Only a life

di _vally_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 - Luci ***
Capitolo 3: *** 2 - Legno ***
Capitolo 4: *** 3 - Tempo ***
Capitolo 5: *** 4 - Sui tuoi passi ***
Capitolo 6: *** 5 - Only a life ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

“Qualcuno come te?”

“Qualcuno che ti piace.”

 

La porta si era chiusa dietro di lui, con un suono secco.

 

E’ strano quello che poche parole, apparentemente così banali, possono innescare dentro di te.

Inizialmente era stata solo una lieve vertigine, come quando le emozioni che ti colgono sono troppe e troppo intense, e confondono la ragione che, mentre cade sconfitta, manda un segnale di pericolo al corpo.

Era uscita dalla stanza, simulando una tranquillità che non c’era.

Poi aveva camminato fino al suo ufficio, picchiando i tacchi sul freddo pavimento un po’ più forte del solito, sperando che quel ticchettio regolare occupasse i suoi pensieri e le entrasse nel cervello interrompendo il caos che la invadeva.

Aveva chiuso la porta a chiave, e non lo faceva quasi mai.

Quando aveva sentito il rassicurante clic della serratura si era voltata verso il suo ufficio, così familiare, così suo e aveva fatto un respiro profondo.

Aveva pensato di sedersi alla sua scrivania e lavorare un po’, ma non riusciva a muoversi.

Forse sarebbe stato meglio lasciarsi cadere sul divano, chiudere gli occhi e lasciare che la morbida stoffa le massaggiasse i muscoli, rilassandola.

I suoi piedi continuavano a non muoversi.

Sentiva il cuore battere troppo forte e un senso di inquietudine acutizzarsi dentro di lei, facendole quasi male.

Conosceva abbastanza bene se stessa da capire quei segnali: c’era qualcosa che doveva fare, un imperativo, un bisogno.

Non poteva più tacere quella domanda, avrebbe dovuto fargliela molto tempo prima, non appena aveva iniziato la ricerca di un donatore per avere una gravidanza.

House era la prima persona a cui aveva pensato.

 

Aveva le mani sudate.

Il suo corpo sapeva già cosa avrebbe fatto, e quanto sarebbe stato difficile.

Per questo le vertigini, per questo il senso di inquietudine, il cuore impazzito e le mani sudate. I suoi pensieri, così ostinati nel percorrere sempre la via della razionalità, erano riusciti solo ora a prender forma, a creare un discorso plausibilmente sensato, rispetto a una scelta che veniva tutta dal cuore.

Aveva quella domanda sulle labbra, detta e ridetta a se stessa decine di volte in quella lunghissima giornata.

Mancava solo che lui la ascoltasse.

I tacchi battevano decisi sul pavimento, la testa alta.

Vide se stessa aprire la porta, avvicinarsi alla sua scrivania.

Lui era lì seduto, lo sguardo fermo su di lei.

Aspettava.

Toccava a lei ora, fargli quella domanda.

Chiedergli se voleva essere lui il donatore per il suo bambino.

Per un istante fu sicura che quello fosse ciò che House si aspettasse e che dirle “qualcuno che ti piace”, come aveva fatto poche ore prima, fosse solo il suo modo di dire “si”.

Quella certezza si impadronì di lei per un singolo istante e poi scomparve, lasciando un buco vuoto e freddo.

“Grazie per le iniezioni.”

Non era quello che lei si aspettava di dire.

“Ma ti pare…”

Non era quello che lui si aspettava di doverle rispondere.

Si voltò per andarsene, turbata dalle parole che non aveva detto.

“Sei venuta qui solo per dirmi questo?”

Un’altra possibilità.

Non poteva mentirgli.

“No.”

Ma non poteva neanche dirgli la verità.

Riuscì a guardarlo un’ultima volta prima di uscire da quella porta.

Uno sguardo e nient’altro.

Quello era tutto quello che era riuscita a fare.

 

Raggiunse il suo ufficio e prese il cappotto.

“Codarda…” si stupì di sentire la sua stessa voce, nel silenzio dell’ufficio vuoto.

Scosse la testa, mentre si allontanava a lunghi passi dall’ospedale.

Aveva solo bisogno di andare a casa.

Andare a casa e dimenticare quella storia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** 1 - Luci ***


1 - Luci

 

h 23.50

 

Realizzò quello che stava facendo quando ormai era davanti alla sua porta.

 

Era andata a casa, si era spogliata e si era fatta una doccia gelata.

Aveva indossato uno dei suoi tailleur e si era truccata.

Aveva cucinato, cenato, telefonato a una vecchia amica ma, quando si era resa conto che erano le undici di sera e lei si apprestava a pulire il bagno in gonna con spacco, camicia e spazzolone in mano, aveva capito che dimenticare quella storia era impossibile.

Si era vestita e truccata per andare da lui.

Era inutile tentare di ingannare se stessi.

 

In piedi, davanti a quella anonima porta di legno, questa volta senza un discorso pronto.

Sentiva note delicate provenire dall’interno della casa, soffocate dalla barriera fisica che c’era ancora tra lei e House; per un istante vide chiarissima l’immagine delle sue dita che accarezzavano agili i tasti bianchi e neri.

Stava suonando il piano mentre, probabilmente, un bicchiere di whisky era abbandonato vuoto da qualche parte accanto a lui.

Non si stupì di trovarlo ancora sveglio.

A quell’ora, le persone tormentate come House sono sempre sveglie. Andare a dormire presto sarebbe stato un attentato all’immagine di cinico solitario misantropo che House coltivava con tanta cura; non lo avrebbe mai fatto.

Non che lei lo credesse un agnellino travestito da lupo; semplicemente lo conosceva abbastanza bene da sapere che dietro il bastardo che era House, c’erano aspetti di lui più umani, più belli, che raramente era riuscita a scorgere, ma “raramente” era diverso da “mai”, e lei era sicura che questi angoli di luce ci fossero.

Era per quello che talvolta aveva intravisto nella sua anima nera, che ora era lì.

Quando la sofferenza per la gamba era stata troppa per essere mascherata con l’ironia, quando la paura di morire aveva eliminato per pochi lunghi istanti la razionalità a cui House si aggrappava con più forza di lei o quando, tantissimi anni prima, l’aveva guardata negli occhi mentre il piacere estremo faceva tremare i loro corpi; erano buchi nella serratura in una porta che non si sarebbe mai aperta per lei, né per nessun’altro.

Nonostante questo, aveva fiducia in ciò che aveva visto in passato, abbastanza fiducia da giocarsi la sua dignità, da chiedere il suo aiuto in qualcosa di davvero importante per lei.

 

Bussò forte, due rapidi colpi e nient’altro.

House non smise subito di suonare, portò a termine la melodia che stava suonando come se non fosse accaduto nulla, ma lei sapeva che l’aveva sentita.

Quando le note cessarono, infatti, la porta si spalancò.

House rimase qualche istante a fissarla, con una mano ancora sulla maniglia e l’altra appoggiata allo stipite; sembrava stesse riflettendo. Poi, come se si fosse reso conto solo in quel momento di conoscere la persona che si era presentata alla sua porta, si fece da parte per farla entrare.

Cuddy aveva appena varcato la soglia quando lui chiuse con forza la porta, facendola sussultare.

House sembrò non farci caso e, zoppicando più del solito per la mancanza dell’aiuto del bastone, tornò al pianoforte e riprese a suonare.

L’unica parola che disse, mentre dandole le spalle raggiungeva faticosamente il pianoforte, fu “siediti”.

Frastornata dallo strano modo in cui l’aveva accolta, raggiunse il divano e si sedette in un angolo.

Si era comportato in modo insolito, era come se lui…

L’occhio le cadde sul tavolino, dove vide due bicchieri a fianco di una bottiglia whisky. Non uno, due.

Era come se lui la stesse aspettando.

Agendo quasi d’istinto, prese la bottiglia e versò il whisky in entrambi bicchieri.

Nel momento in cui il vetro della bottiglia toccò nuovamente la superficie del tavolino, House smise di suonare.

Non era nulla di straordinario, una semplice coincidenza, ma le diede comunque la sensazione che c’era armonia in quello che, vicini nello spazio ma lontanissimi nel pensiero, stavano facendo.

Si alzò reggendo i due bicchieri, e ne porse uno ad House, ancora seduto al pianoforte.

Lui lo prese e, staccando gli occhi dai suoi solo per un istante, ingoiò tutto il liquido ambrato in una rapida sorsata.

“Se hai intenzione di farmi ubriacare per impossessarti del mio seme, riempire i bicchieri solo a metà non è un buona strategia.”

Le venne da sorridere, mentre si portava alla bocca il suo bicchiere, e si bagnava appena le labbra, solo per sentire il sapore forte dell’alcol e riempirsi le narici del suo odore. Per ora le bastava quello.

“Mi aspettavi?”

House si alzò per raggiungere la bottiglia di whisky e riempire ancora il suo bicchiere.

“No.” rispose senza nessuna esitazione “Quello è il bicchiere per la pipì. La strada che porta al bagno a quest’ora è pericolosa…”

Come a voler confermare quelle strampalate parole, dal buio del corridoio dietro di lei sentì un tonfo secco, che la fece trasalire.

Vedendola sussultare, ad House scappò un sorriso.

“Complimenti per gli effetti speciali.” gli disse, sperando che il tono della sua voce non tradisse il brivido che le aveva appena percorso la schiena.

“Complimenti a te. Con quel push up sembra che le tue tette si siano totalmente liberate della forza di gravità. Io i fantasmi e loro i super poteri…”

“Se vedi le mie tette volare significa che farti ubriacare non è poi così difficile.” accolse la sua provocazione; aveva imparato che, quando si trattava di House, giocare era il miglior modo per avvicinarlo.

“Ok, sono ubriaco.” spalancò le braccia in segno di resa, e si lasciò cadere sul divano “ora tocca a te.”

House non abbandonava mai il gioco.

E non smetteva mai di guardarla fisso negli occhi quando stavano giocando.

Si sentì improvvisamente a disagio; la situazione le ricordava pericolosamente quella di alcune ore prima, lei in piedi, completamente alla mercé dei suoi occhi, che la scrutavano impassibili.

Si sentì smarrita, imprigionata tra le mura dell’esitazione, con una gran paura di uscire ma con la sensazione che il vero pericolo stesse proprio dentro di lei; se non ci avesse almeno provato, non se lo sarebbe mai perdonato.

Era il momento della sua mossa, e doveva farla in fretta, prima che l’incertezza divenisse inazione.

Appoggiò il bicchiere sul tavolino, e si sedette affianco ad House.

Nel momento in cui con i capelli sfiorò il suo braccio, appoggiato sulla spalliera del divano, vide vacillare per un istante la strafottenza che c’era nel suo sguardo.

Come accadeva ogni volta che erano molto vicini, ogni volta che potevano sentire l’odore della loro pelle, la disinvoltura con cui si provocavano quotidianamente li privava del suo scudo, lasciandoli una accanto all’altro, indifesi.

Fissò House dritto negli occhi, e ci vide una di quelle piccole luci.

Non riuscì a capire se fosse turbato, emozionato oppure irritato; qualunque sentimento fosse, era autentico.

Persa in questo pensiero, non si accorse che i secondi passavano, e lo stava guardando senza dir nulla.

“Ti presenti a casa mia a quest’ora, con quella scollatura, e mi fissi così…se nella tua borsetta c’è un paio di manette giuro che ti sposo.”

Cuddy si fece scappare un sorriso, mentre abbassava lo sguardo; si accorse che le loro ginocchia ormai si sfioravano, e sentì la mano di House muoversi tra i suoi capelli. Un gesto quasi impercettibile, che voleva sembrare casuale.

Lei sapeva però che non lo era; House non lasciava mai niente al caso.

Tornò a guardarlo, ma si trovò talmente vicina a lui che fece fatica a mettere a fuoco il suo viso.

Non sapeva se era stata lei ad avvicinarlo o il contrario; in quel momento non si ricordava neanche perché fosse lì. Sentì la debole eco di qualcosa di importante che doveva dirgli, ma il sovraccarico dei sensi le impedì di mettere a fuoco le idee.

Sentiva il suo respiro addosso, e il calore di un altro corpo che premeva lievemente contro il suo.

Si avvicinò ancora di più, cercò le sue labbra.

Più tardi si sarebbe resa conto che House era rimasto perfettamente immobile per quei lunghissimi istanti, che aveva fatto tutto lei.

Aveva posato una mano sul suo ginocchio, gli aveva sfiorato le labbra con le sue.

Quando aveva sentito la lieve pressione della mano di House sulla sua spalla, aveva pensato che la stesse stringendo per avvicinarla a sé, per approfondire quel bacio appena accennato.

Poi la pressione era diventata più decisa, e lui aveva recuperato giusto quei pochi centimetri di distanza da lei, da permettergli di guardarla negli occhi.

La stava…respingendo?

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Capitolo 3
*** 2 - Legno ***


2 - Legno

 

Era a pochi centimetri da House, e riconobbe chiaramente l’espressione sul viso di lui.

Era divertito.

Come a voler confermare quel pensiero, il diagnosta si fece sfuggire una breve risata.

Stava ridendo di lei?!

Cuddy fece per allontanarsi, ma la mano che pochi istanti prima l’aveva allontanata, era diventata una presa salda che le impediva di muoversi. Lo guardò con espressione perplessa.

Un rifiuto era qualcosa che non si sarebbe mai aspettata da lui.

Ancora più insolito era che, dopo averla respinta, le stesse così vicino, senza permetterle di allontanarsi.

“So benissimo che vorresti venire a letto con me, ma so anche che non è questo il motivo per il quale sei qui, stasera. Perché sei qui, dunque?” chiese, impassibile.

Sentì che sul suo viso si stava dipingendo un’espressione sgomenta.

“Sai benissimo che…?! House!” riuscì a sfuggire dalla sua presa, e a recuperare quella che considerava la distanza di sicurezza. “Io volevo solo parlarti!”

Si rese conto di aver fatto un errore.

Dichiarare con convinzione di voler solo parlare con lui, dopo aver tentato di baciarlo, non giovava alla sua credibilità.

Però era la verità: lei era andata a casa sua per parlargli.

House non smise nemmeno per un istante di guardarla, ma i suoi occhi non erano più fissi nei suoi e le percorrevano il corpo; c’era un sorriso malizioso sul suo viso, e quando i loro sguardi si rincontrarono Lisa percepì una morsa allo stomaco.

Si sentì improvvisamente a disagio, e quella sensazione che, quel pomeriggio, l’aveva costretta a scappare dall’ufficio di House, incominciò a lambirla un’altra volta.

Sarebbe fuggita ancora.

“Cose c’è da sorridere?” le sembrò un’ottima domanda per prender tempo, per allontanarsi da quell’attimo di poco prima, in cui lui si aspettava una risposta che lei conosceva, ma che non aveva il coraggio di pronunciare.

“Tenendo conto che volevi solo parlarmi, e dopo un minuto che eri qui quasi mi trovavo la tua lingua in bocca, stavo pensando a cosa avresti fatto se avessi voluto solo baciarmi…” allungò una mano per prendere il bicchiere di whisky, e fece un sorso, senza smettere di sorridere “Il mio sorriso deriva dagli scenari che mi stanno venendo in mente. Sai…ho un’immaginazione molto fervida. Vuoi che te li descriva?”

“No, grazie.” rispose Cuddy riluttante, mentre si alzava dal divano.

Stava per dire “io vado”, ma la frase le morì in gola.

Si stava tirando indietro ancora una volta, e sapeva che si sarebbe odiata per questo.

Ma aveva paura.

Di essere umiliata da lui, di essere schernita o anche solo di un semplice no.

Quello era un argomento sul quale una delle tante battute idiote di House sarebbe stata come uno schiaffo, di quelli che lasciano il segno.

Abbassò la maniglia, mormorando un “ciao” distratto.

Ancora un colpo secco, simile a quello che pochi istanti minuti prima, anche se le sembrava fossero passate ore, l’aveva fatta trasalire. Questa volta però si aggiunse anche l’intensa vibrazione della maniglia sotto il suo palmo.

La lasciò, voltandosi di scatto.

La punta del bastone di House premeva contro la porta, a pochi centimetri dalla sua mano.

Avrebbe potuto farle male.

“Ho un’ottima mira.”

House a volte le faceva paura; quando le leggeva nella testa soprattutto.

“House, me ne sto andando.”

“Se te ne vai ricomparirai ancora nel cuore della notte, o peggio domani mattina prima delle dieci.”

“No, me ne vado e basta.”

“Se fosse così ti odieresti a vita.”

Aprì la bocca per ribattere qualcosa, ma non riuscì a dire niente.

“Non ci tieni abbastanza da rischiare di ricevere una risposta negativa?”

Lisa continuò a non parlare, non ne ebbe le forze.

Sentì la superficie ruvida del legno contro la schiena, e fu grata di avere un sostegno che la aiutasse a stare in piedi e, allo stesso tempo, le impedisse di fuggire.

House lentamente riportò la punta del bastone a terra, e fece un passo verso di lei.

“Non è abbastanza importante?”

Era davanti a lei, ancora un passo e avrebbe potuto toccarla.

Non fece quel passo, però.

Smise di avanzare, e di parlare.

“House, come ti permetti di dirmi queste cose?” il suo tono era realmente sorpreso.

La stava accusando di non tenere abbastanza ad avere un bambino? Abbastanza da affrontarlo?

“Tu non hai nessun diritto di dirmi queste cose!”

Si rese conto che stava urlando, ma non gliene importava niente.

“Ma smettila Cuddy!” la voce di House risultò altrettanto dura. “Fammi quella dannata domanda e finiscila di gridare come un’isterica!”

Lisa non riuscì a dire nulla, un’altra volta vicina a quel momento che stava cercando e un’altra volta zittita dalla paura.

“Non sono il tipo di urla che sentono di solito provenire i vicini dal mio appartamento, mi rovini la reputazione.” il tono di House era più calmo, conciliante.

Coprì la distanza tra loro, fermandosi molto vicino a lei.

Lo vide alzare una mano e allungarla verso il suo viso.

Stava quasi per credere, con stupore, che l’avrebbe accarezzata, quando le sue dita cambiarono direzione ed andarono ad appoggiarsi alla porta, a fianco della sua testa.

Le aveva sfiorato i capelli, ancora.

Ancora, avrebbe potuto essere un gesto casuale ma non lo era.

Adesso era in trappola, e se non gli avesse detto perché era lì non l’avrebbe fatta andare via.

Avrebbe potuto baciarlo di nuovo, ma si rese conto che cercava quella vicinanza tra le loro labbra per lo stesso motivo per cui era fuggita quel pomeriggio: era un modo per non dover parlare.

Lo guardò negli occhi e capì chiaramente che era riuscito anche lui a leggere il senso di quel bacio, e per quello prima l’aveva fermata.

Probabilmente sapeva anche perché era lì, ma House non era tipo da renderti le cose più facili.

Avrebbe dovuto dire quello che doveva fino all’ultima parola, forse anche ripeterlo.

House non era tipo da renderti le cose facili, ma da rendertele il più difficili possibile.

Era un bastardo.

Stava chiedendo all’uomo più bastardo che conosceva di aiutarla a diventare mamma.

“House.” la sua voce tremò, ma era talmente agitata che considerò un ottimo risultato anche solo l’emettere dei suoni comprensibili.

Lui la guardava, dalla sua espressione era impossibile capire cosa stesse provando; niente luci nei suoi occhi.

“Vorresti farmi da donatore?”  

House la fissò ancora qualche istante in silenzio, poi la sua voce la fece sussultare. “Eh?!”

Bastardo.

Lisa chiuse gli occhi un secondo e fece un respiro profondo, prima di riformulare la domanda.

“Vorresti aiutarmi a rimanere incinta donandomi il tuo seme?” le sembrò una frase abbastanza chiara, forse si sarebbe risparmiata il doverlo ripetere una terza volta.

House distolse brevemente lo sguardo, sembrava confuso; poteva sembrare uno che cercava il coraggio di darle una risposta, ma lei lo conosceva bene ed era sicura che stesse disperatamente cercando una falla nella sua domanda per fargliela ripetere, per torturarla ancora un po’; probabilmente si stava divertendo talmente tanto nel vederla così in imbarazzo, che non aveva ancora preso in considerazione ciò che gli aveva appena chiesto.

Avrebbe dovuto odiarlo per questo, ma le fece solo tenerezza.

Il suo sadismo le era così famigliare da farle tenerezza?!

Si sentì terribilmente stupida, terribilmente adolescenziale, e averlo a pochi centimetri da lei non la aiutava di certo a mantenere l’aspetto tranquillo e sicuro che si sforzava sempre di mostrare agli altri.

Alzò le mani e se le portò al viso, in un gesto che fu puerile ma fu anche l’unico modo di nascondere il rossore intenso che sentì invaderle le guance.

“House…pensaci.” abbassò lo sguardo, premendosi i palmi sulla fronte.

Si accorse che lui era a piedi nudi e le sembrò un particolare curioso; cercò di concentrarsi su quello piuttosto che pensare a quanto fosse importante per la sua vita la risposta che lui le avrebbe dato, a quanto fossero vicini e a quanto quello le piacesse.

Piedi nudi; curioso.

Si aspettava di vederlo allontanarsi, non pensava certo di riflettere sul mettere o meno il suo capo incinta, a dieci centimetri da lei?!

Ma non si spostava.

Vide le dita dei piedi muoversi tutte insieme, come a volerla salutare.

“Non sapevo del tuo feticismo…” le parlò nell’orecchio, facendola sussultare.

Alzò la testa e si rese conto di non riuscire a mettere a fuoco gli occhi di House, perché erano praticamente dentro ai suoi.

Si accorse di quello, prima che del sapore amaro del whisky sulle labbra, per la seconda volta in così poco tempo.

La stava baciando, in un modo che non ammetteva replica.

Schiuse le labbra, e il respiro di lui la invase.

Il tentativo di House era stato decisamente più convincente del suo.

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Capitolo 4
*** 3 - Tempo ***


3 – Tempo

 

Aveva il sospetto che fossero passati a stento due minuti, ma le sembrava di essere intrappolata in quel limbo tra piacere e frustrazione da ore.

Il piacere di quei baci voraci che tenevano legate le loro bocche come due magneti, concedendole solo rapide pause in cui sentiva il fiato di House sfiorarle le orecchie, il collo e le spalle prima di tornare alle sue labbra, impaziente; la frustrazione per baci che erano solo baci, quando lei incominciava a desiderare qualcosa di più.

Ma una mano di House era ancora appoggiata sulla porta dietro di lei, mentre l’altra ora stringeva la maniglia, intrappolandola in un abbraccio così dolorosamente distante.

Quando aveva provato ad attirarlo a sé, passandogli le braccia intorno al collo, lo aveva sentito allontanarsi quel tanto che bastava per farle capire che quei baci, in quel momento, erano tutto ciò che si sarebbero concessi.

E questo la faceva impazzire.

Conosceva House, ricordava House, e i confusi flashback delle sue mani che la stringevano facendole mancare il respiro sembravano così estranei alla metodicità con cui ora evitava ogni contatto con la sua pelle, a parte quella delicata delle labbra.

I minuti passavano, mentre la frustrazione diventava sempre più simile ad un dolore sordo, che le ovattava i sensi.

Non sarebbe potuta andare avanti così ancora per molto.

Fece scivolare le dita sotto la sua maglietta, e incominciò a sfiorare con i polpastrelli i suoi addominali tesi; lo sentì rabbrividire ed avvicinarsi finalmente a lei, mentre le mani abbandonavano la solidità della porta e le afferravano le spalle con tanta forza da farle quasi male.

L’eccitazione lasciò per un istante posto ad un’autentica sensazione di trionfo, per averlo fatto cedere, per averla avuta vinta in una partita dalla quale uscire sconfitta sarebbe stata un’umiliazione troppo grossa, come donna.

Una vocina dentro di lei però non la lasciava in pace, ripetendole che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che le stava sfuggendo.

La domanda.

Si era totalmente dimenticata che stava ancora aspettando una risposta da lui.

Puntò i palmi delle mani sul suo petto per allontanarlo, ma non ce ne fu bisogno perché, nello stesso istante, House aveva smesso di baciarla, mentre teneva ancora le mani strette sulle sue spalle, bloccandola contro la porta.

Si guardarono per qualche istante, ammutoliti.

Cuddy la vide: una piccola luce accendersi negli occhi di House, il suo lato umano che prendeva una boccata di ossigeno prima di nascondersi di nuovo dietro il muro di fumo nero attraverso il quale vedeva le persone.

“Mi hai detto “pensaci” e un secondo dopo avevi le mani sotto la mia maglietta…” la voce di House era alterata e il respiro più rapido del solito, ma questo non gli impedì di assumere il suo solito tono sarcastico “Sono lusingato dalla fiducia che hai nelle mie capacità di ragionamento ma pene e cervello non lavorano in parallelo, puoi scegliere solo un’opzione per volta.”

Cuddy continuava a fissarlo in silenzio.

House alzò gli occhi al soffitto, tornando poi a posarli su di lei. “Non te l’hanno insegnato a medicina!? Gli uomini funzionano così! Tutti, anche i migliori.”

“Ma…” Cuddy quasi si spaventò nel sentir il flebile suono tremante che uscì dalla sua gola. Si schiarì la voce e fece forza sul petto di House, allontanandolo.

Lui la lasciò fare, facendo scivolare le mani via dalle sue spalle.

“Ma sei stato tu…”

Il secondo tentativo riuscì un po’ meno patetico del precedente, ma si bloccò lo stesso, insospettita dall’espressione beffarda che vide formarsi sul volto di House.

Un’espressione che conosceva fin troppo bene, un segnale d’allarme che la metteva in allerta.

“Io ti ho baciata, stavo solo prendendo tempo.”

“Certo…”

“Se avessi provato a scappare mi avresti preso, sei più veloce di me. Mi è sembrata la soluzione più efficace.”

“House…”

“Avrei potuto continuare fino a domani mattino, poi tu saresti andata in ufficio e io…”

“House!”

Non avrebbe voluto alzare la voce così, ma quell’improvviso bombardamento di parole senza senso le fece saltare nervi.

Stava giocando con lei, prima con i baci, poi con le parole.

Sempre il suo solito gioco sadico.

“La domanda che ti ho fatto prima che…” scosse la testa, non sapendo come descrivere quello strano momento che ora le sembrava già così lontano. “…ho bisogno di sapere che ne pensi.”

House le si avvicinò un’altra volta, un sorriso malizioso ancora stampato in faccia. “Potremmo perdere ancora un po’ di tempo…”

Sentì la mano dell’uomo che premeva sulla nuca, attirandola verso di sé.

Puntò con decisione le mani sul suo petto, questa volta con una forza che non pensava di avere.

Era arrabbiata, tesa, stordita dai baci e dalla sua vicinanza; stava incominciando a perdere il controllo.

Senza quasi accorgersene chiuse le mani a pugno, afferrando con indignazione la maglietta di House.

“House adesso basta. E’ una cosa seria, non ti permetto di prenderti gioco di me.” riuscì a non urlare, ma capì subito che l’uomo aveva compreso che qualcosa dentro di lei era scattato, e che il gioco era davvero finito.

Erano un uomo, una donna, e una questione che probabilmente nessuno dei due era davvero in grado di affrontare.

“Cuddy” la durezza con cui pronunciò il suo nome le fece capire che questa volta, finalmente, era serio. “Io ho davvero bisogno di tempo.”

Rimase a fissarlo, cercando qualche significato nascosto dietro le sue parole così chiare, così banali.

“Non so cosa risponderti, ho bisogno di pensarci.”

Aveva pensato a cosa rispondere se le avesse detto di si, e come mascherare la sua delusione se le avesse detto di no.

A questa risposta però, non aveva pensato.

Era la risposta più ovvia e lei non ci aveva pensato.

“Va bene.”

Cos’altro avrebbe potuto dirgli?!

Si voltò, aprì la porta e se ne andò.

Questa volta House non la fermò.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** 4 - Sui tuoi passi ***


4 – Sui tuoi passi

 

“Ero ormai sicuro che le avrei detto di si.”

“Ma l’hai fatta andare via senza dirle nulla.”

“Già.”

“Hai idea di come si senta, House? La conosci, dev’esserle costato tantissimo chiederlo a te.”

“Cosa intendi dire?”

“Che non sei la scelta più semplice.”

“Ma sono la migliore.”

Non poteva vederla, ma era sicuro che stesse sorridendo.

“Comunque, non sei la sua unica scelta.” Lapidaria.

Qualche istante di silenzio.

Fu House a romperlo: “Tutto qui?”

“Cos’altro dovrei aggiungere?”

“Mi aspettavo qualcosa di più brutale.”

“Vuoi che ti insulti?”

“Se volevo il consiglio del grillo parlante, non avrei speso i soldi di un’interurbana. Basta un squillo e Wilson mi richiama.”

La sentì fare un respiro profondo.

Probabilmente si stava lentamente passando la cornetta da una mano all’altra, mentre raddrizzava la schiena.

La conosceva bene, poteva prevedere ogni suo singolo movimento.

“Sei un idiota.”

Finalmente.

“Scusa?” sapeva che provocarla era superfluo ora che la miccia era stata accesa, ma le vecchie abitudini sono difficili da far passare.

“Ho detto che sei un idiota.” la donna scandì bene le parole, alzando leggermente la voce. “Senza dubbio Lisa ha scelta, ma il punto non è questo.”

“E qual è il punto?”

“Il punto è che sei tu a non avere scelta.”

House sapeva che sarebbe stata schietta, era per questo che l’aveva cercata, ma fu comunque colto di sorpresa da quella frase.

Nessuno dice mai la verità, e quando te la trovi davanti la sorpresa può esser così grande da ammutolirti.

“Lisa è la tua unica possibilità di diventare padre.”

“Non si tratta di diventare padre, si tratta di prendere qualche mio spermatozoo e impiantarlo nei suoi ovuli. So che è poco poetico, ma è quello che accadrà.”

“E’ quello che tu temi che accada. Temi di essere solo un donatore. Temi di creare qualcosa su cui poi non avrai il controllo.”

“I miei spermatozoi?!”

“Un figlio su cui non avrai nessun diritto.”

Silenzio.

“Ha qualche consiglio legale da darmi, avvocato?” il suo solito sarcasmo era inquinato da una nota d’apprensione.

“Chiarisciti subito con lei. Non pensare di rivendicare qualche diritto di paternità dopo la fecondazione, sarebbe inutile nel caso non fosse stata fin da subito d’accordo.”

House sbuffò, stordito da sensazioni nuove e forti, che lo confondevano.

Lo facevano sentire così lontano da ciò che era sempre stato convinto di essere.

“Il tuo ego smisurato si sta rendendo conto che ha bisogno di un erede per dar pieno sfogo al tuo delirio di onnipotenza. Stai tranquillo House, non è sensibilità, è solo che vuoi vivere per sempre, ed avere un figlio è l’unico modo per avvicinarcisi.”

Era sicuro che non fosse quello che realmente pensava, ma lei sapeva che era l’unica spiegazione che avrebbe accettato.

Tutto quel parlare di lui lo stava mettendo a disagio, e decise che era arrivato il suo turno di essere schietto e spietato:

“E’ meglio fare un bambino per un delirio di onnipotenza che per risanare un matrimonio noioso.”

“Il mio matrimonio non è noioso, e se lo è non lo sarà più tra un paio di mesi.”

Una mezza ammissione; House non riuscì a trattenere un sorriso compiaciuto.

“Sei già al settimo mese?! Scommetto che sei ingrassata almeno venti chili e ti senti uno schifo…peccato che alla tua età il corpo non ha speranza di recuperare la linea di un tempo...”

“Ho preso cinque chili e sto benissimo. Quando Gregory nascerà potrai venire a controllare di persona, così Mark potrà darti qualche consiglio sulla paternità.”

“Gregory?! Chiamerai tuo figlio Gregory? Stai scherzando?” Autentica costernazione nella sua voce.

“Certo che sto scherzando! E’ una bambina, il nome non l’abbiamo ancora deciso.”

Stronza.

Una carezza e uno schiaffo al suo ego, così repentini.

“Mmm. Fammi sapere quando nasce, Cameron ti scriverà un biglietto.”

“Credo che ci sentiremo prima.”

“Non contarci, Stacy.”

Click.

 

 

“Ero sicura che mi avrebbe risposto di si.”

Wilson la fissava senza il coraggio di dire nulla.

Aveva bisogno che Cuddy gli fermasse della carte, ed era sceso nel suo ufficio pochi minuti prima, ma aveva la sensazione di essere chiuso in quella stanza con lei da ore.

L’aveva trovata strana, e gliel’aveva detto.

Lei aveva negato.

Lui aveva insistito.

E così facendo, aveva rotto una diga.

Non aveva ancora pianto, ma gli occhi lucidi e la pelle arrossata gli facevano temere che sarebbe successo da un momento all’altro.

Gli aveva raccontato del suo progetto di avere un bambino, del progetto di averlo da House.

Era esterrefatto.

L’aveva ascoltata senza dire nulla, sperando che lei scambiasse quel silenzio per rispetto, mentre in realtà era incredulità.

Non poteva davvero credere che Cuddy, la Cuddy razionale che lui conosceva da anni, volesse un figlio da House.

L’irresponsabile, cinico, egoista House che entrambi conoscevano.

Era una pazzia.

Cuddy, però, ne parlava come se fosse l’opportunità migliore che avesse, ed era così determinata che non ebbe il coraggio di fermarla.

“Cosa ne pensi?”

La domanda, fatta a bruciapelo, lo colse alla sprovvista.

“Io…non so Lisa, è una cosa tua, vostra. Molto personale…” tentò di sviare.

“Non girarci attorno. Voglio sapere cosa ne pensi.”

Il suo tono era tornato quello di “Cuddy direttrice dell’ospedale”: era un ordine.

“Io credo…” distolse lo sguardo da lei, tormentato dal dilemma sull’essere sincero o accondiscendente. “Credo che il fatto che la tua scelta sia caduta così spensieratamente su House, sia una cosa strana.”

Sincero.

“Spensieratamente?! Hai idea di quanto ci ho messo per decidermi a fargli quella domanda?!” Cuddy appoggiò i palmi delle mani sulla scrivania, protendendosi verso di lui, in un modo che ricordò a Wilson un animale pronto ad attaccare.

Ma aveva iniziato e non aveva intenzione di fermarsi. “Appunto Lisa, tu ci hai messo tanto per trovare il coraggio di chiederglielo. L’idea di avere House come donatore, però, è stata impulsiva, e non mi sembra che tu ci abbia ragionato davvero, valutandone i pro e i contro…”

“Sarebbe solo un donatore.”

“Un donatore che lavora per te e che vedrebbe crescere suo figlio sotto i suoi occhi.”

Lisa aprì la bocca per replicare, ma la richiuse dopo pochi istanti, senza produrre nessun suono. Si lasciò andare nuovamente contro lo schienale della sedia, distogliendo lo sguardo dall’oncologo.

“Non credo che House verrà travolto dal desiderio di paternità.” lo disse senza guardarlo, la testa voltata vero un punto imprecisato alla sua destra.

Sapeva di essere su un territorio pericoloso; di essere vulnerabile.

“Io credo invece che è proprio quello che tu speri.”

Lisa tornò a guardare Wilson negli occhi, questa volta con aria di sfida.

“Io vorrei che un bastardo, egoista e misogino facesse da padre a mio figlio? Voglio solo che mi faccia da donatore!”

“E’ pieno di donatori anonimi che…”

“Lui è geneticamente perfetto!” lo interruppe lei, decisa.

“Bè, non solo geneticamente… Sono comunque molto lusingato. Continua pure.”

Wilson riconobbe House ancora prima che parlasse, leggendo l’espressione disorientata sul viso di Cuddy, che non riuscì a fermare la sua ultima frase per tempo.

L’oncologo si voltò, facendo girare la sedia sulle ruote. “Buongiorno House.”

Il diagnosta gli rivolse un rapido sguardo, per poi tornare a fissare Cuddy.

“Ci sto, ma voglio riconoscere il bambino. Fammi sapere.”

Senza lasciare il tempo a nessuno di replicare, si voltò, lasciando la stanza.

Wilson e Cuddy si fissarono qualche istante in silenzio.

“Il mondo gira al contrario.” mormorò l’oncologo, congedandosi.

Le fece solo un cenno con la testa, lasciandola sola.

 

Lisa rimase a fissare la porta immobile per un tempo che le sembrò infinito.

Poi sollevò una mano, portandosela lentamente al collo, e incominciando a massaggiarsi la nuca distrattamente.

I pensieri lontani anni luce da quell’ufficio.

Non riusciva a capire cosa le stava succedendo.

Niente panico, niente ansia; solo un calore che le si stava diffondendo dentro.

Una sensazione nuova.

I pezzi di un puzzle che tentava di risolvere da tutta la vita, e che ora si allineavano magicamente, al ritmo di poche parole.

Voglio riconoscere il bambino.

Una madre, una bambino.

E un padre.

Un elemento così ovvio, ma a cui non aveva mai pensato coscientemente.

Lei sperava che House volesse fare da papà a loro figlio, Wilson aveva ragione.

La considerava, però, solo un’illusione da tener lontano dai suoi pensieri.

Mai ci aveva pensato davvero.

Mai.

House.

Un uomo che pensava solo a se stesso, che tentava in ogni modo di raggirarla, umiliarla, prendersi gioco di lei; un uomo che dipendeva da un farmaco ed era arrabbiato con il mondo.

Questi erano pensieri razionali, che avrebbero dovuto farla preoccupare.

Allora perché continuava a sentire solo quella piacevole sensazione di calore che si espandeva dentro di lei, inesorabile?

Rapita dalle sue stesse sensazioni, non lo sentì avvicinarsi.

Quando si rese conto di non essere più sola, House era già seduto sulla scrivania, accanto a lei: il ginocchio a pochi centimetri dal suo braccio, il piede che dondolava e il bastone elegantemente appoggiato in mezzo al tavolo, sopra tutti i suoi documenti da firmare, le sue cartelle da controllare.

“Allora?” la guardava serio.

“Va bene.”

Continuò a fissarla serio, come a cercare un “ma” sul suo volto.

Non li avrebbe trovati.

“Ti darò l’indirizzo della clinica, puoi andare anche senza appuntamento.”

House non le rispose.

Lisa aspettò qualche istante poi, tentando di nascondere il tremolio della sua mano, prese un foglietto della scrivania, e scrisse rapidamente l’indirizzo.

Glielo porse, ma l’unica reazione che ottenne da House, fu un sorrisino, che le fece venire i brividi.

Senza molte cerimonie, infilò il foglietto nella tasca della giacca di lui e si alzò, trovandosi finalmente all’altezza del diagnosta, che aveva seguito i suoi movimenti senza dire o fare nulla. Solo la sua gamba che dondolava imperterrita.

“Fammi sapere quando avrai fatto la donazione. E poi…avremo molte cose di cui parlare, ma non ora. Scusa, ma sono un po’ scossa.” le ultime parole le disse quasi sussurrando: odiava mostrare il suo lato vulnerabile ad House.

La afferrò per un braccio quando armai pensava che sarebbe riuscita a girare intorno alla scrivania senza sorprese.

La attirò contro di sé.

House era ancora seduto sulla scrivania, e così per la prima volta lo poté guardare negli occhi senza alzare la testa. Era una cosa banale e stupida, ma le sembrò di vederlo da una nuova prospettiva.

“Hai intenzione di baciarmi?” gli chiese, con tono di sfida.

“No.” rispose House, non prontamente quanto avrebbe voluto; quella domanda così diretta non se l’aspettava, e distrusse i suoi piani.

“Bene.”

“Bene.”

Lasciò il braccio della donna, che indietreggiò di un passo, prima di voltarsi verso la porta.

“Cuddy.”

Lisa si voltò, con sguardo interrogativo.

“Mi servirebbe una tua foto nuda, o almeno in bikini. Mi sembra scortese pensare a Carmen Electra mentre faccio metà di nostro figlio.”

Gli sorrise, senza rispondere nulla.

Uscì dal suo ufficio sapendo che quando sarebbe tornata House non sarebbe stato più lì, ma le parole “nostro figlio” avrebbero aleggiato nell’aria ancora per molto tempo.

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Capitolo 6
*** 5 - Only a life ***


5 – ONLY A LIFE

 

Aveva lasciato la clinica quasi correndo.

La gonna stretta limitava i suoi movimenti e, una volta arrivata alla macchina, fu il traffico mattutino ad intralciarla.

Tutto questo però non la irritò, si limitò ad accrescere la sua eccitazione.

Lacrime di gioia incominciavano a pizzicarle gli angoli degli occhi, ma si decise a trattenerle ancora un po’.

Prima c’era una cosa da fare.

 

Ad House bastò sentire il rapido e inconfondibile ticchettio dei tacchi di Lisa Cuddy nel corridoio che portava al suo ufficio, per capire cosa stava accadendo.

Erano settimane che non li udiva così vicini.

L’ultima volta che era stato nell’ufficio del suo capo, lei gli aveva consegnato un biglietto con l’indirizzo della clinica dov’era in cura; il giorno dopo si era recato nel maestoso palazzo, poco prima dell’orario di chiusura e aveva fatto la sua parte.

Non aveva osato più chiederle niente, e lei era stata particolarmente impegnata in quell’ultimo mese: tante assenze, riunioni e ore extra d’ambulatorio. Non aveva mai tentato di fermare qualche sua procedura azzardata; in realtà, non si erano scambiati che poche parole relative ad un paio di casi.

Tacito accordo.

Un’attesa silenziosa, condivisa solo con rapidi sguardi che bruciavano come fuoco.

Fino ad ora.

Seduto sulla sua poltrona, lo stomaco stretto in una morsa, ascoltava quei passi avvicinarsi sempre di più.

Lei non entrò subito.

Rallentò non appena i loro sguardi si incrociarono attraverso le pareti di vetro, fino a fermarsi.

Gli sorrise al di là di quel vetro, e House ringraziò che ci fosse quella barriera che gli impedisse di toccarla, afferrarla…avrebbe potuto fare qualcosa di terribilmente idiota come abbracciarla, e i suoi assistenti erano nella stanza accanto, concentrati nel risolvere un caso che lui aveva diagnosticato già la sera precedente, ma pur sempre troppo vicini.

Si alzò e andò a chiudere le persiane, isolando quel suo piccolo angolo di mondo dagli occhi indiscreti dei suoi colleghi.

Solo a quel punto lei entrò.

Gli andò incontro senza più esitazione, stringendolo in un abbraccio.

Una parte di sé avrebbe voluto resistere a quella manifestazione d’affetto, ed esserne nauseato.

Era solo un desiderio masochista, come ne aveva tanti, che però questa volta non ebbe la meglio.

I momenti perfetti devono rimanere tali.

Vanno preservati.

Questo lo sapeva anche House.

“Sono incinta.” le parole si persero sulla pelle del suo collo, facendolo rabbrividire.

Appoggiò una mano sulla sua schiena; un gesto automatico, fuori dal suo controllo.

Come i pensieri che gli invasero violenti la mente.

Le sensazioni.

La paura.

La dannata voglia di stringerla forte e insieme l’angoscia di poterle fare del male.

Quando Cuddy si staccò da lui, House poté vedere che stava piangendo.

E sorridendo anche, ancora.

“Grazie” House dovette leggerlo sulle sue labbra perché, pronunciandolo, alla donna non riuscì neanche un suono.

Si accorse che gli stringeva forte una mano.

Ricambiò la stretta.

“Bene.”

Idiota.

Era tutto quello che aveva da dirle?

“Quanto…?” indicò con la mano libera la pancia di Lisa, un gesto rapido e impacciato.

“Tre settimane.” rispose lei, sfiorandosi il ventre con il palmo.

Nei mesi seguenti avrebbe ripensato a quell’istante ogni volta che le avesse visto ripetere quel gesto.

“Stai bene?” sapeva benissimo che bombardarla di domande scontate non avrebbe distratto nessuno dei due dal particolare che in quel momento gli impediva di pensare lucidamente: non solo Lisa Cuddy aspettava il loro bambino, ma era così vicina a lui, con un’espressione radiosa e la mano stretta nella sua.

E nessuno poteva vederli.

“Sto benissimo, House.”

Lisa non si stupì di trovarlo così spaventato.

Conosceva House, e poteva capire cosa potesse significare tutto questo per lui.

Come accadeva spesso, moriva dalla voglia di sapere cosa gli passasse per la testa, mentre la fissava impassibile, combattendo una guerra contro qualunque emozione che minacciasse di manifestarsi sul suo volto, o in qualche suo cenno.

Un’autocensura costante.

Tranne la sua mano che non la lasciava.

“Tu come stai?” glielo chiese con cautela, facendo l’ingresso nel territorio emotivo di Greg House in punta di piedi. L’unico modo per non esserne buttata fuori con violenza.

“Sei tu quella incinta.” rispose il diagnosta, brusco.

Cuddy continuò a fissarlo, aspettando dell’altro.

House sospirò, come se le stesse concedendo la vincita di una qualche battaglia. “Sto come uno che ha memorizzato canali porno sui primi sette numeri del telecomando, non ha idea di cosa sia quella cosa che cammina dentro il suo armadio da due mesi ed è fermamente convinto che il ciclo naturale di ogni alimento inizi in una scatola di latta!”

House le si avvicinò ancora, fissandola negli occhi. “Almeno due mattine a settimana mi sveglio sul divano o sul pavimento, con una bottiglia di scotch vuota e una scatola di Vicodin altrettanto vuota accanto a me. Le uniche volte che ho avuto a che fare con bambini è stato perché stavano morendo, escludendo quel moccioso che si era preso l’ultimo lecca lecca alla fragola giù in sala d’aspetto, e ho dovuto dargli venti dollari per averlo indietro…mi sono sentito quasi in colpa per aver fatto buttare via venti dollari a Wilson per uno stupido lecca lecca e…”

“House…” Lisa tentò di fermarlo, ma il diagnosta non accennò a smettere di parlare, né di fissarla così intensamente negli occhi, né di stringerle la mano tanto da farle quasi male.

“Non ho orari, in realtà non ho neanche un orologio che funzioni. La sveglia si è rotta qualche settimana fa e mi sta benissimo così. Quando lavoro…” si fermò un istante per respirare a fondo. “…quando ho un caso non esiste niente di più importante per me.”

Lisa annuì, portandosi la sua mano alla pancia.

House esitò qualche istante, prima di accarezzarla con le dita; la ritirò subito dopo, come se si fosse scottato.

“Sapevo come sei prima di chiederti di farmi da donatore, e anche quando abbiamo deciso che avresti riconosciuto il bambino come tuo. E anche tu sapevi tutte queste cose. Andrà bene House, no sono certa.”

“Non so quanto fidarmi di una che si fida di me…”

Lisa non ribatté nulla, limitandosi a guardarlo ancora per un po’, prima di lasciare la sua mano e fare un passo indietro. “Preferirei aspettare un po’ prima di dirlo a qualcuno.”

“A parte Wilson…” chiese subito House, contrariato.

“Certo, a parte Wilson.”

“Se vuoi che non si sappia in giro togliti dalla faccia quell’espressione esaltata da donna che ha scoperto la cura contro la cellulite e indossa gonne un po’ più corte…riuscirai a distrarre uomini eterosessuali, lesbiche e bisessuali dalla crescita del piano di sopra.”

“E per quanto riguarda gay e donne etero?”

“I gay non ti guardano e le donne etero…non esistono!”

Lisa scoppiò a ridere, in un modo così spontaneo da lasciare House di stucco.

“Ve bene, seguirò il tuo consiglio.”

“Cuddy, dovrai crescere un bambino, non puoi seguire i miei consigli!” esclamo House esasperato.

“House, andrà bene. Fidati di me.” sorprendendolo, lo abbracciò ancora, prima di lasciare il suo ufficio.

 

 

Cinque mesi dopo.

 

Doveva essere solo per qualche notte, ma erano passati mesi e lui era ancora lì.

 

Ogni volta che ripensava a quella telefonata, arrivata nel cuore della notte, l’eco della paura gli faceva visita come aveva fatto all’ora.

“House sono io. Credo di avere una minaccia d’aborto, devo andare subito in ospedale.”

Non si ricordava cosa le aveva risposto, ma solo che dopo due minuti era alla guida della sua auto, infrangendo ogni limite di velocità, correndo verso casa sua.

L’aveva trovata sulla porta, la mano stretta sul ventre e gli occhi terrorizzati.

“Stai tranquilla, non ti agitare.” appena aveva sentito il suono delle sue parole, lacrime avevano incominciato a rigarle il viso.

“House, ho paura, non posso perdere il bambino.”

“Non perderai il bambino.” non riuscì a comprendere, allora, dove trovasse tutta quella sicurezza nel parlarle, nel rassicurarla, mentre le gambe gli tremavano, e la tensione aumentava quel pulsare doloroso che solo il Vicodin riusciva ad allontanare.

Erano arrivati in clinica mezz’ora dopo.

C’erano volute tre ore di lunga attesa, prima che la stabilizzassero.

“Per adesso è fuori pericolo, ma la gravidanza è a rischio, dovrà stare in assoluto riposo almeno fino alla fine del primo trimestre.”

Cuddy aveva annuito al suo medico, mentre una strana angoscia incominciava a crescerle dentro.

Era alla settima settimana di gravidanza, e l’aspettava almeno un mese a letto, senza poter far niente.

Il lavoro.

Quando si era voltata verso House, aveva letto una strana luce nei suoi occhi.

Erano calmi e sicuri.

Tornarono a casa all’alba, e nessuno parlò finché non furono davanti al giardino di Lisa.

“Vado a casa a prendere un po’ di roba e vengo a stare da te.”

Lei lo guardò esterrefatta.

Tutto si aspettava, ma non quello.

“Solo qualche notte, finché non fai venire qualcuno che possa aiutarti.” precisò.

“Va bene, grazie.”

Non capì bene cosa stava accadendo ma qualunque cosa fosse, le dava uno strano senso di pace.

 

Doveva essere solo per qualche notte, ma erano diventati mesi e lui era ancora lì.

La minaccia d’aborto era passata con la fine del primo trimestre di gravidanza, ma lui viveva ancora a casa sua.

Dormiva ancora nel suo letto, mangiava quello che lei gli preparava e i suoi vestiti occupavano metà del suo armadio.

Dal giorno in cui le avevano detto che sarebbe andato tutto bene, che non rischiava più di perdere il bambino, cambiò solo una cosa.

Incominciarono a fare l’amore.

 

Quella prima mattina, dopo la notte passata in clinica temendo il peggio, Lisa gli aveva chiesto di sdraiarsi accanto a lei, di lasciare perdere il divano.

Avevano spento le luci, chiuso le persiane; avevano bisogno del buio per recuperare quella notte d’inferno.

Lei lo aveva baciato e lui aveva risposto ai suoi baci.

Quei baci, nelle notti che si susseguirono, diventarono la loro tortura, a cui le carezze non offrivano che un breve sollievo.

Non osarono però andare oltre, bloccati dall’idea di qualcosa di fragile che avevano il compito di proteggere, l’unica cosa così importante da mettersi tra loro e quella passione che era diventata il dolce dolore di ogni notte.

 

Dal giorno in cui le dissero che sarebbe andato tutto bene, che non rischiava più di perdere il bambino, quel timore paralizzante passò, lasciando solo loro due, ad aspettare un figlio che sarebbe arrivato, e ad aspettarlo sotto lo stesso tetto.

Non ci fu bisogno di dirsi che le cose erano cambiate, che quelle notti insieme non erano un’eccezione alle loro vite solitarie, ma erano le loro vite stesse, così drasticamente cambiate.

Il giorno in cui le dissero che sarebbe andato tutto bene, House fece portare il suo pianoforte a casa di Lisa, e lei rimase a fissarlo mentre lo accordava, appoggiata al muro, con le braccia strette intorno alla vita.

Aspettò che finisse senza parlare, e quando lui finalmente si alzò dallo sgabello e la guardò, capì che non c’era proprio niente da dire.

Lo baciò con tutta il desiderio che aveva dovuto reprimere in quelle settimane, inebriata dalla consapevolezza che questa volta non ci sarebbero stati limiti o condizioni, e stordita dalla sensazione di libertà, di felicità.

Fu una notte lunga, che li stremò.

 

Poi Lisa tornò a lavorare, pochi mesi che la separavano da un’altra lunga pausa.

Scoprì che vivere con House le permetteva di svegliarlo di persona ogni mattina, e di non vederlo più arrivare in ritardo.

House scoprì invece che c’erano modi di essere svegliati che valevano quelle due ore di sonno in meno…e Lisa Cuddy ne conosceva parecchi.

 

Stava per entrare nel sesto mese di gravidanza, e ormai non c’era nessuno in ospedale che non sapesse che fosse incinta.

Le magliette larghe non erano un buon diversivo, quando tutti erano abituati ad ammirare tutt’altro tipo di abbigliamento.

Per quanto riguardava l’identità del padre, erano in pochi ad avere ancora qualche dubbio.

Furono in pochi a stupirsi, e ancora meno riuscivano a trattenere un sorriso al pensiero del misogino Gregory House alle prese con la già volubile Lisa Cuddy, in preda agli sbalzi d’umore tipici della gravidanza.

“Una coppia”, incominciava a dire qualcuno.

 

“Come procede la gravidanza?”

“Incomincia ad assomigliare ad un ippopotamo.”

“Sei innamorato di lei?”

“Sei geloso?”

Era la prima volta che Wilson affrontava il discorso.

Aveva assistito in silenzio alla graduale mutazione del suo solitario amico, combattuto dal sollievo nel vederlo cambiato e dal terrore di vederlo cambiare troppo.

“Stai per avere una famiglia.”

“Stai per perdere un occhio.”

L’oncologo scosse la testa, sorridendo.

“Odio quell’espressione soddisfatta.” House lo guardava torvo, rigirandosi un dei suoi affezionati pennarelli tra le dita.

“Ti ci dovrai abituare, perché sono davvero molto soddisfatto.”

“Sei riuscito a vedere le tette della tua assistente?”

“No, ma finalmente sto vedendo il cuore del mio migliore amico.”

“Omosessuale represso!”

“Sei innamorato!” Wilson gli puntò un dito contro, senza smettere di sorridere, ma incominciando ad indietreggiare verso la porta dell’ufficio di House.

“Sei un bastardo traditore! Tu…” il diagnosta esitò qualche istante prima di continuare. “…esci subito dal mio ufficio, bastardo traditore!”

L’oncologo lasciò la stanza ridendo tra sé e sé, mentre House, frustrato, incassava la sua prima sconfitta nelle loro battaglie dialettiche.

 

“Shane?!”

“Si…”

“E’ un nome…originale.”

“Già…”

Lisa Cuddy alzò gli occhi al cielo, frustrata dall’ennesima spiegazione che doveva dare in proposito.

Questa volta, però, non c’era bisogno di mentire.

Lei conosceva abbastanza House, da poter capire la situazione.

“L’ha vinto a poker.”

“Cosa?”

“Il diritto a scegliere il nome. Ce lo siamo giocati a poker e lui ha vinto.”

“Lisa…ma perché?”

“Stacy, sono stata bloccata a letto per due mesi, ed erano i primi giorni che abitava da me… In qualche modo dovevamo passare il tempo!”

“E giocavate a poker?”

“Si…anche.”

“Ok, non voglio sapere tutto ciò che ha ottenuto attraverso quelle stupide partite.”

“Saggia decisione.”

 

“E’ il mio personaggio preferito in The L word!”

“House, non puoi dare a tua figlia il nome della tua lesbica preferita!” Wilson sapeva che era una battaglia persa, ma Cuddy gli aveva chiesto di provare a farlo ragionare.

“Certo che posso! Anzi, è un mio diritto! L’ho vinto a poker.”

“Oddio…”

“Credo sia un bellissimo nome.”

“Vuoi chiamare tua figlia Shane?”

“Voglio chiamare mia figlia Shane.”

 

 

 

27 maggio 2008

 

“Shane House.”

“Shane?”

“Shane. House.”

L’infermiera scrisse rapida il nome sulla cartella.

“Bene. Se vuole può andare da sua moglie. Vi porteremo la bambina tra poco.”

“Lei non è mia…” tentò di ribattere House, incerto. “Ok, lasci perdere. Faccia in fretta con mia figlia.”

 

Non aveva assistito al parto.

L’idea di vederla urlare, piangere e soffrire lo angosciava troppo.

Lei aveva capito.

Come sempre.

 

“Sei tu che hai raccontato all’infermiera che siamo sposati?”

“Noi non siamo sposati.” la voce di Lisa era debole, ma questo non smorzò la decisione delle sue parole.

“Appunto…”

House si avvicinò al letto, spostando inquieto lo sguardo sul suo viso segnato dallo sforzo.

“Hai un pessimo aspetto.”

“Ho partorito neanche mezz’ora fa.”

“E’ inutile che trovi giustificazioni, hai davvero un pessimo aspetto.”

Fu sollevato nel vedere, sul viso della donna, un accenno di sorriso.

“L’hai vista?” la voce della donna era impastata dalla stanchezza.

“No, non ancora.”

“E’ bellissima, House…”

Il diagnosta rimase a fissarla in silenzio, mentre una strana sensazione gli scombussolava lo stomaco.

Come faceva ad essere così forte e così delicata allo stesso tempo?

Le prese una mano, mentre con l’altra le scostava una ciocca di capelli dalla fronte sudata.

Gesti così scontati per chiunque altro, ma non per lui.

Sentì le dita di lei accarezzare le sue, ed inevitabilmente i suoi pensieri tornarono a quel giorno di otto mesi prima, in cui le loro mani si erano strette così forte da farsi male.

Allora si stavano aggrappando l’uno all’altra, ma ormai non ce n’era più bisogno.

La consapevolezza di essere, in qualche modo, insieme, era penetrata poco a poco in loro, nutrita dagli sguardi, dai gesti, dei piccoli cambiamenti che entrambi avevano fatto, in funzione di una vita per due.

O per tre.

L’ostetrica entrò rapida e silenziosa nella stanza, tenendo la bambina tra le braccia.

House non la sentì arrivare, e quando si voltò per seguire lo sguardo di Cuddy, si ritrovò sua figlia tra le braccia.

“Ecco, le tenga la testa.” l’ostetrica gli sistemò addosso il piccolo fagotto con gesti esperti, e in pochi attimi era già scomparsa.

House rimase immobile, fissando un paio di occhi uguali ai suoi, su un viso che ricopriva a fatica il palmo della sua mano.

Riprese a respirare solo quando Lisa gli si avvicinò, accarezzando la testa di Shane.

“Prendila tu.” la supplicò.

La donna ubbidì, stringendosi la bambina al petto.

House le guardò, strette l’una all’altra, finché non sentì che tutto quello era troppo per lui.

Quando Lisa Cuddy alzò ancora lo sguardo, se n’era andato.

 

“A che ora è nata?”

“Un’ora fa.”

“E cosa ci fai qui?”

House fece spallucce, distogliendo lo sguardo da Wilson, che lo fissava allibito da dietro la sua scrivania.

“Torna immediatamente in clinica!”

Il diagnosta alzò una mano verso l’amico, facendogli segno di smettere di parlare.

“Cosa c’è? Non vorrai tirarti indietro?” Wilson non riuscì a dissimulare l’ansia nella sua voce.

“C’è metà del mio patrimonio genetico dentro quella…cosina!”

“Sarebbe un no?”

“Quella bambina è un potenziale concentrato di egocentrismo e tendenze manipolative! E di genialità…ovviamente.”

“Ok, è un no.” L’oncologo si alzò, girò intorno alla scrivania e raggiunse House, prendendolo per un braccio. “Ora zoppica fuori dal mio ufficio e torna da loro.”

“Non l’avevi detta tu quella cavolata sulla disponibilità degli amici ad ascoltarti, sempre e comunque?”

“No, ti stai confondendo con qualcun altra delle persone con cui ti confidi... House, sparisci.” senza dargli la possibilità di replicare, lo spinse fuori dal suo ufficio e chiuse la porta a chiave.

 

“Ciao.”

“Ciao.”

Lisa era ancora sdraiata nel suo letto; avevano spalancato le tende, e nella stanza entrava un raggio di sole che si posava tra i suoi capelli.

Shane non c’era, dovevano averla portata via ancora.

“Ero andato da…”

“Va bene così, House.”

Gli sorrise, e lui non poté fare a meno di crederle: andava bene così.

“Ho messo in vendita casa mia.” in realtà l’aveva fatto un paio di mesi prima, e l’affare era stato concluso in settimana, ma non aveva mai osato dirglielo; era un passo grande per lui, un taglio netto con una vita che una volta era tutto ciò che aveva e voleva, e che non gli apparteneva più.

Lisa annuì seria; quella notizia era per lei una sorpresa bellissima ma non voleva metterlo a disagio con qualche manifestazione d’affetto.

Ormai aveva capito quando era meglio rispettare la sua avversione per le emozioni troppo forti.

Quindi fece finta di niente e cambiò discorso: “Si è scoperto cosa c’era in fondo all’armadio?”

House sembrò non capire per qualche istante, poi sorrise. “Criceti.”

“Criceti?”

“Una famiglia di criceti, per la precisione. La donna delle pulizie portava a casa mia anche il figlio, ogni tanto…e pare che il moccioso avesse deciso di nascondere la sua cricetina incinta, che la mamma non gli faceva più tenere, nel mio armadio.”

“Un criceto ha partorito nel tuo armadio?”

“Si…e ogni volta che il piccolo bastardo tornava a casa mia, portava loro da mangiare.”

“Oddio…Ma come hai fatto a non accorgertene? Chissà che schifo là dentro!”

“Sapevo che c’era qualcosa…ma pensavo fosse qualcosa di più eccitante. Scoprire che si trattava solo di criceti è stata una delusione.”

Lisa scosse la testa, ridendo.

“Ora sono stanca House, ho aspettato sveglia che tornassi ma ora devo dormire.”

“Va bene. Dormi.”

I loro sguardi però non accennarono a separarsi.

Lisa sapeva che era troppo presto, che l’avrebbe solo spaventato.

House sapeva che probabilmente non avrebbe mai avuto il coraggio di dirglielo ad alta voce.

Le parole si possono zittire, ma i pensieri talvolta non accettano di esser messi a tacere, e invadono con prepotenza la mente.

Ti amo.

Ti amo.

 

“Ho tenuto uno dei criceti, è in una gabbia sotto il letto.”

Ma lei dormiva già.

Esattamente come sperava House.

Si chinò e si fermò a pochi centimetri dal suo viso.

Poi si voltò di scatto verso la porta, per controllare che non ci fosse nessuno: era solo.

Tornò ad avvicinarsi a lei e, questa volta, percorse rapido i pochi centimetri che lo separavano dalla sua bocca e la baciò.

“Notte, Lisa.”

 

Il giorno in cui Lisa Cuddy divenne madre, fu anche il giorno in cui, per la prima volta, Gregory House la chiamò per nome.

 

 

 

 

 

Fine

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