Ti devo un drink.

di Yssel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di rose nere e gomme da masticare. ***
Capitolo 2: *** Di sorrisi e dipendenze. ***
Capitolo 3: *** Di mancamenti e cene. ***



Capitolo 1
*** Di rose nere e gomme da masticare. ***






















Aprii, lentamente, gli occhi e con una lentezza disumana allungai il braccio verso il comodino, afferrai il cellulare e spensi la sveglia.
Mi stropicciai gli occhi e poi mi misi a sedere, sempre lentamente.
Sentii un enorme calore vicino alla mia faccia e poi qualcuno mi leccò la guancia, mi girai sorridente e accarezzai la mia unica vera amica.
Amethyst, la mia cagnolina.
‘Cagnolina’ si faceva per dire, era un enorme alano bianco, con un’enorme macchia nera al centro del petto.
Le accarezzai la testa poi, ancora in mutande e canottiera scesi al piano di sotto e le cambiai l’acqua nella ciotola, misi altri croccantini nell’altra e mi diressi di nuovo al piano di sopra, lasciando aperta la porta sul retro che dava sul piccolo giardino di casa mia.
Un altro morboso, pesante, stupido ed insensato giorno della mia insensata vita stava cominciando.
Mi diressi in bagno, accessi lo stereo che era lì e i muri iniziarono a tremare al ritmo dei Pierce The Veil, mi infilai sotto la doccia e mi lavai lentamente, sperando che l’acqua corrodesse la mia pelle, gli organi e le ossa facendo sì che di me non rimanesse più nulla ma non accadde.
Tristemente uscii dalla doccia e mi piazzai davanti allo specchio, iniziando ad asciugare quell’ammasso di paglia verde acido che usavo chiamare capelli, appena finito alzai il volume della musica e tornai in camera, presi dall’armadio la biancheria a caso, infilai un paio di calzettoni a righe bianche e nere che mi arrivavano fino alle ginocchia, mi infilai i primi shorts di jeans che mi capitarono sotto mano e la mia maglietta dei Pierce the Veil, che ancora gridavano e suonavano dal bagno.
Mi infilai gli anfibi e li allacciai, sempre con rigorosa lentezza poi afferrai le cuffiette, il telefono e la borsa degli Avenged Sevenfold, quella che mi accompagnava ovunque andassi, ci buttai dentro un quaderno, una penna nera e le sigarette.
Ribaltai la camera alla disperata ricerca di un accendino, ma non lo trovai così capii che mi sarei dovuta fermare dal tabaccaio anche quella mattina per comprare il millesimo accendino della settimana.
Tornai in bagno dove contornai, come ogni mattina, i miei occhi neri come la pece di un pesante strato di matita rigorosamente nera poi, mentre giocavo con l’anellino sulla parte destra del mio labbro inferiore, spensi, mio malgrado, la musica e scesi al piano di sotto.
Sul tavolo c’era il classico post-it dei miei genitori, ‘siamo fuori per lavoro ma non torniamo dopo cena, stiamo via tre giorni, fai la brava, porta buoni voti e non spendere i tuoi soldi in sciocchezze’.
Accartocciai il post-it e lo buttai nel secchio.
Ogni giorno era la stessa storia, mi alzavo, trovavo il post-it con i soldi contati sopra e facevo sempre la stessa cosa, metà dei soldi in tasca, l’altra nel porta monete nella tasca interna della mia borsa.
La metà che mettevo da parte serviva per i tatuaggi che avevo in programma.
I miei genitori non c’erano mai, ero abituata e ormai trovavo fastidiosa anche la loro presenza in casa, quelle poche volte che c’erano.
Loro non erano stati pronti ad avermi, non mi volevano, ero stata un errore.
Mia nonna, la madre di mio padre, insistette a morte perché mia madre mi tenesse e finché mia nonna rimase in vita non ci furono problemi, lei mi teneva con se, viveva da noi, mi crebbe come dovrebbe fare una madre ma quando avevo 8 anni morì, da lì fu tutto un andare a picco.
I miei genitori erano troppo occupati tra lavoro e svago per occuparsi di me.
Lentamente imparai a cavarmela sempre di più, col tempo stringemmo un tacito patto: Io portavo buoni voti e loro mi lasciavano i soldi necessari per fare ciò che più mi piaceva, senza che io creassi loro problemi.
Dopo aver bevuto il mio bicchierone di caffè feci rientrare la mia amata Amethyst e chiusi la porta sul retro, la salutai con un bacio in testa, mi infilai le cuffiette, presi le chiavi di casa e mi infilai il giacchetto di pelle mentre camminavo nel vialetto davanti casa, tirandomi dietro la porta.
Vivere in California non significava affatto essere immuni al freddo, come in molti credevano.
Io ero freddolosa, da far schifo e la mattina alle 6.30 non faceva affatto caldo.
Feci partire la riproduzione casuale dell’ iPod e il “NIGHTMAAAARE” gridato da Matt Shadows e contornato dalla musica furiosa e tormentata del resto dei Sevenfold mi ricordò a cosa stavo andando incontro; un altro stupido giorno di scuola, in quel posto schifoso pieno di professori che non facevano altro che ignorarmi e ‘compagni’ di classe che si divertivano a pestarmi e prendermi in giro.
Arrivai al tabaccaio ed entrando alzai una mano per salutare il commesso, senza neanche guardarlo in faccia, presi il primo accendino nero che vidi e gli lasciai gli spicci sul bancone, uscendo sempre a testa bassa.
Conoscevo il commesso perché, praticamente, ogni mattina ero lì a comprare un accendino o le sigarette ma non ci parlavo mai, avevo preso il brutto ma comodo vizio di non parlare con nessuno e di non alzare mai la testa quando camminavo per evitare di incrociare sguardi che mi avrebbero, sicuramente, portato a qualche pestaggio.
Continuai la mia lunga camminata verso l’inferno accendendo una sigaretta ed alzando di più il volume della musica, arrivata davanti al cancello, senza fermarmi, andai sparata verso il retro della scuola e mi misi seduta a fumare e aspettai circa un’ora, il tempo esatto che ci mettevano tutte le persone ad arrivare, la campanella suonava e tutti entravano, quando il cortile era libero entravo anche io e mi infilavo in classe, andandomi a sedere al mio banco in fondo all’aula vicino alla finestra, senza togliere le cuffiette, semplicemente abbassando leggermente il volume.
Anche quella mattina ero scappata ad un pestaggio, ora dovevo sopravvivere a 8 ore d’inferno e sperare di sfuggire anche al pestaggio del pranzo e quello all’uscita.
Tirai fuori il mio quaderno e la penna ed iniziai ad abbozzare disegni e scritte che mi venivano in mente.
La mia vita continuava a fare schifo, era un circolo vizioso.
Mi alzavo, uscivo di casa, ricevevo odio che accumulavo dentro di me, uscivo da scuola, tornavo a casa e sfogavo la metà dell’odio che avevo dentro con la musica per poi mettermi a dormire e ricominciare tutto il giorno dopo.
Le uniche due amiche che avevo abitavano a New York, le avevo conosciute quando avevo 9 anni e stavo benissimo con loro.
Margaret e Kelly.
Margaret era altissima, con dei lunghissimi capelli neri e degli occhi castani che andavano verso l’oro mentre Kelly era bassina, capelli corti e rossi fuoco e gli occhi verde smeraldo che facevano un contrasto assurdo e meraviglioso con i capelli.
La madre di Margaret morì quando aveva 6 anni, incidente stradale e da allora il padre fece di tutto per farla vivere bene, ma lei non divenne viziata, anzi, rimase sempre una persona meravigliosa.
I genitori di Kelly invece si separarono quando lei aveva 8 anni, un mese dopo che morì mia nonna. Il padre di Kelly era un ubriacone bastardo che se ne fregava di lei e suo fratello più grande, mentre la madre era una delle persone più dolci, comprensive e ragionevoli del pianeta.
Quando avevamo 11 anni Margaret e Kelly si innamorarono e le aiutai a mettersi insieme, arrivate a 15 anni Margaret, dovette trasferirsi dalla California a New York e Kelly convinse sua madre ad andare a vivere con Margaret ed il padre.
Ora avevamo tutte 17 anni, l’anno dopo le ragazze avevano programmato il matrimonio ed io ero felicissima per loro.
Quando vivevano ancora qui noi eravamo le emarginate, escluse da tutti, avevamo solo noi tre e la nostra musica, da quando si erano trasferite non era cambiato molto, io ero ancora emarginata e tutto ciò che avevo erano la musica e la mia adorata Amethyst che mi era stata regalata da mia nonna, al mio 7° compleanno; l’avevo chiamata “Amethyst” perché mia nonna adorava le ametiste.
Io non ero potuta andare con Kelly e Margaret a causa dei miei genitori ‘non ci sono abbastanza soldi per pagarti il viaggio e per permetterci di pagarti il necessario per vivere lì, finisci scuola, trova un lavoro e poi farai come vuoi’ e io non avevo potuto controbattere.
Io e le ragazze ci sentivamo ogni sera tramite computer, facevamo lunghissime videochiamate.
Da quel che avevo capito neanche loro erano cambiate molto, non avevano molti amici, vivevano del loro amore ed era una cosa meravigliosa ma anche molto triste e spaventosa, dal mio punto di vista.
La prima ora finì e quando mi staccai dai miei pensieri e buttai un occhio sul foglio che avevo davanti, notai di aver disegnato una rosa nera quasi completamente appassita con i petali che cadevano e una catena legata sul gambo pieno di spine sporche di sangue, attaccato alla catena c’era il nome di mia nonna “Coraline” e sorrisi.
Quella rosa ero io, cadevo a pezzi, appassivo e sanguinavo ma non mollavo l’unica persona che aveva sempre creduto in me.
Decisi che appena uscita da scuola sarei andata a prendere appuntamento al negozio di tatuaggi vicino casa mia, quello davanti cui passavo sempre e buttavo un occhio, per farmi tatuare quel disegno.
Passai tutta la giornata, stranamente, senza essere notata da nessuno.
Mangiai un panino chiusa nel bagno delle donne per pranzo, tanto per evitare pestaggi e all’uscita corsi a perdifiato evitando il gruppetto di bastardi che mi aspettava, come sempre, alla fine del corridoio.
Corsi fino a che la scuola non sparì dalla mia vista, poi girai l’angolo e cominciai a camminare e riprendere fiato, guardai il telefono, erano le 16.40, il negozio di tatuaggi doveva essere aperto così mi diressi lì ed entrai per prendere appuntamento.
Mi fermai davanti alla porta, presi un enorme respiro e fermai, mio malgrado, la musica costringendo il povero Oliver Sykes a fermare le sue meravigliose imprecazioni poi, senza alzare lo sguardo dal pavimento, entrai nel negozio con il mio disegno stretto in una mano.































 Masticavo svogliatamente la mia gomma e, dopo tutti i marchi e le strette dei miei denti, mi fu impossibile riuscire a percepire il suo sapore originario. Non avevo le papille altamente sensibili, il mio non era un palato magnifico ma mi annoiava dover cambiare gomma da masticare ogni decina di minuti a causa del suo scarso successo. Odiavo quelle gomme confezionate e tenute sui banconi delle casse al supermercato, per questo me le facevo portare spesso e volentieri da Jason, che le produceva. A dire il vero odiavo il cibo confezionato in genere e tutte le volte che passavo per un frigorifero con quello stupido carrello fra le mani mi veniva voglia di infilarmi due dita in gola e vomitare tutto, però dovevo comunque prostrarmi a quella che era una vita cittadina e abbandonare con lentezza tutti i principi che, negli anni, si erano radicati nella mia testa. Il mio mento ballava, sincronizzato con il palmo che lo sorreggeva, gli occhi slittavano dalla montatura nera degli occhiali, onde verdi che si mescolavano alle pareti rosso accese dello studio. Non c’ era nessuno, nessun cliente e nessun collega a farmi compagnia, ma non mi lamentavo affatto, in quanto la compagnia non mi era quasi mai gradita. Mi piaceva quest’ aria muta, priva di suono, tanto che non avevo acceso le casse e non avevo neanche portato dei CD da casa da poter ascoltare indisturbata.
Il tempo cambiava, talvolta piovigginava e talvolta degli spiragli di Sole colpivano il pavimento, la porta trasparente lasciava intravedere le gocce chiare che ogni poco si scagliavano contro il marciapiede, si vedevano gli schizzi frutto dell’ afa e della stagione inoltrata della California. Non avevo freddo. Per la città ero conosciuta, da chi mi conosceva, come quella che girava a maniche corte di Dicembre e che sopportava senza l’ ombra di un problema l’ inverno.
Mi sporsi dal bancone, sbuffando. Mi stavo annoiando. Dopo aver passato tutta la mattina in quello studio della stampa rimpiangendo la perdita di vari anni della mia vita per poi vedere due stupidi pezzi di carta infissi alle pareti che sarebbero dovuti essere diplomi ricercati in ogni dove, l’ unica cosa che volevo era avere sotto le mani un pezzo di carne fresca da tatuare. Pensai che potevo sistemarmi le unghie, che dovevo smettere di morderle per quello che era un sano vizio che mi portavo appresso dall’ infanzia, mi voltai e mi guardai nell’ enorme specchio che mi copriva le spalle. Tossicchiai, mi squadrai, mi infilai le dita nei capelli e li scossi- nonostante fossero corti, “troppo corti per una femmina!”- desiderando di tagliare quel ciuffo castano forse troppo lungo. Per i miei gusti, ovvio. Spostai le dita sulla fronte e mi torturai il labbro inferiore con noncuranza. L’ interno della bocca era ancora distrutto, pur non avvertendo più la pressione della mia vecchia casa; sentivo i lembi di pelle sporgere e solleticare le gengive, le guance scavate e bucate avevano ormai smesso di dolere.
Avevo fin troppi vizi e troppa poca voglia di perderli o lasciarli scemare.
Chiusi gli occhi, sospirai e misi mano al telefono. Lo sbloccai senza guardare e me lo portai alle orecchie. “Che c’è?” La mia era una voce grossa, per niente leggera o lieve, era senza motivazioni. “Ah-ha. No, non c’ è nessuno. Non posso chiudere prima, lo sai. Se vuoi, fai un salto qui e, se ti va, ti riempio d’ inchiostro. Oh dai, tu sei l’ unico che ha voglia di vedermi. Dai. Ti prego.” Sorrisi, ma solo un poco. “Bravo uomo. Ti pago un drink stasera.”
Jason. Lui era l’ unico uomo della mia vita. Non in senso vero e proprio, mi vantavo della mia situazione stabile con me stessa e il gatto che ogni tanto veniva ad elemosinare una scatoletta di tonno dalla mia finestra, piuttosto nel senso che era uno dei pochi amici che, finite le superiori, mi era rimasto accanto. Non ero un essere particolarmente facile da trattare, lui sapeva farsi valere e sapeva farsi rispettare. Il carattere dominante, in ogni caso, era pur sempre il mio. Ero io quella che il sorriso lo portava sul volto, ma solo mezzo e per compiacimento o per presa per il culo. Ero io che alzavo il volume della musica e delle urla, e poi ero io che lo ospitavo nel mio garage a bere fino a che non finivamo la scorta dell’ ubriacone al piano sotto il mio. Jason lavorava in una fabbrica di caramelle, un lavoro gay e da pappamolle, ma il suo temperamento suggeriva tutt’ altro: le sue braccia erano ricoperte dei miei tatuaggi e allo stesso modo lo erano le sue gambe. Era il mio foglio umano, tutto ciò che disegnavo sulla sua pelle finiva con l’ essere ripassato da un ago. Edera rampicante che partiva dalle punte dei piedi e saliva, opaca, fino a diventare fuoco sulle caviglie. Fiamme sui polsi, schiena tracciata da frasi per lui di classica importanza e poi, tatuaggio del quale andavo più fiera, due leoni sulle spalle che si incontravano e ruggivano con il chiudersi delle clavicole. Il manico della sua chitarra era sempre a portata di mano, impresso su un suo polpaccio e aggrovigliato nelle edere, le mani erano soggette ad un continuo mutamento, colori sbiaditi si mescolavano a tanti inchiostri accesi, il predominio era imposto da quell’ Hate sulle falangi e, uniti i palmi, una farfalla prendeva vita e gli occhi aperti sulle sue ali ti guardavano fino a che dovevi distogliere lo sguardo. A completare il tutto c’ era il suo abbigliamento mediocre, i suoi occhiali da sole spessi come una lastra di ghiaccio e la sua voce roca e graffiante che nessuno avrebbe mai attribuito ad un trentenne. Con lui avevo fatto tante cose: ero finita dal direttore dell’ istituto che avevo frequentato, avevo partecipato ad una rivolta dell’ Università, avevo fatto bunjee jumping e mi ero persino decolorata i capelli. I tempi della scuola erano finiti e, al massimo, riuscivamo ad uscire la sera e magari anche a tornare a casa con qualcuno da intrattenere. Jason era il riflesso del divertimento, io quello della serietà.
Con uno scatto violento, buttai la gomma da masticare nel cestino ai miei piedi. Se smettere di fumare comportava diventare una consumatrice accanita di gomme, allora qualcosa mi diceva che avrei fatto meglio a continuare a sfondarmi i polmoni. Tutto quello zucchero mi faceva ribrezzo, ma avevo dovuto smettere o ci sarei rimasta secca. A volte dovevi andare in contro alla morte per temerla davvero, no? Perché è ovvio, tutti siamo bravi a fare i gradassi, “chi se ne frega se muoio”, poi ti dicono che ti stai ammalando e tutti si rovescia.
Fissai le mie infradito e storsi il naso. Spinsi le braccia all’ indietro, i muscoli dovuti ai miei allenamenti di boxe si fecero sentire, duri ed impossibili da scalfire, dopodiché sbadigliai e mi misi ad aspettare qualcosa, anche una mosca che volava, da una parte del bancone, a sedere e con un pezzo di carta davanti agli occhi.
Per Jason fu questione di minuti, non fece in tempo ad arrivare che si stese sul lettino e mi guardò, pregandomi di agire. Non gli feci neanche vedere il disegno che stavo per trasportare sulla sua pelle, anzi, gli carezzai i riccioli scuri che gli cadevano sul viso e cominciai senza fiatare ad affondare l’ ago in quella pelle pallida e morbida. Seguii le linee dei nei, li circondai e mi divertii a cambiare colore ogni volta che mi aggradava. Stavo per tracciare l’ ultima riga di nero quando sentii il campanello della porta tintinnare. Le mie orecchie si rizzarono, la macchinetta che stringevo smise di fare rumore e la spensi. Teoricamente non dovevo neanche essere lì, ad usare inchiostro per mio piacere, e sperai con tutto il cuore che chiunque fosse appena entrato non fosse uno dei miei colleghi. Feci cenno a Jason di stare zitto- e non ci eravamo neanche salutati o rivolti la minima parola-, misi giù la macchinetta e mi sollevai dallo sgabello senza far rumore. Lo vidi affogare la testa fra le braccia mentre sparivo verso il bancone. Mi tolsi i guanti sporchi di un’ accozzaglia di colori e li feci diventare compagni della gomma da masticare solitaria che aveva fatto la simpatica e si era appiccicata al sacchetto dentro il cestino, dopodiché mi decisi a togliermi gli occhiali e a pulirli nella maglia. Chiunque fosse entrato, per me, era solo una macchia di colori confusi e poco definiti, un insieme di sfumature e di galassie perse e ancora non scoperte. Chiunque fosse entrato, una volta messo a fuoco dalle mie lenti, attirò la mia attenzione. 












Eccoci qui.

Questa è la mia prima fanfiction a quattro mani, e sono fiera di dire che le due mani che mi accompagnano in questa pazzia sono quelle del mio amore, Sah. 
Lest' begin, we hope you enjoy!

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Capitolo 2
*** Di sorrisi e dipendenze. ***


La campanella appesa sopra la porta suonò quando la aprii e dal retro sì sentì improvvisamente svanire il rumore di una macchinetta per tatuaggi che si fermò di botto. Rimasi sulla porta a fissarmi i piedi mentre ascoltavo il rumore di passi di qualcuno che si dirigeva verso di me, avevo paura della persona che sarebbe spuntata fuori, mi aspettavo qualcosa come un enorme vichingo, largo quanto un armadio a sei ante, alto quanto un palazzo e con la barba, appunto, da vichingo.
“Ti sei persa, bambina ?” disse dopo qualche istante di silenzio una voce che, nonostante fosse abbastanza bassa, riconobbi come quella di una donna. La voce era particolare, mi piaceva come suonava.
Mi fermai a riflettere, qualcuno mi aveva appena chiamata “bambina” ? Io non ero più una bambina da un bel po’ di tempo e odiavo quando mi chiamavano così, alzai di scatto gli occhi verso la persona che aveva parlato, pronta a divorarla ma mi bloccai. Davanti a me, in piedi e leggermente piegata per scrutare meglio il mio viso, stava una ragazza sui 20 anni, abbastanza alta e particolarmente muscolosa, indossava una canottiera nera che sembrava una maglia di una squadra di rugby con il numero 8 davanti bianco e dei pantaloncini bianchi anch’essi, larghi, sopra il ginocchio, braccia e gambe erano ricoperte di meravigliosi tatuaggi. Alzai poco di più lo sguardo e mi soffermai sul suo viso, i capelli erano corti, portava un taglio da ragazzo con un ciuffo di capelli alzato, degli occhiali con una montatura nera, spessa, contornavano i suoi meravigliosi occhi verdi, accesissimi. Nonostante quell’aria mascolina i suoi lineamenti erano morbidi, fin troppo.
Non riuscii a spiccicare parola e neanche a staccare gli occhi da quella meraviglia che avevo davanti.
“ Ehi, bambina, ci sei ? Tutto bene ?” disse lei, avvicinandosi un po’ di più.
“Non sono una bambina.” Sussurrai.
“Come scusa ?”
“Non sono una bambina, ho 17 anni.” Dissi, alzando un po’ di più il tono della voce e tornando a guardarmi la punta dei piedi.
“Oh, scusa! E’ che sembri... beh... ecco...” iniziò a farfugliare.
“Sembro piccola, mi daresti si e no 10 anni dato il mio aspetto fisico, me lo dicono tutti.” Dissi, giocherellando con il foglio che avevo in mano. La ragazza di fronte a me scoppiò a ridere
“Beh, scusami lo stesso. Posso aiutarti in qualche modo ?”
Presi un profondo respiro poi, senza mai, neanche per sbaglio, incrociare il suo sguardo, iniziai a parlare.
“Ho questo disegno qui” le porsi il foglio “e vorrei farmelo tatuare, a chi devo chiedere per un appuntamento ?”
“A me.” disse, con un mezzo sorriso, poi prese il foglio e lo aprì, iniziò a scrutarlo. “Accidenti, bel disegno!” poi si girò a guardarmi e mi porse di scatto la mano, gesto a cui non ero affatto preparata infatti balzai all’indietro come una perfetta idiota. Non ero abituata a gesti del genere, di solito quando qualcuno faceva un mezzo scatto verso di me tutto ciò che sentivo dopo era il dolore e il sapore del sangue. La ragazza rimase a fissarmi senza capire, con la mano a mezz’aria per qualche istante, titubante mi avvicinai e strinsi debolmente la sua mano.
Mi sorrise e disse: “Sono Sam, piacere.”
“Fannie.” Sussurrai per poi staccare frettolosamente la mano dalla sua ed infilarla in tasca “Allora, quando posso tornare per avere questo tatuaggio ?” chiesi infine. Sam mi guardò per qualche istante con una malcelata curiosità nello sguardo, probabilmente anche lei mi trovava fin troppo strana, come tutto il resto del mondo.
Prese un respiro, guardò di nuovo il foglio e poi disse “Anche domani.”
“Seriamente ?” dissi io, con fin troppa enfasi nella voce.
“Seriamente.” Annuì, sorridendo.
“Oh, ecco, io... Grazie! Va bene per le 16.30 ?”
“Perfetto, aspetta che segno l’appuntamento.” Disse, passando dietro il bancone e tirando fuori una piccola agenda, poi si mise a rovistare sul bancone aprendo ogni cassetto e alzando tutti i fogli che c’erano sussurrando ‘ma dove l’ho messa ? era qui! Ne sono sicura!’ istintivamente tirai fuori dalla borsa la mia penna nera e gliela porsi “Ecco”, dissi. Sorridendomi prese la mia penna e appuntò qualcosa nell’agenda per poi restituirmi la penna “Grazie mille, sono una disordinata cronica! Dunque, domani alle 16.30 qui e avrai il tuo primo tatuaggio.” Disse.
“Chi ti dice che è il mio primo tatuaggio ?”, chiesi.
“Te lo leggo negli occhi.” Rimasi qualche istante a fissarla poi mi sentii ribollire le guance, capii subito di star arrossendo così mi girai di scatto “Ehm, io devo andare, ci vediamo domani e grazie mille.” Dissi frettolosamente.
“Prendi questo, c’è il numero del negozio per ogni evenienza” disse, porgendomi un bigliettino.
“Grazie.” Presi il bigliettino poi mi voltai e uscii sparata dal negozio, senza voltarmi ripresi la mia strada e accesi di nuovo la musica. “Do you know ? I count you heartbeats before you sleep.” Gridò Vic nelle mie orecchie. Quel giorno i Pierce The Veil proprio non volevano lasciarmi stare. Continuai a camminare accendendomi una sigaretta. Che stupida ero stata, rimanere li a fissare in quel modo stupido ed insensato una persona, che diavolo mi era passato per la testa ? Chissà quella ragazza cosa stava pensando di me.
Sospirai.
Sam aveva attirato fin troppo la mia attenzione, quei suoi occhi poi erano magnetici. Per tutta la strada dal negozio a casa non smisi di pensare a Sam e ogni volta l’ansia per il pomeriggio successivo saliva. Arrivai davanti alla porta della mia casa, la aprii e subito fui assaltata da Amethyst che mi saltò addosso ed iniziò a farmi le feste.
“Ehi, piccolina, ciao, sì, ti sono mancata ? Anche tu!” Quanto potevo sembrare stupida da mille ad infinito quando parlavo con il mio cane ? Entrai in casa, chiusi la porta e subito mi diressi in salotto dove attaccai l’iPod alle casse dello stereo e feci ripartire la riproduzione casuale, venti minuti dopo ero scalza a saltare sul divano con Amethyst mentre gridavo le parole di Second Heartbeat a ritmo con Matt e suonavo la mia chitarra invisibile affiancata da un Synyster Gates immaginario. Finita la canzone mi sdraiai sul divano ed accesi il portatile, mentre aspettavo che quest’ultimo caricasse mi accesi una sigaretta ed Amethyst si addormentò sul divano di fianco a me.
Accesi il computer ed aprii Skype per controllare se quelle due scansafatiche fossero connesse, non feci in tempo ad aprire Skype che mi arrivò una chiamata. Risposi e sullo schermo, dopo qualche istante di buio, spuntarono Margaret e Kelly “DISAGIATA DEL NOSTRO CUORE!” gridarono all’unisono le due ragazze.
“Ehi, troiettine mie.” Sorrisi.
“Allora, come va ?” chiese Margaret mentre Kelly si accendeva una sigaretta. Io e Kelly avevamo iniziato a fumare insieme, all’età di 13 anni ma Margaret no. Lei era un po’ la mammina di entrambe, ma non rompeva eccessivamente le scatole.
“Tutto bene, Mar, voi ?”
“Starei meglio se non fossi obbligata a respirare il veleno di questa stronzetta!” disse Margaret tossendo tra la nuvola di fumo che Kelly le aveva prontamente soffiato addosso.
Risi poi chiesi “E tu, Kells ?” “Io benissimo!” rispose, dedicandomi un gigantesco sorriso. Guardandola sorridere ripensai a Sam e improvvisamente, come mio solito, arrossii. Le due ragazze rimasero in silenzio per qualche istante poi Kelly saltò in piedi gridando “EHI!” e Margaret si fece più vicina allo schermo “GUANCE ROSSE, GUANCE ROSSE, GENTE, SIGNIFICA CHE ALLA NOSTRA FANNIE E’ SUCCESSO QUALCOSA!” Mi conoscevano fin troppo bene e dopo svariati minuti passati tra i miei “Non mi è successo nulla” e le loro minacce, raccontai della decisione di andare a fare il tatuaggio, dell’incontro con Sam e della strana reazione che avevo avuto nel vederla.
“Secondo me ti innamorerai di lei.” Disse alla fine Margaret. Mi strozzai con il fumo. Margaret sapeva cosa pensavo dell’amore, dei fidanzamenti e delle cose di quel genere e una tale affermazione detta da lei e rivolta a me mi stupì.
“Ma non dire sciocchezze, Marghy.” Disse Kelly, lasciando uscire il fumo dalla bocca.
“Kells ha ragione, hai appena detto una stronzata colossale.” Conclusi.
Margaret sbuffò “Smettetela tutte e due. Fannie, tesoro, non rimarrai sola tutta la vita. Smettila con questa storia. Non ti ho mai vista reagire così ad una persona, non ho mai visto i tuoi occhi brillare in quel modo mentre parlavi di qualcuno, eccetto quando parlavi di tua nonna. Non puoi sapere cosa accadrà ma non puoi neanche, e NON DEVI, chiudere le porte ad ogni possibilità.” Abbassai lo sguardo e sospirai.
“Margaret ha ragione, Fannie.” Disse Kelly, attirando la mia attenzione “Per una volta lascia che il destino faccia il suo corso, parlale, facci conoscenza, non impedirle di parlarti o guardarti, vedi come va, non chiuderti in te stessa come sempre. Non tutti sono lì per ferirti e odiarti.” Risi amaramente.
“Ci proverò.” Mentii. Le mie amiche sospirarono poi sentii il padre di Margaret parlare dall’altra parte della telecamera ma non capii cosa disse.
“Fannie, noi dobbiamo andare, abbiamo una cena con i colleghi di lavoro di papà e non possiamo fare tardi” disse Margaret “Rifletti su ciò che ti abbiamo detto, ci vediamo domani.” Disse “We love you.” Conclusero in sincrono.
“I love you, too.” Sospirai, le salutai e poi chiusi il pc. Accesi di nuovo la musica e me ne andai in cucina, spaccai un uovo e lo buttai in padella, accesi i fornelli e aspettai che si cuocesse. Finii di mangiare poi mi misi sul divano a fare i compiti e studicchiare le quattro cose per il giorno successivo e, come al solito, mi addormentai sui libri.
Quando mi svegliai erano le due di notte e la musica ancora era alta. Spensi la musica, raccolsi le mie cose e mi trascinai fino al piano di sopra, mi spogliai, misi in carica il telefono, impostai la sveglia e poi mi buttai a capofitto sul letto seguita da Amethyst che si sdraiò al mio fianco sbuffando, nel giro di qualche secondo mi addormentai di nuovo mentre accarezzavo la testa della mia cagnolina.
 

 
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tossicchiai e tirai un lungo sospiro non appena la ragazza uscì dal negozio. Mi concentrai sulle punte verdi dei suoi capelli, le osservai ondeggiare e mi poggiai nuovamente sul bancone. Doveva esserci stampata l’ impronta dei miei gomiti, sul legno. Comunque, non staccai gli occhi di dosso a quella piccola creatura fino a che non scomparve dietro la strada. Jason comparve dalla stanza dove lo avevo lasciato, mi toccò una spalla ed io mi voltai di scatto, ringhiando.
“Hei, hei, tigre, sono io. Non si mollano le persone così, sai?”, scherzò. Lo fulminai con lo sguardo e gli feci cenno di tornare di là. Jason non dissentì, abbassò il capo, scrollando le spalle, e tornò sul lettino.
Cacciai le mani in tasca e srotolai dalla carta l’ ennesima gomma per poi ficcarla letteralmente in bocca. Per poco non mi strozzai. Non mi preoccupavo della figura fatta chiamando quella ragazza “bambina”, ormai andavo per i ventisette anni e vedevo chiunque fosse più piccolo di me come un bambino- piuttosto mi preoccupavo di toccare quel corpicino con un ago. Quella ragazza era magra, molto magra, aveva il viso scavato ed i suoi zigomi si intravedevano fra le ciocche di capelli di cespugli, le braccia che spuntavano dalla maglietta erano quasi scheletriche. Mi erano scappati parecchi sorrisi anche solo a leggere i nomi stampati su quella maglietta: Pierce The Veil. Ascoltavo anche io quella band, ma la giudicavo un complessino se si saliva in superficie e si individuavano i grandi. Avevo sempre avuto un orecchio particolare riguardo la musica, non mi era mai piaciuta quella troppo pesante ma neanche quella troppo commerciale, solo che il commerciale era anche nel mondo della musica alternativa. I piccoli gruppetti, quelli che si registravano le canzoni nei propri studi messi insieme da un paio di microfoni e dei pezzi di cartone, quelli erano preferiti. Cercavo le scintille nei quartieri bassi, erano sempre state un mio debole. Però, dopo le mie attente riflessioni su quanto fossi complicata persino in fatto di gusti musicali, mi resi conto che potevo lasciar passare tutto a quella ragazza. E poi la voce di Vic Fuentes non era malaccio. Se fosse capitata in casa mia, si sarebbe persa.
In ogni caso, io alla sua età non ero così. Sarei voluta esserlo, questo senza la minima ombra di dubbio, ma avevo sempre avuto parecchi chili in più rispetto alle altre ragazze della mia classe. Avevo sempre avuto i miei fedeli polpacci allenati che, anche se vi battevi su un martello, il livido faticava a spuntare fuori dalla carne, avevo sempre avuto le mie spalle da nuotatrice che stonavano se mettevo un capo femminile, e poi avevo sempre avuto la faccia gonfia.
Tremai, mi resi conto che mentre io avevo diciassette anni, la ragazza dai capelli inusuali nasceva.
Guardai il disegno che mi aveva portato e mugugnai. Era bello, glielo avevo detto, c’ era qualche pecca ma non era affatto male. Non avrei cambiato niente, avrei lasciato tutte le imperfezioni. Perché doveva rimanere in quel modo, con i contorni sbavati e a tratti più leggeri, perché tale doveva essere. Non doveva avere una continuità ben definita ma doveva essere debole e forte al contempo. Imperfetto.
Mi sorressi la fronte con una mano e raggiunsi Jason, che si risvegliò da un apparente sonno, mi sedetti e ricominciai a lavorare. Lui non emise alcun lamento, chiuse gli occhi.
Era prassi, avrei dovuto chiedere a quella ragazza il perché di quel tatuaggio in quanto consideravo questi come cose importanti e mi rifiutavo categoricamente di sprecare inchiostro per delle emerite cazzate. Oh, quanti insulti avevo ricevuto al riguardo- ma se permettete, mi rifiutavo di tatuare stemmi di bambole o auto. Non ero mai stata brava né interessata a farmi i fatti degli altri, ma si diceva che se i clienti parlavano, mentre io svolgevo il mio lavoro, si sentivano compiaciuti nel parlare con una perfetta sconosciuta che figurarsi se avrebbe anche solo pensato di andare a raccontare in giro le loro vite private. In questo compiacimento, inoltre, le persone trovavano pace  e rimedio al dolore concentrandosi sulla parola. Io buttavo lì una domanda e loro facevano il resto.
Facile.
Non tornai a casa molto presto. Lasciai il negozio aperto fino a tardi, quel giorno non mi interessò molto l’ orario di chiusura in quanto ero sola in quelle quattro mura, non avevo appuntamenti e consideravo quello studio come una casa. Saltai la cena, non avevo neanche fame. Però ammetto che Jason mi offrì una forchettata di spaghetti di soia che era andato a comprare al ristorante giapponese davanti al negozio ed io ne desiderai ancora ma rimasi zitta. Lui rimase con me a parlare per un po’, mi raccontò delle ultime ragazze che era riuscito a portarsi il letto schizzandomi la maglia col brodo, ed io non avevo fatto altro se non storcere il naso. Avevamo gusti diversi, mi parve normale avere un certo disappunto nei riguardi della mente degli uomini. Era basilare, per noi due, il sesso, e a quasi trent’ anni mi facevo un poco di pena. Perché, sempre alla mia età, tutte le ragazze che avevo conosciuto avevano già una relazione stabile, un marito e talvolta anche dei figli. Non dovevo considerare il fatto che non mi sentivo come loro, perché per quanto simpatizzassi per il genere femminile, non avevo mai saputo amare. Al massimo, avevo amato il cane che avevo avuto da adolescente. Era una mia completa convinzione, questa, la mia testa era soggetta a catene di effetti Placebo che travolgevano il mio pensare come onde, come le onde sugli scogli vicini a casa mia.
Mi affezionavo alle cose e mai alle persone, e per questa orribile facciata di me non avevo cura. Non mi stancavo delle persone, semplicemente non sentivo il bisogno di parlare con loro. Sarà stato il mio passato, l’ aver sempre addosso gli aculei e il pungere psicologi e compagni, esseri viventi in generale se vogliamo, però avevo sempre faticato ad esprimermi e a rapportarmi con chiunque. La mia solitudine era diventata l’ unica con la quale condividevo le mie cose. Non avevo il senso della solidarietà, ero gelose dei miei stessi possedimenti e spesso e volentieri facevo di tutto per non dare fiato alla bocca. Ero priva di affetti, e dato che ero certa di non saperli trattare, non li cercavo. E se li cercavo, gli affetti finivano, mi tradivano. Per questo me stessa mi era indifferente, perché fidarsi della mia mente o del mio cuore mi aveva sempre e solo portato ad affondare un piede nell’ acqua.
 
Chiusa la porta del negozio, infilai le chiavi in tasca e salutai Jason, che ficcò le mani nella felpa e si allontanò dalla parte opposta alla mia. Era notte, vagare per le strade era escluso e tornare a casa non mi ispirava, ma dovevo pur nascondere le tracce dell’ ultima vittima.
Perché così le chiamavo, vittime.
Quelle ragazze erano le uniche che riuscivano a non farmi svegliare con la luna- del tutto- storta. Mi lasciavano i loro numeri, ma non chiamavo nessuna. Per me erano solo notti. E se mi trovavano, se mi incontravano in un qualche locale, facevo finta di non conoscerle. Meschino, vero? Almeno avevo una tattica. Sbagliata, ma pur sempre una tattica.
Mentre camminavo, mi scartai un’ altra gomma e la cacciai in bocca, a seguito della precedente ed unendole con i denti, i miei neuroni continuavano ad essere pizzicati come corde di chitarra. A cosa pensavo? Oh, pensavo a tante cose. A cosa avrei escogitato per cena data la mia scarsa voglia di cucinare, alla lavanderia sotto casa, mi chiedevo se avessero finito di farmi il bucato, a buttare l’ ultimo pacchetto di sigarette che tenevo sul comodino accanto al letto, a che programmi scadenti ci sarebbero stati in televisione.
Avevo sempre pensato tanto, era un vizio.
E se c’ era qualcosa sulla quale potevo contare, beh, quelle erano le mie dipendenze. Come lo era stato il fumo, come lo erano diventate le gomme da masticare, come lo erano i seni piccoli, i tatuaggi, il toccare lo stomaco di qualcuno con le punte delle dita. Lo facevo sempre. Ne ero dipendente. E non avrei mai smesso di farlo.
Rientrai in casa silenziosamente, la bestemmia sparata sottovoce e a denti stretti perché la porta scrostata cominciava a fare la muffa, e non feci in tempo a chiudere la porta, perché il frutto del mio pensare esagerato era sempre dimenticarmi di ogni singola cosa pensata e chiudere gli occhi fino al mattino.

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Capitolo 3
*** Di mancamenti e cene. ***


































Aprii lentamente gli occhi e mi stupii di non aver sentito suonare la sveglia; mi stropicciai gli occhi, afferrai il cellulare dal mobile e lo sbloccai, erano le 5.30.
Era troppo presto per prepararsi ma troppo tardi per rimettersi al letto.
Lentamente mi alzai e scesi le scale, arrivai in cucina e misi la macchinetta del caffè sul fuoco, aprii una finestra, accesi una sigaretta e rimasi appoggiata al mobile.
Ogni mattina avevo il vizio di perdere parecchi minuti a cercare di ricordare i sogni che avevo fatto nella notte precedente, lo feci anche quella mattina e ciò di cui mi accorsi mi lasciò fin troppo confusa: Mi accorsi che per tutta la notte non avevo fatto altro che perdermi nel verde degli occhi della tatuatrice incontrata il giorno prima.
Avevo sognato,  tutta la notte, ininterrottamente, gli occhi di Sam.
Non era normale, non era da me.
Non mi fissavo mai sulle persone perché tutti mi lasciavano a me stessa, perfino i miei genitori; non lasciavo mai che la mia mente si contorcesse su una sola persona per più di due minuti, ma qualcosa era andato storto.
Avevo pensato ad una stessa persona per tutto il giorno, mi ero sbilanciata parlando di lei con le mie amiche, l’avevo sognata tutta la notte e ora continuavo a pensare a lei.
Mandai giù in un sorso il mio bicchiere di caffè e appoggiai la faccia sul tavolo, rimasi così per una manciata di secondi che parvero infiniti poi mi tirai su e andai a farmi una doccia.
Quando fui pronta e fu ora di uscire di casa decisi di non pensare a Sam per tutto il giorno e così cominciai a concentrarmi sull’intricato simbolo di Sempiternal stampato sulla maglia dei Bring me the Horizon che avevo addosso.
La mattinata trascorse tranquilla, a pranzo però successe qualcosa che avrei volentieri evitato.
Stavo entrando in mensa per prendere al volo  il panino e scappare via quando mi sentii chiamare.
Ignorai la voce e continuai a camminare.
“FANNIE!” ripeté la voce e io feci l’errore di ignorare di nuovo e continuare a camminare.
Improvvisamente davanti a me si piazzò Adam, l’enorme capitano della squadra di rugby della scuola, alto fin troppo, pieno di muscoli, capelli biondo cenere e occhi azzurri, con un odio incredibile per quelli che reputava stupidi sfigati, quelli come me.
“Sei diventata sorda, depressa di merda ?” mi disse.
Dovevo stare zitta se volevo sopravvivere, l’avevo imparato con anni e anni di pestaggi vari.
Io ero meno di zero, lui era il più figo della scuola –secondo quali canoni ancora non so spiegarmelo, ma era così- o facevo silenzio o mi avrebbe spaccato le ossa.
Così feci finta di niente e provai a superarlo ma quello mi prese per i capelli e mi fece cadere di schiena sul pavimento.
“Fannie, cara, piccola, depressa e stupida Fannie… Non dovresti essere così maleducata. Volevo solo una sigaretta. Quindi ora provvederai a farmene avere una, magari anche tre.. magari..-“
“Magari te le compri.” Conclusi io mentre mi tiravo su massaggiandomi la schiena.
Quando ripensai a ciò che avevo appena fatto, feci appena in tempo ad afferrare al volo la borsa ed iniziare a correre all’impazzata verso l’uscita della mensa che continuava ad affollarsi sempre di più.
“Non scapperai ancora a lungo!” gridò Adam, rimasto incastrato tra un gruppetto di persone.
Uscii dalla mensa con il fiatone e corsi in classe, ogni classe aveva un professore che passava ogni ora lì a controllare che le cose andassero bene, “così il fenomeno del bullismo sarà debellato” aveva detto l’idiota del preside ma non sapeva che il bullismo non esisteva solo in classe, non sapeva che c’erano persone costrette ad arrivare prima, o dopo, per evitare di essere pestate come animali e non sapeva che c’erano persone, come me, costrette a passare le ore del pranzo nei cessi per poter mangiare uno schifoso panino senza rischiare che ti pestassero, ti rubassero il  pranzo, i soldi e la dignità, per quanto poco poteva essertene rimasta dopo un solo anno in quello schifo di scuola.
Quantomeno in quel momento ero al sicuro, mi misi seduta al mio posto ad ascoltare la musica e mi scappò anche un sorriso quando Kellin e Vic iniziarono a gridarmi le parole di King for a Day nelle orecchie, in un momento simile.
Nelle ore successive fui distratta solo da una pallina di carta lanciatami da Adam con su scritto “Sei morta.”.
Arrivata all’ultima ora non mi guardai neanche intorno, suonò la campanella ed io scattai in corridoio, cominciai a correre a perdifiato imprecando.
Come mi era venuto in mente di rispondere così ad Adam ? Quel tizio aveva rotto le gambe ad un ragazzo solo perché quello gli aveva detto che non aveva l’orologio e di conseguenza in quel momento non sapeva dirgli che ore fossero.
Continuai a correre e arrivata in cortile mi stupii nel vedere che il gruppo degli scagnozzi di Adam non mi stava aspettando, così continuai a correre.
Vivevo una vita da fuggiasca, dovevo corre di mattina per non essere pestata, correre a pranzo per non essere pestata, correre il pomeriggio per arrivare a casa e tutto questo perché ? Perché avevo gusti diversi da quelli di tutte le fotocopie che circolavano in quella gabbia di matti chiamata scuola.
Guardai l’orario sul telefono e vidi che erano le 16.00, io avevo l’appuntamento per il tatuaggio, dato che ero abbastanza lontana da scuola e molto vicina al negozio decisi di calmarmi e camminare per riprendere fiato.
Fu, come sempre, un errore.
Adam sbucò, con dietro i suoi due scagnozzi, dalla via di fronte a dove mi trovavo io.
Cercai di correre nella direzione opposta ma Adam mi prese, di nuovo, per i capelli e mi buttò a terra facendomi cadere di faccia.
Rimasi a terra, sapevo fin troppo bene cosa sarebbe successo così mi arrotolai in posizione fetale e con le braccia coprii le costole cercando di salvare il salvabile.
Strinsi i denti e gli occhi ad ogni calcio che mi arrivava, ogni calcio era un ondata di dolore accentuata dai pensieri che continuavano a tormentarmi “Sei sbagliata, è colpa tua, se tutto questo ti succede è perché lo meriti. Ogni livido, ogni taglio, ogni osso che si romperà sarà solo uno dei tanti segnali che devono ricordarti cosa sei, un fallimento totale.”
Non so quanto durò, non ne ho idea, fatto sta che dopo un po’ se ne andarono.
La testa girava, gli occhi bruciavano, sentivo l’odore ed il sapore del sangue, avevo dolori ovunque.
A fatica raccolsi borsa e telefono, poi mia appoggiai al muro ed iniziai a camminare o meglio, iniziai a trascinarmi, verso il negozio di Sam dato che era il luogo più vicino.
Non sapevo in che condizioni fossi, non sapevo come lei avrebbe reagito vedendomi in quello stato ma a casa non potevo tornare, non potevo rischiare che qualche vicino mi vedesse e chiamasse i miei genitori, sarebbero serviti solo a farmi sentire ancora più uno schifo.
Avevo la vista annebbiata dalle lacrime che premevano per uscire e faticavo a respirare, in più avevo la bocca impastata di sangue.
Arrivai davanti la porta del negozio e mi lascia cadere a peso morto, aprendola e cadendo all’interno del negozio biascicando un “aiuto” con la poca voce che mi rimaneva, sentii dei veloci passi avvicinarsi e rimasi in attesa, lasciando uscire le lacrime a ricordarmi che facevo schifo, che ero solo l’avanzo dell’odio che mi avevano inculcato in corpo.


 













“Alex, cazzo, aiutami!”
Le tenevo la testa, per non farla cadere a terra- almeno non del tutto. Era crollata davanti ai miei occhi, e meno male che non ero dietro il bancone ma che stavo pulendo uno degli specchi vicini all’ entrata del negozio, perché altrimenti non avrei avuto i riflessi abbastanza pronti per poterla tirare su. Avevo sgranato gli occhi all’ improvviso e lasciato ogni cosa a terra, senza la premura di sistemarla, dopodiché mi ero buttata verso la ragazza e l’ avevo tirata su per le spalle, piano. Teneva gli occhi chiusi, tremava, ed i capelli le avevano in parte coperto il volto. Alex, una delle mie colleghe, si precipitò a chiudere la porta con un calcio e a piegarsi verso di me.
“Aiutami a sollevarla, la porto di là.”, le dissi, e lei annuì, preoccupata. Presi la ragazza in braccio, Alex la stabilizzò sul mio petto ed io camminai velocemente verso i lettini per tatuare. Mentre divoravo la stanza con ampie falcate, sentivo il respiro mozzato della piccola infrangersi sulle mie braccia nude e pensavo, pensavo a che diavolo le era preso e perché stesse correndo a perdifiato, pensai a come si chiamava. Me ne ero completamente scordata, ma era da me: mi scordavo persino del mio nome, a volte, non era cosa strana che io chiamassi qualcuno con versi onomatopeici o intercalari privi di senso. La poggiai delicatamente sul primo lettino verso la parete e le distesi braccia e gambe, così che la circolazione potesse riprendere a fluire. I corsi di pronto soccorso erano serviti a qualcosa, no? E, sì, anche le ore di volontariato che mi venivano assegnate a scuola quando finivo dal direttore dell’ istituto erano servite.
Ma non era il momento per pensare ai miei passati, presi uno sgabello e mi misi a sedere di fianco alla ragazza inerme, che lentamente riprendeva a respirare. Tossicchiai, per vedere se riprendeva i sensi, ma niente, rimase immobile. Le mie braccia slittarono conserte al petto e mi sistemai gli occhiali con un dito, in attesa. Non mi era mai successo che qualcuno svenisse così, di fronte ai miei occhi, ma c’ era sempre una prima volta. Non era stata un’ esperienza da rifare, assolutamente no, un po’ perché mi sentivo in colpa- senza un motivo apparente- e un po’ perché ero preoccupata che quella ragazza si potesse sentire male una volta sveglia. Feci suonare le ossa del collo ed incassai la testa fra le spalle, curiosando con gli occhi sul corpo che, a scatti, tremava ancora. Vista così, quella ragazza era ancora più magra. Lo stomaco era un’ onda sotto le costole, piatta, che si alzava e abbassava al muoversi dei polmoni, le forme dello stomaco prendevano forma sotto il tessuto della maglia, i fianchi spigolosi spiccavano come se fossero la gola, uno dei peccati peggiori secondo la Bibbia, lì, in bella vista, morbidi e al contempo rigidi come se avessero reazioni diverse a seconda dell’ aria che li carezzava. Salii con lo sguardo, e forse non avrei dovuto farlo.
Non ero assolutamente una maniaca, ma quel petto era stato disegnato da un Dio. Non c’ erano forme prosperose, erano piuttosto dolci… pancakes. Pancakes gonfi al centro che a prima vista parevano invitanti. Scossi la testa, cercando di deviare i pensieri poco consoni alla situazione e mi concentrai sulla linea del collo bianco e pallido della ragazza. Aveva pianto, i capelli verdi le si erano appiccicati sulle vene e sulle corde vocali, la ornavano come tentacoli di polpo, la avvolgevano e quasi la strozzavano. Allungai i polpastrelli verso di lei e la liberai da quella presa luminosa, cercando di essere il più delicata possibile, ma non avrei dovuto fare neanche quello, perché intravidi una macchia scura attraverso il colletto della maglietta che portava la piccola. Mugugnai, quella macchia non aveva niente a che fare con atti sessuali, conoscevo bene quel tipo di macchie perché io in primis le avevo create sulle pelli degli altri.
Lividi.
Erano lividi appena formati e che si stavano espandendo, collegai lo svenimento a quel male. Mi sollevai dalla sedia abbastanza titubante, ma non pensai due volte a scoprire la pancia della ragazza per darle un’ occhiata. Era ricoperta di graffi, segni ingialliti dal tempo e cicatrici chiare che, normalmente, non si sarebbero viste se non con un’ attenzione spiccata. Evitai di passarvi su le dita, la prima cosa che mi venne in mente fu che dovevo alleviare il dolore, o lei non si sarebbe mai alzata dal lettino. Vagai per lo studio, rimuginando sul da farsi, poi il muso di Jason sbucò da una tenda accompagnato da quello di Alex ed entrambi mi puntarono, senza rivolgermi la parola. Non volevo svegliare la piccola, e loro lo avevano capito senza il bisogno che glielo spiegassi. Feci cenno a tutti e due di prendere dell’ acqua, così si ritirarono. In realtà, l’ acqua era per me.
Perché mi tornarono alla mente ricordi che sarebbero dovuti rimanere coperti dalla sabbia, e le rughe sulla mia fronte si stavano corrugando troppo per i miei gusti, nascondendo i sudori freddi. Scrollai le spalle e mi diedi una botta pesante sulla schiena, coprii lo stomaco della ragazza e supposi che un quadro astratto del genere doveva essere stato dipinto anche sulle sue gambe.
Sia chiaro, io non avevo mai picchiato per divertimento. Quello davanti ai miei occhi era puro divertimento, perché dubitavo fortemente che una cosa così piccola avesse potuto fare del male a qualcuno a tal punto. A primo impatto, non sapevo cosa fare, l’ acqua mi aiutò a darmi una calmata. Alex annunciò che stava chiudendo il negozio dato l’ inconveniente e Jason prese posto più lontano, con l’ attenzione fissa su me e… F, il nome della ragazza cominciava con la F.
“Come diavolo ha fatto?”, mi domandò, come se io sapessi la risposta.
“Penso sia svenuta dal dolore. Qualcuno deve averla picchiata, e lei non ha fatto resistenza.”, lo guardai, lui sospirò. “Mi porti il suo zaino? devo chiamare i suoi genitori.”
Peccato che non trovai alcun numero di telefono, se non quello di alcune “troiette mie” che, per quanto mi riguardava, non potevano essere sua madre o suo padre. Non trovai né indirizzi di residenza né informazioni che mi dicessero almeno dove era nata, di chi era figlia. Nulla, come se vivesse da sola e non avesse bisogno di niente.
“Va di moda portarsi gli sconosciuti a casa, ti va se per una volta ti attieni alla massa?”, scherzò lui, ed io mi passai una mano sul volto. Non era male come idea, anche perché dubitavo, dati i lividi lasciati ad ingiallire la pelle, che la ragazza sapesse medicarsi. C’ erano dei piccoli tagli sparsi per il suo torace, specialmente sulle costole, e se non li avesse disinfettati le sarebbe venuta un’ infezione- non bastavano semplici cerotti per graffi del genere. Dovetti attenermi all’ idea di Jason e buttare giù il boccone che non avrei avuto ospiti quella notte, o se non altro degli ospiti che mi avrebbero intrattenuto.
Quando mi resi conto che la ragazza dormiva, la presi e Jason prese il suo zaino, la portammo in macchina e la sistemammo sui sedili posteriori. Il viaggio verso casa fu una sottospecie di travaglio: non accendemmo la radio, dovevamo stare attenti alla ragazza, ai movimenti che faceva, perché se cadeva si svegliava e ci mandava a fanculo senza neanche il tempo di spiegare il perché era rinchiusa in una Jeep con due facce mai viste. Fortunatamente, fu questione di minuti, e l’ unico rumore che fece muovere il volto della ragazza che adesso teneva in braccio Jay fu il tintinnio delle chiavi di casa fra le mie mani. Una volta dentro il mio appartamento, nessuno badò a nessun altro, ci affrettammo a portare la ragazza sul mio letto e a stenderla bene. Non accesi le luci, lasciai aperta la finestra per far entrare luce e mi feci aiutare dal moro a togliere i vestiti macchiati da quel corpicino ossuto, piano, con anche la minima accortezza. Mentre Jason cercava una mia maglia che le stesse larga, io mi occupai di disinfettare e curare le ferite peggiori, con tanto di cerotti appositi che coprivano l’ intera parte lesa e crema per togliere i residui di asfalto dalle ginocchia sbucciate. Lei fu proprio una brava paziente, doveva aver sofferto tanto per avere un sonno così profondo, se contiamo che a me bastava il minimo rumore per destarmi dal sonno, figuriamoci se mi bruciavano le ferite sparse dappertutto.
Una volta messa la maglia, coprii la ragazza ed io e Jason ce ne andammo in salotto, con i piedi sul tavolo davanti al divano, in silenzio.
“Ti stai prendendo una responsabilità spaventosa, lo sai?”
Non risposi. Lo sapevo. Il moro sbuffò, non per il mio silenzio ma per non essersi fermato per un’ ora intera tra corse esagerate per raggiungermi dal posto di lavoro- e sicuramente lo aveva chiamato Alex, dato che io non avevo neanche minimamente pensato al mio cellulare-, bottigliette d’ acqua da comprare al bar di fronte al negozio, zaini da cercare, numeri nascosti ed inesistenti, auto da guidare, scale da fare con una piuma fra le braccia e… ed era stato stressante anche per me, nonostante non me ne rendessi conto.
Avrei avuto dei problemi a lavoro, non esisteva che si chiudesse il negozio così, di punto in bianco, ed io non avevo l’ autorità per un’ azione del genere in quanto a possederlo era Richard, il marito di Alex. Avrei dovuto vedermela con il responsabile del mio appartamento, perché dubitavo che la ragazza si sarebbe mossa dal letto e quella notte avrei dormito sul divano dove adesso sostavo soltanto. Avrei dovuto prepararle la cena, la colazione, e probabilmente anche il pranzo, a quella ragazza. Avrei dovuto ricordarmi il suo nome e sopportarla mentre parlava o mi chiedeva chi fossi; ma da una parte, mi aveva già vista, mi aveva prenotato lei stessa un appuntamento per farsi tatuare. La tensione, riuscii a sentirla solo quando le coperte si mossero e le mie orecchie le captarono. Con la coda dell’ occhio puntai la camera, Jason si era addormentato docilmente sul bracciolo del divano ed i riccioli scuri gli ornavano il viso rilassato- che angelo, quando dormiva. Continuai a sbarrare gli occhi per ore, non le contai. Vidi il sole tramontare, non mi azzardai ad accendere il televisore in nessun modo dato che tutti i rumori mi stavano tormentando, in proposito mi appoggiai a degli stupidi videogiochi sul mio telefono, cosa che non era da me in quanto non usavo mai quell’ affare. In un certo senso, non svegliai Jason per non farlo andare a casa sua per un desiderio egoista. Se ero da sola, la tensione aumentava, se avevo un’ altra figura a fianco, dormiente o non, mi sentivo meno sotto pressione. Strano come, al contrario, odiassi il contatto umano quando stavo bene.
Non appena una vocina proruppe nell’ appartamento, tirai Jason per un braccio e lui si svegliò con una bestemmia ben snocciolata che gli pendeva dalle labbra, per poi accontentarmi e camminare a passo svelto verso la camera. dovetti accendere le luci per forza, era calata la sera e nella stanza non si vedeva niente. Non sorrisi, non cambiai d’ espressione neanche quando vidi la ragazza portarsi una mano sugli occhi per difendersi dalla luce troppo brusca. Ero stata anche troppo impulsiva, un punto in meno per me.
Jason rimase sullo stipite dalla porta mentre io mi avvicinai, cautamente, a quel viso scavato che spuntava, rigorosamente pallido, dalle coperte. Lei si spaventò quando mi vide, schizzò verso l’ alto e per poco non cozzò la testa contro la testiera del letto. Non urlò, assottigliò gli occhi fino a ridurli a due fessure, e non sapevo cosa le girava per la testa, continuava a muoversi da me a Jason, me, Jason, me, Jason. Presi posizione, le misi una mano sulla fronte per sentire se aveva la febbre, lei impallidì ancora di più e mi fissò spaventata.
“Stai calma, non ti faccio niente. Ti ricordi di me, vero?”
“Sam.”, pigolò.
La guardai, annuendo, dopodiché la liberai dalla mia mano e feci un passo indietro per lasciare che si tirasse su con i gomiti. Strinse i denti un paio di volte e si sistemò i capelli, riavviandoli all’ indietro e facendo scappare qualche ciuffetto ribelle sul naso, si stropicciò le palpebre e sentì attraverso lo sfiorarsi degli arti che non aveva addosso i suoi vestiti. Poverina, stava perdendo un battito dopo l’ altro ed io non la stavo neanche tranquillizzando, bensì guardando con sufficienza.
“Do- Dove sono?”, una punta di veleno mi trafisse un orecchio.
“A casa mia. Non ho trovato il tuo indirizzo e, beh, quella testa di cazzo,” ed indicai Jason, “mi ha ben consigliato di fare la buona cittadina americana.” Borbottò qualcosa, non la sentii e non le chiesi cosa avesse detto. “Come ti senti?”
“Mi gira la testa e- e le costole…”, tossì, cercando di tirarsi su del tutto. Imparò da sola, senza che io le dicessi di rimettersi giù. Anche se, un piccolo aiutino, lo aveva dato il mio fulminarla con lo sguardo. Come un cagnolino, abbassò il volto e si strinse nelle spalle. Jason si fece avanti, sottolineando con il suo passo felpato che non sapevo comportarmi bene con nessuno, e sospirò: “Io devo andare, mi sono trattenuto abbastanza. Di grazia, come si chiama la bambina?”
La ragazza serrò i pugni, visibilmente infastidita. Oh, io mi sarei alzata e avrei tirato uno schiaffo a Jay talmente forte che la testa non avrebbe smesso di ruotare su se stessa per giorni. Però la ragazza si mostrò matura e rispose: “Fannie.”
“Piacere, Fannie.”, sorrise lui. “Belli, i capelli.”
Lo sguardo della paziente improvvisata si illuminò per qualche secondo, ma si spense appena Jason lasciò la stanza. Non era stato malaccio come risveglio, dopotutto.
“Ti preparo la cena.”, volevo uscire subito di scena, il nervosismo si stava accartocciando sui miei muscoli senza un motivo sensato.
“Non ho fame.”
“Sei debole.”
“Sto sol- che porca puttana mi avete fatto?” Ah, si era accorta dei cerotti.
“Dovresti ringraziarmi.”, alzai un sopracciglio.
Fannie curvò la testa, mi fissò bene e mi squadrò. Riprese colore, come se si fosse avvicinata ad un fornello acceso in modo pericoloso, e tentò di parlare, senza riuscirci. Mossi una mano in segno che volevo i miei ringraziamenti e lei assottigliò gli occhi nuovamente, scatenandomi una risatina lieve per quanto era buffa.
“Cosa prepari per cena?”
“Certo che ti prendi troppe libertà, bambina.”

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