The truth about love

di xxdrewsbeauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


No one's POV
Gambe attorcigliate, labbra tra i denti, morsi sulle spalle, seni scoperti, corpi nudi sotto le lenzuola. Ma non c'era amore. Lei si alzò, prese i vestiti da terra, corse in bagno e dopo qualche minuto uscì pronta per andarsene. Senza un 'ciao', senza un bacio, senza niente. Lei aveva il ragazzo, lei lo amava, era stata la persona più importante che lei avesse mai incontrato. E di quel ragazzo che ancora l'aspettava non gliele fregava niente. Ma nessuno sapeva perché lei ci tornasse ancora. Forse non lo sapeva nemmeno lei. Il ragazzo delle lenzuola continuava a chiamare il suo nome: «Lisa, Lisa», ma lei era già fuori il portone, non sarebbe tornata. Lui rimase lì, tra le lenzuola, credendo che lei avrebbe potuto ancora tornare. Lui la amava, la amava sul serio, lui viveva per lei, per i suoi capelli, il suo profumo, gli occhi, e del corpo poco gliene fregava. Solo che quello era l'unico mezzo per arrivare a tutto quello che lui amava, a lei. Lui si chiamava Justin. E lei non aveva mai chiamato il suo nome, neanche in quelle circostanze. Lisa aveva il suo carattere, forte, che nessuno riusciva a manomettere. Aveva le sue idee e non le avrebbe cambiate. Non si preoccupava di far soffrire le persone, era una stronza. Ma Justin ancora le correva dietro, non voleva nemmeno provare a dimenticarla, era convinto che sarebbe potuta tornare e rimanere con lui per sempre. Ma come tutti sappiamo, la convinzione frega. Justin era un ragazzo giovane, aveva tutta la vita davanti, per questo continuava ad aspettare la donna della sua vita.
Anche Lisa era una ragazza giovane, ma lei non aveva intenzione di aspettare, aveva già trovato l'uomo della sua vita. E lui sperava ancora che lei avrebbe potuto ricredersi. Si alzò da quel letto e andò a farsi una doccia. Non aveva voglia di vedere nessuno, avrebbe voluto rimanere in casa per sempre. Ogni volta che quella ragazza se ne andava cosi da casa sua, gli spezzava il cuore. E solo la sua casa, era capace di curare un po’ le sue ferite, ma solo quelle superficiali. Uscì dalla doccia e iniziò a guardarsi allo specchio. 'Ma che ti guardi a fare?' si diceva. 'Non vedi che sei sempre lo stesso cretino che corre dietro ad una ragazza impegnata, che non tornerà mai? Ti sei fossilizzato cosi tanto su quella stronza' e qui iniziò a serrare i pugni 'che non lasci che nessun'altra entri nella tua vita.' Uscì dal bagno sbattendo la porta, come se con questo gesto i pensieri del lui più ragionevole avesse potuto scomparire, anche se Justin sapeva che quella era solo la pura verità. Più voleva stare solo, e più arrivava gente a rompergli le scatole. La porta si spalancò ed entrò il suo migliore amico.
«Amico» e corse ad abbracciarlo.
 «Hei Ryan» come minimo questo suo amico lo avrebbe invitato ad una festa, ad andare in discoteca o che so io.
«Senti Justin, tu stasera vieni con me in discoteca e andiamo a farci qualche pollastrella». Lo guardò storto.
 «Lo sai, sono impegnato»
«Ti stai riferendo a lei?» girò la testa con disapprovazione, mentre Justin annuiva.
«La devi smettere. Quante volte te l’ho detto? Dobbiamo riparlarne? Hai bisogno di aiuto.»
«Non ho bisogno di nessuno» disse buttandosi sul letto. «Voglio stare da solo.»
«Okay, ti vengo a prendere stasera alle 9.»
«No.»
«Si.»
«No.» urla.
«Ci vediamo stasera.»
«Fanculo.»
Il suo amico sbatté la porta con forza, di certo la pazienza non era il suo pregio migliore, e nemmeno l'aiutare Justin, visto che non sapeva da dove incominciare o cosa fare. Stendendosi su quel famoso letto, testimone di tante notti d'amore senza amore per lei ma piene per lui, iniziò a pensare a lei, al suo modo di parlare, di fare, alla risata, alle labbra, ai capelli e alle cose che più amava di lei, al modo in cui se ne era andata e al modo in cui gli aveva spezzato, per l’ennesima volta, il cuore, senza rinunciare mai al pensiero del suo ritorno e senza ascoltare il suo lui più ragionevole.

Stendendosi sul suo letto, testimone di tante notti senza amore ma di litigi per cose futili, causati dalla sua assenza e dalla gelosia di John, al quale non dava mai spiegazioni, Lisa iniziò a pensare alla sua vita, a come si stesse rovinando per colpa di lui e forse un po’ anche per colpa di lei. 'Ma Justin, che non amo e di cui non me ne frega niente, vale cosi tanto da farmi rompere col ragazzo che voglio davvero al mio fianco? No, quindi da oggi è finita, addio.' E lei aveva preso la sua decisione, senza rendere partecipe il ragazzo delle lenzuola, senza mandargli un messaggio con scritto semplicemente addio, facendolo morire nel dubbio. Era una stronza, una menefreghista, ed egoista. Lei ce aveva l'uomo che le avrebbe voluto bene, forse, per sempre. Ma lui? Chi ha? Cos'ha? Nulla oltre all'amore per lei. Ma questi non erano suoi problemi, lui avrebbe saputo cavarsela.
Avrebbe saputo sopravvivere senza di lei.
 Lui si alzò, camminò un po’ per casa, si ributtò sul letto, la sua vita non aveva senso. Che viveva a fare senza uno scopo? Lei non sarebbe tornata. Si, uso proprio il verbo 'tornare', perché lei prima c'era stata. Prima era innamoratissima di lui, e lui, naturalmente, di lei, ma un giorno se ne era andata, apparentemente senza motivo, e quando tornò a trovarlo, lei aveva solo voglia di farlo, ne di parlare e ne di fare nient'altro. E poi se ne era andata cosi come l'ultima volta in cui Justin aveva avuto il piacere di vederla. Ed ebbe inizio questo rito, un paio di volte a settimana, senza preavviso, decideva lei. Ed ora eccoci qui. Ad un punto morto, lei non sarebbe tornata ma lui avrebbe continuato ad aspettarla, con lo stesso amore e ansia con il quale si aspetta un figlio, per sempre.

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Helloc: allora mi presento. Mi chiamo Ilaria e ho quasi 15 anni. 
Avevo voglia di scrivere questa storia, in realtà ne avevo scritte altre prima ma non ho mai avuto il coraggio di pubblicarle. Come andrà andrà, io l'ho pubblicata. haha, se c'è qualcuno che mi segue.. beh allora buona lettura <3 
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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


No one's POV
Aveva solo voglia di piangere. Ma le lacrime non scendevano, eppure non è che ne avesse consumate poi così tante, solo ogni santa volte che lei lo lasciava.
Prese il cellulare, sperando in qualche suo, improbabile, messaggio. Come al solito nulla, solo sua madre che lo chiamava all’infinito sperando che potesse perdonarla. Ma lui, a tutte quelle chiamate della donna che l’aveva dato alla luce, non voleva rispondere. Tutto sommato soffriva per colpa sua, se non fosse nato non avrebbe sofferto, e non avrebbe nemmeno conosciuto l’amore. No okay, meglio che sia andata così, perché lui amava amare, e lo esprimeva tramite le sue canzoni. Si, Justin è un musicista, molto famoso anche, ma preferisce stare solo, con la sua musica, oppure col suo letto e le sue lenzuola. Ora invece, aveva voglia di fare musica. Ogni qual volta che le lacrime minacciavano si scendere prendeva un pezzo di carta e la sua chitarra e iniziava a scrivere quello che avrebbe potuto esprimere con l’acqua salata che scendeva dai suoi occhi. Iniziò a scrivere una frase, ma subito dopo la cancellò, faceva proprio schifo. Voleva raggiungere la perfezione, ma visto che non ci riusciva, cercava di raggiungere quello che per lui era il massimo, lei. Ogni canzone parlava di lei, o di qualcosa che le apparteneva. Chiuse la penna, mise a posto la chitarra dopo nemmeno un motivo composto, e chiuse gli occhi. Iniziò ad immaginare la sua vita tra qualche anno. Vedeva persone che lo chiamavano e acclamavano sotto il palco, tanta gente che lo amava, e quando tornava a casa si aspettava di vedere qualcosa, qualcuno, lei. Ma niente, niente di niente. Nessuna donna che lo accoglieva dandogli un bacio e facendolo sedere, nessuna che lo amava. Soltanto tanti mobili costosi e di lusso e soldi dappertutto. Aprì gli occhi e tirò un calcio al vuoto. Andando avanti così avrebbe creato quella merda di futuro. Okay la gente che lo ama, okay i soldi, ma non nessuna donna ad accoglierlo al suo ritorno. Lui ne ha bisogno, lui vive per amare. Lui è l’amore.
Si mise le mani sul volto e si massaggiò la fronte. A furia di pensare gli era venuto un forte mal di testa. Si alzò ancora una volta e si diresse in cucina per prepararsi un tost o qualcosa del genere, aveva un grosso buco nello stomaco. Prese le uova dal frigo e le ruppe mettendole nel piccolo tegame, prese due fette di pane in cassetta e dopo qualche minuto si mise a mangiare, così, da solo. Non avrebbe potuto vivere anni infiniti cosi. Sentì il telefono squillare, sapeva chi era, andò a prenderlo in camera. Sapeva chi era, certo, ma non aveva il coraggio di guardare il numero. Così rispose.
«Oddio tesoro, finalmente mi hai risposto. Sono così felice.» Disse Patty.
Anche lui era felice, ma non poteva darlo a vedere. Dopo due mesi aveva finalmente avuto il coraggio di trascinare la cornetta verde e di sentire la voce della donna che lo aveva tradito. Lo aveva fatto soffrire troppo, non poteva farle vedere che l’aveva già perdonata. Chiamasi orgoglio. Così lui stette zitto, senza dare segnali di vita.
«Tesoro, ci sei?» insistette la madre.
Dopo un altro po’ si degnò di rispondere. «Si ci sono, ma ti ho risposto solo per farti sapere che sono vivo. Ciao.» e chiuse la chiamata. Quanto dolore dopo quel gesto.
Prese di nuovo il telefono e andò nella rubrica, per cercare il numero di Ryan. Voleva dirgli che non gli andava proprio di andare in discoteca, era stanco, triste, e si, per la prima volta aveva bisogno di parlare con qualcuno. Ma, sfogliandola per arrivare alla R, passò prima sulla lettera P. Patty. E ora? Avrebbe voluto richiamarla per chiederle scusa, chiederle scusa lui, anche se è stato lui a soffrire, ma non importa, l’importante è che si sarebbero rivisti. Gli mancava la sua mamma, la voleva di nuovo con lui, nella sua casa, era stata sempre una buona amica. Ma poi come ha fatto a fare quell’errore? No, non poteva chiamarla. Avrebbe fatto la figura del perdente, del sensibile. E non voleva. Anche se con sua madre, se si poteva chiamare ancora tale, poteva fare queste tipo di figure. In pratica, Justin adorava sua madre, ma l’odiava nel contempo.
Alla fine si decise a telefonarlo, a Ryan. Preso da un senso di colpa misto a vergogna misto a.. boh.. pentimento, parlò con Ryan.
«Hei amico..»
«Hei Justin bello! Come va la vita?»
«Ryan, ho bisogno di parlare con qualcuno»
«Cosa?»
«Si, so che è strano, fin troppo. Ma ne ho bisogno sul serio. Ci sei solo tu qui, Chaz è partito.. Ti prego aiutami.» disse tutto d’un fiato, mettendosi una mano sulla fronte.
«Si okay, arrivo subito.» e partì, mentre Justin terminava la chiamata.
Ecco a cosa servivano i migliori amici, non solo a mangiare e bere insieme, raccontando le notti, ma anche aiutarsi in questo modo. Questo aveva capito Ryan, solo adesso, un po’ tardi, ma meglio tardi che mai.
Quando l’amico arrivò, aprì la porta che era socchiusa, e vide Justin seduto sul divano con le mani nei capelli. Si sedette vicino a lui, mettendogli una mano sulla schiena.
«Che succede?» chiese preoccupato.
«Sto malissimo per sta mattina, mi sento un fallito, non sarò mai bravo a fare niente, ho immaginato la mia vita tra qualche anno, e lei non c’era. Rimarrò da solo per sempre. In più mi ha chiamato mia madre e finalmente ho avuto il coraggio di risponderle, ma le ho detto solo che sono vivo e ho subito riattaccato. Mi sento un vigliacco, un emerito vigliacco. E non mi va per niente di venire con te in discoteca, sono stanco e poi per il resto.. e non mi va di farmi una ragazza in questo stato pietoso. Sono un vegetale. Vorrei morire.» ecco che le temute lacrime salate iniziarono a scendere dai suoi occhi.
Le povere orecchie di Ryan dovettero sentire il monologo del suo migliore amico e rimase spiazzato. Era preoccupatissimo per lui e poi gli faceva pena, e poi non avrebbe mai voluto essere al suo posto se non per aiutarlo. Ma non sapeva che fare o che dire. Come al solito.
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Eccomi yee c: ho aggiornato, non so se troppo presto o troppo tardi lol ma questo capitolo lo avevo pronto dal 3 e non vedevo l'ora di postarlo. Non so se piacerà però.. staremo a vedere haha c: buona lettura e grazie mille per le recensioni allo scorso capitolo :3 
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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


No one's POV
Lisa, stesa sul letto con il telefono tra le mani, non si era ancora pentita della sua decisione. Anzi, ne era ancora più convinta. Ma aveva solo un dubbio, un quesito, che aveva bisogno di una risposta. Era indecisa sul da farsi. Doveva mandare un messaggio al ragazzo delle lenzuola? O lasciarlo morire nel dubbio? Ora poteva immaginare il suo umore, il suo stato d’animo. Pessimo.
Quando lei era scappata da lui per la prima volta, non sa ancora perché avesse smesso di amarlo, si era sentita un po’ in colpa, quindi si decise e andò a trovarlo. L’aveva trovato strano, i suoi occhi color caramello erano spenti, senza espressione, e quando non lo vide comporre musica, capì che era davvero distrutto. Per questo decise di iniziare questo strano rito, ma senza pensare che l’avrebbe fatto soffrire ancora di più.
Mentre lo stavano facendo, lui le stava sussurrando qualcosa all’orecchio, qualcosa che percepì solo in parte, ma se ora ci pensa bene, forse riuscirebbe a ricostruire le sue parole.
«Non te ne andare mai più» ecco quello che aveva detto.
Ryan, alla fine, decise di fare la cosa più semplice, quella che forse sapeva fare meglio. Abbracciò il suo caro amico, stringendolo forte, facendogli capire che lui era lì, e che non se ne sarebbe mai andato. Gli disse che se non voleva non ci dovevano andare per forza in discoteca a farsi una bella pollastrella, suscitando una risatina di Justin. E gli disse anche che sarebbe rimasto con lui e che avrebbe cercato di consolarlo.
«So che quando faccio così ti metto sempre in difficoltà. Scusami.» disse Justin.
Ryan si sentì un po’.. non l’ha capito bene nemmeno lui, ma quel commento lo ferì. Non perché lo vide come un insulto, ma perché capì che davvero lui non era mai stato bravo ad aiutare qualcuno.
«No, scusami tu. Sono io che non sono un bravo amico, non so quasi per niente ascoltare, e non so mai che dire, non trovo mai le parole giuste per consolare qualcuno e quando ci provo faccio  un casino. Ma forse non riesco a far sentire bene gli altri solo perché non mi sento bene io.»
A Justin venne una stretta al cuore. Non pensava questo del suo amico, lui gli voleva bene, e davvero credeva che con quelle poche parole lo avesse aiutato. Ma più che altro adesso si sentiva in dovere di farlo parlare, di aprirgli il cuore e convincerlo a sfogarsi. Oltre le apparenze, è sempre stato un ragazzo timido emotivamente. Quando soffriva non lo dava a vedere e, come Justin, cercava di evitare di chiedere aiuto agli altri. Sarebbe stato un pomeriggio complicato e pieno di confessioni. Gli  venne spontaneo abbracciarlo.
«Ryan, so che ti riesce difficile, in realtà è uscito difficile anche a me. Ma sfogati. Ti farà bene. E comunque, così come ci sei tu per me, io ci sarò per te.»
«Sembriamo due ragazzine» risero di cuore, per la prima volta da un po’ di tempo.
«Eh allora? Io ti voglio bene, non me ne vergogno» disse Justin, ridendo ancora. Si abbracciarono.
Avevano appena finito di mangiare, erano pieni, il cibo cinese, anche se non sembrava, riempiva abbastanza lo stomaco. Justin era stanco, o si sentiva come se lo fosse. Ryan gli aveva detto che non sarebbe tornato a casa sua fin quando non si sarebbe sentito meglio. Quindi si era preparato affinché avesse potuto dormire lì la notte.
«Ho un’idea.»
«Spara» disse Justin.
«Chiamo tua madre.» propose Ryan.
«No no e no» rispose frettolosamente, come per fermare i suoi pensieri, ma il suo amico prese comunque il cellulare, iniziando a cercare il numero sulla rubrica.
«Non lo fare.» Ryan lo guardò.
«Ma non avevi detto che non avevi il coraggio di chiamarla?»
«Si ma..»
«E che volevi sentirla e chiederle scusa?» lo interruppe Ryan
«Si ma non..» Ryan lo interruppe di nuovo.
«Beh, io il coraggio ce l’ho. Quindi la chiamo io e risolviamo sta situazione di merda.» lo guardò
«Non sono pronto»
«Non ti serve essere pronto, devo parlarci io, e se poi ti viene il coraggio – mister cagasotto - allora ci parlerai.» disse con fermezza azzittendolo.
Il telefono squillò, e pregava fosse lui. Voleva sentirlo, non ce la faceva più ad aspettare. E se l’avesse chiamato lei le avrebbe chiuso il telefono in faccia come la scorsa volta.
Ma no, non era lui. Era un numero che non conosceva, solo un ammasso di numeri senza significato.
«Pronto?» chiese
«Sono Ryan» Ryan.. chi? Nome famigliare, ma con tutta quella confusione e con tutti quei pensieri non riusciva più a connettere e a capire chi fosse.
«Ryan chi?» chiese ancora.
«L’amico di Justin, non ricordi?» quando sentì il suo nome le venne quella ben conosciuta fissa al cuore. L’aveva chiamata, anche se non lui in persona.. ma magari era lì vicino.
«Oh si, scusa» disse dopo qualche secondo. Doveva chiederglielo. «Justin è lì? Vicino a te?»
«Si.» altra fitta.
«Passamelo.» disse quasi pregando.
«Non posso.»
«Devi, ne ho bisogno.»
«Patty, devo parlarti prima io. Poi se Justin vorrà potrà parlarti.» “Poi se vorrà..”? ha usato proprio il termine ‘vorrà’? che vuol dire? Questo sapeva chiedersi la madre, solo questo in quel momento.
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Eccomiiic: scusate davvero per il ritardo ma sto piena fino al collo di compiti lol anche se non la seguite in tanti sta merda haha coomuuunque.. siete curiosi? nel prossimo capitolo avrete qualche indizio su quello che è successo, io motivo per il quale Justin si è comportato così.. bho magari metterò uno spoiler(?) hahah comunque, fatemi sapere se vi piace, ci tengo <3 
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Spoiler
Dopo tutto, ora che ci pensava bene, avrebbe potuto offendersi di meno, alla fine, oltre gli schiaffi, lo aveva solamente preso a parole, quell’ammasso di pelle e ossa che (non) poteva definirsi suo padre.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


No one's POV
«Allora, per lui è difficile questo momento. Sta succedendo un casino e non riesce a capacitarsi ancora di quello che gli hai fatto. Non capisce come hai potuto farlo. Ma lui vorrebbe perdonarti. Oltretutto sei sua madre, ha bisogno di te, soprattutto in questo momento, ma non di suo padre. Lui ha avuto il ruolo peggiore in questo episodio e Justin è fermamente convinto di non poterlo perdonare. Inoltre ti ha lasciato, vi ha lasciati e se ne è andato. Sicuramente non se ne importa niente, quindi non si pone nemmeno il problema.» Ryan dicendo queste parole, fu sicuro di colpire dritto nel punto, convinto che Patty stesse ascoltando e stesse facendosi una specie di esame di coscienza, ripetuto sicuramente troppe volte. Non sapeva perché ma non voleva passarle subito Justin, avrebbe voluta tenerla un po’ sulle spine, il suo solito comportamento da stronzo.
Justin nel frattempo, al suo fianco, era in ansia. Cavolo, avrebbe voluto prendere il telefono dalle mani dell’amico e parlare con la madre, piangere e ridere insieme a lei, e mettere fine a questa storia che ormai si stava prolungando troppo. Dopo tutto, ora che ci pensava bene, avrebbe potuto offendersi di meno, alla fine, oltre gli schiaffi, lo aveva solamente preso a parole, quell’ammasso di pelle e ossa che (non) poteva definirsi suo padre.
Poteva immaginarsi sua madre, in ansia in questo momento, proprio come lui.
Aveva voglia di parlare con suo figlio, non con l’amico di suo figlio. E inoltre, con quelle parole, Ryan fece sentire ancora peggio Patty. Si sentiva sotto processo, dove doveva ammettere tutte le sue colpe.
«Ryan, queste cose le so già, non credi che ci abbia pensato molto anche io? Ti prego non rinfacciarmele» gli disse alla fine, non adorava questa situazione.
«Scusami» le rispose.
«Mamma?» era la voce del suo bambino. Di Justin. E la stava chiamando di nuovo mamma, ed era sicura che da quel giorno in poi l’avrebbe chiamata sempre così.
«Ci sei?» continuò a chiederle. Patty era così felice che non riusciva a parlare. Forse felice come lo era stato Justin quando si erano sentiti l’ultima volta; forse quella volta non voleva sentirla per orgoglio, pensò.
«Si, tesoro mio, ci sono. Stai bene?» le sembrava la domanda più giusta da fare, sentite le parole di Ryan.
«No mamma. Ma non importa, si aggiusterà tutto. E tu?»
«Adesso si, ma non dovrebbe interessarti quello che provo io. Come mai stai male?» chiese Patty, sperando che il motivo non fosse lei.
 Come mai? Non voleva parlare, ci aveva pensato già a fondo, e più ci pensava e più si deprimeva. Basta con Lisa. Basta e ancora basta. Strizzò gli occhi, si fece apparire la sua immagine, e muovendo le pupille dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra e viceversa riuscì a incidere una grande x sul corpo di lei, di lei traditrice.
«Mamma, no grazie, se avrò voglia di parlare con qualcuno andrò da qualche psicologo.» solo dopo si rese conto di quello che aveva appena detto. Psicologo? Gli aveva sempre odiati, odiava il loro lavoro, campare facendosi i cavoli altrui, e odiava anche il loro continuo intromettersi. Però boh, in quel momento, forse era l’unico che avrebbe potuto aiutarlo. Doveva cercare di capirsi, di capire i propri sentimenti. E in quel momento era così confuso. Troppo. La amava? La odiava? Chi l’avrebbe mai saputo?
Che cazzata, un psicologo? Mai e poi mai. Cambiò idea in un batter d’occhio. Come avrebbe fatto il dottore a capire tutto quel casino? Non avrebbe neppure potuto immaginare l’infinita coda di pensieri e preoccupazioni che occupavano la sua mente. Quindi no. Pensiero sbagliato.
«Pronto? Justin? Ci sei?» nessuno rispondeva. Dopo quella sua frase, con il riferimento allo psicologo, ci era rimasta male. Dopo la sua assenza di due mesi avrebbe voluto recuperare il tempo perduto, l’amore non dimostrato.  Ma come avrebbe fatto se suo figlio non voleva neanche dirgli come stava? Gli aveva detto: “Scusami, non dovevo chiederlo.” Ma non aveva ricevuto nessuna risposta. Non sentiva respiri, lacrime, risate, neanche la presenza di qualcuno vicino all’apparecchio, così chiuse la telefonata. Doveva richiamarlo?
Forse no, forse aveva bisogno di pensare, forse aveva bisogno di stare da solo, forse aveva bisogno di qualcuno, forse aveva bisogno di qualcuno al suo fianco, forse aveva bisogno di lei, forse, invece, non ne aveva. Forse era solo questo il motivo per cui non rispondeva e faceva finta di non esserci. Troppi forse, troppi dubbi. Troppe lacrime che volevano uscire e che ormai si erano consumate, non c’erano più.
«Mamma scusami, non dovevo dirlo. So che mi vuoi bene e che adesso vorresti recuperare il tempo perso, ma ho bisogno di stare da solo, e tu non potresti capire.» si rese conto che anche questa sua ultima affermazione era sbagliata, così si corresse prima che lei potesse ribattere.
«Cioè, forse potresti anche capire, ma ho bisogno di capirlo da me quello che provo. Scusami.»
Il nulla, il vuoto, il silenzio. Nessuna voce a dirgli “Non preoccuparti, tesoro. Quando avrai bisogno, ci sarò”, nessuno. Allontanò il cellulare dall’orecchio e vide che la telefonata era terminata, chissà da quanto. Lo sapeva, l’aveva ferita e offesa. Sua madre la conosceva, ed era, anche se non molto, ma almeno un po’, permalosa. Aveva chiuso il telefono e cancellato dalla mente quella conversazione, la madre.
Si rivolse verso Ryan, il quale fece spallucce.
«Lo sapevo.»
«Sapevi cosa?» gli chiese
«Di non essere pronto.» rispose, passando la mano tra i capelli.
«Invece lo sembravi.»
«Invece ho fatto un casino. Le ho fatto chiudere il telefono.»
«Non è stata colpa tua.» cercò di consolarlo
«E di chi?» lo guardò negli occhi in cerca di una risposta, ma anche gli occhi dell’amico ignoravano di chi fosse la colpa.
«Non lo so, amico. Forse è caduta la linea.» disse cercando qualche possibile scusa
«Ho sbagliato a dirle dello psicologo?»
«No.»
«E cosa te lo fa pensare?»
«Ti sarà pure scappato, ma hai davvero bisogno di qualcuno che possa aiutarti. E tu sai meglio di me che io non sono capace, e in più non ho mai avuto problemi del genere, quindi che potrei dirti?» chiese Ryan, parlando con una mano sul cuore, con tutta sincerità.
«Non lo so, ma ho sbagliato a dirlo.» disse convinto.
«Tu ci vorresti davvero andare?» chiese ignorandolo
«No.»
«Okay.» disse accumulando la risposta. «Domani ti ci porto. E non accetto un no come risposta.»
«Perché?» chiese Justin.
«Perché, anche se non sembra, io tengo a te. E voglio che tu capisca cosa cazzo provi per quella ragazza. Voglio che ci pensi seriamente, e che la cancelli dalla tua vita: lei è solo il passato.»
---
Helloc: Ilaria's back. allooora, avete scoperto qualcosina ina ina su questa storia, ma credetemi, non è ancora nulla, visto che sarà tutto spiegato nel prossimo capitolo. Grazie per le magnifiche recensioni che mi avete lasciato allo scorso capitolo piene di consigli, ma non ho potuto ancora applicarli visto avevo già finito di scriverlo. Inoltre mi scuso se è un po' corto. Anywaay, buoona lettura<3
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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


No one's POV
«Che ne dici di fare un pigiama party?»
Justin rise a quella domanda. Pigiama party? Come le ragazzine? Ma dai.
«Spero tu stia scherzando» disse Justin, ancora ridendo, mettendosi bene sotto le coperte. Quella sera faceva particolarmente freddo.
«No okay, magari non un pigiama party, ma almeno possiamo divertirci anche a casa senza andare in discoteca» rise anche lui, i lineamenti felici di entrambi i ragazzi erano perfetti.
«Okay, ci sto.» cosa aveva da perdere? Solo una bella serata in compagnia del suo amico.
«Tu vai a fare i popcorn, io scelgo un film» disse Ryan, alzandosi dal letto e dirigendosi verso uno scaffale pieno di dvd, di tutti i generi, dai thriller agli horror, dai drammatici ai romantici –alcuni erano anche stati lasciati dalla madre-, e  così via.
Justin si tolse le coperte sentendo un brivido di freddo alla schiena e si diresse in cucina senza dire una parola. Era sovrappensiero. Ryan l’indomani l’avrebbe portato da uno psicologo, e lo conosceva fin troppo bene per sapere che non avrebbe cambiato idea. Gli aveva fatto piacere sapere che l’amico ci teneva a lui, era una delle poche volte in cui Ryan dimostrava i suoi sentimenti. Prese dalla dispensa la scatola dei chicchi di mais e li mise in una pentola, facendoli cuocere.
La sua mamma, la sua adorata mamma, gli aveva insegnato come si preparavano i popcorn.
La sua mamma era la maga dei popcorn.
La sua mamma era insostituibile.
Ed ecco che, con la mente, arrivava sempre al punto di partenza, a Patty. Più cercava di allontanare quel triste pensiero, quello di quel giorno quando suo padre lo trattò come merda solo perché aveva preferito andarsene da quella casa, e più gli tornava alla mente. Era stato doloroso, lo aveva ferito fuori, certo, ma soprattutto dentro. E pensare che prima di quella sera amava quell’ubriacone. Già, aveva preso il vizio del bere, anche del fumo, ma si poteva dire che il secondo fosse quello meno grave.
Quando lui era piccolo, il padre lo andava a prendere a scuola, e poi, come da abitudine, lo portava in un bar lì vicino, gli offriva un grande cornetto al cioccolato e si fermavano per un’oretta a parlare e perdere tempo. Patty insisteva chiamando al telefono e loro, per scherzare, la facevano preoccupare non rispondendole. E poi quando tornavano a casa, ridevano a crepapelle della sua inutile preoccupazione. Però, dopo, tutto questo equilibrio si interruppe. Il padre iniziò ad essere freddo nei confronti della madre, non andava quasi mai a prendere Justin a scuola, anche se aveva la bellezza di 15 anni, e, quando lo faceva, non lo portava più in quel bar, testimone di tante belle giornate. Iniziò a litigare con tutti, con la famiglia, gli amici, i colleghi, e l’unica causa era l’alcol. Justin avrebbe dovuto mettere fine a quei rapporti molto tempo prima. Ma no, ogni volta il padre lo faceva ricredere, quando era sobrio, chiedendogli scusa e facendolo divertire.
Con il passare del tempo, la situazione peggiorava. Il padre aveva iniziato a picchiare la madre -ma il figlio non ne era al corrente, altrimenti avrebbe fatto di tutto per proteggerla- e sceglieva i momenti migliori, quelli in cui lei non sospettava di niente e in cui Justin non era in casa. Erano passati così, in questa merda, quattro anni. E quando Justin lo scoprì, non riusciva a rimanere in quella casa, in quello schifo, e con quello schifo di vita. Doveva cambiare aria, per lo meno quartiere, e casa. E allontanarsi da lui -finalmente- e da lei -a malincuore, non poteva portarla con se-.
Spense il gas, altrimenti avrebbe fatto bruciare quella delizia, e cercò di far allontanare quel pensiero. Ma non ci riuscì. Era nella sua vecchia casa, in soggiorno.

*Flashback*

«Mamma» la chiamò.
«Dimmi tesoro.» disse Patty urlando, lei era in cucina e doveva per forza parlare a voce alta per farsi sentire.
«Vieni qui, mamma.» urlò Justin di rimando.
«Okay, un attimo.» rispose Patty. Si avviò verso il salotto con un piatto in mano, lo stava asciugando con uno straccio. Boom. Tonfo per terra. Il piatto cadde.
«Dove vorresti andare con tutti quei borsoni?» gli disse guardandolo. Justin indossava un giubbino, e si era caricato le spalle di zaini, contenenti tutta la sua roba, e le mani di valigie.
«Via.»
«Tesoro.» disse Patty. Voleva trattenere le lacrime, ma non ci riuscì. Doveva immaginarlo, prima o poi avrebbe scoperto tutto. «Perché vuoi farmi questo?»
«Non ho altra scelta, mamma.» disse Justin, facendo scorrere sulla guancia destra una fredda lacrima. «Ho scoperto tutto, vorrei proteggerti, ma non posso rimanere qui. Quel mostro. Non posso. Devo andarmene.» la mamma lo guardò, il suo bambino.
«Scusami.» disse Patty, rimanendo lì dov’era. Quel groppo alla gola aveva bloccato anche le sue gambe e non riusciva a camminare. Dopo qualche secondo, Justin posò tutta quella roba e la raggiunse, stringendola a se stesso, per non farla scappare, per imprimere il suo odore nelle proprie narici, cosicché anche quando se ne sarebbe andato avrebbe sentito ancora la sua presenza.
«Non è colpa tua. Ma solo di quel mostro.»
«E dove vorresti andare?»
«Non preoccuparti per me, mi sono già organizzato, in una casa in un quartiere a qualche chilometro da qui.»
«E come farai con tuo padre?»
«Niente.»
«Come niente? Se lo scoprirà ti picchierà.» il dolore nei suoi occhi.
«Okay.. allora dovrai aiutarmi tu, ti prego.» Justin sapeva di aver appena chiesto la luna. Se sua madre fosse diventata sua complice, lui se la sarebbe presa anche con lei, e l’avrebbe picchiata.
«Come?» disse deglutendo.
«Dovrai dirgli che sono andato da Ryan, il mio amico. Lo ricordi?»
«Ehm, si, certo. Ryan. Okay tesoro. Mi mancherai.»
«Anche tu mamma.» disse stringendola ancora un po’. «Ti verrò a trovare comunque, tra poco, una settimana massimo. Io prima ti avviserò, così verrò quando lui non ci sarà. Ti voglio bene, mamma.»
«Anche io, tesoro mio.» rispose lei di rimando, con quel groppo alla gola che preannunciava una catastrofe. Quel suo piano avrebbe potuto rivelarsi fallimentare.

*Fine Flashback*

Scacciò quel pensiero. E finalmente ci riuscì. Era stato doloroso andare così a ritroso, il dolore gli aveva lacerato il cuore, e stava continuando a farlo. Era stato stupido, completamente stupido, confidare in un piano così idiota, e poi, infatti, era andata a finire male. I pensieri iniziarono a correre da soli, e la sua forza di volontà, evidentemente, non era tale da fermare quella corsa. Forse voleva rivivere quei momenti, forse solo per imparare ad odiarlo di più, suo padre.

*Continuo Flashback*
 
Suonò il campanello, aspettando che lei lo andasse ad aprire. Le aveva mandato prima un messaggio e gli aveva detto che Jeremy, suo marito, era fuori città per lavoro. Meno male, era più di una settimana che non la vedeva, non aveva avuto neanche un secondo di tregua con il ‘trasloco’, se così poteva essere chiamato. Doveva raccontarle come era vivere da solo, come ci si sentiva –troppo- soli. Voleva abbracciarla e respirare il suo profumo come l’ultima volta, perché dopo un paio di docce era andato via.
Dopo qualche minuto, non sapeva come mai ci avesse messo così tanto, gli aprì la porta. Sorrideva, ma un sorriso strano albeggiava sul suo viso.
«Mamma» la richiamò.
Lo abbracciò, ma non era questa la cosa strana. Lo abbracciò, senza dire una parola, e così forte che stava per farlo soffocare, non riusciva a respirare.
«Mamma, so di esserti mancato, ma andiamo, lasciami» cercò di ridacchiare.
«Scusami tesoro, scusami davvero.» gli disse, o meglio, gli sussurrò, o meglio ancora, gli mimò facendo uscire dalle labbra un leggero vento.
«Scusami per cosa?» le chiese dopo essersi fatto lasciare, ridacchiò. Entrò.
Oh no.
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Aloa, Ilaria è tornata lol Allora, prima di tutto, vi ringrazio per le splendide recensioni allo scorso capitolo, ne ho ricevuta anche una negativa, mi sono sentita un pò di merda però è normale che non può piacere a tutti, quindi mi metto l'anima in pace visto che ne riceverò altre mille haha. Parlando del capitolo, bho, idk, lol. Quando l'ho riletto me lo aspettavo diverso, ma comunque siete voi i giudici quic: Aspetto tante recensioni, belle o brutte che siano lol a presto:* PS: ho cambiato un pò il primo capitolo, la storia è sempre la stessa ma ho modificato visto che lì avevo usato il presente, e in più ho cambiato anche la frase della storia, perchè mi sono accorta che allungavo troppo raccontando dell'infanzia del nostro amato Giustino, quindi ho modificato l'introduzione lol buona lettura <3  
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Spoiler
Bevve un altro sorso, l’ultimo di quella bottiglia, finalmente.
La scagliò contro sua madre.


 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


No one’s POV
Avete presente quando vi trovate davanti qualcuno che amate? Inizia a battervi fortissimo il cuore, anzi, si blocca, e con lui si bloccano anche tutti i muscoli e non riesci a dire una parola, ammaliato dalla bellezza di quella persona. Beh, non era il caso del nostro Justin.
Avete presente quando vi trovate davanti qualcuno che odiate? Qualcuno che odiate sul serio? Qualcuno che non odiate perché, ad esempio, è antipatico o vi ha rubato il ragazzo o la ragazza, ma qualcuno che odiate semplicemente perché ha fatto del male a te e a qualcuno che amate? Ecco, questo era il suo caso.
Ti si blocca il cuore, il respiro comincia a mancarti, vorresti morire, soprattutto perché sai che qualcuno, oltre lui, ti ha tradito.
Quando entrò, se lo ritrovò di fronte. Ecco il perché dello ‘Scusami’ sussurratogli all’orecchio, ecco il perché del  sorriso strano, ecco il perché del troppo tempo per venire ad aprire, ecco il perché di tutto. Lo aveva tradito, e adesso lui, il mostro, oltre a prendersela con il giovane ragazzo, se la sarebbe presa anche con sua madre, la traditrice. No, no, e ancora no. ‘Traditrice’. Quel termine, avrebbe dovuto eliminarlo se riferito a lei. Magari non gliel’aveva detto a posta, forse, come era solito fare, l’aveva minacciata, e, giustamente, per salvarsi la pelle, gli aveva detto la verità.
Si girò verso di lei, le guardò gli occhi. Come aveva fatto a non notarlo prima? Aveva gli occhi rossi, rossi di pianto, e viola per le occhiaie – e forse per qualche pugno. Istintivamente strinse la mano destra in un pugno, facendo diventare bianche le nocche.
«Accetto le tue scuse» cercò di mimarle, senza farsi vedere da lui, dal mostro.
Cercò di calmarsi. Era ormai dentro da più di cinque minuti, e il tizio non aveva ancora aperto bocca, e forse – mai dire mai, però – non aveva intenzione di picchiarlo.
 Appunto, come detto prima, mai dire mai.
Si avvicinò a lui, minacciosamente. Ma non lo colpì, non gli parlò, non fece nulla se non sorpassarlo e chiudere la porta alle sue spalle, che per la ‘sorpresa piacevole’ non aveva chiuso. Si voltò verso di lui per non dargli le spalle, avrebbe potuto prenderlo alla sprovvista.
Sbatté le palpebre, e l’istante successivo si ritrovò appiccicato al muro, affianco alla porta, con la sua mano sulla gola, i piedi non toccavano terra, ed il mostro era così forte che riusciva a sollevare completamente il suo peso. Lo faceva con così tanta nonchalance che beveva mentre lo guardava soffrire, mentre gli toccava la mano cercando di pizzicarla, di graffiarla, di farle del male, pur di liberarsi. E lui rideva. Era ubriaco. Non aveva perso il vizio. Portò di nuovo alla bocca la bottiglia di whisky, della quale Justin non si era curato appena entrato in quella maledetta casa.
Gli occhi gli lacrimavano, non riusciva a parlare, a respirare. Poteva solo guardare come la sua forza stesse piano piano scemando, come lo stesse abbandonando. I suoi occhi guizzavano a destra e a sinistra. Vedeva sua mamma lì, rimasta spiazzata dalla scena – che sicuramente si aspettava -, con gli occhi gonfi dalle lacrime e le guance visivamente bagnate. Cercò di dirle con gli occhi di andarsene in camera e fare finta di niente, ma lei voleva rimanere, come se la sua presenza avrebbe potuto fermarlo.
Che errore, ahi.
Lui lo guardò. Appoggiò la sua fronte su quella del figlio. Cosa aveva fatto di così tanto ingiusto? Era scappato, certo, ma a chi poteva dare la colpa? Solo a lui. Poi sputò sul suo viso. Chiuse gli occhi per lo schifo, e sputò a sua volta. La guardò, non doveva assistere a tutto questo. Lui guardò gli occhi color caramello del diciannovenne, ancora una volta, e poi guardò dietro di se, per capire verso quale direzione stesse osservando. Bevve un altro sorso, l’ultimo di quella bottiglia, finalmente.
La scagliò contro sua madre.
Cercò di urlare, non uscivano suoni dalla sua gola. Le corde vocali erano diventate mute, senza suono.
Per terra, difronte a lui, lei stava stesa, forse svenuta, forse sveglia e cosciente, forse non voleva che il mostro la vedesse sveglia.
 Era solo colpa sua, solo ed esclusivamente sua. Non l’aveva portata con se, aveva fatto l’errore più grande della sua vita. E perché? Perché era convinto che così non se la sarebbe presa con lei e non l’avrebbe picchiata. Non si sarebbe sfogato su di lei dopo averli eventualmente trovati. Che pensiero stupido.
 Il mostro comunque non se ne curava, del fatto che lei fosse sveglia o meno, o morta. Pensava solo al ragazzo che stava per uccidere, pensiero dolce, non credete?
Uno schiaffo, un secondo, un terzo colpirono velocemente le due sue guance ad intervalli di mezzo secondo. Cercava di impedirglielo spostando la testa ma non servì a nulla. Lui teneva le sue possenti mani sul collo e non gli cedevano ancora il diritto di respirare. L’aria gli mancava, ne avrebbe voluta tanto un po’.
E pensare che qualche tempo fa avrebbe voluto non potersene servire più.
Aveva iniziato a dirgli qualcosa: «E questo è il ringraziamento? Sono tuo padre. Ti ho voluto bene. Ti ho trattato come un vero padre dovrebbe trattare un suo figlio.» disse. «Ti ho voluto bene» ripeté. Continuò: «E tu che fai? Che mi fai? Scappi. Scappi come un codardo. Senza motivo. Mi lasci. Mi tradisci. Sei un bastardo. Proprio come tua madre. Quella puttana.»
L’odio negli occhi e nelle parole del padre fecero salire qualche brivido sulla schiena del ragazzo. Aveva paura, la paura. Aveva la paura che potesse fargli davvero del male – era ubriaco fradicio, e il cervello da qualche anno a quella parte non lo aiutava -. E aveva la paura per sua madre. Che le avrebbe fatto? Si sarebbe limitato a lasciarla lì?
Perché sua madre non aveva chiesto il divorzio tempo fa? Perché? Per paura. Ma ne era valsa la pena? Non aveva avuto senso, ed era stato peggio.
Balle, solo balle nelle sue parole.
In quel momento si rese conto di odiarlo davvero, quel bastardo.
Sentiva ancora una stretta alla gola, ma aveva l’impressione che poco a poco quella forza stesse diminuendo. Non vedeva l’ora di potersene liberare, di avvicinarsi alla madre e di portarla lontano.
Davanti a lui, la figura del padre iniziò a barcollare.
Il piede destro si alzò, lasciando il pavimento. Con un movimento circolare si piantò indietro. Lo stesso fece il piede sinistro. Il bacino, si mosse anche lui. Le sue mani lasciarono la gola.
Aria.
Respirò a pieni polmoni. E maledisse tutte quelle sigarette fumate in quella settimana stressante. Se non le avesse fumate adesso avrebbe i polmoni più pieni d’aria, sarebbero stati più facili da riempire.
Un tonfo.
Jeremy il mostro per terra.
Era caduto, svenuto forse.
Justin si avvicinò alla madre, la quale aveva aperto un po’ gli occhi. Il viso era graffiato, con qualche macchia di sangue causate dall’urto con la bottiglia di whisky. Non se lo meritava. Cosa aveva fatto? L’aveva aiutato. Non avrebbe dovuto.
Era solo colpa sua, solo ed esclusivamente sua.
Aveva anche un pezzo di vetro conficcato nel palmo destro. Glielo tolse velocemente ma un’espressione di dolore si dipinse sul suo volto. Era inginocchiato al suo fianco, lei era ancora stesa.
Un calcio. Ahi.
Justin si alzò tenendo una mano sul fianco dal dolore, lo aveva colpito proprio lì. Gli era venuto spontaneo alzarsi, ma non avrebbe dovuto farlo. Affianco alla madre si ergeva la sagoma del mostro. Che sparava calci a raffica. A sua madre. 
Justin si avvicinò, senza farsene accorgere, e gli diede un calcio sulla schiena, e, con tutta la forza mista a rabbia, gli sferrò una serie di pugni. Sua madre non si poteva toccare.
«Mia madre non è una puttana, capito bastardo?» precisò mentre continuava a picchiarlo, avrebbe voluto farlo morire, a quanta rabbia aveva nel corpo.
Si girò, paura. «Ti ha tradito, cerchi ancora di difenderla?»
“Ti ha tradito, cerchi ancora di difenderla?” Gli arrivò un pugno nello stomaco, ma non riuscì a capire se glielo avesse dato suo padre oppure se fossero state quelle parole.
«Il fatto che mi ha tradito non sono fatti tuoi, okay bastardo?» cercò di dire. Un altro pugno, ma questo era vero, sferrato in pieno viso, sul naso.
Sentì un fiumicino caldo di liquido che scendeva dal naso, si posò sulle labbra, se le leccò e sentì il sapore ferroso del sangue. Con la manica della felpa si pulì del tutto.
Altri pugni. Pugni infiniti. E sarebbe resistito finché non avesse lasciato in pace la madre.
Ma perché faceva questo? Certo, era sua madre. Ma l’aveva tradito. Ma era colpa sua. Ma l’aveva tradito. Ma era colpa sua.
A chi doveva dare la colpa?
Un ultimo pugno fece cadere a terra Jeremy, ormai travolto dall’alcol. Justin emise un sospiro di sollievo, e ritornò dalla madre.
A chi doveva dare la colpa?
La fece alzare e la mise sul divano lì vicino. Le fasciò la mano ferita con delle garze che trovò nel mobiletto del bagno e le spalmò una pomata, fresca, sui lividi del viso.
A chi doveva dare la colpa?
A se stesso.
A sua madre.
Adesso non avrebbe più potuto fidarsi. Era andato tutto all’aria. Tutto in fumo. La mamma era una traditrice.
*Fine Flashback*
---
Hei bellezze<3 Ho pensato di aggiornare, ho fatto bene? haha Allora, parlando del capitolo, bho mi piace. idk why haha questa lotta col padre mi sembra interessante, ma spetta a voi giudicare <3 Volevo chiedervi mille volte grazie per le recensioni allo scorso capitolo, grazie grazie e ancora grazie aw <3 
Se vi va lasciate una recensione, voglio conoscere il vostro parere <3 Alla prossima.
-Ilaria
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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


No one’s POV
Quella sera, poi, l’aveva portata in un ospedale lì vicino e l’aveva lasciata alle cure di un’infermiera. Non poteva lasciarla lì, a casa, col mostro, ma comunque non si sentiva di poterla perdonare e quindi di portarla a casa propria.
Che razza di pensieri avevano risieduto nella sua mente? Come aveva potuto lasciarla lì?
Sul serio non credeva che lui non si sarebbe sfogato ancora su di lei?
Stupido.
Ritornò in  camera, da Ryan, con una coppa stracolma di popcorn, un po’ bruciacchiati ma comunque buoni.
«Amico, c’hai messo tre ore!» esagerò Ryan.
Guardò l’orologio, c’aveva impiegato mezz’ora. Si era fermato troppo a pensare. Come succedeva sempre, spesso.
«Scusami» ridacchiò cercando di non far trasparire emozioni e paure.
Ryan lo guardò, se ne era accorto. Era sovrappensiero e c’era qualcosa che non andava, sicuro. Aveva una specie di palla di vetro e riusciva a capire da lontano i sentimenti delle persone. Li capiva, ma non era in grado di aiutare. Ma se Justin non ne avesse accennato, allora sarebbe stato zitto. Già per tutto il giorno aveva cercato di aiutarlo, rompendogli sicuramente le scatole. Quindi si sarebbe fatto gli affari suoi, in più l’indomani avrebbe già parlato molto con lo psicologo.
«Don’t worry» ribatté Ryan. «Almeno spero che questo tempo ti abbia aiutato a migliorare la tua specialità.» scherzò.
«Mmh, ne dubito.» rispose Justin.
Tra quei due ragazzi era sempre un continuo fare battute e scherzare, con uno sguardo potevano capire i pensieri l’uno dell’altro, e chiunque sapeva che se in un discorso non fossero state presenti battute o cose del genere, il motivo sarebbe stato solo uno: avevano litigato.
«Ho scelto questo» disse Ryan riferendosi al film, gli mostrava un dvd.
«L’esorcista» commentò Justin.
Ryan voleva solo farlo distrarre, quindi niente dramma o romanticismo. E in più avrebbe voluto vederlo un po’ impaurito.
«Certo. Qualche problema?» Ryan mandò una delle solite frecciatine.
«Nessuno.» rispose facendogli l’occhiolino. Aveva in mente qualcosa, tipo uno scherzo per farlo saltare dal divano, malefico. Ryan se la sarebbe fatta seriamente addosso.
«Fallo partire» lo invitò Justin.
«Sicuro, amico.» si sorrisero.
Il film partì. Justin non aveva paura. E nemmeno Ryan.
Il realtà, il primo non stava prestando molta attenzione all’horror. Stava pensando ad altro, anche se non avrebbe voluto e dovuto. Stava pensando a come l’aveva conosciuta.

Stava nel letto, assieme a John, e tutto sembrava andare per il meglio. La sua scelta, si era rivelata la migliore.
Non aveva preso quella decisione molto tempo prima, ma già poteva sentire il cambiamento, più amore nell’aria, e anche quello che aveva sempre desiderato, fin da piccola: un grande anello al dito.
Era la solita ragazza, in fondo. Amava essere amata, e fin da piccina, quando giocava con le bambole, immaginava che un ragazzo le rubasse il cuore e non glielo ridesse più indietro, perché non lo voleva: per lei quel nascondiglio, quello scrigno si sarebbe rivelato perfetto.
Se qualcuno la incontrava, capiva subito che lei era forte, aveva un carattere determinato, ma nessuno conosceva queste sue piccole debolezze: né Justin né John. Forse però quest’ultimo fra poco l’avrebbe scoperte. Sarebbe stato lui il suo scrigno.
Poi la storia con Justin aveva rovinato un po’ le sue aspettative. Non sentiva tutto l’amore nella aria anche se avrebbe fatto di tutto pur di sentire quella strana fragranza che ti contorceva le budella, che ti faceva sentire le farfalle nello stomaco. Sapeva di essere amata, ma non si sentiva tale. Per questo, forse, se ne era andata. Però non aveva nessuno, non sopportava di non avere nessuno. E con un grande sforzo da parte del suo orgoglio – forse la gente aveva ragione a dire che aveva un carattere determinato – era andata da lui, ma con uno scopo diverso.
Si toccò l’anulare della mano sinistra, e mosse le dita come se ci fosse un anello e come se potesse farlo girare intorno al dito.
Abbracciò John al suo fianco e gli diede un bacio sulla guancia. In quel momento entrambi sapevano che non c’era bisogno di alcuna parola.
Lui ricambiò, e l’abbracciò più forte. Anche lui pensava che tutto stesse migliorando, forse quei piccoli gesti erano dei messaggi, eppure lui non sapeva niente della storia con Justin.

Justin aprì gli occhi e li richiuse subito dopo, il sole lo accecava.
Lui naturalmente, non aveva avuto paura del film. Ma Ryan eccome.
Justin si alzò e si avvicino lentamente e silenziosamente al letto dell’amico. Si mise con le spalle al sole e avvicinò il viso, contorto in una smorfia spaventosa e girato di lato verso destra, e le mani vicine ad esso. Era a pochi centimetri dagli occhi di Ryan. Avrebbe deciso quando mettere in atto il suo piano.
Ryan era raggomitolato nel letto, faceva caldo ma lui era completamente coperto dal piumone. Le ginocchia al petto e le dita dei piedi su loro stessi. Così si sentiva più sicuro.
Urlò. «Bu» gli occhi con uno sguardo indemoniato. La smorfia.
«AAAAAAAAAAAAAAAH» urlò di rimando Ryan. Alzò il busto e rimase seduto sul letto, mentre respirava con affanno, tutto sudato e rosso sulle guance.
L’amico si buttò di schiena sul proprio letto. Justin sarebbe morto da un momento all’altro. Rideva a crepapelle e non ce la faceva più, aveva visto la scena e aveva urlato come una ragazzina.
«Hai ancora paura di ieri?» gli chiese, ridendo.
«Fanculo.» disse.
Pensava allo scherzo di ieri, era stato spavento, in più durante la scena più terrificante del film. Gliel’avrebbe fatta pagare, poco ma sicuro.
Justin si alzò e lo abbracciò, continuando a ridere.
«Amico scusami.» rise ancora, non riusciva a smettere.
Gli buttò un cuscino in faccia. «Che mi ridi, bastardo.» Alla fine uscì anche sul suo viso un piccolo ed accennato sorriso.

Aveva paura. No okay, non paura. Ma ansia, quella tanta. Erano nella sala d’attesa dello psicologo. Prima a casa Justin aveva cercato un paio di volte di fargli cambiare idea, ma lui niente. Continuava a dire che era per il suo bene e che aveva bisogno di farsi ascoltare da qualcuno per sfogarsi. Justin, si che aveva bisogno di sfogarsi. Quella stronza l’aveva abbandonato ancora una volta, se lo sentiva, lei non si sarebbe fatta più sentire. Aveva bisogno di mettere un bel punto all’ultimo capitolo di quella storia, proprio come la x incisa sul suo corpo. E da solo non ci sarebbe riuscito, non sarebbe stato capace a digitare quel carattere. “.”
Però, nonostante questo, non avrebbe voluto parlare con nessuno. Avrebbe voluto continuare a tenere tutto per se e  scoppiare poi in un enorme pianto.
Quella sala incuteva terrore, almeno a lui. Era piccola, c’erano solo due poltrone, rosse e di media  grandezza, comode quanto bastava. Sulle quattro pareti basse erano appesi alcuni ritratti di persone nobili, con i rispettivi nomi sopra il bordo dell’opera. Sembravano suoi antenati, perché dopo una serie di queste particolari immagini c’era anche una foto del proprietario dello studio. Non l’avevoamai visto prima, ma l’aveva riconosciuto grazie al nome. Il dottor Pently.
Dal ritratto non si poteva vedere se era un uomo alto o basso, ma di sicuro era molto giovane, probabilmente tra la trentina e la quarantina. Aveva capelli biondi e vicino alle orecchie si trovavano due corte basette, che davano al viso un contorno più marcato ed elegante. Il viso era di profilo, il naso dritto e le labbra  sembravano carnose. Indossava il suo adorato camice bianco.
Justin, con lo sguardo, continuò a girovagare per tutta la piccola stanza, sulle quali pareti c’erano anche due porte, una era quella dello studio dello psicologo e l’altra quella dello studio della segretaria, secondo quanto diceva la targhetta dorata posta alla sinistra della maniglia.
Erano lì da un quarto d’ora e ogni tanto lanciava a Ryan degli sguardi, il quale si stava rimbambendo con l’aiuto dello schermo del suo iphone, e chiedendosi, ancora, se era davvero il caso di portarlo in quel posto, macabro.
Dopo una decina di minuti, una donna graziosa, bassina e ben truccata, uscì dalla porta del dottore, salutandolo con un bacio sulla guancia. Il dottore rientrò chiudendosi la porta alle spalle, e dopo un altro minuto uscì ancora con una cartellina in mano, alzando poi lo sguardo da quei fogli fino al viso di Justin, e facendogli segno di entrare. Guardò ancora una volta Ryan, il quale questa volta  ricambiava il suo sguardo, e si decise ad entrare.
La camera era grande, a differenza della sala di aspetto. C’era una grande scrivania che risaltava subito agli occhi di chi entrava, che era posizionata sulla destra dello spazio. Al centro della camera, invece, c’era un tavolino basso di vetro, ricoperto da un vassoio, pieno di biscotti e tè. Justin odiava il tè.
Il dottore gli fece segno di sedersi, indicandogli una delle poltrone, dello stesso modello di quelle della sala d’attesa, ma nere. Sembravano addirittura più comode. Prese posto e il dottore fece lo stesso, difronte a lui. Era identico all’immagine sulla parete dell’altra camera. Sembrava che fosse stata scattata un minuto prima.
«Sei Justin Bieber, vero?» gli chiese tenendo gli occhi bassi sugli stessi fogli di prima. Aveva un tono di voce calmo e profondo. La voce che Justin aveva sempre associato ad uno psicologo.
«Certo.»
«Posso chiamarti Justin?»
«Sicuro» gli rispose.
«E tu potrai chiamarmi Mark, se ti andrà.» gli concesse
A Justin piaceva questo tono confidenziale. Forse avrebbe dovuto rivalutare questa professione.
«Lo farò, Mark.»
«Allora, come stai?»
“Sincerità”.
L’unica parola che continuava a ripetersi da quando aveva messo piede in quella struttura.
Avrebbe detto sempre e solo la verità, proprio come si dovrebbe fare in tribunale, e si sarebbe aperto, perché dopo aver visto quella signora uscire dallo studio si era reso conto che forse avrebbe potuto aiutarlo davvero, e la sua voce calma e sinuosa ne era la conferma.
“Sincerità”, si ripeté ancora una volta.
«Male.»
---
Ciao bellezze<3 ho deciso di aggiornare, ditemi se ho fatto bene haha allora, questo è uno dei miei capitoli più lunghi anche se corti superlol. avete scoperto qualcosina su Lisa, sembra quasi dolce, non credete? beh, quella che conoscerete nei prossimi capitoli non sarà cosi stronza come quella delle prime parti, sarà dolcina haha e poi Justin nella sala d'attesa, tutti i pensieri, che ne pensate? Beh, fatemi sapere tutto in una breve recensione<3 alla prossima:*
With love
Ilaria
Ps: scusate se troverete qualche errore di battitura, ma l'ho riletto di sfuggita 
 
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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


No one’s POV
“Male”.
Il dottor Pently studiò quella risposta, il modo in cui era stata data. E pensò alla prossima domanda.
«Quando ti presentano una persona cosa guardi prima dell’aspetto fisico?» chiese.
Justin non capiva. Quella domanda non aveva senso, ne avrebbe avuto in un contesto diverso, ma lì? Che significato aveva? Però, si era detto di dire solo la verità e di essere naturale. Quindi pensò ad una possibile risposta.
Si tocco la punta del mento con la mano destra.
«Credo gli occhi» disse, puntando i suoi su quelli del dottore.
«E quali sono i tipi di occhi che preferisci?» chiese Mark
«Marroni.» disse speditamente. Conosceva bene quella risposta.
«Con qualche sfumatura particolare?» volle sapere lo psicologo.
«No, normali.»
«Appartengono a qualcuno?»
«Si» rispose, prontamente anche questa volta. «Appartengono a Lisa»
«Bene. Immagino che siano la prima cosa che tu hai visto in lei, o sbaglio?» chiese, senza volere davvero una risposta, che Justin, infatti, non diede. «E questa Lisa è la causa della tua prima risposta alla mia prima domanda?»
Ecco il motivo.
Aveva fatto quella domanda per un motivo, per chiedere il perché del suo male senza sembrare invadente. Furbo, pensò Justin.
«Si, è lei.»
Il dottor Pently lo guardò, chiedendogli con gli occhi di avviare il racconto.
Justin lo guardò timidamente, capendo quello che voleva lui facesse. E timidamente iniziò.
«L’ho conosciuta in discoteca.» cominciò. Sperava di non piangere. Non avrebbe voluto crollare davanti ad un uomo così. «E’ stato due mesi fa.» Quando pronunciò quella frase, automaticamente gli venne in mente la lite col padre. E la stessa sera l’incontro. «La stessa sera avevo litigato con mio padre, ci eravamo dati qualche pungo, quindi avevo la faccia un po’ viola. Lei si era avvicinata proprio per questo, era preoccupata anche se non mi conosceva e questo mi piaceva. Siamo andati subito d’accordo e ci siamo messi insieme. Ma non so cosa sia successo dopo. L’avevo persa. Poi era tornata, ma non per stare con me, aveva un unico fine, ma non era amarmi. Usarmi.» disse.
Non era lui che parlava. Erano le parole che uscivano da sole, non c’era alcuna forza a comandarle. E mentre questo suono si faceva strada nell’aria che era contenuta dalla stanza, lui lo ascoltava. E si rese conto che “usarmi” era la parola giusta. Non se ne era mai accorto prima. Aveva pensato che fosse una stronza, eppure cercava di allontanare quel pensiero. Ma quella parola era perfetta. L’aveva usato e lui continuava a stare a sua disposizione, come un ebete. E non aveva dato ascolto al suo lui più ragionevole, ma d’ora in poi l’avrebbe fatto.
«Mmh» mugugnò il dottore, meditando sulla risposta.
Cercò un’altra domanda. Voleva farlo aprire. «E quindi, dimmi un po’, la odi?»
«Beh, difficile a dirsi. Sa,»
iniziò «lei è il mio punto debole. No, la amo, nonostante tutto. E io sono venuto da lei perché voglio dimenticarla, ma non so da dove iniziare»
«Okay, posso aiutarti.» lo rassicurò Mark.
E Justin si sentì davvero sollevato. Qualcuno che finalmente avrebbe potuto aiutarlo e capirlo. Si ripromise che appena fosse uscito dalla stanza sarebbe andato ad abbracciare l’amico. E poi sarebbe andato a chiamare la madre. Oppure avrebbe aspettato, non lo sapeva ancora. Ma una cosa era sicura. Avrebbe smesso di amare Lisa.
«Però ho bisogno del tuo aiuto, della tua collaborazione.» gli spiegò Pently.
Justin annuì, e seguendo i comandi del dottore chiuse gli occhi. Così come gli fu chiesto, immaginò una scena, un ricordo brutto della sua esistenza. Immaginò la lotta con suo padre. La descrisse al medico, senza che lui gli chiedesse niente. Avrebbe voluto solamente liberarsi di quel grande peso. E avrebbe voluto sentirsi “Hai fatto male a lasciare tua madre lì, indifesa”, perché in fondo lui lo sapeva. Sapeva di aver sbagliato, e avrebbe voluto soltanto qualcuno col coraggio di poterglielo rinfacciare. Di solito tutti gli dicevano “Non potevi pensarci, avevi paura, è normale, e volevi allontanarti.” Balle.
Le solite cazzate che ti dicono per farti sentire meglio. E poi non capiscono che con quelle balle ti senti, invece, ancora peggio.
Infatti il dottore lo accontentò.
«Cosa ti spinse a non portarla con te?»
«Niente, non volevo e basta. Credevo di avere una spiegazione valida. Ma non era così. So di aver sbagliato.»
«Si, hai sbagliato.»
gli disse il dottore con un tono grave, sorridendogli poi.
«Grazie dottore.»
Non si era accorto che nel frattempo aveva aperto gli occhi. Senza farselo ripetere li richiuse, continuando a guardare quella scena con la mente, e in seguito, ricevendo istruzioni più precise, dovette pensare ad una scena spiacevole, causata da Lisa.
Ce ne erano tante. Non sapeva quale scegliere, ma per una coerenza cronologica scelse la scena della prima volta in cui l’aveva abbandonato.
Iniziò anche questa volta a raccontare tutto. Dalla sua fuga senza motivo fino al suo ritorno con lo scopo diverso dall’amarlo.
«Capisco.» disse il dottore annuendo. «Cosa ti ha fatto più male? Il fatto che se ne fosse andata lasciandoti senza spiegazione, o il fatto che sia ritornata da te con un altro scopo?»
Mark Pently ignorava quale fosse “l’altro scopo”, ma poté immaginarlo.
«La seconda cosa.»

Uscì di lì cambiato. O quasi.
Aveva versato qualche lacrima, ma non era stato così traumatico come credeva piangere davanti ad un uomo del genere. Sull’uscio della porta lo salutò abbracciando, e gli disse che probabilmente sarebbe tornato a trovarlo.
Durante la loro chiacchierata gli aveva anche raccontato della sua strana, insolita, paura per gli psicologi. “E lei mi ha fatto ricredere” gli aveva detto. E questo fece riempire il cuore di gioia al buon dottore.
Come ripromessosi, abbracciò Ryan.
L’aveva dimenticata. Lo sapeva. Non avrebbe più provato niente per lei se non ribrezzo. Era una persona orribile, l’aveva lasciato e tradito la sua fiducia.
Il medico l’aveva aiutato davvero.
Da solo non sarebbe mai riuscito a dire una cosa così, a convincersi di questa verità. Per un semplice motivo: lui credeva di non essere alla sua altezza, di non poterla giudicare visto che anche lui era pieno di difetti. Ma erano difetti differenti, e lui non sarebbe mai stato capace di ferire in quel modo una persona.  
Era acqua passata, caduta dalla cascata e persa durante il tragitto. Non l’avrebbe amata mai più. Rivista mai più. Sentita mai più.
O quasi.
Sperava fosse così.
Aveva reinciso la x sul suo corpo e messo un punto all’ultimo capitolo di quella storia. La sua migliore decisione.
Presero qualcosa da mangiare durante il tragitto verso casa, qualcosa di semplice come un panino al volo da McDonald’s. I macchina era calato il silenzio, ma non per la vergogna o altro. Justin era intento nel pensare a quella importante svolta nella sua vita, mentre Ryan era intento a mangiare il suo panino preferito, quello con il bacon, insalata e maionese. Trio perfetto. E lui mentre mangiava rimaneva sempre in silenzio. La macchina sfrecciava tra le strade di Stratford all’ora di punta, fermandosi ogni 500 metri ad un differente semaforo. La strada per arrivare a casa non era molto lunga, bastavano dieci minuti.
Dopo poco arrivarono, aprendo la porta e accasciandosi stanchi sui due divani del salotto.
Aveva pensato troppo, Justin, e voleva soltanto fare un pisolino. E ricominciare.

Si trovava in una stanza buia. Era appiccicata ad un angolo tra due pareti, e lontano, vicino all’angolo opposto, scorgeva un’altra figura. Aveva un viso conosciuto, ma non riusciva ad identificarlo. Stampò quel viso nella sua mente, e cercò di ricordare. Dove l’aveva visto? Cercava di avvicinarsi a quel punto della stanza buia, ma qualcosa non glielo permetteva. Era come se una forza la spingesse verso il muro e non la facesse muovere. Lisa urlava, voleva andare da quella figura per capire meglio chi fosse. La curiosità la stava mangiando viva. Cercò di allungare un braccio, credendo così stupidamente di poter arrivare al lato opposto dello spazio angusto. Intanto quella figura si muoveva, camminava. Ma non verso di lei.
«Vieni qui!» urlò «Fammi capire chi sei» disse.
Ma quella sagoma, alta e slanciata, se ne stava andando, camminando dalla parte opposta, verso il muro, e lo sorpassò, come fanno i fantasmi.


Si svegliò di soprassalto. Aveva fatto quel sogno stranissimo a cui non sapeva dare una motivazione, o una risposta. Ci ripensò. Di solito i sogni vogliono dire qualcosa che è accaduto o sta per accadere. Una figura si era allontanata da lei, attraversando addirittura un muro, un ostacolo che non potrebbe essere attraversato da nessuno, a parte dai fantasmi. E lei  non avrebbe potuto fare niente per impedire a lui di andarsene. Era un ragazzo, di questo ne era sicura. Ma ancora non aveva capito chi, e inoltre aveva dimenticato il volto. Vagò tra i ricordi della sua mente, cercando un appiglio per ritrovare quell’identikit. Guardò anche negli spazi più remoti, e alla fine lo trovò, accartocciato dietro un masso. Aprì quel ricordo con cura, per non farlo rovinare.
Finalmente, riconobbe quel volto. Il masso che credeva di avere al posto del cuore iniziò a sgretolarsi. Almeno lui, non avrebbe dovuto voltarle le spalle. E se John se ne fosse andato? Come avrebbe fatto senza nessuno?
«Justin» urlò nel cuore della notte, con la voce interrotta dal pianto e con John al suo fianco.
---
Ciao bell gente, Ilaria è qui presente  oh si lol no okay, era pessima HAHAHA 
Allora, spero che il capitolo vi piaccia:'( non so come potreste giudicarlo haha
Ho seguito i consigli di una ragazza e ho messo i dialoghi in neretto per farli risaltare, ho fatto bene? lol. 
Che sogno strano quello di Lisa, vero?
Alla prossima, vi voglio tanto bene, e grazie per le corse recensioni:3
 
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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


No one’s POV
Si svegliò con uno strano dolore alla schiena. Aprì lentamente gli occhi, per non vedere troppo in fretta la luce del pomeriggio soleggiato. Lì il tempo era molto instabile, un minuto prima c’era un sole che spaccava le pietre, e quello dopo ci sarebbe anche potuto essere un tornado. Quindi non si sarebbe meravigliato se si fosse messo a nevicare. Girò la testa a destra e a sinistra, vide Ryan ancora dormiente, e poi poso lo sguardo sul proprio corpo. Steso in maniera innaturale su quel divano. Era così stanco che non aveva neanche avuto il tempo di aggiustarsi un po’ prima di addormentarsi; si meravigliò di aver chiuso almeno la porta.
Si alzò zoppicando per la stanchezza. Il sonno non lo rimetteva mai in sesto completamente, avrebbe ancora avuto bisogno di un po’ di tempo per riprendersi.
Si diresse verso camera sua, camminando lungo il corridoio. Girò a destra ed entrò. Aprì l’armadio e prese un jeans e una maglietta, da altri cassetti in basso raccolse l’intimo da mettersi dopo la doccia. Si girò ancora una volta e fece per uscire dalla camera. Si fermò sull’uscio della porta. Spostò lo sguardo alla sua sinistra. Affianco all’infisso della porta c’era un piccolo tavolino. Con sopra una cornice. Con dentro una foto. E dietro la foto un ritratto.
Prese l’oggetto e lo portò con se sul letto lì vicino. Rise. Estrasse il ritratto e buttò la foto, incorniciata dall’argento, in un vaso che fungeva da porta spazzatura.
Rise ancora. Era falsa. Una ragazza falsa. Forse avevano ragione tutti a dire che al posto del cuore aveva un masso. E lui era stato capace di vedere qualcosa nascosto dietro quel masso. Ma forse anche quella luce calda che aveva intravisto era falsa. Tutto falso. Tutto uno spreco di tempo.
Entrò nel piccolo bagno, grazie al quale molte volte era stato meglio. Si guardò allo specchio, come l’ultima volta, e sentì quella vocina che si congratulava e gli diceva di aver fatto la cosa giusta.
Sorrise, sapendo che quella volta aveva ragione, quella vocina, ed entrò nella doccia facendo scorrere l’acqua calda sulla sua pelle fredda.

Finì di asciugarsi i capelli, dando con una spazzola l’angolazione giusta al suo ciuffo color grano.
Mise in ordine il bagno, se così poteva definirsi il suo ordine, e si diresse verso la camera, dove il ritratto era rimasto sul letto. Gliel’aveva fatto lei, e lo ritraeva durante una bellissima giornata a mare, in costume, con i pettorali rivolti al sole, abbronzati. In quella foto era felice, aveva un sorriso che spaccava l’obbiettivo, se così poteva chiamarsi la matita utilizzata per disegnare. Adorava quel ritratto, lo teneva nascosto come nascosto era il suo cuore, come nascosti erano i suoi sentimenti e le  sue emozioni, visto che non riusciva ad aprirsi con nessuno. Lo adorava davvero, e anche quando l’aveva lasciato, se l’era conservato. E ora, dopo la seduta, l’avrebbe visto come un bel ricordo, non più legato a lei, ma solo all’estate, al caldo, al suo sorriso e alla felicità. Stop. Nient’altro. E l’avrebbe tenuto allo scoperto.

Ecco, adesso avrebbe potuto comporre musica, ed era sicuro che d’ora in poi non ci avrebbe pensato così tanto su una frase. L’avrebbe buttata lì, su un foglio, affianco allo spartito zeppo di note che componevano le sue splendide melodie. E forse avrebbe anche avuto il coraggio di avviare il suo  tour.
Era così timido che componeva solamente, registrava, si faceva foto e basta. Nessun concerto. Chiamò il suo manager e gli confidò il suo desiderio. Quello di cominciare questa sua nuova vita con un bellissimo concerto, dove tutte le sue fans, che erano riuscite a stargli vicino anche se non sotto ad un palco, avrebbero avuto finalmente l’opportunità di guardarlo negli occhi. Era felice. Felice per davvero. E niente avrebbe potuto rovinargli quel momento.


Nel buio della sua camera si sentivano soltanto i suoi respiri affannosi, ispirava ed espirava a pieni polmoni, quell’incubo e quel viso le avevano sconvolto il sonno, e ora si era aggiunta anche un’altra paura.
L’urlo.
Non poteva sapere se il ragazzo al suo fianco l’aveva sentita, ma aveva tanta paura, paura di quel nome.
Paura di quello che poteva succedere.
Paura di provare qualche sentimento nei suoi confronti.
John si mosse, mugugnò qualcosa, e rigirandosi si riaddormentò.
La ragazza tirò un sospiro di sollievo, rimettendosi ben comoda sotto le coperte, ma senza addormentarsi. La paura era sparita ma era apparsa un’altra sensazione, e non sapeva riconoscerla.
Aveva rivisto Justin,  era sicurissima fosse lui, e le aveva procurato uno strano movimento nello stomaco, mai provato. Forse il rifiuto. Non era mai stata rifiutata.
Si, ora riusciva a capire. Aveva paura, timore, che anche lui, che c’era stato sempre, se ne fosse andato, per sempre. E solo in quel momento si rese conto di essere una stronza.
Di essere come tutti dicevano che era.  Lo aveva usato. Quei pensieri le causarono una stretta al cuore, ma Justin, in fondo, quante ne aveva avute, di strette al cuore? Quindi è come se, in un certo senso, se le meritasse tutte, fino all’ultima.
Non ci poteva credere, era stata un mostro, ma lui era rimasto lì, il ragazzo delle lenzuola, quello che l’amava sul serio, e che aveva fette di prosciutto sugli occhi, evidentemente, per non notare la sua cattiveria.
E John? Lui avrebbe fatto quello che ha fatto Justin nonostante tutto per due lunghissimi e difficili mesi? No.
John, in realtà, avrebbe voluto liberarsi di lei molto tempo prima, perché, secondo il suo intuito, qualcosa nella loro relazione si era allentato, e stava perdendo pezzi per strada.
Ma lei in fondo lo sapeva, prima o poi qualcuno le avrebbe voltato le spalle e le avrebbe detto addio. Perché non tutti avrebbero potuto reggere il suo pessimo carattere.
Lei era la ragazza stronza, il mostro, e se ne era accorta pure lei minuti prima; lei era l’insensibile, quella che non piangeva mai, quella che non teneva tutti i sentimenti dentro, perché non ne aveva. Le sue guance non si bagnate delle lacrime ormai da anni, da quando sua madre morì, per mano di quell’ubriacone del padre. L’aveva uccisa durante un eccesso di collera. E si era ripromessa di non prendersela con nessuno, nemmeno con il vero colpevole, perché non l’avrebbe potuta affrontare da morto. Da suicida, da vigliacco; perché il padre di Lisa era questo: violento, assassino, suicida, vigliacco, mostro; era tutto, fuorché un uomo.
Una lacrima le scese dall’occhio destro, e un’altra le fece compagnia uscendo da quello sinistro.
Lei era l’insensibile, quella che non piangeva mai, quella che non teneva tutti i sentimenti dentro, perché non ne aveva.
Invece, scoprì lei, ne aveva, e adesso stavano uscendo piano piano, sotto forma di acqua salata, dai suoi occhi. Una dopo l’altra, le lacrime annegarono il cuscino nell’acqua. Con quelle goccioline insignificanti stava dando un significato a tutto.
E anche se avesse continuato a rimuginarci, sarebbe comunque arrivata alla stessa conclusione: lei, la stronza, aveva fatto fuggire per sempre lui, il ragazzo d’oro. E non avrebbe mai potuto trovare uno migliore di lui, neanche quello che aveva al suo fianco in quel momento ne era all’altezza.
Non ci poteva, ancora, credere. Era stata una stupida, solo una stupida, non aveva ragionato e capito che l’uomo della sua vita, in realtà, era quello che non sapeva di volere. E adesso se ne era accorta. Ne era ancora follemente innamorata, e per John, spazio nel suo cuore, non ce ne sarebbe stato più.
Aveva voglia di chiamarlo, dirgli tutto e sfogarsi, su suo padre. Ora aveva raccolto da terra tutti i cocci necessari per avere il coraggio che non aveva mai avuto. Avrebbe riaperto quella ferita, aperta da un suicida, causando un dolore immane, ma alla fine sarebbe riuscita a farla rimarginare per bene, non per finta.
Aveva voglia di chiamarlo, di farsi scusare e renderlo parte integrante della sua vita.
Ma qualcosa le diceva che lui non avrebbe accettato. E quando pensò a questa possibile ipotesi, risposta, le lacrime che avevano smesso di scendere, ripresero possesso di quel candido viso.
Prese il cellulare dal comodino al suo fianco, pigiò sull’unico tasto centrale e una luce le accecò gli occhi, che strizzò. Quando si abituò a quel bagliore, vide l’orario.
4.03
E voleva chiamarlo subito.
A quell’ora, però, avrebbe potuto solo peggiorare le cose.
Tenne duro, in quel letto dal contenuto finto, fino alle 7, quando, stancandosi di aspettare, decise di alzarsi e lasciare lì, solo, il povero John.
Prendendo dalla dispensa qualcosa di commestibile e ordinando il tutto sul tavolo bianco al centro del grande salone della grande casa che fino a qualche ora prima voleva condividere con John, si sedette. Sembrava tutto più strano ora, e tutto più finto, e tutto senza una sicurezza.
Non sapeva che cosa sarebbe successo l’indomani, né il domani successivo. Non poteva immaginare niente, perché tutto era nelle mani del ragazzo delle lenzuola, questa volta.
Questa volta lei non avrebbe potuto comandare nulla, non avrebbe potuto dettare date e orari, perché alla fine lei se ne era andata, lasciandolo  per l’ennesima volta solo a combattere con i suoi mostri interiori.
E uno di quei mostri era proprio lei.
Lisa Smith. Quel suo nome ora la faceva vomitare, provava solo ribrezzo nel presentarsi per tale, era una persona orribile.
Doveva cambiare.
Avrebbe continuato a perdere tutto, e a conquistare nulla.

Erano le due del pomeriggio, e ancora non era riuscita a digitare  nulla che potesse invitare Justin a risponderle.
E poi non aveva la minima idea di cosa scrivere. Se far capire che lo voleva davvero. Se far capire che voleva vederlo. Se far capire che era dispiaciuta e non avrebbe dovuto comportarsi così. Non lo sapeva. Non sapeva nulla.
Da una mezz’oretta  era lì, sul davanzale di marmo freddo della bassa finestra della mansarda, appoggiando le spalle al muro e la testa sul vetro rumoroso, c’era la pioggia che picchiettava e non capiva se le piacesse o se le desse sui nervi. Ma una cosa era certa, non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo per scegliere i pixel giusti da digitare.
“Ciao Justin, sono Lisa, o meglio, la stronza che ti ha lasciato da solo nel letto per l’ennesima volta. Ti chiedo scusa, e vorrei fare pace e magari andare a prendere un caffè insieme. Spero di sentirti presto” digitò. Ma l’orgoglio le impedì di definirsi in quel modo, di chiedere scusa e quant’altro, così per l’ennesima volta cancellò quelle parole con l’intento di scriverne altre finché quelle giuste non fossero arrivate.
Spostò lo sguardo al cielo azzurro e grigio, alle raffiche di acqua che cadevano poggiandosi rumorosamente su strade, marciapiedi, davanzali. Associò quella bella melodia ad una delle canzoni di Justin. Ne aveva scritta una per lei, il ragazzo, una volta. E, stupenda com’era, Lisa incominciò a cantarla.
Il messaggio le parve, allora, scritto sulla mente, non avrebbe dovuto fare altro che trascriverlo. Si sentiva più sollevata, dopo aver pigiato sul tasto ‘invio’. Il peso sullo stomaco si era volatizzato.

Prese la chitarra dalla custodia che aveva conservato nell’armadio, e suonò. Suonò qualcosa che a lui era sconosciuto. Che ancora non conosceva ma che presto avrebbe imparato e fatto diventare suo. Prese degli appunti sullo spartito, e ogni tanto cercava di adattare qualche bellissima frase, qualche bellissima, spensierata, libera, felice, frase.
Sorrise, per l’ennesima volta quel giorno. Forse stava esagerando. Forse anche tutto questo era falso, era tutto un bell’incubo. Troppo bello per essere vero.
Ma era vero sul serio.
Ma non sarebbe più stato così tanto bello.
Il cellulare vibrò. Sul display comparve un messaggio. Numero non salvato, ma che Justin conosceva a memoria. Stretta al cuore.
Era felice. Felice per davvero. E niente avrebbe potuto rovinargli quel momento.
Ed ecco quel niente che invece ne sarebbe stato capace. Non ora,  non adesso, non ora che aveva superato tutto. Non ora.
---
Ciao belli! Credo di essere in ritardo, mi scuso immensamente.
Considerate questo capitolo come un piccolo regalo da parte mia, perchè oggi è il mio compleanno yee, un pò di merda ma okay.. :) 
Comunque, passando al capitolo.. beh, le cose stanno iniziando un pò a muoversi, e non vedo l'ora di arrivare alla gelosia più assoluta hvbsdh hahaha sono pazza lol
Spero vi piacca, fatemi sapere, vi amo, a presto
-Ilaria 
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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


No one’s POV
Avrebbe voluto strapparsi i capelli.
Era riuscito a ricucire alla bell’e meglio lo strappo al cuore, e ora un peso immane ci era caduto sopra, frantumandolo in cocci ancora più numerosi. Si aspettava che qualcosa sarebbe andato storto, la sua vita non aveva come scopo la felicità, perché sarebbe sempre arrivato qualcosa che avrebbe come al solito rovinato tutto. Sperava di sbagliarsi, che prima o poi sarebbe arrivato il suo momento, quello di essere felice davvero, senza se e senza ma, magari con una ragazza, magari da solo, magari con gli amici, magari con la musica. Ma non poteva davvero pensare come avrebbe potuto far conciliare tutto questo trambusto che annuvolava la sua mente con il creare musica. Si guardò le mani, che impugnavano il manico della chitarra, le dita premevano sulle corde, creando melodie spezzate.
Tutta quell’inspirazione era scomparsa, volatilizzata, e non era più sicuro che avviare un tour fosse una buona idea. Annullare tutto, questo gli premeva.
Aveva ancora una volta rinunciato alla felicità, e per chi?
Per lei.
Perché si era fatta viva? Avrebbe preferito ‘morire nel dubbio’, come si diceva che avrebbe fatto tempo fa, anziché sentirla, proprio ora. E poi dalle parole scritte sembrava così sicura di se e… innamorata.
Difficile a crederlo, ma dava proprio quell’impressione.
Fece cadere rumorosamente la chitarra sul pavimento; quella sera avrebbe dovuto incontrarsi con Scooter. Non si sarebbe presentato, mai più.

So che forse non dovrei avere nemmeno la faccia di scriverti qualche falsa parola, ma mi sono resa conto che il mio comportamento è stato sbagliato, fin dall’inizio, e spero che noi possiamo ricominciare da capo.
Ho riflettuto, e so che sei stata l’unica persona che mi ha seriamente apprezzato, nonostante il mio carattere difficile. E non so fino a che punto io potrò ringraziarti per questo.
So per certo che queste mie parole ti infastidiranno, perché le ho tratte da una canzone. La tua canzone, destinata a me. La sto ricantando in questo momento e mi accorgo che è perfetta.
Il mio orgoglio purtroppo non mi permette di scrivere cose del tipo ‘Scusami’, quindi evito.
Non mi firmo, perché so che capirai chi sono. Un bacio.


Lo rilesse per l’ennesima volta, facendosi sempre più domande, non riuscendo a dare risposte a nessuna di quelle. Si sentiva strano. Si odiava, perché aveva paura che quelle parole potessero indebolirlo ancora una volta, quando invece non avrebbero dovuto.
Si stese sul letto, si accucciò sul lato destro, il suo preferito, e si chiuse in se stesso.
Erano le tre del pomeriggio, e Ryan era appena uscito da quella forma di coma che era il suo sonno. Si stiracchio stropicciandosi le palpebre chiare, e alzandosi cercò l’amico. Preferiva non urlare il suo nome, il chiasso appena sveglio gli dava tremendamente fastidio, così si limitò ad aprire porte dopo porte nella grande casa di Justin, sperando di trovarlo in fretta.
Aprì per ultima la porta della sua camera, dove lo trovò arrotolato su se stesso come un riccio. Si avvicinò posandogli una mano sulla spalla, la quale sobbalzava leggermente, accompagnata da alcuni singhiozzi rumorosi.
Ryan chiuse le palpebre. «Amico» lo chiamò, sapendo che c’era qualcosa che non andava.
Justin sollevò di poco la testa, giusto per guardare la figura davanti al suo letto e  per far notare con dolore gli occhi rossi e lucidi.
«Mi ha distrutto ancora.» Non c’era bisogno di dire altro, e Ryan capì. Doveva stare in silenzio e farlo sfogare. «Adesso che credevo si fosse sistemato tutto,» iniziò interrompendo le parole con dei deboli singhiozzi, «si rifà viva. Io non voglio. Deve sparire. Non mi farò abbattere ancora.»
Alzò ancora la testa dal comodo appoggio che si era creato con le braccia, e lo guardò, indicandogli con gli occhi il cellulare con il display illuminato sull’altro capo del letto. L’amico lo prese, lesse le parole e chiudendo gli occhi le assimilò. Non doveva farsi buttare giù da quelle lusinghe e false lettere. L’ha ammesso addirittura lei che le sue erano solo parole false.
Strizzando gli occhi, una piccola e soffocata lacrime scese.
Era il periodo delle lacrime proibite che riuscivano a prendere libertà illegalmente.
Justin se ne accorse e sorrise. Il suo amico stava soffrendo insieme a lui e sapeva che questa volta l’aveva capito sul serio.
Si abbracciarono e, fissandolo, Ryan capì che voleva essere lasciato solo, e sbuffando obbedì. Lasciò la camera, e poi la casa, salutandolo con un breve cenno della mano.
Lesse ancora una volta il messaggio, quelle false parole delle quali aveva paura. Aveva paura che potessero fargli del male, che potessero fargli considerare quella convinzione di aver dimenticato tutto una bugia, tutto falso, ancora una volta. Troppe delusioni, e tutte per causa sua. Non sembrava possibile.
Si alzò, strofinandosi gli occhi rossi dal pianto, lasciando la camera, con la chitarra per terra e la sua anima lì.
La sua anima era lì dentro, con le mani sulla chitarra e la testa su nuove frasi. L’avrebbe lasciata lì, a morire, con la sua musica. Si sentiva un fallimento, niente di più, tutto di meno.
Aveva lasciato lì anche il cellulare, con quel falso papiro, e lì sarebbe rimasto, perché Justin non avrebbe di certo risposto.
Si diresse verso il salotto della stanza, abbandonato dalla figura di Ryan che fino a poco tempo prima dormiva sul divano.
Raccolse un giallo dalla libreria, e sprofondò con la lettura nel suo libro preferito e nel divano.
Si sarebbe distratto con gli enigmi di un caso poliziesco e avrebbe lasciato perdere tutto.

A volte avrebbe voluto essere lui il menefreghista, quello che faceva soffrire le ragazze, quello che non le calcolava per poi farle piangere, oppure quello che le faceva divertire, per poi lasciarle.
Ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscito, non era da lui.
Avrebbe voluto anche essere quello con lei ai piedi, per farle capire cosa si prova. Ma anche questo era impossibile. Per una semplice ragione, lei era troppo orgogliosa per inginocchiarsi ai suoi piedi.

Oppure l’avrebbe fatto?

No, nemmeno lei credeva che prima o poi si sarebbe inginocchiata, e ‘umiliata’ così. Non era dai lei, e in più era convinta che con quel messaggio gli avesse fatto riprovare sentimenti conosciuti per lei. Sempre quei pensieri da superiore, da stronza, come se lei fosse il massimo e tutti avrebbero dovuto amarla, dimenticandosi di quel momento di debolezza durante quale aveva pensato che John non sarebbe rimasto fino alla fine e aveva inviato quel messaggio, del quale era fiera. Era, in un certo perverso modo, fiera di essere così falsa.
Avrebbe aspettato la risposta, perché il cuore del ragazzo era troppo debole e non avrebbe resistito ad avere un’opportunità del genere, secondo lei, naturalmente.
Un falso sorriso albeggiò su quelle rosee labbra carnose molte volte accarezzate da Justin, e Lisa, toccandosele, rivisse quei momenti.
Non sapeva nemmeno lei che pensare.
Ormai si era resa conto di essere falsa, stronza, e il giudizio della gente per la prima volta le sembrava appropriato, le calzava come un guanto.
Mentre lui era il contrario.
Un altro momento di debolezza le invase la mente e le membra. Stava per crollare ancora. Due di questi momenti in un giorno dopo molti anni, cosa le prendeva?
Doveva essere forte per superare tutto, perché lo era sempre stata e ci era sempre riuscita. E adesso cosa glielo impediva? Justin.
Perché? Si sentì sconfitta.

Voleva la risposta, e nello stesso tempo non la voleva.
La voleva per sentirsi stronza e farlo soffrire ancora.
Non la voleva perché voleva sentirsi male, per provare quello che gli aveva fatto provare tempo prima. Pensieri strani per una come te, le riconobbe la sua vocina.
Anche quella non sentiva da molto. E in un certo senso le era mancata.
Ricalcare tutti i suoi pensieri con parole dette da ‘altri’ la aiutava a ordinarli, a capire il succo del discorso.
Altre lacrime, un po’ false e un po’ vere.
«Cosa mi succede?» si disse, con le mani ai capelli, i gomiti sul tavolo. Doveva andarsene da lì, da quella casa, quella città. La opprimeva troppo.
Andò in bagno. Aprì una vetrinetta che conteneva alcuni oggetti, tipo dentifricio, spazzolino, smalti, trucchi, lamette. Ne prese una. Le tolse il cappuccio e la impugnò, osservandola tremando.
Sarebbe tornata sui suoi vecchi passi? Avrebbe riiniziato a farsi del male?
Sperava di no, ma ormai era lì, nel bagno, con in mano una lametta, pulita e affilata. Che avrebbe potuto fare di diverso?
Portò la lama di acciaio sul polso, premette.

Chiudendo il libro, un sorriso gli occupò il viso. Andava già meglio, e quella enigmatica lettura lo aiutò a prendere una decisione.
Non avrebbe risposto, l’avrebbe ignorata. Così sarebbe stata male lei, almeno per una volta, gli disse la sua vocina interiore, ma gli sembrava un pensiero troppo malvagio. Non l’aveva mai vista stare male, quindi non poteva immaginare fin dove avesse potuto arrivare. Così, scacciò quel pensiero, e ricalcando il sorriso sulle sue dolci labbra, si alzò, andando a recuperare il cellulare nella stanza della sua anima. Preso l’oggetto, recuperò anche qualche vestito della stagione estiva. Uscì dalla porta, chiudendosela a chiave alle sue spalle. Non l’avrebbe più aperta, lasciando la sua vecchia vita.
Con i vestiti in mano, vogò per la casa in cerca di una stanza, tra le tante, con il letto pronto. Arrivato davanti alla porta giusta, abbassò la maniglia, entrando. Sentiva l’aria di quella stanza già molto diversa, perfetta per questa nuova vita. Dopo aver messo in ordine le magliette e i jeans in cassetti diversi, uscì dalla sua nuova camera digitando un numero sul display del suo Iphone. Aspettò che il destinatario della chiamata rispondesse per poi dire: «Ho voglia di uscire.»
«Cavolo Justin, sei sicuro?»
«Si, Ryan. Ho bisogno di svagarmi.»
«Va bene. A che ora vuoi che ti venga a prendere?» chiese l’amico, felice per lui e meravigliato allo stesso tempo.
«Per le dieci, va bene?»
«Perfetto» ricevette come risposta.
Poi entrambi chiusero la chiamata. Sapeva che gli avrebbe chiesto poi il perché di quella decisione affrettata, ma in realtà la ragione era semplicissima. Per ignorare al meglio il messaggio doveva uscire, ballare, conoscere gente. Magari non sarebbe stato capace a conoscere qualche bella ragazza, forse non ne avrebbe avuto la forza e nemmeno il coraggio, credeva di aver perso colpi. Ma mai dire mai, magari ne sarebbe stato in grado.
Essendo le sei del pomeriggio, gli sembrava troppo presto per iniziare a prepararsi, quindi oziò un po’ sul divano, immaginando una discoteca, che non vedeva da molto tempo a quella parte. Sarebbero andati nella sua ex preferita, per vedere se era stato attuato qualche cambiamento. Ma poi qualcosa gli venne alla mente, suggerendogli che forse sarebbe stato meglio cambiare locale ogni tanto.
In quella discoteca, dove la musica era stata suonata alla perfezione e il cibo e le bevande erano ottime, aveva conosciuto la sera del litigio con il padre Lisa.
Una parte di lui lo spingeva ad andarci, per rivivere un bel momento, perché avrebbe potuto mentirsi all’infinito ma non avrebbe mai potuto negare che quella sera fosse stata una delle più belle dei suoi diciannove, quasi venti, anni.
Avrebbe potuto rivivere una serata del genere? Si, ma la parte negativa della situazione lo inchiodava a pensare che dopo qualche sera tutto sarebbe potuto andare per il peggio, facendolo soffrire come aveva già provato.
Voleva rivivere tutta la tristezza di quel periodo, che ancora continuava a dare i suoi frutti? No.
---
Ciao gente<3 Mi scuso se ho fatto aspettare una settimana intera, non era mia intenzione, ma è la prima volta che non lo aveva già pronto, scusate ancora, anche se non so a qunate di voi interessa sul serio.. 
Comunque, bando alle ciance, avete letto la parte di Lisa? Che ne dite? wow. si taglierà secondo voi?
Cosa l'ha fatta soffrire così tanto? Non so se ve lo dirò presto, muahaha
E poi quando dice di volersene andare, lo fa sul serio?
Bah, come ragazza è proprio strana, non sa quello che vuole e nemmeno quello che pensare.
Invece Justin sembra felice, si rifarà una vita, e forse quella vecchia verrà abbandonata.. mi dispiace ma ha abbandonato anche la chitarra:c
Comunque spero vi sia piaciuto, alla prossima<3
-Ilaria
ps. grazie per le  bellissime 10 recensioni allo scorso capitoloc:
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


No one’s POV
Strinse gli occhi, facendoli diventare due microscopiche fessure, dalle quali uscivano lacrime soffocate, trasparenti e salate che percorrevano i rilievi poco pronunciati del suo viso.
Inalando un lungo respiro, espirò dalla bocca, bagnata anch’essa dalle lacrime.
Non ne aveva il coraggio. Ma l’avrebbe cercato, dappertutto se necessario, perché quand’era ragazzina trovava sempre sollievo in questo. Ci sarebbe riuscita, e sarebbe stata meglio, ritornando forte come sempre.
La mano che stringeva la lametta tremava, forte. E non riusciva a farla smettere. Richiuse gli occhi abbandonandosi con i gomiti suoi lati del lavandino, la lametta cadde.
Inspirò ed espirò, facendo uscire le preoccupazioni, cercando di calmare i singhiozzi, veloci e irregolari.
Schiuse lentamente gli occhi, guardandosi al grande specchio che si ergeva difronte a lei. Vedeva solo una ragazza distrutta, stupida, indecisa, e mai nessuno avrebbe visto quello che in quel momento vedeva lei, avrebbe nascosto tutto.
Mise la lametta a posto, chiudendo poi la vetrinetta. Uscì dal bagno vedendo quell’orribile sagoma di mostro che era lei.

Erano le dieci di sera, era buio e Ryan era appena arrivato, stava aspettando fuori la porta che Justin uscisse.
Il ragazzo dai capelli color grano uscì, chiudendosi alle spalle la porta a chiave. Si voltò e senza una parola abbracciò l’amico ed entrò in macchina.
Dopo qualche minuto accostò vicino ad una discoteca, alla discoteca, quella di cui Justin aveva paura ma nello stesso tempo amava.
Respirò profondamente e, senza accorgersene, entrò nel locale che straboccava di gente. Il suono della musica era assordante, tanto che Justin strinse gli occhi per attutire il dolore momentaneo alle orecchie, non era più abituato alla vita da discoteca.

C’era gente in ogni angolo che ballava, che flirtava, che si baciava, che beveva, che vomitava.
Si ricordò l’ultima volta in cui vomitò in quel luogo affollato. Tutti lo guardavano perché era scoppiato proprio al centro della pista da ballo, e qualcosa inchiodava i suo piedi al pavimento nero lucido e, non riuscendo quindi a muoversi, rimesse davanti a tutti, sporcando anche qualche tacco di qualche odiosa oca. Si era vergognato talmente tanto, non avrebbe voluto rifarlo mai più, e tanto meno essere nei panni dello sfortunato di turno, quindi evitò di fare il curioso e di avvicinarsi al ragazzo, come invece, senza scrupoli, stava facendo una gran parte della clientela.
Si sedette ad uno sgabello rosso, posando le braccia sul bancone, dopo essersi guardato in giro, senza notare nulla di diverso.
Concentrò i suoi sensi sul suono che vagava nel locale e, riconoscendo ‘That power’, sorrise malinconicamente al pensiero di aver abbandonato tutto, ma non sarebbe tornato indietro, quindi a che sarebbe servito ‘piangersi a dosso’? Pensò che nessuno si fosse accorto di lui, e forse era meglio così. Invece c’era qualcuno che lo stava fissando.
Il barista, il buon ‘vecchio’ Josh.
Sorrise, e il ragazzo dietro il bancone occupatissimo ricambiò.
«Era da tanto che non ti si vedeva, amico. Ci sei mancato.» gli fece sapere, e quelle parole lo lusingavano, contava per qualcuno.
«Lo so amico, lo so.» sorrise «Anche voi mi siete mancati»
«Che si dice da quelle parti?» chiese Josh, indicando con la mano occupata nell’asciugare qualche bicchiere di vetro le casse dalle quali uscivano ancora le melodie della sua collaborazione.
«Non si dice niente, alla fine ho abbandonato. Ma non lo sa ancora nessuno, sei l’unico.»
Josh sembrò sorpreso «Oh, mi dispiace.» disse. «Mi sento onorato» queste parole provocarono un sorriso del biondo.
«Comunque adesso non mi interessa.» sorrise, facendo capire che voleva terminare la conversazione, aveva deciso di uscire per svagarsi, non per continuare a deprimersi.
Accettò un whisky, stando attento a non esagerare per non finire come quel ragazzo come poco fa, e dopo averlo bevuto in un sorso, accompagnò Ryan in pista.
Qualcuno, per fortuna o per sfortuna, iniziò a riconoscerlo, e mentre ballava a ritmo di musica tre ragazze gli si erano avvicinate, gli si strusciavano un po’, ma quando si resero conto che a Justin, almeno per quella sera, non sarebbe interessata la loro presenza, se ne andarono come poveri cagnolini,  a testa bassa, girandosi ogni tanto per guardarlo di sottecchi.
Una delle tre, una bella ragazza mora, continuava a guardarlo anche dopo essersi seduta su uno degli sgabelli. Era stata rifiutata ancora una volta da un ubriaco. E allora, quante volte sarebbe stata respinta da un ragazzo sobrio.
Justin si allontanò dalla pista da ballo stanco e voglioso di un buon drink. Avvicinandosi al bancone, si sedette sullo stesso sgabello che era rimasto libero, gli piaceva quel posto perché era vicino alla porta di servizio, quindi se avesse avuto bisogno di una boccata d’aria l’avrebbe subito ottenuta.
Appoggiò come d’abitudine i gomiti sul marmo freddo, notando alla sua sinistra una presenza. Guardando con la coda dell’occhio, notò una ragazza mora, abbastanza carina, notò, la quale lo stava fissando.
Justin si girò e i loro sguardi si incrociarono per un attimo, dopo di chè gli occhi di lei sfuggirono per ripararsi in quelli del barista. Gli chiese qualcosa di forte. E poi ancora un altro.

Lui non le aveva rivolto la parola, eppure lei era diventata logorroica e parlava a vanvera, diceva cavolate, come facevano tutti gli ubriachi, si toccava i capelli e continuava a bere. Il suo bell’aspetto non nascondeva comunque la pazzia di quel momento e Justin aveva quasi paura, non gli toglieva gli occhi di dosso.
Si alzò aggiustandosi il cavallo dei pantaloni, dirigendosi verso i divanetti, dove era seduto Ryan impegnato con una bionda. Appena l’amico lo vide la lasciò in malo modo e si dedicò solo a lui.
«Ti stai divertendo con quella?» Indicò Justin ridendo.
«Si tantissimo, ma sei meglio tu» ricambiò la risata «e ora quando la andrò a riprendere non credo che mi rivolga più le labb..» non riuscì a finire la frase che fu trascinato da un’onda di risate a causa di Justin.
«Invece una pazza mi stava facendo il filo» Ryan gli fece l’occhiolino.
«Neanche sei tornato e già fai colpo» la risata continuò.
«Ma era pazza!» continuò Justin interrompendosi con  delle risate
«Okay, te lo concedo, sai quanti pazzi si trovano qui dentro?»
Justin continuò a osservare quella ragazza, con le braccia incrociate sul bancone, ogni tanto alzava il volto per prendere qualche altro sorso, tra poco sarebbe scoppiata in vomito.
Gli dispiaceva, l’aveva lasciata lì mentre ancora parlava, senza senso ma ancora parlava, e si sentiva un po’ in colpa, però gli sembrava troppo ubriaca per essersi resa conto di cosa succedeva, così si scrollò le preoccupazioni legate a quella ragazza di dosso.

Uscì fuori, sedendosi per terra sul prato fresco. Era l’unico lì fuori e si sentiva libero, il respiro gli era ritornato normale, e non affrettato e irregolare come era all’interno del locale. Appoggiò il peso del corpo sulle mani che aveva portato dietro la schiena, e respirò a pieni polmoni. Lì davanti passò un ragazzo che non gli diede retta, che fumava una sigaretta. Ne aveva voglia, dopo tempo, ma si frenò. Alcol e fumo non sono un buon connubio.
Sentì delle voci alle spalle. Due ragazze, una delle quali era la mora. Era ubriaca fradicia e camminava a stento, retta dalla compagna. Traballava su quei tacchi mentre cercava di dirigere il passo verso l’auto blu al di là della strada. Ad un certo punto il tacco dodici della mora inciampò da qualche parte, causandole una scivolata. Justin istintivamente spostò le mani per aiutarsi ad alzare, avvicinandosi verso di lei, ma si fermò quando si accorse che ormai era già in piedi grazie all’aiuto dell’amica dalle gambe lunghe e chiare.
Così il ragazzo poté risedersi sull’erba, continuando a pensare.
Se avesse provato a parlare con quella ragazza, magari si sarebbe rilevata anche una tipa simpatica e alla mano, ma aveva troppo paura di una delusione, così fece prevalere il ‘ribrezzo’ per l’apparente pazzia del momento, usandola come scusa per allontanarsi.
In realtà aveva paura di conoscere una ragazza come Lisa. Quindi, non conoscendo nessuna, avrebbe limitato al minimo i rischi.

La brezza fresca gli accarezzava le guance dolcemente, l’aria fresca gli piaceva tanto, ma nonostante questo il sonno stava avendo la meglio, e dopo aver accurato che erano le 3 del mattino, decise di andare a chiamare l’amico, sicuramente impegnato con la stessa ragazza. Non riusciva a spiegarsi come avesse potuto passare così in fretta il tempo.
Con sua sorpresa, Ryan era seduto in disparte mentre beveva un qualcosa di trasparente e senza dubbio forte, visto ogni sorso era seguito da uno scuotimento di testa.
Il ragazzo dai capelli color grano si avvicinò all’amico scuotendolo da una spalla. Era troppo ubriaco, constatò, e avrebbe guidato lui per evitare qualche strage, sorrise dolcemente.
«Non me l’ha data» sbottò, causando una risata acuta di Justin, che quasi quasi riusciva anche a sentirsi con il potente rumore musicale.
«Capita, amico mio. Dai che la prossima volta andrà meglio.» lo consolò scherzando, lo aiutò ad alzarsi portandolo in macchina, ma prima si fermò al bancone per salutare l’amico Josh.
Dopo averlo fatto accomodare, si sedette mettendosi alla guida, accese il motore e sgommò attentamente attraverso le vie notturne di Stratford.

Il sole filtrava dalla finestra, creando fantastici giochi di luce sui muri bianchi della nuova camera di Justin. Un raggio gli sfiorava l’occhio, facendoglielo aprire con cura. Dopo essersi stiracchiato, prese il cellulare tra le mani per sapere se fosse arrivato qualche altro messaggio. Il nulla.
«Meglio così» si disse, squarciando quel silenzio tombale.
Si alzò con il suo solito fare stanco e svogliato per avvicinarsi al bancone della cucina.
Prese qualche ingrediente dal frigo e preparò in dieci minuti delle frittele, da condire con la sua marmellata di fragole.
Quelle erano le stesse frittelle che gli cucinava Lisa.
“Non mi dire che stai pensando a lei.” Gli disse la vocina.
---
Ciao belle:) scusate il ritardo, è più di una settimana che non mi faccio sentire, ma capitemi. Troppe interrogazioni. Passando alla storia, come vi sembra? Personalmente non trovo questo capitolo niente di che, ma non mi abbandonate solo per questo, è solo un capitolo di passaggio e doveva essere per forza noioso, sorry. Comunque, se non l'avete capito, questa storia si dividerà in due. Justin e Lisa. Altra cosa, quella ragazza pazza, beh, ricordatela. Ah, ancora un'altra cosa haha. Ho scelto i personaggi, quindi appena troverò qualche anima buona che riuscirà a farmi un banner fa vo lo so lo posterò fnasdhj Se sapete fare banner, vi potete fare avanti, vi prego ne ho bisogno hahha Grazie per le scorse recensioni, alla prossima
-Ilaria
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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


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No one’s POV
La sua figura snella e debole era accasciata sul tavolo della cucina, che si affacciava con una porta più grande del normale sul salotto,  riscaldato da una grande fiamma che ardeva nel camino.
  Le spalle sobbalzavano, accompagnate da deboli singhiozzi.
La sua pigra testa si alzò debolmente per sporgere lo sguardo oltre la barriera che si era creata con le braccia. C’era un piatto colmo di frutta. Fragole, ciliegie, tutta frutta che amava.
  Ma perché, invece, non ne voleva neanche un po’?
  Provava uno strano dolore alla pancia, e avrebbe preferito non mangiare, altrimenti avrebbe vomitato tutto.
  Allontanò distrattamente il cibo, rifugiandosi ancora tra le proprie braccia, continuando a fornire un colore rossastro agli occhi. Aveva paura di se stessa. Che cosa aveva combinato? Aveva inviato un messaggio del quale si sarebbe pentita presto, perché non rispondeva? Era in ansia, aspettava con ansia qualcosa che non sarebbe mai arrivato. Una sua risposta. Anche un suo “Non farti più sentire” le sarebbe bastato, aveva solo bisogno di una risposta per sapere cosa fare. Era tentata a digitargli qualcos’altro, ma no, avrebbe peggiorato tutto, e se c’era una piccola possibilità che Justin stesse prendendo in considerazione di darle una risposta, quella possibilità sarebbe svanita nel nulla.
  Era destinata a rovinare tutto.
  Si doveva ancora spiegare come aveva fatto a rinnamorarsi così velocemente e con così tanta voracità, non lo sapeva, e forse non voleva saperlo.
  Non era a conoscenza di molte cose, purtroppo. È come se la sua mente si fosse divisa in due: una parte voleva seguire il cuore, innamorarsi sempre di più, aggrappandosi a qualsiasi speranza; l’altra, più ragionevole, voleva staccarle la mano da quel debole filo che si sarebbe spezzato a momenti, per non farla soffrire in seguito ancora di più, perché quei momenti sarebbero arrivati.
  Justin avrebbe fatto soffrire qualcuno per la prima volta in vita sua. Un senso di colpa troppo grande per lui.


«No, non la sto pensando.» cercò di autoconvincersi, spalmando marmellata sulle frittelle dorate.
  “Meglio così, perché lei, quando se ne è andata, si è mai preoccupata di mandarti un messaggio?”
  «No» si rispose.
  “Bene, e allora perché dovresti farlo tu?” ribatté la sua vocina, ritirandosi e lasciandolo pensare.
  E pensò, meditò, stendendosi sul letto, fissando il soffitto.
  Dopo un’ora si alzò, con il sorriso sulle labbra, avendo scelto la cosa migliore. Si sentiva un po’ stronzo e crudele, ma che gli fregava, dopo tutto aveva ricevuto tanta di quella stronzaggine per mesi, che ora toccava darne un po’ indietro.


E così, travolta da un’altra crisi, si ritrovò ancora lì, davanti al lavandino, quello di cui aveva paura, con una lametta in una mano. Avrebbe sporcato di rosso il bianco del lavabo.

Inizio flashback

I tuoi sono morti. Uno dei due si è suicidato dopo aver ucciso l’altro.

  Lo aveva saputo così, e lei aveva capito. Anche se era una ragazzina di 15 anni piccola e indifesa, ma aveva capito. Non c’era stato bisogno di specificazioni, chi è morto per prima, chi si è suicidato, sarebbero state inutili.
  Il dolore si era aggrappato al suo cuore e non voleva mollarlo, quella stretta diventava sempre più forte e non riusciva a farci niente.
  Quel messaggio ricevuto da parte della zia era stato così freddo, e l’ultimo. L’ultimo; si stava conficcando le dite nelle braccia, causandosi piccoli e insignificanti graffi. Ma sapeva che con quelli non si sarebbe sentita meglio. Doveva usare lo stesso metodo di quando tornava a casa, sentiva loro litigare, e si chiudeva in bagno a piangere esaurendo le lacrime. In realtà non era l’unico motivo.
  Era oggetto di tutte le più assurde prese in giro, e non ce la faceva più. Aveva pensato di morire, lo voleva con tutto il cuore, ma doveva essere forte, perché una lametta avrebbe aiutato a superare tutto. La sua routine lo prevedeva almeno una volta al giorno, sempre su punti diversi delle due braccia, per questo anche d’estate indossava maglie con le maniche lunghe, facendosi credere una grande freddolosa. Quindi, per l’ennesima volta, si rifugiò nel bagno. Non era in casa sua, non sapeva dove stavano le lamette, e aveva paura che qualcuno avesse potuto aperto la porta e così interrotto e scoperto quel suo strano rito.
  Ma “Nessun problema”, si disse. Chiuse la porta a chiave ed estrasse dalla tasca sinistra dei pantaloni una lametta, quella di riserva: non ne sarebbe mai rimasta senza.
  All’improvviso l’appoggiò sul braccio destro e si lacerò la pelle facendo strisciare l’oggetto in orizzontale, più volte, o sullo stesso punto o spostandosi per ferire altra pelle, per procurarsi più dolore possibile e per non pensare a quell’orribile morte, alla sua scuola, a tutti.
  Teneva il braccio poggiato sul lavandino, così che il braccio potesse piangere al posto dei suoi occhi, sangue anziché acqua.
  Il dolore piano piano cominciava a sparire, mutandosi in dolore fisico. Non avrebbe mai cambiato metodo, funzionava sempre.
Qualcuno bussò alla porta. Chi cavolo poteva essere? Era da sola in casa, la nonna era andata dal dottore e non sarebbe tornata prima di due ore. Ma se fosse stata lei, l’avrebbe fatta aspettare, fuori, al freddo, inutilmente. Ma il sangue continuava a sgorgare, non poteva fermarlo. Il campanello era insistente, così decise di arrotolarsi velocemente il braccio con la carta igienica, sembrando una mummia, rossa.
  Si abbassò la manica della felpa e andò ad aprire. Era sua madre.

Si svegliò di soprassalto. Era seduta sul pavimento freddo del bagno, e la testa era appoggiata al pilastro del lavandino. Si era addormentata in quella posizione, stremata, forse, dal dolore e dalla stanchezza. La nonna non era ancora tornata, non sentiva nessuna voce. Il sangue non sgorgava più, adesso avrebbe potuto applicarci un cerotto e far creare nuove cicatrici.
  Con quei segni sulle braccia, decise di abbandonare la nonna e tutto il resto con l’intenzione di rifugiarsi dall’unica amica che credeva di avere. Non lasciò indizi nel caso qualcuno la volesse cercare, aveva solo lasciato un biglietto alla nonna, dicendole che avrebbe seguito la madre: se avessero voluto cercarla avrebbero dovuto raggiungerla in paradiso. E poi Lisa non sentì più la nonna.
  Evidentemente le era bastato quel post-it. Era un altro mostro, proprio come il padre..?

Fine flashback

Ed ecco che quel famoso sangue iniziò ad uscire da alcune profonde ferite, aprendo cicatrici. Ormai da sette anni non provava più a farsi del male, ma non si era di certo dimenticata come la faceva stare bene, come la rimetteva in sesto.
  Allora perché quella volta non succedeva niente? Il dolore fisico era comparso, e invece di sostituire quello morale, andavano camminando a braccetto, intrattenendosi, nessuno dei due aveva voglia di andarsene.
  Le lacrime questa volta non evitarono di scendere, dovevano far piovere, così uno dei due dolori si sarebbe rintanato in casa, per sfuggire alla tempesta.
  Alcune lacrime salate andarono sgocciolando sulla ferita, facendo scivolare il liquido rosso più in fretta.
  Non era mai stata una ragazza paziente, non sopportava in quel momento di vedere scorrere solo sangue, e non dolore. Passò il braccio ormai dipinto da una tinta rossa sotto il getto d’acqua fresca, rendendo alla pelle il suo colore naturale.
Sul tavolo della cucina si stava impegnando a contare tutte le cicatrici, nuove, vecchie.
  Ne contava 21 su quello destro, e 18 sul sinistro. Se le avesse contate sette anni fa, si sarebbe detta che sulle braccia si dovevano contare lo stesso numero di tagli, e se ne sarebbe fatti altri.
  Ma non ora; non le era servito a niente. Non si sentiva meglio, forse solo peggio, se si avesse potuto superare quel limite.
La porta del salone si aprì lentamente, facendo apparire la figura di John. “Oh, no. Non ora”
  Si affrettò ad abbassarsi le maniche della maglia, avvicinandosi al camino, facendo così pensare a qualche brivido di freddo. Tutt’altro.
  John le si avvicinò dolcemente per baciarla, e lei ricambiava. Che stava facendo? Lei non era ’innamorata’ di Justin, di un altro ragazzo? E stava baciando lui?
  La lingua di lei assecondava quella di lui, si accarezzavano dolcemente, rincorrendosi. Quando lui si staccò, le lasciò piccoli baci sul collo. Le sue mani scivolavano sul corpo di lei, esplorandolo, viaggiando sotto la sua felpa di lana e pizzicandole leggermente la pelle rosea.
  Lei non si spiegava ancora il perché non riuscisse a staccarsi da quel corpo; anche se ormai non provava più niente nei suoi confronti, quelle labbra la richiamavano al suo potere, riappacificandosi ancora. Quel lungo bacio appassionato, accompagnato da palpatine, la infastidiva, le piaceva, la infastidiva.
  Confusa come al solito, non sapeva cosa pensare, provare, fare, dire.
  Avrebbe continuato ad assecondare il suo volere? E se fosse voluto andare oltre? Non voleva andare oltre. Nessun sentimento per il cuore che le si ergeva davanti, aperto di un amore sincero.
 
Ma quando mai si era fatta problemi sul farlo senza amare la persona? Mai. Fino a poco tempo fa. Cos’era cambiato? Tutto. Perché? Non lo sapeva. Sapeva solamente che voleva far finire tutto lì, e parlarci. E andarsene.
  Invece no, lui col suo corpo voglioso la teneva intrappolata tra le sue braccia, accompagnate da quelle labbra carnose. Era così bello sentirsi così desiderata, ma la sua coscienza, che fino a poco fa era introvabile, le disse che non era giusto, così si oppose a quell’amore, poggiando le sue mani sul petto del ragazzo.
  L’espressione di lui cambiò all’improvviso, sembrava stralunato, la guardava stranamente, chiedendosi il perché di quel gesto, e in quel momento parlarono i loro occhi.
  Quelli di Lisa stavano per piangere, ma cercavano di trattenere quel pizzicore, quelli di lui erano confusi, ancora una volta.
  «Non posso» gli spiegò, futilmente.
  «Che significa?» disse lui, alzando un tantino la voce.
  Che significava? Tutto e niente.
  «Non posso» ripeté, sempre meno sicura, e impaurita sempre più.
  L’espressione del ragazzo cambiò ancora, ma questa volta era diversa. Non era confusa, triste, felice, stralunata, strana, ma arrabbiata. Arrabbiata di una rabbia che Lisa subito percepì, della quale aveva paura. Paura che quel momento pieno di intensità potesse sfociare in qualcosa di brutto. Lui non l’aveva mai toccata, senza il suo permesso. E ora era terrorizzata, voleva scappare, ma se fosse scappata, sarebbe stata rincorsa, e poi l’avrebbe presa, e sarebbero stati punto e a capo.
  Cercò di ragionare: «Io.. non so cosa mi stia succedendo, so solo di avere bisogno di andarmene da questa casa, questa città, questa vita.» iniziò a gesticolare nervosamente e aveva paura anche che le sue parole avrebbero potuto aumentare la tensione. L’espressione di lui sembrò cambiare, calmarsi.
  «Beh, se non mi vuoi più, vattene.» disse il ragazzo, scandendo ogni parola per farle capire bene, e cercando di nascondere inutilmente la rabbia.
  Lisa era confusa di nuovo, quei suoi sbalzi di umore, quelle espressioni, era ancora terrorizzata, ma aveva ora la possibilità di scappare, e forse ce l’avrebbe fatta, quindi perché peggiorare la situazione? Si avvicinò alla porta, e senza dire nulla aprì la porta per uscire.
  «Aspetta» le disse. «Dammi un ultimo tuo bacio, per ricordo.» le chiese, con gli occhi rossi, di pianto o di rabbia.
  Il quel momento tutta la forza di Lisa risuscitò, e riuscì a dire: «No.», con gli occhi fissi nei suoi, e sicuri. Quella sicurezza.
  Un momento dopo, si ritrovò per terra, con una guancia dolorante e la mano destra impegnata nell’atto di massaggiarsela. Lui la prese da terra, chiuse la porta e la buttò su divano.
  Lei urlava forte, ma nessuno la sentiva. Quella figura davanti a lei si era mostrata tutt’altro che dolce, aveva in quel momento qualcosa che non aveva mai visto: rabbia, violenza, tutto negli occhi. Le sue mani sporche la stavano spogliando, e le grida di lei non servivano a distrarlo, se non altro contribuivano e farlo incazzare sempre di più. Aveva paura, stava per essere violentata, e le sue parole e lacrime non avevano alcun potere. In quel momento addossò la colpa tutta a se stessa, la colpa di tutto.
  La morte della mamma, quella del mostro, il soffrire di Justin, i suoi tagli, e persino la sua ex felicità. Se in quel momento avesse potuto, avrebbe sicuramente afferrato una lametta e si sarebbe graffiata, rovinata, lacerata, strappata, tagliata la pelle.
  Lacrime infinite le scendevano dagli occhi, mentre il secondo mostro della sua vita si stava spogliando, per avventarsi su di lei, con poca eleganza, tanta rabbia; si sentiva morire.
  Qualcuno stava per violentarla, e quel qualcuno era il suo ragazzo.
---
Sono stranamente fiera di me, scrivendo questo capitolo ho capito finalmente il vero carattere di Lisa, e spero l'abbiate capito anche voi.
So di stare trascurando un pò la storia della mamma di Justin, ecc, ma non preoccupatevi, tempo al tempo, qualcosa arriverà. So di essermi complicata solamente la vita, perchè ho aggiunto tante di quelle idee che mi chiedo se avrò il tempo di scriverle tutte, ma spero di si, perchè se migliorerò al tal punto di scrivere 'perfettamente' verrà una cosa stupenda. Sono tentata a svelarvi tutto, ma mi trattengo, vorrei che lo scopriste a poco a poco.
Vi amo, e grazie per le scorse recensioni, grazie per le più di 1000 visualizzazioni al primo capitolo e per le più di 100 recensioni in totale.
Scusate per il ritardo di due settimane, ma sono stata tremendamente occupata. Non voglio infastidirvi più a lungo, vorrei solo chiedervi cosa ne pensate del banner, me l'ha fatto @ljamscap 
 
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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


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No one’s POV
Il giorno prima pensava di poterlo amare per tutto il resto della sua vita, di poter condividere con lui tutti i momenti che avrebbe trascorso, belli o brutti che sarebbero stati, di poter vivere bene nella loro grande casa e amarlo ogni momento di più, ad ogni trascorrer di secondo.
  Il giorno dopo non pensava più tutto quello, non voleva farlo soffrire ma non provava più nulla per lui, voleva andarsene e eliminare la sua vecchia vita per crearsene un’altra, magari con Justin.
  Ora, invece, era sotto le grinfie malefiche di quel mostro che aveva scambiato come una persona tenera e sensibile fino a poco fa. Si divincolava, non servì a niente. Urlava, servì ancora meno.
  Avrebbe voluto essere un film, dove i buoni ti salvano sempre dalle mani sporche dei cattivi, dove la persona che ami ti viene a salvare dal mezzo della strada, poi ti stringe tra le braccia e ti sussurra: “Va tutto bene, ora ci sono io con te, non me ne andrò”.
  Invece in quel momento non c’era nessuno, nessuno che potesse salvarla e rassicurarla, nessuno che potesse eliminare quei brutti pensieri e quelle impronte sul suo corpo, nessuno che potesse fare qualcosa, che potesse amarla.
Doveva scappare da quella vita di merda. Doveva fuggire, e non sapeva come fare. Il mostro se ne era uscito, lasciandola dolorante e chiusa a chiave nella camera, era in trappola, come una prigioniera. Come una schiava sessuale. Non poteva aspettare il suo ritorno e poi fuggire, doveva agire, e in fretta. Ma che senso aveva lottare, se alla fine avrebbero sempre vinto i cattivi? Un oscuro pensiero le passò ancora una volta per la mente. E se si fosse  fatta trovare come uno straccio appesa al lampadario, con la sua vita che era volata dal corpo?
Raccattò le poche sue cose che poté trovare in quella stanza aprì la finestra, respirò aria pulita, vi si buttò.


Qualche giorno prima si era ritrovato con il telefono in mano, lui a parlare, lei a non ascoltare, la chiamata terminata. Ed ora era sorpreso di vedere quel numero sul display, con la suoneria che gli rompeva i timpani. La cornetta verde lo incitava a rispondere, così la trascinò verso destra.
  «P-pronto» rispose, leggermente nervoso. Si doveva chiudere questa storia, andava avanti da troppo tempo e non poteva sopportare questa tensione ancora per molto, aveva bisogno di riavere il rapporto madre-figlio di circa due mesi fa, aveva bisogno di perdonarla, nonostante tutto.
  Alla fine, avrebbe dovuto arrabbiarsi lei con lui, lui l’aveva abbandonata lì all’ospedale, con la costante paura che il mostro potesse andare a trovarla. Però una brava madre sa prendersi sempre le colpe, anche quelle più brutte, per amore di un figlio.
  «Oh, tesoro.»
  «Mamma.» Se fossero stati l’uno davanti all’altro si sarebbero sorrisi a vicenda, senza spiaccicare parola, lo stavano facendo anche al telefono, ma Patty fu costretta a rompere quella pericolosa lastra di ghiaccio.
  «Vorrei che si aggiust…»
  «Anche io.»
  Una così tale prontezza, come se Justin si aspettasse già quella precisa frase; una così tale felicità da parte della madre, come se lui non avesse avuto intenzione di perdonarla.
  Per fortuna, ora era tutto risolto. Erano bastate meno di una decina di parole per far ritornare tutto come prima. Ora nulla li avrebbe separati. Lui sarebbe comunque vissuto per i fatti suoi in casa sua, lei per i fatti suoi in casa sua, al sicuro dalle azioni violente del mostro, tenendosi sempre in contatto e continuando a incontrarsi, una madre e un figlio.
  Se Justin fosse stato da lei, avrebbe preso la rincorsa per sorprenderla con un enorme abbraccio.


L’unica cosa che in quel momento gli avrebbe potuto far mantenere quel sorriso inebetito era una bella passeggiata. Uscì di casa portandosi dietro solo le chiavi e qualche dollaro, nel caso avesse voluto comprare qualche bevanda fresca.    
  Camminando per le luminose vie di Stratford si accorse che quella mattina era particolarmente soleggiata, i raggi del sole si proiettavano sull’asfalto creando fantastici giochi di ombre, gli uccelli che svolazzavano tra le deboli nuvole. L’ambiente rispecchiava per la prima volta il suo stato d’animo. Si diresse verso la biblioteca, aveva voglia di crogiolarsi con le parole di un libro, ed era quello che avrebbe fatto. Una volta entrato, si diresse verso lo scaffale che ospitava i suoi libri  preferiti. Ne scelse uno che aveva già letto, Il cliente di John Grisham. Lo aprì verso le ultime pagine per rileggere quell’ultimo passo che lo aveva commosso. Era uno dei suoi libri preferiti.
  Senza prestare molta attenzione a dove mettesse i piedi – anche perché conosceva a memoria quel luogo –, si avvicinò ad un tavolo, alzò lo sguardo dal libro e scorse un posto vuoto tra una mora e una bionda. Avrebbe preferito un tavolo dove poter leggere da solo, ma gli altri erano tutti occupati e inoltre non sembrava che quelle persone facessero molta confusione. Così prese posto, e si immerse nella lettura di quelle ultime righe.
  Il  bambino di nome Mark stava per perdere l’unica persona che fino a quel momento l’aveva aiutato, senza neanche conoscerlo, trattandolo come un figlio. E ora stava abbandonando l’affetto di quella donna, e non l’avrebbe rivisto mai più.
  Un po’ quella situazione rispecchiava la sua di qualche mese fa, aveva abbandonato una persona che si era presa cura di lui, proteggendolo. Per fortuna lui aveva rimediato a tutto, quel bambino non l’avrebbe più vista.
Dopo aver riletto quella parte, si guardò attorno, e ebbe l’impressione che la mora alla sua sinistra lo stesse guardando, e quando si girò dalla sua parte riuscì solo a scorgere un movimento di capelli scuri. Rigirò la testa anche lui, indietreggiò con la sedia per alzarsi e prendere un altro libro. Difronte allo scaffale, stava ancora una volta scegliendo un libro. Senza farci caso le sue orecchie seguirono il rumore di una sedia che si spostava e di alcuni passi verso la sua direzione, mentre le sue dita accarezzavano i titoli dei libri. Una volta che quella figura si posizionò al suo fianco, il suo volto assunse un’espressione ancora più impassibile di prima, non si voltò; invece sentì lo sguardo della ragazza costantemente su di lui – con la coda dell’occhio aveva capito che era quella mora che era seduta alla sua sinistra.

  Aveva qualcosa di famigliare, ma non sapeva ancora cosa. C’era un lieve ricordo nella sua mente, ma non sapeva a che occasione associarlo. Finalmente fece la sua scelta e prese un libro intitolato L’avvocato di strada, dello stesso autore, forse il suo preferito. Quando fece per allontanarsi, fu fermato da una voce. «Fermati un attimo, vorrei parlarti.», e così ricordò. Quella voce, quei capelli, quel viso appartenevano a quella ragazza carina, logorroica e ubriaca della discoteca.
  Fece finta di non ricordarsi, e disse: «Scusa, ci conosciamo?»
  Lei abbassò lo sguardo, già molto imbarazzata dalla situazione, e si poteva notare un leggero rossore sulle sue guance. «No, fa niente.» rispose, delusa. Dalla sua espressione Justin capì che era triste, così la fermò, procurandole un sorriso, e dicendole che ora si ricordava chi era, quella ragazza carina. Non voleva vedere le persone soffrire, era troppo per lui.
  «Di cosa volevi parlarmi?» chiese Justin.
  «Della discoteca.» rispose semplicemente, e insieme si avviarono al bar più vicino lasciando disordinatamente sugli scaffali i libri che entrambi avevano scelto.
Presero posto, l’una di fronte all’altro. In realtà nessuno aveva invitato nessuno, ma entrambi volevano dirigersi lì, e così fecero. Il silenzio governava su tutto, l’unico rumore che si poteva sentire era il tintinnare delle posate all’interno del locale e l’unico loro vocio era causato dal cameriere che era arrivato per ritirare le ordinazioni. La ragazza voleva rompere il ghiaccio, ma non ne era capace. Anche Justin avrebbe potuto fare qualcosa, ma non sapeva da dove incominciare. D’altronde era stata lei a chiedergli di parlare, quindi ora doveva agire, doveva dire qualcosa.
  «Allora..» iniziò, la voce tremolante «penso tu abbia capito perché ho voglia di parlarti.»
  «Sinceramente no» disse innocentemente Justin, non ne aveva davvero idea.
  «Volevo prima di tutto scusarmi per averti importunato, ero ubriaca, certo, ma capivo tutto, cioè ero cosciente di quello che facevo..» cercò di farsi capire al meglio, e poi abbassò lo sguardo. E Justin capì il perché, si ricordava che lui l’aveva lasciata sul bancone a parlare con la sua ombra.
  «E quindi ricordo che mi hai lasciato sola..» ecco. «Ma in un certo senso ti capisco, avrei fatto lo stesso. Solo che quando qualcuno lo fa a te è tutto diverso. Ci sono rimasta un po’ male, ecco.» spiegò, mentre il rosso sul viso si accentuava. L’unica cosa che lui seppe dire fu ‘Scusami.’
  Non aveva altre parole, era davvero dispiaciuto, non gli era completamente passato per la testa che lei potesse capire e che ci fosse potuta stare male. Lei non conosceva lui, lui non conosceva lei, quindi cosa poteva accadere? Nulla. Eppure c’era rimasta male sul serio per parlarne con uno sconosciuto. Però i suoi pensieri non presero forma di parola e rimasero in mente, mentre l’espressione della ragazza si trasformò in delusione.
  Non sapendo quindi che fare, si tenne occupato cercando di chiamare il cameriere, al quale chiese di portare due tè, lei annuì. Durante i dieci minuti successivi non si spiaccicò parola, come due sconosciuti, cosa che erano. Il rumore del tè che veniva bevuto riempiva il relativo silenzio.

Ad un trattò lei si alzò, amareggiata, allontanandosi dal tavolo, senza salutare. Justin in un primo momento non capì, ma si svegliò un attimo dopo, lasciando qualche dollaro per pagare le ordinazioni. Usci velocemente catapultandosi nella via percorsa da molta gente, riuscì però a scorgerla, mentre si dirigeva a destra. La rincorse, ma non poteva chiamarla, non sapeva ancora il suo nome. Si stava avvicinando al parco, ebbe così la possibilità di allungare il passo, e la raggiunse.
  «Hei» sussurrò, prendendola dal braccio. «Perché sei scappata?» le chiese. Lei si lasciò cadere su una panchina lì vicino, lo sguardo tra delusione e vergogna. Sembro una bambina, pensò. Alzando lo sguardo, lo invitò con gli occhi a sedersi. 
  «Scusami..» cominciò. «E’ che.. sono una stupida. Ho la tendenza a dire subito quello che penso, e capisco che non te ne freghi nulla. Non ci conosciamo, siamo praticamente sconosciuti, non so come ti chiami, tu non sai come mi chiamo, ma ho sentito il bisogno di dirtelo, mettendoti solo a disagio. Scusami.»
  «Non devi scusarti,» chiarì il ragazzo, «è colpa mia. Non ho pensato in quel momento a cosa avresti potuto pensare, ho agito e basta. Quella sera ero uscito dopo un periodo non molto bello e avevo bisogno di svagarmi, e non mi sembrava adatto svagarmi con una ragazza ubriaca, carina, ma ubriaca, e non sapevo se capissi.» disse, un po’ a disagio, sentendosi strano. Aveva fatto soffrire una ragazza senza volerlo, senza pensarci. Magari succedeva anche a Lisa così, non succedeva per sua spontanea volontà. No okay, sapeva fosse una bugia assurda. Lei lo faceva, e provava piacere.
 
 La ragazza si sentì un po’ meglio. Lui si era scusato, anche se il suo comportamento restava quello di una bambina, che poteva fregargliene? Sicuramente aveva una ragazza, o in quel momento si sentiva con qualcuno. Impossibile che una persona così bella fosse sola, come lei.
  Però aveva detto che aveva avuto un brutto periodo, forse causato da una ragazza?
  Ma che poteva saperne lei? Come poteva permettersi di insinuare qualcosa, senza conoscerlo? Non sapeva il suo nome, non sapeva nulla, e cercava già di indovinare qualcosa sulla sua vita. Le venne da sorridere, ma non causò nessun cambiamento nel viso di lui, continuavano a fissarsi, incapaci di dirsi nulla. Ora toccava a lei parlare, perché non riusciva a dire nulla?
  Così usò il primo argomento che le venne alla mente. Non era solo per parlare, per non stare zitti e per ammazzare il silenzio. Era per curiosità. Curiosità di conoscere il nome di quel ragazzo dagli occhi dolci color caramello.
  «Io sono Selena.» si presentò, porgendogli la mano. Lui la accolse, e con la sua dolce voce le disse: «Io mi chiamo Justin.»
Justin. Cercò di creare una storia intorno a quel nome, come al suo solito, e immaginò un ragazzo dolce, timido e sofferente. 
---
Hello! Finalemente sono tornata. E' stato difficile scrivere questo capitolo, forse non è niente di che, ma mi piace davvero molto. Adesso sappiamo chi è quella ragazza, Selena. Okay, sicuramente a questo punto perderò lettori e bla bla, perchè molti odiano i Jelena, ma io li amo e scrivo una storia su di loro yee haha 
Spero che vi sia piaciuto, magari fatemelo sapere<3 <3 Per ultima cosa, BUONA PASQUAA 
ps. Un grazie enorme a Mirea, che mi ha ispirato.
 
Twitter: xxdrewsbeauty
Ask: ilariajachillea

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


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Justin’s POV
«Mi piace il tuo nome» le dissi; lei arrossì e non rispose.
  Quelle guance color porpora mi dimostravano che riuscivo a fare ancora effetto sulle ragazze, Lisa non mi aveva eliminato il fascino, potevo farcela. In quel momento, con quei begli occhi davanti, mi resi conto che non ero ancora riuscito a dimenticarla. Senza accorgermene ogni tanto pensavo a cosa avrebbe fatto Lisa se fosse stata lì, cosa avrebbe detto o pensato, eccetera. Però in quel momento fui incuriosito da quegli occhi castani, che assumevano una forma stretta e sottile appena le labbra accennavano un sorriso, creando anche quegli adorabili angoli.
  Ce l’avrei fatta. Lo sapevo. Tutti riuscivano ad uscire da quei buchi neri, vero? Avrei superato tutto e sarei andato avanti, non con Lisa, l’avrei eliminata dalla sua mente e non una volta ancora sarebbe stata il centro dei suoi pensieri. Ero stufo di dover sempre tener conto di lei, il mio cervello lo era, ma il cuore non se ne voleva staccare, sembrava troppo importante per lui. Ma non lo sarebbe dovuto essere più. In quel momento avrei voluto sorridere e dire “Anno nuovo, vita nuova”, ma sarei sembrato un pazzo per  due motivi: primo, c’era quella ragazza, Selena, difronte a me, e non poteva sclerare, secondo, era primavera. Il sole della mattina non accennava ad andarsene, e questa era una fortuna, io amavo il sole.
  Ancora una volta rimanemmo in silenzio, i nostri occhi a volte si incontravano, senza comunicarsi nulla oltre che imbarazzo. Imbarazzo di quella situazione. Entrambi volevamo liberarci di quella situazione, ma nessuno dei due lo diceva per primo. Quando mi ritrovai a parlare.
  «Di dove sei?» chiesi evidentemente per rompere il ghiaccio, quella benedetta lastra pericolosa.
  «Texas» rispose, con gli occhi che immaginavano la sua terra. «E tu? Sei di qui?» io annuii, sorridendo. «Mi sono ricordata che ho una cosa da fare..» disse alzandosi la ragazza.
  «Oh, va bene.» risposi, era già tutto finito. «Magari potremmo rivederci in giro.»
  Lei sorrise, rispondendo: «O magari in biblioteca». Accennai una risata. Ci allontanammo.


Selena’s POV
Nel mio cervello era tutto confuso, imbrogliato, e non capivo da dove iniziare per analizzare tutti quegli strani pensieri. Cercai di partire in ordine cronologico: la discoteca.
  Quella sera, ero uscita per costrizione della mia amica Lily, non ne avevo un granché voglia, avrei voluto rimanere rannicchiata nelle coperte a vedere un film strappalacrime, per sfogarmi anche su eventi personali. Il mio ex che continuava a farsi sentire, io che non ne volevo sapere. “Quel porco” pensai. Invece alla fine ero uscita, per farla felice, e alla fine lo ero stata anche io.
  Non pensavo che avessi potuto ubriacarmi, avevo iniziato con un piccolo bicchierino, poi un altro, e un altro ancora. Ma avevo completamente esagerato..
  Di solito qualcuno sta male per la persona che ama, per la persona che gli piace almeno un po’, ma quel ragazzo? Lo conoscevo a malapena, poteva mai piacermi? Certo, esisteva l’amore a prima vista, ma non era sicuramente il mio caso. Quando lo vidi la prima volta mi sembrava un ragazzo come un altro. Il problema fu che l’alcol mi rese abbastanza audace, per questo presi a parlare.
  Avrei voluto di colpo diventare muta quella sera.
  Però, nonostante non mi fosse piaciuto immediatamente, quando mi “abbandonò” mi sentii un po’ vuota. Non sapevo dire il perché, e non l’avrei saputo dire mai.
  Secondo punto: la biblioteca. Che mi era preso? Dove l’avevo preso tutto quel coraggio? Quella volta non ero né ubriaca né brilla, e tutta quell’audacia. Non ero mai riuscita a rivolgere la parola in quel modo ad un ragazzo senza conoscerlo. Eppure l’avevo fatto. E lui non era sembrato così scocciato, o lo era?
  «Ma perché tutte queste domande?» mi chiesi, con le mani ai capelli, entrando in casa. Mi gettai sul divano come un peso morto, ripensando a quel sorriso dai denti perfetti, a quegli occhi color mandorla, a quei capelli chiari che gli ricadevano sulla fronte.
  Senza accorgermene mi venne da sorridere, per un microsecondo ero riuscita a dimenticare tutto il resto, e quando me ne accorsi, tutto il dolore ricominciò a scorrermi nelle vene, insieme ad un pianto amaro dagli occhi. Volevo sparire, non riuscivo più a vivere in quel modo, e ogni qual volta si apriva un piccolo spiraglio, ecco che mi venivano alla mente brutti ricordi, tra cui il mio ex. Quella relazione era stata un completo sbaglio, mi aveva causato solo dolore, fisico e psicologico, ne avevo avuto abbastanza, eppure perché continuavo a pensarlo, a soffrire per lui, anche se sapevo che era la cosa sbagliata? Eppure, se proprio avessi voluto, avevo la possibilità di ritornare insieme a quel Marcus, ma non lo facevo. Le soluzioni erano due, o il dolore psicologico era minore di quello fisico, o ero completamente stupida.
  Mi ricordai, mentre le lacrime continuavano a scendere, le botte che avevo ricevuto da lui, quasi fossero state un regalo. Perché? Perché? Perché a me? Ne avevo abbastanza, davvero abbastanza. Sapevo di doverlo dimenticare, ma non ci riuscivo, quel sentimento di amore-odio era più forte di me e mai nessuno era riuscito a cancellarlo sostituendolo con altro. Avrei voluto essere una creatura capace di poter spegnere i sentimenti, o più semplicemente essere amata da una persona seria, bella e felice, così come avrei voluto essere io, e non perversa e malvagia. Che poi, lo sapevo, ma era come se non volessi ammetterlo a me stessa, quello che provava Marcus era troppo lontano da potersi chiamare ‘amore’. Mi serviva un nuovo inizio, con una nuova persona, nuovi amici, ma la cosa difficile era capire se avrei potuto sopportare tutto il dolore che una nuova persona avrebbe portato con se, perché sempre in ogni relazione c’è qualcosa che non va, da qualcosa di banale a qualcosa di estremamente più serio, ma mi dissi che non ci sarebbe mai stato nulla di più brutto della violenza. E forse avevo già capito chi poteva essere la persona giusta in grado di sostituire i miei sentimenti per Marcus, giusto?
 
Lisa’s POV
Camminavo per le strade, con lo zaino pieno delle mie cose, e con il piede dolorante. Dopo essermi buttata dalla finestra del primo piano, ero atterrata bruscamente su un cespuglio, e nonostante avessi cercato di stare attenta, avevo preso una storta, o almeno speravo che fosse così e magari non qualcosa di più grave. Cercavo di non zoppicare eppure a volte il dolore nell’appoggiare il piede sull’asfalto era così forte che non potevo fare altrimenti. Avevo una mezza idea di dove andare, tipo la casa di Justin, ma pur volendolo vedere non mi sembrava il caso di piantarsi davanti la porta, me l’avrebbe chiusa in faccia. Così mi diressi verso la casa di una mia amica, guardandomi dietro ogni tanto per controllare che nessuno, cioè John, mi stesse seguendo. Davanti alla soglia della mia amica Claire, la pregai di farmi entrare, in seguito le avrei spiegato tutto e chiesto se avesse potuto ospitarmi almeno per un po’. Non si vedevano da un bel po’ di tempo e naturalmente Claire si chiedeva se non fossi lì solo perché avevo bisogno, se prima o poi fossi andata lì per salutarla, senza secondi fini.
  Dopo avermi fatta sedere, mi disse: «Cosa è successo? Sembri sconvolta.»
  «Ti ricordi di John?», non sapevo da dove cominciare, quindi quello mi sembrò la cosa più logica.
  «Certo, il tuo ragazzo. State ancora insieme?» chiese. E ignorando la sua domanda, continuai: «Ecco. Ho scoperto che è una persona violenta. Mi ha violentata.» dissi, con le giuste pause, così da essere abbastanza chiara e da creare quella giusta sfumatura di tensione nel salotto decorato dal gusto moderno. Iniziai a piangere come mai ebbi pianto nella mia vita, rendendomi conto solo in quel momento di cosa era successo davvero.
  Sapevo di aver bisogno di una cosa, di dover cambiare.
 
Justin’s POV
Dovevo assolutamente rincontrarla. Era  così strano il fatto che durante quei minuti fossi riuscito a non pensare a nient’altro a parte quei suoi bellissimi occhi? Erano davvero stupendi, e ora che ci stavamo lasciando, cercavo di fissarle gli occhi più tempo possibile, così per stamparmi un’immagine che avrei continuato a guardare per tutto il giorno. Mentre entrambi ci allontanavamo prendendo ognuno le proprie strade, io mi girai sperando che lei facesse lo stesso, ma in realtà non successe; la sua andatura era così composta, come calcolata, con nessuna sbavatura, perfetta, come quella di una donna sicura di se, eppure non lo era.
  In quei pochi minuti avevo capito tutto, tutto quello che si nascondeva dietro la sua corazza, tutto quello che però era riuscito a trapelare nel momento in cui lei si era alzata per seguirmi allo scaffale per parlarmi.  Mi sentivo ancora maledettamente in colpa, ma nel profondo avevo anche una buona sensazione. Sapevo che questo incontro avrebbe portato a qualcosa di buono, a qualcosa che mi avrebbe reso felice, perché per essere felice avevo di bisogno davvero di poco, una parola, un saluto, e per essere triste, di nulla.
  Non vedevo l’ora di rincontrarla, avevo bisogno di quegli occhi, di quel sorriso, e volevo sapere che suono avrebbe avuto il mio nome sulle sue labbra.  E poi, quel suo tacito invito, ero sicuro del fatto che ci saremmo rivisti in biblioteca, ma volevo sapere quando. Quando. Non mi resi davvero conto di come tutti quei pensieri stessero navigando nella mia mente ad una velocità mai vista, un groviglio di consigli che il mio io mi stava dando per far si che il prossimo incontro andasse per il meglio. Forse sarei andato in biblioteca il giorno dopo, perché avevo davvero voglia di vederla, come se quegli occhi fossero una droga nuova e irresistibile. Per un momento pensai che l’universo era dalla mia parte, che quella sera, in discoteca, stracciato dal dolore, avevo un toccasana sotto il naso, e l’avevo ignorato. Doveva tenerci proprio tanto a me, il destino, per darmi una seconda occasione, un’occasione che non andava persa e rovinata per nessun motivo al mondo.
 Tornato a casa mi stesi sul divano, immaginandomi la scena, e dicendomi che si, l’indomani sarei ritornato in biblioteca, avrei fatto la figura del fesso rammollito per una ragazza e davanti a lei non avrei cercato una scusa per nascondere il fatto che fossi lì per lei, gliel’avrei detto. Erano finiti i tempi  in cui il mio unico pensiero era Lisa, me lo sentivo. Non l’avevo pensata per tutta la giornata, e mi era tornata alla mente solo quando mi capitò nel campo visivo una tazzina di porcellana che mi aveva regalato lei. Mi alzai e con una forza che non avrei mai avuto prima, la buttai nel cestino. Ero un uomo nuovo. Sapevo di averlo detto tante altre volte, però non era mai successo nulla che me lo facesse credere davvero. Adesso sentivo una strana sensazione tra le viscere ed ero sicuro che fosse il ricordo di Lisa che stesse scivolando fuori dal mio corpo. Era inutile, per eliminare un sentimento così forte come quello che provavo per Lisa, doveva entrarne in circolo un altro. E forse c’era. Non volevo essere così affrettato nel dare un nome a quello che provavo, ma ero davvero sicuro che fosse qualcosa di forte. L’unica paura che avevo in quel momento era quella di aver incontrato un’altra stronza che avrebbe sfruttato i miei sentimenti, ma dopo averci pensato meglio mi dissi che non c’era nulla di peggio di quello che aveva fatto Lisa. Pensando questo mi tranquillizzai, mi alzai dal divano rendendomi conto che l’ora del pranzo era passata e non avevo ancora mangiato. Presi qualcosa dal frigo.
Il mattino dopo mi svegliai più presto del solito, e questo mi spaventò un po’ perché ero rimasto tutta la notte a pensarla e credevo di non aver dormito per niente. Invece avevo una strana energia, e se non fosse stato per il fatto che fossero solo le sette, mi sarei alzato da letto, mi sarei fatto una doccia veloce e sarei corso in biblioteca. L’edificio apriva solamente alle 10, quindi avevo ancora tre lunghissime ore. Non sapendo cosa fare mi alzai e diressi in cucina, dove trovai in una dispensa un pacco di cereali ancora sigillato. Lo aprii e versai un po’ del contenuto all’interno della mia tazza di latte. Dopo aver finito di mangiare diedi uno sguardo all’orologio sul polso sinistro e vidi che erano le otto. Ancora due ore. Andai in bagno e mi chiusi dentro la doccia. Passai un po’ di tempo sotto l’acqua calda ad immaginarmi lei che mi salutava dal tavolo affollato della biblioteca.
Alle dieci in punto uscii di casa e mi incamminai. Ero già pronto da una mezz’oretta, ma per non far capire che non vedevo l’ora di essere lì mi sforzai di fare un po’ ritardo, ma tanto lei l’avrebbe capito lo  stesso. Una volta arrivato davanti alla biblioteca con le porte spalancate, entrai dicendo ‘buongiorno’ alla bibliotecaria, e scorsi subito i suoi bellissimi capelli castani ad un tavolo che aspettava solo me.
---
Ciao bellissime, dopo quattro mesi sono tornata, iuppi. come minimo avrò perso tutti i 'fan' della storia, ma pazienza, non avevo avuto davvero tempo e l'ho trovato solo ora, insieme a tanta voglia di scrivere. ero insicura sul fatto di continuare a pubblicarla, ma poi mi sono detta, perchè no? 
spero vi piaccia, e scusatemi ancora, mi farò perdonare<3

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