Libertà di scelta

di xingchan
(/viewuser.php?uid=219348)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***



Capitolo 1
*** 1 ***



Avvertenze:
Quella che vi apprestate a leggere non è propriamente una ff basata esclusivamente sulla pellicola diretta da Stanley Kubrick,
ma racchiude elementi sia del film che della stesura finale del libro di Anthony Burgess.

 


 
Libertà di scelta


1



 
Ed eccomi lì, O fratellini rari. Erano le zero nove zero zero, quasi cupa, e s'era io, cioè Alex, e quel poldo perbene di Fred con le sue solite palandre all'estremo grido, e si sprolava amichevolmente su quella noiosa trucca che era la sua campagna elettorale davanti a del gustoso cià con mommo e sacar, come piaceva a me.

Peccato che non ci fosse qualche droguccia mescalina, peccato davvero.

Mentre però me lo glutavo con immenso piacere, stetti a snicchiare le mottate mezze buone mezze assurde che fuoriuscivano dal suo truglio piccolo e leggermente sbavoso, specie in questi ultimi tempi.

Aveva fatto tutta una trucchetta cinebrivido, apponendo sui muri della cara vecchia Londra un manifesto tamagno con la sua intera biffa con tutti i zughi di fuori che pareva quasi un malcico che aveva adescato la sua prima mammola in un giorno di dolce e fresca primavera, e sopra il suo planetario vi erano delle scritte tutte rigide e bianche insieme ad un simbolo tipo partito.

“Allora, Alex.” disse il bigio Frederick “Domani si comincia!” e mi sorrise tutto carino e simpatico sfregandosi le granfie benbene.

“Sì, lo so.” rispose il vostro fedelissimo tutto ben disposto e tutto un sorriso.

“Mio caro Alex. È merito anche tuo se tutto andrà per il verso giusto.”

Allora io mi feci tutto sospettoso, come se potesse tirar fuori una lisca tipo la mia da un momento all’altro e infilarmela nel planetario attraverso i fari, sapete, non so come dire, una sua versione di ultraviolenza. Ghignai a causa di un cocente nervosismo di dentro prima di dire:

“Che intende per merito mio, sir? Non ho fatto grandi cose, ho soltanto prestato la mia biffa, sir.”

“Intendo dire che la tua brutta esperienza sarà uno slancio a mio vantaggio senza precedenti. Ormai la notizia della tua guarigione dalla Cura Ludovico grazie al mio provvidenziale intervento è arrivata fin dove orecchio umano riesca ad udire, e la tua conferenza, Alex, è stata seguita da milioni di persone. È principalmente questo che ci renderà i vincitori di queste elezioni, caro amico.” Poi finì sfoggiando un’espressione talmente riprovevole e orrenda da far invidia alle maschere di Halloween*. Sì quella festa, perché mi ricordo che era la preferita di Bamba anche se Bamba non conta, ora meno di prima, e anche la mia.

Mi aveva usato, O fratelli. Fino a quel momento il mio planetario non aveva raggiunto tali considerazioni, ma adesso mi sentivo tutto un frappè. Avrebbe fatto di me una trucca così insignificante per lui ma così importante per i suoi interessi. E chissà, un giorno mi avrebbe anche gettato via come un straccio vecchio e consumato, non più adatto per i suoi progettucci di potere. Così decisi che non mi andava di sgroppare per questo poldo qua che mottava continuamente di trucche legali e dei suoi certi bigi dall’aspetto guasto.

In quel momento, nel planetario del vostro Affezionatissimo cominciò a farsi strada una nuova emozione cinebrivido. Ero, non so in che modo spiegarlo, tutto uno sguazzare in un mare in tempesta e un contorcersi allo stesso tempo come un pesce privo di acqua.

Avevo zeccato che si stavano servendo del vostro malcico cinebrivido per i loro loschi scopi politici, un piccolopoco come voleva fare quell’altro Alex come me della cui zigna ho fatto un dolce vaevieni. Voleva usare la mia storia tragica e sfortunata per ottenere maggior potere governativo. Stavo ancora sprolando con il mio nuovo carissimo soma importante con la tipica disinvoltura a voi cara, quando ad un certo punto snicchiai dal suo truglio schifoso che “noi eravamo tutti strumenti al cospetto degli eventi” e blablabla.

Ora, carissimi, lo zio Alex non si lascia mai comandare da nessuno, lo sapete bene. Ero solo io a dover comandare, miei unici amici. Né da Georgieboy, né da Pete o della sua Georgina, né da Billyboy, né da Bamba, né dai miei nuovi soma Toro e Len e Rick. Non ho mai avuto la necessità di avere un planetario diverso dal mio come comandante. Proprio mai. Nemmeno quando ero sotto i malefici effetti della Cura Ludovico. Che lo Zio non voglia che io mi rituffi in quelle schifose condizioni.

Ora più che mai ero diventato un altro malcico, più forte e più sviccio e meno bamba di prima. Perché molto probabilmente ero o sembravo molto bamba in precedenza se questo martino mi trattava da bamba.
Smisi di glutare il mio cià lasciandolo a metà, cosa che non è mai accaduta nella vita del vostro Umile Narratore, sbattendo la tazza sul tavolo, bum. Ero agitato, O fratelli, molto molto. Volevo uscire da quel giro il più presto possibile, così mi affidai all’ispirazione giacché il pensare è per gli stupidi**.

“Rifletti bene, fratellino, rifletti bene. O mi esoneri dalla tua fetida e puzzolente campagna elettorale o spedirò il tuo viscido budellame fuori da questo mondo marcio già di suo, lezzoso buggarone.”

Dovevo avergli fatto una spaventosa impressione, carissimi, come ai vecchi tempi, perché i fari del bigio si oscurarono come se avessero subìto un eclissi di sole con un misto fra odio e paura cambiando totalmente il modo di locchiarmi.

“Forse hai capito male, ragazzo mio…”

“No, compagno sir, ho capito perfettamente.” diss’io senza giri di mottate nauseanti.

M’imburianai davvero molto infine, tanto da prendergli quel suo planetario e sbatterlo sulla scrivania con entrambe le granfie. Egli scricciò che più non riusciva, e più lo faceva più mi veniva voglia di esercitare su di lui la mia beneamata ultraviolenza a lungo trattenuta.

Lo festai perbenino, un po’ come facevano i satelliti dello zoo sulle mie povere e fragili macerie e lui continuava a scricciare e a fare tipo uuuoooooooooo ch’era una musica. Mi sentii improvvisamente più sviccio del solito, anche senza l’aiuto del Syntemesc e altra sguana, e quando finii di offrirgli la mia dose di festoni c'era un'insopportabile sniffa ferrosa di salsa, cari miei, come se ce ne fosse sempre stata, e una quantità grandissima di salsa attorno alle macerie, ma soprattutto sulla sua biffa. Non potete immaginare quale tamagna soddisfazione riecheggiò fra il mio budellame, e parte di questa era dovuta al fatto che stavolta era ancora mezzo cosciente e non avrebbe sbaraccato in fretta come la babusca con i gatti.

Gufai un piccolopoco per la vendetta conseguita prima di precipitarmi sguizzo davanti alla finestra tentando di scavalcarla.

Oh no, carissimi. Il vostro soma non aveva intenzione di suicidarsi, no affatto. La finestra dava sul giardino, ad un metro e mezzo da terra, una via di fuga molto succulenta per un malcico in forma come lo era il vostro zio Alex.
Non ci poteva rimaner molto tempo finché si accorgessero di quello che avvenne lì dentro, così optai per la finestrella.

Continuai comunque a tacchettare per due isolati, facendo sgroppare il planetario come un bigio che rimugina sulla propria giovinezza finita.

Non ero ancora guarito del tutto, cari fratellini miei. O meglio, ero guarito dalla cura Ludovico, sì certo, ma vi era una sostanziale differenza fra ciò che fui prima e ciò che ero adesso. Mi sembrava che quel congelamento del mio libero arbitrio sia stato dissipato soltanto in parte, mentre la porzione ancora a me sconosciuta sia stata modificata in modo da risultare utile a qualcuno.

Fino ad ora non me ne resi pienamente conto. Però, ora che sapevo di esser stato manipolato per fini propagandistici mi dava una sgradevole sensazione.

Ma adesso non sapevo dove andare e non avevo nemmeno molta bella maria nelle mie gaioffe.

I primi posti che il mio planetario escluse a priori erano il Korova Milkbar e la mia nuova tana. Nel primo c'era il rischio di essere riconosciuti dalle quaglie e anche da qualche babusca a dir la verità e dai malcichi come lo era il vostro zietto Alex. Inutile spiegare per casa.

Dai miei soma o dai miei vecchi poi, non se ne sprolava neppure. Non mi era permesso neanche di tornare da pappi e mammi, O fratelli, non dal mio orgoglio irrimediabilmente ferito.

Non ero imburianato con loro, almeno non come quando uscii da quello zoo lercio e pieno così di rozzi e pervertiti d'ogni sorta, non così. È che i loro fari falsamente compassionevoli non mi erano di gran conforto; ecco perché decisi di affittare una migna stanzetta nella via più borghese di Londra, un posto adatto a me neanche un piccolopoco.

Ci stavo soltanto perché Frederick mi mottava sempre tipo di “dar l'impressione di essere un bravo ragazzo”. Anche se di “ragazzo” di me rimaneva soltanto la ciangotta e l'aspetto, ormai. Ero maturato, oh sì fratellini. Non ero più neanche solito farmi quelle scorpacciate di ultraviolenza che la mia nuova e scintillante ganga ed io eravamo leciti a fare ogni maledetta cupa, che fosse inverno od estate. Non mi andava per la maggior parte delle volte, sapete, preferendo stare al Duke of New York per molto tempo.

Al vostro Umile cantastorie era permesso fare questo ed altro. Era il vostro malcico Alex che spesso rifiutava, anche se quel puzzolentone di Deltoid non mi era nemmeno più in mezzo alle berte. Comunque, potevo fare quel che più mi piaceva senza che nessuno mi dicesse nulla e senza che nessun rozzo mi arrestasse e senza che nessuno provasse a pasticciarmi dentro il planetario per farmi rigare dritto.

Niente, O fratelli. Mi sentivo bene e giovane e libero tipo come un fringuello appena uscito da tanti, troppi nidi lerciosi nonostante si sia abituato e pronto per volare. Anche se dovevo comunque stare attento a non farmi beccare; per non ritornare alla Prista insomma.

Ma un reato come quello di cui fui il meraviglioso artefice, no, quello non l'avrei scampato. Quello era un pezzo grosso, ma molto molto grosso. Chissà cosa avrebbe fatto ora di me; speravo soltanto che non mi facesse licenziare dall’Archivio Nazionale Grammodisc.

Pistonai ancora per minuti od ore, non sapevo con certezza, finché non snicchiai ad un certo punto ciangotte che pareva di due tamagni ubriachi tanto erano insulse e vomitevoli, ed allora, fratelli, mi precipitai nella prima fessura adatta alla mia stazza che trovai, ovvero un portoncino socchiuso di un edificio simile a quello di pi ed emme.
Entrai zitto zitto, chiudendolo piano per nascondermi dalle luci serali esterne quando snicchiai una ciangotta tipo dolce ed allo stesso tempo incerta.

“Chi sei tu?”

Mi voltai e, O fratelli, quale festosa campana mi risuonò negli snicchi locchiando la devotchka che aveva parlato! Da cinebrivido era la mammola lì presente e mi locchiava con un paio di fari scuri e terrorizzati. Aveva la pelle chiara come la bianca luna ed i capelli nerissimi come un corvaccio solitario. Mi sentii come se fossi appena stato mandato in orbita da una slurpata tamagna di mommo o come se stessi sbaraccando da questa mia seigiorni volontariamente o come il cuore mi facesse bum bum bum come a prendere a festonate il petto. Era paralizzata dalla vista del vostro soma carino, ma più che badare al mio aspetto, puntò i suoi fari neri sulle mie palandre ora dipinte di rosso ed io indirizzai i miei nella sua medesima direzione, finché non me ne resi conto.

Per la prima volta mi preoccupai sul serio di quello che una persona avrebbe pensato di me.

La salsa mi macchiava le palandre di qua e di là, spruzzata dalle mie stesse granfie, ma non feci nulla per nasconderle. Ed anche se ci avessi provato, non ci sarei tanto riuscito.
 
 
 
 
 
 
 


 
NDA
È la prima volta che mi cimento con lo stile narrativo tipico di “Arancia Meccanica” perciò vogliate scusarmi se lo utilizzo impropriamente. xD
Di tutti i film di Kubrick, questo è quello che mi ha colpita di più, oltre a “2001: Odissea Nello Spazio” e “Full Metal Jacket”. Non tanto per le scene forti che offre, ma per il modo, a volte accelerato a volte rallentato, di narrazione, nonché per la straordinaria quantità di musica classica tradizionale (cosa alquanto rara nei film) e l’assoluta ed indiscussa faccenda sul libero arbitrio.
Ho letto il libro in pochissimo tempo (l’ho finito appena ieri… perché è una di quelle opere da divorare, inutile discuterne) trovandolo all’altezza del film e viceversa.
Alex è un antieroe (questa parola non basterebbe per lui xD), una sorta di Mr. Hyde a se stante. È tutto il male che è dentro di noi e che normalmente caratterizza l’essere umano: non a caso “l’uomo è un lupo per il suo simile”.
La cura Ludovico rende Alex una persona “civile”, che non riuscirebbe mai a commettere crudeltà verso nessuno, nemmeno nei confronti dei suoi assalitori (i suoi ex drughi, il barbone, il ragazzo alla conferenza). Ma lo priva anche della libera scelta e questo fa di lui un essere inferiore ad un uomo. L’espressione giusta sarebbe un essere innocuo da fuori, ma questa innocenza è da attribuire a diversi fattori che sono stati macchinati dall’esterno. Un’arancia ad orologeria.
Inoltre, la sua guarigione da’ al Ministro degli Interni una fama di “salvatore del giovane sottoposto ad una manipolazione mentale” così da potergli assicurare il potere che vuole.
Da questa precisa consapevolezza prende corpo la mia ff: ho reso Alex meno “stupido” e meno marionetta di un Governo che non ha nulla di migliore dei criminali veri e propri. Insomma, qui è completamente padrone di se stesso, sia per quanto riguarda il suo normale atteggiamento (qui leggermente maturato) sia per la naturale distinzione fra bene e male (ecco perché ho scelto questo titolo per l’intera ff: perché Alex farà cose buone e non così come sceglie al momento o a seconda delle circostanze, sempre seguendo l'istinto. Era ovvio che uscisse OOC comunque, fratellini e sorelline xD). Spero di riuscire a rendere l’idea di quello che ho in mente.
Chi mi conosce e ha già letto le mie ff sa bene che non sono quasi mai soddisfatta di ciò che scrivo, ma sta a voi dirlo.
Non mi sono prodigata a fornirvi un vocabolario Nadsat: in primis perché non serve se si ricorre all’intuito, e poi chi si appresta a leggere ff ispirate a questo film/libro si presuppone che lo conosca almeno un po’.
Non ho la più pallida idea di quando aggiornerò (non è facilissimo esprimersi in Nadsat; per me è ancora più difficoltoso per il fatto che non scrivo praticamente mai in prima persona), perciò, se vi è piaciuta questa prima parte, armatevi di pazienza. xD Se qualcosa non vi è chiara chiedete pure.
*Omaggio al film “Halloween – The Beginning” in cui Malcolm McDowell è uno dei protagonisti.
**Citazione dello stesso protagonista.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2 ***


Libertà di scelta


2



 
Il maestoso Ludwig Van stava ancora riecheggiando in tutto il suo splendore per tutto il mio planetario e giù per il resto del corpo, scombussolato com’era dagli eventi appena successi. Ringraziai lo Zio dei cieli e tutti i Santi per avermi restituito la gioia della musica.

Che meravigliosa e sublime sensazione quella di riprendere ad amare ciò che prima si è stati indotti a detestare, O fratelli.

E voi mi chiedereste se non avessi pensato di farci qualcosa con quella mammola lì tutta solicella, tutta per me, tipo il vecchio vaevieni o sguana simile per scaricare la tensione accumulata quella cupa.

E invece no, cari fratelli, con grande e sincera sorpresa da parte vostra. Feci semplicemente finta di niente. La situazione in cui il vostro Umile Narratore si trovava non era di certo delle migliori per esercitare un piccolopoco di dolce vaevieni, miei carissimi soma.

L’unica, precisa trucca che volevo fare era pistonare via da quella viuzza piccina picciò per depistare di più loro, quei rozzi che ora stavano passando proprio di lì e facevano oh oh oh per chissà quale porca faccenda e sfilavano da bell’imbusti nell’atto di dar prova della loro distorta voglia di ordine e giustizia.

Tutte balle. So com’è in realtà. Ci sono passato, pezzi di fetenti.

Mi pigiai ancora più forte contro il portone sperando che quei degeneri friggibuchi mi confondessero con il buio e sperando inoltre che la mammola non facesse svolazzare su e giù quell’infame fascio di luce che avrebbe potuto farmi scoprire.

“Non si curi di me, signorina.” sbottai girandomi e parandomi i fari con una granfia con il fiato ancora ansante, siccome la sola solitaria mammola adesso mi aveva puntato una torcia sulla biffa. La luce di questa cominciava a darmi sulle berte al punto da farmi tremare e farmi sentire più robusto, più sviccio.

Ma lei se ne infischiò totalmente delle mie mottate meravigliose e garbate. Anzi, i suoi magnifici fari continuavano a locchiarmi come se avessero l’intenzione di uscire dalle orbite circondate da ciglia cinebrivido folte folte e sottili.
Al suo fianco in basso, c’era un miaomiao nero che si strusciava sulla gamba della devotchka scricciando maaaaaaa come a pretendere del mommo.

Ebbi tipo un flashback, O fratelli. Rammentai ben benissimo la cupa in cui i miei soma, intendo i soma di prima, cioè Pete, Georgie e Bamba, mi tradirono dopo la visitina alla babusca dei ràttoli e delle ràttole facendomi ricevere i cerini tutto solicello, quei sporchi, stronzi luridumi.

E ci credereste, O fratelli, che il vostro affezionatissimo, non appena locchiò quei cerini, si sentì tutto un groviglio intricato che gli mordeva la gola per la paura di essere ripescato come una sfortunatissima preda nella rete della crudele e malfidata polizia?!

La mia slappa per poco non mi si pasticciò dentro il truglio quasi avessi tutta una trucca appiccicosa e schifosa che mi tormentava, ancora e ancora, fino a scendere giù nelle tubature intestine; i miei fari già locchiavano la bigia Prista dove non facevano altro che pestarmi, e ciaf, ciaf, sbam, ciaf e io che ne pigliavo e avanti così finché le mie macerie non diventavano poltiglia utile solo alle bestie.

“I… I suoi vestiti. Ma che le è successo?” gracchiò ancora con la ciangotta diciamo tremolicchiante, anche se io non volevo affatto spaventarla. Ma la capivo benissimo, O fratelli. Locchiare un malcico entrare di soppiatto in una tana non sua con una tamagna dose di salsa di pomodoro sulle proprie palandre non dev’essere un bello spettacolino, proprio no. Soprattutto per una fresca come lei, che sembrava tipo una con il planetario a posto. Difficile a trovarne di queste, oggigiorno.

Mi sentivo davvero disgustoso. Ma la trucca più maledetta che potei mai provare nella mia seigiorni era che mi facevo schifo soltanto in quel preciso istante, cioè in compagnia della mammola cinebrivido lì presente.

Eppure nei bei tempi felici e spensierati, quando i miei soma ed io facevamo i nostri scapricci e i nostri squassaggi, il vostro Fedele ed Umile soma non aveva mai provato un ribrezzo simile per la propria persona. Prima di arrivare in quel luogo, cioè dentro quel portoncino, non mi sentivo affatto così, anzi. Ero soddisfatto di quello che avevo fatto. Era la cosa giusta. Per me.

Ben presto, la devotchka continuò a pormi quesiti degni di un rozzo del tipo: “Che ci fai qui?” e “Come hai fatto ad entrare?” e altre sprolate così, mantenendo sapientemente la ciangotta bassa bassa.

Imburianandomi un piccolopoco per l’esasperazione, tentai poi di cacciarla via ma senza successo.

“Va’ a farti una fottutissima spatchka e levati dalle berte!”

Mi pentii allampo di averle scricciato roba simile, perché mal si addiceva a quella bellezza dolce dolce e poco adatta a ricevere luride burianate sguanose come quella. Ma nonostante tutto, il vostro Umilissimo tentò di scacciare a calci quel che sembrava un senso di colpa estraneo.

Avevo però il serio timore che ad un certo punto prendesse a scapricciare come una pazza nevrotica, così pistonai con rabbia verso di lei e dovetti tapparle il truglio con la granfia, perché stava facendo troppe troppe domande ancora, ed io non volevo mi si facesse un così elaborato terzo grado tipo processo, O fratellini. Per il terrore, la mammola fece cadere la torcia che si spense, ed io la spiaccicai con un piede muovendolo per bene per assicurarmi che fosse rotta tipo come si fa per spegnere le cancerose, e quella faceva crac crac crac mentre io mi accostai con la biffa più o meno agli snicchi di lei.

“Preferirei il silenzio, sorellina...”

La devotchka fece vabbene vabbene con il planetario locchiandomi ancora, però più tranquilla. Scacciò allampo la mia granfia dalla sua biffa e sgranò i fari scuri scuri come se si fosse appena resa conto di un dettaglio del vostro Affezionatissimo minimamente trascurabile. Ne rimasi sconcertato, O fratelli.

“Non sei… il ragazzo della Cura Ludovico?”

Ebbene, cari ed unici amici, questa era una trucca che mi succedeva talmente spesso da averne fin sopra il criname. Essere riconosciuto come “il ragazzo della cura Ludovico” e tutta quella sguana non era poi così edificante. Ma avevo imparato a conviverci. Anche perché era l’unica cosa che potessi fare.

Neanche un piccolopoco di sana ultraviolenza avrebbe cancellato quella targa odiosa che mi portavo addosso e che mai mi avrebbe abbandonato del tutto. E dato che ormai non avevo più così smania di usarla, perché avrei dovuto se non cambiava niente? Io ci avevo già provato, fratellini e sorelline, ma non avevo ottenuto i risultati sperati, eh no.
Non sapendo come rispondere, feci hem hem hem tipo tosse e poi mi feci una gufata tutta vergognosa. Non sapevo che rispondere, ma dovevo rispondere qualcosa, siccome ero entrato lì dentro, una tana così cara caruccia.

“Sì,” risposi tutto calmo “ma ora sshhh!”

Mi portai l’indice al truglio con imperiosità, ma più che intimorita, ora la devotchka mi appariva indispettita. Sempre seria seria.

I rozzi ch’erano a zonzo non c’erano più, e per il vostro Narratore era arrivato il momento di tirare un sospiro di sollievo. Persino il micio, fino a quel momento zitto per il buio quasi completo, ora aveva ripreso a lamentarsi.
Lei si affrettò allampo su per le scale, forse a procurarsi un piccolopoco di mommo per farlo tacere e tornò subito, diede una ciotola di latte all’animale e non mi chiese di andare via. Piuttosto, mi continuava a chiedere:
“Vuoi dirmi che diavolo è successo? Perché sei coperto di sangue? Sei ferito?”

“Non è da devotchka perbene mottare in questo modo!” ghignai io, fingendo che non mi garbassero le parolacce. “No, lo zio Alex non è ferito.”

Era ovvio che sapesse la mia tragica storia lacrimogena avendomi riconosciuto. Perciò le confessai ciò che avevo fatto, O fratelli. Potrebbe risultare una mossa troppo azzardata. Poteva lei sola sbattermi in prigione senza problemi, ma quella mammola mi regalava così tanta sicurezza che per poco non le raccontai anche i miei anni spensierati a caccia di bella maria e di vaevieni.

“Ho festato quel lezzoso del Ministro degli Interni o degli Esterni, non so… Non mi andava di aiutarlo, quell’inutile porco. Ha rovistato il mio planetario fin quasi a farmelo scoppiare. Anche se mi ha assicurato di poter sgroppare e guadagnare tutta la vita, io non me la sento di appoggiarlo, Fred.”

I miei fari erano su di lei senza locchiarla veramente, perché ero così in preda allo sconforto e confuso, ma ero sicuro di quello che avevo fatto, anche perché Fred era ancora lì che cercava di scricciare mentre io me la svignavo.
Ero sul punto di piagnucolare, ma non era il momento per fare bahahahah come un infante, O fratelli.
“Come ti chiami, piccola devotchka?”

“Esther.”

“Bene, Esther…” le presi il braccino magro e le richiusi il truglio imburianato più di prima. Se scricciava eran guai. “Non mi piace sprolare, si finisce con fare sempre blabla senza arrivare ad un singolo maledetto accordo. E non mi piace nemmeno far sgroppare troppo il planetario, ultimamente s’è infiacchito troppo.”

Non dovetti aspettare chissà quanto per udire ancora la sua piccina ciangotta, sempre spaventata. Anche se adesso era un piccolopoco risoluta. A quanto potevo locchiare, non voleva cedere al vostro zietto Alex.

“Cosa vuoi?”

“Procurami delle nuove palandre, mammola ciunebrivido.” dissi con tutto un uragano dentro. Avrebbe fatto bene a pistonar dove le aveva detto. Non era lei quella che avrebbe potuto locchiar scivolare via dalle proprie granfie ciò che aveva ottenuto per colpa di un poldo pezzo grosso.

Avevo ragione io, stavolta.

Non era giusto che dopo tutto quelle pasticciate io stessi ancora nei suoi comodi.

Dovetti ricorrere all’autocontrollo e tutta quella sguana per non tradire la mia nuova nuovissima maturità, ma era difficile, O fratelli, con una mammola più giovane di me che faceva la sofistona come una babusca con una fitta ragnatela ai lati del truglio chiacchierone. Questa ritornò a far la biffa timorosa di chi ha appena visto un leone appena cibatosi di un’innocente animale e che ora voleva papparsi anche lei.

Ammettere che quella devotchka aveva ragione ad aver paura mi provocava un tamagno fastidio che cominciava a grattarmi i muscoli di tutta tutta la schiena, ma mentre ci trovavamo in quel mio rifugio improvvisato, non mi resi conto che le scale conducevano così in alto. Esther gettò i suoi fari neri verso il cielo, e pensando chissà quale diavoleria. Il suo nome lo avevo già letto nella Sacra Bibbia. Era un libro intero intitolato con quella parola, certamente. Non potevo sbagliarmi.

E come rifletteva la natura del suo nome, appariva come la più innocente delle bambinette, ma solo Zio sapeva quale trucca aveva in quel planetario buio, O fratellini ed amici.

“Dovrei avere delle camicie di mio fratello adatte a te…”

Su per le scale mi guidò, sempre preda delle mia granfie impietose, e il miaomiao rimase lì sotto, verso una cameretta che sembrava un piccolopoco il magazzino dell’orribile zoo umano in cui sono stato sbattuto mesi addietro da quei porci cerini vigliacchi e rimasto per due anni, e ci rovistò dentro veloce veloce e tirò fuori effettivamente delle palandre che potevano essere della mia misura. Una camicia azzurrina e delle braghe marrone scuro e mi fece mettere quelli che avevo addosso in una busta che riconobbi, una di quelle del centro commerciale lì vicino assicurandomi che avrei pistonato dritto dritto nella mia tana.


“A-Adesso va' a casa tua.” mi intimò veloce. Era ovvio che non avrebbe mai voluto locchiarmi ancora per il resto dei suoi anni.

E così feci, O fratelli. Ma con la paura che mi strisciava nelle interiora non sapevo quanto sarei durato.





NDA
Finalmente la ragazza ha un nome che, per la cronaca, dovevo utilizzare per una ipotetica originale. Ma ho preferito “donarlo” a questa ff. xD
Peccato che, senza dubbio, si dovrà aspettare ancora per il successivo, per svariati motivi. Primo fra tutti, che la mia vena creativa targata “Alex DeLarge” faccia il suo corso. ^-^’
Ringrazio di cuore Calycanto e Laylath per le recensioni. :)


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3 ***



Libertà di scelta
 
3

 
 

 
Non mi è mai piaciuto il whisky.
 
In passato lo slurp slurpavo perché ero un malcico capo di una ganga. Ma poi, invecchiando, non ne apprezzavo più il sapore arroventato. Più che alc ora mi sembrava un tizzone ficcato nell’esofago che non voleva essere riestratto.
 
La mattina successiva l'avevo passata agli Archivi Nazionali Grammodisc, cioè dove sgroppavo, come se nulla fosse successo, ed il pome trascorso nella mia tana a locchiar il vuoto con quel bicchiere di whisky in mano seduto al tavolo della cucina, glutandolo a sorsi così migni che la slappa sentiva soltanto pura e semplice acqua.
 
Mi sentivo un bebè stupidone che cerca di fare il bigio dalla scorza dura facendo credere che tracannasse liquame che l’infiamma per inutile passione senza che malattia o altra sciagura potesse farlo sbaraccare.
 
Mi trattenni dal darmi solo solo due paffe sulla biffa e mi alzai, rovesciando via quella roba e preparandomi un buon cià, senza mommo stavolta. Il latte favorisce la spatchka, ed io non volevo ronfare alle zero cinque zero zero del pome. Volevo essere invece bello sveglio e lucido, nel caso dovessi sirenare via con quel poldo di un Fred che mi sghignazzava dietro le mestole.
 
Ma tutto quello che il mio planetario si era divertito ad immaginare non avvenne.
 
Qualcuno schiacciò il chiamino di casuccia mia, esattamente alle zero cinque quattro tre. Era Fred, con un garzuolo che gli fasciava il planetario quasi fosse una mummia dei musei e con una vettura grigio topo in moto alle spalle che faceva brum brum nell’attesa di allontanarsi.
 
“Ciao, Alex.”
 
A giudicare dal suo ghigno da furbastro, aveva tutte le intenzioni di sprolare con il vostro zio Alex come se fossimo due vecchi soma che non si locchiavano da un milione di anni per questioni di vita o di morte.
 
Gufò un pochino, e così, con un muso da sgonfione pervertito, continuò a farmi quella biffa moinosa ancora per un piccolopoco. E poi, snicchiai altro dal bigiaccio unto e scardinato.
 
“Ben ben ben, che stegola, signor Arciballe?!” dissi, allargando il mio truglio in un sorrisone. “Non credo abbiamo più niente da dirci, noi due…”
 
“Non sai con chi hai a che fare, piccolo soma.”
 
I miei fari lo sfidarono ben bene, appioppandogli per via planetario una sguana tipo intenzione di dargli altre buscate. Ma se l’avessi festato ancora, non sapevo poi come sarebbe finita. Già era un miracolo di Zio se non era arrivato nel mio personalissimo covo senza cerini.
 
Se ne fregò della mia ciangotta tipo sorniona e mise insieme soltanto qualche mottata che mi arrivò dritto allo stomaco come se me ne avesse mollate un paio.
 
“Se collabori con me, il torto che mi hai fatto subire sarà come non fosse mai esistito. In caso contrario, tornerai ad essere il vecchio 6655321 con tutta quella gentaglia. Pensaci, Alex.”
 
“Ci penserò, sir.” dissi. Chiusi sguizzo la porta, non sapendo più dove sbattere il mio sovraffaticato planetario.
 
Un bagascio perbene che giocava doppio, ecco cos’era quel martino tutto sempre bell’ingessato con sempre gli zughi in bella vista che si faceva chiamare Min.
 
Tutto quello che mi rimaneva da fare era tener il truglio chiuso e riprendere a sostenere il buggarone. A meno di pistonar verso la rozzeria centrale.
 
Non era molto invitante l’idea di rimettere le patte in quello sguanoso inferno, ribeccandomi chissà quanti anni ancora fin fino a diventare tutto bianco, O fratelli. Perciò non sapevo che fare: se continuare a fare il mezzuccio propagandistico o finire la mia seigiorni alla Prista.
 
Non mi andava nessuna delle due trucche, come avrete ben capito. Però potevo sparire dalla bigia Londra. Con un po’ di denghi si poteva prender un treno che portava fuori città.
 
Sì, ci poteva stare, ma poi? Mi sarei spiaccicato da solo una tamagna taglia in fronte come quei ricercati dei film western.
 
Dicendomi no no no con il planetario, smisi di dar ciangotta a sguana così per apprestarmi ad aprire ancora la soglia di casa, siccome snicchiai il chiamino che scricciava dlin dlon altisuono.
 
Ed ecco che ai miei fari si misero davanti Len e Toro, i miei soma di zecca. Rick era quello che faceva sempre tardi.
 
“Il Korova Milkbar?” sghignazzò Toro. “E il Duke of New York? Li hai forse dimenticati?”
 
L’altro trovò così divertente e cinebrivido la sprolata di soma Toro che, oltre a ridere tipo clown oh oh oh, sbatteva gli stivaletti per terra come una scimmietta impazzita. Entrarono come se fosse la tana loro, ma solo perché io avevo detto loro così, e poi Toro si sedette affianco a me, cioè dove stavo seduto prima che arrivassero, afferrandomi una mestola con la granfia talmente forte da far un rumore tipo paf e, gufando un piccolopoco insieme all’altro per il mio truglio imbronciato e storto, disse:
 
“Allora, soma Alex, sono giorni che non ti fai locchiar al sosto. Che ti piglia, eh?! Forse un’altra crisi? Andiamo a glutare qualche scozzese o brandy insieme, o mommo, come ti va meglio, così da prepararci per la cupa. Allora? Non ci garba che il nostro capo malcichino si slurpi alc tutto solicello, perché sarebbe da bigi, O fratellino. Lo sai bene…”
 
Avevano preso la mia maturità cinebrivido come crisi che a volte ricomparivano come sintomi di un morbo fetido da cui sarebbe stato meglio tenersi alla larga. Ripensando ai miei vecchi soma, non potevo fare a meno di evidenziare quanto la cosa si fosse capovolta. Prima ero io quello che pensava di poter fare e prendere come e quando voleva, con quel Georgie tutto stravagante che diceva che parlavo come un bambino.
 
Ora era diverso, O cari ed unici fratellini. Ora erano questi i bambini ed il Vostro Umile quello grande. Non volevo ritornare ad essere il malcico sguaiato del passato, perché mi avrebbe comportato altri anni dentro, O fratelli. Ma non volevo nemmeno essere il compagno soma di Fred.
 
“No no, soma Toro! Cosa dici?” risposi io sorridendo. “Forse il troppo sgroppare mi ha provocato stanchezza.”
 
“Burianate! Il soma Alex ha avuto un’altra crisi isterica, o sembra? Le due babusche sono ancora lì che aspettano il loro samaritano, cioè tu, mio caro Alex!”
 
E gufavano, gufavano, e se non avessero cucito a filo doppio quel loro foro lezzoso l’avrei riempito di festoni finché non snicchiavo la loro salsa di pomodoro far plic plic.
 
Mi alzai stufo marcio di esser in mezzo a quei due, e pistonai verso le mie palandre, quelle che usavo per piombare al Korova, cioè quelle bianche accompagnate da bastone da passeggio e bombetta, quando locchiai delle palandre che non erano le mie, non ricordando minimamente da dove provenissero.
 
Poi, nel planetario mi balenò la grandiosa Nona, ed ecco che rammentai tutto. Erano la camicia e i pantaloni del fratello della devotchka chiamata Esther.
 
Pensai che avrei dovuto riportarglieli indietro. Ma l’avrei fatto l’indomani.
 
Come ultima cosa, indossai il cappello e sguizzo mi recai al Korova per un po’ di mommo corretto.
 
Lì posso mettere in moto il planetario per cercare una via d’uscita, pensai. In orbita, è più facile locchiar una qualche soluzione per evitare sia Fred che la Prista.
 
Ed eccomi là, O fratelli.
 
Si era io, insieme a  Len e Toro e Rick, che arrivò in ritardo come al solito a causa della sua emme che prima lo faceva imburianare un piccolopoco e poi lo mandava dai suoi soma, cioè noi, ed eravamo al nostro bigio buon sosto tutto appariscente e ben fornito di quel latte corretto cinebrivido che ti mandava in orbita a locchiar Zio nei cieli.
 
Snicchiai così le gorgogliate di Rick completamente fuso che mottava stranamente: “Baffi impietriti di strada reticente e ghiottona” e trucche così mentre il mio planetario quasi schizzava via per i fuochi d’artificio che aveva dentro e che scoppiettavano dappertutto. Il malcico dell’altra parte, soma Len, invece aveva centrato in pieno qualcosa di più complesso, tanto da fissare con i suoi fari il bicchiere del vostro affezionatissimo e allungando la granfia ossuta per appiopparsi il mommo.
 
“Sta’ al tuo posto. Impara, compagno!” dissi io ringhiando, con aria stramalvagia. Non volevo che mi si toccasse la mia roba, soprattutto quando chi me la voleva toccare e prendere è in orbita già da tempo abbastanza per sprolare a vanvera.
 
Toro non era di certo più sveglio. Era andato anche lui, O fratelli. Eccome, direi.
 
Rick era già in vena d’ultraviolenza, ma per quanto anch’io volessi esercitarne fino ad averne sulle berte, non mi andava. Non mi andava per niente. Avevo zeccato che quando pensavo ad andarci pesante, avevo paura. Non venivano conati di vomito e impedimenti di sorta; era più un giudizio condizionato delle mie passate esperienze, e con esperienze intendo alla Prista, all’edificio bianco dov’ero costretto a locchiar tutto il pome i film per violenti pervertiti e tutta la terribile sguana che fui costretto a passare.
 
Già con quella festata al poldo Fred avevo detto addio alle sue cortesi concessioni, ora non potevo far altro che scegliere quale viuzza prendere nel lezzoso bivio che quel martino marcio tutto sorrisi mi aveva imposto.
 
“Io pistono a casa, fratellini…” annunciai con aria stanca, con le proteste dei soma a far da sfondo. Che se la spassassero pure tutti solicelli senza Alex, quei malcichini dal panetario migno e immaturo.
 
Stanco, sia fisicamente che di tutte quelle trucche minacciose del Min.
 
Mi lavai e cambiai solo le palandre quando tornai nella mia tana. Anche se non mi andava di sgroppare, anzi di fare un piccolopoco di niente mi solleticava il budellame, dovetti comunque recarmi agli Archivi.
 
Feci tutto in quattro e quattr’otto, e quando alle uno zero zero tre ero in tamagno ritardo il direttore mi scricciò in biffa altisuono per farmi zeccare che non dovevo farlo più, con il risultato di sentirmi tutto un frappè.
 
Mi buttò il giornale del dì sulla scrivania piena di dischi da catalogare frappè anche lui, rosso rosso per la rabbia da diventar di un brillante color prugna.
 
Sbuffare era a sola cosa che potevo fare, e continuare a locchiar le copertine e le custodie di tamagni dischi e migne cassettine e appuntarle nel registro, che fossero guasti, consumati, da richedere allo Stato, eccetera eccetera.
 
Pensavo, questo posso chiedere di portarmelo via, e questo di prestarmelo, e sguana simile.
 
Come spiccavano luminose ed argentee le Sinfonie di Mozart e Chopin e Ludwig Van!
 
Però mentre sgroppavo come un asino accompagnato da un aratro, una foto sul giornale catturò cinebrivido i miei fari finora tutti concentrati sulla musica e le sue meraviglie.
 
Era quel martino con la fogna al posto del truglio, Fred. Mi aspettavo che sopra ci fossero le scritte tutte altisonanti della sua schifosa campagna elettorale, ma quando lessi quasi non rimasi secco dal sollievo.
 
“Il Ministro degli Interni è morto in un incidente stradale nel centro di Londra.”
 
Il poldo aveva sbaraccato.
 
Avevo salvo il culo, O fratelli. Almeno, così speravo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NDA
Sapete bene che i vestiti tipici dell’Alex di Kubrick sono diversi da quelli descritti da Burgess. Per farla breve, mi sono attenuta al film. xD
Per un ritardo così avrei dovuto allungare il brodo, ma il fatto è che ho potuto scrivere 1/3 di pagina Word alla volta, senza contare che per un po’ di giorni non ho proprio aperto il documento di questa ff. Sono contenta di aver finito questo capitolo almeno oggi. Contavo di concluderlo domenica, ma così non è stato. ^-^’
Ringrazio quelle anime pie che mi recensiscono questo azzardo sacrilego (xD): Laylath e Calycanto! ♥
…e tutti i coraggiosi che leggono! :P
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4 ***


Libertà di scelta
 
4

 
 
Al principio del pome, ritornando nella mia tana, mi cambiai un’ennesima volta di palandre, ora un po’ meno all’estremo grido a dir la verità, per andare a ridare quelle altre al fratello di Esther.

Quel nome, O fratelli, mi dava una serenità ed un eccitamento che solo il Vellocet e Syntemesc insieme era in grado di dare, anche se per una quindicina di minuti buoni buoni.

Quella mammola con la pelle d'argento colato aveva aiutato me, un malcico con esperienze di Prista alle spalle e conosciuto come un poldo affidabile solo un piccolopoco e solo grazie all’appoggio del Min.

Ella era libera da tutta quella sguana sociale fatta di perbenismo e di falsi bahahaha, O fratelli. Locchiando nei suoi fari cinebrivido, quella cupa avevo letto che Esther aveva zeccato quanto fosse libero ed indomito lo spirito del Vostro Umile Narratore, e di come sempre il sottoscritto si liberasse dalle proprie catene con il solo, antico istinto animalesco donatogli da Zio nei cieli e con quei granellini di sale nel planetario che sempre Lui mi aveva mandato.
Non potevo comunque fare a meno di pensare che anche la devotchka fosse un dono del cielo. Erano i suoi modi così affini ai miei attuali che mi facevano zeccare questo, anche se non vi garantisco che io dica il vero, O unici fratellini. Il vostro affezionatissimo zietto Alex non legge mica nel pensiero.

Mi aveva evitato la Prista come se fossi un malcichino che conosceva da secoli, o anche solo di vista. Anzi, come un soma dei lontani tempi infantili. Certo, inizialmente non è stata amichevole, ma con una spintarella è andato tutto liscio.

Mentre mi lambiccavo su queste trucche cinebrivido pistonando con le granfie nelle gaioffe verso la sua casuccia condominio, con le palandre del suo fratello ficcate in uno zaino, i fari miei locchiarono che nelle vicinanze c’erano tutti questi cerini che pareva d’esser invasi, con le divise unte di whisky e vischiose. Erano davanti ad una automobile che riconobbi nonostante fosse tutta ammaccata e schiacciata: quella che il pome prima aveva sostato davanti casa mia con quel brutalone d’un Ministro.

E c’erano anche un martino all’incirca della sua stessa età che piagnucolava con la biffa che appariva come un grande pomodoro, anche se l’impassibilità dei suoi fari ti faceva tanto di sospetto. Affianco, una babusca che si reggeva al primo maldicendo e imprecando solo come lo zietto Alex sa fare, facendo scorrere un fiume di lacrime accompagnando un bahahahaha degno di un’orchestra funebre.

Per descrivervi tutto questo, O fratellini, mi ero fermato, come tanti altri martini curiosi, tenuti a debita distanza dai rozzi.

Ma per quanto feci di tutto pur di non essere notato, uno dei cerini, uno di quelli con l’uniforme meno pasticciata, mi si avvicinò tipo guardingo per niente amichevole mi locchiò come stanco e annoiato. Non mi sarei stupito se avesse cominciato a ronfare da un momento all’altro.

“Alexander DeLarge?”

Lo locchiai un piccolopoco con diffidenza prima di fare sì sì sì con il planetario.

“Mi segua.” mi disse invitandomi a seguirlo con un dito. 

D’improvviso mi sentii davvero imburianato, perché io non c’entravo proprio niente con l’incidente. Ma dovetti comunque controllare il mio spirito al momento tutto frappè, anche quando mi frugarono nello zainetto per scoprire soltanto due palandre che lasciarono subito perdere.

Alla rozzeria mi portarono addirittura, e mi fecero sedere ad un tavolo di metallo in una stanza intonacata, come quella in cui fui sbattuto a suon di calci e pugni qualche anno prima. C’era di tutto: sniffa di birra e vomito, berciate altisuono di bestemmiatori chiusi al di là delle sbarrate, cerini busaioli che festano le berte dei malcapitati…

Tutto quello che passai in precedenza, O fratelli, e mi parve di rivivere tutto, che Zio non voglia.

“Sappiamo benissimo che lei non era presente durante l’incidente, però visti i suoi precedenti abbiamo pensato che c’entrasse qualcosa.” insinuò quel martino scricciando poi di chiudere il becco ai galeotti lacrimosi.

“Che cosa vuol dire, sir?! Io non c’ero nemmeno. S’è andato di matto al volante non è colpa mia, di certo!”

Semmai era Fred che mi aveva stordito il planetario a furia di minacciare, pensai. Ma non raccontai nulla ai rozzi su quanto accadde  prima dell’incidente, O fratelli. Non volevo che si sapesse nulla dei miei ciaf ciaf sulle sue macerie tutte bell’agghindate tipo a festa e delle sue gufatine a mie spese. Ma feci di tutto pur di apparire rispettoso della Legge e di tutta quella sguana.

Non volevo ritornare in quell’inferno in terra della Prista. Non volevo.

Pregai il cielo affinché mi facessero pistonar via da quel posto maledetto. O che mi offrissero del cià lasciandomelo glutare in pace, che facessero loro, purché non mi appioppassero una stronza divisa a strisce ed un porco numero con cui chiamarmi fino a farmi dimenticare la mia vera targa.

E dopo un una serie di bla bla fuoriuscenti da trugli che sputacchiavano qua e là, grazie al cielo mi fecero uscire da quel buco intonacato e macchiato della rozzeria e sospirai d’esultazione, O fratelli. Certo, non si erano privati del divertimento di portarmi all’uscita cordialmente, ma comunque era sempre meglio che rimaner lì dentro.
Ma prima di sbattermi fuori, locchiai un omaccione grande quanto una vacca e con il planetario completamente sgombro di criname si avvicinò alla porta dei cerini che mi avevano trattenuto tenendo per le granfie con dita lezzose e grasse qualcuno di molto più migno, Esther.

La devotchka che mi aveva aiutato quella cupa maledetta. O benedetta, come vi garba, O fratellini. Quella che aveva occupato i pensieri del Vostro Affezionatissimo malcico per tutto questo tempo.

La ragione potevo zeccarla da me. La sua tana era a qualche metro di distanza dal luogo del fattaccio del Min. Sicuramente l’hanno prelevata per testimoniare.

In quel piccino istante che i nostri fari s’incrociarono, sentii il cuore fare bum bum come la prima occasione che la locchiai, ed ancora più forte nel momento in cui la sua ciangotta squittì tutta spaventata ed irrequieta il nome cinebrivido del sottoscritto.

“Alex…”

Non potevo tollerare che un simile spocchioso friggibuco mettesse quelle porche granfie su di lei evidentemente contrariata, men che meno che non fossi io, ma a causa di quegli altri leccapiedi sguanosi che mi spingevano sempre più in là, sempre più in là, non potevo farci niente. Però almeno come ultima cosa locchiai le sue granfiette migne che venivano sciolte dalle man manette dei cerini e dei buf buf di questi.

Allampo e con tutte le macerie che vibravano come corde di violini, mi diressi verso la sua casetta in attesa del suo arrivo evitando apposta la macchina fracassata del poldo Fred. Se l’avevano appena liberata, sicuramente Esther avrebbe pistonato a casuccia sua, mi dissi.

M’appoggiai stanco morto ad una statua bigia di chissà quale personaggio storico accendendomi una cancerosa, di quelle che sembrano non finire mai e che al contempo te le sniffi come divorassi spaghetti. E più passavano i minuti più veniva voglia di tornar alla Centrale rozza e festare i miei somarelli che dettavano legge scricchiando iaah iaah a non finire. Ma se non volevo tornare e starci fino a consumarmi le macerie dovevo fare l’angioletto per un piccolopoco; forse per tutta la mia seigiorni.

Aspettare non era nella natura del Vostro Umile però, e dentro ero tutto scombussolato per questo motivo. La slappa cominciava a bruciare. I denghi nelle mie gaioffe cominciavano a scricciare dling dling sempre più altisuono. La salsa nelle tubature pulsava ch’era insopportabile.

Lanciai via la cancerosa tipo esasperato e sbuffai contro l’aria fredda bastarda d’inverno, secca ma fredda. L’ira della bigia Londra cominciava a farsi sentire benbene, e se Estherina non mi si piazzasse davanti ai fari fra qualche min minuto, l’avrei raggiunta alla Rozzeria, dato le palandre dell’amato fratellino e avrei pistonato dritto dritto a casa, dove mi sarei fatto un cià davanti ad un film della tele.

Dondolai ancora per un po’ sulle patte, e d’un tratto sembrò che la devotchka avesse snicchiato i miei pensieri turbolenti. Ella si stava avvicinando con la biffa a terra e tutta triste e tutta solicella; allora io le porsi davanti lo zaino allungando la granfia locchiandola fisso fisso. E lei trasalì.

“Questi devono esser tuoi.” dissi poi senza emozione alcuna. Avevo imparato a controllarmi bene, sì sì, ed ora mi ci voleva molto perché qualcuno riuscisse a farmi tutto un frappé. Come Fred. Bene, dissi a me stesso. Sono maturato, eh sì.

“Sì. Grazie.”
Appariva in orbita, persa in chissà quale trucca nel planetario. Era sul punto di correre via, ma sguizzo le afferrai il braccio come quella cupa, O fratelli, e gemette e io così decisi che dovevamo farci due sprolate, noi due.

“Cosa hai detto a quei cerini?” chiesi rude, mentre le sondai ogni minimo cambiamento di espressione.

“Niente, se ti riferisci al Ministro degli Interni e… a quella sera.” spiegò la quaglia timorosa. “Per l’incidente, ho detto che ero dentro casa e ho sentito un rumore. Sono andata a vedere alla finestra e qualche metro più in là ho visto il disastro.”

Diceva la tamagna verità, come è vero il Vostro malcico. Ma nel frattempo, si era fatta migna migna di fronte a me che io quasi non ce la facevo a locchiarla. Volevo che la gente mi giudicasse in maniera diversa da come mi hanno etichettato e volevo che la mia targa non fosse legata alla Cura Ludovico. Ma nessuna di tutta questa sguana sarebbe stata esaudita, mio malgrado.

“Bene, cara la mia devotchka. Molto brava.”

“Ho compreso le tue ragioni, e ho cercato di mettermi nei tuoi panni” mi rispose un piccolopoco gelida, forse anche imburianata. Era perché l’avevo ficcata in mezzo a quel guaio, pensai.

Beh, non aveva colto la mia gratitudine cinebrivido, ma questo mi bastava, O fratellini rari. Mi bastava che qualcuno zeccasse me e le mie migne trucche sulla libertà e altra sguana, che qualcuno desse campo libero alle mie scelte.

“Certo, Esther.”

Il cuore mi fece ancora bum e bum e bum quando snicchiai la mia ciangotta dire il suo nome. Ma, dissi a me stesso, non ci sarebbe stato verso di fare del vecchio vaevieni con lei e nemmeno uscirci, O fratelli. I suoi fari mi trasmettevano una sola trucca: che sarebbe stato meglio per tutti se non ci fossimo mai più incontrati.

Lei era una devotchka disposta fin troppo ad aiutare gli altri e il Vostro Affezionatissimo era troppo impegnato a badare a se stesso in questo lezzoso mondo. Da soma impertinenti e babusche sofistone e cerini lezzosi e festoni di fuoco e ganghe saccenti e lische affilate. La vita non è tutta fiorellini profumati e musica labiale prrrr.

 “Allora addio, Alex”.

Uno sgarzo nel petto quella mottata tamagna, ma mi era servita per chiudere quella pagina e amen. Un addio e amen.

“Addio.”

Prendemmo strade opposte quella cupa e mi voltai solo una volta.

Per quanto affini, eravamo di due mondi diversi. La compagna che avevo tipo in mente di trovarmi e farmela zigna e con cui avrei avuto mio figlio non era lei, e se lo fosse stata solo Zio lo sapeva.

Ma ora, non avevo nulla per cui martellarmi il planetario, O unici amici. Fred aveva sbaraccato, il sgroppare mio era salvo, la bella maria assicurata e la Prista lontana miglia.

Una gufatina cinebrivido ohohoho e avrei ricominciato daccapo. 
 
 


“Ma voi, O fratelli miei, ricordatevi qualche volta di me che fui il piccolo Alex vostro. Amen. E tutta quella sguana.” (A. B.)
 
 
 
 


 
 
NDA
Perdono il ritardo, ma è stata dura stilare questo capitolo. Non sono riuscita a mantenere l’uso del Nadsat (quel poco che riuscivo ad usare, ahah), cosa che sotto sotto mi dispiace.
Passerei alle spiegazioni che vi ho promesso nell’introduzione della fanfiction.
Rileggendola velocemente, mi sono resa conto che c’erano punti che personalmente non quadravano; primo fra tutti l’atteggiamento troppo disteso di Esther di fronte ad un Alex quasi completamente sporco di sangue. Insomma, io non farei così tanto l’amichevole con un tizio in quelle condizioni, neanche se fosse Johnny Depp Malcolm McDowell in persona (va beh, sul primo ci penserei). xD
Se non avessi fatto questo cambiamento, sarei stata capace di cancellare la ff, cosa che mi dispiacerebbe enormemente. Nonostante non sia all’altezza dell’originale, mi sono data da fare abbastanza da essere soddisfatta di questa ff (tranne l’ultima parte di questo capitolo -.-‘).
Non ho voluto dilungarmi sul “rapporto” fra Alex ed il mio personaggio, perché più che altro volevo soffermarmi a quella strana forma di “prigionia” che Frederick aveva imposto ad Alex ed a cosa si sarebbe potuti andare incontro se avessimo dato a  nostro ragazzo un po’ di buon senno.
È stato molto divertente (ed interessante) sperimentare un gergo artificiale come lo è il Nadsat, linguaggio scaturito da parole nuove a metà strada fra l’inglese ed il russo. Difficile, ma quando si prova è fortissimo! xP
Mi dispiace un po’ che sia finita. ^-^’ Nonostante abbia, fin dall’inizio, progettato una ff lunga almeno 7 capitoli, non ho considerato opportuno che continui inutilmente. Ripeto, questo era solo un esperimento che ho voluto fare. Ovviamente, non è detto che in futuro non potrei continuare a scrivere su Arancia Meccanica. È uno spasso cimentarsi in questo campo! xD
Ringrazio come sempre Laylath e Calycanto, che mi hanno supportato in questa piccola avventura (?). :)
 
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2293708