Jay Hahn di Bloomsbury (/viewuser.php?uid=216725)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Shelter ***
Capitolo 2: *** People Help the People ***
Capitolo 3: *** Get Lucky ***
Capitolo 4: *** Youth ***
Capitolo 5: *** Green Light ***
Capitolo 6: *** Fly Me to the Moon ***
Capitolo 7: *** Delicate ***
Capitolo 8: *** I can't make you Love me ***
Capitolo 9: *** Limit to your Love ***
Capitolo 10: *** November Rain ***
Capitolo 11: *** A case of you ***
Capitolo 12: *** Hysteria ***
Capitolo 13: *** New Born ***
Capitolo 14: *** Retrograde ***
Capitolo 15: *** Lovesong ***
Capitolo 16: *** Enjoy the Ride ***
Capitolo 17: *** Where to go ***
Capitolo 18: *** The ground Beneath her Feet ***
Capitolo 19: *** Smokey Taboo ***
Capitolo 20: *** Teardrop ***
Capitolo 21: *** Sleep Paralysis ***
Capitolo 22: *** Paradise Circus ***
Capitolo 23: *** Overgrown ***
Capitolo 24: *** Hyperballad ***
Capitolo 25: *** Hearts A Mess ***
Capitolo 26: *** The Small Print ***
Capitolo 27: *** Lullaby ***
Capitolo 28: *** Final Masquerade ***
Capitolo 29: *** Volcano ***
Capitolo 30: *** Winter Prayers ***
Capitolo 31: *** Drawbar ***
Capitolo 32: *** Cheers Darlin' ***
Capitolo 33: *** You ***
Capitolo 34: *** House of the rising Sun ***
Capitolo 35: *** Together ***
Capitolo 1 *** Shelter ***
"I find shelter, in this way
Under cover, hide away
Can you hear, when I
say?
I have never felt
this way
Maybe I had said,
something that was wrong..."
Shelter
- The xx
1. Shelter
Chiuse la porta di casa alle sue spalle, scontrandosi con il gelo del
pomeriggio appena inoltrato.
Trovò rifugio nei propri segreti mischiandosi tra la folla
di Londra; avvolto nel suo cappotto nero camminava incurante, sbattendo
contro chiunque lo incrociasse. Gli occhi chiari si riempirono di
lacrime, una morsa gli avvolse lo stomaco e la mente fino a dilaniargli
la carne e le viscere. Provava dentro di sé un turbinio
inarrestabile di rabbia e delusione; la prima per suo padre che gli
aveva urlato in faccia mentre lui, a testa bassa, subiva le sue offese;
la seconda per sua madre che era rimasta in silenzio, privandolo delle
sue braccia amorevoli. Avrebbe voluto correre da lei, raggomitolarsi
sulle sue gambe e piangere, per ricevere quelle agognate carezze che
asciugano il pianto e guariscono l’anima, ma la sua mamma
assisteva impassibile alla furia di suo marito, senza fiatare, senza
posare gli occhi su suo figlio, neanche per un istante…
Stringeva i denti mentre le sue falcate diventavano sempre
più ampie, trasformando il suo cammino in una disperata
corsa.
Lontano da tutti.
Lontano dal mondo.
Avrebbe voluto fare un salto e tramutarsi in tante piccole gocce di
pioggia, infrangersi e scomporsi per diventare parte del suo cadere.
Lieve…
Le gambe iniziarono a cedergli, come se il dolore dell’anima
le avesse private di ogni briciolo di energia; il passo si fece sempre
più lento e leggero, fino a che si arrestò.
Sullo Strand la vita continuava a procedere incurante di ciò
che gli stava accadendo: si sentì ancora più
solo. Sapeva che nessuno, guardandolo, poteva immaginare il suo dolore,
ma avrebbe voluto che esistesse anche solo una persona capace di
accorgersi di lui.
Voltò il capo da destra a sinistra per trovare un posto dove
andare ma quando i suoi occhi si posarono sull’altro lato
della strada, la ricerca cessò: vide la facciata di una
chiesa e si perse nell’osservare la grande finestra arcuata,
indirizzando lo sguardo sull’alta torre campanaria mentre la
pioggia impetuosa si scontrava con il suo viso.
Rapido, attraversò la strada e salì velocemente
le scale per rifugiarsi sotto il protiro sorretto dalle colonne.
Fermatosi davanti al portale in legno scuro, sbirciò
timidamente dai vetri opachi e vide delle ombre solcare le luci
tremolanti ed incerte delle candele. Non fu né la
curiosità né l’istinto a portalo
lì, ma solo una tiepida sensazione di fiducia.
Varcò la soglia della chiesa dedicata alla Madonna e ne
rimase colpito: la navata, illuminata dalle monofore e dal finestrone
della controfacciata, appariva come un invito a rimanere e le vetrate
policrome, nonostante il brutto tempo, riuscivano a risplendere,
illuminando lo spazio circostante.
Avanzò adagio lungo tutto il percorso, esigendo dai suoi
passi l’assoluto silenzio e l’acqua che aveva
infradiciato le sue sneakers scivolò lentamente sul
pavimento dando vita alle tracce imprecise del suo cammino. Con il naso
all’insù esplorò lo spazio interno
decorato in uno stravagante barocco; roteando lentamente su se stesso,
come se stesse danzando, fissò con le labbra schiuse gli
ottocenteschi lampadari in ottone sopra la sua testa, sorpreso dalla
loro bellezza.
Il freddo lo intorpidì, tanto da fargli rimpiangere la
temperatura esterna; nonostante ciò continuò a
vagare in cerca di un calore diverso, ritrovandosi davanti
all’abside nella quale era posto l’altare. Un
incessante brusìo attirò la sua attenzione verso
la navata laterale, dove scorse un confessionale in legno: vide una
donna anziana accompagnare il tendaggio rosso cardinale con le mani,
per poi alzarsi dall’inginocchiatoio; rimase immobile e
silenzioso a fissare la tenda che ricopriva lo scomparto dove di solito
siede il sacerdote, aspettando che egli uscisse.
Non c’era mai stata, fin dal principio, la convinzione di
volersi confidare con qualcuno ma l’indugio del prete lo
invitò ad avvicinarsi.
Procedette timoroso verso il posto dei penitenti contraendo il viso in
una smorfia di dolore, aspettandosi un’altra delusione.
Tuttavia, il desiderio di colmare il senso di desolazione fu
più forte dell’insicurezza, così prese
posto in ginocchio davanti la griglia di separazione, in attesa che il
prete aprisse lo sportellino dal quale avrebbe ascoltato le sue
confidenze più intime. Nel breve momento in cui
l’esitazione stava per prendere il sopravvento, la mano del
sacerdote, rugosa e macchiata dalla vecchiaia, rimosse
l’unico ostacolo che si frapponeva tra le angosce di Jay e
l’orecchio attento del ministro di Dio.
«Sia lodato Gesù Cristo» proruppe il
prete. Jay rimase incastrato, non poteva più tirarsi
indietro e, abbassando la testa, unì le mani in preghiera
poggiandovi la fronte. «Sempre sia lodato.»
«Dimmi figliolo, confessami i tuoi peccati».
Jay strinse gli occhi, affondando il viso nelle mani: non si vergognava
di se stesso, ma provava terrore per il rifiuto, non avrebbe retto un
ulteriore abbandono, maggiormente da Dio.
«Mi perdoni padre, perché ho peccato.»
«Ti ascolto…»
«Oggi ho reso infelici i miei genitori»
sibilò velocemente, togliendosi il peso più
grande dal cuore.
«Gli hai mancato di rispetto?»
«Forse, non lo so. Per rispettare me stesso ho reso infelici
loro.»
«Raccontami.»
«Io sono omosessuale, padre!».
Il sacerdote pose una mano sul proprio viso, per nascondersi da quella
vergognosa confessione. Jay continuò a parlare intendendo
quel gesto come un segno di dispiacere per lui: «Dopo anni di
silenzi e di segreti, oggi, finalmente, ho confessato ai miei genitori
la verità.»
«Come l’hanno presa?».
Un bagliore di speranza riaccese gli occhi del ragazzo: quella domanda
pareva un segno tangibile di apertura; sentiva che sarebbe stato
ascoltato. «Non bene. Sembra che abbiano dimenticato che sono
comunque loro figlio.»
«Si tratta di un disordine grave!» tuonò
il padre dal suo scomparto ignorando lo smarrimento del ragazzo che lo
fissava cercando di cogliere la sua espressione.
«L’omosessualità è un
disturbo che deve essere curato con la preghiera e la conversione. Per
guarire hai bisogno di compassione e di essere guidato sulla retta
via».
Jay si sentì franare la terra sotto i piedi, come se
l’inferno si fosse spalancato in una voragine che
l’avrebbe inghiottito; non si aspettava delle felicitazioni,
ma aveva ingenuamente sperato in una parola di conforto.
«Padre, che devo fare?» chiese affogando le lacrime
nelle parole; sperava ancora di poter essere guidato senza
necessariamente doversi sentire colpevole della sua natura.
«La castità è l’unica
soluzione, quando sarai finalmente guarito potrai guardare negli occhi,
senza vergogna, i tuoi poveri genitori e, prima cosa fra tutte, potrai
non vergognarti agli occhi di Dio».
A Jay non importavano queste cose, non era quello il punto, non aveva
mai fatto sesso con un uomo, avrebbe anche potuto rimanere casto a vita
ma mai avrebbe tradito ciò che era, così rispose
tra le lacrime e l’angoscia: «Io non mi sento un
peccatore.»
«Il tuo è un peccato imperdonabile!»
infierì il prete accostando ulteriormente il viso alla
grata: «Non voglio additarti, le persone come te vanno
trattate con misericordia, ma devo metterti in guardia figliolo: se tu
vuoi continuare ad essere protetto da Gesù Cristo, nostro
Signore, devi pentirti ed iniziare un cammino di preghiera».
Jay alzò gli occhi e in balia del tremore strinse nelle mani
il velluto dal quale era ricoperto l’inginocchiatoio. Chiuse
i pugni e sferrò un colpo, facendo trasalire il sacerdote.
«No!» urlò roco tra le lacrime, ancora
una volta l’avevano rifiutato facendolo sentire sbagliato.
Pensò, mentre colpiva ripetutamente la grata: se davvero
fosse stato così sbagliato, Dio non l’avrebbe
messo al mondo così com’era. Se nei bambini esiste
Dio, come è scritto, c’era stato anche in lui
quando, da piccolo, desiderava non essere mai nato in un corpo che non
sentiva appartenergli.
Il sacerdote, spaventato, tentò di uscire dal confessionale,
ma Jay lo precedette scappando via sconvolto e rabbioso.
Percorse la navata a passo spedito, raggiunto dalle urla del prete, ma
un istinto irrefrenabile attirò la sua attenzione su una
statua levigata in legno raffigurante Gesù della
Misericordia.
Lo scrutò per pochi secondi negli occhi come se sperasse in
una parola direttamente da lui. La statua non parlò, ma lo
fissò con amore, quello tipico che traspare dagli occhi di
quell’immagine, e sentendosi preso in giro dalla
fissità di quello sguardo di legno finto e vuoto,
varcò la soglia senza indugio.
Si ritrovò sulla strada allagata difronte la chiesa,
disorientato e lacerato; il tempo era notevolmente peggiorato, tanto da
non permettergli di vedere a pochi metri di distanza: sembrava ce
l’avesse con lui. Pensò che Dio gli stesse ponendo
davanti un avviso. La pioggia ed il vento apparivano impazziti tanto da
ridurlo, in pochi secondi, in uno straccio bagnato senza riparo.
Voltò ancora la testa da destra a sinistra, non riusciva
più ad orientarsi. Il vento lo feriva infliggendogli
scudisciate violente sul volto e, ravvivandosi i capelli fradici, fece
qualche passo verso il marciapiede, per allontanarsi dal centro dello
Strand.
Non appena fu sul lato della strada osservò incredulo
l’apocalisse che lo stava inghiottendo: le macchine
accostavano inserendo le frecce d’emergenza e i passanti
correvano impauriti contro il vento, per trovare riparo.
Rimase inerme sotto la pioggia, in balia della tempesta; le sue lacrime
disperate si confusero tra le gocce perseveranti che gli cadevano sul
volto e il suo lamento di sconforto si mescolò alle urla
incessanti delle raffiche d’aria che tentavano di metterlo in
ginocchio.
Era solo, avrebbe voluto che quella furia potesse ingoiarlo per
permettergli di sparire dalla faccia della terra, così
gridò al cielo parole sconnesse di rabbia e disperazione ma
non appena vide crollare davanti a sé, piegato dalla collera
del vento, un detrito indistinto estirpato da chissà quale
ferraglia arrugginita, si sentì sollevare da terra:
l’uomo che lo stava trascinando in salvo gli rivolgeva,
contro vento, rimproveri non del tutto comprensibili e il ragazzo,
stanco e snervato, si lasciò andare a quella presa, senza
più lottare.
***
Il vento faceva tremare i vetri del bar nel quale lo sconosciuto
l’aveva scaraventato senza troppa delicatezza. Pareva di
assistere alla fine del mondo ma Jay non se ne preoccupò.
Camminò in mezzo alla gente che cercava un riparo dalle
vetrate nel caso in cui fossero esplose e fissando i visi preoccupati
dei suoi compagni di avventura si chiese perché Dio ce
l’avesse anche con loro, in fondo, quell’ira
sembrava riservata solo a lui.
Si sedette sul pavimento con la schiena al muro, aspettando
pazientemente che tutto quel marasma finisse. Sembrava fosse
l’unico a non avere paura e si raggomitolò pensoso
poggiando i gomiti sulle ginocchia piegate, affondando il viso tra le
braccia.
D’improvviso si ricordò dell’uomo che
l’aveva salvato; non aveva memoria del suo volto,
così alzò la testa sperando di scorgerlo ma fu
impossibile, perché il tempo si calmò di colpo
spingendo la gente ad alzarsi, ostacolandogli la visuale: pareva una
folla di sopravvissuti ad un bombardamento; guardavano in alto, chi
fuori dalla porta, chi poggiando il naso sulle vetrate, aspettando di
constatare la loro effettiva salvezza.
In attesa che tutti sgomberassero la sala, Jay rimase fino alla fine
seduto sul pavimento freddo per poi crollare su una sedia del locale
che, dopo mezz’ora, ricominciò la sua
attività, riempiendo l’ambiente della ridestante
fragranza del caffè appena fatto. Terminate le sue deludenti
ricerche, si tolse dalla mente l’idea di ringraziare il
ragazzo che, seppur sgarbatamente, l’aveva salvato portandolo
di peso nella caffetteria.
Stese le braccia lungo il tavolino quadrato in alluminio e, poggiandovi
sopra la guancia, lasciò che i suoi occhi chiari vagassero
nel locale.
Jay, con i suoi lineamenti delicati e bellissimi, sembrava un bambino
abbandonato e, di fatto, lo era: considerato che, dopo quel trambusto,
i suoi genitori non si erano neanche presi la briga di contattarlo per
sapere dove fosse finito…
Di fatto, lo era.
Puntò lo sguardo sul menù plastificato incastrato
sotto il suo braccio senza guardarlo veramente, e ricominciò
a pensare, cosa che fino ad allora si era dimostrata deleteria. Vide
impresso nella sua mente, come un marchio a fuoco, il viso del
sacerdote che l’aveva scacciato dal paradiso dei redenti.
Stranamente la cosa non gli sembrò più
così dolorosa: quella tempesta l’aveva risvegliato
dall’intorpidimento mentale, rendendolo capace di pensare
senza interessarsi al giudizio altrui.
«Chi è senza peccato scagli la prima
pietra!» bisbigliò tra sé e
sé. Quelle, erano state le parole di Gesù Cristo
in difesa di una prostituta.
Maria di Magdala aveva scelto di intraprendere il cammino della
conversione; questo l’aveva resa degna del perdono del
Signore?
Lui si era rifiutato di sentirsi un peccatore aggredendo il sacro luogo
della confessione; era questo a renderlo immeritevole di grazia?
Alzò gli occhi richiamato dal televisore che passava il
notiziario del pomeriggio: “È di sei
feriti il bilancio di un lieve tornado a Londra. Violente raffiche di
vento si sono abbattute sulla capitale inglese causando danni alle
abitazioni e alle automobili parcheggiate in strada. Secondo i racconti
di diversi testimoni, le raffiche, improvvise e violente, sono durate
una manciata di secondi. Sul luogo sono intervenuti i servizi
d'emergenza e al momento si sta procedendo alla verifica dei danni e
delle situazioni più pericolose…”.
Posò nuovamente lo sguardo sul menù, spostando la
sua attenzione su una macchia di cioccolato sopra il prezzo del
frappè alla fragola e, rimuginando sulla notizia appena
sentita, provò sollievo nel constatare che Dio, almeno per
questa volta, non ce l’avesse avuta con lui.
Sorrise di se stesso, non aveva mai pensato a Dio, non se
n’era mai curato; da ragazzino aveva anche avuto la certezza
che non fosse mai esistito ma, nel momento del bisogno, aveva sentito
la necessità di cercarlo. Visti i risultati, avrebbe fatto
meglio a non cercarlo mai più.
Adesso, era veramente solo.
Spazio Autrice
Ciao a tutti!
La revisione di questa storia è appena cominciata, quindi,
chi si troverà a leggerla avrà certamente la
possibilità di godere di un capitolo scritto con le mani e
non con i piedi :P
Bando alle ciance.
Ringrazio moltissimo tutte le
persone che mi hanno seguito fino alla fine: Elsker, Aven, Ladywolf,
Bijouttina, Julie, Ghost e Nahash.
Ringrazio Moloko, Oxymoros e tutti
quelli che si stanno mettendo in pari. Probabilmente nessuno di loro
rileggerà questa storia revisionata quindi li ringrazio due
volte perché l’hanno amata nonostante gli errori
^_^
Grazie a WarHamster, Emide e tutti
quelli che l’hanno seguita a pizzichi e bocconi.
Al prossimo capitolo!!!
Bloomsbury
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Capitolo 2 *** People Help the People ***
2. People
Help the People
Si trascinò svogliatamente verso casa, attraversando
Kensington.
Era stanco e provato, aveva rimandato per tutto il giorno il suo
inevitabile ritorno finché, a notte inoltrata, non
poté fare a meno di accettare la realtà e farsi
coraggio. Avrebbe affrontato le conseguenze, qualsiasi esse fossero. Si
fermò davanti ad una casa vittoriana dai mattoni rossi
– la sua – e sbirciò dalle finestre a
mezza forma esagonale sperando di scorgere lo stato d’animo
di chi vi abitava. Il silenzio, rotto solo dall’abbaiare dei
cani in lontananza, lo tranquillizzò – anche solo
per la consapevolezza di poter rimandare l’incontro con i
suoi all’indomani – e si avvicinò alla
porta dopo aver salito i pochi gradini che lo separavano
dall’entrata; puntò velocemente gli occhi sul
piccolo vaso in terracotta che era solito custodire le chiavi di casa,
ma dovette scontrarsi con la cocente delusione di non trovarvi nulla.
Rimase immobile, con la mano ancora a contatto con la maniglia gelida,
senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel vaso vuoto che
diventò una prova lampante: la sua famiglia aveva scelto di
abbandonarlo definitivamente.
Se avesse avuto le forze avrebbe reagito, si sarebbe arrabbiato per via
del disgusto, invece mise il broncio come solo i bambini riescono a
fare. L’orgoglio, però, prese il sopravvento
lottando nel suo petto: il bambino che era stato fino a quel momento
doveva crescere nonostante non si sentisse ancora pronto.
Essere stato un figlio amato, vezzeggiato e curato aveva giocato un
ruolo fondamentale per la sua crescita e capì che da solo
non valeva niente. La sicurezza che aveva provato tra le braccia dei
suoi genitori non era stata altro che una gentile concessione
– mutevole e non definitiva – elargita solo a
determinate condizioni, le quali Jay non aveva nessuna intenzione di
rispettare, non a dispetto della sua dignità.
I suoi occhi rimasero aridi, aveva pianto troppo per quel giorno e
quasi sentiva di non avere più lacrime, ma il senso di
abbandono lo incatenò al pianto del cuore, che è
ancora più doloroso ed inesauribile.
Sconfitto, ritornò sui suoi passi e dopo aver disceso la
piccola ma faticosa scalinata si voltò ancora verso casa. La
osservò attentamente spostando il ciuffo corvino dagli occhi
con un piccolo ma energico movimento della testa e in
quell’istante disse addio alla sua famiglia, ai suoi ricordi:
scelse se stesso.
Si sentiva calmo, probabilmente era stato lo sfinimento a privarlo
dell’adrenalina accumulata durante la giornata, ma ancora non
poteva permettersi di cedere, doveva trovare una soluzione al problema,
non avrebbe potuto dormire in strada.
Si diresse qualche metro più in là e si
fermò, dopo aver svoltato l’angolo, davanti ad una
villetta a schiera simile alla sua; anche questa sembrava disabitata.
Controllò l’ora sul display del cellulare e si
accorse che era davvero troppo tardi per bussare, ma non
esitò a chiamare l’unica persona che avrebbe
potuto aiutarlo.
Attese la risposta con il cellulare stretto nella mano – era
stato vittima di tanti di quei rifiuti che, irrazionalmente, si
ripresentò la paura di doverne subire ancora.
Mordicchiò nervosamente il labbro inferiore per trattenere
le lacrime, ma la voce dell’amico dall’altro capo
del telefono ridisegnò una nuova espressione sul suo volto,
cancellando il pianto che stava per rivelarsi.
«Jay, è successo qualcosa?».
Sospirò sollevato e sorrise per rassicurarlo: «Sto
bene, ma ho un piccolo problema.»
«Cosa?».
Titubò per un istante, stropicciò i capelli e con
essi gli occhi ormai gonfi dalla stanchezza e rispose con una risatina
imbarazzata, scrollando le spalle: «Mia madre e mio padre mi
hanno cacciato di casa e adesso… sono qui».
Silenzio, fruscio.
Jay rimase in ascolto dell’assenza senza avere la forza di
reagire e proprio mentre stava per perdere le speranze alzò
lo sguardo sulla porta e vide le iridi nere di Chaz – che si
era catapultato fuori tempestivamente – illuminarsi per
l’attesa.
Casa: fu questa la sensazione che lo avvolse vedendolo lì,
difronte a lui, con il viso preoccupato di chi non sa cosa aspettarsi.
Rispose al sorriso con tenerezza e senza interrompere il filo diretto
degli sguardi scattò al primo cenno, salendo le scale.
Raggiunse la porta ed entrò, lasciandosi alle spalle la
strada desolata alla quale aveva confidato ogni angoscia.
Casa di Chaz era come tutte quelle di ogni famiglia bene di Kensington
– come era anche quella di Jay – e provò
repulsione per quella bella finzione impacchettata a dovere.
Mentre saliva le scale seguendo l’amico che gli apriva la
strada verso la sua stanza, analizzava il proprio stato
d’animo: non sentiva più dolore o tristezza, era
disgustato.
La sua famiglia l’aveva sempre presentato agli estranei come
un bravo ragazzo, un buon figlio ed uno studente modello; cosa era
cambiato? Il fatto di essere omosessuale lo rendeva così
diverso?
Sarebbe stato inutile pensarci ancora; non li avrebbe mai capiti.
Entrarono nella stanza del ragazzo che, appena chiusa la porta,
assicurandosi di non aver svegliato nessuno, si sedette sul letto
guardando Jay in piedi davanti a sé:
«Perché ti hanno sbattuto fuori?» la sua
espressione era incredula, tanto che Jay riuscì a trovare il
lato buffo della questione. Ridacchiò, – un
po’ per nascondere la delusione, un po’ per
sdrammatizzare – e rispose slacciandosi le scarpe, cercando
di apparire sereno, come fosse tutto normale: «Ieri ho
confessato e i miei genitori, come vedi, non l’hanno presa
troppo bene».
Preso alla sprovvista, non mosse un muscolo. L’amico, con
quella notizia, l’aveva gelato sul posto ma prima che egli
potesse continuare il racconto, Chaz chiese balbettante:
«Ma… come ti è saltato in
mente?»
«Ero stanco di nascondermi» confessò
serafico. Davanti a tale determinazione, l’altro non
poté replicare. «Semplicemente, mi
andava» concluse Jay scrollando le spalle, semplificando la
cosa come se non gli importasse delle conseguenze.
***
Chaz voleva bene a Jay, anzi ne era innamorato. L’aveva
conosciuto da bambino tramite i genitori, ma solo dopo qualche anno
erano riusciti ad instaurare un buon rapporto.
Da bambino, Jay pensava di essere l’unico a provare
curiosità per i ragazzi nel raggio di chilometri; avrebbe
voluto parlarne con qualcuno, togliersi un peso, chiarire dei dubbi e
ricevere risposte a delle domande che sentiva di non poter sbrogliare
da solo, ma più si guardava intorno più si
sentiva isolato e diverso.
Vedeva i suoi amici crescere ed interessarsi all’universo
femminile, mentre lui, indagando nel proprio cuore, sentiva di fare la
cosa opposta. Con loro era solito fingere quando, ad ogni fine
allenamento, sbirciavano le ragazze intente a cambiarsi nei bagni della
palestra. Jay stava indietro, mentre gli altri facevano a turno per
rubare un fugace scorcio dei corpi femminili ancora non totalmente
sviluppati, e aspettava pazientemente che quella farsa finisse.
Prendeva posto in un angolo, seduto sul pavimento, desiderando di
ritornare presto nella sua stanza e poter smettere di fingere.
Nell’intimità della sua camera era tutto
più facile: navigava su internet senza avere
un’idea precisa, sbirciava le foto dei suoi compagni di corso
negli account di facebook trovando nei corpi seminudi messi in posa dei
suoi coetanei il desiderio che era costretto a celare nella sua
intimità.
Non poteva fare altro.
Così giunsero i suoi quattordici anni.
Fingeva di essere ciò che non era così bene da
convincere tutti della sua eterosessualità.
Passeggiava con i suoi compagni dopo la scuola, assumendo la posa dello
sbruffoncello in cerca di avventure e nel frattempo, poco per volta,
costruiva intorno al cuore una fortezza fatta di omissioni e di
incertezze costringendovi dentro la sua vera identità,
presentando al mondo un ragazzo che non esisteva, una figura fittizia
generata dall’incessante esigenza di soddisfare le richieste
di chi non era a conoscenza dei suoi segreti.
Gli amici lo portavano ovunque con loro, perché Jay era come
il miele per le api; tutte le ragazzine gli si avvicinavano per
attaccare bottone, rapite dal viso perfetto e dagli occhi chiari che
con immensa disinvoltura riuscivano a catturare qualsiasi attenzione.
Non era difficile per lui abbordarle, sapeva con cosa stupirle,
conosceva cosa poteva piacere ad una ragazza perché le
stesse cose, inevitabilmente, conquistavano anche lui.
Stavano seduti al solito bar a chiacchierare sulla loro vita, sugli
allenamenti, sulla scuola, e Jay ascoltava senza poter replicare a
cuore aperto; raccontava bugie da tempo immemore, tuttavia la paura di
perdere tutto quello che era riuscito a costruire negli anni era troppo
più forte della stanchezza.
Chaz, al contrario, anziché raccontare frottole preferiva
stare solo, senza concedersi la possibilità di fare amicizia
con qualcuno. La solitudine cessò presto perché
un giorno, in quello stesso bar, i suoi occhi si incontrarono con
quelli di Jay che, con i gomiti poggiati sul tavolo, lo fissava con
interesse.
Si guardarono per minuti e minuti, riconoscendosi, assaporandosi.
L’uno sapeva chi fosse l’altro, ma entrambi
scoprirono solo in quel momento di condividere qualcosa. Jay lo
scrutava pensoso e quando si accorse che il ragazzo difronte a lui
ricambiava, sorrise abbassando la testa nel tentativo di nascondersi
dagli altri, stringendo gli occhi che si arricciarono in
un’espressione irresistibile intanto che il destinatario di
quel sorriso scopriva quanto per quello stesso avrebbe sempre vissuto.
Da allora cominciarono a frequentarsi. Jay non finse più
nonostante non volesse gettare in pasto al mondo i suoi fatti personali
e nell’amico trovò il suo sfogo, la sua spalla,
l’unico detentore dei suoi segreti. In tal senso si usarono
entrambi e a forza di usarsi si scoprirono amici e Chaz, a furia di
volergli bene, imparò ad amarlo in segreto.
***
Jay rimase in boxer e infilandosi sotto le lenzuola poté
finalmente godere del calore che tanto aveva desiderato per tutto il
giorno.
Chaz, che gli aveva fatto spazio accanto a sé, stava di
fianco, fissando gli occhi persi nel vuoto del suo più caro
amico. Avrebbe voluto dirgli qualcosa di sensato per confortarlo, ma
non sapeva davvero cosa: ogni parola sarebbe stata superflua, ormai.
Quale parola può consolare un diciassettenne abbandonato
dalla propria famiglia?
Così stette in silenzio, osservando le lunghe ciglia di Jay
impigliarsi al ciuffo ribelle che perseverava nel rigargli il volto;
scrutò la sua espressione: era triste ma piena di
dignità. Sentiva di non poter fare niente di diverso da
ciò che già stava facendo e stringendosi a lui
lasciò che la sua pelle lo sfiorasse. Si guardarono, si
intuirono ed infine si nascosero completamente sotto le lenzuola
–come usavano fare spesso da quando si erano conosciuti
– e accarezzandosi con dolcezza schiusero i loro segreti in
quell’improvvisato rifugio, ricacciando il mondo
all’esterno.
Jay sorrise brevemente, ammirando gli occhi scuri di Chaz –
l’unico sguardo benevolo al quale poteva appigliarsi
– ma ripensando alla difficile giornata che l’aveva
calpestato, spostò l’attenzione sul cuscino
lasciando che i suoi pensieri scivolassero tra i due corpi stretti.
«Jay, non pensarci più»
sussurrò catturando nuovamente l’interesse del
ragazzo che con un sorriso disilluso rispose bisbigliando, mentre il
pianto minacciava di rompergli la voce in gola; il crollo pareva
avvicinarsi. «È difficile non pensarci.»
«Lo so, lo so».
Lo cinse tra le braccia, baciandolo con dolcezza sulle labbra e per la
prima volta sembrava Jay quello più fragile dei due
– cosa che lo destabilizzò non poco. Il ragazzo,
affondando le labbra nel petto dell’unica persona che aveva
scelto di proteggerlo, sussurrò stringendosi a lui:
«Grazie, Chaz.»
«Non si dice “grazie” a chi ti vuole
bene».
Jay non rispose subito, ma inspirò profondamente per
scrollarsi di dosso tutto il peso di quella triste giornata:
«Sto bene» dichiarò debolmente,
chiudendo gli occhi.
Chaz sapeva che era una bugia, eppure contraddirlo non sarebbe servito
a niente. Avrebbe voluto essere la brezza fresca dopo la tempesta,
quella che con un lieve soffio porta via ogni residuo di stanchezza e
di affanno, ma sapeva che una brezza non sarebbe bastata a togliere il
macigno che costringeva il cuore di Jay al dolore.
Un soffio sarebbe stato vano, serviva un'altra tempesta, e al momento
non era ancora a conoscenza dell’esistenza di quel qualcuno
che avrebbe saputo generarla.
Spazio autrice.
Secondo capitolo revisionato.
Colgo l’occasione di questo nuovo spazio autrice (revisionato
anche questo :P) per ringraziare tutti quelli che mi hanno seguito fin
dall’inizio: Elsker, LadyWolf, Bijouttina e Aven. In
più ringrazio Julie che è stata
l’ultima ad iniziare e la prima a finire :P e Nahash che mi
ha fatto un bellissimo regalo leggendo Jay tutto di filato in
pochissimi giorni (forse tre O_O)
Grazie a tutti quelli che l’hanno letta prima della revisione
e grazie a quelli che la stanno leggendo adesso. Il capitolo non
è cambiato nella sua essenza, ma l’ho sistemato un
po’, snellendolo considerevolmente, direi.
Se doveste trovare refusi mi scuso, vi giuro che ho fatto del mio
meglio >_< Se mi è sfuggito ancora qualcosa
chiedo venia.
Bloomsbury
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Capitolo 3 *** Get Lucky ***
Jay terzo revisione
"And I might get lucky
now and then
You win some, you might get lucky now and then
You win some"
Get
Lucky- Mark Knopfler
3. Get
Lucky
La luce del mattino, filtrando dalle piccole fessure delle persiane
semiaperte, illuminava debolmente la stanza e i contorni indefiniti
dei corpi
di Chaz e Jay abbandonati nel sonno. Il primo aprì gli occhi
e schiarendosi la visuale che a poco a
poco diventò nitida poté vedere la schiena
magra e pallida del ragazzo affianco che godeva delle ultime
ore di sonno dandogli le spalle.
Sorrise, avrebbe voluto accarezzarlo o abbracciarlo, ma sapeva che non
sarebbe stato il momento adatto: Jay non era lì per averlo
come amante, ma solo come amico; perciò – a malincuore – abbandonò
l’idea di approfittare di
quel momento e indossò nuovamente i panni che tanto sentiva
stargli stretti.
Si mosse adagio cercando di non svegliarlo, sollevò le
lenzuola per accompagnare i movimenti
del corpo avvicinandosi dolcemente a quello di Jay e, infine,
puntò lo sguardo oltre lui per scorgere
l’ora:
le cinque del mattino – troppo presto per
alzarsi e troppo tardi per
lasciarsi ingannare ancora dal sonno. Decise di godere di quegli ultimi
istanti in silenzio.
Fissando il soffitto poté trovare lo sfondo adatto a
svincolare
i propri pensieri che, scontrandosi con l’odore di Jay
intensificato dal calore della notte passata, prendevano sempre
più i connotati del desiderio che avrebbe dovuto
contrastare; non cullare né incoraggiare, ma solo
seppellire.
Non era
quello il momento di crucciarsi per se stesso, ma il
profumo che
svelava la sensuale freschezza della pelle bianca e priva
di imperfezioni di Jay destò le proprie consapevolezze che
già da tempo fluttuavano su un filo instabile pieno di
contraddizioni: Lui
era
nel suo letto, e nonostante lo desiderasse più di
ogni altra cosa non era la voglia insoddisfatta a turbarlo, ma la
sempre più viva certezza di non poter stargli vicino
come avrebbe voluto davvero. Sapere che non sarebbero bastati i suoi
baci o le sue carezze a
consolarlo, era il peso più grande da sopportare – in silenzio.
Immaginava che, presto o tardi, un altro uomo avrebbe richiesto le
attenzioni
che aveva segretamente cercato per sé: probabilmente non
l'avrebbe mai tollerato, pertanto era giunto il momento di decidere
cosa fare dei propri sentimenti – e alla svelta.
Decise di non pensarci per il momento, d’altronde,
tormentarsi prima del dovuto non avrebbe fatto altro che alimentare
paure e dubbi, così cedette alla
tentazione di abbracciarlo, tenendolo più stretto che poteva
nella speranza che non si
svegliasse così presto.
Fin dall'inizio si erano confessati i loro più profondi
segreti,
avevano condiviso qualsiasi cosa abbattendo le barriere psicologiche e
fisiche: Chaz e Jay non avevano paura del contatto fisico, avevano
imparato ad
apprezzare – insieme – la bellezza di due
corpi maschili stretti
l’uno all’altro; tuttavia non erano mai andati
troppo oltre
sebbene la curiosità di vedere
e toccare – per la prima volta –
il corpo di un uomo li
avesse
avvicinati più del dovuto. Ciononostante erano sempre stati
pienamente consapevoli del fatto che quelle carezze non avrebbero
dovuto minare in alcun modo la natura del loro rapporto. Jay
dimostrò fedeltà a quel proposito, non
desiderando mai nulla di più che non fosse la mera
soddisfazione delle proprie curiosità, mentre Chaz non fu
mai in
grado di rispettare appieno l’idea iniziale: aveva
riservatamente
goduto delle carezze di Jay, desiderandone ancora,
ancora e ancora…
Ormai erano cresciuti, erano entrambi alle porte della maggiore
età, quindi - malgrado non avessero mai vissuto alcuna
esperienza
più approfondita - la curiosità svanì
lentamente lasciando il posto alla più profonda confidenza
che li univa in abbracci intensi e spontanei ma, allo stesso tempo,
casti e privi di secondi fini.
Jay si mosse, intrappolato tra le
braccia dell'amico: l’incosciente sonno lo stava
abbandonando. Ci metteva sempre un po’ a svegliarsi e Chaz
rise tra
sé e sé, sapeva che avrebbe assistito ad un lungo
scontro senza esclusione di colpi tra la pigrizia e il sonno che
minacciava di abbandonarlo definitivamente; il ragazzo
stabilì che assistere a quello spettacolo sarebbe stato
deleterio - l’istinto gli avrebbe suggerito di approfittarne
-
così fece per alzarsi dal letto ma la mano di Jay gli
serrò il polso, costringendolo ad arrestarsi:
«Dove vai?» la sua voce era rotta in gola. Il
dispiacere,
alimentato dai sogni
confusi e cupi, ancora non l’aveva totalmente
abbandonato. Chaz provò compassione per la sua inaspettata
fragilità: Jay era sempre stato un ragazzo enormemente
sensibile, ma concreto, in grado di far coabitare - pacificamente - la
forza e la delicata emotività che lo rendevano
deliziosamente mutevole ma del tutto stabile ed equilibrato. I
contrasti della sua essenza, i conflitti e gli ostacoli avevano
forgiato una tempra salda e dura da
scalfire, ma stavolta il colpo sembrava devastante.
Chaz amava la complessità di Jay, anche perché
aveva imparato a conoscerla e a comprenderla. Capirlo non era mai stato
difficile: in quel momento stava chiedendo disperatamente di non essere
lasciato solo. «Volevo prepararti il
caffè». Jay sorrise e gli fece cenno con la testa
di rimettersi a letto:
«È presto, stai ancora un po’
qui». Poggiò la fronte sulla spalla di Chaz che
rimase
immobile; quei pochi minuti di silenzio gli diedero il coraggio di
affrontare il
discorso: «Cosa hai intenzione di fare, Jay?»
«Riguardo a cosa?» chiese con gli occhi
chiusi per non lasciare andare gli ultimi momenti di
rilassatezza.
«Con i tuoi genitori. Non potrai scappare per sempre, dovrai
affrontare il problema, prima o poi.»
«Lo avrei affrontato se mi avessero lasciato le chiavi di
casa fuori dalla porta» disse con un pizzico di ironia.
Alzò la testa per guardare Chaz negli occhi:
«Io non scappo mai! Affronto sempre i problemi».
Si accorse di avergli imputato un comportamento che non era solito
avere, effettivamente non era mai scappato, forse aveva omesso per
quieto vivere, ma non
era mai stata una sua prerogativa battere in ritirata davanti ad un
problema.
«Hai ragione. Voglio solo sapere come hai intenzione di
comportarti».
Jay si sedette sul letto poggiando un piede per terra,
fissò un punto imprecisato davanti a sé e,
arruffandosi i capelli come a voler far uscire a forza una buona idea
dalla testa, rispose certo delle sue intenzioni:
«Andrò al college per ritirare i risultati
dell’esame e se l’avrò passato
dovrò necessariamente tornare a casa per affrontare il
discorso sul mio futuro. Questo sarà il pretesto per
affrontare l’argomento. Appena avrò la parola,
gliene dirò tante che saranno costretti a reggersi il culo
con entrambe le mani».
Chaz rise, ritrovando con grande sollievo lo spirito battagliero di
Jay.
L’avevano umiliato, scacciato e piegato, ma non erano
riusciti a spezzarlo.
«Bravo!» esclamò Chaz con orgoglio e
soddisfazione, voleva vederlo reagire.
***
Strinse il foglio nelle mani mentre i suoi occhi carezzavano il
risultato dei suoi sforzi.
Aveva studiato con impegno - anche se non proprio duramente - ma aveva
sperato che andasse esattamente come poté appurare venerando
il risultato scritto rosso su bianco. Il voto di quel test avrebbe
potuto scrivere la storia del suo futuro.
Trovarsi una A
sul test dell’A- Level era esattamente
ciò che gli serviva per spianarsi la strada verso
l’University College di Londra.
«Sì!» gioì senza fare rumore.
L’entusiasmo per un voto non poteva essere sbandierato ai
quattro venti, anche perché, quello, era solo
l’inizio di un lungo percorso che sarebbe stato
sempre più faticoso: questo era quello che gli aveva
insegnato suo padre. Così, mosso da un sentimento
incontrollabile di
ribellione nei suoi confronti, cominciò a urlare, facendo
rimbombare la voce nel cortile del college. Saltava col pugno
in aria come un frivolo bimbetto: lasciarsi andare
all’entusiasmo non era poi così male.
«Hahn, deduco che quella sia una A»
proruppe un
suo collega indicando il foglio che Jay aveva nelle mani, interrompendo
la sua prima e spontanea manifestazione di gioia.
«Gary! Si, lo è» rispose arrestando la
sua danza: «Come è andata a te?».
Il ragazzo davanti a lui alzò gli occhi al cielo e con
leggerezza, come se non fosse successo nulla di particolarmente grave,
ammise candidamente: «L’ho consegnato in
bianco!»
Jay rimase basito davanti alla naturalezza con la quale gli aveva
spiattellato in faccia la propria sconfitta, pensò che,
forse,
la vita doveva essere presa proprio così: con leggerezza.
«Sono contento che tu l’abbia presa così
bene» tentò di nascondere il foglio dietro la
schiena, voleva
evitare di ostentare i propri successi davanti ad un ragazzo che,
invece,
aveva fallito. «Sì, non me ne frega niente, ti
dirò… sono quasi contento! Mi annoia fare sempre
il perfettino». Quell’affermazione aveva tutti i
connotati
di una frecciata e
la conferma fu lo sguardo con il quale Gary lo scrutava: sembrava quasi
disgustato. Lo guardava dall’alto in basso e Jay, non sapendo
cosa dire,
sorrise, dicendo la prima cosa che la sua mente riuscì ad
acciuffare a caso: «Essere perfettino non fa parte di te,
quindi sei perfetto così come sei…».
Non sapeva se quelle parole avrebbero alleggerito
l’atmosfera, ma fu l’unica cosa sincera che sentiva
di poter dire senza risultare costruito: credeva davvero in
ciò
che aveva appena detto.
Di tutta risposta, Gary alzò ancora gli occhi al cielo,
nauseato
dall’ingenuo tentativo del suo interlocutore di accorciare le
distanze. «Hahn, corri dai tuoi genitori, non perdere tempo
con me.
Saranno sicuramente fieri di te, come sempre». Si
voltò, incamminandosi verso l’interno della
struttura.
Jay seguì con gli occhi il cammino di Gary e il disgusto per
se stesso fu tale da fargli digrignare i denti. Si chiese
perché non riusciva ad arrabbiarsi, a reagire.
Sebbene fosse infastidito dal comportamento di Gary, sentiva di non
essere in grado di prendersela davvero con lui. Provava
pietà per se stesso e per la sua incapacità di
ribellarsi a ciò che non digeriva. Sentiva di essersi
rammollito e tutto per colpa di quel dannato giorno in cui aveva deciso
di mettersi contro suo padre.
Era stanco di lottare per farsi accettare da tutti per ciò
che era, eppure doveva fare
l’ultimo sforzo.
Era giunto il momento di informare i suoi genitori.
Sperò che quel risultato potesse appianare le divergenze, ma
qualcosa gli diceva che non sarebbe stato così facile.
Uscì dal college con l’intento di tornare a casa,
ma i suoi piedi si opposero, portandolo altrove.
Teneva il foglio stretto nelle mani, accartocciato su se stesso; non
era più così importante, anzi era diventato solo
lo specchio dei suoi pensieri: esisteva, ed era una cosa per cui essere
felici, ma sarebbe potuto
diventare presto un pezzo di carta straccia. Tutto dipendeva dai suoi
genitori, ormai.
Cominciò a piovigginare.
Alzò gli occhi verso il cielo permettendo alle gocce di
bagnargli il viso, le nuvole grigie formavano un tetto così
fitto da non far scorgere neanche il più piccolo raggio di
luce; sorrise col viso rivolto in alto, lasciandosi cullare, chiudendo
gli occhi. Si fermò e respirò adagio,
così da consentire ai polmoni di riempirsi completamente
dell’aria pastosa tipica di Londra, assaporò con
la lingua le gocce che gli avevano adornato le
labbra e niente sembrò più così
importante.
Ormai era solo, questo lo sapeva già, ma sentiva forte la
sua stessa presenza.
Essere vivo, con i piedi ben piantati per terra, erano le uniche cose
che gli importavano veramente; capì che era inutile
affannarsi tanto, lui non era solo, aveva se stesso, consapevole del
fatto che solo le scelte prese con coraggio e convinzione possono
portare alla felicità più sublime.
Ricominciò a camminare e gli occhi verdi persero il
loro colore, assorbendo le sfumature cupe del cielo sopra di
sé.
Si
ritrovò nuovamente sullo Strand senza rendersene neanche
conto e non appena rivide la facciata della chiesa si rivolse ad essa
con rabbia: «Ancora tu, fottuta chiesa». La
fissò
per pochi istanti e investito da un flashback si
ricordò che se solo avesse spostato lo sguardo sulla sua
sinistra avrebbe potuto scorgere la salvezza. Così si
voltò, ritrovando il contatto visivo
con l'entrata del bar che il giorno prima l’aveva salvato e
consolato.
Sorrise alla porta con dolcezza - come se si trattasse di un vecchio
amico - e, cambiando direzione, si avviò verso
l’entrata.
Quel bar l’aveva guarito, custodito e confortato,
così arrivò alla conclusione che quel
luogo, anziché la chiesa, poteva essere la sua Terra Santa,
la via d’uscita da quello che sembrava un gioco al
massacro tra lui e i suoi genitori.
Tra lui e Dio.
Tra lui e il mondo stesso.
Vi entrò colmo di speranza, trovandosi davanti il
tipico spaccato di vita dei bar quasi dimenticati, ma non del tutto
abbandonati. La fila di tavoli, disposti ordinatamente, creavano un
passaggio
immaginario tra l’ingresso e il fondo del locale - lo stesso
che aveva occupato il giorno prima, aspettando la fine della tempesta.
Spostò gli occhi sulla sua destra, scorgendo dietro il
bancone un ragazzo che, con una smorfia annoiata, riempiva di
frappè le lunghe coppe di vetro. Le ragazze del personale
dispensavano sorrisi ai pochi clienti
affezionati, girando come mosche impazzite intorno ai tavoli, servendo
pancakes e coppe gelato extralarge.
Un jukebox annoiato riempiva il locale della calda voce di Elle
Fitzgerald deliziando i presenti e con le luci
ammiccanti – che
minacciavano puntualmente di spegnersi per sempre – si imponeva con la
sua illogica danza, annunciando la sua imminente morte ed il
meritato congedo. Eppure, nonostante la decadenza e la scarsa cura, il
locale continuava
ad accogliere le poche anime che l’avevano scelto come unico
bar di fiducia.
Jay si indirizzò al tavolo che aveva sorretto i propri
tormenti il giorno prima e si accomodò. Si accorse di avere
ancora nelle mani quel foglio e costringendosi a
non guardarlo ancora lo ripose nella tasca dei jeans, cercando di non
pensare più a quello che avrebbe dovuto fare di
lì a poco.
Fece una panoramica generale del posto e
sentì una strana sensazione: quella di essere a casa.
Il solito profumo inebriante di caffè invase il locale,
facendogli desiderare ardentemente di averne una tazza tra le mani il
prima possibile e, dopo poco, si avvicinò a lui una ragazza:
«Ciao!»
«Ciao!»
«Cosa vuoi che ti porti?» squittì
allegramente. Aveva uno sguardo dolce e rassicurante, - lo stesso che
avrebbe voluto vedere negli occhi di sua madre, la stessa espressione
che gli aveva negato nel momento più difficile della sua
vita- scosse la testa con l’intenzione di mandare via quei
pensieri e, sorridendo, rispose sfregandosi le mani: «Per
adesso è prioritario, per me, bere un caffè
fortissimo.»
«Bevi per dimenticare?» gli chiese
scherzosamente, scribacchiando qualcosa sul block notes e Jay,
poggiando i gomiti sul tavolo, accogliendo il viso tra le
mani, rispose imbronciato: «Non sarebbe una cattiva idea
ma… no! Bevo per darmi una svegliata».
La ragazza, inaspettatamente, gli porse la mano: «Elizabeth,
puoi chiamarmi Lizzie».
Si presentò a sua volta con pacato entusiasmo:
«Hahn, Jay
Hahn». Lizzie rise inspiegabilmente, stuzzicando la
curiosità del suo interlocutore:
«Cos’è che
ti fa ridere
tanto?»
«Ma niente, scusa… cioè, mi fa ridere
il tuo modo
di presentarti, un po’ alla James Bond, e il tuo nome mi
ricorda
una canzone ridicolissima delle Pussycat Dolls.
La
conosci?»
«No!» Jay lasciò che le dita gli si
insinuassero tra i capelli neri, usava ricorrere a quel gesto
per togliersi dall’imbarazzo: un’abitudine
irrefrenabile.
La ragazza si allontanò precisando che non
c’era nulla di sbagliato nella sua presentazione e,
appuntando l’ordinazione, si congedò ammiccando.
Jay seguì l’ondeggiare generoso dei fianchi di
Lizzie, ma non appena lei sparì, i suoi occhi rimasero
impigliati ad una presenza magnetica seduta due
tavoli più lontano.
Lo sguardo fu fatale, perché Jay non aveva mai visto occhi
così eloquenti.
Il ragazzo, adagiato coi gomiti sul tavolo, giocherellava con i resti
abbandonati di un involucro di carta - umile
sudario di una cannuccia - e sorrideva impercettibilmente,
così poco da non darlo a vedere chiaramente, ma abbastanza
da fargli arricciare leggermente gli occhi. Jay non riuscì a
rispondere diversamente a quel contatto visivo complice e divertito,
infatti si lasciò paralizzare senza tanti complimenti.
Pensò che lui avesse origliato la buffa conversazione
avvenuta
con Lizzie, in caso
contrario non si sarebbe mai spiegato quel sorriso d'intesa - quasi
connivente.
Lo sconosciuto aveva la barba incolta ma ben curata – anche da quella
distanza, Jay riuscì ad immaginarne la morbidezza tra le
mani.
Tutto di quel ragazzo lo incuriosiva, soprattutto il colore dei suoi
capelli: bianchi.
La scelta stilistica sembrava un po’ azzardata, ma
sicuramente faceva il suo effetto:
barba incolta e scura, capelli candidi. A guardarlo meglio non c'era
solo stravaganza in lui, sembrava racchiudesse in
sé mondi insondabili. Sebbene la sensazione che trasmetteva
fosse pregna di innumerevoli misteri, non c'era ambiguità in
lui, anzi pareva così chiaro e trasparente da risultare
familiare. Appariva come un eccentrico saggio sulla cima di una
montagna dove nessuno avrebbe mai potuto disturbarlo: era in pace,
inarrivabile ma vicino, strano ma rassicurante, affascinante ma
genuino, bianco, nero ma anche grigio, poteva essere tutto e il
contrario di tutto ed il turbinio inarrestabile di accezioni con le
quali Jay cercava disperatamente di decifrarlo, stranamente, non
suscitava alcun imbarazzo o confusione, anzi, infondeva totale
calma. Di solito ciò che è criptico spaventa,
stavolta
rasserenava.
Abbassò gli occhi interrompendo il contatto visivo con
Jay –
che,
però, non riuscì a smettere di scrutarlo,
chiedendosi come potesse
essere possibile una cosa del genere: desiderare ardentemente un totale
sconosciuto – e si alzò,
imponendo la propria presenza nel
locale. Si avvicinò alla cassa estraendo dai jeans il
portafogli senza smettere di indirizzare lo sguardo sul ragazzo che
seguitava a fissarlo con aria imbambolata, scambiò due
parole con il cassiere e prese
l’uscita senza voltarsi.
Jay rimase inerme, come un perfetto cretino dopo un discorso
troppo intelligente. Era convinto di aver visto sul suo viso, mentre
usciva, un sorrisetto compiaciuto e si sentì stupido.
Credeva di aver assistito ad un’apparizione celestiale,
avrebbe voluto correre fuori e fermarlo, ma si sarebbe ridicolizzato.
Quel ragazzo – che forse non avrebbe
mai più rivisto
–
l’aveva trafitto da parte a parte, il cuore non era
più nel petto, era in gola e batteva
così forte da fargli scoppiare la testa.
Finalmente riuscì a staccare gli occhi dalla porta e
giocherellando nervosamente con le dita guardò ancora quel
posto lasciato vacante. Quel tavolo, però, era ancora pieno
del suo ricordo che, con
incredibile prepotenza, pulsava nella mente di Jay.
Spazio autrice.
Terzo capitolo revisionato. Grazie a tutti quelli che hanno inserito la
storia nelle Seguite/preferite/ricordate e a tutti quelli che mi hanno
seguito fino alla fine. Alla prossima.
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Capitolo 4 *** Youth ***
quarto capitolo revisionato
"Young man control in
your hand
Slam your fist on the table and make your demand
Take a stand fan a fire for the flame of the youth
Got the freedom to choose
You better make the right move"
Youth-
Matisyahu
4. Youth
Il passo spedito di Jay imprimeva le
orme dei suoi pensieri sull’asfalto, una nuova euforia
avvolgeva i suoi piedi, spingendolo ad avanzare senza arrestarsi un
attimo.
Quel gioco di sguardi avvenuto con quel tipo strano al bar lo aveva
incoraggiato e chissà per quale motivo,
d’improvviso, ebbe l’impellenza di confrontarsi con
suo padre. Più di qualsiasi cosa lo muoveva il suo rinnovato
coraggio pescato dal fondo dello stomaco che ormai, stanco del dolore,
aveva scelto di mutare l’oppressione in risolutezza. Non
voleva più essere una vittima, odiava vestire i panni
del martire. Aveva desiderato con ogni cellula del suo corpo quel
ragazzo e già questo
confermava ancora la natura che avrebbe dovuto sfoggiare con fierezza,
senza
più nascondersi o averne paura.
Chaz, seduto in cima agli scalini dell’ingresso esterno di
casa sua, si beava dell’unica giornata serena che il cielo
aveva concesso, rollandosi una sigaretta in pieno relax. Dopo aver
leccato la superficie liscia della cartina ed essersi assicurato che la
colla avesse aderito bene, alzò gli occhi e vide Jay
dirigersi frettoloso verso casa. Intrappolò la sigaretta
spenta tra le labbra e dopo aver richiamato la sua attenzione sorrise,
incuriosito dall’espressione furente dell’amico.
Jay non si voltò – aveva altre
priorità – non
avrebbe permesso a niente e a nessuno di ritardare
quell’incontro e rispondendo distrattamente
continuò a camminare come fosse un caterpillar pronto a
tutto. «Sono di fretta. Non posso. Ci vediamo dopo.»
Chaz non insistette, preferì assecondarlo, ma
osservò la figura gracile e coraggiosa del suo amico
più caro allontanarsi.
Posò i suoi grandi e luminosi occhi neri
sull’orizzonte, quantificando mentalmente la strada che Jay
stava percorrendo, contando i secondi che dividevano il ragazzo che
amava dall’incontro inevitabile che glielo avrebbe
restituito o a brandelli o vittorioso.
L’esito era incerto, ma la certezza che invece dimorava nel
cuore di Chaz era una ed una soltanto: in qualsiasi condizione ne
fosse uscito, lui ci sarebbe stato.
***
Superò l’ostacolo che il giorno prima non gli
aveva permesso di tornare a casa: spalancò la porta
d’ingresso e fece rumore, deciso ad imporre la sua presenza.
Ignorò qualsiasi dettaglio per non distrarsi da
ciò che doveva fare ed entrando nel salotto riccamente
arredato vide suo padre con il viso affondato nel giornale.
Piantò i piedi sul pavimento, con le gambe divaricate,
per assorbire da quella stabilità la sicurezza che in quel
momento gli serviva più di qualsiasi altra cosa e guardando
con
risolutezza la figura incurante di suo padre parlò senza
lasciar trasparire alcuna incertezza: «Ho passato il test.
Ho preso una A».
Continuò a leggere imperterrito, come se
l’avvento di suo figlio fosse un elemento di disturbo
da ignorare.
«È ora che io e te parliamo, papà. Da
uomo a uomo…»
«Considerando ciò che hai confessato ieri, dire
“da uomo a uomo”, è una presa in
giro».
Jay strinse gli occhi incassando il colpo – proseguire per
poi arrivare fino in fondo era diventata un’urgenza oltre che
una questione di orgoglio – così, senza
lasciarsi piegare
dalle facili ironie con le quali il padre aveva chiaramente intenzione
di affrontare il discorso, continuò:
«Papà, dobbiamo parlare del mio futuro, che ti
piaccia o no.»
«Non credo di volerlo fare…»
«Adesso!» Il respiro di Jay si fece sempre
più affannato, tanto da
costringerlo a ruggire l’ultimo avverbio che avrebbe dovuto
risvegliare il padre dall’indifferenza, ma non fu
così: proseguì con ciò che stava
già facendo,
ignorando quello che fino a pochi giorni fa era il figlio del quale
essere orgoglioso.
Jay sentiva di camminare in bilico sul filo del rasoio: dalle parole di
quell’uomo dipendeva il suo destino; così scelse
le sue con più attenzione, sperando di fare meno danni
possibile. «Papà, credo che tu, a prescindere da
ciò che pensi di me, dovresti ponderare bene quello che
fai» esitò per un
istante.
«Scacciare tuo figlio non
ti fa onore,
né agli occhi miei né a quelli di chi ti conosce.
Dimostrami che sei diverso da quello che credo». Di sorpresa
scostò il giornale svelando tutta la
collera e la delusione che vivificavano il suo volto.
I lineamenti marcati, normalmente addolciti dall’espressione
bonaria del suo essere, erano diventati più duri del solito
e la manifestazione di disappunto prese forma trasformandogli il viso
in una maschera rigida priva di emozioni.
Jay si sentì morire al cospetto di quegli occhi. Non era
più suo padre, lo sentiva, ormai era diventato un perfetto
estraneo e di certo non uno dei più amichevoli.
«Tu parli di quello che potrebbe pensare di me la gente, tu
credi di poter venire qui ed insegnarmi come ci si comporta? Sei un
ragazzino viziato e senza spina dorsale, prenditi la
responsabilità delle tue azioni, non puoi nasconderti ancora
dietro le mie spalle…»
«Proprio perché non voglio farlo sono qui adesso,
davanti a te. Non voglio giustificarmi, non lo sto neanche facendo, sto
solo dicendo che mi sembra assurdo il tuo comportamento».
Si fermò d'improvviso e cercando di riprendere le fila del
discorso che sentiva sfuggirgli dalla mani, non poté frenare
la
disperazione e l'incredulità che prese forma in una supplica
lasciata in sospeso:
«Papà, sono
tuo figlio…»
«Mio figlio è morto il giorno stesso in cui ha
tradito la natura che gli ho donato con orgoglio.»
«La natura che mi hai donato è quella che ti ho
confessato…»
«È una natura che mi fa ribrezzo»
urlò quelle parole con una forza tale da far indietreggiare
Jay. Lo sdegno era così palpabile da poterlo mettere in
ginocchio con un solo soffio, eppure lottò per non
cedere, nonostante il cuore avesse vacillato.
Si sentiva sanguinare da ogni singolo organo che lo teneva in vita,
avrebbe voluto piangere, ma lasciò che gli occhi serrati
fermassero
le lacrime che avevano appena inondato il suo sguardo. Si morse il
labbro inferiore per darsi il coraggio necessario a
trattenere tutto il dolore nel petto ed il padre, notando
quell’impercettibile cambiamento, infierì ancora:
«Vedi? Ti comporti come una donnetta. Parlare da uomo a uomo
non è così facile. Vedi lacrime nei miei occhi?
Io sono un uomo, sono forte, non sono come te».
Jay non si vergognava delle sue lacrime né tanto meno
pensava che piangere non fosse abbastanza virile, così
lasciò che cadessero, mostrando con orgoglio i
segni del suo malessere senza più nasconderle. «Se
pensi
che le lacrime siano segno di debolezza, sei un
debole tu per primo. Non piango perché mi maltratti, piango
perché sono disgustato da te e dal tuo
comportamento…» finì la frase
accrescendo la rabbia
nel tono della sua voce che, però, venne sepolta da uno
scatto
d'ira del suo interlocutore: «Come osi?» Lo
schiaffo
arrivò così inaspettato che Jay non
fece in tempo a difendersi. Si ritrovò chino sul pavimento
senza
riuscire più
a pensare. Confuso, atterrito, umiliato.
Il dolore di quello schiaffo fu così forte da lasciarlo
paralizzato sul pavimento. Non sentiva più i pensieri
scivolargli
nella mente, ma percepiva distintamente il bruciore acuto che aveva
pervaso la sua guancia.
«George, ma cosa diavolo sta succedendo?»
Apparse alla porta sua madre che non appena vide il figlio
accasciato sul pavimento si arrestò, astenendosi dal
soccorrerlo. I suoi occhi erano sconcertati, tuttavia non
intervenne. «Scusate, vi lascio
continuare…» fece
per andarsene ma la sua attenzione fu catturata dal richiamo disperato
di Jay.
Non l’aveva chiamata, le sue labbra non avevano emesso alcun
suono, aveva solo teso leggermente la mano in sua direzione.
Emma l’aveva percepito, aveva sentito il suo stesso sangue
appellarsi a lei.
Quella di Jay era una richiesta di aiuto: aveva sempre potuto contare
su sua madre, l’aveva sempre protetto, anche nei momenti
più duri e sperava potesse essere ancora così.
La madre vide gli occhi chiari e supplicanti di suo figlio tra le
ciocche scomposte dei capelli neri che, intrisi di lacrime, gli
nascondevano parzialmente il volto. Quel pezzo di laguna verde le
chiedeva aiuto in
silenzio, disperatamente. Si rivolse a lei con così tanta
angoscia da diventare assordante, quasi insostenibile, tanto che Emma
non ne poté più. Non rispose al richiamo,
voltò lo sguardo altrove lasciando la stanza senza
proferire parola.
Lo aveva abbandonato, rifiutato definitivamente, ormai era chiaro e
l’evidenza di quel fatto squarciò
irrimediabilmente il cuore di Jay, condannandolo a un pianto
inconsolabile e rassegnato. Si alzò lentamente e a fatica
fissando il vuoto con gli
occhi inanimati e spenti, avvertendo un peso greve e soffocante sulle
spalle; asciugò gli occhi con le maniche della maglia ed un
lamento involontario e sconsolato uscì dalle sue labbra,
provocando una risatina di scherno di George che, sistemati i polsini
della camicia, si avviò alla poltrona che l’aveva
visto scattare rabbioso verso suo figlio.
Jay si mise dritto, cercando di conservare quel minimo di
dignità che gli restava. Voleva chiudere il discorso sebbene
volesse, più di tutto, scappare.
Con gli occhi fissi sul pavimento articolò le parole
lentamente, senza più fingere di non provare dolore:
«Cosa avete intenzione di fare con me?»
«L’unica cosa che ti darò,
d’ora in poi, è un tetto sulla testa. Potrai
tornare a casa, ma dimentica l’università,
dimentica i privilegi che i miei soldi ti hanno
assicurato fino ad oggi. Tu, ormai, non fai più parte di
questa famiglia,
dovrai cavartela da solo…»
«È già qualcosa.»
lo interruppe, pronunciando quelle parole a fior di labbra.
Sentiva il freddo intrappolargli le vene, gli unici impulsi che gli
suggerivano di essere ancora in vita erano i brividi che, ormai,
avevano
sopraffatto ogni recesso del suo corpo. Passò la lingua tra
le labbra avvertendo il sapore metallico e rugginoso del sangue,
gettò un altro fugace sguardo al padre che, nel frattempo,
aveva ricominciato a leggere e si avviò verso la porta
d’ingresso.
Prima di uscire scorse sua madre in cucina: pareva triste o, forse,
cercava solo di crederlo; così decise di farsi bastare i
tentativi che
aveva appena sfoderato a vuoto, mise la mano sulla maniglia ed un flash
veloce gli ricordò gli occhi di quel ragazzo che tanto
l’avevano incoraggiato.
Si sentì uno stupido.
Come avrebbe potuto sperare di riuscire a vincere la delusione
facendosi sostenere dallo sguardo di uno sconosciuto?
***
Camminò in direzione di Chaz che lo stava aspettando
accovacciato sul ciglio della strada – vederlo lì,
in attesa
di notizie, lo rincuorò. Lo fissò con gli occhi
colmi di gratitudine percorrendo il tratto di strada sempre
più speditamente: lui era l’unico a cui
importasse realmente qualcosa.
L’amico sorrideva guardandolo avvicinarsi, ma
l’espressione mutò velocemente non appena vide il
viso di Jay sempre più vicino, più chiaro,
sempre più leggibile. Si alzò e spalancando le
braccia chiese a bassa voce – sebbene conoscesse
già la
risposta: «Non è andata bene, vero?»
Jay lo raggiunse senza proferire parola e si perse nel suo abbraccio,
cercando forza e conforto. Chaz lo strinse più forte che
poteva, sperando di potergli placare i singhiozzi: «Ci sono
io. Andiamo a casa mia, dai!»
Staccandosi improvvisamente si sforzò di
sorridere, si asciugò ancora le lacrime. «Sto bene
e ho anche una buona notizia per te, Chaz: non
dormirò più nel tuo letto». Nel
tentativo di celare il suo reale stato d’animo rise
forzatamente, non convincendo il ragazzo difronte che rispose al
sorriso con amarezza.
Conoscendo i genitori di Jay, non si aspettava di certo un candido:
“bentornato a casa, figliolo”; ma neanche
ciò che aveva davanti agli occhi. Scrutò il suo
viso con attenzione volendo percepire lo
stato d’animo racchiuso all’ interno dei segni
lasciati sul viso, lo prese per mano per trascinarlo a casa ma l'altro
non glielo permise. Si rese gelido e irremovibile.
«Che c’è, Jay?»
Seguirono istanti di silenzio in bilico tra l’incertezza ed
il terrore di perderlo. In quel momento di instabile quiete, la
coscienza di non poter essere all’altezza della situazione
schiacciò il cuore di Chaz in una morsa fatale, inducendolo
a chiedersi se sarebbe mai stato capace di proteggerlo. Temeva di non
esserne in grado. Lo strattonò con dolcezza per
risvegliarlo, per non dargli il tempo di far ristagnare il dolore
troppo a lungo, ma il ragazzo reagì al tocco arretrando.
«Che ti prende?» chiese con dolcezza e Jay,
guardandolo con furore, rispose urlando: «Sono-
incazzato- nero!!!» ruggì quelle parole con tutta
la rabbia che aveva in corpo,
stringendo i pugni tanto da farsi male. Chaz trasalì e
guardandosi intorno chiese scusa ai passanti che si erano voltati
spaventati.
«Cazzo, Jay. Datti una calmata!»
«Col cazzo che mi do una
calmata». Intraprese un
cammino insensato, serrando i denti, inseguito da Chaz che non sapeva
dove
stesse andando né che intenzioni avesse, perciò
sarebbe
stato impossibile lasciarlo solo.
Riuscì ad affiancarlo e seguendo il ritmo del suo passo lo
supplicò guardandolo in faccia: «Ho capito che sei
sconvolto, ma non puoi metterti a fare il pazzo in mezzo alla
strada.»
«Lasciami stare, Chaz, per favore. Sono troppo incazzato per
mantenere il contegno. Guardate gente…»
urlò pericolosamente spalancando le braccia, presentandosi
al mondo con rabbioso sarcasmo «Sono il figlio fallito di
George Hahn, l’uomo distinto che abita alla fine della
strada, e sono fro…». Chaz gli
tappò la
bocca prima che potesse continuare con lo spettacolo e guardando oltre
si augurò di scorgere
almeno un’anima che non si fosse accorta di lui.
«La vuoi piantare con questa scenata? Sembri un
bambino viziato».
Jay si divincolò dalla presa ponendosi di fronte a lui.
«Cos’è? Anche tu ti vergogni?»
«No, cioè, dico solo che un eterosessuale non si
mette a gridare: "sono un eterosessuale", come adesso stai facendo
tu…»
«Giri di parole! Solo schifosissimi ed inutili giri di parole
per non dire che hai paura, che ti vergogni di dire liberamente chi
sei.
Nessuno ti costringe a farlo ma a me... lascia fare quello
che cazzo voglio».
Chaz, lasciandosi cadere le braccia lungo il corpo, rispose cercando di
ridimensionare i toni: «Ok, Jay! Va bene. Capisco che tu non
voglia razionalizzare, ma ormai è andata così,
è inutile che ti incazzi. Non accusare me solo
perché sei furioso con i tuoi. Ti sei preso la
responsabilità delle tue azioni e del tuo essere, questo va
più che bene, ma non puoi pretendere la stessa cosa da chi,
come me, non ha voglia di buttare in pasto alla gente i propri fatti
personali. La pensavi così anche tu fino a qualche tempo
fa».
Jay proseguì sulla strada fermandosi di tanto in tanto,
confondendo ancora di più Chaz che nel tentativo di stargli
a passo si ritrovava continuamente sballottato dalla furibonda energia
dell'amico sempre più adirato.
«Sai da quando non la penso più così?
Da quando ho visto le uniche persone di cui mi fidavo voltarmi le
spalle. Il silenzio accresce la paura e
l’insoddisfazione» interruppe
l’illogico percorso sedendosi su un muretto in mattoni
collocato alla fine della strada. «Chaz,
l’omertà porta le persone a snaturarsi, come ho
fatto io, come hai fatto tu. Abbiamo passato gli anni più
belli della nostra adolescenza a nasconderci e per cosa, cazzo? Per
cosa? Per compiacere gli altri. E noi? Di noi se ne fregano
e mentre noi ci sforziamo a rinnegare il nostro
stesso essere loro si
vantano della specialità dei loro figli. Ipocriti, falsi e
bigotti. Babbei. Sempliciotti, omini boriosi pieni di prosopopea e
merda in corpo».
Chaz fissò muto il viso di Jay senza più
controbattere, non poteva più farlo: malgrado la rabbia
sembrava fin troppo lucido, come non lo era mai stato e sapeva che
in fondo aveva più che ragione, tuttavia non se la
sentiva di sputtanarsi
così come stava facendo l'altro: desiderava vivere
tranquillamente, come aveva fatto fino ad allora.
Jay lo guardò ancora irritato – non ce
l’aveva
affatto con lui, ma la voglia di scappare da quell’ipocrisia
era troppo forte – così, senza
più attendere
risposte, scese dal muretto con un salto e cominciò a
correre.
Chaz rimase imbambolato seguendo con gli occhi sconfortati la corsa
di Jay e gli chiese tra sé e sé, corrucciando le
sopracciglia, a bassa voce, quasi con tenerezza: «Ma
perché? Perché corri sempre, Jay? Sempre a
correre. Non ti stanchi mai».
Lo osservò dissolversi all’orizzonte e sorrise con
dolcezza. Sarebbe tornato, lo sapeva. Frenò
l’istinto di seguirlo, lo lasciò andare,
consapevole del fatto che tutto, tra loro, sarebbe ritornato come al
solito.
Le luci dei lampioni sulla strada si accesero accompagnando Jay verso
un orizzonte cremisi ricco di possibilità.
Come le luci sulla strada, il suo cuore si riaccese di speranza
e si sentì come se la sua anima si fosse liberata di un
piccolo mucchietto di detriti gettati con noncuranza da chi
più aveva amato. Corse controvento gustandosi
l’aria fresca e leggera della sera, godendo di quella
leggerezza d’animo inaspettata. Respirò a pieni
polmoni e capì ciò che doveva fare: avrebbe
rimosso pezzo per pezzo ogni peso dal suo cuore. Poco per volta,
senza pretendere troppo. Avrebbe contato su di sé e sarebbe
andato avanti. Sarebbe stato lui “la tempesta”.
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Capitolo 5 *** Green Light ***
Capitolo 5
"Gatsby believed in the
green light, the orgastic future
that year by year recedes before us. It eluded us then, but
that’s no matter – tomorrow we will run faster,
stretch out
our arms farther… And one fine morning.
So we beat on, boats against the current, borne back
ceaselessly into the past."
Gatsby
Believed in the Green Light - Craig Armstrong & Tobey Maguire
5. Green Light
«Quindi, tuo
padre è un barrister?»
chiese Lizzie sistemando i tovaglioli nei dispenser posizionati sul
bancone, mentre Jay – adagiato su un tavolino con
l’aria imbronciata – giocava con la cannuccia
disfacendo gli ultimi residui di frappè lasciati nella
coppa. «Sì, è un barrister della Gray’s
Inn. Per questo è un grandissimo rompi
coglioni!»
«Jay, hai la
faccia da angioletto ma a volte ti lasci andare ad un linguaggio che
non ti si addice proprio… mio caro figlio di un barrister!».Al ragazzo
suonò come un’offesa quel “caro figlio
di un barrister”,
ma preferì non dare forma a quell’impressione.
Alzò lo sguardo e tutto ciò che vide fu il tepore
di un luogo non suo, ma che si rivelava in tutto il suo accogliente
calore. L’ora tarda conferiva al locale un aspetto meno
allegro, ma certamente più intimo. Sorrise nel sentire di
essersi lasciato alle spalle un piccolo peso. Il bar sembrava
differente nel suo aspetto o, forse, erano stati i suoi occhi a
cambiare: ciò che prima sembravano tavolini afflitti sui
quali piangere adesso parevano piccole isole pronte ad accogliere
sorrisi, magari nuovi incontri. Osservò ogni particolare ed
estese lo sguardo sul jukebox sfiancato dai troppi anni di servizio.
«Non sarebbe ora di comprarne uno nuovo?».
Lizzie lo
fissò stupita – sapeva che si stava riferendo al
jukebox – e con finto sdegno lo rimproverò:
«Trovo che sia un gesto riprovevole sbarazzarsi delle cose
inutilizzabili che sono care al nostro cuore e, ancora peggio, se
dimostrano di essere perfettamente in grado di adempiere ai propri
doveri nonostante tutto. Ora, mio caro Hahn, Jay Hahn, scegli una
canzone e balliamo!»
«Ma
no…» protrasse quella “O” per
tutto il tragitto fino al jukebox lasciandosi trascinare da una Lizzie
decisa a dimostrargli l’incerta funzionalità di
quel gracchiante dispensatore di musica e di intrattenimento del
dopoguerra. Jay, trovandosi davanti agli occhi il gettone offertogli,
rispose all’invito rassegnato, cedendo al volere della
ragazza. Sbuffò stancamente per un istante e
afferrò la moneta. «E va bene! Un lento, Miss?»
Lizzie non nascose neanche per un istante l’entusiasmo e
poggiando la testa sulla sua spalla dichiarò con tono
seducente le sue reali intenzioni: «Certo che sì!
Come potremmo stare stretti senza un lento?». Il giovane
sorrise, lasciandosi trascinare dal neanche troppo velato
corteggiamento.
«Direi: La
vie en rose?» Lizzie si accostò languida
per leggere il titolo che l'altro stava indicando con il dito e
appoggiandosi ancora a lui acconsentì.
Il gettone venne
inghiottito dalla fessura un po’ arrugginita del jukebox che
rumoreggiava come se stesse per sfasciarsi in quel preciso istante,
tuttavia – contro ogni pronostico – lo stridente
rumore della puntina si trasformò nelle prime note
inconfondibili sgorgate dalla tromba di Louis
Armstrong; quindi offrì la mano alla ragazza che
con una piroette si ritrovò stretta tra le sue braccia.
Un anziano, Charles,
– l’unico ad essere in quel bar oltre a loro
– li osservò con silenziosa malinconia, con lo
sguardo aggrappato a chissà quale ricordo. Stava stretto al
suo bastone, gustandosi la danza con gli occhi addolciti dal tempo.
«Balli bene,
Hahn, Jay Hahn» bisbigliò, aggrappandosi alle sue
spalle. Lui si lasciò trasportare dalla musica e
dall’abbraccio caldo e rassicurante di Lizzie. Chiuse gli
occhi conducendo il ballo senza pensare a niente finché una
carezza abbastanza eloquente gli fece capire che, forse, era arrivato
il momento di mettere in chiaro alcune cose. Perciò,
imbarazzato, aprì gli occhi, sorrise brevemente e
tentennando tra una parola e l’altra provò a
spiegarle come stavano le cose. Il corteggiamento di Lizzie non gli
dispiaceva ma era certo che se lei avesse saputo, le cose sarebbero
state diverse. Sarebbero cambiate.
«Lizzie,
io… avrei un paio di cose da dirti.»
«Lo so
già che sei omosessuale».
Con uno scatto si
staccò da lei: era incredulo. La fissò cercando
di capire come potesse essere a conoscenza della cosa, non credeva di
essere così indovinabile, così trasparente.
«Ti chiedi,
come lo so?!» una sottile nota di sarcasmo sibilò
nel tono di voce di Lizzie.
Jay le prese le mani e
l’allontanò da sé per osservarla al
meglio, corrucciò la fronte fino a fare arricciare il naso e
con espressione scherzosa chiese incuriosito: «Ma, per caso,
sculetto quando cammino?».
Lizzie si
lasciò andare ad una fragorosa risata, eccessiva ma
trascinante e così scrosciante da essere contagiosa. Dopo
essersi concesso un attimo di ilarità, tornò sul
punto liberandola dalla presa: «Adesso»
cominciò incrociando le braccia, rivolgendosi a lei con
falsa arroganza: «Spiegami come lo sai!»
«Calma, Jay
Hahn! Lo so perché, esattamente come io guardavo te
– presa dalle tue meravigliose labbra– tu guardavi
Izaya… con la stessa mia espressione».
Divenne paonazzo come un
bollitore pronto ad esplodere e lei, puntandolo con il dito, lo
canzonò: «Sei un libro aperto Hahn, Jay
Hahn!»
«Puoi
chiamarmi Jay, non c’è bisogno di sottolineare
continuamente il fatto che io mi presenti come un babbeo.»
Sorrise: «Si chiama Izaya, quindi?»
Lizzie, gettandogli le
braccia al collo, avvicinò le proprie labbra a quelle di
Jay, saggiandone lievissimamente la morbidezza.
«Già! E puoi stare tranquillo, tesoro: Izaya
è qui ogni santo giorno, quindi lo rivedrai sicuramente
molto presto».
Sorrise
impercettibilmente accogliendo con soddisfazione la lieta notizia. Era
felice, ma di fatto non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, non aveva mai
avvicinato un uomo in vita sua, tanto meno uno come Izaya. I dubbi lo
assalirono, costringendolo a farsi mille domande: si chiese se fosse
omosessuale e si disse che una fortuna così sfacciata non
poteva fare parte della sua vita, soprattutto in quel momento.
La nuvola nera e
minacciosa della sfortuna, accompagnata al suo pessimismo cosmico, gli
diceva che quel ragazzo non solo era etero, ma anche sposato, con dieci
figli al seguito. Un uomo così non poteva essere solo e
sapeva di non possedere le carte giuste per attirarlo a sé.
«Che tu
sappia, lui ha una ragazza?» chiese spostando gli occhi fuori
dalla porta del bar – come se stesse chiamandolo
disperatamente – e lei, abbandonata sulla sua spalla, ancora
intenta a dondolarsi sulle ultime note de La
vie en rose, rispose con tono rilassato:
«L’ho visto spesso con ragazze, ragazzi, non ti so
dire in che rapporti fosse con ognuno di loro. Non so molto di lui.
È una di quelle persone che ho conosciuto qui e ho
continuato a frequentare qui, di conseguenza so veramente poco di lui.
Non abbiamo mai parlato di cose personali, ecco»
«Quante
probabilità ci sono che lui possa essere…
beh…»
«Omosessuale?»
lo precedette sognante – nascondeva gli occhi
nell’incavo tra la spalla ed il collo di lui, respirando il
suo profumo. «Una probabilità su cento se sei uno
sfigato, novantanove possibilità su cento se sei uno
fortunato!»
«Andiamo
bene!» esclamò alzando gli occhi al cielo,
cosciente del fatto che la fortuna, nell’ultimo periodo,
aveva scelto di esplorare altri lidi e tutti incredibilmente lontani da
lui.
La strinse tra le
braccia e si accorse solo in quel momento quanto avesse desiderato
farsi abbracciare da qualcuno.
Chaz l’aveva
fatto, ma non era riuscito a farselo bastare. La tensione di quel
momento, dopo l’incontro con suo padre, non gli aveva
permesso di godere appieno delle sue attenzioni, eppure lui
c’era stato. Si sentì in colpa a pensarlo inerme
dietro di sé mentre scappava a gambe levate, estromettendolo
da quel momento della sua vita. Pensò a lui incessantemente,
a come si erano lasciati, e riflettendo sul loro rapporto
cercò di tranquillizzarsi: avevano sempre litigato
furiosamente per poi fare pace come se nulla fosse, quello era il caso,
– avrebbero sicuramente chiarito – ciò
nonostante il mancato ottimismo gli accartocciò il cuore al
solo pensiero di perderlo, tuttavia rinsavì in fretta nel
momento in cui Lizzie concluse una frase: «Che buon profumo
hai, Hahn. È uno di quei profumi che rimangono impressi
nella mente. È come una droga e invidio l’uomo che
avrà la possibilità di averti, con tutto il tuo
odore».
Jay sorrise della
spontanea schiettezza di Lizzie e pensò che, in qualche
modo, l’uomo al quale aveva dato tutto se stesso –
con tutto il suo profumo – era proprio Chaz. Non credette
totalmente a quello che aveva appena detto la ragazza, ma
rammentò con chiarezza la bellezza e la forza innata del
rapporto che era riuscito a costruire con il suo migliore amico.
Non l’avrebbe
mai abbandonato per una discussione sciocca, Chaz sarebbe sempre stato
presente nella sua vita, adesso lo sapeva.
Il loro legame non
poteva essere disciolto nell’acqua come una stupida aspirina,
era un dare e avere eterno, un equilibrio sottile ma ben saldo.
Strinse ancora Lizzie
benché la musica fosse finita. I pensieri negativi volarono
via, uscendo dalle vetrate di quel bar che ormai era diventato un
piccolo universo sospeso nel tempo.
***
«Non avevi
detto che non avresti più dormito nel mio letto?»
chiese Chaz con tono ironico, mentre Jay si rintanava tra le lenzuola
calde dell’amico. Non appena trovò una posizione
accettabile puntò gli occhi sul lampadario tondo che
raffigurava l’abbraccio impossibile tra il sole e la luna e
pensò ad una risposta che potesse essere soddisfacente,
così cercò di essere sincero il più
possibile.
Non fu difficile
esserlo, poiché la vicinanza di Chaz lo
ricostituì, tanto da conferirgli una serenità
tale da infondergli il coraggio giusto per poter riprendere il
discorso. Non aveva più paura della risposta che avrebbe
ricevuto. «Sono qui per diversi motivi: il primo è
che non mi piace come ci siamo lasciati oggi, e lo so che sei
incazzato, che ce l’hai con me, ma voglio chiederti
scusa.» Abbassò la testa, pronto ad incassare.
Chaz lo fissò
intenerito – non credeva che i tumulti potessero alimentare
tale insicurezza, soprattutto sul loro rapporto –
così decise di essere paziente, e stringendolo a
sé lo rassicurò: «Sai che non me la
sono presa. Sarei uno stronzo se infierissi ancora, ho capito che eri
scosso».
Jay spostò lo
sguardo su Chaz: come al solito, era stato comprensivo e attento.
Sorrise, ritrovando ancora gli occhi rassicuranti di colui che aveva
invaso i suoi preoccupati pensieri. Si rese conto di essersi messo in
allarme inutilmente, lui non l’avrebbe mai abbandonato.
«Quali sono
gli altri motivi?».
Titubò per un
istante, insicuro sul da farsi. Sapeva che avrebbero ancora parlato dei
suoi genitori e sentiva di non averne voglia. «Altri
motivi!»
«Chiaro! Jay,
tu puoi venire qui tutte le volte che vuoi, non farti problemi,
qualsiasi sia il motivo».
Anche Lizzie gli aveva
detto quelle parole e si sentì fortunato. Nella sfortuna di
quegli eventi aveva trovato chi volesse prendersi cura di lui.
Chaz si distese
definitivamente sul letto, spalla a spalla con il suo più
caro amico e incrociando le mani dietro la nuca chiarì la
sua posizione: «Io non condivido la tua scelta. Avresti
potuto vivere la tua vita senza dover dire tutto ai tuoi,
però ti capisco e non posso giudicarti, tuttavia credo che
tu sia troppo dipendente dall’approvazione dei tuoi genitori.
Hai riposto troppa fiducia nel loro giudizio, sei sempre alla ricerca
del loro parere e questo ti ha spinto a fare l’errore
più grande della tua vita…»
«Non rinnego
niente di quello che ho fatto. Chaz, io lo rifarei. Chiamami masochista
se vuoi, ma questo mi ha aiutato a capire me stesso e a vedere in modo
obiettivo i miei genitori. Stai certo che non commetterò
più l’errore di cercare la loro approvazione.
Adesso la mia vita è davvero mia».
Chaz non seppe
più cosa dire, ma avrebbe voluto trovare una spugna per
cancellare i giorni passati.
Sapeva che Jay non
sarebbe più andato all’università e che
avrebbe abbozzato una vita disordinata e senza radici: non era questo
ciò che aveva sognato per lui. Pertanto, con tono
rassegnato, concluse ad alta voce i suoi pensieri: «Saresti
potuto diventare qualcuno e mi rode solo a pensare che, invece, ti sei
solo complicato la vita.»
«Pensa a te
una volta tanto. Pensa ai tuoi sogni, alla tua vita, non pensare a me.
Stai sereno, sto bene!».
Se avesse potuto gli
avrebbe confessato tutto il suo amore in quell’istante.
Chaz avrebbe voluto
urlargli che non è possibile pensare a se stessi quando la
persona che ami vive il momento più duro della propria vita,
ma scelse di tacere, spaventato dalle conseguenze che ne sarebbero
scaturite. Non gli andava di dargli altre preoccupazioni, ma
trattenersi stava diventando un vero massacro.
«Ho conosciuto
un ragazzo, sai?».
Le parole inaspettate di
Jay colpirono dritto al punto più indolenzito della sua
anima. Il cuore di Chaz perse un battito, lo lasciò
incollato ai sentimenti che aveva chetato con la forza per tutto quel
tempo. Mille ipotesi si accavallarono nei suoi pensieri: avrebbe potuto
reagire e confessare, urlargli contro quanto quella notizia
l’avesse devastato o fingere di essere felice per lui.
La scelta più
sensata ricadde su ciò che, più di tutto,
l’avrebbe condannato a soffrire ancora: «Ah,
sì?! Sono contento. Chi è?»
«Cioè,
non è che l’ho conosciuto, l’ho visto e
non ci ho neanche parlato. Però vorrei rivederlo.»
«Sono
contento, Jay! Vedi?! C’è stato qualcosa di
positivo in mezzo a tutto questo sfacelo.» Ipocrita: fu la
prima parola che apparì chiara nella sua mente.
«Sarei falso
se ti dicessi che c’è stato solo questo di
positivo. Mi sono successe un sacco di cose belle: ho conosciuto una
ragazza dolcissima, ho trovato un posto bellissimo dove andare a stare
quando i miei pensieri decidono di tormentarmi, sto qui con te adesso.
Queste, sono tutte cose belle».
Intenerito dal disperato
bisogno di Jay di trovare qualcosa di consolante, abbandonò
ogni idea di rimuginare troppo su ciò che avrebbe dovuto
fare. Avrebbe confessato, ne era certo, ma non in quel momento.
«Mi stupisci, come sempre! Nonostante tutto ti appigli alle
piccole cose per trovare il lato positivo.»
«Sai
perché mi chiamo Jay?»
«No!».
Si alzò dal
letto e avvicinandosi alla libreria cercò con gli occhi un
libro che aveva prestato a Chaz e che non gli aveva mai restituito.
Passò le dita
sui libri leggendo mentalmente ogni titolo, e soffermandosi su uno in
particolare lo estrasse per poi raggiungere di nuovo il letto.
«Mia madre
amava Il
grande Gatsby, nello specifico amava Fiztgerald,
però era particolarmente attratta dal personaggio di Jay
Gatsby per
un motivo, anzi, per un concetto in particolare…».
Sfogliò il
libro come se lo sapesse a memoria, infatti, il suo indice
fermò lo scorrere delle pagine su ciò che
cercava, e con voce pacata lesse: «E mentre meditavo
sull'antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima
volta che individuò la luce verde all'estremità
del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato
azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino
da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era
già alle sue spalle, in quella vasta oscurità
dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si
stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde…»
«E con
questo… che cazzo vuoi dire?» Cominciò
a ridergli in faccia: «Mi spiace, ma non colgo la
profondità di questo estratto. Cioè, non trovo il
nesso con te.»
«Lei
desiderava che io potessi diventare un uomo come Jay
Gatsby. Mia madre, dico. La propensione
alla speranza, era l’unica cosa che incoraggiava Gatsby a
combattere per raggiungere i propri obiettivi. Io ho fatto mia questa
cosa, abbracciandola in pieno. Io
credo nella luce verde, Chaz!»
L’amico
scoppiò ancora a ridere, trovando nella solennità
del suo tono di voce una comicità irresistibile. Lo
tirò a sé energicamente, costringendolo a
distendersi accanto a lui. Il libro cadde e Chaz, guardando il viso
imbronciato davanti a sé rispose con tenerezza:
«Tu sei malato di testa, però sei simpatico, dai!
Mi fai sempre fare un sacco di risate.»
«E tu sei
sempre il solito cretino. Comunque: può essere.
Sì, può essere che sono malato di testa, ma
sperare è l’unica cosa che mi resta. In tutto
questo marasma, l’unica cosa che posso fare è
questa, cercando di notare solo le cose belle che mi circondano. Se
dessi peso solo alle cose brutte rischierei di non avere più
il coraggio di sperare.»
«Siamo
d’accordo.»
«Credo di
potercela fare. Ad uscire illeso da questa storia, intendo. Il primo
scoglio è stato superato».
Chaz squadrò
Jay con dolcezza: aveva fatto di tutto in pochi giorni per cambiare la
propria vita, lottando, soffrendo.
Il ragazzo che amava
stava combattendo con coraggio, mentre lui si nascondeva. Nascondeva
ciò che era al mondo, celava i suoi sentimenti a chi amava e
presto avrebbe dovuto lasciare il passo a qualche stoico stronzo che
glielo avrebbe portato via per sempre. Pensò al ragazzo del
quale gli aveva parlato e sentì sobbollire il sangue nelle
vene. Sarebbe stato questo o un altro, non avrebbe fatto alcuna
differenza, ma presto se lo sarebbe visto portare via da qualcuno.
Non poteva
più permetterlo. La rabbia e il bisogno di esplodere,
lasciando che i pezzi di se stesso si frangessero su ogni cosa,
diventarono più forti del giudizio, della paura,
dell’insicurezza.
Le guance si colorarono
e gli occhi si accesero, mostrando chiaramente un bagliore di
risolutezza nel fondo del suo sguardo.
Jay percepì
la sfumatura del cambiamento: «Chaz, che ti
prende?». La preoccupazione per quella strana espressione lo
costrinse ad afferrare le mani dell’amico che con uno scatto
lo atterrò sul letto costringendolo sotto il suo peso.
Il calore accrebbe il
desiderio di baciarlo, così avvicinò le sue
labbra a quelle dell’altro senza sfiorarle.
Jay rimase di sasso.
Altre volte erano stati
così, l’uno sull’altro, ma la percezione
che ebbe di quel contatto fu del tutto diversa.
L’espressione
di Chaz era diversa.
Si lasciò
schiacciare da un peso che non sembrava affatto quello che conosceva.
Era pressante, incalzante, travolgente.
Le punte delle dita si
sfiorarono, provocandogli un brivido insolito lungo la schiena mentre
il viso di Chaz, sempre più irriconoscibile, prendeva
connotati del tutto diversi. Jay aveva un ragazzo sconosciuto sopra di
sé, non il suo amico, il suo solito amico.
La confusione aggiunta
al desiderio irrigidì ogni suo muscolo, fino a farlo
diventare un fascio di nervi scoperti atto a percepire distintamente
ogni cosa: il respiro affannato di colui che lo pressava, le mani
incrociate con le sue, il profumo dei due corpi insieme, la pelle
liscia e calda.
Lo stordimento prese il
sopravvento, lasciando Jay inerme sotto al peso delle intenzioni e del
cuore di quello che pareva un estraneo, però, nel momento in
cui la sua resistenza pareva indebolirsi, la prepotenza di Chaz
mutò, diventando più leggera e controllata: si
arrese alla paura che lo rinchiuse in un limbo dove
l’incertezza pareva gustarsi sadicamente il resto delle sue
intenzioni gettate al vento. In un momento, in un solo istante,
l’azione avventata del ragazzo si ritrovò a
barcollare su un filo invisibile, in bilico tra il suo precario
proposito di uscire allo scoperto e la falsa stabilità che
aveva costruito in tutti quegli anni. Jay rimase fermo ad aspettare.
Sentiva lottare due lati di Chaz sopra di sé, li percepiva,
ma gli serviva una conferma di ciò che pensava. Sentiva
desiderio, ma l’amico si staccò,
ostentò un sorriso forzato e si sdraiò accanto a
lui. Quella conferma non arrivò, lanciando Jay
nell’incertezza. Com’era cominciato, tutto era
finito: senza preavviso, senza parole. Quello che era appena successo
si trasformò in pochi istanti in una specie di sogno, in uno
stato di sovrappensiero.
«Jay,
Jay…» cantilenò stropicciandosi gli
occhi.
«Chaz?» Avrebbe
voluto porgli tante domande, ma aspettò che fosse
l’amico a parlare. Non avrebbe mai potuto aprire un discorso
nel dubbio di essere stato ingannato da un’impressione senza
fondamento.
«Tu,
sei importante per me, Jay. Sei il mio migliore amico.»
«Anche
tu sei importante per me…» rispose bisbigliando,
con gli occhi puntati sul soffitto.
Quella
frase non concretizzò le sue supposizioni, anzi rese ancora
più indistinto il contorno di quell’avvenimento. I
comportamenti che si susseguirono non fugarono alcun dubbio, ma
portarono Jay a domandarsi se i suoi pensieri non fossero altro che lo
specchio dei suoi desideri.
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Capitolo 6 *** Fly Me to the Moon ***
Sesto capitolo
"Fill my heart
with song
And let me sing for ever more
You are all I long for
All I worship and adore
In other words, please be true."
Fly
Me to the Moon- Frank Sinatra
6. Fly Me to the Moon
Jay
portò Chaz al suo bar di fiducia, sperando potesse
diventare un posto speciale anche per lui. Era come se volesse
rinchiudere nello stesso spazio tutto ciò che gli era
più caro: persone, cose, sorrisi. Voleva tenere tutto
stretto al petto, con tutte le sue forze, per questo sperò
di poter fare conoscere e apprezzare quel piccolo mondo a Chaz che,
guardandosi intorno, constatando la semplicità e
l’adorabile trasandatezza di quel luogo, non poté
fare altro che intenerirsi come se avesse davanti una nonnetta
abbandonata. Dopo il primo impatto spostò l'attenzione su
Jay,
osservandolo di sottecchi per afferrare e
comprendere il suo stato d’animo: era felice e cercava Lizzie
con gli occhi impazienti, come un bambino davanti ad una giostra in
attesa del proprio turno. I lineamenti del viso erano rilassati e gli
occhi vivacizzati dalla trepida attesa, le mani si incastravano tra
loro
tormentandosi a vicenda: ciò che l’aveva
tormentato per tutti quei giorni, rendendolo cupo e costantemente
nevrotico e triste, sparì in un attimo, ed era bastato
entrare
nel locale perché quella magia avvenisse. Chaz
capì che l’amico aveva trovato un rifugio ma
ciò
non lo sollevò, anzi accrebbe la gelosia che si
accanì
contro le
mura imbiancate di quel bar da quattro soldi che insieme ad una totale
sconosciuta erano riusciti, più di quanto avesse fatto lui,
a rendere Jay davvero felice. Il suo letto non era più
l’unico luogo nel quale il ragazzo che amava si sarebbe
sentito protetto.
«Lizzie!»
«Il mio adorato Hahn».
Chaz dovette fare da spettatore ad una scena che sentiva di odiare a
prescindere: la ragazza abbracciava Jay stringendolo a sé
con una confidenza insopportabile, quasi invasiva, e la cosa peggiore
era proprio il fatto che entrambi sembravano bearsi di quel contatto
familiare ed intimo con una soddisfazione così evidente da
stizzirlo.
Lizzie fu attirata dalla presenza insolita e silenziosa che li
osservava furtivamente e liberando Jay dalla stretta si
avvicinò a Chaz, squadrandolo.
«Benvenuto.»
«Grazie».
Finiti i convenevoli si scostò da lui, si
avvicinò ancora
al suo amico e dopo avergli rimosso il ciuffo dagli occhi
affermò con tono sicuro, dando forma alle sue supposizioni:
«Quindi, questo è il tuo ragazzo». Si
allontanò dirigendosi ad un tavolo vuoto e Chaz, perplesso,
chiese a denti stretti: «Le hai detto che sono il tuo
ragazzo?»
«Veramente, no! Le ho detto che sei il mio migliore amico.
Temo si sia fatta un film» rispose candidamente,
inconsapevole della delusione di Chaz che, ingenuamente, aveva sperato
che Jay le avesse parlato di lui in quei termini. La cruda
verità si ripresentò, facendo soccombere
una vana speranza appena nata.
Si diressero entrambi al tavolo che Lizzie aveva offerto loro e Chaz,
posando gli occhi su ogni singolo particolare di quel luogo,
sentì di non amarlo tanto quanto Jay che, eccitato come
poche volte nella vita, si accomodò accanto alla ragazza.
«Lizzie, non è il mio ragazzo. Io non ho un
ragazzo, ricordi?»
«Ah, già, che stupida!».
Le carezze continue di lei si imposero come un terzo incomodo,
infastidendo il nuovo arrivato che se avesse potuto avrebbe dato corpo
alla sua
gelosia, levando le mani di quella sprovveduta dal viso di Jay.
Sperando di poter mettere fine a quel continuo scambio di tenerezze,
incrociò le braccia poggiandosi allo schienale, fingendo
rilassatezza e interesse. «Come si chiama questo
posto?»
«Non ha un nome. Non è un gatto o un bambino,
è solo un bar! Perciò, il suo nome è bar».
Chaz alzò gli occhi al cielo disgustato
dalla stranezza di quella donna, si chiese cosa avesse di
così speciale.
Vedere Jay accaparrarsi tutte quelle coccole da una sconosciuta lo
faceva impazzire, voleva essere l’unico ed il solo, come era
sempre stato.
“Un bambino capriccioso… sei questo,
Chaz!” se lo disse più e più
volte mentre assisteva
inerme alle tenerezze che Lizzie donava disinteressatamente
all’unico ragazzo che amava e che sentiva solo suo ma che, in
realtà, non lo era affatto.
La sera prima era stato ad un passo dalla confessione, tuttavia aveva
scelto
di tacere per l’ennesima volta, eppure di occasioni ne aveva
avute: tutte sprecate.
Avrebbe tentato ancora, non se ne sarebbe lasciato sfuggire delle altre.
Strinse i denti in attesa che quella maledetta ragazza togliesse il
disturbo per potergliene parlare, per capire se l’ardito
gesto della notte prima avesse acceso qualche lampadina nel cervello
dell'altro.
«Jay, caro! Come è andata la prima notte a
casa?»
«Non è andata in nessuno modo, Lizzie. Non ci sono
mai tornato» rispose con un sorriso compiaciuto stampato
in faccia.
«Ci dovrai tornare, prima o poi.»
«Perché dovrebbe tornare da chi lo
rifiuta?» Chaz si intrufolò nel discorso, ponendo
la domanda con
stizza. Il fatto che una sconosciuta si prendesse il lusso di dare
arbitrariamente dei consigli era oltremodo intollerabile per lui.
«Perché credo che la sua assenza da casa non
faccia altro che rafforzare le loro stupide ragioni e così
facendo alimenterà solo un silenzio sciocco e senza senso,
rendendo il rifiuto ancora più facile. Lui, invece, si deve
imporre! Quella è casa sua, devono capirlo e
accettarlo… devono.»
«Dovrebbero, ma non lo faranno. Non conosci i suoi genitori,
non sai quanto ha patito con loro…»
«Lo so, invece! L’ho visto con i miei occhi quel
giorno…»
«Perché parlate come se io non ci
fossi?» chiese il soggetto della discussione tentando di
alleggerire i toni. Vederli
battibeccarsi era surreale quanto fastidioso. Parlavano di lui in sua
presenza, facendo a gara su chi ne aveva più diritto,
esprimendo punti di vista non richiesti, avrebbe voluto lasciare fuori
dalla porta quei discorsi, ma sembrava che i suoi amici non ne avessero
alcuna intenzione. Si chiedeva perché Chaz fosse
così antipatico nei confronti di Lizzie, perciò,
volendo tagliare il discorso di proposito, chiese con un sorriso amaro:
«Vorrei un caffè caldo. Potresti portarci due
caffè, Lizzie?».
Lei lesse sul viso tirato di Jay la sua sacrosanta richiesta di
tranquillità, non voleva discussioni, non voleva altri
pensieri. Cedette alla silenziosa supplica sentendosi in colpa, sorrise
intenerita e si alzò. «Sarà fatto,
Hahn!»
Si allontanò sorridendo anche a Chaz che, imbarazzato,
abbassò la testa ringraziandola.
«Perché ti sei messo a discutere con
Lizzie?» lo chiese con gli occhi puntati sul tavolo, irritato
e deluso. Aveva desiderato poter condividere con lui quella nuova
conoscenza che tanto l’aveva sollevato. Non si sarebbe mai
aspettato la nascita di una simpatia improvvisa e reciproca, ma neanche
la scena di due cani rabbiosi pronti a contendersi l’osso.
Chaz accarezzò il profilo di Jay con gli occhi e
pensò che, forse, disprezzava la dolcezza di Lizzie
perché, al contrario della sua, era davvero disinteressata.
Desiderava l’amore di Jay, adesso ne era certo, aveva creduto
di volergli stare accanto senza pretendere nulla in cambio, soffocando
l’amore e accontentandosi di un sentimento a metà,
tuttavia dovette ammettere la realtà pura e semplice: non
riusciva
più a trarre appagamento da quella claudicante e forzata
condizione.
Nonostante fosse arrivato a quella conclusione, non riuscì a
non raccontare l’ennesima balla: «Hai ragione.
L’ho fatto solo per accertarmi
che lei ci tenesse sul serio a te».
Jay destò lo sguardo esaminando i tratti del viso di Chaz
con l’intento di appurare la sincerità di quella
dichiarazione. La notte prima era riuscito, attraverso i suoi gesti
avventati, a scorgere i propositi del tutto nuovi
dell’amico. Dapprima aveva pensato fossero solo impressioni
incerte ma, nondimeno, gli sguardi avevano parlato più delle
parole e delle azioni: Chaz voleva di più, ne aveva il
sospetto,
e
la pseudo scenata di poco prima non aveva fatto altro che
confermarglielo.
Si disse che avrebbe dovuto aspettare, attendere che il passo
successivo potesse rivelarsi più deciso, voleva che
l’amico dichiarasse apertamente ciò che provava.
Non era certo se fosse semplice desiderio o amore, ma sapeva che Chaz
nascondeva qualcosa e presto tardi avrebbe dovuto scoprirlo.
Conoscendolo, se l’avesse spronato parlandogli in modo
diretto l'avrebbe solo costretto a mentire ancora senza mai ammetterlo;
metterlo sotto pressione non sarebbe stata la scelta giusta.
Un’ombra si era imposta
sulla loro amicizia e toccava a Chaz fare chiarezza. Jay, dal canto
suo, sapeva già cosa rispondere e sperando che
l’amico non ne uscisse irrimediabilmente ferito decise
comunque di comportarsi come sempre, ribadendo la sua posizione: per
lui sarebbe stato sempre e solo un amico, nulla di più. Non
l’avrebbe illuso dandogli false speranze, sarebbe stato
sincero, a costo di risultare crudo.
Parole inespresse rimasero legate alle labbra serrate di Chaz,
facendole vibrare con incertezza. Jay rimase in silenzio, in attesa.
Il jukebox interruppe il silenzio che, ormai, sembrava pendere sulle
loro teste.
Fly me to the moon
riempì
il vuoto, strappando un sorriso a Chaz che, tamburellando con le dita
sul tavolo, ritrovò un pizzico di buon umore.
Jay sorrise con un sospiro, rilassando i muscoli della mascella e
cercando il benefattore inconsapevole che aveva scelto di rompere la
quiete, come se fosse pesata anche a lui.
Si voltò e lo vide.
Izaya era poggiato con un braccio al jukebox, con il viso illuminato
dalle piccole luci colorate poste sui tasti della lista delle canzoni
da scegliere.
Jay strabuzzò gli occhi e preso da un irragionevole
imbarazzo, si voltò di nuovo di scatto, rigido come un palo
di scopa aggrappato al tavolo, in balia dell’emozione.
«Che ti prende?» chiese l'amico con aria stranita.
«Niente, niente, niente…» rispose a
denti stretti sperando di non farsi notare troppo.
«Allora perché sembra che tu ti stia
nascondendo?»
«Cosa te lo fa credere?» chiese tentando di passare
inosservato.
«Hai qualche conto in sospeso?».
Non ottenendo alcuna risposta, Chaz si voltò verso il
jukebox ma non notando nulla di strano ritornò a guardare
Jay.
«Izaya!?» lo chiamò Lizzie sventolando
un fazzoletto come una diva del cinema, dirigendosi verso il tavolo dei
due ragazzi. «Unisciti a noi. Tra poco mangeremo qualcosa
insieme e costringeremo il ragazzino a prendersi una
sbronza!» continuò, indicando Jay che ad occhi
bassi seguiva con l’udito i passi di Izaya che si avvicinava
con crescente curiosità.
Non appena lo sentì vicino, l’impazienza prese il
sopravvento e senza riuscire ad evitarlo i suoi occhi si scontrarono
con prepotenza con quelli del ragazzo appena arrivato che sorrise,
rivelando un’espressione molto più
bambinesca di quella che la sua immagine pareva ostentare.
Jay si intenerì e ricambiò,
dimostrandosi entusiasta. «Ciao!» lo
salutò facendosi scappare un tono un po’ troppo
allegro, tanto da infastidire Chaz che, ormai, aveva intuito pienamente
di chi si trattava.
«Ciao!» rispose il ragazzo, porgendogli la mano che
Jay fissò per qualche secondo senza riuscire e presentarsi.
Lizzie, che ormai era già seduta accanto a lui, con un
calcio ben assestato sotto al tavolo lo risvegliò.
Afferratagli la mano, Jay rimase imbambolato e si accorse di
canticchiare nella mente la canzone romantica di sottofondo. Dopo
essersi
insultato tra sé e sé, prese coscienza di
ciò che stava realmente accadendo: stringeva la mano ad
Izaya, e sembrava non volesse mollargliela.
Lui aveva il naso rosso, segno di un colossale raffreddore, e gli
occhi,
colmi di lacrime, erano arrossati e gonfi.
Finalmente divincolarono le mani dalla stretta, dando ad Izaya la
possibilità di sedersi di fronte a lui. Si grattò
la barba incolta per qualche secondo, fissando i caffè posti
sul tavolo. Sembrava un gesto d’imbarazzo, esattamente come
lo era il suo
di arruffarsi i capelli e rimase stupito giacché non gli era
mai sembrato che
Izaya potesse essere un tipo particolarmente timido.
Sorrise teneramente, osservando ancora i movimenti pacati che il
ragazzo difronte compiva e quando vide i suoi occhi spostarsi su Chaz
sentì un brivido di timore lungo la schiena.
Se l’amico aveva deliberatamente maltrattato Lizzie, come
minimo, avrebbe azzannato al collo il povero malcapitato.
«Piacere, Izaya!» si presentò a Chaz
che, con grande sorpresa di Jay, rispose al saluto con gentilezza ed
esaltazione, porgendogli la mano.
E se si fosse sbagliato? Se avesse sbagliato sul conto di Chaz?
Quella reazione sembrava del tutto cozzare con le sue conclusioni.
Tirò un sospiro di sollievo, dicendosi che avrebbe dovuto
frenare la fantasia e basarsi su dati concreti.
Quello sembrava un dato concreto, appunto.
“Che ingenuo!” avrebbe pensato Chaz se solo fosse
stato nella sua testa. Avrebbe voluto prenderlo a pugni in quel momento
stesso, ma onde evitare di destare troppi sospetti costrinse
se stesso ad una recita ben fatta.
Izaya incrociò le braccia sul tavolo e, finalmente, rivolse
ancora i suoi grandi occhi scuri teneramente attorniati dalle rughe di
espressione che, quasi sempre, avvolgono gli occhi di chi è
abituato a sorridere, su Jay.
Si guardarono per qualche istante.
Gli occhi verdi, quasi trasparenti di uno, si mischiarono a quelli
castani e luminosi dell’altro.
Occhi negli occhi, secondi e secondi, che sembravano ore, sembravano
vite.
Il sorriso accennato del primo giorno ritornò ad illuminare
impercettibilmente il viso di Izaya. Ancora una volta, Jay ebbe la
certezza che quel sorriso fosse riferito a lui, ma non ne capiva il
motivo. Era divertito? Incuriosito? Cosa voleva dire?
Considerando la sua scarsissima esperienza con gli uomini non
riuscì a cogliere le sfumature intrappolate dietro a
quell’espressione, poteva significare tutto o niente. La
risposta alle sue domande non tardò ad arrivare:
«Io ti conosco».
Quelle parole, uscite dalla bocca di Izaya, presero di sorpresa Jay.
Era certo di non averlo mai visto, eppure lui diceva il contrario.
Cercò nei suoi ricordi senza trovarvi nulla e
fissò ancora il ragazzo davanti a lui con sguardo
interrogativo, corrucciando le sopracciglia chiedendo
silenziosamente spiegazioni.
«Il giorno della tempesta. Ti ho trascinato dentro mentre tu
stavi impalato sul marciapiede».
Era stato lui. Izaya l’aveva salvato e senza rendersene
conto l’aveva fatto in ogni modo possibile. Grazie a lui, a
quel gesto, il suo cuore era riuscito a sollevarsi da una
disperazione così profonda che l’avrebbe
certamente consumato se non fosse stato per quelle braccia forti.
Ricordò distintamente quel giorno: l’acqua
scrosciante, la strada allagata, le scarpe zuppe, i piedi freddi, le
lacrime…
Quante lacrime quel giorno.
Il mondo gli aveva urlato contro il proprio disappunto ed Izaya,
invece, lo aveva abbracciato e portato in salvo nel luogo
più caro, nel bar dove avrebbe riposto con cura il suo
cuore e avrebbe accomodato i resti della sua anima lacerata, dove
avrebbe curato le proprie ferite.
«Eri chiaramente sconvolto e poi…»
«Aspettate, aspettate…» lo interruppe
Chaz
agitando le mani. «Com’è che io non so
questa storiella?!»
«Perché non c’eri, Chaz!»
puntualizzò Lizzie con una punta di vendetta nella voce,
come a voler sottolineare che anche lui, nonostante si sentisse
l’unico capace di stare accanto a Jay, non c’era
stato in un momento così drammatico. Chaz, di proposito, non
volle cogliere la sottile provocazione della ragazza e, ignorandola,
immobilizzò l’amico con lo sguardo.
«Raccontami, Jay!»
«Non mi va!» rispose rafforzando il diniego con
un movimento della mano che voleva chiaramente comunicare la sua
intenzione di volersi gettare tutto alle spalle.
«Te lo racconto io che è successo»
rispose Izaya divertito, sorseggiando il suo caffè appena
arrivato.
Aveva gli occhi vispi e lucidi: a Jay faceva tenerezza, a Chaz, invece,
scatenava la rabbia.
«Il giorno dell’uragano, il tuo caro amico Jay ha
pensato bene di farsi una piacevole passeggiata, io l’avevo
già visto passare qui davanti, l’avevo
già… notato…»
pronunciò quell’ultima parola osservando la
reazione di Jay che per un istante perse un respiro. L’aveva
visto – ridotto come uno
straccio – camminare come un
povero malato mentale in mezzo
all’uragano.
L’aveva visto, l’aveva notato.
«…insomma, poi l’ho perso di vista,
credevo si fosse messo al sicuro, invece, poco dopo me lo sono visto
davanti al bar mentre io, al calduccio, sorseggiavo il mio
tè. Stava fermo sul marciapiede, speravo decidesse di
entrare, in molti l’avevano già fatto ma
lui… no! Stava sotto la pioggia a fare chissà
che, con l’aria triste. Quando ho capito che lui non si era
reso conto veramente di quello che stava succedendo sono uscito in
strada e l’ho trascinato dentro ma… non ci siamo
mai presentati.» raccontò tutto senza spostargli
gli occhi di dosso.
«Perché non mi hai detto che eri tu?»
chiese Jay a bassa voce, creando un’intimità tale
tra i loro sguardi da lasciare tutto il resto del mondo fuori.
«Perché non ci conoscevamo. Sembravi sconvolto, ho
voluto lasciarti solo».
Si sorrisero, trasmettendosi pace e calma
reciprocamente.
Izaya e Jay erano lì senza esserlo per davvero.
Tutti gli altri erano spariti, nonostante ci fossero.
Il ticchettio della pioggia sulle vetrate scandiva il tempo che
sembrava essersi fermato, il vociare intorno dava loro la prova di
essere in quel bar, ma nessuno dei due pareva avesse la voglia di
ritornare alla realtà. Come inghiottiti da un altro
universo, Izaya e Jay parlavano, si guardavano, vivevano.
«Un giorno mi dirai perché hai deciso di farti
quella passeggiata!»
«Un giorno ti racconterò
tutto».
Persistevano nel crogiolarsi in quella situazione sospesa tra i minuti
che si susseguivano sempre più lentamente, affondando nei
loro sguardi, nei gesti familiari inusualmente percepiti e non
concretamente compiuti. Se avessero potuto si sarebbero sfiorati, anche
solo con un dito.
«Va beh! Mi sa che vado a bere qualcosa al
bancone!» esclamò Chaz seccato, rompendo quello
stato di cose così irritante da costringerlo ad alzarsi con
irruenza. Jay, afferrandogli inaspettatamente la mano, lo
guardò dritto negli occhi chiedendogli tacitamente di non
farlo, di non
andarsene.
Chaz sospirò rassegnato, sentendo la pressione di quella
stretta così forte da non potervisi sottrarre; rimase al
tavolo alla fine, pur sapendo che avrebbe dovuto ancora assistere al
corteggiamento di Izaya nei confronti di Jay senza poter fiatare.
Mentire l’aveva condannato al silenzio, continuare a negare
gli aveva tolto ogni diritto di poter esprimere la delusione. Se avesse
agito d’impulso avrebbe lasciato scorgere una parte di
sé troppo importante perché potesse essere
gettata con noncuranza alla mercé dei totali sconosciuti
che, in quel momento, lo osservavano incuriositi.
Decise di rimanere ancora e di temporeggiare, implorandosi di avere
ancora pazienza: avrebbe parlato a Jay il prima possibile.
L’arrivo di Izaya era stata la ragione scatenante, il motivo
principale che l’aveva convinto ad agire; se non avesse
confessato sarebbe certamente esploso in un modo e nel momento meno
indicati.
Ma non era quello il momento, doveva ancora aspettare, così
si sedette controvoglia ostentando una calma così pacata da
risultare forzata.
I dubbi si scagliarono ancora su Jay che, però, si arrese ai
repentini cambiamenti di umore dell'amico. Sospirò afflitto,
ma
avrebbe continuato a fare finta di niente in attesa di qualcosa che
potesse chiarire i punti oscuri legati a congetture troppo vaghe per
essere prese in considerazione; se c’era una
verità da scoprire sarebbe toccato all'altro lo sgradevole
compito di districare i nodi di quella faccenda.
Così spezzò la magia creata
dall’incontro con Izaya e sperò con tutte le sue
forze di sbagliarsi sul conto di Chaz, si chiese perché
tutta la sua vita e chi l’abitava avevano deciso di
ingarbugliarsi tutti insieme e nello stesso momento, ma si ripromise
che avrebbe affrontato
qualsiasi cosa mantenendo la calma. Le uniche cose ad essere davvero
chiare
erano l’affetto per Lizzie, l’attaccamento a Chaz e
le emozioni che sentiva di provare nei confronti di quel ragazzo che,
ormai, sembrava fosse entrato a pieno diritto nei suoi pensieri,
sollevandolo dal continuo senso di solitudine e di affaticamento
connessi all’impossibilità di poter vivere la
propria vita con serenità, come aveva sempre sognato.
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Capitolo 7 *** Delicate ***
"We might kiss
when we are alone
When nobody's watching
We might take it home
We might make out when nobody's there
It's not that we're scared
It's just that it's Delicate."
Delicate-
Damien Rice
7. Delicate
Il freddo dei primi di Novembre era
sempre il più insoffribile, soprattutto per il vento
tagliente che quasi costringeva i passanti a cercare indisturbati un
qualsiasi luogo che potesse salvarli dall’incessante
sensazione di intorpidimento che impossessava ogni cosa.
Nonostante l’abitudine di vivere in un luogo sempre e
costantemente oggetto di ogni indignazione del tempo, nessun londinese
riusciva realmente ad accettare passivamente il freddo che
quell’anno colpì Londra senza alcuna benevolenza.
Il freddo si sopporta ma difficilmente si accetta per come
è, tranne che per Izaya che viveva il ciclo ininterrotto di
ogni giornata come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Raramente si lamentava di ciò che non poteva controllare e
anziché compiangersi per il gelo che aveva impietosamente
preso in ostaggio le sue vene, preferiva gioire del calore ritrovato
per merito della fumante e rinvigorente tazza di caffè che
stringeva nelle mani.
Amava lasciar perdere lo sguardo al difuori delle vetrate del bar,
concentrandosi, di tanto in tanto, sulle gocce di pioggia che
componevano buffi disegni aggrappati all’ampio finestrone
affacciato sul tratto finale dello Strand.
Izaya poggiava i gomiti sul tavolo sostenendosi il viso con le mani, e
vagabondava con i pensieri lasciandoli posare su qualsiasi cosa avesse
catturato il suo interesse.
Spostava i suoi grandi occhi nocciola su ogni piccolo particolare e a
volte sorrideva tra sé e sé pescando nella sua
mente una delle tante immagini capaci di allietarlo.
C’era un pensiero in particolare che lo spingeva a sorridere,
sempre più spesso.
Vide una goccia di pioggia scivolare lievemente sul vetro appannato e
sorrise ripensando al ragazzo che aveva conosciuto neanche una
settimana prima ma che si era imposto silenziosamente, senza grandi
gesti o plateali richieste di attenzione.
Jay era entrato nella sua testa pacatamente, leggero come una brezza e
in punta di piedi vagava tra le parole confuse generate dagli eventi
della sua quotidianità.
Laddove normalmente non doveva essere contemplato, la sua figura si
ripresentava di sorpresa, senza alcun preavviso. Vagava leggero tra le
liste della spesa, tra il fumo di sigarette, tra
i titoli di coda di un film trasmesso in seconda serata in tv.
Jay c’era sempre e persisteva.
Non era ciò che aveva detto né qualcosa in
particolare che aveva fatto, era lui e soltanto lui nel suo insieme
composto dalle sue peculiarità, era Jay nella sua sostanza,
nel suo essere, nel suo vissuto; appariva anche quando non era presente
ed era il desiderio di vederlo che costruiva la sua forma quasi
palpabile.
Izaya sorseggiò il caffè nero lasciando che il
calore potesse risvegliare il torpore che aveva dominato le sue dita
per tutta la mattina e cercò Lizzie indaffarata con le prime
faccende del preapertura.
Il ragazzo era solito recarsi al bar poco prima dell’ora di
inizio delle attività, degustando il primo e debole
caffè della macchinetta appena accesa. Purgarsi con
l’annacquato e iniziale prodotto della caffetteria era
diventato quasi un rito barbarico di iniziazione, poiché
cominciare la
giornata con il caffè di Lizzie era più una prova
di coraggio che una reale necessità, ma
l’abitudine di beneficiare delle prime ore del mattino,
custodito tra le braccia amorevoli di quelle mura zeppe di poster dei
musicisti dell’età del Jazz,
si rivelò
dura a morire, soprattutto da quando aveva svelato questo piccolo
particolare a Jay.
Izaya non sapeva se avesse colto quell’informazione buttata
lì, quasi per caso, durante una chiacchierata, ma attese
l’arrivo di Jay consultando continuamente
l’orologio, sperando non facesse troppo tardi.
“Io, di solito, sto qui al bar già delle sei del
mattino. Mi piace bere il caffè da solo, ascoltare il
tintinnio delle tazze e dei bicchieri appena usciti dalla
lavastoviglie, aspettare che arrivi l’ora di andare a lavoro
e godere del silenzio di questa sala vuota che mi permette di mettere
in ordine i pensieri.” Lo disse, quella sera, senza farsi
alcuna aspettativa, ma
pronunciò quelle parole così lentamente da farle
sembrare un invito.
Fissò ancora l’orologio, insicuro sul da farsi. Lo
avrebbe aspettato ancora, fino a che il tempo a sua disposizione non
fosse terminato. E quando ormai sentì di poter lasciare
andare la
speranza lo vide correre lungo lo Strand come la prima volta, sotto la
pioggia: aspettava il momento giusto per attraversare la strada con il
viso
leggermente alzato e gli occhi attenti sulle auto che sfrecciavano.
Sembrava un bimbo in preda all’eccitazione e un senso di
gioia scivolò sul viso di Izaya, donandogli un lieve sorriso
di compiacimento che lo illuminò mentre sbirciava di
sottecchi l’arrivo di Jay, richiamandolo a sé con
impazienza.
Il rumore del campanellino posto sulla porta lo fece trasalire, come se
non si aspettasse un’entrata così irruenta e
aspettò di spalle, senza voltarsi, fremendo al solo pensiero
di avercelo davanti.
Sentì i suoi passi avvicinarsi lentamente; anche il suo
incedere parlava di lui, lo raccontava, lo svelava.
Passi silenziosi ma decisi si susseguivano, sempre più
udibili e pieni della sua presenza, finché smisero di farsi
sentire.
L’impercettibile e adorabile rumore cessò e
già sentiva che gli sarebbe mancato.
«Izaya.» Anche la sua voce lo definiva, anche
quando pronunciava un nome che non
era il proprio.
Izaya si voltò, svelando il solito sorriso in bilico tra
l’imbarazzo e il compiacimento, non disse nulla ma lo
invitò con lo sguardo a sedersi difronte a lui.
Tacitamente, Jay accettò l’invito e si sedette
ansimante per via della corsa, mostrando i grandi occhi verdi legati a
quella dannata e perenne malinconia che l’aveva da sempre
contraddistinto, fin dal loro primo incontro.
Se avesse potuto gli avrebbe strappato quella tristezza dallo sguardo e
l’avrebbe trasformata in qualcos’altro. Avrebbe
voluto vedere tutto fuorché la tristezza, eppure,
guardando meglio, quelle iridi trasparenti avevano dell’altro
quella mattina.
«Sono felice che tu sia qui, Jay.»
«Lo sono anche io». Sorrise e tutto fu chiaro:
c’era una pacata esaltazione nei
suoi occhi, del tutto nuova. Aveva corso affannosamente lungo lo Strand
per raggiungerlo, sperando
di fare in tempo.
Si era alzato quella mattina dicendosi che non sarebbe dovuto andare al
bar, che non avrebbe potuto compiere quel gesto sperando potesse
risultare casuale – non dopo le parole di
Izaya – ma l’istinto
aveva giocato sporco, facendolo svegliare prima del solito con un unico
ed invadente pensiero: correre da lui con il rischio di scoprirsi
troppo.
Aveva temporeggiato ammonendosi di continuo, trovandosi mille cose da
fare pur di non cadere nella tentazione di riunirsi a lui, ma ogni
tentativo fu vano perché, nonostante il ritardo, i suoi
piedi avevano deciso di correre. Lo fece disperatamente, pregando di
trovarlo ancora lì e
quando, poi, lo vide di spalle, seduto da solo nel bar vuoto, il cuore
aveva sbrogliato ogni dubbio dicendogli che aveva fatto la cosa
giusta, contro ogni ragione e logica.
«Hai fatto troppo tardi, ragazzino. Devo andare
via».
Izaya aveva osato, affondando lo sguardo nel caffè. Aveva
ammesso di averlo velatamente incoraggiato a recarsi al bar e
sperò che Jay potesse dire qualcosa, qualsiasi cosa che
potesse sdrammatizzare un’affermazione che, seppur ardita,
era del tutto sincera.
La risposta attesa non arrivò a parole, ma giunse ai suoi
occhi con uno sguardo eloquente che esprimeva appieno ogni minima
emozione. Non avevano più molto tempo, il ritardo di Jay
aveva reso quel momento fuggevole, ma le
percezioni di entrambi divennero sempre più acute, come se
avessero deciso di funzionare al massimo delle loro
possibilità per dargli modo di gustarsi reciprocamente e
pienamente in un lasso di tempo troppo breve per essere vissuto con
disattenzione. Il rumore della pioggia, i profumi e perfino i movimenti
di ognuno sembravano avere tutto un altro gusto e significato; come
quando osservi una persona che conosci in ogni minimo particolare ma
che, chissà per quale motivo, ti sembra di vederla per la
prima volta.
Ormai si conoscevano, avevano passato una settimana insieme a Lizzie e
Chaz, ogni benedetta sera a bere, a fumare, a chiacchierare, eppure
sembravano diversi, due sconosciuti che imparano a conoscersi di nuovo,
perché era sempre così tra Izaya e Jay: si
conoscevano per la prima volta ad ogni incontro.
Era la voglia di scoprirsi vicendevolmente che iniziava questo gioco di
ricordi perduti, Jay lo vedeva e dopo averlo lasciato se ne
dimenticava, scordava tutto: gli occhi, il sorriso, ogni suo tratto
diventava vago, cosa che lo portava a sentirne sempre la mancanza.
Per Izaya era diverso, sebbene avesse sempre il suo ricordo
marchiato nella mente, più il loro rapporto si
intensificava più i suoi tratti prendevano forma
distintamente, tanto da farlo mutare in continuazione,
perché ogni nuovo tassello incastrato all’altro
componeva ininterrottamente immagini nuove, più dettagliate
e precise.
Sapevano che prima o poi sarebbe arrivato il momento di mettere fine a
quella costante sensazione di déjà vu
e
l’unico modo era parlarsi, dichiararsi ed esprimersi
liberamente in modo da impedire
alla mente di cancellarsi ogni volta per protezione o per spirito di
sopravvivenza. L’uno avrebbe dovuto assicurare la propria
presenza all’altro, senza paura di prendere fregature.
Izaya, dal canto suo, aspettava che Jay potesse prendere in mano le
redini della sua vita senza forzature, conosceva profondamente le sue
difficoltà in proposito ma decise comunque di osare e di
metterlo a conoscenza delle sue intenzioni. «Io voglio
vederti ancora. Perché sta diventando
di vitale importanza». Parole che sembravano più
grandi di lui fluirono dalle sue
labbra, investendo in pieno il cuore di Jay che colpito
dall’imprevedibilità di
quell’affermazione
trascinò i porpri dubbi lontano da sè, conducendo
la
nitidezza dei suoi sentimenti in superficie. E come in ogni prima
cotta, la sicurezza dei pensieri dell’altro porta
l’infatuazione a diventare qualcosa di più e Jay,
nell’ingenuità del suo acerbo amore, ricadde nella
certezza di desiderarlo pienamente, cancellando ogni traccia di timore
legata all’incapacità di sostenere
l’ennesimo rifiuto.
«Ma noi ci vediamo ogni giorno…»
«Non mi basta». Il tono perentorio di Izaya,
scaturito dal pressante desiderio di
accorciare le distanze, lo fece sorridere con estremo imbarazzo.
L’incertezza data dall’inesperienza lo
zittì irrimediabilmente.
Cercava parole da dire senza riuscire a trovarne una che fosse
calzante e che potesse spiegare al meglio i suoi intenti.
Izaya riconobbe tra i tratti dolci e fanciulleschi di Jay la risposta
alla sua provocazione e per non costringerlo ad esprimersi si
alzò. «Sono in ritardo, devo scappare. Pensaci a
quello che ti ho
detto e se ancora non hai capito te lo ripeto in modo più
diretto: tu mi piaci Hahn, Jay Hahn. Quindi, se non ti disturba la
cosa, vorrei conoscerti meglio».
Il tono canzonatorio di Izaya, che evidenziava ancor di più
i contorni della sua personalità che, tendenzialmente, lo
portavano a sdrammatizzare qualsiasi cosa – maggiormente in presenza di
Jay – lo divertì e,
contemporaneamente, lo fece sentire
meglio, libero dalle oppressioni che normalmente vengono generate dalla
sensazione di inadeguatezza di chi deve rispondere ad una dichiarazione
così specifica.
«Ma… cioè… io non ci devo
pensare. Io già so cosa rispondere, ma…»
«Non rispondere e affidati all’intuito di un uomo
adulto che dovrebbe saper leggere negli occhi di chi ha
davanti».
Jay alzò la testa per guardarlo dritto negli occhi e rimase
piacevolmente colpito dall’espressione teneramente scherzosa
di Izaya.
Come al solito, aveva reso tutto più facile, alleggerendo il
suo animo.
Perché lui faceva sempre così.
Anche quando Jay giungeva al bar di cattivo umore per via dei
comportamenti della sua famiglia –
con Chaz accanto che lo ammoniva
continuamente dicendogli cosa avrebbe dovuto fare e cosa, invece, aveva
sbagliato – trovava lui pronto a
ridimensionare tutto e a dargli la
giusta dose di coraggio per resistere.
Ogni sorriso non dato da sua madre, ce n’erano cento di
Izaya; ogni parola demolitiva di suo padre, ce n’erano mille
di consolazione. Ormai era così da una settimana e sentiva
che se si fosse
affidato pienamente a lui sarebbe stato sempre così, per
tutto il resto del tempo che c’era da vivere.
«I miei occhi ti dicono che voglio vederti ancora?»
La delicatezza con il quale Jay tentava di farsi capire senza scoprirsi
troppo lo intenerì e nonostante avesse voluto prenderlo e
portarlo via con sé, si fermò, quasi per paura di
spezzare un’innocenza così bella. Quel ragazzino
lo
spiazzava, anche quando non osava parlare, capì che avrebbe
dovuto trattarlo con cura, con attenzione, a tal punto da trattenere
l'istinto e
decidere di prenderlo per mano e condurlo verso un viaggio nuovo, un
cammino che l’avrebbe portato, poco per volta, a lui.
«Se vuoi saperla tutta: i tuoi occhi dicono molto di
più.» Si voltò incamminandosi verso
l’uscita. «Ci vediamo più tardi, Hahn. E
vedi, stavolta, di farti trovare abbastanza presto, non mi piace
aspettare.»
«D’accordo!» acconsentì
ridacchiando, stringendo gli occhi e mostrando il primo sorriso davvero
felice dopo giorni che sembravano fossero stati anni.
La campanella sulla porta fece il resto, ricordandogli che
l’incontro, ormai, era finito.
Non sarebbe tornato a breve, l’avrebbe visto la sera stessa,
quindi avrebbe dovuto passare il resto della giornata senza di lui,
senza
poterlo sbirciare furtivamente nel suo gesto di accarezzarsi la barba
con fare pensoso, senza le sue improvvise sparate buttate a caso.
Guardò incuriosito fuori dal finestrone e lo vide
allontanarsi sotto la pioggia, con la sua solita calma placida, fino a
che poi sparì tra la gente frettolosa, lasciando solo un
enorme senso di vuoto nel petto.
Adagiò la testa sulle braccia lasciando che le stesse gli
coprissero il volto, Izaya non l’aveva neanche sfiorato ma
stranamente poté percepire ancora il suo profumo. Chiuse gli
occhi e assaporò la fragranza fresca ma decisa
dell’uomo che sentiva di amare, al quale mai avrebbe
dichiarato i suoi sentimenti con leggerezza. Avrebbe pensato, ci
avrebbe riflettuto, anche se sentiva
già la risposta pulsargli nel petto.
Izaya, a differenza della sua presenza possente, quasi intimidatoria,
era l’esatto opposto nella sua essenza, ed era proprio questo
a renderlo ancora più strano e adorabile.
Nelle belle giornate amava cimentarsi in evoluzioni sullo skateboard
sotto gli occhi compiaciuti dei suoi colleghi, a lavoro vestiva i panni
di un praticante serio e ligio al dovere. Aveva scelto con cura lo
studio legale nel quale lavorare: non troppo famoso, con un ambiente
sereno al pari del suo animo, capi giovani e tolleranti; aveva pensato
a
tutto pur di farsi assumere senza dover modificarsi. Non era lui
a doversi adattare: strana filosofia, ma certamente molto azzeccata,
poiché sembrava fosse alla base del suo intero stile di
vita. Per questo Izaya era un ottimista, un perenne cultore della
leggerezza d’animo.
“Un immaturo!” diceva Chaz.
“Un eccentrico” rispondeva Lizzie.
“Un uomo libero” concludeva Jay.
Viveva solo ed era indipendente e, cosa strana, odiava qualsiasi mezzo
di locomozione di appartenenza propria. Preferiva raggiungere ogni
luogo a piedi o con i mezzi pubblici, e
odiava testardamente chiunque gli dicesse che avere un’auto
fosse di vitale importanza.
“Le gambe, quelle sì che sono di vitale
importanza. Le auto sono solo grovigli di ferraglia inquinanti, costose
e impegnative. Le auto sono il male. Mandano in paranoia la gente, per
questo chi ha un auto è sempre e perennemente incazzato con
il mondo”.
Qualsiasi cosa fosse, Izaya era un uomo in pace con se stesso e con
tutto quello che lo circondava e se il suo carattere era
così contrastante come il suo modo di apparire, allora,
doveva per forza nascondere dell’altro.
Etichettare le persone è sempre troppo facile, soprattutto
quando si dimostrano particolarmente aperte, ma
Jay ne era certo: Izaya era molto di più di un eccentrico,
immaturo e pazzo uomo libero.
Con il viso immerso nelle braccia e i pensieri inabissati sul
fondale sconosciuto della complessità di Izaya, Jay
pregustava il prossimo incontro, dicendosi che avrebbe fatto e detto
qualcosa di più.
Gli avrebbe confessato i suoi sentimenti, dichiarando la sua intenzione
di volerlo frequentare più approfonditamente.
Non c’era alcun ostacolo, perché avrebbe dovuto
temporeggiare inutilmente?
La piccola campanella avvisò l’arrivo di qualcun
altro e nella speranza che potesse essere proprio lui destò
lo sguardo e vide due occhi grandi e scuri guardarlo con
determinazione. «Jay, io ti devo parlare.»
Ogni fantasia fu calpestata dall’irruente risolutezza
di Chaz che, con i muscoli irrigiditi dalla tensione, impose la sua
presenza, aizzando le paure incerte e nascoste di Jay circa il destino
della loro amicizia.
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Capitolo 8 *** I can't make you Love me ***
"I close my
eyes
Then I won't see
The love you don't feel
When you're holding me
Morning will come and I'll do what's right
Just give me till then to give up this fight
And I will
give up this fight"
I
can’t make you Love me- Bon Iver
8. I can't
make you Love me
Il freddo – che a volte
è così gelido da sembrare
lava incandescente capace di divorare ogni cosa al proprio
passaggio –
dilagò in ogni recesso del corpo di Jay e gli occhi di Chaz,
ardenti come pezzi di carbone abbandonati nel bel mezzo di un fuoco
scoppiettante, trivellarono ostinatamente il suo petto, tanto da fargli
affidare all’ultimo sospiro il compito di trascinare via il
piccolo ma intenso ricordo dei momenti di pace appena vissuti con Izaya.
Jay non proferì parola, ma squadrò con crescente
preoccupazione l’amico davanti a sé, attendendo
con ansia che quest’ultimo trovasse il coraggio di spiegare
ciò che aveva in mente.
Appena entrato, Chaz aveva bene in chiaro cosa dire, ma
nell’attimo stesso in cui la campanella aveva rintoccato il
suo ultimo avviso la sicurezza vacillò, lasciando il posto
al tremore che prese possesso delle sue mani.
Si guardarono per incalcolabili minuti; il rumore della pioggia sempre
più impetuosa riempì il vuoto lasciato dalle
parole inespresse e il continuo vociare dei clienti appena entrati
rubò l’ultimo ed incerto sprazzo di coraggio che
aveva avviluppato, per pochi e brevi istanti, l’animo di
Chaz. «Per quanto sia assurdo, visto l’orario,
sapevo di
trovarti qui. Ormai, questo sembra l’unico posto dove tu
voglia stare.» Il tono di sufficienza con il quale
parlò stizzì
Jay che, nel frattempo, cercava Lizzie così da assicurarsi
la presenza
dell’unica persona che potesse attutire lo scontro dei propri
sentimenti indomabili e contrastanti. Vagò con lo sguardo in
attesa che il sorriso
dell’amica potesse presentarsi in suo soccorso, tuttavia
l’insoddisfatta ricerca cessò non appena Chaz si
sedette al posto lasciato ancora caldo da Izaya.
Si fissarono per qualche secondo in silenzio, scontrandosi con fugaci
sguardi di disillusione e rammarico.
«Era questo che dovevi dirmi?» chiese Jay con
freddezza, rigirandosi tra le mani la tazza vuota di chi era andato via
da troppo poco tempo per poterlo dimenticare.
«In verità, no. Volevo dirti altro ma credo non
abbia più importanza. Ti sei visto con Izaya?»
«Già». Abbassò lo sguardo
concentrandosi sui granelli di caffè adagiati sul fondo
della tazza. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di capire le intenzioni
di Chaz, ma l’aria di altezzosità che incombeva
sul viso dell’amico modificò la
disponibilità benevola con la quale aveva intenzione di
accogliere le sue confidenze.
Se prima aveva intenzione di attendere con pazienza una confessione – se
sempre di questo si trattava – stavolta, il suo
atteggiamento non aveva
fatto altro che innervosirlo, donandogli un sentimento di apatica
enfasi tale da rendere l’attesa ancora più
snervante.
«Chaz, se hai da dirmi delle cose, penso sia arrivata
l’ora di farlo, perché sto cominciando a stancarmi
dei tuoi continui sbalzi di umore.»
«Vedo che mi tratti con la stessa pazienza che io riservo a
te!» affermò ironico.
L’ironia: era un aspetto di Chaz assai fastidioso, ancor di
più se
travestita da vittimismo.
«C’è una differenza tra te e me: tu sai
contro cosa combatti, io non lo so. Sto aspettano da giorni di capire
cosa ti frulla nella testa e, onestamente, comincio a stancarmi»
confessò spossato finché un pensiero non lo
rianimò ancora. Si avvicinò a lui
impercettibilmente, dandogli modo di appurare la sua buona fede
attraverso il proprio sguardo.
«Faccio
così paura? Credi che qualsiasi cosa tu abbia da dirmi possa
cambiare ciò che penso di te? Ti sbagli. Io ti ho dato
tempo, ho fatto in modo che tu potessi pensarci su e decidere se
parlarmi o meno ma, a quanto vedo, hai deciso di portare avanti il tuo
silenzio, sfogando su di me le tue frustrazioni».
Chaz si irrigidì: Jay sapeva molto di più di
quello che aveva lasciato sempre
intendere e lo conosceva abbastanza bene da capire che il suo
atteggiamento, nonostante ostentasse
una certa spavalderia nel rimarcare le proprie convinzioni, fosse un
segno di autodifesa. Il sarcasmo di Chaz
era la spada e la determinata chiusura di Jay uno scudo.
«Va bene, caro migliore amico, ti faccio contento, ma non
ora. Stasera, quando saremo tutti insieme, ti dirò quello
che ho da dire. Ti basta come prova di coraggio?»
«Non ti ho chiesto di provarmi il tuo coraggio. Ti ho chiesto
di essere sincero».
L’ultima parola sopraggiunse come un pugno.
Gli occhi di Jay sembravano di ghiaccio ed erano puntati dritti in
quelli fiammeggianti di Chaz; tuttavia il fuoco non sciolse
il ghiaccio, ma si placò sotto il dominio incrollabile della
fredda durezza che si palesò, per la prima volta,
nell'espressione dell'amico.
«Non sono, forse, sempre stato sincero?»
«Non lo so. Dimmelo tu» sussurrò
fissando le mani nervose di Chaz che si paralizzarono nell'istante in
cui l'altro lo esortò a confessare i suoi scheletri
nell'armadio.
Chaz si ammutolì davanti la fermezza dell’amico
che sembrava non volesse cedere. Si sentì sotto esame, ancor
di più nel momento in cui quest’ultimo
accorciò le distanze poggiando i gomiti sul tavolo in
attesa di una risposta.
Quell’atteggiamento lo fece sentire nudo e tremendamente in
colpa: non era stato sincero, eppure aveva fatto l’arrogante,
accusandolo di una mancanza che, in realtà, non aveva mai
avuto nei suoi confronti.
«Il discorso sta prendendo una piega che non mi piace per
niente» ammise imbarazzato agitandosi sulla sedia.
«A me non solo non piace, mi fa male. Non ho mai dubitato di
te, ma il tuo modo di comportarti comincia a pesarmi.»
Lacrime silenziose si fermarono nei suoi occhi, senza fluire.
«Mi sei stato vicino sempre e non pretendo che tu lo faccia
ancora, ma non sopporto quando tu dimostri di non avere fiducia in me.
Parlami. Non aspettare stasera. Io ho bisogno di sapere cosa ti
succede, cosa provi, cosa vuoi dirmi. Forse tu pensi che Lizzie, questo
bar e persino Izaya siano diventati più importanti di te, ma
ti sbagli. Tu sei ancora in cima alle mie priorità,
perché sei la persona più cara che io abbia mai
avuto accanto».
Il cuore di Chaz cominciò a battere così
velocemente
da riuscire a percepirlo distintamente: aveva creduto di averlo perso
per
sempre, invece c’era e batteva con una furia tale da
soffocargli il respiro, le parole. Il cuore non era l’unica
cosa che credeva di aver perso, con esso c’era Jay, anzi in
esso c’era Jay.
Aveva finalmente afferrato il succo di tutti i suoi problemi: il
silenzio, la paura, la sfiducia avevano costruito un muro di
omertà così invalicabile da compromettere
pericolosamente il loro stesso rapporto, e tutto questo senza neanche
rendersene conto.
Aveva creduto fin troppo all’ingenuità di Jay,
sottovalutando la sua arguzia.
Era un osservatore – lo era sempre
stato – e anche stavolta aveva
vissuto
con lui gli stessi timori, ma all’inverso, l’unica
cosa che li aveva accomunati era stato il silenzio.
Entrambi avevano taciuto per paura di sbagliare, ma Chaz dovette
ammettere la propria colpevolezza e riconoscere la germogliante
maturità del suo migliore amico che ormai diventava sempre
più adulto. I problemi, i dolori, avevano contribuito a
farlo crescere ed evolvere; Jay l’aveva lasciato indietro in
quel percorso e Chaz, nella stessa misura, era vittima del proprio
regresso.
Si era comportato come un bambino viziato, capriccioso e ostinato e
sebbene se ne fosse reso conto non aveva fatto mai nulla per mutare
questo stato di cose; aveva insistito con gli atteggiamenti infantili,
intestardendosi, modificando continuamente la realtà e le
certezze che l’avevano tenuto legato da sempre alla figura
gracile ma forte del suo più caro amico, del suo unico
amore.
«Sai che c’è, Jay? Non sono in grado di
poterti dire con lucidità quello che penso, non adesso. Devo
mettere in ordine le idee, devo prepararmi, devo capire fin dove sono
disposto a rischiare…»
«Vuoi capirlo che non sono un rischio per te?»
«Lo sei più di quanto credi, perché
dalle tue parole dipenderà tutto, compresa la mia
sanità mentale. Tu non puoi sapere quanto un segreto
può scavare in profondità quando non viene
condiviso: distorce tutto e ti fa credere cose che magari non esistono.
Adesso, però, alla luce delle tue rassicurazioni, devo
pensare a cosa sono disposto a perdere, a quanto posso spingermi senza
farmi del male».
Jay acconsentì abbassando lo sguardo, avrebbe atteso
pazientemente con la speranza di essere stato abbastanza chiaro.
Ormai era evidente: Chaz provava qualcosa, ed un misto di dispiacere e
insicurezza prese posto nel suo stomaco. Poche ore prima aveva
camminato a mezz’aria gustandosi una
leggerezza che sentiva di aver perso da tempo immemore e poi, senza
alcun preavviso, un nuovo fulmine aveva irrimediabilmente squarciato il
suo cielo, rigettandolo nuovamente nella paura. Avrebbe perso Chaz,
ogni cellula del suo corpo lo urlava e non avrebbe
potuto fare niente per impedirlo.
Con la sfuriata di suo padre pensava di aver raggiunto il numero
massimo di problemi e tormenti che normalmente si presentano nella vita
di un ragazzo di appena diciotto anni e, invece, ecco presentarsi uno
degli ostacoli più grandi della sua vita.
Sarebbe mai stato in grado di accettare la perdita di Chaz?
Molto probabilmente no, ma aveva scelto di affrontare la cosa
accantonando l’egoismo, avrebbe pensato prima al suo amico,
l’avrebbe supportato…
Chaz si alzò e con gli occhi spenti si voltò,
senza neanche salutarlo.
Jay lo vide allontanarsi senza poter fare niente e si rese conto di un
fatto lampante che l’avrebbe legato mani e piedi: nonostante
i suoi buoni propositi, capì di essere nella tipica
posizione scomoda di chi, con un gesto, può distruggere
tutto, come può risollevare le sorti di una
situazione incerta e instabile. Sapeva, però, che qualsiasi
cosa avesse scelto di fare
avrebbe inevitabilmente implicato la sofferenza di qualcuno.
Izaya, Chaz, se stesso.
Era giunto il momento di scoprire le carte, avrebbe dovuto stringere
ancora i denti prima di riuscire a raggiungere la pace che tanto aveva
cercato.
Sembrava di stare su un ascensore in continuo movimento. Tra alti e
bassi, la sua vita aveva cominciato a prendere una piega del tutto
inaspettata, ma certamente necessaria. La verità era
l’unica cosa che lo aveva spinto a
mettersi contro i suoi, e ancora la verità sarebbe stata
l’unica motivazione a dargli il coraggio di agire con
la più totale schiettezza, senza alcuna paura.
Chaz uscì senza voltarsi e Jay crollò sul tavolo,
costringendo la sua fronte sulla superficie liscia che aveva visto le
sue mani tormentarsi tra loro.
Il panico lo prese di sorpresa e cominciò a piangere, sempre
più inconsolabilmente, stringendo i denti.
Il jukebox riempiva il locale con un’allegra melodia, mentre
le lacrime di Jay scendevano copiose senza che lui potesse fare
qualcosa per fermarle; sentiva di non avere più le forze di
lottare e di rinunciare a qualcosa, pensava fosse finito il tempo delle
rinunce, ma l’arrivo di Chaz aveva nuovamente aperto ferite
non totalmente chiuse, costringendolo a doversi mettere ancora in
discussione.
Lizzie, finalmente, uscì dalla cucina e nel mezzo del caos
composto dai clienti affamati vide Jay col capo chino sul tavolo.
Quell’immagine la spiazzò così tanto da
farla indietreggiare. L’aveva visto piangere altre volte, ma
questa volta sembrava che un peso ancor più grande di quello
precedente lo stesse schiacciando, così accorse lentamente
per paura di innescare uno scoppio colossale. Sapeva che prima o poi
sarebbe esploso e sembrava proprio quello il momento.
Arrivata davanti a lui, con la massima cautela gli si
affiancò: «Hahn…» La mano di
Jay si alzò e fermò il fluire di altre
parole dalla bocca di Lizzie. «Sto bene.»
«Hai bisogno di qualcosa?».
Alzò il capo ed un’espressione indecifrabile
investì la ragazza con un impetuosità tale da
zittirla definitivamente. «Portami una vodka.»
«Sono le sette di mattina…»
«Ti prego: portami una vodka». Lizzie
acconsentì senza più controbattere e
guardando il posto vacante davanti a Jay capì che qualcosa
di grave si era compiuta in sua assenza e chiese silenziosamente
perdono sapendo che la sua presenza avrebbe giocato
un ruolo fondamentale. Lei non c’era stata, l’aveva
lasciato solo e nonostante gli occhi di Jay suggerissero una totale
calma, Lizzie poté percepire la furia disperata che lottava
sotto la pelle del piccolo uomo che aveva appena concluso una battaglia
della quale lei, al momento, non ne conosceva le dinamiche.
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Capitolo 9 *** Limit to your Love ***
Capitolo nove
"There's a limit to your
care
So carelessly there
Is it truth or dare?
There's a limit to your care
There's a limit to your
love
Like a waterfall in slow motion
Like a map with no ocean
There's a limit to your love."
Limit
to your Love- James Blake
9. Limit
to your Love
La vodka aveva fatto il giusto effetto, rendendo Jay il ritratto
perfetto della leggerezza d’animo.
«Sembri molto Izaya» disse Lizzie, scoprendo le
carte sul tavolo: un poker netto.
Jay sgranò gli occhi. «Ma porca miseria! Vinci da
quattro mani ininterrottamente.» Scaraventò sul
tavolo il suo misero tris di cinque e si
lasciò consolare dall’ultimo goccetto lasciato di
riserva nel bicchiere.
“Sembri molto Izaya”.
Sorrise e pensò che, almeno, Izaya non aveva bisogno di bere
per sentirsi leggero, ma fu fiero del suo stato mentale: seppur con un
aiutino, era riuscito a vederci chiaro senza piangersi addosso.
«Un’altra partita, Hahn?»
«No! Mi rifiuto! Senti, Lizzie: se tu avessi una scala nelle
mani e ti mancasse una sola carta perché questa diventi
reale, cosa faresti? Rischieresti o ti terresti la semplice
scala?»
«Che domanda del cazzo! Allora: se io avessi una scala, con
buona probabilità potresti avercela anche tu, di conseguenza
potrei rischiare di perdere o al massimo potremmo finire in
pareggio… come potrei anche vincere! Insomma, Jay. Io
sto!»
«In poche parole ti accontenti, non rischi.»
«Rischio solo se il piatto non è ghiotto.
È questo che ci differenzia: tu perdi perché sei
ingordo, io vinco perché sono coscienziosa. Se hai tanto da
perdere non puoi rischiare. Comunque, giusto per essere onesta, la tua
vita non è una partita a carte con una cameriera!».
Gli occhi di Jay presero il largo verso pensieri troppo più
grandi di lui e il suo sguardo puntò dritto verso
l’entrata dove vide apparire insieme, sorprendentemente, i
due uomini che avevano occupato ogni angolo della sua mente.
Si mise dritto, attendendo il loro arrivo: “Io sono
il banco. Il banco vince
sempre”.
«Buonasera giocatori. Hahn, ancora speri di poter
vincere?» chiese Izaya, togliendosi la sciarpa che
l’aveva tenuto al riparo dal gelo della sera. I suoi occhi
erano lucidi e come al solito pieni di
serenità. Lo invidiò, se avesse potuto gli
avrebbe chiesto disperatamente di prestargliene un po’ e
quando vide Chaz fissarlo il suo cuore vacillò.
«Vado a prendere qualcosa da bere»
annunciò Lizzie, cimentandosi in smorfie di incoraggiamento
senza farsi scorgere dai due appena arrivati.
Izaya rivolse gli occhi verso il bicchiere vuoto di Jay e arricciando
il naso chiese spiegazioni puntando il pollice verso
l’oggetto del suo interesse. Effettivamente, quel bicchiere
risultava alquanto strano se collocato
nel contesto ordinario: non aveva mai bevuto alcolici da solo, ma quel
giorno aveva deciso di concedersene più d’uno.
Jay finse di non capire e non appena Chaz prese posto difronte a lui,
accanto ad Izaya, si lasciò andare ad un sospiro sperando
di poter sostenere una conversazione decente.
Izaya aspettava qualcosa, – glielo si leggeva negli
occhi – attendeva che Jay
potesse dire o fare qualsiasi cosa in risposta alla richiesta che aveva
espresso quella mattina stessa; nonostante la sua acutezza, non si
accorse che negli occhi di Chaz c’era lo stesso sguardo:
anche lui era in attesa, non di una risposta, ma di un momento propizio
da sfruttare per porre un quesito diretto, scoprendo le sue carte.
«Devo dirvi una cosa.» Lo disse così
deciso da non rendersi conto di aver quasi urlato.
Lizzie accorse con il vassoio colmo di alcolici e stuzzichini e
sedendosi accanto a Jay lo incalzò:
«Sentiamo.»
«Non ti ho chiesto una prova di
coraggio…» bisbigliò Jay, supplicandolo
di non mettersi nella condizione di esporsi così, davanti a
tutti.
«Mi hai chiesto di essere sincero e lo
sarò» lo interruppe Chaz.
Izaya si guardò intorno chiedendosi cosa fosse accaduto in
sua assenza e un lampo di consapevolezza accese i suoi grandi occhi
nocciola. Aveva sempre sospettato qualcosa sui sentimenti di Chaz nei
confronti
di Jay, ma non credeva che sarebbe mai arrivato il momento di dovercisi
scontrare direttamente. La cosa non lo dispiacque per niente e
incrociando le braccia si
poggiò allo schienale della sedia, accavallando le gambe.
Scrutò il ragazzo accanto a sé con interesse, in
attesa che
quest’ultimo confessasse ciò che, in fondo, lui
aveva sempre saputo.
Il cuore di Chaz cominciò a pulsare sempre più
velocemente e le mani madide di sudore si poggiarono nervosamente
sul tessuto ruvido dei suoi jeans cercando di trovare attraverso quel
contatto il coraggio che credeva di aver perso strada facendo. Ormai
era in ballo, avrebbe dovuto parlare e non appena i suoi occhi
si scontrarono con quelli di Jay la sua bocca si spalancò
snocciolando tutto d’un fiato ciò che per anni
aveva omesso: «Insomma, Jay: ti ho sempre amato dal primo
giorno e mi scuso se non sono stato sincero con te, ma speravo
stupidamente che tu, col tempo, ti saresti accorto di me. Invece non
è stato così e quando ho visto arrivare
l’uomo barbuto al mio fianco ho cominciato a comportarmi da
stronzo perché… sono geloso.»
«Ah! La cosa si fa interessante.» Il commento fuori
campo di Izaya sopraggiunse al cuore di Chaz che,
voltandosi, lo squadrò. La sua calma era quasi irritante,
tanto da costringerlo a mettersi
sulla difensiva: «Mi pare di non essermi rivolto a
te».
Izaya alzò le mani in segno di scuse e con un sorrisetto
sarcastico serrò le labbra, indirizzando il suo sguardo
verso Jay che, a vederlo, sembrava un vecchietto di
ottant’anni. Era bastata una frase per invecchiarlo
nell’aspetto. Izaya sorrise sommessamente dispiacendosi per
la bomba che lo aveva
appena colpito in pieno viso, ammutolendolo; nonostante ciò
decise di non sacrificarsi: «Non voglio appesantire la
questione ulteriormente, ma è giusto che io metta in
evidenza il fatto che io ho la precedenza.» Il tono
canzonatorio di Izaya non sortì l’effetto
solito perché, anziché alleggerire la cosa,
scatenò l’ira soppressa di Chaz che per troppo
tempo aveva messo a tacere la collera per non rischiare di scoprirsi
troppo. Ormai aveva confessato, di conseguenza, non aveva
più nulla da perdere: «Non mi piace metterla sul
piano delle precedenze, ma se questo è il massimo che puoi
fare – caro signor saggio
barbuto – allora dovrai metterti
da parte,
perché io sono nella vita di Jay da molto più
tempo di te.»
«Che discorso intelligente, il vostro!» proruppe
Lizzie incrociando le braccia e sbirciando di sottecchi Jay
poté cogliere un sorrisetto inaspettato e del tutto
inspiegabile. Sembrava un giocatore di poker in fase di bluff
mentre guardava con
aria distaccata i due contendenti dinanzi a lui.
L’espressione svelava esattamente ciò che aveva
nel cuore in quel momento: non era preoccupato né
dispiaciuto per ciò che stava accadendo. Rimase in silenzio
ad ascoltare i due ragazzi battibeccarsi.
Izaya, con la sua solita
calma, rispondeva prontamente alle
provocazioni di Chaz mentre, quest’ultimo, scagliava continui
e duri attacchi con la speranza di riuscire a metterlo in ginocchio e
dimostrare a Jay la realtà dei suoi sentimenti, difendendo
il loro rapporto con le unghie e con i denti.
All’ennesima battuta, Jay si destò dai suoi
pensieri e richiamando l’attenzione di entrambi li
fissò in silenzio per qualche secondo, con gli occhi intrisi
di calma e posatezza. Poggiò i gomiti sul tavolo stendendosi
impercettibilmente
verso i due e dopo aver servito loro un lieve sorriso vittorioso
schiuse leggermente le labbra, mordendo quello inferiore con gusto. Gli
occhi si illuminarono, come presi da un’idea
incredibilmente geniale: “Il banco vince
sempre!”
«La mia risposta è no!”
Chaz e Izaya ammutolirono di colpo e il gelo calò nella
sala, le uniche persone che sembravano immuni al freddo intenso che
aveva ghiacciato perfino le parole erano Lizzie e il banco
che,
soddisfatti, scrutavano l’espressione dei due ragazzi
stavolta accomunati dalla stessa sorpresa.
«Che significa: no?» chiese Chaz impacciato, quasi
balbettante.
«Significa che se mi state chiedendo di scegliere uno dei due
da frequentare, la mia risposta è la seguente: non scelgo
nessuno dei due.»
«Vigliacco!» sussurrò Izaya con una
risatina, in realtà era ancora più affascinato
dalla sicurezza del piccolo Jay che seppur molto giovane dimostrava
di avere più determinazione di tutti i presenti in sala.
Chaz, in un gesto di incredulità, si abbandonò
sulla sedia fissando con gli occhi vuoti un punto a caso sul tavolo.
Aveva confessato, ma ciò non aveva cambiato nulla; si
risvegliò scottato dalla delusione e monocorde espresse il
suo punto di vista: «Stavolta sono d’accordo col
barbuto: sei un vigliacco. Mi hai puntato il dito in faccia questa
mattina accusandomi di non essere stato sincero e adesso…
te ne lavi le mani? Ma bravo, complimenti!»
«Ho i miei motivi. Innanzitutto sono stanco di ragionare e
poi: sì! Sono un vigliacco forse, ma non voglio perdere
nessuno dei due. Se dovessi scegliere adesso direi Izaya, non
perché tu non mi piaccia, Chaz, ma perché io ti
ho sempre visto come un amico e mi viene un tantino difficile pensarmi
mano nella mano a passeggiare con te – tralasciando il fatto
che non
potrei farlo liberamente dato che tu ti nascondi dalla tua stessa
ombra. Ho deciso di non scegliere perché alla luce della tua
confessione non mi sento pronto di prendere una decisione a cuor
leggero. Ci devo pensare, devo cominciare a guardarti da
un’ottica diversa. Se scelgo te rischierei di perdere Izaya e
se scelgo lui, perderei te. Visto che sono un fottuto egoista: non
scelgo nessuno».
Un silenzio tombale imperò per lunghi minuti
finché la sonora risata di Izaya ruppe la quiete, elargendo
a tutti i presenti un po’ della sua spontanea
serenità d’animo – eccetto a uno.
Jay trattenne un sorriso per non dover abbandonare la maschera di
sicurezza che aveva appena indossato per sganciare la bomba e Chaz, del
tutto spiazzato, si alzò sbuffando: «Dato che qui
avete deciso di prenderla a ridere, vado fuori a fumarmi una
sigaretta.»
«Ascolta, l’unico ad essere incazzato, qua in
mezzo, dovrei essere io dato che per colpa tua e della tua tardiva
dichiarazione d’amore mi hai scombinato tutto. Ma pazienza,
no?!» esordì Izaya, parlando alle spalle di Chaz
che si dirigeva verso l’uscita.
Jay si alzò di scatto e seguì l’amico
all’esterno del locale.
***
La sigaretta appena accesa fu l’unica cosa in grado di
consolare Chaz: il primo tiro lo salvò da un singhiozzo che
stava per presentarsi involontariamente a tagliare l’aria
silenziosa intorno, il secondo, dopo l’arrivo di Jay, lo
strappò dal pericolo di dire qualcosa di troppo affrettato.
Jay lo fissò senza proferire parola, sapeva di avergli
imboccato a forza un boccone troppo amaro da mandare giù, ma
allo stesso tempo non poté rimproverarsi nulla
poiché aveva agito nella più totale
onestà, ammettendo i suoi sentimenti, confessando la sua
incapacità di scegliere per via della paura, eppure si
sentì comunque in colpa nei confronti dell’amico
che in quello stesso momento tentava di soffocare con tutte le sue
forze la delusione.
Aveva dichiarato il suo amore esponendo il suo animo con trasparenza e
di tutta risposta non solo aveva ricevuto un rifiuto, ma anche le
prese in giro di Izaya.
«Chaz…»
«Stai zitto. Non parlare. Hai detto già
abbastanza.»
«Non avrei voluto farlo in quel modo, ma mi hai messo nella
condizione di rispondere apertamente davanti a tutti, non potevo fare
altrimenti. Il fatto è che Izaya, questa stessa mattina, mi
ha chiesto…»
«Non mi interessa cosa ti ha chiesto Izaya. Io so solo che
gli hai permesso di prendersi gioco di me e dei miei sentimenti. Potevi
dirmi quelle stesse cose in privato…»
«Lo capisci che non me ne hai dato modo?»
urlò Jay in preda al panico.
Come volevasi dimostrare, era accaduto esattamente ciò che
temeva: con le sue parole aveva ferito il suo più caro
amico facendo sì che il significato delle sue stesse
parole venisse inteso in malo modo.
Ciò che aveva colto Chaz dal discorso di Jay non fu
l’apertura di una possibilità da poter sfruttare,
ma un rifiuto amaro con annessi gli scherni superficiali del suo
più acerrimo nemico.
Iniziò un cantico di sbuffi e imprecazioni a fior di labbra,
cosa che intenerì Jay che avvicinandosi lentamente – come se
si trovasse davanti ad un cane rabbioso che da un momento
all’altro avrebbe potuto attaccarlo – afferrò la
sigaretta di Chaz traendo a sé l’amico che, colto
di sorpresa, non poté divincolarsi in alcun modo dalla
stretta salda e decisa del ragazzo che amava e che l’aveva
rifiutato pochi minuti prima.
Rimasero in silenzio, stretti l’uno all’altro,
scambiandosi sospiri fin troppo familiari da ignorare.
L’abbraccio di Jay era casa, era sicurezza, fermezza, era
amore, e le lacrime di Chaz erano dolore, sofferenza pura.
«Cazzo, Io ti amo, Jay. Da così tanto tempo che
non ricordo neanche più come si vive senza
amarti.».
L’onestà di quelle parole colpirono
così duramente Jay da farlo trasalire; per la prima volta,
la franchezza prese il posto dei silenzi costringendolo a guardare in
faccia una realtà mai neanche sospettata ma che, espressa
con coraggio, condita di lacrime e disperazione, suonava come un laccio
stretto intorno al cuore che solo in quel momento poté
sentire chiaramente. Quel legame esisteva, ma solo dopo che Chaz ebbe
strattonato quella corda fu in grado di sentirne la presa e la
robustezza e si accorse che, in realtà, quella stessa corda
c’era sempre stata.
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Capitolo 10 *** November Rain ***
decimo
"...And it's hard to hold a
candle
In the cold
November rain
We've been
through this such a long long time
Just tryin' to
kill the pain."
Guns
N' Roses-November Rain
10.
November Rain
La sveglia
suonò imperterrita per quasi mezz’ora fino a che
la mano assonnata di Jay non le diede il colpo di grazia
scaraventandola giù dal comodino.
Gli avvenimenti accaduti qualche giorno prima, la confessione sparata a
brucia pelo da Chaz e la disarmante ironia di Izaya non avevano fatto
altro che confonderlo, alimentando esponenzialmente i suoi dubbi.
Puntò i grandi occhi verdi verso la finestra e si maledisse
di non averla chiusa la sera prima. La luce lo accecò,
spingendolo ad intrufolarsi nel caldo
abbraccio delle coperte.
Dopo l’ennesima serata vissuta con imbarazzo per via
dell’irrequietezza di Chaz e i continui goffi tentativi di
Lizzie di far ritornare tutto alla normalità, appena
ritornato a casa, aveva aperto la finestra per poi sedersi sul
davanzale con
le gambe penzoloni, lasciando che queste ciondolassero nel vuoto
accompagnando il fluire dei suoi pensieri sconnessi. Aveva osservato
l’orizzonte scorgendo i
colori tipici dell’alba appena iniziata e il silenzio delle
prime ore del mattino gli aveva dato modo di
riflettere: sebbene si sentisse tremendamente in colpa per
aver
fatto soffrire Chaz, sapeva di aver fatto la cosa giusta. Chiunque gli
avrebbe dato dell’egoista e forse un
po’ era anche vero, tuttavia non avrebbe mai preso con
leggerezza il
suo cuore, i propri sentimenti, tantomeno quelli di Chaz.
Le parole dell’amico riecheggiarono nella sua mente,
riproponendosi ad ogni sospiro lasciato all’aria, ad ogni
tiro di sigaretta.
“Cazzo, io ti amo Jay. Da così tanto
tempo che non ricordo neanche più come si vive senza
amarti”.
Ogni volta che sentiva ripetersi quelle parole la
voglia di sparire avvolgeva ogni porzione del suo animo.
Si chiese se davvero non se ne fosse mai accorto e dopo minuti e minuti
di riflessioni, di ricordi, la risposta arrivò chiara come
il sole appena sorto: l'aveva sempre saputo.
La paura di perderlo lo aveva reso vittima delle sue stesse ammonizioni
e dovette ammettere, a malincuore, un fatto che diventò
lampante solo in quell’istante: aveva sapientemente rimosso e
sotterrato ogni vago sospetto, con la speranza che non si
ripresentasse. Aveva accusato Chaz di non essere stato sincero ma il
peso della colpa
attribuitagli sarebbe dovuto essere equamente ripartito
perché, tanto quanto le omissioni, anche la sua ignavia nel
cogliere i deboli segnali aveva contribuito ad accrescere la distanza e
ad accumulare le falsità che avevano corrotto il loro
rapporto. Quella finestra aperta fu l’altare sul quale aveva
sviscerato
la propria coscienza, ma nel momento del suo risveglio fu la ragione
che
lo spinse ad alzarsi colmo di preoccupazione e nervosismo.
Fissò il soffitto della sua camera per pochi istanti
cercando un gancio invisibile al quale appigliarsi e dopo qualche
minuto poggiò i piedi sul pavimento, deciso ad affrontare
anche quella giornata con coraggio. La vita di Jay, da quel fatidico
giorno, era diventata una giostra continua di emozioni, negative e
positive; il solo alzarsi dal letto e attraversare le stanze di quella
che non era più casa sua richiedeva una dose di eroismo non
indifferente, ma dopo aver appurato il fatto che nella vita – nella sua
vita – ogni cosa doveva essere
necessariamente vissuta senza cedere alla
voglia di sparire, si levò con fiducia dirigendosi poi al
piano
di sotto.
Scese le scale adagio concentrandosi sulle risate sommesse dei
componenti
della sua famiglia riuniti per la colazione e quando fu abbastanza
vicino si arrestò davanti alla porta chiusa ascoltando le
voci di chi sentiva ancora di amare, e sorrise, riconoscendo nella
familiarità di quei discorsi ordinari momenti della sua
vita neanche troppo lontani.
Aprì la porta.
L’odore del caffè lo
investì tanto da svegliarlo completamente e scrutando i
visi di suo padre e suo fratello minore un nodo nello stomaco lo
costrinse ad una smorfia di amarezza.
Vide suo padre con un’espressione che non ricordava neanche
più di aver mai visto e scorgendo nella
profondità del suo sguardo una complice intimità
condivisa con suo fratello minore, la nostalgia lo soffocò.
Un
valzer continuo di flash lo riportò in quella stessa
cucina,
solo a qualche mese
prima, quando con suo padre
usava
confrontarsi alla pari su ogni tipo di argomento; attimi di sublime
felicità si trasformarono in un ritratto cupo e indelebile,
e la felicità passata originata dalla soddisfazione che
ogni figlio prova quando viene seriamente considerato dal proprio
genitore si dissolse, come i contorni sfumati di un disegno piegato
dall’avanzare del tempo.
Era troppo tardi per scappare e senza alcuna ragione il sorriso di
Izaya si presentò nella sua mente. Pareva rammentargli, con
voce pacata e gentile, le mille rassicurazioni che soleva ripetergli
ogniqualvolta lo trovava particolarmente provato o assorto. “Non
sei tu che devi adattarti a loro. Tu sei così
come sei e devi importi perché meriti rispetto anche solo
per il
coraggio che hai dimostrato, e se non gli starà bene,
allora,
fagli vedere che sei sereno nonostante tutto. Non hai bisogno di loro.”
Concetto semplice e diretto, apparentemente infantile, ma sacrosanto.
«Buongiorno a tutti».
I visi dei presenti si contrassero e Joseph, suo fratello, fu
l’unico a rivolgergli un indolente saluto in risposta.
Da suo padre e sua madre neanche una parola.
Tentò disperatamente di ignorare quel silenzio dicendosi
che avrebbe dovuto sfoggiare tutto il suo orgoglio a testa alta, si
avvicinò ostentando sicurezza e afferrò una fetta
di pane tostato, intrappolandola tra i denti.
I suoi occhi erano più luminosi del solito e i capelli
scompigliati gli donavano un’espressione ancora
più infantile – cosa che normalmente
avrebbe intenerito sua
madre che, con dolci carezze, avrebbe intrecciato le proprie dita alle
ciocche scomposte dei capelli del suo bambino per ravvivare
la cresta ribelle che già in precedenza aveva disapprovato,
ma che aveva scelto di accettare per quieto vivere. Jay
guardò prima suo fratello; poi suo padre e sua madre:
sembravano estranei. Avevano smesso di parlare e sorridere solo
perché il
loro vergognoso figlio era entrato a disturbare la tranquilla
quotidianità che avevano deciso di vivere senza di lui.
Joseph, insperabilmente, riprese a parlare come non aveva mai fatto
prima ed il padre, fiero dell’improvvisa e forbita favella
del figlio, sorrise, rispondendo con interesse alle sue argomentazioni.
Con l’assenza di Jay, il piccolo Joseph poté
godere delle attenzioni che prima erano state di suo fratello e con
grande soddisfazione esibì la nuova posizione guadagnata in
famiglia, come se si trattasse di una promozione di lavoro. Figli di
serie A e figli di serie B;
suo padre aveva sempre ragionato
così e declassando senza tanta fatica il maggiore dei suoi
figli aveva riposto ogni speranza sul minore, augurandosi che questi
non
lo deludesse.
Jay stava impalato, spettatore di quella vita familiare che un tempo
era stata anche sua; avrebbe voluto intervenire nella conversazione ma
qualcosa gli diceva che non sarebbe stato il caso. Posò gli
occhi sul tavolo e si accorse che non gli era stato riservato un posto.
Dove normalmente avrebbe trovato la sua tazza c’era
il cestino del pane e delle marmellate: la madre aveva usato il suo
posto per posizionare le cose necessarie a tutti. Evidentemente, la sua
presenza non era necessaria tanto quanto una marmellata di fragole.
Mise il broncio – come quando era bambino
–
e guardò sua
madre
che con incredibile calma e disinvoltura versava il caffè
per i suoi uomini, ignorando totalmente la presenza di suo figlio.
All’ennesimo schiaffo morale e ai successivi evidenti segnali
di insofferenza da parte dei genitori, Jay gettò il
pane nella pattumiera e senza indugio si allontanò
sommessamente dalla
cucina.
Quel piccolo spaccato di vita stracciò l’ultimo
brandello di speranza; Jay divenne un mendicante di attenzioni estraneo
alla sua
stessa vita, il membro inutile di un quadro familiare imperfetto nella
sostanza ma del tutto pianificato perché risultasse senza
macchia all’apparenza. L’istinto di fare le valige
e scappare si scontrò con
l’impossibilità pratica di mettere in atto i suoi
propositi. Non ci sarebbe stato alcun posto dove andare senza procurare
peso a qualcuno, avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche e prendere in
mano la sua vita – l’avrebbe
fatto – anche se non sapeva
esattamente da dove iniziare.
Arrivato in camera si lasciò andare al primo vero sospiro
della giornata e fece spallucce tentando di ridimensionare
ciò che aveva appena vissuto, ma gli occhi si riempirono di
lacrime ed il mento tremante prese il posto del menefreghismo che aveva
tentato in tutti i modi di dimostrare a se stesso, e crollò
in un silenzioso pianto, pregando disperatamente i suoi occhi di
smetterla. Avrebbe voluto essere solido abbastanza da non sentire il
peso di ciò che aveva visto, ma la sua giovane
età non gli aveva ancora permesso di accumulare abbastanza
forza da
riuscire a sostenere un tale colpo. Odiò la sua debolezza in
ogni modo, strinse i denti e levò lo sguardo dal pavimento
asciugandosi
le lacrime con il dorso della mano. Si alzò di scatto,
afferrando il cellulare abbandonato sul letto: avrebbe chiamato Lizzie,
avrebbe parlato con lei del più e del meno; ma non appena
posò gli occhi sul display vide la data
di quel nuovo giorno appena iniziato pessimamente.
Undici Novembre: il giorno del suo diciottesimo compleanno.
***
Izaya arrivò al locale stropicciandosi
le mani intorpidite dal freddo e suoi occhi si posarono sulla figura
accartocciata di Jay, accovacciato sulla sedia come un bambino in
punizione. Lo squadrò per qualche istante percependo
immediatamente il suo stato d’animo. Si piazzò un
sorriso solare sulla faccia cercando di apparire il più
sereno possibile. I tentavi di Jay di sviare ogni sospetto circa il suo
reale umore, fingendo tranquillità, non raggirarono il
ragazzo
che con passo sempre più cauto si avvicinava a lui
cercando, nel frattempo, l’unica che potesse essere a
conoscenza del malessere che in quel momento stava corrodendo
inesorabilmente l’animo del più piccolo. Non
riuscì a scorgere Lizzie – indaffarata in
chissà
quale faccenda – così dovette
accettare il fatto di misurarsi
con una sofferenza sconosciuta, forse anche più grande di
quello che poteva immaginare, approcciandosi ad essa con
inconsapevolezza. Non gli avrebbe mai chiesto informazioni direttamente
solo per soddisfare una sua curiosità, sapeva di conoscere
anche solo in minima parte la ragione di quegli occhi gonfi e provati
dalle lacrime.
Se avesse potuto seguire l’istinto l’avrebbe
raggiunto e abbracciato, ma il rispetto che provava nei suoi confronti,
–
soprattutto dopo la sua
richiesta di essere lasciato in pace a
riflettere senza dover prendere delle decisioni affrettate – non gli
permise di valicare un limite inviolabile che lui stesso aveva posto
tra loro.
«Ciao, Jay. Sei un raggio di sole oggi.»
«Anche tu non sei male. Ti mantieni sempre bene, nonostante
l’età».
Izaya si sedette difronte a lui incrociando le mani sul tavolo e
analizzò ancora il suo volto: c’era qualcosa di
più della semplice e consueta malinconia, tuttavia
non si azzardò a chiedere nulla, continuò a
punzecchiarlo per risollevarlo. «Dov’è
il simpaticone del gruppo? Non mi
pare di vederlo.»
«Izaya… non fare il cretino! Sai che si
offende.»
«Non mi pare di vederlo nei paraggi e non credo che abbia
messo cimici nel locale.»
«No. Ma quando inizi da subito a prenderti gioco di lui poi
ci prendi gusto e continui per tutta la serata.»
«Dimora ancora nel mio cuore la speranza di vederlo felice
con un ragazzo che non sia tu» recitò
sentitamente, premendosi le mani al petto.
«Izaya…»
«Che ho detto di male? Senti, Jay, Chaz non mi sta affatto
antipatico, anzi lo apprezzo; soprattutto dopo quella delicata e
commovente dichiarazione d’amore, ma se permetti prego
perché lui possa essere felice altrove.»
«Ti vedo particolarmente combattivo oggi, temevo avessi
ceduto le armi.»
«Non posso cedere le armi. Io ti voglio.» La
determinazione negli occhi di Izaya fece scivolare il cuore di Jay
in ogni angolo del suo corpo, colorandogli le guance di rosso,
costringendolo ad abbassare la testa.
«La tua reazione mi suggerisce cose che le tue labbra non
osano pronunciare, piccolo Jay.»
«E la tua sicurezza mi dice che sarebbe ora di chiamare
Lizzie».
Izaya
seguì la
traiettoria dello sguardo di Jay per poterlo catturare e farlo suo.
Voleva dargli prova della determinazione con la quale aveva tutte le
intenzioni di conquistarlo per poi avere tutto il diritto di
proteggerlo a modo
proprio. Il desiderio impellente di prendersi cura di lui era
misterioso quanto
coinvolgente e, di fatto, non
capì mai perché Jay fosse diventato
così importante, ma più il tempo passava
più sentiva che quel ragazzino gli avrebbe cambiato la vita,
l’avrebbe reso felice.
«Scusa, Izaya» la voce squillante di Lizzie
tagliò di netto l’atmosfera che i due erano
riusciti a costruirsi intorno. «Vieni un attimo ad aiutarmi
con questi scatoloni?»
«Arrivo, donna. Le mie forti e possenti braccia sono pronte a
tutto.» Si alzò sgranchendosi le dita delle mani,
si avvicinò a Jay con tenerezza e prima di andare
gli passò delicatamente il dito sul viso: dalla tempia,
all’angolo delle labbra; percorse i lineamenti delicati e
stanchi di Jay con un solo dito, per poi frenare quel bramoso vagare
nel pugno della sua stessa mano. Se si poteva chiamare contatto fisico
quello era stato il primo e se anche solo un dito di Izaya aveva la
capacità di rendere vittima dei brividi la sua pelle, Jay
non osò immaginare cosa avrebbe potuto provocare il resto
della mano. La leggerezza di un dito aveva rimpiazzato la
pesantezza dei suoi pensieri, la delicatezza di un cenno non del tutto
voluto, non pianificato ma figlio di uno slancio
irrefrenabile, aveva aperto la strada verso altre
possibilità che necessitavano solo di essere colte, se solo
non fosse stato così complicato.
Se solo non ci fosse stata in gioco la felicità di troppe
persone.
Izaya si allontanò da lui sentendone già la
mancanza, raggiunse Lizzie con l’intenzione di prenderla un
po’ in giro come al solito, ma non trovando alcun scatolone
da dover trasportare capì che le intenzioni della ragazza
erano altre.
Come un rapinatore lesto e forte, Lizzie cinse il polso di Izaya
trascinandolo nel punto più nascosto del locale.
«Ascoltami bene: oggi è il compleanno di Jay,
compie
diciotto anni. Dobbiamo fare qualcosa.»
«Non c’era bisogno di portarmi in questo luogo
angusto e puzzolente.»
«Non è il momento di
scherzare…»
«Lizzie» la interruppe, cambiando
totalmente sguardo e tono di voce. «I genitori lo hanno
ignorato!?» La ragazza abbassò lo sguardo
lasciando al dispiacere dei
suoi occhi il compito di dare una risposta.
Izaya acconsentì sospirando e fece per andarsene, ma Lizzie
lo trattenne ancora: «Non
dirgli che te l’ho detto».
La fissò per un breve istante scorgendo la pena che
l’aveva aggredita per tutto il tempo prima del suo arrivo e
provò tenerezza per quella donna bella e sola che aveva
scelto di prendersi cura di un ragazzo sconosciuto ma che,
inspiegabilmente, era entrato nel suo cuore. Capì che i
legami nascono e si fondono senza essere necessariamente preventivati
dalla natura o rafforzati dal tanto tempo trascorso insieme. Lizzie era
divenuta una casa per Jay, se ne rese conto in quell’istante,
quella donna così materna senza essere mamma aveva scelto
di prendersi la responsabilità di una vita abbandonata da
chi avrebbe dovuto prendersene cura.
Izaya sorrise, scegliendo in quel preciso momento di diventare la
roccia sul quale tutti avrebbero costruito il loro legame.
Si allontanò e raggiunse Jay spalancando le braccia.
«Diciotto anni. Jay è diventato un uomo.»
«Izaya, Cristo! Ti avevo chiesto di non dire
niente» uscì allo scoperto Lizzie urlando il suo
disappunto.
Jay guardò la scena perplesso, non capendo fino in fondo le
dinamiche di quel piccolo ma divertente spettacolo.
«Lizzie, non potevo non dirlo. Sono felice. Finalmente
potrò averlo senza risultare un molestatore di
minorenni» rispose gongolando, sedendosi di nuovo difronte
a Jay. Gli afferrò le mani accarezzandogliele dolcemente e
con
eccitazione nello sguardo spiattellò d’improvviso
i suoi programmi: «Dai, piccolo Jay, chiama Chaz. Stasera
porterò voi bambini nel luogo della perdizione, a
festeggiare».
Angolo
Autrice.
Ciao! Ringrazio tutti quelli che hanno letto per intero la storie e
tutti quelli che stanno ancora leggendo. Voglio ringraziare chi mi ha
supportato capitolo dopo capitolo e chi mi ha seguita silenziosamente.
Grazie, quindi, a coloro che hanno insierito la storia nelle
seguite/preferite/ricordate e aggiungo un grazie caloroso a SNappy.
Un abbraccio.
Bloomsbury
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Capitolo 11 *** A case of you ***
undicesimo capitolo
"You're in my
blood like holy wine
You taste so bitter and so sweet
Oh I could drink a case of you, darling
And I would still be on my feet
I would still
be on my feet"
A
case of You- James Blake
11. A case
of you
Il gran carnevale al quale Jay sentiva di assistere consisteva in una
enorme scatola riempita dalle più buffe ed esilaranti scene
mai neanche lontanamente immaginate.
Il mondo gay – quello che sarebbe
dovuto diventare il suo, nel quale
sguazzare senza l’ombra di alcun imbarazzo – era proprio
lì, davanti ai suoi occhi.
Le piccole ali d'angelo ben fissate sulle schiene degli
spogliarellisti dell’Escape parevano così stonate
da risultare buffe sui corpi depilati dei ragazzi che, sculettando,
mostravano fieramente la lussuriosa mercanzia a tutti i presenti
dispensando baci e occhiate a chi si soffermava adorante sotto i cubi
trasparenti sui quali si ergevano i lunghi tubi d’acciaio da
lap dance che, come colonne di un tempio, sostenevano il soffitto di
quel dubbio luogo mistico.
Gemiti, urli, musica e scontri non casuali facevano da sfondo agli
animi festosi che senza alcun pudore fuoriuscivano dalle espressioni
erotiche e divertite degli astanti i quali, ai margini del locale,
osservavano come cani da caccia le possibili prede che riempivano la
pista da ballo, e ruotando i bicchieri pieni di alcool che tintinnavano
percossi dai cubetti di ghiaccio richiamavano l’attenzione
dei disattenti che, presi dall’euforia, passavano oltre nel
tentativo di raggiungere il pasto ghiotto al centro della sala.
C’erano i lascivi, gli egocentrici, gli uomini adulti in
cerca di qualche giovane ragazzo da portare a letto e poi,
c’era Jay.
Schiacciato sulla poltrona in pelle all’interno del
privè osservava ogni piccolo particolare, indeciso se
seguire l’istinto e scappare o rimanere, cercando il
più possibile di integrarsi tra quella gente. Guardava
pensieroso la calca ebbra che come un’unica falange saltava
e ballava a tempo di musica seguendo il flusso ininterrotto delle
vibrazioni dei bassi che parevano far tremare anche l’anima
stessa.
Un sorso di vodka, un altro e un altro ancora, scandivano il
susseguirsi
inarrestabile dei suoi pensieri che – come sempre, del
resto – avevano
bisogno di essere accompagnati da quel pizzico di leggerezza dato
dall’alcool per poter librarsi nell’aria con
incoscienza, privati delle catene razionali che lo avrebbero spinto ad
alzarsi per rifugiarsi altrove, magari, in un posto più
tranquillo.
Cose che per il resto dei presenti apparivano eccitanti, divertenti e
dilettevoli, per Jay erano l’essenza stessa della tristezza:
come se il mondo gay si fosse chiuso tutto in una stessa bolla per non
dover vivere all’esterno, bisognosi di unirsi tutti insieme
per sfogare l’omosessualità che nella vita reale,
al difuori di quelle mura, erano costretti a contenere sotto la propria
pelle.
La considerazione ignobile che aveva Jay di quel posto non coincideva
con l’idea di chi lo accompagnava: Lizzie ballava
distrattamente seduta sul divano difronte a lui; avrebbe voluto
scuoterla per dirle di svegliarsi e di cercare di comprendere
l’infelicità celata dall’apparente
divertimento, ma sapeva che se l’avesse fatto
l’avrebbero guardato tutti come se stesse blaterando cose
incomprensibili.
Chaz, invece, appariva totalmente in armonia con quella specie di
ecosistema ricreato artificialmente per i poveri animali gay.
Animali: era esattamente questa l’impressione che Jay ebbe
per tutto il tempo, come se avesse davanti dei fenomeni da circo
intenti a mostrarsi in numeri studiati al fine di rendersi abbastanza
gay da poter coincidere con l’immagine stereotipata
dell’omosessuale.
«Che tristezza!» lo sussurrò quasi,
sperando che nessuno avesse sentito.
Difatti nessuno pareva averlo notato, tranne Izaya.
«Cos’è che ti fa tristezza?»
«Sono tutti gay!»
«Siamo nel locale gay più famoso di Soho, Jay.
Sarebbe strano se non ci fossero.»
«Come se esistessero locali per etero».
Il viso di Izaya diventò serio, aveva compreso perfettamente
il pensiero di Jay, non sarebbero servite altre parole e
scrutò il viso fanciullesco di quel giovane e saggio uomo
che pareva soffrire alla sola vista di quella che percepiva come una
gabbia. «Capisco che vuoi dire, ma non è
così
negativo. Sono solo ragazzi che si divertono.»
«Ho confessato a mio padre chi sono per poi dovermi chiudere
nelle mura di un merdoso locale per quelli come me».
Izaya sorrise teneramente avvertendo la rabbia,
l’insofferenza e il disagio che avevano animato le parole
sfrontate di quel novellino fin troppo provato dagli eventi per poter
prendere le cose con la sua stessa leggerezza.
Posò gli occhi su Chaz sperando di poter trovare qualcosa da
dire per stuzzicarlo e farlo arrabbiare, tanto per trovare un
diversivo. L’espressione del ragazzo era tesa e seria ed
Izaya, trovando
il cavillo giusto, iniziò a solleticargli le corde della
permalosità: «Dai, Chaz! Non avere sempre questa
faccia da funerale. Quasi non ti riconosco più.»
Appena finita la frase chiese segretamente perdono al ragazzo,
scusandosi tra sé e sé per il trattamento che
aveva scelto di riservargli; ormai sembrava una vittima sacrificale:
ogniqualvolta aveva bisogno di alleggerire l’atmosfera usava
la suscettibilità di Chaz come antidoto.
L’amo era stato gettato e, come previsto, il ragazzo non
tardò ad abboccare: «Mi viene difficile avere
altre espressioni in tua compagnia.»
«Mi stai dicendo che ne hai altre? Stento a
crederci».
L’attenzione di Jay, a quel punto, si proiettò
interamente sul viso dell’amico e come sperato da Izaya
quell’apparente attacco ebbe gli effetti auspicati.
«Chaz ha molte facce, quella che preferisco non è
questa, ma quando ha il broncio è comunque il mio
Chaz.» La frase di Jay, nella sua semplicità,
scatenò un
duplice effetto: devastante per uno, benefico per l’altro.
Izaya si morse le labbra e sentì di provare per la prima
volta nella sua vita la morsa vigorosa e demolente della gelosia. Si
maledisse per aver servito a Chaz, su un piatto d’argento,
una soddisfazione così grande, ma deciso a procedere con la
sua condotta continuò a provocarlo: «Si vede che
sei abituato, Jay. Ogni tanto gradirei vedere quel bel visino acceso da
un bel sorriso.»
«Non uso dare le perle ai porci» sibilò
l'esca, ritornando al mittente le sue provocazioni.
«Ma che cazzo avete? Sembrate due zitelle»
protestò Jay ammonendo con lo sguardo Izaya che,
scioccamente – forse anche in modo un po’ infantile – si
beò di quel rimprovero riconoscendo in quelle parole una
vena d’intimità che solo chi ama riesce ad
apprezzare.
Lizzie, che nel frattempo aveva continuato a dondolarsi sul divano
accompagnata dalla musica, raddrizzò la schiena fissando
tutti con severità:
«Siamo qui per divertirci, non cominciate a litigare. Oggi
è il compleanno di Jay.» Succhiò il
cocktail dalla cannuccia, spostò
l’attenzione su Chaz e buttò lì in
mezzo una domanda a caso con il proposito di cambiare discorso:
«Sei venuto altre volte qui o è la prima
volta?»
«Sì, ci sono venuto, due o tre volte,
forse».
Jay sgranò gli occhi incredulo: non conosceva quel piccolo
particolare della vita di Chaz e spostando
energicamente il bicchiere sul tavolo –
facendone cadere un po' del contenuto – si chinò in
avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
«Tu sei un traditore.»
«No. Sono solo più bravo di te a farmi i fatti
miei. Non ho bisogno di informare il mondo delle mie tendenze
né sono costretto a dire ciò che faccio nelle mie
serate libere.» La risposta di Chaz – nella sua schiettezza – stizzì
Izaya,
tanto da sconvolgere la compostezza del suo animo; se avesse potuto
dire tutto quello che gli passava per la mente avrebbe certamente
alzato un bel polverone, ciononostante il desiderio di rispondergli per
le
rime non coincideva affatto con l’ambizione di
regalare a Jay una serata diversa e tranquilla.
Portarlo all’Escape non era mai stata – fin
dall’inizio – un’idea
basata solo sulla semplice e
superficiale speranza di fargli passare qualche ora senza pensieri,
anzi affondava le proprie radici in un terreno molto più
profondo: voleva eludere la possibilità di far abituare Jay
al bar.
Se verosimilmente il locale di Lizzie era l’unico luogo nel
quale Jay sentiva di stare a casa, Izaya sapeva che con buone
probabilità sarebbe potuto diventare un posto come
tanti –
poiché l’abitudine porta ogni essere umano
all’assuefazione e tutto quello che percepiamo come speciale
diventa ordinario in un battito di ciglia.
Aveva scelto di cambiare ambiente per non permettere agli affanni del
ragazzo di sedimentarsi nell’unico suo rifugio, intaccando
l’incorruttibilità di quelle umili mura
imbiancate. Il jukebox, i tavoli, il bancone avevano ancora molto da
fare e se
avessero perso la loro magia Jay avrebbe perso per sempre il loro
sostegno.
Con la risposta di Chaz ancora impressa nella mente, Jay
afferrò il bicchiere come se si trattasse di uno scudo, si
alzò di scatto e si
allontanò dagli amici con passo deciso, dirigendosi verso la
pista.
«Ma, dove vai?» urlò Chaz piegandosi in
sua direzione con l’intento di alzarsi, ma nulla
poté fare contro la stretta di Izaya che lo tratteneva
saldamente dal polso: «Lascialo andare».
Jay si fece spazio tra la folla, colpito frequentemente dai corpi
danzanti che convergevano sempre più massicciamente al
centro della pista. Era quello il suo obiettivo: si sarebbe comportato
come ogni gay presente in quel locale, ostentando sicurezza e audacia.
Arrivato al centro si fermò, piantando i piedi sul
pavimento come se una forza invisibile l’avesse incatenato
in quell’esatto punto; stringeva il bicchiere fissando
persone imprecisate davanti a sé.
L’odore persistente di sudore e il calore provocato
dall’euforia dei movimenti altrui sapeva di sesso. Il sesso
era la vena pulsante e principale che dava vita all’Escape,
ai corpi seminudi della gente intorno a lui. Gente: non erano nulla di
più, nulla di meno. Estranei accalcati che si scambiavano
effusioni appassionate e fuori luogo, e parevano non curarsi
dell’unico alieno che li fissava incredulo e confuso; avrebbe
dovuto mescolarsi a loro e sentirli familiari, avrebbe dovuto ballare e
permettere a qualcuno di toccarlo, magari. Il corpo inviolato di Jay
sapeva di unicità in mezzo alla calca: una luce bianca
avvolta da mille colori.
«Sei solo?» Una voce estranea richiamò
la sua attenzione.
Non riuscì a connettere subito, lo squadrò
disordinatamente per qualche secondo di troppo, senza proferire parola.
«Ti ho chiesto se sei solo!»
«Mi vedi con qualcuno?» chiese ironico.
Il ragazzo sorrise e avvicinandosi languido all’orecchio di
Jay parlò senza alzare troppo la voce: «Posso
offrirti qualcosa?»
«Non credo tu abbia qualcosa da offrirmi. Non cerco
niente, stavo facendo una passeggiata».
L’improvvisa risata affilata e acuta del ragazzo –
contro ogni previsione –
lo
divertì, tanto che il suo viso si rilassò,
producendo una smorfia quasi simile ad un sorriso di intesa.
«Sorridi, ragazzo. Non ti trattenere. Sei qui per divertirti,
no?»
«Il problema è che io non mi sto divertendo per
niente».
Un gruppo di ragazzi presi della danza coinvolsero Jay come vittima
di una mareggiata, trascinandolo ai margini della pista; si
divincolò in tempo, prima di ritrovarsi nuovamente
fagocitato da quel delirio.
Si arruffò i capelli come era solito fare in momenti di
difficoltà e dirigendosi con passo lento e incerto verso il
bar tentò di sbirciare nel privè. Non
riuscì a localizzare i suoi amici, così decise di
prendersi qualche altro minuto di solitudine prendendo posto su uno
sgabello
davanti al bancone, poggiando i gomiti su di esso.
Fissava un punto davanti a sé perdendo lo sguardo tra le
bottiglie allineate, reggendosi la testa tra le mani.
Il broncio ridisegnò i suoi tratti, offrendo
all’uomo che lo scrutava a poca distanza uno
spettacolo curioso ed estremamente divertente. «Ti va di bere
qualcosa con me?»
Jay alzò il sopracciglio senza voltare del tutto lo sguardo,
come se volesse non dare a nessuno la soddisfazione di avere la sua
totale attenzione.
«Sto già bevendo» rispose poggiando le
labbra roventi sul bordo del bicchiere, ritrovando un sottile conforto
nel contatto con il ghiaccio.
«Vedo. Ma vorrei offrirti ancora qualcosa.»
L’uomo appariva distinto, maturo, di bell’aspetto e
con un’accuratezza nei modi quasi ipnotica. Sorrideva
impercettibilmente accompagnando le parole che pronunciava
con gesti eleganti e attraenti. Nonostante fosse riuscito a stuzzicare
l’interesse del ragazzo non riuscì, allo stesso
modo, a togliersi l’etichetta dello sconosciuto da
evitare –
perché era esattamente così che lo vedeva Jay: un
estraneo elegante, distinto, ma pur sempre un estraneo da tenere
lontano.
«Non sei di molte parole, ragazzo.»
«Abitualmente non parlo con chi non conosco.»
«Sei diffidente, ho capito!» esclamò,
prendendo posto accanto a lui. «Voglio solo bere qualcosa con
te, non ci sto provando.»
«Vai a raccontarlo a qualcun altro» lo
canzonò con sarcasmo.
L’uomo rise di gusto, stuzzicato dal modo diretto con il
quale Jay provava a levarselo di torno, ma più lo
respingeva più si sentiva attratto. Raramente aveva
incassato dei rifiuti ma quella volta sentiva di aver
ricevuto il più attraente della sua vita.
Jay non lo guardava, stava con le labbra attaccate al bicchiere
fissando le mensole in cristallo del bar. Le
ciglia lunghe curvate verso l’alto svelavano occhi di
ghiaccio così intensi da emergere nel buio della sala: occhi
irresistibili e sguardo fanciullesco, incurante, sfrontato.
«Io sono Bradley, puoi chiamarmi Brad» si
presentò porgendogli la mano. Il ragazzo la fissò
come se si trattasse di un serpente a sonagli e
indugiando per qualche istante l’afferrò
velocemente. «Hah… Jay, mi chiamo Jay.»
«Ho la sensazione che tu ti sia presentato con un nome
falso» disse Brad, corrucciando la fronte.
«No, affatto. Il mio nome è Jay.» Bevve
ancora un altro sorso, sperando capitasse qualcosa che fosse in grado
di mettere fine alla conversazione.
Brad era attraente ed educato – se l’avesse
conosciuto altrove
avrebbe avuto un’impressione di lui molto più
piacevole – ma le luci
dell’Escape trasformavano l'immagine di chiunque, li facevano
sembrare felini pronti all'attacco..
Le sue rassicurazioni non servirono a molto perché il suo
modo elegante di placcarlo aveva qualcosa di poco raccomandabile,
così Jay si voltò dando le spalle al bancone;
cercava con gli occhi qualcuno.
Cercava Izaya.
«Sei un novellino, vero?»
«No, vengo spesso qui…»
«Non è vero!» esclamò
ridendo, come un giocatore eccitato da uno scacco matto inequivocabile.
Jay tentò disperatamente di apparire naturale, come se quel
luogo gli appartenesse e, soprattutto, come se fosse perfettamente in
grado di gestire un tentato approccio. Quell’uomo lo metteva
in soggezione benché i suoi modi fossero gentili. Il fondo
dei
suoi occhi celava qualcosa di poco rassicurante.
«Sei un pesce fuor d’acqua, Jay. Se vuoi ti porto
in un posto più tranquillo».
La mano di Brad si azzardò verso il braccio di Jay ma prima
che potesse afferrarlo un’altra mano sopraggiunse sicura,
ostacolando il contatto tra i due. «Il ragazzo è
con me». La voce di Izaya rombò in salvezza di Jay
che, senza
nascondere l’entusiasmo per il suo arrivo, sorrise felice.
Brad, dopo aver appurato la veridicità di quelle parole,
alzò le mani in segno di resa. Guardò
per
l’ultima volta il viso di Jay e a malincuore dovette cedere e
rinunciare: «Ci rivedremo.»
«Sicuro, Brad!» rispose con altezzosità,
forte della presenza di Izaya.
Non appena l’uomo si fu allontanato, Jay dovette scontrarsi
con una situazione ben peggiore. «Perché stai
facendo lo stupido?»
«Izaya, cos’è? Sei geloso?»
«Non è per gelosia che ti sto parlando. Ti abbiamo
aspettato nel privè almeno un’ora, che cazzo di
fine hai fatto?»
«Ho ballato, ho chiacchierato, ho bevuto qualcosa. Ho fatto
quello che fa qualsiasi altro ragazzo» rispose arrogante,
consapevole della sua stessa falsità.
Forse, era proprio una reazione che cercava. Aveva mollato tutti nel
bel mezzo della serata con la speranza che
qualcuno, di sua spontanea volontà, venisse a cercarlo, e
proprio mentre la situazione stava per diventare ingestibile era
apparso Izaya: l’unico in grado di proteggerlo.
«Muoviti, usciamo». Il più grande lo
afferrò dalla maglia trascinandolo fuori dal
locale. Non l’aveva mai visto particolarmente adirato, ma
questa
volta sembrava avvolto da un’incalzante ed energica nube nera.
Jay rise tra sé e sé trascinato dalla forza
vigorosa del ragazzo che lo stava portando in salvo per
l’ennesima volta.
***
«Ti ho lasciato andare via senza oppormi ma, cazzo, Jay!
Un’ora. Sei sparito per un’ora senza degnarti di
farti vedere un secondo». Il freddo accompagnava le parole di
Izaya producendo candite e pompose
nuvole di fumo che a contatto con il fiato caldo del ragazzo si
libravano nell’aria fredda di una notte singolare che pareva
sospesa nel tempo, come se lo scorrere delle lancette si fosse
fermato o, forse, era la vicinanza di Izaya a rendere tutto
così eternamente immobile.
Jay rimase in silenzio adorante, amando ogni sprazzo di fumo, ogni
parola pronunciata da colui che l’aveva cercato, afferrato e
portato via. Ormai non ascoltava neanche più le sue
proteste, ma scrutava
idolatrante ogni piccolo particolare: le labbra rosse accalorate dalla
rabbia, le mani grandi e forti che si muovevano trascinate dalla
veemenza delle sue parole, gli occhi lucidi e fiammeggianti.
«Mi stai ascoltando?»
«No, cioè, sì. Ti sto
ascoltando».
Izaya alzò gli occhi al cielo abbandonandosi rassegnato su
un motorino parcheggiato accanto a lui. Jay si avvicinò
lentamente e per la prima volta
sentì l’impulso irrefrenabile di sfiorarlo, di
accarezzarlo, di rassicurarlo. Poggiò la mano pallida e
gelida sul viso deciso e accaldato del
ragazzo difronte a lui che, al solo contatto, alzò gli occhi
stupito: la prima carezza, il primo vero contatto fisico palese e non
fugace.
Jay sorrise a quegli occhi increduli con tenerezza matura e
consapevole. «Io ho scelto.»
Quella dichiarazione investì Izaya così forte da
zittirlo definitivamente; dal suo canto, Jay sapeva che procrastinare
non sarebbe servito più a niente. Il suo posto era tra le
braccia di Izaya e sapeva che se mai qualcuno
avesse osato portarglielo via l’avrebbe privato
dell’unico uomo che sentiva di amare.
La decisione si palesò chiara ed evidente, emergendo tra le
mille preoccupazioni e arrovellamenti –
invero, la certezza
di desiderarlo c’era sempre stata, ma gli eventi avevano
nascosto ogni cosa, costringendolo a chiedersi quale fosse la risposta
giusta alle sue domande.
«Tu ne sei certo, Jay?» pronunciò le
parole adagio, con la paura di alimentare ipotetiche incertezze.
«Se l’amore è fiducia, rispetto,
possesso e voglia di prendersi cura di qualcun altro
perché senti che nel mondo non esiste altro ruolo per te,
allora sì, sono sicuro. Perché mi sono
irrimediabilmente e profondamente innamorato di te.»
«Oh! Cazzo!». Fu l’unica cosa che
riuscì a dire, tanto che Jay
rise di lui senza preoccuparsi troppo di ferirlo.
Izaya aveva vissuto quei giorni con la certezza di non avere alcuna
possibilità: l’indissolubilità del
rapporto di Chaz e Jay l’aveva convinto che non ci sarebbero
state speranze, credeva di non poter competere, – sebbene non si
trattasse di una vera e propria competizione. Non per lui,
almeno – ma era sempre stato
certo del fatto che Chaz fosse troppo importante per Jay.
Izaya aveva ceduto le armi da un pezzo, anche se aveva tentato di non
darlo a vedere. «Spero che tu non abbia scelto cogliendo un
bigliettino a
caso da una scatola…»
«Mi offendo se dici così».
Izaya lo trasse a sé allargando le gambe per accoglierlo,
mentre, seduto ancora sul motorino, cercava di rimanere lucido per non
lasciarsi andare troppo alle illusioni, e dopo
aver poggiato il mento sulla sua spalla chiuse gli occhi,
respirando ogni istante di quel momento impagabile. Jay gli cinse la
schiena e sorrise teneramente sentendolo abbandonato su di
sé, – sembrava più
piccolo e docile –
così chiuse a sua volta gli occhi, e
immobili, stretti l’uno all’altro, assaporarono il
loro silenzio fatto di sospiri di sollievo.
Jay non l’avrebbe più dimenticato, ormai era suo,
lo sentiva scorrere nelle vene e la costante sensazione di conoscerlo
da sempre si fece più vivida, come se
quell’abbraccio l’avesse risvegliato da un sonno
durato una vita.
La barba incolta di Izaya sfiorò la pelle liscia e pallida
di Jay, con movimenti delicati e calmi cercava le sue labbra,
accarezzando con il viso ogni centimetro del tragitto che restava da
percorrere per raggiungere ciò che più desiderava.
Non appena le bocche furono abbastanza vicine da potersi assaporare, il
sorriso accennato di Izaya sciolse ogni esitazione accogliendo il
timido tentativo di Jay tra le sue labbra, catturando il suo fiato,
fino a prenderne possesso completamente.
Il bacio così tanto atteso ebbe luogo in una fredda serata
di Novembre, mentre i corpi accalorati dall’emozione e dal
desiderio infiammavano ogni piccolo spazio delle loro anime che, unite
eternamente da quel contatto intimo e soffice, compresero il luogo nel
quale avrebbero dovuto adagiarsi per sempre: l’una nella vita
dell’altra.
In quel preciso attimo due vite diventarono una e il resto del mondo,
i problemi, i tormenti e le attese si trasformarono in piccoli e
lontani
puntini insignificanti nella vastità incontaminata dei
sentimenti finalmente ammessi, accettati e svincolati da qualsiasi
paura che per troppo tempo avevano inibito ogni
possibilità di risalita e di unione.
Solo in quell’istante, Jay si sentì libero;
nonostante si stesse legando a qualcuno degustò il sapore
della libertà attraverso le labbra dell’uomo che
amava e che l’avrebbe protetto, amato e curato. Per sempre.
Angolo Autrice:
Ma ciao miei giovani guerrieri (?)
Ho aggiornato tardi, losoloso, però spero di essermi fatta
perdonare con questo capitolo.
Jay ha scelto ed è pronto ad affrontare le
conseguenze. Voi siete pronti?
Voglio ringraziare Elsker, Ladywolf, Aven, Bijou, Julie, Nahash, Ghost
e SNappy.
Se dimentico qualcuno siete liberissimi di menarmi a sangue.
Grazie a Castelli di Rabbia, ad evuzzola, a michyceli e a Moloko.
Grazie a tutti.
Al prossimo capitolo.
Un abbraccio.
Bloom
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Capitolo 12 *** Hysteria ***
dodicesimo capitolo
"It's holding
me, morphing me
And forcing me to strive
To be endlessly cold within
And dreaming I'm alive."
Hysteria-
Muse
12.
Hysteria
Svegliarsi, fare colazione, andare al college, fare una
passeggiata per rilassarsi: come una automa, Chaz aveva vissuto i
giorni
a seguire cercando il più possibile di staccare i suoi
pensieri dalle cose che più gli facevano male, nascondendosi
nei gesti più ordinari.
La serata all’Escape era finita nel peggiore dei modi
perché, uscendo, aveva visto Jay aggrappato alle spalle di
Izaya, e se prima aveva avuto dei dubbi questi vennero totalmente
soppiantati da una conferma a voce affilata come la lama di un
coltello: “Io e Izaya stiamo insieme.”
Queste furono le parole di Jay quando, tornando a casa, accorgendosi
dello strano mutismo di Chaz, aveva scelto di mettere a
conoscenza l’amico delle novità che avrebbero
cambiato le loro vite. Non proferì parola quella sera e Jay
neanche lo pretese, ma
vegliò su suoi passi quando, arrivati vicino casa, dovette
lasciarlo andare ignaro di cosa gli passasse per la testa.
In realtà, Chaz provava disprezzo per l’uomo che
gli aveva portato via l’unico pezzetto di realtà
al
quale poteva aggrapparsi, perché Jay, oltre ad essere un
amico e l’unico suo vero amore, era l’anello di
congiunzione tra se stesso e i suoi segreti. Era l’unico a
sapere chi era veramente e aveva la
meravigliosa capacità di farlo sentire bene
perché, nonostante tutto, non l’aveva mai
giudicato per le sue scelte.
Chaz aveva preferito condurre la sua vita come un rifugiato, in perenne
contrasto con la sua stessa personalità, desideroso di
trovare un mondo parallelo nel quale nascondersi senza necessariamente
esporsi. Pura utopia la sua, poiché non esiste un mondo nel
quale si può vivere evitando di fare i conti con se stessi,
di conseguenza si nascondeva e a furia di fingere quasi si convinceva
di essere realmente la persona che lasciava scorgere agli altri,
tuttavia c'era Jay a fargli da specchio ed era l'unica persona che gli
aveva permesso di
guardarsi per ciò che era senza nascondersi e
quello specchio, adesso, era andato in frantumi portandosi via il suo
riflesso,
per sempre.
Il susseguirsi dei giorni si cibarono a poco a poco della sua pazienza,
dei suoi sentimenti, della sua anima stessa senza che Chaz potesse fare
nulla per contrastarli. La sua attenzione veniva intenzionalmente
spostata su altro per non
dover accettare passivamente la delusione, per non essere vittima del
suo stesso dolore. Il menefreghismo imperò nel suo animo e
si
allargò a macchia d’olio su ogni cosa. Continuava
a recarsi al bar incontrando quelli che non riuscivano a
diventare i suoi amici sebbene in passato si fosse sforzato a
giudicarli come tali, invero erano solo amici di Jay, non suoi, eppure
seguitava ad
andare come se volesse farseli venire a nausea, in modo che fosse
risultato più semplice farli sparire dalla propria vita
senza rimpianti.
Faceva da spettatore non pretendendo da se stesso grandi sforzi per
avere rapporti con qualcuno di loro.
Jay stava diventando un estraneo – era Chaz stesso che
lottava per
renderlo tale – e non volendosi
rassegnare all'evidenza cercava il più possibile di
comportarsi normalmente sperando che l'amico potesse confessargli
ciò che pensava, ma Chaz, ormai, non apprezzava niente di
quello scenario, neanche i suoi tentativi goffi di distaccarsi da Izaya
in sua presenza, lui li vedeva come
comportamenti ipocriti e meschini.
Jay era un ipocrita e un meschino.
Si chiese più e più volte il perché
continuava ad onorare quella gente della sua presenza e la risposta non
era l’amore per colui che aveva scelto di non essere
più suo, il motivo era un altro e lo capì a
breve: l’unico suo scopo era quello di rendergli la vita un
inferno.
Sapeva che Jay non avrebbe mai mollato la presa e Chaz
stabilì che con la sua stessa presenza muta e disapprovante
avrebbe torturato chi l’aveva costretto a soffrire, avrebbe
giocato l’ultima carta a suo vantaggio: avrebbe fatto leva
sui sentimenti di Jay per farlo crollare e far finire per sempre il
ridicolo rapporto che l’aveva unito ad Izaya. La loro storia
d'amore, seppur nata spontaneamente, pareva comunque ostacolata da
faccende in sospeso che nessuno,
compresa Lizzie, riusciva a chiarire nel modo più naturale
possibile.
Per non ferire Chaz e per non accrescere ulteriormente le paure di Jay
di perderlo, l’omertà regnò sovrana
impedendo a tutti di comportarsi serenamente.
Ognuno di loro camminava sui carboni ardenti, tacendo e sperando di non
fare o dire quel qualcosa di sbagliato che avrebbe fatto sbriciolare
l’equilibrio sottile che il silenzio di Chaz e il senso di
colpa di Jay avevano prodotto.
L’unico ad avere la reale consapevolezza delle sue intenzioni
era proprio Chaz, che comprendendo
appieno la situazione, la utilizzava
a suo vantaggio imponendosi come intralcio al giusto e naturale corso
degli eventi.
Osservava con gli occhi affilati e lo sguardo fintamente assente lo
scorrere dei giorni, arricchiti dai discorsi vaghi e infecondi che
facevano da padroni.
Affrontare discorsi inutili era un modo per evitare di dover sostenere
un silenzio ancora più pesante e Izaya, consapevole del
fatto che, prima o poi, tutta quella farsa sarebbe finita, attendeva.
In verità, aspettava che Chaz sbottasse perché
sapeva che un giorno o l’altro l’avrebbe fatto.
***
Dicembre.
Per molti anni fu il suo mese preferito.
Natale, le feste, i preparativi. Quel dannato mese conteneva in
sé tutto ciò che Jay amava perché ogni
piccola cosa veniva racchiusa, a sua volta, da un qualcosa di molto
più grande: la sua famiglia.
Il suo primo mese di Dicembre senza sua madre, suo padre e suo fratello.
Il suo primo mese di Dicembre con Izaya e con Lizzie.
Chaz era il suo unico punto interrogativo.
Se avesse voluto pensare egoisticamente l’avrebbe ancora
trattenuto a sé, con le unghie e con i denti, ma sentiva di
fargli male come non aveva mai fatto e vedere le sue stesse mani
sporcate dal dolore di Chaz, lo straziava più di qualsiasi
cosa.
Aveva perso tutto, eppure sentiva di non essere pronto a perdere anche
il suo migliore amico.
I pensieri lo tormentarono incastrandosi fra loro, formando un
groviglio incomprensibile di ragionamenti inadoperabili e del tutto
inefficaci, l’unica certezza, in mezzo a quel nodo soffocante
di dubbi e paure, era Izaya che comprendendo perfettamente le
difficoltà nelle quali Jay annaspava lo aveva preso per
mano, un giorno, e gli aveva parlato.
L’aveva afferrato una mattina qualunque – Jay non ricordava
esattamente che giorno fosse, sapeva solo che era uno dei tanti che
l’aveva reso prigioniero dei suoi stessi sensi di colpa –
e trascinato nel bagno del
locale spogliandolo
dei vestiti bagnati dalla pioggia, aveva cercato di convincerlo a
ritornare sui suoi passi.
Aveva acceso l’asciugamani elettrico per permettere al getto
di aria calda di privare la maglietta zuppa di Jay
dell’ultima goccia di pioggia.
“Sai cosa penso, Jay?” Aveva
urlato per farsi sentire, cercando di sovrastare il frastuono
dell’apparecchio. “Penso che stai mancando di
rispetto a te stesso. Non a me, non a Chaz, ma solo a te
stesso!”.
Jay aveva corrucciato la fronte cercando di capire il significato delle
sue parole.
“Voglio dire che comportandoti in questo modo stai solo
assecondando il volere degli altri. Chaz è un viziato ed io
sono uguale a lui. Siamo entrati nella tua vita come uragani
prendendoci quello che volevamo senza alcun tatto. Tu hai dato il tuo
affetto a Chaz per tutti questi anni e lui ha deciso di disporne come
meglio credeva, senza metterti al corrente dei suoi reali sentimenti.
Io sono entrato nella tua vita e ti ho costretto a considerarmi,
approfittando della tua fragilità. Non era il momento giusto
per te. Avresti dovuto mettere ordine nella tua
vita…”. L’asciugamani si era spento
d'improvviso
facendo udire le ultime parole con più forza ed Izaya,
arrestandosi, aveva pigiato il bottone per avviarlo di nuovo con
l'intento di inondare ancora il piccolo locale di quel frastuono, come
se fosse fondamentale avere quel baccano come
sottofondo. "Dicevo: devi prenderti i tuoi tempi
e ti prego di comportarti con entrambi come ti senti. Non devi farci
piacere. Diventa davvero egoista, pensa a te e non assecondare
più nessuno. Concentrati a salvare il salvabile con la tua
famiglia, metti da parte il resto.”.
Jay si era soffermato, più che sulle parole, sul motivo che
spingeva Izaya a parlare e ad affrontare quel discorso con quel
fracasso.
Aveva visto le mani di lui prendersi cura della sua maglietta fradicia,
le parole prendersi cura della sua anima, ciò che
invece si prendeva cura di Izaya era proprio quel rumore assordante
che copriva in parte le sue parole, ma quasi del tutto il tono della
sua voce. L’aveva ascoltato attentamente: la voce era
incerta, rotta
dalla rabbia e dal dispiacere, in contrasto con il contenuto del
discorso che lo
esortava a prendersi cura di sé, senza interessarsi a chi
gli complicava la vita.
Le labbra di Izaya snocciolavano frasi per il bene di Jay, non di certo
per il proprio, e quel rumore serviva a questo, a nascondere i suoi
sentimenti lasciando spazio al razionale sgorgare delle sue parole.
Jay, con uno scatto, si era aggrappato a lui interrompendolo,
l’aveva tenuto stretto a sé come se avesse avuto
paura di lasciarlo andare via. Lo aveva cinto forte al petto con tutto
l’amore che riusciva
a sentire. “Tu sei speciale, Izaya!”
“No che non lo sono…”.
Jay aveva udito rassegnazione nella sua voce, come se si fosse arreso
al fatto che se avesse continuato a tenerlo legato a sé
avrebbe dovuto combattere per sempre contro la presenza costante di
Chaz. Si sarebbe messo da parte, era disposto ad
aspettare. “Io dico che tu devi prenderti ancora del
tempo…”
“Izaya, io ho scelto te ed ho imparato che l’amore
non è una parola. L’amore racchiude gesti,
intenzioni, cure. Dire ti amo è facile se poi si scappa.
Dire ti amo e rimanere: quello è difficile e tu sei rimasto
sempre. Non ti sei imposto, mi hai solo fatto sapere cosa provi
senza pretendere niente in cambio, dimostrandomi continuamente che
tieni a me. Anche adesso, ti vedo lì a prenderti cura di me,
ad
asciugare la maglietta per non farmi prendere un accidenti e nel
frattempo mi parli di cosa dovrei fare per me stesso, mentre la tua
voce trema perché le parole che vorresti dirmi sono
altre.”
“L’amore non è un sentimento egoista. Se
ami qualcuno lo vuoi vedere felice e tu, adesso, non lo sei. Temo che
tu sia stato fin troppo tempestivo.”
Jay aveva accarezzato il suo viso – era diventato piccolo
nonostante la
sua grandezza – scorgendo nei suoi
occhi scuri tutto l’amore
che non aveva ricevuto da nessun altro.
“Adesso fai parte della mia vita, e scordatelo, io
non ti mollo.”
In quell’attimo avevano suggellato un patto inscindibile e
sebbene Izaya avesse tentato di far ritornare tutto alla
normalità, consigliandogli di riflettere ancora come se
nulla fosse successo, la determinazione di Jay l’aveva
zittito confermandogli la sua sacrosanta scelta di volerlo amare
liberamente.
Chaz avrebbe dovuto accettarlo e mettersi l’anima in pace,
così decise di affrontarlo non appena lo vide entrare nel
bar con la solita e pungente aria di sufficienza.
Il ragazzo, appena entrato, fece una veloce panoramica della sala e
vedendo Jay insolitamente seduto su un tavolo prese posto altrove,
lontano da lui, come a voler sottolineare il distacco incolmabile che
li aveva resi estranei.
Chaz era lì, a pochi passi da lui, eppure sembrava
così irraggiungibile, così assente.
Era arrivata l’ora di chiarire.
Una luce di risolutezza accese le pupille grigie di Jay che avevano
assorbito in profondità il colore freddo del suo stesso
stato d’animo. Con un balzo toccò il suolo,
accorciando le distanze a poco a poco, misurando con cura il tragitto,
sondando attentamente i suoi pensieri per poter estrapolare
dall’intricato nodo delle sue riflessioni le parole giuste da
dire.
Come di consueto, si ritrovò a pensare ad Izaya e sorrise
tra sé e sé perché il ragazzo che
stava imparando ad amare c’era sempre e, immancabilmente, si
ripresentava nei
momenti più difficili.
Il solo pensarlo facilitava le sue stesse azioni, avercelo nella mente
ridimensionava tutto: Izaya era diventato indispensabile e questo,
ormai, era un
dato di fatto.
Prese posto accanto a lui esaminando ogni tratto del suo volto tirato
e inespressivo, non sembrava neanche più il solito Chaz, ma
negli occhi vi era un evidente conflitto che difficilmente sarebbe
sgorgato dalle sue labbra in modo spontaneo.
«Mi spieghi che ti passa per la testa?»
Chaz inarcò le sopracciglia deponendo lo sguardo sulle mani
intrecciate di Jay – non aveva neanche il
coraggio di guardarlo negli
occhi, come se avesse paura di svelare prematuramente un sentimento
negativo che sapeva di non dover scatenare in quel momento.
Ciò che pensava doveva essere tenuto al caldo, in attesa di
svelarlo nel momento giusto, nell’attimo preciso in cui
avrebbe potuto devastare Jay per ripagarlo con la sua stessa moneta.
«Sono stanco! Non mi passa niente per la testa. Mi divido tra
college, famiglia e amici, non spreco il mio tempo a girare a zonzo
senza una meta.» La frecciata scoccata malamente non
urtò il freddo
impassibile che Jay aveva posto come barriera, non avrebbe permesso
alle battutacce di contaminare il punto focale del discorso: voleva
sapere. Così passò oltre, puntando gli occhi
sulle vetrate per cercare nella frenetica confusione dei passanti un
motivo in più per distrarsi e riprendere da dove aveva
lasciato. «Mi spiace se sei stanco. Perché non sei
rimasto a
casa a riposare?»
«Mi stai cacciando? Non mi vuoi qui? Se non ti sta bene,
tolgo il disturbo.»
Non fece in tempo ad alzarsi perché Jay, con mano ferma, lo
trattenne dalla manica del giubbotto, incastrandolo tra le sue domande
e la volontà di andare via.
Se fosse riuscito ad uscire dal bar avrebbe certamente dato luogo alla
scena che sperava di mettere in atto da tempo, sarebbe uscito per
sempre dalla vita di Jay dicendo a se stesso che era stato
l’amico stesso a rifiutarlo, ma non poté chiudere
il discorso da vincitore perché la mano salda dell'amico lo
aveva in pugno.
«Siediti» intimò a denti stretti, con
il capo chino.
Jay era fermezza, severità, tenacia. Chaz poté
assodarne la forza attraverso la presa decisa e
stabile, non poté sfuggirgli, a meno che non se ne fosse
sottratto con la forza.
Si sedette docile e arrendevole, senza parlare. “Ti
accontento, bastardo!”
«Riformulo la domanda, premettendo che non è mia
intenzione cacciarti, voglio solo capire. Perché non mi dici
quello che pensi e continui a venire qui, tutti i santi giorni, quando
si vede da lontano un miglio che vorresti essere altrove?»
«Speravi che io facessi i salti di gioia per la tua scelta?
Pretendi che io mi congratuli?»
«Affatto. Se tu mi avessi preso a pugni sarebbe stato meglio.
Mi tratti con indifferenza e, forse, me lo merito. Ma tu, te lo
meriti?»
Chaz rise a quella domanda, suscitando in Jay una sorta di disgusto.
La risata sguaiata, ironica e a momenti disumana
dell’amico lo spinse a chiedersi se fosse stato davvero il
momento giusto di affrontare l’argomento.
Non sembrava più lui, non era più il suo Chaz e
sapere che era stato lui stesso a renderlo così impietoso e
feroce lo devastava ma, allo stesso tempo, gli rendeva sempre
più nitida la ragione della sua scelta.
Izaya era calma, pacatezza, leggerezza.
Chaz era instabilità, istinto, rabbia.
Era inadeguato.
Se avesse affidato il suo amore e la sua vita ad uno come lui quasi
certamente si sarebbe ritrovato solo, perché con lui non
condivideva alcuna aspirazione di una vita migliore.
Chaz viveva nelle bugie e senza neanche rendersene conto ci sguazzava
continuamente, anche in quel momento lo stava facendo poiché
celava agli occhi di Jay la realtà dei propri sentimenti.
L’avrebbe sempre fatto perché, di fatto, era un
codardo.
«Sei un vile». La risata cessò nel
momento esatto in cui l’accusa di Jay trovò il suo
termine in un sospiro afflitto.
«Come hai detto?»
«Sei un vile» sottolineò con maggiore
forza la sua critica, spingendo l’acceleratore sulla rabbia
repressa dell’amico che, senza remore, si alzò di
scatto afferrandolo dalla maglietta, trascinandolo a ridosso del
muro del locale dopo averlo fatto scontrare violentemente coi tavoli e
le sedie che caddero sul pavimento, sparpagliandosi intorno a loro.
Jay si ritrovò costretto al muro con gli occhi serrati per
scacciare il dolore provocato dagli urti e dopo averli aperti vide la
collera
inaudita di Chaz che prendeva forma nelle sue iridi, nella sua presa,
nelle labbra deformate dal rancore.
«Tu osi chiamare me vile?»
ruggì
così forte da alterare il suo stesso timbro vocale. A stento
si sarebbe riconosciuto e ormai, preso dall’ira che per
troppo tempo aveva messo a tacere, si scagliò ancora contro
Jay pressandolo al muro con più veemenza. «Io
sarei il vile. Lo dice quello che è passato sui cadaveri pur
di fare quello che cazzo voleva. Sei felice, adesso? Hai detto a tutti
che sei un finocchio e ogni santa sera venivi a casa mia a giudicarmi
dall’alto della tua onestà intellettuale,
pretendendo conforto e ragione mentre io, innamorato disperatamente di
te, subivo le tue scelte. Hai rovinato tutto, anche la mia vita, per il
tuo egoismo. Hai scelto alle mie spalle un uomo ridicolo che conosci
appena, mettendo da parte il tuo migliore amico, la persona
più importante della tua vita a detta tua. Mi hai
umiliato
e hai permesso a quegli stronzi dei tuoi amici di farlo. Mi hai mollato
nel bel mezzo della tua tempesta, hai scelto me come vittima da
sacrificare per metterti in salvo. Te ne sei fregato dei miei
sentimenti dal primo giorno in cui te l’ho confessato. Che
cazzo di colpa avevo io? Ci avevo visto giusto. Ecco perché
non dicevo la verità, ecco perché non ti ho mai
confessato quanto ti amavo: perché sapevo che tu mi avresti
calpestato.»
«Pensi questo di me?» Le labbra di Jay tremarono a
quella domanda, le lacrime inondarono il suo sguardo e la mani, inermi,
si lasciarono cadere lungo il corpo, incapaci di reagire.
«Penso questo e molto altro di te.»
E quella era la fine.
Jay lo sentiva nelle vene e già da qualche tempo era
riuscito ad avvertire il sapore del compimento, dell’epilogo
della loro storia. L’aveva sentito nel timore che troppo
spesso aveva
martoriato la sua mente riempiendolo di dubbi.
In quell’istante piccolo ed eterno, ogni certezza si
sbriciolò adagiandosi sui suoi palmi, sfuggendo via dalle
sue dita, lasciandolo a mani vuote.
Aveva davanti gli occhi di un estraneo, lo sguardo odioso di chi ti
vuole vedere soffrire e distruggerti, l’espressione rabbiosa
di suo padre, quella stessa che urlava tacitamente un disgusto profondo
e un duro disprezzo, ma stavolta quello non era suo padre, era il suo
migliore amico, l’unico del quale si sarebbe sempre fidato.
«Mi odi.»
«Sì. Ti odio.»
«Non era una domanda. Se mi odi, vattene. Se domani mi
odierai ancora, non tornare. Se continuerai ad odiarmi, fallo per
sempre ma sappi che, se mai tornerai, io sarò pronto ad
amarti, amico mio, perché non ho smesso e mai lo
farò.»
Le mani di Chaz allentarono la presa e Jay, dignitoso come non mai, si
mise dritto aspettando una risposta, sperando disperatamente che
quella scenata fosse stata solo una reazione istintiva alimentata dai
troppi giorni di silenzio. Ma non fu così, perché
Chaz ritornò a ridacchiare fissandolo isterico.
«Il solito cavaliere buono senza macchia e senza paura.
Mister Perfezione. Colui che ha amato, ama e lo farà sempre.
Tu sei solo un egoista, Jay. Tu dici di amare le persone solo
perché vuoi raccogliere amore per te stesso, ma sappi, caro
amico, che se l’amore non è sincero né
reale, ciò che ritorna è polvere.
Eccoti, di rimando, la polvere che hai seminato».
E così, accasciandosi sull'unica sedia nelle vicinanze, vide
il suo unico amico andare via.
Subì l’addio senza contestare e lasciò
andare Chaz astenendosi da ogni protesta.
Strinse i pugni mentre l’affanno gli opprimeva il petto e con
l’insicurezza dei bambini negati seguì i
movimenti dell’amico che, con risentimento,
spalancò la porta facendo rintoccare il campanello con
forza, per poi sparire in strada.
Nessuno avrebbe colmato il vuoto che le sue ultime parole avevano
lasciato.
Eccoti, di rimando, la polvere che hai seminato.
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Capitolo 13 *** New Born ***
"The love for what you
hide
The bitterness inside
Is growing like the new born
When you've seen, seen
Too much, too young, young
Soulless is everywhere
Hopeless time to roam
The distance to your home
Fades away to nowhere."
New
Born- Muse
13. New
Born
Stare senza Jay, per i primi
momenti, non era stato poi così difficile.
La rabbia per ciò che era successo durò per
giorni, quindi la nostalgia era stata sepolta sotto un cumulo di
macerie
causate dall’ultima sfuriata che aveva reciso di netto il
legame che li aveva uniti da sempre.
Le giornate passarono, dapprima, molto velocemente, poi il rimpianto
prese il sopravvento appesantendo ogni cosa. Anche solo uscire di casa
e puntare gli occhi sulla strada che l'avrebbe
portato da lui risultava doloroso.
Non avrebbe mai più percorso quel tragitto per
raggiungerlo – soprattutto per
vergogna – e sebbene
Jay fosse stato dignitosamente accondiscendente durante la
discussione, Chaz era
perfettamente consapevole di averlo squarciato da parte a parte, lo
aveva giudicato con rabbia e, ancora peggio, aveva sporcato
ciò che c'era stato mettendo in dubbio il loro rapporto, non
solo i suoi comportamenti di quell’ultimo periodo. Gli aveva
rinfacciato ogni cosa, compreso il proprio sostegno, negando con
forza ogni sentimento che li aveva uniti fino a quel momento.
Se fosse andato da lui non sarebbe stato più credibile.
Chaz non l'avrebbe mai odiato e nonostante ce la stesse mettendo
tutta per dimenticarlo ne sentiva la mancanza.
Sarebbe arrivato presto il Natale e si chiese se le sue intenzioni
fossero davvero quelle che aveva dichiarato con arroganza davanti agli
occhi in lacrime del suo migliore amico.
Camminava avvolto da una sensazione costante di malinconia e dal
continuo senso di colpa per averlo sbattuto al muro, urlandogli contro
parole sudicie con il fine di ferirlo a morte. Non le pensava quelle
cose e sapeva di non essere mai stato nella
posizione di poterlo giudicare, eppure lo aveva fatto e non si sarebbe
mai perdonato.
Arrivato alla fine della strada si sedette sul muretto dove era solito
fermarsi con Jay per l’ultima sigaretta prima di tornare a
casa e non appena la fiamma sfiorò i filamenti di tabacco,
lo scoppiettio lo riportò a ricordi neanche troppo lontani.
La prima sigaretta della loro vita l’avevano condivisa,
scandendo i passaggi da mano a mano con colpetti di tosse sommessi che
rimarcavano la loro inesperienza.
Sorrise rievocando quel ricordo che, seppur piccolo e apparentemente
senza alcuna importanza, racchiudeva un mondo di cose,
un’amicizia intera.
Chaz e Jay avevano condiviso tutto dal primo momento, ogni esperienza,
dalla più insignificante alla più importante, e
prendere coscienza del fatto che non avrebbero mai più
potuto
farlo fu insostenibile, perché Jay era
insostituibile. Ormai, abbandonato dall’ira, quella
conclusione si fece sempre più nitida ponendolo davanti ad
una certezza che fino a qualche giorno fa non avrebbe mai ammesso: Jay
era davvero tutta la sua vita.
Per anni aveva dato per scontato la sua presenza, sminuendone
l’importanza. In realtà, quel ragazzo era stato
tutto, più di qualsiasi altro amico e a
volte anche più della sua stessa famiglia, non avrebbe mai
permesso a se stesso e ad un momento di follia di cambiare questo dato
di fatto.
Si accorse di star correndo solo dopo qualche metro. Aveva abbandonato
quel muretto mosso dal puro istinto e non appena vide
le scale della metro ci si fiondò senza pensarci,
conoscendo già la sua destinazione.
Avrebbe fatto l’ultimo e disperato tentativo di
riprenderselo, cercando il più possibile di mettere a tacere
l’orgoglio e la vergogna. Sarebbe ritornato in quel bar e
avrebbe lottato per riaverlo.
***
«È inutile che lo cerchi. Jay non è
qui» rispose Lizzie alla tacita domanda che Chaz le aveva
rivolto.
Solo con la sua presenza aveva chiesto di lui, ignorando Izaya che,
chino sul cellulare, sembrava non lo avesse neanche notato.
«Sai quando viene? Posso aspettarlo qui?»
«Se vuoi aspettarlo qui, accomodati». La freddezza
di Lizzie non fece altro che accrescere il disagio di Chaz
che, già dal momento in cui aveva fatto capolino nel bar,
aveva percorso il tragitto fino a lei con enorme difficoltà.
Si accomodò qualche tavolo più lontano, cercando
di mimetizzarsi con l’ambiente senza neanche ordinare
qualcosa da consumare nell’attesa.
Fissò la vetrata sperando di scorgere Jay, ma un colpo secco
richiamò i suoi occhi verso Izaya che si era alzato adirato,
facendo sbattere la sedia al muro dietro di lui.
«Cazzo, non risponde. Vado a cercarlo». Prima che
potesse compiere ulteriori passi verso l’uscita, la
ragazza lo frenò di scatto ponendosi davanti a lui,
sbarrandogli la strada. «Non sai dove cercarlo. Anche io sono
preoccupata, ma potrebbe essere ovunque. Aspettarlo qui è la
cosa più ragionevole».
Un senso di panico prese le gambe di Chaz che, istintivamente, si
alzò dirigendosi verso loro. «Che
succede?»
«Non ti riguarda!» rispose Lizzie con fermezza.
Il ragazzo abbassò la testa, d’altronde, non aveva
più alcun diritto su di lui, se
ne era lavato le mani nel momento stesso in cui l’aveva
lasciato solo nel bar.
«Non troviamo Jay. Stamattina ci siamo sentiti, mi aveva
chiesto di vederci qui al bar, ma ho dovuto rimandare per una questione
di lavoro. Ci siamo dati appuntamento qui tre ore fa e non
è mai arrivato, non risponde al telefono.» Il tono
della voce di Izaya arrivò all’orecchio di
Chaz come un pugno: era preoccupato e rassegnato. Jay lo aveva chiamato
quella mattina chiedendo di lui, aveva percepito
qualcosa di strano nella sua voce, ma aveva scelto di prenderlo
sottogamba senza indagare oltre.
Izaya sembrava non volesse dare peso ai trascorsi tra Chaz e Jay
proprio perché, in quel momento, c’era in ballo
qualcosa di molto più importante di una bega tra ragazzini,
quindi lo coinvolse nel discorso sperando avesse
delle informazioni su di lui.
Lizzie scosse il capo come a voler levarsi dalla mente un brutto
presentimento e cercando di assecondare i propositi di Izaya,
fissò Chaz con preoccupazione. «Tu sai dove
potrebbe essersi cacciato?»
«Non lo so.» Il dispiacere e la preoccupazione
ingurgitò in un sol boccone la voce del ragazzo che
rispose confuso e sottovoce, come se l’inquietudine
gli avesse cancellato i ricordi, confondendolo inesorabilmente. Non
sapeva dove potesse essere o, forse, non riusciva a trovare la
lucidità giusta per poterci pensare a fondo.
La tensione che aleggiava nel locale enfatizzava maggiormente
l’assenza di Jay portando i presenti a pensare qualsiasi cosa.
La chiamata di quella mattina prendeva sempre più i
connotati di una richiesta d’aiuto, ma nessuno immaginava da
cosa volesse essere salvato.
«Dobbiamo andare a cercarlo» insistette Izaya,
ignorando categoricamente i consigli di Lizzie che, afflitta, si
abbandonò sulla sedia accettando passivamente la decisione
del ragazzo.
Se avesse aspettato il suo arrivo senza fare niente sarebbe impazzito.
Izaya, infatti, cominciava a dare segni di impazienza e Chaz,
alimentato dalla sua risolutezza, strinse i pugni permettendo alla
mente intorpidita dalla paura di
riflettere, mettendo in moto il cervello.
Lui poteva trovarlo.
«Credo che potremmo andare a cercarlo a casa sua, per prima
cosa. Una volta accertata la sua assenza potremmo provare
altrove».
Izaya, senza farselo dire due volte, raggiunse la porta con passo
deciso e Chaz, ancora incerto, lo bloccò: «Che
diremo ai suoi?». L'altro si voltò e i suoi occhi
parlarono più delle
parole. Era arrabbiato con se stesso per aver preso alla leggera Jay ed
era
ancora più adirato con i genitori di lui perché,
quasi certamente, erano stati la causa dei suoi ultimi problemi.
«Cosa gli diremo? Esattamente quello che si meritano. Avrei
dovuto farlo già da tempo.»
***
I passi decisi di Izaya presagivano l’inizio di una tempesta
che, molto probabilmente, Chaz non sarebbe mai stato in grado di
innescare.
Lo seguiva come un’ombra incerta sulla strada che li avrebbe
portati verso un incontro risolutivo e certamente non privo di
sorprese.
Le spalle di Izaya sembravano più imponenti del solito, come
se si stesse caricando di una fermezza che Chaz non avrebbe mai
sostenuto sulle proprie. Più si avvicinava
l’obiettivo da raggiungere, più il ragazzo sentiva
le gambe cedergli, se avesse seguito quell’uomo si sarebbe
definitivamente scoperto e i genitori di Jay avrebbero potuto pensare
di tutto.
Per un attimo si arrestò seguendo con lo sguardo
l’incedere sicuro dell'uomo davanti a sé che,
indecifrabile, accorciava le
distanze con audacia, tanto da far immaginare con nitidezza
l’impatto che sarebbe avvenuto a breve.
Si chiese se per Jay ne valesse la pena.
Richiamò l’attenzione di Izaya che, ormai, stava
di qualche passo lontano da lui.
Non appena si voltò poté percepire
l’insicurezza di Chaz e capì che le
perplessità del ragazzo non
avrebbero portato nulla di buono né per lui né
per Jay, così non si fece trattenere lungamente e lo
lasciò indietro avvicinandosi, da solo, alla porta di casa
Hahn.
Chaz l’aveva piantato in asso, ma nonostante ciò
non riuscì a prendersela con lui.
La sua giovane età lo giustificava e quasi poté
intravedere un se stesso lontano anni luce da quello che era diventato
col tempo.
I ragazzini, il più delle volte, tendono ad essere egoisti,
lui stesso lo era stato, ma adesso, –
da adulto, da
uomo – non poteva
più permetterselo, perché la stessa indole
ribelle che l’aveva mosso da ragazzino scalpitava
sotto le sue suole, spingendolo ad affrontare quella famiglia
così ipocrita da lasciare interdetto ogni uomo di buon
senso. Lui lo era diventato e se prima aveva accettato la situazione
sperando potessero ammorbidirsi, stavolta l’impellenza di
affrontarli era diventata incontenibile.
La rabbia, più di tutto, animava la sua foga.
L’amore per Jay lo spingeva a reagire e ad opporsi.
La preoccupazione gli infondeva sicurezza.
Prima che potesse realizzare con lucidità aveva
già suonato il campanello, aspettando con impazienza che
qualcuno di quell’indegna famiglia si presentasse alla porta,
alimentando l’odio che già da tempo covava nei
loro confronti.
Ciò che vide lo colse impreparato perché due
occhi verdi, limpidi come una quieta laguna, si mostrarono con
disarmante pacatezza.
Le labbra di Emma, schiuse dalla sorpresa di trovarsi difronte ad una
figura particolare ed eccentrica perciò così lontana
da lei,
pronunciarono parole affettate e gentili come si confaceva ad una
donna adulta di quel calibro.
Dopo aver superato il primo momento di stordimento dovuto alla
sorpresa, i ricordi di Izaya lo riportarono a quel ragazzino
così somigliante a quella donna che, incomprensibilmente,
nonostante la similarità, si discostava interamente dalla
creatura che aveva concepito. Due persone così simili,
eppure così discordanti
nell’essenza, combattevano nei suoi pensieri e, per un
attimo, vacillò chiedendosi se il comportamento che aveva
scelto di adottare sarebbe stato davvero quello più consono.
«Jay è qui?» chiese gentilmente ma con
decisione.
Lo sguardo di Emma mutò come vivificato da
un’incontenibile biasimo, divenne severo, inflessibile,
facendo soccombere quel minimo di amabilità che aveva
lasciato scorgere inizialmente.
L'uomo, cogliendo il cambiamento così repentino, ebbe la
conferma di ciò che aveva sempre pensato di lei: era una
donna ipocrita e debole, vittima dell’apparenza,
dell’etichetta, una donna che aveva costruito
un’immagine ben precisa ma che, in realtà,
divergeva con ciò che era veramente. Jay rappresentava, per
lei, la mano che avrebbe stracciato con violenza
lo stereotipo eretto a sostegno della sua facciata di cartone finta e
patinata.
«Jay non è qui» rispose con fare
altezzoso.
Quella donna racchiudeva tutto ciò che Izaya odiava a morte,
così bloccò con mano ferma la porta che lei,
senza alcuna
delicatezza, stava per chiudere lasciando fuori l’ennesimo e
insidioso insetto che avrebbe sconvolto la sua tranquilla e morigerata
esistenza.
«Signora, non è qui o semplicemente non si
è curata di accertarsene?»
Emma sapeva di avere davanti un uomo e non un ragazzino da poter
contrastare con facilità, eppure non si arrese e con
più convinzione tentò di chiudere la
porta. «Non so chi è lei e non sono tenuta a
risponderle.»
Izaya, senza usare più alcuna gentilezza,
spalancò la porta per dimostrarle che non era di certo la
sua resistenza ad ostacolargli l’ingresso. Benché
l’entrata fosse sgombra da qualsiasi
ostacolo non entrò, ma attese che Emma potesse convincersi
del fatto che mai se ne sarebbe andato senza una risposta precisa.
«Sto cercando Jay da più di tre ore. Voglio solo
sapere se è qui.» Gli occhi di Izaya non
lasciarono scampo alla donna, così la sua sicurezza si
sgretolò sotto gli occhi scuri che la fissavano
disapprovanti.
Si ravvivò i capelli per darsi un contegno e approfittando
della sua
posizione di vantaggio
rispose con fare minaccioso – d’altronde si
trovava nella sua
dimora e avrebbe potuto giocare la carta della padrona di casa
disturbata da una visita inaspettata e infelice. «Le ho
già risposto alla domanda. Jay non
è in casa e, come spesso accade, non mi ha fatto sapere
nulla dei suoi spostamenti. Ora, la prego, se ne vada prima che chiami
la polizia».
Emma non sapeva chi fosse Izaya, come non conosceva quanto quel tipo di
atteggiamenti potessero infierire sui nervi scoperti del ragazzo. La
supponenza di quella donna non lo intimidì affatto e non
convinto della risposta salì i gradini che gli rimanevano
per varcare la soglia.
La donna, spaventata, si retrasse urlando frasi di rimprovero e panico.
Lui, di contro, spalancò la porta e fece ingresso nella
casa,
percorrendo il corridoio che dava alle scale inseguito da Emma che
tentava, per quanto le fosse possibile, di ostacolarlo: «Ma
si rende conto? Chi è lei? Come si permette di entrare a
casa mia? Se ci fosse stato George…»
Izaya si voltò accostando il viso a quello di Emma e
con tono canzonatorio la provocò: «Suo marito non
c’è? Che peccato! Avrei tanto voluto confrontarmi
con lui. Sarebbe stato interessante vedere chi dei due è
più uomo». Continuò per la sua strada,
salendo i primi gradini.
«Ecco! Tutto chiaro adesso. Lei è uno degli amici
di mio figlio. Lei è come mio figlio.»
Il tono della voce di Emma inchiodò i piedi del suo
interlocutore che,
senza voltarsi, rispose lentamente, senza alzare la voce:
«Non osi offendermi e, soprattutto, non si azzardi a
fregiarsi ancora una volta del titolo di madre quando si parla di
Jay. Lei non è una madre, lei è una persona
vergognosa e viziata e mi chiedo ancora come sia stato possibile che
una donna indegna come lei abbia potuto portare in grembo un ragazzo
dignitoso come Jay.» Continuò a salire le scale
percependo lo sgomento
alle sue spalle. Non se ne preoccupò, qualsiasi cosa avesse
fatto o detto non
l’avrebbe fermato.
Non appena giunse al piano di sopra rallentò il passo,
scorgendo in ogni piccolo particolare la natura falsa di quella
famiglia.
Le foto di famiglia, sfoggiate su una consolle antica in legno,
tradivano un’inquietante mancanza di un componente. In
nessuna foto compariva Jay e finalmente, con grande dolore,
poté capire a fondo l’inferno nel quale stava
vivendo, ormai da troppo tempo, il ragazzo che amava.
La famiglia non voleva abbandonarlo, voleva coartare i suoi desideri.
Capì al volo le dinamiche con il quale avevano scelto di
risolvere il problema “Jay”.
Facendogli mancare ogni cosa – l’affetto,
gli agi, le sue
stesse radici – speravano di
farlo rinsavire così da costringerlo a ritornare
sui suoi passi.
Sentì una morsa nello stomaco nel momento esatto in cui
comprese il sottile ricatto al quale lo avevano sottoposto e senza
più tentennare aprì ogni porta sperando di
trovarlo.
Capì subito quale fosse la stanza di Jay e un brivido di
paura lo sorprese nel momento esatto in cui appurò la sua
assenza.
Non era neanche lì.
Avrebbe voluto soffermarsi su altri particolari, ma gli occhi si
posarono sul letto sfatto che nascondeva tra le sue pieghe il
cellulare abbandonato di Jay.
Si avvicinò tempestivamente, afferrandolo.
Cercò di trovare qualsiasi indizio utile che gli avrebbe
suggerito qualcosa, così visualizzò la sua ultima
chiamata e vide il proprio numero. Era stata l’ultima persona
che aveva cercato di contattare e
un colpo cupo al centro del petto lo costrinse a stringere nelle mani
quell’unico piccolo oggetto che avrebbe potuto dargli una
minima speranza. Esaminò gli ultimi dati con impazienza e la
ricerca giunse
al termine non appena trovò l’ultimo sito internet
consultato. Sperò che quella fosse stata la sua destinazione
e cacciando
il cellulare nella tasca dei jeans si guardò intorno ancora
un attimo. Libri, vestiti, videogiochi, computer: lì
c’era il
piccolo mondo di Jay custodito in una stanza sola.
Corrugò la fronte chiedendosi se lui meritasse davvero di
rimanere chiuso e nascosto in una camera, senza sentirsi libero di
poter vivere nel resto della casa tra le risate e la leggerezza che
ogni ragazzo della sua età ha il diritto di avere.
Si avvicinò alla scrivania e prese velocemente lo zaino
sulla sedia. Freneticamente raccolse tutto quello che c’era
da raccogliere
e senza alcuna cura, per la fretta, lo riempì di vestiti,
qualche libro e altre piccole cose.
Chiuse con decisione la zip racchiudendo oggetti e speranze.
Scese le scale di fretta ignorando Emma che parlava al telefono, fece
per uscire ma lei lo bloccò,
chiudendo la porta davanti a lui. «Mi ascolti bene, non la
passerà liscia. Ho
già messo al corrente mio marito dell’accaduto e
farà il possibile per trovarla e fargliela
pagare.» Infastidita dall’espressione tendente al
riso di Izaya – che la
fissava come se fosse l’essere più ridicolo al
mondo – abbassò lo
sguardo per ritrovare un
briciolo di calma, ma non appena si accorse dello zaino
alzò gli occhi di scatto, incredula:
«Cosa ha preso?»
«Jay non tornerà mai più in questa
casa. Sono i suoi bagagli» rispose monocorde, pronto a farsi
carico di ogni responsabilità.
«Ma che diritto ha di venire a casa mia, scombussolare tutto
come il peggiore degli animali e portare via Jay? Chi è
lei?»
Izaya, in un gesto di stizza, scosse il capo, rassegnato davanti a tale
imbecillità ed estraendo il suo biglietto da visita glielo
porse: «Izaya Hayes. Sono avvocato presso lo studio
Carver & Carter LLP, dica a suo marito di farmi
visita.»
«Cosa vuole da Jay?»
«Voglio che viva. Lei, cosa vuole da Jay? Vuole vederlo
sopprimere la sua identità, rovinare la sua esistenza, vuole
vederlo infelice? Se ha un briciolo di affetto per quel ragazzo lo
lasci andare senza fare altre storie. Le sconsiglio di alzare polveroni
perché è questa merda di famiglia ad avere
segreti da nascondere, non io e neanche Jay. Buona giornata.»
Ruggì quelle ultime parole con estremo rancore per poi
scostarla dalla porta e uscire.
Si fermò di spalle per un breve istante e sospirando
alzò gli occhi verso la strada, scorgendo
l’immagine vaga e non reale di Jay che camminava su quella
via, verso casa sua. Non era mai più stato felice, anzi
l’aveva
conosciuto come un ragazzo disperato e rifiutato dalla sua famiglia ed
ora era arrivato il momento di cambiare le cose.
Si voltò ancora verso Emma che lo scrutava in silenzio come
presa in ostaggio da un turbinio di riflessioni, e quasi con tono
benevolo la onorò del suo più sentito augurio:
«Spero che lei possa vivere altri cento anni senza mai
dimenticarsi di avere un figlio che lei stessa ha messo al mondo e
negato. Le auguro di arrivare ai suoi ultimi anni di vita in salute e
saggezza così da rendersi conto del male che ha fatto
quando, ormai, sarà troppo tardi per rimediare».
Si allontanò speditamente – non avrebbe mai
più
dedicato altre parole a quella donna – e con passo rapido e
deciso si
avvicinò a Chaz che lo aspettava lontano abbastanza da non
farsi scorgere.
Lei, rassegnata, lo lasciò andare senza ostacolarlo.
Rimase immobile davanti alla porta per qualche minuto; era consapevole
del fatto di non essere stata una buona madre per Jay,
ma non si sentiva affatto in colpa perché ogni sua azione
era stata dettata dal disperato desiderio di proteggere suo figlio da
una vita immorale. Accostarsi alla disapprovazione di suo marito fu la
cosa più
naturale del mondo per lei. George aveva dimostrato, più di
una volta, di non accettare
gli omosessuali, motivandone le ragioni e come uomo di gran giudizio e
di elevata cultura Emma lo ascoltava, convenendo con lui su ogni punto.
Loro figlio non poteva essere un omosessuale, uno dei tanti personaggi
frivoli in cerca di sesso, ma Jay sembrava non voler cedere, quindi, a
malincuore, lasciò che Izaya glielo portasse via per sempre,
dicendosi che quella sarebbe stata la soluzione giusta.
Jay avrebbe vissuto la sua vita lontano da loro senza metterli in una
condizione di imbarazzo e questo non era altro che un motivo di
sollievo.
Suo figlio gli mancava, ma quel maledetto giorno l’aveva
definitivamente perso e la sua presenza a casa non era
altro che la proiezione falsata del suo bambino che, ormai, viveva solo
nei suoi ricordi perché, nella realtà, quel
figlio non esisteva più.
***
«Dove stiamo andando?» chiedeva Chaz
cercando di tenere il passo.
Non sapeva cosa fosse successo e nonostante morisse dalla voglia di
saperlo preferì dedicarsi alla ricerca di Jay.
«È a Bloomsbury. Lo troveremo
lì».
Gli occhi di Chaz si posarono sullo zaino che Izaya portava aggrappato
alla sua spalla e una morsa allo stomaco provocò ogni
possibile deduzione.
Era arrivato il momento di dire per sempre addio a Jay, sempre se
fossero riusciti a trovarlo.
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Capitolo 14 *** Retrograde ***
"I’ll wait
So show me why
you’re strong
Ignore
everybody else
We’re
alone now
I’ll
wait [...]
We’re
alone now
Suddenly
I’m hit
Is this
darkness of the dawn?
When your
friends are gone
When your
friends won’t come
So show me
where you fit."
Retrograde-
James Blake
14.
Retrograde
“La felicità e la pace del cuore
nascono dalla coscienza di fare ciò che riteniamo giusto e
doveroso, non dal fare ciò che gli altri dicono e
fanno.”
Fissando la scultura accovacciata al centro di Tavistock Square, Jay
sentì ripetersi nella sua mente quella piccola manciata di
parole che, nella loro semplicità, esprimevano
ciò per cui pensava fosse sempre stato giusto lottare.
Quelle parole le aveva lette da qualche parte neanche troppo tempo fa
e vedere la statua di Mahatma Gandhi, con gli occhi chiusi e le gambe
incrociate, lo aveva indotto a pescare tra i suoi ricordi una frase
che, all’epoca, quando l’aveva scovata tra le
numerose pagine internet aperte a caso, non era riuscita a rivelarsi in
tutta la sua saggezza come avrebbe meritato.
La sua mente era cambiata e si sentiva estremamente più
vecchio, forse anche più saggio, tanto che quella frase
riuscì solo in quel momento ad esprimersi totalmente tra
le increspature del suo animo sgualcito che, ormai, erano diventate
più dure e forti, incredibilmente sue.
Sebbene sentisse di aver fatto di tutto per comportarsi secondo la
propria
coscienza, ancora non aveva beneficiato della promessa della
felicità.
La pace del cuore tardava ad arrivare nonostante avesse lottato per
imporsi per ciò che era; sentiva di non essersi tradito
né nei sentimenti né nella sua natura, eppure,
ancora, non si sentiva libero.
Gli occhi chiusi e il viso marchiato dalle rughe di Gandhi,
incredibilmente umani benché si trattasse di una
scultura, riuscivano a trasmettere una sensazione di pace e
rilassatezza, tuttavia non permisero al ragazzo di mutare
l’inquietudine in qualcosa di più incoraggiante.
Il freddo lo aveva intorpidito su quella panchina sotto gli arbusti
spogli piegati dal gelo dell’inverno, eppure non aveva alcuna
intenzione di abbandonare quella silenziosa piazza di Bloomsbury,
lontana pochi passi dalla facoltà che avrebbe dovuto
frequentare quell’anno stesso.
Un sogno lontano, quello.
Frequentare l’University College e diventare uno studente di
legge in una delle università più prestigiose di
Londra: un sogno realizzabile ma negato, una vita normale senza
esigenze
assurde, eppure così difficile da poter pretendere.
Sentiva come se ogni cosa gli fosse scivolata dalle mani senza
controllo; un attimo prima stringeva la sua vita – con tutti i suoi
progetti e speranze – e un attimo dopo: il
nulla. Non avrebbe mai creduto sarebbe bastata una frase per cancellare
ogni certezza. Pensò a ciò che era stato e
sorrise quando
immaginò – in un momento di
fervida fantasia – un se stesso
del futuro correre verso quel Jay del passato alle prese con
un'esistenza serena priva di dubbi sulla propria famiglia per
avvertirlo di quello che sarebbe accaduto; il Jay del
passato rideva incredulo, – lo immaginava
così – totalmente
certo del suo futuro, dei suoi genitori e della sua stessa vita,
invece, la
realtà era un’altra e in pochi giorni aveva dovuto
dire addio a quel ragazzo spensierato e pieno di sogni.
I suo occhi si posarono sull’albero di ciliegio grigio e
triste dall’altro lato del parco e poté
immedesimarsi in esso facilmente, perché si sentiva
esattamente così: povero, misero, privo di colori e di vita;
potenzialmente meraviglioso, ma del tutto brullo, nudo, svuotato.
Affondò il viso nella lunga sciarpa carta da zucchero che
gli fasciava morbidamente il collo e ritrovò un leggero
tepore attraverso il suo stesso fiato caldo e rassegnato. Rimase
immobile, con gli occhi chiusi, abbandonato sulla panchina,
immerso nel caldo abbraccio della sciarpa che per un attimo
riuscì a far cessare i pensieri.
Quella mattina aveva cercato Izaya dopo l’ennesima
ingiustizia spiattellata dritta in faccia.
Joseph avrebbe compiuto sedici anni e avrebbero organizzato una grande
festa, sarebbe stato felice per lui se la madre non gli avesse chiesto
di non tornare a casa per quella sera. «Non reciteremo la
parte della famiglia perfetta e non saprei
come giustificare un eventuale comportamento distaccato nei tuoi
confronti. Ti chiedo, quindi, di non presentarti alla festa, sapremo
come motivare la tua assenza più facilmente».
Aveva annuito con garbo e, come di consueto, era ritornato nella sua
stanza con la coda tra le gambe ed un immenso dolore nel petto. Il
vuoto, però, nonostante avesse cercato in ogni modo di
contrastarlo, riuscì ad inghiottirlo piano, piano e ad ogni
secondo si cibava di un pezzetto di lui senza alcuna pietà,
logorando il suo animo, cibandosi della sua amarezza, bevendo dalle sue
lacrime, rifocillandosi con la sua delusione.
Intorno aveva terra bruciata, ma una luce oltre quella terra riusciva a
raggiungerlo: Izaya e Lizzie.
Chaz l’aveva abbandonato e anche se ci fosse stato non
avrebbe potuto fare affidamento su di lui, qualcosa si era
irrimediabilmente rotto.
Aveva chiamato Lizzie senza alcuna risposta, aveva cercato Izaya che,
però, lo aveva liquidato velocemente. Capì che
avrebbe dovuto contare solo su se stesso e sulle
sue forze, così uscì di corsa, si sarebbe fatto
gli affari propri una volta per tutte senza fare affidamento su
nessuno, rendendosi irreperibile. In molti lo avevano chiamato egoista,
almeno, questa volta, si sarebbe
fatto giudicare malamente per santa ragione.
“Sii egoista!” gli aveva detto Izaya, e
la massima espressione del suo egoismo si palesò nella
volontà di sparire per qualche ora, senza essere disturbato.
La solitudine gli avrebbe dato modo di riflettere e di capire cosa, per
lui, fosse davvero importante, senza lasciarsi plagiare dalla presenza
delle persone che lo avevano aiutato ma che, senza rendersene conto,
gli avevano scombussolato la vita più di quanto credevano.
***
Endsleigh Street, nonostante la giornata di sole, riusciva ad essere
sempre un po’ troppo seriosa ed Izaya, percorrendo la lunga
strada verso la facoltà di legge, posò gli occhi
su ogni edificio cercando di scorgere, da qualche parte, la figura
assorta e gracile di Jay.
Aveva studiato in quella facoltà da ragazzo e conosceva
perfettamente ogni angolo di quel quartiere e sapeva che se Jay era
ancora lì, l’avrebbe certamente scovato.
«Ma chi te l’ha detto che è
qui?» chiese Chaz d’improvviso, rivolgendogli la
sua prima parola dopo incalcolabile tempo di mutismo.
«Il sito della facoltà di legge, Chaz,
è stato l’ultimo che ha visitato e se lo conosco
bene è venuto qui per prendere informazioni: Jay vuole
riavere una vita normale, vuole andare
all’università.»
«E come crede di fare?»
«Come fanno i tre quarti degli studenti non figli di
papà» rispose con un pizzico di ironia sveltendo
il passo mentre Chaz, sempre più stordito, faceva
l’opposto, accrescendo le distanze da lui che, come un
segugio, posava gli occhi su ogni muretto o scalinata. Uno strano
ottimismo lo rese fiducioso e non appena si
ritrovò davanti la facoltà la fissò
per qualche minuto. La squadrò dal basso verso
l’alto, come se potesse
riuscire a scorgere, sbirciando dalle finestre, la presenza di Jay. In
un certo senso fu così perché, senza un motivo
preciso, capì che quello non era il posto dove cercarlo.
Si mosse d’improvviso cogliendo di sorpresa Chaz che, ormai,
lo seguiva in silenzio senza chiedere spiegazioni, consapevole del
fatto che Izaya sarebbe stato l’unico in grado di trovarlo.
Percorse la lunga strada verso Tavistock Square stringendo sempre
più impetuosamente le fasce dello zaino aggrappate alla
spalla; aveva raccolto la roba di Jay senza alcuna cura, più
che altro, aveva cercato il più possibile di portare via
da quella casa le cose appartenute a lui, senza una reale logica, solo
assecondando l’istinto irrefrenabile di recidere ogni legame
con quella famiglia.
Sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare e non appena vide una figura
avvicinarsi davanti a lui, avvolta da un montgomery grigio che sembrava
più uno scudo che un cappotto, affrettò il passo
alzando la mano per richiamare la sua attenzione.
«Jay!»
Il ragazzo si fermò – era troppo lontano per
riuscire a
cogliergli lo sguardo – e dopo pochi istanti si
voltò,
tornando indietro. Izaya alzò il sopracciglio chiedendosi il
perché
Jay avesse scelto di voltargli le spalle e guardando Chaz con fare
interrogativo cercò di capire con lui le ragioni che lo
spingevano ad allontanarsi. Chaz, perplesso, fece spallucce e puntando
nuovamente gli occhi sulla
figura silenziosa che, lentamente, si allontanava da loro, disse
incerto: «Dovremmo seguirlo, credo».
Izaya cominciò a camminare verso Jay che, sempre
più speditamente, si allontanava;
quell’inseguimento prese i connotati di qualcosa di
enormemente buffo e sorridendo cercò di richiamare la sua
attenzione: «Jay, fermati! È tutto il giorno che
ti cerchiamo.»
«Andatevene. Voglio stare per cavoli miei»
gridò, tagliando l’aria con il braccio, cercando
di intimidirli. Quel gesto infantile intenerì Izaya,
spingendolo ad
avvicinarsi con più convinzione. «Devo parlarti,
fermati.»
«Andatevene! Non mi rompete l’anima, per favore.
Sto bene!» rispose, strizzando gli occhi per darsi forza
mentre il gelo, che dava forma al suo respiro sempre più
agitato, colorava di rosso il viso pallido vivacizzato
dall’espressione seccata, come se quei due avessero invaso un
momento di solitudine troppo importante per essere interrotto
così violentemente.
Izaya non si lasciò intimidire dall’irruenza del
ragazzo che, anzi, appariva come un bambino capriccioso da dover
proteggere. Riuscì a raggiungerlo e non appena si
ritrovò
a fianco a lui, afferrandolo saldamente per la vita, lo
bloccò innescando una rabbia incontrollata e del tutto
inaspettata. «Ma mi hai preso per un cazzo di bambolotto? Ti
ho chiesto di
andartene.»
Gli occhi furiosi di Jay agganciarono quelli divertiti di Izaya che,
incrociando le braccia, si impose con finto rimprovero: «Ti
cerchiamo da ore e tu, come il peggiore degli stronzi, non ti sei
neanche degnato di portare con te il cellulare.»
«Non sono tenuto a farlo. Voglio stare da solo, mi sono
stufato di pensare a voi.»
«Io sono il tuo ragazzo…»
«Sì, sei il mio fottuto ragazzo e quando servi non
ci sei!» Jay ricominciò a camminare ed Izaya,
placato da quella
sfuriata istintiva che dimostrava quanto in Jay esistesse ancora quel
pizzico di immaturità tipica dei ragazzini, sorrise del
fatto che non solo sembrava non essersi accorto di Chaz, ma neanche
della loro stessa presenza a Bloomsbury; pareva non essersi chiesto il
come erano riusciti a trovarlo. Il più grande, con fare
altezzoso,
alzò la voce per farsi sentire: «Va bene, come
vuoi! Non ti dirò, quindi, il perché ho uno zaino
pieno delle tue cose sulla spalla». Un colpo al cuore
fermò Jay sulla strada verso il niente che
stava per raggiungere, si voltò lentamente e come se gli
occhi gli si fossero aperti in quell’istante, vide Chaz
accanto a Izaya che, con aria altezzosa, stringeva la fascia dello
zaino tentando di metterlo in bella mostra il più possibile.
Gli occhi del ragazzino imbronciato si spalancarono dallo stupore e
dopo essersi avvicinato al proprio ragazzo
afferrò la sacca, rovistando all’interno.
Si fermò d’improvviso, arrestando la ricerca,
lasciò cadere lo zaino a terra e nervosamente
portò indietro i capelli, cercando di pensare ad una
spiegazione plausibile che fosse il più lontana possibile
dalle sue
ipotesi, per non illudersi. Prima che potesse lasciar soccombere la
speranza sotto cumuli di
spiegazioni vaghe, Izaya gli afferrò le mano e
chinandosi leggermente verso di lui lo fissò attentamente
negli occhi. Il sussurro che investì Jay fu più
impetuoso di
un urlo: «Sei libero».
Stordito e con gli occhi spauriti fissò Chaz che,
leggermente scostato dalla scena, assisteva col broncio.
Spostò lo sguardo da lui capendo che non avrebbe mai potuto
trovare appoggio, conforto o spiegazioni nei suoi occhi e ristabilendo
il contatto visivo con Izaya chiese sottovoce, con le labbra tremanti:
«Cosa significa?»
Il più grande, avvertendo l’agitazione dell'altro,
tentò di infondergli, con la sua stessa voce, pacatezza e
sicurezza. «Significa che tu verrai a stare da me. Non dovrai
tornare a casa tua. Mai più.»
«Ma come…» fermò il fluire
delle sue parole così come le lacrime che si incastrarono
tra le folte ciglia nere che contornavano due occhi così
trasparenti da sembrare due piccoli vetri attraverso i quali, con
facilità, si sarebbe potuto guardare all’interno.
In quel momento, Jay sembrava proprio l’espressione corporea
di un’anima sola e fragile che, finalmente, stava per
ritrovare una casa al quale fare ritorno liberamente e con
serenità.
«Mi prenderò cura di te, te lo giuro.»
Le braccia di Izaya lo cinsero così forte da non
permettergli di dubitare. Era tutto vero e non solo le parole gliene
davano conferma, anche il
viso intristito e malinconico di Chaz che, disarmato, assisteva al
“salvataggio”. Certamente era felice che qualcuno
potesse essere in grado di
proteggerlo ma, nello stesso tempo, provava rabbia per quella
situazione. Era ritornato indietro per riprenderselo, tuttavia quello
stato di cose
così intricato e così grande rispetto le proprie
capacità, lo costrinsero a prendere atto del fatto che mai,
in nessun contesto e in nessun caso, sarebbe stato in grado di
sostituire Izaya.
Si allontanò silenziosamente dai due, e prima che potesse
andare via la mano di Jay lo fermò serrandogli il braccio.
«Sei ritornato?»
«No! Sto andando via…»
«Chaz…» supplicò.
Il vento gelido si fece sentire più pesantemente sulla pelle
ed un brivido percorse la schiena di Chaz che, senza voltarsi,
salutò tacitamente Jay, divincolandosi dalla presa.
Continuò ad allontanarsi seguito dallo sguardo impotente
dell’amico che avrebbe voluto fermarlo, ma sapeva che sarebbe
stato tutto inutile
perché Chaz, definitivamente, aveva bruciato ogni
possibilità di ricostruire il loro rapporto.
«Se te ne vai adesso, se davvero hai intenzione di sparire
così… non tornare mai più».
Avrebbe sentito la sua mancanza, ma intuì che non sarebbe
mai
più stato in grado di riallacciare i rapporti se fosse
ritornato nuovamente sui suoi passi. La delusione lo aveva totalmente
disincantato e il dolore di averlo
perso lo aveva reso più fragile, se fosse ritornato per
andarsene un’altra volta non avrebbe più retto.
«Non ti preoccupare, Jay. Ti dico addio. Sparisco dalla tua
vita e tu, per favore, sparisci dalla mia».
Come portato via dal vento, Chaz percorse la strada da dove era venuto
e, ancora una volta, una nuova possibilità di ritornare sui
suoi passi si ripresentò trovando come messaggero
l’uomo che aveva portato via l’unico amore della
sua vita. «Eri ritornato. Perché te ne stai
andando ancora?» Izaya l’aveva raggiunto e
consapevole del fatto che le parole
di Jay sarebbero state le sue ultime, scelse di fare un altro
tentativo prima che il distacco potesse diventare davvero incolmabile.
«È finito da un pezzo il tempo della nostra
amicizia. Adesso è giusto che ognuno si faccia una propria
vita. Io non sopporto più questa situazione e prima di
arrivare ad odiarlo, preferisco sparire. Voglio avere un buon ricordo
di lui».
Continuò a camminare e nient’altro, a parte la sua
coscienza, avrebbe potuto fermarlo e ciò si fece ancora
più concreto con il suo definitivo dileguamento.
Svoltò versò la metropolitana rendendosi
invisibile agli occhi dei due ragazzi che, in bilico tra la
felicità di aver sistemato le cose e il dispiacere di non
poterlo fermare, fissavano l’angolo dietro il quale era
sparito per sempre l’unico vero amico di Jay.
Angolo autrice.
Ciao Bimbi belliiii!!!
Eccolo il nuovo capitolo. Dite addio a Chaz, perché non
ritornerà per la gioia di Ladywolf XD
Ringrazio Bijouttina, Babbo Aven e Fly with me. Poi Nahash e SNappy.
Spero che la storia vi stia piacendo anche perché stiamo
entrando nel vivo.
Fatemi sapere che ne pensate.
Mi odiate?
Chaz se n'è andato e non ritorna più.
Mi odiate? Fatemi sapere.
Bacini a tutti e scusate se vaneggio ma, come al solito, aggiorno
sempre tardissimo ed il mio cervello, al momento, sta dormendo.
Al prossimo capitolo.
Bloomsbury
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Capitolo 15 *** Lovesong ***
quindicesimo capitolo
"Whenever I'm alone with
you
You make me feel like I am home again
Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am whole again
Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am young again
Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am fun again
However far away
I will always love you
However long I stay
I will always love you."
Lovesong-
The Cure
15.
Lovesong
Lo zaino, ad ogni passo, intonava un tintinnio così
impercettibile da riuscire ad essere ipnotico. In quella sacca
c’erano le cose di Jay ma la cosa
più cara era fuori, e camminava davanti a lui.
Dopo aver visto andare via Chaz, una sensazione di freddo lo aveva
intorpidito tanto da lasciarlo intontito al centro della strada,
con gli occhi assenti e vuoti.
La stanchezza stava portandosi via ogni piccolo pezzo fino al momento
in cui Izaya, risvegliandolo dal torpore
con un semplice cenno della mano davanti ai suoi occhi,
riuscì a ristabilire il contatto tra Jay e la
realtà che pareva così difficile da accettare da
fargli desiderare, per un attimo, di scappare ancora.
Non appena quella mano interruppe i suoi pensieri, come
un’ombra
vaga ma prepotente, il presente non
sembrò più così difficile da vivere e
accettare perché la figura che lo rappresentava era proprio
lì, accanto a lui.
Izaya era il suo presente e il suo futuro.
«Andiamo al bar?» aveva chiesto con tono leggero e
delicato, come se stesse rivolgendosi ad un bambino «Lizzie
ti sta aspettando. Era preoccupata per te.»
Il ragazzo lo fissò in silenzio ed ebbe la sensazione
distinta di
vederlo per le prima volta, come se prima di allora il pensiero di
Chaz non gli avesse permesso di percepire consciamente i tratti decisi
che componevano i lineamenti dell’uomo che amava. Come se lo
avesse sempre visto attraverso un vetro appannato.
Izaya attendeva pazientemente che Jay si risvegliasse da quello stato
comatoso senza sapere che, in realtà, il risveglio era
già avvenuto perché dopo tanto tempo,
finalmente, stava riuscendo a ricollegare i pezzi della sua vita appena
vissuta.
L’esistenza di Jay, quella vera, era iniziata poco tempo fa e
l’abbandono di Chaz era diventato l’evento
traumatico più chiarificatore mai vissuto.
Chaz era stato un amico, un compagno, ma anche l’unico capace
di tenerlo in connessione con la sua vecchia vita,
ostacolandogli la possibilità di ricominciare da zero, di
ricominciare da Izaya. Così lo fissò in silenzio
studiando ogni suo
particolare, come fosse stata la prima volta.
Gli occhi del suo uomo erano la cosa più bella e
rasserenante
mai vista e solo in quell’istante se ne rese davvero conto.
Spostò lo sguardo sullo zaino e capì
ciò che era accaduto: l'uomo che amava lo aveva portato via
da quella
casa, dalla sua famiglia, definitivamente. Non gli importava di
accertarsi delle dinamiche, ormai era tutto
chiaro ed istintivamente afferrò il giubbotto del ragazzo
davanti a sé che lo guardava con cautela, sperando di aver
fatto la cosa giusta.
Rimase fermo, aggrappato al suo giaccone con la testa bassa,
senza fiatare; stringeva quel lembo di stoffa con forza come se stesse
cercando in ogni modo di appigliarsi a lui, senza lasciarselo scappare.
Chaz se n’era andato, Izaya era lì e aspettava.
Jay aveva dei dubbi, galleggiavano nelle sue iridi trasparenti come
detriti di un naufragio, e prima di poter concedersi la
possibilità di esultare ed essere felice, senza guardarlo,
cercò di chiarire ciò che più di
tutto lo frenava dall’abbracciarlo con tutte le sue forze.
«Lo fai perché mi ami o perché vuoi
salvarmi?»
«Faccio, cosa?»
«Voglio capire se ti ha mosso la coscienza o
l’amore.
Cioè, tu vuoi davvero vivere con me perché mi ami
o tra qualche tempo ti renderai conto di aver fatto il passo
più lungo della gamba e mi dirai di tornarmene da dove sono
venuto? Perché se è così, io torno a
casa adesso».
Izaya cominciò a camminare in direzione della metro
costringendolo a mollare la presa. Camminava lentamente davanti a lui,
a Jay non rimaneva che seguirlo in silenzio.
«Io non sono così contorto» rispose,
finalmente, il più grande.
«E ancora meno
capisco la gente contorta. Io sono come mi vedi e sono ciò
che faccio, non ciò che dico. Se vuoi avere spiegazioni, le
avrai, ma mi piacerebbe che tu capissi che i fatti, non le parole,
dimostrano
chi sono e cosa sento.» Senza voltarsi, Izaya aveva cercato a
suo modo di rispondere alle
domande di Jay che, a poco a poco, divennero inutili e superflue.
«Se avessi voluto salvarti l’avrei fatto tempo fa»
continuò. «Ci sono stati momenti in
cui avrei voluto fare ciò che ho
fatto oggi, ma mi sono fermato perché mi rendevo conto che
l’amore, più di ogni altra cosa, ti avrebbe fatto
bene e non semplicemente l’atto pratico di portarti via di
lì. Io provo per te qualcosa di così enorme da
non potertelo neanche spiegare, dire che ti amo mi sembra addirittura
riduttivo, per questo preferisco spiegarti che tutto questo non
è un istinto scatenato dalla compassione, non
sono un buon samaritano, ma è voglia di averti tutto per me,
per come sei e non per come ti riducono gli altri. Anzi, prendilo come
un gesto egoistico: voglio conoscere il Jay che fino ad oggi non ho mai
conosciuto. Voglio vivere il mio Jay nella nostra casa.»
«Ma non ti puoi fermare? Davvero vuoi dirmi queste cose senza
guardarmi in faccia?» chiese con il cuore in gola e la
felicità nelle mani che tremavano dalla voglia di afferrarlo
e stringerlo.
Dopo aver dato vita ad un sospiro afflitto, Izaya prese a borbottare
parole incomprensibili che si fermarono non appena si voltò:
«Sei contorto, ragazzino. Prima ti lamenti perché
non ti
spiego le cose, poi ti
lamenti perché non ti guardo in faccia, tra poco ti
lamenterai perché c’è il sole e avrei
dovuto farti questa meravigliosa ed encomiabile dichiarazione
d’amore sotto la pioggia scrosciante. Jay, sii più
leggero. Non essere così cervellotico. Io sono qui, le tue
cose anche, stiamo andando da Lizzie e stasera andremo a casa nostra.
Dai! Uno sputo e una stretta di mano. Fidati!».
Risparmiandosi lo sputo tese la mano per afferrare quella di Jay e con
il sorriso negli occhi attendeva che quest’ultimo si
convincesse delle sue parole.
Comprese la sua diffidenza, d’altronde chi diceva di
amarlo lo aveva deliberatamente tradito, perché avrebbe
dovuto fidarsi di lui? L’insicurezza dei sentimenti altrui
l'avevano reso
sospettoso e Izaya scelse di prendersi la responsabilità di
aiutarlo ad avere ancora fiducia nella vita, come qualsiasi altro
ragazzo di diciotto anni.
Jay non attese altre parole né strinse la sua mano, ma gli
si lanciò contro stringendolo a sé
così prepotentemente da sentire la stanchezza scaricarsi nel
suolo e la forza scorrergli nelle vene, come durante un risveglio dopo
mille anni di sonno.
«Fanculo a mia madre, a mio padre; fanculo a Chaz e fanculo
al mondo. Io ti amo e mi fido di te. Lo giuro, mi fido!»
urlò con gli occhi stretti in un momento di sfogo e
liberazione, abbracciato al suo uomo.
Izaya sorrise, alzando gli occhi al cielo con ironia. «Era
ora!»
Sollevando il viso di Jay lo squadrò per qualche istante e
non appena riuscì a scorgere un bagliore di speranza e
felicità capì che quella maledetta malinconia
che aveva odiato, finalmente, aveva abbandonato i suoi
occhi, restituendogli l’agognata pace che da sempre aveva
sperato per lui.
***
Lizzie, stupendoli, non si comportò come avevano immaginato
perché, anziché prenderlo a schiaffi per lo
spavento, lo aveva tenuto stretto a sé come se davvero
avesse temuto per la sua vita. «Ero convinta ti fossi
suicidato!»
Izaya e Jay, seduti difronte a lei, ridevano a crepapelle a causa del
racconto tragico dei retroscena vissuti privatamente dalla sventurata
Lizzie che, irragionevolmente, aveva lasciato che la sua lugubre
fantasia ricostruisse una storia drammatica degna di Shakespeare.
«Ma sei seria? Non mi sarei mai suicidato.»
«Per quanto mi riguarda sei capace di tutto, Hahn! Non fare
la faccia d’angelo, ti ho conosciuto depresso, ti ho
frequentato depresso e avresti potuto fare una fine tragica. Sarebbe
stata verosimile come cosa» rispose piccata, infastidita
dalle risate che avevano guarnito la sua puntuale, e personale,
esposizione dei fatti.
«Ordinare i tuoi caffè è certamente un
tentato suicidio, quindi sì: è verosimile come
racconto. Jay tendenzialmente ama farsi del male» rispose
Izaya dopo aver sorseggiato la bevanda scura che sapeva di acqua calda
sporca dal vago aroma di caffè.
«Fai meno il cretino, tu!» lo rimproverò
Lizzie, frustandolo lievemente con il canovaccio che portava sempre con
sé come un inseparabile amico. «Però,
devo ammettere che ti sei comportato egregiamente. Finalmente hai detto
ad Emma ciò che meritava.»
«Non mi è sembrato si sia lasciata colpire
più di tanto. La sua unica preoccupazione era che un
finocchio si fosse introdotto dentro il tempio immacolato di casa
sua».
Jay ascoltava i discorsi di Izaya e Lizzie come se non stessero
parlando di sua madre, ma di una donna qualsiasi della quale non
conosceva nulla.
Si accorse di essersi liberato di un peso solo nel momento in cui
sentì quei racconti così lontani da lui da non
potergli più appartenere.
Se era questa la leggerezza raccontata sempre da Izaya, allora, ci
era arrivato anche lui; la leggerezza di vivere onestamente senza
curarsi del giudizio degli altri, di esprimersi senza
aspirare all’accettazione altrui.
Se le persone che dicevano di amarlo avevano preteso da lui il
silenzio,
e quindi il conseguente rinnegamento di se stesso, allora potevano
sparire dalla sua vita; Jay non avrebbe avuto alcun rimpianto nei loro
confronti.
«Ma che se ne andasse a farsi fottere. Quando
tornerò a prendere le mie cose gliene dirò
quattro anche io, se mi metterà nella condizione di
farlo» disse con stizza.
Più sentiva di riuscire a parlarne con distacco, meno
percepiva il peso delle sue scelte. Parlare della sua famiglia, di Chaz
e di ciò che era
successo in quei termini lo faceva sentire così distante da
spingerlo ad apprezzare la propria solitudine nel mondo; non in senso
negativo, ma nel modo più bello.
Lui era padrone della sua vita, era un individuo distaccato dagli altri.
Viveva e si muoveva nel mondo come un essere vivente unico e solo, gli
altri rappresentavano altri individui soli come lui che, accostandosi
all’altro, plasmavano rapporti in grado di arricchire o meno
l’esistenza di ognuno.
Da essere unico era libero, ormai, di decidere chi sarebbe stato degno
del suo affetto. La cernita era appena iniziata e Izaya e Lizzie
sembravano gli unici due esseri capaci di abbellire e rendere preziosa
la sua vita: adesso sapeva a chi donare la sua unicità
senza sentirsi costretto a diventare uno dei tanti, uguale a tanti
altri.
«Izaya ha già preso le tue cose, no?
Perché ci devi tornare?»
Una risata scrosciante di Jay riempì la sala e i cuori dei
due presenti che lo fissavano increduli. Vederlo ridere in modo
così spontaneo era una piacevole
novità ed Izaya, capendo il motivo della sua risata,
abbassò la testa nascondendo il viso con il menù
plastificato.
«Vedi, Lizzie? È riuscito a prendere le uniche
cose inutili presenti nella mia stanza.»
«Ho preso le prime cose che mi sono trovato davanti. Ero
talmente incazzato che ho evitato di fare una scelta accurata. Lo zaino
è simbolico» rispose certo delle sue ragioni,
fissando gli occhi di Jay che apparivano finalmente sereni,
senza alcuna ombra di affanno.
Jay era libero ed Izaya riusciva a sentire gli effetti di questa
meravigliosa novità sulla propria pelle; qualcosa era
davvero cambiata. Non era stato solo il fatto di averlo estirpato con
la forza dalla sua
famiglia, non era perché sarebbero tornati a breve
in
quella che sarebbe stata la loro casa, era la consapevolezza di essere,
la coscienza di se stesso a rendere Jay diverso, appagato, soddisfatto,
senza rimpianti.
Izaya percepì la nuova coscienza di Jay così
prepotentemente da vederlo, addirittura, in un modo diverso. Non
c’era più un ragazzo indifeso da proteggere,
ma solo un uomo da amare e sebbene gli anni fossero troppo
pochi, il suo animo conteneva l’esperienza pienamente vissuta
di una persona capace di afferrare la propria vita e
condurla in piena consapevolezza e saggezza.
Era arrivato il momento in cui Izaya e Jay avrebbero potuto viversi
senza ripensamenti e ostacoli.
«Credo sia arrivato il momento di portare lo zaino a casa
nostra» azzardò Izaya, cogliendolo di sorpresa.
Sebbene sapesse di non dover più ritornare a casa
sua, ancora non aveva realizzato il fatto di avere un luogo
al quale avrebbe potuto fare ritorno in compagnia dell’uomo
che sentiva di
amare.
Donò la sua vita a quell’uomo con fiducia, come
non aveva mai fatto prima, e sorridendo a Lizzie, che nel frattempo li
fissava emozionata come la più svenevole delle romantiche,
si alzò afferrando le fasce del “simbolo della
sua nuova indipendenza”, posando gli occhi su Izaya
con prepotenza, come se volesse farlo suo con un solo sguardo.
«Allora, torniamo a casa. A casa nostra».
Izaya sorrise e lanciandogli le chiavi di casa si alzò,
per poi avvicinarsi a lui e cingergli le spalle. Lo condusse verso la
porta del locale, salutando Lizzie, iniziando un rito che sarebbe
diventato presto un’abitudine.
Jay stringeva nelle mani le chiavi che avrebbero spalancato le porte
della loro nuova vita insieme e godendo della presa prepotente
dell’uomo che amava già pregustava gli attimi di
estrema bellezza che avrebbero vissuto insieme tra le mura che, presto,
sarebbero diventate di entrambi.
Angolo autrice.
Ciao! Come al solito aggiorno tardissimo ma, finalmente, ce l'ho fatta!
Mi scuso per eventuali errori ma questo capitolo è stato un
parto plurigemellare, non perché parlare di Izaya e Jay sia
difficile, ma perché non essendo bravissima a scrivere
capitoli romantici, ho avuto difficoltà a riuscire ad
esprimere al meglio i sentimenti e le emozioni di entrambi. Spero di
essere stata brava, nonostante la mia inettitudine.
Jay e Izaya iniziano la loro storia e da qui si apre una nuova "epoca"
della storia di Jay.
Voglio ringraziare le magnifiche sei tanto tanto, Bijouttina la
combattiva che non saprà più con chi prendersela
e babbo Aven.
Voglio ringraziare le nuove zie che si stanno mettendo in pari e tutte
le persone che hanno inserito la storia di Jay tra le
preferite/seguite/ricordate. Grazie di tutto.
Voglio dedicare questo capitolo a Ladywolf, Elsker, Aven e Bijouttina.
Siete i miei amori, spero di non deludervi davvero.
Grazie a Class of 13che ha letto i primi capitoli tutti d'un fiato e
ringrazio, anche, chi non recensisce.
Già solo il fatto che seguite e amate la storia mi basta!
Poi, voglio ringraziare enormemente Ghost che mi ha inviato un
bellissimo messaggio privato scrivendomi quanto sia affezionata a Jay.
Grazie mia cara, il tuo messaggio mi ha riempita di gioia!
Vi adoro tutti e sono terribilmente sensibile ultimamente, quindi, mi
commuovo facilmente T_T
Che altro dire? Solo grazie e grazie ancora.
Un abbraccio enorme..
Ecco qui il Book Trailer della storia ^_^ Jay
Hahn- La storia Book trailer
Grazie a Nahash e SNeppy. Bacini a voi.
Bloomsbury
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Capitolo 16 *** Enjoy the Ride ***
"If you close the door
to your house
Don't let anybody in
It's a room that's full of nothing
All that underneath your skin
Face against the window
You can't watch it fade to grey
And you'll never catch the fickle wind
If you choose to stay."
Morcheeba
- Enjoy The Ride feat. Judie Tzuke
16. Enjoy the Ride
«Non smette mai di
piovere.»
Avvolto nel plaid, con le guance
rosse per via della febbre e gli occhi assonnati, Jay osservava la
pioggia dalla finestra del suo appartamento a Soho, annusando, di tanto
in tanto, l’odore dolciastro dell’ultima crostata
di Lizzie fatta apposta per lui.
La pioggia aveva bussato alla
finestra per giorni ma il senso di tristezza che, solitamente, aveva la
capacità di infondergli, non era mai entrata in quel piccolo
appartamento condiviso con Izaya perché la
felicità che aveva accompagnato ogni giornata aveva
impregnato anche i muri di ogni stanza.
Accovacciato sul divano, aspettava il
ritorno del suo uomo, del suo compagno e nonostante Lizzie fosse sempre
e costantemente al suo fianco, la mancanza di Izaya era più
forte di qualsiasi altra emozione.
«Jay, piccolo, io vado. Tra
poco arriva Izaya e senti, canaglia: non aprire le finestre. Si gela!
Ed ogni volta ti trovo addormentato, con la febbre a quaranta ed un
tornado in casa.»
Lizzie sembrava una mamma e
l’artefice di tanta cura era proprio Izaya che aveva
espressamente ordinato alla ragazza di recarsi
nell’appartamento, prima di aprire il locale, per dare
un’occhiata a Jay che già da dieci giorni aveva
sotterrato ogni mobile di fazzolettini sapientemente imbrattati dal suo
perenne raffreddore.
«Va bene! Faccio il bravo.
Lizzie, voglio ringraziarti…»
«Non continuare, non farlo.
Potrei ucciderti!» lo minacciò, indossando il
cappellino bianco di lana che la faceva sembrare ancora più
sbarazzina di quanto già apparisse «Dì
ad Izaya che ho cambiato le lenzuola e che ogni tanto potrebbe farlo
lui. Ogni volta mi imbatto in qualche vostra porcheria.»
«Di che genere di porcherie
stai parlando?» chiese Jay divertito, con
l’intenzione di stuzzicarla.
L’argomento sesso non era
mai stato un tabù tra loro e proprio perché Izaya
era stata la sua prima esperienza, Lizzie aveva sempre approfondito
l’argomento, sincerandosi del fatto che fosse tutto
abbastanza bello e sereno per Jay. Voleva conoscere tutto, tranne i
particolari troppo crudi e Jay, per farle un dispetto, iniziava proprio
da quelli.
«Le persone che fanno sesso
lasciano segnacci in giro, sappilo.» sottolineò
Lizzie, stringendo i fianchi tra le mani.
«Ah! Ti riferisci a quelle
porcherie? Ovviamente, se due persone si strofinano, si abbracciano, si
toccano, si baciano…»
«Smettila. Non voglio
più ascoltare!» scappò da quel discorso
così velocemente che Jay non ebbe il tempo di finire e dopo
averla canzonata per bene, la fissò con tenerezza,
riconoscendo in quella donna l’unica figura femminile degna
di essere considerata «Sei carina oggi. Dove stai
andando?»
La fermò alla porta con
quella domanda e lei, imbarazzata, si voltò, cercando in
ogni modo di nascondere il rossore che aveva colorato le sue guance
«Dove vado di solito a quest’ora!»
«Un tipo belloccio, alto e
barbuto mi ha detto che al locale sta venendo sempre più
spesso un tizio di nome Robert. Sono esatte queste
informazioni?» chiese sardonico, dondolandosi sul divano come
una bimbetta impicciona.
«Certo che Izaya si fa i
fattacci suoi!» esclamò infastidita, colta con la
mani nel sacco.
«Izaya mi dice tutto e non
vedo perché io non debba sapere. Volevi tenermelo
nascosto?»
«Ma che dici? Non ne parlo
perché è presto. Per adesso è solo un
cliente gentile e simpatico, dovrei darti informazioni su ogni cliente
che si siede ai tavoli?»
«Se il cliente sembra
particolarmente interessato a te, sì!»
«Ci stiamo conoscendo, Jay.
Nulla di più.»
Per non rovinarle il momento
idilliaco del primo corteggiamento, Jay mollò la presa,
consapevole del fatto che certi dettagli vanno lasciati ai diretti
interessati, per non infrangere quella magia che solo
l’intimità può preservare.
«D’accordo! Ne
parleremo quando vorrai tu.»
Si arrese, alzando le mani e Lizzie,
intenerita dal dolce desistere di Jay, gli concesse un particolare che
sapeva sarebbe stato in buone mani «Mi piace molto e spero
che possa evolversi positivamente.»
Jay sorrise, fissandola con dolcezza.
Anche lui sperava in qualcosa di straordinario per lei, se lo meritava
più di chiunque altro e la luce negli occhi di Lizzie lo
riempì di ottimismo. Poteva diventare davvero qualcosa di
speciale.
Senza aggiungere altro, la ragazza
abbandonò l’appartamento, lasciando Jay da solo.
Si stese sul divano, coprendosi il
viso con entrambe le braccia.
Privarsi della vista
l’aveva sempre aiutato a pensare ed un senso di impazienza lo
percosse al centro dello stomaco.
Lizzie era andata via e la mancanza
di Izaya si faceva sempre più insistente e la febbre
ricoprì di brividi ogni millimetro della sua pelle.
Inspirò profondamente,
supplicandosi di avere pazienza.
L’appartamento piccolo, ma
ben arredato, ormai, era diventata a tutti gli effetti la sua casa, ma
senza Izaya, quella stessa casa, non sembrava così familiare.
Era passato un mese da quando aveva
lasciato per sempre la sua famiglia, eppure persisteva, nitidamente, il
ricordo dei giorni passati sotto quel tetto.
Nel momento stesso in cui aveva
varcato la soglia del suo nuovo appartamento, si accorse che
ciò che tutti, comunemente, chiamano casa non è
fatta di muri, di mobili, di oggetti, ma di persone.
La sua casa era Izaya e sebbene
avesse fatto sua ogni stanza, riempiendola, anche, delle sue cose,
amando l’accostamento curioso degli oggetti appartenuti ad
Izaya con i suoi, quel luogo riusciva a diventare davvero suo solo nel
momento in cui il suo uomo faceva ingresso, lasciando le scarpe in giro
per il soggiorno, indossando la felpa rovinata, della quale non si
sarebbe mai separato, che usava solo a casa.
Quelle piccole cose, le abitudini, le
sfaccettature del tutto inedite prima della loro convivenza, erano
diventate parte della sua vita; Izaya era la sua vita.
Si rimproverò per il suo
romanticismo, ma più cercava di comportarsi da uomo,
più le emozioni gli si aggrovigliavano nello stomaco,
rendendolo un adolescente innamorato alle prime armi.
Alle prime armi lo era, invero, ed
Izaya era stato il suo primo ed unico uomo, ma i sentimenti che provava
non erano solo il frutto della sua inesperienza; era sicuro e convinto
di aver trovato la persona giusta, quella che si incontra una volta
nella vita e che in molti lasciano scappare perché troppo
smaliziati per credere alla fortuna gratuita, quella che non esige
qualcosa in cambio.
Jay era stato fortunato ed il sorriso
che aveva perennemente preso posto sul suo viso ne era la prova.
Sentiva la felicità
solleticare ogni corda del suo essere; un senso continuo di
presentimenti positivi facevano vibrare il suo animo, tanto da renderlo
costantemente allegro e iperattivo. La stanchezza, quella del cuore,
non aveva più bussato alla sua porta e se mai
l’avesse fatto, Izaya l’avrebbe respinta a calci
con la sua sola presenza.
Sorrise pensando e ripensando a lui.
Riuscì anche a
giustificarsi del fatto di non essere stato in grado di riconoscerlo da
subito, di capire immediatamente che quell’uomo sarebbe stato
l’unico che avrebbe mai amato; fino a qualche tempo fa si
sarebbe rimproverato di tale mancanza di lucidità ma,
adesso, aveva fatto pace con se stesso, con la vita, con le persone,
non sentiva neanche più rabbia nei confronti dei suoi, di
Chaz. Era libero.
La vaporosa leggerezza dei suoi
pensieri riuscì a diventare parte del suo modo di vedere le
cose ed era stato proprio Izaya ad insegnarglielo.
Continuare a vivere indipendentemente
dal giudizio altrui l’aveva prosciolto da ogni obbligo, non
doveva dare spiegazioni a nessuno, se non a se stesso e con enorme
facilità aveva fatto sua questa intoccabile filosofia.
Vivere per se stessi non era poi
così difficile e Jay aveva scelto di vivere per due e,
fortunatamente, aveva trovato l’unico essere al mondo che
meritasse pienamente la sua considerazione, la sua vita.
La febbre e il rumore scrosciante dei
suoi pensieri distolsero l’attenzione dalla porta che, con
delicatezza, era stata aperta.
Izaya, come era solito fare da
qualche giorno, tornava a casa senza fare baccano, per non disturbare
il sonno di Jay.
La febbre lo aveva trasformato in un
vecchio ghiro ed ogni volta, al suo ritorno, se lo ritrovava riverso
sul divano, in posizioni degne di un contorsionista ma, quel
pomeriggio, sembrava avesse scelto di riposare in modo più
accettabile.
Si avvicinò lentamente,
afferrando una fetta di crostata gentilmente preparata da Lizzie e, con
delicatezza, si accomodò accanto a Jay, fissandolo con il
suo solito sorriso accennato.
«Guarda che sono sveglio.
Ti vedo che mi stai fissando con l’aria da stronzo. In che
modo barbaro avresti voluto svegliarmi, stavolta?»
Izaya, colto di sorpresa, si
lasciò andare ad una risata: «Non lo so. Ci stavo
pensando. Mi hai battuto sul tempo.»
«Ti stavo
aspettando.»
Izaya, rimuovendo i cuscini che
ostacolavano l’avvicinamento, prese Jay dal braccio e,
sollevandolo, lasciò che si accoccolasse sulle sue gambe,
come un neonato, stringendolo a sé.
Stare in silenzio, con il viso
affondato nell’incavo del collo di Izaya, era il momento che
preferiva.
Annusava il suo profumo come se
volesse inglobarlo dentro di sé e sorrideva, rapito dalla
pace che, ormai, da tempo incalcolabile, regnava nella sua vita.
La sensazione che aveva di Izaya era
inspiegabile e, soprattutto, mai vissuta prima di allora.
Lo sentiva nitidamente; percepiva
ogni cosa di lui con forza.
La vitalità,
l’energia, la sua presenza, il profumo, il respiro, il
battito del cuore.
Anche adesso, sentiva distintamente
la scrocchiante dipartita della crostata di Lizzie tra i suoi denti, i
movimenti della mascella decisa e irsuta, le mani calde che lo
stringevano e accarezzavano le sue gambe con l’intento di
placare i brividi causati dalla febbre.
«Sei sudato. Sta scendendo
la febbre.» sussurrò Izaya, baciando i ciuffi
bagnati che rigavano il volto pallido di Jay.
«Sta passando.»
Izaya sfiorò ogni
millimetro del viso di Jay con le labbra.
Baciò i suoi occhi, le
guance scarne, le labbra screpolate che, per mezzo della sua bocca,
riacquistarono colore e morbidezza.
Il calore dei suoi baci avevano il
potere di rimetterlo in sesto e di rilassargli l’animo che,
fino a quel momento, aveva subito le percosse dell’impazienza.
La pioggia che ticchettava fuori
dalla finestra, la goccia persistente del rubinetto della cucina, il
ticchettio delle mille sveglie in casa che Izaya usava impostare, tutte
insieme, alle sette di mattina per destarsi, rendendo il risveglio una
parata di suoni acuti e assordanti, il silenzio della loro casa; erano
tutte cose diventate care, sue, di entrambi.
Jay viveva avvertendo tutto quello
che lo circondava a trecentosessanta gradi, come se ogni sua percezione
fosse stata tarata per raccogliere limpidamente ogni impulso e
vibrazione.
Jay esisteva, come Izaya,
completamente, senza tralasciare niente.
E godeva di ogni minima cosa come se
fosse stata l’ultima volta.
«Hai fame?»
chiese Izaya, aggiungendo a quella lista infinita di vibrazioni, ronzii
e rumori, il timbro caldo e rassicurante della sua voce.
«No. Ho sonno.»
rispose, strofinandosi gli occhi sul petto robusto di lui, saggiandone
il calore.
Attese la risposta per qualche
minuto, finché, alzando la testa, si accorse che anche lui,
evidentemente, ne aveva. Dormiva, con la testa poggiata alla sua,
respirando profondamente, tradito dalla stanchezza e dalla impagabile
sensazione di sentirsi finalmente a casa.
Jay fissò sorridente le
ciglia lunghe che racchiudevano, senza farle scorgere, le pupille scure
e brillanti che aveva atteso di vedere per tutta la giornata.
Aveva bramato i suoi occhi, i suoi
sguardi e anche se in quel momento non ne poté beneficiare,
si accorse di poter possedere, finalmente, tutto il resto.
Così si
abbandonò sul petto che sussultava dolcemente ad ogni
respiro e approfittò di quel momento di pace per godere
appieno del suo uomo che, sotto di lui, reggendolo sulle sue gambe,
dormiva profondamente come una roccia stanca.
La pioggia non li avrebbe mai
più sfiorati.
La tempesta era sopraggiunta e,
dolcemente, era andata via, lasciando gli strascichi più
belli, la calma e la pace che per mesi aveva desiderato per
sé, per entrambi.
Angolo Autrice.
Ciao! Scusate il ritardo ma gli impegni di lavoro mi hanno totalmente
assorbita, ma non ho dimenticato di aggiornare! Assolutamente no.
Spero vi piacciano questi capitoli un po' zuccherosi, mi scuso coi
malati di diabete, ma è necessario spiegare il rapporto che
lega e legherà ancora più profondamente Izaya e
Jay.
Spero di essere riuscita a spiegare quei piccoli particolari che per me
sono molto importanti.
Le sensazioni che, soprattutto Jay, prova.
Detto questo, ringrazio le mie meravigliose sei e dedico questo
capitolo a Bijouttina.
Ringrazio Babbo Aven che è sempre presente, la dolcissima
Maia Scott, DarkViolet, la mia amata Emide che si sta mettendo in pari
e Mrs Burro, in particolar modo, per avermi lasciato sei recensioni di
fila, scrivendomi continuamente cose meravigliose. Spero davvero di non
deludere te e tutti quelli che ripongono fiducia in me.
Ringrazio chi ha inserito la storia nelle seguite/preferite/ricordate.
Vorrei nominare tutti i lettori silenziosi che mi seguono, ma non
vorrei farvi torto. Se siete silenziose è perché
volete continuare ad esserlo. Quindi, taccio.
Grazie infinitamente per l'appoggio e spero di riuscire a continuare
più velocemente questa storia.
Un abbraccio a tutti.
Bloomsbury
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Capitolo 17 *** Where to go ***
17. Where
to go
Se gli anni non fossero stati conosciuti come ingannevoli veicoli del
tempo Jay non si sarebbe mai accorto del loro passaggio inesorabile.
Erano passati, eppure non ne aveva sentito il peso.
Aveva chiuso gli occhi una sera qualunque, due anni prima, e li aveva
riaperti, come vittima di un bellissimo sogno, senza sentire la
stanchezza delle stagioni che avevano macinato ore, giorni e istanti
vissuti senza alcuna preoccupazione.
Aveva in mente immagini ordinarie di una vita straordinaria che avevano
scandito lo scorrere della sua nuova esistenza accanto a chi amava.
Non avrebbe mai creduto che la vita potesse essere vissuta con tale
semplicità e bellezza nello stesso tempo.
Il suo orologio non era formato da lancette indicanti secondi e minuti,
ma di immagini, come foto, che ritraevano momenti che comunamente si
sarebbero potuti definire “soliti”.
Per Jay non c’era niente di solito o di scontato e i fiori di
ciliegio sbocciati a Tavistock Square parevano più un
miracolo che un processo di sviluppo naturale; la fioritura non era
altro che l’ennesimo segno che il tempo, effettivamente, era
passato.
Chiuse il libro sul quale aveva studiato per i suoi prossimi esami, non
poteva sacrificare quel pomeriggio di sole sui libri, e chiuse gli
occhi, poggiando la testa sullo schienale della panchina che
l’aveva visto ripassare nervosamente leggi, casi e
deposizioni, e inspirò lentamente, percependo il profumo
dell’estate che, finalmente, era alla porte.
Tutto sembrava andare per il meglio e, stranamente, non aveva nessun
tipo di strano presentimento che gli suggerisse che le cose belle non
sono fatte per durare a lungo; non aveva dubbi: quel benessere sarebbe
durato per sempre.
Per questo la serenità d’animo non lo abbandonava,
neanche dopo uno stupido litigio con Izaya o una giornata nera
all’università.
Tutto andava a gonfie vele.
Lizzie, che ormai viveva a dieci metri da terra con il suo nuovo
ragazzo con il quale, presto, avrebbe convissuto, aveva concesso a Jay
la possibilità di lavorare al bar per guadagnarsi qualche
soldo, cosa che lo rese enormemente felice dato che la sua prima
preoccupazione, da quando aveva occupato casa di Izaya, era proprio il
fatto che quest’ultimo non gli avrebbe mai permesso di
spendere un centesimo per il mantenimento della casa.
Quantomeno avrebbe badato alle sue spese personali senza sentirsi un
peso per Izaya che, però, era contento del fatto che Jay
avesse una sua indipendenza: “Perché, diciamocelo,
quella persona squisita di tuo padre, prima che tu gli dicessi di
essere malato, ti ha cresciuto nello zucchero filato. È ora
che tu impari a vivere come le persone normali.”
L’ironia di Izaya, tagliente come un rasoio, gli aveva dato
la spinta giusta per iniziare da zero ed imparare a vivere senza
doversi affidare necessariamente a qualcuno.
La strada per la completa indipendenza sarebbe stata lunga, ma la
volontà era l’ultima a mancare e Jay, felice di
essere stato considerato al pari di un ragazzo normale e non di un
principino ripudiato, si era rimboccato le maniche, riconoscendo,
però, l’importanza della presenza di Lizzie che,
con ogni mezzo, aveva fatto di tutto per aiutarlo.
Aprì leggermente gli occhi cristallini lasciando che la luce
filtrata dagli alberi lo ferisse tanto da dargli una mossa,
costringendolo ad alzarsi di scatto, strofinandosi le palpebre
assonnate.
Prese le sue cose e si incamminò verso la metro che
l’avrebbe portato al bar dove, certamente, avrebbe trovato
tutti ad aspettarlo.
La sua nuova famiglia.
***
Il bar era sempre più vuoto e sempre più simile
ad un appartamento che ad un locale pubblico, cosa che pareva non
dispiacere nessuno.
In molti se n’erano andati ed il jukebox, dopo
l’ennesima canzone riprodotta stancamente, aveva deciso, una
sera, di morire definitivamente.
A nulla erano servite le percosse di Izaya e le parole dolci di Lizzie
che gli chiedevano disperatamente di non abbandonarla; quel jukebox
aveva scelto: sarebbe diventato un piacevole ricordo e nulla
più.
La decadenza dell’arredamento e dei poster ingialliti,
però, non avevano affatto un aspetto triste, anzi, il bar
pareva invecchiare con loro e, a poco a poco, solo per loro.
Robert, dopo aver superato i primi momenti di diffidenza e di gelosia
di Jay, era diventato a tutti gli effetti un componente della famiglia.
Il giorno in cui il nuovo arrivato fece ingresso nella vita di Lizzie,
si presentò ad Izaya come se non lo conoscesse, in
realtà la sua presenza e la conseguente conoscenza con
quella che sarebbe diventata la sua ragazza non era stata per nulla
casuale poiché si scoprì, dopo qualche giorno,
che Robert ed Izaya erano colleghi e che quest’ultimo aveva
combinato il tutto per farli incontrare, per cui, l’incontro
non era stato fortuito, cosa che infastidì Lizzie che aveva
creduto nella magica forza del destino.
“Non puoi arrabbiarti per una cosa del genere, Lizzie. Cerca
di essere un tantino più pratica e meno romantica. Destino o
no, il risultato non cambia. Tu e Robert siete felici, che vuoi di
più?” aveva sbottato Izaya, una sera,
semplificando la cosa.
“Tu e Jay vi siete conosciuti perché il destino
l’ha voluto. Perché io non posso avere una cosa
romantica come la vostra?”
“No! L’abitudine di Izaya di guardare il culo ai
ragazzini li ha fatti conoscere, non il destino.” concluse
Robert, scatenando una risata del tutto fuori luogo di Izaya che,
supportato dalle risatine sommesse di Jay, riuscì a
ridimensionare la cosa e a calmare Lizzie che, avvilita, si
lasciò cadere sulla sedia.
Da quel giorno le cose non erano più cambiate.
Ognuno aveva trovato il proprio posto nella vita dell’altro e
Jay, nonostante non avesse alcun dubbio del fatto che le cose non
avrebbero potuto fare altro che migliorare, a volte, nel silenzio dei
propri pensieri, sperava che anche per Chaz, ovunque si trovasse,
potesse essere così.
Delle volte lo immaginava tornare, magari con qualcuno, felice come non
era mai stato.
Non lo cercò più, deciso a rispettare le sue
scelte, anche se, spesso, ne sentiva la mancanza.
Segretamente sognava per lui una vita piena e completa come la propria
e l’ottimismo che, ormai, era diventato parte di
sé da tempo, gli suggeriva che, certamente, anche Chaz aveva
trovato qualcuno al quale donare la sua vita.
Questo pensiero lo aveva aiutato a non cercarlo, credendo che
più gli sarebbe stato lontano e più avrebbe fatto
il suo bene, come Chaz aveva chiesto.
Arrivato al locale, vide Lizzie indaffarata con i pochi clienti e in
fondo, al solito tavolo, c’era Izaya, immerso nella lettura
del suo testo preferito: gli appunti universitari di Jay sui sistemi
giuridici comparati.
«Una lettura diversa, vedo.» esordì Jay,
dopo avergli scompigliato la barba ed essersi seduto difronte a lui.
«I tuoi appunti sono oro per me. Da quando vai
all’università riesco, anche, a lavorare
meglio.»
«Come dice il professor Tucker: “un buon avvocato
non smette mai di studiare”.»
«Parole sante! Non avevi detto che saresti stato tutto il
giorno in biblioteca?» chiese Izaya, sorseggiando il suo
caffè annacquato.
«Sì, l’avevo detto, ma ho cambiato idea.
Il sole non me lo permette, mi fa venire voglia di non fare niente e
poi mi mancavi.» disse quelle ultime parole distrattamente,
come se volesse far passare inosservato il loro peso.
Izaya sorrise, lasciando intravedere, tra i folti baffi, denti
perfettamente allineati.
«Penso che dovrei tagliarti la barba.» disse Jay,
convinto del fatto che se l’avesse fatto avrebbe potuto
godere appieno di un sorriso solare che desiderava poter vedere nella
sua interezza.
Il malcapitato si coprì il viso con le mani, pronto a
difendere una delle cose più care della sua vita:
«Dovrai passare sul mio cadavere. La barba è mia e
ci faccio quello che voglio.»
«Scendiamo a compromessi: io ti lascio la barba, ma ti levi
la tinta argento dai capelli, voglio un uomo con dei capelli
normali!»
«Stai tentando di cambiarmi? Non va per niente bene,
Hahn.» rispose, mettendosi sulla difensiva.
«Non voglio cambiare te, voglio cambiare il colore dei tuoi
capelli. Non posso pensare di non averti mai visto al
naturale.»
Il discorso si protrasse per minuti e minuti finché,
all’arrivo di Robert, Lizzie interruppe la discussione senza
alcun garbo e sedendosi tra loro, esordì con prepotenza:
«Mentre voi litigate su argomenti intellettuali come la fame
nel mondo ed il riscaldamento globale, io ho da darvi una
notizia.»
Robert, con aria stanca e stravolta come se fosse passato attraverso un
uragano, sfilò la cravatta dal colletto della sua camicia e
sedendosi accanto a Lizzie, la fissò con attenzione.
Sapeva cosa avrebbe detto e Jay, scrutandolo, capì che la
notizia che li stava per investire non sarebbe stata per nulla semplice
da digerire.
Robert, difronte a Lizzie, affondò i suoi occhi neri in
quelli di lei, deciso a darle forza e annuendo leggermente per
incoraggiarla la incitò a continuare.
Izaya e Jay, come se fossero l’uno lo specchio
dell’altro, poggiarono entrambi i gomiti sul tavolo, pronti
ad incassare qualsiasi colpo.
Nonostante Lizzie non avesse mai espresso l’importanza di
quella notizia, erano riusciti a percepire, attraverso i suoi silenzi,
che ciò che stavano per sentire avrebbe certamente cambiato
qualcosa.
«Il bar chiude.»
Il tonfo che sentì Jay nel cuore fu più
assordante di qualsiasi altra cosa e, istintivamente, si
voltò a guardare il jukebox spento, il primo ad essersene
“andato”.
«Ma come?» chiese Jay, incapace di accettare di
doversi separare da quei tavoli.
«Sì, purtroppo. Il proprietario che, come si era
capito, non ha mai dato molta importanza a questo bar, ha deciso che,
ormai, tenerlo aperto non serve a niente. Non ha intenzione di spendere
neanche una sterlina per rimetterlo a nuovo. Ha già altri
locali in giro per Londra e crede che questo sia solo un peso per le
sue finanze.»
«Possiamo rilevarlo se lui non lo vuole
più.» tentò Izaya, fissando negli occhi
Lizzie che, più di chiunque altro, stava perdendo un pezzo
della sua vita.
Più che per se stesso, era tremendamente in pena per lei
che, per anni, aveva dato la sua vita per portare avanti un locale
dimenticato dal suo stesso proprietario.
Difatti, ogni piccola cosa presente in quella stanza apparteneva
proprio a lei.
Una volta assunta aveva cercato il più possibile di
abbellirlo, di renderlo accogliente; con Izaya e Jay stesso avevano, a
loro spese, ridipinto i muri e acquistato cianfrusaglie per camuffare
un po’ la trasandatezza nel quale riversava.
Alzando lo sguardo, Lizzie riusciva ancora a vedere Izaya, appeso su
una scala, intento a scambiarsi animate opinioni con Jay sul colore da
stendere sulle pareti.
Anche per loro era diventata una casa, qualcosa di loro che, con
immenso affetto, avrebbero curato e difeso con ogni mezzo ma,
purtroppo, ciò che era diventato visceralmente di loro
appartenenza, in realtà non lo era e dovettero ammette di
avere meno voce in capitolo di quanto avessero sperato.
Avrebbero fatto di tutto per tenere in vita il locale, come se si
trattasse di un amico stanco, ma l’ultima parola
l’aveva chi davvero ne era il proprietario e loro, inermi,
avrebbero dovuto accettare senza poter avanzare alcun diritto.
«Non è nostro e non potrebbe esserlo, non
è in vendita. Il proprietario ha già trovato un
acquirente che ha intenzione di farci tutt’altro.»
rispose Robert.
Aveva già lavorato sulla cosa, parlando con il diretto
interessato, cercando di trovare una soluzione soddisfacente ma le
trattative, ormai, erano già state avviate da tempo,
all’insaputa dei suoi dipendenti.
«Ma lui non può buttare Lizzie in mezzo ad una
strada senza assicurarsi che lei venga assunta dal prossimo
proprietario.»
«Sì che può, Izaya. Può
farlo perché il nuovo possessore non rileva il locale.
Semplicemente, il vecchio ha chiuso l’attività,
vendendo le mura a chi le userà per altro. Per i diritti di
Lizzie si può fare qualcosa e, infatti, per quanto riguarda
lei non c’è da preoccuparsi ma il locale
chiuderà. A prescindere.»
Il locale, la loro casa, il loro punto di ritrovo, il bar che aveva
salvato Jay facendogli incontrare chi avrebbe amato per il resto della
sua vita, avrebbe chiuso i battenti e, quasi, non poté
crederci.
Per Jay significava l’ennesimo distacco da qualcosa che amava.
Prima la sua casa, poi il suo migliore amico e ancora, seppur inutile
agli occhi di chiunque, il bar che lo aveva accolto, liberato e
sostenuto nei momenti più dolorosi della sua vita.
Il nodo nella gola che aveva catturato le parole, si sciolse poco a
poco e le lacrime di Lizzie, combattute, scelsero di rimanere nei suoi
occhi, senza rigarle il volto: «Forza, ragazzi! Pazienza! Non
è questo locale che ci tiene uniti. Certo! Ha avuto il
merito di farci incontrare e di farci vivere i momenti più
intensi della nostra vita, ma noi ci siamo ancora, no? Non
c’è nulla per cui disperarsi.» si
alzò posizionando i palmi delle mani sul tavolo e
accarezzando dolcemente il viso inespressivo di Jay, sorrise:
«organizzeremo una gran festa di addio!»
«Che bello! Saremo io, Jay, tu, Robert e Juky. Una festa col
botto!» rispose Izaya ironico, indicando il vecchio jukebox
dietro le sue spalle.
«Certo che lo sarà. Berremo come un tempo, ci
divertiremo, taglieremo la tua barba e porteremo i tuoi capelli ad una
colorazione accettabile. Stai certo che queste mura non si
dimenticheranno di noi.»
Le risatine di scherno di Robert e la positività forzata di
Lizzie, riuscirono a rendere la questione meno pesante e Jay, dopo aver
subìto minuti e minuti di silenzio e riflessione sulla
propria pelle, sorrise rassegnato: «Se solo ne avessi il
potere, cambierei le cose, ma non posso.»
Il tono della sua voce fece scattare in Izaya il solito senso di
protezione che l’aveva spinto, da sempre, a ridimensionare le
cose, a renderle leggere abbastanza da farle digerire con
più semplicità: «Hahn, stai tranquillo.
Come dici sempre tu: “sono le persone a fare una
casa”. Per questo locale vale la stessa cosa.
Significherà che occuperemo l’appartamento di
Robert per bere e giocare a poker. Porteremo anche Juky con
noi.»
«Nonostante io dica sempre che sei un’idiota,
stavolta non posso fare altro che darti ragione. Chiudiamo il locale e,
dopo la festa, ci daremo ad atti di sciacallaggio belli e buoni.
Prenderemo tutto quello che ci appartiene. Daremo alle nostre case un
aspetto decisamente vintage.» concluse Robert, concedendosi,
per la prima volta, la possibilità di sentirsi davvero parte
di quella piccola e nuova famiglia.
Arruffò la cresta di Jay, il più piccolo di loro,
quello che pareva il più fragile ma che, in
verità, ne aveva solo i connotati.
Jay era uscito indenne da ogni tempesta, nonostante la giovane
età era riuscito a rifarsi una vita e sebbene sembrasse il
più provato di tutti da quella notizia, qualcosa gli diceva
che, come era già successo, sarebbe stato quello
più forte.
Lizzie aveva finto ottimismo ma, nel retro del locale, aveva dato sfogo
al suo dispiacere proprio con Robert; Izaya, come di consueto,
nascondeva il rammarico dietro all’apparente
superficialità mentre Jay, diversamente da tutti gli altri,
dimostrava ciò che sentiva senza nascondersi ma,
sorprendentemente, era davvero l’unico a riuscire ad
affrontare le cose con grazia e forza.
Quel locale, quel pezzo di vita, sarebbe rimasto un ricordo e
lentamente, sempre meno dolorosamente, si sarebbe allontanato dai loro
pensieri, sostituito da qualcos’altro.
Lo spirito di sopravvivenza è l’istinto
più forte per qualsiasi uomo e Jay era colui che ne
conservava più di chiunque.
Robert rimase a lungo a studiarli, ad osservare ognuno di loro.
Izaya, Lizzie e Jay avevano imparato a contare l’uno
sull’altro e sapeva che non sarebbe stata la chiusura di quel
bar a dividerli.
«Ragazzi, come stabilito, stasera ripuliremo Izaya e, con
lui, il locale.» dichiarò spiccia Lizzie, con una
punta di sarcasmo.
«Acconsento.» rispose Jay, fissando il suo uomo che
li sfidava con spavalderia: «Dovrete prima riuscire a
prendermi».
Angolo autrice.
Ciao a tutti! Perdonatemi per il ritardo e anche se ho fatto qualche
errore ma il tempo è poco anche per scrivere. Vi ringrazio
per l'affetto e per la spinta che mi date ad andare avanti.
Non mi dilungo molto, sono stanchissima T_T
Ringrazio le magnifiche sei, Babbo Aven, Bijouttina e tutti coloro che
non mi fanno mai mancare un commento. Amo le vostre considerazioni, il
vostro sostegno e le shippate varie XD (sono troppo trasgry e pervy con
questi verbi moderni. *coniuga il verbo shippare ad alta
voce*). Ringrazio Nebulas che mi ha espresso in una sua
recensione il suo punto di vista che ho apprezzato moltissimo e tutti
quelli che mi seguono.
Ringrazio chi ha messo la storia nelle Preferite/Ricordate/Seguite.
Se dimentico qualcuno cazziatemi per favore! :P
Un abbraccio.
Bloomsbury
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Capitolo 18 *** The ground Beneath her Feet ***
"Let me love
you, let me rescue you
18. The
ground Beneath her Feet
Pioggia.
Ancora la pioggia.
Aperti gli occhi, si sedette nel letto a fissare la finestra.
Era una domenica mattina di Luglio e la luce color ambra mitigata dalle
nubi estive donava agli occhi di Jay un colore vivace ma opaco.
La sensazione con la quale si era svegliato era perfettamente in linea
con il morale cangiante del temporale che, a quell’ora e con
quella strana luce, appariva così ambiguo da lasciare
addosso un senso di precarietà tale da metterlo in
agitazione.
Il temporale estivo, con la sua imprevedibilità, riusciva
sempre a determinare lo stato d’animo di Jay che, ancora
immobile, seguiva attentamente i cambiamenti continui del vento che
lasciava vibrare i vetri ad ogni folata.
Ancora assorto, non aveva notato che, nel frattempo, Izaya aveva aperto
gli occhi e lo scrutava attentamente, sorridendo, come se stesse
ringraziando un dio invisibile, portato dalla pioggia, della sua
presenza.
Sfiorava con gli occhi la pelle bianca del suo più grande
amore seduto al centro del letto che pensava a chissà cosa
e, di colpo, divenne serio.
Conosceva bene quella posizione.
Jay stava accovacciato, con le ginocchia al petto e il viso adagiato
sulle braccia che cingevano le sue stesse gambe, come a voler cercare
un calore che gli mancava.
Adagio, fece avanzare la sua mano sul letto, fino a raggiungerlo.
Le lenzuola ancora accaldate dai loro corpi che solo qualche ora prima
si erano uniti, avvolgevano le linee spigolose ma sempre più
adulte di un ragazzo che, ormai, aveva compiuto venti anni e che, agli
occhi del più maturo dei due, appariva come
l’essere più bello mai posseduto.
Izaya, nei suoi trentatré anni di età, aveva
avuto diverse avventure ma nessuna aveva avuto la capacità
di durare nel tempo con l’intensità invariata che,
solitamente, si vive solo nei primi mesi.
Amava Jay e ne sentiva sempre di più la
necessità, come se averlo accanto fosse di vitale importanza.
Ognuna di quelle riflessioni lo fece sobbalzare dal desiderio di
intrappolarlo ancora tra le sue braccia.
Lo afferrò, cogliendolo di sorpresa.
«Sei sveglio.» non fece in tempo a rendersi conto
della presa che si ritrovò sotto Izaya che lo guardava
disperatamente, come se volesse farlo suo ancora più in
profondità.
«Oggi hai degli occhi irresistibili. Sembrano un deserto di
diamanti.»
Dopo i primi secondi di perplessità, Jay cominciò
a ridere, divertito dall’improvvisa carica romantica e
passionale di quella frase espressa istintivamente, senza alcun pudore.
«Quando vuoi riesci a dire delle cose così
romantiche da spiazzarmi.»
«Capita una volta all’anno. Goditi questo momento
perché non accadrà mai
più…» rispose intervallando le parole
con un bacio e non appena ebbe finito di assaggiare le labbra calde e
accoglienti del suo compagno, si sollevò sulle braccia, per
guardarlo meglio: «Ti mancano certe dolcezze?»
«Le dolcezze, come le chiami tu, sono molto soggettive. Mi
piacciono quelle che mi concedi ogni giorno tra una battuta ed
un’altra. Non mi servono sdolcinatezze, amo le tue piccole
attenzioni camuffate da ramanzine o da frecciate.»
Passando le dita tra i capelli, finalmente, castani di Izaya,
poté avvicinarlo abbastanza da lasciarsi baciare ancora.
Avvertire il peso del suo corpo addosso lo faceva sentire protetto,
desiderato e amato, niente avrebbe cambiato il loro rapporto ed ogni
giorno di più pareva averne conferma.
Il bar era stato chiuso da un mese ed Izaya aveva fatto di tutto per
non fargliene sentire la mancanza.
Aveva invitato ogni settimana Lizzie e Robert a casa, organizzando
partite a poker e serate tranquille a bere, a guardare film, cosa che
intenerì enormemente Jay.
Sapeva che la vita da coppietta non faceva per Izaya che, prima di
conoscerlo, aveva sempre vissuto alla giornata, dedicandosi alle sue
passioni, al lavoro, ai viaggi.
Eppure, per non togliere a Jay la serenità di una vita
tranquilla, aveva cercato in tutti i modi di non fargli mancare quelle
tipiche serate tra amici, sotto le coperte a guardare la tv, a mangiare
schifezze.
Guardò gli occhi neri del suo uomo che, più di se
stesso, lo amava.
Aveva pensato a lungo a cosa provava per se stesso: Jay non si amava
ancora, ma riusciva ad accettarsi per ciò che era grazie al
suo uomo che aveva la straordinaria capacità di fargli
notare i motivi che avrebbero dovuto spingerlo ad amarsi un
po’ di più.
«È esattamente questo l’amore.»
«Cosa?» chiese a bassa voce, abbandonandosi su di
lui.
«Tu. Tu ed io.»
«Adesso sei tu il romantico, Jay.»
«È tutta colpa tua, quindi: taci! Hai iniziato
tu.»
Lo serrò tra le sue braccia, poggiando la guancia sui
capelli impregnati di quel profumo così riconoscibile da
confonderlo con il suo stesso.
Se avesse saputo che il futuro sarebbe stato così perfetto
avrebbe sprecato meno lacrime in passato.
La perfezione, il suo futuro era lui, era Izaya.
***
«Ecco l’ultimo pacco!»
sbiascicò Jay, sedendosi sullo stesso che aveva trascinato
per il corridoio dell’appartamento di Lizzie.
La sera della gran festa di addio, Robert, preso dagli effluvi
dell’alcool, aveva chiesto a Lizzie di sposarlo.
Inizialmente, tutti avevano creduto che quella dichiarazione esternata
così a brucia pelo fosse solo il prodotto di qualche
bicchiere ti troppo, ma il tempo e la convinzione del ragazzo avevano
dimostrato il contrario.
I due futuri sposi, ormai, stavano insieme da quasi due anni ed il
matrimonio non era altro che la conseguenza naturale del loro rapporto.
Robert e Lizzie, però, non erano riusciti ad aspettare di
diventare marito e moglie perché, ancor prima di chiederle
di sposarlo, l’aveva messa incinta e Lizzie, con la tipica e
quasi impercettibile pancetta di una futura mamma, aveva stabilito che
si sarebbero sposati solo dopo aver avuto il bambino.
La culla che Jay aveva portato di peso nell’appartamento
aveva suscitato non poche polemiche perché, nonostante
ancora non sapessero il sesso, Lizzie aveva stabilito che sarebbe stato
maschio e la culla, rigorosamente azzurra, era diventata oggetto di
mille diatribe.
«Sarà una bambina, me lo sento. E tu rimarrai col
culo per terra! Hai comprato un sacco di cose azzurre. Dovrai cambiare
tutto!» sentenziò Jay, rigirandosi un orsetto di
pezza azzurro tra le mani.
«E chi sei tu per dirlo?» chiese disturbata ma
interrotta da una fitta al basso ventre che la costrinse a sedersi.
«Quando ti farà sapere il dottore il
perché di questi dolori? Non è presto? Dovresti
avere solo nausee.»
«Sì, Jay. Ricordo la tua gravidanza,
effettivamente. Avevi solo nausee i primi mesi.»
«Non scherzare. Sono serio. Non è
normale!»
«Ti ringrazio per il sostegno morale, Hahn.»
rispose infastidita, reggendosi la zona più dolorosa:
«Mi farà sapere oggi pomeriggio. Tu vai
tranquillo. Grazie per la culla, piccolo.»
Jay, accovacciandosi davanti a Lizzie, la fissò con
tenerezza, accarezzandole il viso.
«Io vado a casa a studiare. Se hai bisogno di me, chiamami,
correrò da te.»
Aveva gli occhi rassicuranti Jay, ed un viso così adulto,
adesso, da risultare protettivo.
Lizzie guardò con orgoglio il ragazzo che aveva conosciuto
due anni prima e che era diventato grande; non solo di età,
ma di animo, di cuore.
Il ricordo dell’adolescente abbandonato e provato dalla vita
non esisteva più, negli occhi di Jay non vi era ombra di
quel ragazzo e Lizzie, totalmente rapita da quello sguardo, non
riuscì a trattenersi.
Lo abbracciò senza vergognarsene.
Stranamente, nonostante l’infinito affetto, non erano soliti
scambiarsi tenerezze, ma l’istinto di aggrapparsi a lui, ad
una delle persone più care della sua vita, fu più
forte del solito distacco che abitualmente usavano ostentare.
Il calore di quell’abbraccio vezzeggiò entrambi,
tanto da confermare nuovamente un attaccamento che, con il tempo, era
diventato sempre più vigoroso e certo.
Staccandosi da lei, sorrise brevemente e chiedendole di avvertirlo
delle novità, uscì dall’appartamento,
incamminandosi verso casa.
Afferrò il cellulare e non appena la voce di Izaya rispose,
un sorriso si piazzò sul suo viso, illuminandolo:
«Hey! Quando torni?»
«Tra un paio d’ore. Perché?»
«Perché io sto tornando a casa a prendere qualche
libro per studiare. Vado a stare da Lizzie finché non torna
Robert e volevo sapere i tuoi orari, giusto per regolarmi.»
«Cosa c’entro io con Lizzie e Robert?»
«Idiota!» inveì in mezzo alla strada:
«L’auto che hai sotto il culo è di
Robert, no? Non devi passare a prenderlo quando torni? Voglio sapere a
che ora riporti quell’uomo a casa da sua moglie!»
La risata di Izaya fece sorridere Jay che, rassegnato della
sbadataggine del suo uomo, continuò in tono confidenziale:
«Sono preoccupato per Lizzie. Stiamo aspettando i risultati
di alcuni esami, spero sia andato tutto bene.»
«Andrà tutto bene. Stai sereno! Allora: io sono in
viaggio. Ho finito mezz’ora fa l’incontro con il
cliente, sono sulla strada del ritorno e volevo farti una sorpresa, per
questo tentennavo… idiota!» precisò,
restituendogli scherzosamente l’offesa.
«Bene! Fammi sapere quando arrivi da Robert.»
«D’accordo. A dopo.»
***
Non appena fu di ritorno da casa sua, Jay si ritrovò davanti
al viso di Lizzie totalmente stravolto.
La ragazza aveva aperto la porta e lo sguardo che lo aveva investito fu
più eloquente di qualsiasi parola.
«Non ti aspettavo.»
«Ho preferito ritornare per farti compagnia. Ho preso i libri
e…» dovette fermarsi, poiché lo sguardo
di Lizzie, imbambolato, pareva non avere più alcuna
connessione con la realtà: «Cosa ti prende? Sembri
stravolta. Ti ha chiamata il dottore?»
«Sì.» quella risposta lapidaria fece
mancare la terra sotto i piedi al ragazzo che, ormai, stanco di
rimanere fuori dalla porta, entrò speditamente:
«Cosa ti ha detto?» lo chiese con attenzione, come
se si trovasse su di un campo minato.
Sentiva che qualcosa era andato storto, ma per non agitare Lizzie
preferì non dare forma ai suoi presentimenti.
La ragazza, accarezzandosi il ventre, proteggendo il suo bambino tra le
mani come ogni madre fa istintivamente, si sedette sul divano,
chiedendo a Jay, con un gesto della mano, di fare altrettanto.
Si ritrovarono l’uno davanti all’altro, in silenzio.
Lei sembrava totalmente in balia dell’impotenza e lui, sempre
più impaziente, si dondolava sul divano, come se
l’attesa l’avesse animato di una
vitalità cupa ma inarrestabile.
«Allora? Che notizie hai?»
Una lacrima, contro ogni forzatura da parte di Lizzie, solcò
le sue guance, illuminando gli occhi della ragazza di una lucentezza
straziante.
«Il bambino sta bene. I dolori al basso ventre non sono nulla
di grave, il dottore dice che spesso accade, invece, nei primi mesi di
gravidanza. Come sono arrivati, andranno via, ma…»
Sollevato dalla notizia ma, nello stesso tempo, in allarme per la
sospensione quasi infinita di Lizzie, Jay la scrutò
attentamente, cercando di capire cosa potesse spingerla a tentennare
così a lungo.
Non fece in tempo a chiederle di continuare perché le sue
parole, demolenti e inaspettate, ferirono a morte il cuore di Jay che
rimase immobile, incapace di sentire qualsiasi altra sensazione diversa
dal dolore che aveva preso possesso del suo stomaco, sbriciolando sotto
i suoi piedi ogni gioia, ogni speranza.
Le parole di Lizzie riecheggiarono continuamente nella testa di Jay,
facendolo sentire sempre meno presente, come se qualcosa
l’avesse privato dell’anima stessa, facendolo
sentire in bilico tra la vita e la morte. Le parole ovattate di Lizzie
si riproposero come una cantilena e Jay capì, in quel
momento, che quelle parole sarebbero rimaste per sempre marchiate a
fuoco nella sua anima.
Izaya è morto.
E niente avrebbe riportato in vita Jay che, ormai, come Izaya, non
esisteva più.
Angolo autrice.
Ringrazio tutti e chiamatemi scema, ma sono troppo dispiaciuta per
scrivere qualcosa di più complesso.
Grazie. Solo questo.
Bloomsbury
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Capitolo 19 *** Smokey Taboo ***
"It's true I get
depressed in fancy hotel rooms
Undressed with nothing to flaunt but my loneliness
Thinking of the night song of your hair
Premature as evening falls
It calls to me
Interrupted by the sirens in the street
Some days you're like an anchor on my heart
They say that stolen water tastes sweet."
Smokey
Taboo- CocoRosie
19. Smokey
Taboo
Aveva perso da un pezzo la voglia di correre, nonostante
l’avesse fatto per buona parte della sua vita.
Correre lo aveva sempre aiutato a liberarsi dei pesi, dei macigni,
stavolta non c’era corsa o vento che potesse sollevarlo.
Ogni passo era un enorme sasso che lo ancorava al terreno.
Vide il cielo terso sopra la sua testa e solo allora si accorse che era
sera.
Le stelle, brillanti, si prendevano gioco di lui che sfidava la brezza
leggera e l’ilarità degli animi eccitati dal bel
tempo che, finalmente, era sopraggiunto dopo mesi di pioggia.
Con il vestito nero e la cravatta sciolta sul petto sembrava uno sposo
scappato dalla sua stessa cerimonia di nozze, in realtà
aveva perso la strada mentre, da Soho, si dirigeva alla funzione
funebre al quale, senza intenzione, era mancato.
Accese l’ennesima sigaretta, l’ultima che aveva, e
continuò a riempire il suo spazio nel mondo sui marciapiedi
brulicanti del quartiere del divertimento.
Le risate dei giovani fuori dai locali non lo riportarono sulla terra
perché Jay non le udiva neanche; camminava avvolto in una
nube ovattata nel quale si era perso da quando aveva ricevuto la
notizia.
Le voci arrivavano alle sue orecchie come entità lontane,
troppo lontane da lui.
La vita, ormai, era per gli altri, non per lui, tanto che quelle stesse
risa divertite gli apparivano estranee, come se fossero suoni
sconosciuti prodotti da esseri diversi da lui.
Esseri dotati di vita, di eternità.
Con noncuranza passeggiava, senza alcuna espressione sul viso.
Non appariva triste né angosciato. Era vuoto.
I suoi occhi lo erano, come i suoi passi, il suo viso.
Fumava senza accorgersene, avanzava senza rendersene conto, schivava i
passanti senza averne coscienza.
L’aria calda pareva più fredda, le gambe
più pesanti ed un brivido lo riportò alla sua
prima estate con colui che aveva perso.
Ricordava di aver camminato per quelle stesse strade con chi non viveva
più tra quelle anime.
Non appena l’immagine distinta e prepotente di Izaya si
presentò, su quella via, supportata dai suoi ricordi, scosse
la testa, cercando di scacciarla con la stessa violenza con la quale la
morte glielo aveva tolto dalle braccia.
Sebbene avesse fatto di tutto per non pensarlo, costringendo la mente
all’intorpidimento, lui ritornava, di tanto in tanto, a farsi
ricordare, a torturarlo.
La prima estate con lui, la prima passeggiata mano nella mano vissuta
con libertà, nella quale entrambi si erano imposti come
amanti, senza chiudersi nei bar per quelli come loro, senza paura di
farsi vedere.
Ancora ricordava fin troppo bene quella prima sera d’estate,
il tintinnio dei braccialetti del suo uomo, la sensazione pressante dei
suoi anelli tra le dita mentre stringeva la sua mano, le ironie
divertenti con il quale era solito condire ogni azione o incontro.
Jay aveva imparato a vivere con la sua stessa leggerezza.
Il suo uomo era riuscito a togliere i macigni e a fargli scoprire dei
lati del suo stesso carattere che non credeva neanche di possedere.
Jay sapeva divertirsi e l’aveva scoperto con lui; sapeva
ridere, fare battutacce fuori luogo e vivere immensamente.
Lui glielo aveva insegnato.
Costrinse quei ricordi all’oblio per l’ennesima
volta, scaraventando la sigaretta lontana da lui, quella sigaretta di
tabacco che sapeva di lui, che profumava dei suoi baci.
Il cellulare squillò nella sua tasca per qualche secondo di
troppo, non lo aveva sentito, non ricordava neanche più di
avere qualcuno che potesse cercarlo su quell’apparecchio e
quando vide il nome di Lizzie, rispose monocorde, rimanendo stupito di
avere ancora la forza di parlare.
«Dimmi.»
«Dove sei?»
Si guardò intorno per orientarsi come se non si fosse
neanche mai accorto di essere stato trascinato lì dalle sue
stesse gambe: «A Soho.»
«Ricordi dove saresti dovuto essere oggi
pomeriggio?»
«Sì, lo so. Stavo per arrivare ma poi…
mi sono perso, cioè, ero sovrappensiero e non sono sceso
alla fermata giusta e poi, ho fatto un giro, ho provato a ritornare
indietro e…»
«Jay, non fa niente. Non eri costretto a venire.»
La telefonata sarebbe potuta terminare in quel momento
perché Jay, ormai, aveva già scollegato il
cervello dalla realtà.
Rimasero in silenzio per qualche minuto.
Lizzie cercava disperatamente parole e Jay… non cercava
più niente da un pezzo.
«Piccolo. Vieni a dormire da me e Robert stanotte?»
«Ma no, tranquilla. Torno a casa.»
«Hai mangiato?»
«Sì.»
Quando Lizzie si rese conto che la conversazione era già
chiusa, decise di mollare la presa.
Non sarebbe servito fare da mamma, come aveva sempre fatto; Jay era un
uomo anche se, stavolta, era distrutto.
«Torna a casa presto, però. Hai bisogno di
riposare.»
«Sì, lo farò. Buonanotte.»
Combattuta se terminare la chiamata o fare un ultimo tentativo di
riportarlo alla realtà, rimase in silenzio ancora per un
po’ finché, a brucia pelo, una domanda la
ferì in pieno cuore: «Lizzie, è stata
una bella funzione? Era degna di lui?»
“Perché ti fai del male con queste
domande?”
Avrebbe voluto chiederglielo ma decise di tacere e di rispondere con
tono rilassato, come se quella stessa domanda non l’avesse
colpita: «Molto bella. Molto da lui. C’erano suoi
colleghi, alcuni hanno lasciato il loro skate» sorrise
dolcemente al solo pensiero «c’era suo zio, quello
di Dover e mi ha detto che la madre non sa niente. Ha provato a
dirglielo ma non capisce…»
«Non lo capirà mai ed è meglio
così. Andrò a trovarla in clinica presto. Mi
prendo io cura di lei adesso che…»
…Izaya non c’è
più.
Aveva fatto di tutto per non dire o pensare il suo nome, ma al primo
momento in cui aveva abbassato la guardia gli era venuto naturale.
Si maledisse, perché dire o anche solo pensare il suo nome
faceva male.
Izaya.
Un nome così pieno di una personalità non
l’aveva mai sentito.
Come se quel nome potesse appartenere solo a quel ragazzo eccentrico,
ricco di un’energia così innata da rompere muri di
disagi, da schiacciare falsità e odiosi pregiudizi sotto le
suole delle sue scarpe, da ristabilire le vite e le felicità
altrui con la sola semplicità del vivere sereno.
Si accorse di piangere solo perché, istintivamente, aveva
passato la mano sugli occhi stanchi e, stupendosi di se stesso che,
fino a quel momento, non lo aveva mai fatto, spalancò gli
occhi, fissando il palmo della sua mano inumidito dalle lacrime,
meravigliandosi del fatto di essere ancora in grado di piangere.
Non credeva di poter avere ancora la capacità di provare
emozioni.
Si sentiva così vuoto da percepire la vacuità
delle sue emozioni più di qualsiasi altra cosa.
«Buonanotte, Lizzie.»
«Notte, Jay.»
Rimase immobile con il cellulare nelle mani, con i piedi ben piantati
sull’asfalto, in ricerca di una stabilità e prima
che se ne potesse accorgere, già camminava senza sapere la
destinazione.
***
L’Escape, come al solito, aveva quello stesso odore e chi vi
andava aveva le stesse identiche intenzioni percepite il primo giorno.
Il sesso era l’alveare e i ragazzi le api danzanti, Jay,
invece, non era niente.
Il niente è il nulla e Jay era quel nessuno fatto di nulla
del quale chiunque avrebbe fatto a meno.
Il moralista depresso che aveva fatto ingresso in un luogo di
divertimento nel quale tutti esibivano una felicità ed
un’allegria fin troppo ostentata per essere reale.
All’Escape si fingeva di essere felici se non lo eri per
davvero e Jay, al contrario, non mostrava nulla.
Si sedette impassibile al bancone ordinando una vodka liscia, senza
curarsi della gente, della musica, del fracasso, della
felicità che si consumava dietro alle sue spalle, mentre il
suo nulla consumava gli ultimi sprazzi di vita che erano scesi,
pocanzi, dai suoi occhi.
Sovrappensiero, bevve la vodka e incatenando gli occhi alla mensola in
cristallo davanti a sé continuò a vivere come uno
straniero nel mondo, come se nulla della vita normale gli appartenesse.
Senza motivo spostò lo sguardo verso un gruppo di ragazzi
poco più lontani.
Erano seduti, come lui, al bancone e gravitavano come piccoli pianeti
ubriachi intorno ad un uomo di bell’aspetto che, con i suoi
polsini perfettamente inamidati, gesticolava pacatamente, raccontando
chissà cosa al gruppo di geishe adoranti intorno a lui che
ridevano falsamente ad ogni fine frase.
Si chiese cosa avesse quell’uomo di così attraente.
Certamente era affascinante, ma aveva quella tipica aura da antipatico
senza speranza.
Rammentò che, effettivamente, il resto del mondo,
normalmente, si sente attratto dagli uomini come quelli.
I bastardi, i cattivi.
Jay aveva scoperto di essere un’amante dei buoni, dei
genuini, dei signori.
Izaya lo era ed era ancora più speciale proprio
perché, nonostante la sua indole del tutto positiva, aveva
gli atteggiamenti affilati degli ironici, di quelli che:
«prendono per il culo il mondo.» terminò
i suoi pensieri con una frase detta a bassa voce.
“Izaya è un dandy dei giorni nostri. Sicuramente
impopolare per chi ama farsi pippe mentali ma irresistibilmente
adorabile con il suo atteggiamento che sembra dire: non me ne frega un
cazzo di niente. I tipi come Izaya prendono per il culo il
mondo.”
Aveva detto Lizzie durante un brindisi, la sera del trentatreesimo
compleanno di Izaya.
Lui, ovviamente, aveva risposto che sarebbe stata la perfetta
descrizione da inserire nella sua biografia su Wikipedia, Jay, invece,
ci aveva riflettuto sul serio ed era arrivato alla conclusione che tipi
come lui ne nascevano uno ogni vent’anni e che, quindi,
avrebbe fatto di tutto per non perderlo.
Guardando quell’uomo capì di aver avuto nelle mani
qualcosa di davvero inusuale, quella pietra preziosa rara ed
introvabile che solo chi non la cerca, la trova.
Si disse che, forse, i suoi pensieri erano un po’ di parte e
rimase basito dal fatto che l’aveva pensato come se fosse
ancora vivo, a casa ad aspettarlo.
Distolse i suoi pensieri da Izaya velocemente, tanto da fargli cambiare
espressione, lo fece in modo così repentino da attirare
l’attenzione di quell’uomo al bancone che, di
sottecchi, l’aveva fissato per tutto il tempo.
Prima che Jay se ne potesse accorgere, l’uomo si era
avvicinato, esibendo un sorriso lascivo che al ragazzo parve una nota
stonata nel mezzo delle sue riflessioni.
Come se quello sguardo seducente e sicuro di sé avesse
sporcato e offeso l’immagine dell’unico uomo che
avrebbe, per sempre, meritato le sue attenzioni.
«Jay, buonasera. Non pensavo di rivederti.»
esordì il tipo, spalancando le braccia avidamente, come se
fosse in procinto di abbracciare un cumulo di oro.
Jay, istintivamente, si scostò, non dandogli modo di farlo
avvicinare: «Ci conosciamo?»
«Ma certo che sì. Ormai è passato un
po’, capisco se non ricordi. Sono Brad. Abbiamo avuto il
piacere di conoscerci qualche anno fa, proprio qui.»
«Forse, il piacere è stato solo il tuo dato che io
non mi ricordo affatto di te.»
Brad rise attratto dalla solita indole ribelle che non gli aveva
permesso, nonostante il tempo passato, di dimenticarsi di quel faccino
delicato ma sfrontato del ragazzo che sentiva di poter far suo con un
battito di ciglia, nonostante i rifiuti.
Di ragazzini ne aveva avuti molti e tanti altri lo aspettavano poco
più in là, ma il giovane Jay, un po’
cresciuto rispetto all’ultima volta, aveva ancora il sapore
della conquista selvaggia, quella che a fatica si porta a termine ma
che poi, alla fine, da le soddisfazioni più sublimi.
«Non sei cambiato per niente e, questa, è una cosa
che mi fa davvero molto piacere.» concluse la frase
incastrando i suoi occhi azzurri in quelli di Jay che, senza abbassare
lo sguardo, prendeva sempre più coscienza di quanto
quell’uomo non gli piacesse.
Si rese conto di essersi recato in un luogo che gli apparteneva ancora
meno della prima volta e stizzito si alzò dallo sgabello,
abbandonando il bicchiere sul bancone: «Se non ti dispiace,
io vado.»
«Perché scappi?» chiese con un
sorrisetto sardonico.
«Non scappo. Vado a casa, semplicemente.»
Non appena finì la frase si accorse del suo contenuto.
Doveva tornare a casa, in quella casa che non aveva più
niente da vivere.
Un dolore acuto nello stomaco lo costrinse a stringere gli occhi e a
piegarsi, come vittima di un pugno mortale e senza rendersene conto,
scappò letteralmente da quel locale, ritrovandosi fuori,
vittima del fiatone e del panico.
Come se si fosse risvegliato in quell’esatto momento, si
guardò intorno; avrebbe voluto piangere, arrabbiarsi,
prendere a pugni il mondo, urlare.
Non lo fece, ma si incamminò nuovamente, lasciandosi quel
locale, quelle vite alle spalle.
***
Erano le quattro del mattino e Lizzie, svegliata da un gran fracasso,
si alzò dal letto, raggiungendo la porta.
Aprì, lasciando la catena ancora agganciata e gli occhi
verdi in lacrime di Jay la ferirono così brutalmente da
farla trasalire.
Lo fece entrare e abbracciandolo, disse singhiozzando: «Sono
felice che tu sia qui.»
Jay, stretto a lei, in realtà, non stava piangendo, ma
combatteva contro se stesso, contro i suoi ricordi, contro il dolore.
Strinse i denti, afferrando tra le sue dita la camicia da notte di
Lizzie che con fragili e sincere carezze cercava di sorreggerlo.
Se avesse potuto, avrebbe cancellato tutto; sarebbe tornata indietro
nel tempo e avrebbe risparmiato a Jay l’ennesimo dolore, ma
sapeva che era impossibile.
Per la prima volta si sentì davvero inutile e prendendo il
viso di lui tra le mani, lo guardò negli occhi con amore,
come se volesse infondergli forza: «Dormi qui, piccolo
mio?»
Nonostante fosse più alto di lei, sembrava così
piccolo e fragile da farle credere che avrebbe potuto prenderlo in
braccio e portarlo a letto con sé, ma si sbagliava. Era
grande, fin troppo. Non era solo l’altezza a renderlo grande,
era lo sguardo a fare a pugni con l’impressione inziale che
dava.
Pareva un bambino, ma negli occhi c’era un dolore
così consapevole e maturo da farlo sembrare un anziano di
cento anni e Lizzie, addolorata dal fatto che lui, ormai, avesse smesso
di essere un ventenne, lo condusse nel soggiorno, dove lo avrebbe
ospitato per tutto il tempo che gli serviva.
«Robert dorme? Sicuro che non gli dia fastidio?»
chiese, stendendosi sul divano che Lizzie aveva preparato per lui.
«Se dovesse dargli fastidio lo cacceremo di casa,
tranquillo.»
Jay sorrise, consapevole del fatto che Lizzie sarebbe stata capace di
farlo per davvero.
Fece per andarsene ma non appena arrivò alla porta, dove
avrebbe dovuto spegnere la luce, si voltò e guardando Jay
steso sul divano, solo e indecifrabile, sentì le minacce
delle lacrime.
Per due anni lo aveva visto sempre con Izaya, felice come non era mai
stato e adesso era solo, a chiedere rifugio, come una volta; per quanto
la storia si sarebbe ripetuta?
La vita di Jay era ancora appesa ad un filo.
La prima volta, nonostante Izaya avesse avuto un ruolo fondamentale per
la sua risalita, era stato in grado di lottare; stavolta, non ne
avrebbe avuto le forze e Lizzie ne ebbe conferma solo guardandolo negli
occhi.
Sembrava morto, senza più volontà, senza voglia
di reagire.
Pregò che questo stato cambiasse e che il suo Jay potesse
ritrovare la forza, ma dopo averlo salutato con un bacio al volo e aver
spento la luce, non ne fu più così sicura.
Angolo Autrice.
Sera! Aggiorno molto velocemente e non vi nego che sono depressa. Ogni
riga che scrivo è una pugnalata al cuore perché,
è giusto che voi sappiate, non ve lo avevo mai detto, Izaya
è stato, decisamente, il mio personaggio più
amato.
Certamente ha... ehm... aveva il carattere che ho sempre desiderato
avere e mi sono molto affezionata a lui.
Izaya era l'unico, in tutta la mia storia, ad avere alcune cose in
comune con la mia vita reale.
La sua età, la sua morte, sono tutte legate a qualcuno di
caro che non c'è più.
Basta con i piagnistei!
Non vi anticipo niente, sappiate che da adesso in poi, la storia
prenderà una piega difficile da digerire, perché
non si tratterà più di un adolescente che ha a
che fare con delle scelte difficili ma, comunque, molto facili da
gestire.
Avremo a che fare con la morte e le sue conseguenze. Vedremo un
cambiamento di Jay che non so se concepirete.
Si era già visto precedentemente, Jay non è un
tipo molto semplice, è dotato di tante sfumature che, d'ora
in poi, saranno difficili da gestire per me e difficili da comprendere
per voi.
Grazie di tutto.
Voglio ringraziare le solite e bellissime magnifiche sei, grazie a
babbo Aven e la combattiva Bijou che ci sono sempre. Ringrazio
DarkViolet, Mrs Burro, Nebulas e poi la fantastica Emide e la splendida
SorellaGrimm che si è messa in pari in due giorni soltanto.
Grazie per le recensioni, tesoro. Mi sono ammazzata dal ridere.
Arrivata a questo punto vedrai che "il fattone Iza" come lo chiami tu,
non c'è più. Spero ti abbia lasciato un buon
ricordo.
Ringrazio Classof13 che proprio oggi ha espresso il suo "amore" nei
confronti del nostro Izaya e Malaria che ha fatto una bellissima
scenata di gelosia che mi ha fatto molto gongolare. Grazie a Moloko che
ha pianto per una notte per l'ultimo capitolo.
Tutto ciò che voglio è regalarvi una storia, ma
più di tutto, voglio regalarvi personaggi che per voi siano
persone, amici.
Grazie di tutto.
Bloomsbury
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Capitolo 20 *** Teardrop ***
"Night, night after day
Black flowers blossom
Fearless on my breath
Black flowers blossom
Fearless on my breath
Teardrop on the fire
Fearless on my..."
Teardrop-
Massive Attack
20.
Teardrop
Poco per volta avrebbe sentito meno dolore.
Ogni secondo passato sarebbe stato come un piccolissimo passo verso la
guarigione, così gli avevano detto.
Erano passate tre settimane dalla morte di Izaya e tutto quello che Jay
era riuscito a fare non coincideva affatto con ciò che in
molti gli avevano prospettato.
Di fatto, nessuno riusciva a capire cosa gli passasse per la testa
perché, apparentemente, viveva come qualsiasi comune mortale
sulla terra; ciò che risiedeva sotto la sua pelle era un
mistero per tutti.
Già dal primo giorno, dopo l’arrivo a casa di
Lizzie, Jay sembrava normale, come se non fosse successo nulla.
Certamente, i suoi sorrisi aperti e solari erano diventati un ricordo,
ma l’apparente normalità riusciva a mettere nel
sacco chiunque.
Ogni sera, dopo aver cenato, il divano del salotto di Lizzie si
riempiva della presenza di Jay che, davanti alla tv, guardava attento
ogni tipo di programma gli venisse propinato, commentando con Robert
ogni stranezza tipica di certe emittenti televisive.
Era diventato un appassionato di X Factor.
A Robert pareva un modo inusuale per distrarsi, ma comunque efficace.
Lizzie, invece, lo osservava sospettosa, come se cercasse di carpire da
ogni movimento il suo reale stato d’animo.
Sebbene il ragazzo riuscisse ad aggirare ogni discorso con naturalezza,
ciò che più era evidente agli occhi della ragazza
era il palese tentativo di dimenticarsi di ciò che era
accaduto, rifugiandosi nei gesti ordinari che in sé non
racchiudevano alcun significato o ricordo.
Jay non si era rintanato al buio in una stanza, non aveva pianto
inconsolabilmente su qualche fotografia, non aveva parlato di lui come
se fosse di vitale importanza.
Una bomba ad orologeria stava consumando inesorabilmente il suo tempo
prima di esplodere e l’unica a percepirne distintamente il
ticchettio era proprio Lizzie.
«Che ne pensi degli One Direction, Jay? È una band
giovane.» chiese Robert sorseggiando una birra, tenendo ben
saldo il collo della bottiglia.
Jay, schiacciato pancia sotto sul divano, fissando il televisore,
rispose stancamente: «Cacca.»
«Potresti argomentare un po’ di
più?»
«Cacca e basta.»
«Non ti piacciono, ho capito. Ma mi piacerebbe sapere il
perché.»
«Esiste un uomo al quale piace la cacca?»
«Evidentemente, sì. A me non dispiacciono questi
One Direction.»
«Ognuno ha i suoi gusti. Ciò che ci differenzia in
fatto di musica è che io ne capisco e tu no.»
«Però, da bravo intellettualoide, guardi X
Factor.»
«Non c’è niente di meglio da
fare.»
«Certo che c’è: esci, vai a farti un
giro, studia, vai all’università.»
esordì Lizzie intenta a sparecchiare la tavola.
«Serve concentrazione per certe cose. Adesso non ce
l’ho.»
Spazientita dalle risposte formulate apaticamente, la ragazza
alzò gli occhi al cielo, rintanandosi nella cucina da dove,
dopo poco, uscì con una crostata di mele, ostentando un
sorriso fin troppo studiato per sembrare naturale.
Aveva scelto di osare, con la paura di commettere un errore.
«Chi vuole un pezzo di crostata? L’ho fatta come
piaceva ad Izaya.» accentuò un nome che per ben
tre settimane non aveva mai marchiato le bocche di nessuno dei presenti.
Robert, colto di sorpresa, spostò l’attenzione su
Jay, attendendo una reazione.
Aveva compreso le intenzioni di Lizzie e non aspettava altro che quel
tentativo sortisse gli effetti auspicati.
«No, grazie. Non mi va».
Risposta secca.
Un sospiro afflitto tagliò l’aria pesante che, in
un sol colpo, aveva avvolto il soggiorno nel quale, poco prima, si
respirava un’abbozzata serenità.
La ragazza si lasciò cadere sul divano e, ignorando la
sconfitta, tagliò a spicchi la crostata della discordia, per
poi darne un pezzo al suo uomo.
Il vociare della tv, il rumore delle auto fuori, la brezza leggera che,
ad intervalli regolari, sfiorava le tende sollevandole, per poi
lasciarle ricadere morbidamente sul davanzale della finestra erano le
uniche cose udibili poiché un silenzio incessante aveva
bloccato il tempo, fermato le parole, immobilizzato i cuori.
La guancia di Jay, formicolante per la pressione impressa sui cuscini
del divano, si sollevò sfiorata dai capelli arruffati e mai
pettinati in venti giorni.
Si accomodò sul divano con le gambe divaricate e fissando
Lizzie con aria rassegnata raccolse le forze per alzarsi.
Non appena fu in piedi, le vertigini gli annebbiarono gradualmente la
vista, suggerendogli che era arrivata davvero l’ora di
alzarsi da quel divano che, per giorni, era stato il suo letto, oltre
che l’unico posto dove avesse sostato.
Si diresse al bagno senza pronunciare parola, chiudendo silenziosamente
la porta dietro di sé.
Lizzie rimase inerme per qualche secondo, per poi puntare gli occhi su
Robert «Pensi che io abbia sbagliato?»
Il bontempone, gustando la crostata paciosamente come se nulla fosse,
minimizzò:
«No! Non hai detto nulla di male. Hai solo detto un nome. Che
sarà mai un nome?»
«Robert» lo richiamò alzando gli occhi
al cielo «Non ho detto un nome a caso. Lo capisci che in
tutti questi giorni non abbiamo mai parlato di lui? Quando è
morta mia nonna Ilse non abbiamo fatto altro che parlare di lei per
ore, in famiglia. “Ilse di qua, Ilse di
là”. Jay, dopo aver riconosciuto il
cadavere…»
«Cadavere: che brutta parola.»
«Che ti piaccia o no, Izaya era un cadavere e Jay
l’ha visto, capisci? È corso in ospedale e per
tutto il tragitto biascicava: “Non è vero, non
è vero. Non ci credo”. Sai cosa deve essere stato
per lui vedere l’uomo che amava su una lastra di un merdoso
obitorio?»
«Per fortuna non era messo male. Anche io l’ho
visto. Aveva una grossa protuberanza sulla fronte, ma sembrava
addormentato. Un po’ pallido, sì, ma era
intatto.»
Lizzie, in quell’istante, avrebbe picchiato selvaggiamente
Robert se Jay non fosse stato in casa.
«Come fai ad essere così cinico?»
«Non sono cinico. Sto solo completando le tue riflessioni,
sto aggiungendo particolari, non sto minimizzando ciò che ha
vissuto Jay.»
«Lo stai facendo.» concluse Lizzie, totalmente
disarmata dal brutale realismo del suo uomo.
Finita la crostata, Robert si avvicinò a lei seduta difronte
e, dopo averle afferrato le mani, la guardò comprensivo.
Sorrise brevemente, accarezzando il grembo nel quale cresceva suo
figlio e si arrese.
«Izaya era mio amico. Il dolore è così
forte che, a volte, faccio prima a non pensarci. So che se ci penserei
troppo potrei arrabbiarmi e pensare che questa vita sia fatta solo di
pura ingiustizia. Quando, invece, guardo te, che custodisci nostro
figlio, mi rendo conto che, purtroppo, siamo mortali. Si nasce, si
vive, si muore e a Jay serve il tempo di capirlo. Deve avere davanti
agli occhi un miracolo, come ce l’ho adesso io, e
accorgersene. Al momento, di miracoli ce ne sono ben pochi nella sua
vita. Aveva riposto nelle mani di Izaya tutta la sua esistenza e adesso
l’ha perso. Dagli tempo.»
«Spero solo di essergli d’aiuto.»
«Lo aiuti come puoi, non crucciarti.»
Prima che Lizzie potesse rispondere, il rumore della porta del bagno la
frenò.
Ciò che vide la fece ben sperare.
«Esco. Vado a farmi un giro. Vi serve qualcosa?»
chiese un Jay perfettamente sbarbato e vestito.
La ragazza lo fissò imbambolata, come se avesse davanti una
bella copia, ma fittizia, del Jay originale che aveva imparato ad amare.
«No. Non ci serve niente.»
«Bene. Non so a che ora torno, prendo le chiavi. Non inserite
il passetto.» recitò meccanicamente, mentre si
avvicinava alla porta di casa con estrema fretta.
Non appena la aprì, salutò distrattamente, senza
voltarsi, lasciando Lizzie e Robert muti, incerti se interpretare
quell’improvvisa resurrezione come una cosa positiva o come
un modo, ancora diverso, di scappare.
***
Non credeva sarebbe tornato così presto, eppure, il
rumoreggiare nel salotto non lasciava alcun dubbio: Jay era ritornato a
casa.
Lizzie spostò l’attenzione sulla sveglia,
scostando il braccio di Robert che, addormentato, le cingeva la vita.
Si incamminò lungo il corridoio per raggiungere
l’unico che, per ore, aveva occupato i suoi pensieri.
Desiderava vederlo, accertarsi che tutto andasse bene e scorgendo la
sagoma sottile e asciutta di Jay intento a spogliarsi per la notte,
liberandosi dei jeans dei quali aveva dimenticato la consistenza a
contatto con la pelle, si fermò di scatto. Tuttavia, non
tornò indietro, ma seguì con lo sguardo ogni suo
movimento, aspettando di vederlo adagiarsi sul divano, finalmente al
sicuro. In realtà, non fece ciò che Lizzie si
aspettava perché, anziché stendersi per
concedersi un po’ di riposo, si sedette sul pavimento
poggiando i gomiti sulle ginocchia, con gli occhi persi
nell’oscurità di quella stanza.
Il buio non fu più un mistero per Lizzie perché,
adesso, riusciva a vederlo meglio e anche se faticava a distinguere i
lineamenti del suo viso, poté capire che gli occhi di Jay
stavano piangendo.
Percepì quelle lacrime come un miracolo,
d’altronde non ne aveva ancora mai versate, ed indecisa se
avvicinarsi o meno rimase impalata dietro al muro in attesa di un
consiglio valido dal suo stesso giudizio.
Ciò che prima era stata una semplice intuizione si
tramutò in certezza: Jay stava davvero piangendo e
così silenziosamente da fare male.
Non riuscì a resistere oltre, così si
avvicinò a lui che, contro ogni aspettativa, non si
fermò, ma cominciò a farlo sempre più
forte e sempre più inconsolabilmente.
Tutto ciò che poté fare Lizzie era stargli
accanto, accomodarsi accanto a lui cingendogli le spalle.
Sebbene fosse difficile resistere al dolore che provava per lui, il
sollievo alleggerì il suo cuore.
Ciò che doveva fare consisteva nel consolarlo, non avrebbe
potuto fare altro e sperò di esserne in grado, anche se
flebilmente.
«Bravo, Jay.» sospirò, togliendosi il
peso che per giorni le aveva mozzato il respiro.
Lo accarezzò stringendogli le mani, asciugandogli le lacrime
ogni volta che ne scorgeva una particolarmente grande da poter essere
assorbita.
«Bravo? Non sono così bravo se non riesco neanche
a mettere piede fuori casa per più di due ore. Lizzie,
quello stronzo non era capace neanche di guidare una fottuta
auto.» ringhiò sommessamente, tastandosi le
lacrime che gli imperlavano il viso, come se volesse modificarne il
contenuto.
Se avesse potuto le avrebbe riempite di rabbia e di rancore
così da riuscire a trovare un motivo per continuare a vivere.
«No, per questo non l’aveva. Spiegami un
po’ dove sei stato.»
Tra le lacrime una risata prese forma.
Una risata amara e di scherno per se stesso.
«Vuoi saperlo davvero?» chiese guardandola negli
occhi.
«Se ti va di dirmelo…»
«Qui fuori, sul pianerottolo. Praticamente non sono
uscito» scoppiò a ridere, asciugandosi le lacrime.
Lizzie non poté fare a meno di ridere a sua volta
«Sei un impiastro, Hahn.»
«Sono davvero un coglione irrecuperabile.»
biascicò, sfumando il tono della voce sulle ultime sillabe
«Lizzie, il tuo bambino… non chiamarlo Izaya
sperando di fare una cosa che potrebbe farmi piacere. Se lo facessi mi
rovineresti la vita.»
«Se lo facessi non rovinerei solo la tua, ma anche quella
della creatura. È una femmina.»
«Quando lo hai saputo?» chiese stupito.
Dopo aver ricevuto la notizia, mesi fa, aveva promesso a Lizzie che
l’avrebbe supportata, accompagnata ad ogni visita e aiutata
in qualsiasi circostanza, invece, non l’aveva fatto.
Si rese conto di essersi perso tante di quelle cose da sentirsi un
completo buono a nulla e nel contempo capì di aver vissuto
quell’ultimo mese come un automa senza accorgersi di lei, di
Lizzie, l’unica che ancora stava cercando in ogni modo di
prendersi cura di lui.
«Non è certo, sono ancora delle ipotesi ma, come
avevi previsto, sarà femmina e mi tocca cambiare tutto.
Avevo preso anche lo spazzolino da denti di Iron Man. Temo preferisca
qualcosa di più femminile.»
«Credo sia l’ultimo problema lo spazzolino da
denti. Apprezzo la tua lungimiranza, ma mi sembra un tantino
eccessiva.» concluse abbassando gli occhi sul pavimento.
Aveva disperatamente fatto appello a tutte le sue forze per
intraprendere un discorso che fosse diverso da quello che
l’aveva torturato in quelle ultime ore da solo, in attesa di
chissà cosa seduto sui gradini poco sotto il pianerottolo
dell’appartamento.
Si era allontanato da casa neanche quattro metri, nonostante ne avesse
avute le buone intenzioni.
Finito il pacchetto di sigarette era ritornato indietro sconfitto, per
poi ritrovarsi su quel divano, in compagnia dell’unica donna
che sentiva di amare e che, sebbene provasse in tutti i modi di
consolarlo, stavolta, non riusciva a farlo, soprattutto
perché Lizzie, impensierita, aveva compreso che per salvare
Jay avrebbe dovuto trovare un modo per svegliarlo e costringerlo a
guardare in faccia la realtà.
Lui, però, aveva scelto di rifiutarsi e di fingere di
dimenticare.
Sapeva che il prossimo passo sarebbe stato ritornare a casa,
raccogliere le cose di Izaya e ricominciare una nuova vita.
Avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche, somatizzare il colpo ed essere
abbastanza forte per vivere dentro quella casa che aveva condiviso con
lui; avrebbe dovuto studiare e trovare un lavoro per pagare le spese,
ma con quale cuore? Con quale testa?
Si sentì schiacciare sotto un peso impossibile da sorreggere
da solo.
Sapeva di essere riuscito ad uscire da momenti realmente difficili, ma
solo grazie ad Izaya, non per merito di se stesso.
Lui aveva solo aggiunto determinazione, Izaya tutto il resto,
cominciando dalle cose pratiche.
«Onestamente, Lizzie: credi che io sia forte?»
«Hai dimostrato di esserlo più di una
volta.»
«Tutta facciata. Sai perché ho detto ai miei la
verità? Non per orgoglio, non per coraggio, ma solo
perché ero abbastanza ingenuo da credere che mi avrebbero
capito e supportato. Ero stanco di nascondermi, di portare il peso dei
miei segreti solo sulle mie spalle, desideravo parlarne con mia madre,
avevo bisogno di loro e mi ero illuso di essere amato per
ciò che ero, ma non è stato
così.» si fermò per prendere fiato; di
fatto, stava sviscerando la verità sul suo conto,
strappandosi dal viso la sua ultima maschera. «Quando ho
conosciuto Izaya mi sono aggrappato a lui. Mi chiedeva continuamente di
concedergli la possibilità di prendersi cura di me, ed io,
ragazzino senza arte né parte, ‘cresciuto nello
zucchero filato’ come diceva lui, ho semplicemente accettato
permettendogli di costruire la mia vita da zero con le sue mani. In
questi due anni con Izaya ho imparato un sacco di cose, non sapevo
neanche rifare un letto, l’unica cosa che non ho imparato
è vivere. Sono sicuro di me, quando dico la mia sono sempre
certo di dire ciò che ci si aspetta da un ragazzo sveglio,
straparlo di vita, di concetti astratti con un’esattezza
ragguardevole ma, alla fin fine, sono solo parole. A parte amarlo, non
mi ha insegnato niente sulla vita. Non gliene faccio una colpa, la
morte è arrivata troppo velocemente senza darmi il tempo di
costruirmi una vita al di fuori di casa nostra, da solo, senza il suo
supporto. Dopo tutti i casini credevo di aver raggiunto una
maturità ed una forza tale da permettermi di rialzarmi ad
ogni scossone, invece mi ritrovo qui a non riuscire neanche a
pronunciare il suo nome senza stare male. Chiunque direbbe che ne ho
viste e superate tante, ma quante volte un uomo può
rialzarsi? Quante ferite può sorreggere un corpo senza
morire? Io credo di essere arrivato al mio limite…»
«Non è così!» lo interruppe
Lizzie, prendendogli il viso nelle mani, fissandolo negli occhi con
determinazione «Tu sei più forte di quel che
credi. Io capisco il tuo discorso e da un certo punto di vista hai
anche ragione, ma non sei solo. Ci sono io, c’è
Robert…»
«Non so come dirti che non mi basta.» rispose,
sottraendosi alla stretta «Tu e Robert siete stati di vitale
importanza, ma non so come spiegarti come mi
sento…» si fermò brevemente, stringendo
gli occhi e cercando di trovare le parole giuste «Mi sento
morto. Come se non provassi niente di diverso dal dolore e mi conosco
abbastanza per dire che quando qualcosa mi fa troppo male tendo ad
allontanarla. È come se crescesse in me una sorta di
menefreghismo nei confronti di me stesso, come se non mi interessasse
della fine che farò. Accetto passivamente ciò che
mi accade senza più impegnarmi a fare i conti con me stesso.
Ecco: non voglio più fare i conti con la mia coscienza, con
la mia sofferenza e, di conseguenza, con la mia vita, con le mie
scelte. Sono un… un invertebrato, ecco.»
«Più te ne convinci e più
sarà così.»
«È già così.
Però, ho un favore da chiederti: accompagnami a casa domani,
aiutami a liberarmi delle sue cose.»
«Liberarti delle sue cose?!»
«Voglio dare via tutto, non voglio avere niente di suo tra i
piedi…»
«Te ne pentirai, Jay.»
«Come potrei pentirmi di non averlo fatto, se non lo
faccio.»
Angolo Autrice.
Ciao! Aggiorno dopo più di un mese e spero di farlo
più velocemente in futuro. Ho avuto un blocco pazzesco dopo
gli ultimi capitoli e spero di non averne scritto, adesso,
uno deludente.
Detto questo, voglio precisare che non ho nulla contro i One Direction.
Non li ascolto e basta, ovviamente neanche Jay li ascolta.
Voglio ringraziare Bijouttina, Ladywolf, Babbo Aven ed Elsker. Poi
Ghost, Malaria, Mrs. Burro. Voglio ringraziare, anche, chi si
è messo in pari con la storia con una velocità
davvero pazzesca, Sorella Grimm prima di tutti, perché
l'adoro, non ci posso fare niente. Risponderò presto alle
recensioni. Purtroppo il blocco l'ho avuto in ogni cosa :(. Ringrazio
InMidnight che è stata davvero un tesoro. Ha cercato in
tutti i modi di incoraggiarmi. Ringrazio Hime che ha
iniziato la storia.
Ringrazio tutti quelli che hanno messo la storia nelle preferite,
ricordate e seguite.
Il mio angolo autrice, oggi, è particolarmente orribile,
quindi taglio corto :P
Grazie di tutto il supporto che mi date.
Ah!!!!! Come dimenticare Moloko? Un ringraziamento calorosissimo va a
lei perché è stupenda e basta.
Poi, dimenticavo, dedico questo capitolo ad InMidnight
perché ho perso una scommessa XD
Se dimentico qualcuno o qualcosa, chiedo perdono.
Un abbraccio.
Bloom.
p.s. chi volesse iscriversi al gruppo dedicato a questa storia,
l'indirizzo è nella pagina autore.
Grazie ancora.
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Capitolo 21 *** Sleep Paralysis ***
"I got this feeling that
we're dead
I got this feeling that we're dead
And there's nothing more
Across the sea
We're both fixed in a dream
There's an island just like this
A person just like me."
Sleep
Paralysis- Gabriel Bruce
21. Sleep
Paralysis
Le finestre spalancate e le scatole ricolme di oggetti accatastati
avrebbero potuto dare un’impressione di vita, di partenza, di
qualcosa di positivo come un’esistenza che riprende
d’accapo, ma le apparenze ingannano e, spesso, i cumuli di
ricordi messi insieme in una scatola non sono segno di un nuovo viaggio.
La televisione accesa sempre sullo stesso canale si imponeva come
sottofondo, così da ricreare una normalità che,
ormai, non esisteva più da tempo.
Lizzie e Jay avevano sgomberato casa ad una velocità
indegna, indegna per Izaya.
Ogniqualvolta la ragazza tentasse di convincerlo a conservare qualcosa
o a riconsiderare l’idea di rimettere tutto
dov’era, il ragazzo afferrava l’oggetto in
questione e senza alcuna cura lo scaraventava in uno dei tanti
scatoloni, senza assicurarsi che rimanesse intatto.
Ad ogni tonfo, a poco a poco, il cuore di Lizzie si spezzava e sempre
meno riusciva a comprendere il comportamento di Jay. I vestiti di
Izaya, gli oggetti personali, i documenti di lavoro, i suoi DVD e CD
parevano non avere più alcun significato, soprattutto per la
leggerezza con la quale riusciva a disfarsi di tutto senza lasciar
trapelare alcun sentimento.
La tazza di Slenderman raccattata a tradimento quella volta che Izaya,
senza portafogli, aveva deciso di andare comunque a fare spese ai
mercatini: «Buttala! Non me ne faccio niente».
La macchina fotografica vintage, cimelio di famiglia:
«Quella, tra le cose da regalare».
La sciarpa da un metro e mezzo con la quale Izaya legava Jay al palo
della luce fuori dal locale dopo l’ennesima battuta acida
espressa per puro divertimento: «Falla sparire!».
E così, ogni piccola cosa trovava la sua disfatta sul fondo
di un asettico contenitore che, riempiendosi, svuotava inesorabilmente
il cuore di Jay di ogni ricordo.
L’appartamento, in poche ore, pareva non aver mai accolto in
sé la vita di quel ragazzo morto tragicamente e sotterrato
sotto ammucchi di oggetti eliminati con estrema freddezza.
Lizzie se n’era andata, dopo aver letto ad alta voce un
biglietto della padrona di casa lasciato sotto la porta
dell’appartamento: “Mi spiace per quello che
è successo. Izaya era un bravo ragazzo, spero che tu possa
trovare la forza di andare avanti. In questo momento mi vergogno
davvero molto a darti questo genere di comunicazione, ma: non
è stato pagato l’affitto del mese passato e a
breve sarai in ritardo di due mensilità. Ti chiedo di farmi
sapere che cosa hai intenzione di fare, se andare via o continuare a
vivere qui. Fatti vedere presto. Rose.”
Jay aveva ascoltato il contenuto del biglietto riassettando il
soggiorno, senza curarsi più di tanto di quelli che, presto,
sarebbero diventati problemi pratici da dover affrontare seriamente.
Lizzie si era offerta per un prestito, ma messa a tacere
dall’imperturbabile distacco di Jay, era andata via stordita
e sconvolta, come se avesse assistito in diretta allo smembramento di
un uomo ancora in vita; una linea sottile divideva Jay e il ricordo di
Izaya: chi fosse la vittima di tale ferocia non era ancora chiaro nella
sua mente.
Il farsi male con le proprie mani era un atto mai sperimentato e se per
qualcuno era proprio questo ciò che stava facendo, per Jay
era solo un modo in più per costringere i suoi ricordi ad
assopirsi, nulla di più.
***
Aveva fatto i conti per tutto il giorno con il dolore e, prontamente,
era riuscito a metterlo a tacere ma giunta la notte, come risvegliato
da un sonno profondissimo, si accorse di essere solo, avvolto dalle
lenzuola che li aveva visti scambiarsi tenere carezze e ruvidi
incontri, accompagnati sempre dalla bugiarda sensazione che il tempo,
almeno per Izaya e Jay, si sarebbe fermato in quel preciso momento di
pura felicità.
Si strofinò gli occhi stanchi e provati dalle crudeli ore di
veglia che l’avevano costretto a rigirarsi nel letto e,
scattando improvvisamente come una molla, fu in piedi e già
in cammino verso l’armadio a muro del corridoio.
Puntò gli occhi verso la maniglia in legno e, prima che
potesse realizzare, ormai la stringeva nella mano, attendendo quel
riconoscibilissimo “clack” della chiusura a
calamita che gli suggeriva di averla aperta.
Spalancò la porta dell’armadio con titubanza,
impaurito per ciò che avrebbe trovato all’interno.
L’oscurità lo aiutò a non riconoscere
subito ciò che stava cercando così da ritardare
una reazione istintiva che l’avrebbe costretto, con la coda
tra le gambe, a chiudere la porta e retrarsi. Si abituò
velocemente al buio e lo sguardo trovò subito la scatola
degli attrezzi appartenuta ad Izaya ma che, in realtà,
nascondeva foto che non aveva mai esposto in casa. Non vi era alcun
segreto in quelle istantanee, ma aveva, da sempre, amato tenere per
sé i momenti felici con la sua famiglia, con i suoi amici,
con il suo amore.
Jay le ricordava, le aveva viste insieme a lui e, sedendosi sul
pavimento del salotto, accese la piantana, permettendo alla luce di
rendere chiare quelle facce che già conosceva.
“Quella è mia madre” disse Izaya
afferrando una foto. Sorrideva guardandola e Jay, sdraiato accanto a
lui, spostò l’attenzione da una immagine
all’altra, concentrandosi su quella che aveva messo al mondo
l’uomo che amava.
“Cosa dovrei fare per ringraziare questa donna?”
“In che senso?”
“Ti ha messo al mondo”.
Una risata fece scendere un’ombra sul viso di Jay che, fino a
quel momento, aveva sorriso: “Sei il solito stronzo. Dico
cose romantiche e tu ridi.”
“Non ti è mai venuto in mente che, il mio, possa
essere imbarazzo?”
“Non mi è mai venuto in mente perché
è la cosa più lontana dalla realtà che
tu possa fare: ridere per imbarazzo. Tu fai altre cose, tipo: fare
battute idiote.”
“Questo è vero. Comunque, dicevo: questa
è mia madre. In realtà non ho mai conosciuto la
mia vera madre, lei mi ha adottato.”
“Sul serio?” chiese stupito. Si accorse di sapere
ancora troppo poco di lui, così lo fissò con
attenzione, sperando che continuasse a raccontarsi.
“Emily e Charles. Due genitori meravigliosi troppo grandi per
adottare un neonato. Hanno scelto me, un quindicenne decisamente
vivace. Non ho storie strappalacrime da raccontare sulla mia infanzia.
Sono stato sempre felice, non mi è mai mancato niente e loro
mi hanno sempre sostenuto in ogni mia scelta. Un giorno, qualche tempo
dopo il mio arrivo, quasi tre anni, Charles si è ammalato di
tumore allo stomaco e in pochi mesi è morto. Emily ha
sofferto così tanto da spegnersi un po’, ma mai
per me. Per me era sempre luminosa e splendente. Aveva quarantatre anni
quando Charles l’ha abbandonata e lei mi ha tirato su da
sola, fino a che, cinque anni fa si è ammalata di Alzheimer
e adesso non sono altro che il lattaio per lei”.
Nonostante la storia avesse un epilogo alquanto triste, Izaya aveva
raccontato tutto con un sorriso sul viso, guardando la foto con
tenerezza.
“Adesso dov’è Emily?”
“In un centro specializzato. Il mio lavoro non mi ha mai
consentito di prendermene cura qui a casa mia. Lavoro per troppe ore
fuori casa, ma vado a trovarla quasi ogni giorno.”
“Perché non me l’hai mai
detto?”
“Adesso te l’ho detto e sappi, caro Jay: ti ci
porterò presto. Io sono il tizio del latte, tu potresti
diventare un suo amico di infanzia”.
Guardò con malinconia la foto di Emily, ricordando il loro
primo incontro.
Izaya non era altro che un semplice lattaio, Jay, invece, era diventato
un suo vecchio amore.
Sorrise amaramente ma, in un attimo, la freddezza si
impossessò dei suoi lineamenti, cancellando ogni traccia di
sentimento.
Lasciò cadere l’immagine di Emily sulle altre foto
cosparse sul pavimento, sfilò una sigaretta dal pacchetto e
l’accese, aspirando profondamente il primo tiro.
Poggiò la testa sulla seduta del divano e fissò
il soffitto come se fosse un cielo stellato, perso nei suoi pensieri.
Lo sguardo indecifrabile e i tiri di sigaretta calmi e regolari
rimescolarono nella sua mente le impressioni di quei momenti di vita
vissuta, veicoli di ricordi e, alzando la testa lentamente,
inchiodò nel cuore l’idea che aveva appena
formulato dentro di sé: prese le foto tutte insieme e si
diresse al bagno con una calma maniacale ed inumana,
continuò ad aspirare il fumo come se stesse prendendo
boccate d’aria ristabilizzanti; senza esitazioni
gettò le foto nella vasca da bagno, li cosparse di alcool e,
poco dopo, quella sigaretta diede vita al fuoco che avrebbe inghiottito
ogni sorriso, ogni rievocazione.
Assistette fino alla fine alla disfatta dei suoi stessi sentimenti che
bruciarono inesorabilmente davanti ai suoi occhi inespressivi e assenti.
Izaya bruciava e percorreva all’indietro la strada che aveva
vissuto negli ultimi anni della sua vita.
Sparì lui, sparì il bar, sparirono anche Lizzie,
Robert e Chaz.
Con quelle foto ridotte in cenere svanì un pezzo di vita
che, a forza, ricacciò nell’oblio della sua mente
costretta all’impassibilità.
Si vestì velocemente e, incurante del pungente odore di fumo
che aveva invaso casa, uscì con l’ennesima
sigaretta tra le labbra senza sapere cosa ne sarebbe stato di lui.
Senza sapere cosa avrebbe fatto di se stesso.
Angolo Autrice.
Sono produttiva in questi giorni e confesso di aver pensato di non
aggiornare. La storia è in revisione e volevo finire prima
di pubblicare nuovi capitoli, ma poi ho pensato che non è
giusto lasciarvi appesi per più di un mese, il tempo
necessario a terminare la revisione.
Quindi, ecco il nuovo capitolo, spero vi piaccia.
La storia comincia a prendere dei connotati decisamente più
oscuri, i buoni sentimenti non sono sempre facili da portare avanti
soprattutto quando succede qualcosa, nella vita, che ci fa stare male.
Jay ha scelto di abbandonare ciò che è stato, di
mettere da parte la sua fragilità.
Molti di noi, certamente, abbiamo vissuto momenti della vita che ci
hanno indurito e che ci hanno portato allo stremo. Abbiamo detto basta
al dolore ma, a volte, non è la soluzione giusta.
Voglio ringraziare LadyWolf che, in qualche modo, ha collaborato alla
stesura di questo capitolo. Come? Mi ha fatto conoscere questa canzone
che mi ha ispirato moltissimo, la canzone che da' il nome al titolo.
Ringrazio Babbo Aven, DarkViolet, Moloko, Oxymoros Schìma,
Aniasolary, Nahash, Emide, Elsker, Mrs Burro, Ghost, Malaria e dedico
questo capitolo a Bijouttina che oggi compie gli anni.
Ringrazio chi ha inserito la storia nelle
seguite/preferite/Ricordate.
Se dimentico qualcuno, come al solito, chiedo scusa.
Bloomsbury
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Capitolo 22 *** Paradise Circus ***
"It’s
unfortunate that when we feel a storm
we can roll ourselves over ’cause we’re
uncomfortable
oh where the devil makes us sin
but we like it when we’re spinning in his grip."
Paradise
Circus- Massive Attack
22.
Paradise Circus
Recarsi all’Escape durante le serate tranquille sarebbe
potuta diventare una buona abitudine se non fosse stato per
quell’uomo che, ad ogni incontro, cercava di attirare
l’attenzione in ogni modo.
«Ci rivediamo, Jay!» lo salutò con la
sua solita aria da Jolly mentre il ragazzo, con i gomiti poggiati al
bancone del bar, sperava di non farsi notare.
Purtroppo, ogni tentativo di rendersi invisibile fu vano
perché Brad, con poche mosse, gli era già
accanto, dopo essersi liberato dei ragazzini adoranti che aveva
intorno. «Non mi saluti?»
Dopo aver bevuto l’ultimo sorso di vodka, Jay
sospirò afflitto, indeciso se parlare ancora con la solita
schiettezza o accontentarlo per levarselo di torno con poche e gentili
parole. Lo squadrò per qualche secondo con aria di
sufficienza e non appena i suoi occhi si posarono sui gemelli di
madreperla ordinatamente fissati sui polsini della camicia,
l’approccio che avrebbe dovuto adottare nei confronti di
quell’uomo fu chiaro: «Brad, non so più
come farti capire che la tua compagnia mi secca, la tua presenza mi
ripugna e che i tuoi rozzissimi gemelli mi danno il
voltastomaco.»
E dopo, l’unica cosa udibile fu la musica.
Jay non abbassò lo sguardo, voleva scrollarselo di dosso e
sapeva che palesare il disgusto nei suoi confronti poteva dare i frutti
sperati.
Brad era un vanitoso e se altre volte aveva finto di non cogliere il
messaggio per il puro gusto della conquista, adesso, non poteva
ignorarlo, l’aveva certamente punto sul vivo. Almeno,
così credeva Jay.
La risata partì sommessa, per poi crescere gradualmente.
Il viso di Brad si rilassò e le mani giunte si sciolsero per
poi posarsi sulle spalle del ragazzo. «Ho capito il concetto.
Ma vorrei comunque offrirti da bere. Vorrei farti capire che non sono
come mi vedi, come mi presento al pubblico.»
«Ma a me non interessa come sei. Voglio solo che mi lasci in
pace e che continui a sollazzarti con le bestioline che ti corrono
dietro» replicò freddamente, fissandolo; non
comprendeva quanto i suoi tentativi di intimidirlo sortissero
l’effetto contrario.
Brad era a caccia e l’unico a non essere caduto in trappola
era proprio Jay.
Come poteva lasciarsi scappare un bocconcino così succulento
e difficile da acciuffare?
Ormai era diventata una questione di principio, una sfida.
«Sediamoci nel privè. Alzati da questo benedetto
sgabello e vieni a rilassarti. Hai del tempo da perdere, ti si legge
negli occhi, non hai nulla da fare e nessun posto al quale fare
ritorno. Almeno passa il tempo a chiacchierare con me.»
Jay scrollò le spalle arrendevole e, prendendo il bicchiere
dal bancone, si alzò puntandogli il dito contro:
«Ti faccio contento. Ma sappi che questa sarà la
prima ed ultima volta, altrimenti, mi costringi a non venire
più qui.»
Spalancò le braccia per fargli strada: «Prego,
precedimi».
Jay non credeva di essere riuscito a convincerlo, ma scelse di
accontentarlo ugualmente.
***
«…quindi, dopo quell’affare andato in
porto, ho comprato una lussuosissima BMW con gli interni in pelle color
champagne, acquistato un meraviglioso attico a Notting Hill e ho detto
vaffanculo al mondo e a tutti quelli che, per invidia, hanno cercato di
remarmi contro. Queste sono soddisfazioni. Vero, Jay?»
«Sì, sì. Una grandissima
soddisfazione.» rispose annoiato, sorseggiando
l’ultimo goccio di vodka, indirizzando gli occhi altrove
senza prestare troppa attenzione ai suoi racconti fatti di successi, di
ricchezza e di mere soddisfazioni professionali.
La conversazione pareva finita e Brad, agitando la gamba accavallata,
lo squadrò per qualche istante, ammettendo di non essere
riuscito ad attirare pienamente la sua attenzione.
Era arrivato il momento di giocarsi la carta della conversazione
altruista: «Vivi da solo?»
«Sì!»
«In quale zona, se posso sapere?» chiese fingendo
disinteresse, cogliendo dalla coppetta in vetro una manciata di
arachidi.
Jay lo guardò in tralice, sospettoso.
«Oh Dio, Jay! Si chiama conversazione informale. Sono domande
che si pongono per il puro gusto di parlare di qualcosa. Preferisci che
ti chieda del tempo?»
«Vivo a Soho.» ribatté interrompendolo.
«Sei di qui, quindi. Ottimo posto per vivere, Soho. Di cosa
ti occupi?»
«Studio legge…» sapeva che da
lì sarebbero cominciate una serie infinita di domande,
così tagliò corto: «Non lavoro, non mi
mantengono i miei genitori e sto cercando
un’occupazione.»
«Potrei aiutarti, ormai siamo amici!»
«Non siamo neanche una cosa lontanamente simile a due amici,
Brad. Sono qui per farti contento e gradirei che tu non mi faccia altre
domande a riguardo.»
«D’accordo. Va bene. Quel tizio con il quale ti
accompagnavi la prima volta che ci siamo conosciuti?»
Il giorno del suo diciottesimo compleanno pareva così
lontano da non aver più sfiorato la sua mente,
l’unica cosa degna di essere ricordata era il primo bacio di
Izaya, ma era anche la prima cosa da dover dimenticare.
«È una domanda, la tua? Se è una
domanda non la capisco.»
«Non fare il puntiglioso, non ti annoi ad essere sempre
così rigido? Sciogliti, ragazzo. Ti verranno le rughe a
breve. John, porta un’altra vodka liscia e uno
scotch.» dispose senza chiamarlo in causa, fermando il
cameriere con un gesto elegante e attraente della mano.
«Io avevo intenzione di andare via.»
«Tu rimani ancora un po’ qui con me.»
asserì, posizionando con fermezza la mano sul ginocchio di
Jay che si immobilizzò sul divanetto, come se qualcosa lo
stesse trattenendo. Forse era stata la risolutezza di Brad o la paura
della solitudine che avrebbe ritrovato a casa.
«D’accordo. Resto ancora un
po’.»
«Bene.» disse accennando un sorriso.
Non c’era trionfo nei suoi occhi, come Jay avrebbe
immaginato, ma un senso di sollievo inusuale, come se Brad desiderasse
ancora la sua compagnia e come se, anche lui, non avesse un posto al
quale fare ritorno.
Una volta, conoscendo Izaya, si era detto che mai avrebbe giudicato un
uomo dalle apparenze, eppure lo stava facendo, tradendo una delle tante
cose che aveva imparato per merito suo. «In fondo, non sei
così molesto. Ti ho giudicato male.»
«Mi fa piacere sentirtelo dire!»
dichiarò con appagata gentilezza.
«Non montarti la testa, però.»
«Lungi da me. Voglio solo farti capire che non cerco niente,
solo un po’ di compagnia.»
«Non mi pare che tu ne abbia poca. Hai uno stuolo di
ragazzini, anche più giovani di me, in attesa delle tue
attenzioni.»
«Mi girano intorno solo perché ho una bella
macchina e un bel appartamento. Non è certamente una cosa
che fa piacere. Per una volta vorrei una compagnia disinteressata al
mio conto in banca. Tu sembri il tipo giusto…»
«Giusto per cosa?»
«Giusto per me, non giusto per il sedile della mia auto.
Facciamo un patto:» esordì d’improvviso,
accorciando le distanze, intento a ricreare
un’intimità che fino ad allora non c’era
mai stata «Tu non mi tratterai più male ed io non
ti seccherò più; ma promettimi che non mi
allontanerai solo per l’idea che ti sei fatto di
me.»
L’espressione del ragazzo suggeriva che la risposta sarebbe
stata negativa, ma prima che Brad potesse pregarlo ancora, il responso
arrivò a brucia pelo: «Andata!» gli
porse la mano con convinzione, cambiando totalmente espressione. Negli
occhi del più giovane non c’era più
disgusto e insofferenza, c’era interesse.
«Andata!» ribatté l’altro,
afferrandogli la mano.
Nello sguardo di Jay c’era fiducia,
in quello di Brad vittoria.
“Preso!”
Angolo Autrice.
Preparate le mazze chiodate, donne!
Sì, mi riferisco a Bijouttina e LadyWolf, che ringrazio
sempre con tanto aMMore :P
Voglio ringraziare, come al solito, Babbo Aven che mi riempie di
complimenti e che è sempre presente, spero di non deluderti
T_T
Ringrazio DarkViolet92 che mi ha cazziata perché nei
ringraziamenti l'ho chiamata solo DarkViolet scordandomi del 92 :P
Ringrazio Oxymoros Schima che vuole prendersi... ehm... vuole prendersi
cura di Jay ad ogni capitolo.
Ringrazio Julie che ancora sta indietro ma quando si metterà
in pari vedrà che non l'ho mai dimenticata. Come potrei
dimenticarmi di lei??
Ringrazio la Shore che adesso è in vacanza e che adoro
infinitamente.
Ringrazio la mia Emide che mi è sparita causa scrittura
compulsiva (vai così XD).
Ringrazio WarHamster.
Ringrazio Moloko che mi ha detto che avrebbe qualcosa da dire e che
sono curiosa di sapere.
Grazie a tutte quelle che sono indietro XD
Grazie a chi ha messo la storia nei preferiti/seguiti/ ricordati.
Sappiate che vi ringrazierei una per una ma non so se vi fa piacere,
quindi mi astengo!
Grazie ad Elsker, Mrs. Burro e Ghost che so che ci sono sempre.
Se dimentico qualcuno, datemi in pasto a Brad.
Un abbraccio.
Bloom
p.s. spero che il capitolo vi piaccia.
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Capitolo 23 *** Overgrown ***
"I don't wanna be a star
But a stone on
the shore
Long door,
frame the wall
When
everything's overgrown
...
Time passes in
the constant state."
Overgrown-
James Blake
23.
Overgrown
Per primo percepì il profumo di dolci caldo e accogliente e,
per secondo, il dolore acuto tra le gambe accompagnato al calore madido
delle lenzuola in corrispondenza dei glutei.
Tutte quelle sensazioni non erano nuove, aveva già
conosciuto i dolori tipici del sesso, ma non per mano di qualcuno
diverso da Izaya.
Tastò il posto lasciato vacante accanto a lui, sperando di
essere solo come percepiva e, infatti: non c’era nessuno.
Senza aprirli posò il braccio sugli occhi per negarsi la
vista di qualcosa che sapeva, a prescindere, di non poter sopportare.
Ciò che più gli faceva male era il fatto di
essersi dato così facilmente ad un uomo che non conosceva
mentre il ricordo di Izaya era ancora lì, stampato a forza
nella sua mente.
Aveva cercato in ogni modo di dimenticarlo, ma era ancora presente,
più di quanto avesse mai immaginato.
Il viso del suo uomo, gelido e immobile, si mostrò nei suoi
ricordi: aveva un livido sulla fronte gonfia e pallida e la barba
incrostata dal sangue scuro sgorgato dalle labbra violacee.
Sobbalzò come se quel ricordo l’avesse
schiaffeggiato e si sedette al centro del letto da dove, infine, vide
la stanza sconosciuta nel quale aveva sospirato di un piacere colpevole
e vuoto.
Il letto, sopraelevato rispetto al pavimento, imperava nella stanza
lussuosa illuminata dai finestroni che davano su una terrazza
riccamente arredata.
La piscina esterna, colpita dai primi raggi del sole, era vuota e, per
un attimo, avrebbe voluto affogarcisi dentro.
Si alzò dal letto, percorrendo la stanza in cerca del bagno,
passando accanto al tavolo imbandito per la colazione. Passò
oltre, dopo avergli gettato un’occhiata di disgusto e si
diresse alla doccia in marmo, cinta dal vetro bagnato, probabilmente,
da Brad che pareva non esserci.
Un dolore acuto alla schiena lo fece rabbrividire e, guardando i polsi
segnati dalla stretta poderosa di quell’uomo che aveva spinto
dentro di lui con bramosia e ferocia, si irrigidì; si
girò su stesso per ritornare sui suoi passi e, preso
dall’impazienza, ritornò nella stanza,
raccogliendo dal pavimento i suoi vestiti.
Si vestì velocemente, lamentandosi, di tanto in tanto, dei
dolori cosparsi per tutto il corpo.
Chiusi i bottoni dei jeans che sembravano più stretti e
fastidiosi del solito, prese il resto dei suoi oggetti personali
inusualmente disposti sul tavolo: non ricordava di aver messo
lì né il cellulare né il portafogli,
ma la fretta di scappare lo indusse a non curarsene.
Si avvicinò alla porta di ingresso e scrutò il
suo riflesso al grande specchio accanto alla porta: un morso evidente
al labbro inferiore lo costrinse a portasi le mani alla bocca mentre,
con la lingua, cercava di portare via il residuo ferruginoso di sangue.
***
Londra sfilava davanti ai suoi occhi assenti mentre, di ritorno a casa,
si abbandonava al finestrino dell’autobus. Nonostante gli
urti e gli scossoni gli facessero male, i pensieri spenti riuscivano a
lenire ogni dolore fisico, acutizzando, però, il malessere
che si cibava della sua anima.
Le numerose telefonate di Lizzie rimasero senza risposta per tutto il
viaggio finché, arrivato all’appartamento, si
ritrovò a dover dare spiegazioni alla ragazza che,
preoccupata, era già fuori dalla porta di casa in attesa:
«Che cazzo di fine hai fatto? Ho provato a chiamarti tutta la
mattina. Dove sei stato?»
Entrato in casa, lanciò le chiavi sulla penisola in legno
della cucina, ignorandola.
«Sto parlando con te.»
Jay bevve in un solo sorso un bicchierone d’acqua, fingendo
di non sentirla.
«Sono stata in pensiero per te e tu, coglione che non sei
altro, ti prendi anche il lusso di ignorarmi?»
Il ragazzo, stanco e lacerato, non lasciò intravedere il suo
reale stato d’animo e per fare in modo che la farsa
risultasse ancora più convincente, ostentando spavalderia,
sospirò seccato, chiudendosi nel bagno, lasciando fuori
Lizzie.
L’acqua scorse copiosa nella vasca, trascinando i residui di
cenere lasciati a sedimentarsi e le parole di Lizzie vennero soffocate
dal rumore scrosciante, aiutando Jay a chiudersi maggiormente nel
mutismo.
La ragazza, fuori di sé, cominciò a bussare
insistentemente, costringendo Jay ad uscire e a mettere in atto una
scena che avrebbe voluto evitare.
Uscì fuori dal bagno così rapidamente da lasciare
Lizzie interdetta davanti agli occhi rabbiosi dell’amico:
«Che cazzo di problema hai? Che spiegazioni vuoi? Anzi: che
spiegazioni ti devo?»
La fissò minacciosamente dall’alto al basso,
avvicinandosi a lei con rabbia.
«Tu non mi devi nessuna spiegazione, ma è assurdo
che tu non risponda alle domande che ti pongo. Non vuoi dirmi dove sei
stato? D’accordo.» si allontanò da lui,
cercando di sottrarsi a quella vicinanza forzata che pesava come un
macigno. «L’importante è che tu stia
bene. Non mi importa altro.»
«Mi vedi. Sto bene! E adesso puoi finirla di urlare e di
rompere le scatole. Non hai niente di meglio da fare, oggi? Tornatene a
casa da tuo marito, non sono un bambino da accudire. Ho ventuno anni,
so badare a me stesso.»
«Vedo. Lo vedo benissimo» rispose avvilita e
sull’orlo del pianto.
Non erano lacrime di collera a minacciare il suo sguardo, ma di
delusione e di rammarico.
Rimasero in silenzio per qualche istante e solo il respiro affannato di
Jay rompeva la tensione quieta che li avvolgeva.
La ragazza si voltò e, avvicinandosi alla porta di ingresso,
si forzò a parlare con calma nonostante percepisse le parole
rompersi in gola: «Io vado. Se hai bisogno di me sai dove
trovarmi».
Non arrivò alcuna risposta, così andò
via dall’appartamento senza voltarsi a guardarlo.
Dopo aver fatto una doccia che, però, si dimostrò
inutile poiché non fece altro che fargli notare segni in
più che avrebbe piacevolmente ignorato, si sedette a fatica
sul water, accendendo una sigaretta pescata dal pacchetto preso dai
jeans adagiati sul pavimento. Dopo il primo tiro cercò di
portare lontano da sé pensieri che non avrebbe mai retto se
avesse permesso al vecchio Jay, debole e fragile, di prendere il
sopravvento. Scompigliò i capelli bagnati per privarli
dell’acqua in eccesso e allungando il collo longilineo e
pallido, prese una boccata d’aria con l’intento di
calmare il cuore affaticato dai battiti accelerati
dall’irrequietezza. Così si costrinse nuovamente
all’indifferenza, la stessa che gli aveva permesso di
allontanare Izaya dal suo cuore.
Strinse gli occhi per togliersi dalla mente l’immagine
ignobile di Brad che, senza alcuna delicatezza, l’aveva preso
con la forza senza chiedersi per un attimo se a lui piacesse quel
trattamento da piccola bestia inerme costretta a subire senza poter
prendere il sopravvento.
Aprì gli occhi, resi ancora più chiari dal
riflesso dell’acqua nella vasca lambita dalla luce della
tarda mattinata, e non appena indirizzò lo sguardo sul
pavimento, un’idea sfiorò la sua mente:
intrappolò la sigaretta tra le labbra e raccolse
freneticamente i jeans, cercando la tasca nella quale avrebbe trovato
il portafogli. Aveva trovato i suoi oggetti personali sul tavolo
dell’appartamento di Brad senza che lui ce li avesse messi,
così, non appena aprì il portafogli,
capì il perché: duecento sterline, certamente non
sue, riempivano la tasca riservata alle banconote.
Le fissò incredulo per secondi incalcolabili
«Bastardo, figlio di puttana!»
Avrebbe voluto scaraventarli nel water e tirare lo sciacquone, ma
sarebbe stato troppo istintivo, se l’avesse fatto non avrebbe
goduto nel vederli sparire.
Dopo un primo momento di confusione, condito dai movimenti rabbiosi e
incerti delle mani, una risata di scherno vivificò il suo
volto e, tenendo le banconote strette davanti ai suoi occhi, gli diede
fuoco lentamente con la sigaretta appena accesa: «Fottuto
stronzo. Non mi servono i tuoi soldi. Sei la feccia più
schifosa che io abbia incontrato nella vita. I tuoi sporchi soldi,
Brad, stanno bruciando. Pensavi di avermi comprato ma ti
sbagli.»
Prima che potessero prendere fuoco totalmente, li gettò nel
water, fissandoli con disgusto.
Se l’atto di bruciare ogni cosa poteva essere la strada per
alleviare ogni dolore, allora, avrebbe dato fuoco a qualsiasi cosa con
soddisfazione.
Avrebbe ridotto in cenere anche i suoi stessi sentimenti, la sua
umanità, la dolcezza che l’aveva da sempre
contraddistinto.
Avrebbe raso al suolo ogni cosa sotto l’impietosa mano del
suo cinismo.
Angolo Autrice.
Ciao!
Aggiorno alla svelta e ne sono molto felice.
Voglio ringraziare tutti quanti, come al solito, siete diventanti tutti
indispensabili. Il fatto che voi amiate questa storia e me lo
dimostriate continuamente mi riempie il cuore di gioia. Quindi,
ringrazio Babbo Aven, Bijouttina, LadyWolf e Ghost.
Inoltre, voglio ringraziare la piccola Elsker, DarkViolet92, Oxymoros e
tutti quelli che continuano a seguire la storia.
Grazie a chi lo fa in silenzio, a chi lo fa con le mazze chiodate
sempre in mano, chi lo fa scrivendomi su fb o sugli MP.
Grazie a tutti.
Non voglio seccare con sti spazi autrice pieni di ringraziamenti,
quindi vi dico solo che la vostra presenza è sempre un
motivo in più che mi spinge ad andare avanti.
Spero che questa storia arrivi alla fine entro fino Luglio ma visto che
mi gufo da sola, sto zitta.
Un abbraccio grande.
Bloomsbury
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Capitolo 24 *** Hyperballad ***
"It's real early morning
no-one is awake
i'm back at my
cliff
still throwing
things off
i listen to the
sounds they make
on their way down
i follow with my
eyes 'til they crash
imagine what my
body would sound like
slamming against
those rocks
and when it lands
will my eyes
be closed or
open?"
Hyperballad-
Björk
24.
Hyperballad
I dolori nel fisico scemarono lentamente, ma il disappunto
continuò a farlo sentire abbastanza vivo da permettergli di
affrontare la prima notte da solo.
Si era addormentato covando rancore e così facendo aveva
messo a tacere il cuore, nel quale Izaya soffocava travolto dalla
voluttuosa coltre di indifferenza che avrebbe fatto soccombere ogni
ricordo.
Aveva dormito senza riposo, braccato dagli incubi, ma era riuscito
comunque a chiudere occhio.
Il cellulare suonò all’impazzata per tutta la
mattina e Jay, disturbato dall’ennesimo squillo, lo
afferrò sull’orlo della nevrosi. «Chi
è?»
«Cerco Jay Hahn.»
«Sono io, Jay Hahn!»
«Buongiorno. Sono Brad».
Il silenzio che seguì fu la risposta che si aspettava.
Sapeva che presto sarebbe uscito da quella conversazione non ancora
avviata ricoperto di insulti.
Aveva sbirciato nei documenti di Jay per sapere chi fosse, aveva rubato
il numero di telefono senza ricevere alcun consenso e aveva
deliberatamente acquistato la notte passata con duecento sterline.
«Ciao, mi fa piacere sentirti!»
Stavolta fu proprio Brad a rimanere senza parole. Jay lo aveva preso di
sorpresa, di nuovo. «Anche a me fa piacere. Come
va?» chiese per tastare il terreno e cercare di capire cosa
passasse per la testa del ragazzo.
«Tutto bene. Volevo chiamarti ma non avevo il tuo numero,
sono felice che tu abbia deciso di annotare il mio.»
«Sei arrabbiato?» domandò con la massima
attenzione, sperando di non attirarsi le ire del giovane che,
più di una volta, gli aveva intimato di stargli alla larga.
«Affatto, anzi: ti volevo ringraziare per le duecento
sterline; non sapendo come fare, avevo intenzione di venire stasera
all’Escape e, magari, ritornare insieme nel tuo
appartamento».
Erano passate quasi ventiquattro ore dal loro ultimo incontro e Brad
capì quanto potesse fare la differenza un giorno passato
senza pressioni.
Jay, certamente, aveva avuto modo di riflettere su di lui e fu il
ragazzo stesso a dargliene conferma: «Ammetto che in un primo
momento di stizza ho preso i tuoi soldi e li ho bruciati, ma poi mi
sono reso conto che tu hai solo cercato di darmi una mano. Io ti avevo
parlato, al bar, dei miei problemi finanziari e tu hai voluto renderti
utile, mi dispiace se li ho bruciati. Vorrei rimediare.»
«I soldi erano tuoi, te li sei guadagnati. Potevi farci
quello che volevi, mi spiace solo che tu abbia deciso di disfartene
quando avresti potuto usarli per cose più
impellenti.»
«Già!» Jay rimase in ascolto per qualche
istante, stringendo nella mano il nuovo biglietto della padrona di
casa, recapitato da sotto la porta, che gli intimava di farsi vedere il
prima possibile.
Aspettava che Brad lo invitasse nel suo appartamento per poter mettere
fine ai suoi problemi. E infatti: «Che ne dici se ci vediamo
a casa mia per cena? Ti piace la cucina giapponese?»
«Sì, mi piace.»
«Bene! Allora, ci vediamo per le otto qui da me.
Così potremmo chiacchierare un po’ e,
chissà, far rinascere quelle duecento sterline dalle ceneri.
Potrebbero diventare anche trecento, trecentocinquanta,
quattrocento… tutto dipende da te.»
«D’accordo. A stasera, allora.»
«A stasera, piccolo. Aspetta!» Brad lo
fermò prima che potesse riattaccare «Volevo dirti
che sono stato bene l’altra notte. Spero la cosa sia
reciproca.»
«Certo che lo è. Stanotte potremmo
ripeterci…»
«Oh, sì! Sarebbe fantastico.» concluse
con soddisfazione. Prima di terminare la conversazione,
però, cambiò tono di voce con il fine di
rilassare gli animi ed indirizzarli verso un approccio più
intimo: «Mi manca la tua pelle…»
«Rimandiamo i commenti sulla mia pelle a stasera. A dopo,
Brad.» tagliò corto.
«A dopo, bellezza».
Nonostante Jay l’avesse sorpreso, arrivò alla
conclusione che quel ragazzo non fosse poi così diverso da
tanti altri.
Alcuni ragazzini dell’Escape offrivano il proprio corpo per
soldi da sempre e Brad, sebbene non gli servisse pagare per adescare,
preferiva di gran lunga farlo, poiché pagare significa
possedere. E chi possiede ha il potere di disporre della vita degli
altri senza discussioni.
***
Arrivato all’ultimo piano del palazzo, stringendo nelle mani
una bottiglia di vino trovata in casa, si diresse verso
l’appartamento di Brad.
La mattina in cui era scappato non aveva fatto caso al lusso
traboccante che impreziosiva ogni particolare del condominio. Anche
solo gli stucchi rifiniti a mano del soffitto parevano urlare il
proprio valore per tutto il tragitto.
Era cresciuto nel lusso, eppure aveva totalmente dimenticato i tempi in
cui camminava per gli uffici della Gray’s Inn, sedendosi alla
possente scrivania in legno scuro di suo padre, giocando a fare
l’avvocato.
Ravvivò i capelli, dandosi un’occhiata alla
vetrata del corridoio e, sistemata la T-shirt neanche troppo elegante
per l’occasione, suonò al campanello.
L’attesa non fu lunga, gli occhi azzurri di Brad fecero
capolino, colpendo Jay in pieno viso, costringendolo a balbettare un
saluto impacciato.
«Entra, sei il benvenuto!» lo accolse
calorosamente, afferrando la bottiglia per poi porla al centro del
tavolo apparecchiato per la cena.
Strofinandosi le mani, fissandolo con occhi trionfanti, Brad gli fece
segno di avvicinarsi cercando di mettere a tacere l’imbarazzo
che percepiva provenire dal giovane uomo che aveva bramato con tutte le
sue forze.
Ciò che, però, rendeva Jay impacciato, non era
imbarazzo, ma attesa.
«Perché non ti avvicini, piccolo? Aspettando la
cena potremmo accomodarci sul divano e sorseggiare un buon
champagne».
Non se lo fece dire due volte e, infatti, avvicinandosi al tizio fatto
di prosopopea e di sorrisetti trionfanti, la sua espressione
cambiò e in pochi attimi Brad fu sul pavimento, steso con un
pugno, prima che potesse accorgersene.
«Ti ho fatto male, Brad? Scusa, sono inciampato alla
rozzissima jacuzzi al centro del tuo salotto.» lo
sbeffeggiò massaggiandosi il pugno con il quale aveva messo
fine al sorriso che sentiva di odiare dal profondo del suo stomaco.
Dopo essersi ripreso dal colpo inaspettato, l’uomo si sedette
sul pavimento, tastandosi il viso con stupore.
Era bastato un destro ben assestato per fargli crollare tutta
l’infrastruttura della sua finta ed ostentata raffinatezza:
«Ma che cazzo fai? Che ti prende?»
«Te l’ho detto, non l’ho fatto
apposta.» rispose sedendosi sul divano, sorseggiando lo
champagne dalla bottiglia.
Il malcapitato si mise in piedi, scrutando con incredulità
il ragazzo che, con estrema soddisfazione, lo fissava esibendo una
certa sgarbatezza nei modi.
Permaneva, stravaccato sul divano, a gustarsi la scena, cercando il
più possibile di ostentare la propria estraneità
al fatto appena accaduto.
Brad fingeva di essere un elegante uomo d’affari, Jay, al
contrario, giocava a fare il ragazzino dei bassifondi, celando
ciò che in realtà era sempre stato: un ragazzo
ricco caduto in miseria.
«Tu sei un farabutto, un delinquente. Tornatene nella tua
topaia di Soho e non farti rivedere.» gridò con
disprezzo, premendo la mano sulle labbra sanguinanti.
«Ma come? Abbiamo già finito? Credevo volessi far
rinascere dalle ceneri quelle duecento sterline o, magari, trecento,
quattrocento… avevi detto che sarebbe dipeso da me. Pensavo
di aver fatto del mio meglio per guadagnarmeli.»
ironizzò con falsa delusione.
«Sai cosa sei, Jay Hahn? Un piccolo stronzo che gioca a fare
l’innocente. Sei stato tu, di tua spontanea
volontà, a venire a letto con me. Mi hai chiesto tu di
invitarti qui, se avessi avuto qualcosa in contrario mi avresti detto
al telefono di non farmi più rivedere. Invece sei qui a
stuzzicarmi, a farmi…»
«Avevo già notato le tue tendenze manesche a
letto, ma se leggi questo “piccolo colpo” che ti ho
dato come un corteggiamento sei più preoccupante di quel che
credevo.»
«Sei un poveraccio.» bofonchiò Brad
digrignando i denti.
«È una mera questione di prospettive, vecchio mio.
Dal mio canto, il poveraccio sei tu.» concluse mutando la sua
espressione; stavolta rese chiaro il suo disgusto, squadrandolo dalla
testa ai piedi «Dico sul serio, Brad. Volevi comprarmi?
Volevi assicurarti altre due o tre scopate pensando che mi sarei
piegato al tuo volere per soldi? Mi hai portato in questo nauseante
appartamento sperando che io mi lasciassi abbagliare da cotanto sfarzo,
credendo di potermi comprare con l’esibizione della tua
ricchezza, ma ti sei tradito. A letto sei uno dei più
nauseabondi animali e il giochetto dei soldi non ha fatto altro che
palesare cosa sei veramente: un viscido poveraccio che crede che con i
soldi si possa comprare tutto. Cosa c’è, Brad? Hai
fatto soldi in così poco tempo da credere che con quelli tu
possa comprare anche le persone? Non sei abituato ad essere ricco, non
sei nato in questo sfarzo, ti atteggi ad uomo facoltoso per trovare il
tuo posto nel mondo e, fermami se sbaglio, compri i corpi dei ragazzini
per bearti del tuo potere e poter dirti, guardandoti allo specchio:
“Non c’è niente che io non possa
avere”. Se non è così, allora, ci sono
delle cose che non mi spiego. Perché pagare un ragazzo per
una notte quando sai benissimo che puoi trovarlo senza comprare il suo
corpo?»
Brad rimase in silenzio per tutto il tempo, lo lasciò finire
senza interromperlo.
Scrollò il capo con un’espressione annoiata, come
se non riuscisse a scorgere i tratti del suo essere nelle parole appena
udite.
Non avrebbe dovuto dare alcuna spiegazione, ma decise di
contrattaccare, non per ferirlo, ma per raggiungere comunque i suoi
scopi: «Credi quello che vuoi di me ma, se permetti, vorrei
esporti i miei pensieri. Vuoi sapere cosa vedo io quando ti
guardo?» prima di iniziare a demolirlo poco a poco, si
sedette sulla poltrona. Fissò il pavimento per un breve
istante come se cercasse di raccogliere delle idee che già
aveva elaborato in precedenza e dopo aver fatto un lungo sospiro,
incrociando le mani, cominciò a spiattellargli tutte le
parole che sapeva l’avrebbero messo al tappeto:
«Vedo un ragazzo triste e solo, senza arte né
parte; un ragazzo bello ed intelligente ma senza alcun futuro. Vedo un
tipo sveglio e agguerrito, ma privo di ogni entusiasmo. Un ragazzo
freddo e scostante che ha deciso di voler vivere la propria vita senza
l’aiuto di nessuno, né morale né
pratico. Sei triste, Jay. Sei patetico, lamentoso e
arrogante.» proseguì nel giudicarlo, mentre Jay,
dirigendo gli occhi verso il basso, si riempiva di frustrazione. Era
evidente che il ragazzo si stesse piegando sempre di più, ma
Brad, non contento, continuò a torturarlo mettendo in
pratica il suo ultimo tentativo di irretirlo: «Non ti ho dato
quei soldi per comprarti, ma per darti una possibilità.
È vero, sono un uomo che ha raggiunto una posizione in
pochissimo tempo ma mi sono fatto con le mie mani e voglio aiutarti. Il
sesso è un’atra cosa, nessuno ti costringe, ma ho
pensato che prenderti sotto la mia ala, farti conoscere un nuovo mondo,
un nuovo stile di vita, potesse risvegliarti dal torpore che ti sta
risucchiando. Tu mi piaci molto e contavo su di te; contavo sul fatto
che, insieme, avremmo potuto fare delle grandi cose. Pagarti una
prestazione sessuale non significa comprare il tuo corpo, voglio darti
l’opportunità di rimettere insieme la tua vita. Tu
sarai mio tanto quanto io sarò tuo e finché non
troverai un lavoro io vorrò solo darti una mano. Possiamo
non fare sesso, se vuoi, ma dammi l’opportunità di
aiutarti.».
Jay aveva già affidato il suo futuro ad un altro uomo ma in
modo del tutto diverso.
Con amore e stima si era dato completamente ad Izaya, non per
raggiungere una soddisfazione personale né un futuro di
successi, ma per condividere la sua vita con un uomo che ammirava con
tutto se stesso.
Quel periodo della sua vita, però, si era concluso
tragicamente lasciandogli nelle mani solo dolore e sabbia. Con Izaya
aveva costruito un amore, un rapporto, ma non la sua vita.
Consegnarsi a Brad, sperando che lui potesse raccogliere quella sabbia
e trasformarla in qualcosa, sarebbe stato impensabile.
Per Brad non c’era amore, né ammirazione
né fiducia, ma quegli occhi azzurri del tutto inaffidabili
che lo scrutavano con pazienza avevano qualcosa che lo induceva a
mettere in dubbio le sue stesse idee.
Nello sguardo di Brad c’era determinazione, quella stessa che
aveva permeato le iridi scure di Izaya quando, con lo zaino di Jay
sulle spalle, lo aveva preso per mano per portarlo in quella che
sarebbe stata la loro casa, la loro nuova vita.
Quei pensieri confusi trovarono il loro sbocco nella lacrime quiete che
gli rigarono il volto, dipingendo sul viso di Brad un sorriso che
sapeva di compimento, di successo; l’uomo, però,
cercò di non darlo a vedere e, avvicinandosi a Jay,
affondò la lama: «Hai un’alternativa che
possa salvarti?»
Jay strinse i pugni, non voleva arrendersi né ammettere di
essere così debole ma, pensandoci a fondo, sapeva di non
avere ancora le forze di combattere «C’è
sempre un’alternativa» mentì. Se
c’era, ancora non l’aveva trovata.
«Al momento hai solo bisogno di far tacere la rabbia, la
delusione, la tristezza. Per trovare le soluzioni
c’è sempre tempo, ma devi trovare un sistema per
far passare quel tempo nel modo più indolore possibile. Io
posso aiutarti.» azzardò senza sapere di cosa
stesse parlando.
Stava giocando, stava tirando ad indovinare e l’espressione
assente difronte a lui gli suggerì di essere sulla strada
giusta. «Non essere sempre così diffidente.
Ammetto di non essere un soggetto così affidabile a primo
acchito, ma credimi: posso aiutarti.»
«Me lo ripeti di continuo e ancora non afferro cosa
intendi.» disse con la voce rotta in gola.
«Sei come un’anima in pena, devi trovare pace e
serenità ed i problemi pratici ti stanno condannando a
rimanere fermo, non ti evolvi, questo perché non stai
pensando a te. Io ti sto offrendo tempo. Il tempo di pensare, di
riflettere, di trovare il modo di agire. Affidati a me, mi
prenderò cura dei tuoi problemi, mi farò carico
delle tue spese e non è solo una questione di soldi, me li
restituirai quando avrai trovato la tua serenità ma in
cambio dovrai darmi qualcosa…»
«Cosa vuoi?»
«Niente di che, solo te stesso. Stai con me, frequentami,
dammi una possibilità e non te ne pentirai. Permettimi di
metterti in salvo, qui con me.»
“Solo te stesso”. Se avesse dato valore a se
stesso, Jay avrebbe sicuramente avuto qualcosa da ridire.
Non ebbe nulla in contrario.
Angolo Autrice.
Ecco un nuovo aggiornamento. Aspetto di sapere cosa pensate di questo
nuovo risvolto della storia che, come ho già detto altre
volte, forse può essere un po' difficile da digerire o
comprendere. Sono felice che ci sia stato qualcuno che già,
prima della pubblicazione di questo capitolo, abbia compreso le
dinamiche psicologiche che hanno spinto Jay a questo punto.
Ringrazio Ghost infinitamente per la sua attentissima lettura e la sua
capacità di comprendere appieno ciò che scrivo.
Grazie a Babbo Aven che si pone le giuste domande, cercando il
più possibile di entrare nella mente di Jay. Grazie a
Bijouttina che, più chiunque altro, vive questa storia
profondamente, commuovendosi, incavolandosi e provando in prima persona
la vasta gamma di emozioni e sentimenti che voglio trasmettere. Tu mi
fai capire che, in qualche modo, riesco a trasmettere le tanti
sfaccettature che compongono il carattere e la psicologia di Jay.
Ringrazio LadyWolf il mio teSssoro, DarkViolet92, Ally_M che
ha iniziato la storia da pochi giorni ma che ha già
compreso perfettamente. Grazie a Oxymoros che legge con tanta passione
e mi fa presente ciò che pensa by chat in tempo
reale:P Ringrazio tutte quelle che stanno indietro e che a
poco a poco si stanno mettendo in pari: Julie, la Shore, Moloko... e se
dimentico qualcuno indicatemi con il dito senza pietà.
Grazie a chi ha inserito la storia nelle seguite/ricordate/preferite.
Grazie a tutti davvero.
Un abbraccio.
Bloomsbury
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Capitolo 25 *** Hearts A Mess ***
"Your heart's a mess
You won't admit to it
It makes no sense
But I'm desperate to connect
And you can't live like this."
Hearts
a Mess- Gotye
25. Hearts
A Mess
Gli occhi di Izaya, quella mattina, avevano qualcosa di diverso, come
se avessero visto un segreto, qualcosa che non era dato vedere a
nessuno. Jay sondò il suo sguardo per qualche istante prima
di lasciarlo andare. Lo abbracciava reggendosi dalle sue spalle,
sfiorando con le dita dei piedi il pavimento mentre l’altro
gli cingeva la vita, sollevandolo leggermente.
«Tornerai presto?»
«Prima di quanto credi.» rispose Izaya, baciandogli
la spalla «Robert mi ha prestato la sua auto, ci
metterò meno del solito.»
«Maledetto il giorno in cui hai accettato di seguire quel
caso. Ogni settimana ti portano via da me.»
protestò stringendolo di più, fino a mozzargli il
fiato.
«Jay, mi stai soffocando.» ansimò Izaya,
cercando di fargli allentare la presa.
«Scusa. Vai, non ti tratterrò!» promise
senza mettere in pratica la sua parola.
Continuò a stringerlo sempre più forte, fino a
far ridere Izaya, intrappolato nelle sue braccia «Ti stai
contraddicendo. Non puoi dire: Vai! E poi non mi lasci
andare.»
«Vai, vai, vai…» urlò Jay
legandolo di più a sé, stringendo gli occhi
più forte che poteva.
«Vuoi che usi la forza?» chiese accarezzandogli i
capelli mentre il viso del ragazzo, affondato nella spalla di Izaya,
sorrideva della sua stessa mancanza di forza d’animo.
«Tu non saresti mai in grado di usare la forza con
me.»
«Ne sei certo?» non si diede neanche il tempo di
finire la frase che già aveva letteralmente lanciato il
corpo esile di Jay sul divano, facendolo ridere tra le proteste:
«Sei un animale!»
Izaya, dopo essersi avvicinato a lui, stando attento a non farsi
imprigionare di nuovo, lo baciò teneramente solleticandogli
il viso con la barba folta «Torno presto.»
«Ok.» mormorò.
Non era mai tornato.
Jay fissò indeciso i vestitini da bambina che aveva nelle
mani, aggrottando le sopracciglia perplesso.
Nina, la figlia di Lizzie e Robert, avrebbe compiuto il suo primo anno
di età quella sera e, dopo due mesi, l’avrebbe
rivista.
Da quando era nata l’aveva vista solo cinque volte contro i
trecentosessantacinque giorni che aveva immaginato il giorno in cui
Lizzie aveva annunciato a tutti di essere incinta.
Quel giorno aveva vagato con i pensieri, aveva sognato di poter
diventare il suo punto di riferimento, il suo zio preferito ma, in
tutti quei sogni, non si era mai immaginato senza Izaya.
Per togliersi quel pensiero dalla testa, finalmente scelse il vestito
bianco adornato da piccole violette dipinte a mano, non era sicuro
della decisione presa, ma avrebbe scelto qualsiasi cosa pur di
sbrigarsi e togliersi da quella situazione.
Jay aveva smesso di andare all’università come
aveva interrotto quasi totalmente il rapporto con Lizzie e Robert. Non
aveva mai parlato con loro di Brad né del suo nuovo stile di
vita.
Agli occhi di molti poteva sembrare un semplice arrivista e
approfittatore che viveva con i soldi di un uomo ricco e ingenuo, per
altri era semplicemente una puttana.
Inizialmente aveva accettato un aiuto senza assicurare il suo corpo a
Brad, poi il rapporto diventò sempre più
complesso, fino a che Jay non divenne altro che una delle tante
proprietà di quell’uomo.
Brad, dal canto suo, credeva di aver instaurato un reale rapporto di
coppia, tralasciando il particolare che spesso, senza alcun consenso,
si prendeva il lusso di decidere della vita di Jay facendogli perdere
ogni possibile occasione lavorativa trovando scuse e argomentazioni del
tutto giustificate, anche se supportate da una buona dose di
informazioni sbagliate e falsità.
Avevano raggiunto un equilibrio, secondo Brad.
Lui pagava qualsiasi spesa, facendogli anche dei regali e Jay non
faceva altro che accontentarlo, non senza protestare.
«Scordatelo. Non ti porto al compleanno di Nina.»
decise categoricamente mentre ripiegava il vestitino per poi riporlo
nella busta firmata.
«Ma dai. Stiamo insieme, Jay. Dovrai presentarmi a loro prima
o poi» contestò Brad seduto al centro del letto
sfatto che odorava ancora dei loro corpi.
«Ancora ti illudi di essere il mio fidanzato? Io sono il tuo
giocattolino e tu lo stronzo che si diverte a giocarci.»
disse con freddezza, mentre sceglieva i vestiti da mettere per la festa
tra le camicie firmate, i vestiti pregiati e i tessuti ricchi di alta
sartoria.
Sceglieva con cura il suo vestiario, trattava con riguardo gli oggetti
che lo tenevano in ostaggio, esaminava attentamente le cose con le
quali era stato comprato.
«Non essere così cinico. Se dici così
sembra quasi che tu stia con me solo per i soldi.»
«Non c’è un motivo diverso, attualmente.
Tu mi assicuri il benessere ed io ti accontento, ma non ti illudere: ti
sto solo usando per poi mollarti senza pietà una volta
trovato un modo per mettere in ordine la mia vita.» disse con
distacco, abbottonando una delle tante camicie cucite su misura da un
prestigioso sarto di Savile Row.
Brad, dopo aver terminato la solita risatina sommessa, lo raggiunse
trascinandosi sul letto per poi afferrarlo dalla mano per avvicinarlo.
Jay lasciò fare senza protestare.
«Quando smetterai di rifiutarmi?» chiese
l’uomo cingendolo tra le braccia, insinuando le mani sotto la
camicia ancora sbottonata.
«Quando smetterò di essere così
mediocre.»
«Allora: mai!» sussurrò baciandogli le
labbra inermi «Ti sei affidato a me proprio perché
lo sei. Hai solo me, Jay. Tu non sei niente, non sei nessuno, sei un
ragazzino squallido e mi fai quasi pena, per questo ho deciso di
prendermi cura di te.»
«Sai perché ti odio, Brad?» chiese
avvolgendogli le spalle con le braccia «Perché hai
sempre ragione» concluse baciandolo avidamente come se
volesse tappargli la bocca prima che potesse infierire.
Come era arrivato a quel punto non lo sapeva neanche lui,
l’unica cosa chiara era che, ormai, si era lasciato
manipolare cadendo in un circolo vizioso dal quale difficilmente
sarebbe uscito.
Stare con Brad significava accontentarlo e concedergli il lusso di fare
tutto quello che lui voleva, in cambio avrebbe avuto il tempo di
riprendersi, di trovare il modo di ricominciare da zero, di tenere la
casa che era stata di Izaya.
Se nei primi tempi aveva categoricamente rifiutato di diventare
l’oggetto sessuale di Brad in cambio di soldi, adesso lo era
in piena regola.
Si era messo nelle mani di uomo che, lentamente, senza neanche farsene
accorgere, aveva preso possesso della sua vita, condizionandolo,
manovrandolo e la cosa che, più di tutto, accresceva la
frustrazione del ragazzo era proprio il fatto che se ne fosse reso
conto, e aveva lasciato fare senza opporsi.
***
«Dì grazie a zio Jay!»
esclamò Lizzie, reggendo sulle gambe la piccola che, con
occhi perplessi, scrutava il ragazzo seduto difronte a lei.
«Non sembra contenta, forse avrebbe preferito un
giocattolo.» asserì Jay, soffiando il fumo
dell’ultimo tiro di sigaretta.
«Certo che è contenta! Non lo vedi il suo sguardo
colmo di giubilo?» ironizzò Robert poggiato alla
porta della cucina mentre osservava in disparte la scena.
Jay rise, mentre Lizzie cercava in ogni modo di giustificare il
comportamento sarcastico di Robert.
«Lizzie, tranquilla. Non mi sono offeso. Le ho preso un
vestitino perché i giochi non piacciono a me, senza pensare
che, invece, avrebbero sicuramente fatto piacere a lei.»
«È un bellissimo vestito.» a quel punto
Robert decise di collaborare e di togliersi dal viso
l’espressione beffarda che aveva avuto per tutta la cena.
Mentre Nina stendeva le braccia per aggrapparsi a Jay,
l’atmosfera si cristallizzò.
Forse tutti in quella stanza pensarono a come sarebbe stato se ci fosse
stato ancora Izaya; molto probabilmente avrebbe adorato quella bambina,
conoscendolo.
Non appena aveva saputo che sarebbe nata, un sorriso gli aveva
illuminato la faccia tanto da attirarsi ogni tipo di battuta. Robert
aveva detto che, in fondo, anche Izaya possedeva un cuore tenero,
Lizzie l’aveva additato, dicendogli che sarebbe stata ora di
togliersi dal viso l’espressione da strafottente in favore di
qualcosa di più dolce ed amichevole; Jay, invece, lo aveva
adorato, riconoscendo quell’amore che lui comprendeva meglio
di chiunque altro. Un amore che solo in pochi avevano avuto il
privilegio di conoscere interamente.
Ma Izaya non c’era e gli occhi allegri di Nina erano gli
unici a non avere alcuna ombra di nostalgia o dolore.
Jay rimirò la pelle candida e profumata di quel piccolo
miracolo posato senza alcun peso sulle sue gambe e sorrise debolmente,
indeciso se quella vista così dolce e spensierata facesse
più male che bene.
Sospirò impercettibilmente, stanco di non riuscire a trovare
conforto in niente e, come al solito, si rese gelido, tanto che la
bambina si voltò nuovamente verso sua madre, chiedendole con
gli occhi di poter ritornare da lei.
Guardando con distacco la scena del ricongiungimento tra figlia e mamma
che non ricordava neanche più di aver vissuto in prima
persona da bambino, si poggiò svogliatamente allo schienale
del divano, accendendosi un’altra sigaretta.
«Di cosa ti occupi di preciso, Jay?» chiese a
bruciapelo Robert, osservando le iniziali del ragazzo ricamate a
metà busto sulla camicia.
«Lavoro per un agente di commercio. Diciamo che sto imparando
qualcosa da lui.»
«Ottimo! Quindi ti sei rimesso in pista!»
esclamò Robert nascondendo una punta di dubbio.
«Più o meno.»
Il fatto che Jay avesse sussurrato le ultime parole senza troppa
convinzione, sviando lo sguardo pur di sfuggire ad ulteriori domande,
avvalorò di poco le impressioni che Robert aveva formulato
dentro di sé.
Il Jay che aveva davanti non era quello che aveva conosciuto anni fa,
lo sapeva bene; in quel mese in cui l’aveva ospitato a casa
sua dopo la morte di Izaya aveva imparato a interpretarlo e a decifrare
ogni sua sfumatura.
Il ragazzo che aveva davanti era ormai un uomo e certamente la morte
del suo compagno lo aveva reso ancora più adulto, ma i
tentativi di rendersi criptico in qualche modo fallirono,
perché Robert sentiva che c’era qualcosa che non
andava ma, conoscendolo, sapeva che se avesse chiesto in modo troppo
diretto avrebbe solo ottenuto risposte evasive e, certamente, un
conseguente congedo che avrebbe avuto in pieno il sapore di
un’autentica fuga.
Rimasero in silenzio ancora un po’, concentrandosi su Nina
che a poco a poco, stretta alla sua nuova bambola, chiuse gli occhi per
poi adagiarsi lentamente sul seno della madre.
Lizzie, dopo averle dato un bacio sulla fronte, accarezzandole le gote
rosse e paffute, si alzò stringendo la bambina:
«La porto a letto. Jay, vieni con me?»
La guardò smarrito, incerto sulla riposta da darle, ma dopo
pochi secondi si alzò senza parlare, solo accennando un
sorriso, e la seguì nella stanza accanto dove una luce fioca
color ambra sfiorava i contorni di ogni cosa, compresi i loro corpi.
Guardò con curiosità i gesti dolci e materni che
Lizzie compiva silenziosamente, curando con amore la sua bambina e si
ricordò di quando, quella stessa donna, l’aveva
accolto nel suo bar, trattandolo come fosse suo figlio, con una
dolcezza che non ricordava di aver mai visto neanche negli occhi di sua
madre.
Un frammento di ricordo squarciò per un attimo il ghiaccio
che aveva permesso di rafforzarsi intorno al suo cuore, ma fece di
tutto pur di non cedere.
Chiuse la porta della stanza alle sue spalle dopo aver fatto uscire
Lizzie e raccogliendo i piatti sul tavolo e gli ultimi resti della
cena, cercò Robert senza successo.
La cosa lo rincuorò, perché ormai vedeva Robert
come un nemico dal quale doversi difendere.
Aveva timore di lui, provava imbarazzo ogni volta che i suoi occhi
indagatori cercavano di capire, di afferrare qualsiasi particolare che
potesse svelargli il perché di tante cose, prima cosa fra
tutte: la scomparsa quasi totale di Jay dalla loro vita.
«Pensavo fosse una festa. Come mai eravamo solo
noi?» chiese il ragazzo affiancandosi a Lizzie intenta a
sciacquare i piatti in cucina.
«La festa sarà domani al parco giochi. La mia
vicina ha due gemelli dell’età di Nina e ha
organizzato questa piccola festa per bambini. Saremo mamme e tanti
marmocchi chiassosi. Ho voluto organizzare questa cena di compleanno
per invitarti. Per farti vedere la bambina.»
«Hai avuto… un pensiero gentile.»
rispose sfiorato da quel piccolo senso di colpa che, normalmente,
metteva a tacere ogni volta che non rispondeva alle chiamate di Lizzie.
«Non posso pensare che la mia bambina cresca senza
conoscerti.» infierì ancora la ragazza, provocando
un sospiro afflitto di Jay che, allontanandosi da lei, cercò
forzatamente di trovare qualsiasi altra cosa sul quale spostare
l’attenzione.
Vide il vecchio jukebox all’angolo e si voltò
verso Lizzie, indicandolo ma, prima che potesse parlare, si
ritrovò davanti gli occhi in lacrime della ragazza che, in
silenzio, lo scrutava alle sue spalle.
Jay estese il suo sguardo altrove pur di non guardarla, tamburellando
le dita sul tavolo, mordendosi le labbra per non permettere alle prima
parole di uscire incautamente.
«Tu mi manchi.» mormorò lei, pregando di
sentire una risposta rassicurante, tipica del suo vecchio amico.
«Non ne hai ragione. Sono qui.»
minimizzò avvicinandosi alla finestra, dandole le spalle.
«Capisco che molte cose siano cambiate e che, quindi, il
nostro rapporto non possa essere più come quello di una
volta ma… sei tu ad essere cambiato. Una volta avresti fatto
i salti mortali pur di rimanermi accanto, pur di far parte della vita
della bambina, adesso sei distante. Non sorridi più, non mi
guardi più con tenerezza. Ricordo ancora quando ebbi minacce
d’aborto, tu mi stesti accanto, mettendo da parte i tuoi
impegni, prendendoti cura di me. Adesso sei un groviglio di sentimenti
incomprensibili e non mi permetti di avvicinarmi a te. Io ti ho amato,
Jay. Ti ho amato come amica, ti ho amato come madre e ti amo ancora ma
non so più cosa devo fare. Speravo che questa serata potesse
essere…»
«Non si possono raccogliere e mettere insieme cocci di un
qualcosa che si è rotto.»
«Ma tra noi non si è mai rotto
niente…»
«Io sì. Io mi sono fatto in mille pezzi. E sto
cercando di rimetterli insieme ma devo farlo da solo.»
rispose monocorde.
«Perché non mi guardi quando parli? Da cosa vuoi
nasconderti?» chiese avvicinandosi a lui, posandogli una mano
sulle spalle che, puntualmente, si scrollò di dosso
allontanandosi. «Non mi permetti neanche di
toccarti.» affermò sicura, con la mano ancora
sospesa a mezz’aria, impossibilitata a posarsi dove avrebbe
voluto.
Con i gomiti poggiati al davanzale, Jay guardava distrattamente i
passanti in strada, desiderando di mischiarsi a loro. Si sentiva come
un leone in gabbia; se avesse avuto la certezza di non ferire Lizzie
sarebbe scappato da quella casa, dalle domande, dalle pressioni. Scelse
di rimanere, lei meritava qualche spiegazione in più,
nonostante non potesse dargliene delle dettagliate: «Sono
cambiato, sono diverso.» sussurrò stanco, come se
stesse prendendo coscienza della cosa solo in quel momento. A forza di
rendersi totalmente indifferente a se stesso aveva quasi dimenticato
chi era stato in passato, ma Lizzie non l’aveva dimenticato,
così si accostò al muro in silenzio, in attesa di
spiegazioni.
«Quando mi chiami non mi nego perché non sei
importante o perché io non provi dei sentimenti per te. Tu
sei e sarai per sempre l’unica donna che io abbia mai amato,
a mio modo. Ma sono diverso e…» si
fermò per un istante e si voltò, dando finalmente
le spalle alla finestra e non a lei «Lizzie, il mio
cambiamento è così insopportabile anche per me
che non mi sento più di meritare la tua presenza. Sono
così patetico e disgustoso da sentirmi completamente fuori
luogo quando sto con te. Una volta ero un ragazzo capace di godere
delle tue risate, dei tuoi abbracci, adesso quelle stesse cose mi fanno
sentire vuoto dentro.» concluse digrignando i denti,
combattuto tra l’indignazione e la resa.
«Non posso più correre dietro la tua ombra, non
perché io non lo voglia, ma perché desidero
davvero riuscire a trovare un modo per tirarti fuori dal grigiore nel
quale ti sei chiuso; correrti dietro non è la soluzione.
Ciò che posso fare è dirti che io sono sempre
Lizzie, sempre la solita e che ci tengo a te.»
riuscì a sfiorargli il mento senza essere respinta e con
dolcezza gli spostò la ciocca di capelli che aveva avuto per
tutto il tempo davanti agli occhi e azzardò:
«Vorrei che tutto potesse ritornare come una
volta.».
Rimasero a guardarsi occhi negli occhi in silenzio mentre Lizzie gli
stringeva il viso, costringendolo a non spostare lo sguardo da lei.
Voleva svegliarlo, convincerlo che avrebbero potuto ricostruire
ciò che la morte di Izaya aveva distrutto, così
sorrise impercettibilmente per incoraggiarlo e per fargli capire che
non era solo, non lo era mai stato.
Lo scatto repentino di Jay, però, fece crollare ogni
speranza: ancora una volta si era sottratto alle sue mani, alle sue
parole; Lizzie sentì di non essere davvero più in
grado di consolarlo.
«Non lo capisci che non è possibile?
Ormai siamo due persone con due vite diverse, con esigenze agli
antipodi e poi… come si può tornare ad essere
come una volta adesso che Izaya non c’è
più? Come puoi pretendere questo da me?» chiese
senza l’ombra di una lacrima, ma solo con enorme rabbia negli
occhi.
«Non lo so. Non ti sto dicendo che dobbiamo farlo, ti sto
chiedendo di provarci…»
«Non posso.» la interruppe categorico, tagliando
l’aria con un gesto della mano per poi ricominciare a parlare
come un fiume in piena, ma colmo di rassegnazione: «La morte
di Izaya non è l’unica ragione. Il fatto che lui
sia morto ha dato solo il via ad un qualcosa che non riesco
più a fermare. Mi sento così indifferente nei
confronti di tutto e di tutti, nei confronti di me stesso. Non riesco
più a sentire niente, io vorrei provare qualcosa ma non
sento niente.» rimarcò con malessere, come se quel
niente lo stesse consumando dentro. «Non
c’è sorriso, non c’è
abbraccio che io riesca a vedere e ad apprezzare. Non esiste persona
che riesca a farmi sentire felice solo perché
c’è. Non mi importa più di niente e il
non riuscire a spiegarlo mi fa chiudere ancora di più in me,
perché io lo spiego ma tutti rispondono:
“È impossibile. Nessuno riesce a diventare
così insensibile, sono solo le circostanze!”. No,
cazzo!» urlò, stavolta con lo sguardo colmo di
lacrime di rabbia. Si costrinse nuovamente
all’aridità, davanti ad una Lizzie travolta dalle
sue parole impietose. Jay si asciugò le lacrime come fossero
qualcosa dal quale doversi liberare in fretta e, concludendo il suo
sfogo, si arrese: «Ad un certo punto ho deciso che mi faceva
tutto troppo male e qualcosa in me è scattato: non ho
provato più dolore, ma ho sacrificato tutto il resto.
C’è una piccola parte di me, del vecchio Jay, che
ogni tanto esce fuori ma non è abbastanza forte per imporsi
ed io non ho nessuna intenzione di permetterglielo. Se continuare a
sopravvivere significa perdere gli amici,
l’umanità e i ricordi allora rinuncio a tutto.
Voglio sopravvivere, vivere non mi interessa, non fa più per
me. Ma tranquilla: Sto bene!».
Se il silenzio avesse avuto un peso probabilmente Lizzie e Jay
sarebbero rimasti schiacciati a morte. Non c’era
più nulla da dire…
Era uscito di casa in silenzio dopo averla baciata sulle labbra, come
era solito fare. Non si dissero “addio”, ma
mollarono entrambi la presa. Si arresero, nessuno riuscì a
convincere l’altro e per non dover pentirsi di aver forzato
la mano chiusero il discorso.
***
Jay non provava più niente: non sentiva traboccare il cuore
di felicità alla sola vista della bambina, non si sentiva
più leggero con il sorriso di Lizzie, non riusciva a
rassicurarsi con la presenza di Robert e non provava più
dolore.
L’unico sentimento che riusciva a farlo sentire ancora in
vita era la rabbia, ed il solo capace di scatenargliela era Brad.
Angolo Autrice.
Ciao! Questo capitolo è un po' più lunghetto
rispetto agli ultimi postati, questo perché era importante
chiarire i rapporti che ormai si sono instaurati tra Jay e il resto dei
personaggi. Nel prossimo capitolo ci sarà un risvolto
particolare e dal prossimo ancora... (minispoiler)... qualcuno si
rifarà vivo. Dai, già so a chi sta pensando, non
fate i finti tonti. Per le fan sfegatate di un tizio in
particolare il capitolo 27 sarà importante :P
Voglio ringraziare tutti quelli che mi leggono e mi commentano.
Bijouttina che nello scorso capitolo ha tirato fuori le unghie alle
grande, Babbo Aven che amo per il suo buon cuore che, a volte, gli fa
vedere le cose migliori di quello che sono, Elsker che mi scrive sempre
cose che mi fanno commuovere, Ghost che amo enormamente,
Ally_M che sta all'inizio, quindi, finché vede questo angolo
autrice magari sono già morta (:O vi immaginate se schiatto
prima di finire la storia?? O_O).
Ringrazio Ladywolf la mia dorata fonte di risate, ispirazione e un
sacco di altre cose, Emide mia che mi manca T_T, Moloko che legge e lo
so, Oxymoros che legge e lo so, Mrs Burro che legge e lo so e tutti
quelli che leggono ed io lo so.
Ringrazio WarHamster che è meravigliosa e punto.
Grazie a DarkViolet92 per le sue recensioni che sembrano tanto
riflessioni.
Grazie a tutti quelli che leggono in silenzio e quindi tutti quelli che
hanno messo la storia nelle Preferite/Ricordate/Seguite.
Grazie di cuore a tutti.
Bloomsbury
p.s. questo capitolo è stato scritto con amore, ma quanta
sofferenza -.- Quindi mi scuso se ci dovessero essere refusi.
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Capitolo 26 *** The Small Print ***
"Take, take all you need
And i'll
compensate your greed
With broken
hearts
Sell i'll sell
your memories
For 15 pounds per
year
But just the good
days
Say, it'll make
you insane
And it's bending
the truth
You're to blame
For all the life
that you'll lose and you watch this space
But i'm going all
the way
And be my slave
to the grave
I'm the priest
God never paid."
The
Small Print- Muse
26. The
Small Print
“Quando la tempesta sarà finita,
probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a
uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero.
Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu,
uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è
entrato.”
Haruki Murakami
Odiava le feste.
Nello specifico odiava le persone che vi incontrava.
Per giorni Brad aveva cercato di convincerlo a presenziare,
finché ci era riuscito, o meglio, lo aveva costretto
velatamente.
Dopo essersi vestito elegante per il grande evento al quale avrebbero
partecipato, a detta di Brad, alcune delle personalità di
spicco del business londinese, si fissò allo specchio per
qualche istante e dopo mesi aveva veramente guardato il suo riflesso.
Non gli era più interessato conoscere il proprio aspetto;
non pensava fosse importante sapere se era bello, brutto, ordinato,
elegante: ormai il suo specchio era Brad, anzi, la sua espressione.
Quella sera lo aveva guardato estasiato e soddisfatto.
«Truccati.» gli
“consigliò” mentre il ragazzo
abbottonava i polsini.
«Mi hai preso per uno spaventapasseri?» chiese
senza neanche guardarlo.
Brad si avvicinò, ponendosi alle sue spalle; lo
afferrò dalla vita trascinandolo verso di sé
dalla cinta, per poi poggiarsi con il mento sulla spalla del ragazzo.
Squadrò il loro riflesso allo specchio e con estremo
compiacimento sorrise: amava ciò che vedeva.
Senza distogliere lo sguardo gli morse il collo, godendo del contatto
visivo. Dopo avergli passato la lingua sulla pelle lasciò
che i bollenti spiriti si calmassero: «Truccati.»
«Non uso farlo, non ho l’occorrente.».
Lo liberò di colpo per dirigersi in bagno; ne
uscì con ciò che serviva.
Jay pensò che quella pretesa fosse solo un'altra delle sue
tante fantasie erotiche; tesi avvalorata dagli sguardi accaldati e
ammiccanti che spesso gli aveva lanciato durante il viaggio in macchina.
Abbandonato sullo schienale dell’auto, Jay fissava la strada
cercando di capire dove questa fantomatica festa privata avrebbe avuto
luogo.
Vide riflessi al finestrino i suoi occhi contornati dalla matita nera
che, con linee marcate, faceva risaltare il colore chiaro delle sue
iridi: disgustoso.
***
Arrivarono nei pressi di Kensington e dopo aver percorso Holland Park
Avenue si fermarono davanti ad uno dei tanti lussuosi condomini del
quartiere.
Scese dall’auto guardando in direzione dell’attico
ben visibile per via delle ampie vetrate che fungevano da pareti. Tutto
l’attico dava spettacolo di sé, riuscendo ad
illuminare con le sue luci finanche la strada:
«Un’umile dimora. Il proprietario sarà
felice di dire al mondo quanto è figa la sua
casa.» disse ironicamente, schiacciando al suolo la sigaretta
appena accesa e che Brad gli aveva strappato prontamente dalle labbra
prima che potesse fare il primo tiro: «Fai meno il
sarcastico, Jay. Ti farò conoscere la gente che
conta».
***
Non fu la ricchezza ostentata a sconvolgerlo, neanche il sontuoso
salone pieno di gente ben vestita, ma il fatto che ogni uomo si
accompagnasse ad un ragazzino, pressappoco della sua età,
con gli occhi truccati di nero. Ognuno era la copia
dell’altro. «Che cazzo di festa è
questa?» balbettò indietreggiando, vittima di un
inspiegabile paura che lo costringeva a spostare convulsamente lo
sguardo da un paio di occhi all’altro, sempre più
velocemente, rivedendo se stesso in ognuno di essi.
«Calmati. Non ho intenzione di venderti o di cederti o
qualsiasi altra cosa tu stia pensando. Non ti divido con
nessuno.» sibilò Brad servendogli un sorriso di
scherno.
«Non è questo il punto.»
precisò deglutendo a fatica «Mi hai
marchiato?»
«Ma come ti viene in mente?» l’uomo rise
divertito, bloccando Jay sul posto con la mano, stringendogli la spalla
«Hai una fervida fantasia, piccolo.»
«Non mi fare questo. Tutto, ma questo no.»
pregò guardandolo, stavolta, supplichevole.
«Non essere ridicolo. Non ti accadrà niente, non
esagerare. È una festa privata tranquillissima. È
solo un modo per passare una serata liberamente. Condividiamo i nostri
segreti in questo appartamento, tu sei il mio
“segreto” e tutti i ragazzi che vedi sono i
“segreti” altrui. Invece di impaurirti e pensare
chissà che cosa, conosci qualcuno e divertiti!»
«Qualsiasi cosa sia, mi fa schifo.»
«Come ogni cosa che mi riguarda, Jay.» concluse
Brad con pacata irritazione, stampandosi in viso un sorriso di
circostanza per poi lasciare il ragazzo in mezzo alla stanza
raggiungendo uno dei tanti uomini cartolina fatti di apparenze ma,
anche, di “segreti” marchiati di trucco nero sulle
palpebre.
Strinse gli occhi per allontanare da sé
l’agitazione e il disgusto e si allontanò dal
salone, raggiungendo le scale che portavano al piano di sotto
dell’appartamento: il piano più nascosto, quello
senza vetrate.
Camminò incerto, mischiandosi tra quella gente. Odiava far
parte di quella calca, ma ormai ci era dentro con tutte le scarpe.
Vide le coppe di champagne abbandonate su un grande tavolo moderno in
laminato e cercò senza successo una bottiglia ancora piena:
avrebbe bevuto, così per passare la serata con
più serenità. Senza alcun motivo posò
gli occhi su un ampio divano illuminato da un curioso lampadario
moderno che scendeva a pioggia dall’alto e dirigendosi in
quella direzione, si accorse delle persone sedute. Non ci aveva fatto
caso inizialmente, ma su quel divano c’erano uomini occupati
a chiacchierare distintamente, fumando sigarette; qualcuno abbracciava
il proprio “segreto” muto e silenzioso e proprio
mentre il suo sguardo venne catturato da due occhi neri e vuoti di uno
di questi, la sua attenzione, in automatico, si spostò
sull’elegante signore accanto a lui.
Lo stupore non gli fece accettare subito ciò che vide e si
arrestò sconvolto. Lo shock superò di gran lunga
la rabbia, perciò rimase impalato, muto, inchiodando con gli
occhi suo padre.
George Hahn beveva champagne serenamente, chiacchierando in modo
amichevole e del tutto informale mentre, con un braccio, cingeva
avidamente le spalle di un ragazzino silenzioso e assorto.
Per minuti interminabili lottò con il suo cervello che,
d’istinto, non riusciva a collocare suo padre in un posto
neanche lontanamente paragonabile a quello in cui in realtà
si trovava ma, poi, quell’immagine divenne una certezza.
L’incontro di sguardi avvenne irreparabilmente e George,
inespressivo, non distolse gli occhi da lui neanche per un istante;
apparentemente non sembrava stupito, ma il cuore in realtà
aveva perso un battito. Si alzò, scusandosi con i suoi
interlocutori dell’improvviso congedo e, rivolgendo un cenno
a Jay, sparì dalla sala.
Prima con incertezza, poi con impazienza, lo seguì lungo un
corridoio che separava la zona giorno dalla zona notte e non appena si
trovò nell’ufficio privato, privo di
illuminazione, del padrone di casa, la luce si accese e la porta si
chiuse alle sue spalle.
«Cosa ci fai qui?».
La voce di suo padre era sempre la stessa: severa, impostata, dura.
Per un attimo gli parve di essere ritornato indietro, a quel giorno in
cui quello stesso uomo lo aveva schiacciato senza esclusione di colpi.
Pensò alla serie infinita di circostanze che si vennero a
creare dopo quel fatto e si accorse che ne era passato di tempo; si
rese conto di non essere più quello di una volta. Si
voltò, trovandosi davanti l’espressione arrogante
che si aspettava, ma non si fece intimorire, anzi, lo imitò
alla perfezione di rimando: «Cosa ci fai tu, qui!?»
«Non credo di doverti dare spiegazioni.» rispose
inarcando le sopracciglia, con aria di superiorità.
«Beh! Neanche io.» concluse con un sorrisetto
sarcastico, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni,
appoggiandosi con le gambe incrociate alla scrivania. Nonostante il
cuore battesse all’impazzata rimase calmo e irremovibile,
fissandolo con aria di sfida.
«Io mi trovo qui perché conosco molti di quelli
presenti. Mi hanno invitato, ma non ho niente a che fare con lo stile
di vita di questa gente.» spiegò fingendosi
estraneo.
«Vallo a raccontare a qualcun altro, George. Ti ho visto
mentre abbracciavi quel ragazzo come fosse di tua
proprietà.»
«Anche fosse, non credo tu possa giudicarmi, non sei proprio
nella posizione visto il trucco che porti. Sembri una
prostituta…»
«E tu un ricco pervertito. Non so chi è
peggio.» lo interruppe senza andare per il sottile.
Seguirono momenti di impaccio in equilibrio tra l’intenzione
di attaccarsi ancora e la voglia di scappare, ma George, con ironia,
optò per la scelta meno saggia: «Quindi, il
ragazzo coraggioso che è venuto a prenderti a casa e che io,
sfortunatamente, non ho avuto il piacere di conoscere, alla fine ti ha
ridotto ad una puttanella d’alto bordo.». Prima che
potesse concludere la provocazione, si ritrovò gli occhi di
Jay pericolosamente troppo vicini. Con uno scatto si era staccato dalla
scrivania per raggiungerlo e sfidarlo: «Ti conviene
tacere.» gridò puntandogli il dito in faccia
«Quell’uomo non fa più parte della mia
vita. Chi mi ha messo in questa situazione è uno come
te.»
«Ti costringe, figliolo?» chiese con falsa
preoccupazione «Pensavo che i ragazzini come te si vendessero
spontaneamente.»
«Nessuno mi costringe…»
«Bene! Allora sono due le cose: o quel ragazzo con il quale
non stai più ti ha ridotto in miseria o sei semplicemente un
ipocrita arrivista. Mi aspettavo avresti trovato
un’occupazione decente arrivato a questa età,
invece fai la prostituta.» lo giudicò con estrema
leggerezza.
«Sai cosa ho sempre ammirato in te? Sei un barrister anche
nella vita privata, riesci ad attaccarti ad ogni cavillo pur di averla
vinta, ma con me non attacca.» lo provocò per poi
accusarlo: «Puoi offendermi quanto vuoi, ma una cosa
è certa: hai umiliato, offeso e abbandonato tuo figlio di
diciassette anni. Mi hai rovinato la vita e ho creduto per anni che tu
fossi uno sporco omofobo incapace di ragionare e poi, alla fine, vengo
a scoprire che invece non sei altro che un omosessuale represso che ha
sposato una donna che, certamente, ha scopato per anni controvoglia e
nel frattempo andava a caccia di giovani gay pagando il loro silenzio.
Dio, quanto mi fai schifo!» esclamò alla fine
digrignando i denti. La rabbia, fomentata dai ricordi che lentamente
risalirono tutti in superficie, ridisegnò le linee del suo
viso, rendendolo duro e spietato.
Izaya era stato in grado di cancellare i momenti di dolore causati dai
suoi genitori, lo aveva reso felice ma rivedere suo padre aveva
risvegliato il diciassettenne distrutto e mortificato che era stato,
fortificato, però, dagli eventi amari che avevano costellato
il resto della sua vita fino a quel giorno.
«Io conosco l’ambiente e avevo paura che tu potessi
cadere in situazioni del genere. Per questo avrei preferito
più un figlio malato che gay.». L’ultima
frase farcita di ipocrisia e di dilagante ignoranza stizzì
Jay che, però, non si lasciò perdere
l’occasione di sferrare l’ennesimo colpo:
«Certo! Quindi per farmi del bene hai preferito sbattermi
fuori casa: sei un genio, cazzo!» ironizzò
schioccando le dita e annuendo.
«Non ti ho mai sbattuto fuori casa, te ne sei andato
tu.»
«Se non me ne fossi andato probabilmente avrei fatto una fine
peggiore, sarei diventato come te: un omosessuale represso pieno di
rancore e rabbia. Io credo, invece, che tu avessi solo la fottutissima
paura che io potessi scoprirti mentre ti scopavi i culi dei
quattordicenni.»
«Non parlarmi così, non ti permetto di rivolgerti
a me in questo modo.» lo minacciò, puntandogli il
dito contro. Era così adirato da riuscire a mutare
completamente l’aspetto del suo volto; se avesse potuto
l’avrebbe ucciso pur di tappargli la bocca.
Gli occhi intrisi di odio di George si scontrarono contro quelli freddi
di Jay che, preso da una calma quasi disumana, si lasciò
andare ad una risata provocatoria: «Paparino, hai rinunciato
ai tuoi diritti di padre da un po’. Non sei nella posizione
di dirmi quello che devo o non devo fare. Io so solo una cosa,
però: non sono più quello che ero. Se da bambino
avessi saputo tutto ciò, probabilmente ne sarei rimasto
scioccato, oggi, invece, mi stupisco di me stesso perché non
solo non mi sento meravigliato, ma ho quasi voglia di andare a trovare
mia madre.»
«Non minacciarmi, Jay. Non metterti contro di me, ne pagherai
le conseguenze.» sussurrò tremante dalle collera.
«Sai una cosa, George?» si avvicinò al
suo orecchio per poi sussurragli: «Non me ne frega un cazzo.
Se vuoi uccidermi mi fai solo un favore.».
Uscì dalla stanza prima che il padre potesse rispondere e
non appena giunse nel salone principale vide Brad con aria trionfante
scrutarlo tra la folla.
Inizialmente non capì cosa volesse significare quello
sguardo, ma poi la cosa divenne fin troppo chiara: Brad sapeva che alla
festa ci sarebbe stato suo padre.
Non appena questa idea lambì la sua mente, ebbe la conferma
di quanto fosse meschino. Quell’uomo era un mostro e sapeva
di lui più di quello che aveva sempre lasciato intendere;
Jay capì quanto potesse essere pericolosamente macchinoso
solo dall’espressione divertita che aveva sul volto.
Li aveva fatti incontrare volutamente a quella festa specifica, dove
avrebbe potuto marchiarlo così da far capire al padre
ciò che in realtà era diventato suo figlio, solo
per il gusto di complicargli la vita, ferirlo a morte e, magari,
metterlo ancora di più nelle condizioni di aver bisogno di
lui.
Ma le sue aspettative furono tradite perché Jay, con un
cenno della mano, lo invitò fuori a parlare.
***
Lo raggiunse con cautela, togliendosi dalle labbra il sorriso che
pocanzi aveva lasciato scorgere senza nasconderlo.
Jay lo aspettava appoggiato all’auto, intento a fumare una
sigaretta: sembrava calmo, paurosamente controllato.
Il ragazzo che aveva difronte lo inquietava a volte: riusciva ad essere
così influenzabile eppure tremendamente enigmatico.
Non sapeva cosa aspettarsi ma in quel momento colse un sentimento che
fino ad allora non si era mai palesato. Nella foga di possederlo e
giocare bene le sue carte non aveva mai pensato
all’eventualità che, a lungo andare, avrebbe
potuto affezionarsi seriamente a lui.
«Dimmi.» lo affiancò. Stavolta era Brad
quello incerto e il fatto che Jay fosse in strada quieto e
apparentemente impassibile lo impaurì; più che
lui, la cosa che maggiormente lo spaventava era ammettere di provare
qualcosa, tanto da capovolgere i ruoli e renderlo l’unica
vittima del rapporto che con tanto affanno aveva instaurato.
Jay si voltò, manifestando apertamente il suo irremovibile
sangue freddo; una strana luce gli riempiva gli occhi verdi. Le labbra
rosse, infuocate dalla conversazione con suo padre, si mossero
lentamente per formulare le parole che Brad aveva appena scoperto di
temere: «Sparisci dalla mia vita.».
Era categorico, sicuro e terribilmente disperato; non di una
disperazione angosciata, ma terribilmente disinteressata.
Jay non aveva più paura, aveva accettato il suo cambiamento:
ormai era vuoto, privo di qualsiasi sentimento, non era neanche
più irritato: era morto con Izaya.
«Sapevo che ci sarebbe stato tuo padre, per questo ti ho
portato qui. Volevo aiutarti a prenderti un’ultima
soddisfazione.»
«Bugiardo.» lo accusò senza alcun
rancore «Non mi importano le tue ragioni, anche
perché sei così abituato a mentire che ormai non
te ne rendi neanche più conto. Non sono arrabbiato con te,
voglio solo liberarmi di te.».
«Jay…» lo stava perdendo e solo Dio
poteva immaginare quanto tutto questo gli facesse male. «Non
te ne andare.» lo implorò con la voce rotta in
gola. I suoi giochi stavano crollando, ciò che aveva
costruito era finito sotto i piedi di Jay che, implacabile, calpestava
ogni cosa.
«Non farti vedere mai più.» concluse
spegnendo la sigaretta sull’asfalto.
Si voltò, staccandosi dall’auto, e
cominciò a camminare, ad allontanarsi sicuro da quella casa
e da quei due luridi uomini che gli avevano rovinato la vita.
Brad, di colpo, perse ogni contegno e gli corse dietro per poi
afferrarlo dalla giacca: «Non te ne puoi andare. Tu non puoi
lasciarmi.».
Jay si divincolò, voltandosi verso di lui senza neanche
fermarsi: «Sparisci.» sussurrò.
Brad lo lasciò andare, immobilizzato dagli occhi trasparenti
e freddi che lui stesso aveva valorizzato pesantemente. Il trucco ormai
era sfatto, in ogni senso.
«Va bene, vaffanculo!» urlò furioso,
scuotendo le mani senza alcuna logica: «Volevo aiutarti. Mi
stai abbandonando, Jay. Mi stai lasciando?».
Non ricevette risposta e non appena si accorse che urlare non sarebbe
servito a niente smise di farlo, continuando a scrutare la figura
sicura e fiera dell’unico ragazzo che avesse mai desiderato
fino alle viscere sparire all’orizzonte senza mai voltarsi.
Angolo Autrice.
Rieccomi. Spero che questo capitolo vi sia paiciuto e aspetto con ansia
i vostri commenti. *è curiosa*
Non ho molto da dire, solo che sto scrivendo tanto e sono felice
perché sto riuscendo a completare una storia che anche se ho
pubblicato pochi mesi fa c'ho sul groppo da un anno.
Scrivere di Jay non è un peso e mi mancherà
quando sarà finito, spero mancherà anche a voi,
ma ultimare la storia è diventata una questione di principio
U_U
Voglio ringraziare Bijouttina che so che farà i salti di
gioia (ma non cantare vittoria troppo presto), Babbo Aven con il quale
riesco perfettamente a scambiarmi opinioni su questa storia con totale
schiettezza, LadyWolf che sa come finisce :P, Elsker che
è sempre la mia piccolina adorata e che riesce sempre a
stupirsi ad ogni capitolo e che mi ha consigliato questa citazione che
ho scelto di inserire all'inizio di questo capitolo, DarkViolet92 che
c'è sempre, Ghost che è una delle prime a sapere
come finisce ma legge lo stesso con amore, Julie che proprio adesso
è ai capitoli idilliaci di Izaya e ancora non sa che
è morto e quando ci arriverà mi
ucciderà (ho distrutto la sua ship) e poi voglio ringraziare
chi è ancora all'inizio ma che arriverà alla
fine, chi è sparito ma so che ritornerà: Mrs
Burro, Fox, Ita, Nahash, SorellaGrimm e se dimentico qualcuno
uccidetemi, e tutti quelli che leggono silenziosamente o che mi fanno
sapere in altro modo cosa ne pensano: Oxymoros ad esempio :P
Ringrazio Moloko che legge e ogni tanto mi minaccia dicendomi: "ho
delle cose da dire" e mi fa aspettare facendomi tremare le chiappette.
Grazie a WarHamster che mi sta dando una grande mano d'aiuto a
sistemare la storia. Stiamo ancora ai primi capitoli ma presto
correggeremo tutti gli scempi che ho lasciato per strada.
Grazie a tutti quelli che hanno inserito la storia nei
Preferiti/Ricordati/Seguiti.
A presto.
Bloomsbury
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Capitolo 27 *** Lullaby ***
“On
candystripe legs the spiderman comes
Softly through the shadow of the blissfully dead
Looking for the victim shivering in bed
Searching out fear in the gathering gloom
Suddenly!
A movement in the corner of the room!
And there is nothing I can do
When I realise with fright that
The spiderman is having me for dinner tonight!”
Lullaby-
The Cure
27. Lullaby
Ci sarebbe andato.
Per ripicca o forse per prendersi una soddisfazione, aveva deciso di
andare a casa di sua madre e dirle tutto.
Sarebbe entrato e una volta lì, davanti a lei, le avrebbe
spiattellato in faccia ogni cosa. Gli avrebbe raccontato di suo padre,
di se stesso, di tutti gli anni che aveva vissuto senza il suo
appoggio; le avrebbe parlato di Izaya e di quanto lo avesse amato e
avrebbe urlato tutto il suo odio per il destino che glielo aveva
portato via e se lei avesse cercato, anche solo con uno sguardo, di
sminuirlo o ignorarlo, avrebbe spaccato ogni cosa accusandola,
scagliandole addosso tutto il suo disprezzo.
Il motivo che lo spingeva ad agire era sconosciuto anche a lui stesso,
ma la voglia di urlare e di sfogarsi lo aveva reso prigioniero. Doveva
tirare fuori la rabbia che sentiva crescere sempre di più.
Aveva voltato le spalle a Brad con freddezza eppure la collera aveva
cominciato a montargli nello stomaco senza spiegazioni.
Riconobbe in ogni piccola cosa il quartiere nel quale era nato e
cresciuto; camminò sempre più deciso, superando
il muretto sul quale aveva scritto di suo pugno tutte le battute
divertenti da ricordare che aveva condiviso con Chaz, calpestando la
sgommata che aveva lasciato con la sua bici da bambino quando, sul
marciapiede, non aveva calibrato abbastanza bene la velocità
mentre suo padre lo rimproverava impaurito.
Si lasciò alle spalle ogni cosa, tranne una.
«Jay!».
Si fermò.
Niente l’avrebbe fermato, ne era certo, tranne lui.
Vide la sua sagoma avvinarsi con incertezza ma poté
riconoscere perfettamente la sua andatura nonostante non fosse ancora
chiara la sua immagine.
Non lo raggiunse, ma attese il suo arrivo sentendo scalciare qualcosa
dentro. Dopo mesi provava qualcosa di diverso dal rancore.
Era vicino.
Non solo lo vedeva, ma riusciva a percepirlo con una forza tale da
fargli perdere il fiato. Erano passati quasi quattro anni, eppure, Chaz
sembrava sempre lo stesso: gli occhi neri senza alcuna ombra, le labbra
ben delineate con un pizzico di sorriso imbarazzato. Occhi neri nel
quale si era perso per minuti e minuti neanche troppo tempo fa.
«Come stai?» chiese Chaz stando a debita distanza,
come se avesse paura di valicare un confine ormai troppo netto.
«Sto bene.» lo fissò con cautela e
incredulo; temeva di avere davanti un fantasma.
«Come al solito: è sempre la prima risposta che
dai.» ironizzò con una punta di nostalgia, per poi
avvicinarsi un po’ di più verso quel ragazzo
così diverso nell’aspetto, nello sguardo, eppure
così uguale nelle risposte e probabilmente
nell’essenza: «Sono infinitamente felice di
vederti, Jay.».
Una volta lo avrebbe certamente abbracciato, avrebbe corso verso di lui
e l’avrebbe stretto con tutta la forza che aveva in corpo,
adesso lo fissava incerto.
Cercava parole da dire, cose da fare per manifestargli ciò
che sentiva dentro, ma rimase immobile.
«Sei ritornato a casa, alla fine?» chiese Chaz,
convinto che fosse lì perché ci abitava.
Jay si ricompose e disgustato solo dall’idea, rispose
categorico: «No. Non ci sarei mai ritornato.»
«Cosa ci fai qui, allora?» perseverò
senza notare l’agitazione e l’insofferenza che pian
piano prendevano possesso del corpo del suo vecchio amico.
Anni fa l’aveva lasciato lacerato, ma in procinto di rifarsi
una vita; lo ritrovava consumato, disfatto, come il trucco che portava
sugli occhi. Con un pizzico di soddisfazione pensò che Izaya
l’avesse deluso, preferì non ostentare apertamente
tale pensiero. Non era felice del fatto che Jay fosse triste ma che
Izaya avesse sbagliato tutto.
«Non c’è più, Chaz. Izaya non
c’è più. È morto un anno e
mezzo fa.»
«Ah…» mormorò con un nodo in
gola.
Capì che, in qualche modo, Jay avesse immaginato i suoi
pensieri e così aveva preferito precisare prima ancora di
sentirsi fare delle domande scomode, ciò lo fece stare male:
era stato l’autore di tanta indelicatezza, si
sentì come se avesse infierito direttamente sul corpo di
Jay, percuotendolo crudelmente: «Mi dispiace.»
«Tranquillo, sono le cose della vita.»
minimizzò senza credere neanche un secondo a ciò
che stava dicendo.
«Sono cose che fanno male.» concluse Chaz
fissandolo.
Lo guardò bene e si accorse di quanto quel ragazzo avesse
occupato ogni singolo giorno sebbene l’avesse estromesso
dalla sua vita.
Jay non si era mosso di una virgola, non si era avvicinato a lui come
non si era scomposto. Ogni parola pronunciata dalla sua bocca pareva un
pugno gelido in pieno stomaco ma la sua postura non era mai cambiata:
stava dritto sulla gamba sinistra, con le spalle rigide e la testa
leggermente rivolta altrove, come se stesse sempre sul punto di
andarsene. Ogni tanto postava lo sguardo da lui e si inumidiva le
labbra come se volesse fermare parole imprudenti.
Jay era bello e dignitoso tanto da metterlo in soggezione; Chaz non si
vergognò di ciò che pensava perché
dopo tanto tempo, nonostante i cambiamenti, ancora subiva il suo
fascino, sentendosi sempre più attratto da quegli occhi
limpidi che, diversamente dal solito, avevano qualcosa di
più che lo rendeva incantevole, insostenibile.
«Mi dispiace per quello che è successo.»
asserì con sicurezza sperando che Jay non riuscisse a
leggere ancora nel suo cuore. Il dispiacere esisteva, ma avercelo
davanti era la cosa più importante.
«Lo so che ti dispiace, ma…» si
fermò, mordendosi le labbra per frenare sul nascere il
sorrisetto divertito provocato dalle sue deduzioni perché,
come al solito, aveva colto i pensieri dell’amico.
Cambiò discorso: «Che hai fatto in questi
anni?» chiese rilassandosi, incrociando le braccia.
«Niente di che. Mi sono iscritto all’University of
Bath.»
«Bath!» esclamò inarcando le
sopracciglia e annuendo in segno di approvazione. «E per il
resto? Come stanno i tuoi?»
«Non ci sono al momento, sono in viaggio, torneranno tra un
paio di giorni.» rispose imbarazzato, dondolandosi per non
apparire impacciato; teneva le mani nelle tasche dei jeans per evitare
che Jay potesse accorgersi del tremore: l’emozione cominciava
a farsi sentire.
«Sono felice di averti visto, Chaz. Stammi
bene…» si congedò con
un’espressione compiaciuta e sorniona, servendogli un breve
sorriso. Si voltò ma, prima che potesse fare il primo passo,
l’altro ragazzo lo dissuase dal compierne altri:
«Aspetta!».
Jay indirizzò ancora lo sguardo verso di lui e attese.
Passarono minuti interminabili di silenzio, quei tipici attimi che a
contarli con l’orologio restano reali minuti ma che a
misurarli con la sensazione che lasciano addosso sembrano manciate di
eternità tutte concentrate in un istante.
Chaz esitava, così Jay non aspettò
più: si avvicinò sicuro ma senza alcuna irruenza
e gli afferrò il viso tra le mani per poi affondare la
lingua tra le sue labbra, gustandole, mordendole mentre sfiorava con il
pollice l’angolo della bocca per sentire attraverso il tatto
stesso la sensuale ed avida lotta.
Sebbene si trovassero in strada Chaz non protestò, ma si
lasciò accarezzare bramosamente e spingere piano piano verso
casa sua.
Jay continuava a baciarlo insaziabile come se avesse trattenuto per
anni un istinto che, prima o poi, sarebbe esploso e non appena furono
abbastanza vicini al cancello si staccò da lui, lo
afferrò per la mano e senza chiedere, senza pensare, si
introdusse nel giardino dell’amico portandoselo dietro con
prepotenza. Non voleva fermarsi per nessuna ragione al mondo, non erano
più amici, non avevano più niente da perdere
entrambi, così non gli diede il tempo neanche di negarsi
qualora Chaz avesse voluto.
***
Le sue mani
grandi lo stringevano con vigore e dolcezza, la sua pelle vibrava al
solo contatto con le labbra dell’altro e la mente si liberava
da ogni pensiero per lasciare spazio all’unica cosa che
importasse davvero: “Io ti amo, Jay.”. Lo
sussurrava a fior di labbra ogni volta che si ritrovava sul suo piccolo
ragazzo, mentre si spingeva sempre più dentro di lui. Si
muovevano insieme per sentirsi, per consumarsi, per afferrarsi, per
godere di ogni impercettibile sfumatura. Jay annusava, percepiva ed
indovinava ogni desiderio e così anche l’altro
che, con smaniosa nostalgia, si appropriava di ogni suo respiro,
intrappolandolo tra le labbra per poi portarlo ad infrangersi sulla
bocca di chi l’aveva appena generato. Non c’era
niente oltre il loro odore, oltre il loro desiderio, oltre il loro
amore. “Ti amo anche io, Izaya”.
Scosse la testa per
togliersi quel ricordo dalla mente mentre sfiorava con la lingua il
disegno perfetto e carnoso delle labbra di Chaz; seguiva con le labbra
ogni curva del suo corpo, da capo a piedi, per poi concludere il
viaggio nel punto più desiderato, tenendogli le braccia
immobilizzate all’altezza del petto, stringendogli i polsi in
una mano.
Chaz era stordito,
compiaciuto, incredulo. Felice.
I respiri affannati
riempirono la stanza in penombra, alimentando l’impazienza;
l’attesa divenne insostenibile in balia dei baci di Jay:
«Sei qui, con me.» sussurrò Chaz
divaricando le gambe per accorciare le distanze ancora un po’
e permettere a Jay di farlo suo con tutto il desiderio che avevano
collezionato in quei minuti fatti di intenzioni, di promesse.
Si mosse adagio sul
corpo accaldato che si concedeva apertamente a lui, e saggiando con la
punta delle dita il calore intriso di piacere, lo fece suo con impulso
strappandogli un lamento.
Sentiva la
barba folta di Izaya contro la propria spalla quando lui lo ghermiva, voltava
la testa per guardarlo di tanto in tanto mentre lo stringeva dentro di
sé, per cogliere la smorfia di piacere che non si sarebbe
perso per nulla al mondo: Izaya strizzava gli occhi e si mordeva le
labbra mentre si muoveva stringendogli i fianchi, accompagnando i loro
movimenti unificati e perfettamente simbiotici. C’era
dolcezza e frenesia, amore e sesso, felicità e divertimento.
C’era
Izaya.
Jay si mosse
più aggressivamente per distogliere la mente, strinse gli
occhi senza mai guardare Chaz. Si ammonì per questo e li
riaprì per vedere la faccia di chi aveva sotto di
sé mentre, con le ginocchia piantate al letto, infieriva
senza riguardo nelle viscere dell’altro.
Sapeva con chi era e non
l’avrebbe mai dimenticato, ma i ricordi lo torturarono fino a
strappargli le lacrime che poi lasciò cadere con rabbia,
stringendo i denti, nel momento in cui raggiunse l’apice,
invadendo di piacere ogni recesso.
Si lasciò
cadere supino sul letto, liberando dalla presa Chaz che, per tutto il
tempo, non si era minimamente accorto della presenza di quei ricordi
tra loro, non sapeva di essere una scappatoia neanche troppo efficace;
sorrise appagato mentre scrutava il solito lampadario che simboleggiava
l’abbraccio impossibile tra il sole e la luna e
pensò che, per un volta, in realtà era accaduto,
era stato possibile. Jay, invece, fissava il vuoto.
“Non mi lascerai mai, vero?”
“Non
potrei mai lasciarti.”
Angolo
Autrice
Coff Coff!
Ero un po' in crisi perché, effettivamente, non sapevo di
essere capace di scrivere scene un po' più... insomma, avete
capito.
Spero di essere stat efficace ma non volgare.
Voglio chiedere perdono stavolta a Babbo Aven. Forse questa scena non
è stata il massimo per te XD ma doveva esserci
perché, come hai potuto vedere, non è una mera
descrizione di una notte di sesso, è una serie di cose.
Quindi ti chiedo perdono: non lo faccio più :(
Voglio dedicare questo capitolo ad Oxymoros perché
sì e anche a Julie. A Julie perché in questi due
giorni mi ha fatto un regalo: ha deciso di portare avanti una crociata
per mettersi in pari e mi ha riempita di recensioni stupende che non
dimenticherò mai. Le sue reazioni mi hanno colpita molto e
spero di non averla depressa troppo (sì, ha scoperto che
Izaya è morto ): ).
Voglio ringraziare la splendida Bijouttina, LadyWolf e DarkViolet92
(grazie anche a te ma... spoilerizzi un sacco nelle recensioni
T_T).
Ringrazio un sacchissimo dal profondo del mio cuore Elsker
perché, non solo si è messa in pari, ma ha
scritto delle recensioni cariche di amore per Jay ed è una
consolazione per lui (per lui sul serio :P)... anche per me!
Grazie a tutti quelli che hanno inserito la storia nelle
Preferite/Ricordate/Seguite.
Se qualcun altro volesse lasciare un commentino ne sarei davvero felice
^_^
Un abbraccio.
Bloomsbury
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Capitolo 28 *** Final Masquerade ***
"Tearing me apart with
words you
wouldn't say
And suddenly
tomorrow's
a moment
washed away
'Cause I don't
have a reason
and you don't
have the time
But we both
keep on waiting for
something we
won't find."
Final
Masquerade- Linkin Park
28. Final
Masquerade
Lo aveva usato inizialmente. Forse per scaricare la rabbia o
semplicemente perché gli serviva qualcuno di affidabile che
l’avrebbe sfiorato con amore.
Jay si sentiva sporco e Brad aveva lasciato le sue impronte su di lui.
Aveva permesso ad un uomo incapace di provare emozioni di toccarlo e di
abusare della sua inadeguatezza. Quando faceva sesso con Brad non aveva
niente a cui pensare, a parte il disgusto che gli lasciava addosso;
cosa funzionale al suo reale scopo: dimenticare Izaya.
Chaz lo aveva sfiorato, baciato e accolto dentro di sé senza
usarlo, aveva goduto nel vederlo sciogliersi nel suo piacere. Avevano
fatto l’amore tutta la notte, fino alla mattina e,
lentamente, Jay era riuscito ad abituarsi a lui; a poco a poco aveva
messo da parte il ricordo di Izaya e aveva finalmente visto e percepito
l’emozione di quell’atto d’amore
così trasparente da indurlo a pensare di aver sbagliato
veramente tutto.
Se si fosse dato il tempo di riprendersi, senza donarsi a Brad solo per
autodistruggersi pur di non sentire la nostalgia dei sentimenti con il
quale Izaya usava invaderlo, molto probabilmente, con il tempo, avrebbe
trovato qualcuno come Chaz a leccare le sue ferite.
Accanto a lui c’era un ragazzo che l’aveva sempre
amato e si chiese se davvero meritasse quell’amore, se fosse
all’altezza di beneficiarne alla luce di ciò che
era diventato.
Aprì gli occhi accecato dal sole e solo allora si accorse
che Chaz non era più nel letto.
Si lasciò andare ad un sospiro, avvertendo il loro odore non
totalmente consumato dalle ore passate.
Si sedette sul letto, stropicciandosi gli occhi stanchi e dopo qualche
secondo si alzò e si diresse, ancora nudo, verso la
scrivania sul quale aveva studiato per anni in compagnia del suo unico
amico.
Alcune cose non erano mai cambiate: i post-it con le citazioni
più belle delle canzoni, i volantini di tutte le feste alle
quali erano andati insieme, la cornice nella quale c’era
sempre stata una loro foto insieme, seduti sul solito muretto;
l’afferrò e si accorse che quella foto non
c’era più.
Al suo posto c’era un’immagine di una ragazza
sorridente, con lunghi capelli neri ed un sorriso aperto e solare.
Contrasse la fronte nel tentativo di capire chi potesse essere e
pensò che se avesse cercato altrove l’avrebbe
scoperto.
Depose velocemente la foto dov’era come se scottasse e
guardandosi intorno nervosamente udì la voce di Chaz fuori
dalla stanza: parlava a bassa voce in modo da non farsi sentire.
Jay aprì la porta e sbirciò lungo il corridoio
dove vide l’amico seduto sul pavimento, impegnato in una
telefonata. Per i primi momenti non riuscì a sentire le
parole né a capire il discorso, ma qualcosa di
inequivocabile lo stordì tanto da costringerlo ad entrare
nuovamente nella stanza, chiudendo la porta senza fare rumore:
«Julia, sì amore, ti chiamo dopo.
Tranquilla!».
Una volta dentro, Jay cominciò a camminare avanti e indietro
per tutta la stanza, scompigliandosi i capelli, tormentandosi le
labbra, stropicciandosi gli occhi come se volesse convincersi di aver
inteso male ciò che, invece, era chiarissimo.
Dopo poco Chaz ritornò in camera; non si aspettava di
trovarlo sveglio né in piedi e imbarazzato della sua
nudità così apertamente ostentata, prese da terra
i pantaloni del ragazzo per poi lanciarglieli contro con un sorriso:
«Vestiti!»
«Ti imbarazza vedermi nudo?» chiese Jay ancora
stordito.
«No, è che…»
«Sono l’unico uomo che hai visto nudo.»
stabilì con sicurezza.
Chaz rimase per qualche secondo in silenzio, senza sapere cosa avrebbe
potuto rispondere.
«Non sei abituato a vedere un uomo nudo perché
stai con una donna, Chaz.» lo accusò con delusione
e con una calma tale da renderlo incapace di rispondere con prontezza.
«Ti sei frenato, hai soffocato ciò che sei, giochi
a fare l’eterosessuale felice con una vita perfetta accanto
ad una fidanzata inconsapevole. Ti stai prendendo gioco di lei, di te
stesso. Ti sei preso gioco di me.» continuò
monocorde fissandolo con insistenza negli occhi.
«Non è così
semplice…»
«È più chiaro di quel che
credi.»
«Chi sei tu per giudicarmi?» chiese Chaz
inaspettatamente, rivolgendogli lo sguardo con disprezzo.
Jay raccolse i resti del suo vestiario da terra e senza dire altro
cominciò a vestirsi.
«Non sono omosessuale. Pensavo di esserlo in passato ma mi
piacciono le donne…»
«Mettiti d’accordo con il tuo cazzo, allora. Fai
discorsi così infantili da farmi venire i brividi:
“mi piace la fichetta, i pisellini mi fanno
schifo.”» lo scimmiottò senza remore,
dandogli le spalle mentre, con infinita calma, indossava i pantaloni.
«Non ci vediamo da quattro anni, cosa vuoi saperne di
me?»
«Di te niente, ma sono abbastanza grande ormai da capire come
vanno le cose.» lo disse con quella tipica rassegnazione dei
disillusi. Lo guardò per qualche istante aspettando
un’amissione a cuore aperto, ma quando vide che Chaz
insisteva nelle sue illogiche convinzioni lo raggiunse d’un
tratto, spingendolo verso il muro. Lo costrinse alla parete,
toccandogli l’inguine con veemenza, insinuando le mani nei
pantaloni: «Non ti piace? Dimmi che ti fa schifo ed io me ne
andrò senza giudicarti.» gli chiese avvicinandosi
a lui, sfiorandogli le labbra con le sue. Chaz rimase inerme, incapace
di opporsi. Sentiva il respiro caldo di lui addosso, le mani sempre
più avide, la bocca carnosa e morbida sulla sua e non appena
la reazione a quel tocco si fece ovvia, Jay lo liberò di
colpo, lasciandolo con un palmo di naso. «La risposta mi
sembra chiara.» concluse raccogliendo la maglietta da terra.
«Sei diventato un fottuto stronzo.»
«E tu un gay represso, come uno di mia conoscenza.»
lo additò con ironia, riferendosi a suo padre.
«Non hai pensato minimamente alla possibilità che
le mie reazioni con te siano del tutto esclusive? Io sono stato confuso
in passato, Jay… ti ho amato. Ti incontro di nuovo dopo
anni, dopo aver sofferto per te e mi sono sentito spiazzato. Non andrei
mai con nessun uomo al di fuori di te.»
«Non è così. Sono l’unico
uomo con cui hai condiviso la tua reale natura e non appena sei sparito
dalla mia vita hai perso l’unica cosa che ti tenesse con i
piedi per terra. Eri deluso, amareggiato, avevi paura di confessare e
hai trovato la via più facile non appena una ragazza ha
dimostrato interesse nei tuoi confronti.»
«Cosa ti fa credere che sia andata davvero
così?»
«Dimmi che ho torto.» lo intimò
intrappolandolo nel suo sguardo categorico e deciso.
«Hai torto.» rispose con titubanza, negando.
«Bugiardo!» esclamò con un sorriso
sarcastico stampato in faccia.
Era duro ma, ancora, non sapeva bene se intenerirsi di tanta
insicurezza o indignarsi per la traboccante codardia.
Si sedette sul letto, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
Prima di sparire ancora dalla vita di Chaz avrebbe fatto qualcosa per
aiutarlo: «È vero, sono diventato uno stronzo, ma
ci tengo a te. Ti ho sempre pensato e ti ho immaginato libero e felice
chissà dove, in compagnia di un uomo che meritasse il tuo
amore e che ti amasse come sono stato amato anche io: senza paure,
senza segreti.» disse con il sorriso di Izaya stampato nella
sua mente; un sorriso così pieno da fare male.
«Voglio il meglio per te e non so come dartelo, quindi mi
limito a dirti l’ultima cosa: non avere paura. Essere
omosessuale non è un delitto, non uccidi nessuno ad
ammetterlo, anzi, uccidi te stesso se non lo fai. È un tuo
diritto essere felice ed è un tuo dovere fare in modo di
esserlo. Qualcuno sarà scontento, altri ti giudicheranno
male ma tu hai il diritto di guardarti allo specchio e riconoscerti, se
non lo farai avrai davanti sempre e solo il riflesso di un
estraneo.» il suo tono di voce era rassegnato anche se
consapevole e solenne.
«Cosa vedi tu, quando ti guardi allo specchio?»
azzardò Chaz, incuriosito dalla trasformazione di Jay che,
ormai, era più che palese.
«Uno che ha giocato male le sue carte, peggio di come lo hai
fatto tu. Ma ho una cosa in più di te: so chi
sono.».
Un relitto accasciato sul fondo del mare.
Si alzò e raggiunse la porta senza guardarlo.
«Sparirai dalla mia vita, Jay?»
«È solo uno sviluppo naturale delle cose, non
prenderla a male.» minimizzò sparendo dietro la
porta, lasciando Chaz a lottare da solo contro i suoi demoni. Se la
prima volta l’aveva lasciato andare con qualche rimorso,
stavolta, Jay sentiva di non poter fare nulla di più e
capì che se non era in grado di pensare a se stesso non
sarebbe mai stato capace di prendersi cura anche di lui.
***
Tutti avevano un segreto da proteggere, anche Jay ne aveva uno.
L’aveva difeso da Brad, da se stesso, se n’era
preso cura in silenzio e l’aveva coltivato amorevolmente
senza lasciarselo intaccare dall’efferatezza dei suoi gesti e
dalla sua sporca vita.
Le pettinava i capelli ogni volta che andava, a lei piaceva; stava
seduto sullo schienale della poltroncina rosa cipria dove lei
trascorreva i tre quarti della giornata.
Emily si lasciava sfiorare i capelli ciocca dopo ciocca, anche se non
aveva idea di chi fosse il ragazzo che la stava mettendo in ordine.
«Che cosa hai fatto oggi, Emy?» chiese Jay con
dolcezza, guardando fuori dalla finestra della stanza arredata in modo
spartano ma accogliente.
«Ho pensato.»
«A qualcosa di bello?»
«Ai fiori di loto.» rispose con un sorriso
consapevole ma gli occhi persi nei suoi pensieri.
«Sono belli i fiori di loto.»
«Qualche giorno fa, Charles mi ha regalato una bellissima
stampa cinese con un fiore di loto dipinto.» disse soltanto,
senza modificare il tono di voce incerto, simile a quello dei bambini
che non sanno ancora parlare e che cercano le parole per rendere
l’idea di un pensiero troppo complesso per le loro
capacità. «Sai cosa significa il fiore di
loto?»
«No, non lo so. Dimmelo tu.»
«Significa: rinascita.» spiegò
pacatamente. «Si dice che gli uomini primitivi, stupiti dal
risorgere del fiore dal fondo dei corsi d’acqua inariditi
dalla mancanza di pioggia, lo considerarono simbolo
dell’immortalità e della resurrezione. Il Loto
è capace di nascere e crescere dal fango rimanendo sempre
candido e puro, dalle tenebre oscure riemerge alla luce e rimette
ordine nel caos.».
Jay pensò ad Izaya senza un preciso motivo e si accorse che
cominciava a ricordarlo davvero troppo spesso e, sorprendentemente, non
faceva più così male. Gli faceva bene o, forse,
era proprio Emily a farlo stare bene.
La madre del suo unico amore aveva perso ogni ricordo e Jay non seppe
cosa potesse essere migliore: perdere i ricordi o morire lentamente per
la smania di soffocarli.
«John.» lo chiamò come era solita fare.
Izaya se n’era preso cura arrendendosi al fatto di essere
diventato un estraneo, Jay avrebbe fatto la stessa cosa:
l’avrebbe accudita diventando semplicemente John.
«Dimmi, Emy.»
«Non so, ma… c’è qualcosa che
mi manca. Mi sento triste. Forse perché Charles non
è qui.»
O forse perché, anche se non lo ricordi,
Izaya non è più qui.
«Può essere. Anche io mi sento triste per gli
stessi motivi. Ti manca l’uomo che ami, anche a me manca la
persona che amo.»
«Dopo di me hai trovato qualcuno da amare?»
«Sì. Dopo che mi hai lasciato per Charles ho
trovato qualcuno.»
«E dov’è adesso?».
Nonostante l’assecondasse in ogni cosa, fingendosi un suo
vecchio amore, nascondendogli il fatto che Charles fosse morto da anni
e che, quindi, non esisteva più, desiderava parlargli di
Izaya. Non l’aveva più fatto con nessuno.
«Adesso non c’è più. Io amavo
un uomo straordinario che mi ha dato tutto; si chiamava Izaya, e
perdendo lui ho perso me stesso, è come se non fossi adatto
a questo mondo. Ho continuato a vivere convinto che non esistesse
più un amore degno di essere vissuto e ho fatto troppi
errori, tante scelte sbagliate e adesso non sono più niente.
Non sono neanche più un uomo capace di provare
sentimenti.».
Emily pianse silenziosamente come se tra quelle parole esistesse
qualcosa che li univa.
In realtà condivideva davvero tutto: aveva perso suo figlio
senza averne coscienza e anche lei aveva perso l’amore della
sua vita; poteva comprenderlo appieno nonostante non se ne rendesse
conto lucidamente. «Sono convinta che tu sia come un
bellissimo fiore di loto. Se pensi che ci sia una persona degna di
essere amata, amala. Non sentirti come se non fossi in grado di provare
qualcosa perché ogni uomo, anche il più cattivo,
cerca l’amore. È un bisogno, una
necessità fisiologica; non chiudere le porte, tu puoi
rinascere anche da un corso d’acqua inaridito e bruciato dal
sole».
Angolo autrice.
Ciao! Ringrazio tanto tanto Elsker alla quale dedico questo capitolo.
Babbo Aven e Bijouttina alla quale dovrò regalare un camion
di fazzoletti. Ringrazio Julie e Sorella Grimm per le crociate per
mettersi in pari e Oxymoros per la sua luuuuuunghissima e bellissima
recensione. Ringrazio DarkViolet dicendole grazie per avermi scritto
una recensione priva di spoiler XD. Ringrazio Hime per avermi regalato
un numero tondo, Emide per avermi sostenuta e WarHamster per avermi
dato il suo punto di vista sull'incipit che, finalmente, ho partorito.
Grazie a tutti quelli che leggono questa storia e che l'amano. Grazie a
Ghost e a Mrs Burro. Grazie a tutti quelli che si stanno mettendo in
pari e a chi ha iniziato da poco. Grazie di tutto tesori *oggi
è romantica*.
Grazie a chi ha messo la storia nelle seguite/preferite/ricordate.
Un abbraccio.
Bloomsbury
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Capitolo 29 *** Volcano ***
"Don't hold yourself
like that
cause You'll hurt your knees
well I kissed your mouth, and back
But that's all I need
Don't build your world around
Volcanoes melt you down
And What I am to you is not real
What I am to you, you do not need
What I am to you is not what you mean to me
You give me miles and miles of mountains
And I'll ask for the sea."
Volcano-
Damien Rice
29. Volcano
Brad l’aveva distratto per molto tempo dalla sua vita,
infatti, rassettando la camera da letto del suo appartamento si rese
conto di non averla mai lasciata, neanche per una notte.
Aveva dormito a casa di Brad innumerevoli volte, ma era sempre
ritornato senza sentire il peso dell’assenza di Izaya,
stavolta lo sentiva: sparita la fonte principale delle sue distrazioni,
il ricordo dell’uomo che amava ritornò pienamente.
A volte si sentiva coccolato, altre avrebbe voluto scappare ma mai si
sarebbe distaccato da quella casa, nonostante facesse male. Avrebbe
fatto di tutto pur di tenerla ed era arrivata l’ora di
mettere in ordine la sua vita.
Si accoccolò sul divano, sorseggiando una tazza di
tè caldo davanti alla tv. Aveva cenato da solo evitando di
pensare troppo, aveva fatto la doccia distogliendo
l’attenzione da ogni piccola cosa: viveva distrattamente pur
di reggere la nostalgia che stava sempre in agguato, pronta ad
assalirlo.
I colpi vigorosi ed insistenti alla porta di casa lo risvegliarono dal
pericoloso stato di sovrappensiero che lo aveva reso un inconsapevole
prigioniero; aveva abbassato le difese e lo aveva pensato ancora, senza
accorgersene.
Si alzò dal divano ancora stordito, sorpreso dalla
capacità dei ricordi di insinuarsi riuscendo a non farsi
percepire e aprì la porta.
«Devo parlarti.» esordì Brad senza,
però, riuscire a finire la frase perché Jay,
già alla prima parola, gli aveva chiuso la porta in faccia.
Strinse i denti per non far caso all’umiliazione e
ricominciò imperterrito a richiamare la sua attenzione,
bussando sempre più impetuosamente: «Ti devo
parlare, Jay. Non me ne andrò di qui finché non
avremo parlato.»
«Vattene. Non aprirei neanche se arrivasse un terremoto,
preferirei morire sotto le macerie.».
La voce di Jay, al di là della porta, giunse pacata,
annoiata ma categorica. Brad capì che non c’era
molto altro da fare, se non essere sincero per la prima volta nella sua
vita: «Non aprirmi, ma devo dirti delle cose.» si
fermò per un istante, vergognandosi di ciò che
stava facendo. Pensò fosse patetico lanciarsi in una
dichiarazione d’amore fuori dalla porta di qualcuno, ma era
l’unica sua possibilità e avrebbe dovuto
giocarsela al meglio.
«So di aver commesso degli errori e di essere stato meschino,
ma sappi che tutto ciò che ho fatto, all’inizio,
era per interesse nei tuoi confronti, poi per amore, forse. Non so!
L’unico mio scopo era quello di tenerti con me. So che sono
un uomo inamabile e ho sempre creduto che servisse metterti
all’angolo per costringerti a provare qualcosa per me. Volevo
diventare l’unico sul quale tu potessi contare e ho messo in
pratica ciò che ho imparato in questi anni, senza rendermi
conto che tu sei diverso da tutti gli altri. Non meritavi
ciò che ti ho fatto; tu meriti la parte più
sincera di me, non quella che fa calcoli pur di…»
dovette fermarsi perché Jay aprì la porta
d’improvviso.
Rimase incredulo e non appena vide gli occhi del ragazzo
capì quanto gli era mancato. Soffocò un lamento
di infinito dispiacere per ciò che aveva fatto: era sincero.
«Non ho aperto la porta perché mi hai convinto, ma
perché odio queste scene patetiche sul pianerottolo di casa
mia. Puoi continuare il tuo monologo dentro.» concluse
scostandosi dall’uscio, invitandolo ad entrare.
Brad varcò la soglia incerto, guardandosi intorno,
sentendosi un estraneo e, in qualche modo, lo era davvero.
Jay chiuse la porta e sedendosi sul divano dal quale si era alzato
contro voglia prese la tazza di tè e lo fissò:
«Parla!»
Imbarazzato, cercò una posizione che potesse proteggerlo
dalla freddezza del ragazzo, così scelse di sedersi sulla
poltrona difronte a lui, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
«Dicevo… non lo so che stavo dicendo. Il punto
è che mi dispiace. Mi sono accorto di aver sbagliato con te
e vorrei dimostrarti che anche io posso cambiare. Posso cambiare per
te, Jay.» promise con le lacrime agli occhi.
Di fatto era pentito, ma i suoi trascorsi lo rendevano il
più brillante tra gli attori; non lo convinse pienamente.
Così, posando la tazza di tè sul tavolo per darsi
il tempo di pensare, lo squadrò per qualche istante per
capire se davvero credesse in ciò che stava dicendo.
«Sai cosa penso? Questa tua presa di coscienza ti fa onore e
credo che tu possa avere le capacità di costruirti un futuro
diverso, certamente più edificante, ma lontano da me. Quando
ti ho detto che con me avevi chiuso ero sincero, ero
convinto… sono convinto.»
«Ma hai sentito cosa ho detto?» chiese svilito:
«Io ti amo. Sono qui per dirti che voglio cambiare e voglio
farlo con te. Sei stato tu ad innescare questa cosa e adesso non puoi
abbandonarmi, devi aiutarmi a diventare un uomo
migliore…»
«Mi hai preso per uno psicanalista?» chiese
fulminandolo con gli occhi.
«Ti prego di non fare l’ironico.»
«Perché dovrei essere così gentile con
te? Non mi pare che tu abbia mai rispettato una mia esigenza.»
«Dici di provare disgusto nei miei confronti e poi ti riduci
come me?» domandò con calma dopo essere stato
travolto dallo straripante sarcasmo di Jay. «Se tu fossi
diverso da me non mi tratteresti così. Ti sto chiedendo di
aiutarmi. So che non lo merito ma non ripagarmi con la stessa moneta,
sarebbe molto più vendicativo, da parte tua, se mi trattassi
con compassione, con generosità. Innanzitutto capirei ancor
meglio la differenza che intercorre tra te e me.»
«Sei bravo con le parole, come sempre.» si
complimentò a fior di labbra.
«Sono sempre stato bravo con le parole, con i fatti sono un
disastro ma vorrei imparare a parlare meno e a fare qualcosa di
più… per chi amo.».
Il ragazzo sospirò stancamente: non credeva ad una sola
parola; ma i suoi occhi si persero di nuovo e senza consapevolezza
diede voce ai suoi pensieri con aria malinconica: «Conoscevo
uno che era l’esatto opposto. Parlava poco, il più
delle volte diceva stronzate per puro gusto, per divertirsi, ma poi
prendeva la mia vita e la rendeva migliore. Con i fatti non con le
parole. Tu mi chiedi di fare quello che quest’uomo ha fatto
con me ma c’è qualcosa che manca:
l’amore. Io non ti amo, Brad. E non ti amerò mai
perché…» si fermò stringendo
i denti, come se il dolore stesse prendendo sempre più piede
dentro le sue vene, ma poi quello stesso dolore fu un balsamo che lo
guarì dalla convinzione di non aver più nessun
sentimento nel suo cuore: «Non ti amerò mai
perché il mio amore è già riposto in
mani sicure. Io amo disperatamente, incondizionatamente un altro uomo.
Non c’è posto per te.».
Quelle parole furono una liberazione. Non se lo sarebbe mai aspettato,
ma ammettere di non essere totalmente privo di sentimenti lo fece
sentire forte: non provava più niente, ma amava ancora Izaya
con tutta la sua anima, non poté fare nulla per frenarsi.
«Non sapevo stessi con un altro.» disse
manifestando tutta la sua delusione, abbassando la testa sconfitto.
«Non ho detto che sto con qualcuno. Ho detto che amo un altro
uomo, è diverso.»
«Ma quest’uomo non ti vuole?»
«Quest’uomo mi vorrà in eterno, ormai.
Come lo vorrò io… è morto.»
concluse con un tono di voce assai strano: nonostante il contenuto
delle sue parole fosse devastante, la voce era sollevata, come se
avesse raggiunto una dolce rassegnazione nel quale si sarebbe cullato
per il resto della sua vita.
Brad lo guardò attonito, confuso da quella rivelazione
sciorinata a brucia pelo con arrendevole delicatezza, quasi disarmante
e così dolorosa da togliergli le parole di bocca.
Tutto avrebbe pensato, tranne che il demone ricalcitrante che viveva
sotto la pelle di Jay fosse il frutto di una mancanza così
devastante. Aveva avuto tra le mani un uomo demolito dalla perdita e
perfino lui riuscì a pentirsi di tutto quello che gli aveva
fatto.
Jay riuscì a percepire i sensi di colpa di Brad investirlo
con una forza sorprendente e rimase colpito dal suo sguardo smarrito,
relegato al pavimento, che non trovava più il coraggio di
destarsi e ristabilire il contatto visivo con lui.
“Non sentirti come se non fossi in grado di
provare qualcosa perché ogni uomo, anche il più
cattivo, cerca l’amore. È un bisogno, una
necessità fisiologica; non chiudere le porte, tu puoi
rinascere anche da un corso d’acqua inaridito e bruciato dal
sole.”.
Non si diede molte spiegazioni sul perché, proprio in quel
momento, le parole di Emily si fecero sentire forte e chiaro nei suoi
pensieri e nonostante fosse in sintonia con lei su molte cose, su una
era in totale disaccordo: non sarebbe mai rinato per amore, le sue
porte erano sbarrate; se per ogni vita ci fosse stato un limite massimo
di amore da provare, lui l’aveva raggiunto e superato con
Izaya; le sue capacità di amare si erano consumate con la
sua morte.
«Jay.» lo chiamò trovando finalmente il
coraggio di guardarlo: «Torniamo insieme, ti prometto che
cambieranno le cose. Sarò sincero e chiaro con te, ti
aiuterò sul serio a sistemare la tua vita ma tu, ti prego,
aiutami a sistemare la mia. Io ti amo.».
Quel sentimento così apertamente dichiarato suonò
stonato detto da lui, ma per il resto non aveva nulla da obbiettare.
L’aveva odiato con tutte le sue forze, ma dovette farsi
carico di una parte delle responsabilità circa la loro
storia: se l’avesse trattato con meno astio e avesse cercato
di rimetterlo in riga anziché lasciarsi affogare dalle sue
pretese, probabilmente, sarebbero riusciti davvero a salvarsi
vicendevolmente, trascinandosi in salvo.
«Parlami del tuo uomo, raccontami la tua storia. Voglio
conoscerti davvero, ho bisogno di sapere.» chiese Brad con
aria contrita.
Se non fosse stata la propria debolezza a convincerlo, non
gliel’avrebbe mai raccontata.
Si sentiva così stanco di lottare contro ciò che
provava che, d’un tratto, invitato da Brad, depose le armi e
si lasciò andare poco per volta.
Aveva bruciato tutte le sue foto, tranne una: la prima.
Non la mostrò a Brad, provava per quell’immagine
una gelosia inspiegabile tanto da costringerlo a difenderla dagli occhi
di chiunque, compresi i propri, ma decise di fargli conoscere Izaya
attraverso le sue parole, cominciando proprio dalla parte
più bella della sua storia, quella della loro prima
fotografia insieme affacciati al balcone della loro casa.
All’inizio fu titubante, come se non si fidasse a lasciare
nelle mani di Brad confessioni così preziose, ma il bisogno
di sfogarsi e di raccontarsi come non aveva più fatto lo
convinse a fidarsi e raccontò tutta la sua storia.
Raccontò tutto di Izaya.
Angolo autrice.
Stavolta sarò brevissima.
Non vi nominerò uno per uno come sempre, vi
ringrazierò tutti in egual modo perché, con
questo capitolo siamo a -5 capitoli alla fine della storia.
Chi più presente, chi meno, siete stati comunque tutti
importanti.
In cinque capitoli succederanno moltissime cose, compreso l'arrivo di
un nuovo personaggio :P
Non odiatemi, ma non vi posso lasciare senza darvi un'altra piccola
botta *_*
A presto!!!
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Capitolo 30 *** Winter Prayers ***
30. Winter
Prayers
Come un corso d’acqua in piena lasciò scorrere le
sue memorie, infrangendo gli argini, e Brad, seduto sulla riva di quel
fiume di ricordi, ascoltò in silenzio ogni cosa sperando di
non essere arrivato troppo tardi.
Aveva ascoltato la storia di un Jay diverso e che gli eventi avevano
mutato in una versione decisamente più anaffettiva e
distaccata: avrebbe voluto conoscere il vecchio ragazzo che solo le
parole avevano ricostruito in quelle ore. Capì di essere
stato anche lui la causa di tanta insofferenza nei confronti della vita
e volle fare qualcosa per rimediare; innanzitutto fece attenzione a
carpire da ogni parola il giusto significato, poi si lasciò
andare alle sue reazioni, le più sincere. Parlarono tutta la
notte di Izaya e di cosa la vita aveva riservato a Jay prima e dopo la
sua morte. Brad lo accarezzò, lo consolò per ore,
lo sostenne con tutto l’amore di cui era capace e solo
allora, quando fu chiaro che quell’uomo si fosse realmente
reso conto di quanto male aveva fatto, Jay si affidò alle
sue mani.
Fecero l’amore, per la prima volta, con una tenerezza che
gradualmente riuscì ad accomodare ogni ferita aperta. Non lo
guarì del tutto ma lo fece sentire meno solo e lacerato.
Brad aveva apertamente dichiarato il suo più profondo amore,
chiedendo perdono e offrendosi come spalla: voleva aiutarlo e prendersi
cura di lui, stavolta per davvero.
Si svegliò sentendosi più leggero e il fatto che
Brad l’avesse toccato non suscitò alcun disgusto
e, soprattutto, non pensò mai di voler scappare come invece
aveva fatto dal primo giorno in cui gli aveva messo le mani addosso.
Si alzò con una vaga sensazione di serenità e
sorrise pensando a quanto la vita potesse mettere in atto giochi
davvero strani ed incomprensibili. Fino al giorno prima aveva odiato
Brad con ogni cellula del suo corpo ed erano bastate poche ore per
scoprire un uomo diverso, dedito all’ascolto, alla
comprensione.
Udì rumori inconfondibili in cucina e capì che
Brad stava preparando la colazione; una morsa allo stomaco lo
incatenò al letto poiché provò la
distinta sensazione che Izaya fosse ancora vivo. Non era più
abituato a sentire rumori in casa ma cercò disperatamente di
infilarsi in testa che quello in cucina non era il suo uomo, il suo
amore.
«Buongiorno.» lo salutò imbarazzato una
volta raggiunto e Brad, sorridente e stranamente a suo agio, lo
omaggiò del suo sorriso più aperto:
«Buongiorno a te, piccolo.».
Ancora non riusciva ad accettare di essere il suo
“piccolo”, ma evitò di darlo a vedere
troppo. «Come mai prepari la colazione?» chiese
sedendosi sullo sgabello in prossimità della penisola.
«Tra poco vado a lavoro e non volevo svegliarti,
così avevo pensato di lasciarti qualcosa di
pronto.». Piazzò davanti a Jay un piatto con una
colazione assai carbonizzata ma lo ringraziò ugualmente.
È il pensiero quello che conta.
«Sono stato bene con te, stanotte.» disse Brad con
tono gentile. Dopo aver percepito una sorta di fastidio nei riguardi di
tale esternazione, preferì cambiare discorso:
«Puoi venire a cena a casa mia se vuoi. Immagino quanto possa
essere doloroso per te stare in questa casa e, soprattutto, con un
altro uomo.».
Brad artefice di tanta delicatezza sembrava più uno scherzo.
«D’accordo.»
«Dì la verità! Izaya era in grado di
prepararti una colazione del genere?» chiese con una
leggerezza tale da infastidirlo.
Per quasi due anni il nome di Izaya non era mai stato pronunciato con
così tanta superficialità e provò
rabbia nei confronti di Brad che osava tirarlo in ballo per sciocchezze
del genere: «Lui faceva molto di meglio, ma ti chiedo di
evitare di tirarlo fuori per cose così futili o anche solo
per fare stupide battute.» fu lapidario.
«Credo che continuare a dargli questa importanza sia
deleterio, Jay. Non voglio affatto deprezzarlo ma è morto,
non c’è più e conoscendo il
tipo…»
«Tu non sai niente di lui. “Conoscendo il
tipo” un corno!» lo rimproverò.
«Mi hai parlato di lui per ore e ad ogni parola ho sentito il
peso del confronto. Certamente era un bravo ragazzo ma temo che tu
l’abbia idealizzato troppo.»
«Ma come cazzo ti permetti a dire certe cose?»
sbottò alzandosi dallo sgabello: «Non provare
neanche per un attimo a metterti a confronto, non hai neanche un
mignolo degno di Izaya. Se avesse conosciuto uno come te
l’avrebbe messo al tappeto dopo un nano secondo.»
continuò avvicinandosi a lui, accrescendo il volume della
sua voce che, sempre più adirata, lo mise
all’angolo: «Quelli come te per sentirsi migliori
tendono a distruggere ogni cosa buona intorno. È facile per
una merda mettersi a confronto con la merda, riduci ogni cosa in niente
pur di sentirti superiore. Izaya è una spanna sopra
te…» non riuscì a finire lo sproloquio
perché Brad sentendosi sotto pressione lo costrinse a
tacere, piazzandogli uno schiaffo in pieno viso.
Dopo un primo momento di smarrimento il ragazzo lo fissò con
odio, reggendosi la guancia dolorante: «Questa me la
paghi.»
«Smettila di fare il bambino viziato. Se ci fosse stato qui
Izaya…»
«Izaya non c’è e non nominarlo,
cazzo!» urlò con le lacrime agli occhi.
Brad, fomentato dalla sua stessa frustrazione, prese Jay dal colletto
della T-shirt e lo trascinò con forza fino al salotto per
poi spingerlo a terra: «Hai detto bene, Jay: Izaya non
c’è. Sei tu che ti ostini a rievocarlo ogni volta
facendo sproloqui di mezz’ora sulle sue elevate doti morali.
Parli al presente, lo difendi come se ne avesse bisogno ed io mi sono
stancato. Se vuoi che io cambi veramente, se davvero, come mi hai
promesso, vuoi aiutarmi ad essere migliore devi cambiare atteggiamento.
Azzera ciò che c’è stato prima di
questa notte una volta per tutte e guardami per come sono adesso. E
smettila di provare rancore nei miei confronti, abbassa la voce quando
parli con me.» lo intimò sovrastandolo.
Jay rimase inerme sul pavimento, fissando il vuoto: aveva esagerato.
L’argomento Izaya aveva letteralmente annullato ogni sua
capacità di giudizio, si era adirato per niente e
capì di aver sbagliato ancora. Si era ripromesso di non
giudicare più così duramente Brad, ma
l’aveva fatto.
«Hai… ragione.» ammise con vergogna,
placando l’ira che ad ogni respiro si trasformò in
senso di colpa: «Non meriti questo. Ti chiedo di
perdonarmi.»
«Non posso risponderti adesso. Sono troppo incazzato e
sì, Jay: sono ferito!» ammise per la prima volta.
Con estrema fretta indossò la camicia mentre Jay si alzava
dal pavimento, afferrò la giacca e senza parlare
uscì di casa, lasciandolo solo e macchiato dalla colpa.
***
Era un mercoledì come tanti, tranquillo e senza grandi
programmi da mettere in pratica. La serata, stranamente priva di
nuvole, continuava a procedere senza alcun affanno, ma sotto lo stesso
cielo si consumano eventi diametralmente opposti e nonostante la calma
di quel mercoledì, una ragazza sola si avvicinava
all’Escape bar con aria imbronciata e a momenti incerta. Era
vestita elegante, effettivamente sembrava adatta a quel luogo, ma nei
suoi grandi occhi neri non vi era nulla di appropriato: nessuno
scintillio d’impazienza tipico di chi era lì per
divertirsi.
Mise piede nel locale trovando un ambiente particolarmente sereno e
guardando la locandina che preannunciava la festa imminente del sabato
e l’esibizione di Lulù, la drag queen
più famosa di Soho, sospirò afflitta: le sarebbe
certamente servita una serata come quella per dimenticare.
Fece una veloce panoramica del luogo e pensò di essere nel
posto più giusto.
Thomas, il suo ragazzo, l’aveva lasciata in tronco
costringendola ad uscire dall’auto; il suo ragazzo
l’aveva abbandonata a Soho, di notte, senza più
interessarsi a lei.
Inizialmente pensò che fosse stato solo un gesto di stizza e
l’aveva aspettato nello stesso punto per quasi
mezz’ora, ma non vedendolo tornare si era rassegnata.
Guardò le coppiette scambiarsi tenere effusioni sui
divanetti illuminati da una fioca luce blu e decise di andare verso il
bar. Forse avrebbe bevuto facendo una chiacchierata con il barista
sperando fosse un tipo affabile ma non appena la sua attenzione fu
catturata da altro, i suoi progetti cambiarono.
Vide un ragazzo con l’aria imbronciata, seduto su uno
sgabello, intento a bere una vodka. Aveva un’aria strana,
quasi malinconica, sembrava fosse costantemente sul punto di piangere;
guardava davanti a sé, dando le spalle al resto, come se
vedesse chissà cosa tra le bottiglie allineate sulla mensola
in cristallo del bar.
La ragazza lo squadrò per minuti trovando nei suoi occhi
qualcosa di irresistibile e di sorprendentemente genuino: appariva come
un essere puro incastrato in un contesto del tutto inadatto.
Cercò di mettere a tacere quei pensieri così
smielati e si avvicinò a lui adagio sperando di poterci
parlare.
Sedutasi allo sgabello accanto a lui, inizialmente fece finta di niente
incoraggiata dalla disattenzione del ragazzo che, con le labbra
arrossate attaccate al bicchiere, persisteva nell’ignorare
ciò che gli stava intorno.
Passò al setaccio ogni minimo dettaglio di lui: i bracciali
ai polsi, l’anello raffigurante una carpa koi al pollice, i
jeans stretti sulle cosce che terminavano a sigaretta, incastrati nelle
sneakers nere con la cerniera al lato: era giovane e ogni dettaglio
glielo suggeriva.
Lei aveva ventotto anni e lui sembrava un diciannovenne ma la cosa che
più di tutto la colpiva era quel meraviglioso sguardo che
indossava come fosse un indumento.
Guardò più di una volta il punto che rapiva
l’attenzione di quel ragazzo non trovandoci niente di
interessante, vedeva solo bottiglie di liquori.
«Scusa!» richiamò la sua attenzione.
Il giovane voltò lo sguardo verso di lei, senza muovere la
testa. Lasciò solo all’occhio destro il compito di
fissarla attraverso quel ciuffo che si ostinava a sfiorargli le ciglia
nere e lunghe; rimase in silenzio, si limitò a scrutarla con
le labbra porpora attaccate al suo bicchiere.
«Sono Beatrix…»
«Come La
Sposa!» esclamò lui, interrompendo la
sua presentazione.
Beatix non capì esattamente cosa volesse dirle e lo
guardò come inebetita per qualche minuto. Il ragazzo non si
scompose più di tanto e non ricevendo alcuna risposta
puntò nuovamente il suo sguardo verso quel mondo immaginario
che aveva il privilegio di vedere solo lui. Sentendosi frustrata dal
fatto che ci fosse qualcosa di più interessante di lei,
smise di parlare.
«Che ci fa una ragazza etero qui?» le rivolse
finalmente la parola, facendola sobbalzare sulla sedia come una bambina
alle prime armi.
Anche lei si fece la stessa domanda: Cosa ci fa un ragazzo etero qui?
La risposta fu ovvia: non era un ragazzo etero ed ecco spiegato tanto
disinteresse.
«Ero triste, non sapevo dove andare e mi sono infilata nel
primo locale che mi sono vista davanti! Diciamo che passavo di qua con
la macchina e, d’un tratto, mi sono ritrovata fuori, contro
la mia volontà.»
«Il tuo ragazzo ti ha mollata? Non fa sul serio,
tranquilla!» disse con certezza.
Cosa lo rendesse così sicuro non fu chiaro, così
glielo chiese direttamente: «Come puoi saperlo?».
Lui si voltò, per la prima volta, completamente, esibendo
uno sguardo del tutto nuovo, non più triste, era sicuro di
sé.
«Se avesse fatto sul serio non ti avrebbe lasciata davanti ad
un locale per omosessuali.»
«Non capisco che vuoi dire.»
«È noto che una donna per consolarsi tende a
cercare nuove avventure. Qui sarebbe impossibile.»
affermò lui con convinzione.
«Non tutte le donne!» rispose infastidita ma, prima
che potesse continuare, il ragazzo si avvicinò a lei con
fare ammiccante, provocatorio, cosa che la imbarazzò tanto
da costringerla a spostare gli occhi da lui.
«Visto?» concluse divertito.
«Cosa ti fa credere che io ci stessi provando con
te?»
«Intuito femminile.»
«Sei un uomo!»
«Certo! Ma sono un uomo dotato di intuito femminile. Per
questo penso che gli omosessuali siano evoluti: hanno i pregi di
entrambi i sessi.» desunse con scherzosa supponenza.
Beatrix non trovò molto altro da dire, anche
perché in qualche modo credeva che lui avesse ragione e,
poco dopo, si ritrovò davanti il suo sorriso solare, mentre
le porgeva la mano: «Mi chiamo Jay. Jay Hahn.»
Lei l’afferrò senza accorgersi che, nel frattempo,
l’attenzione di Jay si era già spostata altrove.
Stringendogli ancora la mano si voltò per vedere chi fosse
il destinatario di quello sguardo e scorse un uomo ben vestito
all’entrata.
Jay inchiodò quell’uomo e Beatrix poté
intravedere nei suoi occhi un misto di malizia e rassegnazione.
«Perdonami, Sposa. È
stato un piacere conoscerti.» si congedò senza
darle modo né tempo di replicare.
Lo ammirò allontanarsi tra la folla e sbirciò
l’incontro tra i due con curiosità. Li vide
abbracciarsi come due innamorati, osservando il contatto tra i due che
diventava sempre più intimo e una sorta di delusione mista
ad amarezza la pervase.
Vide “l’uomo ben vestito” toccare la
pelle di Jay sotto la camicia e, poco dopo, come era arrivato, se ne
andò portandoselo dietro docilmente.
Così Beatrix si voltò verso il bar e si
ritrovò a guardare lo stesso punto che pocanzi aveva
attratto così tanto il ragazzo che aveva appena conosciuto e
in quel momento vide la stessa cosa che, probabilmente, anche Jay aveva
visto per tutto il tempo: i propri pensieri materializzarsi come sogni.
Angolo Autrice.
Insisto nello scrivere angoli autrice brevi. Non perché non
voglio ringraziarvi, ma perché mancano quattro capitoli alla
fine di Jay e vorrei ringraziarvi tutti, per bene, nell'ultimo capitolo.
Vi ringrazio tanto per il sostegno, per le recensioni e un bacio a
tutti quelli che hanno inserito la storia nelle
Seguite/Preferite/Ricordate.
Spero vi sia piaciuto questo capitolo.
Al prossimo.
Un abbraccio.
Bloomsbury
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Capitolo 31 *** Drawbar ***
31. Drawbar
Izaya era arrabbiato come non si era mai visto: stava in silenzio con i
denti serrati davanti alla tv, tralasciando il resto.
Jay cercava di stargli distante pur di non rimanere vittima
dell’esplosione che presto o tardi sarebbe avvenuta; stava
relegato in cucina a preparare qualsiasi tipo di pietanza pur di
perdere tempo e assicurare al proprio uomo il giusto periodo di mutismo
che servisse a placarlo.
All’Escape avevano conosciuto Lee, un ragazzo omosessuale
pieno di interessi e che aveva vissuto per buona parte della sua vita
le stesse disavventure di Jay, per questo il ragazzo ne era rimasto
affascinato e colpito. Avevano parlato per ore nel privè
tagliando Izaya fuori dalla conversazione.
Lee aveva due occhi neri profondi e magnetici e parlava pacatamente,
gesticolando di tanto in tanto per rafforzare qualche concetto o
semplicemente perché amava ipnotizzare il proprio
interlocutore: Jay ne era rimasto ammaliato.
Izaya, dopo aver sopportato un’ora di discorsi dai quali era
stato sapientemente escluso, era uscito dal locale per una sigaretta e
non era più tornato.
Jay si accorse della sua assenza dopo qualche tempo e l’aveva
cercato con gli occhi impazienti senza successo. Mise il broncio,
lamentandosi con Lee di essere stato mollato in tronco dal suo uomo;
ovviamente, il moro lo aveva rassicurato dicendogli che
l’avrebbe accompagnato a casa lui stesso dato che Izaya se
n’era andato.
Una volta fuori lo videro seduto dall’altra parte della
strada, in attesa, con una sigaretta intrappolata tra le labbra. Jay
rimase pietrificato dagli occhi fiammeggianti del suo ragazzo che, in
realtà, l’aveva aspettato fuori per tutto il tempo
per non dover sorbirsi l’incontenibile entusiasmo di quella
irritante conversazione.
Izaya si alzò, lanciando la sigaretta lontano da
sé con una forza tale da far comprendere perfettamente la
quantità di rabbia che aveva covato in quelle ore di attesa
e prese Jay per un polso trascinandolo con sé, senza
salutare, senza parlare; lo trascinò e basta, tenendolo
accanto.
Aveva taciuto per tutto il viaggio fino a casa e una volta
lì aveva proseguito nell’ignorarlo. A momenti era
temibile, a volte spassoso soprattutto quando Jay gli rivolgeva la
parola trovandosi in risposta uno sguardo fulmineo e
nient’altro.
«Izaya, ne parliamo?» azzardò uscendo
finalmente dalla cucina, pensando che il distacco fosse stato
sufficiente.
Non ricevette alcuna risposta, così si era seduto sul
tavolino difronte a lui, per catturare completamente la sua attenzione:
«Mi dispiace se ho perso così tanto tempo con Lee
senza darti retta, ma quel ragazzo mi somiglia così tanto
che non ne ho potuto fare a meno. Volevo conoscere la sua
vita…»
«Non mi pare di non avertelo permesso e non ti sto chiedendo
di giustificarti.» rispose monocorde, voltando lo sguardo
altrove.
«Sei geloso?» chiese con un sorriso beffardo
stampato in faccia.
«No!» affermò di fretta, alzando
leggermente il mento con fierezza.
«Mi stai facendo una scenata di gelosia? Anzi: La tua prima scenata
di gelosia?» insistette addolcito dall’adorabile
manifestazione d’orgoglio del suo uomo.
«Non ti dirò mai cosa devi o non devi fare, la
vita è la tua anche se stai con me. Se a te faceva piacere
parlare con Coso e sbattergli le ciglia in continuazione, sei stato
libero di farlo e lo sarai sempre.»
«Sì chiama Lee, non Coso.»
puntualizzò con un sorriso sarcastico: amava anche le sue
scenate. «Non devi arrabbiarti. Anche se sei adorabile quando
ti arrabbi, diventi il doppio della tua normale stazza e allarghi le
narici come un toro.» lo canzonò non riuscendo ad
affogare una risata scrosciante che lo costrinse a reggersi il ventre.
«Sai che sei irritante?» lo accusò
guardandolo in tralice.
«Scusa, non ci posso fare niente. Ti amo così
tanto che non riesco a vederti come un omaccione incazzato, ti vedo
come un bimbo offeso.»
«Non sono un fottuto bambino.»
«Sì che lo sei…» lo
agguantò dal braccio con forza per trarlo a sé
senza contare che Izaya era almeno tre volte più grosso e si
ritrovò a tirare senza alcun successo: non l’aveva
smosso di un centimetro. «Dai, Izaya!!!»
cantilenò per convincerlo.
«Piantala!» lo intimò con lo stesso tono
di voce.
Prima che Jay potesse rispondere, il ragazzo lo trascinò
verso di sé, facendolo accomodare sulle sue gambe:
«In questo momento ti odio profondamente ma sappi che mai, in
tutta la vita che verrà, ti priverò di qualcosa.
Tu sarai sempre libero di fare quello che hai voglia, potrai rimanere
affascinato da chi vuoi, potrai parlare liberamente con chi desideri
ignorandomi come hai fatto oggi, ma promettimi che
questo…» concluse indicandogli con il palmo della
mano il petto, all’altezza del cuore:
«Sarà sempre mio.»
«Te lo prometto.» garantì commosso.
«Bene!» chiuse gli occhi, come se si fosse levato
un peso dal cuore: «Adesso, però… puoi
andartene a fare in culo!» se lo levò dalle gambe,
scaraventandolo sul divano lontano da lui.
Jay rise e sentì di amarlo ancora di più, proprio
perché gli riusciva estremamente naturale.
Fu sempre difficile spiegare quanto, nel loro rapporto, la
libertà germogliasse dall’indipendenza individuale
a prescindere dal legame. Tutti gli altri avevano sempre fatto fatica a
capire il concetto, dicendo che un rapporto di coppia non
può mai, in nessun caso, assicurare la libertà
totale, ma con Izaya era diverso perché riusciva ad essere
autonomo nonostante fosse completamente unito a lui. Ed era proprio
questo a renderli speciali.
Brad lo portò a casa propria, senza proferire parola durante
tutto il viaggio.
Lo aveva portato via dall’Escape dicendogli che il litigio di
quel mattino non aveva più alcun valore: lo aveva perdonato
malgrado si sentisse ancora ferito.
Dopo aver puntualizzato la sua posizione ed aver ricevuto le scuse, era
rimasto in silenzio fino a casa. Entrò
nell’appartamento senza accendere le luci e, una volta
dentro, Jay vide la jacuzzi piena d’acqua adornata da petali
di rose rosse.
Non si sentì felice né sorpreso.
Voleva veramente dare un’altra possibilità a Brad
ma quella scena non scatenò l’effetto che
l’uomo aveva auspicato: rimase immobile guardando le bolle
d’acqua dell’idromassaggio infrangersi al bordo e
pensò di non avere nessuna voglia di fare un bagno romantico
con lui.
Si risvegliò dai suoi pensieri non appena Brad
cominciò a spogliarlo, baciandogli il collo. Si era
ripromesso di non respingerlo, così lo lasciò
fare cercando di reprimere ogni istinto che gli suggeriva di non farsi
toccare.
«Ti amo, Jay.» sospirò tra un bacio e
l’altro, godendo della pelle liscia e candida del suo piccolo
ragazzo che, con gli occhi assenti, guardava fuori dal finestrone
pensando ad altro, senza lasciarsi coinvolgere troppo dai baci e dalle
carezze. Se avesse prestato attenzione a ciò che stava
accadendo avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di levarsi le mani di Brad
da dosso, ma non sarebbe stato corretto poiché
l’uomo lo sfiorava con dolcezza e passione; con amore. E lui
aveva promesso di accantonare il passato.
«Tu sei mio e di nessun altro. Mi appartieni e guai a chi ti
tocca.» disse mordendogli il labbro e poco dopo lo
privò di tutti i vestiti per poi adagiarlo nella vasca nel
quale avrebbe continuato a possederlo.
Jay gli apparteneva. L’aveva comprato neanche troppo tempo fa.
***
Si svegliò la mattina dopo senza aprire gli occhi, se avesse
potuto scegliere non li avrebbe mai aperti ma l’impazienza di
andare via lo costrinse ad alzarsi ugualmente e realizzò che
nulla era cambiato.
Brad non c’era e il biglietto sul tavolo parlava chiaro:
“Ti ho lasciato trecento sterline sul tavolo. Divertiti oggi,
ne hai tutto il diritto. Non è un pagamento, è un
ringraziamento ed un modo per farti svagare un po’. Ti amo.
Brad”.
Rassegnato prese quei soldi e li fissò assente: anche se
Brad aveva scelto di cambiare, ancora voleva averlo, voleva assicurarsi
di non lasciarselo scappare e Jay cadde ancora nella sua trappola.
Angolo
Autrice.
Scusate, ho barato. Adesso siamo a -4. Non volevo prendervi per i
fondelli ma ho scritto un capitolo enormemente lungo e ho dovuto
dividerlo. Perdonatemi. Domani pubblico il prossimo che è
praticamente pronto.
Un bacino a tutti e corro a scrivere!!
Grazie *_* Vi amo tutti.
Di più ai miei amori, però U_U
Bloomsbury
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Capitolo 32 *** Cheers Darlin' ***
32. Cheers
Darlin’
Thomas non chiamò più, segno che Jay si
sbagliava, aveva fatto sul serio, e Beatrix non si prese neanche
più il disturbo di cercarlo. Pensò che un uomo
capace di lasciare una ragazza in mezzo alla strada sbattendola fuori
dall’auto non meritasse alcun riguardo, ma la solitudine la
ingurgitò in un solo boccone e la tristezza si fece
più dura da sopportare.
Prese il pc accedendo al suo account facebook e si accorse che Thomas
l’aveva già cancellata, modificando il suo stato
da “Fidanzato” a “Single”. Non
rimase stupita, quel gesto era palesemente da lui e consultando la
propria bacheca si accorse che già dal mattino in molti
l’avevano cercata, inondandola di messaggi e di promesse di
appoggio. Di tutta risposta, anziché apprezzare,
andò sulle impostazioni del suo account e cliccò
su “disattiva il mio account”. Facebook, che
sembrava fosse l’unico a tenerci, le dava un’altra
possibilità. Esitò per qualche istante
finché, decisa a porre fine a tutta
quell’ipocrisia, flaggò tutte le impostazioni del
caso e posizionando la freccia del mouse su
“Conferma”, inserì la sua password per
convalidare la propria identità e comparì la
scritta che aspettava già da molti click:
Il tuo
account è stato disattivato
Per riattivare il tuo account, accedi con l’e-mail e la
password che usavi in precedenza. Sarai in grado di usare il sito come
prima.
Speriamo che tornerai a trovarci presto.
Così mise fine a tutto, si chiamò fuori da quel
mondo. Ogni suo ricordo, foto e stato svanirono in
quell’istante pronti a ritornare a galla non appena avesse
voluto. Facebook, più di Thomas, aveva tentato fino alla
fine di tenerla con sé e si accorse di quanto le persone
potessero essere così vili e incapaci di provare reale
attaccamento a qualcuno, così come un semplice social
network. L’amore disinteressato non sarebbe mai
più esistito, ne era certa.
***
Uscì nel fine settimana, dopo giornate di solitudine a casa,
tra una dormita, una sbornia solitaria e vecchi film:
ritornò all’Escape.
Sull’autobus che la portava a Soho i suoi pensieri non fecero
altro che prenderla in giro. Si disse continuamente che la scelta di
ritornare a Soho fosse del tutto casuale: “perché
lì ci si diverte. È il quartiere della vita
notturna a luci rosse” si ripeteva.
Pensò che anche lei meritava di svagarsi e trovare qualcuno
con cui passare qualche ora in totale leggerezza. Non appena
finì di formulare il pensiero, le parole di Jay ritornarono
a galla: “È noto che una donna, per
consolarsi, tende a cercare nuove avventure...”
Sì sentì decisamente patetica, ma scelse di non
curarsene: voleva godersi una serata diversa poiché, ormai,
non esisteva più per nessuno. Era sola.
Arrivò all’Escape vestita di tutto punto,
sfoggiando un vestitino sfizioso color argento abbinato ai suoi
inseparabili anfibi e si avviò al bancone negando a se
stessa di cercarlo, ma il cuore le svelò la
verità battendo all’impazzata per lui, per Jay,
seduto al bancone esattamente come la prima volta.
Si sentì felice come poche volte nella vita e si
avvicinò a passo spedito per evitare che qualcuno occupasse
il posto accanto.
«Le donne abbandonate tendono a consolarsi con il primo che
capita, eh? Secondo te perché, allora, vengo qui e mi siedo
vicino a te senza cercare quello che potrebbe consolarmi?»
esordì sorridente.
«Perché non tutte le donne fanno così,
me lo hai detto tu!» rispose con le labbra al bicchiere e lo
sguardo fisso alle bottiglie davanti a sé.
Fu felice di essere stata in grado, almeno con lui, di aver messo in
chiaro che non era come tante altre e annuì soddisfatta:
«Impari in fretta i concetti!». Jay diede vita al
sorrisetto sarcastico più bello che lei avesse mai visto e
per togliersi dall’impiccio di dover spiegare il
perché del suo sguardo trasognato, chiese senza tanti giri
di parole: «Quel ragazzo dell’altra sera, quello
che hai baciato, è il tuo ragazzo?»
Jay strizzò gli occhi come per cercare nei suoi ricordi di
chi potesse parlare e poggiando il bicchiere sul bancone rispose
voltandosi verso di lei: «Ma chi, Brad? Il
biondino?”
«Sì, sì! Proprio quello!»
confermò sorniona.
«Ma no…» si affrettò a
precisare: «Non è affatto il mio ragazzo,
è… come dire: un mio vecchio cliente!»
«Cliente?!» replicò perplessa:
«Tu, abitualmente, ti avvinghi in quel modo ai tuoi
clienti?»
«Se mi pagano bene, sì!» rispose
ironico, lasciando Beatrix di stucco. Ancora non aveva compreso cosa
volesse dirle ed il tono limpido e trasparente di Jay la mise
maggiormente fuori strada.
«Ma tu di cosa ti occupi, esattamente?».
Jay, accennando ancora quel sorriso irresistibile, la
scimmiottò divertito: «La Sposa è
una ficcanaso!»
«Non sono una ficcanaso!!! Se permetti vorrei capire cosa
intendi. E poi, perché mi chiami La
Sposa?» disse di getto, non riuscendo a contenere
la curiosità. Lui si voltò guardandola negli
occhi, tentando di comprendere fino in fondo che tipo di persona
potesse essere; chiaramente stava cercando di capire se Beatrix fosse
la persona giusta con la quale avrebbe potuto parlare senza mezzi
termini e scorgendo in lei, evidentemente, qualcosa di rassicurante,
rispose rassegnato: «Ho venduto il mio corpo per soldi a
quell’uomo una volta e ho paura di esserci ricaduto di nuovo.
Sono di sua proprietà.».
Beatrix sentì le parole mozzarsi in gola e rimase in
silenzio per qualche minuto. Jay non aveva smesso un attimo di fissarla
e, senza capirne il motivo, vide un’incontenibile tristezza
sgorgarle dagli occhi. Rimase stupito dalla reazione inaspettata di
quella che, per lui, era ancora una sconosciuta.
Si guardarono per un po’ senza sapere cosa dirsi e quando lei
si accorse di averlo impensierito, si asciugò le lacrime.
«Scusa Jay!»
«Figurati.» le sorrise con estrema dolcezza, tanto
da farla commuovere ulteriormente. La ragazza non riuscì a
fermarsi, così si lascio andare, infine, ad un pianto quieto
ma inarrestabile. Jay non disse nulla per tutto il tempo,
guardò le lacrime fluire senza fare nulla per fermarle, come
se quelle stesse riuscissero a purificarlo. Beatrix stava sfogando
tutto il pianto che lui stesso non era mai riuscito a tirare fuori per
anni. Quando lei, di punto in bianco, si accorse di essere un
po’ fuori luogo, si arrestò di nuovo, balbettando
sotto voce: «Scusami.»
«Non ti scusare, non hai fatto niente!» rispose con
tono rincuorante, accarezzandole il viso per poi prenderle le mani:
«Io sto bene!».
Sebbene cercasse di rassicurarla il suo viso manifestava una tale
malinconia da farle male; avrebbe voluto chiedergli il
perché si donasse con così tanta rassegnazione ad
un uomo incapace di averlo solo con l’amore. Lui, per lei,
sembrava un angelo caduto in un mondo che non gli apparteneva, un mondo
talmente duro e brutale che non sarebbe mai stato in grado di gestire.
Nonostante sembrasse sicuro di sé aveva nel cuore una
fragilità tale da poterlo spezzare in mille pezzi anche solo
con un soffio; decise di non lasciarlo indietro come avevano fatto
tutti, si sarebbe presa cura di lui perché lo meritava, il
suo sguardo glielo suggeriva: era assente, arrendevole, incapace di
sfogare alcun affanno malgrado il cuore ne fosse pieno; come se avesse
imprigionato dentro di sé un dolore troppo grande da esibire
perché sarebbe stato devastante una volta esploso. Era
umiliato, amareggiato, deluso e ferito, eppure faceva di tutto pur di
non darlo a vedere, tranne che in quel momento. Darsi a
quell’uomo ne faceva una vittima, ma di se stesso. Era
vittima e carnefice, era l’autore del suo stesso declino e
Beatrix decise che sarebbe stata lei a salvarlo perché lui
non meritava questo. Si chiese come fosse possibile rimanere
così colpita da un ragazzo che conosceva a stento, ma
qualcosa le diceva che, forse, il destino li aveva fatti incontrare in
un periodo propizio per entrambi. Non avrebbe voltato le spalle al
destino e sebbene avesse sempre cercato, nel corso della sua vita, di
privarsi del suo lato più romantico e sensibile, Jay era
riuscito a tirarglielo fuori tutto quanto, con una forza
indescrivibile. L’avrebbe preso per mano e portato lontano,
nascondendolo da tutti quelli che l’avevano sporcato ma, al
contrario, fu lui che l’afferrò e facendosi spazio
nel locale, corse fuori.
Non appena furono all’esterno dell’Escape non smise
di correre. Teneva stretta la mano di lei come se avesse il terrore di
perderla; Beatrix non conosceva la destinazione ma ebbe la sensazione
che lui desiderasse semplicemente sparire, portandosela dietro.
Passarono davanti a qualsiasi cosa con noncuranza; si lasciarono alle
spalle l’Apollo Theatre, tagliando Shaftersbury Avenue per
dirigersi verso Coventry Street. Una strada lunga e sempre dritta
incoraggiò Jay a correre più velocemente,
schivando ogni ostacolo.
Come risvegliata da un sogno, Beatrix cominciò a guardarsi
intorno e a chiedersi lucidamente dove la stesse portando ma qualcosa
la frenò dal chiederglielo.
Nell’impeto della corsa non aveva mai fatto caso a lui. Aveva
esaminato con attenzione la strada, la gente, ma non aveva mai guardato
Jay che correva affannosamente davanti a lei: stava piangendo
così forte da paralizzarle le parole in gola. Non gli
avrebbe chiesto dove stavano andando, si sarebbe lasciata trascinare
con fiducia da lui nonostante non fosse abituata né a
correre né a seguire un totale sconosciuto in giro per le
strade di Londra. Jay invece sapeva correre, l’aveva sempre
fatto e Beatrix non seppe mai che quella fu la prima volta dopo la
morte di Izaya.
Arrivati a Coventry Street, dopo aver corso per minuti e minuti, il
ragazzo si infilò di corsa in un autobus che stava per
chiudere le porte, tenendola ancora per mano, e si lasciò
cadere su un sedile vuoto per riprendere fiato.
Osservò Jay seduto a capo chino difronte a lei, con gli
occhi persi nel vuoto e quando scorse un impercettibile movimento delle
labbra senza che queste emettessero alcun suono, si
avvicinò, inginocchiandosi davanti a lui. Gli
sfiorò teneramente le mani per richiamare la sua attenzione:
«Che hai detto?»
Rimase per qualche secondo in attesa di ricevere una risposta e prima
che potesse incalzarlo, poté sentire un flebile ma
disarmante: «Grazie!».
Non c’era altro da dire, così lo
abbracciò forte, tenendolo stretto.
Quella fu la prima volta in cui Jay si sentì finalmente
vivo. Libero di piangere e di sentirsi un autentico schifo senza
nasconderlo a se stesso.
***
Arrivarono a casa di lui, non troppo distante da Soho Square, e la
prima cosa che Beatrix riuscì a percepire, dopo qualche
momento di osservazione, fu l’assenza di qualcuno o qualcosa.
L’appartamento ero piccolo, impersonale ma ben curato; in
quella casa vivevano ricordi e lacrime intrappolati nei muri, ne aveva
la certezza. Malgrado fosse ordinato e pulito non c’erano
foto né oggetti personali; c’era il necessario per
vivere, ma nulla di indispensabile per la cura dell’anima,
tranne i libri.
Mentre Jay lanciava le chiavi sul tavolo, togliendosi la giacca,
Beatrix osservò assorta il soggiorno cercando disperatamente
qualcosa che smontasse la sensazione che la stava torturando. Cercava
un gatto o anche solo qualche vestito messo alla rinfusa, una foto, un
videogioco, un souvenir. Non c’era niente.
Finalmente, Jay attirò la sua attenzione: «Fai un
caffè?» le chiese sparendo dentro una stanza.
Quella richiesta così diretta, alla mano, la
sollevò: forse Jay era semplicemente un maniaco
dell’ordine, anche se non sembrava il tipo.
Entrò in cucina e mille pensieri discordanti iniziarono ad
assalirla.
Si fece mille domande per tutto il tempo, occupata a preparare il
caffè e capì, mentre posava le tazze piene sul
tavolino del soggiorno, che se non gliele avesse poste direttamente non
avrebbe mai potuto indovinare nulla di lui.
Beatrix era sempre stata una ragazza estremamente riflessiva e, il
più delle volte, incline alle fantasticherie. Raramente
chiedeva qualcosa per non risultare indelicata, ma faceva di tutto pur
di capire senza dover parlare. Osservava la vita degli altri sperando
di afferrare dai dettagli ciò che le interessava: con Jay
sarebbe stato impossibile. Lui era criptico, poco propenso al dialogo
sebbene le avesse già raccontato qualcosa di lui. Lo aveva
fatto, però, perché lei aveva chiesto qualcosa e
non per pura voglia di aprirsi.
Lo trovò già steso sul divano, intento a cercare
un canale interessante alla tv.
«Ecco il caffè!» annunciò con
voce squillante. Jay strizzò gli occhi, quel tono di voce
gli ricordava Lizzie.
«Ti ho portato una maglietta. Mettiti comoda!» la
invitò porgendole una T-shirt invecchiata dal largo uso.
«Grazie!» l’afferrò pensando
che quello fosse un gesto davvero gentile.
Jay era impenetrabile ma garbato nei modi, si vendeva ad un uomo ma era
capace di azioni cortesi e del tutto disinteressate, amava la
solitudine ma l’aveva invitata a casa sua: era tutto e il
contrario di tutto.
«Figurati, è solo una maglietta vecchia e neanche
troppo degna di esistere ancora.» rispose attento al
televisore che passava l’ennesima replica di
Ramsay’s Kitchen Nightmares su Channel 4. «Non
trovi che Gordon Ramsay sia un figo?»
«Già!» rispose lei guardando
distrattamente lo schermo della tv.
Beatrix si spogliò davanti a lui senza farsi troppi
problemi, come fosse normale, e quella sensazione di casa e di
normalità fu talmente forte da emozionarla; non aveva mai
agito con così tanta naturalezza davanti a qualcuno, ma con
Jay sembrava tutto così facile; anche fidarsi ciecamente.
Dopo essersi cambiata si stese accanto a lui e guardarono la tv in
silenzio, ma l’impazienza di sapere e di conoscerlo
demolì ogni inibizione. «Jay…»
«Dimmi!» rispose debolmente, con gli occhi chiusi e
la testa pggiata su quella di lei.
Era rilassato, il suo respiro era calmo e si pentì di aver
anche solo pensato di porgli altre domande dopo il pianto inconsolato
al quale aveva assistito in strada.
Finalmente appariva sereno.
«Niente…».
Avrebbe voluto parlare, chiedergli tante cose, raccontargli di
sé, ma sembrava non servisse più; in qualche modo
sapevano già tutto l’uno dell’altra
senza dirsi nulla, vissero quel momento immersi nel silenzio che,
ormai, parlava per loro.
Jay l’abbracciò per la prima volta quella notte e
lei provò per lui un affetto mai sperimentato. Si
adagiò sul suo petto caldo per ascoltargli il battito del
cuore ed inspirò profondamente il suo profumo fino a farlo
penetrare nell’anima per non dimenticarlo più, e
si addormentarono così, l’uno stretto
all’altra, riposando dopo tanto tempo nella pace
più sublime.
Angolo Autrice.
Mi vergogno terribilmente, ma ho scritto un capitolo così
sdolcinato che m'è venuto il diabete. Jay è il
solito, Beatrix è una romanticona e, santo iddio, ho creato
una sensibilona da 10+++.
Con questo siamo a -3 e so già cosa state pensando...
sappiate che siete fuori strada XD
Voglio ringraziare Bijouttina, Babbo Aven, Lady Wolf ed Elsker.
Ringrazio anche tutti gli altri con tanto ammore.
La storia di Jay finisce... chissà se vi mancherà
anche solo un po'.
Grazie a tutti quelli che hanno messo le storie nelle
preferite/Ricordate/seguite.
Un abbraccio.
Bloomsbury
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Capitolo 33 *** You ***
"If you must wait,
Wait for them
here in my arms as I shake
If you must weep,
Do it right here
in my bed as I sleep
If you must
mourn, my love
Mourn with the
moon and the stars up above
If you must mourn,
Don't do it
alone."
You-
Keaton Henson
33. You
Se n’era andato.
Beatrix si svegliò sola la mattina dopo, Jay non
c’era ma le aveva lasciato la colazione sul tavolo e la tv
accesa per non farla sentire sola.
Si massaggiò gli occhi feriti dalla luce del sole che
entrava prepotente dalla finestra e si mise a sedere, ancora accaldata
dalla coperta che il ragazzo le aveva avvolto con più cura
addosso. Fissò la tv per qualche minuto ascoltando il
notiziario e si accorse che non era propriamente mattina: aveva dormito
per quasi undici ore e così profondamente da non aver
neanche sentito Jay uscire. Ravvivò i lunghi capelli neri
inclini al disordine, soprattutto dopo aver dormito, e
poggiò i gomiti sulle ginocchia unite, reggendosi il mento
per pensare a cosa avrebbe dovuto fare. Jay era stato gentile con lei
ma, probabilmente, era arrivata l’ora di togliere il disturbo.
Prese il cellulare dalla borsetta e trovò due chiamate perse
di sua madre: almeno lei l’aveva cercata.
La richiamò: «Mamma…»
alzò gli occhi al cielo, sorbendosi una ramanzina:
«Perdonami, lo so che sono sparita, ma ho avuto delle cose da
fare. Tutto bene lì a casa?» chiese senza reale
interesse.
I genitori, immigrati indiani, vivevano in una piccola cittadina del
Kent; Beatrix era nata in Inghilterra ed aveva sempre sognato di
trasferirsi nella City finché un giorno, durante una vacanza
a Londra, riuscì a trovare un impiego part-time. Colse la
palla al balzo, andando via da Aylesford con grande disapprovazione dei
suoi.
Fosse stato per loro, all’età di sedici anni
sarebbe dovuta tornare in India per sposare un tizio che non conosceva
neanche, ma la sua caparbietà l’aveva premiata:
ormai viveva a Londra da circa dieci anni e i genitori si erano
finalmente arresi alle sue scelte.
Mentre chiacchierava con sua madre per tranquillizzarla notò
una chiave e un biglietto incastrato sotto la tazza di caffè
che Jay le aveva lasciato.
“Sono andato a sbrigare delle cose, non tornerò
prima di stasera. Tu puoi rimanere se vuoi, fa’ come se fossi
a casa tua. Jay.”.
Sorrise felice, avrebbe fatto qualcosa nell’attesa.
Strinse le chiavi di casa e salutando frettolosamente sua madre
interruppe la chiamata. Innumerevoli progetti per la serata si
accumularono nella sua mente e anche se avesse fatto la figura della
gentile massaia in attesa del ritorno del marito avrebbe comunque
preparato la cena per Jay; lo avrebbe coccolato e viziato come nessuno
aveva fatto.
«Come nessuno avrà mai fatto, per lui.»
si ripeté a fior di labbra, e non ne fu più
così sicura.
Conosceva poco Jay, ciò che pensava di lui poteva non essere
del tutto vero.
La casa era vuota, probabilmente non aveva mai ospitato nessuno diverso
da lui, ma darlo per scontato sarebbe stato ingenuo, così
sperò che a Jay facesse piacere la sua intenzione di
accoglierlo in un vero ambiente familiare, con una donna capace di
prendersene cura, e dopo essersi preparata uscì di fretta
per recarsi a casa sua, prendere qualche vestito comodo per poi andare
a fare la spesa.
Acquistò bacchette d’incenso, qualche fiore per
rendere l’appartamento più confortevole e una
sveglia perché, stranamente, in casa non ce n’era
neanche una.
«Izaya, perché sei fissato con le
sveglie?» urlò Jay in preda ad un attacco isterico
dopo aver udito il suono dell’ennesimo orologio seminato per
casa.
«Una sveglia sola non sarà mai capace di svegliarmi»
rispose alzando la voce per farsi sentire dal suo ragazzo ancora nel
letto, mettendo fine all’ultimo trillo del buongiorno che
aveva invaso il bagno.
«Un giorno le butterò tutte.»
«Dovrai passare sul mio cadavere!».
***
Era andato da Brad perché l’aveva cercato, fosse
stato per lui non si sarebbe mai recato spontaneamente a casa sua, ma
l’uomo aveva insistito.
Brad non si capacitava del fatto che Jay fosse sparito, soprattutto
dopo aver stabilito insieme come avrebbero dovuto improntare il loro
nuovo rapporto.
Aveva preso i suoi soldi e se n’era andato, senza farsi
più sentire.
Trovò quel gesto abietto ed egoista e non avrebbe mai
accettato un simile comportamento.
Avevano parlato molto e Jay, per tutto il tempo, aveva cercato di
spiegargli che non sarebbe stato così semplice riuscire a
vederlo diversamente, come un fidanzato buono e generoso. Gli
spiegò che in passato si era sentito come un giocattolo e
che sarebbe servito qualche altro mese prima di riuscire a togliersi
quella sensazione da dosso; aveva ammesso di aver preso quei soldi per
rassegnazione, perché ormai si era arreso al fatto di essere
messo al pari di una prostituta, di una proprietà.
A Brad non andò giù tanta arrendevolezza e
diffidenza nei suoi confronti, poiché stava cercando in
tutti i modi di cambiare e di diventare per Jay un buon compagno.
Non riuscivano a capirsi, ad avere pazienza l’un
l’altro e quando la comprensione è nulla da
entrambe le parti, succede che uno dei due pecca di prepotenza,
sovrastando l’altro.
***
Arrivò a casa verso sera; non ricordava neanche
più di aver lasciato Beatrix nel suo appartamento.
Aprì la porta e, immediatamente, un profumo intenso lo
stupì.
Si ricordò di Izaya quando, nei giorni liberi, amava
coccolarlo preparandogli manicaretti, ma se l’artefice di
quello sfizioso profumo fosse stato davvero Izaya non si sarebbe
ritrovato a sentire il dolore acuto che gli invadeva le guance.
Se lui fosse stato ancora vivo, non sarebbe mai caduto sotto le grinfie
di Brad.
Beatrix raggiunse la porta sentendo il rumore della chiave nella toppa
e quando vide la faccia tumefatta di Jay il sorriso le si
paralizzò.
«Cosa ti è successo?» chiese spaventata,
con le mani alla bocca dallo stupore.
«Sto bene.» il filo di voce ammaccato diceva il
contrario.
«Sei sicuro?»
«Sì, non è niente.» rispose
entrando in casa zoppicando.
Beatrix non riuscì a dire altro ma lo scrutò con
attenzione e ciò che vedeva fece più male di
qualsiasi altra cosa: Jay aveva la T-shirt strappata sulla spalla
marchiata da un livido rosso, quasi violaceo, e il sangue, ormai
rappreso, gli ricopriva le labbra e il naso segnato dalle percosse. Gli
occhi rigonfi non permettevano di cogliere la sua espressione e lei,
d’istinto, gli si mise davanti per sostenerlo.
«Mi fai passare, per favore?» la implorò
privo di forze, con voce tremolante.
Beatrix si scostò e scrutando le spalle ricurve e fiacche di
Jay poté intravedere ciò che esisteva davvero
sotto la sua pelle: era l’anima a bruciare, a fare male, non
il livido sul viso né la schiena piegata dai colpi;
l’umiliazione che provava era infinitamente più
grande di qualsiasi ferita aperta e sanguinante.
Si mise da parte, lasciandolo solo. Capì che non era stata
una semplice scazzottata, lui era stato privato di qualcosa, lo sentiva
nettamente: qualcuno gli aveva rubato un pezzo importante e
l’aveva ridotto in cenere.
Era un Jay incompleto quello che aveva davanti, ma qualcosa le disse
che stava sbagliando ancora, forse qualcuno l’aveva solo
spogliato della sua maschera e quello che vedeva adesso era il vero Jay.
Il ragazzo si diresse verso la stanza da letto a passi lenti e mozzati
dalla vergogna, non era più se stesso, non aveva reagito; si
era lasciato picchiare e violentare senza combattere, ormai era stanco
di nascondersi e aveva permesso a Brad di abusare della sua stanchezza.
Aveva sempre finto di essere un battagliero capace di tenere testa a
chiunque, stavolta non riuscì a mentire e si
lasciò prosciugare, fino a farsi svuotare a suon di pugni e
calci. Brad aveva perso le staffe, d’altronde era stanco
anche lui di lottare contro un ragazzo incapace di comportarsi in modo
coerente; pensava questo, dandosi tutte le colpe, mentre si privava dei
pantaloni intrisi di sangue asciutto.
Beatrix entrò nella stanza e lo aiutò a
spogliarsi.
Lui ripeteva di continuo che stava bene, accennando un sorriso, ma
tutto quell’ottimismo non la rassicurò neanche per
un attimo poiché avevo imparato a sue spese, in passato, che
quando si cerca di convincere qualcuno mascherando la realtà
palese non si vuole fare altro che nascondere, agli occhi degli altri,
ciò che è veramente importante, tuttavia in quel
momento non era rilevante sapere se stesse bene, ma era prioritario,
per lei, capire chi l’avesse ridotto in quel modo e
perché.
Lo aiutò a stendersi sul letto ancora in ordine e mai usato
per quella notte; non gli chiese nulla, voleva dargli i suoi tempi
senza pressarlo, ma una rabbia incontenibile si fece strada in lei e
pensò che se avesse avuto davanti chi l’aveva
ridotto in quello stato l’avrebbe fatto a pezzi con le sue
stesse mani.
Lo lasciò solo nella stanza per preparargli un bagno caldo e
non appena udì il cellulare di Jay squillare spense
l’acqua della vasca per ascoltare la conversazione.
Lui parlava con un filo di voce tremante, era ancora scosso e debole,
così Beatrix accese di nuovo l’acqua e si diresse
verso di lui per ascoltare la conversazione: era certa fosse il suo
aggressore dall’altro capo del telefono.
«Sì, non ti preoccupare. Sì,
sì… non è successo niente, non mi hai
fatto niente, sto bene!».
Beatrix odiò quel suo “sto bene” come
nient’altro nella sua esistenza e cominciò ad
urlare in preda alla rabbia più nera: «Non stai
bene per niente…» prese il telefono dalle mani di
Jay, stringendolo tanto da farsi male: «Non sta affatto
bene!!! Ti avverto, brutto depravato e pazzo che non sei altro, giuro
che se ti becco ti faccio una faccia come un pallone. Giuro! Non ti
avvicinare più a lui.» riattaccò
ansimando.
Jay era allibito, la fissò come un cucciolo impaurito, ma la
ragazza decise di non farsi intenerire e ritornò nel bagno
come se nulla fosse successo.
Poco dopo, la raggiunse con aria spaesata ed imbarazzata: si vergognava
ed era certo di non averla ingannata con le sue parole rassicuranti.
Stava male nel corpo e nell’anima e sapeva che non
l’avrebbe mai potuta convincere del contrario.
«Spogliati! Il bagno è pronto.».
Jay, togliendo l’accappatoio, cercando di nascondere i lividi
ed i graffi che aveva addosso, si bagnò gradualmente
saggiando con le dita dei piedi il calore dell’acqua che, a
poco a poco, una volta essersi immerso completamente, si tinse
lievemente di rosso. Alla vista di quel sangue Beatrix chiuse gli occhi
cercando di placare la rabbia e si inginocchiò sul
pavimento, accarezzandogli dolcemente la mano aggrappata al bordo della
vasca per cancellare con l’amore tutto il dolore che aveva
addosso, senza riuscire, però, a lavare via
l’umiliazione che avviluppava la sua anima.
Gli sciacquò con cura il viso che, lentamente, si
riappropriò dei suoi delicati e puliti lineamenti;
accarezzò i suoi capelli che si inzupparono, dando vita a
tiepide e gentili gocce che, scendendo lungo il collo e le spalle,
restituirono sollievo alla sua pelle. Con dolci e generose carezze,
Beatrix liberò la sua schiena dalle ferite e si accorse che
la pelle di Jay non era più abituata alla dolcezza;
così tentò di estinguere il dispiacere e la
sofferenza sporgendosi un po’ verso di lui, dandogli un bacio
sugli occhi, svegliandoli dalla fissità data dalle sue
memorie. Sorrise nel tentativo di rassicurarlo e lui rispose, a sua
volta, con una lieve e sgualcita manifestazione di gratitudine che gli
illuminò impercettibilmente le iridi che, ormai, avevano
quasi totalmente preso il colore dell’acqua. Beatrix
soffocò un lamento di dolore: occhi così belli e
trasparenti ma pregni di un dolore così lancinante non ne
aveva mai visti, e per alleggerire l’atmosfera lo
schizzò con un po’ d’acqua sul viso,
giocando con lui come fosse bambino. Ottenne l’effetto
desiderato: una piccola e fiacca risata riempì i pochi metri
quadrati del bagno; Jay rideva di cuore, sinceramente, seppur a fatica.
Non si diedero un tempo preciso per scambiarsi tenerezze e cure, fecero
tutto con una calma quasi ipnotica tanto da rilassarsi abbastanza da
mettersi a letto con un peso in meno. Finì asciugandogli il
corpo ed i capelli con movimenti lenti e delicati per non fargli del
male e lo accompagnò a letto dopo avergli cambiato le
lenzuola per farlo dormire nel profumo che rasserena, nella freschezza
che consola e lenisce le ferite.
Si stese, infine, accanto a lui, continuando a regalargli attente
carezze sul viso.
«Sto be…» non riuscì a finire
poiché lei lo zittì con un solo sguardo.
Jay rise ma Beatrix decise, a malincuore, di privarlo anche di
quell’ultima risata; doveva sapere:
«Perché?»
«Cosa?»
«Perché ti sei venduto a
quell’uomo?».
Il ragazzo abbassò lo sguardo come se qualcuno gli stesse
suggerendo che era arrivata l’ora di parlarne e voltandosi
verso il cassetto del comodino raccolse l’unica foto che gli
era rimasta del suo unico vero amore.
Beatrix la guardò dispiaciuta; non sapeva chi fosse
quell’uomo nella foto, ma capì che non esisteva
più perché, se fosse ancora esistito, ci sarebbe
stato lui accanto a Jay.
«Questo è Izaya.»
«Chi è?».
Jay liberò di colpo tutta la malinconia che aveva tenuto
imprigionata nel fondo dei suoi occhi e la riversò tutta nel
tono della sua voce, nelle mani deboli che cominciarono a stringere le
lenzuola: «È l’uomo che amo.».
Per paura di chiedere troppo, Beatrix titubò per un istante
ma capì che se voleva salvare Jay avrebbe dovuto ferirlo
anche con le domande: «Dov’è, adesso,
Izaya?»
«È morto e questa è una delle poche
cose che mi sono rimaste di lui.»
«Per questo ti sei venduto a quell’uomo?»
chiese asciugando la piccola lacrima aggrappata alle ciglia del ragazzo.
«Mi sono venduto per soldi, per debolezza, per
incapacità di reagire, per mancanza di
lucidità…»
«Quando stavi con Izaya ti vendevi?».
Jay distolse lo sguardo come se volesse nascondersi dalla foto e dagli
occhi del suo uomo che fissava l’obiettivo, che sembrava lo
guardasse: «No, quando stavo con lui no. Ho iniziato dopo la
sua morte.» si fermò per poi lasciarsi andare
sinceramente per la prima volta, raccontando la storia per intero,
dall’inizio. «Quando ho conosciuto Izaya non avevo
niente. Ero figlio di una famiglia piuttosto agiata che, dopo aver
scoperto le mie “tendenze”, mi ha dimenticato.
Vivevo ancora in casa mia ma come un fantasma, senza farmi notare
troppo. Né mia madre né mio padre hanno avuto
più considerazione di me. Sembrava di vivere in un girone
dell’inferno, dove vedi la tua famiglia proseguire felice
senza di te, lasciandoti indietro. Un giorno sono andato a bere
qualcosa in un bar, avrei voluto cancellare tutto e tutti come si fa
con i profili di facebook: con un tasto…” Beatrix
sorrise, avevano avuto lo stesso pensiero, ma lo lasciò
continuare perché aveva compreso che, in quel momento, Jay
non stava facendo altro che raccontare a se stesso ciò che
gli aveva rovinato la vita. «Ma non fu così.
Cercavo di pensare ad altro ma non ci riuscivo e più
ricordavo, più avrei voluto morire, e proprio mentre stavo
per perdere ogni speranza di risalita ho visto Izaya seduto al tavolo
di un bar da solo, che mi fissava. Lo notai subito… da
lì cominciarono una serie di corteggiamenti neanche troppo
velati, ho deluso un amico per lui e, te la faccio breve, ci siamo
incontrati ripetutamente in quel bar fino a che ci siamo
innamorati.» sorrise, era arrivato alla parte più
bella della sua storia. «Izaya è entrato a far
parte della mia vita come una tempesta e mi ha salvato in ogni modo
possibile, mi ha preso con sé liberandomi letteralmente da
quella prigione fatta di indifferenza, di silenzi e delusioni. Ho
passato i momenti più belli della mia vita con lui. Non
andavamo sempre d’accordo, io ho il mio caratterino e lui
aveva il suo, siamo stati insieme due anni solo che, poi, alcune
divisioni non si possono cancellare: la sua morte ci ha divisi per
sempre.».
Finalmente le sue lacrime cominciarono a sgorgare mischiate alla
sofferenza e Beatrix gli strinse la mano per dargli coraggio; la cosa
funzionò perché ricominciò a
raccontarle il resto: «Quando è morto ho vissuto
come uno zombie per mesi e mesi, per cancellare il dolore mi dimostravo
indifferente a me stesso e ai miei sentimenti e ho proseguito la mia
vita facendo di tutto pur di non pensarlo, senza riflettere troppo sul
passato. Sapevo di seppellire un ricordo che basta un filo di vento o
una corrente di risacca per farla ritornare in superficie, ma mi
ostinavo a farlo senza affrontare veramente la sua morte;
così un giorno ho incontrato quell’uomo
all’Escape: non mi piaceva, non mi è mai piaciuto,
ma mi sono lasciato raggirare. Non voglio giustificarmi, ma mi sono
lasciato ingannare da lui e dalla mia incapacità di far
fronte al dolore, ai problemi pratici che si accumulavano e non sapevo
come risolvere.» si perse nei suoi pensieri e, subito dopo,
continuò frettolosamente: «Mi ha portato a casa
sua, abbiamo fatto sesso e la mattina dopo mi ha pagato con duecento
sterline… ho iniziato così ad accettare di essere
il suo giocattolo.»
«Posso capire perché ci sei caduto, si
può dire che tu non fossi completamente in te, ma
perché hai continuato? Sei un ragazzo che può
avere tutto dalla vita, perché hai scelto di
continuare?»
«Beatrix, quando ti accorgi che non sei più capace
di provare niente e che la tua vita consiste di solitudine e affitti da
pagare, allora, anteponi i soldi e qualsiasi cosa non ti faccia pensare
a te stesso. Alla fine, a suo modo, Brad mi ama.»
«Credi che quello sia amore?»
«Una strana forma di amore. Mi tratta bene se evito di farlo
impazzire con i miei comportamenti incoerenti: una volta dico sì,
altre volte dico no,
poi gli chiedo di sparire dalla mia vita e successivamente lo accolgo
di nuovo.»
«Jay, lui ti compra con i soldi, non è amore!
Crede che tu sia di sua proprietà perché ti ha
comprato, la tua vita gli appartiene; pensa di avere il diritto di
poter disporre di te come vuole, tanto da picchiarti e trattarti come
un giocattolo, da pretendere da te qualsiasi cosa e se ti rifiuti crede
di potersi avvalere della facoltà di farti del male senza
conseguenze perché tanto, poi, il giocattolino Jay dice: Sto
bene!».
Jay abbassò lo sguardo, sapeva di essere entrato in un
circolo senza fine ma, ormai, se n’era fatto una ragione, ci
aveva fatto l’abitudine.
«Beatrix, perché hai pianto quando te
l’ho detto?».
Il cuore le si fermò. Avrebbe potuto dire di tutto, ma
l’unica realtà, che non avrebbe mai ammesso, era
che dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lui,
l’aveva amato. «Perché tu non hai idea
di cosa sei, Jay. Appena ti ho visto ho pensato fossi il più
bel ragazzo al mondo: la tua luce mi ha accecata e, chiamami
sentimentale, ma penso che tu sia di un altro pianeta, la
più bella persona che io abbia mai visto. Insomma Jay: credo
che tu ti veda meno importante e speciale di quello che sei.»
concluse con convinzione, provocando una risata scrosciante di Jay:
«Forse sei tu che mi vedi migliore di quello che
sono.»
«No. Io sono convinta che tu provi una disistima tale da
credere che la vita non abbia più importanza, ti vendi
perché non dai più valore a te stesso, pensi che
non ti costi nulla venderti perché tu ti ritieni un nulla,
questo perché Izaya, per te, era tutto. Per questo ho
pianto, Jay. Perché non riuscivo a capacitarmi del fatto che
un ragazzo così speciale, con quegli occhi sinceri e
trasparenti, potesse svalutarsi così tanto per i soldi.
Adesso so che non sono stati i soldi a muoverti, ma tu devi prendere
coscienza di ciò che sei, devi rivedere la tua scala di
valori ed è indiscutibile che al primo posto devi mettere te
stesso… sopra a tutto! L’uomo della tua vita non
c’è più ma tu esisti, vivi, il tuo
cuore batte. Tu meriti di vivere e di ritrovare la fiducia,
l’amore, le persone importanti, te stesso. Ti prego,
fallo.» lo pregò piangendo, sentendo spezzarsi il
cuore nel petto ad ogni parola. Desiderava fortemente ciò
che diceva, voleva vederlo reagire e combattere per la sua vita,
liberarsi di tutto il marcio del quale si era circondato.
Per la prima volta, Jay avvertì veramente il suo cuore
scalciare nel petto, Beatrix era stata in grado di farglielo sentire
ancora, ma non per rabbia o per dolore, sentì
l’amore.
Beatrix non capì quali sentimenti avessero scatenato la
reazione di Jay che cominciò a piangere così
dolorosamente e apertamente che sembrava si potesse toccargli
l’anima con un respiro. «Mi manca, mi manca come
l'aria che respiro. Mi manca il suo abbraccio, il suo calore. Beatrix,
a me manca Izaya» ruggì disperatamente tra le
lacrime, stringendo la maglietta di lei che, inerme, assisteva alla
manifestazione di un dolore più insostenibile di
ciò che credeva. In quel pianto vide un ragazzo fragile e
solo che non chiedeva altro di essere amato ancora, come aveva fatto
Izaya; vide un ragazzo lacerato dal dolore della perdita, che aveva
perso prima la sua famiglia, poi l’unico uomo che avesse mai
veramente amato; vide un ragazzo smarrito al quale un uomo meschino e
putrido aveva fatto credere che il suo valore potesse essere acquistato
con il denaro, vide un ragazzo che non si perdonava per la sua
incapacità di essere forte, per la sua debolezza
nell’accettare il distacco, la perdita e
l’abbandono. Beatrix l’abbracciò
sciogliendosi in lacrime, sperando di poter allontanare dal cuore di
Jay il dispiacere, la disillusione e il disprezzo per questa vita che
l’aveva lasciato solo, in balìa degli eventi e dei
suoi stessi errori.
Pensò che tutti quelli che l’avevano lasciato
solo, compresi i suoi genitori, si fossero comportati come lei stessa
aveva fatto con il suo account facebook: lo avevano cancellato dalla
propria vita come una piccola foto vicina ad un nome, cestinando ogni
suo sogno, ogni ricordo, ogni sentimento.
Ma Jay non era un contatto di facebook, lui era una persona, un
ragazzo, un uomo capace di provare sentimenti talmente profondi e
travolgenti da non riuscire ad accettare di essere lasciato indietro.
Jay era stato rifiutato, ripudiato dal mondo, dalla vita delle persone,
da Dio stesso.
Così lo abbracciò più forte,
poggiandolo sul cuore, con la speranza che si sarebbe addormentato con
la chiara sensazione che qualcuno, in questo maledetto mondo, non
l’avrebbe mai abbandonato.
Si addormentò dopo ore di lacrime e di frasi sconnesse,
ferito nella carne e nello spirito e Beatrix, a poco a poco, si
assopì con lui, avvicinandolo a sé come solo una
donna innamorata può stringere la persona più
preziosa della sua vita.
Angolo Autrice.
Ciao miei cari, siamo a meno due e non immaginate quanta tristezza ho
adesso. Sì, perché in realtà nel mio
pc Jay è finito da un pezzo. Adesso mi tocca condividerlo
con voi. Voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno sostenuto sempre
e puntualmente e mi scuso per la lunghezza di questo capitolo. Forse,
per renderlo meno enorme, avrei dovuto dividerlo, ma a furia di
dividere capitoli troppo lunghi 'sta fine mi sta diventando
più lunga di una divina commedia.
Spero davvero di non deludervi.
Grazie a chi ha inserito la storia nelle seguite/preferite/ricordate.
Aspetto vostri pareri.
Bacini sparsi.
Bloomsbury
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Capitolo 34 *** House of the rising Sun ***
34. House
of the rising Sun
La mattina dopo, Beatrix non lo ritrovò a letto e si
alzò lentamente, impaurita da ciò che sarebbe
successo. Aveva paura che si ripetesse la storia del giorno prima e nel
panico non notò subito il biglietto sul comodino. Lo
guardò per un po’ dopo essersi accorta della sua
presenza e lo agguantò d’improvviso come se
volesse cogliersi di sorpresa lei stessa. Lo strinse prima di leggerlo:
“Tornerò presto. Voglio ringraziarti per essermi
stata vicino, per aver pianto per me e con me, per avermi dato la forza
e il coraggio di andare avanti, accettare la morte di Izaya, anche se
la strada è ancora lunga, e chiudere con Brad.
Andrò a parlare con lui e lotterò per riprendermi
la mia vita, la mia dignità. Grazie e a presto, aspettami
lì. P.S. La colazione è in cucina, il mio numero
di cellulare è segnato sul post-it attaccato al frigo.
Jay.”.
Urlò di gioia senza riuscire a contenersi e dirigendosi di
corsa in cucina gettò un fugace sguardo al salotto;
ciò che vide la commosse, infatti si fermò per
ammirarla ancora un po’: la foto era sul tavolino tondo
accanto al divano, erano belli e sorridenti, due innamorati, e Beatrix
soffiò un bacio in loro direzione ringraziando Izaya per
averla messa sulla strada di Jay. Sicuramente era stato lui.
***
Se gli avessero chiesto di immaginare chi avrebbe potuto incontrare per
caso, strada facendo, avrebbe pensato a chiunque, tranne che a suo
fratello Joseph.
Sceso alla fermata Notting Hill Gate per andare a casa di Brad, lo vide
conversare rumorosamente con un suo amico.
Ormai era un ragazzo adulto e rimase sorpreso dalla somiglianza:
avevano gli stessi lineamenti; Joseph, ormai, aveva vent’anni
e sicuramente era uno studente vincente, era certo che suo padre gli
avesse dato tutti gli strumenti per esserlo.
Scelse di non avvicinarsi e di tirar dritto, ma dovette fermarsi a
causa di un nodo in gola che l’aveva reso inerme.
«Jay, sei tu?». Si sentì chiamare alle
spalle e con enorme imbarazzo si voltò.
Gli occhi di Joseph, grandi e limpidi, lo fissavano con stupore misto a
malinconia: «Non posso crederci, sei tu davvero»
sussurrò incredulo.
«Joseph, mi fa piacere vederti» rispose fingendo
calma. Non era più capace di simulare serenità:
si vergognava, soprattutto per la differenza di esperienze che avevano
vissuto. Jay stava andando a chiudere un rapporto illecito a pagamento
con il viso ancora provato dagli schiaffi, Joseph sembrava un
principino vestito con cura e con la pelle incorrotta, pura, priva di
ogni imperfezione. Nonostante si passassero pochi anni, il maggiore dei
due sembrava un vecchio consumato.
«Cosa ti è successo? Sembra che tu abbia preso un
treno in faccia!» esclamò tra il serio e lo
scherzoso.
«Una scazzottata, le ho prese alla grande.»
«Si vede.». Non si avvicinarono né si
abbracciarono, ma una forza invisibile li teneva legati occhi negli
occhi.
«Stai bene, Joe?»
«Sì. Ho dormito a casa di un amico qui, a Notting
Hill, stavo per andare a casa per poi correre
all’università.»
«Vai all’University College?»
«Sì. Dove saresti dovuto andare anche
tu…» concluse senza alcuna espressione di trionfo.
Fino a qualche tempo fa avrebbe provato soddisfazione nel sentirsi
migliore di Jay, il figlio prediletto, adesso era dispiaciuto del fatto
che il padre avesse privato suo fratello del futuro che meritava.
«Sono sinceramente contento» manifestò
un’autentica soddisfazione: era fiero di lui.
«Sai, Jay? Abbiamo parlato molto con mamma e non si
dà pace per quello che è successo. Ci siamo
chiesti dove tu potessi essere e, sono sicuro che sarebbe
d’accordo con me, ci farebbe piacere frequentarti di nuovo,
come una volta.».
Aveva quasi rimosso sua madre, la prima donna al mondo che avesse
amato, quella per la quale avrebbe fatto di tutto pur di renderla fiera
e felice.
La mamma che l’aveva cresciuto con amore, che gli aveva dato
quel nome come buon auspicio, insegnandogli ad amare e a rispettare se
stesso; che l’aveva ripudiato affianco a suo padre. Non
sentì più rabbia, si sforzò a cercarla
nel centro del suo cuore ma non c’era, così
alzò gli occhi verso Joseph, sorridendo con tenerezza:
«Farebbe piacere anche a me.»
«Ottimo! Non vedo l’ora di dirlo alla
mamma» gioì senza fare troppo rumore, come loro
padre aveva insegnato ad entrambi. «Vuoi che te la
saluti?»
«Sì. Dille che verrò presto a trovarla.
Adesso vai, perderai un altro viaggio e il tuo amico si
incazzerà» lo incitò, per poi salutarlo
con un sorriso. Lo seguì con gli occhi con affetto
finché non sparì completamente, portato via dalla
metro. Si sentì purificato e più forte;
c’era ancora qualcuno della sua vecchia famiglia ad amarlo.
Salì le scale con più convinzione di prima: era
diventato ancora più importante rompere con Brad e
riprendersi la sua vita. Se voleva rinascere, avrebbe dovuto rimuovere
da ogni recesso della sua anima anche il più piccolo
frammento di rabbia. Voleva perdonare se stesso, sua madre e avrebbe
voluto correre da Lizzie e abbracciarla forte, bere una birra con
Robert e riempire di baci la piccola Nina che non avrebbe mai
più abbandonato.
Camminò sempre più velocemente e con risolutezza,
avrebbe spazzato via Brad dalla sua vita facendo pace con il mondo e
avrebbe fatto conoscere Beatrix a Lizzie: le due donne che
l’avevano aiutato e amato; ognuna a modo proprio. La prima
era come una specie di anima gemella, la seconda una mamma piena di
amore e di attenzioni. Le avrebbe tenute strette nel cuore per sempre.
***
Bussò alla porta più e più volte
finché, finalmente, Brad comparì: aveva gli occhi
segnati dalla stanchezza, come se non avesse dormito per tutta la notte.
Appena vide Jay, lo afferrò da un braccio traendolo a
sé dopo aver chiuso la porta. Provò ad
abbracciarlo per farsi perdonare e per fargli sentire tutto il suo
pentimento e dispiacere, ma il ragazzo non glielo permise.
L’uomo desistette senza opporsi e con le lacrime agli occhi
chiese perdono: «Mi dispiace. Quello che ti ho fatto
è ingiustificabile, adesso sei arrabbiato e ti capisco. Non
riesco a guardarti le ferite che hai sulla faccia sapendo di avertele
provocate io. È che ho bisogno di te, e quando ti sento
distante divento pazzo, non posso accettare di perderti.»
«Brad, frena il monologo, ho l’impressione di
sapere già cosa vuoi dirmi e posso assicurarti che non serve
più spiegarsi.» Si fermò, scrutando gli
occhi stravolti di Brad. «Posso sedermi? Parliamo con
calma?»
«Ma certo!» Gli fece strada verso il divano che
l’aveva visto ingoiare notti e notti di amarezze, di dolore e
rabbia sotto il peso del corpo del suo aguzzino.
Strinse gli occhi per dimenticare, non voleva rivolgersi a lui con
ironia né con freddezza, e ancor meno voleva fomentare una
rabbia inutile che non gli avrebbe permesso di essere lucido e
sufficientemente categorico da chiudere definitivamente.
Si accomodò, infine, abbastanza vicino a lui.
Sospirò pesantemente, levandosi l’ennesimo peso
dal cuore; quella ritrovata leggerezza d’animo lo
aiutò ad essere diretto ma dolce: «Deve finire tra
me e te. Definitivamente.»
«Ma perché?» chiese rassegnato e con la
voce implorante. «È perché ti ho
picchiato, vero? Non succederà mai più, dammi
un’altra possibilità.»
«Non si tratta di darti altre possibilità. Magari
tra qualche tempo potremmo rivederci come due amici, ma non voglio
più, in nessun modo, stare con te. Voglio la mia
libertà.» Lo fissò con
un’espressione risoluta e gelida. Non aveva mai provato
niente per Brad, a parte la rabbia e una volta esaurita quella era
rimasto il vuoto. Gli faceva tenerezza a momenti, ma non sarebbe mai
stato in grado di salvarlo, non ne aveva le forze. Jay e Brad erano
stati come due pezzi di una stessa nave divisa e squarciata da uno
scoglio in alto mare: entrambi avevano bisogno di aiuto, di essere
salvati, e continuando a stare attaccati non avevano fatto altro che
colare a picco insieme, legati e disperati.
«Non posso accettarlo. Tu mi avevi promesso che ce
l’avresti messa tutta» urlò
l’uomo, stringendo i denti e i pugni per la frustrazione.
«Ti ho promesso che ci avrei provato. Mi dispiace: non ci
sono riuscito.»
«È così difficile stare con
me?» chiese come un bambino smarrito.
«Non sei una persona semplice, come non lo sono io; sono
sicuro che puoi migliorare ma devi fare come sto facendo io: devi
cancellare ogni cosa malsana dalla tua vita e concentrarti su te
stesso.»
«Quindi, per te, sono una cosa malsana da
cancellare!» ripeté guardandolo con astio.
«Non sei tu ad essere malsano, è la vita che
conduci ad esserlo. Voglio che sparisci dalla mia vita, sono certo che
potremmo trarre vantaggio entrambi da questa situazione. Continuare
così non serve a me come non serve a te.». Jay era
calmo e paziente, stavolta per davvero. Altre volte aveva provato ad
intavolare discorsi del genere, ma per la prima volta riusciva a
porglielo in modo totalmente equilibrato, pacato, tranquillo e davvero
sicuro.
«E se io non volessi?» chiese accavallando le
gambe, dandosi un tono da uomo d’affari come se stesse
negoziando.
«Potrai morirmi dietro per il resto della tua vita senza
avere mai più l’occasione di avere nessun tipo di
rapporto con me. Che preferisci?».
«Il tuo è un ricatto e non posso
accettarlo.»
«Ma ti rendi conto di quello che dici?»
urlò spazientito dalla totale incapacità di Brad
di ragionare. «Lo capisci che non ti sto chiedendo il
permesso di lasciarmi andare? Non sono tuo. Ti sto dando solo la
possibilità di chiudere in modo pacifico e senza
scenate.»
«Non accetto le tue condizioni. Sparire dalla tua vita mi
è totalmente impossibile dato che ti amo, brutto
stronzo!» lo offese, alla fine, risentito e certo della sua
posizione.
Jay rimase in silenzio, vagando con gli occhi in cerca di una
soluzione, ma non appena capì che un uomo capace di
comprarlo, ostinandosi a tenerlo legato a sé a quelle
condizioni, non potesse essere in grado di ragionare, optò
per le maniere forti: «D’accordo. È il
tuo punto di vista e lo rispetto, io ho il mio e dal mio canto non
posso fare altro che dirti addio senza pretendere che tu
capisca.».
Si alzò per poi dirigersi verso l’uscita ma
l’uomo non glielo permise.
In pochi secondi gli fu addosso, come l’ultima volta, e
sbattendolo a terra con violenza gli urlò contro con il viso
contratto dalla delusione: «Nessuno ti ha detto che potevi
andare via, io non ho finito.»
«Io sì!» ringhiò senza
riuscire, però, a sostenere lo sguardo perché
Brad lo aveva schiaffeggiato in viso con una brutalità tale
da fargli colpire la testa al pavimento.
Dopo i primi momenti di confusione per il trauma fu tutto
più chiaro: l’uomo era in mezzo alle sue gambe e
gli sbottonava i jeans. Fu così veloce da riuscire a non
farsi percepire subito.
Jay non avrebbe ceduto, non gli avrebbe permesso ancora di abusare di
lui, non era più il ragazzo distrutto dalla sua stessa
incapacità di reagire, così iniziò a
scalciare violentemente, cercando di afferrare qualcosa di utile da
usare contro di lui per intimarlo a fermarsi.
Ma Brad era forte e le ferite che gli aveva inflitto il giorno prima
furono decisive, quei dolori non gli permisero di ribellarsi con tutte
le sue forze.
Lo afferrò dalle gambe trascinandolo verso di sé
e dopo averlo schiaffeggiato ancora per farlo tacere, riuscì
ad abbassargli i jeans fino alle ginocchia e lo agguantò dai
capelli per sbattergli il viso in terra in modo da immobilizzarlo a suo
favore, con la schiena rivolta a lui. Lo costrinse al pavimento mentre
il ragazzo lottava per non farsi usare ancora. Ebbe paura, una
dirompente e terrificante paura. Finalmente si era risvegliato dallo
stato catatonico nel quale era caduto da mesi, adesso poteva sentire
davvero cosa stava succedendo; un tempo avrebbe chiuso gli occhi e si
sarebbe abbandonato come un corpo morto, sperando che Brad godesse al
più presto; stavolta era vivo e capace di percepire ogni
cosa, compresa la voglia di salvarsi.
Con un colpo di reni cerò di divincolarsi dalla presa.
Ce la fece.
Strisciò fino al divano nella speranza di riuscire a trovare
un appiglio su cui fare leva per alzarsi.
Non ce la fece.
Brad gli era ancora addosso e stavolta lo picchiò in pieno
viso con la cinta dei pantaloni e così impetuosamente da
fargli sputare sangue fino a soffocarsi.
Un altro colpo sulla testa con la fibbia e il sangue
cominciò a fluire copioso sul viso di Jay, sporcando il
pavimento.
Non avrebbe mollato per nulla al mondo sebbene fosse piegato dalle
percosse, si sarebbe messo al sicuro, bastava allungare ancora un
po’ la mano per afferrare qualcosa che potesse aiutarlo a
difendersi.
Mani torbide e infette lo toccarono provocandogli un forte senso di
nausea; voleva scappare dal vortice oscuro nel quale si era cacciato
con le sue stesse mani, lottò contrò di lui
affogando lamenti continui sulla superfice liscia del pavimento. Non
avrebbe pregato Dio né implorato il suo vessatore per
assicurarsi la salvezza, non c’era tempo e non
c’era più fiducia.
Prima che potesse accorgersene, Brad penetrò in lui con una
ferocia tale da strappargli un grido di dolore. A fatica
riuscì a possederlo, lacerandolo. «Tu sei mio,
Jay. Non ti lascio andare, non prima di averti fatto il mio ultimo
regalo.».
Si mosse dentro di lui infliggendogli colpi talmente profondi da farlo
piangere.
Jay urlò tanto da infastidirlo e spingerlo a compiere un
gesto così violento da zittirlo: afferrò ancora i
capelli corvini del ragazzo, sbattendogli con forza la faccia sul
pavimento.
Jay strinse gli occhi dal dolore, strozzando un gemito perso nella
concentrazione ormai catturata dagli spasmi, e le lacrime si
mischiarono al sangue, insudiciandogli i capelli. Aprì gli
occhi ormai gonfi di pianto e disperazione e vide i suoi stessi denti
rotti immersi in una pozza di sangue. «Cosa
c’è, non fai più lo
spavaldo?» chiese Brad con il timbro della voce modificato
dallo squarcio incolmabile che aveva separato la ragione dalla mancanza
totale di lucidità. La follia pura lo rese schiavo,
privandolo di ogni ragionevolezza, posando un velo oscuro sui suoi
occhi furenti, sottraendogli impietosamente l’ultimo barlume
di umanità. Jay annaspò freneticamente per non
soccombere e fece appello all’ultimo briciolo di forza che
gli rimaneva; così, sgusciando da sotto la presa aggressiva
del suo carnefice, stese la mano per prendere l’unico oggetto
che l’avrebbe salvato, annegando nei suoi stessi rantolii
angosciati e i ringhi invasati dell’uomo alle sue spalle.
Saliva e sangue si mischiarono sulla sua lingua e si sentì
più vivo che mai.
Strisciò scalciando per accrescere la distanza da Brad e
aggrapparsi all’ultimo filo sgualcito di speranza, e
fissò il luccichio del posacenere di cristallo che pareva
pesante come un macigno, irraggiungibile al pari della luna.
Gridò collerico per darsi la forza di muoversi ancora, si
sarebbe affidato al suo irriducibile coraggio per riprendersi la sua
libertà. Sentiva di potercela fare, non gli avrebbe permesso
di distruggerlo ancora e rispedirlo nell’oblio, avrebbe
rivisto la luce del sole, per Beatrix che gli aveva permesso di aprire
gli occhi, per Lizzie che l’aveva custodito e protetto, per
suo fratello, per sua madre. Per se stesso. Per Izaya.
Angolo Autrice.
Ciao! Dico solo -1 e vi ringrazio!
Alla fine vi ringrazierò tutti per bene, come meritate.
Sappiate che ho già scritto l'ultimo capitolo e lo sto
riguardando, ho scritto anche il mio ultimo angolo autrice e sappiate
che dovrete sorbirvi una pagina e mezzo di ringraziamenti ^_^
Vi adoro.
Bloomsbury
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Capitolo 35 *** Together ***
35.
Together
Era sfumato.
Jay era sfuggito dalle sue braccia lasciandolo solo e se ne accorse non
perché non lo sentiva più sotto di sé,
ma perché uomini armati erano entrati in casa sua sfondando
la porta. Inizialmente non si rese conto di ciò che stava
accadendo, ormai i suoni sembravano ovattati e confusi; e non era
più mattina, fuori non c’era più il
sole. L’appartamento era avvolto dal buio come lo erano i
suoi occhi; non si sentiva più le mani, così le
fissò dirigendo il palmo verso l’alto: erano
sporche, e tra le dita c’erano sottili fili di capelli
corvini aggrovigliati e impigliati al sangue asciutto.
«Si metta in piedi lentamente» ordinò il
poliziotto dietro di lui puntandogli una pistola alla schiena;
scandì le parole con precisione data la totale
incapacità di Brad di comprendere ciò che gli
veniva detto. «Stia con le mani in alto, senza
voltarsi.».
Si mise in piedi sulle sue gambe tremanti e qualcuno accese la luce.
Lo vide finalmente. Non se n’era mai andato, in
realtà c’era sempre stato: dormiva in posizione
fetale. Era piccolo e gracile e aveva la testa adagiata sul pavimento,
immerso in una pozza di sangue. I capelli, disordinati, gli
nascondevano parzialmente il viso senza ostacolare, però, la
visuale completa.
Le palpebre erano gonfie e violacee ma Brad riuscì a vedere
il delicato squarcio verde acqua delle sue iridi. Dormiva, o forse no.
Un agente si mise davanti a Brad, chinandosi su Jay, pressò
le dita sul suo collo per accertarsi che fosse ancora vivo, ma non
servì ascoltare i battiti assenti per capirlo, bastava
guardargli gli occhi semiaperti privi di luce e di vita.
L’agente strinse i denti per il dispiacere, accovacciato
davanti al corpo di quel piccolo e giovane ragazzo del quale non era
rimasto nulla di riconoscibile. Si capiva che fosse giovane dai resti
dei suoi vestiti strappati, dal fisico secco e spigoloso tipico degli
uomini che si affacciano alla maturità, ma nulla, a parte
quei particolari, suggeriva i suoi anni: del suo viso non era rimasto
niente che fosse rivelante e i lineamenti erano diventati
un’accozzaglia di sangue, lividi, gonfiori e
nient’altro, nonostante ciò sembrava dormisse,
reggendosi le ginocchia contro il petto come un bambino, immerso nel
fluido vermiglio e denso della sua vita, ormai persa.
«Lo hai posizionato tu in questo modo?» chiese
l’agente dandosi forza. Ne aveva viste tante nella sua
carriera, ma questa volta la scena era insostenibile: sangue ovunque e
al centro di tutto un ragazzo sfigurato, rannicchiato e solo che, ad un
certo punto, si era arreso non riuscendo a trovare un modo per mettersi
in salvo.
Brad non rispose alla domanda e l’agente che lo teneva sotto
controllo, reggendogli le manette, recitò finalmente i suoi
diritti portandolo via.
Aveva il diritto di tacere, così tacque.
***
“Condannato all’ergastolo Bradley Cox,
l’assassino del giovane omosessuale Jay Hahn,
ventitré anni. Dalla sentenza del giudice Bower si evince il
motivo che ha spinto i dodici membri della giuria a condannarlo per
omicidio di primo grado compiuto con particolare crudeltà.
Il ragazzo è stato trovato sei ore dopo l’omicidio
nell’appartamento di Cox, completamente sfigurato e
martoriato. La sentenza parla chiaro: Cox ha dato il via alla mattanza
lucidamente, senza premeditazione ma con una crudeltà tale
da mettere d’accordo tutti i membri della giuria per la
condanna di primo grado. Ha stuprato, ucciso il ragazzo, inferito sul
suo corpo e abusato del cadavere fino all’irruzione della
polizia nel suo appartamento a seguito di diverse chiamate da parte dei
vicini insospettiti dalle terribili urla e dal silenzio ambiguo che ne
è seguito. Gli avvocati difensori hanno più volte
tentato di alleggerire la sua posizione presentando un quadro
psichiatrico alquanto ricco. Cox era affetto da disturbo bipolare e
prendeva regolarmente farmaci da più di sedici anni. La
giuria, però, ha stabilito che il disturbo non sia stato il
motivo scatenante dell’aggressione. Il giovane Hahn, secondo
le testimonianze, aveva da tempo intrecciato un rapporto illecito con
l’accusato che acquistava prestazioni sessuali in cambio di
soldi. Il ragazzo sarebbe andato a casa di Cox per mettere fine alla
storia, ritrovandosi travolto dall’incontenibile diniego
dell’uomo. Cox è stato accusato, anche, di
favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. L’uomo
non si è mai dimostrato estraneo ai fatti ma gli
è stato negato il patteggiamento. Dopo un anno e mezzo,
finalmente, Jay Hahn ha avuto giustizia e potrà riposare in
pace, amato da tutti coloro che hanno appreso dai giornali e da
internet la sua storia. Il ragazzo è diventato un simbolo
per tutti quelli che lottano contro l’omofobia ed il
bigottismo che spinge i genitori a ripudiare i propri figli,
costringendoli a finire nelle mani delle persone sbagliate;
è il simbolo che urla il proprio dolore per la vita che gli
è stata tolta e negata da chi l’aveva
generato…”.
«Spegni questa radio, Beatrix» sbuffò
Lizzie poggiando il gomito al finestrino della macchina.
«Ma l’hai sentita alla fine quanto è
stata romantica? Può una giornalista essere così
sentimentale?» chiese Beatrix perplessa mentre guidava per
raggiungere il cimitero.
Erano passati quasi due anni ma il dolore continuava ad esistere nei
corpi e nell’anima di entrambe, eppure, quello stesso dolore
le aveva unite. Avevano combattuto insieme perché fosse resa
giustizia a Jay, avevano presenziato ad ogni udienza, ingoiando
testimonianze, foto insostenibili e ricostruzioni del delitto
così atroci da rimanere impresse nelle loro menti. A volte,
quei racconti, si sostituivano al ricordo che avevano di Jay:
anziché ricordarlo vivo e bellissimo lo vedevano privo di
vita nelle mani del suo aguzzino, ricordando le foto che Robert, grazie
al suo lavoro, era riuscito a recuperare. Quando Lizzie venne a sapere
dal telegiornale cosa era successo, rimase imbambolata per minuti
infiniti, incapace di accettare la realtà e, poche ore dopo,
si era recata in ospedale dove aveva lottato per vedere il corpo del
suo amato amico. Pianse disperatamente mentre la polizia la ostacolava
perché, per il mondo, lei non era nessuno per Jay.
Il ragazzo non fu mai visto da nessuno poiché suo padre,
nonostante fosse un barrister, non si era preoccupato di trovare
qualcuno che potesse prendersi cura del caso. Robert si era recato a
casa Hahn e grazie ad Emma si era preso la responsabilità di
Jay, era diventato l’avvocato che avrebbe messo dietro le
sbarre chi gli aveva tolto il sorriso per sempre.
Un anno e mezzo di battaglie legali nelle quali Beatrix aveva
testimoniato, essendo stata l’unica a conoscere nei dettagli
il rapporto tra Jay e Brad.
Aveva raccontato tutta la storia, presentando come prova
l’ultimo biglietto che il ragazzo le aveva lasciato e pianse
inconsolabilmente sul banco dei testimoni per non essersi svegliata in
tempo, quella mattina. Se avesse saputo le intenzioni di Jay
l’avrebbe fermato o accompagnato perché di
quell’uomo non si fidava, soprattutto dopo aver visto in che
stato era tornato la sera prima.
«Hai visto? Hanno organizzato un ridicolissimo Flash
mob per
festeggiare la sentenza. Per me non c’è niente da
festeggiare, neanche questo me lo riporterà
indietro» disse Lizzie, fissando assente la strada percorsa
in auto.
«In molti hanno seguito la storia di Jay. Ci sono forum zeppi
di gente che ne parla. Sono rimasti tutti colpiti da quello che
è successo, soprattutto gli omosessuali. Hai visto che
l’associazione Omosex
Free ha
creato una raccolta fondi per aprire uno sportello che
sosterrà gli omosessuali minorenni abbandonati dalla
famiglia?»
«Lo sportello di Jay. Non lo tollero»
borbottò senza guardarla.
Beatrix rise dell’incapacità della sua
amica di accettare che Jay fosse diventato un po’ di tutti:
«Tu sei gelosa! Volevi avercelo tutto per te» la
scimmiottò sapendo, però, quale fosse il vero
problema di Lizzie.
«Non è questo il punto, lo sai. Odio che se ne
parli così tanto. La sua morte riempie ore e ore di talk
show televisivi che soddisfano la sete di cronaca nera della gente. Si
lanciano tutti in facili moralismi sul bigottismo della
società moderna, alcuni si prendono anche il lusso di
parlare di lui senza conoscerlo, ipotizzando altre relazioni a
pagamento, mettendo in dubbio l’innocenza di Jay. Queste cose
mi fanno rabbia. Ci sbattono la sua faccia ad ogni ora del giorno in tv
e non si rendono conto quanto questo faccia male a chi l’ha
conosciuto e amato. A te non disturbano queste cose?» chiese
alla fine, dopo essersi sfogata.
Beatrix sospirò afflitta: anche lei odiava le stesse cose e
a differenza di Lizzie era anche gelosa, perché Jay
apparteneva a chi l’aveva amato, non a chi se n’era
appassionato solo perché la foto che girava ritraeva un bel
ragazzo al quale un mostro aveva stroncato l’esistenza.
«Fa male. Tutto questo fa malissimo. È come se la
sua morte accadesse di nuovo, ad ogni ora della giornata, in ogni
momento in cui qualcuno pronuncia il suo nome. Lo capisco, Lizzie, ma
non possiamo fare niente.».
Si chiusero nel mutismo, ognuna con i propri dolori e sensi di colpa.
Entrambe non erano state in grado di proteggerlo e salvarlo e Lizzie,
in particolare, odiava se stessa per averlo assecondato quando le aveva
chiesto di non preoccuparsi per lui. Aveva scoperto particolari della
sua vita attraverso i racconti di Beatrix e i dibattiti in tribunale,
era stata all'oscuro di tutto e non si diede mai pace per questo.
***
Camminarono nel vialetto del cimitero, seguendo il percorso che li
avrebbe portati da lui.
Avanzarono con un’espressione vaga, come se si trovassero
lì per caso, per non favorire l’istinto di fuggire
poiché quello, per entrambe, era l’unico posto nel
quale Jay non avrebbe dovuto esserci.
Videro qualcuno davanti alla tomba, mentre si avvicinavano adagio;
accelerarono il passo per allontanare un altro dei mille curiosi che
giungevano alla sua lapide in un macabro pellegrinaggio. Più
si avvicinavano, più Lizzie riconobbe i lineamenti di quel
ragazzo e una tristezza incontenibile le riempì il cuore.
Non l’aveva più visto e ammise di averlo odiato in
passato, ma rivederlo riportò a galla ricordi bellissimi del
passato che aveva vissuto accanto al suo più caro amico.
Chaz si voltò. Non fu sorpreso di rivederla dopo
così tanto tempo, anche perché
l’infinito dolore non gli permetteva di stupirsi
più di nulla.
«Ciao» lo salutò lei, senza neanche
avvicinarsi a lui. Diresse subito lo sguardo sulla lapide bianca che
contrastava con il colore della terra: qualche filo d’erba
era finalmente cresciuto intorno al marmo. La terra era stata rivoltata
e scavata per introdurre il corpo di Jay: solo il pensiero la
devastava. Desiderava rivederlo con tutta l’anima, ma sapeva
che sarebbe stato impossibile, così cercò di non
pensarci e borbottò contro i biglietti, i regali e i fiori
che gli “ammiratori” avevano lasciato occupando per
intero la superficie del marmo: «Maledetti. Hanno sporcato
tutto. Manco fosse Jimi Hendrix.»
«È diventato come una rock star.»
«Non mi piace per niente» rispose a Chaz con i
denti stretti mentre spostava un peluche posto malamente davanti la
foto. Lo vide sorridente e una morsa le cinse lo stomaco; in quella
foto c’era Izaya, anche se era tagliato fuori. Quel sorriso
felice e quegli occhi grandi e luccicanti esistevano per merito di
Izaya e nessuno, a parte lei, l’avrebbe saputo.
Alle sue spalle, Beatrix e Chaz si parlarono. Il ragazzo non
riuscì a presentarsi come un amico di Jay, in fondo,
l’aveva abbandonato anni addietro, ma la ragazza
poté capire dal suo sguardo distrutto e perso che era stato
certamente qualcuno di importante.
Stettero in silenzio con le mani incrociate a fissare quella tomba muta
che aveva preso il posto di una vita. Nessuno dei tre sapeva cosa
avrebbero potuto dirsi e Lizzie, abbassando lo sguardo, notò
una fede all’anulare della mano sinistra di Chaz:
«Ti sei sposato?».
Chaz ingurgitò a fatica, ma rispose di getto come se
ciò che stava per dire fosse del tutto normale:
«Sì. Pochi mesi fa.»
«E con chi?»
«Non la conosci, si chiama Julia.».
Lizzie spalancò gli occhi incredula. Certamente si era persa
qualche passaggio della vita di Chaz e, onestamente, non se ne
dispiacque, ma saperlo al sicuro con una donna quando Jay, con
coraggio, aveva combattuto fino a morire per imporsi, la fece
rabbrividire per l’incapacità totale di Chaz di
avere coraggio. «Se sei felice sono felice per te, ma sappi
che sei fortunato: se Jay fosse stato ancora vivo, probabilmente, ti
avrebbe attaccato al muro a suon di schiaffi per farti
risvegliare.».
Il ragazzo sbiascicò qualcosa senza farsi sentire e poi,
dopo un secondo di indugio, snocciolò la verità:
«Veramente, sapeva che ero fidanzato con una donna, non
sarebbe rimasto stupito della mia scelta, mi conosceva troppo bene:
sono sempre stato un codardo.» si accusò
sussurrando e fissando la foto dell’uomo che aveva amato e
che aveva cercato, malgrado la delusione, di convincerlo a ritrovare se
stesso. Quella mattina, dopo aver fatto l’amore con lui,
quelle parole lo colpirono con una forza tale da convincerlo ad uscire
allo scoperto, tuttavia il coraggio venne meno e continuò a
protrarre quella farsa all’infinito, fino a sposare una donna
che non avrebbe mai veramente amato.
Lizzie lo consolò a suo modo, poggiandogli una mano sulla
spalla in segno di comprensione, ma il ricordo del Jay combattente di
soli diciassette anni che, nel suo vecchio bar, aveva disperatamente
cercato di non tradirsi, la colpì ancor di più.
Non aveva mai pensato al suo coraggio; lo aveva sempre consolato per il
dispiacere che lo ingoiava ogni volta che i suoi mancavano di una
carezza o di una parola di conforto, ma non si era mai soffermata sul
fatto che Jay avrebbe potuto scegliere di tirarsi indietro e fingere di
essere ciò che non era: non l’aveva mai fatto; e
solo in quell’istante si accorse che non era mai stata una
cosa così scontata.
«Vado via» disse Chaz a bassa voce. Si
inginocchiò davanti la foto fissandola dolorosamente; ancora
non riusciva ad accettarlo, forse non ce l’avrebbe mai fatta.
Chiuse gli occhi e baciandosi la punta delle dita inviò quel
bacio a Jay, accarezzandogli il volto che, ormai, era solo
un’immagine di ciò che era stato.
Ti amerò per sempre.
Si alzò velocemente e se ne andò senza neanche
salutare, per non crollare, per non piangere disperatamente per
l’ennesima volta in pochi giorni. Le due ragazze non lo
fermarono, ma seguirono con lo sguardo il suo tragitto verso
l’uscita dal cimitero: sembrava un bambino sfinito sul quale
gravava il peso del mondo; camminava incurvato e distratto, simulando
una calma vera quanto l’amore per sua moglie e Lizzie avrebbe
voluto non fare con lui lo stesso errore che aveva fatto con Jay.
Chaz sarebbe tornato a casa e avrebbe trovato una donna alla quale non
avrebbe mai potuto dire: “Sono distrutto. L’uomo
che amo è stato massacrato”, era davvero questo
ciò che meritava?
Per egoismo o forse per autodifesa, Lizzie non lo seguì, ma
avrebbe cercato di fare qualcosa per lui, ma non sapeva ancora cosa.
«Quel ragazzo non è Jay. Non cercare un sostituto,
non usarlo per mettere a tacere la tua sofferenza, Liz. Quel ragazzo ha
già abbastanza problemi, non gli serve qualcuno che lo
utilizzi come ripulente dei propri sensi di colpa. Se vuoi aiutarlo,
fallo per lui, non perché senti che con Jay hai
fallito.» Beatrix fu più diretta di quanto Lizzie
si sarebbe mai aspettata e quella chiarezza, quasi crudele, la colse
impreparata. La sua nuova amica l’aveva compresa prima ancora
che lei potesse accorgersi dei suoi stessi pensieri. Pianse per la
vergogna, ma più di tutto per la consapevolezza di non
essere riuscita, nonostante gli anni passati, a perdonarsi per
ciò che non aveva fatto.
Beatrix non avrebbe mai voluto farla piangere, anche perché
non aveva fatto altro per quasi due anni; riconosceva in lei la forza
di una madre ma, anche, il suo inesprimibile dolore. Jay era stato
tanto per Lizzie, forse troppo; importante senz’altro, ma non
solo: le aveva insegnato molte più cose lui che una vita
intera, senza mai erigersi a maestro di vita nonostante lo fosse stato
con i suoi errori, con la sua forza, il suo coraggio. Jay aveva sempre
creduto di non essere nessuno e probabilmente era vero; chiunque
è nessuno per tutti e qualcuno per certi altri e Jay era
quel classico nessuno che con la sua morte faceva sentire il mondo un
posto più vuoto. Questa era l’impressione che
aveva sempre avuto Lizzie; anche se le persone intorno a lei
continuavano a vivere la propria vita, lei sentiva un impercettibile
senso di vuoto aleggiare tra i passanti, forse lo pretendeva in un
certo senso o semplicemente aveva trovato un modo per sentirsi meno
sola mentre condivideva il suo dolore con il mondo ignaro. In molti
avevano pianto la morte di Jay, ma così era stato per tutti
quelli che avevano trovato la morte per mano di un assassino;
più in là qualche altra vittima avrebbe preso il
suo posto nei ricordi della gente, tranne che nei suoi e in quelli di
chi l’aveva amato.
Beatrix colse dalla lapide dei bigliettini e li lesse in silenzio solo
per se stessa: ognuna di quelle parole scritte dipingevano Jay come una
vittima indifesa, la cosa la infastidì meno di quel che
pensava perché, se non altro, c’era amore in
quelle lettere. C’era chi l’amava anche se non
l’aveva mai conosciuto e anche se credeva fosse una cosa
sciocca ed infantile prese comunque un foglio ed una penna dalla borsa
e incominciò a scrivere.
Lizzie la guardava nel frattempo, senza chiedersi cosa stesse facendo
sebbene fosse strano, ma la lasciò fare senza interromperla.
Beatrix l’aveva sempre lasciata libera di commettere ogni
stranezza: dall’urlare in macchina come una disperata per
sfogarsi del dolore che era costretta a celare a casa propria per non
far preoccupare Nina e Robert, agli inviti nelle sale giochi al London
Trocadero per ammazzare senza pietà zombie invasori del
mondo; avevano riso e pianto insieme, da ubriache e da sobrie, di
fatto, avevano fatto le pazze per le vie di Londra sentendo la presenza
di Jay ad ogni passo; in quei momenti avrebbero voluto avercelo con
loro: si sarebbero divertiti come dei bambini. Questo, in particolare,
faceva soffrire entrambe perché, anziché cercare
di aiutarlo con parole di amore e di conforto, avrebbero anche potuto
prenderlo di peso, una sera, e portarlo a divertirsi in modo sano;
forse, così, la mancanza di Izaya si sarebbe fatta sentire
meno e non avrebbe mai conosciuto Brad chissà dove.
Beatrix si alzò e lasciò quel biglietto sulla
superficie di marmo gelida.
Sorrise fissando Lizzie: «Andiamo?».
Si incamminarono verso l’uscita insieme, reggendosi
reciprocamente come fossero ubriache, ridendo a bassa voce di ogni
sciocchezza, strada facendo, per scrollarsi di dosso la tristezza.
Tutti sapevano chi fosse Beatrix Darsha, era la supertestimone e
conosceva bene Jay.
Le sue parole sarebbero state legittime per tutti.
Voglio parlarvi di Hahn, Jay Hahn.
Era un ragazzo di ventitré anni con un
futuro brillante davanti, un ragazzo fragile ma coraggioso che,
nonostante il suo incontenibile dolore, aveva scelto di proseguire con
la sua vita, magari sbagliando, ma imparando dai propri errori. In
molti l’hanno giudicato o giustificato, ma sia i giudizi che
le giustificazioni nascondono la vera natura delle cose e delle persone.
La vera natura di Jay era audace, fiera, a volte
spericolata, ma mai impotente.
Non era una vittima. Lui ha combattuto fino alla fine
per salvarsi, non è stato fermo ad aspettare di morire, ha
lottato fino a che non c’è stato più
nulla da fare.
Jay aveva intrapreso un cammino sbagliato, talmente
tanto sbagliato da fargli incontrare una persona capace di amarlo nel
modo più malato possibile.
Nel giorno in cui Jay aveva deciso di perdonarsi di
tutti gli errori e di tutte le sue debolezze, ponendo fine al
prolungarsi insano dei suoi errori, un uomo che diceva di amarlo lo ha
ucciso, colpendolo in volto e sulla testa ripetutamente fino a
sfigurarlo; per gelosia, per amore dice lui, sicuramente per follia, ma
una cosa certamente posso affermare: quello che meritava Jay Hahn non
era quel tipo di amore malato, ossessivo, a pagamento; ma un amore
disinteressato, che non richiede nulla in cambio.
Adesso non so che fine abbia fatto Jay, ma sono certa
che è felice dov’è, perché
ha vissuto sempre con un solo ed unico pensiero: Izaya,
l’uomo che ha sempre amato.
Spero sia con lui adesso, da qualche parte, lontano da
questo mondo putrido che, come ho sempre pensato, non gli è
mai appartenuto.
Beatrix Darsha
|
Questo è il mio ultimo angolo autrice. Vi prego! Non spoilerate nelle recensioni T_T
La storia è finita e non avete idea di quanto io sia triste. Triste perché ho concluso una storia alla quale ho dedicato energie, amore, depressioni, serate a buttarmi giù per entrare nello stato d’animo giusto. Tutte queste cose mi hanno colmata. Jay abita ancora nel mio cuore e spero anche nel vostro. Come ho detto mille volte, non era una semplice storia che volevo lasciarvi, ma degli amici, dei punti di vista, delle emozioni e se sono riuscita nel mio intento allora sappiate che ogni qualvolta sentirete il nome di Jay da qualche parte vi verrà in mente e magari vi mancherà. Tipo, siete in macchina e vi capita di sentire Radio DeeJAY, leggerete il Grande Gatsby, ascolterete una canzone di JAY-z, vi imbatterete nelle repliche su Sky del JAY Leno Show, scriverete un messaggio di testo e cliccherete la lettera J… ok! Faccio meno la stupida :P È che voglio alleggerire un po’ la tristezza.
Ciò che più mi ha riempita di gioia in questo viaggio sono state le vostre recensioni piene di affetto, di passione, di amore, DI SPOILER!!! XD Jay è al primo posto delle storie più popolari nella sezione Drammatico per la più alta media di parole nelle recensioni; questo non è grazie a me, ma grazie a voi e al vostro sostegno. Si dice che se qualcuno ha voglia di spendere del tempo per lasciare quei papiri significa che la storia, in qualche modo, l’ha colpita e travolta. Con qualcuno di voi è stato certamente così e la cosa mi rende felice da morire.
Passiamo ai doverosissimi ringraziamenti:
Grazie a Babbo Aven che è l’unico ometto che mi ha seguita. Lo ringrazio enormemente per tanti motivi: il primo è che si è dovuto sorbire un paio di scenette poco simpatiche tra uomini XD il secondo è che mi è stato vicino sempre senza mai scrivermi semplicemente dei commenti sterili fatti di complimenti. Ha cercato di sprovarmi ed io ho sprovato lui XD Ogni volta diceva: immagino che succederà questo o quello; e poi, alla fine, non c’azzeccava mai :P Questo non è perché lui non sia abbastanza perspicace, ma perché se una storia è scritta dai personaggi e non da una narratrice non può andare come tutti si aspettano. Le persone sono imprevedibili così come gli eventi che si susseguono. La vita è imprevedibile. Quindi, se ho colto di sorpresa il Babbo Aven più di una volta, significa che questa storia non era poi così prevedibile come in molti, fermandosi ai primi capitoli, avevano detto; questo mi inorgoglisce.
Ringrazio Elsker e non ho parole per farlo. Lei mi ha appoggiata costantemente, scrivendomi lunghissime recensioni cariche di riflessioni così profonde ed esatte da farmi piangere. Non piango spesso, Elsker mi fa piangere. Non sono solo complimenti i suoi (anche se mi carica da morire XD) ma sono trattati di psicologia belli e buoni :P La cosa che maggiormente mi ha fatto attaccare come una cozza allo scoglio ad Elsker è il fatto che lei, nelle recensioni, mi ha scritto più di una volta cose come: mi hai insegnato a vedere le cose; mi hai insegnato ad apprezzare amori diversi e non solo romantici; mi hai insegnato ad amare le piccole cose. Ecco, non sono mai stata capace di insegnare niente, sono un cumolo di difetti mischiata ad altri difetti, ma se qualcuno come lei mi dice che con questa storia ho insegnato qualcosa mi sento decisamente meno vuota. Grazie.
Ringrazio LadyWolf e Bijouttina. Perché le ringrazio insieme? Perché, seppur con rapporti diversi, mi hanno sostenuta allo stesso modo. LadyWolf è un’amica di quelle affidabili, gentili, sempre pronte a sostenerti. Ha letto Jay Hahn la OS e nonostante questo ha seguito anche la long; lei ha sempre saputo come sarebbe andata a finire (e vi posso assicurare che non è facile seguire una storia della quale conoscete già l’epilogo) ma ha continuato a leggere, disperandosi ogni qualvolta leggeva il nome Izaya sapendo che non ci sarebbe più stato, arrabbiandosi quando leggeva il nome Brad sapendo che avrebbe ucciso Jay. LadyWolf è stata fondamentale ed insostituibile e l’adorerò per sempre.
Bijouttina, invece, l’ho conosciuta per caso. Ha aperto la mia storia attratta da chissà cosa dato che, al tempo, non esisteva incipit né trama; c’era, ma faceva abbastanza schifo :P
Lei ha iniziato a leggermi e non ha mai smesso. Pubblicavo e SBAM, neanche due ore dopo, mi ritrovavo la recensione di Bijou. Al massimo leggeva il giorno dopo scrivendomi: “Devo leggerla prima o dopo la colazione?” dato che sapeva che molti capitoli le avrebbero rivoltato lo stomaco XD Ha letto della morte di Izaya dopo aver fatto colazione e sono stata responsabile dei suoi crampi allo stomaco :P Come sono stata responsabile dei mille fazzolettini che le ho fatto sprecare. LadyWolf e Bijouttina, infine, fanno parte dell’armata mazza chiodata for Chaz. Lo odiavano entrambe allo stesso modo, lo hanno chiamato in tutti i modi: stupido, nullità, Coso XD Sono le uniche due che mi hanno fatto fare delle grasse risate.
Ringrazio DarkViolet per le sue recensioni costanti ma di una riga soltanto, dove scriveva, per sommi capi, il riassunto del capitolo. Questo non è certamente meno soddisfacente per me, perché seppur con un riassuntino di due righe mi faceva capire che c’era, che leggeva e che qualche evento in particolare l’aveva colpita. L’unica volta in cui ho letto una recensione più articolata è stato quando è morto Izaya; ha scritto: NOOOOOOOOOOOOO… lungo come n’apocalisse XD
Abbiamo anche avuto uno scambio di opinioni perché tendeva a spoilerare tutta la trama in due righe e non c’è cosa più facile che leggere i risvolti di una storia sintetizzati in due righe: George Hahn, padre di Jay Hahn, omosessuale represso, è stato beccato dal figlio mentre stava ad una festa con un ragazzino. XD Sembrava “Kmer figlio di Pdorr della dinastia di Starr” mi sono ammazzata dalle risate XD
Ringrazio Julie che in pochi giorni ha letto 33 capitoli, mica una cosa da niente. Ha parlato quasi sempre direttamente con Jay nelle sue recensioni e la cosa, devo confessare, fa un effetto bellissimo. Perché sembra che esista davvero, sembra sia reale. Mi si è depressa un sacco di volte ma, d’altronde, sapeva con chi aveva a che fare dato che mi chiamava sadica continuamente XD Julie è una ragazza particolarissima. Scherza di continuo, a volte sembra vaneggi, ma nel suo modo di approcciarsi alle persone e alle storie c’è una sensibilità sconvolgente. Anche lei, nonostante sia sempre allegra, vive di delusioni e di amarezze e si capisce da ciò che scrive, da come comprende ciò che legge. Tutti viviamo di dolori, ma lei lo fa con un sorriso stampato in faccia, forse per nascondersi o per esorcizzare le cose. È molto simile a Jay in questo, perché entrambi mascherano qualcosa: Jay con l’indifferenza, lei con il sorriso. Grazie di tutto Julie.
Ringrazio Sorella Grimm, la “Shore” per me. Grazie perché ad ogni momento libero mi ha letta lasciandomi le recensioni più epiche mai lette. Mi sono divertita un sacco a leggere i nomignoli che ha affibbiato ai miei personaggi tipo: Iza il fattone, BradschifoachiliBrad. L’unico che ha graziato è stato Chaz. Sì Bijou e Ila, la Shore era una fan di Coso. Uccidetela! XD Sappi che mi sono fatta una raccolta delle tue esilaranti uscite. Grazie per il sostegno nonostante gli impegni.
Grazie a Moloko Vellocet che c’è ma non si vede sempre. Lei ha seguito la storia in silenzio e non so, ad oggi, se temerla o meno. Certo è che aspetto trepidante il suo responso su questa storia. Moloko è un’autrice che stimo e anche una persona con la quale, sorprendentemente, vado molto d’accordo. Sarà che siamo due persone molto dirette e siamo, anche, due belle babbione in quel di efp. Mi piace sapere cosa pensa perché lei legge con gli occhi di una donna adulta, di una mamma, di una scrittrice piena di talento, matura e intelligente. Non è che gli altri non lo sono, ma sarà che con lei mi trovo in sintonia per via della nostra boccuccia di rose XD Grazie anche a te, caVa.
Ringrazio Ghost perché, anche se non c’è stata sempre, ogni tanto è ricomparsa, rinnovando continuamente il suo affetto per Jay. Anche lei l’ha conosciuto con la OS e lo ha AMATO veramente. L’ho sentito. L’ha compreso e giustificato sempre, anche in momenti in cui il suo comportamento ero più che discutibile.
Ringrazio Oxymoros che mi ha sostenuta molto nell’ultimo periodo e che mi ha regalato una cosa meravigliosa: una poesia per Jay. Questo non è solo un regalo, è qualcosa di più. La ringrazio, anche, per la sua manciata di recensioni chilometriche che mi hanno davvero lusingata.
Ringrazio Le Sparite ma che mi hanno, comunque, dato molto con le loro recensioni:
Amartema, Daisy Pearl, Fly_With_Me, Ita rb, malaria, Mrs Burro, Nahash, Fox.
Ringrazio chi mi ha scritto, anche solo un paio di volte, ma che mi ha fatto sapere che c’è anche se legge in silenzio: Castelli di Rabbia, Class of 13, Nebulas, Maia Scott.
Grazie a chi, invece, ha appena iniziato a leggere la mia storia. Ognuna di loro mi ha lasciato bellissime recensioni T_T Ally, Aniasolary, Hime.
Ringrazio anche chi mi ha buttato giù, scrivendomi recensioni critiche (non parlo di bandierine) motivandomi a fare meglio. Grazie a chi, invece, mi ha lasciato recensioni senza alcun senso XD Tipo: chi millantava di aver già capito tutto dal primo capitolo, tacciando la mia storia per un racconto poco originale.
Infine, ringrazio la mia Emide che c’è sempre nella mia vita e che mi sostiene, pompandomi continuamente e considerandomi la sua autrice preferita. La sua presenza è come una boccata di aria fresca per me. (Bijou, LadyWolf, anche lei è una fan di Coso).
Ringrazio WarHamster che è il mio primo tentativo fallito di avere una beta XD
L’avevo assunta perché volevo aggiornare e scivolare a qualcun altro il compito di revisionare i capitoli precedenti, ma poi mi sono detta che tanto mancava poco per finire e, quindi, avrei potuto farlo da sola. La ringrazio perché, nonostante il brevissimo sodalizio, sono riuscita, grazie ai nostri scambi di opinione, a fare chiarezza su molti aspetti e poi, una che mi scrive cose come: “tu invece sei un irish coffee a Tokio. Perché hai colori un po' elettronici nipponici, uno stile cremoso e corposo con retrogusto di whisky e una punta di surrealismo (magari non voluto) abilmente mescolata alla realtà pura e semplice.” Come si può non amarla?? XD
Ringrazio tutti quelli che hanno inserito la storia nelle seguite/preferite/ricordate e soprattutto tutti quelli che, una volta finito di leggere il racconto, decideranno di non volerlo perdere inserendolo nei Preferiti forevah.
Grazie a chi mi ha inserito negli autori preferiti.
Se ho dimenticato qualcuno siete liberi di odiarmi.
Spero davvero di avervi regalato una storia che vi abbia fatto provare emozioni.
Alla prossima storia… se mai ne scriverò un’altra.
Grazie a tutti, davvero e grazie a Lizzie, Beatrix, Chaz, Robert, Nina, BradschifoachiliBrad, George, Emma, Joseph, Emily, il sacerdote stronzo, il barista mai visto dell’Escape, la drag queen Lulù che non s’è mai vista anche lei, Lee e juky il jukebox.
E grazie con tutto il cuore a Jay e a Izaya che mi hanno fatto provare le emozioni più belle che io abbia mai sentito.
Bloomsbury
Fine
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