Le Cronache del Basso Scordato.

di Yssel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il suono in una scatola. ***
Capitolo 2: *** Charlie la piccola. ***
Capitolo 3: *** Amor(t)e. ***
Capitolo 4: *** Non voglio rose. ***
Capitolo 5: *** Joh Il Pericolo. ***
Capitolo 6: *** Tesoro mio. ***



Capitolo 1
*** Il suono in una scatola. ***


Entrava uno spiraglio di luce dalla finestra chiusa, le tende erano raccolte ai lati della struttura di legno, il sole mattutino emanava calore fra le pareti, le coperte chiare lo assorbivano e lo facevano passare, come se fosse liquido, sulle gambe magre della ragazza mora che respirava piano, rilassata, con gli occhi semichiusi da poco svegli. Dall’ altra parte del letto, che aveva passato l’ ennesima notte insonne, c’ era Red, con l’ alta coda rossa scomposta. Aveva letto un libro, pensato di sfamare il suo stomaco alle due di notte con una piattata di pasta, e poi si era ritrovata a guardare la mora con aria sognante- cosa che non accadeva praticamente mai. Si perse in quelle clavicole, nell’ incavo del collo che scendeva e si ammorbidiva sul seno pronunciato, nascosto dalla vergogna e dalle lenzuola che lasciavano intravedere le curve contro la luce.
Red rimase incantata da quel viso che, per una volta, non era fasciato da un cappello nero o dagli occhiali ingombranti ed allungò le dita in una dolce carezza per poter fare subito sue quelle guance, quegli zigomi poco sporgenti e, soprattutto, le sua pelle.
“Buongiorno.”, disse allora Red.
“Buongiorno.”, rispose l’ altra. “Ho fame.”, continuò, lamentandosi e storcendo il naso.
“Hai sempre fame, Charlie.” Affermò la rossa, ridacchiando appena, senza farsi sentire.
Le due si guardarono per qualche secondo, dopodiché Red fece scivolare una mano su un fianco dell’ altra, con cautela, sotto le coperte, e percorse l’ intero profilo delle sue costole nude con la punta delle dita, provocandole una cascata fredda di brividi. Charlie mugugnò, si portò le mani alle tempie e ravviò i capelli all’ indietro, portandoli a cavallo dei padiglioni piccoli e arrossati. La mano di Red, prontamente, si avvinghiò ad una coscia della mora e, con uno scatto impulsivo, fece da perno per poterle salire addosso. Charlie si perse a sua volta in quelle iridi, spaesata, e quando realizzò che il naso congelato della rossa stava sfiorando il proprio collo, le cinse le mani dietro la nuca e rilassò le ginocchia, adesso nude dalle coperte e dalle lenzuola. Le dita di Red seminarono le loro impronte sulle ossa del bacino di Charlie e infine, con movimenti circolari e sicuri, il suo stomaco piatto.
“Anche tu hai fame?” Pigolò la più piccola, scuotendo la testa e sorridendo di fronte ai morsi controllati che le stampava addosso Red. Quest’ ultima, senza rispondere, marchiò la linea della gola di Charlie ed arrivò più giù, gli sterni sporgenti, per trovare riposo fra i due seni che slittavano sopra la scatola toracica. La mora sospirò con assenso, Red posò le labbra sulle onde, sulla pelle accaldata e sulle venuzze celate con un autocontrollo disarmante, con estrema dolcezza, come se fosse la prima che volte che faceva una cosa del genere. Con le mani, affondava nelle cosce della ragazza, attenta a non stringere troppo le falangi attorno alla carne diafana e pallida. Dalle labbra scure, allora, sorse la lingua, e la sua proprietaria divorò con una linea retta tutto quel petto, concludendo l’ azione con lo scoccare un bacio a Charlie e gioendo della sua smorfia dovuta al troppo zucchero presente in quel gesto.
Red si tirò sulle ginocchia e trascinò con sé la più piccola, che si aggrappò alla sua schiena tramite i talloni piantati nelle fossette di Venere appena visibili- e con lei attorcigliata al corpo uscì dalla camera per avviarsi verso la cucina, in cerca di qualcosa da far mettere sotto i denti al suo piccolo disastro.
Il caso volle che Joh, la bassista del gruppo, stesse proprio in quel momento versando il caffè alla sua Chelsea, a sua volta intenta a canticchiare una canzone fra i denti e che, appena viste le due ragazze nude entrare nella stanza, indietreggiò spaventata facendo finire il caffè sul tavolo. Chelsea si voltò distrattamente, sgranò gli occhi e si affrettò a coprirli.
“La dovete smettere con questa storia!”



































 
A Diggio e Giulia. 

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Capitolo 2
*** Charlie la piccola. ***






La sentivo respirare affannosamente, il suono passava ovattato attraverso il microfono del cellulare inutile che teneva fra i tremori a causa delle mani che continuava a mettersi sopra la bocca, come se volesse affievolire la voce, non farsi sentire. Odiava stare lì, Charlie, ed io non riuscivo più a mandarle continui messaggi dove le dicevo che la portavo fuori intere giornate se poi, una volta a casa, lei mi chiamava in procinto di un pianto, con l’ orgoglio piantato nel tono di voce e la volontà infondata di non versare altre lacrime, tante ne aveva sprecate. Le sue non erano preghiere, erano solo constatazioni. Lei aveva imparato a chiedermi aiuto, ma solo in casi estremi.
E quella sera, benché non ci fosse niente di urgente a dominare la sua disperazione e il suo soffocamento, lei aveva bisogno di me. Tutte le volte che qualcuno aveva bisogno di me, di Joh, a meno che non fosse una delle tante persone che non riuscivo a sopportare, io correvo veloce dal diretto interessato e gli offrivo non solo una mano, ma anche tutto il braccio.
Con Abby era stato così, ero riuscita a portarla in salvo dal suo inferno per farla riposare in un letto comodo e fresco tutte le sere, e l’ avevo fatto all’ oscuro di tutti, raccomandandomi che, quando sarebbe successo, lei non avrebbe dovuto lasciare alcun indizio su di me. Fece esattamente come le avevo detto, e il risultato era il suo viso assonnato che cadeva nelle zuppe vegane che le preparavo quando, a mezzogiorno, riusciva a tirarsi su dalle coperte. Adesso stava bene.
“Joh, ti prego.”
Non rivolsi parola a nessuno, era notte fonda e l’ unica sveglia ero io. Fissai i miei piedi nudi sul pavimento del bagno e sospirai, prendendo coscienza: quello che avrei fatto, dato che era l’ ennesima azione illegale che compivo, poteva benissimo ricadere non solo sulla mia reputazione ma anche sulle altre tre anime che vagavano per i corridoi di casa mia. Mi feci coraggio; con loro non avevo pensato, dovevo agire da impulsiva anche con Charlie. Chiusi il telefono fra una spalla e il collo ed afferrai la giacca scura che avevo ripiegato sulla scrivania dopo l’ ennesima cena fuori, socchiusi gli occhi e la infilai: “Apri la finestra e rimani ad aspettarmi.”
Mi sporsi verso le chiavi dell’ auto e tossii, maledicendomi subito dopo. Chelsea, nel letto, si voltò verso di me e per un attimo socchiuse un occhio. Sorrise e si rimise a dormire. Feci finta di niente, anche se avevo sentito il suo sguardo fisso sulla mia schiena coperta da nient’ altro che una canottiera. Noncurante di piegare la tela, misi le scarpe e percorsi le scale fino al piano di sotto- tutto con la luce spenta. Per fortuna- o sfortuna-, Red si era dimenticata anche quella sera di chiudere le persiane prima di andare a dormire, così rimanevo io, l’ ultima che scendeva per un giro di ricognizione e metteva a posto la confusione della rossa.
“Ti aspetto.”, pigolò Charlie dall’ altro capo del telefono, e la immaginai con gli spessi occhiali che le si appannavano per il sollievo.
“Arrivo con la Jeep, appena suono corri e non ti voltare.” Evasi nel vialetto che dava sulla porta sul retro, chiudendo quest’ ultima con massima attenzione, e mi assicurai di far tintinnare le chiavi assieme, in modo che Charlie le sentisse. Sussultò, seguita subito da un singhiozzo ed aspettò che io facessi il giro dell’ auto e che montassi e mi agganciassi la cintura al torace per rispondermi: “So che ci sei tu ad aspettarmi, non mi volto di sicuro.”, giurai di averle sentito un sorriso sul volto sciupato dalle notti insonni passate a fissare il soffitto o a suonare il piano, quando suo padre tornava a casa ubriaco e, con i suoi amici, pensava di prenderla in giro fino a che lei non cedeva e si andava a chiudere nella sua stanza, solo ed esclusivamente per mettersi un paio di cuffie ben salde nelle orecchie e lasciarsi andare alla luna, guardandola con ammirazione attraverso i vetri piccoli e in parte coperti dalle tende.
“Perfetto.”, attaccai, buttai il telefono sul sedile accanto al mio e sgommai verso Charlie, nella speranza di trovarla già giù, nel suo giardino, in attesa. Tirai vari pugni al volante, credendolo una possibile valvola di sfogo verso i semafori rossi, mi passai più volte i capelli ai quali non avevo riservato la minima attenzione e mi persi nelle luci sbiadite nel buio della notte, con qualche brivido freddo che entrava dalle maniche e si espandeva per tutto il tronco, fino ad arrivare a disperdersi sui fianchi e a scomparire in formicolii accennati sulle ginocchia.
Quelli che a me sembrarono anni, per via del caos notturno della città, furono manciate di minuti divorati dalla mia guida spericolata e frettolosa, che si placava solo ed unicamente alla vista di un’ autovettura della polizia. Le mie emozioni erano un continuo rincorrersi, si attaccavano alle radici di quelle che stavano per finire e si stracciavano le ossa, fino a sgretolarsi e a crearne delle nuove. Rabbia, frustrazione, bisogno di giustizia, voglia di urlare, rancore, risentimento, impazienza, impertinenza: tutto un insieme di cose che mi confondeva da cima a fondo e che, per una volta, non aveva niente a che fare con la mia apatia, piuttosto la tramutava in un qualche serio disturbo mentale meglio noto come l’ essere lunatica, pericolosa e lunatica.
Scossi la testa, presa alla sprovvista da un attacco di sonno, e ingranai la quarta, andando ancora più veloce ed aprendo i finestrini per riuscire a sentire i clacson delle auto e il vento che mi tirava perenni schiaffi capaci di storcermi il collo e farlo staccare dal mio corpo.
Nell’ ombra, la casa che fino a quel momento aveva abitato Charlie, parve un qualche edificio violaceo di periferia, balcone trasandato e colmo di edere che si arrampicavano lungo le sbarre congelate che reggevano la terrazza, la facciata scrostata in precedenza che poco dopo era stata ridipinta. A quanto pare, era stata ridipinta da un incompetente, dato che non aveva avuto l’ accortezza di accoppiare un semplice colore con il suo gemello. Si vedeva persino con quell’ oscurità, il distacco che v’ era fra un pezzo di parete e l’ altro, l’ uno scuro e l’ altro più chiaro.
Affinai le orecchie e tirai l’ ennesimo pugno sul volante, solo che stavolta il richiamo giunse a Charlie come un fischietto arrivava ai cani da caccia. La ragazza, i capelli sciolti sulle spalle ed anneriti dalla notte, comparve da dietro un cespuglio con un enorme borsone sulle spalle, prese a correre a perdifiato e giurai di riuscire a vedere il luccichio dei suoi occhi farsi spazio sul cruscotto della Jeep. Le feci segno di non parlare, di non aprire la bocca, e lei annuì, arrivando finalmente all’ auto, raggirandola come avevo fatto io solo poco tempo prima e raccogliendosi il viso fra le mani una volta seduta accanto a me. Non le feci neanche guardare casa sua un’ ultima volta, feci inversione e tornai indietro. Non le dissi niente mentre pianse con il borsone stretto al petto, non le dissi niente quando si tolse gli occhiali per potersi asciugare le palpebre umide e non le dissi niente quando mi guardò.
“Alla fine ce l’ abbiamo fatta.” Eravamo arrivate a metà strada, ormai lontane e calme. Avevo rallentato la guida, rendendola piacevole e addirittura morbida sull’ asfalto, azzerando qualsiasi forma di fretta mi accavallasse i nervi ed i neuroni. Ingombrante com’ era, il borsone nero le copriva tutto il viso e spiccava come un sacco da cadavere seduto su un sedile. Mi abbandonai ad una risatina, riportando gli occhi alla strada e ai finestrini, e Charlie si sforzò per riuscire a trasportare l’ ingombrante massa scura sui sedili posteriori. Sospirò e alzò le braccia sopra la testa, trovando riposo sul tessuto rigido che le teneva la schiena eretta.
“Non sai quanto sono contenta.”
“Adesso vivrai anche con Red, non sei felice?”
Si illuminò, si agitò sul posto e boccheggiò qualche parola, per poi ammutolire e tirarsi le mani sulle guance accaldate. Non era mai rimasta più di una notte con Red, la sua ragazza, non perché lei o io non volessimo, ma perché il padre di Charlie era rigiro su cose del genere, in più non sapeva dove la figlia andava, solo “da un’ amica”. Mi piaceva vedere Charlie zampettare in giro con una delle felpe della sua ragazza indosso, mi piaceva vederla volteggiare come se non avesse alcun problema e mi piaceva vederla felice quando condivideva con me e le altre casa mia. Le poche volte che succedeva e che faceva colazione con noi, le poche volte che bussavo al bagno e c’ era lei che urlava a gran voce di averlo occupato, le poche volte in cui accendevo il televisore e lei era d’ accordo con me sul guardare una partita di rugby, allora sì, allora potevo dire di essere felice anche io. Allora sentivo qualcosa, mi si scaldava il cuore, e allora non pensavo più a quanto melanconica fossi, pensavo a quanto fortunata ero ad avere attorno persone come Charlie.
D’ un tratto, la mia passeggera saltò sul sedile e tirò un urlo, cominciando a respirare male.
“Che succede?”, rallentai.
“Mi vibra il culo.”
“Fanculo, Chee, mi hai fatto impaurire.”
Si mise una mano sotto il sedere e ne estrasse il mio cellulare illuminato, lo schermo che andava ad intermittenza e il nome di Jenna a caratteri cubitali. Presi quell’ aggeggio e lo portai all’ orecchio, rifiutandomi di far rispondere Charlie in quanto lei stessa era la sorpresa per le mie musiciste.
“Dove cazzo sei, Joh.”, non era una domanda, ma una pacata affermazione che avrei dovuto, in qualche modo, sviare e portare su un altro discorso.
“Sono uscita un attimo, a Chelsea mancavano le sigarette.”
“Non mentirmi, dai.” La voce roca della prima chitarrista gracchiò nel telefono ed io, da brava bugiarda, sbuffai ed attaccai il telefono. Lo spensi senza perdere tempo e lo rimisi fra le mani della mora al mio fianco, che rimase a fissarmi perplessa. Avrei dovuto vedermela con Jenna, ma ne sarebbe valsa la pena.
Davanti a casa mia, Charlie esitò. Non scese subito, tentò di trovare sicurezza nel mio sguardo, ma tutto ciò che trovò fu ancora più insicurezza. Non sapevo come sarebbe finita, se tutto sarebbe andato bene, e non avevo certezze. Non potevo promettere alla ragazza cose non vere e, tanto meno, potevo mentirle come ero solita fare per il suo bene. Le misi una mano su una spalla, in un tentativo di confortarla, e mi chiusi fra le spalle, schioccando la lingua sul palato. La luce dell’ auto, sopra le nostre teste, si spense non appena girai le chiavi nel cruscotto e il motore tacque. Non le feci aprir bocca, sgusciai fuori dall’ auto e mi allungai ad afferrare il suo borsone, sollevandolo con l’ aiuto dei bicipiti, e trascinai Charlie con me, che puntò i piedi a terra per i primi secondi e infine si lasciò andare alle mie spinte. Continuai a tirarle dei colpetti sulla schiena fino a che non fummo di fronte alla porta. Mi feci spazio per poterla aprire e, senza rumore, riuscii a portare a termine la missione impossibile. Una volta dentro, salimmo le scale, Charlie sempre davanti a me, entrammo di nascosto nella camera di Red e la mora si bloccò a guardare la batterista dormiente e seminuda che aveva del tutto ignorato la presenza di coperte e lenzuola, facendole cadere ai lati del letto in mille pieghe.
Posai il borsone da una parte della stanza, mi accostai a Red e le scossi più volte una gamba, fino a che, con una bestemmia colorita, si alzò sulla schiena e spalancò gli occhi. Oh, la faccia che fece quando vide Charlie, la faccia che fece quando mi vide togliermi la giacca, la faccia che fece quando collegò le piccolezze di quelle tre presenze in più nella sua stanza. E dopo, l’ abbraccio, il salto che la più piccola fece per finire fra le braccia della su Red.
Mai riuscii ad essere più soddisfatta. 




A Giuls.

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Capitolo 3
*** Amor(t)e. ***









 

Joh guardava lo schermo, immobile, con la lattina di birra fra le mani portata vicino alla bocca. Stava guardando l’ ennesima partita di rugby con la differenza che la sua concentrazione era da tutt’ altra parte. Aveva sempre amato il rugby come sport, tanto che era persino andata a iscriversi alla squadra scolastica quando ancora frequentava le scuole, ed era parecchio brava: placcava, lanciava e faceva alla perfezione tutto quello che il mister le diceva di fare. Era riuscita ad essere la prima della classe di educazione fisica benché la materia non le piacesse per niente, ed aveva pensato che sì, per il rugby poteva anche fare qualche sforzo in più. Dopo la scuola cominciò ad abbandonare quello sport, a guardarlo solo attraverso la televisione, a parlarne e a sostituirlo con le ore in palestra per mantenere i muscoli che le si erano formati addosso. Ma niente più rugby.
Red, al fianco della bassista, si era accorta dell’ assenza del suo sguardo ormai da un’ ora a quella parte, e, sotto sotto, sapeva a cosa l’ altra ragazza stesse pensando. La rossa lasciò cadere le spalle sul divano, socchiudendo gli occhi e poggiando la sua lattina su un ginocchio, nel disperato tentativo di tenerla in equilibrio.
“Ci stai pensando ancora, vero?”, esordì allora, spostando lo sguardo sulle gambe divaricate di Joh, che non si muovevano di un millimetro. Quest’ ultima annuì distrattamente e prese un sorso di birra, deglutì e si decise a rivolgersi a Red, l’ unica che, se toccava quell’ argomento, era disposta a tranquillizzarla senza un qualunque senso di pietà nei suoi confronti.
“E’ passato tanto tempo da quando è successo, dici sempre di averlo superato. E poi guarda.” Red era un po’ come Joh, saggia. Spesso aveva ragione, per questo il rapporto fra le due durava e non era soggetto a liti. Si capivano, anche se con discreta difficoltà, intuivano il pensiero dell’ altra e vi si scagliavano senza pensarci due volte. Facevano di tutto a patto che l’ altra stesse bene.
“Guarda cosa?”
“Pensi ancora a lei.”
“E’ sempre intorno a me, penso sia normale.” Joh sospirò, passandosi la mano libera fra i capelli e sistemando infine gli occhiali sul naso. Era passato tanto tempo da quando ne avevano parlato l’ ultima volta e la bassista aveva già sotterrato i suoi morti- peccato che questi tornavano in vita e le prendevano a calci il cuore. Era come un continuo soffocare e riemergere, senza sosta, tutti i giorni, tutte le ore, tutti i minuti. Tutte le volte che vedeva il suo viso o sentiva la sua voce, non riusciva a passare oltre. Si fermava e pensava, talvolta sorrideva, e, solo segretamente, si concedeva il sapore amaro della delusione sulla lingua. Era come se Joh si stesse drogando, tutti i giorni prendeva una dose diversa e maggiore di stupefacente solo nella speranza di, un giorno, non sentire più niente quando l’ ago bucava la pelle. E Red, con questo, non poteva combattere.
La rossa scosse il volto, cercò il telecomando fra i cuscini e, appena lo trovò, abbassò drasticamente il volume del televisore- azione che indispettì Joh e le fece storcere la bocca.
“So che è difficile, okay? Lo so. E so anche che sei stanca dei miei discorsi perché sono tutti uguali, ma sono anni che stai così tutte le volte che lei non ti vede. Non importa quello che le dici, perché so che a volte senti ancora male. Io ti vedo, non sono una credulona.”
E la bassista sbuffò, alzandosi ed evitando quelle parole come se si fosse bruciata col fuoco. Si rifugiò i cucina, ma Red non la lasciò respirare e le fu subito alle costole, a braccia conserte. Joh cercò il cestino come se fosse cieca, aprì un’ anta dei mobili che lo contenevano e, trovatolo, vi lanciò la lattina vuota di birra. L’ errore madornale fu il mancare il cestino. La ragazza si accanì sull’ anta che aveva aperto e la chiuse con forza, con troppa forza. Red, in un primo momento, si spaventò, poi mutò la sua espressione in una delle più tristi e dispiaciute che potesse assumere.
La bassista si accostò al lavandino ed incassò la testa fra le spalle, tentando di riprendere il controllo e la calma. La batterista le sfiorò una scapola e fu colta alla sprovvista da un rivolo rosso che colava fino al buco dello scarico.
“Non dire nulla.”, anticipò Joh, sollevando la mano insanguinata.
“E che inventerai stavolta?”, domandò Red. “Che ti sei tagliata mentre cucinavi? E cosa cucinavi. I tuoi sentimenti?”
Joh, sconsolata, si voltò fino ad essere perfettamente davanti alla sua compagna di band. “Senti, non… Non ce la faccio. Davvero, non ce la faccio. E penso proprio che rimarrò sola per sempre, solo perché aspetterò lei. Era lei che mi ripeteva di non uccidere le mie speranze e per quanto io desideri arrendermi, non ce la faccio.” Detto questo, mise la mano nel lavandino e lasciò scorrere l’ acqua per cancellare dalla pelle tutto quel rosso.
“Finirà?”
“Mai.”

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Capitolo 4
*** Non voglio rose. ***












“Te lo avevo promesso, mantengo sempre le mie promesse.”, mi legai la cravatta al collo, lenta. Deglutivo rumorosamente, chiudevo gli occhi e respiravo per cercare di sembrare tranquilla, ma la verità era che, nonostante quello per me fosse un evento come un altro, stavo per legarmi legalmente ad una persona che, se fossi finita in ospedale, sarebbe stata la prima a saperlo. Avevamo espressamente chiesto di non fare niente di speciale, una cerimonia breve e sbrigativa, perché nessuna delle due aveva la minima intenzione di indossare un vestito bianco e giurare amore eterno di fronte a un prete. Il nostro ateismo compulsivo aveva quasi avvelenato del tutto il nostro modo di vivere, così ridevo sotto i baffi tutte le volte che lei bestemmiava perché le si incastravano i capelli lunghi fra i bottoni della giacca blu elegante. Scossi il viso e mi diedi un ultimo sguardo allo specchio. Ci eravamo fatte togliere le maniche benché fuori ci fosse la neve, ma era sempre stato così, sin da quando ci eravamo incontrare, “ci sposiamo sulla neve, vero? Adoro la neve, sai?”, perché io vivevo d’ inverno, vivevo a maniche corte e in bermuda, vivevo con il minimo e il massimo fra le mani. Era stata una promessa fatta senza pensare ma che, alla fine, era stata mantenuta. Avevo fatto di tutto per convincerla che quello non era mai stato uno scherzo, e, benché tra noi non ci fosse mai stato amore, dovevo. Perché era quello che volevo, era quello che le avevo promesso e che, quindi, tenevo a portare a compimento.
Ecco che lei si voltò e puntò i piedi a terra, imbarazzata deviò lo sguardo e mugugnò qualcosa sottovoce, un po’ per non farsi sentire e un po’ per attirare la mia attenzione. Lo faceva spesso. Intrappolò le dita fra quei fili rossi che le cadevano sulle spalle e mi fece un cenno con il mento.
“Tu sei pazza, Joh, non vuoi farlo davvero.”
“Se non lo avessi voluto, non lo starei facendo adesso. O sbaglio?”
Sorrise. Ventotto anni ed era ancora la ragazza di sedici anni che mi parlava attraverso un telefono non avendomi mai vista, fidandosi senza farsi mai problemi e lamentandosi come una bambina per poi autocriticarsi e balbettarsi sopra.
“Sposarsi? E chi l’ avrebbe mai detto.”, farfugliai.
“Muoviti, siamo in ritardo.”, borbottò la rossa, attaccandosi alla maniglia della porta che dava sull’ uscita.
“Chi vuoi che ci corra dietro, Beck?”





























 
A Rod.

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Capitolo 5
*** Joh Il Pericolo. ***


















Joh si era interessata al baseball. Oh, no, non da molto, giusto qualche ora. Non aveva mai avuto modo di comprare una mazza, da una parte perché non le era mai servita e dall’ altra perché il centro sportivo della città metteva a disposizione le attrezzature quando si organizzavano le uscite in gruppo e si andava a sfogarsi schiacciando qualche palla bianca alle reti dei campetti.
A Joh erano sempre piaciuti gli sport che la società etichettava come maschili, aveva sempre avuto una pessima mira ma l’ aveva affinata con tempo e pazienza. Era andata al negozio di sport dove faceva un salto tutti i mesi- colpa di Red che le fotteva la Jeep e che le scoppiava le palle da rugby passandoci sopra- e si era tolta lo sfizio di comprarsi una maledetta mazza da baseball. Camminava compostamente, le spalle erano tese e la bocca senza espressioni stampate su, era pomeriggio inoltrato, il sole cominciava a calare, le mani della bassista pizzicavano e con una di esse teneva salda la mazza, l’ altra sostava in una tasca. Andava spedita, sul marciapiede, con gli occhi fissi di fronte a sé come se avesse puntato la sua preda, preda che aveva nella testa da tanto tempo, così tanto che aveva piene le palle di aspettare a prenderla.
Quando li vide, sospirò. Aveva l’ opportunità di prendere ciò che aveva agognato per anni, e adesso non vedeva ad un palmo dal suo naso. Fuori e dentro, lei taceva. Le sue emozioni, la rabbia, si erano addormentate, in attesa; ma avevano gli occhi aperti. Sostavano sulla bocca del suo stomaco come lupi vigili, talvolta mugolavano per la fame, ma il controllo dettato da Joh era molto più forte di loro.
Lei era sempre stata una persona violenta, fin dai primi giorni di scuola. Occhi neri, braccia rotte, caviglie storte, le aveva viste e fatte tutte e- e poi era finita dallo psicologo. A cosa le era servito? A un beneamato niente. La rabbia e la violenza erano solo state messe al guinzaglio, il potere era stato passato al pensiero, e per quanto quella fosse una soluzione discreta, era allo stesso tempo controproducente. Quando i lupi cominciavano a ringhiare, si alzavano, scalciavano, sbavavano, e certe volte la mano faceva scivolare via il guinzaglio a causa della troppa forza di quelle zampe, determinate. Forse troppo.
Stavolta, la mano aveva mollato il guinzaglio di sua volontà.
Uno, due, tre passi, e Joh avvolse con la mano libera l’ altro capo della mazza, precedentemente sulla spalla, battendola sul palmo un paio di volte. E poi uno schianto, l’ aria vibrò per la potenza con cui le braccia di Joh avevano caricato il colpo e subito dopo, un corpo cadde a terra, bagnato. Ma non bagnato d’ acqua, bagnato di sangue. Joh mugugnò qualcosa, alcune schegge erano schizzate sul suo cappotto preferito e no, non le andava affatto bene. Prese di mira l’ altro, che era in procinto di risollevare il compagno caduto, alzò nuovamente la mazza e scagliò il secondo colpo, stavolta meno rumoroso ma pur sempre tonante.
La bassista guardò i due ragazzi a terra e sputò con disdegno ad entrambi, si voltò di spalle e riprese a camminare come se non avesse fatto nulla. Carezzò la mazza con sguardo vuoto, rabbia e violenza si erano buttate a capofitto sui due bastardi, senza ululare o ringhiare per il semplice motivo che era stata Joh ad ordinare loro di mordere. Da brave, avevano ubbidito e si erano rimesse a dormire sulla bocca dello stomaco, calme, con di nuovo il guinzaglio stretto al collo.
Così come era arrivata, e stava già pensando a dove bruciare la mazza in modo che non la trovassero.
 
 
“Non ho sonno, è inutile che continui a ripetermi che devo dormire.”, si lamentò Chelsea, incrociando le braccia al petto e sbuffando. Erano ormai due giorni che, anche con la presenza di Joh, la cantante non riusciva a chiudere occhio, e la bassista rimaneva a vegliare sulla sua insonnia, crollando ogni poco e riprendendosi subito dopo. Joh aveva le palle piene anche degli incubi della sua piccola, di tutto quello che le avevano fatto passare e che le stavano facendo passare. Prese la tazza di tea che aveva preparato per Chelsea e vi versò dentro il contenuto di una bustina, senza farsi notare, che ricacciò immediatamente in una tasca dei bermuda. Mescolò la polverina bianca con un cucchiaio e pose la tazza sul tavolo, di fronte alla cantante. Non essendosi accorta del trafficare di Joh, quest’ ultima prese un sorso e rabbrividì per l’ improvvisa ondata di caldo che le scaricò il tea lungo la gola. Da quando la bassista aveva imposto il tea inglese, nessuno si era opposto. Quella roba era buona e le altre avevano preferito accontentarla, almeno per quello. A Chelsea era piaciuto da subito e aveva preso gusto a farselo fare durante la notte o la mattina presto, in più non si era mai lamentata quando Joh le faceva la colazione e gliela portava a letto, oppure quando la lasciava sul tavolo in cucina perché doveva andare a lavoro o, ancora, all’ università.
Quelle due si ritrovavano sempre a quel tavolo, a bere tea e a rimproverarsi le cose. E anche in quel momento, Joh avrebbe voluto prendere la sua cantante a colpi in testa- uh, non per farla star male ma per farla dormire, perché non sopportava più le sue occhiaie scavate nel cranio.
Freddezza russa, così era stata definita la testa di Joh.
“Allora bevi, tanto tra poco ti addormenti.”
“Pft, non credo proprio.”
Gli occhi verdi di Joh saettarono verso la cantante e un sopracciglio si sollevò: “Tre, due, uno.”
“Perché conti?” Chelsea sbadigliò, l’ altra si stampò in volto un sorrisino soddisfatto e si rilassò lungo lo schienale della sedia. Portò le dita di una mano al livello dello sguardo e osservò le sue unghie torturate, sbuffandoci su. Aveva sempre ragione. Chelsea finì di bere e poggiò il mento su una mano per evitare di cadere, dato che le palpebre cominciavano a calare.
“Sono stanca.”
“Ah-ha.”
Joh si sporse, e la cantante non parve capire, ma non fece in tempo a domandare niente che le crollò la testa e la bassista le impedì di schiantarsi sul legno. Red scese le scale in quel momento e vide la scena di Joh che si caricava sulle spalle Chelsea, svenuta.
“Buonanotte.”, e Joh la tagliò corta, salì al piano di sopra con disinvoltura e scomparve. Red, perplessa, vide la tazza sul tavolo e la prese, la annusò, ma non trovandoci niente dentro la lavò e la rimise al suo posto. Pensò a quei pochi secondi che aveva visto per tutta la notte, in cerca di una possibile spiegazione a Chelsea che dormiva, il tea caldo e Joh che, sbrigativa, si era scrollata di dosso tutte le parole che avrebbe dovuto dire.
 
 
Jenna evase, sbraitando, nello studio di registrazione. Aveva i capelli scomposti e l’ occhio sinistro era soggetto ad un tic continuo, insopportabile. Chelsea smise di stringere la canna del microfono e guardò curiosa la prima chitarrista, e Joh, seduta sullo sgabello del pianoforte, alzò gli occhi verso di le, distogliendo l’ attenzione dagli spartiti che teneva fra le mani.
Ci fu un attimo di silenzio, poi: “Il cazzo di cane del vicino continua ad abbaiare e bau bau bau bau- non riesco a concentrarmi!”
Gesticolava, Jenna, e per poco non le usciva il fumo dalle narici. Joh si alzò, passò gli spartiti a Chelsea e la lasciò continuare a registrare, dopodiché chiuse la porta della sala e si fece accompagnare dalla chitarrista fino al giardino dove Red abbaiava a quel bulldog al di là della rete che divideva le due proprietà. La bassista tentò di zittire il cane come faceva di solito con quello che aveva lasciato dalla sua famiglia, parlando il tedesco, ma quella bestia non voleva tacere. Oh, beh, le persone avrebbero sentito non solo la voce di Chelsea, nel CD, ma anche il latrare dello stupido cane del Signor Stevenson.
Magnifico.
Beh, Joh avrebbe trovato il modo di non far accadere una cosa simile. Uscì dal giardino dello studio e camminò senza fretta lungo il vialetto della casa a fianco. Bussò alla porta, non degnando il cane che le abbaiava dietro la schiena di un minimo di sguardo, e, mantenendo la sua usuale espressione, represse la voglia di strozzare il padrone del cane quando le aprì.
“Oh, Monagham, buongiorno!” Sì, faccia di cazzo.
“Buongiorno. Mi scusi, il suo cane, qui, sta disturbando le nostre registrazioni.” Sempre pacata, lei. Niente convenevoli o giri di parole, la sporca verità usciva sempre dalla sua bocca. E dire che lei aveva persino insistito di evitare di accampare lo studio in centro città.
Il Signor Stevenson finse dispiacere e si portò una mano al petto, richiamando il cane: “Mr Tiny! Mr Tiny, fai il bravo bambino!” e il cane, attento a non sfiorare le gambe allenate della bassista, si riparò di fianco al padrone senza smettere di borbottare. “Devi scusarmi, non vorrei proprio che vi disturbasse, però non posso neanche farlo smettere di abbaiare, capisci? E’ un cane, i cani abbaiano.”
“Mi dia retta, la capisco. Anche io ho un cane, ma gli ho insegnato le buone maniere e non infastidisce le persone. I cani abbaiano, le zanzare vengono schiacciate se danno noia.” E detto questo, Joh fece retromarcia sorridendo, percorse il viale fino allo studio, tutto sotto lo sguardo sconcertato del Signor Stevenson e di quella zanzara di cane. Jenna stava suonando in un angolo dello studio, Chelsea aveva le cuffie calate sul collo e stava ordinando altri fogli, Red si stava abbuffando con la scatola di ciambelle che le aveva portato Charlie poco prima di andare ad un convegno che organizzava la sua università sui congegni nucleari. Joh entrò nella stanza dei microfoni, avvolse i fianchi di Chelsea con un braccio e se la trascinò addosso, sullo sgabello che aveva abbandonato.
“Che succede?”
“Pensavo che potremmo fare una visita in Russia.”
Il giorno dopo, tutte tornarono in studio: il nuovo album stava venendo bene, il manager le aveva lasciate una settimana da sole ed erano Joh e Jenna che si occupavano dei toni e dei volumi. Stavano registrando un nuovo pezzo da qualche minuto e la bassista stava andando bene- aveva insistito fino alla morte per registrare la traccia senza soste di alcun genere, e mancava veramente poco, ma… ma Jenna spalancò la porta e rise quando Joh bestemmiò a bassa voce.
“Sei desiderata.”
Questa poggiò il basso alla parete e tentò di mantenere la calma. Appena arrivò nella sala dei volumi, sorrise con innocenza. Il Signor Stevenson stava in piedi a guardare Red ridere: “Dov’ è Mr Tiny?”, urlò, verso la figura di Joh. “Dove lo avete messo?”
E l’ accusata si rabbuiò: “Lei ora se ne va. Con che faccia si presenta nella mia proprietà interrompendo il mio lavoro e buttandomi addosso accuse come quella di aver messo da qualche parte il suo cane? Si sarà stancato del cibo che gli da, che ne pensa?”
L’ uomo, convinto dalle poche parole dette dall’ imponente ragazza, girò i tacchi e uscì dallo studio- anche se Jenna lo costrinse cominciando a spintonarlo verso l’ uscita. Quando non ci fu pericolo che tornasse indietro, tutte le ragazze nella stanza si voltarono in sincrono verso Joh e fu Red a parlare: “Che gli hai fatto?”
“Non vuoi saperlo.”, e se ne tornò bellamente a suonare, lasciando tutte a pensare. Che avesse ucciso quel cane e lo avesse gettato nel lago sopra le colline?
 
 
 
Avevano approfittato della volontà di Joh per cucinare di ritrovarsi nel salotto, Chelsea raggomitolata in una felpa della bassista, schiacciata contro la poltrona, Red stravaccata sul divano con Charlie seduta sul suo culo e Jenna con la schiena poggiata al muro e le braccia conserte. Si scambiarono delle occhiate prima che la cantante aprisse le danze con un tiro di sigaretta.
“Ci sono troppe cose che non ci dice.”, sputò la prima chitarrista.
“Qualche giorno fa ha preso a mazzate i due che mi picchiavano a scuola.”, ridacchiò Chelsea, compiacendosene e ricevendo i borbottii contrariati delle altre.
“Ha fatto sparire il cane del vecchio stronzo.”, disse Charlie.
“Ha messo i sonniferi nel tea di qualcuno.”, Red si voltò verso le altre, non sentendo più il bisogno di fondersi con il tessuto che copriva il divano. Allora, quel Qualcuno, si rese conto di cosa era successo e rise di nuovo. La stava prendendo troppo bene.
“Secondo me è una criminale.”, continuò poi la batterista. “Un giorno o l’ altro saremo i suoi ostaggi, me lo sento. Abbiamo un’ omicida in famiglia.”
In quell’ esatto istante, Joh sbucò dalla cucina con un coltello in mano e la maglia completamente macchiata di rosso. Si levarono urla ovunque, a partire da Jenna e finendo a Red, che si era presa talmente tanta paura da afferrare Charlie per le ginocchia e risalire verso la superficie tirando calci ad ogni parte solida del divano.
“Che diavolo…”
“E’ Mr Tiny!”
E Joh capì. Si portò una mano alla fronte e sospirò, “La prossima volta col cazzo che vi cucino le bistecche.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 

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Capitolo 6
*** Tesoro mio. ***


 
“Mi rifiuto di festeggiare il Natale, piantatela.”
“Non festeggi mai un cazzo, certe volte dovresti sentirti.”
“Pensavo che con noi avresti almeno apprezzato l’ albero-”
“Che vi aspettavate, Joh lo Spirito della Festa?”, si chiuse la porta alle spalle, ringhiando. Guastafeste, triste, seria, gliele avevano dette tutte, e lei alla fine aveva dato in escandescenza, aveva afferrato il cappotto ed aveva risposto a tono. Sapevano perfettamente che Joh odiava qualsiasi tipo di festa che non fosse Halloween- durante la quale coglieva l’ occasione per vestirsi come un qualche mostro inventato da lei stessa medesima-, l’ aveva ribadito milioni di volte da tanti anni a quella parte, ma a quanto pare tutto entrava da un orecchio ed usciva dall’ altro. Non poteva farci assolutamente niente se non provava nulla nei confronti delle feste, non poteva certo obbligarsi a svegliare i sentimenti dove non ce ne erano mai stati. Prima di scorticarsi le nocche contro il muro di camera sua, allora, aveva preferito uscire a prendere una boccata d’ aria. Che lo festeggiassero da sole il Natale, Capodanno e tutte quelle stronzate lì, lei sarebbe stata di ritorno per notte inoltrata e si sarebbe scolata qualche bottiglia di birra per poi crollare ubriaca sul divano. Non le importava più niente, né delle decorazioni né di quello stupido albero che le avevano messo davanti al letto quella mattina. Tirò un calcio ben assestato alla lattina che aveva di fronte e la fece andare a sbattere contro il marciapiede dall’ altra parte della strada, se non fosse stato per i fari e il clacson, sarebbe finita sotto una macchina. Dio, non aveva voglia di mettersi a litigare con chiunque occupasse il trono in cielo per essere rispedita sulla Terra.
Si passò le dita sugli occhi stanchi, era sera ed i negozi cominciavano a chiudere, tutto cominciava a spegnersi al di fuori dei lampioni che continuavano ad illuminare le strade. Anche Joh si spegneva, più del solito. Arrivava quell’ ora della sera, ultimamente, in cui non riusciva più a sopportare le risate che la circondavano o anche solo tutto quello che vedeva fuori dalla finestra. Aveva perso l’ abitudine a mettere le cuffie per isolarsi, si sentiva come sorda. Sapeva solo che le serviva qualcosa per ricaricare le pile, perché non poteva continuare ad ubriacarsi per addormentarsi prima e soprattutto non poteva continuare ad ingerire pasticche per il mal di testa appena finiva di suonare- anche solo in camera sua.
Non lo sopportava, non lo sopportava.
Si fermò di fronte ad una vetrina per guardarsi il volto: aveva tutti i capelli scompigliati e qualche briciola di torta sul maglione scuro. Scrollò le spalle e cercò di sistemarsi i ciuffi che le cadevano ovunque, doveva tagliarsi i capelli o sarebbero finiti male, rasati a zero.
Si sentì osservata. Voltatasi da una parte, senza comunque distogliere lo sguardo dalla vetrina, notò che una ragazza si era bloccata a guardarla. Sollevò un sopracciglio; no, magari stava guardando qualcosa nella vetrina o, chissà, dentro il negozio. Provò a spostarsi, di poco. Hm, no, quella ragazza fissava proprio lei. Proprio Joh. La bassista si mise le mani ben salde nelle tasche, le pizzicavano per il caldo e la rabbia che stava gocciolando giù dalle falangi, dopodiché tornò a guardare se stessa. La ragazza avanzò di un passo. Un altro.
“Scusa.” Aveva la voce titubante, alzò un dito e puntò la vetrina. “Potresti smettere di fissare la mia amica lì dentro? Rischia di prendersi un infarto.”
Joh guardò prima in faccia la ragazza che aveva parlato e poi chiarì la nebbia che aveva in testa, notando che in effetti c’ era un’ altra ragazza ferma, immobile, dall’ altra parte della vetrina. Ed era anche rossa da testa a piedi. Joh rise, se le fosse arrivata qualche denuncia per molestie, avrebbe pagato il tutto, dato che non aveva voglia di spiegare il perché si era bloccata per una decina di minuti a fissare una vetrina, col suo sguardo convinto poi.
“Voi uomini dovreste vedervi, quando vi imbambolate.”
A Joh scappò da ridere. Agitò una mano in segno di saluto e riprese a camminare lungo la sua retta immaginaria, diretta chissà dove. Non passò molto che sentì un gran trambusto alle sue spalle, come se qualcuno stesse correndo senza curarsi del fiato. Ormai non sperava neanche più che fosse Chelsea, lei era stata una delle prime a guardarla on gli occhi tristi mentre portava via l’ albero di Natale dal suo comodino e forse una delle prime a prendersela per la sua scarsa considerazione.
“J-Joh!”, si bloccò all’ istante, le si seccò la gola. Ebbe quasi paura a girarsi per scoprire chi la chiamava, se fosse stata una delle ragazze dei suoi passati sarebbe stata molto capace di annuire e camminare come se niente fosse.
Invece no. Invece a correre c’ era quella ragazza tutta rossa in volto che cominciava anche ad arrancare e a tossire per la fatica che stava mettendo nelle ginocchia, si stava infilando con difficoltà il colbacco bianco e lentamente nascondeva i capelli blu sotto di esso, dimenticandosi della frangetta. Era buffa. “Joh.”, lo disse ancora, ma stavolta con un largo sorriso stampato sul volto, gli occhi che brillavano e una tranquillità che prima non c’ era. Come faceva a conoscerla?
“Scusa per lei, non ti conosce.” Ah-ah?
“Tu saresti…”, si sentiva un tantino scortese, la bassista, a domandare una cosa del genere.
“Dynboo.”
“Che razza di- hei, un attimo, è l’ anagramma di Nobody.”
La ragazza, Dynboo, alzò le spalle e strizzò gli occhi. “Sono una tua fan.”
“Oh.” No, Joh connesse un po’ più tardi quel concetto. “…Oh.” Non era decisamente abituata ad essere rincorsa per strada perché una fan voleva anche solo rivolgerle qualche parole. Insomma, no. Non succedeva neanche durante i concerti e tanto mano dopo di essi, Joh riusciva benissimo ad infilarsi nel tour bus senza il coro di ragazze in crisi ormonale che le mostravano le tette e tutti i loro beni. Non come Red, lei vedeva più tette mentre saliva sul bus che quando si ritrovava una Charlie gelosa davanti, a braccia conserte e con tutta l’ intenzione di farle pagare l’ aver sbavato davanti a delle terze abbondanti addobbate con del pizzo nero e- Joh, andiamo, non era il momento di fantasticare.
Dynboo si strinse nelle spalle.
“Hai mollato lì la tua amica che credeva ti volessi molestare per rincorrermi?”
“Quando mi ricapita di incontrare la mia bassista preferita che gironzola come se nulla fosse e si blocca ad aspettare le illuminazioni nelle vetrine?”
E quello strano sentimento che saliva dallo stomaco era abbastanza ambiguo: orgoglio, sicurezza, fame? Fame, sì, di orgoglio non ne aveva mai vista neanche l’ ombra.
“Adoro il modo in cui rispondi nelle interviste, i monosillabi lasciano sempre tutti spiazzati.”
“Non ne ho voglia.”
“Davvero non hai voglia di straparlare?”
“Per quello c’ è Chelsea.”
“Dov’ è?” Tasto dolente.
La strada cominciò a svuotarsi, qualche donna di mondo batteva i tacchi sull’ asfalto, appena uscita da lavoro e con il completo buono indosso, coperto da una qualche pelliccia che Joh guardava con dissenso ed orrore.
“A festeggiare.”, quasi non volle dirlo. Le sembrava una presa per il culo, probabilmente adesso erano tutte a sedere in soggiorno, pronte per sentirla rientrare e per prenderla a schiaffi. Perché ne erano capaci.
“Neanche a me piacciono le feste, sai?”, gesticolò Dynboo. La bassista non riuscì più a sopportare quella frangia tutta scomposta e cominciò a raddrizzarla, facendo diventare la povera ragazza ancora più rossa, se possibile. “Però Buon Natale, Joh, te lo meriti.”
“No, Tesoro, non mi merito nulla.”, sorrise amaramente, con un peso sul petto che, a dire la verità, la schiacciava un po’. Ma non se ne lamentò, lei non si lamentava mai di niente.
“Ti sbagli. Tu per prima dovresti essere fiera di te e meritarti quello che ti spetta. Non devi accontentarti dei secondi piani.”
“Ragazzina, basta farmi la predica.”
“Me l’ avete insegnato voi, nelle vostre canzoni.” Lei indietreggiò, adesso che aveva la frangetta a posto si sentiva, finalmente, meno ridicola di come era sembrata fino a quel momento. Ma quale ridicola, poi, agli occhi di Joh era apparsa come la persona più dolce che avesse mai conosciuto. Se solo avesse potuto sistemarle anche il laccio della felpa che le usciva dal cappotto sbottonato…
“Cominciamo ad insegnare troppe cose, ora mi metto a scrivere testi che vi spronino a fare sesso un po’ più spesso.” Pessima mossa.
“Ci sto.”, Dynboo guardava Joh dritta negli occhi, con le mani rifugiate nelle tasche a causa del freddo della sera. Emanava piccole nuvolette bianche e sembrava rincorrerle col naso, tanto che cominciò ad annaspare, bisognosa di un fazzoletto.
“Come, prego?”, la bassista non sapeva se ridere o piangere, aveva la bocca piegata da una parte e un principio di tic all’ occhio.
“Scrivi una canzone sul sesso che fai.”
“Tesoro, io scherzavo.”, Joh rise.
“Io no.”
E Joh ci rimase talmente male, ma talmente male, che quella canzone la scrisse davvero. 


























 
Tesoro mio. 

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