Amici

di ThePurpleWolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** chapter 1 ***
Capitolo 2: *** chapter 2 ***
Capitolo 3: *** chapter 3 ***
Capitolo 4: *** chapter 4 ***
Capitolo 5: *** chapter 5 ***



Capitolo 1
*** chapter 1 ***


"Josienne! Josienne!" la voce pacata di Beatrice risuonò in lontananza. Josienne si voltò, stupita dall'insolita euforia dell'amica, che si avvicinava a lei a grandi passi, reggendo la lunga gonna a balze tra le dita sottili.
"Beatrice! - rispose al richiamo con altrettanta felicità - E' da un po' che non ci si vede". Josienne socchiuse gli occhi chiari protendendo le labbra vermiglie in un sorriso di gioia. Era sempre un piacere rivedere la propria migliore amica.
Quasi senza fiato, Beatrice si accasciò dolcemente sulla spalla dell'altra, sfiorandole i lunghi capelli dorati.
"Cosa ti prende? Cos'è tutto questo entusiasmo?". La curiosità si leggeva nei suoi occhi. Strinse l'amica alla vita con un braccio per aiutarla a sostenersi e riprendere fiato, senza smettere di cercare impaziente una risposta sul suo viso affaticato.
Una volta ripreso fiato, le spalle di Beatrice si rilassarono e il suo volto, ora rasserenato dopo la lunga e faticosa camminata, si illuminò della luce del tiepido sole primaverile. Gli sguardi delle due giovani donne si incrociarono. Erano gli sguardi consapevoli di due donne unite da un legame intimo e indissolubile, che permetteva loro di conoscere ancora prima di parlare ciò a cui pensava l'altra.
Sapevano che c'era qualcosa nell'aria, qualcosa di incredibilmente emozionante e dolce, che metteva in loro tanta curiosità.
"Josienne"
"Dimmi"
"Aspetto un bambino".
La commozione trapelò dagli occhi di Beatrice, bagnati di piccole lacrime cristalline.
Josienne non seppe contenere lo stupore e coprendosi la bocca con le mani, lasciò sfuggire un grido di felicità: "Congratulazioni! Io…- appoggiò incredula la mano scarna sul ventre - anch'io… aspetto un bambino".
Le due si fecero trasportare dall'incredulità si strinsero, tra le risate, in un forte abbraccio.
"Da quanto tempo sei incinta?" chiese dolcemente la donna dai capelli corvini.
"Non da molto- replicò - qualche settimana".
Beatrice pensò un secondo. "Te ne rendi conto? I nostri bambini nasceranno assieme".
"Assieme?"
"Probabilmente dovrò partorire sul finire dell'anno. Se i miei calcoli non sono errati, anche tuo figlio dovrebbe nascere lo stesso mese". Il volto allungato di Beatrice mostrò tutta la sua dolcezza in un tenero sorriso abbozzato sulle sue labbra chiare.
La giornata era appena iniziata, ma Josienne e Beatrice sapevano che sarebbe trascorsa in un baleno, tra chiacchiere amichevoli e dolci racconti dei propri progetti. Si spostarono all'interno della casa signorile di Josienne e suo marito per rilassarsi davanti a una tazza di ottimo tè inglese.
Ancora incredule, iniziarono a fantasticare sul futuro dei loro bambini.
Scostando un ciuffo dei lisci capelli che uscivano dall'acconciatura, l'ospite disse: "Sento che sarà un maschietto".
"Come fai a dirlo?", ridacchiò scherzosa l'altra, mescolando lentamente il latte nel tè.
"Beh- sospirò la prima- dopo tre figlie femmine, un maschio è quel che ci vuole".
"Non hai tutti i torti".
"Se il tuo sarà una femmina, vorrei tanto che una volta adulti i nostri figli possano sposarsi". Il tono di voce di Beatrice si fece dolce e sognante.
La voce squillante di Josienne interruppe le sue fantasie: "Sai cosa ti dico? Sono convinta che anche il mio sarà un maschio. Me lo dice il mio intuito."
"Allora potrà prendere in sposa una delle mie figlie maggiori", continuò scherzosamente Beatrice.
"In ogni caso- disse tra le risate Josienne -so che diventeranno amici".
Beatrice alzò lo sguardo.
"Amici? Oh, saranno molto di più. Saranno migliori amici".
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Salve, sono nuova e non so usare questo sito. chiedo venia per eventuali errori qua e là. Siccome nella lista di personaggi fornitami no c'era Edgar, mi è toccato segnarlo come "nuovo personaggio", mi spiace.

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Capitolo 2
*** chapter 2 ***


Era arrivata la stagione delle foglie scarlatte e le giornate divenivano pian piano sempre più corte. Eppure i bambini il tempo per giocare lo trovavano sempre.

"Lawrence, quante volte devo dirtelo che lo sposo devi farlo tu?"

"Ma… sorellona… non voglio giocare ancora al matrimonio"

"Zitto e mettiti il papillon!"

Il piccolo Lawrence, ormai rassegnato, facendo un lungo sospiro annodò attorno al minuto collo un fiocco blu come i suoi profondi occhi nascosti dalle spesse lenti degli occhiali.

"Coraggio, Lawry! Stai qui e aspetta che arrivi la tua sposa". La sorella maggiore del piccolo era quella che dettava legge durante il gioco e pretendeva che tutto andasse come lei diceva. Nella loro fantasia, quella che era la soffitta polverosa della casa signorile della famiglia Bluer diveniva un'elegante chiesa perfetta per celebrare i matrimoni da sogno organizzati dalle tre sorelle maggiori di Lawrence.

"Madalyn! Deborah! Quanto manca?", strillò Isabel, la maggiore.

Da dietro un drappo di stoffa verde appesa a una trave in legno del soffitto, si udì in risposta la voce della secondogenita Deborah: "Abbiamo quasi finito, mancano solo i fiori!!".

Il povero bambino, vittima dei giochi delle sorelle, tentò un'ultima volta di scampare alla sorte che lo aspettava: "Non possiamo giocare a qualcos'altro? Ad esempio… a scacchi. Gli scacchi sono interessanti". In tutta risposta ricevette uno sguardo truce da parte di Isabel. Si sentì raggelare il sangue nelle vene e pensò che rimanere in silenzio fosse la soluzione migliore, in quel momento.

Si sentirono le risate giocose delle ragazzine dietro il telone, che in un attimo venne scostato per far mostra di chi interpretava la sposa.

"Non è bellissimo?", cantilenò Madalyn facendo largo a un grazioso fanciullo dai grandi occhi del colore delle foglie autunnali. Indossava una lunga veste bianca, presa probabilmente dal guardaroba di una delle sorelle di Lawrence, e tra i morbidi e sinuosi capelli biondi sbocciavano delle piccole rose rosse e bianche.

Lawrence si girò a guardare, a metà tra l'imbarazzo e lo sconcerto.

"C-come… come l'avete conciato?!"

Deborah si mise a saltellare fino ad arrivare vicino al fratellino. "Ora è una sposa perfetta! Possiamo iniziare la cerimonia!".

Il gioco iniziò. Isabel decise che la parte del sacerdote l'avrebbe svolta lei, era il ruolo che la divertiva di più.

"Siamo qui riuniti per celebrare il matrimonio tra Lawrence… e Edgard", disse lei solenne, stando in piedi dietro un grosso baule impolverato.

Edgard si girò verso Lawrence sorridendo. "Non essere sempre così musone! Divertiti anche tu ogni tanto".

Lawrence arrossì timidamente, scostando lo sguardo. Non riusciva a spiegarsi cosa ci trovasse di divertente in quel gioco da ragazzine.

Deborah e Madalyn, nei ruoli delle madri degli sposi, fingevano di piangere commosse alle loro spalle. 

"Vuoi tu, Lawrence Bluer prendere il qui presente Edgar Redmond come  tua legittima sposa?"

Lawrence indugiò. Dopo qualche istante di silenzio, Madalyn allungò rapidamente un braccio per colpire il fratellino in testa. "S-sì, lo voglio".

Isabel proseguì con la cerimonia: "E vuoi tu, Edgar Redmond, prendere il qui presente Lawrence Bluer come tuo legittimo sposo?".

Allegramente, Edgar esclamò: "Sì, lo voglio!".

"Io vi dichiaro marito e moglie - proclamò la maggiore - puoi baciare la sposa".

Il fratello arrossì di colpo. Baciare??

Prima che potesse dire qualcosa, Edgar si allungò in punta dei piedi per raggiungere la sua guancia, ora paonazza, dove stampò un dolce bacio affettuoso. Sotto gli applausi delle sorelle, Lawrence si sistemò gli occhiali e sbigottito si voltò a guardarlo. Vederlo così euforico lo fece sentire in imbarazzo e abbassando lo sguardo domandò: "Perché anche il bacio?".

"Perché non c'è matrimonio senza", rispose sentenziosa Madalyn.

Il visetto gioioso di Edgar s'illuminò degli ultimi raggi del sole pomeridiano che filtravano dalla piccola finestrella. Il piccolo dai capelli corvini lanciò uno sguardo all'amico, di poco più basso di lui: era il ritratto della grazia, così delicato e illuminato da quel sorriso ingenuo. I suoi occhi brillarono: "E poi un bacio mette sempre il buon umore".

Il piccolo si toccò il petto. Sentì un calore all'altezza dello stomaco e improvvisamente si sentì sereno. Abbozzò un sorriso, nascosto dietro i capelli tagliati pari pari.

"Stai sorridendo, Lawrence!"

"N-no… Io non…"

Dalle scale in legno si sentì in lontananza la voce di Josienne: "Edgar! E' ora di tornare a casa".

I bambini si precipitarono al piano di sotto, dove nella sala del the si trovavano Josienne e Beatrice. Edgar corse incontro alla mamma, dicendole: "Oggi abbiamo di nuovo giocato al matrimonio!".

"Ancora?", domandò ridendo Josienne, per poi lanciare uno sguardo incuriosito verso Lawrence. Arrossendo, il piccolo rimasto a qualche passo di distanza abbassò la testa senza dire niente.

"Un giorno ti capiterà di sposare una splendida fanciulla, Edgar" assicurò Beatrice accarezzandogli i capelli.

"Una fanciulla? - sbuffò Edgar - Io voglio solo Lawrence".

Le amiche si guardarono e risero. "Vi volete davvero molto bene, eh?".

"Sì", ammise Edgar sorridendo bonariamente.

Arrivò il moneto per gli amici di congedarsi. Il piccolo dai capelli dorati si avvicinò a Beatrice abbracciandole le gambe: "Arrivederci, zia Beatrice!".

"Ciao, Edgar! Torna quando vuoi".

Lawrence si fece timidamente avanti, accostandosi alla gonna della mamma. "Arrivederci".

Prima di allontanarsi, Edgar gli prese la mano e disse: "Anche domani voglio vederti sorridere così".

Mentre il sole calava, le figure di Edgar e Josienne si stagliavano all'orizzonte, allontanandosi lentamente verso la loro dimora. Lawrence rimase a guardarli fino a quando non furono talmente lontani da non riuscire a distinguerne le sagome, poi rientrò in casa. Gli sembrava quasi impossibile che l'amico, con un semplice bacio, fosse riuscito a far sorridere un bambino serio come lui.

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Capitolo 3
*** chapter 3 ***


Il sole stava nascendo coi suoi flebili raggi mattutini e in casa Bluer c'era già un gran movimento. Le domestiche erano occupate a sistemare nelle valigie gli abiti ben piegati e i libri nuovi di zecca di Lawrence. La sua vita all'interno del college più prestigioso d'Inghilterra stava per iniziare e ogni cosa doveva essere al proprio posto.

"Sbrigati, Lawrence! Non possiamo far aspettare tuo padre", disse a voce alta Beatrice senza scomporsi, stando in piedi fuori dalla camera del figlio.

"Un attimo", implorò Lawrence. Da quando era nato sognava di entrare in quella scuola, ma proprio adesso che quel giorno era arrivato s'era fatto prendere dal panico.

"I libri… I calamai… Ho preso tutto? Manca qualcosa, me lo sento"

"Lawrence!"

"A-arrivo, madre!". Il giovane chiuse in fretta le valigie in cuoio pregiato, preziosi regali del padre, e uscì di colpo dalla camera.

"Dove corri? Fermati qua", la madre gli fece cenno di avvicinarsi a lei, ancora ritta affianco alla porta in legno della stanza. Il frenetico movimento di Lawrence si arrestò per un attimo, sebbene lui continuasse a essere in ansia.

Le mani delicate della donna si posarono sul colletto della sua divisa.

"Guardati, come sei diventato grande", sussurrò lei sorridendo dolcemente, mentre sistemava l'orlo della camicia. Il figlio si tranquillizzò poco a poco, mentre la calda voce della mamma lo avvolgeva in un abbraccio di nostalgia e commozione.

"Mi sembra ieri che eri piccolo così"

"Madre - borbottò arrossendo - siamo in ritardo…"

"Ah, com'eri carino"

"Madre"

"Così dolce e serio"

"Madre!"

"Hai ragione, non è il momento di perdersi nei ricordi", ribatte Beatrice, improvvisamente seria. Lawrence sospirò a lungo, tornando al suo stato d'inquietudine e sconforto. Porse un rapido sguardo alle valigie che teneva in mano e con suo grande orrore vide una larga macchia nera espandersi sull'angolo di una, trasformando il prezioso cuoio decorato in una pozza di inchiostro. Si lasciò sfuggire di bocca un grido a cui accorsero i servi allarmati. Oppresso sempre più dall'ansia, il ragazzino si sentì crollare le braccia.

"Dev'essersi rovesciato un calamaio", disse pacatamente una delle serve, afferrando con sicurezza la maniglia della valigia.

L'agitazione s'era trasformata in un macigno pesante che lo schiacciava. Abbandonò la ragione e sentì un moto di collera percorrere le sue vene. Prima che la molla scattasse, una voce allegra percorse la scalinata fino a giungere al piano di sopra, alle sue orecchie.

"Lawrence, non sei ancora pronto?"

Scosso dal rumore improvviso, sobbalzò e si sporse sulle scale a vedere. Sull'uscio della porta, accanto al maggiordomo, si profilava la sagoma snella di Edgar, cinta nei morbidi tessuti neri e rossi della divisa. Quel suo solito sorriso appena accennato sulle labbra fini gli donava un'aria elegante e raffinata. Il giovane Bluer puntò gli occhi sull'amico per un lungo istante, ancora sconvolto da tale avvenimento.

"Lawry, che t'è successo? Pare ti abbia investito una carrozza", osservò Redmond inclinando la testa.

"La valigia", bofonchiò l'altro.

"Non è ancora pronta? Cosa aspetti!! Non possiamo fare tardi al nostro primo giorno di scuola. Un ritardo da parte tua non me lo sarei mai aspettato". Edgar rise per alleggerire quell'atmosfera così glaciale e pesante.

A quel sorriso, Lawrence tornò a prendere fiato. Pareva si fosse liberato da quel macigno che lo schiacciava.

"Ti vedo parecchio sotto stress"

"E'… è così", ammise sospirando.

"Sai cosa ci vuole?"

Edgar fece un passo in avanti verso l'amico, ancora fermo sull'ultimo gradino della scalinata. Lo guardò con occhi giocosi: sapeva bene quanto lui si sentisse in imbarazzo in momenti come quello. Lo vide arretrare leggermente, come se avesse intuito le sue intenzioni. Avvicinò il volto alla sua guancia dove stampò rapidamente un bacio. Prima che Lawrence potesse esplodere nelle sue solite lamentele, scattò indietro verso la porta, ridendo soddisfatto.

Come previsto, Bluer arrossì di colpo. "E-EDGAR!"

"L'ho fatto per vederti sorridere, Lawry", cantilenò l'altro allontanandosi ancora.

Senza accorgersene, sotto quel rossore era celato un lieve sorriso e si sentiva finalmente leggero. Si sistemò gli occhiali tornando serio. "Non farlo mai più", disse schietto.

L'amico arrestò la sua fuga, fermandosi a guardarlo. "Mmh, come vuoi - rispose con tono perplesso - Adesso però sbrigati che dobbiamo partire!".

La serva si affacciò da sopra le scale chiamando Lawrence. La sua valigia era stata sostituita da un vecchio borsone in pelle. Non era certo bello e pregiato quanto il bagaglio del padre, ma gli sarebbe bastato comunque. Beatrice scese lentamente le scale, affiancata dalla domestica.

"Andiamo, Lawrence?", disse la madre sorridendogli dolcemente.

Lui annuì, voltandosi a guardare la porta. Edgar non c'era più, era già corso alla sua carrozza. L'avrebbe rivisto in qualche minuto, davanti alla Weston, il college che entrambi i ragazzini stavano per frequentare.

«Siamo nati e cresciuti assieme. Abbiamo trascorso tredici anni l'uno vicino all'altro come veri amici. Da oggi saremo uniti anche nello studio per i prossimi sei anni. Chissà se mai un giorno riusciremo a diventare Prefect di questa scuola, diventare gli studenti più bravi e meritevoli dei nostri dormitori…»

«Sogna, Edgar… sogna.»

«Non hai ambizioni che non siano il lavoro, tu!»

«Semplicemente voglio concentrarmi sullo studio, non sulla popolarità scolastica.»

«Mmh, in ogni caso sono curioso di conoscere nuove persone. Chissà, magari faremo amicizia con ragazzi degli altri dormitori.»

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Capitolo 4
*** chapter 4 ***


Era ormai giunto il rigido inverno dell'ultimo anno scolastico di Redmond e Bluer. Un inverno lungo e freddo, crudele; un inverno che Lawrence non avrebbe mai dimenticato.

Chino su se stesso, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, Lawrence affondava la faccia tra le mani, in preda alla disperazione. Edgar lo osservava da giorni: da quando la malattia del padre iniziò a peggiorare, lo vide crollare in una profonda depressione. Da quel giorno lui non aveva lasciato la soffitta di casa, rintanandosi in quella piccola oasi di tranquillità, dove poteva meditare sul da farsi. Se suo padre avesse dovuto andarsene di lì a poco, tutta la famiglia sarebbe dipesa da lui, l'unico uomo di casa. Lui non voleva questo, Edgar glielo leggeva nelle profonde occhiaie che segnavano i suoi occhi blu.

Si limitava a guardarlo da lontano. Se provava ad avvicinarsi per sapere come stava, sapeva che non avrebbe ricevuto risposta. Vederlo in quelle condizioni gli stringeva il cuore. Faceva male.

Arrivò la sera in cui, dopo quasi quattro giorni di reclusione in quella mansarda polverosa e pullulante di ricordi, l'amico decise di prendere coraggio e avvicinarsi a Lawrence. Lo scricchiolio dei suoi passi sulla scala in legno avvertì Bluer dell'imminente arrivo di Redmond.

"Lawrence - mormorò Edgar, superando l'ultimo gradino - non è il caso che tu scenda? E' da parecchio che te ne stai qua da solo".

In tutta risposta, Lawrence si limitò ad alzare il pesante sguardo sull'altro, fissandolo con occhi vacui e privi di significato.

Le candele presenti nella stanza si stavano gradualmente consumando; l'unica luce all'interno della soffitta era quel bagliore giallastro da esse emanato.

"Non va bene che tu stia chiuso tutto il tempo in questo posto così buio e polveroso, fa male alla salute", disse il biondo prendendo posto a sedere di fronte all'amico. Ci fu un lungo istante di silenzio. Edgar sospirò. "Lawrence - lo chiamò con tono serio - so in che situazione ti trovi, posso capire come tu ti senta anche se non mi sono mai trovato in una circostanza simile. Sappi che non devi lasciarti trascinare giù dalla disperazione…"

Non ebbe nemmeno tempo di finire la frase che subito Lawrence scattò come una molla, dando sfogo alla sua rabbia repressa: "No che non sai in che situazione mi trovo! No che non puoi capire! D'altronde è mio padre quello che sta morendo, quello che mi lascerà solo con otto bocche da sfamare". Le sue mani chiuse a pugno sbatterono violentemente contro il duro legno del tavolino da the che divideva i due divanetti. Edgar sussultò, spaventato dalla sua reazione; non l'aveva mai visto in quello stato. "Lawr…"

"Non puoi capire. Ho bisogno di starmene da solo… Ho bisogno di pensare, di concentrarmi, devo pensare a quel che farò e a quel che sarà della mia famiglia". Le parole si accavallavano le une con le altre, formando discorsi contorti e poco chiari.

Redmond percepì la tensione dell'altro, la sua frustrazione, la paura di rimanere solo e di non essere in grado di garantire alla madre e alle sorelle una vita agiata come da sempre il padre banchiere aveva fatto. Si chinò in avanti, allungando lentamente una mano verso il suo ginocchio.

"Ascoltami - disse con voce calda - Standotene qui da solo non risolverai niente. La cosa migliore è stare vicino a tuo padre quanto più possibile".

La testa di Bluer era ancora infossata tra le spalle alte e rigide, fissa verso il basso, così che Edgar fosse costretto a chinare il capo per vedere in faccia il suo interlocutore. Cercò i suoi occhi sotto i ciuffi corvini di capelli.

"Non mi va di vederti giù in questo modo", disse affranto accorciando le distanze con l'amico. Voleva solo vederlo più sereno e tranquillo, voleva potergli donare anche solo un sorriso… Non ci pensò due volte e scostò con una mano i capelli di Lawrence, rivelando quegli opachi zaffiri nascosti dietro la montatura degli occhiali. L'altro alzò il capo, lanciandogli uno sguardo interrogativo; la distanza tra i due s'era ridotta al minimo.

Le tiepide dita di Edgar scivolarono lungo la guancia di Lawrence, delicatamente. "Lascia che ti faccia tornare il sorriso come una volta".

Edgar premette le sue labbra contro quelle di Lawrence, dolcemente, cogliendolo di sorpresa. Non gli lasciò nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stava accadendo: inclinando il capo stampò subito un altro bacio su quelle labbra chiare che da sempre aveva desiderato fare sue. Iniziò ad accarezzargli il volto, fino a sfiorargli il mento con il pollice. Scavalcò rapidamente il tavolino in legno senza staccarsi da Lawrence e spinse con delicatezza l'amico, facendolo stendere sul divanetto. Lawrence non riusciva ancora a capire cosa stessero facendo, ma si stupì nel ritrovarsi a rispondere timidamente a quel bacio.

Si sentì avvampare quando la calda mano dell'amico s'insinuò sotto la stoffa della camicia. A fatica Bluer riuscì a prendere fiato e mormorare il nome dell'amico: "Edgar…"

Si scambiarono uno sguardo intenso. Lawrence, tremante come un pulcino, fece pian piano leva sul petto dell'altro, per allontanarlo leggermente. "Fermo", sussurrò distogliendo lo sguardo per non far vedere il rossore delle sue guance.

Edgar lo guardò per un lunghissimo secondo: non l'aveva mai visto così fragile e indifeso. Sorrise tristemente: "Scusami", disse poi alzandosi in piedi.

Lawrence si ricompose in fretta, senza aprir bocca. "Perdonami, Lawry… Volevo solo distrarti". Gli occhi ambrati di Edgar tradivano quel suo finto sorriso.

Bluer non proferì parola per qualche istante, rimanendo seduto su quel divanetto, testimone di ciò che era appena accaduto. Ad un tratto, il suo volto serio si rivolse all'altro. "Che non esca da qui", si limitò ad ammonirlo.

Redmond si rasserenò e annuì, lanciando uno sguardo d'intesa all'amico. Portando con sé una candela a testa, i due scesero le scale uno dopo l'altro, tornando al piano di sotto.

"S'è fatto tardi per me - disse Edgar una volta arrivati - è meglio se faccio rientro a casa".

Lawrence fece un cenno con la testa senza trovare qualcosa da dire.

"Vai da tuo padre e stagli accanto", la voce rassicurante di Redmond scaldò il cuore di Bluer, che guardandolo negli occhi mormorò un flebile: "Sì".

Edgar si allontanò nella penombra del corridoio di casa Bluer, fino a giungere al portone d'uscita. Dopo il tonfo vuoto della chiusura della porta in legno, Lawrence rimase fermo a fissare le mura decorate della casa. Sentì il suo cuore battere ancora forte, le sue guance bollenti e arrossate. Non si era ancora capacitato di cosa fosse accaduto, l'unica cosa certa era che sul suo volto era nuovamente tornato quel dolce sorriso.

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Capitolo 5
*** chapter 5 ***


"Edgar, sei bellissimo", disse sognante Josienne, ronzando attorno al giovane.

Edgar sbuffò: "Madre, per favore…"

"E' il giorno delle tue nozze, dovresti essere felice e sorridente".

"Non… non sono felice, non posso sorridere".

"Come sarebbe? Pensavo che il tuo sogno più grande fosse sposare una dolce fanciulla e…"

"Per favore!"

"Ho capito, ho capito… ti lascio da solo. Vedi di calmarti un po'".

Josienne uscì frettolosamente dalla camera del figlio. Nonappena la porta si chiuse alle sue spalle, Edgar tirò un lungo sospiro rassegnato. Quel giorno di metà settembre gli avrebbe cambiato la vita per sempre e lui non voleva. Non voleva legarsi ad una persona, non faceva per lui, ma soprattutto non voleva sposare una ragazza, quella ragazza. Non gli interessava, non era ciò che voleva veramente. Una vita da uomo sposato non era quel che pensava per se stesso, si sarebbe visto molto più volentieri libero e spensierato come lo zio Aleist.

Si voltò verso il lungo specchio decorato affianco al davanzale: l'elegante frac che indossava lo risaltava dandogli l'aspetto del vero lord inglese, raffinato e galante, come lui aveva sempre voluto mostrarsi agli altri; ma stavolta era diverso, non si sentiva per niente a suo agio. Il ripetitivo ticchettio delle lancette dell'orologio che scandivano il trascorrere del tempo rendeva l'atmosfera ancora più tesa, l'aria si faceva irrespirabile sotto tutta quell'ansia. A romperne il regolare battito fu il rumore ben più grave del bussare alla porta. Redmond scosse il capo per riprendersi dai suoi pensieri e domandò: "Chi è?".

Aprendosi, la porta fece largo all'inconfondibile chioma bluastra di Lawrence.

"Non sei ancora pronto, Redmond?", domandò in tono austero.

Il biondo si sentì sollevato nel vedere il volto familiare dell'amico. Gli lanciò un fugace sguardo di rassegnazione, quasi volesse implorarlo di stargli accanto. "Non voglio farlo", sospirò Edgar.

Lawrence rimase impassibile. "E' solo perché si tratta di mia sorella, vero?"

"No Lawry - si affrettò a rispondere - è che… Non me la sentirei in nessun caso. Potrebbe anche trattarsi di una principessa o della donna più bella del mondo, ma credo non me la sentirei comunque".

I suoi occhi scarlatti si rabbuiarono poco a poco.

Il silenzio calò nella stanza per qualche istante, finché Bluer non si avvicinò a Edgar lentamente.

"Il matrimonio non fa per te, ti conosco", disse bonariamente lui, guardando quel suo volto così affranto.

Redmond sorrise tristemente: "Mi conosci bene".

Sistemandosi gli occhiali, Lawrence prese coraggio: "Sono quasi venticinque anni che ci conosciamo -possiamo dire di essere nati assieme-, e in tutto questo tempo non ti avevo mai visto così…"

"Miserabile?"

"Direi più che altro… rassegnato. Tu che sorridi sempre, vedendo il lato positivo delle cose"

Edgar sforzò un sorriso alle sue parole, ma finì per farsi ancora di più del male da solo.

"Ricordi? - disse Lawrence improvvisamente melanconico - Sei sempre stato tu a preoccuparti per me ogni volta che mi vedevi giù".

Redmond lo guardò fisso, incrociando i suoi profondi occhi blu.

"Ti sei preso cura di me e ti sei sempre dato da fare per farmi tornare il sorriso".

Lawrence si avvicinò ancora, fermandosi a un passo dall'amico. Lo guardò dritto negli occhi e allungò le labbra in un dolce sorriso, un sorriso che Edgar riconobbe: era lo stesso di tanti anni addietro, di quando erano ancora bambini.

"Ora tocca a me fartelo tornare".

Si sporse leggermente in avanti, posando una mano sul volto di Edgar e appoggiò le labbra sulla sua guancia per un lungo secondo.

Il tempo sembrò fermarsi per qualche istante.

Lanciando un altro sorriso sfuggente, Bluer indietreggiò per lasciare da solo l'amico. Redmond riprese gradualmente a respirare, stupefatto dall'azione dell'amico. Arrossì un poco e finalmente riuscì a sorridere di cuore.

"Grazie".

Si congedarono con una semplice occhiata di complicità. Le nozze si celebrarono come se nulla fosse: tradizionale scambio delle fedi, ricco pranzo con i parenti, il tutto accompagnato dal falso sorriso di Edgar. Ancora non era pronto alla vita matrimoniale, ma le parole di Lawrence gli avevano infuso sicurezza e tranquillità tanto da convincerlo ad andare anche contro il suo volere.

Arrivò la sera e i festeggiamenti stavano giungendo al termine.

"Edgar, accompagno le mie sorelle alle loro carrozze, torno subito", canticchiò la voce allegra di Rebecca.

Edgar fece un cenno con la testa per poi voltarsi verso il giardino della casa dei Redmond. In mezzo al prato si ergeva un lungo tavolo in legno scuro, coperto dalle mille stoviglie sporche e dagli avanzi di cibo che poco a poco venivano portati via dai servitori. Gli ospiti stavano lentamente tornando alle proprie dimore, fino a quando gli unici rimasti non furono Edgar e Lawrence.

"Lawrence", lo chiamò.

"Sì?"

"Promettimi una cosa".

"Che cosa, Redmond?"

"Che rimarremo sempre amici".

L'altro si voltò perplesso a guardarlo.

"Promettilo", insistette il giovane Redmond.

"Promesso", sorrise appena.

Bluer tirò un breve sospiro alzando gli occhi al cielo. Lo sapeva fin da quando era un bambino, anche se non l'aveva mai ammesso: Edgar era sempre stato il suo unico punto di riferimento, l'unica persona con cui si sentisse libero di esprimersi. Erano molto più che amici, erano migliori amici.

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