Scacchi

di Timcampi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Bianchi muovono per primi ***
Capitolo 2: *** Abilità ***
Capitolo 3: *** Schieramenti ***
Capitolo 4: *** Nient'altro che Pedoni ***
Capitolo 5: *** Strategia ***
Capitolo 6: *** Lo Scacchiere ***
Capitolo 7: *** Giocatori ***
Capitolo 8: *** I Bianchi e i Neri ***



Capitolo 1
*** I Bianchi muovono per primi ***


A Giu. In questo porto, ci siamo approdate insieme.




I BIANCHI MUOVONO PER PRIMI



Rico Brzenska, quindici anni d'età di cui gli ultimi otto trascorsi in una solitudine troppo nera per una bambina, contemplava il vuoto con occhi spenti, le braccia piegate in un rigido e impettito saluto militare e i piedi fastidiosamente infilati in quegli stivali troppo grandi.

Di tanto in tanto, mentre il capo istruttore inventariava il branco di ragazzini macilenti schierati come pedoni in divisa su una scacchiera polverosa, la ragazzina lasciava correre pigramente lo sguardo sui suoi compagni, i membri del settantasettesimo Corpo di Addestramento Reclute.

Vi erano i volti entusiasti o impauriti di coloro che non immaginavano cosa li attendeva; quelli spavaldi che proprio le solleticavano lo stomaco; quelli imbarazzati, di quanti credevano d'essere ancora a scuola; quelli affranti, sudaticci e tremolanti, di quei tanti che si stavano domandando cosa ci facessero, in un postaccio simile.

Ma il capo istruttore -un uomo grande e grosso sulla quarantina, con un lungo naso aquilino e gli zigomi sporgenti- non faceva eccezioni, né distinzioni: urlava e sputacchiava su ognuno di loro, in un buffo e ripetitivo rituale di passaggio: poco importava, in quel momento, la prestanza fisica, perchè era il modo in cui scandivi il tuo nome a stabilire quanti titani saresti stato in grado di affettare prima di divenire la colazione di uno di loro.

«QUAL È IL TUO NOME, RAGAZZO?!» brontolò per l'undicesima volta, puntando i piedi di fronte al suo ennesimo bersaglio: un ragazzo sull'attenti all'estrema sinistra dello schieramento, smilzo e acerbo, con un paio di spessi occhiali in bilico sulla punta del naso un po' aquilino e gli angoli della bocca sottile ricurvi nello sfontato accenno d'un sorriso eccitato. Poteva avere forse diciotto o diciannove anni.

Rico aggrottò la fronte e, senza neppure accorgersene, si ritrovò ad allungare il collo verso la sua direzione.

Il ragazzo sbattè ripetutamente le ciglia, si sistemò gli occhiali in cima al naso e sbattè nuovamente le ciglia.

E poi scoppiò a ridere.

Sguaiatamente, con una voce acuta e fastidiosa, e vagamente inquietante.

Un sincero stupore comparve negli occhi dell'uomo, chiaramente fin troppo abituato a incutere un certo sano timore da sapere come reagire a una risposta del tutto inattesa.

Ma il ragazzo, ripreso gradualmente contegno e asciugatisi gli occhi con le punte degli indici, non tardò a giustificare la propria reazione.

«Mi perdoni» mugolò, la voce ancora incrinata dalla risata «Mi chiamo Hanji. Zoe Hanji, signore»

Un fitto brusio si alzò dalle reclute, condito qua e là da vaghe risate e versi indistinguibili.

Il ragazzo dal fisico acerbo e dal volto sgraziato era in realtà una ragazza.

Il capo istruttore, senz'altro troppo orgoglioso per mostrare alcun cenno di costernazione, aggrottò la fronte e si schiarì la gola, mettendo a tacere il chiacchiericcio.

«Mi auguro che conserverai questa sfrontatezza per il titano che ti masticherà durante la tua prima missione fuori dalle mura, Zoe Hanji» ruggì. Ma la ragazza, nonostante i suoi sforzi, non si mostrò affatto impressionata.

«Può contarci, signore!» esclamò, con sincero entusiasmo. Un largo, sottile sorriso percorreva il suo volto olivastro.

Le labbra di Rico, al contrario, erano nervosamente sigillate e contratte.

L'uomo serrò le palpebre, incrociò le braccia al petto ed esalò un profondo, seccato sospiro.

«Topastri da esca che non siete altro» scandì poi, a voce tanto alta da farsi sentire in modo cristallino dall'intero corpo reclute. «Questo qui» additò la ragazza «è lo spirito giusto. Va incentivato, non punito. Voglio vedervi tutti quanti prendere esempio dalla vostra compagna d'armi, sono stato chiaro?»

Fece una pausa.

«E ORA MUOVI QUEL TUO CULO FLACCIDO E SPARISCI DALLA MIA VISTA! MILLECINQUECENTO GIRI DI CORSA INTORNO AL CAMPO, E POI VEDREMO SE AVRAI ANCORA LO STESSO ENTUSIASMO, ZOE HENJI»

«Hanji» ridacchiò in tutta risposta la ragazza, rompendo le righe non abbastanza rapidamente da evitare il calcio che centrò in pieno il suo fondoschiena.

Quella ragazza la infastidiva. I tipi come lei, spavaldi ed esageratamente sicuri di sé, trovavano posto nell'Armata Ricognitiva.

Ma lei, Rico Brzenska, avrebbe preso una strada diversa.

Avrebbe servito il re.

Certamente questo avrebbe significato restare dentro le mura, al sicuro, lontana dalla truculenza alla quale chiunque osasse metter piede nel mondo esterno finiva masochisticamente per sottoporsi, ma si era ormai convinta che la sua motivazione non fosse semplicemente quella d'aver salva la vita.

In ogni caso, fino a quanto le loro strade non si fossero divise, Rico s'augurò in cuor suo che quella ragazza sarebbe stata debitamente alla larga da lei. 
 

 



 

*PLIN PLON*
Se siete arrivati a leggere fin qui, sappiate che vi sto abbracciando col pensiero. 
Era tanto che non scrivevo fanfiction, e mai avrei pensato di scriverne su SnK, lo amo a tal punto che il timore di rovinarlo era davvero molto forte. E se l'ho fatto vi prego di perdonarmi. ç___ç
Questo è il primo pairing crack che mi sia mai capitato di amare, ma sono davvero, davvero felice di essermici affezionata tanto, e di aver cominciato questa fanfiction. Avevo in programma una one shot, in realtà, ma la cosa ha finito per sfuggirmi di mano, e mi sono accorta che sarebbe stata una one shot eccessivamente lunga. ;A; 
Se ci sono errori di battitura fatemelo sapere, io sono una talpa. 
E ditemi cosa pensate di questo inizio, se vi ha incuriosito, se ho perso la mano e dovrei legarmi le dita... Spero di rivedervi al prossimo capitolo! *^*



 

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Capitolo 2
*** Abilità ***


ABILITÀ

 

Drizzò di colpo il capo, quando un acuto fischio le suggerì che l'acqua era pronta. Riparandosi la mano con un panno appena umido, allontanò il bollitore d'acciaio dal focolare e lo posizionò sul tavolo. Stese con cura le foglie sul fondo della teiera e vi versò su l'acqua, stando ben attenta a non farla cadere direttamente sulle foglie ma ad un lato, sulle pareti tondeggianti del contenitore.

La sedia emise un lamento, quando Rico vi si abbandonò sopra, osservando la teiera con occhi vuoti.

Strofinò gli occhiali con l'orlo del grembiule da cucina con fare nervoso. Senza accorgersene, aveva cominciato a digrignare i denti, pigiando la mandibola contro la mascella fino a sentire le gengive dolerle.

Il fascio di luce pallida e giallina che filtrava attraverso le tende spesse -tende che Rico era più che determinata, quel giorno, a non voler scostare- cadeva sulla giacca color nocciola appesa alla per la collottola accanto alla porta d'ingresso: essa recava, elaborato e vistoso, l'emblema della Guardia Stazionaria.

Era ancora nuova fiammante e, per quanto non l'avrebbe mai ammesso, Rico avvertiva una lieve nostalgia di quella che l'aveva preceduta, sdrucida, logora, con quello stemma grigio e smorto cucito sulle spalle e sul taschino, lo stemma che distingueva le reclute.

Quasi ogni giorno, il suo lavoro consisteva semplicemente nel prestare servizio presso le mura, scandagliando coloro che le attraversavano o facendo attenzione che non ci fossero crepe o crolli di calcinacci e, in quel caso, rimediare. Più raramente, cioè quando qualche squadra dell'Armata Ricognitiva veniva spedita fuori dalle mura, gli ordini erano quelli di restare in cima all Wall Maria e di tenere ben aperti gli occhi in attesa del loro ritorno, e del segnale che avrebbe dovuto dare il via alle operazioni di routine: far allontanare quelle teste vuote dei titani dalle porte e accogliere i reduci.

Tenendo conto di quanto i membri della Guardia venivano pagati, in barba ai morti di fame che vivevano sgobbando con il fango alle caviglie sotto il giogo della Polizia Militare, il suo era un lavoro di cui nessuno avrebbe osato lamentarsi. Neppure Rico stessa, sebbene i suoi progetti originari fossero ben diversi e destinati a condurla a piani molto più alti, ancora più alti delle mura su cui, a volte, si trovava a dover trascorrere le sue giornate.

Comunque, quel pomeriggio non era in servizio. Ed era meglio così.

Non voleva essere là, quando fossero tornati.

Filtrò il suo tè nero dentro la tazzina di porcellana candida dalla quale s'alzò un nastro di fumo dello stesso colore, mentre un vago profumo di vaniglia saturava l'aria densa e carica di una tensione che neppure tutto il tè che possedeva avrebbe potuto placare.

Quel giorno, perfino il tè aveva un sapore disgustoso.

Era già trascorsa più di mezz'ora da quando, mentre stava rincasando, un fremente e rumoroso viavai di soldati tra le vie adiacenti alle mura aveva dato il via alle operazioni che precedevano l'arrivo dell'Armata, e la sottile colonna di fumo verde si stagliava ancora nel cielo, in lontananza, quando Rico aveva richiuso la porta di casa dietro di sé e aveva tirato le tende.

Nei minuti che avevano seguito, le strade s'erano popolate di gente accorsa da ogni angolo della città per presenziare all'entrata delle milizie dentro le mura, curiosa, chiacchierona, pronta a scommettere e a puntare il dito.

Trangiugiò controvoglia l'ultimo sorso, abbandonando poi il capo all'indietro, i grandi e limpidi occhi di ghiaccio sbarrati e traboccanti di pensieri appuntati sul soffitto.

Non era certo la prima volta, da quando era entrata nella Guardia Stazionaria, che succedeva: le vane gite suicide dell'Armata si susseguivano a un ritmo tristemente frenetico, coinvolgendo spesso soltanto una magra quantità di uomini esperti, di cui soleva tornarne a casa meno della metà. Ma stavolta, stavolta era toccato a tutti.

Morivano come moscerini nell'acqua. Soprattutto i nuovi arrivati.

Si morse violentemente il labbro inferiore, stringendo i pugni con forza per non cedere alla tentazione di spalancare le finestre e di cercare con lo sguardo qualche traccia, qualche soldato dallo sguardo sereno che le dicesse che l'operazione era stata un successo, e che tutti quanti erano tornati sani e salvi.

Questo, da che aveva memoria, non era mai accaduto.

Continuava a far guizzare lo sguardo dalla teiera alla finestra, dalla finestra alla porta, dalla porta alla teiera, senza sosta, fino ad essere assalita da un forte capogiro.

Poi, i suoi piedi si mossero da soli: s'alzò con tanta foga dalla sedia che quella cadde a terra, calzò in tutta fretta gli stivali e si precipitò alla porta.

Quando l'aprì, a farle ombra dalla luce bruciante di un tramonto di fuoco, trovò oltre di essa una sagoma familiare.

“Bentornata”, avrebbe voluto dire.

«Sei tornata» mugolò invece, le labbra piegate in una smorfia indecifrabile e gli occhi che si stavano facendo improvvisamente umidi. Fece correre lo sguardo lungo l'intera figura: era alta e vigorosa, molto più di quanto lei non fosse mai stata, e per quanto conoscesse ormai bene ogni centimetro del suo corpo non riusciva ancora ad abituarcisi, e credeva e sperava che questo non sarebbe mai cambiato; i suoi capelli erano più scarmigliati del solito, e molto sporchi; una crepa sottile percorreva una lente degli occhiali, mentre l'altra mancava. Forse avrebbe dovuto provvedere a costruirle un laccio simile a quello che utilizzava per tenere i propri al loro posto.

Gli stivali erano pieni di graffi, intrisi di fango secco ai lati e sulle ginocchia; la sua giacca, per quanto fosse nuova di zecca, era lacera e consunta; uno squarcio s'apriva sull'avambraccio destro, sul quale una patina di sangue ancora lucente ricopriva un profondo graffio da attrito.

Ma quello poteva aspettare ancora un po', si disse, gettando le braccia al collo della donna che, seppur restia a mostrarsi stanca morta, barcollò pericolosamente all'indietro.

«Ti aspettavi qualcosa di diverso, per caso?» brontolò Zoe Hanji, carezzandole il capo. Era lorda da capo a piedi di sangue, sudore e fango, ma non importava.

«Ho fatto del mio meglio per non aspettarmi niente» ammise Rico, emergendo dal suo petto con un alone di sporco stampato sulla fronte. Era adorabile. «Entra, sbrigati. Lascia che dia una controllata a quella ferita» mugugnò, voltandole le spalle e facendole cenno d'entrare in casa.

Zoe c'era stata soltanto una volta, in quella casa, poco prima di trasferirsi al Quartier Generale dell'Armata Ricognitiva. Quella era stata anche l'ultima volta che lei e Rico avevano potuto incontrarsi.

Era trascorso quasi un mese, da allora. Spedire lettere costava troppo, per non parlare dei telegrammi, ma un telegramma Zoe l'aveva spedito, proprio tre giorni prima, all'alba della prima missione a cui avrebbe preso parte, una missione a sorpresa, organizzata all'oscuro della gran parte dei membri dell'Armata per fini puramente dimostrativi, una missione suicida durante la quale aveva visto un numero impressionante di vite spezzarsi proprio sotto i suoi occhi, e che l'aveva costretta a lasciare le mura in tutta fretta.

Oh, ma la prossima volta sarebbe andata diversamente. Le sarebbe piaciuto un mondo vederla sventolare un fazzoletto per lei, sebbene sapesse perfettamente che questo non sarebbe mai e poi mai accaduto.

Così come mai avrebbe lasciato che le atrocità che -ora lo sapeva- avrebbe visto di lì alla fine dei suoi giorni trapelassero dalle sue parole o dai suoi occhi, una volta di ritorno dentro le mura.

Non in presenza di Rico, almeno.

«Siamo in congedo per quattro giorni» sorrise, con aria trionfante, prendendo posto e puntellando i gomiti sul tavolo, mentre Rico spariva per poi tornare armata di garze, di uno straccio e di una bottiglia scura, di cui Zoe non potè identificare il contenuto.

«Puoi restare, se è soltanto per quattro giorni e non hai un altro posto dove andare. Togliti la giacca. E... E la camicia» mormorò, aggrottando la fronte. Per quanto non volesse darlo a vedere, qualcosa dentro di lei esalò un profondo sospiro di sollievo.

Inoltre, sapeva perfettamente che l'altra non sarebbe potuta andare da nessun'altra parte.

Raccolse l'altra sedia dal pavimento e prese posto di fronte alla sua ospite.

«Diventi sempre più bacchettona, Rico» la punzecchiò quella, obbedendo docilmente a quell'ordine e osservandola divertita: non gliel'avrebbe mai detto, per timore che si voltasse dall'altra parte, ma era arrossita violentemente.

«Fa' silenzio» mugugnò la più giovane, cercando di concentrarsi sulla ferita e tamponandovi su il panno bagnato.

Le piacevano le sue braccia: erano muscolose, solide, toniche, ruvide. Zoe era ruvida. Lo erano i calli sulle sue mani, la sua bocca, le sue spalle, perfino la sua gola, finanche la pelle appena al di sopra e al di sotto del suo seno, fasciato in maniera strettissima. E Rico lo sapeva, conosceva quel corpo, perchè aveva passato gli ultimi tre anni a medicarne ogni singolo brandello.

«Com'è successo? E che accidenti ci hai strofinato sopra? È un disastro» osservò tra i denti, inondando la ferita d'alcol puro. E se quella roba bruciava abbastanza da costringere la temeraria paziente a contrarsi in una strana smorfia, aveva anche un odore che quasi le faceva girare la testa.

Ma Zoe si limitò a fare spallucce. Meglio non rischiare di farsi sgridare per aver centrato un albero tanto grande che probabilmente cinque uomini a braccia aperte non sarebbero riusciti a circondarne il perimetro, e neppure per aver cercato di rimediare usando un lembo del mantello inumidito con la propria saliva. Aveva proprietà disinfettanti, la saliva, ma preferiva evitare di menzionarle.

«Allora, com'è il comandante? In che razza di mani sei andata a cacciarti?»

«Il comandante Richter?» ridacchiò Zoe, sfilandosi gli occhiali ormai inutili e abbandonandoli sul pavimento, in cima al mucchio d'indumenti inutilizzabili. «Un pallone gonfiato. Il caporale, quello... Smith, quello sì che sa quel che fa. Più o meno. Se avessi seguito gli ordini per filo e per segno, probabilmente ora starei facendo venire un attacco di diarrea a uno di quei testoni» rise, portandosi distrattamente la tazzina vuota alle narici e annusandone rumorosamente il fondo.

Rico non sapeva bene se essere più in collera con lei per non aver seguito gli ordini o per l'aver corso il rischio di fare la fine del topo per colpa di un incompetente posto al vertice dell'Armata per chissà quale capriccio dei piani alti.

«Sei una completa irresponsabile» sibilò, completando finalmente la fasciatura e contemplando l'opera non senza una punta d'orgoglio. Era sempre stata brava, in questo genere di cose. «E anche un'imbranata» aggiunse.

«Mi prepareresti un bagno caldo?» sorrise l'altra in tutta risposta. Diede un paio di colpetti alla fasciatura. «Farò attenzione a non rovinarla.» precisò.

Rico sospirò, schioccando la lingua. «Solo perchè sei ridotta tanto male che non ti lascerei mai girare per casa conciata così. Che schifo. Ma da domani dovrai vedertela da sola.» dichiarò, facendo per scomparire oltre la soglia, in direzione del bagno.

«Ohi, Rico»

«Cosa c'è?»

«Mi sei mancata»

Rico abbassò lo sguardo, le labbra socchiuse e le dita ancora strette intorno al pomello.

«Anche tu, Zoe.»








*PLIN PLON*
Ed eccomi di nuovo qui, con il secondo capitolo. Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno recensito, inserito tra le seguite/preferite/ricordate il primo, e mi auguro che questo venga accolto con pari entusiasmo.
Sono davvero felice d'aver cominciato a scrivere "Scacchi", questa storia mi sta prendendo molto. :3
Se vi state chiedendo dove sono tutti gli altri personaggi, in virtù della dicitura "un po' tutti", sappiate che dovrete pazientare e tenere a mente che, comunque, questa è una fanfiction che s'incentra per lo più sul rapporto tra le due protagoniste, e credo sia giusto dedicarvi un ampio spazio, specialmente in alcuni punti della narrazione. 
Ancora una volta, fatemi un fischio nel caso troviate errori di battitura. ;n;
Spero di rivedervi in numerosi al prossimo capitolo! *v*

 

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Capitolo 3
*** Schieramenti ***


SCHIERAMENTI

 

Bastò una manciata di minuti perchè le reclute cominciassero a socializzare, dopo di che la mensa si colmò del fitto, amichevole chiacchiericcio di cinquanta ragazzi e ragazze, o forse poco più.

C'era chi dibatteva a proposito dei metodi brutali degli istruttori, chi aveva un passato o una storia da raccontare, chi decantava le proprie gesta future ed esponeva con cura maniacale ogni insignificante dettaglio della propria vita da trascorrere in questo o in quell'altro Corpo.

E poi c'era Rico. Era stata ben attenta a scegliere un tavolo appartato, più piccolo e scricchiolante degli altri, avvolto in una penombra tanto densa da rendere quasi indistinguibile il fumante contenuto della scodella che le stava davanti. Teneva il cucchiaio sospeso a mezz'aria, lo sguardo corrucciato fisso su un punto che si muoveva oltre i freddi vetri della finestra. Fuori, a giudicare dal frenetico ondeggiare del vessillo sovrastante l'edificio riservato agli istruttori, aveva iniziato a soffiare un vento di notevole intensità, e il piccolo punto dall'altra parte del campo aveva rallentato la sua corsa da un po', ma senza accennare a fermarsi. Era caduto diverse volte, certo, e Rico poteva vederlo chiaramente sistemarsi gli occhiali sul naso e fissare le finestre della mensa come un cane lasciato a raspare sulla porta, ma il puntino non si fermava mai.

Zoe Hanji.

Doveva essere tra i più grandi d'età, eppure non dava segni una gran maturità intellettuale.

Schioccò la lingua, portandosi il cucchiaio alla bocca, lo sguardo ancora incatenato alla figura allampanata che trascinava i piedi nella polvere ad un ritmo incostante ma ipnotico. Fu una voce maschile alle sue spalle a riportare la sua mente dentro l'ambiente caldo e accogliente della mensa.

«Questo posto è libero?»

Rico impiegò un istante a recepire la domanda.

«Sì» tagliò corto infine, prendendo a mangiare più rapidamente e fissando con affettata noncuranza la propria zuppa. Non le piaceva l'idea che qualcuno l'avesse notata studiare così attentamente quella ragazza, e sperava che non cominciasse a farsi strane idee; e tantomeno l'allettava la prospettiva d'avere quello stesso qualcuno seduto proprio di fronte a lei.

La scodella del nuovo arrivato era quasi vuota e qualche morso era già stato strappato dalla sua pagnotta: ne dedusse che doveva essersi spostato a metà della cena, e ne avrebbe anche domandato il motivo se non fosse stata dannatamente certa del fatto che non le sarebbe affatto piaciuto saperlo.

«Quella ragazza è proprio instancabile. Credo che ne vedremo delle belle, nei prossimi tempi» commentò il giovane, servendosi della pagnotta mangiucchiata per far cenno all'argomento di conversazione.

Rico strinse i denti, deglutendo rumorosamente il boccone.

Se anche aveva osato sperare di non essere stata notata, mentre fissava quella ragazza fin da quando avevano terminato gli allenamenti, ora sapeva di non avere scampo. Si sentì un animale in trappola, braccato.

«Mi auguro di no» si limitò a borbottare, abbandonando il cucchiaio e sorbendo direttamente dalla scodella ciò che restava della zuppa. Quando la depositò sulla tavola, la mano destra del ragazzo si tese verso di lei.

«Ian Dietrich» si presentò.

«Rico Brzenska» mugugnò, stringendo con fermezza quella mano molto più grande della sua, più ruvida, decisamente più forte. Non sarebbero bastati neppure anni e anni di duro allenamento per renderla altrettanto forte, si disse, con un pizzico di rammarico.

«Allora, Rico... Da dove vieni? Io sono cresciuto nel distretto di Karanese, nel Wall Rose»

«Stohess» scandì.

«Vieni dal Wall Sina? Sul serio? Correggimi se sbaglio: sei qui per entrare nella Polizia Militare» scommise, gettandosi tra le fauci l'ultimo pezzo di pane.

Nonostante i modi amichevoli del giovane, però, Rico non era abituata a tante attenzioni, né le gradiva. Ne aveva maturato un certo timore, un timore che il tempo trascorso ad arrancare nel buio in solitudine, circondata soltanto da voci ostili e melliflue, non aveva fatto che accrescere.

I suoi occhi indugiarono per un istante oltre la finestra: Zoe Hanji era lunga distesa nella polvere, a braccia spalancate, il petto che si alzava e si abbassava ritmicamente. Per un attimo, fu quasi sul punto di ridere.

«Non sbagli. E ora scusami, ma sono stanca. Sono certa che non avrai difficoltà a trovare conversatori migliori di me» tagliò corto, alzandosi bruscamente e lasciando il tavolo.

«Aspetta!» esclamò ancora il giovane, con un gran sorriso lungo il volto magro. «Quello lo lasci?» domandò, additando la pagnotta completamente intatta lasciata accanto alla scodella vuota.

«No, no» borbottò Rico, dopo un momento d'esitazione, avvolgendo il pane con il tovagliolo e portandoselo gelosamente al petto. «Nel caso mi venisse fame stanotte» si giustificò, più con se stessa che con Ian.

 

Quando aveva chiesto indicazioni a proposito del suo alloggio, le era stata indicata la porta in fondo al corridoio, quella forse più lontana dalla porta d'ingresso del dormitorio femminile; le avevano consegnato un paio di candele e una scatoletta di fiammiferi, con la raccomandazione di utilizzare con estrema parsimonia sia le une che gli altri.

Aprendo finalmente l'uscio di quella che sarebbe stata la sua camera per i prossimi tre anni, salvo eventi straordinari, Rico si trovò di fronte due letti a castello addossati ai lati della stanza, divisi dal fascio di debole luce lunare che filtrava attraverso i sottili vetri di una singola finestra. Si lasciò sfuggire un tremito e pregò in cuor suo che quella camicia da notte che s'era concessa il lusso di acquistare prima di arruolarsi fosse davvero calda come appariva: l'attendevano notti gelide, contro cui nulla avrebbero potuto una coperta leggera e il bruciare di una candela.

In un canto, c'era un'unica sedia un po' malconcia. Agli angoli adiacenti alla finestra, incastrati tra il muro e i letti, vi erano due piccoli comodini. Rico posò la pagnotta sopra uno di essi e accese una candela, dopo di che si spogliò, piegò con cura la propria divisa e la ripose in un cassetto, riempiendo l'altro con le poche cose che aveva ritenuto saggio portare con sé: poca biancheria, una camicia d'uno smorto color tortora, una lunga gonna d'un vivace color ruggine, un pettine di legno, un panno per pulire gli occhiali.

Avrebbe lasciato gli altri due cassetti a disposizione della sua compagna di giaciglio, si disse, ma poi notò con grande stupore che soltanto uno dei due letti a castello era stato preparato per la notte: l'altro era occupato soltanto da due materassi spogli.

La camicia da notte era pungente, di scialba e dura lana grezza. Se la lasciò scivolare sulle membra che già avevano cominciato ad assumere un colorito bluastro e si lasciò cadere con un sordo cigolio sul letto più in basso, a braccia aperte, quasi a voler marcare il proprio territorio. Accadeva spesso che parlasse o si agitasse nel sonno, e l'idea di cadere da una certa altezza nel cuore della notte non la allettava.

Fu in quel momento che, preceduta da un certo baccano, la sua unica coinquilina spalancò la porta della stanza.

Nonostante il freddo pungente, indossava soltanto i laceri e sporchi calzoni della divisa e una fascia di stoffa consunta che le fasciava il seno scarno, e manteneva con un braccio il resto dei suoi indumenti, insieme a un laccio per capelli di cuoio liso. I capelli scuri e disordinati che facevano da cortina ai lati del suo viso ossuto erano ancora bagnati, doveva aver appena finito di lavarsi.

«Dimmi che questa non è la tua stanza» scandì Rico tra i denti. Ma il suo tono risultò decisamente più lamentoso di quanto si augurasse.

«Andiamo, non fare quella faccia» mugugnò Zoe Hanji, la ragazza che sarebbe finita tra i denti di un titano durante la sua prima missione. «Non potevi sperare in una prospettiva migliore. O preferisci guardare la gente soltanto da lontano?» asserì. E nonostante le sue parole suonassero, in qualche modo, minacciose, sul viso della ragazza troneggiava un ampio, odioso sorriso. Per la seconda volta nella giornata, Rico si trovò ad affrontare una mano tesa.

«Qual è il tuo nome, curiosona?»

«Rico Brzenska» bofonchiò. «Non c'è bisogno che mi dica il tuo»

La stretta di Zoe era di gran lunga più forte di quella del ragazzo della mensa. E più umidiccia.

«Sono contenta che tu abbia scelto il letto di sotto, Curiosona. Posso continuare a chiamarti Curiosona?» gongolò, sfilandosi i pantaloni e gettandoli sopra la testata del proprio letto.

«Decisamente no»

«Ma io ho già dimenticato il tuo nome, Curiosona»

«Rico. Finirai per imbrattare le lenzuola» mormorò, accennando alle ginocchia di Zoe. Erano piagate e sanguinanti. Ma quante volte era caduta?

La ragazza parve cadere dalle nuvole.

In quel momento, Rico realizzò quel che si sarebbe dimostrato, di lì a breve tempo, una inconfutabile realtà: non ci sarebbe stato giorno, durante il suo periodo d'addestramento, in cui la sua convivenza con quell'assurda creatura non avrebbe fatto correre a entrambe il rischio di finire nei guai.

Il suo compito, si disse, era quello di evitare il più possibile che ciò avvenisse.

Si chinò ad esaminare le ferite: il ginocchio sinistro poteva andare, non era poi così malridotto ma era ancora incrostato di polvere e sangue; il destro era messo un bel po' peggio, ma comunque lo strato di sporco era troppo per poter valutare l'entità del dramma. Ma si era lavata per davvero? Più la distanza tra loro s'accorciava e riusciva a studiarne meglio l'aspetto e l'odore, più in Rico andava maturando l'idea che ci fosse bisogno che qualcuno le insegnasse a farlo.

Si guardò intorno, le labbra arricciate e la fronte aggrottata, fino a che il suo sguardo non si posò sulla pagnotta, o meglio, su cosa l'avvolgeva.

«Non muoverti di lì. Siediti, e non muoverti» l'ammonì, cercando di sillabare ogni parola come avrebbe fatto con un bambino o con qualcuno che non parlasse bene la sua lingua.

E Zoe obbedì, con il suo allegro, snervante sorriso che pareva cucito sopra la sua faccia. Portando con sé il tovagliolo, Rico uscì dalla camera, sbattendo inavvertitamente la porta nel richiuderla.

Si concesse il tempo di un lungo, profondo sospiro, prima di mettersi in cammino verso i bagni.

Come avrebbe potuto sopportare una simile convivenza, dopo aver giurato a se stessa che avrebbe evitato a ogni costo quella ragazza? Avrebbe finito per cacciarsi nei guai, presto o tardi, a causa sua. Non le era difficile immaginare la loro stanza ridotta alla stregua di una discarica maleodorante, impronte fangose sul pavimento, macchie d'ogni tipo sulle lenzuola, i suoi averi trafugati di tanto in tanto...

E di chiedere un cambio di stanza non se ne parlava. Non gliel'avrebbero mai concesso, era decisamente poco nel loro stile. Nossignore, avrebbe dovuto imparare a gestirla, a domarla, a districarla come i nodi tra i capelli.

Strizzò energicamente il tovagliolo.

Sì, ce l'avrebbe fatta.

 

...No, decisamente no.

Zoe Hanji era distesa sul letto più in basso, il letto di Rico, dopo aver gioiosamente espresso la propria approvazione in merito alla sua scelta. Come se ciò non fosse stato già sufficiente, era stesa a pancia in giù, con le ginocchia che avevano probabilmente già sporcato le lenzuola, e intenta a sbocconcellare la pagnotta che Rico aveva incautamente lasciato sul comodino.

Nel momento stesso in cui la ragazza entrò, però, si mise a sedere con fare innocente, con l'aria stupita e ingenua di un bambino un po' stupido, facendo dondolare le gambe fuori dal materasso.

Mantenere la calma sembrava un'impresa sempre più lontana dalla portata di Rico.

«Nessuno t'ha autorizzata a toccare quel pane» biascicò, accovacciandosi di fronte a lei «e neppure ad appropriarti del mio letto» Fece una smorfia disgustata. «Sta' un po' ferma e lasciami lavorare»

Cominciò a tamponare rudemente le ginocchia della compagna, sfregando via lo sporco con una foga certamente maggiore di quella necessaria. Cercare di mostrarsi gentile nei suoi confronti era, per quanto d'obbligo e consigliabile, assolutamente fuori questione.

«Avevo fame. E non riuscivo ad arrampicarmi fin lassù» si lagnò Zoe, contemplando con rassegnazione le proprie gambe. Automaticamente, il tocco di Rico si fece ancor meno delicato.

«Domani mattina cercheremo di procurarti dell'alcol o della tintura di iodio; anche del vino andrebbe bene. La sinistra può andar bene così, ma la destra va disinfettata»

Fasciarla con il tovagliolo ancora umido era altamente sconsigliabile, così, in assenza di rimedi alternativi, Rico si ritrovò costretta a fasciare il ginocchio con il panno per gli occhiali. Così grande le sarebbe stato poco pratico, e poi poteva farne a meno per un po'.

«Lavalo, prima di restituirmelo. ...Anzi, sai che ti dico? Non mi fido del tuo senso dell'igiene, restituiscimelo così com'è, provvederò io a lavarlo» sentenziò infine. «E ora... la faccenda dei letti. Credo non sia un problema, se utilizzo quello» additò il piano inferiore del letto vuoto «Userò le lenzuola del tuo letto, quando tornerai come nuova provvederemo a rimettere tutto a posto»

Zoe la osservava con aria curiosa, con un caldo bagliore in fondo agli occhi color cioccolato. Ora che aveva tolto gli occhiali, le si notavano meglio.

«Cosa c'è, adesso?»

«Grazie» sorrise quella, puntellando i gomiti sulle gambe e posando il capo tra le mani.

Le parole vennero fuori in maniera automatica: «Non c'è di che»

Mentre preparava il letto, percepiva lo sguardo dell'altra costantemente incollato addosso. Se ne stava rannicchiata su un fianco in posizione fetale, e sembrava più che determinata a non staccarle gli occhi di dosso neanche per un secondo, quasi a volersi vendicare per il trattamento subito mentre scontava la sua punizione. Era frustrante, snervante, decisamente fastidiosa. I suoi occhi brillavano nella penombra come quelli di un qualche animale molto affamato. In qualche modo, però, le sembrò di essercisi già quasi abituata.

Abbandonò gli occhiali sul comodino, spense la candela ormai ridotta a un mozzicone di pochi centimetri e poi si coricò.

Quei grandi e curiosi occhi da opossum, però, non accenavano a darle tregua. Dato lo spessore dei suoi occhiali, comunque, Rico immaginò dovesse avere una vista di gran lunga peggiore della propria.

«Dovresti metterti qualcosa addosso e pensare a dormire, ora» la rimbeccò, ma l'altra fece spallucce.

«Non ho nulla da mettermi» ridacchiò, come se ci fosse davvero qualcosa di comico, nelle sue parole. Probabilmente, invece, la situazione era ancor più disastrosa di quanto Rico avesse immaginato. Effettivamente, pensò, non l'aveva vista portare con sé alcuna borsa, quando era entrata. Preferì non farle domande, sapendo che il rischio era di riceverne a sua volta.

«Non preoccuparti, me la caverò. Ci ho fatto il callo» aggiunse. E nonostante non potesse vederla, Rico seppe che stava sorridendo.

«A pensarci bene...» borbottò, senza sapere bene cosa le stesse passando per la testa «A pensarci bene, ecco, è probabile che finiremo nei guai. Magari domani arriverà qualche nuova recluta e questo letto servirà a loro»

«La colpa è mia, è giusto che ci dorma io. Possiamo scambiarci le lenzuola»

Zoe ridacchiò di nuovo. La sua voce, però, sembrava leggermente incrinata.

«No, finiremmo comunque nei guai entrambe. E poi...» si alzò, trascinando con sé il proprio cuscino «...io finirei nei guai, se tu morissi congelata.» sentenziò. Zoe sorrise di nuovo: questa volta le era abbastanza vicina da vederlo chiaramente. «Perciò spostati. E ricordati di lavarti come si deve, da domani»

Senza fare complimenti, Zoe le acciambellò accanto, la testa posata nell'incavo del suo collo, le dita lunghe e screpolate aggrappate alla lana della camicia da notte. Era ruvida e ingombrante e puzzava di cane bagnato, ma la sensazione che starle accanto le procurava non era poi così spiacevole.

«E comunque è soltanto per stanotte. O al massimo fino a che non avrai qualcosa da metterti addosso, perciò non te lo sognare neanche, che te lo lasci fare per tutto l'inverno»

In tutta risposta, un rumore gutturale si levò da sotto di lei.

«...E russi, anche. Ti odio» sospirò, ma Zoe era già precipitata nel sonno più sereno che le fosse mai stato concesso.






 

*PLIN PLON*
In primis, un ringraziamento e un abbraccio a tutti coloro che continuano a seguire e ad apprezzare questa storia, spero di non deludervi mai!
Mi sono divertita davvero molto a scrivere e a rileggere questo capitolo, in genere amo soffermarmi sul passato e sulla storia dei personaggi, che siano creati da me o meno, e poi amo l'ambiente militare, il cameratismo, la solidarietà che da forzata finisce per divenire spontanea, quei legami unici e contrastanti che si instaurano tra commilitoni. 
Se vi state domandando dove siano tutti gli altri personaggi, sappiate che sarete prestissimo ripagati della vostra attesa! 
In quanto allo schema della storia, per quanto possa sembrarvi strano vi assicuro che, alla fine, ogni tassello troverà il proprio posto. Certamente, comunque, avrete notato il parallelismo tra questo capitolo e il precedente. 
Queste due ragazze fanno una tenerezza incredibile, ho le dita legate alla tastiera! ;w;
Vi prometto che non dovrete attendere molto, prima di leggere il prossimo capitolo. Ah, come sempre vi chiedo di farmi un fischio, nel caso troviate qualche errore: comprendetemi, sono solita scrivere quando sono mezza addormentata.
A presto! *-*

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Capitolo 4
*** Nient'altro che Pedoni ***


NIENT'ALTRO CHE PEDONI

 

 

Andava matta per la sensazione che pervadeva ogni brandello del suo corpo quando i suoi piedi non toccavano terra, quando i cavi metallici che schizzavano da un albero all'altro le saettavano tanto vicino alle orecchie da far vibrare piacevolmente i timpani. Amava il vento che le scostava dal volto le lunghe ciocche disordinate, frustando l'aria con la sua coda di cavallo e gonfiandole gli abiti.

Zoe Hanji amava volare.

Zigzagava sotto le alte fronde come un alfiere impazzito, le iridi che brillavano dietro gli occhiali saldamente ancorati alla testa e un estatico, largo sorriso che squarciava il suo volto.

Non fece neppure caso alla presenza del suo caposquadra fino a che quest'ultimo non la sorpassò, in un rapido svolazzo verde che quasi si confondeva con il verde che sfrecciava ai lati della sua corsa alata. «Alla tua destra» scandì Mike Zacharius, catapultandosi invece a sinistra, atterrando sull'enorme capo di un titano di sette metri che trottava nella loro direzione, saltando poi sopra le sue spalle. Un attimo dopo, l'essere si abbattè al suolo con una profonda ferita alla base della nuca, mentre una densa nube candida s'alzava dai suoi immensi resti.

Quel che giungeva da destra era, invece, un titano di classe cinque metri, lento e dalla faccia particolarmente poco sveglia. «Ti hanno mai detto che sei un grandissimo egoista, Mike?» si lamentò Zoe, decisamente delusa dall'entità della preda destinatale.

Erano trascorsi cinque anni dal suo ingresso nell'Armata Ricognitiva, ma era bastato molto meno perchè tutti quanti, intorno a lei, facessero caso al suo talento: un talento decisamente acquisito, non innato, dovuto più alla sua capacità di giudizio che alla sua velocità o alla sua prestanza fisica.

Sempre che di capacità di giudizio si potesse parlare, e non di fortunata spericolatezza o d'intuitiva follia. Aveva preso a chiamare per nome prima i suoi compagni, poi i capisquadra, infine anche il caporale, e nessuno sembrava covare disapprovazione verso i suoi modi estremamente confidenti.

Il comandante Richter era il solo a cui non riservasse lo stesso trattamento, e ciò, più che compiacerlo, sembrava indispettirlo. Per quanto fosse sì vero che il comandante era stupido quasi quanto un titano, era altrettanto vero che perfino la testa vuota di un titano avrebbe afferrato il valore di una donna come Zoe Hanji, nonché riconosciuto il suo affetto come una dimostrazione di stima.

Si fermò, valutando spazi e tempi, arpionata ai rami più bassi di un enorme albero sulla cui corteccia puntellava il tacco di uno stivale, lasciando dondolare l'altra gamba nel vuoto sotto di lei.

Uno.

Il titano arrancava verso di lei con le braccia e la bocca spalancate; quasi le fece pena.

Due.

Un gioco da ragazzi.

Tre.

Si diede un potente slancio facendo leva sull'albero con entrambi i piedi, allontanandosi da esso nell'istante stesso in cui l'essere fu abbastanza vicino da non poter far altro che finire con la faccia a un passo dalla corteccia. In un attimo gli fu alle spalle; bastò assestagli un calcio di pianta in cima alla schiena per spingerlo in avanti, mentre le lame incidevano la base della nuca.

Fin troppo facile e pulito per i suoi gusti.

«Ohi, quattrocchi»

Un ghigno soddisfatto comparve sul volto della donna. Ancor prima di voltarsi, sapeva già chi avrebbe trovato alle sue spalle.

Non che Rivaille fosse il solo a chiamarla in quel modo, ovviamente. La sua voce, almeno durante le missioni, era sempre un ottimo segno: lavorare con lui era maledettamente divertente.

«Ohilà, tappetto. Mi spiace per te, ma qua le pulizie le ho già fatte io» ribattè, pestando dolcemente un piede sulla spalla della sua preda fumante.

«Ordini dai piani alti» mormorò, atterrando sul suolo fangoso con un flebile tintinnio di ganci metallici. Era scuro in volto, perfino più del solito.

«Erwin?»

«Richter» scandì l'uomo, lasciandosi sfuggire quel nome tra i denti come un sorso tanto amaro da essere impossibile da mandar giù. E se Zoe ignorava del tutto i comandi che arrivavano dall'alto, camminando pericolosamente sul limite invisibile e instabile che intercorreva tra lo spirito d'iniziativa e l'insubordinazione, Rivaille covava una silente ma profonda avversione nei confronti dell'incompetenza di quell'imbecille che finiva puntualmente per non far altro che offrire il pasto a quegli ingordi mostri senza fondo e riportare a casa nient'altro che gli avanzi.

«Che vuole?»

«Te. E me. È stato lanciato un segnale d'allarme, da est, pochi minuti fa. È schizzato verso la fumata e mi ha ordinato di venire a cercarti»

«E allora andiamo a est, no? Che accidenti stiamo aspettando?» ridacchiò Zoe, lanciandosi a tutta velocità oltre il compagno, verso il limitare della foresta. Mentre i rami si facevano più radi, il bagliore del sole penetrava sempre più impietoso, filtrando attraverso di essi. Era piena estate e, sebbene mancasse ancora un paio d'ore a mezzogiorno, il sole picchiava già violentemente sopra le loro teste.

«Soltanto te e me, testa di rapa» ringhiò Rivaille, non appena le fu accanto.

«E allora? Rilassati, ne abbiamo già affrontati altri da soli, ed è stato divertente!»

«Avevamo mandato tre squadre in ricognizione a est, dovevano aprire la strada alla mia squadra e a quella di Erwin. Tre squadre, e non abbiamo visto nessuno di loro tornare indietro dopo che abbiamo adocchiato il segnale»

Un brivido corse lungo la spina dorsale della donna.

«Quanti pensi che ce ne saranno?»

«Abbastanza da far fuori tredici persone e avere ancora lo stomaco vuoto» fu il verdetto di Rivaille.

Quando si lasciarono la distesa arborea alle spalle e furono costretti a rimettere i piedi a terra, Zoe provò un forte senso d'inquietudine.

In un primo momento credette si trattasse semplicemente dell'essere di nuovo ancorata al suolo, poi Rivaille pronunciò le stesse parole che lei stava pensando ma che le erano rimaste incastrate in gola.

«Togliamoci di mezzo, quattrocchi» borbottò. «Stanno arrivando»

Ed era vero: il terreno sotto di loro vibrava a una tale intensità che non ci fu neppure bisogno di guardarsi intorno per capire da che parte l'orda titanica proveniva.

Erano almeno in sette, appartenenti a tutte le classi, e correvano all'impazzata verso di loro come punti da uno sciame di api. S'intravedeva un villaggio abbandonato, dove non sarebbe stato troppo difficile utilizzare l'attrezzatura per il movimento tridimensionale, e non c'era altra scelta che attirarli verso quella direzione.

Non appena furono in cima a quello che un tempo era stato un campanile, si resero conto di non essere i primi ad aver avuto quell'idea: i tetti intorno a loro erano costellati di scure e viscide pozze di sangue, e di quel che restava di qualche cadavere. Riuscirono a riconoscere in quelle carcasse senza vita due, forse tre dei loro compagni: tutto quel che era rimasto alla fine di un lauto, lungo banchetto; quel poco che enormi bocche maldestre avevano lasciato cadere.

Avanzi.

«Rivaille» sussurrò Zoe. Un tremito fece vibrare la sua voce. L'uomo seguì il suo sguardo fino ad appuntare il proprio su un altro cadavere, che non avevano notato prima perchè all'ombra d'un vecchio granaio. Gli mancava la metà inferiore del corpo e parte delle viscere era fuoriuscita da quella superiore, ma era la sua faccia ad aver attratto l'attenzione di Zoe: era marchiata a fuoco da un'espressione di puro terrore, chiaramente visibile se pur sotto uno strato di sangue e la folta barba.

Abel Richter.

«Via di qui, Han-» fece per mormorare, quando una mano di dimensioni colossali comparve alle loro spalle e si abbattè sul campanile, facendoli precipitare assieme a una pioggia di mattoni, polvere e detriti. Rivaille si rimise in piedi appena in tempo per vedere l'altra alzarsi nuovamente in volo in una nuvola di gas, guizzando all'indirizzo del loro aggressore. Era alto sei o sette metri e, a primo impatto, sembrava molto veloce.

«Testa di rapa» grugnì. Il sole, sempre più alto sopra le loro teste, si rifletteva contro le lame sguainate e l'attrezzatura, accecandoli di tanto in tanto.

«Tu tienilo occupato, io lo colpisco» ordinò Zoe, schivando un secondo colpo che la mancò per miracolo, abbattendosi su un tetto che si sgretolò come zucchero. Ma ci volle soltanto un attimo prima che il titano subisse la stessa sorte, crollando nel medesimo punto sovrastato dal suo minuto giustiziere.

«Nanetto malefico» brontolò Zoe.

«Testa di rapa» abbaiò Rivaille. Un istante dopo, però, il suo volto cambiò.

E la frazione di secondo in cui restò immobile, l'attimo che precedette il suo salto in avanti, fu fatale.

Una mano, una mano più grande di quella che li aveva gettati a terra un istante prima, comparve alle spalle della donna, abbandonando tutto il suo peso sopra il tetto che s'aprì in un a pioggia di tegole e trascinando con sé la sua preda.

Zoe non riuscì a mettere a fuoco gli eventi che seguirono quella brutta caduta. Tuttò ciò che i suoi sensi annebbiati riuscirono a percepire fu il bagliore delle lame e una lenta, penosa sequenza di enormi ombre.

Non ebbe paura, però. Non ne ebbe neanche quando sentì il sapore metallico del sangue allagarle la bocca e scendere fino a ostruirle la gola, e neppure quando la sua vista cominciò a farsi rossa. E oltre quella patina rossa, il suo mondo risultava più opaco e sbiadito del solito.

I suoi occhiali dovevano essere di nuovo inutilizzabili.

Capitava spesso che tornasse a casa con gli occhiali rotti, e probabilmente Rico l'avrebbe sgridata anche stavolta, le avrebbe detto di stare più attenta.

Chi l'avesse vista in quel momento avrebbe giurato che stesse sorridendo.

Rico...

Si domandò se le sue ferite fossero molto vistose: se mai avesse rischiato di rimetterci sul serio la pelle, era certa che lei non le avrebbe mai più permesso di rimettere piede fuori dalle mura.

Dopotutto, aveva fatto del suo meglio per assicurarle che la situazione non era poi così tragica, che a cadere erano soltanto le schiappe, che sarebbe sempre tornata a casa con nulla più di qualche graffio e gli occhiali rotti.

Sarebbe stato difficile, questa volta, farsi perdonare.

Riconobbe Rivaille nell'ombra che comparve sopra di lei, quando finalmente ci fu silenzio: aveva sul volto un'espressione che non gli aveva mai visto, e le stava parlando, ma lei non riusciva a sentirlo. Glielo disse, ma qualcosa subito dopo le suggerì che non l'aveva fatto davvero, che l'aveva semplicemente immaginato.

Ci riprovò.

“Riportami a casa”

Soltanto in quel momento si accorse di non sentire più niente da un pezzo, non soltanto i suoni ma anche il dolore, la fame, la sete, la nuda pietra sotto la sua schiena.

“Lei ci sa fare, con questa roba”

Ebbe un istante di panico, quando cominciò a notare che il suo mondo stava diventando buio. Il cielo, il villaggio... perfino Rivaille: tutto stava scomparendo.

“Non importa se mi sgriderà. Riportami da Rico.”

 

«Stomachevoli teste vuote» sibilò Rico, sfoderando i denti in una smorfia di puro disgusto.

Percorreva e ripercorreva lo stesso tratto del Wall Maria ormai da ore, ma non doveva mancar molto all'ora predestinata per il cambio della guardia. Non che avesse intenzione di tornare davvero a casa, non quella sera: per quanto stanca fosse, sapeva bene che non sarebbe riuscita a chiudere occhio.

Scrutava con ribrezzo i titani che brulicavano ai piedi delle mura come enormi vermi fastidiosamente flemmatici e silenziosi, tanto stupidi quanto sgradevoli alla vista.

Pensare che qualcuno dedicasse sul serio la propria vita a quegli orribili esseri la turbava: seriamente convinti di consacrare la propria esistenza al genere umano, essi si battevano, si tuffavano nella tana del predatore in cerca di risposte preziose che non arrivavano mai, e infine morivano nel più atroce dei modi, stritolati tra denti più grandi delle loro teste o semidigeriti in stomaci che potevano arrivare a contenere anche una gran quantità di loro, prima di vomitarli tutti in un bolo infetto e puzzolente. Questo era ciò che raccontavano i pochi membri dell'Armata Ricognitiva che riuscivano a sopravvivere, una volta tornati a casa; questo era quanto le orecchie di Rico erano state in grado di capire da rari stralci di conversazioni e voci di corridoio. C'erano, poi, infinite storie a proposito dei titani, ma molte di esse avevano tutta l'aria d'essere semplici leggende metropolitane.

Lei, comunque, i titani li aveva sempre e soltanto visti così, mentre si agitavano silenti ai piedi del Wall Maria come un esercito di mostruosi neonati affamati.

«Su col morale, andrà tutto bene. Abbi fiducia»

Ian Dietrich era comparso alle sue spalle già da un paio di minuti, ma soltanto allora Rico fece caso alla sua presenza. Scosse la testa, stringendosi nelle spalle.

«È di quelli là, che non mi fido» sbottò, a un passo dal vuoto, scandagliando i titani sotto le mura con occhi spenti.

«Da quant'è che non dormi?»

«Da quando sono partiti»

Cioè quattro giorni. Un tempo incredibilmente lungo, per una missione. Un tempo che sembrava non finire mai.

Specialmente per coloro che restavano a casa.

«Torneranno» decretò Ian, cercando il suo sguardo per appuntarvi il proprio; quello di Rico, però, era incollato all'orizzonte. Sembrava fin troppo sicuro di quel che diceva, ma lui cosa poteva saperne? «Vuoi davvero farti trovare ad attendere con questa faccia? Sei cadaverica, dovresti riposare. Soltanto un po'. Questo è il mio turno di guardia, se ci saranno novità mi precipiterò da te, puoi starne certa»

Ma Rico sembrava inchiodata lì, con le labbra cucite, le sue profonde occhiaie violacee e le braccia conserte al petto. Sarebbe rimasta là ad aspettare finanche a trasformarsi in una statua, ed entrambi lo sapevano.

Ma non ce ne fu bisogno.

D'un tratto, ogni traccia di stanchezza parve scomparire dai suoi occhi, che presero a vibrare d'un luminoso languore. E quando anche quelli di Ian puntarono l'orizzonte, vi trovarono una scia verde a tagliare il cielo in due.

«Sono qui» sussurrò Rico. Le ginocchia le tremavano.

«SONO QUI!» ripetè Ian, dando il via alle danze, al rituale che precedeva l'arrivo dell'Armata e che ormai conoscevano a memoria.

Rico attese fino a quando i carri, i cavalli e la polvere alle loro spalle non furono chiaramente visibili di fronte a lei, incapace di formulare qualsiasi tipo di pensiero, e poi il suo corpo si mosse ancor prima che la sua mente fosse preparata a seguirlo.

Si precipitò dabbasso più veloce che potè, mentre lacrime tiepide inondavano il pallore del suo viso, senza curarsi di coloro che urtava durante il percorso, dei muri contro i quali finiva per sbattere quando i suoi piedi inciampavano su se stessi. Quando fu presso la porta, trovò un mare di persone e un sommesso ronzio di mezze voci a dividerla dalla lenta carovana in entrata.

«Il comandante è morto»

«C'è Erwin Smith alla testa dei soldati!»

«Sono così pochi... Sei sicuro che fosse partita tutta l'Armata?»

«C'è sangue ovunque»

«Credo che andrò a vomitare»

Per quanto cercasse di farsi largo, tutti quanti sembravano troppo attratti da quel macabro e drammatico spettacolo per lasciarla passare, e la sua stazza non era certamente d'aiuto. Riusciva a scorgere soltanto poche teste, qualche soldato tristemente chino sul dorso del suo cavallo esausto, e nient'altro.

«ZOE!» urlò, tanto forte da mandare in fiamme la gola. Nessuno rispose, nessuno si fermò, ma alcuni si voltarono a guardarla, e provarono tanta pena da lasciarsi spintonare ai lati per permetterle di passare.

Faceva correre lo sguardo sulla schiera di soldati mentre incespivaca verso la testa della carovana, spiava sotto i cappucci e sotto pietose maschere di sangue e dolore. Nessuno degli uomini la degnò d'uno sguardo, nessuno di loro sembrava in grado di prestare attenzione alla sofferenza di qualcun altro.

Poi, davanti a lei, un uomo a cavallo levò un braccio, facendole cenno d'avvicinarsi.

Non era la prima volta che s'imbatteva nella sua faccia; a dire il vero, ci si ritrovava di fronte ogni volta che Zoe tornava a casa, e non le era mai piaciuto.

Ma quando Rivaille, senza una parola, le indicò il carro soltanto pochi passi più avanti, Rico gli fu grata.

La delusione la colse quando, però, non vide su quel carro alcun segno di colei che cercava. C'era soltanto una ragazzetta minuta che non aveva mai visto prima, con gli abiti intrisi di sangue chiaramente non suo, perchè sembrava non avere neppure un graffio. Aveva forse sedici anni al massimo. Accennando un sorriso, con un gesto la invitò a salire sul carro, e Rico non se lo fece dire due volte.

Fu allora che vide.

Disteso sul fondo del carro come un mucchio di vecchi stracci, c'era tutto quel che di Zoe Hanji era riuscito a tornare a casa: la cassa toracica era schiacciata, le braccia erano gonfie e tumefatte, le ossa dovevano essere praticamente diventate polvere; il panno ripiegato sotto la sua testa era zuppo di sangue, così come i suoi capelli, e una gamba era stata fasciata tanto alla buona da farla rabbrividire. Era come se qualcosa l'avesse disintegrata al suolo.

Per contrasto, il suo volto era rilassato. Sembrava quasi che dormisse. Che sognasse.

«Il respiro si è fatto un po' più regolare, quando siamo arrivati in vista delle mura» sorrise la ragazzina. «Avrà le migliori cure, al Quartier Generale» assicurò.

«Te ne sei occupata tu?»

La voce di Rico tremava quanto le lacrime che le offuscavano la vista.

L'altra annuì energicamente.

Rico si asciugò gli occhi. Incurante di tutto, prese posto tra la ragazza e Zoe, sfiorando il fianco di quest'ultima con il proprio e posando un lieve bacio sulla sua tempia.

«Come ti chiami?» domandò.

«Petra Ral»

«Allora grazie, Petra Ral» mormorò con un fil di voce, e poi, finalmente, si addormentò.

Era tornata a casa.

Andava tutto bene.









 

*PLIN PLON*
...Sono una scrittrice molto masochista, a questo punto direi che è abbastanza evidente. Non vogliatemi male, se vi aspettavate tanto fluff e tanto miele, io stessa sono impaziente ma, come si suol dire, "per aspera ad astra".
Sono molto felice di tutto l'affetto che questa storia sta ricevendo, delle vostre recensioni, del vostro amore per questo pairing che, inutile dirlo, sta spadroneggiando sul mio cuore. Mi auguro resterete in tanti a seguirla, e che continuiate a infondermi tutta la forza di cui ho bisogno per completarla. Mi rendete davvero fiera del mio lavoro e del mio impegno, perciò vi ringrazio, vi ringrazio infinitamente. Non ho parole per esprimermi oltre, per dirvi cosa penso di loro e cosa penso di questo manga, credo che la mia creatura parli da sè. 
Ancora una volta, nel caso doveste notare errori di battitura, fatemelo sapere, ve ne sarò grata.
Detto ciò, vi lascio con un pacchetto di fazzoletti per ciasciuna e con la viva speranza di rivedervi al prossimo capitolo. A presto! çwç 

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Capitolo 5
*** Strategia ***


STRATEGIA

 

«Ohi, Rico!»

La ragazza aggrottò la fronte, emettendo un lungo mugolio.

Se ne stava acciambellata sotto le lenzuola, le labbra arricciate e i pugni stretti perfino durante il sonno.

«Rico Brzenska!» chiamò ancora Zoe. Ma, in tutta risposta, quella si limitò a voltarle le spalle.

Il cuscino che atterrò un attimo dopo sulla sua guancia, però, non le lasciò scampo: aprì gli occhi con un sonoro grugnito, tirando un pugno al materasso in un gesto di stizza e mettendosi scompostamente a sedere, massaggiandosi la nuca.

Tutta la sua solita compostezza sembrava dissolversi nel nulla, quando era a metà tra il sonno e la veglia: i capelli arruffati, gli occhi gonfi e cerchiati, le labbra secche e le gote arrossate creavano, nel complesso, un'immagine che la sua compagna di stanza trovava decisamente troppo divertente per evitare di stuzzicarla, quando era appena sveglia; in quel momento, però, attentare al fragile umore di Rico sarebbe stato terribilmente controproducente.

«Sorgi e splendi, pelandrona!» trillò Zoe, sforzandosi di non ridere. Le faceva capolino a testa in giù dal piano superiore del giaciglio, in mezzo a una dondolante cortina di capelli scuri e illuminata soltanto dalla fioca luce della luna che, accostata al suo sguardo fiammeggiante e al suo largo, eccitato sorriso, le attribuiva un che d'inquietante.

«Abbassa la voce, idiota» l'ammonì l'altra, per poi strofinarsi con forza gli occhi ancora annebbiati dal sonno. «Che accidenti di ora è?»

«L'ora di sbrigarci. È tardi» squittì Zoe, lanciandole addosso i suoi indumenti. Ma a Rico non parve tanto il caso di domandarle quando e perchè avesse frugato tra le sue cose, forse anche in virtù del fatto che non era di certo la prima né sarebbe stata l'ultima volta in cui questo accadeva, quanto quello di comprendere cosa avesse intenzione di fare e in quale assurdità avesse deciso di coinvolgerla, nel cuore della notte e senza alcun preavviso.

L'ultima volta che Zoe aveva avuto la brillante idea di infrangere le regole e d'improvvisare un'escursione notturna nelle cucine, trascinando con sé anche Rico, costretta a fare il palo mentre la compagna faceva incetta di strisce di carne essiccata, formaggi, frutta, pane e patate, entrambe erano finite a lustrare i pavimenti dell'intero campo d'addrestramento.

Evidentemente, però, non aveva ancora imparato la lezione.

«Tardi per cosa?» latrò Rico. In tutta risposta, aggrappandosi con forza alle travi che sostenevano il suo letto, Zoe si catapultò su quello sottostante, schioccando un sonoro bacio sulla fronte della compagna.

Era tanto agile e forte quanto tremendamente inopportuna.

«Seguimi e lo vedrai» asserì, arricciando gli angoli delle labbra in un candido sorriso. Ma Rico non aveva alcuna intenzione di finire ancora una volta a lustrare pavimenti, le bastava fare il bucato e lavare le stoviglie quando era il suo turno.

«No, io non vado proprio da nessuna parte» dichiarò.

Lo sguardo di Zoe si fece d'un tratto malinconico, mentre faceva per sistemarsi gli occhiali in cima al naso, occhiali che non aveva addosso. Il suo era un riflesso condizionato, un gesto che accennava naturalmente, quando era giù di tono.

Quell'attimo di svilimento, però, durò poco.

Con un balzo schizzò fuori dal letto, poi agguantò i pantaloni della divisa e una vecchia blusa consunta e cominciò rapidamente a cambiarsi.

«Fai sul serio? Se hai intenzione di metterti ancora nei guai, ti avverto, dovrai farlo da sola»

«Non mi accadrà nulla» mormorò Zoe, calzando gli stivali.

«Bene, lo spero. Perchè se tu dovessi finire nei pasticci...!»

«Non ci finirò»

«Ho perso il conto delle volte in cui sono stata umiliata per colpa tua»

«Di' un po', Rico: hai tenuto anche il conto delle volte in cui io e te ci siamo divertite, oppure no?»

Rico ringraziò il buio pesto e la pessima vista dell'altra, quando si accorse d'essere arrossita.

Quella ragazza aveva il potere di utilizzare contro di lei qualsiasi rimprovero Rico le muovesse; a dispetto della sua aria da perfetta idiota, era in grado di trovare i punti deboli di ognuno dei suoi ragionamenti seri e contorti e di colpire proprio là, con la stessa precisione con la quale affondava le proprie lame nelle enormi sagome che sbucavano durante i loro allenamenti con l'attrezzatura per il movimento tridimensionale.

«Provvederò a tirarti fuori dai guai, nel caso dovessero accusarti di avermelo lasciato fare. Te lo prometto» sentenziò. E una promessa di Zoe Hanji, almeno questo Rico doveva riconoscerlo, era una promessa vera.

Non riuscì a spiccicare parola né in quel momento né quando, con un frettoloso “Augurami buona fortuna”, Zoe spalancò la finestra e vi balzò oltre, atterrando nell'erba alta.

Affondò il viso nei palmi delle mani, lasciandosi cadere nuovamente sul proprio cuscino; quando scostò le dita, si ritrovò a fissare la rete metallica del letto sovrastante. Cercò di scacciare via ogni pensiero -dov'era diretta? quando sarebbe tornata? e se le fosse accaduto qualcosa mentre era lontana dal campo?- e di concentrarsi sulla rete, e c'era quasi riuscita, quando un fulmineo bagliore proveniente dalla finestra squarciò per un attimo il buio della stanza, seguito da un rombo lontano.

Un temporale era in arrivo.

 

«Ci hai messo un'eternità, per un momento ho seriamente temuto che non saresti venuta»

«E io sono seriamente tentata di tornare indietro, perciò sta' zitta. Non te la caveresti cinque minuti, senza di me»

L'aveva trovata dietro l'angolo, con la schiena contro il muro e le braccia conserte, ad attenderla: neppure per un secondo aveva davvero creduto che Rico sarebbe riuscita a riprender sonno, ma sapeva bene che insistere non avrebbe fatto che allungare i tempi, e più avesse insistito, più probabile sarebbe stato che Rico finisse sul serio per lasciarla andare da sola e per aspettarla con il naso schiacciato contro i vetri per tutta la notte, troppo orgogliosa per seguirla ma comunque troppo in pensiero per riaddormentarsi.

Un altro fulmine crepò l'orizzonte, e Rico pregò in cuor suo che non cominciasse a piovere mentre erano ancora fuori dal dormitorio.

«Si può sapere dove stiamo andando?» domandò, un attimo prima che l'altra le tappasse la bocca con una mano, trattenendola al contempo per il polso e costringendola ad appiattirsi nel varco tra il dormitorio femminile e la mensa proprio un attimo prima che una guardia di ronda passasse fischiettando di fronte a quest'ultima, con una bottiglia tra le mani e le guance arrossate dall'alcol.

Non appena l'uomo fu scomparso dalla loro vista, Zoe sbucò fuori trascinando con sé anche Rico, le mani saldamente aggrapate l'una all'altra, e guidandola verso il recinto perimetrale. Per un attimo, le gambe di Rico vacillarono. Sbarrò gli occhi, puntando i piedi nella polvere.

«Non starai pensando di... uscire, vero?» mormorò. Ma il volto dell'altra era disteso e sereno.

«Fidati di me» squittì, e a Rico parve un ordine, più che un suggerimento.

E quando le sue gambe ripresero a muoversi e la presa sulle dita della compagna d'armi si fece più stretta, comprese che il suo corpo stava obbedendo con tanta docilità da non poter far altro che assecondarlo.

Fino a quando non fossero state oltre quel recinto, sapeva di essere in tempo, di poterci ripensare, ma conosceva abbastanza se stessa da sapere che non ne sarebbe stata capace.

C'era un carro, di fronte ai cancelli, carico e pronto alla partenza. Partiva ogni notte pieno di attrezzature da far riparare, scartoffie da portare in città e missive dirette alle famiglie e tornava ogni mattina colmo di provviste, attrezzature nuove di zecca e missive per le reclute.

Zoe ci saltò su e Rico, quasi sovrappensiero, la imitò.

«Giurami che saremo di ritorno prima dell'adunata» sibilò, rincantucciandosi in un angolo e portandosi le ginocchia al petto. Ma Zoe non rispose. Prese posto accanto a lei, posando dolcemente una mano sopra la sua testa.

«Voglio vederla» mormorò, con una nota di folle bramosia nella voce.

«Vedere cosa?»

«L'Armata. Non l'ho mai vista»

Rico scattò in piedi proprio nel momento in cui il carro partì, e per poco non perse l'equilibrio.

«Mi stai forse dicendo che... è questo che dobbiamo fare? Vedere l'Armata Ricognitiva?»

Improvvisamente, percepì un forte bruciore negli occhi. Inveire contro l'altra avrebbe significato farsi scoprire, ma non farlo comportava un autocontrollo che, quando si trattava di Zoe Hanji, Rico sentiva venire a mancarle. «Avrai tutto il tempo per farlo, quando ci sarai dentro» proseguì «quindi... perchè proprio adesso? Che fretta hai di vedere un branco di folli suicidi?!»

Si lasciò nuovamente cadere sul fondo del carro proprio mentre un tuono squassava l'aria. In quel momento, sbirciando fuori dallo spesso telo che proteggeva il carro e rendendosi conto che avevano già superato il recinto da diverse dozzine di metri, si sentì condannata.

Sprofondò contro un sacco di yuta e si coprì il viso con le mani, massaggiandosi dolcemente la fronte.

Se Zoe si sentì ferita dalle sue parole, si sforzò di non darlo a vedere.

«Ho sentito da uno degli addestratori che una spedizione fuori dalle mura è stata programmata per l'alba. Partiranno proprio dalla porta più vicina» si giustificò, stringendosi nelle spalle. Ma Rico sembrava in un altro mondo. Benchè il loro addestramento fosse cominciato da più di un anno, a Zoe erano state sufficienti poche settimane per notarlo: ogni volta che l'Armata Ricognitiva e i suoi uomini erano oggetto di conversazione tra le reclute, Rico si chiudeva in se stessa, estraniandosi da tutto ciò che le stava intorno. A dispetto della sua frizzante curiosità e per amor di quel tacito accordo che implicava il non farsi domande sulla vita prima dell'arruolamento, si era sempre vietata di far prevere il suo impulso d'indagare.

«I miei genitori facevano parte dell'Armata Ricognitiva» esordì Rico. Il suo sguardo era come impigliato a un punto invisibile sulla parete opposta del carro; sembrava quasi che parlasse a se stessa, che riflettesse ad alta voce. Senza accorgersene, Zoe si fece impercettibilmente più vicina.

«Mio padre veniva dal Wall Sina, da una famiglia che possiede così tanto all'interno delle mura da curarsi poco di cosa possa esserci fuori» proseguì Rico «Ma mia madre... Mia madre è cresciuta ai piedi del Wall Maria. Ha visto l'Armata Ricognitiva entrarne e uscirne tante volte, prima di decidere di voler farne parte» Fece una pausa. «A causa sua, mio padre abbandonò il suo sogno di entrare nella Polizia Militare ed entrambi entrarono nell'Armata» Inspirò a fondo, affibbiando un morso al labbro inferiore prima di continuare. «Morirono entrambi durante la venticinquesima spedizione fuori dalle mura quando avevo sette anni, e io fui spedita a vivere a Stohess con i genitori di mio padre»

Dal modo in cui pronunciò le ultime parole, Zoe comprese che non doveva avere molto a cuore coloro che l'avevano tirata su, o meglio, che costoro non avevano mai davvero avuto a cuore Rico.

Quest'ultima trasalì, quando si vide circondare le spalle da un braccio che la strinse con vigore.

«Io non finirò ammazzata da un titano» sentenziò Zoe, schioccando la lingua.

Era un vano tentativo di rassicurarla o una vanesia dichiarazione di superiorità?

«Tu non sei diversa da tutti quanti gli altri» la redarguì, ma Zoe si limitò a scrollare le spalle.

«E non ho neanche una buona ragione per tornare a casa» ridacchiò, ma Rico notò che la stretta intorno alle sue spalle si faceva più stretta. «I tuoi genitori ce l'avevano» mormorò «Ho sempre creduto che sarà l'Armata, la mia famiglia»

Per qualche motivo, un motivo che non riusciva a mettere a fuoco, Rico si sentì di colpo punta, ferita. Ignorata. Neppure fece caso al fatto che il carro si era fermato fino a che Zoe non si precipitò a sbirciare fuori.

«Siamo arrivati. E siamo a un passo dalla porta» proclamò Zoe, scendendo dal carro. Le tese una mano, ma Rico la ignorò, finendo per atterrare sul selciato sulle ginocchia.

«E ora?» domandò.

«E ora aspettiamo»

Presero posto sui gradini di un'abitazione come in attesa dell'inizio d'uno spettacolo, e rimasero in silenzio. Per Rico, quel silenzio vibrava, vibrava tanto forse che, se l'avesse infranto, il rumore che avrebbe fatto nel cadere in frantumi sarebbe stato insopportabile. Ma Zoe era raggiante.

A parte qualche albergatore sceso in strada per gettare i rifiuti dell'osteria e a qualche gatto accorso per approfittarne, la città pareva deserta.

E quando, oltre le mura, l'orizzonte cominciò a tingersi d'un pallido rosa, comparvero.

Otto soldati dai mantelli alati apparvero dall'altra parte della strada sul dorso dei cavalli più possenti che Zoe avesse mai visto. Doveva trattarsi delle squadre destinate a tenere a bada i titani sotto le mura durante l'uscita delle truppe.

«Adesso possiamo tornare al carro?» prese parola Rico, ma Zoe scosse energicamente la testa. Il suo sguardo era incollato ai soldati, che si facevano sempre più vicini.

«Voglio vederli entrare in azione» annunciò.

Una voce alle loro spalle le fece sobbalzare.

«Ho parlato con i ragazzi del Corpo di Guarnigione, ci daranno loro il segnale»

A parlare era stato un soldato appena sbucato dal vicolo alla destra della loro tribuna improvvisata. Una ragazza. Doveva essersi arruolata in tenera età, perchè poteva avere non più di diciassette o diciotto anni.

I compagni fecero segno d'aver inteso, e la giovane fece per unirsi a loro, quando notò Rico e Zoe sedute proprio ai piedi della sua cavalcatura.

«L'ho fatto anch'io, una volta» interloquì.

Zoe saltò su di colpo, prendendo a carezzare il muso del cavallo con tanta confidenza che il soldato ne rimase vistosamente impressionato. Doveva essere abituata a un certo timore reverenziale, suppose Rico.

«Come facevi a sapere che noi...?» mormorò.

«...siete reclute nel pieno di un'escursione notturna? Ah, suppongo lo siamo tutti, presto o tardi» ridacchiò. «Il massimo che possono fare è costringervi a far brillare e profumare tutto il campo, c'è una tale carenza di personale che non s'azzarderebbero mai a sbattervici fuori»

In quell'istante, qualcuno dei soldati urlò qualcosa all'indirizzo della giovane.

«Cerca di non lasciarci la pelle prima che ci sia qualcuno in grado di rimpiazzarti» la salutò Zoe, in un pessimo tentativo di risultarle emotivamente vicina, che suonò invece più come una terribile autocelebrazione. Il soldato le posò una mano sopra la spalla e chinò il capo, facendole segno di tendere l'orecchio. Accanto a lei, Rico fece lo stesso.

«Andate alle carrucole» esortò il soldato «e chiedete di un uomo di nome Hannes. Non vedreste granchè, da quaggiù» E poi lanciò un'eloquente occhiata all'indirizzo delle mura. Al solo pensiero, Zoe sembrava quasi brillare di luce propria.

Per qualche motivo, invece, il pensiero di osservare le operazioni da una prospettiva tanto perfetta rendeva Rico ancora più inquieta.

«Ditegli che sono io, a mandarvi» si congedò il soldato. «Ditegli che vi manda Nanaba»

 

Aveva cominciato a piovere quando si trovavano ancora in cima alle mura. Ne erano scese stringendosi sotto il mantello di Nanaba, che si era offerta di scortarle al carro nonostante fossero già bagnate fradicie.

Rico era così stremata che, benchè Zoe avesse dovuto insistere parecchio prima che cedesse al suo invito, aveva finito per abbandonarsi sulle sue spalle e addormentarsi mentre erano sul montacarichi. Quando giunsero finalmente là dove avevano lasciato il carro, scoprirono che non s'era mosso d'un solo centimetro: il suo conducente doveva essere ancora a sbrigare gli affari in città, forse ostacolato anche dalla pioggia.

«Spero di rivedervi presto entrambe. Cercate di non mettervi nei guai» sorrise teneramente Nanaba, la propria destra nella destra di Zoe. Sebbene non lo disse ad alta voce, quella stretta tanto ferma e potente la colpì.

«Ci rivedremo. Sicuramente»

Nanaba risalì a cavallo e, salutandole con una mano, sparì nella sciabordante cortina d'acqua che lambiva la città. Con un po' di fatica, Zoe riuscì a salire sul carro e a deporre Rico sopra i sacchi di farina che dovevano esservi stati lasciati durante la loro assenza, e prese poi posto accanto a lei, sfregandosi gli occhi e soffocando uno sbadiglio.

«Sei una gran rompiscatole, da sveglia» borbottò. Il suo volto era rosso, livido e molle di pioggia, ma sereno. Si domandò se avrebbe avuto il coraggio di svegliarla, quando fossero tornate al campo.

«Io non ce l'ho, qualcosa per cui tornare a casa, perchè non ho una casa» sospirò, scostandole dalle fronte piccole ciocche grondanti. «Però potrei prendere in prestito la tua, che te ne pare?»

Le carezzò una guancia.

«Proprio una pessima idea, vero?»

Le posò un bacio su una tempia.

 

A tradirle furono le impronte di fango lasciate dai loro stivali e, sebbene entrambe vennero spedite a lustrare pavimenti, Zoe si sforzò così tanto d'essere convincente, dichiarandosi unica colpevole, che Rico non riuscì a tenerle il broncio per più di mezza giornata.





 


*PLIN PLON*
Rieccoci qui. Un immenso grazie a tutti coloro che continuano a seguire questa storia, a quanti mi sostengono e mi so/upportano, a chiunque sia arrivato fin qui senza mandare al diavolo questa storia e chi l'ha scritta. Vi voglio bene, sul serio.
Mi piacerebbe che mi faceste sapere cosa pensate di questa storia, naturalmente, e poi qualche segno del vostro passaggio mi rinfrancherebbe anche l'animo tra una lezione e l'altra e tra un libro e l'altro, dato che sono sotto esame ma proprio non riesco a fare a meno di procedere con la stesura del racconto. 
Dopo una giornata passata a scrivere, sono sull'orlo del collasso: probabilmente farò appena in tempo a pubblicare questo capitolo, prima di crollare sulla tastiera. 
Detto ciò, scusatemi l'eventuale presenza di strafalcioni che, come al solito, vi chiedo la cortesia di segnalarmi.
Con questa storia, metto il mio cuore nelle vostre mani. 
A presto. 

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Capitolo 6
*** Lo Scacchiere ***


LO SCACCHIERE

 

«Il tuo caffè è sempre spettacolare, Petra! Me ne prepareresti un'altra tazza?»

«Sei troppo gentile, è soltanto caffè! Solo una, o non riuscirai a dormire. Ne hai già avute tre»

«In realtà Zoe è semplicemente troppo pigra per prepararsela da sé, non è vero?»

«Ah, piantala, Nanaba! E ricordati che dovrò fare affidamento su di voi fino a che non mi sarò ripresa del tutto. I medici hanno detto così»

«Non riesco davvero a credere che queste siano state le loro esatte parole. Petra, dove stai andando?»

«La torta di carote. Credo sia pronta.»

«Hai bisogno di una mano con i piatti? Lascia fare a me»

«Sei gentile, Nanaba. Ti ringrazio»

«Figurati, non è nulla»

Petra e Nanaba infilarono la porta accompagnate da un trambusto di porcellana e vetro, prima che questa si riaccostasse con un lieve cigolio.

Rico prese un piccolo sorso dalla sua tazza di caffè, in cui aveva versato una smodata quantità di zucchero: per quanto non avesse mai amato il gusto del caffè, non riusciva mai a declinarne l'offerta.

«Come mai così silenziosa?» mormorò Zoe, scrutandola attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali nuovi. Aveva un'aria sinceramente inquieta.

“Niente”. “Nulla d'importante”. “Non ricordo d'essere mai stata particolarmente loquace”. “Ce l'ho con te”. “Sono preoccupata a morte”.

Fece spallucce, prendenendo un lungo sorso con il quale riuscì a svuotare la tazza.

Quello, Zoe lo sapeva bene, era il suo modo per esprimere il suo disappunto misto al timore di dichiararlo ad alta voce: nascondeva quanto più del suo viso riusciva a celare dietro una tazza, un bicchiere, una scodella, un fazzoletto, un libro, qualsiasi cosa avesse a portata di mano.

«Mi manca il tuo tè» sospirò, percorrendo l'orlo del suo bicchiere con la punta dell'indice. «Fai un tè orribile, però mi manca» aggiunse.

Dopo l'ultima spedizione oltre le mura, non le era stato ancora permesso di mettere il naso fuori dal Quartier Generale; sebbene le sue condizioni migliorassero a vista d'occhio, alcune ferite non s'erano ancora rimarginate del tutto e la gamba destra e il braccio sinistro erano ancora costretti in una prigione di gesso. Era Rico, ogni volta che ve n'era la possibilità, a lasciare il suo alloggio per trascorrere al Quartier Generale dell'Armata Ricognitiva quanto più tempo le fosse concesso.

Per quanto avesse a cuore la gran parte della compagnia e benchè non avesse alcuna intenzione di ammetterlo, vedere così tante facce gentili muoversi attorno a Zoe le provocava una sensazione quasi spiacevole: l'Armata era una famiglia un po' stramba, decisamente male assortita, ma unita, e il timore di vedere il suo piccolo appartamento presso gli alloggi del Corpo di Guarnigione farsi ancora più silenzioso, svuotato di quel battibeccare e di quel famigliare baccano che facevano intuire ai suoi commilitoni che Zoe era “tornata a casa”, faceva serpeggiare una profonda angoscia dentro di lei.

«Tu preferisci il caffè» mugugnò in risposta, seguendo con occhi attenti il movimento della sua mano.

«Non c'è bisogno d'essere gelosa, sai, Rico?» ghignò. Ma Rico sembrava essere totalmente catturata dal fischiante moto dell'indice intorno al bicchiere colmo d'acqua. Zoe lo faceva spesso. Quel ritmo era sempre lo stesso, da anni, da sempre. E aveva il potere di placarla, di far rallentare i suoi battiti cardiaci e il suo respiro.

«Io ho detto soltanto che tu preferisci il caffè. Hai la coda di paglia?» brontolò.

L'indice di Zoe si fermò, e la donna si voltò a scrutare l'altra attraverso le spesse lenti degli occhiali, scuotendo lentamente la testa. Aveva il più innocente dei sorrisi impresso sul volto.

Anche quello non era cambiato per nulla: era lo stesso, ingenuo e brillante, che non l'aveva lasciata dormire per innumerevoli notti, che sembrava non avere pietà né rispetto dei suoi momenti più tristi, che la sbeffeggiava quand'era giù di tono. Il segno inconfutabile che ogni cosa era esattamente come doveva essere.

«Sei la peggiore testona che abbia mai incontrato» dichiarò. Posò l'unica mano non bloccata dal gesso sopra il tavolo, con il palmo rivolto all'insù, e quando Rico vi sovrappose la propria sentì le sue lunghe dita intrecciarsi con le proprie e gli occhi farslesi umidi. Sentì la punta del suo naso sfiorare quella del proprio, fiato caldo solleticarle le labbra. Aveva chiuso gli occhi; aveva aggrottato la fronte, come in attesa di qualcosa di poco piacevole o che avesse aspettato per un tempo abbastanza lungo da irritarla.

Sentì le voci di Nanaba e Petra provenire dal corridoio appena in tempo per drizzarsi sullo schienale e spingere di malagrazia l'altra lontana dal suo viso.

«...Non farci caso, il nostro caro nuovo caporale si comporta così con tutti da che lo conosciamo»

«Mi piacerebbe lavorare in squadra con lui. È... molto diverso da come me l'avevano descritto» trillò Petra, seguendo Nanaba oltre la soglia e depositando sul tavolo il dolce ancora fumante. «Nanaba dice che il caffè a quest'ora ti fa andar fuori di testa» asserì, non appena vide appuntarsi su di lei lo sguardo speranzoso di Zoe.

«Con “diverso” intendi “più basso”, “più scorbutico”, oppure qualcosa come “simpatico più o meno come una ruota di carro sui piedi”?» intervenne quest'ultima «E lascia pure perdere il caffè»

Strinse più forte la mano di Rico nella propria.

«Mi presteresti la tua mano libera, di tanto in tanto?» mormorò a pochi centimetri dal suo orecchio, quando Petra servì in tavola la torta di carote. «La mia sinistra è inutilizzabile»

Zoe metteva il suo sorriso anche nelle parole. Se anche non avesse potuto vederla, avrebbe intuito la curva delle sue labbra, le gote accentuate, il luccichio dietro i suoi occhiali.

Lasciò che il suo sguardo indugiasse per un istante sulle loro mani: erano diverse, e non si adattavano comodamente l'una all'altra; una era incredibilmente grande, ruvida, ossuta, decisamente dura, costellata di piccole cicatrici, mentre l'altra era molto piccola, affusolata, fin troppo liscia e morbida per essere la mano di una persona che se la cava da sé.

Accomodò le proprie dita lentamente, una per una, tra quelle dell'altra.

«Sarà sempre meglio che vederti mangiare come una barbara» brontolò.

Lei sola poteva sapere quanto e quanto spesso la mancanza di quella stretta quasi fastidiosa la tormentava.

Quel che non sapeva era che Zoe, accanto a lei, stava pensando la stessa cosa.

 

«Hai messo su peso»

«Chi, io? Nossignore»

«Bugiarda»

«Non ti fidi di me?»

«...A volte»

«Che significa “a volte”, Rico?!»

Era ormai passata la mezzanotte quando si alzarono finalmente da tavola e si augurarono la buonanotte, dirigendosi nelle rispettive camere da letto. Zoe zoppicava terribilmente sulla gamba sana, mentre divideva il proprio peso tra il bastone e Rico.

Dalla sua ultima spedizione, si sentiva orribilmente pesante, fastidiosamente ancorata al suolo dalla zavorra delle sue ferite e delle ossa rotte e, benchè il solo fatto d'essere tornata viva entro le mura fosse di per sé un miracolo, non era trascorso un solo giorno in cui non si fosse lagnata della sua situazione.

Dopo che l'altra fu sotto le lenzuola, lo sguardo di Rico si soffermò per un breve istante sul bastone, poggiato al muro accanto al letto: nonostante fosse così malconcia, Zoe era solita lasciare la propria stanza spesso, durante la notte; una sera aveva portato il bastone con sé, sperando che questo potesse dissuaderla dal lasciare il proprio letto da sola, ma ciò non era stato sufficiente a evitare che, al mattino, trovasse il volto beato di Zoe a un palmo dal proprio, candidamente adagiato sul cuscino.

Le augurò frettolosamente la buonanotte e uscì dalla stanza, ignorando le proteste della donna e i suoi inviti a restare.

C'era qualcosa che doveva fare.

S'incamminò a passo svelto verso gli uffici amministrativi, certa di trovarlo ancora là. Si ravviò nervosamente i capelli, spinse gli occhiali su per il naso, strinse i pugni, serrò i denti intorno al labbro inferore. Non sapeva bene cos'avrebbe detto, ma qualcosa andava detta.

«Avanti» scandì una voce bassa e profonda dall'altra parte della porta, quando vi picchiò su le nocche.

Alla liquida e ondeggiante luce di un camino acceso, il comandante Erwin Smith e il suo cane da guardia sedevano intorno a un tavolino circolare. Tra loro, c'era un'elegante, lucente scacchiera di legno. Il capo del comandante si piegò in avanti in un sobrio gesto di saluto, che Rico si affrettò a ricambiare.

«Matto» mormorò Rivaille, facendo passare il proprio alfiere nero in posizione d'attacco, prima di rivolgersi a Rico. «Che c'è? La testa di rapa sta dando di nuovo grane?»

«No» rispose «Ma è di lei che si tratta»

Non riuscì a distinguere il genere di occhiata che Rivaille lanciò a Erwin Smith prima di lasciare la stanza, socchiudendo la porta e muovendo alcuni passi lungo il corridoio, fino a mettere alcuni metri tra loro e l'ufficio.

Questo gesto bastò perchè Rico capisse che doveva aver inteso la natura strettamente personale del suo problema.

Quando le sue visite al Quartier Generale erano divenute frequenti e la figura di Rivaille, fresco di nomina a caporale e considerato da molti come la più brillante risorsa dell'umanità, aveva cominciato ad entrare sempre più spesso nelle sue giornate, Rico aveva preso a rivalutarlo: per quanto arrogante, testardo e intrattabile potesse essere, la sua natura leale, schietta, di uomo onesto e di valoroso soldato era assolutamente innegabile.

Il caporale premette la schiena contro il muro, incrociando le braccia al petto e osservandola di sottecchi, in attesa.

Aprì e richiuse la bocca tre volte, prima di riuscire a spiccicar parola.

«Non lascerò che metta piede là fuori un'altra volta» annunciò. Aveva parlato troppo velocemente e la sua voce era spaventosamente incrinata, ma nulla la fece vergognare di se stessa quanto il contenuto della frase che, senza accorgersene, aveva appena pronunciato. Le sue mani erano vuote; non aveva alcun potere né su Zoe né sulla Legione. Si sentì non troppo dissimile da una bambina impaurita, come se fosse tornata indietro nel tempo e stesse per perdere l'unica possibilità che aveva di fermare i suoi genitori prima che lasciassero le mura per l'ultima volta.

Non aveva alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire dalle dita quanto di più simile a una famiglia fosse stata in grado di conquistare con le sue sole forze e, per quanto fosse del tutto impotente, era anche altrettanto ostinata. Resistette alla tentazione di mordersi le labbra, e pregò in cuor suo che l'uomo non notasse i suoi pugni serrati. Non poteva far nulla, però, per le lacrime in bilico tra le sue ciglia, se non sperare che la penombra fosse abbastanza densa da nasconderle.

Il caporale la osservava con un'attenzione tanto prepotente quanto vuota, come se non stesse guardando il suo volto ma qualcos'altro oltre di esso, come se fosse stato in grado di vedere attraverso il suo viso contratto.

«E trovavi necessario che io ne fossi al corrente?» sibilò, con un'aria vagamente più seccata del solito. «È libera di andarsene, se è quello che vuole. Se farne il tuo animaletto da compagnia ti sta così a cuore, fa' in modo di fare del tuo meglio per riuscire nel tuo intento»

Fece per tornare indietro, quando Rico si frappose tra lui e la porta.

«Io non sto cercando di farne il mio animaletto, che razza di insinuazione sarebbe, questa?» ringhiò tra i denti.

«Ha fatto la sua scelta quando ha indossato questo stemma» disse Rivaille, picchiettando la punta delle dita sull'effigie dell'Armata Ricognitiva cucita sopra il taschino. «E anche tu» aggiunse. D'istinto, lo sguardo di Rico si mosse in basso, sulle due rose rosse i cui gambi s'intrecciavano sulla stoffa della sua giacca. «Ognuno di noi ha delle priorità. Ciò che conta è non mentire a noi stessi in proposito»

«In gioco non c'è nulla a cui possa rinunciare» replicò Rico. Le lacrime ormai le rigavano il volto, ma non ci faceva caso. Il caporale aveva torto, torto marcio: come avrebbe potuto scegliere la propria carriera basandosi unicamente sui propri sentimenti nei riguardi di un'altra persona? O intendeva forse dire che, nella scelta dell'Armata come suo approdo, Zoe non l'aveva tenuta affatto in considerazione?

Aveva torto. Doveva avere torto.

«Immagino tu non sappia cosa significhi tenere a qualcuno al punto tale da logorarsi l'anima per via della paura che lei torni a casa ridotta a un mucchio di carne, sempre se è possibile raccoglierne i pezzi» La sua voce s'era alzata d'un paio di ottave. Stranamente, però, era ferma. «L'inferno che c'è là fuori mi ha già privato di tutto, non può continuare»

«Evidentemente può» ribattè Rivaille, in tono duro.

«Non se io la fermerò»

«Non hai alcuna autorità su di lei»

«Lei è la mia...» Rico si fermò. «...la mia f-»

«Famiglia?»

«E io sono la sua»

«Lei non ha soltanto te»

Aprì la bocca per replicare, ma tutto quel che ne venne fuori su un mesto singhiozzo.

«Tienila d'occhio, nel caso abbia in mente qualche nuova “brillante idea che non può aspettare domani”. Buonanotte» si congedò Rivaille, superandola in due passi e tornando nuovamente al suo ufficio. Si fermò a guardarla per un momento, però, alla luce dello spiraglio che filtrava da dietro la porta: il suo viso verteva in condizioni disastrose. Si profuse in un profondo sospiro.

«Io cercherò di fare altrettanto, d'ora in poi. Soltanto perchè non mi piace avere cadaveri sulla coscienza. E ora va' a dare una pulita a quella faccia»

«Ho la tua parola?»

«Hai la mia parola che farò del mio meglio, ma non che il mio meglio basterà a tenere in vita quella testa calda. Fattelo bastare»

 

Si sedette sulle lenzuola lentamente, per non svegliarla.

Ogni notte accanto a lei somigliava un po' a tutte quelle trascorse durante il periodo del loro addestramento: la debole luce della luna svelava un viso che era mutato ben poco, quel sorriso leggero che non scompariva mai, la curva della sua spalla muscolosa, un fianco ossuto, mani grandi e imperfette.

Eccetto qualche cicatrice che s'era andata ad aggiungere alle precedenti, Zoe non era cambiata affatto.

Lanciò un'occhiata alla porta che aveva quasi timore di lasciarsi alle spalle, ma i suoi occhi tornarono presto a concentrarsi su di lei: non aveva alcuna voglia di tornare nella propria stanza, né di lasciarla sola. Intercorrevano archi di tempo troppo lunghi tra le volte in cui riusciva a vederla sopita al suo fianco e, in quelle occasioni, autoconfinarsi altrove le sembrava folle e dormire le pareva una tortura.

La mano di Zoe si mosse dolcemente, tamburellando piano sulle lenzuola.

«Fai davvero tanto baccano, ragazza» sussurrò la donna.

«Eri sveglia già prima che arrivassi, non è così? Ti avverto: non ti lascerò andare da nessuna parte»

«Non ho intenzione di muovere un solo passo, Rico»

Picchiettò nuovamente sulle lenzuola.

«“Ti avverto: non ti lascerò andare da nessuna parte”» pappagallò.

«Non riusciresti a trattenermi»

«Vogliamo scommettere?»

«Non è necessario» decretò.

Tante cose erano cambiate, dai tempi dell'addestramento: i letti non erano a castello, l'igiene di Zoe era leggermente migliorata, e in nessun altro posto in cui avesse dormito aveva percepito il freddo penetrarle nelle ossa come accadeva nelle vecchie camerate, innanzitutto.

Una cosa, però, era rimasta identica, e questo le piaceva, la faceva sentire a casa.

Lasciò che Zoe la invadesse con tutto il suo corpo, circondandola con l'unico braccio sano, attirando il capo di Rico al petto e cercando il contatto tra le loro gambe, e le si avviluppò a sua volta. E poi attese.

Un suono profondo, rauco e gutturale.

«Buonanotte anche a te»

 







 


*PLIN PLON*
Non potendo esprimermi in proposito del finale che ho in mente per questa storia, mi limito a darvi un consiglio: leggete questo capitolo con attenzione, molta attenzione. Non fatevi sfuggire nulla, o potreste perdervi più in là.
Ah, bene. Ero quasi impaziente di scrivere questa parte del racconto: avevo in mente il dialogo con Rivaille in modo assolutamente chiaro, ma scriverlo è stato comunque faticoso, è un personaggio davvero estremamente difficile da rendere; la parte finale è un fuori-programma aggiunto all'ultimo momento, ma del quale sono decisamente felice. 
Sono grata a tutti voi che recensite questa storia e che fate salire il mio umore a livelli stellari, grazie, grazie, GRAZIE INFINITE A TUTTI VOI. Continuate così, non avete idea di quanto mi renda felice sapere che questa storia viene accolta positivamente da così tante splendide personcine. Ah, per sweetbeauty94​
il dubbio a proposito del suo nome mi attanagliava, così mi sono informata su Wikia. Lì i nomi in kanji sono scritti all'orientale, prima il cognome e poi il nome. Traslitterando i kanji così com'erano riportati, è venuto fuori "Hanji Zoe". 
Continuate a seguirmi in tanti, siamo ormai quasi a metà del racconto! 
Un abbraccio e un chibi caporale di peluche a tutti voi. A presto!

 

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Capitolo 7
*** Giocatori ***


Giocatori

 

Aveva il fiato corto.

Si passò una mano tra i capelli, ravviando le ciocche sfuggite alla treccia; avrebbe fatto bene a tagliarli, si disse, mentre si tergeva il sudore dalla fronte e allungava il passo. C'era una netta distanza tra lei e il compagno alle sue spalle, ma era pronta a fare di più: il periodo d'addestramento volgeva ormai al termine, e alti punteggi avrebbero determinato la possibilità di rientrare tra i primi dieci classificati e di ambire, così, a un posto sicuro all'interno della Polizia Militare, come aveva sempre desiderato.

La temperatura era insopportabilmente alta, e correre per quei sentieri scoscesi e accidentati con indosso il pesante carico dell'attrezzatura per il movimento tridimensionale era faticoso perfino per fisici allenati come il suo.

Aveva la gola riarsa, le labbra salate, la camicia incollata al corpo; ogni centimetro del suo volto, della divisa e degli stivali era ricoperto d'un sottile e fastidioso strato di polvere terrosa.

Non doveva mancare molto al punto d'arrivo, si disse, stringendo i pugni e cercando di guadagnare terreno.

Non avrebbe mai permesso a nessuno di soffiarle via il destino che aveva scelto.

 

Contemplava la finestra con aria assorta, il viso tra me mani e i gomiti puntellati sul tavolo.

L'immagine che ricambiava il suo sguardo dal vetro era ormai quella di una donna, un'immagine di cui desiderava essere orgogliosa. Eppure, osservando quei suoi occhi di ghiaccio, quel broncio che non scompariva mai, non riusciva a non pensare che non sarebbe mai cambiata davvero.

Salutò mentalmente il campo che, l'indomani, avrebbe calpestato per l'ultima volta.

Il suo posto in mensa era sempre lo stesso, lontano dal prepotente e fastidioso vociare dei suoi compagni d'armi; si domandò se le sarebbero mancate le grida, le risate, le risse, le chiacchiere concitate.

A volte, comunque, per quanto tentasse di sfuggirgli, era il chiasso ad andare da lei.

E il chiasso aveva un nome.

Riprese a concentrarsi sulla sua zuppa, giocherellando distrattamente con uno sfilaccio di carne che vi galleggiava dentro, prima di infilzarlo e di portarlo alla bocca.

«Tutta sola anche l'ultima sera, eh, Rico?»

Sollevò lo sguardo.

Il volto sereno e sorridente di Ian era a pochi passi da lei. Il ragazzo sostava tra i tavoli con la propria scodella fumante tra le mani e uno speranzoso languore negli occhi.

Ecco, lui invece non era cambiato granchè: s'era limitato a diventare più spigoloso, ma i suoi modi troppo gentili erano rimasti invariati, arrivando fin quasi a far breccia nella spessa parete di diffidenza che Rico era solita erigere attorno a sé.

«Con quale Rico ce l'hai?»

Uno sgraziato grugnito, una ciotola e delle posate che atterrarono forse con troppa violenza sul tavolo, un viso orribilmente familiare.

Ed eccolo, il chiasso, mentre prendeva posto di fronte a lei.

«Questa qui è in compagnia» aggiunse Zoe, sfoderando un ghigno compiaciuto all'indirizzo del ragazzo.

«Perfetto tempismo, quattr'occhi» mormorò il ragazzo accomodandosi alla sinistra di Rico, cosa che strappò a Zoe un sommesso ringhio di disapprovazione. Rico, però, sembrava del tutto disinteressata alla compagnia di entrambi: osservava il proprio riflesso guardarla pigramente dal vetro, riflesso al quale, un attimo dopo, si affiancò quello dell'altra.

«Che hai da pensare tanto, musona?» mugolò Zoe.

Anche lei era cambiata, in quei tre anni: era diventata più forte, più ossuta, più coriacea, tanto vigorosa che, al fianco di Rico, pareva davvero un uomo. In cuor suo, però, nulla era mutato della sua inestinguibile allegria, della sua assurda voglia di mettersi sempre in gioco, dei suoi desideri.

L'indomani le loro strade si sarebbero divise e, per qualche motivo che Rico proprio non voleva cercare d'indovinare, quel pensiero non le piaceva.

Ian si massaggiò la nuca, gettando la testa all'indietro e osservando un punto indistinto del soffitto.

«È l'ultima sera che passiamo qui, ma mi sembra quasi che tutti quanti si stiano sforzando di non pensarci, di comportarsi normalmente. Ho come l'impressione che nessuno voglia realmente andarsene» osservò, con un malinconico sorriso a curvargli le labbra sottili.

Rico si morse l'interno della guancia.

«Non è mica una tragedia, Dietrich. Parli come se non dovessimo rivederci mai più» rise Zoe, ingurgitando rumorosamente la sua zuppa sorbendola direttamente dalla scodella.

«Allora vedi di rimanere viva abbastanza da restare in circolazione, Hanji» ribattè il ragazzo. «Non vogliamo vederla strapparsi i capelli, non è vero?» aggiunse, scompigliando con affetto la folta chioma cinerina di Rico, che si rincantucciò in un angolo, il viso tra le mani e la fronte corrucciata.

Ian sarebbe entrato nella Guardia Stazionaria, era quel che aveva sempre avuto in mente di fare sin da quando aveva messo piede nel campo d'addestramento per la prima volta; in quanto a Zoe, invece, lei era irremovibile.

«Restare in vita è un suo problema» borbottò Rico, osservandola da sopra le lenti degli occhiali. C'era una lunga lista di cose che avrebbe voluto dire: a proposito della sua ormai consolidata abitudine ad avere accanto a sé quella prorompente e fastidiosa presenza ogni giorno, a proposito del suo timore di non rivederla più, dei suoi dubbi sul suo voler prendere parte alla guerra suicida dell'Armata Ricognitiva.

Le balenò in mente perfino il pensiero di abbaiarle addosso che non aveva alcun interesse a rivederla, una volta finito tutto, anche soltanto per pungerla nel profondo e spronarla a restare viva più che poteva.

Ma non disse nulla di tutto ciò.

Era ben coscia che Zoe, per quanto amasse darsi arie da sciocca, sapeva il contenuto della sua testa forse anche meglio di lei...

«A proposito di capelli...» ...e sapeva anche quando era giunto il momento di cambiare argomento. «Li hai tagliati» Aveva un'espressione triste sul volto, l'espressione d'un bambino privato del suo giocattolo preferito. E, in effetti, in parte era così che aveva sempre considerato la lunga e luminosa chioma di Rico.

Le sarebbero mancati, quei capelli, insieme a tutto il resto di lei. Ve n'era rimasto poco più che quel che le sembrava naturale definire inappropriatamente “moncherino”: nessuno avrebbe più giocato con quei capelli.

Si domandò se avrebbe lasciato che ricrescessero, se avrebbe lasciato che qualcun altro li facesse propri, li annodasse, si addormentasse tirandoli un po' troppo prepotentemente a sé, e quel pensiero le fece quasi girare la testa. Le diede fastidio.

Era peggio che se l'avessero privata dei suoi occhiali.

D'istinto, quasi senza pensarci, si ritrovò a far correre le dita in circolo sull'orlo del bicchiere di Rico, prima in un senso e poi nell'altro, catturando lo sguardo della compagna. C'era qualcosa, in quel gesto, di terribilmente familiare: qualcosa che risvegliava ricordi sepolti sul fondo della sua memoria.

«Certo che è un vero peccato doverci separare» sospirò Ian, interrompendo il filo dei pensieri di entrambe. «Non c'è dubbio che riuscirai ad avere un punteggio altissimo, ma quasi mi dispiace che tu debba finire in quel postaccio, circondata da gente infida come quella. Insomma, lo sappiamo tutti come girano le cose, nella Polizia Militare»

«Gente infida, l'hai detto. È per questo che Rico saprà distinguersi, non è così?»

La faccia da schiaffi di Zoe rendeva i suoi complimenti quasi fastidiosi. La preferiva quando sembrava s'impegnasse per farle saltare i nervi.

S'alzò di colpo in piedi, scossa da un forte capogiro.

«Me ne vado a dormire» decretò a mezza voce.

«Quelli li lasci?» fece Ian, additando il ciò che restava della sua cena, una mela e una pagnotta intonsa. Annuì: non aveva molta fame.

 

Non le erano mai piaciuti gli addii. Non che ne avesse visti molti, comunque.

Ripiegò con cura le sue poche cose per poi disfare nuovamente tutto e ricominciare da zero.

«Sembra quasi che tu non abbia poi molta fretta di andartene»

Non l'aveva neppure sentita entrare.

La osservava con un fianco posato sullo stipite della porta, le braccia incrociate sul petto e la pallida ombra d'un sorriso.

«Che io lo voglia o no, domani ce ne andremo» replicò, gettando le cinghie dell'attrezzatura sopra la testata del letto e cominciando a cambiarsi per la notte, per la sua ultima notte all'interno dell'area di addestramento.

«E tu lo vuoi?»

«Certo che lo voglio» rispose, e non era una menzogna.

Era a un passo da ciò che aveva sempre desiderato, tanto vicina che avrebbe potuto godere dei frutti del proprio sudore soltanto tendendo una mano. Avrebbe avuto la vita che, fin da bambina, s'era concessa il lusso di sognare.

Zoe si sfilò gli stivali e li abbandonò sulla soglia, prima di sprofondare sul giaciglio di Rico.

Ogni volta che Rico realizzava quanto indulgente era diventata nei suoi confronti, finiva per domandarsi come quell'uragano dal sorriso ebete fosse stato capace di conquistare a tal punto i suoi favori, ma s'affrettava a scacciare quei pensieri prima che questi la portassero a rimproverare se stessa per la propria incapacità di tenerlo a bada e di porre una linea di confine tra la propria esistenza e la sua.

In quel momento, però, quel pensiero ne portò con sé un altro: ancora poche ore, e il divario tra le loro vite sarebbe stato troppo ampio perchè fosse necessaria la presenza d'un confine.

«Lo voglio anch'io» sorrise Zoe, intrecciando le dita dietro la nuca. «Ma tutto ha i suoi pro e i suoi contro»

Rico le sfilò gli occhiali dal viso e li posò sul comodino, accanto ai propri.

«Non sei neppure capace di fare una semplice medicazione, né di ricucire un bottone. Non sai neanche prepararti da mangiare. Sei un disastro. Una sciocchezza e potresti rischiare una cancrena»

«Allora starò attenta a non ferirmi» asserì Zoe, sollevando un braccio e posando una mano sui suoi capelli. «Ma vale anche per te: fa' attenzione»

«Io non andrò là fuori, Zoe»

Zoe si lasciò sfuggire un verso simile a una risata. Le carezzò il capo.

Avrebbe trovato un buon momento per domandarle di lasciarli crescere nuovamente, un giorno; giurò a se stessa che le sarebbe stata accanto tanto spesso da non accorgersi che stavano tornando lunghi, se non quando l'avesse vista legarli in una treccia per la prima volta, dopo tanto tempo, come aveva fatto ogni giorno durante quel periodo.

«I titani non sono soltanto là fuori, Rico» sussurrò.

Se era stata lei ad attrarla a sé, l'aveva fatto senza pensarci: un istante più tardi, però, la testa di Rico era sul suo seno, il corpo della ragazza raggomitolato contro il proprio fianco.

Non ebbero neppure bisogno di guardarsi negli occhi, per sapere che cosa vi fosse dentro di essi, dietro le lacrime che li bagnavano.

«La candela?» domandò Zoe, in un fil di voce, picchiettando sulla spalla della compagna, che le rispose strofinando il volto contro il suo petto.

«Lasciala bruciare. Non c'è più bisogno di fare economia»

Quando il buio calò anche sull'ultima stanza del dormitorio, le trovò prigioniere d'un dormiveglia popolato di fiamme e di mostri, di voci e di fantasmi talmente spaventosi che non trascorse molto prima che entrambe decidessero, come se si fossero accordate, di non cercare più di prender sonno, per quella notte.

 

L'alba arrivò.

E, con essa, anche la fine.

Indossarono le divise senza una singola parola e senza un singolo sguardo, sistemandosi a vicenda le cinghie, i capelli, il collo della giacca.

Sembrava quasi di poter udire i loro cuori picchiare come cavalli al trotto sotto le due spade che s'incrociavano su di essa, su quello stemma che presto non ci sarebbe stato più.

Pareva quasi che, schierati in quel campo per l'ultima volta, non ci fossero gli stessi giovani che lo sguardo di Rico aveva inventariato al suo arrivo: ora, su quella terra arida che non era mutata affatto, c'erano i volti determinati degli uomini e delle donne che erano rimasti, corpi scattanti e membra vigorose, muscoli e cicatrici.

«SONO ORGOGLIOSO DI VOI, TOPASTRI»

Lui, così come quel campo, non era cambiato per niente.

Condendo ognuno di essi d'una suspence sicuramente non necessaria, scandì i nomi di quanti avrebbero potuto servire il re.

Non provò nulla nel sentir pronunciare i nomi di Ian Dietrich e di Zoe Hanji rispettivamente al quarto e al decimo posto.

Il suo nome, quello di Rico Brzenska, non era presente nell'elenco. 










*PLIN PLON*
Ed eccoci qui, finalmente, al settimo capitolo di questa storia. Domando perdono per il tempo impiegato, sul serio; disonore su di me, disonore sulla mia mucca e disonore sul mio jeanvallo, ecco.
Spero almeno che questo capitolo valga l'attesa, e che sarete gentili e amorevoli verso questa poveraccia e verso la sua storia come siete sempre stati finora: grazie, grazie di cuore per il vostro supporto, per l'amore che mettete nello starmi accanto e per... be', anche per aver atteso pazientemente ogni aggiornamento. Spero continuerete a farlo fino alla fine. Sono felice di poter scrivere per voi, sono felice finchè riesco a farvi emozionare e provare quel che provo io mentre la scrivo.
Un abbraccio, un caldo abbraccio a tutti voi.

 

Timcampi

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Capitolo 8
*** I Bianchi e i Neri ***


I Bianchi e i Neri

 

C'era un gran fermento, al Quartier Generale dell'Armata Ricognitiva, il giorno dell'arrivo di Rico. Se ne accorse già nel momento in cui arrivò dinanzi al portone e scese dalla carrozza, pagando il cocchiere e recuperando i suoi bagagli: figure frettolose si avvicendavano dietro i vetri delle finestre, dalle quali proveniva un animoso vociare.

Aggrottò la fronte ed esalò un sospiro, preparandosi ad affrontare ancora una volta l'ambiente caotico e indisciplinato, il covo di matti che il Quartier Generale era ai suoi occhi.

Non che la cosa le dispiacesse, sebbene mai avrebbe osato riconoscerlo ad alta voce.

Una mano corse istintivamente a tastare il taschino della camicia, dentro il quale vi era il foglio che recava il telegramma speditole un paio di giorni prima, con il quale era stata invitata a recarsi lì in tutta fretta. Nessuna spiegazione, nessun avvertimento, soltanto le poche parole che il costo salato del telegrafo aveva concesso alla persona che gliele aveva spedite.

Tuttavia, l'agitazione che sembrava scuotere quel luogo, insolita e sospetta nonostante esso fosse già normalmente teatro di eventi a dir poco bizzarri, le lasciò intendere che vi fosse realmente un buon motivo, dietro il suo invito da parte di Zoe Hanji a raggiungerla.

Il portone era socchiuso.

L'aprì con un cigolio, guardandosi intorno prima di osar mettere piede nel corridoio.

Eccetto qualche nuovo arrivato di cui non conosceva neppure il nome, non incontrò nessuno a cui potesse chiedere spiegazioni; stette qualche momento immobile ai piedi delle scale, lo sguardo puntato verso l'altro, quasi con titubanza.

Era furiosa, ma cercava di ricacciare sul fondo del suo animo tutti i suoi malumori, di celarli a chiunque le ronzasse intorno: a seguito dell'incidente che aveva ridotto Zoe quasi in fin di vita, la donna non aveva avuto alcuna premura nei confronti di se stessa, approfittando d'ogni momento in cui non avesse sul collo il fiato di Rico per sgattaiolare in laboratorio o, ancor peggio, fuori dalle mura, non mostrando alcun segno di volersi curare della propria salvezza né delle vane preoccupazioni altrui.

E tutto ciò faceva sentire Rico impotente, rabbiosa, punta. Non aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita a curarsi più di Zoe Hanji che si se stessa per vederla tornare a tacchi stesi, si ripeteva, continuando a dire a se stessa che, al più presto, avrebbe espresso all'altra le sue preoccupazioni in merito al loro rapporto e il timore che nutriva per la sua precaria incolumità.

Questo, però, non avveniva mai.

Il motivo era uno solo, ed era semplice: benchè non le sembrasse affatto giusto che quella donna la impensierisse a tal punto, privandola inoltre di tutto ciò che lei, al contrario, non le aveva mai fatto mancare, ancor più ingiusto le pareva l'idea di influenzare le sue scelte e d'imporsi su di esse.

Non sarebbe mai stata capace di farlo, perchè...

«Finalmente sei arrivata, Rico!»

In cima alle scale, un dolce sorriso sul volto e le dita intrecciate dietro la schiena, c'era la figuretta di Petra Ral. Benchè condividessero una statura oltremodo minuta, insolita in un soldato nonostante i suoi vantaggi durante l'uso dell'attrezzatura per la manovra tridimensionale, Petra possedeva una grazia, un portamento e un sorriso che Rico non poteva fare a meno d'invidiare e ammirare, caratteristiche che la rendevano, agli occhi di tutti, una presenza particolarmente gradita tra le fila dell'Armata.

Alle sue spalle, invece, c'era la sagoma sgraziata dell'inconcludente, svervante Auruo Bossard.

Lui, invece, non rappresentava per Rico una compagnia gradevole, sia per il suo continuo e fastidioso ronzare intorno alla compagna senza essere in grado di raccogliere il coraggio necessario per dichiararle i suoi palesi sentimenti, sia per la sua faccia, che risultava ai suoi occhi alquanto antipatica. Tutto sommato, però, perfino lui poteva essere annoverato tra quegli esseri umani che Rico avrebbe provato un gran dispiacere nel non veder tornare a casa.

«Non sapevo di essere attesa» mormorò, prendendo a salire finalmente i gradini che conducevano al primo piano dell'edificio.

«Ah, il caposquadra Hanji ci ha detto di averti scritto. È più su di giri del solito, dopo quello che è successo» sorrise Petra.

«Su di giri? Quella è completamente matta» bofonchiò Auruo, e Rico non ebbe il coraggio di contestare.

«Cos'è successo?»

Ma aveva appena finito di pronunciare quelle parole quando un richiamo familiare le trillò nelle orecchie, e una figura altrettanto familiare comparve alle spalle dei due compagni, sulla soglia del suo ufficio.

«Fate largo!» schiamazzò Zoe, spingendo di malagrazia Petra e Auruo ai lati per gettarsi su Rico, sollevandola per la vita come se fosse stata nulla più che una bambola di pezza.

«Puzzi di cane bagnato» si lagnò Rico.

Era un rituale, quello. Le stesse parole, la stessa espressione disgustata, lo stesso sospiro di sollievo ogni volta che la rivedeva, qualunque fosse il suo stato d'animo.

Iniziava anche a credere che quell'odore fosse ormai intrinseco nel corpo dell'altra, o che fosse associabile alla sua presenza a tal punto che, se anche quella avesse cominciato a curarsi della sua igiene come faceva con le sue ricerche, Rico avrebbe continuato a fiutare nell'aria quella sgradevole, inconfondibile fragranza ogni volta che Zoe le era a portata di naso.

«Seguimi, ci sono tante, tantissime cose che devo raccontarti!» saltò su la donna, artigliandola senza tanti complimenti per un braccio e trascinandola verso l'ufficio, sotto gli sguardi desolati di Petra e Auruo.

Quando la porta si chiuse, Rico lasciò cadere con un sospiro il proprio magro bagaglio.

«Allora, perchè mi hai fatta venire qui?» borbottò, facendosi largo tra scartoffie, pile di volumi polverosi e cartacce appallottolate per accomodarsi sull'unica sedia dell'ufficio, mentre l'altra prendeva scompostamente posizione sopra la scrivania, dopo aver con cura impilato la gran quantità di libri che la occupava.

«Avrei voluto che fossi presente, quando siamo tornati dalla spe-»

«Ero in servizio in un'altra zona» tagliò corto Rico.

Dal momento in cui aveva parlato con Rivaille, in seguito alla precente spedizione, durante la quale Zoe era rimasta ferita, aveva cominciato a fare del suo meglio per far sì che i ritmi di vita sregolati e i capricci incoscienti dell'altra incidessero il meno possibile sulla sua esistenza. Benchè fosse stato difficile non cedere alla tentazione di chiedere un cambio di turni e correre ad assistere al trionfale ritorno, era stata in grado di trattenersi dal farlo, e questo l'aveva resa sì angosciata, ma anche orgogliosa della propria affermata indipendenza.

«Voglio che tu lo legga» disse Zoe, con una serietà che sembrava non appartenerle, quasi teatrale. Le tendeva un piccolo oggetto, un vecchio taccuino rivestito di cuoio e macchiato di quello che -Rico notò con orrore- aveva tutta l'aria d'essere sangue.

Non osò fare domande. Si limitò a rivolgere all'altra un'occhiata curiosa e interrogativa, afferrando con dita incerte l'oggetto dalle sue mani. Qualsiasi cosa quelle pagine contenessero, sentiva d'averne quasi timore.

L'aprì rapidamente, come a voler strappar via una medicazione, e cominciò a leggere. Lesse tutto d'un fiato, senza alzare gli occhi dalle pagine, a volte indugiando sulle singole sbavature dell'inchiostro, a volte su parole macchiate di lacrime o di sangue. Lesse di quelle frasi sorprendentemente lucide sebbene intrise di terrore, e di quella incredibile testimonianza che portava con sé una inaspettata, incredibile speranza per il genere umano.

E Ilse Langner, la donna che aveva lasciato quella speranza tra le loro mani, racchiusa tra le pagine che Rico stringeva tra le dita, era morta per essa. Non che avesse avuto scelta, comunque.

Presa com'era da quell'agghiacciante lettura, non s'era accorta d'avere gli occhi gonfi di lacrime.

E quando sollevò nuovamente lo sguardo e incontrò quello di Zoe, carico dell'immortale, guizzante luce d'una speranza appena ravvivata, quella luce che, in fondo, c'era sempre stata, che l'aveva infastidita, ipnotizzata, resa completamente impotente e altrettanto innamorata...

...Seppe che dirle cosa provava ogni volta che metteva se stessa in pericolo, dirle di restare a casa a far finta di non curarsi di ciò che accadeva là fuori, del futuro dell'umanità e di tutto il resto, sarebbe stato inutile.

Dopotutto, in cuor suo Rico desiderava con tutta se stessa che quella luce non si spegnesse mai: per questo motivo, mai avrebbe osato cercare di essere l'artefice del suo epilogo, anche a costo di non riveder mai più tornare a casa colei che ne era portatrice.

Lasciò che Zoe le narrasse ogni dettaglio del ritrovamento, dal cadavere della soldatessa fino alla promessa da parte di Erwin Smith di lasciarla operare e sperimentare direttamente su titani vivi, poi si alzò di scatto, il volto tagliato a metà da un sorriso triste.

Zoe cessò di raccontare e si chinò su di lei, i gomiti sulle ginocchia e il capo tra le mani.

«Ti senti bene?» sussurrò candidamente, sbattendo le ciglia. Rico scosse energicamente il capo.

«Temo di non poter restare ancora qui» mormorò, incamminandosi a passo svelto in direzione della porta, determinata a lasciare quel luogo prima di poter avere qualche ripensamento.

«Sei appena arrivata, non puoi andartene»

«E invece posso»

Si chinò ad afferrare il proprio bagaglio in un gesto plateale, stringendone il manico più forte che poteva, perchè la sua mano non lo lasciasse andare di propria volontà.

Se si fosse soffermata troppo a lungo in quella stanza, probabilmente non avrebbe più trovato il coraggio di lasciarla.

«Non voglio costringerti a scegliere tra me e i titani, Hanji» sorrise, stringendosi mestamente nelle spalle. «E non voglio neppure che tu mi corra dietro: questo è sempre stato il mio compito, ma temo di non esserne più capace. Sai... Io non credo di poter sopportare l'idea che tu...» si fermò a metà della frase, tirando su col naso e asciugandosi con una manica della giacca le guance rigate di lacrime che, pensò, proprio non ci volevano.

«Non è quello che mi dicesti quando scelsi di entrare nell'Armata, Rico» sibilò Zoe.

C'era qualcos'altro, nei suoi occhi, ora. Qualcosa di nuovo, qualcosa che non le piacque per nulla.

Delusione.

«E che ne è di quello che mi dicesti tu, invece?»

Strinse ancor più forte la presa.

«Questo non ha nulla a che fare con il modo in cui gestisco la mia vita. Hai sempre detto di fidarti di me, come puoi credere che...»

«Io non avrei mai potuto dire una cosa del genere»

«L'hai detta eccome»

«Non a te, questo è certo»

«Ero tra le tue gambe, accidenti!»

Non era la prima volta che sentiva Zoe alzare la voce. Benchè non vi fosse stato molto spazio, nel loro passato, per dispute e litigi, concedersi il lusso di qualche acceso battibecco non aveva fatto che condurle a condividere, a comprendersi, a sostenersi meglio di quanto chiunque altro facesse: alla fine, c'era sempre spazio per una risata nervosa e per un abbraccio imbarazzato.

Ma c'era una nota, il quel latrato di pessimo gusto, che la fece sentire ferita, proprio come una parte di lei sentiva di meritare, nonostante il suo gelido, impietoso orgoglio.

«Non ti permetterò più di farmi sentire come sbagliassi qualunque cosa io faccia o provi per te. Sentiti pure libera di rischiare la tua vita ogni giorno, se questo è ciò che desideri. Sono stata davvero una stupida, se ho seriamente pensato di volerti cambiare: non lo voglio, so che sarebbe sbagliato e impossibile. Ma per favore» scandì, lentamente, sforzandosi di mantenere ferma la propria voce, cosa che le riusciva disgraziatamente molto, molto male. «Per favore, te ne prego, lasciami andare. Non costringermi ad aspettare un cadavere per il resto dei miei giorni»

Non fu abbastanza coraggiosa da guardarla dritta in volto, mentre infilava la porta. Qualcuno chiamò il suo nome, la salutò, ma non osò fermarsi. Corse fuori più rapida che potè, del tutto dimentica di non aver chiamato alcuna carrozza: poco male, si sarebbe unita alla prima diligenza che fosse partita dal Quartier Generale.

Non sarebbe tornata indietro.

 

Zoe non la vide dalla finestra, quando si fermò sul ciglio del sentiero, seduta sulla propria valigia, in attesa d'un passaggio o semplicemente delle parole giuste: sebbene non sapesse bene quali esse fossero, se l'avesse vista non avrebbe esitato a correrle dietro.

Perchè, benchè Rico non le avesse mai dato motivo per farlo, aspettava solo che, un giorno o l'altro, lei lo facesse.

Si rigirò il taccuino tra le mani, quasi a voler trovare una risposta tra quelle righe che gliene avevano fornite tante, ma quello tacque.

Scese con un piccolo balzo dalla scrivania soltanto per tirare un debole calcio alla catasta di libri ai suoi piedi, sopra i quali poi si abbandonò. Si sfilò gli occhiali, slegando il laccio che glieli teneva saldamente ancorati dietro il capo, e li gettò lontano. Strinse il taccuino a sé.

In qualche modo, Ilse Langner era qualcuno che poteva definire “un'amica”. L'indomani avrebbe restituito alla sua famiglia i pochi suoi averi ritrovati nella foresta, un manto macchiato di sangue e la testimonianza più preziosa in possesso della razza umana: quasi la turbava, il pensiero di doversene separare.

Non aveva mai amato gli addii, e stentava a fidarsi degli “arrivederci”.

 

Neppure il caporale, dopo aver bussato più volte e con veemenza alla sua porta senza aver ricevuto risposta, ebbe cuore di svegliarla. Qualcuno gettò una coperta su di lei, qualcun altro cucinò qualcosa da farle mangiare quando si fosse svegliata; qualcuno, avendo origliato la conversazione, sparse la voce di non nominare mai più Rico Brzenska nel Quartier Generale dell'Armata Ricognitiva.

Nessuno osò contravvenire a quell'ordine.

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