Vorjos

di Blues Girls
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First. ***
Capitolo 2: *** Second. ***
Capitolo 3: *** Third. ***
Capitolo 4: *** Fourth. ***
Capitolo 5: *** Fifth. ***
Capitolo 6: *** Sixth. ***
Capitolo 7: *** Seventh. ***
Capitolo 8: *** Eighth. ***



Capitolo 1
*** First. ***




(First)

Cos'è Vorjos?
Vorjos è tutto ciò che avresti desiderato.
Vorjos è sofferenza.
Vorjos è dolore.
Vorjos è tristezza.
Vorjos è rabbia.
Vorjos è voragine.
Vorjos è reale.
Vorjos sei tu.

 


Non aveva dormito tutta la notte; Thalos le aveva promesso il miglior regalo del mondo intero per il suo sesto compleanno. E così era sicura che sarebbe stato, perché lui non l'avrebbe mai delusa, promessa di un fratello maggiore. Ad irrompere i pensieri della piccola bambina fu la sveglia, che suonò fastidiosa e puntuale alle sette.
Ma quel rumore che tanto l'irritava, quel giorno giunse ai timpani delle sue piccole orecchie come un dolce e melodico suono. Spostò con grazia, le lenzuola leggere che per tutta la notte l'avevano coperta e protetta. Scalza, si diresse impaziente verso la stanza di suo fratello; si alzò in punta di piedi per raggiungere tremante la maniglia dorata della porta.
Al contatto freddo con essa, ritrasse la mano. Era così gelida, e minacciosa. Si sentì così vulnerabile e spaventata: una stupida maniglia le stava impedendo di entrare nella stanza di suo fratello. Una stupida maniglia le stava impedendo di ricevere il suo regalo. Una stupida maniglia le stava impedendo di ringraziare calorosamente Thalos, come solo lei sapeva fare. Fece qualche passo indietro, scontrando il muro bianco opposto alla porta. Si sedette contro di esso, e si mise a fissare la causa della sua fobia. D'un tratto la vide muoversi e scomparire a lato, mostrandole così, davanti a sé, uno stanco e barcollante Thalos. Sorrise alla vista della piccola sorella dall'aria indifesa.
«Perdonami. Ho dimenticato di lasciare la porta aperta» disse lui, afferrando al volo il motivo di tanta preoccupazione nel volto di lei. Le si avvicinò, cadendo accanto a lei come un sacco di patate. 
A quella scena, la bambina non riuscì a trattenersi dallo scoppiare in una sonora risata.
Ricevette un'occhiataccia da parte del fratello, dolorante e fintamente offeso.
«Sei un buffone» affermò lei, intenta a soffocare le risate che minacciavano nuovamente di rimbombare tra le mura del vuoto corridoio.
«Lo so» 
Si posizionò con la schiena appoggiata dritta alla parete, le ginocchia richiamate al petto, e circondate dalle possenti braccia. 
Lilith osservò quelle braccia con ammirazione; potevano quegli arti, alla sola vista, farla sentire al sicuro? Era possibile? O si trattavano solo di sciocche fantasie di una bambina?
«Ho qualcosa che ti appartiene»
La piccola non ci mise molto a capire di cosa stava parlando, e senza nemmeno pensarci, si alzò e cominciò a strattonare la mano del fratello.
«Lil, calmati. Non c'è nessuna fretta» disse con nonchalance, rialzandosi lentamente, provocando l'irritamento di lei. Ridusse i suoi occhi verdi in due sottili fessure. 
Thalos, arrendendosi, corse dentro la stanza, e quando ne uscì, le sue spalle larghe erano nascoste dietro un cavalletto, sorreggente una tela.
Un sorriso entusiasta e sorpreso allo stesso tempo comparve sul dolce viso di Lilith. Rimase a fissare la tela immacolata con stupore, ed una gratitudine immensa per il fratello. Non l'aveva delusa.
Thalos appoggiò delicatamente il regalo a terra, strappando cauto il fiocco rosa attaccato nell'angolo.
«È speciale» spiegò lui.
Lilith aggrottò la fronte, non riuscendo a capire ciò che lui voleva intendere.
«È magica - continuò con tono solenne, avvicinandosi alla sorella e prendendola in braccio - e per questo mi dovrai fare una promessa»
Lilith si limitò ad annuire, assaporando ogni sua parola con fare ingenuo. 
«Dovrai promettermi, piccola Lilith Addams, che userai la tela solo quando sarà il momento»
Gli rivolse un'espressione confusa. Quando sarà il momento? Cosa voleva dire?
«Come, come saprò che sarà il momento?»
«Questo dipende tutto da te»
Le schioccò un tenero bacio sulla guancia, mentre lei scivolava via dalle sua stretta, poggiando i piedi prudentemente. Guardò intensamente l'oggetto dinanzi a sé, e rivalutando le parole del fratello, ne rimase ancora più affascinata.



Gli anni passarono e la piccola Lilith non era più così piccola: adesso era diventata alta quasi quanto suo fratello Thalos, i suoi capelli castani erano cresciuti fino ad arrivarle alla base della schiena, ed il suo precedente gracile corpo stava cominciando a prendere la sua forma dovuta. 
Stava vivendo nella fase adolescenziale: il periodo dalle emozioni più intense e dalle esperienze più vere; le prime uscite, le prime amicizie, i primi amori seguiti dalle prime delusioni. E lei lo sapeva benissimo, fin dal principio.
Si trovava in camera sua quando sentì la madre che chiamava il suo nome a squarciagola dal piano sottostante.

 

Scese le scale lentamente, raggiungendo la madre in cucina. Non riuscì ad intuire il motivo per cui l'aveva chiamata con quel tono così tanto aggressivo. Nulla di buono, era sicuro. Prima di entrare, fissò, ben nascosta dietro la porta, l'espressione severa della donna ai fornelli. Le rughe sul suo volto erano più evidenti e marcate, segno che Lilith si doveva aspettare una sfuriata coi fiocchi.
«Si, mamma?» chiese titubante la ragazza, appena mise un piede dentro alla stanza calda. Un'aria di un inebriante odore del sublime stufato di sua madre la travolsero, facendole venire l'acquolina in bocca. Per qualche istante si dimenticò del volto teso della donna, ma quest'ultima non ci mise molto a rinfrescarle la memoria.
«Hai fatto i compiti?» chiese la madre, con tono duro, voltandosi completamente verso la figlia. C'era sotto qualcos'altro.
«Certo, da qualche ora ormai.
Mi hai chiamato solo per questo?» Lilith aggrottò la fronte, ma la madre non la vide, dato che si era voltata nuovamente verso il suo stufato. Era come se non la volesse guardare negli occhi.
«Oggi pomeriggio, tuo padre, ha incontrato il tuo professore di biologia» replicò la madre, conservando il suo tono duro.
«Mr. Elyd?»
«Non mi risulta che tu abbia altri professori di biologia»
Sapeva dove sarebbe andata a parare: il padre che parlava con il professore, quest'ultimo che riferiva il suo netto peggioramento nella sua materia, ed addio all'occasione di partecipare alla festa più importante dell'anno, nonché alla sua prima esperienza. Cominciò a pregare mentalmente in tutte le lingue del mondo che non fosse così.
«Mamma, so che vi avevo promesso che l'avrei recuperata, ma non mi entra in testa. Quei nomi, le loro definizioni e tutto il resto, sono troppo difficili» spiegò, sperando che la madre notasse quanto dispiacere ci fosse nella sua voce.
«Noi ti abbiamo dato una possibilità, e tu te la sei giocata, perciò niente festa sabato sera» 
«Ma...»
«Niente ma» la interruppe la madre, questa volta girandosi per incontrare gli occhi verdi della ragazzina.
Tutto quello non era giusto; aspettava quella festa da settimane, e non sarebbe stata la biologia ad impedirle di andarci. Thalos non chiedeva mai per andare alle feste: certo, perché lui era il figlio perfetto, quello che andava bene a scuola, e che nei suoi diciannove anni di vita non aveva mai dato motivo di preoccuparsi ai suoi. Ripensando a ciò, cominciò a parlare senza pensare, ed usò una voce minacciosa e dura scaturita da un senso di rabbia mai provato prima di allora.
«Sai che ti dico? Me ne fotto di quello che dite, tu e papà. Non ve ne importa niente di me, e tantomeno avete fiducia nei miei confronti. Sono sempre stata la pecora nera di questa famiglia, la meno valutata, l'ultimo fanalino di coda. Bene, sia chiaro che d'ora in poi non sarà più così. Andate a fanculo entrambi, perché io a quella festa ci andrò, che vi piaccia o no» terminò la frase con un sospiro per recuperare l'aria.
Aveva sputato veleno per ogni parola che aveva detto, non pentendosene per niente. Ciò che aveva appena proferito era la verità, ed era sicura di avere ragione.
Lilith non riuscì a decifrare l'espressione sul volto della madre: di certo, non si sarebbe aspettata una risposta così dalla dodicenne. 
«Come ti permetti di rispondere così a tua madre? Noi non ti abbiamo cresciuta come una poco di buono. Sapevo che la vicinanza di Meredith ti avrebbe reso così» 
Lilith alzò gli occhi al cielo.
«Cosa c'entra ora Meredith?» chiese con tono accusatorio.
«Hai appena mandato a 'fanculo' - quotò con le dita l'ultima parola - i tuoi genitori. Coloro che ti hanno messo al mondo e cresciuto. È lei che ti insegna queste parole» non era una domanda, ma un'affermazione.
«Sei stupida, o lo fai apposta?»
Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Se prima la madre aveva mantenuto un tono duro ed autoritario, ora gridava, dando pugni in aria in preda ad un attacco d'ira.
«Esci immediatamente da questa stanza prima che io ti metta le mani addosso, ragazzina. Io ti ho cresciuto, ti ho portato in grembo nove mesi, ed è così che mi ripaghi? Rispondendo e per giunta insultandomi? Verrà il giorno in cui te la farò pagare» 
Sotto lo sguardo scioccato di Lilith, Thalos e il padre intervennero per placare le urla della donna, rossa in volto.

In preda ad un impulso, corse velocemente verso il tetto, l'unico posto in cui le andava di stare in quel momento.
Raggiunse cauta la tegola che aveva scoperto rotta qualche mese prima, la spostò, e si sedette sulla superficie piana, al riparo da rischi e cadute.
Un'enorme senso di colpa la trafisse, ricordando le grida disperate della madre, mentre si divincolava dal marito. 
Non doveva trattarla in quel modo, aveva esagerato. E ci stava terribilmente male. 
«Hai esagerato»
Ed eccolo lì, in tutto il suo splendore sotto il chiarore del crepuscolo, a dare voce ai suoi pensieri, il fratello perfetto. Le sedette accanto, tendendo le gambe in avanti, mentre con un piede infilato nell'incavo di una tegola, impediva a se stesso di uccidersi.
«Io, io non...»
Lilith non riuscì a terminare la frase, scoppiando così in un pianto isterico. Istintivamente, si aggrappò al fratello, poggiando la testa sul suo petto, mettendo a dura prova l'equilibrio del ragazzo, che però riuscì lo stesso ad abbracciarla. 
«Lo so, lo so» tentò di consolarla, invano.
«Io, non volevo, non era mia intenzione. Non so cosa mi sia preso lì dentro» sussurrò tra i singhiozzi.
«Ci sono passato anch'io»
«Non l'ho mai vista così arrabbiata» disse la ragazza, che nel frattempo tentava di fermare le lacrime che non smettevano di ricaderle calde e salate sul suo viso.
«Le passerà, fidati»
La strinse ancora più forte a sé.
Passarono minuti interminabili in cui fissavano con meraviglia il panorama: il sole ormai stava scomparendo, insieme al suo cielo arancione, per dare spazio alla luna ed al blu della notte.
Blu.
Considerato dai cinesi il colore dell'immortalità.
Lilith amava quella sensazione di freddo e calma che le regalava quel colore; era decisamente il suo preferito.
«Lilith»
La ragazza si risvegliò dal suo stato comatoso, guardando gli occhi color nocciola di Thalos.
«Ti ricordi la tua tela, quella che ti ho regalato per il tuo sesto compleanno?»
Si limito ad annuire, con ancora gli occhi gonfi e rossi dal pianto. Thalos non riuscì a non sorridere davanti alle tenere guance arrossate della sorella. Le trovava adorabili.
«Credo sia giunto il momento»



Erano passati sei anni.
Sei lunghissimi anni.
Ma il tempo dovuto era ormai trascorso, ed ora poteva mettere le mani sulla tela.
Era sua, e nessun'altro l'avrebbe toccata. Ne era stata così terribilmente gelosa, per tutto quel tempo.



La ragazza prese posto su uno sgabello posizionato di fronte alla tela, ricoperta da un lenzuolo che faceva da scudo contro gli acari della polvere finché non sarebbe arrivato il gran giorno. Lilith afferrò con delicatezza il tessuto bianco e ricamato, tirandolo verso il basso; esso toccò il pavimento rivelando la tela immacolata. Per qualche minuto si fermò ad osservarla ricordando quanto le sembrasse grande all'età di sei anni. Ricordò di quando il fratello gliela regalò, non deludendo le sue aspettative. Tuttavia si stava chiedendo ancora chi gliel'avesse procurata, e del perché fosse 'magica'. Sorrise a quel suo ultimo pensiero. Dopo aver sgomberato la mente da questi ricordi, legò i suoi capelli in una coda disordinata, con il codino nero che aveva al polso, domando le ciocche ribelli che le finivano sul volto. Si girò alla sua destra dove, su un altro sgabello, erano adagiate molteplici tipi di tempere e pennelli. Lei aveva sempre tenuto tutto ciò a disposizione temendo che nel momento giusto, perdendo tempo a cercare il tutto, avesse perso l'ispirazione. Ma questo per fortuna non successe: al contrario, la ragazza iniziò a dipingere senza mai fermarsi trovando l'ispirazione in un angolo remoto della sua mente. Osservando il dipinto semi completo, però, notò che le pitture non la soddisfacevano completamente. Poggiò i piedi al suolo, scendendo dalla sedia rialzata e si avviò accanto al suo letto. Si abbassò, alzando il lato del copriletto che toccava il pavimento. Con la mano cercò l'oggetto desiderato e lo estrasse facendolo strusciare sul parquet color ciliegio. Ci soffiò sopra facendo disperdere lo strato di polvere che lo ricopriva nell'aria, poi con una mossa lo aprì. Al suo interno vi stava una foto incorniciata: rovinata e mal messa, raffigurava una famiglia felice, la sua, in un quadretto niente male. Ma non era felicità quella che sentiva in quel momento; non le parve giusto mentire a sé stessa, e nemmeno al suo disegno. Non era quello il ricordo di cui necessitava. Rispose la foto e il baule, con riguardo, al loro posto. Lilith ritornò alla sua posizione iniziale.



Ricordi, ricordi infelici.
Gli unici veri.




Voi non potete sapere quanto sono felice che questa storia sia finalmente nata. Mi correggo, SIAMO.
Siamo in due a scrivere questa storia, data la sua complessità.
Dovrebbe stare dalle originali. Avverto già da ora che questa idea innovativa è opera delle nostre menti contorte. 
Non abbiamo preso ispirazione da nulla, NOTHING. I primi due capitoli, forse tre, saranno concentrati sulla nascita di Vorjos.
Ultimo appunto: il nuovo personaggio non è altri che Justin Bieber.
Il sito non offre la possibilita di mettere la storia in due fandom, perciò l'ho messa qui e basta. NON SONO PAZZA, ahah.

Spero vi sia piaciuto, alla prossima.
Cià.

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Capitolo 2
*** Second. ***




(Second)
 

Nel corso dei seguenti sei anni, Lilith aveva raccolto un enorme quantità di ricordi da poter creare una serie assai prosperosa ed abbondante di dipinti; ma non era questa la sua intenzione. Tra tutti, solo tre racchiudevano in una volta sola, l’emozioni che il suo disegno doveva rappresentare: tristezza, paura, sfiducia, odio, delusione, indifferenza, rabbia, miseria, vincoli, malessere, stupidità, rigidità, negatività e banalità. E Thalos.
Così fu.
 
 
Ricordo numero uno: quattordici anni.
 
Dopo aver cosparso un po’ di lucido rosa sulle sue labbra, la ragazza si guardò allo specchio tentando di sistemare le pieghe della gonna attillata che le fasciava il bacino; per una volta voleva indossare qualcosa di elegante ad una festa, ma non si sentiva a suo agio: al di sotto della gonna si intravedevano aree infossate bianche o meglio, comunemente chiamate smagliature.
Lilith arricciò il naso, provando un senso di disgusto verso il suo corpo. Non si piaceva e pensò che molto probabilmente non sarebbe piaciuta nemmeno alla maggior parte delle persone presenti alla festa. E tantomeno a Cato, il ragazzo per quale lei, provava un sentimento che oltrepassava di gran lunga l’infatuazione. Avrebbe fatto qualsiasi per piacergli, qualsiasi cosa.
Non poteva di certo presentarsi in quelle condizioni, lo avrebbe allontanato per sempre, e lei sarebbe diventata una di quelle adolescenti depresse, grasse e zitelle a vita che apparivano in uno di quei programmi che spesso seguiva alla televisione.
In fin dei conti non aveva un fisico niente male: portava una terza abbondante di reggiseno, aveva la pancia piatta, le gambe lunghe e il fondoschiena sodo e proporzionato al suo corpo. Insomma, adatto ad una ragazza di quattordici anni.
Balle. Si detestava, in tutti i sensi possibili ed immaginabili, ed era sicura che anche Cato la detestava.
Ai suoi occhi appariva un completo disastro, il peggio del peggio. Guardò nuovamente la figura rispecchiata dinanzi a lei, e gemette in un verso di riluttanza. Esattamente quello che provava.
Si maledisse mentalmente per non aver dato ascolto alla madre quando le diceva: "Fai sport, mangia quant'è giusto, altrimenti farai la mia fine: ricoperta di smagliature. La cellulite ti rovinerà".
Adesso, davanti a quello scenario, si stava letteralmente mangiando le mani per non aver seguito il consiglio della madre esperta.
La mora lanciò un'ultima occhiata allo specchio che rifletteva la sua odiata immagine e ancora una volta i suoi occhi si fermarono su quel catastrofico difetto. Scaraventò uno dei tacchi laccati che indossava contro lo specchio, in preda alla collera e alla disperazione.
Improvvisamente, ricordò che sua madre possedeva una crema che poteva fare al caso suo, e così, lottando per sfilarsi la gonna stretta, si avviò nella camera da letto dei genitori. Giunta nella stanza, iniziò a frugare negli armadi, nei cassetti e sugli scaffali per cercare il suo tesoro, la sua via di scampo. Al termine di tutto ciò, la camera dei genitori si era temporaneamente trasformata in una discarica, ma poco importava. Quando finalmente fu tra le sue mani, lanciò un gridolino di felicità: la sua caccia al tesoro era finita.
Guardò la scritta arancione 'Fanghi d’alga - efficaci contro la cellulite' sul tappo, speranzosa. Fece girare in senso antiorario quest'ultimo più volte, aprendo il barattolo grande quanto il palmo della sua mano. Con le dita prese un po’ di prodotto, non preoccupandosi nemmeno di leggere le istruzioni o gli effetti collaterali: aveva troppa fretta di sbarazzarsi del suo corpo. Si sedette comodamente nel letto matrimoniale dei suoi genitori, attenta a non far colare il fango su di esso. Dovette lottare contro la sua goffaggine, prima di poter, finalmente, spalmarlo frettolosamente, e senza nessun briciolo di grazia.
Rabbrividì quando il fango freddo venne a contatto con la pelle del suo interno coscia. Continuò a spalmare e a massaggiare fin quando il rosa della carne non venne sostituito dallo scuro verde militare del fango. Dopodiché, lo lasciò in posa per tre  lunghi quarti d’ora, che le parvero anni; era impaziente di poter ammirare le sue nuove gambe.
Le sembrò strano, però, quando una sensazione di prurito si impossessò dell'area coperta dai fanghi.
Iniziò a grattarsi involontariamente cercando il barattolo per leggere le indicazioni, cosa che avrebbe dovuto fare prima. Quando lesse "applicare dai 16 anni in su", sgranò gli occhi gettando il barattolo a terra con nonchalance.
«Merda» sibilò, alzandosi meccanicamente. 
Percorse il lungo corridoio di casa sua, correndo per raggiungere il bagno dall'altro lato dell'abitazione. Sospirando col fiato corto, aprì subito l'acqua della vasca e cominciò a pulirsi, ignorando il fastidioso pizzicore, lasciando gocciolare l'acqua sulle piastrelle fredde.
Lilith entrò nella vasca completamente vestita, impaziente di mettere fine a quella tortura. Finalmente la maschera di fango venne a galla, e non riuscì a non notare delle piccole macchie marroni sulla superficie rosea della sua pelle. In quel momento si sentì la persona più stupida ed idiota del mondo intero, e non evitò di gridare come una forsennata. Non si fermò neanche quando la porta del bagno si spalancò.
«Che cazzo ti prende, Lilith?» ruggì il fratello, sulla soglia dell’entrata, abbastanza confuso dalla scena che gli si era presentata davanti.
«Sono un’idiota Thalos, sono un’idiota!» urlò lei in risposta.
Gli raccontò tutto, nei minimi dettagli, mentre lui le asciugava le lacrime ribelli che ricadevano sul volto arrossato. Sperò veramente che Thalos la potesse capire, in qualche modo, nonostante lui avesse un corpo perfettamente scolpito. La sua reazione fu ben diversa da ciò che si aspettava.
Rise. Ma ancora più inaspettato fu il fatto che si immerse nella vasca anche lui.
«Tu, sei ridicola» affermò, ancora divertito.
«Non sei d’aiuto» replicò la ragazza, frustrata.
«Hai capito perfettamente cosa intendo»
 

 
Ricordo numero due: sedici anni.
 

Pan Addams era indifferente a tutto ciò che lo circondava, come se tutto ciò che accadesse, fosse solo frutto della sua immaginazione. Costantemente calmo e impassibile, Lilith invidiava suo padre più di qualsiasi altra cosa.
Da qualche anno ormai, aveva perso quel sorriso fiero sul suo volto che le rivolgeva ogni qualvolta lui giungeva, stanco, dal lavoro.
Vecchio, stava diventando vecchio, marcio, e sentiva di non poterne più dei continui lamenti della moglie, né delle stressanti richieste dell'adolescente.
Thalos era l'unico che volesse ancora sopportare, forse. No, neanche lui ormai.
Si sentiva soffocato, senz'aria, come fosse già morto, ma continuava a rimanere indifferente, distaccato.
I suoi movimenti studiati attentamente, e le sue rare parole, come se entrambi fossero limitati. La sua interpretazione di conversazione, se si poteva definire tale, era fatta di gesti, ovvero sguardi e cenni col capo.
Lilith sapeva quanto suo padre volesse andarsene, ma seri dubbi le fecero presumere che non l'avrebbe mai fatto. Bastò una sera, una sera degenerata, a cambiare la prospettiva del futuro di quattro persone.
Lilith, appena sedicenne, stava ritornando a casa; la stavano aspettando, come ogni sabato, davanti alla porta, pronti per la solita predica, dato il suo ennesimo ritardo. Si sorprese quando il primo a parlare fu suo padre.
«Andiamo nello studio, Lilith» disse apatico, alzandosi dalla sedia appostata davanti alla porta. La ragazza, senza nessun segno di disapprovazione, lo seguì. Ignorò freddamente lo sguardo deluso ,ma allo stesso tempo severo, della madre. Giunti nel piccolo studio, tolse le scarpe, diventate troppo scomode; nel mentre, il padre si appoggiò sulla minuscola scrivania, sulla quale erano sovrapposti varie enciclopedie rovinate. Quello era il suo hobby: aggiustare libri che la gente riteneva inutilizzabili.
La voce dell'uomo la distolse dai suoi pensieri.
«Ti ho chiamato dieci volte, e quando pensavo che finalmente avresti risposto, ho sentito solo delle sonore risate. Ti sei data alla pazza gioia stasera?»
Non c'era nessun tono accusatorio nella sua voce, nemmeno l'ombra, solo un timbro freddo, non glaciale, ma di quelli sopportabili. Lilith esitò a rispondere, ma prese coraggio e si decise a parlare, pronta a dare sincere spiegazioni.
«Eravamo dentro quando mi hai chiamato, e con la musica alta credo sia del tutto ragionevole il fatto che io non ti abbia risposto. Quando siamo uscite, e hai telefonato per la decima volta, ero intenta ad accettare la chiamata quando Meredith me l'ha preso di mano e ha risposto al posto mio. Conosci Meredith papà, era l'unica fatta del gruppo» spiegò frettolosamente, dondolando sui talloni nervosamente. Pan alzò il capo, squadrando la figlia come fosse la prima volta che la vedeva in tutta la sua vita.
«Rispondi alla mia domanda: ti sei data alla pazza gioia stasera?»
Lilith aggrottò la fronte, non capendo il secondo fine di quella domanda. Azzardando, annuì con un cenno del capo. 
«Bene» disse solamente Pan. 
Come si doveva comportare ora? Non aveva mai dato spiegazioni a suo padre, lui era indifferente, fermo, sempre dalla parte della moglie. L'impulsività agì al posto suo.
«Papà, io non ho fatto niente» gli gridò sicura e decisa, noncurante della frase banale che aveva appena detto.
«L'essere umano, dalla nascita fino alla morte, è in costante movimento, sia fuori che dentro, perciò è logicamente impossibile che tu non faccia niente. Qui il verbo giusto non è fare, ma essere. Se mi dicessi che tu sei niente, ti darei completamente ragione» affermò lui, più duro che mai.
La mora smise immediatamente di dondolarsi, irrigidendosi sul posto. Nella sua mente cercava di dare senso alle parole del padre, non trovando un qualsiasi nesso logico. Lui prese in mano un libro molto mal ridotto, e, rigirandoselo nelle mani, continuò.
«Lo vedi questo?»
Le mise davanti agli occhi il libro, e un odore di carta stampata ammuffita raggiunse le sue narici sensibili. Arricciò il naso e si ritrasse, dato il profumo sgradevole che emanava quella copia de 'Il giovane Holden'.
«Tu sei come questo libro. Più cerco di ripararlo, più questo si distrugge»
«Tu non lo pensi davvero» obbiettò la ragazza con voce tremante, in quella che doveva essere un'affermazione, ma parve più come una domanda insicura.
«Com'è che dite voi giovani? Oh, si, ricordo; ci puoi contare. E finalmente, per quanto mi riguarda, ho capito che non ne vale la pena. Lilith, tu sei niente, come lo è tua madre, e tuo fratello. Voglio vivere solo, e soprattutto, voglio morire solo, senza complicazioni, senza problemi»
Si lasciò andare in un urlo liberatorio, entusiasta e pronto ad intraprendere una nuova vita.
«Non, non ti biasimo papà, ma non esiste vita senza problemi» farfugliò la ragazza, asciugandosi col dorso della mano alcune lacrime cadute per la frustrazione.
Si sentiva scossa, distrutta e inutile. Stava succedendo troppo velocemente.
Le parole del padre, le avevano aperto una voragine nel petto, un qualcosa di troppo grande anche per lei.
Lui non rispose, rimase immobile a guardare un punto fermo dinanzi a lui, con ancora il libro in mano. Dopo attimi che sembrarono interminabili, strappò una pagina dalla copia, e, prendendo una penna dalla scrivania, cominciò a scrivere, lanciandosi dietro di sé il libro. I suoi movimenti parvero calcolati con attenzione, secondo dopo secondo, la sua mano si muoveva perfettamente sopra quel rigido pezzo di carta.
Al finire di quella straziante manovra, piegò il foglio in due parti, e lo porse alla ragazza.
«Ci meritiamo tutto questo»
Quelle furono le sue ultime parole, prima di uscire da quella casa, e dalle loro vite.
La ragazza, ancora incosciente di ciò che era successo, aprì il biglietto.

 
‘Non faccio che dire "piacere d'averla conosciuta" a gente che non ho affatto piacere d'aver conosciuto.
Ma se volete sopravvivere, bisogna che diciate certe cose.
-Jerome David Salinger’
 

«Non hai fatto niente, non l’hai fermato mamma» accusò seria la ragazza, guardando dritta negli occhi la madre in lacrime. Non rispose, ma si limitò ad abbassare il capo. Il fratello, seduto sul divano, aveva uno sguardo assente, privo di emozioni.
«Thalos» lo chiamò la ragazza.
Alzò il capo nella sua direzione, distrattamente.
«Sono debole» affermò, alzando le spalle, e scoppiando in un pianto sofferente.
«Vieni qui piccola Lilith»

 
 
Ricordo numero tre: diciassette anni.
 
Odiava quel gatto.
Era un comunissimo Europeo dal mantello nero e gli occhi gialli, tremendamente brutto e sporco.
Thalos lo trovava carino, Lilith, invece, considerava quell'essere il peggiore che Madre Natura abbia mai creato. Girovagava per l'intero quartiere, esibendosi in un miagolio straziante come se avesse perso la sua ragione di vita. Una cosa patetica, e terribilmente fastidiosa, soprattutto di notte, quando normalmente le persone si recavano nelle loro stanze per dimenticarsi della stressante giornata appena trascorsa, passando qualche ora in completo relax. 
Ma non era così. Quel gatto era sempre lì, appostato nel piano della recinzione che circondava casa Addams. E come se non bastasse, il lato in cui risiedeva la feccia, doveva essere lo stesso della stanza di Lilith. 
Lo faceva apposta.
La ragazza era sempre stata pronta a farlo fuori, a mettere fine a quelle notti in bianco passate ad escogitare il miglior modo per ucciderlo, mentre lui continuava la sua solita cantilena, impedendole un sano riposo. Questo, però, non fu, a causa del fratello contrario. O almeno, non fino ad allora.
Una giornata come le altre, tra scuola, ritorno a casa, compiti, faccende di casa, doccia e stress. Quel che le ci voleva era stare accoccolata al suo cuscino per ore e ore, in compagnia di Mr. Todd, un noioso ma silenzioso pesciolino rosso, finché non si sarebbe svegliata la mattina seguente. Entrò nella sua stanza, passando per la porta scorrevole in vetro, e si fiondò sgraziatamente nel suo materasso d'acqua a due piazze; niente di più comodo. Mentalmente constatò che non ci sarebbe voluto molto per addormentarsi, data la sua stanchezza, e nessuno glielo avrebbe impedito. Nessuno.
A risvegliarla dai suoi pensieri fu un miagolio piuttosto famigliare.
«Io lo ammazzo!» sbraitò furiosa la ragazza, che intanto si era alzata dal suo comodo letto.
Si avvicinò alla finestra, spostando lievemente le tende color ocra, quel poco che bastava per farle ammirare, appollaiato tranquillo, la causa del suo strillo. Lo notò voltarsi, ed incontrare casualmente i suoi occhi verdi: le sue iridi gialle, evidenti nel buio della notte, l’avevano inchiodata ed affascinata come non mai. Voleva quei occhi, e li avrebbe avuti.
Vide la figura di Thalos fiondarsi in camera sua, il viso sconvolto dalle precedenti urla della ragazza.
«Lil, che succede?» 
La ragazza ridusse le distanze dal fratello, trascinando le gambe in passi lenti e pesanti; lo sguardo omicida che gli rivolse, lo intimidì, facendolo indietreggiare.
Prima di proferire parole, s'irrigidì, e serrò la mascella; puntò un dito contro il ragazzo.
«Lo squarterò lentamente, dividendolo in due parti. Ovviamente, quella piccola testolina gliela staccherò. Estrarrò ogni singolo organo del suo corpicino sudicio, e ne farò un frullato. I suoi brandelli li darò al cane del vicino, e mi terrò gli occhi come ricompensa»
Non si poteva non notare una nota sadica nel suo tono, e questo era spaventoso, soprattutto per Thalos, che l'aveva sempre vista come la piccola e fragile sorellina Lilith.
Tentò di ribattere, ma lei non glielo permise.
«Faranno una statua in mio onore, me lo sento. Tu, sai dov'è la Navaja Spagnola?» chiese, mantenendo quel tono sadico e terrificante. 
«Non ti farò sfiorare nessun coltello, nemmeno la Navaja» affermò serio il fratello, scettico.
«In questo caso lo farò con le mie stesse mani» 
«Lilith, ti senti bene?» inclinò la testa, abbastanza sconvolto, anche se non era sua intenzione darlo a vedere.
Lo sguardo adirato di lei, e quel ghigno divertito, gli fecero capire che stesse dicendo sul serio. 
«Mai stata meglio!» alzò le braccia al cielo, e quel ghigno divenne ancora più inquietante.
Era la rabbia che le provocava questo? Poco importava, lei voleva quel gatto, e lo desiderava morto e fuori dalla sua vita. Avrebbe sofferto in un decesso lento ed atroce; il conto si sarebbe finalmente saldato
«Vengo con te» acconsentì Thalos, dopo qualche minuto.


 
Il disegno, chiamato da lei Vorjos, ora era completo. E successe l’impossibile.
Vorjos sostituì la Terra.


‘Welcome to Vorjos’



Ehilà.
Da qui si capisce che Vorjos è un mondo.
Vado di fretta, e non mi va di commentare.
Dico solo che ringrazio tutti.
Per gli amanti dei gatti, chiedo umilmente scusa, ma mi servivano degli occhi gialli (?)
Alla prossima belle mie.
Cià.

 

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Capitolo 3
*** Third. ***




(Third)

Vi consiglio vivamente di leggere lo spazio autore, perché credo che alla fine della lettura del capitolo, sarete abbastanza confusi.

«Grigio.
Era così triste. La malinconia che lo rappresentava trapelava dalle mura.
Gridava, mi urlava strazianti parole in un pianto disperato.
Percepivo ogni microscopica sensazione di odio nei miei confronti. Cominciai a provare lo stesso sentimento verso di lui.
Io non ero fatta per stare lì, e anche lui lo sapeva. Mi chiedeva, disperato, di andarmene, perché tra pochi istanti sarei affogato nel suo colore, lo sentivo.
L'angoscia aveva preso il sopravvento su di me. Un nodo alla gola, e le mani sudate. Vagai con lo sguardo per la lunghezza di quel corridoio.
Ero triste. Maledettamente triste. Come il grigio.
Lui, lui mi capiva.
Ero seduta, con la schiena appoggiata ad un muro. Un muro sconosciuto, che non mi voleva. Abbracciavo le mie ginocchia, proteggendole da ogni pericolo. Tremavano, e m'impedivano ogni tentativo di rialzarmi. Non che fosse la mia vera intenzione.

Qualcosa di più forte di me e del grigio delle pareti, mi obbligava a rimanere lì.
Sentivo che, in qualche modo, quel posto mi apparteneva, nonostante continuasse a rifiutarmi»

«Andiamo, vuoi ancora continuare con questa stronzata?» sbottai di colpo, gridando a pieni polmoni il mio pensiero sincero.
Avevo sopportato in silenzio, muta, ben due monologhi di Perlatt, senza fiatare una sola parola come promesso, anche se avevo dovuto lottare duramente contro il mio corpo e la mia aggressiva frenesia, la quale non ci pensava due volte a voler dare qualche giorno all'autore e, soprattutto, a Lanya.
Se le avessi spaccato il labbro, e magari fatto un occhio nero, non avrei, teoricamente, infranto la promessa, no?
Durante l'atto, l'ultima cosa a cui potevo pensare, sarebbe stato parlarle.

Meglio di no, le avrei fatto solo un favore; ed io non volevo assolutamente che sopravvivesse anche a causa mia.
Ma poi aveva iniziato a recitare, con quel tono che tanto disprezzavo, 'Il Grigio' di Mariska, e la mia mente aveva letteralmente perduto il controllo.
«Eeva» si accigliò Lanya, distogliendo lo sguardo dalla classe, per poi voltarlo, disgraziatamente, nella mia direzione.
Non mi sorpresi del fatto che usasse un tono piuttosto calmo rispetto ai suoi modi di fare, ma ormai si era abituata, come il resto della classe d'altronde, che non si era nemmeno voltata per vedere chi fosse stato a sbraitare nel bel mezzo di una lezione: avrebbero riconosciuto la mia voce ovunque.

«Per una volta pensavo veramente che, per la prima volta in tutta la tua misera esistenza, saresti stata zitta» continuò, scandendo ogni singola parola, Lanya, che nel mentre si era alzata dalla sua sedia girevole, per appoggiarsi di schiena, dopo qualche secondo, sulla scrivania di ferro, volgendo nuovamente le spalle alla lavagna interattiva posta al centro del muro bianco dinanzi a me.
Mi strinsi nelle spalle, alzandole strafottente.

«E lasciarti il beneficio dell'illusione? Sul serio mi credi capace di un gesto del genere? Mi spiazzi, Lanya, mi lasci senza parole» replicai seria, gesticolando appena con le mani, come per mostrarle superficialmente il mio finto stupore.
Se per passare il tempo ed evitare che la sua voce rimbombasse un altro di quei maledetti monologhi, avrei dovuto discutere con quella fino allo sfinimento, l'avrei fatto più che volentieri.
Ero profondamente annoiata e terribilmente seccata.
«Peccato che tu non rimanga mai senza parole» mi disse di colpo, accompagnando a quel suo tono disprezzante, una semplice smorfia disgustata. Notai, con la coda dell'occhio, che aveva attirato l'attenzione di quasi tutta la classe.
La ragazza si atteggiava, fin troppo, e questo mi dava ai nervi.

«Posso insegnarti»
Il mio sguardo s'incupì maggiormente, volevo metterla in guardia. La osservai diventare una piccola preda in pericolo di morte quando chinò il capo, sotto i miei gelidi occhi; sottomessa.
Si ammutolì, e quella fu la mia conferma.
«Che ne dici se vado a fare un giro fuori? Oppure rimango qui, a te la scelta Lanya» chiesi fredda.
Sapeva che, se mi avesse permesso di uscire, avrei trovato un qualsiasi modo per far si che la licenziassero. Se fossi rimasta, si sarebbe dovuta rassegnare ai miei continui commenti contraddittori, che spesso esasperavano così tanto l'insegnante da portarlo ad abbandonare la cattedra di sua spontanea volontà. Niente a cui non fossi abituata, insomma.
«Rimani qui» azzardò titubante, con un tremolio evidente nella sua voce.
«Come vuole lei, signorina» le dissi solamente.
«Tunder»
Ancora mi rivolgeva la parola?
«Come, scusa?»
«Signorina Tunder» rispose, correggendo la mia affermazione precedente.
«Non mi sembra che io te l'abbia chiesto in qualche modo. Inoltre, per la cronaca, non potevi scegliere cognome peggiore. Ora, se mi lasci in pace, avrei intenzione di dormire un po'» sentenziai senza battere ciglio, sottolineando con fare annoiato l'ultima frase.
Ignorò le mie parole continuando con la sua lezione come niente fosse accaduto realmente, e volesse solo dimenticare all'istante il fugace scambio di parole.
Prima di appoggiare la mia testa nel banco, un dubbio sorse nella mia mente; alzai la mano meccanicamente.

«Eeva» m'incitò a parlare, indubbiamente infastidita. L'aveva voluto lei, avrebbe potuto benissimo permettermi di uscire. Non avrei, di certo, rifiutato di sgranchire appena le mie gambe indolenzite.
«Tu -la indicai con un dito, dal fondo della classe- n0n fai parte delle Scelte, o sbaglio?» domandai sfacciatamente.
Scosse la testa, confusa.
«E neanche dei Seguaci, vero?»
«No, nemmeno lì. Perché?»
Inutile chiederle anche se fosse nella Lista, sarebbe stata una domanda retorica.
Alzai le spalle, dandole il via libera, con un gesto nell'aria della mano disinteressato, di continuare con i suoi lagnosi monologhi di evidente poco valore ed importanza.
Non allontanai la fronte quando trovai la superficie del banco fredda. Dopo qualche minuto, la mia tempia incontrò quel tranquillizzante contatto, costringendomi a guardare nella direzione della mia vicina di banco.
«Irenke» la chiamai, sussurrando debolmente.
Lei si voltò di scatto.
«Lui?» le chiesi fredda, cercando di apparire il meno possibile preoccupata.
L'osservai, attenta, cercare nella stanza una figura in particolare, sperando, come sempre in quella comune situazione, un cenno positivo. Prima che Irenke potesse fiatare, una voce particolarmente acuta e sconosciuta, spezzò il silenzio che regnava sulla classe.
«Signorina Tunder, Trecentocinquantasei sta male, credo. Non la smette di piangere, e mi da fastidio» proferì irritata. Lanya non badò alle sue parole, come invece faceva sempre con me, e proseguì ininterrottamente.
Trecentocinquantasei.
Trecentocinquantasei.
Justin.
Non seppi formulare nessun pensiero convincente per dare spiegazione alla forza con la quale scaraventai il banco davanti a me, ma intuii presto che, l'adrenalina ribollente nelle mie vene, mi era stata molto utile.
Non ci misi molto a raggiungere la sua postazione; spostare irruentemente chiunque mi fosse stato davanti, aveva reso il percorso, quasi, meno lungo.
Mi appostai con premura davanti a lui: il suo pianto divenne più disperato, e tremava violentemente, scuotendo ripetutamente la testa. L'istinto mi consigliò all'istante di stringergli entrambi le mani, e, come sempre, gli diedi retta. Tentavo vana di rassicurarlo, nonostante l'espressione sgomenta dipinta nel mio volto. Al lieve tocco con i palmi delle mie mani, si allontanò, ancora più spaventato, e, come se non bastasse, i suoi singhiozzi s'intensificarono, facendolo apparire una valle di lacrime. Una dolorosa fitta raggiunse il mio petto, facendomi sussultare.
La situazione peggiorò quando, dopo qualche secondo, cominciò ad urlare a gran voce, col capo rivolto al soffitto sovrastante; stava perdendo il controllo, e questo non glielo avrei mai permesso.
Il suo sguardo sviava pericolosamente il mio.
Ero forse io la causa del suo timore? No, impossibile.

Scattò in piedi, ma non ci misi molto a posizionarlo nuovamente seduto. Non la smetteva, ed io mi sentivo una totale incapace. Un pensiero sfrecciò nella mia mente furtivamente, ma, sfortunatamente, riuscii a captarlo: Justin aveva bisogno di me, ed io mi stavo rendendo inutile. Lo eliminai seduta stante.
Decisi di fare un secondo tentativo.
Strinsi una sola mano questa volta, avvicinandomi con lentezza e cautela, e con l'altra, accarezzai delicatamente i capelli impiastrati di sudore freddo. Lo vidi calmarsi appena, ma non sembrava riuscire a fermare l'attacco di panico. D'altronde, era contro la sua volontà, perciò non aveva possibilità di frenarlo.
Continuava ad evitare il mio sguardo.
«Justin, Justin» lo chiamai in continuazione, ripetendo il suo nome una ventina di volte.
Si limitò a rispondere lievemente alla mia stretta di mano, ma per non scoraggiarmi, lo interpretai come un grande passo.
«Justin, guardami» la mia voce si affievolì nettamente.
Parve più come una disperata richiesta, più che un ordine.
La maggior parte della classe era concentrata su di noi, ed ignorava le spiegazioni insensate di Lanya, ma questo poco importava; avevo altro, o meglio, avevo Justin per la testa.

«Andiamo a prendere una boccata d'aria»
Senza obiezioni, annuì debolmente, e singhiozzante, ci alzammo, la sua mano stretta nella mia.
Prima di varcare la soglia della porta, spostai la vista su Lanya.
«Con te, facciamo i conti dopo»
Assottigliai gli occhi colmi d'odio e disprezzo, prima di uscire e respirare profondamente aria sana e pulita.
Senza pensarci molto, lo portai direttamente in infermeria; uno dei pochi posti meno frequentati e dove la porta rimaneva costantemente aperta, o preferibilmente, spalancata.
Privi d'alcun scrupolo, entrammo dentro, senza vedere se c'erano o meno altre persone; così come avevo presupposto precedentemente, la stanza cupa era vuota.
Trascinai Justin fino al lettino posto nel mezzo della stanza, facendolo sedere cautamente su di esso. Era la prima volta che assistevo ad un attacco di panico da parte sua, e quella sensazione di vuoto ed incapacità mi pervase nuovamente. Non sapevo come comportarmi, non lo sapevo.
Che cosa dovevo fare ora?
«Vuoi che io continua a stringerti la mano?» chiesi seria.
Scosse la testa.
Riuscii ad afferrare il messaggio chiaramente: l'attacco di panico sarebbe ben presto finito, ed io dovevo limitarmi a fare niente.
Passò un quarto d'ora prima che smettesse di tremare spasmodicamente, ed altri venti minuti per far si che tutto ciò finisse del tutto.
In trentacinque minuti cercai di formulare in testa le migliori ipotesi per poter dare una spiegazione logica e possibilmente concreta all'improvviso ed insolito attacco del ragazzo.
Una, più di tutte, si faceva spazio nella mia mente, convincendomi sempre di più, così decisi di testarla.
Portavo sempre del Nihilo in tasca fortunatamente.
«Bevi questo» gli porsi un bicchiere di tè verde bollente, apparentemente innocuo.
Prese in mano il calice e lo squadrò accuratamente, annusandolo con molta dedizione. Mi rivolse un'occhiataccia furente, prima di versarmi contro il liquido fumante nel bicchiere. Sfortunatamente, mancò il bersaglio, data la mia innata perspicacia nel prevedere con astuzia le sue mosse.
«Mi credi così stupido?» ringhiò a denti stretti, incamminandosi frettolosamente verso l'uscita. Lo raggiunsi, piazzandomi brutalmente davanti a lui.
«Tu non vai proprio da nessuna parte» scandii con rabbia ogni singola parola. Indietreggiò, ricomparendo seduto sopra il lettino. Abbandonò quell'espressione furiosa, alla quale non ero per niente abituata, rimpiazzandola con la solita aria triste e malinconica. Abbassò il capo, togliendomi dalla visuale i suoi sofferenti occhi blu. Avevo sempre pensato che quelle iridi avessero rubato, a sua totale insaputa, un pezzo del cielo notturno.
Una riflessione al quanto strana, perché chiunque a Vorjos aveva gli occhi di quel colore, nessuno escluso.

«Non c'era nessun bisogno di mettere del Nihilo nel tè. Io te l'avrei detto, prima o poi»
«Quando? Quando me l'avresti detto Justin? L'Omnia Malignántium può-»
«Di cosa stai parlando?» m'interruppe, insolitamente confuso.
«La lezione sulle varie tipologie di Omnia, non ricordi?» risposi scocciata a braccia conserte.
Ero io quella che non seguiva, non lui, se non sbaglio.
Inoltre gli avevo vietato tassativamente di seguire il mio esempio.

«Non abbiamo fatto nessuna lezione sulle varie tipologie di Omnia» reclamò serio.
«Ah, no?»
Scosse la testa.
«Quella che ho trovato io era semplice Omnia, e non quella che stronzata che dici tu» obbiettò deciso, sollevando la testa.
«Osi contraddirmi, Justin?» ruggii.
Nessuna risposta.
«Dove l'hai trovata?» chiesi, cambiando radicalmente il mio tono, che da aggressivo e robusto, divenne immediatamente atono.
«Hanno portato via Walter, stamattina, ed io passavo da quelle parti. C'erano due guardie, ma ne hanno lasciata solo una» spiegò, ed io compresi tutto perfettamente.
«Ma non ho ancora capito il perché di questa reazione» aggiunse poi, aggrottando leggermente l'alta fronte.
Si aspettava una mio chiarimento, era ovvio.
Mi accomodai nella piccola ed antiquata poltrona posta di fronte al letto.
Sfregai le mani congelate rabbiosamente, l'una contro l'altra.
«Sarò breve e coincisa per quest'improvvisata lezione di vita. L'Omnia si divide in tre categorie ben distinte: OmniaM, OmniaE, e OmniaN. Tra queste tre, a quanto ho potuto vedere, tu conosci solo l'ultima, ovvero OmniaN, abbreviazione di Omnia Neutra. La più comune, e quindi quella maggiormente reperibile; ma questo lo sai già. Stamattina hai ingerito dell'OmniaM, abbreviazione di-»
«Omnia Malignántium» terminò la frase, concentrato più che mai sulla mia confusa spiegazione.
«Esattamente, e non interrompermi quando parlo. -lo sgridai seria- Questa, infatti, si sta diffondendo maggiormente sempre di più, con i tempi d'oggi. L'OmniaE, rara e quasi impossibile da trovare, sta per Omnia Expediunt» sospirai pesantemente.
«Come si riconoscono?»
«I più stupidi ed ingenui aspettano di vedere quali effetti li riversa contro una volta ingerita, noncuranti di quello che può accadere, e dell'invisibile fregatura. Le persone intelligenti, o semplicemente normali, si basano sulla regola generale. Tu sei esente dal primo caso, visto che non ne eri a conoscenza, sfigato» risposi apatica.
«La regola generale. -ripeté più a stesso che alla sottoscritta- Sarebbe?»
«Le guardie, quando scortano la persona in questione nel Giudizio, consegnano il tipo di Omnia a seconda del carattere della ragazza, o ragazzo»
«Questo spiega...»
«Walter era un povero pazzo, ed un mendicante. Cos'altro puoi aspettarti da uno come lui?» conclusi con voce fredda. Quella conversazione stava diventando davvero pesante e priva d'interesse da parte mia, ma non potevo rischiare che capitasse di nuovo una circostanza del genere.
«Cosa ti preoccupa, Justin?» chiesi dopo qualche minuto, distruggendo in mille pezzi quell'assordante silenzio.
«Cosa mi preoccupa? Me stesso, il mio futuro, e la consapevolezza che un giorno, anch'io, mi suiciderò» gridò, come liberatosi di un gran peso addosso. Entrambi sapevamo che quell'enorme masso l'avrebbe accompagnato fino alla morte.
«Quanti giorni?»
«Quattrocentoventi, includendo l'Omnia di stamattina. Ma da quello che mi hai detto, saranno sicuramente di meno»
Si passò una mano tra i capelli disordinati, palesemente frustrato ed agitato.
I suoi complessi mentali.
E chi non ne aveva a Vorjos? Solo io, il giocattolo difettoso, venuto male.
Non sopportavo vederlo così, non ne ero in grado. Ero davvero intenzionata a compiere il passo più lungo della gamba? Per Justin? Ne andava a rischio la mia sopravvivenza, ma mi decisi comunque.
«Ascoltami attentamente, perché ripeterò queste parole una volta sola. Preparerò un altro tè, con la metà di un Nihilo: l'effetto dell'OmniaM dovrebbe deteriorarsi in una decina di minuti e-»
«Eeva, mi vuoi morto?» urlò sconcertato, sgranando gli occhi e drizzando la sua sagoma sottile.
Lo ignorai, dominando la mia impetuosa voglia di sbatterlo al muro, e continuai.
«E poi rimedieremo» semplificai il piano.
«Che cosa intendi dire?» domandò prontamente, rimanendo in allerta.
Estrassi dalla tasca posteriore destra dei miei jeans, una piccola busta di plastica.
All'interno di essa vi era un oggetto dalla simile forma di un'ordinaria aspirina, con l'unica differenza di un segno a forma di 'v' blu, marcato con precisione al centro dell'Omnia.
Justin non riuscì a desumere ciò che avevo in mente, lo capii dalla sua espressione parecchio diffidente e smarrita. Presi la sua mano, aprii il suo pugno stretto, e posai la busta sul suo palmo candido.
«Dove l'hai trovata?»
«Fatti i cazzi tuoi, Justin» ribadii dura.
Si mise a fissare il pavimento con estrema devozione; non si era ancora abituato ai miei perenni sbalzi d'umore, e non si azzardava nemmeno a cambiare. Dopo quattro anni, era sempre l'indifeso e fragile Justin.
E tale doveva rimanere.

«Il Nihilo ti toglierà sessanta giorni circa, non molti. Prendi questa solo dopo che il Nihilo avrà finito di fare il suo lavoro. Insonnia, attacchi isterici, crisi e il resto. Sai già come funzione.
Un'altra cosa: solo quando arriviamo a casa, non prima» continuai, sfregando freneticamente le mani: era un gesto che facevo spesso.
«Molto dolore?»
«Non vivi senza» affermai severa.
Lo vidi pensarci su, come se avesse altra scelta. Gliel'avrei fatta ingoiare con forza, in quel caso.
«Tu, tu quanto hai Eeva?»
«Non è affar tuo»
«Voglio saperlo» esclamò, inchiodandomi con lo sguardo.
«Trenta giorni Justin. Ho solo trenta fottuti giorni» sbuffai spazientita.



Io non ci riesco a non fare capitoli lunghi. E' la mia natura. E spero che non vi annoi, ahah. 
Se faccio qualche errore nello 'spazio autore' è perché sono abbastanza di fretta. A me non piace tanto dare spiegazioni, ma questa volta devo.
La protagonista della storia, come avrete intuito, non è Lilith, ma Eeva. La mia piccola e 'amorevole' Eeva. Non so voi, ma io l'adoro.
Nella storia è entrato anche CIAAASTEN, ovvero Justin Bieber. E comunque, non sono daltonica, lo so che ha gli occhi marroni. Ma le iridi blu sono una caratteristica del popolo di Vorjos. Tutta gente molto simpatica.
Ogni persona ha un totale di giorni di vita variabile. Andando avanti, si capirà meglio in base a cosa varia.
L'OMNIA e il NIHILO non sono droghe. A Vorjos non esistono droghe.
E comunque, non sono nomi inventanti, è semplicemente Latino.
La traduzione di Omnia è 'tutto', mentre quella di Nihilo è 'nulla' o 'niente'. Gli opposti.
Non ho altro da spiegare. Se avete delle domande, chiedete nelle recensioni, oppure inviatemi un semplice messaggio.
Sarei lieta di rispondervi.
La conversazione tra Justin ed Eeva non è finita, ma se avete idee da suggerirmi, le accoglierò con premura.
RINGRAZIO TUTTI.
Chi recensisce, chi mette la storia tra le preferite/ricordate/seguite, ma anche chi legge in silenzio.
Posso dirvi che vi amo? Si, posso. 
Alla prossima (:

Sara, e la mia amica Francesca.

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Capitolo 4
*** Fourth. ***




(Fourth)

«Quand'è stata l'ultima volta che abbiamo parlato, Justin?»
La domanda mi sorse spontanea ed istintiva, quasi come fosse inevitabile.
L'estenuante e pesante silenzio che ci aveva avvolto per dei minuti interminabili dopo la mia cruda rivelazione, mi stava letteralmente lasciando senza fiato. Non ero solita tacere, in nessuna situazione mi si presentasse davanti, e non avrei di certo rovinato la mia immagine autoritaria di fronte all'unica persona sulla faccia di Vorjos di cui m'importasse realmente qualcosa, nonostante ciò non avesse fatto altro che rovinarmi, rendendomi la versione peggiore e strana di Eeva Duecentoventidue. 
Anche se sapevo benissimo quanto questa fosse la mia unica scelta. 
Se non fosse stato Justin, sarebbe stato comunque qualcun altro; ne ero ciecamente convinta.
E questo era solo uno dei tanti motivi per cui odiavo Justin più di chiunque altro.
Si trattava di un pensiero incoerente e privo di senso? No, o almeno, non risultava così nella mia testa, da sempre impenetrabile e di impossibile comprensione. 
Nella lunga lista delle persone che disprezzavo particolarmente, Justin occupava, imbattuto da quattro anni ormai, ben due posti: il primo, e l'ultimo.
«Stamattina, prima dei corsi»
Scossi lievemente il capo, svuotando la mente dagli innumerevoli pensieri che la sommergevano in continuazione. Svogliatamente, cercai di ricordarmi in fretta la domanda che gli avevo precedentemente posto.
Ah, si, parlare.
Possibile che non riuscisse mai a capirmi? Forse era meglio così.
«Intendevo, parlare seriamente, e non le solite frivole conversazioni» affermai scocciata, muovendo in aria la mano. 
Mi stravaccai il più possibile sulla poltrona logorata, sbadigliando sonoramente: erano giorni che non dormivo, e, come se non bastasse, dovevo stare anche a digiuno quel giorno.
«Non lo so Eeva, non ricordo» farfugliò evidentemente disinteressato, tra uno sbuffo e l'altro.
Pensava veramente di lasciare cadere lì il discorso con una risposta evasiva del genere? Non con me.
«Hai mai pensato come sarà il giorno in cui tutto questo finirà, e saremo costretti a suicidarci?» domandai di getto, lasciando nuovamente il campo libero alla mia infida spontaneità. Benché non fosse quello che volevo domandargli in realtà, questa catturò la sua, prima inesistente, attenzione. Sollevò lo sguardo, in precedenza rivolto al pavimento di ceramica, e mi osservò con collera, per poi sputare a terra; un gesto rude e mancante di discrezione.
«Costretti, Eeva?» scandì la prima parola lentamente, alterando immediatamente il tono al richiamo del mio nome, sibilato tra i denti stretti.
Notai una punta di amarezza nella sua voce.
«Voglio evitare di ritornare sull'argomento» replicai in un sospiro, intuendo al volo la ragione del suo insolito cambio d'umore. Si alzò in piedi, continuando a sostenere incolume il mio sguardo.
«Io non ti capisco.
Vuoi parlare Eeva, eh? Allora, parliamo di questo, parliamo del fatto che ti ostini a provare ribrezzo contro chi ti ha creata, e contro questa vita. Sappi che altra via non c'è, e dovresti limitarti ad essere grata alla generosità di Vorjos e Genetrix, come lo siamo tutti noi d'altronde. Noi non siamo costretti a morire, noi lo vogliamo e basta. E non chiedermi che cosa vuol dire la parola generosità, perché non lo so nemmeno io» mi attaccò selvaggiamente, puntandomi il dito contro in segno di minaccia. Stava iniettando veleno in ogni singola parola, con l'unico obiettivo di darmi torto.
Bugiardo, lui non la pensava in quel modo. Era stato il suo sistema nervoso ad imporglielo.
Non sarebbe stata una legge di Vorjos recitata alla cazzo a farmi cambiare opinione, questo è certo.

Sporchi usurai. 
Contro la tua volontà, venivi forzato a farti vivere, a tua insaputa, una vita malsana ed incerta, ossia l'unica disponibile nel mercato. 
Nessuno si accorgeva della fregatura: Vorjos, inizialmente, si presentava come un paradiso privo di regole e limiti, il sogno di ogni adolescente.
Nulla di più seducente. Ma presto, appena messo piede in quel mondo, la realtà giungeva alla tua porta, catapultandoti, in pochi istanti, nel tuo incubo peggiore. 
Il dolore, unico padrone del tuo essere. Ecco stipulato un contratto a tempo determinato non scritto.
Come ogni accordo limitato, esso aveva una scadenza, e loro pretendevano che tu gli restituissi ciò che ti avevano prestato, ovviamente con una percentuale d'interessi vergognosamente sproporzionata.
Sporchi usurai. 


Non era la prima volta che si rivolgeva a me in quel modo, soprattutto per quanto riguardava quell'argomento che non spesso affrontavamo per la mia dominante volontà; ma io l'avevo, quasi sempre, lasciato fare.
Non abbassai lo sguardo, come in realtà lui si sarebbe aspettato, anzi; con un cenno del capo, in un gesto d'estrema meticolosità, lo invitai a risedersi, e lui obbedì involontariamente.
«Hai finito, signor segretario?» sporsi appena la testa, aspettando impaziente la sua conferma.
Annuì debolmente.
«Non sono stata chiara quando ho detto esplicitamente che non voglio ritornare sull'argomento, a quanto pare. Eppure, mi sembrava di aver parlato nella tua stessa lingua. 
Probabilmente mi sbaglio» lo accusai, senza calcare il tono pungente che avevo assunto.
In fin dei conti, lui aveva ragione. L'idea formulata nella mia testa era sbagliata, errata, un fraintendimento; ma, dal momento che l'orgoglio non era acqua, avrei continuato a camminare a testa alta, insieme alla consapevolezza della mia sbagliata opinione.
«Non riesco più a sopportarti» esclamò schietto, senza un minimo di esitazione.
«Nessuno ti ha chiesto di sopportarmi, sfigato»
«Oh, la penserei nello stesso modo, fidati, se solo non mi ronzassi attorno in continuazione» ringhiò.
Il mio corpo bramava avidamente di metterlo con le spalle al muro, e di dargli la lezione che si meritava; però, qualcosa di famigliare al mio corpo ma sconosciuto dalla mente, come sempre, reprimeva all'istante quella feroce frenesia. 
E solo perché era Justin.
«Dici sul serio?! Da quel che mi confessi, presumo che la mia presenza ti dia fastidio»
Mi misi seduta a schiena ritta nella malandata poltrona, offesa per la sua precedente affermazione, anche se speravo non si notasse così tanto.
«Terribilmente»
Aprii la bocca, ma subito dopo la richiusi. Non trovavo le parole adatte per rispondere a tono.
Mi aveva distrutto sapere quello? No, lui mentiva. 
Tuttavia, ero lo stesso amareggiata, abbattuta, frustrata.
«Sai che non posso farne a meno» esalai alla fine, conscia di quanto fossero fondate quelle parole.
La mia era un ossessione spasmodica ed eccessiva, fin troppo. 
Justin era la mia fissazione: un invasamento demoniaco delirante.
Volevo conoscere ogni minuscolo particolare che lo riguardasse, partendo dai dettagli insignificanti, privi di senso, fino ad arrivare a quelli di maggiore rilevanza. 
Distinguendo ogni piccola sfumatura, il controllo della sua mente sarebbe stato nelle mie mani, sottraendolo a Vorjos. Forse ero anche possessiva. Forse.
Riconoscevo che spesso risultavo moderatamente esasperante, ma la mia ossessione m'imponeva di continuare. In conclusione, Justin si alterava, seguito a ruota da me, e le mie chances ricadevano in picchiata, azzerando le mie vane probabilità di riuscita. 
Un altro dei tanti motivi per cui l'odiavo. Non mi permetteva di salvarlo.
Ma da cosa, poi? Non seppi trovare risposta alla domanda, e, semplicemente, l'accantonai nell'angolo più remoto della mia mente.
Lo osservai, come fosse la prima volta.
Un fisico asciutto e sottile, accompagnato da larghe spalle e braccia appena muscolose.
La pelle diafana e pallida, gli occhi di un colore più cupo dei miei, naso arricciato e le labbra carnose socchiuse. Le occhiaie evidenti sul suo volto, i capelli tirati a stento all'insù. 
Il busto era fasciato da una stretta canottiera rigorosamente nera, e metteva in mostra il suo ventre magro e piatto. Dei jeans altrettanto stretti e neri, e scarpe sportive completavano l'abbigliamento del ragazzo. Picchiettava fastidiosamente le dita delle mani contro il lettino.
«Sputa il rospo, Justin. Ed in fretta, dobbiamo ritornare in classe» gli ordinai dura.
Lui sembrò esitare, ma dopo qualche istante si decise a parlare.
«Mi avevi promesso che non avresti fiatato durante il corso di Lanya» disse solamente.
Dovevo solo inventarmi una scusa. O, scelta più azzardata, dire la verità.
«E l'avrei fatto, se solo non avesse cominciato con 'Il Grigio''. Genx, Justin, pensala come vuoi, ma piuttosto sarei andata a caccia di orsi» controbattei decisa, determinata a proferire la verità.
Era Justin.
«Perché? Io l'ho trovato un pezzo interessante, invece»
«Cosa trovi d'interessante nell'incoerenza pura?» chiesi motivata dall'imminente conversazione seria.
«A primo impatto può parere come incoerenza, ma, scavando più affondo, capisci che quella è solo una maschera autodifensiva»
«Illuminami, sentiamo»
«Inizialmente Mariska prova una crudele avversione per il grigio delle mura attorno a lei; si sente chiusa, intrappolata e le speranze sembrano ormai vane. Quando ormai capisce che non c'è via di fuga da quel grigio, in un istinto di sopravvivenza, si ambienta a quel nuovo habitat, ed affibbia al colore il compito di compagno del dolore» spiegò, fissandomi alla ricerca di poter interpretare l'espressione nel mio volto. 
Ebbi una sorta di deja-vu all'udire quelle parole.
«Come me e te. Tu sei Mariska, ed io il grigio» proferii dopo attimi di riflessione.
«Non esattamente, ma ne riparliamo un'altra volta. Ora andiamo in classe, però» lasciò cadere il discorso, e cominciò ad incamminarsi verso l'uscio della stanza. 
Lo seguii senza obiettare.
Inutile dire che appena giunti in classe, il mio sguardo si rivolse subito a Lanya. 
Sapeva del mio problema e quanto Justin fosse importante per me, tutti ne erano a conoscenza.
Eppure, quando quella voce aveva fatto irruzione nella stanza per dire 'Trecentocinquantasei sta male', lei l'aveva ignorata. Indicai a Justin il suo posto, facendo intendere che si dovesse sedere, e mi avvicinai con passi frettolosi e pesanti alla cattedra della stronza in questione.
Tre parole, solo tre parole.
«Stammi a sentire Lanya, io-»
«Non m'interessa Eeva, ritorna al tuo posto» m'interruppe indifferente.
«Io ti uccido» sibilai tra i denti, la mascella contratta. 
Trattenne il respiro, come tutta la classe, escludendo Justin, insensibile a queste mie fuoriuscite di classe. La vidi boccheggiare, intenta a dirmi qualcosa, ma la precedetti.
«Non sprecare ossigeno, conosco a memoria la strada per l'ufficio della preside.
Justin, quando finisce questa lagna, se non mi vedi fuori dalla scuola, torna a casa, chiuditi dentro e non uscire finché non ti raggiungo. E se non fosse stato chiaro, questo è un ordine di prima categoria, e no, non puoi uscire neanche per prendere una boccata d'aria. E si, terrò la bocca chiusa riguardo a quello.
Con permesso»

***

Bussai violentemente alla porta, e senza attendere risposta, entrai nell'ampio ufficio.
«Ho bussato, sono ufficialmente una studentessa modello» salutai Viktoria come mi era solito fare.
«Vediamo, l'ultima volta che sei venuta di tua autonoma volontà, avevi minacciato di uccidere un professore» mi squadrò seria Viktoria. 
Nulla era cambiato nella stanza da quando me ne ero andata via correndo... ieri?
Avevo per fino una sedia con il mio nome, dedicata interamente a me.
«Non cominciare con i tuoi soliti giri di parole, sai benissimo cos'ho fatto Viktoria.
La colpa non è mia, ma di Lanya; Justin stava-»
«Justin» ripeté lei, interrompendomi.
«Risparmia la tua disapprovazione e anche la ramanzina, Fitzgerald»
«Ti rendi conto di quello che hai detto?» cominciò, ignorando le mie parole.
«Ma ti pare che dica sul serio? Non so come si uccide» mi giustificai, il tono duro e scocciato.
«Nessuno lo sa, e così dev'essere. Ora torna in classe» m'intimò, sbruffando.
«Non ne ho voglia. A proposito, non sono venuta qui solo per questo.
Da quando ammettete insegnanti popolani? Quella Lanya non è nemmeno nella Lista, misericordia» 
«Insegna nei corsi extra scolastici, Eeva»
«State perdendo colpi, ve lo devo dire. E non solo per questo.
Un tempo, non si insegnavano le categoria dell'Omnia al primo anno? Ah, si, degli stupidi monologhi sono più importanti, certo!» sbraitai, accentuando la mia ripugnanza.
«Si tratta di corsi extra scolastici, Eeva! E poi, dobbiamo attenerci a quello che ci mandano dai pieni alti»
«Certo, certo. Rimpiazzali, allora.
Sei tu quella che comanda qui, se non sbaglio»
«Ti sbagli di grosso, sono le Scelte che comandano. Ed ora, stai calma se non vuoi che dia sfogo ai miei pugni» sibilò furente.
«Ti dico solo una cosa: dodici giorni» cambiai in fretta l'argomento. Non mi soffermavo molto sulle cose, se queste non attiravano un granché. Il lineamenti di Viktoria cambiarono subito aspetto, lasciando quell'atteggiamento incollerito. 
Tutti lunatici, qui.
«Chi?» chiese lei seria.
«Liam Ventisette, credo; un tipo del terzo» spiegai vaga.
Era stato abbastanza facile.
Colpi assestati, e ben studiati, l'avevano da subito messo a terra. Ed ecco così datigli dodici giorni in più di vita; tutto solo in qualche minuto.
Ma non era questo l'importante: avevo superato il mio record.
«C'entra Justin?» domandò indifferente, ritornando al suo lavoro di prima.
«Ho mai picchiato qualcuno senza una motivazione? La risposta mi pare ovvia»
«Devo dirti una cosa anch'io, riguarda... una persona che conosci bene, molto bene» dichiarò incerta, non lasciandomi intendere di cosa stesse parlando, o meglio, di chi. Le intimai con uno sguardo di continuare.
«Riguarda Harold» continuò, non mollando il tono titubante.
Merda.
Non lui, non di nuovo.
La campanella suonò, ma intuii che non potevo ancora uscire da lì.
«Non so di chi tu stia parlando» mentii spudoratamente. 
«E smettila! È strano, Eeva.
Girano voci su di lui che non puoi neanche immaginare. Dicono che il suo Mark Vivit non segni più i giorni, o che non prenda Omnia da quando se n'è andato, oppure ancora, che stia tentando di scappare dalle Scelte. E, un'altra ancora, che ti stia cercando per non so quale motivo» gridò Viktoria, seriamente scocciata. Nel suo tono non c'era preoccupazione; lei voleva solo conoscere, ma io non potevo darle risposte, perché non le sapevo nemmeno io.
«Ma quindi, non è morto? Sai, ci speravo tanto. Sai quanto sia utile ai tempi d'oggi un po' di OmniaE? Molto» risposi francamente.
Non avevo la benché minima idea di cosa potesse esserci sotto alle strani voci su Harold... che cognome aveva scelto?
«Sfortunatamente, è ancora in vita, ma nessuno ne conosce ancora la causa»
E di certo io non te l'avrei detta, stronza.
«Suppongo che tu te lo stia chiedendo. Il suo cognome è Styles»
Niente di più orrendo. 
Harold Styles.
Aveva promesso che l'avremmo scelto insieme. Aveva promesso anche di non andarsene, quel fottuto epilettico. 
«Forse è meglio che me ne vada prima che io possa vomitare sul tuo tappeto. Ci si vede, Viki»
«Tu ne sai qualcosa, Eeva? Rispondi sinceramente»
«No, mi dispiace» risposi evasiva.
«Okay, ci credo. E comunque, riferisci a Justin che non prenderò provvedimenti per avere ingerito Omnia prima delle lezioni, nonostante si meriti una punizione esemplare»
«Se non chiudi quella bocca Viktoria, sarò io a darti una lezione come si deve» biascicai tagliente, lasciando in fretta e furia la stanza.




MEGA CRIBIO.
Volevo un saluto tutto mio, ed eccolo. Non ha un cazzo di senso, ma okay.
Prima di cominciare questo deprimente 'Mega Cribio', volevo chiedervi cosa ne pensate del banner. 
L'ho fatto io; c'ho messo due ore a farlo.
Lo so, è una merda. Ditemi se devo buttarlo fuori dalla finestra, seguito a ruota da me.
Poi, passando al capitolo. Una merda pure quello, e poi, lungoooo e noiosoooo. Scusate, ma Eeva soffre di logorrea, e non la smette di parlare quell'adorabile ragazza.
Scusate la mia finezza, ma I was born this way. 
Se avete notato, c'è uno spazio che divide il testo, quello di 'sporchi usurai'. Quello non è un pensiero di Eeva, ma come una voce narrante, o che so io (?).
E' entrato scena HARREEEEEEEEH, anche se indirettamente. 
Tu ne sais pas, mais je t'aime garçon.
Traduzione delle parole in latino.
Genetrix: Madre.
Mark Vivit: Segna vita.

Che altro ho da dirvi? Ah, si. Ancora un paio di cosette.
Due ragazze mi hanno detto che il fatto dei giorni limitati, ricorda un film con quel figone ed immaginario marito Justin Timberlake, che se non sbaglio si chiama 'In Time'.
Non avevo idea della sua esistenza, ahah.
Ho letto la trama del film su Wikipedia,  e devo dire che però, se non per questo punto, la storia è diversa. Si, si.
Il testo 'grigio', che introduceva lo scorso capitolo, non è un testo esistente. Cioè, me lo sono inventata io.
Poi, l'altra cosa. Lunedì prossimo partirò per un posto sperduto e dimenticato da Dio e dal mondo. C'è più connessione sulla punta dell'Everest, insomma.
E che cazzo, io non ci volevo andare.
Non so se riuscirò ad aggiornare prima, spero proprio di si. I HOPE, FUCK.
Devo muovere il culo a finire, o mi sparo in bocca.
Ringrazio todoooooooooooooooooos <3
I swear, I love you. For all.
Un ringraziamento speciale a CassandraAinsworth 
Nelle recensioni, se vi va, presentatevi un po'. 
Tipo:
Il mio nome è Sara, sono dell'Emilia Romagna. Ho 15 anni, pochi ma buoni. Non sono estroversa, per niente. Non nella vita reale, perché ora mi sto sputtanando al popolo di Efp come se niente fosse. (Voi scrivete qualcosa in più, ahah)
Mi dileguo, sciao.

Sara.




 

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Capitolo 5
*** Fifth. ***




(Fifth)

Ogni giorno venivano creati centinaia d'individui, intrappolati in un corpo dodicenne, che sarebbe cresciuto fino all'età di diciotto anni, fermandosi totalmente per il resto di tutta l'esistenza Vorjosiana. Nel momento in cui Belfagor dava ad ognuno di loro le sole emozioni che ogni giovane di Vorjos poteva essere in grado di provare, iniziava una nuova vita per un nuovo popolano. Io, a discordanza degli altri, ero nata come una cavia, per testare un esperimento riuscito fin troppo bene; ma io, questo, non lo sapevo.
Scelta tra centinaia di corpi ancora privi di vita, mi avevano trasportato fin nello studio di Belfagor, il ragazzo che ci fabbricava, considerato da me un pazzo.
Nella lista delle persone che più esecravo, lui si trovava al secondo posto, al seguito di Trecentocinquantasei. Mentre Justin poteva benissimo considerarsi una conseguenza della mia diversità, Belfagor ne era stata l'ignobile causa.
Lui aveva appestato il mio sistema nervoso, dandomi, contro il mio volere, la possibilità di preoccuparmi per 'qualcuno' all'infuori di me stessa; mi permetteva di mettere da parte l'egoismo con una sola persona tra miliardi.
La ragione di quest'esperimento? Nessun dolore poteva essere paragonabile a quello della privazione di una persona così importante, come lo era Justin per me. Questo avrebbe garantito anni e anni d'esistenza, senza il costante bisogno di alcun tipo di Omnia, e la prospettiva di vita a Vorjos avrebbe raggiunto cifre inimmaginabili.
Un presupposto destinato a rimanere solo pura immaginazione nella testa di Belfagor.
Chi avrebbe mai pensato che il 'qualcuno' in questione sarebbe diventato un'ossessione cronica, la condizione di ogni mia singola decisione? Belfagor no, innegabilmente.
E la paura che Justin, un giorno, potesse avere il libero accesso della mia mente, mi travolgeva ogni qualvolta che mi rendevo conto quanto quest'ipotesi sarebbe diventata la mia rovina, e la fine per entrambi.
Per quanto potesse parere strano e contraddittorio, anch'io ero a conoscenza di cosa fosse la paura, sebbene si trattasse di qualcosa completamente differente dalle altre nel mio caso. Nessun timore di sopravvivere, nessun timore per il mio avvenire: solamente terrorizzata dal solo pensiero di un Justin dissimile dai altri popolani, ma analogo a me, e al mio modo di fare. No, non sarebbe mai accaduto, per quanto il mio subconscio lo volesse intensamente; ricambiando l'ossessione nei suoi confronti, qualcosa sarebbe sicuramente cambiato.
Ma cosa? E perché ne ero così inconfutabilmente certa?
Troppe domande senza risposta, riposte pigramente in un cassetto abbandonato della mia mente.
Benché la deficienza di Belfagor fosse, a parer mio, una risorsa sorprendentemente illimitata, quel briciolo d'intelligenza che si era scarsamente fornito, l'aveva convinto a limitarsi a sole due soggetti, per poi studiare l'eventuale reazione scaturita dalla sperimentazione, mia e di Harold.
Harold Styles, o meglio conosciuto con l'insignificante pseudonimo di Harry, era stato una cavia proprio come me. Io, Eeva Duecentoventidue, ero da subito divenuta la sua snervante mania; di conseguenza, ero a conoscenza di come Justin si potesse, in qualche modo, sentire.
Fin dall'inizio, Harry era da tutti stato mal visto, giudicato, e da molti altri, temuto; nessuno sapeva del nostro problema: non uno era consapevole del nostro enorme segreto, e non fu affatto difficile nasconderlo in quel primo anno. Dopo qualche mese, la gente aveva già smesso di farsi domande sullo strano popolano, ed io non avevo ancora incontrato il mio Justin. Andò tutto a rotoli quando la figura di quell'idiota di Styles fu ritenuta, dal consiglio delle Scelte, originale a suo modo; senza nessuna esitazione, mi aveva abbandonato a me stessa all'età di soli tredici anni e mezzo, scappando verso miglior vita tra il selettivo gruppo delle Scelte.
Ricordo, come fosse successo tutto ieri, le sue ultime parole.
«Ci meritiamo tutto questo»
Se lo avessi odiato, gli avrei dato troppa considerazione che non si meritava per niente.
Lui non sarebbe mai stato il mio grigio, ed io avrei di gran lunga preferito cacciare orsi che personificarmi in quella disgraziata di Mariska.

***

Helsinki, situata nella regione dell'Uusimaa, e capitale della Finlandia.
Non avevo nulla in particolare contro la noiosa e monotona Hesa, sebbene avrei di gran lunga preferito trasferirmi in una cittadina sperduta della Russia, ma Justin era sempre stato contrario a questa mia bizzarra idea. Una città fredda, come tutta la Finlandia d'altronde.
Mi avviai, impaziente, verso il deposito di Justin: ormai, quel posto, lo ritenevo come la mia seconda casa.
«Justin, apri questa cazzo di porta, o giuro sulla testa di Genx che la butto giù!» gridai con tono irato.
Battei con forza i pugni stretti contro il duro legno del portone, aspettando esasperata che Justin si decidesse ad aprire l'ingresso.
«È già aperta Eeva, non l'ho chiusa a chiave» urlò di rimando lui, la voce attutita dall'interno del salotto.
Non si sarebbe alzato per nessun motivo al mondo, lo conoscevo. Tolsi sbrigativamente la maglietta, in modo da poter ricevere le schegge della porta in caso ci fossero state, e senza esitazione, buttai giù la porta. Nessuna scheggia, accidenti.
«È la quarta che fai fuori in questa settimana; vedi di rimetterla a posto» commentò senza guardarmi, esclusivamente interessato allo schermo del televisore. Lanciai la maglietta per terra, e mi appostai davanti a Justin, impedendogli così di continuare a guardare l'inutile programma trasmesso.
L'osservai acutamente, tentando di comunicarli con gli occhi l'ovvio concetto.
Lui continuava a non capire, lo notavo dalla sua fronte aggrottata e il suo sguardo perso. Alzai le braccia al cielo, e mi passai una mano tra i capelli.
Anni, erano anni ormai che passavamo ogni singolo giorno insieme, e ancora se ne dimenticava.
«La tua, la tua insensata fobia per le maniglie, ho capito. Ora, ti levi?» chiese retoricamente, tentando di spostare con una mano una mia gamba; ma io non mi mossi da lì, anzi, spensi l'aggeggio con fare piuttosto burbero.
«Eeva, stavo-»
«Dov'è la mia cioccolata?» domandai scandendo ogni singola parola.
Cioccolato fondente al cento per cento, amaro, cattivo. Il mio cervello lo riconosceva come un ottimo calmante, e per pochi istanti, potevo giurare di dimenticarmi di Justin, del mondo, di Vorjos. Avrebbe mai potuto, il cacao, farmi però scordare di Styles, e del fatto che mi stesse cercando?
Perché, ero convinta che così fosse; nonostante tutto, io ero ancora la sua ossessione, il suo chiodo fisso giorno e notte. Peccato che fossi a digiuno.
«Solito posto» rispose genericamente Justin, azzardando nuovamente a smuovermi dalla mia posizione.
Incurante di ciò che stava facendo, mi fiondai sul divano titubante, sfregando le mani convulsamente. Non avrei detto niente di Harry a Justin, me l'ero ripromessa, ma dovevo sapere, le voci mi stavano deteriorando piano piano. Appoggiai la testa nell'incavo del collo di Justin, cogliendolo di sorpresa ma senza provocare nessuna reazione involontaria da parte sua. Presi la sua mano e la strinsi nella mia; lui non ricambiò.
«Justin?»
«Mmh»
«Sai dirmi qualcosa su un certo Harry Styles e sulle voci che circolano in giro sul suo conto?» postulai imprecisamente, in modo da non fargli dubitare di nulla.
«Come mai t'interessa?» indagò lui, sapendo che non avrei mai dato una risposta sincera.
«Così» scrollai le spalle strafottente.
Justin mi sarebbe stato molto utile per avere le informazioni di cui necessitavo: nessun pettegolezzo poteva essere considerato tale, se prima non aveva raggiunto le piccole orecchie di Justin Trecentocinquantasei.
Allontanò la mano bruscamente e si voltò completamente verso di me, costringendomi a spostare la mia testa da quella comoda posizione. Mi squadrò nuovamente da capo a piedi esitante, ma poi cominciò parlare.
«Lasciati dire che se non conosci Styles, la tua mente dev'essere proprio ritardata.
Il suo vero nome è Harold, ma so che a lui non piace essere chiamato in quel modo, perciò tutti lo conosciamo con il nome di Harry. Ha la nostra età, è nato nel sessantesimo anno di Vorjos; è stato il primo ragazzo che non ha ancora compiuto i diciotto, a venire eletto per far parte delle Scelte. Dicono che sia totalmente differente da tutti noi, un tipo speciale e sveglio. Non si conosce bene la causa di questa decisione, nessuno la sa, a quanto pare; sulla sua vita non so nient'altro, ma, come hai detto prima, girano delle voci alquanto ambigue sul suo conto. Dicono che il suo Mark Vivit abbia smesso di funzionare, non contando più i giorni, e sappiamo entrambi quanto questa diceria che corre sia parecchio discutibile: tutti siamo a conoscenza della perfezione di questi congegni.
Più confutabile ancora, è la storia del suo lungo periodo d'astinenza da Omnia, alla quale è ancora soggetto. Dicono che abbia conosciuto un dolore troppo intenso da farlo rimanere in vita per sempre. Capisci? L'eternità! Stronzate, una peggio dell'altra» esclamò irruentemente, stupefatto dalle sue precedenti affermazioni.
Per tutto quel tempo non avevo fatto altro che perdermi nelle sue parole, e, anche se facevo fatica ad ammetterlo, nei tratti somatici del viso; era come se non riuscissi a controllare la traiettoria del mio sguardo, costantemente allineata al suo viso.
Scossi debolmente la testa, scacciando via i miei inutili pensieri. Sapevo benissimo che le chiacchiere non si fermavano a lì.
«C'è dell'altro, giusto?» chiesi con fare incerto, volgendo lo sguardo in qualsiasi direzione che non fosse il viso di Justin. Si alzò dal divano, per liberarsi della stessa canottiera che indossava quello stesso pomeriggio a scuola; dopodiché, si riaccomodò nel divano, sdraiato con le gambe distese e la testa appoggiata sul mio ventre. Non trattenni l'istinto di accarezzargli i capelli, ma a lui, come sempre, parve un gesto indifferente e dettato dal caso.
«Beh, si, un paio, probabilmente collegate.
Si chiacchiera della sua irrefrenabile voglia di scappare dalle Scelte, alla disperata ricerca di una persona. Non si sa come, né quando, né dove e nemmeno il perché. Seriamente, non vorrei essere al suo posto, e se tutte queste voci fossero, non so in quale modo, vere, l'unica soluzione è farsi fuori qualche chilo di Nihilo» commentò acido Justin, agitando la sua testa sulla mia pancia piatta.
Non aveva detto nulla che io non conoscessi già, dopo la corta conversazione avuta con Viktoria, ma la piccola chiacchierata avuta con Justin aveva decisamente calmato i miei bollenti spiriti.
«Eeva, sei a digiuno? Il tuo stomaco si sta lamentando» domandò duro, non muovendosi minimamente dalla sua posizione.
«Si. Ho picchiato un certo Liam Ventisette, il moro del terzo anno dell'altro giorno. Gli ho dato dodici giorni, e visto che ho superato il mio record, ho pensato che digiunare mi avrebbe fatto recuperare qualche ora, o, nei migliori dei casi, qualche giorno» spiegai in uno sbuffo, portando la testa all'indietro.
«Sai che non funziona» mi accigliò lui con la coda dell'occhio, portandosi una mano dietro la nuca.
«Mi mancano trenta giorni Justin, che cos'ho da perdere?» sospirai, rassegnata alla consapevolezza che anche a me questa cosa preoccupava, sebbene io non volessi acconsentire a farne un dilemma.
«Me» rispose alla mia retorica domanda, in uno sbadiglio piuttosto sonoro.

***


Justin aveva maledettamente ragione: digiunare non sarebbe servito a niente; perciò mi misi ai fornelli, pronta a cucinare una cena a base di coniglio al forno, fresco perché acchiappato la notte scorsa dalla sottoscritta, nella foresta.
Justin stava dormendo nel suo letto, evidentemente stanco, e non l'avrei svegliato prima di cena.
Se solo non fosse stato per le mie strazianti grida di dolore.
Sentii il freddo tocco di una lama pungente fare più pressione nel mio corpo, fino a causarne la fuoriuscita del mio sporco sangue. Il coltello invisibile si muoveva sul mio ventre seguendo linee precise, molto somiglianti a delle lettere.
Tentai varie volte di mordermi convulsamente il labbro, in modo da reprimere il mio inarrestabile istinto di gridare, urlare dei gemiti di dolore. Stavo impazzendo, e la testa mi stava, letteralmente, per scoppiare. Inveii impetuosamente contro l'unica persona che avrebbe potuto farmi una cosa del genere, sebbene sapessi che non potesse sentirmi. La tortura si stava facendo più intensa: ad ogni lettera che incideva, la pressione della lama aumentava, e le mie urla si facevano più assordanti.
Tempo fa riuscivo a sopportare quel dolore, ma era passato troppo tempo ormai.
Mi lasciai cadere rovinosamente a terra, lasciandomi avvolgermi dalla pozza del mio stesso sangue.
«Che cazzo succede, qui?!» la voce di Justin mi giungeva attenuata e molto bassa.
Passarono cinque minuti prima che il dolore cominciasse a sparire; me l'avrebbe pagata quel disgraziato. Justin era appoggiato allo stipite della porta, calzante di un espressione estremamente annoiata sul volto.
«Justin, ho bisogno di cotone» soffiai con un filo di voce.
Ero stremata, stanca ed assai dolorante.
«Sono sopra il frigorifero, vattelo a prendere. Ora ritorno a dormire, e ti pregherei di non svegliarmi, intesi?» impose con tono freddo e distaccato, indicando con un dito il piano superiore del frigo.
Fece per andarsene, ma lo richiamai immediatamente.
«Ho la vista appannata, non vedo quello che c'è scritto. Puoi dirmelo?»
«C'è scritto 'Soon. At the pier
Genx, Styles, che tu sia dannato, e che possa la sorte scegliere per te il peggiore dei suicidi.



MEGA MEGA CRIBIO (sto aggiornando alle quattro e dieci del mattino, figo)
Questo 'Mega Cribio' è doppiamente mega. Che nome del cazzo, oh.
E con quel 'SOON' non voglio sfottere mon amour Bieber, no no. #nontuttecapiranno.
Dovevo partire ieri (lo so vé che non vedevate l'ora che me ne andassi), ma la mia partenza è stata posticipata a questo venerdì.
Starò via un mese, putroccola in calore (?). Vi giuro che elemoniserò da qualche parte una rete wi-fi, proverò.
Spero che con questo capitolo io non abbia deluso le vostre aspettative. Non voglio correre, ma non voglio nemmeno annoiarvi.
Forse pensavate che ci sarebbe stato un incontro tete à tete tra Styles ed Eeva? Non lo so, ditemi cosa vi aspettavate, e cosa vi aspettate nel prossimo capitolo.
Nella prima parte ho dato molto spazio ad alcune spiegazioni, si si. Amatemi, ma tanto tanto.
Sinceramente non ho una cazzo di idea per il prossimo capitolo. O meglio, si, ma deve ancora nascere (?).
Quindi, che ne dite di dire qualcosa nelle recensioni che possa darmi un minimo di d'ispirazione? Sparate minchiate, qualsiasi cosa. 
Anche quelle spesso mi danno ispirazione.
Prometto che da metà Settembre ricomincerò alla grande. Ho una One Shot particolare in mente, e voglio iniziare una storia comica barra demenziale sui ragazzi.
Grazie mille per tutte le vostre bellissime recensioni. Tipo che le rileggo tutte una ventina di volte prima di rispondervi.
Al prossimo aggiornamento, che spero sia al più presto.

Ps. Ditemi se vi piace la piega che sta prendendo questa storia. E' davvero importante per me.
Pps. Banner fatto da me. Più che banner è una foto con gli occhi modificati. Una mieeerda.
Un bacio a tutte voi, Sara.

 

 
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Capitolo 6
*** Sixth. ***


 
Sixth.
Chiedo umilmente perdono.
Ps. Fate finta che gli occhi di Lucy siano blu.
 
Da quando Louis gli aveva consegnato quell'inutile pezzo di carta sull'uscio della porta, che Justin aveva strappato con violenza dalle sue mani, il ragazzo si
era segregato nella sua camera, vietandomi tassativamente di superarne i confini per qualsiasi motivo. Ignorando i suoi divieti, dopo neanche mezz'ora, feci capolino nella stanza, ricevendo un'eloquente occhiataccia da parte sua, ma nessun richiamo.
L'osservai attentamente per qualche minuto, tentando d'intuire di cosa trattasse l'oggetto che riusciva a catturare un simile interesse da parte sua: Justin, seduto a gambe incrociate con il bacino sbilanciato in avanti, teneva nella mano destra una vecchia matita, parecchio consumata, e nell'altra, la sinistra, un fascicolo di misure ridotte, prima imbustate in una capiente lettera, appoggiato su una coscia; un'espressione cupa ed austera ad accompagnare la sua scomoda posizione. Qualche volta, in contemporanea con il movimento della sua fronte aggrottata, lasciava dei rapidi segni sul foglio, per poi continuare ad ispezionarlo con cura.
Da lì a poco, riuscii a capire quel che conteneva lo scritto: i nuovi cognomi. 

La selezione doveva essere effettuata prima del compimento dei diciotto anni, nessuna proroga permessa, questa era la regola. La maggior parte della popolazione globaleprendeva la questione troppo sul serio, richiedendo l'elenco già dall'età di quindici, sedici anni; altri invece, esattamente come la sottoscritta, non davano nessuna importanza a questo tipo di decisioni, perciò, si recavano alla più vicina ambasciata di Vorjos per riferir loro di voler provvedere a ciò, solo quando sarebbe giunta l'ultima settimana a disposizione, prima della scadenza definitiva; inutile dire quanto poche fossero queste persone.
E la domanda mi sorse spontanea: perché era di così gran peso? Era una cosa talmente banale, non ero in grado di rispondermi diversamente.
Raggiunta la maggiore età, la gente cominciava a giudicarti in base alla tua denominazione, senza nemmeno conoscerti; a Vorjos, il cognome, rispecchiava la 'personalità' di una persona, ed esso poteva garantirti, fin da subito, l'ambito posto nei Seguaci. Troppo spesso capitava che tutto quello sforzo venisse vanificato da un meschino “no”, e nulla, per mesi, o forse anni, era in grado di tormentarti più di quell'affermazione.
«Sono in ritardo, non è vero? Non pensavo che la lista fosse così lunga, e piena di parole impronunciabili» chiese titubante Justin, rispondendo ai miei pensieri. Alzai gli occhi al cielo, manifestando la mia seccatura, e trattenni il sano desiderio di staccargli la testa a morsi.
«Secondo i canoni vorjosiani, dovresti essere seduta stante deportato in Groenlandia per il tuo estremo ritardo, per quello che ne so io» commentai acida, sapendo benissimo quanto fossero vere quelle parole.
Aspettare fino ai diciassette anni e mezzo, era l'equivalente di sfidare la sorte, e vivere in Groenlandia, dove la presenza di Omnia era una rarità, rappresentava una sfida troppo rischiosa.
«Supposizione che risale a circa cinquant'anni fa, vecchia. Siamo in un'altra era adesso, se non te ne fossi accorta»
Levò dalla sua gamba il fascicoletto di fogli, e si mise in una posizione più comoda, stiracchiandosi e sbadigliando in sincrono. Sembrò aver perso subito interesse per quello che stava facendo, probabilmente si era stancato.
«Allora, ci vai domani? Insomma, hai scelto?»
Justin riprese in mano il suddetto catalogo, adocchiando di qua e là tra la raccolta di fogli, fino a quando non si fermò su una pagina precisa, una delle ultime per la precisione.
«A quanto scritto nelle pagine iniziali, ho tempo fino alla settimana prossima. Comunque, ho scartato tutta la parte relativa alle lettere finali, dalla 'R' in poi; le statistiche non le considerano molto, e così ho potuto anche ristringere il campo»
Alzò le spalle, e si rimise a riflettere sulle sue stesse parole; sbuffai sonoramente.
«La versione breve Justin, la versione breve» esclamai irritata, volendo di certo evitare tutta la sua noiosa spiegazione per solo una stupida risposta. 
Non avevo tutto quel tempo, non più.
«Si, certo. In realtà l'ho già cominciato a guardare qualche giorno fa, ma poi ho chiesto a Louis di portarmelo direttamente a casa. Per farla breve, si, beh, ho selezionato 'Bieber', mi è sembrato il cognome più giusto, il migliore per me, non credi?»
«Sai, che sia giusto o meno, non me ne può fregare proprio un cazzo. Il problema principale qui è: uno solo Justin, ne hai scelto solo uno?»
Chiunque avesse cominciato a frequentare la scuola dal primo anno di vita, ovvero la stragrande maggioranza delle persone, doveva assolutamente conoscere la leggenda di Tredici, lo spiantato sfigato americano.
Vladimir Tredici, nato nella seconda metà del dodicesimo anno di Vorjos, era propriamente conosciuto per la sua snervante paura per qualunque cosa lo circondasse, astratta o concreta che fosse; la colpa, ovviamente, non apparteneva a quel poveraccio, ma a quel pazzo di Belfagor che non riusciva a farne nemmeno una giusta. Vlad non poteva fare altro che convivere con questo minuscolo difetto, e così agì, impedendosi di uscire di casa se non per andare a scuola, o per cercare qualche Omnia con unico scopo di sopravvivere. 
Vladimir voleva che il tempo scorresse più velocemente, isolato, nella sua casa, ma aveva paura, paura della morte, e di quello che ci sarebbe stato dopo. 
Complice la struggente sensazione di noia che provava in continuazione, decise di ritirare l'elenco a l'età di soli tredici anni, all'insaputa di tutti i suoi coetanei, i quali non lo vedevano più in giro da fin troppo tempo per farci veramente caso. Dopo anni di torture, inspiegabilmente, il ragazzo, a parer mio affetto da un più che grave disagio mentale ricevuto gratuitamente dagli avanzi della testa di Belfagor, decise per Bruto.
Si sarebbe chiamato Vladimir Bruto.
Nulla di più aggressivo, virile: era ciò che i Seguaci e Vladimir cercavano; ma non era adatto, non rifletteva per niente la realtà dei fatti. 
E presto, Montrés Seicentocinquantasette lo venne a scoprire, direttamente dalla Francia, convinto più che mai che quel cognome appartenesse a lui più di qualunque altra creatura su Vorjos. D'altronde, come non poter dargli ragione? Montrés rappresentava l'esatto contrario di tutto quello che poteva costituire l'esile figura di Vlad.
Qualche giorno prima degli inizi del Cognomen, fece irruzioni in territori americani, precisamente alle Isole Baranof, in Alaska, dove viveva la vittima. 
Il francese lo minacciò, digrignando i denti ed iniettando Nihilo attraverso gli occhi; questo sembrò terrorizzare abbastanza il ragazzo, ma Montrés non riuscì a limitarsi. Lo trasportò di peso fino ad una vicina foresta, e lo lasciò lì, insieme alle sue paure, che in men che non si dica, lo uccisero. C'è chi pensava fosse a causa di un orso che si aggirava nei paraggi, altri che la consideravano solo come una leggenda per spaventare le nuove creature. Ciononostante, l'intento era quello di dimostrare che, in tempi di Cognomen, non avevi più a che fare con delle persone, ma delle vere e proprie belve, e la scelta di dieci, quindici possibilità in aggiunta alla tua prima scelta, era quella che doveva sembrare la più conveniente.
«Non esistono quel tipo di persone ad Helsinki, ho le probabilità massime di potermi un giorno chiamare Justin Bieber»
«È qui che ti sbagli, sfigato, le voci corrono: magari, proprio ora mentre ne stiamo parlando, in Bulgaria è già giunta la notizia della tua decisione, e-»
«Fai a meno di continuare, non credo alla leggenda di Tredici, per me sono tutte cazzate. Perciò, risparmia la scenata, e limitati a rispondermi se sei d'accordo, o no» m'interruppe duro, facendo apparire immediatamente in volto, un espressione seria, completamente differente dal tono di voce insicuro usato poco prima. Mi liberai dalle braccia conserte, e puntai l'indice contro il suo volto, a pochi metri di distanza, mostrando a mia volta, una lieve aria adirata.
«Io ci credo Justin, ci credo sul serio, e sappi che il giorno in cui tu ti metterai in fila dietro ad una coda di un migliaio di persone, io sarò lì, ad impedire a chiunque di sfiorarti con un solo dito» sputai il primo pensiero che mi passò per la mente, dando sfogo al mio istinto di alzare di qualche ottava il mio tono di voce, sottolineando con maggior forza quello cui ero intenzionata a fare a tutti i costi.
Prese un lungo sospiro, e parlò; in quel momento, più di altri, desiderai di perdere l'udito per qualche istante.
«Sono anni che avrei dovuto farlo, ma qualcosa riusciva sempre a convincermi del fatto che, in qualche modo, in un futuro più distante mi saresti stata utile; ora che stai per morire, non ho più bisogno di te. Fuori di casa, Eeva, senza storie»
Intenzionalmente, fu tutto troppo in fretta.
Nessuna opposizione da parte mia, nessuna lamentela, nessuna parola sprecata. 
Mi sottomisi al suo volere e, in quel momento, mi sentii un vero schifo.



MEGA CRIBIO. (I love Justin Timberlake)
Sono quasi due mesi che non aggiorno, e mi sento una vera merda.
Fucilatemi, fate ciò che volete di me. Ho dovuto subire dieci parti consecutivi per sfornare questo capitolo, voi non potete immaginare.
La versione precedente era completamente, ma coooompletamente diversa. Spero che vi soddisfi, ma non ne sono proprio sicura.
D'altro canto, ho voluto centrare questo capitolo su un argomento importante, ovvero i Cognomen. Giusto per farvi conoscere di più Vorjos.
Ve lo sareste mai aspettato? Comunque, può sembrare che io abbia lasciato in sospeso il discorso di Harry, ma non è così.
Tenete a mente la leggenda di Vladimir Tredici, è molto importante. A quanto si vocifera nella mia testa, il prossimo capitolo sarà molto importante.
Spero solo che questo vi sia piaciuto.
Vi chiedo ancora scusa.
Ce se vede! (:

Sara.
Ringrazio, come sempre, CassandraAinsworth.
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Capitolo 7
*** Seventh. ***


Seventh.
The next day, you're so cold.

Camminavo da quelle che parevano ore ormai, verso una meta indefinita che nella mia fervida immaginazione era pronta ad attendermi, ad aspettare me; ma, quant'era vero che Vorjos rappresentava tutto ciò che di più pessimistico e reale potesse esistere, la mia mente non smetteva di ruotare sui soliti insopportabili pensieri, con il risultato di mettermi alla dura prova dinanzi ad un'ansia mai conosciuta prima d'allora.
Odiavo ammetterlo, ma faceva male, molto male.
E se quella maledetta destinazione avesse cominciato a essermi ostile, in quale altro posto sarei potuta scappare? Io non ero come Mariska, non sarei mai stata in grado di abbandonarmi al Grigio, al nuovo più assoluto, non in quel momento di totale depressione e smarrimento. Justin era tutto per me, tutto ciò che riguardava la mia più totale monotonia da ben quattro anni, senza la quale non sarei riuscita mai più a controllarmi. La ripetitività, l'uniformità in una vita di una creatura di Vorjos delineava il miglior modo per innalzare intorno a se stessi un fortificato controllo di sé, che a sua volta, garantiva maggiori probabilità di sopravvivenza; e Justin era riuscito a distruggere quella specie di barriera in soli pochi secondi.
Un tremole soffio di vento era stato in grado di radere al suolo ciò che simboleggiava per me, il muro più duro e resistente che fosse mai stato eretto nella storia di Vorjos; mi sopravvalutavo fin troppo, era l'unica spiegazione. Se pensavo che il peggio non fosse ancora arrivato, mi sbagliavo di grosso: quell'esile folata di vento, col passare dei minuti e la consapevolezza di essere stata veramente buttata fuori di casa da lui, aveva dato origine ad un impetuoso uragano in piena tempesta, un putiferio all'interno della mia testa.
E le ripercussioni che quel tifone ebbero su di me, si fecero sentire fin da subito, come a non voler attendere un istante di più.

I miei piedi seguivano un illusorio sentiero ciottoloso, illuminato solamente dalla fievole luce di una piccola torcia che tenevo saldamente nella mia mano destra, tenuta così stretta per la paura di perdere l'unica cosa di cui ero certa in quel momento. Mi strinsi maggiormente nella mia felpa, sfregando l'unica mano libera contro la mia spalla destra, cercando di riscaldarmi appena in un tentativo palesemente vano, scoraggiata più di quanto non fossi già dalle temperature notturne sotto zero di quella stupida città.
Chi mi costringeva a rimanere ad Helsinki, d'altronde? Non mi sarei fatta alcun problema a passare illegalmente il confine della Finlandia, avrei sotterrato qualsiasi plausibile traccia che potesse avere la mia orma sopra. Scossi la testa, interrompendo immediatamente i miei pensieri sulla fuga: ero fin troppo stanca e depressa anche per poter fare una cosa come pensare.
In perfetta sincronia con ogni mio passo, sentivo un microscopico pezzo di me sbriciolarsi, sgretolarsi, fino a diventare una dannosa polvere sottile dispersa nell'aria satura; da un momento all'altro anche le mie gambe avrebbero ceduto per il troppo peso che si portavano addosso. Non curante della superficie ruvida del terreno umido, mi lasciai cadere rovinosamente all'indietro, ed attutii la caduta con le braccia completamente rilassate, impedendo così gravi danni alla mia colonna vertebrale e scatola cranica; ristabilito un minimo d'equilibrio, mi posizionai a gambe incrociate, e le braccia conserte. Recuperai la torcia poco distante dalla mia postazione, e la puntai davanti a me; tre volte controllai che le mie braccia non si fossero letteralmente staccate, tre volte mossi le gambe per accertarmi che non avessero definitivamente perso la loro sensibilità. Più volte tastai con le dita ogni singola parte del mio corpo, socchiudendo flemmaticamente gli occhi, vinta da un'estenuante sensazione colma di disorientamento.

«Eeva Duecentoventidue, l'unica ed inimitabile.»
Un insolito odore attraversò impercettibilmente le mie narici, associandolo in pochi secondi al dominio di una sola persona. Tirai un duraturo sospiro per poter avere la certezza che quella non fosse solo un allucinazione dovuta ad un esaurimento nervoso; ma quella persisteva nell'aria, l'essenza di Louis Tomlinson non si decideva ad andarsene, lontano dalla mia bolla.
«Louis.»
Esalai quel nome in un debole sussurro, quasi sicura che non avesse sentito un solo suono provenire dalla mia bocca, nemmeno un sospiro. Non mi voltai, non mi mossi di un solo millimetro dal posto in cui ormai avevo messo le radici, come tutti gli alberi che mi circondavano.
«Opzione numero uno: stai cercando il modo e la location migliore per ingoiare qualche grammo di Nihilo disciolto nell'acqua piovana della pioggia che presto cadrà. Non metterei la mano nella morsa di un orso* per questa possibilità però, non fai parte della categoria delle persone più sofisticate e pazienti che io conosca, niente affatto.»
L'assurdo silenzio che caratterizzava quella radura mi permetteva di percepire ogni singolo passo compiuto da Louis, soprattutto perchè questi continuava ad avvicinarsi a me. Il suo profumo aleggiava più intenso nell'aria, mescolandosi quasi completamente con essa; perché Louis sapeva di foschia d'inverno, d'acqua di un torrente ghiacciato, di legna bagnata dalla neve sciolta, miscelati tutti in un unico elemento che portava da sempre il suo nome.
«In alternativa a questa, abbiamo l'opzione numero due: stai aspettando che qualcuno lo faccia al tuo posto, e hai voluto avvantaggiarti sulla scelta del posto. In questo caso, sappi che io sono alquanto disponibile, dove e quando vuoi; inoltre, se quest'offerta non ti dovesse bastare, sappi che ho un'invidiabile esperienza.»
La sua voce divenne più bassa, forse per la vicinanza che in qualche istante aveva acquistato con estrema facilità, forse per un suo abituale modo di fare.
Si abbassò alla mia altezza, seduto sulle ginocchia, incastrò la testa nell'incavo del mio collo, reggendosi precariamente con le mani appoggiate su entrambe le mie cosce rilassate.
«Opzione numero tre, ed ultima: il 'nuovo' Bieber ti ha tolto un tetto sotto cui vivere, ed ora non sai dove andare. Non è forse questo il motivo per il quale ti trovi sperduta in una foresta, alle due di notte? Non è forse questo che ti deprime, Eeva?»
Il 'nuovo' Bieber. Le voci giravano più velocemente di quanto in realtà credessi.
Voltai fulminea lo sguardo verso di lui, che di conseguenza alzò il suo, permettendomi d'incontrare un paio d'iridi dal chiaro colore indistinguibile al buio, troppo diversi da quelli di Justin
«Tu, come fai a saperlo?»
«Per la cronaca, sono un postino, è mio dovere ficcanasare negli affari degli altri; per di più, la colpa non è mia se quel cretino di un Justin ha una grafia così grande: non ho impedito di farlo sapere anche alla maggior parte del
popolo di Helsinki, sai, non mi è sembrato giusto.»
«Louis, non, non respiro!»
La sua presenza stava cominciando a diventare quasi opprimente, un vero danno al mio apparato respiratorio; tossii convulsamente quando lui tentò di cercar maggior contatto, circondandomi completamente con il suo corpo, e dunque, il suo maledetto profumo. Battei con forza le mani al petto, ricercando disperatamente dell'aria pura da inalare, e mettere fine alla tortura.
«Lo so Eeva, lo so.»
Non ero nelle condizioni migliori per allontanarlo, e neppure per fermare la sua mano mentre si addentrava sotto la felpa, l'unico indumento che in quel momento mi teneva caldo a stento; con le dita fredde, delineò ogni singolo taglio presente sul ventre, pressando spesso più del dovuto in alcuni punti come dal voler sentirne la profondità. Permisi alla mia maschera impassibile di cadere, lasciando spazio a diverse smorfie di dolore provocate dal suo tocco dalla scarsa raffinatezza. Pregai silenziosamente che non avessero ricominciato a sanguinare, che quel dilaniante dolore non avesse intenzione di aggiungersi a tutto ciò che già stavo provando. 
«Qualunque cosa tu abbia fatto, non pensavo ti abbassassi a questo livello.»
«Cosa non si fa più per un paio d'ore, Tomly?» chiesi retoricamente, mentendo freddamente sulla verità dei fatti. Nessuno a parte me e lui doveva venire a conoscenza di quell'inutile mezzo comunicante, in disuso dall'anno in cui se ne andò.
«Non mi riferivo a quelli squarci di terza categoria. È ben risaputo che i tagli non fanno parte del menu a base di sopravvivenza: in poche parole, ne ricavi solo un accidente. Nonostante questo, il tuo Mark Vivit segna dodici giorni in più!» esclamò con voce acuta, gesticolando in maniera agitata le braccia all'aria. Balzai velocemente in piedi, posizionandomi a quasi mezzo di distanza, di fronte a lui.
«Che cosa stai dicendo Louis?»
«Se non mi credi, controlla.»
Smossi i capelli a lato, e trascinai dal collo il Mark Vivit, collocandolo in una parte del corpo che mi consentisse di poter realmente negare le parole del ragazzo. Il display luminescente indicava quarantuno giorni, ed un aggiornamento dell'avvisaglia risalente a qualche ora prima; sbattei le palpebre una decina di volte, incredula.
«Le voci che girano su di te allora sono vere? Ottimo candidato per un'ottima OmniaE.»
Sebbene fosse una fatto di cui ero già a conoscenza, le parole pronunciate da Louis avevano un aspro aroma. La mia esportazione in Giudizio, dopo la fine dei giorni, sarebbe valsa più di qualsiasi altro aspirante, molto più di Harry e i componenti delle Scelte messi insieme.
«A volte è meglio non dar conto alle storie che girano, spesso sono messe in circola da persone annoiate persino dalla loro presenza. Dubito che tu possa capire, è duro ricevere una simile verità sbattuta in faccia.»
Louis Tomlinson girò i tacchi frettolosamente, il suo olezzo invernale a colmare ancora l'atmosfera.

***
 
Non avevo la benché minima intenzione di oltrepassare la porta di legno della classe di Storia, pertanto decisi istantaneamente di rifugiarmi per qualche ora nell'ufficio di Viktoria, disponibile per la sua assenza. Le mie gambe indolenzite si muovevano, pesanti, con evidente difficoltà: erano trascorse tre notti dall'argomento 'Justin', erano trascorse tre notti nelle quali avevo dormito su un'apparente roccia comoda. Superai l'ingresso della presidenza a passi lenti, notando in primo piano la figura minuta di Viktoria intenta a leggere un quotidiano in estrema tranquillità. In un primo momento, pensai bene di svignarmela ed evitare inconvenevoli, ma prima che potessi pensare ad un piano di fuga improvvisato, il suo sguardo si rivolse nella mia direzione.
«Viki, pensavo fossi... Hai visto la mia forbice? Sono certa di averla dimenticata da queste parti.»
«Stavo proprio per venire a cercarti, Eeva.» enunciò seria, alzando vertiginosamente un sopracciglio. Non seppi spiegarmi il perché, ma la sua espressione presagiva solo cattive notizie, ed avrei fatto qualsiasi cosa per evitar simili situazioni. Iniziai ad esplorare nervosamente con lo sguardo la stanza, fingendo una frenetica ricerca.
«Sei sicura di non averla vista da nessuna parte? È rossa, e porta l'iniziale 'E' scritta in oro, difficile da non notare.»
«Ho or ora letto proprio ora un articolo che potrebbe interessarti particolarmente.»
Mi avviai verso la sua scrivania, spostando bruscamente, e volutamente, gli oggetti di sua appartenenza.
«Non.. trovo.. la.. mia.. forbice.» scandii ciascuna parola con asprezza, mettendo in chiaro lo scenario che si doveva presentare.
«Ti chiedo di leggere solo questo, solo questo Eeva; l'ho trovato nel quotidiano di ieri.»
Le strappai di mano il pezzo di giornale che mi porse, digrignando i denti.

'Harry Styles, finora l'ultimo membro selezionato per far parte delle Scelte, la scorsa notte è riuscito a scappare dalla sede ufficiale del concilio, a Stoccolma, capitale della Svezia: da giorni, decine di guardie, hanno tenuto sott'occhio il giovane ragazzo, ma questo non sembra averlo intimorito. Sconosciuto ancora il motivo concreto della sua fuga, ed anche la sua direzione. Maggiori informazioni alla pagina sedici.'

«E comunque no, non ho visto nessuna forbice nello studio.»

*Gli orsi, su Vorjos, sono creature un po' speciali, in grado di 'assorbire' i giorni di una persona.


MEGA CRIBIO.
Mi sto pentendo di aver dato questo nome al mio saluto, ahah. Comunque, perdonatemi per il mio ritardo.
Ho aggiornato oggi perché questa settimana sono sommersa dagli impegni, ed in teoria, anche oggi.
Spiego un po' di cose: il capitolo non è proprio così scoppiettante come avevo previsto in precedenza, ma non è da buttar via, ecco.
Ho presentato, anche se solo superficialmente, la figura di Louis. E niente incontro con Harry, ahah.
Quella della sua fuga era solo una voce, diventata in questo capitolo realtà.
Vi ringrazio per le recensioni, e tutte le persone che hanno messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
Spero che questo capitolo non deluda le vostre aspettative, ed anzi, vi invogli maggiormente a leggere la storia.
Ultima cosa: sto amando follemente una storia, e vorrei che anche voi la leggeste. (:

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Capitolo 8
*** Eighth. ***


A Sofia, il mio paradiso sulla Terra.

 

Eighth.

People come and go.

 

Le sputai in faccia con asprezza, urlandole contro che non avevo bisogno della sua stupida forbice, e che se, casomai ne avesse trovata una simile, avrebbe fatto meglio ad usarla per tagliarsi la lingua.
Battei forte i palmi sul tavolo, rivolgendole uno sguardo di rimprovero; l'intenzione era quella di fare una scenata, ed andarmene con la quiete dei frastuoni in sottofondo.
Fu la stessa quiete ad immobilizzarmi.

Se il silenzio avesse potuto esprimersi nella forma più comune da me conosciuta, avrebbe gridato il mio nome e numero di riconoscimento per ore o giorni, con straziante furore e malinconia; era come se l'invisibile eco di quell'impercettibile suono si fosse imprigionato nei meandri della mia complicata mente, e stesse facendo una fatica immensa per provare ad uscirne a causa degli innumerevoli pensieri che non facevano altro che investirlo, interrompere i suoi piani di fuga, e calpestare i suoi stessi passi con pratica indifferenza.
Non si mostrava davanti a me per quel che in realtà volevo che fosse, ovvero una lieve nota ascoltabile e non particolarmente fastidiosa, ma anzi; il forte fischio che mi giunse alle orecchie senza preavviso stava cominciando ad intensificarsi sempre di più, causando lo sgorgare ininterrotto di sangue dal lobo sinistro. Il messaggio era palese, vivido nel riflesso del mio viso contratto sull'enorme specchio d'epoca appeso alla parete dinanzi a me; avrei dovuto imparare la lezione una volta per tutte: mai oltraggiare il silenzio senza un esplicito invito.
L'avevo fatto, di nuovo.
L'incontro improvvisato con Louis Tomlinson di qualche notte fa, giudicato dalla mia mente solo come un modo sprezzante per infierire maggiormente al mio instabile umore, non poteva definirsi solo un caso, nonostante il ragazzo fosse abbastanza conosciuto per la sua eccellente capacità nel mettere sempre il coltello nella piaga; senza esserne consapevole, in quella situazione, avevo cercato di allontanare dalla mia sfera uditiva il maggior numero di rumori possibili, e di conseguenza, avevo tentato di di non toccare terra con i piedi. Se scappare e prendere il largo non faceva assolutamente parte della mia lista di 'cose da fare', fuggire dalla realtà, anche solo per pochi istanti, mi sembrava l'unica soluzione.
Evidentemente, qualcuno voleva farmi cambiare idea a tutti i costi.

Trattenendo il piccolo pezzo di carta nel pugno della mano destra senza motivo, la sinistra non esitò ad appoggiarsi sull'orecchio ferito, noncurante di sporcarsi. Sentii la parte lesa della mia testa intorpidirsi per via della quantità eccessiva di sangue in circolazione; un brivido violento attraversò tutto il corpo, facendomi cadere pesantemente sul pavimento di schiena. Schiantata contro terra, liberai dalla gabbia toracica il bisogno irrefrenabile di urlare a pieni polmoni, lasciando echeggiare il grido assordante in tutta la stanza e forse oltre. Tentai di divincolarmi a scatti dal nulla, dando pugni e calci nell'aria in tutte le direzioni, aumentando progressivamente il dolore, sempre se tale si poteva definire. Persi il pieno controllo della ragione quando mi sentii in dovere di definire meglio quella sensazione, quando la lama affilata ritornò ad incidere un messaggio sul mio ventre, sui tagli resi nuovamente freschi. Sottoposi le mie corde vocali ad uno spreco abnorme d'energia e fatica gridando, tra gli spasmi, suoni simili a pezzi di parole, incomprensibili, e per qualche istante ebbi quasi la certezza che anche la gola stesse iniziando a versar sangue.
Non lo sapevo.
Inarcai ripetutamente la schiena, alternando i movimenti incontrollati delle gambe e delle braccia a degli strepitii forsennati. Strinsi le spalle, percependo nell'incavo del collo il liquido gelido e scarlatto che circondava la mia figura stesa sul suolo; ne potevo odorare l'essenza vuota ed inappagabile, tipica del sangue freddo che scorre nelle vene di tutte le creature vorjosiane. Ancora una volta, la vista si appannò per le lacrime che, senza volerlo davvero, si erano aggiunte alla pozza sottostante il mio corpo; ignorai l'irruento pulsare dell'orecchio sinistro, provando invece a sedermi in qualche modo. I capelli appesantiti e gocciolanti, gli occhi socchiusi, la striscia di sangue che fuoriusciva dalle labbra screpolate, le spalle bagnate, i pugni serrati, l'insensibilità temporanea degli arti inferiori. Il busto barcollò avanti e indietro un paio di volte, prima di trovare l'equilibrio necessario per non cascare all'indietro.
«Hai finito?»
Alzai lentamente il viso in direzione della voce, ovattata per qualche strano motivo che non avevo intenzione di indagare.
Non era il momento.
Viktoria, lo sguardo insensibile e privo di emozioni, aveva assistito all'intera scena senza proferir parola come da copione, abituata a simili imprevisti nel suo studio da parte mia e di altri studenti, ma soprattutto mia. Soffrire era un pane quotidiano che qualunque essere era costretto ad ingerire, anche quando l'individuo preso di mira in questione ne era più che sazio. Tutti sapevano questo.
Il ronzio nell'orecchio persisteva ancora, ed ancora. D'un tratto si bloccò.
«Vi... Vicki.» biascicai in tono smorzato.
Tirai la testa indietro, esprimendo un lamento agonizzato con la poca voce che mi rimaneva in gola. Strofinai gli occhi e il naso con la stoffa asciutta della manica della felpa, e ritentai di dire qualcosa. Non avrei voluto continuare ancora per molto a trascinare i termini con forza, perseguitando le parole perse di vista.
«Portami Sigmund, Vick.»
«Dovrei? Sai, in questo momento non-»
«Fallo e basta.»
Evitai di sbraitare, questa volta. Perso l'udito di un orecchio, non avrei corso il rischio di mettere a repentaglio anche la funzionalità dell'altro.
Il silenzio aveva avuto la sua vendetta.

**

Sigmund Freud era come chiunque altro finlandese, freddo di fatto e di natura, niente di così speciale da caratterizzare o rendere differente la sua impronta psicologica. Era un dettaglio nel suo aspetto fisico, invece, a cogliere di spiacevole sorpresa tutti quelli che lo incontravano. I lisci capelli biondi, folti e costantemente spettinati; le sopracciglia altrettanto bionde e sottili; le lentiggini chiare, cosparse per tutto il viso e forse tutto il corpo; il piccolo naso; gli zigomi alti e scolpiti; le guance asciutte e le labbra pallide ed esili; fin qui, era tutto nella norma. Sid, a causa di un ennesimo errore di Belfagor, era stato creato con gli occhi color grigio chiaro, così trasparenti da potersi facilmente confondere nella retina dell'occhio, se non fosse stato per la spessa linea blu notte a contornare la pupilla. Inoltre, Sigmund Freud, quindici anni passati dal suo diciottesimo, non aveva ombra. Non riuscivo a comprendere l'importanza di avere di continuo, a seguito di ogni tuo passo, un sagoma oscura che insisteva ad accompagnarti in qualsiasi posto tu volessi andare; diversamente, 'Mundo' ne era distrutto, senza darlo troppo a vedere.
Una banale storia sul suo conto raccontava che la sua ombra insolente, un tempo esistita, avesse preso d'un tratto vita, e se ne fosse andata per darsela a gambe altrove, lontano dal suo noioso padrone. Perché si, Freud si mostrava a tutti come una persona intelligentemente soporifera.
Un'altra ancora, ne spiegava l'inesistenza ipotizzando che fosse solo scomparsa col tempo, dissolvendosi nel nulla piano piano.
Sigmund non aveva mai provato a confermarne una, come anche a negare la verità dei fatti.
Era quello che Justin aveva aggiunto infine, dopo che l'argomento era saltato fuori per caso.
Justin.

Se avessi potuto muovermi più agilmente, quel momento l'avrei impiegato singolarmente a cercare Justin per tutto l'edificio; invece, mi ritrovavo nella piccola infermeria della scuola, raggiunta quasi strisciando con l'unico appoggio dei muri. Il sangue stava cominciando a coagularsi, e in poco tempo rimasero solo i rivoltanti raggrumi attaccati alla pelle.
Sciacquai la testa e le braccia sotto il rubinetto del lavandino, concentrandomi maggiormente sulla zona del collo e dell'orecchio deturpato. Avvertii la necessità d'interrompere i movimenti per almeno qualche secondo, e quindi fare in modo che la testa smettesse di girare; accostai il capo allo specchio sopra il lavandino posto alla mia altezza, la fronte rivolta verso il basso e le palpebre socchiuse. Pensieri immaturi presero vita e, in quell'occasione, mi parvero piuttosto giudiziosi: volevo farla finita, sentire nella mia gola infiammata il cattivo sapore del Nihilo e morire bruciata, il suicidio che avevo prestabilito in passato, in caso fossi morta prima del mio diciottesimo. Le gambe vacillarono, nonostante fossero ferme in un punto preciso, e non sapevo per quanto ancora avrei resistito a trattenere quella posizione.
Scossi il capo ripetutamente, e levai lo sguardo.
Uno volto familiare cominciò a scrutarmi attraverso la superficie riflettente, distogliendo gli occhi molteplici volte e mordendosi le labbra; l'immagine era alquanto sfuocata, ma in poco tempo riuscii a riconoscere quella bandana nera legata tra i capelli mossi, il colletto sbottonato del pullover color della pece, e... l'occhio di vetro. L'occhio di vetro dei membri delle Scelte.
Harry, Harry Styles.
Le labbra tremanti, il pianto disperato e l'espressione di sconforto evidente nel suo viso.
Sbattei le palpebre una sola volta prima di realizzare che la figura era già scomparsa dallo specchio. Volevo solo essermelo immaginata.
«Ora so a chi appartiene la scia di sangue nel corridoio.»
Mi voltai di spalle, le braccia più o meno tese a sostenere il mio corpo, identificando con sforzo il volto di Sigmund e l'aria ripugnante nel vedermi... così.
«Certo, ora capisco; urla feroci, tracce di sangue sui muri, il tuo aspetto disgustoso, sei più sei: il tutto conduce a te, Eeva Duecentoventidue. Allora, che vuoi?» aggiunse poi, accomodandosi nel lettino dove qualche giorno fa Justin stava avendo un attacco di panico.
Dovevo smetterla di pensare a Justin.
«Chi, chi ti ha detto di venire qui? Non mi sembra di averti chiamato.»
Vidi la sua mano avvicinarsi ad un cuscino azzurro pastello e lanciarlo con veemenza nella mia direzione, cancellando definitivamente i residui della mia precaria stabilità; benché fosse solo uno stupido cuscino, il petto non fu in grado di reggere l'impatto, e scivolai a terra, sbattendo la testa contro il lavandino. Non era giornata, non lo erano mai state.
«Stordita più che mai, a quanto vedo; e smettila di fare quella faccia, mi devi un favore. Con la botta ricorderai di avermi chiamato attraverso Viktoria, e che non è facile smentirmi dato che racconto solo verità.» sibilò le ultime parole con fare inquietante, esponendo in avanti il capo.
Aggrappandomi alla parete, riuscii a raggiungere in fretta il letto e sedermi accanto a lui; gli sfilai dal braccio un laccio per capelli, non ricevendo alcuna protesta, e legai la massa bruna in una disordinata coda alta.
«Che scena penosa; non credo di avere altro tempo da perdere qui.» fece per uscire, quando il mio braccio afferrò il suo, e lo costrinsi a ritornare dov'era. Cercai di trattenere il suo sguardo e forzarlo a scrutare il mio, alla ricerca opprimente di parlare con qualcuno.
Sigmund l'avrebbe capito; confermò il pensiero annuendo.
«Volevo correre, Sid, correre ed andare via da qui pur di non provare a morire; come se la morte potesse scomparire solo svoltando l'angolo, solo cambiando aria. Sai quanto me che non è così. Perciò ho pensato, ho pensato molto, e sono rimasta qui; ma mentre pensavo, dubbi che avevo bloccato sul crearsi si erano fatti notare di nuovo, ed ora non riesco più a liberarmene. Ho pensato a te, a me, ad Harry Styles e a tutte le persone che come noi hanno qualcosa che non va per via di Belfagor; alla possibilità che ci possa essere dell'altro dietro a questa storia, altre chance di cui noi non siamo a conoscenza.»
Sid guardava fisso davanti a sé, la mente assorta in chissà quali pensieri; gli scossi il braccio come per svegliarlo, e lo sentii rabbrividire. Scattò in piedi davanti a me, cominciando ad indietreggiare in direzione della porta.
«Qualunque cosa tu voglia fare, io non ho intenzione di farne parte.»
«Io non ho ancora intenzione di fare niente.»
«Qualunque cosa tu voglia fare, io non ho intenzione di farne parte.» ripeté il ragazzo, alzando le braccia in aria e lo sguardo sconvolto.
«Qualunque cosa tu voglia fare, io non ho intenz-» la frase fu interrotta da un tonfo, e in un momento Sigmund si ritrovò sdraiato al suolo.
Harry fece irruzione nella stanza e si guardò attorno, in un primo momento, con un atteggiamento spaesato, disorientato; si avvicinò più sicuro al lavabo, riempendo un bicchiere d'acqua e bevendolo in fretta, per poi risputarlo nel lavello. Indossava lo stesso pullover e la stessa bandana color nero che avevo visti riflessi nello specchio; non mi ci soffermai a lungo, con gli occhi incatenati ma non sorpresi sul corpo disteso di Sid.
«L'ho solo fatto svenire, è una tecnica che insegnano a Stoccolma. Ti ci porterò un giorno, Miss
Miss, diminutivo della parola svedese 'missfoster', che in finlandese corrispondeva alla parola 'mostro'.
Era così che Harry mi chiamava ogni volta, un tempo. Ma questa volta era diverso, chiaramente diverso.
«Non ricordi il mio nome, eh?» domandai disinteressata, fissando il suo occhio di vetro; il suo aspetto non era cambiato da qualche anno fa, sempre il solito trascurato e indispensabile, ma la sua voce era diventata più roca ed orecchiabile.
Una fitta all'altezza del petto cominciò a divampare, e non seppi spiegarmi di cosa si trattasse.
«Sto tentando in ogni modo di ricordarmelo, ma niente, il vuoto più totale. Come ti chiami?» chiese a bassa voce, spostandosi nel posto dov'era seduto prima Sigmund, non prima di aver scavalcato il suo corpo. Cautamente, prese la mia testa e la scortò sulla sua spalla, circondandomi la vita. Solo in quel momento capii quant'ero affamata di contatto.
Girai la testa, incontrando il collo caldo sotto il bavero del maglione; con un gesto della mano, ripiegai il colletto e vi ci appoggiai solamente le labbra screpolate, senza alcun movimento in seguito. Pronunciai sul suo collo un tenue 'Eeva' che speravo avesse sentito lo stesso.
Harry abbassò lo sguardo, e soffiò sulla fronte le seguenti parole che avvertii a malapena.
«Miss, abbiamo un'ora scarsa prima che io ridiventi pazzo.»



MEGA CRIBIO.
È passato tanto tempo, lo so, perciò vi chiedo di perdonarmi. 
Non avevo idea, ne voglia di scrivere. Non ho molte cose da dire, credo.
Per chi ha pensato che, appena incontrati, Eeva e Harry si sarebbero scannati, tenetelo a mente, forse.
Per chi ha pensato invece che si sarebbero riconciliati in memoria dei vecchi tempi, beh, USCITE DA QUESTA STANZA. Volevo dirlo, ahah. .
Non so cosa fare coi due. Vorrei tanto sapere cosa pensate del capitolo, che tutto sommato, a me piace tanto.
Dato che non ho idee per il prossimo, ma proprio niente di niente, che ne dite di aiutarmi un po' voi?
Non lo so, potreste provare ad immedesimarvi nei personaggi, per esempio. Sempre se volete. (:
HO UN BANNER, che non rimarrà per sempre. L'ho fatto io, ieri. 
Se ne volete uno, basta chiedere per messaggio o anche su Twitter. 
Grazie mille per tutto, alla prossima volta.
Sara.

 

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