The Price to Pay

di Chemical Lady
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter Primo: The Lost Boys ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo: A Place to Belong. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo: The Life I’ve Chosen. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto: A Reason to Smile ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto: A Cage is not a Home ***



Capitolo 1
*** Chapter Primo: The Lost Boys ***


~  The Price
to Pay.


Capitolo Primo.
The Lost Boys.
 



 
La nostra storia ha inizio molto tempo prima dell’arrivo di Wendy a Neverland…
Non riguarda semplicemente le avventure  di Peter Pan, ma di coloro che lo hanno aiutato a diventare ciò che era, che lo spalleggiavano e che hanno dato la vita per lui, in talumi casi.
I suoi Bambini Sperduti.
 
 
 
La solitudine pesa anche all’animo più nero.
Peter l’aveva appreso dopo i primi lustri di solitudine sull’Isola.
Era arrivato ad un punto in cui volare non gli era più bastato, così come le visite dei bambini durante il sonno. In un certo senso, si sentiva quasi invidioso verso di loro. Potevano recarsi in quel luogo magico il tempo di un sogno e realizzare così ogni loro desiderio, per poi tornarsene a casa loro, fra le loro lenzuola, che fossero di seta pregiata o di ruvidi stracci.
Fu così che decise di smetterla.
Neverland non sarebbe più stato un luogo di svago, non senza un prezzo.
Sarebbe diventata una casa per ragazzi come lui, in fuga da qualcosa o in cerca dell’eterna fanciullezza. Sarebbe diventata, a tutti gli effetti, la sua Isola. Un suo dominio e nessuna sirena, indiano o fata si sarebbe frapposta tra lui e questo ambizioso progetto.
Come ogni Re avrebbe avuto un esercito, qualcuno che, come lui, avrebbe amato Neverland sopra ogni cosa e che, forse sarebbe anche arrivato a capirlo.
Che non si sarebbe mai posto domande circa l’eticità delle sue azioni.
Che non lo avrebbe fatto più sentire solo, ma semplicemente più forte di quanto già non fosse.
Non aveva bisogno di nessuno, dal punto di vista del potere.
Aveva bisogno di qualcuno per colmare le lunghe giornate senza tempo di Neverland, e si sarebbe dato seriamente da fare per trovare dei degni candidati.
Così,  i Bambini Sperduti iniziarono ad arrivare sull’isola, chi per sua scelta, chi per divertimento, chi quasi per imposizione.
La sola cosa li contraddistingueva da ogni altro bambino che, al suo arrivo, veniva fatto prigioniero era la cieca lealtà nei confronti di Pan.
Come ogni esercito, avevano impegnato la loro vita a servirlo, ricevendo in cambio tutto ciò che un bambino avrebbe mai potuto desiderare: la certezza di non crescere mai e di non smettere mai di giocare…
 
 
 
 
 
 
 
Fra tutti i Bambini Sperduti- quando ancora non avevano questo nome-, il più fedele a Peter era Rufio.
Era stato il primo che, visitando Neverland, aveva deciso di fermarsi lì e restare.
Il primo, dopo Peter.
Non si sapeva esattamente da dove provenisse, ma i suoi tratti erano particolari, sottili, soprattutto gli occhi a mandorla. Aveva la pelle più abbronzata degli altri Bambini e i capelli di un nero così intenso da sembrare ricco di riflessi di un blu elettrizzante, intenso e bellissimo.
Sin dal suo arrivo a Neverland non si era mai posto molti problemi nei confronti di Pan, rischiando anche di contraddirlo e irritarlo se necessario, ma sempre e comunque nel suo interesse. Seppur covando un certo timore verso di lui, come tutti del resto, aveva più volte corso il rischio di provocarlo e aveva avuto la fortuna di vivere per andare a raccontarlo, ma senza presunzione. Non era nel suo carattere.
Aveva giurato di dare la sua vita per Peter, per quel ragazzino dagli occhi verdi ed indecifrabili, che dietro ad una maschera spietata sembrava celare una profonda tristezza.
Era stato il primo vero amico che aveva mai avuto sull’Isola, ed era in seguito diventato un vero e proprio punto di riferimento per i Bambini Sperduti. 
Peter, in fin dei conti, non era mai stato duro con loro. Manteneva il suo status di leader ostentando un po’ di distacco, ma dopotutto era stato lui a portarli tutti lì. A dar loro una casa, quando non sapevano nemmeno di cosa si trattasse. Li viziava in ogni modo possibile, faceva sì che ogni loro sono divenisse realtà. Se poi erano loro, a farsi traviare dal suo potere e dalle sue promesse, beh quello non lo toccava minimamente. 
Ciò nonostante, avere Rufio come tramite tra loro e il capo sembrava più che comodo a tutti. Tornando a lui, una cosa andava per forza detta:  era un autentico sognatore, sempre con la testa a galassie di distanza. Adorava passare le sue giornate steso sul ramo di un albero a fissare le stelle, o a rincorrere le fate sperando di rubare loro un po’ di polvere.
Il suo sogno più grande era volare e Peter aveva addirittura assecondato questo suo desiderio, più di una volta.
D’aspetto, era forse uno dei più appariscenti. I capelli gli stavano ritti sul capo come se avessero una vita loro, perennemente spettinati. Non soleva indossare gli stessi abiti degli altri; ai lunghi mantelli dai cappucci più ampi e strani prediligeva un semplice gilet di tessuto morbido, dei colori delle foglie degli alberi in primavera, brillati. Attaccate ad esso c’erano alcune foglie di edera e, qua e là, qualche fiorellino colorato. Indossava inoltre dei pantaloni di tela, di un verde ormai stinto, con i quali era arrivato sull’isola parecchio tempo prima e andava sempre in giro scalzo.
La sola cosa che sembrava turbare questo suo aspetto fiabesco, era il pugnale lungo che portava sempre fisso al fianco destro, pronto ad ogni evenienza. Sapeva farsi valere come spadaccino, anche se alla lama preferiva le parole.
Pocket, che tra loro era l’unico ad aver studiato qualcosa in vita, lo paragonava sempre al Mercuzio shakespeariano. Non sapeva nemmeno lui cosa significasse quella frase, ma quando lo ascoltava lanciarsi in discorsi contorti,  gli tornava alla mente la sua precettrice e il suo amore per Romeo e Giulietta, opera per lui senza alcun senso logico. Però quel personaggio gli era sempre piaciuto e Rufio lo incarnava alla perfezione.
 
Secondo, sia per importanza che per astuzia, c’era Felix.
Chiunque lo conoscesse, poteva ben capire che Rufio doveva davvero aver qualcosa di speciale se Pan lo preferiva a lui.
Felix era, di fatto, sempre d’accordo con Peter. Qualsiasi cosa il loro capo dicesse o facesse, per lui era legge; non c’erano mai ne ‘se’ ne ‘ma’, possibili piani B o contrattazioni amichevoli.
Lui non era Rufio, ‘amichevole’  era un termine che mancava totalmente dal suo dizionario.
Si limitava ad eseguire gli ordini e lo faceva davvero bene; non aveva paura di niente e di nessuno, come se essere un Bambino Sperduto lo proteggesse da qualsivoglia male.
In effetti, per lui, essere al soldo di Pan era come essersi comprati l’immortalità in ogni senso: Peter avrebbe sempre sistemato tutto, se lui avesse fatto esattamente ciò che gli veniva chiesto.
Prediligere la violenza all’astuzia era però un suo difetto o un suo pregio, a seconda dell’interpretazione.
 
Ben lontano dal cuore di ghiaccio di Felix, o dall’animo avventuroso di Rufio, vi era Tootles. Preso a parte, non sembrava nemmeno far parte del gruppo dei Bambini Sperduti, come se la sua presenza stonasse fra loro.
Era goffo, per certi versi sciocco e parecchio stupido. O, almeno, era lui a sentirsi così a causa delle battute di scherno degli altri.
Pappamolla, era l’aggettivo che si sentiva ripetere più spesso nell’arco di una giornata.
La verità era che, semplicemente, aveva vissuto l’arrivo a Neverland in modo differente dagli altri. Non era rimasto solo perché abbandonato, ma a causa di una sciagura unica. Figlio di un pescatore, era rimasto orfano di madre e padre a causa di un nubifragio, dal quale si era salvato solo lui. Della sua storia, però, sentiremo parlare più avanti.
Quel che ci serve di sapere è che era rimasto solo a causa del destino, quindi non aveva nessuno da odiare, se non la sua cattiva stella.
Peter l’aveva accolto tra le sue fila perché, nel momento esatto in cui se l’era trovato davanti, Tootles aveva promesso di comportarsi bene se l’avesse fatto rimanere. Lui e Rufio avevano riso così tanto che l’avevano fatto portare all’accampamento senza nemmeno rifletterci troppo su.
Una volta arrivato, Tootles aveva capito. Neverland non era esattamente come nelle fiabe di sua mamma…
Era un posto più triste e spento, per chiunque non formasse le fila di Peter. Quindi non aveva di che lamentarsi e, anche se non la pensava sempre come lui, si faceva andare più che bene la situazione.
Era felice, in mezzo a quei ragazzi.
Erano una famiglia strana, ma lo erano, a prescindere dal loro modo di comportarsi verso gli altri.
Quando era arrivato a Neverland, Tootles non aveva nulla a parte i suoi vestiti e un vecchio cappellino, che suo padre gli aveva comprato quando erano andati a vedere un circo. Non ricordava quasi nulla di quel giorno, visto che come ben sapevano tutti l’arrivo sull’Isola inficiava di molto i ricordi, ma c’erano degli strani orsi, che a lui erano piaciuti tantissimo.
I panda.
Sul suo berretto, vi era il viso e le orecchiette di un panda.
Complice la fantasia, aveva preso a contornarsi solo l’occhio sinistro di nero e non si separava mai da quel suo unico collegamento con la sua vecchia vita.
 
Gli altri bambini non erano mai giunti a Neverland per rimanere in modo autonomo, ma al massimo nei loro sogni; Li aveva chiamati a sé Peter, suonando il suo Piffero Magico nelle sue visite alla Foresta Incantata o erano arrivati con Ombra, ad ondate diverse.
Tra coloro che Pan era andato personalmente a pescare, vi era Nibbs.
Se si dovesse arrivare a descriverlo con un solo aggettivo, ‘schizzato’ sarebbe quello ideale.
Che non fosse del tutto normale era chiaro a tutti. Parlava spesso da solo e, se lo faceva con gli altri, arrivava a discorsi che non avevano ne capo ne coda.
Era uno dei pochi ragazzi ad avere qualche ricordo della sua vita precedente, seppur parecchio confuso, forse anche perché non aveva avuto una vita facile o lineare. Peter lo aveva raccolto da un orfanotrofio, insieme a No Nap e a Prentiss, dove la madre lo aveva scaricato a dieci anni. tutto ciò che ricordava di lei era il suo essere schifosamente attaccata ai soldi. Desiderava più avere un sacchetto colmo di monete d’oro che dei figli nutriti e con vestiti decenti a coprirli dal freddo della notte.
La sua nomea era però dovuta ad altro.  Peter adorava raccontare a tutte le nuove reclute di quella volta che Nibbs era stato inseguito da un branco di lupi, al limitare del corso del Fiume del Coccodrillo. Lo avevano inseguito per quasi tutti la notte, facendolo correre nei peggiori anfratti, tra le radici dei monti. Dopo molte ore, quando finalmente Pan e i suoi l’avevano trovato, non era messo poi così male.
Aveva ucciso un lupo usando semplicemente un coltellino da tasca e lo aveva in qualche modo decapitato, aveva svuotato la sua testa e aveva preso a saltellare attorno al cadavere ballando una strana danza della vittoria. Quando dovevano affrontare una missione particolarmente importante, tirava ancora fuori quel copricapo maleodorante ma in perfette condizioni, manco fosse riuscito ad imbalsamarlo.
Dopotutto ne valeva la pena. Ci aveva perso tre dita di una mano quella notte, ma non era morto.
 
Sligthly, detto Sly, non era il più amato o simpatico della compagnia.
Era famoso per essere particolarmente presuntuoso, ironico in modo poco consono alla sua posizione. Alle volte tentava di sfidare Peter, ma alla prima occhiata di ammonimento fuggiva con la coda fra le gambe. Non aveva il coraggio di risponder male a Rufio, figurarsi al grande capo.
Questa sua presunzione nasceva però dal fatto che aveva deciso di sua iniziativa di lasciare casa sua per seguire Pan, nonostante avesse un padre amorevole che faceva di tutto per farlo felice. La sua voglia di soddisfare ogni suo capriccio l’aveva portato a spezzare quel vincolo, ma aveva portato con sé un paio di cose, prima di partire: un orologio da taschino che però segnava sempre le undici di sera e il suo vecchio flauto a canne, regalo di quel padre che aveva abbandonato, con inciso sopra il suo vero nome.
Edward.
Conoscere il proprio nome di battesimo, a Neverland, era un lusso unicamente suo.
 
A far compagnia a Felix e Nibbs, nel girone dei più ‘pratici’ c’era Curly, detto anche Cubby. Per quanto potesse sembrare gentile e altruista nei confronti degli altri ragazzi, era un autentico sadico.
Quando Peter dava loro il permesso di ‘giocare’ con gli Indiani, era il più bravo nel tiro al bersaglio: riusciva a centrarne uno con una sola lancia da distanze considerevoli.
Adorava le scommesse.
Da sotto a quel cesto di foltissimi ricci neri che si ritrovava, un paio di vispi occhietti neri controllavano  e calcolavano le probabilità di vittoria o meno che aveva.  Non era il più intelligente, ma in fatto di astuzia lo superavano ben in pochi.
Non riusciva a starsene con le mani in mano per più di dieci minuti.
Seppur ai bambini bastasse desiderare qualcosa per ottenerlo, lui preferiva costruirsi da solo ogni cosa.
Aveva legato fra loro delle canne di bambù per giorni, prima di iniziare a costruirsi un giaciglio per la notte che fosse sollevato rispetto alle tende degli altri, al fine di evitare agguati notturni da qualche altro Bambino Sperduto.
Se ne stava spesso sulle sue, se non per timidezza, a causa di un carattere particolarmente introverso.
 
Marmaduke e Binky non erano solo inseparabili nella vita, ma anche nella nascita. Erano, di fatto, gemelli.
Identici in praticamente ogni cosa, era quasi del tutto impossibile distinguerli a colpo d’occhio.
Biondissimi, alti e magri come delle asce, avevano entrambi gli occhi  azzurri e furbetti.
Venivano chiamati anche First e Second Twin, ma visto che era difficile chiamarli così a causa della difficoltà nel distinguerli, questi soprannomi erano una priorità di Peter e degli stessi.
Nonostante la loro unità, tendevano a litigare di frequente. In quei casi, era quasi impossibile rimanere all’accampamento, tanto l’atmosfera si tingeva di nero attorno ai due litiganti. Solo quando facevano pace, l’aria tornava ad essere respirabile.
Come tutti i gemelli, erano molto in sintonia fra loro seppure nel profondo avessero due caratteri molto diversi. Completavano uno la frase dell’altro ed erano molto bravi a fare scherzetti al resto dei Bambini Sperduti.
E a commettere omicidi.
Così bravi che, se serviva un lavoretto pulito, loro erano i prescelti . Silenziosi come il vento e veloci come i fulmini.
Venivano poi tutti gli altri, meno interessanti di questa manciata di ragazzini che vi ho ora introdotto, ma ugualmente fedeli alla causa di Pan.
Pocket e la sua intelligenza sopra alla media;  Ace, insieme alla sua nomea di spione, tanto grande da far pensare agli altri che potesse avere orecchie per tutta l’isola; No Nap e il suo pessimo caratteraccio, sempre pronto ad attaccare briga; Small, che fra tutti sembrava il più piccolo, ma non si tirava mai indietro davanti a nulla; Tubby Ted e la sua mania per i dolci,  Prentiss,Thudd Butt. …
 
Ognuno di loro aveva un compito e si sforzava al massimo per eseguirlo alla perfezione.
Ognuno di loro avrà un ruolo nella storia, un posto unico e, per una volta, da protagonista….
 
 
 
 
 
 
 
 
Nda.
Approdo finalmente anche in questo fandom, dopo molti tentennamenti!
Dopo un brainstorming anche relativamente veloce riguardo i protagonisti della mia prima ff su OUAT, la scelta è caduta su quello che –mi dicono- so fare meglio: dare la voce a tutti quei personaggi che vengono quasi sempre ignorati.
Beh, io adoro Peter Pan, adori i Lost Boys e adoro la loro cattiveria. Sono adorabili, non trovate?
 
Questa è solo un’infarinatura veloce dei nostri protagonisti, dal prossimo capitolo approfondirò maggiormente ciascuno di loro e laverò anche molto su una trama che comprenderà Wendy, Tiger Lily, Hook e altra gente che non voglio rivelarvi….
Se no che gusto c’è?
 
Grazie a chi è arrivato a leggere sino a qui, lo so che i miei sproloqui sono noiosi, quindi vi segnalo solo la mia pagina da autrice, dove scrivo ‘l’avanzamento dei lavori’ e posto cavolate come se piovesse:

https://www.facebook.com/pages/Chemical-Lady-EFP/212620025460195
 
Per qualsiasi cosa, potete scrivermi in pv o invocare il mio nome la notte, davanti ad uno specchio.
Apparirò nella vostra stanza, promesso. U.u
 
Grazie a chi ha letto sino a qui, anche se l’ho già detto.
Ogni recensione sarà molto amata e apprezzata! Donate l’otto per mille del vostro tempo alla causa ‘salviamo l’autostima delle attrici, scriviamo qualcosa in sincerità’.
Per incoraggiarvi/aiutarvi, vi lascio con  una domanda: a colpo d’occhio, quale è il personaggio introdotto che ha maggiormente catalizzato la vostra attenzione?
 
Spero di postare il prima possibile il seguito,
A presto!
 
Jessy.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo: A Place to Belong. ***



~  The Price
to Pay.


Capitolo secondo.
A placet to belong.
 
 
 
 
 
 
 
 
“Padre, quelle due stelle, come si chiamano?”
Degli occhi chiari come l’acqua di un torrente iniziarono a scrutare il cielo, mentre un uomo si portava proprio accanto al figlio, appoggiandosi al parapetto della nave. Con un gesto quasi teatrale si bloccò accanto a lui. Il ragazzino ridacchiò, mentre lo guardava assottigliare lo sguardo “Quali stelle, Daniel?”
“Quelle laggiù! Sono più grandi e luminose di tutte le altre. Indicano una qualche rotta?”
Il genitore si sforzò sul serio, concentrandosi al fine di trovare la fonte della sorpresa del figlio. Ma non vide assolutamente nulla. Si limitò ad appoggiare una mano sul suo capo, parlandogli di ogni altro corpo celeste visibile dalla loro nave alla fonda, ma di quelle stelle che tanto avevano catalizzato la sua attenzione, nemmeno un accenno.
Erano strane, troppo belle e luminose per poter venir catalogate insieme alle altre, ma allo stesso tempo parevano visibili solo a lui. Ne sua madre, ne suo fratello Damian potevano scorgerle, esattamente come suo padre.
Da quando le aveva viste per la prima volta, quella notte a Singapore, erano diventate una sorta di ossessione per lui. Daniel arrivò al punto da credere di averle inventate lui, di aver collocato lui stesso quei due occhi celesti lassù, fra le altre stelle, perché se suo padre non le conosceva, allora di certo non esistevano davvero. Gordon Locke era un pirata, un uomo di mare, che conosceva la collocazione degli astri molto meglio di quella della terra ferma.
Ergo, non poteva sbagliare.
Nonostante ciò, lui continuò a vederle ogni sera della sua vita, fino a che essa non cambiò drasticamente.
Erano da poco giunti a Londra, il luogo in cui era nato e da cui proveniva suo padre, quando le urla lo svegliarono.  Si alzò a fatica dalla sua branda, nella cabina del capitano, vedendo che accanto a lui non c’era nessuno. Il fracasso sembrava provenire dal ponte e quando l’urlo di una donna gli arrivò distinto alle orecchie, sentì il sangue gelarsi nelle vene. Solo a quel punto lasciò perdere le scarpe, correndo a perdifiato sul ponte.
Daniel non aveva mai visto un ammutinamento, ma sapeva comunque riconoscerlo a colpo d’occhio. Sulla nave si erano create due fazioni, una a favore di suo padre e una a favore di un pezzente che avevano raccolto per mare almeno tre mesi prima e che aveva iniziato ad avanzare pretese sul comando.
Bel ringraziamento, davvero.
Scivolando fra duelli alla spada e uomini caduti, cercava ansiosamente la sua famiglia. Ma non trovò suo padre, ne sua madre. Solo Damian che gli venne in contro con il terrore negli occhi e un taglio sul viso.
“Daniel! Presto!”
Il modo in cui lo afferrò per il braccio, caricandolo a forza su una scialuppa, e l’urgenza con cui gli consegnò una spada – la sua spada – lo confusero ancora di più. Perché lo stava mandando via?
“La nave è perduta, devi scappare subito!”
“Scappare?! E dove andrò?!”
“Rimani nei pressi del molo, se sopravvivremo, verremo a cercarti.” 
Le parole furono sbrigative, scelte con cura al fine di rassicurarlo, ma quel sentimento che Damian voleva infondergli non toccò il cuore del più piccolo. Negli occhi del fratello, Daniel lesse un addio.
Fece di tutto per non farsi calare in mare, si aggrappò a lui, strappandogli la bandana rossa che portava sui capelli, ma non riuscì a far altro, perché Damian tagliò la corta che sorreggeva la scialuppa con un coltellino molto prima che potesse addirittura parlare.
Con un tonfo, cadde tra le onde del mare, ma il legno resse l’urto, salvandogli la vita.
Poteva rimanere e combattere, era uno spadaccino da non sottovalutare, ma suo fratello aveva deciso al suo posto la direzione che il suo Destino avrebbe assunto da quel momento.
Così, mentre remava con gli occhi umidi di lacrime verso una riva che pareva irraggiungibile, Daniel fissava quella che prima era la sua casa, senza sapere che le stava dicendo addio per sempre insieme a tutti coloro che amava e che erano stati la sua famiglia.
Alzando gli occhi verso il cielo, una volta ormeggiata la barchetta, lo trovò spento come i suoi occhi sottili. Non vide nemmeno quelle stelle luminose per molto, molto tempo.


 
 
 
I rami degli alberi, carichi di soffici foglie fresche, erano il miglior giaciglio che Rufio potesse chiedere. Steso a pancia in su, con il volto puntato verso la moltitudine di stelle brillanti risplendevano nel cielo, rifletteva.
Non si ricordava da quanto tempo non sorgesse il sole. Certo, il concetto di ‘tempo’ era parecchio relativo a Neverland; alle volte veniva giorno per quelli che sembravano pochi minuti contati, altre volte il sole pareva non volersi scollare dal cielo.
Quella volta, però, sembrava passata un’infinità dall’ultima volta in cui si era steso sulle pendici di qualche rupe, coccolato dal calore di una serena giornata.
In effetti, sembrava passato parecchio anche dall’ultima volta che aveva vissuto a pieno una giornata tranquilla.
“Bell?” chiamò con voce bassa, arrochita dal pisolino che aveva schiacciato prima e dallo stare tanto in silenzio. Sopra al suo petto, una piccola fatina bionda alzò il capo guardandolo con occhi stanchi “Non ti manca il sole?”
La fatina si mise seduta, incrociando le gambe e volgendosi nella direzione del suo viso mentre passava un pugno chiuso sugli occhietti. Si sentiva come se avesse dormito decisamente troppo. Una volta rimesso a fuoco il mondo, alzò lo sguardo verso il cielo, cercando un qualsiasi segno del giorno che stava per giungere. Nulla, solo buio e stelle. “Di giorno la mia luce non si vede bene, quindi ho sempre preferito la sera, ma…. È da tanto che non vedo i raggi accarezzare tenui l’acqua del mare e un po’ mi manca.”
Rufio sospirò “Ti ricordi quando ci siamo conosciuti, e tu mi hai detto che il tempo e il clima qui sono come regolati da Peter?”
Tinkerbell annuì “In base al suo stato d’animo, esatto. Da quando è arrivato lui e Ombra si sono come fusi e quindi lui stesso è diventato parte dell’Isola.”
“Come pensi che potremmo interpretare tutto questo buio, quindi?”
Mordendosi un labbro, la fatina tacque. Era passato un tempo in cui adorava tutto quello che Pan rappresentava; era come una sorta di confidente per lui e si era spesso sentita come abbagliata dal carisma del ragazzo, seppur egli nascondesse sotto di esso qualcosa di terribilmente oscuro.
In quell’ultimo periodo, però, qualcosa stava cambiando. In meglio o in peggio che fosse, stava cambiato.
Non fece comunque in tempo a dare una sua interpretazione di quel fatto, che qualcuno si schiarì la voce ai piedi dell’albero attirando così la loro attenzione. Inizialmente ne fu sollevata, - preferiva evitare di giudicare qualsiasi comportamento di Peter, onde evitare di infastidirlo - fino a che non si accorse dell’identità della persona che stava cercando di richiamarli.
“Mi dispiace disturbare questa conversazione profonda e a cuore aperto” Sotto di loro, fra le frasche, videro il volto beffardo di Felix “A Pan servi subito, Rufio. Vuoi farlo davvero aspettare per spettegolare con quell’inutile fatina?”
“Hey! Non permetterti, Felix! ” Tinkerbell si alzò in volo, perdendo un poco di polvere sul petto del morettino. Davvero troppo poco, in effetti.
“Sai come si dice, Honey. Quando una mucca smette di fare il latte viene abbattuta.”  Rilanciò il biondo, appoggiando entrambe le braccia sulla sua preziosa mazza di legno, che teneva appoggiata dietro al collo. Quel suo tono canzonatorio la fecero arrabbiare al punto tale che non riuscì a rilanciare più.
“Sei un vero contadino, Felps.” Disse Rufio, senza staccare gli occhi dal cielo.
“E tu un vero pirata.”
Quelle parole lo convinsero ad accontentarlo, solo per farlo tacere. Sbuffò, afferrando il ramo sotto di lui e capovolgendosi all’indietro, atterrando con un agile salto sul manto erboso  “Come se far aspettare Peter fosse poi chissà quale crimine. Se è vero che il tempo qua non passa, non vedo tutta questa urgenza.”
La corteccia dell’albero era parecchio ruvida, ma Rufio lo realizzò solo quando ci andò a sbattere contro. Guardò con astio il viso del biondo, che stava a due centimetri dal suo, contorto in un’espressione irata “Verrà un giorno in cui ti farà passare tutta questa arroganza…”
“Beh, anche quel giorno sarò comunque il suo braccio destro e tu nulla più che bassa manovalanza…”
Tinkerbell afferrò il biondo per il cappuccio, cercando di tirarlo via da Rufio “Smettila!”
Lui, per risposta, le diede una manata che per poco la fece cadere a terra.
A quel punto, Rufio lo spinse via “Fai pure il prepotente finché puoi, Felix. Arriverà il giorno in cui tu verrai sistemato per la tua faccia tosta.”
“Non sino a che sarò il più fedele a Pan. Tu invece?”
Ogni volta sempre la stessa storia. Che non si sopportassero era risaputo, tanto che venivano spesso anche alle mani, ma nessuno dei due si sbilanciava mai troppo e lasciava correre per evitare di creare davvero dei problemi. Quella volta fu Rufio a non replicare oltre. Gli passò accanto dandogli una spallata, prima di avviarsi sul sentiero per tornare all’accampamento.
Sentì una risata beffarda di Felix, ma non vi diede peso. Solo Tinker pareva decisa a non cedere, tanto che una volta che si fu appoggiata sulla spalla del morettino, si voltò verso l’altro che procedeva dietro di loro e gli fece una linguaccia.
Come al solito, ci avrebbe pensato il capo a gratificare il migliore tra i due e di questo Rufio aveva la certezza.
L’accampamento si rivelò più caotico del solito. Ovunque c’erano ragazzini che camminavano a passo spedito da una parte all’altra, imbracciando armi o parlando concitati fra loro.
Quando Rufio raggiunse Pan, chino su una mappa dell’Isola insieme a Tootles, si schiarì la voce “Che succede?” si accorse solo in quel frangente che Tinkerbell non sedeva più sulla sua spalla.
Peter lo guardò serio “Succede quello che ti avevo detto che sarebbe successo” Rispose secco. Sembrava irritato e non andava bene per nulla. “Il Capo Toro in Piedi mi ha mandato a chiamare e mi ha comunicato le sue chiare intenzioni di ‘eliminarci’ se non smettiamo di comportarci come i padroni dell’isola.” Sbuffò, tra il divertito e l’offeso, guardando Rufio e poi Felix con il fuoco nello sguardo “Ha intenzione di chiedere ausilio ai Cannibali.”
“Con i quali, però, abbiamo un patto.” Si intromise mellifluo Felix, incrociando le braccia sul petto, sotto alla mantella marrone “Cosa vuoi che facciamo?”
“Tu andrai alla spiaggia ad eseguire le tua mansioni come ogni sera.” Decretò sbrigativo Peter, sistemandosi la fibbia della cinta che sorreggeva il suo pugnale dalla lama lunga “Ombra porterà qui altri bambini, mi serve che tu ti accerti di chi merita di unirsi a noi e di chi invece è meglio sbarazzarsi più o meno immediatamente, rispedendolo via. Ovviamente, assicurati che tutti abbiamo il trattamento che meritino al fine di ricordarsi per tutta la vita di Neverland. Rufio, tu devi andare dai Cannibali e ritirare ‘quella cosa’. La voglio qui il prima possibile e-”
“Devo occuparmi dei mocciosi mentre a lui assegni un compito del genere?!” la voce di Felix uscì più arrabbiata del previsto, ma decise di darsi un contegno. Non voleva indispettire Peter o trasgredire i suoi ordini, ma iniziava a sentirsi frustrato da quell’atteggiamento nei suoi confronti. Prese un respiro profondo, nascondendosi sotto al cappuccio per non vedere l’espressione contrariata di Pan “Sarà fatto.”
“Molto bene, porta con te Nibbs e Pockets.” Si voltò quindi verso Tootles “Tu invece sai che fare.”
“Proteggere l’accampamento insieme a Ted, Thud e Small.”
Con un cenno del capo, Peter asserì “Ace, Cubby e Nap sono già alla spiaggia. Ti conviene affrettarti, Felix.”
Rufio lo guardò divertito, prima di voltarsi verso il capo con un ghigno parecchio compiaciuto “Io prendo i Gemelli?”
Pan si limitò ad annuire, “Io invece farò una visitina alle sirene. Giusto per capire se posso o meno contare su di loro.” Batté le mani un paio di volte per attirare l’attenzione generale. Uno ad uno, i ragazzi si radunarono attorno a lui, sollevandosi i cappucci, rinfoderando le armi o sistemandosi i mantelli, “Portate a termine gli incarichi che vi verranno assegnati a dovere, perché questa volta rischiamo molto più di quello che credete. Questa è la nostra casa e presto gli Indiani capiranno che, per loro, non c’è più posto. Per Neverland!”
“Per Neverland!”
Quando il coro svanì, tutti iniziarono a darsi da fare.
Rufio scambiò semplicemente uno sguardo con Felix, prima di dargli le spalle seppur con un po’ di timore di sentire un coltello ficcarsi nella sua schiena. Non accadde, così radunò a sé i suoi due amici e insieme partirono, percorrendo un sentiero scosceso che dall’Albero dell’Impiccato li avrebbe condotti alla Laguna dei Cannibali.
Era quella la differenza tra loro due: Rufio non pretendeva di essere il migliore, ne sentiva quell’opprimente competizione che provava Felix.
Lasciava semplicemente che fosse Pan a fugare ogni dubbio.
 


 
 

 
La vita da bucaniere non era certo rose e fiori; rotte pericolose, mari in tempesta, mesi interi senza mai toccare la terra ferma, notti senza fine e giorni afosi…
Ma tutto, tutto era meglio della vita che attese Daniel quando si ritrovò solo, per le vie di Londra, senza nulla con sé se non la spada di suo fratello e una certa dose di coraggio e intraprendenza. Non si arrese mai, nonostante la consapevolezza di essere solo al mondo, e andò avanti al meglio delle sue possibilità.
In un primo periodo, fu accolto in un orfanotrofio dall’aria malandata, dove almeno era circondato da tanti altri bambini dall’infelice esistenza, come la sua. Passò qualche anno prima che la voglia di risentire la libertà scorrergli tra le dita si facesse troppo impellente.
Unirsi ad un gruppo di ragazzini per strada fu il passo successivo verso un inevitabile rovina. Da rubare il cibo che gli serviva per sopravvivere era passato a rubare oggetti da poter rivendere, prima di diventare un abile taglia borse.
Il confine tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato si era fatto sempre più labile.
Così, un giorno, non ci aveva pensato due volte a infilare la spada di Damian nel petto di un uomo. Il motivo della discussione era stupido e lui non c’entrava nemmeno nulla. Aveva preso a strattonare uno dei ragazzini che vivevano con lui e, per difenderlo, era quasi arrivato alle mani con quest’uomo mai visto prima.
In un istante, le sue mani si erano tinte per sempre del rosso del sangue, come un marchio indelebile di un ricordo che mai e poi mai avrebbe potuto scacciare.
Da lì fu braccato e sapere che se l’avessero preso l’avrebbe atteso solo una morte crudele, con il capo appoggiato su di un ceppo, lo spinsero a cambiare nuovamente la sua vita. A causa di una stupida intromissione aveva segnato il suo Fato per sempre. Non poteva più rimanere in quel quartiere così si ritrovò, per l’ennesima volta, solo.
Il doversi spostare spesso e il non potersi fidare di nessuno, iniziarono a pesargli sull’anima, spegnendo la sua tenacia. Si ammalò con il primo freddo di fine ottobre, quando una sottile spolverata di neve prese a depositarsi sul piccolo paese che aveva raggiunto camminando in lungo e in largo, nel tentativo di abbandonare la città.
Con il respiro sempre più corto e la fronte bollente, raccolse la compassione di una piccola famiglia che lo accolse per qualche tempo in casa sua. La padrona di casa era una donna sulla quarantina con cinque figli da curare e un marito morto da qualche tempo. Era una donna molto dolce, povera ma che tutto ciò che aveva lo donava.
Adorava le fiabe e ne raccontava una diversa ai suoi figli ogni sera. Rufio si perdeva nelle sue parole, cacciando draghi sputa fuoco o cercando antichi tesori in terre lontane. Una favola, però, lo colpì particolarmente.
‘Seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino’.
Nel momento in cui la sentì per la prima volta, divenne la sua preferita; gli ricordava la sua infanzia, quando guardava le stelle con suo padre e lui poteva vedere quelle due più alte e più luminose di tutte. Poi Neverland…. Non esisteva un luogo più bello! Lì un bambino poteva vivere bellissime avventure, poteva volare, mangiare dolci e non aveva nessun adulto che potesse comandarlo. Doveva essere un luogo così bello e magico…
Si ritrovò a fantasticare spesso su quell’Isola, desiderando ardentemente di recarsi lì almeno nei suoi sogni. Non ci riuscì mai però
Non sino a che non fu costretto ad andarsene, per l’ennesima volta.
La donna che lo ospitava aveva a mala pena il cibo per i suoi figli, così, una notte di fine febbraio se ne andò. Sapeva che forse non sarebbe riuscito a sopravvivere al freddo della campagna inglese in pieno inverno, ma non riusciva a sentirsi così tanto un peso.
Ormai non aveva nemmeno più paura di morire, tanto la sua rassegnazione era forte.
Poteva augurarsi di arrivare all’equinozio di marzo vivo, però. Una volta arrivato il pallido sole primaverile a sciogliere la neve e a riscaldargli il volto, le sue chance sarebbero aumentate. Ogni speranza si infranse, però, quando si ammalò nuovamente.
Camminò per giorni con il peso opprimente della tosse e della febbre a comprimergli il petto, fino a che non si arrese, stendendosi sotto ad una quercia altissima, che delimitava l’ingresso ad un paese. Non sarebbe mai riuscito a fare un passo in più per chiedere aiuto.
Si mise sotto di essa, stringendosi nel mantello che aveva rubato poco dopo la morte dei suoi genitori, tenendo in mano la spada di Damian. La bandana la portava sui capelli, così come ogni giorno della sua vita da quando era successo. In un certo senso si sentì sollevato.
Stava morendo, non avrebbe più sofferto la fame o il freddo e forse avrebbe addirittura incontrato di nuovo la sua famiglia. Già immaginava il saluto di Damian che pretendeva di riavere le sue cose, il sorriso affettuoso di suo padre che lo accoglieva sulla loro nave e l’abbraccio caldo e profumato di sua madre.
Chiuse gli occhi con questa immagine in testa, deciso ad abbandonarsi del tutto, mentre riprendeva a nevicare.
Così ammalato ed intontito non si accorse dell’Ombra nera che si chinò su di lui nell’esatto istante in cui perse del tutto conoscenza. 
 
 

 
Di ritorno all’accampamento, Rufio si sentiva uno straccio. Contrariamente ad ogni previsione, i Cannibali del tempio, presso il quale era custodito l’oggetto che tanto interessava a Peter, avevano opposto una certa resistenza.
Non usava la spada da un po’ e quel fendente che era riuscito a ferirlo al braccio –seppur superficialmente- l’aveva destabilizzato.
Per molto, molto tempo si era sentito intoccabile accanto a Pan, e per una volta aveva rischiato grosso. Grazie anche a Duke e Binky aveva però messo k.o. le guardie e il sacerdote. Gli ordini erano quelli di farne fuori quanti più possibili, sarebbero stati nemici in meno da affrontare, ma essendo solo in tre non si erano spinti troppo oltre.
L’importante era che tra le sue mani ci fosse quello strano oggetto quadrato dall’aria stranamente inquietante. Peter aveva parlato ben poco di quell’affare con lui, ma ciò che sapere gli era bastato a far capire a Rufio che si trattava di un’arma potentissima, tramite la quale gli Indiani avrebbero potuto imprigionare Pan per sempre.
Se lo pensava Peter stesso doveva per forza essere vero.
Ci avevano messo più tempo del previsto, visto che il tempio era collocato in una radura a poche centinai di metri da un bosco fitto che conduceva direttamente alla laguna attorno alla quale vivevano quei pochi Cannibali che erano rimasti. Avevano quindi aggirato la zona, per evitare di incappare in uno di loro. Erano già pochi prima dell’arrivo di Peter e dei Bambini Sperduti. Poi i continui attacchi e tentativi di prenderli avevano spinto Pan a iniziare una lunga campagna di ‘bonifica’ di quella zona, come l’aveva chiamata divertito Pockets.
Ormai erano rimasti una manciata, per lo più inoffensivi. In modo particolare una volta persa la sola arma che potevano usare contro Pan.
Una volta ripresi sentieri conosciuti e sicuri, si fermarono e Duke bendò la ferita di Rufio, mentre Binky teneva la guardia, guardandosi attorno circospetto.
Il primo dei gemelli lanciò uno sguardo all’oggetto che avevano appena rubato, sbuffando scettico mentre assicurava la benda strappata dal suo mantello attorno al braccio del moro “Tutta questa fatica per una scatola?”
“Questa è molto più di una scatola.” Rispose con un sorrisetto divertito Rufio, alzandole per portarla davanti al viso dell’amico. Anche Binky si fece vicino.
“E cosa sarebbe, quindi?” domandò curioso quest’ultimo, toccandone piano uno spigolo con la punta dell’indice “Sembra molto vecchia.”
“Vecchissima, in effetti.” Decretò Rufio alzandosi di nuovo in piedi per riprendere la marcia “Peter mi ha detto che viene da un altro mondo e che è stato mandata qui perché nessuno la potesse usare. Nelle mani sbagliate potrebbe causare danni che vanno oltre la nostra comprensione.”
I Gemelli si scambiarono uno sguardo che sfiorava quasi il diabolico.
“Oh, ora capisco…”
“...Perchè Peter la vuole per sé.”
Anche il moro si lasciò sfuggire un sorriso che pareva più un ghigno, prima di riprendere le redini della conversazione, dirigendola altrove. Si ritrovarono a discutere di Felix senza nemmeno averlo predetto.
Tutti, eccetto lui, rispettavano il ragazzo.
Non chiese il perché, si limitò a storcere appena il naso mentre i due gemelli biondissimi si lanciavano in un racconto di Felix che sfiorava quasi l’eroico, nel quale avrebbe ucciso un cinghiale enorme con una semplice mazzata sulla tempia.
Il tutto davanti a loro.
Quasi si commosse per la felicità, quando raggiunsero finalmente l’accampamento.
Ad accoglierli ci fu Cubby, che subito li fece passare guardando curioso quello che Rufio reggeva fra le mani. “Ce l’avete fatta! Stavamo per uscire a cercarvi!”
“Non è andata affatto liscia, abbiamo dovuto fare un po’ di pulizia prima di fare ciò che Peter ci ha chiesto! A proposito, è tornato?”
“Da un pezzo. Credo sia da qualche parte vicino alle tende.”
Rufio avrebbe voluto rispondere che quella era in assoluto la risposta più cretina mai sentita: la zona delle tende era tutto l’accampamento, e non era nemmeno poi così limitata!
Con un sospiro mandò i Gemelli a riposarsi, prima di iniziare a vagare quasi alla cieca. Le tende e le piccole costruzioni che ogni ragazzino aveva provveduto a costruirsi erano situate tutte attorno ad un falò che Tubby Ted aveva l’ordine di tenere sempre acceso e alcune di esse erano persino nascoste dalla vegetazione.
Alzò gli occhi sulla cima dell’Albero dell’Impiccato, dove tra i rami contorti Peter aveva situato il suo giaciglio e cercò di capire se era lì, ma nulla.
Quando finalmente lo trovò, rimase alquanto spiazzato dalla scena che si trovò davanti: Peter se ne stava chino in terra, con un ginocchio appuntellato sul terreno umido e le mani incrociate sull’altro. Non era quella però la cosa strana…
Davanti a lui c’era una ragazzina bionda dall’aria spaventata ma allo stesso tempo rapita. Peter la stava guardando in modo strano, intenso e smise solo quando notò il ragazzo. Solo a quel punto scattò in piedi camminando verso di lui “L’hai recuperato.” Non era una domanda.
Rufio annuì comunque, porgendoglielo “Eccolo.”
Sul viso di Pan si disegnò una smorfia vittoriosa “Il Vaso di Pandora…”
In quel sorriso trionfale, Rufio si rispecchiò a pieno. L’appagamento di Peter era il suo, poiché era stato in grado di dargli una famiglia e una casa, quindi qualsiasi sua richiesta nei suoi confronti si era fatta d’improvviso legittima.
Non gli importava nemmeno cosa ci avrebbe fatto Pan con quella cosa, non stava a lui fare domande.
Avrebbe sempre fatto di tutto per aiutarlo a perseguire i suoi scopi, perché Peter Pan gli aveva dato la cosa più preziosa del mondo, per lui: un luogo a cui appartenere.
 
 
 
 
 
Riaprire gli occhi fu strano e meno doloroso del previsto.
Davanti a lui non vide nulla, se non dei sottili fili d’erba verdi, accarezzati dalla luce di una lieve aurora. Dove diavolo era finita tutta la neve?
Si alzò, facendo leva sulle braccia doloranti e gemendo piano nell’avvertire che la febbre che pareva essersi quietata, in realtà, era ancora lì. Non aveva una sola parte del corpo che non gli dolesse, in particolar modo il capo.
Quando riuscì a mettersi quanto meno in ginocchio, si ritrovò ad ammirare un luogo mai visto prima. La vegetazione era rigogliosa e tinta di vivaci colori. Il cielo sopra la sua testa era azzurro come quello primaverile e l’aria era cosparsa del profumo di mille frutti. Sentì la pancia gorgogliare, mentre cercava di mettersi in piedi.
Non poteva essere ancora in Inghilterra, poiché di luoghi del genere non ve n’erano in Bretagna. Si guardo attorno cercando di evitare possibili capogiri, mentre una serie di colpi di tosse lo costringevano a piegarsi in due sulle ginocchia.
Poi, un pensiero lo trafisse come un dardo: che fosse morto sul serio? Quello era il Paradiso che tanto aveva sentito descritto nell’orfanotrofio cattolico in cui era finito anni prima? Sì, doveva essere il giardino dell’Eden! Un luogo così bello non poteva esiste sulla terra.
Spinto da uno spirito nuovo, mosse qualche passo, ma era ancora troppo debole.
Si concentrò, nel tentativo di cercare un bastone a cui appoggiarsi, quando avvertì un leggero spostamento alle sue spalle. Non fece in tempo a voltarsi che una voce chiara arrivò alle sue orecchie “Sembri ridotto male, che ti è successo?”
Per la sorpresa incespicò, cadendo all’indietro. Davanti a lui però non c’era un potenziale assalitore o un brigante, ma un ragazzo come lui, forse più grande di uno o due anni al massimo.
Aveva lo sguardo leggermente confuso e sorpreso, ma non sembrava avere cattive intenzioni. Lasciò scorrere lo sguardo sui suoi abiti, molto diversi da quelli che portava lui, osservando la fattura di quella casacca verde e dei bizzarri stivalacci alti che portava ai piedi.
“Ti ho fatto una domanda, non credi sarebbe una cortesia da parte tua rispondermi?”
Trasalì, cercando di rialzarsi, ma inutilmente. Si sentiva come una tartaruga sul guscio, “Scusa! Io…. Uhm… Sono appena morto e non capisco…”
Il biondo alzò un sopracciglio “Morto? Non puoi essere morto”
Si sentì così confuso, più di quello strano ragazzo. Come poteva non essere morto? Tutto ciò non aveva senso “Questo non è il Paradiso?”
Il biondo lo fissò corrucciato, prima di scoppiare a ridere di cuore. “No, questo non è quel luogo che tu chiami ‘Paradiso’.”
Quando lo vide staccarsi da terra, alzandosi in volo, per poco non si strozzò con la saliva. Era impossibile doveva essere morto! Come si spiegava tutto ciò se no?
Lo guardò atterrare su una piccola roccia, prima di allargare le braccia e pronunciare con torno tronfio “Questa è Neverland!”
Sentì il cuore perdere di un battito. Dal nulla ritrovò un po’ di energie e si alzò in piedi, camminando piano verso il ragazzo “Tu sei…. Tu sei Peter Pan?”
Il biondo incrociò le braccia, sorridendo tronfio “Ebbene sì. La mia fama mi precede in ogni mondo a quanto pare.” Lasciò passare qualche istante, prima di scendere dalla roccia e camminargli attorno per esaminarlo per bene “Sai come mi chiamo io, ma io non so come, ti chiami tu. Dovresti rimediare.”
Cercò di non farsi mettere in soggezione da Pan, ma alla sensazione di meraviglia si sostituì il panico. Iniziò a boccheggiare, cercando nella sua mente di ricordare il suo nome, perché non poteva averlo dimenticato. Non era possibile! Portò una mano alla testa, sperando che fosse la febbre a fargli quell’effetto, a dargli quel senso di vuoto ma…. Non aveva senso.
Alzò gli occhi su Peter “Non lo ricordo…. Come è possibile che io non ricordi il mio nome?!”
Pan parve quasi deliziato da quella scoperta “Sei un bambino abbandonato, vero? Hai perso tutti e tutto, per questo non ricordi molto, se non stralci di ricordi. Questo è l’effetto che fa Neverland su di te. Non preoccuparti, appena tornerai al tuo mondo domani mattina ti ricorderai chi sei. Ora dimmi, bambino, cosa vuoi fare nel tempo di un sogno? Volare? Vedere le sirene? O forse gli indiani?”
Abbassò il capo, appoggiando una mano sulla spada di suo fratello. Ironico, sapeva a chi era appartenuta ma non ricordava nemmeno più il nome dei membri della sua famiglia.
Ci mise poco ad arrivare alla conclusione che non voleva più ricordare nulla. Sentiva dentro di sé un grande vuoto, una sofferenza unica che non avrebbe mai più voluto abbracciare. Per nessun motivo.
Si avvicinò a Peter, che stava di spalle ad elencare la marea di cose che avrebbe potuto mostrargli mentre gesticolava e si aggrappò alla sua casacca “Posso rimanere?” domandò velocemente, prima di iniziare a spiegarsi “A Neverland, intendo. E per sempre. Tu sei solo qui, ad attendere i bambini che nei loro sogni vengono a farti compagnia. Io potrei diventare…. Tuo amico.”
Pan rimase di sasso a quella richiesta, prima di scoppiare a ridere nuovamente. Si sentì preso in giro come poche altre volte in vita sua “Tu vorresti rimanere? Sei il primo a fare questa richiesta.”
“Hai detto bene prima, io sono solo al mondo! Non voglio più vivere così io voglio un posto a cui posso appartenere. Ti prego, permettimi di rimanere a Neverland, non sarò un peso e ti aiuterò in tutto ciò che fai.”
Peter sembrò soppesare questa eventualità.
La solitudine era stato un prezzo alto da pagare, quando aveva deciso di diventare ciò che era ed ora quel ragazzino gli stava chiedendo di condividere quel fardello. Voleva appartenere a qualcosa, non era interessato alla magia o alla vita eterna.
Doveva averlo incantato, mentre elogiava l’Isola e tutte le sue meraviglie con fierezza, quindi ritenne quella richiesta comprensibile.
“Rimarresti in eterno un fanciullo, qui il tempo non scorre.”
“Non mi importa, sono stanco di stare solo.”
Quelle parole lo convinsero definitivamente. Pan alzò le braccia, come nel tentativo di spiegare una coperta e, quando le riabbassò oltre le spalle del ragazzo, essa era effettivamente apparsa. Era calda e profumata, di un tessuto così morbido da sembrare fatta di nuvole.
“Va bene.” Decretò semplicemente Peter, prima di appoggiare una mano sul suo capo per sfiorare la bandana rossa. “Puoi rimanere, ma a condizione che faccia sempre ciò che ti dirò, senza obiezioni.”
“Accetto, Peter.”
Il biondo annuì piano, prima di alzare una mano ed imporla davanti al viso del ragazzino moro. Dal palmo sembrò sprigionarsi una sottile nebbia verde che lo avvolse, rinvigorendolo e curandolo almeno in parte.
“Come ci riesci? Polvere di Fate?”
Peter scrollò il capo con un sorrisetto beffardo “No, sono io. E quest’Isola. Questa è magia, niente di più”
Gli fece cenno di seguirlo “Dove stiamo andando?”
Pan si voltò di nuovo, afferrandolo per un polso e alzarsi in volo con lui “Nella tua nuova casa, Rufio.”
 


Nda. 

Grazie a tutti coloro che hanno iniziato a leggere la storia e chi in particolare mi ha inserita tra seguite e preferiti.
Non mi aspettavo un tale riscontro solo al primo capitolo!
Come avete visto, siamo arrivati al punto in cui non si capisce nulla dei piani di Pan, ma che sicuramente svelerò presto!
...Spero!

Ho introdotto Rufio, che spero vi sia piaciuto -spiegazione del nome compresa- mentre nel prossimo capitolo vedremo il carissimo Felix
E non solo... Anche l'arrivo ben spiegato e descritto di una certa biondina...

Mando un bacio GIGANTE alla mia BFF Vale, che mi ha betato la storia e che ogni giorni subisce la mia presenza.
Sei la Wendy del mio Peter, entra nella gabbia Hon <3

Un grazie in particolare a chi ha recensito ** 
Mi avete fatto felicissima, grazie!

A presto. Un abbraccione a tutti
Jessy
 

 


 

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo: The Life I’ve Chosen. ***



~  The Price
to Pay.


Capitolo Terzo.
The Life I've Chosen.
 

 
 


Il fuoco davanti a lui stava iniziando ad affievolirsi, ma non gli andava di alzarsi per recuperare altro legname. Sentiva il freddo fin dentro alle ossa, come se esso fosse in grado di bloccargli legamenti e muscoli.
Se si fosse alzato, quel ginocchio malandato sarebbe saltato, altro che.
Abbandonò quei pensieri lamentosi, tornando ad incidere con perizia il bastone da passeggio che quello strano individuo aveva commissionato. Non l’aveva visto in volto, ma da lontano e di spalle pareva essere ricco quanto repellente.
Un individuo mai visto, sicuramente straniero, per esser chiari.
Stava ancora cercando di rifinire con eleganza il contorno di una rosa, quando la voce forte di suo lo fece sbagliare. “Bard! Dove diavolo sei, maledetto ragazzo?! Sempre a perdere tempo in stupidaggini!”
Stringendo gli occhi per sopprimere la vena omicida che si era messa a pulsargli nella tempia, il biondo ficcò il coltello nel terreno e spezzò il bastone con una pedata, prima di gettarlo nel fuoco. Tanto avrebbe dovuto ricominciare da capo.
Doveva presentare un lavoro impeccabile, come sempre.
“Schiatterai, prima o poi, maledetto bastardo.” Sibilò tra i denti stretti, afferrandone uno nuovo, ricavato dalla stessa noce dell’altro, e riprendendo da capo l’intero lavoro.
Quasi non sentiva più le mani nonostante fossero avvolte dai guanti quando arrivò a completare l’opera. La alzò davanti agli occhi, per controllare che non vi fossero segnacci o sbavature, ma l’incisione risultava pulita e precisa.
Ecco il suo premio per l’essere il figlio di un carpentiere e falegname: sapere lavorare il legno con una maestria a dir poco invidiabile, ma aver iniziato a farlo che non era che un bambino. Non sapere nemmeno cosa fosse, l’infanzia, ne come ci si sentisse nel passare del tempo in compagnia con degli altri ragazzini, immerso nei giochi.
Non aveva mai provato la felicità e non aveva mai riso davvero di cuore.
Passava la vita in quella triste casa che condivideva con suo padre e con la giovane che era stato costretto a sposare un anno prima, pregando per la morte di entrambi e la sua liberazione.
Da loro si recò, dopo aver spento le poche braci rimaste con una manciata di neve bianca, varcando la porta come se si trattasse delle porte dell’Ade stesso. Appoggiò i frutti del suo lavoro contro il muro, slacciandosi il mantello e guardando cupamente verso la tavola imbandita di pane e formaggi. Quanto meno, grazie alla sua fatica, non mancavano mai di cenare.
Ayra venne verso di lui con il solito sorriso luminoso da ragazzina spensierata, baciandolo sulla guancia. “Coraggio, siediti! Ho cucinato per te tutto il giorno!” Trillò allegra, riempiendo una ciotola con della zuppa prima di passarla al padre del marito.
L’uomo lanciò uno sguardo furtivo al figlio, senza degnarlo nemmeno di un saluto o di un cenno. Che si odiassero, non era di certo una novità.
Quando era piccolo, era solito testare la durezza del legno sulla schiena di Bard, sino a che non era cresciuto ricambiandogli il favore e rendendogli quasi inutilizzabile la gamba destra.
Era folle, quel ragazzo. Aveva qualcosa, negli occhi azzurri come il ghiaccio, di malato.
Non aveva mai degnato di uno sguardo la bella ragazza con cui l’aveva costretto a maritarsi, consumando il matrimonio solo per renderlo ufficiale e per poi riprendere a dormire nella stanza che era la sua da bambino.
Non era sano quel suo modo di vivere, come se cercasse in ogni modo di non crescere, di non diventare mai un uomo, aggrappandosi alla adolescenza.  Beh, se voleva continuare così, lui lo avrebbe solo accontentato “Sbrigati a mangiare, moccioso. L’acquirente del bastone che hai fatto oggi passerà non appena la luna toccherà la punta degli alberi.”
Ayra guardò senza capire entrambi, mentre spezzava una pagnotta di pane ancora caldo “Come mai ad un’ora così tarda? Che razza di uomo è?”
Il padre rise, tetro, guardando verso il figlio con espressione pregna di malignità “Lo scoprirà Bard, che ‘uomo’ è. Sbrigati a mangiare e vai a concludere la vendita, devi recarti ai limiti ovest della Foresta.”
Sperava di intimidirlo, ma non ci riuscì affatto; nel petto del biondo prese a vibrare una certa curiosità. Si ficcò in bocca un pezzo di formaggio, trangugiando un bicchiere di sidro, prima di alzarsi e recuperare bastone, mantello e spada. Non si sapeva mai, chi si sarebbe potuto trovare davanti.
Se la prese comoda, arrivando in quello che sarebbe dovuto essere il punto di incontro con un certo anticipo. Spiò le fronde degli alberi e i sentieri che da quella piccola radura si irradiavano per il Bosco Incanto e, quando fu sicuro di essere solo, si mise a sedere su un tronco d’albero.
Osservò di nuovo il bastone, prendendo il coltellino per levigare ancora di più una zona che si era scheggiata chissà come, soffiandovi poi sopra per ripulirlo da ogni residuo. Quando lo alzò davanti agli occhi per controllarlo, si trovò faccia a faccia con qualcuno.
Si sbilanciò per la sorpresa, cadendo all’indietro. “Cosa diavolo…?”
“Mi piacciono le persone che arrivano in anticipo agli appuntamenti, non mi fanno perdere tempo!” trillò quella losca figura, abbassandosi il cappuccio di un elaborato mantello color fumo. Il suo volto era semplicemente repellente, squamato, e gli occhi rievocavano quelli di un rettile.
“Chi siete voi?” domandò Bard con tono basso, rialzandosi il piedi con la mano libera appoggiata sull’elsa della spada.
Quell’ ‘uomo’ fece un buffo inchino, agitando in modo assai originale le mani “Tremotino, messere, o colui che vi ha commissionato il lavoro.”
Tremotino.
Aveva sentito parlare di lui all’osteria del paese a valle. Davanti a lui se ne stava l’Oscuro signore. Contro ogni previsione –sia sua che del suo interlocutore- non parve affatto turbato da ciò. Sorrise furbescamente, passandogli il frutto del suo lavoro come se si trattasse della spada più preziosa.
Tremotino afferrò il bastone, controllandolo per bene prima di mugolare appena, muovendo il capo come se stesse gongolando per la felicità “Sapevo di non poter sbagliare, nell’assegnare il lavoro a voi. Il prezzo fissato da vostro padre sono otto monete d’oro e mi sembrano ben spesi.”
“Al diavolo l’oro! Ho altro che desidero chiedervi e so che voi potete aiutarmi.”
Il folletto lo guardò inclinando appena il capo, incuriosito da tanta sfacciata intraprendenza “E cosa vorreste, di grazia?”
“La mia infanzia”
A quelle parole, Tremotino rise “E se vi dicessi che non posso accontentarvi in questo?”
“Allora permettetemi di rimanere così per sempre!” insistette Bard, facendosi ancora più vicino di qualche passo “Sono stanco di sentirmi un servo, voglio iniziare a vivere.”
L’Oscuro finse di pensarci su “Invero, potrei fare in modo di accontentarvi.” Si chinò verso il viso di Bard, sussurrando piano “Esiste un luogo, in un altro mondo molto lontano da qui, dove il tempo non scorre. Rimarreste giovane in eterno, se è quello che desiderate.” Si staccò, facendo qualche passo verso la foresta e mulinando il bastone sulla sua testa, prima di puntarlo al cielo “Seconda stella a desta, questo è il cammino! E poi diritto, sino al mattino!” prese a canticchiare, tornando a guardare il ragazzo davanti a lui.
Il biondo rimase in silenzio per un istante, chiedendosi se fosse una scelta saggia. Al solo pensiero di andarsene da quel luogo infernale, però, sentì la morsa che lo stringeva al cuore dalla nascita allentarsi. “Mi sembra un ottimo compromesso. Speditemi laggiù, quindi!”
Tremotino rise ancora “Non è così facile, signorino. La magia ha sempre un prezzo, che è sicuramente superiore ad un bastone intagliato.”
Bard deglutì, prendendo la decisione più importante della sua vita “Sono disposto a darvi qualsiasi cosa chiediate.”
L’Oscuro appoggiò il bastone alla spalla, tamburellandosi il labbro inferiore con un’unghia gialla e lunga “Cosa chiedo, quindi? Cosa chiedo…” girò attorno a lui, mentre Bard stringeva le mani in attesa di un esito. Quando si bloccò, alle sue spalle, Tremotino aveva un’espressione strana, come persa nel vuoto. Si umettò le labbra secche, prima di avanzare le sue condizioni “Voglio l’anima di tuo padre.” Disse senza mezzi termini.
Bard si voltò di scatto “L’anima di mio padre?”
L’Oscuro annuì “Diciamo che la mia è una specie di…. Curiosità personale. Un figlio sacrificherebbe mai suo padre per rimanere per sempre giovane?”
“Sì.” Rispose il biondo, lasciando appena il tempo a Tremotino di terminare la frase “Prendetevi ora l’anima di quel vecchio porco, se la volete, visto che per me non ha alcun valore. Prendetela e speditemi in questa terra magica.”
Il folletto non fece una piega, limitandosi ad annuire lentamente. “Ovviamente, dovrete partire da solo. Vostra moglie non-”
“Quella stupida ragazzina non è mai stata presente nei miei piani. Non me ne faccio di nulla e, se lo desiderate, potete prendervi anche lei.”
Tremotino lo guardò cupamente per un istante, prima di scoppiare nuovamente a ridere, battendo fra loro le mani “No, grazie, non mi serve anche lei. Mi basta vostro padre. Abbiamo un patto quindi?” chiese, allungando la mano verso quella di Bard.
Questi la strinse, sollevando appena un lato della bocca in una smorfia compiaciuta “Abbiamo un patto.”
 

 

 
“Trovi giusto che io sia qui a guardare in faccia tutti questi mocciosi, mentre Rufio raccoglie onori che non si merita?!”
Nibbs alzò gli occhi dal coltello che stava affilando, osservando Felix mentre se ne stava chino in avanti, con le mani appoggiate alle ginocchia e il volto all’altezza di quello di un bambino che piangeva disperatamente, aggrappato alla grande gabbia in cui era rinchiuso con almeno altri dieci ragazzi.
“Lo sai che io faccio il tifo per te, amico. Fino a che Pan però continua a preferire lui, non puoi far altro che eseguire quello che ti assegna.”
A quelle parole, il biondo si indispose e non poco. Mollò una sonora pacca contro la rete della gabbia, facendola tremolare contro i sostegni metallici di cui era composta. Andò velocemente verso Nibbs, afferrandolo per il colletto della giubba. Quando riprese a parlare, i suoi gesti vennero traditi dal solito tono pacato e calmo “Io sono onorato di fare parte degli Sperduti e ogni compito che mi viene affidato è importante tanto quanto uno di Rufio.”
Nibbs sorrise, sardonico “Ma sei tu che hai appena detto che la grande missione data a lui è molto meglio che star qui in spiaggia.”
“Persino spalare letame sarebbe più interessante che rimanere qui ad accogliere bimbetti da ogni mondo.” Fece qualche passo indietro, dopo averlo strattonato.
L’altro rise, voltandosi verso Cubby, Pockets e Ace, che stavano seduti attorno al fuoco mentre Nap fissava l’orizzonte silenzioso, dalla cima della piccola altura su cui si era piazzato “Avete sentito, ragazzi? Mai una volta che Felix la Volpe possa apprezzarci! Non saremo mai degni, nulla da dire.”
Nella mente di Nibbs, ad ogni Sperduto corrispondeva un animale. Lui era il coniglio, non perché gli mancasse il coraggio, ma perché diceva di ‘schizzare’ come un coniglio. Il suo cervello andava più o meno alla stessa velocità di una lepre, in ogni caso.
Peter era l’Aquila, che non si faceva sfuggire mai nulla e pattugliava i cieli di Neverland, mentre l’animale più furbo non poteva che essere Felix; Rufio era il Gatto, buono alle apparenze ma in grado di risolvere ogni problema usando gli artigli; i Gemelli erano astuti e collaborativi come una coppia di procioni, con tanto di mascherina da criminali quando scatenavano il caos nell’accampamento, la notte; Tootles era un Orso, perché aveva la stessa indole di autodifesa di quel animale e la tenerezza di un pupazzo; Ace era un Lupo, vista la pelle di colore in netto contrasto con gli occhi celesti…. In vero lo aveva chiamato così anche perché aveva desiderato più di una volta di spaccargli la testa a quel dannato spione; Pockets, che fra loro era il più giovane, nell’immaginario di Nibbs aveva assunto le sembianze di una piccola puzzola, forse a causa di quella strana striatura che avevano i suoi capelli, unica nel suo genere; Cubby era un Leone per via della criniera di ricci folti e delle occhiate che soleva lanciare quando ne aveva abbastanza.
Con gli altri non aveva abbastanza confidenza, o semplicemente non gli importava di loro. Perché quindi sprecarsi a trovare soprannomi?
Tornò a saltelli di lepre verso il fuoco, lasciandosi cadere sulla sabbia inumidita e scrollando i capelli color carbone subito dopo. Alzò poi gli occhi verso il cielo stellato dell’Isola, desiderando l’apparizione di Peter. Sentirlo suonare il flauto mentre attendevano Ombra sarebbe stato bellissimo.
Aveva già portato quattro bambini, quella notte, portandosene via altrettanti per rimandarli a casa. Usavano un metodo preciso per verificare che il tempo di prigionia ideale fosse passato: grattavano via tutto il muschio dal tronco di un albero e attendevano che ricrescesse. Ogni porzione di albero corrispondeva ad un bambino. In un luogo dove il tempo non passa, anche il crescere delle cose è fortemente relativo: un bambino poteva essere fortunato e rivedere il muschio anche in soli pochi minuti o in quelli che in un altro modo potevano anche essere centocinquanta anni.
Era un idea alquanto sadica e – naturalmente - di Felix. Per quella sera avevano finito con le partenze e attendevano solo nuovi arrivi.
Pockets fissò con intensità il bastone che reggeva in mano e su di esso apparì un piccolo salsicciotto, che mise ad arrovellare sul fuoco. Stava giusto per addentarlo, quando un fischio lungo e prolungato di Nap glielo fece cadere fra la sabbia.
Quando si voltarono verso di lui, notarono che puntava il cielo avanti a sé. Ombra era tornata e reggeva qualcuno per mano.
Più si faceva vicino, però, più Felix si faceva confuso. Non sembrava affatto un bambino, anzi…. Quando lasciò cadere il suo passeggero a terra, tutti andarono verso di esso per guardarlo dall’alto.
Beh, per guardarla dall’alto.
“Una femmina?” domandò dubbioso Nibbs “Non ha nulla a che vedere con noi o con la missione, perché diavolo Ombra l’ha portata qui?”
Felix guardò divertito la ragazzina bionda, inclinando di lato il capo. Schioccò la lingua contro la bocca, prima di chinarsi sulle gambe per abbassarsi. Subito, la bambina scattò indietro, urtando le gambe di Ace “Forse voleva uno fratello o un cugino. Si sarà confusa.”
“D-dove sono?” si attentò a chiedere, parlando a voce bassa e spaventata.
I ragazzi ridacchiarono, mentre Felix allargava le braccia, appoggiando un ginocchio sulla sabbia per tenersi in equilibrio “Benvenuta a Neverland.”
Gli occhi della ragazza mutarono, illuminandosi a giorno. Si sporse verso di lui sorridendo “Questa è davvero Neverland?” chiese eccitata, prima di alzarsi in piedi, lisciando la camicetta bianca da notte e ripulendola laddove la sabbia bagnata l’aveva sporcata.
Tutto attorno a lei era natura: dalla spiaggia chiara, alle onde del mare che si infrangevano in una melodia rilassante, alla foresta profumata che aveva alle sue spalle.
Ma quel piccolo paradiso onirico si sarebbe ben presto trasformato in un incubo.
Il sorriso si spense quando notò la grande gabbia, vicino all’ingresso della selva. I pianti dei bambini, i loro occhi spaventati, le richieste di aiuto e il modo in cui chiamavano la madre con voce persa le fecero inumidire gli occhi “C-cosa sta succedendo qui?” Guardò attentamente i ragazzini che l’avevano ‘accolta’ come se notasse solo in quel momento i loro vestiti sciupati e dai toni scuri, ben differenti da ogni descrizione di ogni fiaba “Voi chi siete?”
Ci pensò Felix a fare gli onori di casa, abbassandosi il cappuccio e fingendo di inchinarsi “Siamo i Bambini Sperduti di Pan. Ora, se volete accomodarvi nella gabbia, Signorina-”
“Stai mentendo!” la reazione improvvisa della bambina li lasciò tutti – meno il biondo - senza parole. Nessuno si era mai azzardato a rivolgersi così a Felix “Non è possibile, Peter Pan non farebbe mai una cosa del genere a dei bambini innocenti!”
Nibbs ridacchiò “Beh, teoricamente sono loro che hanno deciso di prendere la mano di Ombra. Così come hai fatto tu!”
“Forza, nella gabbia, ragazzina!”
Per l’ennesima volta, la biondina riuscì a schivare la presa di Felix “Non è vero! State tutti mentendo!” sentì le lacrime salirle agli occhi, mentre i racconti di sua madre su Peter Pan si infangavano di quelle ridicole calunnie. Non poteva essere vero, lui raccoglieva solo bambini soli al mondo e tristi, tenendoli per sempre sulla sua isola. Quelli che aveva davanti erano più grandi di lei. Soprattutto quello che aveva gli occhi più cattivi.
Si guardò attorno, notando la gabbia e chiedendosi se, correndo a perdifiato e chiamandolo, Peter sarebbe apparso per aiutarla a liberare tutti quei poveri bambini. Stava per voltarsi verso il sentierino che dalla spiaggia sembrava irradiarsi nel cuore dell’Isola, quando la bloccarono.
Felix la afferrò per un braccio, strattonandola fino al punto di farla sbilanciare.  Wendy rimase in piedi solo perché riuscì ad appoggiarsi a lui “Stai zitta, ragazzina e fila con gli altri prima che io decida di passare alle maniere forti!”
“Peter Pan è buono!” insistette lei, testarda “Non può avervi ordinato di trattarci così! Io credo in lui!” prese tutta l’aria che poté, inspirando profondamente prima di gridare “IO CREDO IN PETER PAN!”
A quelle parole, Nibbs scambiò uno sguardo eloquente con il più grande. Pockets rimase letteralmente a bocca aperta e la sua mascella non cadde sulla sabbia solo perché attaccata al resto della faccia.
“Diamine!” Ace prese il foglietto che teneva arrotolato dentro alla casacca, quel ritratto fatto dallo stesso Pan molto tempo prima e cercò una qualche somiglianza tra il bambino che stavano cercando e quella bambina, ma non sembravano essercene.
 Per Felix, però, non ci fu bisogno di ulteriori parole. La sua presa si fece più serrata, mentre scivolava sul polso della ragazzina “Vieni con me, subito.” La tirò con forza, verso la selva.
“Dove mi stai portando?!” domandò, sentendo la prima lacrima lasciare i suoi occhi per solcare la sua guancia impallidita dalla paura. Le stava facendo male.
Il biondo sogghignò “Da Pan, ecco dove ti porto, mocciosa.”
Il tono del ragazzo spaventò Wendy al punto tale da farle perdere la forza e, con essa, ogni resistenza.
 

 

 
La porta si spalancò di colpo, lasciando che una folata di vento gelido inondasse la stanza, mentre Bard rientrava. Suo padre lo guardò scocciato, mentre questi la richiudeva con il chiavistello e appendeva il mantello accanto alla porta, insieme alla spada.
“Sei già di ritorno?” domandò senza particolare interesse, riprendendo a fissare le fiamme che lambivano il caminetto e stringendosi nella coperta che teneva addosso.
“Sorpreso, non è vero?” domandò acidamente Bard, andando a sedersi davanti a lui, su di uno sgabello “Visto l’acquirente, speravate che mi portasse via.”
“Non dire scempiaggini. Chi svolgerebbe i lavori se tu non ci fossi più?”
Il biondo strinse i denti, prima di pensare che sarebbe durata ancora poco e dedicargli un sorriso quasi dolce “Sapete padre, oltre ad avermi dato un mestiere, mi avete anche insegnato un’altra cosa.”
Questi lo guardò senza capire “E cosa ti avrei insegnato, di grazia?”
Il biondo si sporse di più verso di lui, mentre il sorriso mutava in una smorfia intrisa di cattiveria pura “A sfruttare ciò che gli altri possono darmi per il mio tornaconto. E … Quello che voglio, padre…. È la vostra….”
Si sfilò uno dei due guanti, mostrando la sua mano destra, illuminata da una strana iridescenza luminosa, che si propagava dal palmo sino alle dita. L’uomo sussultò.
“Vita!”
Con un unico colpo secco, tutta la mano di Bard affondò nel petto del padre, afferrando il suo cuore per poi strapparlo dal petto.
Si alzò di scatto, ribaltando lo sgabello mentre guardava suo padre ansimare sulla poltroncina di pelli conciate. “Tremotino! Tremotino!” urlò a pieni polmoni, tenendo il cuore alto e stretto nel pugno.
Quest’ultimo apparve, seduto comodamente sul tavolaccio di legno “Non c’è bisogno di urlare, ragazzetto, io ci sento benissimo.”
“Ho fatto ciò che mi hai chiesto.” Disse vittorioso, camminando verso di lui, mentre il padre alle spalle osservava ricolmo di paura l’Oscuro, incapace di parlare.
Tremotino guardò il cuore, corrugando le sopracciglia. “Beh, non è nero.”
Bard parve non capire “Che significa?”
“Significa che non è nero.”
Il biondo sbuffò scocciato, alzando gli occhi al cielo “Credo di aver capito, sapete? Ma non colgo il senso della cosa: doveva essere nero?”
“Tecnicamente, sì.” Spiegò il folletto, scendendo dal tavolo con un saltello e dirigendosi verso il ragazzo. Prese fra le mani l’organo ancora pulsante, esaminandolo più da vicino “Se tuo padre non avesse provato amore per te, il suo cuore si sarebbe tinto dei colori scuri della notte. Quindi, mio caro, hai davanti un padre severo ma che, a quanto pare, ti ama.”
Bard abbassò lo sguardo, prima di voltarsi a guardare negli occhi l’uomo che lo aveva allevato, privandolo di tutto. In quegli occhi, così diversi ma al tempo stesso identici ai suoi, colse qualcosa di nuovo che forse poteva ricollegare solo alla paura per la morte imminente. O forse a qualcos’altro.
“ Non mi importa.” Disse alla fine, con la stessa sicurezza di prima “Ho mantenuto la mia parola, ora tu mantieni la tua.”
Tremotino abbassò di poco il capo, in una sorta di ironica riverenza, prima di stringere quel cuore tra le mani, riducendolo in una manciata di sabbia dorata.
Bard osservò la scena in silenzio, captando l’istante preciso in cui la vita di suo padre abbandonava definitivamente il suo corpo. Passò alcuni istanti in silenzio, prima di umettarsi le labbra “Avete avuto le risposte che cercavate? Riguardo al figlio che può sacrificare suo padre, intendo.”
Tremotino non rispose, e quando Bard si voltò nuovamente verso di lui, accettò il piccolo sacchettino di velluto nero che questi gli stava porgendo.
Lo aprì, versando il contenuto sulla sua mano e sbuffando una risata mal contenuta “Tutto qui? Ho ucciso mio padre per un fagiolo?”
“Non è un semplice fagiolo.” Replicò piccato Tremotino, facendogli il verso “Quello è un fagiolo magico, apre un portale tra i mondi. Dovrai pensare intensamente alla tua destinazione prima di gettarlo davanti a te.”
Il giovane annuì. “Come si chiama di preciso, la mia destinazione?”
L’Oscuro assottigliò gli occhi, sputando fuori quel nome come se gli costasse davvero caro parlarne “Neverland”
“Neverland? Suona ironico.” Stringendo il fagiolo tra le mani, Bard superò Tremotino, dirigendosi alla porta, “Ci vediamo in giro allora, Oscuro.”*
“Un ultima cosa, ragazzetto.” Il biondo si bloccò sull’uscio, in attesa “Quando arriverai, non potrai fare quello che ti pare. Quell’Isola ha un padrone molto geloso. Dovrai fare esattamente quello che ti dice, se non intendi pagare con la vita.”
“A meno che non decida di uccidere questo ‘padrone’, non credete?” asserì voltandosi, ma nella stanza non c’era più nessuno con lui. Non riuscì a trattenere un sorriso compiaciuto, prima di afferrare il suo mantello e indossarlo.
Con un ripensamento veloce, andò verso suo padre afferrando qualcosa da dentro la tasca della sua giacca lurida. Un vecchio orologio da taschino intarsiato d’oro. Sarebbe stata un’eccellente merce di scambio in qualsiasi mondo, senza contare che era la sola cosa di valore che la sua famiglia possedeva.
Non si affannò a raccogliere i suoi pochi averi, un po’ per paura che Ayra si potesse destare e un po’ perché sapeva che, nella sua nuova casa, avrebbe avuto tutto.
Raccolse solamente una piccola ascia e il suo coltellino da lavoro, come souvenir di quella vecchia vita, certo che avrebbero avuto un’utilità ben diversa.


 
 
 
 
Wendy sentiva freddo alle braccia, ma non trovava il coraggio di alzarsi da quel tronco d’albero caduto per avvicinarsi maggiormente al fuoco.
Sin dal primo istante in cui aveva messo piede nell’accampamento dei Bambini Sperduti aveva capito di essere davvero nei guai. Tante paia di occhi diversi la guardavano con divertimento o diffidenza, a seconda dei casini, ma nessuno sembrava davvero amichevole nei suoi confronti.
Strofinò le mani lungo gli avambracci lasciati scoperti dalla camicia da notte bianca, stringendosi nelle spalle e cercando di farsi piccola al punto tale da scomparire del tutto. Aveva paura, aveva freddo e le veniva da piangere.
Si sentì ancora di più una ragazzina di quanto in realtà non fosse, bramosa di correre nella stanza dei suoi genitori per stringersi nell’abbraccio della madre. In cuor suo però sapeva che la permanenza sull’Isola non sarebbe stata ne breve ne semplice.
A sentire quel ragazzo dai modi bruschi e crudeli – Felix, a quanto aveva capito - stava aspettando l’arrivo di Peter Pan. Ci avrebbe pensato lui a lei.
Nella voce del giovane però aveva colto una vena di ironia che lei aveva interpretato a modo suo: non sarebbe arrivato mai, e se mai l’avesse fatto, l’avrebbe senza ombra di dubbio tratta in salvo.
Lui non poteva avere a che fare con quei bulli dall’aria smargiassa e trasandata. Non era davvero possibile.
Rimase sola a lungo, ad osservare il via vai continuo di ragazzini che imbracciavano armi di ogni sorta, mentre sentiva lo stomaco farsi sempre più rigido man mano che qualcuno provava ad avvicinarla.
Fu quando vide Felix tornare verso di lei che si spaventò parecchio. Lo guardò, mentre raccoglieva una pietra delle dimensioni di un pompelmo e squittì per la paura. Addio, era morta, se lo sentiva.
Quando si chinò su di lei, la ragazza portò istintivamente le braccia sopra al capo, piagnucolando qualcosa di incomprensibile persino a se stessa. Il colpo però non arrivò mai, poiché la pietra che il biondo reggeva in mano si era mutata in una tazza ricolma di cioccolata calda. Solo a sentirne l’odore, Wendy sentì la pancia brontolare. Come poteva essere affamata se rischiava di vomitare per la paura?!
“Prendila, è per te.” La incitò Felix con tono basso “Non è avvelenata, posso assicurartelo.”
Restia, la biondina allungò la mano prendendo la tazza. La ceramica calda era terribilmente piacevole fra le sue mani ghiacciate. “Perché mi tenete qui?” si azzardò a dire, fissando con occhi spenti la superficie liquida della cioccolata. “I-io vorrei andare a casa, ti prego.”
Felix sorrise appena un po’ maligno, prima di tornare a guardarla quasi dolcemente, per metterla a suo agio. Aveva un obiettivo e intendeva arrivarci senza intoppi “Ho iniziato con il piede sbagliato e mi dispiace tanto. Posso sapere il tuo nome?”
Tentennando un poco, la giovane alzò gli occhi sottili in quelli di ghiaccio dell’altro “Mi chiamo Wendy, Wendy Darling.”
“E dimmi, Wendy Darling, da che mondo vieni?”
Un’espressione stranita si palesò sul volto della ragazzina “Dalla realtà, suppongo.”
Felix sorrise maggiormente “Ma davvero, eh? Hai per caso un fratello, o vicino di casa?”
Wendy iniziò a sentirsi infastidita “Perché mi fai tutte queste domande?” domandò d’impulso, prima di ritrarsi da sola come se aspettasse uno schiaffo.
“Ci stiamo solo conoscendo, bambolina, non vedo perché ora devi fare così la maleducata.”  Felix si sedette a terra, a gambe incrociate, appoggiando i gomiti alle ginocchia e il viso ai pugni “Hai per caso qualcosa da nascondere?”
“No, non ho nulla di interessante, per questo dovreste lasciarmi andare!”
L’altro sbuffò, tra il divertito e lo scocciato “Senti, dimmi quello che voglio sapere e forse ti lasceremo andare. Va bene? Ora bevi quella cioccolata prima che si freddi.”
Wendy sapeva di non potersi fidare. Negli occhi del ragazzo non vi erano altro che cattiveria e menzogne, eppure la possibilità di poter tornare a casa era tanto attraente da spingerla a rischiare, così portò la tazza alle labbra, prendendo un sorso piccolo per non bruciarsi. Quella era in assoluto la cioccolata più buona che avesse mai bevuto in vita sua.
Felix la guardò mentre si leccava le labbra con gusto e schioccò la lingua contro al palato “Prima, sulla spiaggia, hai detto che tu credi in Peter Pan.” Esordì, attirando così la sua attenzione “In cosa credi, esattamente?”
“Nella sua bontà.” Fu la sua risposta immediata. Abbassò nuovamente gli occhi sulla tazza, prima di prendere il coraggio a due mani “Io non so chi sia la persona per cui fai tutto questo, ma non può essere Peter Pan. Lui è un ragazzo speciale, che porta a Neverland i bambini soli per farli giocare fra loro e vivere spensierati. Lui crea una famiglia e non ne distrugge nessuna, portando via chi è amato. È molto coraggioso e intraprendente e anche se a volte sembra impertinente, si comporta così solo perché è un bambino!”
“Cos’altro sai di lui?”
Wendy scostò un boccolo biondo dal viso, portandolo dietro ad un orecchio, mentre si faceva pensierosa “Beh, so che non cresce mai, perché qui a Neverland il tempo non scorre e che è per questo motivo che i bambini possono venire qui durante la notte, nei loro sogni e divertirsi prima di tornare nei loro letti. Oh! So anche che è molto amico degli indiani e delle sirene e che il suo nemico è Capitan Hook, che cerca sempre di farlo fuori, senza mai riuscirci! Poi-”
Non poté proseguire, perché Felix, all’ultima frase riguardante Hook, si era lasciato andare in una risata così sonora da far voltare gli Sperduti nelle vicinanze. La risata non durò molto, ma lo lasciò seriamente divertito e con gli occhi appena inumiditi dal tanto ridere. “Tu credi che Hook sia una minaccia, per Pan?”
“Sì, insomma, prova sempre a farlo fuori, ma alla fine vincono i buoni.” Concluse Wendy riuscendo solo a farlo ridere di nuovo.
“Ragazzina, non sai davvero nulla di Neverland.”
La biondina – che iniziava ad avere seri dubbi riguardo all’essere finita sull’Isola giusta - lo guardò quasi arrabbiata “So molto più io di te, su Neverland, scommetti? Peter Pan è la mia favola preferita, mamma mi ha letto tutte le sue avventure e le conosco tutte quante a memoria! Posso assicurarti che tra i suoi bambini non c’è nessun Felix!”
Sul volto di quest’ultimo si dipinse un ghigno divertito, mentre inclinava di lato il capo. “Ultima cosa, prima di lasciarti in pace: tu credi nella magia?”
Wendy rimase molto sorpresa di quella domanda. Non tanto dalle parole, ma da come Felix le aveva pronunciate, quasi come se si aspettasse qualcosa.
Decise, ancora una volta, che la sincerità l’avrebbe ripagata, così annuì “Io credo nella magia.”
“Basta così.”
Una voce alle sue spalle la fece sussultare violentemente. Si voltò di scatto, rovesciando a terra un po’ della cioccolata, ritrovandosi a guardare negli occhi un altro ragazzo.
Quello, però, non era un ragazzo normale e lei poteva sentirlo. Sembrava che riuscisse quasi ad emanare una sottile aurea oscura, da quegli occhi verdi e splendenti.
Mosse un passo verso di lei, che quasi scattò indietro, fra le braccia di Felix che ancora se ne stava accovacciato. Poi, qualcosa attirò la sua attenzione.
La casacca del colore delle foglie vive, gli occhi grandi ed espressivi, il pugnale in cinta. Non poteva essere.
Mentre Felix si alzava in piedi, attendendo un qualsiasi cenno, quest’altro si abbassava, mettendosi in ginocchio davanti a lei. Sorrise, alzando un sopracciglio con una certa dose di soddisfazione, prima di sussurrarle “Coraggio, dillo.”
Wendy deglutì a vuoto un paio di volte, ipnotizzata “Tu…. Tu sei…”
“Chi sono, io?”
“… Tu sei Peter Pan.”
Il sorriso sul volto del ragazzo si allargò ancora di più. Con uno sguardo veloce e un piccolo cenno del capo congedò Felix, che sparì in un istante.
“E tu sei Wendy Darling.”
Un vortice di emozioni contrastanti colpì la biondina, che iniziò a torturarsi freneticamente le mani. Il ragazzo che aveva sempre sognato di incontrare era lì, davanti ai suoi occhi, e lei non sapeva cosa pensare. Si sentiva sua prigioniera e aveva paura di lui, del suo sguardo cattivo quanto quello di Felix e della sua espressione sfacciata. Eppure non riusciva davvero a temerlo del tutto, ad averne una paura cieca, seppure non avesse idea di cosa quell’essere avrebbe potuto farle.
Era più bello di quanto lo avesse mai immaginato. Quel suo lato spietato non solo lo rendeva temibile, ma al contempo più intrigante ai suoi occhi. Tutto ciò la atterriva.
Senza contare che sembrava quasi che…
“…Ti stessi aspettando?” domandò, con voce bassa e lievemente suadente. Come diavolo aveva fatto? “Io so sempre chi verrà a trovarmi a Neverland, cara Wendy. Il tuo cuore che crede in me mi ha avvisato che desideravi tanto conoscermi, così ho mandato Ombra a prenderti.”
“Davvero? Sei stato tu a mandare a casa mia la tua Ombra?”
“Nulla è casuale, Wendy. Tutto è scritto.”
Si concesse uno sguardo più profondo nell’anima della ragazza e lei lo avvertì. Sentiva i suoi occhi leggerla, studiarla e comprenderla in poco più di un battito di cuore. Rimase in quella posizione per alcuni secondi, prima di voltarsi verso un ragazzo, che per Wendy sembrava sbucato dal nulla.
“Riprenderemo presto la conversazione, mettiti comoda.” Le disse sbrigativo, prima di raggiungere quello strano soggetto, vestito in modo diverso dagli altri e senza le scarpe, appoggiandogli una mano sulla spalla per spostarsi fuori dal suo campo visivo.
Mettersi comoda? Significava che sarebbe rimasta molto?
Un nuovo conflitto interiore, più forte del precedente, si scavò una fossa nel suo cuore come un tarlo; voleva tornare a casa ma, al contempo, desiderava conoscere meglio Pan.
Era sempre stato il suo eroe. Non poteva essere cattivo come si poneva.
Forse doveva solo dargli una chance.
Si alzò in piedi, camminando con un po’ più di sicurezza verso il fuoco, dove si concesse di riposare e scaldarsi per qualche istante.
Felix la guardò, assottigliando lo sguardo mentre Too le posava una coperta sulle spalle e si presentava. Strinse i denti, chiedendosi quali fossero i piani di Pan.
Intendeva tenerla con loro?! Era impossibile. Non sarebbe stata che uno stupido impiccio, quella ragazzina piagnucolosa e ingenua. Così ingenua da essere irritante.
Avrebbe reso il suo soggiorno tra gli Sperduti un autentico inferno, lo ripromise a sé stesso e a quella sciocca bimbetta, se solo Peter avesse osato prolungare troppo la sua permanenza.
Lo giurò sul pugnale che stringeva in mano, prima di passarlo sul palmo e incidersi appena la carne. Lo promise sullo stesso sangue che gli correva tra le nocche chiuse del pugno.


 
 
Creare il portale fu davvero semplice.
Gli bastò pensare intensamente a Neverland e il fagiolo fece il resto del lavoro. L’atterraggio fu meno piacevole, così come la sensazione che gli era rimasta all’altezza della bocca dello stomaco.
Si alzò in piedi, ritrovandosi su una spiaggia bianca come la luna che illuminava, con davanti ad un oceano infinito e dietro una selva che pareva impenetrabile. L’aria profumava di salsedine e gli parve la più leggera mai respirata.
Era appena arrivato eppure sentiva di appartenere a quel luogo.
Appoggiò una mano sull’elsa della spada, deciso a iniziare una nuova vita da quello stesso istante. Grazie alla luna e le stelle, che irradiavano molta luce, riuscì a raccogliere qualche ramoscello con cui accese un fuoco, che poi tenne vivo con dei rami.
Iniziò a intrecciare altri rami, al fine di creare una piccola tettoia sotto cui ripararsi attendendo il giorno, quando un fruscio lo mise in allerta. Sguainò la spada, avvicinandosi al limitare del bosco, tenendo alta la guardia.
Attese, con le orecchie ben aperte, ma non vide nessuno. Sono a quel punto rinfoderò la spada, voltandosi verso il fuoco e rimanendo sconcertato da ciò che vide.
Due ragazzi, più piccoli di lui, seduti vicino ad esso. Si stavano scaldando le mani, parlando a voce bassa, quasi come se non lo avessero notato.
Il biondo andò verso di loro, guardandoli scocciato “Levatevi subito di lì, ragazzini.”
Il moro ridacchiò, mentre l’altro, il biondino, si limitava a guardarlo interessato. “Ci chiedevamo solo quanto tempo ci avresti messo a notarci!” fisse il primo, prima di allungare una mano “Io sono Rufio e lui è Peter. Benvenuto a Neverland.”
Pan alzò un sopracciglio “Non sei un po’ grandicello, per stare qui?”
Sul viso del biondo si dipinse una smorfia quasi offesa, prima di fulminare Rufio con uno sguardo gelido. Questi abbassò la mano lentamente “Io? Grandicello? Non sarete voi ad essere troppo piccoli per stare in giro a quest’ora di notte?”
Peter scambiò un’occhiata divertita con l’amico, prima di alzarsi in piedi “Non sai dove ti trovi, dico bene? Quando hai fatto il patto con Tremotino ti ha dato solo una destinazione, senza spiegarti nulla di questo luogo, o sbaglio?”
Le parole di quello strano ragazzo lo destabilizzarono al punto tale da arretrare appena. “Come fai a sapere queste cose?!”
Il moro sbuffò alle parole del nuovo arrivato, prima di dire, con tono canzonatorio “Peter Pan sa sempre tutto. Lui è il padrone dell’Isola, che conosce come il palmo della sua mano. Ciò vale anche per tutti coloro che la visitano.”
Solo nell’udire quell’ultima parte, il biondino si sorprese. Quello era il padrone di Neverland? Quel ragazzino magro e dall’aria emaciata? Sarebbe stato un giochetto da ragazzi, farlo fuori. Riprese in mano la spada, puntandola verso Peter.
Rufio alzò entrambe le sopracciglia, leggermente allarmato “Oh, io non lo farei…”
“E perché mai? Questo ragazzino potrebbe farsela sotto?”
Peter non rispose nemmeno, passando in mezzo al fuoco acceso dal biondo per andargli in contro, sfidandolo con lo sguardo.
Quando le fiamme praticamente si spostarono, permettendogli così il passaggio, Bard sgranò appena gli occhi. Recuperare il controllo di sé non fu semplice, ma non poteva dimostrarsi debole davanti a lui, o non avrebbe ottenuto nulla. Doveva essere solo un trucchetto da quattro soldi.
Alzò la spada sopra al capo e quando Pan fu a tiro di lama la abbassò di colpo.
Quando questi la afferrò con una mano sola, guardando la punta a pochi centimetri dal suo volto, Bard rimase totalmente spiazzato. Provò a ritirarla a sé al fine di caricare un altro fendente, ma non ci riuscì. Una sottile stilla di sangue colò lungo il braccio di Pan, ma a lui non sembrava importare. Non sembrava nemmeno provare dolore, anzi, la strinse di più.
Quando il metallo si tinse di rosso, diventando incandescente, il più alto dovette resistere parecchio per non lasciarla cadere. Con un ultima stretta, quella decisiva, la lama scoppiò in tanti frammenti, che volarono tutti attorno a loro.
Rufio si buttò a terra, mentre più di un frammento esplodeva in volto a Bard, ferendolo profondamente dalla fronte alle guance. Si ritenette fortunato, però, a non aver perso gli occhi, anche se i segni sarebbero rimasti per sempre a ricordargli di quanto era stato stupido ed avventato.
Peter lo guardò cadere a terra, prima di leccare via dall’avambraccio il suo stesso sangue e sorridendo nel sentire il sapore ferroso sulla lingua. “So che sei qui per rimanere e so che non sai nemmeno chi sei ne da cosa scappi. Anche tu, come Rufio, non hai una casa in cui tornare quindi se intendi rimanere in questo posto devi rispettare le mie regole. Oppure te li caverò personalmente, gli occhi.”
“Oh, perfetto, leggi addirittura nel pensiero” replicò leggermente rabbioso il ragazzo a terra, dovendo però ammettere che Pan aveva ragione. Non aveva più nulla, anche se non ricordava perché. Non sapeva nemmeno come si chiamasse, nonostante tutto ciò sembrasse assurdo.
Il moro si rialzò, pulendosi i vestiti dalla sabbia “Quindi vuoi far rimanere anche lui? davvero?”
Peter annuì “Questo posto inizia a diventare troppo noioso, non ti pare? Abbiamo bisogno di più amici con cui giocare.”
Rufio però non sembrava per nulla persuaso. “Sei sicuro che sia una mossa astuta? Non mi sembra poi così amichevole. Poi sembra molto più grande di quanto dovrebbe.”
“Ora che ha capito con chi ha a che fare, non darà più problemi, dico bene? Per l’età, non importa. Non conta quanti anni hai fisicamente, quanto lo spirito. Lui ha lo spirito giusto per unirsi a noi due.” Rispose Pan, puntando poi gli occhi verdi e freddi in quelli sottili di Bard “Senza contare che ha sacrificato molto, per ritrovarsi qui.” Quello sguardo nascondeva qualcosa che Rufio non riuscì a cogliere, ma il biondo si. Una certa empatia, che era venuta a crearsi in quel esatto istante. Non riuscì ad associarla a nulla, poiché non poteva sapere che anche Pan aveva dovuto sacrificare ‘qualcosa’ per ritrovarsi lì, in quei potenti panni. Smise di guardarlo così intensamente, passando ad un’altra questione “Come potrei chiamarti?” domandò quindi, prima di incrociare le braccia sul petto pensieroso.
Il biondo rimase steso a terra, cercando di tamponare il sangue che stava scendendogli dal viso, quando Rufio affiancò Pan davanti a lui “Beh, è un ragazzo fortunato. Ti ha sfidato ed è comunque riuscito a sopravvivere. Nel mio mondo, i bambini fortunati spesso vengono chiamati Felix, che significa letteralmente ‘fortuna’…. Ed è un bel nome per un cane o un gatto.”
L’altro gli sorrise divertito, guardandolo con un sopracciglio sollevato “Non pensavo fossi bravo con i nomi. Però mi piace, Felix sia.”
Iniziarono ad incamminarsi verso il bosco, lasciando l’altro con una mano sulla ferita aperta sul volto e l’altra che stringeva ancora un’elsa senza più la lama, a chiedersi perché Pan avesse deciso davvero di risparmiarlo.
Fissò l’oceano, lanciando via l’elsa e portando la mancina nella tasca interna del mantello per stringere in mano l’orologio del padre. Quando lo aprì, vide che delle lancette non vi era più traccia e che non erano cadute e rimaste nel quadrante.
Erano sparite.
‘Perché a Neverland il tempo non scorre’, si disse da solo.
Non sarebbe mai invecchiato, sarebbe rimasto giovane e senza obblighi per sempre.
Certo, ne aveva con Pan, ma sentiva già che sarebbe stato diverso, anche se non ricordava quello che era successo prima di arrivare lì. Sapeva solo una cosa: il peso opprimente sul suo petto si stava lentamente dissolvendo.
Si alzò, facendo per lanciare l’orologio fra le onde, ma all’ultimo ci ripensò, sistemandolo di nuovo nel mantello. Preferì tenere quel singolo ponte di ricordo fra sé e la quella vita che stava pian piano dimenticando del tutto.
E si lasciò scappare un sorrisetto.
Perdeva sangue, aveva rischiato la vita e forse si era legato per l’eternità a qualcuno di estremamente potente e malvagio, ma sentiva che aveva fatto le scelte giuste per se stesso.
Sapeva che lì avrebbe potuto sentirsi felice.
“Allora, vieni, Felix?”
Si voltò verso Rufio, decidendo di fare buon viso a cattivo gioco. Annuì, con falsa accondiscendenza “Ovviamente.”  Decretò, prima di incamminarsi dietro di loro.
In quel momento, la sua lealtà era tutta per sé stesso, ma poi avrebbe iniziato davvero a capire che Peter Pan era più simile a lui di quanto potesse sembrare inizialmente.
Il passo successivo, quello che lo avrebbe portato a diventare lo Sperduto più fedele al capo, sarebbe arrivato ben presto, insieme alla gelosia verso Rufio.
 
 
 
 
 
 
*cit telefilm, dal episodio 3x01. 
Vista la scena tra Felix e Tremotino, ho voluto dare una base a questi due.
La presenza dell'Oscuro è stata, quindi, quasi d'obbligo.






Nda.
Sono in crisi da sessione d'esame, quindi perdonate tutta la violenza di questo capitolo..
(No, non è vero, Felix me lo immagino esattamente opportunista come ho scritto qua sopra.)

Sarò super breve, perchè devo davvero correre sui libri.
Ringrazio tutti coloro che leggono la storia o l'hanno inserita fra preferiti e seguite. 
Siete l'amore.
In particolare, un grazie ENORME ai tre angeli che hanno recensito lo scorso capitolo.

Il prossimo spero arrivi presto, ma non  garantisco molto
Dipende da tempo e voglia di scrivere dopo ore di studio quindi, credete in me come credete in Peter. v.v


Un bacione. 
Jessy 
 
 
 
 




 

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto: A Reason to Smile ***


~  The Price
to Pay.


Capitolo Quarto.
A Reason to Smile.

 






Tootles fu il solo a comportarsi come se si fosse accorto della presenza di Wendy all’accampamento.
Dopo averle appoggiato una coperta sulle spalle, sedendosi accanto a lei al falò, le aveva più o meno spiegato come funzionavano le cose all’accampamento: non aveva nulla da temere, sino a che Peter si fosse dimostrato benevolo nei suoi confronti.
Considerando che lui stesso aveva affermato di aver inviato Ombra a prenderla per potarla lì, non si sentiva affatto un’ospite sgradita solo parecchio confusa. Cosa sarebbe successo?
Sapeva che a Neverland il tempo non scorreva, quindi non sarebbe stata mai più lontana di una notte da casa sua. Nonostante ciò, iniziava a sentirsi ansiosa. E se sua madre fosse entrata in camera? Avrebbe punito Bae perché non le aveva impedito di partire?
Fiutando tutta quell’angoscia, Too le offrì la sua tenda, per farla riposare un po’. Lui avrebbe dormito con Nibbs, o con Pockets, che avevano più spazio degli altri.
Wendy ci mise parecchio ad addormentarsi, tirandosi addosso le coperte di pelli che componevano il letto di Tootles, trovandole inspiegabilmente morbide. Trovò un po’ di tregua solo quando avvertì le voci attorno a lei affievolirsi, così si convinse che anche gli altri dovevano essersi ritirati a riposare.
Destandosi, dopo quelle che le sembravano ore, si sentì affamata come se non avesse desinato da mesi. Cautamente, uscì dalla tenda, rimanendo quasi sconvolta nel notare che il cielo era esattamente identico a quello che si era lasciata alle spalle prima di coricarsi.
La sola differenza stava nel fatto che non c’era nessuno lì attorno, segno che gli altri stavano ancora dormendo. La fame non sembrava volerla abbandonare, così strisciò per il campo, avvicinandosi nuovamente al falò.
Aveva fatto male i conti, però. Di spalle, rispetto a levi, stavano due figure. La prima incappucciata, china in avanti. Temendo che fosse Felix sussultò, tentando di tornare indietro, ma una lancia appoggiata in malo modo alla corteccia di un albero la tradì: si inciampò in essa rischiando di cadere e rovesciando, al contempo, quello che sembrava un piccolo arsenale di darti e archi.
Le due figure si voltarono verso di lei e la giovane tirò quasi un sospiro di sollievo. Quasi, perché anche se quello non era Felix, il suo aguzzino, non era di certo qualcuno di molto meglio. Era Peter.
“Ti sei svegliata presto, Wendy.” Disse lui, sporgendo in avanti la mano, per invitarla ad avvicinarsi. Lei si rimise diritta, sistemandosi i capelli nervosamente e percorrendo la distanza fra loro a piccoli passi, imbarazzata.
Prese la mano di Pan, che la aiutò a sedersi su un tronco, tra lui e l’altro giovane che le sorrise allegramente. “Il mio nome è Rufio.” Si presentò con una piccola reverenza da seduto, mentre Peter abbassava il cappuccio e muoveva le braci del fuoco utilizzando un bastone. La ragazza sorrise a Rufio, ma non disse nulla quando notò qualcosa davanti a lei. Disposta su di una piccola griglia di ferro, sopra al fuoco, c’era della carne. Il profumo che emanava la distrasse da ogni formalità che la buona etichetta le imponeva.
Peter la guardò divertito, ridacchiando “Immagino che tu sia affamata, non mangi nulla dal tuo arrivo, dopotutto.”
“Non mangia da quando l’ho vista al campo la prima volta, quindi?” chiese stupito il modo, come se fossero passati mesi e mesi. “Rimedio io, nessun problema.” Allargò le gambe, chinandosi in avanti e raccogliendo da terra una manciata di terra.
La bionda la guardò da prima incuriosita, poi confusa e infine spiazzata “Non vorrai darmi da mangiare della terra, vero?” chiese timorosa. Che razza di scherzo era mai quello?
La risata cristallina dei due giovani però le fece intuire che doveva essersi persa un passaggio. Rufio strinse tra le mani quella piccola zolla, sfregandola tra di esse mentre mutava. Alla fine si ritrovò con una fetta di carne bianca, che sembrava pollo o qualcosa di simile.
Peter gli passò un bastoncino e lui la infilzò, prima di adagiarla sul fuoco. Ripetè quell’operazione altre due volte, sotto lo sguardo sempre più meravigliato di Wendy.
“Puoi fare le magie?” chiese eccitata, prima di voltarsi di tre quarti verso Peter “So che tu puoi volare, combattere ed esultare, ma non credevo che potessi anche fare magie! Tanto meno i tuoi bambini.”
“Posso fare qualsiasi cosa voglio.” Affermò con determinazione Peter, sorridendole compiaciuto “Gli Sperduti invece hanno il potere che ha ogni bambino quando arriva qui: possono realizzare ogni loro capriccio. Entro certi limiti, si intende.”
“Prova anche lui.” la incitò Rufio “Chiudi gli occhi, la prima volta è più semplice così, e pensa a  qualcosa che desideri molto ora.”
“Non credo di poterlo fare…” tentennò Wendy, storcendosi le mani per il nervosismo.
Peter alzò appena un sopracciglio, senza farsi vedere. Il cuore di quella ragazza era pieno di purezza, ma non era abbastanza.
“Invece puoi” Rufio le prese una mano, per impedirle di continuare a torturarla con l’altra e le fece segno di prendere un respiro “Se credi, tutto è possibile qui. Provaci, coraggio!”
La biondina gli sorrise timidamente, prima di chiudere gli occhi e concentrarsi. Era così affamata da desiderare solo una cosa, ovvero cibo. Pensò a suo padre, a quanto amava il pollo e…. Era strano. Ricordava poco di suo padre, eppure era stata via così poco. Storse appena il naso, infastidita da quel senso di vuoto. Perché non ricordava quale era la salsa preferita del suo papà? Si concentrò parecchio e alla fine vide un immagine, da prima sfocata e poi sempre più nitida.
Quando il ricordo tornò, sentì qualcosa di freddo e liscio fra le mani. Per poco le sfuggì un urletto quando vide che aveva davanti a sé la salsa piccante di suo padre, con tanto di etichetta nuova, come se fosse appena uscita da un alimentari.
Peter e Rufio la guardarono curiosi, chinandosi sulla bottiglietta come per volerne carpire ogni segreto,  poi fu quest’ultimo a chiedere “Che cos’è?”
“Una cosa davvero molto buona” le disse la ragazza, stappandola e iniziando a versarne il contenuto sulla carne che stava ancora cuocendo, voltandola per poterlo fare su entrambi i lati.  “Non vi deluderà, ve lo assicuro. Il mio papà la adora.”
Il moro sussultò appena a quelle parole “Il tuo…. Cosa?”
“Il mio papà” ripeté Wendy, senza capire cosa ci fosse di così difficile in quella frase.
Pan, osservava la scena in silenzio, mentre Rufio portava il pugno chiuso al capo, tamburellandosi appena la fronte “Una volta sapevo cosa era un papà, ma ora mi sfugge.”
“Non è la sola cosa che ti sfugge, se è per questo.”  Il biondina scattò di lato, appoggiandosi a Peter, mentre Felix la osservava divertito. Era apparso dal nulla, senza fare il minimo rumore. “Oh, che bel quadretto, davvero. Quindi la ragazzina rimarrà per molto?”
Peter passò un braccio attorno alle spalle di Wendy, che solo in quel momento si accorse di essersi fatta troppo vicina “Dovresti trattare meglio i nostri ospiti, Felix. Senza contare che abbiamo preparato la cena anche per te.”
“Ma che dolci, sono commosso.” Prese posto accanto a Pan, appoggiando il pesante bastone che portava sempre con sé. Abbassò a sua volta il cappuccio, prendendo da terra quattro sassi e appoggiandoli davanti a sé “Allora io mi permetto di portare qualcosa da bere. Sidro per tutti, immagino.”
“Io non bevo sidro.” Si intromise Wendy, ma non servì a nulla. si ritrovò tra le mani un boccale pieno di un liquido ambrato dall’odore pungente. Doveva essere anche alcolico, come quelle bevande che a casa sua rimanevano chiuse all’interno di uno stipetto di legno, sotto chiave.
Peter, vedendola in difficoltà, prese un sorso veloce, poi appoggiò una mano sulle sue, strette attorno al boccale “Non  è un problema. Basta che pensi a cosa desideri bere e apparirà.”
Lei lo guardò, arrossendo se possibile ancor più di prima. La mano di Peter era grande, tiepida al punto giusto e lievemente ruvida,  callosa. Non per questo, però, meno bella. Decise di concentrarsi, così richiuse gli occhi e, una volta aperti, ecco davanti a lei una bella tazza in ceramica ricolma di profumato latte caldo.
Sorrise raggiante “Grazie.”
“Hai fatto tutto da sola.” La corresse Peter, mentre Rufio iniziava già a servirsi, seguito a ruota da Felix. Mangiarono praticamente in silenzio, interrotti solamente dal chiacchiericcio basso del moro, che raccontava – non nei dettagli truculenti- di come aveva recuperato qualcosa per Pan.
Proprio a metà di un esilarante racconto su come Binky e Marmaduke avrebbero tentato di acchiappare una rana sulla via del ritorno, fallendo miseramente, Peter si voltò si scatto. Wendy si impietrì a quel movimento così secco e rapido, riuscendo solo a portare la coda dell’occhio sul viso di ragazzo. Sembrava stranito e sorpreso, ma in un certo senso anche sollevato.
“Che succede?” domandò a tono basso Felix.
Pan deglutì, facendo scendere e risalire velocemente il pomo d’adamo, prima di rispondere “È tornato.”
Entrambi si guardarono sorpresi, ignorando gli sguardi curiosi della biondina “Così presto?” domandò Rufio “Hai mandato Ombra ad avvisarlo prima di iniziare a cucinare…”
“Ha fatto quello che andava fatto” si intromise Felix, buttando a terra i bastoncini spolpati da tutta la carne “Peter chiama, Lui corre.”
Il moro sbuffò, fulminandolo con lo sguardo, prima di rivolgersi al capo “Devo andare ad accoglierlo?”
Peter scosse il capo “No, andrò io dopo. Prima, però, ho un altro appuntamento.” Sorrise appena, pragmatico, facendo segno a Felix si alzarsi “Tu rimani con Wendy…. Presentale il resto della famiglia.”
Rufio gli rivolse un cenno quasi galante “Come desideri.” Si sporse per appoggiare una mano sul braccio della ragazzina, che si sentì sollevata. Per ora, quel morettino sembrava il più affidabile, insieme al ragazzo che le aveva ceduto la tenda. “Vieni, è ora di dare la sveglia all’accampamento.”
“Va bene!” trillò allegra, alleggerita dall’entusiasmo di Rufio. Si voltò per salutare Peter ma di lui e di Felix non c’era già più traccia.
 
 
 
 
 
La Selva poteva diventare un luogo davvero pericoloso, quando oscurata dalla notte.
La ragazza avanzò cauta, torturandosi la treccia di lunghi capelli neri e mordicchiandosi il labbro.
Si erano dati appuntamento, non appena le due stelle dell’Isola avrebbero preso a brillare di luce lunare. Eppure non c’era. Non che fosse una pavida, assolutamente no! Le cose però erano cambiate troppo a Neverland e ormai non riconosceva più la terra che l’aveva cresciuta e resa tenace.  
Si avvicinò al limitare del sentiero, trattenendo il respiro quando sentì dei passi avvicinarsi. Se suo padre si fosse accorto che era scappata di nuovo…
“Lily!” al solo udire la voce di Peter chiamarla, si rilassò immediatamente.
Camminò verso di lui non appena lo vide apparire fra le fronte degli alberi, buttandogli le braccia al collo e stringendolo a sé “Credevo che non saresti più venuto.”
Lui sorrise, ricambiando l’abbraccio “Te lo avevo promesso, ricordi?” sciolse quel legame, prendendole la mano e sedendosi con lei su una roccia “Dobbiamo fare in fretta, o si accorgeranno che non sei più nella tenda.”
Lei scrollò il capo “Mio padre non tornerà presto. Sta preparando una battaglia, Peter, una battaglia contro di te.” lo guardò seria, scuotendo poi piano il capo con una nota rassegnata nella voce “Non voglio che vi scontriate, non avrebbe alcun senso. Tu sei il solo che può porre un freno a tutto questo se solo-”
Lui le accarezzò le braccia, guardandola tristemente “Non posso evitarlo, Lily. Tuo padre ci vuole fuori dall’Isola e io non posso andare dai miei Sperduti e dire loro che non possiamo più stare qui tutti insieme. In nessun altro mondo ci  è concesso. Devo difendere la mia famiglia dalla tua, ad ogni costo.”
Lei tentò di rilassarsi, sebbene il suo sesto senso non smettesse di ripeterle che non doveva fidarsi di Pan. Non più. In un certo senso, esso non aveva mai smesso di metterla in allarme da quando l’aveva conosciuto, molto tempo prima.  
Eppure c’era qualcosa nel ragazzo,  qualcosa che la teneva ancorata a lui “Voglio bene ad entrambi, non voglio che vi facciate la guerra. Ho provato a parlargli, ma lui dice che tu sei uno Spirito Negativo. Se solo ti conoscesse meglio, forse-”
“Abbiamo già preso questa via, tempo fa.” Peter la interruppe brusco per la seconda volta,  ritornando poi ad addolcire il tono “Tu sei mia amica, vero?” la guardò annuire vistosamente, mentre le stringeva le mani nelle sue “Allora devi dirmi quello che sai. Solo così potrò difendere i miei Bimbi!”
Vide l’indecisione sul volto della giovane, ma essa si dissolse quando si fece più vicino, sfiorandole la guancia con le labbra in un timido bacio. A quel punto si sciolse come neve al sole, perdendo così ogni titubanza. Riusciva ad imbrogliarla ogni maledetta volta. Con voce bassa, sussurrò senza colore, come se quell’ammissione le costasse davvero cara. “Intendono aspettare che sorga il primo sole dopo tanto buio, per accerchiare la Laguna delle Sirene. Mio padre sa che hai un patto con loro, quindi correrai ad aiutarle e lui intende intrappolarti dentro ad un oggetto magico molto potente. Ti prego, fa attenzione.”
Vittorioso, Pan sorrise e Lily sentì lo stomaco sprofondarle nelle ginocchia. Aveva sbagliato ancora tradendo il suo clan, lo sapeva.  Lo guardò assente mentre si alzava in piedi e  la aiutava  a fare lo stesso “Non mi accadrà nulla, te lo prometto.” Le prese il viso fra le mani, baciandole la fronte “Ora torna a casa, aspetta mie notizie e, come sempre, non dire nulla a nessuno.”
La ragazza si limitò ad annuire mestamente “Quando scapperemo finalmente insieme alle Grotte dell’Eco?”
Peter sorrise deliziosamente “Non ancora, dolcissima principessa, ma ti prometto che non rimarrai delusa. Ora vai!”
Lo strinse un’ultima volta, prima di allontanarsi rapidamente, fuggendo ma sentendo al contempo la sua mancanza. Peter invece rimase immobile, perdendo gradualmente tutta la dolcezza dai suoi occhi verdi, che tornarono freddi e distanti. Un piccolo applauso partì da dietro di lui.
Si voltò verso Felix, esibendosi in un piccolo inchino, “Che ne pensi?”
“Sei un artista, Peter. Inganneresti persino il Signore del Mare, tanto sei credibile.” Asserì il biondo, ridacchiando di gusto “Così non sanno ancora che abbiamo noi il  Vaso di Pandora.”
“Come potrebbero saperlo?” domandò Pan, “Ho maledetto i Cannibali, non possono mettere un piede fuori dalla loro Baia e gli Indiani non hanno il coraggio di avventurarsi così a sud. Quella stupida di Tiger Lily ci ha detto tutto quello che ci serve per passare alla controffensiva.”
“Vorrai dire all’attacco vero e proprio.” Tentò Felix, mentre si incamminavano fianco a fianco verso la via del ritorno. “Hai un piano, vero?”
“Quando mai non ne ho uno?” rilanciò Pan, ricevendo come ricompensa una piccola spintarella scherzosa “Dopotutto, ho promesso a Lily che non mi accadrà nulla o sbaglio?” Felix sbuffò una risata mal celata, scambiando uno sguardo complice con il capo. “Ciò significa, amico mio, che dovrò ammazzare suo padre.”
 
 
 
 
 
La presenza di Wendy non era più sgradita.
La ragazza lo percepì nell’istante in cui Rufio prese a presentarla ad ogni Sperduto, sottolineando ogni volta che era ospite di Pan in persona.
A quelle parole, nella maggior parte di casi, si aprivano sorriso cordiali anche laddove prima albergava la più grande indifferenza.
Non tutti parevano felici della cosa però.
Nell’esatto istante in cui il moro l’aveva presentata a Tinkerbell, Wendy aveva sentito il gelo scenderle addosso.
La fatina l’aveva guardata con diffidenza da dietro l’orecchio di Rufio, prima di saltellare fino a terra e riprendere così un’altezza più umana. Si era chinata su di lei, visto che era di parecchi centimetri più alta, e l’aveva esaminata a fondo.
“Perché Peter la vuole qui? Non è chi stiamo cercando!”
A sentire quelle parole, Wendy si incupì ulteriormente. C’erano troppi segreti e troppe cose che non sapeva, per i suoi gusti.
Rufio corse ai ripari rapidamente, mantenendo sempre una certa calma “Ma come, non sei felice di avere un po’ di compagnia femminile? Sei la sola ragazza qui da…. Da…. Da sempre!”
Nibbs si fece avanti, appoggiandosi al morettino  e ridendo viscidamente “E dividere i favori e le accortezze di Peter? Giammai!”
“Stai zitto, coniglietto, se non vuoi che ti metta sulla griglia!” gli intimò la fatina, prima di guardare nuovamente Wendy. Le sembrava sciatta e decisamente troppo piccola per suscitare l’attenzione di Pan. Cosa ci doveva trovare in lei per farla rimanere addirittura all’accampamento, non riusciva a capirlo. Non aveva senso!
Nessuna ragazza poteva entrare lì, eccetto lei!
Con la coda dell’occhio, Rufio vide Felix tornare al campo. Stranamente, però, era solo.
Corrugò la fronte confuso, prima di appoggiare una mano sulla spalla di Tink per accarezzargliela “Rimarresti un istante con Wendy? Devo parlare con Felps.” Non attese risposta “Grazie sei un fata!”
L’interessata lo guardò malissimo, prima di riprendere le sue piccole forme e fare la linguaccia a Wendy, tornando  dentro ad una lanterna blu, appesa ad uno dei rami bassi dell’albero. La sua stanza, che Rufio e Ted avevano foderato di piccoli pezzi di stoffa colorata solo per lei.
Lui sospirò rassegnato, prima di sorridere a Wendy per rassicurarla “Torno in un battito d’ali. Ma non quelle di una fatina pestifera!”
Dalla sua lanterna, Tink lo guardò male, affacciandosi solo per un secondo.
Il moro si diresse verso quello che non sapeva bene se definire ‘amico’- nonostante i molti anni passati insieme a Neverland- e si appoggiò con un piede al tronco su cui si era seduto. “Peter?”
“Da Hook” si limitò a rispondere secco il  biondo, senza nemmeno guardarlo. Continuò tranquillo a sbucciare una mela, utilizzando un piccolo coltellino.
Rufio sbuffò, abbassando la voce “Ogni volta la stessa storia. Riapparirà tra un bel po’, quindi.”
“Passando dal sentiero alto che porta al vallo di montagna, abbiamo visto che il Capitano ha sbagliato le misure, nell’atterraggio.” Rise, guardando l’altro con una smorfia maligna sul volto “La nave è distrutta, inchiodata sulle rocce. Sicuramente ha perso anche qualche uomo. Peter non ha saputo resistere, doveva correre a sfotterlo.”
“E tu lo trovi divertente perché… ?”
“Perché non sono noioso come te.”
Rufio assottigliò gli occhi “Devo ricordarti le tre regole?”
Felix perse il sorriso, “C’ero anche io quando sono state decise, sai?” gli ricordò aspramente “Mai tornare indietro, mai tradire la magia e mai innamorarsi. Peccato che Pan si stia solamente intrattenendo.” Spostò gli occhi da Rufio solo per guardare perfido Wendy “Vedrai, quando tornerà si sbarazzerà della ragazzina. Se ha il Capitano, con cui divertirsi, non servono ulteriori distrazioni.”
Il morettino sospirò, prendendosi la radice del naso tra pollice e indice, prima di scrollare il capo e alzare le mani, in segno di resa “Io non voglio saperne nulla. Affari di Peter. Se crede che questa malsana… alleanza con Hook ci gioverà, io mi fido di lui.”
Girò quindi sui tacchi, tornando verso la povera Wendy. Non voleva davvero saperne nulla, perché sapeva che se ne sarebbe pentito se no. Sarebbe rimasto lì, in attesa, eseguendo l’ordine che gli era stato affidato.
Come sempre.


 
 
 
Hook si affacciò oltre il parapetto della nave quasi distrutta, guardando il suo equipaggio che si era accampato su una striscia di sabbia poco più avanti rispetto a dove si trovava lui.
Si era detto che li avrebbe raggiunti, ma non aveva avuto il cuore di lasciare la Jolly. Non era mai successo niente di simile e, sicuramente, la colpa non era sua.
Del timoniere, forse, o la vela incantata di Pan aveva fallito. Ma non era colpa sua.
Si battè piano l’uncino in fronte, cercando di fare mente locale. La chiglia era andata. Fortunatamente, tutti i suoi ragazzi erano sul ponte, o ne sarebbero morti la metà. L’albero di Mezzana era crollato su quello di Trinchetto, distruggendo mezzo parapetto di prua.
Non aveva più una nave, inutile continuare a mentirsi. La Jolly Roger era morta tragicamente per via un brutto atterraggio a Neverland.
“Maledetta Isola!” sbottò stizzito, dando un calcio ad un secchio abbandonato, che rotolò fino in fondo al ponte in pendenza. Rischiò persino di scivolare, tanto che per aggrapparsi fu costretto ad aggrapparsi con l’uncino, lasciando un lungo solco profondo nel legno lucido della nave.
Di bene in meglio.
Scrollò le spalle “Sono un idiota.”
“Lo hai capito solamente adesso?”
Il Capitano trasalì, voltandosi di scatto e notando che qualcuno se stava a fissarlo divertito, nell’ombra della vela crollata, seduto sulla prua rialzata da uno scoglio.
Il suo Demone.
Si scambiarono uno sguardo, poi Hook smise di tentennare.  Assottigliò gli occhi “Non è il momento, ragazzo. Sto dando l’addio alla mia nave.”
“Quanto dramma per tre assi verniciate di colori orrendi, Killian.” Pan scese con un piccolo saltello, senza necessitare di aggrapparsi a nulla per mantenere un equilibrio perfetto. Rise, camminando sicuro verso di lui lungo il ponte in pendenza. In forte pendenza.
“Avevi a disposizione un oceano intero,  nonostante ciò ti sei incagliato. Sei davvero il Capitano più cattivo e temibile di tutti!”
Questi sbuffò, piccato sull’orgoglio di abile marinaio “Non è colpa mia se la vela incantata che mi hai regalato prende i venti che preferisce, Pan.”
Questi lo guardò senza credere ad una sola parola, prima di appoggiare entrambe le mani sui suoi occhi. Quando prese a dimenarsi, agitato dalla loro vicinanza improvvisa, gli fermò la mano e l’uncino, bloccandoli contro il suo petto “Avanti, stai al gioco, Killian! Rivuoi la tua nave o no?”
A quelle parole, Hook smise per un istante di dimenarsi, guardandolo appena un po’ diffidente. Poi, lentamente si abbassò un poco verso di lui, permettendogli di fare il suo stupido gioco.
Passarono poco più di tre o quattro secondi – ne era certo, visto che si era messo a contare- che avvertì un forte sussulto e poi un suono molto forte, come di metallo che viene raddrizzato. Quando Pan levò le mani, la Jolly con loro due sopra era di nuovo in mare, messa alla fonda.
Il Capitano non riuscì a trattenere un sorriso grande e sincero, mentre alzava gli occhi verso le sue vele di nuovo in piedi. Si prese un attimo per camminare lungo tutto il ponte, notando che la nave non solo era tornata tutta insieme, ma sembrava rinata. “Dovrei chiamarti più spesso per la manutenzione.” Disse divertito, voltandosi a guardarlo “Ti ringrazio.” Asserì in fine, ricevendo un cenno al posto del classico ‘prego’. Si avvicinò a lui, appoggiandosi contro al parapetto nelle medesima posizione del ragazzo. Da riva, nessuno parve accorgersi di nulla.
Sicuramente stavano dormendo, o erano troppo ubriachi per alzare la testa.
Quello era il progetto di Hook, prima dell’arrivo del suo Demone.
Fu proprio lui a spezzare il silenzio placido composto solo dai loro respiri e dall’incresparsi delle onde “Sei arrivato in fretta. Ho mandato Ombra a chiamarti e sei corso qui.” Non riuscì a trattenere un sorrisetto strafottente. “Ti sono mancato?”
Rimasero a studiarsi per alcuni istante, mentre il Capitano osservava quel maledetto sopracciglio alzarsi come da copione, poi distolse lo sguardo, sbuffando una risata un po’ acuta, che tradiva il suo imbarazzo. Conservare la sua dignità davanti a quel ragazzino era impossibile.
Pan ghignò, tornando ad appoggiarsi al parapetto della nave con entrambi i gomiti, volgendo lo sguardo all’orizzonte notturno.
“Sì, ti sono mancato.”
“Noto con piacere che ti adori ancora fare domande e risponderti da solo.”  Sbottò risentito Killian, prima di sentire la mano del ragazzo risalire il suo fianco, fino alla spalla. Si irrigidì, in attesa della prossima mossa.
Ad essa, Pan si appoggiò, mentre si sporgeva per sussurrare al suo orecchio, senza trattenere nemmeno un po’ la soddisfazione “Non puoi mentire a chi può leggere la tua mente, Killian. Ora vieni, andiamo a parlare di affari.”
In un primo istante, il Capitano si aspettò il peggio. Era sempre stato un po’ timoroso, quando Peter era così vicino a lui, perché sapeva esattamente di cosa il ragazzo fosse capace. Quanto meno, serbava questo timore per la prima sera di ritorno da un altro mondo, quando non gli era ancora chiaro se tutto fosse rimasto come lo aveva lasciato o se Pan fosse cambiato. Era imprevedibile come l’alba, il suo umore poteva tingersi di qualsiasi colore e se avesse deciso che non gli era più utile….
Beh, la sua sorte sarebbe stata chiara.
Nel sentirlo però parlare così, con quella punta voluttuosa nella voce, si rilassò e  lo guardò staccarsi da lui per avviarsi verso la botola che conduceva sottocoperta e, inevitabilmente, alla sua cabina “Ora li chiami ‘affari’?”
Peter lo guardò per un istante “Come dovrei chiamarli?”
Il Capitano sorrise appena, smaliziato “Come dici sempre? Oh si…” attese un paio di secondi, prima di parlare “ I tuoi ‘Giochi da Bimbi Grandi’, ragazzo.”
Anche Pan si concesse un sorriso lascivo “Oh, quelli che posso fare solo con te, mh? Beh, avremo tempo anche per quelli, ma prima ho faccende serie di cui parlarti.”
Incuriosito, il Capitano si sbrigò a seguirlo, lasciando cadere la botola sopra alle loro teste e assicurandosi che nessuno, dall’esterno, potesse aprirla e disturbarli.
 
 
 
 
 
Rufio aveva appena finito di fare il secondo giro di controllo alle tende, verificando che si fossero coricati tutti, quando si rese conto che in effetti mancava qualcuno.
La lanterna di Tink era spenta, così la aprì, notando che la fata non c’era.
Sospirò profondamente, sapendo esattamente dove avrebbe potuto trovarla. Si apprestò ad uscire dal campo, facendo un cenno a Cubby che teneva il primo turno di guardia. Percorse il sentiero fino alle pendici orientali della selva, tenendo sempre la destra per evitare di finire nella Valle Oscura. Quello non era affatto un bel posto.
Arrivato a destinazione, trovò la fata seduta su un masso, con le ginocchia strette al petto e il viso affondato tra di essere. Sospirò rammaricato, alzandosi in volo nonostante avesse quasi del tutto esaurito la polvere volante. Si sedette accanto a lei, sospirando pesantemente “Tink che ci fai qui, seduta tutta sola?”
Poteva anche evitare di porre quella domanda, dopotutto. Conosceva benissimo la risposta.
Alzò gli occhi verso l’imponente albero, dalla corteccia larga e i rami spessi e ricchi di foglie e fiori.
Il Thinking Tree era una sorta di istituzione, a Neverland. Tutti gli Sperduti sapevano che quello era il luogo in cui Peter si ritirava quando doveva pensare o riposare. Succedeva, ogni tanto, che usasse troppo la magia, che abusasse del suo immenso potere, rimanendone come travolto. Così dormiva tra le fronde fitte, vegliato da Tink che passava da un fiore all’altro, assicurandosi che la polvere di fata fosse sempre abbondante.
Quello era il suo ruolo, lì, ed era anche il motivo per il quale Pan le aveva ridato le ali.
La fata questo lo sapeva. Sapeva che alla fine era lì per una serie di eventi tra loro correlati a cui riusciva a stento a trovare una spiegazione logica. Sapeva che Peter le sorrideva e la teneva con sé perché gli dava un contributo assai prezioso.
Era realista, ma non riusciva comunque a non sentirsi tradita.
Per questo, non rispose apertamente alla domanda di Rufio ma ne pose un’altra “Quanto rimarrà quella ragazzina?”
Il morettino prese un respiro profondo, grattandosi i capelli sul capo “Io non lo so, Tink. Potrebbe essere poco o molto. Non dipende da me mandarla a casa o meno. Nemmeno lei vuole stare qui, comunque. ”
La fata sbuffò a voce alta, tornando ad affondare il volto tra le ginocchia. Si sentiva però rincuorata dalla presenza di Rufio; sin dal suo primo giorno a Neverland, quel ragazzo era stato la sua roccia. Ogni paura, incertezza o pericolo li aveva superati grazie a lui.
Si erano sempre confidati, reggendo uno i pesi dell’altro.
Il moro soprattutto. Che Tinkerbell fosse folle d’amore per Peter non era un segreto per nessuno. Come ogni fatina, smaniava dalla voglia di mostrarsi sempre bella ed efficiente per il capo, che la lusingava sempre con complimenti che però suonavano sempre forza.
Tutti i complimenti di Peter suonavano forzati, a parte quelli per il suo braccio destro o, occasionalmente, per Felix.
Lo accettava, aspettando il giorno in cui sarebbe riuscita a dimostrargli quanto davvero volesse aiutarlo ed essere perfetta per lui.
…. Poi arrivava quella ragazzina e riusciva a farsi voler bene a tal punto da rimanere, nonostante fosse evidentemente inutile. Cosa mai poteva dare a Pan? Solo pensieri! Ecco cosa!
Li aveva visti, prima, al falò. Aveva visto come si era comportato con lei, aveva visto il suo braccio correre dietro alle sue spalle in quel modo così naturale che a lei non era mai stato concesso facilmente.
Bruciava di gelosia.
“Perché non è qui?” domandò con insistenza, tornando a fissare i rami più alti come se si aspettasse di vederlo sbucare lassù.
Rufio si morse le labbra, ringraziando che Tink non lo stesse guardando in viso “Sta curando alcuni affari. Sai, gli Indiani si sono fatti più audaci.”
“Quindi è con Tiger Lily?” domandò piccata.
Il ragazzino scrollò le spalle, capendo che non aveva esattamente sistemato le cose “Lo sai com’è Peter. È uccel di bosco: se ha qualcosa in mente è capace di sparire per un sacco di tempo. Che stia ingannando ancor di più Lily o che stia trattando con le sirene, non sarai di certo tu a convincerlo a tornare prima. Inutile che lo aspetti qui, vieni al campo e riposa.”
Lei però parve irremovibile “Devo parlargli.”
“Cosa speri di ottenere?” insistette Rufio, cercando di tenere un tono pacato “Lo sai che qualsiasi cosa potrai mai dirgli, a lui non importerà. Se per quella ragazza ha in mente un disegno preciso, tu non puoi far altro che abbassare il capo e annuire.”
Tink strinse i pugni “Faccio tanto per lui, mi deve un minimo, non credi?”
Il moro attese che lei ricambiasse il suo sguardo, prima di alzarsi in piedi, sollevandosi in volo dal masso “Pan non deve nulla a nessuno, lo sai benissimo. Noi dobbiamo qualcosa a lui, ovvero la possibilità di essere rimasti qui. Siamo la sua famiglia, Tink, la sola che ha e che abbiamo noi a nostra volta. Non discutere, ha più pensieri che capelli sul capo ora come ora. Appoggiamolo e basta.” Le porse la mano “Va bene?”
Questa però scrollò il capo con nervosismo,”Io lo appoggio sempre, vorrei solo ricevere qualcosa in cambio! Una ragione in più per sorridere!” un vortice verde la abbracciò e in un  battito di ciglia tornò delle dimensioni di una mela o poco più.
Rufio la guardò volare sino in cima all’albero, prima di sparire del tutto dalla sua vista. Non poteva seguirla, non aveva il permesso nemmeno di toccarlo quell’albero.
Solo Tink poteva.
Così, sconfitto, fece ritorno al campo.
“Vorrei essere io la tua ragione per sorridere, Tink.”




Nda:
Piccolo aggiornamento Natalizio^-^
Auguro a tutti delle bellissime festività e non mangiate troppo che, se scoppiate, non potete scoprire come andrà avanti la storia!
Come spenderete questi giorni? :D

Grazie a chi legge, ma in particolare a chi recensisce.
Siete straordinari. 

Un abbraccio
Jessy

 
TANTI AUGURI!!
 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto: A Cage is not a Home ***


 

~  The Price
to Pay.


Capitolo Quinto.
A Cage is not a Home.
 






Quando Peter si ritrovò ad aprire gli occhi, intontito dal sonno, si maledisse internamente, esternando la sua insoddisfazione con un prolungato mugolio. Non era abituato ad appisolarsi così lontano dall’accampamento, non che temesse qualcosa, ma prevenire era sempre meglio che ritrovare a curarsi da solo con la magia.
Eppure, l’uncino di Hook che correva sulla sua schiena bianca e nuda con un ritmo lento e una leggera pressione pareva tutto, ma non pericoloso.
Alzò il viso dal cuscino, voltandolo verso il Capitano e cercando di aprire il più possibile gli occhi. Non si sentiva così tanto spossato da un po’ “Dimmi… Quanto avrei dormito?” chiese con voce roca, puntando lo sguardo nel suo.
Questi sorrise “Non più di un paio di ore, anche se è difficile dirlo, qui a Neverland.Sembravi particolarmente stanco, dopo.”
Pan cercò di ignorare il ghigno sul volto di Killian “Mi sto occupando di affari importanti, che tu non potresti nemmeno capire, figurati gestire.”
“Fortuna che ci sei tu ad illuminarmi ogni volta.”
Il ragazzo sbuffò, buttando all’aria le due coperte che coprivano entrambi ma pentendosene subito. “Perché c’è così tanto freddo, qui dentro?”
“So che magari questa notizia potrebbe sconvolgerti…” replicò il Capitano sarcastico, senza staccare gli occhi dalla schiena di Pan  “Ma l’oceano è molto umido.”
“Divertente.” Soffiò Peter, adocchiando subito i suoi pantaloni e alzandosi per recuperarli, dal pavimento della cabina “Mi hai fatto perdere molto tempo, Killian.”
“Deve essere molto brutto, essere un uomo così impegnato. Uomo poi…. Un ragazzino petulante.”
Il suo piccolo demone personale ridacchiò, infilandosi le braghe e iniziando la ricerca della sua casacca verde, “Stanotte mi hai trattato come un adulto, però.”
Hook lo guardò sornione “Non sono giochi da Bimbi Grandi solo di nomea, no?” Si raddrizzò sul letto, allungandosi per afferrare la fiaschetta di Rum e guardare fuori dalla finestrella. Ancora notte, sempre notte. “Pensi di darmi un po’ di luce, questa volta?”
Pan tornò verso il letto, appoggiandosi ad esso con entrambe le mani “Te lo devo spiegare di nuovo? Quando sorgerà il sole inizierà una guerra.” Appoggiò una mano sul petto di Hook, spingendolo di nuovo sul letto e rischiando di fargli versare il Rum sul materasso “Guerra alla quale, se ho capito bene, parteciperai anche tu.”
Il Capitano sospirò pesante “A cosa mi serve il sole, quando ci sei tu che mi porti delle così belle notizie ogni volta?”
“Stai dicendo che ti illumino la giornata?” chiese ironico Pan, tornando a sedersi accanto a lui.
Anche questi si sedette, lasciando scivolare la coperta lontano dal suo corpo “Sto dicendo che la rendi sicuramente più interessante, ma forse anche l’ultima, ragazzo.” Peter lo guardò sollevare la mano e portarla al suo capo, per schiacciare una ciocca di capelli ribelli “Perché non rimani un po’?”
Il ragazzo sollevò un sopracciglio, guardandolo confuso “Perché dovrei rimanere?”
A quelle parole, il Capitano non seppe trovare risposta. Quando si parlava di quel ragazzo, niente aveva più un senso logico. Non sapeva mai cosa aspettarsi da lui, spesso i suoi modi lo mettevano in allarme mentre altre volte voleva semplicemente averlo più vicino. Peter lo capiva come non sapeva capirsi nemmeno da solo. Gli bastava guardarlo negli occhi e leggeva dentro di lui come se fosse la cosa più naturale del mondo. In un certo senso, anche lui riusciva a sua volta ad interpretare molto bene il comportamento di Pan. Avevano scoprirsi di volta i volta, in quel ultimo secolo.
Era strano, il loro rapporto. Indefinito.
Killian non credeva fosse amore, no. Era un morboso attaccamento che Peter aveva per lui e che, a sua volta, lui provava per il ragazzo.
Dare una spiegazione a ciò che c’era tra loro due era semplicemente impossibile. Così, come ogni volta, come ad ogni domanda troppo scomoda, si limitò a sporgersi in avanti, inclinando il capo e azzerando la distanza tra le loro labbra in un bacio.
E Peter, come ogni volta, non si tirò indietro.
Quel contatto valeva di più di una spiegazione mancata.
Quando le loro labbra si separarono in uno schiocco soffice, Pan fece per alzarsi. Come ogni volta, lo stava mettendo alla prova. Quando sentì la mano di Jones afferrargli con determinazione il polso si lasciò sfuggire un sorrisetto compiaciuto.
Amava l’effetto che aveva su di lui.
Si sentì tirare indietro, mentre il braccio di Killian gli circondava i fianchi e lo tirava contro il suo corpo caldo “Quando sono tornato a  Neverland, dopo la morte di…. Per la seconda volta.” Il Capitano deglutì, sentendo la pesantezza di quelle parole sul suo cuore, nonostante fosse passato parecchio tempo “Ricordo che mi parlavi delle sirene, delle meraviglie dell’Isola… Perché hai smesso?”
Pan alzò un sopracciglio, prima di replicare canzonatorio “Abbiamo finito gli argomenti di conversazione e siamo passati ai fatti, Killian.”
“Rimani.” Soffiò determinato Jones contro il suo orecchio, in un tono che non ammetteva repliche.
Con un sorrisetto smaliziato, Peter tornò a stendersi sul letto, fingendosi docile “Come ordinate, Capitano..”


 
  
 
 
Too staccò un morso dalla sua banana, guardando dubbioso l’accampamento. Mentre quasi tutti i ragazzi si stavano organizzando in turni per le mansioni che Pan aveva assegnato prima che andassero a coricarsi, un paio sembravano di tutt’altro avviso.
Felix non si era ancora alzato dalla branda, come intenzionato a manifestare la sua disapprovazione per la presenza di Wendy con uno sciopero vero e proprio; Rufio se ne stava abbattuto davanti al falò, arrostendo un po’ troppo un povero marshmallow; Tinkerbell pareva avere un diavolo per capello e girava tra le tende, sbraitando ordini e schivando le manate che alcuni degli Sperduti- i meno pazienti- le tiravano per zittirla. Poi c’era Wendy, seduta accanto a Rufio, che si guardava attorno, come se non riuscisse davvero ad ambientarsi.
Era la ragazzina più graziosa che Tootles avesse mai visto. Adorava la piega che prendevano i suoi occhi quando sorrideva imbarazzata, o il suo modo di presentarsi tanto quanto il suo sorriso luminoso e la voce cristallina.
Aveva portato una ventata di novità sull’Isola, qualcosa che mancava e di cui tutti avevano bisogno. Too in primis. Quando Rufio si alzò, rassicurando la ragazza del suo ritorno nel più breve tempo possibile, si fece coraggio. Con un  gran sospiro si sedette accanto a lei, arrossendo sino alle orecchie quando lei gli diede un buon giorno caloroso “Ciao Wendy.” Passò le mani umide di sudore sui calzoni marroni e consunti, “Mi stavo chiedendo se ti andava di fare una passeggiata. Qui dietro c’è un ruscello bellissimo, con dell’acqua cristallina che mi piacerebbe mostrarti!”
La biondina sorrise maggiormente “Mi piacerebbe moltissimo! Ho davvero bisogno di lavarmi il viso e… E…”
La sua attenzione venne calamitata da qualcosa. Anzi, da qualcuno.
Quando Too si voltò per capire chi mai potesse avere distratto tanto Wendy non si stupì affatto di vedere  Pan in persona. Sembrava particolarmente di buon umore, a giudicare dal modo in cui elargiva pacche sulle spalle e sorrisi ampi.
“Scusami, Too” sussurrò la vocina al suo fianco, facendogli sprofondare il cuore sino alle scarpe. Sconfortato, guardò Wendy alzarsi in piedi, per poi poggiargli una mano sulla spalla “Dopo faremo la nostra passeggiata, ma ora devo assolutamente parlare con Peter!”
“Non preoccuparti, non occorre che tu-” si interruppe improvvisamente quando ormai stava già parlando da solo da qualche secondo. Amareggiato, guardò la biondina correre fin davanti al capo, portando poi le mani intrecciate dietro alla schiena mentre si rivolgeva a lui imbarazzata, ma sorridente. Quando il ragazzo le porse il braccio, invitandola a parlare da un’altra parte, lei accettò al volo.
Non avrebbe potuto fare altrimenti, dopotutto. Peter era carismatico, affascinante, magnetico e affabile in modi e maniere che un poveraccio come Tootles non avrebbe mai potuto nemmeno vagamente scimmiottare.
Era il capo per un motivo, dopotutto.
Ed era l’idolo di Wendy. Quel poco che avevano parlato, lei a Too, era bastato per far emergere quanto profondamente fosse ammirata quella ragazzina per il potente Pan.
Certo, aveva una visione molto romantica e romanzata di quel misterioso personaggio che era il signore dell’Isola. Da favola.
Forse perché si sentiva sempre più tranquilla in sua presenza.
Peter non voleva che lei avesse paura di lui.
Sapeva farsi temere molto bene, se lo desiderava, ma per chissà quale motivo faceva parecchio lo splendido davanti all’ospite.
Delle sue ragioni, a Tootles non importava.
Non sapeva nemmeno lui perché volesse tanto fare colpo su Wendy, o perché ci provasse nonostante tutto; se Pan aveva messo gli occhi su di lei non aveva speranze, figurarsi se poi lei non vedeva che lui.
Sistemandosi la sua berrettina bianca e nera si alzò in piedi, pronto a iniziare il primo turno di vedetta.
Non poteva pensarci troppo, per evitare di finire nei guai e di trasgredire la terza regola: mai e poi mai innamorarsi.


 
 
 
Peter poteva sentire l’insicurezza di Wendy in ogni singolo sospiro.
Si erano allontanati dall’accampamento già da una manciata di minuti, ma lei non aveva ancora proferito una sola parola. Si limitava a stringersi al suo braccio, torturandosi il labbro inferiore con i denti.
E sospirava.
Continuamente.
Peter non sapeva se essere irritato da tanta incertezza o solamente divertito. Doveva davvero far paura se, nonostante tutti i suoi sforzi, la ragazza ancora faticava a rivolgersi a lui.
“So che vuoi parlarmi di qualcosa.” Disse, interrompendo quel silenzio fastidioso e facendole alzare gli occhi nei suoi “Ma prima mi piacerebbe molto mostrarti una cosa. Ti va?”
“Certamente.” Rispose lei con voce cristallina, abbozzando un piccolo sorriso incuriosito. Non se lo aspettava di certo, anche se l’essere pieno di sorprese era uno dei molti attributi caratteristici di Peter.
La condusse per un piccolo sentiero, che circondava un’enorme roccia, proprio dietro all’accampamento. Solo quando ebbero aggirato completamente l’enorme masso, Wendy vide che era come cavo, all’interno. Una scaletta di pioli di legno si intravedeva appena tra la vegetazione, ma quando arrivarono proprio all’entrata di quella sorta di grotta, vide che conduceva in alto.
Peter la invitò a salire e così lei fece, mentre sentiva crescere sempre di più la curiosità. Una volta arrivata in cima, Wendy si bloccò. Davanti a sé trovò una stanza che sembrava essere stata ricavata scavando nella pietra stessa. C’erano dei tendaggi bianchi e delicati, di gusto fine, che cadevano dalle pareti attorno al letto. Uno, arrotolato su se stesso, davanti all’imbocco delle scale. Alla sua sinistra c’era un tavolino bianco, con sopra una tinozza ripiena di acqua e qualche asciugamano. Alla sua destra c’era una zona più ampia, che andava fin contro la parete di roccia ed era ricoperta di cuscini e coperte. Il letto, al centro di quella piccola stanza, aveva un’altiera di ferro battuto nero e sembrava grande e soffice. Non sapeva come fosse possibile, ma ai lati di esso c’erano due finestre, piccole e quadrate, che  facevano filtrare la luce della luna nella stanza.
Salì del tutto la scala, continuando a guardarsi attorno incantata. Peter la seguì, non levandole lo sguardo di dosso. Osservò compiaciuto ogni singola mossa di stupore, ogni singolo movimento dettato dalla meraviglia. Con un movimento morbido della mano, accese le due lampade ad olio che si trovavano sui comodini accanto al letto e lasciò che quella luce traballante illuminasse il volto della giovane, arrivata sin lì.
“Allora? Ti piace, Wendy?” domandò soddisfatto, appoggiandosi con entrambe le mani all’altiera ai piedi del materasso mentre la osservava accarezzare il risvolto delle lenzuola e i cuscini, testandone la morbidezza. “L’ho costruita per te! Questa ora è la tua casa, puoi dormire qui e lasciare a Tootles la sua tenda.”
In un primo momento, la ragazzina sembrò molto felice per quel dono.
Girò attorno al letto, passando dietro di lui e, dopo aver scostato una delle tende, accarezzò il legno liscio e freddo di separé di mogano.
Poi realizzò ciò che le aveva detto. Non era stato esplicito, ma l’aveva ‘sistemata’ a Neverland. Non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea di lasciarla andare.
Torturandosi le mani, si voltò verso di lui e abbassò il capo a terra, decidendo  di parlare senza guardarlo. Era dispiaciuta, ma doveva dirgli ciò che realmente voleva  “Trovo tutto questo estremamente adorabile ma…. Peter, è di questo che volevo parlarti.” Fece una piccola pausa, scostando una ciocca di capelli dal viso e portandola dietro all’orecchio  “Io…. Io non voglio stare qui, voglio tornare a casa…. Dalla mia famiglia”
Il silenzio le ferì le orecchie mentre attendeva la risposta di Pan, che la fece attendere non più che una manciata di istante infiniti, per lei “Non vai da nessuna parte.” Decretò secco, senza una particolare emozione, “Ti ho costruito una casa, hai fatto amicizia con gli Sperduti e ci divertiremo un sacco insieme. Cos’altro vuoi?”
Quell’ultima domanda la fece arretrare di un passo, andando così a sbattere con una gamba contro al materasso. “N-nulla Peter. Stai facendo anche troppo per me.”
“Allora perché non sei felice?”
Il ragazzo portò due dita sotto al suo mento, costringendola a guardarlo in viso. Quello che Wendy vide non le piacque affatto. Non c’era il minimo segno di comprensione negli occhi verdi di Pan  “Mi manca troppo casa mia. Mi manca il calore dell’abbraccio dei miei genitori.”
“Dimenticali, Wendy!” Disse  Peter caricandosi di entusiasmo,  portando le mani sulle sue spalle e stringendole appena “Dimenticali tutti! Qui puoi ricominciare una nuova vita!”
“Non posso, Peter! Perché sei così crudele da non capirlo?” Provò a ritrarsi, ma fu inutile. La presa di Pan si era irrigidita sulle sue braccia “Non puoi trattenermi per sempre.” Pigolò infine, ottenendo solo un risultato: irritarlo.
Infatti, la maschera che portava Peter passò dall’esaltato a una nuova apatia.“Certo che posso, io sono il Re di Neverland. Qui faccio tutto quello che voglio e prendo tutto quello che voglio. Te compresa.
Wendy sentì gli occhi farsi lucidi e presero a pizzicare. Eccola di nuovo, la paura che sperava di aver esorcizzato. Eccolo di nuovo, quel cuore nero che aveva percepito al loro primo incontro,“Così mi fai soffrire.” Una lacrima le rotolò lungo la guancia, e lei non fece nulla per fermarla.
“Lo vedo, ma piangere ti rende solo più bella.” Lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi, lasciandola andare, prima di muovere un passo verso la porta “Non vai da nessuna parte. Discorso chiuso.”
Era una prigioniera, quindi? Beh, non aveva nulla da perdere. Prese il coraggio a due mani e lo seguì fino alle scalette, non permettendogli di scenderle. Gli prese una mano, tirando verso di sé fino a che non si fu di nuovo voltato nella sua direzione, e prese a urlargli addosso tutta la sua sofferenza“Mi manca mia mamma! Mio papà! E John, Micheal e Bealfire!”
“Baelfire?” il viso del ragazzo si incupì di colpo, e il suo umore che già stava irritandosi divenne ancor più nero. Si chinò sulla ragazza, assottigliando gli occhi e lanciandole uno sguardo tale che la fece sbiancare. Lei lasciò la sua mano come se bruciasse“Per caso è un tuo parente!?”
Non era possibile, non poteva essersi perso un tale passaggio.
“No, è un ragazzo che, da qualche tempo, vive da noi.” Si sbrigò a rispondere la ragazzina, senza riuscire a staccare gli occhi da quelli verdi di Pan, nonostante il desiderio di farlo. Poi, una domanda apparve magicamente tra i suoi pensieri e nemmeno la paura crescente le impedì di porla“Lo conosci?” chiese stranita, portando via il percorso umido che una lacrima aveva disegnato sulla sua guancia rosea.
“Non ancora…”
Wendy si sentì spiazzata da quella risposta. Cosa significava quel ‘non ancora’? Aveva intenzione di rapire anche Bae?! Si sentì divisa e confusa ancor di più. Da un certo lato, le sarebbe piaciuto rivedere Baelfire e si sarebbe sentita più al sicuro con lui.
Però non voleva che Pan facesse un altro prigioniero.
Ad evitare ulteriori domande – da entrambe le parti- ci pensò Tinkerbell. Volò dentro alla stanza,  svolazzando attorno alla testa di Peter con aria fortemente indispettita “Ti cerco da non so quanto! Devo parlarti, ora!”
Il ragazzo, davanti ad una tale sfrontata insistenza, si lasciò andare ad un lungo sospiro. Acconsentì con un cenno del capo, afferrando al volo la fatina. Non se ne andò subito, però. Prima tornò a rivolgersi a Wendy.
 “Questo è il luogo dove nascono i sogni e dove il tempo non può cospirare contro di noi. Questa è la tua nuova casa, Wendy. Devi solo abituarti e poi ti piacerà. Qui non dovrai mai, mai più preoccuparti delle ‘cose da grandi’.”
La ragazza strizzò forte gli occhi per impedire alle lacrime di cadere ancora e ancora, ma quando li riaprì di Pan non c’era più traccia. Sparito.
Si lasciò cadere sul  letto, puntando gli occhi verso il soffitto di pietra grezza. Non aveva vie di fuga o speranze.
“ ‘Mai’ è un tempo seriamente lungo, Peter… ”


 

  
Le fate, per definizione, hanno un cuore troppo piccolo per provare più di un sentimento alla volta.
Quello che per Tinkerbell era naturale, agli occhi di Peter era un limite irreparabile, un handicap che poteva costare alla fata molto più di una rimprovero ringhiato.
Ogni volta che si arrabbiava con lui e iniziava a lagnarsi o a strillargli addosso frasi imperanti che iniziavano tutte con ‘devi’ o, peggio ‘non devi’, lui sognava di strapparle la testa da quel piccolo corpicino luminescente.
Peccato che la polvere magica gli servisse. Si sarebbe dovuto ingegnare per trovare una soluzione anche a questo. 
Il provare tutta quella rabbia le impediva, di fatto, di sentire il timore.
Lui però le ricordava sempre chi comandava.
La sfera infuocata la mancò di una manciata di millimetri, uno scarto troppo basso per parlare di agilità. Era stata fortunata.
“Smettila di tormentarmi, Tink.” Sbottò annoiato, mentre lei lo guardava stizzita e con il rancore nello sguardo “Lei rimarrà con noi e tu non devi sentirti minacciata: non occupi nessun posto di rilievo, dal quale potrebbe spodestarti.”
Il cuore della fatina andò in mille pezzi, sentendo quella frase. Lo sapeva, lo sapeva benissimo, ma udirlo era peggio. Fugava così ogni dubbio. Non si mostrò debole, però. Alzò il mento, guardandolo fieramente e fermandosi ad un centimetro dal suo viso. “Se smettessi di produrre polvere di fata? Avrei un posto?”
Lui sorrise, sarcastico “E sei io ti strappassi le ali? Sappiamo entrambi cosa succederebbe: mi riprenderei quello che ti ho gentilmente concesso e tu torneresti una nullità assoluta.” tornò serio, soffiandole addosso “Non sfidarmi, sai già che perderesti.”
Lo guardò allontanarsi fra le vegetazione ad ampie falcate, lasciandola lì sola a contemplare se stessa. Pan aveva ragione, senza i suoi favori sarebbe tornata ad essere ciò che era appena giunta a Neverland: una fatina caduta, senza ali, né magia. Né nessuno a tenerle compagnia.
Che fosse o meno crudele, Peter le aveva dato tutto ciò che il resto del mondo le aveva sempre negato: Una famiglia e una seconda possibilità. Quando era tranquillo, la sua compagnia era piacevole.
Peter era capace di diventare terribile, ma anche di mostrarsi sensibile.
Che poi fingesse, era un altro discorso, ma riusciva comunque a toccare corde dell’animo celate ai più.
Aveva ricordi bellissimi dei primi tempi a Neverland. Delle serate passate attorno al falò a parlare per un tempo infinito, con o senza Felix e Rufio.
Riprese dimensioni umane senza quasi accorgersene e ritirò le ali, prima di andare a sedersi su di una roccia, sospirando sconfitta. Poteva solo rassegnarsi.
Sentì dei rumori dietro di lei, rami che venivano spostati al passaggio di qualcuno, ma non si voltò. Era convinta che si trattasse di Rufio, per questo quando avvertì un’altra voce, anch’essa conosciuta, trasalì voltandosi di scatto.
“Come sei triste, fatina. Pan ti ha dato il benservito? Di nuovo, si intende…”
Tink lo guardò male, ma senza la forza di litigare con lui “Gira al largo, Felix. Lasciami in pace e vai a tormentare qualcun altro.”
“Ma è proprio te che stavo cercando.” Si sedette accanto a lei, spingendola per farsi spazio a forza. Tink non cadde con il sedere sull’erba per miracolo “Sai, non ho potuto fare a meno di sentire la tua conversazione con il grande capo…”
“Pensa un po’ che combinazione…”
“…. E forse so come fare per risolvere questa brutta, brutta situazione.” Il biondo si calò il cappuccio dal capo e appoggiò con un tonfo  secco la sua fedele mazza a terra. Poi si voltò di tre quarti verso di lei, con un sorrisetto malevolo “So come sbarazzarmi di Wendy, ma ho bisogno di te per farlo.”
La fata corrugò la fronte, guardandolo perplessa “Punto primo: da quando tu vuoi aiutare me? E punto secondo, il più importante: Peter la vuole qui. Non eri tu quello che diceva che i suoi ordini sono legge divina?”
“Aiutando te, aiuto anche me. Senza contare tutti gli altri Sperduti, che non avranno più una bambina piagnucolosa per l’accampamento.” Diede un calcio ad un sassolino, guardandolo poi rotolare via, dietro ad un cespuglio “Tanto Pan ha così tante distrazioni ora, che non la piangerà di certo.” Aggiunse con un sorrisetto malevolo.
Sapeva qualcosa che lei non sapeva, ma intanto era sempre così.
“Resta il fatto che lui ha detto esplicitamente che la vuole a Neverland. Andresti davvero contro il suo volere solo perché non la sopporti?”
Felix sorrise, con la faccia di chi aveva già un piano in mente “Peter ha detto che deve rimanere qui, giusto?” Tink annuì, arricciando il naso per il fastidio che quel pensiero le procurava “Non ha specificato se viva o morta.”
A quelle parole, la fata schizzò in piedi “Aspetta, credevo che volessi rimandarla nel suo mondo. Non si è parlato di uccidere nessuno.”
“Peter la farebbe tornare qui, non credi?” lui la guardò scocciato, alzandosi a sua volta e caricandosi la mazza sulla spalla destra “Senti, ho in mente qualcosa. Non prenderemo nemmeno la colpa, forse. Possiamo incastrare qualcun altro e se Pan vorrà la testa del colpevole…. Noi saremo fuori da ogni pericolo.”
Tinkerbell si sentì combattuta.
Felix si spazientì.
“Non ho tempo da perdere, fatina.” La superò, dirigendosi verso il sentiero che aveva intrapreso anche Peter, pronto a tornare alla spiaggia per accogliere i nuovi arrivi “Se cambi idea sai dove trovarmi.”
Lei rimase in allerta sino a che i passi dietro di lei non scomparvero del tutto, poi con un lungo sospiro prolungato lasciò fluire la tensione fuori dai suoi nervi.
Che fare?
Era davvero disposta ad un gesto così estremo?
Voleva quella ragazza fuori dalla sua vita, lo voleva con tutta se stessa….
Ma valeva la pena pagare un prezzo così alto?
Il solo fatto che ci stesse pensando le fece intuire una cosa: Alla fine, Neverland era riuscita a corrompere il suo cuore.
Che lo volesse o meno, non sarebbe diventata una persona migliore in ogni caso.




Nda.
Come sempre, ringazio chi legge e in particolare chi recensisce.
Come qualcuno di voi avrà notato, mi piace riportare frasi del libro o dei film su Pan e rigirarle un po'.

Spero vi sia piaciuto questo capitolo.
Al prossimo con la storia di Tinkerbell.

Buon anno a tutti.
Jessy
 

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