Back To The Time

di rachel_hetfield
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Disorientamento ***
Capitolo 2: *** Discorso ***
Capitolo 3: *** Confessione ***
Capitolo 4: *** Dire e non dire ***
Capitolo 5: *** Ritorno ***
Capitolo 6: *** Lonely ***
Capitolo 7: *** Domande ***
Capitolo 8: *** Gelo ***
Capitolo 9: *** Luce ***
Capitolo 10: *** Disintossicamento ***
Capitolo 11: *** Mi chiamo Kevin Mason ***
Capitolo 12: *** Torna indietro ***
Capitolo 13: *** Londra ***
Capitolo 14: *** Fuga ***
Capitolo 15: *** Ansie ***
Capitolo 16: *** Decisioni ***
Capitolo 17: *** Definitivamente ***
Capitolo 18: *** Rimanere ***



Capitolo 1
*** Disorientamento ***


Sopravvivere alle bufere di neve non risultò mai così difficile come allora. Non avrei mai creduto di ritrovarmi costretta ad abbracciare un uomo per riscaldarmi, un uomo quasi sconosciuto e maledettamente attraente.
Ai miei tempi era vietato abbracciare un uomo affinché non fosse un genitore, un fratello, un parente o il marito, o il fidanzato. Qualora fosse successo, avrebbero preso provvedimenti seri contro la donna che abbracciava e l’uomo che veniva abbracciato. Era una politica merdosa, che impediva al popolo intero di fare qualunque cosa ci rendesse liberi. Per questo gli scienziati avevano progettato una macchina del tempo, per verificare se i norvegesi avessero potutto tornare indietro nel tempo e sentirsi liberi.
Ma stare tra le sue braccia, a sentire il suo calore, lui che mi respirava addosso era tremendamente imbarazzante e confortante. Lo guardai negli occhi, facendo uscire del vapore dalla bocca, e sperai che non rompesse le distanze poggiando le labbra sulle mie.
Altro atto che nella Norvegia del 3024 era impossibile da attuare, a meno che qualcuno non cercava l’ergastolo.
 
 
Oslo, Norvegia, 15 dicembre 3023
Mi ero svegliata alle dieci di mattina, di malavoglia, e il mio appartamento sembrava più tetro e claustrofobico del solito. Il sole dava alla stanza una luce azzurro opaco, che faceva brillare la libreria, la scrivania e l’armadio tutti di colore bianco. Era inquietante guardare quel misto di colori così vuoto e così silenzioso, che non dava l’idea di armonia ma di solitudine.
Ma io ero sola, al contrario del mio vicino di condominio che ogni sera ospitava amici e familiari. Facevano un gran baccano fino a sera tardi, e io dovevo sorbirmi le loro risate e le vocine stridule che cercavano di imitare il mio comportamento da lupo solitario. Ormai niente avrebbe smosso o cambiato la mia vita, dovevo arrendermi che non avrei trovato un uomo da sposare. Con le leggi del cazzo che aveva fissato il Governo Norvegese di tirannia assoluta erano diminuiti i matrimoni, il tasso di nascita, diminuiva tutto.
E la gente – sposata – che mi ripeteva “ma chi vuoi che sposi una ventunenne, sei giovane, goditi la vita” e poi mettevano il divieto ai minori di trentatrè anni di entrare nei locali e di ubriacarsi.
Provavo a capire la politica, a parlarne, e mi dicevano “ma cosa vuoi saperne a ventun’anni di politica, non sai perché le leggi sono state fatte” e poi mandavano i quattordicenni sulla strada a vendere i giornali del Governo che annunciava che la tassa sul possesso di una residenza era aumentata del 3,2%.
Niente era coerente nella Norvegia, niente andava come nel passato, molte persone che avevano i file conservati del vecchio millennio, dicevano che nella Norvegia del ventunesimo secolo non era così difficile tirare avanti per via delle tasse elevate, che era uno dei Paesi più sviluppati dell’ex Unione Europea, che eravamo più avanti...
E invece, con il governo che si era instaurato, molto simile a una monarchia, la tirannia dei governatori aveva imposto alla gente a lavorare duramente mattina e sera per mantenere una famiglia che non si creava quasi mai.
Guardavo il volto scarnito del governatore assoluto norvegese in televisione che diceva che lo facevano per impedire alla popolazione di rivoltarsi, di compiere atti vandalici, di compiere atti impuri e di ridurre il numero di criminali, assassini e ladri. Diminuendo questo tasso infatti aumentavano i deceduti per fame, miseria, esasperazione. Io lo vedevo tutto questo. Papà era uno di quelli morti per esasperazione, uguale suicidio.
Mamma era andata a vivere con nonna poco tempo dopo, aveva abbandonato tutto, mentre io avevo già diciotto anni e potei andare a vivere da sola nella capitale, Oslo, almeno quella era rimasta tale anche dopo mille anni di storia. L’unica cosa cambiata era la libertà: niente si poteva fare liberamente, serviva un cazzo di permesso per ogni cosa, anche per fare la spesa in un supermercato. Speravo di andarmene, ma per uscire dal Paese serviva il passaporto che ormai era divenuta una tassa come tutto il resto. Tutto era a pagamento, anche il cibo acquistato, anche quello era una tassa perché secondo i governatori noi sfruttavamo la ricchezza del Paese per sfamarci.
E con le loro belle parole e belle promesse mai mantenute, avevano portato una popolazione alla miseria.
Solo la scienza non era stata intaccata dai governatori, gli scienziati si erano opposti rigidamente alle leggi del Governo ed era rimasta fedele alle vecchie tradizioni e alle vecchie ricerche.
La Norvegia era uno dei paesi più all’avanguardia del continente russo, erano trecento anni che gran parte dell’ex Europa era andato in mano alla Russia diventando un vero e proprio continente, non solo una nazione. E come cittadini norvegesi, eravamo i più tecnologici del continente. Avevamo le macchine elettroniche e il riscaldamento automatico, che si attivava quando la temperatura scendeva, avevamo i tessuti in grado di riscaldare gran parte del corpo semplicemente indossandoli, e d’estate godevamo dei condotti d’aria che emanavano aria fresca da sollo il suolo sfuttando la temperatura del mare che ci trovavamo a ovest, est e sud del Paese.
Molte volte i miei amici americani mi chiedevano come fosse possibile avere un tale sviluppo, e io rispondevo che avrei voluto essere al loro posto.
La Norvegia come tutto il resto del mondo era caduto in mano degli inglesi, dopo la Terza guerra mondiale avvenuta nel febbraio 2712 da cui uscì quasi intatta solo l’Inghilterra, tutti i Paesi avevano ceduto al suo dominio e la lingua inglese si era sparsa a tutto il mondo. Le tradizioni di un millennio fa erano sparite, eravamo tutti sottomessi dallo stesso tipo di sistema.
Mi stavo recando al laboratorio di ricerca di Oslo, uno dei centri più importanti della città e anche l’unico luogo in cui non dovevo preoccuparmi di stare troppo vicina ad un uomo, di solito ci impedivano di stare a meno di trenta centimetri di distanza da qualcuno che non fosse un parente o il proprio marito. Ecco perché non avevo un fidanzato. Erano consentiti solo i dispositivi elettronici che avevamo attaccato al braccio dalla nascita fino alla morte.
Kris mi si avvicinò stringendomi la mano e facendomi accomodare in fondo alla stanza. Osservavo curiosa i loro progressi che facevano di giorni in giorno, non avevo capito bene cosa stessero costruendo, ma mi interessava vedere il progetto finito.
«Grazie a questa il destino della Norvegia cambierà, Rachel» annunciò Kris con tono importante. Ridacchiai.
«Mi piacerebbe sapere a cosa serve.»
La sfiorò con i polpastrelli della mano sinistra, dandomi le spalle. Era un aggeggio alto all’incirca due metri e mezzo, a forma di piramide arrotondata, larga tre o quattro metri, dalla quale si apriva una porta grande che lasciava intravedere solo il pavimento di plastica nera. Ogni volta ammiravo quello che era considerato “il destino della Norvegia” e immaginavo sempre a cosa sarebbe potuto servire e se, soprattutto, avrebbe funzionato.
«Hai mai letto libri sui viaggi indietro nel tempo?»
Scossi il capo.
«Credo che siamo riusciti a sviluppare la prima macchina del tempo funzionante di tutta la storia dell’umanità. Ci pensi? Potremo viaggiare nel tempo, andare nell’epoca dei dinosauri, dell’uomo preistorico, addirittura scopriremo come si è formata la Terra miliardi di anni fa! Potremo conoscere dei grandi uomini come Leonardo Da Vinci e Albert Einstein, studieremo la cultura dei popoli passati e vivremo tutte e tre le guerre mondiali osservando le armi e i metodi di combattere! Rachel, con questa noi abbiamo in mano l’evoluzione della specie!»
Dovette fermarsi a prendere fiato, si era gasato troppo. In effetti a pensare a quante cose avremmo potuto fare con quella presunta macchina del tempo mi ero emozionata tantissimo, avrei avuto l’opportunità di tornare nel vecchio millennio, farmi una vita normale, sposare qualcuno e avere tanti amici. Era qualcosa che potevo fare anche in quel periodo, ma con più restrinzioni. E odiavo le restrinzioni.
«L’avete già sperimentata?» chiesi alzandomi dalla sedia, scrutando il vecchio scienziato pazzo che conoscevo da quando ero piccola. Papà e Kris erano amici dalle elementari, ed erano cresciuti insieme e quando mi aveva abbandonata dandosi al suicidio avevo appena compiuto diciotto anni. Perciò, quando andai a Oslo, era Kris che si era preso cura di me.
«Abbiamo mandato un robot munito di telecamere, ma non riceviamo segnali. Evidentemente all’epoca le onde elettromagnetiche che mandano i nostri robot non coincidono con le loro, ed è fuori uso. La vera tattica per scoprire se funziona sarebbe mandare un uomo, ma al momento non abbiamo ricevuto proposte...»
Mi si illuminarono gli occhi a quell’affermazione. «Avete bisogno di una cavia?»
Annuì, triste. «Sebbene non sia nelle nostre aspettative, è l’unico modo per testare lo strumento.»
«Mi propongo» dissi prontamente.
«Non sai quel che dici, Rach, scordatelo!» mi rimproverò portandomi via dalla sala in cui c’era la macchina del tempo.
«Ho intenzione di provare, tanto la mia vita fa già abbastanza schifo.»
Si lasciò sfuggire un’amara risata. «Perché dovrebbe far schifo?»
«Ho una madre che è andata fuori di testa ed è continuamente sotto medicinali e cure terapeutiche elettroniche, non ho parenti, non ho amici, non ho un marito e questo Paese è sul punto di scoppiare in una rivoluzione.»
«Sono ventun’anni che ti conosco, e hai la possibilità di farti una vita come gli altri» sibilò, ma non mi scosse affatto.
«Tutti potrebbero farsi una vita come gli altri se mi ficchi in quella cazzo di macchina» risposi a toni duri.
«Non ci pensare nemmeno, e se rimanessi chiusa nel passato? Se dovessi restare per sempre in un’epoca che non ti appartiene?»
Sorrisi maliziosa. «Non desiderei di meglio.»
Sospirò, quasi sconfitto. Forse lo avevo convinto, ma Kris era testardo quasi quanto me e non sarebbe bastato poco a convincerlo a farmi fare da cavia per il progetto.
Quando rifiutò la mia avance, decisi che ci sarei tornata il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, fino a frequentare il laboratorio ogni giorno per una settimana.
Al settimo giorno consecutivo, Kris scoppiò.
«Inutile che vieni ogni giorno, non entrerai mai in quella capsula!» urlò facendo girare verso di noi più di uno studioso del laboratorio. Uno di loro si avvicinò e portò Kris in disparte e per un attimo mi parve di vedere Kris ribattere secco e poi annuire. Osservai attentamente le labbra del secondo uomo, più giovane del mio amico, e non riuscii ad afferrare nemmeno una parola. Quando il vecchio tornò da me sospirò afflitto.
«Abbiamo intenzione di inaugurare la fine del progetto il 23 alle 17.00, potresti venire a quell’ora. Dovremmo attrezzarti di microspie video e audio, in modo da ricevere le informazioni direttamente sul nostro computer... ma ne sei davvero convinta?»
Mi strinsi nelle spalle, con un sorriso fin troppo sincero stampato sulla faccia. «Non sarei venuta qui tutti i giorni se non avessi voluto davvero. Mi sa che sei tu che non mi ci vuoi mandare.»
«Appunto, perché sei come una figlia per me... ma sei grande, sei adulta, hai fatto la tua scelta e io la rispetterò.»
Gli sorrisi di nuovo. «Grazie, Kris.»
I giorni passarono in fretta, richiusi la maggior parte dei vestiti invernali che avevo nell’armadio in una valigia non troppo grande e alle 16.30 ero già davanti al laboratorio, a osservare Kris e i suoi colleghi spostare la capsula al centro della piazza ribattezzata in onore di Luke Margaret, uno scrittore del 2400.
Passavano i minuti, e il battito del mio cuore aumentava. Finalmente sentivo l’ansia che si impossessava della mia testa, e forse il buon senso iniziava a tormentarmi dicendo di non farlo.
Sembrai sul punto di mollare, ma avevo promesso a me stessa e alla scienza che avrei dato una svolta al Paese. Si piazzarono i giornalisti e i fotografi davanti all’aggeggio, e immaginai che dopo quell’impresa la mia faccia e il mio nome sarebbero finiti ovunque. Ma poco mi importava, non avrei di certo avuto il tempo di ascoltare ciò che avrebbero detto di me.
«Il viaggio durerà esattamente quarantotto ore, allo scadere del tempo dovrai tornare al punto esatto in cui sei atterrata, e il portale spazio-temporale ti riporterà avanti nel tempo, ai giorni nostri. La data fissata per l’arrivo è il 23 dicembre 2014. Non sappiamo a che ora né dove arriverai, ma appena sarai a destinazione questo orologio a timer inizierà a fare il conto alla rovescia» mi spiegò Kris con poca allegria nella voce porgendomi un bracciale largo quanto il mio polso, che aveva uno screen che segnava le quarantotto ore «se non dovessi farcela a tornare in tempo potresti rimanere bloccata lì. E non oso pensare a cosa potrebbe succederti.»
Gli sorrisi, più agitata che mai. «Nel caso non dovessi tornare immaginami in compagnia di un bellissimo ragazzo con gli occhi chiari e i capelli scuri, dato che qui in Norvegia quasi tutti abbiamo i capelli biondi.»
Rise leggermente e poi mi strinse la mano, notando i giornalisti che fissavano. Non potevamo abbracciarci, era contro la legge.
Erano quasi le 17 e camminai verso l’entrata della capsula, nel frattempo la piazza si era riempita di gente e di curiosi che volevano assistere all’evento. Mi chiedevo se al mio ritorno le cose sarebbero cambiate.
«Buona fortuna» mormorò uno degli scienziati, guardai Kris ed entrai, portandomi con me la piccola valigia all’interno della capsula buia e soffocante. Per un attimo avrei voluto uscire e scappare a casa, non andare da nessuna parte e non rischiare, e poi la paura e l’ansia si trasformarono in adrenalina. Premetti il pulsante per richiudere la porta e prima di essere avvolta dal silenzio sentii un grosso applauso e tanti fischi dalle persone che mi guardavano. Chissà, forse era l’ultima cosa che avrei visto e sentito.
Un tremolio che si fece sempre più forte, una scossa che divenne un raggio elettrico azzurro si diramò in tanti piccoli fulmini celesti, blu, bianchi, grigi. Mi sentii attraversare il corpo e per un attimo quella che fu paura divenne soddisfazione. Funzionava. La testa mi girò forte e caddi in avanti, battendo la testa sul ferro caldo della capsula. Chiusi gli occhi e rimasi a fissare il buio nel quale si proiettavano le scariche blu che volevano buttare il mio corpo chissà in quale punto del pianeta.
Non ricordai quante ore passarono, non le contai. Quando tutto smise di tremare e le scariche elettriche si fermarono, si illuminò il bottone d’uscita. Lo premetti e una folata di aria gelida mi investì, menomale che con me avevo il cappotto di tessuto sintetico riscaldabile.
Misi un piede fuori dalla capsula, incerta, e ne uscii completamente. Non c’era granché intorno a me, solo qualche casa e una strada larga e deserta. Non c’era tutto quello che ero abituata a vedere a Oslo, non c’era nulla, le casette erano ricoperte di neve e così gli alberi, spogli e silenziosi, i muri giallognoli o biancastri, il cielo grigio e cupo. Cercai di realizzare che ero tornata a mille anni addietro nella storia, ancor prima della Terza guerra mondiale, ai primi anni del ventunesimo secolo, in un’altra civiltà. Era tutto così dannatamente reale e antico. C’era qualche cavo elettrico attaccato a dei pali altissimi, non come a Oslo che tutto aveva energia elettrica a sé. Se uno di quelli non avrebbe funzionato sarebbe saltato tutto.
Guardai il timer, mancavano 47 ore e 54 minuti. Ero appena arrivata. Mi incamminai su quella che era la stradina di campagna e seguii la striscia bianca che c’era al centro, anche se non capivo a cosa servisse. Osservai le casette poco colorate e rudimentali ricoperte di neve bianca e mi chiesi se avessi dovuto suonare. Mi ricordai che sicuramente non erano vestiti come me, infatti Kris dopo accurate ricerche mi aveva procurato quegli abiti bizzarri che usavano mettere in quell’epoca: degli stivali neri, pantaloni che si chiamavano jeans e una felpa calda tutta grigia. Li osservai e richiusi la valigia, cercando un luogo dove cambiarmi. Sperai almeno che si parlasse inglese.
Arrivai su una strada poco più affollata rispetto a quella di prima, c’erano due o tre persone sul marciapiede a fumare un oggetto corto e bianco, forse la famosa sigaretta che avevano mandato a rotoli un’intera generazione. A pochi metri da me vidi in alto un’insegna colorata, dove c’era scritto “Edward’s”. Sperai fosse una cabina di ristoro – o come l’aveva chiamata Kris, locanda – e entrai senza bussare. Un uomo con le spalle larghe, bassino, i capelli castani che gli ricoprivano il viso fino a metà collo mi guardò sussurrano un “buonasera” per mia fortuna in lingua inglese.
Ricambiai il saluto, forse un po’ timorosa. «È una, uhm, locanda questa?»
Annuì facendo una smorfia di disapprovazione. «Non esattamente una locanda, ma... entra! C’è il gelo fuori.»
Sorrisi e chiusi la porta in legno scuro alle mie spalle. Era così insolito. Le abitazioni in legno erano sparite nella mia epoca, e mi guardai intorno alla ricerca diqualche dettaglio da segnarmi a mente da raccontare se avessi fatto ritorno a casa. Ero completamente spiazzata.
L’uomo mi tese la mano. «Mi chiamo Chris. Ti vedo un po’ confusa, sei straniera?»
Gli strinsi la mano tentennando, da dove venivo io era un gesto che equivaleva ad un abbraccio e ritirai la mano subito dopo averla stretta. «Diciamo... diciamo di sì.»
«E ce l’hai un nome?»
Afferrai la sua domanda con ritardo perché ero impegnata a guardare un pezzo di carta stampato, probabilmente una di quelle fotografie. «Rachel Hetfield.»
«Piacere di conoscerti, Rachel. Sono molto solo qui, quindi vedere una persona che passa ogni tanto mi rincuora molto.»
Mi commossero quelle parole, nessuno era mai stato così cordiale con me. «Chi è quello con te in quella...fotografia?» Dissi cercando di non sbagliare l’accento della parola. Il suo inglese era leggermente più pulito del mio, si vedeva che ci toglievamo mille anni di evoluzione.
«Questo?» indicò il ragazzo che gli cingeva il braccio intorno alla spalla afferrando il pezzo di carta «Lui si chiama Dan, è un mio caro amico. Hai fame?»
Mi porse la fotografia e negai, tutto quel subbuglio mi aveva fatto passare l’appetito. L’afferrai rigirandomela fra le mani. La toccai più volte vedendo che ci rimanevano le mie impronte digitali e temetti di averla rovinata. Chris la guardava insieme a me. C’era lui, basso, più robusto e piazzato, e poi c’era questo Dan, alto e magro, con dei capelli tendenti al nero, e gli occhi di un blu oltreoceano, come tutta Oslo, quel blu metallizzato che ti toglieva il respiro se non ci fossi abituata.
«È molto bello» mi limitai a dire «dove potrei cambiarmi?»
Mi indicò con l’indice la porta, sempre in legno, alla sua destra, più in fondo, dove c’era inciso un pupazzo stilizzato con la gonnellina. A Oslo i bagni degli uomini e delle donne erano distinti da dei segni ben precisi.
Ringraziai e mi portai dietro la valigia, cambiandomi i vestiti. Tutto calzava alla perfezione, ma mi sentivo impacciata in quegli stivali così stretti e alti, e quella felpa mi dava un’aria veramente goffa. L’unica cosa che non era particolarmente strana era il cappotto, che era lungo fino a metà coscia e nero e voluminoso, imbottito e caldo. Ma quando lo infilai rabbrividii, faceva davvero freddo lì. Coi vestiti sintetici non si sentiva freddo, e invece con quei tessuti così elementari e poco elaborati non riuscivo a riscaldarmi.
Sistemai i vestiti della mia epoca nella valigia e uscii insicura di apparire normale. Chris mi sorrise, e solo dopo notai che il mio amico e questo ragazzo avevano lo stesso nome, cambiava solo il modo in cui si scriveva. Quale coincidenza.
«Sei appena arrivata?» mi chiese quando mi sedetti su una sedia alta e senza spalliera di fronte a lui. Annuii.
«E hai un albergo, un posto dove dormire?»
La mia risposta fu negativa e a lui scappò una risata. «Potrei farti dormire nella stanza di Dan, lui è fuori ora. Non credo che tornerà a casa questa sera.»
Mi strinsi nelle spalle. «Non vorrei disturbare.»
«Quale disturbo! Per me è un piacere se rimani con noi stasera, e poi a lui piace conoscere gente nuova» ammiccò, forse rammentando quel commento che avevo fatto sul suo amico.
«E va bene, ma solo per questa notte... avrei del... lavoro, da sbrigare in giro per questo posto.»
Non gli chiesi dove ci trovavamo, era sicuramente qualche posto in cui si parlava inglese. Confusioni a parte, trascinai la valigia fino a una stanza angusta e cupa, dai colori che andavano dal marrone al giallo, molto rustica e rude. Mi accomodai sul materasso morbidissimo, era un letto molto grande.
«Beh, ti auguro di dormire» mi sorrise e socchiuse la porta.
Mi chiesi se avessi resistito al freddo glaciale di quella notte, con degli sconosciuti che erano di un’altra epoca e chissà con quale concezione delle regole e della cordialità. Ma già dal modo in cui mi aveva accolta Chris  pensai che non sarebbe stato impossibile sopravvivere per due giorni lì.
Chiusi gli occhi raggomitolandomi sotto le coperte, tremando per il troppo freddo. Non avrei dormito quella notte.
Guardai il timer, mancavano 46 ore e 35. Richiusi gli occhi e poi dei passi mi fecero sobbalzare, seguiti da una porta che si apriva e delle voci che si salutavano e chiaccheravano. Mi salì un groppo alla gola. Qualcuno si avvicinò alla stanza e l’aprì, entrando. Finsi di dormire e non aprii gli occhi. Temetti il peggio.


Writer's wall
Salve plebee (e plebei), che ve ne pare come primo capitolo? Sono molto emozionata perché è una storia a cui tengo molto, e potrei scriverla in poco tempo se non avessi altre due ff da completare..comunque conto sul vostro giudizio e spero che recensirete in tanti!
Baci,la vostra Angelica.

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Capitolo 2
*** Discorso ***


Strinsi gli occhi quando sentii un respiro vicino, poi il nulla, il silenzio e un peso che si poggiava dall’altra parte del eltto tirandosi addosso le coperte.
Purtroppo tremavo come le pazze e gli avrebbe fatto capire che stavo congelando, perciò decisi di stringere i denti e sopportare. Aprii piano gli occhi e un uomo stava steso a pancia in su, con le braccia dietro la testa, con gli occhi aperti a fissare il soffitto. Rimasi a osserverlo per un po’, poi richiusi gli occhi e tentati di dormire, nonostante la temperatura mi avrebbe fatta morire ibernata.
Mi sentii i suoi occhi addosso e temetti che si fosse avvicinato troppo, ero a disagio, non sapevo come comportarmi e continuai a tenere gli occhi chiusi.
«Certo che fa freddo» mormorò la voce facendomi sobbalzare. Non avevo intenzione di rispondere, e si fece insistente.
«Come ti chiami?»
Rimasi zitta, non sapevo davvero cosa dire. Se avessi risposto avrei dato inizio a una conversazione che non volevo e che mi avrebbe messa più a disagio di quanto già fossi. Era incredibile che non la smetteva di parlare.
«Da dove vieni?»
Quella era l’unica domanda a cui non avrei mai e poi mai risposto. Non gli interessava sapere da dove venissi, come mi chiamassi, ero soltanto una sconosciuta che condivideva il materasso su cui dormivamo.
Il buio mi rendeva ancora più vulnerabile alle sue avances di stabilire una conversazione con me, ma mi ritiravo solennemente fingendo di dormire. Affondai la testa nel cuscino trovando un modo per respirare, ma niente, continuava a farmi domande.
«Perché sei finita qui?»
Sbuffai, dovevo zittirlo. «Perché continui a fare domande?»
Ridacchiò, mi voltai e lo guardai con gli occhi appannati e stanchi. Avevo bisogno di dormire.
«Niente, volevo conoscerti.»
Mi strinsi nelle spalle e mi girai dall’altra parte, dandogli le spalle. Tremavo ancora per il freddo, ma capii che sarebbe stato meglio congelare che parlare. Con uno sconosciuto, poi, e io non avevo amici da anni ormai. Solo poco tempo prima, con Chris, ero riuscita più o meno a stabilire un buon rapporto, ma con quest’uomo che di confortante non aveva nulla e non sapevo che volto avesse, riuscivo ad avere solo paura. E disagio. Pensai a casa mia, al vuoto, al mio vicino che continuava a fare festicciole e a urlare e fare casino fino a notte inoltrata, a quanto fosse libero ora che io non ero più a condividere il condominio. Pensai a Kris, agli studiosi che aspettavano miei segnali, mie notizie, ma che non avevo voglia di mandare, specialmente in presenza di qualcuno del ventunesimo secolo.
Da sotto le coperte schiacciai il pulsante del timer e si illuminò il display mostrandomi che mancavano 45 ore. Sperai passassero in fretta almeno quella notte, così da andare alla ricerca di informazioni sul modo di vivere degli abitanti del ventunesimo secolo. Attirava da morire l’idea di restare in quell’epoca, farmi una vita vera, ma più ci pensavo più mi convincevo che mi sarebbe mancata la mia monotona vita d’appartamento fatta di critiche e le giornate sprecate in un laboratorio scientifico dove osservavo uomoni ultraquarantenni mescolare sostanze chimiche e robot pulire il pavimento e riordinare le mensole.
Mi sarebbe mancato Kris, che con la sua modestia riusciva sempre a farmi sorridere, era il mio unico amico lì, non avevo nemmeno una ragazza con cui parlare, dei parenti con cui scambiarsi posta aerea eccetera...
Quando aprivo il mio account sul quaderno digitale mi ritrovavo solo qualche video 3D di nonna che stendeva i panni e di mamma che beveva caffè. In ogni video mamma beveva il caffè, e la cosa mi preoccupava, ma non riuscivo mai ad andare a trovarli in quanto non avessi una jet-machine e nemmeno la patente per guidarla.
Provai a respirare con calma, guardarmi intorno, studiare ciò che mi circondava senza mai dare nell’occhio e far credere a quel tizio che fossi sveglia. Mi limitavo a respirare tremando per il troppo freddo, ma ormai mi ero arresa a provare a riscaldarmi. Avrei sofferto. C’era un quadrato, accanto alla mia testa, poggiato su un comodino, si vedeva solo il contorno grigio e all’interno c’erano i numeri che si evidenziavano di un verde cristallino. Erano le tre e mezza di notte, e mi chiesi a che ora fossi arrivata in quel posto.
C’era troppo silenzio nella stanza, non sentivo nemmeno respirare l’uomo. Probabilmente era sveglio. Ne ebbi la certezza quando rise.
«Proprio non ne vuoi sapere di chiudere occhio?»
Strinsi la mascella, irritata. «Si può dire lo stesso di te.»
«Sì, ma io non ho freddo come te.»
Ignorai quella sua osservazione così poco intelligente. Non mi interessava chi avesse freddo e chi no, a me interessava di dormire per evitare di sentirmi il suo sguardo addosso, di sentire la voce irritante e rischiare di alzare troppo i toni e svegliare Chris.
Ripensai alla prima domanda che mi fece, ovvero come mi chiamassi. Ero davvero tenuta a dirglielo? Non mi importava di conoscerlo, richiusi gli occhi ma niente, mi rimaneva impressa nella testa la sua voce che chiedeva il mio nome.
Qualcosa nella mia valigia vibrò, e fui tentata dal vedere chi fosse che mi cercava. Forse segnali da parte di Kris e i suoi colleghi. Forse qualcosa andava storto. Forse avrei dovuto controllare che il neurofono non fosse scarico o malfunzionante. Ma come avrebbe reagito lui? Anche se ero al buio io ci vedevo lo stesso benissimo, ma chi sapeva se anche i suoi occhi fossero acuti come i miei che venivo dal terzo millennio? Lui era antico, non sapeva fare un sacco di cose al contrario di me, ma già dal modo in cui riusciva a trasmettermi la sua curiosità solo guardandomi metteva in serio dubbio di essere umanamente più evoluta di lui.
«Tu hai qualcosa di strano» disse soffocando una risata, e d’istinto mi girai per vedere che aspetto avesse. Lo fulminai con lo sguardo quando mi lanciò un’occhiata sorridendomi, ero completamente spiazzata e non sapevo come reagire.
«Sentiamo, cos’avrei di strano?»
Lo guardai meglio per evidenziare i tratti del suo viso. Ci vedevo, ma non mettevo a fuoco tutti i particolari di un oggetto che avevo davanti. Potei notare che aveva un viso magro, lungo, i capelli scuri e poco ordinati, molto lunghi che stavano perfettamente puntati verso l’alto. Non riuscii a distinguere il colore degli occhi, ma erano sicuramente chiari. Aveva un sorriso leggero, stanco, assonnato stampato sulla faccia, pensai che cercasse di addormentarsi quando lo avessi fatto io. Non voleva cedere. Pensava che se fossi rimasta sveglia tutta la notte sveglia gli avrei permesso di conoscermi, ma si sbagliava, avrei resistito e soprattutto avrei cercato di dormire. Allo spuntare dell’alba sarei sgattaiolata da quel tugurio e sarei corsa a esplorare il mondo del secondo millennio.
Ma nel frattempo, dovevo sorbirmi le domande e le osservazioni assurde dell’uomo che mi trovavo davanti. Che poi non era così uomo, era più un ragazzo della mia età, poco più grande, ma il buio lo rendeva più anziano.
«Sembri... come dire, di un’altra epoca. Hai decisamente troppo freddo, eppure la temperatura in questa stanza è di tre gradi sopra lo zero. Di solito fa molto più freddo. Secondo, la tua valigia ha qualcosa di...insolito.»
Digrignai i denti. «È una valigia nuova.»
«Suppongo tu sia ricca» affermò fissandomi negli occhi. Sembrava vedermi benissimo, invece non vedeva bene come me, ne ero sicura.
«Non esattamente.»
Mi rigirai di spalle e richiusi gli occhi. Nonostante i brividi di freddo e  il disagio in cui mi ritrovavo, sentivo le palpebre pesanti, finalmente il sonno iniziava a farsi sentire. Qualche altro secondo di tremolio, però, me lo avrebbero fatto passare. Mi raggomitolai su me stessa più stretta possibile, cercando di riscaldarmi il più possibile. Avevo le mani congelate, così come il naso e le orecchie. Era devastante il modo in cui mi stavo riducendo. Aprii la bocca per tirare una boccata d’aria e mi fu istintivo battere i denti dal freddo, e quale prova era più evidente dei denti battenti per dimostrare che avevo freddo?
Finsi di rilassarmi, ma troppo tardi, il tipo aveva ricominciato a parlare.
«Ma tu stai congelando» mormorò.
«N-no.»
Chiusi gli occhi stringendomi le gambe sul petto e incrociai le braccia, sperando di non morire ibernata in un’epoca come quella. Non pensavo fosse così fredda. Una risatina e un fruscio di coperte e di lenzuola, dei movimenti poco lucidi che mi arrivarono alle orecchie precedettero un braccio che mi strinse contro il petto roccioso del ragazzo in una morsa. Era caldo, il suo braccio era caldo, il suo petto e il suo respiro erano caldi. Smisi di tremare lentamente.
«L’iceberg che ha fatto affondare il Titanic era più caldo» ironizzò, anche se non sapevo a cosa si riferisse e cosa fosse il Titanic. Lentamente lasciai distendere le gambe e le mie braccia si slegarono, poggiandosi sul materasso e godendosi il calore che il braccio di lui si trasmettesse in tutto il corpo.
Mi chiesi cosa stavo facendo, perché lo facevo, e soprattutto perché mi ritrovavo ad abbracciare uno sconosciuto nonostante secondo le leggi del mio millennio lo vietassero severamente. Perché mi ritrovavo lì, in quel casino, a patire il freddo, a patire la fame che iniziava a farsi sentire, col terrore di rimanere bloccata lì per sempre. Come mi sarei ambientata, come avrei avuto una vita normale? Tutti quei sogni che sembravano realizzabili prima di partire vennero sostituiti da una voglia assurda di tornare a quella che usavo chiamare “casa”. O la Norvegia. O qualunque cazzo di posto che fosse nel 3023.
Anche con gli occhi chiusi sentivo il suo respiro che si era regolarizzato. Forse si era addormentato. Feci per prendere il suo braccio e spostarlo, ma forse avevo la mano troppo fredda e sobbalzò, stringendomi un poco di più.
«Dove hai intenzione di andare?» sussurrò con un sorrisino scaltro sulle labbra. Mi voltai subito per non guardarlo, era imbarazzante averlo così vicino. Non avevo mai avuto un contatto così vicino con un uomo, a parte Kris, ed ero davvero con lo stomaco in subbuglio.
«Non ho bisogno di te per sopravvivere» gli soffiai poco amichevole.
Aumentò la presa. «Io credo che tu ne abbia bisogno eccome. Mi chiamo Dan.»
Non risposi, non volevo rivelare il mio nome. Il suo era davvero strano, aveva qualcosa di così antico, suonava male. Si protese verso il mio viso e temetti che avesse rotto le distanze con un bacio, ma per fortuna aveva solo allungato il braccio per accendere un tubicino di vetro a spirale incastrato in un sostegno tutto nero di metallo. Non sapevo cosa fosse e lo osservai attentamente.
Mi rizzai a sedere e lui fece lo stesso. «Tanto fra due giorni sarò già via.»
«E dove te ne torni?»
Non sapevo cosa rispondere. Avrei dovuto tirare uno Stato a caso, sperando fosse credibile. «In... in Inghilterra.»
Scoppiò a ridere. «Noi siamo in Inghilterra.»
Mi morsi il labbro, mi aveva scoperta. Ormai il suo sguardo si era fatto più curioso, aveva due bellissimi occhi blu, e immaginai fosse il Dan della foto che Chris teneva appesa alle mensole del suo bancone. Era davvero bello dal vivo, alla luce, con quegli occhi che non lasciavano trapelare alcuna debolezza. Erano forti, come lui, come tutto il resto del suo corpo. Anche il busto era abbastanza muscoloso, anche se magro, e lo potei vedere dalla maglietta poco larga che portava. Era buffo com’era vestito e come portava i capelli, e soprattutto il suo modo di porsi. Anche il suo nome era buffo. Iniziai a vedere tutto non come una minaccia, ma un aiuto.
Il neurofono vibrò di nuovo per due secondi, poi dovetti aprire la valigia e prenderlo in mano. Era uno schermo grande quanto il palmo della mia mano, touchscreen, e attraverso il neurofono si potevano mandare messaggi elettrici attraverso il pensiero. Quando ero più giovane non esistevano, furono inventati quando avevo all’incirca diciassette anni; furono una grande invenzione. Inizialmente nessuno sapeva usarli, ma in pochi anni divennero l’oggetto di lusso più acquistato nella Norvegia. Eravamo il primo Paese del continente russo ad averne possesso, i nostri scienziati erano invidiabili anche agli americani.
Dan invece teneva in mano un aggeggio più piccolo, più spesso, con un dispaly touchscreen piccolo e con bassa definizione. Kris diceva che i primi mezzi di comunciazione furono i cellulari, che divennero mano a mano più evoluti fino a raggiungere il neurofono, ovvero quello che avevo in mano io. Dan lo guardò insistentemente con gli occhi semichiusi.
«Cosa...?» non riuscì a terminare la domanda. Dovetti arrendermi e spiegargli tutto.
«Questo è un neurofono. Mandi messaggi telepaticamente. Ha un sensore che registra le onde e gli impulsi nervosi che il cervello elabora quando si pensa a qualcosa di preciso da dire e lo invia sottoforma di testo scritto al destinatario, solo che qui non invia nulla. Riesco solo a ricevere» spiegai «Vuoi provare?»
Aprii la cartella dei messaggi non inviati e premetti l’icona che serviva a iniziare la registrazione. Glielo passai in mano e un po’ incerto pensò a qualcosa, e pochi secondi dopo il messaggio scritto apparve sulla schermata bianca. C’era scritto un “come ti chiami?” e mi vennero i brividi. Non sapevo se dire il mo vero nome o inventarne uno.
«Ti ho fatto una domanda telepaticamente» sorrise indicando il desktop con un cenno del capo «potresti rispondermi telepaticamente o parlare, come è più comodo per te.»
Corrugai la fronte. «Mi chiamo Rachel.»
Estese ancora di più il suo sorriso guardandomi. «Sul serio? È un nome inglese. Da dove vieni quindi? Dato che questa è l’Inghilterra e qui noi di queste cose non ne abbiamo viste mai.»
«Dalla Norvegia.»
Mi lanciò uno sguardo interrogatorio. «Norvegia? In Norvegia esistono queste cose?»
Sospirai. «La mia è una Norvegia molto diversa.»
Rimase il silenzio, non smetteva di fissarmi come per incitarmi a continuare. Non sapevo se dire che venivo da un’altra epoca più evoluta e magari metterlo nei pasticci.
«Beh, è un luogo molto tecnologico» mi giustificai.
«Sì, ma in Norvegia fa molto più freddo, e tu sembri suscettibile al freddo.»
Maledetta la sua perspicacia e curiosità. Ma non poteva farsi i fatti suoi invece di riempirmi di domande?
«Ci sono elevati sistemi di riscaldamento corporeo automatico» continuai in tono triste, per fargli capire che non volevo parlarne.
«Automatico? E in cosa consiste?»
«Beh» mi guardai intorno, e indicai l’angolo in legno della stanza illuminata da quella lucina arancione «in un angolo come quello, nelle nostre case, ci sono dei sensori che quando registrano un calo o un aumento della temperatura ambientale e la stabilizza adattando il corpo a un determinato tipo di temperatura. All’esterno invece abbiamo dei conduttori aerei sotterranei che attraverso la forza dell’acqua si ricava un tipo di energia e di calore in grado di riscaldare notevolmente la temperatura del luogo.»
Cercai di essere più chiara possibile, ma lui continuava a guardarmi confuso. «Come fanno sei semplici conduttori a riscaldare una città?»
«Oslo è la città più tecnologicamente avanzata in questo campo, e hanno studiato un modo per ottenere anche l’energia eolica e sfruttarla per regolare la temperatura, ma ovviamente sono costosissime queste strutture e solo i ricchi possono permettersele» proseguii.
«E tu sei ricca?»
«Non sono ricca di mio, un’associazione per la vita ha dato a me i soldi per la morte di mio padre dopo che è morto. Mia madre è andata dalla sua, e io mi sono trasferita a Oslo. Campo un po’ coi soldi dell’assicurazione, un po’ con dei lavoretti al laboratorio scientifico.»
La sua espressione si fece triste. «Mi dispiace.»
Gli sorrisi. Non era un cattivo ragazzo, saremmo potuti andare d’accordo. Quella che prima era riluttanza totale ora si stava trasformando in simpatia. Dan era bello, sensibile e chissà, avrebbe potuto piacermi. Non avevo mai frequentato un ragazzo in vita mia, non sapevo come comportarmi, ma lui aveva l’aria di chi non aveva visto una sola ragazza un tutta la sua vita.
Dopo attimi di silenzio, riprese la parola. «Tutto questo non può esistere.»
Rimasi spiazzata. «Ma esiste.»
«Non in questo mondo» mi congelò più di quanto sentissi freddo.
«Il mondo va avanti, si evolve, solo che noi non lo sappiamo» dissi senza nemmeno un filo di concretezza, e l’aveva capito.
«Te l’ho già detto, tu non sei di quest’epoca.»
Strinsi i pugni. Abbassai lo sguardo e poi tornai a guardargli le iridi blu oltreoceano che erano socchiuse in un misto di curiosità e di freddezza.
«Io... io sono norvegese ma... ma non di questa Norvegia... gli scienziati di Oslo sono riusciti a costruire la prima capsula spazio-temporanea, e io ho deciso di prendere parte al progetto come cavia umana. La prima volta, a progetto ancora non terminato, avevano mandato un robot protocollo munito di telecamere e radiotrasmettitori, ma non ricevevano segnali e ciò voleva dire che le onde elettromagnetiche del robot non sarebbero servite a raccogliere informazioni. Così, la soluzione migliore, era mandare una persona, ma nessuno si era presentato oltre me. Sono finita qui e sono entrata in questo posto, conoscendo Chris. E per tornare a casa dovrei aspettare lo scadere delle quarantotto ore, tornare nel punto esatto dove mi aveva lasciato la capsula e sarei tornata nella mia epoca.»
Aveva ascoltato con attenzione ogni singolo dettaglio. Lo sentivo che era interessato, perché in base a quello che dicevo inarcava un sopracciglio, faceva un sorriso, si intristiva, insomma riusciva a percepire le emozioni che avevo provato io in quella vicenda. Dan era particolare, aveva i sensori dei sentimenti, non della temperatura. E come i sistemi di riscaldamento cambiavano la temperatura, lui cambiava il mio umore. Lo guardavo, lui sorrideva io sorridevo. Rideva e ridevo con lui, anche quando faceva uno sguardo triste mi intristivo con lui. Era un manipolatore di menti, peggio del neurofono, riusciva a capire non solo cosa pensavo, ma anche con quale emozione o stato d’animo lo pensassi.
Anche quando fingevo di dormire aveva capito che morivo di freddo, che avevo bisogno di calore, ma che avevo paura di avvicinarmi a lui. Ed era riuscito a trasformare la paura in simpatia, se non in attrazione. Perché ero attratta da Dan. Era fisicamente bello e spiritualmente celestiale. Non avevo mai visto niente di vero o di sincero nella mia epoca, tutto era mascherato dai computer e dal messaggi telepatici, a stento potevamo sentire la voce di qualcuno, non ricordavo quella di mia madre, quella di mio padre era solo una registrazione nei video e basta, non avevo amici, nessuno. Uno dei motivi per cui ero partita in un’altra epoca, disorientata, ad affrontare una realtà più dura, fredda, più difficile per una che viveva nel massimo del comfort.
Dan  mi chiese per l’ultima volta se avessi freddo. Stavo per dire di no, che mi ero riscaldata, ma rifiutare un altro dei suoi abbracci calorosi sarebbe stata una follia. Un abbraccio da uno sconosciuto era più che un abbraccio con Kris, che era un vecchio scienziato che conoscevo da una vita. Avrei abbracciato Dan, un giovane bello quanto ipnotico, del quale non conoscevo né la vita né la storia.
«Solo un po’, ma credo di essermi riscaldata» finsi un brivido e lui rise. Non era stupido. Infatti non mi abbracciò come prima, per riscaldarmi, era un abbraccio più sentito, più sincero, più vivo.
«Dan» lo chiamai tornando sotto le coperte, mentre lui si riaffacciava sopra di me per spegnere quell’aggeggio luminoso. Ci ritrovammo faccia a faccia, vicinissimi, troppo vicini e temetti il peggio.
«Dimmi» rispose senza spostarsi.
Deglutii. «Tu sei da solo?»
Annuì spostandosi da lì. Eravamo al buio ora, ma io continuavo a vederlo che si passava una mano tra i capelli, con un sorriso sulle labbra. Per la prima volta fissai quelle labbra mordendo le mie. Era qualcosa di irresistibile. Smisi di guardarlo solo quando lui con un braccio mi afferrò il fianco e mi trascinò accanto a lui.

Angolo dell'autrice
Beh,cosa ne pensate? Colpo di scena? Ditemelo in una recensione,ho tanto bisogno del vostro giudizio!
ps: non so se continuerò molto in questi giorni perché ricomincia la scuola,ma tenterò di tenervi sempre aggiornate.

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Capitolo 3
*** Confessione ***


La lucina arancione che filtrava nella stanza dalo spiraglio della porta era assai inquietante. Sembrava che c’era solo quella luce, e metteva paura. Guardai il quadrante di quello che era un orologio antico e lessi l’orario, le nove e venticinque. Era presto per me, che mi alzavo molto tardi la mattina, ma evidentemente per il ragazzo che mi stava stringendo contro il suo petto era anche tardi. Sentivo ancora il braccio stretto sull’addome, la fronte sulla mia, il suo respiro non ritmato e più che altro fatto di sospiri e di sbuffi. Mi chiesi se avessi dovuto girarmi o continuare a fingere di dormire. Come la sera precedente lo aveva portato a farmi sempre più domande e a interessarsi sempre di più a me, magari quella mattina avrebbe detto altro che delle domande. Magari parlava da solo... ma non volevo correre il rischio. Chiusi gli occhi e mi beai di quel braccio che mi trasmetteva ancora calore. Poi il braccio scivolò via, il fruscio di una mano che si muoveva sotto le lenzuola mi fece rabbrividire, poi si poggiò sui miei capelli e sobbalzai. Li accarezzò fino alle punte, scivolando lentamente, col dorso della mano. Sospirai immaginando di essere in paradiso ad ogni tocco, era così morbido, leggermente sensuale. Poi capii che quello che stavo pensando andava ogni limite della sopportazione, della mia stessa sopportazione, e feci per stiracchiarmi, così che lui rimosse subito la mano che si era poggiata sulla spalla. Mi misi a sedere e lo guardai, immaginai di non avere un bell’aspetto quella mattina. Non ero abituata a dormire con qualcuno e mi coprii il viso con le mani, sperando non mi avesse vista.
«Buongiorno» disse, ma non guardai la sua espressione. Ero impegnata a nascondere il viso con le mani.
«A te» risposi soffocando la voce per via delle mani sul viso.
«Dormito bene?»
Annuii.
«Perché» disse con tono divertito «perché tieni le mani sulla faccia?»
Feci un risolino senza toglierle. «Sono orribile di prima mattina.»
«Che ti frega, non sono mica un giudice di bellezza» mi afferrò il polso con delicatezza e spostare la mano lentamente, come se temesse di farmi male. Non ero nelle migliori condizioni, e spostai la testa di lato. Con l’altra mano prese il mento tra le mani e mi osservò attentamente. Tentai di non arrossire e di non guardarlo, erano troppo blu per i miei gusti e temevo di perdermici. Anche se era un modo di dire vecchio come quella stanza, mi piaceva dire che mi perdevo negli occhi della gente. Mi perdevo negli occhi di Kris, azzurri come il cielo, mi perdevo negli occhi di tutti i norvegesi che sfociavano dalle tonalità più chiare di verde alle più scure, a quelle azzurre, a quelle grigie, ma mai avevo visto degli occhi blu come i suoi. Chiusi gli occhi mentre lui teneva ancora fermo il mio viso per guardarlo, e poi sentii un suo respiro mozzato, e sollevai le palpebre per vedere che espressione avesse. Sorrideva, con lo sguardo basso.
«Hai paura che possa baciarti?»
Mi irrigidii a quelle parole. Nessuno me lo aveva mai detto. «N-no, è che...»
Non sapevo cos’altro aggiungere e gli bastò. Mi lasciò andare e si rintanò sotto le coperte, di nuovo.
«Non sei orribile» sussurrò riaffondando la testa nel cuscino.
«Peggio?»
Rise. «Forse.»
Strappò una risata anche a me, e lo seguii sotto le coperte. Eravamo di nuovo faccia a faccia, ma stavolta rimasi a guardarlo. «Tu invece sei molto bello.»
Si morse un labbro, esteso in un sorriso. «Non devi lunsingarmi in questo modo.»
«Perché dovrei?»
«Non mi conosci» si strinse nelle spalle.
Gli sorrisi, pur sapendo di essere orribile. «Io ti trovo bello.»
Sorrise a mia volta. «Io ti trovo stupenda, anche di prima mattina.»
Ci guardammo per un po’, ma non mi imbarazzai come la prima volta. Ero incantata da lui, mi aveva ipnotizzata come un incantatore di serpenti ipnotizza il suo cobra con la melodia. Sperai non rimanessi a fissarlo troppo a lungo, troppo tardi, mi ero già smarrita nel suo sguardo come nel deserto. Un deserto del colre del mare.
Nessuno in vita mia, in questi ventun’anni sprecati, mi aveva mai fatto un simile effetto, forse perché dove vivevo io erano tutti fottutamente uguali, erano tutti vestiti con i soliti cappotti antigelo, le solite scarpe di gomma anticaduta, antitutto, tutto ormai era un modo di isolarsi da qualcosa, anche dalla vita sociale. La mia vita era antisociale, ero fatta così. Ero fatta per avere uno o due amici, e mi chiedevo perché. Ma finalmente, con quel viaggio nel tempo, avevo conosciuto un ragazzo in grado di sconvolgermi e staccarmi dalle regole opprimenti della mia epoca. Avevo bisogno di spazio, di libertà, di conoscere l’amore sbagliando più volte, cadendo, innamorandomi solo dopo aver sofferto.
Dan era ciò che mi avrebbe fatta uscire da quell’oscura maledizione che opprimeva la mia libertà. Dan era quel mare in cui sarei affogata e sarei riemersa. Dan aveva quegli occhi blu che erano la positività della calamita. E i miei non potevano che essere la negatività.
«Ti piacciono parecchio i miei occhi, a quanto vedo» scherzò distogliendomi da ogni pensieri. Lo avevo messo in imbarazzo, ma in fondo lo ero anch’io.
«Sono blu» mormorai.
«E allora?»
Scossi le spalle. «Dove vivo io non ne ho mai visti, sono tutti verdi, grigi o azzurri.»
«Io non ho mai visto degli occhi grigi come i tuoi, se devo essere sincero» sorrise «Anzi, non ho mai visto un paio di occhi grigi. Sono surreali, quasi futuristici.»
«Nella mia epoca ormai è tutto di metallo, anche l’animo di una persona. Siamo dei robot. Siamo tutti schiavi di un sistema tirannico, basato sul lavoro dei poveri e sull’imposizione di regole assurde.»
Si fece più curioso. «Ad esempio?»
«Beh...» pensai a una probabile regola assurda fra le tante «non puoi abbracciare alcun uomo a meno che non sia un parente, un genitore o il marito.»
Quell’espressione così fredda e seria che mi spaventò si trasformò in una smorfia divertita. «Sul serio?»
Annuii.
«E come fanno le persone ad innamorarsi?»
«Me lo domando anch’io» risposi con aria triste.
Si mise a sedere, e lo imitai lasciandogli sfuggire un sorriso. Alzò le coperte e si mise in piedi, era molto magro, e si stiracchiò. «Ti sei mai innamorata?»
Scossi la testa. «Non ho amici dove vivo io.»
Non avevo notato lo strano paio di pantaloni che portava. Erano di varie tonalità di grigio e azzurro, tipo quelli che portavo io addosso. Non mi ero nemmeno messa un pigiama per dormire, mi ero stesa rimanendo coi vestiti della sera prima. Forse erano quei jeans che mi avevano fatta congelare, e la stoffa di quella felpa era davvero strana, sembrava fatta di erba del prato. Anche se di prati io ne avevo visti soltanto nei quadri di millecinquecento anni fa.
«Beh, qui te ne farai qualcuno» mi sorrise venendo verso il lato del mio letto e tendendomi la mano. L’afferrai e mi alzai dal letto. Richiusi la valigia, misi nella tasca il neurofono per qualunque bisogno ed uscii dalla stanza.
Chris era seduto su quella strana sedia senza schienale, appoggiato coi gomiti sul bancone e una raccolta di fogli di carta tra le mani. Sembravano quei libri scritti su carta che esistevano nel millennio scorso.
Ma io ero nel millennio scorso. E dovevo ancora rendermene conto.
Salutammo con la mano e Dan si avvicinò a lui, sedendosi alla sedia bizzarra accanto.
«Ehi Woody, hai già aperto?» gli chiese dandogli una pacca sulla spalla. Io rimasi dietro Dan a spiare Woody che stava attento a segnare dei numeri sul suo pezzo di carta bianco con un tubicino di plastica nero che emetteva del liquido nero. Forse era inchiostro, o qualcosa del genere.
Fu qualcosa di dolce quando Dan mi prese per un fianco e mi portò accanto a lui, in effetti Chris lanciò uno sguardo curioso e un po’ confuso per poi tornare ai suoi numeri.
«No Dan, lascio il locale chiuso per le festività» rispose richiudendo quell’ammasso di carta. Lo come lui osservai con attenzione proprio come lui aveva guardato il timer che avevo sul polso. In effetti non somigliava a niente di ciò che c’era in quella stanza. Era tutto così maledettamente monotono e privo di tecnologia. A parte uno schermo grande non più di quaranta pollici che sembrava una di quelle vecchie televisioni a colori in due dimensioni. Mi lasciai andare a malavoglia dalla morsa di Dan e mi avvicinai a quel televisore piuttosto vecchio. Eppure sembrava un modello abbastanza nuovo, per quell’epoca. Sentii dei passi venirmi incontro e una presenza alta si fermò proprio dietro di me, afferrandomi per i fianchi. Rabbrividii a quell’abbraccio così strano e così... inusuale. Io pensavo che gli abbracci avvenissero solo davanti, non che si potesse abbracciare anche da dietro. Non sapevo come rispondere, misi semplicemente le mani sulle sue braccia, attorcigliate sulla mia vita.
«Ti stupisce quella televisione?» chiese in un soffio.
Annuii. «Dove vivo io sono tutte proiezioni tridimensionali. Quando guardi la tv è come vivere la storia.»
«Mi piacerebbe vivere nella tua epoca» affermò.
«E io nella tua» sospirai «Nel terzo millennio la libertà è un bene di lusso. O la ottieni coi soldi, o non l’avrai mai.»
«Noi non siamo liberi in questo mondo, Rachel, non lo siamo mai stati e non lo saremo mai. Ci saranno sempre a comandare dei pezzi di merda che pretenderanno il controllo di tutto senza preoccuparsi di aver accontentato tutti. Ci saranno sempre questi bastardi che pur di vivere serenamente opprimono e sotterrano un popolo, segnano la fine di una popolazione sono salendo al potere. Ci sono anche qui, cosa credi?»
Sollevai le spalle. «Lì non puoi innamorarti. E l’amore è l’unica cosa libera che avrebbero potuto lasciare.»
«Qui se ti innamori c’è sempre qualcosa che te lo fa andare storto.»
Sospirai. «Mancano 38 ore e mezza prima che debba tornare a casa.»
«Appunto.»
Mi gelò. Sentii improvvisamente una fitta all’addome, alla schiena, come il presentimento di aver fatto qualcosa di sbagliato. Temevo di fare una brutta figura senza reagire davanti a quella che era probabilmente una dichiarazione. Mi tremarono le gambe. Stavo per svenire.
«Scusami» sciolse l’abbraccio e indietreggiò, lasciandomi quasi cadere all’indietro. Prima che uscisse dalla locanda con lo sguardo di Chris che lo seguiva con gli occhi corsi verso di lui e gli afferrai il polso, ma fu più forte di me e se ne liberò.
«Dan!» lo chiamai, ma continuò a camminare. Faceva freddo, fuori, troppo freddo, e io non avevo lui coi suoi abbracci che mi riscaldava.
Tornai dentro, chiudendo la porta alle spalle, e mi ci poggiai sopra. Guardai Chris che sospirava rassegnato.
«Chris, tornerà?» domandai con lo sguardo basso.
Mi diede un’occhiata veloce. «Puoi chiamarmi Woody, se ti fa piacere.»
«Tornerà, Woody?» stavolta lo guardai e ricambiò lo sguardo con un sorriso.
«Puoi scommetterci. A proposito, è la vigilia di Natale oggi, che ti va di fare?»
Feci uno sguardo interrogativo. Non sapevo assolutamente cosa fosse il Natale, in Norvegia c’era la festa di rinconciliazione, per festeggiare l’unione della Norvegia al continente russo, ma non in Natale. Non chiesi cosa fosse per non destare sospetti.
«Ehm... non, non saprei.»
«Potresti stare con noi. Noi intendo me, Dan e i ragazzi» fece spallucce e fu una cosa dolcissima. Il suo viso rotondetto coperto dai capelli e le spalle larghe lo facevano sembrare un orsacchiotto. E la bassa statura lo faceva troppo dolce.
Avrei dovuto rispondere di sì, tra l’altro volevo scoprire cosa fosse questo Natale, e trascorrere una serata con Dan non mi avrebbe infastidito nemmeno un po’. Vederlo scappare via mia aveva lasciato un vuoto dentro, e soprattutto il freddo. Senza di lui avevo freddo. Lui poteva riscaldarmi, lui poteva abbracciarmi. Nessun altro.
«Nel mentre che Dan torna e tu decidi cosa fare stasera...»
«Vengo con voi» risposi prontamente.
«Bene. Nel mentre che Dan torna che ti va di fare? Una partita a carte, guardare la tv? Tanto lui è in giro a bere e ubriacarsi, lo fa sempre, quindi farà tardi.»
Non sapevo cosa rispondere. Non sapevo giocare a carte. «Da-da dove vengo io non si gioca molto a carte... ti va di insegnarmi?»
La sua prima espressione fu sorpresa, ma poi fece una risata. «È strano che non si giochi a carte, ma vieni, te lo insegno.»
Mi fece segno di seguirlo sui divanetti, mi disse di sedermi e aspettarlo lì. Tornò mezzo minuto dopo con in mano un volumetto grande quanto una mano, una scatolina di cartone che si aprì e ne uscì un mazzo di carte, tutte uguali ma con dei segni diversi. Ne presi una e la osservai attentamente. Aveva tanti cuori rossi disegnati, e ai lati c’erano i numeri che segnavano il numero di cuori. Un’altra aveva dei quadri rossi, un’altra dei trifogli neri e un’altra delle forme strane che scoprii si chiamavano picche. Provocai a Woody una risata, dovevo essere proprio divertente a guardare stupefatta qualcosa che lui vedeva tutti i giorni. Se avesse visto il neurofono, avrebbe fatto la mia stessa identica espressione. Qualcosa vibrò nella mia tasca e immaginai fosse proprio il neurofono, ma non era il momento di tirarlo fuori. Ero curiosa di imparare a giocare a carte, doveva essere divertente.
Lui prese tutto il mucchio e le sistemò in un unico mazzo, mischiandole tra di loro con un’abilità che mi sembrò fuori dal comune. Poi le divise in due parti e mi incitò a mettere una pila di quelle sull’altra. Obbedii ridendo. Poi ne prese una decina e me le diede in mano, e così anche lui facendomi segno di coprirle e non fargliele vedere. Le aveva sistemate in mano in una specie di ventaglio, aveva una grande abilità. Io non sapevo nemmeno come tenerle.
«Ora devi fare una cosa, devi ordinare tutte le tue carte in base al numero, il colore e il segno. Afferrato?»
Annuii e cercai di sistemarle disastrosamente, facendole cadere più volte a terra e sul tavolo, scoprendole. Lui rise e, pazientemente, si avvicinò mostrandomi come dovevo sistemarle. Quando capii come dovevo fare, mi lasciò mescolare il mazzo, distribuirle e riordinarle. Poi iniziò a spiegarmi un gioco che nemmeno capii il nome.
E così passarono le ore, le risate, e si fecero le tre di pomeriggio. O almeno, così diceva l’orologio digitale che portava Woody sul polso, al contrario del mio timer che segnava le ore che passavano.
E nonostante era passato tanto tempo, Dan non tornava. Iniziai a preoccuparmi seriamente, e lui se ne accorse.
«Sei preoccupata per Dan?»
Cercai di nascondere il rossore alle guance quando dissi di sì.
«Lo chiamo?»
Annuii di nuovo. Prese il suo aggeggio quadrato con un touchscreen scarso e ci schiacciò sopra qualche numero. Era strano. A noi non servivano i numeri, bastava digitare il codice del neurofono che ogni apparecchio aveva, ed erano tutti diversi.
Rimase ad aspettare per un po’ e poi parlò.
«Dan, dove cazzo sei? -no, no che non sto tranquillo! Dan, torna adesso altrimenti vengo ovunque tu sia e ti riempio di botte. -non me ne frega, siamo entrambi in pensiero. -Dan. -Dan di questo parleremo dopo. Ora, ti prego, torna alla locanda, fallo per me, fallo... fallo e basta» richiuse e si infilò l’aggeggio in tasca.
Iniziai a pensare che quella che poteva essere una sbronza si era trasformata in peggio. Guardai Chris spreando in uno sguardo confortevole che non arrivò mai.
«Sta tornando» disse in un sospiro. Abbassai lo sguardo, e così anche le braccia. Mi poggiai sul tavolo, freddo, sperando ancora che si facesse vivo il più presto possibile. Avevo freddo, e detestavo il freddo. Detestavo il freddo degli occhi di Chris che ormai aveva perso la voglia di giocare a carte, odiavo il freddo di quel tavolo di legno, odiavo il freddo delle mie mani che non sentivano le presenza di Dan. Rimasi con lo sgaurdo rivolto alla porta in eterno. Poi chiusi gli occhi, e rimasi a fissare il buio che circondava me con le palpebre abbassate, immaginando di tornare a casa, da vincitrice, con i giornalisti che chiedevano come fosse stato il viaggio e il passato.
Ma io non stavo vivendo il passato, io stavo vivendo un presente diverso.
«Chris» lo chiamai senza aprire gli occhi «dimmi una cosa... Dan si ubriaca spesso?»
«Ogni volta che pensa di aver fatto qualcosa di sbagliato» rispose atono.
«E che ha fatto di sbagliato?»
Alzai la testa e lo guardai. Si stringeva nelle spalle. «Credo che si sia aperto un po’ troppo con te.»
«In che senso?»
«In un modo o nell’altro ha ammesso ciò che prova per te» mugugnò trattenendo uno starnuto.
«Non può provare niente dopo un... una notte che lo conosco, sarebbe assurdo» realizzai stupita.
«Ma Dan è assurdo, è questo il problema» ribatté «e credo che sia scappato per il semplice fatto che tu te ne dovrai andare domani sera... lo rattrista. E lo demoralizza. Dan non ha mai avuto una, diciamo, figura femminile sempre presente nella sua vita, anche se io stesso che sono il suo miglire amico so poco del suo passato, so che non era sempre a casa, con sua madre. Ha scoperto la timidezza e gli ha impossibilitato di consocere altre ragazze, ma da come si comportava con te penso che abbia sbloccato quel timore di fare brutta impressione. E immagino che tu sia peggio di lui con le amicizie, o sbaglio?»
Non c’era niente di offensivo in quello che aveva detto, ma solo la verità. Io ero una frana con le amicizie, infatti non ne avevo nemmeno una.
Tornai a buttare la testa sul tavolo, tra le braccia. «Non sbagli. È solo che pensavo...»
«Pensavi?»
«Pensavo, che ne so, di arrivare qui e... non lo so, non sapevo niente quando sono arrivata. Non sapevo che tipo di vita mi sarei dovuta aspettare, non sapevo come muovermi né come comportarmi, figurati trovarmi a dormire con un uomo.»
«È una cosa brutta?»
Alzai la testa. «Da dove vengo io, sì, è un reato se non è un parente, un genitore o il marito.»
Inarcò un sopracciglio. «Sei islamista, per caso?»
Che parola buffa. «No, sono della Norvegia.»
«In Norvegia si pratica l’islamismo?»
«In Norvegia non si pratica nessun tipo di islatismo o quello che è.»
Scoppiò a ridere. «Islamismo. Comunque ci credo che Dan si sia preso una cotta per te.»
Arrossii e poggiai la schiena sullo schienale di quel divanetto in pelle scura a scrutare il soffitto. Era di legno, come tutto il resto, e pendevano delle catenine con appese delle parabole contenenti una lucina fioca. Chissà come si chiamavano. Non glielo chesi, sarei finita per rivelargli chi fossi e da dove venissi.
Tra una risata e l’altra, qualche buffa domanda e qualche osservazione assurda, la porta del locale si aprì facendo entrare una folata di vento gelido. Rabbrividii. Guardai verso l’entrata e c’era Dan che si poggiava sulla porta di schiena, passandosi una mano tra i capelli. Aveva le labbra rosse e il viso bianco. Rimasi a guardarlo per un po’, prima che rivolgesse lo sguardo verso di me e mi rigirai. Ero ancora offesa e delusa da quello che aveva fatto quel giorno. Woody si alzò e gli andò incontro, dandogli una pacca sulla spalla. Si rintanò dietro una porta di legno più chiaro e si chiuse dentro. Eravamo solo io e lui. Sentivo le cose precipitare, e non solo, sentivo l’ansia, l’imbarazzo che mi torturavano l’anima. Strinsi la mascella e di nuovo sentii quella folata gelida che più che vento sembrava il suo respiro. Ma era ancora lontano da me, e tornai a fissarlo mentre si sfilava la giacca coperta di neve. Immaginai che ci fosse una bufera, fuori. Nella mia epoca le bufere di neve si risolvevano subito coi sistemi di riscaldamento, e così bastava azionarli e si poteva andare in giro senza preoccuparsi di morire congelati.
Lanciò la giacca sul bancone adorato di Woody e venne verso di me, e per un attimo smisi di respirare. Si sedette di fronte a me, esattamente dove c’era Woody pochi minuti prima che arrivasse lui. Ci guardammo per un po’. Mi percorse un brivido, ma non lo feci apposta stavolta, avevo davvero freddo. E temevo che non mi avrebbe riscaldata quella sera.
«Freddo?» accennò.
Annuii. Non avevo una giacca con me, qualcosa di caldo da mettere addosso, avevo solo le sue braccia che per il momento si rifiutavano di riscaldarmi.
«Probabilmente mi odierai» mormorò.
«No» risposi senza enfasi «sono solo confusa.»
«Credo che tu non capisca il perché della mia reazione» fece spallucce, con una voce poco rassicurante. Aveva un qualcosa di minaccioso. E mi spaventava.
«Credo di averlo colto il motivo, non sono così stupida anche se vengo da un’epoca diversa in cui il contatto con gli uomini è limitato.»
Mi lanciò un’occhiataccia. «Non dovevi fermarmi. O almeno, non dovevi provarci.»
Lo guardai cercandomi la risposta da sola, ma non ci riuscii. Aspettai che fu lui a parlare.
«Se solo avessi, come minimo, cercato di non farmi credere che ti interesso ora sarei meno sconsolato.»
«Non capisco il motivo della tua sconsolazione» ormai gli stavo dando la possibilità di dirmi tutto senza giochi di parole e senza doppisensi. O le cose le diceva, o gliele avrei tirate di bocca.
«Vorrei tanto saperlo anch’io. Ti ho conosciuta stanotte, non una vita fa.»
«Non ha importanza quando ci siamo consociuti, ha importanza perché ci siamo conosciuti» tirai.
«Tu domani sera te ne andrai. Io non ti vedrò. Tu sarai nella tua epoca, a mille anni più avanti di me, io sarò qui, a marcire solo come un cane nell’alcool, nelle feste, a guardare donne che non amerò mai. Non ho un futuro, Rachel» il mio nome pronunciato da lui fu improvvisamente bello.
«Non so se voglio tornare nel futuro, Dan» lo chiamai a mia volta «non voglio vivere in un’epoca in cui la libertà è un’opzione dei potenti.»
«Non ti permetterò di restare in questo schifo di città, seppur a danno mio» disse secco.
Lo guardai male. «Ma perché esistete solo tu ed il tuo dolore? Perché non provi a pensare anche a quanto sarebbe devastante per me tornare in un mondo in cui non ho amici, nessuno che mi ami e nessuno che mi amerà mai, senza genitori... io non ci torno per vivere, Dan, io ci torno perché gli scienziati mi hanno affidato il compito di sperimentare la macchina del tempo. E se non torno loro non sapranno niente. Non sapranno se funziona o meno, non sapranno se dovranno gettarla via e magari perdere le speranze. Io non ci torno se non per quello. E sinceramente, se davvero volessi rimanere in una città in cui non conosco le abitudini, il modo di fare e di vivere, non potrei di certo restare a marcire qui. Tu non hai capito che se non partirei è perché ho trovato te... e... e Chris, anche.»
Mi si bloccò il fiato quando i suoi occhi divennero più blu del solito. Mi ero dichiarata involontariamente anch’io. Gli avevo detto ciò che provavo. E ovviamente avevo messo in mezzo Chris per non destare sospetti, ma chi volevo prendere in giro, era ovvia la cosa. Lui non rispose. Si limitò a guardarmi di sottecchi.
«Woody mi ha invitata alla vostra festa, stasera» cambiai discorso.
«Sì, si festeggia il Natale. Hai accettato?»
Sollevai le spalle. «Affinché ci fossi tu.»
«Non andrei in un posto in cui non ci sei tu» ammise abbassando la testa. Mi alzai, con i piedi e le mani congelate, e sentii veramente il bisogno di un suo abbraccio. Mi seguì con gli occhi mentre mi sedevo accanto a lui e mi accoccolavo sul suo petto. E finalmente, dopo averci sperato tanto, mi diede uno di quegli abbracci che mi riscaldavano il corpo, il cuore e l’anima.
Guardai il timer, mancavano 36 ore. E 36 ore non mi avrebbero impedito di innamorarmi di lui.

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Capitolo 4
*** Dire e non dire ***


Tirai fuori il neurofono approfittando dell’assenza di Woody e controllai i messaggi ricevuti. Erano tutti del centro di ricerche di Oslo, molti di loro chiedevano mie notizie. Provai di nuovo a rispondere, ma non inviava. Poi, tutto d’un tratto, s’illuminò la spia che segnava una connessione stabile al neurofono di Kris e in quei cinque secondi ero riuscita a dirgli che ero arrivata nell’Inghilterra del ventunesimo secolo, mi ero trovata un posto dove rimanere e che stavo scoprendo molte cose interessanti. Ricevetti la sua risposta poco dopo, ma non potei mandare un altro messaggio perché la spia si era spenta.
“Ciao Rachel, ti parliamo dal 3023. Sono contento che tu stia bene, ma abbiamo un problema. Non funziona l’impostazione per il ritorno, ti faremo sapere.”
Rilessi più volte quel messaggio. Sgranai gli occhi, temendo di aver letto male, più che temendo sperando, non volevo rimanere bloccata lì.
Guardai Dan, che anche lui aveva un’espressione preoccupata puntata allo schermo del neurofono.
«Non... non funziona» balbettai amareggiata.
Lui scosse il capo.
«Io cosa... cosa...» mi tremarono le labbra, e iniziarono a pungermi gli occhi. Sarei scoppiata a piangere.
«Troveranno il modo» mi strinse «non rimarrai qui.»
Non poteva smettere di funzionare in quel momento, era troppo importante per me tornare a casa. Senza un biglietto di ritorno ero praticamente fregata, non avevo i soldi del ventunesimo secolo, non avevo vestiti in abbondanza, non avevo niente, non sapevo niente, vivere sarebbe stata un’impresa. E restare in quella locanda con Woody e Dan mi sembrava da parassiti.
Ma oltre al fatto che non volevo pesare sulle spese di due persone quasi sconosciute, c’era di mezzo il fatto che dovevo tornare a casa, dovevo dare notizie, dovevo fare tutto. Mi sarei portata Dan con me, non mi importava, ma rimanere bloccata lì senza essere sicura di volermi fare una vita in quel posto senza aver nessun bene materiale, a parte l’attrezzatura nascosta che registrava le onde radio, e senza denaro. Non ero pronta a stare con Dan, a iniziare una relazione che in quel momento non volevo, avevo bisogno di riflettere e decidere se restare o tornare a casa. Ed essere costretta a restare mi aveva decisamente capovolto il buonumore. Rimisi il neurofono in tasca accasciandomi sul tavolo di legno davanti a me, non versai lacrime, ma mi morsi il labbro fino a farmi male. Facevo dei respiri lunghi e profondi, sollevavo la testa, prendevo una boccata d’aria e tornavo giù, a soffocarmi nella tristezza e nella disperazione che aveva il sapore delle lacrime, ma che non riuscivo a tirar fuori.
Al diavolo il ventunesimo secolo, al diavolo la scienza, al diavolo la capsula del tempo, al diavolo tutto. Stavo per mandarci anche Dan, ma poi quando mi riappoggiai con la schiena sulla poltroncina lui mi diede un bacio sulla tempia. Non sapevo se lo volevo quel bacio, così indiretto, così distaccato, forse ne avevo bisogno di uno vero, magari più sentito. O forse non lo volevo e basta, non era il momento. Lo guardai, e non ricambiò lo sguardo. Spostò gli occhi sul televisore che Woody, uscito chissà da dove, aveva acceso da lontano con una scatoletta nera con dei piccoli tasti di plastica. Era uno schermo piatto e coloratissimo, mi facevano male gli occhi a guardarlo. Era tutto così piatto, mi faceva una strana impressione. Sfregai gli occhi e smisi di guardarlo, non ero abituata a tutta quella bidimensionalità.
Dan fece una risata e rigettai l’occhio sullo schermo coloratissimo, c’era un uomo sulla quarantina su un palcoscenico fatto di disegni di tanti colori sgargianti, e poi l’inquadratura si spostava su una folla seduta a guardarlo e ridere. Immaginai fosse uno spettacolo di cabaret, o come si chiamava lui. Avevo studiato, ai tempi delle Prime Scuole, la storia e un po’ della cultura del mondo del ventunesimo secolo e l’avanzamento della tecnologia. Era grazie a queste persone che il “futuro”, così lo chiamavano, era così avanzato e progressivo. Si era ridotto il tasso di disboscamenti, ormai era tutto digitale, gli alberi erano aumentati di numero e di massa e il pianeta si era rivestito un po’, in più le industrie avevano un carburante naturale e funzionavano grazie ai movimenti dell’acqua e delle risorse come il sole e il vento, era tutto automatico, era tutto semplice, sarebbe stato meraviglioso se fosse stato altrettanto naturale e semplice il modo in cui governavano.
Mi beai del suono soave che usciva dalla bocca di Dan quando rideva, mi poggiai sulla sua spalla e chiusi gli occhi ad ascoltare. Sospirai, e poggiò la sua testa sulla mia.
«Già finito?» si lamentò una voce poco maschia dall’altra parte della stanza, quella di Woody.
«Questi stronzi vengono pagati se rimangono nei tempi prescritti dal programma» rispose Dan seccato.
«Ormai tutto gira intorno ai soldi» commentò Woody.
«Che ci vuoi fare» rise l’altro «Rachel, ma dormi?»
Scossi il capo e aprii gli occhi. Mi risollevai e ci guardammo, e presi un bel respiro per poi distogliere lo sguardo da quel blu oltreoceano. Profondo. Decisamente profondo, un mare profondo come il suo animo e il suo alone di mistero. Ma ciò che nascondeva più che profondo era indeterminato. Aveva un nonsoché di assurdo, ma era Dan, e Woody stesso aveva detto che le cose assurde erano ciò che definivano Dan. Dan era assurdo. Il suo amore così improvviso e poco credibile era assurdo, ciò che provavo io per lui era assurdo, tutto era assurdo, anche io lo ero. Assurdo, strano, imprevedibile, questi erano i tre aggettivi che definivano Dan, di cui ancora non conoscevo il cognome.
Mi rimanevano altre 35 ore e mezzo. Temevo di non farcela. Temevo allo stesso tempo di restare lì.
«Sei pensierosa» mi fece notare Dan, ma lo sapevo già che ero pensierosa.
Woody si mise in mezzo. «Non c’è tempo per i pensieri, tra poco passano Will e Kyle, diamoci una mossa!»
Sorrisi e mi alzai dal divanetto, seguita dal ragazzo con gli occhi blu. Mi diressi verso la stanza nella quale avevamo dormito e aprii la valigia, cercai altri vestiti del ventunesimo secolo e ci trovai le cose più bizzarre che non avrei mai pensato di indossare. C’erano delle scarpe di colore rosa e grigio, un modello strano, con su scritto “Vans”. Erano carine, ma bizzarre. Poi un paio di pantaloni neri – finalmente qualcosa che indossavo anche a casa – e una cosa da indossare come maglietta, era una specie di felpa molto aderente con le maniche larghe... non sapevo cosa fosse, ma la indossai lo stesso. Mi ero portata con me i miei vestiti normali ma Kris li aveva presi e lanciati in un’altra valigia e spediti sotto il tavolo di ricerche. Mi passò questo mucchio di cose stranissime fatte apposta per una donna del ventunesimo secolo, ma come vidi quelle cose rabbrividii. Non ero sicura di volerle indossare.
“Ti staranno bene” diceva Kris “Sembrerai una modella” continuava.
Negavo costantemente di voler sembrare una modella, ma del ventunesimo secolo dovevo apparire del ventunesimo secolo mi dovevo vestire, avevo anche fatto la rima.
Chiesi a Woody dove fosse il bagno e mi ci fiondai, facendo quello che dovevo fare, mi lavai velocemente su una tazza in ceramica piccola e bassa, con un tubicino in metallo che faceva fuoriuscire acqua gelata. Mi venne un brivido al contatto di quel getto così freddo e lo richiusi, arrendendomi. Ero abituata al calore automatico, e ancora mi chiedevo come sarei sopravvissuta se fossi rmasta bloccata lì.
Mi vestii con quella roba e uscii dal bagno portandomi dietro quello che mi ero tolto, mettendolo in valigia dopo averlo ripiegato. Dan entrò appena nella stanza, poi uscì suito richiudendo la porta. Risi, pensava mi stessi cambiando.
«Puoi entrare» lo chiamai cercando di non soffocarmi dalle risate. Lui aprì la porta ed era completamente rosso e scoppiai in una fragorosa risata.
«Pensavo di essere entrato nel momento sbagliato» ammise timido, con un sorriso imbarazzato. Si calmarono le acqua e smisi di ridere, anche se la sua faccia sconvolta era qualcosa di esilarante.
Mi fissò per qualche istante, si era cambiato anche lui. «Sei carina vestita così.»
«Non ho nemmeno idea di cosa siano queste cose, a parte i pantaloni» feci segno di ignoranza alzando le mani.
«Ah non chiederlo a me, non me ne intendo di moda» mi imitò con più ironia «ma il mio amico Kyle ti saprebbe dire.»
«Sono simpatici i tuoi amici?» domandai curiosa.
Annuì. «Le uniche persone sulla faccia della Terra con la testa piantata sulle spalle.»
Sorrisi. «Vorrei averne anch’io, lì a casa... ma non posso. Non posso conoscerne.»
«Ne conoscerai, quando quella cosa tornerà in funzione potrai andare a casa e... e farti una vita. Sarai famosa, ti cercheranno tutti e... e non avrai bisogno di vivere in un cesso di millennio come questo.»
Si era fatto freddo e più pauroso. Odiavo il modo con cui parlava quando pensava alla mia partenza. Odiavo tutto quello che significava lasciarlo qui, da solo, con solo tre amici di cui fidarsi davvero.
Non aveva tutti i torti, io tornando nel mio tempo avrei sicuramente incontrato la fama mondiale, tante persone che mi avrebbero improvvisamente ammirata e tanti uomini ai piedi. Magari i più belli del mondo, i divi del cinema, le popstar, chiunque, ma non mi importava, nessuno in quel mondo aveva gli occhi blu che aveva Dan e non avrei voluto nient’altro che quelli. Amavo ogni suo gesto, sguardo, sorriso che sia stato di imbarazzo o anche mezzo, mi piaceva e basta.
«Non sono sicura di volere tutto questo, Dan» ammisi «è che quando ti accorgi che tutto potrebbe andare per il verso giusto non pensi ad altro.»
«Tu pensi di fregarmi fingendoti sincera». C’era un velo di antipatia nella sua voce, ma non ci badai.
«Sono sincera» risposi acida «intendo dire che in questo momento non mi importa granché di quanto sia famosa nel terzo millennio, di cosa pensano e dicono di me, se dicono che sia morta, che sia rimasta intrappolata, che sia spacciata, possono dire qualunque cosa, non mi interesserebbe nemmeno un po’. Vuoi la veritò? Ho nostalgia di casa. Ma a casa avrei nostalgia di t... tutta la stranezza di questo posto.»
Accennò una risata per niente sincera. «Cosa stavi dicendo?»
«Non mi hai seguita? Ho detto che...»
«Ho capito cos’hai detto, ma di cosa avresti nostalgia?» mi interruppe. Merda. Mi ero fatta scoprire. Indietreggiai di poco, come una preda che scappa davanti al cacciatore. Invece lui avanzava, verso di me, era più veloce del mio indietreggiare.
«Di cosa?» insitette, ma non risposi per il semplice fatto che non avrei saputo dire qualcosa di sensato. Avere nostaglia di lui? Perché? Lo conoscevo da nemmeno un giorno e poof, era già scattato tutto? Non funzionava così, me lo sarei potuto risparmiare quel commento.
Si fece troppo vicino, a pochi centimetri da me, e fu una sensazione indescrivibile. Tremavo. Di freddo. O di paura.
«Di te» dissi con un filo di voce, non mi sentì.
«Di cosa?»
«Di te» alzai di poco la voce.
Sorrise. Con una mano mi sollevò il viso, sfiorando la guancia, fermandosi sul collo. Chiusi gli occhi.
«Davvero?» chiese, serio, e annuii. «Apri gli occhi» mi ordinò con delicatezza «aprili.»
Li aprii lentamente e lui era a poca distanza dal mio viso. Poggiò la fronte sulla mia, e sperai lo facesse prima di scappare via. Avevo paura, era qualcosa di assurdo, non volevo baciare uno sconosciuto, ma allo stesso tempo quello sconosciuto era Dan e la tensione mi impediva di correre via.
«Lo so che non vuoi» mormorò «te lo leggo in faccia.»
Scossi il capo. «Se non lo fai, non saprò mai quello che voglio io e quello che vuoi tu» bisbigliai sulle sue labbra, senza toccarle o sfiorarle. Era sempre più vicino, si erano toccati anche i nasi.
«Io so quello che voglio, non mi convince quello che dici.»
«Fallo, e convinciti.»
Finalmente affondò le labbra sottili sulle mie, più rosse e carnose, più morbide. Lo fece. E non volevo assolutamente spostarmi da lì. Per me le labbra erano sempre stato il punto debole di ogni donna. E aver permesso a qualcuno di toccarle fu una grave sconfitta. Ma essere stata sconfitta da lui aveva tutto un altro sapore. Ecco perché ricambiai quel bacio, senza andare avanti, senza lasciargli libero accesso dentro la bocca. Non ero pronta per quello. Staccati da quel bacio, avevamo appena promesso che nessuno dei due avrebbe respirato senza l’altro.
«Che farai quando partirò?»
«Chi ha detto che partirai?» sorrise.
Lo guardai, poi ritrassi lo sguardo. «Kris, anche se la macchina è difettosa. Potrebbe anticipare la partenza, potrebbe ritardarla, è tutto improbabile.»
«Se l’anticipasse» si leccò le labbra «io verrei con te.»
Scossi la testa allontanandomi un po’ da lui e finalmente riuscii a guardarlo dritto negli occhi senza spaventarmi di affondarci dentro. «Se l’anticipasse tornerei, racconterei ciò che ho visto e dimostrare che funziona e poi tornare.»
«E se non ci sarà una seconda possibilità di tornare indietro? Tu ti dimenticherai di me, ma io non mi dimenticherò di te.»
Non sapevo cosa dire. «È un casino, e fa schifo.»
Disse di sì con la testa, poi si passò una mano tra i capelli. La voce di Woody interruppe qualunque cosa.
«Will e Kyle sono fuori, siete pronti?»
Guardai Dan annuire e lo imitai. Woody ci fece segno di seguirlo all’uscita della locanda, dove una macchina del ventunesimo secolo, tutta blu e coperta di neve, era parcheggiata. Deglutii e cercai di sembrare naturale.
 
Seduta su un divano in una stoffa piuttosto calda e pungente, che sembrava lana, davanti a un rozzo fuoco acceso in una struttura di mattoni. Faceva un caldo assurdo in quella stanza, quasi si sudava. Ero accanto a Dan circondata da altri tre uomini seduti in un semicerchio che mi guardavano incuriositi, non mi ero presentata e avevo tenuto la bocca chiusa per tutto il tragitto in quella casa rovente e chiusa, con le pareti gialle o arancioni, i mobili e un finto albero decorato all’ingresso. Sgranai gli occhi quando lo vidi e per fortuna ci fu Dan che mi disse che era di tradizione.
Woody si schiarì la gola. Regnava il silenzio in quella stanza. «Allora... Rachel, i ragazzi. Ragazzi, Rachel.»
Li guardai senza sapere cosa fare, così uno dei due, il più magro, con dei baffi stranissimi mi tese la mano e gliela strinsi. Forse era un modo per salutarsi. L’altro fece lo stesso.
«Mi chiamo Will» sorrise superbo. Ricambiai quel sorriso così poco amichevole e tornai a poggiare la schiena su quel divano, e lanciare uno sguardo a Dan che annuì senza guardarmi.
«Rachel» rivelai il mio nome.
«Da dove vieni? Hai un accento diverso» continuò a chiedere, era insistente come Dan la prima sera, solo che rispondevo per cortesia.
«Dalla Norvegia.»
Woody strabuzzò gli occhi come gli altri due, nemmeno lui sapeva da dove venissi. Gli avevo solo detto che non ero del posto.
L’altro, coi baffi strani, si sporse. «Fa freddo in Norvegia?»
«Ma che domande sono, Kyle? Stanno vicino al Polo Nord!» lo attaccò il suo amico più barbuto e con le spalle larghe.
«Era per fare conversazione» si scusò.
«Sì, fa abbastanza freddo» finsi di riscaldarmi le braccia, sperando di avere un qualche contatto con Dan, ma lui era rimasto impassibile per tutta la sera senza toccarmi e darmi qualche occhiata ogni tanto. Mi rattristava quel comportamento, ma mi metteva in testa anche seri dubbi. Non avevo notato la leggera barbetta che gli era cresciuta. Era più bello così, era più uomo.
Woody propose di fare una partita a carte, e mi invitò a giocare, ma rifiutai gentilmente.
«Vado fuori a prendere un po’ d’aria, fa caldo qui» li avvertii per poi alzarmi dal divano. A mia grande sorpresa, Dan si alzò e mi seguì sospirando un “ti accompagno”. Quando chiuse la porta della stanza nella quale eravamo tutti davanti al camino, così si chiamava, mi afferrò per i fianchi e mi strinse contro di lui. Venne percossa da un brivido e mi staccai.
«Perché stai...»
«Dan, non mi hai degnata di uno sguardo mentre eravamo con gli altri, che succede?» chiesi esaperata, e mi disse di abbassare la voce. Ma ero confusa, e la confusione non portava di certo al silenzio. Mi facevo sempre più domande, su cosa stavo facendo, su cosa dovevo fare e continuare a sperare di partire il più presto possibile. Vibrò il neurofono. Lo guardai, lessi il messaggio una, due, tre volte.
“Non riusciamo a sistemarlo, Rachel.”
Mi morsi un labbro e aggrottai la fronte.
“Mi dispiace, spero tu stia bene.”
Scese una lacrima.
“Se qualcosa va storto avvertici, ti tireremo fuori da lì.”
Mi sedetti sul pavimento e lasciai il neurofono per terra. Mi raggomitolai su me stessa e iniziai a piangere, non sapevo come ci stavo riuscendo, ma stavo piangendo. Volevo davvero tornare in quella casa da schifo in cui vivevo, volevo davvero tornare in un paese governato da tiranni, voelvo semplicemente andarmene sotto le coperte in un’epoca in cui non avevo bisogno di scarpe da quattro soldi e giacconi imbottiti per riscaldarmi.
Dove non avevo bisogno dell’abbraccio di un uomo, evitavo ogni contatto fisico tranne che con Kris, dove non c’era il rischio di innamorarsi e di farsi paranoie come quelle che avevo io su Dan. Le mie erano paranoie, ero nel panico, e mi sarebbe andato bene tutto se fossi rimasta dove stavo.
Le esperienze dovevo viverle, me innamorandomi di qualcuno che sapeva tutto di me e non sapevo niente di lui, mi metteva ansia, mi mandava in panne, mi sentivo usata.
Lui era tutto questo. E non mi piaceva quello che stavo passando.
Rimasi a piangere senza essere toccata, e mi fu di grande sollievo vedere che mi lasciava in pace. Sollevai lo sguardo e lo vidi, seduto per terra davanti a me, che posava il neurofono e sospirava. Si passò una mano tra i capelli, sospirò di nuovo. Non mi guardava, non voleva farlo.
«Credo di essere solo un peso ormai» singhiozzai.
«Perché non sei rimasta nella tua epoca? Buttata a non fare un cazzo, evitando di soffrire e di far soffrire me? Perché?»
Mi ferirono come lame taglienti quelle parole. «Se sono io il tuo problema, ma ne vado.»
«Andandotene peggioreresti la situazione» ringhiò alzandosi di scatto e bloccandomi per i polsi. Non c’era né amore né dolcezza nel suo sguardo, c’era solo una enorme e acuta delusione. E non si poteva dire il contrario di me, che avevo la rabbia e lo sconforto che sprizzava da ogni poro.
«Se non fossi mai venuta...»
«È questo il problema» mi colpì di nuovo, con più crudeltà. Strinsi i pugni e mi divincolai dalla sua stretta al polso, ma non mi lasciava andare.
Afferrai la maniglia della porta dalla quale ci si affacciava alla strada sbiancata per il ghiaccio e la neve, ma non mi lasciò uscire. Si avvicinò, la chiuse e si mise contro, impedendomi di passare in qualunque modo. Mi lasciò il polso e indietreggiai, e non fece nulla per fermarmi. Rimase lì, premuto sull’unica via d’uscita possibile a guardarmi. Gli lanciai uno o due sguardi d’odio ma non provocai nient’altro che i suoi occhi blu ridotti a due fessure minacciose.
«Inutile che fingi di avercela con me» sibilò, immobile.
«Io ce l’ho con te» risposi coi giusti toni. E non erano per niente amichevoli.
«Dovrei essere io a odiare te per quello che stai facendo, non tu ad odiare me. Io quella sera ti feci solo un paio di domande, poi tu ti sei fatta un sacco di altre illusioni» volava troppo alto per concedermi una risposta che era la gentilezza capovolta.
«Mi prendi in giro? E gli abbracci, il bacio, quella mezza sfollata... dove cazzo le metti? Ma eri ubriaco quando facevi quelle cose?»
Rimase impassibile al mio linguaggio poco educato. «Gli ubriachi dicono sempre la verità, quindi no, non ero ubriaco.»
«Non sei ubriaco nemmeno ora» mi iniziarono a pungere gli occhi. Vidi una lucina arancione brillare con la coda dell’occhio, e corsi verso il neurofono rimasto a terra. Subito lo presi in mano e mandai un messaggio telepatico a Kris.
“Non ce la faccio più, aiutatemi a tornare indietro.”
La spia rimase accessa per un bel po’, così da permettere a Kris di ricevere un altro messaggio.
“Devi resistere” mi disse.
“Non so se ce la farò, ora la linea risparisce, spero non sia un addio il nostro” drammatizzai. E poi, si spense, e insieme a quella anche le mie speranze e la mia serenità. Una porta si aprì e ne uscì Woody tutto imbacuccato con una sciarpa al collo e una giacca imbottita che lo facevano più paffuto, che guardò con non poco interesse il mio neurofono e si diresse verso Dan. Lui si spostò, il suo amico uscì e chiuse la porta. Dan non si spostava da lì. Sotto sotto temeva che me ne fossi andata, oppure voleva torturarmi un altro poco.
C’era una sedia, più là. Sempre con gli occhi fissi sul neurofono, mi ci sedetti accavallando le gambe. Sperai si riaccendesse il prima possibile.
Un rumore di passi, dei respiri. Un’ombra davanti a me, alta, che mi toglieva l’oggetto di mano poggiandolo su una struttura bassa e quadrata di legno riverniciato di bianco. Mi tirò su dai polsi, mi strinse sul suo petto e con le mani si portò il mio viso sulle labbra. Mi diede qualche bacio sulle labbra, sulle guance. Non sapevo ancora bene come reagire quando lo faceva, anche se era solo la seconda volta. Avevo tentato di svincolare, ma mi aveva letteralmente imprigionata tra le sue braccia. Poggiai le mani sul petto e dischiusi la bocca, convinta che sarebbe stato l’unico modo per scusarmi di avergli sconvolto la vita. Aprì la bocca anche lui e con la lingua mi toccò il labbro. Poi mi ritirai in fretta, il battito cardiaco era aumentato troppo e mi aveva oppresso i polmoni impedendomi di respirare. Mi si era offuscata la vista. Solo il pensiero di avere tra le labbra quelle di Dan mi aveva fatto andare in estasi. Era una sensazione nuova. Anche se non sapevo come fare ed ero piuttosto impacciata, mi lasciavo trasportare dall’istinto. Non era così tragico e difficile. Lui mi metteva a mio agio, sapeva fare le cose con calma, non aveva fretta. Anche se per pochi secondi, intrecciare la lingua alla sua fu la cosa più difficile del mondo.
Guardai il timer, mancavano 29 ore e 12 minuti, ma a chi vuoi che importasse, ero bloccata lì e al contrario di poco fa non sembrò poi così male.
Ci separammo da quel bacio intenso, e per un attimo mi sentii svenire. Lui mi accarezzò la guancia e poi i capelli.
«I tuoi capelli sono strani» rise.
«Perché?»
Li osservò ancora un po’. «Sono di un castano tendente al biondo... e queste ciocche nere sembrano tinte. Sono tinte?»
Scoppiai a ridere per il modo in cui me lo aveva chiesto. «No, sono naturali.»
«E non esiste un paio di occhi grigi, ancora devo capire come sia possibile» puntalizzò di nuovo.
«A me piacciono i tuoi, di occhi» ripetei forse per l’ennesima volta.
«Dillo di nuovo, dai!» ironizzò.
Scossi il capo. «Non smetterò mai di dirlo.»
Istintivamente gli morsi un labbro e quel gesto forse fu troppo per lui, che inizialmente rimase perplesso, poi divenne improvvisamente imbarazzato.
«S-scusa» balbettai allontanando il viso.
«Non mi hai fatto male» sorrise «mi ha sorpreso, però.»
«Ti ha dato fastidio?»
Appoggiò la fronte sulla mia. «Puoi farlo tutte le volte che vuoi.»
Scossi le spalle, e lo morsi di nuovo, facendolo ridere. Mi piaceva, era una cosa strana quanto romantica. Solo io potevo permettermi di fargli male in quel modo, solo io potevo attaccare le sue labbra affondandoci i denti. Arrivò il momento in cui lui ricambiò il morso e mi sentii indifesa, debole, ma era lui, e lui poteva come io potevo con lui.
La porta si riaprì, ne uscì Woody e subito ci staccammo.
«Scusate» alzò le mani il nostro amico paffutello consapevole di aver interrotto qualcosa. Scoppiammo a ridere, e quando si richiuse la porta alle spalle, vibrò il neurofono. Lo tirai fuori. E sperai di non avere un attacco di cuore quando lessi il contenuto del messaggio.
“Ti restano solo tre ore, qualcosa è andato storto, ce la fai a tornare al punto dove sei atterrata? Fai presto, potresti davvero rimanere bloccata.”
Guardai Dan. Stavo perdendo qualunque speranza.

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Capitolo 5
*** Ritorno ***


Il timer si era improvvisamente ridotto di 23 ore: ne mancavano poco meno di tre, e col cuore in gola corsi nel salotto dove eravamo poco prima con gli altri ragazzi. Presi il mio giubbotto e quello di Dan senza salutare. Tornai di là, lanciai il giubbotto a Dan e ci mettemmo a correre verso la locanda, dove avevo le mie cose. Arrivammo dopo venticinque minuti, anche troppo per me che avevo così poco tempo. Tra i vestiti lanciati nella valigia e qualche bacio il tempo volava. Era tutto così dannatamente veloce e straziante. Mi lacerava l’anima in due, mi sentivo morire. Non volevo nemmeno immaginare come stava lui, aveva una faccia a metà tra la rabbia e la disperazione.
Non mi bastavano due ore e quindici minuti per salutarlo, non me ne bastavano nemmeno ventiquattro, non mi bastava una  vita. Era troppo difficile separarsi.
Mentre mettevo le cose nella valigia non ci dicemmo una parola, era silenzioso, seduto sul letto, ogni tanto si alzava per abbracciarmi o darmi un bacio, ogni tanto spariva da quella stanza e tornava due minuti dopo.
La valigia era pronta. La mia testa no.
Mancava un’ora, e andammo vicino alla capsula, immobile ancora sullo stesso punto in cui mi aveva lasciata, aperta e silenziosa, fredda come il ghiaccio. La guardai e pensai che fosse stato l’inizio di tutti i nostri problemi.
Lasciai la valigia all’interno e poi tornai ad abbracciare Dan, che mi baciava i capelli e non mi lasciava un attimo.
«Non voglio andarmene, non ora» gli soffiai in un orecchio con la voce prossima a una crisi di pianto.
«Nemmeno io voglio che tu te ne vada» rispose stringendomi ancora di più. Meno quarantacinque minuti.
«Non posso abbandonarti» lo baciai.
Ricambiò. «Lo so che non vuoi farlo.»
Scossi la testa. Era tutto maledettamente rapido, i minuti sembravano volare, non volevano aspettare un poco. Me lo sarei portato con me. Sarebbe venuto con me nel terzo millennio, avremmo vissuto insieme, ci saremmo fatti una vita. Lui avrebbe smesso di bere, di ubriacarsi, lo avrei fatto per lui, avrei smesso di farlo sentire sbagliato, dirgli che era perfetto, che non aveva bisogno dell’alcool per essere amato.
«Il dovere mi chiama...»
Mi diede un altro bacio, più veloce. «Ha chiamato troppo presto.»
Scoppiai in lacrime e poggiai la testa sul suo petto coperto dal giubbotto di stoffa calda. Mi accarezzò i capelli, sollevò il viso e mi diede un altro bacio ancora, ricevendone uno in cambio.
Meno ventinove minuti.
Misi un piede nella capsula, trascinandolo con me vicino all’entrata. Io ero per metà dentro, lui era fuori, e già stavo piangendo. Non sapevo se l’avrei rivisto, se sarei tornata in quell’epoca, se avesse funzionato di nuovo la capsula. E se Kris non mi avesse permesso di tornarci? Mi avrebbe impedito di rifare un viaggio, imponendomi di raccontare, di restare seduta in un laboratorio per spiegare tutto ciò che avevo visto.
Ma io ero una cavia. Dovevo solo dire se funzionava o meno. E così avrei fatto.
Dan mi prese la mano e se la portò sul petto baciandomi di nuovo, asciugandomi le lacrime, accarezzandomi i capelli. Io non riuscii a guardarlo negli occhi. Quegli occhi di cui mi ero innamorata, quegli occhi nei quali mi persi quella mattina.
Il tempo ancora una volta si mostrò a mio sfavore: correva troppo veloce, mentre quella notte, in cui avrei sperato finisse tutto subito, era andato lentissimo. La notte in cui Dan mi faceva domande, in cui mi abbracciò per la prima volta perché avevo freddo, la prima volta di tutto. Era stata la mia prima vera notte.
Tremai ricordando il calore che mi trasmetteva con le sue braccia, piansi di nuovo quando immaginai che non sarebbe successo più. Ricordai la mattina in cui mi disse che ero stupenda, e che non lo sarei stata più per nessun altro. Era accaduto esattamente un giorno prima, eppure mi sembrava passata una settimana.
Meno quindici minuti.
Ci guardammo, ci perdemmo di nuovo negli occhi dell’altro. Mi sorrise, gli sorrisi. Ci diedimo un bacio. Ci accarezzammo, ci abbracciammo.
«Vorrei venire con te» disse all’improvviso.
«So che non lo faresti mai» ribattei con un filo di voce.
Annuì abbassando la testa. Mi rigettai sulle sue labbra, pensando che ormai non potevo fare altro. Non potevamo fare altro. Mancavano sette minuti. Il tempo volava, il mio cuore impazziva, le mie gambe cedevano, le mie lacrime prendevano il sopravvento e le guance si bagnavano. La mia testa mi imponeva di non pensare al futuro, di come sarei stata senza di lui, però non potevo fare altro. La paura di non riuscire a tornare più nel passato mi metteva ansia. La paura di non rivederlo era panico allo stato puro. Tutto era orribile. Tutto sarebbe sembrato orribile senza quel paio di occhi blu che non avrei visto più nemmeno nella televisione, ma solo nei miei sogni e nella mia testa. Il neurofono vibrava, il timer segnava gli ultimi tre minuti restanti. Ogni secondo veniva scandito da uno schiocco delle nostre labbra. Ogni centesimo di secondo era scandito da una mia lacrima. Ogni cosa era terribile. Chiunque si fosse azzardato a disturbare sarebbe finito male.
Io non volevo andarmene, ma allo stesso tempo dovevo.
Guardai il timer. Meno sei secondi.
«Dan» lo chiamai.
Cinque secondi.
«Rachel» rispose dandomi un bacio.
Quattro secondi.
«Dan, io ti amo» azzardai entrando nella capsula.
Tre secondi.
«Anch’io» mi diede un ultimo bacio per poi allontanarsi di poco dall’oggetto.
Due secondi.
«Non mi dimenticare» scoppiai.
Un secondo.
Scosse il capo. «Mai.»
La portiera si richiuse. Mi gettai sul metallo freddo che iniziava a tremare. Gridavo, gridavo il suo nome, battevo i pugni contro la porta, le scariche elettriche di colore azzurro e viola saettarono nel buio. Continuavo a gridare e a chiamarlo, sperando che mi sentisse, ma ero già chissà dove. Battei in continuazione i pugni, mi accasciai per terra, piansi senza sosta, rischiai di smettere di respirare, davo calci alla struttura, mi stendevo e urlavo, poi lo richiamavo, piangevo, lo chiamavo, e poi tutto smise di tremare e di proiettare scariche elettriche.
Filtrò la luce. Una luce fioca. Si era aperto. Aprii gli occhi devastati dal pianto, tirai fuori il neurofono che aveva ripreso a funzionare. C’era un messaggio di Kris.
“Non perdere l’ultimo biglietto di ritorno.”
Lo rimisi in tasca e presi la valigia, guardandomi intorno. La piazza dalla quale ero partita, un silenzio di tomba. Nemmeno una persona che guardava il mio ritorno. Nessun albero imbiancato di neve, nessuna casa scolorita, nessuna strada con la striscia che la divideva a metà.
Nessuna insegna che indicava l’ “Edward’s”, il locale di Woody. Nessun Dan che mi aspettava.
Solo il silenzio, il colore azzurrino del metallo e del vetro delle case lontane, le pietre levigate fin troppo bene della piazza. Uno scienziato magro coi capelli bianchi accanto a me.
«Come stai?» chiese Kris con voce roca, e mi rifiutai di rispondere. Afferrai la valigia e scesi dalle scalinate che portavano al piano inferiore della piazza. Versai qualche altra lacrima, poi mi asciugai le guance e mi diressi verso casa. Lì avrei dato libero sfogo alla mia disperazione liberamente.
Tirai fuori la chiave elettronica dal giubbotto del terzo millennio, quello che mettevo prima di partire, e aprii la porta. Tutto era fottutamente uguale, come prima, niente di diverso. C’era solo più silenzio. Tutto era più buio. La solitudine la potevo toccare col palmo della mano.
Mi guardai intorno, trascinandomi la valigia che poi appoggiai sul muro. Accesi il riscaldamento automatico e mi tolsi il giubbotto. Mi stesi sul letto che non era stato toccato nemmeno dalla polvere e sospirai. Altre lacrime scesero veloci. Stavo prendendo il neurofono quando più in fondo alla tasca trovai qualcosa di cartaceo. Lo tirai fuori: era un bigliettino chiuso più volte. Lo aprii e c’era una scrittura che quasi non riuscivo a leggere. Non ero abituata a scrivere o a leggere cose scritte a mano.
 
“Ti starai chiedendo chi te l’ha scritta, e se ti dicessi che sono Dan, ti chiederesti cos’avrei da dirti. Ora sei sicuramente nel futuro, ovunque, ma sei nella tua epoca. Ho avuto il tempo di scriverla senza che te accorgessi quando eravamo a casa di Will, quando ero sparito per cinque o dieci minuti lasciandoti con quei decerebrati. Te l’ho messa nel giubbotto accanto al neurofono, ma quando lo hai preso e rimesso in tasca l’hai presa mettendola nella tasca dei jeans.
Non è una di quelle lettere d’amore sdolcinate con frasi dette e ridette, io non so cosa sia l’amore, non sono così semplice da capire e non mi capisco nemmeno da solo. Sta di fatto che tu sei come me. Siamo entrambi delle frane a innamorarci e far innamorare. Eppure, io mi sono innamorato di te. Nella tua ingenuità e sfacciataggine sono entrato nella tua testa e difficilmente ci sono voluto uscire, credo che non lo vorrò fare mai. Io non ti ho lasciato entrare nella mia per il semplice fatto che non me lo avresti perdonato, avresti sofferto insieme a me. Perciò ti ho permesso di entrarmi completamente nell’anima, divorandomi qualcunque cosa fosse rimasta di me. Ora sei a mille anni più avanti di me. Non ci incontreremo mai più. Ma sappi che morirò con te nella testa, morirò vecchio, sorridendo pensando a te che mi rifiutavi la prima sera e poi mi dicevi che mi amavi il mattino seguente.
Non smetterò mai di pensare a quanto sei stata bipolare e indecisa e ancor di più confusa in quelle poche ore che siamo stati insieme. Sarà stato questo che mi ha fatto innamorare.
Dimenticami, se ti farà bene, prova a sposare qualcuno che non ti abbandonerà mai e che non si ubriachi ogni sera.
Daniel Campbell Smith.”
 
Rilessi più volte quel nome. Daniel Campbell Smith. Era così bello. Così forte. Anche a distanza di mille anni io sapevo che era vivo. Sapevo che c’era ancora, anche se era morto, c’era ancora. Non aveva mai cessato di esistere. Cercai di smettere di piangere e mi alzai da letto. Forse c’era un’altra possibilità, forse ci saremmo rivisti. Io dovevo vederlo, a tutti i costi.
La Norvegia non era mai stata così calda come quella mattina del 25 dicembre 3023, forse perché l’Inghilterra di mille anni prima era freddissima. Raggiunsi il laboratorio, e sospirai prima di entrare.
Kris era seduto al solito tavolo, a bere una tazza di latte e caffè per restare sveglio tutta la notte con le sue inutili ricerche scientifiche che non avrebbero aiutato nessuno. Quando mi vide arrivare posò la tazza e mi seguì con uno sguardo poco più che indagatore.
«Passata la crisi isterica?» borbottò.
Annuii e mi sedetti davanti a lui. «Non sai cosa ho passato.»
«Siamo amici» spospirò «puoi dirlo.»
Scrollai le spalle. «Mi sono innamorata.»
Non rispose. Mi squadrò per bene continuando a sorseggiare quel caffè bollente che si trovava nelle sue mani.
«Chi è?» domandò con poco interesse.
«L’unica persona che sembrava accettarmi.»
Si rifiutò di nuovo di rispondere.
«Devo tornare da lui» dissi seria.
Lui scosse il capo, innervosendosi. «Tu non vai da nessuna parte.»
Strinsi i pugni e mi alzai dal mio posto, sporgendomi verso il vecchio. «Che tu voglia o no, io tornerò in quella maledetta capsula. Tornerò in quel maledettissimo ventunesimo secolo. Soffrirò, piangerò, avrò malattie all’epoca incurabili, ma starò con la persona di cui mi sono innamorata. Ha gli occhi blu, Kris, lui ha gli occhi blu. E in quest’epoca gli occhi blu non esistono.»
«Tu adesso ti siedi e abbassi i toni, non è un macchinario completamente funzionante, non possiamo farci tutti i viaggi nel tempo che vogliamo!»
«Non mi interessa se rimango bloccata lì, io non chiedo altro!» sbottai.
Grugnì. «L’amore uccide più di qualunque altra malattia, Rachel, sappilo.»
«Che mi uccida pure» sibilai «io torno a casa a sistemare le valigie.»
«Non te lo permetterò» scattò in piedi sperando di spaventarmi, ma gli voltai le spalle e uscii da quella che ormai poteva considerarsi una prigione.
Andai a casa a passo svelto, senza guardare le persone per strada che mi incrociavano e si mettevano a urlare il mio ritorno. Non mi importava della fama, di ciò che ero, io volevo solo tornare nel ventunesimo secolo. Ero a casa, ma nessuna casa aveva mai fatto tanto schifo come quella. Mi mancava quell’Inghilterra che non avevo avuto la possibilità di conoscere e di vivere, quell’epoca in cui esistevano le penne a inchiostro, i fogli di carta, i banchi di scuola fatti con le sedie di legno e le lavagne con il gesso. Dove non avevi bisogno di una chiave elettronica per entrare in casa. Tutto era bello e naturale, anche il freddo in sé era bello, quel freddo, quel freddo maledetto mi aveva fatto cadere tra le braccia di quel Daniel Campbell Smith di cui non avrei più potuto farne a meno. Per questo presi una valigia più grande, più capiente, ci misi tutti i vestiti che avevo compresi quelli indossati nel ventunesimo secolo, i miei oggetti preferiti, il mio eBook per le letture, tutto ciò che mi serviva. Sarei partita il più presto possibile, affinché nessuno si chiedesse se fossi morta o la polizia si mettesse a fare indagini inutilmente.
Il timer che mi aveva accompagnata in tutta la mia odissea, invece dei numeri aveva scritto sul desktop “non c’è più tempo”.
Andai all’agenzia immobiliare e misi in vendita i miei mobili e tutto il resto, in più dissi a Serguei, il proprietario del condominio che affittavo, che mi sarei trasferita presto da qualche parte e che non sarei più tornata.
Espressioni facciali poco convinte a parte, mi fece firmare i documenti elettronici e lasciai il condominio senza nemmeno salutare quel vicino di casa rumoroso e impertinente.
«Non sarai troppo giovane per lasciare questo posto?» mi chiese la mamma quando tornai nel mio paese natale, nella casa di mia nonna.
Aveva un aspetto sempre più spaventoso, era magrissima e con due occhiaie nere enormi. Era ancora sotto effetto degli antidepressivi.
«È quello che voglio, e sento che lo posso fare» giustificai.
«Hai intenzione di tornare indietro? Di fare un salto, qualche volta, vedere come stiamo?»
La squadrai riflettendo su cosa rispondere. Non sarei più tornata. La capsula non avrebbe funzionato come sempre. L’avrei vista per l’ultima volta, eppure sapevo che se la sarebbe cavata. Se non avesse pensato al suicidio, i medici l’avrebbero aiutata a superare quel blocco mentale che le impediva di continuare a vivere normalmente.
«Non credo che tornerò. Non ne avrei la possibilità.»
«C’entra qualcuno? Qualche uomo?»
Arrossii. «Sì.»
«Allora vai, e non lasciartelo scappare. Abbi cura di lui. Evita di fare la fine di me e tuo padre, di non avere una figlia o un figlio con dei genitori uno che è morto di suicidio e l’altro che sopravvive grazie ai medicinali. Soffrirebbe proprio come hai sofferto tu fino a qualche anno fa.»
«È una cosa brutta essere innamorati?» domandai pensando a Dan, a come ci eravamo detti che ci amavamo.
Sollevò le spalle. «Se non puoi farne a meno e lui non può fare a meno di te allora no, non è una cosa brutta. Diventa brutta quando sai che vuoi solo lui ma non è reciproco.»
«Ho intenzione di rischiare» risposi.
 
Non mi ero mai sentita così sola. Per questo, più mi avvicinavo al laboratorio e alla capsula con la valigia che conteneva tutta la mia esistenza, e me la sarei portata in un universo diverso da quello in cui ero nata.
Ero vicina alla capsula, sotto gli occhi di qualche ragazzino che scattava foto. La mia valigia l’avevo già poggiata all’interno, così come il mio piede destro. Altri flash di macchinette fotografiche, l’urlo di disapprovazione di alcuni scienziati.
Ero dentro la macchina del tempo. C’erano le caselline coi tasti touch, inserii la data in cui viaggiare, 25 dicembre 2013, ore 22:30. Non feci in tempo a salutare Kris e ringraziarlo di tutto quello che aveva fatto per me. Avevo già premuto il tasto per il ritorno dalla persona che mi apparteneva.
Le solite scariche, stavolta più potenti, saettarono nella capsula che iniziò a tremare più violentemente delle volte precedenti. Inciampai nella valigia e caddi. Non riuscivo a rialzarmi e rimasi seduta ad aspettare, in lacrime, che tutto finisse. Tolsi le mani dal viso. La luce fioca di un lampione del ventunesimo secolo illuminò la strada di fronte a me.
Afferrai la valigia e scesi, tirando un sospiro di sollievo quando, a pochi metri più lontano da me, intravidi l’insegna colorata “Edward’s”.
 
 
Angolo dell’autrice
Scusate il ritardo immenso, ma ero un po’ (UN PO’,CERTO) giù di morale perché non riuscirò ad andare al concerto dei Bastille il 22 marzo ed era l’unica cosa che desideravo...comunque spero vi piaccia, fa veramente cagare, sto rovinando la storia, forse è meglio se non scrivo finché non sistemo le cose...un bacio a tutte.

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Capitolo 6
*** Lonely ***


Tentennando aprii la porta della locanda: era calda e accogliente come l’ultima volta che l’avevo vista. C’era qualcuno, seduto ai tavoli, che consumava un pasto modesto e ipercalorico. Rimasi a guardare quelle persone per un po’ e poi entrai, beccandomi un richiamo rumoroso da parte di Woody che mi venne incontro.
Lo osservai mentre si avvicinava e mi stringeva la mano e ricambiai il gesto.
«Dov’eri finita?» mi chiese facendo segno di seguirlo dietro al bancone, dove registrava il conto di alcuni clienti.
«Avevo avuto da fare...» accennai. Dietro di lui scorsi un ragazzo alo e magrissimo, con dei baffi alquanto buffi. Era uno di quelli con cui eravamo stati la sera precedente, forse Will o una cosa del genere non ne ricordavo il nome.
«Beh, pensavo fosse successo qualcosa... Dan era tornato a casa di Will da solo e si è ubriacato, di nuovo.»
Sgranai gli occhi. «Di nuovo?»
Annuì. «Siediti pure, mentre aspetti che torni.»
Mi accomodai su quella sedia di cui ancora non sapevo il nome alta e senza schienale, poggiando i gomiti sul bancone. Mi guardavo intorno ogni tanto e poi tornavo a fissare la scatolina quadrata che uno degli amici di Dan portava in mano, e dovevo ancora capire come si chiamasse. Quello con i baffi strani si era avvicinato accennando un sorriso, per poi prendere tra le mani un bicchiere pieno di un liquido giallo scuro, tendende all’arancio. Mi tese la bottiglia, come per chiedermi se ne volessi assaggiare. Scossi il capo e tornai a guardare l’aggeggio che l’altro aveva in mano. Ogni tanto mi lanciava occhiate, e poi tornava a fissare lo schermo luminoso. C’era una mela con un morso sul retro della scatoletta, chissà cosa indicava. L’uomo pensò sicuramente che stavo guardando lui e non l’oggetto, e si avvicinò sedendosi accanto a me. Non capii con quale coraggio mise una mano sulla mia coscia e mi scostai leggermente, facendogliela togliere.
«Come va, Rachel?» domandò facendomi sobbalzare. Ridacchiò.
«Bene» freddai. Non avevo altro da aggiungere.
«Ti va di uscire questa sera?» insistette, si faceva pesante.
Scossi le spalle. «Ho altro da fare.»
«Del tipo?»
Involontariamente sbuffai. «Ho di meglio da fare.»
Lo vidi con la coda dell’occhio fare un’espressione triste, ma in quel momento ero terribilmente in ansia per Dan, non sapevo dove fosse e niente meno lui sapeva che io fossi lì.
Quando Woody passò richiamai la sua attenzione, e si voltò subito.
«La stanza di Dan è ancora libera?»
Mi osservò confuso. «Sì, perché?»
«Mi ci potresti accompagnare? Lo aspetto lì. E potrei sistemare le mie cose.»
Mi fece cenno di seguirlo. «Certo, vieni.»
Si fece spazio in un corridoio poco lungo che si apriva a varie stanze dalla quale uscivano dell persone fino ad aprire una stanza, con una targhetta che indicava un numero: 47. La stanza di Dan era il numero 47. Era una cosa paranoica, ma 47 era la somma della mia età più quella di Dan. Stavo impazzendo, avevo bisogno di vederlo subito. Woody mi lasciò una cosa di metallo che sembrava poter aprire la porta, una chiave di metallo forse. Aveva una forma stranissima, era liscia da un lato e seghettata dall’altro, come un coltello. Uscì dalla stanza e chiuse la porta, e mi sedetti sul letto sul quale era iniziato tutto. Mi venne in mente la sera in cui ero arrivata in quell’Inghilterra antica e poco sviluppata, in cui ogni cosa non si doveva dare per scontato, in cui anche la temperatura troppo bassa ti portava a fare cose di cui ti saresti pentita. Del tipo, abbracciare una persona sconosciuta, innamorandotene, essere costretta a separarsi e soffrire. Ma ora ero lì, di nuovo, ad aspettare che tornasse. Accarezzai quel materasso sul quale mi ero stesa e avevo cercato di dormire e resistere al freddo fingendo che quella voce così calda e insistente non esistesse. Ma non avevo resistito. Mi piaceva sentirlo parlare, dopotutto. Mi era piaciuto vederlo tenermi stretta contro di lui, anche quando mi aveva detto che ero stupenda, mi era piaciuto tutto di quella notte e mezza giornata. Quando mi persi per la prima volta nei suoi occhi. Quando le mie labbra incrociarono le sue per la prima volta. Tutto era successo in quella stanza, e non sarebbe di certo finito. Era la nostra stanza, dove finalmente avevo conosciuto l’amore di cui, per quanto orribile sia innamorarsi per la maggior parte delle persone, non potevo più farne a meno.
Immaginavo me, ritornata a casa con un’esperienza fredda e quasi inutile che non avrebbe smosso la mia vita, e che non sarebbe di certo servita a strapparmi da quella bolla di solitudine che mi ero creata e dalla quale nessuno tentava di farmi uscire.
La profondità dei miei gesti nei confronti di Dan, tutte le mie insicurezze e la paura di perderlo si erano concentrate tutte nella mia testa, facendomi innamorare di una persona che nemmeno conoscevo, di cui sapevo solo il nome e l’età. Una persona che con niente, quasi uno schiocco di dita, mi aveva stravolta, così, in poche ore. Faceva paura, era quasi ridicolo il modo in cui credevo di amarlo, ma era pur vero che avevo a disposizione troppo poco tempo per starci a pensare, e immaginare di dover aspettare a lungo prima di instaurare un sentimento vero e vivo nei suoi confronti mi aveva solo fatto accellerare i tempi.
Mi stesi su quel letto che senza qualcun altro non avrebbe avuto alcun significato, quel letto che racchiudeva le notti in bianco e le sbronze di Daniel Campbell Smith sulle quali non ero quasi per niente d’accordo. Mi mancava Dan. E più respiravo l’odore di quella stanza più mi accorgevo che era lontano.
Due colpi veloci e duri sulla porta mi fecero rizzare subito a sedere sul letto. Rimasi a guardare la porta in silenzio che si apriva lentamente e una voce invadeva quello che era lo spazio solo mio, di Dan e dei ricordi. I ricordi di noi due.
«Posso entrare?» chiese.
Annuii consapevole che non mi avrebbe vista. «S-sì... entra.»
Quando la faccia un po’ barbuta dell’amico di Dan e Woody si fece spazio in quella che era una stanza intoccabile, mi salì un groppo in gola. Non avevo proprio voglia di vederlo.
«Carina» commentò guardandosi intorno. Sbirciai dietro di lui per controllare se ci fosse qualcuno.
«Che c’è?»
Ridacchiò. Inziavo ad odiare quella risatina. «Siamo un po’ acidelle oggi, eh?»
«Non sono dell’umore giusto per iniziare una conversazione tranquilla.»
Si sedette accanto a me e lo guardai come se volessi ammazzarlo per aver profanato quello che era un letto sacro, che non doveva essere toccato da nessuno, era proprietà mia e di Dan. Sperai gli cadesse qualcosa in testa per aver compiuto tale gesto.
«Ascolta, Dan non tornerà questa sera. E nemmeno al prossima e neanche la prossima ancora. Dan è un tipo... sai di quelli che vanno alle feste, si ubriacano e poi, come in ogni festa, c’è sempre quella volta in cui ci si porta, ehm, a letto una ragazza.»
Lo fissai con tutto l’odio possibile. «Dan non... non è...»
«Hai intenzione di ribattere tu che lo conosci da un giorno a me che lo conosco da una vita? Dan è un donnaiolo, ogni sera lo vediamo con una ragazza diversa. Non per niente non ci ha tenuto nemmeno a presentarti a noi, alla vigilia di Natale.»
Strinsi i pugni. Non sapevo più cosa dire. Aveva ragione, io non lo conoscevo, non sapevo chi era Dan, non sapevo se era vero che ogni sera si portava una ragazza diversa a casa e soprattutto mi era rimasta impressa quella sera a casa di questo tizio di cui non sapevo nemmeno il nome.
«Anche Kyle lo sa. Anche Woody. Tutti conosciamo Dan qui, noi sappiamo chi è e che cosa fa alle ragazzine come te» si fece drammatico, quasi che gli facessi pietà. Dovevo avere uno stato davvero orribile, ma niente era come devastato come il mio essere interiore, così pieno di dubbi e di speranze non confermate, tutte le paure che si avveravano e la mia testa che andava in tilt insieme ad ogni cellula del mio organismo. Mi sentivo completamente idiota. Inutile. Presa in giro.
Lui, che quindi era Will dato che aveva nominato quello coi baffi strani col nome di Kyle, aveva fatto un sacco di smorfie da quando lo avevo visto per la prima volta, ma del fatto che Dan di portasse sempre ragazze con sé mi aveva davvero scioccata. Mi aveva aperto una ferita e una nuova preoccupazione. Magari io ero lì, che dormivo, e lui rintanava con una ragazzina diciassettenne che nemmeno conoscevo.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?»
Nonostante un primo momento di confusione, cercai di capire il senso di quella frase, ma non gli chiesi niente e rimasi zitta a fissare il vuoto. Non volevo piangere. Eppure lo feci. Mi dimostrai debole, ancora una volta, e adesso davanti a una persona ancora più sconosciuta e inquietante, che sembrava volere le mie grazie ma di mio avrebbe ricevuto una scarpa dritta in fronte.
«Ho capito, sei rimasta scioccata.»
Trovai le parole per ribattere. «Tu non eri con Dan quella sera... non sai cosa diceva.»
«Non ero con lui quella sera, ma ci sono stato tutta la vita. E le puttanate che diceva a te le diceva a chiunque altra. Non sei né la prima né l’unica, tesoro, lo ha fatto con tutte, e molte di voi hanno sofferto parecchio.»
Mi morsi un labbro. Lo avrei ammazzato di botte questo idiota di fianco a me. «E come si consolavano?»
Tossicchiò e sgranai gli occhi. Lo guardai con più terrore che confusione e sollevò le spalle.
«Beh, poi venivano da me.»
Il suo sguardo si era assottigliato troppo. Ora avevo paura. Mi faceva paura quella persona con così pochi scrupoli che ora provava a voler uccidere interiormente anche me, mi facevano paura lui, Kyle e Woody. Dan prima di tutti. Dan più che paura mi aveva suscitato un’enorme confusione, e una disperazione tale da zittirmi completamente. Altrimenti avrei avuto la forza e il coraggio di sputargli in faccia. Ecco com’erano loro. Un ammasso di malati alcolizzati. Lui e Dan spiccavano in alto. Kyle e Woody ancora non li conoscevo bene, ma nascondevano anche loro una mente così patetica e opprimente.
Ero totalmente a disagio. Lo avrei preso a schiaffi se ne avessi avuto la forza. Avrei preso a schiaffi Dan se lo avessi visto. Tutti, avrei preso a schiaffi tutti.
Un rumore di bottiglie e una risata forte si stagliò nel corridoio. Una vocina femminile echeggiò prima della porta, e quando si spalancò credetti di svenire. In compagnia di una bionda qualche centimetro più alta di lui e qualche chilometro più magra di me, entrò l’ultima persona che in quel momento avrei voluto vedere. Si arrestò sulla soglia e io mi alzai. La gallina starnazzante smise di ridacchiare e singhiozzare. Guardai Will, ancora seduto sul letto, e piantai gli occhi nei suoi che avevano ancora quel blu inconfondibile, stonato dalle venature rosse provocate dall’alcool, dal fumo, da tutto.
I miei erano rossi dal pianto. E dalla paura. Ci guardammo per un po’ e poi scossi il capo, lasciando la stanza in lacrime.
«Buon divertimento» sussurrai prima di uscire da quel posto maledetto e piangendo come non mai.
Non avevo preso la valigia, lasciai tutto lì in quella locanda dove non sarei mai dovuta entrare e corsi lontano, dove la macchina del tempo mi lasciava ogni volta, e mi sedetti lì accanto alla capsula, a patire la fame, la sete il freddo. Non mangiavo da oltre due giorni. Ero debole e stanca, mi sentivo piombare il mondo addosso. Sperai di morire di fame, o di freddo. Mi rannicchiai su me stessa cercando di non lasciare che il calore che il corpo emanava sparisse del tutto e chiusi gli occhi.
 
Riaprii gli occhi lentamente, temendo di farmi male con la luce lieve del sole mattutino. Avevo dormito qualche ora, la sera precedente il mio screen che segnava l’orario indicava le due e mezza di notte. Lo riguardai ed erano le sette del mattino del giorno 26 dicembre.
Non mi ero accorta di quanto gelo ci fosse, le mani erano diventate bianche e i capelli si erano letteralmente gelati. In più avevo una fame assurda. I crampi allo stomaco ogni tanto si facevano sentire per ricordarmi che dovevo mangiare qualcosa prima di svenire. Fui tentata di andare alla locanda e chiedere a Woody se avesse qualcosa in menù, ma mi si erano congelate le gambe. Sospirai e guardai il neurofono, non funzionava. Provai ad alzarmi mettendo la mano sul metallo freddissimo della capsula e quando fui in piedi ebbi un capogiro fortissimo. Ero disidratata, affamata e infreddolita, quasi ibernata. Provai a camminare verso la locanda ma più volte inciampai e mi rialzavo procurandomi delle fitte dolorosissime alle gambe. Ma nonostante tutto, non me ne fregava niente. Dopo Dan, sapevo che niente mi avrebbe fatto più male di quanto me ne aveva inferto lui.
Mamma aveva ragione, diventava una cosa brutta quando l’altro non ricambiava, e la mia vita sarebbe stata un inferno. Lo stava diventando.
Finalmente raggiunsi la porta di legno che lasciava accedere al locale, e quando entrai mi venne un forte starnuto che quasi mi spezzò le vene del naso. Woody si voltò di scatto.
«Ehi stai... stai bene?»
C’era caldo in quella locanda, e fu un enorme sollievo. «Non credo.»
«Mettiti davanti al camino, ti riscaldi. Ma che diamine hai fatto? Hai dormito fuori?»
«Letteralmente» biascicai provocando una sua leggera risata.
«Non farlo più, è pericoloso. Non sai mai la gente che gira da queste parti.»
Annuii in segno di approvazione, triste. «Gente tipo Dan...»
Lui smise di sorridere in una frazione di secondo. Si schiarì la gola. «Hai visto ieri sera, forse.»
«Non forse, Chris, l’ho vista.»
Si sedette accanto a me vicino al camino. Quelle fiamme così libere mi avrebbero spaventata, e invece erano solo la mia salvezza, il mio unico conforto. Ormai l’unica cosa che avrebbe potuto riscaldarmi. Nemmeno a Dan l’avrei permesso. Neanche da sobrio si sarebbe meritata una sola delle mie parole.
«Era ubriaco, lui non s-» cercò di giustificarlo.
«Non difenderlo» alzai la voce «non merita la mia comprensione.»
«Non sai perché ha fatto così» insistette, ma ogni parola che andava a sua difesa era vana.
«Will mi ha detto che tipo di personaggio è, e di certo non ha detto cazzate.»
Sospirò. «Will dice cazzate. Lo fa con tutte le ragazze che Dan gli soffia da sotto al naso. Ma non perché se le porta in camera ogni sera, lo fa solo quando è ubriaco.»
«Quindi accade spesso» gemetti.
«Ti sbagli» mise una mano sulla mia spalla, ma non feci nulla per spostarla «lui non lo farebbe per fare un dispetto a te. Non immaginava nemmeno che tu tornassi. In qualche modo doveva andare avanti.»
«Si è arreso troppo presto, Chris.»
«Woody» mi corresse «e poi non si è arreso.»
Tirai sul col naso. Mi ero quasi completamente riscaldata, i capelli si erano scongelati bagnandosi di acqua, ma il fuoco li asciugava.
«Hai fame?» chiese per cambiare discorso. Annuii. Si alzò da vicino a me e andò dietro una porta accanto al bancone, uscendone pochi minuti dopo con un piatto con sopra un panino farcito di hamburger, insalata e pomodorini.
«Ti va bene o sei vegetariana?»
Risi. «Mi va bene qualunque cosa.»
Sorrise e si allontanò lasciando il piatto accanto a me. Presi in mano il panino e lo divorai in poco tempo. Il mio stomaco aveva smesso di brontolare e la mia vista non era più stanca e offuscata, si era ripresa, l’unica cosa che mancava era il sonno, un sonno privo di tremolii e di freddo. Perciò chiusi gli occhi e poggiai la testa contro i mattoni rossi.
Sentii una porta cigolare e sobbalzai, ma sicuramente era Woody che faceva avanti e indietro per pulire il locale e aprirlo al pubblico. Richiusi gli occhi e sospirai profondamente.
Dei passi frettolosi si erano fermati di colpo, e mi chiesi, senza guardare, chi fosse. Poi aveva ricominciato a camminare, avvicinandosi di più e il mio battito cardiaco sembrò rifiutarsi di continuare a pulsare. Un’ombra si fermò proprio davanti a me, un respiro caldo, che sapeva di alcool, lo sguardo addosso. Non mi ci volle molto a capire che se avessi aperto gli occhi lo avrei visto e sarei morta di spavento e di emozione allo stesso tempo.
Il dorso di una mano attraversò la mia guancia. Un rumore sconnesso e strozzato come un singhiozzo mi arrivò alle orecchie. Decisi che dovevo aprire gli occhi. Non volevo che se ne andasse. Woody aveva ragione, lui non era quello che Will descriveva. Will diceva cazzate.
Sperando che non scappasse via aprii gli occhi, e lui, con il viso tra le mani, si nascondeva tutto quello che mi aveva fatta innamorare di lui: gli occhi, la bocca, il sorriso, le labbra. Notai una montatura nera con chiazze arancione chiaro davanti alle sue mani poggiate sugli occhi. Mi mossi un po’ e mi allungai verso di lui.
Con la mano gli afferrai il polso e spostai le sue dagli occhi. Erano ancora rossi. Ma stavolta c’erano le lacrime a prendere il posto dell’alcool e del fumo. Ci guardammo per un po’, togliendogli gli occhiali da vista. E poi ruppe le distanze. Mi saltò addosso, mi strinse su di lui facendomi respirare a malapena. Non una parola, non un respiro, solo i gesti che compivamo dimostravano quanto eravamo distrutti. Io ero distrutta per colpa del freddo e lui per colpa della sua sbronza. Ci eravamo fatti del male a modo nostro, e potevamo curarci solo a vicenda.
«Non dovevo... non-» gemette ma gli tappai la bocca con una mano.
«Io me ne sono andata, è stata colpa mia.»
Spostò la mano senza lasciarla. «Non so cosa ti abbia detto o fatto Will ma in parte è vero. So cosa hai pensato quando mi hai visto entrare con quella... cosa. So che hai dormito fuori rischiando di morire ibernata. Sono consapevole di tutto e sapere che sono la causa principale di tutto questo mi tortura l’anima.»
Gli baciai il mento e lui tornò sulle labbra, intrecciando le mie dita con le sue. Sentire di nuovo la sua lingua sulla mia fu una sensazione strana quando confortante. Non era freddo. Era caldo. Mi stava riscaldando il cuore, dato che nemmeno il fuoco poteva farlo.
«Non me ne vado più, Dan» sussurrai staccandomi dal suo viso.
«Mai più?»
Scossi la testa. «Rimarrò sempre qui. Con te.»
Riprese a baciarmi, piano, ma ci stavo prendendo la mano e anche più dimestichezza. Controllavo ogni singolo movimento delle labbra e avevo capito come fare. Mi permisi di strappargli un morso al labbro inferiore e accellerò i movimenti. Mi afferrò dai polsi, mi sollevò e mi lasciò respirare un poco. Il mio cuore rischiava di finire dall’altra parte della stanza.
«Andiamocene da qui dentro, potrebbero arrivare clienti di Woody» mormorò tirandomi verso il corridoio  che portava alla sua stanza. Sarei svenuta per la troppa emozione.
Di nuovo quel letto, quello su cui avevo gettato le mie maledizioni e paure ora si trasformava in quello che aveva completamente serrato i rapporti tra me e Dan. Via i vestiti.
Al diavolo Kris e i suoi tentativi di non farmi ritornare nel passato.
Dei movimenti delle mani sempre più intimi.
Al diavolo Will e le cose che diceva tentando di andarmene con lui.
«Dan io non so come fare» sospirai in un misto tra eccitazione e preoccupazione.
«Tu stai ferma, faccio io» rispose con lo stesso tono.
Al diavolo tutto il resto che non fosse lui.
Qualche spinta, qualche gemito troppo rumoroso, un orgasmo appena distinto nell’aria, e poi il silenzio. Solo un paio di braccia che mi circondavano la vita e le dita che mi accarezzavano l’addome, delle labbra che si posavano sulla guancia e il caldo. Il conforto.
«Mi ami ancora?» dissi sottovoce.
Mi fece girare per trovarmi faccia a faccia con lui. «Non ho mai smesso di farlo.»
Serrammo quella promessa con un bacio e poi ci addormentammo, stretti l’uno contro l’altro. Riuscii per la prima volta dopo tre giorni a dormire senza sentire freddo.
 
 
 
Spazio dell’autrice
Beh, ragazze, sono tornata più ispirata di prima! Che ne dite? Will è stato cattivo, lo so, ma non è così davvero. Come ha detto Woody, ci stava solo provando con Rachel.
Coooomunque! Mi sento un po’ meglio, mi sono ripresa dal fatto che non posso andare al concerto anche se ci terrei davvero tanto, ogni giorno mi sveglio col pensiero di vedere i miei idoli dal vivo e ogni notte mi addormento immaginandomi sotto al palco a cantare con lui.
Che dire, recensite e ditemi cosa ne pensate.. sono sempre a vostra disposizione J se volete cercarmi su facebook vi darei volentieri il link del mio profilo, solo che ora non ho la connessione adatta.. scrivetemi via messaggio privato di efp se vi va e.. tornerò col prossimo capitolo! Vi abbandono per un po’ perché per ora sono PRIVA d’ispirazione, ma non mi arrendo e soprattutto non voglio deludervi.. Baci, Angelica.

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Capitolo 7
*** Domande ***


Stavanger, Norvegia, 27 settembre 3020
Avevano appena mandato in onda l’ultimo episodio di Viaggio Interstellare, ed era il mio programma preferito, attraverso il quale potevo scoprire i misteri dell’Universo ancora non svelati. L’ultima puntata raccontava di come i buchi neri potevano risucchiare qualunque cosa al proprio interno. Le attrezzature avanzatissime deli scienziati avevano permesso, nel secolo precedente, di spingersi oltre il Sistema Solare e oltre il braccio della Via Lattea che racchiudeva il nostro sistema, scoprendone altri. Molte missioni erano fallite, altre avevano fatto luce sui vari dubbi che l’umanità si poneva da millenni, per esempio se ci fosse altra vita nel cosmo oltre a noi. Sfortunatamente ancora non lo sapevamo, ma di certo gli esperti e gli astronauti avevano localizzato in un braccio della Via Lattea un altro pianeta similissimo alla Terra sia come vivibilità che come forma.
Mentre mi disperavo per la fine delle trasmissioni, il sonder suonò. Sperai che fosse mamma che tornava dal centro commerciale o papà che rincasava dal lavoro, erano già le dieci di sera e non mi avevano chiamata o avvertita del ritardo.
Perciò spensi il video trasmettitore che faceva vedere i titoli di coda del mio programma preferito e mi rintanai sotto le coperte, chiudendo gli occhi. Era una serata molto limpida, dalla finestra potevo scorgere molte stelle e continuando a fissarle mi chiesi de un giorno sarei potuta partire anch’io per lo spazio e scoprire tante cose che nessuno ancora era riuscito a scoprire. Riconobbi il Piccolo Carro, che era proprio di fronte a me e tante altre stelle grandi e piccole che si accumulavano o che brillavano in solitaria.
Sobbalzai sentendo dei rumori provenire dalla cucina. Probabilmente mamma o papà erano rientrati. Mi alzai per andare a vedere chi fosse dei due volevo chiedere loro di fare un salto da nonna l’indomani mattina.
Accesi la luce della cucina e vidi un uomo alto e magro, coi capelli brizzolati che maneggiava qualcosa che nascose subito dietro la schiena. Mi ci volle un altro po’ per capire che era mio padre e mi risparmiai un attacco di panico.
«Papà?» lo chiamai con aria interrogativa.
«Rachel» rispose sudando freddo, aveva tutta la fronte imperlata «che ci fai sveglia a quest’ora?»
«Non volevo perdermi l’ultimo episodio di Viaggio Interstellare» mi giustificai con innocenza. Lui annuì e vidi che stringeva qualcosa tra la mano, come una piccola boccetta, ma non afferravo di cosa si trattasse. Feci per andare verso il distributore di bevande per prendere qualcosa da bere ma poi cambiai idea e mi addentrai nel corridoio stretto di casa mia.
«Dov’è la mamma?» chiese prima che tornassi in camera. Tornai indietro un po’ di malavoglia e feci spallucce.
«Era al centro commerciale, diceva di non fare tardi» risposi.
«Hai provato a contattare il suo microchip?»
Sospirai. «Lo ha spento.»
«Ah» soffiò triste «beh non credo che farà tardi.»
Sollevai di nuovo le spalle e tornai in camera borbottando un ‘buonanotte’ molto tirato. Ero preoccupata per la mamma, ma ero davvero stupida a preoccuparmi per l’incolumità di un adulto che sapeva badare a se stesso. Ma cosa ne volevo sapere io, a diciotto anni, degli adulti? Magari erano anche più fragili di noi ragazzi.
Non dormii quella notte. Per la mente mi passavano sempre in mente i momenti in cui papà nascose quell’oggetto dietro di lui, quella cosa che sembrava una boccetta. Non ero stupida, l’avevo vista, ma dovevo ancora afferrare il motivo per cui nasconderla.
Gli stupefacenti erano vietati nel nostro Paese, insieme al fumo e qualunque tipo di dipendenza medicinale, il motivo per cui molte persone si erano suicidate. E non solo, la crisi che stava colpendo la Norvegia stava frantumando ogni speranza di sopravvivenza della popolazione. Erano in vista rivolte, ribellioni, tutti temevano un’imminente guerra civile. Papà era uno dei primi che si preoccupava di quello che potesse succedere, per questo a volte, tornando dal lavoro, invece di andare a casa andava alle riunioni coi partiti contro la dittatura che avevano instaurato i governatori alla nostra nazione.
Il concetto di nazione non era mai stato importante per me, non mi era mai importato tanto della Norvegia e del suo destino, non ero un patriota come mio padre, io cercavo di lottare per la libertà e disintegrare quelle leggi ridicole che il Governo imponeva per limitare il tasso di stupro, prostituzione e di droghe varie.
Lo stupro era una cosa psicologica, che si poteva evitare solo se da ragazzi si riceveva un’adeguata istruzione, non qualcosa che si faceva perché tanto non era contro a nessuna regola. Ma i governatori non lo capivano. I governatori credevano che imponendo leggi assurde le persone avrebbero contribuito ad un tipo di società migliore, ma che di migliorare non ne voleva sapere.
Troppe assurdità, troppe idiozie e leggi che andavano contro ogni concetto di normalità, nessuna precauzione per la sanità popolare e la sicurezza altrui, perché a pararsi il fondoschiena da soli non avevano nessun problema.
Un altro rumore di sedie che si muovevano nella cucina. Pensai fosse di nuovo papà, e non ci pensai.
Tornai a chiudere gli occhi ma niente, il rumore persisteva, sembrava un domino, si spostava una sedia e di conseguenza un’altra, e poi un’altra ancora, e si fermò solo dopo un paio di minuti che sembrarono ore.
Mi sedetti sul materasso e rimasi in ascolto di quel rumore così persistente. Una porta che sbatteva, una chiave elettronica che si poggiava sul tavolo e un gemito sconnesso. Ginocchia che si buttavano sul pavimento e il mio cuore che si dimenticò di continuare a battere. I muscoli si erano irrigiditi. Non riuscivo a muovermi. Qualcosa di vetro cadde per terra senza frantumarsi, e mi fece tornare a respirare. Mi mossi con velocità verso la porta ma non sapevo se aprirla o rimanere dentro ad aspettare e vedere come si svolgeva la situazione. Gli occhi si fecero lucidi e il naso bruciava. Tirai un altro respiro molto profondo e premetti il bottone per sbloccare la porta scorrevole che si aprì da sola e misi un piede fuori dalla stanza. Strisciai lentamente lungo il breve corridoio tenendomi schiacciata contro il muro freddo e raggiunsi la cucina, buia, spenta. Chiusi gli occhi strizzandoli e allungai la mano verso il sensore per accendere la luce. Con una passata con la mano tutta la stanza si illuminò di una luce azzurrina. Con le palpebre socchiuse e gli occhi appannati per il sonno e la stanchezza, avanzai dietro al tavolo dove vidi delle sedie spostate o poggiate per terra, le scarpe della mamma. Nient’altro.
Mi mossi silenzio verso l’angolo dove si cucinava, dove avevo avuto la mia breve conversazione con papà poco tempo prima, e c’era una boccetta, piccola, allungata, sembrava una di quelle presine che usavano gli scienziati per gli esperimenti chimici.
Tornò alla mente la mano di papà che la teneva chiusa. Non conteneva nessun liquido, ora. Era completamente svuotata. Una mano grigiastra si intravedeva da dietro l’angolo cottura. Dei respiri soffocati e dei colpi leggerissimi sul pavimento echeggiavano nella mia testa come un martello che mi dava sempre dei colpetti alle tempie.
Mi si bloccò il respiro. Così anche ogni capacità motoria e riflessiva. Strinsi il pugno e spalancai gli occhi. Barcollando, mi mantenni sul bordo del mobile e temetti di svenire.
Con una forza che non consocevo, mi piegai a raccogliere la boccetta vuota. Lo immaginavo. Gli occhi mi bruciarono, così il naso, e mi faceva male lo stomaco, si era bloccato qualcosa in gola e smisi di respirare per parecchi, anche troppi secondi che iniziò a girarmi la testa. I capelli biondo platino della mamma coprivano completamente il petto immobile della persona con cui avevo parlato poco prima.
Muto, con gli occhi semichiusi che non si muovevano, le labbra che non facevano entrare o uscire aria, non respirava, era una mummia.
Le spalle di mamma si muovevano leggermente come tremando, i capelli vibravano, e quando alzò la testa mi guardò prima i piedi coperti da un paio di calzini e poi la mia faccia sconvolta. Lei non era da meno. Quel poco di trucco che aveva era finito sulle guance. Ci guardammo negli occhi per poco tempo e poi le mie gambe cedettero, lasciando che la mia vista si annebbiasse totalmente lasciando spazio solo al nero.
 
Stavanger, Norvegia, 3 ottobre 3020
«Andrà tutto bene, mamma» le sussurrai strofinandole il braccio.
Lei singhiozzò più forte, quasi venne da piangere anche a me. «Ma io non so cosa ti potrebbe capitare, non so se starai bene, non so niente...»
La abbracciai più forte e le diedi un bacio sulla fronte. La lasciai alle mani di zia Kharen e salii sull’aerobus con una valigia in mano, seguita da qualche altra signora che partiva per Oslo.
Non ero pronta a farmi una nuova vita senza i miei genitori, ma mamma aveva bisogno di cure psichiatriche e io avevo bisogno di solitudine. La morte di papà non finì nemmeno sui giornali, né venne trasmessa in video trasmettitore, fu una morte silenziosa e privata, e forse era meglio così. Da un lato me l’aspettavo, dall’altro avrei voluto non averlo mai scoperto, in un’altra opzione sarei voluta andare con lui.
Ma in un certo senso, la mia vita era appena iniziata e non potevo di certo perdere l’occasione di fuggire da quel posto pieno di oppressioni e di tristezza, una terra macchiata dal dolore e dal sangue di tanti uomini che cercavano la felicità trovandola solo nella morte.
 
Inghilterra, 27 dicembre 2013
Era tutto così uguale e monotono. Trovavo ogni singola cosa in quella locanda inutile e che si poteva utilizzare chissà per quali stupidi scopi, come quell’aggeggio in alto vicino alla porta grande e bianco con delle valvole che si aprivano e si chiudevano dalla quale usciva aria calda. Dovevano essere i riscaldamenti del ventunesimo secolo, ma non avevo idea di come si chiamassero. Mi alzai dal tavolo sul quale c’era una colazione insolita ma ottima e mi ci avvicinai a quella cosa, venendo travolta da un getto di aria calda e umida. Mi ritirai e tornai a sedermi davanti a Dan che teneva la testa tra le mani a fissare il piatto vuoto che conteneva delle paste rotonde e schiacchiate, che Woody chiamava frittelle. Erano deliziose, poi, con un condimento particolare che si chiamava sciroppo d’acero. Dan invece ci aveva aggiunto del cioccolato liquido, e sembrava molto più invitante. La cucina del terzo millennio non era poi così elaborata, specialmente in Norvegia, dove la crisi era alle stelle e le riserve alimentari scarseggiavano per tutti – tranne che per i potenti, ovviamente.
Il rumore della porta principale che sbatteva ci fece sobbalzare a tutti e tre: c’erano gli amici di Dan, Kyle e Will. Avevo brutti ricordi dall’ultima volta che avevo visto Will.
Si sedettero subito vicino a noi, Kyle accanto a Dan e Will accanto a me, e subito mi allontanai strisciando sulla panca in legno. Notai che negli occhi di Dan c’era un fuoco nei confronti dell’uomo seduto al mio fianco al quale io tentavo di svicolare. Sarei corsa dietro al bancone da Woody se non ci fosse stato un muro alla mia destra.
«Come vanno le cose?» chiese Kyle guardando prima Dan e poi me. Scrollai le spalle.
«Come sempre» abbozzai un sorriso. Colsi Dan con le mani nel sacco a fissarmi.
«A me non sembra» si mise in mezzo Will sporgendosi verso Dan che cercò di fulminarlo.
Lui si poggiò sullo schienale della panca senza distogliere lo sguardo dall’amico.
«Non ho intenzione di portare avanti questa storia, William» lo gelò.
Will dopo un secondo di serietà fece un’aspra risata che non mi andò giù. «Non mi chiami così dai tempi del liceo, Daniel.»
Poggiò l’accento sul suo nome per intero. Mi suonava così minacciosa la conversazione. Guardai Kyle che sistemava il cappellino di lana poggiato sui capelli e ricambiò lo sguardo. Sollevò le spalle.
«I-io non c’entro niente qui» mormorai alzandomi. Dan mi seguì con lo sguardo mentre scavalcavo Will e mi dirigevo verso l’uscita.
«Nemmeno io» sentii dire da Kyle che a sua volta sollevò il sedere dalla panca e mi accompagnò fuori.
 
Non scendeva nemmeno un fiocco di neve e i marciapiedi erano meno gelati del solito, una mattina piuttosto calda per essere in pieno inverno. Non avevo nemmeno bisogno di mettere una giacca, quella specie di maglione col cappuccio mi riparava abbastanza dal freddo.
Kyle mise le mani in tasca e passeggiò avanti e indietro lungo il marciapiede. C’era un palo abbastanza alto sul quale era affisso un cartello, grande e bianco, che comunicava il nome della cittadina in cui ci trovavamo: Congledon. Sembrava un nome carino se non facesse così freddo la notte.
Tirò un calcio ad una pietra grande quanto un pugno e finì dall’altra parte della strada. Osservai quel ciottolo rotolare fino a fermarsi sotto al gradino del marciapiede e tornai a Kyle.
«Noi non abbiamo avuto modo di parlare molto» disse avvicinandosi guardando ancora il sassolino immobile che aveva calciato.
Scossi il capo. «Ci sono stati dei gran casini questi giorni.»
«L’avevo notato.»
Ci zittimmo. Mi poggiai sul muro che proteggeva la locanda dalle intemperie e dal tempo atmosferico poco rassicurante e osservai il cielo nitido coperto da qualche nuvola qua e là. Era di un azzurro piuttosto vivo.
«Da quanto tempo frequenti Dan?» chiese rompendo quei pochi istanti di pace che mi ero creata, staccandomi da ogni tipo di contatto.
«Non... non ci frequentiamo. Cioè, ci siamo conosciuti per caso.»
Che stavo facendo? Mi stavo aprendo con una persona del tutto sconosciuta, che mi chiedeva cose assurde dalla prima volta che lo avevo visto, non sapevo nemmeno se le sue intenzioni erano come quelle di Will oppure era dalla mia parte come Woody. Ormai non sapevo più nemmeno da che parte stesse Dan. Mi faceva paura, come tutto il resto, ma per nulla al mondo io sarei tornata nel terzo millennio, avrei solo sofferto di più.
«Capisco» sospirò.
«Tu da quanto lo conosci?»
Si stiracchiò ma poi rimise subito le mani in tasca, forse perché sentì freddo. «Siamo amici da una vita noi quattro, cioè io e Dan ci conosciamo da forse quindici anni, sin da piccoli. Woody e Will li abbiamo incontrati strada facendo, al liceo, nei locali... Con Dan, Will ha sempre avuto qualche controversia e battibecco.»
Mi sporsi per ascoltare meglio. «Perché?»
Fece una risatina. «Dan è quello che tutti noi riteniamo il “donnaiolo” del gruppo. E Will cercava di soffiargli il posto.»
Rabbrividii. «Cosa vuoi dire?»
«Daniel non è quel genere di ragazzo che trova una persona, ci prova a stare insieme, aspetta sempre di trovare il momento e la donna giusta. È strano ma... è l’unico del gruppo a ragionare così. Woody invece è il più sincero, ma non ha intenzione di aprire i rapporti con nessuno per ora, dice che gestire una locanda vuol dire avere un via vai continuo di gente simpatica e che gli piace molto... diciamo che nessuno di noi è impegnato, per ora.»
La storia di Dan non mi convinceva. Ognuno dei suoi tre amici la spiegava in modo diverso: Will andava completamente contro il nostro “rapporto”, Kyle diceva che era un donnaiolo e aspettava quella giusta e poi c’era Woody che tentava di dirmi che Dan era davvero innamorato di me. Ma nessuna di queste sembrava plausibile, né tantomeno assomigliavano minimamente a quelli che erano i pensieri di Dan. Ognuna di queste versioni dei fatti mi apriva un dubbio enorme, solo Dan stesso sapeva la storia, e per scoprire come le cose stavano davvero mi ci avrebbe fatto impiegare più del tempo che mi sarei aspettata, perché era un tipo chiuso e non sarei riuscita ad aprirgli la mente con così poco che ci conoscevamo. O come aveva definito Kyle, frequentavamo.
«Kyle, conosci bene questa città?»
Mi squadrò con aria interrogativa. «Sì, perché?»
«Mi piacerebbe farci un giro, ti andrebbe d farmi da guida?»
Fece un sorriso luminoso quanto imbarazzato, e annuì contento.
 
 
Writer’s wall
Bene bene plebee, sono tornata! I’m back! Purtroppo per voi muahahahah c’:
c’è da dire che ho avuto parecchio da fare questi giorni e ne avrò fino all aprossima settimana, quindi pubblicherò i capitoli più lentamente rispetto a poco tempo prima e questo mi duole molto ma spero di aumentare la vostra curiosità anche se non ci riuscirò mai nehehe.
Un ringraziamento particolare a Noemi (colei che qui su efp conoscete come shesunbroken e se non avete letto le sue storie vi costringo a farlo) che mi ha sempre appoggiata nella realizzazione della storia e che è sempre riuscita a non buttarmi giù, a Nives, Eva, Maria Luisa e tutte le stormers (e non) che mi sostengono sempre e mi seguono fedelmente!
Un bacio, Angelica.

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Capitolo 8
*** Gelo ***


Quella che sembrava la Congledon del ventunesimo secolo appariva così vuota ma piena allo stesso tempo. Era una città contraddittoria, perché appariva vuota ma ti riempiva dentro, non mi faceva ragionare con la mia testa e soprattutto non mi concentravo su quello che diceva Kyle sulla storia di quel posto e sul perché mi avesse portata lì. Troppo presa dai colori bianchi della natura, gli prestai attenzione quando nominò Dan, ma non diceva niente di importante e tornai a perdermi nel vuoto che intanto mi stava riempiendo l’anima di una sensazione nuova.
«...perché, sai, ogni cosa ha il suo valore, e come per te potrebbe avere valore quell’aggeggio che hai tra le mani per me ha valora questo posto.»
Trovai poco senso nell’ultima frase che avevo sentito. Mi guardai le mani ed effettivamente la spia del neurofono si stava illuminando, e quasi mi spaventai. Lo rimisi in tasca e finsi di continuare ad ascoltarlo osservandolo per bene.
«Tutto ha un valore, dipende da come vedi le cose» continuò distogliendo completamente la mia attenzione «Anche gli amici. Will ha valore per me, Woody anche.»
Sperai che continuasse quella frase nominando Dan, ma non lo nominò.
«Ogni singola persona che nella tua vita ti ha lasciato il segno, ti importerà fino alla fine di lui o lei. Come so che a te importa di... di Dan, dire che-»
«Non continuare» lo interruppi «Dan è un discorso a parte.»
Fece una risata lieve che mi convinse ben poco. «Ti sei fatta un’idea totalmente diversa di Daniel.»
Venni percorsa da un brivido dalla schiena ai piedi. Un dubbio enorme mi assalì la testa.
«Che tipo di idea?»
Si strinse il labbro inferiore con l’indice e il pollice, come per riflettere. «Vorrei dirtelo in poche parole, davvero.»
«Se è perché credi che io sia convinta di poter avere un... cioè... sono consapevole del fatto che io e Dan non staremo mai insieme.»
La sua risata stavolta fu più sincera. «Non intendevo quello. È che tu credi che lui sia misterioso, che ti nasconda chissà quante cose. Beh, ti sbagli, non nasconde proprio niente.»
Temetti di impallidire a quell’affermazione. Che cosa significava? Odiavo le frasi trabocchetto, mi riempivano di altri dubbi, sempre più forti, sempre più strazianti, odiavo il modo di parlare di Kyle. Ma del resto, dire che non nascondeva niente mi aveva solo tolto un peso. Sapevo che beveva, che si portava a letto un sacco di ragazze, ma sinceramente ogni versione dei fatti non sembrava avvicinarsi minimamente a quello che Dan stesso diceva.
La gente di quell’epoca diceva troppe cazzate, tutto era confuso e non c’era niente di certo, nemmeno per descrivere una persona.
Kyle riprese a camminare e lo seguii, senza che nessuno dei due aprisse bocca. Davanti a noi c’erano i boschi e qualche alta collina verdognola che si colorava leggermente di bianco, mi toglieva il fiato quel panorama, non avevo mai visto niente di così dal vivo in vita mia. La vita di città del terzo millennio mi aveva decisamente offuscato ogni immagine di una natura incontaminata, di spazi aperti e di libertà. A stento vedevo gli animali. Qualche uccello, gatti, cani ma non avevo visto nient’altro nella mia vita. Nei documentari pomeridiani in video trasmettitore ogni tanto facevano vedere le nuove specie conosciute e come si erano evoluti nell’arco di migliaia di anni.
«Ti sei ammutolita?» chiese improvvisamente sedendosi su una struttura bassa che assomigliava alle panche della locanda di Woody, ma con le travi più sottili e tutte vicine tra loro. Era qualcosa di impossibile da descrivere, sembrava anche instabile perché quando Kyle poggiò il suo peso si mosse un po’.
Scossi le spalle. «Non avrei niente da dire.»
Sorrise. «Puoi parlarmi di te, da dove vieni, la tua famiglia... ricordo che sei norvegese.»
Annuii.
«E perché sei in questo buco di paese? L’Inghilterra è piena di belle città in cui andare a vivere, non di certo qui, che basta una bufera e tutto viene distrutto.»
Non diedi una risposta, anche perché non avevo nessun buon alibi per giustificare la mia permanenza in quel posto, deserto, in continua lotta per sopravvivere.
Cercai di chiudere quella passeggiata lì. Senza una risposta. Senza dire altro di me.
«A volte vorrei tornare a casa» mormorai incrociando le braccia al petto, stringendomi per il freddo.
«Perché non lo fai?» suonò come un invito a farlo, ad andarmene, ma capii dopo che era una semplice domanda di curiosità.
«Non è facile» grugnii in tutta risposta. Era di nuovo quel momento in cui per tornare a casa avrei dato me stessa. Poi ripensai a Dan, alla discussione che stava nascendo nella locanda di Woody, e mi passarono per la mente poche ma dettagliate scene in cui si picchiavano, si davano pugni e calci.
Chiusi gli occhi e vidi Dan che aveva la peggio.
Will che rideva.
Poi li riaprii e Kyle mi scrutava con aria interrogativa. «Stai bene?»
Annuii, per niente convinta della risposta che avevo dato. «Ti va se torniamo indietro?»
«Certo» si strinse nelle spalle e mi fece segno di seguirlo, per poi mettere la mano in tasca. La temperatura si abbassava di nuovo.
Mentre camminavo, ebbi una specie di miraggio: mi sembrò di scorgere, dietro il piccolo mucchio di case, un vortice, grande, nero, che proiettava una quantità assurda di fulmini che si muovevano in modo circolare. Mi bloccai un attimo sperando di aver visto male, ma c’era davvero un vortice enorme, solo che Kyle non lo vide.
Mi venne un tuffo al cuore. «Kyle quanto siamo lontani dalla locanda?»
«È dietro quell’angolo, perché?»
Senza rispondere mi misi a correre da far sbalzare il cuore in gola, senza badare alle gambe che mi pungevano per il dolore e la testa che sembrava scoppiare, svoltai l’angolo e corsi verso la macchina del tempo, dove la capsula si stava smaterializzando. In alto, c’era il vortice che si assottigliava.
Addio ultimo viaggio di ritorno verso Oslo.
Kyle mi raggiunse quasi subito, temetti che vedesse quel fenomeno ma era tutto sparito quando mi arrivò vicino, e mi inginocchiai picchiando sul terreno.
Non doveva sparire, credevo restasse lì, che avessi una minima possibilità di tornare in caso l’avessi voluto, ma era volata via anche quell’occasione. Mi mancava la mamma. Senza di me non sarebbe andata avanti, lo sapevo, io in qualche modo riuscivo a sostenerla, e la nonna non avrebbe potuto fare niente. Immaginai Kris, al laboratorio, che si disperava, pensai a tutto quello che aveva fatto per me in questi vent’anni che ci consocevamo, a quanto mi aveva sostenuta, a come si era comportato dopo che mio padre si era suicidato, il sostegno morale, fisico e psicologico...
E io lo stavo ripagando facendolo preoccupare sempre di più. Avevo sì una mia testa, ma lui era come un padre, che avessi quindici o ventun’anni non gliene importava, ero pur sempre la ragazzina incosciente e irresponsabile che aveva cresciuto.
«Che ti è preso?» chiese col fiatone. Non risposi, continuai a picchiare il terreno facendomi male alle nocche, che intanto diventavano rosse, si sbucciavano, e alcune presero a sanguinare.
«No, no, no, no...» mugugnai.
«Andiamo» mi tirò su tenendomi da sotto le braccia, sforzandosi un poco «torniamo dentro, sperando che quei due non si siano ammazzati di botte.»
Il subbuglio nel mio stomaco aumentò sempre di più impedendomi di pensare lucidamente. Volevo solo urlare. Urlare a tutti quanto odiassi me e la mia testa di cazzo che non aveva fatto niente per non fare la cavia per quell’esperimento, per non farmi innamorare di uno stronzo di cui nemmeno mi fidavo, finire lì, nel bel mezzo del nulla, in balia di quattro uomini alcolizzati che non conoscevo e che potevano saltarmi addosso da un momento all’altro e farmi fuori.
Lo sconforto divenne un pianto, poi il pianto si fecero urla isteriche, le urla isteriche vennero seguite da una paura acuta che mi perforava ogni centimetro quadrato del mio corpo e la paura venne poi sostituita dal silenzio. Smisi di scalciare e di urlare, rompendo a Kyle i timpani e gli arti. Mi lasciò le braccia e smise di trascinandomi, lasciandomi seduta per terra davanti alla locanda e entrò sbattendo la porta.
Decisi che non sarei entrata. Che non avrei assistito alla scena di odio che tutti nutrivano nei miei confronti, ai problemi che causavo, agli scervellamenti, qualunque cosa, mi stavo innervosendo, avevo perso completamente ogni voglia di restare in quel posto.
Mi alzai, iniziai a camminare lontano asciugandomi le lacrime. Dei passi che correvano, delle braccia che mi circondavano, un respiro sconnesso, le mie unghie che graffiarono quelle braccia semiscoperte facendole ritrarre.
Ma nemmeno Dan mi avrebbe fatta calmare. Ce l’avevo con me stessa. E con il suo lato oscuro.
Al diavolo i lati oscuri della gente, al diavolo tutto. Non sopportavo nemmeno la mia immagine riflessa nei vetri delle case abbandonate.
Mi chiamò, ma non mi voltai. Tentò di bloccarmi, ma non mi fermai. Si mise davanti a me, mi abbracciava, mi accarezzava, ma non lo guardai. Distolsi lo sguardo sui miei piedi e aspettai che si spostasse.
Le sua voce era soffocata da qualche singhiozzo che non mi fece affatto pietà. «Io non so che ti prende, Rachel... cos’ho fatto?»
Rimasi zitta.
«Rachel... non puoi fare così.»
Senza alzare lo sguardo, decisi di dare una risposta adatta. «La macchina del tempo se n’è andata. Tu dici di essere pentito. Kyle dice che sei un donnaiolo. Woody dice che mi ami. Will dice che sono uno dei tuoi passatempi.»
«Nessuna di queste cose è vera.»
Alzai lo sguardo e piantai gli occhi nei suoi, impassibile, senza lasciar trapelare altro che un’enorme delusione. «Lo sospettavo.»
Feci per muovermi, ma lui continuò a tenermi ferma per le braccia. «Aspetta, non è vero che non ti amo, ma è difficile da-»
Non spostai gli occhi. Per la prima volta riuscii a guardarlo senza addolcirmi, era un disprezzo assoluto quello che volevo trasmettergli. Mi spaventai quando vidi dei segni rossi e sanguinei sulle labbra e vicino al naso, ma recuperai il controllo delle emozioni e gli urlai contro. «Non è difficile un cazzo, Dan!»
Esplosi, non ce la facevo più.
«Ma perché non lo vuoi capire? Io mi sento oppresso, non sono abituato a questo genere di cose, io sono uno spirito libero!»
Gli diedi uno spintone tale da fargli togliere quelle mani di cui non volevo sentire il tocco. «Tu non capisci un cazzo!»
«Sei tu che non capisci un cazzo, credi che io stia con te per dei stupidi giochetti che potrei fare con chiunque altra in questo preciso momento?» alzò la voce di troppo e sobbalzai, ma non mi lasciai intimidire. Il mio cuore rischiava di esplodere per la troppa paura e la troppa disperazione.
Non badai alle lacrime che scendevano, mi limitai a urlare e tirare fuori quello che avevo dentro. «Basta con le prese per il culo! Io qui non ci voglio restare, non voglio vederti, non so chi sei e non lo voglio sapere! Torna ad essere uno spirito libero, io contatto Kris appena posso. Vattene. Torna dentro a farti la ragazzina dell’altro ieri. È quello che sei più bravo a fare. Sparisci.»
Iniziò a piangere anche lui stringendo i denti. «Sei proprio cocciuta. Sai una cosa? Vaffanculo.»
Gli lanciai un’ultima occhiataccia e poi ripresi a camminare senza voltarmi indietro, perché di vederlo non ne avevo proprio voglia.
Eppure, sotto sotto, speravo che si rimangiasse quel “vaffanculo”, che mi fermasse, che mi dicesse di nuovo quello che aveva dentro e che io volevo scoprire. Ma non lo fece. E il suo silenzio fu una risposta abbastanza plausibile per lasciarsi tutto alle spalle e provare a vivere davvero. Perché il nostro non era un vivere, il nostro era un non-morire.
 
Mi sedetti sul bordo di quella strada poco asfaltata, che brulicava di crepe e di pezzi staccati, gli alberi silenziosi, il vento calmo, il sole che si nascondeva all’orizzonte. Il buio che calava. Di nuovo. E io ero da sola, al freddo.
Non passò nessuno quella sera da lì. Nessuna casa accesa. Erano appena le otto e non c’era anima viva in giro. Nemmeno al mia, che era morta. Era rimasta sepolta dentro la testa di Dan dalla quale avrei fatto di tutto pur di uscirne, di non pensarci, di provare ad odiarlo nonostante volevo averlo vicino.
Mi decisi che era tempo di smettere di piangere, di pensare a cosa avrei potuto fare, provare a sopravvivere. Una bufera di neve mi travolse mentre proseguivo col cammino, ero esausta, affamata, non ce la facevo più. Era un periodo troppo difficile, avrei rischiato davvero di morire. Ma poco mi importava. Seppur avessi voluto, tornare a casa sarebbe accaduto solo nei miei sogni.
Io volevo andarmene, vivere a casa della nonna insieme a mamma e zia Kharen, ma poi cos’avrei fatto? Sarei tornata a rinchiudermi in una casa, da sola, in balia della solitudine, rintanarmi nuovamente in quella bolla di solitudine che tanto odiavo. E ora cos’ero? Da sola. Senza Dan, o Woody. Ero niente.
Mi riparai dalla bufera di neve incombente in un vicolo cieco, silenzioso, sembrava un cimitero. Non mi fece paura. Qualunque cosa fosse collegata alla morte non mi spaventava. L’unica cosa di cui avevo davvero paura erano quelle scheggie di sangue sul suo naso e sulle sue labbra. Il suo viso non poteva essere stato violentato così, non se lo meritava. Mi fecero male, forse più a me che a lui, perché sapevo che ero la causa di quelle ferite, per colpa mia avevano rovinato il viso più bello del mondo.
Non avevo smesso di amarlo, ma era cresciuta una profonda delusione.
E nel mentre vagavo nei pensieri, nel ricordo di un Dan sconosciuto che amavo, e poi di un Dan stronzo e che amavo anche di più, sentii dei passi dall’altra parte della strada.
Un brivido e un battito cardiaco troppo accellerato mi fecero quasi svenire, ma quando focalizzai la figura che camminava sul marciapiede quasi piansi, volevo mettermi a gridare il suo nome.
Strinsi i pugni e temetti di dimostrarmi debole, di correre da lui, abbracciarlo, perché mi mancava, ma resistetti, tornai a sedermi tappandomi le orecchie per non sentire la sua voce che mi chiamava, e chiusi gli occhi trattenendo i singhiozzi e i tremolii per il freddo eccessivo.
Odiai me e il mio organismo quando starnutii rumorosamente. Le urla di Dan si arrestarono, seguite da delle domande. Mi chiedeva chi ci fosse, senza ricevere risposte. Sapevo che lo chiedeva a me, ma lo sapevo solo io.
Non c’era nessun altro oltre a me lì vicino. I passi si fecero più vicini. Starnutii di nuovo e mi tappai la bocca per non farlo più, per non parlare o emettere gemiti di dolore.
«Rachel, dove sei?» la sua voce distrutta e soffocata era più vicina. Sperai non mi vedesse, o forse sì, magari speravo mi trovasse e mi portasse al sicuro.
Vattene, avrei voluto dirgli, vattene.
E infatti se ne andò. I suoi passi sfrecciarono verso un’altra direzione che non era la mia e tirai un sospiro di sollievo. Ma poi ripensai: che cazzo avevo fatto? Perché non ero tornata da lui?
Mi alzai in piedi con il rischio di morire sul serio e lo chiamai. «Dan!»
La figura in lontananza si voltò.
«Dan!»
Si guardò intorno e poi proseguì dalla parte opposta in cui mi trovavo io.
«Dan, sono qui! Dan!» urlai con tutta la mia voce, ma niente da fare, non mi sentì. Mi accasciai per terra, stendendomi, in un pianto disperato, ma non sarebbe servito a nulla. Non mi restava altro che chiudere gli occhi e sperare di non riaprirli mai più.
Pensai di nuovo a mamma e Kris. Avevo voluto loro bene. Davvero. Pensai a papà, mi chiesi se lo avessi incontrato, se ci saremmo rivisti quando avrei lasciato quel posto pieno di orrori e di sofferenze. Io e papà avevamo una cosa un comune, il dolore ce lo cercavamo.
Qualcosa mi toccò, pensai fosse il momento di lasciare davvero il mondo. Pensai sul serio di morire, quando degli schiaffi sulla guancia mi fecero riaprire gli occhi di scatto.
Non vidi nulla, solo un mucchio di neve bianca che cadeva giù dal cielo. La strada che si allontanava come saltellando, andando su e giù, il vento che mi graffiava la faccia e i fiocchi di neve che entravano nel giubbotto, nelle scarpe, ovunque, rendendomi così più vulnerabile al freddo. Chiusi gli occhi ma un altro schiaffo mi impose di tenerli aperti.
Non ce la facevo. Dovevo dormire. Volevo dormire. Li richiusi e nonostante i continui scossoni, i pizzicotti, niente, mi rifiutavo di aprirli.
Poi avertii qualcosa di caldo, una folata di aria bollente, dell’acqua che si rovesciò sulla mia faccia. Sobbalzai e mi misi a sedere e ci impiegai un po’ a capire dove fossi e cosa stesse succedendo. Mi guardai intorno, due persone mi osservavano attente. Non riuscivo a focalizzare i visi. Socchiusi gli occhi e tornarono a pizzicarmi e tenermi sveglia. Mormorarono parole che non capii, ma al suono della seconda voce credetti di rinascere.
«Kyle, chiama un’ambulanza» impose.
«Ma non passano ambulanze da anni!»
«Chiamala, qualcuno deve esserci, cazzo!»
Mi massaggiai gli occhi con le mani e riuscii finalmente a vedere il volto di quelle due persone che conoscevo fin troppo bene.
Feci un profondo respiro, ancora intontita.
«Come stai?» mi toccò il primo uomo, quello con gli occhi blu, i capelli arruffati, con i segni violacei sulle labbra, quello di cui mi ero innamorata.
Scossi le spalle rischiando di cadere in avanti, ma lui mi tenne.
«Ci sono io, ci siamo noi. Non mi perdonerò mai per quello che ho fatto.»
Provai a mettere senso a quello che volevo dire e misi alle parole il loro giusto ordine. «Mi sono commmprs da stn...»
«Cos’hai detto?» sussurrò accarezzandomi i capelli.
«Sono st...» venni bloccata da un colpo di tosse violento che mi offuscò la vista per mezzo secondo.
«Kyle, cazzo fai qualcosa! Dov’è Chris?»
Guardai l’altro ragazzo, con i baffi strani, che maneggiava una scatolina bianca sulla qualche ci spostava l’indice e poi la portava all’orecchio.
«Non lo so, non so niente! Chiamo Will.»
Mi lasciò per un secondo il braccio per sfilargli di mano la scatolina. «Non azzardarti, io quel bastardo non lo voglio vedere.»
Dovetti concentrarmi per capire cosa si dicevano, ogni cosa era estremamente confusa, non capivo niente, vedevo solo Dan che si muoveva e si agitava a destra e a sinistra. Si metteva le mani tra i capelli, si mordeva le labbra scheggiate ancora di sangue, si massaggiava le tempie, a volte tossiva altre dava pugni sul muro. Non sapevo con quale forza mi alzai e lo abbracciai, appendendomi letteralmente a lui. Le gambe avevano ceduto. Ma Dan mi teneva salda, attaccata a lui, senza lasciarmi cadere. Mi poggiò di nuovo su una superficie in legno e mi ordinò di stendermi e di tenere un pezzo di plastica rettangolare, gonfio, pieno di liquido caldo sull’addome. Chiusi gli occhi e mi rimproverò.
«Non dormire!»
«Non ce la faccio...»
Si avvicinò di nuovo. Vidi ancora una volta le lacrime uscirgli dagli occhi. «Non dire che non ce la fai, peggiori solo la situazione.»
«Dan, sono stanca...»
«Non dire di essere stanca. Non puoi esserlo. Tu stai con me. Io sto con te. Stiamo insieme. Ma non mi mollare ora. Resisti, ti scongiuro, non dormire.»
Sapevo perfettamente che lo diceva perché se mi fossi addormentata il mio cervello avrebbe smesso di funzionare e sarei morta, sapevo che il “stiamo insieme” era per tenermi sveglia, sapevo che non lo voleva davvero. Una fitta mi salì da sotto la gamba e lanciai un grido acuto di dolore. Raggiunse la tempia. Mi scoppiava la testa. Sentii l’impulso di vomitare. Tossii violentemente, di nuovo, mi piegai in due mentre Dan buttava parole a vanvera che non capivo, disperandosi, e una folata gelida mi raggiunse la caviglia.
«Woody, che devo fare? Che devo fare?» singhiozzò Dan con la lucidità finita chissà dove.
Chris, sbucato sicuramente da fuori, rispose qualcosa che non capii, e mi decisi che dovevo mettere fine a tutto. Chiusi gli occhi. Provai a dormire.
Sperai davvero che tutta quella sofferenza che mi provocavo da sola e con cui contagiavo la persona che amavo giungesse al termine.
Le ultime parole che sentii prima di addormentarmi uscirono dalla bocca di Dan.
«Io la amo, Chris, non posso perderla.»
Sorrisi. Anche io ti amo, Dan.
Ma non feci in tempo a dirlo. La mia bocca si rifiutò di aprirsi. Poi il nero. E mi apparve l’immagine della mia epoca, del futuro, del terzo millennio. Oslo. La mia vita precedente. Ero tornata a casa.
 
 
 
Writer’s wall
Bene, giusto due paroline. Innanzitutto mi dispiace per un commento negativo che ho ricevuto da parte di un recensore, io non avevo alcuna intenzione di copiare la scena intima di Dan e Rachel nel capitolo 6 da chissà quale altro libro. Mettiamo le cose in chiaro: io scrivo sul momento, e quando scrivo non leggo di certo altre cose che mi confonderebbero terribilmente; pertanto, il mio modo di scrivere è assolutamente spontaneo, figuriamoci se io all’inizio del capitolo 8 avevo intenzione di far litigare i due protagonisti!
Altra cosa, non avrei alcun motivo di copiare la frase di un altro libro, non è nel mio stile prima di tutto, e poi anche se lo facessi citerei, avviserei i lettori che è una frase/scena/quello-che-è non mia.
Ora la scena nel capitolo 6 che un recensore crede che io abbia copiato non la cambio, io dico che è mia perché l’ho scritta io senza alcuna intenzione di copiare nessuno, e se devo essere sincera il libro che si presume abbia plagiato non l’ho mai sentito nominare, ora pensate un po’ se copiassi le frasi.
So che in parte è una cosa brutta e che il mio sembra un atto irrispettoso nei confronti di questo autore che io non conosco a cui ho “copiato” una scena, ma è pura autonomia, io mi gestisco come mi pare e sicuramente non cambierò una parte di storia che piace molto a me e alle mie lettrici e lettori solo perché l’ha già scritta qualun altro. Non sto pubblicando un libro in una casa editrice, anche perché so che EFP è un sito libero, sempre rimanendo sotto le regole dell’amministrazione eccetera.
Ripeto, se non lo avete capito, copiare da qualcuno è una cosa che non succederà mai, a meno che non divento pazza o stupida o priva di fantasia, cosa che sicuramente non mi manca nemmeno un po’.
Quindi tanti saluti all’autore di “Viaggi di nozze” che non conosco ma che sicuramente ha fatto un ottimo lavoro e lasciatemi scrivere in pace. Non chiedo nient’altro. Rinuncio a cinque ore di studio pomeridiane per scrivere questi benedetti capitoli che mi escono chissà da quale parte oscura della mia mente e dai risultati a scuola si vede che il mio tempo lo passo su questo computer a consumarmi le dita.
Tornando alla storia, spero di avervi sopresi un po’, ero davvero a corto. Il nono capitolo ce l’ho già in mente come iniziarlo ma cambierà di sicuro perché sono fatta così. La storia la decido sul momento, non la progetto prima.
In conclusione continuate a recensire, spero diventiate sempre di più, e che le prossime recensioni negative siano costruttive e che mi servano a crescere, perché onestamente accusarmi di aver copiato senza averne la certezza non mi serve a crescere, è totalmente inutile.
Detto questo, spero che mi critichiate per quello che scrivo, non per quello che SECONDO VOI ho fatto. Il mio stile di scrittura è assolutamente autonomo.
Tengo a precisare che per qualunque dubbio potete contattarmi su facebook, il link del mio profilo è sulla mia pagine EFP, in messaggio privato premettendo che siete miei lettori e potete chiedere qualunque cosa, sono disponibilissima a tutti.
Chiedo perdono per lo sfogo, ma ci tenevo a dirvi questa cosa.
Copiare è l’ultima cosa che farò in vita mia, dovesse cadermi il cielo sulla testa.
Un bacio, Angelica.

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Capitolo 9
*** Luce ***


Oslo, Norvegia, 8 ottobre 3020
Mi sorpresi di me stessa di essere così eccitata ma spaventata al tempo stesso dell’idea di essere da sola, a cercare un posto dove dormire, mangiare, insomma, non sapevo da dove iniziare per farmi una nuova vita.
Avevo parecchi soldi sul mio conto, soprattutto dopo la morte di papà, l’assicurazione sulla vita – era importante di questi tempi, molte persone perdevano la vita – mi aveva lasciato altri diecimila graks e potevo considerarmi sistemata per un po’.
L’aerobus si fermò e si aprì la scala sottostante per far scendere i passeggeri. Ero arrivata a Oslo. L’ansia, che brutta compagnia. Ancora mi chiedevo dove sarei potuta andare.
Chiamai un aerotaxi ma era occupato ma una coppia giovane appena sposata. Che fortuna, dissi. Erano due uomini, e immaginai che fosse molto più facile essere omosessuali per sposarsi. Gli uomini come si avvicinavano un po’ a me, o venivano multati o li condannavano a due nottate in cella. Bel paese libero, avrebbe detto qualcuno del passato.
Mi incamminai per le strade per i pedoni e finii in un quartiere dove erano poche le auto volanti che circolavano, giusto qualche aerotaxi che si fermaca sotto le residenze delle persone. Tossii quando mi arrivò una folata di vento gelido, e aumentai la temperatura del cappotto per riscaldarmi. I riscaldamenti automatici della città non erano ancora accesi, eppure erano già le nove del mattino.
Nessuno era mattiniero ad Oslo, me lo avevano detto le persone che ci vivevo e le ragazze con cui facevo le Seconde Scuole, l’ultima ad essere obbligatoria. Avevo abbandonato la scuola finite le Seconde per dedicarmi di più alla scienza e alla scoperta di nuovi astri nello spazio, di far avanzare la tecnologia. Frequentavo i corsi extra a Stavanger, sempre costosissimi e che a mamma e papà costavano un occhio della testa, ma che mi avevano offerto parecchie prospettive di lavoro. Mi avevano parlato del laboratorio di Oslo, era un centro di ricerche avanzatissimo e che stavano lavorando su un progetto importantissimo.
Ci lavorava Kris, un caro amico di papà, che ci aveva sempre sostenuti e mi aveva trattata come una figlia sin da piccola, quando ci eravamo conosciuti.
Non mi aspettai di trovare Kris a bordo di una vettua volante, che si fermò proprio accanto a me. Per poco caddi per terra per lo spavento, avevo temuto il peggio.
«A cosa dobbiamo l’onore di avere Rachel Hetfield qui a Oslo?» mi sorrise aprendo la cappotta.
«Lo sai, Kris, non ho intenzione di essere un peso per la mamma ancora per molto» sorrisi a mia volta.
«Le peserebbe di più sapere che tu sei via e che non sa come stai, ma fai come ti pare, ti do un passaggio a casa tua...» si zittì, come in riflessione «Ma ce l’hai una casa?»
Scossi il capo e lui scoppiò a ridere.
«Allora credo che una visita al laboratorio non ti dispiaccia.»
Saltai nella sua vettura sul sedile posteriore, dato che la legge impediva di avvicinarsi troppo agli uomini. «Nemmeno un po’!»
Mise in moto e partimmo.
Oslo era tutt’altro luogo di Stavanger, era così avanti e così nuova, protetta e calorosa, tutto sembrava perfetto, che niente potesse andare storto. Kris prima disse che gli dispiaceva per papà, ma sapevo che lui era distrutto quasi quanto me. Forse anche di più. Io non ci avevo tenuto troppo, anche se era stata una perdita grave per me. Papà non c’era mai stato, forse avrei scambiato Kris per mio padre, dato che era più presente lui. Ma non aveva importanza, si andava avanti, e il suicidio era sicuramente una normalità con quella crisi.
«Possibile che non hai trovato ancora un appartamento?» chiese incredulo il mio amico entrando nel laboratorio che tanto sognavo di frequentare. Era altissimo, il soffitto lo vedevo a stento, tutto era così nitido e perfetto, solido, si collaborava alla perfezione e non vedevo l’ora di lavorare lì, anche come semplice assistente eccetera, solo a stare in quel luogo mi riempivo di gioia.
«No, non ho nemmeno guardato» ammisi ancora ammaliata da quello spettacolo.
«Beh io so che un ragazzo di circa ventitré anni che conosco affitta un appartamento non lontano da qui, costa poco ed è molto carino. Dovrebbero avere un’altra stanza disponibile per te, potrei provvedere io, che ne pensi?»
Mi strinsi nelle spalle. «Mi basta che sia qui vicino.»
Ridacchiò scuotendo il capo e mi fece strada verso il suo studio, dove faceva le ricerche più assurde che ancora non avevano portato risultati.
«Ma di cosa si tratta quel progetto misterioso di cui parlate tanto?»
Passò la mano davanti allo schermo del suo desktop tridimensionale, ai quali non assistevo tutti i giorni, e selezionò delle immagini, spronandomi a guardarle tutte. Era una struttura a forma di piramide a cui mancavano una porta, dei pezzi, era ancora da verniciare e dei meccanismi ancora si intravedevano attraverso quello che doveva essere l’accesso.
«Come ti sembra? È bruttina, vero?»
Risi. «Se devo considerare che rimarrà così, allora sì, è proprio brutta.»
«Oltre ad essere scienziati» disse orgoglioso «noi siamo maniaci della precisione e della bellezza esteriore.»
«Allora posso scordarmi di essere assunta?» ironizzai puntalizzando sul fatto di non essere molto bella.
Scoppiò in una risata sincera, dandomi dei colpetti sulla schiena. Quel laboratorio era l’unico luogo nel quale potevamo permetterci di ridere e scherzare senza preoccuparci di essere malvisti dalla legge.
«Se dovessimo contare sulla tua, di bellezza esteriore, allora stai certa che ti assumerebbero senza nemmeno chiderti se sei uno scienziato» rispose quasi fiero.
Arrossii violentemente. «Non dire queste sciocchezza, Kris.»
«Dicevi le stesse cose quattro anni fa, quando eri un’adolescente stupida e fin troppo curiosa. Credevi che nessuno ti volesse» puntualizzò sempre con il sorriso sulla faccia. Risi ricordando di tutte le cose che dicevo quando avevo quattordici anni, sulle mie paranoie di essere grassa e indesiderata, quando invece era il sistema e la legge che mi impediva di esserlo.
Le persone non potevano nemmeno consocersi con quel tipo di società, nessuno conosceva nessuno per paura di essere multato e le poche coppie di incontravano per caso. Oppure erano cugini tra di loro. Io avevo avuto la fortuna di avere due genitori che si erano innamorati per caso, e per davvero, si sposarono quasi subito e venni alla luce io.
Io, da sola, senza un fratello o una sorella, la situazione era talmente difficile che io diventai quasi un peso per loro. Ma sapevo che la mamma non si sarebbe mai pentita di avere una figlia come me, perché anche da piccola andavo ad aiutare lei con il lavoro e racimolare qualche soldo.
«Non ho ancora incontrato nessuno» risposi «ne sono ancora convinta.»
«Neppure io ho trovato qualcuno» sospirò quasi triste, ma riprese allegria «ma sono pur sempre un bel vecchietto!»
Risi. «A cinquant’anni non sei vecchio.»
Si intristì per davvero. «In questo determinato periodo ogni anno può essere l’ultimo. Ma cosa vuoi saperne...»
Scossi le spalle e afferrai uno dei dispositivi che rilevava la temperatura dell’ambiente e dei singoli corpi. La termocamera si accese e controllai se sul banco di Kris ci fosse qualche segno di vita, qualcosa che funzionasse, magari un robottino che prendeva vita o qualche specie sconosciuta. Mi ero già catapultata nel mondo della scienza. Sorpresi Kris a fissare i miei movimenti con un sorriso fiero sul volto, come se fosse stato merito suo che il mio carattere fosse così curioso e voglioso di scoprire sempre cose nuove. In parte era vero, lui mi aveva sempre spronata a leggere su Internet le varie enciclopedie virtuali sulla scienza e a guardare i documentari in video trasmettitore, ma era essenzialmente nel mio carattere trovare le cose più misteriose, analizzarle, scoprirle fino in fondo. Il mistero era la mia passione. Mi ero innamorata delle cose misteriose.
 
Congledon, Inghilterra, 31 dicembre 2013
Ero davanti a delle fiamme libere rinchiuse in una struttura di mattoni. Rimasi a fissarle a lungo finché gli occhi non mi bruciarono. Capii che mi ero appena risvegliata da chissà quale coma, che avevo visto in faccia la morte, che mi avevano salvata. Mi aveva salvata.
Ero coperta fino alla gola da delle coperte imbottite e caldissime, che quasi mi fecero sudare. Ma stavo bene lì sotto. Mi alzai lentamente, colpita da un forte dolore dietro la nuca, e mi guardai intorno con la testa che mi girava leggermente e lo stomaco che protestava per la troppa fame. Alla mia sinistra, c’era dell’acqua chiusa in una bottiglia in materiale plastico, un piatto in ceramica con dentro del cibo che non conoscevo ma che avrei divorato in un attimo.
Mangiai, bevetti, e tornai a stendermi in quel letto caldo che mi aveva fatta scampare dalla morte. Ancora non avevo capito dove fossi finita, non era la locanda di Woody né tantomeno la stanza di Dan.
Una porta in legno era semiaperta, e si intravedeva un salone con dei divani. Non c’erano rumori, solo un silenzio assoluto.
Avevo ancora indosso gli abiti con cui ero sprofondata in quello che era un coma terribile. Il neurofono era su una specie di tavolino quadrato, basso, con i cassetti, un piccolo comò. Lo afferrai e vidi che era l’ultimo giorno dell’anno. Mi ero addormentata per quattro esasperanti giorni.
Le scarpe che mi avevano tolto erano esattamente accanto al letto, ed erano sempre quel modello orribile a colori rosa e grigio, quelle scarpe con la scritta “Vans” che non mi piacevano nemmeno un poco.
Le infilai e camminai lentamente verso la porta aperta sperando che non mi sentissero. Avvertii una fitta alla vescica e dovevo assolutamente correre in bagno, non ci andavo da quattro giorni. Intravidi, di fronte a me, delle mattonelle bianche e aprii lentamente la porta, nel più assoluto silenzio.
Mi chiusi dentro senza fare rumore e mi svuotai, dandomi un po’ di sollievo; uscii dal bagno e continuai a seguire quel breve corridoio che portava a un salone che solo a vederlo mi fece venire un colpo al cuore.
Il tavolino basso, una sedia, un tappeto, quell’albero così strano e decorato che stava ancora lì, non si era mosso di un centimetro, la porta bianca sulla quale una persona si era poggiata impedendomi di uscire.
Era passata una settimana circa da quell’evento, eppure mi sembravano anni. Mi sentivo invecchiata, eppure più forte di prima. Sapevo che avevo passato esperienze che non avrei mai fatto a Oslo, nella mia epoca, e che non avrei di certo visto la morte in faccia.
Dopotutto non era stato così male. Avevo creduto di morire, ero finita in uno stato di pace completa.
Sospirai quando vidi quella sedia, dove mi ero seduta, quella stanza, il nostro primo litigio, il nostro primo vero bacio, l’ultimo posto dove ci eravamo amati prima di distruggerci a modo nostro, prima che partissi per Oslo.
Il neurofono si accese di arancione. Ma fu l’unico momento in cui preferii non dare mie notizie, non era importante, non ero in pericolo, stavo bene e non mi serviva contattare nessuno. E poi, sapere chi c’era dietro quella porta mi agitava troppo. Mi agitava al punto di non riuscire ad abbassare la maniglia fredda di quella porta. Una voce disse qualcosa, e l’altra rispose. Mi guardai intorno, incerta sul da farsi e rimasi impalata davanti alla porta anche quando si parì, presentandomi davanti un ragazzo alto e magrissimo con dei baffi strani e un cappelli di lana in testa che sobbalzò.
«Ma che ti salta per la testa?» si lamentò portandosi una mano al cuore, ma non avevo ancora la lucidità per reagire, specialmente quando vidi Dan affacciarsi dietro di lui. Ci pietrificammo entrambi, occhi negli occhi, uno più paralizzato dell’altro. Kyle si ritirò e rimasimo solo io e lui. Temetti di svenire.
Uno dei due doveva rompere il ghiaccio, o saremmo rimasti così per sempre, e fortunatamente fu lui che abbassò lo sguardo, distogliendomi dalla confusione di pensieri che avevo in quel momento. Mi ripresi dallo stato di trance e indietreggiai, al contrario di lui che avanzò, accorciando di troppo le distanze. Portava di nuovo quella montatura sugli occhi, e gli era cresciuta un po’ di barba rossiccia sul mento e lungo la mascella. Era invecchiato, proprio come me.
«Come stai?» sussurrò tirando su il naso.
Io, che dovevo ancora trovare la voce per parlare, feci segno con la testa di stare bene, come per dire di sì. Lui sembrò sollevato dalla mia risposta.
«Credevo non ti saresti ripresa più» ora la sua voce veniva soffocata dalla voglia di piangere «Pensavo che per colpa mia tu saresti morta... sono stato... sono stato la persona peggiore del mondo.»
Continuavo a contemplarlo senza dire una parola, ascoltavo la sua voce entrarmi nelle orecchie, finire nel cervello e devastarmi il cuore, dandogli una scarica elettrica come per dirgli “Svegliati, vivi, amalo!”.
Barcollai un po’, ma non smisi di fissarlo. Si passò di nuovo una mano tra i capelli. Era così dannatamente bello. I segni sulle labbra erano quasi del tutto spariti, ed era di nuovo il viso più perfetto esistente sulla faccia della Terra del ventunesimo secolo e del terzo millennio.
«Ero in preda alla rabbia, non sapevo quello che dicevo» singhiozzò, e osservai le lacrime che gli scendevano lungo le guance. Fu per me la cosa più sincera e dolce del mondo. Vedere un uomo piangere perché si sentiva in colpa di avermi fatto del male, mi segnò l’esistenza. Mi stava finalmente dicendo che mi amava, a modo suo, ma mi amava.
Non risposi, dovevo ancora trovare la voce che era finita chissà dove e stava attraversando l’oceano a nuoto prima di raggiungermi.
«Non me lo perdonerò mai.»
Tirai un profondo respiro e chissà da dove, ma mi uscirono le parole di bocca. «Ora basta.»
Quasi mi spaventai di come parlavo, non sentivo la mia voce da quattro giorni, non parlavo da troppo e mi sentivo come estranea a me stessa. Nemmeno mi riconoscevo.
«Il tuo neurofono funziona» mormorò asciugandosi le lacrime, mentre mi indicava la tasca che lampeggiava di un arancione tenue.
«Non ne ho bisogno» risposi guardando la tasca.
«Ho paura che tu possa fare pazzie senza di me» sospirò.
Lo guardai dritto negli occhi. «Perché sai già che te ne andrai?»
«Perché sono talmente stronzo da non sapere quello che faccio, ti danneggerei senza nemmeno saperlo.»
Non aggiunsi altro. Non avrei saputo dire altro.
«Ti fidi di me, Rachel?»
Era una domanda a trabocchetto, me lo sentivo. Se avessi detto sì, mi avrebbe usata, se avessi detto no, mi avrebbe abbandonata. Quindi in un modo o nell’altra io l’avrei perso comunque. Ma la cosa più ovvia ce l’avevo davanti. La risposta vera la sapevo.
«No, non mi fido.»
«Io ti amo, sappilo» mi accarezzò la guancia, lentamente, e rabbrividii a quel tocco. Forse per la paura. Forse non volevo che mi toccasse, temevo ancora una sua brutta reazione. Infatti mi spostai di poco e lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi.
«Non ne sono più così sicura.»
Mi meravigliai della mia freddezza, del modo in cui riuscivo a controllarmi, a dimostrare che non ero più debole. Vidi me e lui, nello specchio alla mia sinistra, in piedi, io che guardavo lo specchio e lui guardava me. Concentrai lo sguardo sul mio volto. Era rigato di lacrime.
Indietreggiai di colpo quando capii che stavo piangendo, e mi passai la manica della maglietta davanti agli occhi, asciungandomi in fretta.
Dan tornò a pochi centimetri da me ma non ci guardammo, preferii dargli le spalle e sperare che mi lasciasse in pace. Ma lo fece. Di nuovo. Mi cinse i fianchi da dietro, mi abbracciò come la settimana prima alla locanda di Woody, uno dei nostri primi abbracci, quello con cui mi aveva involontariamente detto di amarmi. Quella dichiarazione a cui io non credevo, che mi sembrava così inutile e affrettata, e lo era. Ma questa volta no, non era né inutile né affrettata. Fu il modo migliore di dirmi “ti amo” e trovai il modo di rispondere. Poggiai le mani sulle braccia, e mi lasciò un bacio sulla guancia. Mi beai del suo respiro sul mio corpo e socchiusi gli occhi.
«Se hai intenzione di abbandonarmi fallo ora, non illudermi oltre» soffiai.
Mi diede un altro bacio sulla guancia. «Non voglio abbandonarti.»
«Però vuoi illudermi.»
Avvertii i suoi capelli fare dei movimenti. «Nessuna delle due cose.»
Mi liberai di quella morsa e feci un passo indietro. Poggiai le mani sulle sue guance e accorciai le distanze fra le nostre labbra, esitando prima di baciarlo. Restammo a fissarci per un paio di secondi, e poi lui strinse le braccia dietro di me, stringendomi forte contro il suo petto, baciandomi come se non potesse fare nient’altro.
Di nuovo le lingue che si intrecciavano, i morsi sulle labbra, i respiri troppo corti, i cuori che rischiavano di espodere. Sentii di nuovo quell’intensa sensazione che mi suonava come una provocazione, come se lui volesse di nuovo fare l’amore, ma non glielo avrei permesso, non quella sera, non lì, perché ancora dovevo imparare a fidarmi e non sarebbe stato facile.
«Non posso lasciarti» soffiò tra le mie labbra.
«Non mi hai mai avuta» scossi il capo, lasciandogli un altro bacio a fior di labbra.
«Sicura?»
Mi suonò come una minaccia e mi allontanai di poco per guardarlo meglio. «Le cose che mi dicevi erano bugie, l’ho sempre saputo.»
«Sei folle, sei pura follia.»
«Ecco perché ti amo» sorrisi, tornando a baciarlo.
Strisciò il suo naso contro il mio, come si faceva con i bambini per farli ridere e fu la cosa più dolce del mondo. Arrossii quando lo fece.
«Basta prenderci in giro, so che non potrai mai amare un disastro come me, tu sei diversa da me» disse con voce roca.
Scossi di nuovo la testa. Non smettevo di baciarlo un attimo. «Sono io il disastro.»
«Sei il mio disastro, Rachel.»
«Probabilmente non per sempre» bacio «niente è per sempre.»
Rise. «Allora finché lo vorremo.»
«E tu lo vuoi, Dan?» chiesi speranzosa. Lui annuì e tornammo a baciarci, incuranti che non eravamo soli in casa.
Kyle finse di tossire per attirare la nostra attenzione, ci staccammo e risi di gusto, e io rimasi senza una risposta. Andammo nel salotto e ci accomodammo davanti al camino, con uno schermo piatto che trasmetteva i programmi come nel video trasmettitore, solo che questi erano bidimensionali. Ma non badai ai personaggi che apparivano su quello schermo, rimasi accoccolata sul petto di Dan, che mi accarezzava le guance col dorso della mano e ad ogni tocco socchiudevo gli occhi. Solo che non mi impedirono di chiudere gli occhi, stavolta, non rischiavo di morire dormendo. Non dormii, semplicemente gustai ogni attimo come potesse essere l’ultimo. Perché per com’era Dan, davvero ogni gesto poteva determinare la fine di ogni cosa.
Ma entrambi avremmo continuato a dire che ci amavamo anche se non era vero. Volevamo continuare a prenderci in giro, illuderci che saremmo rimasti insieme finché lo avremmo voluto. Ma lui non ne aveva l’intenzione. Non voleva stare con me, ma ci speravo ancora.
Si addormentarono entrambi. Kyle sembrava così innocuo quando dormiva. E Dan, Dan era la cosa più bella del mondo. Gli baciai il mento e mi alzai dal divano, andando verso la stanza nella quale mi ero ripresa.
Tirai fuori il neurofono funzionante dalla tasca e mandai un messaggio a Kris.
“Sto bene. Non credo che tornerò più.”
 
Writer’s wall
Buonasera a tutti! Allora, sono stata piuttosto veloce a pubblicare questi ultimi due capitoli... che ve ne pare? Ero particolarmente ispirata e scrivevo tutto il pomeriggio prima di andare a danza, sostituivo il mio tempo per scrivere allo studio (come sempre) per evitare di farvi aspettare troppo.
Beh, ho ancora poche recensioni, spero aumentino, io vi sprono a dire la vostra impressione, le vostre aspettative sul finale della storia, le osservazioni, magari qualche critica per la grammatica che lascia davvero a desisderare :’)
E niente, come sempre vi ringrazio tutti di essere così fedeli a questa cagatina di storia! <3 Ora vado a fare una partita a Call Of Duty.
Un bacio, Angelica.

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Capitolo 10
*** Disintossicamento ***


Dei soggetti alquanto buffi dallo schermo bidimensionale annunciavano il conto alla rovescia per l’inizio del nuovo anno. Era una cosa che si faceva anche nella mia epoca, forse l’unica cosa in comune che avevamo. Solo che il loro modo di festeggiare era esagerato. Si stavano scolando alcolici a non finire, e seriamente mi preoccupai per Dan e gli altri. Continuavo a guardarli male, lui specialmente, ma era la fine di un anno disastroso per me, per loro, per tutti, con la speranza che le cose potessero cambiare.
Sebbene avessi voluto festeggiare con loro, rimaneva dentro di me una malinconia e una nostalgia di casa che mi opprimeva i polmoni, mi impediva di respirare. Pensavo che non avrei festeggiato il nuovo anno al laboratorio, con Kris, i collaboratori e le altre donne giovani o più grandi di me, a lanciare in cielo uno dei nuovi satelliti da posizionare su uno dei pianeti del Sistema Solare in modo da studiarne i movimenti. Era il nostro modo di festeggiare. Oppure ogni anni raccoglievamo le informazioni, spesso gioiose, altre erano notizie che già sapevamo.
Niente più satelliti, solo una quantità esagerata di alcool e fumo. Erba, sigarette, tutto quello che ai miei occhi era il male fatto oggetto. Era disgustoso come le persone si rovinavano per colpa di cilindri così piccoli e innocui all’apparenza. Nella mie epoca era tutto proibito. Anche le sigarette, che Kyle che ne aveva fumate forse tre di fila, erano illegali e il possesso sarebbe costato qualche mese dietro le sbarre e una sanzione pesante da pagare.
L’unica regola giusta era quella, tutto il resto era una montagna di cazzate.
Distolsi lo sguardo dal televisore quando tutti quanti esultarono allo scadere del conto alla rovescia e li osservai mentre brindavano con dei boccali pieni di birra. Dan aveva tirato fuori quel lato che mi aveva sempre tenuto nascosto, quello che non volevo conoscere, e seriamente sarei voluta andare via, non guardarlo mentre accorciava di anni la sua vita. Ma mi finsi contenta dell’inizio di un nuovo anno, in modo che nessuno di loro venisse a chiedermi cosa avessi, perché dentro di me c’era una tormenta che di placarsi non ne voleva sapere.
Will si avvicinò lentamente a me, aveva gli occhi un po’ arrossati e le guance bordeaux, ma niente di che, sembrava ancora sobrio. La sua voce era calma e roca, come sempre.
«Come ti sembra questo nuovo anno?»
Forzai un sorriso. «È cominciato due minuti fa.»
Rise troppo rumorosamente. «Tra poco si esce, non possiamo restare chiusi in casa tutta la sera.»
Guardai confusa gli altri tre ragazzi, e loro fecero cenno di sì con la testa.
«S-si esce?»
«Hai paura?» mormorò quasi da volermi sfottere e mi spostai più a destra sul divano «Non ti mangiamo mica.»
«Temo che possiate fare ben altro che mangiarmi, siete già andati con poco» borbottai.
Ritornò quella risata rumorosa. «In effetti non è niente rispetto a quello che facciamo ogni Capodanno.»
Scossi il capo. «Non ho intenzione di passare una serata in balia di voi quattro.»
Si avvicinò anche Kyle, sedendosi sulle gambe davanti a me. «Dai, Rachel, non siamo così malati da violentarti!»
«È questo il punto» li freddai, ma generando una risata fragorosa da parte di entrambi. Mi alzai dal divano e mi allontanai da quella stanza che odorava di fumo e di alcool, chiudendomi nel bagno. Avevo la nausea, non volevo avere niente a che fare con quei drogati che di sobrio non avevano nemmeno le punte dei capelli, potevano trascinarmi nella loro cerchia, diventare come loro.
Sobbalzai quando bussarono. «Chi è?»
«Il lupo cattivo» disse la voce di Dan, divertito «vieni fuori, li tengo d’occhio io quei due.»
«Non credere che abbia paura solo di Kyle e Will» grugnii ad alta voce, in modo che possa sentirmi anche dietro la porta.
«Woody è un ragazzo per bene» giustificò.
«Non è Woody, è di te che non mi fido» continuai a borbottare. Lui in tutta risposta mi disse di rimanere pure chiusa nel bagno, lui e i ragazzi sarebbero usciti. Ruggii un secco “fate pure” e mi sedetti sul bordo della vasca vuota.
I loro schiamazzi, le urla, la puzza di fumo scomparvero dopo un po’, seguiti da una porta che sbatteva. Erano usciti. Ma siccome erano ubriachi e non mi fidavo minimamente di nessuno di loro, continuai a rimanere chiusa in quel bagno.
Dopo pochi minuti mi resi conto che ero davvero sola in casa, girai la chiave di ferro nella serratura e abbassai la maniglia fredda, tornando nella cucina ormai sotto sopra per via del loro baccano. Rischiai un infarto. Dan era seduto sul divano con una sigaretta, o così pareva, tra le mani. Era un involucro come fatto a mano, emetteva più fumo, più denso, e capii subito che stesse fumando erba.
«Perché sei ancora qui?» domandai secca cercando di riprendermi dallo spavento appena avuto.
«Aspettavo te.»
Sbuffai. «Torno nel bagno.»
Feci per incamminarmi ma lui si alzò e mi bloccò con la mano sinistra. Si tolse l’involucro bianco dalla bocca e me la tese. «Tentar non nuoce.»
Lo guardai esterrefatta, quasi disgustata. «Tu sei pazzo!»
Rise e tornò a sedersi sul divano. Ormai andare nel bagno mi sarebbe stato vietato almeno finché non avessi provato quella roba. Ma fumare, in quel giorno dell’anno, io che non avevo mai provato e non ci volevo nemmeno provare, in compagnia di quattro scapestrati ubriachi e drogati, certo che era un bel rischio.
Ma io ero fuggita da Oslo per questo. Io ero andata via da quella vita monotona senza esperienze e senza dritte per il futuro per ricominciare, provarle tutte, sbagliare, soffrire, poi pentirmi e ricominciare da capo. Volevo questo. Ed ero consapevole che solo Dan poteva darmi tutta l’adrenalina di cui avevo bisogno per smuovere le mie insicurezze e le mie paure.
Ma mi stavo buttando da troppo in alto per essere la prima volta. Invece di scendere roccia per roccia, gradino per gradino volevo lanciarmi dall’ultimo piano, così, senza protezioni, nessuno che mi avesse contenuta, nessuno che mi avrebbe protetta. Perché Dan non l’avrebbe fatto, lui se ne sarebbe approfittato della mia debolezza, della mia instabilità.
Mi fece cenno di sedermi accanto a lui e, con riluttanza, obbedii. Dovevo provare. Dovevo farmi male, almeno quella sera.
Ci guardammo per un po’, e finalmente decisi di farmi del male. «Passamela.»
Mi osservò attonito, poi con un sorriso “fatto” sulle labbra me la passò. «Sai come si fa?»
«Dovrò pur imparare.»
Me la rigirai fra le dita, poi la misi in bocca e tirai, poi lui mi disse di fare un respiro con il naso e mi andò giù nei polmoni. Tirai fuori e mi sentii uguale a prima. Niente di che.
Ma era troppo presto per gioire, la gola aveva appena scatenato l’inferno, quasi mi soffocai. Tossivo a non finire, la testa mi girava di continuo come se non avesse un punto fisso su cui fermarsi, vagava libera e io come un’idiota continuavo a tirare. Dan me la tolse di mano e mi tirò sul divano, stendendomi. Smisi di tossire, ma la testa continuava il suo giro attorno al Sole.
«Come ti senti?» la sua voce mi giunse alle orecchie un po’ appannata, ma anche preoccupata.
«Sto bene» balbettai rimettendomi seduta. Crollai di fianco, con la faccia sulle sue gambe, e scoppiò a ridere tirandomi su.
«A me non sembra» mi accarezzò i capelli.
Mi spaventai quando iniziai a ridere come un’imbecille. Una risata che non avevo mai provato. Una gioia che mi usciva da tutti i pori, che non riuscivo a trattenere, forse tutta quell’oppressione avuta in ventun’anni doveva liberarsi. Mi sentivo estremamente felice, leggera. Come se tutti i problemi e la tormenta avessero trovato una fine.
Contagiai Dan, si mise a ridere anche lui, poi ci bloccamo di colpo, come paralizzati: ci guardammo negli occhi, e tornammo a baciarci. Spense l’involucro in un contenitore di vetro trasparente, e poi con le mani mi paralizzò sui cuscini morbidi del divano.
Non avevo mai provato così tanta facilità nel baciare una persona, mi veniva così spontaneo, così semplice, non mi preoccupavo di niente. Eravamo finalmente io e lui, spensierati, felici, come immaginavo fosse l’amore. L’amore infatti era qualcosa di condizionato dai fattori esterni, quello che ti trasmetteva la testa finiva sulla bocca e non te ne liberavi più.
Avevo sperimentato l’amore solo in quel momento, in quella notte, alleggeriti da ogni pensiero. Ma forse no, quando lo facemmo per la prima volta era amore. Ci volevamo. Ci amavamo.
E poi ogni cosa sembrava svanire, perché io ero insicura, volevo tornare a casa, lui voleva la libertà, si sentiva oppresso, e tutto ci portava a separarci. Ma quando tornavamo insieme, vicini, ci amavamo più di prima.
Cercai di non crollare e non fare l’amore di nuovo, quella sera. Riuscii a contenermi e ci staccammo.
«Che dici se raggiungiamo gli altri?» gli proposi e lui accettò.
«Stasera devi bere.»
Sospirai. «Dan, quell’affare mi è bastato eccome.»
«Già passato l’effetto della canna?» ridacchiò.
«Mi è solo tornato il buon senso» mormorai.
Mi rubò un altro bacio e infilammo i giubbotti per raggiungere gli altri. Volevo superare i miei limiti.
Un drink, due, tre, arrivai a bere più di Kyle che era un alcolista esperto, mi sentivo finalmente rinata. Non vomitai come mi avevano avvertita i ragazzi, ogni centimetro del mio corpo si stava soddisfando con quelle sostanze, che invece di danneggiare mi purificavano dai dolori interni. Ogni singola cellula del mio corpo rinasceva. Il mio cuore batteva come doveva. La mia testa, che non funzionava più razionalmente, si decideva a cercare Dan, ritrovarlo, dirgli che lo amavo e assaporare ogni secondo in cui le nostre lingue si toccavano, addolciva le mie orecchie quando mi ripeteva i “ti amo” all’infinito, tutto sotto effetto di quei veleni.
Ma se davvero erano veleni, perché su di me funzionavano come antidioto? Stava avendo inizio il processo di purificazione dal male che l’esterno mi infliggeva. Stava iniziando la vita. Stava iniziando tutto.
 
Writer’s wall
Salve gente! Come avete ben notato questo capitolo è molto più corto rispetto agli altri, beh, vi dirò, non ho avuto il tempo e il modo per continuare! Mi sembrava giusto chiudere qui questa bella scena di felicità, ma di certo non chiudo la storia, ho ancora molto in serbo per voi :) e poi, scusate, sta iniziando tutto ora! Non potete nemmeno immaginare quello che sto pensando di farvi...perciò prendete i fazzoletti, voglio farvi soffire per bene! Lasciate una recensione se vi va, ve ne sarei molto grata!
Baci, Angelica <3

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Capitolo 11
*** Mi chiamo Kevin Mason ***


Oslo, Norvegia, 3 novembre 3020
Quella riunione mi aveva stufata, ero rinchiusa in quel buco di stanza sovraffollata da più di tre ore ad ascoltare discorsi a cui nemmeno stavo pensando, e non me ne fregava niente di cosa dicevano quegli scienziati che supponevano una probabile fine del mondo intorno ai prossimi quindici anni, la fine del mondo poteva aspettare.
Mi guardai intorno senza speranza di fuga, ero condannata a restare lì dentro fino alla fine. Anche quando fu il turno di Kris finsi di ascoltare, ma in realtà avevo la testa chissà dove e il tempo passava sempre più lentamente.
Salirono sul palco altri quattro o cinque scienziati che esponevano le proprie teorie e mostravano sui proiettori tridimensionali i loro lavori, studi e ricerche, che secondo me valevano meno di zero.
Tutte le loro voci, così uguali, insensate, che buttavano parole che conoscevo ma che non avevo voglia di capire, una mania suicida tremenda e un istinto omicida verso tutti quanti.
Come sempre ero nella zona opposta agli uomini: loro erano seduti sulle poltrone volanti a un metro e mezzo più lontano dalle sedie volanti su cui c’eravamo noi donne, che eravamo appena in sei. Che cosa triste. Mi ero ritrovata costretta a partecipare al convegno perché, secondo Kris, in meno di un mese avevo dimostrato di essere una valida scienziata che poteva collaborare e lavorare sodo come gli altri. Ma io, francamente, me ne infischiavo di diventare una scienziata, volevo dedicarmi alle scienze per passione e non per lavoro. Ma questo Kris non lo capiva. Era ostinato. Come lo era sempre stato.
E mentre navigavo nei miei pensieri assurdi alzai lo sguardo per capire a chi appartenesse quella voce così cristallina e giovane, lo guardai meglio, era un ragazzo di appena vent’anni, biondo – come tutti gli altri – e aveva gli occhi di un grigio strano, quasi surreale, erano diversi dai miei che erano grigio metallo, i suoi erano di un grigio sfumato, quasi di grafite, con qualche schizzo di nero e forse un accenno di azzurro chiarissimo. Sperai di non rimanere incastrata in quello sguardo che si era soffermato da troppo tempo su di me, e quando lo notai morii di vergogna. Lui arrossì, e tornò al suo discorso. Aveva perso il filo dopo che ci eravamo fissati per chissà quanto tempo. Mi vennero i brividi quando tornò a guardare me, ma finsi di tossire e mi girai dall’altra parte. Molti uomini si erano girati verso di me e mi lanciavano occhiatacce, sarei voluta fuggire da quell’inferno. Osservai Kris che si passava una mano sulla testa coperta da pochi capelli bianchi e grigiastri, e poi mi alzai dal mio posto, uscendo dalla porta scorrevole, sperando di non tornare mai più là dentro. Ma sotto sotto, speravo di rivedere quegli occhi così belli e mistici.
 
Congledon, 1 gennaio 2014
Un martello pneumatico puntato dritto al cervello mi avrebbe dato meno dolore rispetto al mal di testa che avevo dopo quella sbornia pazzesca. Avevo avuto, come disse Kyle, un doposbronza. Che brutta parola, per descrivere una sensazione così piacevole ma dolorosa allo stesso tempo. Avevo un nodo alla gola, e in più sentivo freddo. Mi guardai intorno e trovai accanto a me Dan, sotto le coperte, che dormiva beato, con i capelli più scompigliati del solito, un sorriso ebete sulla faccia, gli occhi chiusi e cerchiati di pelle rossiccia, le labbra tese in quel sorriso e rosse come il sangue, il volto più pallido, coperto da quelle lentiggini così belle da farlo sembrare un bambino. Mi addolcì troppo quella vista.
Mi stesi di nuovo in quel letto caldo che puzzava di alcool e di altra roba, tirai su la coperta imbottita per tenermi al caldo e mi cadde in faccia un altro mozzicone di quelle cose che ci fumammo la sera prima. Era stata una serata pazzesca, ma ne ricordavo ben poco, mi ero data alla pazza gioia dell’alcool e del fumo. Ero impazzita totalmente. Ma per la prima volta in tutta la mia vita, ero libera. Non ero oppressa. Libera.
Altrettanto libera non era la mia testa che continuava a martellare provocandomi un dolore atroce alle tempie. Così mi alzai sperando mi passasse e con orrore notai che in quella stanza io e Dan non eravamo soli: c’era Will, steso su un materasso per terra, accanto a una ragazza forse nuda coperta solo dalle lenzuola e dal piumone imbottito, c’era anche Kyle che fortunatamente dormiva da solo e non mi procurò scandalo maggiore. Mi chiesi dove fosse Chris.
Non era nemmeno una delle stanze della locanda, non ricordavo che posto fosse, eppure aveva qualcosa di familiare. C’era un camino, un piccolo comò accanto al letto. E la riconobbi finalmente: la stanza dalla quale mi ero risvegliata dal coma, la casa di Kyle. Uscendo dalla stanza notai subito dalla porta aperta quelle mattonelle bianche sul muro e sul pavimento.
Corsi dritta nel bagno davanti a me perché mi sentivo esplodere e mi liberai, bagnando poi la faccia con l’acqua che scendeva da un tubo di metallo su quel pezzo di ceramica rotondo e alto, a mo’ di vaschetta, e maledissi me e la mia sfacciataggine per non avere uno spazzolino a portata di mano, avevo bisogno di sciaquare i denti, la mia bocca impastata sapeva solo di fumo e di birra. Mi salì un conato di vomito ma lo respinsi.
Uscii dal bagno e attraversai la stanza che tanto amavo, quella dove io e Dan litigavamo e poi tornavamo insieme, per poi abbassare la maniglia della cucina. Un odore di roba cucinata mi travolse e un altro conato rischiò di uscire. Mi sentivo uno schifo. Dei rumori di metallo che strisciavano sul fuoco, pancetta che schioccava sulla padella ardente, un fumo grigiastro che usciva dai fornelli. La mano esperta di Woody che muoveva con agilità il manico della padella facendo saltare la pancetta e ributtandola sull’attrezzo da cucina rifacendola schioccare per il troppo calore. Tossii rischiando di vomitare davvero e provai a non respirare. Avvicinandomi lui si accorse della mia presenza.
«Oh» esclamò sorpreso «buongiorno.»
«Ciao Chris» mi strinsi le braccia al petto perché faceva freddo e con orrore mi accorsi che avevo solo una canotta bianca e degli slip neri addosso. Sarei voluta morire in quel momento. Ero in preda all’imbarazzo più estremo. Rimasi paralizzata.
Per fortuna ruppe il ghiaccio. «Non... non hai freddo?»
Alzai un dito per rispondere ma scappai nella stanza da letto infilandomi velocemente i miei vestiti che portavo addosso nessuno sapeva da quanto tempo, e tornai nella cucina correndo, trattenendo una risatina isterica che avrei voluto tirare fuori.
«Ora non più» mormorai divertita ma anche imbarazzata.
Sorrise senza togliere gli occhi dalla pancetta che veniva rilanciata in alto e cadeva ancora una volta sulla padella bollente. «Fame?»
Scossi la testa. «Non credo sia da persone normali mangiare qualcosa dopo una serata come quella di ieri.»
Come non detto, Kyle irruppe nella cucina urlando parole incomprensibili seguite da un “sto morendo di fame”, pronunciato esattamente mentre si avvicinava ai fornelli. Mi allontanai e mi sedetti sul divano accanto a quella struttura di mattoni che emetteva calore e fiamme ormai spente, riscaldandomi un poco.
Kyle subito mi seguì con in mano un piatto rotondo in ceramica bianca, pieno di filetti di pancetta e qualche uovo combianto malissimo, un miscuglio voluminoso e per niente invitante. Ritirai ancora una volta l’idea che Kyle fosse una persona normale.
Il mio cuore si fermò quando anche Dan si sedette sul divano, accanto a me, poggiando un braccio sulle mie spalle e avvicinandomi a lui. Arrossii quando i suoi occhi blu si incatenarono ai miei.
Mi chiesi cosa avessimo fatto la sera precedente, prima di finire in una totale guerra a chi beveva più alcolici possibili. E la vincitrice sembravo io. Perché ero l’unica a non ricordare niente.
«Rachel, sai che facevi paura ieri quando ti buttavi su Dan? Sembravi volessi violentarlo» notò Kyle, attirando improvvisamente la mia attenzione.
Dan fece una risatina. «Ma è quello che ha fatto!»
Mi si bloccò il fiato in gola e la capacità di parlare ed emettere qualche suono tornò indietro di dieci milioni di anni. Balbettai qualcosa di incomprensibile, venendo interrotta da Chris.
«Ricordi quando ha preso quella bottiglia di vetro e ha cercato di colpire Will? Dio mio, sembrava posseduta» scoppiò a ridere, seguito dagli altri due ragazzi.
Ancora non trovavo la capacità di dire qualcosa. Mi si era fermato il cuore. E poi mi tornarono in mente le scene in cui ero ubriaca, lanciavo bicchieri addosso a Will urlandogli di odiarlo e di andare a quel paese, i momenti in cui correvo da Dan e gli mordevo l’orecchio, gli dicevo che lo amavo e che non lo avrei mai lasciato per nessun motivo, fino alla volta in cui tornammo a casa e lo facemmo, di nuovo, a mia insaputa, con Will che si sbatteva quell’altra ragazzina, Kyle che rideva soddisfatto e continuava a bere, io che non capivo niente, Dan che sembrava morire per l’eccitazione.
Mi vergognai di quello che ero diventata quella notte e mi raggomitolai su me stessa, allontanandomi dal braccio di Dan che aveva circondato intorno alle mie spalle. E finalmente corsi in bagno a vomitare tutto quello di cui mi stavo vergognando, dell’imbarazzo che provavo, della paura che fosse accaduto di nuovo, vomitai, vomitai la voglia di restare lì, in mezzo a quei quattro pazzi, vomitai l’amore che stavo dando a Dan, vomitai tutto, anche l’anima che mi costringeva a stare lì. Buttai giù qualche lacrima e qualche imprecazione, e poi accasciarmi contro il muro a piangere. Cosa cazzo avevo fatto? Ero impazzita, avevo lasciato che la mia voglia di libertà uscisse tutta d’un tratto, rendendomi la persona più scalmanata e spudorata che un ragazzo abbia mai visto.
Un’altra volta la faccia estasiata di Dan mi balenò davanti agli occhi chiusi pieni di lacrime, lacrime e vergogna di me stessa.
«Che succede?»
Una voce conosciuta mi fece sobbalzare e subito alzai la testa. Lui si avvicinò di più a me e si sedette contro il muro al mio fianco squadrandomi per bene la faccia rovinata dalla serata precedente, dalle lacrime e dal vomito.
«Ho sbagliato» mormorai facendo cadere altre due o tre lacrime.
«Era quello che volevi» rispose. Forzai un sorriso, mentre lui lo fece spontaneamente.
«Non mi aspettavo simili reazioni.»
Mi accarezzò la guancia. «È normale se ti sballi per la prima volta, così di getto poi.»
Scossi la spalle. Rabbrividii al tocco della sua mano che scivolava lungo la mia guancia. «Non lo farò più.»
«Per quale motivo, scusa?» chiese divertito, ma non potevo essere più seria di così.
«Beh» tossii «a te non sembra dispiacere quello che è successo.»
«Mi dispiace che tu ci stia male, non perché lo hai fatto» rispose con assoluta sincerità, e lo sentivo che era sincero, forse per la prima volta.
«Dan, io ho paura di finire in qualche guaio» singhiozzai.
Si fece più vicino, e il suo tono di voce si irrigidì. «Che tipo di guaio?»
Non sapevo cosa rispondere. «Ieri un ragazzo, mentre tu eri al bancone a... a ordinare.. ieri quel ragazzo mi ha toccata... e io ho reagito male... poi sei arrivato tu e sono scappata...»
Rimase in silenzio ad osservare le guance che si rigavano di lacrime, poi le mani che tremavano, i denti che affondavo nel labbro inferiore, gli occhi che cercavano disperatamente i suoi.
«Se qualcun altro si azzarda a farlo di nuovo, lo ammazzo.»
Mi salì un brivido lungo la schiena. Era così dannatamente serio, ed ebbi paura. «Non succederà mai più, non farò mai più cazzate come questa.»
«No, ti terrò meglio d’occhio, sei così... provocante, sei un facile bersaglio della gente... ci credo che ci abbia provato. Lo hai rivisto? Ti ha fatto altro?»
Scossi la testa. «Se lo avessi rivisto te lo avrei detto prima.»
Tirò un sospiro stanco, quasi preoccupato. «Non deve toccarti nessuno. Nemmeno io a volte dovrei.»
«Ma tu lo fai perché... perché puoi. Perché io te lo permetto. Perché... perché so di amarti.»
Finse una risata. «Sei stupida a permettermelo, ti rendo solo più ingenua. Dovresti essere dura anche con me.»
Strisciai lentamente più vicina a lui, poggiando la testa sulla sua spalla. Socchiusi gli occhi. «Non ce la farei ad esserlo. Sono troppo innamorata per arrabbiarmi con te.»
Lo guardai, e sorrideva silenziosamente, guardando verso il basso. Poi spostò lo sguardo su di me, e mi incatenai di nuovo ai suoi occhi che continuavo a trovare uno spettacolo della natura.
«E io sono troppo innamorato per permettere che qualcuno che non sia io ti faccia... come dire, ti tratti come solo io dovrei.»
«Tu non sei innamorato» sussurrai distogliendo lo sguardo e staccandomi dal contatto con lui «non lo sarai mai. Nemmeno di me.»
«Hai ragione» mi fulminò, e il mio cuore si perse un battito «innamorato è un termine troppo semplice per descrivere cosa sento nei tuoi confronti.»
Riprese a battere, troppo, troppo velocemente, fino a farmi male. Avrei voluto baciarlo, ma con la mano fredda sfiorai la sua guancia, accarezzandola col pollice, poi con l’indice tastai le sue labbra così rosse, morbide, calde. Rabbrividì perché ero troppo fredda, ma non si staccò, rimase ad osservare i movimenti che facevano i miei occhi, che seguivano il contorno del suo viso che amavo fin troppo.
«Così mi farai venire un accidente» bisbigliò senza smettere di guardarmi, e io non smisi di percorrere le dita sui suoi capelli, la nuca, il collo.
«Finalmente capisci come mi sento io quando ti vedo, semplicemente» risposi bloccando la mano sotto la guancia. Lui prese il mio viso tra le mani con delicatezza e poggiò le labbra sulle mie, provocandomi un attacco di cuore. Non capii più nulla per qualche secondo, ma quando ripresi il controllo delle emozioni e dei pensieri lo baciai, con dolcezza, sopportando il battito cardiaco che mi perforava le costole.
«Dan» lo chiamai sottovoce.
Lui si staccò un attimo, osservandomi. «Rachel.»
Annuii come per dirgli di continuare. Speravo lo dicesse. Volevo che pronunciasse quelle due parole che mi avrebbero messo l’anima in pace in eterno.
«Ti amo» sussurrò, e sorrisi a fior di labbra. «Dimmi che mi ami anche tu.»
«Come potrei non farlo?»
Mi baciò dolcemente. «Dimmelo.»
«Ti amo, Daniel.»
«Ripetilo.»
«Ti amo.»
Mi diede un bacio più forte, più premuto, più duraturo. «Ti amo anch’io. Anche troppo.»
Mi ero stancata di sentire solo il mio cuore battere e le mie mani, strette e aggrovigliate alle sue, tremare. Non avrei mai potuto esprimere come mi sentivo ogni volta che mi diceva che mi amasse, ero come a un passo dal cielo, il mio cuore a un passo dall’esplodere.
Ma lui cosa provava davvero?
Lasciai per un attimo libera la mia mano e la portai sul suo petto, esattamente dove si trovava il cuore, e premetti. Lui poggiò la sua mano libera sulla mia e lo sentii: anche a fior di pelle, potevo sentire il suo battito cardiaco velocizzato, forte, come se volesse esplodere.
Con le mani le mie sul suo petto e le sue sulle mie spalle, dimostrammo ancora una volta quanto un semplice contatto fisico ci potesse fare impazzire, ebbene sì, per una volta potevo affermare che il nostro era amore.
 
Oslo, Norvegia, 4 novembre 3020
Mi fermai sul ciglio della porta, osservando le nuvole di vapore che uscivano dalla mia bocca. Mi guardai in giro, non c’era ancora nessuno, erano tutti dentro a sorbirsi altre di quelle torture teoriche e paranoie su una probabile fine del mondo.
Avevamo altri quindici anni, e loro si preoccupavano già da ora, ma godetevi la vita avrei voluto dire loro. Anche se l’avessi fatto non mi avrebbero ascoltata, ero una donna, e a stento avevamo il diritto di parlare con una persona dell’altro sesso, poi eravamo in minoranza, c’erano troppi uomini a governare. E si vedeva.
Con il neurofono misurai la temperatura ambientale, c’erano 18 gradi sopra lo zero sulla scala Celsius, che tristezza. Fortunatamente il mio giubbotto aveva la temperatura regolabile.
Qualcosa o qualcuno mi toccò la spalla e sobbalzai, facendo un salto all’indietro: era il ragazzo dagli occhi astratti, inesistenti, mitici, e arrossii di colpo. Totalmente a disagio, mi allontanai un poco, non ero abituata ad avere uno sconosciuto molto vicino. Così bello, poi.
«Ciao» sorrise, e mi irrigidii.
«Non-non dovresti essere qui... insomma, non puoi.»
Mi squadrò da capo a piedi. «Non c’è nessuno, non possono farci niente.»
Sospirai, e gli tesi titubante la mano. La afferrò prontamente.
«Mi chiamo Kevin, Kevin Mason. Posso sapere il tuo nome?»
Mi schiarii la gola. «Rachel Hetfield.»
«Lavori qui, Rachel?»
Scossi la testa. «Faccio l’assistente a Kris Johasson da quasi un mese, vivo a Oslo da pochissimo.»
«Ah» si morse un labbro «e hai già visitato la città?»
Negai ancora una volta, facendo un passo indietro. Quella conversazione stava prendendo una piega troppo forte per me, che di uomini ne avevo conosciuti solo due nella mia vita. E lui sembrava fin troppo grande per me.
«Ti ci porterei volentieri a fare un giro, ma è pieno di agenti mattina e sera» si strinse nelle spalle.
«Non importa, non ci tengo a vedere la città. Cosa vuoi che ci sia? Aerovetture, strade, case... come qualunque altro posto della Terra. Inizio a dubitare di poter mai vedere qualcosa di diverso da questo mondo, dove non ci siano gli stessi palazzi di metallo e le stesse autovetture e jet-machine ovunque. Scusami, mi sono lasciata trasportare dall’argomento...»
Fece una risatina. «Sei simpatica. Io frequento il laboratorio da un paio d’anni, domani potrei portarti a farci una visita. Questo è l’unico posto in cui non possono farci niente se ci beccano.»
Mi salì un brivido lungo la schiena. «V-va bene...»
«Ci vediamo domani mattina alle nove» mi tese un quadratino nero, di metallo freddo, e lo inserii nella polsiera digitale, dove potevo registrare tutti i codici di neurofono che volevo. La inserii, scaricai il codice e gliela restituii. Ero tremendamente in imbarazzo. Come mi sarei comportata? Cosa avrei dovuto dire?
«Aspetta» lo bloccai prima che se ne andasse «perché sei venuto da me?»
«Hai un volto familiare» sorrise, per poi voltarsi e continuare a camminare verso la sua jet-machine, molto elaborata, al contrario dell’aerovettura di Kris che sembrava un’automobile terrestre di trecento anni fa.
Tremai all’idea di essere vista con un uomo in giro per il laboratorio, cosa avrebbero detto di me? Mi avrebbero cacciata a calci da lì. Più volte pensai di non presentarmi a quello che sembrava un appuntamento, ma più ci pensavo più mi tornavano in mente i suoi occhi magici e quel sorriso semplice e puro, accrescendo la mia voglia di vederlo e di sentire di nuovo la sua voce.
Ma nonostante tutto, avevo paura. Di lui e di tutti gli altri uomini, e dei pregiudizi che sarebbero circolati sul mio conto.
 
Writer’s wall
Allora plebei e plebee, non sto ricevendo recensioni questi giorni..perché? Eppure ho pubblicato tre capitoli quasi tutti insieme..no ok voglio una spiegazione.
Vi sto antipatica? Uccidetemi, ma non voglio che la mia storia venga chiusa perché mi deprimo perché voi non recensite.
Detto questo sappiate che sto scherzando e poco me ne frega delle recensioni hahaha vi voglio bene, a me basta che la leggete e che vi piaccia, poi se avete qualcosa da dire scrivetela pure, a me non può fare altro che piacere. Ho messo il link del mio profilo privato di facebook in alto sulla mia pagina, potete mandarmi l’amicizia e contattarmi, ma scrivetemi per messaggio privato che siete miei lettori perché ho altre trenta richieste d’amicizia di gente che non conosco non accettate e potrei non accettarla nemmeno a voi..
Comunque, l’ho scritto in due giorni questo capitoletto, e spero che la storia di questo Kevin vi intrighi!
Ps: il cognome di Kevin, ovvero Mason, l’ho preso dal protagonista di Call Of Duty Black Ops II, sono un’accanita giocatrice e amante dei videogiochi di guerra, oggi ho finito la campagna e mi ero innamorata di David Mason tanto da “onorare” il suo cognome nella mia storia!
Un bacio, Angelica <3

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Capitolo 12
*** Torna indietro ***


Londra, Inghilterra, 4 gennaio 2014
Lo guardai mentre si avvicinava di più a me, silenzioso. I suoi baffi erano più scompigliati del solito. Mi tese la mano che non sapevo se accettare o rifiutare.
«Vuoi ballare?» chiese muovendo di nuovo la mano davanti a me.
La musica era alta, ma si era affievolita di tonalità, era lenta ma sapeva di elettronico, una musica noiosa che non avevo mai ascoltato ma mi trascinava con sé, nel ritmo, nelle parole ripetute tante volte e in modo insensato, all’incredibile capacità di farmi battere il piede per tenere il ritmo involontariamente. Le luci, di vari colori e forme, si gettavano sulla pista da ballo poco illuminata, piena di persone che si muovevano abbracciate, ondeggiando, altri si baciavano, altri si fissavano, alcune persone parlavano o stavano zitte, strette l’uno nelle braccia dell’altra.
Per l’ultima volta Kyle mi chiese se avessi voluto ballare con lui. Cercai Dan con lo sguardo, e quando non lo vidi afferrai la sua mano che mi trascinò verso la pista da ballo. Poggiò le mani sui fianchi e io sulle sue spalle, come facevano tutti gli altri. Fu abbastanza imbarazzante, non lo guardai in faccia per tutto il tempo.
«Dan non è ancora arrivato» sussurrò, e scossi le spalle senza guardarlo. Ma sentivo il suo sguardo addosso. E sarei voluta scappare da lì, ero tremendamente a disagio. Eppure non mi ero mai convinta abbastanza che Kyle fosse un bel tipo, simpatico, solare, a volte dolce ma era essenzialmente idiota. Totalmente schizzato, spensierato, troppo preso dalle cose materiali e dall’apparenza del mondo invece di esplorarlo nel suo interno e scoprire la vera bellezza. Magari era questo che lo rendeva un tipo affascinante.
La musica si fermò e tutti batterono le mani, ma ero troppo agitata e impacciata per togliere le mani dalle spalle di Kyle, che rise, allontanandosi. Qualche parola entusiasta del tizio che metteva la musica, e di nuovo quel frastuono ritmato, con le parole ripetute di continuo, gli stessi testi senza obiettivi e osservazioni se non quelle di dire che volevano farsi tutte le ragazze e di spronarle ad andare a letto con tutti. Ma non sapevano che era una cosa sacra, per me, per tutte le donne. Già farlo con Dan era stata la cosa più difficile e tremenda della mia vita, anche se eravamo in sintonia, eravamo innamorati, ma non mi sarei tolta dalla testa la vergogna con cui lo guardavo negli occhi dopo quella sera. Quella maledetta sera in cui lo feci senza nemmeno accorgermene. Mi odiavo. Odiavo me, lui, Kyle e gli altri ragazzi, odiavo l’alcool e la mia incapacità di contenermi o perlomeno controllare i miei istinti ormonali quando andavo fuori di testa.
Non avrei mai scordato quell’esperienza, e soprattutto l’avrei ripetuta difficilmente.
«Sei morta?» la voce troppo alta di Kyle per superare il volume della musica mi disturbò di nuovo. Tutti si muovevano saltando, agitando le mani e il corpo, ero l’unica idiota ferma impassibile in mezzo a quell’ammasso di gente sudata e brilla. Kyle muoveva i piedi e la testa, almeno qualcosa la faceva, io ero un vegetale, stavo zitta, con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo perso nel vuoto.
«Vado fuori a prendere un po’ d’aria» urlai anch’io per farmi sentire e poi correre verso l’uscita del locale, sperando che Will non mi notasse e non mi impedisse di andarmene.
Woody e Dan erano ancora alla locanda a Congledon, stavano servendo i clienti, avrebbero chiuso alle undici di sera. E io come una stupida mi ero fatta trascinare da Kyle in quella che chiamavano discoteca, a ballare e scatenarmi, ottenendo esattamente il contrario di quello che mi avevano chiesto di fare: divertirmi, magari non pensare a lui per qualche ora. Volevo farlo, provarci, ma era fisso nella mia mente come un chiodo fissava un quadro su un muro. Sembrava appartenermi ormai.
Dan non mi aveva impedito di andare con loro e di divertirmi, ma di certo non l’avrei fatto senza di lui. Non avevo un centesimo per prendere una macchina terrestre antichissima, che nel mio millennio nemmeno ce le sognavamo, e farmi portare a Congledon, c’era un vento infernale, mi lamentavo per qualunque cosa. Non dissi niente a Kyle e Will.
In lontananza vidi un mucchio di persone vicino a delle macchine, mi avvicinai deglutendo, con il cuore a mille, la testa dolente per la musica troppo alta, e toccai con la mano la spalla di uno dei ragazzi che ridevano e scherzavano.
«Sì?» rispose lui voltandosi, e per poco non mi venne un arresto cardiaco vedendolo.
«S-salve» balbettai cercando di riprendermi «andate via?»
Lui guardò i suoi amici e mi lanciò un’occhiata interrogativa. «Tra poco, perché?»
Notai tra le sue mani un bicchiere in plastica pieno di birra. «Avrei bisogno di un passaggio. Andate per Congledon?»
«Congledon hai detto?» la sua espressione si fece fin troppo meravigliata «Io vengo da lì.»
«Ah, bene, sono contenta per te, ma sono senza... macchina, non so come ritornare.»
Si schiarì la gola. Sperai con tutto il cuore che il mio fosse stato solo un abbaglio, che non fosse davvero lui, che mi fossi sbagliata. «Certo. Ti portiamo noi.»
Annuii. «G-grazie...»
«Mi chiamo Kevin» si presentò, e tutte le emozioni che avessi in corpo esplosero e temetti di morire davvero. Indietreggiai violentemente, quasi scappai dentro al locale da Kyle, ma mi trattenni sperando ancora una volta di sbagliarmi. «Posso sapere il tuo nome?»
Mossi la bocca per parlare ma non uscì una sola parola. Ero terrorizzata, pietrificata.
«Tutto bene?»
Mi tremarono le mani, le gambe, la testa faceva male, la vista si appannava. Indietreggiai ancora. Scossi il capo. No, non stavo affatto bene. Un conato di vomito rischiò di uscire dalla bocca, ma deglutii il sapore amaro.
«C-cosa vuoi da me?» sibilò la mia voce spezzata dalle lacrime che volevano scendere.
Mi guardò di sottecchi, ma poi la sua bocca di aprì in un’espressione di sorpresa, di terrore, i suoi occhi si fecero lucidissimi, come i miei.
«Non puoi essere tu» sibilò con gli occhi che incutevano una paura tremenda.
Strinsi i pugni tremanti e mi morsi un labbro. «E invece sì. Non mi serve più quel passaggio.»
«Aspetta, Rachel!»
Scoppiai, la mia voce si fece stridula, gli urlai contro e tutti si voltarono verso di noi. «Lasciami stare!»
Non lo lasciai continuare. Will era fuori dal locale con una ragazza magra e castana e mi bloccò prima di rientrare dentro da Kyle. La ragazza fece una smorfia. Abbracciai Will e scoppiai a piangere.
Non poteva essere tornato nel passato anche lui. Non volevo vederlo. Sarebbe stata la mia fine. Era venuto a prendermi, riportarmi in quel futuro triste e chiuso.
«Will, voglio andare da Dan...» singhiozzai.
Lui fece qualche gesto alla ragazza e lei sparì all’interno del locale infuriata. «Aspetta, che succede?»
«Non voglio stare qui... non voglio... lui mi farà del male...»
«Lui chi?»
Indicai con un dito Kevin Mason che si allontanava verso una macchina insieme ad un altro tizio alto e magro. Piansi tutte le mie lacrime. Era venuto a torturarmi.
Avevo bisogno di Dan il prima possibile.
 
Oslo, Norvegia, 4 novembre 3020
Mi addentrai silenziosamente nel laboratorio, salutai con un cenno del capo colleghi e colleghe in camice bianco e chip di riconoscimento, entrai nello studio di Kris e mi accorsi che non c’era. Mi salì un brivido dalla schiena e uscii, e inciampai all’indietro quando quel Mason di ieri sera mi apparse davanti all’improvviso; tenendomi alla ringhiera di metallo mi rialzai facendolo ridere. Di divertente non c’era nulla. Mi aveva fatto paura. Dovevo ancora abituarmi a quegli occhi così strani.
«Buongiorno» mi salutò con un sorriso «che si fa?»
Mossi le labbra, senza sapere cosa dire. «I-io non... come vuoi tu...»
«Beh, direi che sarebbe tempo di presentarci meglio. Ti va di fare un giro?»
Annuii e mi fece cenno di seguirlo, ma rimanevo a debita distanza anche mentre parlava. Non volevo che le altre persone nel laboratorio pensassero male di me. O di lui.
Analizzai il chip di riconoscimento che aveva sulla giacca leggera blu scuro con l’analizzatore da polso, e i suoi dati corrispondevano a ciò che mi aveva detto la sera precendente: si chiamava Kevin Mason, di ventitré anni, nato a Oslo il 17 aprile del 3000, collaboratore scientifico e studioso presso il laboratorio di ricerca a Oslo. Occhi grigi, capelli biondi, altezza 178 centimetri, peso in chilogrammi 62.
Lo squadrai dall’alto in basso e deglutii quando rivolse i suoi occhi grigiastri nei miei, di quel grigio così naturale e monotono. I suoi no, i suoi erano impossibili.
Parlava a ruota, ma non lo sentivo, non mi piaceva ascoltarlo, mi illustrava i vari settori di studio e dove lavorava lui, ma non ci facevo caso, non mi importava. Poi iniziò a farmi domande.
«Dove sono i tuoi genitori?»
Alzai gli occhi verso il cielo e finsi di tossire. «Ognuno è andato per la propria strada.»
Sembrò non capire e scosse le spalle. Poi mi indicò una stanza, chiusa, dove ci potevano entrare solo gli autorizzati e lui lo era. Passò il suo chip di riconoscimento davanti all’analizzatore da muro e la porta si aprì, facendoci passare in un atrio buio e silenzioso. Lui fece uno schiocco di dita e si accesero le luci azzurrine, che mostravano dei marchingegni piuttosto bizzarri e antichi: riconobbi subito una delle più vecchie forme di riscaldamento, un attrezzo grande, di metallo arrugginito.
«Si chiamava termosifone, serviva a riscaldare le case dal ventunesimo secolo al ventitresimo. Poi sono state inventate le più preistoriche forme di riscaldamento automatico, che con la Terza guerra mondiale sono andate distrutte e ricostruite cinquant’anni dopo» raccontò fiero di sapere l’argomento. Era molto colto, e mi fece meno paura di prima. Mi sentivo più tranquilla e più in confidenza.
«Sai molto del passato» sorrisi ammirando quel preistorico attrezzo di riscaldamento.
«Sono un aspirante storico e archeologo» ridacchiò.
Continuò a spiegarmi il funzionamento di altri strambi oggetti, come la piastra per capelli, con la quale le donne potevano stendere i capelli o arricciarli, il ferro da stiro, con cui stiravano i panni appena lavati... era tutto molto interessante. Mi piaceva sempre di più stare là dentro, ma mi chiedevo perché fosse chiusa al personale non autorizzato.
«Semplice» rispose «è di estremo valore. Dopo la Terza guerra mondiale se ne sono conservati pochissimi, per questo li teniamo sotto chiave.»
Annuii e lo guardai forse per troppo tempo. Arrossì, senza mia intenzione, e distolsi lo sguardo osservandomi intorno.
«Ti piacciono proprio i miei occhi» mormorò grattandosi la folta chioma bionda ben ordinata e che gli dava un aspetto maturo ma affascinante. Mi fischiò l’orecchio quando disse quella frase. E aveva ragione, erano bellissimi.
Scossi le spalle. «Mi piace osservare gli occhi di tutti.»
«E cosa cerchi?»
Cosa cercavo? L’amore. L’affetto. Qualcosa che volevo da tempo ma che nessuno a parte mamma mi aveva mai dato.
Finsi di non aver sentito quella domanda e tornai a osservare tutti quegli strumenti che appartenevo a un passato diverso, forse migliore dal presente che vivevo io. A volte pensavo di volerci vivere, in quel passato, e chissà, avrei trovato l’amore, avrei iniziato a vivere davvero. Ma tutta la gioia che provavo quando mi immaginavo minimamente in un passato senza regole, poi riaprivo gli occhi, mi guardavo intorno nella mia inutile stanza, tutta uguale, come le altre, mi affacciavo dalla finestra e vedevo le poche jet-machine o le aerovetture che sfrecciavano da una parte all’altra.
Non avevo fatto caso a quanto Kevin si fosse avvicinato. Mi spostai di lato, in modo da aumentare la distanza che lui invece stava accorciando, ma non funzionò. Mi bloccò un braccio e mi fece girare verso di lui.
«Kevin, che cosa...»
Eravamo troppo vicini. E io mi sentivo malissimo. «Non dire che non lo vuoi.»
La sua voce bassa e roca mi fece aumentare il battito cardiaco. «Non fare stronzate, è un reato grave.»
«E allora? Qui non ci vede nessuno» insistette, e cercai di divincolarmi. Ma la sua presa era troppo forte e quella che prima era sorpresa ora si stava lentamente trasformandoin paura. Paura di fare quello che invece ci impedivano di fare.
«Le telecam-»
Troppo tardi, aveva lanciato il suo viso sul mio ma ero riuscita a scansarlo, spostando la testa. Strinsi gli occhi, la mascella, i pugni e mi spostavo per non farmi toccare le labbra. Se lo avesse fatto, sarebbe finito in galera, e io sarei stata sottoposta a mesi e mesi di psicoterapia che non mi serviva, di domande e interrogatori, le continue riunioni alla Corte di Giustizia, ma non lo volevo, lo avrei impedito.
«Sta ferma!» ruggì, e mi scappò un singhiozzo. Stava avendo la meglio, e mi stavo arrendendo troppo presto.
«Lasciami!» gli urlai contro ma non ci badò. Mi spinse per terra e l’unico modo per fermarlo sarebbe stato fargli del male. Con una ginocchiata in petto si arrestò, gli avevo fatto più che male, e scappai verso la porta premendo continuamente il pulsante per aprirla. Ma si era rimesso in piedi e mi aveva bloccata rispingendomi contro il muro e si piazzò davanti. Cercai di scappare di nuovo.
La paura mi stava assalendo, non capivo niente, non pensavo lucidamente. Mi misi a piangere quando la porta si spalancò e degli agenti puntarono i laser contro di lui che alzò le braccia. Io mi rannicchiai per terra, scivolando contro il muro, a coprirmi il viso che se fosse stato violato non ci avrei più dormito la notte.
Non guardai la scena, ma le manette laser che furono messe intorno ai polsi di Kevin si sentivano benissimo.
«Le telecamere...» mormorai. Un braccio mi tirò su. Lo guardai, era Kris.
Sarebbe stata l’impresa del secolo per me avvicinarmi ad un uomo dopo quel giorno.
 
Qualche giorno più tardi ero in vesti eleganti accanto a Kris alla Corte di Giustizia, davanti al Giudice Assoluto che osservava attentamente i file che la telecamera aveva registrato. Gli era bastato quello per condannare Kevin a tre anni in cella e poi si sarebbe fatto il processo per decidere quale pena avrebbe dovuto scontare.
Mentre lo portavano via, mi sentii rodere dai sensi di colpa, dalla vergogna, nemmeno il mio amico mi confortò dicendo che ero al sicuro.
Ma tre anni non mi bastavano per fuggire via, o per stare al sicuro. Nel frattempo, tornai a casa e mi rinchiusi in camera, sotto le coperte, fingendo che il mondo non esistesse, che ci fossi solo io. Nemmeno quando il mio vicino, Stein, bussò alla mia porta risposi. Non ne avevo le forze. Ero a terra.
«Sei ancora viva?» domandò con la voce coperta dalla porta di metallo che ci divideva. Non risposi nemmeno a quel tentativo di smuovermi.
«Rachel, dai, non puoi nasconderti per sempre» insistette.
Era così irritante. Alzai la voce per farmi sentire sia da sotto le coperte che oltre la porta. «Vai a dormire, Stein!»
«Non ti conviene farmi arrabbiare, apri questa porta che ne parliamo.»
Sbuffai e feci uscire la testa dalle coperte, e la luce che penetrava dalla finestra mi accecò per un attimo. «Non te la apro la porta, non puoi stare qui.»
«Lo so che non posso entrare, ma sono tre giorni che non esci di casa e mi stavo preoccupando» si giusificò. Guardai la porta, ma non andai ad aprirla.
«Sto bene, non ho bisogno della vostra compassione.»
Lo sentii sospirare. «Anche Kris cercava di farsi aprire ma tu non rispondevi, e la cosa ci ha preoccupati molto entrambi. Credo dovresti smetterla di comportarti da bambina e di tenerti nascosta, stai solo dimostrando di non essere abbastanza matura per gestire la tua vita ad Oslo.»
Quelle parole mi raggiunsero come lame affilate. «Ho diciotto anni, Stein! Cosa pretendi da me?»
«Serietà, ecco cosa pretendo! Sei uno scienziato o no? Vai fuori e dimostra che non basta un ragazzino disturbato mentalmente e in cerca di avventure a buttarti giù!» gridò da dietro la porta.
Mi alzai e con furia premetti il bottone per aprire la porta. Stein mi si presentò davanti. Mi trattenni dal dargli uno schiaffo e ci guardammo con aria di sfida.
«Stai messa male, comunque» sibilò. Sia io che lui avevamo perso ogni forma di simpatia.
«Torna a casa, che è tardi» lo freddai.
Fece un sorriso sghembo che illuminò i suoi occhi verde chiaro. Si passò una mano tra i capelli biondo scuro. «Primo, io abito qui alla porta accanto. Secondo, sono le dodici della mattina.»
Gli richiusi la porta in faccia e mi gettai sul letto. Avere di nuovo un contatto così vicino con un uomo mi aveva messo lo stomaco sottosopra.
Ma aveva ragione, perciò misi dei vestiti puliti e uscii di casa, dirigendomi al laboratorio. La piazza vuota che lo antecedeva era più piena del solito. Ci pensai su, e infatti era il 10 novembre, il giorno in cui si festeggiava la festività nazionale.
Come sempre, le donne erano in un punto della piazza e gli uomini dal lato opposto.
Peggio della segregazione razziale che si fece tra neri e bianchi in America un paio d’anni prima.
 
Congledon, Inghilterra, 4 gennaio 2014
Guardavo con ansia il finestrino, con la faccia rovinata per le lacrime che avevo versato. Will e Kyle, sui sedili anteriori, con Will alla guida, discutevano sulla serata, ma ogni tanto Kyle mi lanciava un’occhiata per vedere come stessi ed ero sempre uguale: gli occhi fissi sul paesaggio nuovo davanti a me che sfrecciava lontano, i pugni stretti, irrigidita, il cuore che voleva uscire dal petto. Mi avrebbero diagnosticato una tachicardia se non mi fossi data una calmata.
L’amico coi baffi strani disse che eravamo vicino Congledon e che saremmo arrivati a breve, ma più ci avvicinavamo più sentivo il pericolo. Kevin aveva detto di venire da Congledon, quindi la macchina del tempo era posizionata sicuramente nello stesso punto in cui lasciava me. Aveva ripreso a funzionare o era lui che aveva deciso di rischiare il tutto per tutto pur di rimanere nel passato?
Magari voleva torturarmi.
Ci pensai su, e i tre anni erano passati. Era stato messo in cella il 7 novembre 3020. Quando ero partita era fine 3023, quindi aveva già progettato tutto. Magari non sapeva che ero tornata nel passato e aveva scoperto che ero sparita.
Pensai a Stein, a Kris, a cosa avrebbe fatto pur di sapere dove fossi finita.
E la macchina del tempo, maledizione.
Arrivammo poco dopo, e scesi da quell’aggeggio infernale correndo verso la locanda. Spalancai la porta, e i ragazzi erano in punto di chiusura, non c’erano clienti. Woody stava passando una mazza di legno lunga e con una specie di spatola in basso, Dan riordinava dei pezzi di carta bianca e sistemava le bottiglie.
Il cuore stava per saltarmi fuori dalla gola.
Woody mi venne incontro. «Stai bene?»
Guardai Dan, e lui mi osservava da dietro il bancone. Mi avvicinai ignorando la domanda di Chris e gli feci mollare qualunque cosa stesse facendo trascinandolo con me in disparte.
«Bentornata» balbettò confuso «ti sei div-»
Gli tappai la bocca con una mano. «Dan, sono nella merda.»
Mi guardò come per dire di continuare, e si tolse la mia mano dalla bocca. Intrecciò le dita e si avvicinò lentamente per darmi un bacio ma lo scansai, ero troppo preoccupata per pensare a cose che non collegassero a Kevin. Per fortuna non insistette come fece quel pazzo.
«Un uomo, da dove vengo io, è venuto a cercarmi, è finito in galera per colpa mia tre anni fa, e quando è uscito è sicuramente venuto a cercarmi qui nel ventunesimo secolo...»
Mi arrestai per colpa delle lacrime che stavano per prendere il sopravvento e Dan mi strinse, sicuramente con tante domande nella testa.
«Devo andare alla macchina del tempo» dissi affrettata sciogliendomi di malavoglia dal suo abbraccio, ma lui mi seguì fino alla porta.
«Vengo con te» affermò toccandomi una spalla.
Lo guardai. «Non me ne vado da qui, non senza di te.»
«Voglio averne la certezza.»
Sospirai. «Non ti lascerò mai qui, da solo, né tantomeno io tornerò in quel futuro disastroso. C’è un pazzo in giro, Dan, e io devo rispedirlo da dove viene.»
«Temo possa farti del male» si giustificò. Aprii la porta e uscii, seguita da lui. Era inevitabile che voleva tenermi d’occhio nel caso fossi fuggita nel futuro, ma abbandonarlo e stare con Kevin sarebbe stato l’ultimo dei miei desideri più oscuri e più lontani. Avevo paura di Kevin Mason. In un passato più libero e meno ristretto, poteva fare qualunque cosa, anche uccidermi.

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Capitolo 13
*** Londra ***


Il vento mi sfiorava la faccia, mi lanciava addosso quei fiocchi di neve ghiacciata che al contatto con la mia pelle del viso scoperta mi facevano rabbrividire. Corsi verso il punto in cui la macchina del tempo mi lasciava sempre, e la vidi: era esattamente lì, ferma, quella maledetta capsula che aveva ripreso a funzionare sotto le mani di quel pazzo maniaco.
«Ora capisci perché non ti avrei lasciata andare da sola?» improvvisò Dan, e per zittirlo gli afferrai una mano. Erano congelate entrambe, sia la mia che la sua, ma io tremavo troppo per il freddo e la paura. Mi avvicinai lentamente alla capsula, con la mano stretta a quella di Dan, e sbucò da dietro la struttura metallica una figura alta, più imponente di me, e mi spaventai. Kevin Mason si appoggiò sul metallo freddo della capsula lanciandomi uno sguardo di sfida. Non riuscivo a parlare o a muovermi, mi ero totalmente paralizzata.
«Allora... Hetfield. Come vanno le cose? Vedo che ti sei fatta una “vita” qui in questo cesso di millennio. Cosa mi racconti? Hai un ragazzo? Lo vedo che hai un ragazzo, è molto carino, proprio il tipo adatto a te. Avete passato molto tempo insieme? Lo spero. Spero anche che vi siate salutati abbastanza. Io sono tornato, Rachel, sono tornato per vendicarmi, strapparti via l’ultima possibilità di essere felice come tu l’hai tolta a me. Mi hanno condannato all’ergastolo. Domani dovrò essere alla Corte Suprema perché mi sbatteranno dietro la cella per tutta la vita. Lo sai che vuol dire? Eh? Se non lo sai te lo dico io: tu soffrirai con me, soffrirai, io soffrirò dietro le sbarre e tu soffrirai per la solitudine, senza gli amichetti che ti sei fatta qui a Congledon, in questo lurido posticcio fetido dove non meritano di esistere nemmeno le pietre!»
I miei sentimenti ormai non si controllavano più. Non sapevo cosa stavo pensando. Non sapevo cosa volevo fare. Lasciai che il mio istinti agisca.
Lasciai lentamente la mano di Dan e lui sussurrò un “che vuoi fare?” spaventato, ma non gli diedi risposta. Mi avvicinai a Kevin, con cautela, lanciandogli le occhiate più malvagie e spaventose avessi mai fatto. Era così bello, anche da arrabbiato, anche a ventisei anni. Era sempre quel Kevin Mason che col suo fascino mi aveva attratta in una gabbia.
Tese le braccia, come se volesse darmi un abbraccio. Non era più alto di me, giusto qualche centimetro. Così potei senza difficoltà aprire la mano e stampargli un sonoro schiaffo sulla guancia.
La voce di Dan e le sue braccia furono l’unica cosa che sentii dopo una fitta leggera sull’addome, che si intensificò tantissimo, fino a farmi gridare di dolore.
«Rachel, Rachel ti prego, alzati, non fare stronzate» boccheggiò Dan, ma la mia testa era altrove. Vedevo doppio. Mi toccai la pancia, e sanguinavo, tanto, anche troppo, respiravo a tratti. Socchiusi gli occhi e vidi solo delle ombre che si avventavano su Kevin, non sentivo niente, ero diventata sorda. Qualcuno si mise davanti a me, mi accarezzava le guance, mi dava baci sulla fronte, mi dava abbracci leggeri. Quegli occhi che mi avevano salvata di nuovo. Non sapevo se mi avrebbero salvata ancora una volta.
Guardai il mio addome che ormai si cospargeva di sangue. In alto, in cielo, un vortice spazio-temporale si aprì risucchiando con sé ogni essenza della macchina del tempo trasportando Kevin dove meritava di stare.
Woody e Dan mi presero sotto braccio e mi portarono all’interno della locanda trascinandomi lentamente per strada. Un forte mal di testa e dei conati di vomito rischiarono di uscire. Respiravo a fatica. Un colpo, un suono spezzato, dei singhiozzi, delle parole che non comprendevo, la mano calda di Dan che si chiudeva sulla mia. Le sue labbra devastate dai morsi che si dava coi denti e i morsi che gli lasciavo io quando lo baciavo. I suoi occhi blu che straripavano, si gonfiavano come l’oceano in tempesta. Ma i suoi occhi erano l’oceano in tempesta, era confuso, non sapeva nemmeno lui cosa voleva, ma una cosa era certa: era fin troppo innamorato per permettere di perdermi. E non mi avrebbe persa. Mi sarei lasciata salvare dai suoi occhi, avrei combattuto, per lui, per noi.
Lentamente tornai a sentire.
«Non so se ce la farei senza di te... io non... non posso... non andrò avanti se tu mi abbandoni così...» singhiozzava accanto a me. Sopportai il bruciore alla ferita che Woody stava cospargendo di liquido trasparente passandoci sopra dei batuffoli bianchi di chissà quale materiale, sembravano nuvolette, allungai la mano verso il viso di Dan e lo trascinai verso il mio. Le nostre labbra si toccarono di nuovo. A quel tocco mi sembrò di rinascere.
«Io ti amo, Rachel, non so come dirtelo» mormorò sovrastato dalle lacrime.
Gli lasciai un bacio delicato sul mento. Mi schiarii la gola. «Non ce n’è bisogno...»
Mi voltai verso Woody che si soffiava il naso, Kyle che mi sorrise, Will che osservava Dan. Sorrisi a tutti quanti. Pensai fosse la fine, e invece stavo ricominciando. Di nuovo, per l’ennesima volta, stavo ricominciando. Perché niente poteva finire, ogni cosa era sempre l’inizio di una nuova vita.
Nemmeno la morte sarebbe stata la fine, perché l’anima è eterna, non poteva morire. Io non sarei morta. Mi misi a sedere, poggiai una gamba per terra, poi la seconda, e iniziai a camminare, con la testa che mi girava e lo stomaco in subbuglio.
Avevo smesso di sanguinare.
«Non gli avete fatto del male, vero?» chiesi riferendomi a Kevin.
Scossero tutti il capo. «È tornato a casa con solo qualche graffio.»
Sospirai procurandomi un fortissimo capogiro. «Vi voglio bene...» poi la mia voce venne soffocata da un bruciore alla gola che mi fece tossire violentemente.
Rivolsi gli occhi a Dan, che stava dicendo qualcosa che non riuscii ad afferrare bene a Chris, ero troppo impegnata ad osservarlo che ad ascoltarlo. Annuì e poi si alzò facendomi un sorriso lieve.
«Riesci ad alzarti? Ti prendo in braccio se-»
Gli tappai la bocca con una mano e mi rialzai da quello che sembrava un divano in stoffa ricamata, e camminai verso la stanza mia e di Dan barcollando, poi sopraggiunse Kyle che mi prese sottobraccio e mi accompagnò sulla soglia della stanza. Era un ragazzo d’oro, e l’avevo capito troppo tardi. L’unico che sembrava non importarsi della faccenda era Will, e ricordai il litigio avvenuto tra lui e Dan. Ma probabilmente avevano risolto, ed era stato un grosso sollievo per me. Il coma in cui ero caduta per quattro giorni forse li aveva fatti riavvicinare.
Will era diverso, più silenzioso e distaccato, e non potevo che compiacermi. Ringraziai Kyle con un buffetto sulla guancia, la prima volta che non mi sentivo in imbarazzo in sua compagnia.
«Ti porto accanto al letto se non riesci» insistette, ma rifiutai.
«Non sono diversamente abile» soffiai cercando di sorridere.
Scosse le spalle lasciandomi in piedi da sola, senza il suo sostegno. «Se muori mentre raggiungi il letto non è colpa mia!»
Scoppiai a ridere e ritornò a farmi male la ferita, facendomi piegare in due per il dolore. In qualche modo Kyle cercò di risollevarmi ma gli ordinai di andarsene. Obbedì e mi trascinai sul materasso morbido coperto da delle lenzuola azzurre e un piumone blu. Tutto era così nitido. Così semplice. Guardai la finestra, quello che c’era oltre la finestra. Il niente, un cielo vuoto e nero, nemmeno una stella, che vedevo di rado quando ero a casa mia.
Chiusi gli occhi cercando di sopportare il bruciore acuto che avevo all’addome, che fortunatamente non bruciava, ma invano tentai di dormire perché avevo troppo freddo. La porta cigolò, non guardai chi fosse. Finsi di dormire. Qualcuno si stese accanto a me, a debita distanza, e iniziò a fare domande.
«Come stai?»
Non risposi, ma tremai per i brividi. Quella voce mi era familiare, la conoscevo benissimo, era la voce che amavo, senza la quale non avrei potuto vivere.
«Ti amo, Rachel» sussurrò. E non potei fingere oltre.
«È l’ennesima volta che me lo dici» mi lamentai aprendo gli occhi, bloccando il respiro per qualche secondo perché i suoi occhi blu erano più lucidi e belli del solito. Ma erano inondati di lacrime. E mi faceva male.
«Non basteranno mai.»
Strisciai lentamente verso di lui così da trovarci a pochi centimetri di distanza. Mi afferrò la mano che tenevo poggiata sul piumone blu e intrecciò le dita osservandola. Non avevo più freddo, mi stava riscaldando, lentamente, ma potevo sentire il suo calore entrare dentro di me e facendomi sentire protetta, al sicuro.
Ci guardammo negli occhi per un po’, poi distolsi lo sguardo poggiando la fronte sulla sua. Il suo braccio scivolò sul fianco e dietro la schiena, facendo aderire perfettamente il mio corpo al suo. Sospirò, dandomi un bacio a fior di labbra. Rabbrividii di nuovo, ma non per il freddo, perché l’amore che avevo dentro voleva uscire ed esplodere.
«Rachel» mi chiamò sottovoce. Aprii gli occhi e stava giocherellando con le mie dita, non me n’ero nemmeno accorta. Ero troppo assorta nei miei pensieri.
«Non possiamo restare qui» continuò, ma non capii il senso di quella frase.
«Come sarebbe?» domandai inspirando un’altra boccata d’aria e del suo profumo.
I suoi occhi troppo vicini brillarono. Ci vidi l’immensità in quelle iridi blu. «Io voglio stare con te ma... insomma, qui non siamo solo io e te. Ci sono Woody, i clienti...»
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
«Quando ero piccolo ho vissuto a Londra per un paio d’anni, conosco la gente della zona in cui sono stato, e potremmo... potremmo affittare un appartamento lì e, non so, vivere da soli.»
Riassemblare tutte quelle parole che mi avevano letteralmente mandato in panne fu un’impresa, proprio come tentare di restare lucida.
«Aspetta, tu-tu mi stai dicendo di andare a vivere insieme?»
Annuì. Dovetti portare una mano sul petto nella speranza di calmare il battito cardiaco e il fiato che si era accorciato. Non ci potevo credere che me lo avesse chiesto.
«Non vuoi?» chiese quasi dispiaciuto.
Sforzai la mia gola di tirare fuori qualche parola. «I-io... certo che sì! Non so, mi hai presa alla sprovvista...»
Fece un largo sorriso e mi stampò un bacio. Gli accarezzai la guancia. Ormai era sparito ogni tipo di dolore, fisico e psicologico. Kevin non c’era, ero al sicuro, stavo con Dan, stavamo per andare a vivere insieme.
«Riesci ad alzarti?» si mise seduto. Provai ad imitarlo ma mi tirò un poco all’addome, tornò a farmi male, ma non come prima. Mi girò la testa, riprendendomi quasi subito.
«Non lo so» ammisi tenendomi la pancia. Notai che c’era un rigonfiamento spugnoso e cartaceo, sollevai l’indumento e c’era appunto un pezzo di carta adesiva che teneva fermo un pacco di tessuto spugnoso, bianchiccio.
«Woody doveva fare il medico» fece un mezzo sorriso. Impazzii in quella frazione di secondo che lo vidi.
«Da dove vengo io diventarlo è difficilissimo, in più tutti i medici sono sempre impegnatissimi dato che ci sono tante nuove malattie e in campo medico-scientifico c’è molto su cui lavorare.»
Quasi si sorprese. «È la frase più lunga che tu abbia composto oggi.»
Scossi le spalle. «Mi va di farlo.»
I suoi occhi quasi brillarono quando lo dissi; temetti avesse capito qualcos’altro, ma finse di non aver sentito e non rispose.
Mi guardai intorno ascoltando quel silenzio che era più rumoroso di ogni parola. Facevano rumore i miei pensieri, il mio respiro e i suoi battiti cardiaci, che potevo benissimo sentirli affievolirsi fino a regolalizzarsi.
Il cielo nero e cupo della notte venne squarciato da un lampo che saettò davanti alla finestra, e successivamente un tuono mi fece sobbalzare. Dan si voltò di scatto verso di me e rise dolcemente.
«Piove» mormorò.
«Lo vedo» risposi procurando altro silenzio tra di noi che effettivamente mi piaceva. Potevo contemplarlo, ricordarmi quanto sia estremamente bello, analizzando ogni particolare del suo viso che mi aveva fatta innamorare. Le mani, poi, che si intrecciavano tra di loro per il nervosismo, oppure che si infiltravano tra la sua folta chioma per la timidezza, il rossore che compariva sulle sue guance, a volte si mordicchiava un labbro o passava la lingua per inumidirlo. Ogni suo singolo movimento veniva registrato nella mia testa come se fosse stato essenziale per conoscerlo.
Quando si voltava a guardarmi arrossiva, e distoglieva subito lo sguardo, quello che io non riuscivo a fare. Mi stavo innamorando anche delle sue piccolezze oltre che di lui stesso: anche delle poche lentiggini che aveva vicino al naso che lo rendevano più bambino, ma subito la barbetta rossiccia lo trasformava in uomo. Gli occhi, invece, persi nel vuoto non avevano età, erano l’eterno, senza inizio né fine, io mi ci perdevo, non ne uscivo più una volta entrata. Mi trattenevo dal far scivolare la mano per accarezzarlo, toccarlo, mi mordevo le labbra per resistere alla tentazione di dargli un bacio, di sentire di nuovo che mi apparteneva.
Eppure, sotto sotto, avevo ancora paura di quel Daniel Campbell Smith che cambiava umore tutto d’un tratto, si sentiva oppresso e impossibilitato dal fare molte cose, ma io ero sua, poteva fare di me ciò che voleva. Glielo avrei permesso: lo amavo. E per amore, con amore, in amore tutto è lecito.
Sembrò che fosse lui, invece, quello che resisteva di più alla tentazione di stabilire un contatto fisico con me, quello che soffriva perché temeva di disturbarmi, ma avrebbe interrotto solo il mio amore per lui, niente di importante. O forse sì, forse era troppo importante ciò che provavo per lui. Era il motivo per cui avevo abbandonato il terzo millennio, il motivo per cui mi stavo rifacendo una vita dattandomi alla preistoricità del ventunesimo secolo, in un mondo in cui un uomo poteva tranquillamente picchiarmi, violentarmi, uccidermi. E quasi nessuno avrebbe potuto fare niente, al contrario dell amia epoca in cui le donne erano costantemente controllate.
Strisciai silenziosamente più vicina a lui finalmente distogliendo lo sguardo e riprendere a respirare senza esitare perché lui muoveva le labbra, le mani, o sospirava. In quei momenti mi sembrava di non possedere più alcuna capacità motoria, ero paralizzata, perché le singole cose che faceva voleva dire per me una ragione in più per esistere. La mia esistenza ruotava attorno a lui. Mi batteva forte il cuore. Mi mancava l’aria. Non riuscivo a fare a meno della sua voce e del suo respiro.
Dan spostò dapprima lo sguardo su di me, poi mi guardò negli occhi. Rimasi incantata di nuovo. Schiuse la bocca di poco, e scosse velocemente il capo dall’altra parte.
Con un coraggio che credevo di non possedere, gli sfiorai la mano. Rabbrividì al mio tocco e finalmente si decise a guardarmi senza voltarsi. Si era fatto vicino, le fronti si poggiarono, i nostri respiri si mescolarono.
Le sue labbra morbide toccarono prima la guancia, poi scivolarono sulle mie. Strinsi la sua mano e portò l’altra dietro la mia nuca così per impedirmi di scappare. Ricambiai il bacio e poi tornai a guardarlo negli occhi. Ormai non ne potevo più fare a meno. Erano l’unica cosa di cui mai dovevo privarmi. Il contatto visivo per me era la cosa più essenziale, e infatti tutto era iniziato da lì.
Pensai a prima, che fingevo di dormire e mi chiedeva come stavo, e un flashback mi abbagliò la mente riaffiorando i ricordi.
Io che tremavo dal freddo, con gli occhi chiusi, lui che si rintanava sotto le coperte, che mi chiedeva come mi chiamassi e da dove venissi. La paura di rispondere ad un uomo sconosciuto, che ora per me non nascondeva più segreti. I miei occhi che si aprivano, la sua maledetta curiosità e il mio cuore che riprendeva a battere, paralizzato dal timore. Quelle braccia, così calde, che mi ispiravano sicurezza e conforto. Quegli occhi, così blu e densi, infiniti, in cui mi ero smarrita, la sua voce calda e stanca.
E poi, le prime urla, le prime sofferenze, i segnali che mi ero già innamorata, lui che stava impazzendo. Il primo bacio, gli ultimi prima che partissi di nuovo nel futuro e la paura di non rivederlo mai più. Il mio disastroso ritorno, la nottata al gelo, vederlo e tornare a baciarci, la mia prima volta, l’amore che mi trasmetteva. Anche l’imbarazzo, ma soprattutto l’amore.
Il litigio, il coma, la sbronza, farlo di nuovo involontariamente. Le lacrime, che non smettevano di bagnarmi il viso.
In tutto quel tempo in cui io e Dan ci baciavamo, avevo ricordato tutto questo. Che era accaduto in pochissimo tempo.
Le sue dita che passavano sulle guance che erano state bagnate dalle lacrime, l’impossibilità di contenere le mie emozioni che uscivano tutte insieme.
«Dan» singhiozzai.
«Shh» mi zittì con un bacio morbidissimo «non parlare.»
Con i polpastrelli accarezzai le sue labbra arrossate. «Voglio che mi abbracci.»
Sorrise lievemente, e poi mi strinse tra le sue braccia. E di nuovo li sentii: i nostri cuori che battevano insieme, come un’unica sinfonia, sembrava volessero uscire e unirsi anche loro. Mi pulsava la ferita, ma non volevo saperne di staccarmi da quell’abbraccio che mi curava ogni dolore.
Tremai, e la presa si fece più forte. Di nuovo quelle labbra che premevano sulle mie, stavolta anche le sue lacrime che si univano alle mie, un sorriso a fior di labbra, il respiro mozzato.
«Non lasciarmi mai» sussurrò con la voce mozzata.
«Mai» risposi con la stessa voce «non sopravviverei.»
«Siamo in due a non sopravvivere» mi baciò la fronte.
Inspirai a fondo il profumo del suo collo, con la testa poggiata all’incavo, a bagnare la sua felpa grigia. Piansi tutte le mie lacrime. Ma non erano lacrime di dolore, erano lacrime di gioia. Lacrime perché ero innamorata di Dan, e lui lo era di me.
Dan e Rachel. Suonava anche bene.
Ma come si erano innamorati i miei genitori, saremmo finiti così anche noi? Lui vittima di qualche ingiustizia sociale, io impazzita per il dolore?
No, non sarei impazzita. Sarei stata vittima anch’io, con lui, perché la mia vita senza non serviva a nulla, era un semplice scorrere delle ore, dei giorni, dei mesi, di una vita senza valori, senza amore.
 
Writer’s wall
Sono tornata, gente! E con un capitolo che mi lascia fin troppo perplessa, non so davvero cosa pensare, credo che sto degenerando troppo la storia, è troppo drammatica, ma va bene così, so che la sistemerò come ho fatto con tutte le altre.
Mi scuso se nel capitolo 12 non ho messo l’angolo dell’autrice, in pratica lo avevo pubblicato di fretta e ho dimenticato di scriverlo haha so sorry guys.
Se non vi rispondo alle recensioni è perché ho poco tempo, mi sto mettendo sotto con lo studio perché non voglio rischiare di perdere l’anno..e insomma, si va avanti.
Del resto, voglio sempre ringraziarvi, siete sempre tante e sono in debito con voi, state sprecando il vostro tempo per quest’idiozia, grazie ancora <3
A presto col capitolo 14 che non so nemmeno come iniziare, e buona serata! :D vi voglio bene, scusate questo momento di dolcezza.
Angelica.

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Capitolo 14
*** Fuga ***


Io e Chris eravamo rimasti alla locanda a dare un’ultima sistemata prima di fare le valigie e partire a Londra con Dan. Stavo per prendere il neurofono quando mi ricordai che Woody non ne sapeva niente di chi fossi, da dove provenissi esattamente, perché ero lì.
Sicuramente un motivo c’era, e il mio motivo principale era Daniel: non me ne sarei andata senza di lui.
Woody raccolse una risma di fogli di carta bianca in una specie di scatola di legno, un po’ più grande di ognuno di quei fogli, e la richiuse poggiandola sotto al bancone.
Una folata di aria umida e che odorava di fuliggine entrò nella stanza, e istintivamente buttai gli occhi sulla porta d’ingresso: era Kyle, con una busta – sempre di carta, era tutto cartaceo lì – che emanava un buon odore.
«Cos’è quella roba?» chiese Chris indicando il pacco che l’altro teneva in mano.
Kyle scosse le spalle e lo aprì, mostrando all’amico il suo interno. «Un hamburger, l’ho preso al Mac sull’autostrada.»
«Dovremmo andarci, sembra carino quel posto» aggiunse Chris, avvicinandosi alla porta.
Io mi sedetti su quelle maledette sedie senza spalliera di cui non ricordavo mai il nome, e Kyle mi affiancò sorridente. «Allora... partite eh?»
Annuii, imbarazzata.
«Ci stai portando via Daniel» soffiò, ma non aveva niente di minaccioso. Sembrava solo deluso. Ma cosa avevo fatto per deluderlo?
«Non voglio portarvelo via... è stato lui a chiedermi di partire a Londra.»
Fece un’amara risata. «Se non ci fossi tu, lui a quest’ora del mattino era già ubriaco fradicio, Rachel. Con una bella ragazza accanto, vogliosa, a fare p-»
«Kyle non mi sembra opportuno» interruppe Chris, il mio unico angelo custode in quel gruppo di scervellati.
Lui fece una smorfia. «A proposito, dov’è Daniel?»
«Alla stazione» risposi quasi orgogliosa, sorridendo tra me e me pensando a lui che prendeva i biglietti per il viaggio verso Londra.
Il tossicchiare continuo di Will, seduto in fondo alla stanza, catturò la mia attenzione. Ricordai che io ero rimasta al punto in cui lui e Dan litigavano, e avevo intenzione di togliermi quel dubbio.
«Ehi» salutai sedendomi davanti a lui.
Fece cenno di saluto con la mano e un sorriso forzatissimo.
«Ehm... non so da dove cominciare.»
Scosse le spalle. «Fai con comodo.»
Quel tono che sembrava scoglionato e anche ostile mi polverizzò la voglia di affrontare l’argomento. «Dunque... i-io ricordo che tu e Dan avete litigato. E immagino che siano partite anche cose più forti delle parole, dato che Dan aveva dei... segni sulle labbra.»
Sospirò, stanco. «Non puoi capire.»
«E invece posso.»
Si torturò le mani fino a posarle pesantemente sul legno scuro del tavolo che ci separava. «Abbiamo sempre litigato, solo che questa volta la situazione si era fatta... pesante.»
Mi schiarii la gola. «Che tipo di situazione?»
«L’argomento in causa era la tua presenza. Il fatto che lui si fosse dato troppo ai sentimentalismi da quando ti aveva trovata a dormire nel suo letto.»
«Sarei io il problema?» pronunciai quelle parole temendo che fossero vere. Un presagio di abbandono e di fastidio si insinuò nella mia testa e mi bloccò il respiro e ogni controllo delle emozioni.
Sorrise, stavolta più spontaneamente. «Non più, da quando Dan ci ha confessato di essere serio.»
Si arrestò totalmente ogni mia capacità motoria e riflessiva. Serio. Dan era serio.
«S-serio?» soffiai tra le labbra.
Annuì, poco convinto. «È quello che ha detto. E di solito lui dice cazzate solo quando è ubriaco... mi sembrava sobrio.»
Guardai in direzione di Woody che puliva il bancone con uno straccio di tessuto bianco, sfregandolo più volte su vari punti. Sembrava amare quella locanda come fosse l’ultima cosa che gli rimaneva. E in effetti forse era così, la locanda era l’unica cosa rimasta oltre agli amici.
Sbuffai, dando dei colpetti sul pugno chiuso di Will. «Lui non è mai abbastanza serio.»
Mi lanciò uno sguardo perplesso, ma mi alzai dirigendomi verso il tipo più basso di me coi capelli invidiabili alla donna più bella del mondo.
Kyle, vicino a me, osservava attentamente le movenze di Chris sul legno scuro del bancone, al modo in cui sistemava le bottiglie di alcolici, i bicchieri e le fotografie. Quella fotografia.
Lì avevo visto Dan per la prima volta, quando dissi “è un bel ragazzo”, gli occhi blu, profondissimi. E poi riaffiorarono di nuovo i ricordi di pochi giorni prima, quando me lo ritrovai accanto a me nel letto, in cui congelavo, il suo abbraccio e tutto il resto.
Sentii una nostalgia assurda di quel primo giorno, quella prima notte, in cui davvero ogni istante poteva diventare l’ultimo. Quello in cui il tempo, il poco tempo che avevo, aveva solo accellerato i miei sentimenti, la paura di perderlo e di vivere senza le sue braccia, le sue mani, i suoi occhi, le sue labbra. Ogni singola parte di lui era diventata anche mia, già da quei primi istanti.
Le ultime tre ore, quelle in cui provai l’addio più duro della mia vita, più forte e straziante dell’addio dato a mio padre. Che poi, non era un addio, era una constatazione del fatto che lui non fosse più presente. Mai più. E sapere di poter perdere Daniel nello stesso modo, così, dal nulla, mi aveva aperto una ferita.
Le dita di Kyle che mi schioccavano davanti agli occhi mi risvegliarono dallo stato di trance. Stavo per lanciargli un’occhiataccia quando mi accorsi che Kyle era davanti a me e quello che mi stava risvegliando era il ragazzo dagli occhioni blu. Sorrisi lievemente e lui ricambiò, tirando fuori i biglietti per il viaggio verso Londra. Ero curiosa di sapere con quale mezzo infernale avremmo viaggiato.
Kyle gliene strappò uno di mano e lo analizzò per bene. «... e quindi partite la settimana prossima?»
Dan annuì.
«Perché così tardi?» domandò Will, e mi suonò come un rimprovero. Magari non vedeva l’ora che ci levassimo presto dalle scatole.
La discussione diventò un miscuglio di borbottii e di frasi poco simpatiche che non avevo voglia di ascoltare. Sentii il neurofono vibrarmi in tasca e andai nel bagno della locanda per vedere chi fosse. Chiusi la porta a chiave e lo accesi: la spia arancione lampeggiava, c’era segnale.
Mi cadde l’oggetto di mano. Avevo smesso di respirare da dieci secondi. Mi portai le mani sul viso, sfregando gli occhi, sperando fosse tutto finto, che non stesse succedendo. La testa mi pulsava, come se ricevessi una martellata di continuo. Mi schiaffeggiai piano, poi presi l’apparecchio in mano e sfrecciai davanti a tutti i presenti verso la porta della locanda, richiudendomela alle spalle, correndo con tutta la forza e il fiato che avevo nei polmoni per raggiungere il solito, maledetto punto. C’era esattamente quello che aveva scritto nel messaggio: il chip e l’analizzatore da polso. Lo attivai e misi dentro il chip e automaticamente si proiettò la sua faccia, quella che volevo riempire di schiaffi, ma era riuscito a riempire la mia di lacrime.
Tossii più volte, le sue labbra contratte in un sorriso poco amichevole, i miei polmoni che si rifiutavano di inspirare aria. Niente di più assurdo. Era ancora lì, era finito chissà dove ma era ancora qui, nel ventunesimo secolo.
Lui doveva tornare a casa, a Oslo, doveva andarsene da qui. La macchina del tempo era sparita, ma non era andata via.
Tastai le tasche per prendere il neurofono ma non c’era. Controllai ovunque, facendo cadere l’analizzatore da polso, nelle tasche posteriori, per terra, mi guardai intorno. Lo avevo preso. Forse mi era caduto. Dei passi veloci in lontanza mi fecero sobbalzare. Una voce che gridava il mio nome. La tosse si faceva sempre più forte e mi soffocava la gola, mi bruciava, la testa mi faceva malissimo. Lo avevano visto, avevano letto il messaggio, sapevano che stava tornando a prendermi. Ma doveva sparire, non ce l’avrei fatta a sopportarlo.
Allora decisi che dovevo scappare. Dan mi chiamò un’altra volta e poi mi misi a correre in una direzione sconosciuta.
«Aspetta!» gridò con la voce mozzata, ma finsi di non ascoltarlo. Avevo paura di finire nei guai, di coinvolgere anche lui, dovevo fuggire.
Un maledetto sasso, che poteva stare ovunque, mi intralciò il cammino e quasi caddi, perdendo l’equilibrio e lui, essendo più veloce di me, mi prese per un braccio e mi gettò per terra.
«Dove cazzo vai?» mi rimproverò. I suoi occhi blu erano più incendiati del solito.
«A te cosa importa?!» gridai e sbuffò pesantemente.
Mi tirò di nuovo su per il braccio senza dolcezza. «Così facendo peggiorerai la situazione. Ho letto quel messaggio. Ho visto tutto. Pensi di salvarti la pelle scappandotene? Saresti vulnerabile, idiota!»
Quel termine mi imbestialì e gli diedi uno schiaffo sulla guancia, senza nemmeno preoccuparmi di avergli fatto male. Si portò la mano sul punto in cui gli avevo lasciato l’impronta delle cinque dita, arrossatosi completamente, e chissà con quale pazienza mantenne la calma. Io non ce l’avevo quella pazienza, mi ero scoglionata solo a sentirlo parlare.
«Rachel, vedi di darti una calmata, non ti farà del male, non ne è capace.»
Iniziai a respirare più velocemente, la rabbia era diventata terrore puro. Sollevai la maglia giusto per scoprire la pancia. «Questo come te lo spieghi? Eh?»
Mi strinse il polso. La sua faccia era troppo vicina nonostante volessi allontanarlo. «Sei isterica, non ti rendi nemmeno conto di quello che succede. Non è stato lui a colpirti, c’era un lembo della capsula appuntito e ci hai sbattuto contro.»
Aprii la bocca come se avessi qualcosa da controbattere. Probabilmente aveva ragione, ma ciò non toglieva che Kevin per me era pericoloso.
«Tu non sai cosa può fare!» potei solo dire.
«Ti riporterebbe indietro, è l’unica cosa che si permetterebbe di fare. Non ti farà del male.»
Strinsi i pugni. «Riportarmi a casa è il modo più grave per farmi del male.»
Rimase in silenzio, ero riuscita a farlo stare zitto. I suoi occhi blu si erano spenti, le fiamme che ardevano dentro di lui si stavano pian piano affievolendo. Ma intanto, dentro di me, c’era la peggior guerra dei sentimenti. Non sapevo se essere terrorizzata da Kevin, di tornare a Oslo con la forza; se essere arrabbiata con Dan, per la sua sfacciataggine, come se non gliene fregasse; non sapevo nemmeno se essere felice del fatto che Kevin non mi avesse fatto del male, o almeno non di proposito.
Decisi di non essere nessuna di queste cose e indietreggiai, sfilandogli dalla tasca il neurofono sporgente. Mi guardò con aria interrogativa e cercò di replicare, ma gli tappai la bocca con una mano.
«Non farti passare nemmeno per la testa un’idea del genere» lo rimproverai, e finalmente gli diedi le spalle.
Di nuovo i suoi maledetti passi echeggiarono dietro di me e mi bloccarono, stavolta più dolcemente. «Ce ne andiamo a Londra. Adesso. Partiamo subito, prendiamo il primo treno.»
Sorrisi tra me e me, e annuii, ma sapevo perfettamente che Kevin mi avrebbe trovata e mi avrebbe riportata nel terzo millennio. Potevo nascondermi finché volevo... ma ce l’avrebbe fatta. Mi avrebbe distrutta comunque.
Dan si piegò per darmi un bacio ma lo scansai, avanzando verso la porta della locanda. Mentre la chiudevo, vidi un’automobile sfrecciare davanti all’entrata e un rumore sordo di una sgommata fece stridere le orecchie. Poi di nuovo il motore rimbombò e si fermò esattamente davanti alla porta.
Woody si affacciò per vedere chi fosse e mi indicò.
«Rachel, ti vogliono» disse, ma io ero già fuggita dall’altra parte della stanza, fiondandomi nel corridoio che portava a tutte le stanze. Mi chiusi a chiave in quella di Dan, e sentii delle persone che parlavano. Alzarono la voce, e un sonoro e secco tonfo impedì al mio cuore di battere oltre.
Chiamavano Will in continuazione, evidentemente non ricevevano risposta. Temetti seriamente per l’uomo e mi venne d’istinto uscire e consegnarmi, ma non potevo arrendermi e soprattutto non potevo fare questo a Dan. Ma stavo mettendo a rischio la salute e la sicurezza dei miei amici che stavano combattendo per difendermi. Tirai un sospiro lungo e girai la chiave. C’era silenzio, si erano fermati tutti. Dei passi lenti e scanditi fecero capolino nel corridoio. Un uomo alto, biondo, dagli occhi grigi si fermò esattamente al centro dell’uscita e sorrise maligno.
«Ci rivediamo» sibilò.
Il battito cardiaco accellerò tremendamente, pensai fosse la fine davvero. Presa dal panico, rimasi immobile, a guardarlo.
«Non mi saluti?» finse dispiacere, ma intanto aveva ripreso a camminare e io ero ancora impassibile. Non ragionavo più con la testa, tremavo, la gola si chiudeva.
«Peccato, mi ricordo che avevi una bella voce. Anche quando strillavi, ti ricordi, tre anni fa? Che bella giornata era stata quella» si mise le mani in tasca. Ormai era vicinissimo. Potevo sentire il suo fiato che muoveva leggermente i miei capelli.
«Non credo che questi australopitechi abbiano dei sistemi di sicurezza e di controllo» tese la mano e improvvisamente indietreggiai, senza provocare una sua reazione.
Con un coraggio che uscì chissà da dove parlai. «Che hai fatto ai ragazzi?»
Scosse le spalle. «Il mio collega si sta prendendo cura di loro. Ah una cosa... il tuo amico, quello con gli occhi strani, quelli blu, penso si sia fatto davvero male... non deve mai mettersi in mezzo.»
Tutta la rabbia del mondo si era concentrata nella mia mente e dovetti espellerla prima di esplodere. Raccolsi tutte le energie che avevo in corpo e mi gettai sul lato sinistro, ancora libero, prima che Kevin se ne accorgesse e mi impedisse di passare. Corsi lungo il corridoio, ma non mi seguiva. Però non mi fermai, andai verso l’uscita, e c’era Will poggito sul legno scuro del bancone. Mi vennero i brividi e gli toccai appena il viso barbuto prima che Kevin apparisse di nuovo e ripresi a correre, all’aria aperta, dove due tizi misteriosi trascinavano un ragazzo che scalciava, con la testa incappucciata e le braccia legate.
«Dan!» gridai con tutto il fiato che avevo in gola. Non sapevo dove fossero andati Kyle e Woody, ma mi lanciai all’inseguimento dell’auto che stava partendo con a bordo Dan. Non lo avrei permesso.
Da lontano la vidi, di nuovo, era la capsula. Kevin stava uscendo dalla locanda, alzai il passo, ma la macchina era troppo veloce e la persi di vista. Caddi a terra esausta, ma quando mi voltai e il ragazzo stava camminando lentamente verso di me ripresi a correre nella direzione opposta alla capsula. Tossi violentemente per recuperare fiato, e urlai di nuovo il nome di Dan.
Non ce la feci più, le gambe tremavano e i polmoni stavano per scoppiare. Caddi rovinosamente a terra senza farmi troppo male, sull’asfalto gelido, alzai gli occhi al cielo e provai a ricacciare le lacrime che minacciavano di uscire.
Dan era in pericolo, cosa gli avrebbero fatto quei tizi? E Kevin cosa mi avrebbe fatto?
Mi alzai tremante, mi voltai indietro e Kevin era esattamente dietro di me. Gridai per lo spavento, ero spacciata, non sapevo più cosa fare. Lui si piegò per afferrarmi, strisciai col sedere, aumentando la distanza, ma allungò il braccio. Poi una mano spuntò dal nulla e lasciò un gancio destro sulla faccia di Kevin. Will, in piedi e bianco in volto, si gettò su Kevin per impedirgli di muoversi.
«Rachel, scappa! Chiedi aiuto, vedi dov’è Dan!» gridò prima che il ragazzo biondo lo zittì con una gomitata. Non seguii lo scontro, mi rialzai col cuore in gola e ripresi a correre. Perché Congledon era una città così schifosa? Così deserta, senza nessuno che ci avesse potuto aiutare?
Il neurofono non sarebbe servito a nulla. Poi la vidi, era quella scatoletta bianca che Kyle aveva costantemente in mano. Me la rigirai, poi feci un paio di metri correndo e mi nascosi in un vicolo cieco.
Premetti il tasto in basso, al centro e poggiai la testa sul muro cercando di riprendere fiato. La testa mi girava, le gambe sembravano sgretolarsi. Ma mi feci forza e provai ad usarlo. Era semplice. Ed era proprio quello di Kyle, dato che come sfondo aveva una foto di lui e una ragazza.
Non sapevo come fare a contattare qualcuno, quando vidi un tasto sullo schermo touchscreen che indicava la “rubrica”. Ci cliccai sopra e apparirono vari nomi, tra cui quello di Dan, Chris e Will.
Ne schiacciai uno a caso.
La chiamata partì a Chris.
Dei suoni brevi e sconnessi, e poi un rimbombo. Una voce dall’altro capo parlò.
«Kyle....bzzz...Kyle...mrrrrr senti?»
Non si capiva nulla. «Chris, sono Rachel... Chris dove sei? Hanno preso Dan, Will sta picchiando Kevin e Kyle ha perso la scatoletta...»
«...brrrrr Rachel zzzz Rachel ascoltami, devi andare per czzzz brrr hai rrrr capito?»
«Non ho sentito Chris, dove devo andare?»
«Frodshhhhhh... Frodsham!»
Tossii di nuovo. «D’accordo, ma tu resta in li-»
Altri rumori più brevi e sconnessi sostituirono la confusione di prima. La chiamata era terminata. Mi alzai di malavoglia e mii la scatoletta in tasca, ricordandomi bene a mente il nome del luogo in cui dovevo andare: Frodsham. Presi un pezzo di vetro appuntito che stava depositato silenziosamente accanto al muro e lo infilai in tasca, pensando di poterlo usare come unica arma di difesa.
Mi affacciai prima di uscire allo scoperto ed ero sola, e fortunatamente poco più avanti c’era una svolta che portava a destra e dei cartelli stradali. Uno di questi indicava proprio Frodsham, ma non sapevo come arrivarci, Kevin mi avrebbe vista subito. Ancora una volta il panico si impossessò di me quando una macchina rombò esattamente dietro di me. Mi girai e dei fari luminosi illuminarono ancor di più la strada già illuminata dalla giornata soleggiata di quel giorno. Mi misi a correre verso la svolta, e l’auto sfrecciò nella mia direzione. Corsi a perdifiato. Davanti a me si presentò una strada sbarrata per via delle frane. Era il luogo in cui mi aveva portata Kyle. Un cartello indicava Frodsham, e la freccia era rivolta verso il basso.
La macchina sgommò dietro di me e iniziai a scendere senza fermarmi mai su quella che era una stradina, scavalcai la sbarra di metallo che impediva alle auto di passare e percorsi tutta la strada. Guardai nel finestrino dell’auto prima che sparisse dal mio campo visivo e una testa incappucciata stava ferma contro il finestrino.
«Dan!» gridai, ma lo sportello si aprì e continuai a scendere. Trovai una specie di sottopassaggio, mi ci nascosi e lasciai che due uomini vestiti di nero e con due occhiali da sole dello stesso colore passarono, e per fortuna non mi videro. Quando furono abbastanza lontani risalii la stradina e aprii la portiera dell’auto. Sfilai il cappuccio a Dan e lui era mezzo rimbambito, lo avevano stordito. Li avrei presi uno a uno e li avrei picchiati a sangue, aveva anche un livido vicino alla bocca. Gli tirai schiaffetti sulle guance e aprì gli occhi. Intanto gli uomini in nero stavano tornando, mi videro e presi Dan sulle spalle, correndo via. Loro alzarono il passo, ma erano ancora lontani. Allora lasciai Dan, che intanto si era risvegliato completamente, e andai a bucare i copertoni della macchina con il pezzo di vetro che avevo trovato prima e li lasciai sgonfiare.
«Alzati, Dan! Dobbiamo scappare!»
Mi guardò di traverso, ma poi vide i due tizi e si alzò in piedi. Gettai il pezzo di vetro e mi misi a correre insieme a lui. Kevin da lontano si dirigeva a piedi verso di noi.
«Dove sono gli altri?» chiese Dan col fiatone, quasi in preda al panico.
«Chris ha detto di andare a Frodsham, ma quelli ci intralciano il passaggio» tremai di paura.
Mi prese la mano e mi trascinò con sé verso un punto di Congledon che non avevo mai visto: la boscaglia.
Kevin ci vide e inziò a correre nella nostra direzione, e noi accellerammo.
«Appena arriviamo dall’altra parte prendiamo la macchina di Kyle, sperando che stia lì!» disse ad alta voce, cercando di scandire le parole per via della stanchezza.
«Kevin ci sta alle costole» singhiozzai.
«Non per molto» lo guardai e sorrise. Ci girammo entrambi e Will era ritornato all’attacco, bloccò Kevin per una gamba e lo fece inciampare, cadendo rovinosamente.
Non ce la facevo più, dovevo fermarmi. Mi bloccai per pochi secondi con la testa che mi girava tantissimo, dei conati di vomito che rischiavano di uscire dalla bocca. Dan si fermò poco più avanti di me, col fiatone anche lui, diventando bianco in volto. Ci guardammo, presi dall’asma.
«Mi dispiace» soffiai «vi ho messi tutti nei guai.»
«Gli altri se la sanno cavare da soli, ma ora sia io che te abbiamo bisogno l’uno dell’altra. Alzati, e seguimi. Prenderemo la macchina di Kyle, le chiavi le tiene sempre sotto lo zerbino.»
Mi rimisi in posizione eretta e ripresi a camminare a passo svelto verso l’uscita da tutti quegli alberi e un freddo assurdo. Ma dopo aver corso tanto, stavo scoppiando dal caldo. Finalmente vidi uno spiragli da quella strada poco illuminata e ci ritrovammo nel centro abitato di Congledon. Dan mi prese per mano e mi guidò attraverso i palazzi, i marciapiedi poco popolati, le rare macchine che passavano.
Un’automobile blu stava parcheggiata al sole caldo di quella mattina. Dan corse verso la porta della casa di Kyle e sollevò lo zerbino, prendendo le chiavi. Cliccò un tasto e si aprì, e saltammo dentro.
Sigillò l’apertura dall’esterno e partimmo, in direzione Frodsham.
 
Writer’s wall
Niente da dire su questo capitolo, l’ho tirato così, non sapevo più cos’altro inventarmi.
A voi le critiche e i commenti, baci.
Angelica.

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Capitolo 15
*** Ansie ***


Il terreno si faceva troppo rigido per proseguire. Parcheggiò davanti all’uscita di Congledon e mi invitò a scendere e continuare a piedi, ma avevo le gambe a pezzi e non mi ero riposata abbastanza. I seguaci d Kevin avrebbero potuto trovarci in qualunque momento, e restammo sull’attenti ogni singolo momento in ogni singolo passo che facevamo. La boscaglia si infittiva, la stradina era sempre più scoscesa e ripida. Dovevamo stare attenti a non cadere di sotto, o saremmo arrivati a Frodsham con poche ossa intere.
L’ansia e la paura di essere trovati aumentava, e anche la preoccupazione per Woody, Will e Kyle. Sentii dei passi e mi arrestai completamente per il terrore, mentre Dan, più in basso di me, mi prese per la vita e mi fece scendere su un pianerottolo. Posai un piede e mi sedetti, facendo spazio anche a lui. Più dietro c’era una specie di galleria, scavata non molto in profondità, e ci addentrammo. Forse lì avrei potuto provare a contattare Woody.
«Non funziona... c’è una tizia che dice che non va...»
Mi tolse di mano la scatoletta bianca. «Non c’è linea qui, inutile provare. Sarà meglio aspettare che cali il sole, ci muoveremo più facilmente nell’ombra.»
Sospirai e mi accoccolai contro il suo petto socchiudendo gli occhi. Ero distrutta. Le gambe mi bruciavano, sembravano esplodere, e iniziavo ad avere freddo.
«E se ci trovano?» sussurrai avvicinandomi al suo orecchio.
«Non ci troveranno» rispose a bassa voce.
«Ma se fosse?»
Rimase a riflettere. «Ce la caveremo.»
Feci segno di no con la testa. «Se ci trovassero, e questi fossero gli ultimi istanti che trascorriamo insieme-»
«Non dire idiozie» la sua voce tremò «non pensarci nemmeno.»
«Loro vogliono me, Dan, ho messo voi quattro nei guai per colpa mia.»
«Dovevo difenderti prima che fosse troppo tardi.»
«Ti prendi troppe colpe.»
Si mise in ginocchio rompendo il contatto fisico che c’era tra di noi. «Avrei dovuto immaginarlo che sarebbe tornato, potevamo partire subito per Londra, oppure... oppure...»
Sospirai. «Sono io l’errore di tutto questo. Sono io che dovevo andarmene e non tornare più, e forse non sarei mai dovuta venire e basta.»
Si passò una mano tra i capelli annuendo. «Potevi, certo. Ci saremmo risparmiati tanti guai e tanti disastri, ma ci siamo incontrati, e non si può tornare indietro. Quindi dovremmo tenerci questa storia...»
Quel “tornare indietro” mi fu come di illuminazione.
«Dan» lo zittii «se riusciamo a tornare alla macchina del tempo senza che ci vedano, io potrei tornare nel futuro esattamente il giorno prima che decidessi di partire. Potremo dimenticarci del nostro incontro, nessuno saprà dell’esistenza dell’altro.»
Non rispose. Mi guardò allibito.
«Che ne pensi?»
Continuava a stare in silenzio. Sarebbe stata la soluzione migliore per me, per lui, per i ragazzi. Ma non riuscivo a separarmi da lui, sicuramente no. Temevo di perderlo, di sbagliare qualcosa. Di soffire perché ero senza di lui.
«I-io non...»
Mi venne da piangere ma non lo feci. Lo abbracciai e ricambiò in modo incerto.
«Penso che se vogliamo vivere tranquillamente sia io che te non ci rimane altro da fare» dissi drastica, ma mi tappò la bocca con un bacio a cui non seppi resistere. E non avrei resistito mai, nemmeno se avessimo ricominciato tutto daccapo.
«Non voglio che...» mi strinse più forte. Mi sentivo un’emerita stronza a farlo sentire così. Non volevo nemmeno io lasciarlo, perché anche se non sapevo della sua esistenza avrei vissuto uno schifo. Kevin mi avrebbe cercata nel futuro, perché era pazzo. Mi alzai in piedi abbassando un poco la testa per non sbattere contro il soffitto roccioso e camminai verso l’uscita. Era calata la notte, e non c’era nessuno in giro. Gli feci cenno di seguirmi e scesi lungo il fianco della collina ripida. Da lontano potei vedere delle luci di lampioni, oltre la boscaglia. Seguita da Dan, mi addentrai tra gli arbusti e le querce alte e imponenti, facendo scricchiolare le foglie secche sotto di me. Altri passi che non erano i nostri, più veloci, saettavano dietro di noi.
«Rachel» sussurrò Dan nell’orecchio «meglio se alziamo il passo.»
«Inizio a spaventarmi...»
Mi prese forte la mano e camminammo completamente al buio per non farci scoprire. Ero io a guidare lui perché anche senza luce ci vedevo bene. Un’ombra da lontano si mosse velocemente, e il mio cuore smise di battere per mezzo secondo. Gli occhi si gonfiarono di lacrime e mi sfuggì un singhiozzo.
«Shh, va tutto bene» mi accarezzò la guancia, e mi girai abbracciandolo forte. Eravamo fermi. Sentivamo solo il leggero vento. Un altro passo. E un altro, che si avvicinavano.
«Dan, sono vicini» dissi a bassa voce nell’orecchio, quasi con una voce impercettibile.
«Se succede qualcosa» rispose con la stessa voce spezzata «corri più veloce che puoi.»
«Io non me ne vado senza di te.»
Mi lasciò un bacio a fior di labbra. «Al mio tre, inizia a correre verso l’uscita del bosco che sta alle tue spalle. Se non lo fai ci rimetteremo entrambi.»
Singhiozzai e lui iniziò a contare. Strinsi forte i pugni e gli diedi un bacio.
«Due...»
Mi si bloccò il respiro. Mi girai dandogli le spalle, altri passi vicini.
«VAI, CORRI!»
Scappai dalle sue braccia, e delle mani cercarono di afferrarmi ma ero più veloce di loro. Il cuore mi batteva a mille, sentivo il fiato mancarmi, le lacrime che mi scendevano veloci sulle guance, le foglie si sollevavano da terra al mio passaggio e gli alberi frusciavano, insieme al vento che soffiava forte nelle mie orecchie e negli occhi. Vidi da lontano l’uscita del bosco e mi ci fiondai come se avessi trovato un’oasi nel deserto. Quasi mi buttai sull’asfalto freddo della strada. Non c’era nessuno. Avevo ancora la scatoletta nella tasca, ma la batteria era in punto di fine. Lo sbloccai e usai lo stesso procedimento per avviare una chiamata. Woody rispose dopo averci riprovato quattro volte. Sentivo degli urli maschili provenire dall’interno del bosco e piansi tutte le mie lacrime pensando a Dan. Se gli stavano facendo del male, li avrei presi tutti quanti e avrei staccato loro le articolazioni.
Finalmente la voce di Woody disse qualcosa.
«Kyle?» chiese, ma era roca e profonda, quasi distrutta.
«Sono Rachel, Chris» provai a respirare e a scandire le parole «dove sei?»
«Sei arrivata a Frodsham? Dov’è Dan? E Will?»
Mi portai una mano sulla bocca mentre continuavo a piangere per la disperazione. «Non lo so, Chris, hanno preso di nuovo Dan, stavamo venendo a prenderti, ma... ma... lo hanno preso... Will stava fermando Kevin ma io non... non lo so, ho paura che possano fare del male a Dan... Chris dove sei?»
Attimi di silenzio mi fecero impazzire, ma riprese a parlare. «Nasconditi da qualche parte, ci sono i tizi in nero che circolano. Trovati una casa abbandonata o un cassonetto della spazzatura, o ti beccheranno. È passata un’auto nera proprio davanti alla mia postazione. Nasconditi, presto!»
Annuii, ma non chiusi la telefonata. C’era la porta in legno di una casa abbandonata semichiusa, la spinsi e la serratura arrugginita cedette. Irruppi nella casa spenta e mi affacciai di poco dalla finestra per vedere se passasse l’auto nera. Ripresi in mano il cellulare e attirai l’attenzione di Woody.
«Sono nascosta, ora che faccio?»
Un colpo di tosse anticipò la sua voce che si era fatta un sussurro. «Dove ti trovi di preciso? Potrei raggiungerti.»
«Non lo so, Chris, la scatoletta di Kyle sta per spegnersi, io non so dove andare...»
«Assicurati che non ci sia nessuno in giro ed esci, scappa verso l’entrata del bosco.»
«È da lì che sono fuggita! Hanno preso Dan e io non-»
«Rachel, datti una calmata, fai come ti ho detto, vai all’entrata del bosco, ti raggiungo fra pochissimo. Resisti, e se vedi qualcuno nasconditi ovunque.»
Annuii tirando su con il naso e gli dissi di sbrigarsi.
«Andrà tutto bene, fidati.»
Stavo per rispondergli ma lo schermo si fece totalmente nero, si era spento. Non sapevo come avrei fatto se fosse successo qualcosa a lui o a me. Rimisi in tasca la scatoletta e scrutai bene l’orizzonte asfaltato e distrutto di quella che era una Frodsham abbandonata, come Congledon.
Sicura che non potesse passare nessuno corsi verso l’entrata del bosco, dove si interrompeva l’asfalto e comparivano l’erbetta e il terriccio. C’era un cespuglio alto, e mi sedetti tra quello e il tronco di una quercia grossa e alta, riuscendo così a nascondermi. Mi aprii un varco tra le foglie per vedere se ci fosse Chris da qualche parte, e aspettai a lungo.
Un respiro e un fruscìo di foglie mi fecero balzare il cuore. L’adrenalina era sprizzata a mille. Ero terrorizzata e incapace di muovermi. Quando una mano mi sfiorò la spalla urlai, e subito mi tapparono la bocca. I capelli lunghi di Woody gli avevano quasi coperto il viso, e gli tolsi la mano riprendendo a respirare. La mia testa stava esplodendo, così anche il diaframma.
«Alzati, ora vedremo il da farsi» mi ordinò a bassa voce.
«Devo trovare Dan...»
Scosse il capo. «Pensiamo a Kyle, temo che gli abbiano fatto del male. Io sono riuscito a fuggire prima che mi chiudessero in quella cella... era una specie di teca, chiusa, c’erano le sbarre laser, sembravano provenire da un’epoca futura...»
Mi irrigidii. Avevano chiuso Kyle nella cella elettrica. «Chris, dobbiamo muoverci.»
«Ma cosa vogliono da noi? Cosa cercano?»
Tirai su il naso. «Vogliono me. Vogliono riportarmi a casa.»
Mi squadrò per un tempo infinito e in qualche modo stava iniziando ad odiarmi. Mi alzai in piedi e incitai anche lui a farlo, ma per un polso mi ritrascinò giù sotto al cespuglio.
«Rachel, che cazzo succede? Chi sei tu?» domandò infuriato.
Presi un profondo respiro. «Io non sono chi pensate che io sia. Mi chiamo Rachel, questo sì, vengo dalla Norvegia, ma non questa Norvegia.»
«Spiegati» soffiò. Ormai si era fatto duro come la pietra, mi avrebbe picchiata.
«I-io vengo dal terzo millennio.»
Un silenzio di tomba si creò tra noi. Potei sentire il vento che saettava tra i rami degli alberi e faceva cadere le foglie. Nessun rumore di passi, nessun altro respiro se non i nostri. Anzi, il mio, dato che lui aveva smesso di farlo da un po’.
«Tu...»
Annuii.
«Cosa volevi da noi?» invece di essere arrabbiato era diventato solo confuso.
«Non era mia intenzione rimanere, ero solo la cavia di un esperimento scientifico. Avevano progettato la macchina del tempo e sono arrivata qui, ma non avevo intenzione di restare qui, non dall’inizio almeno.»
Digrignò i denti. «Perché non te ne sei stata per fatti tuoi? In Norvegia o dove cazzo abiti? Perché?»
Singhiozzai. «Me lo ha chiesto anche Dan.»
Chissà quante brutte parole e insulti avrebbe voluto lanciarmi, ma perferì restare zitto, e così anch’io. I fari di un’auto avevano illuminato il cespuglio, e poi erano spariti svoltando l’angolo. Sentii stridere le gomme sull’asfalto e degli sportelli sbatterono. Qualcuno era sceso dall’auto.
Dei gemiti chiusi e soffocati mi arrivarono alle orecchie e venne d’istinto alzarmi in piedi. I tizi in nero, l’auto: l’altro ragazzo, più robusto di spalle e incappucciato, scalciava. Era Will.
Kevin scese dall’auto poco dopo guardandosi intorno, e subito mi riabbassai sperando non mi avesse vista. Zittii Chris che mi chiedeva chi fosse, e finalmente l’automobile e i tizi in nero se ne andarono. Dal varco che mi ero aperta nel cespuglio potei vedere Kevin che con la chiave elettronica apriva la cella elettrica, buttandoci dentro Will.
Disse qualcosa, ma non capii niente. Un miscuglio di borbottii e la sua risata malefica che mi aveva perseguitata nei peggiori incubi. Ma questo era un incubo, lo stavo vivendo.
Anche lui si allontanò velocemente aprendo con un calcio una porta in legno poco lontana dalla cella elettrica. Rimasi immobile ad osservare prima che fosse uscito.
Stava per scapparmi uno starnuto, ma subito lo trattenni. Mi ero accorta che stavo congelando, infatti non avevo nessun cappotto addosso.
Woody sottovoce disse che erano le due di notte, l’orario peggiore per svolgere ricerche. Nessuno dei due aveva intenzione di dormire per evitare sorprese spiacevoli, e non avevamo nemmeno intenzione di parlare. Io ero troppo spaventata, lui troppo incazzato per dirmi qualcosa.
E aveva ragione: gli avevo mentito sin dalla prima volta che lo avevo incontrato in quella locanda.
 
Writer’s wall
Non so come, non so con quale forza e con quale benedizione divina sono riuscita ad andare avanti e scrivere questo capitolo che, anche se breve, ha più complicazioni e vicende rispetto agli altri.
No ok, non esagero. Fa letteralmente schifo ma, comprendetemi, ho superato le mie aspettative e ora sono nei casini. In più ho tante cose da fare, e aggiornare sarà difficile.
Scusate se ogni tanto sparisco, ma riappaio quando meno ve l’aspettate.
Vi ringrazio del sostegno e dell’aiuto che mi date, siete sempre assurdi/e.
Un bacio, Angelica.

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Capitolo 16
*** Decisioni ***


Dan p.o.v.
Qualche rumore e voce sommossa echeggiava nella mia testa, che stava esplodendo. Non sapevo cosa fare, le braccia erano legate dietro una sedia e le gambe anche, in più ero al buio per colpa del sacco che avevo sul capo. Mi vennero i brividi quando una risata poco amichevole si fece vicinissima a me, non avrei potuto reagire. Una presa forte e nervosa mi sfilò il cappuccio facendomi male agli occhi, colpiti dalla luce fioca e azzurrina della stanza.
Quando mi abituai alla luce, potei vedere il volto che mi guardava con odio di Kevin, e qualche tizio in abito nero che mi fissavano, attenti.
«Sei sveglio, signorino» sibilò alitandomi in faccia. Avrei voluto sputargli adosso.
Annuii con ribrezzo e mi prese per i capelli facendomi male, rigettando la testa all’indietro. L’ultima volta che mi avevano fatto così era stato pochi giorni prima, con Rachel, quando era andata totalmente, si era ubriacata a non finire. E io avevo paura di quel lato oscuro di Rachel. Mi piaceva, ma mi aveva messo paura.
Era come una massa concentrata di tristezza e di dolore che aveva tirato fuori in una notte.
«Facciamo così, io non ti ammazzo e tu mi consegni la mia ragazza, ci stai?»
La mia voce era più soffocata della sua, calma e impenetrabile. «Anche se sapessi dove si trova non ve lo direi di certo.»
«Ce la consegnerai, è diverso.»
Mi lasciò andare i capelli e con tutta la forza sbattei la fronte sul suo naso, facendolo barcollare all’indietro e lui in tutta risposta mi diede un pugno facendomi cadere di lato dalla sedia. Avvertii quasi subito il dolore, ma sopportai. Mi bruciava forte il labbro, in più il dolore alla testa e alle tempie era aumentato. Risollevò la sedia e mi piantò i suoi occhi pieni d’odio nei miei, che non volevano altro che rompergli la faccia.
«Ti do cinque minuti per pensarci: o consegni la mia ragazza, e la riporterò sana e salva a casa, da Kris che mi ha disperatamente chiesto di venire qui, oppure chiederò ai ragazzi di scavare cinque fosse, quattro per voi e una per lei.»
«La tua ragazza?» forzai una risata.
«Qualcuno ha mai detto che non lo è?» rispose a tono.
Grugnii. «Nessuno si è sognato di dire che tu e Rachel state insieme. Evidentemente l’amore non è reciproco.»
Mi diede un altro schiaffo. «Sei inutile come tutti gli altri vermi del ventunesimo secolo, compresi quegli idioti francesi che le danno la caccia. Ti azzardi anche a dire che lei non mi ama?»
«Non ti ha mai amato, sei un pazzo maniaco, ecco cosa!»
«Senti ragazzino» sibilò «non impedirò di certo a te, viscido letame, di soffiarmi l’unica persona che mi sia mai permesso di amare.»
Ridacchiai senza allegria. «Non sapevo fossi capace di amare, complimenti. Peccato che non ci tieni abbastanza da mantenerla senza farle del male o traumatizzarla.»
Poggiò la mano sullo schienale della sedia facendomi sollevare i piedi da terra, rimandendo in bilico sulle gambe posteriori della sedia. «Non credo che toglierle la verginità sia stato un gesto carino da parte tua.»
«Di certo non tenterei di ucciderla, al contrario di te» mi irrigidii quando mi ricordai quella sera.
Fece tornare la sedia con tutte e quattro le gambe per terra, e sbuffai.
«Lei ha paura di te, Daniel» disse digrignando i denti.
«Infatti» risposi acido «lei è spaventata dell’amore. Non ha paura di te perché tu sei semplicemente un essere pericoloso a cui deve stare attenta. Non è spaventata. Ti strapperebbe le palle senza pensarci due volte.»
«Quando la troverò le darò la possibilità di farlo. E poi ammazzerò prima te e poi lei davanti ai vostri stessi occhi. Non vi meritate altro, fate solo schifo.»
Tutto l’odio del mondo si era concentrato su di me. Una fitta allo stomaco, un pensiero agghiacciante mi fece fischiare l’orecchio, non avevo intenzione di lasciarla andare, ma avevo il dubbio che avessero potuto ammazzarci davvero. Lei compresa.
«Sai, voglio isticarti un po’: non so se Rachel ti ha detto che da noi è vietato il contatto tra uomo e donna, ma ti informo che con qualche consenso qua e là il matrimonio è fatto.»
Battei i piedi sul pavimento freddo per non agitarmi troppo. Prima, muovendo le mani e le gambe, una scarica elettrica mi aveva fatto perdere i sensi. Erano manette futuristiche, ma altamente letali, e stavo scoprendo quale pericolosità potevano avere le cose del terzo millennio.
«Lei non ha acconsentito, non acconsentirà mai» soffiai.
Scoppiò in una fragorosa risata. «Peccato che corrompere i governatori è facilissimo!»
«Non ti ama!» ribattei urlando. Quello che ricevetti in risposta fu una gomitata sull’addome, mugugnai di dolore, ma poi mi zittii.
«Sapeva che sarebbe arrivato il momento in cui le avrei rovinato la vita come lei ha rovinato la mia l’esatto momento in cui ho ammesso a me stesso che ci saremmo sposati.»
Grugnii. «Non ne hai il diritto.»
«E tu che ne sai? Sei un preistorico uomo del ventunesimo secolo, indietro mentalmente di mille anni, non devi dirmi cosa posso e non posso fare. È la mia ragazza, e me la tengo io.»
«Tu sei solo un pezzo di merda» ruggii, e lui smise di ridacchiare. Si avvicinò a pochi centimetri dal mio viso.
«Ripetilo» disse tra i denti.
In tutta risposta gli sputai sulla giacca nera e mi piantò il manico di una specie di pistola sul diaframma, impedendomi per due secondi di respirare. Ne stavo ricevendo troppe, ma ce l’avrei fatta. Lei aveva sopportato di peggio per me, stava sopportando di peggio, dovevo resistere. Per lei, per noi, perché la amavo. Non sarebbe tornata nel futuro con quel pazzo. Kevin sarebbe tornato a mani vuote, se non con qualche osso in meno.
«Quest’uomo non parla. Andiamo a cercare Rachel Hetfield e lo sgorbio con la barba, prendete l’altra auto.»
Un tizio disse qualcosa con accento francese. Erano sicuramente uomini che non questa storia non c’entravano nulla. «Signore, il nostro capo ci ha detto che...»
«Digli di non rompere il cazzo, vi ho presi in affitto dall’FBI o come si chiama finché non troverò quella smorfiosa e l’avrò riportata a casa» gli urlò contro e il mio istinto omicida salì sempre di più. Se solo l’avessero sfiorata... sarei impazzito. Ma sicuramente aveva raggiunto Woody, in un certo senso mi sentivo sollevato. Era un tipo responsabile, e lei non era di certo stupida. Pregai affinché si salvasse. O almeno, che me l’avrebbero lasciata salutare prima che se ne andasse per sempre.
La porta d’uscita sbattè forte. Un rumore sottile come una specie sibilo mi fece sobbalzare.
«Pssst... Dan!»
Mi guardai intorno, ma non c’era nessuno. Davanti a me si apriva un corridoio, e al di là di quest’ultimo vidi altre sbarre laser di colore blu intenso. Mi affacciai cercando di non cadere avanti.
«Dan!» sussurrò il soggetto.
«Kyle?»
«Sì, sono io!»
Tirai un sospiro di sollievo. «Kyle, come stai? Che ti hanno fatto?»
«Sto bene, tu? Sentivo che te le davano di santa ragione.»
Scossi il capo. «Non importa, ora devo solo liberarmi. Devo trovare Rachel, temo che possano portarla via.»
«Non so come liberarmi, queste sbarre fanno venire le scosse, sembrano elettrici... ma che cazzo succede? Da dove vengono questi, cosa vogliono?»
Gettai un’occhiata alle mie spalle, ma le catene con il laser azzurro mi impedivano di muoverle. «Lascia perdere, prima o poi quegli stronzi torneranno e ci lasceranno andare. A meno che Woody, Will o Rachel ci trovino prima.»
Kyle si zittì di colpo, così anche io. Dei gemiti sconnessi e un tonfo, seguiti da una porta che sbatteva. Il mio cuore smise di battere per un secondo.
«Fai silenzio, che ci scoprono» soffiò una voce femminile. Resuscitai da ogni coma che mi affliggeva, il dolore alle tempie passò, ogni arco di tempo e di distanza che ci separavano andarono a puttane. Mi venne da urlare il suo nome, ma uscì solo un urlo soffocato per la troppa emozione. Non mi contenevo. Avevo bisogno di vederla e sapere che stava bene.
«Chi è stato?» aggiunse l’altro, di cui riconobbli la voce all’istante: era sicuramente Woody.
«Kyle!» gridò lei, e la vidi comparire in fondo al corridoio, affiancata da Chris che si spostava la chioma folta. Saltai con la sedia in avanti illudendomi di raggiungerla saltando e caddi con la faccia in giù, facendomi malissimo alla fronte. Lanciai un gemito di dolore mordendomi le labbra per la botta ricevuta.
I suoi passi veloci e leggeri echeggiarono nelle mie orecchie come una nuova musica. Era di nuovo accanto a me, mi stava salvando di nuovo.
Sollevò la sedia e ci guardammo negli occhi, ridendo. Afferrò il mio viso tra le mani e mi baciò, come non aveva mai fatto, lasciandomi di sorpresa, e pensai di svenire. Ero sempre stato io che le rubavo baci, che la coccolavo, non mi dedicava mai troppe attenzioni. Ero rinato, e avevo troppo bisogno di stringerla.
«Stai fermo, sciolgo le catene elettriche» cantò la musa, la mia musa. Non di Kevin. Lei non apparteneva a nessuno, se non a me. Mi sorrise poco sicura e, digitando qualcosa su uno schermo tecnologico sul suo polso, finalmente le mie gambe si separarono, le mani furono libere di muoversi. Mi alzai in piedi afferrandola per le spalle, spingendola contro il muro e la strinsi a me più forte che potei, poggiando le labbra sulle sue, morbidissime. Sussultò, ma poi allungò le mani sul mio viso. Ricambiò il bacio, eravamo così stretti che condividevamo anche il respiro, il battito del cuore. Sarei rimasto con lei per tutta l’eternità, solo per sentirla respirare, parlare, per odorare il suo profumo così nuovo, un profumo che non avevo mai conosciuto prima. Lo sentivo quanto mi amava, quanto aveva bisogno di me, e io avevo bisogno di lei come l’ossigeno. Poi ci separammo da quella morsa beata, mi prese per mano e mi portò nella stanza dove era rinchiuso Kyle, in gabbia come un leone, rannicchiato su se stesso per il poco spazio. Lei aveva tra le mani un dispositivo insolito, dove digitava una serie di formule e di strani numeri.
Le sbarre laser sparirono e Kyle si alzò in piedi stiracchiandosi. «Ma come diavolo hai fatto?» le chiese incredulo.
«Io sono una scienziata, Kyle» rise lei, facendo sorridere anche me, come sempre; ma il sorriso scomparve dalla sua bocca. Mi avvicinai a lei, e vedemmo entrambi fuori dalla finestrella Kevin che si avvicinava. La nostra unica via d’uscita era bloccata.
«Siamo in trappola» mormorò senza muovere un muscolo, era paralizzata.
«Toc toc» sbuffò la voce di Kevin da fuori. Ci aveva scoperti, aveva capito che lei era qui. Ma era solo, e noi eravamo in quattro.
La porta si aprì e la sua faccia era sorpresa quanto incazzata.
«Chi ha bussato?» ironizzai.
«Dan non fare cazzate» sussurrò Rachel tenendomi per il manico della felpa grigia. Era terrorizzata, e non potevo fare altro che gettare fuori da quella stanza quel sacco di merda proveniente dal futuro.
Le scostai la mano dal mio braccio e gli andai contro, tirandogli un pugno nello stomaco. Kevin si accasciò in ginocchio, e tirò fuori un marchingegno che emanava scariche elettriche. Lo vidi appena, poi lo stato si fece confusionale.
«Dan, spostati! Vieni via!» urlò lei, ma sentii solo quello. Una morsa mi circondò la gamba, coperta dai jeans neri aderenti, e caddi per terra nel vuoto totale. Cos’altro era successo non lo sapevo. Vedevo il nero. Le forme. Le voci che echeggiavano. Tanti volti tristi e spenti. Il nero le ingoiò, lasciandomi da solo ad affrontare quel terribile regno senza luce, senza la mia Rachel.
 
Rachel p.o.v.
In una frazione di secondo Kevin aveva tirato fuori il trasmettitore di impulsi elettrici, lui era caduto, Kevin si era lanciato su di lui e gli tirò un pugno in pieno volto. Prima che sia Kyle che Woody intervenissero afferrai la solita vecchia spranga e la tirai sulla schiena di Kevin. Mi bloccò dopo un secondo, non gli avevo fatto niente, mi scagliò contro il muro, mi circondò il collo con le mani ma le braccia lunghe ed esili di Kyle gli strinsero la vita stretta e lo gettarono all’indietro.
«Rachel, vattene, portati dietro Dan e andatevene, a lui ci pensiamo noi» mi rassicurò Woody mentre teneva ferme le gambe di Kevin.
Non capivo cosa stesse dicendo, non lo sapevo, presi il trasmettitore di impulsi elettrici dalle sue mani e lo premetti sulla schiena, mandandolo così in stato di trance.
«Non fare cazzate, vattene!» mi urlò contro Kyle.
Scossi la testa cercando di respirare. «Aiutatemi a portare Dan, l’effetto dura per dieci minuti, sbrigatevi!»
Gli legarono per bene le braccia e le gambe con le manette elettriche, chiedendomi come avessero capito come usarle, e poi vennero a sorreggere Dan.
«Prendi quel coso che lancia le scariche elettriche, dovremmo pur difenderci» mi consigliò Chris calmo ma anche preoccupato e affannato. Io ero terrorizzata, non potevo fare qualcosa di lucido quando avevo Kevin davanti, era il mio incubo che si stava trasformando in realtà.
Pochi secondi dopo essere usciti da quell’abitazione i tizi in nero ci stavano già inseguendo, e Kyle mi urlò più volte di scappare ma non lasciavo nemmeno un attimo la mano a Dan, ancora privo di sensi, sospeso tra me e Chris.
Non controllavo né emozioni né respiro, ero finita in un mondo a parte, mi perdevo, qualunque cosa i due ragazzi mi dicevano subito la dimenticavo. Guardavo Dan e mi veniva da piangere, singhiozzavo, mi bruciavano gli occhi.
Più volte rabbrividii pensando a cosa sarebbe potuto succedere se in quel momento non ci fossero stati i ragazzi, sarei finita di nuovo nel futuro, a soffrire, subendo le cattiverie di Kevin. Non era vero che lui non voleva farmi del male, Dan non lo sapeva, lui non poteva capire di cos’era capace.
I fari di un’automobile si piazzarono davanti a noi.
«Merda, merda, merda!» imprecò Kyle sbattendo i piedi. Poggiammo Dan per terra, che si stava lentamente riprendendo, e mi ordinarono di fuggire.
«Non voglio lasciarvi qui» singhiozzai.
«Devi andartene! Non capisci che ci ammazzeranno tutti?» urlò quello alto agitandosi più che mai. Scossi la testa, non volevo ascoltarlo, e mi chinai verso Dan schiaffeggiandolo. Lo chiamavo, apriva di poco gli occhi e li richiudeva. I fari si spensero, rumori di sportelli che si chiudevano mi rimbombarono nelle orecchie.
«Vattene!» ruggì Woody.
«Dan, svegliati, ti prego» mormorai. Alzai lo sguardo e due uomini in nero si avvicinavano minacciosi. Respirai a fatica, deglutendo, continuando a dare schiaffetti a Dan che mosse la bocca, lo afferrai per le spalle e lo scossi violentemente. Aprì totalmente gli occhi e si spaventò.
«VATTENE RACHEL!» gridarono i ragazzi in coro.
«Non me ne vado!» risposi alzando i toni. Presi il trasmettitore di impulsi elettrici e lo puntai contro i due tizi che si avvicinavano muniti di pistole laser. Deglutii trattenendo le lacrime.
«Est-elle la fille qui doit venire avec nous?» sussurrò uno dei due in una lingua a me incomprensibile. L’altro aggiunse qualcosa di ancora più difficile da capire. «Je sais pas, Kevin a dit qu’elle est blonde» riuscii a distinguere solo il nome di Kevin; intanto si erano avvicinati e avevano puntato le pistole contro di me, con la mano tremante
«Dans la voiture! Dans la voiture!» gridò uno e subito quello accanto mi fu addosso. Kyle reagì con violenza, gettandosi su di me tirandomi verso di lui e i ragazzi.
«Fermo! Kyle, fermati! Ti ammazzeranno!» lo pregai urlando a voce acuta. Il tizo mi sfilò il trasmettitore e mi paralizzò puntandomi la pistola verso la tempia.
«Dì ai tuoi amici di non muoversi o ti ammazzo» mi disse nell’orecchio con un inglese dall’accento sconosciuto. Rabbirividii, singhiozzai, e poi riferii.
«Dice di non muovervi» mi scese una lacrima «o ammazza me.»
Vidi una testa muoversi dietro di loro. I suoi occhi, che erano diventati azzurri come il ghiaccio, balenarono nella mia mente e me li impressi per bene. Sapevo che difficilmente ci saremmo rivisti.
Urlò il mio nome, ma Kyle lo bloccò. Ci fissammo, con le iridi inondate di lacrime, l’uomo in nero che mi trascinava lentamente verso la macchina. Singhiozzai sempre più forte chiamando l’unica persona che avevo mai amato, e mi tappò la bocca per poi buttarmi all’interno della macchina. Chiusero la portiera e serrarono l’apertura, impedendomi di fuggire. Gridai contro il vetro, tiravo pugni. Cercavo di romperlo e di scappare, di non tornare a casa, nel futuro. Le nocche mi facevano malissimo, erano diventate rosse, con un calcio mossi un poco il vetro, una gomitata, prima che lo sconosciuto mi puntasse il trasmettitore di impulsi elettrici che mi avevano sequestrato.
Mi si bloccava il fiato, volevo tornare da loro, da Dan, mi sarei rotta una gamba o qualunque altra cosa purché di non restare in balia di Kevin.
La macchina partì, e continuavo a dare testate e gomitate al vetro che sembrava cedere. I due ruggivano in una lingua a me sconosciuta e mi minacciavano con le pistole. L’altro sbadato poggiò il trasmettitore di impulsi elettrici vicino al sedile anteriore e lo afferrai velocemente colpendo il tipo a sinistra, poi quello che stava alla guida. L’auto sbandò schiantandosi contro il muro di un’abitazione deserta, e si piegò da un lato. Continuai a tirare pugni al finestrino che ormai stava in alto, mentenendomi tra i due sedili. Presi la pistola laser, col manico distrutti il vetro e qualche scheggia mi colpì il viso, ma non sentii dolore. Graffiandomi le mani e le gambe uscii da quell’inferno, misi la pistola nella tasca e corsi sopportando il bruciore dei tagli che iniziavano a farsi sentire. La sua voce echeggiò da lontano e la seguii. Tutti e tre, in piedi, con lo sguardo perso che saettava a destra e sinistra, mi chiamavano. Risposi al richiamo e corsi verso di loro.
Dan aprì le braccia e lo abbracciai forte. Il mio cuore aveva ripreso a battere, lui mi accarezzava i capelli e mi dava baci sulla fronte.
Mormorò qualcosa. «Dio mio, tu sanguini...»
Mi guardai le mani e dei tagli sottili sulle dita e sul palmo emanavano una quantità industriale di sangue. Tremai e soffiai, con i denti che battevano. Non avevo mai sanguinato in vita mia, tranne che poche volte e in poca quantità. Le gambe mi bruciavano. Le guardai, e i pantaloni di jeans nero si stavano macchiando di un colore più scuro e denso. Mi girò la testa, e si formò un nodo alla gola.
«I-i-io n-non...» balbettai sperando di non svenire.
«Tranquilla va... va tutto bene» mi lasciò un bacio sulle labbra e ci guardammo negli occhi. I suoi erano di un azzurro nitidissimo, cristallizzato, arrossati dalle lacrime e dalla stanchezza.
Annuii e tornai a stringerlo.
«Ragazzi» intervenì Kyle «dobbiamo trovare Will e tornare a Congledon.»
Dan rispose di sì con la testa. Mi ricordai di avere la scatoletta di Kyle, la cercai nelle tasche e per fortuna era ancora lì, e gliela tesi.
«Ehi, ti ringrazio» mi sorrise.
«Purtroppo si è spenta... non sono riuscita a capire come ricaricarla.»
Scosse le spalle e alzò lo sguardo all’orizzonte.
Dan mi prese la mano, guardandola. «Kyle, andiamo nel bosco, lì ci troveranno difficilmente. Raggiungeremo la tua auto e andremo a Congledon, Will è sicuramente tornato lì se non lo ha preso Kevin.»
Ci incamminammo strisciando silenziosamente nell’ombra. Scrutai il mio analizzatore da polso e guardai l’orario: le tre e mezza di notte. Il tempo passava troppo velocemente quella notte.
Mi guardai alla spalle e Dan tossiva molto forte. Pensai che fosse l’effetto del trasmettitore di impulsi elettrici, e continuai a camminare in silenzio, stringendogli la mano. Davanti a me, Kyle e Woody scrutavano la strada, gli angoli, le svolte, si guardavano le spalle. Finalmente, dopo aver attraversato un’infinità di incroci e di vie deserte, con l’adrenalina che mi bruciava i polmoni e la ragione, vidi l’ingresso del bosco.
Mi ricordai che Kevin aveva il chip di riconoscimento sul giubbotto scuro e accesi il mio analizzatore. Kevin era a Frodsham, ma dall’altra parte della città rispetto a dove ci trovavamo noi. Notai che aveva dato a ciascuno dei suoi scagnozzi sicuramente del ventunesimo secolo un chip, infatti vedevo i segnali rossi provenire da vari punti. Due erano immobili, forse quelli nell’auto. Altri due sparsi nel bosco, uno a qualche centinaio di metri lontano da noi. Pensai fosse il caso di spegnerlo prima che ci localizzassero. Ci addentrammo nel bosco con massima cautela, e riferii ai ragazzi cosa sapevo.
Loro fecero finta di capire, ma non glielo rispiegai. Strisciavamo in massimo silenzio, attenti a studiare ogni mossa e ogni passo che non fosse il nostro.
Dan e io, con le mani strette una all’altra, ci guardavamo di continuo anche se la poca luce della luna ci illuminava appena i volti. Riuscivo a distinguere i tratti del suo viso, ma non i colori, come la prima volta che lo guardai. Era sempre bello. E mi chiesi se era stato quel profilo armonioso ma anche misterioso a farmi battere il cuore. Troppo presa da lui urtai Woody che si era immobilizzato. Un passo che non era uno dei nostri avanzò, in lontananza. Vidi l’ombra dell’uomo che si girava intorno, controllando l’analizzatore da polso. Deglutii e ordinai agli altri di stare fermi. La sua pistola laser si sporgeva in bilico dalla sua tasca, presi la mia, la puntai e la polverizzai lasciandolo così disarmato. Polverizzai anche il trasmettitore. E urlò subito qualcosa in una lingua sconosciuta correndo da una parte all’altra. Dissi ai ragazzi senza alzare la voce di proseguire il più presto possibile. Sapevo perfettamente che dopo aver disattivato il suo analizzatore gli altri non lo avrebbero localizzato e avrebbero pensato subito che fossimo stati noi.
Per la prima volta in vita mia avevo sparato a qualcuno senza fargli del male, mi meravigliai della mia precisione.
«Io non sono ancora riuscito a capire cosa sta succedendo» si lamentò Kyle strattonandomi per un braccio, la tensione si stava facendo troppo alta.
«Te lo spiegherò» mi giustificai «ma adesso non c’è tempo.»
Woody si bloccò di nuovo, e gli sbattei contro la schiena per la seconda volta. «Mi sa che quella è è l’uscita del bosco, ce l’abbiamo fatta.»
«Non cantate vittoria, quel pezzo di merda potrebbe farsi vivo a momenti» intervenì Dan «Rachel, controlla su quell’aggeggio la posizione di Kevin.»
«È un dispositivo altamente rilevabile, ci troveranno in mezzo secondo.»
Sbuffò. «Non ci resta che prendere la macchina di Kyle e...
«... tornare alla macchina del tempo, impostare il timer per ripartire e Kevin si ritroverà costretto ad andarsene» dissi con un leggero sollievo e speranza nella voce.
«Aspetta, cosa?!» strillò Kyle «Macchina del tempo?»
Sia io che gli altri due lo ignorarammo. «Propongo di non rimanere alla locanda, dobbiamo prima trovare Will. Se ci trovano non potremo reagire.»
Tirai fuori la pistola laser di poco prima. Non se n’erano nemmeno accorti che avevo allontanato il tizio, il laser viaggiava silenziosamente e bruciava qualunque cosa senza generare rumore. Feci finta di non aver visto gli sguardi sorpresi e un poco spaventati dei ragazzi e la puntai verso un punto impreciso. Sparai e una pietra si disintegrò.
«Credete che non sia capace di difendermi?»
Un po’ allibiti, si ripresero e batterono le mani.
«Ragazzi, siate seri, io non ci trovo niente di eclatante ritrovarsi a usare un’arma per difendersi» li rimproverai «Dan, dove si trova la macchina?»
«Su per quel sentiero, dobbiamo risalire da lì dato che per scendere abbiamo usato la parete ripida. Altrimenti sarebbe impossibile.»
Annuii e subito mi incamminai impugnando forte la pistola laser, mentre gli altri mi seguivano. Mi guardavo spesso le spalle per accertarmi che non ci fossero i tizi in nero a seguirci, prendendo uno di loro. Dan era incollato a me, mi stringeva la mano libera, e mi indirizzava sulla strada da seguire. Finalmente un sentiero poco sicuro si intravide, scavato nella roccia chiara, e cominciammo a salire. Kyle e Woody erano ancora con noi, così decisi di alzare il passo e correre verso la macchina blu che si distingueva da lontano. Dan e Kyle salirono sui sedili anteriori, mentre Kyle guidava, e io e Woody ci sedemmo dietro nel caso avessi dovuto attaccare con la pistola. Lui teneva il trasmettitore di impulsi elettrici, quindi in qualche modo mi sentivo al sicuro. L’auto rombò e sfrecciammo verso l’uscita della città che portava direttamente a Congledon. Dopo una decina di minuti di inferno in quell’affare finalmente arrivammo a Congledon, davanti alla locanda. Kyle frenò bruscamente ed entrammo nel locale spento e aperto. Tutto era al proprio posto, a parte qualche sedia spostata.
Mi misi in testa che dovevamo trovare Will.
«Chris e Kyle, andate a cercare Will» gli ordinai.
Annuirono. «Voi che farete?» chiese Kyle.
«Noi due andiamo a impostare l’ora di partenza di Kevin. Dobbiamo avere il tempo necessario per trovarlo, fuggire e far arrivare Kevin alla capsula prima che mi prendesse.»
I due subito ritornarono nell’auto. Spettava a me e Dan decidere cosa fare: salvarci e continuare a stare insieme, oppure rimandare tutto indietro nel tempo, dimenticarci all’istante del nostro incontro e vivere come avevamo sempre fatto.
Uscimmo dalla locanda camminando a passo svelto verso la macchina del tempo. «Sei ancora dell’idea di voler dimenticare tutto?»
Lo squadrai con gli occhi socchiusi. «Io non voglio dimenticare tutto, voglio solo che io e te possiamo fare una vita normale.»
La capsula era ancora aperta, con un paio di fogli all’interno. «Una vita normale posso farla solo con te.»
«State mettendo a repentaglio la vostra sicurezza per colpa mia, dovreste tutti odiarmi per questo» ribattei secca passando il mio chip sulla capsula mentre lui mi osservava attentamente.
«Ti sembrerà strano, ma ti amo fin troppo per ammettere che vorrei odiarti. Io vorrei, davvero, ogni tanto non ce la faccio a stare accanto a te un minuto di più, ti farei tornare da dove sei venuta, dimenticare per sempre che esisti, a volte ci penso, ma poi ti guardo, sento che mi odi anche tu e... e non desidero altro che averti al mio fianco.»
Rimasi qualche secondo in silenzio a riflettere la risposta. «Sei libero di odiarmi quando vuoi. Non è la mia faccia a doverti fare tenerezza.»
«Non è la tenerezza, è la pietà che ho di te.»
Sbuffai staccando il chip e rimettendolo nell’analizzatore. Avevo preso i dati di Kevin e potevo recuperare il suo codice di neurofono, entrando in possesso dei suoi messaggi telepatici. «Se tu hai pietà di me puoi anche toglierti di mezzo. Non ho bisogno della tua... misericordia per sopravvivere. Se stai qui con me solo perché hai pietà di me, beh, vai a cercare Will. Posso cavarmela da sola.»
«Non era questo che intendevo dire!» cercò di giustificarsi.
«Senti, nessuno ti ha chiesto niente come nessuno ha chiesto niente a me, posso benissimo impostare la data del giorno prima che venissi qui e togliermi dalla tua testa se ti do tanto fastidio!»
Sbatté un piede per terra. «Quanto ti odio quando fai così, non sai fare un cazzo di ragionamento sensato.»
«Odiami, odiami pure, è la cosa che ti riesce meglio!»
Non mi ero accorta che avevo alzato troppo la voce. Ero sul punto di premere quei tasti per tornare al 23 dicembre 3023.
«Credo che sarebbe più semplice odiarti, ma non ci riesco, è difficile!»
Strinsi la mascella. Sentivo che gli occhi si gonfiavano di lacrime. «Provaci. Non ti costa nulla.»
Premetti il tasto per impostare un timer di ritorno quando lui mi bloccò la mano. «Non voglio che te ne vai.»
Le sue guance si erano bagnate. Era così bello quando mi pregava di restare. «Mi dimenticherai, come tutto il resto.»
La sua voce stonò per le lacrime. «Non voglio dimenticarti, Rachel! Io voglio restare qui, con te.»
«Non è un buon motivo per continuare a rischiare la vita.»
«Io ti amo. E questo è un buon motivo.»
Presi una boccata d’aria troppo grande, mi girò la testa e mi appoggiai al metallo freddo della capsula. «Come puoi amarmi se mi odi?»
«Non so come dirtelo che non ti odio.»
Lasciai il metallo e mi avvicinai di più a lui. Con la mano destra mi allungai verso il pulsante del timer. Un suono robotico lo fece partire.
«Non fare cazzate» singhiozzò «ti prego. Resta qui. Non ce la farei senza di te.»
Avevo impostato il timer per sessanta minuti, un’ora esatta. Avevo un’ora di tempo per decidere se fare le valigie, o attirare Kevin e rimandarlo indietro, a Oslo.
Evitai le sue labbra che si erano chinate su di me. «Devo... devo restare da sola. Torniamo nella locanda. Devo pensare.»
«Non farlo...» mormorò con la voce strozzata dal pianto.
Scossi la testa mordendomi un labbro. Fortunatamente ero voltata di spalle, perché avevo iniziato a piangere anche io.
«Rachel, ti amo.»
Singhiozzai e mi sentì. Il mio cuore balzò. Mi aveva circondata con le braccia, di nuovo. Solo che stavolta piangevamo entrambi. Il destino ce l’aveva con noi.
«Ti amo anche io, Dan.»
 
Writer’s wall
No ok io sto troppo nei casini. Non so cosa caspita fare, penso proprio che il finale ci sarà tra poco, non so se farlo finire bene o male. Giustamente adesso non aggiorno velocemente come prima, mi prendo più tempo per pensare a cosa scrivere, a quale piega deve prendere la storia...insomma, tra la scuola, le lezioni di danza e tutto il resto il tempo per scrivere si sta smorzando di brutto.
Avete tante domande da farmi, lo so, troverò una risposta per tutte quante. Chissà, il finale potrebbe essere nel prossimo capitolo, o nel capitolo 18, niente è impossibile per una mente contorta e crudele come la mia. Però boh insomma, questo capitolo è il più lungo e incasinato, spero riuscirete a capire qualcosa e che recensirete in tanti, voglio che vi fate sentire ogni tanto. Vi voglio bene a tutti voi, sia lettori che recensiscono, che seguono, e anche i lettori silenziosi. So che siete tanti. E non smetterò mai di ringraziarvi, questo lavoro non sarebbe mai stato così importante per me se non fosse per tutti voi.
Grazie, e aspetto i vostri commenti positivi/negativi (:
Tantissimi baci, Angelica

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Capitolo 17
*** Definitivamente ***


Seduti una di fronte all’altro, scrutavamo il mio analizzatore che leggeva tutti i messaggi telepatici che Kevin si era scambiato recentemente prima di partire nel futuro. In qualche modo avrei scoperto come fosse tornato, grazie a chi, e con quale permesso.
«Trovato niente?» mormorò Dan davanti a me, che fissava lo schermo tridimensionale. Potevamo vederci attraverso. E lo avevo sorpreso più volte fissare me invece che i messaggi.
Avevo già trovato qualcosa di interessante: una conversazione con Kris.
«Aspetta, aspetta, guarda qui» gli presi il polso e lui aprì la mano poggiandola sulla mia, ma decisi di indietreggiare. Ero troppo concentrata sul lavoro per permettermi una distrazione da parte sua, anche se bastava un semplice contatto fisico per mandarmi in panne.
 
“Credo sia giunto il momento, Kris.”
“Per cosa?”
“Non hai capito? Sono uscito di prigione. E ho intenzione di riprendermi Rachel. Ho già provveduto per i consensi di matrimonio e tutto il resto, presto la prenderò.”
“Spiacente dirtelo, Kevin, ma lei non è qui adesso.”
“Cosa intendi dire?”

“Ha usato la macchina del tempo per tornare indietro di circa mille anni. Scordati di andarla a prendere, rimarresti bloccato anche tu.”
“Non dire puttanate, non ho bisogno dei tuoi avvertimenti, so badare a me. Vado a riprenderla, prepara tutto per il viaggio.”
“No, scordatelo. Quella macchina del tempo deve essere sistemata, non posso permettere un altro guaio.”
“Dimentichi che io sono uno scienziato di alto livello.”

 
Strinsi i pugni da sotto al tavolo. Aveva corrotto Kris, e non avevo potuto fare niente perché del fatto che fosse un ottimo scienziato nessuno lo poteva negare. Continuai a leggere sebbene mi stesse salendo la nausea.
 
“Non importa cosa sei e cosa vuoi, pretendo la sua sicurezza.”
“Cosa ne sai di come sta lei?”
“Prima di partire definitivamente aveva detto che era felice lì. Che aveva trovato l’amore. Non ha bisogno di te.”
“Dimentichi anche che mille anni fa, in quel ventesimo o ventunesimo secolo del cazzo erano tutti dei drogati schifosi.”
“Sarà, ma lei pretendeva di tornare. E non ho potuto fermarla.”
“Ti manca?”
“Tanto.”
“Aggiorna i preparativi, parto a riprenderla.”
“A questo punto non posso fermarti.”

 
Battei i pugni troppo stretti che si erano fatti bianchissimi sul legno e Dan sobbalzò. Aveva letto anche lui, ma non capiva quanto per me fosse importante la fiducia che avevo riposto in Kris. E lui l’aveva tradita.
Comprendevo il fatto che gli mancassi, perché mancava anche a me, ma ciò non giustificava il fatto che doveva rovinarmi la vita. Kevin non mi avrebbe mai e poi mai resa felice, nemmeno se non avessi incontrato Dan, nemmeno se non fossi mai venuta nel ventunesimo secolo. Odiavo Kevin come odiavo Kris in quel preciso momento.
«Rachel» mi chiamò Dan.
Alzai la testa per guardarlo. «No, non sto affatto bene.»
«Tu non te ne vai da nessuna parte.»
Scossi la testa. «Ho un conto in sospeso con quei figli di puttana.»
Mi alzai di scatto e lui istintivamente si protese ad afferrarmi il braccio. «Ti prego, non fare idiozie. Sai che sarebbe inutile, ti prenderanno, ti porteranno via, e non tornerai mai più. Resta qui, risolveremo tutto.»
Mi scostai e avanzai verso la porta, ma lui continuava a seguirmi. «Tu non sai quanto ci tengo a Kris! Non puoi dirmi cosa devo fare e cosa non devo fare, non capisci un cazzo di questa situazione e io ho bisogno di tornare! Devo trovare Kevin e arrendermi, altrim-»
Smisi di respirare per un secondo perché lui mi prese per le spalle e mi spalmò violentemente contro il muro di legno. Non mi fece male, ma mi spaventai.
«Chiudi il becco e ascoltami» mi ordinò, e non osai obiettare «lì fuori c’è un pazzo maniaco che ha intenzione di prenderti e di farti chissà cosa. Vuole farti del male, e lì a casa tua c’è una vita del cazzo, priva di emozioni, di esperienze, senza nessuno che può amarti liberamente, e tu non puoi amare liberamente, perciò se te ne vai hai praticamente firmato la tua condanna a morte. Se vuoi tornartene, fallo pure. Non lo dico per me, perché so che senza di te sono praticamente nullo, ma in questo momento devi pensare a te, a di cosa vuoi fartene della tua vita. Vuoi continuare a soffrire e vivere nel terrore? La porta è lì.»
Allentò la presa fino a lasciarmi andare, ma ero priva della concentrazione adatta per sostenere il mio corpo. Un concentrato di parole, fulminee, veloci, che mi colpivano direttamente al cuore frantumandomi, mandandomi come in paranoia. Mi avevano fatto male di più quel centinaio di parole che sbattermi sul muro. Mi avevano fatto male più di qualunque altra cosa. Mi sentivo come se mi odiasse, che se ne fregasse di me, quella era l’impressione. Più lo guardavo negli occhi, spenti e rabbiosi, più mi convincevo che levarmi dalle palle sarebbe stata la soluzione migliore. Per me, per lui, per tutti.
Ancora con la voglia di lasciarlo e fingere che non mi abbia mai detto quanto mi amasse, mi staccai lentamente dal muro. Stringerlo era l’unica cosa che volevo fare. Ma me lo sentivo, era una forza assoluta e incontrollabile quella di scappare.
Mi scivolò l’occhio sull’analizzatore alle spalle di lui, che fissava il vuoto con poca calma, e notai che mancavano quaranta minuti. Mi mossi senza dare nell’occhio e lui si riprese, tornando a posare lo sguardo su di me. Un senso di colpa mi stava rodendo. Avevo troppo bisogno di un suo abbraccio, glielo stavo chiedendo con gli occhi, lo stavo supplicando di avvolgermi, riscaldarmi, dirmi che sarebbe andato tutto bene. Aspettai, ma non accadde. Mi mossi verso l’analizzatore e spensi il desktop tridimensionale. Lo riattaccai al polso e premetti il tasto per la localizzazione. Kevin era alle porte di Congledon. Meno di mezz’ora, e mi avrebbe trovata, localizzata e raggiunta. Il tempo perfetto per decidere se scappare, o fare in modo che se ne vada lui.
La sua ombra, dietro di me, emise un respiro caldo che mi invase i pensieri. Sentivo solo quel respiro. Mi voltai di scatto e pensai “Ora o mai più.”
Gli cinsi il collo, lo strinsi, lui premette le sue labbra sulle mie, il mio cuore iniziò a pompare troppo velocemente da mandarmi in tilt. Le lingue che saettavano con furia e velocità, con desiderio, con la voglia di possedersi ancora una volta, forse l’ultima.
Tornammo su quel muro, quello sul quale Dan aveva scatenato la sua rabbia, ora scatenavamo in sincronia quello che conservavamo da troppi giorni. Quaranta minuti e anche meno era troppo poco tempo a disposizione per una voglia così insaziabile.
Nemmeno me ne accorsi che già stavamo riprovando a fare l’amore, ma quella volta, lo sentii. Finalmente capivo quanto fosse forte, raggiungibile, sentire che vivevo, vivevo per lui, ogni suo respiro affannato era come una vibrazione di vitalità. Contro il muro, a cavalcioni su di lui, un cappotto o una giacca in meno, con le labbra a mordersi e a farsi male, io stavo rivivendo. Volevo capirlo, volevo entrare nella sua testa e sapere cosa lui voleva davvero. Mi ero innamorata così, senza nemmeno pensarci due volte, dalla prima volta che ci eravamo visti in quella stanza che avrebbe dato inizio a tutto, a qualunque cosa. E poi litigavamo, ritornavo io e ritornava lui, facevamo l’amore, ci scambiavamo quei gesti e quelle parole che nessuno mi aveva mai rivolto.
E di nuovo, un altro litigio, altri sbalzi d’umore, la voglia di sparire, la voglia di riempirlo di botte, un suo tocco, e tornavo ad innamorarmi. Ma non avevo mai smesso di farlo, anzi, noi non avevamo mai smesso di fare l’amore, perché nonostante fosse un bisogno fisico, primario, che ogni essere umano aveva, fare l’amore per noi era un bisogno costante, a me bastava una carezza o un bacio, quello era fare l’amore.
Noi in quel momento non stavamo facendo l’amore in senso fisico. Ci stavamo solo scambiando qualche bacio più forte, bisognoso, niente di espansivo. Ci bastava quello, ed eravamo soddisfatti. Le carezze che si trasformavano in graffi sulle braccia, sulla nuca, i capelli che stringevano, nessun accesso all’atto sessuale vero e proprio, per me quello non era fare l’amore, quello era altro, e lo avevamo fatto ben due volte, troppe per me e in quel momento sarebbe stato futile, superfluo, non avrebbe dato ciò che in realtà volevo: volevo sentirmi amata, non sentirmi usata.
Ormai senza fiato decisi che era il momento di fermarci, di pensare, di decidere. E odiavo decidere. Ma il tempo scorreva, e io avevo bisogno di sapere se restare con lui era davvero quello che volevo.
«Dan» sussurrai nella sua bocca che si chiudeva sul mio labbro inferiore «Dan, i-io devo...»
«Tu non te ne vai da nessuna parte» mormorò mordicchiandomi il labbro. Mi fece scendere e mi rimisi in piedi, sempre contro il muro, ma più dolcemente.
«Se Kevin arriva...» non sapevo come completare la frase. Cos’avrei fatto in quel caso? Che fosse arrivato, mi avrebbe presa e portata con lui, o lo avrei convinto che non aveva bisogno di me per andare avanti?
Le parole. Ecco cosa. Non ero brava con le parole, ma lo avrei convinto, glielo avrei detto che non lo amavo, che non mi piaceva e che non ne volevo sapere niente di lui e di nessun altro che non fosse Dan.
«Se Kevin arriva lo riempio di botte se prova ad avvicinarsi a te.»
Sorrisi a fior di labba che lui serrò lasciandomi un bacio fragoroso. Si allontanò di poco e poi andò vicino alla porta a controllare se ci fosse qualcuno. Tornai a sedermi rigirandomi fra le mani l’analizzatore che ormai stava segnando lentamente la mia rovina, la mia sconfitta.
Amavo troppo Dan per separarmene, oppure lo amavo troppo per lasciare che soffrisse per colpa mia, forse volevo davvero tornare a Oslo, a casa mia, da Kris, a vivere una vita come tutte le altre. Tornò verso di me e si sedette esattamente davanti a me. Sollevò lo sguardo, lo guardai negli occhi. Blu. L’oceano. L’infinito. La profondità. Un battito del cuore mancato. Un sospiro. Il suo sorriso. Il mio sorriso.
No, non volevo staccarmi da lui nemmeno per un attimo, senza sapere se ci fossimo rivisti. Lo volevo, mi sarei rifatta una vita.
«Parlerò con Kevin» improvvisai senza lasciare che i miei occhi riemergessero dai suoi, aspettando la peggiore delle sue reazioni che non arrivò mai. Si limitò ad annuire, abbassare la testa. Sussurrare.
«Qualunque cosa accada... che la decisione sia tua o qualcosa vada storto... io non smetterò mai di pensare a te. È una promessa.»
Mi mancò il respiro. Avevo bisogno della sua fiducia più di qualunque altra cosa in quel momento, così in bilico tra il vero inizio e la vera fine. Quella fiducia che aveva tradito poco tempo prima, quella sera in cui ero tornata, lo aspettavo, e lui mi aveva già sostituito con la ragazzina.
Anche se ricordare quanto dolore avessi provato in cinque secondi di sguardi confusi e irritati, mi piaceva sapere che aveva fatto tutto questo per me, dimenticarmi, nonostante si fosse arreso troppo presto, al contrario di me che avevo fatto una sfuriata immensa con Kris pur di stare con lui.
«Io posso solo prometterti...» mormorai «che non amerò mai Kevin. Né nessun altro all’infuori di te.»
Gli sfuggì un mezzo sorriso, di quelli sinceri, che mi riscaldavano il cuore, il mezzo sorriso che tanto amavo.
«Ti ricordi la sera in cui te ne andasti quasi definitivamente nella tua epoca?»
Annuii senza capire dove volesse arrivare.
«Lì mi hai detto per prima che mi amavi.»
«Cos’altro potevo fare? Ero sul punto di esplodere» mi giustificai rossa dall’imbarazzo, anche se essere imbarazzati con lui era più che normale. Riusciva sempre a farmi mettere la testa sotto la sabbia.
«Potevi semplicemente non dirlo... perché io non sono mai stato sicuro di questo. Non sono convinto che tu mi ami. Sono la tua prima vera cotta, sono la tua prima esperienza di amore, di qualunque cosa, invece io di amore ne ho dato e avuto tanto ricadendo sempre per terra, rialzandomi con cosa? con l’alcool. Tu non ne sai nulla di tutto questo, non potrai mai capire se stai con me.»
«E con questo? Non vuol dire che non sia davvero innamorata.»
Scosse le spalle, ma più che dubbioso era disperato, glielo leggevo in fronte, aveva paura. «So che un giorno smetterai di amarmi. Com’è successo con tutte le ragazze che ho avuto nelle loro crisi amorose adolescenziali.»
Mi alzai per sedermi accanto a lui, così da essere più vicini. «Ho smesso di essere adolescente tre anni fa, Dan.»
Disapprovò. «Hai cominciato essere adolescente quando sei arrivata qui, si diventa adolescenti quando finalmente scopri di avere una cotta seria per qualcuno. Credimi, niente di tutto quello che ti aspetti è vero. Non staremo insieme per sempre.»
«Smettila, ti prego» soffiai con il nervoso che stava per esplodere. Lo sapevo che erano tentativi di dissuadermi ad andarmene. Quello che non capivo era che prima quasi mi obbligava a restare, ora in qualche modo mi supplicava di andarmene.
«È la verità, e tu non sei capace di accettarla. Lo sappiamo tutti che finirà prima o poi. Non mi amerai mai quanto io amo te, adesso, dopo, ancora più tardi. Finché le ossa mi reggeranno in piedi, o finché non mi si mozzerà il fiato... insomma, finché non morirò, io non smetterò mai di cercarti, in qualunque modo possibile e immaginabile. Sai, costuirò una macchina del tempo» accennò un sorriso e risi lievemente «la inventerò, verrò nel futuro e ti cercherò, sai che ne sono capace.»
Mi nascosi il viso tra le mani per trattenere la risata, ma lui da un polso le spostò prendendomi il mento tra le dita.
Mi venne in flashback, risalente alla mattina in cui ci ritrovammo svegli nello stesso letto, sconosciuti agli occhi dell’altro, ma già sentivamo che qualcosa si stava accendendo. In me, un fuoco sottile era esploso come se ci avessero buttato della benzina dentro. Ero infatuata completamente, bruciavo, bruciavo solo per lui.
Quella lontana mattina mi chiese se avevo paura che mi baciasse.
Quella notte, o meglio, alba – erano le quattro del mattino – mi chiese se avevo paura che non lo avessi più baciato.
«Sì» mormorai a pochi centimetri dal suo viso «ho paura di non vederti più.»
«È reciproco» mi lasciò un bacio leggero «ma so che se rimani qui, prima o poi accadrà.»
Poggiai la testa sul suo petto, che si alzava e abbassava, rilassandomi. Il timer segnava venticinque minuti dalla partenza. Delle voci da fuori mi destarono dallo stato di pace in cui ero entrata. Mi rizzai a sedere e guardai Dan. Fissava la porta. Stavano entrando. E la mia ansia si trasformò in terrore vero e puro. Poi capii che le voci non erano tante, era una sola, una voce familiare, ma che aspettavo.
La porta in legno si spalancò. Un ragazzo biondo entrò con il volto contratto in una smorfia di rabbia, corrucciato, non era più bello come pensavo fosse. Era diventato un mostro, divorato dalla gelosia, dalla possessività. Ma non ero sua. Non gli appartenevo.
«Rachel, alza quel culo ed entra nella capsula. Sbrigati, manca poco» mi ordinò Kevin con voce rude, ma che aveva smesso di fare paura. Era stanco. E lo comprendevo.
Guardai Dan, teneva lo sguardo basso, come se sapesse che stavo per eseguire il suo ordine, ma non mi sarei arresa, non di nuovo, non per colpa di un altro ragazzo. «Possiamo parlare, Kevin?»
La mia incredibile calma sorprese entrambi. Sia me, che Kevin. Non ero mai stata calma in sua presenza, invece adesso lo ero, gli parlavo come se niente fosse, come i primi due giorni che ci frequentavamo al laboratorio.
Non avevo paura. Sapevo cosa volevo. Cercavo invece di scoprire cosa volesse Kevin.
Lui sospirò, avvicinandosi di pochi passi, ma mantenendo la dovuta distanza da me. «Non credo ci sia tempo sufficiente.»
«Voglio parlarti comunque» avanzai anche io.
Annuì, sedendosi su una di quelle sedie senza schienale di cui ancora non sapevo il nome. «Non sono statao capace di trattarti come dovevo. Mi sento uno stronzo, ho i sensi di colpa fino alla gola ed è una sensazione orribile. Mi dispiace. Scusami, scusami davvero.»
Ad un tratto persi la cognizione del tempo, dello spazio, della parola, di qualunque cosa. Mi stava chiedendo il perdono, sapeva di aver sbagliato. Non c’era modo migliore per finire quell’incubo. Eppure, qualcosa mi faceva pensare che dovevo stare attenta.
«Non voglio rimanerti sulla coscienza.»
Sbuffò. «Ti ho già sulla coscienza! Altrimenti perché non ti sto più ammanettando, cerco di ucciderti? Sono stanco, Rachel. Ho combattuto abbastanza. Ma io ero solo geloso. La gelosia ti divora peggio di un leone affamato. Sono colpevole di tutti i tuoi traumi, le tue paure, la tua isolazione. È colpa mia se non volevi conoscere più nessun ragazzo che Stein o gli altri ti chiedevano di conoscere, con il permesso anche. Sono io il tuo vero problema.»
Mi si bloccarono le parole in gola. «Un conto è essere gelosi, un conto è essere innamorati. Se tu fossi stato geloso non avresti messo a rischio la vita di quattro persone a cui ci tengo. Le uniche persone, all’infuori di te, Kris e Stein, che mi sono permessa di conoscere, non puoi portarmele via e io non posso andare via da loro.»
«Non voglio privarti di nulla, Rach. Io ero solo... sì, le prime volte che ci vedevamo ero solo tentato dall’infrangere le regole, volevo davvero provarci con te, e vedere che mi rifiutavi, che eri insicura e soprattutto spaventata da me mi ha come risvegliato. Quando sono venuto qui volevo solo trovarti e portarti a casa. Mi manchi e ci tenevo a te, e credo di tenerci tutt’ora, non ce la faccio a vedere lui» indicò con un cenno del viso Dan, di cui non badai l’espressione «che abbraccia e bacia te liberamente, al contrario di me, che dovevo starti addirittura lontano. Non ce l’ho fatta e sono esploso tutto d’un tratto. Vedere come scappavi da me, che avevi paura, mi ha messo angoscia. E automaticamente ho sofferto per te. Non posso privarti della persona che ami. Come loro hanno privato me della persona che amo, non farò lo stesso. Non sono così idiota.»
Riflessi nel suo sguardo, grigio con tante sfumature più chiare e più scure, la tristezza. Mi sentivo male a guardarlo. Ero angosciata quasi quanto lui, dovevo pur consolarlo.
«Tu puoi farti una vita, Kevin. Io no. Non ne sarei capace.»
Si alzò. Per un attimo pensai di indietreggiare ma rimasi al mio posto, non dovevo avere paura di lui. Mi prese una mano e me la fece aprire, poggiando sul mio palmo qualcosa di freddo, di metallico. Me la richiuse prima che potessi vedere cos’era e misi l’oggetto in tasca.
Prese un profondo respiro. Era tornato Kevin Mason, il belloccio del laboratorio, a cui aspiravano tante scienziate che spesso gli portavano il caffè, che cadevano nella sua trappola, pazze di lui, che ha smesso si vivere da fuorilegge quando ha incontrato me.
Il timer suonò gli ultimi cinque minuti rimanenti. «Probabilmente un ti amo da parte mia sarebbe esagerato.»
«Non metterti fretta, so che non mi ami. Non dire parole che potrebbero ferirmi ulteriormente» dissi ricordando il ti amo detto a Dan prima di sparire nella capsula.
«Sono stanco di ferirti. Perciò... me ne vado. Ti auguro il meglio e...»
Insiprai profondamente. Glielo chiesi, dovevo. Era il minimo che potevo fare per una persona come lui. Non era cattivo, era solo confuso. E innamorato. Come me.
«Dammi un abbraccio.»
I suoi occhi brillarono. Si passò la lingua sulle labbra. Allargammo le braccia insieme e il suo cuore, strozzato e incapace di amare, riprese a battere velocemente, come se fosse rincorso da una bestia feroce.
Lo strinsi forte, sentendo il suo profumo così nuovo, ma già vissuto.
Meno tre minuti.
«Io... io vado.»
Avrei voluto dirgli grazie, di avermi capita, di avermi lasciata andare, di avermi amata anche facendo pazzie. Ma si era già messo a correre verso la macchina del tempo. Volevo urlarglielo, era stato importante per me, per distaccarmi, per farmi capire che niente era impossibile, nemmeno rischiare la galera, rischiare di ammazzare qualcuno, fare pazzie, essere cattivi, tutto questo perché lo avevo sconvolto.
Sospirai. Mi voltai guardando il timer. Trenta secondi.
Soffocai le lacrime sperando di non darlo a vedere a Dan, rimasto in silenzio tutto il tempo in cui ero riuscita a parlargli.
Tirai su con il naso, e lui parlò. «È un ragazzo nobile.»
Annuii sentendo gli occhi bruciare e inondarsi. Volsi un altro sguardo al timer, quindici secondi. Volarono. Volarono come due lacrime che mi erano scese sulle guance bagnando appena lo schermo illuminato.
«L’ho distrutto.»
Sei secondi.
«Lo so che non lo dimenticherai mai, è parte di te.»
Cinque secondi.
«Non voglio che soffra per colpa mia...»
Quattro secondi.
Sospirò. «Soffrirà solo il primo periodo.»
Tre secondi.
Mi fiondai fuori dalla porta e osservai la capsula che iniziava a tremare e far fuoriuscire i fulmini azzurri, viola, grigi, bianchi. Il timer scattò segnando sei zeri intermittenti. Era andato. La capsula scomparve. E così l’ultimo biglietto di ritorno a casa, l’addio definitivo al terzo millennio.
Mi appoggiai alla porta di legno asciugando le lacrime.
«Sei pentita di non essere andata con lui?»
Scossi la testa. Ero pentita di non averlo capito prima che mi amasse. Ero pentita di essere stata superficiale e stupida.
 
Writer’s wall
No ok gente io non so proprio cosa dire. Sono scioccata, e lo dico io stessa che ho scritto questo capitolo idiota, lo giuro, non immaginavo che andasse a finire così. Che mente drastica che ho.
Non so nemmeno se adesso Rachel contatterà Kris per svignarsela, probabilmente lei se ne andrà nella sua epoca, senza Dan. Alla fine, si nota che lei era legata a Kevin, che ne pensate?
SCHERZAVO! Ovvio che lei rimane lì, non può mollare il suo patato dagli occhi blu. E chissà come finirà la storia chilosascopritelovoi! Ho deciso che il prossimo capitolo sarà il definitivo, il finale l’ho già preparato, quindi state attenti che io sono cattivella.
Come sempre ringrazio le lettrici che recensiscono, che hanno aggiunto la storia ai preferiti e infine le lettrici silenziose, siete assurde tutte quante, 55 recensioni non sono poche per una cagatina come la mia storia! Vi voglio bene a tutte.
 
Comunque volevo ringraziare particolarmente delle persone: Nives (Nives_Bastille), che in assoluto è l’unica che sta ad ascoltarmi sempre, che sopporta quasi ogni giorno le mie sclerate, gli sbalzi d’umore; Maria Luisa, che anche se si è presa un po’ di pausa per colpa dello studio – io al contrario invece haha – so che mi sostiene e che non smette di aiutarmi moralmente e psicologiamente; Lisa (Harold’s Bakery) che ogni tanto mi scrive in chat) e recensisce ogni mio capitolo, e infine Noemi (shesunbroken) che altrettanto mi dice sempre il proprio parere personale.
Ognuna di queste persone fa parte di me e della mia crescita, un motivo in più per lo sviluppo di questa storia maledetta.
Grazie, grazie davvero!
Un bacio e alla prossima, Angelica (e scusate il poema)

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Capitolo 18
*** Rimanere ***


Londra, Inghilterra, 8 gennaio 2014
 
I festoni e i coriandoli cartacei mi riempivano i capelli, arruffandoli, dibattendomi per toglierli tutti. Qualche strano oggetto cilindrico nel quale Kyle ci soffiava di continuo producendo un suono strozzato e buffo, e una striscia di carta colorata si gonfiava srotolandosi, gli applausi, qualche urlo e lo stappo dello spumante appena aperto.
Mi ero già ambientata in mezzo a quei quattro barboni: avevamo un appartamento, Dan aveva quasi trovato lavoro, vivevamo insieme, al contrario degli altri tre che avevano il proprio habitat. Habitat sì, perché erano degli animali. Ma volevo loro troppo bene per separarmene, e la vicenda con Kevin non aveva fatto che rafforzarmi, farmi capire che non era mai troppo tardi per niente, rimediando quindi ai miei errori, ma rimediando ai suoi, potevo semplicemente non affrettarmi. Proprio come avevo affrettato ad innamorarmi di Dan, a dirgli che lo amavo, ad illudere me stessa che volevo solo lui.
E invece no, non volevo solo lui, perché in fondo, Kevin e i suoi capelli biondi mi mancavano. Non era stata tutta colpa sua la mia fuga, il mio terrore, era stata anche colpa mia, della mia debolezza, l’incapacità di capire e di aiutarlo. Perché mi chiedeva aiuto, ogni giorno chiuso in quella cella elettrica, provando a contattarmi, lui mi chiedeva aiuto e lo rifiutavo, pensando volesse farmi del male.
Ma Kevin non si sarebbe mai azzardato a sfiorarmi: quell’episodio al laboratorio era solo la sua routine giornaliera di ragazze da accaparrarsi e una buona dose di trasgressione, di violazione delle leggi.
Il suono dell’aggeggio che portava Kyle sulla bocca mi risvegliò dai pensieri troppo cupi.
«Stai ancora a pensare?» mi rimproverò con aria scherzosa «Guarda che non te lo lascio lo spumante!»
Risi. Anche Will ridacchiò, che lo avevano trovato poco tempo dopo la partenza di Kevin tra le mani dei tizi in nero che non capivo ancora come fossero coinvolti nella storia, i quali lo consegnarono a Kyle e Chris senza problemi. Probabilmente erano di quell’epoca, chissà, agenti speciali. Kevin era stato capace di tutto, ma lo aveva fatto per due motivi abbastanza razionali, se così si potrebbe dire: per gelosia, che lo divorava, lo bruciava, non lo faceva respirare, e l’amore. L’amore non lo divorava, non lo bruciava, lo uccideva e basta. L’amore uccideva sia me che lui. Anche Dan, come chiunque altro.
Avevo dimenticato Dan, eppure ce l’avevo accanto. A rigirarsi i pollici, scrutare i fogli bianchi, scrivere con una penna a inchiostro, compilare quei maledetti moduli che lo torturavano dal giorno precedente.
«E adesso che cazzo scrivo qui? Che vieni dal 3023?» si lamentò poggiando lo sguardo stanco sul mio.
«Non lo so, dì che vengo dalla Norvegia e basta.»
«Devo ancora capire» si intromise Kyle, ma non era il momento di spiegare a lui e Will chi fossi davvero. Chris mi lanciò un’occhiataccia ricordando il momento in cui confessai il mio vero io, ma ritrasse subito lo sguardo e fece finta di nulla. Aveva ben altro da fare.
«Te lo spiegheremo, ma adesso devo capire come funziona questa storia del documento e del certifingato» lo zittii, poggiando la testa sulla spalla di Dan, a leggere quei fogli impossibili.
Kyle scosse le spalle. «Comunque si chiama certificato, non certifiquellochehaidettotu
«Non importa, non sono pratica di queste cose!»
Dan si voltò un attimo e mi mancò il respiro, ero di nuovo troppo vicina ai suoi occhi.
«Propongo di andare all’ufficio postale e spiegare che non hai alcun documento e che devi fartene di nuovi» sussurrò nel mio orecchio, e rabbrividii.
Annuendo, mi alzai e afferrai il giubbotto. Faceva freddo quella sera, e c’era una nebbia fittissima. Londra era davvero la città dei sogni, quella in cui chiunque sarebbe voluto andare a vivere. Perlomeno, la Londra del ventunesimo secolo era stupenda, la iniziai ad amare non appena intravidi i palazzi, le case e tutto il resto. Londra nel terzo millennio era Londra: una capitale uguale a Oslo, uguale a Roma, Pechino, New York.
Rimasi sorpresa quando Dan mi disse che non era New York la capitale, tutto questo perché parlavamo di com’era cambiato il mondo in mille anni, e gli stavo raccontando dei miei amici di NY. Il nome della capitale era Washington DC, che era stata distrutta dopo la caduta del presidente Sean Princerville.
«Io invece dico di tornare alla locanda a dormire, le cose per il lavoro e i documenti di Rachel li potremo vedere domani, anche perché sono le undici di sera e non vedo perché gli uffici dovrebbero essere aperti a quest’ora» intervenì Woody, alzandosi anche lui.
Dan lanciò un’occhiata al suo orologio da polso e rise tra sé e sé. «Quello spumante mi ha stonato.»
«Così impari a bere i miei bicchieri senza che me ne accorgessi» sbuffò Kyle ironico.
Risata generale, e poi silenzio. Un silenzio imbarazzante, che non mi piaceva. Sarei voluta sparire in quel momento, perché non sapevo cosa dire, cosa fare, come muovermi, temevo di dover essere io a reagire e dire qualcosa, che stessero aspettando me, come quando stai per dire qualcosa e tutti aspettano che tu parli. La situazione più assurda, più idiota che poteva capitarmi era quella: stare zitta per non attirare l’attenzione. Attenzioni, poi, che non volevo ricevere.
Fortunatamente Will prese l’iniziativa e si alzò dal divano con il giubbotto tra le braccia conserte. «Beh ragazzi, io torno a casa, si fa tardi.»
Gli altri due ospiti annuirono e approvarono a voce, prendendo le loro cose e dando pacche sulla spalla a Dan e mi stringevano la mano salutandoci con entusiasmo.
Le loro voci tutte unite e poi di nuovo il silenzio. Quel silenzio, invece, mi piaceva. Eravamo solo io e lui, e i nostri silenzi, dominati dagli sguardi, il respiro accellerato, quello sì che mi piaceva. Perché significava che l’uno si interessava all’altra in modo troppo forte per essere nascosto.
I nostri occhi si scontrarono di nuovo, formando quel colore così chiaro, puro, quasi invisibile. Il grigio al blu non erano mai colori da mischiare, formavano quel colore così triste e monotono. Ma ancora una volta, la natura si era sbagliata. Eravamo sbagliati, ma sbagliati l’uno per l’altra. Io ero sbagliata, ma creata apposta per lui. E lui era sbagliato, creato apposta per me. E Madre Natura non poteva creare cosa più bella e perfetta.
Nonostante interrompere quel gioco di fulmini e colori mi dispiacesse, scossi le spalle e iniziai a sgomberare il tavolino e le poltrone dai bicchieri semipieni e le bottiglie vuote, i pezzetti di carta colorati, i cilindri bianchi che emettevano il suono buffo. Tutto ciò che ci aveva separati spiritualmente per qualche ora, ma ci aveva uniti di più, facendoci capire che nel mondo non c’eravamo solo noi, che oltre a noi stessi avevamo bisogno di qualcuno che non ci facesse pensare: gli amici.
Lui si sedette sul divano e continuò ad osservarmi mentre prendevo un attrezzo pesante e scomodo che con un pulsante faceva un rumore forte e aspirava ciò che c’era per terra. Ma Dan lo spense e lo lasciò in bilico, senza farlo cadere. Mi prese per i polsi e mi trascinò su di lui sul divano, fondendo i respiri, i battiti cardiaci, le emozioni. Iniziammo a mischiare anche le labbra, la lingua, il cuore. Niente di tutto questo, in modo così chiaro e semplice, era umanamente possibile. Ma io e lui potevamo perché sì, ne avevamo bisogno.
Le carezze, i brividi. Uno schiocco di labbra, un abbraccio. Stesa sopra di lui, era come se fossimo un’unica persona, potevamo sentire battere sia la parte destra che sinistra del petto. Ci riempivamo, non eravamo incompleti, perché se lo fossimo stati non sarei rimasta lì, con lui.
Mi lasciai sfuggire un “ti amo”, ma non me ne pentii. Quando lo pronunciai tornò ad affondare i denti nelle labbra e punirmi, perché nessuno poteva amarlo, nessuno ci sarebbe riuscito. Eppure io ce la facevo. Lo sopportavo. Faceva male, ma lo amavo.
«Non stasera» mormorai quando poggiò le mani sulla cerniera dei miei pantaloni. Lui annuì, per niente dispiaciuto, e si alzò. Mi prese per mano e mi portò in camera da letto. Ci infilammo sotto le coperte, chiusi gli occhi, respirando a fondo, sentendo che era accanto a me, che mi stringeva. Poi mi addormentai.
Sognai un mare blu.
E le sue iridi, che mi incatenavano come nient’altro. I suoi erano occhi che ti imprigionavano e buttavano via la chiave della cella. Niente di più bello e inquietante.
 
Era più pulita quella mattina: il sole splendeva alto nel cielo, qualche nuvola bianca e morbida all’orizzonte, il venticello ghiacciato a contrasto col calore del sole, qualche uccellino silenzioso che si poggiava lungo i cavi elettrici.
L’insegna della locanda non era accesa, ma il cartello indicava che era aperto. Dan spinse la porta ed entrammo, sorprendendo Woody a scribacchiare qualcosa su un pezzo di carta. Qualche cliente stava seduto sui tavoli di legno a parlottare e mangiare quelle frittelle rotonde e giallognole che avevo già assaggiato. Non avevo più la cognizione del tempo, sembrava fosse passata una vita insieme a Dan e i ragazzi. Invece ero lì da poco più di due settimane, ma l’intensità di ciò che avevo fatto mi faceva già sentire vecchia.
Woody ci sorrise e ci fece sedere al tavolo insieme a Kyle e Will, che ci squadrarono con aria interrogativa, mentre ci portava un piatto di strane brioches francesi di quell’epoca a forma di mezzaluna e dei pezzi di pane tostato quadrati, il tutto accompagnato da un bicchere in vetro pieno di un liquido denso e arancio sbiadito.
Guardai i due davanti a me che aspettavano qualcosa da noi, ma non sapevo cosa. dan si schiarì la gola e puntò gli occhi su di me. Volevano sapere. E io dovevo parlare.
«Allora, ehm... buongiorno» mormorai in preda all’imbarazzo.
«Buongiorno» rispose Will più gentile, ma Kyle gli rifilò una gomitata.
Mi grattai la nuca, ero nervosa. Mi rigirai le unghie, le guardai, buttai lo sguardo ovunque che non fosse su di loro, mischiavo parole insensate nella testa, al contrario dei due ragazzi che mi fissavano in modo poco convincente.
«Rachel, ci hai nascosto tante cose per tanto tempo» mi rimproverò Kyle, ma non me ne feci una colpa né tantomeno suonò come un’accusa.
Sospirai. «Non è passato tanto tempo da quando vi ho conosciuti, e comunque non avrei potuto fare altrimenti.»
«Potevi dircelo che eri... non saprei, tutto quel casino mi ha confuso e io non so più cosa pensare!» alzò la voce come una ragazzina isterica e gli pregai di abbassare i toni, non volevo che le poche persone presenti nella locanda lo sentissero.
Will gli poggiò una mano sulla spalla. «Non ti avremmo mica cacciata a calci se ce ne avessi parlato.»
«Non è semplice come credete, io non... non ero a mio agio. Voi cosa fareste se andreste nella mia epoca? Dove tutte le regole e i modi di vivere sono diversi, insomma... non sapete cosa ho provato e cosa provo tutt’ora. La confusione più totale, i-io non ero in grado di parlarne.»
Dan mi accarezzò il dorso della mano con la quale stringevo la felpa grigia come per tranquillizzarmi.
«Ci siamo ritrovati a rischiare la vita, il carcere o chissà cos’altro per te, e come minimo ci meritiamo delle spiegazioni invece delle tue incertezze. Io pretendo di sapere chi cazzo era quel demente che mi ha chiuso in quella cosa, perché e cosa c’entravo io» protestò di nuovo Kyle.
Dan si sporse verso di lui. «Adesso calmati.»
«Calmati un cazzo, Dan, tu sai già tutto!»
«Io non conosco la storia di Kevin, e ho un rapporto diverso con lei rispetto a te, eppure sono rimasto in silenzio. Ogni cosa ha il suo tempo. Odio vedere quando la mettono sotto pressione, non hai nemmeno idea di com’era conciata la prima volta che l’ho vista.»
Stavano per litigare, e rischiavo di impazzire. «Piantatela, ora vi spiego.»
E nel mentre raccontavo la mia storia, di come ero cresciuta, di Kris, papà e mamma, della vita in Norvegia, di Kevin, il laboratorio, la macchina del tempo, tutto quanto, Dan mi stringeva la mano quando sentiva che stavo per crollare, non mi abbandonava, nemmeno quando parlavo.
Nel frattempo il locale si era svuotato. Erano le tre del pomeriggio, e tra una pausa e l’altra, le domande, le lacrime, gli abbracci, il tempo era volato. Così come la mia voglia di aggiungere altro.
«Hai fatto una bella stronzata, comunque» sbuffò Will, e mi lasciò un po’ confusa. Poi si alzò infilandosi il cappotto e uscì dalla locanda salutando Woody che si avvicinava continuando a guardare l’uscita.
«Per caso gli hai detto che dovrebbe farsi la barba?» domandò serio, mentre io scoppiai a ridere scuotendo il capo.
«Di solito gli da fastidio quando nominano la sua barba ma meglio così.»
Scossi le spalle e sospirai poggiandomi sul legno freddo. Anche Kyle, ormai abbastanza informato e un misto tra incazzato e disorientato, si alzà per andarsene lasciando qualche spicciolo a Woody per la colazione e il pranzo. Rimanemmo solo io e Dan, quando l’amico paffutello si ritirò nel magazzino a sistemare.
Mi lasciò un bacio leggero sulla fronte per spostare la sedia e dirigersi verso il bancone. Strappò un pezzo di carta dal blocco di Woody e iniziò a scarabocchiarci sopra qualcosa. Sembrava un viso dalla forma ovale. Poi ci aggiunse i capelli, le labbra, il naso, e gli occhi. Probabilmente era una ragazza in qualche versione stilizzata, e sorrisi.
«Carina» ridacchiai «come si chiama?»
«Uhm» mise la penna a inchiostro tra le labbra «Anastasia.»
Non trattenni la risata. «Perché?»
«Mi ispira quel nome.»
«E chi sarebbe? La tua fidanzata?»
Scosse la testa. «La mia fidanzata non si può disegnare. Solo Dio poteva disegnarla.»
Arrossii violentemente anche se non sapevo esattamente chi fosse questo Dio, ma immaginai fosse qualcuno di importante o che ricordava la religione.
Si sedette su quella sedia di cui non conoscevo ancora il nome, senza spalliera, più alta, e mi mangiai la testa cercando di pensare e ragionare. Ma non mi veniva in mente nessun nome adatto per giustificare quell’affare. Me lo ero sempre domandato, sin dalle prime volte che ero entrata nella locanda.
Due settimane di fuoco. Di acqua. Di mare. Di amore.
Non sapevo se avrei trascorso la mia intera vita in quel posto, a Congledon, oppure a Londra. Mi andava bene qualunque luogo in cui ci fosse Dan.
Sebbene fosse imbarazzante, alla fine glielo chiesi.
«Dan» lo chiamai, e si voltò.
«Mmh?» mugungò con la penna tra le labbra.
«Ma come si chiamano quei cosi?» indicai la sedia senza schienale che mi aveva torturato i pensieri per tanti giorni.
Rise. «Sgabelli.»
Lo guardai incredula e poi scoppiai a ridere per il buffo nome. Forse non era così male il ventunesimo secolo come pensavo poco tempo prima.
 
Writer’s wall
OMMIODDIO NON POSSO CREDERCI. No cioè ragazzi giuro io non so come ho fatto, da dove mi siano uscite le parole e tutto il resto.
È stata l’esperienza più bella e traumatizzante da quando ho cominciato a scrivere, non avevo mai pensato di raggiungere qualcosa di così, scontata come sono.
Allora, voglio risolvervi alcuni dubbi che sicuramente avete: molte scene dei capitoli (tra cui l’inseguimento, la cattura di Dan, la loro prima litigata e tanto altro) sono ispiratissime ai video ufficiali tra cui Laura Palmer e Things We Lost In The Fire, i miei preferiti in assoluto. L’auto nera, Dan incappucciato, l’abbraccio tra lui e Rachel (che sarebbe la tipa bionda di TWLITF ma più carina, Rachel è davvero bella a parer mio) e insomma, quest’ultimo capitolo mi ha traumatizzata.
Il finale HAHAHAHAH mi state odiando? Se lo fate sono contenta. Comunque voglio sentirvi cavolo, recensite questo benedetto capitolo e insultatemi, doveva essere il più bello e intenso con un finale spettacolare e invece vi lascio così su due piedi.
Non ci sarà un seguito. Puahaha.
Vi aspetto in tanti, spero davvero di avervi messo su tanta curiosità perché era quello l’intento, e se non ci sono riuscita vuol dire che ci proverò nelle prossime storie! Lavorerò tanto, perché voglio diventare una scrittrice, e ho un’infinità di cose da imparare.
Detto questo GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE E DI NUOVO GRAZIE a tutti coloro che mi hanno sostenuta sempre, come nessuno ha mai fatto.
GRAZIE di aver recensito, di avermi corretto gli errori anche con le 3 recensioni neutre/negative, GRAZIE DI TUTTO.
HO GIA’ DETTO GRAZIE?
A presto con le prossime cavolate,Angelica <33

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