Down among the dead men [ACIV Black Flag]

di cartacciabianca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nessuna ragione per morire ***
Capitolo 2: *** Ossa di pantera ***
Capitolo 3: *** Due topi in un barile di carne secca ***
Capitolo 4: *** Verso casa e ritorno ***
Capitolo 5: *** Carne alla carne ***
Capitolo 6: *** Le gocce e i vasi ***



Capitolo 1
*** Nessuna ragione per morire ***



_Down among the dead men

1. Nessuna ragione per morire

 

Un lampo, poi il suo tuono e in fine una pioggia scrosciante.

— Solo uno di noi uscirà vivo da quest'isola, gallese! — gridò Vane in cima alle rovine. La voce di pietra rimbombava in modo agghiacciante tra le pietre. — Non intendo imbattermi una volta di più nel tuo brutto muso! —

L'acqua mi entrava in bocca, nascosto dietro le macerie, mentre riprendevo fiato dopo la corsa per arrivare fin lì, al riparo dalla sua vista. Ora aveva un moschetto, in mano, e gli sarebbe bastato un colpo per uccidermi o quantomeno condannarmi ad una lenta agonia. Il cuore mi batteva all'impazzata. Dovevo riuscire ad avvicinarmi e porre fine a quella storia.

— Ancora vivo? Prendi! — esultò Vane quando mi vide uscire allo scoperto mentre correvo verso il riparo più vicino, ma l'esplosivo che aveva lanciato ci arrivò prima di me e il sibilo del suo innesco mi riempì le orecchie cancellando tutti gli altri suoni. Mi buttai verso un cespuglio, ma la forza dell'esplosione mi scaraventò a terra molto dopo di quello.

— Eccoti là, bastardo! — esultò Vane impugnando il moschetto. — Ti mando all'Inferno! —

Rotolai da un lato, schivando il proiettile che fischiò contro un masso, poi mi alzai e corsi dietro una colonna, alla quale mi aggrappai con le unghie quando rischiai di scivolare sul terreno ridotto già ad un bagno di fango. Appoggiai la fronte  sulla roccia, calmando il respiro, e strinsi i pugni.

— Non puoi nasconderti! — lo sentii gridare.

Lanciò un'altra bomba ed io uscii allo scoperto, trovandomela davanti. Sgranai gli occhi ma era troppo tardi e l'esplosione, che coincise con tuono, mi buttò in una pozza d'acqua.

 

 

— Un'isola… —

— Un po' presto per le allucinazioni, Capitano Kenway. —

Corsi all'impavesata di prua e poi su quello che restava del bompresso. Spontaneamente cercai il cannocchiale nei vestiti, ma trovai solo il nulla e dovetti sforzarmi a guardare nelle tenebre ad occhio nudo. Era notte e solo per miracolo il relitto in fiamme su cui galleggiavamo non era ancora affondato, ma il ponte era divorato dalle lingue di fuoco che lo rosicchiavano come giganteschi tarli e il fumo si alzava nel cielo nascondendo tutte le stelle.

— Sì, è un'isola. —

Tornai indietro, e trascinata giù dal cassero in fiamme una cassa di palle da due libbre cominciai a svuotarla per poi riempirla del mio equipaggiamento, ovvero di quel poco che Rackham non mi aveva trovato addosso quando aveva dato l'ordine di perquisirci: una dozzina di proiettili, qualche dardo soporifero, le lame celate e una pistola che Adewale mi aveva infilato di nascosto nella fascia, con l'augurio di farmela bastare per proteggermi dalla bestia più pericolosa tra tutte quelle che avesse mai incontrato...

— Cosa stai facendo? — chiese Vane, avvicinandosi, quando vide che mi stavo sfilando gli stivali.

— Non è ovvio? Preparo i bagagli! — chiusi la cassa.

— E dove te ne vai, sulla tua isola immaginaria? — rise.

— C'è davvero un'isola, razza di idiota, guarda! — gliela indicai e adesso che eravamo più vicini si distingueva chiaramente la banchina di scogli contro cui s'infrangevano le onde, che li riempivano di schiuma luminescente.

— Balle. —

Non si era neanche voltato.

Quella volta scoppiai io dalle risate.

— La cosa assurda è che perdo anche tempo a dirtelo. —

Gettai la cassa fuoribordo e poi la seguii, tuffandomi di testa oltre l'impavesata. Quando riemersi notai che il baule galleggiava come mi aspettavo e così me lo misi sottobraccio. L'acqua era gelida, ma stemperava piacevolmente il mio corpo accaldato dopo le ore trascorse ad un palmo dall'Inferno. Avevo sete e mi inumidii la bocca senza inghiottire, poi cominciai a nuotare. Tenevo gli occhi puntati sugli scogli, ogni tanto trattenendo anche il respiro come un cecchino: la più piccola distrazione avrebbe potuto portarmi alla deriva, ma non avevo dubbi: era un'isola quella che avevo davanti e non distava più di un chilometro. Potevo farcela, ero un ottimo nuotatore e non avevo ragioni per morire ma, al contrario, mille per vivere.

Arrivato alla decima falcata di gambe sentii il tuffo di Vane alle mie spalle e poco dopo, con un mostruoso gorgoglio e in un letto di schiuma e vapore, la nave, ormai un gigantesco falò, affondò.

Per dei lunghi minuti nuotammo in silenzio, un silenzio inquieto che cresceva man a mano che ci allontanavamo dal luogo di morte della nave, dove le ultime lingue di fuoco guizzavano fuori dall'acqua come i tentacoli di un Kraken. Lasciata anche la nube di fumo alle nostre spalle, tornarono le stelle, e con esse l'unico modo di distinguere il cielo dal mare, densi e neri come l'inchiostro. Vane era dietro di me: disegnava ampie bracciate nell'acqua scura senza stancarsi troppo, almeno non subito, come stavo facendo anch'io data la lunga distanza da coprire. Quando cominciai a battere i denti sentii per la prima volta il fragore delle onde che s'infrangevano sugli scogli e potei distinguere il profilo dell'isola contro il cielo stellato. Era grande e le sue coste da quella parte di mare erano alte e rocciose. La corrente andava nella nostra stessa direzione ed era un sollievo per i muscoli, ma una volta che fossimo stati sotto quelle scogliere avrebbe potuto esserci fatale.

— Scommetto che non hai pensato agli squali, — disse Vane improvvisamente, rompendo quel silenzio. — Oppure ci hai pensato e siamo qui proprio perché preferisci una morte più rapida! —

— Non moriremo, Vane! — gridai, digrignando i denti e mettendo più potenza nelle bracciate.

Avrei dovuto togliermi di dosso qualche altro strato di vestiti: affaticavano ogni mio movimento rendendo tutto più difficile. Mi voltai per controllare se Vane, che al contrario non si era tolto neanche gli stivali, avesse tenuto il passo e lo vidi più vicino di quanto mi aspettassi, ad appena un paio di bracciate da me.

Mi ero illuso di essere una sirena, e invece in prossimità della costa le forze iniziarono a mancarmi e mi sentii trascinare verso il fondo. Si era alzato il vento, e l'oscurità e le onde, ora impetuose, mi travolsero. Persi la linea dell'orizzonte, poi il mio baule, e in fine, quando sbattei la testa sugli scogli, i sensi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve ciurma!

Per mancanza di idee concrete, come al solito, non saprei cosa dire per esplicarvi i come e i perché di questa storia, perciò mi limiterò a confessare che, disgustosamente innamorata del personaggio di Charles Vane, non potevo non prolungare e celebrare la sua esistenza con l'ennesimo aborto della mia mente malata. Anche se qui il narratore è Edward, e perciò le vicende si svolgeranno dal suo punto di vista esattamente come nel gioco, il vero protagonista è quell'altro maledetto diavolo.

Sto scrivendo tutto molto di getto ed è probabile che anche la pubblicazione seguirà un ritmo piuttosto rapido (in termini di lunghezza dei capitoli e di intervalli tra un aggiornamento e l'altro.) Questo perché quando ho iniziato a pensare a questa storia, appena finito il gioco, volevo farne un fumetto. Una volta davanti alla pagina di word mi sono detta che dovevo stilare una rapida, sintetica scaletta degli eventi con i caratteri di una sceneggiatura che poi, forse durante queste vacanze natalizie, avrei trasformato in tavole, ma poi sono stata travolta dal fiume di immagini che mi hanno assalita nei minimi particolari e non ho saputo "trattenere la lama". Il risultato forse è una via di mezzo tra una sceneggiatura, con una forte componente nei dialoghi e una scrittura asciutta, scheletrica, quasi, e un romanzo, dove il narratore lascia trapelare le proprie sensazioni ed esperienze, cadendo così in una narrazione soggettiva.

(Scusate il linguaggio macchinoso, ma tra due giorni ho un'interrogazione su Diderot e sono diventata peggio della mia prof!)

Detto questo spero che come inizio vi abbia incuriositi. Numero di capitoli? Sconosciuto. Struttura della trama? Bhé, lo scopriremo insieme. Sto tutt'ora lavorando alla stesura dei prossimi aggiornamenti, quindi si potrebbe definire il tutto ancora un "work in progress". Stamattina ho fatto la prima modifica postuma a questo stesso capitolo e in futuro potrebbero essercene altre, proprio perché la sola ed unica versione definitiva di questa storia sarà un fumetto.

In attesa di commenti :3

cartaccia

 

P.S.

Quella pseudo-copertina è una mia creazione dell'ultimo momento, dato che fino a ieri non sapevo che avrei pubblicato la storia su EFP. Ho un accaunt Tumblr e DeviantArt rispettivamente linkati nella mia pagina autore, se a qualcuno interessasse.

 

 

 

 


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Capitolo 2
*** Ossa di pantera ***



_Down among the dead men

2. Ossa di pantera

 

 

Il mio risveglio iniziò nel buio, con un diffuso calore sul viso e poi sul resto del corpo. Forse ero ancora sulla nave e stavo bruciando, o forse ero già morto da un pezzo ed ero all'Inferno. In ogni caso cominciai a sentire caldo e ad un tratto la colla che univa le mie palpebre non ebbe più presa…

No, l'Inferno non è azzurro e non ci sono le nuvole. Ma che diavolo…

Un gabbiano che si credeva uno spietato avvoltoio mi beccò una manica della camicia ed io lo scacciai agitando il braccio, ma me ne pentii subito dopo, quando una fitta mi azzannò la scapola e si propagò lungo l'intera spina dorsale andando dritta fino al cervello, dove colpì con la potenza di pugno. Il dolore mi trasformò in una molla e mi alzai di colpo, ma la terra cominciò a girare vorticosamente e la cosa risvegliò il mio stomaco, che non era d'accordo, così mi piegai di nuovo e vomitai.

— Ma guarda un po', la sirenetta si è svegliata! — esultò Vane e in quel momento ricordai cos'era successo.

Venne a sedersi sui talloni di fronte a me e si piegò alla mia altezza.

— Fammi indovinare: è la tua prima sbornia da naufrago del cazzo, eh? Tranquillo, ci sono già passato: il tuo corpo ci metterà un po' ad abituarsi all'idea di essere ancora vivo, ma nel frattempo ti vomiterai addosso anche l'anima, — disse stringendomi una spalla. — Poseidone ti ha risparmiato, ma questa è la giusta punizione per chi si beve metà del suo Oceano! Ahahahah! —

Quando finii alzai gli occhi e li piantai nei suoi, guardandolo attraverso le ciocche di capelli incrostati di sale che mi erano caduti davanti al viso.

— Fottiti… — gli risposi con la gola in fiamme, un'imitazione della sua voce quasi perfetta e forse proprio per questo, trovando la cosa divertente, Vane si allontanò sghignazzando.

Rotolai da un lato allontanandomi dal mio rigetto e mi ritrovai esattamente come appena sveglio, a pancia in su e l'azzurro del cielo subito oltre il mio naso. — Che è successo? — chiesi.

— Sicuro di volerlo sapere? Perché poi mi dovresti un favore o anche due. —

Non avevo idea di cosa stesse parlando e preferii ignorarlo. Mi pulii gli angoli della bocca sul dorso della mano, mettendomi a sedere, e per la prima volta da quando avevo alzato la testa dalla sabbia mi guardai attorno.

Una baia protetta dalle scogliere, il relitto di una nave e il gabbiano che aveva attentato alla mia vita in cima ai resti di un suo albero; le palme, il sole accecante, il mare calmo, il suono della risacca, neanche un filo di vento. Alle nostre spalle una barriera verde di alberi, rocce e liane che si estendeva lungo tutto il limite della spiaggia. Una pace e un silenzio quasi surreali.

— Dov'è la mia cassa? —

Vane si strinse nelle spalle.

— Dannazione, Vane, dov'è la mia cassa? C'era tutta la mia roba! —

— Ti è rimasta un po' d'acqua nel cervello o cosa, Kenway?! Ti ho detto che non lo so! E datti una calmata! — prese un pugno di sabbia e me la lanciò addosso come se fossi stato un incendio da spegnere ed effettivamente mi azzittii, rimanendo immobile ad aspettare che mi cadesse da sola dai capelli, ma nonostante sentissi montarmi dentro la rabbia a barili mi limitai a scoccargli un'occhiataccia.

— Che c'è!? — sbottò lui. — Non dirmi che ti aspetti delle scuse! —

Scossi la testa, rassegnato. — No, infatti. —

Mi alzai, o quantomeno ci provai, perché le vertigini mi riportarono subito a terra, e alle mie spalle Charles scoppiò in una fragorosa risata.

— Questa, — disse indicandomi, — questa è le cosa più bella della giornata. —

— Va' al Diavolo, Vane… —

Affondai la guancia nella sabbia, rassegnato, sconfitto dalla debolezza delle mie ossa, ma avevo solo bisogno di un po' di riposo, un paio di minuti al massimo e poi, feci giuramento, e poi niente… niente avrebbe potuto frapporsi tra le mie nocche e la sua faccia.

 

Appena fui in grado di mettere un piede dietro l'altro in linea retta Vane si appartò dietro una palma con ovvie intenzioni ed io mi costrinsi a tenere a freno le mani, ma dovevo trovare lo stesso qualcosa da fare per rimettermi completamente in sesto. Optai per un rapido sopralluogo e m'incamminai lungo la spiaggia.

Oltre un piccolo promontorio scoglioso, dove la bassa marea aveva lasciato uno sputo di terra isolato dagli altri, mi imbattei nella carcassa di un marinaio ridotto ad un mucchietto di ossa sotto qualche brandello di stracci. Doveva essere stato un membro della ciurma della nave i cui resti rendevano molto pittoreschi la nostra spiaggia e quando mi avvicinai per perquisirlo gli trovai addosso un pugnale d'osso di ottima fattura che mi infilai subito nella fascia. Nello scheletro della mano una bottiglia che stappai coi denti e nella bottiglia un messaggio: si chiamava Ronald e diceva di esserselo fabbricato con delle ossa di pantera... (le solite cazzate che si dicono in pieno delirium mortem, volli sperare) … smancerie per l'amante e una specie di testamento in cui lasciava tutti i suoi risparmi al camerata Wilson, che ringraziava per essere rimasto al suo fianco fino all'ultimo... (alzai gli occhi dal foglio e mi guardai attorno, ma di scheletro ce n'era solo uno) …

Quando tornai alla spiaggia era pomeriggio. Vane non c'era ma vidi che la marea aveva portato un barile e mi dimenticai in fretta di lui, precipitandomi ad aprirlo. Era il primo che si faceva largo, intatto, tra i resti della nave e forse anche l'ultimo, ma al suo interno non trovai altro che polvere da sparo, bagnata, per giunta, così lo richiusi, lo feci rotolare fuori dall'acqua e lo piantai nella sabbia ad asciugarsi. Avevo davvero sperato in un po' d'acqua potabile, dei viveri o al limite delle armi per cacciare degne di essere chiamate tali, e la delusione ce l'avevo stampata in faccia.

— PORCO DEMONIO! —

Scoprii così che durante la mia assenza Vane aveva preso a sassate una palma riuscendo a far cadere un paio di noci di cocco che poi era andato a rompere sugli scogli, ed era da lì che partivano le sue bestemmie mentre, miseramente, cercava di salvarne il prezioso contenuto.

— STO MORENDO DI SETE, MALEDIZIONE! —

Alzai gli occhi al cielo.

Era probabile che quell'idiota non avesse mai bevuto niente di diverso dal rum, da quando era un pirata, e perciò fu solo per la gran pena che mi fece se gli andai incontro con l'intenzione di sgozzarlo col mio nuovo pugnale. Ma all'ultimo notai che non era abbastanza affilato e cambiai idea; Vane non mi vide arrivare ed io gli tolsi la noce di cocco dalle mani, dopodiché gli mostrai come fare, usando il pugnale a mo' di trivella sulle piccole cavità nascoste dalla peluria ispida del frutto.

— Ci vuole pazienza, — dissi.

— Dammi qua, — mugugnò ed io non esitai un istante a porgergli la noce già aperta piuttosto che l'arma. Lui sembrò ignorare completamente la mancanza di fiducia intrinseca in quel gesto e si attaccò alla noce come un poppante al seno della madre.

— E quello da dove salta fuori? — mi chiese Vane mentre tornavamo sulla spiaggia, masticando un po' di tutto quel cocco che aveva aperto e che si sarebbe seccato, diventando immangiabile, nel giro di qualche ora. — Ce l'avevi tra le chiappe? Fammi capire. —

Mi ricordai di Ronald e il suo amico Wilson e pensai che sarebbe stato meglio non… così cercai di sviare l'argomento.

— Dovremmo accendere un fuoco prima che faccia buio, — dissi.

L'istinto di sopravvivenza mi aveva proiettato a quella notte e anche oltre: avremmo dovuto non solo cominciare a raccogliere legna, ma costruire un riparo, cacciare, trovare acqua potabile. Guardai Vane che masticava gli ultimi bocconi di cocco seduto sopra al barile di polvere e tentai di delegargli almeno uno di quei compiti, ma in risposta ottenni solo bestemmie, grida, e poi altre bestemmie, così mi addentrai da solo nella giungla, pugnale alla mano, da dove riemersi non molto tempo dopo carico di legnetti sotto a un braccio e senza aver incontrato neanche una pantera. Non mi ero allontanato affatto dalla spiaggia, ero sempre rimasto in vista del mare attraverso gli alberi, e spessissimo avevo guardato in quella direzione aspettandomi di scorgere una nave... Era da idioti sperare di poter lasciare quell'isola dopo neanche poche ore, ma già non ne potevo più e la sola idea di passare dei giorni, forse delle settimane o addirittura dei mesi con…

— Perché ci hai messo così tanto? —

— Perché ti ho portato un regalino. —

Mi inginocchiai nella sabbia, ma prima di mettermi a lavoro lanciai a Vane l'unico frutto che ero riuscito a trovare nella mia breve escursione, un piccolo mango giallo che somigliava più a un limone.

— E che diavolo è? —

Non mi aspettavo un grazie, davvero, ma almeno che stesse zitto.

— Senti, se non ti sta bene lascialo lì e lo mangio io più tar… 

Me lo lanciò in testa.

— Credi che non sappia procurarmi il cibo da solo? — sbottò. — Credi che sia un cazzo di poppante? —

Sospirai e mi sedetti sui talloni rimandando la messa del fuoco. — Non ho mai detto questo. —

Però l'avevo pensato.

— Ora te lo senti grosso solo perché hai trovato quel maledetto pugnale, vero?! Bhé, dammelo e ti faccio vedere io! —

Un brivido mi corse lungo la spina dorsale e istintivamente portai una mano dentro la fascia, dove tenevo il pugnale. — Vane, non credo sia una buona idea… —

Lui sgranò gli occhi.

Deglutii. — Non credo sia una buona idea… separarci. Andremo a caccia insieme, domani. —

Con quello capii di avergli dato di che riflettere, perché non parlò più.

In quanto alla frutta, ero sicuro che sarebbe bastata una spedizione appena appena più approfondita per trovarne ancora e avere cibo per delle settimane. Stessa cosa per l'acqua, anche se in quel caso avremmo potuto aspettare...

E non aspettammo molto.

Il temporale ci sorprese quella notte: un acquazzone così impetuoso e scrosciante da cancellare completamente i segni del falò che eravamo appena riusciti ad accendere. Ci adoperammo alla svelta per svuotare il barile di polvere, sciacquarlo in mare e poi rimetterlo dov'era senza coperchio sperando che non avesse falle. Ma non eravamo i tipi che sfidano la provvidenza e così improvvisammo anche una specie di sacca con l'unico metro integro di una vecchia vela, che appendemmo tra due palme. Dopodiché corremmo dentro il relitto della nave, la cui prua ancora integra costituiva un buon riparo dalla pioggia, e non fosse stato per l'umidità e la puzza di legno marcio sarebbe potuta essere una sistemazione definitiva.

Cominciarono i tuoni e un lampo cadde sulla spiaggia a pochi metri dal barile. In fine la pioggia si fece ancora più spessa e quella poca luce che c'era si abbassò completamente.

Se già un'intera spiaggia mi era sembrato uno spazio troppo piccolo da condividere con lui, l'intimità di quel riparo improvvisato nella gola del relitto mi accapponava la pelle. Come il bravo cagnaccio che era, Vane trovò e marchiò subito il suo territorio, sdraiandosi sopra del cordame ammuffito, ed io rimasi a lungo in piedi come uno stoccafisso. Poi cominciò a russare, il tutto quasi più forte dei tuoni perché rimbombava tra le pareti del relitto, e a quel punto mi fu chiaro che avrei passato il resto della notte a contare i lampi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rieccoci riuniti.

Mi ha fatto piacere notare tanta curiosità e tanto entusiasmo per questo What If/Missing Moment decisamente azzardato in cui mi sono avventurata. Non me l'aspettavo (insomma, stando ai sondaggi Vane è un personaggio che o è piaciuto troppo o troppo poco nel fandom e quella sequenza in particolare...) quindi (rapidissimamente perché sono distrutta e non vedo l'ora di ficcarmi sotto le coperte per resistere all'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze) lasciate che vi si ringrazi per le incoraggianti recensioni, sperando che anche questo capitolo sia stato apprezzabile :)

I futuri episodi tra questi due poveri Diavoli mi si dimenano già nella mente e per adesso ne ho buttato giù qualcuno, ma ancora troppo slegati l'uno all'altro per affermare di avere qualcosa di definitivo… Diciamo comunque che con questa storia non pretendo di arrivare oltre le 10 puntate.

Ora scappo.

A voi la parola :3

cartaccia

 


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Capitolo 3
*** Due topi in un barile di carne secca ***



_Down among the dead men

3. Due topi in un barile di carne secca

 

 

— Sai cosa succede a due ratti che cadono in un barile di carne secca, Kenway? Sai cosa gli succede se invece di arrampicarsi sopra alla carne per uscire cominciano a mangiarla, fino all'ultimo bastoncino? Eh, Kenway, lo sai? No? Bhé, te lo dico io: ci restano secchi. Hai capito, Kenway!? Ci restano secchi! AHAHAHAH! —

Non mi spaventava l'idea che stesse impazzendo.

Secchi, Kenway! Ci restano secchi! I topi! Come la carne! AHAHAHAH! —

Mi spaventava l'idea che impazzissimo insieme.

— Molto divertente, Vane. Ora mi dai una mano con il fuoco? —

Gli davo le spalle, inginocchiato nella sabbia, e lo sentii smettere di ridere all'improvviso, come se per qualche ragione la mia richiesta lo avesse infastidito o, meglio ancora, come se si fosse strozzato; in ogni caso mi voltai e vidi che mi fissava senza espressione, seduto sul barile dell'acqua ormai ai suoi ultimi mestoli e sinceramente non sapevo come ricambiare la sua occhiata vaga. Sapevo solo che era più di un'ora che ascoltavo le sue stronzate mentre sfregavo come un ossesso due bastoncini, che a quel punto avrei voluto tanto piantargli negli occhi.

Condividevamo la stessa striscia di terra ormai da una settimana senza aver visto neanche la più piccola vela all'orizzonte, e contro ogni mia previsione la frutta, così come il cocco che Vane aveva sprecato tutto in una volta o l'acqua, (perché dopo quella al nostro arrivo non c'erano state altre piogge,) cominciava a scarseggiare. Mi aveva rinfacciato di avergli dato del poppante, ma intanto ero stato io l'unico a farsi in otto per provvedere a entrambi mentre lui se ne stava giorno e notte seduto su quel barile quasi fosse un'isola sull'isola. Se solo non avessi perso le mie lame celate... il pugnale ci mandava avanti, ma con quelle mi sarei potuto spingere fin nel cuore della foresta e ritorno senza timore di doverle usare. Immaginavo già la faccia di Ah Tabai mentre gliene chiedevo delle nuove…

— Sai, — cominciò di nuovo Vane dopo un lungo silenzio, grattando via del sale dal bordo del suo barile, — a Nassau girava voce di un pirata che è riuscito a fuggire da un'isola deserta cavalcando due tartarughe marine, legate assieme come una tavola. —

Sembrava davvero entusiasta delle sue parole, quasi ci stesse pensando anche lui, ma poi scoppiò in una grassa risata che lo piegò fino a terra.

— Che stronzata… — borbottò. — E tu, Kenway? Hai qualche idea stravagante per portarci via da qui? O piuttosto hai intenzione di mettere radici e accoppiarti con una delle scimmie locali? Hai visto che sguardi languidi che ci mandano da lassù, quelle bastarde? — guardò gli alberi attorno alla baia. — Non vedono l'ora di staccarci il collo a morsi… —

— Sono scimmie, Vane. Mangiano frutta, non carne. —

— In culo la frutta, gliela abbiamo mangiata tutta noi, quella! E adesso le bastarde vogliono il mio sangue… —

Risi. — Certo, come no! Avanti, idiota, vieni ad aiutar…! —

Mi ero distratto e mi ferii a una mano. Il taglio non era profondo, ma iniziò fin da subito a sanguinare e bruciare.

Mi alzai e lanciai con un ringhio che somigliava più ad un gemito i due bastoncini in mare, ma quelli, troppo leggeri per andare a fondo o più in là della prima banchina di alghe, riaffiorarono sulla spiaggia portati indietro dalla risacca. Poi andai lì e immersi la mano in acqua fino al polso, ignorando il bruciore ora più intenso che mai, e la pulii bene dalla sabbia sperando che non s'infettasse.

Il panorama caraibico era molto bello con le sue palme verdeggianti, le acque cristalline e la sabbia baciata dal sole, ma di notte il clima si capovolgeva completamente e anzi si stava più caldi dentro l'acqua. Ormai all'orizzonte mancavano pochi bocconi sul disco traballante del sole e se c'era una cosa davvero spiacevole, a parte morire di freddo nel sonno, era morire di freddo nel sonno sbranati da una cazzo di pantera. Un falò degno di quel nome avrebbe tenuto lontane le bestie, oltre a fare da faro nel caso una nave passasse di lì… ma quella mattina pur di cogliere un dannato mango avevo messo il piede su un ramo secco ed ero caduto dall'albero come un idiota, perciò avevo dolori in tutte le parti del corpo e sentivo che un altro minuto con quei bastoncini avrebbe potuto essermi più fatale di un giaguaro appeso alla gola.

— Niente fuoco 'sta notte, Vane. Faccio io la prima guardia. —

Dicendo così risalii la spiaggia verso una palma vertiginosamente inclinata e mi sdraiai sulla sua pancia, mentre gli ultimi raggi di luce mi scaldavano il viso. Alzai un braccio, parandomi gli occhi, e vidi che Vane, una sagoma nera e curva stagliata contro l'ultimo spicchio di sole, era ancora seduto sul barile. Iniziò a cantare una canzone che avevo già sentito in un paio di taverne, con quella sua voce profonda e così rocciosa che avrebbe potuto fare le scintille che ci servivano...

Avrei dovuto capirlo.

Avrei dovuto capirlo in quel momento che era pazzo e scappare, scappare io per primo e il più lontano possibile. Perché, ahah, altro che pantere! Adewale aveva ragione: Charles Vane era davvero la bestia più pericolosa che quell'isola avesse mai ospitato.

 

Nel cuore della notte sentii un grido e mi svegliai di soprassalto. Il mio ultimo ricordo era Vane che cantava un pezzo di cui avevo perso il nome e la sola idea che fossi riuscito ad addormentarmi con la sua voce crocidante da sottofondo mi mise addosso una certa quantità d'ansia: dovevo essere davvero molto, moooolto stanco, troppo, forse, per rispondere al pericolo coi dovuti riflessi.

— Maledetto bastardo! —

Era la sua voce, inconfondibile, a disturbare il silenzio della notte.

Allarmato, smontai giù dalla palma con un balzo e corsi sulla spiaggia con tanta foga che quasi inciampai nella sabbia. Vane era in cima ad un masso e impugnava un bastone contro qualcosa o qualcuno nascosto nei cespugli attorno a lui.

— Volevi fotterti la nostra acqua, eh, stronzo?! Vieni fuori e combatti da uomo, se hai le palle! —

Rimasi a bocca aperta. Non sapevo che fare, era la prima volta che si comportava così e sembrava davvero convinto che ci fosse "qualcuno", ma io vedevo solo...

— VANE! — gridai.

Lui sobbalzò e guardò nel buio verso di me con gli occhi grandi e cerchiati.

— È una scimmia, — dissi ora che avevo la sua attenzione.

Fiutando lo scampato pericolo, dal cespuglio balzò fuori una piccola scimmia cappuccina che si arrampicò agilmente sulla palma lì accanto e poi scomparve nelle tenebre.

— No, no, no, Kenway! Ti dico che ho visto qualcuno e ha cercato di uccidermi! Voleva la nostra acqua! —

Sbuffai e diedi un'altra occhiata.

Ma ora che aveva smesso di dimenarsi e gridare, il silenzio e la calma più assoluti.

— Qui non c'è nessuno, Vane. —

— Ssssssh! — sibilò facendomi il gesto di azzittirmi e per un altro po' rimanemmo in ascolto: il vento che scuoteva le palme, il mare che stendeva e ripiegava i suoi lenzuoli e, in lontananza, lo strano richiamo di un qualche uccello notturno.

— Bhé, — farfugliò Charles saltando giù dal masso, — allora scusa tanto se ti ho svegliato! "Faccio io la prima guardia!" Ahah! Certo! Sei crollato come Jack Rackham dopo il terzo giro di rum! Che sia maledetto… — gettò il bastone tra le fronde e mi superò tornando verso il suo barile.

— Vuoi che te lo ripeto? Era solo una scimmia. —

— Vuoi che te lo ripeto anch'io?! Qualcuno voleva la nostra acqua e tu non sei stato in grado di difenderla! Se non fosse stato per me che ci avevo le chiappe sopra a quest'ora non… —

Lo colpii, dritto in faccia.

Non mi sentii in colpa. Volevo farlo da troppo tempo.

Svenne ed io rimasi qualche secondo a guardare il punto in cui il suo corpo era sparito inghiottito dalle piante (c'era un ché di deludente in quella completa perdita di sensi) prima di prendere un respiro profondo e caricarmelo in spalla come un sacco. Lo adagiai ai piedi del suo barile e per quella notte non dormii più.

 

La mattina seguente non ricordava nulla, ma da quel momento non smise più di gridarmi addosso, per giorni, tanto che averlo nelle orecchie era diventata un'abitudine e quando un giorno, semplicemente, scomparve, ci misi un po' ad accorgermene.

Riparavo la rete da pesca che avevo fabbricato con alcune liane particolarmente resistenti e stranamente impermeabili. La baia era inondata di sole, la sabbia brillava come oro; avevo l'acqua trasparente alle caviglie e i pantaloni arrotolati sopra le ginocchia. Mi guardai attorno, notando forse per la prima volta il fruscio delle palme scosse dal vento, il richiamo degli uccelli, il rumore delle onde… e Vane non era lì, non era sul suo barile, sul trono dal quale mi aveva bacchettato come un sovrano assoluto giorno e notte, colpendomi con la sola forza delle parole, senza mai alzare un dito su di me, ma pur sempre di aggressione si era trattato.

— Che il Diavolo mi porti… — sussurrai, incredulo. Gettai la rete su uno scoglio e risalii la spiaggia a grandi passi. — Vane? — lo chiamai, e portandomi le mani attorno alla bocca lo chiamai più forte, ottenendo solo di spaventare uno stormo di pappagalli che se ne andò da una palma all'altra davanti ai miei occhi. Mi venne l'idea di cercare le sue orme sulla sabbia attorno al barile e le seguii: portavano dritte nel cuore della foresta, ma dopo una prima fila di alberi scomparivano nel terriccio, troppo compatto, inghiottite dalla vegetazione.

Non provai sollievo all'idea che se ne fosse andato lasciando finalmente in pace le mie orecchie sanguinanti, o almeno non subito. In un primo momento, anzi, lo aspettai, ansioso, seduto sul suo barile. Speravo davvero che tornasse, magari non a mani vuote; con della selvaggina, per esempio, acqua o della frutta decente…

Dopotutto non era un idiota: dividerci avrebbe reso la convivenza più semplice, certo, ma avrebbe dimezzato le nostre possibilità di sopravvivenza, che nella giungla si riducevano ad un terzo, e questo anche un bambino l'avrebbe capito. Perciò il fatto che Vane avesse infranto la regola non scritta di rimanere insieme mi turbava sopra ogni dire. Da una parte perché me ne sentivo responsabile, come diceva lui, e dall'altra… bhé… per lo stesso motivo per cui non gli avevo mai messo in mano il mio pugnale.

Semplicemente, non mi fidavo.

Non mi fidavo di nessuno a parte di me stesso, e non lo sapevo ancora, ma quella sarebbe stata la mia salvezza.

Quando arrivò il tramonto io ero scivolato a terra, la schiena contro il barile. Fissavo la mia ombra lunghissima sulla sabbia mentre comparivano già le prime stelle. La mia rete era ancora sugli scogli, e se non volevo che si rovinasse sarei dovuto alzarmi, tornare nell'acqua e toglierla da lì, ma le ossa, gli occhi erano così pesanti…

Quindi giunse l'oscurità, perché non avevo acceso neanche il fuoco, e il mio ultimo pensiero andò ai due topi nel barile. Li sognai mangiarsi tutta la carne e poi, una volta finita quella, mangiarsi a vicenda.

 

 

 

 

 

Spazio per la pazza:

Uhuhuhu! Che bello essersi finalmente tolti dalle scatole questo capitolo. L'avrò riletto almeno cinquanta volte e ogni volta cambiavo qualcosa, che fosse solo una virgola o una frase intera ci rimettevo sempre le mani, mai soddisfatta.

La causa scatenante di ciò è stata la decisione di dividere Charles ed Edward già dalla fine di questo capitolo. Nella mia mente i due avrebbero dovuto passare un po' di tempo insieme prima di arrivare a questo punto della trama ed io volevo parlarne più approfonditamente, ma poi mi sono accorta di non avere episodi o idee significative con cui impolpare questo periodo di tempo. Infatti, oltre ad esserci un esorbitante salto temporale di una settimana dal capitolo precedente a qui, ho affidato al narratore (Edward) il fardello di sintetizzare qualche altro giorno con un generico "ma da quel momento non smise più di gridarmi addosso, per giorni, tanto che averlo nelle orecchie era diventata un'abitudine", a cui segue la descrizione di una scena a cui sono molto affezionata, ovvero quella che mi ha dato l'idea per questa storia: Edward che si accorge in ritardo della scomparsa di Vane.

 L'episodio della scimmia avrà un certo peso, più avanti, e già che ci sono vi chiedo anche di tenere a mente lo scheletro del signor Roland e il suo amico immaginario Wilson, eheh, forse non così immaginario…

Ho fatto una modifica all'intro aggiungendoci un estratto del prossimo capitolo, dove ne vedremo delle belle davvero, quindi spero che nonostante la tragicità di tutta la sequenza 8 la mia storia vi strappi un sorriso. Non a caso ho classificato la fan fiction anche sotto "commedia".

Ora vi lascio la parola, carissimi recensori e lettori anonimi,

cartacciabianca

 

 
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Capitolo 4
*** Verso casa e ritorno ***



_Down among the dead men

4. Verso casa e ritorno

 

 

Il fuoco aveva preso ma le fiamme erano troppo giovani e dovevo prendermene cura per un altro paio di minuti, così mi inginocchiai nella sabbia ancora calda e cominciai a sistemare i tocchi che ci avevo buttato sopra troppo superficialmente. Quando finii, certo che avrei avuto luce e calore almeno fino all'alba, mi sdraiai a terra a guardare il cielo stellato in attesa del sonno.

Esplorando gli scogli a nord in cerca di granchi avevo ritrovato la cassa con il mio equipaggiamento, e riallacciato finalmente agli avambracci le lame celate, oltre all'aprire qualche noce di cocco con qualcosa di diverso da un osso giusto appena levigato, quella sera ero riuscito anche ad accendere un fuoco a tempo record. Avevo fatto provviste di frutta, fabbricato una cerbottana e cacciato un paio di scimmie coi dardi soporiferi che mi erano rimasti e potevo fabbricarne degli altri. Tenevo tutto nella mia cassa nel rifugio di fortuna messo su con una vela di straglio e un paio di cime arrivate con la marea del giorni prima, ma nonostante il riparo preferivo dormire sotto le stelle. Immaginavo di essere steso sul ponte della Jackdaw, immaginavo il suo rollio e i suoi scricchiolii, il canto dei miei uomini… poi la mia fantasia viaggiava ancora più lontano, andava da Caroline, verso la nostra casa in Inghilterra e ritorno.

D'un tratto sentii un fruscio tra le fronde della foresta e non potei fare a meno di sorridere.

Erano già tre giorni che io e Vane ci eravamo separati ma in quei tre giorni, anche se lui probabilmente credeva il contrario, l'avevo visto un paio di volte. Spesso, come quella notte, non so perché lo facesse ma veniva a farmi visita: si appostava tra gli alberi in modo quasi invisibile ed era capace di rimanervi immobile come un sasso per delle ore. Dico quasi non perché non fosse bravo, anzi, era un vero camaleonte, ma perché semplicemente io lo vedevo, insomma sentivo che era lì. Più di una volta l'avevo chiamato per nome esortandolo a tornare, all'inizio scusandomi garbatamente per qualcosa che potevo aver detto per allontanarlo da me, poi dandogli dell'idiota infantile e in fine insultandolo pesantemente… Ma in ogni caso lui non mi aveva mai risposto e quando davvero al limite della pazienza una mattina avevo tentato di avvicinarmi, era scappato subito via come un maledetto cervo.

Avrei giurato che mi stesse studiando.

Perciò quella notte non ero sorpreso che fosse di nuovo lì. Anzi, da una parte mi faceva addirittura sperare che se fosse arrivata una nave non avrei dovuto battere l'intera isola per avvertirlo.

Ma sperai a vuoto.

La mattina che Vane non si fece vivo un brigantino gettò l'ancora proprio dentro la nostra baia e quel suono inconfondibile mi buttò giù dalla branda più in fretta di quanto avrebbe fatto il rombo dei cannoni in uno scontro a sorpresa nel cuore della notte. E me n'erano capitato parecchi, di quelli.

Il nostromo fischiò e il suo grido che diceva che un uomo veniva verso di loro a nuoto dalla spiaggia mi fece ingoiare un bel po' d'acqua dall'emozione. Quando entrai nell'ombra del loro scafo fu calata una cima ma io la ignorai e mi aggrappai al portello di un cannone anche coi denti pur di accertarmi che fosse reale e non una squallida allucinazione. Non avevo fatto neanche caso ai vessilli, così quando mi sentii chiedere se fossi in grado di salire a bordo e me lo sentii chiedere in inglese il mio cuore singhiozzò, tutta l'acqua che avevo bevuto mi si agitò nello stomaco ed io mi staccai dallo scafo della goletta.

Un uomo si affacciò dalla balaustra togliendosi il tricorno.

— Signore, sono il Capitano Ernest Wright della Regia Marina di Sua Maestà e questa è la HMS Summer. Una volta a bordo sarete sotto la mia custodia personale, ma devo insistere: qual è la vostra nazionalità? —

— Naufrago, signore! — gridai.

— Certamente. — Ero riuscito a strappargli un sorriso. — Ma oltre a quello, intendo, noto che parlate la mia lingua e dall'accento si direbbe… —

— Gallese, signore! —

— Ecco, ecco. Il vostro nome? —

— Edward Kenway! —

Mi arrampicai sulla bella fiancata linda del brigantino con la velocità di un ragno e una volta a bordo mi furono subito offerti dell'acqua e del pane, ma prima di dare anche un sol morso, chiesi al Capitano quanto a lungo avesse intenzione di restare all'ancora.

— Il tempo di rifornirci di frutta, acqua e animali, se quest'isola ha da offrirne. Voi che dite? —

Era un ometto grassoccio con un accento schifosamente troppo inglese, davvero affabile e disponibile. Altresì un vero idiota. Gli sorrisi, pensando che ad uno così gli si poteva sfilare l'orologio dal taschino nel sonno e dato che avevo puntato il suo bel modello placcato in oro già da un pezzo pensai di farlo non appena ne avessi avuta l'occasione.

— Da questo lato non troverete altro che scimmie, l'acqua ha il valore dell'oro e la frutta, quella che è rimasta, è acerba, — dissi. — Ma ve l'ho chiesto perché un uomo che era con me si è… adden nella foresta mentre eravamo a caccia ed io starei pensando di tornare indietro a cercarlo… —

Lui aggrottò le sopracciglia e si schiarì la gola, mentre il suo faccione grasso si riempiva di rughe.

— Sapete dove vi trovate, signor Kenway? —

— No, veramente no. —

Il Capitano Wright schioccò le dita e un marinaio venne a srotolarci sotto al naso una cartina.

— Isla Porovidencia. Due volte Kingston, signor Kenway. Ci vorrebbe almeno una settimana per batterla tutta e sarò franco con voi: non posso permettermi un simile ritardo. —

L'isola aveva una forma a quarto di luna in sovrappeso e la osservai bene e a lungo prima di rivolgermi di nuovo a lui. — Un giorno? Potete concedermi un giorno? O solamente la giornata di oggi, se preferite. —

Non avevo mai supplicato niente e nessuno nella mia vita e lo stavo facendo ora per salvare il culo a quel figlio di…

Il Capitano Wright sospirò. — Mi auguro davvero che possa bastarvi. Salpiamo al tramonto. —

Diedi un morso al pane e tracannai il boccale d'acqua fresca. Poi passai tutto nelle mani di un marinaio e mi tuffai di testa oltre la balaustra.

Una volta sulla spiaggia inutilmente gridai il suo nome ai quattro venti e ancora più inutilmente mi addentrai nella foresta, puntando dritto verso il cuore dell'isola. Che idiota, che idiota! Per la prima volta mancavo di tenere fede al mio sfacciato egoismo ed ecco come venivo ripagato: scivolai su del muschio e rotolai giù da un promontorio alla fine del quale, con innumerevoli acciacchi e tagli sul corpo, smarrii, per la seconda volta, i sensi.

 

Quando vide il naufrago entrare nella foresta il Capitano Wright abbassò il suo cannocchiale. — Signor Bennett! — chiamò e dietro la sua spalla venne ad affacciarsi il suo primo ufficiale.

— Perché quel nome mi suona familiare? — domandò il Capitano.

— L'intera ciurma potrebbe rispondervi, signore. Edward Kenway è un pirata, signore. —

— Ecco, ecco, ora ricordo… il Diavolo che si abbiglia da uomo come un dannato travestito, certo… Si può essere così idioti da usare il proprio nome di battesimo? Il caldo deve avergli dato alla testa. E avete qualche idea, signor Bennett, su chi possa essere quell'altro relitto umano che è appena sbucato dalla foresta? — chiese portandosi di nuovo il cannocchiale sull'occhio destro. Inquadrò e mise a fuoco su un uomo con più peli che faccia che stava trascinando via sulla sabbia una cassa dall'aspetto pesante e poi sparì di nuovo nella foresta.

Il primo ufficiale ci pensò un attimo, sistemandosi la parrucca. — Gira voce che anche il pirata Charles Vane sia scomparso, signore, e l'ultima volta sono stati visti insieme. —

— Capisco… —

— La ciurma è spaventata, signore. Cosa facciamo? —

— Issiamo le vele e ce ne andiamo, — disse infine il Capitano Wright, richiudendo il cannocchiale con uno scatto secco. — Se non dovessero bastare le malattie o le pantere, signor Bennett, ci penserà qualcun altro a condurre quei due manigoldi all'Inferno. I nostri ordini sono chiari e non possiamo certo permetterci simili contrattempi o rischi. In poche parole, non voglio problemi. Rotta per El Paradiso. —

— Sì, Capitano. —

 

— Hmngh… —

Mi rigirai nella terra con un lamento e poi aprii gli occhi. Attraverso un tetto di foglie nere vidi che il cielo aveva già assunto le tinte del tramonto e fu quello a farmi scattare in piedi come una molla ignorando i dolori che avevo in tutto il corpo. Corsi alla spiaggia col cuore nelle orecchie e ci arrivai coi polmoni in fiamme, ma il brigantino non c'era più.

Maledissi il Capitano Wright e quella sua dannata puntualità inglese e mi trascinai fino al mio rifugio, dove mi infilai alzando come si scansa un lenzuolo la vela che uno sbuffo di vento più prepotente doveva aver allentato. Mi buttai sul barile dell'acqua ma era vuoto e solo in quel momento notai che nel complesso tutto il mio rifugio era stato messo a soqquadro. E la mia cassa era sparita. Uscii dal riparo ringhiando come una bestia feroce e seguii la scia della cassa e le orme del responsabile sulla sabbia (un altro paio di belle parole per il Capitano Wright già sulla punta della lingua…) ma portavano dritte dentro la foresta…

Ci rimasi di sasso.

VANE.

Ma fu giusto un attimo, perché mi rituffai nella giungla in preda ad una furia cieca e quella volta lo trovai.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo della pazza:

*scuote campanellini*

MA BUON NATALE, GENTE!

Qui siamo in procinto di lasciare la banchina di casa con la rotta tracciata per Colonia Nonna, dove ci aspetta la seconda abbuffata finchénonscoppi delle feste, ma volevo tanto aggiornare per togliermi dalle scatole ANCHE questo capitolo prima di modificarlo per l'ennesima volta.

Avevo in mente da troppo tempo la scena di Vane che trascina via la cassa di Edward e volevo trovarle il giusto contesto, perciò l'arrivo del brigantino può essere considerato una necessità d'intreccio e il Capitano Wright un personaggio occasionale, comunemente detto comparsa, ma ne sentiremo ancora parlare…

Rinnovo gli auguri e aspetto commenti :3

cartaccia

 


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Capitolo 5
*** Carne alla carne ***



_Down among the dead men

5. Carne alla carne

 

 

 

— MALEDETTO BASTARDO! — gridai lanciandomi oltre i cespugli.

Mi era bastata distinguere la sua ombra.

La caccia a Vane mi aveva portato lontano dalla mia spiaggia, lontano da tutti i brevi percorsi fino ad allora battuti per procurarmi cibo e legna. Quell'idiota aveva trascinato la mia cassa per un bel pezzo, rompendo radici e rami che mi era stato facile seguire, ma poi l'aveva abbandonata, mal celandola sotto le foglie di una palma da terra: dentro solo sabbia, ma io non avevo mollato, più incazzato che mai, e affidandomi ora alle orme sul terriccio ora all'istinto ero andato avanti fino a notte fonda, quando finalmente l'avevo raggiunto, lanciandomi su di lui come una pantera.

— Pietà! Pietà! — gridò un uomo che non si chiamava Charles Vane.

Io mi sollevai di colpo e lo fissai, ammutolito, dimenarsi nella terra.

— Pietà, vi scongiuro, pietà! —

I capelli mori erano lunghi a dismisura e un cespuglio di peli ispidi gli nascondeva tre quarti di faccia, facendo risaltare i grandi occhi azzurri sulla pelle scura perché sporca di terra e cotta dal sole. Indosso aveva i resti quasi irriconoscibili di una divisa della marina di Re Giorgio, se non fosse stato per il quarto di spallina che c'era rimasto attaccato. Ai piedi non portava nulla ma alla cintola riconobbi subito la mia pistola e la cerbottana. Era pelle e ossa ed era inglese, così mi feci un attimo due conti e…

— … Wilson? — domandai.

Lui sgranò tanto d'occhi smettendo di agitarsi e ricambiò il mio sguardo. — Come… come sapete il mio nome? — balbettò, coprendosi la bocca dalle labbra screpolate con una mano tremante.

Ancora non riuscivo a crederci, ma senza pensarci presi dalla fascia sui fianchi il messaggio che avevo trovato nella bottiglia e glielo porsi. Lui si alzò, lentamente, ma invece di allungarsi a prendere il piccolo rotolo di carta dalle mie mani come mi aspettavo, si lanciò di corsa nella foresta, e l'inseguimento ricominciò.

— Ehi, amico, aspetta! — gridai. — Non voglio farti del male! —

Non ottenni alcuna risposta. La foresta s'infittiva, il buio cresceva ed io iniziavo a perdere il mio bersaglio. Quando mi si presentò l'occasione di un tronco abbastanza inclinato mi ci arrampicai sopra e ricominciai a guadagnare terreno saltando di ramo in ramo.

— Ho detto fermati, dannazione! —

Ero pronto a spiccare un balzo per tagliargli la strada quando lui inciampò cadendo a terra, proprio sotto di me, dove cominciò ad ansimare e gemere come un animale ferito.

— Ecco, bravo! — dissi e saltai giù atterrando alle sue spalle. — Ora datti una calmata così parliamo un po'. —

— Ssssssh! — mi soffiò lui, con gli occhi grandi di paura, trascinandosi sui gomiti. Sfoderò la pistola dalla cintura e quando lo sentii tirare il grilletto mi irrigidii.

— Stammi lontano! — m'intimò puntandomi l'arma contro, ma il braccio gli tremava ed era provato dalla fame e dalla sete, oltre che dalla corsa, quindi avrei potuto disarmarlo facilmente, ma non lo feci.

— Da quanto tempo sei su quest'isola? — gli chiesi.

— Chi sei?! — sbottò lui rimettendosi in piedi a fatica.

Sbuffai. — Dalle mie parti non si risponde ad una domanda con un'altra domanda, amico… —

— Sei venuto a prendermi, è così?! — disse. — Mi farai impiccare perché ci siamo ammutinati, è così?! —

Non capivo un accidenti.

— Ammutinati? Ma di cosa stai…? — m'interruppi quando vidi muoversi qualcosa tra le fronde alle sue spalle.

Troppo grosso per essere una scimmia.

Troppo silenzioso per essere un uomo.

Una pantera dal pelo lucido sbucò dai cespugli con un ruggito e si lanciò sul più vicino di noi, azzannando ad una spalla il camerata Wilson che crollò a terra sotto il suo peso sparando un colpo a vuoto. Io indietreggiai pronto a richiamare le lame celate, ma prima che potessi intervenire l'animale diede un morso fatale alla gola del naufrago raccomandandolo a Dio e poi alzò la testa verso di me. Mi fissò per un tempo lunghissimo, attraverso le tenebre con i suoi grandi occhi gialli, emettendo bassi rantolii mentre la sua coda disegnava curve sinuose nell'aria. Era la bestia più grossa che avessi mai visto e dopo quel morso che le aveva dipinto il muso di rosso non aveva certo un'aria amichevole. Sotto di lei il povero Wilson era in preda a orrendi spasmi, ma d'un tratto non si mosse più e la sua gola smise di gorgogliare come un rubinetto aperto.

Era morto.

E il suo assassino fin troppo all'erta per tentare qualsiasi offesa, così iniziai a indietreggiare, prima lentamente poi rapido come una lucertola fino a scomparire completamente nella vegetazione, e quando notai che io non gli interessavo più  mi voltai a ricominciai a correre. Raggiunsi la mia spiaggia che faceva alba e mi sdraiai sotto la mia vela di straglio. Mentre riprendevo fiato aprii e rilessi il messaggio di Roland...

E così ero finito ai margini di una di quelle storie che sentivo spesso nelle taverne.

L'ammutinamento, l'illusione di un po' di libertà in più, il gomito alzato per molti giorni di seguito e poi il naufragio.

Di tutta quella faccenda mi era rimasta addosso una strana sensazione.

Avevo visto uomini maciullati da palle di cannone o denti di squali, fucilati o impiccati, ma in quel frangente tutto sembrava inserito nel suo contesto, ogni cosa era al suo posto perché erano i rischi del mestiere… Invece Wilson non avrebbe dovuto essere su quest'isola come non avrei dovuto esserci neanch'io e il caso, lo stesso che ci aveva fatti incontrare, se l'era portato all'altro Mondo.

Quei pensieri, vaghi e così confusi, sul significato della morte mi tennero sveglio per molte notti e il sole che irradiava la spiaggia non era più splendente come prima.

Dovevo essere più cauto, stare all'erta.

Adesso sull'isola c'erano le pantere e il fuoco era sempre acceso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi avevo detto di tenere a mente i signori Roland e Wilson…

Questo micro-capitolo in realtà andava a braccetto col successivo, ma alla fine di una sanguinolenta rivoluzione e a dir poco prepotentemente, ha ottenuto l'indipendenza che chiedeva. Da parte mia colgo l'occasione per stappare lo champagne e augurarvi Buon Anno sperando che stiate passando allegre festività in compagnia della vostra copia di Black Flag, se lo avete ricevuto per Natale, o in ogni caso circondati dalle persone che amate.

Non mi sono dilungata nelle speculazioni filosofiche di Edward perché molto sinceramente (o modestamente) non sono brava a scrivere certe cose e non volevo rischiare di annoiare. Già questa storia non conta un gran numero di lettori (almeno credo) e non volevo rimetterci anche quei pochi che ci sono.

Ohibò, alla prossima, gente,

grazie a chi legge e recensisce e di nuovo auguri,

Cartaccia

 


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Capitolo 6
*** Le gocce e i vasi ***



_Down among the dead men

6. Le gocce e i vasi

 

 

Acqua.

La sentivo scorrere in lontananza, attraverso la foresta, e mi fermai nel bel mezzo del nulla. Tesi le orecchie, trattenni il respiro.

Per la seconda volta in tre settimane mi spingevo più a fondo nell'isola battendo sentieri sconosciuti in cerca di cibo, ma era la prima volta che coglievo quel suono.

Il fragore di una cascata.

Quindi, sì, Diavolo! Era proprio acqua!

Le mie gambe erano già avanti a me ed io correvo, senza più fiato, ignorando la vegetazione che mi si parava davanti come tanti muri di carta, a volte tagliente a volte profumata. Niente più maledetto latte di cocco in attesa della due volte maledetta pioggia! E un bagno, finalmente, un fottuto bagno in acqua dolce! Ecco perché quella volta fui tanto, ma davvero tanto felice di inciampare…

Come la foresta finì iniziò la mia caduta, assai breve, ed io mi ritrovai a galleggiare tra le bolle d'aria prima di rendermi conto di dove fossi finito. La corrente mi trascinò per un pezzo senza che riuscissi a contrastarla ma ad un tratto i miei piedi si piantarono nella terra ed io potei tirarmi su, i capelli davanti al viso come una tenda e gli abiti aderenti al corpo come una seconda pelle. Il fragore della cascata, ora vicinissimo, mi rimbombava così forte nelle orecchie che potevo esserci proprio sotto. Assaggiai una delle gocce d'acqua che mi cadevano lungo le guance e scoprii che era dolce, quindi mi scansai i capelli dalla faccia e il Paradiso mi si rivelò.

Era una vera e propria vasca naturale, inondata di sole e circondata dalla vegetazione che l'abbracciava come un nastro. Un'imponente rovina Maya metteva in ombra uno spicchio di quel lago, alimentato da un fiume che zampillava in due cascate distinte dalla sua pietra cadendo come dal cielo e poi scorreva via nel fitto della foresta. Pappagalli e scimmie sembravano giocare a rincorrersi nei suoi confini boscosi e branchi di pesciolini neri saettavano tra le mie gambe.

Mi portai le mani al viso, come intontito da tanta ricchezza, e solo allora mi rituffai in acqua. Bevvi fino a scoppiare e poi cominciai a spogliarmi gettando gli abiti su un masso: loro dovevano asciugarsi ed io preoccuparmi di togliere anche il più piccolo granello di sabbia dal più impensabile dei luoghi umani. Dopodiché me la spassai alla grande: nuotai un po', ampie bracciate a stile e dorso sopra e sott'acqua, mi arrampicai e poi mi tuffai dalla roccia più alta, feci allegre fontanelle dalla bocca e quando un branco di scimmie scese alle liane più basse per dissetarsi, data l'occasione, giocai al tiro a segno con un paio di loro; tentai di afferrare qualcuno di quei pesciolini a mani nude, tirai un sasso al pappagallo che aveva iniziato a starnazzare come un dannato quando mi ero avvicinato troppo al suo ramo…

— Ti stai godendo la MIA acqua, Kenway?! —

Mi si accapponò la pelle e non mentirò dicendo di non essermi intirizzito fino all'ultimo pelo. Mi guardai attorno, facendo attenzione a tenere nascoste le mie nudità nell'acqua che mi arrivava alla cintola, e alla fine lo individuai, gambe a penzoloni, in cima alle rovine.

— Dannazione, Vane! Mi hai spaventato! — gridai.

— Oh, allora scusami tanto, ma dimmi: già che ci sei vuoi che ti strofini la schiena?! AHAHAHA! — scoppiò.

Contagiato dalla sua fragorosa risata, mi lasciai scappare un sorriso di sollievo, dopotutto ero felice di rivederlo, e con quel sorriso andai a recuperare i miei vestiti.

— Amico, perché non me l'hai detto subito che avevi trovato tutto questo ben di Dio? — allargai le braccia. — E dove sei stato, si può sapere? Diavolo, Vane, ero seriamente in pensiero per te! —

Vane scoppiò di nuovo dalle risate, dondolandosi avanti e indietro sul bordo delle rovine. — Vuoi farmi da mammina, Kenway?! Non ci credo! AHAHAHA! —

E poi ricordai.

— È passata una nave, — dissi, ora più serio che mai, scavalcando a stento il fragore della cascata e delle sue risate.

Vane tacque all'improvviso e continuò a fissarmi in silenzio mentre mi rivestivo.

— Una… nave… — ripeté grattandosi il mento coperto di barba. — Quando? —

— Un paio di giorni fa, nella baia: il Capitano Wright ha detto che sarebbe rimasto all'ancora fino al tramonto ma… — Mi strinsi nelle spalle e finii di arrotolarmi le maniche della camicia sopra i gomiti. — Se ti stai chiedendo che ci faccio ancora qui, sappi che mi devi un favore… o anche due! — alzai la testa pronto a scoccargli un'occhiataccia ma lui, così com'era apparso, era sparito.

— Vane! — lo chiamai.

Lui tornò ad affacciarsi dalle rovine. — Che vuoi? —

— Mi stai a sentire oppure no?! — sbottai. — Torniamo alla spiaggia, avanti. —

— Sì, sì, certo, — disse in modo distratto, guardandosi attorno.

— Che ti prende, amico? — gli domandai e poi feci lo stesso. — Aspetti qualcuno? — chiesi scoppiando in una sommessa risata.

— Veramente sì. —

Mi accigliai. — E chi, di grazia? —

Di tutta risposta lui si tirò indietro scomparendo di nuovo dalla mia vista per qualche secondo e poi ricomparve, più circospetto di prima.

— Non è che per caso… — cominciò con incertezza. — Hai visto… come si chiama… insomma, un… —

Sbuffai, seccato dai suoi giochetti. — Cosa, Vane, "UN" cosa?! —

— Un tizio. —

Ci fissammo, a lungo.

— …Wilson? — provai.

Lui si batté una mano sulla coscia. — Sì, lui, lui! Ecco come si chiama, quel bastardo! Me lo dimentico sempre... Bhé, l'hai visto? —

In un attimo ero di nuovo a quella notte, due occhi gialli che mi fissavano da sopra il collo dilaniato del camerata Wilson, steso a terra in una pozza di sangue. Ricacciai indietro la nausea, perché avevo fatto colazione con un paio di smilzi granchi che dovevano bastare almeno fino all'indomani, dopodiché provai a rispondergli sinceramente, ma dalla mia bocca uscivano suoni sconnessi, parole che non riuscivo a legare tra loro in una frase con un minimo di senso, perciò alla fine optai per la cosa più semplice.

— È morto. —

— Figlio di puttana… — fece lui, sgranando tanto d'occhi e portandosi una mano tra i capelli. — L'hai ammazzato! —

— No, Charles, è stata una pantera! — mi affrettai ad aggiungere. — L'ho inseguito nella foresta pensando che fossi tu ma poi quella bestia è sbucata dal nulla e… — m'interruppi, colpito da un pensiero.

— Aspetta, tu lo conoscevi? — chiesi basito.

— Mi aiutava a… cacciare, — rispose lui, esitante, calciando un sasso che rotolò giù dalle rovine fino in acqua. — Aveva più esperienza di me e di te messi insieme, Kenway. Sai, è su quest'isola da pareeeeecchio tempo. —

— E non gli hai parlato di me?! —

— Perché avrei dovuto? —

— Così forse non mi avrebbe scambiato per un cacciatore di taglie di marinai ammutinati e sarebbe vivo, tanto per cominciare! — sbottai. — E poi avremmo avuto più possibilità di sopravvivere in tre, senza contare… — m'interruppi di nuovo, tramortito da un secondo pensiero.

— Da quanto lo conosci?! — chiesi.

— Un… — esitò. Forse aveva capito dove volessi andare a parare e stava cominciando a pentirsi di essersi messo sulla mia strada. — … paio di giorni. — concluse.

— Vane, quanto?! —

Tacque.

— VANE! —

— Da quando me ne sono andato dalla spiaggia, va bene?! — gridò sporgendosi verso di me, oltre le rovine. — E allora? Cosa cambia, scusa?! —

— La nave, Vane, la nave… — lagnai mettendomi le mani nei capelli. — Cristo, potevamo andarcene via tutti, lo capisci?! —

 — E se io non volessi andarmene, Kenway? —

A quel punto la testa mi si svuotò, completamente.

— Questo posto non mi dispiace, — disse lui, rompendo uno strano silenzio, strano davvero, mentre si metteva a sedere sul ciglio di un blocco di pietra. — È… tranquillo. —

— Non sei in te, amico. Il caldo ti ha dato alla testa... —

Sembrava non sentirmi.

— Alle scimmie ci si abitua, — continuò tirandosi un ginocchio al petto e dondolando l'altro piede nel vuoto, — dopotutto  non puzzano più di Jack Rackham dopo una traversata di due mesi, e anche alle pantere ci fai il callo… basta star loro lontano, no? Farsi i fatti propri, insomma, ovvero NON FARE come hai fatto tu, eheh… —

Era perso e io avrei dovuto rassegnarmi all'idea, ma non ci riuscivo, e anzi avrei lottano contro tutto me stesso per riportarlo indietro.

— Vane, ma ti senti quando parli? Stai delirando. —

— Cosa c'è per me fuori da quest'isola, Kenway? L'orda di Re Giorgio che aspetta di vedere la mia testa pendere sul suo albero di natale insieme a quella di Thatch, Hornigold e anche la tua, mentre ci sguinzaglia addosso tutta la sua Regia Marina rotta in culo. Qui, invece, al massimo c'è qualche pantera che cerca di mordermi le chiappe! Non ti sembra più… giusta, come cosa? —

Non riuscivo a credere che stesse parlando sul serio.

Non riuscivo a credere che quello che avevo davanti era lo stesso uomo con cui avevo sfondato il blocco a Nassau e condiviso mille altre avventure.

— E così anche tu molli, — dissi, ora più calmo ma non meno preoccupato. — Proprio come ha fatto Thatch! —

Lui si alzò in piedi di colpo. — Non paragonarmi a quel vecchio folle bastardo! — ruggì puntandomi contro un dito. — Non farmi dannare per aver parlato male dei morti, Kenway, ma io non sono come lui! Io non ho mollato quando non c'era motivo di farlo! —

— Lui li aveva i suoi motivi, Vane! — risposi con lo stesso tono. — Ma tu sei troppo… troppo… troppo una bestia per capire! — sbottai.

— Fanculo, Edward! Fanculo! — rispose.

Presi un respiro profondo.

Non volevo che finisse male.

Ma non volevo neppure che finisse.

Strinsi i pugni.

— Hai detto tu a Wilson di rubare la mia cassa?! —

Allargò le braccia come per dire "ma davvero?"

— Che intuito! — disse, infatti.

Le allargai anch'io le braccia, gridando: — PERCHE'?! —

— Tu non ci facevi nulla! E Wilson era un vero cecchino. —

Ingoiai la rabbia e presi un respiro profondo.

— Spero che quel povero bastardo ti abbia insegnato almeno ad accendere un fuoco, coglione, perché adesso che quella pantera l'ha ridotto ad un mucchietto di ossa chi ti procaccerà due pasti al giorno?! Ti auguro buona fortuna, perché io no di certo! — gli voltai le spalle e puntai la foresta, dritto verso la mia spiaggia.

— Nessuno te l'ha chiesto, gallese! — gridò lui, saltando giù dal masso, e venne a sporgersi per l'ultima volta dalle rovine. — Va' al Diavolo, Kenway! Mi hai sentito?! Va' al Diavolo! —

Ma ormai le sue non erano più forti delle urla delle scimmie.

Fu l'ultima volta che ci parlammo (se gridarci addosso imbastendo il tutto di insulti può essere considerato tale) prima del giorno in cui gli eventi iniziarono a precipitare.

Diceva di non essere impazzito. Diceva di vedere le cose come stavano e di essere riuscito ad accettarle, ad adattarvisi prima e poi anche meglio di me. Si credeva il più forte dei due, quello con più diritto dell'altro a respirare… una cosa così… primordiale…

I naufragi capitano spesso e cambiano molto l'atteggiamento dei marinai. Sulla Jackdaw ne avevo reclutati un paio: raccontavano storie davvero assurde a sentirle, ma dentro c'era sempre quel filo di verità che bastava a spiegare la natura ruvida di alcuni o l'aureola di altri.

Io ero cambiato, ma Vane no.

Lui era sempre stato un animale, il naufragio aveva solo peggiorato la sua natura e pensai che probabilmente sarebbe morto come tale.

Detesto avere ragione.

 

 

 

 

 

 

 

Arrivati a questo punto mi resta solo una cosa da dire, ovvero che il prossimo sarà il capitolo conclusivo. Non l'ho ancora scritto, ma posso anticiparvi già da ora che sarà presente, come nel primo, una re-descrizione di una parte della missione del gioco, così da chiudere il cerchio.

Si sarebbe potuto dire molto altro su questi due, ci sarebbero potute essere scene migliori o più divertenti o più emozionanti, ma essendomi limitata a seguire l'ispirazione del momento non mi sovvengono altre idee e personalmente non sento la necessità di allungare ancora il brodo.

A voi, carissimi recensori/lettori/avventurieri casuali, la parola.

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