Stains

di Viviane Danglars
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Our hopes and expectations ***
Capitolo 2: *** Let us do the most unforgivable thing ***
Capitolo 3: *** The Sayonara thing ***



Capitolo 1
*** Our hopes and expectations ***


... sono secoli che non pubblico più qualcosa! O_O
Da questo deducete quanto mi suoni strano. XD Ebbene, ho deciso di riprovarci, con un fandom nuovo per me (per quanto amatissimo). Ci provo con una delle mie coppie preferite. *_*

Piccolo avvertimento: questa fanfic non sarà una one-shot, ma neppure molto lunga. La sua lunghezza è già stata decisa e anche se si divide in episodi ricopre un arco di tempo definito, perciò non è una vera e propria long-fic. :P
Diciamo che ho cercato di esplorare i due personaggi e di ipotizzare una possibile dinamica tra loro; è una mia visione, particolarmente quella di Gin. Ma spero vi piaccia. :D


1.
Our hopes and expectations


Cammino, corro, faccio disperare il capitano, e dimentico cose.
Se fossi un po’ più simile a Nanao Ise, per esempio, tutti noterebbero che qualcosa non va; ma io ho sempre dimenticato le cose, sono sempre stata distratta ed eccessiva, e faccio comunque il mio dovere. Perciò non è che ci siano molte differenze da notare, no? E poi io ho sempre saputo badare a me stessa, questo è risaputo.
Bevute notturne con Kyouraku-taichou non sono una novità, per altro. Ho imparato che posso lussargli le dita per tenerle lontane dal mio seno senza che la mattina dopo se ne ricordi.

Anche Kira corre, come me, ma con ben altri intenti. Si fa in quattro ed è ancora più irreprensibile del solito – il paragone potrebbe gettare una luce negativa sulla mia condotta, in effetti, ma sono ben lontana dal preoccuparmene -, anche se ora è senza capitano, ed essere un vice di un superiore inesistente dev’essere molto triste.
Sembra voler dimostrare a tutti che non è un traditore, che possono fidarsi di lui, che lui non è come il suo ex capitano. Forse non dovrebbe, ma la cosa mi irrita, anche se so bene quanto Kira si sia sentito in colpa e senta la necessità di rimediare.

Momo sta meglio, almeno fisicamente, e anche per questo il mio capitano è più tranquillo. Ne sono contenta, ma so che le ferite di Hinamori sono ben lungi dall’essere guarite.
Io lo capisco. Anzi; lo vedo. A volte la osservo, di sfuggita – fugge gli sguardi – e sono sicura di sapere precisamente cosa sta provando.
Anche se per noi le cose sono andate in maniera diversa, lei ed io siamo simili: le nostre sono ferite profonde e difficili da raggiungere; sono quel genere di ferite che assomigliano a tagli sottilissimi, dai quali quasi non esce sangue, e per questo non si vede nulla in superficie. Ma, se le hai subite, sai quanto il filo della lama sia arrivato a fondo. E lì rimane. Brucia, come se fosse troppo caldo o troppo freddo.

Lui mi manca, anche se nessuno sembra pensare che dovrebbe mancarmi, e questa è una delle cose che mi ferisce di più.

Ichimaru Gin non è mai stato troppo simpatico a nessuno. Naturalmente, so bene per quale motivo il suo aspetto, i suoi modi, persino la sua voce – e quel suo dialetto di Osaka – non sono mai piaciuti. Gin è inquietante, strano, e soprattutto non comprensibile. Non catalogabile.
Pensi di averlo capito, e proprio quando hai già pronto lo stereotipo per lui, ecco che ti compare davanti, e tu non sei più tanto sicuro. Allora lo esamini un po’. Ma non ne concludi granchè e alla fine scegli comunque di metterlo nella categoria della gente poco raccomandabile – giusto per sicurezza. E quindi è così che lui rimane: poco raccomandabile. Come ha detto il capitano, uno da tenere d’occhio… per tutti, o quasi tutti.

Non mi stupisce che nessuno lo consideri una perdita, o che nessuno si sia preoccupato di quali illusioni – delusioni? Speranze? - abbia lasciato dietro di sé. Komamura ha perso un amico in Tousen, e, oltre a Momo, tutto il Gotei 13 è stato duramente colpito dal voltafaccia di Aizen-taichou. Ma Gin? Nessuno aveva mai fatto grande affidamento su Gin. Il suo tradimento non ha stupito poi molto: Gin era perfetto per il ruolo del cattivo.

E io sembro essere l’unica rimasta a pensare a lui.
Di sicuro sono l’unica che possa ricordare alcune cose. Chiunque ricorda il suo sorriso, la sua espressione sorniona, costantemente beffarda, vagamente inquietante, e la sua voce e i suoi movimenti imprevedibili e tutte le caratteristiche che fanno di lui il cattivo perfetto. Ma c’è di più, ed io lo so, qualunque cosa loro ne pensino. Ci sono alcune cose che Gin – e penso questo con orgoglio, e con ostinazione – non ha fatto con nessun altro, non ha mostrato a nessun altro, tranne me.
Sì. Lo conosco da così tanto tempo. Persino il giorno della mia nascita mi fa pensare a lui… E’ così tanto. In realtà, probabilmente, è troppo. Troppo per un traditore.
Eppure la parola non mi basta, non descrive Gin; lui non è semplicemente un traditore. Nessuna parola da sola può descriverlo ed esprimere davvero la complessità della domanda che rappresenta.
Questa domanda c’è, anche se io sembro essere l’unica a vederla, l’unica a porla: perché? Deve esserci una risposta, e non mi bastano quelle semplici che chiunque può dare, non bastano per Gin.
Gin asservito ad Aizen per la conquista del potere? Gin asservito? … Qualsiasi cosa voglia, io so che non accetterà di diventare il servo di nessuno per ottenerla. Qualsiasi cosa abbia fatto, non accetterò una spiegazione che non sia la sua.

Non pretendo di aver mai capito poi molto di lui. Ho capito solo quel tanto necessario per apprezzarlo… anzi, forse, quest’ultima cosa indica proprio che non l’ho capito affatto. Eppure, almeno, di questo traditore io posso conservare qualcosa; debiti e ricordi diversi da quelli di un combattimento contro un Hollow o da qualche sua battuta sibillina, e questo è qualcosa che nessun altro può affermare.
Conservo cose che io sapevo trovarsi dietro alle sue palpebre socchiuse, e che tutti gli altri ignoravano.
Lo ricordo.

Gin… cosa hai intenzione di fare di questo ragazzino? »

Lo faccio la notte, quando sono sola. Penso a lui e mi faccio delle domande, perché quando sono sola, nella mia stanza, mi sembra quasi di non potere fare altro, come se sapessi che anche lui mi pensa o mi segue con gli occhi della mente, come se sentissi che mi chiama, che cerca un contatto e questo mi attraesse in maniera irresistibile.
Pensavo a lui anche quando era qui, ma sembra così tanto tempo fa, e una parte di me si chiede se non sia stato semplicemente sciocco lasciarlo andare via. Avrei potuto, e dovuto, fare di più per catturare quel traditore. Per tenerlo qui.

E cosa diavolo hai intenzione di fare … di me? »

Dannato Gin.

Dove diavolo vuoi andare? »

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Capitolo 2
*** Let us do the most unforgivable thing ***


Piccola nota: uno, no, non leggo Vampire Knight, ma adoro quella frase. XD Due, se volete un sottofondo musicale per questo capitolo, cercate Air du Grand Prieur di Satie.
Buona lettura. :)


2.
Let us do the most unforgivable thing


Dove diavolo vuoi andare? »

… Una domanda lecita sarebbe chiedersi perché sono qui.
La Soul Society dorme sotto un cielo tinto svogliatamente di blu. Chiunque abbia provveduto ai colori, non si è dato un gran da fare: a metà della notte, le tinte sono slavate, la luce è forte, e ci sono molte stelle dal brillio minuscolo e penetrante, gettate disordinatamente tra nubi sfilacciate e contorte.
Nessuno fa caso a me; si potrebbe dire che sto facendo una passeggiata. Ho attraversato il muro senza problemi, ed ora cammino tranquillamente sulle tegole, senza fare rumore.
Sono vestito di bianco: se non fossimo degli shinigami qualcuno potrebbe prendermi per un fantasma. Scontato, ma vero.
Sono un fantasma che ritorna…

Rangiku mi sta sognando. Ne sono quasi certo, anche se, in realtà, non mi piace essere certo delle cose; si viene sempre smentiti. Ci si lascia cogliere di sorpresa, e si sbaglia. Ma non penso di sbagliare in questo caso.
Sento l’aria tra i capelli, ed ha un che di liberatorio. Mi fa venire voglia di estrarre Shinsou e farla respirare. E’ una sensazione piacevole soprattutto perché, da qualche tempo a questa parte, la noia mi perseguita: lo Hueco Mundo non è un grande divertimento. E’ piatto, bicromatico, gli Hollow non sono simpatici, gli Arrancar ancora meno e gli Espada si vantano troppo. Per quanto divertente sia studiarli, finiscono col risultare noiosi dopo i primi esami.
E comunque non mi trovano simpatico.
Almeno, prima di andarmene dalla Soul Society, c’era stato un po’ di movimento; quel simpaticone del Capitano Dieci aveva anche provato ad ibernarmi…
Ah, giusto. E’ stato proprio qui, qui dove sono ora. Delicatamente poso i piedi uno dopo l’altro, senza produrre alcun rumore. Sono sul tetto di questo vecchio dojo; io ero in questo punto, Hitsugaya era alla mia sinistra con quel suo bankai così appariscente, e laggiù, a terra, c’era Hinamori…
E poi sei arrivata tu. Hinamori dovrebbe esserti grata; le hai sicuramente salvato la vita. Non avevo la minima voglia di fermarmi e non avrei ritirato la mia spada se sulla mia traiettoria non ci fossi stata tu.
Osservo ancora un po’ quel punto – lo ricordo bene – prima di muovermi di nuovo. La mia velocità è tale che a malapena percepisco lo spostamento d’aria; da fuori, ne sono consapevole, sembro sparito per merito di qualche incantesimo.
Quanto tempo è passato da quando anch’io, per la prima volta, ho guardato a bocca aperta uno shinigami usare lo shunpo?
Eravamo dei bambini, Rangiku…

Sembra davvero che qualcuno abbia usato pennellate distratte di colore lunare e bluastro sulle mura della tua stanza. Prima i miei piedi, poi le mie dita si posano sul bordo della finestra. Stai dormendo; ma sembri infastidita dall’improvviso venir meno della luce della luna.
Scivolo dentro, sul pavimento, e poso la mia arma senza distogliere lo sguardo dalla tua sagoma sotto le coperte. Ho cercato un ripiano qualsiasi, senza guardare cosa vi fosse sopra, ma quando rivolgo un’occhiata distratta in quella direzione rimango per un istante a fissare la mia mano – è bianca come gesso, in questa luce, sottile come se fosse fatta soltanto di ossa – e la mia lama sul tessuto rosa della tua sciarpa, piegata con cura prima di andare a dormire. Sorrido. I nostri oggetti sono posati l’uno vicino all’altro, come se dovessimo unirci pacificamente nel sonno, e svegliarci assieme l’indomani. Come se ci fosse anche solo un briciolo di tempo, o di normalità.
Sposto di nuovo lo sguardo sulla tua sagoma nel letto, avvicinandomi lentamente, intruso in un luogo che non è mio. La vorresti, la normalità, Rangiku? E’ forse questo che ti sto sottraendo infilandomi nei tuoi pensieri? Vorresti molti amici, divertimento, e ogni tanto un Hollow da abbattere per poi berci su…
La tua vita com’è ora, è già così. Hai già ciò che vuoi, è già tutto perfetto. Ma allora perché ti disturbi a chiamarmi con i tuoi desideri?
Sussurro parole chinandomi su di te, incuriosito dalla possibilità che ti svegli. Potrei morderti, ucciderti, rapirti. Sono curvo su di te come un mostro che spaventa i bambini nella notte, grottesco e dai molti artigli, già pronto a rubarti il respiro. Ma preferisco farti qualcosa che non potrai negare di avere desiderato.
- Gin… - sussurri aprendo gli occhi. Poso l’indice sulle tue labbra. La luna proietta l’ombra del mio dito, innaturalmente lunga, sulla parte sinistra del tuo viso. Quasi copre il piccolo neo che hai sul mento.
Quel neo è un dettaglio che mi è sempre piaciuto.
Per un istante, i tuoi occhi sono annebbiati dal sonno, e paiono di un azzurro più scuro. Li posi su di me e sono certo che sei semplicemente felice di vedermi. Potrebbe essere come quando eravamo bambini, ricordi?, ed io mi occupavo di te, e ti svegliavo al mio ritorno, e anche allora eri felice di vedermi.
Ma in un istante il tuo sguardo si indurisce, l’azzurro è nascosto dal muro ostile delle tue ciglia nere e non ti curi della mia carezza sul tuo labbro inferiore mentre ti volti di scatto, una sola mano allenata che corre a raggiungere Haineko e la solleva puntandola al mio collo.
Non mi muovo, e non parlo, e sono sicuro che questo ti irriti particolarmente. Hai reagito come deve fare un vicecapitano del Gotei 13 di fronte ad un nemico, ma vuoi veramente colpirmi, ora che te l’ho lasciato fare? Non credo.
- Cosa fai qui? Cosa vuoi? – sibili, premendo di più la lama. Si trova sotto la mia nuca, sopra il collo, anziché puntata alla gola. Come mai? Non volevi che ci fosse qualcos’altro tra noi due, mh?
- Perché fai queste domande, Ran-chan? – rispondo, con un briciolo di curiosità.
Non lo sai cosa voglio, Ran-chan?
Qualcosa muta nella tua espressione, la tua fronte è corrugata, e i capelli sono spettinati. Li sento, mi sfiorano i polpastrelli mentre ritiro la mano dalla tua bocca, dal tuo mento. Prendi un brusco respiro quando smetto di toccarti, ma non ti muovi, se non per stringere con più forza – è un segno di insicurezza, Rangiku, non lo sai? – la mano sull’elsa della spada.
- Vattene – sibili. La tua voce è roca, bassa.
Io sorrido, non posso davvero farne a meno, credimi, e poso dieci fredde punte di dita sulle tue clavicole, strappandoti un sobbalzo di sorpresa.
So perché sei sorpresa. E’ divertente sapere che chiunque altro lo sarebbe quanto te.
Tra i tuoi colleghi shinigami, sia che pensino al nostro rapporto solo come una vecchia amicizia, sia che ci credano amanti – il che di solito si accompagna ad una scarsa stima di te, sfortunatamente – nessuno ha mai intuito la verità. Non ce n’è uno, tra quegli integerrimi paladini della giustizia, che ci abbia concesso il beneficio del dubbio. Che direbbero se sapessero che il provocante luogotenente Matsumoto è sentimentalmente coinvolto con qualcuno al quale è riuscito, al massimo, a strappare una carezza, un bacio, un qualche gesto sempre sporcato dalla fretta, dall’ambiguità, dall’incomprensione?
Ti chiedi perché vengo da te solo ora, Rangiku?
La risposta è semplice.
- Vattene – ripeti. Sento i tendini sotto le dita; il mio tocco è qualcosa di simile ad una carezza, ma non è gentile, sul tuo collo, sulla scollatura del tuo kimono.
- Non dovresti chiedermi di andarmene, Ran-chan… sarebbe meglio che mi catturassi o mi uccidessi, non credi? -
E’ vero, ma non vuoi farlo, per questo non rispondi.
Oh, Rangiku. Non è meraviglioso? Non senti quanto è meglio, ora?
Ora non ci sono più bugie o segreti o piani. E’ tutto dichiarato, ora, non dobbiamo più fingere. Tu non devi fingere che io non ti faccia paura, io non devo fingere di essere una brava persona, e nessuno dei due deve fingere di curarsi della felicità dell’altro.
Che tu mi desideri, Ran, che io ti desideri, è sempre stato ovvio, ma non siamo mai stati altruisti, noi due. Ti ho protetto dalla fame e dal freddo e forse lo farò ancora in futuro, e tu mi hai dato i tuoi sorrisi, e carezze col palmo morbido delle tue mani, e insieme abbiamo trovato calore nella nostra piccola casa di legno, ma sarebbe sciocco chiedere a noi stessi qualcosa di più. Io non lo voglio, Ran. Non mi serve. Non dobbiamo fingere di essere persone per bene.
Non dobbiamo fingere che ci importi di qualcos’altro, di qualcun altro. Possiamo essere noi stessi; io non ti voglio diversa. Non dobbiamo fingere. Andiamo bene così.
Mi chino, sfuggendo al tocco freddo di Haineko sul collo, senza preoccuparmi della spada perchè so bene che tu non reagirai. Poso le labbra sul tuo sterno.

Ran, facciamo la cosa più imperdonabile di tutte.

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Capitolo 3
*** The Sayonara thing ***


Terzo, ed ultimo, capitoletto di questa strana fic. :P
Ringrazio moltissimo Alessandra per aver recensito, e per i complimenti. *___* *me ama i complimenti* Sono felice che ti sia piaciuto Gin, perchè è indubbiamente difficile descrivere un Gin realistico. Io, per di più, mi sono gettata nella difficile idea di provare a capire "cosa" stia pensando e non solo di dipingerne le azioni, e sono felice che il risultato ti sia piaciuto.
Può darsi che la fine di questa fic deluda un po', rispetto alle "premesse", ma è semplicemente il modo in cui credo sarebbe andata (se poi vogliamo parlare di tensione erotica allora diciamo pure che Gin e Ran non sono tipi da buttar via la cosa, così, senza farcela guadagnare XD).
E infine... sì, Kubo-sensei ci fa trepidare riguardo a questi due amorilli, ma io, che lo amo, non ho dubbi e aspetto fiduciosa. u_u
Buona lettura! ^^


3.
The Sayonara thing


Per un istante, sono felice. L’istante dopo lo odio, e penso tra me che è il più grande bastardo mai esistito, che lo è sempre stato, e perché diavolo ora è qui?
So che ho desiderato vederlo, so che ho desiderato parlargli, e che ho sentito tanto la sua mancanza da desiderare anche solo di averlo di nuovo vicino, in qualche modo, per un po’. Ma questo non mi impedisce di sentirmi patetica, e lo odio perché è lui che mi fa sentire in questo modo. Certo, anche volendo, difficilmente avrei potuto convincermi del contrario – ma, ora che lui è qui, è ancora più duro constatare che non so colpirlo, non so ferirlo, non so catturarlo, non so neppure rispondere alle sue parole.
E’ chino di fianco a me come se io fossi una bambina malata e lui un genitore preoccupato. Si sporge sul mio letto come un demone del sonno venuto a rubarmi l’anima con i suoi incubi.
Venuto a succhiare via il respiro dalla mie labbra.
So che tremano impercettibilmente quando lui smette di toccarle, e i miei occhi seguono i suoi movimenti, confusi, veloci, cercando di capire le sue intenzioni. Ad ogni tocco sulla pelle, la mia determinazione viene meno, e cerco di ripetermi che non devo dimenticare la prudenza, che lui è un mio nemico, che qualsiasi cosa faccia lo fa solo per disarmarmi… ma, come prevedibile, fallisco.
Questo è qualcosa che ho troppo intimamente desiderato, per riuscire a tacitare il mio bisogno con simili osservazioni razionali. E alla fin fine io non sono mai stata una persona totalmente razionale, no, Gin? Quando si cresce a Rukongai, è dannatamente meglio affinare presto l’istinto.
Quando posa le labbra sul mio petto chiudo gli occhi, prendo un respiro, e la mano libera, che è rimasta sulla coperta del mio futon, si aggrappa alla stoffa. Lo sento muoversi e un istante dopo il suo peso mi avverte che si è messo a cavalcioni sopra di me. E’ più leggero di quanto credessi.
Cosa darei per sapere cosa sta pensando…
Si fa strada sul mio petto slacciando piano il kimono. I suoi gesti sono così calmi, così tranquilli, che mi stupiscono. Sembrano persino puliti.
E’ evidente che non ha fretta.
Riapro gli occhi, e la prima cosa che vedo, sopra di me, è la mia mano sollevata, che regge Haineko ma ormai con tanta poca convinzione che la spada è abbassata, e il mio polso trema. Abbasso il braccio e lo poso sul pavimento; la zanpakutou produce un rumore attutito. Gin non si ferma.
- Perché? – chiedo in un sussurro, e la mia voce mi spaventa, ma solo un po’. E’ roca ma non posso dire di non averlo immaginato. Gin, d’altronde, non ha bisogno di questo per sapere che non ho intenzione di opporgli resistenza.
- Che cosa, Ran-chan? – chiede, risollevando il viso e tendendosi per sfiorarmi con le labbra il lobo dell’orecchio. Questa volta rabbrividisco e lo sento sorridere contro la mia pelle. E’ soddisfatto di vedermi reagire.
Ma la sua domanda beffarda riaccende in me la rabbia. Non crede forse di dovermi delle spiegazioni? Mi muovo, mi sposto, ma prima che possa capire io stessa quali sono le mie intenzioni, le sue mani mi hanno preso entrambi i polsi bloccandoli contro il pavimento e lui affonda il viso nel mio collo e nei miei capelli, e non mi sta baciando, no, ma penso che stia respirando.
- Sei arrabbiata, Ran? – chiede, piano. Io serro le labbra, e volto il capo cosicché i nostri volti si sfiorano. Posso intravedere la sottile fessura tra le sue palpebre, anche se è nascosta dai suoi capelli e dai miei.
- Mi manchi, Gin – rispondo, il tono accusatorio.
Ah, dannazione, quanto è sbagliata questa risposta. Avrei dovuto inventare qualcosa.
Ho un’ulteriore conferma di aver sbagliato perché lui sorride, e si solleva un poco. Ora posso vedergli il viso; rare volte siamo stati così vicini.
- Allora dovresti essere felice di vedermi – sussurra, sfregando le labbra contro le mie. E’ quasi giocoso. E’ felice, soddisfatto; lo capisco in questo momento, si sta divertendo. Io socchiudo le palpebre. Questo mi ferisce, e realizzo che probabilmente è solo l’inizio.
- Non sono felice. Non ti voglio qui. – Non sto mentendo… non del tutto.
Lui si solleva un poco. Mi lascia andare i polsi e si appoggia sulle mani, poste ai lati del mio viso, mentre mi guarda dall’alto in basso. Mi ritrovo a pensare che sembra la situazione tipica tra due amanti, ma noi siamo tutto il contrario di questo.
Gin ha un’espressione interrogativa, come incuriosita da ciò che ho detto. Inclina il capo di lato. Non smette di sorridere.
- Se ti fosse importato, non avresti dovuto andartene – sussurro, il più duramente possibile. – Ora non hai il diritto di tornare. -
- Non lo avevi desiderato? -
E’ ancora stupito, ancora sembra non capire. Perché, Gin? E’ tanto strano che non mi voglia sottomettere? Credevi anche tu che fossi il tuo giocattolo, e basta, come lo credono tutti gli altri? Lo so, cosa pensano. Credono che fossi la tua donna, con tutte le accezioni dispregiative della cosa. Credono che non andassimo molto per il sottile, tu ed io. E che se mi manca qualcuno a scaldarmi il letto, non mi ci voglia molto a riempirlo, cosicché non dovrei certo sentirmi sola.
Sbagliano, e sbagli anche tu.
- Senza neppure una spiegazione… - continuo, ignorando la sua domanda. Il suo sorriso persiste ma suona sempre più grottesco mentre mi guarda.
Rimaniamo in silenzio per un po’. Forse lui si aspetta che io parli ancora. Io vorrei, per una volta, non rimanere a chiedermi cosa sta pensando, cosa sta provando. Vorrei che per una volta mi dicesse la verità.
All’improvviso, si sposta, poggiando il suo peso su una mano soltanto, e solleva l’altra per avvicinarla al mio viso. Faccio per ritrarmi, ma lui si limita a sfiorare con le dita la mia guancia. – E così, vuoi davvero che me ne vada? -
No, no, Gin, voglio che tu rimanga. Voglio che tu non te ne vada mai più.
Voglio non doverti odiare, Gin.

- Sì. -
Lo guardo mentre ritira la mano. Si mette a sedere di fianco al mio letto, e rimane un po’ così, dandomi le spalle.
Sembriamo due bambini.
Poi si volta, e mi guarda da sopra la spalla, con quel suo sguardo che nei momenti di maggiore allegria definisco "da idiota" e che quasi sempre mi fa venire una morsa allo stomaco. Mi colpisce la consapevolezza che l’ho deluso: c’è delusione sul suo viso, un tocco di amarezza che lui respinge un istante dopo averlo mostrato – un istante dopo avermi permesso di vederlo. Al suo posto ricompare il tono calmo e beffardo della sua voce.
- Immaginavo un benvenuto più caloroso, Ran-chan. -
- Dopo il modo in cui te ne sei andato? -
- Ti ho detto Sayonara. -
Mi giro su un fianco per fissarlo, incredula. – Credi che basti? – rispondo, in un sussurro offeso, che non riesco a controllare. – Per averci ingannato, traditi, per aver permesso che il Consiglio e Kuchiki e Hinamori… -
Mi blocco perché queste cose le sa benissimo, e lui mi sta ancora guardando come se tutto questo non contasse.
- Io ho detto Sayonara a te, Ran. -
Continuo a fissarlo. Lui si volta e si mette in piedi. I suoi movimenti sono tranquilli. Per un istante non capisco perché si avvicini al mio tavolo, finché non lo vedo raccogliere Shinsou e fissarla di nuovo alla sua lunga veste bianca da Arrancar.
- Toglierò il disturbo – annuncia, come se avessimo appena finito di parlare tranquillamente. Ho la sensazione che mi stia sfuggendo qualcosa, di sicuro mi sta sfuggendo lui, ma non riesco a fare niente. Niente.
- Gin… -
Si volta. Ora è di fronte alla finestra. Il suo viso e i suoi capelli sembrano color indaco come il cielo.
- Gin… dove… - mi ritrovo a mordermi il labbro per riuscire ad andare avanti, - dove esattamente hai intenzione di andare? -
Il suo sorriso si allarga. Per un istante mi osserva, so che mi sta guardando con attenzione, come per imprimersi la mia immagine nella mente. – A casa, Ran. – La sua voce è musicale come se volesse aiutarmi ad addormentarmi. E’ rassicurante, ed io potrei essere di nuovo una bambina per quello che ne so, perché mi ci affido come se fosse un abbraccio. – Ti aspetterò lì. Ti aspetterò tutto il tempo che sarà necessario. -
Sbarro gli occhi. Non capisco. Da sempre sono io ad aspettare lui – non riesco nemmeno ad arrabbiarmi, a dirgli che è un idiota, che se ne è già andato. Così velocemente che mi rifiuto di alzarmi e correre alla finestra; non lo vedrei.
Forse, non è mai stato qui.

... io ho detto Sayonara a te, Ran.


Ho commesso un errore di calcolo, tutto qui.
Era troppo presto. La mia piccola Ran ha ancora da imparare, da capire. Non è ancora libera. Ma lo diventerà.
Devo solo aspettare ancora un po’, avere pazienza. Aspetterò che finalmente lei sappia raggiungermi – aspetterò lì dove siamo sempre stati destinati a stare. Nella nostra piccola casetta di legno dove abbiamo tutto quello che ci serve.
Non ci servono sciocchezze e routine. Non ci serve ciò che serve agli altri; ed entrambi possiamo aspettare. C’è tanto da fare.
Lei è ancora un po’ indietro, ma solo un po’; sbaglierà e non capirà, e il suo cuore si spezzerà ancora, e ancora, e quando lei finalmente imparerà a proteggerlo – allora sarà pronto per me.

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