Take a picture of me

di Niagara_R
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CC ***
Capitolo 2: *** 2. Jinxx ***
Capitolo 3: *** 3. Jake ***
Capitolo 4: *** 4. Ashley ***
Capitolo 5: *** V. Andy ***



Capitolo 1
*** CC ***


1.

Ta-daaaaaaaaaaaaaan!

Non ve l’aspettavate, eh? Ebbene sì, sono io, ma stavolta vi propongo qualcosa di molto diverso dalla mia long Look Around.

Per prima cosa vi rassicuro: Look Around è ancora in corso e sto scrivendo in questi giorni il capitolo 14, quindi niente panico, sono in ritardo ma non me lo sono certo scordata.

In secondo luogo, quella che ho appena pubblicato è una pentalogia di one-shot, ciò significa che ci saranno 5 capitoli, ognuno dedicato a un membro della band, e il filo che li accomuna tutti quanto sono le immagini, e relativo testo.

Siccome sono un’autrice che ama gli esperimenti, ho preso alcune di queste scritte che mi sono parse significative e ho provato a metterle in relazione coi BVB, con un membro sempre diverso, adattandomi alle loro personalità e sfruttando gli eventi reali che accadono loro.

Che dire? Naturalmente sono storie inventate, sono introspezioni in cui ho cercato di sondare il loro modo di essere e le loro reazioni alla vita, e spero di essere riuscita a creare qualcosa di credibile e godibile al tempo stesso.

Come al solito mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, e... qualche parolina - che sia di apprezzamento, di dialogo o di critica - non fa mai male. :]

Buona lettura, e già che ci sono, buon anno.

E se sarà il caso, lasciatemi pure una lacrima.

















CC

ATTENTION: When it comes to me, don't have ANY expectations for ANYTHING.

There, now I won't hurt anyone else's feelings.

Mi sento un idiota ad averlo scritto. Mi sento uno di quegli sfigati che cercano di elemosinare attenzioni sbandierando i propri sentimenti ai quattro venti, sperando che l’unica persona giusta li legga e provi qualcosa.

Che cosa vorrei che provasse Lauren leggendo questa frase?

Rimpianto? Rimorso? Nostalgia? Tristezza? Affetto?

Tutto.

Vorrei che provasse tutto questo. E che tornasse.

Che tornasse da me, che mi ascoltasse, che accettasse le mie scuse, che dimenticasse le mie stupide parole, che cercasse di venirmi incontro e che mi illuminasse con quel sorriso che mi rendeva me stesso.

Non mi sento più io da quando se n’è andata.

E se n’è andata per colpa mia. Come ho potuto permettere che accadesse?

E dire che non l’ho ingannata. Non l’ho trattata male. Non l’ho dimenticata. Credo di... di averla data per scontata.

Ho dato per scontato tante cose da quando sono diventato il CC che tutti conoscono. Ho dato per scontato tante persone.

Vorrei riuscire a inserire il pause nella mia vita di merda per prendermi tempo, soltanto un po’ di tempo, per capire cosa cazzo mi sta succedendo intorno e per riprendere le redini di una nuova vita che ha cliccato il fast forward all’improvviso.

Prima ero Christian, un cazzone batterista che amava esibirsi nei locali glam assieme a gente cazzona quanto me, che finiva la serata a sbronzarsi in compagnia del proprietario e delle rispettive fidanzate storiche, immortali, quelle che avevano avuto la pazienza di starci dietro per anni sostituendosi a sorelle, a madri, ad amiche, che ci hanno sempre sostenuto anche quando le cose andavano male, veramente male.

Adesso sono CC, il batterista ufficiale dei Black Veil Brides. Vado in Australia, in Europa, in Giappone, per tutti gli States, a suonare di fronte a un numero sempre maggiore di persone. Persone non sono più lì per caso, per bersi l’ultima birra della mezzanotte o per dimenticare un chissà quale problema esistenziale, ma persone che sono lì per noi.

Alcune di queste persone sono lì anche per me.

Per me.

Sono diventato il centro del mondo per qualcuno, sono diventato un faro, una leva, l’ago di una bilancia che non ho mai visto ma su cui vengono pesate giornate di individui che neanche conosco. Io non ci volevo credere, all’inizio, pensavo che subentrare a Sandra sarebbe stata una sorta di croce che avrei dovuto portare in eterno, bollato come seconda scelta fino alla fine dei tempi. Invece no.

Invece per alcuni sono l’unico. L’inimitabile. Quello strano. Quello fuori di testa. Quello che fa la faccia da coglione in mezzo a quattro fighetti tutti seri e intimiditi dagli obiettivi - anche se non lo ammetterebbero nemmeno con una pistola puntata sulle palle.

Sono cambiato quando ho varcato la soglia che divideva Christian da CC?

No. Non credo. No.

Io sono io. Sono sempre stato io. Sono sempre stato un idiota, uno che ama il casino ma che lo lascia fuori dalla porta, uno che torna da mamma e papà quando ha una settimana di vacanza e che si diverte da matti a giocare a Twister da brillo con gli amici con cui veniva sospeso al liceo.

Perché allora per Lauren non andava più bene? Perché non andavo più bene?

Non l’ho mai tradita, non sono mai andato oltre il flirt da contratto con le groupies, non ho mai fatto nulla per meritarmi il suo disprezzo o la sua riprovazione, non le ho mai mancato di rispetto e di certo non sono diventato qualcuno che lei non conoscesse.

Eppure l’ho ferita. E non come quando mi sono completamente dimenticato il nostro anniversario e l’ho fatta aspettare per due ore sotto la neve al parco, e neppure come quando ho svelato senza volerlo un altarino della sua famiglia che mi aveva rivelato perché si fidava di me.

L’ho ferita nel profondo. L’ho fatta stare male non per una cosa specifica, ma per un agglomerato di minuscole motivazioni che si sono legate e unite, che hanno formato pian piano la sostanza dei miei giorni, influenzando anche i suoi. A quanto pare, non voleva che accadesse.

Ma cosa potevo fare?

È vero, sono un ragazzo semplice, che si accontenta di poco e che è felice di quello che ha e non di quello che potrebbe avere. Ma ho anch’io delle ambizioni. Le ho sempre avute.

Entrare in una band e crescere con essa mi ha mostrato cosa ci fosse oltre le porte che avevo sempre visto chiuse. Ho imparato i meccanismi dello showbiz, le dinamiche degli eventi, le regole implicite che qualunque star deve rispettare per sopravvivere, e l’ho fatto senza pensarci, così, agendo con naturalezza, sbagliando di tanto in tanto e correggendomi. D’accordo, non sono la più furba delle rockstar né quella più famosa, ma lo preferisco.

Preferisco che il successo che si sta accumulando nei pressi nel nostro nome - e del mio - ascenda poco a poco, giorno dopo giorno, canzone dopo canzone, invece di un’unica cascata di notorietà che probabilmente ci travolgerebbe come un’onda, me per primo.

Sto meramente dimostrando che la mia capacità di resilienza è elevata, che sono un organismo adattabile, che se cambiano i ritmi riesco a stare al passo e non ne vengo sconvolto.

È un errore, il mio?

Non è colpa mia se io e Lauren non siamo più riusciti a viaggiare su binari gemelli da quando il mondo ha preso a ticchettare a velocità raddoppiata.

Non è neanche colpa sua.

Non è... colpa di nessuno.

Vorrei potermi arrabbiare per questo.

Vorrei incazzarmi, scaricare il peso di ciò che è successo su qualcuno, su qualcosa, su una serie di eventi specifici così che possa rimuoverli, metterli alla berlina, riviverli e cercare di mettere una pezza nel punto in cui hanno cominciato a procedere storti, ma non c’è nulla.

È successo.

È successo che io e Lauren, da quando ci siamo incontrati anni e anni fa, camminavamo fianco a fianco sulla stessa strada.

Poi sono arrivate le incombenze, le responsabilità, i doveri, i diritti, le possibilità, le opportunità, l’evoluzione. E ci siamo accorti che non eravamo più l’uno accanto all’altra.

Forse ce ne siamo accorti troppo tardi, o forse no.

L’esito di noi sarebbe stato diverso se avessimo fatto caso ai microscopici segnali del nostro allontanamento? Avremmo fatto qualcosa per porvi rimedio e avrebbe funzionato? O sarebbe finita così in ogni modo?

Non lo so. Vorrei non saperlo.

Vorrei tornare a pensare come quando ero ragazzo, e cioè che esiste l’anima gemella, che esiste quella fantomatica altra metà dell’anima, e che basta trovarla per essere felici fino alla fine dei nostri giorni.

Io ci credevo, ci credevo sul serio.

E credevo che fosse Lauren la mia anima gemella. Lo spicchio di mela che combacia col mio, il pezzo di puzzle che si incastra col mio, la tessera che completa il mosaico della mia esistenza dandole uno scopo degno di essere perseguito con tutte le forze.

Sono un cazzo di romanticissimo illuso.

Ha fatto male scoprirlo.

Ha fatto male scoprire che sono tutte stronzate.

Ha fatto male scoprire di non essere parte di un intero, ma individuale e indivisibile.

Ha fatto male scoprire che la mia anima è già un intero, e che le sue onde possono sì andare di pari passo con quelle di altri, ma che non lo faranno per sempre.

L’amore finisce. Adesso lo so.

Anche l’amore vero. Quello che fa stare svegli la notte in attesa di una telefonata, quello che rimette in discussione i piani per il futuro, quello che fa riconsiderare i film come Titanic, quello che ti fa sentire una persona migliore perché per la prima volta in vita tua ti senti all’altezza del resto dell’umanità. Finisce.

Finisce e in mano ti rimane un’amarezza che non sai come spiegare.

Lauren se n’è andata perché non è come le altre.

Per le altre viene prima il CC batterista con la lacrima disegnata sul viso come un Pierrot grottesco, tragicomico e adrenalinico.

Per lei veniva prima il Christian che si veste di merda, che ogni tanto si dimentica il passaggio alla batteria e che ha una fissa maniacale per la cura odontotecnica.

Voleva me, voleva il me che sono stato, che sono ancora, ma non voleva il CC dei Black Veil Brides che ha aspettative più articolate, più ampie, più lontane.

Non ho perso la mia semplicità, ma si è spostata su un piano differente che non prende più in considerazione solamente la grande ma non infinita Los Angeles, ma l’intero globo.

In fondo avrebbe dovuto saperlo, no? Suono la batteria da quando avevo sette anni, da quando ero alto meno di una grancassa. Possibile che non abbia mai preso in considerazione il fatto che presto o tardi avrei voluto emulare Bonzo, o Chad Smith, o Dave Grohl? Che avrei voluto diventare un nome da ricordare, una visione da venerare, un suonatore da inserire negli annali?

Eppure ne era cosciente.

Eppure non facevo altro che parlargliene.

Eppure lei mi aveva sempre dato la spinta necessaria per continuare a provarci.

Perché adesso che ci sono riuscito, mi ha voltato le spalle?

«Perché siamo diversi, Chris.» mi ha detto.

Una delle poche che ancora mi chiama Chris. Io ormai quando sento il nome Chris penso al padre di Andy, non a me.

Diversi? Le ho risposto che noi due non siamo mai stati diversi. O non saremmo mai andati d’accordo.

«Siamo diventati diversi, Chris.»

In quel momento ho sentito l’incudine del presente calarmi addosso fino a schiacciarmi.

Non sono mai stato un tipo che capisce le cose al volo, io.

Lauren mi stava dicendo che eravamo cresciuti. Che eravamo diventati adulti, e non adulti nel senso che d’ora in poi nessuno ci avrebbe chiesto l’età prima di servirci un alcolico o che ci avrebbero penalizzato la patente se avessimo fatto qualche puttanata al volante.

Siamo diventati adulti nel senso che ora le nostre decisioni hanno un peso che condiziona non solo noi, ma anche chi ci sta intorno.

E le mie decisioni stavano diventando troppo pesanti per lei. Senza che io lo volessi. E lei lo sapeva.

Sapeva che non lo facevo apposta, sapeva che ero in buona fede, sapeva che continuavo ad amarla. Ma io non sapevo che lei non riusciva a starmi dietro.

Non sapevo che soffrisse così tanto quando ero lontano.

Non sapevo che soffrisse così tanto quando nei miei pensieri c’era una presentazione e non lei.

Non sapevo che soffrisse così tanto quando improntavo i miei progetti per l’avvenire su lei e sulla mia carriera.

Avrei dovuto farmi un esame di coscienza e chiedermi: se fosse successo a lei, io come avrei reagito?

Come avrei reagito se avessi dovuto condividere le attenzioni di Lauren con l’ingombranza proliferante di un fama totalizzante? Mi sarei sentito ignorato, messo da parte, accantonato? Dato per scontato?

Non riesco a biasimarla, per quanto forse la cosa mi farebbe sentire un pochino meglio.

Da vera donna, ha preso lei una decisione.

E perché l’ha fatto?

Perché sapeva che se avessi fatto io la scelta, mi sarei tormentato ogni attimo, ogni istante, ogni momento, fino alla morte.

Mi ha salvato dall’angoscia. Mi ha salvato da me stesso.

Mi ha lasciato, permettendomi di rimanere nei BVB, permettendomi di rimanere il CC che sono diventato.

Un frammento del Chris che sono stato se n’è andato via con lei.

Quando abbiamo discusso ho detto cose che non pensavo, ho concesso alla frustrazione di uscire sottoforma di parole e l’ho accusata di azioni che probabilmente non aveva mai commesso in vita sua. Tipo fregarsene di me e delle mie aspirazioni.

Quando so benissimo che è stata l’unica che mi abbia mai davvero sostenuto con ogni sua risorsa.

Ma so anche se lei sapeva che stavo delirando, e so che sapeva che lo sapevo.

Mi ha dato il tempo di sfogarmi, di riprendere a respirare dopo lo shock, e se n’è andata. Silenziosa. A testa china, senza una lacrima, con le mani in tasca e le labbra contratte perché c’era ancora tanto che voleva essere pronunciato, ma non ha voluto che succedesse.

Questo è il suo modo di fare. Immutato.

Niente ripensamenti, niente tira e molla, niente illusioni: una troncatura netta e violenta, lo strappo secco del nastro adesivo da sopra la bocca, voltare pagina e strappare tutte quelle che l’avevano preceduta.

L’ha fatto per il suo bene. Si è curata di farlo anche per il mio.

Dovrei essere libero, ora.

Libero da cosa? Da un amore che mi aveva riempito le giornate? Da una donna con cui avrei voluto invecchiare? Da una routine che mi ricordava il vecchio Christian e per un po’ mi consentiva di tenere il nuovo CC sopito da qualche parte?

Sento di traboccare di così tante emozioni da non riuscire a buttarle fuori. Non riesco a vomitarle addosso a qualcuno, non riesco ad attribuirle a nessun specifico torto, non riesco ad assimilarle.

È come una sbornia, una colossale sbornia di fine anno.

Posso solo aspettare di piombare addormentato su un divano e che l’alcol evapori da sé.

Solo che fa male.

Fa male perché mi manca.

La verità è che mi manca, tutto il tempo, ogni secondo, ogni minuto, ogni ora, ogni giorno.

E questa mancanza non è un vuoto ma una scheggia solida, è una mole che impedisce a qualunque altra cosa di prendere il suo posto, non so come scacciarla e mandarla via, non so come liberarmene, non so cosa farmene di questo dolore costante, stridente, sotterraneo e pulsante, che emana fitte irradianti non appena scorgo una qualsiasi sciocchezza che mi ricorda lei, che mi ricorda noi.

La amavo. La amo ancora. Non so quando smetterò di farlo. Non so se succederà mai.

Mi sento insicuro, ora.

Sono cosciente di chi sono stato e di chi sono, ma ho paura che sia la percezione che hanno di me gli altri a essere cambiata.

Mi spaventa perché ho una natura spontanea, chiassosa e leggera, mi spaventa perché ho l’impressione che il fatto che il mio nome sia su locandine appese in mezzo globo mi renda automaticamente un archetipo. Mi spaventa perché questo archetipo è predefinito, ritagliato su misura, e non mi corrisponde.

Mi spaventa perché forse sto cercando di separarmi da quell’archetipo ma in realtà sto maturando davvero, e le due cose si mischiano, si scontrano, sputano scintille, e mi rendo conto che più saranno le persone che incontrerò, e più ai loro occhi apparirò come un’ideale e non come me.

Lauren era la ragazza capace di scostare le coltri che mi potevano essere cucite addosso e guardare il mio vero io, riconoscendolo tra le pose, tra le maschere, tra le bugie. Adesso se n’è andata.

Adesso mi rimane solo me stesso per guardarmi allo specchio, e quello che vedo è l’immagine di un tizio troppo magro che ha troppo inaspettato spazio accanto a sé.

Il cellulare vibra, vorrei fare finta di non sentirlo. So che non è Lauren. So che non tornerà più.

Allungo il braccio perché detesto sapere le cose in ritardo.

Ti va serata devasto? ;)

Sorrido.

Quando sono entrato nella band pensavo che Ashley sarebbe stato quello che mi sarebbe stato sul cazzo. Pensavo fosse il presuntuoso puttaniere del gruppo, quello che parla sempre di figa, di quanto è figo, di quante fighe gli vanno dietro perché è figo, e che snobba le persone quando si tratta di parlare di argomenti che non siano la sua linea di abbigliamento, il suo basso e le sue fighe.

Invece è quello con cui ho un rapporto migliore.

Certo, con Andy, Jake e Jinxx è tutto perfetto, e formiamo una squadra fantastica, ma è Ash con cui riesco a rilassarmi davvero. Forse perché è quello che mi capisce meglio, e senza dovermi interrogare.

Osserva, ascolta, analizza, ma non ficca il naso. Comprende.

Da quando io e Lauren ci siamo lasciati, mi trascina di locale in locale per trincare qualcosa, non da perdere i sensi ma giusto quel tanto che basta che stordirmi e farmi ridere come un cretino per un nonnulla. Chiacchiera del tutto e del niente come se quei discorsi inutili se li fosse ripassati migliaia di volte, ma mi distrae, sa glissare sui punti che fanno più male e mi sa dare buoni consigli quelle poche volte che ho il coraggio di chiederli.

Sospetto che se volessi davvero sfogarmi riguardo a Lauren saprebbe dirmi verità che mi farebbero soffrire come un cane, che mi farebbero riflettere fino a consumarmi i neuroni, che potrebbero portarmi molto vicino al desiderare di tagliarmi le vene, ma che sarebbero vere, dalla prima all’ultima. E che forse, dopo un’iniziale depressione prevaricante, potrebbero aiutarmi a lasciarmi alle spalle tutto questo.

Lo sospetto perché credo che anche lui stia combattendo contro il dolore. E lo sta facendo da molto più tempo di me.

Ma non sono ancora abbastanza eroico da chiedergli cosa io possa fare per farlo stare meglio.

Non sono ancora abbastanza eroico neppure per sfogarmi sul serio.

Digito la risposta.

Dammi 10 minuti e scendo. Stasera ci sfondiamo.

Lascio cadere il cellulare sul plaid e sospiro, abbandonando la testa sulla spalliera.

Sono stanco di rimuginare. Stanco di affliggermi. Stanco di rivivere il nostro litigio a ogni battito di ciglia. Stanco di domandarmi se avesse ragione. Stanco di torturarmi su chi avrei scelto tra Lauren e i Black Veil Brides se fosse stata così meschina - o così afflitta - da pormi di fronte al bivio. Stanco di sentire la sua mancanza.

Stanco di avere il timore di non riuscire mai più a essere felice come sono stato con lei.

Mi alzo dal divano e vado in camera da letto per infilarmi qualcosa di umanamente guardabile. Infilo in tasca lo stretto necessario per una notte brava e abbandono il telefonino nascosto tra i cuscini. Anche solo sentirne i grammi sulla coscia mi riporta alla mente brutti ricordi, e non li voglio.

Come sfondo ho ancora la nostra foto.

Prendo la porta ed esco, avviandomi verso l’ascensore dell’albergo, immaginando che Ash sia già nella hall, mentre gli altri sono persi nelle loro vite, nei loro problemi, nelle loro gioie.

Vorrei ubriacarmi tanto da dimenticare tutto.

Vorrei saper aiutare chi sta aiutando me.

Vorrei avere la certezza che un giorno sarò guarito.

Vorrei che non facesse così male.

Vorrei non essere così deluso da me stesso.

Vorrei che lei fosse qui.

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Capitolo 2
*** 2. Jinxx ***


2.

Jinxx



 Dove ho sbagliato?

Mi ripeto questa domanda in loop, è diventato il mio mantra, la mia filastrocca triste, il ritornello di una canzone che vorrei non aver composto.

Dove ho sbagliato?

Sento freddo, e vuoto, un vuoto così laconico e impietoso che mi sventra i polmoni a intervalli, quando meno me lo aspetto, strappandomi il respiro e facendomi singhiozzare prima ancora che il cervello capisca che è stato il cuore ad avere uno spasmo.

Dove ho sbagliato?

Ho avuto mesi per assimilare la cosa, ma quando è diventata ufficiale ho tremato. La mia dimensione ha tremato. Le mie fondamenta hanno tremato. Il terremoto ha distrutto tutto ciò che avevo costruito.

Dove ho sbagliato?

Perché Sammi mi ha tradito?

Perché, perché, perché?

Cosa ho fatto per meritarmelo? Quale delle due sponde aveva l'argine meno stabile? Su quale si sono concentrate le cattive intenzioni? Cos’è successo?

Domande, non faccio altro che pormi domande da allora, domande che si moltiplicano, che mettono radici, che si ramificano, che scivolano e si contorcono, che assumono sfumature di disagio, di amarezza, di rabbia, di impotenza, di rancore, di disperazione, e nessuna ha una risposta.

Dove ho sbagliato?

Ho davvero sbagliato io? O è stata lei a commettere questo errore? Un errore più grande del tradimento stesso, un errore più strisciante, più remoto, uno che si inabissa e arriva ben più lontano dello scopare con un altro? Abbiamo sbagliato entrambi?

Probabile. Sicuramente.

So di non essere perfetto, Sammi sa di non essere perfetta, lo sapevamo entrambi, l’abbiamo sempre saputo.

Allora perché è andata così?

Eravamo partiti tanto bene. Avevamo continuato tanto bene.

Il mio errore più fatale è essere uno che ci crede troppo, e troppo presto. Credo nelle persone generose, nelle buone intenzioni, nelle belle parole, tendo a vedere il rosa e mi accorgo del nero soltanto dopo, soltanto quando l’ho visto manifestarsi con una violenza che ha avuto il tempo di prosciugarmi.

Lo confesso, sono stato io a metterle fretta. A lusingarla, a legarla a me, a chiederle di sposarmi dopo poco. Dopo un periodo talmente breve e talmente intenso che mi aveva fatto credere di essermi trasformato in una fiamma che presto si sarebbe consumata.

La amo. Nonostante tutto, la amo sul serio. Per Sammi provo qualcosa che va oltre la mera infatuazione, non era solo sesso, non era solo affetto, non eravamo solo una coppia. Eravamo il nucleo di un mondo. Il nostro mondo fatto di serate passate ad ascoltare musica di pianoforte dallo stereo, fatto di fotografie per metà serie per metà stupidaggini che non sarebbero mai state viste se non da noi, fatto del nostro linguaggio intimo con cui ci studiavamo, fatto delle nostre risate dovute a frecciatine maligne ai danni di terzi non presenti, comunicavamo e ci comprendevamo riuscendo a tenere fuori chiunque altro dal nostro esclusivo universo.

Eravamo complici, amanti, amici, a volte nemici, eravamo avvinghiati nella medesima ragnatela che avevamo intessuto insieme, e la adoperavamo come scusa per stringerci quando ce n’era bisogno, e anche quando non ce n’era bisogno.

Sammi era la mia ancora, il mio obiettivo, il mio pensiero unico, la mia confidente, il mio porto sicuro, lei era la donna a cui pensavo prima di crollare dal sonno dopo un concerto, a cui pensavo quando mi svegliavo con la testa che galleggiava nell'etere, a cui pensavo ininterrottamente secondo dopo secondo. Pensavo a cosa avrebbe potuto piacerle e cosa no quando guardavo fuori dai finestrini nel bus, pensavo a cosa regalarle per il nostro anniversario, pensavo a cosa suonarle il giorno del suo compleanno, pensavo a dove portarla per concederci una vacanza lontano da tutto ciò che siamo.

Pensavo, pensavo, pensavo.

Poi ci ho sbattuto contro. Brutalmente. È stato peggio di un incidente in auto. Peggio di essere travolto da uno tsunami. Peggio di essermi rotto un osso e venire operato senza anestesia. Peggio di vedermi strappare a mano le viscere.

«Ti ho tradito.» È stato così che me l’ha detto. Un attimo prima si guardava la punta delle ballerine in silenzio, l’attimo dopo mi ha guardato negli occhi e ha raccontato. L’ha reso reale.

Sapevo.

Lo sapevo già.

Ero innamorato, non stupido.

Mi ero accorto che da pochi mesi dopo il nostro matrimonio qualcosa aveva preso una strana direzione. Non sbagliata né brutta, ma strana. Non riesco neanche ad asserire che ci fossero stati dei segnali, perché non erano segnali.

Erano cambiamenti. Cambiamenti che avevo ritenuto normali, perché le nostre vite avevano cominciato a procedere di pari passo, perché avevamo preso un impegno sacro, perché d’ora in poi le nostre esistenze sarebbero state ineluttabilmente intrecciate.

Credevo che entrambi saremmo mutati, e che l’avremmo fatto conformandoci l’una all’altro.

Sono stati i segnali non interpretabili che mi hanno fatto intuire. Che mi hanno fatto capire.

Lentamente, nella perfezione della nostra armonia hanno cominciato a gocciare dettagli che non comprendevo. Minuscoli, sporadici, indefinibili, confutabili. Dettagli che non conoscevo. Dettagli che non ho voluto analizzare.

Ho perso giorni, settimane per autoconvincermi che le mie erano paranoie, che mi stavo suggestionando, che c’era una spiegazione a tutto.

Perché? Perché l’amavo. Le avrei perdonato ogni cosa.

La amo ancora. La perdonerei anche adesso.

Non sono il massimo dell’espressività e non sono bravo a dimostrare i miei sentimenti, ma accusai quel colpo a scoppio ritardato, fu come se mi fossi ritrovato in una vasca battesimale immerso nell’acqua fino ai capelli e stessi per ricevere un’epifania che però tentavo di rifiutare. No no no, non mi interessava. Non poteva essere la mia vita, non poteva essere la mia Sammi. Non potevamo essere noi.

Immagino che Sammi si sia accorta del mio sconcerto, ma non si è fermata. Non l’aveva mai fatto.

Mi disse che lui era un fotografo, uno di quelli che aveva conosciuto su un set, ragazzi appena usciti da un master che prostituiscono le loro rudimentali capacità per una manciata di soldi e il miraggio della notorietà. Mi disse che non le stava particolarmente simpatico, che anzi era insipido, che non le aveva mai fatto né caldo né freddo. Mi disse che era bello, carino, ma niente di che.

Mi disse che erano finiti a fare sesso perché l’atmosfera, il momento, le circostanze erano perfette per farlo. Tutto lì. Mi aveva tradito perché colta da un brivido di poetico attimo di perdizione piuttosto perché avesse accanto a sé qualcuno con cui desiderava farlo.

Io vacillai. Credo di essere stato sul punto di svenire. La mia vista si è ridotta a una costellazione di galassie morenti e le mie forze sono scivolate via, con la coscienza che bramava di spegnersi all’istante per non dover reagire oltre.

Non volevo sentirlo. Non volevo affrontarlo.

Mi piacerebbe poter dire di essermi vergognato del mio istinto di fuga, a posteriori. Ma non sarebbe vero.

Avrei voluto che Sammi non me l’avesse detto. Avrei voluto che avesse continuato a glissare, a tenermelo nascosto, a fare finta di nulla. Avrei voluto che me l’avesse risparmiato. Che ce l’avesse risparmiato.

Sono un debole, c’è poco da fare. Sono un abitudinario. Uno di quelli che non amano gli scossoni nella vita, che quando adottano un ritmo lo fanno proprio e si getterebbero nel fuoco pur di non romperlo.

Sammi e il mio amore per lei erano diventato il mio ritmo, le lancette che scandivano le mie giornate, le mie andate e i miei ritorni, e avrei dato entrambi i polmoni per far sì che il mio metronomo perfetto non cessasse di battere.

Sammi non è stata d’accordo.

Sammi.

Sammi, che forse è sempre stata troppo forte per me.

Sammi, che quando c’è qualcosa che non va alza la testa e indaga, squarcia, strappa, scava finché non trova il nocciolo della questione, una questione che per lei è un problema, mentre per me potrebbe benissimo essere una digressione.

Sammi, che con la sua proba onestà coniugale non è riuscita a nascondermelo per più di poche settimane. Che quasi certamente ha provato a convivere con questo segreto, ma non l’ha sopportato. Che era logorata dal rimorso, dal senso di colpa, dal terrore di non essere sincera.

Sammi è un essere di una sincerità che spiazza, che spaventa, talmente limpida e impattante, fa sentire a disagio perché una verità sconcertante e dolorosa quando esce dalle sue labbra diventa asettica, corrosiva, straripante e aulica fino a rasentare il dicotomico.

Ho letto nel suo sguardo il tumulto, il panico, la commozione, l’ira, l’emozione, l’umiliazione, e riversava tutto su di sé. Non era felice di avermi tradita, e il rimorso stava eruttando e si stava solidificando in una lastra dura, si riversava nelle lacrime che si stava rifiutando di versare, nella contrazione delle dita che si sfregavano, nella voce che possedeva solo quel flebile sussulto degli eroi che cadono.

E io sprofondavo. Affondavo. Annegavo in un oceano di marosi che mi trascinava su un fondo torbido, in cui avrei voluto perdermi, lontanissimo dalla purezza sprigionata dalla lealtà di Sammi.

Tra quelle sillabe cadenzate, tra quelle parole pronunciate con un velo di sollievo, nelle pause prima e dopo ho visto il mio matrimonio lacerarsi. Come la carta patinata di un regalo. Come un festone penzolante dopo un party. Come un fiocco invecchiato in un angolo della soffitta.

Il punto era che sapevo che il passo che avevamo mosso fianco a fianco si sarebbe rivelato una retromarcia non perché Sammi mi aveva tradito, ma perché lei non poteva sopportare l’idea di averlo fatto.

Confesso.

Ero pronto ad assolverla. A lasciar correre. A considerare questo scivolone come una tappa non fondamentale ma possibile di uno sposalizio.

Ma sapevo che per Sammi non andava altrettanto bene. Anzi. Credo di essermi reso conto che era successo perché era il nostro matrimonio a non andare bene.

Non dico che non eravamo compatibili. Non dico che non ci amavamo. Non dico che non stavamo bene insieme. Ma.

Ma tra noi mancava qualcosa.

Ma quell’alchimia, quell’incantesimo soffocante e assuefante non era calato su di noi.

Ma per quanto fossimo convinti di essere stati creati l’uno appositamente per l’altra, non era così.

Ci volevamo bene, ci completavamo, ci cercavamo.

Sulla carta era il disegno dell’idillio.

Nel cuore era calma piatta.

Mi ha fregato la diversità.

Io sono un moderato, lei è una passionale. Io sono un costante, lei è un’avventurosa. A me l’amore nei ranghi bastava, a lei no.

Presumo che sia proprio questo il giunto che mi ha fatto inciampare.

Gli altri dicono che mi sto colpevolizzando, e inutilmente, dicono che sto scaricando l’intero peso di questo fallimento sulle mie spalle e non ne sto dando neppure una briciola a Sammi, ma non ci posso fare niente, sono tarato in questo modo.

Ovvio, sono cosciente che Sammi ha commesso i suoi sbagli. Accoppiarsi con uno scialbo neo-laureato senza nessuna qualità. E forse sposarmi.

Ma non riesco a togliermi dalla testa il fatto che avrei dovuto immaginare, avrei dovuto prevedere, avrei dovuto prevenire. Per salvare lei da una routine che l’ha schiacciata e inaridita, e che infine l’ha mortificata. Per salvare me da un dolore che mi fa sentire una stupida bandiera che barcolla al minimo alito di vento.

Sto male. Sto male in modo subdolo, ossequioso, il dolore che provo è cicuta, non provoca contrazioni né fitte ma mi addormenta piano piano, lentamente, respiro dopo respiro inebria i sentimenti e li offusca, li ricopre di uno strascico lattescente e opaco facendoli sfumare, e gli aloni pulsano e mi ricordano costantemente che ho perso tutto.

Cos’è rimasto di me?

Coriandoli. Il lembo di uno straccio. Cenere.

Ora mi sento inerte. Mi sento sostanza, mi sento corpo, ma non mi sento energia. Mancano le batterie, il carburante, l’innesco, sono come un reagente senza prodotto che se ne rimane nella beuta evaporando all’aria dimenticato da chiunque.

Che ne sarà di me? Non lo so.

Forse sono un egoista. Forse il motivo per cui mi metto al centro di questo enorme, pantagruelico crollo è perché avevo riposto su me stesso aspettative illusorie. Forse mi ero convinto di essere quello giusto, quello che l’avrebbe fatta sempre sentire una dea in terra, quello che l’avrebbe resa felice.

Non ho tenuto conto del fatto che avrei anche potuto non bastarle per come sono. E mi sento uno schifo per questo.

Mi sento uno schifo perché mi sento uno schifo per un motivo così futile.

È da allora, è da mesi che rivivo la nostra storia a bivi cambiando di volta in volta le destinazioni, figurandomi in mente scenari diversi che avrebbero potuto verificarsi se io non avessi fatto questo, se io non avessi detto quello, tormentandomi nell’atroce dubbio che avrei potuto far andare meglio le cose.

Sarebbero andate meglio davvero? Sammi si sarebbe stancata di me e avrebbe chiesto il divorzio anche senza un tradimento di mezzo, che alla fin fine si è rivelato un sintomo e non una causa?

Non lo so, non so un cazzo, e queste fottute incertezze mi stanno destabilizzando ogni giorno che passa.

Guardo indietro, non riesco a guardare avanti. Non voglio.

Posso scopare con tutte le ragazze che mi si presentano, posso sbronzarmi con Ash e CC sghignazzando come un idiota, posso fare il figo con Andy e Jake dicendo che me la caverò anche senza di lei, ma in realtà non ci sto neppure provando.

Mi manca.

Mi mancano i momenti in cui eravamo insieme, quelli in cui eravamo lontani, mi mancano i nostri sms, le nostre telefonate, i suoi baci e i suoi abbracci, mi manca come facevamo l’amore, la sua voce, quel suo profumo agro che si spruzzava la mattina, mi manca il modo improbabile con cui piegava i tovaglioli. Mi manca lei, mi manco io. Mi manca il noi.

Mi sento bloccato. Mi sento come se fossi il personaggio di un videogioco e fossi finito in un livello intermedio, ritrovandomi senza punti vita, senza armi, senza bonus per poter accumulare forza e procedere. Limitato in un limbo sgranato che rende sgradevolmente ovattato ciò che c’è all’esterno, e acutamente lacerante ciò che c’è all’interno.

I ragazzi conoscono la verità. Conoscono i fatti, non le mie riflessioni. So che non approverebbero.

Inoltre non voglio dare loro un motivo per destabilizzarsi a loro volta. Non credo ce ne sia bisogno.

Sono il più grande della band, sono un po’ il fratello maggiore di ognuno. Sono quello pragmatico, flemmatico e calmo, imperturbabile e introspettivo. Sono quello su cui fanno affidamento quando c’è bisogno di delegare un dovere, e sono quello a cui si rivolgono quando hanno bisogno di parlare di qualcosa di serio, di più serio del solito.

Non voglio cadere. Non voglio far perdere un caposaldo, non voglio mostrarmi sofferente quanto sono in realtà, non voglio abbandonarmi platealmente allo sconforto chiedendo una pausa che mi permetta di assimilare quel che sto vivendo.

Non voglio, perché probabilmente non mi riprenderei mai più.

Non voglio perché la realtà diventerebbe concreta, soffocante, brutale, e non riuscirei a sopraffarla.

Non voglio perché sono io ad avere bisogno dei BVB per continuare a combattere, e magari riuscire a disincagliarmi da questo dannato, stupido livello fatto di riflessi deformati.

Ho bisogno delle chiacchiere infinite di Andy, delle fisse di Ash, delle fisime di Jake, delle stranezze di CC, ho bisogno dei tour, della musica, del bus, delle arene, delle urla, ho bisogno di sapere che esiste ancora la dimensione in cui travalico in un altro cosmo e posso sentirmi di nuovo un essere vivente.

La piccola, sottintesa bugia che racconto loro col linguaggio non orale è che lo faccio per dimenticarla.

La verità è che lo faccio sperando di distrarmi mentre aspetto che torni.

Invidio CC.

Non gli avrei mai augurato di rompere con Lauren, con cui sapevo aveva sempre avuto un rapporto meraviglioso, ma se n’è già fatto una ragione. Penso si sia spezzato. Penso che abbia passato diversi giorni col cuore che grondava sangue dalle troppe ferite che si erano aperte, poi si è risvegliato, con l’anima bruciata ma pronto a curarla. È affranto, ma non disperato. È distrutto, ma non arreso.

Sa semplicemente che Lauren non tornerà. E si sta muovendo di conseguenza.

Mi sento così impotente. Mi sento così ingrato, patetico e pavido nell’accorgermi che desidero che Sammi cambi idea. Dovrei essere arrabbiato, furioso con lei per essere andata a letto con uno sfigato inconcludente invece di guardarmi in faccia e parlarmi dei nostri problemi, dovrei essere pieno di cattiveria adrenalinica che mi dovrebbe spingere tra le braccia di tutte le donne che incontro per scoparmele e pensare che ogni orgasmo è un modo per mandare affanculo l’unica che mi aveva e che mi ha gettato via, dovrei essere sollevato di essere di nuovo sul mercato, single e con il mondo in mano pronto a farne quello che mi pare.

Invece no.

Invece mi sento così debilitato da avere bisogno di prendere vitamine per tenermi sveglio per otto ore di fila.

Non credevo che fosse possibile piangere fino a svenire. È possibile eccome.

Quando sono solo, nella mia camera d’albergo, mi lascio andare. Devo. Devo trovare una valvola di sfogo, una maniera per espellere tutto il male che provo, le lacrime diventano un elisir velenoso che raccoglie i granelli di desolazione e li volatilizzano. È stancante, frustrante, deprimente, è un circolo vizioso che crea una pericolosa dipendenza da cui già so che farò fatica a staccarmi, se mai deciderò di farlo.

Ogni sera, ogni notte, ogni sogno.

E la cosa più stupida, la cosa più penosa, la cosa più sgradevole è che spero che la mia sofferenza riesca a ricreare un legame con Sammi. So che razionalmente è una puttanata, so che è una fantasia adolescenziale, ma non riesco a farci niente. Mi aggrappo a tutto, a nulla, mi spezzo le unghie per scalare specchi lucidi perché non voglio ammettere che Sammi non tornerà.

Sto cercando di dimenticarla. Ma sto anche aspettando che torni.

Questo è il mio stillicidio. Questo è il mio suicidio. Questa è la mia punizione per essere stato arrogante, presuntuoso e cieco di fronte all’evidenza che non sono nessuno. Che sono soltanto un essere umano che all’accademia si vantava di essere un rubacuori e che da quando si è innamorato davvero si è scottato tanto da spaccarsi. E non sa raccogliere i propri pezzi.

Sento un fischiettio fuori dalla mia porta. Aspetto il bussare discreto che arriverà tra un attimo.

«Noi stiamo andando giù.» mi avverte la voce di Andy «Se tra cinque minuti non ti vediamo ti molliamo qui, eh!»

Posso immaginarmi il sorriso noncurante mentre lo dice. So che in realtà non lo faranno, so che mi aspetterebbero per ore. Il mio record di ritardo è di quarantatre minuti. Infatti ho un certo margine di certezza che mi fa affermare che nessuno degli altri è ancora pronto, e mettono fretta a me perché sono l’unico a cui ci vuole un’eternità.

Cerco di schiarirmi la gola in silenzio.

«Sono quasi pronto, arrivo.»

«Mi fido.» Il sorriso di Andy traspira da sotto la fenditura dell’uscio. I suoi passi si allontanano pacifici, rimbombano nel corridoio e svaniscono oltre la pareti.

Non ho mentito. Sono quasi pronto. Ho addosso i vestiti giusti, mi sono pettinato, ho persino gli anfibi.

Devo solo mandare via le lacrime dal mio viso. Devo solo rinchiudere le palpitazioni nella scatola a forma di bara e rimetterla al suo posto all’interno del mio cuore in modo da tenerla sottochiave giusto per la serata. Giusto per non mostrare loro quanto sono ancora stupidamente legato a lei.

Non vorrei mentire in questo modo. Non vorrei mentire per una causa così sciocca.

Ma non voglio che rivolgano il loro livore, per quanto indiretto, silenzioso o moderato, su Sammi.

Non voglio che mi ripetano che devo lasciarmelo alle spalle e che quello che c’è sulla strada è mille volte meglio.

Non voglio che provino compassione per me. Basto già io per questo.

Probabilmente sanno in che condizioni mi trovo, ma hanno tutti la delicatezza di non farmelo notare, pesare e rincarare, si limitano a lanciarmi occhiate sottintese quando pensano che sia distratto, e a sussurrare quando credono che non sia a portata d’orecchio.

Mi sento in colpa anche per questo, anche perché sono un elemento critico quando invece vorrei tornare a essere il solito Jinxx che se la sbroglia con una serenità nirvanica da finto sonnambulo.

Non so se passerà. Non so quando. Non so se ne varrà la pena.

Fa male.

Ho voglia di piangere.

Per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

Buondì people! Seconda shot, stavolta tocca a Jinxx aprirci il suo cuore.

Non c'è molto più da dire di ciò che c'è già scritto, quindi mi limiterò a sperare che vi sia piaciuto, e se volete lasciarmi un commentino non mi dispiacerà affatto. ;)

Grazie a tutte voi che avete già dimostrato di apprezzare questa raccolta preferendo e seguendo (*-*) e intanto che ci sono vi auguro una buona epifania e un buon ritorno alla routine quotidiana domani. :)

Un bacio a tutte, a presto. (Look around è ancora in fase di scrittura, niente panico, ahahahah!XD)

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Capitolo 3
*** 3. Jake ***


Jake

Questo silenzio mi fa impazzire. E vorrei dirlo ad alta voce, ma mi prenderebbero per pazzo perché c’è sempre un casino che ferisce i timpani.
Il silenzio dietro le parole, che si leva come aria calda però decide di stagnare in basso, dove non si nota, dove cala in secondo piano, dove nessuno se ne accorge e si espande sempre di più.
Vorrei essere capace di fare qualcosa di concreto per aiutare i miei amici, ma quando ci penso è come se avessi le mani legate, come se sbattessi continuamente la fronte contro una parete invisibile che mi tiene lontano dai loro quattro piccoli globi su misura. Dovrei fracassarli, dovrei prenderli a pugni finché non si infrangono. Ma poi?
Poi saprei cosa fare? No. Improvviserei. E non credo sarebbe una buona idea.
Mi sento impotente. Mi sento isolato di fronte a una sofferenza che avverto palpabile come acqua, che guizza via come serpi, che emana scintille fredde come azoto liquido, e vorrei fare, vorrei agire, vorrei urlare, ma a che scopo?
Io non riesco ad aiutarli.
Non riesco ad aiutare CC che per ogni frase che costruisce terminandola in automatico col nome di Lauren si blocca, si zittisce e abbassa lo sguardo ricordandosi che lei non c’è più ad aspettarlo.
Non riesco ad aiutare Jinxx che fa di tutto per indossare la corazza dell’impassibile ma non gli sta, è così stretta, logora e fragile che quando lo copre in un punto lo scopre in un altro, rivelandolo in tutta la sua disperazione.
Non riesco ad aiutare Ashley che finge, finge costantemente per mantenere alta l’immagine di sé che il tempo e le circostanze hanno costruito, che gli si è cucita addosso e vi si aggrappa perché sa il divario tra lei e il suo vero io si sta allargando inesorabile.
Non riesco ad aiutare Andy che quando vede la propria immagine riflessa in uno specchio sembra si stia per spaccare in mille pezzi.
Cosa devo fare? Come posso fare?
Ci sono volte in cui mi sento in colpa per essere come sono.
Positivo. Pragmatico. Pratico.
Mi sento in colpa perché l’empatia che provo nei loro confronti è vaga, contaminata dalla mia personalità e non mi permette di immedesimarmi quanto vorrei, non mi concede di comprendere appieno e trovare la giusta soluzione ai loro problemi.
Mi fa sentire freddo, anche se so di non esserlo.
Ho preso tutto da papà.
«Spirito libero.» dice sorridendo la mamma.
«Capriccioso.» dice la nonna.
«Cinico.» dice la zia - con cui direi che nessuno è in buoni rapporti.
Equilibrato, dico io. In ciò che fa, in ciò che faccio io, c’è sempre una sorta di equilibrio che tiene due piatti della bilancia perennemente paralleli, aggiustando quando serve di qua, quando serve di là.
Quando viene a mancare qualcosa su un piatto, si tampona con qualcosa preso dall’altro.
Se sovviene il panico opprimente che fare pesare un piatto, nell’altro ci sarà qualcosa che andrà a evaporarlo quel tanto che basta per pareggiare.
Se si sprigiona un sentimento forte, fortissimo su un piatto, nell’altro ci sarà qualcosa che lo smorzerà fino a rendere i pesi identici.
Un miracolo e una maledizione. Un sollievo e una vergogna.
Sono fatto così: penso che per quanto le cose vadano male, accadrà sempre qualcosa che le farà andare bene. E viceversa. Penso che per quanto le cose vadano bene, accadrà sempre qualcosa che le farà andare male. Fino a raggiungere il punto d’incontro in cui si creerà una staticità rassicurante, moderata e duratura, solida, ed è intorno a quella base che mi muovo la maggior parte dei giorni.
Ed è anche il motivo per cui non riesco a condividere i dolori, i segreti, le paure degli altri. Non fanno parte di me. Mi sono estranee, lontanissime dalla mia prospettiva, sono così vacillanti, provvisorie, imprevedibili, umorali, sono così travolgenti che i ragazzi non riescono in alcun modo a gestirle, e i loro equilibri saltano, sgroppano, crollano. Li massacrano.
E io da fuori riesco a vedere tutto quanto, ma non mi serve a nulla.
Posso anche dire loro di tenere duro e che questi momenti passeranno, di rilassarsi perché tanto piangersi addosso non risolverà niente, di lasciarsi andare e aspettare che dopo il dolore arrivi il sollievo... ma non servirebbe.
Hanno ferite talmente profonde che le parole non saranno mai in grado di lenire, so che il buonsenso si infrangerebbe contro muri che troverebbero il modo di capovolgerlo, so che il raziocinio è un dettaglio che diventa perfettamente trascurabile quando i sentimenti sono così forti da avere la stessa potenza di un ciclone tropicale che scardina e sventra tutto ciò che trova sul suo cammino.
Non so perché io non ne sia mai stato vittima diretta.
I miei sentimenti sono interiorizzati, installati nella base spirituale che è la mia anima a cui faccio affidamento, e che so che non può essermi portata via in nessuna maniera, da nessuno.
Ci sono state persone che mi hanno accusato di indolenza, di indifferenza, persino di alterigia, ma la verità è che vedo con gli occhi del presente, non del futuro. Imparo dal passato, assimilo dai miei errori, non mi fascio la testa prima di essermela rotta, non mi faccio illusioni solo per il gusto di farmele, non ripongo il mio avvenire in speranze che non dipendono da me.
Per me il futuro si costruisce attimo dopo attimo, vivendoli uno per uno, facendo le scelte giuste al momento giusto, in modo da procedere con qualche rimorso ma senza nessun rimpianto.
Allo stesso tempo, non crollo in ginocchio quando qualcosa si disfa.
Sono anche un fatalista, sotto sotto.
I sogni si interrompono, gli obiettivi non si raggiungono, le cose si guastano, le persone se ne vanno, e non c’è niente di facile. Constatazioni ininterrotte che crescendo mi hanno aiutato a costruire le pareti lisce del mio animo, quelle su cui tutto scivola e nulla resta impigliato, quelle che mi aiutano a non rimanere legato a quel che è stato ma mi spronano a darmi da fare per quel che vorrei che sarà.
Sia chiaro, questo non significa che io non soffra quando accade qualcosa di brutto.
Se Ella mi lasciasse ci starei malissimo.
Se succedesse qualcosa a un membro della mia famiglia ci starei malissimo.
Se ciò che ho messo in piedi con tanta fatica nel corso degli anni crollasse ci starei malissimo.
Se i Black Veil Brides si dovessero sciogliere ci starei malissimo.
Malissimo, sì. Ma non ne sarei annientato.
Non mi accascerei al suolo privo di forze e non mi sentirei come se la mia stessa identità fosse stata sbriciolata, non mi rifiuterei d’ora in poi di aprire gli occhi perché non ne varrebbe la pena, non preferirei essere morto piuttosto che affrontare il dolore lancinante che arriva dopo, quello caustico e corrosivo che erode da dentro e per quanto si cerchi di buttarlo fuori a forza di urla, lacrime e tagli non se ne va, e continua a ingoiarti vivo mentre ne sei consapevole.
Io no.
Loro sì.
Loro sì, e per quanti sforzi faccia per distrarli non mi riesce. E mi fa stare malissimo.
A essere onesti credo che il mio bisogno di apporre su di loro la mia filosofia sia una follia alimentata dal mio stesso istinto, che tende all’equilibrio e sente la necessità di aggiustare qualunque cosa e chiunque ci sia accanto a me. Non ci posso fare niente.
Non ci posso davvero fare niente, in effetti.
Certo, per CC e Jinxx sarà più facile. Le loro sono storie d’amore, sono cuori spezzati, sono insiemi di emozioni riconducibili a una sfera sentimentale che non si esaurisce ma che si riassorbe, nel tempo si sedimenta e decanta formando una polvere scintillante e tagliente, poco a poco si compatta e non trafigge più come prima, trasformandosi in ricordi malinconici da evocare durante i crepuscoli della mezza età.
Guariranno. Ci vorranno mesi, forse anni, e quell’ago che trafigge il battito non andrà mai via completamente, ma guariranno.
Sono Ashley e Andy che mi preoccupano.
I loro non sono solo problemi che strisciano sempre più in fondo, sempre più all’interno, ritagliandosi una nicchia nell’anima e da lì emanano fitte che scuotono più gli sguardi che le mani. Sono anche problemi che salgono in superficie. Sono problemi che condizionano le contingenze, le relazioni, le persone che hanno intorno, sono problemi grandi, pesanti, opprimenti, che rimettono in discussione anche il minimo pensiero e creano ombre troppo lunghe per il corpo che li contiene.
Sono segreti che custodiscono con una forza incomparabile, e non ho idea di come ci riescano. Io non ci riuscirei. Io non riuscirei a essere così stoico, così bravo nel dissimulare, nell’artefare, nell’imitare una tranquillità che non possiedo. Io non riuscirei a reprimere me stesso con tanta cattiveria.
Non so perché lo facciano.
Non so perché si odino tanto.
Forse pensano che sia sbagliato, forse sono convinti che ciò che li turba è irrisorio, inutile, irrisolvibile.
Cazzo. Come vorrei essere in grado di dire loro che non è vero.
Alcuni giorni ho la tentazione di prenderli a sberle, di tirare uno per i capelli e di prendere l’altro per il collo e sbatterli in due stanze separate per affrontarli a quattrocchi, per spiegargli che quei segreti prima o poi imploderanno e li spezzetteranno come tanti affilati frammenti di ghiaccio che si dissolveranno senza lasciare traccia di sé.
Non riesco davvero a capacitarmi del perché abbiano così paura ad affermarlo a voce alta. Hanno il terrore che qualcuno li possa ascoltare e quindi possa renderlo vero?
Più vero di quanto già non sia?
Hanno paura delle conseguenze? Quali conseguenze possono esserci di peggiore della propria autodistruzione?
Hanno paura di cosa dirà la gente, di cosa diranno i fan, i conoscenti, le famiglie, noi? Il giudizio del popolo è più importante della propria felicità?
Mi sento un incapace. Dovrei darmi da fare, parlare, diventare una sottospecie di psicanalista da strapazzo e tentare di risollevare il morale generale e far aprire tutti, ma è talmente difficile che ogni volta che ci provo vengo investito da un ventata fredda, che sa di ozono, ottundente e sedante, che strozza persino i pensieri.
Jinxx e CC non se ne sono accorti, almeno credo. Chris e Amy sì, ma sospetto che provino ancora più mortificazione di me perché si rendono conto di non capire affatto il proprio figlio. China e Jess non ne ho idea. Juliet se anche l’avesse fatto non me lo verrebbe a dire.
Litigo in perpetuo contro muri di cristallo che vorrebbero essere infrangibili, ma so che hanno un punto debole, so che c’è un’area minuscola che delimita lo spazio di rottura, e basterebbe un misero soffio per ridurle in frantumi e vedere tutto quello che c’è nascosto dietro.
Ma.
Ma io non l’ho ancora trovato, quel punto debole.
Ma se anche lo trovassi, non so se avrei sul serio il coraggio di colpirlo.
Ma non vorrei mai vedere i miei compagni senza difese, sciolti in un’insensata inadeguatezza che potrebbe chiuderli nella gabbia più pericolosa della diffidenza.
Vorrei che avessero fiducia in me. In noi. Nei Black Veil Brides.
Vorrei che tra noi non ci fossero incomprensioni, vorrei che fossimo un campo base l’uno per l’altro, uno stato neutrale in cui sentirsi liberi, una sorta di estensione compatibile con ognuno.
Purtroppo so che non è possibile.
So perché.
E m’incazzo con la vita quando penso che è un’immensa assurdità, che sarebbe bastato un dettaglio diverso per far andare ogni cosa nel migliore dei modi. M’incazzo perché è una storia irreale che non ha un verso preciso, così schifosamente scorretta e imperscrutabile come solo i sentimenti intensi sanno essere.
M’incazzo perché ho paura di far loro del male, m’incazzo perché ho paura che si faranno male da soli.
E so che non può durare. No.
Non durerà in eterno. Li conosco.
Li conosco troppo bene per non sapere che Andy non riuscirà a reggere questo stato di cose, perché lui è schietto, è acqua pura, Andy è trasparente come l’oceano verdazzurro degli atolli corallini, e il fatto che provi a nascondersi dietro uno specchio non farà altro che logorarlo, non farà altro che fargli raggiungere più in fretta la saturazione, e per quanto cercherà di tenerla a bada arriverà il momento in cui non saprà più riconoscere la propria immagine.
Ash... Ash non lo so.
Ash è intollerabilmente bravo a isolare ciò che vuole tenere sepolto. Lo accartoccia, lo maltratta, lo schiaccia dietro recite e omissioni e fa finta di dimenticarsene, lo ignora come un invitato indesiderato a una festa, e si volta dall’altra parte quando sente che ne proviene una debole pulsazione.
Mente.
Ma non so se lo fa anche a se stesso o soltanto al mondo intero.
Vorrei che fosse Ash ad aiutare Andy. Sa sempre cosa sta succedendo, sa sempre cosa sta facendo, non perde il controllo e le briglie che riesce ad apporre alle crisi sono talmente solide che probabilmente fanno male anche a lui.
Non succederà. Non succederà finché non si arriverà davvero al punto di rottura, e se da un lato vorrei che giungesse presto per poter risolvere ogni cosa, dall’altro spero che sia lontano ancora un eone o due. Perché niente sarebbe più come prima. Per nessuno di noi.
Io continuo a rimuginare, a elucubrare su questi argomenti nonostante mi renda conto che questa volta non posso fare nulla. Mi limito a fare il massimo che permettono le mie possibilità.
Mi alzo, sospirando. Prendo uno dei foglietti intestati accanto al telefono e un pennarello a punta fina, e scrivo un messaggio a CC. Un messaggio un po’ banale, che non ha niente da dire di diverso da quello che gli è già stato detto da chiunque altro, ma so che apprezzerà, so che potrei anche disegnargli un cappello da Babbo Natale e il significato ne trasparirebbe lo stesso.
If you are reading this, you have survived your entire life up until this point, you have survived traumas, heartbreak, devastation, the different phases of life, and here you are, you go, motherfucker, you are awesome.
Lo ripiego in due e mi preparo per uscire dalla camera, infilo in tasca i beni necessari per un pomeriggio dettato dal caso e mi chiudo l’uscio alle spalle.
Sfilando lungo il corridoio mi fermo un momento di fronte alla porta della stanza di CC, mi chino e lascio scivolare il biglietto al di sotto. Ashley è uscito ore fa con Will per andare in un negozio di musica del centro, Andy è impegnato in una delle solite mono-interviste in cui ormai si inventa balle pur di non dire sempre le medesime cose.
Continuo a camminare, aspettando di veder apparire Jinxx dal suo appartamento. Ho deciso di supplicarlo di accompagnarmi all’acquario, e anche se di solito fa la faccia di uno a cui i pesci non stanno particolarmente simpatici, in realtà ama andare in posti del genere. Inoltre voglio che si senta indispensabile.
Faccio così.
Non posso leggere nella mente dei miei amici, non posso affondare le mani nei loro problemi ed estirparli come farei con una gramigna, quindi opero dall’esterno. Cerco di coinvolgerli, di estrapolarli dalla loro condizione e fargli capire che c’è altro, che il loro universo non è soltanto viscoso e nero, che basterebbe guardarsi dall’esterno per un giorno per capire che potrebbe essere meglio.
Non ho la presunzione di credere che funzionerà. Ma ci provo. Continuerò a farlo. È il mio dovere.
È il mio modo di aiutarli.
A volte tutto ciò di cui hanno bisogno è di un amico che gli tenga la mano.











Buongiorno popolo! :D
Come state? Tutto bene?
Io spero che vi sia piaciuto questo capitoletto che, come avrete capito, è il giro di boa che segna la svolta dei racconti sulla band.
Chi sarà il prossimo? E cosa avrà da dire? Siete curiosi?
Io spero proprio di sì! X3
A presto col nuovo capitolo e... stay tuned, perché arriverà anche Look Around tra qualche giorno! ;)
Un bacio!

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Capitolo 4
*** 4. Ashley ***


Ashley
I giorni come questo non mi fanno bene.
Giorni in cui vorrei solo prendere una valigia, ficcarci dentro le due cose che per me hanno un significato e andarmene. Andarmene via. Lontano. Per sempre.
Giorni in cui mi sento strangolare, in cui ho la sensazione che persino il mio battito rimbombi attutito, in cui sono scontroso, chiuso in me stesso, con lo sguardo basso e la voce che non nasconde niente.
Giorni in cui sento il bisogno di essere libero. Libero davvero.
Non è facile voltarsi dall’altra parte quando ormai anche l’altra parte ha tracce di me, delle mie verità, dei miei segreti stampati su ogni superficie e nessuno se ne accorge.
Non so cosa mi faccia sentire peggio. Che abbia il costante timore che io non riesca a occultare nulla, o che non una singola persona ci faccia caso.
O sono io bravo a fingere, o sono loro a non essere attenti.
La seconda, immagino. Io non sono bravo a fingere. Sono bravo a glissare. Faccio finta di niente, calo veli su veli sui miei sentimenti, sulle mie illusioni, sulla mia personalità, sui miei desideri. Sul mio futuro.
Non so perché per me sia così difficile.
Eppure conosco gente che è riuscita a farlo per anni, per una vita intera.
Perché a me dà così tanto da fare non confessare che mi piacciono gli uomini? È una colpa? È un crimine? È una vergogna?
No.
No, no, no.
È inopportuno. Soltanto inopportuno.
D’altronde me la sono cercata. Mi sono costruito un personaggio, un’impalcatura solida su cui porre le fondamenta del successo, ho giocato mischiando luoghi comuni e bugie bianche, ho taciuto dettagli e ho permesso che gli altri si facessero idee in autonomia senza che io dovessi spiegare alcunché.
È così che è nato Ashley Purdy. Attraverso i filtri altrui. Non ho dovuto mentire, non ho dovuto crearmi alibi, non ho dovuto calarmi in un personaggio, mi sono limitato a lasciare che chi mi incontrasse pensasse di me ciò che voleva, che giudicasse dall’apparenza, e non mi sono mai preso la briga di smentire.
A quanto pare non ho l’aspetto di un frocio. È una consolazione? Una volta lo era. Adesso è una prigione.
Vado fiero di me per tanti motivi, e per altrettanti motivi mi sento una merda ogni volta che conosco qualcuno, che gli parlo, che rispondo su Twitter, che mi presto a un’intervista.
Adesso sì, mento.
Per necessità. Per sopravvivenza. Per autoconservazione. Per paura. Per autocommiserazione.
In giorni come questo mi faccio pietà.
Mi sento come se stessi soffocando dall’interno, come se stessi ingoiando azoto che si lega all’emoglobina impedendo all’ossigeno di farlo, mando giù aria senza riuscire a respirare eppure procedo, procedo nonostante tutto lungo un percorso che conosco a memoria ed è l’unico che forse riesce a tenermi in vita senza far franare gli argini.
Ashley Purdy per il mondo è una puttana. Una puttana in versione maschile, ma sempre una puttana.
Sono il bassista dal fisico scultoreo che fa esplodere le ovaie alle ragazze sotto al palco, sono il cantante glam che per le poche serate che fa riesce sempre a richiamare centinaia e centinaia di donne, sono lo stilista che ha inventato le Purdy Girls, sono il chiacchieratissimo ex di Kina Tavarozi, sono The Deviant, sono il vizioso dei Black Veil Brides, sono quello a cui si pensa quando c’è da organizzare qualcosa che comprende alcol a fiumi, donne con le tette enormi e delirio catastrofico.
Sono io, Ashley Purdy?
Sì. No. Forse. Talvolta.
Sono una facciata. Sono una creazione, sono un marchio che fa parlare perché da sé non ne sarebbe in grado, sono ciò che gli altri hanno bisogno di figurarsi per avere un punto di riferimento, un metro di giudizio, un feticcio da idolatrare. E sono falso.
Falso come i miei baci con Kina, falso come il mio legame con le bionde maggiorate con cui mi faccio fotografare, falso come i miei sorrisi quando guardo un obiettivo e non ho le forze per crederci.
In giorni come questo sono stanco, così stanco della mia vita da desiderare di piantare in asso il presente, incazzarmi e mettermi a urlare fino a gridare la verità e mostrare al mondo che sono patetico, introspettivo e fragile come il più irritante dei personaggi di un qualsiasi libro strappalacrime.
Manco alla mia integrità.
Manco al mio amor proprio.
Manco alla mia onestà.
Vorrei poter dire ad alta voce chi sono, come sono, vorrei sciogliere i nodi che mi legano agli stereotipi e farli scivolare lontano, vorrei confessarmi e ammettere che io con l’Ashley Purdy su cui la gente vagheggia non ho niente a che fare.
Vorrei poter dire che sono gay.
Vorrei poter dire che detesto che la mia esistenza venga toccata nell’intimo da persone che non conosco.
Vorrei poter dire che sono innamorato.
Vorrei poter dire che fa così male che non so dove fuggire per non sentirlo più.
E dove potrei scappare per fuggire da me stesso?
Eppure credevo che sarebbe stato facile, credevo che sarebbe andato tutto bene. Credevo che non mi sarebbe mai capitato di sentirmi travolto fino a minare le sicurezze che ho sempre avuto.
E la colpa è del Galaxy. Del ventitre marzo. Di Los Angeles. Del metal. Di Andy. È tutta, fottutamente tutta di Andy la colpa. E per quanto cerchi di odiarlo, di immolarlo, di scaricare su di lui il peso che sento sulle spalle, non riesco a non volergli bene.
Non ci riesco.
E mi maledico per questo, perché se l’amore che provo scomparisse, evaporasse, esautorasse starei meglio, l’ossigeno tornerebbe a scorrere nelle mie vene, le corde ruvide che mi segano i polsi e il cuore si disintegrerebbero, i miei sentimenti somiglierebbero a qualcosa di molto meno dannoso di uno stillicidio consapevole e autolesivo.
Senza Andy sarei libero. Senza Andy non mi sentirei confinato in un guscio da cui non so se vorrei uscire o in cui vorrei morire. Senza Andy dissimulerei senza difficoltà senza provare il minimo rimorso, e senza Andy non mi fare problemi a trovarmi un ragazzo diverso ogni sera, scoparmelo e poi gettarlo nel dimenticatoio come facevo prima.
Prima di incontrarlo.
Prima che i suoi occhi di fiordaliso mi sorridessero attraverso i capelli tinti di nero.
Prima che l’incantesimo di cui è impregnata la sua voce mi incatenasse definitivamente a qualcuno che non potrò mai avere.
Era marzo, ero al Galaxy con la mia band, avevo ventuno anni e pensavo che la vita fosse meravigliosa e pronta a prostrarsi ai miei piedi. Avevo appena finito di cantare una canzone che aveva fatto muovere a ritmo la testa di ogni tizio in sala, e all’improvviso ho visto un gruppo di ragazzini che con molta probabilità si erano vestiti al buio avvicinarsi al palco. Ed erano qualcosa che somigliava parecchio all’emo.
I metallari tutt’intorno avevano già cominciato a lanciare loro occhiate omicide, e per quanto nemmeno a me piacessero gli emo mi sono sentito in dovere di salvarli da un pestaggio certo che gli avrebbe fatto saltare i loro bei denti freschi di apparecchio. In un momento di pausa mi sono accostato a quel mucchietto di adolescenti ossuti, ma prima che potessi dire qualsiasi cosa lui mi ha preceduto.
«Mi piace come suoni la chitarra!»
Lui. Andy. Chi altro potrebbe dire una cosa del genere in totale tranquillità in un locale pieno di gente visibilmente pronta a fargli il culo?
«Anche noi siamo una band. Ti va di venirci ad ascoltare qualche volta?»
Noi chi? In quel momento non vedevo altri che lui, altri che quel ragazzetto dall’età imperscrutabile tra i quattordici e i diciassette anni con gli zigomi affilati e un sorriso che da solo era in grado di oscurare l’intero locale.
Quel sorriso mi ha fregato.
Quella sera li ho salvati facendoli entrare nel backstage, e confesso che per il resto del concerto ho cercato di fare il massimo, di dare il meglio di me, di rendermi indimenticabile. Volevo che fosse lui a non dimenticarmi più.
Non sono stato colpito da niente in particolare di lui. Era un ragazzino troppo alto e troppo sottile, dal viso spigoloso di chi è cresciuto tutto in una volta, e ricoperto di borchie, monili e puttanate che facevano un casino incredibile ogni volta che si muoveva.
Sono stato colpito dall’energia che emanava. Non era carisma. Era purezza. Era acido.
Era un’insondabile, esagerata sincerità, una sorta di ingenuità allo stato gassoso che rarefaceva l’aria e ubriacava, che sembrava esclamare che non aveva nulla da nascondere e era nitido come un foglio bianco, luminoso come la neve che riverberava i riflessi, strano quel tanto che bastava per essere adorabile. C’era forza. Una forza potente, magnetica, un campo gravitazionale che attraeva e faceva entrare in un’orbita non circoscritta, che chiamava a raccolta e lo rendeva il centro di un mondo di cui forse non si rendeva neanche conto.
E quel sorriso che mi ha preso, mi ha fatto cambiare marcia al battito cardiaco e mi ha teso una trappola in cui mi sono gettato senza pensarci due volte.
E adesso sono qui. Nei Black Veil Brides. Al suo fianco. Quasi dieci anni dopo. Col battito cardiaco che ricalca un requiem.
Sono confuso.
Sono sfinito.
Sono triste.
Vorrei dimenticarmi tutto.
Vorrei dimenticarmi lui.
Vorrei dimenticarmi come mi faceva sentire quando si entusiasmava quando facevo qualcosa che lo rendeva felice.
Vorrei dimenticarmi come mi fa sentire quando mi sorride durante i concerti e sembra che stia per abbracciarmi davanti all’universo che è riuscito a creare da sé, grazie alla sua energia, grazie a quel fascino inspiegabile e sleale che fa innamorare e poi ti abbandona senza darti la possibilità di non curartene.
La cosa che fa più male è che non lo sa. Non l’ha mai saputo. Non gliel’ho mai detto.
E Andy , come tutte le persone come lui, crede nel nitore, nel candore, nella trasparenza. Il suo animo non concepisce i sotterfugi, gli intrighi, le omissioni, non è in grado di percepire le parole non pronunciate perché non ne ha mai fatto uso e non comprende il motivo per cui non dirle.
Non sa che sono gay. Non penso gli importi. Per lui sono un amico. L’amico che l’ha aiutato a farsi un nome, quello che gli ha insegnato a farsi strada, quello che ha accanto da più tempo degli altri. Finito.
Andy non fa distinzioni labili, e io non sono così importante da travalicare il livello degli amici e finire in quello delle persone da tenere chiuse in un abbraccio.
È doloroso. Doloroso perché in fondo me lo merito, doloroso perché il problema non è lui ma sono io, doloroso perché vorrei smetterla di essere un suo satellite e prendere le distanze, ma non ci riesco.
Non ci riesco.
Perché non svanisce? Perché non si spegne? Perché ciò che provo non diminuisce giorno dopo giorno per farmi svegliare senza più questa droga in circolo? Dove sbaglio? Cos’è che non funziona?
Non dicono che l’amore finisce? Non dicono che è effimero, che è un’invenzione, che implode da sé?
Credo di essere la prova che l’eterno amore esiste.
‘Fanculo.
Posso ignorarlo quanto voglio, posso tacerlo quanto voglio, posso trovarmi un uomo diverso con cui abbandonarmi agli ormoni quando voglio, posso autoconvincermi quanto voglio. La verità è che non riesco a separarmi da lui. Da quello che provo, da quello che sento, dal senso di euforia brutale e scardinante che avverto quando gli sono accanto, dal tremore sconvolgente e idiopatico che spezza le parole che ho in gola e mi annienta con una cascata di piacere che non so spiegare.
È una dipendenza erosiva, un’assuefazione che mi spinge a ferirmi sempre di più per sempre di meno, figurativamente è l’equivalente del pugnalarmi giorno dopo giorno in un punto diverso, e per quanto sanguini non riesco a smettere. Non voglio smettere.
Vorrei, ma non voglio. Vorrei volerlo.
Vorrei che capisse, che usasse i suoi occhi di vetro per scandagliarmi e leggermi, vorrei che per un momento la smettesse di occuparsi di un popolo senza viso e si concentrasse sul mio sguardo, sui sismi che mi fanno vacillare sulle gambe quando siamo insieme, sul motivo per cui sto apponendo una distanza inutile che fa male solo a me.
Eppure basterebbe così poco per cambiare le cose.
Basterebbe che anch’io fossi sincero.
Basterebbe aprire la bocca e dirlo.
Sono gay. E tutto quello che sono stato finora è un simulacro infedele.
Suppongo che la mia vita non sarebbe la medesima di prima. Suppongo che tre quarti del mio seguito costante scoppierebbero in lacrime e non ci penserebbero due volte ad andarsene, perché in fondo in fondo la speranza che potessi accorgermi di qualcuna di loro era latente ma presente. Lo so. Lo so perché è la stessa identica speranza che costringe me ad alzarmi ogni mattina. La stessa identica speranza che mi inchioda in California impedendomi di tornarmene a casa e chiudere coi BVB. La stessa identica speranza che mi impedisce di confessarmi e girare quell’unica pagina che mi manca per chiudere il capitolo, e forse passare a un nuovo romanzo.
Cosa ne sarebbe di me se sapessero?
Le donne, le ragazzine, le mie Purdy Girls si sentirebbero oltraggiate e mi volterebbero le spalle come amanti rifiutate. La maggior parte delle fan dei Black Veil Brides, sveglia com’è, non apprezzerebbe per niente un coming out che probabilmente giudicherebbero inconcepibile, e magari contro natura.
Il mio mondo andrebbe in pezzi. La nicchia che mi sono costruito nel tempo crollerebbe, verrebbe divelta e sprofonderebbe lasciandomi senza un riparo, senza un sostegno, senza più quel percorso che avevo iniziato un po’ per gioco e un po’ distrazione, e che è diventato la mia esistenza.
Non ho nessuno da cui tornare. Non ho una famiglia di cui far parte. Non ho un background che mi appartenga. Vivo della mia apparenza, relegando la sostanza oltre un sipario dietro cui mi nascondo quando ho bisogno di ricordarmi chi sono e su cui piangere senza un’anima intorno.
Rivelando me stesso permetterei a un’orda di sconosciuti di entrare nel mio spirito e analizzarlo, scoperchiarlo, vagliarlo, toccarlo, graffiarlo, mallearlo. Non voglio. Non posso.
Sono un idolo. Un dio sceso in terra, un irraggiungibile, un inarrivabile. Sono un sogno che un numero sempre più grande di persone anela ma che in realtà non vorrebbe mai incontrare per paura che io mi riveli qualcosa di diverso da ciò che immaginano, e non sono abbastanza crudele per farlo.
Le persone hanno bisogno di illusioni, hanno bisogno di covare un desiderio che non si avvererà mai.
È un gioiello. Una fantasia preziosa che diventa quasi tangibile, è una gemma da tenere vicina al petto e da non far vedere a nessuno, è l’unico segreto da non rivelare, è il confine che divide il vero dal possibile.
Il mio gioiello è Andy. Un gioiello maligno. Un gioiello che brilla di luce propria e che mi brucia le mani se tento di stringerlo, dalla superficie liscia eppure taglia come se fosse cosparso di spine, e sfuggevole come un fantasma alle prime luci dell’alba.
Vorrei che lui sapesse. Vorrei scostare il sipario per mostrargli cosa nasconde, vorrei rivelargli la verità, vorrei che si accorgesse di me, di cosa provo, di cosa sono, vorrei che si rendesse conto che mi basterebbe sapere che sa per essere in pace.
Vorrei un bacio, un unico, miserabile, semplice bacio per avere la forza di andarmene.
Lo voglio vicino, ma vorrei essere lontano. Vorrei che sapesse, ma vorrei che non cambiasse. Vorrei essere me stesso, ma non voglio lasciar cadere la mia maschera.
Un circolo vizioso affilato che non mi abbandona, una croce aguzza che mi scava le spalle, l’incertezza che diventa ghiaccio e mi blocca il cuore e mi chiude in una gabbia da cui non so se voglio uscire.
Non lo so.
Ho paura e non so cosa farci.
Sono innamorato di un ragazzo che non capirebbe.
Vorrei non essere l’Ashley Purdy che tutti conoscono.
Vorrei essere l’Ashley Purdy che io conosco.
Vorrei che fosse facile mollare tutto.
Vorrei che fosse facile mollare Andy.
Vorrei che venisse con me.
«Ehi, Ash.» Trasalgo quando Jesse entra nella mia stanza. Non mi ero accorto neanche dei suoi passi «Vai tu a chiamare Andy?»
«Certo.» Fa bene, fa male, fa tutto insieme quando il suo nome mi scivola sulla pelle e penetra fino ai globuli rossi.
«Tra quindici minuti.» mi ricorda il fonico. Annuisco e se ne va, e io non ho altra scelta che camminare fino alla tenda dov’è Andy e avvertirlo.
Ormai mi limito a questo.
Vorrei poter dire che la nostra amicizia sbocciata per caso al Galaxy non è cambiata, ma lo ha fatto. Lo ha fatto così tanto che non riesco più a riconoscerla. Che non riesco più a sopportarla.
Da mesi io e Andy procediamo su sentieri separati, sto tentando di spezzare il filo rosso che ci lega ma quel bastardo è resistente quanto tela di ragno, e più mi allontano e più sembra crescere la tensione che mi spinge di nuovo verso di lui.
Mi manca. Mi manca da morire.
Ma non voglio voltarmi indietro.
Se non sarò io a spaccarmi il cuore, lo farà lui.
E me lo farò andare bene.
Mi alzo, raccolgo un sospiro ed esco dal padiglione, sotto la calura asfissiante composta da tasselli di umidità e afa sabbiosa.
Continuo a ripetermi che ho bisogno di una pausa da lui, dai BVB, dal successo, da qualunque cosa appartenga all’adesso, e a furia di assillarmi mi convincerò. Spero.
Non hanno bisogno di me, non ho bisogno di loro.
Ho solo bisogno di avere le idee chiare, di disintossicarmi, di raccattare i pezzi della mia anima che ogni giorno si polverizzano sempre di più e troncare questo amore che non ha nessun senso. Nessuno.
Andy non si accorgerà mai di quello che provo.
Andy non si accorge nemmeno che me ne sto già andando.
Meglio.
Ogni volta che ci penso vorrei strapparmi la pelle a mani nude per provare meno dolore.
Ma meglio.
Busso alla sua porta di slancio, perché se dovessi rifletterci non lo farei.
Non risponde.
Abbasso la maniglia e faccio un passo.
Se ne sta seduto sulla poltrona, le mani sulle cosce e lo sguardo che vaga verso la finestra, verso il verde del prato, verso un’immagine che non posso vedere e che non mi riguarda.
Capisco. Immediatamente. E non vorrei.
«Tra quindici minuti in studio per il sound check.» Da un po’ faccio così: le parole indispensabili, ridurre al minimo i verbi che ci accomunano, voce monotono. Adesso dovrei indietreggiare, richiudere l’uscio e levarmi dai piedi in silenzio.
Dovrei.
Dovrei assolutamente.
Per evitare di precipitare ancora.
Ma non lo faccio.
Andy muove la testa, sbatte le palpebre e scruta il vuoto. Ha qualcosa che non va. Lo conosco da troppo tempo per non accorgermene ancora prima di vederlo. Mi basta percepire l’aria che si addensa, il rumore del suo silenzio, la piega delle spalle, l’atteggiamento della bocca, la posizione in cui è, la vividezza degli occhi.
Che schifo.
Mi odio.
Perché?
Perché basta la sua presenza per ricordarmi che dentro di me c’è un frammento di lui?
«Cosa c’è che non va?»
Mi guarda. Mi fissa. Mi trapassa. Mi travolge con l’intensità feroce delle sue iridi color universo e devo tenermi allo stipite per non liquefarmi a terra e abbandonarmi agli inutili momenti come questo, brevi, impercettibili, e così struggenti da fare violenza al mio buonsenso e spingermi a implorare la sua pietà.
Non farmi male.
Non guardarmi in quel modo.
Non guardarmi come se avessi disperatamente bisogno di me.
Non mentire.
Non illudermi in maniera tanto meschina.
Si alza con una mossa fluida, dissolvendo la tensione palpabile in meno di un istante. Ecco.
Svanito.
Il vuoto sotto i piedi non mi fa andare né avanti né indietro.
«Niente.» Bugia, ma una bugia meno aggressiva e meno penosa, cui mi sono abituato.
Non siamo più amici come prima, non abbiamo più una relazione come prima.
Non mi devo aspettare niente.
«Ci vediamo là.»
Mi passa accanto con una falcata, e nelle narici avverto una traccia di profumo di Hugo Boss, il sentore dei capelli di Juliet, e il suo odore.
Odore di maschio. Di uomo. Di Andy.
L’odore che mi ricorda cos’è la felicità.
E che non posso averla.






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Buoooooooongiorno signore e signori! *Schiva pomodori e altre cose* Ok, lo sho, sono in ritardo meditabondo e vergognoso qui su EFP! ç__ç Però non vi ho abbandonate, sappiate che non lo farò, nonostante il tempo che passa! >___< (Ciò vale anche per Look Around [come immagino in realtà vi interessi molto di più!XD] ma ogni cosa a suo tempo. Orbene, questa è la penultima puntata di questa miniraccolta di introspezioni. Sono contenta che ci siano alcuni di voi che la leggono con piacere e che provino empatia verso queste parole e queste immagini, e, beh, spero di riuscire a dare un'immagine veritiera e credibile dei nostri cinque eroi seppur filtrati dal mio punto di vista. Quarto membro è stato Ashley, coi suoi tumulti, e quindi per ultimo verrà Andy... spero dunque abbiate apprezzato ciò che avete letto. Alla prossima, e ultima, puntata di questa serie!
Vi ricordo che, per qualunque aggiornamento in tempo reale voi possiate desiderare, potete seguirmi su 
 e 
dato che per la maggior parte i miei simpatici scleri li trovate tranquillamente lì. u.u
Un bacio, a presto (spero!) :D

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Capitolo 5
*** V. Andy ***


5.

Andy

 



L’eco del battito del mio cuore è così frastornante che mi fa venire mal di testa.

C’è desolazione. C’è vuoto. C’è buio. Non vedo, non tocco, non sento. Ci sono solo io e il mio respiro irregolare che a volte rallenta e a volte scappa, indeciso su cosa fare perché c’è qualcosa che mi sta inseguendo e non so cos’è.

Forse è la mia ombra.

Ma non è facile distinguerla tra tutte le altre.

Buffo.

Un tempo volevo che fossi io a non distinguermi tra tutti gli altri. Poi ho pensato che sarebbe stato meglio essere diverso. Più facile. Più spontaneo. Meno impegnativo. Meno pressante.

Invece mi sono reso conto che anche se vuoi essere l’unico hai delle responsabilità. Ci si aspetta qualcosa da te anche se sei un ribelle, anche se sei un terrorista, anche se sei un martire, anche se sei una persona normale. C’è sempre qualcuno che sceglie per te un’etichetta e in un cassetto ha nascosto un vademecum che non conosci, che non sapevi neanche esistesse, e quando non ti ci attieni c’è chi si incazza, c’è chi si meraviglia, c’è chi ti ammira, c’è chi ti odia.

Io sono il tipo che mi odia.

Mi guardo allo specchio e vedo qualcuno che conosco, ma che non sono io.

Vedo il me stesso che vorrei essere. Vedo il me stesso che vedono gli altri. Vedo l’aspirazione delle ragazzine, il figlio unico di cui andare orgoglioso, il fidanzato e promesso sposo di una cantante vincitrice di uno dei più famosi talent canori, il frontman di una band che sta ascendendo al successo, un corpo tatuato che racconta più storie della voce, un bel ragazzo dagli occhi blu e la bocca che fa impazzire uomini e donne. Mi vedo. Mi guardo. Mi scruto. Mi cerco.

Cosa c’è di me in quest’immagine? Quanto c’è di me in quest’immagine?

Cosa è vero?

Ci sono giorni in cui mi sveglio e mi sento dio che cammina tra i mortali.

Ci sono giorni in cui mi sveglio e mi chiedo cosa c’è di sbagliato.

Quand’è che il mio percorso si è trasformato in un bivio? Da quando ho deciso di imboccare entrambe le entrate? Non lo so. Non me lo ricordo. Non me ne sono accorto.

Probabilmente ho fatto finta di niente.

A dieci anni ero un asociale che non stava mai zitto e che pur di esprimersi parlava col gatto, con la tastiera, con la finestra, con la carta, da solo.

A quattordici anni ero un emarginato dal taglio pesante che amava le poesie, quelle senza troppo senso, banali, scontate, dozzinali, prive di metrica, ma che mi aiutavano a comunicare. A dire qualcosa.

A diciassette anni ero un eversivo che camminava a passo lento per accertarsi che nessuno gli stesse tendendo un agguato per pestarlo a tradimento, che suonava in una band, che alimentava sogni di gloria, determinato.

Sono sempre stato determinato.

Ho sempre saputo cosa volessi.

Almeno credevo.

Ne ero convinto. Sinceramente. Ingenuamente.

Volevo essere qualcuno. Volevo fare la differenza, essere un punto di riferimento, un termine di paragone, un archetipo. Volevo un rispetto che derivava dalla bravura, dal carisma, dal fascino, dalla temperanza. Volevo che tutti al mondo si accorgessero che non ero uno qualunque, che ero capace di lottare e vincere, di conquistare e mantenere, e soprattutto di meritare.

Volevo meritare quel rispetto, quella gloria, quel successo. Con le mie forze, con le mie cadute, col mio ardimento, con quello che sapevo e quello che avrei imparato, volevo essere all’altezza dei miei sogni.

Volevo essere felice.

Non ho mai saputo spiegare bene il preciso perché delle mie aspirazioni. Dovrei parlare di un argomento vasto, infinito, ramificato e intrecciato, e nonostante ci abbia provato più volte non sono ancora riuscito a trovare una base logica.

È come se io fossi una lente, e tutto ciò che provo, che sento, che assimilo viene rinfranto come se all’interno di un prisma, e poi acuito, rimandato, ampliato, lievitato fino a che non mi vedo costretto ad aprire una valvola di sfogo per far sì che non mi consumi dall’interno.

E questa valvola di sfogo è il canto. La scrittura, la musica, le note, i concerto, i Black Veil Brides.

È una vocazione. È una missione. Sono io.

Sono nato per questo.

La mia non è una passione, né un passatempo, né un lavoro. È ossigeno. È ciò che mi serve per vivere, senza il quale morirei, morirei di consunzione, di depressione, di frustrazione, di dolore, d’inedia.

È una consapevolezza che avverto, che percepisco, che distinguo nitida e cocente ogni momento della giornata, è il motore che muove le mie azioni, è un’inclinazione della mia anima, un’attitudine naturale, piantata così a fondo del mio spirito che l’una non può esistere senza l’altro e viceversa.

Ho sempre saputo di essere nato per cantare. Per raccontare, per scrivere, per urlare e sussurrare al mondo, per narrare la grandezza, l’immensità, l’infinito universo di sensazioni, emozioni e sentimenti che si evolvono, che sfociano, che sbocciano, che scappano, che scoppiano. Questo ero io. Volevo essere la voce di un popolo, l’emblema dei gruppi, il cavaliere di un regno.

Volevo.

Adesso?

Lo voglio ancora.

Ma sono rimasto invischiato.

Non mi ero accorto che per essere la voce sarei dovuto crescere così in fretta.

Non mi ero accorto che per essere emblema avrei dovuto stare al passo con un universo dove il tempo scorre senza ordine.

Non mi ero accorto che per essere cavaliere avrei dovuto sacrificare qualcosa di tanto prezioso.

Me stesso.

Eppure so di esserci. So di essere io. So di essere da qualche parte.

Dicono che le tre di notte siano il momento in cui il sonno si avvicina di più alla morte. Buffo. Io alle tre mi sveglio.

O forse muoio.

È il momento in cui mi sento gridare senza corde vocali. Grido, grido forte come se avessi bisogno di distruggere, di attirare l’attenzione, di annientarmi, grido fino a stordirmi e sfiancarmi, un grido che dura l’istante che serve per passare dal torpore alla veglia e di cui già ho dimenticato l’origine, e rimango con un’ondata di tristezza devastante che mi paralizza, che mi toglie il fiato, che mi dissocia luna dopo luna sempre più dalla realtà.

Non so qual è il problema.

Non so se è soltanto uno.

No.

Non lo so.

So che mi sto dividendo.

Ho ventitre anni e mi rendo conto di essermi perso. Mi sto perdendo.

Sono una miscela di olio e acqua, due densità incompatibili hanno scisso la mia anima e si allontanano, si dirigono a poli apposti ostentando silenzio, un silenzio assordante, un silenzio che ha la stessa brutalità lacerante del grido con cui mi sveglio e che viene da entrambe le parti, in alternanza.

So cosa voglio.

Credevo di saperlo.

Credevo di averlo sempre saputo.

Non è vero.

Voglio essere lo stendardo che marchierà la società in difesa di tutti coloro che non possono alzare la testa, voglio essere il liberatore di chi vive ogni giorno nell’apnea dell’incomprensione, voglio essere il volto da associare a quando si desidera cambiare le cose, sì.

Ma non in questa maniera.

Non come l’Andy Biersack che appare nei video. Non come l’Andy Biersack che non sorride mai. Non come l’Andy Biersack che si rende protagonista al posto degli altri.

Non come l’Andy Biersack che tutti conoscono.

Sono così falso.

Così impreciso.

Così automatico.

Il mio agire è in funzione di meccanismi che ho appreso inconsciamente e che adopero ormai in qualunque attimo della mia vita, sono un predefinito che si è costruito il proprio schema e vi si agita all’interno perché troppo piccolo, mi sono rinchiuso in una gabbia e ho dimenticato dov’è l’uscita. Sono diventato come gli altri, alla fine.

Rarefatto, condizionato, insofferente.

Non soffro nulla.

Ho cominciato a preoccuparmi quando mi sono accorto che l’unica sensazione che mi fa sentire me stesso è il dolore.

Mi desto quasi ogni mattina accanto alla ragazza che amo, e la felicità che provo è sbiadita, priva di contorni, difficile da mettere a fuoco.

Ho una coppia di genitori meravigliosi che per realizzare i miei sogni hanno modificato i loro, e la gratitudine che percepisco è latente, flebile, incorporea.

Passo le mie giornate con i migliori amici che avrei mai potuto trovare sulla faccia della Terra e l’entusiasmo è soffocato, smorzato, tremante come una fiammella sotto un alito di vento.

Sono la persona peggiore che conosco.

Sono la persona che ha bisogno di analizzare quel che non va nella mia vita unicamente per darmi energia, per trovare un appiglio, per creare un alibi per il sottoscritto in modo da fingere di stare bene pur sapendo che ho la necessità di stare male. È orribile.

Ho l’impressione che più le mie due parti si distanzieranno e più non riuscirò a far coincidere il mio interno dal mio esterno. Fingerò. Fingo già. Fingo di essere un uomo mentre sono un ragazzino. Fingo di essere felice mentre non lo sono. Fingo di amarmi, mentre non è vero. Fingo di sapere cosa voglio mentre non ne ho davvero idea. Fingo di adorare la compagnia delle persone che mi circondano mentre in realtà vorrei stare da solo.

Solo.

Solo con me stesso.

Vorrei fare pace con me stesso.

Chiedermi scusa.

Dirmi che il successo che mi ha trasformato in un manichino può andare anche in direzione contraria. Dirmi che c’è ancora la possibilità di diventare il modello che io desideravo essere e non quello che gli altri si aspettavano diventassi. Dirmi che mi basterebbe voler cambiare per farlo veramente.

Vorrei essere capace di convincermi.

Vorrei essere capace di cambiare le cose.

Vorrei averne il coraggio.

Non ho paura di morire. Ho paura di non riuscire a salvarmi.

Ho paura che, una volta solo, mi scoprissi insignificante quanto avevo il terrore di essere al liceo.

Alla fin fine mi riduco a questo.

Sono un venduto.

Sono una marionetta.

Sono uno tra i tanti.

E non faccio la differenza.

Sono caduto nella stessa ragnatela dove prima di me sono caduti altri, molti altri, dove stanno ancora, sguazzando in una penombra che riluce di tanto in tanto per illuminarli con una misericordia di scherno, quindici minuti di gloria per una vita di niente.

Il vecchio me non guardava in faccia a nessuno, insultava chi desiderava insultare, non si curava del giudizio degli altri, dimostrava le proprie emozioni. Il me di adesso pensa allo showbiz, a fare bella figura, a trovare l’outfit adeguato al personaggio, a rispettare le regole implicite del mondo della musica.

Il vecchio me agiva d’istinto, rispettava il proprio ego, non pensava al domani. Il me di adesso riflette prima di fare, di dire, di cantare, si comporta in funzione di terzi e non di sé.

Il vecchio me considerava la musica una dimensione estrinseca, mentre quella intima era rappresentata dalla famiglia, dagli amici, dalla dignità, dalla tranquillità, dalle piccole cose quotidiane che fanno stare in pace. Il me di adesso ha perso i paletti.

Dove sono i confini? Dove sono i limiti? Dov’è la linea che definisce cosa è da me e cosa non lo è?

Mi sento un riflesso. Un riverbero confuso dall’identica cornice ma dalla sostanza evanescente, mi segue ovunque, mi fissa come se fosse lui a voler focalizzare me al punto da costringermi a chiedermi se non sono io quello privo di essenza.

Sento rabbia.

Una rabbia caliginosa e impolverata che si leva e si posa come una marea cinerea, imprevista e autonoma, alimentata dalle sensazioni che mi ribollono dentro e di cui mi sforzo di ricordare i nomi.

Rabbia verso chi non si accorge che sono diverso, che sono cambiato, che sono finto, rabbia verso chi continua ad assecondarmi in questa discesa nella disgiunzione, rabbia verso chi mi ha condotto in un labirinto da cui non so uscire.

Rabbia verso le persone che mi amano.

Rabbia verso le persone che amo.

Perché non se ne sono accorte.

Perché non mi tendono la mano.

Perché non si fermano, non mi guardano, non comprendono.

Io non sono io.

Io sono un debole.

Sono fragile.

Ho ancora bisogno di un abbraccio quando mi sento spaesato.

Ho ancora bisogno di affetto quando mi sento sopraffatto.

Ho ancora bisogno di un incoraggiamento quando mi sento avvilito.

Ho ancora bisogno di attenzioni quando mi sento dimenticato.

Ho ancora bisogno di una carezza prima di addormentarmi.

Ho ancora bisogno che qualcuno asciughi le mie lacrime quando stare solo con me stesso mi spezza il cuore.

Ho ancora bisogno di qualcuno che mi dia forza quando io non ne ho.

Dove sono, tutti quanti?

Perché credono alla facciata che mi sono costruito?

Perché non mi scuotono le spalle e non mi dicono che sono cambiato?

Perché non mi prendono a schiaffi finché non confesso cosa c’è che non va?

Perché non ho il coraggio di fare il primo passo?

Perché ho paura.

Ho talmente paura di essere rifiutato da non riuscire a stare sulle gambe.

Ma forse sono io a fare la vittima. Forse sono io a non capire come funzionano le dinamiche. Forse sono io a essere incapace di adeguarmi a un sistema che mi vuole così, artificiale, plastico, perfetto, forse sono io a non essere bravo a gestire la differenza tra verità e immagine, forse ho combinato un casino cui non riesco a rimediare.

Vorrei essere in grado di chiedere l’aiuto che mi serve.

Vorrei cadere ai piedi di Juliet e supplicarla di piantarla di trattarmi come se fossi il meglio le sarebbe potuto capitare.

Vorrei gettarmi tra le braccia di mia madre e rimanere lì a piangere fino a che non sarò troppo stanco per stare sveglio.

Vorrei tornare indietro nel tempo a quando mio padre mi spettinava i capelli e faceva insulse raccomandazione da genitore perché voleva proteggermi.

Vorrei interrompere un concerto e ordinare ai fan di non guardarmi come se fossi una divinità.

Vorrei dire a Jake, a Jinxx, a CC, a Ashley che non è mai mia intenzione eclissare la loro presenza a ogni evento cui partecipiamo insieme.

Vorrei parlare con Ash per sentire di nuovo la sua voce quando assume quel tono gentile che ha smesso di usare con me.

Ash.

Ashley Purdy.

Il primo che mi abbia davvero guardato. Il primo che mi abbia davvero visto. Il primo che mi abbia davvero ascoltato. Il primo che mi abbia davvero sentito.

Tanti, tutti pensano che il membro dei BVB a cui sono più legato è Jinxx, perché è il più grande, il più eclettico, il fratello maggiore.

A Jinxx voglio bene, un bene sconfinato. Ma il mio fratello maggiore è Ash. È sempre stato Ash.

Fin da quando ero un ragazzino emo col trucco da Halloween, fin da quando mi sono fermato in mezzo a un marciapiede di Santa Monica facendo inciampare una signora che mi ha lanciato una serie di bestemmie, fin da quando sono rimasto folgorato dalla sua immagine nella locandina che pubblicizzava il concerto della sua band al Galaxy il ventitre marzo di troppi anni fa.

Ashley, un paradosso inspiegabile, tanto superficiale quanto interiore, volutamente frivolo nel suo mantenere una barriera divisoria tra sé e il resto del mondo.

Era la mia guida. Il mio modello. Una mano, una spalla, un sorriso. Ammetto di non aver mai avuto buongusto nello scegliermi gli idoli.

Avrei potuto ammirare l’integrità e l’individualità di Jake. Avrei potuto adorare la dolcezza e la sensibilità di Jeremy. Avrei potuto stimare l’originalità e la genuinità altrui di CC. Avrei potuto prendere a esempio mio padre, Rob Cavallo, Jeff George, o un mucchio di altre persone che conosco più o meno bene.

Invece, Ash.

Presuntuoso, ma in una maniera che non si rende sgradevole. Imprevedibile, nel ventaglio completo delle accezioni che vanno dal positivo al negativo. Narcisista, sicuro di sé e per questo pronto a scherzarci sopra. Imperscrutabile, come solo le persone consapevoli della propria integrità sanno essere. Solitario, senza la paura di rendersene conto. E forte.

Ashley Purdy è l’uomo più forte che io conosca. È come se non avesse paura di niente. Perché tutto gli è già accaduto.

Mai un cedimento. Mai una lacrima. Mai un crisi di nervi. Mai una manifestazione di dolore, di amarezza, di tristezza, di sofferenza.

Vorrei di essere capace di combattere contro i miei fantasmi con la medesima temperanza con cui lo fa lui. Non li ho mai conosciuti, i suoi fantasmi, ma so, sento che le loro catene sono pesanti, stringono, feriscono, soffocano. Tuttavia è ancora qui. È ancora vicino a me. Da allora, dal Galaxy, da quando quel ragazzo conciato come uno dei Kiss mi ha sorriso e mi ha salvato il culo da una folla che di certo mi avrebbe pestato fino a farmi sputare i denti.

Non si è lasciato sopraffare, non si è lasciato intimorire, non si è lasciato sconfiggere. Resiste, lotta, tiene testa a un passato di cui non sono mai riuscito a strappargli una cartolina e continua a essere forte, continua a perseverare, continua a vivere.

Io no.

Io mi sono fermato.

Io mi sono arreso. E le conseguenze arriveranno.

Sento rabbia anche verso Ashley Purdy. Soprattutto verso Ashley Purdy.

Perché vorrei che andasse oltre. Vorrei che specchiasse la sua battaglia con la mia e creassimo una sola guerra. Vorrei che mi leggesse negli occhi il vuoto che avverto. Vorrei che mi salvasse perché è l’unico in grado di farlo. Vorrei che mi salvasse di nuovo.

Vorrei che la distanza che si è cementata tra noi negli ultimi mesi si sgretolasse. Vorrei provare ancora la sensazione di sentirmi compreso nell’interezza della mia identità. Vorrei che tornasse a trattarmi come se mi amasse.

È colpa mia. Probabile.

Ha capito che non sono l’Andy Biersack che ha conosciuto. Ha capito che mi sono trasformato. Ha capito che in me ci sono cose che non funzionano più. Ha capito che la vicinanza degli esseri umani mi fa male. Perché mi ricorda che sono apatico, arido, miserabile, bugiardo.

Ma non vorrei che se ne andasse. Vorrei essere capace di chiedergli di salvarmi.

Non ci riesco.

Persino le mie canzoni mentono.

Non sono un salvatore. Non lo sono mai stato.

Un giorno finirà.

Un giorno finirò.

Forse crollerò in ginocchio in un’arena durante un concerto e farò una scenata pietosa di fronte agli spalti gremiti.

Forse darò di matto in studio strappando il microfono dalla giraffa e scaraventandolo contro la vetrata della produzione sperando di ucciderli tutti.

Forse esploderò sul bus-tour e litigherò furiosamente con la band, griderò all’autista di fermarsi e scenderò nel mezzo del deserto del Nevada.

Forse semplicemente spegnerò il me che sono diventato. E scomparirò.

E nessuno si chiederà dov’è finito il vecchio me.

«Tra quindici minuti in studio per il sound check.»

Una voce che non è un mio pensiero. Sbatto le palpebre, scruto il vuoto. Quello che ho dentro. Quello che si illumina di una scintilla insignificante quando Ashley ritorna sul mio cammino.

Mi volto verso la porta. È fermo sulla soglia.

I capelli lucidi, serici e neri, la mascella affilata, iridi che mi hanno sempre ricordato bottoni antichi o pietruzze preziose allo stato grezzo. La carnagione invitante, il fisico scolpito, l’espressione distaccata.

Gli sono indifferente.

Ashley, che è legato a me da un filo sottile come una ragnatela da cui vorrei essere imprigionato.

Ashley, che mi ha sempre sorretto.

Ashley, che mi ha sempre capito.

Ashley, che nonostante tutto seguita a capirmi.

«Cosa c’è che non va?»

Lo guardo. Lo fisso. Lo imploro.

Ascoltami.

Aiutami.

Salvami.

Ho bisogno di te.

Ho un così disperato bisogno di te da non riuscire a respirare.

Ho un così disperato bisogno di te da desiderare di essere soltanto noi due.

Ma so di meritarmelo.

So che la responsabilità del mio abbandono mi appartiene, è incollata alla mia pelle e mi erode, mi ingoia, mi frantuma. Sono io a essere cambiato senza accorgermene. Sono io a essere stato inetto.

Sono io ad aver sbagliato.

E mi vergogno. Mi rinnego, mi depreco, mi detesto, mi affogo nei sensi di colpa, nell’imbarazzo della mia stupidità, nell’onta di essere un mediocre.

Sono un fallimento.

E ho paura che loro sappiano.

Ho paura che se ne rendano conto.

Ho paura che il vero me sia ciò che Ash odia di più al mondo.

Mi alzò con una mossa fluida e fingo che il mio cuore non sanguini.

«Niente.» Niente, quello che sono, quello che provo, quello che dico.

Sono una manciata di polvere negli occhi dell’apparenza fatta per ingannarla e ingannarmi fino al giorno del giudizio.

«Ci vediamo là.»

Gli passo accanto con freddezza, involontaria, autodifensiva. Non ricordo come si voglia bene. Non ricordo come sia un sentimento vero. Non ricordo com’è il fremito di quando sono con Ash.

E mentre mi dirigo allo studio vorrei fermarmi, vorrei tornare indietro, vorrei solo chiedergli «Se scomparissi, mi verresti a cercare?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Buoooooooongiorno lettori, e buon Ferragosto anche se un po’ in ritardo! ;)

Eccolo qui il V° e ultimo capitolo di questa piccola raccolta di scatti introspettivi che spero vi sia piaciuta.

Abbiamo visto prima CC, tra vecchi rimpianti e l’attesa di un ritorno che forse non arriverà mai; poi è arrivato Jinxx, disperato del finire di un matrimonio per cui avrebbe sacrificato tutto; poi un Jake scienziato, un valutatore obiettivo e discreto che nell’impossibilità di poter aiutare concretamente gli amici gli sta accanto per ogni cosa. È arrivato poi Ashley, diviso tra due segreti che si fondono in uno e da cui vorrebbe riuscire a scappare; e oggi è stato finalmente il turno di Andy, immerso in una solitudine senza uscita.

Punti di vista diversi, percezioni stesse delle proprie esistenze differenti, superfici di specchi dove i protagonisti si vedono in un modo e il resto del mondo dall’altra parte li vede in un altro.

 

Spero che queste shot introspettive vi siano piaciute, e spero di aver reso giustizia a questi cinque personaggi che sto continuando a maltrattare per diletto personale! :P

 

Grazie a tutti voi che avete letto, preferito, seguito, ricordato, grazie a chi ha recensito e a chi mi ha scritto per dirmi che non vedeva l’ora di leggere l’ultimo capitolo.

Grazie a voi che avete apprezzato queste fotografie inventate (ma forse anche no) e spero di sentire il vostro parere per quest’ultima. ;)

 

 

 

Non mi resta che darvi appuntamento alla mia long-fiction Look Around se volete godervi un’altra mia FF sui Black Veil Brides, e vi lancio tanti baci di ringraziamento e d’affetto! :*

Alla prossima!

 

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