This is sempiternal

di Judy Kill Em All
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fattori scatenanti ***
Capitolo 2: *** Il passato può risultare dannoso ***
Capitolo 3: *** Cambia la tua vita con un nuovo lavoro ***
Capitolo 4: *** C'è sempre una prima volta ***
Capitolo 5: *** Sorridi Chelsea, ci provano con te! ***



Capitolo 1
*** Fattori scatenanti ***


“Una volta ero un oceano,

ti dico.

Devo solo aver pianto troppo,

perché di me non è rimasto quasi nulla.”

 

Ballavamo e volteggiavamo sorridendoci a vicenda, non sarebbe dovuto essere lì, non sarebbe dovuto essere lì con me ed in quel momento, soprattutto, ma giravamo e girava anche la mia testa, la sua mano era sul mio fianco ed i suoi occhi nei miei.

«Cosa accadrà poi?» domandai con un filo di voce trattenendo a stento le lacrime, strinsi i miei occhi fino a chiuderli quasi del tutto.

«Non devi preoccuparti di questo Chelsea, non ti lascerei sola e comunque non ti potrei dimenticare» mi venne di colpo da urlargli in faccia che fosse un ipocrita e che mi avesse rovinato la vita, però la sua mano toccava la mia ed il suo profumo era fortissimo.

«Lo hai già fatto. Lasciarmi sola, intendo» sibilai aprendo gli occhi di colpo e fissandolo in modo severo, il suo sguardo era colpevole e consapevole.

«Non è stata colpa mia, è successo tutto così in fretta» la sua voce tremò così tanto che ebbi paura che si spezzasse, che si spezzassero sia sui che la sua voce.

«Io lo sapevo che sarebbe successo, te l’avevo detto» replicai fermandomi all’improvviso e dirigendomi verso l’uscita; sembravo una bellissima bambola di porcellana in un vestito celeste a sirena che sottolineava la mia vita stretta, una bambolina bionda ossigenata ed angelica con le sigarette nascoste in una tasca interna del vestito personalizzato ed i soldi per una bevuta anti-depressione a portata di mano.

«Cosa sapevi eh? Che i Bring avrebbero sfondato? Lo dici quasi come se ti dispiacesse, cazzo!» imprecò inseguendomi fuori dall’edificio scolastico, lo fissai con gli occhi gonfi di lacrime, esasperata al massimo. Restai zitta.

Avrei voluto gridargli in faccia che lo amavo, che avrei rinunciato a tutto per lui e forse sarebbe stato giusto dire “Portami via, cazzo, se mi porti via con te lascio tutto, te lo giuro, dimmi una sola parola e mando a puttane tutta la mia vita per te, i miei progetti, la mia famiglia, i miei amici”, ma stetti zitta ed immobile come una statua.

«Dimmi che il tuo non è egoismo, non lo potrei sopportare» aggiunse con un filo di voce, mentre in modo nervoso avvicinavo le labbra al filtro della sigaretta ed aspiravo.

«Egoismo?» domandai stupita ed adirata «Parli a me di egoismo? Ti ho sempre messo prima di tutto e tu mi hai sempre messa dopo tutti i tuoi impegni…» aspettò che proseguissi.

«Dopo le prove, dopo gli amici e persino dopo quella ragazza stupida con cui fai sesso in quella cazzo di macchina con cui mi hai portato al ballo di fine anno. E non avrei…non saresti dovuto venire. Andavi a trovare Lucy, la sbattevi sul letto e la facevi gridare, domani mattina te ne andavi via, anche per sempre, lei buttava fuori due lacrime e se ne tornava dal quarterback » spensi la sigaretta sul marciapiedi e ne accesi un’altra.

«Tu eri più importante» sussurrò avvicinandosi a me, asciugai le lacrime tinte di trucco nero dai miei zigomi e dissentii scuotendo la testa.

«Dovevo rassicurarti, capisci? Dirti tipo “non me ne sto andando, ti chiamerò sempre, ti penserò sempre…”» e io singhiozzai ancora di più a quel punto, indignata, le prese in giro facevano sempre male, soprattutto dagli amici più cari.

«No, no, no, che cazzo, tu dici un mare di cazzate, e non so come faccia tu a starci a galla» scossi la testa di nuovo, e appoggiai la fronte al suo petto artigliandomi al suo maglione largo e morbido.

«Non ti dimenticherò» alzò il mio viso per guardarmi negli occhi e si avvicinò.

«Se mi baci ora, sappi che ti odierò tutta la vita. Fino alla morte, perciò non baciarmi» dissi in lacrime, senza convincere nemmeno me stessa. Di sicuro senza convincere lui, perché il suo viso si avvicinò ancora di più al mio e mi dovetti ancorare alle sue spalle per non cadere, le mie gambe erano improvvisamente molli ed instabili.

«Perché?» domandò curioso, senza voler davvero conoscere una risposta.

Non poteva baciarmi, non glielo avrei mai perdonato. In quel modo mi stava letteralmente dicendo addio, me lo stava scavando con le unghie su tutto il corpo per lasciare cicatrici indelebili. Lo sapeva, comunque, che non l’avrei dimenticato.

«Perché mi stai dicendo addio e io non voglio che tu te ne vada» conclusi in un bisbiglio, ma lui mi baciò.

Era così bello sentire le sue labbra sulle mie, così nuovo e così diverso. Diverso da tutti i ragazzi che con frenesia spingevano la lingua contro i miei denti e che percorrevano il mio corpo con le loro mani. In quel momento non c’erano lingua, bocche, labbra e denti; eravamo io e lui, solamente noi ed un addio che sapeva di menzogne e di un amore di quelli che il solo pensarci è sbagliato.

Innamorata di uno sbaglio. Ma ero al college, sarebbe tutto passato in fretta, avevo tutta la vita per realizzare e demolire sogni.

 

Comunque il giorno seguente se ne andò, lasciando solo una busta profumata di vaniglia imbucata a mano nella mia cassetta delle lettere ad un’ora imprecisa della notte.

Nella busta un ciondolo a forma di spada argentata ed un minuscolo biglietto blu con poche parole scritte in bianco, con una calligrafia poco leggibile:

Combatti sempre.

Oliver.

E sulla spada argentata c’era una lacrima, poi due, poi avevo bagnato tutta la busta e poi ero rientrata in casa: aveva iniziato a piovere.

 

*-*-*-*

 

Ciao a tutti bei bimbi tenerelli :D

(Oddio, sembro una sclerata mentale <3 <3)

No, non sono pazza! *Mette il mantello e vola fingendo di essere Superman*

 

E comunque, visto che siete stati stellinosissimi e bravi con me ho deciso di iniziare un’altra long YEEEE :D

No, mi porterà via un sacco di tempo da FISICA u.ù Che peccato, direi <3

 

Tra l’altro, una piccola precisazione: ci saranno tanti flashback riguardanti scene prima di questa *indica con il ditino le righe scritte sopra* e sempre questa sarà solo un piccolo prologo per spiegare in breve ciò che accadde prima. Eh, no, non posso partire così a muzzo.

 

Allora vi saluto e gradirei (*---*) tante recensioni e consigli sulla trama, perché la mia mente è attualmente confusa.

 

Arrivederci!

 

Judy <3 <3 <3

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Capitolo 2
*** Il passato può risultare dannoso ***


«Ciao a tutti...mi chiamo Chelsea…» mi guardai intorno disorientata e mi sentii improvvisamente insicura e fragile come non lo ero mai stata. Mi sfregai le mani in modo nervoso e mi mordicchiai un labbro.

«Ciao Chelsea!» risposero tutte le persone intorno a me, mi fissavano e sembravano tranquille, felici, senza problemi; per un istante sentii le ginocchia cedere, ma strinsi i denti: il mio discorso non era ancora finito.

«Vengo dallo stato del Nevada, in un paesino vicino Las Vegas. Mio padre era dipendente dal gioco, morì quando io avevo tredici anni; mia mamma invece è brava e mi vuole bene» deglutii e strinsi fortissimo gli occhi, odiavo che la gente mi guardasse incuriosita ed in quel momento sembrava che tutti volessero leggermi dentro, non lo potevo sopportare.

«Io ero una tossicodipendente ed un’alcolizzata e sono venuta qui per dimostrarvi che con il giusto lavoro tutto può essere combattuto» sorrisi allegramente.

«E soprattutto, oltre ad essere qui come dimostrazione di come il duro lavoro possa dare risultati più che soddisfacenti, sono qui perché voi mi poniate domande di qualsiasi genere» strinsi tra le dita la piccola spada argentata legata al collo con un sottile filo nero: ci giocherellavo spesso quand’ero nervosa o imbarazzata.

Tutta la gente intorno a me, mi guardò con ammirazione e non potei fare a meno di pregare che qualcuno rompesse quell’imbarazzante silenzio.

«Io avrei una domanda!» a parlare era stato un uomo sulla quarantina, alto e virile, con il viso squadrato e senza barba.

«Dimmi pure» sorrisi mettendo in mostra i denti bianchi.

«Chi ti ha aiutato? Insomma, non si può combattere tutto in solitudine» si guardò i piedi a disagio ed attese paziente la mia risposta.

«Mia mamma, mi ha sostenuto per tutto il tempo» risposi con la voce colma di gratitudine nei confronti della donna che aveva sacrificato tutto per me.

«E dimmi, come hai fatto a tenerti stretta gli amici?» domandò una donna giovane, avrà avuto circa trent’anni portati benissimo, anche se pareva un po’ sciupata. Aveva le occhiaie e la pelle tesa sul viso scarno, ma i suoi bellissimi occhi celesti racchiudevano la forza del mare e la sua imprevedibilità.

«Non ci sono riuscita, sono scappati tutti» ammisi con tristezza; in quel momento avrei voluto afferrare quel maledetto ciondolo e bruciarlo per non vederlo più. Era come una potente maledizione: più lo tenevo addosso più mi ricordava di quanto la gente facesse male, più mi sentivo vuota.

Avevo solo più mia madre, la mia psichiatra ed un enorme gatto completamente nero, con il pelo lucidissimo, perché è risaputo: in casi di carenza d’affetto gli animali domestici sono la cura migliore.

Nonostante tutto, però, continuavo a sentirmi sola.

 

«Chelsea, non correre! Non sono più giovane come una volta!» gridò il ragazzo con i capelli scuri mentre mi rincorreva e con una mano cercava di non fare cadere il cappello dalla sua testa: l’unico riparo dalla pioggia pungente.

«Un ombrello non te lo potevi portare?» domandò sempre urlando; cercava di raggiungermi, ma ero troppo veloce per lui e comunque non avrei voluto che mi afferrasse: mi avrebbe preso in braccio e buttato di peso in una pozzanghera, tanto per farmi pentire di non averlo ascoltato.

«Hai solo un anno in più di me, idiota!» esclamai ridacchiando, ma non mi voltai, era buio e correvo troppo veloce per potermi permettere di non cercare eventuali ostacoli di fronte a me.

«Cosa vuol dire? Ho avuto le prove oggi, ho i polmoni stanchi!» disse a gran voce per poi fermarsi con il fiatone e le ginocchia semipiegate per riprendere fiato.

«Sei ancora più idiota, dovresti essere allenato dato che canti. Idiota!» mi fermai ridendo e alzai la testa per guardare la pioggia che cadeva.

«E tu dovresti essere con i polmoni fatti di catrame, dato il numero di sigarette che fumi» rispose venendomi incontro camminando lentamente, mi abbracciò e storsi il naso.

«Merda, sei fradicio» mi lagnai cercando di non appoggiare la guancia sulla sua felpa umida.

«Vaffanculo, come fosse colpa mia, tu e le tue cazzo di idee da psicopatica, ma dico: alle tre di notte ti svegli e mi chiami per uscire?» disse respirando sui miei capelli.

«Che cazzo ci facevi tu sveglio alle tre di notte e soprattutto sotto casa mia?» domandai con voce colma d’ironia; lui ridacchiò ed iniziò di nuovo a correre, sospirai divertita e lo inseguii: ci avrei rimesso in salute, ma ne valeva la pena.

 

«Ohi, tutto bene?» domandò una voce familiare a pochi millimetri dal mio volto, spalancai gli occhi e sobbalzai: ero in una stazione situata in una zona periferica della città, seduta su una fredda panchina in pietra ruvida, mi ero addormentata.

«Mh?» domandai disorientata; mi guardai intorno, a parlare era stata una donna bionda, bassa ed un po’ robusta, ma nel complesso bella e armoniosa.

«Ti sei addormentata per farmi sentire in colpa? Sono in ritardo di qualcosa come cinque minuti!» esclamò incrociando le braccia al petto.

La donna in questione era Carol: la mia psichiatra ed unica amica rimasta; era tornata da un viaggio di qualche giorno in Francia e mi ero offerta di andarla a recuperare in quel luogo vuoto e desolato, tanto per farle vedere com’ero stata brava a combattere la mia “ansia-da-luoghi-poco-popolati” o come l’aveva chiamata lei.

«Mh, no, è che sono arrivata con un’ora d’anticipo o qualcosa di simile» risposi stropicciandomi gli occhi, assonnata, spalmandomi tutto il trucco nero sulle guance, gli zigomi e la fronte; mugugnai con disappunto e cercai di ripulirmi il viso.

«Sono fiera di te. Sognavo di arrivare e vederti con una decina di chili in più, ma anche questo va bene» rispose sorridendo serena, mi alzai e la seguii; destinazione: il bar preferito da Carol. Uno di quei bar da tè caldo e cupcakes ad ogni ora del giorno.

«Ho preso sette chili!» ribattei indignata.

«Precisa: in due anni!» sbottò grattandosi la testa.

Mi ero ammalata di anoressia due anni prima e da allora non ero riuscita ad uscirne. Ero uscita dal giro della droga, dell’alcool, quindi di conseguenza dai sogni ad occhi aperti a tutte le ore e dal non sapere più in che luogo fossi.

«Però ammetto di essere magra, mi piaccio abbastanza» ammiccai serena, ricevendo un sorriso di approvazione da parte della donna accanto a me.

 

Dopo pochi minuti entrammo nel locale ed il barista ci salutò con familiarità, ci sedemmo ad un tavolo.

«Come vanno i sogni?» chiese lei ad un certo punto, dopo aver ordinato due tè caldi ed una valanga di dolcetti per lei, ovviamente.

«Vanno e vengono, più vengono che vanno, ma va bene così» feci spallucce e mi scrocchiai le dita delle mani ghiacciate.

«Dovresti essere meno sensibile» mi riprese puntando un dito verso di me.

«Dovrei. Ma mi sento così vuota» rimasi pensierosa qualche istante con lo sguardo perso nel vuoto, poi intercettai il cameriere che si dirigeva verso di noi con un vassoio stracolmo, gli sorrisi gentilmente e lui appoggiò quella torre di dolci in centro al tavolo.

«La gente è cattiva, cara» ammise tirando un sospiro.

«Lo è» assentii.

Calò un silenzio estremamente naturale e leggerissimo, durante il quale il tavolo fu ripulito da ogni traccia di cibo.

«Senti, mi potresti…» iniziai con indifferenza.

«Hai finito le sigarette?» domandò prevedendo la mia domanda.

«Già» feci spallucce.

«Ti accompagnerò dal tabacchino» sorrisi allegra e le nostre gambe ci guidarono spontaneamente alla meta designata. Vivevo in quel luogo da pochi anni, ma conoscevo la città come le mie tasche e, soprattutto, mi sentivo a casa.

***

Penso fossero le quattro del mattino quando il mio telefono squillò, anzi, vibrò.

Ero nel bel mezzo di un sogno fantastico nel quale sputavo fuoco o qualcosa di simile, ma dettagli, l’importante in quel momento era sterminare l’idiota che mi aveva svegliata nel bel mezzo della notte.

«Chi cazzo è?» domandai dopo aver premuto il tasto per rispondere e aver avvicinato il telefono all’orecchio.

«Chi parla?» domandò una voce sconosciuta, bassa e caldissima: sicuramente di un uomo.

«Scusa? Mi chiami e poi mi chiedi chi parla?» chiesi con una voce da coma, appena irritata.

«Io veramente…» aggiunse intimorito l’uomo con cui stavo avendo quell’illuminante conversazione.

«No, tu veramente un paio di palle. Mi chiamo Chelsea, se cercavi me dimmi, se no lasciami dormire, sono le quattro, cazzo!» imprecai, impaziente di tornare ad essere un mistico dragone imbattibile.

«Chelsea?» disse sorpresa la voce.

«Non la squadra» aggiunsi con ironia, attesi qualche secondo.

«E’ lei?!» domandò una seconda voce al telefono, sbuffai irritata e riattaccai, per precauzione spensi anche il telefono. La gente non smetteva mai di stupirmi.

 

*-*-*-*

CIAOGENTEBELLISSIMA.

Ciao.

 

Parto dal fatto che sono provata dal lungo ed intenso studio di… FISICA, sì, esatto!

E magari vi chiederete “Ma la perseguita?” (no, lo so, non ve lo starete chiedendo, ma sì, fate finta di sì. CHIEDETEMELO, PLS).

Così magari mi sentirò meno sola e potrò fingere di avere una vita sociale soddisfacente.

 

Ah, avete provato il nuovo wechat? (Ve lo chiedo così a caso).

Perché mi stanno aggiungendo tutti turchi quarantenni, uno spasso. Il mio pollice non è mai stato tanto felice di premere il tasto “BLOCCA”.

 

Ah, sì, parlando della storia.

La parte in corsivo sarebbe un flashback-sogno…Un sognashback oppure un flogno, come preferite. Che narra di tempo prima del primo capitolo (?)

Di come il piccolo Olly abbia fatto beccare un’allegra (:DD) polmonite a Chè. Ma lei è comunque felice.

 

Ehm, poi…giusto, la chiamata misteriosa alle quattro di notte (tra l’altro perché proprio a quell’ora?) LO SCOPRIRETE NELLA PROSSIMA PUNTATA.

 

Bacioni.

(E recensite, non vi mangio, ve lo giuro)

I lied.

Judy Kill Em All.

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Capitolo 3
*** Cambia la tua vita con un nuovo lavoro ***


«Che ore sono?» non vedevo nulla, era buio pesto.

«Saranno le quattro, penso» rispose il ragazzo di fronte alla finestra, del quale vedevo solo l’ombra. Si avvicinò a me con le mani avanti per non andare a sbattere contro nessun mobile.

«Che ci fai sveglia?» chiese poi, sedendosi sul letto accanto a me.

«Che ci fai a casa mia?» lo interrogai, ignorando la sua domanda.

«Hai lasciato la finestra aperta, fa molto film americano, ma mi sono arrampicato sull’albero e sono entrato» ridacchiò.

«Così hai risposto alla domanda “Come sei entrato?”» puntualizzai mettendomi a sedere ed accendendo la luce soffusa dell’abat-jour, mi stropicciai un occhio e sbadigliai.

«Non essere puntigliosa» si lamentò togliendosi il solito cappellino di lana che teneva costantemente in testa.

«Sei fuggito da Lucy in piena notte, sei un pessimo amante» lo rimproverai scuotendo la testa con disappunto.

«Sei meglio tu» ammise coricandosi al mio posto e spingendomi giù dal letto.

«Josh non approverebbe, dice di amarmi» mi alzai e mi sedetti di peso sopra al suo stomaco.

«Ti amo di più io di quanto lo faccia quel coglione» scherzò dimenandosi sotto il mio peso. Avrei voluto che non scherzasse, perché mentre ridevo i miei occhi chiedevano gentilmente di farmi sparire.

«Portami al mare» proposi seria.

«E’ lontano e l’alba è troppo vicina, ho la piscina riscaldata a casa, va bene lo stesso?» domandò alzandosi in piedi all’istante. Sorrisi ed afferrai un costume da bagno dalla scatola di cartone sotto la scrivania, uscii dalla finestra e saltai sull’albero.

«Non ti ammazzare!» mi ammonì; saltai dal ramo sul quale ero appoggiata ed atterrai con grazia, illesa.

 

«Chelsea, amore?» il lenzuolo era tutto arrotolato intorno alle mie ginocchia ed ero sudata fradicia.

«Dimmi» mugugnai rivolta alla voce che riconobbi essere quella di mia madre.

«A che ora hai il colloquio?» a quelle parole sobbalzai all’istante, afferrai il telefono per controllare l’ora e…era spento.

«Cazzo!» imprecai alzandomi in fretta e furia dal letto ma, essendo che le lenzuola avevano perso la loro funzione primaria, trasformandosi in una camicia di forza, il risultato della mia azione fu una caduta terribile e soprattutto molto dolorosa.

«Mamma, che ore sono?» domandai cercando inutilmente di alzarmi da terra il più rapidamente possibile.

«Le otto» rispose sogghignando e porgendomi una mano per aiutarmi a tornare in piedi.

«Porca merda, è alle otto e trenta, aiuto, mamma ho tanto una faccia da coma?» domandai correndo in bagno per verificare a che profondità erano riuscite ad arrivare le mie occhiaie e, tutto sommato, erano quasi dei leggeri segni scuri: niente di incorreggibile.

In tempo zero mi lavai, mi vestii e mi truccai in modo quasi accettabile, per poi correre a perdifiato fuori dalla porta di casa e ricordarmi che senza le chiavi della macchina, con molta probabilità, non sarebbe partita.

Alle otto e venti ero in macchina, con il fiatone, completamente stravolta.

Appena accesi la macchina partii in quarta: mi ci sarebbero voluti comunque più di venti minuti per arrivare a quel maledetto colloquio. Per di più si sarebbe tenuto in un hotel di quelli a cinque stelle, prestigiosissimi; ci mancava poco che per entrare ci fosse l’obbligo della scansione della retina, quindi la puntualità era d’obbligo.

Mi ero domandata ininterrottamente come diamine avessi fatto a farmi convocare per un colloquio di lavoro; il mio curriculum comprendeva principalmente fast-food. Ovvio, prestigiosi fast-food, famosissimi ed acclamati in tutto il mondo: il McDonald, per esempio.

Appena giunta a destinazione, entrai nel parcheggio interno con la mia auto di seconda mano che sfigurava rispetto tutte le automobili nuove di zecca e tirate a lucido di chi lavorava in quel posto.

 

«Posso esserle utile?» ad accogliermi fu un uomo molto carino, alto e dai lineamenti delicati, con un sorriso a trentadue denti così bianco ed abbagliante, che avrebbe fatto sfigurare anche la neve.

«Sì» risposi sorridendo gentilmente «Sono qui per il colloquio…» iniziai a spiegarmi, ma fui subito interrotta dal ragazzo che, intimandomi di seguirlo, mi scortò attraverso l’enorme hall coloratissima e mi fece accomodare in uno studio molto piccolo con solo una scrivania e due sedie: una da un lato ed una dall’altro.

«Può attendere qui, il direttore la raggiungerà tra un istante» mi congedò e tornò al suo lavoro abituale.

L’ambiente era veramente spoglio e povero, l’unico elemento caratteristico sarebbe potuta essere l’enorme finestra che illuminava a tal punto l’ambiente da far sembrare la stanza all’aperto.

Il direttore, un uomo poco più basso di me, di corporatura robusta, arrivò dopo qualche istante e si sedette dall’altro lato della scrivania.

«Lei deve essere Chelsea Adams, dico bene?» domandò strizzando gli occhi per mettere a fuoco il nome stampato sul foglio di carta che stava esaminando.

«Sì» risposi annuendo.

«Mh. E’ stata convocata per un motivo» quando pronunciò questa frase per poco non scoppiai a ridere, insomma, era l’ovvietà in persona quell’uomo!

«Abbiamo degli ospiti speciali questa settimana e abbiamo bisogno di bella presenza. Come cameriera» sorrisi forzatamente alle parole “bella presenza”, sembravo appena uscita da un coma data la mia forma fisica ed il mio viso troppo magro, mi sarei definita qualunque cosa, fuorché di presenza gradevole.

«Bene» commentai, allentando appena la collana che improvvisamente era diventata troppo soffocante.

«Pensa di essere in grado?» mi domandò con aria di inquisizione, scrutandomi da dietro un paio di occhiali da vista con le lenti pulite ed una montatura elegante.

«Di servire ai tavoli?» chiesi in risposta, un po’ stupita.

«Beh, in poche parole sì, quello» mostrò i denti in un sorriso un po’ tirato e troppo nervoso per passare come sincero.

«Penso di sì, certo» risposi annuendo allegra, forse era una giusta svolta nella mia vita, per una volta.

***

«Ciao, piacere, io mi chiamo Marco e sono italiano» disse un ragazzo di appena una ventina d’anni con un marcato accento che confermava ciò che aveva detto nella sua presentazione.

«Ehm, io sono Chelsea, sono americana» dissi salutando con la mano in modo nervoso.

Nemmeno io avevo capito bene cosa fosse successo: quell’uomo dall’altro lato della scrivania, illuminato dalla fortissima luce del sole si era alzato in piedi e mi aveva stretto la mano, mi aveva sorriso sfregandosi le mani e aveva detto qualcosa come “Allora arrivederci, ci vediamo domattina alle otto, gli ospiti saranno qui dopodomani, avrà abbastanza tempo per far pratica, mi auguro”, mi aveva cacciata malamente fuori dal proprio “studio” e mi ero ritirata, un po’ perplessa.

E in quel momento avrei voluto sotterrarmi: indossavo una divisa datami in dotazione, completamente diversa da quelle viste nei film, che fanno sembrare ogni ragazza professionale e bellissima.

«Ora ti presento lo staff, seguimi!» iniziò ad andare avanti ed indietro per la cucina a passo svelto, schivando abilmente i vari scaffali che io, ovviamente, presi in pieno con qualunque parte del corpo.

«Lui è Jenn» indicò un uomo di colore alto ed imponente, con le braccia spesse quanto le mie gambe messe insieme. Forse anche un po' di più.

«Ciao» mi salutò con voce bassissima ed un lieve sorriso, ricambiai il saluto timidamente.

«Lei è Ann» mi salutò una donna di circa quarant'anni, magra, bassa con i capelli scuri legati in un elegante chignon, la salutai a mia volta allegramente.

«Ann ti insegnerà come relazionarti con la cucina, ti affido a lei» finì il suo discorso che sembrava un testo imparato a memoria e se ne andò, tornando alla sua postazione.

Solo quel giorno, in un’ora e mezza ero stata sballottata a destra e a sinistra ed affidata a circa otto persone differenti, roteai gli occhi al cielo e mi avvicinai alla mia nuova insegnante.

«Piacere, io sono Chelsea» mi presentai tendendo una mano verso di lei, la strinse calorosamente e mi scortò in una sala che non avevo mai visto: pareti color crema ed enormi lampadari in vetri colorati davano un’aria accogliente a quello spazio immenso, tavoli rotondi di diverse dimensioni circondati da sedie imbottite di una tinta simile ai muri ricoprivano parzialmente quell’immenso spazio,. Ero sorpresa, non ero mai stata in un luogo del genere.

Anche se era abbastanza presto, alcuni mattinieri erano già intenti a fare colazione allegramente, soli o con famiglie ed amici.

«Ci sono poche regole da ricordare. Primo: avrai questo palmare dove prendere le ordinazioni, qui clicchi per mettere il numero del tavolo; qui scegli se primo, secondo, bevande, contorno, colazione dolce o salata…» elencò il tutto contando sulle dita, parlando sempre più in fretta; annuii perplessa ed afferrai l’oggetto che mi stava porgendo.

Camminò svelta verso un tavolo e la seguii; si rivolse ad un cliente con voce gentile e domandò:«Vuole ordinare?» per poi segnare rapidamente con la pennetta su quell’aggeggio elettronico del quale avrei faticato ad imparare le funzioni.

«Secondo: devi essere sempre carina e disponibile, capito? E sorridere» mi ammonì in modo quasi materno.

«Scusi…» iniziai a dire, ad un certo punto, pensierosa.

«Dammi del tu, mi sembra di farmi dare del lei da mia figlia» scherzò facendomi l’occhiolino.

«Grazie…volevo chiedere…se c’è già una cameriera, io a cosa servo?» ero seriamente dubbiosa.

«Avevano bisogno di personale per questa settimana, per portare roba in camera, ai tavoli, cose così. Penso però che ti terranno, cercavano qualcuno già da un po’» mi rassicurò dirigendosi nuovamente in cucina, la seguii a ruota.

«Cosa succede questa settimana?» chiesi ancora, cercando di non inciampare tenendole il passo.

«Arriva qualcuno di famoso. Mia figlia mi ha detto che è una band, pensavo fosse un cast di un film. Non mi chiedere il nome, non me lo ricordo assolutamente» disse sbrigativa, mi spintonò in sala e rimasi lì immobile non sapendo bene cosa fare.

«Vai al tavolo dodici!» mi intimò indicando con un cenno del capo un tavolo, in cui un gruppetto di ragazzi poco più piccoli di me, era intenzionato a fare colazione.

Rimasi inchiodata sul posto un’altra manciata di secondi, poi scossi la testa per darmi una svegliata e mi incamminai un po’ titubante verso quei ragazzi felici.

«Buongiorno, sono la nuova cameriera» mi accolsero con un grande sorriso che io ricambiai «Volete ordinare?».

Tutto sommato non era un lavoro così arduo, né così complicato, era quasi come lavorare nei fast-food, l’unica differenza erano i numerosi piatti dai nomi articolati.

“Sei una ragazza carina” mi disse in confidenza un ragazzo in quel tavolo, vedendomi impaurita; “te la caverai”, aveva aggiunto strizzando poi un occhio ed avventandosi sul suo piatto stracolmo di bacon, uova strapazzate, salsicce e toast bollenti.

***

«Come è andata oggi?» domandò mia madre, appena misi un piede oltre la soglia di casa, sul tappeto rosso con scritto “Welcome”.

«Bene, penso» risposi chiudendo la porta alle spalle e lasciandomi cadere su una sedia, sfinita.

«Mamma, che ci fai ancora sveglia? E’ mezzanotte» constatai sbadigliando sonoramente e appoggiando una guancia al tavolo fresco.

«Ti volevo aspettare. Ha provato a stare sveglio anche Matt, ma non ci è riuscito, voleva salutarti, era stanco per il viaggio» sorrise e posizionò di fronte a me una tazza di tè fumante. Strabuzzai gli occhi e per poco non gridai.

«Matt è qui?» per un istante ebbi la tentazione di andarlo a svegliare, ma mi trattenni.

Matt era mio fratello minore, aveva ventiquattro anni e, tre anni prima, si era trasferito in Germania, ad Amburgo; ci sentivamo spesso al telefono anche se, ultimamente, tra il suo lavoro ed i miei impegni avevamo completamente smesso di tenerci in contatto e la mancanza era stata avvertita da entrambi.

 

Bevvi qualche sorsata di quella deliziosa bevanda calda e mi alzai, contenta di andarmi finalmente a coricare.

«Ah, Chelsea, hai lasciato il telefono a casa, hanno chiamato» disse mia madre prendendo un foglietto con su appuntato qualcosa dalla mensola in marmo della cucina.

«Chi?» domandai curiosa afferrando quel pezzetto di carta.

«Era un ragazzo, ha detto di lasciarti questo messaggio, ha detto che non era urgente» rispose lei, facendo spallucce.

Andai verso camera mia spogliandomi strada facendo e disseminando vestiti lungo tutto il percorso; appena arrivai mi sedetti sul letto e lessi quel curioso biglietto.

Un numero di telefono e basta, nient’altro.

Subito pensai alla telefonata di due sere prima ed un brivido mi percorse la spina dorsale, avevo una strana sensazione: non volevo chiamare quel numero.

Mi coricai sul letto sfatto dalla mattina e chiusi gli occhi indecisa, non capivo chi potesse essere a chiamarmi da un numero privato in piena notte, ma volevo capire se fosse eventualmente collegato al numero sul foglietto.

“Dormi, dormi, sei stanca, domattina te ne occuperai” pensai ardentemente; mi addormentai all’istante, ero troppo stanca per restare sveglia un secondo di più.

***

Ovviamente mi svegliai in piena notte, tormentata dal pensiero di chi mai avesse potuto essere il ragazzo misterioso.

“Al diavolo, io chiamo” pensai, per niente preoccupata di che ora fosse.

Composi velocemente il numero e attesi.

«Servizio di segreteria telefonica…» rispose una voce metallica.

«’Fanculo» imprecai strappando il foglietto sul quale era impresso il numero a penna e gettandolo nel cestino.

 

*--*--*--*

Gente!

Come state miei pargoli adorati? (Quanto è bella la parola pargoli?)

Io spero che stiate bene, perché siete davvero bellissimi, tutti quanti.

[Della serie: “Mi state simpatici, vi ucciderò per ultimi”]

 

E sì, hell, sono cosciente del fatto che in questo capitolo NON SIA SUCCESSO NULLA DI COSTRUTTIVO.

Ma i capitoli di transiziooooone sono assolutamente (u.ù) d’obbligo.

E comunque siate clementi, ho avuto per un’intera giornata la tastiera impostata tipo in afgano o qualcosa del genere e praticamente schiacciavo l’apostrofo ed usciva il trattino, il trattino ed usciva il punto interrogativo. Pensavo di morire, ma per vostra (s)fortuna sono ancora qui viva e Vegèta.

(Sì, è vecchia e triste questa battuta)

 

Comunque io ho sempre preferito Vegeta a Goku, perché è molto femminile e gaio <3

 

No, cavolo, perché mi perdo nei discorsi?!

 

Allora, dicevo, non è successo niente di che perché il bello arriverà nel capitolo numero 4, quindi aspettatelo con ansia, intanto vi lascio qualcosa di amabile:

 

http://www.youtube.com/watch?v=poZLiypLJzQ

& anche questo

http://www.youtube.com/watch?v=ye0XhDdbFs4

e basta.

 

Arrivederci :*

 

Judy Kill Em All.

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Capitolo 4
*** C'è sempre una prima volta ***


Primo giorno ufficiale di lavoro, inutile a dirsi, ma ero tesa come una corda di violino.

Non avevo idea di cosa mi aspettasse in quel dannatissimo luogo; il giorno precedente mi avevano fatto tutti un’ottima impressione, tralasciando il capo supremo, il Signor vi-guardo-male-inutili-plebei.

Ero così agitata che persi le chiavi di casa e le cercai per una ventina di minuti in giro, per poi ritrovarle sul tavolo della cucina, in bella vista.

Speravo anche che Matt si svegliasse e mi abbracciasse dicendo qualcosa come “Buona fortuna sorellona” o comunque una frase da film, di quelle studiate per ore, che dipingono istantaneamente un sorriso e lo modellano facendo comparire due meravigliose fossette sulle guance.

Io comunque non avevo fossette, ero troppo magra.

 

Per mia fortuna mi ero svegliata presto, con circa quaranta minuti in anticipo ed ero riuscita ad uscire di casa ad un’ora più che decente. Cercai di andare più lentamente possibile con la macchina, ma il percorso mi sembrò durare pochi secondi, lasciai anche attraversare tutte le vecchiette sulle strisce pedonali, anche se sembrò non funzionare.

“Maledette vecchiette, non sono più come una volta” pensai irritata, la maggior parte erano più attive e arzille di me.

Arrivata all’hotel parcheggiai perfettamente, calcolando quasi le distanze auto-muri per ritrovarmi perfettamente al centro del parcheggio; pensandoci mi sentii istantaneamente una squilibrata mentale, ma poco importava.

Scendendo dalla macchina mi accorsi di una folla di gente all’entrata principale dell’hotel e capii all’istante il motivo per cui mi avessero fatto entrate dal cancello secondario, di dimensioni più ridotte, ma comunque imponente.

Feci spallucce e, con le mani in tasca, mi incamminai verso il portone d’ingresso, le cui insegne dorate luccicavano grazie al sole mattutino.

«CHELSEAAAAA!» mi voltai verso destra e riconobbi Ann, che correva nella mia direzione come una forsennata.

«Ehi!» la salutai con la mano e sorrisi, non capendo la preoccupazione nella sua voce.

«Judy si è fatta male e in più sono in anticipo!» disse.

Io annuii non capendo una parola, comunque penso si fosse accorta dalla mia espressione che avrebbe dovuto dare spiegazioni, perciò continuò il suo monologo con voce squillante ed in modo rapido:«Quella che fa i letti, mette in ordine le camere».

«Oh» risposi cercando di non pensare cosa mi sarebbe toccato fare.

«Senti, sono appena arrivata anche io, l’ho saputo ora dal capo e mi ha obbligato ad andare a sostituirla! Muoviti, serve una cameriera al posto di due, dovrai fare il doppio lavoro, cambiati in meno di un secondo!» strillò attaccando le parole l’una all’altra e facendo in modo che afferrassi il concetto, ma non capissi perfettamente tutto.

«Sono in ritardo?» domandai spaesata.

«No, in anticipo di trenta minuti» concluse voltandosi verso la porta dell’hotel.

Strabuzzai gli occhi incerta sul da farsi, ma ad un’occhiata omicida di quella fantastica donna iniziai a correre in direzione dello spogliatoio.

“Ho una calamita per la sfiga, giuro” imprecai aprendo violentemente la porta della stanza davanti al bagno.

Mi sfilai i vestiti con foga e abbottonai tutti i bottoni della camicia bianca; inaspettatamente il telefono squillò, sbuffai irritata e risposi frettolosamente.

«Pronto!» gridai quasi.

«Parla Chelsea Adams?» domandò la voce dall’altra parte.

«Sì, certo, chi chiama?» chiesi dubbiosa aggrottando le sopracciglia ed intrappolando il telefono tra la spalla e l’orecchio per infilarmi la gonna nera.

«Non è molto importante in realtà» rispose l’uomo.

«Ah, beh, se non è importante mi può richiamare stasera, no? Devo lavorare» e riattaccai irritatissima, mi sistemai i capelli ed entrai in sala munita di palmare.

Presi qualche ordinazione ed entrai in cucina per prelevare i piatti pronti.

«Hai sentito? Sono arrivati» disse Jenn appena misi piede in quel luogo che odorava di uova strapazzate, bacon e salsiccia.

«Ma chi?!» domandai un po’ incuriosita.

«Boh, i tipi. Sono degli esaltati, mi ha detto Ann. Uno parlava al telefono, gli altri saltavano sul letto e si rotolavano in giro gridando» fece spallucce e continuò a girare con una frusta in metallo in una ciotola grigia.

«Urlavano cose strane e sghignazzavano» aggiunse pensieroso continuando a mescolare.

«Cose strane? » domandai riflettendo e facendo lavorare l’immaginazione.

«Sì, esatto, ah, dovrebbero essere in sala tra circa otto secondi, muoviti, questo al tavolo 5, questo al tavolo 8, questo al 10, questo al 15, Chelsea, ci sono i bigliettini!» strillò Marco in presa ad una crisi isterica, intromettendosi nel discorso. Mi impilò sulle mani e sulle braccia un milione di piatti e mi spintonò nella sala, guardandomi saltellare in modo buffo con le gambe semidivaricate.

Iniziai a distribuire piatti colmi e sorrisi alle otto del mattino, con le gambe che tremavano e la testa che girava.

«Ah, tu la fai con noi colazione?» domandò Marco dopo quindicimila giri avanti-indietro dalla cucina. In risposta scossi solo la testa debolmente.

«Sei uno straccio, mi chiedo come faccia tu a stare in piedi, dai mangia qualcosa!» insistette Ann appena tornata da quella caotica suite all’ultimo piano, mentre si ingozzava di uova strapazzate.

Alle otto e trenta.

Mi si rivoltò lo stomaco e mi dovetti sedere con un bicchiere d’acqua tra le mani.

 

“E mangia sta cazzo di torta, è buona!” urlò il ragazzo di fronte a me cercando di ingozzarmi di torta, ottenendo un risultato pessimo: imbrattarmi la faccia.

“Fa schifo, è salata!” mi lagnai sputando briciole ovunque.

“No, dai, è la torta del tuo compleanno, l’ho fatta con amore!” singhiozzò.

Spostai lo sguardo verso l’obbrobrio che aveva osato etichettare come ‘torta’: un ammasso di roba marrone semisciolta in una scatola di cartone di quelle della pasticceria.

“Ribadisco: fa cagare, sul serio” insistetti seria accendendo una sigaretta e pulendomi il viso con una mano.

“Sei una stronza, potevo fingere almeno!” fece l’offeso e gli passai la sigaretta.

“Per essere una torta di fango era buona” ammisi.

“NON ERA UNA TORTA DI FANGO!” si arrabbiò.

“Morirai se non mangi mai nulla” concluse poi afferrando la sigaretta accesa.

“Tranquillo, sono ancora viva e vegeta”

 

«Ohi, Chelsea?» domandò Ann scuotendomi appena.

«S-Sì?» mi risvegliai da quello stato di semi-trance stropicciandomi gli occhi.

«Ti sei incantata, tutto bene?» si premurò di chiedermi, con fare materno.

 Annuii e sorrisi; ero stanchissima, dovevo essermi appisolata con gli occhi aperti.

«Tranquilla, tutto a posto» la tranquillizzai alzandomi per prendere i piatti colmi di cibo, da consegnare in sala. Mi sentii lo sguardo di tutti puntato sulla schiena, ma come se niente fosse li ignorai.

“Che casino” pensai subito dopo aver messo un piede fuori dalla cucina, c’era il putiferio più totale: oltre a non esserci nemmeno un tavolo libero, di lato ce n’era uno enorme dal quale provenivano grida da film dell’orrore. Intuii dovessero ordinare, quindi, consegnati i piatti, mi incamminai.

“Penso siano loro. Le persone normali di solito in posti del genere si comportano nei modi migliori possibili” la mia mente iniziò ad imprecare e mi iniziarono a prudere le mani, cazzo, era un hotel di gran classe, non uno zoo.

“E io sono una cameriera di gran classe, non una cameriera del cazzo, quindi li tratterò come tutti gli altri” mi risposi vaneggiando.

Con ironia.

Più mi avvicinavo più sentivo quei volti familiari, passo dopo passo, respiro dopo respiro riscoprivo immagini archiviate dal mio cervello così tanti anni prima. Erano anni, tantissimi anni, che non sentivo le gambe cedere in quel modo e lo stomaco contrarsi, i conati di vomito non erano mai stati così chiari ed evidenti, mi urlavano di stare attenta, di guardarmi le spalle.

Una spallata che mi fece barcollare.

«Oh, scusa non ti avevo vis…» iniziò la voce, accogliente come casa.

“Non girarti, non girarti, tanto non sai di chi è quella voce, non lo sai” mi cercai di convincere invano.

Strizzai gli occhi e presi un respiro profondo, di quelli da intossicazione da ossigeno.

«Niente» dissi a mia volta, secca.

«No, aspetta, noi due ci conosciamo?» continuò.

A quella domanda mi voltai di scatto e fissai la persona che aveva parlato; di colpo si scatenò di nuovo in me quella reazione chimica che trasformava i miei occhi in uragani.

«No. Mai visto prima» ingoiai una quantità spropositata di aria e boccheggiai.

«No, sono sicuro di averti già…» impallidì di colpo e si ammutolì, vidi l’incertezza nei suoi movimenti, nei suo respiri, nei suoi occhi frenetici e nel suo battere di ciglia.

«Chelsea» sussurrò con la voce roca.

Strinsi i denti e feci come se nulla fosse successo, ce la potevo fare, sul serio, potevo. E comunque anche se non avessi potuto farcela avrei dovuto, senza scuse, perché era la mia vita e dovevo farcela fino alla fine.

 

Comunque Oliver non avrebbe dovuto ripresentarsi lì, dopo così tanto tempo, dopo che ero riuscita a superare tutto; era davvero troppo.

Rimasi lì, con la gola secca, con lui, fermo immobile che pensava ai ricordi: li aveva dipinti nelle iridi.

 

«Buongiorno!» mi stampai un sorriso sul viso, finto come una maschera veneziana e sperai che il ragazzo, ancora incredulo, non proferisse parola.

 

*-*-*-*

Bene gente! Siamo arrivati finalmente al fatidico momento.

Bene.

Lo so che ci ho messo una vita e ho scritto davvero poco, ma perdonatemi, è un periodo terribile (non solo per la scuola).

Comunque, la povera donna si ritrova lì, così, ferma immobile che sta per sboccare sui clienti e lui dietro che farfuglia cose a cazzo (?)

Secondo voi ora che succederà???

Si perdoneranno???

O meglio: Chechè lo perdonerà o gli dirà “Boh, fai schifo, vai via!”?

Secondo me prima se lo sbatte ovunque, poi lo abbandona.

 

{scherzo eh!}

 

Beh, buona settimana, mese, anno (no, dai ci sentiamo prima ;D)

 

Vi voglio bene! *_*

 

Judy.

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Capitolo 5
*** Sorridi Chelsea, ci provano con te! ***


«Chelsea» continuò più fermamente.

Non aprii bocca, rimasi muta, con i polmoni che erano diventati pesanti e lo stomaco ingarbugliato. Deglutii parecchie volte, arrivai a non contarle più.

“Aiuto” pensai, supplicando con gli occhi i presenti.

“Portatelo via, fatelo girare, via, via, via!” i bulbi oculari iniziavano ad inumidirsi, le palpebre non dovevano chiudersi, no, non dovevano cacciare fuori le lacrime, spingerle a constatare che là fuori non era poi così buio, per poi trascinare le compagne.

«Oliver? LASCIATEMI PASSARE! OLIVER?!» gridò qualcuno.

Ringraziai quella voce stridula e stizzosa, perché il ragazzo distolse l’attenzione dalla sottoscritta e la mia concentrazione tornò ai clienti.

«Vogliate scusarmi, non…non so cosa mi sia preso. Io mi chiamo Chelsea e sarò la vostra cameriera, quando avete bisogno, anche in stanza, chiamate pure e in meno di un secondo sarò a vostra disposizione» sorrisi appena, pallida come fossi malata, ma fecero finta di non accorgersene.

Mi avevano riconosciuto subito, lo sapevo, ne ero pienamente consapevole.

«Amanda, finalmente sei arrivata!» esclamò Oliver rivolto alla voce, più precisamente alla proprietaria di quella sottospecie di voce da cornacchia.

Mi voltai ed ebbi una di quelle visioni da ‘una volta nella vita’ e “Sì, cazzo”, pensai, “è proprio una cornacchia”.

Piume nerissime, voce gracchiante più un pizzico di sindrome-della-prima-donna.

«Oh, amore mio, non mi volevano far passare» esclamò lei addolcendosi istantaneamente.

Oh.

Amore.

Mio.

Amore mio.

Amore mio.

Era veramente troppo, era uno scherzo da parte di qualcuno di poco sentimentale?

«Chi è lei?» domandò indicando verso di me, non la vidi, ma sentii il suo sguardo che mi perforava la schiena.

«Chelsea, la nostra personale cameriera» rispose uno dei componenti del gruppo di cui assolutamente non ricordavo il nome, non ero nemmeno sicura di averlo mai visto.

«Sembra un po’ palliduccia, sta bene?» domandò con falso dispiacere nella voce e mi venne da voltarmi e spaccarle il suo bel nasino dritto.

«Non ho nulla» risposi al posto di chissà chi altro.

«Ehm, ordiniamo tra un istante, torni tra due minuti?» domandò Oliver titubante; mi rincuorò tantissimo che si sentisse spaesato.

 

«Non posso farcela» ribattei tornando in cucina, tremavo veramente molto e mi dovetti sedere.

«Cosa succede?» domandò subito Ann preoccupata, sedendosi davanti a me.

«Non posso farcela» ripetei in trance con le mani tra i capelli strabuzzando gli occhi.

«No, no, devi riprenderti» disse scuotendomi con forza.

Dondolai un paio di volte afferrandomi le ginocchia e respirando a fatica, iniziai ad ansimare.

«Dimmi, dimmi, cosa succede» chiese di nuovo la donna, ormai nel panico.

«Oliver…» singhiozzai a bassa voce «Oliver… poi l’anoressia… Andato…» provai a formulare una frase.

«Oliver se ne è andato per l’anoressia?» provò ad indovinare lei, ma io scossi la testa.

Dopo circa venti minuti, un cameriere momentaneo in sostituzione e tante lacrime riuscii a spiegare quasi tutto e mi sentii istantaneamente più libera.

Avrei potuto perdere il posto di lavoro, ma Ann sapeva tutto e non poteva permetterlo, mi avrebbe aiutato e io gliene ero dannatamente grata. Promisi di non lasciarmi più andare e decisi di tener duro, non dovevo mollare.

***

«Cosa devo fare?» guardai Ann per la millesima volta con gli occhi colmi di speranza e gratitudine.

«Sali fino al quindicesimo piano, suoni alla stanza 235 e dici che sei la cameriera, consegni la Vodka e te ne vai, non è difficile» mi spiegò ancora, con una pazienza infinita.

«Ci sono, vado» mi incamminai verso l’ascensore.

«Chelsea?» mi richiamò la donna.

«La Vodka, giusto, la Vodka…» tornai indietro ed afferrai la bottiglia ghiacciata per poi rincamminarmi nell’altra direzione.

1…2…3…

“Questi piani salgono troppo lentamente, cavolo” imprecai diventando nervosa, dovevo pensare ad altro se non volevo che iniziassero i flashback.

7…8…9…

“Oh, mi sono risparmiata qualche numero, speriamo che nessuno schiacci il pulsantino della prenotazione” pensai un po’ isterica, iniziando a ticchettare sull’oggetto in metallo in cui era racchiusa la bottiglia come un qualcosa di prezioso.

Avrei voluto dimettermi con tutto il cuore, ma mia madre aveva speso fior di quattrini per la mia riabilitazione ed avevo giurato a me stessa che le avrei restituito tutto.

“Ecco, brava, motivati, vai alla grande, continua così!” mi incoraggiai mentalmente, mentre osservavo la lucina che indicava il numero dei piani spostarsi verso destra.

13…14…15…

Un suono lieve e l’ascensore si fermò, le porte si spalancarono e fui investita da una ventata d’aria fresca.

Guarda caso la stanza che mi occorreva era esattamente di fronte a me, imprecai in tutte le lingue che conoscevo (non erano molte, ma “è il pensiero che conta”, no?), mi serviva un minimo di tempo per prepararmi.

E comunque era solo questione di qualche secondo, avrei dovuto consegnare la bottiglia ed andarmene, tra l’altro non era neanche detto che aprisse lui la porta, avrebbe benissimo potuto esserci l’elegante e raffinata donna dai capelli corvini.

Toc-toc

Non fu difficile, fu come strappare un cerotto, tutto in un colpo. Rapido ed indolore.

Indolore.

Come se bussare ad una porta potesse far male, che cosa divertente.

«Sì?» rispose una voce proveniente dall’interno della stanza.

«La cameriera» risposi atona, alzando giusto un po’ la voce per farmi sentire meglio.

Ci fu un rapido movimento all’interno della stanza, udii il rumore di qualcosa spostato e mormorii, una rapida corsa ed il pomello della porta girò.

«Oh, scusa, sai com’è, un po’ di trambusto» non era stato Oliver ad aprirmi, che coincidenza.

Speravo che non mi parlasse mai più, ma volevo che lo facesse, ne sentivo il bisogno.

Guardai il ragazzo sulla soglia della porta che sorrideva come un ebete, sbatté qualche istante le palpebre, disorientato e poi cercò di formulare una frase quantomeno decente:«Cerchi?».

Non proprio una frase.

Il problema più grave fu che io capii che stesse parlando di qualcosa di circolare, e non che fosse il verbo cercare, quindi rimasi perplessa per qualche istante.

«Ah, forse ti ha chiamato Oliver, ha detto di dirti che puoi affidarla a me la Vodka» affermò grattandosi la testa.

«Mi devo fidare?» scherzai incerta.

«Oh, certo, oltre ad essere bello sono anche un bravo ragazzo!» ribatté.

“Oh, sì, anche modesto” pensai irritata.

Non ero pratica di interazioni umane e soprattutto non volevo diventarlo.

Una volta suonavo la chitarra nei pub, ero anche abbastanza brava, mi voleva bene tantissima gente e non ero mai sola.

“Ho temuto che soffrissi di ecmnesia[1]” aveva detto una volta la psichiatra, Carol; “Lo ho temuto davvero, invece è solo che non hai voglia di vivere nel presente” non che mi fossi sentita istantaneamente meglio.

Non avevo voglia di vivere, fine. Solo che il passato sembrava migliore e la mia mente non era masochista.

«Sono Jordan, piacere!» mi porse una mano, nella quale accomodai la bottiglia di Vodka, con molta grazia.

«Chelsea» risposi con cortesia, sorridendo.

Beh, se non altro era davvero carino.

«Mi farebbe piacere offrirti qualcosa da bere un giorno di questi» aggiunse sbilanciandosi un po’ troppo, per i miei gusti. Ci pensai su seriamente; erano passati secoli da quando, l’ultima volta, un ragazzo mi avesse invitato da qualche parte a fare qualunque cosa ed io avessi accettato: la depressione aveva preso il sopravvento.

Che debole ero stata, da sempre, era un tratto principale del mio carattere, forse il tratto caratteristico, addirittura. Ciò che si poteva benissimo affrontare, per me diventava un problema insormontabile, mi richiudevo in un guscio di eterna angoscia ed apatia e semplicemente smettevo di respirare.

Uno stato di passività inarrestabile si iniziava a diffondere nello sguardo, per poi diramarsi in tutto il corpo.

«Qualcosa da bere?» domandai per essere sicura di non aver sentito male.

Poi mi ritornò in mente qualcosa.

Oliver.

Oliver.

No, cavolo, non potevo, non potevo accettare.

«Sì, certo, quando vuoi!» annuì amichevole, ticchettando sulla porta di legno con le dita.

«Ci penserò su, ora devo tornare a lavorare, ciao ciao Jordan» conclusi salutandolo con la mano e non lasciandogli nemmeno il tempo di spiccicare una parola.

Non avrei di certo accettato.

***

«Mamma, sono a casa!» volevo solo rotolarmi per terra e piangere disperatamente, la cosa grave era che non fosse una novità.

“Sigarette” pensai nervosa “dove cazzo sono le mie sigarette” imprecai correndo nella mia camera alla ricerca di pacchetti sopravvissuti al nervosismo.

«Chelsea!» riconobbi all’istante la voce di Matt, mio fratello, che mi corse incontro saltandomi letteralmente addosso e facendomi cadere in modo decisamente impacciato sul letto.

«Matt, sei venuto a trovarmi!» strillai emozionata, quasi con le lacrime agli occhi.

«Mamma non te lo ha detto?» storse la bocca ed allentò la presa strangolatrice.

«Sì, ma è stata una giornata estremamente pesante, ero sovrappensiero» ribattei continuando la mia ricerca disperata di nicotina per la stanza.

«Hai voglia di parlarne?» scossi la testa ed agguantai un pacchetto semipieno.

Diana” commentai tra me e me “Che merda”.

Dovevo accontentarmi.

«Niente, ho visto Oliver» aggiunsi con nonchalance.

«OLIVER-OLIVER?» urlò come in preda ad un attacco di panico.

«Lui».

Non aggiunsi nient’altro, finii la sigaretta sotto il suo sguardo premuroso e, dopo aver constatato che mamma era andata a dormire già da un po’, mi infilai sotto le coperte, insultando la sveglia a caso anche se, poverina, la colpa non era sua.

***

«Chelsea, sai mica se sei tu la ragazza della canzone?» disse Jordan appena misi piede nell’hotel, il giorno seguente.

«Mi fai gli attentati? Sei mica un gatto?» domandai dubbiosa ed un po’ pensierosa.

«No, passavo per caso» protestò poco credibile.

«Sì, certo» camminai spedita verso lo spogliatoio, ma il bel ragazzo mi seguì imperterrito.

«Allora, sei tu?» chiese un’altra volta.

«Cosa?» non avevo ascoltato una parola di ciò che aveva detto in precedenza.

«La ragazza della canzone» ripeté, armatosi di pazienza.

«Che canzone, scusa?» ero seriamente incuriosita, perciò mi fermai ad osservarlo.

«Non ascolti i Bring Me The Horizon?» la sua voce dava per scontato che fosse quasi un sacrilegio, un eresia o quant’altro.

«No, non mi piacciono» ribattei spietata.

«Beh, Oliver mi ha fatto intendere che vi conoscete, conoscevate… e… comunque, c’è una canzone che si chiama Chelsea smile, ti ricorda qualcosa?»

 

Il prato era decisamente troppo umido per rimanerci coricata a lungo, ma a me non importava.

Ero felice e a me non importava di nulla.

Avevo un cuore funzionante.

Le sigarette appresso.

La lettera scarlatta tra le mani.

Il sole sul viso.

Non importava cosa stesse succedendo intorno, dietro, davanti a me, non era di mia competenza.

«Chelsea, sorridi!» scattò qualcosa come duemila fotografie quel giorno e “Per immortalare come sei, come sono, come saremo”, dicevi; “Basta che non ti tagli i capelli corti, sembreresti un coglione”, rispondevo chiudendo il discorso.

«Oliver, dov’è Matt?» chiesi preoccupata, lui indicò un posto troppo lontano dalla parte del sole accecante.

«Mh, bene. Facci un album con quelle foto, ci scrivi qualche cazzata poetica delle tue e lo metti nel cassetto delle mutande» biascicai assorta nella lettura del mio libro.

«Oh, mi sembra un’ottima idea! Lo chiamerò “Chelsea smile”» saltellò eccitato.

«Il motivo?» domandai curiosa.

«Non sorridi mai, è rara come cosa» mi sfotté.

«Vaffanculo» fu l’ultima cosa che dissi prima che lui si addormentasse accanto a me, su un asciugamano a righe blu.

 

«No, non mi ricorda nulla. Proprio nulla, mi spiace» corsi verso lo spogliatoio e mi svestii quasi con rabbia.

Com’era possibile?

*-*-*-*

HEILA’!

E’ da un po’ che non ci si vede, ne son consapevole.

Cioè, se non arriva l’ispirazione non arriva, non ci sono santi.

 

Spero voi stiate Bennet :’D*

*Ahah, come sono simpatica, cavolo, proprio divertente!

 

Io sto male. Penso di essermi ammalata di depressione.

 

Come avete passato il capodanno?

Con amici? Parenti? Amanti? Amati?

 

Io con amici e amati non ricambianti xD (SONO UN CASO DISPERATO, GENTEEE!)

 

p.s. Non sono informata sulle vicende dei BRIMMEDEORAISON, ma ho letto di un certo Jordan Fish, del quale non sapevo l’esistenza xD babè :D

Concludo augurandovi un buon 2014, sperando che vi sia piaciuto il capitolo, ci vediamo alla prossima, ciaociao :*

 

Ciao. Fiocco.

http://www.youtube.com/watch?v=Wz9XHRBehoc

 

Judy.



[1] L'ecmnesia è un disturbo della memoria, di tipo allucinatorio, in cui alcuni soggetti sperimentano i ricordi del passato come esperienze attuali: in altre parole il passato si manifesta come se fosse presente.

Da Wikipedia.

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