Il richiamo del lupo

di Alex Wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il clan del Nord ***
Capitolo 2: *** Il lupo e i cacciatori. ***
Capitolo 3: *** Gandalf, Dis e la lupa. ***
Capitolo 4: *** La chiave di Erebor. ***
Capitolo 5: *** In cammino. ***
Capitolo 6: *** Il ruscello. ***
Capitolo 7: *** La rabbia del lupo. ***
Capitolo 8: *** Il nuovo lupo. ***



Capitolo 1
*** Prologo - Il clan del Nord ***


Il richiamo del lupo. 
 


''Il passato torna da te proprio quando pensi di averlo dimenticato.''
 
 


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Tuoni e lampi baluginavano nel buio di quella sera invernale, mentre un forte vento smuoveva la folta pelliccia castano scuro del possente lupo. Il Nord non era mai stato un posto tranquillo in cui vivere, con quei suoi inverni freddi e le notti insonni passate a far ronde sui colli delle montagne; con le strane creature che lo abitavano sempre pronte a fare imboscate, persino a loro che erano i sovrani indiscussi delle montagne. Ma combattere quando serviva non gli dispiaceva per nulla, dopo tutto era questo il motivo per cui erano nati loro, tutti loro. Lui. A quelli come lui, che ora scrutava il profilo aguzzo delle montagne con i suoi occhi chiari, brillanti e famelici, piaceva stare fuori in serate come questa; a godersi la solitudine, per un po’ perso nel isolamento dei suoi pensieri. Solo con se stesso. A un tratto, in lontananza, un lampo bianco invase il suo campo visivo per qualche secondo e poi si spense. Gli alberi delle montagne vennero piegati da un forte vento caldo e la pioggia, che prima cadeva dritta, si curvò colpendolo con forza sulla guancia destra. Il suo corpo venne sbalzato lontano, batté con forza la schiena contro un forte tronco e ruzzolò a terra. Con un guaito si erse sulle zampe, gonfiando il petto fradicio e alzando le orecchie, cercando di trovare ogni minimo rumore che potesse aiutarlo a rintracciare chiunque avesse osato fargli del male; ma il vento gridava troppo e la pioggia cadeva con forza cancellando ogni altra cosa. Poi, la sagoma di una figura si erse imponente fra i tronchi, talmente scura che persino l’oscurità della notte a suo confronto sembrava candida. Per un breve istante il lupo rimase fermo, senza muovere un muscolo, a osservare l’uomo che avanzava per nulla intimorito e solo quando si rese conto di chi in realtà lui fosse mostrò i denti e fece schioccare le mandibole. Ma l’orco  non rallentò la sua camminata, mentre gli si avvicinava e poggiava la mano sull’elsa della propria spada.
Allora è vero, pensò immediatamente il lupo, è tornato. E’ qui per la sua vendetta.
Prima che se ne accorgesse, le sue zampe correvano senza controllo, e inciampava a volte, tentando di raggiungere le case e avvertire tutti di fuggire. Aggirava i tronchi e saltava quelli caduti, mentre la pioggia gli finiva sul volto con tanta forza da sembrare palline di piombo. Ormai dal suo pelo castano scendevano rivoli d’acqua e faticava a tenere gli occhi aperti. Poi la vide, una forte luce rossa persino sotto tutta quella pioggia. La porta della taverna era aperta e mancava poco prima che la raggiungesse, un ultima corsa prima di crollare del tutto. Si fece forza, aumentò la velocità sfrenata delle zampe, con i muscoli doloranti e stanchi e riuscì a superare il confine del bosco per poi gettarsi dentro l’abitacolo. Stramazzò al suolo, e tornò umano sotto gli occhi di tutti i commensali. La legna scoppiettava nel grande falò, divorata dalle fiamme gialle e blu che l’avvolgevano in un abbraccio mortale. Calon s’issò sulle forti braccia, e i muscoli guizzarono gonfiandosi; i corti capelli castani gli cascarono appiccicati sulla fronte e delle gocce trasparenti presero a macchiare il pavimento di legno. Con il respiro irregolare e la camminata scomposta riuscì ad avvicinarsi al tavolo posto sopra un rialzamento, dietro il quale sedeva i suoi signori e il loro ospite: Gandalf.   « Mio signore, Magnus! » Gemette, e la sua voce si spezzò verso la fine della frase. « E’ tornato. Lui è qui! » Lanciò un occhiata alla piccola creatura infagottata che giaceva fra le braccia della giovane regina; una bambina innocente, la primogenita dei suoi sovrani. Gli occhi neri del re dei lupi s’incupirono, e si dimenticarono della festa che fino a poco prima si era svolta per festeggiare la nascita della figlia. Magnus osservò poi la moglie con la tristezza negli occhi, e la giovane regina spostò i propri verso la figlia. I lunghi capelli castani della donna caddero sopra il fagotto e successivamente da esso spuntò un braccino, che si allungava verso l’alto e una dolce risata riempì la sala vuota. Magnus si costrinse a spostare gli occhi da quella scena e, riacquistato l’autocontrollo, tornò ad osservare Calon, che ancora stava davanti alla loro tavola, in mezzo alla stanza.
« Quant’è distante da noi? » Ringhiò a un tratto il re, issandosi in piedi; la sua ombra si proiettò sul giovane.
« Non molto, maestà. » Affermò Calon, abbassando il capo in segno di rispetto. Magnus, lanciata un ultima occhiata alla moglie e la figlia, ringhiò e i suoi occhi si accesero come torce nella notte.
« Preparatevi a combattere! » Ordinò e la sua voce non ammetteva repliche. Tutti i presenti, uomini e donne, uscirono dalla sala e in pochi minuti fuori dalla taverna ci fu un gran vociare: ululati che si perdevano nella notte di pioggia.
« Abbi cura di lei, Gandalf. » Mormorò ad un tratto Kemen, accarezzando per l’ultima il volto della figlia. La piccola lupa strinse in una mano l’indice destro della madre e lo mosse a destra e sinistra, senza smettere di ridere. La regina singhiozzò, mentre con il cuore spezzato porgeva la figlia allo stregone e gli porgeva anche un suo anello: un semplice cerchio d’argento con un piccolo rubino incastonato in mezzo, appartenete alla casata dei lupi da cui la piccola proveniva. Poi, con un gesto deciso sia sciugò le lacrime e lanciò un occhiata al marito, che aveva deposto la propria corona sul tavolo.
 « Non è un addio. » La rincuorò lui, lanciando un’occhiata all’amico che si accingeva a nascondere la piccola principessa sotto la veste grigia, sebbene in cuor suo sapeva di non poter battere l’orco pallido. Il re si maledisse quando, per la prima volta dopo anni, si ricordò il motivo di quella faida: l’uccisione di una di quelle orrende creature. Non gli erano mai piaciuti gli orchi, ma avrebbe fatto meglio a non togliere la vita al padre del profanatore nel mezzo della pace fra i due “popoli”; o meglio, la completa indifferenza che si era creata fra loro. E ora, a causa di questa sua azione, si ritrovava a mettere in pericolo la sua famiglia e il proprio branco.
« Bugiardo. » Lo freddò la sua regina gelandolo con i suoi occhi castani, prima di tornare a osservare il mago. « Solo, ricordale chi eravamo nei nostri pregi e non nei difetti. Fa si che sia fiera di noi, e del suo clan. »
« Lo farò, mia signora. » Affermò Gandalf, stringendo fra le mani il proprio bastone.
« Addio, bambina mia. » Mormorò Kemen, saltando oltra il tavolo con agilità, seguita dal marito, prima di uscire sotto la pioggia battente e trasformarsi. L’unica cosa che Gandalf udì prima di sparire furono gli ululati del branco che correva nella foresta e i gridi di battaglia degli orchi. Il respiro della piccola principessa gli riscaldò il petto, prima che la stringesse e battesse il bastone a terra. Una forte luce bianca li circondò, il vento mosse i suoi capelli e con velocità furono trasportati via, poco prima che due soldati nemici entrassero nella taverna. 

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Capitolo 2
*** Il lupo e i cacciatori. ***


Il richiamo del lupo.
 



“C’è un momento che devi decidere: o sei la principessa che aspetta di essere salvata o sei la guerriera che si salva da se.”
 
—Marylin Monroe

 
 


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Il sole splendeva, illuminando le foreste che adornavano la catena dei monti azzurri. I cinguettii degli uccelli inondavano l’aria fresca, e il vento li trasportava fra le fronde. Raggi di luce svettavano sul terreno, creando splendidi contrasti con il buio mite del sottobosco. Gli odori della selvaggina che correva libera nei prati, fra gli alberi e i cespugli mi arrivava al naso quadruplicata, aumentando la mia voglia di caccia e sangue. Il mio stomacò brontolò e d’istinto gettai la testa verso il basso trovando solo il terreno bruno. Starnutii, alzando una nuvola di polvere, e scossi il capo indietreggiando. Alzai il viso in alto e annusai l’aria, uno strano odore aveva iniziato a diffondersi nei paraggi ed era forte e agre. Un ringhio nacque nel profondo del mio petto, mentre il cuore batteva forte per l’adrenalina. Presi a zampettare nel bosco, facendo meno rumore possibile e mi appostai sotto un cespuglio, in attesa. A un tratto, delle ombre presero a macchiare il terreno, corte e scure, e poco dopo delle figure lo seguirono. Erano di due giovani nani: uno dalla barba e i capelli  biondi e l’altro con una folta chioma scura e senza barba. Avanzavano tranquilli, con i sorrisi sulle labbra e le armi in spalla. I loro mantelli erano foderati di pelliccia, così i loro guanti e i pesanti scarponi che indossavano. Provai un moto di rabbia nei loro confronti: sicuramente quelle pelli erano di lupo e loro erano cacciatori mandati dagli abitanti di quella stupida cittadina in cui mi avevano avvistata. Erano venuti per uccidermi, certamente, ma non ci sarebbero riusciti. Un altro ringhio brontolò nel mio petto, mentre flettevo le possenti zampe bianche verso il basso e mi preparavo a saltare.
« Fili, hai sentito?  » Domandò il nano dai capelli scuri all’altro, bloccandosi nel bel mezzo della camminata. L’altro si voltò verso di lui silenziosamente e con occhi attenti prese ad osservare la natura che li circondava; i capelli catturarono un raggio di luce e sembrarono divenire d’oro. Le orecchie tese in ascolto, ma si sentivano solo i canti dei fringuelli. Sbattei le palpebre e socchiusi la mascella, assaggiando l’aria mentre mi preparavo con molta calma.
« Kili, hai bevuto troppo prima di partire. Mamma te l’aveva detto di non esagerare. Ora muoviamoci e vediamo di trovare lo zio e Dwalin. » Borbottò Fili, rimettendosi in marcia. Avanzai cautamente nel buio del mio nascondiglio, senza staccare i miei occhi scuri dai due. Le foglie si poggiavano sul mio pelo solleticandomi, ma tentavo di non farci molto caso; il mio fiato si condensava in piccole nuvolette bianche, mentre mi abbassavo ancora andandomi a sporcare il pelo candido. Mi piaceva osservare le prede prima di ucciderle, studiare i loro movimenti, annusare il loro profumo. Quei due, per esempio, sapevano di buono: cannella e menta, con un retro gusto di bruciato. Sicuramente avevano lavorato in qualche fucina prima di dedicarsi alla caccia contro di me. Ancora pochi passi e avrei attaccato. Feci passare una zampa in avanti e con cautela evitai le foglie sopra la mia testa, piegando le orecchie all’indietro e... Crack. I due nani si voltarono colti alla sprovvista e allora non potei più rimandare. Con un ringhio imponente saltai fuori dal mio nascondiglio e presi a correre, senza ripensamenti, contro il giovane nano che avevo più vicino: quello dai capelli scuri, che portava le frecce. Era più facile gettare a terra per primi gli arcieri, così non avevano tempo per attaccare. In ogni modo,  mi avventai su di lui come una furia scatenata e rotolammo a terra, ruzzolando giù per un breve spazio prima di fermarci. Con i denti gli afferrai il colletto della maglia e cominciai a dimenare la testa, tentando di arrivare alla carne. Ma era difficile: Kili, così mi pare si chiamasse, aveva steso le braccia verso l’alto riuscendo a poggiarle sul mio petto e aveva iniziato a spingermi verso l’alto. Tentai più volte di chiudere le fauci sulla sua trachea, schioccandole come code di frusta ma, sebbene arrivassi a filo della sua giugulare, sembrava impossibile riuscirci. I miei denti toccavano a filo la sua carne e non riuscivano a nulla se non a infliggere qualche graffio. Pochi schizzi di sangue mi macchiavano i canini e il muso. Mentre ero intenta nel mio piccolo incontro, una figura si gettò su di me spingendomi letteralmente via dal corpo del nano. Due grandi braccia si strinsero attorno al mio petto e presero a stringere, mentre io mi ritrovavo con la pancia scoperta verso l’alto praticamente sdraiata sul nano biondo. Riuscivo a sentire l’elsa dei suoi pugnali a contatto con la pelliccia e la rabbia che mi scorreva nelle vene. Ringhiai facendo fremere il petto e, con un colpo di reni, mi voltai riuscendo a mordere il braccio al cacciatore. Lui gridò, inginocchiandosi a terra e allungando una mano sul mio muso afferrandomi la mandibola per tentare di alzarla verso l’alto; in risposta ringhiai ferocemente e presi a dibattere il muso. Sentii la pelle lacerarsi nella mia morsa e il giovane nano gridare. Non mi piaceva fare del male alla gente, ma di certo non ero una principessa quando si trattava di difendersi.
« Fili! » Una freccia si andò a conficcare a pochi millimetri dalla mia spalle e d’istinto lasciai andare la resa sul braccia del cacciatore per voltarmi nuovamente verso il nano moro. Mostrai le zanne, facendo schioccare le mandibole e abbassai le orecchie indietro. Riuscivo a sentire il sangue del giovane nano scorrermi sulla bocca, scendendo sulla gola, e tracciando un percorso che andava fino al petto. Le gocce cadevano sulla terra sotto le mie zampe, macchiandola come acqua fresca che veniva assorbita dopo tanta carestia. Il vento aveva smesso di soffiare e il canto degli uccelli era cessato. Non restava altro che la calma nella foresta delle Montagne Azzurre, e noi tre. I miei occhi di ghiaccio si posarono su quelli scuri del ragazzo: era così determinato. Nel suo sguardo potevo leggere la voglia crescente di uccidermi e incassare la ricompensa, mentre prendeva una freccia dal feretro e l’incoccava nel piccolo arco. Allargai di poco le zampe e caricai verso di lui, scivolando sotto lo spazio delle sue gambe. Con un balzo mi ritrovai sopra la sua schiena, costringendolo con una zampa a tenere la testa giù. Non era facile, e mai lo sarebbe stato, abbattermi. Ci tenevo troppo alla mia vita, a viverla a modo mio e non avrei lasciato che un maniscalco o contadino qualunque me la portasse via; non dopo tutto quello che avevo dovuto sopportare. Avevo ancora conti irrisolti da pagare e far pagare, e non avrei lasciato nulla in sospeso finché avrei avuto vita.
« Fili! Kili! » Una terza voce mi fece alzare lo sguardo: altri due nani stavano correndo verso di noi. Entrambi erano molto alti per essere della stirpe di Durin. Uno aveva una folta barba e lunghi capelli neri, che contornavano due occhi di ghiaccio, e indossava pesanti abiti di pelliccia; mentre fra le mani stringeva una spada la cui lama brillava sotto i raggi del sole che filtravano fra gli alberi. L’altro era muscoloso, con la calotta calva sulla quale risaltavano molti tatuaggi e una lunga barba bruna, così come i capelli; si muoveva velocemente, nonostante i pensati abiti di pelle e pelo e stringeva fra le mani un’ascia. Mostrai loro i denti ed emisi un forte ringhio, ma non si spaventarono e continuarono a correre verso di me. Dunque, la gente della città era diventata davvero così temeraria? Analizzai la situazione velocemente e, costatando che non avrei potuto farcela, saltai via dalla schiena dell’arciere correndo a nascondermi nel bosco. Le mie zampe si muovevano velocemente ma, quando pensavo di essermi allontanata abbastanza, le mie orecchie captarono un movimento alle mie spalle. Frenando violentemente mi girai, indietreggiando fino a scontrare un grande albero con le zampe posteriori. Di fronte a me stava il nano dai capelli neri e gli occhi azzurri; sul viso aveva dipinta un espressione rabbiosa e la stretta che aveva sull’elsa della spada mi fece comprendere che lo era davvero. Abbassai le orecchie e il busto e snudai le zanne; cominciammo a muoverci in circolo. Era una situazione statica: io studiavo lui e lui studiava me. Il viso severo non lasciava trapelare nulla se non rabbia. Le labbra arrossate, come le gote, mi fecero pensare che doveva aver corso molto e quindi doveva essere stanco. Se fossi riuscita ad azzannarlo ad un polpaccio l’avrei messo fuori gioco e sarei potuta fuggire tranquillamente. Con una mossa calcolata smisi di girare, flettei le zampe e saltai di lato cogliendolo alla sprovvista. Affondai i denti nella sua gamba, non in profondità: non avevo intenzione di metterlo fuori gioco del tutto, mi sarebbe piaciuto giocare un secondo round con lui; perché sapevo ci sarebbe stato un secondo turno. Il nano gridò e si accasciò in ginocchio quando lo lasciai libero, portandosi una mano nel punto colpito. Ringhiai mostrandogli i canini e poi corsi via, scomparendo alla sua vista. Il vento mi colpì dritto sul muso, e sentii il sangue del nano biondo cominciare a seccarsi sulla pelliccia candida, mentre le mie zampe affondavano nel terreno del sottobosco. Rallentai la corsa solo quando fui sicura di essere al sicuro e alzai il volto al cielo: un ululato potente lasciò la mia gola, dispargendosi in tutta la foresta. Stormi d’uccelli si alzarono in volo all’udire quel suono e le foglie vibrarono. Schioccai le mandibole e ripresi a correre, con in mente solo il volto del nano moro dagli occhi azzurri. Oh, non vedevo l’ora di rincontrarlo e strappargli l’odio dagli occhi, o strappargli gli occhi direttamente. Nessuno poteva pretendere di tentare di uccidermi e passarla liscia.
 
 


Ehi peipe!
Ciao, com’è? Che ne pensate di questo capitolino? Ora corro, il mio branco (?) mi chiama! Love.
Likeapanda

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Capitolo 3
*** Gandalf, Dis e la lupa. ***


Il richiamo del lupo
 
 
“I mostri peggiori sono nascosti dietro i sorrisi più dolci”
 
— Malkavian Madness Network.
 



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Il cielo azzurro sovrastava la terra, verde e rigogliosa. Poco dietro le alte spalle dello stregone, che andava a inoltrarsi nel fitto del bosco, la gente parlava e lo additava. C’era stata festa quel giorno perché presto la “bestia”, come la chiamavano gli abitanti della città, sarebbe morta.
 Tutto era cominciato quando Gandalf aveva messo piede in quella piccola cittadina, ogni persona l’aveva pregato di uccidere il lupo che da mesi ormai si aggirava nei dintorni e ammazzava il bestiame; all’inizio, lo stregone aveva rifiutato, pensando che si trattasse solo di un animale qualsiasi, ma, poi, una notte aveva udito il suo ululato ergersi sopra le chiome fronzute degli alberi, combattere contro il silenzio e venire trasportato dal vento estivo nell’aria. Un acuto e, al tempo stesso, doloroso ululato che era rivolto alla luna. L’uomo aveva chiuso gli occhi ed era rimasto in silenzio ad ascoltare, nel suo caldo letto; molto tempo era passato da quando non aveva udito più nulla di simile. Talmente tanti anni che aveva iniziato a pensare non l’avrebbe più ritrovata; che le loro strade non si sarebbero mai più incrociate. E invece, il destino volle che la riascoltasse almeno una volta. Il canto ancora vibrava nell’aria quando lo stregone si era deciso ad affacciarsi alla finestra e le stelle lo aveva accolto con un sorriso. Aveva chiuso gli occhi e lasciato che la brezza delle montagne gli accarezzasse i lunghi capelli e la barba, e che quel canto, che ormai andava a scemare, gli rimbombasse nel petto.
Ora, Gandalf si aggirava fra i tronchi degli alberi in fiore. Il sole tagliava le fronde e, di tanto in tanto, lame di luce gialla e calda cadevano sul terreno del sottobosco; l’aria era fresca e pizzicava la pelle dell’uomo. Con i suoi occhi chiari cercava la sagoma del lupo in tutte le direzioni, senza riuscire mai a vederlo. Il suo cuore batteva forte: non vedeva l’ora di rivedere la giovane ragazza, che l’aveva lasciato solo quattro anni prima per seguire la sua strada. Si chiedeva quanto fosse cresciuta, quanto le sue idee di riconquistare il suo regno si fossero intensificate e se la sua sete di vendetta contro Azog si fosse calmata. In particolare, l’ultima cosa lo metteva alquanto a disagio con se stesso: in fin dei conti era colpa sua se la vendetta aveva accecato la giovane ragazza. Se lui non le avesse raccontato il perché le era stata affidata lei non sarebbe fuggita in cerca dell’orco pallido. Si malediceva per aver fatto quella scelta, ma al tempo stesso era, ancora, fermamente convinto di non aver sbagliato a dirglielo. Era sempre stato dell’idea che la verità, in questi casi, fosse la strada migliore su cui procedere, anche se a volte poteva dividere le strade, com’era successo a loro due. Proprio mentre si apprestava a fare un altro passo, con la tunica che rasentava il suolo, un’ombra gli saltò sul petto atterrandolo. Una grossa nube di polvere e terra si alzò e, come nebbia scura, evaporò poco dopo lasciando spazio alla chioma di alberi verdi. Il mago si trovava steso a terra, con le ossa doloranti e un peso sul petto, dovuto a un grosso animale poggiatoci sopra. Due occhi scuri, neri come il carbone, lo stavano osservando molto da vicino e il pelo morbido dell’animale gli solleticava il viso. Un guizzo attraversò le iridi del lupo bianco e, in men che non si dica, questo saltò giù dal petto magro dell’uomo e cominciò a scodinzolare. Allora, Gandalf si alzò tossendo e passandosi le mani sulla tunica impolverata, e successivamente lanciò un occhiata alla lupa.
« Potresti tornare te, per favore? » Chiese con gentilezza, alzando un sopracciglio folto e grigio. L’animale piegò la testa e lasciò penzolare la lingua fuori dalla bocca per qualche secondo. Poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, Gandalf si girò e si slegò il mantello gettandoselo oltre le spalle. Una mano lo prese velocemente e quando il mago si fu voltato sorrise. Il suo grande mantello grigio era avvolto attorno il corpo di una ragazza. Lunghi capelli castano scuro le ricadevano sulle spalle, andando a creare un contrasto notevole con la pelle candida; le labbra rosee erano piegate verso l’alto e gli occhi neri, freddi e lontani, come un cielo invernale senza stelle l’osservavano. Le lunghe dita affusolate si strinsero ancora sulla stoffa, stringendola un po’ di più attorno al corpo nudo.
 
 
 

°    °
 
 


« Gandalf! » Esclamai sorridente. Era da molto che non tornavo umana, perciò sentire la mia voce mi fece restare immobile per un secondo. Subito dopo, i miei occhi andarono a cercare quelli del mago e sorrisero: erano quattro anni che non lo vedevo, eppure non era cambiato di una virgola al contrario di me. Era sempre alto, e la lunga barba grigia cadeva sul suo petto magro. Il cappello teneva a bada, per quant’era possibile, la folta chioma mentre le mani stringevano il suo bastone grigio. Sbattei le palpebre ed entrambi restammo immobili. Santo cielo, erano anni che aspettavo di rincontrarlo e ora che c’è l’avevo davanti non sapevo cosa dire. Attorno a noi il silenzio della foresta era interrotto, ogni tanto, dal cinguettio o dal battito d’ali degli uccelli e dalla corse delle lepri. Riuscii a sentire persino i passi leggeri di un cervo, poco distante da noi. Il mio cuore correva veloce, come le mie iridi che avevano iniziato a osservarsi attorno. Mi ero dimenticata com’era stare su due gambe, invece che su quattro zampe. Mi ero dimenticata com’era guardare il mondo con quegli occhi, invece che con quelli del lupo con cui avevo vissuto per quattro anni. Era tutto così diverso in quelle vesti, persino la carezza del vento sulla palle e fra i capelli.
« Sei cresciuta. » Spezzò il silenzio Gandalf, facendo un passo in avanti. Gli sorrisi e piegai leggermente la testa verso sinistra, alzando le spalle come se quella sua affermazione non mi avesse fatto piacere.
« Tu sei lo stesso, invece. Non sei cambiato di una virgola. » Affermai, facendo schioccare le labbra come quand’ero bambina. Il volto dell’uomo si ravvivò, le rughe vennero accentuate quando la sua bocca si erse verso l’alto e dalle labbra scaturì una profonda risata. Il suono inebriò le mie orecchie e, quando chiusi gli occhi, miriadi di ricordi invasero la mia mente. Sorrisi e mi avvicinai, così che le braccia dell’uomo potessero circondarmi. Mi crogiolai in quell’abbraccio paterno per molto, beandomi del profumo di menta di Gandalf e poi lo lasciai allontanarsi.
« Andiamo, abbiamo molto di cui parlare. » M’informò, dandomi le spalle e cominciando a camminare nella foresta. I raggi del sole che svettavano fra le fronde lo colpirono più volte, colorando i suoi capelli grigi di biondo.
« Andiamo dove? » Sussurrai, irrigidendo la mascella. Non avevo intenzione di muovermi dalla foresta, se non quando il cibo scarseggiava ed ero costretta a uccidere gli animali della città. Ma più volte ero stata avvistata e, ultimamente, tendevo a stare più alla larga possibile da quel posto. Come se non bastasse, poi, la notte non riuscivo più a dormire a causa degli incubi: gli occhi blu di quel nano mi rincorrevano nel sonno, agitandolo come mai prima mi era successo. Sentivo ancora le urla del giovane ragazzo biondo rimbombarmi nelle orecchie, le mani del nano moro che mi spingevano via erano ancora come impresse sul mio petto. Sentivo ancora l’adrenalina che mi era corsa nelle ossa quel giorno, quando ero scappata. Ricordavo perfettamente come le mie zanne si erano attaccate alla carne del nano, trapassando con facilità gli spessi vestiti, e infilzandolo. « Io in città non ci vengo. » Gandalf s’immobilizzò e voltò il capo verso di me: le sopracciglia arcuate in una muta domanda. Scrocchiai le dita delle mani e presi un bel respiro. Socchiusi le labbra pronta a spiegarmi, quando un movimento attirò la mia attenzione. Di scatto mi voltai digrignando i denti e ringhiai. La nana che avevo difronte si fermò colta alla sprovvista e io mi bloccai: non ero un lupo, non facevo paura, adesso sembravo solo una pazza dai capelli arruffati e bisognosa di un bagno.
« Oh, Dis! Che piacere vederti. » Esclamò Gandalf, tornando sui suoi passi. Lanciai un occhiata assassina all’uomo, che ignorandomi si era avvicinato alla piccola donna dai capelli scuri. Si abbassò fino a raggiungere la sua altezza e le bacio la mano con garbo, prima di voltarsi verso di me. « Ringil, lei è Dis, principessa di Erebor. »
« Piacere. » Borbottai, immaginandomi già come sarebbe finita la faccenda.
 
 


°    °
 
 


Quando uscii dalla vasca, mi avvolsi in un asciugamano che si dimostrò molto corto per me che non ero un nano. L’acqua gocciolava scivolava dalle punte dei miei lunghi capelli, appiccicati alla schiena, e solcava il mio corpo con sinuosa eleganza andando a raggrupparsi in pozze sul pavimento. Mi guardai un po’ attorno, analizzando le mensole ricche di sali da bagno e saponi, e poi il mio sguardo cadde sullo specchio dove si rifletteva la mia figura. La osservai per un attimo: guardai le mie gambe magre, i miei lunghi capelli,  le profonde occhiaie viola sotto gli occhi e la grande cicatrice che attraversava la mia spalla sinistra. Quattro tagli perfetti, degni di quel nome, fatti dal mannaro di Azog durante il nostro primo incontro tre anni fa. Ricordavo perfettamente quella sera; il modo in cui il vento ululava e i pini scricchiolavano sulle alte montagne e il suo viso pieno di cicatrici rosse. Non avrei mai dimenticato il modo in cui mi ero avventata sul suo mannaro, e gli avevo inferto tutti quei tagli. L’avevo marchiato come lui aveva marchiato me. Potevo ancora sentire i suoi artigli lacerarmi la pelle e le mie stesse urla rimbombare nel buio tetro e desolato. Riuscivo ancora a vedere gli occhi bianchi dell’orco puntarsi nei miei.
Sospirai e mi accarezzai la ferita, gemendo leggermente: faceva ancora male, nonostante gli anni passati. Trassi un respiro profondo e mi allungai a prendere i vestiti che Dis mi aveva procurato; nulla di più di una camicia bianca e un paio di pantaloni neri, assieme a un paio di stivali. L’essenziale. Strinsi le bende attorno al torace e i fianchi, e successivamente mi vestii. Asciugai i capelli con un asciugamano, ci misi abbastanza tempo, poi scesi di sotto. La casa non era molto grande, ma nemmeno misera: una modesta dimora borghese. La luce entrava dalle finestre illuminando l’abitacolo, le voci serene della gente entravano animando le stanze vuote e dando ad ogni cosa un sentore di vivo. I miei stivali scricchiolarono sul parquet della cucina, dove la padrona di casa era impegnata a versare thè in delle tazze, poggiate su un piccolo tavolino. Restai immobile sulla porta, muovendo il collo per scrocchiarlo e agitando le dita stressata. Odiavo sentirmi un ospite, detestavo entrare in casa di qualcuno che non conoscevo e usufruire della sua ospitalità. Mi sentivo come un giocatore d’azzardo che chiede cose pur sapendo che non potrà ripagare i debiti. Passai una mano fra i capelli, slegando i nodi, e poi mi decisi a entrare. Il pavimento protestò sotto il mio peso, emettendo un cigolio, ma non ci feci molto caso e continuai imperterrita nella mia direzione. Quando raggiunsi il tavolo, Gandalf mi fece cenno di sedermi e così mi accomodai. La sedia era molto piccola per me, ma non era questo quello a cui pensavo: ora dovevo chiarire con Gandalf il motivo della sua visita, perché c’è n’era uno di sicuro. Quello stregone, tutti lo sapevano, ovunque andasse non era mai per caso; c’era sempre qualcosa che frullava nella sua mente contorta. Lancia uno sguardo a Dis, che si era accomodata con noi a capotavola e si rigirava la sua tazza fra le piccole mani: aveva gli occhi scuri e spenti, quasi dentro fosse vuota.
« Perché sei di nuovo qui, Gandalf? » Chiese ad un tratto, con una voce tagliente che credevo non potesse avere.  Lo stregone bevve un sorso di thè e si pulì la bocca, poi congiunse le mani sopra il tavolo e si sistemò meglio. Poggiai la schiena allo schienale, cominciando a far girare il cucchiaino nella tazza, in attesa di una risposta. « C’entrano i miei figli? O mio fratello? »
« Oh, cara Dis, no. Certo che no! A proposito come stanno? Sono partiti? »
« Sono partiti quattro giorni fa, dopo che Fili si è ripreso dall’attacco di quel lupo che gironzola libero nei boschi. » I miei sensi si accentuarono non appena la nana finì di parlare. Rizzai la schiena di scatto, spingendomi in avanti, e tesi le orecchie. Quindi lei era la madre del ragazzo a cui avevo quasi lacerato il braccio. Il cacciatore biondo. Ingoiai un fiotto di saliva e scrocchiai le nocche; era un gesto abitudinario, mi faceva stare bene. « Ma, se non sei qui per loro perché sei venuto? »
« Per lei. » Lo stregone puntò un dito verso di me e i loro occhi si voltarono accorgendosi della mia presenza. La nana si grattò una guancia e ridusse gli occhi a due fessure, per analizzarmi.
« E chi sarebbe questa ragazza, per te, dunque? » Sussurrò la principessa di Erebor a Gandalf. Non mi era nuovo quel nome, sebbene non ricordassi dove l’avevo già sentito nominare e perché.
« Lei è Ringil, una ragazza che mi è stata affidata da quando era piccola. E’ come una figlia per me. »
« E cosa ci faceva in giro per i boschi? »
« Le nostre strade si sono divise dopo l’incontro con degli orchi. Ho saputo che vagava per queste montagne non molto tempo fa, dopo essere riuscita a fuggire, e così sono venuta a cercarla. L’ho trovata che scappava dal lupo. » Gandalf mi rivolse uno sguardo d’intesa, prima di tornare a bere la sua bevanda e osservare Dis. La donna aveva poggiato la tazza sul piattino abbinato e aveva spostato le iridi sullo stregone.
« Quell’animale è un pericolo. Povera ragazza, chissà come ti devi essere spaventata. » Allungò un braccio verso di me e la sua mano si chiuse per qualche istante sulla mia.
« Si, è stato traumatico. » Sussurrai per tenere il gioco. Gli occhi di Dis si addolcirono. Con un salto, poi, toccò terra e mise tutte le tazzine su un vassoio che portò all’acquaio, cominciando a lavarle. « Ma che diavolo stai combinando!? » Sbraitai silenziosamente all’uomo, allungando il busto sul tavolo e lanciando un occhiata alla nana.
« Fidati di me. Dobbiamo solo prendere tempo. » Mi disse, mettendo su un broncio da bambino. Sbuffai e infilzai il tavolo con le unghie.
« Come posso fidarmi di te, Gandalf, quando mi porti nella casa del nemico? I suoi figli sono venuti nella foresta e hanno tentato di uccidermi! »
« Reggimi solo il gioco. Poco ancora e saremo fuori di qui! » Irrigidii la mascella e mi rigettai indietro, senza dimenticare di rigare il tavolo con le unghie artigliate che mi ritrovavo. Il mago mi fissò severamente e toccò la superfice ruvida facendola tornare come nuova, giusto in tempo, prima che Dis si voltasse. Gli lanciai un ultimo sguardo assassino e poi tornai a fingere; andò avanti così per quasi un ora: Dis si dimostrò molto gentile dopo aver sentito il mio racconto, inventato. Sebbene fingere non fosse una delle cose che preferivo non mi riusciva male. Quando finalmente ci congedammo e uscimmo in strada, avevamo un cestino di viveri a testa e io persino un mantello nuovo di un rosso rubino splendente. Salutammo Dis e ci incamminammo lontano dalla città. Il sole brillava e non c’erano nuvole in agguato, nessun pericolo di alcun tipo all’orizzonte, senza contare me.
« Ora cosa facciamo? » Chiesi, facendo dondolare il mio cestino avanti e indietro. Per poco non rischiai di far volare una mela addosso a Gandalf, che la schivò.
« Ci dirigiamo alla contea, c’è un mio vecchio amico Hobbit che non vedo da un po’ e a cui ho promesso un’avventura.»
« Contea? Hobbit? Avventura? Ci ? » Lo afferrai per la tunica e lo voltai verso di me. « No, no, no Gandalf. Io non partirò per nessuna avventura, con nessuno Hobbit. Ho altro a cui pensare, altre priorità. » Misi subito in chiaro, aumentando la velocità della mia camminata. Il vecchio stregone mi seguì senza problemi, affiancandomisi. Era incredibile quanta forza avesse.
« E quali sarebbero le “altre priorità”? Trovare Azog e ucciderlo? » Mi morsi l’interno delle guance e continuai a camminare; quasi correvo per la voglia di concludere quella discussione.
« Se proprio lo vuoi sapere: SI. » Affermai, passandomi una mano fra i capelli per gettarli indietro. Il sole mi colpì in viso, costringendomi a spostare la testa di lato e strusciarmi gli occhi con le mani. Macchie scure si addensarono davanti alla mia vista per poi sparire poco dopo.
« Non potrai passare la vita a rincorrerlo, Ringil! » Mi riprese imbestialito.
« Tre anni fa ero quasi riuscita a ucciderlo, Gandalf! » Confessai, bloccandomi nel bel mezzo del sentiero che stavamo percorrendo. « C’ero così vicina: potevo sentire il sapore del suo sangue nella gola. Lo sentivo colare giù, e udivo il suo gorgoglio che mi diceva che stava per morire. » Le immagini del mio attacco ritornarono alla mente: li avevo osservati e poi ero scattata cogliendoli di sorpresa. La mia mascella si era chiusa attorno alla gola di Azog, ma poi ero stata disarcionata e il resto, beh, la mia cicatrice racconta il resto.
« E’ ora che tu ti lasci questa storia alle spalle, Ringil figlia di Magnus. » Serrai le palpebre e gettai il viso verso l’alto per non pensare a come aveva pronunciato il nome di mio padre. Mio padre non l’avevo mai conosciuto e l’unica cosa che mi restava per ricordare mia madre era un piccolo e sottile cerchio d’argento con un rubino incastonatoci dentro.
« Non posso Gandalf. Azog ha ucciso la mia famiglia, il mio clan, e ha deturpato le mie terre. Ho 24 anni ed è ora che io faccia qualcosa come staccargli la testa e riprendere i miei domini.  »
« Allora ti propongo un accordo, Ringil: accompagnaci in quest’avventura e potrai riavere le tue terre. Il percorso che ho predestinato attraversa Bosco Atro e, se non vado errato, le tue terre lo costeggiano. Beorn abita appena fuori il reame boscoso, è l’ultimo mutatore di pelle, orso, rimasto. Di sicuro ti aiuterà nella tua impresa se glielo chiederai. » I suoi occhi azzurri attanagliarono i miei e mi tennero stretta. Il mio cuore prese a battere forte a quel barlume di speranza. Dunque, almeno un altro mutatore di pelle era rimasto a osservare le mie terre. Trassi un profondo respiro e feci schioccare le labbra.
 
« Non posso credere che sto per dirlo ancora una volta. » Sospirai. « Dove ci vediamo, Gandalf? » Lui sorrise sotto la barba e poggiò entrambe le mani al bastone.
« Contea, Bilbo Bagghins, sottocolle. Hai bisogno solo di queste informazioni. Non sono nemmeno 7 giorni di marcia da qui, se cammini velocemente e so che tu lo farai. Non prendere scorciatoie e, quando arriverai, mantieni il segreto. Nessuno deve sapere che sei l’erede di Magnus o il lupo che ha aggredito Fili. Ok? »
« Fra sette giorni, sottocolle, Bilbo Bagghins, niente informazioni sul mio passato: capito. » Sospirai.
« A presto allora. Mi raccomando, segui sempre questo sentiero. » Mi salutò il mago, prendendo una direzione diversa dalla mia. Lo salutai e ripresi il cammino, maledicendomi per avergli permesso di abbindolarmi così. Speravo davvero che avrebbe mantenuto le sue promesse, ma, lo sapevo bene, con Gandalf non si poteva mai essere certi di molto.

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Capitolo 4
*** La chiave di Erebor. ***


Il richiamo del lupo
 

 

Spesso io non parlo e ho l’inferno dentro anche se sembro calmo.

— Nitro.

 

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I miei occhi scrutarono la strada buia, illuminata qua e la da qualche piccolo torcia. La contea era più tranquilla di quello che mi aspettavo; verdi colline ondulate erano sparse ovunque, con buchi hobbit che spuntavano al loro interno. Le piccole porticine rotonde erano dipinte di verde e blu e i vialetti, che conducevano ad esse,  erano ciottolati, oppure rialzati da qualche scalino. Orti si estendevano fra le recinzioni e un piccolo ruscello era tagliato in due da un ponte di legno. Spostando la testa a destra e sinistra, annusando l’aria in cerca di un qualsiasi odore che potesse mettermi in allarme, presi a trotterellare sulle tavole del ponte. I miei artigli graffiarono il legno, mentre le mie orecchie guizzarono avanti e indietro. Fra i denti tenevo stretto il cestino che Dis mi aveva dato prima di lasciarmi partire: al suo interno avevo dei vestiti puliti che ero riuscita a rubare in un mercato e il mantello rosso rubino. La leggera brezza estiva mi accarezzava il manto, facendomi socchiudere gli occhi ogni tanto. Il freddo non penetrava nelle mie ossa, coperte dalla folta pelliccia candida. Sorpassai almeno tre buchi hobbit prima di notare il segno di Gandalf su una porta verde. Probabilmente era stata ridipinta da poco, perché riuscivo a sentire il forte odore di pittura che mi saliva su per il naso pizzicandolo. Il viottolo davanti a essa odorava di Hobbit, stregone e nani; molti nani. Dalle piccole finestre rotonde, scendeva un luce gialla che illuminava le siepi sottostanti. Il cielo ruggì, riportandomi alla realtà. Alzai il muso in alto e una ventata d’aria lo colpì; il forte odore di pioggia si depositò nel miei polmoni, affaticandoli. Era in arrivo un temporale estivo con i fiocchi e avrei fatto meglio a sbrigarmi.
Con velocità saltai dietro un albero e mi trasformai, iniziando a vestirmi; ci mancò poco che un hobbit ubriaco mi scoprisse. Lo seguii con lo sguardo finché non scomparve e poi finii di agganciare il mantello al collo, tirai il cappuccio sopra la testa e mi avviai oltre il cancello di casa Bagghins. I miei stivali ticchettarono sugli scalini e, quando arrivai all’uscio, rimasi in silenzio per qualche istante. Prima mi era parso di udire delle grida d’incitazione che, anche adesso, non erano cessate. Presi un bel respiro e bussai tre volte; l’anello al mio dito tintinnò un poco. La valle e la casa calarono nel silenzio più profondo, mentre io aspettavo che la porta si aprisse.
 
 


°    °
 



« Du bekar! Du bekar! » Thorin s’issò sulle gambe e agitò il pugno in aria. I lunghi capelli neri gli scivolarono sulle spalle e gli occhi di ghiaccio, così come le labbra, sorrisero nel vedere che i suoi compagni l’appoggiavano pienamente. Gandalf, però, non era molto concentrato sulla loro felicità, perché i suoi occhi correvano a est, oltre la finestre di casa Baggins, dove sperava di veder comparire la sagoma di una giovane ragazza. Purtroppo, c’era solo il cielo nero ad attendere i suoi occhi e il presagio della tempesta imminente. Si chiese dove poteva essere finita Ringil; avrebbe dovuto raggiungere la destinazione prima di lui e dei nani, mentre invece ancora non si vedeva. Bilbo l’osservava con occhio critico, tentando di capire a cosa pensasse; ma, Gandalf ne era al corrente, non avrebbe mai scoperto nulla sui suoi pensieri, sebbene fosse molto intelligente. Quando Thorin si fu seduto e i suoi occhi azzurri ebbero compiuto il giro della stanza, Balin si schiarì la voce ottenendo così anche l’attenzione dello stregone.
« Dimenticate, che la porta principale è sigillata. » La sua barba bianca brillò contro la luce delle candele, così come i capelli corti. « Non si può entrare nella montagna. » Gandalf abbassò lo sguardo e, quando le sue labbra si dischiusero pronte a parlare, qualcuno bussò alla porta. Tre battiti, leggerei e decisi, che rimbombarono per i cunicoli di casa Baggins, il quale proprietario ora si osservava alle spalle. Lo stregone alzò un braccio, poggiandolo sul tavolo e sorrise, con il cuore più leggero.
« E chi potrebbe essere a quest’ora? » Cinguettò Bilbo, lanciando un’occhiata a Thorin e i nani. Il re sotto la montagna inarcò le sopracciglia e batté le dita sul tavolo di legno, osservando Gandalf con una muta domanda nascosta nelle iridi ghiacciate. L’uomo sostenne lo sguardo del re, finché altri tre picchi non lo fecero rinsavire.
« Va, Bilbo, questa che attende oltre la porta è la quindicesima dei membri della compagnia di Throin, senza contare me. » Le labbra gli si piegarono in un ampio sorriso. Lo hobbit sospirò, girò sui suoi piedi pelosi e si diresse alla porta borbottando.
« Non credevo avessi reclutato persone di nascosto, Gandalf. » S’incuriosì un poco Thorin. « Hai preso questa decisione senza di me, perché? » Tutti gli occhi della compagnia erano su di loro, curiosi e attenti.
« C’è stato un cambio di programma. Durante il mio viaggio verso Brea, ho rincontrato una giovane amica che potrebbe tornare molto utile a te e alla tua compagnia. Aveva una cosa che potrebbe interessarti, per giunta. Non vuole compensi, prima che tu lo chieda, solo saldare un vecchio debito con una persona. » Si affrettò a spiegare Gandalf, omettendo tutte le informazioni riguardanti Azog e il Clan del Nord.
« E che cosa dovrebbe avere di così interessante per me, questa tua amica? » S’incuriosì il re, allungandosi verso lo stregone. Un suo braccio si bloccò a metà del tavolo quando qualcosa vi atterò poco distante. Con un tonfo, una pesante chiave grigia aveva rigato la superfice del legno, rimbalzandoci sopra per un po’. Tutti i nani alzarono lo sguardo e, così come lo stregone, ad attenderli trovarono una giovane donna.
Thorin socchiuse gli occhi, riducendoli a due fessure e l’esaminò: indossava un paio di stivali alti e neri, dei pantaloni stretti e non stracciati e una camicia bianca coperta da un mantello color rubino. I lunghi capelli castani le ricadevano sulle spalle, leggermente mossi, e gli occhi scuri li osservavano tutti con freddezza e distacco. La pelle candida pareva risplendere alla luce delle candele. Il portamento era fiero e, sebbene nascosta con astuzia,  Thorin scorse l’inizio di una cicatrice deturpargli la spalla sinistra. Appena i loro sguardi s’incontrarono, il re fremette dentro l’anima. Quegli occhi li aveva già visti da qualche parte, ma non sapeva dove.
« Ah, Ringil! Ben arrivata. » Esclamò Gandalf alzandosi in piedi, ed andando incontro alla giovane. « Vedo che sei riuscita ad arrivare e portare con te la chiave. » La ragazza, di tutta risposta, lo fulminò con un occhiata.
« Si, e spero per te che sia davvero importante come dici, perché ho dovuto staccare le mani a quattro uomini solo per averla. »
 
 


°   °
 
 



Il vento aveva preso a tirare con più forza e, dopo qualche secondo, un fulmine squarciò il cielo. Restai immobile ad osservarlo, mentre sentivo dentro me la voglia di trasformarmi e correre via, piangere alla luna due genitori che non avevo mai conosciuto e un popolo che non avevo mai giudato. Era sempre stata una cosa, quella, che non avrei mai capito: sedermi su una collina, alzare il muso al cielo e ululare durate un temporale. Insomma, tentare di sovrastare il suono dei lampi e dei tuoni, della pioggia e il terreno smosso da essa.  Cercare di far si che il mio dolore diventasse persino più forte di quello della natura; distruggerla, piegarla sotto di me e farle capire che non era lei a soffrire ma noi esseri mortali; incatenati in questo inferno chiamato vita. Un altro fulmine illuminò le nubi nere e la porta si aprì. Voltai il viso nella direzione dell’uscio e abbassai lo sguardo: un piccolo Hobbit, dai capelli ricci e castani e gli occhi scuri mi osservava dal punto in cui si trovava. Indossava una camicia colo cappuccino, con righe più scure, pantaloni leggermente più chiari con delle bretelle e niente scarpe. Corrugai per un secondo le sopracciglia e rimanemmo entrambi muti a osservarci.
« Ringil. » Dissi ad un tratto, sovrastando il rumore di un tuono.  Lo hobbit sbatté le palpebre e si scostò leggermente, permettendomi di entrare. Abbassai la schiena e feci qualche passo dentro casa; quando il signor Bagghins chiuse la porta all’improvviso, mi voltai pronta a digrignare i denti ma mi trattenni; dopo tutto, non dovevo dare molto nell’occhio, come aveva detto Gandalf.
« B-Bilbo Baggins, al vostro servizio. » S’inchinò leggermente. Alzai gli occhi al soffitto, e voltai la testa a destra e sinistra più volte; sebbene non ci fosse bisogno di chiedere dove fossero i commensali visto l’odore di nano che saliva al mio naso.
« Dove sono gli altri? » Domandai con garbo, sebbene il mio tono fosse freddo e distaccato. Non conoscevo Bilbo, e nessuno degli amici di Gandalf, e perciò dovevo tenermi il più distacca possibile da loro. Pensavo, che se, in un giorno lontano, mi fossi affezionata a qualsiasi di uno di loro avrei potuto allontanarmi dal mio obiettivo principale: riconquistare le mie terre e uccidere Azog.
« Di grazia, Mr. Baggins, dove sarebbe Gandalf? Ho necessità di parlare con lui. » Tentai di essere il più garbata possibile,  reprimendo il mio istinto che mi diceva di ignorare il padrone di casa e precipitarmi dallo stregone, stringergli la mano attorno al collo e sbatterlo contro il muro. La chiave che portavo al collo, quella che lui mi aveva chiesto di prendere, mi era quasi costata un occhio e, beh, entrambe le mani a quattro uomini. Gli volevo bene, ovvio, ma ogni volta che mi chiedeva un favore rischiavo di lasciare un pezzo di me agli uomini che mi affrontavano. Lo hobbit non rispose, tenendo gli occhi fissi sulle mie spalle. Socchiusi le palpebre e seguii il suo sguardo: buona parte del inizio della mia cicatrice era in mostra. Respirando pesantemente, per far rinsavire Bilbo, tirai su la blusa bianca e il mantello che indossavo e lo seguii attraverso uno stretto corridoio, dopo che lui ebbe squittito un “mi segua”. Attraversammo varie stanze, tra cui una in cui intravidi uno scrittoio con tanto di calamaio e penna d’oca, e una dispensa ora deserta. Mi ci fermai di fronte quando, annusando per caso l’odore del cibo, il mio stomaco brontolò. Portai una mano al ventre, nascondendo il rumore e continuai a camminare alle spalle del piccolo padrone di casa. La pesante chiave nanica penzolava al mio collo, battendo con insistenza sul mio petto. Con frustrazione la strinsi fra le mie dita e la strappai, lasciando ricadere la mano lungo il fianco. Ci avvicinammo ad un basso arco e non ci misi molto a capire che i nani dovevano essere li, perché il loro odore era insistente e penetrante, e la voce di uno di loro smuoveva l’aria.
« E che cosa dovrebbe avere di così interessante per me, questa tua amica? » Stava domandando il nano quando gli arrivai alle spalle. L’osservai per qualche secondo, analizzando i suoi capelli neri e le sue spalle larghe, tentando di ricordarmi dove potevo già averlo visto e poi lanciai la chiave sul tavolo, a pochi centimetri dal suo braccio muscoloso. Ignorai completamente l’occhiata che mi rivolse il nano e, invece, feci vagare i miei occhi sugli altri componenti della compagnia. Individuai i due giovani nani che avevo attaccato nel bosco e trattenni il fiato per un attimo. I loro occhi, azzurri del biondo, quello a cui avevo quasi strappato il braccio, e castani quelli del nano senza barba mi osservarono curiosi. Sbattei le palpebre e feci guizzare le iridi verso il basso, dove sentivo lo sguardo del nano su di me. I suoi occhi di ghiaccio m’imprigionarono per qualche minuto; ma io sapevo come sembrare lontana e fredda e anche quella volta riuscii a chiudere tutti i miei sentimenti ( confusione, sorpresa, frustrazione ) dentro di me, in modo che nessuno potesse leggerli.
« Ah, Ringil! Ben arrivata. » Esclamò Gandalf, alzandomi e venendomi incontro. L’osservai con le fiamme negli occhi e strinsi leggermente i pugni dietro la schiena, trattenendomi dal volerlo uccidere, quasi.
« Vedo che sei riuscita ad arrivare e portare con te la chiave. » Le immagini della sera prima mi tornarono in mente. Risentii gli urli di quei quattro uomini, terrorizzati, quando mi avevano vista trasformarmi dopo che avevo intimato loro di darmi la chiave che stavano maneggiando. Loro avevano riso e tentato di mettermi alle strette, ma il mio istinto animale mia aveva spinta ad attaccare e così avevo ottenuto quello che volevo con la forza e quei tizi avevano perso le mani e la vita. Avevo squarciato loro la gola, ma questo era un passaggio che non avrei raccontato a Gandalf; sapevo non approvava quei miei comportamenti. Mi ero ritrasformata e avevo messo la chiave al collo, per poi tornare lupo e correre via. Ancora mi domandava se quella scelta, di ucciderli, fosse stata così necessaria per una stupida chiave; magari avevano una famiglia ed io, senza saperlo, avevo reso orfani i loro figli e vedove le loro mogli.  Non avevo pensato a queste cose mentre squarciavo loro la gola: al lupo non importava. Le interessava solo sopravvivere, a costo delle vite altrui.
« Si, e spero per te che sia davvero importante come dici, perché ho dovuto staccare le mani a quattro uomini solo per averla. » Ringhiai, avvicinando le spalle alle sue, incollandolo ai miei occhi catramosi. Lo stregone mi osservò con i suoi azzurri e ingoiò un fiotto di saliva, prima di voltarsi e tornare a sedere. Prese la chiave fra le dita e se la rigirò; mentre io restavo immobile, in piedi, senza che nessuno dicesse nulla.
« Come mai è nelle tue mani? » Mi domandò ad un tratto il nano dai capelli neri, osservandomi con stupore e intensità. E allora mi ricordai di lui: quello che mi aveva inseguita e a cui avevo morso il polpaccio.
« Perché quelle di altri quattro uomini non potevano più reggerla. » Spiegai spicciamente io, dandogli le spalle, in cerca di un posto in cui sedermi.
« Mi era stata affidata da tuo padre: da Thrain. Ma, dopo l’attacco di alcuni orchi durante il mio viaggio era andata perduta. Ho saputo che dei commercianti la vendevano a poco, così ho inviato Ringil a prenderla. Evidentemente avevano capito quanto valesse e così le ha dovuto intervenire. » Spiegò lo stregone, lanciandomi uno sguardo quando mi voltai.
« E dove sono adesso quegli uomini? » Domandò il nano senza barba, Kili. Piegai leggermente la testa a sinistra, coprendo la cicatrice che pulsava un poco e sorrisi malignamente.
« In una fossa, a marcire con i vermi. » A fine frase feci schioccare la lingua contro il palato e lui rimase muto, spingendo la schiena contro la parete alle sue spalle, intimorito dalla mia voce fredda e tagliente. Mi piaceva incutere timore, mi faceva sentire pericolosa e potente.
« Si, principe Kili, ma l’ha fatto solo per sicurezza. » Lo tranquillizzò Gandalf, per poi tornare al nano moro, di cui ancora non sapevo il nome. « E’ tua adesso. » Lui la prese e l’osservò, rigirandosela fra le dita. Tutti i nani lo guardarono, alcuni addirittura con la bocca socchiusa per l’emozione.  Mi chiesi che cosa avesse di speciale una stupida chiave, che a nulla serviva in fin dei conti. A nessuna porta sarebbe andata bene, viste le dimensioni.
« Se c’è una chiave, dev’esserci una porta. » Pensò a voce alta Fili, il nano biondo. Aveva le braccia sul tavolo e il mio occhi cadde su quello destro, che avevo quasi staccato. Potevo intravedere la fasciatura sotto il pesante abbigliamento. In effetti, era normale la portasse ancora: per prevenire infezioni. Non c’ero andata molto leggera con lui.
 « Queste runiche indicano un passaggio segreto alle sale inferiori. » Spiegò Gandalf, indicando con un bastone un punto preciso di una mappa che io non avevo nemmeno visto prima. Incuriosita, feci qualche passo avanti e osservai i disegni su di essa e le scritte:
 


La montagna solitaria.
 




Socchiusi le labbra, mentre osservavo il disegno del drago e poi quello delle foreste tutt’intorno. Quelle stesse foreste che avevano visto e dove avevano regnato i miei genitori. Le mie foreste, di diritto.
« C’è un’altra via d’entrata. » Esultò silenziosamente Kili, poggiandosi al proprio fratello.
« Beh, se riusciamo a trovarla. Le porte dei nani sono invisibili se sono chiuse. La risposta giace nascosta da qualche parte in questa mappa, ed io non ho la capacità di trovarla, ma ci sono altri nella terra di mezzo che c’è l’hanno. » Borbottò Gandalf. Il nano dai capelli scuri voltò leggermente la testa nella sua direzione, come feci io. « L’incarico che io ho in mente richiede una grande segretezza e una, non piccola, dose di coraggio. » Lanciò un’occhiata al signor Baggins, che trattenne il fiato. « Ma, se siamo attenti e astuti credo che si possa fare. »
« Ecco perché vuoi uno scassinatore. » Sussurrai io, adocchiando Bilbo da sotto le palpebre socchiuse. Gandalf mi sorrise e annuì.
« Ed anche bravo, un esperto immagino. » Bagghins si tirò le bretelle e lanciò uno sguardo alla mappa.
« Ed ecco perché una l… una guerriera come te. »Aggiunse Gandalf, ignorando Bilbo per un attimo.
« E tu lo sei? » Domandò un nano dalla folta chioma rossa, allo hobbit.
« Sono cosa? » Domandò Bilbo.
« Ha detto di essere un esperto! Eh eh! » Esultò un altro nano, che reggeva in mano un trombetta che l’aiutava a sentire meglio. Doveva essere alquanto sordo.
« I-Io? No. No, no, no, no. Non sono uno scassinatore.  Non ho mai rubato niente in vita mia. » Balbettò Bilbo, portando una mano ina vanti come per proteggersi.
Capendo che la faccenda si sarebbe dilungata fino a tarda sera, scrocchiai le dita e diedi le spalle a tutti dirigendomi verso l’entrata in cui il signor Bagghins mi aveva accolta. Staccai il mantello dal collo e l’appesi ad un appendiabiti, per poi dirigermi in salotto. Ci sarebbe stato tempo per conoscere i membri della compagnia; ma, ora avevo solo bisogno di riposo e qualcosa che mi alleviasse il dolore alla cicatrice, che aveva preso a bruciare. Dalla cucina iniziò a provenire un forte rumore: grida di disapprovazione che furono fermate da un grido di Gandalf. Chiusi gli occhi e tentai di liberare la mente dalle loro voci basse e squittenti al tempo stesso; poi un passo mi fece aprire di scatto gli occhi ed estrarre il pugnale che tenevo nello stivale. Fu un movimento rapido e fluido, dovuto a riflessi istantanei. La lama del coltello si fermò a pochi millimetri dalla gola di una nano dai capelli bianchi e corti, e la barba dell’ennesimo colore ma lunga. Lasciai uscire il fiato che avevo trattenuto e abbassai la lama, sbattendo le palpebre.
« Questo è il contratto. » Mi disse senza troppi giri di parole, porgendomi un pairo ripiegato più volte su se stesso. Lo presi dalle sue mani e l’analizzai velocemente, dopo averlo aperto. Sinceramente, non una delle cose scritte li sopra rientrava nelle mie aspettative future ( lacerazioni, eviscerazioni, incenerimento ). « So, Gandalf c’è l’ha detto, che non vuoi una parte del tesoro e che ci accompagni nella nostra spedizione perché devi saldare dei conti in sospeso, ma, giovane, perché? Hai ancora un’intera vita davanti, cosa mai dovrai saldare? » La sua schiettezza mia lasciò perplessa, sull’orlo dei un dubbio: dirgli il perché oppure tacere? Eppure, lui mi sembrava una brava persona, uno di cui potersi fidare.
« Solo… dei conti in sospeso. Tutto qui. » Decisi comunque di non dire nulla e sorridere, sempre con gli occhi distanti dal mondo.




 


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Ciao peipe!
Allurs, che ne pensate di questo capitolo? Come avete visto ho cambiato delle battue e delle scene, per adattarle alla storia.
Anyway: che ne pensate di Ringil? Come vi sembra la ragazza dagli occhi di catrame? (uhc, che brutto soprannome le ho dato!)
Ora vado.
Un bacione


Isil

 

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Capitolo 5
*** In cammino. ***


Il richiamo del lupo
 


Ciò che non uccide ti fa più stronzo,
più acido e più figlio di puttana.
 
— romanticismoamodomio

 


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Il sole si era appena alzato nel cielo, mentre cavalcavamo lontani dalla contea. Ci eravamo alzati facendo meno rumore possibile, per non disturbare il signor Baggins e, dopo aver fatto i bagagli ed aver aspettato che Gandalf tornasse con delle cavalcature, eravamo partiti. Le ombre delle chiome degli alberi coprivano ogni tanto il sentiero, regalandoci attimi di fresca ombra, e, di tanto in tanto, tirava un fresco venticello che portava con se mille odori: quello delle molteplici specie di piante e fiori, quello degli Hobbit ormai alle nostre spalle e dei nani, di Gandalf e del cibo dentro le nostre bisacce. La contea era una splendida regione, una delle più belle della Terra di Mezzo, con quella sua tranquillità e le verdi colline che in primavera si coloravano di fiori e vita; sebbene gli hobbit non fossero gli abitanti più loquaci di questa terra. Il mio cavallo camminava tranquillamente, ondeggiando nella sua andatura molliccia e lenta, mentre i miei occhi scuri correvano in ogni direzione; curiosi e affascinati. Quella mattina mi ero domandata se valesse davvero la pena andarmene da li, lasciare quel piccolo paradiso terrestre per fiondarmi dritta fra le braccia della guerra ma, poi, il volto di Azog mi era tornato alla mente come un lampo a ciel sereno e il lupo dentro di me aveva ringhiato tanto forte che persino il cuore aveva vibrato. Avevo rivisto le sue cicatrici, i suoi occhi bianchi e brillanti e il sorrisetto che gli adornava sempre il viso; le cicatrici sulla mia spalla avevano iniziato a bruciarmi al solo ricordo. Sapevo che lo facevano soltanto perché tornavo a quel momento con la memoria, era solo un fatto psicologico il mio, eppure sembrava così reale.
Una voce mi riportò alla realtà, facendomi abbassare la testa verso destra; Fili mi stava osservando dal suo pony e attendeva una risposta alla sua domanda.
« Come? » Risposi distaccatamente, con ancora in testa l’immagine di Azog quella notte. Più tentavo di allontanarla più sembrava vivida e vera, e più la sua risata offuscava il mio udito. Il nano biondo inarcò un sopracciglio e fece schioccare la lingua sul palato, per poi accomodarsi meglio sulla sella del suo destriero. Facendolo, le maniche del suo giubbotto si alzarono leggermente e rivelarono il braccio ora privo di fasciatura: riuscii a scorgere la cicatrice a mezza luna che i miei denti gli avevano lasciato sulla pelle. Ingoiai un fiotto di saliva e tornai a guardare avanti, tentando di non far ricadere lo sguardo su di essa. Ma era difficile tentare di non guardare, di non sentirsi in colpa.
« Ti ho chiesto: da dove vieni? » Ripeté, e poi osservare di sfuggita i suoi occhi cercare i miei. Purtroppo per lui, non osservavo mai a lungo la gente quando parlavo, a meno che non si trattasse di una sfida.
« Provengo dal Nord. » Voltai la testa nella sua direzione e un alito di vento mi accarezzò i capelli, solleticandomi il collo. « Dalle Montagne Grigie », aggiunsi in seguito, tornando a osservare la strada. Gandalf, in testa alla coda, davanti a me non si era voltato, ma avevo scortole sue spalle irrigidirsi: stavo raccontando troppo di me, pensava sicuramente, avrei dovuto essere più cauta. E aveva ragione. Dovevo tenere la lingua a freno e moderare le parole,  specialmente se si trattava di informazioni. Sui monti Grigi non viveva molta gente e quella che vi aveva abitato, o abitava tutt’ora, non era mai stata molto “normale”. Prendendo un silenzioso respiro, sospirai e tesi le orecchie dietro di me dove qualcuno era intento a lamentarsi a voce  non troppo bassa.
« Venire qui è stata una perdita di tempo. Che idea ridicola, usare uno Hobbit come scassinatore. » Mi voltai e lanciai uno sguardo ad un nano grassoccio dalla barba bianca intrecciata in un modo davvero strano.
« Ah, non fare caso a Dori, lui si lamenta sempre. » Disse Fili, attirando la mia attenzione. Era strano come intervenisse sempre su ogni cosa, riuscendo ogni volta a cogliermi impreparata. Per esempio, proprio adesso che avevo iniziato a pensare a quanto quel nano si lamentasse stupidamente lui aveva capito e era intervenuto. Era sveglio, sebbene non così tanto da riuscire a liberarsi dalla presa di un cane troppo cresciuto. « Mi da fastidio la gente che si lamenta, sai? La trovo paragonabile allo starnazzo delle oche, altra cosa che non sopporto. » Alzai gli occhi al cielo e tornai col busto in avanti, ignorando completamente il discorso che il nano stava facendo e puntando gli occhi su qualcuno di più silenzioso come Thorin, che cavalcava dietro Gandalf con tranquillità. I lunghi capelli neri gli scendevano sulle spalle, coprendo il pesante giubbotto, e le gambe cadevano penzoloni sulle staffe. La schiena era diritta e l’odore che emanava era un misto di fumo e ansia; chissà cosa gli stava passando per la testa. Mi sarebbe piaciuto saperlo. Mi sarebbe piaciuto conoscere anche la storia della sua vita, e il motivo per cui aveva deciso di sfidare il drago di Erebor. Ok, il tesoro che custodiva era enorme, tutti lo sapevano, ma non valeva la pena rischiare la vita per dell’oro.
« E a te cosa da fastidio? » Chiese sprezzante Fili, tallonando il mio cavallo con il suo pony grassoccio. Ma non si stancava mai di fare domande quello? Trattenendo il lupo, che scalciava e ululava per uscire, gli sorrisi e socchiusi le palpebre. La sua figura si ridusse a una piccola scia, sullo sfondo verde delle colline e del bosco.
« Le persone che fanno tante domande e respirano. » Risposi, per poi spronare il cavallo in avanti e raggiungere Gandalf. Sentii Throin, alle mie spalle, borbottare qualcosa in una strana lingua. Forse non era d’accordo sul fatto che stessi  a capo della compagnia, assieme allo stregone, oppure non gli andavano a genio i miei comportamenti, come mi aveva riferito la sera prima.
 
 
Mi ricordai i suoi occhi blu impiantarsi nei miei, dopo che avevo messo piede per la seconda volta in salotto nel bel mezzo della notte, tra le mani una tazza di latte, e l’avevo trovato a fumare; gli occhi persi dentro il fuoco acceso del camino. Appena le tavole di legno avevano scricchiolato sotto il mio peso lui si era voltato e mi aveva squadrata da cima a fondo; non ero vestita stranamente: solo un paio di pantaloni e una camicia che sventolava fuori da essi. Dalla sua pipa, intanto, come dalle sue labbra avevano continuato a uscire anelli di fumo che si erano dispersi nell’aria, impregnandola di un odore dolciastro che mi aveva portata a starnutire.
« Ancora non dormi, ragazza? » Aveva chiesto, mentre mi accomodavo su una comoda poltrona di velluto rosso un po’ piccola per me. L’avevo osservato bene e, dopo aver piegato la testa verso destra, avevo sorseggiato la mia bevanda calda. Il sapore dolce del latte mi aveva invaso la bocca e quasi bruciato la lingua.
« E tu non sai che io non sono una ragazza, ma una donna? » Mi ero apprestata a rispondere, portandomi nuovamente la tazza alle labbra, osservandolo con intensità.
« Quanti anni hai? »
« Ventiquattro: credo di poter essere ritenuta una donna, non credi? »
« Per me sei una ragazza. Nulla di più, niente di meno. » Ed era tornato a guardare le fiamme, che gli coloravano il viso con ombre sinuose.
« Come mai hai deciso proprio ora di partire per Erebor? » Avevo chiesto ad un tratto, non riuscendo a trattenermi. Le sue spalle si erano irrigidite, la mascella tesa e gli occhi erano diventati due lastre di ghiaccio che neppure il fuoco era riuscito a sciogliere.
« Perché è ora che quella bestia venga distrutta e Erebor riabitata da nani. » La sua voce era graffiante e la presa sulla pipa talmente stretta che le nocche gli erano divenute bianche.« Tu perché hai deciso di partire con noi, invece? » La sua testa si voltò leggermente nella mia direzione. Sostenni il suo sguardo e accavallai le gambe, bevendo il latte a poco a poco. Le mie dita s’incrociarono fra loro sulla porcellana calda che mi scaldava la pelle.
« Ho dei conti in sospeso che devo portare a termine. Tutto qui. » Risposi bruscamente, senza voler scendere troppo nei ricordi. L’osservai alzarsi in piedi e rizzare le spalle; la postura di un vero re, avevo pensato guardandolo.
« Sei strana, ragazza. Così giovane e già così fredda: non so cosa ti è capitato ma stai attenta, i tuoi strani comportamenti non mi piacciono. Se metterai anche solo a rischio la vita di uno dei miei, per qualche tuo strano comportamento o caso irrisolto, dovrai vedertela con me. »
« Mi stai minacciando, Re senza una corona? » Mi ero alzata allora, sentendomi minacciata e offesa.
 
 
« Modera le parola, Ringil: questi nani sono furbi, potrebbero trarre i conti in meno di qualche secondo se solo gli fornissi più cose su cui ragionare. » Mi riprese Gandalf, avvicinando il suo busto al mio. La sua barba grigia sfiorò la mia guancia pizzicandola.
« So quello che faccio: non mi farò scoprire così facilmente », lanciai un’occhiata di sottecchi ai due giovani nani, Fili e Kili, e poi tornai a Gandalf, « potrei rimetterci la vita. » Continuammo a viaggiare con un ritmo abbastanza lento, quando ad un tratto una voce in lontananza ci fece fermare tutti. Voltammo i cavalli verso la Contea e osservammo il puntino che tentava di raggiungerci.
Il Signor Baggins, pensai immediatamente, lanciando un’occhiata allo stregone con il quale avevo fatto una scommessa poco prima. Gandalf sorrise, mentre mi frugavo in tasca e ne estraevo un sacchettino con delle monete.
« Sei un’imbroglione, tu sapevi che sarebbe tornato. » L’accusai, mentre le sue lunghe dita si chiudevano attorno al piccolo sacchetto scuro.
« Non ne ho mai dubitato. » Ridacchiò, nascondendo il denaro dentro una piccola borsa. Arricciai il naso e tornai a guardare la sagoma che correva verso di noi; sebbene i miei occhi puntassero sul nano senza corona, curiosi di analizzare ogni sui minimo movimento e ogni più piccola reazione. Ero curiosa di scoprire ogni suo aspetto, per non dover mai stare troppo sulla difensiva.
« Aspettate! Aspettate! » Bilbo agitava le mani come uno imprigionato nelle sabbie mobili. « L’ho firmato! » Sventolando il contratto al vento, mentre tentava di riprendere fiato, il signor Baggins si rivolse a Balin che, tutto arzillo, glielo prese dalle mani.
« Sembra che sia tutto a posto.  » Constatò l’anziano nano, « Benvenuto, mastro Baggins, nella compagnia di Thorin Scudodiquercia. »
« Dategli un pony. » Thorin voltò la sua cavalcatura e per qualche istante restammo immobili a osservarci, prima che tutti riprendessero la marcia. Scossi il capo e girai il collo del mio animale, tornando a camminare tranquillamente col gruppo, che tutto febbricitante, o almeno la metà di loro, gridava nomi dei compagni e afferrava al volo sacchettini di soldi delle scommesse. A quanto pareva non solo io mi ero sbagliata sul conto del signor Baggins.
« Aspettate, aspettate, fermi! » Sbuffando rumorosamente, alzando gli occhi al cielo, bloccai per l’ennesima volta il cavallo alla richiesta di Bilbo, voltando il busto nella sua direzione.
« Che c’è adesso, mastro Baggins? » Domandai seccata, ricevendo da Gandalf un’occhiata tagliente. Ci feci poco caso e la ricambiai, costringendolo a rizzare le spalle e arricciare il naso.
« Dobbiamo tornare indietro. » Ordinò il piccolo hobbit, con le mani che correvano alle molteplici tasche dei suoi vestiti.
« Che cosa? E perché mai, di grazia? » Borbottai, ricevendo segni d’assenso da vari nani attorno a me, specialmente Dwalin. Mi ricordavo di lui molto bene, sebbene l’avessi visto per poco tempo: era arrivato in aiuto di Fili e Kili, assieme a Thorin, quel giorno sulla montagna.
« Ho dimenticato il fazzoletto. » Spiegò Bilbo, gettandomi un’occhiata supplichevole. Scossi il capo e tornai dritta col busto, facendo avanzare il mio cavallo fra quelli degli altri, ignorando le occhiate che rivolgevano la mia schiena.
« E ora dove vai? » Ringhiò Thorin, quando gli passai avanti. Bloccai il destriero abbassandomi verso di lui, finché i miei capelli non sfiorarono i suoi e i suoi occhi non furono a poca distanza dai miei. Lo sentii trattenere il respiro e guardarmi, mentre intrappolavo le sue iridi nelle mie. Forse avrei dovuto usare quella tecnica più spesso, essere più accattivante nei miei movimenti, se volevo riuscire a scoprire qualcosa in più su di lui.
« Avanti, aspettando che mi raggiungiate dopo che lo hobbit sarà tornato col suo fazzoletto. » Sussurrai, tirandomi nuovamente su e facendo ripartire i cavallo. Tutti rimasero fermi, dimenticandosi per qualche secondo di Bilbo che, sconsolato, ancora bramava il suo fazzoletto.



Eccomi qui, ed ecco Ringil. 
Che ne pensate di lei e della sua teoria "seducente"? La porterà lontana?
Anyway: vi volevo informare che ho deciso che aggiornerò ogni sabato/domenica. Ora vado. 

Baci

Isil :3

 

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Capitolo 6
*** Il ruscello. ***


Il richiamo del lupo
 


“ Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo.”
 
Alessandro Baricco; Emmaus.

 



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Ruggii, per quanto un lupo potesse riuscirci, e saltai contro l’orco. Le mie mascelle si serrarono sulla sua spalla, poco lontano dal collo,  e i miei denti affondarono nella carne disgustosa. Azog gridò, mentre un copioso rivolo di sangue cominciava a scendergli sul braccio e macchiarmi la pelliccia.  L’orco mulinò la sua mazza in aria, con la mano buona, e mi colpì spedendomi a terra. Scivolai per molti metri sul terreno fangoso, a causa delle seguenti piogge, sporcandomi il manto e tagliandomi a causa dei sassi varie volte. Quando la mia cora finì, m’issai barcollante sulle zampe e ringhiai.  Gli occhi bianchi di Azog mi fissarono maligni, bianchi e lontani come nubi temporalesche, quelle che ora ci sovrastavano. Ad un tratto, poi, prima che potessi pensare ad altro un fulmine bianco e rosso si scaraventò su di me: i lunghi artigli affilati del mannaro fendettero l’aria e tagliarono la mia carne come fosse fatta di pergamena. Guaii, in preda al dolore, e allungai il collo tentando di azzannarlo; ma lui mi era sopra, troppo pesante per essere spostato. Allora, in preda a una furia ceca, ignorando la ferita alla spalla sinistra da cui usciva molto sangue, riuscii a liberare una zampa e colpirlo al muso, quasi cavandogli un occhio. Il bianco mannaro fece scattare il muso in alto e si allontanò, con ancora Azog sopra la groppa. L’orco mi lanciò un’occhiata e, mentre si teneva la spalla ferita con la mano buona, spronò la propria cavalcatura: corsero lontani, scomparendo fra la fitta nebbia che si era alzata. La pioggia iniziò a cadere fitta, mentre io tornavo umana e cadevo nuovamente in ginocchio a terra; la mano buona stretta sulla spalla ferita, il sangue caldo che si mischiava alle fredde gocce di pioggia. Il freddo dell’aria mi pizzicava la pelle nuda e il fango m’imbrattava, mentre la rabbia cresceva dentro di me come una malattia. Mi alzai in piedi, rabbrividendo, e tenni lo sguardo fisso sull’orizzonte nebbioso dove quel mostro era scomparso: mi sarei vendicata. L’avrei ucciso, lui e tutti i suoi simili, e poi avrei riconquistato le mie terre, sarei tornata sul trono che mi spettava: non importava se sarei stata da sola, l’ultima della mia specie, non m’importava più nulla ora che la rabbia e la vendetta erano nuovamente entrate in circolo nel mio sangue. Ma, sapevo bene che non sarei riuscita a sconfiggere Azog in quelle condizioni; con la spalla che mi ritrovavo non sapevo nemmeno se sarei riuscita a muovere più il braccio.
 
 


Alzai il busto di colpo, respirando affannosamente e mi guardai attorno: dormivano tutti, nessuno si era svegliato a causa mia, per fortuna. Passai una mano sul mio viso, ingoiando un fiotto di saliva e tentai di calmare i battiti impazziti del mio cuore. Non era possibile, ancora una volta, per l’ennesima notte, lo stesso incubo. Sospirai, ripoggiando la schiena al suolo e lasciai che i miei occhi vagassero per il cielo: le stelle brillavano lontane, fredde e ghiacciate, mentre una leggera brezza estiva mi accarezzava la pelle. Le chiome degli alberi attorno a noi frusciavano silenziosamente fra loro e i grilli frinivano. Portai una mano sotto il capo, mentre con l’altra strappavo piccoli ciuffi d’erba fresca. Erano giorni che viaggiavamo senza una sosta lunga almeno una notte e, dopo un’accesa e non indifferente discussione con Thorin “SonoLoScorbuticoDiTurno” Scudodiquercia, finalmente eravamo riusciti a riposarci. Se mi concentravo, tentando di non ridere al ricordo di quella mattina, riuscivo ancora a vedere le vene le vene sul suo collo pulsare quando, per infastidirlo, avevo poggiato una mano dietro un orecchio esclamando: “Scusi, cosa state dicendo vostra altezza? E’ troppo alto quassù, l’eco della sua stupidità non arriva così in alto, non vi sento”, e mi ero abbassata per guardarlo in faccia. Gandalf, l’avevo scorto con la coda dell’occhio, aveva scosso il capo ed era tornato alle sua mansioni, mentre tutti gli altri si erano bloccati ad osservarci. Continuando a sorridere, mi voltai su un fianco e i miei occhi caddero sui tre nani addormentati poco più avanti di me; Thorin, un braccio sotto la testa e l’altro sulla pancia, dormiva pesantemente mentre i suoi nipoti si muovevano di tanto in tanto. Ora che ci pensavo, però, iniziavo a domandarmi il perché non avessi mai visto il padre di Fili e Kili, il perché non fosse con noi. Varie ipotesi mi passarono per la mente: poteva aver litigato con Thorin ed essere rimasto a casa, ma non l’avevo visto quando Dis ci aveva ospitati. Poteva aver litigato con Dis e deciso di andarsene… ma quale padre lascerebbe dei figli? Quale uomo ne sarebbe mai stato in grado?
Chissà se il mio… La mia coscienza rimbombò nei meandri dei miei pensieri.
 Oh, sta zitta vocina!
Pensaci: e se non fossero morti? Se ti avessero abbandonata e Gandalf ti avesse trovata per caso? Se tutta la storia della tua vita, quella che ti ha raccontato il tuo tutore, fosse solo una bufala? Insomma, quale branco seguirebbe un alfa femmina? Nessuno; nessun branco seguirebbe un femmina al posto di un maschio.
Colsi un profondo respiro e mi alzai, passando fra i corpi dei miei compagni senza fare rumore. Quei pensieri mi avevano turbata e non poco, facendo nascere in me emozioni contrastanti. Forse la mia coscienza non aveva tutti i torti, forse i miei genitori mi avevano abbandonata perché ero nata femmina. Che onore potrebbe mai portare una primogenita femmina ad un branco abituato a seguire maschi alfa? Forse Gandalf mi aveva trovata per caso e salvata per pietà. Forse sarei dovuta morire quella notte di tanti anni prima, quando avevo affrontato Azog e il suo mannaro.
Colta da un improvviso rimorso nei miei confronti vagai per un po’ per l’accampamento, girovagando fra i pony e gli alberi li davanti, finché non udii un rumore diverso: quello dell’acqua. Mi bloccai e rimasi in ascolto, fin quando non capii da dove provenisse il rumore. Allora, mi mossi con cautela e corsi lontano dalla compagnia, sentendo il vento caldo picchiarmi sui vestiti e la pelle. Le mie gambe si muovevano da sole, saltando e scattando con facilità e agilità che pensavo di non possedere più in nella forma umana. I miei capelli schioccavano nel vento come fruste e i rami sotto i miei piedi si spezzavano. Presi velocità, senza accorgermene mi gettai in avanti e sentii tutte le ossa spezzarsi e rimodellarsi. Era un dolore famigliare, a cui mi ero abituata; la spalla sinistra bruciava sempre ad ogni trasmutazione, la ferita si riapriva e poi si richiudeva ma non scompariva mai. Restava sempre li, a ricordarmi ogni volta l’errore che avevo commesso, il lavoro che non avevo portato a termine. Ma poco m’importava del dolore in quel momento, le mie zampe toccarono terra e i miei polpastrelli vennero accarezzati dall’erba morbida e fresca. L’aria sferzò il mio manto candido e, quando mi gettai nel piccolo ruscello con un salto, l’acqua lo ripulì dalla sporcizia. Affondai il volto nel liquido cristallino, trattenendo il fiato, e poi mi spinsi verso l’alto volendo sentire il freddo invadermi la pelle. Era così bello riavere una coda e quattro zampe, e tutti i sensi nuovamente quadruplicati.
 
 


°   °
 
 



Era da diversi minuti ormai che scrutava il cielo blu, ricco di stelle. Aveva portato una mano sotto la testa per riposare meglio, ma pareva proprio che quella sera il sonno si rifiutasse di arrivare. Accanto a lui, i suoi nipoti dormivano tranquillamente così come il resto della compagnia. C’era silenzio, le foglie frusciavano nel caldo vento estivo e i grilli frinivano. Alzò la mano dalla pancia e se la passo sul viso, scostandosi i capelli all’indietro. Serrò le palpebre: gli occhi scuri del lupo lo incatenarono ancora una volta e il dolore alla gamba s’intensificò. Digrignò i denti e riaprì gli occhi; ora capiva perché il sonno gli girava alla larga: il ricordo di quel lupo lo tormentava ancora.
Sbuffò contrariato da quella cosa, insomma lui era Thorin e non era riuscito a uccidere uno stupido cane troppo cresciuto, e per di più non era riuscito ad arrivare in tempo per impedirgli di mordere Fili, che ora avrebbe portato per sempre i segni di quell’attacco. Thorin si sentiva tremendamente in colpa per quello e non passava notte senza che lui ricordasse quello che aveva visto, le urla di suo nipote quando l’aveva portato dal medico per disinfettare la ferita e ricucirla. Il senso di colpa lo divorava ogni giorno.
Alzò il busto e si passò le mani sul volto, muovendo la mascella per svegliare la mascella addormentata e prese a guardarsi attorno. Nella radura era tranquillo, i suoi compagni riposavano tutti… no, non tutti. Uno di loro mancava  all’appello e, sebbene il re sotto la montagna si sforzasse di cercarlo nel buio, di lui non c’era traccia, o meglio di lei. Alzò gli occhi al cielo e s’issò sulle gambe, scandagliando l’accampamento e i suoi dintorni con occhio critico.
Dove ti sei cacciata ragazzina? Ringhiò mentalmente, camminando con leggerezza per non svegliare gli altri. Purtroppo, però, di lei non c’era traccia: ne nell’accampamento, ne fra gli alberi o i pony.
Al diavolo, si disse, io non sono responsabile di nessuno e niente se non dei miei nipoti e me. Troverà da sola la strada per tornare, non è un mio problema, e voltò le spalle alle cavalcature. In quell’istante un ululato s’alzò nel vento e fece fremere le ossa del nano. Era acuto e malinconico, e portava con se dolore. Senza pensarci, però, Thorin strinse la mano sull’elsa della propria spada e cominciò a correre per il bosco, seguendo il suono. In lontananza, riusciva a sentire anche il rumore dell’acqua: poco lontano doveva scorrere il letto di un fiume e lui era sicuro che l’animale si trovasse li. Arrivò a pochi metri dall’acqua, lo sapeva perché il rumore del corso era forte, e i suoi piedi calpestarono dei vestiti. Allora, il nano li raccolse e li guardò, rigirandoseli fra le mani: erano laceri e pieni di tagli, e c’era persino del sangue. Il suo cuore prese a battere prepotentemente quando capì a chi appartenevano: Ringil. Dunque la ragazza non si era alzata per niente, aveva visto il lupo aggirarsi nelle vicinanze e aveva pensato di ucciderlo da sola, pensò Thorin. Ed ora lui aveva i suoi vestiti insanguinati fra le mani e la coscienza sporca per aver anche solo pensato di abbandonarla; dopo tutto, era divenuta una dei suoi per contratto, che gli piacesse o meno. Lasciò andare gli indumenti e ticchettò le dita sull’elsa ancora una volta, poi la strinse anche con la mano libera e iniziò a camminare con lentezza. La presa era scivolosa a causa del sangue che aveva sulle dita ma comunque abbastanza salda. Ora l’acqua del torrente era più forte, gli rimbombava nelle orecchie come una battaglia e le sue gambe erano salde e veloci. Prese un bel respiro e caricò: saltò un tronco e atterrò sulla riva del torrente. Un urlo si disperse nell’aria, quando colta alla sprovvista, Ringil si voltò a guardarlo. Le braccia corsero a coprirgli il petto, sebbene fosse immersa fino alle spalle nell’acqua gelida.
« Che diamine fai? » Strillò infuriata, con gli occhi in fiamme.

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Capitolo 7
*** La rabbia del lupo. ***


Ciao ragazze, scusatemi il ritardo. Sono orribile, lo so. Volevo avvertirvi che da adesso in poi i capitoli saranno più veloci e corti. Volete sapere il perché? Ringil entrerà a far parte di “Storia d’Inverno” e perciò non posso permettermi di mandare per le lunghe questa FF.
Ora vi lascio a leggere, un bacio a tutte/i.

 
Il richiamo del lupo. 
 

“Mi dicono che ho un brutto carattere, e hanno ragione perché, a differenza di molti, io non lecco il culo a nessuno.”

— Dr. House

 

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Calon.
 
 
Non era molto che il Clan del Nord era riuscito a tornare sulle montagne a cui era appartenuto anni prima. Il loro villaggio era caduto preda degli orchi anni orsono, durante l’attacco di Azog, ma adesso ogni cosa giaceva immobile innanzi agli occhi di Calon, come se fosse stata dimenticata dai Valar. Lui, che era poco più che un ragazzo all’epoca – il ragazzo che aveva dato l’allarme-, ricordava ogni cosa. E ogni cosa era diversa da adesso. Quel giorno, con le nubi che erano alte nel cielo e dipingevano colori tetri a terra, i tetti caduti delle case in disuso sembravano scheletri, rovinati dall’usura del tempo e dal deterioramento a cui erano stati abbandonati; la grande casa-palazzo, da cui si accedeva tramite dei gradini –distrutti- era invivibile. Persino da li, e dopo mesi di lavori, i lupi di Magnus non avevano potuto fare poi molto per rimettere in piedi le proprie abitazioni. L’odore di orco, inoltre, infestava ancora l’aria con un puzzo fetido e insistente.
Calon, il legittimo alfa dopo la dipartita di Magnus e la sua regina, morti in battaglia contro Azog, si passò una mano fra i corti capelli castani e si gettò a sedere su un tronco a sedere. Lasciò che le lunghe gambe si stendessero in avanti – i tacchi degli stivali lasciarono un solco nel terreno umido-; poi portò le mani al volto e le passò più volte sul viso tentando di cancellare le immagini di quell’attacco, ma era come impossibile. Da quando era tornato con il suo branco ogni cosa di quel luogo gli ricordava l’attacco di Azog; la morte di Magnus e Kemen, il loro sangue che scorreva rosso e acceso nelle crepe della terra; l’ultima richiesta di Magnus, ancora sotto l’aspetto di lupo nero: « Trova mia figlia. Salvala da lui. »
Ma Calon ancora non c’era riuscito, a trovarla. Non sapeva neppure che aspetto potesse avere. Erano passati anni da quando l’aveva vista l’ultima volta, e lei non era stata altro che una bambina in un fagotto. Una piccola lupa di appena tre mesi. Come avrebbe mai potuto ritrovarla? Dove l’aveva portata Gandalf?
« Mio signore, Calon. Mio signore, nuove importanti. » Una giovane lupa dalla pelle scura corse verso di lui.
I capelli neri e ricci le ondeggiavano sul collo, gli occhi scuri brillavano contro la grigia luce delle nubi e la bocca era piegata in una smorfia stanca. Con un ultimo scatto, dopo essere scivolata fino a lui, tenendosi in equilibrio con le braccia, la donna lo raggiunse. Aveva una strana luce negli occhi, come se fosse felice, e ora un sorriso si era dipinto sulle labbra piene. Calon alzò il sopracciglio scuro, scrocchiò le nocche e stirò i muscoli indolenziti  delle braccia.
« Aggiornami, allora. Che aspetti? » Sborbottò poco dopo. Un ciuffo di capelli ribelli gli era caduto sul viso, incollandosi alla fonte madida di sudore a causa delle molte ore passate a risistemare il vecchio mulino al fiume, assieme ai suoi due fratelli minori.
Una volta era stato possedimento della sua famiglia. Era una bella casa di pietre, con un fienile accanto dove tenevano i cavalli per i campi –sebbene su quelle montagne non si coltivava poi molto; Vicino scorreva un fiume e, attaccato al lato della casa adibito a frantoio, stava l’enorme ruota di legno. Vi era affezionato, a quel posto. Avrebbe fatto di tutto pur di riportarlo a quello che una volta, per lui, era lo splendore e la sicurezza di una casa.
« Alcune settimane fa, un gruppo di tredici nani, uno hobbit e uno stregone è stato visto aggirarsi nelle colline, poca strada prima di Gran Burrone. »
« Thorin Scudo-di-quercia, lo so. Gandalf stesso era venuto a cerarmi chiedendomi di unirci alla causa del Re senza una montagna, ma io ho rifiutato. Non mi hai detto nulla di nuovo. »
« No, Calon, non capisci. Lasciami finire. » La lupa riprese fiato; il sorriso ancora impresso a fuoco nel volto. « Sono stati attaccati da dei troll; le farfalle di Dama Galadriel hanno visto che una lupa li ha aiutati. Una lupa bianca, dagli occhi neri che poi si è trasformata in ragazza dopo che uno dei troll l’aveva colpita. O meglio:  la ragazza combatteva sotto forma di donna, poi l’hanno colpita e si è trasformata davanti a tutti e, successivamente a un colpo, e stata scaraventata nella boscaglia  riacquistando le sue vere sembianze… una lupa, Calon, capisci? Magari potrebbe essere… Ringil. »
Calon rizzò la schiena e portò indietro le gambe, allungandosi in avanti per sentire il resto della storia. Ringil, fu la prima cosa a cui pensò e la seconda, invece, fu: ha il pelo bianco come la madre. Poi si rianimò e la sua mente elaborò varie immagini sfocate di un lupo che veniva gettato chi sa dove da un poderoso colpo di troll; il corpo di una ragazza dolorante e semisvenuta a terra. Che si fosse ferita gravemente? Doveva scoprirlo al più presto.
La donna sorrise, felice di aver attirato su di se l’attenzione, e si schiarì la  voce con un gesto teatrale. La cascata di folti ricci scuri le oscillò sulle spalle, simile a un onda di marea nera. Gli occhi azzurri del maschio alfa sorrisero alla lupa, mentre si alzava, passava nuovamente le mani fra i capelli e scioglieva le spalle. Si accarezzò la mandibola con decisione, grattandosi leggermente la barba. La donna dalla pelle scura ancora lo fissava; le spalle ora dritte come la schiena, in una posa ben studiata per apparire più alta di quel che era in realtà.
« Vai avanti. » Le ordinò, e finalmente la lupa parve sorridere veramente.
« Pare che successivamente all’attacco dei troll, la ragazza abbia avuto dei problemi con la compagnia di Scudo-di-quercia, ma che alla fine abbiano raggiunto assieme Gran Burrone. Da li, non abbiamo più notizie, Calon. » La donna si massaggiò il collo. « Cha hai intenzione di fare, capo? »
« Andiamo a Gran Burrone, o almeno ci mettiamo in viaggio. Spedisci qualche messaggero di volo, digli di chiedere ai cervi di Aldëa, a Beorn, a Re Elrond e…persino a Thranduil. »
« I cambia-pelle cervi e Thranduil, mio signore? Ma come… » Sussurrò meravigliata la lupa.
« Il re degli elfi silvani vorrà sapere che nelle sue terre potrebbero aggirarsi nani, troll o una lupa per noi molto importante, non trovi? E lo stesso i cervi. A quanto mi ricordo, abbiamo un accordo che impone a entrambi i branchi di aiutare l’altro in caso d’aiuto; bene, questo è un caso in cui ci servirà aiuto. Non è così? »
« Si, mio signore. » La donna fece un leggero inchino e corse via. Scomparì dietro una costruzione di legno e con lei anche il suo odore.
Calon sorrise fra se e se. L’inizio di una nuova era, si disse.
 
 
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Thorin.
 


« Una lupa! » Thorin gridò così forte che le pareti di roccia della caverna tremarono e qualche sasso crollò a terra, fra i nani muti e ancora sotto shock. Scudo-di-quercia si accarezzò i capelli e poi passò le mani sul volto. Era stanco, con i muscoli doloranti e le mani graffiate a causa del soccorso che aveva resto a quel Baggins. Quello stupido hobbit non aveva fatto nulla di buono dall’inizio del loro viaggio; si era sempre e solo cacciato nei guai, così come Ringil.
Oh, Ringil, se avesse potuto l’avrebbe presa a schiaffi. Lei e il suo carattere testardo, cocciuto e stupido. E i suoi segreti, specialmente i suoi segreti. Come aveva potuto non accorgersi che lei era una cambia-pelle? Come? Avrebbe dovuto capirlo dopo aver notato la sua cicatrice quella sera al fiume; da come si muoveva; da come se ne stava in disparte e da come diveniva sfuggevole quando le si chiedeva della propria vita. Avrebbe dovuto capirlo, ma era stato stupido e aveva pensato che tutte quelle cose facevano parte di un passato ormai sepolto. Oppure, le aveva lasciate passare perché… perché infondo le si era affezionato in quei mesi. Troppo affezionato.  Certo, aveva mantenuto la sua maschera da duro e nobile re, ma lei era quasi riuscita a farla cadere una sera. Thorin ancora ricordava perfettamente tutti gli avvenimenti di quella notte, dopo tutto erano passate poche settimane.
Si ricordava di aver avuto il cuore in gola quando uno dei troll l’aveva colpita spedendola contro un tronco –aveva persino gridato il suo nome-, ma quando lei si era rialzata i suoi occhi erano gialli e vivi. Una luce sinistra era sorta in essi, e quando Ringil si era tolta l’armatura che portava come protezione ed era corsa in avanti, gettandosi in aria come per volare e il grosso lupo bianco aveva preso il suo posto, Thorin si era impietrito. Era rimasto a guardare le mascelle dell’animale chiudersi contro sopra una caviglia di troll ancora, e ancora e ancora per non ricordava quanto; finché la lupa non era stata gettata nella boscaglia con forza e Ringil non era tornata se stessa. Quando Berto, uno degli assalitori, l’aveva riportata all’accampamento –vestiti a brandelli, ferita e quasi senza più coscienza- e l’aveva gettata in un sacco acanto a Thorin, lei gli aveva detto: « mi dispiace, di non avertelo detto prima. Perdonami. » Poi, era svenuta senza più forze. Per tutto il resto del viaggio, dopo che Gandalf li ebbe salvati dai troll, nessuno le rivolse la parola. Non aveva più notizie di lei dal allora e, in un certo senso, si sentiva più svuotato di prima. Era come se, per tutto il viaggio passato, Ringil l’avesse aiutato ad andare avanti senza che nessuno dei due se ne accorgesse; e ora lui era solo, col pensiero costante di lei nella mente, la sua voce nelle orecchie e la sua bugia sotto gli occhi.
« Lei era quella dannata lupa che ti ha quasi strappato il braccio… » osservò suo nipote Fili e scosse il capo.
« Beh, però ha tentato di rimediare. Ci ha aiutato non poco con quei troll. » Il giovane nano rivolse allo zio uno sguardo triste – anche lui si era affezionato a Ringil- e poi passò al fratello. « Dopo tutto: ha salvati Kili da quell’attacco con i mannari, ha attaccato quel mostro quando ti stava per attaccare da dietro e si è ferita per fare ciò. Te lo ricordi zio? Si? »
Thorin  non poteva di certo averlo dimenticato. Si ricordava perfettamente il momento in cui Ringilsi era gettata contro quel mannaro che aveva provato ad attaccarlo alle spalle, trasformandosi a mezz’aria nella lupa dal pelo candido. Si ricordava di aver visto i due grossi animali rotolare nell’erba alta e di aver udito Ringil guaire, prima di uccidere la creatura e raggiungere i nani. Sulla sua pelliccia scendeva una scia di sangue scarlatto, le macchiava il pelo ma lei non si era lamentata e ne si era ritrasformata in umana. Era rimasta lupo a capo della fila, seguita da Dwalin, in caso ci fosse da comabattere.
« Ti ha quasi strappato il braccio, come fai a perdonarla? » Thorin si sentiva sporco mentre pronunciava quella frase, ma gli venne naturale. Come poteva suo nipote pensare quella cosa, perdonarla?
« Siamo noi che abbiamo attaccato lei per primi: se non ci fossimo messi in testa l’idea della caccia al lupo, lei non avrebbe fatto nulla… inoltre, si è fermata. Non mi ha staccato del tutto il braccio.» Fili sorrise divertito. « E poi, zio, alle ragazze le cicatrici piacciono. »
« Però a quelle furbe non piaci tu » rise Kili, trascinandosi dietro le risate di tutti gli altri.
 
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Ringil.
 
« Sto bene, Re Elrond. Glielo giuro, non è nulla. » Feci per alzarmi ma un fitta profonda mi attraversò il ventre, asciandomi senza fiato. Socchiusi le labbra, strizzai le palpebre e lasciai che Elrond mi poggiasse nuovamente sul letto.
Erano passate settimane dall’ultimo attacco a cui avevo partecipato, ma il morso del mannaro era ancora li. Quel bastardo era quasi riuscito a perforarmi il fianco destro, ma io ero stata più veloce e avevo affondato i denti nel suo collo spezzandoglielo con un colpo secco; questo non mi aveva impedito di restare ferita. Avevo resistito per tutto il viaggio fino a Gran Burrone, poi ero crollata davanti a Lindir sotto la mia forma umana – per fortuna l’elfo aveva avuto la decenza di coprirmi con il suo mantello. Non avevo più notizie di Thorin da due settimane, era come se fosse scomparso nell’aria come gli altri. Nessuno voleva permettermi di vederlo. Era una tortura, dovevo dirgli che mi dispiaceva prima che iniziasse a odiarmi, sempre che non l’avesse già fatto, e dovevo chiedere scusa a Fili per quella brutta ferita e a tutti gli altri per aver mantenuto il segreto.  Gettai ripetutamente la testa contro lo schienale del letto e repressi un grido, odiavo starmene seduta. Dovevo uscire, sgranchirmi le ossa, rimettere in moto i muscoli ma quella dannata ferita ci stava mettendo più del previsto a guarire.
« Cosa credi di ottenere facendo così, Ringil? » Mi domandò Elrond, che stava versando dell’acqua in un bicchiere.
« Senza offesa, voglio andarmene da qui, mio signore. » Scrocchiai le nocche delle mani e il collo. « Devo trovare Azog e ucciderlo. »
« Ah, si giusto: l’orco. Bambina cara, non puoi affrontarlo da sola, tanto meno nelle tue condizioni attuali. Guardati », i suoi occhi esaminarono la fasciatura del fianco, la cicatrice della spalla. « Sei forte e coraggiosa Ringil, come tua madre Kemen, ma sei anche cocciuta e avventata come Magnus. » Mi porse il bicchiere, che racchiusi fra le dita come se dentro vi fosse contenuta la mia stessa salvezza. « Ma non posso permetterti di andartene; questa è l’ultima casa accogliente prima delle terre selvagge. Se la ferita s’infettasse, nessuno sarebbe li con te per curarti. »
« Thorin! » Esclamai subito, e il mio cuore accelerò. Sembrava il battito d’ali di un colibrì, veloce, silenzioso e prossimo alla morte. « Thorin mi aiuterebbe, non mi lascerebbe morire. Io lo so. » Non conoscevo il motivo della mia determinazione, sapevo solo che qualcosa mi aveva spinto a dirlo. Un qualcosa più grande di me, più grande di tutto quello che stava accadendo. Che mi fossi invaghita di lui, senza rendermene conto? No, non poteva essere. Impossibile. « A proposito, dov’è Thorin? Perché non è ancora venuto a trovarmi? Sono passate due settimane dal nostro arrivo, anche se è arrabbiato con me… »
« Thorin non verrà. » Il volto etereo di Lord Elrond mi osservò con tristezza, dolore velato negli occhi. Analizzai ogni tratto di viso e ingoiai un fiotto di saliva.
« Cos… perché? »
« Se n’è andato, mia cara. Lui e la compagnia sono partiti otto giorni fa. »
Fu come ricevere una stilettata al cuore, dritta nel petto. Lasciai cadere a terra la coppa d’acqua, il contenuto si riversò sul pavimento, e socchiusi le labbra. mi sentivo vuota e delusa, sola e… abbandonata.
Mi avevano abbandonata.
Dopo il dolore sordo e lo stato di shock, sentii la rabbia crescermi nel petto. Saliva, si ingrandiva rapidamente e cresceva come l’edera. Un parassita che aveva trovato radici in me. Ignorai il dolore al ventre quando mi alzai e gli ordini di Elrond che mi diceva di tornare a letto, e corsi fuori. Gettai la vestaglia che indossavo a terra, davanti alla porta della mia stanza, e mi trasformai. Thorin scudo di quercia mia aveva abbandonata, bene: l’avrei trovato e gli avrei strappato la vendetta che tanto bramava contro Azog. L’avrei trovato e gliel’avrei fatta pagare. 

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Capitolo 8
*** Il nuovo lupo. ***


Il richiamo del lupo
 


“Io e te abbiamo avuto quel tipo di rapporto che non si sapeva dove volessimo arrivare.
Avvicinandoci in poco
Sfiorandoci per poco
Distruggendoci con poco.
Distanti un passo dall’amarci e due dal frantumarci.”

 
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« E’ triste la tua storia, Beorn. » La tazza fece un giro fra le mie lunghe dita, di un colore più abbronzato di quando ero partita da Gran Burrone.
Era stato un lungo, lungo viaggio da allora e con la solitudine a farmi compagnia era stato anche peggio. Più andavo avanti più dentro di me si consumava la rabbia, il dolore e l’odio che provavo verso Thorin e la sua squadra. Abbandonarmi li, come se fossi spazzatura.
« E’ più triste la tua, Ringil. » Affermò l’uomo orso, con quella sua voce burbera che collegata al suo corpo sproporzionatamente alto faceva paura. Si sedette su una delle grosse sedie difronte a me e buttò giù una lunga sorsata di idromele.
Lo studiai attentamente, inarcando le sopracciglia con fare interrogativo. La mia storia? Io non avevo una storia. Di che storia parlava? Io ero solo Ringil, per lui, e così dovevo restare. Nessuno sapeva che fine avessi fatto dopo il massacro causato da Azog. Nemmeno lui avrebbe dovuto. Provai a calibrare le sue parole, a trattenermi dal domandare cose che non avrei dovuto e, dopo vari apri e chiudi di bocca riuscii a decidere cosa dire.
« La mia storia non è triste, la mia storia è quella di un’orfana che non ha conosciuto i genitori ed è stata adottata da uno strano tizio. Tutto qui. » Sussurrai, poggiando il grande boccale ancora pieno sul tavolone davanti a me. « La tua, al contrario, è davvero triste. Conoscere la propria famiglia e vederla morire penso sia una delle cose più crudeli di questo mondo. » Scrocchiai le nocche, tenendo lo sguardo fisso sull’uomo. « Si, forse », si asciugò la barba ispida e poggiò il bicchiere sul tavolo. « Ma anche la tua, di famiglia, è stata trucidata, se non ricordo male. E, sebbene tu non le abbia conosciute quelle persone rimangono la tua famiglia. »
« Parliamoci chiaro, Beorn: come fai a sapere chi sono davvero? Gandalf era stato molto prudente nel nascondermi agli occhi altrui, facendo credere a tutti che io ero morta nell’attacco. » Mi spinsi leggermente in avanti e congiunsi le mani sopra al tavolo incuriosita. « Cos’altro sai? » Inarcai ancora le sopracciglia.
« So quanto basta. In ogni modo, dopo il tuo spettacolino di qualche anno fa contro Azog e le tue recenti apparizioni sulle montagne azzurre non mi è stato difficile pensare a te; non sei così invisibile come pensi, principessa. » Affermò, ruttandomi copiosamente in faccia. Mi spinsi indietro e incrociai le braccia al petto con una smorfia schifata. « E in più, so anche che sei alla ricerca di un gruppo di nani. »
Rizzai la schiena catturata da quell’informazione, tesi le orecchie. Alla fine quest’uomo si stava rivelando una fonte di informazioni non indifferente. Non l’avrei mai creduto possibile quando, un giorno prima, ero arrivata a casa sua. Per prima cosa, perché mi ero intrufolata dentro la casa dopo aver visto un orso gigante; per seconda cosa, perché mi si era presentato davanti con un caratteraccio del cavolo che aveva fatto subito scintille col mio. Eppure, era davvero utile.
« Sono passati di qui? » Chiesi, accarezzandomi i canini con la lingua. Si stavano affilando, la rabbia che cresceva dento di me mi stava portano alla trasmutazione.
« Certo, e si sono anche fermati una notte. Erano con Gandalf. Uno di loro era ridotto particolarmente male… Thorin Scudo-di-quercia. Avevano appena affrontato Azog, mi stupisce che tu non ne sapessi nulla; del luogo in cui avevano lottato non è rimasto altro che un dirupo con alberi carbonizzati. » Spiegò tranquillamente, buttando giù poi un sorso di idromele.
Trattenni il fiato e ingoiai un fiotto di saliva. I canini fuoriuscirono dalle mie gengive, pungendomi come le lame di coltelli affilati e tagliando la carne. Rabbia, era l’unica cosa che provavo. Rabbia e disprezzo per quella gente, per Gandalf, che mi aveva tradito. Come aveva osato Thorin combattere contro Azog? Cercare di ucciderlo, quando sapeva benissimo che era l’unica cosa che volevo? Mi ero unita alla compagnia solo per quello scopo, non per l’oro o i gioielli, solo per uccidere Azog. E lui voleva portarmelo via.
Rabbia, disprezzo, dolore, odio. Sete di vendetta.
Avrei ucciso io Azog, e chiunque avesse provato a mettersi in mezzo sarebbe finito male. Thorin non faceva differenza.
« Che altro è successo? » Ringhiai.
L’uomo mi rivolse uno sguardo veloce prima di sbadigliare, grattarsi la pancia e sbadigliare di nuovo. « Gli ho dato i miei cavalli per arrivare al confine di Bosco Atro, sono tornati tutti tranne uno, quello di Gandalf. Non so cosa quelli pensino di fare nel reame di Thranduil ma di sicuro il Re degli Elfi non gradirà quella visita a sorpresa. Come minimo saranno già nelle sue segrete. Poveri sciocchi. »
« Ora devo andare. » Mi alzai e raccolsi da terra un mantello che l’uomo mi aveva donato. Era rosso come il sangue, come la piccola pietra incastonata nella fedina che era stata di mia madre.
 Vendetta. Sangue. Vendetta. Morte.
Ora che sapevo dove si erano diretti i nani, la mia meta era scritta. Bosco Atro, la reggia di Thranduil.
« Come più ti pare, Regina dei Lupi. A te la scelta, io non sono ne tuo padre ne tuo parente e non sta a me fermarti se decidi di andare a perderti in quella stramaledetta foresta. »
« E infatti io non te l’ho chiesto. » Sborbottai allacciandomi il mantello sotto il collo e tirando su il grande cappuccio. Poi sospirai, non avrei dovuto essere così maleducata. Dopotutto Beorn mi aveva dato vitto e alloggio, e un migliaio di informazioni utili. Espirai e tolsi il cappuccio voltandomi di tre quarti, in modo da mostrargli il profilo del mio viso. « Grazie di tutto, Beorn. »
« Ah. » Alzò le spalle e ruggì quella specie di risposta, prima di alzarsi e scomparire nella stalla.
Alzai gli occhi al cielo e scossi il capo, rimettendomi il cappuccio. Quando richiusi la porta alle mie spalle e l’aria fresca gonfiò il mio mantello, uno strano odore mi tempestò le narici. Annusai l’aria e digrignai i denti.
Feci in tempo a voltarmi che i miei occhi scorsero un movimento dietro il tronco posizionato come staccionata da Beorn. Ringhiai, saltai in aria e mi trasformai. I vestiti mi si strapparono, l’unica cosa intatta rimase il mantello e la catenina alla quale tenevo appeso l’anello di mia madre.
Atterrai con un tonfo su un lupo rossiccio, o almeno mi parve tale. Rotolammo in un tripudio di artigli e zanne, e fendenti che schioccavano nell’aria come frustate. Quando ci fermammo, entrambi eravamo nuovamente umani e lui mi osservava con i suoi occhi chiari. Il viso aveva una bella linea rigida, severa, e coperta da uno strato di barba corta e scura. Gli occhi azzurri erano come due pozzi senza fondo, così diversi da quelli blu di quel nano traditore. Erano degli occhi davvero belli, che stavano a pennello sulla sua pelle così chiara in confronto alla mia ora abbronzata.
« Ma allora se veramente tu! » Esclamò, prendendomi il viso fra le mani e rigirandolo velocemente in ogni direzione. Era una cosa bizzarra, invadente e alquanto strana. Toccò infine l’anello appeso alla mia collana e si mise a ridere di gioia. « Oh, Ringil. »
« Si… e tu sei? »
« Il mio nome è Calon, mia regina, e sono qui per portarti a casa dal tuo branco. »
 
 
 
N.d.a
 
Ciao ragazze,
 
si, potete uccidermi. Non ho più aggiornato ma sono stata tanto impegnata! Prometto che aggiornerò presto, e sapete perché? Perché Ringil ha fatto il suo ingresso in STORIA D’INVERNO, e quindi devo assolutamente darmi una mossa.
 
Love U.

Kiss,


Isil.

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