Momenti

di MatitaGialla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Sulle lapidi che non esistono. ***
Capitolo 2: *** 2. Figli della luna. ***
Capitolo 3: *** 3. Mi presenti i tuoi? ***
Capitolo 4: *** 4. Ci vediamo domani. ***
Capitolo 5: *** 5. Odio la playstation. ***
Capitolo 6: *** 6. Odio la pioggia, oggi. ***



Capitolo 1
*** 1. Sulle lapidi che non esistono. ***


* Questa è una raccolta di One - Shots (non capisco perché non lo dica nella descrizione, nonostante l'abbia indicato.. mah!)

 

1. Sulle lapidi che non esistono.


Mrs. Everdeen
Sono spossata, l’ospedale non mi da tregua.
Stanno arrivando gli ultimi feriti dalla rivoluzione qui al distretto quattro, e io non posso certo permettermi di riposare.
Odio, lo odio il silenzio che si crea attorno a me quando mi stendo sul letto, pieno solo a metà.
Mi manchi, amore.
Sento lontano nella mia mente le grida di gioia di te che giocavi con le bambine,
le prendevi in braccio, le baciavi come solo tu sapevi fare.
Sei stato un papà fantastico.
Non posso piangere la tua salma, perché si è librata nel vento con l’esplosione che ti ha ucciso.
Mi piace pensare che tu ti sia ricongiunto con le foglie sparse del bosco, dove portavi la nostra bambina più grande.
L’ho giusto sentita oggi, mi ha telefonato: a quanto pare il processo si è concluso a suo favore.
Appena terminerò qui il mio lavoro, tornerò da lei. Ho bisogno della mia burbera guerriera, anche se lei rifiuterà il mio appoggio.
So che stai tenendo in braccio la nostra piccola Prim, in questo momento. Mi manca come l’aria, la mia dolce bambina.
Prenditi cura di lei, più di quanto abbia fatto io, ti prego. Vi amo, tantissimo.


 
Peeta Mellark
Haymitch dice che andrà tutto bene, e Katniss mi ringrazia per averla salvata dalla depressione.
O meglio, non me lo dice, ma con i suoi piccoli e rari sorrisi me lo fa capire ogni volta che mi presento sulla soglia di casa sua.
Oggi le chiederò se mi ama, sai? Ho paura che dica no.
Dopotutto, solo perché abbiamo vissuto insieme due Hunger Games e una rivoluzione,
non è detto che si sia innamorata di un assassino depistato e storpio di diciannove anni come me. Non credi?
Se tu fossi qui, mi daresti un po’ più di forza.
Sento ancora il tuo forte odore di lievito, dentro a queste mura praticamente distrutte dalle bombe;
ma il forno ha resistito.
È come se non te ne fossi mai andato dalla tua panetteria.
Saluta mamma, Phil e Pebble. Mi mancate tutti.
Ma quello che mi manca di più, sei proprio tu papà.


 
Rory Hawthorne
Ciao, femminuccia.
Non esiste una lapide per te, lo so; ma voglio che questa terra ti ricordi in qualche modo.
Sto piantando questo alberello nel mio giardino qui al distretto due, e voglio dargli il tuo nome.
Me l’ha suggerito Gale. Lui sta tanto male per te, sai? Non si da pace.
È diventato tutto magro e dorme pochissimo.
So che mi senti, quindi per favore vai a fargli visita in qualche modo; so che si sentirà meglio,
perché so che tu non hai mai pensato che la tua morte sia stata colpa sua.
Domani è il mio compleanno.. Te lo ricordavi?
Se tu fossi qui, troverei il coraggio di dirti una cosa che non ho mai avuto il coraggio di dire: mi piaci, Prim.
Mi sei sempre piaciuta, e sempre mi piacerai. Ecco, l’ho detto.
Anche se ora, è troppo tardi.
 


Haymitch Abernathy
Ehi, moccioso.
Certo te la starai spassando, coccolato da mamma e papà, ovunque voi siate.
Non giudicarmi se mi vedi sempre attaccato alla bottiglia. Lo so, lo so che mi starai insultando, ma è più forte di me.
Katniss e Peeta blaterano in continuazione sull’idea di farmi smettere, non si arrendono un secondo.
Chissà che forse un giorno, non mi decida a dargli retta.
Ti sarebbero piaciuti, ci scommetto.
Soprattutto il ragazzo, ha quell’aria buona e intelligente come la tua che ti farebbe impazzire.
E sa pure cucinare il pane, sai?
Non riesco a non pensarti ogni giorno ed ogni notte: sei morto per causa mia, e non mi darò pace finché non rivedrò il tuo musetto.
Ma li dove sei, invecchi? Perché se è così, ora sei proprio un uomo adulto!
Con barba e peli sul petto, accidenti! Sarei curioso di vederti.
Mi manchi tu, mamma e papà.
So che quella spiona della mia fidanzata sarà lì che gironzola facendo finta di niente,
quindi dalle un bacio e dille che la amo, ancora.
Come il primo giorno.
Ah. Scommetto che Maysilee è lì che origlia. Salutamela tanto.
Vi voglio bene.
 

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Capitolo 2
*** 2. Figli della luna. ***


** Ho eliminato e ripubblicato questa shot tipo 4 volte di oggi perché EFP mi ha dato un sacco di problemi con l'editor. Speriamo sia la volta buona!!
*Probabile OOC. Ecco la prima One – Shot (Peeta Centric). Buona lettura!


IMPORTANTE PREMESSA: si narra che nella mitologia delle tribù native americane, i figli della luna erano indomiti cacciatori senza paura; sprezzanti del pericolo e coraggiosi per il beneficio delle loro famiglie, morenti di fame per il troppo sole e quindi troppo deboli per la caccia notturna al chiaro di luna. Essi disprezzavano chiunque fosse figlio del sole, in quanto graziati dal cibo coltivato con il calore dei raggi solari e quindi destinati ad una vita più avvantaggiata.



2. Figli della luna.


– Pebble, Phil, questa sera non rincasate tardi – dice mia madre, mentre posa in tavola un pentola di stufato. Poi mi guarda. – Anche tu, Peeta –
– Perché? – domando. Come se avessi qualcosa da fare la sera, oltre a rintanarmi nella mia stanza a dipingere.
Sono due mesi ormai che sono tornato reduce dagli Hunger Games.
Ho diciassette anni e una gamba in meno, il cuore infranto e non dormo una notte serena da tre mesi.
Sul treno, tornando da Capitol City, mi guardavo in continuazione la gamba e chiudevo gli occhi; come per sperare che riapparisse la mia carne. Ma non è mai successo.
In quei momenti di sconforto, uscivo dalla mia cabina per cercare di incrociare il viso di Katniss.
Mi abbracciava, mi baciava, mi sosteneva.
Mi sentivo rincuorato. Nonostante avessi perso una parte di me e non avrei mai più dimenticato quello che mi era toccato vedere nell’arena, sapevo che ci sarebbe stata lei al mio fianco, da quel momento in poi.
 
“– Non sapevo che ci fosse qualcosa da capire – ribatto – Stai dicendo che in questi ultimi giorni.. e immagino.. anche nell’arena, allora.. quella era solo una strategia che avete architettato voi due?
 
Mi è letteralmente crollato il mondo addosso..
No, non voglio pensarci, meglio tornare al mio stufato. – Perché? – domando.
Lei mi guarda seccata, come al suo solito.
– Il vecchio Cray ha detto che è di passaggio dal bosco un branco di cinghiali selvatici questa notte. Non vorrei mai che superassero il recinto del distretto ed entrassero in città – risponde al suo posto papà.
– I cinghiali selvatici sono pericolosi – continua mia madre – spero non ci mangino la spazzatura –
Certo mamma, preoccupati della spazzatura.
– Perché accendono la recinzione stanotte? – domanda mio fratello Pebble. È vero, ultimamente la accendono praticamente mai: consuma troppa energia e lascia al buio le case del centro.
Proteggere i lavoratori delle miniere, abitanti ai confini con i boschi, non è mai stata una prerogativa della città.
– Solo fino alle tre di notte – risponde papà, in tono gentile – per evitare che qualcuno vada nel bosco a cacciare di frode – conclude, e poi mi guarda.
Lascio cadere il panino che ho da poco iniziato a spezzettare e un senso di nausea mi fa spingere il piatto lontano da me.
Katniss. Un branco di cinghiali. Deve averlo saputo per forza, e non si lascerà sfuggire un simile bottino.
Calma, Peeta. Ha vinto gli Hunger Games con te, ora è ricca e piena di cibo.
Ma Gale no, ed ha altri quattro da sfamare, a casa.
Mi alzo di scatto – Non ho fame, vado a dormire. Buona notte – dico.
Mentre mi avvio verso le scale che mi portano in camera mia, zoppicando ed aggrappandomi al corrimano, sento mia madre urlarmi: – Stupido figlio! Avanzi così il cibo che ho comprato?! –
– Taci, Hexe. È grazie a lui se ti sei potuta permettere questo cibo. E poi, si può benissimo conservare per domani – la rimprovera mio papà, e mentre tiro un sospiro di sollievo e avanzo a fatica sulle scale, sento il suo sguardo sulle mie spalle.
 
Sono le due del mattino. Guardo fuori dalla finestra e vedo solo fili d’erba argentei illuminati dal chiarore della luna piena.
L’entrata al Villaggio dei Vincitori è piccola, vista da qui. Mi chiedo se mai avrò altri vicini di casa, oltre ad Haymitch e Katniss.
Sarà compito mio, riportare a casa i prossimi tributi.
Compito mio e della ragazza che mi ha ucciso il cuore, ma che mi ha salvato dall’arena.
Katniss, che le settimane dopo il nostro ritorno ha continuato a sorridere ai miei baci; e poi, una volta sparite le telecamere, si è rifugiata nei boschi senza mai venire a parlarmi, cercando in tutti i modi di evitarmi.
Eppure, ogni notte mi sveglio sperando di ritrovarla accanto a me, raggomitolata al mio petto.
Il suo sospiro di sollievo nel momento in cui le lasciai la mano, quando sua madre disse in stazione davanti ai giornalisti di non essere d’accordo del fatto che ora avesse un fidanzato, mi colpisce ancora lo stomaco in una morsa famelica che mi fa soffrire.
Eppure non riesco a non pensare ai suoi occhi mentre mi baciava nella grotta. Le sue labbra mi cercavano!
 
Il ticchettio dell’orologio scandiscono le due e un quarto, e con uno slancio mi sollevo dal letto.
Spostando le lenzuola, guardo con una smorfia la mia gamba amputata; e con un po’ di dolore inserisco la protesi. Non ho tempo di pensare che sono uno storpio. Direi che non mi serve proprio, ora.
Metto un maglione pesante, la giacca, pantaloni lunghi e gli scarponi per le giornate di pioggia.
Nonostante sia settembre, di notte fa freddo come novembre.
Mi avvolgo una coperta alle spalle e silenziosamente scendo le scale.
In cucina sfilo dal ceppo dei coltelli la lama più grossa e affilata che ci sia in casa: sarà sufficiente per difendere Katniss da un cinghiale, questo? Mi domando nel buio della stanza.
Quando mi volto, una figura nera seduta al tavolo mi fa sbattere le spalle al muro per lo spavento.
L’arena mi ha cambiato. Ogni movimento furtivo è una minaccia, è un favorito, è un ibrido.
Mi lancio ad accendere la luce e faccio per brandire il coltello quando al tavolo, seduto nel buio di questa notte di luna piena, vedo mio padre.
– Cosa fai sveglio? – gli domando, ansimante per lo spavento.
– Figlio mio, potrei domandarti la stessa cosa – mi risponde.
Nascondo il coltello dietro le spalle e rimango in silenzio.
Mio padre sospira, si alza, e mi posa le mani sulle spalle.
I suoi occhi, così simili ai miei, mi danno sempre conforto. La frustrazione degli Hunger Games, di questi ultimi mesi in preda alla mia sensazione di solitudine, mi hanno reso perennemente agitato e nervoso.
Ma gli occhi di mio papà mi fanno sempre sentire un bambino piccolo, che va in cerca di un po’ di amore.
Proprio come quello che ho sempre cercato da Katniss.
– Hai vinto gli Hunger Games. Non sarò io a dirti cosa fare o meno. Solo.. sta attento, Peeta – mi dice, e mi abbraccia.
Vorrei singhiozzare e piangere, e far uscire dalla mia bocca tutta la mia paura e il dolore per l’idillio di Katniss. Quello che mi limito a fare invece è sorridergli.
Penso che i sorrisi gli facciano bene. Mi chiedo come possa vivere con mia madre allora.
– Tornerò prima che la mamma si svegli – rispondo.
– Meglio, o ce ne sentiremo tante tutti e due! – mi risponde, quasi divertito.
Ma sotto quelle iridi azzurre e buone, aleggia la preoccupazione di vedere ancora suo figlio andarsene; anche se solo per una notte un po’ avventurosa.
Mi chiudo la porta dietro le spalle, e inspiro l’aria fredda che mi sveglia del tutto.
Nella mia mano, il coltello si illumina, argentato e letale.
– Peeta, dovresti dormire a quest’ora – dice una voce alle mie spalle. Insomma, stanotte nessuno vuol capire che non si parla alle spalle e nel buio, ad un reduce degli Hunger Games armato di coltello.
Ma riconosco la voce, impastata ed ubriaca. – Anche tu – replico al mio mentore, voltandomi.
Nonostante abbia complottato assieme a Katniss, non riesco ad odiare nemmeno lui.
Lo so, mi hanno salvato.
– Oh, io sono un animale da buio. E Katniss è figlia della luna, in questi casi. Sai.. la leggenda.. – mi risponde, e io lo guardo perplesso mentre tracanna giù un lungo sorso di Gin.
Lo trovo forse in un momento poetico? L’alcool lo ammazzerà, prima o poi, ne sono sicuro.
Rimango in silenzio, in attesa di una spiegazione che non si accenna ad uscire.
– Sei più un fiorellino da giardino, tu. Non sei fatto per avere dei tormenti notturni – spiega poi.
– Katniss non centra – mento – e non ho nessun tormento – ribatto, serio.
Haymitch alza un sopracciglio, e guarda il sentiero per il bosco – No? –. Mi sorride.
Colpito e affondato. – Katniss deve ancora uscire, se ti può essere utile, ma la luce della sua stanza è accesa già da qualche minuto – dice.
Annuisco, e mentre supero a passi “veloci”, per quanto la protesi mi consenta, casa Everdeen; mi sforzo di non cercare con gli occhi la luce della stanza di Katniss.
Perché so, che se scopro in quale stanza dorme, non passerò più giorno senza cercare di vederla attraverso la finestra.
Arrivo davanti alla recinzione dopo una buona mezz’ora di cammino arrancante, con il fiato corto e un freddo che si irradia sino alle ossa. Sento il vibrare del filo elettrificato affievolirsi lentamente, sino a quando diventa quasi impercettibile.
Faccio un sospiro profondo e mi ritrovo ad essere paralizzato dalla paura.
Durante gli Hunger Games, mentre ero nascosto tra il fango del torrente, la notte era il momento peggiore. Di giorno, ogni quattro o cinque ore qualcuno mi correva affianco, senza vedermi.
Io sentivo il loro fiatone, i loro passi malfermi e stremati. Sapevo che ero vivo, perché potevo ancora udire tutte quelle cose.
La notte invece era interminabile. Io ero sveglio nella mia semicoscienza, non sentivo né fame né sete; solo le forze abbandonarmi lentamente. Il silenzio attorno a me era sconvolgente e io morivo dalla paura perché non sentivo niente. Più volte mi sono portato la mano infangata alla gamba ferita, per toccarla.
Il dolore mi riportava alla realtà, facendomi capire che ero ancora vivo, che non me ne stavo andando.
Guardo la recinzione, ancora e ancora.
                Tu sei più un fiorellino da giardino. 
Ti sbagli Haymitch. Questa notte sarò anche io figlio della luna. Nell’istante esatto in cui lo penso, la rete cessa completamente di essere invasa dall’elettricità, e io scavalco la recinzione raggiungendo a passi veloci il primo albero del bosco.
Una torcia sarebbe impensabile, verrei subito notato sia da Katniss che da Gale; e comunque la luce della luna è sufficiente a scorgere gli ostacoli più grossi.
Un enorme pino con rami forti  e robusti a pochi metri da terra da inizio al bosco vero e proprio. Conficco il coltello della sua robusta corteccia e faccio leva per alzarmi ed arrampicarmici sopra.
Raggiunto il primo ramo, mi ci siedo sopra lasciando le gambe a penzoloni. La gravità richiama a terra la mia protesi pesante, e una fitta di dolore mi coglie assolutamente impreparato, facendomi quasi cadere.
Trascino a stendere sul ramo la gamba, facendola sfuggire al moto gravitazionale, e sospiro di sollievo.
Con la coperta mi lego al ramo robusto, come faceva Katniss durante gli Hunger Games.
Faccio un respiro profondo e aspetto.
Non si allontaneranno troppo dalla recinzione; è notte ed è un rischio che nessuno dei due può permettersi di correre, e la mia postazione è sufficiente alta da poter vedere tutto.
 
Non passano nemmeno quindici minuti che sento in lontananza delle voci familiari avvicinarsi: se non fosse per i loro bisbigli, non sentirei nemmeno i loro passi quanto cauti sono.
Vedo Gale, imponente come sempre, mettersi davanti a Katniss e con una mano portarla dietro la sua schiena. Un impeto di gelosia mi invade morboso, e per un secondo provo il desiderio di far cadere il coltello nella sua testa. Pensiero che, mi si ritorce contro violentemente, perché io non sono così.
Sento crescere dentro di me la frustrante invidia nel vederlo camminare nel bosco con un passo così impercettibile, quando io faccio scappare qualsiasi animale nel raggio di dieci metri; il senso di impotenza nel guardarlo sorridere illuminato dalla luna, mentre porge a Katniss i loro archi nascosti nel muschio e nel fogliame; e la stretta allo stomaco quando tende l’arco e in neanche mezzo secondo colpisce il fagiano appollaiato ed addormentato a qualche ramo di distanza da me.
Tappo subito la mia bocca che ha emesso un sussulto involontario; non ho certo pensato che potrei sembrare un enorme gufo grassottello, da laggiù.
Mi appiattisco più che posso al tronco nella speranza che gli occhi selvaggi di Katniss e Gale non mi vedano, ma loro sono già distanti cinque metri dal pino e si nascondono dietro i due alberi che seguono il mio rifugio.
Katniss si nasconde silenziosamente dietro e fa un cenno a Gale, sedutosi dietro il tronco affianco.
Posso vedere nel chiarore della luna i capelli scuri di Katniss e le sue mani così piccole e agili stringersi attorno all’arco, il suo viso eccitato e spensierato. Lei vive nei boschi, è questo il suo posto.
Sei una figlia della luna, come ha detto Haymitch? Se lo sei tu, lo sarò anche io.
Stringo forte il coltello quando li vedo rizzare le orecchie ed alzarsi di scatto, silenziosi come puma.
Nel fruscio del vento, riesco persino io ad udire versi animaleschi di decine e decine di animali alti come cani selvatici, ma molto più robusti.
Mi slego dalla coperta e inizio a calarmi dall’albero facendo più attenzione possibile a non farmi sentire; ma entrambi sono troppo concentrati ad incoccare le frecce ed attendere che uno di loro si stacchi dal gruppo.
Ora sono in piedi, a cinque metri dai due cacciatori più letali che io conosca con un coltello da cucina in mano e una protesi alla gamba. Un solo passo falso e mi scambieranno per un animale da rosolare al fuoco.
Mi sistemo dietro il tronco e aspetto, mentre il freddo inizia a farmi battere i denti.
Come previsto, un giovane di cinghiale sufficientemente grosso per sfamare una decina di persone, si stacca dal branco alla ricerca di qualche arbusto. Lo guardo da una distanza di trenta metri, e nel buio argentato è difficile riuscire a vederlo bene, ma mi ricorda terribilmente i maiali nel mio porcile, dove a pochi metri di distanza salvai la vita a Katniss.
Amore mio, forse stai pensando anche tu a queste cose, mentre vedi quel cinghiale?
Sono terribilmente spaurito ed emozionato allo stesso momento: spaventato per quello che potrebbe succedere a Katniss, eccitato perché quello che sto facendo è completamente illegale, e io non sono certo il tipo da cui ci si aspetta questo tipo di cose.
Penso a questo, quando Katniss scocca la freccia che colpisce perfettamente il cranio del cinghiale, che nei grugniti sofferenti abbandona la sua vita, e richiama il suo branco.
Solo quattro bestie tornano indietro dal suo compagno, ma sono anche troppe per due persone (e mezzo, se consideriamo anche me).
Gale ammazza abilmente altri due cinghiali in pochi secondi che cadono al suolo emettendo versi che mi spezzano il cuore.
Sono tentato di farmi notare, di dire a Katniss che sono venuto fino a qui per proteggerla; ma la buonissima possibilità che lei mi rifiuti e si senta violata nell’unico posto in cui è libera di stare con il suo (e lo dico con un lieve tono di disprezzo, lo ammetto) Gale; mi lascia immobile dietro il mio tronco, con il coltello in mano.
Il terzo cinghialetto, più piccolo degli altri che sono accorsi al loro compagno, se la da a gambe quando scopre di essere attaccato da cacciatori, e scappa verso il branco che si sta allontanando velocemente.
Mi chiedo dove sia il quarto cinghiale che ho visto correre incontro a Katniss e Gale, proprio quando mi volto quasi per istinto perché sento una presenza avvicinarsi rapidamente.
La quarta bestia, facendo un giro lungo e quindi evitando lo sguardo dei due cacciatori, si butta a capofitto verso di loro che sono voltati di schiena e corrono verso le loro prede catturate.
Non possono sentire il suo guaito quando il mio coltello lo prende alla sprovvista sbucando dall’ombra creata dal tronco, e lo colpisce mortalmente alla gola.
Mi sento sporco, cattivo; mentre il sangue di quella povera bestia mi imbratta la giacca e la faccia.
Ma stava per colpire Katniss, e mi piace pensare che questa volta Gale non se ne sarebbe accorto in tempo; così da rendere il mio intervento fondamentale per la loro sopravvivenza.
Mentre il povero animale esala l’ultimo respiro, i due cacciatori sono corsi a dare il colpo di grazia alle loro tre prede, non scorgendo il mio gesto nascosto dal buio e dal suono del bosco.
Nonostante la luna sia piena e il bosco sembra argentato e azzurro quasi ne fosse tinto, a distanza di trenta metri è per loro impossibile vedermi.
L’adrenalina mi fa battere il cuore ad una velocità spaventosa,  e io mi sento così trionfante contro me stesso per aver aiutato Katniss, che tutto il nervosismo degli ultimi mesi se ne va poco a poco sempre di più.
Voglio dire a Katniss quello che ho fatto, forse così troverà in me un po’ l’istinto del cacciatore che la attrae a Gale.
Forse si renderà conto che io non sono solo un ragazzo buono col quale può fingere un idillio.
Forse, potrei piacerle un po’ di più?
Faccio un passo, poi due, emozionato ed orgoglioso di me stesso; sto per uscire dall’ombra del pino ed essere rischiarato dalla luna quando scorgo Gale scuoiare una coscia del cinghiale per crearne una sorta di corda da trasporto, e guardare Katniss soddisfatto; che nel mentre recupera le frecce conficcate nei crani delle bestie.
– Questo non lo sa fare, il tuo ragazzo del pane di città – dice Gale con tono impudente.
Mi blocco sui miei passi, come se mi avessero falciato entrambe le gambe. Mi rendo conto di avere gli occhi sgranati e la bocca semichiusa. Sento una leggera rabbia iniziare a ribollirmi dentro.
Katniss, ti prego, dì qualcosa.
Non permettergli di convincerti della mia inutilità, posso darti tanto anche io. Io ti darò tutto quello che mi chiederai.
Sto tremando per l’equilibrio precario del mio passo mosso a mezz’aria, quando lei sopprime un sorriso flebile, e resta in silenzio continuando con il suo lavoro.
Rimango al buio del pino con il cuore a pezzi, lo stomaco nauseato e un coltello imbrattato di sangue in mano. Mi volto sui miei passi e non penso a niente.
Sono talmente ferito che non ho idea di come poter reagire, quindi nascondo nelle incavità create dalle radici immense dell’albero il cinghiale morto, così che non si possano accorgere che qualcuno era dietro di loro a coprirgli le spalle.
Sto per andarmene, quando ragiono che loro sono molto più veloci di me che sono storpio, e nonostante il pesante bottino correrei comunque il rischio che mi raggiungano prima di aver superato la recinzione.
Recupero la coperta sporca di sangue e mi arrampico sul primo ramo robusto, inspirando pesantemente per il dolore che la protesi mi attanaglia la gamba. Mi abituerò mai a questo marchingegno?
Mi lego il busto al ramo e rimango ad aspettare, con la testa appoggiata alla corteggia e gli occhi fissi sulla luna piena che ha rischiarato questa notte gelida.
Li sento caricare nelle sacche di iuta le carcasse dei cinghiali e trascinarli via silenziosamente come sono arrivati, mentre incoccano una freccia di sicurezza per ulteriori ed eventuali pericoli.
Quando è passato un ragionevole tempo che li abbia portati sicuramente nelle loro case, scendo dal mio albero tremante e fuggo più veloce che posso verso casa, con il freddo che mi raggela le interiora e il cuore privo di ogni emotività.
Entro nel villaggio dei vincitori sporco di sangue e lurido di terra umida.
– Buona notte, Haymitch – dico a bassa voce senza soffermarmi davanti alla vetrata del mio mentore che, oltre alla finestra, con una bottiglia vuota in mano, fa un cenno con la testa.
Accendo la luce di casa mia e getto nel lavabo il coltello sporco di sangue, e con una pezzuola bagnata mi pulisco il viso.
Alla visione dello straccio tutto sporco di rosso, mio padre spunta dal salotto preoccupato, prendendomi le spalle.
Mi ha aspettato tutta la notte, non ha nemmeno iniziato il suo lavoro al forno fino a che non sono tornato.
Trattiene il respiro mentre mi scruta ogni angolo della faccia, e io lo lascio fare.
Sono troppo stanco per impedirgli di tastarmi ovunque. Mi mette le mani calde sulle guance e mi sorride.
Io lo guardo e mi abbandono tra le sue braccia forti e odoranti di lievito e farina, come lo sono sempre state.
Papà, cosa posso fare per essere un figlio della luna come Katniss?
 
 
Premo affinchè mi lasciate una vostra opinione, per questa shot ci tengo particolarmente.  
 
 

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Capitolo 3
*** 3. Mi presenti i tuoi? ***


* Fluff, probabile OOC, slice of life.

 
3. Mi presenti i tuoi?

Oggi è una di quelle mattine.
Quelle deliziose, magnifiche mattine dove tutto intorno a me sa di pace.
Dove la luce che filtra dalle finestre illumina le lenzuola sfatte e ancora calde, dove il lato del letto di Peeta è vuoto ma posso sentire il tintinnare delle pentole giù in cucina. Non è mai stato silenzioso.
Mi chiamo Katniss Everdeen, ho quarant’anni. Capitol City è stata distrutta e ora tutto va bene. Peeta è con me, siamo sposati e abbiamo due bellissimi figli.
Questa notte non ho avuto incubi, mi sono addormentata profondamente subito dopo aver fatto l’amore con il mio uomo del pane. Arrotolo tra le dita i miei capelli che si spandono sul cuscino disordinati.
Sorrido.
Oggi sarà proprio una splendida domenica che potrò passare con la mia famiglia.
Potrei portare Marco nei boschi; Talia sicuramente vorrà andare in panetteria con Peeta.
– Papà, no! Non fare così! – sento urlare all’improvviso. Balzo in piedi, terrorizzata.
I nostri figli sono a conoscenza del nostro passato, e sanno anche che il loro Papà a volte rimane appositamente in panetteria fino a tardi.
Corro giù al piano terra, infischiandomene di essere in camicia da notte.
Peeta è seduto in cucina, mi da le spalle; ha le braccia rigidamente conserte e la testa china, e muove nervosamente il piede.
Talia è davanti a lui paonazza in viso, la bocca chiusa in una smorfia. Credo di non averla mai vista così.
– Peeta? – lo chiamo. No, no, no! Oggi doveva essere una bellissima domenica!
Mi lancio sulla mia ragazza e afferro le sue esili e lunghe braccia, portandomela dietro la schiena.
Ho paura.
– Peeta? – lo chiamo di nuovo. Mi metto davanti a lui, tenendomi pronta eventualmente a proteggere Talia, eventualmente a stenderlo o eventualmente a proteggermi. Uno dei tre, ma non toccherà mia figlia mentre ha un flashback.
Abbasso lo sguardo, incrociando i suoi occhi. Con mio stupore, vedo che sono azzurri.
Sta bene? Sì, a quanto pare! I bellissimi occhi di mio marito mi guardano infastiditi e terribilmente tesi.
Raddrizzo la schiena sospirando, aggrotto le sopracciglia e mi volto verso Talia.
– Che hai combinato stavolta? – le chiedo.
Lei si stringe nelle spalle diventando ancor più rossa – Niente, mamma! È lui che esagera! –
Osservo mia figlia, nei suoi splendidi quattordici anni.
Ha i miei capelli: scuri, lisci, terribilmente morbidi quando accetta di farseli pettinare da suo padre, dal quale ha preso quei stupendi occhi azzurri.
Nonostante fisicamente somigli molto a me, è da Peeta che ha preso il carattere. La mia Talia è infatti tanto buona, sempre gentile e con un sorriso da regalare a tutti, proprio come Prim.
È per questo che ora, con quello sguardo arrabbiato e imbarazzato, non la riconosco.
Mio marito e mia figlia tacciono nel loro silenzioso nervosismo, e io mi indispettisco.
– Qualcuno mi vuole spiegare? – chiedo, ma entrambi mi ignorano; guardandosi negli occhi con aria di sfida.
– Marco! Puoi venire qui? – chiedo a gran voce, urlando verso il salotto il nome del mio secondo bambino.
Lui saprà sicuramente di cosa si tratta. Vedo il mio topolino entrare allegramente in cucina con in braccio il suo giocattolo preferito.
Lo chiamiamo tutti topolino da quando, anni fa, disegnò i baffi e il naso da topo sulla faccia di Peeta, mentre era addormentato sul divano. Ridemmo così tanto quella sera.
Ha sette anni, e quei riccioloni biondi insieme ai miei occhi grigi mi danno proprio da pensare che un giorno avrà la fila di ragazzine alla porta. È ancora nell’età in cui si lascia coccolare da mamma e papà volentieri, ma se Talia ha preso da Peeta, Marco ha sicuramente preso il mio carattere riservato.
È un bambino indipendente; nonostante ogni notte in cui c’è un temporale viene a nascondersi nel lettone matrimoniale.
– Ciao mamma – mi dice, mentre si divincola dal mio abbraccio.
– Allora, sai che è successo? – gli chiedo in tono bonario, indicando i due musoni che non la smettono di fissarsi.
– Talia oggi esce con il suo fidanzato! – mi dice con gli occhi luccicanti, tutto orgoglioso per aver confessato un segreto che persino la sua mamma non conosceva.
Mi rendo conto di aver sgranato gli occhi.
– Hai un fidanzato? – domando a Talia, leggermente scomposta.
– Non è il mio fidanzato! – mi urla lei.
– Tu non avrai mai un fidanzato! – grida Peeta battendo una mano sul tavolo, facendo sussultare i ragazzi.
Può convincere chiunque, ma io conosco bene il mio pollo.
Talia assume la sua migliore espressione da adolescente scontenta, e con gli occhi lucidi scappa in camera portandosi dietro il fratellino che la segue trotterellando insieme al suo giocattolo.
Quando sono sicura che siano in camera, mi volto verso mio marito con un sopracciglio alzato.
Si morde il labbro ed ha iniziato a passarsi una mano nei capelli. Nonostante abbia quarant’anni, Peeta rimane un bell’uomo su ogni fronte.
Non ci sono ancora rughe importanti sul suo bel viso, e i suoi capelli mantengono il loro colore da ragazzo.
Mi chiedo per quanto ancora avrà questa fortuna, visto che io nascondo anche troppo gelosamente i miei primi capelli bianchi.
– Ebbene? – gli chiedo.
Lui schiocca lingua e si alza scocciato dalla sedia, la riposiziona svogliatamente sotto il tavolo e se ne va in camera.
Tutta questa situazione è al limito dell’assurdo. Mi scappa da ridere, ma a quanto pare Peeta la sta prendendo fin troppo seriamente.
Decido di riempirmi la pancia prima di affrontare quello che è il vero e proprio primo problema “adolescenziale” della nostra famiglia.
Dopo qualche minuto sono già in camera.
Peeta è steso sul letto con un braccio sopra gli occhi: tipico. Fa finta di dormire quando non ha voglia di parlare.
– Allora, vuoi spiegarmi? – gli chiedo, mentre mi stendo affianco a lui e metto la testa sul suo petto.
Profuma sempre di pane. Credo che ormai questo odore faccia parte della sua pelle.
– Talia è troppo piccola per frequentare dei maschi – mi risponde a voce roca, non togliendosi il braccio dalla faccia.
– Seguendo una logica coerenza, fra tre anni dovrebbe anche far finta di sposarsi ed essere incinta del suo finto ragazzo – gli rispondo divertita – e poi, tu a quattordici anni frequentavi già altre ragazze –
– Si, ma io sono un maschio! – pigola come un ragazzino.
Negli anni, non è di certo cambiato. Sbuffo, perché non tollero queste assurde distinzioni tra maschi e femmine, ma gli perdono tutto quando il suo braccio gli abbandona la fronte per stringermi le spalle.
– Peeta.. – sussurro. Vorrei fargli capire che è una cosa normale ma, chi sono io, per parlare di normalità? Ci ho messo due Hunger Games e una guerra per decidermi, e nel frattempo baciavo sia lui che Gale.
Non sono di certo la mamma che può dare l’esempio.
– No, amore; Peeta proprio niente – mi interrompe – fino a un tot di anni fa faceva il bagno con me! –
Vorrei anche prenderlo in giro, dicendogli che ormai Talia sta entrando nell’età in cui una ragazza inizia a desiderare di fare il “bagnetto” con i suoi coetanei; ma me ne rimango zitta perché il pensiero non sorride nemmeno a me, figurarsi a Peeta. Lo farebbe andare fuori di testa.
Si infila sotto le coperte, spostandomi e buttando la faccia sotto il cuscino.
Io gli stringo le spalle; amo vederlo così, quando è vulnerabile. Mi si stringe lo stomaco ancora, nonostante siano passati così tanti anni.
– E chi sarebbe, questo ragazzino? – chiedo.
– Un certo Liam che è in classe sua – mugugna da sotto il cuscino – Liam, capisci?? Come può Talia frequentare uno che si chiama Liam?! Sarà mica normale, come nome! – conclude alzandosi di scatto, facendo cadere a terra il cuscino.
Io rido, perché tutto questo è così deliziosamente assurdo che non riesco a trattenermi.
Peeta geloso della sua “bambina” è uno spettacolo che mai avrei pensato di vedere.
– Peeta– gli dico, prendendogli le mani – non vorrai mica rendere triste Talia –
Guardo l’uomo davanti a me abbassare lo sguardo e scuotere il viso, da bravo papà colpevole.
Gli piazzo un bacio sulla sua corta barba bionda e gli sorrido, proprio quando entra Marco in camera nostra.
– Che succede, topolino? – gli chiede Peeta colto di sorpresa.
– Talia piange – gli risponde candidamente, mentre va a sedersi sulle sue gambe.
Peeta se lo accoccola al petto e lo abbraccia stretto, lasciandogli un bacio sulla guancia paffuta.
Non c’è altro come momenti come questo, in cui mi confermo che dare dei figli a Peeta è stata in concreto la cosa migliore che potessi mai fare, dopo la fine della rivolta.
Scenata di poco fa a parte, Peeta è un padre meraviglioso. Così amorevole ed equilibrato nel suo ruolo che ogni volta che lo guardo baciare i nostri figli, mi innamoro ancora un po’ di più.
Guardo sorridente Marco mentre cerca di sfuggire a tutte quelle coccole, ma dopo qualche secondo di battaglia si arrende e si immobilizza sorridente tra le braccia del papà.
Io guardo Peeta con aria truce. – Che c’è? – mi domanda lui, dubbioso.
Con la testa e gli occhi, indico il muro. E per muro intendo la camera adiacente alla nostra: quella di Talia.
Lui scuote la testa e io lo fulmino. Sospira abbattuto e si rotola con Marco nelle lenzuola.
– Ora ti mangio! – gli dice mentre gli fa il solletico e marco ride come un matto.
– Topolino vieni un po' qui con me, che il papà va da Talia – gli dico, dando dei colpetti alla parte del materasso dove sono distesa io.
Marco gattona verso di me e mi si stende vicino – ciao mamma! – mi dice ridendo, e io muoio ogni volta che vedo il suo sorriso sdentato. Il mio bellissimo bambino, è strepitoso.
Con gli anni, mi sono trasformata in una vera e propria madre.
All’inizio ero terrorizzata; ho persino sofferto di una leggera depressione post partum dopo aver partorito Marco, ma Peeta mi ha supportato fino in fondo in ogni momento.
Se ora riesco a donare tutto il mio amore ai miei figli, è grazie a lui. Quando faccio questi pensieri, la mia mente vola direttamente a mia madre ed alla sua depressione dopo la morte di papà.
Il solo pensiero di poter perdere Peeta mi devasta e mi logora le viscere come veleno. La capisco.
Solo negli ultimi anni, però. Vorrei averlo fatto quando avevo l’età di Talia.
Peeta arruffa i capelli di Marco e schiocca ad entrambi un bacio sulla fronte, e tutto abbattuto si chiude la porta alle spalle.
Io e Marco tratteniamo il respiro, mentre lo sentiamo bussare alla porta di Talia; e quando lei lo lascia entrare, io faccio l’occhiolino al mio bambino che scoppia a ridere.
– Hai fatto i compiti di matematica? – gli domando. Lui mi guarda angosciato.
– Sono difficili, mamma! Le operazioni non mi piacciono! – mi risponde.
– Allora dopo li facciamo insieme, ok? – replico, trascinandomelo tra le braccia.
Anche con me cerca di scappare per qualche secondo, ma poi la sua natura di cucciolo prevale sul suo carattere ribelle e si stringe al mio seno.
Rimaniamo stretti così per qualche minuto, mentre tendo l’orecchio e origlio la conversazione tra quei due imbranati. Vorrei essere una mosca e andare a vedere.
Quando sento Marco pigolare sotto le mie braccia, capisco che si è addormentato.
Lentamente mi alzo, lo copro e mi avvio verso la camera di Talia. Appoggio l’occhio alla serratura.
Peeta è seduto a terra con le gambe incrociate e la testa appoggiata al materasso. Talia è stesa a pancia in giù con la faccia sommersa dal cuscino.
– ..insomma Talia, perché ti piace questo ragazzo? – dice Peeta, e vedo dal suo sguardo che è geloso, è geloso marcio.
– Non sono affari tuoi, papà! Non puoi domandarmi una cosa così! – ribatte lei alzandosi di scatto e facendo cadere il guanciale a terra. Sbuffo: proprio come suo padre. Quei due sono identici.
– Ok, ok! – replica lui alzando le mani in segno di resa e passandosele nei capelli.
Lo vedo sospirare e tornare ad agitare nervosamente il piede.
Rimane in silenzio per un tempo che mi sembra interminabile quando lo vedo guardare il soffitto, aprire la bocca, richiuderla, riaprirla e poi richiuderla di nuovo.
So già cosa vuole dire, ma non riesce a farlo; e io mi ritrovo a sorridere contro il pomello della porta.
– .. e.. a che ora passerebbe a prenderti, questo Liam? – dice poi, quasi in un soffio.
Gli occhi di Talia si illuminano e in viso le si stampa un grandissimo sorriso.
– Tra un’ora! – urla lei.
Imbarazzata, getta le braccia al collo di suo padre che, seduto davanti di lei, la accoglie con un sorriso non altrettanto raggiante. – Solo, non fare cose stupide, tesoro. Ok? – le dice.
Lei strofina una guancia contro i suoi capelli ricci e annuisce contenta.
– Papà, alla mia età hai vinto gli Hunger Games con la mamma, cosa vuoi che mi succeda? Sono tua figlia dopotutto– risponde.
– No, ero più grande di due anni. E te lo dico proprio per questo.. – ribatte Peeta.
Talia scende dal suo letto e si siede vicino a suo padre. Le sue magre e lunghe gambe affusolate la rendono ancora più bella, e quando appoggia il viso sulla spalla di Peeta, lui la abbraccia e le da un bacio sulla testa.
Mi raddrizzo con la schiena dolorante, e riconosco di non avere più diciassette anni.
Della ghiandaia imitatrice, mi è rimasto solo il nome.
 
Qualcuno suona al campanello.
Vedo Peeta irrigidirsi e portare distrattamente i piatti sporchi del pranzo nel lavabo, mentre Marco corre felice ad aprire la porta.
Talia corre giù dalle scale urlando “Eccomi! Eccomi!”.
Si è legata i capelli in una treccia laterale come la mia, non lo fa mai. Le da fastidio, dice.
Sento una voce maschile ma ancora tanto, tanto giovane, salutarla.
Quando parlai la prima volta con Peeta, aveva già la voce da ragazzo; ma allora aveva già due anni in più di questo fantomatico “fidanzatino”.
Vedo mia figlia agguantare velocemente la maniglia della porta per trascinarsela dietro, quando Liam la ferma.
– Non mi presenti i tuoi? – dice.
Lei sembra sussultare, e suo malincuore riapre la porta.
Mi avvicino all’ingresso sorridente e anche un po' emozionata, lo ammetto.
Il primo amore della mia “bambina” spaventa Peeta quanto spaventa me, solo che io non ne faccio un dramma.
Sulla soglia di casa c’è un bel ragazzo di quattordici anni tutto imbarazzato, che chiacchera sorridente con Marco. Quando mi avvicino, arrossisce violentemente.
Ha degli splendidi occhi marroni, caldi e profondi; i capelli sono leggermente mossi e cadono scuri sulla fronte. È magro, ma non per la fame, come sarebbe stato invece vent’anni fa.
– Salve, signora Mellark! – mi balbetta agitato. Io lo saluto cordialmente sventolando una mano.
– Ciao, Liam. Allora, dove andate di bello questo pomeriggio? – chiedo.
Talia esce di fretta dalla porta per sfuggire al “terzo grado” genitoriale: non credevo l’avrei mai fatto; ma Liam rimane imbambolato sulla soglia della porta.
– Andiamo a mangiare un gelato, signora – mi risponde, poi lo vedo azzardare un’occhiata verso l’interno.
È ovvio che sta cercando il vero scoglio della famiglia Mellark.
Da che mondo è mondo, è il padre della ragazza quello da conquistare per primo; e Peeta, nonostante la reputazione da uomo gentile e adorato da tutti, rimane comunque lo stesso che tra i sedici e i diciannove anni ha ucciso diverse persone.
E ora non è certo scarno come dopo il depistaggio.
Le sue mani si sono irrobustite per il lavoro, e le sue spalle ora sono molto più robuste, come le sue braccia.
Nonostante la muscolatura da uomo adulto di Peeta, mantiene ancora i suoi tratti da giovane ragazzo, come una vita piuttosto stretta, ad esempio ed a differenza mia.
– Ehm.. mio marito al momento non.. – gli dico, imbarazzata.
– Sono qui, Katniss – asserisce Peeta comparendo alle mie spalle.
Vedo Talia voltarsi di spalle tutta rossa, mentre Peeta squadra glaciale il povero Liam.
Non è da lui un comportamento simile, e infatti colgo tra le sue labbra una sorta di sorriso divertito.
– Ciao, Liam. Sono Peeta – gli dice, tendendogli la mano.
Il ragazzo la stringe leggermente titubante, come avesse paura di ritrovarsi una mano stritolata; ma quando sente la presa solida e gentile del mio uomo del pane, si rasserena e sorride amabilmente.
– Salve, signor Mellark. Giuro che riporterò a casa Talia alle cinque precise. – risponde velocemente.
E ora rivedo l’uomo che ho sposato, l’uomo che ha regalato alla mia bellissima figlia il sorriso più gentile del mondo. Peeta allarga le labbra dolcemente, e annuisce.
Mi mette un braccio attorno alla spalla, e con l’altro arruffa i capelli di Marco che nel frattempo si godeva la scena appollaiato alle nostre gambe.
– Divertitevi – replica.
Talia corre indietro e ci lascia un bacio sorridente, e poi si avvia affianco a Liam lungo il vialetto che porta alla città.
Una volta chiusa la porta, Peeta si stravacca sul divano.
– Se Haymitch fosse ancora vivo *, giuro che ora me lo berrei volentieri un goccetto insieme a lui – mi dice.
Io rido e mi siedo sulla poltrona affianco.
Il nostro topolino si arrampica sul divano dov’è steso il suo papà, e si siede sopra la sua pancia.
– Papà, papà! Puoi stare tranquillo, sai? – dice, posando le sua manine sul petto robusto di Peeta.
– Si? E perché? – risponde lui, muovendo le anche facendo sobbalzare il nostro bambino come se fosse sopra un cavallo. Marco e io ridiamo.
– Perché io non me la trovo una fidanzata così! Ne ho già tre in classe, ma mica mangio il gelato con loro! – replica il topolino, orgoglioso. Peeta sta per rispondere divertito, ma il piccolo non ha finito.
– Io il gelato lo voglio mangiare solo con voi, papà – conclude poi.
Peeta strabuzza gli occhi, e io devo portarmi una mano alla bocca perché quello che ha detto il nostro bambino, mi ha talmente colpita da commuovermi.
Vedo mio marito portarsi al petto Marco, e stringerlo con così tanto amore che non posso fare a meno di alzarmi dalla poltrona e unirmi all’abbraccio.


* Mi riferisco all'ultimo capitolo di Dormire Insieme!



 
Ecco qui il terzo capitolo di questa raccolta.
Eh, che dire.. so che devo ancora rispondere a tutte le vostre recensioni ma sono stata colta da un'ispirazione improvvisa e non mi sono potuta fermare..ahah, mi è piaciuto tantissimo scriverla.
Se qualcuno è rimasto incuriosito dai nomi, ecco i motivi.
Talia: è un nome di origine greca che significa periodo di fioritura; mentre il nome Marco è semplicemente un nome che amo profondamente.
Spero davvero che vi sia piaciuta, e come al solito vi prego di recensire.
Per chi la seguisse ma non se n’è accorto, ho aggiornato anche “Ah, il liceo!” un paio di giorni fa.
Grazie a chiunque mi farà contenta lasciando una recensione.
Sogni d’oro, fandom!

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Capitolo 4
*** 4. Ci vediamo domani. ***


*Attenzione: What if?

Ci vediamo domani.
 
 
 
Bacio mia moglie.
Si, la bacio con infinita dolcezza mentre le accarezzo i capelli morbidi.
Mi guarda con quegli occhi così pieni di amore che mi convincono ogni giorno a restare con lei.
Con delicatezza, mi sospinge ad entrare nel cimitero che hanno costruito qui, nel distretto dodici.
Non ci sono lapidi per tutti coloro che ci hanno lasciato.
Quelli che sono stati identificati dopo l’esplosione delle bombe godono di un posto dove possono essere pianti dai loro cari; ma altrettanti giacciono in un’amara fossa comune, sulla quale superficie ora verdeggia rigogliosa l’erba più brillante che io abbia mai visto.
C’è una gigantesca tomba sepolcrale al centro del cimitero, per una sola persona: ricoperta di ghirlande di fiori colorati e profumati, lettere scritte a mano da bambini, adulti, conoscenti.
Sono sicuro che i genitori di questi bambini hanno raccontato loro le gesta di chi vengono a salutare su questa tomba.
Con la fine della guerra, è svanita anche l’ultima lacrima di speranza che aleggiava nella sua testa; i ricordi l’hanno uccisa, se la sono portata via in una straziante crisi isterica.
La gioia di poter sperare in una vita ancora bella è scomparsa dopo pochi mesi di serenità, una serenità che avevamo costruito insieme, piano, con timore; con la medesima devastante lentezza con la quale Snow ci ha privati della nostra stessa adolescenza.
Sono passati tantissimi, forse troppi anni, ma ancora ricordo i suoi occhi come se fossero puntati con determinazioni nelle mie iridi stanche. Stanche e martoriate dal veleno degli aghi inseguitori, quella brutale tortura che mi ha allontanato dai miei principi, dai miei desideri, dai miei ricordi.
Ma ora sto bene. 
Torno a guardare con scrupolosità ogni dettaglio di questa tomba, quasi maniacalmente nonostante io passi di qui ogni giorno dopo aver fatto il pane.
Poso i fiori che porto sempre, e fisso quei maledetti occhi che mi mancano tanto da morire ogni mattina che mi sveglio nel non vederli affianco a me.
Mia moglie sa che non riuscirò mai ad amarla come amavo lei.
Con le labbra serrate, volto lo sguardo all’uscita del cimitero; e lentamente torno a vivere un altro giorno d’inferno senza di lei, con una moglie che non amerò mai a sufficienza e dei figli che per quanto bellissimi siano non portano i suoi stessi occhi.
Delly sa che è così, e che lo sarà sempre. Ma mi accetta comunque, mi ama e si prenderà cura di me fino a che non morirò e mi ricongiungerò finalmente a colei la quale sto voltando ora le spalle tornandomene a casa.
Colei che dorme nella sua ferita bellezza sotto un metro di terra che odora di bosco, come odoravano i suoi capelli.
Mi fermo un secondo per rileggere il nome sulla lapide, ignorando le fitte dolorose allo stomaco che mi assillano ogni volta che leggo quelle lettere scolpite.
Katniss Everdeen.
– Ci vediamo domani. – sussurro al vento. Ma so che lei mi sta sentendo; e so che mi aspetterà per un altro giorno ancora.

 

Ebbene si, in una pausa dallo studio pre – esame non ho resistito..
È un po' strana, lo so. Voi che ne pensate?
Immaginavo una possibilità in cui Katniss non fosse riuscita a sopravvivere alla depressione, ed eccone il risultato.
Recensite, fatelo sempre e con qualsiasi autore.
Buona serata!
MatitaGialla :)

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Capitolo 5
*** 5. Odio la playstation. ***



Odio la playstation.
Io odio la playstation.
La odio con tutta me stessa, tanto che il solo nominarla mi fa andare in bestia.
È da quando ci siamo sposati che ce l’abbiamo: Effie ha pensato bene di regalarcela per il matrimonio. Diceva “è il gioco più vecchio e più divertente di tutta Capitol, ti piacerà Katniss, vedrai!”.
All’inizio era rimasta sigillata nella sua bella scatola blu, e io e Peeta ci siamo potuti godere quelli che sono stati sei mesi di autentica felicità.
Senza incubi o storpiature della verità, solo noi e una dose esagerata di amore e notti passionali.
Poi, l’inevitabile:
un giorno di pioggia funesta, Ranuncolo particolarmente silenzioso e mansueto, l’ennesima partita di carte persa, e Haymitch che entra in casa nostra annoiato ed in vena di giochi.
È stato allora che a quello scemo di Peeta è tornata in mente la scatola impolverata della mansarda.
– come si usano questi congegni? – aveva detto prendendo in mano quelli che abbiamo scoperto solo dopo si chiamassero Joystick.
Quando Haymitch riuscì a collegare tutta quella roba alla televisione, e comparse una schermata colorata piena di arcobaleni a farfalline, mi prese l’entusiasmo.
È stato dopo, quando io ho iniziato a perdere senza pietà e Peeta e Haymitch hanno iniziato a sfidarsi tra loro per chi riuscisse a far sopravvivere di più la Principessa Farfalla.
Vedere un uomo di cinquant’anni e uno di ventitré urlare e inveire contro un televisore è stato qualcosa di divertente, il primo giorno.
Per i giorni successivi, una volta finito il pane alla panetteria, Peeta tornava a casa e per smorzare un po' il tempo iniziava a giocarci.
Tutto normale. Quando una notte però mi sono svegliata a causa di un incubo e non l’ho trovato nel letto, ma in salotto a finire una partita, mi sono davvero arrabbiata.
Purtroppo non posso mai gridare come una matta contro Peeta; il suo depistaggio è irreversibile e sono passati ancora troppi pochi anni perché lui possa vedermi urlare senza il desiderio di volermi ammazzare.
Ma quella notte.. è stato più forte di me, e per fortuna non ho scatenato nessuna reazione in lui.. eccetto forse un imbarazzante costernazione.  
Per quella settimana rimase spenta, ma l’inverno iniziava ad avvicinarsi e le passeggiate erano meno piacevoli da fare. Effie, ricevuto notizia del coinvolgimento dei due per quel marchingegno infernale, ha ben pensato di regalarci per Natale un nuovo gioco, dove delle macchine si rincorrono e fanno a gara a chi arriva prima.
Apriti cielo, è stata la fine.
Non c’è domenica dove casa mia non sia infestata da uomini che con birra e stuzzichini preparati dal forno Mellark piazzino scommesse su chi vincerà. Persino Ranuncolo si è coinvolto, e assiste alle gare miagolando in grembo a Peeta.
Ormai è un anno che va così; e oggi, che è il 27 dicembre ed è il compleanno di Peeta, io guardo mio marito che pigia con forza sul joystick strillando dalla gioia ogni volta che riesce in un sorpasso.
Io ribollisco di rabbia a guardarlo perché nella mia totale assenza di romanticismo, oggi  avevo deciso di mostrarmi molto più carina del solito con lui e portarlo nei boschi a fare una passeggiata in mezzo alla neve.
Ma questo stupido manco mi guarda.
Io odio la playstation.
Ad un certo punto Peeta mi guarda con i suoi occhi non più da ragazzino ormai; anche se i suoi venticinque anni appena compiuti non gli pesano affatto.
In effetti non è cambiato, è sempre lui, non sembra nemmeno più adulto.
– Katniss – mi chiama – giochi con me? –
Io mi stringo nelle spalle, perché me l’ha chiesto raramente da quando è iniziata la sua mania, ma ammetto che è piuttosto piacevole.
Mi avvicino a lui e prendo in mano il joystick, ma dopo neanche quaranta secondi il “game over” mi rende nervosa e lascio perdere, sbattendo l’aggeggio sul tavolino.
Peeta si imbroncia per un attimo e poi spegne la televisione ridendo. Quando si risiede vicino a me, mi bacia dolcemente, come solo lui può fare; e sento tutta la rabbia scivolare via come le sue labbra lungo il mio collo.
– Avevi in mente di giocare ancora per molto? – gli sussurro fintamente infastidita sulle labbra.
Lui mi guarda malizioso – Ho un giocattolino molto più divertente qui, vicino a me – mi risponde.
La negletta playstation resta a guardare, mentre Peeta mi spoglia con delicatezza.
– Buon compleanno – gli sussurro.
Nonostante oggi abbia vinto io, il mio odio per la playstation non è cambiato.

 

Di sentimentale non ha niente, ma l'ho scritta di getto e mi dispiaceva non pubblicarla.
Per questa flash fic non sense dovete incolpare il mio ragazzo; che nel mio unico giorno libero da lavoro e università lui decide di andare a giocare a playstation con i suoi amici.
Non so se lo avete capito, ma io odio la playstation.  
O meglio, odio gli “adulti” che ci giocano.
La odio con tutto il mio cuore, fosse per me la farei sparire dalla faccia della terra: non solo dopo dieci minuti mi stuferei, ma la trovo un’assurda perdita di tempo oltreché un gioco per bambini.
Beh. Spero vi abbia fatto sorridere, a me sicuramente.
Ho aggiornato “Ah, il liceo!” se qualcuno la segue e se l’è lasciato sfuggire.
Ciao fandom! 

 

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Capitolo 6
*** 6. Odio la pioggia, oggi. ***


 Odio la pioggia, oggi.
 
 
Se l’acqua scroscia, sembra tutto ancora più triste.
È come nei vecchi film che ci mostravano raramente a scuola. L’ultima cosa che vorresti, è andare al cimitero mentre piove incessantemente.
Perché rende tutto ancora più difficile. Perché l’acqua che scende dal cielo mette malinconia, in un giorno freddo di fine inverno, mentre tu cammini da solo verso le bare di quattro persone che hanno tutte il tuo cognome.
Ho soldi per mantenere cento persone; ma cosa posso fare con il denaro quando non ho nessuno a cui fare regali? Nessuno a cui comprare da mangiare?
Ieri ero a Capitol City, e oggi che sono tornato qui nel distretto dodici, non sono riuscito a tenermi lontano da queste fosse comuni. Non so nemmeno se ci siano veramente i loro corpi, qui dentro.
Non ho un ombrello, ma in ogni caso non me ne farei molto. Probabilmente lo spezzerei immediatamente.
Sono arrabbiato. Se esiste un dio, sono arrabbiato con lui.
Le gocce mi offuscano la vista. O forse non sono gocce. Stai forse piangendo, Peeta?
Do un colpetto con il piede ad un sassolino, che cade proprio sulla terra ancora malferma della fossa.
Le mie labbra sono screpolate quando mi bacio le tre dita centrali della mano e la alzo, nel saluto che ha portato ribellione in tutta Panem. Il saluto con cui ci hanno salutati, alla mia ultima mietitura, l’anno scorso.
Le gocce gelide si infilano nella manica. Odio la pioggia oggi.
Guardo il bosco, distante forse meno di un chilometro da questo prato sepolcrale. L’inverno non l’ha fatto sfiorire. È tutto così fermo qui.
Non c’è un rumore, oltre all’incessante scroscio dell’acqua.
Quando abbasso gli occhi forse sorrido per la prima volta da quando sono stato prigioniero a Capitol City: una primula spuntata appena, timida nell’ancora freddo di fine inverno, ma temeraria come per dire “Ehi, io voglio nascere, anche se alla primavera manca un giorno”.
La primula mi ricorda immediatamente Primrose e la sua morte. Dove sei ora, Katniss? In casa tua? Stai piangendo? Immagini solo che io sia tornato, oppure lo sai e non vuoi vedermi?
È così all’improvviso, che mi rendo conto che non sono solo. Colgo quella primula timida ai miei piedi.
Come lei ce ne dovrebbero essere altre. Rinasciamo ora, Katniss. Insieme, come questo fiorellino.
 
 
– Sei tornato – mi dice.
– Fino a ieri il Dottor Aurelius non mi ha permesso di lasciare Capitol City – le spiego – Sono stato nei boschi stamattina, e ho sradicato questi. Per lei. Pensavo che potremmo piantarli lungo il lato della casa – 


Vi sarei molto grata se lasciaste una recensione, non credo vi porti via molto tempo.
Si beh, so che non è un gran chè ma.. mi dispiace lasciarla inedita.
So anche che non ho ancora risposto alle vostre recensioni e devo pubblicare il 10° capitolo di Ah, il liceo! Ma ieri ho avuto un funerale sotto la pioggia ed è stato orribile, così in una pausa dallo studio disperato è nata questa Flashfic di appena 400 parole. Spero che almeno un pochino, vi sia piaciuta.
Tra esami e lavoro, settimana prossima verso la metà dovrei avere il tempo di fare tutti i miei arretrati.. ergo, non disperate, gente!
MatitaGialla 

 

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