sorrise: - Oui, chef.- poi si voltò verso Tiger, baciandolo così appassionatamente che tutti si sentirono in dovere di distogliere lo sguardo.
Infine lei e Habib si agganciarono la radio sulla schiena e, dopo aver salutato tutti, scattarono ognuno in una direzione diversa, portandosi appresso tutte le loro speranze.
Shepard li osservò correre verso le strade che avevano individuato, sperando che la fortuna si decidesse, finalmente, ad assisterli.
- Come sono messi gli altri?- domandò a Sasha che aveva continuato a tenere d’occhio lo scontro tra i rimanenti superstiti e i padroni del pianeta.
- Non dureranno a lungo.- constatò senza tradire alcuna emozione- Credo siano rimasti in quattro.-
Un tempo avrebbe tentato di salvare quegli uomini; un tempo avrebbe agito come Jake. Ma l’epoca del bianco e del nero era finita anche per lui.
Gli occhi di Sasha incontrarono brevemente i suoi e un sorriso triste, sconfitto, affiorò sulle labbra della ragazza – Riconosco quell’espressione.-
- Davvero?-
- L’ho vista spesso, allo specchio. Non avrei mai voluta vederla sul tuo viso. - i suoi occhi tornarono a posarsi sull’agonia degli ultimi soldati dell’Alleanza ancora in vita – Tu eri … puro, ora non lo sei più.-
- Che cosa sono ora?-
Lei fece una smorfia – Sei un morto che cammina, come me, con l’unica differenza che io lo ero già prima di venire qui.- si appoggiò alla carcassa del mostro come se volesse scomparirvi dentro – Un’altra colpa con cui dovrò fare i conti, se mai riusciremo a fuggire.-
Voleva dirle che non aveva importanza, che nulla l’aveva mai avuta davvero. Non i ciechi ideali dietro cui si era nascosto, non la “purezza” che aveva così arrogantemente ostentato; tutto ciò che era stato prima di arrivare su quel pianeta era un inganno. L’intera sua vita si condensava in quella giornata trascorsa all’inferno e l’unica cosa di cui finalmente si rendeva conto era la sua incapacità di salvare le persone che amava. E la colpa di questo non era né di Sasha né dell’Alleanza: era solamente sua.
Erano molte le cose che avrebbe voluto dirle, ma in quel momento la fortuna decise che era stata dalla loro parte fin troppo a lungo.
In un ultimo, disperato, tentativo di fuga, i tre soldati dell’Alleanza sopravvissuti schizzarono fuori dai loro ripari correndo verso le colline, esattamente nella loro direzione. Le strida del mostro richiamarono il suo compagno, che eruppe dal deserto sorprendendo Nadine a un passo dalla parete di roccia.
E mentre la mole della prima creatura si abbatteva sui tre piccoli soldati che avevano osato resistergli, l’altro si accorse della donna che era quasi riuscita a sfuggirgli.
Nadine evitò d’un soffio le spire squamose che frantumarono il suolo alle sue spalle; ma, prima ancora che loro imbracciassero i fucili per attirare l’attenzione, la creatura colpì nuovamente. Per un attimo parve che Nadine avesse imparato a volare, poi il suo corpo inerme andò a sbattere contro quella parete che aveva così disperatamente cercato di raggiungere.
- NADINE!- Tiger spianò il fucile per fare fuoco; Shepard gli si avventò contro, strappandogli l’arma dalle mani – È troppo tardi, Tiger, nessun diversivo la riporterà in vita! Se spari siamo morti tutti.-
Gli occhi di Tiger, di solito calmi ed impenetrabili, roteavano folli nelle orbite; gli sarebbe saltato alla gola se la voce eccitata di C.J. non li avesse interrotti.
- Habib è quasi in cima!-
L’agile iraniano aveva raggiunto il suo obiettivo molto prima di Nadine ma, anche se più breve, la strada che aveva scelto di percorrere era decisamente più impervia; nessuno scommettitore sano di mente avrebbe puntato su di lui quando, con Nadine, era partito per quella missione suicida; eppure, a dispetto di ogni previsione, era l’unico dei due ancora in vita ed ogni loro speranza era affidata alla forza delle sue braccia.
Dal loro riparo osservarono Habib scalare lentamente la parete, appiglio dopo appiglio, appena visibile negli ultimi riverberi di un tramonto alieno. I mostri vigilavano ancora sulla loro distesa di sabbia, apparentemente ignari della preda che stava loro sfuggendo e dei quattro piccoli umani rannicchiati tra le spire del loro fratello caduto.
Ma ogni movimento di quei corpi enormi aveva l’effetto di un terremoto devastante; al loro passaggio la terra tremava e ad ogni tremito nuove ferite si aprivano sui fianchi delle colline. Habib era in bilico su una sporgenza quando una di quelle ferite si aprì proprio nella roccia sotto di lui.
Si udì un suono secco, come di un ramo che si spezza, seguito dal rombo sordo di un tuono lontano. Fu rapido come un battito di ciglia: un attimo prima Habib era aggrappato alla parete, a pochi metri dalla salvezza, l’attimo dopo non c’era più nulla, solo una profonda cicatrice slabbrata lungo tutta la parete rocciosa e un nuvola di polvere a sovrastare un ammasso di detriti accatastato alla base della collina.
Le due bestie non si accorsero del dramma appena consumatosi a pochi passi da loro, continuarono a vagare lungo la distesa di sabbia come se nulla fosse accaduto; ma i loro prigionieri, quegli umani incapaci di evadere da quell’incubo kafkiano, si rattrappirono su se stessi, colpiti a morte.
Shepard scoprì di non essere più in grado di respirare, reduce di un pestaggio emotivo che non era certo di poter sopportare.
Erano bastati pochi secondi, lunghi come l’intera vita di un uomo, a trasformare una speranza di vita in una certezza di morte.
Era un gioco, si disse, un gioco il cui unico scopo era fargli assistere alla morte di tutte le persone a lui care. Si chiese se era prevista anche la sua di morte o se ci sarebbe stata la beffa finale dove tutti morivano tranne lui.
Il primo a scrollarsi di dosso l’immobilismo dello sconcerto fu Tiger che iniziò a colpirlo con pugni piacevolmente dolorosi, in grado di cancellare, per un istante, lo strazio dell’anima.
Eppure nemmeno le nocche che gli cozzarono contro lo zigomo riuscirono a frastornarlo abbastanza da impedirgli di sentire la voce stravolta di Tiger - Tu, maledetto figlio di puttana! È morta per colpa tua, dovevi esserci tu al posto suo!-
Non tentò alcuna resistenza, si lasciò andare contro le spire inerti del mostro abbattuto, augurandosi vigliaccamente che i pugni di Tiger ponessero fine a quell’incubo.
- Non c’era alternativa, Tiger! Lo sai anche tu, Nadine era la scelta migliore.- vide quella pazza testa rossa frapporsi fra loro due e il pugno destinato a lui abbattersi su Sasha. Attraverso gli occhi appannati la vide barcollare, ma non un suono uscì dalle sue labbra; Tiger la spinse di lato - Non t’immischiare, Sasha!-
L’apatia di qualche istante prima si trasformò in rabbia e a sua volta sollevò un pugno avvolto di energia biotica. Shepard colpì il suo aggressore in pieno viso, scaraventandolo all’indietro. Si raddrizzò faticosamente, alzando la guardia per evitare altri colpi, ma col chiaro intento di non proseguire la lotta-  Tiger ascolta …-
- Stai zitto, bastardo! – ringhiò l’altro tamponandosi il naso sanguinante - Ci hai trascinato tu in questo casino … il tuo primo comando: complimenti Shepard, hai perso quasi tutti.-
Tiger scattò per colpirlo nuovamente ma C.J. gli fu addosso, serrandogli le braccia in una morsa.
- Piantala, coglione. Almeno noi siamo ancora vivi, hai visto che fine hanno fatto gli altri? Tu cos’avresti fatto?-
Tiger sputò insulti dolorosi come pallottole, finché tutta la rabbia che aveva in corpo non spurgò come pus da una ferita infetta: le minacce diventarono singhiozzi e l’odio si tramutò in lacrime.
- Lascialo andare C.J.- ordinò Shepard; privo del suo sostegno Tiger cadde in ginocchio, il viso nascosto tra le mani.
Alex gli andò vicino, l’aura bluastra nuovamente scomparsa, il petto serrato dallo stesso dolore che squassava quello del suo amico. Gli si inginocchiò di fronte e gli posò una mano sul capo - Hai ragione, amico mio: non ho fatto abbastanza. Ma giuro sulla mia vita che vi porterò fuori da qui. -
Una risata isterica scaturì dalle labbra del suo compagno - E come pensi di fare? Quei figli di puttana sono ovunque.-
Il suo sguardo incrociò quello di Sasha e C.J., erano entrambi smarriti e la loro espressione gli ricordò che avevano bisogno di un comandante, ora più che mai. E quel comandante era lui.
Non poteva crollare. Non ancora.
Dopotutto non era per quello che Nadine si era immolata al posto suo?
Nadine sapeva che se le cose fossero andate com’erano andate, avrebbero avuto bisogno di un piano. Avrebbero avuto bisogno di lui.
Si alzò, studiando rapidamente i dintorni per capire il da farsi – Ogni volta che cessano gli spari si ritirano. – constatò - Non credo che siano intelligenti, reagiscono al rumore. Nadine ce l’avrebbe fatta se non fosse stato per quei tre idioti. Siamo rimasti solo noi adesso … se siamo cauti, se non facciamo rumore forse non si accorgeranno di noi.- era l’unica strategia possibile ma errori e sfortuna l’avevano fatta fallire due volte. Tentare un terzo tentativo era una palese follia, ma che altre alternative avevano? - Dobbiamo raggiungere quelle colline e farci venire a prendere dalle navette; è la nostra unica possibilità di salvarci.-
- Alex, le radio sono andate.-
Scosse il capo, indicando un flebile puntino verde che lampeggiava in lontananza - Quella di Nadine lampeggia ancora: è intatta.-
Nessuno protestò e non furono necessari discorsi per motivarli. Ognuno di loro era consapevole di ciò che li aspettava: nell’immediato futuro c’era solo la vita o la morte. Nient’altro.
C.J. distribuì gli ultimi stimolanti rimasti, poi si accucciò sul terreno, come un atleta pronto a disputare la gara della vita - Al tuo segnale, capo.-
Ebbe una fugace visione degli occhi verdi di Sasha e della sua testa rossa che si protendeva a dargli un bacio lieve sulle labbra – Ci rivediamo dall’altra parte.-
Annuì, anche se non era certo di voler sapere cosa intendesse per “altra parte”.
- Ce la fai, Tiger?-
L’altro non disse niente, inghiottì lo stimolante e andò ad accucciarsi accanto a C.J.: il tempo degli addii era ormai lontano.
Shepard si preparò allo scatto, i muscoli tesi allo spasmo, la mente già proiettata verso la meta – Qualunque cosa accada voi continuate a correre. Ora!-
Come un sol uomo si slanciarono attraverso il deserto, i piedi che si sollevavano e ricadevano sul suolo secco e compatto, le braccia che si alzavano e si abbassavano, il sangue che pompava nelle vene, alimentato dall’ultima ondata di energia che gli stimolanti avevano iniettato nel loro corpo.
La prima a raggiungere Nadine fu Sasha, quasi senza fermarsi si chinò sul corpo spezzato dell’amica e con mani decise afferrò la radio. La freddezza di quel gesto in altri tempi lo avrebbe spiazzato, ora non poté fare altro che ammirare la sua capacità di blindare ogni emozione.
Vita o morte. Vittoria o sconfitta.
Finalmente lo capiva anche lui.
Davanti al corpo straziato di Nadine, C.J. parve volersi fermare, ma con una spinta Shepard lo obbligò ad andare avanti, imitando la risolutezza di Sasha – Continua a correre.- gli soffiò nelle orecchie e C.J. obbedì.
Ma Alex sapeva che con Tiger non sarebbe stato altrettanto facile e quando si voltò per vedere dove fosse il compagno ferito, ebbe conferma dei suoi peggiori timori.
Rallentato dalla ferita Tiger era rimasto indietro, ma i sui passi claudicanti lo avevano portato fino al corpo senza vita della donna di cui era innamorato.
Indifferente all’avvertimento di Shepard si fermò, inginocchiandosi accanto a lei.
Ha fatto la sua scelta, gli urlò una voce dentro la sua testa, Ha fatto la sua scelta e non lo puoi salvare.
La cosa più logica era continuare a correre. In un istante prese la sua decisione: si fermò e tornò indietro.
Nadine giaceva in terra, il corpo slanciato accasciato in una posizione innaturale, spezzata, i capelli biondi striati di sangue e i grandi occhi spalancati sul cielo vuoto di Akuze; Tiger non piangeva, non urlava la sua disperazione, si limitava a rimanerle seduto accanto, spostandole i capelli che erano ricaduti sul viso perfetto. La caduta non aveva intaccato la bellezza dei suoi lineamenti e l’immobilità della morte le donava la grazia di un’opera d’arte.
Shepard strinse la spalla del compagno – Non puoi rimanere qui.-
Tiger alzò gli occhi su di lui; era di nuovo lo sguardo dell’amico che conosceva, calmo e compassato, privi della follia di pochi istanti prima.
- Perché?- gli chiese con tutta la tranquillità di chi sa già che la sua domanda non riceverà risposta, perché non esiste risposta.
Non c’erano motivi perché Tiger abbandonasse quel pianeta. Tiger era morto quando il corpo di Nadine si era schiantato contro nera roccia del pianeta.
- Come posso lasciarti qui?- sussurrò.
- Non puoi: devi.-
E di nuovo, come per sottolineare le parole appena pronunciate, la terra ricominciò a tremare.
Possibile che fossero riusciti ad udire persino i loro passi?
In tutta risposta i mostri emersero dagli abissi.
- SHEPARD!-
Sasha e C.J. avevano raggiunto la parete ma alla vista dei loro compagni rimasti indietro si erano fermati.
- Andate!- urlò – Non vi fermate, maledizione!-
Tiger scattò in piedi, spingendolo nella direzione della salvezza – Devi andare anche tu, adesso. Non puoi salvare qualcuno che non vuole essere salvato.- con una mano imbracciò il fucile, con l’altra impugnò una granata – Ti copro le spalle, comandante.-
Per l’ennesima volta quel giorno, lasciò uno dei suoi uomini a morire.
Corse più veloce di quanto avesse mai fatto in tutta la sua vita, mentre Tiger vendeva cara la pelle, svuotando l’intero caricatore della sua arma contro la pelle di diamante dei suoi assalitori.
Shepard non si fermò né si voltò indietro, fin quando le sue mani non si appoggiarono sulla parete di roccia. Solo allora azzardò un’occhiata alle sue spalle. Vide uno dei mostri abbattersi a fauci spalancate su Tiger, lo vide inghiottire il suo amico e poi lo vide esplodere.
Le strida di agonia della bestia gli lacerarono le orecchie mentre l’enorme corpo dilaniato crollava, trascinando nella caduta anche il suo compagno. I due enormi vermi si abbatterono al suolo, due corpi attorcigliati e frementi, l’uno morto, l’altro intrappolato.
Non osando sperare che il sacrificio di Tiger fosse valso la loro definitiva salvezza, Shepard iniziò la salita aggrappandosi con decisione, imponendo alle sue braccia di muoversi più veloci del pensiero, più veloci di quella speranza che faceva capolino nella sua mente sussurrandogli che era tutto finito. In pochi minuti superò la parte più impervia della salita e, suo malgrado, si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo quando vide Sasha e C.J. procedere affiancati, una decina di metri più alto, lungo un sentiero naturale scavato nel fianco della collina. Ce l’avevano fatta, si disse, almeno loro ce l’avevano fatta!
Un grido strozzato interruppe i suoi pensieri; sopra di lui, nell’ultimo chiarore che precedeva l’oscurità della notte, intravide il masso su cui si era appoggiato C.J. scivolare di lato, facendo perdere l’equilibrio all’incauto soldato. Come al rallentatore vide C.J. accasciarsi su un fianco, sbattere contro la parete e scivolare giù accompagnato da una nuvola di terra e detriti. Shepard non poté fare altro che assistere impotente mentre il suo amico impattava contro le rocce, pregando che il falsopiano su si trovava lui rallentasse la caduta di C.J. tanto da arrestarla prima che precipitasse nel baratro.
Così avvenne, ma i recenti avvenimenti avevano privato Alex di qualunque fede nella fortuna.
- C.J.!- poteva vedere solo l’ombra di Sasha, immobile qualche metro più in alto. Faticò a riconoscere quella voce incrinata dalla paura; persino lei che aveva combattuto le peggiori infamie non riusciva a spiegarsi l’accanimento implacabile di quel pianeta che li voleva morti.
- Ci penso io a lui, Sasha!- si affrettò verso il punto in cui aveva visto il corpo di C.J. fermarsi, senza sperare, questa volta, in alcun lieto fine – Tu stai bene?-
- Sì … sì, sto bene.-
- Allora continua a salire, non ti fermare.-
- Alex …-
- Dannazione, Sasha, devi chiamare l’Alleanza o saremo morti comunque!-
Lei non rispose ma la sua ombra riprese a muoversi.
- Capo …- la voce di C.J. lo guidò fino al luogo in cui era caduto; lo trovò disteso su un fianco, l’armatura spaccata in più punti, immaginò che senza quella addosso quel destino sarebbe toccato alle sue ossa.
S’inginocchiò accanto all’amico, aiutandolo a girarsi verso di lui - Sono qui C.J., non vado da nessuna parte senza di te.-
 Le labbra di C.J. si contrassero in una smorfia - La gamba capo, credo che sia rotta …-
Shepard si affrettò a controllare e non riuscì a trattenere un’imprecazione quando gli sfilò lo stivale e vide quello che c’era sotto.
La tibia di C.J. era effettivamente fratturata e l’osso, spezzandosi, aveva bucato la pelle.
- Non ti preoccupare, caporale, andrà tutto bene.- avevano finito tutte le scorte mediche e anche se fosse rimasto qualcosa, il medi-gel avrebbe potuto ben poco contro una ferita del genere. C.J. aveva bisogno di un medico e lui non lo era. Cercò di farlo alzare - Devi solo stringere i denti, manca poco.- lo avrebbe portato in spalla, se necessario.
C.J. provò a rimettersi in piedi, il viso trasfigurato dal dolore; ma non appena il suo piede toccò terra impallidì mortalmente, gli occhi sbarrati dallo shock.
- No, no: fermo! Cazzo mettimi giù, Shepard! Non ce la faccio, fa troppo male.-
- Va bene, non ti preoccupare.- lo aiutò a distendersi e gli porse un po’ d’acqua - Sasha è quasi in cima, tra poco le navette saranno qui, ci porteranno via. Ti fidi di me, vero?-
C.J. annuì - Ok capo, mi fido … però voglio una cazzo di licenza quando ce ne siamo andati via da qui.-
Deglutì a vuoto cercando di apparire tranquillo e fiducioso - Promesso caporale, farò in modo che ti paghino una vacanza su Thessia. Un mese intero circondato da bellezze blu, che ne dici C.J.?-
C.J. accennò un sorriso- Sarebbe il massimo capo …- di colpo sgranò gli occhi - … capo?-
- Che c’è?-
- Credo che uno di quei maledetti cosi sia ancora vivo: qualcosa di grosso si muove laggiù. Qualcosa di molto grosso.-
Shepard si voltò di scatto nell’esatto momento in cui la creatura che aveva creduto sconfitta tornava a ergersi sulla piana di Akuze. L’esperienza gli insegnava a non confidare nel fatto che non riuscisse a trovarli. Per qualche motivo, per qualche assurdo, inspiegabile motivo, era certo che quell’essere si sarebbe scagliato un’altra volta su di loro. Poteva quasi vederlo, quel muso cieco e feroce, voltarsi nella loro direzione forse fiutandoli, forse sentendoli.
 - Figlio di puttana! – sibilò tra i denti - Andiamo C.J. devi alzarti, dobbiamo andare più in alto.-
Il secondo tentativo di rimetterlo in piedi si rivelò ancora meno fruttuoso del primo; C.J. si liberò immediatamente dalla sua presa, scuotendo la testa.
- Con questa gamba non vado da nessuna parte, capo.-
- Non dire stronzate: sei un soldato, sei stato addestrato per questo!-
- L’hai detto: sono un soldato. So benissimo che per me è finita. Ho fatto un cazzata e sono caduto, come un recluta il primo giorno di addestramento.-
Shepard strinse i pugni: aveva abbandonato Jake, aveva abbandonato Tiger … non poteva abbandonare anche C.J.
- Non voglio un fottuto eroe morto!-
Sulle sue labbra comparve il solito sorriso strafottente - Lasciami fare il figo prima di morire, capo, non rovinare tutto.- impugnò un’arma in entrambe le mani, si appoggiò con la schiena su uno dei massi contro cui si era schiantato e ammiccò – Il bastardo è messo male. Io non scommetterei su di lui se fossi in te.- il suo sguardo s’indurì - E adesso muovi il culo Shepard, ci penso io al maledetto verme. Tu devi pensare a Sasha: portala via di qui.-
Si chinò su di lui, lo afferrò per le spalle ma l’altro non si mosse.
- Non chiedermi di lasciarti qui …-
- Ogni uomo ha il suo destino: questo è il mio.- lo spinse lontano – Ora vattene maledizione, prima che cominci ad avere paura! Vattene!-
Le strida del mostro rimbombarono nella valle e tutto ciò che li circondava iniziò a tremare, annunciando l’arrivo della fine.
Ancora una volta Shepard si ritrovò senz’altra scelta che non fosse quella di abbandonare un suo compagno, un suo amico. C’era ancora Sasha da salvare, ci doveva almeno provare.
Riprese a salire mentre alle sue spalle udiva C.J. ingaggiare battaglia. Si spinse al limite delle sue forze, terrorizzato all’idea che fosse accaduto qualcosa a Sasha. L’aveva vista raggiungere la cima ma non poteva sapere se era riuscita a contattare l’Alleanza o se era caduta nell’ennesima trappola mortale che quel pianeta continuava a porre sulla loro strada: come se una divinità maligna si divertisse a giocare con le loro vite, continuando ad alzare l’asticella della salvezza, sfidandoli ad andare oltre qualunque limite mai superato da un essere umano.
Il rumore della lotta lo accompagnò quasi fin sulla cima ma quando finalmente la raggiunse, quasi a voler sottolineare il prezzo pagato per la sua salvezza, calò il silenzio.
Barcollò mentre la mente combatteva il prepotente istinto che gli ordinava di tornare indietro; quell’indecisione rischiò di essergli fatale. Com’era accaduto a C.J. anche il suo piede scivolò su una roccia traballante e l’unica cosa che gli impedì di cadere furono due braccia salde che lo afferrarono.
Sasha lo tirò a sé, allontanandolo dal precipizio; si strinse a lui, tremando e piangendo – Ha funzionato!- singhiozzò contro il suo petto – Ha funzionato. Tra pochi minuti l’Alleanza sarà qui. Quando ho sentito gli spari ho pensato di averti perso … ma sei vivo e tra poco verranno a prenderci.- rideva e piangeva ma quando alzò lo sguardo e scorse la sua espressione la sua gioia evaporò di colpo – Dov’è C.J.?-
Cosa poteva dirle, se non la verità? Ancora una volta qualcuno era morto e lui era vivo.
Sasha non perse tempo a compiangerlo o giudicarlo; prima ancora che finisse di parlare si affacciò oltre il bordo – Potrebbe avercela fatta! Ha ammazzato la bestia!- aveva ragione: quando guardò in basso vide l’enorme bestia afflosciata su un fianco; il capo grottesco posava sulla sporgenza che aveva salvato C.J. dalla caduta, mentre il corpo enorme si snodava lungo la parete verticale che così faticosamente loro avevano scalato.
Lui e Sasha si scambiarono un’occhiata: era una follia pensare che C.J. fosse sopravvissuto, ma avevano davvero il coraggio di darlo per morto?
I guardiani di Akuze erano morti, l’Alleanza stava arrivando, voltare le spalle a C.J. sarebbe stata la loro definitiva condanna e da superstiti si sarebbero trasformati in vigliacchi assassini.
Non dovettero parlare o chiedere l’uno l’opinione dell’altra; bastò uno sguardo e insieme abbandonarono quella salvezza che avevano a così caro prezzo raggiunto per andare in soccorso di un uomo che probabilmente era morto per loro.
Quell’ultima, folle, speranza li condusse fino al luogo in cui C.J. era caduto.
Lo trovarono nello stesso punto in cui Alex lo aveva lasciato, la schiena appoggiata al masso, la pistola e il fucile stretti tra le dita; il cranio grottesco della bastia giaceva davanti a lui, le fauci ancora spalancate che grondavano veleno e un liquido verdastro che forse era sangue. La parte sinistra del suo corpo vermiforme era completamente squarciata, lì dove il corpo agonizzante del mostro ucciso da Tiger l’aveva colpito. C.J. aveva mirato allo squarcio, sparando finché aveva avuto munizioni e, alla fine, aveva abbattuto la bestia. Un’impresa di cui non avrebbe mai potuto vantarsi.
C.J. aveva ucciso la bestia e la bestia aveva ucciso lui.
Il veleno lo aveva colpito al petto, divorando corazza e carne arrivando fino al cuore; nei suoi ultimi istanti di agonia doveva aver visto il mostro cadere e, per questo, la morte aveva fissato sul suo viso un eterno sorriso strafottente.
Sasha si avvicinò all’amico morto, pallida e stanca: una ragazza di vent’anni che portava sul viso e negli occhi le sofferenza di una vita centenaria.
Ravviò i capelli di quel soldato arruolatosi per gioco e morto per davvero; gli pulì il viso dalla polvere e, con dolcezza, chiuse quegli occhi che parlavano di eroismo. Nulla nel viso di C.J. tradiva l’orrore della morte, pareva addormentato e l’espressione soddisfatta raccontava di sogni tutt’altro che spiacevoli; ma non appena gli occhi abbandonavano il volto e si posavano su ciò che rimaneva del suo corpo … Shepard distolse lo sguardo, incapace di sostenere quella vista.
Non si avvicinò a C.J., non si unì a Sasha per dire addio al suo amico di sempre. Non ne aveva il diritto. Non aveva il diritto di piangere nessuno: perché loro erano morti e lui vivo.
Percepì il pericolo prima ancora che qualcosa si muovesse: sentì i peli drizzarsi e i muscoli irrigidirsi; l’energia biotica guizzò sulla pelle e l’adrenalina fluì nelle sue vene.
Dapprima fu un rombo sordo, appena percettibile, poi un leggero tremore, infine un guizzo serpentino: la bestia non era morta, non del tutto.
Il grosso corpo ebbe uno spasmo, la testa si sollevò e le fauci si spalancarono. Era il predatore perfetto, il killer più spietato che la natura potesse concepire: il primo istinto della bestia ferita non fu la fuga ma l’attacco e il primo palpito vitale portò con se l’odore della preda.
Sasha era esattamente di fronte alla bestia. Shepard e il mostro scattarono all’unisono; il fiotto di veleno eruttò dalle fauci dell’essere nell’istante in cui Alex spiccava un balzo verso Sasha.
La ragazza lanciò un’esclamazione di dolore e sorpresa quando la gettò a terra, schiacciandola sotto il suo peso. Il mostro stridette di rabbiosa agonia, agitò il corpo immenso nel tentativo di girarsi, facendo scricchiolare l’intera collina.
Un dolore lancinante gli attraversò il corpo e udì Sasha emettere un grido inarticolato, poi il mondo andò in frantumi.
Il fianco della collina franò sotto il peso della bestia e si accartocciò su se stesso precipitando verso il deserto.
Il verme venne spazzato via da una valanga di roccia e terra, C.J. scomparve, inghiottito dall’abisso, infine una voragine si aprì sotto i loro corpi avvinghiati.
Shepard si sentì precipitare, il corpo in balia del vuoto, cercò di tenere Sasha stretta a sé ma qualcosa gliela strappò via dalle braccia.
Un cieco terrore lo invase, poi non rimase più nulla.
Solo l’oscurità.
 
 
 
 
Nota
 
Dire che è stato epico sarebbe un eufemismo. Ho seriamente pensato di mollare tutto e darmi all’uncinetto …
Scherzi a parte: gli ultimi due capitolo sono stati un vero strazio. Non sono un asso nel descrivere scene d’azione così complicate, in cui bisogna anche abbozzare un qualche tipo di strategia, perciò mi scuso per il capitolo zoppicante. Spero che la scena che ho descritto sia in qualche modo plausibile e non troppo ripetitiva o incoerente. Ripeto è stata davvero una faticaccia e qualsiasi consiglio/critica che possa rendere il tutto più plausibile (e decente) sarà ben accetto.
È venuto un capitolo lunghissimo per i miei standard (e questo giustifica in parte l’imbarazzante ritardo) ma non mi andava di spezzare ulteriormente la battaglia contro i Divoratori. A proposito, c’è un motivo se non chiamo mai per nome quegli schifosi vermoni: secondo la storiografia di ME, prima di Akuze, l’Alleanza non sapeva dell’esistenza dei Divoratori, ecco spiegati tutti gli assurdi “sinonimi” che ho inserito nel testo.
A questo punto credo che mi ritirerò nuovamente nella mia cella imbottita ad esercitarmi con l’uncinetto.
Addio.

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Capitolo 35
*** Chi resta e chi se ne va ***


The Call

Akuze, 2177
 
La notte calò sul pianeta Akuze. Una notte senza stelle, illuminata solo dalla flebile luce di una piccola luna, lontana e stanca. Nel silenzio assoluto di un pianeta senza vita giacevano i corpi di chi, quella vita, aveva tentato di portarcela.
Cinquanta uomini e donne erano arrivati sul pianeta alla ricerca di gloria e conquista, di loro non rimanevano che i corpi spezzati sparsi per il deserto.
Akuze aveva pagato a caro prezzo la sua vittoria e le carcasse enormi delle bestie che la proteggevano avrebbero testimoniato a lungo la forza di chi non era caduto senza combattere.
Ma infine non c’erano stati né vincitori né vinti. Erano morti tutti.
Tranne uno.
Nonostante tutti i suoi sforzi Akuze non aveva annientato completamente i suoi invasori.
Una mano si mosse impercettibilmente, la sabbia nera che scivolava piano dal dorso insanguinato; un rantolo tradì un corpo che respirava ancora; due occhi si socchiusero, osservando il nero cielo di Akuze senza vederlo.
C’erano altre immagini a riempire quegli occhi …
 
Volti, tanti volti. Volti vivi e volti morti. Volti amati e volti odiati. Volti arrabbiati, furibondi, offesi. Volti sorridenti, speranzosi, felici …
Sangue. Il sangue verde dei mostri, quello rosso degli amici morti e quell’altro, nero, del rimpianto…
Polvere. La polvere delle vecchie cose e delle vecchie ossa. La polvere nera di un deserto impietoso, quella gialla della …
Mani. Mani crudeli e mani gentili. Mani bianche e mani nere. Mani che stringono pistole e mani che si alzano a chiedere pietà. Mani che si aggrappano, mani che scivolano, mani che pregano, mani che afferrano, mani che chiedono aiuto …
Corpi. Corpi in divisa e corpi nudi. Corpi di mostri e corpi di uomini. Corpi che si odiano e corpi che si amano. Corpi che cadono e corpi che si spezzano…

 
Un gemito uscì dalle labbra insanguinate, ma nel delirio dell’agonia quel suono andò a mescolarsi a mille altri …
 
Voci. Troppe voci che si sovrappongono. Arrabbiate, confuse, stanche … deluse.
Voci che implorano, voci che comandano, voci che compatiscono … voci che ricordano.
Ricordano parole sussurrate nel buio e giuramenti infranti. Ricordano promesse non mantenute e i deliri di chi è vivo e crede di poterlo essere per sempre …

 
Un colpo di tosse e il sapore del sangue che inondava la bocca. Il respiro accelerò e i sensi tornarono dolorosamente in funzione.
Un impercettibile movimento e il corpo esplose in un’apocalissi di dolore.
Riusciva a percepire ogni singolo osso spezzato, ogni tendine lacerato, la pelle squarciata … eppure quel corpo così martoriato continuava a respirare.
Le domande si affollarono nella mente stanca: era davvero accaduto ciò che ricordava?
Il deserto, i mostri, gli amici morti … il crollo …
I muscoli s’irrigidirono, uno spasmo li colse, il respiro si fermò, lo sguardo si sgranò: il suo non era stato il solo corpo a cadere.
La paura soppiantò il dolore, la frenesia obbligò le braccia stanche, lacerate, straziate, ad artigliare il terreno.
Un urlo disarticolato uscì dalle labbra insanguinate mentre obbligava il corpo spezzato a girarsi.
La prima cosa che vide fu l’immensa carcassa sfracellata al suolo. La materia cerebrale sparsa sul terreno non lasciò dubbi, questa volta, sulla morte dell’essere.
Iniziò a strisciare, alla ricerca di qualcuno che aveva il terrore di trovare: quante possibilità c’erano che fossero sopravvissuti entrambi alla caduta?
Ma doveva sapere.
Con un filo di voce chiamò quel nome tanto amato mentre le braccia, insensibili al dolore, trascinavano in avanti il corpo martoriato.
Le fitte lancinanti che sentiva alle gambe suggerivano che la schiena non fosse spezzata, ma era una misera consolazione. Non era della sua salvezza che si preoccupava.
- Dove sei?- sussurrò.
Sembravano passate ore da quando aveva riacquisito consapevolezza di sé e aveva iniziato a cercare; probabilmente erano trascorsi solo pochi secondi.
Si trascinò accanto alla carcassa nauseabonda del loro assassino, strisciò sulle cervella ancora calde, le mani che affondavano in quel disgustoso miscuglio in cui si era trasformata la sabbia nera di Akuze. Non si curò del dolore o del disgusto o del pericolo di contrarre qualche strana malattia aliena … l’unica cosa importante era scoprire cosa fosse accaduto alla sola persona che avesse mai amato.
Infine i suoi sforzi vennero ripagati e, dall’oscurità che opprimeva quel pianeta senza stelle, una voce rispose ai disperati appelli.
Avrebbe corso se le gambe avessero retto, avrebbe pianto se gli occhi avessero avuto lacrime, avrebbe urlato se avesse avuto ancora voce.
Tutto ciò che poté fare fu strisciare. Centimetro dopo centimetro, uno mano dietro l’altra, sussurrando il suo nome, implorando tutte le divinità dell’universo di infondere alle sue braccia ancora un po’ di forza.
Non chiese salvezza, per nessuno dei due, non chiese un miracolo. Chiese solo di avere la forza di morire al fianco della persona che amava.
E la trovò quella forza, non nella mano benevola di un dio protesa nella sua direzione, ma in quella rabbia sorda che, da sempre, alimentava il suo cuore.
La prima cosa che vide fu una mano, abbandonata come un oggetto rotto e in disuso; il corpo era sepolto sotto un mucchio di sassi e detriti, il capo appoggiato su una roccia striata di sangue.
Prese quel viso adorato tra le mani, baciò le labbra livide e fredde, appoggiò le dita sul collo rigido alla ricerca di un sussulto di vita.
Flebile, come l’eco di una risata lontana, il suo cuore batteva ancora.
Le palpebre ebbero un tremito prima di sollevarsi leggermente, lasciando vedere occhi che la morte stava già trasfigurando.
Non dovette chiedersi quali ferite avesse riportato, né invocare l’arrivo di quei soccorsi che tardavano a raggiungerli. Non furono necessarie domande, non ebbe bisogno di risposte.
L’anima tanto amata aveva già pagato il dazio per essere trasportata dall’altra parte e salpava con Caronte per il mondo dei morti: non c’era tecnologia o medico, neppure magia, che potesse riportarla indietro.
- Toccava a me.- sussurrò accarezzando quel volto cui la morte stava restituendo l’innocenza perduta – Morire qui era il mio destino, non il tuo. Non puoi essere tu a morire: sei il comandante Shepard, la tua storia non può finire qui.-
Un rivolo di sangue gli colò lungo la guancia mentre gli occhi azzurri si alzavano a cercare i suoi, quello che vi lesse dentro la spiazzò: c’era pace negli occhi di Alexander Shepard. La pace dell’eterno riposo.
- In un’altra storia, in un’altra vita avremmo avuto entrambi un altro destino.- il capo scivolò lentamente di lato mentre la morte irrigidiva le sue labbra – Questa volta tocca a te, Sasha … è la tua storia, non la mia.- intravide il bianco dei suoi occhi mentre lottava per far uscire le parole, mentre si sforzava di vincere quell’ultima sfida contro il tempo - …vivi al posto mio, non …-
Il capo ricadde di lato, la bocca socchiusa tacque e gli occhi azzurri si spensero.
- Alex …- appoggiò la fronte sulla sua, si aggrappò a lui, pregandolo di portarla via con sé, di non lasciarla sola in un mondo in cui lui non c’era.
Ma Alexander Shepard non tornò indietro a prenderla per mano, non chiese a Caronte di trovare posto anche per lei su quel traghetto che univa la sponda dei vivi a quella dei morti. Eppure Sasha non si arrese, rimase aggrappata a lui, anche quando il cielo si riempì di luci e il rombo delle navette spezzò il silenzio dei morti.
I soldati giunti in soccorso la trovarono così, abbracciata al corpo senza vita del suo comandante. Si ribellò ai tentativi di portarla via, combatté contro chi tentò di allontanarla. I soldati indietreggiarono di fronte alla forza di quella donna spezzata, dissanguata, lacerata che ordinò loro di andare via perché non c’era più nessuno da salvare su quel pianeta.
Continuò a combattere, come una bestia selvatica e ferita a morte, finché un uomo non si fece largo tra gli altri. Non tentò di toccarla o di portarla via, si accucciò di fronte a lei, gli occhi malinconici sotto il berretto da ufficiale.
Le porse una pistola – Fai la tua scelta, figliola: ma sappi che qualunque essa sia non potrai tornare indietro.-
Lo guardò poi guardò Shepard infine guardò la pistola.
Sarebbe stata la via più semplice, la più breve, la meno dolorosa … la più vigliacca.
“ Che tu possa vivere per sempre.”
Era la degna figlia di suo padre, dopotutto.
Distolse lo sguardo dalla pistola e lo alzò sull’uomo chino davanti a lei – Mi porti via di qui.-
Lui annuì, rinfoderò la pistola e le sfiorò il viso con la punta della dita – Ce la farai?-
Si separò da Shepard, gli chiuse piano le palpebre e lo lasciò andare. Era il momento di farlo, non poteva seguirlo laddove stava andando.
- Sono una sopravvissuta.- rispose. Nessuna lacrima le bagnava il viso, nessun singhiozzo le squassava il petto: lei era davvero quello che diceva di essere. – Sopravvivrò anche a questo.-
 
 



 
 
Nota
 
Non sono diventata pazza (non più del solito), sono ancora in grado di intendere e di volere, e so bene che cosa ho scritto.
Maggiore chiarezza (forse) arriverà nei prossimi capitoli e, alla fine, se ce ne sarà bisogno, spiegherò la mia “filosofia” di ME che mi ha portata a questa scelta. Anche se un indizio in tal senso l’avevo già dato in un capitolo precedente. Per il momento posso solo dire che questo scenario era quello che avevo in mente fin dall’inizio. Questa non è la storia di Alexander Shepard.
Spero di non deludere nessuno.
Alla prossima!

P.s. Spero di passare indenne la censura, Shadow ;)

 

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Capitolo 36
*** Questione di giustizia ***



Parigi, 2178
 
Come ogni mattina negli ultimi sei mesi l’ex-comandante dell’Alleanza Albert Cross entrò nell’atrio luminoso dell’ospedale militare di Parigi.
Il largo schermo del televisore posizionato di fronte all’entrata offriva immagini diventate tristemente famose: il lontano pianeta di Akuze aveva raggiunto una notorietà che nessuna colonia, per quanto meravigliosa, avrebbe mai potuto apportargli. Dopo quello che era successo agli sfortunati militari che vi erano approdati, non esisteva persona nella galassia a non conoscerne il nome.
Si avvicinò al bancone della reception chiedendo cortesemente alla segretaria di spegnere il televisore; la donna parve sorpresa ma lo accontentò. Cross ringraziò e si avviò all’ascensore. Mentre aspettava la cabina un militare gli si avvicinò; non ebbe difficoltà a riconoscere un suo vecchio allievo dell’Accademia nell’uomo dalla pelle scura e l’aria distinta che gli porse la mano. Non era cambiato molto da quando, quasi vent’anni prima, si era presentato nella sua classe con la stessa aria di pacata compostezza che ostentava ora. Aveva solo qualche ruga in più e l’aria stanca di ogni soldato che ha combattuto per davvero.
- Anderson …- lo accolse, ricambiando vigorosamente la stretta - … che piacere vederti.-
Il militare accennò un sorriso – Il piacere è mio, signore.-
Cross ammiccò – Sono in pensione ormai, ragazzo, non c’è più bisogno di essere formali.-
Anderson annuì – Non era lei che diceva sempre che non è una divisa a fare di un uomo un soldato?-
Cross sorrise, compiaciuto – Non credevo che qualcuno ascoltasse le mie parole.-
Anderson ridacchiò seguendolo all’interno dell'ascensore, quando le porte si chiusero si girò nuovamente verso di lui, serio - Scusi se glielo chiedo ma … è qui per lei?-
Schietto come lo ricordava. Si augurò che non intraprendesse mai la carriera politica, non era uomo da sotterfugi e intrighi diplomatici.
- Vedo che non hai perso l’abitudine di andare dritto al sodo, Anderson.- aspettò che l’ascensore cominciasse a muoversi prima di dire qualcosa - La conosci?-domandò.
Il viso solitamente impassibile di Anderson si contrasse – Ero con la prima squadra di soccorso che è arrivata sul pianeta. Sono stato io a portarla sulla navetta. L’ufficiale medico era convinto che sarebbe morta prima di raggiungere la nave, ma io sapevo che ce l’avrebbe fatta. Non si sopravvive ad una cosa del genere per poi morire in ospedale.-
Cross contrasse la mascella, masticando nervosamente il sigaro spento che aveva tra le labbra – Ancora faccio fatica a realizzare che sia l’unica sopravvissuta. La 33 non era solo la mia squadra: era la mia famiglia. Quei ragazzi erano i miei figli e ora non ci sono più.- si strofinò le mani, come per togliere il sangue invisibile che le macchiava – Avrei dovuto essere su quel sasso con loro; non per salvarli. Lei mi ha raccontato quello che è successo e so per certo che non avrei potuto fare nulla di più di quello che ha fatto Shepard. – scosse il capo – No, non sarei riuscito a salvarli. Ma era giusto morire al loro fianco. Eravamo una famiglia e sarei dovuto restare con loro fino alla fine.-
Anderson gli posò una mano sulla spalla – Non sono morti tutti.-
– Sasha …- sospirò - … quella ragazza è un mistero che non riesco a penetrare. Dopo quello che ha passato, quello che ha perso, chiunque la posto suo cercherebbe un po’ di pace. Invece non stava ancora in piedi che già aveva ricominciato a sparare. L’ho implorata di prendersi una vacanza ma non vuole sentire ragioni.-
- Lei non è stato su Akuze, Cross.- replicò Anderson con voce pacata – Se avesse visto quello che ho visto io … credo che crollare sfinita nel letto dopo un allenamento massacrante sia l’unica cosa che le permetta di dormire la notte. Una vacanza la ucciderebbe: sarebbe obbligata a ricordare. –
- Capisco cosa vuoi dire, ma sta sottoponendo il suo fisico a degli sforzi inumani. Non è ancora guarita e se continua così si ammazzerà.-
Anderson scosse il capo – Se voleva ammazzarsi lo avrebbe già fatto, io stesso le ho dato quella possibilità. Quella ragazza conosce perfettamente i suoi limiti e posso affermare una cosa, con assoluta certezza: lei è affamata di vita, più di chiunque altro io abbia mai incontrato.-
Con un lieve fremito l’ascensore si fermò e le porte si aprirono, i due uomini uscirono nel corridoio e Cross guardò il suo ex allievo con un misto di curiosità e stupore; era raro che una persona in grado di compiere una carriera brillante in seno all’Alleanza lo facesse senza snaturare la sua natura.
Cross ricordava un ragazzo dall’animo buono, sempre pronto a mettersi al servizio di chiunque avesse bisogno, come i cavalieri dei tempi antichi: ora aveva di fronte un uomo che era riuscito a non tradire il ragazzo che era stato.
- Quando Sasha tornerà in servizio io non potrò più aiutarla; sarei più tranquillo se sapessi che ci sei tu a tenerla d’occhio.-
Anderson sorrise e gli porse la mano – Anche se non me lo avesse chiesto, comandante, lo avrei fatto comunque: veglierò su di lei. Sempre.-
Lo salutò con gratitudine e si separarono. Nuovamente solo, Cross percorse il lungo corridoio dell’ospedale e si fermò di fronte ad una delle tante porte che ospitavano soldati dell’Alleanza feriti in battaglia.
Bussò con discrezione e, quando una voce dall’altra parte gli rispose, entrò.
Sasha era seduta sul letto, intenta ad infilarsi le scarpe. Operazione complicata dalle spesse fasciature che ancora le avvolgevano le gambe.
- Sei in ritardo.- bofonchiò, senza alzare lo sguardo.
Cross si addossò alla parete, le braccia incrociate al petto, prendendosi un po’ di tempo per osservare quella ragazza sfuggita alla morte.
Non aveva più tagliato i capelli che ora scendevano a sfiorarle le spalle; una massa rossa e compatta sotto la quale spuntava un viso pallido e scavato che sembrava essersi dimenticato di come si faceva a sorridere; una sottile cicatrice le attraversava il volto, dal sopracciglio alla curva della mandibola. Uno sfregio che non toglieva nulla alla bellezza di quei lineamenti, ma conferiva loro una durezza inadatta al viso di una ragazza di appena vent’anni.
Non c’era mai stata l’innocenza dei bambini o la spensieratezza degli adolescenti in lei, ma nemmeno le terribili esperienze della sua infanzia erano riuscite a toglierle la capacità di sognare. Akuze, invece, aveva trionfato laddove le violenze terrestri avevano fallito.
Guardando gli occhi verdi di Sasha, il bel viso segnato dalla morte, il corpo esile cosparso di cicatrici, non si poteva fare altro che osservare il prodotto dell’ambizione umana e del prezzo pagato per realizzarla.
- Com’è andato l’allenamento oggi?- domandò per scacciare quei pensieri.
Sasha si alzò a fatica ma Cross non fece un passo per aiutarla, sapeva che qualsiasi suo gesto sarebbe stato respinto.
- Bene. Sono riuscita a correre per qualche metro. È da un po’ che non vieni a vedermi.-
I primi tempi si era recato al simulatore, ma non gli piaceva guardarla combattere. I suoi occhi erano troppo freddi, la sua espressione troppo dura: era tornata ad essere il soldato perfetto.
- Stai chiedendo troppo al tuo fisico.-
Lei gli si avvicinò, zoppicando leggermente, la divisa dell’Alleanza troppo larga per quel corpo debilitato dalla lunga convalescenza – Conosco i miei limiti, Cross. Ho scelto di vivere ed è quello che sto facendo.-
Le porse il braccio e lei vi si appoggiò con sollievo, lasciandosi guidare fuori dalla stanza e poi all’ascensore.
Scesero in silenzio, senza scambiarsi una parola, lui impegnato a riflettere su quanto le aveva detto, lei persa sulla sabbia nera di un pianeta lontano.
Dopo che le navette dell’Alleanza erano arrivate su Akuze e l’avevano tratta in salvo, unica superstite dei cinquanta marines della spedizione, era scoppiato un putiferio. L’intelligence stessa era finita sotto inchiesta e la società che aveva finanziato la colonizzazione di Akuze aveva chiuso i battenti. Molte persone erano finite sotto inchiesta e l’Alleanza aveva fatto muro attorno all’unica superstite. Il resoconto di Sasha aveva convinto gli investigatori che il massacro di Akuze era stato il frutto di un tragico incidente.
Si era supposto che i coloni fossero incappati nello stesso destino dei soldati giunti in loro soccorso. Il famigerato segnale che l’intelligence aveva attribuito ad una base mercenaria probabilmente non era altro che un’indecifrabile richiesta di soccorso lanciata dai coloni scomparsi.
Dopo pochi mesi l’inchiesta era stata chiusa e catalogata come “disastro naturale”. I mostri di Akuze erano stati riconosciuti per quello che erano: Divoratori. Era la prima volta che la specie umana incontrava quelle enormi bestie aliene estremamente letali, ma i Krogan li combattevano dall’alba dei tempi; la maggior parte delle specie della galassia, prima o dopo, si era dovuta confrontare con loro. Su Akuze era stato il turno degli ultimi arrivati.
Il Consiglio, dopo essere stato duramente attaccato dall’ambasciatore umano che li accusava di aver taciuto l’esistenza di un nemico così pericoloso, si era prodigato nel fornire all’Alleanza le armi necessari per abbattere i Divoratori. A soli sei mesi dall’immane tragedia che aveva colpito le forze armate umane, Akuze era stata completamente privata di tutti i suoi guardiani. Ma una triste fama circondava quel pianeta lontano.
Akuze era un luogo di morte e nessuna colonia avrebbe mai potuto prosperarvi. Così l’Alleanza aveva abbandonato il suo progetto di colonizzazione e Akuze si apprestava a divenire un santuario abitato solo dai fantasmi degli uomini e delle donne morti per conquistarlo.
Cross sospirò mentre le porte dell’ascensore si aprivano e guidava Sasha fuori da quelle mura asettiche che erano diventate la sua casa. Una delle tante.
Con la coda dell’occhio osservò la ragazza che gli camminava affianco sbalordendosi, come ogni giorno, per la rapidità con cui il suo corpo era guarito.
Quando era arrivata in ospedale i medici si erano subito mostrati pessimisti; se fosse sopravvissuta, avevano detto, difficilmente sarebbe riuscita a riprendersi completamente, e come avrebbe potuto?
Aveva il bacino fratturato, tre vertebre schiacciate, entrambe le gambe spezzate in più punti, tendini e legamenti strappati, milza spappolata e diverse altre lesioni di varia entità. Solo un secolo prima sarebbe sicuramente morta; la medicina moderna era riuscita a salvarla, persino a farla tornare a camminare, ma la possibilità che tornasse a combattere era inesistente.
Quando i medici le avevano comunicato il referto Sasha si era limitata a stringersi nelle spalle dicendo che quella perizia era valida per chiunque, ma non per lei. Aveva deciso che sarebbe tornata a combattere, diventando persino migliore di prima e, contro ogni aspettativa, ce la stava facendo.
Cross riceveva quotidianamente i risultati dei suoi addestramenti ed erano straordinari.
Andarono a sedersi su una panchina a pochi metri dall’ospedale; la Senna correva davanti ai loro occhi e in lontananza la cupola dorata dell’Hotel des Invalides riverberava la luce del sole. Era una fresca giornata di primavera e una leggera brezza muoveva le foglie appena nate degli alberi e il cinguettio degli uccelli gli ricordava perché, nonostante i meravigliosi luoghi che aveva visitato, la Terra era il solo pianeta che riusciva a chiamare casa.
Sasha chiuse gli occhi, il viso alzato verso quel sole lontano che riscaldava i suoi figli con il calore dei suoi raggi; malgrado la tranquillità di quegli istanti il viso di Sasha era contratto, la mente in balia di chissà quali incubi.
Il suo corpo era guarito in fretta ma le ferite della sua anima avrebbero messo anni a cicatrizzarsi e non sarebbero mai scomparse del tutto.
Le tolse una ciocca di capelli dalla fronte e gliel’agganciò dietro l’orecchio, sperando di poter fare qualcosa, qualunque cosa, per alleviare il dolore che le gravava sul cuore, ben consapevole che la sola cura era il tempo. Nient’altro.
Sasha socchiuse gli occhi e si strinse a lui alla ricerca della sola cosa che potesse aiutarla a guarire: l’amore di un padre.
Cross passò un braccio attorno a quelle spalle esili mentre davanti ai loro occhi un bateau mouche scivolava docilmente sulle acque grigie della Senna. Era confortante pensare che in quel luogo il tempo si era fermato: non c’erano astroauto che sfrecciavano nel cielo o voci sintetiche che risuonavano nell’etere; c’erano solo loro seduti su una panchina ad osservare un vecchio battello scivolare lentamente sulle acque di un fiume secolare.
Sentì i muscoli di Sasha sciogliersi sotto la sua mano e la strinse un po’ di più a sé, per farle sentire che lui c’era e ci sarebbe sempre stato. Come un padre che veglia sulla figlia.
Era la stessa cosa tutti i giorni: si sedevano su quella panchina, senza parlare. Se pioveva si riparavano sotto un ombrello, ascoltando il rumore dalla pioggia, se c’era il sole si lasciavano riscaldare dai suoi raggi che avevano il potere di scacciare, almeno per qualche ora, quel freddo impertinente che si era insediato nelle loro ossa.
Quelle poche ore trascorse sulle rive della Senna erano la cosa più vicina alla serenità che entrambi riuscivano a concepire.
Uno scoppio di risa li fece sobbalzare, poi una palla rotolò fin sotto i loro piedi.
Sasha si riscosse mentre un bambino scalzo correva nella loro direzione, i capelli ricci che gli ricadevano sul viso.
Cross s’irrigidì, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione di Sasha di fronte a quell’evento imprevisto.
Per un attimo lei rimase impassibile, il viso privo di qualsiasi emozione, squadrò il bambino come un robot che analizza un soggetto.
Il bambino si avvicinò, torcendosi le mani, intimidito da quei due soldati in cui non c’era traccia di umanità.
Alzò gli occhi azzurri su di loro e azzardò un sorriso sghembo.
Sasha ebbe un piccolo sussulto, poi si chinò a prendere la palla finita sotto i suoi piedi e gliela porse.
Il bambino la prese con mani incerte e sussurrò un ringraziamento. Fu allora che accadde l’impensabile: Sasha sorrise.
Non il sorriso triste e spento che le aveva visto fare, di tanto in tanto. Un vero sorriso, con le fossette ai lati della bocca, e gli occhi verdi di nuovo vivi, di nuovo belli.
Era la Sasha dei tempi migliori, quella che conosceva l’amore e l’amicizia; la ragazza dolce e spensierata che era uscita dal guscio della teppistella terrestre. Fino a quel momento Cross aveva pensato che la parte migliore di lei fosse morta su Akuze assieme al resto della squadra e che a restare in vita fosse stata la spietata e cinica delinquente il cui unico scopo era la semplice sopravvivenza.
Scoprire di essersi sbagliato lo rese felice come non lo era da molto tempo.
La guardò seguire con gli occhi il bambino che correva via, il pallone stretto tra le braccia. L’espressione del suo viso non esprimeva né rabbia né dolore c’era solo nostalgia. La nostalgia con cui si ricorda la felicità perduta.
- Perché ti ostini a voler combattere?- domandò, senza riuscire a trattenersi – Potresti avere una vita normale, lontano dall’Alleanza e dai brutti ricordi.-
Sasha sollevò le gambe, raccogliendole contro al petto, una lieve smorfia di dolore increspò il suo viso quando i legamenti appena ricuciti le ricordarono che non poteva ancora permettersi certe libertà – È troppo tardi, Cross. Ho voltato le spalle ad una vita normale tempo fa.- il suo sguardo non si staccò dal ragazzino che si era messo a giocare a pallone poco lontano, insieme ad un suo amico – C’era una sola persona con cui avrei potuto avere una vita normale, ma l’ho respinta e ora non c’è più. Io volevo la fama, Cross, volevo che la gente si ricordasse di me.- una smorfia amara increspò le sue labbra e, bruscamente, smise di guardare i bambini che giocavano – Ho ottenuto quello che volevo. Sono “speciale” adesso. Ora non devo fare altro che conviverci.-
- Sei troppo dura con te stessa.-
Lo sguardo che gli rivolse lo fece arrossire, e si sentì come un allievo stupido redarguito dal suo maestro – Non sono dura, Cross, sono giusta.-
Lui scosse il capo, esasperato – È per questo che ti massacri ogni giorno sul campo di addestramento? Cos’è, una specie di punizione per essere sopravvissuta a tutti gli altri?-
Sasha si appoggiò con la schiena alla panchina – Non è una punizione, Cross. Potrebbe, ma non lo è.- si passò una mano sul viso – Prima di morire Shepard mi ha chiesto di vivere al posto suo. Malgrado tutte le belle parole, le belle intenzioni, Shepard non avrebbe mai abbandonato l’Alleanza. Lui apparteneva alle stelle, non alla Terra, nemmeno a me, solo alle stelle. Shepard era destinato a grandi cose, lo sappiamo entrambi. Il meglio che l’umanità aveva da offrire è morto con lui e coi ragazzi della “33”. Io sono tutto ciò che resta di loro. E loro lottavano per l’umanità e la galassia intera, Shepard lottava per questo. Continuerò a farlo in loro nome: è per questo che sono sopravvissuta, è per questo che non ho intenzione di arrendermi.- serrò la mascella e si sporse verso di lui, guardandolo con una franchezza che lo imbarazzò – Prima di morire il mio comandante mi ha dato una missione e io la porterò a termine. Sono viva per questo. Solo per questo.-
In quello sguardo così franco e sincero, Cross lesse tutto quello che non era riuscito a decifrare in quei sei mesi in cui l’aveva guardata rimettere insieme i cocci della sua esistenza.
Quella che aveva scambiato per disperazione era in realtà accettazione, l’indifferenza era determinazione e la tristezza era solo nostalgia.
Nostalgia per quello che era stato e non sarebbe più potuto essere, per quello che avrebbe potuto essere e non si era mai realizzato, per ciò che si era realizzato a scapito di tutto il resto.
Sasha non stava rinunciando alla vita, stava solo affrontando le conseguenze della vita che si era scelta.
“Attento a ciò che desideri” diceva il proverbio “potrebbe realizzarsi.”
Cross si alzò lentamente, gli occhi fissi sulla cupola dorata che risplendeva in lontananza, retaggio di antiche glorie e grandi uomini.
- In ogni caso sono felice che tu sia sopravvissuta.- si avvicinò a lei e le posò un bacio sulla fronte – Dovremmo rientrare.-
Sasha gli strinse piano la mano – Tu vai pure, io rimango qui ancora qualche minuto.-
- Sicura?-
Un tenue sorriso increspò le sue labbra – Sono certa che riuscirò a trovare la strada anche da sola.-
Restituì il sorriso, sentendosi tranquillo per la prima volta da quando era tornata da Akuze. Sasha aveva scelto la vita, nient’altro contava.
- Ci vediamo domani, Cenerentola.-
- A domani, comandante.-
Attraversò la strada con decisione senza notare la donna appoggiata alla balaustra che sovrastava il fiume; se l’avesse vista l’avrebbe sicuramente riconosciuta e, certamente, l’idea che rimanesse sola con Sasha non gli sarebbe piaciuta per niente. Ma non la vide e lei non fece nulla per attirare la sua attenzione. Gli occhi scuri seguirono Cross che si allontanava, abbandonando la larga schiena dell’uomo solo quando vi fu la certezza che non sarebbe tornato indietro.
 

Per una persona abituata a vivere nello spazio era difficile adattarsi alla confusione della Terra. Troppi suoni differenti, troppa luce, troppo caos.
Non l’amava, non l’aveva mai amata ma ne subiva il fascino come qualunque altro essere umano. Che la si amasse o la si odiasse la Terra era pur sempre il “pianeta natale”.
Hannah Shepard osservò il fiume scorrere tranquillo tra gli argini innalzati da mani antiche e sapienti, compiacendosi della capacità dell’uomo di domare la natura, d’incanalarla, di portare l’ordine nel caos.
Era così che le sarebbe piaciuta la Terra: ordinata, regolamentata, prevedibile. Ma non lo era e questo la faceva imbestialire.
Odiava le cose che sfuggivano al suo controllo ed era una situazione che ormai si ripeteva in continuazione, da anni. E tutto perché non aveva saputo vedere il male laddove era evidente.
Avrebbe dovuto saperlo che una vita costruita sulle bugie era fragile come argini di cartone. Era stato l’amore a farla mentire, l’amore per suo marito e suo figlio, e a causa di quell’amore li aveva perduti entrambi. Stupida donna che aveva messo i sentimenti davanti alla ragione.
Con la punta delle dita sfiorò il datapad che aveva in tasca: un piccolo oggetto che aveva il potere di far crollare imperi ed esplodere pianeti. C’era la verità celata tra i circuiti elettrici di quel sottile foglio elettronico. La verità sui vivi e sui morti, su ciò che era stato e su ciò che avrebbe dovuto essere.
Nomi e date, esperimenti e massacri, attentati e giochi politici. Sarebbe bastata una pressione del dito e l’intera galassia avrebbe saputo la verità.
La verità sulla morte del Maggiore Boris Dolgorukov, suo marito e padre di suo figlio; la verità sull’assalto alla colonia di Mindoir e del “suicidio” dell’unica persona che avrebbe potuto svelarla; la verità su un “terrorista” morto la cui unica colpa era quella di essere stato un buon soldato; la verità, infine, sui quarantanove marines dell’Alleanza massacrati su Akuze.
L’Alleanza si era allevata in seno una serpe pronta a distruggerla, una cellula segreta in grado di colpire chiunque, in qualunque luogo e non pagarne le conseguenze.
Suo marito aveva indagato su di loro, suo figlio aveva indagato su di loro e lei, che avrebbe dovuto amarli e proteggerli fino alla fine dei suoi giorni, non aveva avuto il coraggio di ammettere di essere stata responsabile della nascita di Cerberus.
Prima che Cerberus si mostrasse per il mostro che era realmente, quando ancora operava con la benedizione dell’Alleanza, Hannah Shepard era stata una delle dispensatrici di quella benedizione. Lei non era stata una semplice collaboratrice: era l’ufficiale che aveva autorizzato a quella futura cellula terroristica l’accesso totale alle strutture dell’Alleanza, garantendone l’immunità e la segretezza.
Lei aveva sempre sospettato la vera natura di Cerberus e dell’uomo che lo aveva creato, eppure, pur di vincere una guerra già persa in partenza, aveva finto di non vedere la corruzione che si celava in essa, convinta che si trattasse di un male necessario, certa di essere in grado di contenerlo.
Aveva fallito. Lei, il capitano Hannah Shepard, aveva fallito; raggirata da un uomo affascinante e subdolo, accecata dalla sua stessa arroganza. Quando aveva capito la vera natura di Cerberus era stato troppo tardi. E così aveva fatto l’impensabile: si era girata dall’altra parte, aveva finto di non vedere, di non sapere, per non perdere ciò che amava di più al mondo. Suo marito, suo figlio e la sua nave.
Ma Hannah Shepard era una donna intelligente, sapeva che prima o poi ciò che le bugie avevano comprato, le bugie avrebbero perso.
Prima Boris, poi Alexander. Le sue menzogne non avevano salvato né l’uno né l’altro, erano solo servite a farla odiare da entrambi.
Tutto ciò che aveva fatto, i suoi goffi tentativi di frapporsi tra la sua famiglia e la creatura frutto della sua ambizione, non erano serviti a niente.
La sua famiglia era morta e Cerberus pareva ormai inarrestabile; le rimaneva una sola arma ed era il datapad infilato nella sua tasca ma, ancora una volta, tra lei e il suo bersaglio c’era qualcuno.
Qualcuno che non avrebbe mai pensato di amare o rispettare e che, invece, suo malgrado amava e rispettava.
Guardò la ragazza seduta sulla panchina. Quella ragazza che era viva quando avrebbe dovuto essere morta.
La rispettava perché era riuscita a superare l’orrore, perché, nonostante tutto, era uscita a testa alta dalla fossa dell’inferno.
E la amava, perché suo figlio l’aveva amata più della sua stessa vita.
Su Akuze Alex era morto per lei. Non aveva bisogno che qualcuno glielo dicesse, non erano necessarie prove o filmati: lo sapeva e basta. Conosceva abbastanza bene suo figlio da sapere che Alex non avrebbe accettato di vivere in un mondo in cui Sasha non c’era.
Si allontanò dal parapetto e si avvicinò con passo marziale alla panchina su cui era seduta l’unica cosa, nell’intera galassia, che le parlava di suo figlio.
Erano le due facce della stessa medaglia e lei era stata così spaventata, cieca ed egoista da non capirlo. Aveva avuto paura che lei glielo portasse via, con la sua indole ribelle e il cuore al posto della testa, e non era stata in grado di rendersi conte che l’aveva giù perduto quando gli aveva costruito attorno un muro di menzogne che sperava potessero proteggerlo.
Si sedette accanto a Sasha, la schiena dritta e le mani compostamente appoggiate sulle ginocchia; lei non parve notarla, non la guardò, non parlò, né il suo volto tradì sorpresa o fastidio. Rimasero sedute l’una accanto all’altra due statue di marmo che il tempo non poteva scalfire.
Erano scolpite dalla stessa mano sapiente nello stesso materiale immutabile, capaci di sopravvivere alle più gravi catastrofi e non mostrare dolore.
Fu Hannah, infine, a parlare per prima; non perché non sopportasse il silenzio o perché si sentiva in debito con la donna amata da suo figlio. Fu la prima a parlare perché era giusto così. Aveva cercato lei Sasha, non viceversa.
- Hanno deciso di costruire un memoriale su Akuze. È lì che verranno sepolti i corpi.-
La reazione di Sasha fu esattamente quella che si aspettava, perché era la stessa che avrebbe avuto lei alla sua età. Si voltò di scatto, sgranando gli occhi, il viso trasfigurato dalla rabbia – Dovrebbero bombardare quel posto dall’orbita, non farci un memoriale! Nessuno dovrebbe rimanere su quel pianeta, nemmeno chi ci è morto.- nei suoi occhi comparvero lacrime che fu brava a ricacciare immediatamente indietro – Alex non dovrebbe rimanere lì. Non è il suo posto. Non è il posto di nessuno di loro.-
- E qual è il posto di mio figlio?- la sua voce non tradì alcuna emozione, come sempre – Dovrei seppellirlo accanto ad un padre che non conosceva su un pianeta che gli è sempre stato estraneo? –
- Qualunque posto è meglio di Akuze.-
Hannah scosse il capo – Il suo posto è accanto alla sua famiglia e la sua famiglia era la sua squadra. Nient’altro importa.-
Sasha la guardò negli occhi per la prima volta, aveva pensato di trovarci odio o dolore o disperazione, invece vi lesse solo stanchezza – È già tutto deciso, non è così? E io non ho alcun potere per impedire che quel memoriale venga realizzato. I miei amici, Alex … verranno seppelliti su quel sasso che io lo voglia o no. Perché è venuta a dirmelo?-
Hannah si umettò le labbra, trovandosi a corto di parole per la prima volta dopo tanto tempo – Immagino di essere qui perché abbiamo qualcosa in comune: entrambe amavamo Alexander, entrambe lo abbiamo deluso e infine lo abbiamo perso. Volevo solo assicurarmi che tu non ti ritenessi responsabile della sua morte. Per quanto mi riguarda tu non hai alcuna colpa.-
Sasha si strinse nella sua divisa troppo grande, lo sguardo perso nel vuoto – Non sono così arrogante da pensare di avere avuto potere di vita o di morte su Alex o sugli altri membri della squadra. Ciò che è accaduto era più grande di me, più grande di tutti noi. Chiesi io ad Alex quell’ultima missione, questo non lo nego. Ma la morte è compagna di ogni soldato, ciascuno di noi sa che ogni battaglia potrebbe essere l’ultima. Nadine, C.J., Dario, Abigale, Alex … erano soldati e sapevano che su Akuze, come su qualunque altro pianeta, avrebbero potuto trovare la morte eppure nessuno di loro si è mai tirato indietro, né su Akuze né da qualunque altra parte. Erano dei soldati, i migliori, e sono morti da soldati.- abbassò lo sguardo sulle sue mani intrecciate, chiuse gli occhi e tacque per un istante; quando li riaprì la sua apparente tranquillità era evaporata – So che è così, ma certi giorni è difficile ricordarselo.-
Hannah si sorprese a fare qualcosa che mai nella sua vita avrebbe pensato di poter fare: le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé.
Sasha nascose il viso nell’incavo del suo collo e, sulla pelle, sentì scorrere le lacrime silenziose della ragazza. Lei stessa non riuscì a trattenere una lacrima: unica concessione fatta al suo dolore di madre.
- La tua unica colpa è stata quella di aver dato peso ai vaneggiamenti di una vecchia. Tu meritavi mio figlio molto più di quanto lo meritassi io.-
Sasha si separò da lei, asciugandosi rapidamente gli occhi umidi – È inutile giocare a darsi la colpa, non crede? Loro sono morti e io sono viva. Qualunque cosa diciamo, qualunque cosa facciamo, questa è la sola cosa reale.-
Hannah infilò una mano in tasca, con la punta delle dita sfiorò la superficie fredda del datapad, esitò, poi tolse la mano dalla tasca: vuota.
Alex era morto ma Sasha, la sua Sasha, era ancora viva.
Hannah aveva un ultimo proiettile nella sua pistola, ma non poteva colpire Cerberus senza colpire anche Sasha. Le sue rivelazioni potevano ferire Cerberus ma non s’illudeva di avere gli strumenti necessari per distruggerlo; in compenso, qualunque sua azione contro l’organizzazione avrebbe messo in serio pericolo la vita di Sasha. Hannah digrignò i denti: non col sangue di Sasha che voleva comprare la sua vendetta. Non era così che Alex avrebbe voluto essere vendicato e nemmeno Boris.
Sollevò lo sguardo su Sasha e capì che era nella sua vita, non nella sua morte, che si nascondeva la chiave per distruggere gli assassini della sua famiglia.
Non era sopravvissuta senza una ragione; Cerberus aveva commesso un errore nel lasciarla in vita e presto o tardi ne avrebbero pagato le conseguenze.
Ma il momento della vendetta era ancora lontano.
Pazienza, ricordò a se stessa.
- Io non credo nel caso.- mormorò – Non si sopravvive all’apocalisse senza che vi sia una ragione. Tu sei destinata a grandi cose.- le prese il mento tra le mani e la costrinse a guardarla – Di questo sono certa.-
Sasha parve a disagio, tesa per la prima volta da quando avevano cominciato a parlare.
Si alzò, avvicinandosi al parapetto, zoppicando leggermente – Sono stata convocata dal consiglio dell’Alleanza, tra una settimana. Immagino lei sappia il perché.-
- Sì.- sospirò – Non conosco i dettagli ma so che vogliono onorare le tue azioni su Akuze.-
Sasha si lasciò sfuggire una risatina sarcastica – Come se ci sia qualcosa da onorare ...- abbassò la testa e scosse il capo, forse per scacciare uno sciame di pensieri velenosi che minacciavano di assalirla – Ma non importa. Ho anch’io una richiesta per l’Alleanza ma prima ho bisogno del suo consenso.-
Incuriosita, Hannah si avvicinò a lei, ne ascoltò le parole, guardò dritto dentro quegli occhi risoluti e non ebbe dubbi della purezza delle sue intenzioni.
Quando Sasha ebbe finto di parlare, il capitano si concesse qualche istante per pensare, non al fatto di dare o meno il suo consenso, quello era scontato, ma sull’ironia di quella proposta.
In passato le parole di Sasha l’avrebbero fatta infuriare, ora invece ne era onorata.
- Non è un furto o un’usurpazione.- si affrettò ad aggiungere Sasha, fraintendendo i motivi del suo silenzio – Ne sarò la custode affinché non venga dimenticato. Devo ad Alex la mia vita e il mio futuro: è giusto che l’intera galassia lo sappia. Non gli recherò disonore. Ha la mia parola.-
- Lo so.- annuì – Io … io ne sarei onorata: è sempre appartenuto a te.-
La vide sorridere per la prima volta da quando la conosceva e si sentì bene all’idea di essere stata lei, lei che era stata la causa principale delle sue sofferenze, ad averle portato un po’ di sollievo.
- Grazie, capitano.- le prese una mano tra le sue e la strinse – Mi ero sbagliata su di lei.-
- Anch’io. Avrei solo voluto capirlo prima.-
Sasha si congedò col saluto militare prima di avviarsi zoppicando verso l’ospedale. Hannah non si propose di accompagnarla, né lei se lo era aspettato. Dubitava che si sarebbero più riviste, se non per incontri formali, non sarebbero mai arrivate ad amarsi come madre e figlia. Ma nessuna delle due si aspettava quello.
Non c’era bisogno di gesti plateali o parole melense: avevano l’una il rispetto dell’altra e questo era più che sufficiente.
Hannah Shepard guardò la Senna fluire davanti a lei e immaginò tutti coloro che, nei secoli, avevano guardato le sue acque in cerca di risposta.
Non importava che fossero re o mendicanti, imperatori o popolani, generali o soldati: quel fiume ascoltava tutti e non rispondeva a nessuno.
Hannah prese il datapad dalla tasca, lo accese e lo gettò nel fiume.
Era un altro segreto che si aggiungeva ai mille altri che quelle acque custodivano.
 

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Capitolo 37
*** Comandante Shepard ***


Take me to church


Stazione Gagarin, 2178
 
L’acqua calda della doccia le scivolava sui muscoli tesi della sua schiena, dando un temporaneo sollievo alle sue spalle irrigidite e al collo dolorosamente contratto. Alzò la temperatura dell’acqua, per nulla infastidita dal calore bruciante che le arrossava la pelle. Chiuse gli occhi mentre si strofinava vigorosamente le braccia e il busto, immaginando che a toccarla fossero mani diverse della sue. Un lieve sorriso le affiorò sulle labbra mentre ricordava il modo in cui le dita di Alex scorrevano sulla sua pelle, la voracità dei sui baci, la meravigliosa sensazione di quel corpo giovane premuto contro il suo.
Aprì gli occhi e chiuse l’acqua con un gesto brusco, sperando di poter fermare similmente anche il flusso dei ricordi; ma se l’acqua smise di scorrere i ricordi non lo fecero.
Le immagini di Alex continuarono ad accompagnarla mentre usciva dalla doccia e si avvolgeva in un asciugamano spiegazzato, i piedi appoggiati sul freddo pavimento di marmo di un bagno qualunque in un appartamento qualunque. Si appoggiò al piano del lavandino, alzando gli occhi sull’immagine sfocata che lo specchio appannato le restituiva di se stessa.
Osservò la figura indistinta che la fissava dalla superficie lucida di fronte a sé; a malapena riusciva a distinguere i contorni del viso, il pallido disegno delle labbra, l’ombra in cui erano sprofondati gli occhi. Era così che ricordava il volto di Alex: null’altro che un riflesso sfumato che, a poco più di sei mesi dalla sua morte, già sbiadiva nella sua mente.
Se le avessero chiesto di dipingere i suoi tratti non avrebbe saputo riportarli alla mente. L’unica cosa che ricordava erano i suoi occhi, azzurri come il cielo della sua Terra. Quegli occhi azzurri, il cui sguardo le rimaneva incollato sulla pelle ovunque andasse … eppure, nonostante tutte le volte che vi si era perduta dentro, era uno solo lo sguardo che riusciva a ricordare: quello di un uomo che fa il suo ingresso nel mondo dei morti.
Da quando si era risvegliata dal coma, durato tre settimane, non aveva fatto altro che spingere il suo corpo allo stremo, non concedendosi nessuna pausa, nessun riposo, sfuggendo ai pensieri nello stesso modo in cui, su Akuze, era sfuggita ai divoratori.
Crollare sfinita sul letto era l’unica cosa che le faceva dimenticare i volti morti dei suoi amici e il volto dell’uomo che le aveva insegnato a vivere.
Prese il primo oggetto che trovò a portata di mano e lo scagliò contro lo specchio che s’infranse con la stessa facilità con cui il corpo di Shepard si era infranto sulle rocce di Akuze. Sussultò quando si accorse che il suo gesto non aveva distrutto quel riflesso che le provocava solo incubi ma lo aveva moltiplicato e ora la circondava, beffardo, quasi a ricordarle tutte le vite che erano state pagate affinché lei potesse tenersi la sua.
Uscì dal bagno quasi di corsa, sbattendosi la porta alle spalle e ritrovandosi nel nudo appartamento che le avevano dato per il suo breve soggiorno sulla stazione Gagarin.
Era felice che quel posto le fosse sconosciuto, che non ci fossero ricordi annidati nelle preti di quell’appartamento; sapeva che non avrebbe più rimesso piede su Benning o sulla stazione Arcturus per molto, molto tempo.
In quei luoghi, per lei, c’era solo l’illusione di ciò che avrebbe potuto essere e non aveva permesso che si realizzasse. Tormentò l’anello che portava al collo, appeso alla stessa catenina che sorreggeva quella medaglietta da soldato che non le era mai appartenuta e mai sarebbe stata sua.
La specialista Sasha Red era una persona che non conosceva, una persona che odiava: la stessa persona che aveva voluto lasciarsi alle spalle un passato che non voleva essere dimenticato e aveva comprato il futuro col sangue delle uniche persone cui aveva mai voluto bene.
Troppo tardi capiva l’errore della sua ambizione: lei era quello che era e nessun nome, nessun titolo, nessuna corazza o medaglia poteva cambiarlo.
Alex l’aveva amata per quello che era stata e l’aveva odiata per ciò che aveva voluto essere. Ma ora era tardi: non poteva essere più nulla di ciò che era stata, nulla di ciò che aveva desiderato diventare.
Era una superstite ed un soldato.
Era tutto ciò che sarebbe stata.
Si portò davanti allo specchio di fronte al letto, lasciò cadere l’asciugamano, guardando per la prima volta quel corpo segnato dalla morte.
Nuove cicatrici si era aggiunte alle vecchie, trasformando il suo corpo in una vecchia pergamena su cui era scritta una storia che aveva troppe cose da raccontare e nessuna voglia di farsi leggere. Appoggiò le dita sulla spalla, poi sul fianco, dove albergavano i segni di un tradimento che faticava quasi a ricordare.
Chi era Diòs? Perché le aveva sparato?
Il nome di Raul Castillo non le evocava più alcun desiderio di vendetta e i visi di Kobe e Louise sfumavano nell’oscurità … quella vita, la vita passata per le strade di una città tanto antica da essersi smarrita, le sembrava quella di qualcun altro. Era la vita di una persona morta.
Prese la divisa appoggiata sul letto e l’indossò con gesti misurati e sicuri. Nascose coi colori blu e oro dell’Alleanza la tragica storia raccontata dal suo corpo. La persona che era stata, le cose che aveva fatto, coloro che aveva amato e che aveva odiato … tutto ciò non aveva più importanza.
L’unica cosa importante erano l’aria nei suoi polmoni, il sangue nelle sue vene, la luce nei suoi occhi, il cuore che palpitava nel petto … i ricordi, le lacrime, le risate erano lussi riservati ai vivi.
Ma lei non era viva, era solo una ladra che aveva rubato un po’ di tempo ai morti.
Abbottonò con metodo la sua giacca, lisciò accuratamente i pantaloni, infine raccolse i capelli in una crocchia serrata, appena dietro la testa, facendo attenzione che nemmeno una ciocca sfuggisse al suo controllo.
Era un soldato con una sola missione: restituire il tempo rubato.
E lo avrebbe fatto mettendosi al servizio della galassia, votando la sua vita alla salvaguardia di quella degli altri.
Controllò che le scarpe fossero lucide, come esigeva il protocollo non scritto dell’Alleanza, e si ricordò di quell’uomo seduto al bar, quell’uomo di cui non sapeva alcuna verità, tranne la più importante: chiunque fosse, qualunque cosa avesse fatto in passato, alla fine le aveva salvato la vita.
Non importava altro, solo ora se ne rendeva conto.
Non importava che fosse o meno suo padre, che fosse un martire o un terrorista, alla fine della sua vita aveva fatto il suo dovere di uomo e di soldato.
Fare il proprio dovere: era tutto ciò che le restava.
Uscì dall’appartamento, imboccando il corridoio di quell’edificio simile a mille altri che l’Alleanza aveva sparso per la galassia. Le era familiare ma anche meravigliosamente estraneo. Non c’erano i suoi amici tra i soldati impettiti che incrociavano la sua strada e la salutavano portandosi una mano alla fronte; non c’era l’uomo che amava sotto quelle divise che nascondevano le storie di chi le indossava.
Raggiunse la sala conferenze e si fermò nel piccolo atrio che precedeva la porta chiusa; alla reception sedeva un giovane ufficiale che stava invano tentando di tranquillizzare una donna in uniforme che inveiva contro di lui.
Assistette col malcelata indifferenza alla scenata che stava facendo quella donna dai tratti aristocratici e l’aria di chi sa vendere dura la pelle.
Guardandola, capì che era un ottimo soldato, non era necessario conoscere il suo punteggio attitudinale per capirlo, anche se era proprio quello di cui la donna si stava lamentando: essere assegnata ad incarichi di serie B malgrado le sue comprovate capacità.
Era nell’ardore con cui difendeva la sua posizione, nell’ostinazione con cui reagiva ad ogni attacco, nell’intelligenza delle sue risposte che si intuivano le sue straordinarie abilità.
Era un ottimo soldato, si ripeté Sasha, fissando le mani affusolate e il viso ostinato, ma non le piaceva.
C’era qualcosa in quei lineamenti altezzosi, nella piega dura della bocca, nel tono arrogante della sua voce, che la faceva infuriare.
Quella donna urlava, sbraitava, batteva i pugni sul petto ma non risolveva niente. Continuava ostinata per la sua strada, travolgendo tutti o tutto coi suoi paraocchi mascherati da ideali, senza accorgersi che tutto il suo dimenarsi era solo un’inutile sfoggio di forza.
Si chiese se, coi suoi superiori, era altrettanto arrogante che coi suoi sottoposti.
Non ebbe modo di scoprirlo perché il ragazzo alla reception interruppe brevemente l’arringa della donna rivolgendosi a Sasha per dirle che poteva entrare.
Sasha si piazzò davanti alla porta e, mentre i dispositivi di sicurezza la scannerizzavano, poté sentire le ultime proteste della donna.
- Non ho intenzione di ammuffire su Eden Prime finché sarò diventata tanto vecchia da non poter più reggere una pistola!-
Non sentì la replica del giovane ufficiale perché la porta si aprì e tutti i suoi pensieri si concentrarono sulle tre persone sedute di fronte a lei: le uniche persone, in tutto l’universo, che potevano darle l’unica cosa che avrebbe dato senso alla sua sopravvivenza.
Il rumore della porta che si chiudeva accompagnò i suoi passi mentre si portava al centro della grande sala, dominata dal grande palco e dalla scrivania dietro cui sedevano le eminenze grigie dell’Alleanza.
Non provava né soggezione, né ansia mentre si fermava al centro della sala, contemplando quei volti uguali a tutti gli altri.
Quegli uomini detenevano un potere tale da smuovere tutti gli eserciti della Terra, ma sotto i titoli, le medaglie e le uniformi c’erano solo sacche di carne piene di sangue e tenute insieme dalle ossa. Erano uomini uguali a tutti gli altri.
Guardandoli si rese conto che non erano pronti ad affrontare i pericolosi misteri che la galassia sapientemente celava ai suoi abitanti.
L’arroganza aveva ucciso tutti gli uomini e le donne scesi su Akuze. L’umanità si era convinta di aver trovato tutte le risposte a tutte le domande: lo leggeva sui visi appagati di quei tre ufficiali che avevano tra le mani la sorte di un pianeta intero.
Non ebbe bisogno di chiedersi che cos’avrebbero fatto di fronte all’ignoto, lo aveva già visto accadere, su Akuze. L’Alleanza non era pronta ad affrontare l’inconoscibile, non sapevano come comportarsi di fronte a qualcosa che non riuscivano a capire. E lei era parte di quell’inconoscibile.
Coloro che comandavano l’Alleanza avevano paura di lei. Lo leggeva nell’espressione tesa di quei visi distinti, nelle mani che stringevano nervosamente i datapad, negli occhi che sfuggivano i suoi.
Come molti nell’universo anche loro, dopo l’iniziale meraviglia per la sua sopravvivenza, iniziavano a chiedersi come ci fosse riuscita: codardia? Tradimento? Sfacciata fortuna?
Sasha era un’incognita che nessuno riusciva a risolvere. Una bomba senza il codice per dissinescarla. 
Se fosse stato per loro quegli uomini l'avrebbero chiusa in qualche clinica psichiatrica, dimenticandosi di lei e del fallimento di cui era stata testimone. Ma ciò che era accaduto su Akuze non poteva essere nascosto e lei, unica sopravvissuta di quell'esercito di uomini apparentemente invincibili, era diventata tristemente famosa.
Era l’unica sopravvissuta e tutti, nella galassia, si aspettavano che venisse celebrata per questo.
Non che ci fosse qualcosa da celebrare, su questo erano tutti concordi; ma l'ipocrisia del mondo in cui vivevano imponeva a quegli uomini di onorarla per essere sopravvissuta a tutti gli altri. Non era ciò che voleva lei, né ciò che volevano gli uomini seduti in quella stanza, ma, ancora una volta, la volontà dei singoli sfumava di fronte alle esigenze della collettività.
Per superare il trauma di Akuze l'umanità aveva bisogno di un eroe, di un faro cui appigliarsi, e lei era il solo simbolo che l'Alleanza aveva a portata di mano. E così invece di rinchiuderla in una cella imbottitata e buttare via la chiave, le davano una medaglia e forse anche un titolo altisonante.
- Venga avanti, specialista Red.- la invitò l’uomo seduto al centro, un qualche generale o maggiore di cui aveva già scordato il nome.
Fece un passo avanti, impettita, le mani strette dietro la schiena, sperando di sentire per l’ultima volta quel nome che non le apparteneva.
- Lei è la sola sopravvissuta dello spaventoso attacco che ha colpito cinquanta marines dell’Alleanza, sul pianeta Akuze.- esordì l’uomo, come se avesse avuto bisogno che qualcuno le ricordasse ciò che riviveva ogni volta che permetteva alla sua mente di vagare tra i ricordi – Per questo motivo l’Alleanza si sente in dovere d’insignirla della Stella Terrestre e di promuoverla al grado di comandante.-
Con aria solenne un soldato in alta divisa venne ad appuntarle al petto quella medaglia che non aveva fatto nulla per meritare; i tre ufficiali dell’Alleanza la guardavano con aria assorta, dall’alto dei loro scranni, forse chiedendosi, come lei, che merito ci fosse nel sopravvivere a tutta la propria squadra.
- Inoltre.- proseguì l’ufficiale dall’espressione arcigna seduto a destra – Le comunichiamo che ha raggiunto i requisiti necessari per essere ammessa al programma N7. Tra un mese potrà cominciare il suo addestramento su Titano.-
Eccolo il premio tanto ambito, pensò mentre alzava la mano e toccava per la prima volta quella medaglia che non aveva nessun diritto di portare. Strinse il metallo gelido finché non sentì le punte acuminate penetrarle nel palmo. Quella medaglia era tutto ciò che restava della sua squadra.
- Ha qualche richiesta da avanzare?- domandò il terzo ufficiale fissandola con occhi scuri che le ricordavano quelli di Castillo, l’uomo che era stato suo modello ed esempio per tutta la sua infanzia; lo stesso che l’aveva tradita vendendo tutte le persone a lei care come schiave.
Prima che la tradisse aveva sognato di diventare come lui, cinica e spietata, dopo aveva giurato di ucciderlo nei modi più atroci che conosceva; ma alla fine non si era dimostrata migliore di lui: aveva calpestato tutto e tutti pur di essere lì in quel momento, con una medaglia appuntata al petto e lo sguardo fisso negli occhi di un uomo che la guardava senza vederla.
Voi non sapete niente! Avrebbe voluto urlare contro quei tre ufficiali inamidati.
La guardavano, la giudicavano, la misuravano, senza sapere nulla.
Un tempo era stata come loro, capace di vedere solo quello che voleva vedere, ma questa volta, per la prima volta, Sasha aveva capito tutto.
Il suo ruolo nell’universo era finalmente chiaro e limpido come il cielo delle cocenti estati di Grecia.
Aveva una missione e l’avrebbe portata a termine a costo della sua vita, ma non di quella degli altri.
Aveva capito, ora, ciò che era importante e ciò che non lo era.
- Sono un’orfana nata sulla Terra, signore, l’unica cosa che avevo prima di arruolarmi nell’Alleanza era il mio nome: Sasha. All’ufficio di reclutamento un uomo pensò che sarebbe stato molto divertente, per via dei miei capelli, trasformarmi in Sasha Red. Non provo nessun rispetto per quel nome, signore, ed ogni volta che lo sento pronunciare non fa altro che ricordarmi l’umiliazione provata quel giorno. Ho una sola richiesta: non voglio più essere Sasha Red. -
- E come desidera essere chiamata, comandante?-
- Con l’unico nome per cui provo il più grande rispetto e la più totale ammirazione.- dovette fermarsi un attimo, per inghiottire il nodo che le era salito alla gola: quante vite sarebbero state risparmiate se lei non fosse stata così ottusa da non accorgersi di avere a portata di mano la sola cosa che le importava davvero?
- Ci dica quel nome, comandante.- la incalzò l’uomo con gli occhi di Raul Castillo.
Alzò i suoi, piantandoli con insolenza in quelli dell’altro – Shepard. Io sarò il comandante Shepard o niente.-
I tre uomini si scambiarono una rapida occhiata, confabulando a bassa voce tra loro, non sembravano sorpresi: probabilmente Hannah doveva già aver anticipato la sua richiesta, dando la sua autorizzazione. O, perlomeno, questo era ciò che sperava.
Infine l’ufficiale seduto al centro tornò a rivolgersi a lei – E sia: la sua richiesta è stata accettata. – si alzò, subito seguito dagli altri due -Benvenuta nel programma N7, comandante Shepard.-  proclamò, con voce stentorea, portandosi la mano alla fronte nel rigido saluto dei militari.
Sasha non disse niente, si limitò a stringere più forte la medaglia che portava appuntata al petto, allentando la presa solo quando sentì il sangue appiccicarle il palmo della mano. Raddrizzò le spalle e uscì dalla stanza, senza dire una parola né ricambiare il saluto. Era il comandante Shepard, adesso, e poteva permettersi anche questo.
 
 



 
Nota
 
Credo che ormai sia chiaro chi è il comandante Shepard di questa storia. A questo punto credo di dovervi qualche spiegazione, anche se già in precedenza avevo accennato qualcosa.
Nella mia personale filosofia di Mass Effect (che so essere condivisa da qualcuno di voi) non esiste un solo comandante Shepard. Quando si inizia il gioco si possono scegliere tre origini e io sono convinta che scegliendone una le altre due non vengano automaticamente eliminate. Ogni potenziale comandante coesiste con gli altri, ha una sua storia, un suo percorso che si sviluppa in parallelo con quello degli altri. Ma nell’universo di Mass Effect c’è posto per uno solo di loro. Lungo la strada di ogni Shepard accade una piccola variabile che muta le sorti di ognuno di essi e alla fine uno solo sopravvivere (o perlomeno questo è ciò di cui sono convinta io).
Alexander è Shepard, l’unica differenza tra questo Alex e il protagonista delle mie precedenti storie è che qui lui non sopravvive ad Akuze, ma se fosse sopravvissuto sarebbe diventato il comandante Shepard di cui alcuni di voi hanno letto nelle mie precedenti storie.
Ma anche Sasha è Shepard, su questo non c’è alcun dubbio.
Nel corso di questa storia, inoltre, si è intravisto (e quando dico “intravisto” intendo proprio intravisto) un terzo potenziale Shepard, ma lascio a voi capire chi sia.
Siamo quasi alla conclusione di questa storia che dire epica sarebbe un eufemismo, dovrebbero mancare un paio di capitoli, tre al massimo e voglio approfittarne per ringraziare Stefania (mia fedele compagna di cella imbottita) senza la quale difficilmente sarei arrivata a questo punto.
Un abbraccio a tutti quelli che sono arrivati fin qui.
Alla prossima! 

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Capitolo 38
*** L'ultimo addio ***


 

Akuze, 2182
 

Sasha appoggiò il capo contro la parete fredda della navetta; sul trasporto non c’erano finestre ma la cosa non la disturbava, anzi non aveva nessuna voglia di vedere cosa c’era là fuori.
Chiuse gli occhi, cercando inutilmente di farsi cullare dal movimento regolare del veicolo e dal leggero fruscio dei motori. Si mosse a disagio sul sedile: la corazza da combattimento non era certo pensata per essere indossata durante lunghi viaggi come quello. Ma Sasha non aveva nessuna intenzione di arrivare a destinazione senza una corazza e un lanciagranate.
Sospirò, ritornando con la mente agli ultimi quattro anni trascorsi e a tutte le cose che erano cambiate dalla prima volta che aveva fatto quel medesimo viaggio.
Aveva completato brillantemente il programma N7, diventando membro a pieno titolo di quel prestigioso corpo di combattimento. Un tempo ne sarebbe stata fiera, avrebbe camminato a petto in fuori per essere certa che nessuno mancasse di notare la sigla N7 vergata sulla sua corazza. Ma i tempi dell’arroganza e del cieco orgoglio erano passati e tutte le sue ambizioni cancellate da quel pianeta su cui ora stava così faticosamente tornando.
Non c’era molto da ricordare di quei quattro anni passati a … a fare cosa? Scosse impercettibilmente il capo, incapace di trovare una risposta a quella semplice domanda. Su Titano non si era fatta amici, non si era preoccupata di legare con nessuno. Gli altri membri del programma la guardavano con timore e ammirazione, come chi osserva una bestia feroce rinchiusa in gabbia.
In gabbia, ecco come si era sentita. Non che la cosa la disturbasse: era una gabbia che si era costruita da sola, le cui chiavi custodiva gelosamente. Sapeva che finché fosse rimasta lì dentro, protetta da un nome famoso e da una reputazione altrettanto famosa, nessuno avrebbe potuto accorgersi di ciò che era in realtà: solo Sasha, un’orfana di Atene che distruggeva tutto ciò che toccava.
Si mosse a disagio sul sedile: era da tanto tempo che non pensava più a se stessa in quei termini. Gli altri la chiamavano “comandante Shepard”, ed era piacevole illudersi di essere solo quello. Un soldato perfetto nato quattro anni prima, senza un passato da rimpiangere e un futuro a farle paura.
Era un’illusione che aveva funzionato per un po’: non c’era più nessuno in grado di forzare la porta della sua cella e ricordarle chi era veramente.
Cross era morto due anni prima, ucciso da una malattia che avrebbe potuto curare se solo avesse avuto la volontà di farlo. Ma, sentita la diagnosi, Cross aveva scrollato le spalle ed era rimasto seduto sulla veranda della sua casa terrestre in mezzo alle montagne, con il suo sigaro e la sua bottiglia di whiskey finché un giorno, semplicemente, non si era più alzato. Una fine di pace per un uomo di guerra.
Non era andata a trovarlo mentre era malato, non aveva viaggiato fin sulla Terra per assistere ai suoi funerali: aveva appreso la notizia dai telegiornali, annunciato tra il meteo e la cronaca di una partita. Aveva accusato il colpo, gettando anche quella morte nel pozzo delle cose dimenticate e dei ricordi perduti. Era lo stesso pozzo in cui, qualche anno prima, aveva gettato la notizia di un’altra morte: Daario, il suo unico amico d’infanzia, era morto su Torfan durante una missione punitiva contro dei pirati Batarian. Una missione che si era trasformata in un mattatoio. Anche in quel caso aveva appreso della sua morte dai notiziari, senza versare nessuna lacrima, il viso immobile come quello di una statua.
E così nell’arco di quattro anni si era ritrovata completamente sola in quella galassia dove perdersi era la cosa più semplice dell’universo.
Chi c’era ora a ricordarsi di lei? Hannah e Anderson vigilavano, lo sapeva, poteva sentire la loro presenza, ma era flebile come il ricordo dei morti. Nessuno di loro era in grado di vedere oltre la corazza del comandante, né lei aveva alcuna intenzione di mostrarsi.
Non c’era più nessuno a chiamarla Sasha.
Eppure, nonostante tutto, era tornata lì, nel luogo in cui la sua vita era finita.
Aveva cercato di dimenticare se stessa e solo ora che non c’era più nessuno a ricordare il suo nome si rendeva conto della sua follia.
Come poteva combattere per l’umanità se dimenticava tutto ciò che di umano c’era in lei?
Era bastata una domanda, posta da uno sconosciuto, per metterla di fronte all’evidenza di ciò che stava rischiando di diventare: un soldato perfetto.
Ma qualcuno, una volta, le aveva detto che i soldati perfetti sono solo armi: uccidono ma non salvano nulla.
Rivide l’espressione accusatoria del giovane soldato, riudì la sua voce sferzante mentre le poneva la fatidica domanda “Lei ha mai amato qualcuno, comandante?”
Sasha sospirò, pentendosi di aver seguito le stupide regole dell’Alleanza facendo rapporto sulle due giovani reclute N7 poste sotto il suo comando che aveva sorpreso in atteggiamenti intimi. L’Alleanza vietava la fraternizzazione e lei, troppo impegnata ad essere un soldato perfetto per soffermarsi un istante sulle conseguenze del suo gesto, aveva applicato il regolamento alla lettera spedendo quei due giovani soldati agli antipodi della galassia. E non avrebbe provato nessun rimorso se uno dei due non le avesse posto la fatidica domanda.
Una domanda alla quale non aveva dato risposta. Era tornata su Akuze per rispondere a quella domanda e perché, per la prima volta voleva …
Sospirò, sfoderando un sorrisetto ironico rivolto a se stessa “Per la prima volta voglio ricordarmi di me.”
- Stiamo per atterrare, comandante.- l’avvertì il pilota distogliendola dai suoi pensieri.
Sasha annuì, la bocca troppo arida per poter parlare; si alzò aggrappandosi al gancio di metallo del portellone, preparandosi a sbarcare come se si trovasse in territorio di guerra.
Non importava quanto civilizzato potesse divenire quel pianeta: che l’Alleanza si divertisse pure a definirlo “sicuro” e a costruire inutili cattedrali nel deserto per affermare chissà quale dominio: per lei Akuze sarebbe rimasto sempre il pianeta infernale che affrontava continuamente nei suoi incubi.
La navetta atterrò morbidamente sul terreno sabbioso e Sasha uscì dal portellone con un agile balzo; non appena i suoi piedi toccarono terra la navetta riprese quota, come da accordi presi con il pilota.
Aspettò che la sabbia sollevata dai motori si disperdesse mentre il suo corpo si adattava all’aria rarefatta del pianeta. Rimase immobile, in piedi in mezzo a quella desolazione nera, la pelle d’oca sulle braccia malgrado il sole torrido che scaldava la sua corazza.
Presente e passato si sovrapposero mentre sotto i suoi piedi la terra iniziava a tremare e lunghe crepe si aprivano nel deserto. Udì gli spari delle mitragliatrici, il rombo secco dei mezzi corazzati, le urla di uomini morenti e le strida dei mostri. Chiuse gli occhi, crollando in ginocchio mentre ombre antiche la sovrastavano e sotto di lei si apriva l’abisso. Si sentì cadere nel vuoto, precipitare in un’oscurità senza fondo, la sabbia nera che vorticava intorno a lei, la voce di un uomo che chiamava il suo nome.
- Sasha!-
Sussultò, spalancando gli occhi e guardandosi intorno. Era in ginocchio in mezzo al deserto di Akuze, la sabbia nera che, sospinta dal vento, già si accumulava attorno alle sue gambe.
Non c’erano mostri vermiformi pronti a ghermirla, nessuna voragine nel terreno, né uomini che sparavano in preda al panico. C’era solo lei, in compagnia dei suoi ricordi e delle sue paure: persino la voce che aveva udito risuonare nell’etere apparteneva unicamente alla sua mente. D’altronde come poteva essere reale? Non c’era più nessuno a chiamarla con quel nome.
- Comandante Shepard.- ricordò a se stessa, alzandosi e spazzolando via la sabbia dalla lucida corazza N7.
Voltò le spalle alla desolazione nera, rivolgendo le sue attenzioni all’enorme cupola che occupava buona parte dell’orizzonte. Era una costruzione immensa, maestosa, ma quand’era uscita dalla navetta non si era nemmeno accorta della sua presenza. Perché, come lei, quella struttura non aveva ragione di esistere. Era solo un’illusione, una cortina fumogena che aveva come unico scopo quello di era far dimenticare l’orrore.
Ecco cos’era diventata Akuze: una farsa grottesca, un luogo impregnato di retorica, dove la morte era raccontata come la più splendida delle avventure.
Lì, nel luogo dove tanti uomini avevano perso la vita nel più atroce dei modi, l’Alleanza non aveva saputo fare di meglio che costruire un tempio in gloria a se stessa.
Sasha fece una smorfia, costringendo il suo corpo a muoversi per entrare in quell’illusione. Sotto la cupola il clima si fece improvvisamente mite, mentre erba soffice e verde cresceva sconfiggendo il deserto.
Un’interfaccia virtuale con le sembianze di una giovane donna apparve al suo ingresso, ma lei la zittì prima ancora che riuscisse a sciorinare, con voce incolore, la sua favoletta sui grandi eroi morti in quel luogo.
Si guardò intorno, disgustata e triste, mentre il suo sguardo scivolava lungo la piccola collina di alberi ed erba punteggiata di lapidi bianche che si dipanava di fronte a lei.
Camminò lungo quel cimitero uscito da una cartolina, senza osare soffermarsi al cospetto di quelle pallide lapidi che raccontavano di eroi e duelli, di morti aggraziate e di nobili gesta.
Era mai esistito un inganno più grande di quello? Un inganno capace di cancellare ciò che davvero era quel posto?
Invece dell’erba lei ricordava la sabbia impregnata di sangue e materia cerebrale; le ombre degli alberi avevano sostituito quelle mostruose dei mostri che avevano sbranato i suoi compagni. Lei ricordava una pianura punteggiata di ossa, bianche come quelle lapidi ma infinitamente più minacciose.
In quel luogo, in quel piccolo paradiso creato nel più mostruoso degli inferni, la morte di quei soldati sembrava quasi trovare una giustificazione, essa veniva glorificata quando avrebbe dovuto essere solo pianta.
Lei conosceva la morte. Conosceva l’odore della morte, era odore di sangue e piscio e paura. Conosceva i suoni della morte: erano agonia, singhiozzi e patetiche invocazioni di aiuto. Conosceva l’aspetto della morte.
Strinse i pugni e digrignò i denti: certo che lo conosceva.
Avrebbe voluto radere al suolo quel luogo, strappare le ossa dalle loro tombe e portarle migliaia di chilometri lontano da quel pianeta e da quel memoriale che non ricordava niente.
Quegli uomini meritavano un cielo vero sopra la testa e vento a far stormire le fronde degli alberi di casa loro. Meritavano l’infinita vastità dello spazio e gli oscuri misteri degli oceani. Meritavano il tocco delicato della pioggia e il freddo abbraccio dei ghiacci.
Si morse il labbro, abbassando colpevolmente il capo: si era convinta che non le importasse niente di dove fossero seppelliti i suoi amici e il suo uomo.
“Sono morti” si era detta “Cosa importa dove siano seppelliti.”
Forse a loro non importava niente. A lei, invece, importava tutto.
Raggiunse l’ultima fila di lapidi, camminò lentamente tra i due schieramenti di pietre bianche, sentendo il loro sguardo su di sé, come un imputato sotto processo che sfila di fronte alla giuria in procinto di emanare il verdetto. Obbligò i suoi occhi a scorrere i nomi incisi sulla pietra: Jake e Jin, Abigale e Dario, Tiger e Nadine, Habib e C.J.
Si soffermò davanti ad ogni lapide, sfiorò con la punta delle dita le curve di ogni nome, strinse i denti al ricordo di come era morto ognuno di loro. Sapeva che alcune tombe erano vuote, che non era stato ritrovato alcun corpo da seppellire.
Dovette racimolare ogni briciola di coraggio rimastole per proseguire e raggiungere l’ultima tomba. Era uguale a tutte le altre, eppure appariva più silenziosa, più triste, più sola: era l’unica a non avere un compagno.
Sasha si accucciò davanti alla lapide bianca, nel luogo in cui, se cose le cose fossero andate come per molto tempo aveva sperato fossero andate, ci sarebbe stata la sua tomba.
Invece eccola lì: il fantasma di una donna viva circondata dagli spettri di uomini morti.
“Alexander Andreij Shepard” lesse su quella lapide che avrebbe potuto essere la sua.
Si tolse i guanti, affondando i palmi delle mani nell’erba fresca e sottile, aliena su un pianeta alieno.
- Sarei dovuta venire prima.- ammise, parlando a tutti e a nessuno – Ma ci sono molte cose che avrei dovuto fare e non ho fatto. Molte cose che avrei dovuto dire e non ho detto. Piangerle ora non servirà a realizzarle.-
Prese dalla cintura la piccola sacca di cuoio che vi portava appesa da quando aveva ripreso a combattere.
Lì dentro c’era la sua fortuna e la sua colpa. Ma era stanca di basare la sua vita su fortuna e colpa. Era tempo di lasciarle andare, entrambe.
Prese una fotografia sgualcita dal troppo uso. Studiò quei volti che sorridevano per motivi che aveva dimenticato, davanti a un fotografo di cui aveva scordato il nome. Quante volte aveva osservato quei volti impressi sulla carta per impedire che il tempo li cancellasse dalla sua memoria. Eppure non era servito a niente, fino a pochi giorni prima aveva dimenticato quanto li avesse amati, tutti loro e uno in particolare.
Non era compito di quella fotografia ricordare chi non c’era più. Solo lei poteva farlo. Lei che era la sola rimasta a ricordare il suono delle loro voci e l’odore del loro sudore.
Appoggiò la fotografia alla base della lapide di Shepard, chiedendosi che cosa avrebbe fatto lui al suo posto, rispondendosi che forse preferiva non saperlo. Aveva amato il ragazzo che era stato e l’uomo che stava diventando; ma se i ruoli fossero stati invertiti, se fosse toccato ad Alex inginocchiarsi davanti a quella distesa impietosa di tombe, Sasha era certa che la mano che avrebbe accarezzato la sua lapide sarebbe stata quella di uno sconosciuto avvelenato dalle troppe morti, indurito dalla sua sola sopravvivenza.
- Mi hai lasciato il compito più difficile, Alexander. Pensavo di averti rubato la vita, ora mi chiedo se non sei stato tu a rubarmi la morte.- si concesse un sorriso mesto – Sono sola, Alex, come non lo sono mai stata. Sono uno spettro che si aggira per la galassia: ho tutto quello che un soldato vorrebbe avere eppure sono come un’armatura vuota, un cavaliere inesistente. –
Dalla saccoccia estrasse la piastrina di riconoscimento che era stata di Sasha Red e una morsa le serrò il cuore quando l’anello infilato nella catenina tintinnò contro la mostrina. Sfilò delicatamente l’anello, rigirandoselo tra le dita, incapace di allontanare dalla mente il ricordo dell’attimo in cui l’aveva ricevuto. Come apparivano semplice le cose, adesso.
- Non ho dimenticato quello che mi dicesti, il giorno in cui tentai di restituirti questo anello. – ricacciò indietro le lacrime, sentendo il familiare retrogusto amaro della disperazione scenderle giù per la gola -  Mi ordinasti di tenerlo e di riportartelo il giorno in cui avessi ottenuto tutto ciò che desideravo. Quel giorno avrei dovuto dirti se ne era valsa la pena.-
Si morse il labbro, cercando di trovare le parole giuste per dire ciò che voleva dire e anche quello che non avrebbe mai voluto dire.
- Ho ottenuto tutto quello che desideravo. E se dovessi rispondere oggi a quella domanda ti direi che no, non è valsa la pena.- strinse il pugno attorno all’anello – Ma io non voglio darti questa risposta. Non posso tollerare l’idea che tutto quello che ci è successo sia avvenuto per niente. Ecco perché terrò questo anello.- mostrò il pugno chiuso alla lapide, come avrebbe fatto se lui fosse stato ancora in vita per vedere il suo gesto – Quando avrò reso la galassia un luogo migliore di come l’ho trovato, quando avrò salvato abbastanza vite da ripagare tutte quelle che ho contribuito a stroncare, quando avrò salvato un popolo dall’estinzione e riportato la pace laddove non c’era altro che guerra allora, solo allora, ti restituirò l’anello e ti dirò che ne è valsa la pena. - posò le labbra sul nome inciso nella pietra – E finalmente il mio debito sarà saldato e tornerò da te, amore mio. Non importa in che luogo morirò, quanto lontano da qui sarà il mio corpo, ovunque tu sia adesso io ti troverò. E avremo quella pace che tu sognavi per noi, mentre il tuo nome e le mie gesta riecheggeranno per l’eternità.- appoggiò la piastrina sul bordo della lapide, ma tenne l’anello per sé. Prese il pugnale che portava alla cintura, si passò il filo della lama sul palmo e, mentre il sangue zampillava dal piccolo taglio, appoggiò la mano sulla lapide, lasciandovi una traccia rossa – Lo giuro col sangue e che io sia dannata se dovessi permettere alla morte di fermarmi.-
Si rialzò, sentendo di aver, finalmente, compiuto il proprio dovere.
Sentì gli occhi di ogni soldato seppellito in quella terra arida puntato su di sé: lì erano i suoi dèi e i suoi demoni; le loro anime erano le sole divinità cui avrebbe mai rivolto le sue preghiere.
Aveva pronunciato il suo giuramento e, nel silenzio che avvolgeva il cimitero di Akuze, seppe che era stato accolto: non le rimaneva altro che adempiere al suo dovere per quel giorno e per tutti i giorni a venire.
- Sono Sasha Shepard, comandante dell’Alleanza.- sussurrò ai suoi dèi – E mi ricordo di me. -
 
 
 
 
Nota
 
Perdonate lo spaventoso ritardo, è stato un mese di fuoco ma conto di recuperare il tempo perso.
Rimane un solo capitolo prima della fine di questa storia che, devo ammetterlo, mi è particolarmente cara, forse più delle altre. L’idea di mettervi parola fine mi rattrista, soprattutto perché ormai ho spremuto da Mass Effect e dal suo meraviglioso protagonista tutto quello che, a mio avviso, c’era da spremere. Personalmente non credo di avere più nulla di originale da scrivere su questa storia e ora mi sento come alla fine di una maratona. Stanca e soddisfatta, ma rattristata dal fatto che non ci sia più strada da percorrere.
Ma non è ancora il momento degli addii, rinvio questo triste compito al prossimo capitolo.
Nel frattempo ringrazio di cuore chiunque sia arrivato a leggere queste parole!
Alla prossima!

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Capitolo 39
*** La fine è il mio inizio ***



Stazione Arcturus, 2183
 
Era strano ritrovarsi sulla stazione Arcturus dopo tanto tempo; erano passati anni dall’ultima volta che vi era stata e molte cose, troppe, erano cambiate da allora.
All’inizio aveva creduto che il dolore della perdita l’avrebbe tormentata per sempre, impedendole di sopportare l’idea di tornare in quei luoghi in cui aveva vissuto tanto intensamente per troppo poco tempo.
Invece, contro ogni previsione, il dolore lentamente era sfumato e il ricordo delle cose perdute si era trasformato nel flebile eco di una vita ormai sbiadita.
Rimorso e nostalgia non se ne sarebbero mai andati, questo lo sapeva bene, simili a una spina conficcata troppo a fondo nella carne, che ogni tanto ti ricorda che è ancora lì. Ma, come una spina, le facevano male solo se andava a tormentarli.
Aggiustò la crocchia serrata che tratteneva i suoi capelli rossi e poi incrociò le braccia al petto, aspettando che l’ascensore aprisse le sue porte. Era molto tardi e il centro di addestramento dell’Alleanza era praticamente deserto, eppure non aveva nessuna intenzione di ritirarsi nelle sue stanza.
Le porte dell’ascensore si aprirono e lei vi scivolò dentro con un fremito d’impazienza: mancavano poche ore e poi si sarebbe imbarcata su una nave.
Non una nave qualsiasi, ricordò a se stessa, tamburellando le dita contro un pannello metallico: sarebbe stata il secondo ufficiale a bordo della nave più veloce della galassia, la Normandy SR-1.
Quando Anderson le aveva proposto d’imbarcarsi sotto il suo comando  aveva accettato al volo, senza pensarci due volte. Era la sua occasione, forse la sola occasione che avrebbe mai avuto, per tener fede al giuramento fatto sulla tomba di Alex. A bordo della nave più innovativa della galassia finalmente avrebbe avuto gli strumenti per pagare il suo debito con la vita … e con la morte.
Chiuse gli occhi, appoggiando la fronte contro la parete fredda: più di ogni altra cosa era l’idea di non essere più sola a farle accelerare i battiti del cuore, in un misto di ansia e impazienza. Negli ultimi sette anni era rimasta isolata dal resto della galassia, rifuggendo qualsiasi coinvolgimento emotivo, limitando i suoi contatti alla semplice formalità. Aveva combattuto al fianco di molti altri soldati e addestrato innumerevoli reclute, ma dalla morte della “33” non aveva più avuto una squadra o amici che le coprissero le spalle.
Ora, con la prospettiva di tornare ad avere, finalmente, una squadra, si rendeva conto di quanto si fosse sentita sola in quegli anni.
Sorrise, raddrizzando il capo e aprendo gli occhi: era tempo di farsi una famiglia, di nuovo.
Si chiese come sarebbe stata la sua nuova squadra e se, da qualche parte, ci fossero altre persone che, come lei, cercavano disperatamente qualcosa che ancora non riuscivano a trovare: amici cui affidare incondizionatamente la propria vita, una causa per cui combattere, un luogo da chiamare casa.
Si chiese se la Normandy sarebbe diventata la sua casa e se i membri dell’equipaggio sarebbero stati per lei una famiglia … scosse il capo, ridendo di se stessa e dei suoi vaneggiamenti eccitati. Eppure, nonostante tutta la sua buona volontà, non poteva impedire alla sua mente di divagare. 
Dopo tanti anni di apatia, finalmente ,ritornava alla vita.
Sospirò, decidendo che un po’ di esercizio fisico l’avrebbe aiutata a tenere occupata la mente.
Le porte dell’ascensore si aprirono sull’atrio deserto e, invece di uscire nell’opaca notte artificiale della stazione, imboccò la breve rampa di scale che portava alla palestra.
Negli spogliatoi si tolse la giacca e fece passare delle garze di cotone attorno alle nocche, per non ferirsi le mani contro il sacco da allenamento.
Entrò nella palestra piacevolmente silenziosa ma non si stupì quando vide uno dei sacchi oscillare sotto i pugni di un altro soldato dell’Alleanza.
Inconsciamente aveva sperato di trovarlo lì, nel punto esatto in cui sapeva l’avrebbe trovato.
Lo salutò con un breve cenno del capo, prendendo posizione al suo solito posto. Fece partire il primo pugno contro il sacco paracolpi davanti a lei e, mentre caricava un sinistro, si ritrovò a lanciare un’occhiata obliqua al suo silenzioso compagno.
Come lei, anche il soldato amava allenarsi negli orari più improbabili, quando gli altri andavano a dormire o facevano la coda in mensa. Senza volerlo erano diventati compagni di allenamento, i tonfi sordi dei loro pugni che si davano reciprocamente il ritmo. Eppure, nonostante si vedessero quasi ogni giorno tra gli attrezzi immobili della palestra deserta, non si erano mai scambiati una parola. Si salutavano con un cenno quando uno dei due arrivava o se ne andava, poi lasciavano che fossero i loro pugni a parlare e, di tanto in tanto, uno dei due sorprendeva l’altro a guardarlo di sottecchi. Come stava facendo lei in quel momento.
Analizzò con occhio professionale il modo in cui alzava la guardia appena prima di liberare un gancio, il peso che si spostava leggermente in avanti, i muscoli che guizzavano sotto le pelle quando le nocche impattavano contro il sacco.
I suoi colpi erano precisi e puliti ma anche imprevedibili: non ripeteva mai lo stesso schema e la velocità dei colpi variava continuamente. Sasha non poté fare a meno di approvare il suo modo di combattere dicendosi che non le sarebbe dispiaciuto averlo come compagno di squadra. Pensò che avrebbe potuto fare il suo nome ad Anderson, poi si ricordò che non sapeva il suo nome.
Avrebbe potuto chiederglielo, ma qualcosa la trattenne. L’idea d’interrompere quel loro rituale, d’incrinare la sintonia dei loro gesti con una domanda ad alta voce la fece sentire a disagio.
Gli occhi scuri del soldato intercettarono il suo sguardo e Sasha si sentì avvampare stupidamente; maledicendo la sua goffaggine tornò a concentrarsi sul suo allenamento.
Eppure, suo malgrado, nel corso dell’ora che trascorsero nella palestra silenziosa, i suoi occhi tornarono molte volte a posarsi sul suo misterioso compagno. E scoprì di non essere più interessata solo alle sue abilità di lottatore.
Era bello, notò per la prima volta.
Anche Alex era stato bello, ricordò, ma di una bellezza più brutale e selvaggia. Il viso di Alex sembrava cesellato nella pietra, con linee dure, profonde. Non c’era traccia di durezza, invece, sul viso di quello sconosciuto. Alex era stato arrogante, lui, invece, sembrava solo ostinato.
Si chiese cosa l’incuriosisse tanto in quel ragazzo tanto diverso da tutti quelli che aveva conosciuto, fu solo quando lui alzò nuovamente gli occhi su di lei che ebbe la sua risposta: era il suo sguardo ad affascinarla.
Ricordava gli occhi azzurri di Alex, la prima volta che li aveva incrociati: erano innocenti e spavaldi, ma soprattutto ingenui. Era di quell’ingenuità che si era innamorata, ancora prima di conoscere l’uomo che indossava quello sguardo.
Era grata ad Alex per quello che le aveva dato, per averle insegnato a combattere per la speranza invece che per la vendetta. Tutto quello che era lo doveva a lui. Ma adesso non aveva più bisogno di innocenza e speranza: era finito il tempo in cui aveva sognato anche lei di combattere contro i mulini a vento.
Quello di cui aveva bisogno, adesso, era qualcuno che conoscesse la profonda solitudine in cui era sprofondata: qualcuno che capisse ciò che era, ciò che aveva passato, ciò che aveva fatto, senza porre domande.
E quel ragazzo aveva occhi che le ricordavano i suoi. Occhi che mai avevano conosciuto ingenuità e innocenza; occhi che avevano affrontato l’odio e la rabbia; occhi che avevano subito l’abbandono e lo spregio; occhi che erano stati accecati dal terrore e dall’amore e che, in nome di entrambi, avevano visto compiersi azioni che mai avrebbero voluto vedere né compiere.
Ma erano occhi che mai si erano chiusi, che avevano visto tutto quello che c’era da vedere, che avevano affrontato tutto quello che c’era da affrontare: avevano subito ogni genere di ferita eppure non avevano mai smesso di guardare, consapevoli di qual’era il loro dovere.
Malinconia … ecco cosa dominava quello sguardo e malinconia era ciò che leggeva nei suoi stessi occhi ogni mattina davanti allo specchio.
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e si deterse il sudore dalla fronte, anche lui si fermò, le labbra sottili si piegarono in qualcosa che forse era un sorriso, ma, più probabilmente, fu solo una sua impressione.
Ricordò a se stessa che era la sua ultima occasione per dirgli qualcosa, qualunque cosa: nel giro di poche ore lei si si sarebbe imbarcata sulla Normandy e non avrebbe più rivisto quel soldato dagli occhi tristi di cui non conosceva il nome.
Le parole le si impigliarono in gola e lui fece un cenno impercettibile con il capo, come a dire che non c’era bisogno, che conosceva già ciò che nemmeno lei sapeva di volergli dire. Lo guardò allontanarsi con la sua camminata leggermente ondeggiante, senza osare muoversi, trattenendo persino il fiato, e solo quando lui fu ormai lontano dalla sua vista e il suo nome perduto per sempre, le venne in mente tutto ciò che avrebbe voluto dirgli.
“Grazie”, gli avrebbe detto, “grazie per il tuo silenzio, per non aver mai chiesto il mio nome, per non aver riconosciuto il mio volto e, se lo hai fatto, per aver finto che io fossi solo un soldato come tanti altri. Grazie per il modo in cui mi guardavi quando credevi che non ti avrei visto. Io ti ringrazio per avermi ricordato cosa si prova ad essere viva e avermi risparmiato l’imbarazzo di dirlo ad alta voce.”
Fermò il sacco che oscillava placidamente davanti a lei, si tolse le garze intrise di sudore che aveva avvolto attorno alle nocche e le gettò, raggiunse gli spogliatoi e si rivestì.
Le luci si spensero dietro di lei quando si richiuse la porta della palestra alle spalle, salì lentamente gli scalini, desiderando imbattersi nel soldato senza nome in cima le scale eppure, quando arrivò in cima e trovò l’atrio deserto, non poté fare a meno di sentirsi sollevata.
Guardò l’ora proiettata sul muro di fronte a lei e maledì il tempo che scorreva sempre troppo lento o troppo veloce.
Mancavano sei ore al suo imbraco e non aveva idea di come trascorrerle. I suoi bagagli già l’attendevano al molo e l’idea di tornare nel suo appartamento la faceva inorridire. Preferiva presentarsi ad Anderson con la divisa sgualcita e intrisa di sudore piuttosto che rinchiudersi in quel loculo troppo simile a quello in cui Sasha Red aveva trascorso i momenti migliori della sua vita.
Scosse il capo, stringendo la mano attorno alla sua medaglietta “Shepard.” ricordò a se stessa “Comandante Sasha Shepard”.
Lasciò che fosse l’istinto a guidarla e in un attimo si ritrovò fuori, in quella notte artificiale senza luna.
Camminò senza una meta precisa, lasciando che il tempo fluisse attorno a sé, mentre davanti ai suoi occhi luci e ombre danzavano indistintamente, accompagnate dai suoni confusi della notte. Passò davanti alle luci dei locali, non si fece tentare dalle risate e dalla musica che proveniva dall’interno, passò in punta di piedi attraverso le vite di decine di persone, senza soffermarsi in quella di nessuno.
Quando le luci artificiali della stazione si fossero accese, seguendo il ciclo di quel sole che nessuno di loro poteva vedere, la sua vita, quella vita che così faticosamente aveva vissuto, sarebbe terminata.
Era la fine di ciò che era sempre stata, come il bruco che si racchiude nella sua crisalide in attesa che giunga la sua fine e che una nuova vita inizi.
Per lei era giunto il momento di uscire dal suo bozzolo e dispiegare le ali verso l’inizio di qualcosa che poteva essere straordinario o terribile.
Percorse i moli lentamente, finché non giunse davanti alla forma allungata e sinuosa di quella nave che sarebbe diventata le sue ali. Sorrise mentre osservava il boccaporto aprirsi e Anderson uscire sulla piattaforma, per nulla stupito nel vederla già lì, ben prima dell’orario stabilito.
Il capitano le fece cenno di salire e lei obbedì, sentendo la gola secca e il cuore in tumulto, le sembrò che la passerella fosse lunga chilometri eppure in un attimo fa dall’altra parte, accanto ad Anderson.
Fece un impacciato saluto militare, mentre il suo sguardo percorreva rapito gli interni di quella nave: le parve di non aver mai posato gli occhi su nulla di più bello.
Anderson non disse nulla e fu grata del suo silenzio: le parole non avrebbero fatto altro che rovinare la magia di quegli istanti. Fece un passo incerto e in un attimo si ritrovò fuori dalla sua crisalide e ali immaginarie le spuntarono sulle spalle; l’incertezza si trasformò in determinazione e i suoi passi si fecero sicuri mentre i piedi la guidavano lungo quel ponte sconosciuto che sembrava plasmato dalla sua stessa coscienza. Passò davanti alla mappa galattica e il navigatore le fece un leggero cenno del capo, per nulla stupito della sua presenza, come se vedere quella sconosciuta dai capelli rossi aggirarsi sulla tolda della nave fosse la cosa più naturale del mondo.
Si scordò di Anderson che la seguiva con un sorrisetto compiaciuto stampato sulle labbra e si diresse a passo deciso verso la cabina di pilotaggio, colpita da un presentimento che forse era una premonizione.
Prima ancora che il sedile del pilota si voltasse seppe di non essersi sbagliata: c’era solo un uomo nell’intera galassia che poteva sedere su quella poltrona.
Il miglior pilota dell’Alleanza fece ruotare la sua poltrona con una semplice torsione del polso: sotto il berretto blu il suo volto non tradì alcuna sorpresa né parve riconoscere in quell’ufficiale dai magnetici occhi verdi il soldato con la testa rasata che lo aveva aiutato a trasportare una cassa di munizioni, tanto tempo prima.
- Comandante Shepard …- esordì Anderson - … ti presento il tenente timoniere Jeff Moreau. Lui è …-
- Il pilota più dannatamente bravo della galassia: ecco chi sono.- concluse il pilota, sfoderando un ghigno irriverente – Lieto di averti a bordo, comandante.-
Sasha ammiccò – Lieta di vederti seduto su quella poltrona, miglior pilota.-
Jeff fece ruotare la poltrona, come se non sopportasse di stare lontano dai comandi per più di una manciata di secondi – Me la sono sudata questa poltrona, fortuna che ora ho una tipa tosta a coprirmi il culo.-
Anderson le rivolse uno sguardo interrogativo ma Sasha si limitò a stringersi nelle spalle con aria evasiva.
- Capitano …- s’intromise una voce pacata alle loro spalle - … siamo pronti per il decollo.-
Sasha si voltò verso il nuovo venuto e, per un istante, le parve che la nave fosse appena decollata in verticale. Dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per reprimere un’esclamazione di sorpresa: davanti a lei c’era il suo soldato senza nome.
Anderson non parve notare il suo stupore e appoggiò una mano sulla spalla dell’altro – Bene, comunica a tutti di andare al proprio posto, ma prima voglio presentarti il nostro nuovo Primo Ufficiale.-
Il soldato senza nome accennò un sorriso, impercettibile come quello che aveva intravisto alla palestra – Comandante Shepard.- mormorò, porgendole una mano – È un onore servire con te sulla Normandy, Anderson parla molto bene di te.- Sasha strinse la mano che le porgeva, apprezzando la fermezza della sua stretta – Tenente Kaidan Alenko, ai tuoi ordini.-
Da qualche parte Sasha trovò la lucidità necessaria per apparire perfettamente padrona della situazione, lanciò un’occhiata in tralice ad Anderson – E che cosa dice Anderson di me, tenente Alenko?-
- Che farai entrare questa nave e il suo equipaggio nei libri di storia, comandante.-
Sasha inarcò un sopracciglio, dimenticandosi improvvisamente del suo imbarazzo – Ha detto davvero questo, capitano?-
Anderson fece un cenno di commiato al tenente, obbligandola a seguirlo mentre si avviava lungo il ponte della nave – Un giorno l’intera galassia conoscerà il tuo nome, Shepard, di questo sono certo.- andò a posizionarsi davanti alla mappa galattica che si aprì, fulgida, davanti a lui e le scoccò un’occhiata penetrante – Cosa diranno di te, invece, è ancora tutto da vedere. Dimmi, Shepard, che cosa sei in grado di offrire alla galassia?-
Lei fissò la mappa galattica percorsa dal costante movimento delle innumerevoli stelle e pianeti che la formavano. Da qualche parte in quel vorticoso universo fatto di nebulose e buchi neri c’era la Terra e c’era Akuze.
Sasha prese posto nella postazione del Primo Ufficiale, un gradino sotto la postazione di Anderson, e rispose senza distogliere lo sguardo dall’universo che aveva scelto di proteggerle – C'è una sola cosa che posso offrire: sopravvivenza.-
Non osò alzare lo sguardo su Anderson ma quando lui tornò a parlare seppe di aver dato la risposta giusta – Allora questo è davvero il posto che fa per te, Shepard.-
Sì, lo era. Lo sapeva dal momento stesso in cui aveva posato gli occhi sulle forme sinuose di quella nave che vibrava come una creatura viva sotto i suoi piedi, impaziente di essere liberata nello spazio.
- Quali sono gli ordini, capitano?- domandò, sentendo la sua smania di libertà crescere di pari passo con il fremito dei motori.
- Shepard.- rispose Anderson – Vediamo cosa c’è la fuori.-
Con un sorriso liberatorio Sasha diede l’ordine di decollare e, mentre la nave finalmente si liberava dalle pastoie che l’avevano trattenuta al suolo, capì di essere giunta alla fine.
Chiuse gli occhi mentre la Normandy si avventurava nello spazio e per un istante si sentì fusa con lo scafo di quella nave che pareva plasmata dal suo spirito.
Era la fine, certo, ma anche l’inizio.
Era l’inizio della vita del comandante Shepard e ogni capitolo della sua storia era ancora tutto da scrivere.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
 
Ed è arrivata la fine anche per questa storia.
Ci sarebbero molte cose da scrivere, commenti da fare, ma sinceramente non sono dell’umore giusto e le parole mi sfuggono. So che mi perdonerete.
Perciò mi limiterò a ringraziare tutti quelli che hanno inserito questa storia tra le preferite, le ricordate o le seguite, oltre a tutti i lettori silenziosi che sono arrivati fin qui.
Ringrazio AndromedaShepard, Fedon, Meme_97, NadShepCr85 e Ultrazzurri07 per le loro preziose recensioni.
Ma soprattutto un ringraziamento speciale va alla mia compagna di cella, Shadow_Sea, che mi accompagnato per tutta la difficile stesura di questa storia e, lo ripeto anche a costo di diventare noiosa, senza la quale probabilmente non sarei arrivata fino a quest’ultimo capitolo.
Grazie di cuore, davvero.
Non so se ci sarà un prossima storia, io mi auguro di sì, in ogni caso continuerò a bazzicare per questo sito ancora per un po’.
Buona vita a tutti e, spero, alla prossima!

 
 
 

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