Il tempo passa e tu non passi mai

di Nadie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fotografie ***
Capitolo 2: *** Stones ***
Capitolo 3: *** Temporale ***
Capitolo 4: *** Campo di grano ***
Capitolo 5: *** Piccolo pianto ***
Capitolo 6: *** Tempo ***
Capitolo 7: *** Non passi mai ***



Capitolo 1
*** Fotografie ***


Il tempo passa e tu non passi mai



Il buio ingoiava la stanza.
Il buio ingoiava i muri e le librerie a loro appoggiate, il buio ingoiava le finestre e la luce del sole, il buio ingoiava la poltrona e l’uomo che vi sedeva sopra.
Dei passi leggeri si avvicinarono alla porta della stanza e qualcuno entrò.
«Nonno! Basta con tutto questo buio!» una voce acuta sgomitò tra i pensieri che affollavano la mente dell’uomo sulla poltrona, ed una luce inaspettata lo accecò per un istante.
Una graziosa ragazzina aveva scostato le tende che per giorni e giorni avevano impedito alla luce del sole di attraversare i vetri delle finestre di quella stanza.
«Non ho voglia della luce, Marisolita, lasciami al buio, per favore» la ragazzina sbuffò e si mise seduta a terra, di fronte all’uomo, fissando gli occhi sulle sue mani macchiate dal tempo.
«Non devi stare al buio, nonno. E poi, ho portato una cosa…» saltò agilmente in piedi e sgusciò fuori dalla porta, rientrando dopo poco tempo con in braccio un'enorme scatola di cartone.
«Guarda qui» disse all’uomo, aprendo la scatola «ci sono tutte le tue foto e quelle della nonna. Tienile, così puoi scegliere quale… quale mettere sulla lapide di nonna.» l’uomo chiuse gli occhi e inspirò profondamente, la ragazzina sorrise debolmente.
«Coraggio, nonno, lei è ancora qui con te, ti sorveglia, ora è il tuo angelo custode e…» l’uomo scoppiò a ridere.
«Ma cosa ne vuoi sapere tu, Marisol? Tu non sai cosa significa, tu e tutti gli altri! Guarda, guarda di cosa ti preoccupi, di una stupida foto, della foto! Foto inutili, che sia maledetto chi ha inventato le foto! Guardale, guarda cosa ne faccio di queste foto, Marisol!» si alzò dalla poltrona e capovolse la scatola di cartone rovesciando milioni di foto sul pavimento, si inginocchiò e strappò tutte quelle che gli capitavano in mano.
«Nonno, nonno!» Marisol provò a fermarlo, ma l’uomo la spinse via.
«Vattene, Marisol, vattene!» e Marisol corse fuori dalla stanza in lacrime.
L’uomo restò a terra a fissare il pavimento sotto le suo ginocchia, un pavimento fatto di istanti bloccati e imprigionati.
Fotografie.
Si portò le mani al viso per asciugare le lacrime e vide sul suo palmo un viso incompleto.
Un bellissimo viso incompleto.
Era il viso di una ragazza con la pelle chiara e gli occhi scuri e profondi.
Ma a quel viso mancavano delle parti che erano state strappate via, il piccolo naso era senza una narice e le labbra erano curve in un sorriso spezzato.
Sullo sfondo si vedeva il mare di Barcellona piuttosto agitato.
Fotografie.
Chiuse gli occhi e provò ad immaginare il rumore di quel mare.
Lo sentiva, sentiva le onde nelle sua testa e il vento sul suo viso, sentiva la gente ridere e la sabbia entrargli nelle scarpe.
Quando l’uomo riaprì gli occhi il suo vecchio cuore perse un battito.
 
 
 
La ragazza è poco lontano da lui.
Dio, è così giovane ed ha tutto il mondo nei suoi occhi scuri.
È felice. La sente ridere. Quanto gli è mancata la sua risata.
Ma adesso lei è lì, vicina a lui, potrebbe correre verso di lei e prenderla tra le braccia.
È così bella, è così giovane.
Giovanissima.
L’uomo si alza in piedi e muove qualche passo incerto sulla sabbia.
La sabbia di Barcellona.
Anche la sabbia di Barcellona gli è mancata molto, troppo.
Si toglie la giacca perché il caldo di Barcellona è insopportabile con quella giacca addosso.
Un ragazzo gli passa accanto e lo spintona per sbaglio.
«Oh, mi scusi signore! Tutto bene?» quel ragazzo lo ha già visto, ne è sicuro.
Quel ragazzo gli assomiglia.
Hanno gli stessi occhi neri e le stesse fossette sulle guance.
Hanno anche la voce simile.
Il ragazzo fa un grosso sorriso e corre verso la ragazza, l’abbraccia e la bacia.
L’uomo lo guarda e non ci crede.
Non può essere vero.
Non può essere vero, vero?
Ma quel ragazzo sembra proprio lui da giovane, ha gli stessi capelli biondi e disordinati che aveva anche lui e lo stesso sorriso allegro.
E poi, conoscono entrambi quella ragazza con gli occhi scuri.
Il ragazzo la ama molto, si vede.
Anche lui l’amava molto.
E lei?
Anche lei lo ama.
Lo amava.
L’uomo si avvicina ad una donna che prende il sole e le scuote piano il braccio.
La donna apre gli occhi e lo squadra con un’occhiata infastidita.
«Scusi, può dirmi che giorno è oggi?»
«Il 20 agosto, perché?»
«Di che anno?»
«1960.» l’uomo resta attonito.
1960.
Quei numeri si confondono nella sua testa e lui crede di essere pazzo.
Pazzo, pazzo.
Ma come può succedere?
Come può una foto combinare casini simili?!
Non ci crede.
Non ci deve credere.
Non ci può credere.
Il tempo non torna indietro, e questo lo sanno tutti.
Allora cosa c’è che non quadra?
Cos’hanno quell’istante, quella spiaggia, quel sole, quel mare, quel ragazzo e quella ragazza di sbagliato?
O forse è lui, è lui ad essere sbagliato.
Loro sono perfetti, loro vivono il loro attimo e lui si è intrufolato dentro al loro tempo senza neanche chiedere permesso.
Si allontana dalla donna che prende il sole e si toglie scarpe e calzini.
La sabbia scotta sotto ai suoi piedi ma lui non la sente.
Lui, l’uomo, è felice.
Non capisce perché è finito in quella spiaggia, proprio nel 1960, non lo capisce proprio, ma è felice.
È felice perché la ragazza che ha amato è ancora lì con lui, viva, bella e giovane più che mai.
Si avvicina ai due ragazzi e li guarda baciarsi in riva al mare.
«Rubén, restiamo qui per sempre a guardare il mare, vuoi?» chiede la ragazza, e Rubén annuisce stringendola tra le braccia.
Rubén.
Nessuno, nessuno dopo quella ragazza ha mai detto il suo nome in quel modo.
Gli manca, gli manca terribilmente.
Vorrebbe andare dal giovane Rubén e dirgli di andarsene e lasciare che sia lui a stringere quella ragazza tra le braccia.
‘Tu hai ancora così tanti anni da trascorrere con lei. Io invece li ho finiti, gli anni, li ho finiti. E allora lasciami stringere la ragazza tra le mie braccia, lasciamelo fare un’ultima volta’
Li guarda mentre si guardano e sorride.
«Rubèn, mi ami?»
«Per niente.» risponde il ragazzo ad occhi chiusi «Ti amano già in tanti, Roxana, io no. Non ti amo neanche un pochino. Non capisci che sei parte di me? Tu mi stai dentro, sei nelle mie mani e sulle mie labbra, sei in fondo allo stomaco e dentro la testa. No, non ti amo, Roxana. Amarti sarebbe troppo poco. Io ti vivo, Roxana, ecco, così è più corretto: io ti vivo.» Roxana poggia il capo sulla spalla di Rubén e gli stringe le mani.
L’uomo sente che il vento sta diventando sempre più forte e vede qualcosa volargli sopra la testa e poi finire in acqua.
Sembra un’altra foto.
Entra dentro al mare di Barcellona, lascia che le onde agitate lo accarezzino e non appena prende in mano la foto l’acqua lo avvolge, lo capovolge, lo ribalta e gli entra dentro, la sente in gola, la sente nella carne, la sente nelle ossa.
Chiude gli occhi e poi non sente più nulla.
L’acqua scompare.
E l’uomo, Rubén, capisce che la foto lo sta portando da un’altra parte, lo sta spingendo dentro un altro tempo.
Fotografie.
 
 

Questa breve, brevissima long è nata da sola, per puro caso, c'erano i Negramaro in sottofondo che ispiravano e volevo scrivere qualcosa che sapesse un po' di Spagna, e quindi ho cominciato a scrivere senza fermarmi, ed ecco il primo capitolo.
Ringrazio tutti i lettori, silenziosi e non, e mi dileguo.
Hasta luego,
C.

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Capitolo 2
*** Stones ***


Stones



L’uomo è fradicio, sgocciola, ma l’acqua non c’è più e la spiaggia è scomparsa.
Adesso attorno a lui ci sono solo tante voci e tante luci.
E c’è la notte.
La notte di Barcellona.
La gente corre a destra e a manca, felice.
L’uomo si sente invisibile, nessuno lo nota, tutti lo spintonano e lo calpestano come se niente fosse.
E intanto lui continua a sgocciolare e bagnare la strada di Barcellona.
Chiude le mani a pugno ma qualcosa punge il suo palmo.
La foto.
La foto lo ha strappato via dalla spiaggia e lo ha sbattuto su quella strada di Barcellona sommersa di gente.
Avvicina la foto al suo viso e la studia.
Roxana e Rubén.
Di nuovo loro due.
Devono aver già superato i trent’anni, ma sembrano lo stesso giovanissimi.
Hanno un sorriso enorme sulle labbra e dietro di loro c’è una miriade di gente.
Roxana ha gli occhi un po’ lucidi.
Sotto la foto c’è una breve didascalia.
Rolling Stones, la Monumental, Barcelona, 11/6/1976.
Dannazione, ora sì che ricorda!
Il primissimo concerto degli Stones in Spagna, lui c’era, lui era lì, a la Monumental, insieme a Roxana.
Era stato uno dei giorni più belli della sua vita.
Adesso è di nuovo lì, gli basta poco per entrare di nuovo in quell’arena.
La gente preme verso l’entrata e lui si sente schiacciato, si sente un corpo in mezzo ad altri mille corpi.
Comincia a sgomitare e farsi strada tra la folla.
Lui deve entrare lì dentro.
Quel posto è suo, quel momento è suo e tutta quella gente è solo lo sfondo superficiale di un attimo che gli è rimasto dentro la pelle.
Andate via, tutto questo è solo mio.
Anche voi, tutti voi, dipendete da me e dalla mia memoria.
Andate via, lasciatemi passare.
Si fa largo tra i corpi con abilità.
Corre, corre attraverso i cancelli de la Monumental, supera le guardie e si ritrova dentro l’arena, dentro al suo momento.
Continua a sgocciolare e sgocciolare, l’acqua di Barcellona ormai è dentro di lui, ma poco gli importa, anzi, gli piace, essere bagnato e sporco di Barcellona lo fa sentire tremendamente bene.
Sente la musica.
La sente dentro di lui.
Gli anelli dell’arena sono già pieni.
Lui deve trovare Roxana e Rubén.
Deve trovare Roxana e se stesso.
Ma sono loro che trovano lui, perché loro vivono nelle foto e le foto vogliono che lui viva con loro.
Roxana e Rubén.
Sono in piedi, saltellano, cantano a squarcia gola e ridono.
Gli viene da ridere.
La musica si ferma e Mick Jagger sorride.
Poi Keith Richards muove le sue dita sulla chitarra e la folla lancia un urlo.
Roxana e Rubén si abbracciano e all’uomo sembra che lei stia quasi per piangere.
Quella canzone aveva un effetto simile su quasi tutti.
Non era solo una canzone, era una storia, una poesia.
“Ho una donna, vive nella parte povera della città, ogni tanto vado a trovarla e facciamo l’amore, è così bello. Poggio la mia testa sulla sua spalla e lei mi dice: raccontami tutti i tuoi problemi.”
Anche lui, anche l’uomo, come Mick Jagger, vorrebbe tanto poggiare la sua testa sulla spalla di Roxana e raccontarle tutti i suoi problemi.
Roxanita, da quando non ci sei tu non ci son neppure io. Ma perché sei andata via? Chi te l’ha detto di andare via? Chi ti ha dato il permesso di andare via? Roxanita, da quando non ci sei tu non ci son neppure io.
Roxana bacia Rubén e lui le asciuga una lacrima.
Chissà che sapore ha, quella lacrima.
Chissà cosa c’è dentro.
Roxana tira fuori una macchina fotografica dalla borsa e scatta una foto a se stessa e a Rubén.
Hanno un sorriso enorme sulle labbra.
Quella foto…
Quella foto è la stessa foto che lo ha portato lì.
Quella foto è la stessa foto che ha in mano.
Ma non ce l’ha più in mano.
Scomparsa.
Impossibile, pensa, e fruga nelle tasche della giacca che tiene sotto braccio, ma in quelle tasche trova un’altra foto, una foto diversa.
Se la porta vicino agli occhi per capire cosa ritragga, ma gli anelli de la Monumental crollano e lui cade, cade sotto le macerie, cade a terra, ma sotto di lui non c’è più terra, sta cadendo nel vuoto, sente il tempo intorno a lui impazzire ed andare avanti e poi tornare indietro, chiude gli occhi e cade, cade, cade, cade sotto ai minuti, cade sotto alle ore, cade sotto ai giorni, cade sotto ai mesi, cade sotto agli anni, cade, cade, cade.
E poi si ritrova sdraiato sopra un prato verde.
È successo di nuovo.
La foto lo ha portato da un’altra parte.
In un altro momento.
 
 
 

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Capitolo 3
*** Temporale ***


 
Temporale


Fragili fili d’erba restano schiacciati sotto la schiena dell’uomo e gocce di pioggia gli bagnano il viso.
Si rimette velocemente in piedi ed indossa la sua giacca.
Guarda a terra e proprio lì, nel punto esatto in cui prima c’era la sua schiena, adesso c’è una foto.
La raccoglie e la studia con meticolosità.
Dentro la foto sta piovendo e c’è un ragazzo fradicio che ha l’aria d’esser triste.
È seduto su una panchina verde in mezzo ad un parco.
Ha i capelli biondi e ricci tremendamente disordinati e gli occhi neri fissi a terra.
È Rubén, e sembra ancora un ragazzino.
L’uomo si guarda intorno.
Anche lui è in piedi in mezzo ad un parco.
Gli sembra proprio lo stesso parco della foto.
Fa un giro su se stesso e i suoi occhi studiano ogni cosa, cercano Rubén e la sua panchina verde e li trovano poco dopo.
Rubén sembra non sentire nemmeno la pioggia di Barcellona che lo bagna, è immobile sulla sua panchina verde e fissa l’erba sotto i suoi piedi.
Una ragazza completamente bagnata posa i suoi occhi scuri su Rubén, poi mette le mani nella tracolla che le pende sul fianco e tira fuori una macchina fotografica.
Si scosta i capelli sgocciolanti sul lato sinistro del collo e scatta una foto a Rubén.
Lui alza gli occhi infastidito, poi il suo sguardo incontra il bel viso della ragazza e le sue labbra si incurvano in un sorriso curioso.
L’uomo si mette seduto sotto un albero in prossimità della panchina verde e li osserva.
La ragazza è la creatura più bella che abbia mai visto.
L’odore della sua carne bagnata si mischia con la pioggia e si fa strada nelle sue narici, e lui inspira, inspira il suo odore, lo imprigiona nel naso e se lo tiene stretto.
Quell’odore non deve più andare via.
La ragazza mette via la macchina fotografica e si siede accanto a Rubén.
«Scusa per la foto, non volevo darti fastidio, hai un viso così pieno di tristezza e allora ho pensato: “forse se gli faccio una foto un po’ della sua tristezza si verserà dentro la mia macchina fotografica e allora lui si sentirà più felice”» Rubén fissa le labbra carnose della ragazza e pensa che vorrebbe mandare tutto al diavolo e baciarla.
“Non importa se sei una sconosciuta, regalami le tue labbra e io ti lascerò scattare altre mille foto al mio viso triste”
«Roxana» aggiunge la ragazza e gli tende la mano sorridendo.
Rubén resta un attimo immobile, gli occhi negli occhi di Roxana, poi abbassa lo sguardo sulla sua mano tesa e la stringe.
Intreccia le sue dita alle dita di Roxana e si avvicina piano a lei.
Quanto è bella Roxana.
Quanto è bella la sua pelle chiara.      
Quanto sono belli i suoi capelli bagnati.
Quanto sono belli i suoi occhi scuri e profondi, Rubén ci è caduto dentro e spera di finire sempre più giù, fino a raggiungere lo stomaco di Roxana e restarle dentro.
L’uomo guarda Rubén e sorride.
Ci sei cascato in pieno, eh?
«Io sono Rubén» le dice e stringe più forte la sua mano.
«Ti piace la pioggia, Rubén?» chiede Roxana, poi chiude gli occhi ed alza il capo verso il cielo e la pioggia scivola sul suo viso e le bagna la pelle.
“No, no Roxana, la pioggia non mi piace per niente, ma questa pioggia, questa pioggia che bagna il tuo corpo mi piace più di ogni altra cosa al mondo. Anzi no, non mi piace. Non mi piace perché sono troppo invidioso di lei. Questa pioggia maledetta. Lei può toccarti e scendere nelle parti più intime del tuo corpo senza farsi problemi. Vorrei essere questa pioggia, Roxana. Vorrei essere questa dannata pioggia.”
Pensa Rubén, l’uomo lo sa, lo sa perché ciò che pensa Rubén è ciò che pensa anche lui, che pensava anche lui.
Quel Rubén seduto sulla panchina verde vicino a Roxana ha la testa piena dei pensieri dell’uomo, ha gli occhi dell’uomo, i capelli dell’uomo e le labbra dell’uomo.
«Sì, mi piace la pioggia.» mente Rubén e Roxana riapre gli occhi e lo guarda.
«Sei innamorato, Rubén?» non risponde, lascia la domanda appesa ad un filo inconsistente e intanto guarda Roxana e i suoi capelli bagnati.
E allora l’uomo risponde al suo posto.
Roxana, quel ragazzo l’amore non ha idea di cosa sia, ma neanche tu, neanche tu sai cosa sia l’amore e nemmeno io, nemmeno quell’anziano signore che legge sull’altra panchina e nemmeno il Papa o Shakespeare sanno cosa sia l’amore.
Cos’è l’amore l’amore, Roxana?
Dov’è l’amore, Roxana?
Per me ‘amore’ era la tua pelle chiara e il tuo neo sotto l’occhio sinistro, per me ‘amore’ erano le tue mani calde e gentili, per me ‘amore’ erano le tue labbra e i tuoi occhi scuri, ci sono finito dentro, sono affondato dentro di te e sono caduto oltre la tua pelle.
Ma poi hai chiuso per sempre i tuoi occhi scuri e allora ‘amore’ mi ha abbandonato.
Quel ragazzo, Rubén, lui non lo sa cosa sia l’amore, ma presto, troppo presto perché se ne accorga, comincerà a pensare che ‘amore’, per lui, sei tu, sei solo tu, Roxanita.
E allora se puoi, se puoi Roxanita mia, in questa vita qua, in questa vita fatta di attimi catturati al volo, non chiudere i tuoi occhi scuri, non lo abbandonare, resta con lui fino alla fine del mondo, resta con lui finché non smetterà di piovere, resta con lui e promettigli che questa volta non te ne andrai.
Perché da quando non ci sei tu, non c’è più neppure lui.
Neppure io.
Rubén stringe la mano di Roxana e scuote la testa.
«No, prima non ero innamorato.» le dice e Roxana sorride.
«Ed ora?»
«Ora è cambiato tutto.» le risponde e avvicina le labbra alle sue, si baciano e mischiano i loro respiri, versano la propria essenza l’uno nel corpo dell’altra e viceversa.
Qualcosa cade a terra, vicino all’uomo.
Una foto. Un’altra.
L’uomo la prende in mano, poi lancia un’ultima occhiata a se stesso e Roxana che si baciano sotto la pioggia e sussurra: ‘sono pronto’
E allora dalla terra spuntano delle enormi radici che si aggrovigliano attorno alle sue gambe e lo trascinano giù, giù nel fango, giù nel terreno, giù nel centro della Terra.
E il suolo lo risucchia e poi lo sputa fuori e lui si ritrova in un campo di grano, tra le spighe più alte che abbia mai visto.
Ormai appartengo alle fotografie e loro mi portano dovunque, in qualsiasi momento.
Sorride.
 
 
 

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Capitolo 4
*** Campo di grano ***


Campo di grano


Le spighe sono sopra di lui.
Le spighe sono sotto di lui.
Le spighe sono attorno a lui.
Le spighe sono dappertutto.
L’uomo si alza a fatica, riemerge da tutte quelle spighe e il sole lo acceca per un attimo.
Protegge gli occhi con la mano destra e si guarda attorno.
Ci sono due ragazzi che ridono e si baciano.
Roxana e Rubén.
Lei indossa un bellissimo abito bianco e la sua schiena è nuda.
Quella schiena è senz’altro la più bella schiena che l’uomo abbia mai visto, vorrebbe tanto accarezzarla, seguire la spina dorsale con un dito e baciare ogni neo, ogni piccolo neo di quella pelle perfetta.
Rubén si toglie la giacca elegante e la lascia cadere a terra, tra le spighe, poi si avvicina a Roxana e la bacia, la bacia ancora, ancora e ancora.
Si sono sposati.
L’uomo lo sa, lo ricorda.
Muove qualche passo avanti e si accorge di aver calpestato qualcosa.
Una foto.
La foto.
La foto che lo ha riportato a quel momento.
La raccoglie.
Dentro ci sono un campo di grano con le spighe più alte del mondo e Roxana e Rubén che si baciano.
Sotto c’è una piccola didascalia: Roxana y Rubén, boda, Barcelona, 9 Junio 1965.
L’uomo posa di nuovo gli occhi su Roxana e Rubén e vorrebbe ucciderli, vorrebbe uccidere entrambi con un solo sguardo.
Ma perché mi fate questo? Perché non andate via? Roxanita, vai via di nuovo, ti prego, fallo adesso, porta via anche Rubén, fammi ritornare alla mia vita senza te, perché così non ce la faccio.
Ma perché le foto gli stanno facendo tutto questo?
Credono di aiutarlo?
Credono che sia facile?
Credono che lo renda felice rivedere ogni suo attimo con Roxana e poi ricordarsi che lei, nella vita vera, è andata via?
Che Dio se l’è presa e lo ha lasciato da solo davanti alla sua vita.
Davanti alla sua vita.
Ora come diavolo farà?
Senza gli occhi scuri di Roxana come diavolo farà ad andare avanti?
Roxanita mia, o resti per sempre oppure vattene via.
Si avvicina discreto a Roxana e Rubén e ascolta le loro parole, le parole di quell’attimo.
«Rubén, perché siamo finiti qui, così? Perché le nostre vite ora sono così vicine?»
«Perché era giusto così, perché il tempo ha voluto così, il tempo ha voluto che tu ti sedessi accanto a me su quella panchina cinque anni fa, ed ora siamo qui perché ci stavamo già cercando, perché io ho un pezzo di te e tu hai un pezzo di me e allora dobbiamo stare uniti, uniti sempre, amor.» le risponde Rubén e le accarezza i capelli.
«E se uno dei due, un giorno, se ne andrà?»
«Non succederà.»
Quanto sei sciocco ed illuso, Rubén.
Sciocco ed illuso.
Credi di sapere tutto ma non è così.
Non è affatto così.
Tu non sai niente, niente di niente.
Non sai che tra un po’ di anni Roxana comincerà a dimenticarsi di tutto.
Non sai che ti sveglierai nel letto senza nessuno accanto.
Non sai che delle maledette foto ti porteranno indietro nel tempo.
Non sai che ti rivedrai e penserai che sei solo un sciocco ed illuso.
Roxana volta il capo e si accorge che l’uomo la sta fissando, gli sorride e si avvicina.
«Salve. Ci siamo appena sposati, è un bellissima sensazione. Anche lei è sposato?» l’uomo resta interdetto, le parole rimangono sdraiate sulla sua lingua senza uscire fuori dalla sua bocca.
«Signore, tutto bene?»
«Sì, sì, sono sposato anch’io, è splendido.» risponde e sorride agli occhi scuri di Roxana.
«Sarebbe così gentile da farci una foto?» lui annuisce.
Roxana prende una macchina fotografica che stava nascosta tra le spighe, la porge all’uomo e poi bacia Rubén.
L’uomo scatta la foto e in quel momento, in quel preciso istante, le spighe cominciano a crescere alte, sempre più alte, alte fino al cielo.
La macchina fotografica gli cade di mano, Roxana e Rubén scompaiono tra le spighe, il mondo intero scompare tra le spighe.
E lui sente l’universo girargli attorno, sente le stelle impazzire e il cosmo diventare caos.
Poi le spighe vengono brutalmente risucchiate dal terreno, ed il terreno scompare.
Ora al suo posto c’è il pavimento di quello che sembra un ospedale affollato.
E l’uomo si ritrova in un corridoio che puzza di candeggina, con una foto tra le mani.
Un’altra.
 
 

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Capitolo 5
*** Piccolo pianto ***


Piccolo pianto


La foto che tiene tra le mani la ricorda bene, perché l’ha scattata lui.
Dentro c’è un bambino minuscolo, con gli occhi chiusi, che sembra stia urlando.
L’uomo alza il capo.
È in un ospedale, alla sua destra c’è un enorme vetro, ed aldilà del vetro ci sono della creaturine strane che devono essere appena venute al mondo.
Strillano e piangono.
I loro vagiti lo divertono.
Si avvicina al vetro e a fianco a lui arriva un ragazzo con gli occhi lucidi che osserva attento un bambino che si agita come un dannato.
Rubén.       
Sembra felice.
I suoi occhi neri sono fissi su quel bambino che piange e sembra che gli stiano dicendo qualcosa.
L’uomo vuole entrare nella testa di Rubén, nella sua stessa testa e leggere i suoi pensieri.
Chiude gli occhi e le voci dei bambini si spengono, cala il silenzio dentro a quell’ospedale e sente solo la voce di Rubén, la sua voce.
Smettila di piangere, piccolino.
Siamo collegati io e te.
Siamo collegati perché se sei qui, se sei arrivato fin qui da chissà dove, è anche grazie a me.
Non tornerai più indietro, piccolino, mettiti l’anima in pace e smettila di piangere.
Devi essere felice.
Devi essere felice perché tua madre è un essere perfetto ed anche tu, per mezzo di Lei, sei perfetto.
Devi essere felice perché sei stato parte di Lei ed ora Lei è parte di te.
Devi essere felice perché hai vissuto nel Suo corpo armonioso, devi essere felice perché la Sua coscienza è stata anche la tua coscienza, devi essere felice perché sei stato Lei ed ora Lei è te.
Piccolino, io non ti conosco ancora, ma già adesso, già adesso mentre guardo gli occhi scuri che Le hai rubato, già adesso mentre ti ascolto piangere come un disperato, penso che morirei per te.
Sono sicuro che morirei per te.
Io e te, piccolino, siamo legati da un filo invisibile ed inconsistente, un filo fatto d’aria e del nostro amore traslucido, un filo fragilissimo ed indistruttibile che ci tiene stretti, e così sarà per sempre.
Piccolino, smettila di piangere.
Adesso, piccolino mio, a partire da te e per mezzo di te comincia la mia storia, la tua storia, la Sua storia, la storia di tutti noi.
Siamo solo noi, piccolino mio.
Noi e ciò che è parte di noi, prometto che ti riempirò di me, e Lei ti riempirà di sé, piccolino, e allora sarai perfetto, sarai te stesso, sarai me e sarai Lei allo stesso tempo e avrai l’infinito nel petto.
Smettila di piangere, piccolino mio.
Smettila di piangere.
Sei piovuto dall’alto o dal basso?
Ti ha mandato Dio e sei venuto da solo?
Non importa, piccolino.
Non importa.
Non importa perché parte tutto da qui, parte tutto dal tuo pianto, ciò che sei stato prima non è un tuo problema, non è un mio problema, non è un Suo problema, è un problema universale, un problema senza la soluzione, la soluzione sarebbe ricordare, ma io non ricordo, il signore a fianco a me non ricorda, e tu? Tu, piccolino mio, ricordi? No, quel ricordo lo ha mangiato il cielo, e allora lascialo lassù, dimentica ciò che eri lassù perché ora sei qui e qui resterai per sempre, piccolino, un giorno non sarai più piccolino ed incontrerai una ragazza bella come tua madre, sarà difficile, lo so, ma accadrà anche a te e lei ti regalerà un piccolino a cui dirai le stesse cose che ora io dico a te.
Smettila di piangere, piccolino,
Ascolta il tempo che si mette in fila avanti a te e ti prepara anni nuovi, felici e pieni.
Ti daremo tutto quello che abbiamo, piccolino.
Ora smetti di piangere che la mamma vuole vederti, vuole toccarti, vedrai, vedrai com’è bella, tu ora sembri un mostrino, ma sarai bello come Lei, vedrai.
Smettila di piangere, piccolino.
L’uomo riapre gli occhi e il pianto dei bambini scivola prepotente nelle sue orecchie.
Rubén prende una macchina fotografica dalla tracolla che gli pende sul fianco e scatta una foto al bambino, al mostrino.
È la foto.
La foto che lo ha portato in quell’ospedale.
La foto che tiene ancora in mano.
Rubén sorride e volta il capo verso l’uomo, allungandogli la foto.
«È mio figlio. Ora non sembra tanto diverso dagli altri bambini, lo so, ma quando crescerà diventerà bello come sua madre, ne sono sicuro. Vuole sapere perché ne sono sicuro? Perché sua madre, cioè mia moglie, è la donna più bella di Spagna. Anzi, del mondo. La più bella del mondo.»
L’uomo vorrebbe rispondergli che lo sa, lo sa che la moglie di Rubén, che sua moglie, è la donna più bella del mondo, ma si limita a sorridergli ed annuire.
«Allora… allora tienila stretta e non farla andare via, il tempo, quando vuole, diventa davvero cattivo.» gli dice e poi corre via, scende le scale, si scontra con i medici in camice bianco e corre via, corre verso le enormi porte del piano terra, le spinge ed esce fuori e cade giù.
Non lo sa dove diavolo sta andando a finire, ma prega che ritorni tutto come prima, prega di poter tornare al buio della sua stanza, prega di poter rimettere tutte le foto al loro posto e di restare nel suo presente, perché il passato - questo gli hanno insegnato le foto - fa male.
Ed effettivamente la stanza in cui precipita è la stessa stanza da cui è partito, ma non è buia e non è vuota.
C’è la luce.
E c’è Roxana seduta sulla sua poltrona.

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Capitolo 6
*** Tempo ***


Tempo


Il tempo è l’antagonista di questa storia.
È un uomo senza volto, senza occhi né labbra, ma con due mani grandi e forti che modellano le persone.
Per l’uomo, Rubén, il signor Tempo è solo un gran bastardo.
Il signor Tempo non guarda in faccia a nessuno, il signor Tempo toglie tutto e subito e poco gli importa di far male, fa il suo lavoro come lo deve fare, come il cosmo gli ha detto di fare, non può lasciarsi condizionare dai sentimenti di chi va a prendere, il signor Tempo arriva, modella, a volte porta via per sempre e chi s’è visto s’è visto.
Il giorno in cui il signor Tempo è passato a prendere Roxana, Rubén lo ricorda bene e lo ricorderà per sempre.
Quel giorno è lo stesso giorno in cui ora è stato catapultato.
Si guarda intorno, la stanza è pulita e ordinata, niente foto a terra, niente buio che ingoia ogni cosa, niente lui seduto sulla sua poltrona a piangersi addosso.
Sulla sua poltrona, al posto suo, c’è Roxana.
Il signor Tempo ha modellato con le sue mani poco gentili anche lei, le ha lasciato rughe profonde sul viso e si è preso il nero dei suoi capelli.
Oh Roxana, non devi preoccuparti, amor, sei bellissima come quando ti ho incontrata e forse ancora di più, perché niente, né il Tempo né Dio o altro potranno mai portar via la tua bellezza, Roxanita mia..
«Roxana! Roxana!» l’uomo si inginocchia ai piedi di Roxana e le scuote piano un braccio, lei abbassa i suoi occhi scuri su di lui e lo guarda confusa.
«Chi sei?»
«Ma come chi sono? Sono Rubén, Roxanita, non ricordi?» ma Roxanita non ricorda, non può ricordare, perché Roxanita è malata, ha la malattia dei ricordi, Rubén lo sa, non ha nemmeno il coraggio di chiamarla per nome, quella malattia.
Rubén sa solo che è peggio del signor Tempo, perché non lascia nemmeno il rumore del Passato, arriva e si mangia tutti i ricordi e poi non resta nulla, più nulla.
A Roxana ormai non resta più nulla.
Roxana non sa più che ha incontrato Rubén in un giorno di pioggia.
Roxana non sa più che le piaceva scattare foto ad ogni cosa.
Roxana non sa più che nel 1965 ha sposato Rubén e hanno passato quel giorno a baciarsi in un campo di grano.
Roxana non sa più che l’anno dopo ha regalato a Rubén un mostrino e lo ha chiamato Gabriel.
Roxana non sa più che ama Rubén.
L’uomo vorrebbe poter versare dentro Roxana ogni suo ricordo.
Un volta eravamo in spiaggia ed eravamo felici, io ti ho detto che non ti amavo ma ti vivevo e allora mi hai baciato e siamo rimasti a guardare il mare fino a sera.
E poi quando gli Stones sono venuti a la Monumental noi abbiamo ballato e cantato tutta la sera, ma poi quando hanno suonato 'Fool to cry' tu hai cominciato a piangere e io ti ho stretta forte.
Un giorno ci siamo sposati, e tu eri bellissima, sei sempre stata bellissima e mi hai dato un mostrino bellissimo quasi quanto te.
Roxana non andare via, non devi andare via, non puoi andare via, a te piacerebbe se io andassi via e ti lasciassi da sola qui, davanti alla vita?
Non mi lasciare solo qui davanti alla vita, Roxanita, io non so come guardarla la vita senza te.
Come la guardo la vita, Roxanita?
Tieni, prenditi tutti i miei ricordi e resta qui con me, svuotami e resta qui con me, io posso restare vuoto, mi basta averti accanto, mi basta averti accanto perché tu, Roxanita mia, hai riempito tutti i miei vuoti.
Non ti permettere di andare via, Roxanita, perché non ti perdonerò.
Ti prego Roxanita mia, ti prego non andare via, e se proprio vuoi andare via allora portami con te.
Andremo dove vuoi ma ci andremo insieme, andremo a riprendere ogni tuo ricordo e allora torneremo indietro, o resteremo nel vuoto, persi, ma resteremo persi insieme.
Roxanita mia, ti prego non andare via.
Ma Roxanita sta dimenticando anche come si parla e come si respira, perché ormai per Roxanita quaggiù posto non ce n'è più.
L’uomo sente la sirena di un’ambulanza avvicinarsi a casa sua e la stanza, a poco a poco, diventa buia e foto su foto ricompaiono sul pavimento e Roxana, Roxanita, scompare pian piano, il signor Tempo e la malattia dei ricordi ormai sono arrivati e non torneranno indietro a mani vuote.
Roxanita sta andando via di nuovo e stavolta Rubén sa che non la rivedrà più.
 


Mi scuso per il ritardo ma settimana scorsa ho preferito aggiornare un'altra long che era in sospeso da troppo tempo, ringrazio come sempre i lettori, silenziosi e non, e Clairy e Jennys che sono sempre piene di entusiamo e pazienza!
C.

 

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Capitolo 7
*** Non passi mai ***


                                                           Non passi mai                                                                                                    

    
 In bilico tra santi che non pagano

                                                                                                          e tanto il tempo passa e passerai,
                                                                                                          come sai tu, in bilico e intanto
                                                                                                        il tempo passa e tu non passi mai

                                                                                                                              Negramaro, Estate
 
 
 
Il buio, il buio.
Arrivò il buio ed ingoiò di nuovo la stanza, poi venne Marisol e scostò le tende e la luce si mangiò il buio, e le foto si mangiarono il pavimento.
Le foto, le foto.
Chi aveva inventato le foto?
Come facevano le foto ad essere così piene?
Per esempio quelle sotto le sue ginocchia, quelle foto sotto le sue ginocchia come facevano ad essere così piene di Roxana?
Pezzetti di carta colorati pieni di Roxana.
Ingiusto. Pensò Rubén.
Lui era un umano, un uomo, viveva, mangiava, respirava, amava ed era più vuoto di un pezzetto di carta colorato.
Così gli piaceva chiamarle, pezzetti di carta colorati, non sapeva nemmeno di cosa fossero fatte le foto, ma sapeva che erano piene e che nemmeno il signor Tempo o quella ladra di Morte avrebbero mai potuto svuotarle.
Qualcuno si schiarì piano la voce, Rubén alzò il capo e vide sulla soglia Marisol, gli occhi lucidi.
«Lei manca tanto anche a me, sai? Ma pensa se fosse qui e ti vedesse così, cosa direbbe?» Marisol si fece avanti tentennando e si avvicinò a Rubén.
«Non c’è.» rispose Rubén, con la voce vuota e il corpo vuoto e gli occhi vuoti.
«Sì che c’è! Ti guarda, ti vede, ti ascolta, ti sente, è qui vicino a te, a me, a papà. Non senti quant’amore c’è in questa stanza? È lei, abuelo, solo lei.»
Rubén si guardò dentro, scivolò dentro al suo io e si chiese, a bassa voce, cosa fosse l’amore.
A scuola aveva letto di un tale William Shakespeare che scrisse: ‘Amore è un fumo levato col fiato dei sospiri; purgato, è fuoco scintillante negli occhi degli amanti; turbato, un mare alimentato dalle loro lacrime. Che altro è esso? Una follia discreta quanto mai, fiele che strangola e dolcezza che sana’
Il fumo, i sospiri, fuco scintillante, follia, fiele, dolcezza che sana.
Non ci aveva capito un tubo.
Ma se n’era fregato.
In fondo, l’amore non lo raccontava mica solo quel William!
L’amore stava dappertutto, spalmato sulle labbra del mondo, sdraiato sui tetti a guardare le stelle, abbandonato agli angoli delle strade con una bottiglia piena a fargli compagnia, nascosto tra gli scaffali delle biblioteche e seduto sulle panchine nei parchi vuoti durante i giorni di pioggia.
Ma cos’era l’amore?
Non lo avrebbe saputo mai nessuno e nemmeno William e le sue parole avrebbero saputo spiegare per bene cosa Amore fosse.
Rubén si sentì stupido a farsi quella domanda stupida, e si sentì ancora più stupido a cercare la risposta.
Riflettè qualche minuto e poi montò la sua teoria personale e chissenefrega di cosa dicono gli altri.
La sua teoria pensonale per prima cosa diceva che Amore era variabile, diverso e multiforme.
Amore non era lo stesso per tutti.
Per lui, ad esempio, Amore era andare in spiaggia con Roxana, portare la sua radiolina malfunzionante e ballare le canzoni degli Stones.
Amore era Roxana che parlava troppo veloce al ristorante e il cameriere poi le chiedeve per due volte di fila di ripetere. ‘No entiendo, señorita’
Amore era Roxana che la domenica mattina, prima di andare al mercato, gli preparava i churros e gli lasciava accanto al piatto un biglietto scritto di fretta e lui capiva solo qualche parola perché la grafia di Roxana era pessima.
Amore era Roxana che gli faceva domande difficili nei momenti sbagliati e poi si metteva a discutere di questioni esistenziali e a lui veniva un gran mal di testa e avrebbe tanto voluto dirle: ‘perché invece di parlare non usi la tua bella bocca per baciarmi, mi amor?!’
Amore era Roxana che quand’era incinta si svegliava la notte, andava in cucina e cominciava a piangere e lui si alzava e appena tentava di consolarla lei scoppiava a ridere, diventava tutta rossa e gli chiedeva ‘la gravidanza fa diventare pazze?’
Amore era Roxana che tornava dall’ecografia e gli diceva: ‘le mani, stanno arrivando le sue mani!’
Amore era Roxana che scriveva i nomi per il bambino sulla sua agendina, ne provava un po’ poi strappava le pagine e giurava che avrebbe aspettato la nascita, ma già il giorno dopo ricominciava a scrivere nuovi nomi.
Amore era Roxana.
Basta.
Nient’altro.
E Roxana era ancora lì, Tempo e Morte l’avevano solo portata in un posto un po’ lontano a cui lui non poteva ancora accedere, ma Roxana era ancora lì con lui, la sua esistenza invisibile lo stava ancora cullando.
«Forse dovremmo mettere questa sulla lapide» Rubén raccolse una foto con dentro Roxana e il suo sorriso e la porse a Marisol, lei la prese e la studiò. «era la sua preferita, non ci perdonerà mai se metteremo una foto che non le piace, sarebbe capace di perseguitarci!» Marsiol rise e mentre rideva le scappò qualche lacrima, poi si mise seduta accanto a Rubén e passarono tutto il giorno a guardare le foto, e Roxana era lì, si sentiva il suo odore intrappolato nell’aria e la sua pelle che li abbracciava.
Roxana era lì.
E rimase lì anche gli anni dopo.
Rimase lì.
Più a lungo di Sempre.
Il tempo passò ma lei non passò mai.



Siam giunti alla fine.
Chiedo scusa per l'ignobile ritardo, non sono proprio in grado di gestirmi! Cercherò di migliorare, promesso.
Ringrazio Clairy(ormai mia fidata lettrice in ogni avventura) e Jennys, e tutti coloro che hanno seguito in silenzio la storia di Roxana e Rubén, spero questi due vi abbiano fatto fare un buon viaggio tra i loro ricordi :)
Che dire? Grazie, grazie mille e, ormai siamo proprio passati allo spagnolo, quindi hasta luego!
C.



 



 

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