My boyfriend's bestfriend di xfrankybadass (/viewuser.php?uid=129671)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Incontri ***
Capitolo 3: *** Novità ***
Capitolo 4: *** Appuntamento ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
We are a mess
we are failures
and we love it
Grace era disperata.
Con la tempia poggiata sul vetro freddo dell’ampia finestra a
bovindo della sua stanza, la ragazza aveva lo sguardo perso su
ciò che si trovava al di fuori di essa. I suoi occhi grandi,
di un verde acceso, si spostavano velocemente dal traffico che
procedeva a passo d’uomo ai passanti distratti che si
affrettavano a tornare a casa, consci del fatto che di lì a
poco sarebbe scoppiato un acquazzone. Il cielo che gravava sulla
piccola Bristol era, infatti, plumbeo; tutto ciò non faceva
altro che riversare una sensazione di malinconia e
negatività sulla biondina, già di per
sé triste.
Ancora non riusciva a realizzare come avesse potuto ficcarsi in quella
situazione così ambigua, così sbagliata. Era
inciampata nel cliché dei cliché, nel caso di
tradimento più banale ma allo stesso tempo più
vile e spregevole che potesse esistere, e anche se aveva cercato di
negarlo a sé stessa con tutte le sue forze e di fermare la
relazione che andava instaurandosi – perchè,
nonostante tutto ci aveva provato – Grace non ci era
riuscita.
Si staccò dalla finestra con fare svogliato, quasi a non
voler smettere di osservare la realtà esterna a lei, che non
la riguardava, probabilmente per la paura terribile di affrontare
quella che l’aspettava nella sua stanza.
Nonostante non si fosse ancora voltata del tutto sapeva che i due
ragazzi la stavano aspettando ancora lì, immobili, e sapeva
anche che la stavano fissando con un’espressione corrucciata:
non avevano smesso di farlo nemmeno per un istante da quando avevano
varcato quella soglia il pomeriggio stesso. Grace prese coraggio e
ricambiò lo sguardo di entrambi, puntando i suoi occhi prima
dritti in quelli Will, verso il quale si sentiva più in
colpa, e solo dopo in quelli di Jack. Fece appello a tutta la sua buona
volontà per non perdersi in quel turbinio di occhi verdi dei
due ragazzi, che seppure fossero dello stesso colore erano
profondamente differenti, come d’altronde era il loro
carattere.
Ma si sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Gli occhi di
Will erano di un verde chiaro quasi tendente al grigio, grandi e
– forse fin troppo – espressivi. Tuttavia erano le
sopracciglia ciò che dava carattere al volto; lunghe,
non troppo folte, avevano una forma talmente arcuata da rendere la sua
espressione costantemente sorpresa, dandogli un’aria buffa.
William era un bambinone: grande e grosso, aveva uno spiccato senso
dell’umorismo e all’occorrenza riusciva ad essere
maturo e sensibile. Infatti, ogni volta che Grace aveva avuto bisogno,
questo le aveva sempre saputo trasmettere una sensazione di calore e
protezione che nessun altro – Jack compreso – era
mai riuscito a fare in vita sua.
Jackson era tutto il contrario: svogliato, leggermente
immaturo, cheeky, aveva sempre una gran voglia di
scherzare e non
prendeva mai niente sul serio. Quel suo essere un po’
così, giocherellone, lo si percepiva subito dal modo in cui
osservava le persone; sul suo viso si dipingeva spesso un sorrisetto
insolente, che per quanto - a volte - potesse essere fastidioso, Grace
adorava. Ma lo adorava soprattutto perché Jack era capace di
sorridere con gli occhi e, ogni volta che lo faceva, ai lati di questi
spuntavano delle graziose rughette. Quando poi era lei stessa a
provocarlo, quel sorriso le piaceva ancora di più.
Fu Will a prendere l’iniziativa e terminare quella stupida
attesa che gravava su di loro da fin troppo tempo.
«Allora?»chiese, passandosi una mano sul viso,
sconsolato.
«Stiamo aspettando la tua-e rimarcò bene
quest’ultima parola – decisione. Il gioco
è nelle tue mani, a te la mossa finale.»
Ormai quel silenzio assordante era stato spezzato, e Grace non poteva
più rimandare. Era ora di esporre i suoi sentimenti, di
esporre se stessa; di comunicare loro la scelta che aveva preso ormai
da tempo.
- - -
Mamma mia che vergogna.
Sono tipo due anni che non posto qualcosa qui su EFP,
quindi vi prego di essere clementi.
Questa è la prima volta che mi impegno seriamente per una
fanfiction,
e spero che sarò costante nello scrivere - ma soprattutto -
negli aggiornamenti.
L'idea e l'ispirazione per questa fanfiction mi è venuta
guardando il video Jack&Will sul
canale di Jack,
dal momento che adoro Jack
( e si era capito ) come adoro anche Will Poulter! La mia mente malata,
poi,
ha iniziato a macinare idee quando ho scoperto che entrambi hanno
frequentato
l'università di Bristol... e niente, è uscita
fuori 'sta schifezza.
Comunque, arriviamo alla domanda fatidica: Perchè ho scelto
di postare nella sezione degli youtubers? Perchè, questa
fanfiction
riguarda principalmente Jack,
e poi il povero Will, non essendo molto conosciuto, non ha una sezione
per lui!
In ogni caso introdurrò nella storia anche altri youtubers,
a partire da Finn.
Per questa volta è tutto... spero vi piaccia. Fatemi sapere
che ne pensate
attraverso un commento!
Un bacione,
Fra.
P.S: Dato che di solito mi ispiro ad attori/cantanti/modelle per dare
un volto ai miei personaggi, questa volta
ho scelto Chloe Grace Moretz come prestavolto della protagonista
principale. Ovviamente voi potete immaginarvela
come vi pare, solo che io la immagino così :)
P.P.S: Una finestra "a bovindo" è la tipica finestra ad arco all'inglese, scusate se ho dato questo termine per scontato!
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Capitolo 2 *** Incontri ***
Capitolo 1
Incontri
What's the
story
morning glory ?
Il suono ovattato di un
colpo lontano si fece piano piano sempre più insistente;
mano a mano questo rumore s’intensificò,
diventando sempre più nitido, più deciso. Il
frastuono incalzante di nocche che cozzavano contro il legno della
porta divenne improvvisamente chiaro alle orecchie di Grace, che
lentamente aprì gli occhi, ancora intorpidita dal sonno.
Un raggio di sole era riuscito a sfuggire allo spesso tendaggio della
finestra, diffondendo così una luce fioca che si
propagò per tutto il perimetro della camera.
La ragazza, infastidita sia dal rumore irritante sia dalla luce
mattutina, si alzò dal letto con fare nervoso, dirigendosi
verso l’ingresso della stanza. Non era preparata
psicologicamente ad affrontare la persona malata che alle otto di
mattina aveva deciso di prendersela con la sua porta, anche se una
mezza idea di chi fosse ce l’aveva.
Aprì, facendo così cessare quel trambusto
molesto. Una ragazza dai capelli rossi, chiari ma di un colore vivo e
brillante, che riconobbe subito come la sua migliore amica, si
stagliava davanti a lei ancora con il pugno in aria pronto a dare un
altro colpo alla porta inerme; sorrideva, forse ignara di aver
svegliato tutto il secondo piano del dormitorio est della Bristol
University – o forse, faceva semplicemente finta di non
essersene accorta – che la continuò a guardare con
odio per tutta la giornata.
Grace la squadrò
dall’alto al basso con espressione corrucciata, chiedendosi
come facesse Eve ad essere così affascinante anche a
quell’ora. Eve Powell – così si chiamava
– era di una bellezza irreale; alta e magra, con i capelli
lunghi e fluenti che incorniciavano un viso puro e delicato, sul quale
i due occhi azzurri sembravano due zaffiri incastonati alla perfezione;
il naso era lungo e lineare, mentre la bocca rosea era sottile.
La
bionda pensò a quanto la scena, vista
dall’esterno, potesse essere esilarante. Una stanga di un
metro e ottanta con in mano un sacchetto contenente dei cornetti, stava
aspettando l’invito a entrare nella stanza di una nanerottola
con i capelli arruffati e la palpebra calante, che la stava guardando
in maniera torva. Sembrava Biancaneve con uno dei suoi nani da
passeggio.
Grace Earnshaw, era – giusto un tantino
– diversa dalla sua migliore amica. Era bassa, caratteristica
che contribuiva a farle dimostrare meno anni di quanti ne avesse
effettivamente, e qualche chiletto in più della norma. I
capelli erano biondi, abbastanza lunghi, ma dritti come spaghetti.
Tuttavia, il suo viso era molto bello: aveva dei grandi occhi verdi da
gatta, il nasino all’insù e una bocca a cuore
molto carnosa.
Ma in ogni caso, Brontolo le faceva un baffo.
« Madonna Grace, la gente è sveglia da giorni e tu
dormi ancora! Ma che cazzo hai fatto fin ad ora?! Dai, sbrigati, esci
da sta tana! – esclamò Eve, alzando gli occhi al
cielo – Ah, ma stasera lavori? » domandò
infine, concludendo così quella sparata infinita.
«Sì, Eve.» sibilò Grace con
sguardo truce. Se c’era una cosa che questa odiava era quando
veniva svegliata di soprassalto, - ma soprattutto – chi
la
svegliava di soprassalto.
«In ogni caso ho portato i
cornetti…» sussurrò la rossa, sbattendo
le ciglia folte, sperando così di assumere
un’espressione – più o meno –
pentita, mentre scuoteva il sacchetto davanti agli occhi di Grace.
«Dai, entra» affermò rassegnata
quest’ultima, lasciandosi convincere dall’odore di
cornetti appena sfornati che cominciava ad aleggiare nella stanza e dal
suo stomaco che iniziava a brontolare.
Quel pomeriggio la biblioteca era gremita. Sparsi qua e là
per la sala, quasi tutti gli spaziosi tavoli in mogano erano occupati e
la loro superficie ricoperta di libri, tomi antichi e quaderni vari.
C’era chi studiava in religioso silenzio, chi ascoltava
musica cercando di concentrarsi e chi scriveva senza sosta;
c’era anche chi vagava tra i numerosi scaffali alla ricerca
di un qualche raro manuale, spezzando così, con il rumore
dei suoi passi, il silenzio che regnava incontrastato grazie alla
presenza della bibliotecaria, di una certa età e
dall’aria austera, che aveva la speciale dote di silenziare
qualsiasi cicaleccio nel raggio di un chilometro. Ogni brusio che si
sollevava, infatti, veniva azzittito con rapidità da una sua
occhiataccia o, - più spesso – da un suo
fastidiosissimo “shh”.
Jack, dopo aver preso un espresso alla macchinetta del caffè
– senza inceppamenti vari, il che era stato un vero e proprio
miracolo – ed essersi fumato una sigaretta, si era seduto al
tavolo vicino ad una delle ampie vetrate che si succedevano
ritmicamente, per godere ancora per un po’ della luce del
sole. Con fare deciso aveva incominciato a sfogliare un tomo di
cinquecento pagine, ma purtroppo la noia e la pigrizia ebbero la meglio
su di lui, tanto che in pochi secondi si ritrovò con il viso
infossato sul libro, che agli occhi del ragazzo aveva preso le
sembianze di un comodo cuscino.
Will sghignazzò, seduto davanti all’amico. A
differenza di Jack, lui era rimasto sveglio e stava cercando
“seriamente” di concentrarsi e memorizzare qualcosa
sulla storia del teatro – anche se non definiva quella
materia propriamente interessante – in vista
dell’avvicinarsi degli esami. Ma in ogni caso la sua
diligenza durò poco.
Piano piano, cercando di evitare gli
sguardi omicidi della bibliotecaria, accartocciò dei piccoli
pezzi di carta e cominciò a lanciarli verso Jack, che non si
accorse di nulla. Will continuò ad infastidire
l’amico dormiente – che nel frattempo si era
allargato occupando più spazio di quanto ne fosse opportuno
– per un bel po’.
«Jaaack» sussurrò il biondo cercando di
farsi sentire dall’altro, il quale si smosse non appena la
decima pallina di carta colpì la sua testa. Jack
alzò lentamente il viso dal libro, con fare spaesato e con
l’impronta della pagina su cui si era assopito ben stampata
in faccia; una volta ricordatosi di dove fosse e cosa stesse facendo,
guardò l’amico con espressione interrogativa.
Will sospirò, sollevato del fatto che l’altro non
fosse morto nel sonno, e indicò una delle tante palline che
gli aveva lanciato, facendo segno con le mani di aprirla.
Accigliato,
Jack la spallottolò.
“Io, te, gli altri. Birra. Stasera.”
Riportava scritto il bigliettino, con calligrafia disordinata e poco
chiara. Di rimando, Jack ne prese un altro, scribacchiò
qualcosa frettolosamente e lo allungò all’amico.
“No.”
«Cosa?!» sbottò Will in tono un
po’ troppo alto, allargando le braccia.
«Perché?!»
«Zitti voi due» abbaiò la vecchia
bibliotecaria, che nel frattempo si era avvicinata a loro captando
un’origine di rumori molesti.
Jack alzò gli occhi al cielo, ignorandola «Non ne
ho molta voglia, sinceramente – asserì abbassando
la voce– sai, Finn è partito questa mattina per
Leeds e quindi…»
Finn era il fratello gemello di Jack, più grande di lui di
due minuti; se fisicamente erano uguali in tutto e per tutto, dal punto
di vista caratteriale erano fin troppo diversi. Se il più
grande era introverso, riflessivo e – per certi versi
– più maturo, l’altro era tutto il
contrario. Differenze a parte, i due erano stati inseparabili dal
momento della nascita, e avevano instaurato un rapporto fatto di
fiducia e complicità, anche se le litigate non erano mai
mancate e non mancavano tutt’ora. Per i gemelli, quindi,
venire separati dopo una vita passata insieme non era propriamente una
cosa che loro ritenevano semplice.
«Quindi? – chiese di rimando l’altro,
seccato
dall’atteggiamento disinteressato dell’amico, che
nel frattempo si era limitato a fare spallucce e grattarsi la nuca,
cosa che faceva sempre quando non riusciva a gestire una situazione.
Quel quindi significava, molto semplicemente, che
Jack non aveva la
minima intenzione di mettere piede fuori dalla stanza del college
quella sera. – Va bene Jackson, fammi sapere se torni ad
essere una persona normale entro la serata o continuerai a fare il
vegetale. » affermò Will, mentre si alzava e
raccoglieva il materiale didattico che aveva sparso il lungo ed in
largo per il tavolo, e solo in seguito uscì dalla sala
borbottando tra sé e sé.
Jack scosse la testa, interdetto. Con un colpo secco buttò
tutte le sue cose nello zaino, lo raccolse da terra e si
affrettò a rincorrere il biondo fuori dalla biblioteca, quel
giorno fin troppo silenziosa per i suoi gusti.
«Will!
– strillò, non appena lo individuò tra
la massa di gente che affollava il corridoio –
Fermati!»
Lo dovette chiamare più volte, prima che questo –
nonostante avesse notato la sua presenza e la sua voce non proprio
soave – si fermasse e, con un sopracciglio alzato, lo
ascoltasse.
«Senti, mi dispiace e tu lo s-»
«Eh beh, come minimo» lo interruppe Will,
incrociando le braccia.
« Se mi facessi finire, magari – precisò
Jack, mentre l’altro schioccava la lingua –
comunque, lo sai che amo uscire e divertirmi più di ogni
altra cosa, ma stasera proprio non sono dell’umore. Non penso
tu possa capire, ma mi manca Finn, e ti prego di non farmelo ripetere
mai più perché questa cosa stomaca anche
me»
Non credeva che Will avrebbe mai potuto capirlo, dal momento che, anche
se questo aveva un fratello e due sorelle, non aveva un gemello; non
aveva una persona identica a lui, che pensava alle stesse cose a cui
pensava lui nello stesso momento; non aveva una persona con cui
scambiare sguardi complici, che solo un’altra coppia di
gemelli avrebbe potuto riconoscere.
«Mh.–
mugugnò William, con un’espressione pensierosa
stampata in faccia – Sì, penso decisamente che tu
sia comunque un coglione»
Grace stava pulendo con uno straccio il lungo bancone di legno del pub
di cui era ormai impiegata da quasi un anno, ovvero da quando si era
trasferita a Bristol da Londra, per cominciare gli studi universitari.
Il The Dope Wizard, così si chiamava
il pub, – lei
ed Eve si erano sempre chieste perché e in quali condizioni
il proprietario avesse scelto proprio quel nome, forse sotto effetto di
qualche sostanza che gli permettesse di vedere realmente maghi, fate e
folletti– ed era la birreria più anonima e inutile
dell’intera Gran Bretagna.Titolare e gestore del posto era il
signor Bloomwood, vecchio obeso di un’ignoranza
considerevole: non sapeva cosa fosse la tecnologia, ne tantomeno
internet, e figurarsi la pubblicità per il locale che poteva
scaturire tramite quest’ultimo; per questo motivo il pub,
nonostante fosse attaccato all’università, il
più delle volte era desolato, oppure popolato da vecchi
amici del ciccione.
La biondina guardò in alto, avendo udito
il rumore della porta che sbatteva. Dalle scalette che portavano
dall’ingresso alla sala principale comparvero – per
l’appunto – due vecchi amici del proprietario, che
però non erano poi tanto male come quello.
«’Sera piccola» la salutarono i due in
coro, prima di dirigersi nella saletta ideata appositamente per giocare
a biliardo, collegata alla sala principale da un’ampia porta
ad arco. Non fece in tempo a rispondere al saluto di questi che subito
un’altra figura comparse in cima alle scale; tenendosi salda
al corrimano dello stesso legno del bancone, Eve scese saltellando fino
a sedersi sullo sgabello davanti la postazione dell’amica.
«Spiegami perché ti ostini a lavorare in questa
topaia. – esordì la rossa, arricciando il naso
– Puzza da morire! »
Grace non poteva negare il
fatto che in quel posto aleggiasse un forte odore di stantio misto ad
alcool, dovuto parzialmente al fatto che il pub, prima di diventare
tale, era un semplice – ma spazioso – scantinato.
Ma, almeno lei, ci aveva fatto l’abitudine, e anzi; se
n’era addirittura affezionata.
«Finché mi pagano mi ostinerò a
lavorare in questa topaia.» ribatté Grace,
calcando bene la voce sull’ultima parola, smettendo di
sistemare le varie bottiglie di Jack Daniel’s sulla mensola
dietro al bancone.
«Dico che almeno potresti organizzare dei concerti, delle
serate con musica dal vivo, tanto il ciccione non
c’è mai e quel palchetto là in mezzo
non viene utilizzato – disse, facendo cenno con la testa al
palco che si trovava addossato ad una delle pareti laterali fatta di
mattoncini rossi, completamente sgombro. – almeno questo
posto non sarebbe così pieno di vecchi! »
Grace fece spallucce, consapevole del fatto che l’amica
avesse pienamente ragione «Senti, ma perché tu sei
qui a criticare il mio posto di lavoro invece di essere al Funky
Pizza?»
«Perché al Funky Pizza
– postaccio dove gli impiegati si dichiaravano gli unici
capaci di fare della vera pizza italiana in tutta Bristol –
c’è Jasmine, che si è gentilmente
offerta di fare a cambio di turno. » affermò, con
un sorrisetto soddisfatto.
Grace stava per affermare che Eve doveva soltanto ringraziare
l’Eterno Signore del fatto che lei non facesse cambi di turno
e che il suo capo ciccione non ci fosse mai, in maniera tale da poterle
offrire bevande di ogni sorta quando questa si presentava al Dope
Wizard, quando accadde il miracolo. Sia Eve che Grace rimasero a bocca
aperta, incredule; non potevano credere ai loro occhi che, spalancati,
fissavano quel gruppetto di ragazzi – sexy, per giunta
– scendere le scale. Era una delle prime volte che Grace
vedeva veri e propri maschi della loro età – con
capelli corti o lunghi, grassi o magri, con addominali o senza
– in quel locale. Si accomodarono poi in uno dei tanti tavoli
sparsi per la sala, additando con delle risate il vecchio jukebox
posizionato vicino alla porta del bagno.
«Eve – sospirò, dando uno scossone
all’amica, che ancora li stava fissando – sono
veri?»
«A quanto pare…» rispose, assottigliando
gli occhi; questo preoccupò non poco la biondina, dal
momento che l’amica faceva quello sguardo solo quando
architettava qualcosa. E, il più delle volte, non era
qualcosa di buono.
«Tu non vorrai mica…»
Di tutta risposta
la rossa ingurgitò i due bicchierini con rum e succo di
pera, si alzò con uno scatto e si allungò verso
Grace, poggiando i gomiti sul bancone. «Io mi prendo il
moretto con la barba, a te mando il biondino»
sussurrò a bassa voce, ammicando. Come diavolo aveva fatto a
capire che, in quella marmaglia di testosterone e ormoni maschili,
l’unico che l’aveva colpita subito
all’occhio era il biondino dai capelli corti, proprio non lo
sapeva.
Tipico di Eve.
Ma in ogni caso lei stava lavorando, si vergognava e non aveva nessuna
voglia di socializzare. Per di più aveva i capelli legati in
uno chignon mal fatto e il trucco era leggero, quasi inesistente. Fare
la conoscenza di un ragazzo così carino, in quelle
condizioni pietose era un qualcosa che avrebbe evitato molto
volentieri. «Vieni qua, maledetta»
sibilò tra i denti, facendo un mezzo sorriso nervoso. Ma
l’amica era già verso la via della perdizione, e
difatti, in pochi minuti questa si ritrovò seduta a bere e
flirtare con metà del gruppo.
Mentre Grace asciugava dei bicchieri, borbottando e maledicendo Eve tra
sé e sé, captò i passi di un qualcuno
che stava andando verso di lei. Sperò, con tutto il suo
corpo e la sua anima, che fosse uno di quei simpatici vecchietti venuto
a chiedere un altro giro di birra. Ma, ovviamente, non fu
così.
«Quindi, stando a quanto detto dalla tua amica, io ti
piaccio.» affermò una voce, calda e profonda, con
un accento britannico non troppo calcato. Grace alzò lo
sguardo, incontrando per la prima volta quegli occhi, di un verde
così chiaro eppure così particolare, in cui lei
si sarebbe persa volentieri per ore. Quel colore le ricordava i prati
della brughiera, i perfetti giardini inglesi, e le ricordava anche la
primavera, la sua stagione preferita, con il primo calore e il sole che
finalmente cominciava a risplendere tra le nuvole grigie, che lo
avevano tenuto nascosto per troppo tempo.
«Non la ascoltare, è ubriaca»
replicò velocemente lei, abbassando gli occhi, imbarazzata.
Il ragazzo biondo prese posto davanti a lei, sedendosi su uno sgabello.
Grace riusciva a sentire sulla sua pelle gli occhi di lui che la
fissavano; le sue gote arrossirono molto velocemente, colorandosi di un
rosso scarlatto.
«Io non credo proprio – ribatté lui,
sorridendole – comunque piacere, io sono Will.»
- - -
Saaalve a tutti :) ho
finito il primo capitolo prima di quanto credessi ( e vi giuro,
già che ci sia un primo capitolo è un grande
passo avanti ) e così ho pensato di postarlo.
In questo capitolo iniziamo a fare la conoscenza dei personaggi
principali, e come promesso ho buttato in mezzo anche Finny
causa della depressione del buon vecchio Jack. Sapete che i gemelli
hanno tipo una connessione mentale o roba del genere?
L'ho letto mentre mi documentavo per il capitolo, ma non so quanto sia
vero hahaha.
In ogni caso la storia è appena iniziata, devono ancora
apparire taaanti personaggi e devono succedere taaante cose.
Boh, spero vi piaccia! Se vi va di lasciare una recensioncina fate pure
:) o commentare anche con consigli e critiche costruttive,
sono ben accette!
Un bacione,
Frà.
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Capitolo 3 *** Novità ***
Capitolo 2
Novità
So I hold two
fingers up to yesterday
Light a cigarette and smoke it all away
Era una giornata
uggiosa.
Il vento soffiava con prepotenza, sollevando i cumuli di
foglie secche depositati sul marciapiede in piccoli vortici. Il cielo
era livido; un vasto strato di nuvole impediva al sole di fare
capolino, e di irradiare la piccola cittadina di Bristol, quel giorno
più grigia e cupa del solito.
Eve era seduta ad uno dei tanti tavolini di Costa Coffee, con un
caffè americano ancora fumante in una mano e un libro
nell’altra. Sorseggiando la bevanda, di tanto in tanto alzava
lo sguardo dalla sua copia di Anna Karenina,
distraendosi ad osservare
la fiumana di gente che usciva ed entrava nel locale. Da quando si era
accomodata la fila alla cassa si era quintuplicata, e così
l’attesa della gente che, battendo ritmicamente il piede a
terra, lanciava occhiate nervose all’ora riportata
nell’orologio affisso al muro; allo stesso modo il bancone
era stato preso d’assalto dalla moltitudine di persone che
reclamavano il loro caffè mattutino.
Stretta nel suo trench
firmato Burberry, Grace fece il suo ingresso. Si guardò
intorno spaesata per qualche secondo, finché non
individuò l’amica che si stava sbracciando per
farle cenno con la mano; si avvicinò a lei con passo deciso,
buttò la borsa su una delle due sedie vuote e si sedette.
«Dammi il cellulare.» ordinò la rossa,
tendendo il palmo della mano sotto il naso dell’altra.
«Buongiorno anche a te» ribatté Grace,
iniziando a frugare in giro, dato che non si ricordava minimamente dove
avesse gettato il suo iphone qualche secondo prima. Quando lo
trovò, in una delle tasche della giacca, aprì
subito l’icona dei messaggi – sapendo bene a cosa
mirava l’amica – e glielo porse; Eve lo
afferrò con avidità, e scrutò testo
del messaggio in questione scorrendo su e giù con gli occhi
più e più volte.
Quando poggiò il cellulare sul tavolo un ghigno malizioso le
comparse sul viso. «In sostanza, il biondino
vuole uscire con
te.» ammiccò, facendole l’occhiolino.
«Ma non mi dire?! – esclamò Grace, con
un tono di chiara ovvietà nella voce. – Non so che
fare Eve»
L’idea che qualcuno l’avesse invitata ad un vero
appuntamento l’aveva scioccata. O meglio, ciò che
l’aveva turbata maggiormente, era il fatto che Will
– così si chiamava il biondino
– le
avesse chiesto di uscire nonostante le condizioni pietose in cui si
trovava Grace nel momento in cui si erano conosciuti. Tra
l’altro, non le era sembrato di essere il suo tipo;
l’avrebbe visto bene con una stangona bionda o mora che
fosse, con una di quelle ragazze che da qualche anno a quella parte si
sarebbe ritrovata sulla copertina di una delle riviste di moda
più affermate; e se non sulla copertina, certamente in
qualche inserto a piè di pagina. Per questo motivo quando
lui, a fine serata, le aveva chiesto il numero era rimasta alquanto
stupita – per non dire sbigottita, con la mascella che aveva
raggiunto il pavimento – e lo aveva digitato sul suo telefono
senza alcuna aspettativa.
E invece.
«Vacci, so che lo vuoi. Ti conosco meglio di chiunque altro e
lo sai bene – Eve sorrise, dicendo questo – per
questo voglio che tu vada all’appuntamento senza paure e
senza rimorsi.»
« Ma io…» mugugnò
l’altra, appoggiandosi allo schienale della sedia con
sconforto.
«Niente se e niente ma. – asserì
perentoria – Ormai la storia con Lo Stronzo
è
finita da un pezzo, devi andare avanti! »
Grace trasalì, mentre un brivido le percorreva la spina
dorsale. Nonostante fosse passato quasi un anno da quando aveva messo
fine alla loro relazione, sentire quel nome
faceva ancora male; la
pelle bruciava dove lui l’aveva toccata, e ogni volta una
fitta lancinante le trapassava il cuore. Matthew Richardson, –
per gli amici Matt, per lei ed Eve Lo Stronzo -
era stato il ragazzo di
Grace per quasi un anno e mezzo; i due si erano conosciuti per caso
alla lezione di francese, nel liceo di Londra che entrambi
frequentavano al tempo, e da subito lei aveva avvertito la chimica che
intercorreva tra loro.
Relazione idilliaca vista dall’esterno, – e in quel
periodo anche agli occhi di Grace – rappresentavano per molti
loro amici e compagni la coppia perfetta, fatta di dolcezze e carinerie
tipiche dei più diabetici film d’amore del
ventesimo secolo. O perlomeno, lo erano per quelli che non sapevano; il
signorino, infatti, si era divertito per tutta la lunga durata della
loro storia a tradirla ripetutamente, non con una, non con due, ma con
ben tre ragazze diverse.
Tre, il numero perfetto.
Ovviamente quando Grace lo aveva scoperto era andata su tutte le furie,
dando in escandescenze e picchiandolo – già, con
dei colpi ben assestati peraltro – ed era riuscita a tenere
il punto della situazione in ogni momento, nonostante lui avesse
tentato di farsi perdonare diverse volte nei modi più
disparati, arrivando anche a tatuarsi l’iniziale di lei sul
braccio.
In ogni caso, Grace se n’era infischiata. Quando
avevano deciso di mettersi insieme lei aveva riposto in Matt tutta la
sua fiducia, facendo completamente affidamento su di lui e sulle sue
parole. Per diciotto lunghissimi mesi, lei non si era mai comportata da
fidanzata pazza e gelosa, – ringraziando la sua sconfinata
pazienza – e lo aveva lasciato libero di vedersi con i suoi
amici e frequentare chi, quando e come voleva; scoparsi le prime
troiette disponibili, evidentemente, era il suo modo di ripagarla. Per
colpa di Matt lei si era giurata e spergiurata di non fare mai
più assegnamento su una qualsiasi figura maschile,
– a parte quella di suo padre – e, per sua scelta,
non aveva avuto altre relazioni.
«Non lo so Eve, probabilmente mi ha chiesto il numero
perché gli facevo pena.»
La rossa iniziò a massaggiarsi le tempie, imprecando tra
sé e sé per l’ottusità
dell’amica, distogliendo lo sguardo da Grace; Eve stava
macchinando qualcosa. La bionda si accorse che l’amica aveva
adocchiato uno degli impiegati del posto, alto e con un fisico
statuario, che stava sparecchiando i tavoli vicini.
«Tu. -
enunciò, e con un colpo fulmineo afferrò il
grembiule del povero malcapitato e lo avvicinò al loro
tavolo, strattonandolo. Il tipo, con un’espressione tra il
divertito e il sorpreso, si lasciò trascinare da Eve.
– Se una sera ti avvicinassi ad una ragazza, ci provassi
spudoratamente, le chiedessi il numero e solo dopo la invitassi ad
uscire con te, che intenzioni avresti?»
« Di sicuro uscire con lei, sennò non mi sarei
sbattuto tanto.» rispose, facendo spallucce.
Eve alzò un sopracciglio, curiosa; lo squadrò da
capo a piedi, analizzandolo per bene. Di certo lui era
l’incarnazione di ciò che lei definiva attraente:
capelli tra il biondo scuro e il castano chiaro arruffati e
scompigliati, occhi verdi celati dietro un paio di rayban dalla
montatura pesante, e un immancabile sorriso da urlo che scopriva i suoi
denti bianchissimi e allineati alla perfezione«
Grazie
Marius» lo ringrazio lei con finto atteggiamento di
sufficienza, buttando l’occhio sul nome segnato sul
cartellino del grembiule scarlatto, che fasciava il suo i suoi
pettorali.
« Marcus.» ribatté lui prontamente.
«Sì vabbè quello che
è.»
« Io vado. Se vi serve qualcosa mi trovate al bancone
» disse, concludendo il battibecco e ammiccando verso Eve,
che lo fissava accigliata.
Grace ridacchiò. Aveva sempre ammirato il carattere
estroverso e disinvolto dell’amica, profondamente diverso dal
suo; di tanto in tanto desiderava essere come lei, per riuscire a
buttarsi a capofitto nelle situazioni e fregarsene
dell’opinione altrui. In preda ai suoi pensieri, la bionda
non si accorse del fatto che il suo iphone era stato sbloccato da Eve,
che in quell’istante stava digitando qualcosa sullo schermo.
Con un sorrisetto, poi, le restituì il telefono. «
Sabato sera alle otto e mezza, ti passa a prendere lui.»
Will era comodamente seduto al volante della sua mercedes nera. A causa
dell’alto volume della radio e del fatto che stesse
canticchiando tra sé e sé con fin troppa enfasi,
non si accorse della figura femminile che si stava avvicinando alla
macchina, peraltro in maniera piuttosto rumorosa.
Liv, perfettamente cosciente del suo essere in ritardo, si
lanciò fuori dalla porta di casa, sbattendola; i tacchi dei
suoi stivaletti, producevano un ticchettio irritante scontrandosi con
l’asfalto consumato della strada, che cessò
soltanto quando questa spalancò con irruenza la portiera
dell’autovettura e si tuffò sul morbido sedile
destro in pelle beige.
Will sobbalzò, non essendosi reso conto di nulla.
«Liv, cazzo! – esclamò allargando le
braccia, ancora con il cuore in gola – Un giorno di questi mi
farai venire un infarto»
«Ma se sei una mezza sega non è colpa
mia» si giustificò lei ridacchiando, mentre si
dimenava sul sedile tentando di trovare la posizione più
comoda possibile.
Will scosse la testa rassegnato, lanciandole un’occhiata
omicida. Si ritrovò a fissarla, chiedendosi se mai avrebbe
trovato pace; un momento era seduta composta, quello seguente addossata
al finestrino, e quello ancora dopo semisdraiata, con la schiena che a
malapena toccava lo schienale e le lunghe gambe sottili poggiate sul
parabrezza. I capelli lunghi e biondi, scarmigliati dal grande
movimento, le coprivano il viso ossuto su cui spiccavano due
sopracciglia folte e nette; da bambini la avevano sempre presa in giro
per queste, – come d’altronde avevano sempre fatto
con Will – ma lei con grande carattere se n’era
sempre fregata, considerandole il suo tratto distintivo.
Liv era la sua migliore amica da tempo immemore, anche da prima di
conoscere Jack; avevano frequentato l’asilo e le elementari
insieme, dove erano stati additati – o meglio, marchiati a
vita –come “ quelli dalle sopracciglia
buffe” e, solo in seguito, si erano aggiunti i gemelli alla
loro combriccola.
«Insomma non mi devi dire niente?»
domandò lei in maniera vaga, ma con l’aria di chi
la sapeva lunga.
Will schiacciò il pedale della frizione, tolse il freno a
mano e inserì la prima. « Mi sembra di no
» « Ah no? »
« Non credo »
« E il nome Grace non ti dice nulla? –
continuò lei, alzando un sopracciglio – Sai, una
tipa bionda, bassina, dal viso dolce »
Will si voltò di scatto verso di lei, con
un’espressione tra l’interrogativo e lo sbigottito
stampata in volto. Era risaputo che Liv amasse spettegolare con le sue
amiche e compagne di corso – streghe maligne in piena regola
– , e che conoscesse ogni più infimo segreto di
qualsiasi abitante di Bristol, ma addirittura essere al corrente del
fatto che avesse invitato Grace quella mattina ad uscire con lui
– e non ne aveva fatto parola con nessuno – lo
sbalordiva. Profondamente.
« Gossip Girl è tornata in città?
»
Liv scoppiò a ridere, mentre l’autovettura
s’inseriva nel traffico abituale del ponte pensile di
Clifton.
Jack si accese una sigaretta, aspirando la nicotina a pieni polmoni, e
si guardò intorno con fare annoiato. Sulla via della
palestra a cui si era iscritto recentemente, – desolata come
sempre a quell’ora – erano allineate un gran numero
di case indipendenti dallo stile architettonico georgiano, con tetto a
spioventi, mattoni rossi che circondavano l’intero perimetro
degli edifici e il consueto portico in legno bianco che attorniava il
portone d’ingresso.
Mentre si chiedeva che fine avesse fatto
Will, in ritardo di ben dieci minuti, Jack sentì un rumore
di ruote che sgommavano sull’asfalto. Dall’angolo
della strada comparve sfrecciare la mercedes nera del biondo, che
inchiodò parallela al punto in cui si trovava Jack.
Lentamente il finestrino destro si abbassò, svelando la
presenza di una persona a lui poco gradita. Gli occhi cerulei della
ragazza lo scrutarono sprezzante, provando il fatto che
l’ostilità era ricambiata. Jack alzò
gli occhi al cielo, allontanandosi dall’automobile.
« Cosa ci fa questa qua nella tua
auto!? »
sbottò scocciato, allargando le braccia in segno di
dissenso.
« Si da il caso che questa qua
– ribatté
Liv, con sano astio nella voce – sia la sua migliore amica
»
Sinceramente, Jack non si ricordava nemmeno perché i due si
odiassero tanto; era una faida che andava avanti da troppo tempo ormai,
forse da quando i due gemelli erano entrati a fare parte del gruppo.
Dal primo momento in cui l’aveva vista il moro
l’aveva presa subito in antipatia per il suo fare
melodrammatico da prima donna, e l’avversione era aumentata
sempre di più, mano a mano che lui aveva imparato a
conoscere i diversi lati del suo caratteraccio. Anche Liv, dal canto
suo, non l’aveva amato da subito; subito era rimasta
sconcertata da quanto Jackson potesse essere un tale pallone gonfiato
pieno di sé, e l’opinione negativa che aveva di
lui si fortificò quando Jack iniziò a stringere
amicizia con Will, - che lei aveva sempre identificato come qualcosa di
suo – passando tempo con lui a scuola e sul set.
Probabilmente Liv e Jack si detestavano tanto perché erano i
migliori amici della stessa persona; gelosi l’uno
dell’altra, si vedevano come nemici da eliminare, da
schiacciare come inutili scarafaggi.
« E si da il caso che questo qua
– la
scimmiottò lui – sia il suo migliore amico a cui
aveva promesso di andare a pranzo insieme. Da soli.»
specificò, facendole intendere che la sua presenza non gli
fosse affatto gradita.
Will considerò che quello era il momento propizio per
intervenire, prima che i due – che si stavano guardando in
cagnesco – si sbranassero come due lupi alpha, pronti a
marcare il territorio.
« Calmate i bollenti spiriti – disse ironicamente,
cercando di sembrare il più simpatico possibile - stiamo
andando a pranzo. Solo che con Liv, all’ikea,
perché deve rimodernare la sua stanza»
« Che cosa?! » esplose Jack, quasi urlando.
« Già, Will ha deciso di fare il favore di
accompagnarmi fin lì. »
« TU SEI MATTO! – continuò ad abbaiare
quello, mentre Will si faceva piccolo piccolo, scivolando sul sedile
– Abbiamo una partita di calcio alle quattro! »
« Faremo in tempo. Dai, salta su.»
« Manco morto.» sibilò Jack, sputando
veleno.
« Dai Jack, non farti pregare! »
« Sì, dai Jack, non farti pregare! »
ribadì Liv sarcasticamente, con un ghigno beffardo stampato
in volto.
« Forse non ti è chiaro –
cominciò il moro, appoggiandosi con il gomito al finestrino
e sporgendosi verso i due ragazzi all’interno della macchina,
come per farsi comprendere meglio – che io in macchina con
questa qui non ci salirò mai nella vita.»
Will lo guardò rassegnato, alzando le spalle. Aveva capito
che l’amico era irremovibile dalla sua decisione, e che
difficilmente si sarebbe dissociato dalla sua presa di posizione; ci
aveva provato a farli andare d’accordo, si era azzardato
addirittura ad immaginarli insieme come coppia, ma tristemente aveva
realizzato che tutto ciò non sarebbe mai stato possibile.
Erano identici, in tutto e per tutto; e forse era proprio questo che
creava loro problemi: erano due personalità forti, incapaci
di condividere i propri spazi e le proprie amicizie con persone uguali
a loro.
« L’hai voluto tu. » disse il biondo,
prima di partire a tutta velocità e rischiando di ammazzare
Jack ancora appoggiato alla vettura.
« WILLIAM POULTER!
» urlò quest’ultimo affranto, mentre la
mercedes si allontanava, dileguandosi definitivamente dietro un banco
di nebbia.
- - -
Eccomi qui!
Scusate il
ritardo, ma purtroppo ho dovuto studiare come una matta in questi
giorni – causa maledetti esami – e quindi mi sono
potuta ritagliare un tempo limitato per scrivere.
E’ uscito questo capitolo in due giorni, valutatelo un
po’ voi hahaha
In ogni caso, si sono aggiunti nuovi personaggi Marcus per primo, che
è proprio il caro e amato youtuber Marcus Butler! Che cosa
c’entra nella storia? Eh eh, lo vedrete.
Poi c’è Liv, che io fisicamente immagino come Cara
Delevingne; è la suprema rivale di Jack, un po’
stronzetta ma alla fin fine simpatica, che adora Will alla follia.
Cercherò di pubblicare il prossimo capitolo il prima
possibile, e vedremo finalmente come si svolgerà il fatidico
appuntamento.
Un bacione,
Frà.
P.S: Volevo ringraziare Irene, la mia Eve, che sopporta giornalmente i
miei scleri su questa maledetta fanfiction, dandomi ispirazione e
voglia di scrivere <3
|
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Capitolo 4 *** Appuntamento ***
Capitolo 3
Appuntamento
Helps somebody
else get through
That's why I do the best I can
Nella penombra di una
delle stanze del terzo piano del dormitorio, c’era Jack,
avvolto nel soffice piumone del suo letto, – su cui era
sdraiato dall’intero pomeriggio – che si stava
dedicando ad una sessione di zapping estremo, fissando con sguardo
assente lo schermo luminoso del televisore.
All'improvviso, qualcuno spalancò la porta della camera con
irruenza; Jack sobbalzò spaventato e di scatto
girò la testa verso l’uscio, dove si trovava il
colpevole del suo infarto e della caduta di Gingernut, il suo
orsacchiotto di pezza. In ogni caso l’identità del
molestatore gli era stata chiara da subito, non appena un effluvio
aromatico lo aveva colpito dritto alle narici.
One Million di Paco Rabanne, il profumo da conquista – come
lo definiva Jack – di William Poulter, capace di mandare in
delirio gli ormoni di ogni individuo di sesso femminile.
Jack
squadrò l’amico da capo a piedi; il viso era
glabro, privo di un qualsiasi accenno di barba, e i capelli che lo
incorniciavano erano puliti e pettinati alla perfezione. Indossava una
giacca grigia dal taglio maschile sopra una camicia bianca, un paio di
jeans scuri che andavano a fasciare le gambe lunghe e muscolose, mentre
ai piedi – per rendere quel look un po’ meno
elegante – portava un paio di sneakers colorate.
«Allora? – domandò, facendo un giro su
sé stesso – Come sto?»
Jack inarcò un sopracciglio, sciogliendosi poi in
un’espressione divertita. Vedere il suo amico così
febbricitante per un appuntamento lo rallegrava; Will era un cazzone,
ma aveva anche un lato tenero e dolce – di cui Jack mancava
totalmente e inesorabilmente – che lo spingeva ad
affezionarsi subito alle persone, e soprattutto alle femmine. Infatti,
quando iniziava a frequentare una ragazza, Will perdeva il senno della
ragione, dichiarandosi innamorato dopo pochi giorni. Quando poi lo
lasciavano, – e questo accadeva spesso – si
crogiolava nell’autocommiserazione più profonda,
barricandosi nella sua stanza per ore e giorni interi, fissando il
soffitto e chiedendosi il perché di tutto ciò.
Ovviamente, Jack nel relazionarsi con il gentil sesso aveva un
comportamento totalmente differente da quello dell’amico.
Già il fatto che tenesse ancora con sé il suo
orsacchiotto di pezza, – il che poteva depistare, facendolo
sembrare docile e mansueto – era simbolo del suo essere
profondamente immaturo. E così era con le donne; non le
sapeva trattare, nonostante avesse avuto più di una
relazione e attualmente fosse “incatenato” in un
rapporto – molto ambiguo, basato su vari tira e molla
– con Ella. Per questo motivo molte volte sembrava che le
usasse e basta, da vero stronzo, ma in realtà il suo
comportamento era dovuto alla sua profonda ignoranza in materia.
«Mi ti farei.» enunciò ammiccando verso
Will, che ancora stava aspettando un giudizio a braccia conserte.
«Amore, lo sai che sei l’unico per me»
disse l’altro, facendogli l’occhiolino e passandosi
la lingua sulle labbra con fare sexy.
«Comunque – cominciò l’altro,
mettendosi a sedere composto – questa Grace sembra un tipetto
apposto, non strafare come al tuo solito»
«Ma io non strafaccio!»
«Sbaglio o al tuo
ultimo appuntamento a quella povera ragazza hai ficcato la lingua in
bocca all’inizio del primo tempo?»
Will arrossì di botto, mentre le sue narici si dilatavano e
le sopracciglia diventavano sempre più arcuate, come faceva
sempre quando era in una situazione di profondo imbarazzo.
«Non è vero! – protestò
– L’ho baciata durante
l’intervallo!»
«Ah beh, allora.» disse Jack, alzando le mani in
segno di resa.
«Grazie per il consiglio Don Giovanni. – disse,
calcando ironicamente sull’ultima parola – Ogni
tanto mi domando perché ti ascolto ancora sulle questioni
amorose. Ma adesso devo proprio scappare!»
«Vai leoncino, conquista la tua preda.»
Una volta
che Will uscì dalla stanza, quasi saltellando
dall’euforia, Jack tornò alla sua posizione da
bradipo, adagiato sul morbido materasso del letto, mentre nella sua
mente continuavano a vorticare in testa le ultime parole
dell’amico. Fondamentalmente, il sunto era che lui, con le
donne, non ci sapeva proprio fare.
Preso dallo sconforto e dalla malinconia, afferrò il
cellulare che aveva abbandonato sulla scrivania ed ignorato per ore.
Selezionò quel nome dalla rubrica e lasciò che la
chiamata partisse.
Presto una voce squillante gli rispose; dal tono della voce si
percepiva chiaramente che la ragazza fosse felice di sentirlo.
«Ehi Ella... – iniziò lui, con leggero
imbarazzo – mi sei mancata.»
Al numero uno di Chandos Road si trovava Wilks, uno dei ristoranti
più rinominati di Bristol.
Grazie alla visuale data
dall’ampia vetrata che si estendeva lungo il perimetro della
facciata – scandita solo da colonnine e dal portone
d’ingresso in ferro battuto – , già
dall’esterno si riusciva a cogliere l’atmosfera
rilassata del posto.
L’interno era caratterizzato da uno
stile sobrio ma allo stesso tempo originale; quadri in perfetto stile
dadaista ricoprivano le pareti, mentre un gran numero di tavoli
arredavano la sala, circondati da normali sedie o da soffici divanetti
in pelle marrone.
Grace si sentiva a suo agio seduta al tavolo con
Will. Nonostante una leggera atmosfera d’imbarazzo avesse
cominciato ad aleggiare tra di loro nel momento in cui Grace era salita
nella macchina del biondo, i due si erano presto ritrovati a conversare
con naturalezza, come se le parole si riversassero automaticamente
dalle loro bocche, in un flusso continuo, facendo così
svanire l’impaccio iniziale.
Durante il tragitto verso Wilks,
Grace si era scoperta spesso a studiare i movimenti del biondo,
soprattutto quando questo controllava la strada con attenzione, stretto
al volante; oltre al tono di voce, basso e sensuale, che lei trovava
estremamente piacevole all’udito, era rimasta ammaliata dal
lampo di luce che illuminava i suoi occhi verdi ogni volta che
sorrideva.
A sua volta, anche Will, da quando avevano incominciato a
chiacchierare, l’uno di fronte all’altra, si era
perso più volte a guardarla, incantato dalla sua bellezza.
Quella sera, i capelli biondi le cadevano dolcemente lungo le spalle,
incorniciando gli occhioni verdi messi in risalto dal trucco leggero;
ogni volta che i suoi, di occhi, incrociavano quelli di lei,
sussultava; lo affascinava la spontaneità del suo sguardo,
che curioso si soffermava ad osservare ciò che la
circondava.
«Allora Grace – cominciò,
poggiando i gomiti sul tavolo e congiungendo le mani con fare curioso
– raccontami qualcosa di te.»
«Tipo?
» chiese lei, abbassando lo sguardo; le domande
così vaghe la mettevano in soggezione.
«Tipo come fai di cognome, quali sono i tuoi hobby, se hai
fratelli o sorelle eccetera eccetera»
«Il mio
cognome è Earnshaw, e »
«Earnshaw?
– la interruppe lui, sgranando gli occhi – Come la
Earnshaw&Co di Londra?»
Grace sospirò
sconsolata. Odiava il suo cognome con tutta sé stessa, dal
momento che questo aveva influenzato ogni aspetto della sua vita, dal
momento della sua nascita.
Suo nonno era stato il fondatore della
Earnshaw&Co di Londra, la società di architetti e
designer d’interni più importante della
città, e dopo la sua morte era stato il padre a incaricarsi
della gestione dell’impresa; ovviamente,
l’eredità di famiglia e gli svariati successi del
padre avevano fatto sì che Grace e la sua famiglia vivessero
nella bambagia e con privilegi che altri ragazzi della sua
età potevano solo sognare. Ma tutto ciò
– per quanto fosse grata alla sua buona stella - non era
ciò che voleva. Desiderava essere indipendente, viaggiare,
scoprire il mondo; non essere favorita dal suo cognome. Molte persone
poi, nel corso della sua vita, l’avevano delusa,
avvicinandosi a lei non perché rimaste affascinate dalla sua
persona, ma perché miravano alla ricchezza ed alla fama del
padre.
«Già» rispose secca, facendo
spallucce.
«Perché non me l’hai detto prima?
»
«Perché non la ritengo una cosa
importante. Molte persone si sono approfittate di me solo per il mio
cognome, non è proprio una cosa carina»
«Certo, capisco benissimo » affermò
Will, sorseggiando dal suo bicchiere il Falanghina che la cameriera si
era curata di portare al tavolo.
La capiva sul serio.
Fondamentalmente, era lo stesso. Però, al contrario di
Grace, lui la fama se l’era cercata; fare l’attore
comportava soddisfazioni impareggiabili, anche se bisognava imparare a
mettere in conto la fama, l’attenzione rivolta su di
sé e la propria vita privata sbattuta su uno squallido
giornale da quattro soldi. Il problema più grande
però, era capire di chi fidarsi o meno.
«Non credo…» sospirò lei,
sorridendo.
Will inarcò le sopracciglia, chiedendosi tra
sé e sé se Grace ci fosse o ci facesse. Non aveva
ancora compreso se la ragazza facesse finta di non aver realizzato la
professione di lui o se facesse sul serio.
«Fidati, ti
capisco benissimo. »
«Beh ora tocca a te!
– esclamò lei, sviando il discorso –
Raccontami qualcosa. »
« Poulter, William Poulter
– enunciò lui, ammiccando e tendendole una mano
come se si stessero conoscendo per la prima volta – ho due
sorelle, un fratello e sono nato e cresciuto ad Hammersmith,
Londra.»
Mentre Grace cercava di far collegare le sinapsi del
suo cervello, in maniera tale da riportarle alla mente dove avesse
già sentito il cognome Poulter, –
perché era sicura di averlo già sentito
– una ragazza si avvicinò a loro. Inizialmente
Grace pensò che la cameriera fosse venuta ad accertarsi che
tutto andasse per il verso giusto, ma in seguito la biondina si accorse
che la tipa in questione era vestita da tutto fuorché da
cameriera. Aveva le gambe lunghe ed affusolate strette in un paio di
leggins di pelle, e il “petto” prosperoso era messo
bene in evidenza da una magliettina succinta.
«Tu sei Will
Poulter, vero? » squittì lei, con una voce
fastidiosa paragonabile ad un trapano in azione alle otto di domenica
mattina.
«Sì. » rispose Will
gentilmente, con un sorriso che – agli occhi di Grace
– sembrava grato per qualcosa.
Detto ciò, la
ragazza si protese verso di lui, poggiando i gomiti sul tavolo e
inarcando la schiena, in maniera tale da evidenziare la sua
prosperità sotto gli occhi dell’attore, che si
grattò la nuca imbarazzato cercando di guardare ovunque
tranne che davanti a sé.
«Posso farmi una foto con te? Ti trovo un attore fantastico!
»
Ti trovo un attore fantastico.
Ti trovo un attore fantastico.
Grace aggrottò la fronte, incredula. Vaneggiò per
qualche secondo su quella frase, arrovellandosi sui possibili
significati della parola attore – che non ne aveva poi
così tanti – , e all’improvviso
realizzò.
Si batté una mano sulla fronte,
mormorando un “deficiente” tra sé e
sé; come avesse fatto a non pensarci prima o a non
accorgersi di niente, proprio non lo sapeva. Per lei, quello era un
semplice appuntamento con un semplice ragazzo, e non con un attore di
fama mondiale candidato ai BAFTA di quell’anno.
Aveva fatto la figura della deficiente, ma anche lui aveva omesso
questo piccolo dettaglio.
«Perché non me l’hai detto prima?!
» ruggì Grace, interrompendo il chiacchiericcio
tra Will e l’ammiratrice voluttuosa.
Will si voltò verso di lei, confuso; in un istante
capì, e sul suo viso si aprì un sorriso furbo.
Finalmente Grace aveva afferrato chi fosse lui veramente, e il fatto
che non l’avesse concretizzato prima gli dava la certezza che
lei, in quel momento, fosse seduta di fronte a lui perché
interessata a William come persona, non come attore.
«Perché non la ritengo una cosa importante.
» la scimmiottò lui divertito.
Grace sbuffò, incrociando le braccia in segno di disappunto.
«Stronzo.»
«Scusa! –
strepitò stizzita la fantomatica fan, che ancora non aveva
schiodato. – Stavo finendo di parlare con Will,
posso?»
«Fai pure. »
acconsentì Grace con un’alzata di spalle, anche se
la sua espressione dimostrava il contrario.
La situazione divenne comica quando la tipa tirò fuori dalla
tasca dei leggins attillati – e Grace si chiese se il sangue
circolasse tra i vasi sanguigni delle gambe, per quanto erano stretti
quei cosi – un bigliettino, ci scrisse sopra il numero di
telefono e lo porse a Will, facendogli segno di chiamarla mentre si
allontanava da loro sculettando.
Grace tossicchiò, come per ricordare a Will la sua presenza,
dato che questo non toglieva gli occhi da quel maledetto pezzettino di
carta.
«Lo vuoi?» chiese lui porgendoglielo con un
ghigno beffardo stampato in volto.
«Dì un’altra parola e te lo faccio
ingoiare. »
La chioma rossiccia di Eve ondeggiava
nell’aria, mossa dal vento serale. Nascosta
nell’oscurità, i suoi occhi cristallini scrutavano
attenti le figure dei due ragazzi all’interno del ristorante.
A quanto le sembrava, Grace e Will erano in perfetta sintonia e
l’appuntamento stava procedendo senza difficoltà.
Un ghigno comparve sul suo volto; il fatto che la sua migliore amica
stesse passando del tempo con una persona che la attirava, fisicamente
e caratterialmente, era la dimostrazione che i consigli di Eve erano
serviti a qualcosa, volti a spronarla ad andare oltre le sue paure e le
sue insicurezze.
L’ appostamento della rossa stava procedendo da una ventina
di minuti ormai, e lì immobile, esposta alle intemperie
della notte, stava morendo di freddo.
Nel buio si riusciva a scorgere
un’altra ragazza, acquattata nell’angolo opposto a
quello di Eve; aveva i capelli biondi raccolti in una coda alta ed il
viso immerso in un’enorme sciarpa colorata, per proteggersi
dal gelo oppure – più probabilmente –
per nascondersi dall’individuo che stava spiando.
Il religioso silenzio venne spezzato da una serie di starnuti della
bionda, che sussurrando qualche imprecazione, tirò fuori i
fazzoletti dalla borsa.
Eve, nel frattempo si era girata con stizza verso la fonte di tutto
quel casino, e riconoscendo la ragazza sgranò gli occhi,
incredula.
«Liv!» esclamò, agitando un
braccio per farsi individuare.
Liv trasalì,
poiché assorta nello spionaggio non si era accorta della
presenza della rossa. Spostò dunque lo sguardo dal suo
centro di interesse – che sembrava essere lo stesso di Eve
– e lo portò su questa, che ancora la fissava
sconcertata.
«Eve? - domandò, sorpresa quanto l’altra
– Sei tu? »
«Non ci posso credere.»
Olivia Thompson era stata una delle amiche più care ad Eve
durante l’infanzia passata nella capitale inglese; si erano
conosciute ad un maneggio nei pressi di South Kensington, condividendo
così, ogni pomeriggio, la passione per
l’equitazione. Da lì avevano stretto una forte
amicizia, che aveva cominciato ad affievolirsi solo con
l’arrivo dell’adolescenza e conseguentemente con lo
sviluppo di interessi diversi.
Liv la raggiunse velocemente, abbassando lo sguardo mentre passava
davanti la vetrata del ristorante, – come per evitare di
farsi vedere dalle persone al suo interno – e la cinse in un
forte abbraccio.
«Che ci fai qui? Pensavo vivessi a
Londra!» affermò, allargando le braccia.
«Potrei dire lo stesso – ribatté la
rossa, guardandola sottecchi – comunque studio giurisprudenza
all’università. Tu?»
«Idem. Ho deciso di venire qui a Bristol con il mio migliore
amico Will, non so se lo hai mai conosciuto. – Eve
impallidì, collegando per un attimo la figura del migliore
amico di Liv con quella di Will, lo spasimante della sua Grace. Poi
scosse la testa, pensando tra sé e sé che
l’Inghilterra era piena di ragazzi soprannominati in quel
modo, e dunque doveva essere soltanto una simpatica coincidenza.
– Alto, biondo, capelli corti… sopracciglia buffe
tipo le mie. »
Al sentire quell’ultima frase, Eve si rese conto che era
arrivato il punto in cui doveva ammettere a sé stessa che
quella era tutt’altro che una simpatica coincidenza, e che
Liv si era appostata al freddo e al gelo per controllare
l’andamento dell’appuntamento del suo migliore
amico, esattamente come aveva fatto la rossa.
« Ah certo, il ragazzo seduto a quel tavolo con quella
ragazza… – disse identificandolo, sporgendosi un
pochino per indicare il tavolo in cui Grace e Will stavano ridendo e
scherzando – che si da il caso sia la mia migliore amica.
»
Liv boccheggiò, puntando l’indice con
fare incredulo prima su Eve e dopo su Grace, più di una
volta, mentre la rossa annuiva silenziosamente.
«Quindi anche tu… - cominciò la bionda,
bofonchiando – eri qui per…»
«Per…»
«Riportare qualcosa
alla tua migliore amica!» esclamò cercando di
trovare un alibi, ma nemmeno lei era convinta di ciò che
aveva appena affermato.
«Senti Liv, – incominciò
l’altra, cingendole le spalle con un braccio – che
ne dici se entriamo dentro a spiarli invece di stare qui fuori a morire
dal freddo?»
«Andata.»
La serata proseguì tranquillamente, tra una chiacchera e
molti bicchieri di vino; grazie a questi e all’effetto
inibitorio dell’alcool, inoltre, i due erano riusciti ad
aprirsi totalmente, toccando i più svariati – ed
anche privati – argomenti.
Grace era stata bene come non le succedeva da tanto. Condividere una
serata con un individuo di sesso maschile era stato facile, nonostante
le delusioni passate che l’avevano portata a provare una
forte diffidenza verso chiunque.
Quando lui la riaccompagnò
al dormitorio, una volta finita la cena, gli lasciò un
delicato bacio sulla guancia un po’ arrossata;
ripensò varie volte a quel gesto quando si sdraiò
a letto, ma non se ne pentì minimamente.
Will, dal canto suo, avrebbe voluto mordere quelle labbra carnose che
si erano poggiate per un breve istante sulla sua pelle; ma sapeva bene
che ancora non era il momento e che bisognava dare tempo al tempo.
Quella serata non era stata che l’incipit di un qualcosa,
ancora indefinibile, ma che sicuramente si sarebbe protratto nel tempo.
- - -
Perdonatemi amici!
Sono stata e – sono tutt’ora –
occupatissima con la sessione invernale, ho ancora da dare un solo
esame e poi mi potrò dedicare anima e corpo a questa
fanfiction.
Beh? Cosa ve ne pare? Sinceramente pensavo di poter fare di meglio, ma
purtroppo questo è quello che è uscito e non ho
tempo per riscriverlo. hahaha
Sono carini Grace e Will eh? E Liv&Eve versione totally spies?
Okay, sto delirando e dovrei studiare.
Tra l’altro mi sono appena resa conto che sto per pubblicare
questo capitolo, intitolato l’Appuntamento, il giorno di San
Valentino. Ebbene, non è una cosa voluta.
Io odio San Valentino. Con tutta me stessa.
Grazie per il sostegno, a chi ha messo questa fanfiction tra le seguite
e che ogni volta perde del tempo a leggere e recensire i miei deliri.
Grazie ad Irene, Gabri, Angelica, Sofia ed Elvira.
Un bacione, Fra.
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