Nothing Else Matters

di _joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quello che accadde prima ***
Capitolo 2: *** Quello che accadde poi ***
Capitolo 3: *** Fino al giorno in cui ***
Capitolo 4: *** Il giorno in cui nacque suo figlio ***
Capitolo 5: *** Un anno e quattro mesi dopo ***
Capitolo 6: *** Un radioso pomeriggio di inizio giugno ***
Capitolo 7: *** Quel dannato telefono ***
Capitolo 8: *** Rivedersi. Che cosa assurda. ***
Capitolo 9: *** Era inutile cercare di dormire ***
Capitolo 10: *** Quella mattina aveva le idee poco chiare ***
Capitolo 11: *** La telefonata ***
Capitolo 12: *** A cosa aveva dato il via? ***
Capitolo 13: *** Una settimana dopo ***
Capitolo 14: *** Alleanza ***
Capitolo 15: *** Incidente ***
Capitolo 16: *** Somiglia molto a suo marito ***
Capitolo 17: *** Qualcosa che andava detto ***
Capitolo 18: *** Perchè vi amo entrambi ***
Capitolo 19: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Quello che accadde prima ***


A C. e Sofi, che volevano tanto leggere questa storia

A Ben, che è la mia ispirazione

A tutti voi che siete con me


 
 

La sera in cui Ben Barnes lasciò Rebecca Milani era una sera piovosa e grigia.
 
Si trovavano entrambi a Los Angeles, nella casa dell’attore, e stavano riproponendo quella che ormai era l’unica conversazione serale che intercorreva tra loro da due settimane a quella parte.
«Io mi sono rotto le palle!» urlò Ben, furioso «Basta, non ce la faccio più! Ogni giorno la stessa storia! Mi fai diventare matto!»
«Solo perché tu te ne freghi e continui a comportarti come uno stronzo!» strillò lei di rimando «Lo fai apposta? Dillo e facciamo prima! Più ti dico che mi ferisci e mi fai arrabbiare, più lo fai! Allora non te ne frega niente di me e di quello che ti dico!»
«Non è questo! Te l’ho già detto! Ma non sopporto che tu o chiunque altro mi dica cosa posso o non posso fare!»
«Nemmeno se quello che fai mi fa stare male?»
«Tu non puoi stare male se io esco con i miei amici!»
«Io sto male se tu ti fai solo i cazzi tuoi! Sono venuta a Los Angeles per te e questo è il ringraziamento! Sei un grandissimo stronzo!»
«E chi te l’ha chiesto di venire a Los Angeles, eh?»
 
Seguì un silenzio teso.
 
Rebecca sapeva, ad onor del vero, che Ben non glielo aveva proprio chiesto… Ma erano talmente innamorati, talmente felici e talmente stanchi dei weekend rubati, delle vacanze che non coincidevano mai e dell’oceano che li separava che, alla sua terza visita in America, gli aveva detto ridendo:
«Potrei fermarmi qui, sai? Dopotutto… di biglietti aerei spendiamo una fortuna, tanto varrebbe aiutarti a pagare l’affitto…»
Aveva atteso la risposta trattenendo il fiato e Ben l’aveva rovesciata sul letto, spogliandola alla velocità della luce.
E così, era iniziata la sua parentesi americana, durata quattro mesi e dodici giorni.
Mesi stupendi, appassionati e folli; fatti di sole, spiagge, locali alla moda, set cinematografici e amore.
Con qualche piccolo veleno che, però, strisciava nefasto attorno a tanta felicità: l’ambiente dello star system fatto da persone vuote e superficiali, gli impegni sociali di lui che lo portavano a prendere almeno due aerei alla settimana, gli amici di Ben che la rifiutavano.
Semplicemente, Rebecca non si era mai integrata davvero nella vita di lui in America.
Quando erano soli Ben era tutto per lei, ma calarsi nella sua vita – azzardando per di più immediatamente una convivenza – era stata una forzatura.
Adesso se ne rendeva conto: avevano affrettato troppo i tempi.
Dopo le prime, idilliache settimane, la vita aveva bussato alla loro porta e Ben era ripiombato nel turbine dei provini, del nervosismo, dell’attesa spasmodica di risposte dagli agenti.
Rebecca non aveva mai visto questo lato fragile di lui e aveva cercato di stargli vicino come poteva.
Alcune volte, però, il modo migliore per stare vicino a qualcuno è lasciargli i suoi spazi.
Altro errore, con il senno di poi: ma lei era sola, in America, e lui era il suo punto di riferimento.
Così, cercava di spronarlo, ma Ben ricadeva nel mutismo e cercava gli amici – attori con le stesse idiosincrasie e che, evidentemente, parlavano la stessa sua lingua.
Questo era stato il primo, vero problema: Rebecca non accettava di essere messa da parte e non le bastavano, poi, le sue scuse, spiegazioni e rassicurazioni.
 
Poi, gli amici di lui: gentaglia che lei definiva “senza arte né parte”.
Ben non ne voleva sentir parlare.
«Ma fanno il mio stesso lavoro! Allora pensi lo stesso di me?»
«Amore, ma che dici? Tu hai un’istruzione, sai parlare di qualcosa che non sono le auto e il baseball… Ma come fai a sopportarli?»
«Sopportarli?! Sono i miei amici!»
«Begli amici del cazzo! Dei drogati senza arte né parte che…»
«Oh, certo, mentre il mondo è delle maestrine di scuola, vero?»
«Perché, è troppo ordinario per la tua vita scintillante?»
 
E poi, era divenuto tutto “troppo”.
Si amavano ancora, almeno Rebecca ne era certa, ma le incomprensioni e i litigi erano diventati troppo.
Occupavano la maggior parte del loro tempo… Certo, quando non erano con gli amici di lui e quando lui era in città.
 
Ma come abbiamo fatto a ridurci così?
 
Rebecca ne soffriva, ma quando era davanti a lui non riusciva a trattenersi e dava il via a una serie di lamentele che, se ne rendeva conto, erano esasperanti… Ma perché cavolo lui non cambiava atteggiamento?
Non era uno stupido, quindi perché si sforzava di sembrarlo?!
 
*
 
No, Ben non era uno stupido, ma era davvero concentrato sulla sua carriera e quella ragazza che gli aveva fatto girare la testa durante una vacanza in Italia forse non rientrava nel quadro, come lui aveva sperato all’inizio.
L’aveva incontrata mentre era in Toscana in vacanza con amici: lei si stava per laureare, ma si era concessa una settimana con un’amica in spiaggia.
I loro ombrelloni erano vicini e così, casualmente, erano iniziate le chiacchiere.
Rebecca non era il tipo di donna che normalmente Ben notava, ma c’era qualcosa in quegli occhi castani e profondi e in quei ricci neri che, con suo stupore, lo attraevano.
Lo stupore crebbe quando si rese conto che lei non era solo carina: era intelligente e simpatica e loro due, insieme, funzionavano.
Semplicemente.
Erano d’accordo su tutto, amavano le stesse cose, avevano lo stesso senso dell’umorismo.
Iniziarono ad uscire per un pizza, che poi divenne un cinema, una passeggiata in spiaggia al chiaro di luna.
Il primo bacio.
Il primo di una lunga serie.
Ma non avevano subito parlato di un possibile futuro: lui non voleva impegnarsi, lei aveva la testa sulla discussione della tesi.
Però Ben, in occasione della Laurea, le aveva fatto una sorpresa e si era presentato a Firenze, con un mazzo di rose in mano.
L’aveva chiamata e lei lo aveva raggiunto.
E, a quel punto, non si erano più lasciati.
 
 
Fino a quella sera a Los Angeles.
 
 
Ben la guardò, triste.
Rebecca camminava avanti e indietro per la stanza e gli ricordava una leonessa in gabbia.
Ecco cosa gli aveva fatto perdere la testa, di lei: la fierezza, il carattere indomito, mescolati a una dolcezza infinita.
Ma lei non si piegava… Cioè, non si adattava al suo mondo.
E Ben non voleva lasciarlo, quel mondo.
Questa era l’unica cosa che sapeva con certezza, ormai.
 
Fu così che abbassò gli occhi e mormorò:
«Becky… noi vogliamo cose diverse, è chiaro»
Lei si fermò in mezzo alla stanza e volse il viso verso di lui, che continuò precipitosamente:
«Vogliamo cose diverse e quindi…»
«E quindi?» chiese lei, atona.
Non poteva essere, non poteva essere.
Non stava per dirle…
«Quindi forse noi dovremmo…»
Rebecca attese.
Non voleva aiutarlo, non in quel momento.
«Forse sarebbe meglio per tutti e due se…»
 
Altro silenzio infinito.
«Meglio per tutti e due o solo per te?» chiese poi Rebecca.
«Anche per te… Tu non sei felice…»
«Come lo sai? Te ne frega qualcosa?»
«Ma certo! Ma certo, come fai a domandarmi una cosa del genere? Certo che mi importa…»
«Buffo. Ho l’impressione che ti importi solo di te»
«No, io… Io non lo so, Beck. Sto sbagliando tutto con te… Ma…»
«Ma non ami abbastanza» disse lei, atona.
«Io ti amo…»
«Ben» Rebecca scosse la testa, stupendosi della sua stessa lucidità in un momento in cui il suo cuore stava per spezzarsi «Amare è un’altra cosa, lascia che te lo dica. Amare è mettere l’altro per primo… e tu con me non lo fai mai. E io so che me lo merito, mi merito qualcuno che mi ami come io amo te»
 
Ovviamente, una parte di lei – quella meno razionale – sperava che lui negasse, che si gettasse ai suoi piedi, che le dicesse che anche lui l’amava davvero e che non voleva lasciarla.
Ma gli vide la verità negli occhi, quei grandi occhi scuri come l’ebano.
 
Rebecca sospirò, chiuse gli occhi, si concesse un ultimo sciocco secondo di attesa nel caso lui cambiasse idea, quindi riaprì gli occhi, raccolse la giacca e infilò la porta, uscendo nella sera di Los Angeles.



****
Dunque dunque: cosa ci faccio qui, a postare una nuova storia quando ne ho così tante già aperte?
Ottima domanda!
Potrei - vigliaccamente - incolpare Sofia e C., che me la hanno chiesta... ma la verità è che questa idea mi frullava già in testa.
Dunque, si tratterà di una storia molto diversa dalle mie solite su Ben.
Consideratelo un esperimento, se volete: saranno capitoli brevi, i personaggi saranno meno approfonditi rispetto al mio solito, e la storia non sarà molto lunga.
Come mi è venuta l'idea? Tanto per dimostrare che sono completamente fuori... sì, l'ho sognata.

Un esperimento su un Ben un po' diverso dal mio solito, dunque.
Spero vi piaccia!

A chi leggerà, grazie; a chi è sempre con me... vi amo! <3
A te, Barnes... cosa posso dire di più?
Joy
 

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Capitolo 2
*** Quello che accadde poi ***


La prima cosa che Ben fece fu quella di tentare di tornare alla sua vita di sempre.
 
Eppure, Rebecca gli mancava.
Improvvisamente, compariva in un pensiero, in un ricordo, in un’emozione.
E la sua assenza pesava.
Pesava tanto quando voleva condividere un pensiero, una gioia, un problema.
Non era accanto a lui con il suo corpo caldo la notte, felice di essere svegliata dai suoi baci, sempre pronta a fare l’amore con lui.
E, anche se odiava ammetterlo, tornare a casa lo faceva sentire solo, ora che lei non c’era.
All’inizio l’idea di convivere lo aveva preso in contropiede, doveva ammetterlo.
I suoi amici gli avevano dato del coglione e anche lui per mezza giornata si era chiesto che cavolo gli era passato per la testa.
Ma con lei la vita era divertente: lo rendeva felice.
 
Cos’era andato storto, quindi?
Bè, c’era la questione della tensione legata a quel nuovo progetto cinematografico, che lo stava veramente uccidendo…
Becky non capiva che parlarne con i suoi amici gli serviva: anche loro erano attori, vivevano le sue stesse ansie, condividevano le sue stesse paure.
Lei, pur con le migliori intenzioni, non riusciva davvero a capirlo: non comprendeva le settimane di ansia struggente che lui attraversava e, dopo i primi giorni, iniziava a dirgli che doveva darsi una calmata, visto che quello era il lavoro che si era scelto e, che se non voleva morire d’infarto prima dei 40 anni, doveva darci un taglio.
 
Darci un taglio.
All’adrenalina, all’attesa, al lavoro più bello del mondo?
No, impossibile.
Forse aveva ragione il suo amico Tom: era ancora troppo giovane per legarsi seriamente.
Hollywood aveva delle regole ferree e chiedeva dei sacrifici.
E poi, diceva Tom, con tutte le modelle e attrici che c’erano a Los Angeles lui doveva andare a legarsi con un’insegnante italiana che non capiva niente (con tutto il rispetto) delle loro vite?
 
Dopo una settimana di latitanza dell’amico, Tom si decise ad organizzare un super party in una villa di Beverly Hills con piscina e campo da golf e fece in modo di spingere tra le braccia di un apatico Ben una focosa aspirante attrice, tale Destiny qualcosa.
A fine serata, Ben rimase a dormire con la ragazza nella villa e Tom si premiò per le sue fatiche con una sbronza colossale e successivo party privato con due audaci brasiliane.
 
*
 
La prima cosa che Rebecca fece, prima di perdere il coraggio, fu quella di comprare un biglietto aereo per l’Italia.
 
Prima di ridursi a tornare in quella casa e pregare Ben di tornare con lei, prima di umiliarsi di più e arrivare a dirgli che, pur di averlo, le andava bene anche se era distante e amava la sua professione più di lei.
Così, si ritrovò seduta accanto al finestrino dell’aereo, a guardare Los Angeles che diventava sempre più piccola e lontana, fino a quando non sparì sotto le nuvole.
Allora chiuse gli occhi e lasciò libero sfogo alle lacrime.
Si stava cullando nell’autocommiserazione e nel senso di disperazione, quando una mano le batté su un braccio.
Si voltò e vide la sua vicina di posto, una signora grassa con un vestito sgargiante fuxia e nero, sorriderle gentilmente.
«Tutto bene, cara?» chiese.
Rebecca alzò gli occhi al cielo.
Certo.
Tutti piangono quando va tutto bene, no?
Fece un cenno negativo con il capo.
«Ti senti male?» chiese la signora.
Altro cenno negativo.
«Problemi in famiglia?»
Rebecca si strinse nelle spalle e cercò di non mettersi a singhiozzare.
Non avrebbe mai avuto una famiglia con Ben.
Oddio, questo sì che era un pensiero deprimente.
Per fortuna, la signora le impedì di sviscerarlo a fondo, in ogni sua lugubre implicazione.
«Allora…Le cose non vanno con il tuo ragazzo?»
Lo sguardo di Becky fugò ogni dubbio.
«Ah» la signora fece schioccare la lingua «Sempre la stessa storia… Questi uomini! Su, su, non disperare: sei così giovane e la vita è lunga e piena di opportunità!»
Ecco.
Quella sì che era una frase stupida e stereotipata.
La vita è piena di opportunità.
Che però, fino a prova contraria, non si raccolgono come i fiori nei campi.
Dove stanno le opportunità?
E se lei, quel giorno, aveva lasciato l’opportunità della vita a 12.000 metri più sotto, a terra?
Che ne sapeva quella signora, eh?
Becky singhiozzò, spossata.
La signora continuò, imperterrita, a subissarla di perle di saggezza finché – probabilmente per sfinimento – lei non crollò addormentata.
 
Quando si svegliò, la vita era ancora brutta, deprimente e grigia, ma se non altro la signora ronfava beata e non poteva più assillarla.
Quando l’aereo atterrò, Rebecca stava piangendo di nuovo: mai ritorno a casa era stato più triste.
Quando, allo sbarco passeggeri, corse tra le braccia della sua migliore amica, pianse ancora di più.
E pianse la settimana seguente, chiusa in casa e depressa, senza voglia di mangiare o di cambiarsi d’abito.
 
 
Otto giorni dopo Carolina, amica fedele, decise che l’autocommiserazione in cui Rebecca versava era durata anche troppo.
Piombò in casa intenzionata a scuoterla e pronta a prenderla a male parole in caso l’avesse trovata ancora impegnata a vegetare inutilmente.
Basta versare lacrime per quell’idiota.
Quando aprì la porta con il mazzo di chiavi di scorta che le era stato affidato, trovò Rebecca seduta di fronte alla finestra.
Si voltò e la guardò: aveva gli occhi rossi e cerchiati, era pallida e con i capelli arruffati, ma se non altro non piangeva.
Forse, ormai, era oltre le lacrime.
Concedendosi un tenue ottimismo, Carolina mantenne comunque un’espressione truce ed annunciò:
«Oggi inizia la tua nuova vita. Non voglio saperne di lacrime e depressione. Ok?»
Nessuna risposta.
Rebecca tornò a fissare fuori dalla finestra.
Carolina attese un paio di secondi.
«So cosa stai passando, ma credimi Becky: andrà meglio quando lo avrai cancellato. E intendo definitivamente. Per cui ora andrò a buttare tutto quello che in questa casa te lo ricorda… e tu non cercare di fermarmi!»
Ma Rebecca non pareva averne l’intenzione: aveva appoggiato il mento sulle mani intrecciate e fissava la strada fuori dalla finestra.
Carolina batté le palpebre, quindi avanzò verso la camera da letto.
Un paio di passi.
Niente da Rebecca.
Ok.
Sospirò ed entrò.
 
Dopo due ore, aveva raccolto in sacchi di plastica foto, pelouche, regali, completini intimi legati a particolari notti di sesso sfrenato e memorabile (meglio dimenticare anche quello) e ogni traccia di Ben Barnes, compreso il suo spazzolino da denti.
Rebecca non aveva messo piede in camera.
Quando Carolina tornò in salotto, trovò l’amica seduta nella stessa posizione di prima.
Ammucchiò i sacchi e poi sbuffò:
«Stai imitando la mummia di Tutankamon? Guarda che ora usciamo per pranzo. Vai a farti una doccia che fai paura!»
A quel punto, Rebecca si voltò, apatica.
Le lacrime che Carolina temeva però non le scesero dagli occhi.
L’amica sospirò e si rilassò impercettibilmente.
E, a quel punto, Rebecca disse tre semplici parole:
«Caro. Sono incinta»
 
A Carolina caddero le braccia e la mascella in contemporanea, mentre Becky apriva le mani e le mostrava un test di gravidanza.
 
 

 
 ****
Buongiorno!
Sapete ormai che sono in ansia per la riuscita e la resa di questa storia (le cose evolvono molto velocemente, a differenza di altre mie storie), quindi se volete farmi sapere che ve ne pare ne sarò molto felice!
Per tutto il resto, la mia pagina Facebook
 https://www.facebook.com/Joy10Efp
Baci e buona lettura,
Joy

 

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Capitolo 3
*** Fino al giorno in cui ***


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Fino al giorno in cui suo fratello gli telefonò, Ben era segretamente felice di non aver più avuto notizie di Rebecca.
 
Sì, all’inizio era stato sicuro che lei avrebbe chiamato.
Rebecca lo amava e lui lo sapeva bene.
Era testarda e orgogliosa, ma era anche sicuramente innamorata e una donna innamorata torna sui suoi passi.
Lei non aveva chiamato, però, e lui si era irritato.
Era magari egoista, ma se lo aspettava, in fondo in fondo.
E non gli piacque vedere che lei taceva.
Sperava che la cercasse lui?
Sì, un paio di volte ci aveva pensato…
Ma cosa poteva dirle?
Cincischiava con il cellulare, ma poi lo posava sospirando.
Le sue posizioni non erano cambiate e quelle di nemmeno, era pronto a giurarlo.
E quindi?
Lui voleva stare a Los Angeles e fare l’attore; lei voleva una vita normale con lui.
Erano le famose due rette che non si incontravano mai, che non si sarebbero incontrate mai.
L’assenza di lei pesava… ma, alla fine, Tom aveva ragione: così era più facile.
Niente donne pesanti che facevano scenate, ma solo lavoro e divertimento.
In fondo, diciamocelo, la vita poteva andare decisamente peggio.
 
Dopo Destiny (si chiamava Destiny? Gli sembrava di sì… ma la cosa che ricordava meglio era la scollatura più che generosa), c’erano state Laila, Charity, Sarah, Gwen, Beth, Rose… e tantissime altre.
Avventure di una notte, di qualche notte al massimo.
Provini, photoshoot, presentazioni.
Audizioni, ancora e ancora.
E poi, un grosso ruolo.
Finalmente.
Finalmente era il suo momento.
 
Ben era a casa, con una birra tra le mani e il contratto firmato per il ruolo di protagonista sul tavolino davanti a lui.
Finalmente.
Assaporava ogni attimo, ogni sensazione.
Si godeva il successo che, alla fine, arrivava.
 
Lo sapevo.
 
E fu in quel momento che suonò il telefono.
Sbirciò il display: suo fratello.
Fece un cenno al suo agente, si alzò e si diresse in cucina.
«Jack» rispose «Non hai idea di quello che sto per dirti»
«No!» lo interruppe suo fratello, agitatissimo «TU non hai idea di quello che IO sto per dirti!»
«Ehi, che succede?» Ben si preoccupò sentendo quel tono concitato «Tutto bene a casa?»
«Sì» tagliò corto l’altro «Quanto tempo è che non senti Rebecca?»
Ben storse il naso.
«Te l’ho detto che ci siamo lasciati»
«Sì, ma quando!?»
«Una vita fa! Perché urli?»
«Perché, caro il mio fratellino, ho appena aperto Facebook e visto che ha postato una foto di lei con una pancia enorme!»
«Una pancia?» rispose l’altro, perplesso.
«Ma sei scemo? È incinta, idiota!»
 
A Ben cadde il cellulare di mano.
 
*
 
Fino al giorno in cui Carolina non le aveva postato quella foto su Facebook, Rebecca aveva tenuto un basso profilo e preso le distanze da gran parte degli amici e dei conoscenti.
 
Poi, quel giorno, avevano fatto una passeggiata al mare, con molta calma visto il suo pancione pesante.
C’era il sole, era una giornata stupenda.
Non si poteva non sorridere a una giornata così.
E infatti, Rebecca aveva sorriso, si era stiracchiata e poi si era voltata verso Caro.
In quel secondo, l’amica le aveva scattato la foto.
Lei aveva protestato quando era finita su Facebook.
«Insomma, non voglio essere una di quelle che postano su Facebook la foto della manicure, del gatto… soprattutto della pancia! Sono fatti miei se sono incinta, non del mondo!»
«E smettila, pallosa!» l’aveva ripresa l’altra «L’ho messa perché sei bellissima, non per incoraggiare il mondo a farsi i fatti tuoi! Sei raggiante, in salute e con mio nipote che ti cresce nella pancia: potrò dirti che sei bella, no? Mica devi vergognarti!»
«Io non mi vergogno!» aveva esclamato Becky.
Ed era vero.
Da quando aveva visto il risultato del test, aveva sognato quel bambino.
I suoi genitori e Carolina erano spaventati, all’inizio, ma lei no.
Lei lo aveva voluto, ogni secondo.
 
Sì, era il figlio di Ben e Ben l’aveva lasciata.
Ma lo avevano concepito insieme.
Lo aveva concepito con un uomo che amava tantissimo  e non lo avrebbe mai rinnegato.
Ben era stato il grande amore, ma suo figlio restava.
Suo figlio era il presente e il futuro.
Ed era solo suo.
 



***

Grazie alle fantastiche ragazze che mi accompagnano in questa nuova storia e che sono delle persone speciali e sempre presenti: se ho voglia di scrivere sempre lo devo a voi <3
Un grazie speciale, poi, a Fedra: amica fantastica che non solo mi incoraggia e supporta sempre, ma che ha anche realizzato il bellissimo banner della storia! Grazie, amica mia <3 Baci e buona lettura,
Joy

https://www.facebook.com/Joy10Efp

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Capitolo 4
*** Il giorno in cui nacque suo figlio ***


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Il giorno in cui nacque suo figlio era un giorno grigio di pioggia.
 
Ma quando un’esausta Rebecca, dopo un travaglio di quattordici ore, dava finalmente alla luce un maschietto urlante, la pioggia cessava di martellare la città e un arcobaleno radioso appariva in cielo.
Carolina, che aveva riempito la stanza dell’amica di palloncini, pelouches, pasticcini, cioccolate e bevande ricche di sali minerali (per compensare gli sforzi del parto), lo prese come un segno del destino.
«È fantastico, Becky!» ripeté per ore alla sua spossata amica, la quale non aveva occhi che per il fagottino che teneva tra le braccia.
«Sì, infatti, è fantastico» ripeteva Rebecca, con lo sguardo fisso sul bimbo che dormiva.
«No, ma guarda, è incredibile! Appena tua madre è uscita dicendo “è nato!” è apparso l’arcobaleno! Tu dimmi se non è un segno questo!!»
«Caro..» disse invece Rebecca «Non ti sembra che…»
«Cosa?»
«… Che somigli a Ben?»
Carolina marciò verso il letto con un cipiglio furioso e squadrò il bambino come se l’avesse insultata.
Il piccolo dormiva tranquillo in braccio alla madre, con le palpebre abbassate su un visetto cesellato e già ornato di capelli scuri e setosi.
 
Contro ogni ragionevolezza, Carolina esclamò:
«Assolutamente NO!!!»
 
 
*
 
Il giorno in cui nacque suo figlio Ben era sul set.
 
Era il primo giorno di riprese di quello che prometteva di essere un kolossal che avrebbe fatto incetta di premi Oscar.
Ben aveva escluso ogni pensiero dalla mente.
I mesi precedenti li aveva vissuti nell’attesa spasmodica dell’inizio delle riprese.
O, almeno, così aveva detto a tutti.
Insomma, era un ruolo enorme.
I suoi amici si erano ubriacati per una settimana di fila, in suo onore.
 
Lui, però, no.
Dalla telefonata di Jack non riusciva più a dormire.
Di giorno passava da un incontro di lavoro a un altro; riceveva telefonate di registi e agenti che lo avevano sempre snobbato e – ora che era l’attore del momento – lo supplicavano di pranzare con loro; presenziava a interviste e conferenze stampa; era al centro dell’attenzione mediatica.
Di notte, però, si rigirava insonne nel letto.
Becky era incinta.
Possibile?
Gli sembrava assurdo.
Jack diceva di aver visto una sua foto con il pancione, ma Ben si era rifiutato di guardarla.
«Sei in fase di negazione?» gli aveva chiesto il fratello.
«Non è mio!» aveva ringhiato lui, in risposta.
Ma… era impossibile che lei avesse incontrato un altro e fosse già rimasta incinta.
O no?
Una sveltina per dimenticare la loro storia e la sfiga in agguato?
 
Eppure, nel profondo, Ben non ci credeva.
Conosceva Becky e lei non era tipa che si sarebbe buttata tra le braccia di qualcuno per dolore o per rancore.
Restava una sola opzione.
Era suo.
 
Il bambino era suo.
 
Ma… erano sempre stati attenti!
Ok, forse no, forse un paio di volte era capitato che… Ma un paio al massimo!
Ma poteva essere possibile?
 
Per due settimane, a ogni squillo del telefono, il suo stomaco si contorceva.
Era lei.
Doveva essere lei.
Doveva dirgli del bambino.
 
E invece no: Becky non lo aveva chiamato.
Mai.
 
Razionalmente, Ben sapeva che, se lei avesse voluto, lo avrebbe chiamato appena scoperto di essere incinta.
Jack lo aveva appena scoperto, non Rebecca.
Ma per lui era tutto così nuovo e angosciante che…
 
Ma niente. Non c’erano che.
Rebecca taceva.
Ben non dormiva, mangiava poco, beveva molto e non aveva nulla da aspettare a parte il film.
 
 
Con l’avvicinarsi dell’inizio delle riprese le cose sembravano andare meglio.
Il giorno del primo ciack Ben tentò di astrarsi dal mondo: di solito gli riusciva perfettamente.
Anzi, Rebecca gli rimproverava sempre il fatto che il lavoro era il centro del suo mondo e che, di fronte al lavoro, lui avrebbe dimenticato persino sua madre.
Rebecca.
 
Rebecca non aveva chiamato.
E il bambino…?
Secondo Jack, la pancia era “molto grossa”.
Da quanto il fratello aveva letto nei commenti su Facebook, la gravidanza era stata una sorpresa per molti amici della ragazza sul social network.
Becky non aveva scritto nulla, ma la sua amica Carolina aveva risposto sommariamente a tutti dicendo che “la mamma e il piccolino stanno benone”.
 
Il piccolino.
 
Suo figlio era un maschio, allora?
 
In quel momento il regista, euforico, strillò:
«Aaaazioneeee!»
Trenta paia d’occhi tra attori, assistenti, uomini di scena e troupe si fissarono su Ben, il quale batté le palpebre e disse:
«Ehm… sì?»
 

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Capitolo 5
*** Un anno e quattro mesi dopo ***


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Un anno e quattro mesi dopo, un’esausta Rebecca posò a terra l’ultimo scatolone e si raddrizzò sbuffando.

Si guardò attorno con occhio critico e poi annuì.
La sala era perfetta.
I tavoli erano disposti, le luci erano giuste e le decorazioni pronte.
Le previsioni, inoltre, promettevano bel tempo.
Sarebbe stato un matrimonio perfetto.
La sposa entrò in quel momento e le corse incontro sorridendo.
«Becky, ho fatto un giro e mi sembra tutto perfetto! Grazie! Sono così emozionata!»
«Figurati, sono contenta che ti piaccia. Ora vai a riposare, così sarai fresca e raggiante per l’aperitivo di stasera con i testimoni»
«Ok» la ragazza le strinse entrambe le mani «Sei davvero bravissima… e così paziente! Come fai?»
Rebecca rise.
«Faccio tanta esperienza con il mio bambino di un anno!»
«Oh, è adorabile il piccolino! Ma tuo… marito?»
Il sorriso di Rebecca rimase caldo.
«Non sono sposata»
«Oh…» la sposa sembrò imbarazzata «Scusami. Il tuo compagno, allora»
«Non c’è. Tommi è solo mio… Nel senso che io e suo padre ci siamo lasciati quando ancora non sapevo di essere incinta»
La sposa sgranò gli occhi.
«E lui non ha voluto riconoscere il bambino?»
«Non sa niente del bambino»
«Oh…ma…perché?»
«Perché mio figlio non sarà mai vittima del tira e molla tra due ex e perché io non volevo sembrare una patetica ragazzina che tentava di tenerlo legato usando un bambino. Lui… non vuole figli, è molto preso dalla carriera. E sì… magari si sarebbe sentito in dovere di vedere il bambino, ma non saremmo rimasti insieme e sarebbe stato molto doloroso e difficile. E io non darò mai a mio figlio il dolore di avere un padre distante e indifferente. Stiamo meglio così»
La sposa batté le palpebre.
«Bè… sei coraggiosa, certo… ma se lui lo volesse? Il bambino, dico… Hai un figlio meraviglioso! E, bè…è anche suo, tecnicamente…»
Un’ombra passò negli occhi di Rebecca.
«Un bambino non è una proprietà. E non puoi amarlo solo perché è bello: devi amarlo anche quando piange, quando fa i capricci, quando sta male… quando tu hai lavorato quattordici ore e lui non vuole saperne di farti dormire anche se sei esausta. E sì… mi sembra impossibile che qualcuno possa non innamorarsi di Tommaso, ma devo essere realista: se gli dicessi del bambino lui si sentirebbe legato, ma so che non vuole esserlo. È giusto così, me la cavo meglio da sola»
Becky sorrise e si avviò alla porta:
«Faccio togliere gli scatoloni e siamo a posto. Vieni?»
La sposa annuì e si diresse all’uscita.


Quel lavoro di wedding planner all’inizio le era sembrata una grossa sciocchezza, ma Rebecca doveva ammettere che era non solo redditizio e sorprendentemente di successo, ma anche divertente.
La gravidanza inaspettata aveva posto il problema del lavoro momentaneamente in secondo piano, visto che i suoi si erano offerti di aiutarla, ma presto aveva sentito la necessità di capire cosa fare del suo futuro, visto che dal suo futuro, ora, dipendeva anche suo figlio.
Concorsi per entrare stabilmente nell’insegnamento non ce n’erano, anzi: avrebbe dovuto iscriversi a scuole molto costose, che dal punto di vista della formazione non aggiungeva nulla ed erano fondamentalmente solo tristi parcheggi in attesa di graduatorie più libere, che sarebbero uscite chissà quando.
Non era una strada percorribile per Rebecca: troppe insicurezze e un investimento economico che non si sentiva di fare.
Doveva pensare a Tommaso, era lui la sua priorità.
E lei voleva essere in grado di mantenere suo figlio da sola e di offrirgli un futuro, ma anche di avere orari flessibili per potersi occupare di lui.
Così, quando una sua amica le aveva chiesto una mano per organizzare un matrimonio - dato che ne stava seguendo in contemporanea due - lei aveva accettato più perché gli orari erano accettabili che per altro.
E aveva scoperto che era divertente e creativo.
Poteva portare Tommaso con sé quando andava a scegliere i fiori o a fare sopralluoghi nelle location, poteva ritagliarsi appuntamenti nei momenti per lei più liberi e poteva coniugare il suo buon gusto a quello che era, a tutti gli effetti, un lavoro.
La sposa le si era molto affezionata e la sua amica aveva indirizzato da lei altre ragazze che non riusciva a seguire.
Ben presto, Carolina l’aveva ribattezzata “la freelance dei matrimoni”.
Rebecca rideva, allattava Tommi e buttava giù nella sua agenda le idee che le venivano in mente per gli allestimenti floreali.

Il lavoro non era eccessivamente impegnativo: in Italia la professione della wedding planner non era così radicata come in America e per gran parte si trattava di consigliare, mediare tra le posizioni delle spose e quelle delle suocere e risolvere piccoli problemi pratici.
I vantaggi, oltre al poter portare il bambino con sé e non essere impegnata per otto-nove ore di fila in un ufficio, erano il circondarsi di abiti, fiori e belle location, il rapporto umano che si instaurava e la necessità di aggiornarsi sulle ultime mode.
Uno spasso, per Rebecca.
Sì, a volte le spose erano isteriche e a volte le madri o le suocere erano insopportabili.
E sì, a volte si assisteva a tragedie degne di Shakespeare per un tovagliolo piegato male.
Ma, nel complesso, Rebecca amava quel folle lavoro e ciò che le piaceva di più era assistere alle nozze, dopo mesi di attesa, e vedere coronato il sogno di due persone.
Aveva una visione romantica della cosa, perché lei era una persona romantica e sognatrice, malgrado tutto.
E i matrimoni la toccavano nel profondo…  anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce.
Con le amiche e i conoscenti minimizzava il tutto, parlando di un divertente passatempo.
Dentro di sé, esultava e si commuoveva.

*

Un anno e quattro mesi dopo - nel giorno in cui avrebbe dovuto trovarsi su un set sperduto per i primi sopralluoghi in vista delle riprese del sequel del kolossal in cui recitava come protagonista – Ben Barnes sbarcava all’aeroporto di Pisa.

Gli occhi nascosti dietro lenti scure, un pratico borsone a mano per viaggiare leggero, Ben varcò l’uscita e si voltò per cercare con gli occhi fratello che, a differenza di lui, sembrava un turista hippie.
Jack indossava pantaloncini corti multicolori, una maglietta tagliata sulle spalle e sul petto e un cappello di paglia.
Camminava e salutava tutti dicendo:
«Ciao, ciao, ehi bella, ciao, grazie, ciao!»
Ben scosse il capo, represse un sospiro e alzò una mano per chiamare un taxi.
Salirono entrambi e il tassista chiese:
«Dove?»
Jack scoppiò a ridere.
«Very good question. Mio fratello non lo sa!»
Ben alzò gli occhi al cielo.
Le spiritosaggini di Jack gli davano l’emicrania.
Diede un indirizzo al tassista – un indirizzo scritto a penna che custodiva in una vecchia agenda – e poi si appoggiò allo schienale e voltò il capo per guardare fuori dal finestrino.
La campagna toscana era splendida, ma Ben non era dell’umore giusto per apprezzarla.

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Capitolo 6
*** Un radioso pomeriggio di inizio giugno ***


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Era un radioso pomeriggio di inizio giugno e Ben e Jack salivano a piedi una stradina lastricata.
 
Jack continuava a scattare foto con l’iPhone, estasiato dal panorama.
Più volte Ben pensò di spingerlo giù per il pendio, ma sarebbe stata una cattiveria eccessiva.
Dopotutto, suo fratello aveva sopportato i suoi malumori per mesi senza battere ciglio.
Era stato presente, non aveva raccontato nulla in giro della vicenda di Rebecca e lo aveva accompagnato a impegni mondani, conferenze e interviste varie ogni volta che ne aveva avuto la possibilità, supportandolo in silenzio.
 
I due fratelli erano molto legati e Jack sapeva perfettamente cosa passava nella testa del fratello, da mesi a questa parte.
Per quanto si ostinasse a negarlo, Ben era rimasto sconvolto dalla gravidanza della sua ex.
Il bambino era suo?
Jack non lo sapeva, Ben era ermetico sull’argomento.
Quindi le opzioni erano due: o era furibondo perché Rebecca non era tornata da lui e, anzi, si era consolata in fretta; o lui, Jack, era diventato zio.
E quando Ben era piombato a Londra nel cuore della notte, si era precipitato a casa di suo fratello, si era attaccato al campanello svegliando l’intero quartiere e si era limitato a salutare l’attonito fratello con un: “Parto per l’Italia… Vieni con me?”, allora sì, Jack ne era stato sicuro.
Era diventato zio.
 
«Allora, che facciamo qui?» chiese, scattata la centesima foto.
Ben non diede segno di averlo sentito.
«Ben! Insomma! Mi butti giù dal letto in piena notte, mi trascini qui… che cavolo succede?» lo incalzò «L’hai chiamata? Ci hai parlato?»
Per un attimo Jack credette che il fratello si sarebbe ostinato a restare zitto, ma poi lo vide scuotere la testa.
«No, non ci hai parlato? Ok. E perché siamo qui?»
Ben si voltò lentamente e si sfilò gli occhiali da sole.
Fissò il fratello con uno sguardo insolitamente tormentato.
«Devo sapere, Jack» bisbigliò.
Il fratello aggrottò la fronte.
«E perché non potevi telefonarle?»
«Perché non so se mi risponderebbe. E soprattutto non so se mi direbbe la verità. Non so nemmeno se io crederei a quello che potrebbe dirmi»
Jack ci pensò su.
«Ok. Ma… ci hai più parlato?» chiese, esitando.
Ben scosse il capo.
«Mai?» Jack era davvero sorpreso.
Insomma, fosse stato lui quello la cui ex era incinta…
Ben si morse un labbro e poi disse:
«Dopo che ci siamo lasciati noi.. non ci siamo più cercati. Non avrei saputo niente, se non me lo avessi detto tu»
Jack batté le palpebre.
«Potere di Facebook! Ma Ben, se non si è fatta sentire… magari non è tuo!»
Il fratello sospirò pesantemente.
«Forse no, ma… Non credo si sarebbe buttata tra le braccia di qualcuno appena rotto con me»
«E perché? Cosa c’è di meglio del chiodo-scaccia-chiodo? Ci scommetto che tu lo hai fatto!»
Il silenzio del fratello fu una conferma eloquente.
«Ecco, appunto» proseguì «Se il bambino fosse tuo, ti avrebbe chiamato!»
«Penso di no, invece» Ben mosse un paio di passi «Se la conosco… e io la conosco… penso di no»
«La conoscevi» lo corresse il fratello, scettico «Quindi, ricapitoliamo: non vi siete più sentiti, ma pensi che il bambino sia tuo»
Ben si sistemò nervosamente l’orologio.
«Non… non lo so. Potrebbe»
«Bè, a me sembra più probabile che non lo sia… anche se, oggettivamente, i tempi… Ma comunque, se fosse, è chiaro che lei qui non ti vuole, no?»
Ben strinse le labbra.
«Stiamo parlando di mio…»
Si interruppe bruscamente e Jack concluse con dolcezza:
«…Figlio?»
Ben rimase in silenzio.
Jack sospirò.
«Come fai a sapere che lei è qui?»
«Non lo so. È un tentativo»
«E se non vuole vederti?»
«Non sono qui per vedere lei»
Il fratello sospirò.
«Ok. Andiamo, allora. A proposito… dove stiamo andando?»
 
*
 
Rebecca si sforzò di non piangere quando la sua sposa infilò, raggiante, la vera a suo marito.
 
Sorrise, commossa, poi si guardò intorno per assicurarsi che tutto fosse a posto e uscì silenziosamente dalla chiesa.
Ora, un ultimo sopralluogo nella villa che ospitava il pranzo e poi avrebbe potuto rilassarsi un attimo.
Si diresse al parcheggio, aprì la portiera della sua Cinquecento rossa ingombra dei giocattoli di suo figlio, posò la borsa sul sedile accanto a quello del guidatore e mise in moto.
La strada era quasi deserta.
Guidò tranquilla, concentrata sui piani per un appuntamento di lavoro del giorno dopo, quando vide un giovane farle segno dal ciglio della strada.
Frenò e si accostò, abbassando il vetro del passeggero.
«Sì? Hai bisogno?» chiese.
Era normale essere gentili con i turisti, da quelle parti.
I turisti erano una manna per il paesino.
 
Il ragazzo si chinò e sorrise e Becky ebbe uno shock.
 
Ben.
Fu il suo primo pensiero, ma il ragazzo era biondo, non moro.
E poi… no, non era Ben.
A una seconda occhiata ne fu certa.
E allora… perché quella strana sensazione?
Fu come ricevere un pugno in pieno petto.
Sentimenti sopiti in lei ruggirono nel suo animo, frastornandola.
Becky batté le palpebre, quindi respirò a fondo e strinse spasmodicamente il volante.
Guardò di nuovo il giovane – perplesso, poveretto – e si impose di calmarsi.
Non è Ben. Non è Ben. Ma perché pensi a Ben, idiota?
 
Sorrise, stentatamente, impreparata al secondo pugno in pieno petto.
Perché il ragazzo sorrise in risposta e chiese:
«Sorry, do you speak English?»
Becky annaspò.
«Sei…sei inglese? Are…you…English? American?»
Le parole della lingua che conosceva bene le restarono quasi impigliate in gola, uscirono con difficoltà.
Lui sorrise.
«Yes, I am. I’m English. Please, can you tell me where I can find an hotel?»
 
Un hotel.
Certo.
Rebecca rispose meccanicamente e il ragazzo ringraziò, sorrise ancora e rientrò nel piccolo bar lungo la strada.
Lei espirò, si poggiò pesantemente contro lo schienale e si coprì il viso con le mani.
Non conosceva quel ragazzo, ne era certa.
Allora cos’era quella inspiegabile sensazione di deja-vù?
Doveva essere colpa dei discorsi con la sua sposina, delle emozioni scatenatele dal matrimonio… poteva essere, no?
Non pensava mai a Ben.
Aveva imparato che doveva farcela da sola, molto tempo prima.
Rebecca prese fiato, abbassò le mani, si diede dell’idiota per essersi fermata in mezzo alla strada e ripartì.
 
 
Un minuto dopo, dal bar uscirono Ben e Jack, il secondo che informava il fratello di aver saputo che nelle vicinanze c’era un accogliente bed&breakfast.


***
Ciao a tutti!
Scusate il ritardo con cui aggiorno questa storia, ma sono stati giorni infernali!
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Un bacio e buona lettura,
Joy

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Capitolo 7
*** Quel dannato telefono ***


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Quel giorno Carolina era entusiasta, come sempre quando aveva la possibilità di occuparsi di Tommaso.
 
Aveva insistito con Rebecca perché - anziché barcamenarsi come al solito tra corse a destra e manca, riunioni, sopralluoghi e il piccolo – le lasciasse tenere il bambino per un paio d’ore.
Adorava Tommi e quella mattina, visto il bel tempo, aveva preparato per lui un programma speciale: una gita sulla spiaggia.
 
La giornata era luminosa e tersa, ma, essendo un giorno lavorativo, in spiaggia c’erano poche persone.
Tommaso caracollava felice, con la sua buffa andatura da paperotto, inseguendo il suo pallone colorato.
Carolina lo tallonava, sapendo che il bambino odiava che gli si tenesse la mano quando giocava con la palla, ma intenzionata a non perderlo d’occhio.
Per un po’ procedettero inciampando, lanciando e rincorrendo, poi Tommaso diede senza volerlo un calcio più forte che lo mandò a gambe all’aria e spedì la palla più lontana del previsto.
Carolina si precipitò a rialzarlo, ma il bambino sembrava preoccupato solo per il suo giocattolo: si guardò attorno appena fu rimesso in piedi e poi indicò la palla che rotolava, guardando allarmato la sua guardiana.
Lei ridacchiò, perché Tommi di solito non parlava – diceva solo qualche rara parola – ma si faceva capire benissimo.
Infatti il bambino mugugnò e indicò ancora il pallone.
«Ma sì, non preoccuparti, ora lo prendiamo… ecco, vedi, si sta fermando!»
 
Infatti la palla si era fermata accanto a due ragazzi, che passeggiavano vicino alla riva.
Uno dei due si guardò attorno, vide la ragazza con il bambino e si chinò a raccogliere il pallone.
Tommaso guardò ad occhi sgranati il ragazzo che si avvicinava con in mano il suo giocattolo e, quando quello fu vicino e si inginocchiò per porgerglielo, si nascose lesto dietro le gambe di Carolina.
Il ragazzo sorrise e posò la palla a terra, quindi alzò gli occhi per sorridere alla ragazza - di quel sorriso che gli adulti si scambiano di fronte alle buffe azioni dei bambini - e quindi andarsene.
 Invece, sussultò perché la ragazza lo fissava a bocca aperta e con gli occhi sgranati.
Ben si raddrizzò e aggrottò la fronte.
«Ehm…ciao» disse.
Lei, per tutta risposta, mosse le labbra senza che ne uscissero suoni e fece due passi indietro.
Una fan? - si chiese Ben, perplesso.
A volte le fan ammutolivano e lo guardavano come se lui fosse una divinità o qualcosa di altrettanto enorme e fuori dal comune… ma, a dirla tutta, questa ragazza sembrava più spaventata che emozionata.
E stava ancora lì, fissandolo come se avesse visto un fantasma.
Ben batté le palpebre e accennò un sorriso di circostanza, preparandosi a voltarsi.
Quindi guardò di sfuggita il bambino, che faceva capolino dietro le gambe di lei.
 
I loro occhi si incontrarono.
 
Ben sorrise automaticamente, notando gli occhi curiosi del piccolo.
Gli tese la palla, ma il bambino non si mosse per prenderla: si limitò a fissarlo guardingo.
Ben sorrise più apertamente ed allungò una mano per fargli una carezza prima di andarsene.
Era un così bel bimbo, gli venne spontaneo.
 
Non si aspettava certo che lei reagisse scostandogli bruscamente la mano.
 
«Ehi» protestò, spiazzato, nel suo italiano approssimativo «Non stavo facendo nulla di male!»
Lei aveva ancora un’espressione spiritata.
Goffamente, spinse il bambino lontano da lui e il piccolo, per pura testardaggine, si fece avanti.
La ragazza lo sollevò facendolo strillare.
Ben la guardò come se fosse pazza e in quel momento si avvicinò Jack.
«What’s wrong, Ben?»
Sentendo il nome, la ragazza fece un salto.
Ben la fissava, come sentendo che gli mancava un tassello per completare un quadro.
 
Poi, suo fratello guardò il bambino.
E poi lui.
E poi di nuovo il bambino.
E poi lui, ancora.
 
Ben batté le palpebre, fissò Jack, poi espirò.
Ok, non essere idiota – si disse – quanti bambini al mondo hanno i capelli e gli occhi scuri?
 
 
Di fronte agli sguardi fissi dei fratelli Barnes, Carolina deglutì terrorizzata.
 
*
 
Era fatta.
 
Un contratto chiuso e qualche idea già definita: il nuovo matrimonio sembrava non richiedere particolare impegno, decise Rebecca.
Raccolse i suoi quaderni con foto di location e allestimenti, salutò la coppia di fidanzati e si diresse alla macchina.
Caricò tutto, si stiracchiò e solo allora prese il cellulare in mano.
Lo silenziava sempre durante i primi incontri con i nuovi clienti, per dedicare loro tutta la sua attenzione.
Una volta, sua madre l’aveva rimproverata:
«Non puoi fare così» le aveva detto «Sei madre di un bimbo piccolo e non puoi mai sapere se e cosa succede a tuo figlio!»
Rebecca aveva fatto di nascosto le corna e aveva continuato a silenziare il telefono: dopotutto, lei non lasciava mai suo figlio da solo e quindi cosa poteva accadere?
Ci sarebbe sempre stato qualche adulto, con Tommaso.
 
Ma quel giorno, quando vide sul dispaly quindici chiamate perse da parte di Carolina, si sentì prossima ad avere un infarto per la paura e, mentre guidava a velocità folle per le stradine di campagna, promise e giurò e spergiurò che mai, mai più avrebbe staccato quel dannato telefono, purché a suo figlio non fosse accaduto nulla di male.

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Capitolo 8
*** Rivedersi. Che cosa assurda. ***


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Tutto si aspettava Rebecca, tranne quello che vide.
 
Entrò praticamente volando nel bar del paesino, con i capelli scarmigliati, senza borsa e senza aver neppure chiuso le portiere della macchina, e finì dritta tra le braccia di una pallidissima Carolina, che l’aspettava in piedi vicino all’entrata.
Rebecca stava un po’ ansimando e un po’ singhiozzando per la paura e non riuscì a proferire parola, finché una altrettanto muta Carolina non le indicò Tommaso, che mangiava beato una coppetta di gelato, impiastricciandosi la faccia con il contenuto.
 
A Rebecca parve che il mondo smettesse di girare di botto.
Prese fiato, barcollò, chiuse gli occhi e si portò una mano alla fonte, quindi riaprì gli occhi per accertarsi che suo figlio fosse veramente lì e stesse bene e crollò in ginocchio sul pavimento, tendendogli le braccia.
Tommaso la vide, fece un sorriso dal quale si intravedevano quattro dentini e caracollò verso di lei.
Rebecca lo strinse e si sforzò di non mettersi a piangere per non spaventarlo.
Gli accarezzò i capelli e lo riempì di baci.
Tommaso ridacchiò e le si avvinghiò addosso, come faceva solo con lei, sporcandola tutta di gelato.
Quando lo lasciò andare, era conciata peggio di prima.
Sempre seduta sul pavimento, alzò due occhi gelidi sull’amica e scandì:
«Hai la minima idea della paura che ho preso? Quindici chiamate! Che cavolo è successo?»
Una pallidissima Carolina rimase muta e guardò in direzione dei tavolini raccolti su un lato della stanza.
Rebecca seguì il suo sguardo e si trovò a fissare gli stessi occhi scuri di suo figlio, in un viso adulto.
 
In un silenzio irreale, lei e Ben si fissarono a lungo.
 
Quindi, Rebecca notò il ragazzo accanto al suo ex: il biondino cui aveva dato informazioni per strada e che le aveva provocato quella fortissima sensazione di deja-vù.
Ecco perché.
Vedendoli vicini non si potevano avere dubbi: erano fratelli.
Ben le aveva parlato molto di Jack, quando stavano insieme, ma non le aveva mai presentato nessuno della sua famiglia. Era solo per curiosità che lo aveva aggiunto su Facebook, ma poi Jack non l’aveva mai contattata e lei si vergognava a farlo per prima.
E poi, semplicemente, non ce n’era stata più occasione, perché Ben l’aveva lasciata.
 
 
Mentre Carolina fissava in silenzio la battaglia di sguardi tra Becky e Ben, Jack aveva occhi solo per il bambino: sedeva in una posa apparentemente rilassata, ma i suoi occhi continuavano a seguire Tommaso.
Sembrava ipnotizzato.
 
Alla fine, con uno sforzo di volontà, Rebecca distolse lo sguardo, si alzò dal pavimento, si passò una mano tra i capelli e fece cenno all’amica.
«Andiamo» mormorò.
Si voltò per prendere la mano di suo figlio e Ben si alzò di scatto.
«Becky!» la chiamò.
E lei si fermò, dandogli le spalle.
 
Rivedersi.
Che cosa assurda.
 
«Dove…dove stai andando?» chiese.
Sempre di spalle, lei scosse il capo e si avviò verso l’uscita.
Gli altri tre le furono subito dietro.
Lei aveva già aperto la portiera e stava tentando di convincere il figlio a mollare la presa sui suoi capelli.
Ben la osservò parlare al bambino a bassa voce: non capiva le parole, ma il tono era dolce ed affettuoso.
Provò una strana stretta allo stomaco.
Era convinto di non provare più nulla per lei, era venuto per chiarire quel dubbio che lo divorava… ma, all’improvviso, fu assalito di ricordi di lei.
Lei che rideva, che mangiava, che si rotolava con lui tra le coperte, che lo baciava.
Tutta la dolcezza e il rimpianto per la loro storia gli si riversarono addosso in un secondo.
Ben batté le palpebre, disorientato, quando una gomitata di suo fratello lo riportò al presente.
Rebecca era riuscita a mettere il figlio in macchina, sul seggiolino.
«Becky» la chiamò ancora «Aspetta…ti prego»
Lei non lo guardava: fece segno all’amica di salire in macchina e Carolina fece goffamente il giro della vettura.
Sembrava aver perso la parola.
Ben si avvicinò di un paio di passi.
«Becky, ascoltami, io… Io… Io sono venuto…»
Non riuscì a terminare la frase.
«Sei venuto per lui?» chiese, all’improvviso, Rebecca.
Ben sussultò, ma annuì.
«Sì… io… io devo… sapere» concluse in un soffio.
Rebecca non lo guardava, ma rispose bruscamente, a bassa voce:
«Non c’è niente che devi sapere»
«Perché non me lo hai detto?» bisbigliò lui.
 
Il tono di voce era triste e lei, pur odiandosi, non riuscì a non guardarlo negli occhi.
Quella voce maledetta l’aveva sempre ipnotizzata.
Attenta a mantenere un’espressione gelida, rispose:
«Detto cosa?»
«Dai, Becky!» si spazientì lui «Mi sembra…ovvio!»
Indicò il bambino, al di là del vetro.
Tommaso lo fissava con gli occhioni sgranati.
Rebecca rispose, furiosa:
«Non vedo nessuna ovvietà»
«Non è…?»
«No» rispose lei, categorica «È mio. E basta»
Jack scosse il capo.
«È il ritratto di Ben, lo vedrebbe chiunque» disse piano, in inglese.
 
Era una verità incontrovertibile.
 
Ben era spaventato, adrenalinico e confuso, tutto insieme.
Rebecca era terrorizzata. E furiosa.
Lui stava vivendo quello che gli sembrava un sogno folle, lei era di fronte alla sua peggiore paura.
 
Rebecca scrollò le spalle.
«Questo non fa di te un padre»
«È mio?» domandò lui.
 
Per tutta risposta, lei salì in macchina, mise in moto e partì.
 
 

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Capitolo 9
*** Era inutile cercare di dormire ***


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Era inutile cercare di dormire.
 
Ben non ce la faceva.
Si girava e rigirava nel letto singolo, nella stanza del b&b che divideva con il fratello, perché la struttura era piccola e già piena: la zona era molto turistica.
Si girava e rigirava e aveva attorcigliato tutto il lenzuolo, aveva scagliato il cuscino per terra, aveva cambiato posizione cento volte… ma era inutile.
Il sonno non arrivava.
Continuava a pensare a Rebecca e al bambino, in continuazione.
Rivedeva l’espressione sconvolta di lei quando era entrata nel bar e quella amorevole di quando aveva abbracciato il figlio.
E il piccolo…
Il piccolo adorava sua madre, lo avrebbe visto anche un cieco.
E sembrava davvero un bambino simpatico: non aveva mai pianto, anzi, sorrideva e ridacchiava da solo mentre sgambettava in giro.
 
 
Suo fratello aveva commentato solo:
«Sei tu, lo sai vero?»
Ben non lo sapeva… ma una cosa la sapeva: il piccolo lo aveva ipnotizzato.
Sì, forse sì… anzi, senza forse… Sì, gli somigliava.
Va bene.
Il bambino era uguale a lui.
Se sua madre avesse tirato fuori delle foto di lui a quell’età, era pronto a giurare che le differenze – se poi c’erano – sarebbero state minime.
Quindi… quindi non c’erano più dubbi.
Aveva trascorso un pomeriggio inseguendo una ragazza che aveva evitato di rispondere a ogni sua domanda, come se lui non esistesse, mentre portava in giro suo figlio.
 
Figlio.
 
Figlio. Figlio. figlio.
Aveva un figlio.
Lui, Ben Barnes, 32 anni, attore britannico che viveva a Los Angeles e che come unico scopo nella vita aveva quello di dedicarsi alla sua carriera cinematografica.
 
Quando i giornalisti lo intervistavano e gli chiedevano se voleva una famiglia lui rispondeva sempre che sì, certo, la voleva eccome, e anche bella numerosa.
Non ora, però, era quello che taceva sempre.
E quando gli facevano notare che si presentava sempre solo agli eventi mondani lui rideva e si schermiva, spiegando che il suo lavoro si conciliava male con relazioni durature, al momento.
Il che era verissimo: il lavoro si conciliava bene con storie di sesso di una notte o due, visto che lui era sempre in giro per il mondo e difficilmente dormiva per più di due notti nello stesso posto – a meno di non essere a Los Angeles o a Londra, ma per dieci mesi su dodici non c’era.
Era in giro.
Come avrebbe fatto ad avere una storia?
La sua storia più bella era finita proprio perché era inconciliabile con quel tipo di vita.
E, tra Rebecca e la carriera, lui aveva consapevolmente e scientemente scelto la carriera, senza esitazioni.
E non se ne era mai pentito.
Mai.
 
Mai, neppure quel pomeriggio, quando aveva trascorso un’ora e mezza con gli occhi fissi – in modalità stalker-inquietante - su un bambino piccolo, moro e paffuto.
 
E allora come mai quell’ora e mezza gli sembrava più lunga di una vita intera?
 
*
 
Era inutile cercare di dormire.
 
Rebecca non ce la faceva.
Ci aveva rinunciato presto, quando Tommaso si era addormentato nel bel mezzo della poppata.
Lei sapeva cosa significava: che tra un po’ si sarebbe svegliato con una fame da leone e avrebbe preteso altro latte.
Avrebbe dovuto dormire un po’, finché ne aveva la possibilità.
Ma non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine del viso di Ben e quell’immagine le toglieva il sonno.
 
Era bello come sempre.
Azni, era diventato ancora più bello.
Più sexy, più maturo.
Il viso era più magro e portava una barba di due giorni che lo valorizzava in modo incredibile.
Aveva deciso, a quanto pare, di cancellare l’immagine dell’imbelle principe Caspian che lo perseguitava fin da quel ruolo che aveva cambiato la sua vita.
Becky ricordava la frustrazione di lui quando lo associavano ancora a quel personaggio: gli sembrava di non potersene liberare, ne era oppresso.
Sì, era stata una grande opportunità al tempo, ma lui voleva crescere.
Peccato che la crescita, per Ben, era solo lavorativa.
Per il resto, gli stava benissimo giocare ai videogiochi, andare alle feste e sbronzarsi come un sedicenne.
 
E invece era arrivato lì.
Perché? Cosa voleva?
Becky si irrigidì e strinse forte a sé Tommaso, che dormiva nel letto con lei.
Di solito lo metteva nel suo lettino, per farlo abituare, ma quella sera si sentiva sola, vulnerabile e spaventata, per cui lo aveva tenuto con lei.
Rivedere Ben faceva male, molto più di quanto avrebbe creduto possibile.
Quando aveva scoperto di essere incinta, Rebecca aveva focalizzato ogni pensiero e ogni energia sul bambino, riuscendo a chiudere fuori dalla mente ogni altra cosa.
E, quando Tommaso era nato, lei aveva sperimentato l’amore vero: vero e puro e totale.
Ben era lontano, se non dal suo cuore almeno dalla sua mente.
Certo, suo figlio glielo ricordava.
Guardare Tommaso crescere e somigliare al padre ogni giorno di più, però, non era doloroso.
Tommi non era Ben.
Tommi era la persona più importante della sua vita.
Un amore totale, che non ammetteva eccezioni.
Era sopravvissuta alla perdita di Ben e aveva scoperto che alla perdita di quel tipo di amore si sopravvive.
Con cicatrici serie, ma si sopravvive.
 
Eppure, malgrado le sue convinzioni, quel giorno aveva scoperto che il suo cuore non era guarito come sperava.
 
 
 
 ***
Buongiorno!
Solo per dirvi che, come mi è stato chiesto, cercherò di allungare i capitoli, ma questi erano già scritti e hanno quella simmetria che un po' caratterizza la storia, quindi non li ho modificati.
Per tutti gli aggiornamenti dove dovete andare? Ecco, bravi, sulla mia pagina Facebook ;)

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Baci e buona lettura,
Joy

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Capitolo 10
*** Quella mattina aveva le idee poco chiare ***


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Quella mattina aveva le idee poco chiare.
 
In parte dipendeva dalla mancanza di sonno: tra Tommaso e i suoi pensieri burrascosi aveva chiuso gli occhi sì e no per un quarto d’ora.
Ma il resto era legato all’incertezza.
Rebecca continuava a chiedersi dov’era Ben in quel momento, se lo avrebbe rivisto e perché era venuto.
Cioè, il perché era chiaro: doveva essere per Tommi.
Ma ora che lo aveva visto… cosa pensava?
Cosa voleva?
Era chiaro, per via della somiglianza, che Tommaso era figlio suo.
Ma Ben non avrebbe mai accampato diritti sul bambino… vero?
Certo che no, era un’idea folle.
Se non riusciva nemmeno a organizzarsi un pranzo da solo, cosa poteva pensare di fare con un bambino?
No, Rebecca ne era certa: non poteva volerlo.
Era inconciliabile con la vita di attore famoso e giramondo e Ben non era così stupido da non capirlo.
Non poteva pensare di portarglielo via.
Non poteva farlo comunque, a priori, perché avrebbe significato una battaglia legale che lo avrebbe portato sotto i riflettori – e Ben odiava essere sotto i riflettori per questioni legate alla sua sfera privata – e comunque nessun giudice avrebbe mai affidato un bambino a un padre che faceva la vita di Ben.
 
E, a parte quello, lei lo avrebbe ammazzato prima, a mani nude, se solo avesse osato solo ventilare un’ipotesi del genere.
 
Il suono del campanello la strappò alle sue lotte interiori.
Becky batté le palpebre, quasi stupita di trovarsi in casa sua e non in un’aula di tribunale.
Cercò con gli occhi suo figlio e lo vide seduto sul tappeto, con in mano una macchinina.
Al secondo squillo del campanello, Tommaso la guardò perplesso, come a chiederle perchè se ne stava lì imbambolata senza aprire.
Lei scrollò il capo e andò alla porta.
Era un’agitatissima Carolina, che voleva scusarsi ancora per il giorno prima.
Rebecca la fece entrare e preparò del thè verde.
 
«Caro, insomma» ripeteva mezz’ora dopo, per la centesima volta «Non è colpa tua! Come facevi a sapere che Ben era in Italia? Che era qui?»
«No, lo so, ma..» Carolina si tormentava le mani, inquieta «Me lo sono trovato davanti e mi è venuto un colpo! E poi… quando ha guardato Tommi…»
Rebecca tolse di mano al figlio, che si stava ingozzando di Plasmon, l’ennesimo biscotto e lui lanciò uno strillo offeso; quindi chiese:
«Quando ha guardato Tommi?»
«Sembrava uno che ha ricevuto una botta in testa. Non penso abbia capito immediatamente, ma ci è arrivato dopo poco. Ed è stato stranissimo considerando che di me non si ricorda sicuro e Tommi è comunque un bimbo piccolo…»
Becky accarezzò i capelli del figlio e lo mise seduto sulle sue gambe.
«Non è così strano che lo abbia riconosciuto…» mormorò, sovrappensiero.
«Bè, di certo si somigliano un sacco… ma insomma, è così piccolo! Senti Becky… ma secondo te cosa vuole?»
Rebecca serrò inavvertitamente la presa sul bambino.
«Me lo chiedo da ieri e… non ne ho idea. Non credo che voglia… insomma, che voglia far valere i suoi diritti…»
«Ci mancherebbe altro!» strillò Carolina, spaventando il piccolo «Deve solo provarci e io… io lo prendo a bastonate in testa!»
«Caro, calma» Rebecca baciò la testolina di suo figlio per tranquillizzarlo «Anche io ho continuato ad arrovellarmici, ma non credo siano queste le sue intenzioni. Voglio dire: stiamo parlando di Ben. È tutto lavoro e carriera… come farebbe a gestire un bambino?»
Carolina ci pensò su.
«Sì… in effetti è vero… Non è neppure capace di gestirsi da solo! Però…» esitò, consapevole che si stava addentrando in un terreno pericoloso «… però è comunque suo figlio»
Rebecca rimase immobile, poi annuì.
«Sì. È suo figlio. Ma per essere padre non basta dare gli spermatozoi…»
Carolina annaspò, quindi coprì con le mani le orecchie di Tommaso.
«Non ascoltare tua madre» gli disse, fissandolo severa «Cancella subito questa frase dalla tua memoria, ok?!»
Rebecca rise di gusto.
«Caro, tu sei pazza» baciò di nuovo il figlio «Ti voglio bene, ma tu sei pazza!»
 
*
 
Quella mattina aveva le idee poco chiare.
 
Non aveva dormito per niente e in più suo fratello continuava a bere caffè e a subissarlo di domande tipo: cosa pensi di fare ora? Che facciamo oggi? Andiamo a cercare Rebecca? E se sì, cosa pensi di dirle?
Al quarto espresso, Ben mise la mano sulla tazza del fratello.
«Senti, stai esagerando: il caffè ti rende iperattivo e logorroico e proprio non ne hai bisogno!»
«Sai, hai una faccia orrenda» ribatté Jack, impietoso «E non hai nemmeno la scusa di aver passato la notte sveglio perché tuo figlio piangeva… Sei un padre assente, caro mio»
Ben gli lanciò la felpa addosso e Jack scoppiò a ridere, versandosi impunemente dell’altro caffè.
 
 
Più tardi, erano di nuovo sulla spiaggia e questo perché Ben non riusciva a farsi venire altre idee.
Aveva trovato a Los Angeles un vecchio indirizzo risalente ai primi tempi della sua storia con Rebecca e che era dei genitori di lei ed era partito con solo quello in tasca.
Era deprimente l’idea che quello che gli restava della storia forse più importante tra quelle che aveva avuto (e che erano ben poca cosa, in realtà) erano un numero di cellulare (di lei) che non osava chiamare e un indirizzo di una casa (dei genitori) dove con ogni probabilità gli avrebbero spaccato la faccia se avesse solo osato presentarsi alla porta.
Mosse un paio di passi indecisi sulla sabbia e prese in mano il cellulare.
Poi lo rimise in tasca.
«Allora!» disse la voce allegra di suo fratello, alle sue spalle «Hai deciso cosa facciamo?»
Ben alzò gli occhi al cielo.
«No!» sbottò «E se smettessi di chiedermelo ogni due minuti sarebbe meglio!»
«Se smettessi di chiedertelo tu faresti finta di nulla e resteremmo qui tre mesi, a fissare il mare… Senti, Ben, diciamocelo: che alternative hai, a questo punto?»
Il fratello si voltò, gli occhi nascosti dagli occhiali da sole.
«Non vuole parlare con me!»
«Bè, ha ragione…» asserì il fratello «Non puoi sperare che non sia arrabbiata con te. Voglio dire, per non dirti che era incinta…»
«Perché è testarda e orgogliosa!» sbottò Ben, feroce «Così testarda e orgogliosa che…»
«Non è che era preoccupata che tu non ne volessi sapere?»
Ben tacque di colpo.
«Non è che faccio i salti di gioia» disse poi, truce «Ma stai per caso dicendo che avrei attaccato il telefono in faccia a una donna incinta di mio figlio?»
«Forse no, fratellone, ma devi ammettere che non avresti dato in esclamazioni di giubilo. Mi hai detto tu stesso che avete rotto perché lei voleva un rapporto serio e tu volevi dedicarti alla carriera»
«Sì, e allora?»
«E allora?! Ma Ben, scherzi? Ma ti pare che avere un bambino non sia una cosa duratura e seria?»
Ben si sfilò gli occhiali da sole con un gesto secco, infuriato.
«Mi prendi per un idiota? Lo so! Stavo dicendo che anche se la nostra storia è finita io l’avrei ascoltata comunque!»
«Ascoltata. E poi?»
Ben tacque per un paio di secondi.
«E poi…e poi… qualcosa avrei fatto!»
Suo fratello alzò un sopracciglio.
«Scusa la franchezza, ma secondo me ti saresti incazzato e poi avresti dato fuori di matto… e poi, sì, avresti fatto qualcosa perchè nel profondo non sei un completo idiota… Ma, Ben, ascoltami attentamente: lei ti conosce e secondo me non te lo ha detto perché sapeva che la tua posizione sarebbe stata esattamente quella di un coglione con uno scazzo galattico»
Ignorò lo sguardo fiammeggiante del fratello e proseguì, pacatamente:
«Sembra adorare quel bambino… devi riconoscerle che è stata coraggiosa a non dirti nulla e a scegliere di metterlo al mondo da sola»
«Coraggiosa?» esplose Ben.
«Sì» a quanto pare, suo fratello quel giorno era implacabile «Poteva ricattarti e vendere la storia a un giornale, ci hai mai pensato?»
Ben ammutolì, poi scosse il capo.
«Non lo avrebbe mai fatto» mormorò.
«Perchè?»
«Perché lei è… è buona. E leale. E sincera»
«E ti amava»
«Sì»
«Quelle sono le donne più pericolose, caro mio»
«Sì, e allora?»
«Allora, prima di prendere in mano quel telefono e chiamarla, vedi di farti un esame di coscienza, così saprai anche che cosa esattamente vuoi dirle!»
 
Ben batté le palpebre un paio di volte, cercò di parlare senza riuscirci e, alla fine, tirò un calcio furioso a un cumulo di sabbia.

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Capitolo 11
*** La telefonata ***


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Quella era la telefonata più difficile di sempre.
 
Eppure, Rebecca non esitò e prese il telefono in mano, digitando un numero che non pensava di chiamare più ma che le tornò subito alla memoria.
Ben rispose dopo solo uno squillo:
«Becky!!»
«Sì»
«Stavo… Volevo chiamarti io…»
«Bene, allora sono felice di averlo fatto, così non perdiamo tempo»
«Cosa…»
«Voglio vederti. Dobbiamo parlare»
 
*
 
Quella era la telefonata più difficile di sempre.
 
E per fortuna la fece lei, perché Ben non riusciva ad articolare due pensieri di senso compiuto uno dietro l’altro.
E sì, voleva vederla e parlare… ma quando lei gli diede appuntamento il suo cuore sprofondò.
Cosa intendeva dirgli?
Perché lo aveva chiamato con quell’urgenza?
Comunque, non poteva certo rifiutare… lui voleva vederla.
Per parlare… e dirle cosa?
Era meglio decidere in fretta.
 
 
Becky gli aveva dato appuntamento in un piccolo bar molto tranquillo vicino alla spiaggia.
Ben era già lì quando lei parcheggiò l’auto: ne scese anche l’amica del giorno prima, quella che lo guardava come se temesse che fosse rivestito di tritolo e pronto a farsi esplodere.
Doveva essere Carolina, la migliore amica.
La ragazza lo vide, lo gratificò di un’occhiata di fuoco e poi gli voltò le spalle.
Ben non se ne preoccupò nemmeno: era troppo occupato ad osservare Rebecca che, con gesti esperti e sicurezza infallibile, si sporgeva verso i sedili posteriori dell’auto e ne estraeva il bambino, senza perdere l’equilibrio o neppure spettinarsi.
Come faceva?
Quella macchina era così piccola!
 
Ed ecco il bambino.
Era vestito con dei jeans e una maglietta a righe blu e bianche.
Ben sentì una strana stretta al cuore e si impose di respirare con calma.
 
Rebecca si avvicinò tranquilla, tenendo il piccolo tra le braccia e parlandogli sottovoce; superò Ben senza degnarlo di uno sguardo né modificando la sua andatura e lui non poté far altro che ruotare su se stesso per continuare a guardarla, come un ago ipnotizzato dal nord.
Becky mise giù il piccolo vicino alla sabbia: lui fece per lanciarsi subito a giocare ma lei lo afferrò per i pantaloncini.
Il bimbo lanciò un urletto, ma poi Ben lo vide fissare la mamma con un sorriso enorme.
Il cuore gli si strinse di nuovo.
Rebecca si mise in ginocchio e strinse il bambino: rimasero allacciati per qualche lunghissimo minuto, poi lei lo riempì di baci e lui ridacchiò felice.
Carolina – che li seguiva reggendo una borsa di stoffa da cui spuntavano paletta e rastrello – si sciolse in risate estatiche, abbandonando l’aria da guardia carceraria (destinata solo a Ben, a quanto sembrava) e lanciandosi sulla sabbia.
Tommaso la vide e le trotterellò dietro.
Si muoveva come un paperotto quando cercava di correre: al quinto passo ruzzolò per terra e Ben fece un passo, allarmato, senza saper bene cosa fare.
Rebecca e Carolina, però, si limitarono a ridere; il bimbo fece lo stesso.
 
Ben infilò le mani in tasca, sentendosi un idiota.
In quel momento, Rebecca si alzò, si voltò verso di lui pulendosi le mani sui jeans e salutò:
«Ciao»
«Ciao» bisbigliò lui.
Lei si incamminò verso i tavolini del bar e lui, lanciata un’ultima occhiata al bambino, la seguì.
 
Seduti al tavolo, lui giocherellava con il menù mentre lei teneva gli occhi fissi sul figlio, che giocava con Carolina.
Quindi, Ben si schiarì la voce e fece per tenderle la lista.
«No, grazie» disse lei «Prendo un latte bianco»
«Oh… Va bene»
Chiamò la cameriera con un cenno e ordinò.
Becky era sempre intenta a guardare il bambino.
«Non…» Ben si schiarì la voce, imbarazzato dal distacco di lei «Non vuoi un caffè? Lo adoravi…»
Rebecca posò gli occhi su di lui.
Si fissarono in silenzio per un attimo, quindi lei scosse le spalle.
«Allatto Tommaso, quindi cerco di non assumerne… Anche se potrei berne un paio al giorno, me li riservo per quando lavoro molto e devo stare sveglia»
Ben trattenne il fiato.
«Si chiama… Lo hai chiamato…»
Lei fece un brusco cenno con il capo.
«Tommaso. Sì»
Ben sembrava non sapere cosa dire e lei riprese:
«Se stai per dire che tuo padre si chiama Thomas, lo so. So anche che è il tuo secondo nome»
«Lo hai fatto per…»
Becky gli rivolse uno sguardo gelido.
«L’ho fatto perché il nome piace a me»
«Quindi… io non c’entro niente?» chiese lui.
Rebecca fece una smorfia.
«Ben, questa è davvero la cosa più idiota che ti abbia mai sentito dire. E la dice lunga»
Lui espirò di botto.
«Io…»
«Perché sei venuto?» lo interruppe lei.
«Perché…volevo sapere»
«Come lo hai saputo?»
«Jack ha visto una tua foto su Facebook e…»
Lei battè un pugno sul tavolino.
«Facebook del cazzo» mormorò tra sé.
«Pensavi di non dirmelo mai?» le chiese.
«Perché, volevi saperlo?»
«Beck» lui strinse gli occhi «Stiamo parlando di mio…»
 
Si interruppe bruscamente.
«Che c’è?» chiese lei «Non riesci a dire “figlio”?»
Ben fece un gesto vago con la mano, lei esitò un paio di secondi e poi lo incalzò:
«Sì, è tuo figlio Ben»
«L’avevo capito» ringhiò lui.
«Bene. E ora che lo hai capito te ne vai?»
«Tu… ma perché non me lo hai detto?»
Lei scrollò le spalle.
«Non ti serviva saperlo»
«Questo dovevo deciderlo io!» ringhiò lui.
«Ah sì?» lei assottigliò gli occhi, segno inequivocabile che si stava infuriando «Perché, cosa avresti fatto? Saresti diventato responsabile? Saresti cresciuto di botto? O avresti pensato che stavo tentando qualche trucchetto patetico per legarti a me?»
Lui si morse il labbro: lo conosceva troppo bene.
«Ben» scandì lei «Il fatto che tu ti permetti di pensare che io avrei usato mio figlio come scusa per legarti a me è stronzo, ipocrita e mi fa venire voglia di prenderti a calci!»
Lui alzò le mani, come per placarla.
«Va bene, hai vinto: lo avrei pensato. Contenta? Lo ammetto. Ma… non era una scusa! È questo il punto! Tu non mi hai detto niente e io…»
«E tu cosa? Cosa avresti fatto, esattamente, per me? Sentiamo!»
Lui aprì la bocca, indeciso su cosa dire.
«Saresti venuto in Italia da me? Saresti stato con me durante la gravidanza, rinunciando al tuo lavoro? Alla tua vita nella scintillante Los Angeles? Avresti abbandonato il mondo del cinema per cambiare pannolini?»
«Non lo so!» esplose lui «Non posso saperlo, per colpa tua!»
«Sei un ipocrita!» ritorse lei «Non avresti fatto niente di tutto questo, e lo sai!»
«Va bene, ma potevo…»
«Che cosa? Mandarmi dei soldi? Se solo osi dirlo ti ammazzo!»
Era chiaro dalla sua espressione che lo pensava davvero.
«Avevo il diritto di saperlo» ritentò lui «Dovevi darmi la possibilità di…»
 
Era inutile: le parole non gli venivano proprio.
Lei tacque un paio di secondi e poi scosse il capo.
«Ok. Mettiamo il caso che io te lo avessi detto. Sì, avresti smesso di pensare che ero una patetica bugiarda quando avresti visto la mia pancia che cresceva. E poi? È questo il punto, Ben. Poi cosa avresti fatto?»
«Qualcosa avrei fatto!» esplose lui.
«Sì. Ti saresti sbronzato e incazzato»
Ben digrignò i denti, ma Rebecca all’improvviso scosse il capo.
«Ok, scusa. Magari sono ingiusta»
Il silenzio si protrasse per qualche minuto e poi lei riprese la parola.
«Scusami… la frustrazione per il modo in cui mi hai scaricata… evidentemente la covo ancora. Ma ora che sei qui, tanto vale che ti spieghi come stanno le cose» sospirò «Per i primi mesi ho pensato di dirtelo, davvero»
Lui taceva, ascoltandola.
«Ci ho pensato… e all’inizio l’orgoglio me lo ha impedito, lo ammetto. Ma poi, man mano che lui cresceva e poi quando è nato… Lui è la mia vita, Ben. Io non darò a mio figlio un padre che non lo vuole, che non lo ama»
«Non puoi dire che…» iniziò lui.
«Posso dire che non lo volevi: questo posso farlo»
«Allora mi stai punendo?»
«Certo che no!» lei scosse il capo, impaziente «È proprio questo che voglio spiegarti! Mio figlio non è e non sarà mai una merce di scambio! Né per il tuo affetto, né per altro! Io darò il meglio a questo bambino! E il meglio, Ben, non è un padre che, ad andar bene, potrebbe vedere una volta l’anno! La vita che tu conduci non è una vita che ti permetterebbe di fare il padre, perché fare il padre è un’altra cosa! È tante cose e la prima, di certo, è essere presente! Quando Tommi crescerà e mi chiederà perché non ci sei io cosa dovrei dirgli? Che ami il tuo lavoro più di lui?»
«Ma io… Ma come fai a dire una cosa del genere? Io non amerei il lavoro più…»
«Ma non puoi saperlo! Però è molto probabile! Amavi il tuo lavoro più di me… No, zitto!» lo zittì con un cenno «Ti giuro, non lo sto dicendo per recriminare o per ferirti, lo dico perché è la verità. L’ho capito. Sono scelte, e questa è la tua. Ma mio figlio non la pagherà come l’ho pagata io. Non per vendicarmi di te, ma perché lo amo troppo e non lo esporrò a un dolore del genere!»
Ben rimase in silenzio per qualche minuto, poi commentò:
«Ribadisco che non puoi sapere cosa avrei fatto e…»
«Va bene» lo interruppe ancora lei «Vediamola da un punto di vista diverso: se te lo avessi detto e tu avessi preso la decisione non dico di tornare con me ma di starmi accanto nella gravidanza, non avresti girato il tuo kolossal miliardario e non avresti la fama che hai ora. Lo sai, sì?»
Lui si morse un labbro: aveva toccato un nervo scoperto.
«Beck» disse invece «Proprio non lo riesci a perdere questo vizio del cazzo di interrompermi e parlare sempre tu, vero?»
 
Inaspettatamente, lei sgranò gli occhi e poi scoppiò a ridere.
Una risata sincera e divertita che stupì entrambi.
«Scusa. Vero. Mi dispiace. Va bene: facciamo finta che io te lo abbia detto!»
Lui sbuffò, ma replicò in modo più dolce:
«È la cosa più stupida che tu potessi dire… E tu non dici mai cose stupide»
 
Rebecca lo guardò stupita, poi rise di nuovo e lui si ritrovò a reprimere un sospiro.

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Capitolo 12
*** A cosa aveva dato il via? ***


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«Io volevo tantissimo fare quel film» disse Ben.
 
Sedeva con i gomiti poggiati sulle ginocchia; il caffè era dimenticato sul tavolo.
Fissava Tommaso e Rebecca si chiese se lo faceva consapevolmente o se la sua mente era altrove.
«E quando è arrivato, ogni altro pensiero è sparito dalla mia mente. Volevo solo recitare, volevo solo dimostrare che ne sono capace, che potevo farcela… ed è stato così»
Sospirò e batté le palpebre.
«Non mi rende migliore ai tuoi occhi, lo so» disse poi.
Becky scosse il capo.
«Ben, io ho sempre saputo che la carriera, per te, era importantissima. Non te ne faccio una colpa. Anzi, per un certo verso ammiro la tua dedizione. Non è la carriera… è il resto. Il mondo in cui vivi, la gente che frequenti, lo stile di vita che hai. È inconciliabile con un bambino»
Ben si trattenne appena in tempo dall’annuire.
«È un tarlo che mi rode l’anima» disse, all’improvviso, mentre osservava Tommaso che raccoglieva le conchiglie.
«Posso capirlo» annuì Rebecca «Tommaso è l’amore della mia vita. È in ogni mio pensiero, ogni giorno. Non posso immaginare che chi lo vede anche solo una volta non se ne innamori.. bè, è chiaro, io sono di parte…»
Sembrò quasi imbarazzata, ma Ben annuì.
«È un bambino bellissimo» mormorò.
«Barnes, sei così vanitoso da volermi estorcere un complimento?» ribatté lei, divertita «È il tuo ritratto! Cosa vuoi farmi dire?»
Lui fece un sorriso sincero.
Ricordava quello spirito arguto di lei… era una cosa che adorava.
Le modelle di Hollywood erano fantastiche… ma quanto a intelligenza e spirito mancavano decisamente.
«Chiaramente è bellissimo: è mio!»
«Oh, perfetto, grazie… del resto io cosa ho mai fatto?» Becky ammiccò «L’ho solo portato nella pancia per nove mesi. E sì, poi sono morta di dolore per quattordici ore mentre cercavo di darlo alla luce»
Lo disse in tono scherzoso, ma Ben si rannuvolò in viso.
Si era perso la nascita di suo figlio.
Certo, lo sapeva già… ma la cosa lo colpì con più forza, in quel momento.
Stava pensando a cosa dire, quando entrambi sentirono il bambino piangere.
«Che succede?» si allarmò Ben.
«Ha fame, probabilmente»
Rebecca si alzò e si diresse dal figlio, prendendolo in braccio.
Ben stava ancora decidendo se alzarsi e raggiungerla (poteva? O era meglio di no?) che lei era già tornata a sedersi, con il bambino tra le braccia.
Carolina era arrivata dietro di lei e prese una sedia, stando ben attenta a sedersi lontana da Ben.
Ma lui aveva occhi solo per il piccolo, che aveva smesso di piagnucolare appena lo aveva visto.
Lo stava fissando con occhi attenti.
Era assurdo.
Sembrava così concentrato, così consapevole…
Poi, all’improvviso, Tommaso si voltò verso la mamma e le mise le manine sulla camicetta, stropicciandogliela.
Ben sgranò gli occhi, esterrefatto.
Sembrava che suo figlio volesse strappare alla madre la camicia, da quanto impegno ci metteva.
Ma Rebecca si limitò a sorridere e a dargli un bacio al volo.
Poi sbottonò la camicetta.
Ben deglutì a vuoto.
Carolina sbuffò.
«Becky! Non davanti a lui!» esclamò contrariata.
Rebecca alzò gli occhi e incrociò lo sguardo imbarazzato di Ben.
«Ah, scusa» disse.
«No…ehm…» balbettò l’altro «Ma cosa…cosa sta facendo?»   
 
Rebecca scoppiò a ridere e persino Carolina grugnì per nascondere il divertimento.
«Ben» spiegò poi Becky «Ha fame, vuole il mio latte. Cosa credevi?»
«Io… niente… è che lui sembra così…»
Non finì la frase, non sapeva cosa dire.
Vorace?
Forse sì.
Per un attimo gli aveva ricordato la frenesia con cui lui stesso strappava i vestiti di dosso a Rebecca… Ma cosa andava a pensare? Il bambino aveva poco più di un anno! Ma come faceva a formulare idee così idiote?!
 
Intanto, Rebecca lo aveva attaccato al seno e Ben si stupì di come la scena era assolutamente candida e rilassata. Non ci avrebbe mai creduto, se glielo avessero raccontato: sembrava la classica cosa dalla quale fuggire a gambe levate, disgustati.
Invece, mentre suo figlio mangiava allegramente, Ben divorò con gli occhi il piccolo mangione… e il seno di sua madre, scarsamente coperto e parecchio generoso.
Lo ricordava bello, ma più piccolo… Ma certo, lei allattava, era normale.
No?
Ah, ma che ne sapeva lui?!
Si riscosse solo quando Rebecca chiese, a bassa voce:
«Quindi, ora che lo hai visto te ne torni in America?»
Non c’era inflessione in quella domanda: né di desiderio, né di accusa.
Ben prese tempo, mentre Carolina accarezzava il fianco del piccolo e fingeva disinteresse per la sua risposta.
Riorganizzò le idee, ma doveva ammettere che non sapeva nemmeno lui che dire.
«Io… io penso di sì. Almeno…»
Appena aprì bocca, Tommaso gli piantò gli occhi in faccia, indagatore.
Il tutto senza smettere di prendere il latte: sembrava un piccolo contorsionista.
Di nuovo, Ben e suo figlio si fissarono negli occhi.
Poi, Tommi smise di poppare e lanciò uno strillo soddisfatto.
Carolina lo prese in braccio mentre Becky si sistemava velocemente, ma il bambino scalciò per scendere a terra e poi si mise a trotterellare verso la sabbia.
Poi si girò, si voltò verso Ben e sorrise timidamente.
Ben batté le palpebre e Becky trattenne un sospiro: era già incantato dal bambino, era chiaro.
Quanto ci avrebbe messo a rendersene conto?
«Ben…» mormorò «Te lo chiedo di nuovo e ti supplico di dirmi la verità, perché questo almeno me lo devi. Cosa sei venuto a fare?»
Lui sembrava confuso.
«Te l’ho detto. Volevo sapere se era mio… e perché non me lo avevi detto»
«E poi? Ora che lo sai… cosa vuoi?»
Si guardarono per un attimo lunghissimo, poi lui scosse il capo, con l’espressione persa.
«Non… Non lo so…»
Lei riprese fiato.
Era così tipico di Ben.
Ma stavolta, lei non poteva mollare: non fino a quando sarebbe stata tranquilla.
Lui la stupì di nuovo:
«Posso… posso stare qui con voi, oggi?»
Lei prese tempo e lui si affrettò ad aggiungere.
«Solo per… per parlare ancora un po’»
«E per vederlo» completò lei.
Lui deglutì.
«Io…io… sì… anche per quello»
Rebecca lo fissò negli occhi, chiedendosi cosa doveva fare e quanto male le avrebbe fatto quando lui se ne sarebbe andato di nuovo.
 
Il guaio è che fu una giornata piacevole.
Ben era affascinante e divertente come un tempo e suo fratello Jack, che li raggiunse all’ora di pranzo, era buffo in un modo folle e assurdo.
A differenza del fratello maggiore, Jack non aveva problemi ad interagire con Tommaso: appena dopo essersi presentato a Becky e Carolina, era già steso per terra a giocare con il piccolo.
Ben sentì un’inappropriata fitta di gelosia: non era giusto, Tommaso era… bè, era suo.
Però andava detto – ammise con se stesso – che suo fratello era più coraggioso di lui, che stava ancorato su quella sedia con il cuore che batteva furiosamente e una paura fottuta – insieme a un desiderio fottuto, per la verità – di fare la stessa cosa.
Di avvicinarsi al piccolo e toccarlo, giocarci insieme.
Vederlo ridere di nuovo.
Jack lo conquistò in due minuti e la diffidenza di Tommaso si sciolse di fronte a quel ragazzone biondo che giocava con lui in modo molto più spericolato rispetto alla mamma e alla zia, che non si rotolavano mai nella sabbia con lui.
 
Carolina guardava in silenzio i due giocare ed emanava disapprovazione da tutti i pori.
Rebecca era ancora seduta vicino a Ben e guardava preoccupata la scena.
All’improvviso, lui le coprì una mano con la sua e lei sussultò.
«Non preoccuparti» mormorò Ben.
«Non sono preoccupata» mormorò lei.
Lui sorrise.
«Sì, certo, vedo… Stai tranquilla, Jack ha praticamente la stessa età mentale di Tommaso, è per questo che vanno d’accordo…»
Becky sorrise debolmente.
Riportò gli occhi sul figlio, che in quel momento la guardò e sorrise.
Becky sorrise di rimando e gli mandò un bacio, ma sentiva il cuore pesante: a cosa avevano dato il via, in quella mattina di sole?

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Capitolo 13
*** Una settimana dopo ***


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Se lo chiese spesso, nei giorni seguenti.
 
Se lo stava ancora chiedendo una settimana dopo, mentre vestiva il bambino.
Ormai l’estate era arrivata e tra lei, Carolina e i suoi genitori, Tommaso andava in spiaggia quasi ogni giorno.
Quella mattina si era ritagliata qualche ora da passare con il suo bambino: in quei giorni aveva lavorato molto e sentiva di averlo trascurato.
Certo, non lo faceva apposta… ma Tommaso le mancava. E tanto.
Inoltre… inutile negarlo, era inquieta.
Ben aveva detto che se ne sarebbe andato, ma era ancora lì.
Ogni giorno, compariva in spiaggia e si avvicinava a lei, a Carolina, a Tommaso.
Solitamente era Jack a lanciarsi a giocare con il bambino; Ben stava sempre un po’ in disparte.
Però… era lì.
Perché?
Perché non se ne andava?
 
Carolina imprecava ogni giorno per almeno un paio d’ore contro Barnes, instillandole suo malgrado mille paure.
Lei stessa, doveva ammetterlo, non era così immune al fascino dell’inglese… ed era un pensiero frustrante.
Per quasi due anni aveva allontanato Ben dai suoi pensieri, metodicamente, fino ad arrivare a credere che davvero lui le fosse uscito dal cuore e dalla mente.
E ora, si scopriva a fissarlo, a cercarlo, ad aspettarlo.
E, quando se ne rendeva conto, si malediceva da sola.
 
Ben non sarebbe rimasto.
Magari era curioso, magari era tutto nuovo per lui… ma, alla fine, se ne sarebbe andato.
Perché lui faceva così, perché lui era così.
Egoista e immaturo.
Se ne sarebbe andato e lei non doveva, di nuovo, permettergli di spezzarle il cuore.
Era già successo ed era un rischio che andava calcolato, ammise suo malgrado.
Dopotutto, lei lo aveva amato.
Lui le aveva dato suo figlio.
Ma ora… era una donna adulta, era madre.
Non poteva permettere che capitasse di nuovo.
Lei doveva pensare a Tommaso e solo a Tommaso.
Non a un uomo che l’aveva già delusa, che avrebbe continuato a deluderla.
 
Nervosa, Becky allacciò la salopette al bambino e poi sospirò.
Tommi le sorrise, sdraiato sul fasciatoio, e lei sentì il cuore alleggerirsi di botto.
«Quanto sei bello» lo prese in braccio «Sei bellissimo, amore mio…»
Lo cullò un po’ tra le braccia, quindi lo mise a terra e, mentre lui rovesciava la cesta dei giochi che lei aveva finito di riporre dieci minuti prima, andò in cucina a controllare che la borsa fosse pronta.
Ok, c’era tutto.
Un po’ d’aria fresca le avrebbe fatto bene.
Si guardò velocemente allo specchio e vide una bella ragazza con gli occhi brillanti.
Maledì mentalmente se stessa e la speranza segreta di vedere Ben anche quel giorno, quindi prese per mano suo figlio e, adeguandosi alla sua andatura, uscì di casa.
 
*
 
Ben e Jack erano scesi in spiaggia presto.
Iniziava a far caldo e, per degli inglesi, era già abbastanza insopportabile.
Entrambi avevano fatto il bagno.
Ben era uscito dall’acqua e si stava asciugando quando vide Rebecca arrivare con Tommaso in braccio.
Il piccolo scalpitava già per toccare la sabbia: Ben lo notò anche da lontano e sorrise, intenerito.
Suo figlio era proprio un diavoletto… ma era anche adorabile.
Si permise un sussulto segreto di orgoglio paterno e si avviò verso la coppia.
 
Per lui era ancora difficile pronunciare ad alta voce la parola “figlio” o usare aggettivi come “mio”.
Però, nel cuore e nella mente, si stava abituando… e doveva ammettere che gli piaceva.
Negli atteggiamenti aveva molto riserbo, non aveva mai neppure preso il bambino in braccio… era una cosa che gli pesava molto, ma se il piccolo cadeva, o si metteva a piangere, lui esitava sempre e c’era invece sempre qualcuno che tendeva le braccia prima di lui.
Becky, ma anche Carolina e persino Jack.
Suo fratello non aveva problemi a prendere in braccio il bambino.
O a lanciarlo in aria, se per questo.
Becky non sembrava felice, ma non lo aveva mai ripreso espressamente.
In compenso, la prima volta che Jack aveva salutato Tommaso prendendolo in braccio e dandogli un bacio, Carolina gli aveva fatto una piazzata incredibile e si era fermata solo quando Becky l’aveva zittita, perché il piccolo si era spaventato a sentire i toni della “zia” ed era scoppiato in lacrime.
Per amore di Tommaso, Carolina aveva ingoiato il rospo, ma era chiaro che amava i Barnes quanto avrebbe amato un riccio di mare conficcato nel piede.
Ben era geloso della disinvoltura di Jack… ma ogni volta esitava.
E si arrabbiava con se stesso, ma proprio non ce la faceva.
Tra l’altro, non riusciva a capire se era una cosa che faceva piacere a Becky, oppure no.
Avrebbe potuto giurare che un paio di volte lei lo aveva guardato delusa… ma, di contro, non gli aveva mai proposto di prendere il piccolo.
Vero che Becky, di solito, non ostacolava il bambino nei suoi desideri.
E Tommi aveva un modo incredibile di farsi capire, anche senza parlare.
Indicava imperiosamente le cose che voleva prendere in mano e Jack e Carolina, di solito, facevano a gara per chi arrivava per primo ad accontentarlo.
Ti tirava per la mano se voleva andare da qualche parte o se riteneva che lo stessi rallentando.
Insomma, era un piccolo tiranno… ma era così bello.
Come si faceva a dirgli di no?
Pur sforzandosi di sembrare impassibile, Ben era pazzo del bambino.
E lo sapeva.
Non lo ammetteva ad alta voce, ma lo sapeva.
Jack gli stava dando tregua, e questo era un chiaro segnale che lo aveva capito anche lui.
Suo fratello gli stava dando il tempo di farsi avanti, quando fosse stato pronto.
Intanto, si godeva il nipotino.
Ben lo invidiava e si tormentava in silenzio.
Ma la cosa peggiore era quando Tommaso lo guardava con i suoi occhioni scuri e sembrava rimproverarlo in silenzio di essere l’unico adulto che non si faceva in quattro per lui.
Ma, quando gli sorrideva, la giornata di Ben diventava improvvisamente meravigliosa.
 
 
Quella mattina, Becky lo osservò venirle incontro e il suo umore peggiorò.
Osservò quel corpo alto e ben proporzionato e represse un sospiro.
Ben si passò una mano tra i capelli bagnati, spettinandoli, e le sorrise.
Il cuore di Rebecca perse un colpo e lei si maledisse in silenzio.
Grugnì un saluto veloce e tirò dritto, ma Ben la seguì.
Tommaso gli rivolse un versetto e suo padre (suo padre? Ma era impazzita?? Voleva dire Ben, naturalmente) mormorò un ciao.
Lasciò cadere a terra la borsa, si sfilò le infradito e poi esitò.
Cavolo.
Aveva Tommi in braccio ed era perfettamente consapevole del fatto che, se lo avesse posato a terra, suo figlio sarebbe schizzato via, probabilmente verso l’acqua.
Attese un paio di secondi trattenendo un’imprecazione, mentre serrava la presa sul bambino per impedirgli di lanciarsi a terra.
Cedette.
«Ben, per favore, mi prendi l’asciugamano dalla borsa?» chiese a denti stretti.
Lui si precipitò ad aiutarla e, quando lo stese a terra, Tommaso lo seguì con gli occhi.
Era curioso, Becky lo sapeva.
Ben gli dava poca confidenza, anche se lo osservava in continuazione, e questo incuriosiva il piccolo.
Rebecca si sedette e sventò il tentativo di fuga ad opera del figlio, che aveva appena toccato terra.
«Aspetta, scimmietta!» lo riprese dolcemente «Ci vogliamo almeno togliere i vestiti?»
Ma Tommi aveva poca intenzione di collaborare e cercò di svicolare ancora.
Lei lo acchiappò e lui lanciò uno strillo.
«Tommi, un attimo!»
Lui strillò di nuovo e disse:
«Mam…mamma!»
Ben sgranò gli occhi, perché non lo aveva mai sentito dire una parola completa, ma Becky sorrise.
«Non dire “mamma” con quel tono, ok, signorino? Avremo tempo per le ribellioni adolescenziali!»
Ma, quando Tommaso, si divincolò, fu una mano elegante, con dita lunghe e affusolate, a trattenerlo per il braccio.
Ben si accovacciò a terra e, dolcemente ma con fermezza, gli disse:
«Devi ascoltare la mamma se ti dice di non muoverti… »
Tommaso lo guardò sgranando gli occhioni e poi fece un mugugno poco convinto.
Becky, da parte sua, rimase scioccata nel vedere Ben interagire con suo figlio per la prima volta.
 
Erano due gocce d’acqua.
Un’ondata di desiderio – totalmente inopportuna – la travolse.
Erano bellissimi.
Per un secondo, si concesse di immaginare come sarebbe stato se…
Poi si riscosse e si sfilò velocissima i vestiti, quindi prese la mano di Tommaso nella sua e disse, sbrigativa:
«Grazie, ce la faccio da sola»
Ben distolse gli occhi da quelli del piccolo e la guardò mortificato.
«Scusa… Io…scusa»
Lei si morse la lingua, perché non sapeva bene come spiegare il fastidio che sentiva.
Carolina l’aveva rimproverata più e più volte di non aver impedito ai fratelli Barnes di cercare un contatto con il piccolo e ora… cosa poteva fare? Chiedergli di andarsene?
Ma soprattutto: Ben l’avrebbe fatto?
Se voleva, poteva andare via.
Lei non gli aveva chiesto nulla.
Perché, perché non si levava dalle scatole e non le lasciava la possibilità di tornare a condurre una vita normale?
Senza quella paura latente, quel senso di minaccia… e senza quelle palpitazioni inopportune che la coglievano quando lo vedeva.
 
Dannazione.
 
Si diresse in acqua con il bambino, senza rispondere, ma sentì che Ben li seguiva.
Non cercò di parlarle e lei tentò di ignorarlo, mentre Tommi tendeva le mani verso i pesciolini che vedeva.
Rise e strillò e alla fine lei si rilassò un pochino, come sempre sensibile al buonumore del figlio.
Fece toccare l’acqua al piccolo e lui scalciò felice, inzuppando allegramente lei e Ben e ridendo allegro per via delle smorfie degli adulti.
Ma se Tommaso li aveva spruzzati, fu niente al confronto di Jack, che arrivò schizzando chiunque nel raggio di due metri.
Tommaso gorgogliò entusiasta, Rebecca si trattenne dall’urlare dietro al più giovane dei Barnes.
Era colpa sua, dopotutto.
Cosa le era venuto in mente di permettergli di prendere quella confidenza con il bambino?
Ora Tommaso scalpitava per andare da Jack e lo zio (accidenti a lui!) tese le braccia per prenderlo.
Becky esitò e Ben lo notò chiaramente, ma alla fine, dopo una breve lotta interiore, tese il piccolo allo zio.
I due si estraniarono dal mondo, come sempre quando giocavano insieme.
Ben, invece, le rimase vicino.
Lei teneva gli occhi sui due - Jack seduto nell’acqua che gli arrivava al petto e Tommaso abbarbicato tra le sue braccia come un koala – e stava rigida come un palo.
«Sei arrabbiata?» chiese Ben dopo qualche minuto.
Lei non rispose.
«Sei stanca? Non ti ha fatta dormire? Va tutto bene?»
Di fronte a quella sfilza di domande pressanti, lei ringhiò:
«Perchè? Te ne frega qualcosa?»
Ben batté le palpebre, preso in contropiede.
«Certo che sì…»
«Bè, non dovrebbe fregartene Ben. Come non te ne è fregato fino a una settimana fa. Allora, quando hai detto che te ne vai?»
Lui si ritrasse di fronte al tono ostile di lei.
«Ma cosa ho fatto? Perché vuoi mandarmi via?»
«Perché dovresti stare qui, scusa? Mi pare di capire che hai da fare da qualche altra parte, no?»
Come sempre quando veniva attaccato lui si chiuse a riccio.
«Io…io…»
«No, ascolta!» lo interruppe furiosa lei «Dico seriamente. Perché resti? Cosa vuoi? Se non vuoi niente – e sono sicura che è così – faresti un favore a tutti se te ne andassi. Non voglio che Tommi si affezioni a voi. Non voglio che gli facciate del male andandovene e non vi permetterò di entrare e uscire dalla sua vita a tratti. Sono stata chiara?»
Aveva alzato troppo la voce e lo sapeva.
Jack la guardava a bocca aperta, Ben era arrossito di rabbia.
«Cosa c’è di diverso rispetto a ieri?» chiese.
«C’è che non vi voglio qui!» esplose lei.
«Non puoi tenerlo lontano dal bambino!» urlò Jack, pur sapendo che in quella discussione non sarebbe dovuto entrare.
Rebecca lo fissò inviperita.
«Ah no? Non posso tenerlo lontano da mio figlio? Ma guarda un po’! E dire che pensavo di essere io la madre!»
Jack abbracciò più forte il piccolo e disse:
«Bè, Ben è comunque suo padre, per cui…»
«No, un padre è un’altra cosa! Un padre è presente! Io non gli riconosco autorità su mio figlio e… e ti avverto Ben! Io qui non ti voglio! E se pensi di intraprendere le vie legali, sappi che farò qualunque cosa, qualunque, per avere la custodia unica! Avrai anche soldi a palate e potere nel cinema, ma questo non fa di te un buon candidato padre!»
 
Lei e Ben si fissarono, furiosi.
Tommaso scoppiò a piangere e Jack fece per cullarlo, ma Becky glielo strappò dalle braccia e si diresse verso la riva, furente.
 
 

 
 

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Capitolo 14
*** Alleanza ***


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Un’ora dopo, Becky stava singhiozzando tra le braccia di Carolina.
 
Tommi mangiava un gelato mentre guardava la televisione e le due amiche parlavano a bassa voce.
Rebecca si soffiò il naso e sospirò, demoralizzata.
«Non so perché ho fatto una scenata del genere…»
«Mi sembra chiaro….»
Carolina storse il naso, ma l’altra scosse il capo.
«Non gli ho fatto una scenata neppure quando mi ha lasciata!»
«Sì, ma stavolta è peggio! Innanzitutto è lui che è tornato e poi c’è coinvolto Tommi!»
Tutte e due si voltarono a guardare il bambino, che mangiava felice.
Becky chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie.
«Lo so, ma davvero… Non so perché gli ho permesso di restare a contatto con noi per tutti questi giorni»
Carolina esitò, poi si decise:
«Magari lo hai fatto perché ti fa piacere? Perché speri che…»
Becky arrossì.
«No!» negò, poi però aggiunse «Io…io lo so che mi ha lasciata…»
«Ok, ma la gente torna anche insieme, volendo…»
«No, no! Non posso permettermi di nutrire false speranze!»
Caro le rivolse un’occhiata penetrante.
«Quindi ci stai pensando?»
Becky arrossì di nuovo.
«Caro, con te posso parlare e lo so… io… Sono attratta da lui. Non credevo potesse farmi ancora questo effetto… Ma è così. Ma non sono più una ragazzina infatuata e non gli permetterò di essere una figura incostante nella vita di mio figlio. Non importa quanto possa piacere a me»
Carolina annuì, però poi disse:
«E se lui lo volesse? Volesse Tommi?»
Rebecca sussultò.
«Caro! Proprio tu, che lo detesti!»
«Io detesto quello che ha fatto a te… Ma inizio anche a chiedermi se non sia meglio, per Tommi in futuro, che lui si sia presentato qui»
L’occhiata scioccata della sua amica la spinse a continuare con urgenza:
«Becky, ascolta: quando crescerà, Tommi vorrà conoscere suo padre, molto probabilmente… E non dirmi che anche tu non vorresti che le cose fossero andate diversamente!»
L’altra sospirò.
«Ammetto che ci ho pensato. Ma… Ben non è pronto. Non credo che lo voglia»
«Io credo che non si renda ancora bene conto di volerlo… Ma credo anche che non sia qui perché non ha di meglio da fare»
«Quindi?»
«Non è a me che devi chiederlo, tesoro. Io non ne ho idea. Ma penso che dovresti chiarire bene quello che vuoi tu, in modo che possiate parlarne»
Rebecca scosse il capo.
«Quello che voglio io non conta. Anche se… anche se provassi ancora qualcosa per lui, non importa. Importa solo Tommaso. Mio figlio non sarà una merce di scambio: mai»
«E se lui ti chiedesse di vedere il bambino, ogni tanto? Non sarebbe così strano…»
«Ma io non voglio che Tommi si affezioni a qualcuno che poi non starà mai con lui! Come farebbe a capire? È così piccolo! Quando vorrà suo padre per giocare e Ben sarà dall’altra parte del mondo? No, mi dispiace, ma un padre non può essere un tizio che vedi ogni tanto, quando lui ha tempo. Non esiste. Io a mio figlio darò tutta la stabilità e la tranquillità che posso!»
«Lo capisco. Eppure… arriverà il giorno, Becky, in cui Tommaso potrà rimproverartelo»
Lei fece un sospiro.
«Spero che capirà che lo faccio per lui»
«Non vuoi dare una possibilità a Ben perché hai paura che ferisca Tommaso… o te? Perché Tommi ora è davvero troppo piccolo: se non lo vedesse più da domani se lo dimenticherebbe senza problemi»
«Stai dicendo che sono un’egoista?»
«Sto dicendo che hai tutte le ragioni per esserlo… ma non usare tuo figlio come scusa»
«Ma…» Becky annaspò «Io dico davvero!»
«Lo so Becky, non sto mica dicendo che sei una bugiarda! Dico solo che, secondo me, hai anche paura di scoprire che potrebbe esserci qualcosa tra voi due»
«Non c’è nulla!» negò Rebecca.
«Sicura? A me sembra che Ben ti cerchi molto»
«Per Tommi!»
«Non solo, se vuoi il mio parere. Ti cerca… quando ci sei si illumina»
Becky chiuse gli occhi su quelle parole.
«Non voglio neppure sentirne parlare!»
 
*
 
Al b&b Jack osservava il fratello percorrere a grandi passi la loro camera.
 
Non aveva quasi detto una parola sulla lite con Rebecca.
Alla fine si gettò sul letto e fissò il fratello.
«Ci ho pensato… e lei ha ragione»
«Cosa? Che vuoi dire?»
«Che non sono un padre… che non lo sarò mai»
«Che cavolo significa? Quando avresti provato a fare il padre, esattamente?»
«Ma è questo il punto! Non ci si improvvisa padre! Non posso fare esperimenti su quel bambino! Rebecca ha ragione, ho una vita troppo incasinata… diciamocelo: quando potrei vederlo? Una volta l’anno? Facendo viaggi intercontinentali? Andiamo, Jack…»
In risposta ricevette un’occhiata scettica.
«Quindi, fammi capire. Rinunci a priori. A tuo figlio. Perché hai paura»
«No! Non ho paura!»
«Ah no? E allora cos’hai?»
«Niente! Io… lo faccio per lui, perché è meglio… è meglio così»
«Ah, ecco!» l’occhiata di scherno era evidente «Lo fai per generosità. Che bravo!»
Ben si irrigidì.
«Che cazzo dici? Cosa dovrei fare, secondo te?»
«Non lo so. Che ne dici di iniziare a ricostruire un rapporto con la madre di tuo figlio e iniziare a pensare di fare il padre?»
«Ma io non lo so come si fa!»
«Ma cosa credi, che esista un manuale? Nessuno lo sa finché non ci prova! Finché non impara!»
«Ma io non ho tempo! Né modo!»
«Non hai tempo per tuo figlio?» l’occhiata di disgusto del fratello lo gelò «Cazzo, Ben, se sei stronzo»
Si fissarono in cagnesco, in silenzio.
«Jack, lo sai che vita faccio…» ritentò Ben.
«E allora? Puoi cambiarla! Puoi scegliere cose diverse!»
«Ma io non voglio!» urlò Ben «Vuoi fare come Becky? Cercare di cambiarmi? Hai visto come è finita!»
«Io non voglio cercare di cambiarti: voglio sperare che cambierai da solo. Perché il tuo mestiere ti piacerà anche, ma non ti riempirà la vita. E poi ora sei giovane, ma che farai tra qualche anno? Quando sarai un patetico uomo di mezza età che cerca ancora copioni e rimpiangerà di non aver preferito suo figlio alla solitudine?»
Ber era sbigottito.
Suo fratello, celebre per essere un simpatico scapestrato, gli stava dando lezioni di vita.
E non lezioni qualsiasi.
«Ma che ne sai tu?» lo aggredì «Fatti gli affari tuoi!»
«Questi sono affari miei, caro. È mio nipote, quel bambino che nemmeno tu prendi in braccio. E se non sei in grado di capire cosa hai fatto, cosa hai messo al mondo e quanto vale… allora sei un idiota senza speranza. Se pensi che aver conosciuto quel bambino non abbia già segnato la tua vita, Ben, non capisci veramente un cazzo»
Detto questo, Jack uscì sbattendo la porta.
 
Rimasto solo, Ben si sedette sul letto e si prese la testa tra le mani.
 
 
*
 
Due ore più tardi, Jack usciva da un bar dove era disponibile il wi-fi gratis con una prenotazione per Londra chiusa.
Inforcò gli occhiali da sole e riconobbe una figuretta che usciva dalla panetteria, dall’altra parte della strada.
Esitò e poi fece un cenno con il braccio.
Lei lo vide e lui la raggiunse con il suo passo veloce.
«Ciao» sorrise Jack «Ti prendo solo un minuto… volevo salutarti»
 
Carolina si sfilò gli occhiali da sole e lui trovò difficile decifrare l’occhiata che gli lanciò.
Sollievo? Disgusto?
Entrambe le cose?
«Allora ve ne andate» disse lei in tono piatto, senza ricambiare il saluto.
Jack rise, ma non era divertito.
«Non ho idea di quali siano i piani di quell’idiota di mio fratello. Io, da parte mia, ho appena prenotato un biglietto per Londra»
«Uno solo?»
L’occhiata di Carolina, stavolta, era indagatrice.
Jack si strinse nelle spalle.
«Non sono il babysitter di Ben. Se lui pensa di aver capito cosa vuol fare nella vita… bene. Che si arrangi. È adulto, ormai. Se poi io penso che siano solo stronzate… bè, pazienza»
Carolina sembrava indecisa su cosa dire.
Alla fine optò per un prudente:
«Ho parlato con Becky»
Jack la guardò, interrogativo.
«Lei è…preoccupata che Ben possa intraprendere un’azione legale per la patria potestà e…»
Lui la interruppe:
«Mi sembra troppo complicato per quell’idiota di mio fratello! Non posso parlare per lui, ovvio, ma Ben non è un vendicativo e, se anche non si rende bene conto del fatto che la sua vita è già cambiata, comunque non credo che metterebbe mai Rebecca in una situazione così difficile e spiacevole. Lui… la ammira molto»
Carolina storse il naso.
«Ha un bel modo di dimostrarlo!»
«Te l’ho detto, è un idiota. È il peggior nemico di se stesso. Ma… cosa possiamo farci? … Giusto?»
Jack la fissò intensamente e Carolina si mosse, a disagio.
Quindi sbottò:
«Mi stai per caso… proponendo un’alleanza?»
Lui rise.
«Esatto!»
«Ma se hai appena detto…»
«Ho detto che è un idiota, ma comunque è mio fratello… e poi mio nipote è bellissimo! Anche troppo, per essere figlio di Ben… ma insomma, mi spiacerebbe non vederlo più!»
Carolina grugnì.
«Becky mi ucciderà…»
«Senti» le rispose Jack, tornando serio «Se mi dici in tutta onestà che a Rebecca non importa nulla di Ben e davvero non lo vuole qui… Allora ok, ce ne andiamo e basta. Io… Non si merita altro dolore. Ma se pensi che…»
Non completò la frase e attese.
Dopo qualche minuto, Carolina fece un gesto esasperato.
«Va bene… va bene! Vediamo cosa possiamo fare, allora!» 

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Capitolo 15
*** Incidente ***


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L’alleanza fece sì che Carolina e Jack passarono una divertente mattinata insieme.
 
Imprevedibilmente, lei si rivelò ironica una volta superata la diffidenza iniziale.
E, stranamente, lui era un tipo brillante, una volta che si andava oltre la frivolezza iniziale.
Carolina era poco disposta ad ammetterlo, ma Jack era una compagnia piacevole.
Tornarono insieme a casa di Becky, dove Jack si scusò e le spiegò che aveva fatto un biglietto per Londra, quindi le chiese educatamente se poteva passare il pomeriggio con Carolina e Tommaso, per salutare il nipotino prima di andarsene.
Rebecca esitò, ma fu convinta dall’amica.
Jack, a differenza di Ben, era onesto e diretto, per cui alla fine lei acconsentì.
 
Ben, invece, quando vide dalla finestra della stanza passare suo fratello con il bambino a cavalcioni sulle spalle non la prese altrettanto bene.
Mollò un pugno contro la parete, che gli valse solo un male cane, e mormorando imprecazioni scese a comprarsi da mangiare.
Ma non aveva fame.
Non aveva voglia di leggere il giornale.
Né un libro.
Giocò svogliatamente con il cellulare, fece due passi in piazza.
Si sedette su una panchina e, dopo due minuti, era già in piedi.
‘Fanculo.
 
*
 
Quando li raggiunse, al parco, la sua rabbia era triplicata.
Non solo la sua ex faceva la stronza… Ora anche suo fratello passava dalla parte del nemico, a giudicare da come si divertiva con quella Carolina, che era proprio un’acida zitella!
E tutto perché aveva scoperto di avere il cuore tenero con i bambini!
Ah, che facesse un figlio lui, allora!
Eppure, malgrado la rabbia, i propositi di Ben vacillarono quando scorse Tommaso che sgambettava in giro, inseguendo la sua palla colorata.
Distolse a fatica gli occhi dal bambino e puntò il fratello.
Jack lo vide, gli fece un cenno con il capo, e poi riportò l’attenzione su Carolina, che stava parlando.
Entrambi tenevano d’occhio il bambino, ma sembravano decisamente a proprio agio in reciproca compagnia.
«Jack» disse Ben a denti stretti, quando fu vicino «Ho deciso che partiamo, per cui…»
Suo fratello si sfilò gli occhiali con grande lentezza.
«Che partiamo?» ripeté «E da quando tu decidi cosa faccio io, scusa?»
Ben lo fissò, furente.
«Benissimo. Quindi vuoi restare qui?»
«Non direi. Io torno a Londra»
«Quando?» Ben era spiazzato.
«Ho il volo domani, nel primo pomeriggio»
«Hai il volo? E io, scusa?»
A Carolina scappò una risatina di scherno.
Jack le sorrise, complice, poi riportò lo sguardo sul fratello.
«Non lo so» rispose «Dovrebbe fregarmene qualcosa?»
«Jack, che cazzo dici?»
«Dico che sei adulto. Anzi, sei pure abituato a volare in giro per il mondo, visto il lavoro che fai… Saprai prenotarti un volo, o no? O magari hai un agente che lo farà volentieri al posto tuo…»
Ben strinse gli occhi.
Guardò Carolina, ma lei teneva ostinatamente gli occhi fissi sul bambino.
Afferrò suo fratello per il bavero e lo tirò in piedi.
La ragazza fece un salto, spaventata.
«Senti» scandì Ben, rivolto al fratello «Se credi che tu o chiunque altro possa dirmi cosa devo fare ti sbagli di grosso!»
Jack gli allontanò la mano con una spinta.
«Ma infatti vado a casa proprio per questo: sei adulto, intelligente e non ti servono consigli, quindi io qui cosa ci sto a fare?»
«Smettila!» urlò Ben «Pensi di essere spiritoso?»
«E tu pensi di essere intelligente?» ritorse l’altro, che iniziava ad irritarsi seriamente.
Era difficile far infuriare Jack, che era davvero dotato di un buon carattere… Ma quando succedeva erano guai.
«Mi stai punendo?» fece Ben, serrando i pugni.
«Ma ti ascolti?» anche Jack iniziò a urlare e Carolina iniziò a preoccuparsi davvero.
Quei due erano veramente furiosi… Ma perché Jack si faceva trascinare?
Non avevano deciso di organizzare un incontro tra Ben e Becky?
Un incontro pacifico?
Vero che, se fosse dipeso da lei, avrebbe già preso a calci Ben da un pezzo, quindi nemmeno poteva biasimare troppo Jack.
 
Il quale stava alzando sempre di più la voce.
E la portata delle accuse.
«Sei un egoista! E per di più non capisci un cazzo! Non vuoi ragionare, hai sempre ragione tu! E allora che vuoi da me?»
«Ma chi ti ha chiesto niente?»
«Ma stai scherzando?! Ma se sei venuto a casa mia nel cuore della notte per trascinarmi qui!»
«Il mio primo errore!»
Ben gli rise in faccia e stavolta fu Jack a prenderlo per il colletto.
Un paio di signore li guardarono preoccupate e una si avvicinò alla nipotina per allontanarla da loro.
«Il primo?» i due Barnes continuavano a litigare, incuranti del disagio di Carolina e degli altri frequentatori del parco «Il primo di molti direi!»
«E tu chi sei per farmi la morale?»
«Ben, smettila!» urlò Jack «Smettila di chiuderti a riccio ogni volta che qualcuno sfiora un tuo nervo sensibile! Ogni volta che provi un’emozione! Se ti capita una cosa bella, nella vita, stai sicuro che te la rovini da solo! Ma non ti rendi conto? Non vedi che stai facendo lo stesso sbaglio dell’altra volta? Hai lasciato Rebecca perché avevi paura e ora la lasci di nuovo perché sei esattamente fermo allo stesso punto di prima! Tu hai paura di prenderti delle responsabilità! Ma se continui così non sarai mai felice!»
Ben spinse il fratello con violenza, un lampo negli occhi.
«Jack, stai attento, stai passando il segno!»
Carolina si alzò e cercò di interporsi tra i due, preoccupata che venissero alle mani, ma Jack la spinse via.
«Sei padre!» urlò in faccia al fratello «Sei il padre di un bambino che non c’entra niente con la tua stupidità e le tue paranoie! Ma perché non ti impegni per lui, almeno?»
 
Jack tese un braccio verso il punto dove doveva trovarsi Tommaso… solo che il bambino non c’era più.
I tre adulti si guardarono intorno, all’improvviso dimentichi del litigio.
Carolina fu la prima a vederlo: Tommaso era arrivato fino al marciapiede e stava inseguendo la palla in strada.
«Tommaso!» urlò lei, terrorizzata.
Si mossero tutti e tre, ma Ben era quello più vicino.
Jack urlò, quando vide una macchina che cercava di frenare, ma che era ormai troppo vicina.
Ma suo fratello, seguendo l’impulso, si lanciò in avanti e strinse il bambino tra le braccia.
Un attimo dopo la macchina lo centrò in pieno.


***
Buongiorno! 
Ci ho preso la mano, con i capitoli corti... Scusate, i prossimi saranno un po' più lunghi!
Anche se lo stile della storia è questo, mi fa un po' strano :)
Per tutti gli aggiornamenti mi trovate qui:
 https://www.facebook.com/Joy10Efp
Grazie a tutti voi che mi seguite!
Buona lettura e buona giornata,
Joy

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Capitolo 16
*** Somiglia molto a suo marito ***


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Becky entrò correndo al prontosoccorso.
 
Saltò la coda all’accettazione e, con il cellulare attaccato all’orecchio, seguì le istruzioni che Carolina le stava singhiozzando in diretta.
Salì al primo piano facendo le scale due a due e scansando bruscamente tutte le persone che trovava sul suo cammino.
Una signora con un braccio ingessato protestò vivacemente, ma Rebecca non la sentì neppure.
«Arrivo, arrivo, Caro!» ansimò «Sono al primo piano… Hai detto porta verde e poi a destra, giusto?»
Piombò in una sala d’attesa dove quattro o cinque persone guardarono male quella ragazza sudata e scarmigliata, che tra l’altro parlava al cellulare.
Poi quelle persone riportarono lo sguardo su un’altra maleducata, che strillava come un’aquila al telefonino e, contemporaneamente, insultava un infermiere che cercava di dirle che lì i cellulari non si potevano usare.
Ah, le ragazze d’oggi!
«Mi lasci il braccio!» stava appunto gridando la ragazza «Non mi tocchi, ha capito? Becky, sì, a destra…»
«Caro!» Becky le corse incontro «Eccomi!»
Carolina diede in un grido di gioia, chiuse il cellulare e si divincolò dall’infermiere.
Un secondo dopo era tra le braccia dell’amica e singhiozzava senza ritegno.
Rebecca le accarezzò i capelli, mentre con lo sguardo aveva già individuato Tommaso - illeso! – tra le braccia di Jack.
Il ragazzo parlava al telefono (facendo molto meno casino di Carolina… Forse per questo nessuno lo rimproverava? Ecco che risultati aveva l’aplomb inglese!) e aveva un’aria molto seria.
La vide e le fece un cenno con il capo, ma non attaccò.
 
Carolina ululava ancora, disperata.
Becky la strinse un’ultima volta, poi la accompagnò a una sedia e corse a prendere il figlio.
Tommaso aveva un’aria seria e gli occhi umidi di lacrime, però non piangeva.
Le si attaccò al collo e mugugnò qualcosa nel suo linguaggio approssimativo.
Rebecca lo strinse forte e cercò di calmarsi.
Chiuse gli occhi e respirò l’odore di suo figlio, così familiare e rassicurante.
Lui si lamentò, probabilmente perché lo stava stringendo troppo, quindi lei tornò a sedere vicino all’amica.
Carolina si stava soffiando il naso.
Tommi la guardò con due occhioni seri, come a dire che capiva perché piangeva.
Automaticamente, Becky abbassò appena la maglietta per offrirgli il seno, perché quello lo calmava sempre.
Il piccolo, infatti, si attaccò subito.
«Dov’è Ben?» chiese Becky dopo qualche minuto.
Carolina tirò su con il naso.
«Dentro… Lui… Si è fatto parecchio male, mi sa…»
Le tremava la voce e scoppiò di nuovo a piangere.
«Becky, scusami, scusami!» singhiozzò «Sono stata una stupida! Non merito la tua fiducia! Se fosse successo qualcosa a Tommi…»
Rebecca non ribatté e fissò stanca il pavimento.
Non aveva capito nulla dalla telefonata isterica che Carolina le aveva fatto, se non che era successo qualcosa e che erano all’ospedale.
L’amica le aveva detto almeno cento volte che Tommaso stava bene, che non era per lui, ma di sbrigarsi e correre lì.
Deglutì a vuoto.
«Male quanto? E cos’è successo?»
Ma Carolina continuava a singhiozzare.
Becky non insistette e guardò Jack; lui la stava fissando.
Aveva le sopracciglia aggrottate e disse ancora qualcosa in inglese al cellulare, quindi chiuse la comunicazione e si avvicinò al gruppetto.
«Scusa, ti prego» fu la prima cosa che disse «È stata colpa mia»
«No, mia!» gemette Carolina.
«No, io sono stato stupido e superficiale e…»
«Se non la smettete subito, prendo le vostre teste e le sbatto una contro l’altra!»
Il tono secco di Rebecca li zittì all’istante.
Tommaso aprì un occhio e sbirciò inquieto la madre.
«Insomma, voglio sapere cos’è successo!» disse ancora lei, con voce bassa ma minacciosa.
I due scattarono sull’attenti.
«Abbiamo portato Tommi al parco» iniziò Jack «Stava giocando a palla quando è arrivato Ben. Io e lui… abbiamo litigato. Ero furioso per come si sta comportando e… bè, gliel’ho detto e ci siamo messi a litigare di brutto e…»
«Becky, non sono stata abbastanza attenta!» gemette Carolina «Davvero, non so come ho fatto! Stavo controllando Tommi, poi mi sono girata un secondo… e lui era già quasi in strada! E arrivava una macchina!»
Becky chiuse gli occhi e deglutì a vuoto.
«Colpa mia» fece Jack «Solo colpa mia, perché io e Ben abbiamo alzato la voce, come due idioti… Non è stata Carolina, lei voleva solo assicurarsi che non arrivassimo alla mani…»
«Sì, ma comunque…» lo interruppe Caro.
«No, davvero, tu non potevi… Siamo stati noi! Con un bambino piccolo lì vicino! Ma cosa mi dice la testa?»
«Ecco, ottima domanda!» lo gelò Rebecca «Se fosse successo qualcosa a Tommi, io…»
Carolina rabbrividì, poi disse:
«Appena ci siamo accorti che stava andando in strada siamo corsi tutti e tre… ma Ben era il più vicino. E… bè, è saltato in avanti per prenderlo. Solo che una macchina… l’ha investito»
 
Rebecca chiuse di nuovo gli occhi.
Com’era possibile?
Pensava che non potesse esserci niente di peggio di quegli stupidi sentimenti che provava e che avevano rotto l’armonia della sua vita… e ora questo!
Suo figlio che rischiava di essere investito.
Ben che era stato investito per davvero, al posto suo.
 
Batté le palpebre e Jack e Carolina si fissarono, guardinghi, temendo un suo scoppio d’ira.
Invece lei si limitò a chiedere:
«E Ben?»
Jack si morse un labbro e fu l’amica a rispondere:
«La macchina l’ha preso in pieno. Penso che… di sicuro ha una gamba rotta, perché era piegata in modo… in modo innaturale, ecco. E si teneva le mani sul ventre, ma non so… Comunque ha protetto Tommi, ecco. È stato proprio… eroico. Era a terra e sanguinava, ma quando ha visto che Tommi si era spaventato e piangeva lo ha stretto e non ha detto nulla, non ha fatto nemmeno un gemito…. Anche se probabilmente stava male come un cane: era pallido da far spavento!»
Scese il silenzio.
Jack affondò il viso tra le mani; dopo un attimo Carolina si protese per mettergli una mano sulla spalla.
Becky abbassò gli occhi sul bambino, il suo bambino così simile a Ben.
«Che cazzo ho fatto» mormorò Jack «È tutta colpa mia…»
«No, non è vero» Carolina, che fino al giorno prima sembrava non aspettare altro che tirare il collo ai due fratelli, ora gli parlava dolcemente «Non sei stato tu! Lo vedrebbe anche un cieco che adori tuo fratello e quello che gli hai detto… bè, lo hai fatto per lui! Se lo meritava e aveva bisogno di una bella svegliata! Non potevi sapere che…»
Le sfumò la voce.
Tommi smise di prendere il latte e lanciò un vagito stanco.
Rebecca prese a cullarlo automaticamente.
Lui le tirò una ciocca di capelli, come comprendendo che – per una volta – sua madre non gli stava dando la sua totale attenzione.
In quel mentre arrivò un medico, che chiese:
«Barnes? O almeno… Si dice… Barnes?»
Saltarono tutti e tre in piedi.
«Chi di voi è parente?»
«Io sono il fratello!» disse Jack.
Il medico lo guardò con occhio critico ma l’accento inglese parve convincerlo.
Quindi guardò le due ragazze e il bambino.
«Va bene. Se vuole seguirmi… Per la privacy, capisce»
«Senta, non perdiamo tempo! Come sta mio fratello?»
Quello sospirò seccato.
«Al momento è in sala operatoria»
Jack e Rebecca sbiancarono.
«Perché?» chiese Carolina, l’unica che aveva ancora voce.
Il dottore la guardò seccato.
«Posso parlare solo con i familiari. Mi scusi, lei chi è?»
Jack fece per afferrarlo per il bavero ma non fece in tempo, perché Becky si  intromise:
«Io sono la moglie. Che ne dice di smetterla di perdere tempo?»
Il dottore la guardò dall’alto in basso, chiaramente sospettoso.
«Mi scusi, ma mi riesce difficile crederle e la privacy è una questione molto seria per l’ospedale e…»
«Spero allora non voglia chiedere anche il test del DNA per nostro figlio» ribatté lei, implacabile «Ma se preferisce, mentre lei ciancia di burocrazia, io vado a chiamare i carabinieri per una denuncia, perché mi fa perdere tempo mentre mio marito viene operato!»
Il medico guardò tutti e tre, furioso, ma poi cedette.
«Molto bene. Suo marito sta subendo una splenectomia, ovvero un intervento di asportazione della milza»
«Perché?» chiese Jack, che non aveva capito niente.
«Perché l’incidente gli ha causato un forte trauma addominale: abbiamo operato d’urgenza perché c’era già rottura traumatica e il rischio di emorragia era troppo alto»
Jack si grattò la testa; Becky gli tradusse velocemente le parole del medico.
La voce non sembrava nemmeno la sua, da quanto era fredda e impersonale.
«Altro?» chiese poi al medico.
Quello annuì.
«La gamba destra è fratturata in due punti. Abbiamo ridotto la frattura prima di portarlo in sala operatoria, ma dovrà vederlo un ortopedico: forse serve una vite, in quel caso si tratterebbe di un secondo intervento»
Becky annuì e poi scivolò sulla sedia.
Accarezzò in automatico i capelli del figlio e il dottore esitò poi chiese con voce burbera:
«È questo il bambino che ha protetto? Continuava a chiedere come stava suo figlio»
A quelle parole, gli occhi di Rebecca si riempirono di lacrime.
Annuì, con le labbra che le tremavano.
«È un bambino bellissimo» disse ancora il medico, quasi rabbonito «Somiglia molto a suo marito»
 
Becky aprì la bocca per dire qualcosa, invece scoppiò a piangere.

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Capitolo 17
*** Qualcosa che andava detto ***


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Una volta, quando recitava in teatro, Ben si era rotto due costole sul palco, mentre era in scena la prima.
 
Aveva stretto i denti ed era andato avanti, mentre ogni secondo era un’agonia: non aveva mai provato un dolore del genere.
 
Sbagliato.
 
Ora sapeva cos’era il vero dolore.
Gemette, riemergendo dal torpore dell’anestesia.
Dov’era?
Cos’erano quelle luci bianche?
Perché si sentiva bruciare?
Un paio di persone si affacciarono nel suo campo visivo.
Ma chi erano?
Non le aveva mai viste.
Avevano camici e mascherine quindi… erano medici?
Era in ospedale?
Ma cos’era successo? Un incidente sul set?
Gli parlavano in una lingua strana… rispose in inglese e la voce non sembrava la sua, stava biascicando.
Quelli facevano domande, sembravano perplessi.
Poi, una voce disse:
«È inglese, non italiano»
 
Lui aggrottò la fonte.
Conosceva quella voce.
Parlava...italiano?
Batté le palpebre.
Poi sentì un tocco leggero su una mano e un altro viso si profilò davanti ai suoi occhi.
Li conosceva, quegli occhi.
Li aveva visti ridere e li aveva visti piangere.
Li aveva guardati mentre faceva l’amore.
Li aveva addirittura sognati, qualche volta.
 
Gli tornò tutto in mente in un secondo e il panico lo invase.
Cercò di muoversi ma il corpo non rispondeva.
Lei gli posò le mani sulle spalle, delicatamente.
«Fermo, non muoverti. Ti farai male»
«Becky» ansimò lui «Tommaso! Dov’è Tommaso?»
Rebecca sorrise dolcemente e si sedette sul bordo del letto.
Gli accarezzò il viso lievemente e lui si calmò quasi subito.
Era… quanto tempo era che lei non lo sfiorava neppure?
Aveva quasi dimenticato quanto poteva essere dolce.
E non avrebbe avuto quel sorriso se fosse successo qualcosa al piccolo.
Ben chiuse gli occhi, esausto, e lei gli sfiorò i capelli.
«Tommi sta bene. L’ho portato dai miei, è tardi. Doveva dormire un po’»
Lui riaprì gli occhi e lei osservò il viso pallido e le occhiaie scure.
Si stupì del senso di tenerezza che la invase.
Era così indifeso, in quel momento.
Come Tommi.
E aveva bisogno di lei.
«Si è spaventato?»
Becky annuì.
«Sì, credo proprio di sì… Non ha pianto molto, ma è stato stranamente silenzioso e voleva stare sempre in braccio a me o a Jack. Per farlo addormentare ci ho messo un’eternità, non voleva restare solo»
Ben si morse un labbro.
«Mi dispiace, mi dispiace così tanto! Non odiarmi, ti prego!»
Lei sgranò gli occhi sentendo il tono accorato di lui.
«Ben…»
«Non volevo che si facesse male! Non volevo! Hai ragione quando… quando dici che non sono capace di fare il padre! Io…»
Becky gli prese il viso tra le mani.
«Certo che non ti odio! Tu… tu lo hai protetto. Ti devo tutto, Ben»
Lui scosse il capo, poi fece una smorfia.
«È stata colpa mia! Stavo litigando con Jack e…»
Lei gli posò un dito sulle labbra.
«Sì, siete stati irresponsabili, perché con un bambino bisogna avere sempre mille occhi. Ma non lo avete fatto apposta. Poteva capitare a chiunque…»
«A te non sarebbe successo» mormorò lui «Sei una madre fantastica»
Becky batté le palpebre.
«Oh» mormorò, confusa dalla sensazione che quelle parole le avevano provocato «Sapessi… Una volta mi è caduto mentre lo cullavo… Pensavo di essere la madre più idiota del mondo!»
Ben sorrise debolmente e il mondo le sembrò meno cupo, tutt’a un tratto.
«Lo dici per consolarmi»
«Magari. Mi è caduto davvero! E quella volta che è caduto giù dall’altalena e si è lussato la spalla? Ha pianto così tanto che credevo di impazzire!»
Ben stava ancora sorridendo, ma i suoi occhi si velarono.
«Ho perso così tanto, di lui…»
Becky non sapeva cosa dire.
Gli accarezzò i capelli e chiese:
«Come ti senti?»
Lui esitò un attimo e poi rispose:
«Bene»
Lei ridacchiò.
«Che bugiardo penoso che sei… e dire che sei un attore!»
Lui fece una smorfia, ma lei tornò seria all’improvviso.
«Ben, scusa se te lo dico così, ma… Temo ci sia un problema con il tuo agente. Jack lo ha avvertito dell’incidente e lui si è… arrabbiato e ha detto qualcosa sul contratto del nuovo film e poi…»
Rebecca annaspava e Ben fece un cenno d’assenso.
«Ha parlato di penale, vero?»
Lei tergiversò, poi annuì.
«Lo sapevo. Non mi sono presentato sul set»
«Ma…perché?»
«Perché volevo venire da te»
«Ma… sei qui da più di una settimana e…»
«Sì. Io… io non riuscivo a decidermi ad andare via, ecco»
Becky si zittì.
«Quanto mi sono fatto male?» chiese poi lui.
«Un…un po’. Hai una gamba rotta. E… ti hanno asportato la milza»
Lo sguardo di lui era vacuo e lei tradusse in inglese.
«Ah… quindi immagino che non andrò sul set per un bel po’» si limitò a commentare.
«Mi dispiace»
«Non devi dispiacerti. È stata colpa mia»
«Ma il film…»
«È solo un film. Non importa»
Rebecca sorrise, esitante.
«Non credevo sarebbe arrivato il giorno in cui ti avrei sentito dire una cosa del genere»
«Già. Però, se penso che potevi perdere Tommaso… E potevo perderlo anche io… Bè, non è così grave. Pagherò la penale. E se mi faranno causa… pazienza»
«Causa?» trasecolò lei «Ma non possono? O sì?»
Lui fece un cenno con il capo.
«Non preoccuparti. Non fa nulla»
«Ma Ben… Non è giusto! La tua carriera! E…ci tenevi tanto a questo ruolo, l’hai detto tu! E poi, a prescindere, non è proprio giusto e…»
«Becky» la interruppe lui «Io…»
Ma poi esitò.
«Sì?» chiese lei.
Lui scosse il capo.
Sembrava sofferente e Becky ebbe la sensazione che, se avesse lasciato perdere in quel momento, avrebbe commesso un errore. Avrebbe perso qualcosa.
 
Intrecciò le dita alle sue e attese.
«Io ci tengo, a lui» mormorò Ben dopo un po’, a voce bassissima.
Ed era chiaro, dal tono, a chi si riferiva.
«Lo dici come se fosse qualcosa di brutto» fece lei, dopo un po’.
«Per te è brutto?» chiese lui, ansioso.
«Certo che no, Ben»
«Ma… Pensavo che non volessi che io…»
Lei scosse il capo.
«Io… a prescindere da quanto il tuo ritorno possa spaventarmi, io mi preoccuperei davvero molto se tu… se non volessi bene a Tommi. A tuo figlio»
Era la prima volta che lo diceva e Ben trattenne il fiato.
«Io… io gliene voglio» disse precipitosamente «Solo che è tutto nuovo… e strano… e…»
Lei annuì.
«Lo capisco. Mi dispiace per come mi sono comportata, in spiaggia»
«Avevi ragione»
«Bè, comunque… Io devo ringraziarti, Ben. Ho un debito con te»
Lui scosse il capo.
«Bè… è anche figlio mio, no? Mi dicono che i padri hanno dei doveri…» scherzò.
Lei fece un sorriso stanco: si vedeva che era tesa.
«Farsi investire dalle auto in corsa?»
«Anche»
Ben le sorrise e lei sentì una stretta allo stomaco.
«Potevi ammazzarti» bisbigliò poi.
«Ho la pelle dura» minimizzò lui.
«Quella è la testa, semmai!»
Lui sorrise e le strinse piano la mano.
 
Si guardarono, in silenzio.
«Senti…»
«Senti…»
Parlarono insieme e poi arrossirono entrambi.
Il silenzio tra loro si riempì di aspettativa, quindi, mentre si fissavano, entrò un’infermiera.
Il momento passò e Rebecca si alzò dal bordo del letto con il cuore in tumulto.
Cosa stava succedendo?
Cosa stavano per dirsi?
Si passò una mano tra i capelli e mosse un paio di passi nervosi per la stanza, poi gettò un’occhiata veloce verso il letto.
Ben la stava guardando, in apprensione.
«Non vai via, vero?» chiese.
Lei si sentì trascinare verso di lui.
Si era ripromessa di trattenersi per ringraziarlo e poi tornare a casa da suo figlio, ma scoprì che non ce la faceva.
Non voleva lasciarlo solo.
«Certo che no» rispose «Resto qui con te»
«E Tommi?»
«Dovrò andare ad allattarlo… Anche se per cena mangerà la pastina. Il latte non gli basta più. Vorrei solo assicurarmi che sia tranquillo e che dorma bene…»
Stava straparlando.
Se ne accorse e si zittì.
«Non volevo che… Vai da lui, tranquilla. È più importante»
Di nuovo quel silenzio irreale e teso.
C’era qualcosa che andava detto… ma cos’era?
Becky aveva paura.
E, contemporaneamente, sapeva che stava aspettando qualcosa.
«Sì, è importante… Ma, se vuoi, posso aspettare che ti addormenti»
Lui annuì e chiuse gli occhi.
«Grazie»
L’infermiera si allontanò con un sorriso e Rebecca si accostò nuovamente al letto.
Ben allungò una mano e prese quella di lei.
Si strinsero le dita dolcemente, a vicenda.
«Hai sonno? Sete?»
Lui scosse il capo.
«Sono un po’ intontito…»
«È l’effetto dell’anestesia. Cerca di dormire…»
Lui rafforzò la presa sulla mano di lei, come se avesse paura che gli sfuggisse.
«Raccontami qualcosa» mormorò, già con gli occhi chiusi.
«Cosa?»
«Di Tommi. Raccontami di lui»
Becky gli lisciò il lenzuolo sul petto, a corto di parole.
Strano.
Del figlio poteva parlare per ore, di solito…
«Cosa vuoi sapere?» mormorò.
«Raccontami di quando è nato»
«Oh. D’accordo. Dunque, era una sera di fine gennaio e non riuscivo a dormire bene… Avevo una pancia grandissima, sembravo una balena. Tommaso, poi, tirava dei calci assurdi di notte… Sembrava farlo apposta. Carolina e mia madre mi tenevano le mani sulla pancia per ore e lui niente. Mi mettevo a letto sperando di dormire e iniziava a rotolarsi»
Con gli occhi chiusi, Ben sorrise.
«Me lo immagino» disse, con voce assonnata.
«Già. Quella peste» ma il tono di lei era tenero «Comunque, avevo fatto tanta fatica ad addormentarmi e poi mi sono svegliata nel pieno della notte. Non riuscivo a riprendere sonno, quindi sono scesa in cucina a farmi del latte caldo. E mi si sono rotte le acque. Ed è ridicolo, perché lo sai da nove mesi che succede così… poi accade davvero ed è tutto assurdo. Siamo corsi in ospedale e continuavo a pensare “Sto per avere un figlio. Sto per avere un figlio”… Mi sembrava irreale!»
«Poi?» bisbigliò lui.
«Poi… Un sacco di attesa. Controlli. Camminate nei corridoi. E poi… bè, fa un male cane»
Era un riassunto un po’ approssimativo, ma cosa poteva dirgli?
«Mi dispiace» fece lui «Chi c’era con te?»
«Mia madre. E poi, dopo tredici, infinite ore – le più lunghe della mia vita – Tommi è nato e allora… Non so spiegarlo. Era come se tutto avesse un senso. Tutto era più bello. E lui… bè, era stupendo. Così piccolo e già così perfetto! Me lo hanno appoggiato sulla pancia e… Mi sono dimenticata di tutto: le ore precedenti, il dolore, la paura… C’era solo Tommi»
Ben sorrise di nuovo e mormorò:
«Avrei voluto essere qui, con te»
 
Poi scivolò dolcemente nel sonno e Becky rimase a lungo a guardarlo dormire.


***
Buongiorno!
Come state? Iniziato bene la settimana?
Io sono piena di lavoro....
Ma veniamo alle cose serie: mancano due capitoli alla fine di questa storia (e per chi legge anche "Il principe e la strega" sarà una coincidenza strana... Ma giuro che è solo una coincidenza!!), ma per questa non è previsto un seguito. Quindi, a meno di folgorazioni improvvise (e sapete che mi capitano!), il prossimo progetto per questo fandom è riprendere Gin&Ben *e sarebbe pure ora!*
Per tutti gli aggiornamenti sulle mie storie sapete dove trovarmi: 
https://www.facebook.com/Joy10Efp
Buona lettura!
Joy

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Capitolo 18
*** Perchè vi amo entrambi ***


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La convalescenza di Ben fu lunga ma tranquilla e la cosa stupì molto Rebecca.
 
Ben era per carattere impaziente e già solo il fatto che non fece storie sul restare a letto fu una cosa abbastanza straordinaria.
Conoscendolo, lei sapeva che odiava stare fermo e che si annoiava a morte, per cui due giorni dopo l’intervento si presentò in ospedale con Tommaso.
Aveva esitato, all’inizio, perché l’idea di portare il suo bambino in un ospedale le sembrava poco igienico, però…
Però voleva farlo per Ben.
Trascorse molte ore ad indagare i motivi di questa decisione senza venire a capo di nulla, poi scrollò le spalle e si decise.
E fu premiata dall’occhiata raggiante di Ben quando li vide comparire.
Dal letto, tese le braccia verso il piccolo con una naturalezza che non aveva mai dimostrato prima e Becky glielo affidò.
«Ehi, ciao» mormorò Ben a Tommi, mentre se lo appoggiava contro la gamba sana «Come stai?»
Tommaso lo studiò perplesso, sbattendo gli occhioni, e Becky sperò che non si mettesse a piangere - come a volte faceva se l’adulto che lo prendeva in braccio non era di suo gradimento in quell’istante – perché era certa che Ben ci sarebbe rimasto malissimo.
Invece, il piccolo fece un sorriso enorme e mormorò qualcosa nel suo linguaggio balbettante.
Ben sorrise in risposta, intenerito, e si chinò a baciare il bambino sui capelli.
Becky si morse un labbro.
Erano due gocce d’acqua.
Seduta sul bordo del letto di Ben, mentre lui coccolava il bambino, fu colta dalla folle idea che chiunque, guardandoli, avrebbe potuto vedere una famiglia felice.
 
 
Ed era bellissimo.
Fu il pensiero che la accompagnò nelle settimane successive.
Quando fu dimesso dall’ospedale, Ben aveva comunque la gamba ingessata e, inoltre, doveva destreggiarsi tra farmaci e vaccini e quant’altro serviva per la sua convalescenza, per cui soggiornare in un B&B senza ascensore e senza aiuto a parte quello di un fratello che aveva ancor meno dimestichezza di lui con la lingua era escluso.
Motivo per il quale…
 
«Vieni a stare da me» gli propose Becky dopo una settimana dall’incidente.
Ben l’aveva fissata guardingo, ma lei aveva insistito.
«Non puoi volare a casa e non puoi stare da solo! E non dirmi che stai con Jack, perché sai benissimo che parla male l’italiano e come farebbe con i medicinali, le prescrizioni e tutte le cose da fare?»
«Ma non… Non sarebbe troppo disturbo per te?»
«Te l’ho proposto io. E poi semmai sarà disturbo per te: non hai idea di cosa significhi avere un bambino piccolo per casa»
«Ma… ti va bene che io stia vicino a Tommi?»
Lei lo guardò esasperata: Tommaso si era appena addormentato in braccio a suo padre.
«Vicino più di così?»
Lui sorrise, ma poi tornò subito serio.
«Senti, non abbiamo più parlato della discussione di quella mattina in spiaggia, però io…»
Lei alzò una mano.
«Non è il momento, ne riparliamo poi…»
«Invece è un momento buono quanto un altro» si impuntò lui «Mi sono rotto una gamba, non la testa: posso parlare con te»
 
Rebecca giocherellò nervosamente con il bordo del lenzuolo.
Era lei che non era pronta, perché non sapeva più come si sentiva riguardo a Ben.
Né riguardo a Ben che vedeva Tommaso ogni giorno.
Né riguardo a nient’altro.
Le sue giornate si erano ridotte a Tommaso e Ben.
Non voleva occuparsi di altro.
E, dentro di lei, sapeva che avrebbe dovuto imporsi di smetterla, che tutte le sue preoccupazioni non erano sparite, ma non ce la faceva.
Guardava Ben giocare con Tommaso, parlargli, e il tempo si fermava.
Le sembrava assurdo, a volte, temere che potesse portarle via il bambino.
Insomma… era Ben.
Sì, era stato infantile ed egoista, ma era anche dolce e onesto.
E sembrava essersi affezionato molto a Tommi, ma doveva ammettere che le riconosceva autorità totale sul bambino.
La subissava di domande, voleva sapere tutto.
E quando Becky diceva che Tommi doveva mangiare, o dormire, o andare a casa, lui subito annuiva e salutava il piccolo.
Era quasi divertente, considerando quanto era stato difficile, mentre stavano insieme, avere da Ben un’abnegazione simile.
 
«Io volevo scusarmi» iniziò lui, strappandola dalle sue riflessioni «Volevo scusarmi per come mi sono comportato, per non esserti stato vicino… Ma ancora di più per essere una persona che non hai nemmeno sentito il bisogno di coinvolgere. Perché io sono… inutile»
Rebecca sgranò gli occhi.
Al diavolo, non ce la faceva.
«Ben, ma cosa dici?» gli prese la mano «Stai scherzando? Io non ho mai pensato che tu sia inutile!»
Lui scosse il capo.
«Avevi ragione su tutto quello che mi hai detto e… Sai, me lo chiedo ancora ogni notte, dopo che porti via Tommi. Mi chiedo cosa avrei fatto se me lo avessi detto e mi vergogno ma penso che probabilmente non avrei fatto nulla…»
«Posso capire che ti importa più della carriera. Non lo condivido ma posso capire. Però Tommi è un impegno senza scappatoie, Ben» ribatté lei, tornando subito severa.
Poteva anche essere impazzita e non capire più nulla, ma suo figlio veniva prima di tutto.
L’istinto di proteggerlo, se non altro, lo aveva ancora.
Lui annuì.
«Certo, capisco. Becky, però io ora lo conosco. Quella sarebbe stata una scelta fatta da un vigliacco e stupido ragazzo che credeva di essere un attore di successo»
Lei fece un sorriso triste.
«Tu sei un attore di successo»
«Quando sono con Tommi non mi ricordo nemmeno com’era la mia vita a Los Angeles. Mi sembra così…vuota»
Rebecca si trattenne appena in tempo dall’annuire, ma lui sembrò leggerle nel pensiero.
«Mi hai sempre detto che mi circondavo di persone vuote e che non stavo costruendo niente di duraturo»
«Non avrei dovuto…» iniziò lei.
Lui la interruppe:
«Avevi ragione. O almeno… Per quanto io tenga alla mia carriera, resta il fatto che ho perso tanto di mio figlio. E che ho perso te»
Alzò gli occhi per guardarla e Rebecca avvampò.
«Ben… Litigavamo tanto ed era così brutto…»
«Però prima non era così!» disse lui «Eravamo così felici e io… Non avevo mai capito cosa significa poter avere qualcuno accanto in un momento difficile. A Hollywood è tutto così dorato e semplice e superficiale… Ma ora che sono qui mi sembra irreale»
Becky trattenne il fiato.
Non sapeva cosa dire.
Ben le accarezzò la mano e poi mormorò:
«Becky, io… Ci sono possibilità che tu mi permetta di rimediare?»
 
Oddio.
 
«Perché me lo chiedi?» rispose, brusca.
Lui parve spiazzato.
«Me lo chiedi per me o per Tommi? Perché se lo chiedi per Tommi sappi che non devi fare questi giochetti: so che ti sei affezionato a lui e qualunque siano le decisioni che prenderò… che prenderemo, forse… in futuro, non devi osare tirare in ballo me perché pensi che così potrai avere lui!»
Gli occhi di lei erano fiammeggianti e Ben si sorprese a pensare che aveva dimenticato quanto Rebecca fosse passionale.
Gli sembrava che le modelle che frequentava in America fossero passionali e disinibite, ma si scoprì a ricordare particolari di lei così veri e autentici che per fortuna aveva suo figlio addormentato in braccio, altrimenti…
Abbassò lo sguardo su Tommaso e provò quella fitta di ansia, gioia e paura a cui era ormai si stava abituando.
Che fosse… amore?
«Te lo chiedo per te, testona» mormorò «Certo che voglio Tommi. Ma voglio anche te»
«Ben, se pensi di intraprendere una qualunque azione legale nella tua vita per la custodia di mio figlio, allora io…»
«Cosa?» lui alzò gli occhi, attonito «Ma cosa stai dicendo? Sei pazza? Dopo quello che ho fatto, pensi che io potrei mai…»
Lei si morse un labbro.
«Non lo so. Ma voglio saperlo»
«Non lo farei mai» rispose lui, arrabbiato «E il fatto che tu pensi una cosa del genere di me è davvero offensivo!»
Rebecca rifiutò di concedergli il ruolo dell’oltraggiato.
«Io sono preoccupata per lui!» ringhiò.
Tommaso si mosse nel sonno ed entrambi assunsero un’aria colpevole temendo di averlo disturbato.
«Non lo farei mai» mormorò poi Ben «Lo giuro»
«E allora cosa vuoi?»
«Tutti e due voi»
Le rivolse un’occhiata che le sciolse il cuore.
«Noi non siamo due oggetti che puoi possedere» mormorò lei, con il cuore in gola.
«Non voglio possedervi» le strinse la mano «Vorrei solo poter stare con voi»
«Cambierai idea» fece lei, triste «Te ne pentirai e ci lascerai e allora io…»
«Non cambierò idea!» Ben spostò il peso di Tommaso sul braccio e si sporse verso di lei «Perché vi amo entrambi, testona!»
 
***
Buongiorno!
E così, ci siamo: manca solo l'epilogo.
Contrariamente al trend di questa storia, vi dico già che l'epilogo sarà lungo almeno il doppio rispetto agli altri capitoli!
Detto questo, io devo scrivere mille storie. Il programma al momento comprende: il seguito de "Il principe e la strega" (11 capitoli sono pronti), "Eternity", "And the reason is you", il seguito di "Orgoglio e pregiudizio", una OS fandom Vampire academy che è pronta, un nuovo progetto sempre Vampire Academy che per il momento resta lì, così che possiate tutti leggere "Last Sacrifice" e intanto io riprendere fiato dal resto....
Sì, bene: ce la farò?
Per saperlo sapete che dovete venire a cercarmi qui:
 https://www.facebook.com/Joy10Efp
Grazie di esserci!
Buona lettura,
Joy

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Capitolo 19
*** Epilogo ***


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Un anno e mezzo dopo

 
 
 
Ben si sistemò il nodo della cravatta davanti allo specchio.
 
Storse il naso, osservando la sua immagine riflessa, poi si passò una mano tra i capelli corti e tirati indietro con il gel.
«Hai due orecchie enormi!» rise Jack, piombandogli alle spalle all’improvviso.
Ben gli diede una spintarella scherzosa ma storse di nuovo il naso: le orecchie erano un suo punto debole e quel simpaticone di suo fratello lo sapeva benissimo.
Carino, a ricordarglielo oggi.
 
«Ready, guys?»
Entrambi si volsero, sorridendo, verso loro padre, che entrava in quel momento.
Jack tese al padre una tazza di caffè e Ben alzò gli occhi al cielo.
«Smettila di bere caffè. Ti fa male!»
«Figurati» rispose quello, impenitente «Sei tu quello già nervoso, non io!»
«Io sono calmissimo» rispose il fratello maggiore «Tu non dovresti essere così tranquillo, invece. La tua fidanzata non ti ha dato buca?»
«A me le donne non danno mai buca, caro il mio fratellone. L’ho mollata io»
«Certo, certo, come no»
«Ti dico di sì!»
«Ma se dicevi che era quella giusta, stavolta…»
Jack alzò il naso di fronte allo sguardo divertito del fratello.
«Sentitelo, l’esperto delle relazioni sentimentali! Non era affatto quella giusta… E poi venire in Italia con lei al seguito sarebbe stato un errore tattico imperdonabile!»
Ben seguì lo sguardo del fratello, rivolto fuori dalla finestra, e vide Carolina che, in un abito azzurro, portava tra le mani un cesto di fiori.
Tornò subito serio.
«Jack, scordatelo di provarci con lei, sono stato chiaro?»
«Non fare il rompipalle»
«Non fare il coglione!»
«Senti, ma comunque lei è maggiorenne…»
«Senti tu, lei è mia amica e tu…»
«Sono tuo fratello!»
«Questo non fa comunque di te uno che presenterei a una mia amica!»
Si guardarono in cagnesco e loro padre ridacchiò, poi i suoi occhi si illuminarono quando vide qualcuno in corridoio.
 
Tommaso entrò di corsa, chiamando a gran voce:
«Papà! Papà!»
Ben si chinò immediatamente per accogliere il figlio tra le braccia.
Lo strinse forte e poi lo sollevò e lo lanciò in aria, facendolo ridere.
Con Tommaso avvinghiato al collo, ripensò alla prima volta che il piccolo lo aveva chiamato “papà”: lo avevano portato a fare una passeggiata in montagna e il bambino stava raccogliendo dei sassi e lo tirava per la mano per farsi seguire. Ben si era voltato per aspettare Becky e Tommi, impaziente, lo aveva chiamato “papà”.
Lui si era messo a piangere senza ritegno.
Becky lo prendeva ancora in giro, ma non gli importava.
Non avrebbe mai creduto di poter provare tanta gioia, tanto amore per un essere così minuscolo e adorabile.
 
Baciò il bambino e disse:
«Ciao, ometto! Sei pronto?»
Tommaso annuì, entusiasta.
Ben gli sorrise: suo figlio era vestito come lui ed era bellissimo nella sua giacca scura e con il papillon dello stesso colore della sua cravatta.
Thomas Barnes si schiarì la voce, emozionato.
Suo figlio e suo nipote erano due gocce d’acqua.
Ancora era strano, per lui, vederli vicini.
Jack arruffò i capelli del nipotino.
«Io e te oggi stiamo seduti vicini, ok?»
Tommi arricciò il naso in una smorfia che era la copia di quella di Ben e i tre uomini sorrisero, inteneriti.
«E nonno?» chiese il piccolo, adocchiando Thomas.
Lui sorrise, estatico, anche se ancora non capiva bene l’italiano.
Lo stava però studiando, insieme alla moglie.
Tommi si divertiva moltissimo a sentire i nonni che parlavano una strana lingua che mescolava parole note a parole che invece erano stranissime.
Anche il suo papà a volte diceva parole strane come i nonni e lui non lo capiva, ma parlava sempre e comunque benissimo.
«Nonno sta vicino a voi, amore mio» rispose Ben.
«E mamma?»
«Mamma è molto impegnata con papà, piccolo! Ma saremo vicinissimi a te e a zio Jack, va bene?»
«E a zia Carolina» fece Jack, sornione.
Ben gli lanciò un’occhiataccia, mentre Tommi ci pensava su.
«Sì sì» disse poi.
Ben gli diede un altro bacio.
«Tommi, vuoi fare le foto?» gli chiese Jack.
Ben passò il bimbo al fratello, mentre quello annuiva.
«Con papà?» chiese poi, con un sorriso irresistibile.
E Ben, che stava proprio per dire che non intendeva assolutamente passare la mattinata davanti all’obiettivo, si scoprì incapace di deludere suo figlio.
Quindi lo riprese per mano e uscirono insieme in giardino.
 
*
 
Quando Becky scese dall’auto, si prese un momento per guardarsi attorno.
 
La chiesetta del paesino in cui era stata battezzata era davvero un gioiello.
Non credeva che questo giorno sarebbe mai arrivato.
Carolina le si affaccendava attorno, sistemandole l’abito.
«Fatto» sorrise «Sei stupenda!»
Rebecca sospirò, nervosa, e alzò una mano per sistemarsi i capelli.
«Becky!» strillò l’amica, inorridita «Cosa combini? Sei matta? Lascia stare i capelli!»
L’altra sobbalzò e disse con aria colpevole:
«Oh scusa!»
Carolina sbuffò.
«Se lo avesse fatto una tua sposa saresti uscita di testa!»
«Veramente ho modi molto più carini dei tuoi!» la prese in giro l’amica.
Carolina borbottò, allegra:
«Ma tu sei la mia sposina e quindi valgono solo i miei modi!»
Becky rise e abbracciò l’amica.
«Ok, allora andiamo prima che Ben ci ripensi» scherzò.
«Se ci ripensasse dovrebbe fare i conti con me e sa che non gli conviene!»
«Ma se siete amiconi!»
 
Era vero.
Ben e Carolina erano passati dal tollerarsi a stento ad essere amici.
Chissà come.
Forse era stato perchè Ben, un giorno, le aveva detto che capiva perchè lei non lo sopportava e le dava ragione, visto come si era comportato.
O per i cambiamenti che Ben aveva fatto nella sua vita.
O per il rapporto che aveva ricostruito con Rebecca e Tommaso.
Carolina non lo sapeva, ma un giorno aveva iniziato a vederlo come un amico e non come la causa di tutti i mali del mondo.
Tuttavia, a volte le piaceva conservare la sua aria da dura, quindi sbuffò, ignorando l’occhiata scettica dell’amica.
Poi le abbassò il velo.
«Forza» disse «È l’ora del tuo matrimonio!»
 
*
 
La cerimonia fu semplice ed emozionante.
Rebecca, con suo grande scorno, non riuscì a trattenersi e si mise a singhiozzare.
Ben, accanto a lei, era raggiante e le tenne la mano per tutto il tempo.
Tommaso trotterellò per tutta la chiesa reggendo il cuscino con gli anelli e, due minuti prima della sua processione trionfale per consegnarli al padre, ne perse uno che rotolò sotto un candelabro e che fu recuperato in tuffo da Jack.
Carolina si diede molto da fare per nascondere le risatine dietro il bouquet della sposa.
Marito e moglie erano raggianti, bellissimi e chiaramente innamorati pazzi, l’uno dell’altra ed entrambi del figlio.
Il pranzo fu allegro e animato da grandi risate; gli sposi sedevano a un tavolo riservato solo a loro e a Tommi.
Si imboccavano a vicenda e non smettevano di baciarsi, per cui il figlio, decisamente annoiato, se ne andò in cerca di una compagnia più divertente e arruolò lo zio e Carolina.
Jack non era affatto dispiaciuto della piega presa dagli eventi e, prima di sera, fu visto corteggiare alacremente la damigella d’onore.
Lei fingeva ritrosia, ma alla fine gli scrisse il suo numero di cellulare con il rossetto sulla camicia D&G.
Così, tanto per marcare il territorio.
 
Marito e moglie sarebbero andati in luna di miele in Patagonia e Tommi sarebbe stato con i nonni a Londra per tre settimane.
Rebecca non riusciva a darsi pace all’idea di stare lontana dal figlio per così tanto tempo e la sua ansia, alla fine, aveva contagiato anche Ben.
Erano stati Jack e Carolina, separatamente, a convincerli che meritavano qualche settimana solo per loro perché, tra il bimbo, il lavoro di Ben (che, seppure in tono molto ridotto, lui aveva ripreso) e quello di Rebecca non avevano mai modo di stare un po’ soli.
Gli sposi erano stati molto combattuti ma, alla fine, avevano acconsentito.
Razionalmente, inoltre, Rebecca capiva che la famiglia di Ben era assetata di momenti con Tommaso e ne era felice: non lo aveva confessato a nessuno ma all’inizio temeva che potessero non accettare lei e il bambino, che non li trovassero all’altezza.
Invece si erano precipitati in Italia dopo l’incidente di Ben, si erano innamorati a tempo record del nipotino e volevano bene anche a lei.
La madre di Ben le aveva confessato che non sperava che il figlio si sistemasse con una brava ragazza e, anzi, era molto preoccupata che il jet set americano lo distraesse troppo.
Certo, la signora tenne il muso a Ben per una settimana visto che lui non si era degnato di mettere lei e il marito a parte di una questione poco importante come la sua paternità, ma alla fine la vista del figlio malmesso - e pazzamente innamorato del suo appena scoperto nipotino - la fece scendere a più miti consigli.
 
Lei e Thomas avevano regalato agli sposi una casetta a Londra.
Così, “per qualche breve vacanza”.
In Italia avevano la casa di Rebecca e a Los Angeles Ben aveva un affitto per altri tre anni.
«Dove vivremo?» aveva chiesto una sera lei, disorientata.
Ben si era sporto sul divano per baciarla.
«Dove vuoi tu»
«Ma tu cosa preferisci? Los Angeles?»
«Non credo sia una buona idea trasferirci lì, considerando quanto è piccolo Tommi» aveva risposto lui, pensieroso, e lei aveva tirato un segreto sospiro di sollievo «Se vuoi, possiamo stare qui di base e, magari, qualche volta andare a Londra per brevi periodi»
Becky aveva sorriso e lo aveva  abbracciato.
«Dici così perché hai paura di tua madre» aveva scherzato.
«Ho più paura che mi lasci tu» aveva risposto lui, ridendo.
Lei aveva rimirato il diamante che le brillava all’anulare: Ben le aveva fatto la proposta sei mesi dopo essersi trasferito da lei e quattro mesi dopo che era diventato palese a tutti che non se ne sarebbe più andato.
«Mmm… Non so. Io sono una che tiene fede agli impegni»
«Per mia fortuna, amore mio» aveva bisbigliato lui prima di baciarla.
«E il tuo lavoro?» aveva poi chiesto lei.
Ben aveva scrollato le spalle.
«Non penso che lavorerò più tanto come prima»
Lei si era fatta seria.
«Per via della causa con la casa di produzione?»
Alla fine erano andati davvero in causa, perchè l’incidente di Ben, che era il protagonista, aveva ovviamente bloccato le riprese del film.
Lui non aveva quasi battuto ciglio, mentre il suo agente era uscito di testa.
Era finita che Ben lo aveva licenziato ed era rimasto tranquillamente a fare la sua convalescenza in Italia.
Ogni giorno, segretamente, Rebecca temeva che lui le dicesse che era il momento di salutarsi.
Ogni giorno, invece, lui sembrava più tranquillo, rilassato e innamorato del suo bambino.
I giorni erano diventati settimane e le settimane mesi.
Gli avvocati si facevano la guerra oltre oceano ma Ben non si era mai presentato a nessuna riunione.
 
Incredibile.
 
E poi era arrivata la proposta di matrimonio e Rebecca aveva avuto l’impressione che un buco nella sua vita si colmasse, un buco che lei quasi non sapeva ci fosse.
Era un cerchio che quadrava.
Erano loro tre.
All’inizio aveva paura, ma tutto si rivelò facile.
E perfetto.
E giusto.
Tommi cresceva e suo padre si inserì nella sua vita con grande naturalezza, ma non cercò mai di sostituirsi alla madre, anzi.
Ben non si fidava di nessuno più che di Rebecca, per quanto riguardava il bambino.
Lei lo osservava e si stupiva di come era cambiato.
 
Poi arrivarono le nozze.
E Polinesia fu.
 
Ben e Rebecca partirono lasciando una casa in subbuglio: valigie degli sposi, valigie di Tommaso, bagagli per la famiglia che sarebbe andata per un mese a Vancouver per un impegno lavorativo di Ben.
Lui aveva ridotto drasticamente gli impegni sul set: accettava solo copioni validi e che non lo avrebbero portato in luoghi sperduti, perché voleva sempre con sé la sua famiglia.
Inoltre, disertava i party e latitava da Hollywood senza rimpianti.
«La mia vita è dove sta la mia famiglia» diceva ad amici, colleghi e giornalisti.
Aveva scioccato parecchi, nell’ambiente.
E non gli importava affatto.
Rebecca era rimasta ad osservare in silenzio quelle decisioni: non voleva influenzare Ben su una scleta così importante per non scatenare future recriminazioni.
Ci erano già passati e lei voleva con tutta se stessa che stavolta funzionasse.
Ma segretamente doveva ammettere che Ben non le aveva più datro motivo di lamentarsi.
Seguirlo all’estero le piaceva, anche se sua madre era uscita di testa all’idea, la prima volta.
Insomma, Tommaso era troppo piccolo e l’America troppo lontana e lo sapevano tutti che l’ambiente del cinema era perverso.
Becky ci aveva pensato su, riconoscendo che solo qualche mese prima lei avrebbe detto le stesse cose, ma poi aveva deciso di partire lo stesso.
Lo doveva a Ben e al loro rapporto, se voleva che le cose funzionassero tra loro.
Lei non voleva più essere relegata a un ruolo subordinato, ma soprattutto non voleva che una cosa del genere toccasse a Tommaso.
Ma aveva sottovalutato la forza di volontà di Ben: una volta presa una decisione, era uno che non tornava indietro.
Inoltre, per loro figlio significava crescere ed aprirsi a più culture e questa era una cosa bellissima.
Era partita e non se ne era pentita un solo secondo.
Ben era presente, attento e responsabile e lei scoprì che dividere le responsabilità e le gioie la rendeva felice.
Enormemente felice.
 
 
Poco dopo il ritorno da Vancouver, Rebecca scoprì di essere di nuovo incinta.
Quando nacque Patricia Cecilia Barnes, Tommaso aveva iniziato a dire qualche frase in inglese, i suoi suoceri avevano acquistato una casa in Italia per stare più vicini ai nipotini e Jack e Carolina si erano messi insieme e poi lasciati.
E poi ripresi, a quanto pareva, visto che erano venuti a conoscere la piccola di casa insieme.
Ben era sempre il papà più perfetto del mondo, secondo Rebecca.
Era entrato in sala parto con lei e, sebbene avesse assunto un’allarmante sfumatura verde in faccia nel momento critico, non era svenuto, né aveva dato di stomaco, né se l’era presa per gli insulti di cui lei l’aveva coperto.
Poi, dopo un travaglio di otto ore, la piccola era nata.
L’avevano data a Rebecca e lei si era girata verso Ben, raggiante e dimentica delle ore precedenti.
Lui l’aveva guardata ed era crollato di schianto a sedere, ripetendo:
«Oddio. Oddio. Oddio»
Becky stava ancora ridendo quando avevano portato via la bambina per ripulirla.
 
Ora, a distanza di qualche ora, marito e moglie erano nella camera di ospedale in cui dormiva Rebecca e rimiravano la piccola, minuscola e perfetta.
Tommaso era appena andato via con i nonni, dicendo che secondo lui “quella nana era very strange”.
Ben sfiorò con un dito la manina della figlia e lei glielo strinse nel suo pugno.
Lui sorrise di gioia.
Becky lo osservava con il cuore gonfio di amore.
«Nessun rimpianto, alla fine, signor Barnes?» scherzò poi.
Lui si sporse a baciarla.
«Nessuno» rispose «Non c’è niente, assolutamente nient’altro, che conta per me»
 
 
 
 ***
Buongiorno!
Questa è la settimana delle chiusure delle mie storie, a quanto pare... Fa un po' strano, almeno a me!
Però una fine è anche il momento di fare un bilancio e come potrei, nel farlo, ringraziare tutti voi, che avete passato del tempo qui con me?
Un grazie speciale alle mie amiche adorate, a tutte le persone che mi hanno incoraggiata, ma anche a chi ha ricordato/preferito/seguito e a chi ha letto in silenzio.
Grazie del vostro tempo, spero di ritrovarvi ancora in una delle mie storie!
Sapete che questa storia non avrà un seguito, ma per tutti gli aggiornamenti su quello che combino qui su Efp mi trovate qui:
 https://www.facebook.com/Joy10Efp
Ancora grazie, di cuore!
A presto,
Joy

 

 
 
 
 

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