Le mille storielle di Mirto

di Lyca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** - Ok, in realtà non saranno mille - ***
Capitolo 2: *** Perché odi il mare? ***
Capitolo 3: *** Cieli Bianchi e Ragni Neri ***



Capitolo 1
*** - Ok, in realtà non saranno mille - ***


D’altra parte, che male c’era?

Il ragazzino appoggiò il cucchiaio di legno di abete nella scodella di legno di rovere, guardando fuori dalla finestra.

Alberi ed ancora alberi.

Passava le sue giornate lì, dal nonno, nella sua casetta nella foresta. Sì, certo, era bello lì, ma lui preferiva la città degli umani, gli piaceva andare lì ad osservarli da vicino. Gli piaceva l’odore delle signore di mezz’età che passeggiavano avvolte nei loro cappotti (perché avevano sempre dei cappotti), gli piacevano i colori delle signorine che arrossivano parlando di chissà quale storia d’amore, amava i cappelli.

Tutti i tipi di cappelli: quelli indossati dai vecchietti, dalle signore in carne, dai bimbetti più piccoli di lui e dai ragazzoni più grandi di lui.

Quello che più amava era tracciare le storie sui passi delle persone. Questo era un procedimento basato su due fasi:

  1. Sedersi (fondamentale), guardarsi intorno e scegliere un soggetto che potesse soddisfare la curiosità del giorno.

  2. Alzarsi (molto fondamentale), seguire la persona raccontandole la sua storia.

Anche quel giorno si sarebbe seduto, avrebbe osservato, si sarebbe alzato e avrebbe seguitato con la sua storia. Una storia al giorno era il suo ossigeno. Ne aveva bisogno per la sua esistenza.

Finì il suo latte di capra con biscotti al cioccolato e mise il tutto nel lavello di ceramica.

 

La casetta del nonno era sì, in effetti, del nonno, ma il nonno non c’era. Non sempre almeno. Qualche volta diceva che andava a parlare cogli alberi, o al raduno degli ornitorinchi, o a dormire dal suo amico tasso, che aveva avuto problemi recenti con i taglialegna e con quella famiglia di procioni che abitava appena sopra di lui. Fatto stava che spariva per molti giorni e tornava imprevedibilmente a volte di sera, a volte di mattino presto, sempre con un sorriso sdentato in faccia e quell’aria furbetta da vecchio merlo. L’inverno restava più a casa però, perché neanche a lui piaceva il freddo, mentre l’autunno era la stagione più movimentata. Cucinava cose strane con corteccia, piante raccolte di fresco e bacche di ogni tipo che il nipote non disdegnava, però lo stesso comprava biscotti e altra roba giù in paese.

La casetta in cui abitavano era nascosta, nessuno avrebbe potuto riconoscerla a parte i suoi stessi abitanti e qualche volpe che ogni tanto chiedeva se per cortesia potessero darle un po’ di carne. Su una collinetta circondata da erba alta, coperta da cespugli e le radici di un vecchio albero abbattuto da un fulmine, la casetta era quasi incastonata nella roccia, scavata per bene. Vi si accedeva da un breve corridoio che spuntava sull’altra parte della collina. Le pareti erano in pietra, il tetto in sterpaglia e dentro ogni cosa era fatta di legno. O ceramica. C’era l’ingresso che era anche soggiorno, stanza da pranzo e cucina; poi il bagno e due camerette. C’era anche un’altra piccola stanza al fianco della casetta, un recinto per la precisione, o una stalla coperta come diceva il nonno, in cui viveva Satellite, la loro capra. Era vecchia che non poteva avere più figli, ma inspiegabilmente continuava a campare e faceva pure il latte.

 

Mirto era uguale al nonno quando aveva avuto (cosa poco credibile) la sua età: grandi occhi neri da martora e capelli di identico colore cui morbidezza si sarebbe potuta comparare ai crini stopposi del pony della figlia del tasso.

No dai.

Al confronto, la criniera del cavallino si sarebbe potuta dire di seta.

Mirto era alto, forse un po’ alto per la sua età, ma comunque basso per un qualunque adulto. Era più o meno alto come una gamba. Non era grasso affatto, anzi era proprio mingherlino, ed aveva un collo magrino su cui torreggiava la testolina arruffata, che girava a destra e a sinistra come un gufo, anche se effettivamente no, non riusciva a girarla di 180 gradi come un vero gufo. Ma si stava allenando per riuscirci.

Anche le sue gambette erano lunghe e secche, e gli piacevano sia i pantaloni larghi che quelli stretti.

Il suo miele preferito era quello d’acacia.

Mirto uscì dalla casetta del nonno sulla collina, sgattaiolò tra l’erba alta, s’intromise tra gli alberi della foresta, giunse sulla strada di campagna in mezzo ai campi di zucche e cavoli e si avviò a passo asimmetrico verso la cittadella a valle del boschetto.

 

Nella città nessuno lo notava davvero. Tutti erano troppo impegnati a lavorare, a parlare, ad andare dove dovevano andare e di fretta per giunta. Perciò lui poteva fare quello che gli pareva: camminare a zig zag nella folla, sedersi sulla fontana della piazza centrale a buttare i sassolini ai pescetti, gironzolare per il piccolo parco e a volte arrampicarsi sui suoi alberi, che però non facevano mai frutti e se accadeva avevano un sapore strano, diverso da quegli degli alberi del bosco. Nessun poliziotto l’aveva mai preso per un orecchio e condotto a scuola, anche perché ce n’erano pochi in giro, così come c’erano pochi bambini e ragazzini. E poi Mirto sapeva leggere, scrivere e fare i conti, glielo aveva insegnato il nonno.

A Mirto piaceva anche leggere, anche se non era nato da lì il suo amore per le storie. Avrebbe scoperto solo più avanti che avrebbe potuto anche scriverle, le sue storie. Ma solo quando sarà alto almeno come due gambe intere.

Tornando alla città a valle del boschetto, destino o chi di per sé volle che quel giorno il bambino cogliesse con la coda dell’occhio subito una persona interessante per la strada. Si voltò, ed incominciò a seguirla.

- Mi scusi, mi scusi. - domandò spuntando da destra, per poi sgattaiolare alla sinistra del tale.

Ovviamente quello si girò a destra e Mirto ridacchiò sotto i baffi. Faceva sempre quello scherzetto e ci cascavano tutti. L’uomo, alto quasi due metri e magro come uno stecco, cercò di seguirlo con lo sguardo e infine riuscì a posare gli occhi azzurri sul ragazzetto, il quale arricciò il naso in una smorfia.

- Cosa c’è? Vado di fretta… - disse il tale.

- Salve, sono Mirto e mi piace il miele d’acacia. Tu chi sei? - chiese educatamente il bambino infilandosi un dito nel naso e sparando una caccola nel tombino, mentre camminava all’indietro davanti all’uomo. L’uomo corrugò la fronte stranito.

- Gregory Utcherson e vado di fretta. - rispose aumentando il passo.

- Certo, certo. - fece invece il ragazzetto - Bello l’ombrello. Ti da’ fastidio se ti seguo? -

L’uomo aggrottò ancora di più la fronte.

- No, fai pure. -

- Perfetto, perfetto. Sai, ho una storia giusto per te. Ti calza a pennello, anzi, ad ombrello. -

- Cosa…? -

- C’era una volta un gigante. - Incominciò.

- Ehy. -

- Il gigante viveva in un mondo senza colori, così lui e i suoi amici iniziarono a viaggiare in altri mondi per comprare i colori...e venderli nel loro mondo. -

Il tale ammutolì, rallentando il passo.

- Il gigante aveva un nome buffo, si chiamava Utchory Gregerson. -

- Un giorno trovò un mondo pieno di colori e ne rimase estasiato, ma aveva un solo ombrello e poteva catturare solo un colore. Così, Utchory raccolse il colore più bello, un colore che non aveva mai visto se non dentro di sé. Con il colore nell’ombrello, il gigante tornò a casa. -

- Senti, ehm, Mirto giusto? Perché… -

- Perché cosa? Perché mi piace il miele d’acacia? Ma è semplice! Perché è il più dolce di tutti. Comunque non interrompere la storia, che è maleducazione. -

Il tale si azzittì mestamente.

- Successe però che il gigante nel tornare a casa perse l’ombrello e senza sapere come si chiamasse il colore perduto né come ritrovare quel mondo, diventò triste. Si sedette sul soffitto di casa sua e si mise a piangere. -

- Bussò alla sua porta qualcuno, ma lui non rispose perché l’aria entrava dal naso nella gola facendo un rumore come delle unghie della maestra sulla lavagna. Qualcuno entrò lo stesso. Guardò in alto verso il soffitto dove era seduto il gigante a piangere e gliene chiese il motivo. -

- Avevo trovato un colore bellissimo, ma ora l’ho perduto, disse il gigante, nascondendo la faccia con le mani. La persona sul pavimento gli chiese che colore fosse, ma Utchory non rispose. -

- Mi dispiace per il tuo colore perduto, disse ancora la persona. Era un colore che non avevo mai visto, se non dentro di me, riuscì a dire il gigante. -

- La risata riecheggiò nella stanza, così il gigante tolse le mani dalla faccia con disappunto – mi piace la parola disappunto, a te no? Comunque – e vide il colore, il suo colore, nei capelli della ragazza sul pavimento. -

- E’ quello, disse lui. Lo so. E’ lo stesso colore che c’è anche dentro di me, disse la ragazza, così il gigante la prese nel palmo della sua mano sapendo che lei era solo sua e mentre lei gli appoggiava una piccola mano sul suo nasone da gigante gli disse che aveva gli occhi tutti rossi per le lacrime. -

Mirto si bloccò.

 

La fiumana di gente si fece più intensa verso mezzogiorno. Anche se quella era una piccola città in molti passavano tra le sue case di mattoni e legno. Mirto si accodò a un passante di mezza età con la barba piuttosto lunga, indossava una stupenda giacca blu scuro. Il ragazzetto spiò la sua espressione seria e l'altro fece finta di non notarlo, quindi il piccoletto imitò l'espressione dell'uomo e lo seguì per un tratto. Infine lo superò convinto e si piazzò davanti a lui per fissarlo. L'uomo lo guardò distrattamente con due occhiacci gialli. Mirto prese fiato fissandolo, ma prima che potesse iniziare a parlare l'altro si voltò e seguitò a camminare per la sua strada. Stizzito, il ragazzino recuperò la distanza e si mise a parlare, sempre stando alle sue spalle.

La prossima favola domani. Adieu mon amis!

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Capitolo 2
*** Perché odi il mare? ***


La fiumana di gente si fece più intensa verso mezzogiorno. Anche se quella era una piccola città in molti passavano tra le sue case di mattoni e legno. Mirto si accodò a un passante di mezza età con la barba piuttosto lunga che indossava una stupenda giacca blu scuro. Il ragazzetto spiò la sua espressione seria e l'altro fece finta di non notarlo, quindi il piccoletto imitò l'espressione dell'uomo e lo seguì per un tratto. Infine lo superò convinto e si piazzò davanti a lui per fissarlo. L'uomo lo guardò distrattamente con due occhiacci gialli. Mirto prese fiato fissandolo, ma prima che potesse iniziare a parlare l'altro si voltò e seguitò a camminare per la sua strada. Stizzito, il ragazzino recuperò la distanza e si mise a parlare, sempre stando alle sue spalle.

- C’era una volta un uomo che odiava il mare. Non se ne capacitava: insomma, era del suo colore preferito, e amava fare il bagno, il sale lo infastidiva un po’, ma finiva lì. Eppure, odiava il mare. -

- L’uomo prese la giacca e disse: vado a scoprire perché odio il mare. -

- Uscì di casa che il sole aveva appena lasciato le cime degli alberi e brillava in alto sui suoi capelli. -

- Cammina cammina incontrò una maga, donna saggia senza dubbio, e appunto perché doveva essere saggia le chiese: perché odio il mare? La saggia maga gonfiò il petto, perché un uomo aveva riconosciuto la sua saggezza e si era rivolto a lei per un problema, e così rispose: odi il mare perché è tempestoso, salatissimo e cattivo! Uccide e tradisce le persone! -

- L'uomo storse il naso. No, io amo le tempeste, non c'è niente di più bello di un mare in tempesta! esclamò superando la maga e andandosene. -

- Cammina cammina incontrò un drago, creatura magnifica e sicuramente più saggia della maga. Gli pose la domanda: perché odio il mare? e il drago rispose, guardandolo sdegnosamente dall'alto in basso: perché sei una creatura piccola e debole, tu hai paura del mare, perciò lo odi! -

- L'uomo storse il naso e disse: se non ci fosse la paura, il mare non sarebbe così affascinante! Tu non ne sai niente! e se ne andò via, proseguendo il suo cammino. -

- Cammina cammina, sulla scogliera, incontrò una bella sirena che si pettinava i capelli al sole. Le sirene conoscevano per forza il mare! Così l'uomo le si avvicinò e le domandò: perché odio il mare? -

- La sirena lo fissò a lungo e gli rispose: perché non puoi viverci come me! Se tu vivessi in mare potresti godere delle onde e delle correnti marine. -

- L'uomo storse il naso e rispose: non mi piacerebbe per niente vivere nel freddo e mangiare solo pesce! e se ne andò via, proseguendo il suo cammino. -

- Ormai l’uomo era stanco, ma continuava a camminare: incontrò una sfinge, e si fermò davanti ad essa. -

- Perché odio il mare? Le domandò, e quella: ho un indovinello per te. Cos’è che ha quattro zampe al mattino, due a mezzogiorno e tre alla sera? -

- L’uomo sbuffò storcendo il naso, imprecando contro la sfinge che non capiva proprio niente, e se ne tornò a casa insoddisfatto. -

- Finalmente a casa, l'uomo andò in bagno a lavarsi la faccia. Si guardò allo specchio e chiese: ma perché odio il mare? -




- Ehi, signore, secondo lei perché l'uomo odia il mare? - domandò Mirto al passante che stava seguendo, a guisa di sfida. Ovviamente l'altro non rispose, sfidandolo a sua volta, e il ragazzino continuò:

- Lo specchio esclamò: ma come! L’uomo odia il mare perché i suoi fondali sono inesplorati come i propri, entrambi gelosi dei propri segreti. Profondo, nessuno lo comprenderà completamente, cambia continuamente volto all'improvviso restando in realtà sempre lo stesso. Poiché il mare è lo specchio della sua anima, l’uomo lo detesta. -

Mirto guardò di sottecchi il passante, ormai erano affiancati, ma l'espressione dell'uomo era imperscrutabile. Improvvisamente, l'uomo si fermò.

Si fermò anche Mirto.

L'altro si voltò, osservandolo con quel suo sguardo giallo. Alzò una mano e premette sul naso del bambino con un dito. Il ragazzino fece due salti indietro, strofinandoselo corrucciato. L'uomo sembrò sorridere con qui suoi occhi enigmatici da gatto. Appena una piega delle labbra.

Si voltò e se ne andò.

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Capitolo 3
*** Cieli Bianchi e Ragni Neri ***


Quando si svegliò il giorno dopo, Mirto scoprì che i ragni non gli stavano molto simpatici se venivano ad accamparsi nel suo letto di notte. Finché erano tende andava bene, ma quando incominciavano ad accendere falò per sciogliere i marshmallow gli dava un po' fastidio, sopratutto perché il letto si scaldava in maniera insopportabile. Arruffato come un gufo si andò ad appollaiare sulla sua sedia nella piccola cucina, il vaso di miele sotto braccio e la testa ancora mezza piena di sogni. L'altra metà era traboccante di dolce miele d'acacia. Quella sera il vento doveva aver giocato con la luna invece che col sole, che al mattino per ripicca si era nascosto dietro ad un cielo tutto grigio chiaro... A Mirto piaceva il cielo quando era di quel particolare grigio accecante. Prese le scarpe e le mise da parte, si mise i sandali. Correndo giù per la collina nell'erba alta intravide il nonno correre con i lupi in lontananza. Alto come una gamba e con gli occhi neri da martora, Mirto s’intromise tra gli alberi della foresta, giunse sulla strada di campagna in mezzo ai campi di zucche e cavoli e si avviò a passo asimmetrico verso la cittadella a valle del boschetto.


Quella mattina, che a lui piaceva tanto e non solo per il colore del cielo, ma perché il vento lo sospingeva dolcemente in giro , non sembrava altrettanto speciale per la gente. Sempre indaffarati, sempre di fretta. Mirto decise che gli odori nell’aria lo avrebbero guidato.
Volò come un passero tra gli alberi del parco seguendo il profumo di una ghianda maldestramente caduta dal nido di uno scoiattolo. Poi fece capolino in un vicoletto gocciolante umidità, con un gatto che per poco non lo acciuffava e l’odore dei liquami che lo faceva stranutire almeno due volte di seguito. Si sospinse fin nei retrobottega dei panifici e delle pasticcerie, annusando qua e là cercando di ascoltare cosa dicesse la brezza.
Con una folata improvvisa e gioconda il vento lo cacciò lontano da quei profumi avvolgenti.
No, troppo morbido! Via, via!
Ci vuole il serpente bianco! Ci vuole l’avventura!
Mirto giunse in una piazzetta, quella piccola con l’alberello d’arancio. Non c’era quasi nessuno.
Ci vuole qualcosa di pericoloso!
Un’altra raffica di vento lo fece voltare.
Ci vuole qualcosa di raro!
Ed eccolo lì il suo serpente bianco, la sua preda per quel giorno!
Un giovane uomo stava seduto su una panchina. La sfumatura della sua pelle era come quella del cioccolato al latte, di quello dolcissimo e buono, ma gli occhi erano malevoli. Mirto lo raggiunse con il suo passo elegantemente asimmetrico, osservandolo più incuriosito che intimorito. Il vento si era fermato.
Come le oche volano a sud durante l'inverno, così lui migrò di piastrella in piastrella fino a portarsi di fronte allo sconosciuto.

- Ciao, mi piace il miele d'acacia e adesso ti racconterò una storia, ce l'ho proprio sulla punta della lingua. - disse, mentre ondeggiava come una biscia in equilibrio sul piede destro.

L’altro lo squadrò in silenzio e Mirto non seppe se intendesse un muto si o un sibilato no.
- C'era una volta il vento. - cominciò Mirto, poi si fermò a guardare il cielo e riformulò: - A dire il vero, non c'era solo una volta. Quindi: c'era molte volte il vento. Giocoso, si divertiva a far il solletico alle persone mentre andava nella sua folle corsa. Il vento non si fermava a sentire cosa ne pensavano gli umani di lui: era troppo veloce, troppo preso dal suo gioco per pensare ad altri che a sé stesso. Vibrò in alto, sopra le case e sospinse gli uccelli per un po': ma era troppo noioso, così si spinse ancora più in alto. -

-In alto c'erano le nuvole. Quelle non erano molto simpatiche, ma il vento si divertiva a farle arrabbiare. Così incominciava a piovere e a tuonare, ma più pioveva e tuonava e più il vento si ingrossava e si divertiva. -

- Giungeva il momento però in cui non si divertiva più e allora scendeva, accarezzando le oasi nei deserti a cui non era stato dato ancora un nome: giocando con le dune formava turbini di sabbia che inondavano il cielo ed oscuravano il sole. Ma anche quello lo annoiava, e così lui scappava via nella sua folle, folle corsa. -

- Così sorridente e impertinente, per uno scherzo scivolato di mano il vento fa burrasca. -
Il ragazzino raggiunse la piastrella di fianco al suo ascoltatore saltando, voltandosi a guardarlo con una calma estranea ai suoi soliti modi.

- Finisce così la storia?- domandò il giovane uomo bruno con un sorriso sardonico.

- No.- rispose il bambino facendo un mezzo giro su se stesso
- Perché il vento non c’era solo una volta, ma tante altre. Continua a soffiare, spingendo il mondo a cambiare, agitando gli altri sperando di calmare sé stesso... Invano.-
Il vento scompigliò la sua testolina arruffata e quando si allontanò si lasciò alle spalle una panchina vuota.

 

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