Solo un altro Lunedì

di Piumadoro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 - Partenza ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 - Prima settimana ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 - Seconda settimana ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 - Terza settimana ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 - Ritorno ***
Capitolo 6: *** Conclusioni ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 - Partenza ***


Premessa: alcuni di voi forse riconosceranno in questa storia qualcosa di realmente accaduto. E' vero e falso insieme. I luoghi, non li conosco personalmente e i dettagli sono inventati. I personaggi prendono ispirazione da persone esistenti ma il loro carattere, le loro paure e le loro azioni derivano quasi esclusivamente dalla mia fantasia per quanto riguarda i fatti accaduti o i pensieri della protagonista sulle persone attorno a lei non c'è nulla di realmente vero, solo cose che potrebbero accadere come no. In questo racconto sono viste con gli occhi di una sedicenne e.... no, non è successo a me.

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Sorrisi quando i miei figli mi chiesero e c’era mai stato un momento nella mia vita in cui mi ero sentita fuori posto ed incapace
Cominciai a raccontare loro, senza esitazione…
A quei tempi frequentavo il terzo anno all’istituto Alberghiero ad Alassio.
Era l’anno del mio secondo Stage, questa volta avevo detto ai miei professori che mi sarebbe piaciuto andare lontano. Ci avevo molto pensato ma ero giunta alla conclusione che fare uno stage vicino casa non mi avrebbe aiutato a crescere in responsabilità e forza, essenziali in questo lavoro.
Ebbene quando quel sabato mi dettero la notizia che sarei scesa a Roma in un noto ristorante stellato dalla guida Michelin mi sentivo veramente felice e non sapevo perché dato che ci sarei andata da sola con una ragazza che non conoscevo. Chiamai mia madre tornando a casa in corriera e le feci venire un colpo, lei certo non si aspettava che io andassi a finire così distante da casa. Naturalmente io la rassicurai ero troppo entusiasta per farmi scoraggiare.
Non mi abbattei nemmeno pensando che sarei andata in un ristorante di alto livello, cosa che odiavo, nulla poteva toccarmi, sarebbe stata un’esperienza fantastica.
Mia madre sapeva che mi sbagliavo.
I giorni si bruciarono e a scuola tutti i miei compagni si indaffaravano pensando alla lista delle cose da mettere in valigia. Questo problema non mi toccava anche se era la prima volta che viaggiavo in aereo sapevo di avere al mio fianco mia madre, la maga dei bagagli, non c’erano rischi.
Durante l’ultima lezione pratica prima della partenza il professore Riccardi, il quale era il professore di sostegno di un mio caro compagno autistico che avevo seguito negli anni precedenti, mi chiese se sapevo quale era il mio profilo. Io non ne avevo idea e lui mi rivelò essere molto alto, circa livello A. Il massimo possibile.
La cosa mi preoccupò molto; infatti odiavo sapere che il gestore del ristorante, uno chef affermato, immaginasse che io fossi uno splendore di ragazza a causa dei miei voti mentre io non sapevo fare nulla di più che qualche dolcetto e forse un piatto di pasta.
Iniziavo ad essere nervosa.
Conobbi quella settimana Helen, lei era la ragazza con cui avrei condiviso le mie avventure e le mie sventure oltre che alla stanza e al letto matrimoniale in essa.
Mi stupii subito di quanto fosse facile parlare con lei, più che altro la ascoltavo e mi piaceva, aveva una deliziosa pronuncia della s appena sibilante ed era una cosa che io trovavo alquanto graziosa.
Sapendo che Helen era una ragazza simpatica e abbastanza semplice pensare alla partenza imminente mi venne più facile.
Non mi sentivo agitata però, solo un po’ triste, cercavo di sbrigarmi a comprare i regali di Natale per i miei amici sapendo che non avevo altre possibilità e rincuorando con il fatto che appena fossi tornata, il ventitrè dicembre, ci sarebbe stata la nostra festicciola ad aspettarmi.
Ovviamente la sfortuna e lo stress mi rovinarono l’ultimo sabato che passai a casa prima di partire. Caso volle che per un motivo stupido finii per litigare con Ivy, la mia cara dolce gemella. Per colpa di un incomprensione le attaccai il telefono in faccia e smisi di parlarle fino alla domenica. In quel periodo di tempo mi resi conto che avevo paura, una paura pazzesca di partire!
Non per ciò che mi sarebbe successo laggiù ma per via di quello che avrei lasciato dietro me: tre lunghe settimane di divisione dai miei amici, da loro che erano la mia ragione di vita e il mio sostegno.
Domenica pomeriggio, mezza giornata alla partenza, andai da Ivy…
Discutemmo, parlammo, chiarimmo.
“Non capisci che ho paura? Anche se non lo dimostrerò mai e non lo dirò mai ai miei genitori ho una paura matta di partire perché non voglio lasciarvi.” Le dissi con il groppo in gola ma non piangevo, dovevo essere forte.
Mi sorrise e sentii il silenzio tra noi diventare leggero. Passammo il resto del pomeriggio e la sera insieme mangiammo pasta sfoglia ripiena di qualunque cosa guardando un film.
Il mattino dopo mi svegliai presto e controllai le valige. Presi una scatola di plastica e ci misi dentro i dolcetti di pasta sfoglia e frutta sciroppata avanzati dalla sere prima e li detti ad Ivy affinché li portasse a scuola.
Mi abbracciò forte e non ricordo cosa mi disse ma dentro me avrei voluto maledirla perché volevo che mi mettesse insieme ai dolci nella scatola della merenda e mi portasse con lei.
 
 
Arrivai in aeroporto puntuale con mia madre e mio nonno, mentre loro facevano colazione al bar io aspettavo davanti all’ingresso e poi vidi Helen e sua madre arrivare e il cuore cominciò a battermi forte.
Stavo partendo.
Dopo gli ultimi saluti e il check-in ci trovammo sole. Non fu un problema parlare e passare il tempo finché non oltrepassammo il gate e poi le porte scorrevoli.
Eccolo li il nostro aereo, pronto al decollo.
Ci sedemmo a sinistra del corridoio e con grande gentilezza Helen mi lasciò il posto accanto al finestrino.
Decollammo e io rimasi estasiata da quella nuova sensazione passai la maggior parte del nostro breve viaggio attaccata al finestrino a guardare le nuvole in basso e il blu in alto.
Per il resto del tempo scrissi ai miei amici, ero dove volevo essere ma loro mi mancavano già. Avevo sempre desiderato di volare ma mi immaginavo una destinazione diversa.
 
 
Atterrammo senza problemi e un bus ci portò all’entrata dell’aeroporto conoscemmo una signora simpatica e capii che ora eravamo sole.
Tirammo fuori i cartelli con i nostri nomi sbirciando la folla alla ricerca dello chef Enrico Menestrelli.
Non lo avevamo mai visto e quindi lo chiamai per cerare di incontrarci. Mi disse di uscire che ci avrebbe raggiunto all’entrata.
“Come te lo immagini?” Mi chiese Helen. “Io me lo vedo come un tipo vecchio e robusto con i capelli bianchi.”
Risi. “Me lo immagino giovane e dai capelli neri.”
Un auto grigio scuro parcheggiò a poca distanza da noi e lo chef Menestrelli scese sorridente.
Ci presentammo e poi lui caricò le nostre valige in auto.
“Avevamo ragione entrambe.” Sussurrai ad Helen indicando con il mento l’uomo giovane ma un pochetto troppo robusto che con facilità sollevava i nostri bagagli.
“Chi sale davanti?” Ci chiese.
Ebbi una strana sensazione di vuoto, per quanto ricominciassi ad entusiasmarmi di tutto ciò non potevo negare che quello chef mi rendesse nervosa. Dopo una breve discussione Helen prese posto affianco al guidatore e io dietro con l’unica valigia che non aveva trovato posto nel bagagliaio.
Enrico fu gentile e simpatico iniziò a raccontarci dei progetti del ristorante a cui avremmo partecipato e ci parlò di Roma.
“Sta sera siamo in trasferta in un paese vicino per una serata di beneficenza volete venire?” Domandò.
Io mi innervosii subito. Lavorare da subito? Il lunedì era giorno libero! Cioè mi sarebbe andato bene ma temevo di stare male, ero stanchissima anche se il viaggio era stato breve e poi ero scombussolata da questa strana sensazione di vuoto che avevo accusato già da quando ero scesa dall’aereo.  Era come se il mio corpo volesse dirmi: “da qui non si torna indietro!”
Anche Helen, fortunatamente, non sembrò molto entusiasta della cosa.
Menestrelli parcheggiò davanti ad un negozio e scese a fare le ultime compere per la serata.
“Ci vuoi andare?” Chiesi in ansia a Helen.
“Non lo so, vorrei sistemare le valige e riposare. Sono molto stanca.” Mi rispose tranquilla. Quanto la invidiavo!
“Anche io.” Mormorai.
“Gli diciamo di no, allora.” Decise.
Era risoluta e affaticata ma credetti fosse la mia eroina.
Declinammo il più gentilmente possibile l’offerta di Enrico appena quello rimise piede in auto. Mi parve deluso ma non potevo farci niente. Avrei rimontato nei giorni successivi.
Secondo sbaglio.
Menestrelli ci lasciò davanti ad un condominio nelle mani di un cuoco indiano molto simpatico di nome Sutosh.
Fu gentile e ci aiutò a trascinare le valige fino al primo piano indicandoci la nostra stanza e poi lasciandoci sole dicendo che doveva prepararsi per andare a lavoro. Quella sera anche lui avrebbe partecipato all’evento di Menestrelli.
Io e Helen svuotammo le valige in fretta e ci infilammo a letto addormentandoci subito.
Ci svegliammo intorno alle sei percorrendo in pigiama la strada trafficata fino al negozio dove comprammo le scorte per la colazione e per la cena.
Prima sera libera = sugo con pasta e programmi televisivi scadenti. Le luci si spengono alle dieci e mezzo.
 
Fine primo giorno

 

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Capitolo 2
*** Cap. 2 - Prima settimana ***


Non volevo annoiare i miei figli con una lunga lista delle mansioni affidatemi in quel ristorante, anche se non erano poi così tante, oltretutto io stessa non le ricordavo tutte. Ricordavo solo che la prima cosa che Sutosh mi chiese di fare fu pelare delle patate, e me lo ricorderò sempre perché era uno di quei lavori che adoravo fare perché era semplice e ripetitivo. Mi dava il tempo di guardarmi intorno e studiare la situazione.
Raccontai ai miei figli solo le cose più importanti...
Come il fatto che non riuscii a conoscere bene tutti i dipendenti del ristorante, soprattutto di quelli tra il personale di sala. Però in cucina dovetti ringraziare molte volte Sutosh e Nicola che mi aiutarono spesso e mi spiegarono con pazienza passo per passo.
Io e Helen avevamo gli stessi orari basati su due turni uno il mattino e uno la sera avevamo qualche ora di pausa pomeridiana e i primi giorni la bruciammo per andare a comprare cose inutili ma che ci aiutarono a risollevarci il morale come patatine e biscotti.
Pranzavamo e cenavamo insieme a tutti i dipendenti ed era uno dei momenti che più adoravo ma solo se in tavola non c’era Menestrelli in quei casi evitavo di respirare come al solito temendo di incrociare il suo sguardo anche se lui in quei momenti era sempre rilassato e dalla battuta pronta.
In cucina mi piaceva stare solo nelle ore precedenti al servizio, quando Sutosh e Nicola mi indicavano i miei lavori ed io li svolgevo ma poi Enrico veniva a controllarci e io tremavo, ho sempre avuto la paura tremenda di sbagliare ed essere rimproverata.
Le botte o la violenza non mi toccavano ma sapere di essere rimproverata per un mio sbaglio mi uccideva di vergogna perché sentivo crescere dentro me una voce che gridava sempre più forte che non sarei mai riuscita nella vita e che non avevo alcuna speranza. Enrico impersonava quella voce a pennello, sapevo che aveva ragione a rimproverarmi e questo mi atterriva ancora di più. Se mi avesse sgridato per qualcosa che non era colpa mia non avrei esitato a tirare fuori tutto il mio coraggio e la mia voce ma lui sapeva sempre colpire nel segno e la mia voce non venne mai fuori in quei giorni e il mio coraggio si trovò una tana comoda nel fondo del mio cuore e non osò mai mettere fuori un piede.
Ogni volta che in cucina sentivo il mio nome saltavo come uno stambecco senza però riuscire ad essere veloce ed efficiente come desideravo, ero sempre piena di dubbi, dubbi che mi portavano ad impedire di capire subito ciò che mi era richiesto.
Cominciavo a chiamare casa sempre più spesso raccontando tutto a mia madre, era bello sentire la sua voce e sapere che almeno lei non mi stava rimproverando, che almeno lei era un adulto dalla mia parte. I giovani dicono di non avere bisogno dei loro genitori anche io lo pensavo quando i miei avevano prenotato l’aereo per venirmi a trovare durante i miei primi due giorni di pausa: la domenica sera e il lunedì. Prima di partire pensavo di non averne bisogno ma già il giovedì, mentre tentavo di trovare il coraggio di rientrare in quella cucina, iniziavo a contare le ore che mancavano a quell’incontro.
Durante il servizio tutto diventava caotico e un più piccolo sbaglio da parte di chiunque avrebbe portato ad un’eterna sfuriata da parte di Enrico che si sarebbe lanciato con slancio sullo sfortunato di turno facendo cadere tutti i Santi dal Cielo.
Io cercavo di fare il mio dovere in fretta e di non dimenticarmi di nulla e soprattutto tentavo di essere invisibile, se lui non poteva vedermi io non potevo sbagliare.
 
“Mamma, quando scendi ricordati di portarmi la crema per le ustioni.” Dissi quel pomeriggio al telefono.
“Perché tesoro?” Sapeva che c’era qualcosa sotto, qualcosa che andava al di là di una semplice scottatura che bruciava sulla pelle, sapeva che io stavo bruciando dentro.
“Volevo prendere i peperoni dal forno per aiutare Sutosh ma credo di non aver preso bene la placca e mi è scivolata. Ho fatto cadere tutto ed Enrico si è, giustamente, arrabbiato molto.” Spiegai e i ricordi di quel tono e di quello sguardo bruciarono nelle mie viscere. Avevo fallito. Ancora.
Dovevo ricordarmi di ringraziare anche Sutosh per il tentativo di calmarmi quando Enrico aveva smesso di rimproverarmi. Dovevo avere un aspetto pietoso, forse tremavo pure. Mi sentivo così persa.
Avevo sbagliato alla grande.
“Ah, accidenti questo chef! Si darà una calmata?” Tentativo inutile. Sapevo che era colpa mia. Solo mia.
Fallito.
“Ci sentiamo domani.”
“A domani tesoro.”
Helen si girò incuriosita.
“Allora è questo che è successo? Avevo sentito le urla dalla sala.”
“Già.” Affermai. Eh, si era ancora colpa mia. Ancora una volta avevo sbagliato.
Mentre camminavamo verso l’appartamento il mare ci salutava, era inverno ma le giornate erano così soleggiate che una bella gita sulla spiaggia sarebbe stata il massimo.
“Se un giorno finiamo presto andiamo al mare e facciamo un po’ di foto.” Propose Helen.
Mi sarebbe piaciuto ma iniziavo a pensare che non ci sarebbero mai stati giorni buoni o giorni in cui avremmo finito presto.
Terzo errore.
Il sabato finalmente arrivo e con esso l’atteso servizio al giornalista che ci fece anche delle foto e sì, finimmo presto.
Appena rientrate a casa io e Helen prendemmo una borsa della spesa piena di bibite e patatine e con le macchine fotografiche a tracolla partimmo per il mare. Riuscimmo anche a ricordarci di portare via la spazzatura, cosa che da una settimana rimandavamo in continuo.
La spiaggia era bellissima e non mi preoccupai più del fatto che quella sera avremmo avuto quindici persone e l’indomani ben trentadue.
Lo scrosciare delle onde ebbe il miglior effetto di tutti, quello di darmi forza. Mi sentivo come Percy Jackson e non era male. Gridai contro il sole che scendeva veloce tuffandosi nel mare e tingendo la mia mareggiata di rosso e arancio e le onde mi spruzzarono e l’acqua era salta sulle mie labbra.
Chiamai Ivy e le raccontai di aver gridato contro il mare “Infinito” e sapevo che capiva che ero esaltata ed eravamo felici entrambe perché ero tornata un po’ me stessa.
Tornammo a casa, io e Helen, con un pizzico di forza in più. Con quella forza affrontammo la serata che ci stava davanti ed io, che mangiavo poco già da giorni, quella sera dovetti obbligarmi ad ingoiare tutto il cibo nel mio piatto mentre le mani mi tremavano.
Gertrude, l’anziana lavapiatti lo capì. Adoravo quella signora era così giovanile anche se sembrava essere vissuta molti secoli prima di ora e forse era così. La adoravo perché anche lei si prendeva la sua dose di sgridate ma aveva sempre il coraggio di canticchiare.
Giuseppe, il gestore della sala fu il mio salvatore quella sera.
Incredibilmente riuscii a stare dietro al servizio con l’unica dimenticanza del pane ad un tavolo e li entrò in scena Giuseppe che mi avvertì in tempo senza far sapere nulla ad Enrico. Era bellissimo sapere di poter contare su qualcuno e nonostante il mio morale ebbe un crollo per l’errore sapere di essere stata rimproverata da una persona con il sorriso sulle labbra mi fece sentire meglio. E venne l’ora dei chiudi pasto e ce l’avevo fatta e avevo anche anticipato alcune cose. Mi sentivo soddisfatta e sembrava che anche Enrico fosse soddisfatto di me.
Mentre pulivo mi sentivo felice e sapevo che l’indomani sarebbero arrivati i miei genitori e la cosa mi rese ancora più rilassata.
 “Come sono andata questa sera?” Chiesi trepidante a Enrico prima di andare a cambiarmi.
“Molto bene. Mi ha piacevolmente stupito questa sera.” Mi rispose lui senza alzare gli occhi dal suo portatile se non per un breve sguardo furtivo.
Volevo inginocchiarmi cantando inni alla gloria ma pensai che forse era meglio evitare.
Eppure senza pensarci feci un piccolo inchino come avevo visto fare dai giapponesi nei manga quando ringraziavano. “Grazie.”
Avrei voluto dirgli che era stato un onore lavorare con lui quella sera e che tutto era stato come mi ero sempre immaginata questa esperienza.
Uscii dalla cucina convinta che potevo farcela che se ero migliorata solo in una settimana le successive sarebbero state lisce come l’olio.
Ma l’olio è scivoloso. Dovevo ricordarlo.
Feci il mio quarto sbaglio.
 
La domenica cominciò con la rivelazione della mia fobia a Giuseppe. Oltre al fatto che tutti notarono la mia agitazione nella fase di preparazione ed Enrico mi chiese di uscire a prendere una boccata d’aria prima che svenissi lì. Claudia di sala mi aiutò a respirare a fondo e a calmarmi rispiegandomi tutto ciò che avrei dovuto fare. Il servizio cominciò e finì; non fu esplosivo come la sera precedente ma ne fui felice egualmente, infondo non era andata poi malissimo contando tutta la gente che c’era. Era andata piuttosto bene e la cosa mi piaceva.
Stavamo cominciando a pulire la cucina quando Enrico mi chiamò.
Trafelata corsi verso il bancone del pass dietro al quale si erigeva la sua figura.
“C’è qualcuno per te.” Mi disse sorridendo.
Capii che erano arrivati i miei genitori. Lo aiutai a servire loro il dolce avanzato dal banchetto di Battesimo e poi fui libera di andare via insieme ad Helen.
Vederli mi riempì il cuore di gioia.
Ci portarono a mangiare fuori facendoci fare una camminata in un paesino lì vicino in riva al mare. Era bellissimo sostenere una discussione incentrata sugli ultimi giorni e la cosa mi fece andare di traverso il cibo. Man mano che le ore passavano in fretta sapevo che avevo sempre meno tempo da passare con loro.
Siccome Helen ed io eravamo assurdamente stanche, ci riportarono in appartamento lasciandoci dormire.
Il calendario appeso nel muro accanto a me mi guardò minaccioso, era finita la prima settimana ma noi ne avevamo altre due e poi lunedì ventitré saremmo finalmente ripartite. I giorni di questa settimana erano passati con tale lentezza che credetti di essere condannata ad un limbo.
Almeno l’indomani l’avrei passato con i miei genitori.
Ci portarono in un altro paesello e mi piacque molto camminare tra le rustiche casette di montagna. Sapevamo che c’erano molte cose da vedere a Roma ma noi non eravamo mai stati turisti come gli altri. Soprattutto io e mio padre.
Passammo in una chiesetta costruita in onore di Santa Rita da Cascia.
Io e mia madre eravamo molto devote a quella Santa, io la chiamavo la “Protettrice dei Casi Disperati”.
Sentii di avere bisogno di un suo aiuto. Accesi una candela e dissi una specie di preghiera, mi infilai in tasca il Santino con la sua immagine e poi ce ne andammo.
Era così bella camminare e mangiare in pace ma sentivo sempre l’ombra della stanchezza accumulata e il mio orologio interno ticchettava sempre più veloce avvicinandomi al momento in cui mi sarei dovuta separare di nuovo dai miei genitori. Da quelle persone che prima di partire credevo di non voler vedere durante questa esperienza.
Finimmo il nostro giro un po’ troppo in fretta e tornammo verso la macchina che i miei genitori avevano noleggiato. Camminavo con il braccio di mio padre sulle spalle come facevamo sempre quando visitavamo le città. Mi teneva così da quando ero piccolina perché nessuno mi portasse via e anche per scaldarmi quando camminavamo in montagna.
“Sei stanca?” Mi chiese gentile.
“Si.” Che senso aveva fingersi coraggiosi e duri ora? Ora era il momento delle coccole. Mi sarei ribellata in modo adolescenziale in un'altra occasione.
“Pensa: manca solo un altro lunedì.” Mio padre e la sua logica disarmante. Non diceva mai nulla che non avesse un senso eppure sapeva farti stare bene anche nella realtà.
“E’ più corta vista così!” Sorrisi ma il mio groppo in gola crebbe.
Ci riportarono in appartamento dopo una breve spesa per la cena.
Ancora una volta io e Helen dormimmo fino alle nove e poi le portai le bistecche a letto.
Guardai il calendario e vidi che lei aveva segnato con una croce tutti i giorni passati scrivendo in grande sul ventitré “PARTENZA!”.
Mi voltai verso di lei che mi guardò assonnata.
“Tuo padre ha ragione: manca solo un altro lunedì.”
 
 
Seconda sera libera = Fettine di maiale cucinate in una padella che era unta ancora prima che la prendessi in mano, insalata e cartoni. Le luci sono sempre rimaste spente.
 
Fine prima settimana.

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Capitolo 3
*** Cap. 3 - Seconda settimana ***


Arrivata al quel punto del racconto un sorriso involontario mi spuntò sul volto, non volevo narrare di quella settimana ai miei figli ma ormai avevo cominciato. Non sarei stata mai più debole come una volta, dovevo finire…
La seconda settimana cominciò con estrema malinconia.
Io e Helen sapevamo che ci mancava ancora moltissimo tempo da trascorrere in quel ristorante e la cosa ci abbatteva. Se una settimana ci era sembrata un’eternità, quando sarebbero finite le altre due?
Per il primo giorno fortunatamente non abbiamo avuto moltissimi coperti e io iniziai a credere che forse sarei riuscita ad uscirne incolume.
Al risveglio del secondo giorno, però, qualcosa ci colpì. Fisicamente.
Per tutta la mattinata soffrimmo entrambe di un gran mal di testa. Quando tornammo in appartamento ci mettemmo subito a riposare ma, al risveglio, sembrò che il nostro malessere fosse peggiorato. Con grandi sospiri ci preparammo per tornare al ristorante. Durante la strada camminavamo barcollanti e io ad ogni passo dovevo costringere me stessa a non vomitare l’anima. Non avevo mangiato quasi nulla ma sentivo di avere una gran voglia di liberarmi di tutto. La povera Helen era piegata in due dai brividi e pallida e tremante cercava di camminare il più veloce possibile.
Iniziammo il nostro turno anche se lei riferì subito i suoi malori a Claudia che le fece fare dei lavori leggeri per vedere se migliorava di salute. Io comincia a tremare fortemente per il freddo e mi sentivo talmente stanca che ogni oggetto pesava mille volte più del solito.
Sutosh lo notò subito e gentilmente mi chiese se stavo bene. Gli risposi che avevo appena un po’ di nausea e nel farlo mi resi conto che stavo per vomitare. Presi un paio di respiri profondi e cercai di non chinarmi o di non voltarmi di scatto perché sapevo che sarei crollata a terra. A cena tutti notarono il tremore mio e di Helen, lei sarebbe andata via subito dopo aver mangiato in quanto a me mi preparavo ad ingoiare vomito per tutta la sera cercando di svolgere il mio dovere al meglio.
Enrico, però, non era un mostro e una parte di me lo sapeva benissimo ma non volevo mollare. Lui mi chiese se volessi tornare a casa anch’io e riposare, pensai che se avessi accettato al mio ritorno lui si sarebbe burlato di me o mi avrebbe fatto recuperare i giorni persi. Dissi di no. Lui me lo richiese e mi sembrò gentile come non mai.
“Quanta gente c’è ‘sta sera?” Gli domandai, me ne sarei andata solo se non c’era bisogno di due mani in più.
Enrico capì male. “Molta, vai.” Mi incoraggiò anche se mi sembrò più un ordine, volevo replicare ma ero debole, debole sul serio, un giramento di testa e mi ritrovai ad accettare.
Giuseppe ci accompagnò gentilmente in appartamento e ci lasciò delle bustine di tè.
Lo ringraziammo e ci avviammo su per le scale, una strada che ci sembrò pressoché infinita.
Misi su il the perdendo almeno dieci volte le bustine tanto ero confusa.
Mi cambiai e ci imbottimmo di medicine, dopo aver bevuto il mio caldo the mi addormentai.
Non cenai ma forse Helen lo fece.
Il giorno dopo lei era pronta ad una latra giornata di lavoro e io la ammirai sempre di più per la sua velocità di ripresa. Mi alzai convincendomi che potevo farcela ma mi ritrovai a trascinarmi in bagno e a vomitare acidi gastrici. La cosa non mi piaceva.
Helen mi consigliò di rimanere e riposare ancora e io sapevo che una parte di me si sarebbe accoltellata piuttosto di non andare a lavoro di nuovo. Purtroppo io ero debole, accettai di nuovo mentre la testa mi esplodeva. Altre medicine e altro tè.
 
Helen tornò a casa presto dicendo che non c’erano stati clienti e io pensai che se avessi avuto la forza di andare avrei ripreso il ritmo del lavoro con calma mentre ora dovevo affrontare una sala piena.
Maledicendo me stessa per la debolezza tornai a dormire. Mi serviva tutta la forza che possedevo.
Rientrai in ristorante quella sera e credei che sarei svenuta da lì ad un attimo. Mi sentivo ancora debole ma non potevo, assolutamente non volevo, restare ancora a casa.
Enrico ci accolse alla porta chiedendoci come stavamo. Gli risposi “insomma” perché un “bene” non era da me. Io stavo sempre “insomma” figuriamoci in quel momento.
Arricciò il naso e io comincia a pensare che dovevo iniziare ad imparare a mentire. Non ci ero mai riuscita.
Per tutta la sera fui bersaglio di sue amichevoli frecciatine come. “Come te la sei passata in vacanza?” e “Riposato bene?”.
La parte combattiva di me avrebbe voluto tirargli una sberla e sputargli in un occhio gridando: “DI SOLITO PER UNA COSA DEL GENERE DEVO STARE A CASA DUE SETTIMANE E QUI SONO STATA A CASA SOLO UN GIORNO! DOVRESTI RINGRAZIARE LA MIA FOTTUTA TESTARDAGGINE!”. Fortunatamente ero dotata di autocontrollo se le persone davanti a me richiedevano rispetto. E uno chef stellato richiedeva molto rispetto. Le prime volte risposi che ero stata male e nient’altro. Ma ai quei tempi io ero ingenua e non sapevo proprio capire quando una persona voleva scherzare, mi sentivo sempre punta sul vivo, ora so che quello chef voleva una risposta come: “Sì, mi sono fatta una bella vacanza e sono passata per i Caraibi.”. Purtroppo, e lo ripeto, io ero ingenua. Così feci la figura della vittima mentre cercavo di non urlare a pieni polmoni frasi insultanti che mi avrebbero portato a svuotarmi la mente e a capire, ma solo dopo, che ero una scema che non sapeva cosa fosse il sarcasmo.
I giorni ricominciarono a scorrere con lentezza, per fortuna la pausa malattia ci aveva catapultate a metà settimana e io inizia a promettere a Sutosh di cucinargli un piatto tipico Romano quel lunedì a pranzo.
Il sabato e la domenica passarono senza nessun miglioramento o peggioramento. Sentivo che stavo riuscendo a tenere un buon livello ma non era abbastanza, ci provavo però. Ci provavo sul serio.
La domenica sera cenammo fuori sotto invito di Enrico, io, Helen, Sutosh e Nicola. Scoprii di non riuscire a godermi nemmeno una cena normale con la presenza di Menestrelli. Mi sentivo sempre come sotto esame. Un esame infinito che analizzava ogni punto di me, cosa ordinavo, quanto costava, come lo mangiava, come mi comportavo, parlavo e ridevo. Fortunatamente Helen tirò fuori tutti i suoi racconti e parlò a briglia sciolta tutta la sera e io non seppi come altro ringraziarla perché riuscivo ad attaccarmi a lei e a risultare, se non simpatica, per lo meno spigliata e socievole.
Infine venne l’atteso lunedì.
Cucinai in appartamento con Sutosh e Nicola e mi tornò un po’ di passione per la cucina, quella cucina che mi rilassava perché sapevo cosa fare e non avevo nessuno che mi venisse alle spalle per dirmi che dovevo farlo meglio e più velocemente. Avevo tutto il tempo che volevo e nessuno che mi giudicasse. Un paradiso!
Anche Sutosh e Nicola si divertirono mentre Helen ci aiutava. Ero bello pensare che potevamo bruciare tutto se volevamo. Il dolce lo bruciammo, ma solo perché il forno non funzionava bene, non per altro.
Dopo un pranzo molto allegro ritornammo tutti alle nostre camere. Io e Helen guardammo la televisione stese sul nostro letto. Incominciò a tornarmi una gran malinconia. Non sapevo perché, infondo anche l’ultimo lunedì se ne stava andando. Eppure io sentivo estremamente la mancanza dei miei amici. In particolare di Ivy e Marika. Marika era, penso, la migliore amica in comune mia e di Ivy, ma non migliore amica nel senso di etichetta migliore proprio nel senso che era una persona favolosa. Lei era tutto ciò che si poteva desiderare da una amica e per quanto io e Ivy potessimo essere diverse o uguali lei era adatta ad entrambe e sapeva come prenderci. Grazie a lei mi ero riappacificata con mia sorella prima di partire, era il nostro intermediario nei momenti difficili e era sempre pronta per noi. Adoravo Marika, penso che fosse la persona che più mi piaceva al mondo e non ricordo di aver mai, mai detto una sola parola cattiva su di lei o di essermi arrabbiata con lei. Il che è strano per delle amiche.
Sapevo che litigare con Ivy era quasi un rituale che doveva ripetersi almeno una volta o due all’anno per quanto potessimo pensarla allo stesso modo eravamo sempre sorelle, tra sorelle si litiga di brutto.
Comunque chiamai Marika quel pomeriggio e non sapevo che dirle, per fortuna con lei gli argomenti non mi mancavano mai e se gli chiedevi di raccontarti qualcosa lei sapeva sempre parlare  e distrarti.
Quando chiusi quella animata conversazione mi ritrovai in una stanza ancora più vuota di quanto non fosse stata prima. Sentivo la loro mancanza come non mai. Loro non lo sapevano mai sentivo un forte dolore al petto ogni volta che mi rivelavano di essere insieme senza di me. Quando era a casa era naturale che Ivy e Marika si trovassero spesso senza di me perché frequentavano due scuole vicine e facevano lo stesso sport ma la cosa non mi pesava molto perché poche ore dopo ero già a conoscenza di tutti i fatti accaduti in quei loro incontri. Invece ora c’erano troppe cose da raccontare e solo attraverso il telefono non mi sarebbero mai arrivate. Le sentivo distanti anche se loro mi riempivano di messaggi incoraggianti o stupidi o divertenti. Cominciavo ad avere paura di perderle e mi vergognavo di dire loro di essere stata male. Temevo di averle deluse con la mia debolezza.
Tornai a guardare la tv e a dormicchiare con Helen.
Barrai un altro giorno sul maledetto calendario e incomincia a sperare. Mancava veramente solo una settimana, solo una.
 
Terza sera libera = pasta col sugo, di nuovo, mangiata a letto e programmi televisivi appannati dal sonno.
 

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Capitolo 4
*** Cap. 4 - Terza settimana ***


Ancora una volta mi fermai. La terza settimana di quella avventura nascondeva speranze a non finire…sarei riuscita a raccontarla a loro senza portali a credere che sperare non funziona?...
 
Quel martedì mattino Helen dovette gettarmi giù dal letto.
Non riuscivo più a svegliarmi.
Cominciò la settimana e sapevo che oramai dovevamo riuscire ad arrivare fino in fondo. L’unica cosa che ora mi infastidiva ancora delle sgridate di Enrico era che mi sentivo delusa di me stessa perché vedevo Helen che riusciva a svolgere il suo lavoro meglio di quanto io potessi mai riuscire a fare. Oltretutto quando veniva rimproverata da Enrico lei tirava fuori la voce e gli teneva testa. Pensai che aveva un grande coraggio, o forse era solo un’incosciente ma scartai la seconda opzione.
Sapevo che il carattere di Helen piaceva molto a Menestrelli. Ne fui certa quando lo sentii parlare con un uomo venuto in visita al ristorante. Helen gli aveva appena risposto per le rime e lui l’aveva zittita di nuovo ma poi si era voltato verso l’amico confidandogli che secondo lui quella ragazza aveva lo spirito e il carattere giusto per questo lavoro. Sperai non la paragonasse a me perché sapevo che secondo lui il mio carattere era totalmente sbagliato. La mia voce non era ancora uscita e io non sapevo se era un male o un bene. Credevo ormai che se mi fossi lasciata scappare qualcosa avrei buttato fuori tutto senza pensare come al mio solito e non dovevo farlo. Era importante per me sembrare educata e rispettosa anche se passavo per codarda. Non importava. Il rispetto prima di tutto.
I problemi vennero subito fuori già del secondo giorno. La sera prima Enrico mi aveva detto scherzoso di venire prima il mattino dopo. Io mi mostrai subito d’accordo ma quando se ne andò ero molto confusa. Non sapevo se dicesse sul serio. Finii i miei doveri e poi me ne andai con Helen e Sutosh e vedendo che Enrico non mi aveva confermato nulla mi rilassai credendo in uno scherzo. Sutosh, però, mi avvertì che il mattino dopo sarebbe andato prima, io scattai subito all’erta domandandogli se avrei dovuto fare lo stesso ma lui mi rassicurò dicendomi che la solita ora sarebbe stata perfetta.
Ci sbagliavamo entrambi appena misi piede al ristorante Menestrelli mi aggredì con un “A che ora avevo detto ieri?”. Cercai di scusarmi senza mettere nei guai né me né Sutosh quindi il risultato fu un completo disastro e finii per sentirmi uno schifo già di primo mattino. Ottimo cominciare la giornata con il piede giusto! Stranamente non ci furono altri commenti su quel mio sbaglio e il resto del giorno passò tranquillo con pochi clienti. Il giorno dopo riuscimmo a non avere nessuno a cena e quindi io e Helen tornammo a casa felici che fosse così presto. Tracciammo la nostra croce sul calendario ed il giovedì se ne era già andato. Potevamo farcela!
Lo ripetevo sempre più spesso, anche ad alta voce.
Chiamai casa e sentii tutta la mia famiglia e mia nonna! Io adoravo la mia nonnina, era l’essere più dolce sceso su questa terra, un Angelo!
Le volevo veramente bene e sentirmi dire che le mancavo mi fece venire da piangere ma non lo feci anche se ero sicura di avere gli occhi lucidissimi. Dovevo assolutamente farcela!
Quel venerdì finimmo per avere veramente molta gente e Nicola e Sutosh fecero un enorme sbaglio in cucina e subito dopo ne feci uno io. Enrico si arrabbiò moltissimo e mi ritrovai a tremare sotto la sua ira. La sua attenzione era più per gli altri due che per me ma io ricominciavo a sentire la voce del fallimento dentro di me.
Stavo fallendo ancora. Mancava così poco e io stavo crollando. Non ero migliorata per niente e non c’erano stati altri episodi come il primo sabato. Sapevo che il mio labbro inferiore stava tremando e temevo di avere una faccia orrenda.
“Hai paura!?” Mi gridò dietro Enrico.
“No,” Risposi con un groppo in gola. Eccola la vera me, la bocca della verità. “sono solo delusa di me stessa.”
Per un attimo vidi qualcosa di strano nello sguardo inquisitore dello chef ma questo non calmò del tutto le acque. “Delusa di cosa?”
“Di non essere capace di fare bene come vorrei e perché sbaglio sempre.”
“Non dovresti essere delusa tu. E le altre persone che sbagliano ed è da molti più anni che fanno questo lavoro?” Quella frase uscita dalla sua bocca? Sul serio?
Credevo che mi sarei messa a piangere sul serio. Era forse un incoraggiamento?
Andai in pasticceria con la scusa di dover preparare i fine pasto e cercai di darmi una calmata perché sapevo che di lì a poco le lacrime sarebbero scese senza più riuscire a bloccarsi.
Il finesettimana fu pieno ma era quasi bello stare al ristorante perché sapevo che se anche avessi sbagliato sarebbe finito tutto. Ormai era andata. Le croci sul calendario si avvicinavano al ventitré.
Un’altra sfuriata da parte dello chef e io scelsi una strada diversa dalla sua per andare a pulire come facevo sempre, cercavo di non intralciarlo mai ma forse lui non l’aveva mai notato prima perché la sua vece e il suo sguardo mi bloccarono di nuovo.
“TU! Nasconditi sotto il tavolo ormai, tanto hai paura!”
“Non ho paura. Cerco solo di non essere in mezzo.” Di nuovo la mia voce. Ormai era andata. Nulla poteva guastarsi ora. Fottetevi tutti.
Lo zittii e ne fui felice e capii dove Helen aveva trovato il coraggio.
Quella non era la mia vita, nonostante mi fossi svegliata ogni mattina vedendo il mio sogno di tornare a casa diventare sempre più un’illusione, io sarei tornata a casa. Sarei salita su quell’aereo. Punto. Fine dello stage fine delle sofferenze. Quello che dicevo poteva avere ripercussioni solo finché ero lì. Peccato averlo capito così tardi.
Claudia e Giuseppe continuavano a chiedermi se fossi così perché ero felice di andarmene io dicevo che un po’ mi sarebbe dispiaciuto ed era vero, in fondo c’erano stati momenti interessanti e anche alcuni di gioia pura.
Io ero così perché ero così di mio, solo che loro non mi avevano conosciuto veramente in quei giorni e mi dispiacque.
Ora però la mia mente era tutta proiettata sul mio ritorno a casa.
La domenica presi molte sgridate ma non forti o terribili, semplici sgridate.
“Prendila come l’ultima botta.” Mi disse Nicola incoraggiante e provai pena per lui e Sutosh e tutti gli altri cuochi che sarebbero dovuti rimanere lì perché quello era il loro lavoro e quella era veramente la loro vita.
Finimmo di lavorare e tornammo a casa da solo che era già buio. Io e Helen camminavamo per la strada e io mi voltai a salutare il ristorante come quando salutavo il mare. Non potevo fare a meno di saltellare dalla gioia. Sapevo che arrivata a quest’età quell’esperienza mi sarebbe sembrata molto bella e divertente ma per ora era la fine di un bel po’ di rotture di scatole e ansie.
Dissi anche la frase che trattenevo da molto tempo: “E non ho rotto nulla!”
Helen rise.
Sapevo che sarei potuta vivere anni di quel momento, quello del ritorno a casa, con gli alberi e il mare che ci guardavano e con la leggerezza di aver finito.
Giuseppe ci portò a cena quella sera e fu la cena più bella di tutta la settimana, lui era simpatico e non ti faceva pesare il lavoro. Scrissi ancora ai miei amici sulla tovaglietta del ristorante come facevo sempre quando ero molto felice.
Sutosh bevve molto in nostro onore e Giuseppe dovette tenerlo a bada ma io ero felice.
E mi dispiaceva di dover lasciare tutte le persone che mi avevano aiutato ma la fine di quelle giornate d’ansia mi aveva reso così felice che non sarei riuscita a rovinarmi tutto con i miei discorsi mentali.
Chiacchierammo molto con Giuseppe e poi ci riportò in appartamento e li andammo subito a letto. Il giorno dopo dovevamo svegliarci presto per prendere l’aereo. Sarebbero stati gli ultimi minuti che dovevo passare con Enrico; quelli del viaggio verso l’aeroporto.
Mangiai tutte le schifezze di cui mi ero nutrita negli ultimi giorni e rilessi i messaggi di Ivy e Marika che negli ultimi giorni si erano fatti pieni di speranza. Mi mancavano tanto ma il giorno dopo le avrei viste grazie alla mia festa e alla parrucchiera.
Le valige erano pronte mancavano solo le cose necessarie per la toilette del mattino.
 
 
Era un modo così elegante per dire “Lavarsi i denti e cambiarsi” che non potevo resistere ad insegnarla ai miei figli anche se non ero del tutto sicura fosse la forma giusta.
 
 
Ultima sera = Cookies e cartoni animati che per la prima volta in tre settimane furono divertenti sul serio.

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Capitolo 5
*** Cap. 5 - Ritorno ***


Ed ero arrivata a quella parte della storia che non avrei mai voluto raccontare ai miei figli, ma dovevo. Avevano bisogno di capire. Poi era una parte bellissima, se non fosse per i miei veri sentimenti…
 
La mattina la mia sveglia suonò e per la primissima volta in quelle settimane scattai in piedi subito. Mi preparai in fretta anche più in fretta di Helen e chiusi le mie valige.
Insieme portammo i nostri bagagli fuori dalla stanza, passammo a terra con la scopa e piegammo le lenzuola. Addio stanza.
Svegliammo Sutosh e Nicola per salutarli e loro ci accompagnarono a cancello portandosi le valige più pesanti.
E aspettammo. Guardai il mare davanti a me e le persone che passavano in macchina sulla strada. Dovevamo essere un disastro io e Helen perché tutti si voltavano a fissarci malissimo.
Enrico arrivò e ci consegnò le nostre schede di valutazione. Ricaricò le valige esattamente come all’andata e Helen salì di nuovo davanti in macchina. Io rimasi dietro con la mia valigia blu e salutai il mare.
Passammo per le stesse strade e non ricordo di aver parlato molto.
Arrivati in aeroporto scendemmo dall’auto e Enrico ci augurò di esserci divertite e io gli risposi che mi ero divertita ma non specificai che i momenti in cui mi ero divertita con lui erano veramente pochissimi.
Facemmo il check-in e poi Helen andò a fare colazione mentre io mi infilai in libreria. I libri! Mi ricordavano Ivy e Marika. Scrissi loro un paio di titoli che potevano piacerci, da andare a comprare un giorno.
E poi chiamai Ivy una volta al gate giusto.
Il mio sorriso era immenso. Solo poche ore.
Salimmo in aereo e non mi interessava più nemmeno il viaggio e io amavo ogni viaggio.
Pensavo che mi sarei esaltata come all’andata ma ero stanca e condividendo le mie cuffie con Helen finii per addormentarmi appena un pochino.
Finalmente arrivammo a destinazione. E i miei genitori erano li. Pensavo che sarebbe venuta anche Ivy, rimasi molto delusa nel non vederla. Ero certa che ci sarebbe stata che avrebbe chiesto di venirmi a prendere anche lei ma non mi importava un gran che.
Misi piede in auto e sapeva di casa e i miei genitori erano lì e io ero ancora ben accetta sotto il loro tetto. Stavo tornando a casa.
Scesi dall’auto e corsi ad abbracciare tutti: i nonni, il mio cane, il giardino, la porta. Poi entrai in casa…si, casa.
Mangiai e mi feci la doccia, Ivy entrò in camera per salutarmi per bene.
Arrivò Marika e andammo dalla parrucchiera. Non potevamo stare tutte e tre assieme ma solo parlare a coppie di tanto in tanto.
Ci facemmo delle ciocche colorate veramente carine e sembravamo proprio pronte per una festa super.
A casa mia guardammo la televisione, Marika e Ivy erano sedute sullo stesso divano e io le fissavo dall’altro. Per un po’ sono riuscita a tenere dietro ai loro discorsi come sempre. Poi però hanno iniziato a parlare di interessi comuni solo a loro due e io sapevo che era colpa mia se mi sentivo esclusa, mi sarei dovuta interessare di ciò che interessava a loro, ma proprio non mi piaceva. Ci avevo provato, ci avevo sperato ma non ero riuscita ad entrare nel loro mondo a pieno titolo. Così le guardai scherzare e chiacchierare allegramente senza capire nulla e mi sentii di nuovo distante. Solo che questa volta non bastava prendere un aereo per tornare ad essere vicine. Avevo fallito. Di nuovo. Avevo fallito dove era più importante per me riuscire. Ero un disastro. Dissi loro che andavo a truccarmi.
Mi guardai allo specchio e vidi il fallimento in persona. Odiavo truccarmi solitamente perché mi sembrava di indossare una maschera ma quella sera presi il fondotinta e me ne misi molto, usai anche la terra, la matita e il lucidalabbra. Tutto. A lavoro finito lo specchio mi rimandò l’immagine di una ragazza disperata che cercava di nascondere la sua delusione e il suo fallimento alle sue più care amiche.
Presi un respiro profondo e per un attimo mi sarebbe piaciuto crollare e sfogarmi, ma volevo che andasse tutto bene quella sera. Tenni tutto dentro.
La serata andò bene perché c’erano tutti gli altri della nostra compagnia e questo mi fece sentire meno fuori dal mondo.
Marika e Ivy erano andate insieme a prendere la pizza per tutti e non ricordo nemmeno se mi avessero chiesto o meno se volessi andare con loro, non lo avrei fatto comunque perché sapevo che mi sarei sentita in più.
Ci trovammo altre volte, noi tre, nei giorni successivi e si ripeté la stessa cosa.
Le guardavo e sentivo una distanza abissale tra noi. Una distanza che non riuscivo a colmare.
 
Quello, figli miei, fu il momento della mia vita in cui mi sentii veramente fuori posto.
Fuori posto nella mia stessa vita, non fuori posto dove ero solo in prova, di passaggio. Fuori posto dove dovevo sentirmi a casa, ma non lo ero più.
Quello, figli miei, fu il momento della mia vita in cui mi sentii veramente incapace.
Incapace di fare ciò che mi era sempre riuscito spontaneo e naturale: stare con le mie amiche. Incapace di rimettere tutto a posto. Incapace di divertirmi di nuovo con loro.
 
Non piansi, non ne avevo nemmeno bisogno. Sapevo che era tutta colpa mia. Io mi ero allontanata e io ne avrei pagato le conseguenze.
Loro forse non si accorsero nemmeno di quel mio disorientamento, magari ero brava a mentire loro, o forse ogni volta che si voltavano a guardarmi io sorridevo sincera. Perché vederle unite insieme mi faceva sorridere lo stesso, anche se io non ero più compresa loro non si erano separate. Mi piaceva che la loro vita stesse andando avanti come avevano desiderato. Tre settimane sembravano così poche invece erano state veramente tante.
Speravo che non sarebbe successa una cosa del genere ma lo sentivo più forte che mai. Sapevo che il nostro rapporto si era spezzato.
 
Dissi ai miei figli che non avevo mai raccontato tutta la storia a Marika e Ivy, loro non sapevano quello che avevo provato vedendole insieme in quei giorni. Non mi interessava lo sapessero perché era solo colpa mia e loro avrebbero cercato di farmi rientrare nelle loro vite con la forza. Non funziona così.
L’amicizia è una cosa spontanea, deve venire da sé.
In quei giorni persi le due cose che mi rendevano più felice al mondo.
E mi sentivo fuori posto, mi sentivo incapace.
O forse non mi sentivo.
Perché senza di loro non provavo più nulla.

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Capitolo 6
*** Conclusioni ***


“Non può essere finita così!” Gridò mio figlio più grande indignato.
Io lo fissai strabiliata.
“Non è vera questa storia!” Urlò la più piccola con le lacrime agli occhi.
“Perché dici di no?” Le chiesi gentile.
“Perché se fossero state veramente tue amiche come tu ci ha detto lo avrebbero notato anche se fingevi.” Mi rispose risoluto il mio terzo figlio.
“Già, e poi un legame così forte non si spezza dopo solo tre settimane di assenza! Come hanno potuto lasciarti fuori? Come hanno fatto ad essere così cieche di fronte ai tuoi veri sentimenti?” Protestò la secondogenita.
Sorrisi.
“Non mi hanno lasciato fuori. Mi sono esclusa con le mie mani. Noi tre eravamo molto diverse ma condividevamo su per giù gli stessi interessi e questo ci univa.”
“Proprio per questo non è possibile che loro ti abbiano tagliato fuori per sempre solo perché non condividevi uno dei loro interessi in comune!” Replicò il maggiore.
“Lo so, ma io non ho mai accennato al sempre.” Ribattei con il sorriso sempre più largo. “Dopo alcuni giorni ci siamo ritrovate. Dovevo solo avere un po’ di tempo per rimettermi sulla loro stessa lunghezza d’onda. Ho fatto il piccolo sacrificio di accennare a questo loro interesse mentre erano divise e si sono stupite di non trovarmi del tutto disinteressata, credo, forse si sono anche ricordate che io odiavo quella roba. Quindi poi abbiamo ricominciato a parlare delle cose che interessavano anche a me e a scherzare con le battute sugli argomenti che conoscevamo tutte. E’ stato di nuovo spontaneo, anche se per riuscirci mi è stata utile avere la fortuna di stare con loro in momenti separati. Si è sistemato tutto, il rapporto si è risaldato in nemmeno sette giorni!”
I miei figli parvero sollevati da un grande peso.
“Ma, mamma, che interesse in comune avevano Ivy e Marika che tu odiavi tanto?” Mi domandò la più grande delle mie due figlie.
“La fissazione per un libro che trovavo un po’ troppo crudele e realista. Ho sempre amato immergermi in mondi che mi trascinassero via delle cose brutte della realtà mentre quello faceva l’esatto contrario. Lo trovavo deprimente e con dei personaggi poco coraggiosi e assai deboli che però sono riusciti a scamparla e nonostante questo facevano i depressi anche sul finale. Li odiavo con tutta me stessa. Dicevo che se fossi stata io li avrei sistemati ma la verità è che pensavo che se fossi stata io non mi sarebbe mai andata così bene perché era irreale. Avevo appena imparato che le cose andavano bene solo se tiravi fuori le unghie e quei due non lo facevano mai e vincevano lo stesso. Mi esasperavano a morte. Erano depressi al massimo. Come si possono ammirare persone deboli e depresse? Non ti possono dare uno stimolo alla vita, casomai al suicidio. Però loro adoravano quel libro e quei personaggi e io non avevo nulla in contrario. Basta che non ne parlassero davanti a me perché sapevo che mi sarei messa ad insultarli e non volevo. Infondo era soggettivo, non mi poteva sempre piacere tutto ciò che piaceva alle altre e così per loro.”
“Quindi vi siete messe d’accordo?” Domandò la piccolina.
“Diciamo che per amor delle mie amiche ho cercato con tutta me stessa di non insultare quel libro portando le discussioni a posarsi sui pochi personaggi che adoravo.”
“Funzionò?” Mi chiese il maschietto.
“Non molto, tutti i personaggi che mi piacevano morivano nel libro quindi dopo un po’ eravamo a corto di argomenti. Fortunatamente avevamo altri interessi.”
“Di che tipo?” Continuò il mio primo figlio.
“Del tipo farci gli affari nostri invece di quelli dei nostri genitori. Smaterializzatevi.”
Ridemmo tutti e quel pomeriggio mi fecero visita Marika e Ivy con le loro famiglie e i miei figli ci osservarono con più attenzione e capirono che non organizzavamo quelle giornate solo perché i nostri figli erano amici ma perché noi eravamo sorelle e amiche.

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