This is sempiternal di Judy Kill Em All (/viewuser.php?uid=163430)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fattori scatenanti ***
Capitolo 2: *** Il passato può risultare dannoso ***
Capitolo 3: *** Cambia la tua vita con un nuovo lavoro ***
Capitolo 4: *** C'è sempre una prima volta ***
Capitolo 5: *** Sorridi Chelsea, ci provano con te! ***
Capitolo 1 *** Fattori scatenanti ***
“Una volta
ero un oceano,
ti dico.
Devo solo aver
pianto troppo,
perché di
me non è rimasto quasi nulla.”
Ballavamo e volteggiavamo
sorridendoci a vicenda, non
sarebbe dovuto essere lì, non sarebbe dovuto essere
lì con me ed in quel
momento, soprattutto, ma giravamo e girava anche la mia testa, la sua
mano era
sul mio fianco ed i suoi occhi nei miei.
«Cosa accadrà
poi?» domandai con un filo di voce trattenendo
a stento le lacrime, strinsi i miei occhi fino a chiuderli quasi del
tutto.
«Non devi preoccuparti di
questo Chelsea, non ti lascerei
sola e comunque non ti potrei dimenticare» mi venne di colpo
da urlargli in
faccia che fosse un ipocrita e che mi avesse rovinato la vita,
però la sua mano
toccava la mia ed il suo profumo era fortissimo.
«Lo hai già
fatto. Lasciarmi sola, intendo» sibilai aprendo
gli occhi di colpo e fissandolo in modo severo, il suo sguardo era
colpevole e
consapevole.
«Non è stata
colpa mia, è successo tutto così in
fretta» la
sua voce tremò così tanto che ebbi paura che si
spezzasse, che si spezzassero
sia sui che la sua voce.
«Io lo sapevo che sarebbe
successo, te l’avevo detto»
replicai fermandomi all’improvviso e dirigendomi verso
l’uscita; sembravo una
bellissima bambola di porcellana in un vestito celeste a sirena che
sottolineava
la mia vita stretta, una bambolina bionda ossigenata ed angelica con le
sigarette nascoste in una tasca interna del vestito personalizzato ed i
soldi
per una bevuta anti-depressione a portata di mano.
«Cosa sapevi eh? Che i
Bring avrebbero sfondato? Lo dici
quasi come se ti dispiacesse, cazzo!» imprecò
inseguendomi fuori dall’edificio
scolastico, lo fissai con gli occhi gonfi di lacrime, esasperata al
massimo.
Restai zitta.
Avrei voluto gridargli in faccia che
lo amavo, che avrei
rinunciato a tutto per lui e forse sarebbe stato giusto dire
“Portami via,
cazzo, se mi porti via con te lascio tutto, te lo giuro, dimmi una sola
parola
e mando a puttane tutta la mia vita per te, i miei progetti, la mia
famiglia, i
miei amici”, ma stetti zitta ed immobile come una statua.
«Dimmi che il tuo non
è egoismo, non lo potrei sopportare»
aggiunse con un filo di voce, mentre in modo nervoso avvicinavo le
labbra al
filtro della sigaretta ed aspiravo.
«Egoismo?»
domandai stupita ed adirata «Parli a me di
egoismo? Ti ho sempre messo prima di tutto e tu mi hai sempre messa
dopo tutti
i tuoi impegni…» aspettò che
proseguissi.
«Dopo le prove, dopo gli
amici e persino dopo quella ragazza
stupida con cui fai sesso in quella cazzo di macchina con cui mi hai
portato al
ballo di fine anno. E non avrei…non saresti dovuto venire.
Andavi a trovare
Lucy, la sbattevi sul letto e la facevi gridare, domani mattina te ne
andavi
via, anche per sempre, lei buttava fuori due lacrime e se ne tornava
dal
quarterback » spensi la sigaretta sul marciapiedi e ne accesi
un’altra.
«Tu eri più
importante» sussurrò avvicinandosi a me,
asciugai le lacrime tinte di trucco nero dai miei zigomi e dissentii
scuotendo
la testa.
«Dovevo rassicurarti,
capisci? Dirti tipo “non me ne sto
andando, ti chiamerò sempre, ti penserò
sempre…”» e io singhiozzai ancora di
più a quel punto, indignata, le prese in giro facevano
sempre male, soprattutto
dagli amici più cari.
«No, no, no, che cazzo, tu
dici un mare di cazzate, e non so
come faccia tu a starci a galla» scossi la testa di nuovo, e
appoggiai la
fronte al suo petto artigliandomi al suo maglione largo e morbido.
«Non ti
dimenticherò» alzò il mio viso per
guardarmi negli
occhi e si avvicinò.
«Se mi baci ora, sappi che
ti odierò tutta la vita. Fino
alla morte, perciò non baciarmi» dissi in lacrime,
senza convincere nemmeno me
stessa. Di sicuro senza convincere lui, perché il suo viso
si avvicinò ancora
di più al mio e mi dovetti ancorare alle sue spalle per non
cadere, le mie
gambe erano improvvisamente molli ed instabili.
«Perché?»
domandò curioso, senza voler davvero conoscere una
risposta.
Non poteva baciarmi, non glielo avrei
mai perdonato. In quel
modo mi stava letteralmente dicendo addio, me lo stava scavando con le
unghie
su tutto il corpo per lasciare cicatrici indelebili. Lo sapeva,
comunque, che
non l’avrei dimenticato.
«Perché mi stai
dicendo addio e io non voglio che tu te ne
vada» conclusi in un bisbiglio, ma lui mi baciò.
Era così bello sentire le
sue labbra sulle mie, così nuovo e
così diverso. Diverso da tutti i ragazzi che con frenesia
spingevano la lingua
contro i miei denti e che percorrevano il mio corpo con le loro mani.
In quel
momento non c’erano lingua, bocche, labbra e denti; eravamo
io e lui, solamente
noi ed un addio che sapeva di menzogne e di un amore di quelli che il
solo
pensarci è sbagliato.
Innamorata di uno sbaglio. Ma ero al
college, sarebbe tutto
passato in fretta, avevo tutta la vita per realizzare e demolire sogni.
Comunque il giorno seguente se ne
andò, lasciando solo una
busta profumata di vaniglia imbucata a mano nella mia cassetta delle
lettere ad
un’ora imprecisa della notte.
Nella busta un ciondolo a forma di
spada argentata ed un
minuscolo biglietto blu con poche parole scritte in bianco, con una
calligrafia
poco leggibile:
Combatti sempre.
Oliver.
E sulla spada argentata
c’era una lacrima, poi due, poi
avevo bagnato tutta la busta e poi ero rientrata in casa: aveva
iniziato a
piovere.
*-*-*-*
Ciao a tutti bei bimbi tenerelli :D
(Oddio, sembro una sclerata mentale
<3 <3)
No, non sono pazza! *Mette il
mantello e vola fingendo di
essere Superman*
E comunque, visto che siete stati
stellinosissimi e bravi
con me ho deciso di iniziare un’altra long YEEEE :D
No, mi porterà via un
sacco di tempo da FISICA u.ù Che
peccato, direi <3
Tra l’altro, una piccola
precisazione: ci saranno tanti
flashback riguardanti scene prima di questa *indica con il ditino le
righe
scritte sopra* e sempre questa sarà solo un piccolo prologo
per spiegare in
breve ciò che accadde prima.
Eh, no,
non posso partire così a muzzo.
Allora vi saluto e gradirei (*---*)
tante recensioni e
consigli sulla trama, perché la mia mente è attualmente confusa.
Arrivederci!
Judy <3 <3 <3
|
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Capitolo 2 *** Il passato può risultare dannoso ***
«Ciao a tutti...mi chiamo
Chelsea…» mi guardai intorno
disorientata e mi sentii improvvisamente insicura e fragile come non lo
ero mai
stata. Mi sfregai le mani in modo nervoso e mi mordicchiai un labbro.
«Ciao Chelsea!»
risposero tutte le persone intorno a me, mi
fissavano e sembravano tranquille, felici, senza problemi; per un
istante
sentii le ginocchia cedere, ma strinsi i denti: il mio discorso non era
ancora finito.
«Vengo dallo stato del
Nevada, in un paesino vicino Las
Vegas. Mio padre era dipendente dal gioco, morì quando io
avevo tredici anni;
mia mamma invece è brava e mi vuole bene» deglutii
e strinsi fortissimo gli
occhi, odiavo che la gente mi guardasse incuriosita ed in quel momento
sembrava
che tutti volessero leggermi dentro, non lo potevo sopportare.
«Io ero una
tossicodipendente ed un’alcolizzata e sono
venuta qui per dimostrarvi che con il giusto lavoro tutto
può essere
combattuto» sorrisi allegramente.
«E soprattutto, oltre ad
essere qui come dimostrazione di
come il duro lavoro possa dare risultati più che
soddisfacenti, sono qui perché
voi mi poniate domande di qualsiasi genere» strinsi tra le
dita la piccola
spada argentata legata al collo con un sottile filo nero: ci
giocherellavo
spesso quand’ero nervosa o imbarazzata.
Tutta la gente intorno a me, mi
guardò con ammirazione e non
potei fare a meno di pregare che qualcuno rompesse
quell’imbarazzante silenzio.
«Io avrei una
domanda!» a parlare era stato un uomo sulla
quarantina, alto e virile, con il viso squadrato e senza barba.
«Dimmi pure»
sorrisi mettendo in mostra i denti bianchi.
«Chi ti ha aiutato?
Insomma, non si può combattere tutto in
solitudine» si guardò i piedi a disagio ed attese
paziente la mia risposta.
«Mia mamma, mi ha sostenuto
per tutto il tempo» risposi con
la voce colma di gratitudine nei confronti della donna che aveva
sacrificato
tutto per me.
«E dimmi, come hai fatto a
tenerti stretta gli amici?»
domandò una donna giovane, avrà avuto circa
trent’anni portati benissimo, anche
se pareva un po’ sciupata. Aveva le occhiaie e la pelle tesa
sul viso scarno,
ma i suoi bellissimi occhi celesti racchiudevano la forza del mare e la
sua
imprevedibilità.
«Non ci sono riuscita, sono
scappati tutti» ammisi con
tristezza; in quel momento avrei voluto afferrare quel maledetto
ciondolo e
bruciarlo per non vederlo più. Era come una potente
maledizione: più lo tenevo
addosso più mi ricordava di quanto la gente facesse male,
più mi sentivo vuota.
Avevo solo più mia madre,
la mia psichiatra ed un enorme
gatto completamente nero, con il pelo lucidissimo, perché
è risaputo: in casi
di carenza d’affetto gli animali domestici sono la cura
migliore.
Nonostante tutto, però,
continuavo a sentirmi sola.
«Chelsea,
non correre!
Non sono più giovane come una volta!»
gridò il ragazzo con i capelli scuri
mentre mi rincorreva e con una mano cercava di non fare cadere il
cappello dalla
sua testa: l’unico riparo dalla pioggia pungente.
«Un
ombrello non te lo
potevi portare?» domandò sempre urlando; cercava
di raggiungermi, ma ero troppo
veloce per lui e comunque non avrei voluto che mi afferrasse: mi
avrebbe preso
in braccio e buttato di peso in una pozzanghera, tanto per farmi
pentire di non
averlo ascoltato.
«Hai
solo un anno in
più di me, idiota!» esclamai ridacchiando, ma non
mi voltai, era buio e correvo
troppo veloce per potermi permettere di non cercare eventuali ostacoli
di fronte
a me.
«Cosa
vuol dire? Ho
avuto le prove oggi, ho i polmoni stanchi!» disse a gran voce
per poi fermarsi
con il fiatone e le ginocchia semipiegate per riprendere fiato.
«Sei
ancora più
idiota, dovresti essere allenato dato che canti. Idiota!» mi
fermai ridendo e
alzai la testa per guardare la pioggia che cadeva.
«E
tu dovresti essere
con i polmoni fatti di catrame, dato il numero di sigarette che
fumi» rispose
venendomi incontro camminando lentamente, mi abbracciò e
storsi il naso.
«Merda,
sei fradicio»
mi lagnai cercando di non appoggiare la guancia sulla sua felpa umida.
«Vaffanculo,
come
fosse colpa mia, tu e le tue cazzo di idee da psicopatica, ma dico:
alle tre di
notte ti svegli e mi chiami per uscire?» disse respirando sui
miei capelli.
«Che
cazzo ci facevi
tu sveglio alle tre di notte e soprattutto sotto casa mia?»
domandai con voce
colma d’ironia; lui ridacchiò ed iniziò
di nuovo a correre, sospirai divertita
e lo inseguii: ci avrei rimesso in salute, ma ne valeva la pena.
«Ohi, tutto
bene?» domandò una voce familiare a pochi
millimetri dal mio volto, spalancai gli occhi e sobbalzai: ero in una
stazione
situata in una zona periferica della città, seduta su una
fredda panchina in
pietra ruvida, mi ero addormentata.
«Mh?» domandai
disorientata; mi guardai intorno, a parlare
era stata una donna bionda, bassa ed un po’ robusta, ma nel
complesso bella e
armoniosa.
«Ti sei addormentata per
farmi sentire in colpa? Sono in
ritardo di qualcosa come cinque minuti!» esclamò
incrociando le braccia al
petto.
La donna in questione era Carol: la
mia psichiatra ed unica
amica rimasta; era tornata da un viaggio di qualche giorno in Francia e
mi ero
offerta di andarla a recuperare in quel luogo vuoto e desolato, tanto
per farle
vedere com’ero stata brava a combattere la mia
“ansia-da-luoghi-poco-popolati”
o come l’aveva chiamata lei.
«Mh, no, è che
sono arrivata con un’ora d’anticipo o
qualcosa di simile» risposi stropicciandomi gli occhi,
assonnata, spalmandomi
tutto il trucco nero sulle guance, gli zigomi e la fronte; mugugnai con
disappunto e cercai di ripulirmi il viso.
«Sono fiera di te. Sognavo
di arrivare e vederti con una
decina di chili in più, ma anche questo va bene»
rispose sorridendo serena, mi
alzai e la seguii; destinazione: il bar preferito da Carol. Uno di quei
bar da
tè caldo e cupcakes ad ogni ora del giorno.
«Ho preso sette
chili!» ribattei indignata.
«Precisa: in due
anni!» sbottò grattandosi la testa.
Mi ero ammalata di anoressia due anni
prima e da allora non
ero riuscita ad uscirne. Ero uscita dal giro della droga,
dell’alcool, quindi
di conseguenza dai sogni ad occhi aperti a tutte le ore e dal non
sapere più in
che luogo fossi.
«Però ammetto di
essere magra, mi piaccio abbastanza» ammiccai
serena, ricevendo un sorriso di approvazione da parte della donna
accanto a me.
Dopo pochi minuti entrammo nel locale
ed il barista ci
salutò con familiarità, ci sedemmo ad un tavolo.
«Come vanno i
sogni?» chiese lei ad un certo punto, dopo
aver ordinato due tè caldi ed una valanga di dolcetti per lei, ovviamente.
«Vanno e vengono,
più vengono che vanno, ma va bene così»
feci spallucce e mi scrocchiai le dita delle mani ghiacciate.
«Dovresti essere meno
sensibile» mi riprese puntando un dito
verso di me.
«Dovrei. Ma mi sento
così vuota» rimasi pensierosa qualche
istante con lo sguardo perso nel vuoto, poi intercettai il cameriere
che si
dirigeva verso di noi con un vassoio stracolmo, gli sorrisi gentilmente
e lui
appoggiò quella torre di dolci in centro al tavolo.
«La gente è
cattiva, cara» ammise tirando un sospiro.
«Lo è»
assentii.
Calò un silenzio
estremamente naturale e leggerissimo, durante
il quale il tavolo fu ripulito da ogni traccia di cibo.
«Senti, mi
potresti…» iniziai con indifferenza.
«Hai finito le
sigarette?» domandò prevedendo la mia
domanda.
«Già»
feci spallucce.
«Ti accompagnerò
dal tabacchino» sorrisi allegra e le nostre
gambe ci guidarono spontaneamente alla meta designata. Vivevo in quel
luogo da
pochi anni, ma conoscevo la città come le mie tasche e,
soprattutto, mi sentivo
a casa.
***
Penso fossero le quattro del mattino
quando il mio telefono
squillò, anzi, vibrò.
Ero nel bel mezzo di un sogno
fantastico nel quale sputavo
fuoco o qualcosa di simile, ma dettagli, l’importante in quel
momento era
sterminare l’idiota che mi aveva svegliata nel bel mezzo
della notte.
«Chi cazzo
è?» domandai dopo aver premuto il tasto per
rispondere e aver avvicinato il telefono all’orecchio.
«Chi parla?»
domandò una voce sconosciuta, bassa e
caldissima: sicuramente di un uomo.
«Scusa? Mi chiami e poi mi
chiedi chi parla?» chiesi con una
voce da coma, appena irritata.
«Io
veramente…» aggiunse intimorito l’uomo
con cui stavo
avendo quell’illuminante conversazione.
«No, tu veramente un paio
di palle. Mi chiamo Chelsea, se
cercavi me dimmi, se no lasciami dormire, sono le quattro,
cazzo!» imprecai,
impaziente di tornare ad essere un mistico dragone imbattibile.
«Chelsea?» disse
sorpresa la voce.
«Non la
squadra» aggiunsi con ironia, attesi qualche secondo.
«E’
lei?!» domandò una seconda voce al telefono,
sbuffai
irritata e riattaccai, per precauzione spensi anche il telefono. La
gente non
smetteva mai di stupirmi.
*-*-*-*
CIAOGENTEBELLISSIMA.
Ciao.
Parto dal fatto che sono provata dal
lungo ed intenso studio
di… FISICA, sì, esatto!
E magari vi chiederete “Ma
la perseguita?” (no, lo so, non
ve lo starete chiedendo, ma sì, fate finta di sì.
CHIEDETEMELO, PLS).
Così magari mi
sentirò meno sola e potrò fingere di avere
una vita sociale soddisfacente.
Ah, avete provato il nuovo wechat? (Ve lo chiedo così a
caso).
Perché mi stanno
aggiungendo tutti turchi quarantenni, uno
spasso. Il mio pollice non è mai stato tanto felice di
premere il tasto
“BLOCCA”.
Ah, sì, parlando della
storia.
La parte in corsivo
sarebbe un flashback-sogno…Un sognashback
oppure un flogno, come
preferite.
Che narra di tempo prima del primo capitolo (?)
Di come il piccolo Olly abbia fatto
beccare un’allegra (:DD)
polmonite a Chè. Ma lei è comunque felice.
Ehm, poi…giusto, la
chiamata misteriosa alle quattro di
notte (tra l’altro perché proprio a
quell’ora?) LO SCOPRIRETE NELLA PROSSIMA
PUNTATA.
Bacioni.
(E recensite, non vi mangio, ve lo
giuro)
I lied.
Judy
Kill
Em All.
|
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Capitolo 3 *** Cambia la tua vita con un nuovo lavoro ***
«Che
ore sono?» non
vedevo nulla, era buio pesto.
«Saranno
le quattro,
penso» rispose il ragazzo di fronte alla finestra, del quale
vedevo solo
l’ombra. Si avvicinò a me con le mani avanti per
non andare a sbattere contro
nessun mobile.
«Che
ci fai sveglia?»
chiese poi, sedendosi sul letto accanto a me.
«Che
ci fai a casa
mia?» lo interrogai, ignorando la sua domanda.
«Hai
lasciato la
finestra aperta, fa molto film americano, ma mi sono arrampicato
sull’albero e
sono entrato» ridacchiò.
«Così
hai risposto
alla domanda “Come sei entrato?”»
puntualizzai mettendomi a sedere ed
accendendo la luce soffusa dell’abat-jour, mi stropicciai un
occhio e
sbadigliai.
«Non
essere
puntigliosa» si lamentò togliendosi il solito
cappellino di lana che teneva
costantemente in testa.
«Sei
fuggito da Lucy
in piena notte, sei un pessimo amante» lo rimproverai
scuotendo la testa con
disappunto.
«Sei
meglio tu» ammise
coricandosi al mio posto e spingendomi giù dal letto.
«Josh
non
approverebbe, dice di amarmi» mi alzai e mi sedetti di peso
sopra al suo
stomaco.
«Ti
amo di più io di
quanto lo faccia quel coglione» scherzò
dimenandosi sotto il mio peso. Avrei
voluto che non scherzasse, perché mentre ridevo i miei occhi
chiedevano
gentilmente di farmi sparire.
«Portami
al mare»
proposi seria.
«E’
lontano e l’alba è
troppo vicina, ho la piscina riscaldata a casa, va bene lo
stesso?» domandò
alzandosi in piedi all’istante. Sorrisi ed afferrai un
costume da bagno dalla
scatola di cartone sotto la scrivania, uscii dalla finestra e saltai
sull’albero.
«Non
ti ammazzare!» mi
ammonì; saltai dal ramo sul quale ero appoggiata ed atterrai
con grazia,
illesa.
«Chelsea, amore?»
il lenzuolo era tutto arrotolato intorno
alle mie ginocchia ed ero sudata fradicia.
«Dimmi» mugugnai
rivolta alla voce che riconobbi essere
quella di mia madre.
«A che ora hai il
colloquio?» a quelle parole sobbalzai
all’istante, afferrai il telefono per controllare
l’ora e…era spento.
«Cazzo!» imprecai
alzandomi in fretta e furia dal letto ma,
essendo che le lenzuola avevano perso la loro funzione primaria,
trasformandosi
in una camicia di forza, il risultato della mia azione fu una caduta
terribile
e soprattutto molto dolorosa.
«Mamma, che ore
sono?» domandai cercando inutilmente di
alzarmi da terra il più rapidamente possibile.
«Le otto» rispose
sogghignando e porgendomi una mano per
aiutarmi a tornare in piedi.
«Porca merda, è
alle otto e trenta, aiuto, mamma ho tanto
una faccia da coma?» domandai correndo in bagno per
verificare a che profondità
erano riuscite ad arrivare le mie occhiaie e, tutto sommato, erano
quasi dei
leggeri segni scuri: niente di incorreggibile.
In tempo zero mi lavai, mi vestii e
mi truccai in modo quasi
accettabile, per poi correre a perdifiato fuori dalla porta di casa e
ricordarmi che senza le chiavi della macchina, con molta
probabilità, non
sarebbe partita.
Alle otto e venti ero in macchina,
con il fiatone,
completamente stravolta.
Appena accesi la macchina partii in
quarta: mi ci sarebbero
voluti comunque più di venti minuti per arrivare a quel
maledetto colloquio.
Per di più si sarebbe tenuto in un hotel di quelli a cinque
stelle,
prestigiosissimi; ci mancava poco che per entrare ci fosse
l’obbligo della
scansione della retina, quindi la puntualità era
d’obbligo.
Mi ero domandata ininterrottamente
come diamine avessi fatto
a farmi convocare per un colloquio di lavoro; il mio curriculum
comprendeva
principalmente fast-food. Ovvio, prestigiosi fast-food, famosissimi ed
acclamati in tutto il mondo: il McDonald, per esempio.
Appena giunta a destinazione, entrai
nel parcheggio interno
con la mia auto di seconda mano che sfigurava rispetto tutte le
automobili
nuove di zecca e tirate a lucido di chi lavorava in quel posto.
«Posso esserle
utile?» ad accogliermi fu un uomo molto
carino, alto e dai lineamenti delicati, con un sorriso a trentadue
denti così bianco
ed abbagliante, che avrebbe fatto sfigurare anche la neve.
«Sì»
risposi sorridendo gentilmente «Sono qui per il
colloquio…» iniziai a spiegarmi, ma fui subito
interrotta dal ragazzo che,
intimandomi di seguirlo, mi scortò attraverso
l’enorme hall coloratissima e mi
fece accomodare in uno studio molto piccolo con solo una scrivania e
due sedie:
una da un lato ed una dall’altro.
«Può attendere
qui, il direttore la raggiungerà tra un
istante» mi congedò e tornò al suo
lavoro abituale.
L’ambiente era veramente
spoglio e povero, l’unico elemento
caratteristico sarebbe potuta essere l’enorme finestra che
illuminava a tal
punto l’ambiente da far sembrare la stanza
all’aperto.
Il direttore, un uomo poco
più basso di me, di corporatura
robusta, arrivò dopo qualche istante e si sedette
dall’altro lato della
scrivania.
«Lei deve essere Chelsea
Adams, dico bene?» domandò
strizzando gli occhi per mettere a fuoco il nome stampato sul foglio di
carta
che stava esaminando.
«Sì»
risposi annuendo.
«Mh. E’ stata
convocata per un motivo» quando pronunciò
questa frase per poco non scoppiai a ridere, insomma, era
l’ovvietà in persona
quell’uomo!
«Abbiamo degli ospiti
speciali questa settimana e abbiamo
bisogno di bella presenza. Come cameriera» sorrisi
forzatamente alle parole
“bella presenza”, sembravo appena uscita da un coma
data la mia forma fisica ed
il mio viso troppo magro, mi sarei definita qualunque cosa,
fuorché di presenza
gradevole.
«Bene» commentai,
allentando appena la collana che
improvvisamente era diventata troppo soffocante.
«Pensa di essere in
grado?» mi domandò con aria di
inquisizione, scrutandomi da dietro un paio di occhiali da vista con le
lenti
pulite ed una montatura elegante.
«Di servire ai
tavoli?» chiesi in risposta, un po’ stupita.
«Beh, in poche parole
sì, quello» mostrò i denti in un
sorriso un po’ tirato e troppo nervoso per passare come
sincero.
«Penso di sì,
certo» risposi annuendo allegra, forse era una
giusta svolta nella mia vita, per una volta.
***
«Ciao, piacere, io mi
chiamo Marco e sono italiano» disse un
ragazzo di appena una ventina d’anni con un marcato accento
che confermava ciò
che aveva detto nella sua presentazione.
«Ehm, io sono Chelsea, sono
americana» dissi salutando con
la mano in modo nervoso.
Nemmeno io avevo capito bene cosa
fosse successo: quell’uomo
dall’altro lato della scrivania, illuminato dalla fortissima
luce del sole si
era alzato in piedi e mi aveva stretto la mano, mi aveva sorriso
sfregandosi le
mani e aveva detto qualcosa come “Allora arrivederci, ci
vediamo domattina alle
otto, gli ospiti saranno qui dopodomani, avrà abbastanza
tempo per far pratica,
mi auguro”, mi aveva cacciata malamente fuori dal proprio
“studio” e mi ero
ritirata, un po’ perplessa.
E in quel momento avrei voluto
sotterrarmi: indossavo una
divisa datami in dotazione, completamente diversa da quelle viste nei
film, che
fanno sembrare ogni ragazza professionale e bellissima.
«Ora ti presento lo staff,
seguimi!» iniziò ad andare avanti
ed indietro per la cucina a passo svelto, schivando abilmente i vari
scaffali
che io, ovviamente, presi in pieno con qualunque parte del corpo.
«Lui è
Jenn» indicò un uomo di colore alto ed imponente,
con
le braccia spesse quanto le mie gambe messe insieme. Forse anche un po'
di più.
«Ciao» mi
salutò con voce bassissima ed un lieve sorriso,
ricambiai il saluto timidamente.
«Lei è
Ann» mi salutò una donna di circa quarant'anni,
magra,
bassa con i capelli scuri legati in un elegante chignon, la salutai a
mia volta
allegramente.
«Ann ti insegnerà
come relazionarti con la cucina, ti affido
a lei» finì il suo discorso che sembrava un testo
imparato a memoria e se ne
andò, tornando alla sua postazione.
Solo quel giorno, in un’ora
e mezza ero stata sballottata a
destra e a sinistra ed affidata a circa otto persone differenti, roteai
gli
occhi al cielo e mi avvicinai alla mia nuova insegnante.
«Piacere, io sono
Chelsea» mi presentai tendendo una mano
verso di lei, la strinse calorosamente e mi scortò in una
sala che non avevo
mai visto: pareti color crema ed enormi lampadari in vetri colorati
davano
un’aria accogliente a quello spazio immenso, tavoli rotondi
di diverse
dimensioni circondati da sedie imbottite di una tinta simile ai muri
ricoprivano parzialmente quell’immenso spazio,. Ero sorpresa,
non ero mai stata
in un luogo del genere.
Anche se era abbastanza presto, alcuni
mattinieri erano già
intenti a fare colazione allegramente, soli o con famiglie ed amici.
«Ci sono poche regole da
ricordare. Primo: avrai questo
palmare dove prendere le ordinazioni, qui clicchi per mettere il numero
del
tavolo; qui scegli se primo, secondo, bevande, contorno, colazione
dolce o
salata…» elencò il tutto contando sulle
dita, parlando sempre più in fretta;
annuii perplessa ed afferrai l’oggetto che mi stava porgendo.
Camminò svelta verso un
tavolo e la seguii; si rivolse ad un
cliente con voce gentile e domandò:«Vuole
ordinare?» per poi segnare
rapidamente con la pennetta su quell’aggeggio elettronico del
quale avrei
faticato ad imparare le funzioni.
«Secondo: devi essere sempre
carina e disponibile, capito? E
sorridere» mi ammonì in modo quasi materno.
«Scusi…»
iniziai a dire, ad un certo punto, pensierosa.
«Dammi del tu, mi sembra di
farmi dare del lei da mia figlia»
scherzò facendomi l’occhiolino.
«Grazie…volevo
chiedere…se c’è già una
cameriera, io a cosa
servo?» ero seriamente dubbiosa.
«Avevano bisogno di
personale per questa settimana, per
portare roba in camera, ai tavoli, cose così. Penso
però che ti terranno,
cercavano qualcuno già da un po’» mi
rassicurò dirigendosi nuovamente in
cucina, la seguii a ruota.
«Cosa succede questa
settimana?» chiesi ancora, cercando di
non inciampare tenendole il passo.
«Arriva qualcuno di famoso.
Mia figlia mi ha detto che è una
band, pensavo fosse un cast di un film. Non mi chiedere il nome, non me
lo
ricordo assolutamente» disse sbrigativa, mi
spintonò in sala e rimasi lì
immobile non sapendo bene cosa fare.
«Vai al tavolo
dodici!» mi intimò indicando con un cenno del
capo un tavolo, in cui un gruppetto di ragazzi poco più
piccoli di me, era
intenzionato a fare colazione.
Rimasi inchiodata sul posto
un’altra manciata di secondi, poi
scossi la testa per darmi una svegliata e mi incamminai un
po’ titubante verso
quei ragazzi felici.
«Buongiorno, sono la nuova
cameriera» mi accolsero con un
grande sorriso che io ricambiai «Volete ordinare?».
Tutto sommato non era un lavoro
così arduo, né così
complicato, era quasi come lavorare nei fast-food, l’unica
differenza erano i
numerosi piatti dai nomi articolati.
“Sei una ragazza
carina” mi disse in confidenza un ragazzo in
quel tavolo, vedendomi impaurita; “te la caverai”,
aveva aggiunto strizzando
poi un occhio ed avventandosi sul suo piatto stracolmo di bacon, uova
strapazzate, salsicce e toast bollenti.
***
«Come è andata
oggi?» domandò mia madre, appena misi un piede
oltre la soglia di casa, sul tappeto rosso con scritto
“Welcome”.
«Bene, penso»
risposi chiudendo la porta alle spalle e
lasciandomi cadere su una sedia, sfinita.
«Mamma, che ci fai ancora
sveglia? E’ mezzanotte» constatai
sbadigliando sonoramente e appoggiando una guancia al tavolo fresco.
«Ti volevo aspettare. Ha
provato a stare sveglio anche Matt,
ma non ci è riuscito, voleva salutarti, era stanco per il
viaggio» sorrise e
posizionò di fronte a me una tazza di tè fumante.
Strabuzzai gli occhi e per
poco non gridai.
«Matt è
qui?» per un istante ebbi la tentazione di andarlo a
svegliare, ma mi trattenni.
Matt era mio fratello minore, aveva
ventiquattro anni e, tre
anni prima, si era trasferito in Germania, ad Amburgo; ci sentivamo
spesso al
telefono anche se, ultimamente, tra il suo lavoro ed i miei impegni
avevamo completamente
smesso di tenerci in contatto e la mancanza era stata avvertita da
entrambi.
Bevvi qualche sorsata di quella
deliziosa bevanda calda e mi
alzai, contenta di andarmi finalmente a coricare.
«Ah, Chelsea, hai lasciato
il telefono a casa, hanno chiamato»
disse mia madre prendendo un foglietto con su appuntato qualcosa dalla
mensola
in marmo della cucina.
«Chi?» domandai
curiosa afferrando quel pezzetto di carta.
«Era un ragazzo, ha detto di
lasciarti questo messaggio, ha
detto che non era urgente» rispose lei, facendo spallucce.
Andai verso camera mia spogliandomi
strada facendo e
disseminando vestiti lungo tutto il percorso; appena arrivai mi sedetti
sul
letto e lessi quel curioso biglietto.
Un numero di telefono e basta,
nient’altro.
Subito pensai alla telefonata di due
sere prima ed un brivido
mi percorse la spina dorsale, avevo una strana sensazione: non volevo
chiamare
quel numero.
Mi coricai sul letto sfatto dalla
mattina e chiusi gli occhi
indecisa, non capivo chi potesse essere a chiamarmi da un numero
privato in
piena notte, ma volevo capire se fosse eventualmente collegato al
numero sul
foglietto.
“Dormi, dormi, sei stanca,
domattina te ne occuperai” pensai
ardentemente; mi addormentai all’istante, ero troppo stanca
per restare sveglia
un secondo di più.
***
Ovviamente mi svegliai in piena notte,
tormentata dal
pensiero di chi mai avesse potuto essere il ragazzo misterioso.
“Al diavolo, io
chiamo” pensai, per niente preoccupata di che
ora fosse.
Composi velocemente il numero e attesi.
«Servizio
di segreteria
telefonica…» rispose una voce metallica.
«’Fanculo»
imprecai strappando il foglietto sul quale era
impresso il numero a penna e gettandolo nel cestino.
*--*--*--*
Gente!
Come state miei pargoli adorati?
(Quanto è bella la parola
pargoli?)
Io spero che stiate bene,
perché siete davvero bellissimi,
tutti quanti.
[Della serie: “Mi state
simpatici, vi ucciderò per ultimi”]
E sì, hell, sono cosciente
del fatto che in questo capitolo
NON SIA SUCCESSO NULLA DI COSTRUTTIVO.
Ma i capitoli di transiziooooone
sono assolutamente (u.ù) d’obbligo.
E comunque siate clementi, ho avuto
per un’intera giornata la
tastiera impostata tipo in afgano o qualcosa del genere e praticamente
schiacciavo l’apostrofo ed usciva il trattino, il trattino ed
usciva il punto
interrogativo. Pensavo di morire, ma per vostra (s)fortuna sono ancora
qui viva
e Vegèta.
(Sì, è vecchia e
triste questa battuta)
Comunque io ho sempre preferito Vegeta
a Goku, perché è molto
femminile e gaio <3
No, cavolo, perché mi perdo
nei discorsi?!
Allora, dicevo, non è
successo niente di che perché il bello
arriverà nel capitolo numero 4, quindi aspettatelo
con ansia, intanto vi lascio qualcosa di amabile:
http://www.youtube.com/watch?v=poZLiypLJzQ
& anche questo
http://www.youtube.com/watch?v=ye0XhDdbFs4
e basta.
Arrivederci
:*
Judy
Kill Em
All.
|
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Capitolo 4 *** C'è sempre una prima volta ***
Primo giorno ufficiale di lavoro,
inutile a dirsi, ma ero
tesa come una corda di violino.
Non avevo idea di cosa mi aspettasse
in quel dannatissimo
luogo; il giorno precedente mi avevano fatto tutti un’ottima
impressione,
tralasciando il capo supremo, il Signor vi-guardo-male-inutili-plebei.
Ero così agitata che persi
le chiavi di casa e le cercai per
una ventina di minuti in giro, per poi ritrovarle sul tavolo della
cucina, in
bella vista.
Speravo anche che Matt si svegliasse e
mi abbracciasse
dicendo qualcosa come “Buona fortuna sorellona” o
comunque una frase da film,
di quelle studiate per ore, che dipingono istantaneamente un sorriso e
lo
modellano facendo comparire due meravigliose fossette sulle guance.
Io comunque non avevo fossette, ero
troppo magra.
Per mia fortuna mi ero svegliata
presto, con circa quaranta
minuti in anticipo ed ero riuscita ad uscire di casa ad
un’ora più che decente.
Cercai di andare più lentamente possibile con la macchina,
ma il percorso mi
sembrò durare pochi secondi, lasciai anche attraversare
tutte le vecchiette
sulle strisce pedonali, anche se sembrò non funzionare.
“Maledette vecchiette, non
sono più come una volta” pensai
irritata, la maggior parte erano più attive e arzille di me.
Arrivata all’hotel
parcheggiai perfettamente, calcolando
quasi le distanze auto-muri per ritrovarmi perfettamente al centro del
parcheggio; pensandoci mi sentii istantaneamente una squilibrata
mentale, ma
poco importava.
Scendendo dalla macchina mi accorsi di
una folla di gente
all’entrata principale dell’hotel e capii
all’istante il motivo per cui mi
avessero fatto entrate dal cancello secondario, di dimensioni
più ridotte, ma
comunque imponente.
Feci spallucce e, con le mani in
tasca, mi incamminai verso
il portone d’ingresso, le cui insegne dorate luccicavano
grazie al sole
mattutino.
«CHELSEAAAAA!» mi
voltai verso destra e riconobbi Ann, che
correva nella mia direzione come una forsennata.
«Ehi!» la salutai
con la mano e sorrisi, non capendo la
preoccupazione nella sua voce.
«Judy si è fatta
male e in più sono in anticipo!» disse.
Io annuii non capendo una parola,
comunque penso si fosse
accorta dalla mia espressione che avrebbe dovuto dare spiegazioni,
perciò
continuò il suo monologo con voce squillante ed in modo
rapido:«Quella che fa i
letti, mette in ordine le camere».
«Oh» risposi
cercando di non pensare cosa mi sarebbe toccato
fare.
«Senti, sono appena arrivata
anche io, l’ho saputo ora dal capo
e mi ha obbligato ad andare a sostituirla! Muoviti, serve una cameriera
al
posto di due, dovrai fare il doppio lavoro, cambiati in meno di un
secondo!»
strillò attaccando le parole l’una
all’altra e facendo in modo che afferrassi
il concetto, ma non capissi perfettamente tutto.
«Sono in ritardo?»
domandai spaesata.
«No, in anticipo di trenta
minuti» concluse voltandosi verso
la porta dell’hotel.
Strabuzzai gli occhi incerta sul da
farsi, ma ad un’occhiata
omicida di quella fantastica donna iniziai a correre in direzione dello
spogliatoio.
“Ho una calamita per la
sfiga, giuro” imprecai aprendo
violentemente la porta della stanza davanti al bagno.
Mi sfilai i vestiti con foga e
abbottonai tutti i bottoni
della camicia bianca; inaspettatamente il telefono squillò,
sbuffai irritata e risposi
frettolosamente.
«Pronto!» gridai
quasi.
«Parla Chelsea
Adams?» domandò la voce dall’altra parte.
«Sì, certo, chi
chiama?» chiesi dubbiosa aggrottando le
sopracciglia ed intrappolando il telefono tra la spalla e
l’orecchio per
infilarmi la gonna nera.
«Non è molto
importante in realtà» rispose l’uomo.
«Ah, beh, se non
è importante mi può richiamare stasera, no?
Devo lavorare» e riattaccai irritatissima, mi sistemai i
capelli ed entrai in
sala munita di palmare.
Presi qualche ordinazione ed entrai in
cucina per prelevare i
piatti pronti.
«Hai sentito? Sono
arrivati» disse Jenn appena misi piede in
quel luogo che odorava di uova strapazzate, bacon e salsiccia.
«Ma chi?!»
domandai un po’ incuriosita.
«Boh, i tipi. Sono degli
esaltati, mi ha detto Ann. Uno
parlava al telefono, gli altri saltavano sul letto e si rotolavano in
giro
gridando» fece spallucce e continuò a girare con
una frusta in metallo in una
ciotola grigia.
«Urlavano cose strane e
sghignazzavano» aggiunse pensieroso
continuando a mescolare.
«Cose strane? »
domandai riflettendo e facendo lavorare
l’immaginazione.
«Sì, esatto, ah,
dovrebbero essere in sala tra circa otto
secondi, muoviti, questo al tavolo 5, questo al tavolo 8, questo al 10,
questo
al 15, Chelsea, ci sono i bigliettini!» strillò
Marco in presa ad una crisi
isterica, intromettendosi nel discorso. Mi impilò sulle mani
e sulle braccia un
milione di piatti e mi spintonò nella sala, guardandomi
saltellare in modo
buffo con le gambe semidivaricate.
Iniziai a distribuire piatti colmi e
sorrisi alle otto del
mattino, con le gambe che tremavano e la testa che girava.
«Ah, tu la fai con noi
colazione?» domandò Marco dopo
quindicimila giri avanti-indietro dalla cucina. In risposta scossi solo
la
testa debolmente.
«Sei uno straccio, mi chiedo
come faccia tu a stare in piedi,
dai mangia qualcosa!» insistette Ann appena tornata da quella
caotica suite
all’ultimo piano, mentre si ingozzava di uova strapazzate.
Alle otto e trenta.
Mi si rivoltò lo stomaco e
mi dovetti sedere con un bicchiere
d’acqua tra le mani.
“E
mangia sta cazzo di
torta, è buona!” urlò il ragazzo di
fronte a me cercando di ingozzarmi di torta,
ottenendo un risultato pessimo: imbrattarmi la faccia.
“Fa
schifo, è salata!”
mi lagnai sputando briciole ovunque.
“No,
dai, è la torta
del tuo compleanno, l’ho fatta con amore!”
singhiozzò.
Spostai lo
sguardo
verso l’obbrobrio che aveva osato etichettare come
‘torta’: un ammasso di roba
marrone semisciolta in una scatola di cartone di quelle della
pasticceria.
“Ribadisco:
fa cagare,
sul serio” insistetti seria accendendo una sigaretta e
pulendomi il viso con
una mano.
“Sei
una stronza,
potevo fingere almeno!” fece l’offeso e gli passai
la sigaretta.
“Per
essere una torta
di fango era buona” ammisi.
“NON
ERA UNA TORTA DI
FANGO!” si arrabbiò.
“Morirai
se non mangi
mai nulla” concluse poi afferrando la sigaretta accesa.
“Tranquillo,
sono
ancora viva e vegeta”
«Ohi, Chelsea?»
domandò Ann scuotendomi appena.
«S-Sì?»
mi risvegliai da quello stato di semi-trance
stropicciandomi gli occhi.
«Ti sei incantata, tutto
bene?» si premurò di chiedermi, con
fare materno.
Annuii
e sorrisi; ero
stanchissima, dovevo essermi appisolata con gli occhi aperti.
«Tranquilla, tutto a
posto» la tranquillizzai alzandomi per
prendere i piatti colmi di cibo, da consegnare in sala. Mi sentii lo
sguardo di
tutti puntato sulla schiena, ma come se niente fosse li ignorai.
“Che casino”
pensai subito dopo aver messo un piede fuori
dalla cucina, c’era il putiferio più totale: oltre
a non esserci nemmeno un
tavolo libero, di lato ce n’era uno enorme dal quale
provenivano grida da film
dell’orrore. Intuii dovessero ordinare, quindi, consegnati i
piatti, mi
incamminai.
“Penso siano loro. Le
persone normali di solito in posti del
genere si comportano nei modi migliori possibili” la mia
mente iniziò ad
imprecare e mi iniziarono a prudere le mani, cazzo, era un hotel di
gran
classe, non uno zoo.
“E io sono una cameriera di
gran classe, non una cameriera
del cazzo, quindi li tratterò come tutti gli
altri” mi risposi vaneggiando.
Con ironia.
Più mi avvicinavo
più sentivo quei volti familiari, passo
dopo passo, respiro dopo respiro riscoprivo immagini archiviate dal mio
cervello così tanti anni prima. Erano anni, tantissimi anni,
che non sentivo le
gambe cedere in quel modo e lo stomaco contrarsi, i conati di vomito
non erano
mai stati così chiari ed evidenti, mi urlavano di stare
attenta, di guardarmi
le spalle.
Una spallata che mi fece barcollare.
«Oh, scusa non ti avevo
vis…» iniziò la voce, accogliente
come casa.
“Non girarti, non girarti,
tanto non sai di chi è quella
voce, non lo sai” mi cercai di convincere invano.
Strizzai gli occhi e presi un respiro
profondo, di quelli da
intossicazione da ossigeno.
«Niente» dissi a
mia volta, secca.
«No, aspetta, noi due ci
conosciamo?» continuò.
A quella domanda mi voltai di scatto e
fissai la persona che
aveva parlato; di colpo si scatenò di nuovo in me quella
reazione chimica che
trasformava i miei occhi in uragani.
«No. Mai visto
prima» ingoiai una quantità spropositata di
aria e boccheggiai.
«No, sono sicuro di averti
già…» impallidì di colpo e
si
ammutolì, vidi l’incertezza nei suoi movimenti,
nei suo respiri, nei suoi occhi
frenetici e nel suo battere di ciglia.
«Chelsea»
sussurrò con la voce roca.
Strinsi i denti e feci come se nulla
fosse successo, ce la
potevo fare, sul serio, potevo. E comunque anche se non avessi potuto
farcela
avrei dovuto, senza scuse, perché era la mia vita e dovevo
farcela fino alla
fine.
Comunque Oliver non avrebbe dovuto
ripresentarsi lì, dopo
così tanto tempo, dopo che ero riuscita a superare tutto;
era davvero troppo.
Rimasi lì, con la gola
secca, con lui, fermo immobile che
pensava ai ricordi: li aveva dipinti nelle iridi.
«Buongiorno!» mi
stampai un sorriso sul viso, finto come una
maschera veneziana e sperai che il ragazzo, ancora incredulo, non
proferisse
parola.
*-*-*-*
Bene gente! Siamo arrivati finalmente
al fatidico momento.
Bene.
Lo so che ci ho messo una vita e ho
scritto davvero poco, ma
perdonatemi, è un periodo terribile (non solo per la scuola).
Comunque, la povera donna si ritrova
lì, così, ferma immobile
che sta per sboccare sui clienti e lui dietro che farfuglia cose a
cazzo (?)
Secondo voi ora che
succederà???
Si perdoneranno???
O meglio: Chechè lo
perdonerà o gli dirà “Boh, fai schifo,
vai via!”?
Secondo me prima se lo sbatte ovunque,
poi lo abbandona.
{scherzo eh!}
Beh, buona settimana, mese, anno (no,
dai ci sentiamo prima
;D)
Vi voglio bene! *_*
Judy.
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Capitolo 5 *** Sorridi Chelsea, ci provano con te! ***
«Chelsea»
continuò più fermamente.
Non aprii bocca, rimasi muta, con i
polmoni che erano
diventati pesanti e lo stomaco ingarbugliato. Deglutii parecchie volte,
arrivai
a non contarle più.
“Aiuto” pensai,
supplicando con gli occhi i presenti.
“Portatelo via, fatelo
girare, via, via, via!” i bulbi
oculari iniziavano ad inumidirsi, le palpebre non dovevano chiudersi,
no, non
dovevano cacciare fuori le lacrime, spingerle a constatare che
là fuori non era
poi così buio, per poi trascinare le compagne.
«Oliver? LASCIATEMI PASSARE!
OLIVER?!» gridò qualcuno.
Ringraziai quella voce stridula e
stizzosa, perché il ragazzo
distolse l’attenzione dalla sottoscritta e la mia
concentrazione tornò ai
clienti.
«Vogliate scusarmi,
non…non so cosa mi sia preso. Io mi
chiamo Chelsea e sarò la vostra cameriera, quando avete
bisogno, anche in
stanza, chiamate pure e in meno di un secondo sarò a vostra
disposizione»
sorrisi appena, pallida come fossi malata, ma fecero finta di non
accorgersene.
Mi avevano riconosciuto subito, lo
sapevo, ne ero pienamente consapevole.
«Amanda, finalmente sei
arrivata!» esclamò Oliver rivolto
alla voce, più precisamente alla proprietaria di quella
sottospecie di voce da
cornacchia.
Mi voltai ed ebbi una di quelle
visioni da ‘una volta nella
vita’ e “Sì, cazzo”, pensai,
“è proprio una cornacchia”.
Piume nerissime, voce gracchiante
più un pizzico di sindrome-della-prima-donna.
«Oh, amore mio, non mi
volevano far passare» esclamò lei
addolcendosi istantaneamente.
Oh.
Amore.
Mio.
Amore mio.
Amore mio.
Era veramente troppo, era uno scherzo
da parte di qualcuno di
poco sentimentale?
«Chi è
lei?» domandò indicando verso di me, non la vidi,
ma
sentii il suo sguardo che mi perforava la schiena.
«Chelsea, la nostra
personale cameriera» rispose uno dei
componenti del gruppo di cui assolutamente non ricordavo il nome, non
ero
nemmeno sicura di averlo mai visto.
«Sembra un po’
palliduccia, sta bene?» domandò con falso
dispiacere nella voce e mi venne da voltarmi e spaccarle il suo bel
nasino
dritto.
«Non ho nulla»
risposi al posto di chissà chi altro.
«Ehm, ordiniamo tra un
istante, torni tra due minuti?»
domandò Oliver titubante; mi rincuorò tantissimo
che si sentisse spaesato.
«Non posso
farcela» ribattei tornando in cucina, tremavo
veramente molto e mi dovetti sedere.
«Cosa succede?»
domandò subito Ann preoccupata, sedendosi
davanti a me.
«Non posso
farcela» ripetei in trance con le mani tra i
capelli strabuzzando gli occhi.
«No, no, devi
riprenderti» disse scuotendomi con forza.
Dondolai un paio di volte afferrandomi
le ginocchia e
respirando a fatica, iniziai ad ansimare.
«Dimmi, dimmi, cosa
succede» chiese di nuovo la donna, ormai
nel panico.
«Oliver…»
singhiozzai a bassa voce «Oliver… poi
l’anoressia…
Andato…» provai a formulare una frase.
«Oliver se ne è
andato per l’anoressia?» provò ad
indovinare
lei, ma io scossi la testa.
Dopo circa venti minuti, un cameriere
momentaneo in
sostituzione e tante lacrime riuscii a spiegare quasi tutto e mi sentii
istantaneamente più libera.
Avrei potuto perdere il posto di
lavoro, ma Ann sapeva tutto
e non poteva permetterlo, mi avrebbe aiutato e io gliene ero
dannatamente
grata. Promisi di non lasciarmi più andare e decisi di tener
duro, non dovevo
mollare.
***
«Cosa devo fare?»
guardai Ann per la millesima volta con gli
occhi colmi di speranza e gratitudine.
«Sali fino al quindicesimo
piano, suoni alla stanza 235 e
dici che sei la cameriera, consegni la Vodka e te ne vai, non
è difficile» mi
spiegò ancora, con una pazienza infinita.
«Ci sono, vado» mi
incamminai verso l’ascensore.
«Chelsea?» mi
richiamò la donna.
«La Vodka, giusto, la
Vodka…» tornai indietro ed afferrai la
bottiglia ghiacciata per poi rincamminarmi nell’altra
direzione.
1…2…3…
“Questi piani salgono troppo
lentamente, cavolo” imprecai
diventando nervosa, dovevo pensare ad altro se non volevo che
iniziassero i
flashback.
7…8…9…
“Oh, mi sono risparmiata
qualche numero, speriamo che nessuno
schiacci il pulsantino della prenotazione” pensai un
po’ isterica, iniziando a
ticchettare sull’oggetto in metallo in cui era racchiusa la
bottiglia come un
qualcosa di prezioso.
Avrei voluto dimettermi con tutto il
cuore, ma mia madre
aveva speso fior di quattrini per la mia riabilitazione ed avevo
giurato a me
stessa che le avrei restituito tutto.
“Ecco, brava, motivati, vai
alla grande, continua così!” mi
incoraggiai mentalmente, mentre osservavo la lucina che indicava il
numero dei
piani spostarsi verso destra.
13…14…15…
Un suono lieve e l’ascensore
si fermò, le porte si spalancarono
e fui investita da una ventata d’aria fresca.
Guarda caso la stanza che mi occorreva
era esattamente di
fronte a me, imprecai in tutte le lingue che conoscevo (non erano
molte, ma “è
il pensiero che conta”, no?), mi serviva un minimo di tempo
per prepararmi.
E comunque era solo questione di
qualche secondo, avrei
dovuto consegnare la bottiglia ed andarmene, tra l’altro non
era neanche detto
che aprisse lui la porta, avrebbe benissimo potuto esserci
l’elegante e
raffinata donna dai capelli corvini.
Toc-toc
Non fu difficile, fu come strappare un
cerotto, tutto in un
colpo. Rapido ed indolore.
Indolore.
Come se bussare ad una porta potesse
far male, che cosa
divertente.
«Sì?»
rispose una voce proveniente dall’interno della stanza.
«La cameriera»
risposi atona, alzando giusto un po’ la voce
per farmi sentire meglio.
Ci fu un rapido movimento
all’interno della stanza, udii il
rumore di qualcosa spostato e mormorii, una rapida corsa ed il pomello
della
porta girò.
«Oh, scusa, sai
com’è, un po’ di trambusto»
non era stato
Oliver ad aprirmi, che coincidenza.
Speravo che non mi parlasse mai
più, ma volevo che lo
facesse, ne sentivo il bisogno.
Guardai il ragazzo sulla soglia della
porta che sorrideva
come un ebete, sbatté qualche istante le palpebre,
disorientato e poi cercò di
formulare una frase quantomeno decente:«Cerchi?».
Non proprio una frase.
Il problema più grave fu
che io capii che stesse parlando di
qualcosa di circolare, e non che fosse il verbo cercare, quindi rimasi
perplessa per qualche istante.
«Ah, forse ti ha chiamato
Oliver, ha detto di dirti che puoi
affidarla a me la Vodka» affermò grattandosi la
testa.
«Mi devo fidare?»
scherzai incerta.
«Oh, certo, oltre ad essere
bello sono anche un bravo
ragazzo!» ribatté.
“Oh, sì, anche
modesto” pensai irritata.
Non ero pratica di interazioni umane e
soprattutto non volevo
diventarlo.
Una volta suonavo la chitarra nei pub,
ero anche abbastanza
brava, mi voleva bene tantissima gente e non ero mai sola.
“Ho temuto che soffrissi di
ecmnesia”
aveva detto una volta la psichiatra, Carol; “Lo ho temuto
davvero, invece è
solo che non hai voglia di vivere nel presente” non che mi
fossi sentita
istantaneamente meglio.
Non avevo voglia di vivere, fine. Solo
che il passato
sembrava migliore e la mia mente non era masochista.
«Sono Jordan,
piacere!» mi porse una mano, nella quale
accomodai la bottiglia di Vodka, con molta grazia.
«Chelsea» risposi
con cortesia, sorridendo.
Beh, se non altro era davvero carino.
«Mi farebbe piacere offrirti
qualcosa da bere un giorno di questi»
aggiunse sbilanciandosi un po’ troppo, per i miei gusti. Ci
pensai su
seriamente; erano passati secoli da quando, l’ultima volta,
un ragazzo mi avesse
invitato da qualche parte a fare qualunque cosa ed io avessi accettato:
la
depressione aveva preso il sopravvento.
Che debole ero stata, da sempre, era
un tratto principale del
mio carattere, forse il tratto caratteristico, addirittura.
Ciò che si poteva
benissimo affrontare, per me diventava un problema insormontabile, mi
richiudevo in un guscio di eterna angoscia ed apatia e semplicemente
smettevo
di respirare.
Uno stato di passività
inarrestabile si iniziava a diffondere
nello sguardo, per poi diramarsi in tutto il corpo.
«Qualcosa da
bere?» domandai per essere sicura di non aver
sentito male.
Poi mi ritornò in mente
qualcosa.
Oliver.
Oliver.
No, cavolo, non potevo, non potevo
accettare.
«Sì, certo,
quando vuoi!» annuì amichevole, ticchettando
sulla porta di legno con le dita.
«Ci penserò su,
ora devo tornare a lavorare, ciao ciao
Jordan» conclusi salutandolo con la mano e non lasciandogli
nemmeno il tempo di
spiccicare una parola.
Non avrei di certo accettato.
***
«Mamma, sono a
casa!» volevo solo rotolarmi per terra e
piangere disperatamente, la cosa grave era che non fosse una
novità.
“Sigarette” pensai
nervosa “dove cazzo sono le mie sigarette”
imprecai correndo nella mia camera alla ricerca di pacchetti
sopravvissuti al
nervosismo.
«Chelsea!»
riconobbi all’istante la voce di Matt, mio
fratello, che mi corse incontro saltandomi letteralmente addosso e
facendomi
cadere in modo decisamente impacciato sul letto.
«Matt, sei venuto a
trovarmi!» strillai emozionata, quasi con
le lacrime agli occhi.
«Mamma non te lo ha
detto?» storse la bocca ed allentò la
presa strangolatrice.
«Sì, ma
è stata una giornata estremamente pesante, ero
sovrappensiero» ribattei continuando la mia ricerca disperata
di nicotina per
la stanza.
«Hai voglia di
parlarne?» scossi la testa ed agguantai un
pacchetto semipieno.
“Diana”
commentai
tra me e me “Che merda”.
Dovevo accontentarmi.
«Niente, ho visto
Oliver» aggiunsi con nonchalance.
«OLIVER-OLIVER?»
urlò come in preda ad un attacco di panico.
«Lui».
Non aggiunsi nient’altro,
finii la sigaretta sotto il suo
sguardo premuroso e, dopo aver constatato che mamma era andata a
dormire già da
un po’, mi infilai sotto le coperte, insultando la sveglia a
caso anche se,
poverina, la colpa non era sua.
***
«Chelsea, sai mica se sei tu
la ragazza della canzone?» disse
Jordan appena misi piede nell’hotel, il giorno seguente.
«Mi fai gli attentati? Sei
mica un gatto?» domandai dubbiosa
ed un po’ pensierosa.
«No, passavo per
caso» protestò poco credibile.
«Sì,
certo» camminai spedita verso lo spogliatoio, ma il bel
ragazzo mi seguì imperterrito.
«Allora, sei tu?»
chiese un’altra volta.
«Cosa?» non avevo
ascoltato una parola di ciò che aveva detto
in precedenza.
«La ragazza della
canzone» ripeté, armatosi di pazienza.
«Che canzone,
scusa?» ero seriamente incuriosita, perciò mi
fermai ad osservarlo.
«Non ascolti i Bring Me The
Horizon?» la sua voce dava per
scontato che fosse quasi un sacrilegio, un eresia o
quant’altro.
«No, non mi
piacciono» ribattei spietata.
«Beh, Oliver mi ha fatto
intendere che vi conoscete,
conoscevate… e… comunque,
c’è una canzone che si chiama Chelsea
smile, ti ricorda qualcosa?»
Il prato era
decisamente troppo umido per rimanerci coricata a lungo, ma a me non
importava.
Ero felice e
a me non
importava di nulla.
Avevo un
cuore
funzionante.
Le sigarette
appresso.
La lettera
scarlatta
tra le mani.
Il sole sul
viso.
Non importava
cosa
stesse succedendo intorno, dietro, davanti a me, non era di mia
competenza.
«Chelsea,
sorridi!»
scattò qualcosa come duemila fotografie quel giorno e
“Per immortalare come
sei, come sono, come saremo”, dicevi; “Basta che
non ti tagli i capelli corti, sembreresti
un coglione”, rispondevo chiudendo il discorso.
«Oliver,
dov’è Matt?»
chiesi preoccupata, lui indicò un posto troppo lontano dalla
parte del sole
accecante.
«Mh,
bene. Facci un
album con quelle foto, ci scrivi qualche cazzata poetica delle tue e lo
metti
nel cassetto delle mutande» biascicai assorta nella lettura
del mio libro.
«Oh,
mi sembra
un’ottima idea! Lo chiamerò “Chelsea
smile”» saltellò eccitato.
«Il
motivo?» domandai
curiosa.
«Non
sorridi mai, è
rara come cosa» mi sfotté.
«Vaffanculo»
fu
l’ultima cosa che dissi prima che lui si addormentasse
accanto a me, su un
asciugamano a righe blu.
«No, non mi ricorda nulla.
Proprio nulla, mi spiace» corsi
verso lo spogliatoio e mi svestii quasi con rabbia.
Com’era
possibile?
*-*-*-*
HEILA’!
E’
da un po’ che non ci si vede,
ne son consapevole.
Cioè,
se non arriva l’ispirazione
non arriva, non ci sono santi.
Spero
voi stiate Bennet :’D*
*Ahah,
come sono simpatica,
cavolo, proprio divertente!
Io
sto male. Penso di essermi
ammalata di depressione.
Come
avete passato il capodanno?
Con
amici? Parenti? Amanti? Amati?
Io
con amici e amati non ricambianti
xD (SONO UN CASO DISPERATO, GENTEEE!)
p.s.
Non sono informata sulle
vicende dei BRIMMEDEORAISON, ma ho letto di un certo Jordan Fish, del
quale non
sapevo l’esistenza xD babè :D
Concludo
augurandovi un buon 2014,
sperando che vi sia piaciuto il capitolo, ci vediamo alla prossima,
ciaociao :*
Ciao.
Fiocco.
http://www.youtube.com/watch?v=Wz9XHRBehoc
Judy.
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