Colui che salvò l'Eroe

di CHAOSevangeline
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La prima missione ***
Capitolo 3: *** Primo sangue ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Colui che salvò l'Eroe.

 
 
 
Prologo

 
 
 
Jean odiava qualsiasi tipo di clima potesse definirsi umido e bagnato, per questo quel giorno stava maledicendo tutto e tutti. Fra l’altro il fango provocato dal recente temporale – solo migliorato in pioggia, senza sparire – si era divertito in modo malsano a sporcare i suoi stivali appena tirati a lucido e aveva come la vaga sensazione che non avrebbe avuto occasione di darsi una ripulita prima di raggiungere l’imponente palazzo dove lavorava.
Il suo umore già duramente provato dalle condizioni atmosferiche peggiorò ulteriormente quando ricordò ciò a cui era stato preparato il giorno prima: l’assegnamento di un compagno di squadra.
Imprecò sottovoce, senza prestare troppa attenzione allo sguardo di un anonimo passante voltatosi con stupore per la fantasia dell’insulto da lui appena inventato.
Jean avrebbe veramente voluto capire quale parte della frase “Mi piace lavorare da solo” non fosse chiara ai suoi superiori, ma dubitava che anche sapendolo sarebbe stato in grado di fare qualcosa per infilare il concetto nelle loro zucche vuote: se avevano deciso di farlo lavorare con qualcuno poteva stare pur certo che in un modo o nell’altro si sarebbe ritrovato a condividere per lo meno dodici ore ogni giorno con la persona prescelta.
Sperava solo gli capitasse qualcuno di poche parole, mentre entrava all’interno dell’edificio dopo aver atteso che le porte scorrevoli gli lasciassero libero il cammino e sognava che, sempre lo stesso soggetto, si scoprisse ammalato, o forse ancor meglio licenziato di punto in bianco.
No, no, purtroppo quell’ultimo pensiero sarebbe rimasto un sogno irrealizzabile: in fin dei conti abbandonare la Perseus non era esattamente facile, come del resto non lo era entrarvi.
Trattava materie fin troppo delicate per permettere un andirivieni infinito di “dipendenti”, Jean lo sapeva fin troppo bene.
Quando aveva compilato il primo modulo per entrare a far parte di quella sorta di organizzazione segreta che si muoveva alla luce del sole, si era reso conto che assumersi la responsabilità di un giuramento solenne sarebbe stato meno seccante di dover compilare tutte quelle scartoffie che comprendevano questionari, test e in generale domande su domande per valutare l’idoneità della persona.
Considerando l’obbiettivo che muoveva quell’enorme meccanismo, però, doveva ammettere che se si fosse trovato lui a dover dirigere il tutto sarebbe stato il primo a rendere l’accettazione di nuove reclute minuziosa e selettiva: la Perseus si proponeva, in quei tempi alquanto difficili, di proteggere la popolazione e di risollevarla estirpando il Morbo di Dipsa, quella malattia tanto misteriosa quanto letale diffusasi dagli ultimi trent’anni a quella parte.
Jean non ricordava precisamente l’anno in cui erano cominciate le ricerche per l’ottenimento di una cura, ma aveva qualche certezza in merito agli scarsi progressi nel periodo in cui era nato, esattamente ventidue anni prima.
Non che in quel momento le incognite riguardanti il morbo fossero diminuite: la si contraeva dalla nascita, ma non si sapeva ancora secondo quali parametri ciò accadesse.
Non vi era modo di diagnosticarla tramite esami e l’unica metodologia conosciuta per riconoscerla era l’osservazione del corpo del paziente; sulla sua pelle, infatti, era riscontrabile un caratteristico “simbolo” – la cui posizione era variabile a seconda del soggetto – di colore diverso, quasi fosse una voglia. Normalmente sembravano dei fori provocati dal morso di un serpente, lievemente incavati nel corpo del malato.
L’unico sintomo di tale malattia era la pazzia a cui veniva guidato il paziente al termine del decorso della Dipsa.
Il campanello dell’ascensore di vetro trillò, portando il suo unico passeggero al quinto piano: quello delle riunioni.
Cercò di cancellare un po’ di quel malumore convincendosi che sarebbe dovuto essere felice, avendo la sala principale dei convegni solo per sé, il comandante Smith e quell’incomodo – perenne – che avrebbe preferito non incontrare.
Quel pensiero poco efficacie scemò mentre camminava.
Lanciando un’occhiata rapida e distratta all’orologio sopra la scrivania dove lavorava la segretaria di quel piano realizzò di essere in ritardo; la lancetta si era appena fermata sulle nove e tre minuti, ma questa consapevolezza non gli impedì certamente di salutare con calma la donna seduta al banco poco prima di superarla.
Il suo ritardo rientrava ancora nel margine di cortesia, ma conosceva chi si sarebbe messo a correre pur di risparmiare una manciata di secondi che certamente non avrebbe cambiato in modo radicale la situazione.
Certe volte sembrava di essere nell’esercito lavorando alla Perseus, però di questo Jean pareva proprio infischiarsene: orari? Ordini? E che cos’erano? Di certo non riguardavano lui.
Nonostante le numerose lavate di capo ricevute, era certo che il miglior metodo per farsi rispettare anche dai superiori, fosse ragionare di testa propria e non sottomettersi. Errore madornale, considerando che gli era costato un paio di antipatie scomode ai piani più alti.
Se non fosse stata per la sua validità di agente e per la protezione dello stesso uomo che aveva preso la decisione di assegnargli un compagno, molto probabilmente si sarebbe già ritrovato cacciato via a calci.
Sfilate le mani dalle tasche del giubbotto di pelle nera che fasciava il suo busto allenato, Jean spinse entrambe le porte d’ingresso di vetro nero e opaco.
Entrò nella stanza, illuminata solo dall’abbagliante neon sul soffitto.
« Avere un ritardo a precedere una presentazione al proprio nuovo compagno ti fa onore, Kirschtein. »
Jean si trattenne dallo schioccare in modo poco educato la lingua nel sentire il proprio cognome – cosa che accadeva normalmente quando veniva rimproverato – e dall’imitare l’uomo in piedi vicino alla sedia a capotavola, con le mani unite dietro la schiena.
Il sarcasmo del capitano Smith lo rendeva veramente irritato ogni qualvolta lo sentiva, figurarsi se poi ciò accadeva di prima mattina. O forse gli dava sempre fastidio come se l’avesse utilizzato di prima mattina?
« Non se n’è andato, no? Allora vuol dire che non sono poi così tanto in ritardo. »
Subito lo sguardo di Jean scorse nella direzione del suo nuovo compagno, sperando che gli stesse ancora dando le spalle.
Aveva parlato di lui come se non ci fosse, eppure la cosa sembrava solo aver incuriosito maggiormente il ragazzo seduto compostamente su una delle poltrone girevoli schierate intorno alla tavola di cristallo.
Improvvisamente, Jean si trovò faccia a faccia con dei corti capelli di colore nero, un paio di occhi castani che avevano tutta l’aria di appartenere a un bambino e un viso costellato di lentiggini.
Davvero quel ragazzo lavorava nella sezione di difesa della Perseus?
Davvero Marco Bodt era lì di fronte a lui?
« Come ti accennavo, Marco, sei il più idoneo a fare coppia con Kirschtein. Mi dispiace solo dover sfidare la tua pazienza facendoti lavorare con lui. »
« Non si preoccupi Capitano, sono certo che riusciremo a lavorare insieme e ad ottenere degli ottimi risultati! »
Mentre Jean questionava ancora con sé stesso in merito alla decisione presa dal Capitano di assegnargli proprio lui come compagno, fu costretto a domandarsi anche se Marco stesse ostentando un finto ottimismo, o se fosse realmente convinto di quanto diceva.
Anzi, forse avrebbe dovuto elaborare già un’ipotesi: lui e Marco erano diventati dei cadetti lo stesso anno e per giunta nello stesso gruppo, ma non si erano mai parlati più di tanto perché, a dire il vero, si conoscevano da ancora prima di quel momento; frequentare le superiori nella stessa classe era servito ad entrambi per capire abbastanza chiaramente quanto nessuno dei due fosse adatto a frequentare l’altro, o meglio, questa era la visione dei fatti dal punto di vista di Jean.
Aveva sempre faticato a sopportare l’inguaribile ottimismo di Marco, perciò era del tutto certo che in quel momento fosse del tutto sincero con il superiore.
Stava iniziando a pensare che il destino avesse per qualche ragione intenzione di tenerli più uniti del dovuto quando il capitano Smith gli si avvicinò con la solita espressione ligia al dovere, mescolata insolitamente ad una punta di stupore.
« E’ strano che tu non abbia obbiettato in nessun modo, Kirschtein. »
Quella frase fece capire a Jean quanto l’uomo, adesso seguito anche da Marco, stesse sperando in una sua reazione. Forse fu proprio il desiderio di non compiacerlo a farlo rimanere calmo.
« Credo che se scomodando mezzo piano con le mie urla, ieri, non l’ho portata a cancellare la sua proposta, oggi non cambierà assolutamente nulla qualsiasi cosa io faccia. »
La volontà di rimanere calmo di Jean veniva sempre tradita da quella punta aspra e arrogante nel suo tono di voce che fece sorridere il Capitano, ma contribuì a far incupire leggermente il volto del ragazzo alle sue spalle.
« Ora ho delle faccende da sbrigare. Verrete avvisati non appena vi saranno delle istruzioni per voi. »
Marco fu l’unico a scomodarsi mettendosi sull’attenti poco prima che Smith uscisse, nonostante il Capitano non si fosse nemmeno voltato a controllare il comportamento dei due.
Jean attese qualche attimo, poi sbottò in una colorita serie di insulti indubbiamente non volti a manifestare apprezzamento per la situazione a Marco che, dal canto suo, stava cercando invano di trovare un modo per calmarlo.
Aveva sempre saputo quanto Jean potesse risultare una testa calda, ma aveva vivamente sperato, sapendo che sarebbe stato lui il suo compagno, in un qualche miglioramento.
« Avanti Jean, non sarà poi così tanto terribile. » cercò di rassicurarlo.
Dovette ritirare la mano sospesa a mezz’aria con l’intenzione di dargli una pacca sulla spalla vedendo l’altro voltarsi con fare furente verso di lui.
« Non parlarmi come se ci conoscessimo da una vita! » sbottò con il suo solito tono di voce fin troppo alto e riconoscibile, mentre usciva dalla stanza.
Marco lo guardò smarrito, chiedendosi il perché un po’ di confidenza gli avesse dato tanto fastidio. Che a scuola non si fossero mai parlati più di tanto era vero, ma non pensava che Jean l’avesse sempre evitato perché lo odiava al punto di fare una scenata smile.
« Ma siamo stati in classe insieme per cinque anni! » ribatté, infilandosi nell’ascensore giusto in tempo per non essere lasciato indietro.
Dopo quel momento il silenzio.
Jean stava riflettendo su alcune discussioni sentite nel corso della sua carriera dalle persone che avevano avuto ben più occasioni di aver a che fare con Marco: l’avevano sempre definito un debole che con quel luogo non c’entrava nulla, ma Jean non aveva mai dato troppo peso alle loro parole convinto che potessero essere mosse dall’invidia.
Pensò subito che forse sarebbe stato meglio mettere in chiaro, che Marco sapesse delle voci correnti sul suo conto o meno, quanto la sua reazione di poco prima non fosse dovuta a tali pettegolezzi. Molto semplicemente gli dava fastidio respirare la sua stessa aria come gli avrebbe dato fastidio respirare quella di chiunque altro.
Mancavano circa un paio di piani alla loro meta quando Marco iniziò a parlare.
« Non volevo che le cose iniziassero tanto male. »
Era forse un tono di sincero dispiacere, quello?
“Non avrei proprio voluto che le cose iniziassero.”
Jean tenne per sé quella frase e Marco ottenne in risposta solamente un mugugno, che sembrò tuttavia abbastanza per spingerlo a continuare il discorso.
« Ti crea tanti problemi lavorare con me? »
« Mi crea tanti problemi lavorare con chiunque. » lanciò un rapido sguardo verso i numeri posti sopra la porta di metallo dell’ascensore. « E poi non siamo mai andati d’accordo. »
« In verità io cercavo di parlarti, eri tu che te ne stavi sempre sulle tue. » si giustificò Marco, attirando su di sé lo sguardo di un Jean visibilmente punto nel vivo.
« Mi stai dando la colpa? » domandò, uscendo dall’abitacolo appena apertosi sul corridoio.
« Sei troppo permaloso, Jean! »
Jean fece per ribattere ancora, sia per la constatazione – perché alla fine altro non era se non la verità – che per il modo con cui aveva rimarcato il suo nome, ma sentì una voce fin troppo familiare interromperlo.
C’erano tante persone che per Jean erano preoccupanti, all’interno di quella struttura, ma una di quelle tra le cui grinfie non sarebbe mai voluto cadere era indubbiamente Hanji, la direttrice degli studi sulla Dipsa.
Senza dubbio una mente, ma come quasi tutti gli uomini dalle facoltà intellettive fin troppo sviluppate era un tantino eccentrica, se la si voleva descrivere blandamente.
« Ehi, voi due! State già lavorando insieme, eh? »
Jean avrebbe tanto voluto dire di no, ma rispose con un’alzata di spalle in grado di zittire Marco; non si era nemmeno voltato, ma era quasi del tutto certo che il ragazzo stesse per dire qualcosa rispondendo al superiore.
Comunque, non era il comportamento dell’altro ciò che più lo preoccupava in quel momento, quanto piuttosto il fascicolo tra le mani della donna.
« Ho un compito per voi. »





Angolo ~
E’ da diversi giorni che mi ritrovo a dire tra me e me “posto, oppure no?”
Alla fine ho ceduto, come un po’ tutte le volte in cui non so cosa fare.
Prima AU di SnK con un po’ di azione, altra long da portare avanti e una nuova JeanMarco a cui dedicarmi. Sono felice per tutte le caratteristiche di questa storia, anche se come al solito ho paura di poter essere banale e guidare i personaggi lontano dalla retta via (leggere: l’OOC mi terrorizza).
Ora come ora mi sono limitata a impostare il raiting arancione, ma ho come la sensazione che lo cambierò nel corso della storia con relativi avvertimenti connessi!
Cosa che credo non cambierò è il titolo; sfortunatamente sono negata a sceglierli, ma questo mi sembrava il più azzeccato e-... no ok basta, potrei perdere una vita a parlare unicamente di questo ;_;
Faccio un piccolo appuntino riguardante il nome della malattia nella fanfiction: l’ho chiamata Dipsa prendendo spunto dalla lista di creature mitologiche gentilmente offerta da Wikipedia. Come viene spiegato lì, la Dipsa è un piccolo serpente nominato in numerosi bestiari medievali il cui morso pare abbia la proprietà di uccidere le persone ancor prima che possano rendersi conto di essere state punte dai denti di questo simpatico animaletto.
Chiusa questa piccola parentesi, ringrazio chiunque abbia letto la storia, la recensirà – ve ne sarei grata, al solito mi piacerebbe sapere cosa posso migliorare! – o farà qualsiasi altra cosa (?)
Al prossimo capitolo!
 
CHAOSevangeline

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Capitolo 2
*** La prima missione ***


Capitolo 1 – La prima missione
 
 
 
Dire che si fosse già abituato all’idea di avere Marco al seguito, considerando che aveva ricevuto la notizia di dover lavorare con lui probabilmente in maniera permanente appena una ventina di minuti prima, sarebbe stato esagerato, ma vi era stato ugualmente un miglioramento notevole nel comportamento di Jean.
Inutile dire che la cosa avesse sorpreso parecchio Marco, il quale non aveva però intenzione di farglielo presente continuando a bearsi dell’aria entusiasta adesso assunta dal compagno.
« Sei sempre così quando ottieni delle missioni? » si limitò a chiedere, facendo scorrere attentamente lo sguardo su ogni dettaglio della strada dove la macchina nera della Perseus che stava guidando sfrecciava.
Il fascicolo dato loro da Hanji riposava, adesso chiuso per tenere raggruppate le scartoffie al suo interno, sulle gambe del ragazzo seduto al posto del passeggero. Jean l’aveva sfogliato fino a poco prima, riassumendo a bassa voce il loro obbiettivo già spiegato sommariamente dalla ricercatrice quando ancora erano al quartier generale.
« Così come? »
« Entusiasta. Ti piace davvero questo lavoro, eh? »
Jean sussultò. Si notava così tanto?
Rispose con un lieve cenno del capo che entrò comunque nel campo visivo di Marco.
« Potrei dire lo stesso di te. »
« Oh, ma io mi sono arruolato per aiutare, quindi è ovvio che sia contento di ricevere degli incarichi! »
Marco si sarebbe anche messo a chiacchierare del perché avesse aderito ai progetti della Perseus seppur non sotto obbligo, ma si rese conto che quello, come l’indagare sulle ragioni dell’euforia di Jean – non elencate dal ragazzo, alla fine – non fossero i discorsi più adatti per quel momento.
« A proposito, puoi spiegarmi bene cosa c’è scritto nel fascicolo? Ho solo visto la foto del ragazzo e dove dobbiamo andare. »
Non appena sentì quella frase, Jean aprì nuovamente la cartella contenente le informazioni come se si fosse improvvisamente scordato quanto aveva letto fino a quel momento. Scorse con gli occhi il foglio principale a cui era allegata la foto del loro bersaglio.
« L’obbiettivo, Eren Jaeger, pare vivesse fino a qualche mese fa con una ragazza di nome Mikasa Ackerman, attualmente sparita. » Jean scivolò appena sul sedile per stare più comodo. « Stando a quello che c’è scritto qui, la cosa gioca a nostro favore: sono entrambi portatori della Dipsa e la Perseus ha già cercato di catturarli, ma a quanto pare durante la scorsa missione sono riusciti a fuggire. Jaeger attaccava e Ackerman gli ha coperto le spalle impedendo che venisse ferito. »
Marco annuì appena, mentre il suo volto si faceva più serio.
« Quindi non hanno più provato a catturarlo per paura che con la presenza della ragazza vi sarebbe stato un altro fallimento? »
« Sei intelligente. » disse con fare sarcastico Jean, richiudendo il fascicolo. « Comunque ha solo ventidue anni, non credo che la malattia abbia già raggiunto un livello preoccupante nonostante il mandato di cattura dica che sta già manifestando sintomi di forte intensità. »
« Ad ogni modo vedi di non agire d’istinto. Ai tempi delle scuole superiori avevi il brutto vizio di farlo. »
La raccomandazione di Marco suonò tanto come quella di un fratello maggiore che vuole solo il bene per il più piccolo; Jean non seppe se la causa dell’imporporarsi delle sue guance fosse stato il tono o piuttosto ciò che aveva detto l’altro.
Si limitò a voltarsi verso il finestrino, borbottando qualche parola sconnessa.
 
 
La vecchia palazzina dove viveva Eren Jaeger sarebbe potuta sembrare in tutto e per tutto un covo di senzatetto alla ricerca di un riparo caldo, ma a discapito delle condizioni penose dell’esterno della costruzione le persone che vivevano all’interno erano normalissime.
Jean aveva già memorizzato quale fosse la finestra dell’appartamento di Jaeger, chiusa esattamente come quella di tutti gli altri.
« Aspettami Jean! » Marco non parlò troppo forte per evitare di attirare l’attenzione, raggiungendolo.
Il ragazzo si era accorto di quanto Jean volesse agire di testa propria quando si era ritrovato a chiudere la porta della macchina con il sedile del passeggero già vuoto e la schiena di Jean sempre più distante per le falcate compiute con il fine di raggiungere il portoncino.
E dire che aveva sperato volesse collaborare, considerando la spiegazione dettagliata fornitagli da lui stesso in auto.
« Sei lento! » sbuffò in risposta senza la stessa accortezza nel tenere basso il tono di voce, cominciando a salire le scale.
Al secondo piano regnava una calma totalmente piatta e non proveniva alcun suono dall’interno dei cinque appartamenti disposti a quel livello.
Marco si guardò intorno con circospezione, prestando l’attenzione che Jean sembrava aver consumato del tutto leggendo minuziosamente il rapporto e il fascicolo riguardante la missione.
« E’ quello. » sentenziò Marco, puntando il braccio in direzione dell’appartamento su cui spiccava il numero quattordici.
Jean verificò quanto aveva detto Marco come se non si fidasse, poi raggiunse il portoncino e senza aspettare troppo fece incontrare alla propria mano la superficie di legno, bussando.
« Eren Jaeger, è la Perseus. Apri la porta. »
Non seppe bene perché, ma non fu esageratamente sorpreso non ricevendo risposta, come del resto Marco.
C’era un’unica cosa da fare a quel punto e fu Jean a portarla a termine: colpì con un calcio il portoncino, facendolo cadere.
« Questo palazzo è fatto di cartone. » mugugnò con disappunto, entrando nell’appartamento e guardandosi intorno con circospezione. Solo a quel punto portò una mano sulla fondina interna del suo giaccone, come a volersi accertare che la sua fidata arma fosse ancora lì.
Mentre Jean si dirigeva verso la cucina dopo aver espresso quell’affermazione, Marco era già di ritorno dal controllo fatto nella camera da letto e nel bagno. L’appartamento era abbastanza piccolo e spoglio, l’unico luogo dove il loro obbiettivo si sarebbe potuto nascondere sarebbe stato l’armadio alquanto ampio nella stanza da letto, ma non trovò altro che vestiti e qualche scatolone fin troppo poco capiente.
Uscì dalla stanza mantenendo comunque la guardia e raggiungendo Jean in cucina. Fu lungo il tragitto che sentì un botto per nulla rassicurante e subito dopo un’imprecazione da parte del compagno.
« JEAN! »
Dovette ringraziare le dimensioni ridotte dell’appartamento per la velocità con cui riuscì a raggiungere la cucina; già si immaginava uno Jean ferito accasciato a terra, ma con suo sollievo lo trovò in piedi di fronte alla finestra, lo sguardo furente puntato fuori di essa.
« Lo stronzo era nascosto qui dentro ed è scappato! » salì sul davanzale, saltando sul terrazzo dell’appartamento accanto.
Marco aveva già qualche idea su come bloccare la fuga di Jaeger, ma Jean non gli diede il tempo di spiegare nulla, troppo concentrato a non perdere di vista la sua preda.
Assottigliò lo sguardo, benedicendo tutti gli allenamenti che lo stavano rendendo in grado di schizzare da un terrazzo all’altro tenendo lo stesso ritmo di Eren.
« Puoi anche smettere di correre, non te ne andrai molto lontano! » gli urlò e lo vide voltarsi con uno sguardo che di umano aveva ben poco: i denti erano digrignati come se  si trattasse di una bestia in gabbia e gli occhi erano illuminati da una luce inquietante.
Non che a Jean una simile visione facesse qualche effetto.
Si bloccò sul largo corrimano di una delle terrazze, osservando il ragazzo poco lontano da lui cominciare una discesa sulle ringhiere dei poggioli.
Era già un piano sotto di lui, non sarebbe mai riuscito a prenderlo considerando che la porzione di parete dove lui si trovava a era alquanto scarna di appigli.
Abbassò lo sguardo e si accorse in quel momento di un cassonetto pieno sotto di lui.
Marco l’avrebbe ammazzato se non si fosse spezzato l’osso del collo da solo, ma non aveva tempo da perdere.
Si lasciò cadere, atterrando nell’enorme cumulo maleodorante. Uscì in fretta dopo essersi lasciato sfuggire un gemito di dolore; era atterrato sulla propria spalla senza poterlo evitare, ma non era nulla di che: il braccio in fin dei conti si muoveva.
Puntò gli occhi nella direzione dove anche Jaeger aveva appena messo i piedi a terra e corse rapidamente verso di lui.
Si rese conto ben presto di non essere l’unico ad avere l’intenzione di braccare l’altro quando il ragazzo puntò a propria volta verso di lui.
Che preferisse lo scontro diretto alla fuga ormai pareva essere una certezza e questo non poté far altro che far comparire un sorriso tronfio sul volto di Jean, sicuro della propria imminente vittoria.
« Che diavolo volete ancora voi maledetti della Perseus?! » il ringhio che uscì dalle profondità della gola di Eren venne accompagnato da un tentato pugno, parato senza difficoltà da Jean, avventatosi su di lui come a volerlo placcare.
Ruzzolarono per terra e Jean, bloccato a terra grazie ad un’improvvisa benedizione della dea bendata nei confronti di Eren, venne colpito su uno zigomo. Sentì la bocca riempirsi del sapore metallico del sangue poco prima di reagire con una ginocchiata ben mirata allo stomaco di Eren, che finì a terra senza fiato.
Ora si sarebbe alzato e avrebbe utilizzato i sedativi con cui aveva caricato la pistola.
Perché l’aveva caricata, vero?
« Merda! » ringhiò.
Improvvisamente una stretta ferrea si attanagliò intorno alla sua caviglia, trascinandolo a terra.
Eren stava menando colpi a casaccio, Jean era riuscito a pararli tutti fortunatamente. L’unico pugno da cui dubitava di potersi salvare era un destro, caricato da Eren sopra la testa, unicamente per la sua intensità e per la pedata non indifferente ricevuta sul ventre poco prima che il ragazzo salisse su di lui per bloccarlo.
Sembrava quasi che più che volerlo atterrare, si stesse sfogando totalmente preso dall’ira.
Davvero era tanto traumatizzato dalla precedente missione ad opera della Perseus?
« Per colpa vostra Mikasa è-… » la voce gli morì in gola.
Eren si accasciò privo di sensi accanto al suo corpo e prima ancora di poterne capire la ragione, Jean vide Marco avvicinarsi a lui rinfoderando la pistola.
Per quanto l’orgoglio gli impedisse di gioire totalmente di quel salvataggio, doveva ammettere di aver appena cominciato a rivalutare Marco: forse non era una palla al piede come se l’era figurato.
« Ohi Marco, ottimo tempism-… »
Giurò che quell’occhiataccia trasportasse tutta la voglia del possessore di fulminarlo, incenerirlo, insomma, colpirlo peggio di quanto non avesse fatto Jaeger fino a poco prima.
La cosa che confuse Jean, però, fu il vedere la mano pallida di Marco sistemarsi di fronte al suo viso, invitandolo ad afferrarla.
Che l’avesse visto sul serio saltare dal terrazzo e ora avesse voglia di ucciderlo, come aveva pensato lui?
« Ti ho visto morto per un attimo. » sentenziò il moro, tirando in piedi Jean quando ebbe afferrato la sua mano.
“Per la seconda volta, a dire il vero.” aggiunse mentalmente, ricordando quando aveva sentito il colpo provenire dalla cucina.
« Sei esagerato! Serviva per catturare Jaeger! »
« Siamo in un residence Jean, sarebbe potuto uscire da una sola parte, è tutto circondato da edifici. » la voce esasperata di Marco lo raggiunse come una botta in testa.
Quindi lui aveva inseguito quel ragazzo fino allo sfinimento con la radicata credenza di poterlo lasciar sfuggire… quando invece la vittoria sarebbe quasi certamente spettata a loro?
Si sarebbe tanto voluto ributtare per terra e rimanere lì in silenzio, stremato dalla fatica.
« Comunque, ti senti bene? »
« Sei apprensivo, Marco! » sbuffò. « E comunque con il mio modo di agire abbiamo solo ottenuto una certezza in più di catturarlo! »
Non avrebbe mai accettato di avere torto.
« Ti ha tirato un pugno. » constatò Marco, osservando il viso del compagno e provando a fare una rapida stima degli altri colpi che avrebbero potuto aver ferito Jean, basandosi sull’agilità dell’avversario e ai danni creati dall’unico segno che poteva vedere.
Se c’era una cosa che Jean odiava era essere ignorato e in quel momento l’unica frase che voleva sentirsi dire era un “Sì, effettivamente avevi ragione Jean, quell’inseguimento era necessario”.
Al diavolo l’apprensione, stava bene.
« Ascoltami, maledizione! »
« L’unico che dovrebbe ascoltarmi qui sei tu! Ti avevo detto di non essere avventato e tu hai fatto l’opposto. » Marco lo superò, chinandosi accanto al corpo privo di sensi di Eren, avvolgendosi un suo braccio intorno alle spalle e sollevandolo. « Ti sei anche dimenticato i sedativi in macchina. »
Jean schioccò la lingua, pentendosene subito amaramente a causa del dolore irradiatosi dalla guancia colpita.
Afferrò l’altro braccio di Eren privo di qualsiasi delicatezza e aiutò Marco a trascinarlo fino alla macchina, nervosamente.
Le fitte allo stomaco si stavano facendo insopportabili.
Non sapeva se essere più arrabbiato per la poca fiducia che Marco aveva riposto in lui, oppure perché si sentiva umiliato avendo sbagliato nel pianificare le proprie azioni.
Normalmente non cadeva mai in errore valutando le situazioni, allora perché gli era accaduto proprio durante la sua prima missione con Marco?
« Comunque sia sto bene, ti sto anche aiutando a portarlo. » ribadì quanto potesse aver ragione con quella frase, ignorando il leggero sospiro emesso dal ragazzo accanto a lui.
Caricarono il corpo di Eren sui sedili posteriori, poi Marco mise in moto.
 
Quando avevano raggiunto la Perseus si erano accorti di un’Hanji alquanto euforica che li attendeva, appostata nel parcheggio sotterraneo dell’edificio come una vedetta.
Il laboratorio dove si svolgevano le ricerche era situato sottoterra, subito sopra il parcheggio e vi era un apposito ascensore, munito di barella, per caricare i soggetti catturati come nel caso di Eren Jaeger.
I sedativi usati nel corso delle missioni erano alquanto potenti e garantivano una durata dell’effetto pari a un minimo di due ore, per questo Eren era ancora addormentato, ma Marco non si sentiva mai del tutto tranquillo ad avere una belva in libertà sui sedili posteriori dell’auto e non aveva proprio potuto evitare di gettare qualche occhiata allo specchietto retrovisore per controllare la fonte delle sue preoccupazioni.
Non era stato necessario faticare troppo portando il corpo di Eren fino all’ascensore perché Hanji, ben più interessata al nuovo arrivato che alle loro condizioni, si era già fiondata insieme alla lettiga accanto alla loro macchina.
Non fosse stato per l’aiuto di Marco molto probabilmente il ragazzo addormentato sarebbe stato trattato poco meglio di un pacco da ritirare.
Prima di seguire Hanji, fortunatamente rallentata dal peso di Eren sul lettino, Marco lanciò una rapida occhiata a Jean, in disparte e con il volto contratto in una smorfia infastidita.
« Ti fa male? »
« Non più di quanto sono abituato a sopportare. » rispose, iniziando a camminare verso l’ascensore. « Piuttosto, vediamo di starci poco in laboratorio, mh? Odio quel posto. »
Marco dovette concordare con lui; odiava presenziare troppo tempo nel luogo dove si svolgevano le ricerche; in fin dei conti la consapevolezza di ciò che accadeva al suo interno, sebbene tutto fosse giustificato dal nobile scopo che portava avanti gli esperimenti, era la ragione per cui aveva deciso di entrare a far parte della Divisione di Difesa e non in quella di ricerca.
Il breve tragitto in ascensore non fu troppo pesante, almeno per Jean: si era estraniato appoggiandosi contro la lastra di metallo. Entrandovi in contatto fu quasi come se l’interesse delle persone nei suoi confronti fosse diventato pari a quello normalmente esercitato per le pareti dell’ascensore.
Si portò una mano sulla spalla, osservando il capo di Marco muoversi energicamente e fin troppo spesso per rispondere agli sproloqui con cui Hanji lo stava sommergendo: parlava di quanto un soggetto come Eren fosse utile e subito dopo di tutto ciò che gli avrebbero fatto.
Marco sembrò perdersi già alla seconda frase, fingendo nonostante questo di capire, Jean preferì invece concentrarsi sul volto addormentato di Eren che in qualunque modo si poteva descrivere meno che con la parola rilassato ed eventuali sinonimi.
Non era la prima volta che catturava qualcuno di riluttante all’idea di entrare a far parte del programma di ricerca della Perseus, in fin dei conti quasi mai le persone si offrivano di partecipare spontaneamente, ma mai Jean aveva provato curiosità per le ragioni che li spingevano a ribellarsi.
Secondo lui, erano tutti solamente degli idioti senza un briciolo di buon senso e quindi incapaci di suscitare in lui un qualsiasi interesse: invece di aggregarsi in gruppi e minacciare la Perseus aggiungendo solo lavoro in più ai suoi agenti, avrebbero potuto collaborare se non offrendosi come cavie – detta brutalmente –, stando senza assoggettare i propri compagni dando vita a delle vere e proprie rivolte.
Per lo meno non vi sarebbe stato il luogo comune che catalogava tutte le persone affette dalla Dipsa come pazze dal loro primo respiro fino all’ultimo.
Avrebbe pensato tutte quelle cose anche di Jaeger se solo non avesse cominciato ad accusare la Perseus, poco prima di essere sedato; se il suo naso non fosse stato in pericolo sotto l’incombente furia del pugno con cui Eren stava per colpirlo, nello spiazzo del residence malridotto dove l’avevano catturato, molto probabilmente Jean se la sarebbe presa con Marco per non aver aspettato qualche attimo in più prima di salvarlo.
Un sospiro, poi Jean si staccò a malincuore dal muro per seguire la bizzarra fila formata dalla barella, Hanji e un Marco voltatosi con fare preoccupato verso di lui dopo aver sentito un gemito provenire dalle sue labbra.
Cominciava ad accusare in modo fin troppo doloroso gli effetti della pedata ben calcolata di Eren al proprio stomaco, ma si sarebbe sforzato ugualmente di resistere: tanto cosa avrebbero dovuto fare lì se non attraversare la stanza e uscire dalla porta in grado di condurli all’infermeria?
Marco, dal canto suo, sarebbe volentieri rimasto nell’ascensore senza seguire la ricercatrice la quale, persasi nell’euforia più sfrenata per quel nuovo “giocattolino”, stava urlando ordini a destra e a manca.
Non aveva mai capito bene come funzionassero ricerche e simili come non aveva mai avuto poi così tanta premura di comprenderlo, in fin dei conti non era il suo compito ed ebbe un’ulteriore conferma di quanto non gli importasse sapere nulla quando vide l’ago di una siringa non esattamente sottile conficcarsi nel braccio di Jaeger.
Distolse lo sguardo, tornando a controllare il viso contratto di Jean.
« C’è una puzza di ospedale qui dentro che mi fa venire la nausea. Me ne vado. »
Capì nitidamente solo quella frase provenire nonostante le labbra serrate di Jean e i denti stretti probabilmente per le continue fitte che lo costringevano a piegarsi sempre di più e a stringere maggiormente le braccia intorno al proprio busto.
 
 
Tutto Marco aveva pensato di vedere quel giorno, meno che un proseguo tranquillo.
L’inguaribile ottimismo tanto odiato da Jean era scemato praticamente del tutto, lasciando spazio ad un Marco ben più realista e serio di quello conosciuto dall’infortunato.
Era buono e gentile, sì, spensierato senza dubbio, ma non stupido.
Eren aveva colpito con forza Jean come del resto aveva contraccambiato anche lui – cosa che Marco non aveva scordato di far presente ad Hanji –, perciò non se la sentiva di escludere che tutto il dolore provato dal compagno fosse dovuto a qualche danno serio.
Fortunatamente le due ore trascorse in infermeria, tra un controllo approfondito e l’altro, erano servite a far sparire dalla sua mente ogni preoccupazione e a garantirgli un tranquillo pomeriggio trascorso sì all’interno della Perseus, ma senza alcun lavoro da svolgere se non la compilazione del un rapporto riguardante la loro missione.
Si erano spostati in uno degli uffici liberi solo perché Jean non aveva proprio voluto rimanere sdraiato sul lettino dell’infermeria e si erano messi a stilare insieme quell’“odioso resoconto”, come l’aveva definito l’altro.
Era la prima volta che qualcuno lo aiutava a comporre un rapporto, cosa normalmente fatta da lui e lui soltanto, perché i compagni che partecipavano alle sue stesse missioni, troppo pigri e poco puntigliosi per farlo, lo abbandonavano preferendo lo svago al dargli una mano. E lui come sempre non diceva nulla.
Quella volta invece stava avendo la possibilità non solo di avere il lavoro alleggerito, ma anche di apprezzare una qualità che mai avrebbe potuto immaginare di dover attribuire a Jean: la diligenza.
« Non sapevo fossi tanto preciso. » constatò Marco dopo aver riletto quanto aveva scritto; Jean gli aveva fatto aggiungere tanti dettagli che secondo lui erano fondamentali, altri invece li aveva tralasciati pur ricordandoli a voce alta.
« Non ho voglia di sentirmi dire tra un mese che mancavano informazioni importanti perché non le ho scritte. » rispose semplicemente, alzandosi e stiracchiandosi appena.
Percepì un leggero bruciore all’altezza dello stomaco, ma non se ne lamentò tanto era affievolito rispetto alle fitte provate in precedenza.
Uscirono dall’ufficio mentre Jean si infilava il giubbotto di pelle borbottando qualche imprecazione per lo sporco che l’aveva rovinato; in fin dei conti si era rotolato per terra in un parcheggio e si era lanciato in un cumulo di immondizie, era già tanto se aveva avuto l’occasione di farsi una doccia e infilarsi il cambio di vestiti che gli aveva prestato Marco.
Adesso non solo gli doveva un salvataggio, ma anche un cambio di vestiti!
Se stava cominciando a fare pensieri tanto stupidi come il confrontare un salvataggio e uno sciocco cambio di abiti doveva essere indubbiamente stanco. Avrebbe avuto bisogno di staccare un po’ da qualsiasi cosa concernesse il lavoro, magari con un film o con una bevuta in un qualche bar.
« Che ne dici se andiamo a bere qualcosa? »
Il fatto che non fosse stata la propria voce a pronunciare quella frase gli fece raggelare il sangue nelle vene.
Forse aveva a che fare con un maledettissimo veggente e non se n’era reso conto.
« … Ci stavo pensando anche io. » rispose con un filo di voce, suscitando una risata da parte di Marco, intento ad infilare la busta contenente il rapporto nella casella dei messaggi per il comandante Smith – fosse lodata quella sottospecie di cassetta delle lettere. Jean la reputava la sua unica salvatrice in grado di risparmiargli corse in lungo e in largo all’interno della struttura alla ricerca dei superiori –.
Sentì il rumore della stoffa che si accostava e poi vide il doppiopetto di Marco completamente chiuso e sistemato.
« Quindi è un sì? »
Jean aveva pensato, paradossalmente considerando il suo comportamento di quella mattina, di proporlo da sé; Marco invece ci stava sperando troppo e non ne capiva nemmeno la ragione: volontà di mostrarsi simpatico e riscattarsi? Comprarlo offrendogli una birra nonostante l’avesse già salvato dalla furia omicida del loro primo bersaglio?
« Se posso offrire io, sì. »
Allora forse non lo odiava poi così tanto.
Marco gli rispose con un cenno e, dopo aver recuperato la propria macchina dal parcheggio, guidò fino al locale dove aveva pensato di portare Jean.
Dire che fosse il luogo di ritrovo per eccellenza di tutti i dipendenti della Perseus sarebbe stato forse esagerato, ma Marco era certo che i proprietari del locale conoscessero una percentuale piuttosto alta del suddetto gruppo di persone: in fin dei conti quel bar era a meno di mezzo chilometro dalla sede della Perseus.
Per questo l’avrebbero potuto raggiungere anche a piedi come effettivamente Jean gli aveva fatto notare, ma era quasi del tutto certo che quella smania di mostrarsi atletico fosse in un certo senso un riflesso incondizionato della voglia di fargli vedere quanto si fosse ripreso dalla lotta di quella mattina.
Anche se l’avesse detto chiaro e tondo comunque, Marco l’avrebbe costretto a sedersi sul sedile del passeggero della sua auto e a lasciarsi portare fino a lì.
Riuscirono ad ordinare qualcosa da bere e da mangiare alquanto in fretta – forse erano gli unici ad avere qualcosa da festeggiare? – e si ritrovarono seduti a conversare del più e del meno ad un tavolo in disparte.
Jean aveva fatto un sacco di capricci per avere quel posto, dicendo che non voleva essere troppo vicino ad altre persone. Marco gli aveva fatto notare quanto fosse sembrato un bambino bizzoso e l’aveva fatto imbronciare per circa cinque minuti, poi Jean aveva ricominciato a parlare di propria spontanea volontà.
Chiunque l’avrebbe trovato solamente una sfida per i nervi, Marco invece si rendeva conto che per i suoi canoni era insolitamente tenero, ma forse era meglio evitare di farglielo presente, almeno per il momento.
Continuò a pensare che assomigliasse tanto ad un bambino fino a quando, improvvisamente, l’espressione sul suo viso tornò ad avere diverse sfumature mature.
« Marco, ti posso chiedere una cosa riguardo a oggi? » mugugnò con fare pensieroso, il tono vagamente incupito a causa del suo aver parlato dentro al boccale di birra.
L’altro si trovò costretto a poter solo annuire, soprattutto perché il modo di parlare di Jean lo stava incuriosendo non poco.
Non gli fu possibile nemmeno cercare di immaginare cosa volesse domandargli, perché molto semplicemente Jean parlò subito: il discorso da affrontare era già ben delineato in ogni sfumatura nella sua mente.
« Non ti pare strano che la ragazza menzionata nel rapporto, quella tale Mikasa, non fosse con Eren, oggi? »
« Sappiamo che è sparita senza lasciare tracce, no? E’ ovvio che non ci fosse. »
Jean lo guardò con un’espressione accigliata. Davvero si accontentava di così poche informazioni?
« Non dirmi che non ti sei fatto delle domande anche tu, Marco! » Jean spostò appena il piatto dove poco prima giaceva il panino caldo che aveva ordinato, in modo da avere davanti a sé solo la tovaglietta verde scuro come l’insegna del locale.
Puntò due dita sul foglio di carta leggera.
« Prima Jaeger e Ackerman sono inseparabili, tanto che la Perseus fallisce la missione che si propone di catturare entrambi e non avanza ulteriori tentativi. » piegò una delle dita, in modo che rimanesse solamente l’indice a toccare il tavolo, quasi perpendicolare ad esso. « Poi improvvisamente mandano noi, per catturare uno Jaeger rimasto inspiegabilmente solo e senza la protezione della ragazza in grado di sventare la missione precedente con il suo continuo parare le spalle di Eren. » sollevò solo allora lo sguardo serio da quel teatrino improvvisato dove si erano aggiunti altri due personaggi, ovvero lui e Marco. « Non ti pare strano? Non l’ha mai lasciato solo, mai e ora se ne va all’improvviso gettandolo in balia degli eventi? Jaeger agirà anche d’impulso, ma se sono sfuggiti con l’ingegno dalla scorsa cattura significa che per lo meno quella Mikasa avrebbe dovuto avere un po’ di sale in zucca. »
Marco aveva seguito per filo e per segno il ragionamento di Jean senza perdere alcun dettaglio. Doveva ammettere di avere abbastanza chiara la situazione e prevedeva dove volesse andare a parare il compagno, ma c’era una cosa, una sola che gli mancava per renderlo in grado di trarre le stesse conclusioni di Jean: la diffidenza.
Marco prendeva per oro colato tutto ciò che gli veniva detto dalla Perseus e non avrebbe mai potuto portare avanti un ragionamento tanto sconvolgente per i suoi canoni e ovvio, invece, per Jean.
« Pensi che l’abbiano rapita? Magari i ribelli o forse qualche altra organizzazione che vuole fare concorrenza alla Perseus. » rilassò la schiena, per quanto poco gli fosse possibile a causa dell’argomento pungente, contro lo schienale del divanetto su cui era seduto. Si portò una mano sul mento.
« Esatto, ma niente ribelli o qualche concorrente: è stata proprio la Perseus. »
Per poco Marco non rischiò di sputare la birra in faccia a Jean.
Non era uno che rideva di fronte alle idee altrui, ma gli sembrava veramente che Jean stesse raccontando una barzelletta.
« La Perseus? Ma dai, Jean! » tornò a sporgersi verso di lui, più che altro per sentire quanto odore d’alcool emanasse il corpo del compagno. Poteva essersi ubriacato con due soli boccali di birra? In un certo senso ci sperava.
Jean dal canto suo sapeva che Marco non gli avrebbe creduto tanto facilmente.
« Proprio nel momento in cui l’hai sedato, Jaeger mi stava parlando di qualcosa accaduto a Mikasa per colpa della Perseus. » subito dopo ripeté la frase detta dal ragazzo.
« Jean, ci hanno mandato a prendere Jaeger perché è un soggetto in cui la Dipsa sta sortendo i propri effetti prematuramente. Probabilmente stava delirando. »
Improvvisamente nello sguardo di Jean apparve un bagliore affatto rassicurante che fece scorrere un brivido freddo come acqua gelata lungo la spina dorsale di Marco.
« So bene la differenza tra impulsività e sintomi della Dipsa, Marco. Jaeger è un ragazzo esagitato, per sua sfortuna, o altrimenti sia lui che la sorellastra avrebbero continuato a vivere tranquilli senza dover diventare cavie da laboratorio nonostante la loro malattia. » finì la birra e sbatté senza troppi complimenti il boccale sul tavolo.
« Perché sei tanto ostinato nell’accusare la Perseus? »
« Potrei chiederti perché tu invece la difendi. » Jean gettò una rapida occhiata fuori dalla vetrina, senza scorgere nulla, in realtà. « Ti farò cambiare idea. »
Da quel momento, Marco Bodt ebbe la sensazione che il suo appellativo di “cane ubbidiente” sarebbe ben presto cambiato.





Angolo ~
Devo ammettere che da un pezzo non avevo così tanta voglia di aggiornare una fanfiction. Fra l'altro, non mi sentivo nemmeno così motivata.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e messo la storia tra le seguite! **
So che non ho risposto a tutte quante le recensioni, ma ammetto che a dire il vero non sapevo cosa dire: come è difficile recensire un capitolo introduttivo è difficile anche rispondere se non ripetendo le parole "Grazie" e "Mi hai resa felice" allo sfinimento, perciò ho preferito farlo in maniera generale e collettiva qui: Grazie, mi avete resa tanto felice e sono contenta di aver iniziato questa fanfiction!
Da questo capitolo in poi cercherò di rispondere sempre – perché comunque è mia abitudine –. Vi ringrazierò allo sfinimento comunque e poi vedrò cosa dire in base alla recensione!
Ah, dico un'ultima cosa prima di lasciarvi in pace: spero davvero tanto di poter aggiornare in fretta nonostante stia per ricominciare la scuola.
Di mio sono un po' lenta, con questa storia poi sono alquanto puntigliosa e se non impiego troppo a scrivere, nonostante la lunghezza dei capitoli che normalmente oscilla intorno a quella del capitolo attuale, perdo tempo ricontrollando più e più volte per essere certa di aver reso tutto leggibile e privo di errori.
Pertanto se dovessi tardare e prendermela più comoda di quanto non abbia già fatto sappiate che non voglio tenervi sulle spine.
Perciò, sperando in un vostro commento, ci sentiamo nelle risposte alle recensioni e nel prossimo capitolo! <3

CHAOSevangeline

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Capitolo 3
*** Primo sangue ***


Capitolo 2 - Primo sangue

 

Scendere dalla macchina e sentire subito dopo il tonfo della sua portiera un secondo suono uguale al precedente era diventata per Jean una piacevole routine che gli ricordava ogni giorno di non essere più solo.
Avesse dovuto fare un resoconto, ora che era passato circa un mese – forse di più forse di meno, crollava sul divano talmente velocemente la sera che né allora, né il mattino dopo riusciva a controllare la data sul calendario per la fretta –, avrebbe certamente negato di essere lui lo stesso Jean tanto ostile all’idea di dover collaborare con qualcuno.
Se doveva essere sincero non sapeva dire con quale assurdo incantesimo Marco l’avesse colpito per riuscire a ingraziarselo tanto facilmente, ma andava bene così.
Dopo la missione di Jaeger erano diventati una coppia di colleghi alquanto acclamata alla Perseus e mentre Jean si chiedeva quanto tempo potessero avere da perdere gli altri per esultare ad ogni loro minimo gesto, si accorgeva di quanto gli occhi di Marco brillassero.
Aveva avuto l’impressione sin dal primo momento che Marco fosse il classico esempio di ragazzo ombra, quello che sì, è conosciuto, ma che la gente non considera mai troppo.
Per Jean non era mai stato così e anche se doveva ammettere che spesso si sarebbe divertito ad essere meno considerato nonostante i propri modi scortesi che spesso lo facevano risaltare rispetto alla consueta obbedienza degli altri, doveva riconoscere che essere come Marco l’avrebbe veramente frustrato.
Poco male, adesso le cose erano cambiate per entrambi e andava bene così.
Non avevano più avuto occasione di trattare casi importanti come era sembrato essere quello di Eren, né tanto meno di avere a che fare con lui, ma tanto meglio: Jean non teneva particolarmente ad avere a che fare con quell’irascibile ragazzino. Avvicinarsi a lui avrebbe comportato più danni che vantaggi, per come la vedeva, e fino a quando non si fosse trattato di un ordine che non avrebbe potuto declinare si sarebbe allegramente lasciato coinvolgere da casi che non lo riguardavano.
Tutti quei pensieri non lo stavano infastidendo, in quel momento. Non quanto l’odore acre della birra che Connie aveva involontariamente rovesciato sulla sua felpa indossata dopo aver staccato dal lavoro.
Promemoria: si sarebbe seduto lontano da quell’idiota, se ci fosse stata una seconda bevuta di gruppo.
Non aveva ben capito la ragione per cui fossero andati a bere, certo era che quella volta lui e Marco non erano sotto i riflettori.
Con estrema disinvoltura, controllò con la coda dell’occhio lo spazio al proprio fianco e appurò che il ragazzo si trovava ancora accanto a lui, intento a camminare.
Le guance erano imporporate dal leggero rossore dovuto all’eccessivo ridere causato dal danno di Connie.
« Pensavo che dovresti reputarti fortunato a non aver ricevuto un pugno, Marco. »
Iniziare un discorso con una simile argomentazione era in pieno stile Jean Kirschtein, Marco dovette riconoscerlo.
Fu proprio per questo che una sottile risata sfuggì dalle sue labbra, non più tesa come i primi giorni: quando Jean gli urlava che gli avrebbe rotto qualche osso se l’avesse intralciato aveva seriamente temuto per l’incolumità del proprio corpo, ma poi si era reso conto che dopo essere rientrato nella sfera di “persone abituali” era raro ricevere poco più di un leggero pugnetto.
Che forse tanto leggero non era, ma comunque non era mai arrivato a rompersi un osso. Dubitava anche che Jean si rendesse conto di fargli male, perciò fino a quel momento aveva lasciato correre.
« Avresti riso anche tu se al posto della tua felpa ci fosse stata la mia! »
Era logico.
Uno sbuffo, poi la chiave che girava nella serratura e il calore dell’appartamento di Jean cercò di scappare infilandosi nel tiepido corridoio del condominio.
« E tu mi avresti tirato un pugno. » cercò di salvarsi come poteva Jean.
« Nah, non l’avrei fatto. »
Non se la sentì di insistere: avrebbe perso la causa solo in modo più eclatante di quanto non potesse fare in quel momento.
Si aprì la zip della felpa rossa, ormai quasi marrone a causa della grossa chiazza all’altezza dello stomaco e si avviò verso il corridoio, gettandola in un cesto incassato in un angolo, quasi nascosto.
Si passò una mano fra i capelli e superò Marco, intento a sfilarsi la giacca.
Invitarlo a casa propria era diventata una consuetudine, tanto che ormai il ragazzo sapeva quasi meglio di lui dove trovare le cose.
Effettivamente si domandava se, durante quelle due o tre notti durante le quali si era fermato da lui avendo fatto troppo tardi, non fosse andato a scorrazzare in giro preso dalla curiosità di capire come la mente di Jean Kirschtein avesse organizzato la propria casa.
Marco aveva smentito la mattina dopo dicendo che cercare di portare a termine un’impresa simile l’avrebbe fatto diventare matto, ma Jean aveva ugualmente ricevuto la risposta che gli serviva: se non aveva esplorato da solo, era stato lui a dirgli dove si trovava tutto quanto, la sera in cui l’aveva riportato a casa ubriaco.
« Direi che non è il caso di offrirti una birra. »
« Direi di no. » confermò divertito Marco, avvicinandosi al divano e abbandonandosi su di esso.
Il portatile nero di Jean riposava su uno dei tavolini di vetro di fronte al sofà, ma ben presto venne avviato e sistemato sulle gambe incrociate del biondo che si era appostato accanto a Marco.
Il ragazzo con le lentiggini osservò curiosamente lo schermo che caricava, sporgendosi verso l’amico senza nascondere la propria curiosità.
« Devi cercare qualcosa? »
« Diciamo, sì. » un leggero sorriso divertito incurvò le labbra di Jean e Marco rimase interdetto per qualche attimo; il ghigno che aveva appena visto non avrebbe rassicurato nessuno, ma lo stava attirando dritto nella trappola che Jean aveva ordito sapientemente nella propria testa.
Da qualche tempo si era accorto che il discorso fatto con Marco nella birreria, uno dei loro primi giorni di lavoro insieme, aveva fatto insinuare il dubbio nei confronti della Perseus nella mente del ragazzo e Jean ora non voleva far altro che controllare con lui quanto i tediosi sospetti su cui l’aveva fatto riflettere fossero fondati.
Più volte nel corso di quel mese Marco aveva rivolto qualche domanda rapida, come a voler capire qualcosa di più sulle opinioni di Jean, ma il ragazzo non si era mai sbilanciato più di quanto non avesse fatto quella sola volta.
Il silenzio rimase nella stanza fino a quando Jean non iniziò a macchinare, battendo rapidamente i tasti del computer senza nemmeno guardarli, concentrato unicamente sulle lunghe stringhe di scritte che stavano comparendo sullo schermo.
Marco era sempre più stupito.
« Per caso sei un l’hacker? »
Ecco la prima ragione per cui non aveva indagato prima insieme a lui.
« Una specie. »
Quello che si aprì, nel giro di pochi attimi, fu la schermata degli archivi della Perseus; nulla a cui Marco e Jean non avessero accesso normalmente. Marco realizzò solamente quando vide Jean aprire la lista dei soggetti ricercati.
« Jean, non dovr-… »
« Lo sapevo! » l’entusiasmo di Jean proruppe, interrompendo Marco e facendolo tornare a fissare quella lista di foto e nomi che mai si sarebbe sognato di guardare.
Se doveva essere sincero, Jean l’aveva effettivamente infettato parlandogli di tutti i sospetti che nutriva nei confronti della Perseus, ma alla fine Marco non voleva né sabotare l’organizzazione, né credere a quelle che reputava, in un certo senso, delle sciocchezze che Jean aveva solamente immaginato.
Che dovesse ricredersi?
« Cerchi ancora di convincermi che nella Perseus c’è del marcio? »
Venne zittito dal rumore del computer che si girava contro la stoffa dei pantaloni di Jean e dal nome che compariva sullo schermo.
Mikasa Ackermann, soggetto numero 87, cella numero A-40.
« Non è possibile… »
« Eppure è qui! »
L’euforia di Jean pareva quasi malata; essere felici che la corporazione per cui si lavorava fosse in verità colma di segreti era tanto piacevole?
La schermata scomparve ben presto e Jean sistemò di nuovo il computer sul tavolo, incrociando le braccia dietro la testa e guardando Marco che lentamente sembrava realizzare come stavano le cose.
« Hanno mentito davvero. »
« Era ovvio, per loro abbiamo ancor meno diritto dei cittadini di sapere. Alla fine siamo come dei cani, no? » fece una pausa, rilassando il collo contro lo schienale del divano. « Non possiamo smettere di lavorare per loro solo perché l’abbiamo scoperto, ma è comodo avere delle armi dalla propria parte. »
 
 
Il mattino dopo la pattuglia della città era stata una delle più normali archiviabili nel memoriale di Jean: Marco aveva parlato del più e del meno, come se il giorno prima non fosse accaduto assolutamente nulla e nemmeno una volta si era sognato di intavolare qualche pensiero dubbioso.
Che stesse cercando di non pensarci per ragionarci poi da solo o che stesse tenendo il muso per non aver avuto ragione – anche se la seconda opzione non era affatto da lui –, a Jean non importava poi così tanto.
Voleva solo che sapesse, per il momento.
Probabilmente avrebbero raggiunto la Perseus tranquillamente per la loro pausa pranzo, se solo un enorme trambusto non avesse attirato l’attenzione del moro che, ancora prima che la macchina si fermasse, si era lanciato giù dal sedile del passeggero ignorando totalmente Jean che lo chiamava.
Quel maledetto era troppo avventato, troppo. In un certo senso gli ricordava lui.
La scena che si parò loro davanti non fu una delle migliori: un uomo con un cappuccio che gli copriva il volto stava reggendo saldamente una bambina, puntandole una pistola contro la testa.
« Dammi delle maledettissime medicine se vuoi la mocciosa indietro viva! »
« Ti ho già detto di non averne!! » un singhiozzo disperato che si unì al pianto della bambina che continuava a chiamare la madre con fare disperato.
Marco punto a propria volta la pistola contro l’uomo; erano a qualche metro di distanza, non l’avrebbe potuto mancare.
« Lascia andare quella bambina. » la sua voce taglio l’aria come un lampo di ghiaccio per quanto era gelida. Jean credette di sentire il sangue congelare.
Una risata malsana si spanse, mentre l’uomo stringeva più saldamente il piccolo ostaggio sotto le braccia, sibilando subito dopo. Aveva gli occhi illuminati da una luce distorta e sia Marco che Jean ne capirono ben presto la ragione: la manica leggermente alzata rivelava un segno pulsante, all’altezza del polso.
« Dipsa… »
Il nome della malattia sembrò irritare maggiormente l’aguzzino, che gettò uno sguardo al simbolo scoperto probabilmente per sbaglio. Che ragione di vanto poteva esserci, dopotutto, nello sfoggiarlo?
« Siete della Perseus no?! Dite ai vostri stupidi capi di dare a noi malati le medicine invece di tenersele per i loro maledetti esperimenti! »
Jean sentì una stretta attanagliarsi intorno al suo stomaco, stretta che divenne ancor più forte quando Marco gli parlò.
« Vi ribellate in continuazione al loro aiuto, cosa sperate di ottenere? »
In quel momento, Jean iniziò a camminare verso l’uomo tremendamente serio in viso.
« Ti darò le medicine, lasciala andare. » mormorò, attirando l’attenzione di Marco che sussultò appena.
« Le voglio prima, chi mi dice che non mi consegnerai a quei pazzi, eh?! »
« Chi dice a me che lascerai viva la bambina quando ti avrò dato quello che vuoi? »
Mettere alle strette i malati di Dipsa era una delle peggiori cose che si potesse decidere di fare, in una missione.
Jean lo sapeva e nonostante tutto, continuava a farlo: non era la prima volta e certamente non sarebbe stata neanche l’ultima, nonostante gli anni di esperienza sul campo.
Non gli era mai costato tanto come gli sarebbe potuto costare in quel momento, quando il braccio dell’infetto virò improvvisamente verso di lui e sparò un colpo che certamente sarebbe andato a segno, se solo non fosse stato bruscamente spostato da Marco.
Gli occhi si sgranarono fissando la figura dell’amico e per un attimo sentì il terrore crescere dentro di sé.
Petto? Spalla?
Dove lo aveva colpito?
Fu quando vide un fiotto di sangue espandersi sul suo cappotto e la sua schiena reggersi, seppur incurvata per il dolore, che capì quanto il bilancio finale fosse stato migliore del previsto.
Nonostante tutto, Marco si voltò verso di lui per un attimo senza nemmeno smettere di sorridere; aveva lo sguardo carico di dolore, ma gli aveva rivolto uno di quei soliti, maledettissimi sorrisi.
« Stai bene? »
Nemmeno un rimprovero.
Jean sentì solo quella frase, le urla della donna alle sue spalle che li implorava di gestire la situazione non lo raggiunsero nemmeno. Era tutto coperto da un assordante fischio che sembrava volergli impedire di ascoltare qualsiasi cosa non fosse il suo cervello.
Si chinò rapidamente a terra dopo aver afferrato la pistola e sparò un colpo, dritto in mezzo agli occhi dell’uomo, che lasciò andare la bambina.
Jean lasciò cadere a terra l’arma.
Certamente Marco l’avrebbe odiato per ciò che aveva fatto.
« Prima regola del Corpo di Difesa: se un soggetto impazzisce e non è richiesta la sua presenza in laboratorio, eliminarlo immediatamente. » lo ripeté quasi per confortarsi, ma non gli bastò per allontanare il senso di colpa che gli impedì di gioire nel vedere la madre che finalmente riabbracciava la figlia.
 
 
Raggiungere la fine della giornata fu quanto di più duro potesse essere chiesto a Jean, per quella volta, e rivedere finalmente le quattro mura del proprio condominio infuse in lui una leggera gioia, anche se perpetua.
Si lanciò verso le scale incurante di avere Marco alle calcagna e, dopo essere entrato, recuperò rapidamente un bicchiere di whisky dalla cucina.
Una volta tornato, la sua espressione mutò in stupore nel vedere la scena che gli si stava parando davanti.
« Che stai facendo? »
Marco, fino a poco prima intento a togliersi le scarpe ora sistemate meticolosamente accanto alla porta, stava stendendo la coperta normalmente raggomitolata in un angolo del divano per via del diverso modo di essere ordinato di Jean.
Marco ricordava di averla vista ben piegata e sistemata sullo schienale del comodo sofà unicamente quando era stato lui a piegarla e sistemarla.
« Mi fermo a dormire. » rispose con la più totale naturalezza.
Jean sapeva fin troppo bene la ragione per cui Marco aveva annunciato la propria permanenza lì senza accettare obbiezioni, ma lui era troppo se stesso per evitare di pizzicarlo con qualche frase provocatoria.
« Da quando sei il mio babysitter? »
Non era il solito tono pungente e acido come quando si erano conosciuti. Sembrava più che volesse scherzare, nonostante tutto.
« Da quando il piccolo Jean potrebbe rischiare di farsi fuori tutto l’alcool che c’è in casa senza di me. Vuol dire molto dividere quella quantità per due, sai? » fece una pausa, mentre un leggero sorriso gli si dipingeva sulle labbra. « Almeno per il tuo fegato. »
« Oh, allora è solo per il mio fegato che ti preoccupi! »
Aveva capito fin troppo bene, ma forse continuando a scherzarci su avrebbe potuto evitare di imbarazzarsi e diventare dello stesso colore della maglietta che, almeno secondo lui, a Marco stava veramente bene.
Si lanciò senza complimenti sul materasso del divano, sistemando le gambe su uno dei due cuscini laterali e usando l’intero fianco sinistro dell’amico come appoggio per la propria schiena.
« Beh, comunque a me non va affatto per dormire. Quindi non lo farai nemmeno tu. »
Marco doveva ammettere che la consapevolezza di rimanere sveglio a parlare con Jean non gli dispiaceva affatto.
« Mi lascerò dare ordini da te per una volta. » scherzò, scivolando appena sul divano per essere più comodo, senza però spostarsi per non rischiare di far scivolare l’amico.
Calò il silenzio, che venne interrotto solo dalla risata divertita di Jean che, stringendo le braccia intorno allo stomaco, si stava leggermente piegando in avanti.
« Abbiamo seriamente parlato del mio fegato fino a poco fa? »
« Così pare! Forse scolandoci una birra avremmo fatto meno danni! »
La risata del biondo proseguì ancora per qualche attimo, almeno fino a quando non si rese conto di un dettaglio alquanto importante in quella situazione.
Si sollevò rapidamente e si voltò, sfiorando il braccio di Marco e appurando che non era quello dove si era allegramente spaparanzato, quello fasciato per colpa del proiettile che l’aveva colpito.
Tirò un sospiro.
« Non era questo… » disse tra sé e sé come per darsi una conferma.
Marco doveva ammettere di essere leggermente sollevato all’idea di sapere che la reazione di Jean era stata dettata da quel dubbio e gli sorrise raggiante.
« Non credi che avrei urlato se ti fossi appoggiato su quel braccio? »
A quel punto Jean fece un cenno, come a nascondere che quel pensiero nemmeno l’aveva sfiorato.
Rimase a fissare intensamente e con aria persa il braccio di Marco, poi parlò di nuovo.
« Mi… mhn dispiace per oggi, Marco. Non ti saresti dovuto prendere quel colpo. »
Era talmente instabile in quel momento che sarebbe stato in grado di chiedere scusa a tutte le persone che aveva infastidito nel corso della sua vita. La priorità, comunque, spettava a Marco: il senso di colpa che aveva provato dal primo momento in cui aveva visto il suo braccio sanguinare a causa sua era fin troppo opprimente e forse era stato anche per questo che uccidere quell’uomo si era rivelata un’opzione tanto facile da scegliere.
« Jean, non devi preoccuparti! Non mi hai costretto a farlo in fin dei conti, no? Siamo amici, avresti fatto la stessa cosa! »
Il fatto che Marco non avesse fatto risaltare le scuse di Jean per prenderlo in giro  rese alquanto sollevato il ragazzo, ma comunque in quel momento non era l’orgoglio ciò che più gli premeva conservare.
Era ovvio che anche lui avrebbe fatto una cosa del genere per Marco e in un certo senso era già successo, anche se il risultato era stato ben diverso.
« Solo… so che non vorrai parlarne, ma ti posso chiedere una cosa? » il moro sfiorò con circospezione un lembo della propria fasciatura, guardando in pensiero il pavimento, come se stesse cercando le parole giuste per parlare.
Un muto cenno di Jean che intercettò con la coda dell’occhio lo spinse a proseguire. Il ragazzo sapeva perfettamente cosa Marco avrebbe chiesto o meglio, a grandi linee poteva immaginarlo.
« Come sei riuscito a… prendere una decisione del genere, Jean? »
Calò il silenzio e subito Marco si pentì di aver posto quella domanda nonostante fosse stato Jean a dargli l’assenso.
« Forse ho sbagliato, è meglio se non-… »
« Pensi che io sia un mostro, Marco? Per quello che ho fatto. » la freddezza nelle parole di Jean sembrò tornare ad essere la stessa che l’aveva intrappolato quando aveva ucciso quell’uomo.
« Non ho mai fatto una cosa del genere, prima. Ci hanno sempre preparato all’evenienza durante gli addestramenti, questo lo sai anche tu, ma sinceramente non pensavo che sarebbe mai successo. » si passò una mano sul retro del collo, sentendo le labbra tremare appena per il nervosismo. « Però è difficile da spiegare, Marco. Quando mi sono trovato lì con la possibilità di sparare l’ho fatto. Un po’ è stato perché ho pensato che avrebbe potuto ferire qualcun altro… un po’ credo sia stato per vendetta. Sai che non ho autocontrollo, no? E’ successo tutto troppo in fretta. » chiuse gli occhi, massaggiandosi lentamente le tempie come se volesse estraniarsi da quel discorso pur essendone l’indiscusso protagonista. « C’era una luce nei suoi occhi che mi ha chiesto di farlo. Non lo sto dicendo per giustificarmi… sembrava che oltre a dire “Chi mi garantisce che mi darete le mie medicine?” stesse aggiungendo silenziosamente un “Ma se non potete farlo, forse è meglio che mi freddiate qui”. »
Se non avesse saputo di poter esternare tutto con il ragazzo seduto sul divano accanto a lui, molto probabilmente avrebbe inventato una scusa e non gli sarebbe sfuggita nemmeno una goccia di quel fiume di parole che aveva appena lasciato uscire dalle proprie labbra.
Jean era stanco, terribilmente stanco nonostante gli avvenimenti fossero appena accaduti: le profonde occhiaie erano comparse di colpo, il pallore sul viso non l’abbandonava da quel pomeriggio e lo sguardo vacuo era sparito dalla vista di Marco solamente quando l’amico si era voltato dandogli le spalle.
I segni della sofferenza di Jean non l’avevano lasciato in pace nemmeno per un momento e Marco era certo che per un po’ non avrebbe potuto sperare che accadesse.
« Se pensassi a te come un mostro non sarei seduto su questo divano ora, Jean. » continuò a guardarlo. Effettivamente dall’inizio di quel discorso non aveva mai allontanato gli occhi da Jean, non una sola volta.
Voleva che si tranquillizzasse ed era convinto che dimostrandogli ciò che aveva appena detto avrebbe ottenuto ciò che voleva, seppur lentamente.
« Alla fine poi… sei stato alle regole, no? Non c’era molto altro che potessimo fare. Certamente non avrebbe negoziato perché sapeva anche lui che l’avremmo dovuto arrestare. » aggiunse pensieroso l’ultimo pezzo per poi continuare. « Però non ho mai pensato che tu fossi un assassino né nulla del genere, per questo sono rimasto qui stasera. Stai facendo credere a tutti che vada tutto per il verso giusto, ma sono certo che tu abbia dentro tanti di quei pensieri che nemmeno vuoi confidarmi! »
La facilità con cui Marco colpiva nel segno era tanto disarmante che, se solo Jean fosse stato in piedi, quasi certamente sarebbe crollato a terra sentendosi la creatura più vulnerabile e indifesa del mondo.
Però di Marco poteva fidarsi, non c’era bisogno di sentirsi in quel modo.
« Non serve che tu mi dica se ho ragione o no, va bene? Passiamo questa serata come sempre e non pensiamoci. Non ci sarà da festeggiare, ma hai comunque salvato una vita innocente e sono orgoglioso di te per questo! »
Alzare lo sguardo sconvolto verso Marco fu l’unica cosa che Jean riuscì a fare.








Angolo ~
So di essere una persona imperdonabile, non me ne vogliate, ma sono stata bloccata dalla scuola e dall'ispirazione; ora, però, sono abbastanza carica e spero di continuare a spron battuto questa storia ;_;
Che dire, non so cosa pensare di questo capitolo-- ci sono stati molti momenti in cui proseguirlo è stato un parto, altri in cui mi sono divertita parecchio e attualmente non so decidere se mi piace o meno il risultato finale.
Anche se siamo solo al capitolo due si sta già entrando nel vivo della storia perché sinceramente odio quelle che io chiamo "parti di passaggio" e tendo a inserirle solo se necessario, assimilandole in modo ridotto a tutto il resto.
Comunque spero di essermi fatta perdonare con un tantino di fluff e creando queste atmosfere in cui Marco si diverte ad entrare in simbiosi con il divano di Jean *A*/
Spero che vogliate dirmi come sempre cosa ve ne pare, intanto io cercherò di aggiornare il prima possibile!
Alla prossima!

CHAOSevangeline

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