My boyfriend's bestfriend

di xfrankybadass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Incontri ***
Capitolo 3: *** Novità ***
Capitolo 4: *** Appuntamento ***



Capitolo 1
*** Prologo ***






Prologo

We are a mess
we are failures
and we love it

Grace era disperata.
Con la tempia poggiata sul vetro freddo dell’ampia finestra a bovindo della sua stanza, la ragazza aveva lo sguardo perso su ciò che si trovava al di fuori di essa. I suoi occhi grandi, di un verde acceso, si spostavano velocemente dal traffico che procedeva a passo d’uomo ai passanti distratti che si affrettavano a tornare a casa, consci del fatto che di lì a poco sarebbe scoppiato un acquazzone. Il cielo che gravava sulla piccola Bristol era, infatti, plumbeo; tutto ciò non faceva altro che riversare una sensazione di malinconia e negatività sulla biondina, già di per sé triste.

Ancora non riusciva a realizzare come avesse potuto ficcarsi in quella situazione così ambigua, così sbagliata. Era inciampata nel cliché dei cliché, nel caso di tradimento più banale ma allo stesso tempo più vile e spregevole che potesse esistere, e anche se aveva cercato di negarlo a sé stessa con tutte le sue forze e di fermare la relazione che andava instaurandosi – perchè, nonostante tutto ci aveva provato – Grace non ci era riuscita.

Si staccò dalla finestra con fare svogliato, quasi a non voler smettere di osservare la realtà esterna a lei, che non la riguardava, probabilmente per la paura terribile di affrontare quella che l’aspettava nella sua stanza.

Nonostante non si fosse ancora voltata del tutto sapeva che i due ragazzi la stavano aspettando ancora lì, immobili, e sapeva anche che la stavano fissando con un’espressione corrucciata: non avevano smesso di farlo nemmeno per un istante da quando avevano varcato quella soglia il pomeriggio stesso. Grace prese coraggio e ricambiò lo sguardo di entrambi, puntando i suoi occhi prima dritti in quelli Will, verso il quale si sentiva più in colpa, e solo dopo in quelli di Jack. Fece appello a tutta la sua buona volontà per non perdersi in quel turbinio di occhi verdi dei due ragazzi, che seppure fossero dello stesso colore erano profondamente differenti, come d’altronde era il loro carattere. Ma si sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Gli occhi di Will erano di un verde chiaro quasi tendente al grigio, grandi e – forse fin troppo – espressivi. Tuttavia erano le sopracciglia ciò che dava carattere al volto; lunghe, non troppo folte, avevano una forma talmente arcuata da rendere la sua espressione costantemente sorpresa, dandogli un’aria buffa. William era un bambinone: grande e grosso, aveva uno spiccato senso dell’umorismo e all’occorrenza riusciva ad essere maturo e sensibile. Infatti, ogni volta che Grace aveva avuto bisogno, questo le aveva sempre saputo trasmettere una sensazione di calore e protezione che nessun altro – Jack compreso – era mai riuscito a fare in vita sua.

Jackson era tutto il contrario: svogliato, leggermente immaturo, cheeky, aveva sempre una gran voglia di scherzare e non prendeva mai niente sul serio. Quel suo essere un po’ così, giocherellone, lo si percepiva subito dal modo in cui osservava le persone; sul suo viso si dipingeva spesso un sorrisetto insolente, che per quanto - a volte - potesse essere fastidioso, Grace adorava. Ma lo adorava soprattutto perché Jack era capace di sorridere con gli occhi e, ogni volta che lo faceva, ai lati di questi spuntavano delle graziose rughette. Quando poi era lei stessa a provocarlo, quel sorriso le piaceva ancora di più.
Fu Will a prendere l’iniziativa e terminare quella stupida attesa che gravava su di loro da fin troppo tempo. «Allora?»chiese, passandosi una mano sul viso, sconsolato.
«Stiamo aspettando la tua-e rimarcò bene quest’ultima parola – decisione. Il gioco è nelle tue mani, a te la mossa finale.»

Ormai quel silenzio assordante era stato spezzato, e Grace non poteva più rimandare. Era ora di esporre i suoi sentimenti, di esporre se stessa; di comunicare loro la scelta che aveva preso ormai da tempo.



- - -

Mamma mia che vergogna.
Sono tipo due anni che non posto qualcosa qui su EFP, quindi vi prego di essere clementi.
Questa è la prima volta che mi impegno seriamente per una fanfiction,
e spero che sarò costante nello scrivere - ma soprattutto - negli aggiornamenti. L'idea e l'ispirazione per questa fanfiction mi è venuta guardando il video Jack&Will sul canale di Jack, dal momento che adoro Jack
( e si era capito ) come adoro anche Will Poulter! La mia mente malata, poi, ha iniziato a macinare idee quando ho scoperto che entrambi hanno frequentato l'università di Bristol... e niente, è uscita fuori 'sta schifezza. Comunque, arriviamo alla domanda fatidica: Perchè ho scelto di postare nella sezione degli youtubers? Perchè, questa fanfiction riguarda principalmente Jack, e poi il povero Will, non essendo molto conosciuto, non ha una sezione per lui! In ogni caso introdurrò nella storia anche altri youtubers, a partire da Finn.
Per questa volta è tutto... spero vi piaccia. Fatemi sapere che ne pensate attraverso un commento!
Un bacione,
Fra.

P.S: Dato che di solito mi ispiro ad attori/cantanti/modelle per dare un volto ai miei personaggi, questa volta ho scelto Chloe Grace Moretz come prestavolto della protagonista principale. Ovviamente voi potete immaginarvela come vi pare, solo che io la immagino così :)
P.P.S: Una finestra "a bovindo" è la tipica finestra ad arco all'inglese, scusate se ho dato questo termine per scontato!

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Capitolo 2
*** Incontri ***







Capitolo 1

Incontri

What's the story
morning glory ?

Il suono ovattato di un colpo lontano si fece piano piano sempre più insistente; mano a mano questo rumore s’intensificò, diventando sempre più nitido, più deciso. Il frastuono incalzante di nocche che cozzavano contro il legno della porta divenne improvvisamente chiaro alle orecchie di Grace, che lentamente aprì gli occhi, ancora intorpidita dal sonno.
Un raggio di sole era riuscito a sfuggire allo spesso tendaggio della finestra, diffondendo così una luce fioca che si propagò per tutto il perimetro della camera.
La ragazza, infastidita sia dal rumore irritante sia dalla luce mattutina, si alzò dal letto con fare nervoso, dirigendosi verso l’ingresso della stanza. Non era preparata psicologicamente ad affrontare la persona malata che alle otto di mattina aveva deciso di prendersela con la sua porta, anche se una mezza idea di chi fosse ce l’aveva.
Aprì, facendo così cessare quel trambusto molesto. Una ragazza dai capelli rossi, chiari ma di un colore vivo e brillante, che riconobbe subito come la sua migliore amica, si stagliava davanti a lei ancora con il pugno in aria pronto a dare un altro colpo alla porta inerme; sorrideva, forse ignara di aver svegliato tutto il secondo piano del dormitorio est della Bristol University – o forse, faceva semplicemente finta di non essersene accorta – che la continuò a guardare con odio per tutta la giornata.
Grace la squadrò dall’alto al basso con espressione corrucciata, chiedendosi come facesse Eve ad essere così affascinante anche a quell’ora. Eve Powell – così si chiamava – era di una bellezza irreale; alta e magra, con i capelli lunghi e fluenti che incorniciavano un viso puro e delicato, sul quale i due occhi azzurri sembravano due zaffiri incastonati alla perfezione; il naso era lungo e lineare, mentre la bocca rosea era sottile.
La bionda pensò a quanto la scena, vista dall’esterno, potesse essere esilarante. Una stanga di un metro e ottanta con in mano un sacchetto contenente dei cornetti, stava aspettando l’invito a entrare nella stanza di una nanerottola con i capelli arruffati e la palpebra calante, che la stava guardando in maniera torva. Sembrava Biancaneve con uno dei suoi nani da passeggio.
Grace Earnshaw, era – giusto un tantino – diversa dalla sua migliore amica. Era bassa, caratteristica che contribuiva a farle dimostrare meno anni di quanti ne avesse effettivamente, e qualche chiletto in più della norma. I capelli erano biondi, abbastanza lunghi, ma dritti come spaghetti. Tuttavia, il suo viso era molto bello: aveva dei grandi occhi verdi da gatta, il nasino all’insù e una bocca a cuore molto carnosa.
Ma in ogni caso, Brontolo le faceva un baffo.
« Madonna Grace, la gente è sveglia da giorni e tu dormi ancora! Ma che cazzo hai fatto fin ad ora?! Dai, sbrigati, esci da sta tana! – esclamò Eve, alzando gli occhi al cielo – Ah, ma stasera lavori? » domandò infine, concludendo così quella sparata infinita.
«Sì, Eve.» sibilò Grace con sguardo truce. Se c’era una cosa che questa odiava era quando veniva svegliata di soprassalto, - ma soprattutto – chi la svegliava di soprassalto.
«In ogni caso ho portato i cornetti…» sussurrò la rossa, sbattendo le ciglia folte, sperando così di assumere un’espressione – più o meno – pentita, mentre scuoteva il sacchetto davanti agli occhi di Grace.
«Dai, entra» affermò rassegnata quest’ultima, lasciandosi convincere dall’odore di cornetti appena sfornati che cominciava ad aleggiare nella stanza e dal suo stomaco che iniziava a brontolare.



Quel pomeriggio la biblioteca era gremita. Sparsi qua e là per la sala, quasi tutti gli spaziosi tavoli in mogano erano occupati e la loro superficie ricoperta di libri, tomi antichi e quaderni vari. C’era chi studiava in religioso silenzio, chi ascoltava musica cercando di concentrarsi e chi scriveva senza sosta; c’era anche chi vagava tra i numerosi scaffali alla ricerca di un qualche raro manuale, spezzando così, con il rumore dei suoi passi, il silenzio che regnava incontrastato grazie alla presenza della bibliotecaria, di una certa età e dall’aria austera, che aveva la speciale dote di silenziare qualsiasi cicaleccio nel raggio di un chilometro. Ogni brusio che si sollevava, infatti, veniva azzittito con rapidità da una sua occhiataccia o, - più spesso – da un suo fastidiosissimo “shh”.
Jack, dopo aver preso un espresso alla macchinetta del caffè – senza inceppamenti vari, il che era stato un vero e proprio miracolo – ed essersi fumato una sigaretta, si era seduto al tavolo vicino ad una delle ampie vetrate che si succedevano ritmicamente, per godere ancora per un po’ della luce del sole. Con fare deciso aveva incominciato a sfogliare un tomo di cinquecento pagine, ma purtroppo la noia e la pigrizia ebbero la meglio su di lui, tanto che in pochi secondi si ritrovò con il viso infossato sul libro, che agli occhi del ragazzo aveva preso le sembianze di un comodo cuscino.
Will sghignazzò, seduto davanti all’amico. A differenza di Jack, lui era rimasto sveglio e stava cercando “seriamente” di concentrarsi e memorizzare qualcosa sulla storia del teatro – anche se non definiva quella materia propriamente interessante – in vista dell’avvicinarsi degli esami. Ma in ogni caso la sua diligenza durò poco.
Piano piano, cercando di evitare gli sguardi omicidi della bibliotecaria, accartocciò dei piccoli pezzi di carta e cominciò a lanciarli verso Jack, che non si accorse di nulla. Will continuò ad infastidire l’amico dormiente – che nel frattempo si era allargato occupando più spazio di quanto ne fosse opportuno – per un bel po’.
«Jaaack» sussurrò il biondo cercando di farsi sentire dall’altro, il quale si smosse non appena la decima pallina di carta colpì la sua testa. Jack alzò lentamente il viso dal libro, con fare spaesato e con l’impronta della pagina su cui si era assopito ben stampata in faccia; una volta ricordatosi di dove fosse e cosa stesse facendo, guardò l’amico con espressione interrogativa.
Will sospirò, sollevato del fatto che l’altro non fosse morto nel sonno, e indicò una delle tante palline che gli aveva lanciato, facendo segno con le mani di aprirla.
Accigliato, Jack la spallottolò.

“Io, te, gli altri. Birra. Stasera.”
Riportava scritto il bigliettino, con calligrafia disordinata e poco chiara. Di rimando, Jack ne prese un altro, scribacchiò qualcosa frettolosamente e lo allungò all’amico.

“No.”
«Cosa?!» sbottò Will in tono un po’ troppo alto, allargando le braccia. «Perché?!»
«Zitti voi due» abbaiò la vecchia bibliotecaria, che nel frattempo si era avvicinata a loro captando un’origine di rumori molesti.
Jack alzò gli occhi al cielo, ignorandola «Non ne ho molta voglia, sinceramente – asserì abbassando la voce– sai, Finn è partito questa mattina per Leeds e quindi…»
Finn era il fratello gemello di Jack, più grande di lui di due minuti; se fisicamente erano uguali in tutto e per tutto, dal punto di vista caratteriale erano fin troppo diversi. Se il più grande era introverso, riflessivo e – per certi versi – più maturo, l’altro era tutto il contrario. Differenze a parte, i due erano stati inseparabili dal momento della nascita, e avevano instaurato un rapporto fatto di fiducia e complicità, anche se le litigate non erano mai mancate e non mancavano tutt’ora. Per i gemelli, quindi, venire separati dopo una vita passata insieme non era propriamente una cosa che loro ritenevano semplice.
«Quindi? – chiese di rimando l’altro, seccato dall’atteggiamento disinteressato dell’amico, che nel frattempo si era limitato a fare spallucce e grattarsi la nuca, cosa che faceva sempre quando non riusciva a gestire una situazione. Quel quindi significava, molto semplicemente, che Jack non aveva la minima intenzione di mettere piede fuori dalla stanza del college quella sera. – Va bene Jackson, fammi sapere se torni ad essere una persona normale entro la serata o continuerai a fare il vegetale. » affermò Will, mentre si alzava e raccoglieva il materiale didattico che aveva sparso il lungo ed in largo per il tavolo, e solo in seguito uscì dalla sala borbottando tra sé e sé.
Jack scosse la testa, interdetto. Con un colpo secco buttò tutte le sue cose nello zaino, lo raccolse da terra e si affrettò a rincorrere il biondo fuori dalla biblioteca, quel giorno fin troppo silenziosa per i suoi gusti.
«Will! – strillò, non appena lo individuò tra la massa di gente che affollava il corridoio – Fermati!»
Lo dovette chiamare più volte, prima che questo – nonostante avesse notato la sua presenza e la sua voce non proprio soave – si fermasse e, con un sopracciglio alzato, lo ascoltasse.
«Senti, mi dispiace e tu lo s-»
«Eh beh, come minimo» lo interruppe Will, incrociando le braccia.
« Se mi facessi finire, magari – precisò Jack, mentre l’altro schioccava la lingua – comunque, lo sai che amo uscire e divertirmi più di ogni altra cosa, ma stasera proprio non sono dell’umore. Non penso tu possa capire, ma mi manca Finn, e ti prego di non farmelo ripetere mai più perché questa cosa stomaca anche me»
Non credeva che Will avrebbe mai potuto capirlo, dal momento che, anche se questo aveva un fratello e due sorelle, non aveva un gemello; non aveva una persona identica a lui, che pensava alle stesse cose a cui pensava lui nello stesso momento; non aveva una persona con cui scambiare sguardi complici, che solo un’altra coppia di gemelli avrebbe potuto riconoscere.
«Mh.– mugugnò William, con un’espressione pensierosa stampata in faccia – Sì, penso decisamente che tu sia comunque un coglione»



Grace stava pulendo con uno straccio il lungo bancone di legno del pub di cui era ormai impiegata da quasi un anno, ovvero da quando si era trasferita a Bristol da Londra, per cominciare gli studi universitari.
Il The Dope Wizard, così si chiamava il pub, – lei ed Eve si erano sempre chieste perché e in quali condizioni il proprietario avesse scelto proprio quel nome, forse sotto effetto di qualche sostanza che gli permettesse di vedere realmente maghi, fate e folletti– ed era la birreria più anonima e inutile dell’intera Gran Bretagna.Titolare e gestore del posto era il signor Bloomwood, vecchio obeso di un’ignoranza considerevole: non sapeva cosa fosse la tecnologia, ne tantomeno internet, e figurarsi la pubblicità per il locale che poteva scaturire tramite quest’ultimo; per questo motivo il pub, nonostante fosse attaccato all’università, il più delle volte era desolato, oppure popolato da vecchi amici del ciccione.
La biondina guardò in alto, avendo udito il rumore della porta che sbatteva. Dalle scalette che portavano dall’ingresso alla sala principale comparvero – per l’appunto – due vecchi amici del proprietario, che però non erano poi tanto male come quello.
«’Sera piccola» la salutarono i due in coro, prima di dirigersi nella saletta ideata appositamente per giocare a biliardo, collegata alla sala principale da un’ampia porta ad arco. Non fece in tempo a rispondere al saluto di questi che subito un’altra figura comparse in cima alle scale; tenendosi salda al corrimano dello stesso legno del bancone, Eve scese saltellando fino a sedersi sullo sgabello davanti la postazione dell’amica.
«Spiegami perché ti ostini a lavorare in questa topaia. – esordì la rossa, arricciando il naso – Puzza da morire! »
Grace non poteva negare il fatto che in quel posto aleggiasse un forte odore di stantio misto ad alcool, dovuto parzialmente al fatto che il pub, prima di diventare tale, era un semplice – ma spazioso – scantinato. Ma, almeno lei, ci aveva fatto l’abitudine, e anzi; se n’era addirittura affezionata.
«Finché mi pagano mi ostinerò a lavorare in questa topaia.» ribatté Grace, calcando bene la voce sull’ultima parola, smettendo di sistemare le varie bottiglie di Jack Daniel’s sulla mensola dietro al bancone.
«Dico che almeno potresti organizzare dei concerti, delle serate con musica dal vivo, tanto il ciccione non c’è mai e quel palchetto là in mezzo non viene utilizzato – disse, facendo cenno con la testa al palco che si trovava addossato ad una delle pareti laterali fatta di mattoncini rossi, completamente sgombro. – almeno questo posto non sarebbe così pieno di vecchi! »
Grace fece spallucce, consapevole del fatto che l’amica avesse pienamente ragione «Senti, ma perché tu sei qui a criticare il mio posto di lavoro invece di essere al Funky Pizza?»
«Perché al Funky Pizza – postaccio dove gli impiegati si dichiaravano gli unici capaci di fare della vera pizza italiana in tutta Bristol – c’è Jasmine, che si è gentilmente offerta di fare a cambio di turno. » affermò, con un sorrisetto soddisfatto.
Grace stava per affermare che Eve doveva soltanto ringraziare l’Eterno Signore del fatto che lei non facesse cambi di turno e che il suo capo ciccione non ci fosse mai, in maniera tale da poterle offrire bevande di ogni sorta quando questa si presentava al Dope Wizard, quando accadde il miracolo. Sia Eve che Grace rimasero a bocca aperta, incredule; non potevano credere ai loro occhi che, spalancati, fissavano quel gruppetto di ragazzi – sexy, per giunta – scendere le scale. Era una delle prime volte che Grace vedeva veri e propri maschi della loro età – con capelli corti o lunghi, grassi o magri, con addominali o senza – in quel locale. Si accomodarono poi in uno dei tanti tavoli sparsi per la sala, additando con delle risate il vecchio jukebox posizionato vicino alla porta del bagno.
«Eve – sospirò, dando uno scossone all’amica, che ancora li stava fissando – sono veri?»
«A quanto pare…» rispose, assottigliando gli occhi; questo preoccupò non poco la biondina, dal momento che l’amica faceva quello sguardo solo quando architettava qualcosa. E, il più delle volte, non era qualcosa di buono.
«Tu non vorrai mica…»
Di tutta risposta la rossa ingurgitò i due bicchierini con rum e succo di pera, si alzò con uno scatto e si allungò verso Grace, poggiando i gomiti sul bancone. «Io mi prendo il moretto con la barba, a te mando il biondino» sussurrò a bassa voce, ammicando. Come diavolo aveva fatto a capire che, in quella marmaglia di testosterone e ormoni maschili, l’unico che l’aveva colpita subito all’occhio era il biondino dai capelli corti, proprio non lo sapeva.
Tipico di Eve.
Ma in ogni caso lei stava lavorando, si vergognava e non aveva nessuna voglia di socializzare. Per di più aveva i capelli legati in uno chignon mal fatto e il trucco era leggero, quasi inesistente. Fare la conoscenza di un ragazzo così carino, in quelle condizioni pietose era un qualcosa che avrebbe evitato molto volentieri. «Vieni qua, maledetta» sibilò tra i denti, facendo un mezzo sorriso nervoso. Ma l’amica era già verso la via della perdizione, e difatti, in pochi minuti questa si ritrovò seduta a bere e flirtare con metà del gruppo.
Mentre Grace asciugava dei bicchieri, borbottando e maledicendo Eve tra sé e sé, captò i passi di un qualcuno che stava andando verso di lei. Sperò, con tutto il suo corpo e la sua anima, che fosse uno di quei simpatici vecchietti venuto a chiedere un altro giro di birra. Ma, ovviamente, non fu così.
«Quindi, stando a quanto detto dalla tua amica, io ti piaccio.» affermò una voce, calda e profonda, con un accento britannico non troppo calcato. Grace alzò lo sguardo, incontrando per la prima volta quegli occhi, di un verde così chiaro eppure così particolare, in cui lei si sarebbe persa volentieri per ore. Quel colore le ricordava i prati della brughiera, i perfetti giardini inglesi, e le ricordava anche la primavera, la sua stagione preferita, con il primo calore e il sole che finalmente cominciava a risplendere tra le nuvole grigie, che lo avevano tenuto nascosto per troppo tempo.
«Non la ascoltare, è ubriaca» replicò velocemente lei, abbassando gli occhi, imbarazzata. Il ragazzo biondo prese posto davanti a lei, sedendosi su uno sgabello. Grace riusciva a sentire sulla sua pelle gli occhi di lui che la fissavano; le sue gote arrossirono molto velocemente, colorandosi di un rosso scarlatto.
«Io non credo proprio – ribatté lui, sorridendole – comunque piacere, io sono Will.»


- - -

Saaalve a tutti :) ho finito il primo capitolo prima di quanto credessi ( e vi giuro,
già che ci sia un primo capitolo è un grande passo avanti ) e così ho pensato di postarlo.
In questo capitolo iniziamo a fare la conoscenza dei personaggi principali, e come promesso ho buttato in mezzo anche Finny causa della depressione del buon vecchio Jack. Sapete che i gemelli hanno tipo una connessione mentale o roba del genere?
L'ho letto mentre mi documentavo per il capitolo, ma non so quanto sia vero hahaha.
In ogni caso la storia è appena iniziata, devono ancora apparire taaanti personaggi e devono succedere taaante cose.
Boh, spero vi piaccia! Se vi va di lasciare una recensioncina fate pure :) o commentare anche con consigli e critiche costruttive, sono ben accette!
Un bacione,
Frà.

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Capitolo 3
*** Novità ***







Capitolo 2

Novità

So I hold two fingers up to yesterday
Light a cigarette and smoke it all away

Era una giornata uggiosa.
Il vento soffiava con prepotenza, sollevando i cumuli di foglie secche depositati sul marciapiede in piccoli vortici. Il cielo era livido; un vasto strato di nuvole impediva al sole di fare capolino, e di irradiare la piccola cittadina di Bristol, quel giorno più grigia e cupa del solito.
Eve era seduta ad uno dei tanti tavolini di Costa Coffee, con un caffè americano ancora fumante in una mano e un libro nell’altra. Sorseggiando la bevanda, di tanto in tanto alzava lo sguardo dalla sua copia di Anna Karenina, distraendosi ad osservare la fiumana di gente che usciva ed entrava nel locale. Da quando si era accomodata la fila alla cassa si era quintuplicata, e così l’attesa della gente che, battendo ritmicamente il piede a terra, lanciava occhiate nervose all’ora riportata nell’orologio affisso al muro; allo stesso modo il bancone era stato preso d’assalto dalla moltitudine di persone che reclamavano il loro caffè mattutino.
Stretta nel suo trench firmato Burberry, Grace fece il suo ingresso. Si guardò intorno spaesata per qualche secondo, finché non individuò l’amica che si stava sbracciando per farle cenno con la mano; si avvicinò a lei con passo deciso, buttò la borsa su una delle due sedie vuote e si sedette.
«Dammi il cellulare.» ordinò la rossa, tendendo il palmo della mano sotto il naso dell’altra.
«Buongiorno anche a te» ribatté Grace, iniziando a frugare in giro, dato che non si ricordava minimamente dove avesse gettato il suo iphone qualche secondo prima. Quando lo trovò, in una delle tasche della giacca, aprì subito l’icona dei messaggi – sapendo bene a cosa mirava l’amica – e glielo porse; Eve lo afferrò con avidità, e scrutò testo del messaggio in questione scorrendo su e giù con gli occhi più e più volte.
Quando poggiò il cellulare sul tavolo un ghigno malizioso le comparse sul viso. «In sostanza, il biondino vuole uscire con te.» ammiccò, facendole l’occhiolino.
«Ma non mi dire?! – esclamò Grace, con un tono di chiara ovvietà nella voce. – Non so che fare Eve»
L’idea che qualcuno l’avesse invitata ad un vero appuntamento l’aveva scioccata. O meglio, ciò che l’aveva turbata maggiormente, era il fatto che Will – così si chiamava il biondino – le avesse chiesto di uscire nonostante le condizioni pietose in cui si trovava Grace nel momento in cui si erano conosciuti. Tra l’altro, non le era sembrato di essere il suo tipo; l’avrebbe visto bene con una stangona bionda o mora che fosse, con una di quelle ragazze che da qualche anno a quella parte si sarebbe ritrovata sulla copertina di una delle riviste di moda più affermate; e se non sulla copertina, certamente in qualche inserto a piè di pagina. Per questo motivo quando lui, a fine serata, le aveva chiesto il numero era rimasta alquanto stupita – per non dire sbigottita, con la mascella che aveva raggiunto il pavimento – e lo aveva digitato sul suo telefono senza alcuna aspettativa.
E invece.
«Vacci, so che lo vuoi. Ti conosco meglio di chiunque altro e lo sai bene – Eve sorrise, dicendo questo – per questo voglio che tu vada all’appuntamento senza paure e senza rimorsi.»
« Ma io…» mugugnò l’altra, appoggiandosi allo schienale della sedia con sconforto.
«Niente se e niente ma. – asserì perentoria – Ormai la storia con Lo Stronzo è finita da un pezzo, devi andare avanti! »
Grace trasalì, mentre un brivido le percorreva la spina dorsale. Nonostante fosse passato quasi un anno da quando aveva messo fine alla loro relazione, sentire quel nome faceva ancora male; la pelle bruciava dove lui l’aveva toccata, e ogni volta una fitta lancinante le trapassava il cuore. Matthew Richardson, – per gli amici Matt, per lei ed Eve Lo Stronzo - era stato il ragazzo di Grace per quasi un anno e mezzo; i due si erano conosciuti per caso alla lezione di francese, nel liceo di Londra che entrambi frequentavano al tempo, e da subito lei aveva avvertito la chimica che intercorreva tra loro.
Relazione idilliaca vista dall’esterno, – e in quel periodo anche agli occhi di Grace – rappresentavano per molti loro amici e compagni la coppia perfetta, fatta di dolcezze e carinerie tipiche dei più diabetici film d’amore del ventesimo secolo. O perlomeno, lo erano per quelli che non sapevano; il signorino, infatti, si era divertito per tutta la lunga durata della loro storia a tradirla ripetutamente, non con una, non con due, ma con ben tre ragazze diverse.
Tre, il numero perfetto.
Ovviamente quando Grace lo aveva scoperto era andata su tutte le furie, dando in escandescenze e picchiandolo – già, con dei colpi ben assestati peraltro – ed era riuscita a tenere il punto della situazione in ogni momento, nonostante lui avesse tentato di farsi perdonare diverse volte nei modi più disparati, arrivando anche a tatuarsi l’iniziale di lei sul braccio.
In ogni caso, Grace se n’era infischiata. Quando avevano deciso di mettersi insieme lei aveva riposto in Matt tutta la sua fiducia, facendo completamente affidamento su di lui e sulle sue parole. Per diciotto lunghissimi mesi, lei non si era mai comportata da fidanzata pazza e gelosa, – ringraziando la sua sconfinata pazienza – e lo aveva lasciato libero di vedersi con i suoi amici e frequentare chi, quando e come voleva; scoparsi le prime troiette disponibili, evidentemente, era il suo modo di ripagarla. Per colpa di Matt lei si era giurata e spergiurata di non fare mai più assegnamento su una qualsiasi figura maschile, – a parte quella di suo padre – e, per sua scelta, non aveva avuto altre relazioni.
«Non lo so Eve, probabilmente mi ha chiesto il numero perché gli facevo pena.»
La rossa iniziò a massaggiarsi le tempie, imprecando tra sé e sé per l’ottusità dell’amica, distogliendo lo sguardo da Grace; Eve stava macchinando qualcosa. La bionda si accorse che l’amica aveva adocchiato uno degli impiegati del posto, alto e con un fisico statuario, che stava sparecchiando i tavoli vicini.
«Tu. - enunciò, e con un colpo fulmineo afferrò il grembiule del povero malcapitato e lo avvicinò al loro tavolo, strattonandolo. Il tipo, con un’espressione tra il divertito e il sorpreso, si lasciò trascinare da Eve. – Se una sera ti avvicinassi ad una ragazza, ci provassi spudoratamente, le chiedessi il numero e solo dopo la invitassi ad uscire con te, che intenzioni avresti?»
« Di sicuro uscire con lei, sennò non mi sarei sbattuto tanto.» rispose, facendo spallucce.
Eve alzò un sopracciglio, curiosa; lo squadrò da capo a piedi, analizzandolo per bene. Di certo lui era l’incarnazione di ciò che lei definiva attraente: capelli tra il biondo scuro e il castano chiaro arruffati e scompigliati, occhi verdi celati dietro un paio di rayban dalla montatura pesante, e un immancabile sorriso da urlo che scopriva i suoi denti bianchissimi e allineati alla perfezione«
Grazie Marius» lo ringrazio lei con finto atteggiamento di sufficienza, buttando l’occhio sul nome segnato sul cartellino del grembiule scarlatto, che fasciava il suo i suoi pettorali.
« Marcus.» ribatté lui prontamente.
«Sì vabbè quello che è.»
« Io vado. Se vi serve qualcosa mi trovate al bancone » disse, concludendo il battibecco e ammiccando verso Eve, che lo fissava accigliata.
Grace ridacchiò. Aveva sempre ammirato il carattere estroverso e disinvolto dell’amica, profondamente diverso dal suo; di tanto in tanto desiderava essere come lei, per riuscire a buttarsi a capofitto nelle situazioni e fregarsene dell’opinione altrui. In preda ai suoi pensieri, la bionda non si accorse del fatto che il suo iphone era stato sbloccato da Eve, che in quell’istante stava digitando qualcosa sullo schermo.
Con un sorrisetto, poi, le restituì il telefono. « Sabato sera alle otto e mezza, ti passa a prendere lui.»



Will era comodamente seduto al volante della sua mercedes nera. A causa dell’alto volume della radio e del fatto che stesse canticchiando tra sé e sé con fin troppa enfasi, non si accorse della figura femminile che si stava avvicinando alla macchina, peraltro in maniera piuttosto rumorosa.
Liv, perfettamente cosciente del suo essere in ritardo, si lanciò fuori dalla porta di casa, sbattendola; i tacchi dei suoi stivaletti, producevano un ticchettio irritante scontrandosi con l’asfalto consumato della strada, che cessò soltanto quando questa spalancò con irruenza la portiera dell’autovettura e si tuffò sul morbido sedile destro in pelle beige.
Will sobbalzò, non essendosi reso conto di nulla. «Liv, cazzo! – esclamò allargando le braccia, ancora con il cuore in gola – Un giorno di questi mi farai venire un infarto»
«Ma se sei una mezza sega non è colpa mia» si giustificò lei ridacchiando, mentre si dimenava sul sedile tentando di trovare la posizione più comoda possibile.
Will scosse la testa rassegnato, lanciandole un’occhiata omicida. Si ritrovò a fissarla, chiedendosi se mai avrebbe trovato pace; un momento era seduta composta, quello seguente addossata al finestrino, e quello ancora dopo semisdraiata, con la schiena che a malapena toccava lo schienale e le lunghe gambe sottili poggiate sul parabrezza. I capelli lunghi e biondi, scarmigliati dal grande movimento, le coprivano il viso ossuto su cui spiccavano due sopracciglia folte e nette; da bambini la avevano sempre presa in giro per queste, – come d’altronde avevano sempre fatto con Will – ma lei con grande carattere se n’era sempre fregata, considerandole il suo tratto distintivo.
Liv era la sua migliore amica da tempo immemore, anche da prima di conoscere Jack; avevano frequentato l’asilo e le elementari insieme, dove erano stati additati – o meglio, marchiati a vita –come “ quelli dalle sopracciglia buffe” e, solo in seguito, si erano aggiunti i gemelli alla loro combriccola.
«Insomma non mi devi dire niente?» domandò lei in maniera vaga, ma con l’aria di chi la sapeva lunga.
Will schiacciò il pedale della frizione, tolse il freno a mano e inserì la prima. « Mi sembra di no » « Ah no? »
« Non credo »
« E il nome Grace non ti dice nulla? – continuò lei, alzando un sopracciglio – Sai, una tipa bionda, bassina, dal viso dolce »
Will si voltò di scatto verso di lei, con un’espressione tra l’interrogativo e lo sbigottito stampata in volto. Era risaputo che Liv amasse spettegolare con le sue amiche e compagne di corso – streghe maligne in piena regola – , e che conoscesse ogni più infimo segreto di qualsiasi abitante di Bristol, ma addirittura essere al corrente del fatto che avesse invitato Grace quella mattina ad uscire con lui – e non ne aveva fatto parola con nessuno – lo sbalordiva. Profondamente.
« Gossip Girl è tornata in città? »
Liv scoppiò a ridere, mentre l’autovettura s’inseriva nel traffico abituale del ponte pensile di Clifton.



Jack si accese una sigaretta, aspirando la nicotina a pieni polmoni, e si guardò intorno con fare annoiato. Sulla via della palestra a cui si era iscritto recentemente, – desolata come sempre a quell’ora – erano allineate un gran numero di case indipendenti dallo stile architettonico georgiano, con tetto a spioventi, mattoni rossi che circondavano l’intero perimetro degli edifici e il consueto portico in legno bianco che attorniava il portone d’ingresso.
Mentre si chiedeva che fine avesse fatto Will, in ritardo di ben dieci minuti, Jack sentì un rumore di ruote che sgommavano sull’asfalto. Dall’angolo della strada comparve sfrecciare la mercedes nera del biondo, che inchiodò parallela al punto in cui si trovava Jack.
Lentamente il finestrino destro si abbassò, svelando la presenza di una persona a lui poco gradita. Gli occhi cerulei della ragazza lo scrutarono sprezzante, provando il fatto che l’ostilità era ricambiata. Jack alzò gli occhi al cielo, allontanandosi dall’automobile.
« Cosa ci fa questa qua nella tua auto!? » sbottò scocciato, allargando le braccia in segno di dissenso.
« Si da il caso che questa qua – ribatté Liv, con sano astio nella voce – sia la sua migliore amica »
Sinceramente, Jack non si ricordava nemmeno perché i due si odiassero tanto; era una faida che andava avanti da troppo tempo ormai, forse da quando i due gemelli erano entrati a fare parte del gruppo. Dal primo momento in cui l’aveva vista il moro l’aveva presa subito in antipatia per il suo fare melodrammatico da prima donna, e l’avversione era aumentata sempre di più, mano a mano che lui aveva imparato a conoscere i diversi lati del suo caratteraccio. Anche Liv, dal canto suo, non l’aveva amato da subito; subito era rimasta sconcertata da quanto Jackson potesse essere un tale pallone gonfiato pieno di sé, e l’opinione negativa che aveva di lui si fortificò quando Jack iniziò a stringere amicizia con Will, - che lei aveva sempre identificato come qualcosa di suo – passando tempo con lui a scuola e sul set.
Probabilmente Liv e Jack si detestavano tanto perché erano i migliori amici della stessa persona; gelosi l’uno dell’altra, si vedevano come nemici da eliminare, da schiacciare come inutili scarafaggi.
« E si da il caso che questo qua – la scimmiottò lui – sia il suo migliore amico a cui aveva promesso di andare a pranzo insieme. Da soli.» specificò, facendole intendere che la sua presenza non gli fosse affatto gradita.
Will considerò che quello era il momento propizio per intervenire, prima che i due – che si stavano guardando in cagnesco – si sbranassero come due lupi alpha, pronti a marcare il territorio.
« Calmate i bollenti spiriti – disse ironicamente, cercando di sembrare il più simpatico possibile - stiamo andando a pranzo. Solo che con Liv, all’ikea, perché deve rimodernare la sua stanza»
« Che cosa?! » esplose Jack, quasi urlando.
« Già, Will ha deciso di fare il favore di accompagnarmi fin lì. »
« TU SEI MATTO! – continuò ad abbaiare quello, mentre Will si faceva piccolo piccolo, scivolando sul sedile – Abbiamo una partita di calcio alle quattro! »
« Faremo in tempo. Dai, salta su.»
« Manco morto.» sibilò Jack, sputando veleno.
« Dai Jack, non farti pregare! »
« Sì, dai Jack, non farti pregare! » ribadì Liv sarcasticamente, con un ghigno beffardo stampato in volto.
« Forse non ti è chiaro – cominciò il moro, appoggiandosi con il gomito al finestrino e sporgendosi verso i due ragazzi all’interno della macchina, come per farsi comprendere meglio – che io in macchina con questa qui non ci salirò mai nella vita.»
Will lo guardò rassegnato, alzando le spalle. Aveva capito che l’amico era irremovibile dalla sua decisione, e che difficilmente si sarebbe dissociato dalla sua presa di posizione; ci aveva provato a farli andare d’accordo, si era azzardato addirittura ad immaginarli insieme come coppia, ma tristemente aveva realizzato che tutto ciò non sarebbe mai stato possibile. Erano identici, in tutto e per tutto; e forse era proprio questo che creava loro problemi: erano due personalità forti, incapaci di condividere i propri spazi e le proprie amicizie con persone uguali a loro.
« L’hai voluto tu. » disse il biondo, prima di partire a tutta velocità e rischiando di ammazzare Jack ancora appoggiato alla vettura.
« WILLIAM POULTER! » urlò quest’ultimo affranto, mentre la mercedes si allontanava, dileguandosi definitivamente dietro un banco di nebbia.


- - -


Eccomi qui!
Scusate il ritardo, ma purtroppo ho dovuto studiare come una matta in questi giorni – causa maledetti esami – e quindi mi sono potuta ritagliare un tempo limitato per scrivere. E’ uscito questo capitolo in due giorni, valutatelo un po’ voi hahaha In ogni caso, si sono aggiunti nuovi personaggi  Marcus per primo, che è proprio il caro e amato youtuber Marcus Butler! Che cosa c’entra nella storia? Eh eh, lo vedrete. Poi c’è Liv, che io fisicamente immagino come Cara Delevingne; è la suprema rivale di Jack, un po’ stronzetta ma alla fin fine simpatica, che adora Will alla follia. Cercherò di pubblicare il prossimo capitolo il prima possibile, e vedremo finalmente come si svolgerà il fatidico appuntamento.
Un bacione,
Frà.
P.S: Volevo ringraziare Irene, la mia Eve, che sopporta giornalmente i miei scleri su questa maledetta fanfiction, dandomi ispirazione e voglia di scrivere <3

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Capitolo 4
*** Appuntamento ***







Capitolo 3

Appuntamento

Helps somebody else get through
That's why I do the best I can

Nella penombra di una delle stanze del terzo piano del dormitorio, c’era Jack, avvolto nel soffice piumone del suo letto, – su cui era sdraiato dall’intero pomeriggio – che si stava dedicando ad una sessione di zapping estremo, fissando con sguardo assente lo schermo luminoso del televisore.
All'improvviso, qualcuno spalancò la porta della camera con irruenza; Jack sobbalzò spaventato e di scatto girò la testa verso l’uscio, dove si trovava il colpevole del suo infarto e della caduta di Gingernut, il suo orsacchiotto di pezza. In ogni caso l’identità del molestatore gli era stata chiara da subito, non appena un effluvio aromatico lo aveva colpito dritto alle narici.
One Million di Paco Rabanne, il profumo da conquista – come lo definiva Jack – di William Poulter, capace di mandare in delirio gli ormoni di ogni individuo di sesso femminile.
Jack squadrò l’amico da capo a piedi; il viso era glabro, privo di un qualsiasi accenno di barba, e i capelli che lo incorniciavano erano puliti e pettinati alla perfezione. Indossava una giacca grigia dal taglio maschile sopra una camicia bianca, un paio di jeans scuri che andavano a fasciare le gambe lunghe e muscolose, mentre ai piedi – per rendere quel look un po’ meno elegante – portava un paio di sneakers colorate.
«Allora? – domandò, facendo un giro su sé stesso – Come sto?»
Jack inarcò un sopracciglio, sciogliendosi poi in un’espressione divertita. Vedere il suo amico così febbricitante per un appuntamento lo rallegrava; Will era un cazzone, ma aveva anche un lato tenero e dolce – di cui Jack mancava totalmente e inesorabilmente – che lo spingeva ad affezionarsi subito alle persone, e soprattutto alle femmine. Infatti, quando iniziava a frequentare una ragazza, Will perdeva il senno della ragione, dichiarandosi innamorato dopo pochi giorni. Quando poi lo lasciavano, – e questo accadeva spesso – si crogiolava nell’autocommiserazione più profonda, barricandosi nella sua stanza per ore e giorni interi, fissando il soffitto e chiedendosi il perché di tutto ciò.
Ovviamente, Jack nel relazionarsi con il gentil sesso aveva un comportamento totalmente differente da quello dell’amico. Già il fatto che tenesse ancora con sé il suo orsacchiotto di pezza, – il che poteva depistare, facendolo sembrare docile e mansueto – era simbolo del suo essere profondamente immaturo. E così era con le donne; non le sapeva trattare, nonostante avesse avuto più di una relazione e attualmente fosse “incatenato” in un rapporto – molto ambiguo, basato su vari tira e molla – con Ella. Per questo motivo molte volte sembrava che le usasse e basta, da vero stronzo, ma in realtà il suo comportamento era dovuto alla sua profonda ignoranza in materia.
«Mi ti farei.» enunciò ammiccando verso Will, che ancora stava aspettando un giudizio a braccia conserte.
«Amore, lo sai che sei l’unico per me» disse l’altro, facendogli l’occhiolino e passandosi la lingua sulle labbra con fare sexy.
«Comunque – cominciò l’altro, mettendosi a sedere composto – questa Grace sembra un tipetto apposto, non strafare come al tuo solito»
«Ma io non strafaccio!»
«Sbaglio o al tuo ultimo appuntamento a quella povera ragazza hai ficcato la lingua in bocca all’inizio del primo tempo?»
Will arrossì di botto, mentre le sue narici si dilatavano e le sopracciglia diventavano sempre più arcuate, come faceva sempre quando era in una situazione di profondo imbarazzo. «Non è vero! – protestò – L’ho baciata durante l’intervallo!»
«Ah beh, allora.» disse Jack, alzando le mani in segno di resa.
«Grazie per il consiglio Don Giovanni. – disse, calcando ironicamente sull’ultima parola – Ogni tanto mi domando perché ti ascolto ancora sulle questioni amorose. Ma adesso devo proprio scappare!»
«Vai leoncino, conquista la tua preda.»
Una volta che Will uscì dalla stanza, quasi saltellando dall’euforia, Jack tornò alla sua posizione da bradipo, adagiato sul morbido materasso del letto, mentre nella sua mente continuavano a vorticare in testa le ultime parole dell’amico. Fondamentalmente, il sunto era che lui, con le donne, non ci sapeva proprio fare.
Preso dallo sconforto e dalla malinconia, afferrò il cellulare che aveva abbandonato sulla scrivania ed ignorato per ore. Selezionò quel nome dalla rubrica e lasciò che la chiamata partisse.
Presto una voce squillante gli rispose; dal tono della voce si percepiva chiaramente che la ragazza fosse felice di sentirlo.
«Ehi Ella... – iniziò lui, con leggero imbarazzo – mi sei mancata.»



Al numero uno di Chandos Road si trovava Wilks, uno dei ristoranti più rinominati di Bristol.
Grazie alla visuale data dall’ampia vetrata che si estendeva lungo il perimetro della facciata – scandita solo da colonnine e dal portone d’ingresso in ferro battuto – , già dall’esterno si riusciva a cogliere l’atmosfera rilassata del posto.
L’interno era caratterizzato da uno stile sobrio ma allo stesso tempo originale; quadri in perfetto stile dadaista ricoprivano le pareti, mentre un gran numero di tavoli arredavano la sala, circondati da normali sedie o da soffici divanetti in pelle marrone.
Grace si sentiva a suo agio seduta al tavolo con Will. Nonostante una leggera atmosfera d’imbarazzo avesse cominciato ad aleggiare tra di loro nel momento in cui Grace era salita nella macchina del biondo, i due si erano presto ritrovati a conversare con naturalezza, come se le parole si riversassero automaticamente dalle loro bocche, in un flusso continuo, facendo così svanire l’impaccio iniziale.
Durante il tragitto verso Wilks, Grace si era scoperta spesso a studiare i movimenti del biondo, soprattutto quando questo controllava la strada con attenzione, stretto al volante; oltre al tono di voce, basso e sensuale, che lei trovava estremamente piacevole all’udito, era rimasta ammaliata dal lampo di luce che illuminava i suoi occhi verdi ogni volta che sorrideva.
A sua volta, anche Will, da quando avevano incominciato a chiacchierare, l’uno di fronte all’altra, si era perso più volte a guardarla, incantato dalla sua bellezza. Quella sera, i capelli biondi le cadevano dolcemente lungo le spalle, incorniciando gli occhioni verdi messi in risalto dal trucco leggero; ogni volta che i suoi, di occhi, incrociavano quelli di lei, sussultava; lo affascinava la spontaneità del suo sguardo, che curioso si soffermava ad osservare ciò che la circondava.
«Allora Grace – cominciò, poggiando i gomiti sul tavolo e congiungendo le mani con fare curioso – raccontami qualcosa di te.»
«Tipo? » chiese lei, abbassando lo sguardo; le domande così vaghe la mettevano in soggezione.
«Tipo come fai di cognome, quali sono i tuoi hobby, se hai fratelli o sorelle eccetera eccetera»
«Il mio cognome è Earnshaw, e »
«Earnshaw? – la interruppe lui, sgranando gli occhi – Come la Earnshaw&Co di Londra?»
Grace sospirò sconsolata. Odiava il suo cognome con tutta sé stessa, dal momento che questo aveva influenzato ogni aspetto della sua vita, dal momento della sua nascita.
Suo nonno era stato il fondatore della Earnshaw&Co di Londra, la società di architetti e designer d’interni più importante della città, e dopo la sua morte era stato il padre a incaricarsi della gestione dell’impresa; ovviamente, l’eredità di famiglia e gli svariati successi del padre avevano fatto sì che Grace e la sua famiglia vivessero nella bambagia e con privilegi che altri ragazzi della sua età potevano solo sognare. Ma tutto ciò – per quanto fosse grata alla sua buona stella - non era ciò che voleva. Desiderava essere indipendente, viaggiare, scoprire il mondo; non essere favorita dal suo cognome. Molte persone poi, nel corso della sua vita, l’avevano delusa, avvicinandosi a lei non perché rimaste affascinate dalla sua persona, ma perché miravano alla ricchezza ed alla fama del padre.
«Già» rispose secca, facendo spallucce.
«Perché non me l’hai detto prima? »
«Perché non la ritengo una cosa importante. Molte persone si sono approfittate di me solo per il mio cognome, non è proprio una cosa carina»
«Certo, capisco benissimo » affermò Will, sorseggiando dal suo bicchiere il Falanghina che la cameriera si era curata di portare al tavolo.
La capiva sul serio.
Fondamentalmente, era lo stesso. Però, al contrario di Grace, lui la fama se l’era cercata; fare l’attore comportava soddisfazioni impareggiabili, anche se bisognava imparare a mettere in conto la fama, l’attenzione rivolta su di sé e la propria vita privata sbattuta su uno squallido giornale da quattro soldi. Il problema più grande però, era capire di chi fidarsi o meno.
«Non credo…» sospirò lei, sorridendo.
Will inarcò le sopracciglia, chiedendosi tra sé e sé se Grace ci fosse o ci facesse. Non aveva ancora compreso se la ragazza facesse finta di non aver realizzato la professione di lui o se facesse sul serio.
«Fidati, ti capisco benissimo. »
«Beh ora tocca a te! – esclamò lei, sviando il discorso – Raccontami qualcosa. »
« Poulter, William Poulter – enunciò lui, ammiccando e tendendole una mano come se si stessero conoscendo per la prima volta – ho due sorelle, un fratello e sono nato e cresciuto ad Hammersmith, Londra.»
Mentre Grace cercava di far collegare le sinapsi del suo cervello, in maniera tale da riportarle alla mente dove avesse già sentito il cognome Poulter, – perché era sicura di averlo già sentito – una ragazza si avvicinò a loro. Inizialmente Grace pensò che la cameriera fosse venuta ad accertarsi che tutto andasse per il verso giusto, ma in seguito la biondina si accorse che la tipa in questione era vestita da tutto fuorché da cameriera. Aveva le gambe lunghe ed affusolate strette in un paio di leggins di pelle, e il “petto” prosperoso era messo bene in evidenza da una magliettina succinta.
«Tu sei Will Poulter, vero? » squittì lei, con una voce fastidiosa paragonabile ad un trapano in azione alle otto di domenica mattina.
«Sì. » rispose Will gentilmente, con un sorriso che – agli occhi di Grace – sembrava grato per qualcosa.
Detto ciò, la ragazza si protese verso di lui, poggiando i gomiti sul tavolo e inarcando la schiena, in maniera tale da evidenziare la sua prosperità sotto gli occhi dell’attore, che si grattò la nuca imbarazzato cercando di guardare ovunque tranne che davanti a sé.
«Posso farmi una foto con te? Ti trovo un attore fantastico! »
Ti trovo un attore fantastico.
Ti trovo un attore fantastico.
Grace aggrottò la fronte, incredula. Vaneggiò per qualche secondo su quella frase, arrovellandosi sui possibili significati della parola attore – che non ne aveva poi così tanti – , e all’improvviso realizzò.
Si batté una mano sulla fronte, mormorando un “deficiente” tra sé e sé; come avesse fatto a non pensarci prima o a non accorgersi di niente, proprio non lo sapeva. Per lei, quello era un semplice appuntamento con un semplice ragazzo, e non con un attore di fama mondiale candidato ai BAFTA di quell’anno.
Aveva fatto la figura della deficiente, ma anche lui aveva omesso questo piccolo dettaglio.
«Perché non me l’hai detto prima?! » ruggì Grace, interrompendo il chiacchiericcio tra Will e l’ammiratrice voluttuosa.
Will si voltò verso di lei, confuso; in un istante capì, e sul suo viso si aprì un sorriso furbo. Finalmente Grace aveva afferrato chi fosse lui veramente, e il fatto che non l’avesse concretizzato prima gli dava la certezza che lei, in quel momento, fosse seduta di fronte a lui perché interessata a William come persona, non come attore.
«Perché non la ritengo una cosa importante. » la scimmiottò lui divertito.
Grace sbuffò, incrociando le braccia in segno di disappunto.
«Stronzo.»
«Scusa! – strepitò stizzita la fantomatica fan, che ancora non aveva schiodato. – Stavo finendo di parlare con Will, posso?»
«Fai pure. » acconsentì Grace con un’alzata di spalle, anche se la sua espressione dimostrava il contrario.
La situazione divenne comica quando la tipa tirò fuori dalla tasca dei leggins attillati – e Grace si chiese se il sangue circolasse tra i vasi sanguigni delle gambe, per quanto erano stretti quei cosi – un bigliettino, ci scrisse sopra il numero di telefono e lo porse a Will, facendogli segno di chiamarla mentre si allontanava da loro sculettando.
Grace tossicchiò, come per ricordare a Will la sua presenza, dato che questo non toglieva gli occhi da quel maledetto pezzettino di carta.
«Lo vuoi?» chiese lui porgendoglielo con un ghigno beffardo stampato in volto.
«Dì un’altra parola e te lo faccio ingoiare. »



La chioma rossiccia di Eve ondeggiava nell’aria, mossa dal vento serale. Nascosta nell’oscurità, i suoi occhi cristallini scrutavano attenti le figure dei due ragazzi all’interno del ristorante. A quanto le sembrava, Grace e Will erano in perfetta sintonia e l’appuntamento stava procedendo senza difficoltà.
Un ghigno comparve sul suo volto; il fatto che la sua migliore amica stesse passando del tempo con una persona che la attirava, fisicamente e caratterialmente, era la dimostrazione che i consigli di Eve erano serviti a qualcosa, volti a spronarla ad andare oltre le sue paure e le sue insicurezze.
L’ appostamento della rossa stava procedendo da una ventina di minuti ormai, e lì immobile, esposta alle intemperie della notte, stava morendo di freddo.
Nel buio si riusciva a scorgere un’altra ragazza, acquattata nell’angolo opposto a quello di Eve; aveva i capelli biondi raccolti in una coda alta ed il viso immerso in un’enorme sciarpa colorata, per proteggersi dal gelo oppure – più probabilmente – per nascondersi dall’individuo che stava spiando.
Il religioso silenzio venne spezzato da una serie di starnuti della bionda, che sussurrando qualche imprecazione, tirò fuori i fazzoletti dalla borsa.
Eve, nel frattempo si era girata con stizza verso la fonte di tutto quel casino, e riconoscendo la ragazza sgranò gli occhi, incredula.
«Liv!» esclamò, agitando un braccio per farsi individuare.
Liv trasalì, poiché assorta nello spionaggio non si era accorta della presenza della rossa. Spostò dunque lo sguardo dal suo centro di interesse – che sembrava essere lo stesso di Eve – e lo portò su questa, che ancora la fissava sconcertata.
«Eve? - domandò, sorpresa quanto l’altra – Sei tu? »
«Non ci posso credere.»
Olivia Thompson era stata una delle amiche più care ad Eve durante l’infanzia passata nella capitale inglese; si erano conosciute ad un maneggio nei pressi di South Kensington, condividendo così, ogni pomeriggio, la passione per l’equitazione. Da lì avevano stretto una forte amicizia, che aveva cominciato ad affievolirsi solo con l’arrivo dell’adolescenza e conseguentemente con lo sviluppo di interessi diversi.
Liv la raggiunse velocemente, abbassando lo sguardo mentre passava davanti la vetrata del ristorante, – come per evitare di farsi vedere dalle persone al suo interno – e la cinse in un forte abbraccio.
«Che ci fai qui? Pensavo vivessi a Londra!» affermò, allargando le braccia.
«Potrei dire lo stesso – ribatté la rossa, guardandola sottecchi – comunque studio giurisprudenza all’università. Tu?»
«Idem. Ho deciso di venire qui a Bristol con il mio migliore amico Will, non so se lo hai mai conosciuto. – Eve impallidì, collegando per un attimo la figura del migliore amico di Liv con quella di Will, lo spasimante della sua Grace. Poi scosse la testa, pensando tra sé e sé che l’Inghilterra era piena di ragazzi soprannominati in quel modo, e dunque doveva essere soltanto una simpatica coincidenza. – Alto, biondo, capelli corti… sopracciglia buffe tipo le mie. »
Al sentire quell’ultima frase, Eve si rese conto che era arrivato il punto in cui doveva ammettere a sé stessa che quella era tutt’altro che una simpatica coincidenza, e che Liv si era appostata al freddo e al gelo per controllare l’andamento dell’appuntamento del suo migliore amico, esattamente come aveva fatto la rossa.
« Ah certo, il ragazzo seduto a quel tavolo con quella ragazza… – disse identificandolo, sporgendosi un pochino per indicare il tavolo in cui Grace e Will stavano ridendo e scherzando – che si da il caso sia la mia migliore amica. »
Liv boccheggiò, puntando l’indice con fare incredulo prima su Eve e dopo su Grace, più di una volta, mentre la rossa annuiva silenziosamente.
«Quindi anche tu… - cominciò la bionda, bofonchiando – eri qui per…»
«Per…»
«Riportare qualcosa alla tua migliore amica!» esclamò cercando di trovare un alibi, ma nemmeno lei era convinta di ciò che aveva appena affermato.
«Senti Liv, – incominciò l’altra, cingendole le spalle con un braccio – che ne dici se entriamo dentro a spiarli invece di stare qui fuori a morire dal freddo?»
«Andata.»



La serata proseguì tranquillamente, tra una chiacchera e molti bicchieri di vino; grazie a questi e all’effetto inibitorio dell’alcool, inoltre, i due erano riusciti ad aprirsi totalmente, toccando i più svariati – ed anche privati – argomenti.
Grace era stata bene come non le succedeva da tanto. Condividere una serata con un individuo di sesso maschile era stato facile, nonostante le delusioni passate che l’avevano portata a provare una forte diffidenza verso chiunque.
Quando lui la riaccompagnò al dormitorio, una volta finita la cena, gli lasciò un delicato bacio sulla guancia un po’ arrossata; ripensò varie volte a quel gesto quando si sdraiò a letto, ma non se ne pentì minimamente.
Will, dal canto suo, avrebbe voluto mordere quelle labbra carnose che si erano poggiate per un breve istante sulla sua pelle; ma sapeva bene che ancora non era il momento e che bisognava dare tempo al tempo.
Quella serata non era stata che l’incipit di un qualcosa, ancora indefinibile, ma che sicuramente si sarebbe protratto nel tempo.


- - -

Perdonatemi amici! Sono stata e – sono tutt’ora – occupatissima con la sessione invernale, ho ancora da dare un solo esame e poi mi potrò dedicare anima e corpo a questa fanfiction.
Beh? Cosa ve ne pare? Sinceramente pensavo di poter fare di meglio, ma purtroppo questo è quello che è uscito e non ho tempo per riscriverlo. hahaha
Sono carini Grace e Will eh? E Liv&Eve versione totally spies? Okay, sto delirando e dovrei studiare.
Tra l’altro mi sono appena resa conto che sto per pubblicare questo capitolo, intitolato l’Appuntamento, il giorno di San Valentino. Ebbene, non è una cosa voluta.
Io odio San Valentino. Con tutta me stessa.
Grazie per il sostegno, a chi ha messo questa fanfiction tra le seguite e che ogni volta perde del tempo a leggere e recensire i miei deliri.
Grazie ad Irene, Gabri, Angelica, Sofia ed Elvira.
Un bacione, Fra.

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